A Michel Laban, in memoriam.

16 Pinco Pallino

Titolo dell’articolo 17

Università degli studi di Napoli “L’Orientale”

Biografia e creazione letteraria

a cura di Livia Apa Jessica Falconi

NAPOLI 2016

18 Pinco Pallino

Proprietà letteraria riservata

© Napoli 2016 Università degli studi di Napoli “L’Orientale”

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Titolo dell’articolo 19

INDICE

LIVIA APA E JESSICA FALCONI Introduzione ...... 7

ANTÓNIO PEDRO PITA , 1933-1949: grandes coordenadas histórico-culturais ...... 15

Giovanni Ricciardi O legado da “Presença” em Soeiro Pereira Gomes ...... 29

SILVANA MORELI VICENTE DIAS “Meu querido Gilberto”, “Meu querido Lins": alguns apontamentos sobre a correspondência de Gilberto Freyre e José Lins do Rego ...... 41

CLAUDIO BAGNATI L’infanzia di Jorge Amado tra storia e letteratura ...... 57

GUIOMAR GRAMMONT Aleijadinho ...... 65

SERENA MULTARI Il dramma identitario dell’indio bianco: la scrittura di J. M. Arguedas ...... 69

MARCELLA SOLINAS Una mujer que está llorando con la risa que aprendió: biografia e finzione letteraria in Margarita Mateo Palmer ...... 81

LIVIA APA Habitar a vida – Filmar Virgílio de Lemos ...... 97

CARLO CAVALLARO Traversie d’Angola: José Luandino Vieira ...... 101

JESSICA FALCONI “Não era angolana, não era portuguesa”: biografemi di Margarida Paredes .... 107

Incontro con Luandino Vieira e Margarida Paredes ...... 117

20 Pinco Pallino

LIVIA APA E JESSICA FALCONI

INTRODUZIONE

Il volume raccoglie gli interventi presentati nell’ambito del seminario internazionale “Biografia e creazione letteraria” tenutosi all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” nell’aprile del 2009. Il seminario, fortemente voluto e organizzato dal professore Giovanni Ricciardi e dalle curatrici di questo volume, scaturiva da una convergenza di interessi ed esperienze di ricerca ed era altresì espressione di sinergie e accordi stabiliti tra l’Ateneo e diverse istituzioni nazionali e straniere. L’evento ha infatti riunito docenti, ricercatori e dottorandi dell’Ateneo, dell’Università Federale di Ouro Preto e del Centro de Estudos Interdisciplinares do Século XX dell’Università di . Partner dell’iniziativa anche la Fondazione Premio Napoli, che ha ospitato l’incontro con gli scrittori Luandino Vieira e Margarida Paredes. La scelta di pubblicare gli interventi presentati al seminario risponde all’esigenza di dotare gli studenti, i ricercatori e il pubblico in generale di uno strumento bibliografico flessibile e diversificato per la riflessione sui rapporti tra biografia e creazione. Se l’ambito di lingua portoghese, nelle sue diverse espressioni geografiche e culturali, è predominante, gli interventi relativi all’America di lingua spagnola offrono un contrappunto interessante, allargando l’orizzonte geografico e linguistico e suggerendo connessioni inedite e stimolanti, grazie anche alla trasversalità del tema in questione. Last but not least, il volume rende omaggio a due figure chiave (entrambe scomparse) degli studi sulle letterature africane di lingua portoghese, che hanno fatto del rapporto tra biografia e creazione una cifra imprescindibile del loro percorso: ci riferiamo allo studioso Michel Laban, professore di Letterature e Culture dell’Africa Lusofona presso l’Università Sorbonne Nouvelle/Paris 3, nonché autore di numerosi volumi di interviste con scrittori africani e traduttore letterario; e al poeta Virgílio de Lemos, originario dell’isola di Ibo, figura centrale dell’ambiente culturale e letterario degli anni 50 8 Livia Apa e Jessica Falconi e 60 in Mozambico. Michel Laban, già scomparso all’epoca del seminario, è stato ricordato da un breve intervento di Livia Apa e Giorgio de Marchis, mentre Virgílio de Lemos, scomparso successivamente, è stato oggetto della comunicazione di Livia Apa.

Biografie e creazioni nel Portogallo degli anni ’30 e ’40

I due interventi che aprono il volume sono parte delle lunghe e minuziose ricerche condotte da António Pedro Pita e da Giovanni Ricciardi sui movimenti letterari portoghesi degli anni ‘30 e ‘40 del Novecento, e in particolare sul neorealismo portoghese, inquadrato nelle più ampie coordinate storiche, politiche, sociali e filosofiche di quel periodo. Partendo da presupposti diversi, sia il neorealismo portoghese, sia il movimento inaugurato dalla rivista “Presença” (1927) offrono, infatti, importanti spunti di riflessione sul rapporto fra biografia e creazione, e sull’intera costellazione di binomi costitutivi di tale rapporto: arte/vita, arte/politica, arte/società. Com’è noto per gli studiosi di letteratura portoghese (e come ci ricordano António Pedro Pita e Giovanni Ricciardi) la storia letteraria nazionale ha registrato le aspre polemiche sorte in quegli anni proprio tra gli esponenti di spicco dei due movimenti, polemiche che opponevano distinte concezioni della funzione dell’arte nella società. Entrambi gli studiosi, però, pongono l’accento sulla necessità di rileggere quel periodo e quelle polemiche nell’intento di rintracciare nei testi e nelle posizioni dei diversi scrittori e intellettuali, una comune critica e presa di posizione rispetto al regime politico allora vigente. Tanto i neorealisti, quanto “Presença”, infatti, portano al centro della scena intellettuale dell’epoca le diverse modalità con cui l’arte e la letteratura potevano reagire al clima di censura e oppressione che si andava instaurando in Portogallo fin dai primi anni dell’ di António Oliveira Salazar. Sia il percorso di genesi ed evoluzione del neorealismo tracciato da António Pedro Pita, sia la traiettoria politica e letteraria dello scrittore militante Joaquim Soeiro Pereira Gomes, illustrata da Giovanni Ricciardi, compongono un quadro articolato dei rapporti e delle risonanze fra neorealismo e “Presença”, un quadro molto più

Introduzione 9 dialettico che dicotomico, capace di illuminare tanto la valenza politica dell’indipendenza dell’arte propugnata dai presencisti, quanto la dimensione estetica di carattere neo-romantico di buona parte del neorealismo portoghese. Una cifra fondamentale del neorealismo, come dimostra anche il percorso personale di Soeiro Pereira Gomes, è riassunta in modo efficace e pertinente da António Pedro Pita: si tratta dell’adesione alla “logica della testimonianza come elemento nucleare della letteratura”.

In terra brasiliana

Transitiamo in Brasile con l’intervento di Silvana Moreli Vicente Dias, che illustra il suo progetto di edizione della corrispondenza tra il sociologo Gilberto Freyre e lo scrittore José Lins do Rego. Ci ritroviamo così in uno spaccato intellettuale dello stesso periodo – gli anni ’30 e ’40 del Novecento – segnato dalle specificità storiche, politiche, sociali e culturali brasiliane. Oltre alla discussione metodologica e all’enumerazione di una serie di questioni che attengono al lavoro filologico, l’intervento di Silvana Moreli Vicente Dias ha il merito di sottolineare come, anche in questo caso, proprio come nei due interventi precedenti, l’archivio paratestuale, spesso appartenente più alla sfera della biografia che a quella della creazione propriamente detta, si riveli una fonte preziosa, come la studiosa stessa afferma, per ridefinire alcuni percorsi della critica e della storiografia letterarie. Le riflessioni di Claudio Bagnati e di Guiomar de Grammont completano la sezione del volume dedicata al Brasile attraverso due personaggi chiave della cultura brasiliana, simboli nazionali nonché figure rinomate sul piano internazionale. Claudio Bagnati si concentra sull’opera letteraria di Jorge Amado, prendendo le mosse dal libro autobiografico O Menino Grapiúna, pubblicato nel 1982, per illuminare diversi elementi della materia autobiografica a cui lo scrittore attinge per l’elaborazione romanzesca. I ricordi legati all’imponenza della natura e alle condizioni sociali degli ambienti in cui crebbe lo scrittore, plasmano secondo Bagnati buona parte dell’opera letteraria di Jorge Amado, trasformandosi

10 Livia Apa e Jessica Falconi ulteriormente in cifre essenziali della cosiddetta letteratura nordestina. Come l’autore dell’intervento afferma, «ogni espressione letteraria amadiana è riannodabile alle esperienze che lui stesso racconta e che il ricordo rende di un nitore e chiarezza difficilmente riscontrabili altrove». Se con il caso di Jorge Amado, Bagnati ci presenta una lettura classica del rapporto tra biografia e creazione, tale rapporto assume un carattere estremamente originale nel caso presentato dal breve intervento di Guiomar de Grammont sulla figura dell’artista brasiliano noto con il nome di Aleijadinho. L’autrice, infatti, si sofferma sugli scarsi elementi biografici che avrebbero dato origine e forma a un mito culturale e a un eroe nazionale intramontabile che assurge a simbolo della resistenza artistica – di segno barocco – all’oppressione coloniale. L’essere mulatto, ammalato e deforme, l’aver vissuto in condizioni di precarietà economica e marginalità sociale, sono gli ingredienti che fanno dell’Aleijadinho, come riassume Guiomar de Grammont, un prodotto discorsivo: biografia creativa e creazione biografica si confondono, infatti, all’ennesima potenza.

Ispanoameriche

La materia autobiografica come fonte principale per l’elaborazione letteraria è centrale nelle esperienze creative presentate da Serena Multari e da Marcella Solinas, che ci portano, rispettivamente, in Perù e a Cuba. Facendo in qualche modo eco all’intervento di Claudio Bagnati su Jorge Amado, Serena Multari analizza la dimensione autobiografica dell’opera dello scrittore peruviano José María Arguedas. In particolare, Multari si concentra sulla raccolta di racconti Agua (1935) che di fatto esemplifica la tensione tra particolare e universale che caratterizza buona parte dell’opera di questo scrittore. Protagonisti di questi racconti sono per lo più bambini, che permettono di focalizzare narrativamente il ricordo dell’infanzia e dei primi traumi legati al dramma identitario dell’ibridità culturale. Le esperienze soggettive della discriminazione e dell’esclusione sociale, del conflitto interiore generato dall’appartenenza a più universi, della perdita e della ricerca

Introduzione 11 dell’identità sono così trasfigurate, secondo l’autrice, in materia e finzione narrativa capace di raccontare un dramma che è simultaneamente individuale e collettivo. L’indagine sul rapporto tra biografia e creazione proposta dal volume prosegue e s’infittisce con la figura di Margarita Mateo Palmer, oggetto dell’intervento di Marcella Solinas che ci offre una stimolante panoramica sulla produzione letteraria e saggistica, poliedrica e postmoderna, dell’intellettuale cubana. Sottolineando i molteplici transiti tra le frontiere dei generi espressivi compiuti dalla Palmer, Solinas prende in esame il saggio Ella escribía poscrítica (1996), il video De la piel y la memória (2005) e il romanzo Desde los blancos manicomios (2008), che presi nel loro insieme restituiscono una visione complessa dei rapporti tra biografia e creazione. Dalla lettura del contributo di Solinas potremmo desumere che per la Palmer la dimensione autobiografica non è soltanto, o forse non è più, una fonte a cui attingere per la costruzione narrativa. L’elemento autobiografico, costantemente introdotto secondo modalità ironiche, appare come interferenza tangibile, segno di contingenze che necessariamente influiscono sulla creazione e sulla scrittura. Diremmo che tale elemento traduce quella “politica di localizzazione del corpo”, di definizione del locus di enunciazione squisitamente femminista, articolata alla frammentarietà identitaria propria della condizione postmoderna.

Tra l’Angola e il Mozambico

Da Cuba all’Angola, dal postmoderno al postcoloniale. L’intervento di Carlo Cavallaro presenta un caso particolarmente emblematico del rapporto tra biografia e creazione nell’ambito dell’Africa di lingua portoghese: quello dello scrittore e militante angolano Luandino Vieira. Avvalendosi del concetto di transculturación elaborato da Ángel Rama, Carlo Cavallaro riflette sul progetto letterario di Luandino Vieira analizzando il processo di costruzione di quella lingua letteraria così caratteristica di buona parte dell’opera dello scrittore angolano. Dall’analisi, emerge in tutta la sua forza il rapporto che Vieira stabilisce tra lingua, letteratura e

12 Livia Apa e Jessica Falconi comunità, dove la comunità, seppur pensata nell’ottica anticoloniale della liberazione nazionale, non è la Patria astratta o la Nazione in quanto comunità immaginata. È piuttosto la comunità dell’esperienza, dell’essere insieme, il senso del dono e dell’uscire da sé – quell’impensato e incompiuto della comunità teorizzato brillantemente da Roberto Esposito in Communitas. Origine e destino della comunità. Ed è proprio nell’esperienza, nel vissuto comunitario dell’infanzia e della formazione culturale nel musseque, come illustra Cavallaro, che vanno rintracciate le radici del progetto letterario di Luandino Vieira, del quale il libro di racconti Luuanda è sicuramente emblematico. Il romanzo di Margarida Paredes O Tíbete de África, presentato da Jessica Falconi, ci offre un altro punto di vista sulla presenza coloniale portoghese in Angola, e sulle modalità di riconfigurazione narrativa e letteraria della materia autobiografica. Utilizzando il concetto di biografema elaborato da Roland Barthes, la lettura del romanzo si propone di rintracciare particolari insignificanti, tracce e segni dispersi della polverizzazione della vita nella narrativa, nella convinzione che entrambe si contaminino a vicenda, in una circolarità in cui il ritratto è sempre modificato dalla lettura, dal desiderio del lettore di ritrovare il corpo dell’autore. Se questo corpo appare, secondo il movimento intermittente indicato da Barthes, è un corpo attraversato e trasformato dall’opera, dalla scrittura che ne modifica il senso e il rapporto col mondo. Questo movimento circolare tra biografia e creazione – questo fondarsi e rifondarsi della vita nell’opera, con significati inediti che la creazione stessa conferisce alla vita – è forse la chiave giusta per addentrarsi nell’universo di Virgílio de Lemos in cui biografia e esercizio poetico si confondono creando un testo poroso e capace di tradurre la convivenza e il contatto con tanti grandi della cultura, africana e non solo, che Virgílio ebbe opportunità di incontrare anche nella sua lunga carriera di giornalista di Radio France Internacional. Al volume viene poi allegata una lunga intervista a Luandino Vieira e Margarida Paredes, realizzata da Livia Apa e Maurício Santana Dias nella sede del Premio Napoli, intervista che ci offre un’ulteriore declinazione del rapporto fra biografia e creazione e fra letteratura e politica.

Introduzione 13

Conclusioni

Se l’organizzazione degli interventi secondo una logica di tipo geografico ci ha permesso di evidenziare la varietà e anche la specificità dei contesti presi in esame durante il seminario internazionale “Biografia e creazione letteraria”, intendiamo concludere questa breve introduzione suggerendo un altro possibile percorso di lettura dei materiali qui proposti. Data la traversalità del tema generale posto al centro delle riflessioni, ci sembrano imporsi due filoni di ricerca principali. Il primo, in un certo senso più classico e fondato su strumenti e metodologie consolidate, fa del rapporto tra biografia e creazione una risorsa preziosa per la ricerca nell’ambito della storia letteraria, della filologia e della sociologia della letteratura, una risorsa capace di mettere in luce aspetti meno evidenti del rapporto tra centro e margine di un dato canone letterario, di un’opera, di un autore o un gruppo di autori più o meno canonizzati. Rientrano in questo filone gli interventi di António Pedro Pita, Giovanni Ricciardi, Silvana Moreli Vicente Dias e Claudio Bagnati. Il secondo filone, più eterogeneo e in qualche modo meno compatto per quanto riguarda le risorse teoriche e metodologiche utilizzate, ci sembra però rivitalizzare l’area di ricerca su biografia e creazione, portando al centro della riflessione le esperienze degli spazi e dei contesti coloniali e postcoloniali, e in primis le problematiche identitarie (individuali e collettive) che in questi spazi e da questi spazi si sono generate. Gli interventi di Serena Multari, Marcella Solinas, Carlo Cavallaro, Jessica Falconi e Livia Apa ci presentano le possibili declinazioni del rapporto tra biografia e creazione in quelle che Mary Louise Pratt ha definito “zone di contatto”, vale a dire, contesti in cui culture diverse si incontrano e si scontrano, generando nuovi linguaggi e configurazioni culturali inedite. Zona di contatto è sicuramente anche il campo d’indagine privilegiato dal volume proposto, che intende offrire, nel giustapporsi di questi due filoni di ricerca, future piste d’indagine e nuove articolazioni sul complesso rapporto tra biografia e creazione.

14 Livia Apa e Jessica Falconi

ANTÓNIO PEDRO PITA

PORTUGAL, 1933 – 1949: GRANDES COORDENADAS HISTÓRICO-CULTURAIS

Entre 1933 e 1949, em Portugal, decorre um período particularmente rico no plano político e no plano histórico-cultural, menos pelo aparecimento de ideias novas do que pela instituição, logo em 1933, à direita e à esquerda, de novas problemáticas, das quais o Estado Novo e a radicalização marxista são os extremos de um campo particularmente intenso de controvérsias ideológicas.

1. O ano de 1933.

Podemos concentrar no ano de 1933 a crise e a superação, em Portugal, da hegemonia demo-liberal e do pensamento individualista, de base contratualista rousseauniana. De facto, a crítica de Salazar ao regime republicano dirige-se a tudo o que uma concepção corporativa de matriz demo-cristã considerará limites essenciais (doutrinários) da democracia. E a afirmação política do novo regime implica uma nova estruturação político-jurídica (uma nova Constituição plebiscitada; reorganização da polícia política; instituição do “estatuto do trabalho nacional”; nova lei sindical) e um dispositivo ideológico, para o qual é adoptada a designação de “Política do Espírito”, a expressão de Paul Valéry que António Ferro adoptara e difundira, referindo-a, aliás, nas célebres entrevistas a Salazar. À esquerda, sublinha-se que o regime republicano, de base capitalista, está historicamente condenado. Depois de 1926, a recomposição da esquerda opera-se no quadro de uma progressiva hegemonização político-ideológica do Partido Comunista. A derrota do putchismo como método político; a polémica em torno do alcance histórico das teses seareiras; a primeira reestruturação estalinista do Partido Comunista, em 1929, sob a direcção de Bento Gonçalves; a extinção prática do movimento socialista; e a ineficácia política de tentativas como “Renovação Nacional” são etapas de um 16 António Pedro Pita processo que conduzirá à conquista de largas e, de imediato, influentes camadas da intelectualidade, sobretudo jovem, pelas premissas e conclusões do materialismo histórico, de certo modo acompanhada pelo acréscimo de implantação política do Partido Comunista. Pronunciada e editada em 1933, a conferência A cultura integral do indivíduo – problema central do nosso tempo de Bento de Jesus Caraça fixa os temas, a lógica e o horizonte do chamado pensamento progressivo. É esta, de resto, a sua maior importância: sintetizar as coordenadas de transformação radical inscrevendo a necessidade da revolução no entendimento do marxismo como filosofia da história. O pensamento do presente como transição é a chave da concepção de Caraça («uma ponte de passagem entre aquilo que desaparece e o que vai surgir»1) e desenvolve-se em três momentos: primeiro, a tomada de consciência da profundidade da contradição que é o modo de ser actual do mundo; depois, a interpretação histórica dessa situação; finalmente, a actuação prática decorrente daquela tomada de consciência e desta interpretação histórica. Ora, se o marxismo de Caraça subjaz à noção de que «a civilização de base capitalista tornou inoperantes os princípios de liberdade individual e de igualdade, para não falar já da fraternidade que só por sarcasmo se pode pretender que esteja incluído hoje entre as ideias dominantes da governação»2, a configuração de uma estratégia política positiva encontra-se no conceito de cultura (consciência da posição do homem no universo e na sociedade, reconhecimento da dignidade inerente a qualquer indivíduo e definição do aperfeiçoamento interior como fim supremo). Mas cultura será um simples tópico livresco se não inscrever, num mesmo movimento de eficácia, a tomada de consciência, pelo indivíduo, da inserção social da sua individualidade e da finalidade última da sociedade, a tomada de consciência de si mesma pela Humanidade.

1 B.J. Caraça, "A cultura integral do indivíduo – problema central do nosso tempo", in Obra integral de Bento de Jesus Caraça, vol. I (ed.: António Pedro Pita, Helena Neves e Luís Augusto Costa Dias), Campo das Letras, Porto, 2002, p. 100. 2 Idem, ibidem, p. 110.

Portugal, 1933 – 1949: grandes coordenadas histórico-culturais 17

Sem cultura, a rejeição do passado é destruição. Mas precisamente porque, para Caraça, o processo histórico é uno importa preservar do passado aquilo que favoreça o desenvolvimento futuro: «da etapa anterior, alguma coisa, às vezes muito, ficou definitivamente adquirido», «cada fase da luta é um passo novo dado no caminho para a unidade do individual e do colectivo»3. No presente e no passado, há, sem dúvida, obstáculos à maturação do futuro: aos intelectuais, às elites, está reservado este trabalho de análise e desconstrução, o trabalho da especialização e da descoberta individual. Mas não importa unicamente fazer descobertas individuais, é preciso um trabalho de socialização dos saberes, é indispensável que se torne senso comum tudo o que, nessas conquistas, possa favorecer que a Humanidade tome consciência de si própria. O sentido e a auto-consciência de radicalidade dessa transformação é muito legível no conjunto de intervenções de Bento de Jesus Caraça, Álvaro Salema, Vasco de Magalhães-Vilhena e Alves Redol em 1935 e 1936. No contexto desta comunicação importa vincar a importância de que a arte é investida neste movimento de pensamento e, em sentido mais lato, nestas circunstâncias históricas. Não tanto pelo facto de constituir a própria matéria das muito vivas controvérsias entre orientações distintas (modernistas, seareiros, presencistas, neo-realistas emergentes) mas sobretudo pela sua dimensão política, isto é, pela noção de que a arte é uma instância pré- figuradora ou antecipante de um mundo por-vir, pela progressiva consciência de que é inerente à intervenção artística, seja qual for a consciência individual do artista, uma determinada eficácia política, como a estratégia da “política do espírito” de António Ferro, a seu modo, exemplificava. O próprio da arte, para além de todos os circunstancialismos e de todos os aspectos estritamente técnicos, é a sua capacidade para gerar comunidade, para além, mas sem a negar, da oposição entre razão e sentimento.

3 Idem, ibidem, p. 107.

18 António Pedro Pita

A referência a Tolstoi é significativa quando critica todos aqueles que querem «desviar a arte do seu papel de agente de comunhão humana que Tolstoi lhe reclamava com vigor»4. Por isso, a noção de que a arte gera comunidade é instalada não nas teses neo-realistas mas, em rigor, nos seus pressupostos tal como a problemática que lhe é inerente constituirá a chave para a interpretação da futura polémica interna do neo-realismo. É que é possível gerar comunidade indo ao encontro do estado actual dos conhecimentos, das sensibilidades e das expectativas das pessoas e criar «uma arte de via reduzida, de segundo plano, com grande abundância de literatura de cordel e de fadinho bem medido à torneira da telefonia»5. Mas é possível gerar comunidade por outra via, mais exigente mas mais verdadeira. Tomando por referência a orientação musical de compositores como Fauré ou Poulenc, cujas peças iriam ser escutadas a seguir à sua conferência, e depois de lembrar os traços mais impressivos daquela nova música («recusa da sujeição a moldes anteriores», «desejo de se colocarem em continuadores, não em escravos, das tradições do espírito francês em arte»6), Bento Caraça escreve: «vejo o maior valor, direi mesmo, a superioridade da música contemporânea na sua feição intelectualizada», que se dirige «mais, talvez, à razão do que ao sentimento, exige do auditor uma concentração de atenção que não permite ao pensamento perder-se sobre coisas distantes» 7. Distinção decisiva. A «arte de via reduzida» é dispersiva, alimenta as singularidades e as distâncias porque toca o sentimento dos homens num plano de imediatidade que dispensa o trabalho da mediação racional. E dispensar o trabalho da mediação racional significa desvalorizar o trabalho específico da arte – o trabalho da linguagem e a importância da forma, que reaparece na «arte de via longa»,

4 B.J.Caraça, Conferência e outros escritos, Lisboa, 1970, p. 148. 5 Idem, ibidem, p. 148. 6 Idem, ibidem, p. 145. 7 Idem, ibidem, p. 146.

Portugal, 1933 – 1949: grandes coordenadas histórico-culturais 19 intelectualizada e exigente de uma atenção que aproxima os homens e os reúne em torno de uma racionalidade sensível.

2. A configuração artística da “consciência histórica do momento”

Ninguém melhor do que Mário Dionísio terá caracterizado o ambiente em que ocorreu a génese da época do neo-realismo:

sei que foi exactamente o mesmo [motivo] que levava a juntarem-se nesses cafés de Lisboa, como nos de Coimbra e do Porto, de Vila Franca ou de Santiago do Cacém, por essa mesma data, muitos jovens universitários ou não (e muitos não): um coração pulsando por todos os “humilhados e ofendidos” […]. Assim, apenas assim, espontaneamente, da inquietação, da generosidade e da ingenuidade – da fecunda, exaltante e fraternal ingenuidade – desses tantos jovens que foram ao encontro uns dos outros pelo seu pé, irresistivelmente movidos por um mesmo espírito de recusa, uma mesma esperança no homem.

Muitos destes, por certo, leram a famosa e já referida conferência de Bento Caraça. Já não eram politicamente inocentes. Adolescentes quase todos, mas uma adolescência dura ou ferida, ainda na 1ª República, terão encontrado no texto de Caraça o que lá estava: uma filosofia da cultura exterior ao primado do literário, um pensamento da ciência e da técnica liberto da estreiteza positivista; uma apropriação meditada do materialismo histórico. E dele extraíram a definição política do lugar e da tarefa justos e a exigente ordem de trabalhos da revolução social, demarcada quer da frustração do “reformismo” quer das seduções do anarquismo. A geração que desencadeou o neo-realismo amadureceu em público: foi dando conta desse "espírito de recusa", dessa "esperança no homem" por variadas formas inevitavelmente ingénuas mas que se tornam, hoje, para nós, um sinal de presença em devir. Na imprensa juvenil, muitas vezes mesmo em jornais de âmbito escolar, a partir de 19338, algumas personalidades que serão fulcrais

8 Cf.: Luís Augusto da Costa Dias, "A imprensa periódica na génese do neo-realismo", in A imprensa periódica na génese do movimento neo-realista,

20 António Pedro Pita no desenvolvimento do neo-realismo publicam pela primeira vez: Mário Dionísio em Prisma (1933) e Gleba (1934-35), Álvaro Salema e Vasco de Magalhães Vilhena em Gládio (1935), Armando Bacelar, Fernando Namora e Jofre Amaral Nogueira em Alma Académica (1935- 38), Armando Bacelar em Alma Nova (1935-36), Fernando Namora, Carlos de Oliveira e Egídio Namorado em Alvorada (1935-39), José Neiva e Políbio Gomes dos Santos em Ágora (1935-36), Leão Penedo e Sidónio Muralha em Mocidade Académica (1935-36), Alves Redol em Mensageiro do Ribatejo (a partir de 1936), Álvaro Salema, António Ramos de Almeida e Joaquim Namorado em Manifesto (1936-39) 9. Este breve enunciado mostra que a tomada de consciência artística e política da geração neo-realista não depende, em rigor, pelo menos nos seus aspectos elementares, de circunstâncias exteriores e está em curso antes do Congresso de Escritores Soviéticos (1934) e dos Congressos da Internacional Comunista e da Juventude Comunista (1935). É incontestável o conhecimento das suas conclusões. Serão, todavia, elementos, entre outros, no processo de maturação de consciências, prodigiosamente acelerado pelo impacto da Guerra Civil de Espanha, que José Gomes Ferreira tão bem traduziu em A memória das palavras e agora nos basta: «na verdade a guerra de Espanha entrou em forma de tempestade pelas casas dos poetas dentro, partiu as vidraças das janelas, varreu a inspiração livresca, tomou conta das palavras». Como tópico poético, a Guerra de Espanha torna-se a condição de um outro discurso, uma outra sensibilidade, uma outra poesia. Não, todavia, sob a forma de propor novos temas ou algumas preocupações sociais mas no sentido mais exigente de obrigar a uma autêntica refundação do discurso poético para o pôr em consonância com a pressentida radicalidade do acontecimento.

Museu do Neo-Realismo/Câmara Municipal de Vila Franca de Xira, 1966, p. 11-53. 9 Cf.:António Pedro Pita e Luís Augusto da Costa Dias, "Roteiro preliminar da imprensa cultural e juvenil (1933-40)”, in A imprensa periódica na génese do movimento neo-realista, Museu do Neo-Realismo/Câmara Municipal de Vila Franca de Xira, 1966, p. 57-72.

Portugal, 1933 – 1949: grandes coordenadas histórico-culturais 21

Proclamar que a Guerra de Espanha varreu a “inspiração livresca” significa que ela obrigou a perceber de onde vem a poesia, como é que ocorre a metamorfose em palavras — isto é, obriga a não substituir o livro pela vida como se a vida fosse o livro verdadeiro. A metáfora do livro cede perante a imagem da tempestade. 1937 é um ano chave. Nas palavras de Alexandre Pinheiro Torres, um «ano por todos os motivos crucial»10, e tanto, e tão profundamente, que toda a razão assiste a Luís Augusto Costa Dias, quando sustenta o recuo conceptual do sinal de génese do neo-realismo a 1937 pelo estabelecimento da noção de “geração de 1937” 11. No mesmo sentido, António Ramos de Almeida lembrará, vinte anos depois: «só em 1937, na verdade (...) foi que um grupo de jovens — profundamente interessados por uma literatura mais humanizada e por uma cultura consequente — se lançou abertamente não já somente numa simples querela de princípios com a 'Presença' mas na realização de novas obras que fossem buscar as suas raízes na vida do Povo e nas inquietações ideológicas, éticas, económicas e históricas que a Humanidade dramaticamente atravessava (...)» 12. Em outras palavras: a polémica anti-presencista pertence à história da literatura na exacta medida — e só nessa — em que a literatura constituiu um momento de afirmação doutrinária e política da consciência intelectual portuguesa modelada pelo marxismo. O momento polémico era, por isso, menos importante do que o momento afirmativo: aquilo que se afirmava não pretendia ser simplesmente o contrário daquilo a que se opunha, pretendia ser outra coisa: uma outra concepção de arte, de intelectual, de cultura, sociedade. «Hoje, passados vinte anos, já podemos ver claro os nossos equívocos — escreverá Ramos de Almeida — que afinal foram aquelas virtudes de civilidade que se perderam com a mocidade, mas

10 A.P.Torres, O neo-realismo literário português na sua primeira fase, Instituto de Cultura Portuguesa, Biblioteca Breve, Lisboa, 1977, p. 46. 11 L.A.Costa Dias, “Contributo preliminar para o conceito de ‘geração de 1937’” in Vértice n. 75, Dezembro 1996, pp. 52-58. 12 A.R.Almeida, "Rodapé quinzenal de crítica literária — 'O Homem Disfarçado' de Fernando Namora", Jornal de Notícias [JN]/Suplemento Literário, nº 221, 5.1.58.

22 António Pedro Pita que sem elas não teríamos sido capazes de realizar o que, na realidade, fizemos»13.

3. Um nome para uma auto-consciência reforçada: o neo-realismo

Não vamos discutir, no âmbito desta comunicação, a atribuição da paternidade portuguesa da expressão “neo-realismo” ao poeta Joaquim Namorado. Limito-me ao facto de ela estar presente no título de um seu artigo, “Do neo-realismo. Amando Fontes” 14, o qual, a meu ver, ganha em ser lido, em jeito de díptico, em conjugação com um outro, consagrado a Jorge Amado. Nos exemplos propostos (Marcel Proust, James Joyce, André Gide, Thomas Mann) e na qualificação da tendência (“literatura intimista, por vezes psico-patológica, profundamente individualista”, ”confusão de valores”, “mentiras nefelibatas”, “intelectualismo puro e estéril”) ligados pela justeza reconhecida à interpretação desenvolvida por Julien Benda em La trahison des clercs, reconhecemos uma leitura peculiar da crise da experiência de que falou Walter Benjamin15. É no interior da experiência em crise que está a jogar-se uma ideia de literatura, ou melhor, a compreensão do movimento interno da (história da) literatura, nas suas permanências e rupturas. Joaquim Namorado opõe ao subjectivismo, que é o seu modo de designar a experiência em crise, a “necessidade de realidade”. A análise da trama pré-conceitual desta oposição é esclarecedora: o ‘subjectivismo’ é uma fase passageira, destinado a ser corrigido pela reposição da continuidade da história porque é impossível continuar surdo e cego às exigências de realidade; fechado o parêntesis subjectivista, fica reposta a lógica do testemunho como elemento medular da literatura.

13 Idem, "Poetas novos de Coimbra", JN/Suplemento Literário nº 184, 31.3.57. (subl. meu). 14 J. Namorado, “Do neo-realismo. Amando Fontes” in O Diabo, 31.12.1938. 15 Walter Benjamin, “O narrador – Reflexões sobre a obra de Nikolai Lesskov”, in Sobre arte, técnica, linguagem e política, Relógio d’Água, Lisboa, 1992, pp. 27-28.

Portugal, 1933 – 1949: grandes coordenadas histórico-culturais 23

A “necessidade de realidade” é o eixo central da argumentação: da argumentação conceptual (traça uma linha de demarcação entre diferentes concepções de literatura) e da argumentação artística (estabelece o terreno comum que permitiu em Portugal a recepção compreensiva da nova literatura brasileira e constitui o fundamento de um «vasto movimento (...) que nasce em todos os continentes»). A “necessidade de realidade” tem uma genealogia: pode dizer-se iniciado em Gorki e na linha de certo realismo e naturalismo francês. É neste vasto movimento iniciado em Gorki que se inscreve o novo romance brasileiro, resultando a importância de Amando Fontes do facto de ele ser, dos escritores que escrevem em língua portuguesa, o que mais se identifica com este sentido do romance moderno. Mas a explicitação deste “sentido” é outra fase do nosso trabalho. Num primeiro momento, o romance moderno retrata «os heroísmos que enchem os dias sempre iguais e diferentes» — o que constitui uma herança de Romain Rolland: «aos homens de todos os dias mostra a vida de todos os dias: ela é mais profunda e mais vasta que o mar. O menor de entre nós traz em si o infinito»; «escreve a vida simples destes homens simples, escreve a tranquila epopeia dos dias sempre iguais e diversos»16. Num segundo momento, porém, o modo de a literatura exprimir “todo o mistério do quotidiano”17 deve ligar-se sobretudo à grande herança romântica. É no artigo “Do neo-romantismo. O sentido heróico da vida na obra de Jorge Amado”18, o outro elemento do díptico doutrinário, que Joaquim Namorado estabelece a necessidade da conjugação: mostra que o realismo tem um limite (o objectivismo) que só é resolvido por uma justa compreensão do romantismo, o que é, afinal, a determinação da sua compatibilidade. Uma justa compreensão do romantismo. Ao distinguir “romantismo activo” e “romantismo passivo”, Gorki concentrara e actualizara a

16 J. Namorado, cit. 17 Idem, ibidem. 18 Idem, “Do neo-romantismo. O sentido heróico da vida na obra de Jorge Amado”, Sol Nascente nº 43-44, Fevereiro-Março, 1940.

24 António Pedro Pita elaboração conceptual anterior. É que o romantismo, considerado por Paul Lafargue «a literatura da burguesia triunfante de 89», é para Jean Tréville uma tendência politicamente heterogénea percorrida por um sentimento heróico de conquista (da natureza, da história) e que, enquanto tal, não só não está exaurido como é capaz, renovado (neo- romantismo), de projectar-se no futuro e constituir a «expressão de um imenso heroísmo, perspectiva que se ‘sonha’, se constrói sobre os alicerces do real e se talha na conquista do futuro». Apto, por isso mesmo, a corrigir os limites objectivistas de neo-realismo ou realismo renovado, ou melhor: a dar subtaência histórica ao método que o “neo- realismo” é. O neo-romantismo retoma o “romantismo activo” de que falara Gorki: «o romantismo activo reforça no homem a vontade de viver, provocando-lhe a reacção contra toda a opressão da realidade», passo que Joaquim Namorado cita no seu artigo. Estabelecer a compatibilidade teórica entre o “(neo) realismo” e o “(neo) romantismo” significa também, e acima de tudo, defender que o enfoque realista da realidade naquelas precisas condições culturais e sociais é a atitude metódica indispensável a um romantismo que, renovado, está preso ao real imediato pelo seu enfoque de base, mas permanece a compreensão de longa duração que dora, desde os seus inícios. Por isso, só a expressão artística neo-romântica de base neo-realista permite perceber sem equívocos o “regresso à realidade” proposto por Aragon: só ela garante que voltar à realidade não seja voltar ao conhecido mas consista em valorizar a realidade presente como ponto de partida e mediação (sobretudo mediação) para o conhecimento, que é transformação, de uma realidade histórica. Regressar à realidade, em arte, não é voltar ao conhecido nem supõe regressar ao realismo: significa distanciar-se da captação fotográfica do mundo, pôr a questão da história e da historicidade e trazer a primeiro plano o devir histórico-social. Algumas palavras de Mário Dionísio nesse mesmo ano de 1937 podem ajudar-nos: «Diz Gorki, com tanta experiência (leia-se com tanta razão), “o homem é o orgão pensante da Natureza: não tem outra significação. Por meio dele a natureza busca conhecer-se”. Os

Portugal, 1933 – 1949: grandes coordenadas histórico-culturais 25 artistas serão, para nós, aqueles alguns que conseguem, dentre todos, fazer essa revelação e naturalmente orientá-la». Depois: «Temos assim a Arte como contribuição de e para a vida. Parece-nos portanto acanhado considerar a arte, mesmo a mais subjectiva, o que nos parece bem diferente de impermeável ou inatingível), inútil ou perigosa. (...) Toda a arte tem, voluntaria ou involuntariamente, o fim de revelar o homem». E ainda: «advogamos para toda a obra de arte uma estrutura realista, e (...) o real para nós não é também unicamente o palpável mas o que ainda não é, mas será. Vem a propósito citar a opinião de Marcel Gromaire: “o real não é somente o que é do domínio da nossa mão, do domínio da nossa vista, é também o que é do domínio do nosso espírito e o que ainda não é do domínio do nosso espírito"» 19. O que já é perceptível quando o neo-realismo ainda é uma nova consciência em busca de concretizações que a determinem, clarifica-se no trabalho dos artistas. Para limitar-nos ao neo-realismo literário, lembremos: Instantes (1937) e Búzio (1940) de João José Cochofel; Sedução (1938) de José Marmelo e Silva; Relevos e As Sete Partidas do Mundo (1938) de Fernando Namora; As Três Pessoas (1938) de Políbio Gomes dos Santos; Gaibéus (1939), Nasci com Passaporte de Turista (1940) e Marés (1941) de Alves Redol; Sinfonia da Guerra (1939) de António Ramos de Almeida; Corsário (1940) de Álvaro Feijó; Rosa dos Ventos (1940) de Manuel da Fonseca; Esteiros (1941) de Soeiro Pereira Gomes; Beco (1941) de Sidónio Muralha. A que é indispensável acrescentar, ainda de 1941, os primeiros seis volumes da colecção "Novo Cancioneiro": Terra de Fernando Namora, Poemas de Mário Dionísio, Sol de Agosto de João José Cochofel, Aviso à Navegação de Joaquim Namorado, Os Poemas de Álvaro Feijó e Planície de Manuel da Fonseca. Bem como a colecção gémea “Novos Prosadores”, concebida ao mesmo tempo embora só iniciada em 1943 por razões circunstanciais. E, já agora, a transposição, em 1945, da revista Vértice, fundada em 1942, para o universo neo-realista por iniciativa de membros do sector

19 Idem, "A propósito de Jorge Amado", O Diabo nº 164, 14.11.37.

26 António Pedro Pita intelectual de Coimbra do PCP (Joaquim Namorado, Carlos de Oliveira, João José Cochofel, Arquimedes da Silva Santos e José Ferreira Monte). A noção de que o campo neo-realista é percorrido por tensões fundamentais capta-se num texto curiosíssimo, escrito algures entre o estatuto de afirmação geracional e o de primeiro balanço de obra feita: a conferência A arte e a vida de António Ramos de Almeida. É a sistematização mais global da concepção especular e culturalizante da (obra de) arte, na linha do Alves Redol de Arte e em tensão polémica com a reflexão de Mário Dionísio. Para Ramos de Almeida, a expressividade da obra de arte deve ser consciencializadora e tal consciencialização será tanto mais larga e profunda quanto mais radical pudesse ser o apagamento dos procedimentos de linguagem com que as artes exprimem aquilo que exprimem. A contestação da tese de Gaspar Simões, segundo a qual a deformação é a génese da obra de arte, torna-se significativa de toda a arquitectura teórica de Ramos de Almeida. Percorre estas páginas a convicção de que a arte só deforma na exacta medida em que é incapaz de ser a própria revelação da realidade. De certo modo, no horizonte de Ramos de Almeida detectamos o limite, que é a ambição suprema, de toda a arte: ser o meio para a expressão da própria vida. Daí, a importância reconhecida ao cinema: «o cinema é mais do que expressão da realidade, é aquela expressão, ou tende a ser, — que esteticamente melhor realiza a vida, embora todas as outras espécies de expressão estética pretendam também realizá-la» 20. A arte afectaria a realidade de uma mutação ontológica: por esta mutação, os homens passariam a ter diante de si — dos seus olhos e dos seus sentimentos — aquelas mesma condições em que vivem. Por outras palavras: António Ramos de Almeida requer da arte a fidelidade absoluta com que a realidade se veria reflectida num espelho da sua dimensão. A comunicabilidade imediata (para que a tomada de consciência das contradições da realidade ao serem vistas e percebidas pudesse

20 Idem, ibidem, p. 18.

Portugal, 1933 – 1949: grandes coordenadas histórico-culturais 27 acelerar a consciência das contradições vividas) é um meio necessário à estética neo-realista, se ela admitir, na linha de Plekhanov, que «a arte deve contribuir para o desenvolvimento da consciência humana e para o aperfeiçoamento da ordem social» 21.

4. O ano de 1949

A conjugação de factos ocorridos em 1949 desenha uma outra mutação problemática, tão profunda como a de 1933 e que de certo modo encerra um ciclo histórico-cultural. António Ferro é substituído como Director do SPN: é o fim da “política do espírito”. O Estado Novo procura outros discursos de integração, que parece já não passar pela dimensão artística, espectacular ou cénica. Norton de Matos, o velho General republicano que, tornando-se candidato à Presidência da República, alimentara os projectos de democratização da sociedade portuguesa, desiste – um ano volvido sobre a morte de Bento de Jesus Caraça, o mais lídimo (isto é, não instrumental) pensador da Unidade Democrática portuguesa. Sobre as estruturas eleitorais legais do Movimento de Unidade Democrática, de resto ilegalizado, abate-se uma violentíssima ofensiva, de que o PCP é objecto especialmente visado, com resultados devastadores: entre 1949 e 1953 foram presos sete membros do Comité Central, que entre 1946 e 1952 perdeu cerca de metade dos seus membros; Militão Ribeiro e Álvaro Cunhal foram presos em Março de 1949, morrendo o primeiro na prisão e prolongando-se a prisão de Cunhal por 11 anos; várias casas clandestinas caíram; foi gravemente afectado o aparelho de produção e distribuição do Avante!; foi desmantelada uma organização tão importante como o Sector Intelectual de Coimbra (Arquimedes da Silva Santos, Mário Temido, Albano Cunha, Brito Amaral, António Júdice, Pinto Loureiro, Deniz Jacinto e outros). Vergílio Ferreira publica Mudança. Sabe-se que o romancista editou dois romances – Onde Tudo Foi Morrendo (1944) e Vagão J (1946) – com

21 G. Plekhanov, A arte e a vida social, Moraes Editores, Lisboa, 1977, p. 7.

28 António Pedro Pita a chancela "Novos Prosadores". Com a descolagem do campo neo- realista (ou participando da sua dissolução interna), Vergílio Ferreira iniciaria, segundo Óscar Lopes, uma crítica da esperança centrada «um tanto abstractamente sobre o problema de “ler o absoluto no relativo” ou ler a permanência na mudança»22. O sentido do percurso do grande escritor, vocacionado também para o ensaísmo de pendor filosófico (prefaciou longamente a tradução portuguesa de O existencialismo é um humanismo de Sartre e consagrou um ensaio a André Malraux), ganha outra dimensão se tivermos em conta o aparecimento, nesse mesmo ano de 1949, do primeiro volume de Heterodoxia de Eduardo Lourenço. Aqui, de uma só vez, desenvolvia-se uma crítica à razão dialéctica (hegeliano-marxiana) a partir da afirmação da singularidade kierkegaardiana e uma crítica da subjectividade transcendental, de extracção kantiana, que encontramos no fundo das teses seareiras e presencistas (ou pelo menos regianas), a partir da afirmação do trágico e de uma encenação da subjectividade. Por outras palavras, atingida na sua identidade fundamental, a “razão”, sem ser negada, fica à prova de várias ofensivas: de uma historicização dos seus próprios fundamentos, da ofensiva do inconsciente, do “drama em gente” pessoano. No plano da arte, a consequência maior é, porventura, a radicalização, ou a reavaliação radical, do próprio conceito de “real”, que o surrealismo vai aprofundar (e, nesse mesmo ano, colectivamente, expor-se) e novas formas de expressão plástica, narrativa literária e concepção cinematográfica vão configurar, numa afirmação polémica que obrigará o neo-realismo a uma auto-avaliação radical numa tempestuosa e finalizante “polémica interna”. Joaquim Soeiro Pereira Gomes morre em 5 de Dezembro. Foi um escritor afeiçoado à linguagem e ao poder da literatura para gerar comunidade, funcionário do Partido Comunista e militante clandestino. Poucos como ele viveram a verdade e o mito, a realidade e a utopia, o optimismo e a tragédia de um tempo histórico singular.

22 Ó. Lopes, Os Sinais e os Sentidos, Editorial Caminho, Lisboa, 1986, p. 77.

GIOVANNI RICCIARDI

O LEGADO DA “PRESENÇA” EM SOEIRO PEREIRA GOMES

O pretexto para este meu arrazoado são as palavras, um pouco heréticas, à primeira vista, que o poeta Arquimedes da Silva Santos pronunciou na ocasião da inauguração do monumento a Soeiro Pereira Gomes, em Alhandra, em 1985:

Graças à minha situação de estudante liceal pequeno burguês, um tanto disponível em tempo e em deslocações mais livres e independentes, propiciava-me visitar frequentemente a casa de Pereira Gomes. O que me proporcionava além do mais na minha formação literária uma curiosa aproximação e conhecimento de algo a que o nosso movimento se contrapunha. Refiro-me à polémica latente e manifesta com o movimento presencista, já então em agonia… Pois nesses nossos encontros domiciliários, apanhei um banho presencista23.

Um banho presencista! Que expressão pregnante e encorpada! Gostei do testemunho do poeta por me ter esclarecido um pouco acerca de um problema que sempre acompanha quem estuda o neo- realismo, vale dizer: o relacionamento deste movimento com o movimento da Presença. Os dois, como é sabido, são movimentos estéticos e literários dos anos Trinta-Quarenta, são dois pontos de vista e de postura perante a literatura. Esquematicamente: o primeiro, o neo-realismo, daria mais atenção ao conteúdo, ou como se dizia então, à humanidade, ou seja, às condições de vida dos oprimidos, aos problemas sociais, enquanto Presença procuraria apenas a forma, a beleza, a arte pela arte24.

23 Cit. in G. Ricciardi, Soeiro Pereira Gomes. Uma biografia literária. Lisboa, Editorial Caminho, 1999, p.37. 24 O Museu do Neo-realismo de Vila Franca de Xira, a sede mais interessante para o estudo do movimento homónimo em Portugal, tem dedicado ao mesmo, em 2007, uma belíssima exposição documental, dando- lhe o título de Batalha pelo conteúdo, adiando aos anos 50 a “procura da forma” (Seara do vento de Manuel da Fonseca, 1958; Barranco de cegos de Alves Redol, 30 Giovanni Ricciardi

Entendo discutir aqui esse assunto não porém em geral, mas com relação a Soeiro Pereira Gomes. Cecília Meireles, a doce poetisa brasileira, numa carta a Carlos Queirós, lamentava não receber mais a revista “Presença” e «é uma pena», continuava «pois gosto muito do seu espírito e daquela inquietação ao mesmo tempo intelectualística e amorosa de Coimbra, que tanto me comoveu quando lá estive»25. Eugénio Lisboa define “prudente” a revista “Presença”, mas útil e oportuna pela «sua ampla bandeira de abertura e independência num momento em que se inaugurava um regime de controle e repressão intelectual e cultural»26. David Mourão-Ferreira insiste: perante as grandes tragédias daqueles anos – fascismo, nazismo, endurecimento do estalinismo, não esquecendo a repressão e a censura em pátria – «a única alternativa dos presencistas a fim de não serem silenciados (e, mesmo assim, alguns conheceram o cárcere, outros tiveram livros apreendidos) era de continuarem defendendo no plano estético os valores supremos da liberdade por que sempre lutaram»27. Que os tempos fossem ásperos, o dizem os poemas publicados ao longo dos 56 números que durou a revista; poemas que falam em “velha perda/ dum paraíso qualquer” (Jazz de , “Presença”, n.19), em “caminhos de noite… cruéis e desabridos” (Poema de Adolfo Casais Monteiro, “Presença”n.53-54), em “passo forçado” (Altitudes de Adolfo Rocha, “Presença”, n.19), em exílios (Exílio de Afonso Duarte, “Presença”n.2; Depois de Branquinho da Fonseca, “Presença”, n.4) e prisões («Por que deixaram livre o maniquin/ E me prenderam a mim», Desconcertante de Afonso Duarte,

1961; a quarta revisão de Uma abelha na chuva de Carlos de Oliveira, 1969, além do aparecimento dos novos romancistas como José Cardoso Pires, Hóspede de Job, 1963; Urbano Tavares Rodrigues, Uma pedrada no charco, 1957; Augusto Abelaira, A cidade e as flores, 1959). 25 Carta de Carlos de Queirós a Adolfo Casais Monteiro de 8.9.1937, Biblioteca Nacional, espólio de Adolfo Casais Monteiro. 26 E. Lisboa, Poesia portuguesa: do Orpheu ao Neo-Realismo, Lisboa, Instituto de Cultura e Língua Portuguesa, 1980, p.49. 27 D. Mourão-Ferreira, Presença da “Presença”, Porto, Brasília editora, 1977.

O legado da “Presença” em Soeiro Pereira Gomes 31

“Presença”, n.10); poemas que exprimem impossibilidade de agir («A vontade que tive de sair/ pelo mundo fora… a passear… devagar…/ao sol, com força e alegria,/ toda, tudo se amoleceu e se afundou…», Climas de Branquinho da Fonseca, “Presença”, n.22) e de se orientar («…correr/ atrás do impreciso norte», Círculo de Edmundo de Bettencourt, “Presença”, n.13); poemas que à realidade preferem os sonhos e as visões (Fantasia de Adolfo Casais Monteiro, “Presença”, n.20; Inércia de Adolfo Rocha, “Presença”, n.22; Bacanal de António de Navarro, “Presença”, n.5; Poema de carne-espírito de José Régio, “Presença”, n.8). Sobre tudo e sobre todos dominando o Papão («Atrás da porta, erecto e rígido, presente», O Papão de José Régio, “Presença”, n.10). Nessas condições, único refúgio é a arte, único refúgio é a poesia. A defesa da liberdade estética é a defesa da liberdade e da dignidade do indivíduo. «A poesia é o meu vinho», cantava Carlos Queirós (Ex- libris, “Presença”, n.31-32). E o “vinho” de Joaquim Soeiro Pereira Gomes qual era e como era? Há um legado da Presença no autor de Esteiros? Quando eu escrevia a biografia literária de Soeiro, atingia-me muito e sempre, tratando-se de um neo-realista, a preocupação, o cuidado, a postura interior diria, com que o autor de Esteiros escrevia e queria escrever. Numa carta de 1937 ao irmão Alfredo, que se queixava do atraso com que respondia, lê-se: «É certo que uma carta familiar não custa a escrever. Mas era justamente a carta familiar cheia de lugares comuns, frases feitas e beijinhos para todos que eu não queria escrever». Preocupação e cuidado semelhantes eram de muitos, por exemplo do presencista Afonso Duarte, que recomendava:

A palavra que digas A carta que escrevas Que sejam obra de arte 28.

28 Cit. in C. de Oliveira, O aprendiz de feiticeiro, Lisboa, Sá da Costa, 1979, 3ª ed. corrigida, p.184.

32 Giovanni Ricciardi

Em 2001, por ocasião de um congresso, escrevi ao poeta Arquimedes, pedindo mais pormenores sobre os “banhos presencistas”. Explícitamente perguntava-lhe se havia um legado da Presença em Pereira Gomes. O poeta confirmou tudo:

… não esqueço que foi ele que me revelou a “Presença” e me emprestou livros desse movimento modernista. Assim, entre outros, que menos me marcaram, recordo de José Régio: Os poemas de Deus e do Diabo, As encruzilhadas de Deus ( e creio que Biografia); de Miguel Torga (além dos livros com o nome de Adolfo Rocha, de 1930-32): O outro livro de Job; A terceira voz, os dois primeiros livros da Criação; de Adolfo Casais Monteiro, três livros: Confusão, um outro cujo título não lembro e o Sempre e sem fim, este com grande influência em mim. Além destes poetas de “Presença”, livros de Mário de Sá Carneiro: Dispersão, Indícios de oiro. Como sabes, na altura, era um pouco suspeito o movimento presencista para o novel neo-realismo, de que o artigo do Cunhal é referência29.

Animado por essas palavras, venho a Portugal à procura de mais elementos e documentos que confirmem as palavras do poeta Arquimedes e a minha hipótese. Na Biblioteca Nacional confiro o espólio de Adolfo Casais Monteiro e de José Régio – ah, que letra bela e legível a do autor de Jogo de cabra cega, uma verdadeira caligrafia!; leio cartas dos protagonistas daqueles anos Trinta-Quarenta próximos do Soeiro, como Fernando Namora, João Cochofel, Joaquim Namorado, Carlos Queirós, Álvaro Salema; leio memórias e depoimentos de Miguel Torga (Diário, vols. I-V), Carlos de Oliveira (O aprendiz do feiticeiro), José Régio (Confissão dum homem religioso ), Mário Sacramento (Diário), Armindo Rodrigues (Um poeta recorda-se), José Gomes Ferreira (Memória das palavras), Alexandre Babo (Recordações de

29 A polêmica atingiu um ponto bastante contundente em 1939, quando, contra a postura da Presença e sobrebuto de José Régio, expressa paradigmaticamente nos versos, tornados famosos, do poema Mitologia (Vergo a cabeça sobre o peito/ Concentro os olhos sobre o umbigo/ E um coração que me hão desfeito/ Chora de achar-se só comigo…), Álvaro Cunhal publica na “Seara Nova” o artigo Numa encruzilhada dos homens em que afirma categóricamente a urgência da opção e da escolha também no campo da literatura (cfr. Giovanni Ricciardi, op. cit., pp.74-75).

O legado da “Presença” em Soeiro Pereira Gomes 33 um caminheiro), Mário Dionísio (Autobiografia), Joaõ Gaspar Simões (José Régio e a história do movimento da “Presença)…30 A viagem não foi vã, ainda que nenhuma “carta do achamento” possa eu escrever. É possível porém através dum processo indiciário, colher elementos que atestem a presença da “Presença” em Soeiro Pereira Gomes, para usar um título do saudoso David Mourão- Ferreira31. Então vejamos. Em Coimbra Soeiro formou-se regente agrícola. Um camarada daqueles anos, Patrício Dias da Silva, lembra-o “poeta”, e Octávio Chagas Paiva, outro companheiro daqueles anos, num depoimento recolhido por Manuela Câncio, esposa de Soeiro e autora de Eles vieram de madrugada32, lembra:

Entre as imagens que revivem na minha memória daqueles tempos dos nossos 18 e 19 anos, revejo Coimbra aonde íamos frequentemente, porque essa cidade distava apenas 3 Km. de Bencanta. Levava-nos lá um sem número de atrações, os cafés, as tertúlias literárias em que, apesar de muito jovens, éramos sempre bem recebidos… Lembro-me de que um dos nossos pontos de passagem eram as livrarias… O Joaquim tinha acentuado gosto pela literatura.

Na escola agrícola Soeiro ficou de 1920 a 1928. Foram estes os anos do Centro Republicano Académico, activo com as suas publicações A revolta e Gente nova (a família Pereira Gomes era toda republicana); os anos do trabalho clandestino e constante do jovem partido comunista

30 M. Torga, Diário, Coimbra, ed. do autor, 1946; C. de Oliveira, O aprendiz do feiticeiro, op. cit.; J. Régio, Confissão dum homem religioso, Porto, Brasília editora, 1983, 2ª ed; M. Sacramento, Diário, Porto, Limiar, 1975; A.Rodrigues, Um poeta recorda-se. Memórias de uma vida, Lisboa, Edições Cosmo, 1998; J. Gomes Ferreira, Memória das palavras, Lisboa, Portugália, 1986; A. Babo, Recordações de um caminheiro, Fundão, Jornal do Fundão, 1984; M. Dionísio, Autobiografia, Lisboa, O Jornal, 1987; J. G. Simões, José Régio e a história do movimento da “Presença”, Porto, Brasília editora, 1977. 31 D. Mourão-Ferreira, op. cit. 32 M. Câncio Reis, Eles vieram de madrugada: cartas para a clandestinidade a Soeiro Pereira Gomes, Lisboa, Editorial Caminho, 1981.

34 Giovanni Ricciardi tão bem analisado por Alberto Vilaça33; os anos da “Presença” também. De 1931 até 1944, Pereira Gomes morou em Alhandra, na “Alhandra toureira” de Almeida Garrett. Funcionário da fábrica Cimento Tejo, deslocava-se frequentemente para Lisboa, para os cafés da capital, onde encontrava as inteligências e os intelectuais do momento (Alves Redol, Manuel Campos Lima, José Gomes Ferreira, Manuel da Fonseca, Mário Dionísio). Estimulado por esses contactos, aos poucos, o escritor que estava dentro começa a manifestar-se. «Sempre ambicionei escrever», disse na entrevista a “O Primeiro de Janeiro” de 1943; «só em 1935, porém, me abalancei a enviar um conto a um concurso». No mesmo ano, talvez fosse o mesmo conto, Joaquim envia O capataz a “O Diabo” que o não publicou, porque cortado pela censura. Depois de algumas crónicas e de alguns contos (1939-1940), cujo valor literário está começando a ser apreciado34, Soeiro explode em novembro de 1941 com a publicação de Esteiros. Um romance assim estava como que sendo esperado, pois seria a confirmação de que os neo-realistas também podiam fazer obra de arte. Mário Dionísio proclama: «… apareceu um novo romancista chamado Soeiro Pereira Gomes, apareceu um primeiro bom livro neo-realista chamado Esteiros». Quase um ano depois da publicação, por ocasião da segunda edição do romance, aparece uma resenha de João Gaspar Simões que o considera «um dos melhores romances ultimamente publicados entre nós.[…] Efabulação, construção, estilo, diálogo, dramatismo, tudo se mantém numa esfera a que raramente ascendem os nossos romancistas. Isso não quer dizer que se trate de um livro sem fraquezas nem sequer de uma obra original»35.

33 A. Vilaça, Para a história remota do PCP em Coimbra, 1921-1946, Lisboa, Edições Avante!, 1997. 34 Vide P. Ceccucci, O jogo das pistas. A construção do sentido no discurso textual dos ‘Outros contos’ de Soeiro Pereira Gomes, in “Vértice”, janeiro- fevereiro, 2000, pp.60-67. 35 J. G. Simões, Critica III, Lisboa, Delfos, s.d., p.41 (resenha de 17.12.1942).

O legado da “Presença” em Soeiro Pereira Gomes 35

Falta de originalidade, lamenta o crítico! «Em Arte, é vivo tudo o que é original», proclamava José Régio desde o primeiro número de “Presença”. Aqui, porém, João Gaspar Simões refere o “boato”, o preconceito talvez, que faz do romance uma imitação de Capitães de areia de Jorge Amado. Na realidade, Esteiros é uma obra muito original, pois Soeiro só veio a conhecer o romance brasileiro depois de ter escrito o seu. O segundo romance, Engrenagem, escrito de 1942 a 1944, continua o reconhecimento da realidade alhandrense. Depois dos telhais e da exploração dos «filhos dos homens que nunca foram meninos», como se lê na epígrafe de Esteiros, eis a fábrica, eis a história de camponeses «que nunca viram máquinas e querem ser operários», essa também epígrafe do romance Engrenagem. Nestes anos, já militante comunista, atarefado como nunca36, Soeiro persegue teimosamente a sua vocação de escritor, sofrendo a tortura de «garatujar o papel, com muitas ideias e poucas palavras […] como quem tenha muito que comer e não sabe por onde principiar», como escrevia numa carta ao irmão Alfredo de 3 de março de 1943. Em junho de 1944, depois da greve de 8 e 9 de maio, Soeiro dá o salto, entra na clandestinidade: esse espaço e esse tempo anónimos, às vezes impessoais, onde tudo é segredo e sagrado, onde as individualidades se anulam, desestruturando-se em pseudónimos, em pedaços de si! Até então Soeiro não tinha entrado no debate teórico, nada tinha escrito a respeito da função da literatura e dos intelectuais na sociedade, ainda que tenha acompanhado a questão desde o começo – sabia por exemplo dos artigos que Raul Proença dedicara na “Seara Nova”, de 1927 a 1929, ao ensaio de Julien Benda, La trahison des clercs37, publicado no mesmo ano do aparecimento da revista

36 «Passo dias em luta com o tempo, sempre a tratar de coisas e sempre com outras para acabar. Já não sei quando terei descanso e tempo para escrever, digo, para acabar o livro» (Carta ao irmão Alfredo de 29.11.1943). 37 O ensaio, como é sabido, acusava os intelectuais de terem traído a cultura, que deve ser asséptica e racional, a favor de um empenho político, que é irracional.

36 Giovanni Ricciardi

“Presença”. Mas agora, na clandestinidade, sentindo mais cruamente no próprio corpo a repressão e a falta de liberdade, como conciliar a preocupação formal com o imperativo, esse sim categórico e imediato, de lutar contra a ditadura e contra o fascismo? Como superar a dicotomia expressão/humanidade, acerca de que, com arrazoado custoso também José Régio discutia nesse ano de 1944?38. Não renunciando nem à expressão, nem à humanidade Eis alguns momentos dessa inquietação e dessa busca. Quando, em 1945, Mário Dionísio publica As solicitações e emboscadas, ele aprecia o livro que outros camaradas julgavam hermético, frio, incompreensível, mas acha o poema Elegia ao companheiro morto:

Meu companheiro morreu às cinco da manhã Foi de noite ao fim da noite às cinco em ponto da manhã [...] Imóvel e calado para sempre E era quase manhã e era quase manhã

belo, mas ideologicamente errado, porque, dizia, «não se deve chorar um companheiro que morre às portas da revolução […], pois os seus camaradas, os seus irmãos, o seu povo iriam recolher o fruto do seu trabalho»39. É desse ano ainda um episódio que me contou Mário Soares: para o 1º congresso do Movimento de Unidade Democrática (MUD)- juvenil, tinha ele preparado uma relação, que Soeiro, que então era o

38 «Se afirmo que a arte é expressão – e à arte só a expressão importa – volto as costas à humanidade da obra de arte, do seu criador e do seu fruidor. Mas se afirmo que todo o grande e verdadeiro artista é um homem superior como homem – e não por possuir o dom da expressão artística, embora também já só isso o notabilize, mas pela riqueza, complexidade, originalidade, singularidade da sua natureza humana – nego que a arte seja meramente expressão. Isto é: exijo à obra de arte mais do que a qualidade da expressão, pois lhe exijo uma qualidade superiormente humana» (J. Régio, Perenidade da Presença, in “O Primeiro de Janeiro” de 25 de outubro de 1945, cit. in F. Alvarenga, José Régio perante a est«ética neo-realista, in “Vértice”, dezembro, 1996, p.46. 39 Depoimento de Manoel Campos Lima, in G. Ricciardi, op. cit., p.169.

O legado da “Presença” em Soeiro Pereira Gomes 37 seu controleiro, quis ler. Quando a recebeu de volta, o texto estava completamente rabiscado e emendado, mais no plano formal, de que no das ideias. Talvez por deformação do seu ser escritor, lembra o Presidente40. Rebuscando no espólio, nos recortes de jornais, muitos em língua francesa, recolhidos por ele durante a clandestinidade, vejo que a preocupação de separar a arte da paixão política está sempre presente e viva. A um inquérito de “Action” de 1946, por exemplo, com o título “Faut-il brûler Kafka”, respeito ao eterno problema se a literatura deva ser comprometida ou não, respondem escritores e intelectuais. Joaquim evidencia a vermelho as frases para ele importantes como estas:

- O regime das obras de arte é a liberdade (Merleau-Ponty); - O que é belo e eficaz é a obra de convicção¸ não a obra de propaganda […] Eu queria lembrar apenas que um escritor politicamente reaccionário como Balzac é artisticamente e também socialmente mais revolucionário que todos os “liberais” do seu tempo (Auguste Anglès); - Os imperativos sociais e políticos não devem reger as formas e os temas da obra literária (Rudolf Leonhard).

Uma posição pública Soeiro tomou-a em 1946, quando escreveu uma carta à Comissão dos Escritores, Jornalistas e Artistas Democráticos (CEIAD), do MUD, em que auspicia que os intelectuais das Letras e das Artes desçam à rua, quebrando a torre de marfim da falsa “independência do espírito”, pois, «neste momento histórico», ele afirma, «mesmo no domínio da arte não há lugar para os neutros». Noutra carta, sem data, mas escrita depois de 1947, escreve:

Que os pensadores, os artistas e os escritores venham à rua, para unir e lutar contra o fascismo. Não se trata de vazar política na arte, de converter a literatura em propaganda; nem de impor uma doutrina ou uma estética […] O drama do operário é o drama do intelecutal sob o fascismo. Àquele roubam a força de trabalho; a este, os meios de expressão e a ambos a liberdade.

40 Vide também M. Soares, Ditadura e revolução, entrevista a Maria João Avillez, Lisboa, Público, 1996, p.68.

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Essa é a tensão, o drama que faz dos Contos vermelhos uma pequena obra prima, pois neles Pereira Gomes consegue realizar uma síntese feliz entre o homem partidário e o artista e sabe tecer a arte com a vida, a palavra poética com a urgência duma literatura militante. E a propósito do conto O pio do mocho houve, na cidade de Porto, em julho de 1949, na casa de Nina Perdigão, onde Soeiro estava escondido, uma discussão sobre o uso do adjectivo silente. Diz o texto: «Campo aberto, silente, a tomá-lo no seio, como outrora a velha ama nos braços protectores…». Alguns camaradas achavam que havia palavras difíceis de serem entendidas pelos operários e camponeses, como o adjectivo silente. Soeiro não o quis tirar, porque, replicou, «é uma palavra bonita»41. Apenas num caso o homem de partido sobrepujou o artista. Foi quando, poucos meses antes de morrer, já muito doente pelo câncer, quis corrigir – como tinha escrito na capa desde 1944 – o romance inédito Engrenagem. E corrigindo-o enxertou no texto a figura do Camarada, a voz do Partido, o mentor e o guia de Fariseu e dos seus camaradas operários. Mas duma inserção forçada e ideológica se trata, que se tornou uma inútil excrescência, tanto que eu sugiro de voltar à edição da SEN da cidade do Porto, de 1951, retomada pelas Publicações Europa-América, em 1968, e recusar a edição da Caminho e das edições “Avante!”. E concluo. Em junho de 2001, Albano Nogueira – que com Miguel Torga publicou “Manifesto” (5 números de 1936 a 1939), uma “revista de arte e crítica” que, relativamente a “Presença”, mantinha “uma oposição conciliante”, nas palavras do mesmo Nogueira – por ocasião da apresentação do livro de Carlos Santarém Andrade A envolvência coimbrã de Régio e Nemésio, durante o encontro “Comemorações do centenário dos nascimentos de José Régio e Vitorino Nemésio” (Coimbra 22-23 junho), afirmou categoricamente: «O Neo-Realismo de Alves Redol é o Neo-Realismo de conteúdo, o de Esteiros é o Neo- Realismo estético». Estou de acordo e essa era a licção, esse era o “legado” essencial da “Presença”. Assim que, com certeza, também

41 Vide R. Perdigão, O PCP visto por dentro e por fora, Lisboa, Fragmentos, s/d, pp. 40-41.

O legado da “Presença” em Soeiro Pereira Gomes 39

Soeiro poderia ter assinado a carta aberta de alguns neo-realistas de Coimbra, enviada aos directores da revista Adolfo Casais Monteiro, João Gaspar Simões e José Régio, em 1940, lamentando o fim das publicações, mas reconhecendo: «… à revista devemos a nossa formação de artistas. Hoje existem realmente certo número de incompatibilidades entre nós e Presença: divergência de mentalidades; mas isso não faz esquecer o que efectivamente lhe devemos e aquilo que ainda nos continua e continuaria a unir»42. Qual o sentido, a moral, deste arrazoado, ainda que nem sempre e nem suficientemente explicitado e explicado?

1. Em momentos de opções difíceis, em momentos crus e iliberais, a poesia, a arte, a produção artística em geral, podem tornar-se, por caminhos diferentes, refúgio e defesa da independência e da liberdade do homem; 2. Nem os presencistas, os melhores, negavam à obra de arte a paixão (religiosa, política, patriótica, etc.), nem os neo-realistas, os melhores, menosprezavam a forma e o momento estético da produção literária. Mas houve polêmicas e brigas acirradas.

Hoje, 70 anos volvidos, talvez possamos adoçar e serenar aquele embate e aquela contraposição, também através do caso de um neo- realista a demarcação regional como é Joaquim Soeiro Pereira Gomes.

42 A carta é assinada por João José Cochofel, Fernando Namora, Augusto dos Santos Abranches, Coriolano Ferreira, José Ferreira Monte, João Castro e Carlos de Oliveira. Cit. in J. G. Simões, José Régio e a história do movimento da “presença”, op. cit., pp.367-368.

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SILVANA MORELI VICENTE DIAS

MEU QUERIDO GILBERTO, MEU QUERIDO LINS: ALGUNS APONTAMENTOS SOBRE A CORRESPONDÊNCIA DE GILBERTO FREYRE E JOSÉ LINS DO REGO

1. Freyre e Lins: o encontro

Passados anos desde a morte do paraibano José Lins do Rego, em 1957, e do pernambucano Gilberto Freyre, três décadas depois, suas obras ainda suscitam polêmicas. A velha pergunta sobre quem teria influenciado quem permanece suspensa. A crítica e a historiografia literárias já exploraram inúmeros pontos do contato entre ambos. Mas o consenso em inúmeros temas não exclui a dissensão. Por exemplo, a José Lins do Rego foi dedicado recentemente o premiado documentário O engenho de Zé Lins, de Vladimir Carvalho, que, dentre outros escopos, levanta pontos controversos da relação de Lins com Freyre – em seu depoimento, o paraibano Ariano Suassuna comenta a amizade dos dois, tomando pleno partido de José Lins quando o assunto em questão foi se haveria ou não uma ascendência freyriana a agir em sua obra. Porém, menos que pensar em uma força pesando sob a trajetória de um escritor, importaria discorrer sobre relações complexas, de mão dupla, jogos sutis que mesclam entusiasmo, troca intelectual e disposição para o diálogo, os quais naturalmente descortinam, em ambas as direções, novidades. No início dessa amizade, José Lins, jovem bacharel em Direito, que saíra do estado natal para estudar em Recife, se beneficiaria da convivência com um scholar que conhecia intelectuais de peso na época – tanto no Brasil quanto no exterior –, artistas modernistas e trazia uma sólida bagagem sobre a tradição literária e artística ocidental. Por sua vez, Freyre, que voltava de um longo período de formação nos Estados Unidos, podia contar com o ânimo de um jovem aspirante a escritor e a polemista, que facilitaria sua retomada de contato com a movimentação de pessoas e grupos no Recife dos anos 1923 e 1924. Foi por intermédio de Lins que Freyre 42 Silvana Moreli Vicente Dias conheceu, por exemplo, José Américo de Almeida, autor de A Bagaceira (1928), considerado o marco do romance neorealista que se consolidaria na década de 30; Olívio Montenegro, cujo O romance brasileiro (1938) constituiria, por muitos anos, uma das principais referências analíticas sobre o romance brasileiro, incluindo a recente produção nordestina; Jorge de Lima, autor, dentre outros, de Poemas negros (1937), que apresenta, na lírica, a experiência do mundo patriarcal e a perspectiva do negro oprimido; e Aníbal Fernandes, jornalista e estudioso de temas relacionados à cultura e à história da região. Se considerarmos que Freyre, após a morte prematura do amigo, pôde rememorar, reviver e até reescrever muitos lances desse encontro, beneficiando-se das próprias declarações elogiosas que recebeu por parte de José Lins43, talvez possamos entender o porquê de se tomar como praticamente consensual a forte presença do sociólogo, com seu ideário sobre a região e a tradição alinhavado a uma tendência épica do tipo lírico-saudosista, na escrita de Lins. De qualquer modo, sua obra, apesar de ter uma diversidade pouco comentada – veja-se que praticamente inexistem estudos de suas crônicas –, não desmente isso: Menino de Engenho (1932), Doidinho (1933), Banguê (1934), O moleque Ricardo (1935), Usina (1936) e Fogo Morto (1943) recuperam uma qualidade cíclica – com lugares, temas e personagens que são retomados e se entrecruzam – presente nos grandes ensaios de formação de Gilberto Freyre, Casa-grande & senzala (1933), Sobrados e Mucambos (1936) e Ordem e Progresso (1959). Apesar

43 Entre os escritos de José Lins em que há referência ao sociólogo, estão os prefácios a Região e tradição (1941) e a Ingleses (1942), de Gilberto Freyre. Este, por seu turno, escreveu inúmeros artigos dedicados ao “menino de engenho”, principalmente comparativos, enfocando sua relação intelectual e literária com o romancista, tais como “José Lins do Rego e eu: qual dos dois influiu sobre o outro?” (em Alhos & bugalhos, de 1978) e “Recordando José Lins do Rego” (em Vida, forma e cor, de 1962). Talvez fosse estrategicamente mais interessante para Freyre expor ao público leitor a qualidade dessa relação; nesse sentido, é significativo que os principais textos de José Lins dedicados a Freyre sejam provavelmente frutos de uma encomenda do amigo—ou do seu editor, por sugestão do próprio autor.

Meu querido Gilberto, meu querido Lins … 43 de muitas vezes se repisar que há um ânimo que procura restituir, nostalgicamente, a partir de cacos de um mundo decomposto, o universo circular do mundo patriarcal, em que seus atores sociais teriam papéis muito bem circunscritos, sem muito espaço para a descoberta individual e para a ascensão das classes mais desprivilegiadas, há, sem dúvida, um tom melancólico, um sentimento ambíguo, profundamente desencantado, diante da catástrofe iminente. Do romancista, citem-se nesse sentido, dentro do ciclo da cana-de-açúcar, Banguê e Usina, ao lado de Fogo Morto, que destilam desesperança ao recompor, pela memória, os elementos decadentes da vida rural em transformação.44 Ao lado desta questão que, a meu ver, continua em aberto, há outras que mereceriam um olhar mais acurado. Trazer à tona textos paraliterários dos autores poderá contribuir para lançar nova luz sobre juízos críticos tidos como consensuais, redefinir ou apresentar informações biográficas que ajudem a esclarecer pontos obscuros sobre a trajetória de ambos e de outros intelectuais e escritores com os quais os dois conviveram, poderá tornar mais complexa a percepção sobre os elementos que atuam na composição da escrita etc. Assim, textos inéditos, que não fazem, de início, parte da obra efetivamente publicada em vida, podem e devem colaborar para ampliar suas obras completas, contribuindo para redefinir rumos da crítica literária, da historiografia literária, da crítica biográfica e da crítica genética45—só para mencionar alguns possíveis campos de estudo que se beneficiariam da divulgação de documentação autógrafa inédita.

44 Dentre as obras críticas que investigam a obra de José Lins do Rego e discutem também o diálogo de Gilberto Freyre com o romancista, importa destacar: J.A. Castello, José Lins do Rego: modernismo e regionalismo. São Paulo: Edart, 1961; L. Trigo, Engenho e memória: o Nordeste do açúcar na ficção de José Lins do Rego. Rio de Janeiro: ABL; Topbooks, 2002; J. M. G. de Almeida, A tradição regionalista no romance brasileiro. Rio de Janeiro: Achiamé, 1981. 45 Cf. sobre o assunto: M. A. de Moraes, “Epistolografia e crítica genética”. Ciência e Cultura, Campinas, v.59, n.1, pp.30-32, jan./mar. 2007.

44 Silvana Moreli Vicente Dias

As cartas trocadas entre Gilberto Freyre e José Lins do Rego foram, até ao momento, apenas parcialmente divulgadas ao público leitor46. Freyre intuía a importância de se publicar a correspondência mantida com o amigo—seja para reforçar mitologias ou para abrir caminhos analíticos que descortinassem aspectos de uma leitura comparada, tendo por foco a obra de ambos—, tanto que deixa registrado no manuscrito do seu diário Tempo morto e outros tempos:

Outras das suas cartas [de José Lins] espero publicar em breve, em ensaio de que este rascunho é apenas ligeira nota prévia. Por essas cartas [...] ficarão esclarecidos alguns pontos, hoje obscuros, tanto simbioticamente nas relações intelectuais, sentimentais que nos ligaram durante longos anos; tanto nas suas relações com o meio brasileiro—principalmente o literário—da sua época de transição de panfletário para escritor, de provinciano para metropolitano, como nas dos seus dias de escritor, quase de repente triunfante, com outros escritores. É também nas influências—inclusive (acredite ou não mestre Otto Maria Carpeaux) os de outros ingleses—que confessa ter recebido.47

Freyre e José Lins teriam convivido apenas no ano de 1923 e em parte de 1924, quando o paraibano retorna do Recife—onde Freyre já se tinha fixado depois do seu regresso dos Estados Unidos e da

46 Apresenta a correspondência do escritor, de forma parcial ou fragmentada: Cartas do Próprio Punho sobre Pessoas e Coisas do Brasil e do Estrangeiro, com cartas de Freyre (Rio de Janeiro, Conselho Federal de Cultura, 1978), organizado por Sylvio Rabello; Pela mão de Gilberto Freyre ao menino de engenho: cartas, apresentação e estudo, de Nestor Figueiredo Jr. (João Pessoa: Idéia, 2000); e as biografias Gilberto Freyre. Um vitoriano nos trópicos, de Maria Lúcia Pallares-Burke (São Paulo: Editora UNESP, 2005), e Gilberto Freyre. Uma biografia cultural, de Guillermo Giucci e Enrique Rodríguez Larreta (Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, 2007). A única edição que se debruça sobre um conjunto completo da correspondência de Gilberto Freyre é: G. Freyre; O. LIMA, Em família: a correspondência de Oliveira Lima a Gilberto Freyre. Organização de Ângela de Castro Gomes. Campinas: Mercado de Letras, 2005. José Lins do Rego ainda não conta com nenhum conjunto completo (ou mesmo parcial) editado. 47 Gilberto Freyre sobre José Lins do Rego em manuscrito de Tempo Morto e Outros Tempos, guardado no Centro de Documentação da Fundação Gilberto Freyre.

Meu querido Gilberto, meu querido Lins … 45

Europa—para seu estado. A partir de então, os dois passam a viver em lugares separados, com exceção do período em que Freyre foi deputado federal, com o apoio da juventude de esquerda reunida ao redor da Faculdade de Direito do Recife, tendo se fixado, para o exercício do mandato, no Rio de Janeiro (1946-1951), cidade onde Lins passou a residir após 1935. A aproximação de Lins e Freyre não foi fortuita. Além das inúmeras afinidades de gosto e de estilo, que dão argamassa, por assim dizer, à amizade, os dois passam a representar a nova linha que seria emblemática dos novos tempos pós-revolução de 30. Época de conciliações precárias e de um trânsito extremamente problemático entre vida pública e privada, o Brasil, tendo à frente o presidente Getúlio Vargas, viu crescer a necessidade de autoconhecer-se, de pôr- se em questão e de reavaliar seu passado como modo de enfrentamento de uma modernização heterogênea, a solavancos, em ritmo desigual se comparadas as diferentes regiões do imenso país. Ambos os escritores são acolhidos pela Editora José Olympio, que se torna a principal do período, graças ao enorme tino profissional e à capacidade ímpar de negociação de seu dono. O público leitor médio estava em busca de novidades e, após o primeiro Modernismo, de caráter mais combativo, da década de 20, passou a se interessar cada vez mais por assuntos brasileiros, crescentemente em voga48. É óbvio que a produção literária também se beneficiou de um fator fundamentalmente contingencial: a Grande Depressão nos Estados Unidos, com consequências catastróficas em várias partes do mundo e em diversos setores da economia, provoca um aumento significativo do livro importado49. É nesse contexto que José Olympio, que naquele momento buscava consolidar-se no mercado editorial, oferece a José Lins uma segunda edição de Menino de Engenho de três mil exemplares e a primeira edição de Banguê de cinco mil exemplares,

48 L. Hallewell, O livro no Brasil: sua história. Tradução de Maria da Penha Villalobos, Lólio Lourenço de Oliveira e Geraldo Gerson de Souza. 2.ed. rev. e ampl. São Paulo: EDUSP, 2005. p. 440. 49 R. M.Levine, Pai dos pobres?: o Brasil e a Era Vargas. São Paulo: Companhia das Letras, 2001.

46 Silvana Moreli Vicente Dias cuja tiragem foi ousadamente dobrada para dez mil exemplares, com pagamento adiantado. O valor insólito hoje, e muito mais para a época, comprova a ousadia de suas apostas. Bem-sucedido, José Olympio tornou-se o editor emblemático do período, e escritores da casa como Lins e Freyre—que passou a ser editado pela J.O. após uma fracassada parceria com a Editora Maia & Schmidt na publicação de Casa-grande & senzala—passaram a ser considerados, pelo público leitor, por intelectuais e pela crítica, dos maiores e mais promissores da época. Para além de exemplares de um regionalismo de cunho saudosista e tradicionalista50, a trajetória intelectual e literária de Freyre e Lins permite compreender a rede intrincada de relações entre pessoas e grupos daquela época, vivendo em uma democracia permanentemente negociada, que oferece a base para uma complicada situação que permanece no país até os dias de hoje. Problematizar o porquê de seu sucesso, ler a ensaística de Freyre e a ficção de Lins, tão comprometidas com a vida social, com o palpável, considerando o contexto da década de 30 e 40—que se volta especialmente para o ensaio, para a literatura de cunho documental e para o registro da memória pessoal e coletiva—, observar o instilar da melancolia que se coaduna com o ritmo da decadência—do mundo patriarcal, dos valores da vida rural, do mundo fechado em que habitaria a divindade decaída—, isso e outros possíveis argumentos justificam que se recuperem ambos os escritores, inserindo-os no rol da literatura brasileira como definitivamente dos mais representativos autores do século XX51. Nesse sentido, o estudo aprofundado de suas

50 Cfr. A. Bosi, História concisa da Literatura brasileira. São Paulo: Cultrix, 1994; L. Stegagno Picchio, História da literatura brasileira, 2.ed. rev. e atual. Rio de Janeiro: Nova Aguilar, 2004; W. Martins, A Idéia Modernista, Rio de Janeiro: Academia Brasileira de Letras; Topbooks, 2002. 51 Pode-se dizer que Gilberto Freyre está plenamente reabilitado levando- se em consideração instigantes leituras que dele se fazem em áreas das ciências humanas como História Social, Antropologia e Sociologia. Porém, vale dizer que, no campo dos estudos literários, sua presença continua sendo bastante marginal, apesar de estudos inovadores como os de Antônio Dimas

Meu querido Gilberto, meu querido Lins … 47 cartas pode dar uma contribuição decisiva para compreender aspectos desconhecidos da obra dos autores, de suas biografias e também para apresentar elementos de uma época complexa, que procurava, grosso modo, superar o paradigma da República Velha e, com ele, os velhos padrões oligárquicos e de base rural.

2. Sobre a edição: uma proposta

Há muitos pontos ainda obscuros quando se trata da obra de Gilberto Freyre e José Lins do Rego. O trabalho com material de arquivo, nesse contexto, oferece subsídios para reavivar o debate em diversas frentes. Especialmente no caso de textos inéditos, é importante definir critérios seguros para transpor o material dos arquivos até o preparo da publicação, com base em escolhas adequadas de técnica editorial. No que diz respeito à feitura da edição, a produtividade prática das escolhas deverá ser buscada justamente diante da consciência de questões tais como: que tipologia de notas de editor deverá ser adotada; como se fará a uniformização no caso de siglas e palavras abreviadas; diante de variantes, qual será o procedimento; quais parâmetros técnicos serão utilizados para sanar dúvidas de decifração e fixação de texto; como estabelecer diálogo com material adicional de arquivo, tais como fotografias, dedicatórias, cartões postais, textos dispersos em periódicos e outros. Impasses teóricos e práticos certamente surgem em meio ao processo, pois, como afirma Giuseppe Tavani, a tarefa do filólogo textual compreende justamente «um terreno repleto de armadilhas de todo tipo, por meio das quais é preciso andar sempre com o maior cuidado»52. Ainda mais, para falar com Jeanne Bem53, há uma de Moraes, Edson Nery da Fonseca e Ricardo Benzaquem de Araújo, para citar somente três de seus principais estudiosos. 52 G. Tavani, “A recuperação do texto”, in Estudos universitários de língua e literatura: homenagem ao Prof. Dr. Leodegário de Azevedo Filho. Rio de Janeiro: Tempo Brasileiro, 1993., p.51. 53 Cf. J. Bem, “Le statut littéraire de la lettre”, Genesis: Révue Internationale de Critique Génétique, n.13, pp.113-115, 1999. Tradução de Cláudio Hiro intitulada “O estatuto literário da carta”, inédita.

48 Silvana Moreli Vicente Dias diferença fundamental entre a carta como objeto particular, pontual, e sua transformação em coletânea destinada a um público. Além disso, toda carta teria seu grau variável de literariedade e de literalidade, podendo tocar as fronteiras também móveis de formas como o diário, a (auto)biografia, as memórias, o ensaio e a crônica—todas essas formas praticadas e apreciadas por Freyre e Lins. Diante desse texto multifacetado e complexo, dois tipos de receptores ideais poderiam ser atraídos: de um lado, o público acadêmico; de outro, o apreciador de cartas e o leitor comum. O intuito seria oferecer uma edição satisfatória tanto para o especialista e o pesquisador quanto para o público em geral. Da Correspondência Gilberto Freyre a José Lins do Rego, tem-se notícia de publicação integral de dois documentos, em edição da correspondência ativa de Freyre preparada por Sylvio Rabello. Nos casos de publicação prévia, é preciso confirmar se o documento original pode ser localizado. Em caso positivo, é importante lançar mão dos instrumentos da Ecdótica para o confronto das variantes, apontando, de um lado, para a especificidade da apresentação dos documentos originais (a serem abordados de modo mais “fiel” possível) e, de outro, procurando oferecer o cotejo com as cartas efetivamente publicadas em sua integralidade. Desse modo, no aparato crítico, serão indicadas todas as divergências do texto editado em relação às outras versões e ao texto tomado como base. Sobre os procedimentos específicos para edição da Correspondência de Gilberto Freyre e José Lins do Rego, pretende-se adotar um critério cronológico, intercalando os documentos de ambos os conjuntos. Apesar de estes terem sido previamente organizados por bibliotecários e arquivistas, é imperativo rever a ordem de classificação, bem como proceder com a reordenação cronológica quando necessário. Quanto à transcrição dos documentos originais, o desafio será determinar a escala de fidedignidade mais adequada para o tipo de edição que pretendo realizar54.

54 Cf. C. N. Cambraia, Introdução à crítica textual. São Paulo: Martins Fontes, 2005.

Meu querido Gilberto, meu querido Lins … 49

Com relação ao preparo para publicação, vale dizer que, apesar de as edições críticas servirem como modelo, os problemas aqui enfrentados se distanciam daqueles de uma obra orgânica efetivamente pensada para publicação, com base na qual se poderia pensar em um texto depurado, livre de intromissões e glosas alheias à vontade do autor. Nesse sentido, as reflexões de Giuseppe Tavani sobre a edição crítica de textos modernos apontam para alguns desses impasses, como a dificuldade de balizar efetivamente a última vontade do autor, o que se torna mais problemático no caso de textos nunca publicados ou restritos, de início, à esfera privada:

A complexidade das operações que requerem a leitura, a interpretação, a transcrição, a classificação e a disposição em séries cronologicamente ordenadas dos ‘dossiês’ dos escritores contemporâneos é tal que para lhe fazer frente não bastam a boa vontade, a paixão e a competência do filólogo: [...] a decifração dos cartapácios é, o mais das vezes, tão árdua que requer a intervenção do ‘manuscritólogo’, isto é, quem tenha adquirido a capacidade de analisar a urdidura aparentemente desordenada de uma série de escritas constantemente caracterizadas por intermitências, interrupções inesperadas, substituições, deslocações, alternativas deixadas em suspenso, alterações, correções55.

Não basta, portanto, dominar a técnica de composição de edições críticas e fidedignas; nesse sentido, torna-se necessária a perspectiva da crítica genética. A isso acrescentaríamos, evidentemente, a importância de manter, como pano de fundo dessas escolhas textuais, o enfoque crítico e historiográfico-cultural, de sólido repertório hermenêutico, que inclui, além do conhecimento da estrutura retórico- estilística do texto, o conhecimento profundo da realidade socioeconômica, cultural e ideológica (significativamente mais complexa neste caso, já que a troca de cartas atravessou mais de três décadas de produção ininterrupta) dentro da qual o texto foi escrito. Uma edição crítica de um texto moderno deixaria entrever esses vários enfoques, inclusive de interpretação, e não se restringiria exclusivamente a critérios técnicos objetivos—os quais, de fato, nunca

55 G. Tavani, “Filologia e genética”, Estudos lingüísticos e literários, Salvador, n.20, set.1997, p.90.

50 Silvana Moreli Vicente Dias se encontram em estado puro. Daí também a necessidade de estabelecer parâmetros adequados que permitam vir à tona, passando pelo crivo analítico e crítico, os elementos de fundo com base nos quais a coletânea se constituiu. Nesta linha que procura aliar teoria e práxis, defendida por Tavani, também vale afirmar outra característica do texto de correspondência em confronto com um texto efetivamente pensado para publicação: a (im)possibilidade de fechamento absoluto do trabalho, visto que este está submetido a uma proliferação — pois sempre novos documentos, antes desconhecidos, podem ser acrescentados ao conjunto. A sequenciação das cartas tem, portanto, algo de apenas convencional, posto que o fluxo do diálogo epistolar é muitas vezes interrompido pela ausência de documentos. E, vale ressaltar, neste conjunto específico há muitas peças sem datação—principalmente José Lins não costumava datar suas cartas, ou o fazia de modo incompleto, sem o ano, por exemplo—, o que demanda um investimento mais apurado do organizador ou editor no sentido de restabelecer, mesmo que de forma hipotética, a substância da troca. As notas de edição, em rodapé, na medida do possível exaustivas, podem aparecer entre colchetes. Com o cotejo da referida edição com os documentos autógrafos, será possível dar o fechamento à mesma, que se pretende “crítica”—mas sem se basear em um tipo de aparato exclusivamente formal e sem contar com cotejo com outros textos efetivamente publicados, pois o conjunto deste material se encontra inédito, apesar de publicações esparsas de trechos. Ao me pautar pela elaboração de edições críticas, pretendo oferecer ao leitor a possibilidade de reconstruir o caminho feito durante a organização, ou seja, que, do texto fixado e editado, se possa ter contato com informações relativas a todo o processo. A começar, serão aduzidas informações acerca da documentação original, tais como: classificação do documento no arquivo de onde provém; sua apresentação material (tipo e cor do papel, tipo e cor da tinta, as dimensões, número de folhas e páginas); sua conservação no acervo (rasgamentos, rabiscos, detecção de insetos, fungos, poluição, iluminação, temperatura ambiente e ação do homem, descrição de características relativas a deterioração); materiais usados em possíveis restaurações (tipo de

Meu querido Gilberto, meu querido Lins … 51 cola, adesivo etc.); e especificação de elementos figurativos, como desenhos, quando for o caso56. Além disso, notas de caráter descritivo (apesar de apresentarem um grau mínimo de intervenção do organizador) também devem tocar em questões metodológicas relacionadas especificamente às edições críticas, exigindo-se, para tanto, o recurso à Filologia, à Crítica Textual, à Ecdótica e à Crítica Genética. Tais notas seriam aquelas que, a nosso ver, exporiam as dificuldades de transcrição, as diferenças de variantes em edições precedentes, as escolhas do organizador visando à uniformização do texto, à especificação de rasuras e emendas do autor, bem como da presença de outros testemunhos, como marcas de arquivistas, presença de desenho e outros. Estas informações, assim como as notas relativas à apresentação do documento original, deverão ser apresentadas entre colchetes57, de modo a facilitar ao leitor a distinção entre as notas descritivas (relacionadas à técnica editorial) e as notas exegéticas (que oferecem subsídios para a ambientação). Para esta edição, especificamente, as notas descritivas têm transmitido a ideia da complexidade que é trabalhar com um manuscrito de José Lins. Como testemunhou João Condé, que o ajudou a datilografar os originais de Fogo morto:

« Todas as tardes na Livraria José Olympio e muitas vezes na hora do almoço, na Confeitaria Colombo, onde almoçávamos, eu e o romancista trocávamos as folhas datilografadas pelas duas folhas manuscritas. Foi um trabalho esfalfante, antes de tudo devido à letra miserável do romancista. Letra capaz de deixar completamente maluco

56 Texto que problematiza o processo de anotação é: C. Becker, "Les discours d’escort: l’annotation et ses problèmes (à propos de la correspondance de Zola)", in A. Françon e C. Goyard (Org.) Les correspondences inédites. Paris: Economica, 1984. Colloque sur les correspondances inédites, Paris, 9-10 juin 1983. Tradução de Cláudio Hiro intitulada “O discurso de escolta: a anotação e seus problemas (a propósito da correspondência de Zola)”, inédita. 57 Este parâmetro de edição, ou seja, explicitar entre colchetes as notas descritivas, tanto na chamada da nota quanto no texto da nota propriamente dito, como forma de diferenciação das notas exegéticas, foi uma solução empregada por mim, sem modelo prévio, na tese Cartas provincianas: correspondência entre Gilberto Freyre e Manuel Bandeira (São Paulo, USP, 2008).

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qualquer paleógrafo. Quantas vezes, ao querer decifrar uma página, procurava-o e ficava ele próprio sem saber que palavra seria aquela. Outras ocasiões encontrava palavras que nunca existiram na língua. Por exemplo, nos originais existe janela com três l, carga, Salvador, marido, aquilo, cara, escrita assim: garga, savaldor, marrido, aquilito, carra etc. A pontuação, então, nem se fala. Nenhuma correção existe nos originais. Todas as frases feitas de um fôlego só. José Lins nunca chegou a ler pela segunda vez um livro seu. A não ser, pelo que me lembro, a última página de Moleque Ricardo, porque Otto Maria Carpeaux, numa crítica, referiu-se ao trecho como uma das obras- primas da literatura brasileira. »58

Portanto, além da dificuldade de decifração da letra manuscrita do romancista, há, nos autógrafos de José Lins, uma série de inversões, subtrações e adições de letras e sílabas em palavras, que podem revelar muito sobre o processo de criação do autor. Para citar alguns exemplos, há ocorrências tais como “netes” ao invés de “nestes”; “acheio-” ao invés de “acheio-o”; “disguindir” ao invés de “distinguir”; “entedimentos” ao invés de “entendimentos”; “meu” ao invés de “me”: “Esta sua amizade que meu deu caminhos verdadeiros de vida.”59 Outro ponto relativo à edição de correspondência diz respeito à flutuação da autoria, intrínseca a este tipo de coletânea, em que remetente e destinatário são funções bastante precárias, que se alternam sem nenhuma regra pré-estabelecida, sujeitas a um canal comunicativo instaurado num determinado instante e já perdido no tempo. Os ruídos somam-se, como a ação da censura da época, que intercepta cartas, e o desaparecimento de peças, aprofundando a complexidade deste jogo dialógico em que textos se somam formando um todo fragmentário. Neste universo de dispersão, o editor intervém como uma terceira voz, uma voz ativa, muito distante de qualquer neutralidade com base na qual se possa pretender realizar, nos moldes tradicionais, um trabalho de edição crítica—característica ainda mais

58 J. Condé, "Meu amigo Zé Lins" in J.L. Rego, Ficção completa. v.4. Rio de Janeiro: Nova Aguilar, 1987, pp.13-4. 59 Trecho de carta n. 24 em nossa edição ainda em processo, com datação hipotética em 1925, de José Lins do Rego a Gilberto Freyre.

Meu querido Gilberto, meu querido Lins … 53 problemática quando o organizador é um ator interessado, remetente ou destinatário de um determinado conjunto da correspondência, como é o caso de edições tais como Cartas perto do coração, com cartas trocadas entre Fernando Sabino e Clarice Lispector, com notas de Sabino60; Cartas de Mário de Andrade a Manuel Bandeira, com prefácio e notas de Bandeira61; e A lição do amigo – Cartas de Mário de Andrade a Carlos Drummond de Andrade, com notas de Drummond62. Acerca destes dois trabalhos, tal característica criou a demanda para novas edições, estas com a intenção de serem editorialmente mais completas, e que inclusive refletem sobre as precedentes. São elas: Correspondência Mário de Andrade & Manuel Bandeira, cuidadosamente organizada, apresentada e anotada por Marcos Antonio de Moraes63; e Carlos e Mário. Correspondência completa entre Carlos Drummond de Andrade (inédita) e Mário de Andrade, organizada por Lélia Coelho Frota, com texto das cartas de Drummond estabelecido por Alexandre Faria e com prefácio e notas de Silviano Santiago64. Ao se lançar na empreitada, o último trabalho, contudo, faz com que a terceira voz, a de seu anotador e prefaciador, se junte às duas primeiras de modo especialmente vultoso. Isso cria um caso especial, em que o organizador deixa sua marca autoral, circunstância que merece reflexões à parte65. Sobre esta edição, afirmou Heloísa B. de Hollanda:

60 F. Sabino; C. Lispector, Cartas perto do coração. Rio de Janeiro: Record, 2001. 61 M. de Andrade, Cartas de Mário de Andrade a Manuel Bandeira. Prefácio e notas de Manuel Bandeira. Rio de Janeiro: Organização Simões Editora, 1958. 62 M. de Andrade, A lição do amigo: cartas de Mário de Andrade a Carlos Drummond de Andrade. Rio de Janeiro: José Olympio, 1982. 63 M. de Andrade; M. Bandeira, Correspondência Mário de Andrade & Manuel Bandeira. Organização, prefácio e notas de Marcos Antonio de Moraes. São Paulo: EDUSP, 2000. 64 C.D. Andrade; M. de Andrade, Carlos e Mário: correspondência completa entre Carlos Drummond de Andrade (inédita) e Mário de Andrade. Organização e pesquisa iconográfica de Lélia Coelho Frota. Prefácio e notas de Silviano Santiago. Estabelecimento de texto das cartas de CDA por Alexandre Faria. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2002. 65 Além dessa questão da, por assim dizer, desmesura no processo de anotação, outros pontos discutíveis sobre este livro são levantados por

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Percebe também uma certa irregularidade metodológica, ou melhor, uma certa transgressão das normas técnicas editoriais, na composição das notas. Ora as notas informam, ora comentam, ora dialogam, ora falam em solo. Percebe ainda um certo abuso na utilização diversificada dos “materiais” dessas notas: citações, poemas, textos não diretamente informativos, secas referências bibliográficas, hiperlinks arbitrários. Às vezes Silviano parece um comentarista bem informado, às vezes um metteur-en-scène, outras um iluminador teatral. Percebe-se ainda que, aos poucos, o crítico-poeta se estabelece reflexivamente entre as vozes de Carlos & Mário e constrói sua própria voz, na brecha da ambigüidade “técnica” que imprime à composição dessas notas.66

Diante dessas considerações, para a edição da Correspondência Gilberto Freyre e José Lins do Rego, minha proposta procura acercar-se dos recursos ora disponíveis e delimitar, quando possível, a atuação das várias vozes no conjunto. A orientação crítico-genética permite apontar para a “pluralidade de vontades” presente na complexa trama do material, sempre aberto a sucessivas adições—e vale dizer que toda pretensa finitude ou delimitação categórica em matéria de correspondência é flagrantemente hipotética e contingente. Para citar apenas alguns exemplos relacionados a esta condição, uma nova peça pode ser sempre acrescida ao conjunto; uma opção de leitura no processo de fixação pode ser questionada; ou determinada classificação pode ser discutível, e assim por diante. O desafio será como formalizar a anotação e deixar explícitos os rastros que podem suscitar divergências—no caso da correspondência de Freyre e Lins, uma grande dificuldade foi intercalar as peças do conjunto, visto que muitas cartas estão sem datação; nestes casos, quando a hipótese da FGF foi anotada no próprio documento, geralmente a lápis (procedimento este, aliás, bastante questionável do ponto de vista da conservação do manuscrito), sempre a recupero na descrição do

Eucanaã Ferraz na resenha “Mário de Andrade e Carlos Drummond de Andrade – correspondência”, em: Metamorfoses. Cátedra Jorge de Sena para Estudos Literários Luso-Afro-Brasileiros (FL/UFRJ), Lisboa, Fundação Calouste Gulbenkian/Caminho, n.4, 2003. 66 H.B. de Hollanda, “O modernismo em tempo real”, Cult, São Paulo, ano 6, n.68, p.22-27, abr. 2003, p.26.

Meu querido Gilberto, meu querido Lins … 55 documento original, de modo que o leitor possa ter conhecimento dela e possa confrontá-la com minha própria hipótese. Por fim, na fase de definição de critérios editoriais, procuro fazer escolhas que combinem leitura crítica—com rigor filológico—e possibilidade de leitura hermenêutica ampla e empenhada, de modo a oferecer ao público leitor uma edição confiável do ponto de vista editorial e estimulante do ponto de vista da exploração dos textos presentes na correspondência e das teias intertextuais que podem ser estabelecidas, mediadas pelo editor, com outros textos literários, paraliterários, (auto)biográficos, críticos e históricos.

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CLAUDIO BAGNATI

L’INFANZIA DI JORGE AMADO TRA STORIA E LETTERATURA

Con il riferimento all’elezione a membro dell’Accademia di Lettere brasiliane67 si concludeva un’analisi da me fatta del romanzo autobiografico amadiano Farda fardão camisola de dormir (fabula para encender uma esperança); tale analisi, sviluppata su due possibili chiavi di lettura, una a carattere biografico e l’altra volta alla comprensione proprio dell’intento favolistico, costituisce un ideale riferimento per un più aggiornato e profondo significato della figura amadiana nella compagine culturale brasiliana. Fra gli autori ‘letti’ ad una prima ed immediata indagine, Jorge Amado risulta essere quello preferito da una determinata fascia di lettori italiani attratta dal richiamo dell’esotico e dell’effimero che certo l’immagine stereotipata del Brasile offre come aggancio immediato. Al di là delle appetibili e procaci immagini carioche e baiane, che possono solo costituire il primo momento di approccio, è evidente l’insieme di tematiche di fondo che da sempre hanno caratterizzato l’opera amadiana. Tralasciando una valutazione dello scrittore quale personaggio pubblico che si identifica con le frustrazioni e le speranze del popolo brasiliano e ne celebra miti, fasti e decadenze, si propone una ulteriore ipotesi di analisi che lo stesso Jorge Amado ci indica nel raccontarsi in Menino Grapiuna68. E sul filo della memoria la vita di questo uomo nordestino si snoda come realtà che già scolora nella leggenda, ed assume i toni di una favola che a volte si tinge di personalissimi contenuti.

67 «Afinal, em 6 de Abril de 1961, foi eleito. Obteve o consenso e foi eleito por unanimidade: 35 votos… Novamente Amado é alçado a uma posição ímpar. Obteve a votação mais expressiva que um candidado à Academia até conseguira». 68 Editora Record, Rio de Janeiro, 1981 58 Claudio Bagnati

Ne è un esempio il ricordo della sua nascita; tale episodio ha una plasticità che costituisce per lo scrittore una forza propulsiva inconscia che lo accompagnerà per tutta la vita. La forza della natura che lo circonda da bambino è in effetti, metaforicamente, la stessa vitalità dei tanti eroi dei suoi romanzi in cui difficilmente troviamo eroi negativi. Questo rigoglio della natura, colto nel lussureggiare delle piantagioni di cacao e di canna da zucchero è l’elemento dinamico a cui fa da contrappunto lo scendere della notte come simbolo di una mai dimenticata ostilità della natura stessa; tale forza creatrice è presente nella mente di Jorge Amado bambino e ne costituisce la spinta a delineare una sempre più nitida immagine del suo aprirsi alla vita; il testo si trasforma in un documento biografico dell’autore-narratore con il preciso intento di celebrare la sua stessa vicenda in forma mitica. All’immagine della sua prima infanzia segue il ricordo preciso delle lotte per l’accaparramento, che avviene in maniera cruenta con atti di sopraffazione che restano nella mente, quale solo possibile sistema di vita per ottenere il necessario per vivere. Tale modulo di comportamento esterno genera nei ‘piccoli’, e il termine è qui nella duplice accezione anagrafica ed esistenziale, una ingenua espressione di sbigottimento che mette in risalto proprio la loro debolezza. Ed è la stessa smarrita ingenuità che cogliamo negli occhi di una sua recente creatura letteraria: Teresa, in Teresa Batista cansada de guerra, quell’ingenuità che caratterizza i deboli e che non rende loro subito chiara l’idea del possesso, da parte di altri, della loro stessa identità; cosa che succederà alla nostra Teresa nelle sue mille traversie fino ad assurgere poi a simbolo del Brasile stesso. Il ritrarre tale atteggiamento dell’uomo è una peculiarità amadiana mai gratuita o pietistica ma sempre dettata da un’esigenza di riscatto e integrazione dei soggetti stessi. L’infanzia si stempera nel ricordo di fatti ben definiti quali la ricerca, da parte dei coroneis della sua famiglia, delle terre, e quindi ricchezze nel mitico El-Dorado. Il riferimento, qui l’accenno è solamente all’elemento favolistico in Menino Grapiuna, a un forse esagerato luogo comune della letteratura iberoamericana, che ha fornito nella produzione letteraria del ‘600 e del ‘700 lo spunto per la stesura di apprezzate pagine letterarie sia per l’area ispanoamericana sia per quella luso-brasiliana, è importante per la conoscenza dell’habitus

L’infanzia di Jorge Amado tra storia e letteratura 59 psicologico che è proprio dei popoli nordestini che oppongono a una rassegnata e fin troppo precarietà della vita la ricerca di un benessere che appare ugualmente legato solo al probabile. Ma nella durezza della vita di frontiera emerge sempre quella sensibilità che è presente anche nelle pagine più vigorose dello scrittore baiano, e che lo rende partecipe della incommensurabile bellezza della natura brasiliana. Lui stesso, proseguendo il racconto biografico, chiarisce come il padre abbia abbandonato la città in Estância, nel Sergipe; la definisce città colta e decadente dando già una prima indicazione di quelle che saranno le sue scelte future. Tali scelte lo spingeranno ad assumere posizioni ben precise sia politicamente che nel modo di intendere e fare letteratura. «Il suo atteggiamento oscilla in genere fra due diversi poli, con caratteristiche ben precise e prospetticamente delimitabili»: questa definizione dell’intellettuale amadiano data da E.M. Reali in Jorge Amado nella ‘Tenda’ delle verità69, chiarisce le coordinate di ricerca del progredire culturale amadiano. Il sud di Bahia, città mitica nella fantasia del piccolo Jorge, diventa quindi già il fulcro della tellurica vena narrativa del nostro autore. L’opulenza che verrà in seguito al crescere delle piantagioni di cacao porta alla fondazione della ‘nação Grapiuna’70 la cui ricchezza è garantita dalle sempre presenti canne di fucili che si abbinano ad una combattiva immagine materna secondo il binomio terra/madre. La potenza della cronaca, quale trasmissione della tradizione e come forza evocativa dell’immagine è evidente in Amado come filo conduttore dei fatti che guidano il suo racconto. La piena dei fiumi, la distruzione di intere piantagioni di cacao, la moria di tutti gli animali da cortile, fonte di sostentamento e commercio, l’esilio e il ricovero nel lazzaretto sono evocati con una forza espressiva tale da riportarci nel tono del racconto al libro dell’Esodo. L’animo del fanciullo ne resterà segnato per tutta la vita dandogli quel senso di precarietà e al tempo stesso la spinta a una continua ricerca della libertà oltre la quale Jorge

69 A.I.O.N. 1971, XIII -2, pag.181 70 Il termine Grapiuna designa gli abitanti del litorale rispetto a quelli del sertão.

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Amado si sentirà sempre oppresso dalla sua tristissima esperienza tanto da dire «A bexiga e os bexigosos povoam meus livros, vão comigo pela vida afora». Non solo, in Jorge Amado, gli eventi calamitosi lasceranno una impressione indelebile, e a cui attingere abbondantemente per le opere di ficção, ma saranno una condizione della produzione letteraria nordestina. Saranno proprio queste motivazioni del profondo a spingere il Nordest fatalista a una nuova letteratura che risponde all’esigenza di rinnovamento del paese, rompendo con una ormai solo formale tradizione romantica. La ricerca dell’ambiente sociale, culturale, geografico, degli elementi tematici sarà importante per poi trasformare questa enorme massa di impressioni e informazioni in una prosa connotata con una tecnica realista e oggettiva. E infatti il romanzo amadiano evidenzia con vigore la costante documentaria che contraddistingue il romanzo brasiliano nella sua evoluzione. I temi quali la seca, il fanatismo religioso, il cangaço, i cicli della canna, del cacao, del caffè, Jorge Amado li vive profondamente arricchendoli di contributi personali dal punto di vista stilistico e psicologico. È idealmente collegabile ai nordestini l’opera amadiana nei punti in cui presenta identiche caratteristiche e tendenze nella enucleazione e sviluppo dei temi. Fondamentale, dalla letteratura della biografia dei primi anni di vita di J. Amado, appare la figura del caboclo; una connotazione allegra e triste, tragica ed esplosiva, diventerà il binario entro il quale si muoverà la ficção amadiana. I grandi paesaggi aridi del Nordest, le opulente marine, il dramma della fame, gli splendori delle casas grandes, la massa disperata di cangaceiros e beatos, le americanas di lino, le dorate pamelas diventeranno con la favela e il candomblés i temi di un messaggio che concilia il realismo e l’appello alla rivolta, i valori artistici e quelli ideologici. Certo, appare difficile individuare nella prima produzione letteraria amadiana elementi che affioreranno più tardi nella favola di Menino Grapiuna: il periodo che va dal 1951 al 1954, caratterizzato dal forte impegno politico; è nel secondo periodo che si fa risalire al 1958, con la pubblicazione di Gabriela, Cravo e Canela, dove la storia personale dello scrittore affiora in una miriade di punti.

L’infanzia di Jorge Amado tra storia e letteratura 61

E questo suo partecipare alla vita in ogni suo aspetto ha una chiara genesi in tanti spunti che affiorano dai suoi personali ricordi: «Da praia do Pontal, de infinita beleza, o menino cavalga em cacho de cocos verdes, eleva-se nos ares, sobrevoa o porto e os navios, vive entre a realidade e a imaginação. Na garupa do improvisado ginete conduz a fada, a princesa, a estrela, a esterrepada vizinha, nos olhos e no riso da companheira de viagem aprende as primiera noções de amor»71. L’amore per la vita, il saper cogliere ciò che da esso si può ottenere nella visione della comunicabilità interpersonale, ha anche qui la sua origine. Jorge Amado conosce il mondo femminile – e non – attraverso i racconti, le gioie e la ‘corposità’ di queste donne, e la loro immagine si accompagna spesso a quella del mare nella sua accezione più bella, cioè come simbolo di vita, nel suo continuo rigenerarsi. Da qui l’esigenza di mantenersi fedele alla realtà circostante, lo porta a descrivere gli atteggiamenti spesso rudi e il linguaggio proprio della classe operaia. A una verifica del personaggio tale accezione la notiamo anche nella maniera di comportarsi delle sue innumerevoli seconde figure dove alla coloritura bozzettistica fa sempre riscontro un serio intento di verifica dei motivi profondi che spingono l’autore a interessarsi a essi: nascono così le tipiche storie di cordel. Il cordel non influenza solo l’impianto narrativo, ma è presente nei vari testi con le storie di cangaceiros, di schiavitù e dei vari eroi sempre vivi nel ricordo popolare, ma l’atteggiamento di J. Amado nella valorizzazione del patrimonio folclorico, non si limita alla sola trascrizione e rielaborazione ma si arricchisce delle sue caratteristiche letterarie e ideologiche. Quindi ogni espressione letteraria amadiana è riannodabile alle esperienze che lui stesso racconta e che il ricordo rende di un nitore e una chiarezza difficilmente riscontrabili altrove. Ciò gli viene dalla sua radicata convinzione dell’utilità della quotidianità dell’essere che si evidenzia nel conversare, nel vivere intensamente ogni aspetto della vita. Da questa angolazione anche le sventure più pesanti diventano un punto di forza e una partenza per nuove esperienze.

71 Menino Grapiúna, pp. 29-30.

62 Claudio Bagnati

Ancora questo narrare della fondazione del villaggio di Pirangi che in seguito diventerà la città di Pirangi dove lui è nato, ma che ha visto nascere e crescere, svilupparsi nei suoi traffici, diventare crocevia di gente di ogni dove e per lui fonte di conoscenza di varia umanità. Si stagliano grandiose nella loro poliedricità le figure dei coroneis che fanno da prototipi agli svariati personaggi dei suoi romanzi. Temi permanenti ed essenziali, quindi l’amore e la morte quali fondamentali spinte vitali sono celebrati nella ficção amadiana e traggono origine proprio dal ricordo e dal conseguente mito dell’infanzia. Questa spinta al cosmopolitismo vede come supporto ai vari tipi di narrazione di Jorge Amado l’uso frequentissimo di estrangeirismos che si integrano nella fala brasiliana presente in vario modo in tutte le sue opere. E ipoteticamente può farsi risalire anche a questo primo periodo di vita il lessico legato alla cucina che svilupperà poi nella fiorita arte culinaria celebrata in Gabriela, Dona Flor, Tereza Batista, dove però l’elencazione dei vari piatti non è solo un recupero di lessico e tradizione di un Brasile povero ma acquista un significato di critica e di ironia polemica. Nella regione Grapiuna il bambino Jorge cresce e apprende, impara a leggere ancora prima di andare a scuola, la lettura l’apprende sulle pagine del giornale "A tarde" e a ciò certo è riannodabile la sua attività di cronista di Pirangi. «Os personagens daa obras de ficção resultam da soma de figuras que se impuseram ao autor, que fazem parte da sua experiência vital». Anche la figura femminile, che nella produzione amadiana è presente in tutta una serie di ritratti, trae origine dalle sue prime osservazioni di fanciullo e dalle storie udite. Sono donne che sopportano in silenzio la loro condizione, che piangono per il loro crudele destino e per le quali J. Amado dirà: «Quando chegará o dia da vossa libertação»72. E infatti la tipologia femminile nei romanzi amadiani procede attraverso una serie di figure chiave, le quali segnano il passaggio da una concezione idealistica a una più realistica e concreta. E la figura femminile se inizialmente, non senza una spiccata compiacenza maschile farà da sfondo o da contorno alla vicenda narrata, successivamente essa assumerà un ruolo primario

72 Cacau, p. 164.

L’infanzia di Jorge Amado tra storia e letteratura 63 nella struttura narrativa. È tipico in País do Carnaval dove il protagonista è troppo preso dai suoi problemi morali e sociali per poter stabilire un rapporto concreto con la donna. Quando ciò avviene è solo per soddisfare la sua sessualità, ed è il caso di Julia «mulher toda sexo, toda desejo», oppure spirituali, ed è il caso di Maria de Lourdes, attraverso la quale Rigger cercherà invano di raggiungere uno stadio felice. Ma le figure femminili avranno poco rilievo quando non viste nella loro interiorità. Esse fanno da sfondo ai vari problemi sociali senza dubbio per l’autore più importanti dei suoi stessi personaggi. Ma è charo che la ficção è solo un pretesto per esprimere liberamente il proprio pensiero. È estremamente interessante ripercorrere, attraverso le pagine di Menino Grapiuna, il nascere della cultura amadiana, notare il contrapporsi dei vari nuclei che la costituiscono. Altrettanto fondamentale è la formazione che il piccolo Jorge riceverà nel collegio tenuto dai gesuiti. A una prima fase di grande interesse e di “acculturazione” seguirà la sua inevitabile fuga e ripresa della sua libertà grapiuna. Ancora una volta tale vicenda trova riflesso in un successivo romanzo: Tieta do agreste; qui il giovane seminarista lascia appunto il collegio gesuitico sfruttando le vacanze e la compiacente zia.

64 Claudio Bagnati

GUIOMAR GRAMMONT

ALEIJADINHO

Quando Germain Bazin se detém, pela primeira vez, sobre o estudo daqueles que teriam produzido as obras que compõem o chamado “barroco” brasileiro, lamenta a falta de documentos mais precisos sobre a biografia destas personagens, atribuindo essa obscuridade a uma «vigência de costumes semelhante à da Idade Média», quando o indivíduo valia pouco e não merecia que tivesse registrada sua passagem pela terra. Não obstante, para o autor, embora fique «muito difícil captar a personalidade de cada criador», o estudo do encadeamento de formas e escolas seria «facilitado pela abolição de todos os incidentes pessoais de caráter biográfico».73 Essa observação não impede que o próprio Germain Bazin faça suposições sobre a vida desses “criadores” e, tampouco, que seja seguido nesse movimento por um grande número de pesquisadores de história da arte em seu esforço por encontrar “a verdade” sobre a existência dessas figuras. No caso, a mais glamurosa delas é o chamado Aleijadinho, que, por motivos óbvios, excita o imaginário popular pós-romântico74, envolto no afã de buscar as motivações mais recônditas e espetaculares para o sagrado ato da criação, percebido como o momento em que o artista se torna um depositário das forças contraditórias que dilacerariam o homem entre o divino e o humano, o eterno e o contingente.

73 G. Bazin, A arquitetura religiosa barroca no Brasil. Rio de Janeiro: Record, 1956, p. 47. 74 É exemplar, nesse sentido, o belíssimo texto de Mário de Andrade, que transforma Aleijadinho em um “expressionista”, impulsionado para essa tendência por sua terrível doença: «... com a doença, o sofredor insofrido vira expressionista, duma violência tão exasperada que não raro se torna caricatural» M. de Andrade, O Aleijadinho e Álvares de Azevedo. Rio de Janeiro: R.A Editora, 1935, p. 60. 66 Guiomar Grammont

Roger Bastide, em 1941, é um dos primeiros a refletir sobre o mito do Aleijadinho a partir da imagem do “herói”. Enquanto no Oriente impera o modelo do santo, no Ocidente, o modelo do herói é o fundamento mitológico sob a caracterização da figura do artista. O herói é aquele que já vem ao mundo predestinado ao sofrimento: não importa o que faça, seu destino é marcado pela fatalidade (gr. ananké) que o conduz sempre para um fim trágico. Para Bastide, o mundo moderno, marcado por um individualismo crescente, apropriou-se desse modelo e o justapôs ao conceito romântico de gênio. O Aleijadinho foi a figura ideal formada dentro desse imaginário do herói genial: por ser mulato, seria justamente o produto do cruzamento entre as raças que teriam formado o país, aspecto que o modernismo levou ao paroxismo. A doença completaria a sua tragicidade. Para criar o mito, efetuam-se diversas distorções. De um lado, o Aleijadinho surge como um gênio que nasce praticamente do nada, enfatizando-se a suposta precariedade de sua formação para acentuar as dificuldades que teriam cercado sua existência e lhe conferir uma espécie de aparecimento mágico em uma sociedade escravista, onde não havia lugar para uma autonomia artística tão profunda. Do mesmo modo, o devastamento físico provocado pela doença é amplificado para conferir mais relevo e tragicidade ao seu esforço heróico. De outro lado, o trabalho coletivo torna-se um fundo desfocado sobre o qual emerge a figura do Aleijadinho como o detentor desse poder de criação que lhe fora conferido pelos deuses.75 A construção dessa imagem dá-se a partir da invenção do barroco latino-americano como apropriação e subversão das influências européias, realizadas pelo artista colonial em uma antropofagia heróica.76 O colonizador teria trazido o “barroco” como um estilo e uma concepção de mundo, em uma continuidade do trabalho ideológico da contra-reforma. O artista “colonial” resistiria, através da rebelião à própria estética européia que incorpora e torna subjacente em suas obras. Ele será, como Hefaistos, o ferreiro, um herói das

75 R. Bastide, “O mito do Aleijadinho”, in Psicanálise do Cafuné, Coleção Caderno Azul, São Paulo, Guaíra, 141. 76 O que é expresso na idéia de “Contra-Conquista”, de Lezama Lima.

Aleijadinho 67 transformações alquímicas, o demiurgo de um novo tempo de «mestiçagem» cultural. É como se, antes, os elementos trazidos a essa cerimônia de transubstanciação fossem «puros», ou seja, unos e idênticos a si mesmos. Na voz melíflua do jesuíta ou na espada do explorador, o “Outro” europeu teria se esforçado por decepar as parcas raízes que ainda prendem esse romântico colonizado a seu passado mítico, à sua origem pressuposta, em geral, índia ou negra. Quanto mais exótico puder parecer esse artista, melhor, já que essa imagem nada mais é do que uma sobrevalorização, efeito de discriminação positiva em uma deglutição antropofágica (no sentido que o modernismo cunhou para o termo) da imagem que o europeu cristalizou para o artista nativo, gerando uma espécie de preconceito às avessas, que se acentua em tempos do “politicamente correto”. Em Lezama, o barroco adquire as características fundacionais da nossa cultura ao se apresentar na figura de um criollo que se constrói no sonho de sua própria pertença. Dois personagens encarnariam, para Lezama, essa vontade de diferenciação: o índio Kondori e o Aleijadinho. O primeiro representaria a rebelião incaica que expressa os elementos de sua raça e cultura mediante a apropriação de códigos europeus. O segundo, Aleijadinho, representa a confluência da cultura européia com as africanas. É ele quem constrói a cidade a partir da margem e esculpe de noite para não ser visto. Para Lezama, esses personagens enriquecem as formas do barroco e preparam a rebelião do próximo século.77 A idealização e mitificação do artífice do século XVIII, que se torna um herói “nacional”, uma espécie de paladino que potencializa e transforma em obra a resistência contra o colonizador processa-se a partir de conceitos pós-iluministas. Esta fala, anacrônica, se esquece que toda e qualquer identidade nacional é uma invenção muito posterior a estas manifestações artísticas. Enquanto Mário de Andrade percebe no conjunto escultórico de Congonhas um nítido “cunho

77 V. Lezama Lima, 1988.

68 Guiomar Grammont nativista”78, Gilberto Freyre chama o Aleijadinho de «Mestre da caricatura nacional», procurando demonstrar que o artista produz «menos por devoção a Nosso Senhor Jesus Cristo do que por sua raiva por ser mulato e doente; por sua revolta contra os dominadores brancos da colônia...»79. Freyre supõe em Aleijadinho uma revolta que parece mais próxima das teorias marxistas que circulavam na época em que escreve o autor de Casa Grande & Senzala, do que da obediência revelada nos diferentes recibos das Irmandades que encomendavam as obras do artista mineiro. Todas essas controvérsias orientam-se para a reafirmação da tese da genialidade do artista, como se no indivíduo se encontrasse a chave para a compreensão das obras e mais, que essa significação pudesse ser determinada em um conhecimento – na verdade, sempre superficial – da biografia do artista. Além disso, tendo em conta que todo passado nada mais é do que uma construção a partir das preocupações inerentes ao presente do pesquisador, seria impossível e sem sentido chegar ao « Aleijadinho Real». O «Aleijadinho» é um construto dos discursos que repercutem na história. Na verdade, não interessa quem foi o Aleijadinho, como e porque realizou suas obras (o que, além disso, não haveria como determinar claramente, dada a estrutura corporativa da época), mas porque uma figura como o Aleijadinho foi criada e sucessivamente reconstruída e reforçada em diferentes momentos da história da arte brasileira.

78 V. M. de Andrade, Aspectos das artes plásticas no Brasil: São Paulo: Livraria Martins, p. 45. 79 G. Freyre, Sobrados e Mocambos. São Paulo: Brasiliana, 1936, p. 322. v. 64.

SERENA MULTARI

IL DRAMMA IDENTITARIO DELL’INDIO BIANCO: LA SCRITTURA DI JOSÉ MARÍA ARGUEDAS

«Contagiado para siempre de los cantos y los mitos, […] hablando por vida el quechua, […] intenté convertir en lenguaje escrito lo que era como individuo: un vínculo vivo, fuerte, capaz de universalizarse, de la gran nación cercada y la parte generosa, humana, de los opresores»80. L’opera dello scrittore peruviano José María Arguedas rappresenta un momento fondamentale della letteratura indigenista sviluppatasi in America Latina intorno alla fine del XX secolo, poiché presenta una scrittura peculiare legata alle problematiche etniche e sociali del meticciato, ma che attinge a piene mani dall’esperienza autobiografica dell’Autore. Il suo primo romanzo, Los ríos profundos (“I fiumi profondi”, 1958), segna infatti un passaggio fondamentale da un indigenismo di stampo realista, che porta avanti una sorta di rivendicazione sociale delle condizioni di vita degli indios da un punto di vista che si potrebbe definire paternalistico e positivista, a un “neo- indigenismo” in cui tale problema viene sentito personalmente e descritto con genuinità, cercando di superare il punto di vista occidentale81 proprio in virtù dell’esperienza personale dell’Autore.

80 Trad.: «Contagiato per sempre dai canti e dai miti, […] parlando quechua per tutta la vita, […] ho cercato di trasformare in linguaggio scritto ciò che ero come individuo: un vincolo vivo, forte, capace di universalizzarsi, tra la grande nazione assediata e la parte generosa, umana, degli oppressori», “Yo no soy un aculturado...”, in El zorro de arriba y el zorro de abajo, (opera postuma di José María Arguedas), Ed. critica di Eve-Marie Fell, ALLCA XX, Universidad de Costa Rica, Serie Collección Archivos, 1997, p. 257. 81 La scrittura di Arguedas rappresenta in realtà un vero e proprio spartiacque tra la letteratura “sugli” indios e quella “dal punto di vista degli” indios. La letteratura indigena precedente veniva considerata come un mero esercizio formale, non degna dell'attenzione intellettuale, coerentemente con la negazione del logos indigeno operata sin dalla Conquista. José María 70 Serena Multari

Il giovane José María, orfano di madre, crebbe tra la servitù indigena che viveva al servizio della matrigna, dove acquisisce il quechua come lingua madre e apprende il castigliano solo durante l’adolescenza, quando entra in un collegio religioso per giovani bianchi. Questa confusione culturale82 marcherà indelebilmente l’esperienza dell’Autore e la sua scrittura: le sue opere sono pervase dalla ricerca di una conciliazione delle culture indigena e spagnola, che a livello linguistico si traduce in una costante «pelea verdaderamente infernal con la lengua»83. La scrittura di Arguedas nasce quindi dall’impellente esigenza di portare alla luce quel mondo indigeno estremamente vitale, caratterizzato da valori positivi, comunitari, tuttavia negato e messo a tacere dalla civilizzazione spagnola. Le opere dell’Autore sono pervase dall'intento di condannare apertamente lo squilibrio culturale del Perú, sancito anche della tradizione letteraria precedente che non ha fatto altro che mistificare l’immagine dell’indio secondo i paradigmi della cultura occidentale. Arguedas incentra quindi la sua attività letteraria sul riscatto di questa cultura e si impegna nella produzione di un nuovo linguaggio, che superi la tendenza degli scrittori precedenti ad inserire semplicisticamente il quechua all’interno di un tessuto linguistico spagnolo84. Il nuovo linguaggio

Arguedas è il primo scrittore peruviano che riesce a infrangere le barriere etniche e a dar voce alla cultura indigena dall'alto dell'etnia dominante bianca. 82 «Las dos naciones de las que provenia estaban en conflicto: el universo se me mostraba encrespado de confusión, de promesas, de belleza mas que deslumbrante, exigente» (Trad.: «Le due nazioni dalle quali provenivo erano in conflitto: l'universo mi si mostrava increspato di confusione, di promesse, di bellezza più che abbagliante, esigente»), “Yo no soy un aculturado...”, Cit., p. 257. 83Trad.: «Lotta realmente infernale con la lingua», José María Arguedas, Primer Encuentro de narradores peruanos, Casa de la cultura del Perú, Lima, 1969, p. 41. 84 La questione del linguaggio affrontata dall'Autore è estremamente complessa e parte dal presupposto fondamentale della lingua come veicolo identitario: il quechua rappresentava un'espressione autenticamente indigena, ma risultava incomprensibile agli hacenderos bianchi così come al resto della società cittadina. D'altra parte lo spagnolo fungeva da lingua franca, come in

Il dramma identitario dell’indio bianco … 71 proposto dall’Autore riflette dunque il dramma identitario di un continente meticcio, in cui permane ancora una forte componente indigena, ma che a causa del suo sviluppo storico e sociopolitico è obbligato a esprimersi in una lingua che veicola una cultura diversa. In risposta al predominio linguistico e culturale ispanico, Arguedas ricerca un nuovo mezzo espressivo che possa realmente descrivere il mondo andino dal suo interno per conferirgli finalmente una dignità propria e portare alla luce le sofferenze subite dalle popolazioni quechua85. Il linguaggio elaborato dallo scrittore appare quindi come

tutte le società latinoamericane, ma ovviamente annullava le specificità culturali di ogni etnia india. L'Autore inizia a riflettere criticamente sul problema già con il primo saggio “Entre el Kechwa y el castellano, la angustia del mestizo” (“Tra il Quechua de il castigliano, l'angoscia del meticcio”, 1939), nel quale viene espresso chiaramente il “dramma identitario (e linguistico) dell'indio-bianco” che dà anche il titolo a questo lavoro. Arguedas continua a riflettere a lungo su questo tema, come evidenzia per esempio il saggio “La novela y el problema de la expresión literaria en el Perú” (“Il romanzo e il problema dell'espressione letteraria in Perù”, 1950, cit. In Rolf Eberenz, Dialogo y oralidad en la narrativa hispánica moderna, Editorial Verbum, Madrid, 2001, pp.299-300), in cui l'Autore esperime le difficoltà dell'espressione letteraria di un autore bilingüe nel dar voce a personaggi che parlano solo quechua, in modo che i dialoghi risultassero autentici e allo stesso tempo comprensibili a lettori che parlano solo lo spagnolo. Arguedas propone quindi un linguaggio costruito «sobre el fundamento de las palabras castellanas incorporadas al quechua y el elemental castellano que alcanzan a saber algunos indios en sus propias aldeas» (corsivo di Arguedas, trad.: «sulla base delle parole castigliane inserite all'interno del quechua e del castigliano elementare parlato dagli indios nei loro villaggi»). Per ulteriori approfondimenti sul tema, si vedano ad esempio gli studi di Sara Castro-Klaren, “Mundo y palabra: Hacia una problemática del bilingüismo en Arguedas”, in Escritura, transgresión y sujeto en la literatura latinoamericana. Tlahuapan, Puebla, 1989 e di Alberto Escobar, Arguedas o la utopía de la lengua, Instituto de Estudios Peruanos, Serie Lengua y Sociedad, Lima, 1984, n. 6. 85 Come osservato da Rosalba Campra in America Latina: l’identità e la maschera, Meltemi Editore, Roma, 2006, p. 39: «[I fiumi profondi...] propone, a partire dall’esperienza linguistica dello stesso Arguedas, un recupero, attraverso il mezzo espressivo, della totalità perduta. Un meticciato della lingua, ma non più come inclusione disorganica del lessico indigeno nello

72 Serena Multari una risposta alla ricerca di una conciliazione tra la solidarietà emotiva nei confronti del mondo indigeno, al quale però non appartiene, e il rapporto conflittuale con un mondo bianco che gli appare sterile e distante, ma che invece gli appartiene oggettivamente. Tale lacerazione interiore che pervade le sue opere è talmente intensa che la sua mancata soluzione lo condurrà al suicidio. Cercando di analizzare più in dettaglio la produzione letteraria dell’Autore, risulta di estrema utilità la prima raccolta di racconti, Agua (“Acqua”, 1935). I tre racconti che compongono il volume descrivono il mondo indigeno in vari aspetti della vita quotidiana, ma sempre in relazione al frustrante rapporto con i mistis, termine quechua per indicare i proprietari terrieri bianchi. Il carattere autobiografico dei racconti conferma la sostanziale compenetrazione dell’Autore con i problemi sociali e identitari degli indios ed esprime al contempo il suo dissidio interiore dovuto al desiderio frustrato di appartenenza alla comunità indigena e alla mancata condivisione dei valori delle classi sociali elevate cui appartiene. Le narrazioni trasmettono un forte patetismo grazie all’assunzione di una prospettiva infantile, una tecnica narrativa attraverso la quale l’Autore rappresenta il proprio dramma interiore originato da una realtà angosciosa che è destinata a non trovare soluzione e che caratterizzerà successivamente anche Los ríos profundos. La prospettiva infantile assunta da Arguedas esprime perfettamente il sentimento di impotenza che sembra imporsi prepotentemente in ogni racconto, che si sviluppa narrando delle situazioni nelle quali persino gli indios adulti ne escono sconfitti. Questa visione pessimista si inasprisce progressivamente e si riflette nei fallimenti di un bambino, raccontati da una prospettiva “dal basso” e da un’attitudine passiva che derivano e allo stesso tempo simboleggiano tutte le classi di emarginati della società peruviana. Di conseguenza, si può ragionevolmente supporre che questa particolare prospettiva contribuisca a rievocare in Arguedas le proprie esperienze

spagnolo, bensì come modifica in profondità della costruzione, dell’espressione dell’affettività, del ruolo della metafora».

Il dramma identitario dell’indio bianco … 73 infantili86, così da dare voce ai propri sentimenti come se rivivesse nuovamente tali esperienze. I tre racconti presentano un disegno reiterativo in cui il bambino protagonista, che è anche il narratore, partecipa alla vita quotidiana della comunità india in cui vive, cercando di riscattarla dell’ingiustizia di cui è vittima. All’interno di questa cornice comune, i racconti descrivono una parabola narrativa verso l’interiorità dello stesso personaggio narrante, acquisendo un’ottica personale e allo stesso tempo universale: l’interiorizzazione progressiva si sviluppa in situazioni di oppressione che si presentano a livelli diversi, dalla dimensione “comunitaria” del racconto Agua al dramma personale di Warma Kuyay. Il primo racconto della raccolta è narrato dunque secondo una prospettiva “comunitaria” e, come individuato da Silverio Muñoz87, si presenta come un testo fundacional poiché fornisce una chiave di lettura sia per gli altri due racconti che per il resto della produzione arguediana. Il racconto narra gli abusi subiti dagli indios di San Juan a causa del misti Don Braulio, che detiene il controllo dell’acqua dell’intero paese e la distribuisce solo agli altri bianchi. L’azione è compiuta principalmente da adulti e comincia quando l’indio Pantaleón (che il bimbo chiamerà affettuosamente Pantacha), dopo aver vissuto per un periodo in una città della costa, e aver acquisito così una propria coscienza politica, cerca di indurre gli altri indios a lottare per i propri diritti. Si innesca dunque una lotta politica e sociale che cerca di risolvere un antagonismo di classe che tuttavia si rivelerà inconciliabile, simbolizzato dal confronto diretto tra Pantacha e Don Braulio per un’equa ripartizione dell’acqua. La ricerca di giustizia è destinata al fallimento e di fatti si conclude con la morte di Pantacha, per mano di Don Braulio, a cui consegue l’immediato esaurimento della forza combattiva degli altri indios del villaggio: «se

86 Si noti che il personaggio principale, nonché il narratore, è sempre un bimbo, figli di bianchi, che vive in una comunità andina del Perù alla quale non sempre riesce ad integrarsi. 87 Silverio Muñoz, José María Arguedas y el mito de la salvación por la cultura, Editorial Horizonte, Lima, 1987, p. 78.

74 Serena Multari acobardaron, ya no valían, ya no servían, se malograron de repente, se humildaron, como gallo forastero, como novillo chusco; ahí no más se quedaron, mirando el suelo»88. Il pessimismo che pervade il racconto lascia intendere tuttavia la possibilità di una rivincita futura, che nel presente si concretizza nell’unica azione possibile, la scaramuccia infantile: il bimbo Ernesto, che sino a quel momento aveva narrato la vicenda, si scaglia contro Don Braulio per dar sfogo al dolore per aver perso un amico e alla frustrazione per il fallimento delle speranze di un riscatto immediato. La prospettiva infantile acquisisce in questo racconto il significato simbolico della speranza di aver gettato le basi di una coscienza politica e sociale in vista di un’azione futura, e allo stesso tempo ha una funzione chiarificatrice, poiché la semplicità di pensiero del bambino gli permette di vedere la realtà scevra delle mistificazioni originate programmaticamente dalla retorica dell'oppressione. Inoltre, nonostante il suo gesto, Ernesto si rende presto conto dell'inutilità del suo gesto e della sua sostanziale esclusione dalla comunità adulta e politicizzata, che ha sviluppato una coscienza realmente rivoluzionaria. All’interno di questa condizione desolante, l’Autore ricerca un barlume di speranza nei valori positivi degli indios che non sono soggiogati dai mistis: Ernesto cerca consolazione nel paese vicino di Utek'pampa, in cui vivono «indios lisos y propietarios, le hacían correr a Don Braulio»89. Il secondo racconto, Los escoleros, è pervaso da una prospettiva “familiare”, in quanto l’abuso viene perpetrato specificamente ai danni di una famiglia: il proprietario del villaggio di Ak’ola, Don Ciprián, uccide la mucca, appartenente a una donna india, che aveva pascolato liberamente nella sua proprietà. Il misti approfitta di una legge imposta ai propri comuneros secondo la quale se un animale

88 Trad.: «si intimorirono, non erano più coraggiosi, non servivano più a nulla, all'improvviso si afflosciarono, si umiliarono, come un gallo straniero, come un vitello di latte; rimasero lì fermi, guardando il terreno», José María Arguedas, Obras Competas, tomo I, (a c. di) Sybila Arredondo de Arguedas, Antonio Cornejo Polar, Francisco Carrillo Espejo, Humberto Damonte Larraín, Editorial Horizonte, Lima, 1983, p. 73. 89 Trad. «indios capaci e possedienti, avrebbero fatto scappare a Don Braulio». Si noti anche lo stile della frase, tipicamente infantile. Ivi, p. 75.

Il dramma identitario dell’indio bianco … 75 invade il terreno altrui, il proprietario potrà riappropriarsene solo attraverso un riscatto in denaro. Arguedas descrive questa vicenda caricandola di numerosi aspetti simbolici: in realtà Don Ciprián uccide l’animale dopo aver cercato invano di comprarlo dalla vedova, poichè il misti non poteva sopportare che una donna, e per di più india, possedesse la vacca più bella del paese e si opponesse alla sua volontà di uomo bianco e proprietario terriero. In realtà, questa storia si verifica all’interno di una condizione di sopruso generalizzato, cui gli escoleros cercano vanamente di difendersi: in questo racconto il soggetto che agisce attivamente è un gruppo di bambini, che uniscono le proprie forze per cercare di contrastare il potere del misti, dato che gli indios adulti non sono altro che vittime passive del potere istituzionalizzato del padrone. In questo racconto, Arguedas si dilunga spesso sulle narrazioni dei festeggiamenti indigeni con il fine di mostrare che gli atteggiamenti pavidi e passivi degli indios non sono altro che una conseguenza del potere dei proprietari terrieri. Quando invece i mistis si allontanano dal villaggio, emerge nuovamente la loro anima estremamente vitale e i valori positivi che caratterizzano la loro cultura, come il comunitarismo o l'amore incondizionato per gli animali: «los comuneros no eran callados y sonsos como delante del principal; su verdadero corazon le mostraban a ella, su verdadero corazon sencillo, tierno y amoroso»90. Il protagonista del racconto, un bimbo di nome Juan, cerca di far parte di questa comunità, condividendone i valori, ma ne viene inevitabilmente escluso: ecco che l’esperienza autobiografica dell’Autore si impone con prepotenza all’interno di una condizione di denuncia sociale: «Yo no era un mak’tillo despreocupado y alegre como el Banku. Hijo de misti, la cabeza me dolía a veces, y pensaba siempre en mi destino, en los comuneros, en mi padre que había muerto no sabía dónde; en los abusos de don Ciprián; y los odiaba

90 Trad.: «I comuneros non erano tanto accondiscendenti e pavidi come dinnanzi al principale; a lei [la mucca] mostravano il loro vero cuore, il loro vero cuore semplice, tenero e pieno d'amore», ivi, p. 102.

76 Serena Multari más que Teofacha, más que todos los escoleros y los Ak'olas»91. Juan sente sulla propria pelle il violento scontro culturale presente nella comunità india, che si traduce nella ricerca di giustizia e in una speranza di riscatto: il bimbo prova una rabbia incontrollata per la condizione di sopruso nella quale si trova, ma anche in questo caso la sua vendetta si può concretizzare solo a livello simbolico. Juan frantuma una pietra che immagina essere la testa di Don Ciprián in compagnia dei suoi amici e prova finalmente quel forte senso di appartenenza comunitaria caratteristico della cultura india, tuttavia questa situazione di carattere carnevalesco si traduce nella consapevolezza della propria, disperata impotenza: «Yo, Teofacha, Banku, mak'tillos no más somos; como hormiga negra somos para el patrón, chiquitos; de dos zurriagazos ya no hay mak'tillos. Los comuneros son maulas; tanto son pero le tiemblan al principal; yo no le tiemblo; Teofacha y Banku son valientes, pero falta fuerza, falta tamaño»92. Juan rappresenta chiaramente tutti gli oppressi che non hanno la forza di reagire, impotenza sancita dall'uccisione della vacca, alla quale non può opporsi. L'unica arma che può utilizzare è l'attacco verbale, che relega nuovamente la reazione a un livello simbolico e assolutamente inefficace come nel racconto successivo, ma ora porta anche delle conseguenze negative quasi paradossali: Juan e i suoi amici vengono incarcerati, come punizione esemplare e monito per prevenire ribellioni future.

91 Trad.: «Io non ero un ragazzino senza preoccupazioni e allegro come Banku. Figlio di misti, a volte mi faceva male la testa, e pensavo sempre al mio destino, tra i comuneros, a mio padre che era morto non sapevo nemmeno dove; agli abusi di Don Ciprián; e li odiavo più di Teofacha, più di tutti gli escoleros e gli Ak'olas», ivi, p. 96. 92 Trad.: «Io, Teofacha, Banku, non siamo altro che bambini; siamo come delle formiche nere agli occhi del padrone, ragazzini; bastano due frustate a metterci in fuga. I comuneros sono adulti; però temono il principale; io non lo temo; Teofacha y Banku sono coraggiosi, ma manca forza, manca grandezza», ivi, p. 88.

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Il terzo racconto, Warma Kuyay93, descrive una dimensione “personale”, la violazione sessuale di una donna india a opera del misti Don Froilán, cui la comunità e il suo stesso compagno non può che assistere passivamente: questa situazione depriva l’indio persino del diritto di possedere la propria persona. Il racconto, in realtà, è stato scritto precedentemente agli altri due, ma più degli altri esprime il dissidio del meticcio e il dramma personale dell’Autore. L’argomento intimista, preannunciato dal titolo si sviluppa nella narrazione delle esperienze di un bimbo bianco che viene escluso dagli indios del villaggio di Viseca non solo biologicamente e culturalmente come nei racconti precedenti, ma anche a livello sociale. L’esclusione di Ernesto, in quanto nipote del misti del villaggio, viene stavolta simboleggiata dal rifiuto di un ragazza india di cui è innamorato e dagli atteggiamenti di estromissione degli altri giovani indios: «se volteaban a ratos, para mirarse, y reían. Yo me quedé fuera del círculo, avergonzado, vencido para siempre»94. L’amore per Justina simbolizza l’amore per il mondo indigeno e, poiché Ernesto comprende che lei non gli appartiene, inizia a desiderare di possederla e allo stesso tempo la rifiuta, secondo uno schema emotivo tipicamente bianco. Quando Justina viene violata, il bimbo inizia a disprezzare anche la sottomissione del compagno di lei, oltre a esserne geloso: «despreciaba al Kutu; sus ojos amarillos, chiquitos, cobardes, me hacian temblar de rabia. […]Pero ella era de este cholo con cara de sapo […] '¡A éste le quiere!»95. Tuttavia, Ernesto soffre anche per la sua impotenza di bambino e inizia ad assumere atteggiamenti violenti, come i suoi zii bianchi, nei confronti degli altri indios e degli animali. Interiormente però Ernesto sente un dolore infinito per i suoi gesti, al punto di chiedere perdono a una vacca che

93 La traduzione letterale del titolo del racconto è ambigua e durante la narrazione assume entrambi i significati: come vedremo, l'“amore di bambino” diventa alla fine del racconto “amore infantile”. 94 Trad.: «si giravano spesso, per guardarsi, e ridevano. Io rimasi fuori dal cerchio, pieno di vergogna, vinto per sempre», ivi, p. 6. 95 Trad.: «Disprezzavo Kutu; i suoi occhi gialli, piccoli, codardi, mi facevano tremare di rabbia. […] Ma lei, a questo ragazzo con faccia di ranocchio […] 'è lui che vuole!'», ivi. p. 10.

78 Serena Multari poco prima aveva percosso: «- Niñacha, ¡perdóname! ¡Perdóname mamaya! Junté las manos y, de rodillas, me humillé ante ella […] - Yo te quiero, niñacha, ¡yo te quiero! […] y una ternura sin egual, pura, dulce, como la luz en esa quebrada madre, alumbró mi vida»96. Proprio questo avvenimento gli fa capire che stava mistificando il suo modo di essere, sente di essere tornato a una purezza originaria e vede chiaramente la realtà delle cose: «mi amor por Justina fue un ‘Warma Kuyay’, y no creía tener derecho todavía sobre ella»97. Ernesto capisce che il desiderio di possedere un altro essere umano è proprio dei mistis e che deve lasciarsi andare a ciò che di indio c’è in lui: l’amore per la natura e gli animali, il piacere dell’accompagnare i ritmi naturali e «las siembras con música y jarawi»98. Quest’ultimo è forse il racconto che si avvicina maggiormente all’esperienza dell’Autore, che ricorda la sua infanzia tra gli indios, quando si sentiva culturalmente confuso perché non poteva seguire pienamente i propri sentimenti. Nel racconto, dopo aver cercato di seguire una natura che gli apparteneva solo biologicamente, ma che di fatto gli è assolutamente aliena, Ernesto è costretto a maturare verso un modo personale di percepire la realtà. In questo percorso di formazione, l’india Justina, il compagno Kutu e la vacca Zarinacha99 rappresentano gli esempi “negativi” da cui il bimbo dovrà allontanarsi una volta compresa la sua vera natura. Questa maturazione avverrà nel racconto in seguito

96 Trad.: «- Bimba mia, perdonami! Perdonami mammina! Unì le mani e, in ginocchio, mi umiliai innanzi a lei […] - Io ti voglio bene, bimba, io ti voglio bene! […] ed una tenerezza senza eguale, pura, dolce, come la luce in questa madre ferita, illuminò la mia vita», ivi, p. 11. L'antropomorfizzazione dell'animale e le azioni compiute dal bambino, dimostrano quanto questi condivida lo spirito comunitario indio, che come già osservato, si realizza anche nell'amore per gli animali. 97 Trad.: «il mio amore per Justina era solo un amore infantile, e non credevo più di avere diritti su di lei», ivi, p. 12. 98 Trad.: «le semine con musiche e poesie». Il jarawi è uno stile poetico quechua. Ivi, p. 163. 99 Si noti la sfumatura affettiva insita nel nome proprio dell'animale, ovviamente funzionale della descrizione del mondo indio e della relazione del bambino con la vacca: “-cha” è il suffisso quechua che esprime affetto e si potrebbe tradurre come un diminutivo.

Il dramma identitario dell’indio bianco … 79 all’incontro con la vacca, elemento pervaso di una forte valenza simbolica, in quanto Zarinacha, appare come un elemento primordiale rassicurante appartenente al mondo infantile degli istinti, che rimanda direttamente a un passato mitico di rinascita; oltre ad assumere delle connotazioni materne, e non a caso la vacca emana l’odore di latte riconducibile al petto materno. Inoltre, nel racconto non è presente alcun accenno alla madre biologica di Ernesto, così come assente era stata la madre biologica dalla vita dell’Autore. Tuttavia, Ernesto è destinato a essere infelice e a non riuscire a trovare una propria collocazione, poiché poco dopo aver risolto il suo dissidio interiore all’interno della natura serrana, si sentirà di nuovo alieno nella nuova realtà cittadina della costa dove viene mandato dagli zii, che descrive come un «bullicio, donde gente que no quiero, que no comprendo»100, un luogo completamente estraneo in cui si sente «amargado y pálido, como un animal de los llanos fríos, llevado a la orilla del mar, sobre los arenales candentes y extraños»101. Il racconto coincide perfettamente con l’esperienza dell’Autore, nonché con l’esperienza di vita di tutti gli indios che, con l’urbanizzazione conseguente all’avvento dell’era industriale nell’America Latina del XX secolo, vengono allontanati dalle proprie terre per lavorare in città. Nuovamente, il dramma identitario di Arguedas coincide con il dramma degli indios serranos nella necessità di adattamento costante a realtà estranee alla propria. È infatti significativo che il racconto termini con il confronto tra l’indio Kutu ed Ernesto: il primo si trova “en su elemento”, in un villaggio tranquillo e a contatto con la natura, mentre il bimbo è infelice ed è ossessionato costantemente dalla sensazione di essere un animale della sierra obbligato ad adattarsi al clima e all’ambiente della costa, per lui ostili: agli «arenales candentes y extraños». In definitiva, i racconti presentano una tensione continua tra la dimensione personale e universale che induce nel lettore una

100 Trad.: «tumulto, pieno di gente che non amo, che non comprendo», Ivi, p. 12. 101 Trad.: «Amareggiato e pallido, come un animale delle pianure fredde, trascinato in riva al mare, sugli arenili incandescenti e stranieri», Ibid.

80 Serena Multari sensibilizzazione rispetto al problema identitario comune all’Autore e agli indios del Perú. La ricerca di un adattamento costante mostra come l’intento principale di Arguedas sia quello di mostrare l’inevitabile dramma identitario dell’indio nella società peruviana contemporanea alla quale egli stesso partecipa. L’ultimo racconto menzionato si può considerare come esemplificativo di tale condizione per i molti elementi in comune con l’esperienza personale di Arguedas, a partire dalla sua infanzia tra gli indios, al sentimento di estraneità nei confronti della sua natura biologica, al suo sentirsi scisso tra le due dimensioni culturali senza riuscire realmente a sceglierne una. Inoltre, sebbene molti di questi elementi si ritroveranno anche negli scritti successivi, inaugurati dal primo romanzo, Los ríos profundos, in questi primi racconti l’espressione del disagio esistenziale raggiunge un’intensità che non è possibile ritrovare negli scritti più maturi. Tuttavia, l'opera dell'Autore si svilupperà reiterando lo stesso messaggio, sia nella produzione novellistica che nell'intensa ricerca linguistica: il problema appare irrisolvibile, il pessimismo assoluto. Così come l’indio non potrà mai superare una condizione di sfruttamento e di abusi, Arguedas non troverà mai un’interpretazione univoca della sua natura.

MARCELLA SOLINAS

UNA MUJER QUE ESTÁ LLORANDO CON LA RISA QUE APRENDIÓ, BIOGRAFIA E FINZIONE LETTERARIA IN MARGARITA MATEO PALMER

Margarita Mateo Palmer, classe 1950, è una delle intellettuali più in vista nel panorama cubano e internazionale degli ultimi tempi, critica letteraria, saggista, nel 2007 ha esordito anche come autrice di romanzi. Si occupa di letteratura caraibica, cattedra che lei stessa ha inaugurato all’Università dell’Avana promuovendo un nuovo approccio agli studi dell’area considerata marginale anche in America Latina. Si è occupata a lungo di postmodernismo a Cuba e ha pubblicato molti saggi dedicati all’America Latina e ai Caraibi ricevendo numerosi riconoscimenti. Nel 2008 ha vinto il premio Alejo Carpentier de novela con il suo primo romanzo Desde los blancos manicomios, e in più occasioni si è aggiudicata il Premio de la Crítica102. È stata giurato del prestigioso Premio Letterario Casa de las Américas ed è membro de la Real Academia Cubana de la lengua. Ha insegnato, tra l’altro, all’Università di Buffalo negli Stati Uniti, in Guyana, a Parigi e in Spagna, e svolge un ruolo molto attivo nella vita culturale cubana portando avanti analisi teoriche di risonanza internazionale. Da questa breve presentazione, si può evincere che della biografia di Margarita Mateo si conosce, ufficialmente, soprattutto il lato pubblico, normalmente reperibile nelle quarte di copertina dei suoi testi o nelle note a piè di pagina degli articoli di studiosi che ne analizzano l’opera. In entrambi i casi, com’è logico, l’intellettuale cubana viene descritta in termini accademici, come una studiosa di tutto rispetto che contribuisce alla ricerca letteraria a Cuba, nei Caraibi e in America Latina e allo sviluppo di studi culturali in lingua

102 Margarita Mateo ha vinto per ben quattro volte il premio della Critica con i saggi: Ella escribia poscrítica (1996), Paradiso, la aventura mítica (2002), El Caribe en su discurso literario (2005) e El palacio del pavo real: el viaje mítico (2007). 82 Marcella Solinas spagnola. Dunque, tutto quello che il lettore sa in più sulla sua vita, la sua famiglia, l’esistenza quotidiana all’Avana, le amicizie, le preferenze letterarie, i viaggi, periodi felici o momenti oscuri e difficili non si deve al lavoro di un biografo che ha diligentemente studiato la vita dell’autrice per poi collegarla alla sua produzione letteraria e scientifica scovando coincidenze, riferimenti e indagando le possibili e mutue influenze, ma è lei stessa che, attraverso i suoi scritti l’ha voluto raccontare o suggerire ai lettori. Nelle opere di Margarita Mateo troviamo spesso richiami e allusioni alla biografia dell’autrice o forse semplicemente a quella della “narratrice”, in effetti il piano biografico e letterario e le diverse figure in senso genettiano sono sovente e consapevolmente fusi e confusi quasi a voler sottolineare l’inscindibile legame, il vago, indeterminato, infinito confine tra vita e letteratura. Come per Lezama Lima, uno dei suoi maestri, anche per Margarita Mateo l’esperienza letteraria va di pari passo e in modo inseparabile con la vita vissuta e l’intellettuale cubana nei suoi lavori, siano essi di carattere strettamente finzionale, come il romanzo qui oggetto d’analisi, o di tipo saggistico, attinge a piene mani alla sua storia personale. Per esempio, nel saggio Ella escribía poscrítica, l’autrice intavola un dialogo costante e inevitabile tra la sua produzione artistica e le contingenze personali. Fattori extratestuali, come la bucatura di una ruota di bicicletta che impedisce di consegnare in tempo un lavoro o l’impossibilità di reperire libri fondamentali in biblioteca103, irrompono di prepotenza nella gestazione del testo e

103 In Ella escribía poscrítica, sua tesi dottorale, Margarita Mateo inserisce una scheda bibliografica dei libri necessari alla stesura del testo ma irreperibili e che condizionano in modo concreto la prosecuzione del suo lavoro: Rama, Ángel: Más allá del boom. México, D.F., Fondo de Cultura Económica, 1974. PRESTATO John Barth: The Literatur of Replenishment. LA BIBLIOTECA NON LO POSSIEDE Kaplan, Ann: Postmodernism and its Discontent. SENZA CARNET NON SI PUO' CONSULTARE IL LIBRO Evelyne Picón Garfield e Ivan Schulman: Las entrañas del vacío. Ensayos sobre la modernidad hispanoamericana. México, 1984. MANCA LA LUCE Gianni Vattimo, El fin de la modernidad. Barcelona, Gedisa 1986. NON SI TROVA

Una mujer que está llorando con la risa que aprendió … 83 diventano le sue fondamenta strutturali trasformando disagi reali in una risorsa creativa determinante e condizionante per l’elaborazione e la realizzazione dell’opera. Se, dunque, la biografia indirizza e condiziona in modo forte la produzione artistica dell’autrice, come in un semplicissimo gioco di specchi, risulta ovvio anche che la passione letteraria abbia influito, determinato, dirottato e “redento” gran parte della sua vita. Bisogna aggiungere poi che lo studio delle relazioni fra biografia e creazione letteraria, già complesso di per sé, si fa ancora più articolato quando l’autore in questione si situa negli oscuri meandri degli studi sulla postmodernità. La “condizione” di Margarita Mateo, in quanto studiosa della ricezione del postmodernismo in America Latina e nei Caraibi104, impone e propone perciò una serie di problematiche. Se consideriamo alcune delle caratteristiche ascrivibili al nuovo -ismo105, vale la pena interrogarsi, anche da tale prospettiva, sul valore, l’influenza e l’importanza dell’esperienza biografica nella gestazione artistica. Diventa opportuno indagare le modalità e i codici in cui

Marshall Berman: Todo lo sólido se desvanece en el aire. NON ESISTE Mempo Giardinelli: «Variaciones sobre la posmodernidad (o ¿Qué es el postboom latinoamericano?)» en Puro Cuento. No.23, julio-agosto, 1990. HANNO RUBATO LA RIVISTA. Cfr. Margarita Mateo, Ella escribía poscrítica, Letras Cubanas, La Habana, 2005, pp. 29, 30. 104 Per apprezzare il lavoro teorico e artistico della Mateo è necessario come lei stessa afferma in riferimento alla cultura cubana in generale: «borrar momentáneamente las fronteras entre la “alta” y la “baja” cultura y acercar dos términos, choteo y neobarroco, que, en respectivos ámbitos, dan fe de algunas características dominantes de la cultura cubana vinculadas con el exceso verbal y el abigarramiento ornamentual e impetuoso del lenguaje». Ivi, 121. 105 La destrutturazione del tempo biografico, l’immagine frammentata del mondo e dell’io, la percezione di una società priva di ogni storicità. Il frequente ricorso all’intertestualità che produce, in un certo senso, la presenza metonimica dell'autore in cui questi non conta o conta meno della sua opera o ancora l’invenzione di meccanismi di sparizione simulata (dal manoscritto ritrovato all’effetto d’apocrifo, dal pastiche citazionistico al romanzo metatestuale ecc.). Cfr. Frederic Jameson, Postmodernismo, Fazi, Roma 2007. pp.19-66.

84 Marcella Solinas detta esperienza è narrata, manipolata e “finzionalizzata” al fine di riflettere sul ruolo che essa può avere sulla scrittura e se può in qualche misura condizionare le possibili interpretazioni di un testo. Fra i numerosi studi che hanno indagato dette relazioni da quest’ottica, un punto di svolta si ha con le teorie di Roland Barthes il quale ne Il piacere del testo afferma: come istituzione, l’autore è morto: la sua persona civile, passionale, biografica, è scomparsa; spossessata, essa non esercita più sulla sua opera la paternità formidabile di cui la storia letteraria, l’insegnamento, l’opinione, avevano il compito di rinnovare il racconto; ma nel testo, in qualche modo, desidero l’autore: ho bisogno della sua figura (che non è né la sua rappresentazione, né la sua proiezione), come lui ha bisogno della mia106. La famosa e fortunata formula della morte dell’autore rappresenta la sintesi di un certo approccio metodologico alla letteratura che attribuisce tutta la forza, per un verso, alla nozione di “opera” con un oggetto poetico che richiede di essere studiato in quanto tale e, per altro verso, all’attività di lettura, che mette in contatto l’universo culturale dell’immaginario del lettore e quello del testo. Gli esiti di tale incontro possono essere imprevedibili, come accade qui, con l’associazione tra i famosi versi del poeta cubano Nicolás Guillén […] Un hombre que está llorando con la risa que aprendió/ ¿Quién será quién no será?/ Yo107 e il video di Margarita Mateo Palmer De la piel y la memoria108, che nel 2005 accompagnava la pubblicazione della seconda edizione del pluripremiato saggio Ella escribía poscrítica (1996). Nel video, l’intellettuale presenta, con un’alta dose di ironia, e in perfetta

106 Roland Barthes, Il piacere del testo, Torino, Einaudi (1975), 1980, p. 26. 107 Nicolás Guillén, “Adivinanzas” in West Indies L.td, Obra poética (vol.I), Ed. Letras Cubanas, La Habana, 1995, p. 476. «Un uomo che sta piangendo col sorriso che ha imparato. Chi sarà, chi non sarà? Io». 108 Il video è stato pubblicato come annesso insieme alla seconda edizione di Ella escribía poscrítica del 2005 e include la presentazione della prima edizione del libro nel 1996, presso la casa editrice Letras Cubanas quando l’autrice, travestita dalla professoressa Inclita de Mamporro, legge il brano Ella no escribía poscrítica, exorcizaba sus demonios, presente anch’esso nella seconda edizione del saggio.

Una mujer que está llorando con la risa que aprendió … 85 chiave postmoderna, i retroscena della stesura, pubblicazione e presentazione del suo lavoro. Attraverso suoni e immagini, la Mateo decide di condividere con i lettori-spettatori-fruitori alcuni momenti biografici significativi per la realizzazione della sua opera. Ci invita a entrare nella sua casa virtuale e, tra frastuoni domestici, la radio accesa, l’abbaiare del cane, quasi a sottolineare le interferenze della quotidanità nella gestazione artistica, ci introduce in una sala di lettura in cui ritroviamo tutta la bibliografia scritta sul suo saggio a Cuba e nel mondo; con un click ci permette di visitare ora una sala transitoria tappezzata di foto che immortalano l’universo quotidiano della scrittrice, ora una galería da cui è possibile guardare, in una sorta di video nel video, due documentari realizzati dalla studiosa: il primo sul significato dei tatuaggi nella Cuba degli anni ’90 e l’altro che riprende la presentazione pubblica della prima edizione del saggio. Ci conduce nell’archivio dell’amico e saggista Salvador Redonet Cook109, soprannominato el negro de la risa de oro, la cui prematura scomparsa ha segnato in modo profondo la Mateo; dall’archivio è possibile vedere, tra le altre cose, momenti di un felice viaggio dei due a Manhattan in cui entrambi passeggiano travestiti da clown per le strade di New York. Con questo canale, la scrittrice sottolinea quanto i fattori biografici ed extratestuali, sia pure sotto le spoglie postmoderne e metonimiche di metanarrazioni (iper- e intertestualità, pluralità di codici), costituiscano i pilastri della sua opera sia scientifica che narrativa, concepita, nel caso di Ella escribía pocrítica negli anni novanta, quando Cuba era in pieno periodo especial110 con tutte le difficoltà pratiche e psicologiche che tale contesto ha inevitabilmente prodotto.

109 Salvador Redonet Cook è stato un importante professore e critico cubano, noto per la pubblicazione dell’antologia Los últimos serán los primeros dedicata ai novísimos, generazione di scrittori cubani nati tra il 1959 e il 1972 venuti alla luce alla fine degli anni ’80 e soprattutto negli anni ’90, quando avevano fra i 20 e i 30 anni, in un momento di crisi dell’industria editoriale cubana. 110 Durante il cosiddetto “Periodo speciale in tempo di pace”, Cuba ha vissuto un lungo periodo di crisi economica iniziato nel 1990 dopo l’abbattimento del muro di Berlino e la disgregazione dell’Unione Sovietica.

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Tra le immagini presenti nel video, nella sezione mural ritroviamo alcune foto della scrittrice in varie fasi intime della sua vita e della sua identità sempre in fieri111: l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta. Le immagini sembrano rivelare, con un sorriso forse amaro, proprio come i suggestivi versi del grande poeta di Camagüey, quella vitalità malinconica, la resistenza alle avversità, la volontà di continuare a pensare che vivere a Cuba sia una lezamiana fiesta innombrable112, malgrado e grazie alla consapevolezza dell’ineluttabilità del dolore e del valore catartico della sua accettazione. Ed è proprio l’accettazione del dolore uno dei temi del suo primo romanzo, vincitore, come già accennato, del premio della Critica Alejo Carpentier 2008, intitolato Desde los blancos manicomios, che pur avendo forti elementi autobiografici, qui si vuole presentare come la biografia romanzata di una donna scritta da una donna, appoggiando quest’ipotesi sull’alto valore simbolico di ogni libro e sul presupposto

Nei primi anni ’90 l’isola ha attraversato la fase più difficile della sua storia. Per raggiungere in tempi brevi l’autosufficienza alimentare furono imposti drastici tagli nei consumi energetici e nei programmi sociali e il razionamento fu esteso a tutti i beni. Gli effetti palpabili dalla popolazione furono: la riduzione o soppressione dell’illuminazione stradale, il razionamento del gas, la virtuale paralisi dei trasporti, le interruzioni continue di corrente elettrica (i famosi apagones) con una pesante caduta dei tenori di vita che provocò grossi malcontenti nella popolazione. Cfr. Angelo Trento, Castro e Cuba dalla rivoluzione a oggi, Giunti, Firenze, 2003, p.107-108. 111 Già in Ella escribía poscrítica Margarita Mateo aveva proposto il concetto palindromo yo soy yo, formula che sottolinea il riconoscimento di un’identità ma che letto al contrario suona come (h)oy yo soy rimarcando un’idea mutevole di identità, idea non lontana dalle riflessioni di Julia Kristeva, di un yo variabile e articolato che cambia e non deve a tutti i costi essere quello di ieri. L’identità concepita come hoy yo soy prevede la costruzione di nuovi tipi di genere e di pensiero come risultato dell’incontro con l’altro e il rifiuto dell’ossessione per la ricerca di un’identità chimerica unica a favore di un’identità plurale, eterogenea e contraddittoria che la caratterizzano, in quanto donna, cubana e intellettuale caraibica nell’era della postmodernità. 112 José Lezama Lima, “Noche insular: jardines invisible” in Enemigo Rumor, Ucar, García y Cía, La Habana, 1941, p. 73.

Una mujer que está llorando con la risa que aprendió … 87 barthiano che tutto quanto si legge dovrà essere considerato come detto da un personaggio di romanzo113. La narrazione si costruisce attorno alla storia di una vita, si tratta per lo più di pensieri, sensazioni, emozioni, un diario di riflessioni in cui l’immagine della protagonista viene frammentata, contraddetta e ricostruita. La nota saggista trasforma un tema, ma anche un topos letterario - la pazzia - in un momento di introspezione del soggetto dando la parola, attraverso il classico espediente cervantino, a una folle. La lotta fra il delirio e la lucidità, tra la malattia e la guarigione rappresenta uno dei centri di questa storia dove è in gioco il reinserimento del personaggio femminile nella sua vita quotidiana. La follia della protagonista è stata generata dalla reazione ad alcune importanti perdite e la dolorosa elaborazione del lutto, l’avversione intensa al vuoto per la perdita dell’oggetto amato, sfociano in uno straniamento dalla realtà114. Nell’Aleph, Borges descrive, in modo poetico e molto efficace, lo stato in cui viene a trovarsi una persona che vive l’esperienza del lutto:

La candente mañana de febrero en que Beatriz Viterbo murió, […] noté que las carteleras de hierro de la plaza Constitución habían renovado no sé que aviso de cigarrillos rubios; el hecho me dolió, pues comprendí que el incesante y vasto universo ya se apartaba de ella y que ese cambio era el primero de una serie infinita.115

Il disinvestimento del mondo esterno corrisponde al sentimento di aver perduto l’essenziale di se stesso perdendo l’altro. Il recupero

113 Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, Einaudi, Torino, 1974, p. 182. 114 Già Freud, nel suo proverbiale Lutto e melanconia del 1934, aveva chiarito gli effetti che la perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria per esempio, o la libertà, o un ideale o così via, possano avere su un individuo. La reazione alla perdita di un essere caro implica la perdita di interesse per il mondo esterno, la perdita della capacità di scegliere qualsiasi oggetto d’amore e l’avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria. Cfr. Sigmund Freud, Lutto e melanconia, opera completa di Sigmund Freud, vol. VIII, Boringhieri, Torino, 1980, p.102-103. 115 Jorge Luis Borges, “El Aleph”, in Id., El Aleph, Alianza Editorial, Madrid, 2003, p.175

88 Marcella Solinas progressivo di sé, l’elaborazione del lutto intesa in senso ampio, fanno da sfondo più o meno implicito al romanzo in cui finzione letteraria e biografia ritornano a intrecciarsi sin dall’inizio in due elementi chiave, il titolo e il nome della protagonista. Desde los blancos manicomios sono infatti i versi, posti in epigrafe nel primo capitolo, del poeta cubano Ángel Escobar116 mentre il nome che la protagonista dà a se stessa, Gelsomina, è quello della musa di un altro poeta cubano Raúl Hernández Novás117, a sua volta ispiratosi alla desolata protagonista de La Strada di Fellini (1954) e che, come a chiusura di un cerchio, è presente con i suoi versi nell’epigrafe dell’ultimo capitolo. Non è difficile notare poi come tanto l’autrice – Margarita – quanto la protagonista (Gelsomina) abbiano il nome di un fiore. Escobar e Novás, amici della Mateo, si sono entrambi suicidati nei duri anni ’90 cubani e, insieme all’indimenticato saggista Redonet, anch’egli prematuramente scomparso, sono evocati in diverse occasioni nel romanzo. La vicenda si situa, come si evince dal titolo, nelle zone marginali di un bianco manicomio e racconta quella che Giorgio Manganelli nella prefazione a L’altra verità di Alda Merini118 ha definito la storia di

116 Ángel Escobar (Guantánamo, 1957- La Habana, 1997) poeta, narratore e drammaturgo cubano. Autore, fra l’altro, dei poemari Viejas palabras de uso (1977), Epílogos famosos (1985), La vía pública (1987), Malos pasos (1991), Abuso de confianza (1992), La sombra del decir (1998), El examen no ha terminado (1999) Cuando salí de La Habana (1997), e il libro di racconti Cuéntame lo que me pasa (1998). Partì per il Cile nel 1991 dove pubblicò molte delle sue opere. Due anni dopo essere ritornato a Cuba, il 14 febbraio 1997 all’età di 40 anni Ángel Escobar si lancia nel vuoto dal IV piano del suo appartamento del Vedado all’ Avana. 117 Raúl Hernández Novás, Sonetos a Gelsomina, La Habana, Ediciones UNION, 1991. La Habana, 1948 – 1993. Poeta cubano, studiò lingua e letteratura ispanica all’università dell’Avana. Ha lavorato, fino alla fine, nel Centro di Ricerca letteraria di Casa de las Américas. Alcune opere pubblicate: Da Capo (1982), Enigma de las aguas (1983), Embajador en el horizonte (1984), Al más cercano amigo (1987), Animal civil (1987) e Sonetos a Gelsomina (1991), opera imprescindibile della poesia cubana contemporanea. In seguito a una depressione, nel 1993, si suicidò. 118 Giorgio Manganelli, in Alda Merini, L’altra verità Diario di una diversa, BUR, Milano, 1997, p. 9.

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[…] una ricognizione, per epifanie, deliri, nenie, canzoni, disvelamenti e apparizioni, di uno spazio – non un luogo – in cui, venendo meno ogni consuetudine e accortezza quotidiana, irrompe il naturale inferno e il naturale luminoso dell’essere umano.

Lo spazio del manicomio che nella nostra cultura tramuta, come dice Foucault119, il folle in malato allo scopo di trasformare l’irrazionale in razionale, rivela uno spazio di resistenza volto a superare l’opposizione binaria follia/normalità creata non tanto per curare la follia ma piuttosto per mettere al riparo la società dai suoi effetti, considerando la pazzia alla stregua di una qualsiasi malattia: (la enfermera [...] dice que tienes una crisis disociativa como resultado de una gran depresión120) ed escludendo in tal modo la sua specificità e soggettività che invece risulta essere strettamente dipendente dalla storia personale dell’individuo, quindi, dalla sua biografia. Nel romanzo si cercano di sfumare fino all’evanescenza completa i limiti (tutti culturali) fra ragione e follia attraverso il potere esorcizzante della parola e della letteratura. Il manicomio viene presentato come spazio insieme chiuso e spalancato, reale e metaforico, che esclude il mondo ma penetra in una profondità vertiginosa e costituisce, oltre che lo spazio di scissione della mente, anche una metafora dell’isola, altra protagonista indiscussa del romanzo e della vita dell’autrice. L’isola, la madre, la sorella, il figlio, personaggi del romanzo, coprono ognuno lo spazio di otto capitoli, mentre Gelsomina è presente in nove, numero della svolta, secondo la filosofia pitagorica. La suddivisione simmetrica delle parti del testo che si ripete in modo cadenzato, sembra quasi voler rispettare una numerologia cabalistica ben precisa che in più occasioni fa capolino nella narrazione con riferimenti più o meno espliciti alla charada e alla santería afrocubana. Allo stesso tempo, l’organizzazione in quattro punti di vista interni,

119 Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Torino, p. 214, 1961. 120 M. Mateo, Desde los blancos manicomios, La Habana, Letras Cubanas, 2008, p.59. «L’infermiera [...] dice che hai una crisi dissociativa come risultato di una forte depressione».

90 Marcella Solinas da cui provengono toni espressivi accuratamente differenziati, costituisce il paradosso della lucidità espressiva della pazzia e permette a Margarita Mateo di consegnarci la storia di Gelsomina e dei suoi eteronomi. Abbiamo quindi Maria Merced del Pilar de la Concepción (le iniziali coincidono con quelle di Margarita Mateo Palmer) la paziente 23, alter ego della protagonista, simbolo dell’alienazione più profonda, spogliata persino del nome nel piccolo e illimitato mondo di una sala psichiatrica; seguono i personaggi – vicini o lontani – che modellano il singolare universo romanzesco; il figlio chiamato Clitoreo a causa della sua passione per le donne e l’atletismo, ma anche babalo veloz, Curi-curi, Jabao; la madre detta La marquesa Roja, la marquesa de la O, condesa e quant’altro, che rivendica in continuazione i suoi nobili natali sebbene poi si dichiari profondamente comunista; la sorella in esilio, María Estela, che scrive lettere da Miami e sostiene che no es posible mantener la sanidad mental en un país de locos121 ma poi, dal canto suo, non riesce a immaginare una vita senza paper towel, il Poeta Suicida, che dall’alto la osserva e l’accompagna. Al di là delle numerose coincidenze che rimandano in modo speculare i protagonisti del romanzo alla vita della scrittrice è da notare che tutti i personaggi si decostruiscono, si frammentano, subiscono una scissione del loro mondo e il lettore partecipa al drammatico processo in cui esseri in-between122 ricercano se stessi. Tutti i personaggi, cui vanno aggiunti i cani lezamiani che accolgono la protagonista all’entrata dell’ospedale, l’infermiera, gli oggetti animati, sono parte di quelle periferie (culturali, economiche, storiche...) tanto care alla Margarita Mateo saggista. La studiosa, da sempre attratta da quanto fatichi a raggiungere un “centro”123, ha

121 Ivi, p. 32. 122 Cfr. Homi Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma, 2001 123 Nel saggio Ella escribia poscrítica, Margarita Mateo esordisce con una citazione di Ticio Escobar che aiuta a capire gli interessi della studiosa cubana: «Y nosotros, moradores de regiones periféricas, espectadores de segunda fila ante una representación en la que muy pocas veces participamos, vemos de pronto, cambiado el libreto. No terminamos aún de ser modernos – tanto esfuerzo que nos ha costado – y ya debemos ser posmodernos». Ticio Escobar in Margarita Mateo, Ella escribia poscrítica, op.cit. p.11.

Una mujer que está llorando con la risa que aprendió … 91 l’occasione, grazie al romanzo, di capovolgere gli ordini precostituiti con la formula magica della finzione, prodotta dal rumore di una scopa stregata con cui spazza via la polvere nel tran tran casalingo. Come per magia, gli spazi della quotidianità si trasformano e viene stravolta la funzione abituale dei luoghi che da conosciuti diventano ignoti: «La cocina era el baño. La sala, el cuarto. El cuarto, el comedor, y el portal, la cocina. En una sostenida transgresión de los espacios asignados, los objetos habían iniciado una fuga que subvertía el orden invisible de la estabilidad del hogar».124 Gelsomina con la sua follia, da periferia, diventa centro, l’unico personaggio veramente lucido della storia, il nucleo di un mondo che comprende tre generazioni, in cui il quotidiano diventa mitico e dove gli oggetti, a partire dagli abiti, le pantofole, i ventagli, gli occhiali prendono vita e riflettono, con uno sguardo diverso, i temi cari all’autrice. La follia e l’esperienza del manicomio si trasformano, pertanto, in quello che Alda Merini definisce spazio di amore e di ricerca. Il piglio saggistico dell’autrice non viene celato del tutto ed ecco la letteratura introdursi come oggetto nella narrazione e non solo attraverso i pur numerosissimi richiami intertestuali125. La letteratura si ritaglia un vero e proprio spazio fisico. Gelsomina si rifugia sotto il letto della stanza del manicomio, in una microisola, per leggere e

124 M. Mateo, Desde los blancos manicomios, op.cit., p.63. «La cucina era il bagno. Il salone, la stanza da letto. La stanza da letto, la camera da pranzo e l’ingresso, la cucina. In una sostenuta trasgressione degli spazi assegnati, gli oggetti avevano iniziato una fuga che sovvertiva l’ordine stabilito della casa». 125 Nel romanzo è presente in modo piuttosto esplicito gran parte del bagaglio culturale, letterario e teorico della Mateo. Numerosi sono perciò i riferimenti ad autori caraibici come Derek Walkott, Aimé Cesaire, Saint-John Perse, Claude McKay, Rafael Sánchez ecc., ai mostri sacri della letteratura latinoamericana quali Lezama, Borges, Huidobro, Nicolás Guillén, all'universo letterario femminile di scrittrici e alla tradizione delle streghe caraibiche. Ecco quindi i rimandi a Maria Zambrano, Julia de Burgos, Jean Rhys, Gertrudis Gómez de Avellaneda, la Condesa de Merlín, Lydia Cabrera, Maryse Condé, G.. H. de Lisser ecc. La Mateo allude spesso anche alla cultura popolare cubana, chiamando in causa la tradizione musicale della Trova, il lotto, la santería e le superstizioni popolari in genere.

92 Marcella Solinas scoprire il mondo e aprire così quelle porte chiuse tanto ricorrenti nei suoi incubi infantili di cui parla nel romanzo. Ma non possono essere se non i libri e la lettura los que la tienen así. Cualquier día hago con ellos una pira,126 dice la madre della protagonista prendendosela soprattutto con Lezama Lima il quale, sancisce lei, le ha hecho mucho daño, cualquiera que lea a ese señor, Lezama, se altera de los nervios. Yo creo que usted debía prohibirle las lecturas a mi hija aquí en el hospital127. María Mercedes del Pilar/Alonso Quijano si trasforma così in Gelsomina/Don Chisciotte. Orizzonti transitori si aprono: La transgresión de los límites es imprescindible para conformar un argumento128 legge in Iuri Lotman la protagonista e, come in una scatola cinese al rovescio, comincia ad aprire gli spazi dal più piccolo al più grande. Dal minuscolo spazio al di sotto di un letto d’ospedale, Gelsomina passa alla stanza del manicomio, per poi far ritorno alla casa natale, uscire nel giardino, denso di tutta la simbologia evocata dalla lettura di Lezama e Dulce María Loynaz, si inoltra nelle strade dell’Avana e poi di Cuba in generale, e si ritrova a riflettere sull’isola:

espacio cerrado que lleva a la muerte por compresión o asfixia, solo permite un terrible paseo circular que aparece como una condenación humana más. Sísifo antillano, [...] el insular está condenado a un desplazamiento ilusorio que no es progreso sino redundante estatismo129.

La isla que se repite, direbbe Benítez Rojo e che, come annunciato nei titoli dei capitoli130 a essa dedicati, è a volte dolorosa e fuggitiva, altre

126 Ivi p. 138. «A ridurla così. Un giorno o l’altro li brucerò». 127 Ivi p. 191. «Le ha fatto molto male, chiunque legga quel signor Lezama perde la testa. Credo che qui in ospedale dovrebbe proibirgliene la lettura». 128 Ivi p. 66. «La trasgressione dei limiti è imprescindibile per conformare un argomento». 129 Ivi, p.76. «Spazio chiuso che conduce alla morte per compressione o asfissia, permette solo un terribile movimento circolare che appare come un’ulteriore condanna umana. Sisifo antillano, [...] l’insulare è condannato a uno spostamento illusorio che non è progresso ma ridondante staticità». 130 Sono 9 i capitoli in cui l’isola appare nel titolo come sostantivo o aggettivo: La isla fugitiva, La noche insular, La isla maldita, El vuelo insular, La isla

Una mujer que está llorando con la risa que aprendió … 93 maledetta e notturna, ma mai dimenticata e alla fine problematicamente riconquistata. L’isola col suo spazio limitato e circoscritto si costituisce come microcosmo, che riproduce l’universale e diventa metafora della condizione esistenziale dell’essere umano. Le scatole intanto continuano ad aprirsi e la protagonista viaggia in Europa, nei suoi treni e nelle sue università per sconfinare al punto di partenza, nell’arcipelago dei Caraibi, nel suo crogiolo di razze, lingue, scrittori e storie amate, nell’insieme di isole tra loro separate, frammentate come la mente di Gelsomina ma connesse da legami e legati profondi e si ritrova a navigare nell’acqua, principio della realtà fisica, arché, elemento purificante e liberatorio che riconduce la protagonista alla maternità e alle contraddizioni del rapporto madre-figlio. Sempre l’acqua, esa maldita circunstancia del agua por todas partes131, diventa simbolo dell’esilio, simbolo di quel mare separatore di tante vite ma che rappresenta la via per l’attraversamento degli spazi e il superamento dei confini non solo geografici ma anche politici, storici e del sapere tradizionale. Il ponte liquido teso dall’autrice fra narrazione, memorie ed esperienza di vita stabilisce una continuità con il paradigmatico Ella escribía poscrítica in cui si combinano studio critico e finzione, così come questo romanzo, nato in origine come saggio, fonde storie, personaggi e realtà. Del resto, i riferimenti saggistici, il dialogo intimo con una tradizione narrativa, il linguaggio ora colloquiale ora barocco, dotano il testo di uno status di romanzo sui generis. Desde los blancos manicomios è un testo attraversato dalle angosce materiali e spirituali che hanno scosso i cubani negli anni ’90 del secolo scorso e Margarita Mateo, come ha sottolineato Nara Araújo132, si inserisce con la sua opera in una strategia di sopravvivenza personale e collettiva.

recobrada, Las islas del dolor, La memoria insular, El olvido insular, Gelsomina en la isla entrañable. Cfr. M.Mateo, ivi, p. 235-236. 131 Virgilio Piñera, La isla en peso, (1943) Tusquets Editores, Barcelona, 2000, p. 23. «Quella maledetta circostanza dell’acqua da tutte le parti». 132 Cfr. Nara Araújo, “Feminismo, posmodernidad y poscolonialismo en ’Ella escribia poscrítica’”, in Signos Literarios y Lingüísticos III.2 (julio- diciembre 2001), p.236.

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Probabilmente, nei terribili anni del periodo especial, per rimanere lucidi bisognava essere folli: forse davvero la follia diventa l’unico spazio letterario ma anche reale da dove osservare una quotidianità difficile e incomprensibile in cui l’aggrapparsi con forza al potere della parola ha consentito alla scrittrice di resistere e non farsi sopraffare da una realtà aspra sia dal punto di vista personale che sociale. Ma, nonostante il ricorso ad aneddoti precisi e a una serie di esperienze che assicurano la verosimiglianza della storia, il romanzo va al di là della congiuntura particolare in cui è stato scritto, superando il carattere testimoniale e biografico che pure è profondamente presente e acquisendo elementi universali. Sembrerebbe, dunque, che l’autore sia vivo più che mai, o forse bisognerebbe riconoscere, come fa Alessandro Iovinelli133 che, sul piano letterario, si tratta di un autore, per così dire, di carta e che la sua non sia un’esistenza individuale, trascendentale o storicamente determinata, ma – ancora una volta – una figura del testo e soltanto come tale non può essere soppressa? La critica cubana Graziella Pogolotti fa notare che Desde los blancos manicomios è una aventura que a todos concierne, porque todos de manera diferente hemos recogido alguna vez el camino hacia el fondo de la noche134. Ogni lettore può intraprendere il viaggio di Gelsomina/ Margarita Mateo immergendosi e perdendosi in spazi al termine della notte per poi ritrovarsi e riconoscersi nel momento del ritorno al paese natale. Tuttavia la protagonista, evocando Aimé Césaire, ci ricorda che la sfida, il dilemma se presenta (entonces) cuando se decide partir, no del país natal sino de la tierra ajena135 quando, dunque, bisogna ritornare dall’immaginario mitizzato alla realtà, dalla letteratura alla vita, dagli smisurati giganti delle avventure cavalleresche agli umili mulini a vento della Mancha.

133 Alessandro Iovinelli, L’autore e il personaggio. L’opera metabiografica nella narrativa italiana degli ultimi trent’anni, Rubettino, Catanzaro, 2005, p. 103. 134 Graziella Pogolotti, “Un nuevo retorno al país natal”, CUBARTE, 28 Marzo 2009. “Si tratta di un’avventura che riguarda tutti perché tutti, in modo diverso, abbiamo percorso, almeno una volta, il viaggio al termine della notte. 135 M. Mateo, op.cit. p.129. «Si presenta quando si decide di partire non dal paese natale ma dalla terra straniera».

Una mujer que está llorando con la risa que aprendió … 95

Bibliografia citata

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96 Marcella Solinas

LIVIA APA

HABITAR A VIDA – FILMAR VIRGÍLIO DE LEMOS

Provavelmente tudo começou, aqui, no Rio de Janeiro. Porque foi aqui que conheci pessoalmente Virgílio de Lemos. Foi logo uma série de infindáveis conversas acerca de Moçambique, da literatura, da vida - a dele e a minha. Uma confiança imediata, uma intimidade necessária. Mantemos o contacto entre Lisboa, e Paris com muita poesia pelo meio - a dele que no entretanto tinha começado a traduzir, a dos outros que líamos e sobre a qual trocávamos constantes e apaixonadas opiniões. Surgiu-me então uma pergunta: porque não “fazer” a vida de Virgílio de Lemos, no sentido de porque não construir com ele um espaço biográfico que fosse ao mesmo tempo de narração e de auto-narração, em que se pudesse juntar também um olhar externo, o meu e outro, o de quem iria realizar materialmente as filmagens? É evidente que a escolha deste outro olhar não podia ser apenas o olhar de um técnico que se cingisse a passar para o vídeo uma teia de recordos, sentimentos vividos, circunstancias, em suma a narração de uma vida. Foi assim que numa conversa em Lisboa, o amigo Ondjaki resolveu acompanhar-me nessa aventura e em Junho de 2006 estávamos de malas feitas para Les Moutiers em Retz onde residia e reside o nosso poeta. Na véspera da viagem chega um telefonema: Virgílio está no hospital, teve um ataque cardíaco. Foi difícil. Muita indecisão. Mas com Ondjaki decidimos viajar na mesma. Fomos mas numa atmosfera como de tempo suspenso entre a vontade de avançar com o projecto e o medo de não ir a tempo. Dois dias depois Virgílio telefonou a dizer que podíamos ir vê-lo e fomos, mas com um certo medo de como seriam aquelas horas com ele. Chegámos e entendemos logo que o que Virgílio queria era ser filmado, queria falar para testemunhar-se a si próprio. Percebemos logo que ele tinha preparado o set da sua vida, um recanto do jardim, uma mesa de trabalho iluminada que favorecia o verde dos seus olhos, e o mar, porque o que ele quis logo, foi ser filmado ao pé do mar a andar, naquela língua de terra entregue às 98 Livia Apa

marés que é a praia de Les Moutiers que lá no fundo, disse Virgílio, lhe fazia lembrar o Ibo, a ilha onde tinha nascido 77 anos antes. O contar-se de Virgílio ia ganhando sempre mais os contornos de uma experiência pouco paradigmática e ao mesmo tempo fulcral para compreender o cosmopolitismo e a modernidade literária moçambicana, o papel que numa condição de desterro a língua portuguesa vinha assumir. A língua portuguesa como ponto de ligação entre intelectuais antifascistas pertencentes àquela comunidade linguística que durante os anos do colonialismo criavam relações em Paris à volta do papel da poesia e da literatura como testemunho e fuga , ao mesmo tempo, para eles próprios. Fazer poesia foi a maneira que Virgílio escolheu para a habitar a vida, como se ela fosse feita de muitos quartos diferentes por onde passar, onde viver, sem nunca se fixar, numa espécie de deplacement permanente dentro do qual a única casa possível sempre tinha sido a poesia. Em Setembro continuámos as filmagens, fomos, por assim dizer, mais a fundo na memória. Filmar, para dar respiro a todos os tempos que uma vida tem e tem vindo a ter, mas qual o limite das perguntas possíveis, a sua fronteira num trabalho deste tipo? Knopfli, Craverinha e ele em Lisboa à porta de um café se misturavam com dezenas de cadernos manuscritos de poemas, de inéditos, cheios de recortes e imagens e de fotografias do mundo inteiro. Habitar o espaço do mundo para habitar a vida, plenamente, como fosse o corpo de uma mulher. Ilhas, as ilhas como corpos que existem apenas na evocação da palavra e da poesia, as ilhas gregas e a ilha de Moçambique e muitas outras vieram, apareceram como epifanias de possíveis sequências e cenários, mas espaços para a palavra, sempre. E às nossas palavras, como num puzzle, juntavam-se os materiais do arquivo pessoal de Virgílio: cartas, poemas, artigos de revistas, artigos censurados ainda com o carimbo da PIDE (como tinham chegado lá? ). Porque filmar Virgílio? Porque, diria Ruy Duarte, antes de tudo ele é testemunho (quase esquecido) de uma noção geográfica, Moçambique, enquanto mapa de ligações culturais. Filmámos, fiz perguntas, coloquei novas peças. Como pode uma vida atravessar tantas questões e de todas elas sair facilmente, sempre olhando para o futuro? Virgílio abriu-me as portas do nascimento do nacionalismo

Habitar a vida – Filmar Virgílio de Lemos 99 branco sempre em nome da liberdade e da luta contra o dogma, fosse ele Fidel, Salazar ou a Frelimo, como a luta contra a literatura de palácio , em nome da palavra - liberdade. Agora estamos na montagem, um jovem documentarista italiano, Federico Triulzi com o qual filmei novamente Virgílio em França e em Portugal. Federico trabalha com histórias de vida sobretudo de emigrantes africanos em Itália, está a acompanhar esta fase. Ele diz que trabalha com emigrantes para devolver memória aos países de onde eles vêem e aos que os acolhem. Achei desde logo que o seu olhar fazia sentido na ideia que lentamente foi construindo do trabalho sobre Virgílio. Memória, é por isso que se escolhe de escrever uma biografia, se calhar para olhar de dentro, a partir dos interstícios da vida, o sentido geral de uma época e a génese de uma maniera de olhar para nós. Federico disse logo que o que servia era uma voz que contasse a historia e depois de ter lido os poemas, pensou que a voz tinha que ser absolutamente feminina… A ilha, a poesia, a alteridade em si, o único espaço de negociação possível de sentido, talvez, para que possa nascer sempre uma nova criação do mundo, uma voz ao encontro de uma vida, até ao infinito. Estou e acho que os três, estamos a aprender com esta experiência a importância dos arquivos vivos, fonte imprescindível mas ainda virgem para a compreensão, fora de qualquer dogma, do que foi a emergência de uma nova maneira de olhar para a própria pátria. Habitar a vida de outra pessoa não esta a ser fácil. É forte a necessidade de tentar cobrir cada distância, que no caso de Virgílio foi sempre ao mesmo tempo permanência física contrária à força de gravidade e ao centro. Um exílio, que nunca foi exílio de si próprio, mas um deplacement que lhe permitiu ficar criança, uma criança saudavelmente omnívora para com a vida. E de ocupar a vida e a história numa época em que a identidade nacional e colectiva andavam de braço dado.

100 Livia Apa

CARLO CAVALLARO

TRAVERSIE D’ANGOLA: JOSÉ LUANDINO VIEIRA

Cercherò di tracciare una mappa ideale dei percorsi letterari intrapresi dallo scrittore angolano José Luandino Vieira, percorsi che lo hanno portato a ridefinire l’identità della sua comunità letteraria e a produrre, negli anni della lotta contro il regime coloniale portoghese, una letteratura che sia fattore di unità nazionale. Focalizziamo la nostra attenzione sulla relazione che intercorre fra l’innovativo linguaggio che lo scrittore elabora a partire dai racconti di Luuanda e lo spazio letterario della narrativa di José Luandino Vieira. Il linguaggio innovativo che caratterizza queste opere deve molto alla lezione del brasiliano João Guimarães Rosa; tale rapporto di influenza è parte di un più ampio fenomeno che riguarda un certo tipo di relazioni instauratesi fra Angola e Brasile. In un periodo caratterizzato dal crescente fenomeno della globalizzazione e dalla conseguente richiesta di abbattimento di frontiere economiche, politiche e culturali, il Brasile e l’America Latina si presentano come modelli di eterogeneità culturale, di ibridismo etnico e linguistico, valori cui è legato l’allargamento dei circuiti comunitari internazionali. Essendo tali valori comuni a tutte le nazioni nate da processi di decolonizzazione, gli Stati africani che fanno parte dell’impero di Lisbona decidono, sin da prima dell’indipendenza, di ispirarsi al modello brasiliano, cui si sentono vicini anche per la lingua e per il passato storico condiviso di dominazione portoghese. Tale canonizzazione del sistema brasiliano interessa anche il mondo della letteratura. Gli scrittori africani di lingua portoghese, infatti, bisognosi di esprimere la propria diversità dal modello europeo, prendono sovente spunto dal variegato mondo della letteratura brasiliana per costruire la propria forma di espressione. Essi si ispirano soprattutto alle opere di Jorge Amado, e attraverso di essi a tutto il “realismo magico” sudamericano, e a quelli di João Guimarães Rosa, che hanno avuto un ruolo importante nel processo di formazione della scrittura 102 Carlo Cavallaro

del mozambicano Mia Couto oltre che, ovviamente, di José Luandino Vieira. Per quanto riguarda invece lo spazio della narrativa di José Luandino Vieira, esso è ovviamente il musseque, ovvero le baraccopoli che, a partire dagli anni 40, sorgono nelle immediate periferie di Luanda e che si configurano nel corso degli anni come lo spazio sociale dei colonizzati ma pure dei coloni poveri, e dei salariati, della mano d’opera a basso costo, al servizio della crescita coloniale e collocati al di là del confine dello spazio urbano (emblematica è, a tal proposito, la figura, ampiamente utilizzata dalla letteratura africana, della “frontiera d’asfalto”, che è il titolo di uno dei primi racconti pubblicati da José Luandino Vieira). Il rapporto che intercorre fra spazio e linguaggio di questa produzione narrativa è magistralmente analizzato da Ruy Duarte de Carvalho. Egli afferma che José Luandino Vieira fa parte di quel ristretto gruppo di scrittori che è riuscito a produrre:

una di quelle scritture che transitano dalla lingua al linguaggio senza ridurre in nessun modo le potenzialità della lingua, bensì aumentando- le, e arrivano così a renderla a tal punto pertinente e adeguata a uno spazio e a un tempo che ciò che scrivono si trasforma in voce, una voce autogenerata e collettiva. Ciò accade quando le voci di certi autori, che sono dunque il risultato di condizioni e di lavori strettamente persona- li, sono progettate come discorsi collettivi, non perché la voce di ognu- no di loro corrisponda esattamente al discorso comune del contesto in cui situano l’azione delle proprie storie, ma perché questo progetto è accolto dal lettore nel filtro della sua attenzione, della sua informazio- ne e della sua immaginazione, della sua emozione.”136

136 «uma dessas escritas que transitam da língua para a linguagem sem reduzir em nada o alcance da língua, aumentando-o mas é, e assim adregam conferir-lhe uma pertinência tão adequada a um espaço e a um tempo que o que escrevem se transmuda em voz, autogerada e colectiva voz. É quando as vozes de certos autores, resultado portanto de condições e de labores estritamente pessoais, se projectam como falas colectivas, não porque a voz de cada um seja exactamente a fala comum no teatro em que situam a acção das suas ficções, mas porque é essa a projecção que o leitor acolhe no ecrã da sua atenção, da sua informação e da sua própria imaginação, da sua própria emoção», Ruy Duarte de Carvalho, A câmara, a escrita e a coisa dita..., Lisboa,

Traversie d’Angola: José Luandino Vieira 103

L’intellettuale angolano intende dirci, soprattutto, che i processi utilizzati da José Luandino Vieira per creare il proprio linguaggio e il proprio spazio letterario sono parte di un unico disegno iniziale, il cui intento è, appunto, quello di dare forma letteraria a una data comunità e alla sua voce, al suo spazio e alla sua identità culturale. Partendo da questa considerazione riusciamo a capire meglio le dinamiche che stanno alla base del lavoro che lo scrittore fa sulla lingua. Egli dimostra di aver capito l’importanza della lingua in quanto strumento, sa molto bene cioè che la lingua nasce come puro strumento di comunicazione, e che la diffusione di una nuova lingua in un territorio (fenomeno che può verificarsi per una innumerevole serie di eventualità) è legata sempre, inizialmente, alla sua condizione di strumento di comunicazione. Successivamente, l’uso continuato e costante che ne fanno i singoli parlanti della comunità presente su quel territorio, porta all’acquisizione di una padronanza della lingua da parte degli utenti stessi, che allo stesso tempo la adattano al nuovo contesto cui la lingua, ora divenuta voce della suddetta comunità, si deve “abituare” così come gli utenti si “abituano” al nuovo strumento; ed è a questo punto del processo che lo strumento linguistico riesce a insinuarsi a tal punto nella mente degli utenti da riuscirne a condizionare il pensiero. Intendo dire che chi è padrone di una lingua immagina le cose non pensando l’oggetto, bensì pensando al nome che quell’oggetto ha nella sua prima lingua, comincia a strutturare i pensieri nella propria mente secondo l’ordine sintattico con cui questa lingua struttura le proprie parole e i propri concetti. È grazie a questo fenomeno che la lingua riesce a modificare la percezione della realtà e quindi la realtà stessa in cui è utilizzata, per poi adattarsi continuamente alla nuova situazione che anche grazie al suo contributo si è venuta a creare. È grazie a queste considerazioni che José Luandino Vieira riesce a costruire un linguaggio letterario che si adatta perfettamente alla

Edições Cotovia, 2008. (pag 23) nel saggio, intitolato “Falas & vozes, fronteiras & paisagens… escritas, literaturas e entendimentos…”136.

104 Carlo Cavallaro

comunità da lui ricreata e che è pertanto percepito dal lettore come vera e propria voce di questa comunità. Ribadisco, dunque, che la creazione dello spazio e la realizzazione del linguaggio innovativo, caratteristico della narrativa di José Luandino Vieira, sono elementi di un disegno più ampio, che ha come obiettivo la ridefinizione dell’identità culturale della comunità del musseque. Questa ridefinizione identitaria è il risultato di un ragionamento articolato e complesso. Nelle società che non hanno sviluppato un sistema di scrittura, la funzione di depositari della “memoria collettiva” è svolta dai cosiddetti “uomini-memoria”, veri e propri guardiani di una tradizione in cui normalmente la storia e il mito si confondono. L’impatto con il mondo moderno provoca la graduale diminuzione di questi “uomini-memoria”, ed è per questa ragione che il nostro scrittore sceglie di inventariare e riproporre, nella sua narrativa, elementi della cultura arcaica del proprio spazio. Egli utilizza però anche nuovi paradigmi estetici e culturali, ed è proprio questo accostamento ossimorico tipico della sua letteratura che ci fa definire José Luandino Vieira un transculturador137; egli, infatti, si situa fra due forme opposte che non godono dello stesso prestigio e opera un necessario lavoro di mediazione fra i due poli, al fine di minimizzare i contrasti fra istanze culturali eccessivamente divergenti. È Ángel Rama a parlarci del ruolo di scrittori transculturadores che hanno vissuto un periodo decisivo della propria infanzia o adolescenza in regioni, come ad esempio il musseque nel caso di José Luandino Vieira, che, avendo sviluppato pratiche autonome ed endogamiche, sono rimaste ai margini del processo di modernizzazione occidentale. Questi scrittori si sono poi integrati in centri urbani e hanno dunque potuto assorbire nuove e più moderne tendenze, senza mai perdere però i tratti profondi della propria cultura regionale. Essi si troveranno dunque a svolgere, nella loro letteratura, l’importante ruolo di mediatori fra la propria regione di origine e l’ordine sovraregionale. In altri termini, essi riescono a

137 Letteralmente “transculturatori” in RAMA Ángel, Transculturación Narrativa en América Latina, Montevideo, Arca Editorial, 1989.

Traversie d’Angola: José Luandino Vieira 105 tracciare un ponte fra uno spazio locale con modelli culturali propri e spesso arcaici e un progetto modernizzatore di maggior ampiezza. Sempre secondo Rama, il transculturador è colui che sfida quella cultura legata alla tradizione locale e quindi statica e la induce a sviluppare le proprie potenzialità e a produrre nuovi significati senza però perdere nulla della propria struttura intima. Questa analisi ha fatto emergere uno dei tratti fondamentali di questa narrativa, vale a dire il suo collocarsi in uno spazio di tensione fra arcaico e moderno, fra oralità e scrittura, caratteristiche che presentano una palese analogia con i macroprocessi di formazione culturale e linguistica degli Stati africani. Il processo di rielaborazione dell’identità del musseque realizzata da José Luandino Vieira prosegue attraverso dinamiche molto interessanti. José Luandino Vieira sa bene che l’identità della sua futura nazione tanto sognata si costruirà su concetti quali ibridazione, meticciato, e decide così, saggiamente, di costruire la rielaborazione dell’identità del proprio spazio su poche componenti in cui il lettore angolano possa facilmente riconoscersi, dato che, come ho già detto, lo scopo primo della sua scrittura è quello di creare una letteratura che sia fattore di unità nazionale. José Luandino Vieira sceglie di affidare il suo progetto di rielaborazione identitaria agli aspetti contenutistici e soprattutto alla lingua che ritroviamo nella sua produzione artistica. Questo linguaggio rappresenta una sovversione del canone che ha caratterizzato la diffusione della lingua portoghese nel territorio angolano; il regime coloniale, infatti, ha sempre favorito l’utilizzo della lingua portoghese a discapito delle lingue oggi definite nazionali, il cui utilizzo è stato spesso ostacolato. I pochi luoghi, fra cui sicuramente il musseque, in cui si è presentata l’occasione di stabilire un contatto fra le due o più lingue, hanno dato vita a forme ibride che vedono sempre il prevalere delle strutture europee su quelle endogene. Il linguaggio letterario elaborato da José Luandino Vieira sovverte questo ordine precostituito. Questa lingua prende le mosse dal portoghese così come è parlato dal popolo del musseque ma è caratterizzata dal netto prevalere delle strutture del quimbundo, la lingua africana della capitale, che impone la propria sintassi, il

106 Carlo Cavallaro

proprio ordine del discorso, la propria cultura, alla lingua del colonizzatore. Luandino lavora però anche solo sul portoghese; tutte le modificazioni e le conseguenti risemantizzazioni cui egli sottopone il lessico di questa lingua intendono adattarla al contesto africano e renderla adatta a esprimere la cultura del popolo angolano. Parole portoghesi sono sottoposte a nuove leggi linguistiche e, soprattutto, termini della lingua del colonizzatore cambiano di significato nella lingua dei colonizzati; ciò serve allo scrittore per creare un linguaggio letterario di ispirazione collettiva, che il popolo possa sentire proprio. Lo scrittore riesce, in sintesi, a realizzare un vero e proprio processo di decolonizzazione della parola. La sua lingua diventa infine lo spazio nel quale si costruisce l’identità letteraria della futura nazione africana e attraverso cui questa identità si proietta nella contemporaneità. La narrativa di José Luandino Vieira si situa dunque in un incrocio fra due piani temporali distinti e perfettamente amalgamati. Le storie e lo spazio appartengono al tempo della lotta contro il regime portoghese, il linguaggio letterario è già proiettato nel futuro indipendente della nazione angolana. Da questa intersecazione di piani nasce una nuova comunità, che vuole identificarsi con il territorio nazionale e unirsi nel bisogno di ribadire la propria essenza intimamente africana e nella comune lotta al colonialismo portoghese. La narrativa di José Luandino Vieira, dunque, fonda una comunità, e in entrambi i casi spetta soprattutto alla lingua costruire l’immaginario comune, l’identità, la percezione del reale, e gli schemi di pensiero di questa comunità, e l’esperimento risulta riuscitissimo se, come ci dice ancora Ruy Duarte de Carvalho, il suo modo di scrivere, la struttura della sua sintassi «è anche un modo di pensare, e si tende, leggendolo, a pensare allo stesso modo»138.

138 «è também uma maneira de pensar e fica-se, lendo-o, a tender para pensar também assim» (pag 20).

JESSICA FALCONI

“NÃO ERA ANGOLANA, NÃO ERA PORTUGUESA”: BIOGRAFEMI DI MARGARIDA PAREDES

«Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato: ma a che serve la luce?» Pier Paolo Pasolini, Le Ceneri di Gramsci

«Vi muita coisa, contaram-me casos extraordinários, eu próprio… Enfim, às vezes já não consigo arrumar tudo isso» Herberto Helder Os Passos em Volta

Rileggere O Tibete de África, romanzo d’esordio di Margarida Paredes139, alla luce del rapporto tra biografia e scrittura significa rintracciare, più che i dati biografici oggettivi, quelli che Roland Barthes ha chiamato “biografemi”, vale a dire, schegge, frammenti, «la cui distinzione e mobilità potrebbero viaggiare fuori da ogni destino e andare a raggiungere, simili ad atomi epicurei, qualche corpo futuro, promesso alla stessa dispersione, una vita bucata, insomma»140. Con l’invenzione del biografema, Barthes ci ha dato la possibilità di essere, oltre che lettori, anche un po’ “amanti” di un testo, soggetti partecipanti al gioco della finzione letteraria, come se di un gioco erotico si trattasse, in cui piacere e incompletezza s’intrecciano per rinnovare, in ogni istante, la ricerca di un corpo intermittente. È l’intermittenza, dice Barthes, ad essere fortemente erotica, nella misura in cui mette in scena la comparsa e la scomparsa del corpo di

139 Pubblicato per la prima volta in Portogallo nel 2006 dalla casa editrice Âmbar, O Tibete de África è stato recentemente pubblicato anche in Angola, dalla Chá de Caxinde, con una post-fazione di Laura Cavalcante Padilha. 140 Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 2001, p. 10. Pubblicato per la prima volta nel 1971. 108 Jessica Falconi

chi scrive, così come intermittente è la comparsa del “corpo biografico” di Margarida Paredes nelle pagine del suo romanzo. Della sua “vita bucata”, per dirla ancora con Barthes, si raccolgono, infatti, tracce frammentarie e segni fluttuanti, agguati della memoria, sussulti della coscienza, riso e pianto, in una narrazione che illumina diversi loci di enunciazione sullo sfondo dell’ex-impero portoghese. L’intermittenza è anche una scelta narrativa ben precisa che struttura il romanzo in un’alternanza di tempi narrativi, spazi dell’azione e punti di vista e crea così punti di fuga e piani di significazione molteplici. Con una strategia quasi cinematografica, l’autrice Margarida Paredes, probabilmente divertita, si proietta, nei primi capitoli del libro, in un personaggio assente, senza nome, che compare solo una volta: un’ex fidanzata di Amândio, il primo personaggio del romanzo, che di lei traccia, in poche righe, un ritratto netto e compiuto, pur nella sua brevità e incompiutezza. Amândio accenna alla sua militanza nelle manifestazioni di solidarietà ai movimenti di liberazione delle antiche colonie portoghesi in Africa e alle idee rivoluzionarie dell’ex fidanzata:

«tinha a mania de citar Amílcar Cabral, “a cultura é o fundamento e fonte de inspiração da luta” […] Um dia foi para o Congo, juntou-se ao MPLA e nunca mais ouvi falar dela! Deve ter sido a única portuguesa a aterrar em Brazzaville sem ser atrelada a um homem[…] Levava a militância muito a sério, acreditava em utopias e achava que tudo era possível. Era uma aventureira que pensava lutar por um mundo melhor. Provavelmente morreu […] Achava que a Europa estava po- dre.»141 (pp. 39-40)

141 «aveva la mania di citare Amílcar Cabral, “la cultura è il fondamento e la fonte d’ispirazione della lotta”. […] Un bel giorno se ne è andata in Congo – dice Amandio - ha aderito all’MPLA e non ne ho mai più saputo niente! Credo sia stata l’unica portoghese ad atterrare a Brazzaville senza stare al guinzaglio di un uomo […] Prendeva la militanza molto sul serio, credeva alle utopie e pensava che tutto fosse possibile. Era un’avventuriera che voleva lottare per un mondo migliore. Probabilmente è morta. […] Pensava che l’Europa fosse marcia».

Não era angolana, não era portuguesa”: biografemi di Margarida Paredes 109

Soltanto il lettore dell’edizione portoghese può facilmente considerare la breve descrizione dell’ex fidanzata di Amândio come una stilizzazione dell’esperienza dell’autrice. La “Nota sobre a autora” di Jean-Michel Mabeko-Tali (esclusa dall’edizione angolana) traccia, infatti, il percorso personale di Margarida Paredes, dagli anni dell’Università in Belgio, come tutta una generazione in diaspora anti- salazarista, fino all’incontro con l’MPLA e l’esperienza nell’Angola indipendente. In virtù di una lettura biografematica, il brano citato richiama, irriconoscibile per la maggioranza dei lettori, un’altra testimonianza illustre sul corpo biografico di Margarida Paredes e sul suo passato in Angola: in un articolo del giornale “Notícia”, pubblicato a Luanda nel 1971, il poeta portoghese Herberto Helder scriveva: «A Europa está podre, toca para África». L’articolo, intitolato Batiques, è dedicato a una piccola mostra di batik, allestita in modo improvvisato e al limite dell’illegalità dalla “pintora Gui”, sotto i porticati del palazzo del Banco de Angola, in una Luanda coloniale che Herberto Helder sente soffocante e monotona:

«Foi todo um manifesto de recusa, de provocação, de saúde, a improvisada exposição da pintora Gui nas arcadas do Banco de Angola, em Luanda. A jovem chegou-se ali, pregou um fio entre as colunas e pendurou os seus batiques, bem bonitos, por sinal. […] Pessoalmente devo agradecer àquela rapariga que, com os seus batiques, num Banco em frente de uma baia que, desde a primeira hora, me apaixonou, devo agradecer-lhe o ter salvo a imagem de uma cidade que já estava a fazer-me náuseas»142.

È chiaro, a questo punto, che la “pintora Gui” dell’articolo di Herberto Helder altri non è che Guida/Margarida Paredes, diciassettenne anticonformista che sfida la morale e i costumi della sua stessa classe sociale, nella Luanda degli anni ’70. Questa mostra improvvisata di batik le farà meritare, oltre al ringraziamento di Herberto Helder, l’arresto da parte della PIDE.

142 Herberto Helder Batiques, “Notícia”, nº 620, 23 de Outubro, 1971, pp. 44- 47.

110 Jessica Falconi

Se nel frammento in cui Amândio descrive la sua ex fidanzata di Coimbra (città d’origine di Margarida Paredes) l’autrice si affaccia, ironicamente, mostrando il proprio corpo al lettore, nel resto del romanzo è possibile ricostruire biografemi, inflessioni, segni di un’identità che appare come volontaria e necessaria slabbratura della narrazione, della descrizione, del linguaggio, in un’allusività che sembra corrispondere a quella sottrazione di peso, quella leggerezza che Calvino, alla fine del Novecento, includeva tra le sei proposte per il prossimo millennio, metaforizzata nel secchio vuoto del cavaliere di Kafka alla ricerca del carbone in tempi di guerra. Un secchio vuoto, che per Calvino, è «segno di privazione e desiderio e ricerca»143. Una volta sottratto il peso, l’autrice sceglie di dirsi, o noi lettori scegliamo di leggerla, nelle contraddizioni che emergono dal rapporto che ogni personaggio ha con se stesso, con il proprio passato, con i luoghi a cui appartiene e che non gli appartengono, con quelli che possiede ma che non lo possiedono. Leggiamo il biografema nei segni concreti e materiali del linguaggio e dello stile, come l’uso sregolato e personale del corsivo, i frequenti cambi della guardia, altrettanto personali e un tanto anti-canonici, delle voci narranti, o la coscienza della lingua come doppia lama di coltello, in quanto strumento di esclusione e stigmatizzazione identitaria, ma anche espressione di un’ironia anticonformista e resistente: «Não era angolana, não era portuguesa», dirà la protagonista Ana, che vediamo dapprima bambina in un’Angola coloniale ormai prossima all’indipendenza. Un’Angola coloniale di cui Margarida Paredes ci consegna il portato di una contraddizione strutturale, attraverso la descrizione delle fotografie di un ex postino, esposte in un bar di Lisbona dove, a un certo punto del romanzo, si ritrova Justino, il giovane ingegnere angolano protagonista di O Tibete de África:

As imagens captadas retratam pessoas que conviviam num mesmo espaço sem se verem. As fotos são únicas, perfeitas. Na jóia da coroa um criado negro de libré branca e botões dourados passeia e mima uma

143 Italo Calvino, Lezioni Americane, Milano, Mondadori, 2000, p. 35

Não era angolana, não era portuguesa”: biografemi di Margarida Paredes 111

criança loura num carrinho de rodas altas e ignora uma criança negra, suja e ranhosa, que chora sozinha no chão144. (pp. 84-85)

Si tratta di fotografie che, come afferma il protagonista Justino, nonostante la genetica abbia messo fine ai preconcetti sulla razza, ancora non possono essere catalogate come “artefactos arqueológicos”. In quest’Angola dei “folli anni sessanta” in cui «due società vivevano insieme dandosi le spalle», la protagonista del romanzo, Ana, inaugura la sua biografia. È nata in Angola, è l’unico luogo che conosce, ma la questione delle appartenenze, si vedrà, è tutt’altro che risolta. È in Angola che cominciano a comporsi i tasselli di un’identità che fino alla fine resterà come un enigma, che gli andirivieni tra le geografie reali e quelle della memoria non risolveranno. Nell’Angola coloniale il mondo infantile di Ana appare già in qualche modo fatto di saperi e forme dell’esistenza contrapposte: è il mondo delle fotografie dell’ex postino, in cui alla cultura familiare fa da contrappunto quella del mondo dei domestici. Con i domestici africani, infatti, Ana compie i primi passi nella sua conoscenza del mondo: «Foi através do Aguiar que aprendi tudo o que devia e não devia» dice Ana, per la quale la morte del domestico, racchiusa nel segreto di un’ambigua relazione con la madre, è il primo evento traumatico che segna il suo rapporto con lo spazio e con la sua stessa identità. Dopo questo evento, infatti, la casa si trasforma in un luogo di soffocamento e angoscia, in cui la realtà appare come qualcosa di estremamente contraddittorio e inafferrabile: «A casa nunca me pareceu a mesma. Quando acordava, tudo me parecia estranho»145. Il rapporto tra i bambini figli di coloni e i domestici africani, che ben esemplifica l’interazione tra questioni di genere, razza e classe

144 «Le immagini catturate ritraggono persone che convivevano nello stesso spazio senza vedersi. Nel “gioiello della corona”, ovvero l’Angola, um domestico negro in livrea bianca e bottoni dorati porta a passeggio e coccola un bebé biondo in un passeggino dalle ruote alte mentre ne ignora uno negro, sporco e col moccio, che piange da solo per strada». 145 «La casa non mi è mai più sembrata la stessa. Quando mi svegliavo, tutto mi appariva estraneo».

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negli spazi coloniali, è un elemento ricorrente della letteratura dedicata alla rappresentazione di tali contesti. In O Tibete de África, ai domestici è affidata una funzione fondamentale nella costruzione del personaggio di Ana: è attraverso di loro che la bambina accede a verità altre, da cui i genitori l’avevano in qualche modo esclusa. Anche la cuoca Fina è fonte di apprendimento del mondo, depositaria di una memoria e di un sapere che corrono il rischio di andare perduti, un sapere completamente diverso da quello di cui si fa portavoce il padre di Ana: Fina non sa né leggere né scrivere, ma come afferma Ana, «sabia tudo sobre África» e trasmette alla bambina una visione differente della storia dell’Angola. Attraverso i racconti di Fina, la protagonista bambina entra in contatto con la realtà della schiavitù, del colonialismo portoghese e soprattutto con la sofferenza di quella terra, l’Angola, «a nossa terra», dove l’aggettivo possessivo è in realtà il segno di una contraddizione profonda quanto i secoli:

«Contava-me com altivez histórias do tempo em que tinha sido escrava. O pai dizia que era tudo mentira porque a escravatura tinha sido abolida em 1836, mas o pai não percebia nada de escravatura e nem lhe passava pela cabeça o que os escravos sofreram. Quantos ho- mens e mulheres esta terra perdeu?»146 (p. 41).

Come ambito di condivisione e complicità, il sapere che Fina condivide con la bambina si fa biografema da raccogliere, lungo la narrazione, per ricostruire, al di là di una precisa contingenza storica e sociale, soprattutto la profonda adesione dell’autrice Margarida Paredes ai valori e ai saperi di un mondo differente, un mondo che, come nelle fotografie dell’ex postino, il personaggio Ana e l’autrice Margarida Paredes vivono attraverso la contraddizione, la contrapposizione ma al quale, intimamente, scelgono di appartenere:

146 «Mi raccontava con orgoglio vecchie storie dell’epoca in cui era schiava. Papà diceva che erano tutte bugie perché la schiavitù era stata abolita nel 1836, ma papà non capiva niente di schiavitù e non gli passava neanche per la testa quello che gli schiavi avevano sofferto. Quanti uomini e quante donne aveva perso questa terra?».

Não era angolana, não era portuguesa”: biografemi di Margarida Paredes 113

«contava-me estórias da rainha Jinga, que era muito poderosa e tinha vencido todos os povos contra quem tinha lutado e até tinha derrotado os portugueses quando eles tentaram roubar a nossa terra. O pai, quando soube, disse-lhe – ou deixas de encher a cabeça da miúda com essas histórias ou mando-te embora»147.

A proposito di saperi “altri”, appare in filigrana, in questa condivisione, tra dato storico e leggenda, quasi una feminotopia, così come la definisce Mary Louise Pratt, ovvero un espisodio «that present idealized worlds of female autonomy, empowerment, and pleasure»148. Altro biografema, attraverso cui far prendere corpo nella fantasia dei lettori barthesiani l’immagine di Margarida Paredes nel suo rapporto con il femminismo e con i saperi di genere, forse ancora una volta saperi “altri” e in qualche modo subalterni. Nel mondo di complicità domestiche e segreti familiari, la guerra irrompe come altro trauma nella vita di Ana e segna una separazione dai luoghi e da se stessa che l’estenuante ritorno della memoria stenta a sanare. Sia nell’Angola coloniale, sia nel Ruanda in cui si ritroverà la protagonista adulta, la guerra è una forza devastatrice che modifica violentemente e riconfigura l’identità dei luoghi e degli individui: «Sem sair do mesmo sítio a minha família tinha mudado de país. Uma noite adormecemos num país rico, de manhã acordámos num país pobre!»149 (p. 47). L’allontanamento dall’Angola e il “ritorno” in Portogallo, che in realtà per Ana è un paese sconosciuto, sono momenti chiave della costruzione dell’identità del personaggio, ma anche significanti di una riflessione che ancora una volta ci riporta al nostro percorso

147 «mi raccontava storie della regina Ginga, una regina potentissima che aveva sconfitto tutti i popoli con cui aveva lottato e perfino i portoghesi, quando avevano cercato di rubare la nostra terra. Quando papà lo venne a sapere le disse: o la smetti di mettere queste storie in testa alla bambina e o ti mando via». 148 Mary Louise Pratt, Imperial eyes: travel writing and transculturation, London, Routledge, 1992, p.167 149 «Senza muoversi, la mia famiglia si era trasferita in un altro paese. Di notte ci addormentammo in un paese ricco e il mattino dopo ci svegliammo in un paese povero!»

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biografematico piuttosto che a quello propriamente biografico dell’autrice. In realtà, tutti i personaggi hanno un rapporto con i luoghi completamente lacerato e contraddittorio: la madre di Ana, che «em Portugal se sentia uma viva morta e em África uma morta viva» (p. 35); Amândio, che insieme a molti altri, lascia il suo Penedo da Saudade durante il salazarismo e durante l’esilio in Belgio, il suo paese d’origine diventa nell’immaginario nient’altro che «um rectângulo muito pequeno e atrasado» (p. 28). Il ritorno al “rettangolo”, infatti, è un inabissarsi nel fallimento e nell’isolamento. Dopo la separazione da Ana, Amândio finisce a vivere in un furgone tappezzato di fogli di giornale ma con tanto di scaffali per i libri. A causa della guerra (in questo caso guerra civile), anche Justino, il principale protagonista maschile del romanzo, si allontana dal suo paese, l’Angola, dove, secondo le sue parole, o si vive o si muore, e se la sua identità culturale è profondamente radicata in questo luogo, non è però lì che vuole vivere, ma a Lisbona, «uma velha cidade que não cheira bem nem mal», dove si rende conto di quanto sia molto più problematico adattarsi ai codici culturali e alla comunicazione piuttosto che al luogo in sé: «Em Luanda eu vou a Baixa e em Lisboa vou à Baixa. A Baixa não é importante, o problema é que não gosto de tropeçar em clíticos» (p.111) dice Justino, affermando il potere della lingua come elemento identitario, potere che anche Ana scopre, ancora ragazzina, al suo arrivo in Portogallo:

«pedi ao balcão do restaurante, uma galinha cortada em pedaços sem gindungo. A empregada recebeu o pedido e gritou para a cozinha – um frango sem piripiri para a menina retornada. Diante da minha perplexidade ela explicou-me que em Lisboa ninguém chamava galinha ao frango nem gindungo ao piripiri. Só os retornados o faziam. Assim obtive a minha nova identidade. Não era angolana, não era por- tuguesa, era retornada.»150 (p. 59)

150 «chiesi al bancone una gallina tagliata a pezzi senza piccante. La cameriera prese l’ordinazione e gridò verso la cucina: un pollo senza peperoncino per la signorina ritornata. Davanti alla mia perplessità, mi spiegò che a Lisbona nessuno chiamava gallina il pollo né piccante il peperoncino. Solo i ritornati. Così ottenni la mia nuova identità. Non ero angolana, non ero portoghese: ero ritornata».

Não era angolana, não era portuguesa”: biografemi di Margarida Paredes 115

Nel paese-rettangolo, dove lo sguardo che cerca l’orizzonte si scontra continuamente contro labirinti di pareti, Ana continua a scoprire, quasi a racimolare, i pezzi della sua identità, scoprendo al contempo quanto sia ironica e fallace la presunzione di possederne una soltanto, ben salda e certificata. Alla morte del padre, Ana viene a sapere che entrambi i genitori erano sposati con altre persone: «passei a ser filha de um desconhecido». Ma è nell’incontro con Justino che Ana vede per la prima volta la possibilità di riconciliarsi con il passato e con se stessa, nel momento in cui Justino si costituisce come l’altro volto della sua storia personale, la parte mancante della storia del paese in cui è nata. Rievocando insieme la fine del colonialismo in Angola, vissuta da posizioni e punti di vista opposti, i due protagonisti si ritrovano contemporaneamente vicini e separati in uno spazio-tempo pubblico e privato. È così che si profila, ancora una volta, una dimensione biografematica di O Tibete de África, quale riflessione su un percorso individuale e su una storia maggiore che coinvolge quel legame tra “suolo e sangue”, forse identificabile con il multiforme e ormai ingannevole concetto di patria, che appare in questa scrittura completamente spezzato, polverizzato, per essere rifondato in modi e su piani differenti. La distruzione di questo legame è dimensione conflittuale, nel suo generare vere e proprie macerie identitarie da un lato, dall’altro nell’aprire la possibilità di istituire legami, identificazioni, corrispondenze tra esseri e luoghi, culture, ideali, che spezzano convenzioni e imposizioni. Che cos’è un luogo per chi vi nasce, per chi vi abita, per chi lo abbandona, per chi lo sceglie, per chi ne fugge? Qual è il rapporto legittimo che un individuo può stabilire con un luogo e quale la corrispondenza, la coincidenza tra la legittimità pubblica e la libertà individuale? Parole assenti come “patria”, “nazione”, “nazionalità”, “cittadinanza” e tutto quello che comportano, ritornano come biografemi di una tensione che attraversa la memoria individuale e un piano condiviso di riflessione sul mondo e del mondo. Si tratta di concetti e astrazioni che hanno una ricaduta violenta sulle esistenze degli individui e delle società, sui loro corpi. A questo proposito, Laura Padilha scrive nella post-fazione all’edizione angolana che i personaggi «vivem uma espécie de exílio, seja no plano da

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pessoalidade, seja no plano coletivo da nação», definendo O Tibete de África come un romanzo di guerre pubbliche e private. Nell’esilio costante dei personaggi e dei luoghi stessi, si ricostruiscono nel romanzo micro-biografemi individuali e collettivi, i frammenti dei diversi vissuti dell’Impero, che nell’Impero e nelle schizofrenie che ha generato rintracciano la matrice di uno sradicamento ancora inconcluso, irrisolto. Come suggerisce anche la lettura di Laura Padilha, che nelle pieghe della narrazione scorge le «memórias obstinadas» dell’autrice Margarida Paredes, in filigrana leggiamo quel “diritto all’infelicità” che reclamava Pier Paolo Pasolini, un’infelicità vitale e intransigente, sinonimo di resistenza nelle sue molteplici accezioni: opposizione, ribellione, guerriglia, difesa, fermezza, sopportazione. «L’infelicità è molto più permanente» dice, infatti, Amândio, il più sconfitto di tutti i protagonisti. In filigrana, l’itinerario di un sogno che fondi altri legami, altre legittimazioni, altri modi di abitare i luoghi, un sogno ostinato ancor più della memoria. Il sogno dell’ex combattente Guida Paredes, dell’autrice Margarida Paredes, della pintora Gui nelle strade di Luanda. Su quest’ultima, per concludere, di nuovo la parola a Herberto Helder:

«Mas eis que aparecem os estravagantes, os originais, os exóticos, os despassarados, os que não, os que trazem uma lá deles no meio da cabeça esfuziante. Eles são o sal da terra. Aparecem entre os seus dessemelhantes, e rebenta o escândalo»

Una vita bucata, insomma.

Bibliografia

Calvino, Italo, Lezioni Americane, Milano, Mondadori, 2000. Barthes, Roland, Sade, Fourier, Loyola, 1971, trad. it. 2001, Torino, Einaudi. Helder, Herberto, Batiques, “Notícia”, nº 620, 44-47, 1971. Paredes, Margarida, O Tibete de África, Porto, Âmbar, 2006; ____Luanda, Chá de Caxinde, 2009 Pratt, Mary Louise, Imperial eyes: travel writing and transculturation, London, Routledge, 1992.

Incontro con Luandino Vieira e Margarida Paredes Napoli, 3 aprile 2009 Fondazione Premio Napoli Università degli Studi di Napoli L’Orientale

Silvio Perrella: Oggi ospitiamo due scrittori, a corollario del tema del Convegno “Biografia e creazione letteraria”. Li ospitiamo all’interno di una cornice del Premio Napoli, “Voci da Lontano”. Chi ci segue sa che noi seguiamo due piste fondamentali che sono: “Voci della città”, legata alla città di Napoli, e “Voci da Lontano”. Due direttive, quindi, una del “vicino” e una del “lontano”. In questo caso, siamo dalla parte del “lontano”, di un lontano anche articolato e complesso, come sentirete. Abbiamo affidato a Livia Apa e a Maurício Santana Dias il compito di interloquire con gli ospiti.

Livia Apa: Come potete immaginare, sono emozionatissima, non solo per la presenza di una carissima amica che è Margarida Paredes e di un mito, non so usare un’altra parola, che è Luandino Vieira, sono molto contenta per una cosa semplice e banale, cioè che queste due persone sono nella mia città. E riscopro ancora questa città come luogo capace di accoglienza, di ospitalità, forse proprio per la sua natura porosa. Qui vedete l’edizione di uno dei primi libri di José Luandino Vieira, pubblicato coraggiosamente da un editore napoletano, Tullio Pironti, tradotto dall’amico e collega Vincenzo Barca, con una mia breve prefazione. Passerei la parola ai nostri ospiti, chiedendo innanzitutto che si presentassero, soprattutto che Luandino si presentasse, anche perché Margarida ha scelto di presentarsi con un breve testo.

Luandino: Muito obrigado. Muito boa tarde. Eu queria agradecer do fundo do coração o calor humano que eu encontrei na cidade de Nápoles, porque estou convencido que quando deparei com a cidade de Nápoles e me pareceu que estava na minha cidade de Luanda, a cor do mar, a cor do ar, a humidade nas palmas das mãos, eu percebi 118 Incontro con Luandino Vieira e Margarida Paredes

que era isso que eu devia agradecer porque isso que me surprendeu logo de manhã quando sai para a rua não pode existir só porque é a natureza, é também porque a qualidade das pessoas que habitam esses espaços permitem que em qualquer momento em que estejamos nesses espaços nos sintamos em casa. A minha biografia é muito simples. Dizem, eu não posso confirmar, que nasci no dia 4 de Maio de 1935 depois das duas horas da manhã, o que faz de mim um touro com ascendente peixes, penso eu. E hoje, 3 de abril do ano 2009, continuo vivo. É tudo. Muito obrigado.

Margarida Paredes: Boa tarde a todas e a todos, hoje tem sido um longo dia. Eu sinto-me também em casa em Nápoles, que acho uma cidade com alma, há várias cidades no mundo com alma, e Nápoles é uma delas. Mas o facto de não entender nada de italiano tem-me colocado o dia inteiro numa situação de estranhamento como eu há muito tempo não tinha em relação ao Outro. É muito simples apresentar-me. Eu nasci no dia 6 de Maio 1953, também sou touro com ascendente em virgem. Vou começar agradecendo o convite do Presidente da Fundação Premio Napoli, Silvio Perrella, do professor Giovanni Ricciardi, da Livia Apa e da Jessica Falconi da Universidade Orientale para estar aqui com vocês. Eu estou aqui em parte para ser guarda-costas do Luandino Vieira, já vão ver porquê. É uma honra estar aqui com o Luandino, porque pertenço a uma geração para quem o Luandino é um mito. Eu não entendo como é que os mitos se consubstanciam em carne e osso, mas ele está aqui connosco, sorridente, solidário e generoso. Creio que foi Levi-Strauss que disse que os mitos são bons para pensar, neste caso creio que deveria questionar o modelo totémico de Levi-Strauss e perguntar se também são bons para comer.

Maurício S.Dias: Ringrazio la Fondazione e l’Orientale per l’invito. Vorrei cominciare con quella che è stata la mia prima esperienza con la lettura del libro di Luandino, che è avvenuta a Salvador de Bahia, dove sono nato e che è come forse sapete è la città

Incontro con Luandino Vieira e Margarida Paredes 119 più africana del Brasile. Voglio parlare di un ricordo di infanzia e vi chiedo scusa se parlerò in portoghese. Gostaria de dar esse testemunho de que quando morava em Salvador, se não me engano em 1987 ainda, ou seja pouco mais de 20 anos atrás, eu tive a sorte de ter nas mãos o primeiro livro do Luandino, que é A Cidade e a Infância, e na mesma época eu li esse livro extraordinário com 10 contos muito intensos, entre eles “A fronteira de asfalto”, que me causou grande impressão. Parecia uma relação de dois jovens, mas a certo ponto explode essa divisão entre negros e brancos em Luanda, e o personagem, o rapaz negro termina estatelado no asfalto. Isso me abanou bastante porque eu vivia uma realidade que não era muito distante... Devo dizer que Nápoles também me faz pensar na minha cidade natal. Luanda, Napoli e Salvador, são cidades de mar, cidades que nos deixam com as mãos húmidas. Infelizmente não conheço ainda Luanda, mas imagino essa cor do mar, a luz, até a sensação táctil me remete a Salvador. Lendo esse livro tive esse impacto. E agora para esse encontro nosso reli depois de mais 20 anos esse mesmo livro, além de outros que já conhecia, mas em especial esse e tive o mesmo impacto, depois de tanto tempo. Acho que nós ainda vivemos, apesar de todas as mudanças, vivemos tempos partidos, tempos divididos. Há um célebre ensaio de Eduardo Lourenço, um grande crítico português, em que ele fala que a um certo ponto a literatura brasileira virou as costas para Portugal, sobretudo depois do processo de independência de 1822, com a geração indianista, mas mais radicalmente a partir de 1922, quando se comemora o centenário da independência do Brasil, e que Portugal acaba sendo uma espécie de esquecimento por parte do Brasil, como se o Brasil tivesse esquecido aquele primeiro passado e se abrisse para uma sociedade multietnica. No entanto, nesse mesmo ensaio dá a entender o Lourenço que as literaturas africanas de expressão portuguesa tinham essa presença portuguesa por questões evidentes, porque lá estava ainda o domínio português, e havia uma espécie de necessidade de confronto, e esse confronto, acho que o Luandino falou em alguns momentos, ele vai buscar também na literatura brasileira, essa literatura brasileira que já tinha reagido a Portugal, e vai a Guimarães Rosa e a tantos escritores.

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Então gostaria de começar falando dessa triangulação porque a meu ver há uma triangulação muito forte entre a literatura portuguesa, na África e no Brasil.

Luandino: À pergunta do Maurício eu só posso responder a partir da minha pequena experiência. Em 1945 eu tinha 10 anos, mas em 1948 já tinha 13, e a diferença dos 10 anos para os 13 foi fundamental, porque eu passei de criança a ser uma criança no meio dos adultos, que esses sim liam literatura, discutiam ideias, e penso eu já congeminavam algumas acções ainda que fossem apenas acções de distribuição de panfletos. Portanto em 1948 eu tinha 13 anos, e por amabilidade dos meus mais-velhos deixavam-me ficar sentados no chão junto deles que estavam sentados em cadeiras falando de Marx e Engels e Cesaire e Senghor e Negritude e Neorealismo Português. Esses adultos eram Viriato Francisco da Cruz, por exemplo, António Jacinto do Amaral Martins, por exemplo e Mário Antônio Fernandes de Oliveira, por exemplo, e o Ilídio Tomé Alves Machado e o Manuel dos Santos Júnior, todos na origem da fundação do partido comunista angolano em 1953. Partido esse que foi fundado com base em documentos que chegaram, imaginem de onde: do Brasil. A matriz escrita, os documentos vieram no navio Escola Custódio de Mello. O navio Escola fazia por vezes paragens em Angola, e alguns marinheiros eram portadores de material subversivo contra a segurança externa de Portugal. E para além disso, traziam livros de José Lins do Rego, Raquel de Queiróz, Jorge Amado, Érico Veríssimo, e muitos outros que já me esqueci, e que constituiram naquela época a nossa grande leitura, também a “Manchete” e o “Cruzeiro”. Ao mesmo tempo não recebiamos as revistas Portuguesas, nem o “Século Ilustrado”, nem esses jornais que ao tempo já circulavam em Portugal. Não sei se isso responde um pouco à questão que Maurício levantou. Para não ser injusto, quero dizer que ao mesmo tempo, por via de Maputo, Lourenço Marques ao tempo, chegava de Augusto dos Santos Abranches material que era do Neorealismo português: a Colecção Novo Cancioneiro, edições do Sino do Galo, edições Gleba, os escritos de Bento Jesus Caraça, a Colecção Cosmos, e em Luanda alguns progressistas portugueses também permitiam que nós nos

Incontro con Luandino Vieira e Margarida Paredes 121 chegássemos a eles com algumas perguntas, que eles muito clandestina e disciplinadamente não respondiam. É o que eu devo dizer.

L.Apa: Apparentemente, sono molte le coincidenze biografiche tra Luandino e Margarida. Entrambi sono di origine portoghese, entrambi partecipano al Movimento di liberazione dell’Angola. Si tratta di due generazioni diverse, ma la domanda che vorrei fare a Margarida è come mai una ragazza perbene portoghese, un bel giorno, non solo mossa da un’ingiustizia, quindi non solo solidale con tutti coloro che si preoccupano del destino delle colonie, non si ferma lì, ma parte e decide di arruolarsi nel movimento di liberazione.

M. Paredes: Havia uma parte da geração da comunidade branca, no fim do Império, que eram jovens que tinham acesso a livros que eram proibidos, e havia uma grande contestação ao regime do Salazar. Essa contestação às vezes não era feita em termos políticos, era feita em termos culturais. Eu no meu caso, em 1971 a polícia política levou- me presa porque fiz uma exposição de pintura de rua, o que foi considerado quase um crime de estado. Essas nossas atitudes que não eram enquadradas politicamente por nenhum movimento acabavam por nos levar à prisão ou a sermos incomodados pela Pide. Entretanto todos os meus amigos de Coimbra, eu nasci em Coimbra no Penedo da Saudade, eram classe alta, fugiam à guerra colonial, iam para Paris, a maior parte foi para Louvaina. Eu acabei também por ir para Louvaina onde comecei a trabalhar para o Angola Comité de Louvaina que era associado ao Angola Comité de Amsterdão, com a Associação de Estudantes Africanos de Louvaina, e em 1973 achei que devia passar para o outro lado e aderi ao MPLA.

L. Apa: Luandino, quer contar como é que era a Margarida?

Luandino: É meu dever de gratidão dizer qualquer coisa sobre a Margarida que também se apresentou aqui como meu guarda-costas. A primeira coisa que eu devo dizer de Margarida é que é uma pessoa – eu não quero dizer uma mulher porque seria como se eu fizesse uma

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diferença – é um ser humano de grande coragem. Eu só conheci a Margarida no ano 2006 e contudo nós estivemos a cem metros um do outro no ano de 1975 em Julho, num ataque de represália do Instrutor do Exército Colonial àquilo que eram já as instalações do MPLA. Queria sublinhar isso, que é uma mulher de grande coragem a quem eu admiro por aquilo que vi fazer naquele dia e por tudo quanto soube depois. Contudo só falei com ela a primeira vez em 2005 ou 2006 na Póvoa do Varzim. Nessa manhã em que houve o ataque eu muito masculinamente e prudentemente, atirei-me para baixo, plaquei, como dizem em Luanda, plaquei debaixo de uma viatura da televisão que me conduzia e vi a cem metros de mim um tiroteio que fez vários mortos entres os nossos camaradas e vi a Margarida no meio da rua, de A-KA na mão responder não sei como a um alto oficial do exército português. O que se passou depois foi ela que me contou mais tarde. Eu só sei que quando me levantei e pudemos fugir eu já não olhei para atrás nem vi nunca mais Margarida. Sabia da sua presença e da sua acção como soldado das Forças Armadas Populares de Libertação de Angola, FAPLAs, e que naquela manhã ela estaria numa missão de guarda possivelmente ou de sentinela no COL, Comando Operacional de Luanda. A coragem que ela demostrou ou pelo menos a imagem que eu tenho, porque eu estava deitado no chão, resguardado, estava em muito boa posição para avaliar da coragem dos outros e da minha prudência, deu-me esse favor. E daí fiquei sempre com essa imagem gravada na minha memória. Portanto é uma honra para mim ter a Guida como guarda-costas. Quanto ao que a Margarida falou das razões da sua adesão, portanto como pertencente à etnia branca, aos brancos, e à escolha de se juntar ao MPLA, na verdade o MPLA era e é ainda programaticamente um movimento extraordinariamente avançado nas ideias, nos propósitos, nos objectivos. Isso fez com que até hoje quem foi do MPLA se considere do MPLA mesmo que esteja contra o MPLA, porque constituímos na verdade uma grande família. Aqueles tempos ficaram como tempos de privação de uma grande família, e como todos sabem, numa grande família há as boas pessoas, as más pessoas, uns vão para polícias, outros vão para ladrões, há os que morrem, há os que vivem, mas não podemos renegar a nossa

Incontro con Luandino Vieira e Margarida Paredes 123 família. E é isso que faz ainda hoje a unidade de todos os angolanos que ou se identificam com, ou se identificam contra. E fora disso, muito pouco há. Uma pequena diferença que por dever de lealdade eu tenho que fazer em relação à essa atitude da Margarida de abandonar o seu país de origem, a sua classe de origem, privilégio de origem, para se juntar à luta de libertação do povo angolano, nas palavras dela começou como uma contestatária, contestando e que essa era a atitude normal naqueles que se opunham ao salazarismo em relação à guerra colonial, era a contestação. Eu queria dizer que da nossa parte, dos angolanos que também têm a cor da pele mais clara e que também pertenciam a uma classe mais privilegiada, o nosso problema nunca foi contestar o salazarismo, o nosso problema foi afirmar a angolanidade. E só essa “piccola” diferença nos separou naqueles primeiros anos, e que Margarida superou isso duma maneira superior porque não foi parar à cadeia, ela ficou de A-KA 47 na mão, e nós é que ficámos em segurança dentro das cadeias.

L. Apa: Vorrei tornare alla letteratura, anche perché politica e letteratura erano molto legate in quegli anni. E vorrei fare una domanda apparentemente ingenua a Luandino: qual era il rapporto tra letteratura e politica quando lui ha deciso di diventare scrittore?

Luandino: Eu confesso que nunca meditei teoricamente sobre esta questão, porque para mim foi sempre uma questão óbvia, devido não a qualquer factor externo, mas porque felizmente o salazarismo colocou-me numa posição que respondia por mim. O não reconhecimento da diferença da cultura angolana, e refiro-me à cultura angolana no sentido moderno, não no grande contributo das culturas autóctones para a cultura angolana moderna, essa diferença a não ser reconhecida pelas autoridades do Estado Novo salazarista fez com que nós nos tivessémos que afirmar culturalmente. E a primeira coisa que aos 13, 14 anos me foi ensinado, eu não era capaz de chegar lá sozinho, é que não adianta estar lá a escrever contra o colonialismo se tu não lutas para acabar com o colonialismo. Portanto eu tinha que optar ou por escolher a luta, ou então por esperar que a luta fosse vitoriosa para depois poder escrever segundo o que eu pensava ser

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necessário para uma literatura angolana moderna. Desde o início, estas duas distinções, literatura e política, que só são distinções práticas ou metodológicas se calhar, porque na minha maneira de ver ou no meu entendimento, a vida é uma, o homem é um, mesmo quando se expressa fragmentariamente em qualquer fragmento ele vai todo, mas isto é uma convicção muito pessoal. Então para mim política e literatura sempre estarão ligadas porque vida e política sempre estarão ligadas e porque o melhor é tirar política da equação e dizer que quem vive faz política, e mesmo morto e sobretudo alguns felizmente depois de mortos fazem muito mais política. Nunca escrevi com deliberação absolutamente ou totalmente política, mesmo quando escrevi o livro Luuanda, a primeira versão era escrita em português segundo a norma, e só os diálogos eram escritos em português de Luanda, quando li em voz alta percebi que não podia ser e que a própria língua portuguesa de Luanda era personagem, e então ela tinha que entrar no próprio discurso ao longo do livro todo. A minha intenção primeira não foi construir uma linguagem literária a partir de uma línguagem popular. A minha intenção primeira foi política: eu vou escrever numa linguagem tal, que utilizando a língua deles, eles não percebem. E portanto a diferença cultural que isto significa dá-me razão para reivindicar a minha autonomia política com o facto cultural. Só depois me preocupei com a lição de João Guimarães Rosa em melhorar o texto. E João Guimarães Rosa também para que fique muito claro, não me ensinou nenhum processo, porque os grandes mestres não ensinam os métodos e os processos. Ele me ensinou a coisa mais óbvia, que é a liberdade de um escritor construir a sua própria linguagem literária quando sinceramente sentir por carência que o instrumento que tem não serve àquilo que quer dizer. Felizmente eu tinha lido o padre António Vieira, e o Camões, e Fernão Mendes Pinto, e Frei Luís de Sousa, e Frei Bartolomeu dos Mártires e padre António Bernardes… Os nossos professores de língua portuguesa encheram-me a cabeça de Fernão Lopes. Eu tive a felicidade de, a partir de uma base teórica muito excelente, que são os grandes autores da língua portuguesa, poder violar isso que me tinham dado. Foi na verdade um gesto de ingratidão, mas eu assumi a responsabilidade por essa ingratidão e publiquei o Luuanda na forma em que foi publicado e

Incontro con Luandino Vieira e Margarida Paredes 125 provocou exactamente aquilo que eu pensava que ia provocar: a incompreensão total do salazarismo e a reacção que deu muito mais valor à luta de libertação no plano cultural do que se tivessem deixado circular o livro. Se o livro não tivesse originado a destruição da Sociedade Portuguesa de Escritores, o Cine-clube de Luanda, a Sociedade Cultural de Angola, as Edições Imbondeiro, tudo quanto havia de cultural em Angola foi fechado, foi encerrado. E em Portugal o júri foi preso pela Pide, a Sociedade Portuguesa de Escritores foi extinta, o seu patrimônio foi deitado aos quatro ventos pelas janelas pela Legião Portuguesa. Tudo isso, quando eu soube, me fez interiormente rir e me fez ao mesmo tempo pensar que eu tinha que mudar de rumo. O alcance político que a minha literatura podia ter tido já tivera, e eu dediquei-me então no Tarrafal ao escritor que eu queria ser e escrevi as estórias do No antigamente na vida, que são já o resultado do trabalho que eu fui fazendo passeando como um louco à volta do campo de concentração na minha cabeça. Eu sei que fui muito longo, estou dificultando a tradução de Livia, mas estou falando tão angolanamente que penso que mesmo os italianos me compreendem.

G.Ricciardi: Volevo solo sottolineare una cosa, un atteggiamento nostro, oggi, nel 2009, è un atteggiamento molto politico. Noi stiamo trattando di figure esemplari per tutti noi, di figure esemplari di intellettuali che hanno fatto delle scelte coerenti di vita e delle scelte coraggiose. Di questo ci vogliamo congratulare soprattutto in certe situazioni attuali che stiamo attraversando. Passando alla letteratura, non è stato detto chiaramente, che Luandino ha scritto in questi 12 anni di Tarrafal tutte le sue opere, poi quando c’è stata la Liberazione, ’74, ’75, ha detto bè adesso mi riposo, non scrivo più, anzi, non pubblico più. Dato che mi interessano i rapporti tra biografia e scrittura, le domando come mai questo spazio di quasi 30 anni senza pubblicare un libro?

Luandino: Obrigado pela pergunta, porque a pergunta que pôs publicamente eu também fui fazendo ao longo de 21, 22 anos, será que não escrevo mais ou vou escrever mais? Não muitas vezes. Em 1975 com a Independência e seguida imediatamente de duas intervenções

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estrangeiras, uma pelo norte, o exercito do então Zaire, e pelo sul o exército da África do Sul do apartheid, passámos imediatamente da luta de libertação nacional para aquilo que à falta de melhor expressão chamámos logo a segunda luta de libertação. No dia 8 de novembro, a 3 dias da declaração da Independência de Angola, o país já tinha sido esvaziado através da maior ponte aérea depois da Segunda Guerra Mundial, de tudo quanto era pessoa alfabetizada. Quadros, simples artesãos, tudo quanto quis, e alguns que não queriam, porque é muito fácil espalhar o medo entre as pessoas, não é que não houvesse razões para haver medo, mas essa ponte aérea montada pelo Ocidente, isto é a maneira de eu não culpar nenhum país, tirou de Angola a totalidade dos seus quadros, de modo que no dia 8 de Novembro Angola era um pequeno quintal, ocupado até 16 km a norte de Luanda e 80 km a sul de Luanda, e numa extensão para o interior não mais de – Malange já não existia – 150/180 km, num país que tem 1.250.000 km2 : a República Popular de Angola foi objectivamente proclamada sobre um território de 10.000 km2. Esta era a nação angolana acantonada num quintal no dia em que se proclamou a independência, com um avião de convidados a sobrevoar a cidade que teve de voltar ao aeroporto de origem porque não pôde aterrar no meio do tiroteio que por todo o lado continuava para a conquista de Luanda, que foi o grande baluarte da resistência e onde se proclamou a independência a 11 de Novembro. No dia 23 de Março de 1976 o último soldado sulafricano do exército racista do apartheid atravessava a fronteira 2.000 e tal km a sul, graças ao apoio dos nossos companheiros cubanos. Como é que eu ia escrever no dia 20 de Março de 1975 quando prevendo o que se ia passar, me chamaram e disseram: “Vais para a Televisão organizar a televisão”. Eu nunca tinha entrado numa estação de televisão. Quando cheguei à estação da televisão e me disseram a palavra “vídeo” eu não sabia o que era concretamente, eu nunca tinha ouvido a palavra “vídeo”. E nesse dia fui entronizado presidente do Conselho de Administração da Rádio Televisão Angolana. No dia 21 de Outubro do mesmo ano, fazíamos a primeira emissão experimental. Isto é facto histórico, não estou gabando, os meus camaradas que sabiam tudo é que fizeram, eu não sabia nada, eu só estava lá. Fizemos a primeira emissão com 20 receptores de

Incontro con Luandino Vieira e Margarida Paredes 127 televisão em toda a cidade, em que num deles, no bairro Marçal, colocados obviamente no meio da rua, num deles nessa noite a assistência rondou as 20.000 pessoas. A primeira emissão de televisão angolana que foi presenciada por toda a cidade de Luanda deu um incidente diplomático, porque o atrevimento do Presidente... Naquele tempo eu já era director de programas, já não era director geral. A emissão abriu com uma bandeira vermelha e preta com uma estrela, porque ainda não havia a da catana e da roda dentada, era a bandeira do MPLA, e com umas palavras do Presidente Agostinho Neto que quando houve a reclamação do Alto Comissário Português – porque a soberania ainda era de Portugal até ao dia 11 de Novembro – disse “Ah, eu não sabia do que se passava e mandaram-me chamar” e eu tive que dar explicações ao senhor Almirante, nem sequer almirante, ou... Dizendo que não, era uma emissão experimental, que era, em circuito fechado, o que era, porque nós estávamos na nossa cidade. O meu conceito de fechado chocou com o conceito de fechado do senhor Almirante e o Presidente Neto só disse: “O director da televisão tem razão, senhor Almirante”, e o assunto morreu até ao dia 11 de Novembro. Como a mim me fizeram director da televisão, todos os que sabiam ler e escrever e contar nem que fosse pelos dedos, foram entronizados em qualquer cargo que era preciso ocupar, que era preciso continuar a funcionar. Fazer farinha, reduzindo as bolachas para fazer farinha, para fazer pão, tudo quanto tivesse, imaginasse, foi ao poder durante méia dúzia de meses. Nessas condições nunca se me pôs mais o problema de escrever. Por volta do ano 1979 esse problema colocou-se e eu tentei ver tudo quanto se tinha passado mas não me doia. Eu via tudo ainda... Nunca fui muito romântico, nem muito idealista, nem nunca utópico. Mas mesmo assim, o que se passava – e tinham-se passado coisas terríveis em 1977, em ’79, mesmo assim não me doia enquanto criador. Para poder escrever é preciso que o que eu escrevo me doa pessoalmente. Então eu fiquei trabalhando até ao ano de 1992 sem me preocupar mais com literatura, fundando um Instituto de Cinema, dirigindo a União dos Escritores, fazendo tudo quanto me foi pedido e algumas coisas que não me pediram, até ao fracasso das eleições de 1992 que como dizem os brasileiros estava na cara que não podiam ter sucesso, e a famosa guerra do fim de semana

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que foi uma guerra mortífera porque foi dentro das cidades. E aí eu vim para Portugal com uma bolsa de criação literária, e aí sim doeu- me. Levei alguns anos para perceber porque é que me doia e transformei essa dor numa grande alegria. A minha geração teve a sorte histórica, como se diz nos filmes americanos, de estar à hora certa, no sítio certo, com as pessoas certas. Não há mérito, eu não vejo mérito na minha geração a não ser não terem virado as costas à ocasião histórica única que foi participar dum facto de que hoje, e logo naquela altura, me deixou de doer e passou a ser um facto fundamental, o facto mais feliz e mais alegre da minha vida, a luta na qual eu tinha participado e para a qual eu partecipei com aquilo que eu podia e sabia, fora uma luta vitoriosa e eu só posso estar feliz por poder morrer tendo na juventude participado duma luta por um ideal que foi vitorioso. E considero até uma grande justiça quando às vezes vêm ter connosco e nos pedem “Resolvam aquilo”, “nós já fizemos o que tínhamos a fazer quando tínhamos a vossa idade”. Respondem “nós não vemos ainda qual é o problema, qual é o inimigo, quais são as forças em questão”. Olha, nós também não viamos durante muito tempo e tivemos a paciência de esperar e ir olhando até percebermos onde estava e aí actuámos. É o único conselho que eu me permito dar aos jovens: se não têm problema, provoquem-no e depois resolvam- no.

M. Dias: Eu gostaria só de complementar e fazer uma pergunta à Margarida e ao Luandino a respeito do intelectual engajado, que durante muitos anos era quase um imperativo. Sartre lança esse mote na França e essa ideia do intelectual engajado durante um bom venténio se tornou uma palavra de ordem. No entanto acho que em países como Angola ou Brasil, esse imperativo não precisa existir, porque a própria experiência histórica nos liga a uma realidade de violência, de diferenças sociais brutais, de herança escravocrata, quase que não é necessário teorizar sobre isso, nós temos já essa relação com o realismo e com a política já dada pelo nosso contexto. O contexto mudou muito, e a Margarida escreve um livro onde retoma um pouco a experiência dela como militante e eu gostaria de perguntar aos dois – claro quem está vivo está engajado porque a vida demanda

Incontro con Luandino Vieira e Margarida Paredes 129 engajamento – mas qual é o tipo de perspectiva... Sim, uma vitória que Angola se liberta, mas ao mesmo tempo o contexto que se vive hoje é de grande perplexidade, a política que se faz hoje não é mais a mesma.

M.Paredes: Eu creio que como o Luandino disse há bocado todas as nossas atitudes são atitudes políticas, mesmo quando pensamos que não são. No que diz respeito ao livro, à criação literária, eu tive uma motivação política para o escrever, que infelizmente foi o genocídio do Ruanda que matou 800.000 pessoas e que foi a minha motivação. Eu comecei a pensar que existiam imensos livros de literatura do Holocausto e do genocídio dos judeus, e que provavelmente um milhão de pessoas em África não era a mesma coisa que um milhão de brancos, judeus na Europa. E parece cruel dizer isto, sobretudo porque estamos habituados a determinado discurso ocidental, mas realmente a morte não tem o mesmo valor em todos os lados. Então resolvi escrever O Tíbete de África numa atitude de lutar contra o esquecimento do genocídio do Ruanda.

Luandino: Eu estou completamente de acordo com as palavras da Margarida no sentido geral que dumas ideias que nos fazem pertencer à grande família que nós chamamos o MPLA. A diferença em relação à atitude da Margarida no meu caso é que... É muito dificil expressar o que eu quero agora dizer sem ser maniqueista ou injusto. Enquanto a Margarida como todos nós tem essa visão sobre os massacres, e o valor da vida dum africano comparado com o valor da vida dum finlandês, enquanto eu compartilho de toda essa maneira de ver e maneira de pensar, no plano da minha intervenção pessoal, preocupa- me muito o que vem da minha formação e que vem da formação dos meus antepassados literários, que é a questão da identidade angolana, a questão da consciência nacional angolana, os perigos a que estas duas entidades estiveram sujeitas durante muito tempo, o preço que foi preciso pagar para que não nos partissem o país em 3 bocados, e essa preocupação que eu reconheço é uma preocupação quase insignificante face à globalidade e à globalização dos problemas, faz com que a minha preocupação enquanto escritor, a minha

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preocupação política, é deitar mais umas axas para a fogueira da identidade nacional angolana, porque por exemplo, colhendo exemplo dos meus companheiros cubanos, quando olhamos para Cuba vemos como uma identidade cultural que gera uma identidade nacional que é capaz de resistir a tudo e todos interna e externamente só tem que ser um modelo para mim. Então eu escrevi o Livro dos Rios onde já não há grandes embates contra a realidade externa do meu país, mas que é uma tentativa de acrescentar também a natureza angolana, onde o homem angolano é apenas uma pequenina parte, ao fundo da nossa identidade nacional. Eu sei que é uma tarefa que a muitos pode parecer diletante, a outros pode parecer escapismo, a outros pode parecer formalismo, ou que me estou encerrando numa torre de marfim a falar de rios. Eu só estou a tentar dar o meu contributo para que se não parta a construção frágil duma nação que começou a ser forjada há mais de cinco séculos mas que tem um Estado há 32-33 anos, isto é muito mais novo que o meu próprio filho. Considero isso o meu dever de escritor e é isso que eu continuo a fazer.