LIBERTA' E RICOSTRUZIONE

Tutti i paesi della vallata del il 12 aprile 1945 furono finalmente liberi. Liberi di uscire dai rifugi e dalle cantine a goderci le belle giornate di sole e l'aria pura; regnava in tutti la grande voglia di fare, di ricostruire tutto ciò che l'orrore della guerra aveva distrutto. Ma qualche pericolo esisteva ancora, le mine antiuomo e anticarro provocavano invalidi e morte distruggendo anche intere famiglie. Le mine anticarro cosparse nella piana di Prato e nell'argine del Santerno fino a Campola. Le forti piogge e le piene del fiume asportavano il terreno dove erano state seppellite e alcune affioravano allo scoperto come bellissime cassettine rettangolari di lamiera colore giallo terra, lunga circa 1 mt. larga circa 10 - 12 cm. un vero invito e occasione per i contadini per farne una mangiatoia o abbeveratoio per i loro polli, conigli ecc. fu proprio così che i fratelli Bianconi, contadini di Campola, vennero attratti da questo bell'oggetto e si misero a lavorare per togliere il coperchio, ma all'improvviso uno scoppio tremendo uccise i due fratelli: Evaristo, Innocenzo e la moglie Ferri Giuseppina che aspettava un bambino di sei mesi. Tanti inesperti fecero la stessa fine. I contadini di Prato invece si improvvisarono sminatori, avevano imparato da qualche esperto e si dettero da fare per rendere di nuovo sicuri i loro campi, scavavano una fossa ne mettevano dentro una decina alla volta e ci davano fuoco; il fiume divideva i due poderi Ca' Di Per (Cadiperro) e Campola, in linea d'aria erano vicinissime e quindi, per evitare pericoli, preavvisavano sempre mio zio Augusto e noi familiari che eravamo a raccogliere la frutta: andavamo a proteggerci dentro il canale del mulino in attesa del grande boato e spostamento d'aria che ci passava sopra la testa togliendoci per un attimo il respiro. Ogni tanto qualche carro o mezzo pesante passava sopra a una di quelle che erano sepolte e questo fu proprio il caso di una trebbiatrice trainata da un trattore che passava da Prato per andare a trebbiare il grano in un podere vicino a Gesso. Anche il territorio di era cosparso di mine antiuomo nei poderi di Marcina, la Compagnia e tanti altri posti inimmaginabili, queste purtroppo creavano tanti invalidi. I fratelli Dall'Osso Gianni e Mario erano i contadini della Compagnia, (podere dell'Opera Pia di Tossignano) che era tutto minato e loro con grande coraggio si improvvisarono sminatori, erano riusciti a capire che in piccoli spazi rotondi dove era sepolta la mina non cresceva l'erba e provvedevano a farla scoppiare sul posto. Gianni mi ha sempre raccontato che suo babbo all'improvviso sentì del terreno molle sotto i piedi e si accorse di essere sopra a una mina, Gianni che era lì vicino gli gridò: “Stai fermo lì!!! Non ti muovere”! Prese una corda e lo legò stretto stretto alla cintura e disse: “Quando ti do l'urlo e lo strappo buttati a terra”. La mina esplose ad un'altezza di mezzo uomo e così salvò la vita a suo padre. Un altro pericolo lo creavano alcuni personaggi che si erano impadroniti di armi abbandonate, fucili, fucili mitragliatori e altro che dalle colline di Budriolo ogni tanto si divertivano a sparare delle sporadiche sventagliate di proiettili; noi eravamo costretti a nasconderci per non rischiare la pelle. La sera si divertivano ad illuminare il cielo e il sottosuolo con pistole lanciarazzi; eravamo arrivati fino al punto che a Borgo Tossignano, un certo Barbieri Carlo si era portato a casa un autoblindo (Cingoletta) che teneva dentro al garage, che forse poi sperava di trasformarla per l'agricoltura. Questo abuso di armi fu protratto finché non si costituì di nuovo il corpo dei Carabinieri, che cominciarono a sequestrare queste armi pericolose e illecite. Qualcuno ebbe a che fare con la giustizia e finì in carcere. C'era tanto bisogno di costituire nuove regole pubbliche, si formarono comitati per avviare la scuola, la gestione del magazzino chiamato “Stracci America” capi di abbigliamento provenienti dall'America che venivano distribuiti alle famiglie più bisognose e dove c'erano bambini. Anche a noi vennero date maglie intime, un cappottino e un giubbetto. Un comitato gestiva la distribuzione alimentare: scatolette, latte in polvere, burro, cioccolato ecc. , aiuti provenienti dagli alleati. Nell' autunno 1945 fu riaperta la scuola elementare; l'unica che esisteva era allora la scuola “GIUSEPPE MENGONI” un vanto per Fontanelice, ma era stata resa inagibile dagli eventi bellici per cui optarono per la ex stazione ferroviaria dove faceva capolinea il trenino della S.A.F. Esternamente era segnata da qualche esplosione di granate alleate, all'interno si utilizzarono le aule meno scalcinate, perché l'intonaco si sgretolava e ogni tanto cadeva qualche calcinaccio. Ricordo che i ragazzi ripetenti più attempati 14-16 anni (uno lo chiamavamo babbo) quando l'insegnante era un po' distratto gli tiravano i calcinacci sulla cattedra oppure sul banco di qualche bella ragazzina cui facevano il filo. Terminai l'anno scolastico 1945-1946 con la maestra PASOTTI e il maestro MARTELLI, completando gli studi elementari. Ai miei genitori fu consigliato di continuare con la scuola; mi trovai di fronte a due scelte: il seminario o l'Avviamento Professionale che mi dava la possibilità di imparare un mestiere. Ero un bravo chierichetto e il mio parroco don Giuseppe Pifferi di S. Giovanni, sarebbe stato molto lieto se fossi entrato in seminario, ma ho riflettuto molto su questa scelta e ho pensato che poi un giorno volevo diventare babbo. Era diventata una battuta e quando me lo chiedevano si mettevano a ridere (ed oggi sono orgoglioso di essere diventato padre di due figlie: Carmen e Pamela). Nell'autunno 1946 scelsi l' Avviamento Professionale. Ora c'era un gran bisogno di lavorare e tutti in base alle proprie capacità cercavano un'occupazione, quasi tutte le famiglie avevano finito i loro risparmi. La vecchia moneta anteguerra era stata dichiarata fuori corso dalle forze alleate, le quali avevano messo in circolazione su tutto il territorio nazionale nuove banconote dette d'occupazione; tutti i guadagni da lavoro e da merci venivano pagati con questa moneta. In questo periodo arrivò l'arte del sapersi arrangiare, chi onestamente, altri in forma disonesta si dedicavano al mercato nero con il commercio di grano, bovini e tanti alimentari di prima necessità. Ricordo un commerciante di legna e carbone di Borgo Tossignano (che aveva avuto la fortuna di salvare il suo camion di media portata); una sera venne a parlare con babbo che conosceva molto bene come ex mugnaio ed esperto nel trattare quella merce; pregandolo, gli chiese se era disponibile nella tarda notte per scaricare i sacchi di grano dal suo camion proveniente dalla Toscana, certamente un carico non legale; mio babbo non seppe dire di no, ma accettò a malincuore. Babbo dipendente di Ravaglia Telemaco, dopo il conflitto sperava di riprendere il suo lavoro, ma non fu possibile perché il mulino era tutto danneggiato e non era più fornita la corrente industriale, i motori elettrici erano stati sabotati, l'unica energia elettrica disponibile era la 125 watt. per uso domestico e illuminazione pubblica che veniva erogata da una piccola centrale di Coniale (frazione di Firenzuola). Perciò dovette rinunciare al lavoro che amava tanto e scelse di fare l'operaio agricolo, perché da giovane era stato contadino con la sua famiglia nel podere Campola, dove sono nato anch'io, di proprietà dello stesso suo ex datore di lavoro. Il mulino venne poi affittato a un mugnaio di Sassoleone che si assunse tutti gli impegni tecnici e finanziari per rimetterlo in funzione. Stavano emergendo nuovi lavori e mestieri che davano degli ottimi guadagni; per esempio il famoso stracciaio ora anche raccoglitore di ottone, rame, ferro, pelli che passava alle case col suo sidecar e nelle frazioni specialmente dove c'erano state piazzate batterie di cannoni alleati che avevano lasciato nelle varie postazioni migliaia e migliaia di bossoli in ottone, prima proiettili sparati di vario calibro; una vera fortuna per i proprietari del fondo che li vendettero e grandi profitti per lo stracciaio. Nella nostra Vallata io ne ho conosciuto tre: Zuffa Armando e figli di S. Giovanni, Garavini Augusto (detto Mezzograno) di Borgo Tossignano e Dent Tun Bus (conosciuto solo col soprannome “Dentro a un Buco”) di Fabbrica (frazione di ). Anche per l'artigiano: muratore, fabbro, idraulico, falegname, imbianchino stava arrivando tanto lavoro; case nuove da costruire, tante da ristrutturare, tutto intorno un paese da ricostruire, semidistrutto dalla guerra. A Borgo Tossignano c'era una grossa cooperativa di muratori; il capo mastro era Zaccherini Ermanno, il presidente si chiamava Isaìa, col passare del tempo per vari motivi la cooperativa si sciolse, ma in seguito nacquero nuove imprese che voglio ricordare: ditta Poggi Luciano & Cesare Ronchi, Gigli Angelo & socio, Poggi Giovanni e figlio Giulio, Betti Gaspare, tutte imprese di ottimo livello che contribuirono alla ricostruzione edilizia della nostra vallata. Anche i miei genitori si davano da fare cercando sempre lavoro, mamma andava a raccogliere la frutta, babbo vangava il frutteto di Zuffa Arturo e con quei soldi riuscivano a mantenere la famiglia dando a me e a mio fratello Alvaro tutto quello che necessita a un ragazzo che va a scuola per non metterlo in stato d'inferiorità. Nel doposcuola e nel periodo delle vacanze 1945-1946 anche noi ci impegnavamo per dare il nostro contributo, ci organizzavamo coi nostri compagni e andavamo in cerca di spolette di ottone (ogive) che erano in cima ad ogni granata sparata dal cannone da Sud verso Nord; nello scoppio apriva un cratere rotondo e la spoletta rovente partiva proiettata in avanti di 30-40-50 cm. in base alla durezza del terreno lasciando un'impronta di terra mossa grigio piombo larga circa 6-8-cm.; seguendo questa scia attrezzati di piccozze e ferri a scalpello riuscivamo ad estrarla, di solito pesava 500- 800g. Di queste spolette ne abbiamo estratte centinaia da prati e campi che evidenziavano questi crateri causati da scoppi di granate, cercavamo anche le schegge di ferro e di rame (che era la cintura che fasciava la granata) rimaste a lato dei crateri o sparse qua e là. Ricordo mio fratello che per una caduta nel canale di Campola si era fratturato una spalla e glie l'avevano ingessata tutta, compreso il braccio ad angolo retto; lì infilava una gamella da rancio andando in cerca di schegge; una volta piena, la vuotava nel paniere. Facevamo anche a gara coi compagni a chi ne portava a casa di più. Raggiunta una buona quantità di materiale andavamo poi a venderlo allo stracciaio che pagava di più. Riuscii anche a raccogliere n°77 bossoli di ottone calibro medio, proiettili sparati da due carri armati canadesi appostati vicino a casa nostra, che poi vendetti al mio futuro datore di lavoro. Tutti i soldini che riuscivamo a prendere li davamo a mamma che li amministrava attentamente assieme a quelli che portava a casa babbo quando saltuariamente trovava lavoro. Questi soldi servivano per tirare avanti la famiglia e comperare il mangime per i polli, conigli e farina di granoturco per ingrassare il maiale che veniva ucciso a gennaio, ma non potevamo tenerlo tutto, ne vendevamo la metà per pagare qualche debito creato presso la bottega di alimentari che per stima ci faceva credito. Il debito veniva annotato tutto su un librettino che mamma gestiva con grande cura e a fine anno si facevano i conti saldando il debito. Ho già accennato nel primo capitolo che mia mamma era una donna molto energica, al mattino si alzava presto, sveglia anche a noi e giù dal letto. Il periodo delle vacanze andava sempre a coincidere con la mietitura del grano, i contadini una volta portato a casa il raccolto mettevano i covoni nel barco in attesa della trebbiatura. Dove c'era il grano mietuto con la falce era rimasta la stoppia (così chiamata ) che non era altro che il resto del gambo alto 15-20 cm., questi campi ora erano liberi per chi voleva andare a spigolare, cioè a raccogliere quelle spighe che si erano staccate dallo stelo o sfuggite alla falce mietitrice. Anche a questo duro lavoro mamma non ci rinunciava, si partiva all'alba assieme a mio fratello, che aveva tre anni in meno di me, ognuno col proprio sacco di ortica in spalla e tutto il giorno in cerca di spighe nei poderi di Budriolo, la Ribana (sotto il monte Penzola), l'Uccellaia (sotto la vena del gesso), la Siepe di S. Giovanni e tanti altri poderi. La stoppia essendo paglia secca ci sfregiava e pungeva le gambe; eravamo sotto il sole cocente di luglio, a mezzogiorno cercavamo un albero che facesse un po' di ombra, mangiavamo i panini con marmellata preparati da mamma, si beveva tanta acqua e ci riposavamo un po'. Le spighe che avevamo raccolto una volta trebbiate ci hanno reso 180 kg. di grano che poi si portava al mulino e in cambio ci davano la farina, non era poco per chi aveva la famiglia da mantenere. Al calare del sole due volte la settimana con mamma andavamo nel boschetto vicino a casa nostra a sfogliare l'acacia per i nostri conigli che mamma teneva in gabbia sotto il capanno; muniti di un sacco, un guanto di pelle molto spessa costruito appositamente con anelli di acciaio all'interno si strisciava giù per i rami dall'alto verso il basso asportando le foglie senza correre il rischio di forarci la mano con gli spini. L'acacia che veniva scelta era quella dalla foglia verde scuro, la più matura, perché quelle verdi gialline erano le messe giovani e avrebbero provocato la diarrea. Andavamo anche alla “Sulla” erba dai fiori color fucsia che cresce nei terreni argillosi, molto buona per i conigli, alla Farfarella che abbonda nei nostri calanchi sotto la riva del monte Penzola; raccoglievamo queste belle foglie che venivano poi tritate e impastate con farina di granoturco, pasticcio di cui anatre, oche, galline erano molto ghiotte. La Sulla seccata diventava un ottimo foraggio per l'inverno. Eravamo quasi sempre impegnati per il mantenimento dei nostri animali e in lavoretti che mamma ci faceva fare; del tempo libero per giocare ce ne rimaneva poco. I nostri giochi si svolgevano quasi tutti sull'aia dei contadini e la domenica nel prato davanti alla chiesa della mia parrocchia S. Giovanni in Campo, all'ombra di un'immensa quercia secolare. Giocavamo a Bandierina, alle marelle, pietre piatte semi rotonde cercate in mezzo ai sassi, ognuno aveva la sua del diametro circa 15-18 cm. e si giocava a “Busanella o Zacagn”; il primo consisteva in una buchetta rotonda del diametro di 7-9 cm. dentro la quale mettevamo i più bei bottoni che avevamo; una volta che ce li eravamo giocati tutti staccavamo i nostri dai pantaloni o giacca... però, una volta a casa, quando mamma se ne accorgeva erano guai. Si mettevano dentro la buchetta anche monetine e chi la copriva o ci andava più vicino se le prendeva tutte. “Zacagn” era una pietrina larga 7-9 cm. alta 10-12 cm. con spessore di 2,5-3- cm; ognuno metteva sopra Zacagn una monetina di pari valore, ed era il bersaglio da colpire; si cercava di prenderlo delicatamente così le monete sarebbero cadute tutte o in parte sulla tua marella e se rimanevano sotto, l'avversario strisciando cercava di colpirla e prendere lui le monete che prima erano tue, oppure cercava di andare a coprire le monete sparpagliate qua e là e andarci il più vicino possibile. Un altro gioco era la gara del cerchio preso da una bici fuori uso che si faceva ruotare correndo, curando la traiettoria con una bacchetta di salice appoggiata delicatamente nel canale del cerchio, il più abile vinceva la gara. Stava per iniziare l'anno scolastico 1946-1947 (come già accennato) mi ero iscritto alla Scuola Secondaria di Avviamento Professionale (Alberghetti), una scuola con tante materie, quindi tanti libri da comprare. Le materie erano le seguenti: Religione- Lingua Italiana- Storia- Geografia- Francese- Matematica-Scienze fisiche e naturali- Igiene- Bella calligrafia- Disegno- Disegno professionale- Esercitazione pratiche- Canto corale- Educazione fisica- Buona condotta, in totale 15 materie. Non era ancora stato ristabilito il servizio di corriera che coincidesse con le esigenze delle scuole, noi frequentavamo anche alcuni pomeriggi, fu così necessario cercare una bicicletta tra quelle poche che erano rimaste da prima della guerra, quella di babbo l'avevano rubata, ne trovammo una che era da sistemare, chiudemmo alcuni buchi nei copertoni con dei pezzetti di cuoio altrimenti sarebbe scoppiata la camera d'aria, una sistemata ai freni per renderla funzionante e pronta per andare a scuola. Si partiva la mattina presto percorrendo 15 Km. di strada Montanara assieme ad altri ragazzi che frequentavano scuole diverse, lungo il percorso facevamo una specie di gimcana per scansare le buche fatte dagli scoppi di granate. Ricordo che una mattina assieme a una mia amica di S. Giovanni, Maria Rosa Vergoni, stavamo quasi per arrivare a Imola pedalando alla pari molto vicini, parlavamo, lei portava un bel mazzo di fiori da regalare alla sua professoressa; un attimo di distrazione e siamo finiti in una buca di granata, patatrac, tutti e due a gambe all'aria, qualche escoriazione ma nessun danno, solo i fiori rimasero lì per terra sparpagliati attorno al buco. Col passare del tempo le buche vennero chiuse un po' alla volta con terriccio e calcinacci portati coi loro carrettini dai cantonieri. L'inserimento nella scuola non fu tra i migliori, eravamo chiamati montanari, non essendo abituati a parlare l'italiano come in città a volte venivamo anche derisi. A quell'epoca nelle famiglie si parlava sempre in dialetto, confesso che avevo qualche difficoltà ad afferrare, durante la lezione, il linguaggio scorrevole dei professori così gradualmente mi accorgevo di perdere quell'interesse e concentrazione che bisogna avere durante la lezione. Il mio pensiero era rivolto anche ai miei genitori per i sacrifici che facevano e dentro di me nasceva il dubbio se ne valeva la pena. Stava per arrivare l'inverno, diventava impossibile proseguire tutti i giorni in bicicletta S. Giovanni - Imola e ritorno. Conoscevamo la famiglia Morini Angelo di Imola, che durante il periodo della guerra era sfollato a S. Giovanni; aveva due figli poco più grandi di noi e dopo il conflitto riaprirono il negozio di abbigliamento per l'infanzia e macchine da cucire in piazza Matteotti (Imola), famiglia di gran cuore che aveva sempre mantenuto con noi un rapporto di amicizia; quando i suoi figli Ennio e Giorgio cambiavano le maglie intime di lana e cotone di ottima qualità, le passavano a noi. Un giorno Angelo e Anna, sua moglie, ci sono venuti a trovare, parlando con mia mamma sono venuti a conoscenza del sacrificio che facevo ogni giorno per andare a scuola ed hanno convenuto che mi avrebbero ospitato presso la loro famiglia durante la settimana. Abitavano in via Garibaldi n°19 vicino a S. Cassiano. Quando avevo qualche pomeriggio libero andavo coi loro ragazzi a palazzo Monsignani a giocare al calcio balilla. Finalmente potevo dormire un po' di più, facevo colazione coi loro figli, la signora Anna mi trattava come uno di famiglia. Il sabato sera rientravo a casa con la corriera che da poco aveva cominciato a fare qualche corsa fino a e viceversa. Prima della corriera, il servizio di trasporto delle persone nella Vallata del Santerno era stato effettuato (come mi ricordava il prof. Franco Poggi) con un camion telonato, fornito di alcune panche all'interno del cassone, dietro pagamento di una modesta somma. Eravamo in pieno inverno, una sera siamo partiti da Imola, era buio e nevicava, strada facendo la neve cresceva sempre, era in atto una grande bufera con vento gelido che veniva dal nord. Ad un certo punto la corriera è rimasta bloccata a Riviera, siamo scesi tutti e abbiamo dovuto proseguire a piedi in un buio che non si vedeva a un palmo dal naso, la neve era alta fino al ginocchio, il vento fischiava e aveva formato strati di neve alta quasi un metro; eravamo tutti sprovvisti di lampadine per vedere dove si andava. Gli adulti hanno deciso di tenerci per mano e abbiamo intrapreso il viaggio verso Fontanelice; la strada non si vedeva più, ti accorgevi che eri di fuori quando andavi nel fosso a destra o a sinistra; finalmente, fatta la salita di S. Giovanni sono arrivato a casa, ero quasi assiderato; mamma mi ha subito protetto con una coperta e poi mi ha fatto un bagno caldo. Finite le vacanze natalizie ripresi la scuola con poca convinzione di poter continuare; anche se fossi stato promosso mi sentivo di pesare sulle condizioni economiche della mia famiglia e durante le lezioni il mio pensiero si concentrava più su questo, mi martellava il cervello e la concentrazione verso lo studio diminuiva. In francese e scienze naturali non avevo la sufficienza, i due professori (Rosina Staffa di francese e Corrieri di scienze) mi promisero che mi avrebbero interrogato per darmi la possibilità di essere promosso a giugno e mi dettero l'appuntamento per un pomeriggio. Io studiai su vari punti e andai all'appuntamento alle 14,30 presso la scuola aspettando sulla scalinata. Purtroppo non furono di parola, vidi passare i due professori in Viale Dante davanti alla scuola, lui col telo da bagno sulle spalle e lei col borsone che andavano al fiume. Agli scrutini fui rimandato a ottobre in francese e scienze con due cinque. Per me fu una delle più grandi delusioni passate da ragazzo e pensavo al bel periodo delle elementari quando nella giornata del risparmio fui premiato, con un libretto contenente 20 lire, dal Credito Romagnolo come uno dei migliori alunni dell'Emilia Romagna. Dopo la delusione della scuola cercai di orientarmi verso un mestiere; nel periodo degli sfollati eravamo ospiti dello zio di mamma, Cassani Pietro, contadini di Viticeto (Fontanelice) assieme alla famiglia di Giacomo Manaresi che prima dell'evento bellico faceva il fabbro; questo, venuto a conoscenza che avevo cessato di andare a scuola, propose alla mia famiglia e a me se volevo fare il fattorino (apprendista). Accettai, felice di andare a lavorare nell'officina che da poco aveva iniziato l'attività nell'ex capannone della S.A.F. Dove prima tenevano i carri merci di riserva, perché a Borgo T. c'erano varie industrie che spedivano per ferrovia. Il capannone era in leggero rialzo, per entrare bisognava percorrere una rampa, come si entrava in fondo dritto in alto c'erano una grandissima falce e martello pitturati con vernice rossa, voluti da Ostilio, poco distante c'era la vecchia stazione passeggeri semidistrutta. Manaresi Giacomo era socio con suo fratello Ostilio, reduce dalla Germania, anche lui fabbro che aveva fatto grande esperienza sotto i tedeschi, ma disgraziatamente uno scoppio avvenuto all'interno di uno stabilimento, i gas e i fumi gli avevano semichiuso un polmone; era veramente un artista sia per lavorare il ferro a caldo che a freddo, disegnatore e depositario anche di un brevetto, di carattere molto nervoso, che quando esplodeva, era capace di prendere la mazza e fare un cumolo di lamiera dell'oggetto che stava costruendo e questo capitò proprio a una stufa economica realizzata da lui. Nel vedere quell'azione mi presi anche paura. Era anche musicista, suonava la batteria con una sua orchestrina, si esibiva spesso nelle piste da ballo, una chiamata la “Ciabatta”, dove poi si insediò la falegnameria di Gulmanelli Giuseppe & C. alla fine di via Roma; l'altra era una vera oasi in mezzo al verde si chiamava “La Rotonda”, dove poi si costruì la villetta Gamberini Giuseppe, nonno dell'ex sindaco Lorenzi Franco. A lavorare eravamo in sei: i due titolari, un loro cugino Manaresi Mario proveniente da Roma, Fini Giuseppe (detto Peppino) io e l'altro fattorino Biagi Armando con un anno in più di me. Il lavoro veniva eseguito su commissioni fatte da ditte. Ostilio aveva costruito su progetto per le FS (Ferrovie dello Stato) una carriola con il ribaltabile e portello anteriore che si apriva e chiudeva per caduta, serviva per fornire il carico di carbone nelle motrici a vapore delle FS. Si costruivano per le ferramenta: graticole, palette, alari o (cavedoni) per focolari, farlette per vanga, magliuole per tenere ferma la “frena” (falce) al manico, mordicchie, “caveje” da mettere in mezzo al giogo che mettevano ai buoi per il traino del carro o dell'aratro. I contadini portavano a riparare, zappe, vanghe, picconi, il vomero e tutte le altre lame che facevano parte dell'aratro per essere battute a caldo e affilate per passare poi alla tempera; il pezzo veniva rimesso nella fucina, appena rosso giallo veniva preso e immerso immediatamente dentro la bacinella piena d'acqua per un centesimo di secondo, si estraeva rapidamente il pezzo poggiandolo sull'orlo della bacinella, in attesa dei meravigliosi colori della tempera che stavano per arrivare, (si teneva sempre in mano una lima per eliminare eventuali scorie che si potevano formare sul taglio per rendere i colori più appariscenti) il I era il giallo, II il violetto, III i colori dell'arcobaleno, IV il blu. In base alla durezza che si voleva dare al taglio della lama, si bloccava immediatamente nell'acqua il colore prescelto secondo la qualità dell'acciaio. Col colore giallo, se l'acciaio era di qualità molto buona, la tempera era troppo dura, il taglio nel lavorare si scheggiava; il violetto abbastanza duro, l'arcobaleno giusto, il blu morbido, adatto per lavorare su terreni normali, non adatto certamente per fondi ghiaiosi e per scalpelli da muratore che richiedono l'arcobaleno. Ritengo questa fase lavorativa molto affascinante per chi la eseguiva, contenitrice anche di qualche segreto professionale. Si faceva anche un altro tipo di tempera, quella ad olio che veniva fatta dentro a un recipiente pieno di olio minerale usato immergendovi l'acciaio o ferro rovente; faceva una grande fumata e ne usciva fuori il famoso ferro imbrunito impregnato di una pellicola che proteggeva dalla ruggine e veniva spesso usato per cancelli e inferriate. Tutte le mattine arrivavo con la mia vecchia bicicletta da uomo portandomi dietro una vecchia borsa di velluto a righe di colore marrone sostenuta da due belle anelle di acciaio come manico che appendevo al manubrio; dentro mamma ci metteva una gamella militare composta da due scomparti a vite, con sotto la minestra, sopra il secondo e una bottiglietta di acqua; a mezzogiorno rimanevo all'interno dell'officina a mangiare. Finito di mangiare intanto che non c'era nessuno non dico che rubavo, ma mi arrangiavo a prendere su gli scarti di rame, ottone, dadi sparsi per la bottega durante la lavorazione, li chiudevo dentro la gamella a vite e li nascondevo in un posticino al sicuro e la sera mi portavo a casa quello che avevo potuto racimolare; raggiunto un po' di chili lo vendevo allo stracciaio che abitava proprio davanti a casa mia, col ricavato andavo nella bottega di alimentari di Bice Lamego e mi compravo una specie di Nutella che si tagliava a fette o mi compravo il fumetto Tom Mix, oppure altri giornalini nell'edicola di Rosina che era posta nella proprietà dei Lamego. L'altro fattorino Armando Biagi invece abitava a Borgo T. Il nostro compito alle 7,30 era quello di aprire bottega, accendere la fucina col carbone antracite, che prendeva fuoco molto bene, poi si aggiungeva il carbone fossile chiamato Coke che era quello che col suo calore portava il ferro fino alla fusione. Quando si cominciava a lavorare io e Armando facevamo il turno a girare la manovella del ventilatore della fucina che soffiando sotto al carbone lo manteneva incandescente e in mezzo si immetteva il ferro per essere lavorato, modellato sull'incudine e fargli prendere le varie forme che il fabbro desiderava; anche noi fattorini avevamo una grossa responsabilità perché se il ferro che stavamo preparando fosse andato oltre cottura avrebbe cominciato a colare facendo la spia con tante stelline sopra il carbone e per noi diventavano guai. Il fabbro faceva certi urli perché il ferro che doveva essere lavorato veniva rovinato e segnato da una specie di porosità. Il nostro compito era anche quello di sostenere lamiere, ferri piatti molto lunghi sull'incudine e guidarli gradualmente in base al disegno inciso e seguire le varie sagome da tagliare con scalpello e martello; passavamo tanto tempo anche a limare lamiere, facevamo i buchi col trapano a mano (lavoro abbastanza faticoso) perché la corrente industriale per fare andare un trapano elettrico non era ancora fornita. La ditta Manaresi aveva un accordo con la fornace di calce dei fratelli Magnani che producevano autonomamente la corrente motrice (trifase) con l'acqua del loro canale che avevano in gestione dall'amministrazione comunale assieme ai fratelli Saloni proprietari del mulino per granaglie che era vicino alla fornace. L'acqua del canale faceva ruotare una turbina così producevano corrente industriale per il loro fabbisogno e gentilmente avevano concesso un bancone in legno sul quale era stato fissato un trapano e uno smeriglio. Quando c'erano parecchi fori grandi da fare e ferri da smerigliare veniva anche Peppino, caricavamo tutto sul carrettino e si andava laggiù. Una volta mi capitò una cosa molto pericolosa; mi mandarono a smerigliare delle sbarre di ferro; faccio partire la smerigliatrice e come apoggio la sbarra sul piano del motore, un lampo e un colpo tremendo mi fanno balzare via dalle mani la stanga che dovevo smerigliare sbattendomi per terra. Posso dire che fui molto fortunato, forse non avendo stretto in mano la sbarra in maniera forte non sono rimasto lì attaccato; la paura fu grande rimasi lì per un po' pallido e stordito, poi mi ripresi. Fu poi constatato che il giorno prima si era adoperato il trapano e quando si fora si bagna la punta con dell'acqua perché non si stemperi; questa era stata assorbita dal legno andando a bagnare dei fili scoperti che avevano esteso la corrente a tutto il bancone. Col passare del tempo ci insegnarono anche a battere la mazza; il capo con le tenaglie teneva stretto il ferro rovente color giallo, appena estratto dalla fucina, lo piazzava, dava un colpo col martello sull'incudine per iniziare la cadenza ritmica uno due, lui col martello e l'altro con la mazza, mentre con la mano sinistra ruotava e modellava il ferro per fargli prendere la forma desiderata. Le saldature si facevano ad autogeno, una bombola di ossigeno, un gazometro che si si riempiva di carburo; all'interno aveva un serbatoio di acqua che lasciava cadere gocce sul carburo generando l'acetilene che unito all'ossigeno, tramite un apposito cannello, generava la fiamma ossidrica per saldare metalli di ogni genere, metodo di saldatura usato ancora oggi specialmente nelle carrozzerie; avevamo anche un cannello detto da taglio di cui la ditta ne fece molto uso nello smontaggio del ponte di ferro costruito dagli alleati a Borgo Tossignano sul fiume Santerno. L'appalto per la ricostruzione del ponte fu vinto da un'impresa emiliana, una volta arrivati con la costruzione in cemento sotto il ponte, per finire i lavori fu necessario incominciare a smontare il ponte di ferro e la ditta costruttrice assegnò il lavoro alla ditta Manaresi. Per un bel po' fummo impegnati tutti in questo duro lavoro, io e Armando svitavamo i bulloni, quelli arrugginiti che non venivano li tagliavamo con la sega a mano, i pezzi più grossi che non si sbloccavano venivano tagliati con la fiamma ossidrica da Ostilio; Giacomo, suo cugino Mario e Peppino una volta smontati i pezzi più pesanti li accatastavano provvisoriamente per poi portarli altrove. Fu per noi ragazzi un lavoro molto pesante e pericoloso, oggi il datore di lavoro per le condizioni in cui si lavorava finirebbe in galera. Il aveva un grosso problema nei confronti di Tossignano e si rivolse a noi per trasformare un vecchio camion senza cabina che serviva prima della guerra per il trasporto della frutta chiamato 15 Terre, (credo fosse di Bianconi Paolo che lo donò al comune) in un porta cisterna, atto a fornire l'acqua potabile a Tossignano, paese completamente distrutto dalla guerra. Il camion con la cisterna era sempre parcheggiato a lato della rampa che portava alla nostra officina. Si lavorava fino al sabato sera giorno della paghetta, che per i fattorini era di circa 150 lire la settimana; perché a quei tempi considerando che ti insegnavano un mestiere non potevi pretendere di più. Stava per arrivare l'inverno; mangiare sempre in officina un po' di minestra fredda spesso ti rimaneva sullo stomaco, Ostilio volle che a mezzogiorno andassi a casa sua a mangiare, abitava nella casa ora di Mongardi Dido a pian terreno vicino all'attuale CRAI, aveva due figlie Aureliana e Gabriella, due belle ragazzine con qualche anno in meno di me, ma pochissime volte erano a casa, credo fossero in collegio. Un giorno arriviamo in casa, ci mettiamo a tavola, io apro la mia gamella e comincio a mangiare, mentre marito e moglie cominciano a brontolare alzando i toni. Ad un certo momento lui ad alta voce dice: “ In questa casa si mangia sempre mortadella! Mortadella oggi, mortadella e noccioline domani, non si mangia mai una minestra, è sempre di quella”. Cominciarono con le offese; ad un tratto (in cucina c'era una piattaia o rastrelliera piena di tegami) la moglie comincia a staccare dei tegami scagliandoli con violenza contro di lui e lui con tutta forza li rimandava indietro e passavano sopra anche alla mia testa. Immediatamente mi sono infilato sotto la tavola in attesa che cessasse la battaglia. Lei era una bellissima bersagliera, lo beffeggiava, gli rideva in faccia e diceva: “ Se avessi un fucile ti sparerei”. Già da tempo si sapeva che aveva l'amante e dopo la scomparsa di lui si misero insieme. Di quella casa ne ebbi abbastanza e non ci tornai più. Ostilio diventava sempre più nervoso, nella ditta non c'era più armonia, non andava più d'accordo anche con suo fratello, la sua malattia si aggravava ogni giorno, fu ricoverato in ospedale e dopo una lunga degenza si spense. La ditta fu costretta a cessare l'attività, il fratello Giacomo si mise a fare l'idraulico, il cugino Mario tornò a Roma e gli altri trovarono un nuovo lavoro. Per un certo periodo io rimasi a casa, aiutavo mamma nella gestione dei suoi animali, andavo a Campola a lavorare nel frutteto di mio zio Augusto, finché un giorno mi venne proposto se volevo andare a lavorare come apprendista meccanico nell'officina di Marchi Carlo che aveva ricevuto ottime informazioni da Zavoli Luigi (detto Gigiota) che mi conosceva da quando lavoravo dai fratelli Manaresi. Vennero a parlare con la mia famiglia e intrapresi questo nuovo lavoro il 4-2-1953. Marchi Carlo (conosciutissimo a Borgo T. come “Carluccio”) era partito per l'Africa nel 1935 e tornato in Italia il 24-06-1948 reduce dall'Asmara (ERITREA), nella casa di sua proprietà dove prima di partire aveva anche l'officina, il locale era occupato dall'osteria di Lina e secondo i termini di legge trascorse un certo periodo prima che si liberasse. Carluccio aveva iniziato l'attività un anno prima della mia assunzione, io cominciai il 4-02-1953, mentre l'apprendista Berti Novello che aveva un anno più di me c'era dall'inizio; ci dividevamo il lavoro durante la giornata, si riparavano le biciclette rimaste, moto militari alleate lasciate dopo la liberazione, la Guzzi Alce militare che era in dotazione ai carabinieri e in più anche le loro biciclette che usavano per servizio. La bicicletta per gli operai era l'unico mezzo per andare al lavoro, i più fortunati possedevano una vecchia moto. Erano cercatissime le vecchie Bianchi, Legnano, Ganna ecc. anteguerra che venivano tutte restaurate. Il principale andava sempre dai frati Cappuccini a Imola a cercare e acquistare bici usate. Cominciavano ad arrivare i primi telai e tutti i componenti per costruire bici; due volte la settimana mi mandava a Imola in bicicletta da Marangoni a prendere ricambi e accessori che caricavo sul portapacchi posteriore e anteriore, a tracolla portavo un rotolo di copertoni, al ritorno ero stracarico, si faceva molta fatica, prima della salita di quando passava qualche camion militare che i birocciai avevano trasformato da trasporto, facevo uno scatto veloce e mi agganciavo al cassone dal lato sinistro per farmi trainare, così mi riposavo fino a Borgo T. Montavamo quattro o cinque biciclette la settimana, sempre su ordinazione; stavamo assistendo ad un vero boom della bicicletta. Ricordo che per la festa dei Maccheroni e la fiera di S. Bartolomeo io e Novello venivamo impegnati per lavoro straordinario nel posteggio a pagamento che circondava tutta l'area del cortile della casa di Carluccio e nelle due botteghe a mettere le contromarche in ogni bicicletta lasciata in deposito. Il numero di biciclette depositato veniva sempre documentato dal numero dei cartellini, una volta abbiamo raggiunto il n°486 di biciclette depositate e un'altra n° 434. Tra prenderle e riconsegnarle si andava sempre di corsa, si arrivava alla sera esausti; per il nostro padrone era un bell'incasso. Il lunedì mattina ci chiamava in casa, ci offriva il tè, ciambella, bibite e poi ci dava il compenso che riteneva giusto. La nostra paga inizialmente era sulle 200 lire la settimana, si cominciava a lavorare alle 7,30 fino a mezzo giorno, si ricominciava alle 13,30 fino al calare del sole e si terminava la domenica a mezzogiorno. Una domenica mattina mi chiama per darmi il compenso e mi dice che mi vuole multare di cento lire perché non avevo controllato il lavoro fatto male di un apprendista appena assunto; a questo punto io gli risposi: “Fate pure, io lunedì non vengo più a lavorare! Siamo arrivati in primavera ti aspetti che ti crescano un po', invece ti calano”...!! Riferisco tutto a mamma, le spiego il motivo, capisce che avevo ragione e mi dice : “Allora ti preparo la colazione per babbo e glie la porti giù nel campo”. Esco di casa e per coincidenza vedo la moglie del mio padrone che veniva su in bicicletta per la salita di S. Giovanni tutta in affanno, gesticolava chiamandomi forte, diceva: “Dove vai? Vieni giù che Carluccio ti aspetta lo sai poi lui come è fatto, abbiamo tanto lavoro non abbandonarlo”. Mi feci prendere dai buoni sentimenti e la mattina dopo tornai al lavoro. La domenica dopo mi aumentò la paghetta da L.200 a L.300. Usavo sempre la mia vecchia bicicletta da uomo. Una mattina che piovigginava ho caricato sul tubo mio fratello che lavorava anche lui a Borgo T. come apprendista elettricista da Barbieri Luigi; giù per la discesa della Gessi la bici con due sopra prendeva una bella velocità, mio fratello teneva l'ombrello e quando siamo arrivati nella curva lui l'ha alzata ed io gli ho detto: “Tieni giù quell'ombrello che mi bagno”. Lui abbassa e vedevo solo due o tre metri davanti alla ruota; a destra c'erano le baracche. Ad un certo momento mio fratello grida: “Alè ca nin ciapè ona”. (alè che ne prendiamo una) “Bum”! Le abbiamo infilato la ruota nel posteriore proprio in mezzo alle gambe della Colomba che teneva in mano un pentolino di alluminio pieno di latte preso in latteria. Un grande urlo; con l'urto è caduta a terra, proprio mentre stava per rientrare nella sua baracca; soccorsa da noi e da alcuni adulti l'abbiamo accompagnata nell'ambulatorio del dott. Govoni che le ha messo alcuni punti in alto all'interno della coscia, per una ferita provocata dalla punta del parafango anteriore. Una volta rientrata a casa da suo marito Colombo, di professione stagnino e ombrellaio ambulante, abbiamo detto cosa era successo e in qualche modo volevamo risarcirli per il guaio che avevamo combinato, essi erano di origine bergamasca; nel vederci così turbati forse gli abbiamo fatto compassione non hanno preteso nulla; io molto premuroso, per riconoscenza gli portavo le uova e qualche pollo che mi dava mamma. Durante questo periodo il lavoro cresceva e Carluccio assumeva sempre dei nuovi apprendisti per vedere se saltava fuori qualche ragazzo bravo, ma dopo un certo periodo mollavano tutti; ricordo Mainetti Medardo, Turrini Tiziano, Sileni Sergio, Zaccherini Giuseppe, il figlio della Dama Bianca, un certo Antonio (figlio di un romano); solo Suzzi Alfiero divenne un bravo artigiano che sostituì poi Berti Novello quando venne chiamato per il servizio militare. Stavano arrivando velocemente i primi segnali di sviluppo economico, le condizioni sociali miglioravano, arrivarono sul mercato i primi ciclomotori, scooter, motoleggere, moto, la nuova Fiat 500 e la 600, tutti questi mezzi avevano un costo accessibile anche agli operai. Col passare degli anni diventai operaio, ora potevo disporre della mia paga, darne una parte a mia mamma per il mantenimento della famiglia e una parte per pagare la rata della Lambretta carenata che mi ero preso. Stava iniziando il percorso del boom economico, quasi tutti si compravano come minimo il ciclomotore o la moto, chi guadagnava un po' di più anche la cinquecento o la seicento. Nel lavoro bisognava avere una grande predisposizione alla flessibilità per seguire la tecnologia e la moda che il mercato ci imponeva; ad esempio la bicicletta prima era indispensabile, ora chi la usava ancora significava che non aveva i soldi per comprarsi almeno il ciclomotore e veniva considerato povero. Le ragazze nei giorni festivi passeggiavano lungo la strada principale del paese in attesa che arrivasse il loro spasimante con lo scooter o la moto per sedersi sul sellino posteriore con le gambe di traverso perché non usava ancora la moda dei pantaloni. Finalmente i giovani potevano vivere una vita allegra e serena, si aprivano le porte per un futuro migliore. Stavano arrivando nei bar i primi Juke Box, tutti gettonavano la loro canzone preferita, a volte la dedicavano alla ragazza cui facevano la corte. Lungo la vallata in tutti i paesi c'era la pista da ballo all'aperto, si cominciava alle 21 fino all'1-1,30, non come succede ora che aprono quando allora chiudevano. Ricordo l'inverno in cui si facevano i tradizionali veglioni nel cinema Italia di Borgo Tossignano, nella casa del popolo di Fontanelice, a Castel del Rio nel capannone delle corriere dove si ballava fino alle 5 del mattino. Allora l'inverno veniva con delle belle nevicate e qualcuno smaltiva la sbornia accasciandosi su una mucchio di neve. Tornando all'officina di Marchi Carlo quando Berti Novello fu chiamato per il servizio di leva nella Guardia di Finanza, fece domanda per diventare effettivo e vi rimase, il suo posto fu preso da Suzzi Alfiero, poi dopo un anno il 14 gennaio 1957 anch'io dovetti partire per fare servizio di leva nell'Aeronautica Militare facendo l' addestramento a Brescia, poi assegnato al X Deposito AM di Fornovo Taro. Congedato il il 23-06-1958 col grado di I Aviere. Venni riassunto da Marchi Carlo il 1-07-1958, passai ancora alcuni anni come dipendente assieme ad Alfiero, poi Carluccio decise di cessare l'attività artigianale cedendola a noi “Falconi & Suzzi” in società il 31-5-1963. Lui si tenne l'attività commerciale che era di fianco alla nostra. La società con Suzzi Alfiero andò avanti circa un anno e poi si sciolse perché Suzzi riteneva il lavoro poco soddisfacente e troppo impegnativo, gli lasciava poco spazio per il tempo libero; ci accordammo per la liquidazione, poi si iscrisse a un corso per diventare infermiere. Io continuai l'attività sempre in via Mazzini n°4 come impresa individuale cercando sempre di adattarmi ai tempi e mode che cambiavano, aggiungendo anche l'attività di gommista; assunsi poi alcuni dipendenti intercalati nei vari periodi: Bertini Giovanni, Visani Primo, Vendemmia Vittorio, Meluzzi Valerio, tutti ragazzi che avevano predisposizione per l'artigianato. Il 13-09-1977 Marchi Carlo mi cedette anche l'attività commerciale di vendita cicli e moto e tutti i rispettivi accessori in via Mazzini n°8. Dall'anno 1953 fino al 30/06/ 2001, in questo lungo arco di tempo attraverso la mia attività ho riparato o seguito nella normale manutenzione tutti i mezzi a motore su due ruote, da quelli militari fino all'invasione delle moto giapponesi che non osai affrontare perché richiedevano altri aggiornamenti tecnologici. Per raggiunti limiti di età il 30-06-2001 cessai l'attività andando definitivamente in pensione. Dove c'era la mia attività oggi c'è una bellissima FARMACIA. Vorrei paragonare questo periodo percorso a un lungo grafico che mette in evidenza un tracciato con alti e bassi, mai piatto, pieno di emozioni che mi danno tuttora la gioia di vivere da pensionato vicino agli ottant'anni. In appendice aggiungo tutte le marche dei veicoli storici e alcune foto. Ancora oggi, mi appaiono in visione davanti agli occhi coi loro colori sgargianti che invitavano all'acquisto.

Gian Franco Falconi

22/12/2014