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Piano dell'opera:

STORIA D'ITALIA Voi. I 476-1250 STORIA D'ITALIA Voi. II 1250-1600 STORIA D'ITALIA Voi. Ili 1600-1789 STORIA D'ITALIA Voi. IV 1789-1831 STORIA D'ITALIA Voi. V 1831-1861 STORIA D'ITALIA Voi. VI 1861-1919 STORIA D'ITALIA Voi. VII 1919-1936 STORIA D'ITALIA Voi. Vili 1936-1943 STORIA D'ITALIA Voi. IX 1943-1948 STORIA D'ITALIA Voi. X 1948-1965 STORIA D'ITALIA Voi. XI 1965-1993 STORIA D'ITALIA Voi. XII 1993-1997 MONTANELLI GERVASO STORIA D'ITALIA I25011600

INDRO MONTANELLI | L'ITALIA DEI SECOLI D'ORO Il Medio Evo dal uso al 1492

INDRO MONTANELLI | ROBERTO GERVASO L'ITALIA DELLA CONTRORIFORMA Dal 1492 al 1600 STORIA D'ITALIA Voi. II

EDIZIONE PER OGGI pubblicata su licenza di RCS Libri S.p.A., Milano © 2006 RCS Libri S.p.A., Milano

Questo volume è formato da: Indro Montanelli - Roberto Gervaso LItalìa dei secoli d'oro © 1967 Rizzoli Editore, Milano © 1997 RCS Libri S.p.A., Milano

Indro Montanelli - Roberto Gervaso LItalìa della Controriforma © 1968 Rizzoli Editore, Milano © 1997 RCS Libri S.p.A... Milano

Progetto grafico Studio Wise

Coordinamento redazionale: Elvira Modugno Fotocomposizione: Compos 90 S.r.L, Milano

Allegato a OGGI di questa settimana NON VENDIBILE SEPARATAMENTE Dh'ettore responsabile: Pino Belleri RCS Periodici S.p.A. Via Rizzoli 2 - 20132 Milano Registrazione Tribunale di Milano n. 145 del 12/7/1948

Tutti i diritti di copyright sono riservati £~>f e volessimo riassumere brevemente gli anni che vanno dal 1250 al 1600, potremmo definirli "crescila, apogeo e deca- K^J denza dell'Italia". Sebbene divisa in piccoli Stati sovrani e rissosi tra loro, in questo periodo l'Italia raggiunge in campo arti­ stico e letterario uno splendore senza precedenti nella storia. Dopo la solitaria lezione di Dante, Petrarca e Boccaccio dettano i canoni letterari che saranno seguiti dall'Europa per ben tre secoli, i pittori italiani stupiscono per i capolavori con cui adornano le chiese e le corti dei potenti, gli architetti rielaborano la grande lezione greca e romana per giungere a una sua nuova interpretazione. La quasi totalità del commercio del Mediterraneo è in mano ai mercanti ita­ liani e fiumi dì denaro affluiscono nelle mani dei banchieri e dei si­ gnori delle diverse corti della penisola. Ma a questa grandezza arti­ stica e economica si accompagna una debolezza polìtica che verrà a galla dopo la morte, nel 1492, di Lorenzo il Magnifico e nello stes­ so anno la scoperta dell'America avrebbe cambiato per sempre le rotte del grande commercio mondiale. Nel 1494 la calata in Italia di Carlo Vili di Francia avrebbe posto fine all'effimera libertà ita­ liana. In questo periodo, inoltre, si diffondeva in Europa la Rifor­ ma di Lutero, insorto contro la Chiesa di Roma. Un messaggio che non raggiunse l'Italia che abbracciò (o subì) la Controriforma, piombando in un oscurantismo spirituale e culturale che l'avrebbe segnata nei secoli a venire.

INDRO MONTANELLI (Fucecchio 1909 - Milano 2001) è stato il più grande giornalista italiano del Novecento. Laureato in legge e in scienze politiche, inviato speciale del «», fonda- tore del «Giornale nuovo» nel 1974 e della «Voce» nel 1994, è tor­ nato nel 1995 al «Corriere» come editorialista. Ha scritto migliaia di articoli e oltre cinquanta libri. Tra i suoi ultimi successi, tutti pubblicati da Rizzoli, ricordiamo: Le stanze (1998), LItalìa del Nove­ cento (con , 1998), La stecca nel coro (1999), LItalìa del Millennio (con Mario Cervi, 2000), Le nuove stanze (2001).

ROBERTO GERVASO è nato a Roma nel 1937. Ha studiato in Italia e negli Stati Uniti. Collabora a quotidiani e periodici, alla radio e alla televisione, e da decenni si dedica alla divulgazione storica. I suoi libri sono stati tradotti in numerosi Paesi. Tra le sue opere ri­ cordiamo: La bella Rosina (1991), I destri (1999), Appassionate (2001), Amanti (2002). Indro Montanelli - Roberto Gervaso

L'ITALIA DEI SECOLI D'ORO // Medio Evo dal 1250 al 1492 AVVERTENZA

Questa Italia dei secoli d'oro segue a L'Italia dei Comuni, che a sua volta seguiva L'Italia dei secoli bui. Si tratta cioè del­ la terza puntata di una ricostruzione della nostra civiltà che, al­ meno nell'intenzione degli autori, dovrebbe arrivare sino ai giorni nostri. Il periodo che questo volume abbraccia è quello compreso fra la morte di Federico II (1250) e la scoperta dell'America (1492). È un periodo splendido, forse il più splendido del nostro passato, ma che tuttavia prepara la miseria di quelli successivi. Noi abbiamo appunto cercato di chiarire per quali motivi ciò che fece lì per lì la grandezza dell'Italia ne propiziò anche la decadenza. E perciò, in­ vece di correre dietro alle vicende dei singoli staterelli italiani, alla loro complicata diplomazia e alle loro guerricciòle, che mai o quasi mai superarono i limiti della piccola cronaca, e spesso del pettego­ lezzo, abbiamo preferito seguire le grandi linee dello sviluppo civile del nostro popolo, l'evoluzione del suo costume, del suo pensiero, della sua arte: che furono le grandi palestre in cui gl'italiani sfoga­ rono le loro energie, purtroppo dispensate dall'impegno di costruire una Nazione e uno Stato. Non abbiamo avuto dì mira nessuna tesi preconcetta. Abbiamo solo accettato e registrato le lezioni die ì fatti c'impartiscono, cer­ cando di non farci influenzare dai soliti miti e luoghi comuni. Co­ me al solito ci diranno che abbiamo esagerato l'importanza, di certi avvenimenti e personaggi a scapito di altri. E come al solito noi ri­ spondiamo che non c'è libro di Storia che non sì presti a queste criti­ che. Ci diranno anche che il nostro modo dì raccontare non rispetta abbastanza i canoni della storiografia ufficiale e accademica. E noi rispondiamo che non li rispetta affatto perché dì proposito non in-

5 tendiamo rispettarli. Noi ci rivolgiamo a quella grande massa di lettori che solo ora si svegliano alla coscienza della propria Storia appunto perché la storiografia ufficiale e accademica li ha sempre da essa esclusi. E in che misura siamo riusciti a raggiungerli lo di­ mostrano le tirature di questi libri, tutti al di là delle centomila co­ pie e qualcuno (la Storia di Roma, per esempio) delle duecentomi­ la. Il successo, siamo d'accordo, non è l'unico metro su cui si debba misurare il valore di un'opera; ma la sua efficacia, sì. A questo volume seguirà L'Italia della Controriforma, cioè il Cinquecento. Ma non sappiamo se riusciremo ad approntarlo per il Natale dell'anno venturo. La Controriforma è l'avvenimento che decise la nostra sorte di Nazione, cioè che la fece abortire. E grazie alla nuova atmosfera introdotta dal Concilio, crediamo che sia fi­ nalmente suonata l'ora di ricostruire quel grande dramma della co­ scienza cristiana non più in termini di ortodossia ed eresia, ma di Storia, pura e semplice, un'impresa in cui siamo impegnati già da un anno, ma che forse ce ne richiederà altri due per condurla a ter­ mine. Ringraziamo il lettore dì averci accompagnato fin qui. È lui non solo il destinatario, ma anche il vero ispiratore di quest'opera. Se ci avesse abbandonato, noi avremmo già smesso di scriverla.

I.M. R.G.

Ottobre '67 Ad Augusto Guerriero alias Ricciardetto per la sua amicizia per la sua lezione PARTE PRIMA

LA SCENA ITALIANA CAPITOLO PRIMO

RINASCIMENTO E UMANESIMO

Fu il Vasari che nelle sue Vite de'più eccellenti Architetti, Pittori e Scultori italiani diede il nome di Rinascimento al periodo che va dall'inizio del Tre alla fine del Cinquecento. Su queste date fervono ancora le discussioni. C'è chi fa cominciare il Rinascimento un po' dopo, c'è chi lo fa finire un po' prima. Ma a noi tutto questo sembra piuttosto ozio­ so. Un po' meno oziosa ci sembra la polemica sul significato da attribuire alla parola, perché vi sono coinvolti i motivi che provocarono questo straordinario fenomeno e fecero sì che avesse per patria l'Italia. Il Vasari lo chiamò Rinascenza perché ai suoi occhi ap­ parve come la pura e semplice resurrezione della cultura classica dopo mille anni di tenebre medievali. Secondo lui, si trattava dunque di una specie di vendetta che l'elemento latino si prendeva, dopo averle assimilate, sulle orde goti­ che, longobarde e franche, che lo avevano soggiogato e schiavizzato. Questa concezione è solidamente fondata. Non c'è dub­ bio che, fra le province dell'antico Impero romano, l'Italia fu quella che per prima assorbì gl'invasori tedeschi nono­ stante la loro politica di segregazione razziale, e li convertì alle civili strutture che Roma aveva dato alla società. Questo avvenne un po' perché le invasioni furono in Italia meno al­ luvionali che in tutto il resto dell'Occidente; un po' perché il nostro Paese era, per ovvi motivi geografici, il più profon­ damente intriso di civiltà romana, e finalmente perché Ro­ ma, anche se non era più la capitale dell'Impero, ormai tra­ sferitasi a Costantinopoli, era rimasta la capitale della Chie-

11 sa. Via via che i barbari si convertivano al cristianesimo, ne diventavano virtualmente vassalli. Per pregare Dio e parla­ re col Papa, i tedeschi dovevano imparare il latino. E, una volta imparatolo, compresero la superiorità delle leggi e dell'organizzazione romane, e dovettero rivolgersi a legisla­ tori e funzionari latini. Da quel momento essi rimasero pri­ gionieri di una cultura cui non avevano nulla da contrap­ porre se non la primitiva poesia della «Saga» e la rozza leg­ ge della «Faida». Ma credere che il Rinascimento non sia stato che la risco­ perta della civiltà classica sarebbe un diminuirlo. Questa ri­ scoperta non ne rappresenta che un capitolo: quello che si chiama «Umanesimo», e che ebbe in Petrarca il suo maggio­ re protagonista. Umanisti furon detti appunto quei diligen­ ti topi di biblioteca, quegli impavidi sommozzatori di archi­ vi, che si dedicarono alla scoperta dei testi classici scampati alle distruzioni e alle dispersioni del Medio Evo, li dissep­ pellirono dagli scantinati dei conventi dove i monaci, specie i benedettini, li avevano preservati e spesso trascritti. E che ciò avvenisse soprattutto in Italia è logico, perché soprattut­ to in Italia quei testi si trovavano. Questa resurrezione della cultura classica fu uno degli elementi del Rinascimento, forse il primo, certamente uno dei maggiori. Cicerone diede la sintassi ai prosatori italiani di allora, Virgilio la metrica ai poeti, Vitruvio le nozioni agli architetti. Ma questi prosatori, poeti, architetti eccetera non si limitarono alla semplice imitazione dei modelli classici. Fu quello che vi aggiunsero a fare del Rinascimento la più grande esplosione del genio umano che la Storia abbia regi­ strato dopo il secolo d'oro ateniese. E a questo contribuiro­ no anche altri fattori. Anzitutto, l'urbanesimo. I tedeschi, finché rimasero iso­ lati dalle loro discriminazioni razziali, non ebbero vita urba­ na. Vissero in campagna e nei castelli, dove svilupparono quello che oggi si chiama un way of life, un modo di vita, ma non una «civiltà», termine derivato da quello di «città». Ro-

12 ma e Atene erano state civiltà perché erano città. La Mace­ donia era stata solo un esercito perché non era che un con­ tado agricolo e pastorale. Le città italiane furono le prime, in tutto l'Occidente, a ridiventare protagoniste della vita del Paese dopo la lunga parentesi rurale del Medio Evo. L'Italia non fu mai comple­ tamente feudalizzata, cioè ruralizzata. Sebbene decadenti e mezzo disabitate, le città avevano resistito. Una vita urbana quindi non dovette in Italia ricominciare da zero. Ma, a procurare a quelle italiane una posizione di avan­ guardia, ci fu anche un fatto geografico. Il Mediterraneo era a quei tempi la strada maestra di tutti i commerci: e non soltanto di quelli materiali, ma anche di quelli culturali. Era in questo mare che s'incontravano l'Occidente latino-ger­ manico, l'Oriente greco di Bisanzio, e quello dell'Islam. Questi incontri erano talvolta scontri. Ma più spesso erano scambi. L'Oriente, allora, era più avanti dell'Occidente. In tutto: sia nella produzione industriale che in quella intellet­ tuale. Di lì venivano all'Europa le sete, i damaschi, le spezie, i segreti per la lavorazione delle stoffe e le formule chimiche per colorarle. Ma di lì venivano anche la geometria, l'alge­ bra, la logica aristotelica: tutte cose che l'Europa aveva di­ menticate da un pezzo e di cui i porti italiani diventarono i privilegiati e obbligatori punti di raccolta. Tutto ciò significava ricchezza, che della cultura non è una condizione sufficiente; ma necessaria, sì. Durante il Me­ dio Evo l'unica seria industria italiana era stata la Chiesa. In tutto l'Occidente cristiano gli «oboli» dei fedeli prendevano la strada di Roma, e di qui si diffondevano nella Penisola, dove un po' di capitalismo sopravvisse sempre. In Italia la moneta si rarefece, ma non scomparve mai del tutto, com'e­ ra accaduto nei Paesi completamente ruralizzati, dove si era tornati allo scambio in natura. Questi rivoletti o rivoloni d'oro seguitavano ad affluire. Ma ad essi ora si aggiungevano ben altre fonti. Anzitutto, i noli marittimi. Genova e Venezia avevano le più belle flotte

13 del tempo, gli ammiragli più sagaci, i più esperti equipaggi. Essi dovevano sfidare i gravi rischi delle tempeste e dei pi­ rati, ma se li facevano ben ripagare. E le materie prime e i manufatti che viaggiavano sui loro «dromoni» e «galee» fa­ cevano tappa in Italia ad alimentarvi l'industria e il com­ mercio. Il Rinascimento non sarebbe stato concepibile senza questo accùmulo di capitale. Fu il denaro dei tessitori, dei mercanti e dei banchieri fiorentini che permise a Giotto e Arnolfo di fare quel che fecero. Un altro stimolo furono le ambizioni sociali della pluto­ crazia cittadina, cui l'industria, la banca e il commercio ave­ vano dato l'aìre. Il mondo ereditato dal Medio Evo era di caste chiuse a struttura piramidale. Sebbene politicamente ed economicamente decaduta, la nobiltà formava il vertice di questa gerarchia ereditaria. Il nuovo ricco non aveva al­ tro mezzo di scalata sociale che il mecenatismo. Non avendo potuto procurarsi un blasone arruolandosi in una Crociata, si guadagnava un merito finanziando la costruzione o l'ab­ bellimento di una chiesa. Il Rinascimento deve molto allo snobismo dei borghesi. Gli deve oltre tutto la sua secolariz­ zazione. Fino a quel momento l'arte era stata soltanto sacra perché solo la Chiesa era stata in grado di pagare gli artisti. Ora che le «commesse» venivano dalla borghesia, architetti, pittori e scultori potevano perseguire ideali di bellezza non più ispirati solo a motivi sacri e sottoposti alla censura dei preti. Ma a far sì che il Rinascimento assumesse la cittadinanza italiana, ci fu anche un altro e decisivo fatto: la maggiore ra­ pidità di maturazione consentita dai circuiti più ristretti. Nel Duecento, all'avanguardia non era l'Italia, ma la Fran­ cia. Lo era nella sua lingua provenzale, già molto più perfe­ zionata del nostro «volgare». Lo era nella poesia, dove i «Trovatori» dettavano la loro legge e i loro modelli a tutto il mondo. Lo era nell'architettura, che aveva già elaborato col «gotico» i suoi più alti modelli. Lo era nella filosofia, di cui Abelardo aveva spalancato le porte all'averroismo, cioè al

14 razionalismo aristotelico filtrato attraverso la cultura araba di Cordova e di Saragozza. Ma la Francia non potè mantenere questo primato per­ ché le sue energie furono subito assorbite da un altro com­ pito: la fondazione dell'unità nazionale e la creazione di uno Stato. Era un compito immenso, specie per quei tempi, che infatti impegnò le risorse del Paese e le energie dei suoi Re fino a quasi tutto il Cinquecento. In questo periodo la pale­ stra de\V intellighenzia francese furono l'esercito, la burocra­ zia e la diplomazia, non le lettere, le scienze e le arti. L'Italia, soprattutto per via della Chiesa che per meglio dominarla la voleva divisa, non si propose nemmeno questo traguardo dello Stato unitario. Si contentò prima dei Co­ muni e poi dei Principati. E dentro questi ristretti organi­ smi le nostre élites, dispensate da altri compiti, poterono più rapidamente integrarsi e maturare. Firenze, Venezia, Mila­ no fecero come Atene: in due secoli passarono da una con­ dizione semibarbara alla più alta civiltà del mondo perché operarono nel ristretto perimetro delle mura cittadine. Mentre Francia, Spagna, Inghilterra producevano generali, ammiragli e funzionari, noi producevamo artisti e li espor­ tavamo anche nel resto del mondo. Ecco perché questo è un libro più di uomini che di vicen­ de. Quando un popolo non ha una Nazione, non ha nem­ meno una storia. E infatti il nostro Rinascimento non è che una collezione di cronache ma che hanno per protagonisti Dante, Petrarca, Boccaccio. Insomma, dei giganti. E ora riprendiamo il filo del nostro racconto da dove lo avevamo lasciato con «LItalia dei Comuni». CAPITOLO SECONDO

L'EREDITÀ DI FEDERICO

Correva l'anno 1250. Sul suo letto di morte, a Fiorentino, in Puglia, dove la dissenteria lo divorava, Federico il Gran­ de forse ricapitolava mentalmente il suo fallimento. Era na­ to a Iesi presso Ancona cinquantasei anni prima, sotto una tenda militare drizzata sulla piazza del mercato, ma non aveva nulla d'italiano. Nelle sue vene scorrevano congiun­ tamente il sangue degli Hohenstaufen di Svevia e quello dei Normanni di Sicilia. Era cresciuto orfano a Palermo, e non aveva mai potuto disintossicarsi di quell'isola allora all'apice del suo splendore e centro di una civiltà cosmopolita greco- arabo-ebraico-fenicia. Varie volte era andato in Germania. Ma non era mai riuscito a restarci più di qualche mese. La Germania era un caos di reucci, principi, vescovi, con­ ti e vescovi-conti, concordi solo nell'impedire che uno di lo­ ro emergesse sugli altri e che l'Imperatore nominale diven­ tasse effettivo. Federico aveva rinunziato a mettervi ordine non perché l'impresa fosse impossibile, come aveva sempre detto agli altri e a se stesso, ma perché non gli piaceva vive­ re che in Italia. A quei suoi compatrioti rozzi e rissosi, le ra­ re volte che tornava tra loro, chiedeva soltanto tregua, la comprava con l'oro, e ridiscendeva a precipizio le Alpi. L'I­ talia, non vedeva e non palpitava che per l'Italia. Era questo il Paese di cui aveva voluto fare una Nazione, tutta la vita aveva perso dietro a questo sogno. Per realizzarlo, aveva affidato la corona di Germania a suo figlio Corrado, e con gli altri due figli, Enzo e Manfredi, percorreva la penisola battendo un esercito dopo l'altro. Ma era come vuotare il mare. I nemici gli si arrendevano

16 solo per tradirlo alla prima occasione. Il Papa, dopo averlo scomunicato, seguitava a lanciare anatemi contro di lui e subornava i principi tedeschi che montavano una ribellione dopo l'altra. Gli ultimi cinque anni erano stati di guerra sen­ za quartiere. Chiunque fosse amico dell'Imperatore veniva scomunicato dal Papa e destinato d'ufficio all'inferno. Ma chiunque fosse amico del Papa veniva torturato, accecato e mutilato dall'Imperatore. E ora era finita. Enzo, caduto prigioniero, languiva in una torre di Bologna, da cui non sarebbe uscito mai più. Manfredi, alla testa di un manipolo di veterani per lo più saraceni, seguitava a vincere battaglie. Ma era costretto ad accamparsi fuori dalle mura delle città che, sebbene sconfìt­ te, non gli aprivano le porte. Il morente doveva chiedersi in cosa aveva sbagliato. Era l'unico Signore che del suo Regno italiano (un Regno che si chiamava di Sicilia, ma che comprendeva tutto il Sud-Italia, Napoli inclusa) aveva fatto uno Stato con le sue leggi, coi suoi tribunali laici, con la sua ordinata amministrazione, con la sua moneta, con le sue strade, con una polizia efficiente, con un solido esercito. Alla sua corte era nata la lingua ita­ liana. Era stato un gran diplomatico e un gran generale. Aveva vinto tutte le battaglie. Eppure aveva perso la guerra. Chissà se in quegli ultimi momenti Federico ne compre­ se il perché, che pure era abbastanza semplice. Aveva perso la guerra perché aveva scelto male il Paese in cui combatter­ la. L'amore dell'Italia lo aveva tradito. Essa non poteva di­ ventare una Nazione perché aveva in corpo il Papa. La Chiesa non poteva dividere Roma con nessun potere laico. E per tenerli tutti lontani, li aveva regolarmente giuocati l'uno contro l'altro, appoggiando i bizantini contro i goti, i longobardi contro i bizantini, i franchi contro i longobardi, e negli ultimi tre secoli i liberi Comuni indigeni contro l'Im­ pero. Quando Federico aveva cinto la corona, era ormai tar­ di per avviare quel processo di unificazione che avrebbe fat­ to di Francia, Spagna e Inghilterra delle nazioni moderne e

17 le future protagoniste della storia europea. I Comuni erano troppo forti. Alcuni di essi, come Venezia, Genova, Milano e Firenze, erano addirittura delle potenze mondiali. Si era sviluppato uno spirito municipale troppo vivo, si erano co­ stituiti troppi e troppo solidi interessi particolari perché ac­ cettassero di dissolversi in un organismo nazionale. Anche se non li formulò chiaramente, Federico dovett'es- sere sfiorato da questi pensieri, perché già prima di amma­ larsi aveva rinunziato alla lotta. In quel momento, essa sem­ brava volgere a suo favore. Suo figlio Manfredi e suo gene­ ro Ezzelino stavano riportando notevoli successi in Emilia e Lombardia, e il Re di Francia Luigi IX, caduto prigioniero dei mussulmani in una ennesima Crociata, aveva supplicato papa Innocenzo IV di riconciliarsi con l'Imperatore in mo­ do che costui potesse venire in suo soccorso. Ma Federico, invece di convocare ambasciatori e generali, convocò il con­ fessore e gli chiese l'assoluzione dai suoi peccati. Fu il penti­ mento o la ragion di Stato a ispirargli quel gesto? Non si sa. Comunque, fu quello di un guerriero vinto che in punto di morte affidava l'anima al suo vincitore. Tuttavia si lasciava dietro un'eredità importante: un si­ stema di governo, destinato a estendersi in tutta Italia. Per affermare il potere centrale, nel suo Regno, egli aveva di­ strutto i privilegi dei signori feudali e le autonomie dei Co­ muni. Tutto era stato livellato da uno Stato che s'incarnava nella sua persona. Sindaci, funzionari e magistrati erano no­ minati da lui e solo a lui rispondevano senza intermediazio­ ne di altri poteri. Aveva inventato il catasto con cui control­ lava le proprietà e i redditi, e li tassava. Aveva «pianificato» l'economia regolando d'autorità prodotti, consumi e prezzi. Aveva creato una nuova aristocrazia di burocrati, seleziona­ ti in base alle loro qualità individuali, e non più al titolo ere­ ditario. La sua Corte, formata solo da uomini di legge, di scienza, di cultura, fu di esempio a quelle dei Signori del Ri­ nascimento. Essi copiarono tutto da lui. Purtroppo, copia­ rono anche la sua crudeltà, il suo dispotismo e l'abitudine di

18 servirsi di mercenari stranieri. Federico era ricorso ai Sara­ ceni. In Sicilia ce n'erano rimasti molti. Egli ne aveva istalla­ to una forte colonia a Lucerà, e da questo vivaio aveva trat­ to il nucleo del suo esercito. L'esempio era destinato a fare scuola tra i Signori italiani del Trecento. Essi chiamarono tedeschi, inglesi, svizzeri, ungheresi, e diedero loro in ap­ palto la difesa dei propri Stati. Così cominciò, o per meglio dire si accentuò, la decadenza militare del nostro Paese, i cui effetti durano ancora. Gl'Italiani si disabituarono sem­ pre più alle armi, diventarono imbelli e sempre disposti a patteggiare con gli avventurieri che, alla testa delle loro bande, mettevano a sacco il Paese, talvolta al servizio di un Signore, talaltra tradendolo e ogni tanto uccidendolo e prendendone il posto. L'ultima incarnazione dell'Impero, residuo dei bui tempi medievali, aveva anticipato la storia d'Italia e dettato, nel bene e nel male, un modello ai propri successori.

L'avventura degli Hohenstaufen non finì tuttavia con la morte di Federico. Papa Innocenzo IV, ch'era scappato in Francia, creden­ do di aver ormai partita vinta, tornò in Italia, s'istallò a Na­ poli, procedette all'annessione del Regno agli Stati Pontifici, e intrigò con la sua diplomazia per indurre anche i Comuni del Nord a riconoscere la sua sovranità. Ma questi Comuni, pur battendosi contro Manfredi e Ezzelino in nome della Chiesa, alla Chiesa non intendevano affatto sacrificare le lo­ ro autonomie. Era sempre la vecchia storia che durava dai tempi di Carlomagno. Il Papa poteva contare sulle città ita­ liane finché si trattava di aiutarle a resistere al potere cen­ tralizzatore di un Imperatore o di un Re. Ma se tentava di sottometterle al suo, se le trovava nemiche. Il figlio di Federico, asceso al trono in Germania col no­ me di Corrado IV, valicò le Alpi con nuove forze, riconqui­ stò il Regno senza colpo ferire, e s'istallò nella reggia di suo padre, ma solo per esservi ucciso dalla malaria. Manfredi

19 assunse il comando del suo esercito e annientò le disordina­ te bande papaline. Innocenzo ne morì di crepacuore. Il suo successore, Alessandro IV, bandì addirittura una crociata contro gl'imperiali. A fame le spese fu Ezzelino che, rimasto isolato nel Nord, fu alla fine soverchiato. Questo piccolo nobile di Verona, dal volto pallido e dal corpo meschinello, che aveva sposato una bastarda di Fede­ rico, era un asceta del terrore. Vestiva come un frate, man­ giava da vegetariano, dormiva su una branda, e non aveva altre passioni che quella della lotta e del potere. L'unica ar­ chitettura che gli piaceva era quella delle fortezze e delle prigioni. Ne aveva costruite dovunque a Vicenza, a Padova, a Feltre, a Belluno. Boia e aguzzini erano i suoi sudditi pre­ feriti. Assisteva alle torture senza batter ciglio. E nell'escogi- tarne di nuove e sempre più raffinate, la sua fantasia dava il meglio di sé. Il sangue lo riempiva di una gelida esaltazio­ ne, che non gli venne meno neppure quando si trattò del sangue suo. Crivellato di colpi e caduto prigioniero, rifiutò dottore, confessore e cibo, si strappò con le proprie mani le bende dalle ferite, e si lasciò morire lentamente, come aveva imposto alle sue vittime, di dissanguamento e di fame. Suo fratello Alberico, che ne aveva con zelo secondato le crudel­ tà, assistè impassibile al suo supplizio e a quello di tutta la famiglia, prima di essere a sua volta torturato con le pinze e strascicato per terra da un cavallo fino alla morte. Restava Manfredi alla testa del suo esercito di tedeschi e saraceni. Tutte le forze ghibelline si coalizzarono intorno a lui, e a coagularle furono le città toscane in rivolta contro la supremazia di Firenze, che capeggiava invece le forze guel­ fe. Lo scontro avvenne a Montaperti nel 1260. I fiorentini, tratti in inganno - pare - dai senesi che avevano finto di es­ sersi lasciati comprare, e traditi da uno dei loro capitani, Bocca degli Abati, subirono un rovescio che assicurò a Man­ fredi sei anni di assoluta signoria sul vecchio Regno. Papa Urbano IV si rese conto che l'Italia, divisa com'era, non sarebbe mai venuta a capo degli Hohenstaufen. E, ri-

20 prendendo la vecchia politica della Chiesa di opporre stra­ niero a straniero, si rivolse al Re di Francia, Luigi IX, of­ frendogli la corona delle Due Sicilie. Luigi, troppo impe­ gnato nel suo Paese, la rifiutò; ma, essendo molto devoto e non volendo dispiacere al Papa, la diede al proprio fratello, Carlo di Angiò. Questi scese in Italia con 30.000 uomini. Manfredi non ne aveva nemmeno la metà. Ma accettò ugualmente la battaglia che si svolse in campo aperto a Be­ nevento nel 1266. Quando vide la partita persa, si gettò nel folto della mischia e vi morì con l'arma in pugno: fine del tutto in carattere con la sua natura di prode e romantico guerriero, ultima incarnazione della Cavalleria medievale. Due anni dopo, il figlio di Corrado, Corradino, scese dal­ le Alpi per ritentare l'avventura del padre e riconquistare il Regno del nonno Federico. Aveva appena quindici anni, e i nobili tedeschi non gli avevano dato che poche migliaia di uomini. Carlo d'Angiò, ormai Re delle Due Sicilie e ben de­ ciso a restarlo, lo attese a Tagliacozzo, e facilmente lo scon­ fisse. «Padre - scrisse a papa Clemente IV -, vi prego: alza­ tevi e cibatevi della cacciagione del figliuol vostro: uccidem­ mo tale moltitudine di nemici...» Corradino era caduto pri­ gioniero. Condotto a Napoli in catene, fu decapitato sulla piazza del mercato. Con questo infanticidio, debuttò il Regno angioino. L'Italia verso il 1300 CAPITOLO TERZO

I VESPRI SICILIANI

Seguiamolo ancora, questo Regno angioino, nei suoi primi passi. A Carlo si presentava la grande occasione di fare ciò che non era riuscito a Federico e ai suoi successori. Quello di Si­ cilia era l'unico Reame italiano che aveva già una tradizione unitaria, un governo centralizzato, un'ossatura amministra­ tiva e militare. Palermo era la più rigogliosa e popolosa città italiana. Carlo non aveva da sprecare energie per conquista­ re o difendere una corona imperiale, né per tenere a bada una patria inquieta: suo fratello Luigi, saldamente sul tro­ no, gli proteggeva le spalle e all'occorrenza, anzi, avrebbe potuto aiutarlo. A Roma la Corte pontificia era dominata dai Cardinali francesi, che infatti si davano quasi ininterrot­ tamente il cambio sul Soglio. Carlo era il loro uomo, né vi era in tutta Europa un altro Principe, cui la Chiesa potesse come al solito rivolgersi per fargli da contrappeso. La Ger­ mania era più di sempre in preda alle convulsioni. Le città italiane del Nord, che avevano tenuto viva la resistenza agli Hohenstaufen, consideravano Carlo un amico naturale. Mi­ lano lo aveva proclamato suo signore e gli aveva chiesto di mandarle un Vicario che la governasse in suo nome. Tori­ no, Brescia e Piacenza ne avevano seguito l'esempio. Firen­ ze lo aveva acclamato podestà. La Lega Guelfa toscana si era ribattezzata «guelfo-angioina». Roma lo aveva nominato se­ natore. Ma Carlo non era che un soldataccio, coraggioso, ma grossolano e ottuso. Invece di concentrarsi su una realistica politica italiana, mirò a estendere i suoi domini in Grecia e

23 in Tunisia, amministrò malissimo il suo Reame suscitandovi grave malcontento, e coi suoi soprusi fece perdere alla di­ plomazia francese la sua carta migliore: il Papato. Alla morte di Clemente IV, francese come Urbano, fu in­ detto a Viterbo un Conclave, che durò tre anni fra tresche, imbrogli e intimidazioni. Tanto che alla fine i viterbesi per­ sero la pazienza, scoperchiarono il tetto del palazzo, e mi­ nacciarono i Cardinali di lapidazione se non la facevano fi­ nita. Ma la lotta fra i candidati delle varie potenze europee era talmente a coltello che il vicario angioino per la Tosca­ na, Guy de Montfort, lo usò addirittura contro Enrico d'In­ ghilterra, pugnalandolo in piena chiesa durante la messa e trascinandone per i capelli il cadavere in piazza. Era veramente troppo. I Cardinali italiani riuscirono fi­ nalmente a giungere a un accordo ed elessero Tebaldo Vi­ sconti di Piacenza che si trovava allora in Terrasanta. Rien­ trato di lì a poco, prese il nome di Gregorio X e si rese con­ to che, se non si sottraeva alle prepotenze dei francesi - quelli di Parigi e quelli di Napoli -, rischiava di diventare il loro cappellano. Ma non aveva che un modo per farlo: ri­ chiamare nel giuoco politico i vecchi alleati degl'imperatori di Germania, che per essi si erano battuti contro la Chiesa ed erano stati sconfitti: i ghibellini. Era la solita diplomazia del Papato, pronto ad allearsi col nemico vinto, quando l'a­ mico vinceva troppo e minacciava di diventare padrone as­ soluto nella Penisola. I signori di Saluzzo e del Monferrato furono indotti a ripudiare l'alleanza con gli Angiò. Il ghibel­ lino Ottone Visconti fu nominato arcivescovo di Milano. Fi­ renze fu invitata a riportar la pace fra le due fazioni in mo­ do che i guelfi non prendessero un decisivo sopravvento sui ghibellini. E la corona d'Imperatore, rimasta senza titolare dopo la morte di Corradino, e che i francesi cercavano di far assegnare a uno dei loro Principi, venne data con una manovra sotto banco a Rodolfo d'Asburgo, ch'era stato al­ leato degli Hohenstaufen. Ma questo intermezzo di Papato italiano durò poco. Nel

24 1276 Gregorio morì. I suoi quattro successori scomparvero uno dopo l'altro nello spazio di quattro anni. E nel Conclave del 1280 i Cardinali francesi, sostenuti dalle soldataglie di Carlo, riebbero il sopravvento e imposero l'elezione di uno dei loro: Simone de Brie, che prese il nome di Martino IV. Di nuovo si presentava agli Angiò la grande occasione di ridurre la penisola in loro potere. Ma il Regno non era più quale lo aveva lasciato il grande Federico. Le finanze erano dissestate, l'amministrazione in disordine, le strade in rovi­ na, il contado impoverito. Il malcontento era grande spe­ cialmente a Palermo. Carlo aveva istallato la sua capitale a Napoli, e la vecchia metropoli siciliana era decaduta a pro­ vincia. Per prevenirvi qualche insurrezione, la polizia an­ gioina la teneva in una specie di perpetuo stato d'assedio, con coprifuoco, divieto di assembramento e perquisizione dei passanti. Il 31 marzo del 1282, settimana di Pasqua, molta folla gremiva le piazze e le chiese della città. Un sergente france­ se, certo Douet, non si sa se per malizia o per zelo, estese le misure precauzionali anche alle donne e mise le mani ad­ dosso a una che transitava a braccio del marito. Questi, feri­ to nel suo orgoglio di maschio siciliano, gli strappò la spada dal fodero e lo stese morto. La folla fu subito per l'uccisore e si scatenò contro gli angioini al grido di «Mora, mora!» Per tutta la notte fu la caccia all'uomo, la sollevazione si propa­ gò a tutta l'isola, e i pochi francesi che riuscirono a salvarsi dal massacro dovettero cercare scampo sulle navi. Questi furono i famosi Vespri siciliani, che poi passarono alla Storia come la seconda manifestazione, dopo il «Carroc­ cio», di patriottismo italiano. Essi furono una bella impresa, pienamente giustificata dai soprusi angioini. Ma il patriotti­ smo non ci aveva nulla a che fare. Gl'insorti si appellarono al Papa perché assumesse l'alto patronato dell'indipendenza isolana. Ma Martino non pote­ va o non voleva mettersi contro i suoi compatrioti francesi, cui doveva la sua elezione, e diede a Carlo mano libera per

25 domare la ribellione. Carlo spedì una flotta con un esercito che un cronista siciliano valutò di novantamila fanti e venti­ quattromila cavalieri. L'assurdità è evidente: con un esercito di tal forza, a quei tempi, si conquistava l'Europa. La cifra vera è quella che dà Villani: cinquemila uomini in tutto, fra cui cinquecento fiorentini. Ma era già rispettabile, per le mi­ sure di allora. Messina, dove lo sbarco doveva avvenire, re­ sistette bravamente sotto il comando di Ruggero di Lauria. E intanto i capi della rivolta, vistisi abbandonati dal Papa, avevano sollecitato l'aiuto di Pietro il Grande d'Aragona, of­ frendogli la corona dell'isola. Quello di Aragona era un Reame che si stava vigorosa­ mente affermando in Spagna e mirava a estendere la sua in­ fluenza sul Mediterraneo per bilanciarvi quella francese. Proprio allora Pietro aveva deciso di tentare una spedizione contro quella che allora si chiamava la Barberia e che corri­ sponde all'Algeria attuale. Dirottò le navi su Trapani. Vi sbarcò l'esercito. Fece proseguire per Messina la flotta che vi sorprese e distrusse quella angioina. E si coronò Re di Sicilia. Qui s'inserisce un curioso episodio che, per quanto di scarsi risultati pratici, illumina la crisi di un'epoca e di un costume. Carlo chiese al Papa di scomunicare Pietro e i suoi suddi­ ti isolani, e il Papa, succubo dei francesi, lo fece. Ma la misu­ ra non sortì nessun effetto. E allora Carlo, sebbene fosse or­ mai sulla settantina, sfidò a duello Pietro per decidere la controversia secondo il vecchio codice della cavalleria feu­ dale. Perché secondo lui si trattava di un affare personale e privato fra due gentiluomini, di cui la Sicilia e il suo popolo rappresentavano soltanto l'oggetto. Lo scontro doveva av­ venire a Bordeaux, città neutra perché tuttora sotto la so­ vranità della corona d'Inghilterra. E i contendenti doveva­ no presentarvisi il 12 giugno (1283), ciascuno con un segui­ to di novantanove cavalieri. Doveva essere una bella festa, cui erano invitate anche le signore dell'alta aristocrazia eu­ ropea.

26 Carlo fu puntuale. Ma Pietro, sebbene si fosse impegnato con giuramento, non si mostrò. Dichiarato codardo e squa­ lificato dal codice cavalleresco, rispose per lettera che a Bor­ deaux egli era andato fin dal 31 maggio, ma travestito e in incognito; e che ci aveva contato oltre tremila bravacci di Carlo, intenti a preparargli un'imboscata. Carlo replicò che non era vero nulla, la polemica fece molto chiasso, e la pub­ blica opinione si divise: il Papa fu per l'Angiò, Dante per l'A­ ragona. Se ne parlò per anni. Ma l'episodio comunque di­ mostrò che le regole cavalleresche ormai erano in liquida­ zione. Avevano fatto legge per tutto il Medio Evo, e nessuno avrebbe osato contravvenirvi perché erano una delle archi­ travi su cui si reggeva tutta l'impalcatura feudale. Ora an­ che i Signori cominciavano a infischiarsene. I rapporti tra loro non obbedivano più alla regola dell'onore, ma a quella, più prosaica e utilitaria, della «ragion di Stato». La diatriba sboccò in una guerra bell'e buona. L'anno do­ po la squadra aragonese sorprese e batté nella baia di Na­ poli quella angioina, comandata dal principe ereditario. Su­ bito dopo scomparvero ambedue i protagonisti di quella lot­ ta: Carlo e Pietro. Al posto del primo, salì sul trono di Na­ poli Carlo II lo zoppo o «il ciotto», come lo chiamavano, che aveva già dato la misura delle sue capacità come ammira­ glio, lasciandosi sconfìggere nella propria base. A Pietro succedettero due figli: il primogenito, Alfonso, si tenne il Reame d'Aragona; il secondo, Giacomo, s'incoronò Re di Sicilia. Ma Alfonso per motivi suoi trovò più conveniente mettersi d'accordo con la Francia promettendo la restituzio­ ne della Sicilia agli Angiò alle spalle del fratello. Costui si preparava a resistere, quando Alfonso morì, lasciando va­ cante il trono di Aragona, che per legge ereditaria toccava a Giacomo. Il quale, appena istallatovisi, riconobbe validi i motivi che avevano suggerito ad Alfonso di restituire la Sici­ lia agli angioini, ratificò l'accordo, e anzi sposò la figlia di Carlo. Ma a ribellarsi furono i siciliani. Essi diedero la corona al

27 terzogenito aragonese, Federico, e il comando delle forze armate a Ruggero di Lauria, l'intrepido capitano che aveva difeso Messina. Seguì un guazzabuglio in cui temiamo che anche il lettore perda la testa. Federico sollecitò una flotta dal fratello Giacomo, e si preparava a festeggiarne l'attracco a Palermo, quando la vide sfilare verso Napoli per mettersi al servizio di Carlo. In uno scontro navale presso le coste ca­ labresi, il prode Ruggero di Lauria saltò dalla propria nave ammiraglia su quella degli angioini per guidarli contro i suoi e sconfiggerli a Capo d'Orlando, dove seimila siciliani morirono senza più capire chi fosse il loro comandante e chi il loro nemico. Per terra invece Federico batté ancora una volta Carlo, le cui truppe ora erano comandate da suo cugi­ no, il Principe di Valois. Solo nel 1302 fu stipulata finalmen­ te la pace di Caltabellotta. Federico fu riconosciuto Re di Si­ cilia con l'intesa che alla sua morte l'isola sarebbe tornata sotto la corona angioina. Ma poi i fatti e la tenacia dei siciliani decisero altrimenti. CAPITOLO QUARTO

LA SCENA ITALIANA

Per seguire gli avvenimenti di Napoli e Sicilia, abbiamo fat­ to un salto di mezzo secolo: quello che va dalla morte del grande Federico e dalla liquidazione dei suoi successori alla rottura del suo vecchio Regno fra Angioini a Napoli e Ara­ gonesi in Sicilia. L'episodio era decisivo, per la storia d'Ita­ lia. Segnava l'ultimo tentativo di istaurarvi o restaurarvi un potere imperiale. D'Imperatori ne vedremo ancora scende­ re nel nostro Paese. Ma saranno tutte figure fatiscenti: i loro conati di restaurazione rimarranno sempre velleitari ed ef­ fimeri. E con l'Impero, di cui non rimane che il titolo, è fini­ ta la supremazia tedesca in Italia, per cedere momentanea­ mente il posto a quella francese. Ecco cos'è avvenuto nel mezzo secolo che segue la morte di Federico. E ora vediamone i riflessi sul resto della peni­ sola.

Sulla fine del Duecento, l'Italia è irreparabilmente rotta e divisa. Ma nel pulviscolo dei suoi piccoli potentati, alcuni prendono slancio e cominciano a esercitare una certa forza di attrazione sul vicinato. Nel Piemonte ce ne sono tre che si contendono la supre­ mazia: quello dei Savoia, quello dei Monferrato, e quello dei Saluzzo. Ma la storia delle loro lotte non ha per il momento nessun riflesso su quella nazionale: non tanto per ragioni geografiche, quanto perché si svolge, per così dire, su un al­ tro piano. Questa provincia ha conservato un'impalcatura feudale, che non dice nulla al resto d'Italia, dove essa ha po­ co attecchito, e quel poco è morto da un pezzo. I Comuni in

29 Piemonte hanno avuto scarsa fioritura, le città sono rimaste rachitiche, e Torino non è che un borgo di montanari. A do­ minare non sono le borghesie urbane coi loro municipi e magistrature democratiche, ma i signorotti franchi dai loro castelli in cui si respira ancora un profumo di cavalleria. Conti e Marchesi si alleano tra loro, si uniscono in matrimo­ nio, si tradiscono e si combattono per aggiungere una pro­ vincia o una fortezza ai loro possessi. Ma tutto ciò resta in un «giro» regionale, perché oltre il Ticino comincia un altro mondo: quello dei liberi Comuni che già da un pezzo han­ no sconfitto il castello e sovrapposto una società cittadina e mercantile a quella agraria e militare del Medio Evo. Al centro della ricca piana lombarda, Milano aveva già conquistato una posizione di preminenza con le sue indu­ strie, quando Papa Gregorio X, per sottrarla all'influenza angioina, vi nominò Arcivescovo il ghibellino Ottone Vi­ sconti. I Visconti erano già una famiglia potentissima, la più potente di Milano insieme con i Della Torre. Quella nomina decise la sorte della rivalità che divideva le due casate, e die­ de l'avvio a una straordinaria avventura politica e dinastica. Ottone era un grande personaggio cui non resistettero né i Della Torre, ch'egli disinvoltamente imprigionò in gabbie di acciaio, né le istituzioni democratiche, cui i milanesi erano meno affezionati dei fiorentini. Essi accettarono il nipote del Cardinale, Matteo, insieme come Vicario dell'imperatore Rodolfo d'Asburgo e delegato del popolo al governo: cioè in parole povere gli conferirono i pieni poteri, avallati dallo zio Ottone, l'Arcivescovo, in nome del Padreterno. Matteo li usò spregiudicatamente non solo per rafforzare il proprio potere su Milano, ma anche quello di Milano sulla Lombar­ dia. Tra la fine del Due e il principio del Trecento si era ap­ pena all'inizio di questa impresa espansionistica. Ma essa già si profilava e faceva di Milano una delle capitali d'Italia. Un'altra era Genova. Lo era diventata alla chetichella, come notava un po' offeso e scandalizzato un suo cronista, Jacopo da Varazze: «Siamo stupiti che mentre vi sono molte

30 città in Italia, delle quali gli antichi storici parlano spesso, di Genova, tanto ìnclita, potente e nobile, poco o quasi nulla si legga». E vero. Ma la colpa è dei genovesi che delle loro vi­ cende non hanno lasciato traccia nemmeno nei documenti. Di Genova si sa soltanto che all'origine della sua storia ci fu una famiglia nobile, gli Obertenghi, che poi si divise nei ra­ mi degli Spinola, degli Embriaci, dei Castello e dei Vento. Incarnavano gli interessi terrieri del contado, mentre il Ve­ scovo rappresentava quelli cittadini dei marinai, pescatori, artigiani e mercanti. Ma il dialogo fra loro non diventò mai o quasi mai lotta di fazione, com'era capitato a Firenze. An­ zi, i due elementi si fusero in una campagna, cioè in una «compagnia» che fu il fondamento del Comune, eppoi ad­ dirittura lo assorbì come le arti avevano assorbito quello fio­ rentino. Ecco perché quella genovese è sempre stata un'ari­ stocrazia mercantile e imprenditoriale: perché fin d'allora assunse i suoi posti di comando in una società di tipo bor­ ghese, dove il metro di misura non era il blasone, ma l'effi­ cienza. La grande fortuna di Genova fu la geografia: e non solo per lo stupendo golfo che le metteva a disposizione, ma an­ che perché con la sua cerchia di montagne la teneva al di fuori e al riparo dalle lotte fra Imperatori, Papi e Comuni. E infatti il nome di Genova non compare mai o quasi mai nelle «Leghe» che si formarono via via per combattere gli uni o gli altri. Rincantucciata in quel suo angolo eccentrico fra le Alpi e il mare e non potendo cercare avventure in un entroterra così imperviamente sbarrato, Genova poteva de­ dicarsi soltanto alla costruzione di un impero marittimo. E fu ciò che fece. L'unica rivale che le faceva concorrenza in quel momen­ to era Pisa, il grande porto toscano del Medio Evo (Livorno non era ancora nata). Era una vecchia città ghibellina, in cui l'Imperatore si faceva rappresentare da un Visconte. Ma an­ che qui era nata come a Genova una Compagnia in cui, uni­ ti dai comuni interessi marittimi, si erano fusi nobili, arma-

31 tori e mercanti, e che praticamente governava lo Stato. L'im­ peratore Enrico IV per garantirsi la fedeltà di Pisa, che gli faceva comodo nella sua lotta contro la Chiesa come con­ trappeso alla papalina Firenze, le aveva a sua volta garanti­ to l'autonomia. Insieme a quelle di Genova e di Amalfi, la flotta pisana aveva impedito lo sbarco degli arabi siciliani nell'Italia con­ tinentale, e per un buon secolo era rimasta padrona quasi incontrastata del Tirreno: Corsica e Sardegna furono prati­ camente colonie di Pisa che vi teneva i suoi Consoli. Ma a differenza di Genova, Pisa aveva da badare anche a un en­ troterra, che una meno benevola geografia offriva all'ingor­ digia delle città rivali, Lucca e Firenze, ansiose di uno sboc­ co al mare. Fu questo che fece la debolezza di Pisa. Essa non seppe decidersi a una politica soltanto marittima perché do­ veva guardarsi le spalle. E così la rovina le venne contempo­ raneamente da una parte e dall'altra. Nel 1283 Genova mosse guerra a Pisa, o per meglio dire trasformò in «calda» la guerra fredda che da decenni im­ perversava fra le due flotte. La posta erano la Corsica e la Sardegna, dalle quali Genova si sentiva imbottigliata. Pisa allestì settantadue navi, ne diede il comando all'ammiraglio veneziano Morosini e le mandò a saccheggiare Rapallo e Portofino approfittando dell'assenza della squadra genove­ se guidata da Oberto Doria. Questa fu richiamata in gran fretta e andò ad appostarsi alla Meloria, poche miglia al lar­ go di Pisa. Morosini, che rientrava alla base, fu ingannato dalla scarsa consistenza dell'avversario che aveva nascosto metà delle sue navi dietro gli scogli dell'arcipelago. Attaccò sconsideratamente e ci rimise ventitré galee e alcune mi­ gliaia di uomini. Per quanto grave, la sconfitta non era irreparabile. Ma proprio in quel momento su Pisa si avventavano Lucca e Fi­ renze. La scusa era ideologica: i guelfi fiorentini e lucchesi dicevano di voler abbattere il governo ghibellino di Pisa. Per disarmarli, Pisa mutò regime affidandosi al Conte guelfo

32 Ugolino della Gherardesca. Questi riuscì a parare la minac­ cia. Ma come tutto ringraziamento, nel 1288, quando Carlo d'Angiò morì e il guelfismo sembrava in ribasso, il ghibelli­ no Arcivescovo Ruggero degli Ubaldini fece rinchiudere nella torre Ugolino a morire di fame insieme a due figli e tre nipoti. Erano a quei tempi - intendiamoci - fatti di ordi­ naria amministrazione. Noi li conosciamo e ne inorridiamo solo perché Dante ce li ha raccontati con tutta la veemenza della sua indignazione. La guerra con Firenze e Lucca riprese, e si concluse nel '93 con una pace che lasciava le cose com'erano. Ma la gran­ de Repubblica marinara, che aveva battuto la flotta nemica degli arabi e poi distrutto quella alleata di Amalfi, era finita. Qualcuno dice che Pisa fu tradita dal mare che, come a Ra­ venna, si ritirava di continuo lasciandosi dietro uno strasci­ co di sabbie. Ma non è così. Per le navi di quei tempi, l'Arno bastava e i porti tanto più erano favoriti, quanto più erano internati. In realtà fu Pisa che, risucchiata dall'entroterra e dai suoi problemi, tradì il mare. Si chiuse in sé e diventò una città di arte e di studio. La sua gloria non fu più la flot­ ta, ma l'Università. Alla fine del Duecento le grandi potenze marittime italia­ ne sono dunque due: Genova e Venezia, che anticipano di un paio di secoli le grandi fortune imperiali di Spagna, In­ ghilterra, Portogallo e Olanda. Se, invece di combattersi fra loro, avessero agito di comune accordo, avrebbero assicura­ to all'Italia un impero mondiale. Ma ciò presupponeva l'I­ talia, cioè un sentimento di solidarietà nazionale che allora non c'era. Anche Venezia doveva in parte la sua fortuna al fatto di trovarsi estromessa per ragioni geografiche dalla zona di un conflitto squisitamente terrestre e continentale com'era quello fra Papato e Impero. Se Genova aveva, a difesa del suo isolamento, il bastione delle montagne, Venezia aveva quello delle lagune. Sicure dentro quell'intrico di sabbie di cui solo i suoi ammiragli conoscevano i fondali, le flotte ve-

33 neziane si erano impossessate di tutte le coste dàlmate, Pa- renzo, Umago, Capodistria, e giù giù fino all'Albania e alla Grecia. Era da qui in poi ch'esse entravano in conflitto con quel­ le genovesi, lanciate anch'esse alla conquista dei mercati orientali. Venezia se ne era impadronita con le Crociate, in cui non aveva versato una goccia del suo sangue. Dopo es­ sersi arricchita coi noli per il trasporto delle truppe ed es­ sersi assicurata il più grosso «dividendo» nei saccheggi delle varie città, aveva badato soltanto a impiantare case commer­ ciali, fóndachi e banchi. La sua forza erano una moneta sta­ bile, solidamente ancorata all'oro, il «ducato», in concorren­ za di pregiatezza col «fiorino» di Firenze, e il più moderno sistema bancario di quei tempi. E così, mentre la banca fio­ rentina conquistava l'Europa continentale, quella veneziana si annetteva l'Oriente in compartecipazione con quella ge­ novese. Le due città sono praticamente padrone di tutto, dall'A­ driatico e dal Tirreno al Mar Nero. Galata sul Corno d'Oro e Caffa in Crimea hanno un Podestà e un Abate del Popolo genovesi che regolano i rapporti e gli scambi coi Tartari, i Russi e i Persiani. Veneziane sono gran parte delle isole gre­ che e interi quartieri di Costantinopoli. «Sono - dice di loro il francese Vitry - uomini potenti, ricchi, bene armati, co­ raggiosi, con splendide navi che sanno benissimo guidare in tutti i tempi.» Nel 1261 partono da Venezia Niccolò e Mat­ teo Polo. Dopo poco li segue Marco che da solo, a piedi, rag­ giunge il Giappone, compiendo un'impresa non meno grandiosa di quella di Cristoforo Colombo. La lotta fra queste due grandi Repubbliche rimane un pezzo nella fase della concorrenza ma condita di episodi da guerra «di corsa». Ogni flottiglia veneta che incontrava un cargo genovese lo catturava, e viceversa. C'erano stati anche degli scontri fra squadre minori a Laiazzo e in Mar Nero. Ma proprio sul finire del secolo, nel 1298, ci fu la prima ve­ ra grande battaglia. Settantotto galee genovesi al comando

34 di Lamba Doria, penetrate arditamente in Adriatico, ne af­ frontarono cento veneziane comandate da Andrea Dandolo presso l'isola di Curzola, ne affondarono sessantacinque e lasciarono quindicimila cadaveri a galleggiare sulle acque. Fra di essi c'era anche quello del Dandolo che, preso prigio­ niero, si avventò a testa bassa contro l'albero maestro e vi si sfracellò. Ma Venezia non era Pisa: invece di abbandonare la lotta, si preparò a restituire la partita. La storia delle due città seguitò tuttavia a svolgersi fuor della penisola, che fu ben poco influenzata dalle loro vicen­ de. Genova e Venezia, agl'inizi del Trecento, non hanno una politica italiana. Si combattono dovunque, fuorché nel loro Paese e per il loro Paese. Un'altra capitale era Firenze, che proprio in questi anni affermava la propria egemonia sulla Toscana. La sua politi­ ca interna era fra le più turbolente per la violenza delle fa­ zioni che s'intitolavano ai due grandi partiti che allora divi­ devano tutta l'Italia: i guelfi e i ghibellini. Ma ad essa se ne mescolava anche una sociale, resa più acuta dallo stesso pro­ gresso industriale ed economico. Quella che si era afferma­ ta era la grossa borghesia mercantile e bancaria, padrona delle Arti, che a loro volta erano padrone della città. Questa borghesia aveva dovuto duramente lottare per li­ berarsi dalla servitù della vecchia aristocrazia terriera e guerriera che dai suoi castelli disseminati nel contado aveva per secoli dominato il Comune. Sin dal principio Firenze fu guelfa perché i nobili che la circondavano e minacciavano e ch'erano stati investiti dei loro feudi e privilegi dagl'impera­ tori, erano ghibellini. I popolani fiorentini, raccolti sotto i loro «gonfaloni», li avevano attaccati uno alla volta e costretti a venire ad abita­ re in città almeno per parecchi mesi dell'anno. Solo così po­ tevano controllarli e impedirgli di disturbare le vie di comu­ nicazione e intralciare i commerci come sempre avevano fatto. I Signori dovettero accettare queste condizioni. Ma anche a Firenze avevano portato le loro passioni politiche e

35 il loro spirito di violenza. Vi costruirono palazzi che somi­ gliavano a fortezze, facendo a gara a chi innalzava le torri più alte e meglio guarnite, e vi formarono quelle «consorte­ rie» ch'erano in realtà delle vere e proprie «mafie». Ideologicamente però si divisero. Alcuni, come i Conti Guidi, rimasero ghibellini. Molti altri, per poter intervenire efficacemente nella politica di una città guelfa, si fecero guelfi anche loro e cominciarono a mescolarsi, anche per bi­ sogno di denaro, con la grossa borghesia mercantile. I due partiti si combattevano con tutte le armi, approfittando del­ la debolezza di un governo che era un groviglio d'istituti in­ tenti solo a paralizzarsi l'uno con l'altro. I due più alti magi­ strati, il Podestà e il Capitano del Popolo, dovevano essere per legge stranieri appunto per impedire che una parte, quando vinceva, esercitasse violenze sull'altra. Ma ciò avve­ niva ugualmente perché lo Stato non aveva il mezzo per im­ pedirlo e rimaneva esso stesso prigioniero del più forte. Ogni rivolgimento significava lo sterminio o la proscri­ zione della parte sconfitta. L'ultimo era avvenuto nel 1260, cioè dopo la battaglia di Montaperti che aveva visto il trion­ fo delle forze ghibelline di Manfredi, capeggiate da Siena, su quelle guelfe capeggiate da Firenze. Il contraccolpo fu immediato anche all'interno. Gli esuli ghibellini tornarono in città, e a prendere la via dell'esilio furono i guelfi. Ma du­ rò poco. La calata in Italia di Carlo d'Angiò, nuovo Re di Napoli, e le battaglie di Benevento e Tagliacozzo dove mori­ rono i due ultimi Hohenstaufen, Manfredi e Corradino, in­ flissero un colpo definitivo all'idea ghibellina e ai suoi soste­ nitori fiorentini. Nonostante questi travagli interni, Firenze aveva seguita­ to ad affermare la propria preminenza in Toscana. La rivale più potente, Pisa, non si era più ripresa dopo la disfatta del­ la Meloria. La stella di Siena, che aveva brillato dopo la vit­ toria di Montaperti, era tramontata insieme alle fortune de­ gli Hohenstaufen e dell'Impero. Con abile diplomazia, Fi­ renze aveva legato al suo carro Lucca e Pistoia. Restava

36 Arezzo, roccaforte della vecchia aristocrazia terriera, dov'e­ rano ghibellini tutti, anche il Vescovo Degli Libertini. La partita decisiva fu giocata nel 1289, a Campaldino. Al­ la testa delle forze guelfe del centro Italia, i fiorentini vinse­ ro. E da allora in poi poterono abbandonarsi con più impe­ gno di prima alle loro industrie, alle loro banche e alle loro risse.

Ecco: questo è all'ingrosso, molto all'ingrosso, il panorama dell'Italia al debutto del primo dei suoi secoli d'oro. Geno­ va, Milano, Venezia, Firenze e Napoli ne sono i poli. Roma esiste unicamente in funzione della Corte Pontificia, e conta solo in quanto vi risiedono i Papi. Quando costoro si trasfe­ riscono ad Avignone, come sta per succedere, l'Urbe scade a città di seconda categoria, e lo rimane sino alla fine del Trecento. E un borgo squallido, infestato dalla malaria, con venti o trentamila abitanti sudici e affamati, le strade dissel­ ciate e i monumenti in rovina, dove non fiorisce che un po' di retorica aizzata dai grandi ricordi della Roma augustea. Tuttavia questo mosaico di Stati, divisi e in perpetua lotta tra loro, presenta un fenomeno di cui sono tutti dal più al meno partecipi: la crisi degl'istituti comunali. Sui suoi moti­ vi si è sparso inchiostro a fiumi. Ma essi sono in fondo abba­ stanza semplici. Il primo e più immediato è che questi istituti, con le loro magistrature elettive, non sono riusciti ad assicurare la con­ dizione fondamentale di una civile convivenza: l'ordine. Se Firenze ne rappresentava il caso-limite, un po' dovunque la libertà comunale si era confusa con quella delle fazioni e delle loro risse. E il popolo, stanco, era disposto a barattarla con la sicurezza, anche condita di qualche sopruso. Il secondo motivo è che, per quanto la democrazia aves­ se sempre più «aperto a sinistra», come oggi si dice, le mas­ se non c'erano mai realmente entrate con poteri dirigenzia­ li, e quindi vi si sentivano estranee. In una città come Firen­ ze, per esempio, i veri «cittadini» di pieno diritto, cioè che

37 contavano qualcosa, erano cinque o diecimila. Gli altri ses­ santa o settantamila erano «sudditi». Un terzo motivo era la dilatazione e la crescente com­ plessità dei rapporti economici. Il Comune era nato nel Me­ dio Evo, cioè in una fase di arteriosclerosi della vita italiana ed europea. Era un microcosmo di botteghe artigiane a cir­ cuito chiuso o quasi: esse rifornivano di manufatti il conta­ do, che a sua volta le riforniva di materie prime e vettova­ glie. Ma poi si era sviluppato il capitalismo ed era venuto il «miracolo economico» con le sue conseguenze: aumento della produzione, quindi necessità di importazioni e di esportazioni, cui l'immediato contado non poteva più sop­ perire. Il vecchio circuito chiuso era scoppiato, la sua impal­ catura autarchica cadeva in pezzi, s'imponeva una «pianifi­ cazione» più in grande. Dapprima si era cercato di creare delle federazioni fra Comuni, cioè di formare dei piccoli MEC su piede di parità. Ma il tentativo era fallito. Non re­ stava quindi che la gara a chi sviluppava più forza di attra­ zione sui Comuni circostanti e meglio si qualificava a una parte di «Stato-guida» nei loro confronti. E per raggiungere questo traguardo, il potere concentrato in una mano ferma, anche se prepotente, si mostrava più idoneo di quello che non riuscivano mai a esercitare le effimere e precarie magi­ strature elettive. Ma a questi motivi di sostanza, ne va aggiunto un altro di natura ideologica: la crisi del guelfismo. Esso era stato la bandiera dei liberi Comuni nella lotta contro gl'Imperatori che cercavano di ridurli in loro potere, e contro l'aristocra­ zia feudale che in nome dell'Impero cercava di tenere i mu­ nicipi tributari dei castelli. Firenze era stata guelfa non per devozione alla Chiesa, ma perché la Chiesa benediceva i suoi «gonfaloni» quando muovevano all'assalto dei manieri in cui si trinceravano i nobili, investiti dall'Imperatore dei loro feudi e privilegi. Dalla morte di Federico e dei suoi due figli, questa lotta era praticamente risolta: l'Impero, ridotto a un puro titolo onorifico, non rappresentava più una mi-

38 naccia, e la nobiltà ghibellina era scompaginata e dispersa. Tuttavia il guelfismo restava come mito della rivoluzione co­ munale che si era svolta tutta sotto il suo segno, ne rappre­ sentava il «sacro principio», come la libertà, fraternità e uguaglianza lo sarebbero state della rivoluzione francese. Ma questa situazione si era capovolta con l'arrivo in Ita­ lia degli Angiò. Costoro, pur senza avere il titolo imperiale, minacciavano di fare ciò che non era riuscito agl'Imperatori di Germania: cioè d'istaurare su tutta la penisola quel pote­ re centrale laico contro cui, quando si era incarnato in Enri­ co IV, Barbarossa e Federico, i Comuni avevano lottato in nome appunto del guelfismo, cioè della Chiesa. Ma gli An­ giò invece dalla Chiesa erano stati chiamati. Come si poteva in nome di essa combatterli? Questo dramma scoppiò proprio nell'anno del Giubileo che inaugurava il nuovo secolo, ed ebbe a protagonisti, co­ me vedremo, due personaggi di eccezione: papa Bonifacio Vili e Dante Alighieri. Ma intanto aveva portato il suo con­ tributo alla liquidazione del regime comunale. A esso veniva a mancare la bandiera sotto cui si era formato e sviluppato. E le bandiere hanno la loro importanza. La trasformazione dei Comuni in Signorie era già avvia­ ta alla fine del secolo. Fra Piemonte e Lombardia ben venti città si sottomettono spontaneamente al Marchese di Mon­ ferrato. I Visconti sono già padroni di Milano e i Della Scala di Verona. Si affermano i Da Camino a Treviso, i Colleoni a Bergamo, gli Este a Ferrara, i Bonacolsi a Mantova e Mode­ na, i Correggio a Parma, i Malatesta a Rimini, gli Ordelaffi a Forlì. L'età dei liberi Comuni è al crepuscolo. Albeggia quella dei despoti.

PARTE SECONDA

LA CATTIVITÀ DI BABILONIA CAPITOLO QUINTO

BONIFACIO Vili

Il Trecento debuttò con una grandiosa festa: il Giubileo. Es­ sa non esisteva nel calendario della Chiesa, che fin allora non l'aveva mai celebrata. La inventò il Papa che in quel momento sedeva sul Soglio: Bonifacio Vili. Il momento era favorevole a una prova di forza, diciamo così, organizzativa e spettacolare. Sia pure attraverso mo­ mentanee crisi ed eclissi, la Chiesa era uscita bene dalle du­ re prove degli ultimi decenni. Il grande pericolo di venire asservita al potere laico era scomparso con Federico II, «ul­ tima possanza dell'Impero», come Dante lo chiamò con una sfumatura di rimpianto. Da Innocenzo III che aveva indos­ sato la tiara nel 1198 a Gregorio X ch'era morto nel 1276, era stato un seguito di Pontefici vigorosi e risoluti, che ave­ vano dato al Papato forza e prestigio. Bonifacio sembrava l'uomo più adatto a raccoglierne i frutti. Era romano. Veniva dall'orgogliosa e prepotente di­ nastia dei Conti Caetani. E di che pasta fosse, lo si vide dal modo con cui s'istallò sul Soglio. Alla morte di Niccolò IV erano seguiti due anni e mezzo d'interregno perché i Car­ dinali non erano riusciti a mettersi d'accordo sul successore. E come spesso capita in questi casi, si era scesi a un compro­ messo ricorrendo a una figura scialba che non desse noia a nessuno: un povero fraticello abruzzese, Pietro da Morro- ne, vissuto sempre da anacoreta in un eremo vicino a Sul­ mona. Quando seppe cosa gli stava capitando, Pietro cercò di sottrarvisi con la fuga. Ma lo catturarono, lo trascinarono di forza a Napoli, e lo coronarono col nome di Celestino V. Fra

43 gl'intrighi della Curia, il sant'uomo si sentì perso. La notte udiva una voce che gli rombava nell'orecchio: «Io sono l'an­ gelo che ti sono mandato a parlare, e cornandoti dalla parte di Dio grazioso che tu immantanente debbi rinunziare al Papato e ritorna' ad essere romito». Quella voce non era dell'angelo, ma del Cardinale Cae- tani che aveva istallato nella parete una specie di rudimen­ tale telefono. Il povero Celestino non chiedeva di meglio che «ritorna' ad essere romito». Ma, digiuno com'era di di­ ritto canonico, non sapeva come compiere quel gesto di ri­ nunzia che non aveva precedenti nella storia della Chiesa. A fornirgli gli argomenti per il «gran rifiuto» - come lo chia­ mò Dante - fu il Caetani, che invece di diritto canonico era maestro e nel Codice si rigirava molto meglio che nel Van­ gelo. Così, sei mesi dopo averla assunta, Celestino depose la tiara e ridiventò frate Pietro da Morrone senza mai aver messo piede a Roma. In capo a undici giorni il Caetani gli succedette col nome di Bonifacio Vili e come prima cosa mandò ad arrestare frate Pietro, tornato nel frattempo al suo eremo. Lo sventurato cercò di fuggire oltre Adriatico. Ma fu catturato e rinchiuso nel castello di Fumo ne, dove po­ co dopo morì di stenti. Non risulta che Bonifacio abbia avuto il minimo trasali­ mento di rimorso. Egli non era oberato da una coscienza che potesse procurargliene. E, quanto a una giustizia divina cui rendere conto dei propri atti, ne negava risolutamente e apertamente l'eventualità. L'inferno e il paradiso, diceva, sono già su questa terra. Il primo è rappresentato dalla vec­ chiaia, dagli acciacchi e dall'impotenza; il secondo dalla gio­ ventù, dalla salute, dalle donne e dai bei guaglioni, perché verso i due sessi era imparziale. Una volta, a un cappellano che implorava l'aiuto di Gesù, gridò inviperito: «Stolto, stol­ to! Gesù fu un uomo come noi. Se non potè nulla per sé, co­ sa vuoi che possa per gli altri?» Era un Papa del Rinascimento un po' in anticipo sui tem­ pi, un Borgia avanti lettera, cinico e gagliardo, dispotico,

44 teatrale e terrestre. Coltivava scrupolosamente tutti i pecca­ ti. Era ingordo: un giorno di digiuno maltrattò il cuoco per­ ché gli aveva servito solo sei pietanze. Era avido di ricchez­ ze: si faceva trapungere le vesti di gemme, e la sua tavola era addobbata con quindici alberelli d'oro. Era superstizio­ so e dedito ai sortilegi: i suoi coltelli avevano per manico corna di serpente, in tasca portava una piastrella d'oro egi­ ziana, e al dito un anello strappato al cadavere di re Man­ fredi: tutti amuleti contro il malocchio. Era un giocatore ar­ rabbiato: si era fatto fare dei dadi d'oro, ma guai all'avver­ sario che osava batterlo. Ed era soprattutto assetato di do­ minio. Il giorno dell'elezione, indossò la tiara e chiese agli astanti se lo consideravano rappresentante di Dio in terra. Avutane conferma, si mise in testa una corona, brandì una spada, e chiese se lo consideravano anche Imperatore. Dato il tipo, nessuno osò negarlo. La sua politica prese avvio da quel gesto. Questo Papa miscredente e blasfemo incarnava la maestà della Chiesa e non ammetteva che il suo primato terreno fosse revocato in dubbio. Essa era, secondo lui, padrona e proprietaria non solo delle anime, ma di tutto. Quindi an­ che i troni le appartenevano: i re non ne erano che momen­ tanei appaltatori. Figuriamoci se poteva tollerare dissidenze dentro gli Stati pontifici. I Colonna, che ne tentarono una, furono scomunicati e costretti alla fuga. Bonifacio ne confi­ scò le terre, fece radere al suolo la loro roccaforte, Palestri- na, e ne cosparse di sale le rovine in segno di purificazione. Quando l'imperatore Alberto d'Austria gli mandò come am­ basciatore un semplice frate, Bonifacio gli ruppe il naso con un calcio procurandogli una grave emorragia. Ma naturalmente non tutti erano disposti a subire simili prepotenze, e re Filippo di Francia, per esempio, vi rispose a tono proibendo al clero d'inviare a Roma le decime rac­ colte nei suoi Stati. Era un colpo grave per le finanze della Chiesa perché la Francia era la loro fonte più grassa. Ma lo era anche per il prestigio del Papato. Fu allora che Bonifa-

45 ciò indisse il Giubileo: un po' per rivalersi dello smacco po­ litico, un po' per colmare i vuoti in cassaforte. E l'iniziativa non poteva essere più congeniale al carattere teatrale del­ l'uomo e alla sua vocazione di grande regista. Il lancio pubblicitario fu perfetto. Per mesi e mesi, dai pulpiti di tutta Europa, i predicatori bandirono il pellegri­ naggio vantando i benefici che c'era da aspettarsene: la sal­ vezza dell'anima e i diletti turistici. Allo stambureggiante ri­ chiamo, si mossero centinaia di migliaia di persone, chi a piedi, chi su carri, chi a cavallo. I più, data la lunghezza e i rischi del viaggio, fecero prima testamento. E parecchi in­ fatti morirono per strada, ma sicuri di volare in paradiso. Da un capo all'altro dell'anno, l'Urbe registrò un movimen­ to di trentamila pellegrini al giorno. Andavano in colonna a prosternarsi sulle tombe degli Apostoli, dove ricevevano l'indulgenza plenaria e lasciavano cadere il loro obolo, che due diaconi armati di pala si affrettavano a rastrellare. La media giornaliera degl'introiti fu di mille libbre al giorno: cifra, per quei tempi, colossale. Dove gli ospiti alloggiassero e dormissero, non si sa. Ma a quanto pare i romani ci fecero affari d'oro. Finalmente la città tornò a sentirsi caput mundi, la capitale del mondo, e ad assaporare il gusto delle folle poliglotte e multicolori, del­ l'abbondanza e della gozzoviglia. Fra i pellegrini ce ne furono di gran marca, potenti Si­ gnori, Principi del sangue. Ma a noi preme segnalare so­ prattutto due fiorentini, il cui nome non aveva ancora var­ cato le mura della loro città. Uno è Dante Alighieri che lì a Roma e in quella circostanza, si dice, trovò l'ispirazione per la sua grande opera. Quanto sia vero, non sappiamo. Ma che sia stato pellegrino del Giubileo è certo perché più tardi lo ricordò in due terzine famose in cui ci dice anche che il traffico era stato regolato con la circolazione a destra. L'av­ venimento suscitò in lui, che aveva allora trentacinqu'anni, un'impressione indelebile. Non altrettanto invece se ne la­ sciò abbagliare il suo compatriota Giovanni Villani che,

46 mercante e figlio di mercanti, guardò lo spettacolo con oc­ chi più realistici. Egli scrisse poi di aver trovato a Roma i suoi maestri di stile: Virgilio, Tito Livio e Sallustio, sebbene le sue Croniche ricordino poco questi modelli. Ma sotto la grandiosa messinscena di quelle celebrazioni, colse i sintomi della decadenza romana e li annotò.

Di fiorentini però ce n'erano molti altri, alcuni anche in in­ cognito. Fra costoro era Corso Donati, il capo della fazione Nera, che Firenze aveva proscritto, e il Papa sollecitamente accolto. Diremo più tardi che razza d'uomo fosse. Per ora ci basti sapere che stava tramando con Bonifacio, il quale ave­ va mire annessionistiche sulla Toscana. Non avendo forze per realizzarle, aveva allacciato trattative con re Filippo di Francia. L'operazione non era nuova. Alla Francia il Papato si era già rivolto trent'anni prima perché gli mandasse un esercito a liberarlo dalla minaccia dei figli di Federico, Manfredi e Corrado. E n'era seguita quella spedizione di Carlo d'An- giò, fratello del Re, che con le battaglie di Benevento e di Tagliacozzo aveva eliminato le forze tedesche degli Hohen- staufen e fondato il Regno angioino delle due Sicilie. Ora però di Sicilie n'era rimasta una sola perché quella vera si era ribellata coi «Vespri» e si era data agli Aragona. E sul tro­ no di Napoli c'era Carlo lo zoppo o «ciotto», che non riusci­ va a riconquistare l'isola. Bonifacio propose a Filippo di mandare in aiuto dell'An- giò un altro esercito che passando per Firenze la sottomet­ tesse alla Chiesa. E i «Neri» di Donati dovevano facilitare il colpo dall'interno. Filippo era un Re avaro e ragionatore che non amava le avventure e detestava i preti. Però aveva un fratello senza «posto» né stipendio, Carlo di Valois, obe­ rato da quattordici figli, fra cui dieci femmine a cui far la dote. Anche per levarselo di torno, Filippo accettò che Car­ lo si mettesse al servizio del Papa come Capitano generale e Paciere per la Toscana. Ma lesinò uomini e denaro. Bonifa-

47 ciò allora combinò a Carlo un matrimonio con Caterina di Courtenay, erede (in teoria) dell'Impero di Costantinopoli. Carlo, che i fiorentini chiamavano con scherno «Senzater- ra», rimase abbagliato da quel miraggio - destinato a restar tale - e persuase il fratello a fornirgli aiuti più consistenti. Il baratto fu concluso proprio mentre si chiudeva il Giu­ bileo, alla fine dell'anno. I fiorentini, invece di unirsi nella resistenza, si divisero vieppiù. Fra loro scoppiarono risse, saccheggi e incendi. E Carlo, con un pugno di uomini, potè entrare in città accolto quasi come un pacificatore vero. Ma tutta l'operazione si risolse in una massiccia vendetta dei «Neri» contro i «Bianchi», di cui anche Dante fece le spese, perché il piano del Papa fallì in seguito al violento litigio scoppiato frattanto fra lui e Filippo. In uno dei soliti accessi di autoritarismo, Bonifacio ave­ va mandato al Re una bolla in cui ribadiva la propria prete­ sa al patronato su tutti i Sovrani temporali. Filippo, che su questo punto era intrattabile, lesse il messaggio davanti alla Corte riunita, invocò la maledizione di Dio su chiunque avesse riconosciuto un'autorità terrena al di sopra della sua, e fece bruciare il documento sulla pubblica piazza. Bo­ nifacio lanciò la scomunica contro di lui. Filippo rispose in­ dicendo un Concilio che incriminò il Papa di empietà, si­ monia, stregoneria, adulterio e assassinio. Ma non conten­ to di questo, incaricò il suo ministro Nogaret di andare a Roma e di organizzarvi coi Colonna una congiura contro il Pontefice. Nogaret era il personaggio più indicato per quell'impre­ sa. Aveva da regolare con la Chiesa un vecchio conto: suo padre e sua madre erano stati bruciati come eretici dal tri­ bunale dell'Inquisizione. Di complici romani, dato il carat­ tere satrapesco di Bonifacio, ne trovò a iosa. Insieme a Sciarra Colonna, nella notte fra il 6 e il 7 settembre (1303), penetrò negli appartamenti del Papa ad Anagni intimando­ gli di presentarsi al Concilio. Intrepidamente il vecchio Pontefice, carico di vizi e di peccati, ma anche di coraggio e

48 di orgoglio, rispose: «Ecco il mio collo, ecco la mia testa!» Ma non cedette né alle minacce né alle violenze. Qualcuno dice che Sciarra lo schiaffeggiò, ma pare che non sia vero. I congiurati lo tennero prigioniero fin quando in suo aiuto accorse il cardinale Fieschi con una banda di armati. Il po­ polino di Anagni, che fino a quel momento aveva fatto bal­ doria urlando: «Morte a Bonifacio e,viva il Re di Francia!», cambiò bandiera, invertì il grido, e costrinse il Nogaret a una fuga precipitosa. Due settimane dopo, Bonifacio rientrò a Roma insangui­ nata dalle fazioni. Era dilaniato dai calcoli renali, e i suoi gridi di dolore si udivano in tutta piazza San Pietro. La folla aveva saccheggiato il Laterano asportando perfino il fieno dalle stalle. Nell'agonia Bonifacio seguitò a lanciare maledi­ zioni e minacce contro tutti. E morì come visse: bestem­ miando. CAPITOLO SESTO

ARRIGO VII

Nemmeno la morte di Bonifacio placò l'odio di Filippo per lui. Ancora per sette anni quel Re rancoroso e vendicativo reclamò l'indizione di un processo contro il Papa defunto, e alla fine la spuntò. Un concistoro riunito a Groseau nel 1310 aprì l'istruttoria, e sei prelati suffragarono con le lo­ ro testimonianze le accuse più gravi. Bonifacio, riferirono, negava la resurrezione sia del corpo che dell'anima. Se­ condo lui i dogmi non erano che invenzioni per tenere in rispetto il popolino ricattandolo con la minaccia dell'infer­ no. Aveva definito assurda l'idea che Dio fosse insieme di­ vino e umano, uno e trino. Trovava ridicolo che la Madon­ na avesse partorito in stato di verginità e che una sfoglietta di farina, solo perché consacrata, potesse tramutarsi nel corpo di Cristo. «Solo gl'imbecilli possono credere a que­ ste stupidaggini» aveva dichiarato. «Le persone intelligen­ ti devono fingere di crederci, e poi ragionare col proprio cervello». Queste accuse somigliavano troppo al personaggio per essere del tutto infondate. Ma anche i più accaniti avversari di Bonifacio capivano che la loro divulgazione sarebbe stata un colpo mortale non soltanto a lui e al suo nome, ma a tut­ ta la Chiesa e all'ordine costituito. Alla fine anche Filippo se ne persuase e accettò che il processo fosse demandato al Concilio ecumenico dell'anno dopo. Qui i Cardinali depo­ sero all'unanimità in favore del morto, della sua ortodossia e della sua moralità. Secondo le regole dell'onore, due Ca­ valieri lanciarono sul banco dei testimoni i loro guanti con­ tro chi avesse osato affermare il contrario. Nessuno raccolse

50 la sfida. La prova fu considerata conclusiva, e il dibattimen­ to si chiuse con un «non luogo a procedere». Anche così liquidato, il processo tuttavia era stato, per la Chiesa, un disastro. Essa non vi si sarebbe mai prestata, se nel 1305 non fosse sopravvenuto un avvenimento di ecce­ zionale importanza e di conseguenze destinate a farsi risen­ tire nei secoli: il trasferimento del Papato a Avignone. Ve­ diamo un po' come ci si era arrivati.

Noi non sappiamo se tutti i delitti, morali e ideologici, attri­ buiti a Bonifacio fossero veri. Ma un misfatto lo aveva com­ messo certamente, anche se involontariamente: aveva reso necessario, o almeno possibile, questo fatale trasloco. Il suo autoritarismo e nepotismo avevano rianimato gli odi e le ri­ valità fra le fazioni dell'aristocrazia romana. C'erano troppi conti da saldare, troppe vendette da trarre. L'aria dell'Urbe era diventata irrespirabile come ai tempi di Marozia. Il successore di Bonifacio, Benedetto XI, aveva fatto del suo meglio per calmare le acque. Era Niccolò Boccasini, un domenicano di Treviso. Veniva da una modesta famiglia di borghesia notarile, da giovane aveva fatto il precettore a Ve­ nezia, poi aveva preso gli ordini e si era guadagnato fama di gran teologo. Ma aveva anche buone qualità diplomatiche e le sfoggiò nelle sue missioni di Legato in Ungheria, Slesia e Polonia. Al Conclave del 1303 manovrò con accortezza. Quando vide che l'ispirazione dello Spirito Santo non ba­ stava a procurargli il successo, la «integrò» con 50.000 fiori­ ni. Ma non bisogna scandalizzarsene: era la prassi normale. Benedetto agì con molto buon senso. Per ristabilire il prestigio della Chiesa, inflisse castighi ai responsabili dei disordini di Anagni. Ma nello stesso tempo cercò un acco­ modamento con Filippo per dissuaderlo dal processo con­ tro Bonifacio. Non riuscendovi, cercò almeno di guadagnar tempo e di sottrarsi per intanto alla soffocante tutela france­ se che incombeva su Roma e l'Italia sia da Parigi che da Na­ poli. La sua più pericolosa «quinta colonna» era la fazione

51 Nera di Firenze, rimasta ormai padrona della città. Bene­ detto vi mandò un suo Legato di fiducia per imporre una riconciliazione coi fuorusciti Bianchi che consentisse a co­ storo di rientrare in patria e di ristabilirvi un certo equili­ brio politico. Ma i Neri prevennero il colpo scatenando tu­ multi e appiccando incendi di cui diedero la colpa agli av­ versari. Benedetto, sdegnato, scomunicò la città e ingiunse ai ca­ porioni di presentarsi a Perugia per discolparsi. L'interro­ gatorio cominciò il 6 luglio (1304). Il 7, il Papa era morto, non si è mai saputo di che. Corse voce che un giovane tra­ vestito da suora gli aveva portato un cesto di fichi avvelena­ ti. Forse l'episodio non è vero. Ma il carattere dei personag­ gi lo rende verosimile. Di nuovo il Soglio diventò la posta di un giuoco di fazio­ ni che se lo contesero con la violenza, gl'imbrogli e gl'intri­ ghi. Stando al Villani, l'elezione del 1305 fu decisa da un complotto fra l'Orsini e Niccolò da Prato, che elusero la re­ gola dell'isolamento cui i Cardinali son tenuti durante il Conclave incontrandosi di notte in un gabinetto di decenza. Tanto che, dopo la proclamazione del vincitore, coloro che gli avevano negato il voto urlarono: «Roba da latrina!» Il vincitore era Bertrand de Got, Arcivescovo di Bor­ deaux, che assunse il nome di Clemente V La Storia ha trat­ tato con poca misericordia questo Pontefice attribuendo a lui la catastrofica decisione di trasferire il Papato ad Avigno­ ne e di renderlo per oltre sessantanni prigioniero del Re di Francia. Ma il fatto è che, quando indossò la tiara, Clemente era già egli stesso prigioniero di Filippo e dei Cardinali francesi che ormai formavano la maggioranza del Conclave. Furono loro a vietargli di andare a Roma. Clemente dovette cedere. Era un uomo frugale, pio e malinconico, roso dall'insonnia e dalla nevrastenia, e insi­ diato da un lupulus che probabilmente era una fistola, e che di lì a pochi anni Io avrebbe ucciso. Pur in mezzo a questi triboli, cercò di fare gl'interessi della Chiesa, e la scelta di

52 Avignone fu probabilmente un compromesso. La città non apparteneva alla corona di Francia, ma agli Angiò di Napo­ li. Clemente sperò di godervi più sicurezza che a Roma e più libertà che a Parigi. Dalle invadenze di Filippo si difese come potè, ora compiacendogli, ora resistendogli, ma mai arrendendosi a discrezione. Il processo contro Bonifacio lo subì con riluttanza, poi lo fece aggiornare, e infine riuscì a insabbiarlo. Fu uno dei suoi meriti, ma non il solo.

Tre anni prima infatti aveva fornito un'altra prova d'indi­ pendenza, che aveva avuto una grossa ripercussione politi­ ca specialmente in Italia. La corona di Sacro Romano Im­ peratore era rimasta senza titolare. A questa carica, lo ab­ biamo già detto, non corrispondeva più nessun potere ef­ fettivo. Però essa faceva sempre gola, specie a quei Reucci e Principi che, non avendo né grandi Stati né grandi eserciti, ambivano ad arricchire almeno il blasone. Filippo che un grande Stato e un grande esercito (per quei tempi) li aveva, di quella corona naturalmente s'infischiava. Ma aveva anco­ ra da sistemare quel disoccupato fratello Carlo, che aveva terminato la sua avventura italiana come generale dei cugi­ ni Angiò. Alla testa delle loro truppe, aveva cercato di ricon­ quistare la Sicilia, ma gli aragonesi lo avevano battuto, ed egli era tornato in Francia più «senzaterra» di prima. Filip­ po pensava che la corona imperiale gli avrebbe dato, se non altro, un rango, e soprattutto avrebbe liberato la Corte di Parigi dalla sua ingombrante e querula presenza. Ma la parola decisiva spettava al Papa perché era il Papa che coronava gl'Imperatori. E Clemente, per quanto fran­ cese, non volle un francese. Preferì un candidato neutro co­ me Arrigo di Lussemburgo che, anche se fosse sceso in Ita­ lia, non aveva abbastanza forze per imporle un giogo. Ne aveva solo per creare un contrappeso agli angioini di Napo­ li che sempre più intrigavano a Roma. Purtroppo, Arrigo era un principe romantico e un po'

53 sprovveduto, cui quell'inatteso titolo diede il capogiro. De­ cise di andare a cingere la corona a Roma, come avevano fatto Carlomagno e il Barbarossa, e il Papa gli promise di raggiungervelo per consacrarlo solennemente. Bastò l'an­ nunzio della sua discesa in Italia nel 1310 perché la peniso­ la immediatamente si dividesse, come sempre aveva fatto e avrebbe seguitato a fare nei secoli all'arrivo di qualsiasi straniero. Per lui furono quasi tutte le nuove Signorie del Settentrione: i Visconti, i Della Scala, i Gonzaga, gli Este, i Malatesta, i Polenta eccetera. Contro, furono naturalmente gli Angiò di Napoli e i Neri di Firenze, tuttora padroni del­ la città. Per l'occasione fu ritirata fuori la vecchia nomenclatura ideologica del Guelfismo e del Ghibellinismo. Ma proprio allora si vide quanto sfasate e fuori corso fossero queste pa­ role. Arrigo, è vero, incarnava il potere laico dell'Impero. Ma la Chiesa, stavolta, era dalla sua parte contro un altro potere laico: quello dei Re francesi di Parigi e di Napoli. I regimi comunali, che avevano conquistato le loro autono­ mie in nome del Papa, non potevano più sventolarne la bandiera. E se questo non provocò il loro decadimento, do­ vuto ad altre cause, lo affrettò. Arrigo si mise in marcia con la moglie Margherita di Bra- bante, i fratelli Valeramo e Baldovino, i cognati Amedeo di Savoia e Guido di Fiandra, e altri gentiluomini di gran no­ me, ma di poco seguito. Forse la scarsezza di forze non sa­ rebbe risultata decisiva, se fosse stata compensata dall'ab­ bondanza di mezzi. Ma gl'italiani seppero subito che anche la cassa era miserella: stava tutta su un carretto, di cui qua­ lunque banchiere fiorentino, anche il più modesto, avrebbe potuto da solo fornire l'eguale. Nel Nord, le accoglienze furono festose, perfino entusia­ stiche. I Marchesi di Savoia e Monferrato andarono incon­ tro ad Arrigo, Milano gli accese le luminarie; Dino Compa­ gni, Cino da Pistoia, Francesco da Barberino, gl'inviarono infiammati messaggi di benvenuto, sui quali fece spicco per

54 biblica solennità quello di Dante. La bella festa fu turbata solo da un piccolo, ma significativo incidente. Prima della corona d'Imperatore, la cosiddetta «prassi» voleva che Arri­ go cingesse, lì a Milano, quella di Re d'Italia. Era un rozzo aggeggio di ferro, in seguito arricchito di pietre preziose da Teodolinda, e lo si diceva ricavato da un chiodo della Croce. Per cui lo si considerava sacro e lo si conservava nel Duomo di Monza. Ma quando andarono a cercarlo per porlo sulla testa di Arrigo, non lo trovarono. Era sparito, nessuno ne sapeva nulla, e solo anni dopo un robivecchi ebreo lo ritirò fuori: lo aveva avuto in pegno, disse, da Guido della Torre per un piccolo prestito. In questo conto gli italiani tenevano ormai il titolo di Re d'Italia. Arrigo dovette contentarsi di un'altra corona, che un orafo senese gli confezionò lì per lì. Era molto più bella e fi­ nemente cesellata di quella persa. C'era più oro, c'erano più gioielli. Ma in meno c'erano alcuni secoli di Storia. La cerimonia non era ancora finita che già per il povero Arrigo cominciavano i guai. Dovette arbitrare il dissidio scoppiato lì a Milano fra i Visconti e i Della Torre, ed essen­ dosi pronunciato in favore dei primi, ebbe contro di sé la metà della popolazione. Cremona, Lodi, Pavia e Brescia gli chiusero le porte in faccia, Bologna ne imitò l'esempio, e re Roberto di Napoli mobilitò. Ma il cervello e la cassaforte della resistenza era Firenze, contro cui Dante scagliò una rovente invettiva. Arrigo era troppo candido per venire a capo di quell'im­ broglio. Non aveva torto un capello a nessuno, non aveva imposto tasse né servitù, chiedeva solo un riconoscimento formale del suo titolo, e non capiva perché più di mezza Ita­ lia glielo contestasse. Non potendo attraversarla via terra perché Bologna e Firenze gli sbarravano gli Appennini, si trasferì a Genova col proposito di raggiungere Roma via mare. Non voleva mancare l'appuntamento col Papa in San Pietro, ma per strada seppe che Clemente aveva rinunziato al viaggio e delegato a un Cardinale il compito d'incoronare

55 l'Imperatore, in seguito a un perentorio ordine di re Filip­ po. Tutto il Nord Italia era in subbuglio. E i più forti soste­ nitori di Arrigo, con Cangrande della Scala alla testa, aveva­ no dovuto abbandonarlo per correre a difendere i loro Sta­ ti dall'attacco di quelli vicini. A Genova lo aspettava il colera che gli portò via la giova­ ne e bella moglie Margherita. Ma nemmeno questo valse a sottrarlo al miraggio della corona che lo attendeva a Roma. La voleva a ogni costo, con infantile ostinazione, attribuen­ dole chissà quali taumaturgici poteri. Nato e cresciuto in Lussemburgo, Arrigo era un parvenu fra i regnanti del suo tempo, un nobile di provincia, un «vitellone» del Gotha, che credeva ai simboli, ai blasoni e alle «precedenze». Una nave lo condusse a Pisa, dove erano convenuti tutti i fuorusciti Bianchi di Firenze, fra cui Dante e un certo Messer Petrac- co, che teneva per mano un bimbetto di sette anni: il futuro Francesco Petrarca. Di lì Arrigo ripartì per Roma, dove il 29 giugno (1312) tre Cardinali finalmente lo coronarono in Laterano. Ma all'emozione seguì subito la delusione. Invitato a ri­ conoscersi vassallo dell'Impero, re Roberto di Napoli nem­ meno rispose. Arrigo ricorse alla maniera forte: chiese aiuto a Genova e a Pisa che gli fornirono novanta galee per attac­ care Napoli. Ma da Avignone giunse un veto del Papa, che in realtà era di Filippo. Arrigo licenziò la flotta, adunò l'e­ sercito e lo condusse su Firenze. La città aveva già mobilita­ to 10.000 fanti e 5.000 cavalieri: il doppio di quelli di cui l'Imperatore disponeva. Sconfortato, Arrigo fece dietro-front per puntare nuova­ mente su Napoli. Forse ve lo aveva consigliato qualcuno. Forse voleva soltanto concludere in bellezza, cadendo sul campo di battaglia, la sua romantica e anacronistica avven­ tura. Ma la sorte non gli concesse nemmeno questo. A Buonconvento in provincia di Siena, fu colto da una febbre violenta, e il 24 agosto morì. La voce pubblica accusò un fra­ te, Bernardino da Montepulciano, di avergli messo il veleno

56 dentro l'ostia consacrata. Forse non è vero, ma l'ipotesi era resa attendibile dal largo uso che si faceva di questi metodi. Il cordoglio fu grande in tutta l'Italia antifrancese e an- tiangioina. Cino da Pistoia inviò il suo compianto a Guido da Polenta, Sennuccio del Bene a Moroello Malaspina; Dan­ te pianse per conto suo sugli ultimi capitoli del De Monar­ chia, il saggio che stava componendo per dimostrare la vali­ dità delle pretese di Arrigo. Pisa ghibellina, fino all'ultimo rimasta fedele all'Imperatore, ne rivendicò le spoglie e tri­ butò loro solenni onoranze. Così finì l'ultimo tentativo d'istaurazione di un potere laico sull'Italia, che ora poteva tornare ad abbandonarsi alla sua vera e unica vocazione: il fratricidio. CAPITOLO SETTIMO

DANTE

Di questi subbugli e convulsioni, Dante non fu soltanto il te­ stimone, ma anche un protagonista. Sulla sua deposizione ci sono da fare molte riserve. E quella di una parte lesa, e per di più fiorentina, cioè parziale e ingiusta. Ma nessun poeta ha mai incarnato più di lui il proprio tempo con le sue grandezze e miserie, con le sue credenze e superstizio­ ni, coi suoi aneliti e i suoi pregiudizi. La sua vita è un docu­ mento in cui, sia pure deformate dalla passione, si ritrovano tutte le vicende di Firenze e dell'Italia di allora. Era nato nel 1265, cioè cinque anni dopo la battaglia di Montaperti, quando i ghibellini avevano ripreso il soprav­ vento in una Firenze sconfitta dalle forze di Siena e dei suoi alleati imperiali, e il suo vero nome era Durante. La famiglia era guelfa. Ma non era stata bandita perché non era di quel­ le che potevano impensierire i nuovi padroni. Gli Alighieri un tempo si erano chiamati Elisei e avevano un'origine nobi­ liare. Uno di loro, Cacciaguida, era stato Crociato in Terra- santa: il che allora equivaleva a un blasone. Poi la dinastia si era divisa in due rami, gli Alighieri e i Del Bello, ma nessuno di essi era diventato cospicuo. Il padre di Dante, Alighiero, aveva un po' di terra e delle case. Ma non ne ricavava di che tirare avanti la famiglia, e pare che s'ingegnasse praticando anche un po' d'usura, ma su modestissima scala. Desumia­ mo la sua pochezza soprattutto dal silenzio di Dante che di lui non parlò mai: il che ci fa pensare che non abbia nutrito nei suoi riguardi né affetto né rispetto. Alighiero aveva sposato una certa Bella di cui sappiamo solo che, dopo avergli dato quel figlio, morì. Il bambino do-

58 veva avere fra i tre e i cinque anni, e nemmeno di lei ha mai parlato forse perché non la ricordava. In casa gli piovve una matrigna, Lapa, che diede a Alighiero altri tre figli: un ma­ schio e due femmine. Molti biografi dicono che Dante ebbe un'infanzia infelice fra quella mamma che non era la sua e quei fratelli che lo erano solo a metà. Ma non sanno addur- ne altra prova che il carattere di Dante, rimasto sempre om­ broso, chiuso e malinconico. In realtà, dai pochi e vaghi ac­ cenni che Dante ci ha lasciato di questi parenti, si direbbe anzi ch'essi gli furono molto vicini e solidali, specie nei mo­ menti difficili. La sorellastra Tana, come appare da un pas­ saggio della Vita nova, lo curò amorosamente durante una malattia, e il fratellastro Francesco gli prestò parecchi soldi e poi volontariamente lo accompagnò sulla via dell'esilio. A Firenze c'è ancora la «casa di Dante». Ma non è certa­ mente quella in cui egli nacque e crebbe, perché questa fu demolita quando venne bandito: la distruzione della casa faceva parte del castigo che s'infliggeva ai nemici politici vinti. Però sorgeva nelle vicinanze, in quello che allora si chiamava il «sesto di Porta San Piero». Non sappiamo come fosse fatta, ma sappiamo che le case di Firenze, a quei tem­ pi, lasciavano piuttosto a desiderare in fatto di comfort. Non avevano acqua corrente né gabinetti, i pianciti erano di ter­ ra battuta cosparsa di paglia che marciva e puzzava, le fine­ stre erano delle assi di legno, l'illuminazione affidata a torce e il riscaldamento a bracieri. Firenze non era allora la stupenda e ridente città che og­ gi conosciamo. Avrà avuto un cinquantamila abitanti. Seb­ bene avesse già costruito una seconda cerchia di mura per potersi distendere un po' di più, era ancora piuttosto soffo­ cata, con straduzze strette e a gomiti. Di edifici imponenti e artisticamente pregevoli aveva solo il Battistero di San Gio­ vanni, ma non ancora rivestito di marmi. L'insieme era se­ vero e arcigno, grazie alle torri costruite dai nobili, lunghe, strette e minacciose, che le davano una aria di campo trin­ cerato. Di bello, c'era solo il paesaggio: quella corona di col-

59 line, fra cui si srotolava l'Arno. L'abitato si stendeva tutto sulla sponda destra del fiume. Con quella sinistra era colle­ gato da un solo ponte: il Ponte Vecchio. Le scuole erano tutte in mano ai preti e includevano due corsi: quello inferiore o trivio, e quello superiore o quadrivio. Dante dovette seguirli entrambi probabilmente presso la confraternita dei laudesi in S. Maria Novella, dove aveva studiato anche Cimabue. Non c'è da pensare che ne profit­ tasse molto, anche perché mancavano i libri. Pochi se ne co­ nosceva oltre il Vangelo perché le opere latine scampate al­ le invasioni barbariche erano ancora seppellite negli archivi dei monasteri soprattutto benedettini, e durante il Medio Evo non si era scritto quasi nulla. Dante, quando ebbe ter­ minato i suoi corsi, sapeva leggere e scrivere, fare le quattro operazioni, tradurre alla meglio dal latino, ma più da quel­ lo corrotto del Medio Evo che da quello classico di Virgilio e Cicerone, e forse aveva qualche idea, piuttosto vaga, di sto­ ria e filosofia, che allora era soltanto teologia. Ma nulla più. Di tutta la sua infanzia, conosciamo solo un episodio, che però doveva restare decisivo per la sua vita e la sua opera: l'incontro con Beatrice. Gli storici hanno discusso a lungo sulla realtà di questo personaggio: alcuni hanno ritenuto che fosse di pura fantasia. Ma ormai è opinione comune­ mente accettata che si trattasse della figlia di un Folco Porti- nari, banchiere molto stimato a Firenze. Era quasi coetanea di Dante, più tardi andò sposa a Simone de' Bardi, e morì nel 1290, probabilmente di un parto andato a male. Dante colloca il suo incontro con lei nel 1274, a una festa di bambini, quando entrambi avevano nove anni. Ma su queste date bisogna andar cauti poiché egli aveva più la su­ perstizione dei numeri che il rispetto della loro esattezza. Il debole che aveva per il nove come multiplo del tre, da lui considerato numero perfetto, lo si vede anche nella Comme­ dia coi suoi versi in terzine, le sue tre cantiche divise ognuna in trentatré canti, i nove gironi dell'Inferno, i nove balzi del Purgatorio, e così via. Il fatto che, dopo aver visto Beatrice a

60 nove anni, egli ci dice di averla rivista solo a diciotto, ci fa dubitare che abbia manomesso un po' il calendario per far­ ne quadrare le date coi suoi aritmetici simboli. Nella Vita nova, sua prima opera, egli racconta che, tro­ vandosi accanto a quella bambina vestita di bianco, rimase folgorato dalla sua sommessa e vereconda bellezza al punto da non poterla mai più dimenticare. È possibile, data l'età, che di fronte a lei abbia provato il suo primo turbamento di sensi, e che perciò il ricordo gli sia rimasto impresso nella memoria. Il resto ve lo aggiunsero probabilmente le con­ venzioni poetiche del suo tempo, di cui parleremo. Dopo la scuola, dove aveva imparato ben poco, ebbe un altro maestro, che gl'insegnò molto di più: Brunetto Lati­ ni. Era costui un notaio che godeva di notevole prestigio, e non solo per le sue qualità professionali. La gran cultura, la signorilità, il «tatto», ne facevano anche un uomo di mondo, un idolo dei salotti, e un diplomatico di prima scel­ ta. Il Comune se n'era infatti servito a più riprese, e lo ave­ va mandato ambasciatore in Spagna al tempo della lotta contro Siena e Manfredi. Si trovava appunto là, quando le forze imperiali vinsero a Montaperti e i ghibellini rientra­ rono a Firenze per fare le loro vendette. Il guelfo Brunetto non vi tornò. Rimase fra Montpellier e Parigi, e compose in francese un Tesoretto, cioè una specie di enciclopedia in cui cercò di riassumere lo scibile dei suoi tempi. Rientrò in pa­ tria dopo la battaglia di Benevento, che aveva rimesso in sella il suo partito. E vi portò un soffio della nuova cultura razionalista, di cui si era riempito i polmoni in Francia. Non aveva originalità di pensiero, ma aveva molto visto, molto viaggiato, molto letto, e sapeva parlarne. Era anche un buon cittadino, un funzionario capace e integro, un coe­ rente uomo di parte. Solo la vita privata lasciava alquanto a desiderare per la sua imparzialità verso i due sessi. Ma que­ sto, nella Firenze di allora (e anche in quella d'oggi), non faceva molta impressione. Il fatto che Dante, incontrandolo più tardi nell'Inferno,

61 dove lo aveva collocato appunto per quel vizio, chiami affet­ tuosamente Brunetto suo «maestro», ha fatto credere a mol­ ti ch'egli sia andato materialmente a lezione da lui. In realtà il rapporto non fu scolastico in senso stretto. Dante fu sol­ tanto uno dei giovani letterati che intorno a Brunetto si rac­ coglievano e che formavano quella che oggi si chiamerebbe la nouvelle vague della poesia italiana, cui Dante stesso dove­ va dare il nome, passato alla Storia, di stil novo. E qui dobbiamo aprire una parentesi per ritracciare la genealogia di questa scuola.

La poesia italiana non era che una succursale di quella pro­ venzale, nata in Francia circa un paio di secoli prima. La Francia era stata il primo Paese europeo a riconoscere una vera dignità di lingua a quella che veniva parlata dal «vol­ go» (donde la qualifica di «volgare»), e ch'era una mescolan­ za del latino importatovi dai romani, del celtico parlato dal­ le antiche tribù di Vercingetorige, e del germanico intro­ dottovi dai Franchi. Anzi, di queste lingue volgari ne aveva elaborate due, che prendevano il nome da quello della pa­ rola sì. Il primo vagito letterario di queste arcaiche lingue fran­ cesi era stata la Canzone di gesta, epica, religiosa e guerriera, nata al tempo della Cavalleria e delle Crociate. In Italia ave­ va attecchito male, e solo d'imitazione, per vari motivi: anzi­ tutto perché la Cavalleria non vi aveva messo radici e scarsa era stata la partecipazione alle Crociate; eppoi perché il lati­ no, da noi, non era stata lingua d'importazione, ma di po­ polo, e quindi era più duro a morire, anche se ora il popolo non lo parlava più. Ma sulla fine del Millecento, il grande slancio mistico e conquistatore che aveva ispirato le avventure in Terrasanta anche in Francia si esaurì. E nelle Corti dei Signori che tut­ tora si dividevano quel Paese, venne di moda una nuova poesia ironica, leggera, anticlericale e venata d'influenze arabe. I suoi più alti patroni furono il conte Guglielmo di

62 Poitiers e di Aquitania che, andato a Gerusalemme per di­ fendervi la Fede, ce l'aveva perduta, e sua figlia Leonora, destinata a diventare due volte regina: prima di Francia e poi d'Inghilterra. Furono due spregiudicati e impenitenti libertini, che misero nei piaceri dei sensi e dell'intelletto lo stesso impegno che i loro predecessori avevano messo nelle guerre e nello zelo religioso. Si chiamò gai saber, o gaia scienza, questa nuova poesia. E trovatori furono detti i suoi bardi, che naturalmente riecheg­ giavano i gusti e la mentalità dei loro protettori. A quei tem­ pi i poeti non potevano contare sui «diritti d'autore». Dove­ vano farsi mantenere da qualche potente, secondandone le propensioni. In compenso avevano vita facile a Corte, go­ devano le simpatie e spesso le grazie delle gentildonne e, a furia di mescolarsi coi gentiluomini, si consideravano tali anch'essi, si vestivano come loro con sontuosi mantelli rica­ mati d'oro e orlati di pelliccia, e partecipavano a cacce e tor­ nei. Di solito, per il piacere dei loro regali anfitrioni, oltre ai versi, componevano aiiche la musica, e alla fine dei banchet­ ti declamavano le loro strofe accompagnandosi sul liuto. Le loro poesie erano di diversi generi. D'amore, era la canzone; di filosofia o di moralità, la tenzone. Il sirventese era un canto di guerra; il pianto, di dolore o di morte. La ballata era un racconto col «fatto»; la serenata un omaggio serale; la pastorella un dialogo. Quanto alla metrica, il colmo della bra­ vura era rappresentato dalla sestina, complicata sequenza di sei stanze, ognuna di sei versi, inventata da un Arnaldo Da­ niello, che Dante ammirò molto e studiò attentamente. Questa poesia era molto più esportabile della Canzone di gesta perché tutta di maniera e affidata più alla tecnica che all'ispirazione. I temi erano convenzionali e prestabiliti. L'a­ more coniugale essendo severamente bandito perché trop­ po banale per essere oggetto di galanteria, colei che ispirava il poeta doveva restare senza connotati in modo che nessun marito potesse riconoscervi la propria moglie. Di qui l'allu­ sività di questi componimenti tutti in tono sospiroso e evasi-

63 vo. A dar loro un'impronta originale riuscirono in pochi: Bernard de Ventadour (che Petrarca doveva riconoscere, bontà sua, inferiore solo a se stesso), Rambaldo de Vaquei- ras, Peire Ramon, Folquet de Romans. Fu la Crociata contro gli Albigesi a spargere il seme dei Trovatori anche in Italia. Gli Albigesi avevano trovato pro­ tezione presso i Signori della Francia meridionale, grandi patroni della poesia: non perché costoro s'interessassero di questioni teologiche: non credendo in nulla, non credevano nemmeno nell'eresia. Ma l'eresia era un buon pretesto per affermare l'indipendenza dai poteri centrali: sia quello spi­ rituale della Chiesa che imponeva le sue tasse, dette decime, e ficcava il naso dovunque; sia quello temporale dei Re di Parigi che si chiamavano, senza esserlo, Re di Francia, e che pretendevano ridurre tutto il Paese sotto il loro scettro. Di­ stinguersi da costoro anche sul piano religioso era, per i va­ ri Conti di Provenza, di Aquitania eccetera, un modo come un altro per ribadire la propria autonomia. Così questi Si­ gnori si trovarono coinvolti nella lotta contro gli Albigesi. Alcuni ci rimisero la vita, altri i domini, le loro Corti furono disperse. I Trovatori dovettero cercare ospitalità altrove. E molti la trovarono in Italia. Qui ce n'era già stato uno, in veste di precursore: Sordel- lo da Goito, per cui Dante professò una grande ammirazio­ ne. Era il figlio di un piccolo nobile mantovano, che alla vita di campagna aveva preferito quella girovaga del poeta, e si era accasato dal Conte di San Bonifacio a Verona. Bello, ele­ gante, facondo, intrepido donnaiolo, si era sdebitato con l'anfitrione seducendone la moglie Cunizza, sorella di Ezze­ lino da Romano, e gliel'aveva portata via, per poi abbando­ narla, o esserne abbandonato: non si sa. Un po' per paura dei sicari del Conte inferocito, ma più ancora forse perché vi si sentiva più a suo agio, era emigrato in Provenza, patria dei Trovatori, si era imbrancato con loro e ne aveva adotta­ to la lingua. Era stato uno dei migliori rappresentanti di quella scuola

64 poetica. Ma non fu lui a importarla in Italia. Furono quelli che vennero a cercarvi riparo. Alcuni lo trovarono nelle re­ gioni del Nord, dove il feudalesimo aveva maggiormente attecchito creandovi una vita di castello non molto diversa da quella di Francia. Specialmente le signore, che vi si an­ noiavano a morte, furono felici di spalancare le porte a que­ sti girovaghi menestrelli che portavano coi loro versi un sof­ fio di fantasia, di modernità, di esotismo e di erotismo: un pretesto di «evasione», insomma, come oggi si direbbe. Altri invece presero la strada del Sud, attratti dal mecenatismo di Federico II, alla cui Corte trovarono larga ospitalità. Federi­ co si piccava di poesia. Ne componeva egli stesso. Ne com­ ponevano i suoi figli Manfredi e Enzo, il suo Primo Ministro Pier delle Vigne, alcuni gentiluomini del suo seguito come Rinaldo d'Aquino, Giacomino Pugliese, Guido delle Colon­ ne, Jacopo da Lentini. Costoro vanno ricordati perché furono i primi a compor­ re versi in una lingua che non era più latina, anche se non si può dire che fosse del tutto italiana. Era una specie di sici­ liano «illustre», che lo fu particolarmente in Ciullo d'Alca­ mo, il più originale e spontaneo di questi pionieri. Ma i te­ mi li avevano portati i Trovatori e restavano quindi d'imita­ zione. Per acquistare un carattere veramente italiano, que­ sta poesia doveva arrivare a Firenze. E c'era arrivata, poco prima che Dante nascesse. Guitto- ne d'Arezzo, Folcacchiero dei Folcacchieri, Arrigo Testa, Bo- nagiunta Orbiciani, Paolo Lanfranchi, Ciacco dell'Anguilla- ra, per non citare che i più noti, avevano debuttato anch'es­ si come imitatori dei provenzali. Ma ben presto il clima del­ la città fornì loro altri motivi. A Firenze la vita non ruotava intorno ai capricci dei castellani e delle loro mogli, ma in­ torno alle passioni di parte politica. E perciò il «messaggio», come oggi si direbbe, di questi suoi primi poeti, si fece subi­ to civile e ideologico, cioè «impegnato». I più bei versi di Guittone sono quelli dedicati alla battaglia di Montaperti. Ma siccome a Firenze non si può fondare una scuola che

65 non susciti immediatamente un'antiscuola, a distanza di po­ chi anni nacque quella nouvelle vague, in cui Dante poi s'im­ brancò. È difficile, si sa, ricostruire con esattezza l'albero ge­ nealogico di una scuola poetica. Forse il titolo di fondatore spetta in questo caso al figlio di Federico II, Enzo. Prigio­ niero dei bolognesi, egli sfogava la malinconia della sua soli­ tudine in versi che ricordavano quelli dei Trovatori acquar­ tierati nella Corte di suo padre Federico. La sua voce giun­ se all'orecchio dei fiorentini non per via diretta, ma attra­ verso il giurista e filosofo Guido Guinizelli. Con la canzone «A cor gentil repara sempre amore», questi compose il vero «manifesto» dello Stil novo. La novità, per ridurla all'essenziale, consisteva in questo. L'amore dei provenzali era stato estetico e sensuale, ma ano­ nimo. L'identità di colei che lo aveva suscitato veniva nasco­ sta sotto il senhal o pseudonimo. Ed è naturale perché si trat­ tava solitamente di un tributo alla padrona di casa, e biso­ gnava salvare il prestigio coniugale del marito, cioè di colui che forniva l'ospitalità al poeta. Gli stilnovisti fecero il contrario. Tolsero all'amore ogni contenuto carnale. E, resolo in tal modo inoffensivo, pote­ rono metterci sopra l'indirizzo della destinataria. A chi po­ teva dar noia? Disincarnata e angelicata, l'ispiratrice non è più la moglie né la figlia né la sorella di nessuno. E solo un simbolo di perfezione spirituale e uno strumento di eleva­ zione a Dio. Ciò che conta non è lei, ma il sentimento che suscita. Ed è infatti su di esso che gli stilnovisti si accanisco­ no, vivisezionandolo e rivoltandolo con una casistica punti­ gliosa e, a dire il vero, abbastanza uggiosa. I cultori di questo nuovo credo poetico erano Cino da Pi­ stoia, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi. Erano degli esteti, i cui equivalenti si ritrovano a scadenza di ogni due o tre generazioni, e ogni volta cre­ dono d'inventare chissacché. Predicavano quella che oggi si chiamerebbe «l'arte per l'arte», cioè una poesia «disimpe­ gnata» da tutto, anche dal bisogno di piacere ai Signori che

66 avevano mantenuto i Trovatori nei propri castelli. E poteva­ no permetterselo perché erano di famiglia aristocratica o della ricca borghesia. Costituivano insomma la «gioventù dorata» di Firenze.

Dante non era dei loro né come nascita né come mezzi. Scontroso, piuttosto mingherlino, con un gran ciuffo di ca­ pelli neri a gronda sulla fronte, ammirava di lontano quei giovani che lo sopravanzavano in tutto, nel nome e nei mez­ zi. Ammirava specialmente Cavalcanti, che aveva dieci anni più di lui, apparteneva a una casata fra le più cospicue di Firenze, ed era già celebre come poeta. Guido aveva un ca­ rattere altero, solitario e impetuoso. In una delle tante paci che si erano fatte tra i due partiti in lotta, lo avevano sposa­ to d'autorità, a dodici anni, con la figlia di Farinata degli Uberti, il prestigioso capo ghibellino. Il matrimonio politico era rimasto senza amore. Ma Guido se ne consolava con una Giovanna. Autoritario e impaziente, nelle discussioni pren­ deva a sassate i suoi contraddittori. Eppure fu proprio lui che aprì le porte di quel ristretto circolo d'iniziati a Dante, quando questi gli mandò una poe­ sia nello stile di cui Guido era considerato il maestro. Certa­ mente Dante l'aveva scritta perché, come i fatti ampiamente dimostrarono in seguito, la poesia l'aveva nel sangue. Ma a ispirargliela ci fu probabilmente anche l'ansia di una «pro­ mozione» sociale. I Trovatori avevano in un certo senso no­ bilitato il mestiere, esercitandolo nelle Corti. Gli eroi delle loro canzoni erano tutti Cavalieri, e cavallereschi i loro idea­ li di onore, di fedeltà, di giustizia. Così fra aristocrazia e poesia si era creata una sostanziale solidarietà. Ora, anche nelle città mercantili come Firenze, le caste erano chiuse. Le 250 famiglie nobili della città facevano vita a sé e avevano un club esclusivo che si chiamava «Società delle Torri». I bor­ ghesi, per esservi accolti, spendevano miliardi, perché era­ no terribilmente snob. Lo era anche Dante, specie da giova­ ne. E il sonetto mandato a Guido era l'unico passaporto di

67 cui poteva valersi per entrare in un «giro» più alto di quello da cui per nascita proveniva. Guido, che aveva del talento e quindi era sensibile anche a quello altrui, gli tese una mano e gli dette il benvenuto. Cominciarono per Dante anni felici, gli unici anni felici della sua tribolata esistenza. Ora apparteneva anche lui alla «gioventù dorata» di Firenze. Anche se il suo borsellino era piuttosto sguarnito e le maniche del suo vestito (segno in­ confondibile, a quei tempi, di rango economico e sociale) meno sgargianti di quelle dei suoi nuovi compagni, faceva parte del loro gruppo, aveva vent'anni, e le ragazze per strada se lo additavano come l'autore di poesie che già cir­ colavano per la città. Più che per la perfezione dei versi e per il loro contenu­ to, esse forse erano popolari grazie alla musica. Come tutti i suoi contemporanei, Dante musicava le sue strofe. Non componeva da sé, sebbene pare che di musica s'intendesse. Ma sapeva scegliere abbastanza bene i suoi collaboratori. «Amor che nella mente mi ragiona» glielo musicò Casella, e «Deh, Violetta, che in ombra d'amore», Socchetto. Che vita conducesse coi nuovi amici, non si sa. Ma si sa che costoro razzolavano in maniera assai diversa da come predicavano coi loro versi, tutti intesi ad angelicare la don­ na e a spiritualizzarla. Guido, dopo aver goduto in esclusiva quelle di Giovanna, divideva con Lapo Gianni le grazie di una Lapa, in un ménage a tre degno del più spregiudicato teatro francese del Novecento; e Dino Frescobaldi era sulla bocca di tutti per via delle avventure galanti che il nome, il portafogli e l'atletica muscolatura gli facilitavano. Essi si riu­ nivano per discutere con teologico impegno i problemi mo­ rali dello Stil novo. Per esempio: la dama tradita da un amante ha diritto di prendersene un altro più fedele? Ecce­ tera. Ma non rifuggivano da passatempi di salotto e di ta­ verna. Tuttavia i cànoni andavano rispettati. E quelli dell'«amor cortese» caro agli stilnovisti esigevano che anche Dante eleg-

68 gesse una dama a ideale poetico e di vita. Probabilmente fu soprattutto per questo che si ricordò di Beatrice. Non ci sa­ rebbe nulla di bizzarro se l'amore, in Dante, fosse nato dalla poesia, e non viceversa. E nulla toglierebbe alla grandezza dei suoi risultati. Non aveva più avuto occasione di avvicinarla. Egli dice che, per tenerla al riparo dalle maldicenze, aveva finto di corteggiare un'altra e poi un'altra ancora. Dovette farlo tut­ tavia con poca discrezione perché a Firenze se ne parlò co­ me di tresche bell'e buone. E la voce dovette arrivare anche all'orecchio di Beatrice che, incontratolo un giorno per stra­ da, non gli ricambiò il saluto. Ciò potrebbe far sospettare che anche lei fosse innamo­ rata di Dante e perciò se ne sentisse tradita. Ma non è così. Semplicemente, essa sapeva che Dante l'aveva promossa a Ideale, parlava di lei come della sua ispiratrice, e sapeva che tutti lo sapevano. Avere un poeta ai suoi piedi, senza corri­ spettivo, la lusingava. E scoprire a un tratto che costui, vol­ tato l'angolo di strada, andava a consolarsi con altre, la indi­ spettì. Nulla di male. E umano. Fecero la pace anni dopo, quando tornarono a incontrar­ si a una festa di nozze, che forse erano quelle di lei con Si­ mone de' Bardi. Egli racconta che, rivedendola, a tal punto sbiancò e fu assalito dal tremore che un amico lo trascinò via, mentre le altre donne ammiccavano a Beatrice che sor­ rideva per la bella rivincita. Non si rividero, pare, mai più.

Alcuni storici dicono che subito dopo Dante andò a comple­ tare i suoi studi a Bologna, ch'era la più rinomata Universi­ tà italiana. In quella città soggiornò di certo perché vi lasciò anche un sonetto - scherzoso, rugginoso e mediocre - sulla Torre della Garisenda; ma non si sa quando. Comunque, la laurea non la prese. E l'unico vantaggio che ritrasse da quel soggiorno, fu l'amicizia con Cino, scacciato da Pistoia e rifu­ giatosi lì per vicende politiche.

69 A queste vicende Dante, fin allora, si era mantenuto estraneo, anche perché il credo estetico degli stilnovisti non obbligava a impegnarvisi, anzi ne scoraggiava. Ma Firenze seguitava ad essere agitata dalle passioni. I guelfi avevano ripreso il sopravvento dopo la fine degli Hohenstaufen. Ma, come abbiamo già detto, papa Gregorio X, che non voleva restare alla mercé dei francesi di Parigi e di Napoli, aveva salvato lì per lì i ghibellini dalle solite vendette. Nel '73 c'era stato un compromesso fra le due parti, ma Carlo d'Angiò lo aveva fatto abortire intervenendo di persona e obbligando i ghibellini alla fuga. Nel '79 venne il Cardinale Latino a cer­ car di stabilire una pace definitiva. Fu costituita una nuova magistratura, quella dei 14 «Buoniuomini», di cui otto do­ vevano essere guelfi e sei ghibellini, controllati da tre «Prio­ ri», i quali poi diventarono sei. E impossibile raccapezzarsi nel mutevole intrigo delle magistrature fiorentine. Ognuna di esse rappresentava una conquista della democrazia. Ma il suo unico effetto era quel­ lo di contribuire all'impotenza di tutte, come purtroppo la democrazia sembra esigere, almeno in Italia. Questo nuovo governo, imperniato sul Capitano del Popolo, sul Podestà (entrambi stranieri per legge) e sui Priori, che in breve ri­ succhiarono i poteri dei Buoniuomini, si chiamò «Signoria». E come in pratica funzionasse, non si sa. Si sa solo che fun­ zionava male. Malgrado queste interne debolezze, Firenze aveva con­ dotto una energica politica estera. Capeggiava la «Lega Guelfa» delle città toscane su cui aveva affermato la sua lea­ dership. A farle resistenza erano ancora rimaste solo Pisa e Arezzo. Pisa, che significava lo sbocco al mare, era stata or­ mai ridimensionata da Genova. Restava Arezzo, centro di tutto il ghibellinismo toscano, anzi italiano, capeggiato dal Vescovo Degli libertini, un prete che preferiva il manganel­ lo alla Croce. Il 2 giugno dell"89 l'esercito fiorentino, comandato dal generale angioino Amerigo di Narbona e rafforzato dai con-

70 tingenti delle altre città guelfe di Toscana, scese sulla città nemica per liquidare la partita. Contava 12.000 uomini, e fra di essi c'era il ventiquattrenne Dante. Il nemico, forte di novemila uomini al comando dell' li­ bertini, di un Montefeltro e di un Guidi, attendeva nella piana di Campaldino. Lo scontro avvenne ITI giugno. E, stando al Villani, cominciò piuttosto male per i fiorentini, che al centro dello schieramento furono sopraffatti e sban­ darono. Ma le ali tennero, e si richiusero sugli aretini che si erano gettati nella falla. Essi lasciarono sul terreno quasi duemila morti, fra cui il vescovo Libertini, tre Uberti, Bon- conte di Montefeltro, insomma i comandanti più in vista. Fra i fiorentini che si segnalarono ci furono Vieri Cerchi e Corso Donati, destinati entrambi a far parlare di sé. A Poppi e a Bibbiena mostrano ancora un anfratto dove si dice che Dante, colto dal panico, si sarebbe rifugiato. Non è vero. Si era trovato nel punto critico della mischia e aveva corso un brutto rischio. Può anche darsi che di paura ne ab­ bia avuta, e sembra che lo abbia confessato in una lettera, purtroppo andata persa, in cui descriveva la battaglia e ne faceva anche un grafico. Ma non scappò. L'uomo era im­ pressionabile, ma non codardo. E probabile che in questa occasione abbia conosciuto Cecco Angiolieri, che faceva parte del contingente senese. Cecco era un «poeta maledetto» avanti lettera, che faceva disperare la sua famiglia ricca, avara e bigotta. Ribaldo e manesco, c'era in lui del Sordello, ma da taverna, invece che da Corte. Aveva pressappoco l'età di Dante, ma era già un avanzo di galera. Amava solo il vino, i dadi e le prostitute. Tradiva una moglie litigiosa e brutta con una popolana di nome Becchina, figlia di un calzolaio, che gli restituiva, pan per focaccia in fatto di prepotenze, turpiloquio e corna. Si mangiò tutto il patrimonio, e finì a Roma in miseria. Era tal­ mente oberato dai debiti, che i figli ne rifiutarono l'eredità. Però poeta lo era, forse più di molti stilnovisti. Sotto le sue rime arruffate e le sue schiamazzanti invettive, si sente

71 la tristezza di un uomo sbagliato per la sua vita sprecata. E forse egli stesso si descrisse, per polemica, peggiore di quan­ to fosse. Non è storicamente sicuro che con Dante si sia per­ sonalmente incontrato. Però se ciò avvenne, non potè esse­ re che sotto le mura di Arezzo, perché le loro vite non ebbe­ ro altre coincidenze. Certo, non erano fatti per intendersi. In seguito Cecco dedicò a Dante tre sonetti di corbellatura rimproverandogli qualche contraddizione fra prediche e razzolamenti. E l'accusa non era infondata. Il ritorno a Firenze non significò per Dante la fine del servizio militare. Egli prese ancora parte alle operazioni contro Pisa, e certamente partecipò all'assedio e al sacco del castello di Caprona, com'egli stesso più tardi ricordò. Finalmente congedato, giaceva in letto ammalato, quan­ do seppe della morte di Folco Portinari, padre di Beatrice. Firenze tributò solenni esequie a quel banchiere filantropo, che fra l'altro aveva fondato l'ospedale di Santa Maria Mag­ giore, «colonna dello Stato». Pochi mesi dopo, la figlia lo se­ guì nella tomba, e non aveva che venticinque anni. Dante dice di esser rimasto annientato dalla scomparsa di Beatrice, di averne dato l'annunzio in una lettera aperta «ai Principi della Terra», che però non si è mai trovata, e di essersi indignato vedendo dalla finestra alcuni passanti che si comportavano come se nulla fosse successo. Può darsi. Ol­ tre ai passanti però egli vide, affacciata a una casa dirimpet­ to, una donna che lo guardava con espressione di pietà e di tenerezza. Ne provò un sentimento di gratitudine. E sicco­ me da cosa nasce cosa, ne venne fuori una «relazione» bella e buona. Molti dantisti dicono che questa donna non era che il simbolo della Filosofia in cui Dante si sarebbe rifugia­ to per trovar conforto. Ma noi non abbiamo mai saputo che la filosofia si chiami anche Lisetta. E che si trattasse di una creatura in carne ed ossa lo dimostra il fatto che, quando volle occupare nel cuore di Dante il posto di Beatrice, egli la scacciò: cosa che con la filosofìa non avrebbe avuto ragione di fare. Dopodiché si ammogliò.

72 Boccaccio, suo primo biografo, dice che fu la famiglia a sposarlo quasi di forza nel vederlo dimagrito, insonne e di­ sfatto; e che lui lasciò fare per mancanza di forze. La verità è più semplice. E emersa da un documento del 1277, che ri­ produce l'impegno di nozze, con tanto di notaio, fra il dodi­ cenne Dante Alighieri e la sua quasi coetanea Gemma Do­ nati. Lo avevano steso i due rispettivi genitori, com'era l'uso del tempo. Anche Guido Cavalcanti si era sposato così con la Uberti. Gemma apparteneva a una casata fra le più nobili, e ave­ va anche una certa dote. Boccaccio la descrive egoista, me­ diocre, arida e querula, una mezza Santippe. Ma Boccaccio, in odio alla sua, era un nemico giurato di tutte le mogli. Dai fatti risulta che Gemma si comportò molto bene nei con­ fronti del marito. Lo aiutò nei momenti di bisogno, allevò i figli dei quali egli ben poco si curò, e lo stesso Boccaccio le riconosce il merito - che forse non le compete - di aver sal­ vato i primi sette Canti della Commedia. Semmai, fu Dante che la ripagò piuttosto male, perché subito dopo le nozze cominciò per lui un periodo di dissi­ patezze, che Guido in questa vita e Beatrice nell'altra dove­ vano aspramente rimproverargli. Si era imbrancato in una brutta compagnia: quella di Forese Donati, detto Bicci, cu­ gino di Gemma. E trascorreva il tempo tra Fiorette, Violet­ te e Pargolette, che non dovevano essere ragazze di costumi precisamente illibati. Ciò non gl'impedì di mettere al mon­ do con Gemma un certo numero di figli: due o tre maschi, Pietro, Jacopo, e forse un Giovanni, e due femmine, Anto­ nia e Beatrice, che però forse sono la stessa persona. Di che vivesse, non sappiamo. Come tutti coloro che volevano go­ dere di pieni diritti politici, si era iscritto anche lui a un'Ar­ te, quella dei Medici e Speziali. Perché abbia fatto questa scelta, è incerto. Forse perché appunto non praticava rego­ larmente nessun mestiere e quindi poteva sceglierne, come etichetta, uno qualunque. O forse perché ai Medici e Spe­ ziali potevano aderire tutti i consumatori di generi chimici.

73 Giotto vi si era iscritto perché consumava colori; Dante, per­ ché consumava inchiostro. Comunque, dovett'essere so­ prattutto Gemma a mandare avanti la famiglia con la sua dote. Egli dice che a mettere fine a questo scapestrato inter­ mezzo fu un sogno in cui gli apparve la «mirabile visione» di Beatrice. Svegliandosi, giurò a se stesso di dire di lei ciò che nessun uomo aveva detto di nessun'altra donna al mondo. Forse gli era nata in testa l'idea della Commedia. Ma, oltre al sogno, ci fu anche un'altra cosa a trarre la sua vita per un altro verso: la politica. Questa era ora entrata in una fase acuta, sebbene non avesse più nessun contenuto ideologico. Ne aveva avuto al tempo della lotta fra Guelfi e Ghibellini, quando si era trat­ tato della scelta fra la Chiesa e l'Impero. Ma oramai l'Impe­ ro non era più che un ricordo e i Ghibellini, dopo la batta­ glia di Campaldino, ridotti all'impotenza. Restavano però le rivalità personali, di ambizione, di or­ goglio, d'interessi. Che non si trattasse d'altro, lo dimostra il metodo che le magistrature seguivano per istaurare qual­ che tregua: i matrimoni. Essi erano imposti dallo Stato per­ ché rappresentavano appunto un affare di Stato. Quando un nemico sposava una nemica, si supponeva che l'odio, fra le due famiglie, cedesse il posto alla solidarietà, anche se spesso succedeva il contrario. E questo modo d'intendere la politica come fatto personale è rimasto nel sangue fiorenti­ no fino a Fanfani. Ora i Guelfi, non avendo più da combattere i Ghibellini, si erano divisi per combattersi fra loro. Le due fazioni si chiamarono dei Bianchi e dei Neri su imitazione di quelle di Pistoia, dove una famiglia, quella dei Cancellieri, si era ap­ punto divisa in un ramo bianco e in un ramo nero trascinan­ do nei suoi odi e insanguinando tutta la città. A Firenze la rissa era scoppiata per una questione di pri­ mato economico e sociale fra due dinastie di Magnati. Quel­ la Bianca era capeggiata da Vieri Cerchi, quella Nera da

74 Corso Donati, fratello di Forese e cugino di Gemma Alighie­ ri. L'odio era divampato per futili motivi di prestigio. I Cer­ chi, ch'erano dei nuovi ricchi pieni di soldi, ma poveri di blasone, avevano comprato il più bel palazzo di Porta San Piero, dove abitavano anche i Donati che sin allora l'aveva­ no fatta da padroni in quel sestiere. E li avevano offuscati coi loro sfarzi. Corso non era uomo da subire un simile oltraggio. Di an­ tica nobiltà guerriera, aveva conservato l'orgoglio e l'insolen­ za della sua casta. Era bello, coraggioso e beffardo. Lo chia­ mavano «il barone», e nella «società delle Torri», gli si rico­ nosceva autorità di capo. Egli non ammetteva che questa po­ sizione di preminenza gli venisse insidiata da un figlio di contadini come Vieri Cerchi che, arricchitosi col commercio e la banca, si era comprato il titolo nobiliare di Cavaliere. Ma Vieri, anche se non aveva sangue blu, aveva i soldi e sapeva usarli. Meno tracotante e pittoresco del suo avversa­ rio, era però altrettanto coraggioso, tenace e accorto. Tolse a Corso, attraendoli nel vasto giro dei propri affari di ban­ ca, molti alleati di gran nome e potenza come i Cavalcanti, i Tornaquinci, i Pazzi, parte dei Frescobaldi. E fin qui, era tutto normale, compreso il sangue che ogni poco correva fra le due fazioni: a Firenze le fazioni c'erano sempre state, e il sangue era sempre corso. Ma il conflitto di dinastie si trasformò in guerra civile, quando Bonifacio Vili pretese di servirsene per le sue ambizioni di potere temporale. Egli voleva - lo abbiamo già detto - annettere la Toscana agli Stati della Chiesa. E perciò aveva chiamato Carlo di Valois. In quel momento, a Firenze, era al potere la fazione Bianca. Il Donati, che aveva cercato di rovesciarla con la corruzione e la violenza, era stato bandito. Ma il Papa lo aveva accolto e nominato governatore di una delle sue pro­ vince. Così la fazione Nera era diventata il partito della Chiesa e del Valois, che scendeva dalla Francia, contro l'in­ dipendenza fiorentina difesa dalla fazione Bianca.

75 Fu, per sua disgrazia, in questa emergenza che Dante venne alla ribalta politica. Per quali motivi si trovasse im­ brancato coi Bianchi, non si sa. I legami di famiglia avreb­ bero dovuto spingerlo dalla parte dei Neri perché, grazie al matrimonio con Gemma, era diventato cugino dei Donati. Ma forse a trarlo coi Bianchi furono un po' l'indignazione per le prepotenze di Corso e molto - crediamo - la solida­ rietà col suo vecchio amico Guido Cavalcanti, che il «baro­ ne» aveva tentato di fare assassinare. Dante, in politica, aveva debuttato a trent'anni, nel '95. Ma non aveva ricoperto che cariche minori. La sua carriera prese l'aìre solo dopo la vittoria dei Cerchi. E il fatto ch'egli si mettesse sempre più in vista via via che svanivano le pos­ sibilità di compromesso fra le due fazioni, dimostra ch'egli vi svolse una parte di oltranzista, del resto in carattere col suo carattere. Nel maggio del '300 lo mandarono ambascia­ tore a S. Gimignano. E nella sala del Consiglio di quella cit­ tà c'è una lapide che ricorda la venuta del Poeta. A leggerla, si direbbe che Dante abbia riportato lì il suo primo trionfo. Invece risulta che la missione fallì. Ma l'insuccesso non gl'impedì di essere, il 15 giugno, no­ minato Priore. Era la più alta carica elettiva, e non durava che due mesi. Ma quei due mesi gli bastarono per assumere una responsabilità tremenda che doveva costargli cara: lo sterminio della fazione Nera di Pistoia, che ostacolava la po­ litica estera della Firenze Bianca. E difficile dire fino a che punto il sangue che corse (e ne corse molto) ricada su Dan­ te. Però non c'è dubbio che le sue mani ne uscirono mac­ chiate. E forse questo contribuì ad accentuare la sua intran­ sigenza. Egli ormai era il nemico dichiarato del Papa che aveva scomunicato la città, e del Valois che in suo nome marciava su di essa. Ci sembra quindi poco attendibile la notizia, tramanda­ taci da Dino Compagni, che il Comune incaricò proprio lui di un'ambasceria di pace a Bonifacio. Boccaccio, suo primo biografo, racconta che il Poeta, ai Priori che gli proponeva-

76 no quella missione, rispose perplesso: «Se io vado, chi rima­ ne? Se io rimango, chi va?» Sono parole che somigliano al personaggio e al suo immenso orgoglio. Ma non crediamo che le abbia pronunciate perché escludiamo che la missione venisse proposta proprio all'uomo meno indicato ad assol­ verla. La Storia ha accolto la versione di Compagni solo per­ ché la scena di Dante e Bonifacio di fronte e ai ferri corti esercita una suggestione drammatica cui nessun biografo ri­ nunzia volentieri. Comunque, l'ambasceria fallì. Firenze, che poteva mettere in campo migliaia di uomini bene armati, si arrese alle poche centinaia di cavalieri del Valois. Il Donati tornò coi suoi squadristi neri, e subito co­ minciò la «purga». Dante fu tra i primi nove a essere con­ dannato al rogo, e ciò dimostra il rilievo che aveva assunto nella fallita resistenza. La sentenza porta la data del 27 gen­ naio 1302, e si può ancora leggere nel sinistro Libro del chio­ do conservato negli archivi fiorentini. Ma fu pronunciata in contumacia perché il Poeta era già fuggito col fratellastro Francesco, suo volontario compagno di esilio. La vendetta si abbatté sulla casa del bandito. Com'era uso fiorentino, i picconieri la presero d'assalto sotto l'occhio vigile del Podestà e quello - immaginiamo - bagnato di la­ crime di Gemma. Il tetro edificio trecentesco che ancora qualcuno si ostina a considerare la casa di Dante, non è quindi di certo la sua.

Da allora cominciò per lui una vita girovaga, di cui è impos­ sibile ritracciare con esattezza gl'itinerari. Dapprima fu cer­ tamente ad Arezzo, rifugio dei Bianchi, e per un certo tem­ po prese parte attiva ai tentativi degli esuli di rientrare in patria con la forza. Ma i tentativi fallirono, e pare che la re­ sponsabilità fosse addebitata a Dante, che aveva consigliato di affidare la condotta delle operazioni al suo amico Scar­ petta Ordelaffi. Non sono che voci e supposizioni. Ma è ac­ certato che Dante abbandonò presto quella «compagnia malvagia e scempia», com'egli la chiamò, per fare «parte per

77 se stesso», com'era scritto del resto nel suo destino, cioè nel suo carattere solitario, sprezzante e scostante. Prese la via del Nord e si stabilì a Verona, ospite di Bar­ tolomeo della Scala (o di suo figlio Alboino, non si sa). Vero­ na aveva già trasformato il regime comunale in Signoria ab­ bandonandosi nelle mani di quella ricca e potente casata. Il Poeta fu amichevolmente accolto nel palazzo e si sdebitò col suo anfitrione svolgendo per lui alcune missioni diplomati­ che in altre città. A Padova ebbe la ventura d'incontrare Giotto, ch'era venuto a dipingervi gli affreschi della Chiesa dell'Annunziata. Si erano già conosciuti a Firenze, e si rivi­ dero con piacere. Poco dopo si trasferì in Lunigiana, dai Malaspina. A quei tempi gli esuli erano sempre bene accolti prima di tutto per­ ché chiunque poteva diventarlo da un momento all'altro, e quindi tutti avevano interesse a rispettare la regola dell'o­ spitalità; eppoi perché, quando erano di un certo livello cul­ turale come Dante, facevano comodo: di gente che sapesse leggere e scrivere, fuori del clero, ce n'era poca. Infatti Dan­ te, anche per conto dei Malaspina, svolse trattative diplo­ matiche e notarili col Vescovo di Luni, e così si guadagnò il pane. Boccaccio racconta, di questo periodo, una strana storia. Dice che Gemma, nel vuotare la casa prima della demolizio­ ne, aveva trovato in un forziere un manoscritto in versi. Dapprima li mise da parte senza curarsene. Poi li fece leg­ gere a Dino Frescobaldi che se n'entusiasmò e, saputo che Dante era in Lunigiana, glieli rispedì con la raccomandazio­ ne di continuare. Erano i primi sette canti della Commedia che Dante considerava ormai perduti. Non potè subito rimettercisi perché dovette andare in Casentino, chiamatovi dal Conte Guidi di Dovadola. Dante aveva con lui legami quasi di famiglia perché i loro rispetti­ vi bisavoli - il Conte Guido Guerra e Cacciaguida - erano stati, pare, amici. E qui gli capitò una brutta disavventura sentimentale. S'innamorò perdutamente di una «femmina

78 bella e ria», di cui Boccaccio dice ch'era «gozzuta». Altro di lei non si sa, se non che si divertì alle spalle del Poeta più che quarantenne attirandolo e negandoglisi con femminile crudeltà. Qui si perde ogni traccia di lui, e l'ipotesi più accreditata è che abbia soggiornato per un anno a Parigi. Così dicono Villani e Boccaccio, mentre il figlio Jacopo, nei suoi cenni biografici sul padre, non fa parola di questo viaggio. Nel 1881 un filologo francese trovò negli archivi di Montpellier il manoscritto di un poema in italiano, Il fiore, firmato Du­ rante, cioè col vero nome di Dante. Era lo stringato riadat­ tamento di un prolisso poema francese di contenuto porno­ grafico. I dantisti hanno naturalmente sempre respinto con orrore l'ipotesi che fosse opera di Dante. Ma vi compare un sonetto, piuttosto ribaldo, che il Poeta aveva composto in Casentino. Sicché almeno il dubbio rimane. Nel 1308 Dante era in Toscana, nuovamente immerso nella politica. Ve lo aveva richiamato la discesa in Italia di Arrigo VII che voleva, come abbiamo già visto, restaurarvi il potere imperiale. L'impresa era impossibile, ma Dante se ne infiammò fino a bruciarvi le sue ultime possibilità di per­ dono. Indirizzò una lettera solenne «a tutti e' singoli regi d'Italia e a' senatori dell'alma cittade, a' duchi e a' marchesi e a tutti i popoli» per invitarli a sottomettersi all'Imperato­ re. E andò - pare - a Milano per consegnarla di persona ad Arrigo, che certamente ignorava chi fosse quell'uomo e a quale titolo parlasse in nome della Nazione. La quale Na­ zione dimostrò subito quanta poca intenzione avesse di sot­ tomettersi. E, come abbiamo già detto, i più protervi di tutti furono proprio i compatrioti del Poeta. Agli «scelleratissimi fiorentini» Dante scrisse allora un'al­ tra lettera invocando sulla loro testa morte e distruzione. E una terza indirizzò ad Arrigo per sollecitarlo a castigare la città ribelle. Ne invocava la resa incondizionata, il massacro, l'incenerimento. Probabilmente Arrigo non lesse mai queste missive. Ma i

79 fiorentini, sì. E quindi c'è anche da capirli se, quando di lì a poco decisero di promulgare un'amnistia, ne esclusero il Poeta, cui non rimase altra speranza che l'esercito di Arrigo. Ma quell'esercito era debole, e Arrigo di lì a poco morì. Era la fine delle speranze di Dante.

«Povero assai, trapassò il resto della vita dimorando in vari luoghi per Lombardia e Toscana e per Romagna sotto il sus­ sidio di vari Signori», dice spicciativamente il più serio e do­ cumentato dei suoi primi biografi, il Bruni. E purtroppo non abbiamo molto da aggiungere. È quasi certo che il primo di questi Signori fu Cangrande della Scala a Verona, uno dei più pittoreschi e splendidi de­ spoti dell'epoca. Teneva Corte fastosa e aperta a tutti gli ospiti di passaggio. Ma appunto per questo lo scontroso Dante non dovette trovarcisi molto bene e, pur restando agli stipendi del Signore, si ritrasse in una casetta per conto suo, dove lo raggiunsero i figli. Essi erano stati a loro volta banditi perché Dante aveva declinato l'invito a rientrare in patria facendo «offerta», cioè riconoscendosi colpevole e chiedendo perdono. Lo sdegnoso rifiuto del Poeta è docu­ mentato in una lettera, che però sembra apocrifa. Forse non rispose nemmeno. Non si sa con esattezza quando lasciò Verona, né perché. Il Petrarca, capitato anni dopo nella città scaligera, vi rac­ colse la voce che Cangrande aveva preso in uggia Dante e si divertiva a umiliarlo. Questo è certamente falso: e lo dimo­ stra la tenace gratitudine che il Poeta nutrì sempre per il suo anfitrione cui portava in visione i Canti della sua Com­ media. La chiacchiera del dissidio doveva esser nata dal fatto che Dante a Verona non era mai diventato popolare anche se buona parte della sua opera vi aveva acquistato una certa notorietà. L'uomo non suscitava simpatie e non ne provava per nessuno. Non si era appastato con la vita di Corte, non aveva amici nello Studio, cioè nell'Università, dove forse ave­ va invano sperato di ottenere una cattedra.

80 Furono questi probabilmente i motivi che lo indussero ad accogliere l'invito di Guido Novello da Polenta di stabi­ lirsi a Ravenna. Guido era anche lui uno di quei Signori del Trecento che un po' con la violenza, un po' con l'astuzia ave­ vano affossato gl'istituti democratici del Comune e istaurato un potere personale. Ma lo esercitava in maniera diversa da Cangrande, cioè con meno fasto e più tatto. In gioventù era stato uomo d'armi piuttosto avventuroso ma ora, con la ma­ turità e col «posto» assicurato, si era convertito alla cultura. Viveva in un palazzo molto meno splendido di quello scali­ gero, ma accogliente e foderato di libri. Egli stesso compo­ neva versi, piuttosto bruttini, ma rispettosissimi della gram­ matica e della sintassi. Forse aveva già conosciuto Dante in occasione di qualche missione diplomatica che il Poeta avrà svolto anche a Ra­ venna per conto di Cangrande. Forse venne a sapere di lui da qualche terzina che sarà giunta al suo orecchio dell'In­ ferno, già abbastanza conosciuto nel ristretto ambito della intellighenzia di allora. Forse era grato al Poeta di aver trat­ tato con tanto affetto Francesca da Rimini, ch'era sua zia. Non si sa. Dante venne comunque su suo invito a insegnar retorica - pare - nello Studio, cui Guido dedicava cure particolari. La quiete, il silenzio la criptica bellezza di quella città tom­ bale, chiusa nelle memorie del suo glorioso passato, dovet­ tero piacergli non meno dell'affabilità del suo Signore. La stima e la cordialità con cui si vide accolto sciolsero un po' i nodi del suo carattere angoloso. Non è accertato dove pren­ desse casa: pare davanti al convento dei francescani, dove poi doveva essere sepolto. Comunque, vi si fece subito rag­ giungere dai figli Piero e Jacopo, e dalla figlia Antonia, che gli diedero il calore della famiglia. Questi ultimi anni furono forse i più sereni della sua vita tribolata, certo i più redditizi come lavoro. Guido lo colma­ va di cortesie, e gli amici di affetto. In loro compagnia il Poeta faceva lunghe passeggiate nella stupenda pineta di

81 Chiassi, soste sui sagrati delle cento chiese fra i monumenti bizantini e gotici, e amichevoli visite al palazzo. Ogni tanto Guido lo incaricava di qualche missione, ma riservandogli solo quelle più delicate per non distrarlo dalle sue carte. Fu così che una volta lo mandò a Venezia per risolvere una spi­ nosa diatriba che minacciava di sfociare in una guerra fra le due città. S'ignora come Dante se la cavasse. Forse non fece nemmeno in tempo a svolgere il suo compito perché cadde ammalato e, sentendo approssimarsi la fine, affrettò il ritor­ no. Doveva trattarsi di una forma acuta di malaria perché aveva la febbre altissima e delirava. Quando arrivò a Raven­ na era già allo stremo. Non si sa nemmeno se riconoscesse i volti dei figli e degli amici che si avvicendavano al suo ca­ pezzale. Spirò nella notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321.

I contemporanei non si accorsero molto di quella scompar­ sa: Dante era molto meno conosciuto e ammirato di certi mediocri latinisti come Giovanni del Virgilio; e anche tra i poeti lo si considerava inferiore a un Guinizelli che Bologna aveva laureato ad honorem. La sua grandezza fu scoperta molto più tardi. Il primo a farsene un'idea abbastanza esat­ ta, bisogna riconoscerlo, fu Boccaccio. Ma gli studi critici ve­ ri e propri su di lui cominciarono solo nel Settecento. Il Poeta non aveva sparpagliato il suo talento in una va­ sta produzione. Aveva debuttato con la Vita nova, scritta fra i diciotto e i ventinove anni, eh'è il romanzo poetico del suo amore per Beatrice secondo la convenzione (ahi, quanto vi­ sibile!) stilnovista. Alcune di quelle rime furono poi incluse nel Canzoniere, insieme ad altre, più schiette e immediate, composte nello stesso periodo. Il suo primo lavoro organico è il Convivio, che forse Dante cominciò all'inizio del suo lun­ go esilio per accreditarsi come uomo di dottrina presso co­ loro alla cui porta avrebbe bussato. È uno zibaldone che in 15 trattati doveva sviscerare tutto lo scibile del tempo. Gra­ zie a Dio, il Poeta lo ridusse a tre soli forse perché anche lui

82 ci si annoiò. Più importante è il De vulgari eloquentia, prima trattazione scientifica di lingua italiana. È incompiuta e, dal punto di vista filologico, grossolana e rozza. Per spiegare la diversità delle lingue, Dante si rifa alla torre di Babele. Ma, accanto a queste ingenuità, ci sono anche delle stupefacenti intuizioni. Dante ha compreso che il latino ormai è una lin­ gua morta. Ma teme che quella «volgare» sia travolta dai dialetti per mancanza di un'«aula», cioè di una Corte, che elabori un «volgare» nazionale e illustre. Egli ha già previsto la tragedia della lingua italiana, che è proprio questa di non essersi mai formata. Il ghibellinismo di Dante e il suo senti­ mento monarchico sono meglio espressi in questo trattato, dove s'invoca l'«aula», cioè l'unità nazionale intorno a una Corte laica, che nel De monarchia, composto in onore di Ar­ rigo VII e per dare un fondamento filosofico e giuridico al­ le sue pretese di restaurazione imperiale. Qui Dante ci ap­ pare solo come un nostalgico che sogna l'impossibile ritor­ no alla concezione medievale di un Impero e di un Papato che si dividono fraternamente il potere spirituale e quello temporale sul mondo. Di lui restano anche 13 Epistole, delle molte centinaia che certamente scrisse nel corso della sua vita per annodare amicizie e soprattutto per romperne. Leonardo Bruni dice di averne viste molte altre e ce ne descrive anche la calligra­ fia: «magra e lunga e molto corretta». Infine, le mediocri Egloghe che scambiò con Giovanni del Virgilio e una Quae­ stio de aqua et terra che documenta insieme il suo interesse per la scienza e la sua ignoranza, ch'era poi quella del tem­ po in cui visse. Son tutte operette che avrebbero conferito a Dante un rango pari a quello di Cavalcanti, se a illuminarle di riflesso non ci fosse la Commedia. I dati anagrafici del capolavoro so­ no incerti. Boccaccio dice che Dante ne aveva già composto sette Canti prima di lasciare Firenze. Probabilmente l'idea di quella grande opera gli venne a Roma, quando vi andò per il Giubileo del '300. E Dante lo conferma nel verso d'i-

83 nizio, «Nel mezzo del cammin di nostra vita», cioè trentacin- qu'anni, quanti ne aveva appunto a quella data. Ma non è detto che, concepita l'idea, vi ponesse subito mano. E più probabile che gli sia maturata in corpo piano piano. L'im­ pressione che se ne ricava, leggendola, è di qualcosa che, lungamente meditato, sia stato poi colato di getto. E questo avvenne di certo negli anni dell'esilio, probabilmente fra Verona e Ravenna, perché quella che vi alita dal primo al­ l'ultimo verso è la disperazione del perseguitato che fa ap­ pello alla giustizia di Dio contro quella degli uomini. Non è questa la sede per ritracciare il contenuto della Commedia, che tutti del resto conoscono nelle sue fondamen­ tali linee architettoniche. Boccaccio dice che la prima inten­ zione di Dante fu quella di scriverla in latino. E impossibile non solo perché questo sarebbe stato contrario alle sue con­ vinzioni letterarie, ma anche perché il latino lo maneggiava male. Il meraviglioso viaggio nell'oltretomba è diviso in tre cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso), ognuna di trenta- tré canti che, con quello di prologo, formano un insieme di cento, numero perfetto. Ogni canto a sua volta è diviso in terzine di endecasillabi fra loro legate: il primo verso fa ri­ ma col terzo, il secondo col primo della terzina successiva. Dante non poteva proporsi un «piano» più rigido e sca­ broso. Ma egli era il contemporaneo di Giotto e di Arnolfo, cioè dei grandi costruttori di Cattedrali, e anche lui volle elevarne una concepita secondo gli stessi rapporti e simme­ trie. Poteva farlo perché aveva una padronanza assoluta del verso: egli stesso soleva dire che talvolta si era trovato in im­ barazzo davanti a un'idea, ma mai davanti a una rima. E lo ha dimostrato coi suoi virtuosismi, riuscendo per esempio a chiudere tutt'e tre le Cantiche con la parola «stelle». La Commedia non è un'opera originalissima. Il Medio Evo era pieno di racconti, derivati soprattutto dalla favolistica araba, di viaggi nell'oltretomba. Dante vi attinse, ma ag­ giungendovi qualcosa che lui solo possedeva: la Poesia. Essa non è presente in tutti i quindicimila versi del suo poema,

84 che qua e là divaga o sbadiglia. Ma nessuno ne ha profusa di più e più alta di lui. Dante fa sorridere quando s'impanca nella filosofia. Credeva di essere un teologo e di scrivere una specie di Summa o compendio del pensiero cristiano. Viceversa in questo campo era rimasto alquanto arretrato anche in confronto a molti suoi coetanei che già avevano una qualche dimestichezza con le nuove correnti razionali­ stiche nate in Francia alla scuola di Abelardo e diffuse in Ita­ lia da San Tommaso. Dante era rimasto al Medio Evo, con le sue superstizioni, i suoi terrori e la sua concezione del mondo come di un gran mistero, di cui solo Dio poteva fornire la chiave. Il suo orologio si era fermato al 1300, l'anno del suo esilio. Dopo, non aveva vissuto che di ricordi, ripiegato su se stesso e sul suo passato. Per tutta la vita i suoi pensieri avevano seguita­ to a ruotare su Firenze, Bonifacio, Corso, Vieri, Guido, Bea­ trice. Ma quando attinge a questo pozzo, la sua poesia è su­ blime, e lo è imparzialmente nella preghiera e nella bestem­ mia. I suoi stessi difetti umani - l'orgoglio, l'egocentrismo, la passionalità - sono la condizione della sua grandezza. Non fu un precursore del Risorgimento e dell'unità na­ zionale, come qualcuno scioccamente ha detto. In politica era soltanto un reazionario che sognava l'impossibile restau­ razione dell'unità imperiale. Ma diede agl'italiani lo stru­ mento più necessario a diventar tali: la lingua. In questo Paese d'insopportabili retori latineggianti, il «volgare» di­ ventò nobile solo grazie a Dante. Anche se non avesse altri meriti, questo basterebbe a far di Lui il grande «Padre della Patria».

CAPITOLO OTTAVO

LA «CATTIVITÀ DI BABILONIA»

Il trasferimento della sede apostolica ad Avignone nel 1305 era stato giustificato da Clemente V col fatto che Roma non forniva garanzie di sicurezza e di moralità. La città, aveva detto, era in mano a nobili rissosi e prepotenti, e la sua vita era corrotta fino alle midolla. Era abbastanza vero. Ma Avi­ gnone non prometteva di essere meglio, perché dovunque la Corte papale si acquartierasse, si scatenava la lotta di fa­ zioni e d'influenze per impadronirsi del Soglio o per asser­ virlo con tutt'i mezzi, violenti o ritorti. La verità è che Cle­ mente era francese e francese era la maggioranza dei Cardi­ nali, ligi alla volontà del loro Re che non voleva trovarsi di fronte a un altro Bonifacio VIII. Non aveva quindi del tutto torto chi considerava il Papa prigioniero e chiamò il perio­ do di Avignone «la cattività di Babilonia». Al timido, introverso e tormentato Clemente era succedu­ to lo scaltro e intraprendente Giovanni XXII, che considerò la Chiesa come una grande impresa d'affari, e come tale bi­ sogna dire che la governò benissimo restituendo alle casse vaticane tutta la loro floridezza. Un po' meno brillò come pa­ store di anime e teologo. S'intromise in una disputa sugli at­ tributi divini della Vergine Maria e proclamò che anch'essa, per essere assunta in cielo, doveva aspettare il giorno del giudizio universale. C'erano dei poveracci che, per bestem­ mie molto meno gravi, erano finiti sul rogo. Giovanni se la cavò perché era Papa e perché aveva novant'anni. Ma susci­ tò un uragano di proteste, la sua affermazione fu definita eretica da un sinodo di Vincennes, ed egli non fu costretto a ritrattarla solo perché, vecchio com'era, non fece in tempo.

87 Il suo successore, Benedetto XII, tentò di rimediare i guasti che Giovanni aveva provocato con la sua disinvoltura nel distribuire cariche a chi le pagava meglio. Era così ch'e­ gli aveva rimpinguato le sue finanze, ma aveva anche dete­ riorato i quadri della Chiesa. Benedetto cercò di bonificarli, ma potè farlo perché Giovanni aveva rimpinguato le finan­ ze. La lotta contro il sottogoverno e le bustarelle non gli procurò nessuna popolarità. Ormai affezionati a quei meto­ di, tutti trassero un respiro di sollievo quando Benedetto prematuramente morì (1342), e furono concordi nell'eleg- gere un successore che tornasse alla vecchia buona regola delle mance e delle camorre. Clemente VI, anche lui francese, era nato signore, da si­ gnore aveva vissuto, e dichiarò subito che non capiva per­ ché da signore non avrebbe dovuto continuare a vivere an­ che come Papa. I soldi, disse, ora c'erano; e invitò tutti ad approfittarne. Un testimone racconta che furono oltre cen­ tomila i preti che vennero a bussare alla sua porta, e nessu­ no tornò via a mani vuote. Ma a beneficiarne furono anche i laici, soprattutto gli artisti e i poeti, le donne, che ebbero li­ bero ingresso a Corte, e perfino i cavalli. Clemente fu un grande allevatore, una specie di Tesio dei suoi tempi: e i ma­ ligni dicevano che se si fosse inteso di Santi come s'intende­ va di puledri, sarebbe stato certamente anche un grande teologo. Era logico che Petrarca avesse per lui un debole. Ma se Io meritava perché era un uomo straordinariamente simpatico, generoso, liberale, colto, senza pregiudizi e tal­ mente galante da delegare alla Contessa di Turenne, che ne fece il più sfacciato commercio, le promozioni nella carriera ecclesiastica. L'unica cosa che non si capiva è perché egli stesso l'avesse scelta. Ma, oltre che ai piaceri, si dedicò anche all'organizza­ zione e agli abbellimenti. Con lui la Chiesa perfezionò la sua macchina burocratica e amministrativa, e il maestoso Palazzo dei Papi, già iniziato da Benedetto, si sviluppò ol­ tre il piano originario. Clemente aveva il mal della pietra

88 e il palato fine. In sostituzione di Giotto che aveva chia­ mato ma che era morto, invitò Simone Martini, i cui af­ freschi fecero scuola a tutti gli artisti francesi e che, fra un angelo e una Madonna, ritrasse - pare - anche la Laura di Petrarca. Naturalmente queste colossali imprese prosciugarono le casse che Giovanni aveva riempito, e obbligarono Cle­ mente a rincrudire le misure fiscali. La situazione non era allegra. L'Italia, ora che il Papa stava ad Avignone e quindi non era più o era molto meno in grado di dispensare favo­ ri e di esercitare rappresaglie, non mandava quasi più nul­ la: le Signorie erano meno ligie alla Chiesa di quanto lo fossero stati i Comuni guelfi. Impegnate in una lotta mor­ tale destinata a durare cent'anni, la Francia e l'Inghilterra rastrellavano tutto per i loro eserciti e al clero non lascia­ vano che gli occhi per piangere. I preti tedeschi erano osti­ li a un Papato che parlava francese. Per superare queste difficoltà, Giovanni e Benedetto avevano già portato al li­ mite estremo la pressione fiscale. Ogni nuovo vescovo o abate doveva anticipare al Papa, per un anno, un terzo del­ le sue rendite. Se diventava Arcivescovo, doveva pagare una somma iperbolica per il manto, che solo la Curia era autorizzata a fornirgli. A ogni elezione di Pontefice, ogni beneficio ecclesiastico doveva rimettergli un'annualità d'in­ troiti. Alla morte di ogni Cardinale o Vescovo o Abate, tut­ ti i suoi beni personali erano confiscati dal Papa, cui anda­ vano anche tutte le rendite del beneficio finché il successo­ re non era nominato, e appunto perciò le nomine si face­ vano molto aspettare. Ogni nuovo designato era responsa­ bile delle somme dovute dal suo predecessore. Chi adiva i tribunali pontifici per far valere i propri diritti doveva sob­ barcarsi alle più gravose parcelle, e la vittoria costava sem­ pre più della posta in gioco. Più che il malcostume, furono questi soprusi fiscali a fo­ mentare il malcontento contro Avignone. Alvaro Pelavo scrisse un «Lamento sulla Chiesa» in cui si leggono frasi di

89 questo genere: «Ogni volta che entro nella Corte Papale, non trovo che preti intenti a contare i soldi rapinati... Sono i lupi che hanno assunto il controllo della Chiesa e succhia­ no il sangue del gregge...» Il clero tedesco si riunì in un si­ nodo che decise di rifiutare le decime agli agenti del Papa e li abbandonò alla furia del popolo che ne linciò parecchi. Il parlamento inglese promulgò leggi contro le tassazioni del Papa e l'esportazione di valuta. E tutto questo creò un'at­ mosfera favorevole al fiorire di una protesta più profonda, che rimetteva in discussione non solo i costumi della Chiesa, ma la Chiesa stessa. Questo fremito di rivolta, questo anelito di ritorno alle pure fonti evangeliche era antico, durava - si può dire - da sempre, e non c'era stata persecuzione che fosse riuscita a spegnerlo del tutto. Gli scoppi più violenti erano avvenuti negli ultimi due secoli a opera dei càtari, dei valdesi e dei patarini. E per venirne a capo si era dovuto ricorrere all'In­ quisizione. Ma torture, roghi e massacri non avevano di­ strutto che l'organizzazione di questi movimenti ereticali. L'ispirazione era rimasta, e covava sotto la cenere. Al principio del '300, divampò di nuovo. Un frate di No­ vara, Dolano, con le sue infiammate prediche istruì un pro­ cesso al Papato, denunziandone l'inarrestabile cancrena. Dopo il pontificato di Silvestro nel IV secolo, diceva, di Papi veramente cristiani non c'era stato che Celestino V, e ap­ punto perciò aveva deposto la tiara. Ora, si era toccato il fondo della degradazione. Con la sorella Margherita, Dola­ no fondò la «Apostolica Confraternita» di Parma. Era un or­ dine promiscuo in cui ognuno era autorizzato a vivere con la sua compagna, ma impegnato alla più rigorosa castità, e che rifiutava ogni dipendenza dalla Gerarchia. Il Papa ordinò al Tribunale dell'Inquisizione di convoca­ re i ribelli. Essi rifiutarono di comparire e si ritirarono ar­ mati sulle Alpi piemontesi. Alla testa di un grosso esercito di mercenari, gli Inquisi­ tori bloccarono le valli. Dolcino e i suoi mangiarono erba,

90 ghiande, cavalli, topi, ma non si arresero. Un migliaio cad­ dero combattendo nell'assalto finale. Gli altri furono cattu­ rati e avviati al rogo. Nonostante i patimenti, Margherita era ancora così bella che uno dei capi papalini le offrì la sal­ vezza e il matrimonio, se abiurava. Margherita rifiutò e si la­ sciò divorare dalle fiamme. Dolcino e il suo luogotenente Longino subirono un trattamento speciale. Furono fatti sfi­ lare su un carro per le strade di Vercelli mentre i carnefici lentamente li dilaniavano con tenaglie roventi e lanciavano al popolo festante i brandelli del loro corpo.

Come sempre nei suoi momenti più critici, la Chiesa trovò, a difenderla dagli eretici, i Santi. Era successo anche al tem­ po dei valdesi, dei catari e dei patarini, quando erano sorti Tommaso, Francesco e Domenico. Questa coincidenza non è affatto fortuita: Santi ed eretici traggono ispirazione dagli stessi turbamenti, incarnano le medesime aspirazioni, e gli eretici somigliano ai Santi molto più di quanto i Santi somi­ glino ai conformisti e alla loro ortodossia. Solo per un pelo infatti Santa Caterina evitò di far la fi­ ne di Margherita. Era nata a Siena, la più medievale di tut­ te le città italiane, immobile nel tempo e chiusa nelle sue mura. I suoi architetti e pittori - Lorenzo Maitani, Andrea Pisano, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini - le aveva­ no dato una bellezza tombale e assoluta, così assoluta che nessuno ha più osato metterci le mani. La Piazza del Cam­ po col suo Palazzo Pubblico, con la sua Torre del Mangia e con gli stupendi palazzi che le facevano cornice, non era un centro cittadino, ma un mondo e una civiltà, il cui oro­ logio si era fermato (e lo è tuttora). Qui, ancora più che a Firenze, era vivo lo spirito di quartiere e di fazione, soprav­ vissuto fino a oggi nel Palio. E qui si seguitava a respirare l'aura religiosa, intrisa di misticismo e di fanatismo, delle Crociate. Caterina ne fu l'incarnazione. A quindici anni si fece ter­ ziaria domenicana, il che le consentiva di continuare a vi-

91 vere la vita secolare. I suoi genitori, per strapparla alla vo­ cazione, le addossarono i lavori domestici più pesanti, ob­ bligandola a spazzare, a lavare, a portare legna. Essa assol­ se questi compiti gaiamente, paga delle beatitudini che l'at­ tendevano di notte nella sua cameretta, asceticamente ar­ redata come una cella di monaca, che ancora si può visita­ re. Lì essa aveva le sue estasi e visioni. Godeva nel sentire la propria carne trafitta dai chiodi che avevano martoriato Gesù sulla croce e si sentiva chiamata da Lui come sposa. Quando si ritenne abbastanza temprata per resistere alle tentazioni del mondo, vi s'immerse, ma solo per recare aiu­ to e conforto a chi ne aveva bisogno. Doveva sprigionare una suggestione irresistibile perché anche i peccatori più incalliti nella ribalderia e nell'empietà ascoltavano con rive­ renza la sua parola. Quando scoppiò la peste, assistè gl'in­ fermi, contrasse il morbo e ne rimase sfigurata, ma soprav­ visse. La fama della sua santità si sparse tutt'intorno. Mon­ tepulciano la chiamò a rimettere pace fra le fazioni che si dissanguavano. Pisa e Lucca sollecitarono i suoi consigli. Firenze le offrì di andare come sua ambasciatrice ad Avi­ gnone. Caterina consentì, e ciò che vide la riempì di orrore e di disperazione. Lo disse, anzi lo gridò al papa Gregorio XI in termini così violenti («Qui si respira puzzo d'infer­ no!» urlò a un certo punto) che alcuni Cardinali, presenti al colloquio, proposero di arrestarla. Ma il Papa, più intel­ ligente di loro, la protesse. Tornata nella sua cella, Caterina inondò di lettere esalta­ te e disperate il mondo della Chiesa. Non le scriveva lei, perché era analfabeta. Le dettava, in una lingua semplice e disadorna, ma in cui ardeva un fuoco che incuteva rispetto e timore anche ai destinatari meno ricettivi. La parola rifor­ mazione tornava di continuo in questi suoi appassionati ap­ pelli: e di lì a pochi anni si sarebbe visto quanto era profeti­ ca. Non volle più uscire da quella anacoretica reclusione. Ma di lì mise a soqquadro Papi, Cardinali, Vescovi e Re. La sua energia rimase indomita anche quando, spingendo al-

92 l'estremo limite l'ascetismo, essa non accettò altro nutrimen­ to che l'ostia consacrata. Solo lo scisma della Chiesa la stron­ cò. Morì di disperazione nel 1380, e non aveva che trenta- tré anni. Fu fatta Santa perché quel famoso giorno Grego­ rio XI si era rifiutato di farla arrestare. Se al posto di Gre­ gorio ci fosse stato Bonifacio Vili, forse essa sarebbe finita eretica come la sorella di Fra' Dolcino, con cui aveva in co­ mune i motivi di rivolta. CAPITOLO NONO

COLA DI RIENZO

I romani non avevano tardato ad accorgersi che, col Papato, avevano perso l'unica loro industria. La Chiesa amministra­ va male il suo denaro, ma ne pompava molto da tutta Euro­ pa. Esso non si traduceva in scuole, in ospedali, in strade; ma si diffondeva con elemosine e «bustarelle», cui il popoli­ no ormai si era abituato. Con esse era venuto a mancare l'al­ tro grande introito: il turismo. Nessuno aveva più ragione di venire in una città che non era più capitale di nulla. La decadenza fu rapida e drammatica. Tutto quel mon­ do cosmopolita di prelati e di notai che gravitava intorno al­ la Curia e che alimentava nell'Urbe la corruzione, ma vi rappresentava anche una fonte di ricchezza e le conferiva una nota di vivacità intellettuale, aveva seguito il Papa ad Avignone. E di fronte erano rimaste un'aristocrazia arro­ gante e una plebe cenciosa. Non c'era un tecnico né un sol­ do per riparare i selciati. Un incendio scoppiato in Latera- no si mangiò mezzo palazzo senza che nessuno riuscisse a spengerlo: mancavano i pompieri. Insieme alla capitale, erano tutti gli Stati della Chiesa che si decomponevano. I signorotti che fin allora avevano am­ ministrato le città di Lazio, Umbria, Marche, Emilia e Ro­ magna in nome dei Papa, approfittavano ora della sua lon­ tananza per rendersi sempre più indipendenti. Erano i Ma- latesta, gli Ordelaffi, i Montefeltro, i Varano, i Trinci. I Con­ soli e i Senatori romani portavano un titolo pomposo, ma non avevano neanche il potere di riparale una fogna. Nella penisola, i poli di attrazione erano tutt'altri: Venezia, Mila­ no, Genova, Firenze, Napoli.

94 L'Urbe aveva mandato messaggi su messaggi a Clemente e Giovanni per indurli a tornare. Ma quei Papi francesi, che si trovavano benissimo in casa propria, avevano risposto evasivamente, o non avevano risposto affatto. Del resto, an­ che se avessero voluto, non avrebbero potuto. Essi erano prigionieri di una schiacciante maggioranza di Cardinali francesi, più ligi al loro Re che alla loro Chiesa. Fu in odio a loro che Roma accolse con entusiasmo il suc­ cessore di Arrigo VII, Ludovico IV il Bàvaro, che nel 1327 scese nella Penisola per cingere le due corone: quella di Re d'Italia a Milano, e quella imperiale a Roma. Lo rendeva simpatico la scomunica che contro di lui aveva lanciato da Avignone papa Giovanni. Ludovico aveva pochi uomini e poco denaro, come il suo predecessore. Ma in abbondanza gliene fornirono i Visconti, i Della Scala e il Castracani di Lucca. Quanto a Roma, più inerme e squattrinata di lui, lo colmò di battimani e di titoli onorifici. Lo scomunicato Lu­ dovico fu proclamato Imperatore da un Vescovo a sua volta scomunicato, e acclamato Senatore e Capitano del Popolo in Campidoglio. Davanti a una folla plaudente in piazza San Pietro proclamò deposto «l'anticristo Jacopo da Cahors, che si dice Giovanni XXII» e gli diede come successore frate Pietro da Corvaro col titolo di Niccolò V, da cui si fece ri­ consacrare. Fu il solito fuoco di paglia. Quando i romani sentirono che da Sud accorreva Roberto d'Angiò con un esercito più forte (e ci voleva poco) di quello del Bàvaro, cominciarono a nutrire qualche dubbio sulla legittimità della corona di Lu­ dovico e della tiara di Niccolò. Questi dubbi diventarono sempre più forti via via che Roberto si avvicinava. E si tra­ sformarono nell'assoluta certezza che il Papa vero era Gio­ vanni, quando videro i tedeschi sgombrare precipitosamen­ te e riprendere la via del Nord. Niccolò ne seguì l'esempio e, contando sul loro ghibellinismo, chiese asilo ai pisani. Co­ storo lo impacchettarono e lo spedirono ad Avignone come grazioso dono a papa Giovanni. Questo Pontefice mercante

95 e simoniaco non credeva in Dio, ma appunto per questo non dava molta importanza alle offese contro il suo Vicario. Si contentò d'imporre a Niccolò un'autocritica con cui il po­ veraccio si riconobbe peccatore e si dichiarò pentito. Poi lo confinò in un'ala del palazzo, e lì lo lasciò invecchiare e mo­ rire in pace. Ludovico frattanto aveva risalito la penisola facendosi pagare da varie città, in sonanti fiorini, la rinunzia al diritto di saccheggiarle. Ed era sparito di là dalle Alpi, lasciandosi dietro un discredito che investiva non solo la sua persona, ma anche il titolo ch'egli aveva indegnamente incarnato.

La decadenza di Roma continuava, sempre più l'orgogliosa capitale sì riduceva a villaggio. Nel '43 la popolazione, delusa dall'incapacità dei suoi blasonati governanti a ripristinarvi il Papato, decise di agire di propria iniziativa mandando ad Avignone un'ambasceria speciale. La capeggiava un giovane notaio, Nicola di Rienzo Cabrini, comunemente chiamato Cola di Rienzo. Figlio di un oste e di una lavandaia, nato e cresciuto nel quartiere più proletario di Trastevere, incarnava gli umori sanguigni e protestatari di una plebe ignorante e amareggiata dal con­ fronto fra le antiche grandezze e le presenti miserie. Era un miscuglio di Mussolini e di La Pira: un tipico arruffa popo­ lo italiano che parlando si ubriaca delle proprie parole e fi­ nisce per crederci smarrendovi il senso della realtà e della misura. Ad Avignone, prima ancora che dal Papa, Cola andò dal Petrarca, che sapeva molto bene introdotto e assai influente in Curia. Il Poeta aveva sempre cercato di stare alla larga dalla politica e non vi si era mai compromesso. Ma Cola se lo conquistò parlandogli di Roma, dell'Impero, di Augusto, degli archi, delle colonne, delle aquile, della Gloria. Due an­ ni prima Petrarca era stato coronato in Campidoglio, aveva pianto sulle rovine dell'Urbe e ne aveva invocato la resurre­ zione. In Cola, che parlava il suo stesso linguaggio, gli par-

96 ve di vedere l'unico uomo capace di realizzarla, e lo appog­ giò senza riserve. Giovanni XXII era morto. E al suo posto c'era ora Cle­ mente VI, gran signore, ma anche grande scettico. Accolse paternamente l'avvocato romano, si accorse subito ch'era un esaltato, ma prestò benevolo orecchio alla sua requisito­ ria contro i nobili romani che avevano fatto dell'Urbe e del suo contado un'arena, diceva Cola, delle loro bande e delle loro risse. Il Papa gli diede ragione, lo incoraggiò a organiz­ zare una resistenza contro i loro soprusi. E, fedele alla sua resola di non rimandare mai indietro nessuno a mani vuo- te, lo provvide di un po' di quei fiorini che il suo predeces­ sore aveva accumulato con tanta ostinazione. Rientrato a Roma con quei soldi e quel crisma, Cola pas­ sò all'azione. Rivestita una toga bianca di Senatore con un bizzarro copricapo ricamato di spade, indisse per il giorno di Pentecoste (1347) un parlamento di popolo che lo pro­ clamò Reggente insieme al Vicario pontificio e «Liberatore della Sacra Repubblica Romana»: titolo vago, a cui non si sapeva quali poteri corrispondessero. Ma Cola lo interpretò nel senso più lato. Armò una milizia popolare per richiama­ re alla ragione le squadracce dei nobili. Costoro finsero di sottomettersi, e si ritirarono nei loro castelli dei dintorni a preparare la controffensiva. Cola sulle prime non amministrò male. Riordinò il fisco e fece funzionare la giustizia. Anche il principe Pietro Co­ lonna dovette subire un processo e fu gettato in prigione. Ma questi successi ubriacarono il tribuno che cominciò a parlare di sé come del «Redentore del Sacro Impero Roma­ no per volontà di Cristo». Il giorno di ferragosto si fece cin­ gere in Santa Maria Maggiore di sei corone, alzò una palla d'argento come simbolo di potere mondiale, vietò a qualun­ que esercito straniero di porre piede sul suolo italiano, con­ vocò tutti i sovrani della terra a Roma per eleggervi un Im­ peratore, che naturalmente sarebbe stato lui, e cominciò a comportarsi come se lo fosse di già. Volle l'investitura di Ca-

97 valiere, andò in gran pompa al battistero del Laterano, e si gettò tutto vestito dentro la grande pila, dove si diceva che Costantino si fosse purgato del suo paganesimo. Poi, avvolto nella toga bianca, trascorse la notte su un giaciglio fra i pila­ stri della basilica. L'indomani proclamò libere tutte le città d'Italia, conferì loro la qualifica di «romane», e con la spada fece tre segni in aria izi tutte le direzioni gridando: «Questo appartiene a me, e anche quest'altro, e quest'altro». Inaugurò una nuova divisa di seta con frange d'oro. Cavalcò un cavallo bianco con un baldacchino reale facendosi scortare da cento cava­ lieri armati. E quando Stefano Colonna scosse la testa ridac­ chiando, lo fece arrestare con altri nobili, se li fece tradurre in catene sul Campidoglio, chiese e ottenne dal parlamento la loro decapitazione, li perdonò e affidò loro alcune cari­ che del governo. Essi scapparono, e organizzarono un eser­ cito per rovesciare il tribuno impazzito. Fino a quel momento papa Clemente, che per i nobili ro­ mani non aveva simpatia, aveva trattato Cola con una certa indulgenza. Ma ora si rese conto anche lui che si trattava di uno squilibrato ed emanò una «bolla» in cui si diceva che se il tribuno non si ritirava, la festa del Giubileo in programma di lì a tre anni, nel '50, sarebbe stata annullata e Roma non avrebbe mai più potuto indirne altre. A quell'annunzio i no­ bili si fecero sotto le mura della città con le loro bande. Cola fece suonar le campane per chiamare il popolo a raccolta. Ma quasi nessuno si presentò. Il popolo era ancora per lui perché nella sua retorica aveva trovato un diversivo alla fa­ me. Ma la paura di perdere il Giubileo, unica occasione che restava a Roma di sentirsi ancora una città importante e di rimpannucciarsi coi turisti, fu ancora più forte. Il tribuno lasciò la città mentre le bande dei nobili vi fa­ cevano irruzione. Avventurosamente, fra mille triboli e pe­ ricoli, risalì l'Italia, sconfinò in Germania, e chiese ospitalità alla Corte dell'Imperatore di turno, ch'era Carlo IV di Boe­ mia. Gli disse che la colpa di tutto era del Papa, che fomen-

98 fava l'anarchia di Roma. L'Imperatore lo zittì. Però quando Clemente gli chiese la consegna di Cola, gliela rifiutò. Fu lo stesso tribuno che, dopo un anno di struggimenti, prese la via di Avignone. Arrivato lì, chiese subito di Petrarca, certo fidando nel suo patronato. Il Poeta era a Vaucluse e non si mosse. Però compose una lettera in difesa di Cola, procla­ mandolo enfaticamente campione della grandezza e delle libertà di Roma. Forse anche per questo alto intervento, il tribuno fu sal­ vo. Lo tennero in custodia nella torre del palazzo papale e gli diedero da leggere e meditare le Sacre Scritture. Due an­ ni dopo un altro popolano di Roma, Baroncelli, cercò di ri­ petere l'impresa di Cola, scatenando il popolo, cacciando i nobili e proclamandosi Vicario dell'Imperatore. Clemente era morto. Il nuovo papa Innocenzo VI pensò che soltanto Cola poteva neutralizzare quel nuovo flagello e lo spedì a Roma come aiuto e consigliere del Cardinale Albornoz, in­ caricato di ripristinarvi l'autorità pontificia. Alla notizia dell'imminente ritorno del tribuno, la folla scacciò Baroncelli che fino al giorno prima aveva acclamato, e innalzò archi di trionfo al vecchio idolo. Questi venne no­ minato senatore e governatore da Albornoz che trovò con­ veniente sfruttare la sua popolarità. I romani tuttavia rima­ sero un po' delusi, quando lo videro sul Campidoglio e ne udirono le parole. Sebbene avesse di poco superato la qua­ rantina, era ingrassato e flaccido, e anche la sua oratoria aveva perso lo smalto. Pronunciò una specie di autocritica condannando e ridicolizzando non senza arguzia le proprie follie di gioventù e la propria megalomanìa. E nel finale ci ricascò in pieno paragonando se stesso a Nabucodònosor e annunziando il ritorno delle aquile imperiali sui colli fatali di Roma. Instaurò un regime di polizia che procedette ad arresti arbitrari e a esecuzioni sommarie. E coglieva ogni pretesto per affacciarsi al balcone e sciorinare discorsi in cui imparzialmente si alternavano le più rosee speranze, le pre­ visioni più catastrofiche, le minacce e le vanterie.

99 La gente cominciò a sospettare che il tribuno non avesse la testa a posto. In realtà non l'aveva mai avuta. Ma ora a sconvolgergliela c'era anche l'alcool. Cola beveva come una spugna, e come una spugna era infatti diventato. «Haveva una ventresca tonna, trionfale a modo che uno abate» scrive il cronista Fortifiocca. Dopo settanta giorni di quel regime in cui ne avvennero di tutti i colori, il popolino del suburbio si sollevò, forse anche su istigazione e per le «bustarelle» dei nobili. Cola tentò di placarlo con uno dei soliti discorsi, si avvide che il suo mito era morto, e tentò di fuggire travestito da pastore e con la faccia tinta di nerofu­ mo. Ma fu riconosciuto dal braccialetto d'oro che portava al polso, agguantato e trascinato ai piedi del Campidoglio do­ ve tante teste erano rotolate in suo nome. Chiese di parlare. Ma un artigiano, temendo che riuscisse a stregare di nuovo la folla, gli troncò la parola in bocca con una pugnalata. Al­ tri cento lo imitarono. Il corpo crivellato rimase due giorni appeso a un balcone. «Grasso era orribilmente - dice il For­ tifiocca. - Bianco come latte, insanguinato. Tanta era la sua grassezza, che parea uno smesurato bufalo, o vero vacca da maciello». CAPITOLO DECIMO

PETRARCA

Come abbiamo già detto, nel 1302, in seguito all'arrivo di Carlo di Valois e con la benedizione di papa Bonifacio Vili, i Neri di Firenze capeggiati da Corso Donati avevano rego­ lato i conti coi Bianchi capeggiati da Vieri Cerchi. Fra costo­ ro, a prendere la via dell'esilio, ci fu un certo Messer Petrac- co che, insieme a Dante Alighieri, infilò quella di Arezzo. Petracco apparteneva alla buona borghesia fiorentina, ed era un notaio molto stimato. Doveva anche avere un certo patrimonio, ma lo perse tutto o quasi tutto. Al seguito si portò tuttavia il bene a cui forse più teneva: la bella moglie Eletta, molto più giovane di lui, che aveva sposato da poco. Ad Arezzo, ebbe subito una parte importante nella «Uni­ versità Bianca», l'organizzazione politica e militare dei fuo­ rusciti che si preparavano alla controffensiva. E nella pri­ mavera del 1304 fu uno dei due delegati che i Bianchi man­ darono a Firenze per trattare coi Neri le condizioni del loro rientro e di una generale pacificazione. Carlo di Valois ave­ va lasciato la Toscana, Bonifacio era morto, e il nuovo Papa, Benedetto XI, aveva rinunciato a estendere il dominio della Chiesa su Firenze. Voleva soltanto che si ponesse fine alla lotta di fazioni. Petracco svolse bene la sua missione diplomatica, e dopo una solenne cerimonia in piazza Santa Maria Novella scam­ biò il bacio della pace coi delegati dei Neri in mezzo a un fe­ stoso scampanio. Ma purtroppo la pace si limitò al bacio. Profittando della morte di Benedetto, i Neri scatenarono dei disordini con saccheggi e incendi, ne diedero la colpa ai Bianchi, e ribadirono la loro condanna. Agli esuli non rima-

101 se che tentare il colpo di forza. Ma l'azione fu mal sincroniz­ zata per l'indisciplina di uno dei loro capi, che volle agire da solo prima che il grosso dell'esercito fosse riunito, e ven­ ne schiacciato. Dovett'essere un brutto colpo per Petracco, che nello stesso tempo vedeva fallire la sua azione diplomatica e sva­ nire la sua speranza di un ritorno in patria. Ma ad attenua­ re la sua amarezza provvide Eletta regalandogli proprio quel giorno, 20 luglio 1304, un bel figlio maschio, che ven­ ne battezzato col nome di Francesco. E possibile che Dante, amico del notaio e anche lui in quel momento ad Arezzo, abbia fatto le congratulazioni alla puerpera e visto il fantolino in culla. Il piccolo non ebbe tempo di familiarizzarsi con la città in cui era nato. Doveva essere ancora in fasce, quando i suoi si trasferirono nel paese di origine di Petracco, Incisa Val d'Arno. Qui crebbe fino ai sette o otto anni, e qui pro­ babilmente gli nacque un fratellino, Gherardo. La sua in­ fanzia dovett'essere piuttosto selvatica in quel villaggio di poche centinaia di anime e di ristretti orizzonti. Ma a otto anni gli capitò la prima delle molte straordinarie avventure della sua vita: suo padre lo condusse a Pisa, dove andava per incontrare l'imperatore Arrigo VII, ultima speranza dei fuorusciti Bianchi. Costoro erano tutti lì ad aspettarlo. C'era anche Dante. E in una lettera al Boccaccio di sessan­ tanni dopo, Petrarca racconta di averlo appunto conosciu­ to allora. Più che Dante però, di cui non poteva misurare la gran­ dezza, fu Pisa a fargli impressione. La città non era più la «regina del mare» come una volta: Genova aveva distrutto la sua flotta nella battaglia della Meloria del 1284, e Firenze aveva rosicchiato e ridotto al lumicino il suo entroterra. Ma la vecchia gloriosa Repubblica aveva trovato i suoi compen­ si nell'arte e nella cultura. Proprio allora nascevano la stu­ penda cattedrale, il famoso campanile, lo splendido Cam­ posanto che Giotto e Lorenzetti stavano per affrescare. E

102 l'Università era già celebre, grazie soprattutto a Bartolo di Sassoferrato, luminare del Diritto. Il soggiorno a Pisa fu breve, come l'avventura di Arrigo. Alla sua morte gli esuli fiorentini si sbandarono. Dante tor­ nò a Verona, dove già si era accasato, ospite di Cangrande della Scala. E Petracco con la famiglia s'imbarcò per Avigno­ ne, dove Clemente V, lo abbiamo già detto, aveva trasferito fin dal 1305 la sede del Papato. Petracco ebbe certamente un impiego alla Corte Pontifi­ cia. Ma non riuscì a trovare un alloggio in quella città trop­ po piccola per ospitare le migliaia di prelati, di dignitari e di diplomatici che vi erano accorsi da ogni parte. Così la fa­ miglia venne dirottata nella vicina Carpentras, dove Fran­ cesco visse fino ai quindici anni, felice e piuttosto ignorante. Questo beato intermezzo finì nel '19 quando suo padre, che voleva avviarlo alla sua stessa professione, lo mandò a scuola di Diritto, prima a Montpellier, poi a Bologna. E fu qui che Francesco scoprì la propria vocazione. L'Università di Bologna era ormai la più accreditata d'Eu­ ropa. C'erano diecimila studenti di tutte le parti del mondo, che davano a quella città di cinquantamila abitanti (o giù di lì: i censimenti a quei tempi non c'erano) un tono cosmopoli­ ta e spregiudicato. Erano divisi in «nazioni» secondo il Paese di provenienza e organizzati in «corporazioni» onnipotenti, dalle quali il corpo accademico dipendeva. A esse il professo­ re - in «cappa» color porpora col cappuccio - prestava giu­ ramento, e da esse riceveva lo stipendio, le multe per le as­ senze ingiustificate, e il licenziamento quando le sue lezioni non soddisfacevano più. Ma ciò che dava forza e prestigio a quell'Ateneo, oltre al fatto di avere già quasi due secoli di sto­ ria, era la sua impronta laica. Esso era sorto nel momento più drammatico della lotta fra Papato e Impero. E l'Impero lo aveva aiutato e finanziato per formarvi una sua classe diri­ gente e amministrativa da contrapporre a quella ecclesiasti­ ca. Laicismo significa libertà. E la libertà è la condizione di ogni progresso, ma specialmente di quello culturale.

103 Petrarca apprezzò tutto di Bologna, fuorché gli studi giu­ ridici per i quali suo padre ce l'aveva mandato. Come disse più tardi, il mestiere di avvocato non si deve fare disonesta­ mente, ma onestamente non si può. Così, invece di frequen­ tare le lezioni di Diritto, seguì i corsi di letteratura, e soprat­ tutto sprofondò in quella classica, che proprio allora veniva rilanciata. Virgilio, Cicerone e Seneca furono per lui folgo­ ranti scoperte. Sui loro testi perfezionò il suo latino, ch'era già abbastanza buono. E da allora fu contagiato da una ghiottoneria di manoscritti rari, che doveva far di lui un col­ lezionista raffinato, un esploratore di archivi, in una parola il primo grande umanista d'Europa. Non sappiamo nient'altro della sua vita di goliardo. Ma tutto lascia credere che quasi nient'altro ci fu. Egli non do­ vette partecipare alle gozzoviglie dei suoi compagni di scuo­ la, e le taverne le bazzicava poco. Era già troppo elegante, troppo esigente, troppo snob, per trovarcisi a suo agio. Ve­ stiva con ricercatezza, e gli piaceva molto farsi ammirare, ma più dai dotti che dalle cortigiane. Avrà avuto anche lui i suoi intermezzi di ribalderia, ma la sua vita dimostra che c'era poco portato. Era un bel giovane, ma più esteta che sensuale, e non si lasciò mai andare in balìa di passioni, am­ messo che ne abbia avute. Quando venne a Bologna, era già orfano di madre, mor­ ta nel '18: egli l'aveva pianta a lungo e le aveva dedicato i suoi primi versi latini. Nel '26 morì anche Petracco, e con lui sparirono i motivi che obbligavano Francesco a fingere di studiar diritto. Con sollievo buttò via i codici sui quali non aveva che sbadigliato, e tornò ad Avignone. Per risolve­ re il problema del pane, entrò in sacerdozio, ma limitandosi a prendere gli ordini minori che lo qualificavano a ricevere dei benefici ecclesiastici. E infatti, colto, brillante e salottiero com'era, non stentò a procurarsene in quella Curia di Car­ dinali mondanizzati che apprezzavano al massimo queste qualità. Petrarca non era uomo da rifiutare i piaceri che quella

104 città ora offriva. Come sempre, si scelse i più raffinati: le compagnie più erudite, le mense più squisite, e anche un'a­ mante che gli diede due figli naturalmente illegittimi. Ma ciò non gl'impedì di deplorare il malcostume e la corruzio­ ne del clero, cui egli stesso contribuiva, e di lanciare richia­ mi alla necessità di riportare la sede papale a Roma: il che gli valse la simpatia e l'affettuosa protezione dei due potenti fratelli Colonna - il Cardinale Giovanni e il Vescovo Giaco­ mo -, a meno che non sia stata la loro protezione a ispirargli i richiami. Comunque, ne ricavò i benefici ecclesiastici a cui aspirava, e ne visse agiatamente. Come non gl'impedivano di fare il moralista, la relazione e la paternità non gl'impedirono d'innamorarsi di Laura, la musa che doveva ispirargli le più belle poesie. Chi fosse co­ stei e se sia realmente esistita, è rimasto a lungo incerto, e ancora è oggetto di contestazione. Ma in un appunto scritto su una copia dell'Eneide di Virgilio, che appartenne a Pe­ trarca e che ora è gelosamente conservata nella Biblioteca Ambrosiana di Milano come suo cimelio, egli stesso ci ha fornito di sua mano alcuni dati anagrafici. In quell'appunto sono fissate la data e le circostanze dell'incontro con Laura: alla messa di Pasqua del 1327, cioè un anno dopo il ritorno di Petrarca ad Avignone, nella chiesa di Santa Chiara. Nella stessa ora dello stesso giorno del 1348, egli aggiunge, Laura moii. Da questi dati gli storici hanno desunto che doveva trattarsi della Marchesa Laura de Sade, lontana progenitri­ ce di un altro de Sade, che doveva dare il suo nome a un vi­ zio assai diffuso: il sadismo. In Laura però di vizi, a quanto pare, non c'era neanche l'ombra. La tradizione riconosce i suoi connotati in una mi­ niatura attribuita a Simone Martini, che ora si trova alla Bi­ blioteca Laurenziana di Firenze: un bel volto dal profilo de­ licato, soffuso di pudore e di modestia. Non sappiamo se quando Petrarca la vide era già sposata. Sappiamo però che regalò a suo marito dodici figli. E quindi, sempre in ballo come doveva essere fra gravidanze e allattamenti, non

105 avrebbe trovato il tempo di dedicarsi al suo spasimante neanche se ne fosse stata tentata. Ma forse in un senso carnale non lo fu neanche Petrarca, che di Laura s'innamorò un po' come Dante si era innamo­ rato di Beatrice: cioè per una specie di coscrizione poetica. Lì in Provenza si respirava ancora l'aria dei trovatori. Egli stesso più tardi ebbe a dire che poetavano tutti, perfino i teologi, tanto da stupirsi che anche le mucche non muggis­ sero in versi. E naturalmente si seguitava a farlo secondo i vecchi schemi prefabbricati, che esigevano anzitutto la scel­ ta di una ispiratrice cui dedicare le proprie rime. Petrarca cedette anche lui alla tentazione, e per Laura compose il Canzoniere, senza minimamente sospettare che quello sareb­ be stato il suo passaporto all'immortalità. Egli credeva di passare ai posteri per i suoi meriti - indiscutibili - di grande grammatico, di grande latinista, di scrittore aulico e catte­ dratico. Le duecentosette poesie del Canzoniere rappresen­ tarono, per una ventina d'anni, il suo passatempo. Furono invece il suo capolavoro, l'unico motivo per cui ancora oggi si parla di lui come poeta. Fra un sonetto e l'altro, tirava a campare, e a campare il meglio possibile. Alternava la vita salottiera di Avignone, dov'era ospite fisso dei Colonna, con viaggi su commissione, che però erano anche di piacere, a Parigi, nelle Fiandre, in Germania. Oltre al tatto e al cosiddetto «uso di mondo» che facevano di lui un eccellente diplomatico, aveva il fiuto del­ le persone da vedere, e di quelle importanti per la cultura non gliene sfuggiva una. Oltre che conoscerle, forse gli pia­ ceva farsene conoscere. Manteneva con loro fitte corrispon­ denze in latino. Era insomma un maestro di public relations, e infatti il suo nome era noto, negli ambienti intellettuali d'Europa, già molto prima che il suo talento venisse auten­ ticato. Nel '36 andò a Roma, sempre ospite dei Colonna. L'Urbe lo impressionò per la grandezza del suo passato e la miseria del suo presente. Si aggirò in mezzo ai Fori, dove pascolavano le pecore, si esaltò fra le rovine del Colosseo, e

106 scrisse infiammati appelli al Papa perché lasciasse Avignone e tornasse a Roma. Dopo averli scritti però lasciò Roma per tornarsene ad Avignone. Aveva comprato una casetta nei dintorni, a Vaucluse. La passione mondana gli era un po' passata, quella per Laura l'aveva sfogata in versi. E ora preferiva una vita più sempli­ ce e più raccolta. Aveva per compagni due servitori, un ca­ ne, la natura e i libri. Lanciò la moda dell'alpinismo scalan­ do - forse per primo - il monte Ventoux. Pescava. Faceva del giardinaggio. Ma soprattutto inondava il mondo di let­ tere nel più puro stile ciceroniano. Latinizzava anche i nomi dei destinatari, chiamandone uno Lelio, un altro Scipione, un altro Ovidio. Li spronava a frugare gli archivi alla ricer­ ca di testi classici. Quando sapeva che n'era stato trovato uno, non aveva pace finché non se n'era fatto mandare una copia o l'originale che poi copiava da sé. Dalla Grecia rice­ vette un Omero. Spasimò per un Euripide. Scriveva, pur di scrivere, anche ai morti: a Tito Livio, a Virgilio eccetera. Questa per la letteratura classica era la sua unica vera pas­ sione. Per le donne non ebbe mai tali trasporti da non poterli controllare. Ne diffidava, e infatti a nessuna di loro sacrificò i piaceri intellettuali e la quiete della sua vita di grande e raffinato egoista. Non gli si conoscono altre relazioni oltre quella, puramente poetica, con Laura e quella con la madre dei suoi due bastardi. Dopo i quarantanni, a quanto scrive egli stesso, non ebbe più desideri, o per lo meno rinunziò a soddisfarli: non c'è forza vitale, dice, che possa far fronte in­ sieme alle esigenze della letteratura e a quelle del sesso. E fra le due egli non aveva mai avuto esitazioni. Amava la musica e suonava abbastanza bene il liuto. Quanto ai problemi religiosi, tirava più a evaderli che a ri­ solverli. Faceva un po' di fronda ai Papi disapprovando i co­ stumi della Corte avignonese e profittando della loro facili­ tà. Ma col dogma non voleva storie. E a chi gli chiedeva co­ sa ne pensasse, rispondeva che lui dubitava di tutto, eccetto

107 delle cose sulle quali il dubbio diventava sacrilegio. In que­ sto cauto equilibrio stava il segreto della sua felicità, ma an­ che il limite della sua ispirazione poetica. Era molto più col­ to e miglior stilista di Dante, ma non ne ebbe gl'impeti su­ blimi e i lirici abbandoni, la divorante sete di assoluto, il sa­ cro fuoco. Ed egli stesso lo sentì. Di Dante parlò sempre con rispetto, ma avanzando alcune riserve sotto cui trapela la gelosia. Nel 1341 tornò a Roma per essere coronato poeta in Campidoglio. La proposta di quella consacrazione era stata fatta dal cardinale Giovanni Colonna. Il Senato dell'Urbe, capeggiato da un altro Colonna, l'accolse subito: non tanto forse per ammirazione del poeta, quanto perché la cerimo­ nia era un buon pretesto a riaffermare un primato romano almeno in campo culturale. Ora che non era più sede del Papato, la città non sapeva più cosa inventare per attirare l'attenzione del mondo. Il malcontento del popolino era grande. A corto di pane, voleva almeno un po' di festa. Prima di andarci, Petrarca fece sosta a Napoli, ospite di re Roberto di Angiò, suo fervido ammiratore, che gli rese grandi onori e lo fece scortare fino a Roma. Petrarca se ne sdebitò propagandando il nome del Re come quello di un illuminato mecenate quale non era. Egli conosceva l'impor­ tanza del «protocollo» e aveva il genio della messinscena. L'8 aprile, avvolto nel rosso manto che Roberto gli aveva xega- lato, e seguito da un lungo e pittoresco corteo di senatori in toga e di giovani in abiti sgargianti, salì sul Campidoglio, dove lo attendeva Stefano Colonna con una corona in mano e un'orazione in bocca. Da quel momento Petrarca fu «il Poeta» per antonomasia e lo rimase fin quando questo titolo passò a Dante a furor di critica. L'elezione di Clemente VI dopo la morte di Benedetto XII lo richiamò ad Avignone. Bisognava rendere omaggio al nuovo Papa e ottenere, se possibile, qualche altro benefi­ cio ecclesiastico. Clemente si mostrò comprensivo. Gli diede un priorato a Pisa, un canonicato a Parma e una missione

108 diplomatica a Napoli. Qui si fermò qualche mese per poi ri­ mettersi in viaggio e visitare Bologna, Parma e Verona, do­ ve frugando nell'archivio di una chiesa scoprì il manoscritto delle lettere di Cicerone ad Attico. Non era nuovo a questi ritrovamenti. A Liegi, anni prima, aveva disseppellito un al­ tro testo di Cicerone: l'orazione Pro Archia. I grandi eventi della sua vita erano questi. Dalle vicende politiche si teneva alla larga. L'unica in cui si lasciò coinvolgere fu quella di Co­ la di Rienzo. Che la plebe romana si fosse fatta abbindolare da quello squilibrato demagogo, non fa meraviglia. Ma un po' ne de­ sta il fatto che a quella suggestione abbia partecipato anche un intellettuale lucido e cauto come Petrarca. Eppure è co­ sì. Il Poeta era a tal punto infatuato di Cola che per seguita­ re a sostenerlo non solo si giuoco l'amicizia e la protezione dei Colonna, ma nel '47, al tempo del primo tribunato di Cola, aveva lasciato Vaucluse per accorrere a Roma a dargli man forte. Non fece in tempo, perché a Genova seppe della sua caduta. Ma grazie a quella coincidenza si trovò in Italia proprio nel momento in cui vi si abbatteva il flagello della peste. L'infezione veniva per mare dal Medio Oliente dove ave­ va già mietuto centinaia di migliaia di vittime. Mosche e to­ pi la diffusero in Europa dove la popolazione, indebolita da alcuni anni di cattivi raccolti e di carestie, offriva poca resi­ stenza. Si manifestò in due forme: una polmonare con emorragie che in tre giorni dissanguavano il malato, e una bubbonica che riempiva il corpo di pustole e ascessi, e lo de­ moliva in cinque giorni. Le descrizioni che ce ne hanno la­ sciato i cronisti sono terrificanti. Il senese Agnolo di Tura dice che, per la saturazione dei cimiteri, i cadaveri dovette­ ro essere infoibati dentro trincee scavate alla svelta nelle piazze, e ch'egli stesso seppellì con le proprie mani cinque suoi figliuoli. Boccaccio afferma che a Firenze ci furono cen­ tomila morti: il che è impossibile, visto che tanti erano gli abitanti. Villani scrive che ne morirono sessantamila, ma an-

109 che questa è un'esagerazione. Tuttavia il salasso fu pauroso in tutta Europa. E fra le altre vittime, ne fece una che tocca­ va da vicino Petrarca: Laura. Il poeta, che aveva un debole per le coincidenze, assicura ch'essa chiuse gli occhi nella stessa ora dello stesso giorno e dello stesso mese in cui ven- tun anni prima si era rivelata ai suoi. E proprio da questo dato anagrafico si è desunto che si trattasse di Laura de Sa­ de, elencata appunto tra i morti di peste ad Avignone il 3 aprile 1348. Egli sfuggì al contagio, grazie forse alle misure di sicu­ rezza che doveva aver adottato il suo anfitrione: Jacopo II da Carrara, Signore di Padova. Era costui un illuminato sa­ trapo, ugualmente ghiotto di potere, di denaro e di cultura. Padova attraversava un periodo di splendore. Era una delle città che più a lungo avevano difeso le loro libertà comuna­ li, ma appunto per questo si era trovata a disagio nella lotta con Cangrande della Scala che l'aveva resa tributaria di Ve­ rona. Per sottrarsi a questa servitù si era data in braccio a Jacopo I da Carrara che l'aveva difesa con lo stesso pugno di ferro con cui la tiranneggiava. Jacopo II gli era succedu­ to nel '45 accoppandolo, secondo una legge di famiglia che lasciava all'assassinio la regolamentazione delle eredità. Egli stesso doveva soccombervi quattro anni dopo, quando ven­ ne pugnalato. Ciò che soprattutto dovette piacere a Petrar­ ca, in questo suo soggiorno padovano, fu l'Università, nata da poco, ma già in piena fioritura. Egli dice di essere rima­ sto piuttosto scandalizzato dall'averroismo, cioè dal raziona­ lismo aristotelico che vi dominava, e ci assicura di aver sen­ tito alcuni professori affermare che l'anima non era affatto immortale e che il cristianesimo era una superstizione che poteva contentare solo le plebi ignoranti. Petrarca non ama­ va avventurarsi in diatribe che potessero metterlo nei guai con la Chiesa: egli metteva nell'incredulità lo stesso impe­ gno che nella fede, cioè ben poco. Ma in quell'aura di studi umanistici, intramezzati e rallegrati dalle feste di corte, si trovò bene, e infatti ci rimase un anno, cioè fino a peste fini-

110 ta. Poi girovagò, sempre alla ricerca di persone importanti e di manoscritti preziosi, fra Mantova e Ferrara. E finalmente volle andare a vedere la terra dei suoi padri: Firenze. Qui lo attendeva Boccaccio, che aveva da poco comincia­ to a scrivere il Decamerone. Simpatizzarono, diventarono amici, e lo rimasero per tutta la vita, sebbene non si siano ri­ visti che una volta, o forse proprio per questo. Diversi co­ m'erano di carattere e di gusto, difficilmente avrebbero po­ tuto andar d'accordo. Ma, appena ripartito Petrarca, Boc­ caccio indusse il governo fiorentino a restituire al figlio del­ l'esule i beni ch'erano stati confiscati a suo padre nel 1303. Il governo annullò il sequestro e offrì a Petrarca una catte­ dra all'Università. Petrarca la rifiutò, e il governo ripristinò il sequestro.

Nel '51 era di nuovo a Vaucluse, intento a scrivere un picco­ lo saggio, De vita solitaria. E per la prima volta lo troviamo impegnato in una polemica stizzosa che gli procurò parec­ chi nemici. Il pretesto glielo fornì la cattiva salute di Cle­ mente VI, un Papa che lo aveva ben trattato e con cui era in buoni rapporti. Il Poeta gli scrisse esortandolo a diffidare dei dottori che sono, gli disse, un branco di ciarlatani e ba­ sta. Era il prologo di un libello che poco dopo compose con­ tro di loro, così acrimonioso e acido da farci sospettare che sotto ci fosse un caso personale. Forse non stava bene nem­ meno lui e se la rifaceva coi medici che non riuscivano a guarirlo. C'induce a pensarlo anche il fatto che, andato a trovare suo fratello Gherardo, monaco in un convento, ma­ nifestò il proposito di rinchiudervisi anche lui. Ma poi sfogò quella tentazione in un saggio, De olio religiosorum. Il fatto è che ad Avignone ormai si trovava a disagio. E ancora più ci si sentì dopo la morte di Clemente, che aveva continuato la tradizione di tolleranza e di mecenatismo inaugurata da Giovanni. Il suo successore Innocenzo VI era una bella figura di sacerdote ascetico e frugale, ma poco ri­ cettivo alle suggestioni della cultura. Era naturale che non

111 amasse Petrarca e che Petrarca non l'amasse. Al suo naso il Poeta puzzava di paganesimo, e minacciò di scomunicarlo come seguace di Virgilio. Fu il cardinale Talleyrand che s'in­ terpose. Ma Petrarca capì che quella non era più aria per i suoi polmoni. E con gioia accettò l'invito di Giovanni Vi­ sconti di andare suo ospite a Milano. Giovanni era un bell'uomo, gran signore e gran sedutto­ re. Quando Petrarca giunse e gli chiese come poteva ren­ dergli servizio, Giovanni rispose: «Solo con la vostra presen­ za, che onora me e il mio regno». Petrarca non se lo fece di­ re due volte. Onorò il suo regno per otto anni di seguito, restandovi anche dopo che Giovanni fu morto. La prima missione per conto dei suoi anfitrioni la svolse presso l'imperatore Carlo IV di Boemia che nel '54 scese in Italia. Il poeta non lo conosceva. Ma subito dopo la prima caduta di Cola di Rienzo, gli aveva scritto una lettera solen­ ne e aulica, invitandolo a venire nel «giardino dell'Impero» per ripristinarvi la pace, l'ordine e la gloria. Era una lettera stilisticamente molto più bella di quella che Dante aveva in­ viato ad Arrigo VII, nonno di Carlo. Ma invano vi si cerche­ rebbe l'accento della passione, che riscaldava l'impervia prosa latina dell'esule fiorentino. L'Imperatore e il poeta s'incontrarono a Mantova. Petrarca ripetè con magnifica eloquenza l'esortazione, e Carlo l'ascoltò con cortese com­ piacimento. Ma entrambi erano consci di recitare una com­ media. Quel sovrano di sangue ghiaccio e di cervello lucido sapeva benissimo che il «giardino dell'Impero» era un nido di vipere. E il poeta sapeva che il sovrano lo sapeva. Si la­ sciarono tuttavia da buoni amici: tanto che due anni dopo Petrarca tornò in ambasceria a Praga per conto di Milano. In quello stesso anno andò anche a Venezia a svolgervi, come rappresentante dei Visconti, un compito di concilia­ zione con Genova. La guerriglia fra le due città seguitava a imperversare, e di lì a qualche anno sarebbe sboccata in un conflitto mortale. Il poeta ci poteva far poco. Ma rimase im­ pressionato da Venezia, dalla forza della sua flotta, dalla ric-

112 chezza e varietà dei suoi commerci, dalla vivacità della sua vita. E ne fece un'ampia e sonora descrizione tessendo un ampolloso elogio di due Dogi che non lo meritavano punto. Già prima di questo viaggio aveva cominciato a compor­ re una serie di poemi in terzine, / Trionfi, forse come con­ traltare alla Divina Commedia in rapida e allarmante (per lui) crescita di notorietà e di quotazione. I trionfi sono quello del desiderio sul sentimento, della castità sul desiderio, del­ la morte sulla castità, della gloria sulla morte, del tempo sul­ la gloria, dell'eternità sul tempo. C'è anche il finale conge­ do da Laura, con un'invocazione al perdono per la carnalità del suo amore e la speranza di un ricongiungimento con lei in paradiso. Purtroppo, l'ambizione non è proporzionata alla ispirazione che fa capolino ben di rado. Petrarca rimase ancora sei anni ospite dei Visconti, sal­ tuariamente svolgendo altre missioni, ma soprattutto inteso a comporre e a perfezionare le sue opere. Nel '62, forse per sfuggire a una nuova epidemia, tornò a Padova e di lì a Ve­ nezia, dove la Repubblica gli diede una casa sulla riva degli Schiavoni. Stavolta la peste gli aveva portato via il figlio Gio­ vanni, di cui a dire il vero non si era molto occupato. Gli re­ stava la figlia Francesca che aveva sposato Francescuolo da Brossano e gli aveva dato una nipotina, Eletta. Il Poeta ebbe nostalgia di loro, quando un leggero attacco apoplettico lo avvertì che gli anni erano passati anche per lui e che la fine era imminente. Li chiamò, e con essi si stabilì ad Arquà sui colli Euganei. Tempo prima in una lettera si era augurato che la morte lo sorprendesse mentre leggeva o scriveva. Fu esaudito. Lo trovarono con la testa reclinata su un libro. E in ossequio alla sua predilezione per le coincidenze, ciò av­ venne il 20 luglio 1374, suo settantesimo anniversario. Nel testamento lasciava 50 fiorini per comprare un cappotto a Boccaccio, che moriva di freddo (e di fame).

Nel suo cassetto c'erano molte opere compiute e incompiu­ te perché ne tirava avanti parecchie alla volta e non finiva

113 mai di correggerle e polirle. Come ne trovasse il tempo in quella sua errabonda vita piena di missioni diplomatiche e culturali, di cerimonie, d'incontri, di amicizie, di relazioni, di conversazioni, non si capisce. Doveva essere un lavorato­ re instancabile, ma certo c'influì anche il metodo e la disci­ plina che sapeva imporsi. I contemporanei ammirarono soprattutto i suoi versi e le sue prose latine: le Epistolae metricae, il Bucolicum Carmen, i 24 libri Familiarum rerum, il De viris illustribus, gli Psalmipoe- nitentìales eccetera. Un grande successo, quando fu pubbli­ cato, ebbe anche il poema postumo Africa, in cui egli aveva cercato di rinverdire le forme del poema-classico. Certa­ mente son tutte opere di altissimo pregio stilistico. Ma chi cerca un ritratto dell'uomo e l'impronta di un carattere può contentarsi, fra tutta questa produzione latina, del Secretum in cui, appunto perché destinato a restare segreta, Petrarca ci ha lasciato la confessione delle sue inquietudini, dei suoi cedimenti morali, della debolezza della sua fede in Dio, rosa dai dubbi e da un sostanziale scetticismo. Delle lettere le più belle sono quelle raccolte sotto il titolo Seniles, perché com­ poste negli ultimi anni di vita. Ma anche di esse si sente che sono scritte più per i posteri che per i destinatari. La grandezza del Petrarca scrittore e poeta sta tutta in quel Canzoniere ch'egli aveva considerato solo un passatem­ po e di cui forse perfino si vergognava un po' come di un'o­ peretta fatua. Come Dante, che si prendeva per un teologo, anche Petrarca si era ingannato su se stesso, credendosi il continuatore della cultura classica e il ripristinatore della lingua latina. Era invece un poeta moderno e soprattutto un grandissimo stilista italiano, forse il più grande di tutti. Leggendolo, si trasecola all'idea che fra lui e Dante non cor­ ressero nemmeno quarant'anni. Sembra che ne siano tra­ scorsi quattrocento, tanto è cambiata l'ispirazione, tanto il verso si è addolcito e disteso. La forza, il furore, il sangue, l'immaginativa di Dante son dileguati. Ma al loro posto è nata un'estetica.

114 Ma, oltre che un modello di poesia, Petrarca ne dettò uno di vita. Egli è un personaggio assolutamente nuovo: il grande «umanista» del Rinascimento. Non è vero che fosse solo un cinico e frigido calcolatore, come qualcuno lo ha de­ scritto, intento solo al proprio tornaconto, al successo e alla carriera. Certo, l'immortalità del suo nome gli stette più a cuore di quella della sua anima, checché ne dica nei Trionfi; fu un abile propagandista di se stesso; e non lesinò in piag­ gerie. Ma ebbe i suoi tormenti, le sue angosce e malinconie. La sua serenità, come quella di Goethe, era più nei suoi ver­ si e nelle sue prose che nella sua coscienza e nei suoi senti­ menti. Tuttavia, a differenza dell'uomo medievale, era interior­ mente libero. Per lui il mondo non era affatto un «sogno di Dio», ma una cosa ben solida; e la vita non una tormentata penitenza, ma un'appassionante avventura da gustare e de­ libare nel migliore dei modi. Gli piaceva piacere alla gente perché la gente gli piaceva. Perciò fu sempre ansioso di co­ noscerne e tanto viaggiò e a tanti eventi si trovò mescolato. Se non vi s'impegolò mai sino a soffrirne di dentro e di fuo­ ri com'era capitato a Dante, non fu tanto per mancanza di coraggio e di convinzione, quanto perché i suoi interessi erano solo di cultura. E nella cultura egli vedeva un sacer­ dozio fine a se stesso, che esentava da qualunque altro im­ pegno. A un manoscritto di Virgilio egli avrebbe sacrificato non solo un'idea politica, ma perfino Laura. E forse si lasciò coinvolgere nella vicenda di Cola solo perché Cola forniva un buon pretesto a scrivere epistole e appelli in gloria di Roma. Nel '42, quando era già un personaggio altolocato e alla moda, si mise umilmente a studiare il greco col monaco ca­ labrese Barlaam, cui per riconoscenza fece assegnare un Ve­ scovato. Non si consolò mai di non sapere quella lingua, e pagò di tasca propria Leonzio Pilato per tenere dei corsi a Firenze in modo che qualcuno potesse impararla e tradurre in latino l'Iliade e l'Odissea. Quest'uomo che non avrebbe

115 rischiato una multa per un Papa o per un Imperatore, si sa­ rebbe giuocata l'anima per un testo di Omero. Era vanitoso, ma non meschino. Fu generosissimo per esempio con Boc­ caccio fino a tradurre una novella del suo Decamerone in lati­ no perché i letterati di tutto il mondo potessero gustarla purgata - disse - dalla sua volgarità. Egli seguitava a crede­ re che solo in latino si potesse essere scrittori eleganti. Purtroppo fornì anche il modello di una cortigianeria destinata a restare nel costume della intellighenzia nazionale, anche quando questa ebbe perso ciò che lui possedeva per riscattarla: il talento. CAPITOLO UNDICESIMO

BOCCACCIO

A Boccaccio, i cinquanta fiorini che gli aveva lasciato Petrar­ ca fecero un comodo birbone. Era finito male, povero, solo e malato. E fra le sue afflizioni, oltre a un eczema che gli divo­ rava il corpo, c'erano anche quelle dello spirito. Si conside­ rava un fallito. E si vergognava di aver scritto il Decamerone. Era nato sessantanni prima a Parigi, frutto di una rela­ zione illegittima fra un mercante fiorentino andato lassù a vendere stoffe e una donna di cui non è dubbio soltanto il nome, ma anche i costumi. Forse questa origine bastarda non è estranea al carattere dell'uomo e al suo destino. Suo padre tuttavia riconobbe il piccolo Giovanni, e se lo con­ dusse in patria, a Certaldo, dove il ragazzo crebbe abba­ stanza malinconicamente sotto le scarse attenzioni di una matrigna. All'età di quindici anni - ed era il 1328 - lo mandarono a Napoli a far pratica di contabilità commerciale presso una succursale dei banchieri fiorentini Bardi, con cui messer Boccaccio era in rapporti di affari. Giovanni prese la com­ putisteria e i libri mastri nella stessa uggia in cui Petrarca aveva tenuto il Diritto e i codici. Ma Napoli gli piacque e ne serbò sempre la nostalgia. Quella città rumorosa, colorata e gaia era congeniale al suo temperamento estroverso, disor­ dinato e sensuale.

Per fortuna, a tenerlo un po' in briglia, c'era la vocazione letteraria, che gli si rivelò subito. Perse la testa per Ovidio. Per leggerlo in lingua originale, studiò il latino. Trascorse le notti a declamare a memoria le Metamorfosi. E la mattina ar-

117 rivava in ufficio così assonnato e intontito che alla fine do­ vettero licenziarlo. Suo padre si arrese all'evidenza e rinun­ ziando all'idea di ricavare da quel rampollo un banchiere o un mercante, gli garantì l'assegno mensile a patto che s'i­ scrivesse alla facoltà di diritto canonico. Giovanni promise e seguitò a fornicare con Ovidio e la letteratura. Alla messa del Sabato Santo del 1331 (o 1336), cioè nelle stesse circostanze in cui quattro anni prima Laura era ap­ parsa a Petrarca, vide per la prima volta Fiammetta e ne ri­ mase incenerito. Ecco un'altra identità difficile da accertare e di cui tuttora si discute. Ma pare che si trattasse di una cer­ ta Maria, figlia naturale di Re Roberto, andata sposa a un Conte d'Aquino. Boccaccio, povero ragazzo, si provò a guardarla con gli stessi occhi con cui Dante aveva guardato Beatrice. Ci riuscì soltanto nelle poesie, piuttosto bruttine, che subito comin­ ciò a comporre per lei secondo i modelli, tuttora imperanti, del «dolce stile» e della Vita nova, che già conosceva. Ma era un po' difficile restare su quei toni sospirosi: sia per la natu­ ra della passione di lui, sia per il carattere di colei che l'ave­ va accesa. Sebbene educata in convento, o forse proprio per questo, Maria aveva preso il matrimonio non come un im­ pegno, ma come una liberazione. E a distanza di pochi mesi dalle nozze, il povero marito aveva già perso il conto delle corna che la moglie gli aveva piantato in testa. A suo modo tuttavia essa era una donna abbastanza avveduta che cerca­ va di unire l'utile al dilettevole scegliendosi degli amanti che non fossero forniti soltanto di virilità, ma anche di depositi in banca. Lo studente Giovanni, col magro assegno che gli passava messer Boccaccio, cercava di pagare in moneta letteraria. Non potendole comprare il visone, la sommerse sotto un di­ luvio di componimenti in prosa e in versi. Per lei tradusse la romanza di «Fiore e Biancofiore» in un noiosissimo Filocolo. Per lei scrisse il Filostrato, ch'era un po' meglio, ma che pur­ troppo fornì il modello e spianò la strada a quel facile, piat-

118 to e volgare versaiolismo italiano che, attraverso Metastasio e i «librettisti» d'opera, doveva arrivare fino ai cantautori di Piedigrotta e di Sanremo. E alla fine ne travolse le resisten­ ze schiacciandola sotto un autentico mattone: una Teseide di quasi diecimila versi sul modello dell'Eneide, che raccontava la rivalità di due fratelli, Palèmone e Areite, per una Emilia che, raccolto sul seno l'ultimo rantolo dello sconfitto ferito a morte, e seppellitolo con tutti gli onori, concede le sue gra­ zie al vincitore. Fiammetta decise di fare altrettanto col suo spasimante, non si sa se per chetarlo, o per premiarlo di quei cinque an­ ni di attesa. Purtroppo non aveva perso il vizio di prosciu­ gare i portafogli, e quello di Giovanni non resistette molti mesi ai suoi potenti drenaggi. Con tattica squisitamente femminile, cominciò a tradirlo accusandolo di tradirla. Se­ guirono scene burrascose, litigi, riconciliazioni. Boccaccio naufragò nei debiti e non ebbe nemmeno modo di contrar­ ne degli altri con la banca Bardi perché anch'essa fallì. Con una valigia piena di manoscritti e con Fiammetta ancora nel sangue, ma senza né un diploma di contabile né una laurea in diritto canonico, riprese la via di Firenze. Peccato. Era il momento in cui la regina Giovanna saliva sul trono e inaugurava anche a Corte l'èra della dolce vita e delle «messe nere». Boccaccio aveva tutto per diventare il cronista di quella vicenda veramente «boccaccesca», e chis­ sà che meraviglioso racconto ne avrebbe ricavato. Ma non aveva più un soldo e le infedeltà di Fiammetta lo facevano troppo soffrire. Due mesi dopo la sua partenza, a Napoli giunse Petrarca, come «osservatore» del Papa. Altro incon­ tro mancato. La Firenze in cui tornava era molto cambiata dai tempi della sua infanzia. Non nella politica, ch'era sempre rimasta in balìa delle fazioni. Esse ora si combattevano con minore violenza di quando erano capeggiate dai Donati, dai Cerchi e anche da Dante che, sebbene sempre rimasto in posizione subalterna, quanto a spirito di parte non era stato da meno

119 degli altri e alla fine ne aveva fatto le spese. Però le divisioni seguitavano tra famiglie e clientele, in gara per un primato che nessuna riusciva a imporre in maniera definitiva. Ma non si poteva dire che la città ci avesse scapitato. Le sue ottanta banche facevano di Firenze la Wall Street d'Euro­ pa. Le finanze di Francia e d'Inghilterra dipendevano dai loro prestiti, e quando un Peruzzi o uno Strozzi andavano a Parigi o a Londra venivano ospitati a Corte con gli onori di sovrani. Il reddito globale della grande Inghilterra della re­ gina Elisabetta era inferiore a quello della sola città di Fi­ renze nella metà del '300. Nella storia del mondo non si era mai visto né mai più si ripeterà un simile miracolo. Quanto l'infuocata atmosfera di parte e di fazione abbia contribuito ad aizzare lo spirito creativo fiorentino, è diffici­ le dire. Ma è facile, perché documentato nei fatti, riconosce­ re che per lo meno non lo scoraggiò. E curioso vedere come con tutte quelle lotte e risse convivesse un orgoglioso senso civico che spingeva uomini, ditte e banche in una gara di mecenatismo. Per un palazzo dato alle fiamme dall'odio partigiano, altri due ne nascevano più belli. Invece di finan­ ziare una squadra di calcio, il miliardario di allora si accolla­ va la pavimentazione di una strada, la costruzione di un ospedale o di una scuola, la decorazione di una chiesa. Così l'urbanistica e l'architettura di Firenze uscivano dalla loro medievale tetraggine. Di tasca propria i Bardi e i Peruzzi avevano commissio­ nato a Giotto gli affreschi che narrano la storia di San Fran­ cesco, San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista in Santa Croce. E con una pubblica sottoscrizione si erano già raccolti i fondi per porre mano al campanile che Giotto ave­ va disegnato e che, dicevano i Priori, doveva superare per magnificenza, altezza ed eccellenza i capolavori compiuti da Grecia e Roma allo zenit della loro grandezza. Per decorar­ lo era stato assoldato Andrea Pisano, che aveva già inciso i due portali di bronzo del Battistero. Più che una fioritura era, nel campo delle arti plastiche, una rivoluzione, l'addio

120 alla immota e mesta rigidità dell'arte bizantina che aveva dominato e attristato tutto il Medio Evo. Una rivoluzione non meno profonda era avvenuta nel campo della letteratura. In pochi anni il poetico ma oscuro e impreciso balbettio di Cavalcanti e di Guinizelli era diven­ tato una lingua concreta e di solido impianto. Lo dimostra­ va il fatto che si era volta alla prosa, ch'è sempre frutto di un'età matura. In tutt'Europa non ce n'era nessuna che stesse alla pari, quanto a efficacia, di quella di un Villani e delle sue Croniche fiorentine. Giovanni Villani, il fratello Mat­ teo e il nipote Filippo sono i primi memorialisti in senso mo­ derno: i primi, voglio dire, che fanno posto all'economia, alla sociologia e alle loro statistiche per spiegare gli avveni­ menti. Solo grazie a essi sappiamo che Firenze e il suo con­ tado avevano al principio del Trecento 105.000 abitanti, 17.000 mendicanti, sei scuole elementari con diecimila sco­ lari e quattro secondarie con seicento studenti. Insomma, coi Villani già si delinea quella che doveva restare la caratte­ ristica della prosa fiorentina: l'asciuttezza, l'aderenza ai fat­ ti, e soprattutto quel modo di guardarli disincantato e ama­ ro, che Machiavelli e Guicciardini dovevano più tardi porta­ re ad altezza d'arte. Lo spirito realistico si sovrapponeva a quello poetico in cui Dante aveva trovato la sua ispirazione. Questa nuova aria era congeniale ai polmoni di Boccac­ cio. Per un po' di tempo, ancora intossicato di Fiammetta, seguitò a sospirare per lei in versi, e compose in terzine l'A­ morosa visione e il Ninfale fiesola.no. Ma poi si volse al roman­ zo e ne scrisse uno del genere che oggi si chiamerebbe «psi­ cologico», che ha per titolo e protagonista Fiammetta. Essa racconta la storia dei loro amori, e ne attribuisce la fine a lui che dopo averla sedotta l'avrebbe abbandonata, lasciandoci così nel dubbio se Boccaccio fosse un gran gentiluomo o un gran fanfarone. Tuttavia fu solo dopo la peste del 1348 ch'egli si abban­ donò interamente alla propria vocazione di narratore. Quella tremenda sciagura dovette colpirlo a fondo. Lo si

121 sente dalla descrizione che ne fa nel prologo del Decamero­ ne. Egli dice di aver visto i passanti cadere per strada e mo­ rirvi senza che nessuno, nemmeno i genitori o i figli, osasse soccorrerli per timore del contagio. Racconta di cadaveri tenuti nascosti a putrefare dai familiari perché i vicini non appiccassero il fuoco alla casa, di gente che viveva appol­ laiata in cima agli alberi o in fondo ai pozzi per sfuggire l'infezione. Scrive che a Firenze ci furono centomila vitti­ me: cioè, stando al censimento di Villani, solo cinquemila sopravvissuti. Naturalmente è impossibile. Ma anche que­ sto sfondone statistico dimostra quale trauma la catastrofe gli procurò. E non c'è da meravigliarsene. Effettivamente la peste del '48 fu uno spaventoso flagello, che impoverì l'I­ talia di un buon terzo della sua popolazione e ridusse la Francia a un deserto «dove non si sentiva più cantare né gallo né gallina». Da questo quadro di desolazione prende l'avvìo il capo­ lavoro della narrativa italiana che se ne serve come di con­ trappunto. Il Decamerone infatti è una specie di canto di re­ surrezione, una vendetta della vita sulla morte, un atto di fede contro la disperazione del mondo, una larga risata che copre i singhiozzi dei sopravvissuti. All'uscita da una messa in Santa Maria Novella, alla vista di quelle piazze deserte, di quelle strade solcate solo da fu­ nebri cortei e intronate dal rintocco delle campane a morto, sette giovani e belle donne decidono di fare un piquenique nelle loro ville di campagna insieme a tre giovanotti. Nella pura aria dei boschi, sterilizzata dai bacilli, per ingannare il tempo ognuno racconta ogni giorno una storia. E siccome la gaia brigata è composta di dieci persone e dieci sono i giorni che dura la scampagnata (donde il titolo Decamerone dal greco deka hemerai che significa appunto «dieci giorni»), ne risulta un complesso di cento novelle. Boccaccio soggiaceva ancora alla magia medievale dei numeri. Anche lui, al pari di Dante, si considerava impe­ gnato a quel rigore architettonico che aveva ispirato le Cat-

122 tedrali. Tutto doveva essere armonico e funzionale, rigida­ mente inquadrato in un «sistema». E infatti tutte le propor­ zioni sono rispettate: dieci giorni, dieci novelle al giorno, dieci pagine per ogni novella: ecco come si articola questa «commedia umana». Ma sotto la sua tradizionale struttura, l'ispirazione e gli umori sono del tutto nuovi e diversi. Boccaccio prende a prestito anche spunti di Fabliaux francesi e di racconti orien­ tali. Ma li cucina con le salse sue. Fra le cento novelle ce ne sono di scurrili e volgari, che ci dimostrano come il gusto e il talento non siano affatto costretti ad andare d'accordo. Quella per esempio delle stallonesche imprese di Masetto che riesce a soddisfare un intero convento di monache è francamente oscena, e ci fa dubitare della castità e del pu­ dore delle sette gentili signore che ascoltano questa storia da fureria e da taverna senza batter ciglio, solo arrossendo un poco, ma poco. Però, pur così contaminata e mescolata, la vena di Boc­ caccio ha un ritmo, un respiro, un vigore, un umore, una pienezza d'inventiva, di muscoli e di sangue, una scioltezza, una sincerità, un'aderenza alle cose che gli scrittori della ge­ nerazione precedente non si sarebbero mai sognati e che quelli delle generazioni successive, italiani e stranieri, non si stancheranno d'imitare. Sachs e Lessing in Germania, Mo­ lière e La Fontaine in Francia, vi attinsero. Il grande Chau- cer vi pescò molti motivi dei suoi Canterbury tales. Boccaccio riecheggia la grossa e larga risata di Cecco Angiolieri e anti­ cipa quella di Rabelais. Si fa beffe di superstizioni, di mona­ ci e perfino di Santi. Dà l'imbeccata a Voltaire quando fa di­ re all'ebreo Jehannat che la Chiesa dev'essere proprio divi­ na per riuscire a sopravvivere ai suoi preti. E mostra verso le altre religioni una tolleranza che a Dante sarebbe parsa sacrilega. Boccaccio resta il grande maestro europeo del racconto. Ma l'unico a non capirlo o a dubitarne fu lui, che scrisse il Decamerone come il Petrarca aveva scritto il Canzoniere: cre-

123 olendo che fosse solo un passatempo. Aveva trentacinque an­ ni quando vi pose mano. Ma dovette pubblicarlo, come oggi si dice, a «dispense», perché nella introduzione alle novelle della quarta giornata confuta le critiche che dovevano aver­ gli rivolte per le altre tre, evidentemente già in circolazione. Comunque, l'opera sembra che sia stata composta in cinque anni e gli valse una popolarità mescolata di riprovazione. Lì per lì egli godette della prima e non soffrì della secon­ da perché era ancora giovane e pieno di appetiti. La peste, portandosi via Fiammetta, lo aveva liberato dall'ossessione di lei. Egli l'aveva rimpiazzata con due mogli che gli aveva­ no dato una dopo l'altra il disgusto del matrimonio, e un certo numero di amanti che non gli avevano appagato il de­ siderio di procurarsene di nuove. L'omaggio che aveva reso alle virtuose e pudiche raccontatrici del Decamerone era sol­ tanto di maniera. In realtà detestava quel tipo di donne, nella loro virtù annusava soltanto inganno e malizia, e di gran lunga preferiva le prostitute. Non era socialmente ambizioso come Dante né mondano come il Petrarca. Ma le sue dissolutezze erano riscattate da un disarmante candore. Non era né un vizioso né un ipocri­ ta, ma un sano e gagliardo peccatore, un sensuale cui la pas­ sione bruciava il sangue e offuscava il cervello. Come con Fiammetta, in ogni avventura finiva sempre per rimetterci lui, di tasca e di cuore. Per cui, appagato il desiderio e fatti i conti che risultavano regolarmente in passivo, si lanciava in violente requisitorie contro il bel sesso, come nel Corbaccio, che gli hanno valso una fama, del tutto infondata, di misò­ gino. Tutto questo però non gl'impedì di cavarsela abbastanza bene anche come carriera. La sincerità, la schiettezza e il contagioso buonumore gli valevano molte simpatie. Tutti ri­ conoscevano in lui un buon amico, incapace di malizia e senza meschinità e gelosie. Ostasio da Polenta e Francesco Ordelaffi lo chiamarono al loro servizio e gli affidarono mis­ sioni abbastanza importanti. I fiorentini lo fecero camerlen-

124 go, carica di tutto rispetto, e lo mandarono ambasciatore, prima in Romagna, poi dal Papa ad Avignone. Forse anche questi incarichi che davano «tono» ed esige­ vano una certa solennità contribuirono a convertire Boccac­ cio a studi più severi. Ma a dargli la spinta decisiva in questo senso fu Petrarca, quando nel '50 s'incontrarono a Firenze. L'amicizia fra letterati è rara. E quindi logico che si porti a esempio quella, autentica e sincera, che legò i due uomini. Ma per Boccaccio i suoi effetti furono devastatori. Egli ri­ mase a bocca aperta davanti alla cultura, al tratto signorile, alla grazia mondana di Petrarca che, pur apprezzando l'in­ gegno di Boccaccio (ma più ancora, crediamo, l'ammirazio­ ne di cui si vedeva oggetto da parte sua), avanzò qualche ri­ serva sulle opere in cui costui lo aveva tradotto e special­ mente sulla lingua in cui lo aveva espresso. Petrarca, si sa, non attribuiva validità che al latino e non riconosceva altro stile che l'imitazione dei classici. Boccaccio, che già nutriva qualche dubbio sulla «volgari­ tà» (in tutti i sensi) del Decamerone, dovette sentirsene addi­ rittura mortificato davanti al Poeta laureato, all'aulico Mae­ stro continuatore di Virgilio, di cui scrisse una esaltata bio­ grafia. E per sua e nostra disgrazia abbandonò il volgare, la narrativa e la fantasia per comporre in latino opere dotte, inutili e noiose sulla genealogia degli dèi pagani, sulla vita dei personaggi dell'antichità, e perfino sulla geografia delle montagne, mari, fiumi, boschi, paludi eccetera. Così la lette­ ratura italiana perse un romanziere e guadagnò un pedante. Ma non fu colpa solo di Petrarca. Ci si mise anche un fra­ te certosino, Pietro Petroni, che nel '62, in punto di morte, gli mandò un messaggio invitandolo a fare ammenda della sua vita licenziosa e dei suoi irriverenti scritti che, se non li avesse in tempo ripudiati, gli sarebbero costati, diceva, l'in­ ferno. Boccaccio, che dell'inferno si era sempre fatto beffe, stavolta se ne impaurì, e pensò di mandarci tutti i suoi ma­ noscritti bruciandoli e di vendere la biblioteca. Da allora co­ minciò per lui una quaresima piena di penitenze. A spese

125 proprie, sebbene il suo borsellino non gli consentisse davve­ ro di largheggiare, fece venire a Firenze Leonzio Pilato e per far piacere a Petrarca gli commissionò la traduzione dei poemi omerici. Era diventato molto «rispettabile», e a lui fa­ ceva capo tutta la nuova leva degli umanisti fiorentini. Ma era anche immalinconito e tribolato dagli acciacchi. Per due volte tornò a Napoli nell'assurda speranza di ritrovarvi gli umori dei suoi vent'anni. Ne rimase deluso e ne diede colpa alla città. La Signoria gli affidò qualche altra missione diplo­ matica ad Avignone e a Roma. Ma ormai si muoveva malvo­ lentieri, e la maggior parte dell'anno la passava a Certaldo. In volgare non scrisse più nulla, salvo un Commento alla Di­ vina Commedia e un Trattatello in laude di Dante. Né l'una né l'altra opera valgono molto. Il Commento è piatto, e ci mostra un Boccaccio che ammira Dante per il verso sbagliato cioè prendendolo per un grande filosofo, teologo e scienziato, quale di certo non era, invece che per un poeta. Ma secondo Boccaccio la poesia in sé non conta; vale solo come strumento di cultura e di pensiero. Quanto al Trattatello, deploriamo che l'impegno della laude abbia prevalso sullo scrupolo della biografia. Per la vicinanza dei tempi e per la conoscenza dell'ambiente, Boccaccio era an­ cora in grado di ricostruire la vita di Dante. Ce ne fornisce infatti alcune preziose notizie, ma talmente mescolate di chiacchiere, di leggenda e di agiografia da rendere sospette anche quelle che forse sono vere. Tuttavia questi lavori ci mostrano uno dei lati umana­ mente più simpatici e amabili dell'uomo: la sua generosità e onestà intellettuale, la sua capacità di ammirare i colleghi ri­ vali, sino a diventarne l'amanuense e l'esaltatore. Su Petrar­ ca il latinista aveva scritto un libro in latino, De vita et moribus F.P. E pare che sia stato soprattutto per le sue insistenze che la Signoria fiorentina istituì una cattedra di studi danteschi. Fu lui a ogni modo a occuparla nel '73 e a tenerla con gran­ de impegno, sia pure per pochi mesi. Ragioni di salute l'ob­ bligarono di lì a poco a lasciarla.

126 Doveva essere stato un pessimo amministratore di se stesso, come di solito lo sono i generosi perché, con tutti gl'incarichi e occasioni di guadagnare che aveva avute, si era ridotto povero in canna, e non sapeva come sbarcare il lunario. I cinquanta fiorini di Petrarca furono per lui la manna del cielo. Morì a sessantadue anni, poco prima del Natale del '75, pieno di rimorsi, e con la convinzione di aver sbagliato la prima metà della sua vita, mentre invece aveva sbagliato la seconda. CAPITOLO DODICESIMO

UN MERCANTE DEL TRECENTO

A Prato, davanti al Palazzo Pretorio, si erge un monumento che raffigura un uomo intabarrato con un berretto tondo in testa e un mucchio di fogli in mano. E Francesco Datini, mercante del Trecento, che non ebbe solo il merito di gua­ dagnare un sacco di soldi, ma anche quello di lasciarli alla sua città insieme a un archivio di centocinquantamila lette­ re, cinquecento registri e altri documenti. Questo imponen­ te materiale ha consentito ad alcuni storici, fra cui la signora Iris Origo, di ricostruire una tipica figura di finanziere di quel secolo, il modo con cui lo si diventava, le condizioni dell'industria e del commercio. In Datini, che aveva la ma­ nia di scrivere e di conservare ciò che scriveva, c'è tutto. Ec­ co perché abbiamo pensato di prenderlo a protagonista del presente capitolo. Era nato nel 1335, figlio di un povero oste, che la peste del '48 si portò via insieme alla moglie e a due bambini. Co­ sì a tredici anni si trovò orfano insieme al suo fratellino Ste­ fano, con una casa, un po' di terra e quarantasette fiorini. Una brava donna, Piera Boschetti, raccolse i due ragazzi e si prese cura di loro, che la considerarono sempre come mam­ ma. L'anno dopo Francesco s'impiegò come garzone in una bottega di Firenze, e lì sentì i discorsi che facevano i mer­ canti di ritorno da Avignone diventata, coi Papi, la più im­ portante «piazza» del commercio fiorentino. Compiuti quin­ dici anni e raggranellati centocinquanta fiorini con la vendi­ ta della sua parte di eredità, vi emigrò. Avignone era proprio come gliel'avevano descritta: il centro degli scambi fra le due grandi potenze industriali e

128 manifatturiere del tempo: l'Italia e le Fiandre. La Corte Pontificia era la migliore cliente. Solo per le proprie vesti, papa Giovanni XXII spendeva 1300 fiorini l'anno; e per le livree dei suoi servi, fino a 8000. Tutto il vasellame era d'o­ ro, lavorato dagli òrafi fiorentini. I Cardinali si rifiutavano di bere in coppe che non fossero di metallo prezioso con fi­ gure intarsiate di serpentelli che, secondo loro, li avrebbero tenuti al riparo dai veleni. Perché a Dio non ci credevano, ma alle stregonerie sì. D'oro erano financo i morsi delle lo­ ro cavalcature. «E d'oro», diceva Petrarca, «fra poco saran­ no anche i loro zoccoli.» Ora poi che sul Soglio sedeva Cle­ mente VI lo scialone, il fasto non conosceva più limiti. Avi­ gnone era quasi una città toscana. Toscani erano quasi tutti gli artigiani che rifornivano la Curia, dove avevano il loro alto patrono nel cardinale Niccolò da Prato, cui Clemente doveva la propria elezione. Toscani erano i pittori che deco­ ravano chiese e palazzi: primo fra tutti Simone Martini, istallatosi lì con tutta la sua famiglia e i suoi apprendisti. To­ scani erano tutti i banchieri e cambiavalute. Toscani i pellic­ ciai che lavoravano le pelli di ermellino, di cui papa Giovan­ ni aveva orlato perfino i propri guanciali. Toscano era l'ar­ chiatra, cioè il medico pontificio, Naddino Bovattieri. Datini non dovette quindi sentirsi spaesato, e certamente trovò aiuti e solidarietà per l'impianto di un'azienda com­ merciale. I suoi primi traffici furono di armi. Devastata dal­ la peste e dalla guerra dei Cent'anni, la Francia era alla mercé di bande di predoni, da cui gli stessi Papi erano mi­ nacciati e dovevano difendersi. Francesco, da bravo mer­ cante di cannoni, rifornì imparzialmente gli agenti dell'or­ dine e quelli del disordine, e nei suoi libri troviamo annota­ ta la vendita di cinquanta «corazze per briganti», importate da Milano e da Lione, grandi fucine dell'industria di guer­ ra. Alla prima bottega aperta in Piazza dei Cavalieri, ne ave­ va aggiunte altre tre, con una filiale a Barcellona. Dai regi­ stri risulta che gli affari furono subito prosperi. Ma Datini resistè alla tentazione di lanciare una grande compagnia in-

130 ternazionale in concorrenza con quelle che avevano fonda­ to altri toscani come i Soderini e i Guinigi, che facevano an­ che da banchieri e da collettori di tasse in nome del Papa. Da buon pratese, Datini preferiva guadagnare molto sul po­ co che poco sul molto. Non aveva le larghe visioni dei gran­ di finanzieri fiorentini che lo avevano preceduto, come i Bardi e i Peruzzi. Preferiva una miriade di piccole imprese taccagnamente amministrate, in modo da tenere i rischi ri­ partiti e limitati. L'incetta del sale, per esempio, gli andò male. Ma ne compensò le perdite con l'esportazione a Fi­ renze degli smalti francesi a fondo d'oro e con l'importazio­ ne di zafferano e di vino, che invece gli andarono benissi­ mo. I suoi magazzini si moltiplicavano e ingigantivano, ma restavano sul livello di quelli di un robivecchi. C'era di tut­ to: pelletterie, gioielli, lino di Genova, fustagno di Cremo­ na, zendadi di Lucca, biancheria da sposa, cofanetti da viag­ gio e soprattutto paramenti ecclesiastici. Datini non badava né a qualità né a provenienza di merce purché l'affare pro­ mettesse. L'oscura storia di una tovaglia d'altare che costava 3500 fiorini ci fa sospettare che ricettasse anche merce ru­ bata. Trafficava anche in quadri, ma senza badare ad altro che al loro valore commerciale. In un ordinativo spedito ai suoi corrispondenti fiorentini chiedeva un quadro di gran­ de formato dove ci fosse un Cristo in Croce, una Madonna di bell'aspetto, alberi con foglie e un bel panorama. Il suo conto in banca cresceva rapidamente, ma egli restava anco­ rato ai criteri del piccolo cabotaggio basato sulla furberia e sull'avarizia. Era un curioso uomo: un miscuglio di coraggio e di pru­ denza, di grandezza e meschineria. Dalla sua centrale avi- gnonese dirigeva per lettera le operazioni più varie e com­ plesse su tutti i mercati europei. Questa prodigiosa attività era aizzata da un continuo senso di angoscia. Tremava per il risultato di ogni transazione, per la spedizione della merce, per i pericoli che correva durante il viaggio per terra e in mare, per le tasse con cui era in perpetua lotta, e soprattut-

131 to per i furti cui si riteneva esposto da parte di tutti, com­ presi i suoi soci. Per non dar loro il tempo di perpetrarli, era lui che li derubava sui dividendi. Quest'ansia, ch'egli chiamava «maninconia», gli si acuì con gli anni, quando in lui sopravvenne quella della morte e dell'aldilà. Come Rockefeller, visse nel terrore dell'inferno, e per salvarsene fece digiuni, pellegrinaggi, e diventò perfino generoso di donativi a chiese e conventi. Era grafòmane. Non bastando­ gli la corrispondenza d'ufficio, scriveva lettere a tutti, e spe­ cialmente agli amici di Prato, cui annunziava ogni poco il ri­ torno. Voleva ammogliarsi, diceva, con una compaesana e ritirarsi dagli affari. Invece gli affari seguitò a moltiplicarli e, in attesa della compaesana, collezionò un certo numero di concubine che gli regalarono anche alcuni bastardi. Solo verso i quarant'anni si decise, e sposò una ragazza fiorenti­ na, Margherita Bandini, che ne aveva sedici e viveva lì ad Avignone. Anche quell'affare gli andò bene. Pur con quella differenza di età, Margherita non solo gli fu fedele, ma sop­ portò le infedeltà di lui e, non riuscendo a dargli un figlio legittimo, si prese cura di quelli illegittimi ch'egli aveva con­ fezionato fuori casa. La cerimonia nuziale fu fastosa. Ecco il menu del banchetto: 406 pagnotte, 250 uova, 50 chili di for­ maggio, mezzo bue, due montoni, 37 capponi, 11 galline, oltre le varie leccornìe di contorno. L'anno dopo, 1375, altro colpo di fortuna. Restio a ripor­ tare la Sede Apostolica a Roma dopo l'infelice tentativo già fatto dal suo predecessore Urbano V nel '67, papa Gregorio XI, lo abbiamo già detto, aveva affidato l'amministrazione degli Stati Pontifici in Italia Centrale a dei Legati francesi che vi avevano suscitato solo la rivolta. E a guidarla e finan­ ziarla era la città rimasta sempre più fedele alla Chiesa: Fi­ renze. La rappresaglia del Papa non si fece attendere e si tradusse nella solita scomunica che autorizzava tutti i gover­ ni a confiscare le proprietà dei fiorentini. Ad Avignone co­ storo avevano in mano il commercio e la banca. Dovettero precipitosamente abbandonare le loro botteghe e aziende.

132 E molti, per salvarle dal sequestro, pare che le affidassero al Datini che, essendo di Prato, non ricadeva sotto le sanzioni e che ad ogni modo aveva fatto professione di fedeltà a Gre­ gorio. Non è chiaro come egli si sia comportato in questa circostanza. Ma un suo penetrante biografo, il Sapori, affer­ ma che da allora i suoi capitali si moltiplicarono bruscamen­ te. Dato il tipo, non ce ne meravigliamo. Condotta a termine quest'ultima proficua operazione, Datini si rese conto tuttavia che, col ritorno del Papato a Ro­ ma, la piazza di Avignone si avviava al crepuscolo. Vi lasciò una bottega affidata al suo impiegato Boninsegna, spedì per mare il grosso della mercanzia, con la moglie e i servi attra­ versò le Alpi a cavallo, e dopo un mese di viaggio, per Mila­ no e Cremona, giunse a Prato, giusto in tempo per riab­ bracciare Mamma Piera, unica persona forse che abbia ve­ ramente amato, e ad ogni modo l'unica con cui si era sem­ pre mostrato generoso. Essa morì subito dopo, felice di averlo rivisto. Prato ora era una cittadina di dodicimila anime, quasi tutti artigiani e mercanti. Molto più del Comune e dei suoi Magistrati, padrona di tutto era l'Arte della Lana, che riuni­ va in una unica corporazione tessitori, filatori, cardatori, tintori e mercanti. E padroni dell'Aite erano i capitalisti che controllavano tutte le fasi della lavorazione e ne monopoliz­ zavano il prodotto. Nessuno poteva vendere o acquistare per proprio conto, nessuno poteva impiantare un'azienda indipendente. L'Arte stabiliva orari, prezzi, salari, e teneva tutta la città in una tale atmosfera di campo di concentra­ mento e di lavori forzati, che un pratese, ritornandovi dopo molti anni di assenza, scrisse: «Parmi che chi qui vive, ver­ gogna abbia dell'esser vivo». Per Datini, reduce dalla fastosa, sonante e colorata Avi­ gnone, l'impressione dovett'essere forte. Nessuno più lo co­ nosceva, ed egli non tenne a farsi conoscere, anche per via delle tasse, sua eterna ossessione. Denunziò un patrimonio di 3000 fiorini. Ma non resse alla tentazione di costruirsi

133 una casa che gliene costò seicento e fece spalancare gli occhi ai suoi parsimoniosi compaesani, specie per via del grande giardino di cui la volle circondare. Lì istallò il suo fóndaco, il suo scrittoio e i suoi registri, che sulla copertina portava­ no iscritto il motto della sua azienda: «Cho 7 nome di Dio e di Ghuadagno». Di lì riannodò le fila con tutte le succursali dis­ seminate in Spagna, Francia, Inghilterra, Germania e Me­ dio Oriente. Poi s'iscrisse all'Arte ed entrò in società con uno che già vi godeva un certo prestigio. Non s'immischiò di lavorazione, in questo lasciando fare al socio. Ma con la sua organizzazione a raggio europeo garantì i rifornimenti di materia prima, cioè di lana. Quella locale era scadente. Datini mise le mani su quella inglese, ch'era di gran lunga la migliore del mondo, assicurandosene cospicui e costanti quantitativi. E questo rese imbattibile il suo prodotto. Presto però si accorse che Prato era un centro troppo piccolo e retrivo per fare al caso suo. Vi mantenne la casa e la moglie, ma con gli uffici si trasferì a Firenze, dove s'iscris­ se all'Arte della Seta e istallò un fondaco in Por Santa Maria, che a quanto pare fece testo per la sua attrezzatura e funzio­ nalità. Le mura erano foderate di legno e l'ammobiliamen­ to consisteva di una fila di panche, un desco da scrivere con sedile, una cassaforte ben sbarrata con grossi lucchetti e chiavistelli, una stadera, due paia di forbici, una canna per misurare, una pentola di rame e una lucerna di ferro. Fine­ stre e porta erano munite di grosse sbarre. Nel retrobottega c'era un letto per il garzone che, secondo gli Statuti dell'Ar­ te, doveva dormirci la notte. Il personale si componeva di uno scrivano, che stava in un angolo davanti a una grande tavola divisa in caselle che ne riproducevano in piccolo il di­ segno. Erano, l'una e le altre, divise in sette colonne: la pri­ ma rappresentava i denari, la seconda i soldi, la terza le lire, la quarta le ventine di lire, la quinta le centinaia, la sesta le migliaia, la settima le decine di migliaia. Oltre allo scrivano, che aveva in monopolio la contabilità, c'erano due o tre ra­ gazzi apprendisti che facevano «pratica».

134 Niente altro. Da questi buchi e con questo staffi mercanti fiorentini dirigevano transazioni di miliardi su tutte le piazze del mondo. Ogni tanto entrava l'ispettore dell'Arte a con­ trollare l'esattezza della canna e della stadera. Ogni tanto ve­ nivano altri mercanti a discutere le notizie del giorno e le fluttuazioni dei prezzi. Ogni tanto arrivava un corriere con la borsa delle lettere attaccata alla cintura, e questo era un avvenimento saliente. Per alcune destinazioni come Venezia, le Fiandre e la Sciampagna, i mercanti fiorentini avevano un vero e proprio servizio postale con due corrieri al giorno, istituito dall'Arte di Calimala. Ma Datini, che aveva filiali e interessi anche in Spagna e nel Levante, ne usava anche di privati, e nella loro scelta era meticolosissimo. Il mestiere in­ fatti era difficile. Occorrevano uomini nello stesso tempo au­ daci e prudenti, di grande resistenza fisica, abili e coscienzio­ si. Datini, a quanto pare, ebbe la mano felice nel selezionarli. Dall'archivio risulta che in tre giorni i suoi postini raggiun­ gevano Genova e in sei Venezia. Tuttavia, per mettersi al ri­ paro da disguidi e sorprese, egli usava spesso spedire le let­ tere in diverse copie affidate a corrieri differenti. Le scriveva da sé, non fidandosi di nessuno. E, data la moltiplicazione delle sue filiali e la vastità dei loro interessi, non doveva far altro dalla mattina alla sera, come del resto l'archivio dimo­ stra. Da questa corrispondenza si possono ricostruire le vie del traffico, marittime e terrestri, dalla Spagna all'Oriente, le incidenze delle perdite, ch'erano frequenti e gravi, per via dei pirati sul mare e dei banditi in terraferma. Ai suoi svaria­ ti commerci, Datini ora ne aveva aggiunto un altro, sia pure in misura ridotta: quello degli schiavi, la cui centrale di ap­ provvigionamento erano le Baleari. L'importazione era con­ sentita anche a Firenze, purché si trattasse d'«infedeli», cioè mussulmani o ebrei. Ecco una lettera che riguarda una schiava incinta: «... Noi abbiam parlato al cappellano di cui fu la schiava che avete; e dice che lei e ciò che ha in corpo gettiate in mare, però che non è sua la creatura...» Piccoli lampi sul costume di quel tempo e di quel clero.

135 Datini agiva per compagnie. Un tempo esse erano state delle piccole aziende familiari limitate a padre, figli e fra­ telli, cioè a persone che mangiavano lo stesso pane, donde appunto il nome di compagnia. Poi esse cominciarono a in­ globare anche degli estranei in veste di soci. Quelle di Dati­ ni erano del secondo tipo, ma egli pretendeva e chiedeva che i soci considerassero il vincolo dell'interesse non meno stretto di quello del sangue. Naturalmente però il padre era sempre lui che, alla testa delle varie aziende, ne riuniva tutte le fila nel proprio pugno. Esigeva dai suoi collabora­ tori un'obbedienza filiale e la contraccambiava con solleci­ tudini paternalistiche. Ecco come parla di un suo garzone morto: «Checco mio è andato a Paradiso... Due buoni me­ dici furono sempre a la sua malattia, e tutti quelli della ca­ sa, sempre, e dì e notte, al suo servigio... Bene, me ne duo­ le; altro non posso. Era buono giovane e fedele». Ma di suo nipote Maso così scrive al direttore della filiale di Barcello­ na che se ne lamentava: «Castigatelo per ogni via e modo e durateci fatica...» Sulla fine del secolo, ormai coi capelli bianchi, Datini sembrava aver raggiunto tutti i suoi obbiettivi e poteva riti­ rarsi, ricco e felice, nella sua bella casa di Prato. Invece se­ guitò a tenerci, sola, la moglie cui scriveva una lettera al giorno. Ma lui rimase nel suo fondaco di Por Santa Maria a sviluppare vieppiù la sua vasta rete di affari e a seguirne le sorti con la consueta trepidazione. Era dei pochi che si sob­ barcavano a spese ingenti per assicurare la sua mercanzia, ma nemmeno questo bastava a calmare le sue apprensioni perché i risarcimenti, in caso di perdita, erano difficili da incassare. Scriveva alla moglie: «Quando fanno dette sicur­ tà, è loro dolce cosa toccare il danaio; ma quando viene il disastro della perdita, ciascuno tira il culo indietro...». E sembrano parole scritte oggi. Però anche dal disastro egli sapeva trarre qualche vantaggio. Scriveva subito a Marghe­ rita di raccontarlo a tutti e di spargerlo, debitamente mag­ giorato, ai quattro venti, in modo che l'agente del fisco, sua

136 costante ossessione, ne tenesse conto. E anche queste sem­ brano parole scritte oggi. Sulla fine del secolo, forse per facilitare il proprio finan­ ziamento, s'iscrisse anche all'Arte dei Cambiatori e mise su una banca. Gliene derivò un mare di guai non soltanto col fisco che lo colpì ancora più duramente, ma anche coi suoi amici più timorati che gli rimproverarono di esercitar l'usu­ ra. Datini aveva una specie di direttore di coscienza in Lapo Mazzei, esemplare galantuomo, le cui lettere affettuose, ma anche severe, rimangono a documento di un'amicizia devo­ ta ma senza servilismo, di dirittura morale e di umana com­ prensione. Mazzei era la sola persona che Datini temeva, la sola comunque da cui subiva anche i rabbuffi. Dalle lettere che ne ricevette in questa occasione risulta quale confusione regnasse allora intorno al concetto del denaro e dell'interes­ se, soprattutto per colpa della Chiesa. Nell'alto Medio Evo, quando aveva il quasi assoluto monopolio del denaro, essa lo aveva dato a prestito ai tassi più esosi. Ma dacché si era formato il capitalismo privato e laico, la Chiesa si era ricor­ data di Sant'Agostino e di San Girolamo che consideravano usura qualunque genere di utile ricavato dal denaro e la condannavano come peccato mortale. Ciò non aveva impe­ dito ai preti di continuare a esercitarla. Ma consentiva loro di scagliare anatemi contro i laici che facevano altrettanto. San Tommaso aveva cercato di mettere un po' d'ordine in queste contraddizioni riconoscendo la legittimità di un «giu­ sto prezzo» del denaro. Ma era una regola opinabile che consentiva tutto e il contrario di tutto. Una banca si era sot­ tratta alla condanna sostenendo che il peccato presuppone un'anima, e quindi quello dell'usura è tale quando a eserci­ tarla è una singola persona. Ma una banca, essendo qualco­ sa d'impersonale, l'anima non l'ha, e quindi il peccato non può commetterlo. Non sappiamo come fu accolta, nel caso specifico, l'obbiezione. Sappiamo soltanto che nell'opinione corrente, «banchiere» e «usuraio» erano sinonimi. E lo era­ no anche in quella di Lapo Mazzei che metteva in guardia

137 Datini dallo «strozzare» i suoi clienti. Alla fine questi ne fu talmente stufo che, alla morte del suo socio Cambioni, liqui­ dò la banca sebbene fosse ormai una delle più forti e ag­ guerrite d'Europa. Come trovasse il modo, con gli anni e gli affari che gli pe­ savano sulle spalle, di dedicare ancora energie alle donne, Dio solo lo sa. Eppure, il viziaccio non gli era passato. Con Margherita non aveva da anni altri rapporti che le quasi quotidiane lettere, rivelatrici più di malintesi che di affetto. Margherita aveva disperatamente cercato di dargli un figlio. S'era perfino fatta mandare una cintola miracolosa da farsi allacciare alla vita - diceva la prescrizione - da un bambino vergine e dopo aver detto tre Paternostri e tre Avemmarie a onore di Dio, della Santa Trinità e di Santa Caterina. Ma neanche questo ritrovato sortì effetto, e la povera donna ne rimase delusa e inasprita. Fu certo anche per sottrarsi alla sua petulanza che Francesco si trasferì da Prato a Firenze. Ogni mercoledì le mandava a dire che il sabato sarebbe tor­ nato a passare la fine della settimana a casa, ma - si lamenta Margherita in una lettera - «parmi che ogni venerdì sera ti ripenti». E magari si fosse ripentito sempre. Qualche volta invece tornava, e l'occhio gli cascava su una servotta quindi­ cenne di nome Ghirigora cui a un certo punto occorse pro­ curare con una bella dote di 165 fiorini un marito che si ac­ collasse la responsabilità di un bambino già concepito da sei mesi, e che ne sopravvisse altri sei. Datini lo fece seppellire nella sua cappella privata ai piedi dell'altare, posto riservato ai figli legittimi. Poi la Ghirigora rimase vedova e chiese al vecchio padrone di riprenderla in casa. Ma Datini rifiutò. Di lì a non molto, un'altra donna di casa, la schiava venten­ ne Lucia, subì il medesimo incidente. Margherita si prese la bimba che nacque, Ginevra, e l'allevò come figlia sua. Quin­ dici anni dopo il Datini la diede in sposa a un giovanotto di Prato con una bella dote di 1000 fiorini. Ma quando, a noz­ ze concluse, si trattò di versarli, ne detrasse 840 per le spese della cerimonia, ch'era stata sfarzosa, e con la clausola che,

138 se Ginevra fosse morta entro due anni, il vedovo doveva re­ stituirgli i mille fiorini. Questo era il mercante Datini. Le so­ le spese su cui non lesinava mai erano quelle per la casa e per i vestiti. Possedeva - lusso inaudito per quei tempi - sei camicie di lino, e ogni giorno ne voleva una di bucato; sei paia di brache; quattro farsetti foderati di bambagia, dieci cioppe o giacconi foderati di pelliccia o di panno rosso; e ben cinque mantelli lunghi fino ai piedi. Non aveva invece cami­ cie da notte o pigiama. Sia lui che sua moglie dormivano in­ sieme, ma nudi, solo con berrette da notte. La casa, che esi­ ste ancora, più che di gran linea architettonica, era solida e comoda, con le stanze a volta, due cucine, e alcune camere per gli ospiti. Datini ne ricevette di famosi dall'ambasciatore di Francia a Luigi II di Angiò e li trattò da grande anfitrio­ ne considerandole spese di rappresentanza che contribuiva­ no al prestigio della ditta. Anche la sua mensa era famosa per la varietà e la ricchezza dei piatti. Datini era ghiotto, specialmente di cacciagione. Entrato nella sessantina, dovette un po' ridurre il suo forsennato ritmo di lavoro. Ma l'ansietà, da cui era stato sempre afflitto, invece di migliorare, peggiorò. A quella per l'andamento degli affari, si aggiunse quella per le «morìe», cioè per le pestilenze. Ne aveva già viste scoppiare sei, da quando era nato, e dalla prima, che gli aveva portato via ge­ nitori e fratelli, era rimasto traumatizzato. Nel 1399 ne scoppiò un'altra. Per immunizzarsene, Datini indossò il roz­ zo saio del monaco e scalzo e con una candela in mano, se ne andò in pellegrinaggio propiziatorio. Era un anticlerica­ le e più volte si era fatto beffe dei preti. Però credeva in Dio, o almeno nell'inferno, si era sempre regolarmente confessa­ to e aveva spesso allentato i cordoni della borsa per elemosi­ ne a chiese e conventi. Seguiva anche le prediche, e special­ mente quelle di San Bernardino da Siena, che per procu­ rarsi un pubblico si annunziava imitando il canto del gallo e delle rane, e per tenerne avvinta l'attenzione lardellava i suoi discorsi di aneddoti e battute.

139 Col cognato, i soci e altra gente di casa, ora Datini cerca­ va di stornare il pericolo a piedi nudi e salmodiando:

Misericordia, eterno Dio. Pace, pace, Signor pio, Non guardare il nostro errore. Misericordia andiam gridando Misericordia non sia in bando Misericordia Iddio pregando Misericordia al peccatore.

Ma misericordia non ci fu. Ancora una volta la peste nera si abbatté sull'Europa, e la sua mareggiata di morte investì an­ che Prato. Datini vi cercò scampo avviandosi a dorso di mu­ lo attraverso gli Appennini verso Bologna. Lo seguivano Margherita, Ginevra, due impiegati e alcuni servitori. Era il 1400. A Bologna rimase quattro mesi, e il fedele Mazzei non gli fece mancare le notizie. Erano agghiaccianti. «Ieri moriro­ no qui 201, senza gli spedali, preti, frati e monasteri, e gen­ te che fanno senza beccamorto». Lapo stesso ne fu colpito nei figli: gliene morirono due uno sull'altro. Le sue descri­ zioni di Firenze non fanno rimpiangere quella di Boccaccio per la peste del '48: le botteghe chiuse, le strade deserte, le campane a morto. Datini tornò a Prato a flagello finito, e stavolta non sé ne mosse più. Come in tutte le altre città italiane, un buon ter­ zo della popolazione era stato falciato. Il vecchio mercante, sebbene ancora fisicamente valido, era scosso. Lapo, mira­ colosamente sopravvissuto al contagio, lo ammoniva: «Que­ sto nostro vivere è un correre alla morte». E il predicatore fra' Giovanni Dominici Io esortava a consacrare a Dio il tem­ po che gli restava da vivere. Datini fece testamento. Al no­ taio rivelò che la sua fortuna ammontava a 70.000 fiorini, quanti a quel tempo il Re di Francia non ne ricavava in un anno da tutti i suoi Stati. Li lasciò, su consiglio di Mazzei, al

140 pio istituto della «Casa del Ceppo dei Poveri» di Prato, salvo una rendita di cento Fiorini all'anno alla vedova e alcuni al­ tri legati minori a Ginevra e ai famigli. Fatto questo investimento in aree fabbricabili di paradi­ so, tornò a dirigere i propri affari e seguitò a farlo fino alla morte che lo sorprese nel 1410. Non era stato un grande uomo. Ma aveva compiutamen­ te incarnato il nuovo tipo di capitalista prodotto dalla socie­ tà del Trecento e aveva avuto l'accortezza di lasciarcene nel suo archivio il preciso ritratto. A differenza del mercante o del banchiere del Duecento, ch'era sempre figlio dell'«Arte» o della «parte» o del «clan» di famiglia, Datini era, come og­ gi si dice, un self mode man, un uomo che si era fatto da solo, quale non era stato nessun Acciaioli o Bardi o Peruzzi o Cer­ chi o Frescobaldi: e questo dimostra quanto l'individuo si fosse ormai affrancato dal «gruppo». Inoltre, a differenza di quei suoi predecessori che avevano sempre considerato il denaro come strumento di potere e di prestigio, lo aveva preso come fine. Non se n'era mai servito per procurarsi un blasone nobiliare o per fare una carriera politica. L'unica carica pubblica che aveva rivestito fu, per poco tempo e di mala voglia, quella di Gonfaloniere di Giustizia a Prato. Era indifferente alla politica, anzi la disprezzava come un me­ stiere di «chiacchieroni» intesi solo a intralciare il lavoro del­ la gente seria, cioè di quella che badava a produrre o ad ac­ cumulare palanche. E anche in questo atteggiamento «qua­ lunquista» era buon precursore del capitalista moderno. Ma egli lo fu anche nella tecnica degli affari. I mercanti e i ban­ chieri del Duecento erano stati dei pionieri, uomini d'arme e d'avventura, che da soli avevano tracciato e aperto le vie del traffico in terra e in mare. Avevano dovuto far tutto di persona, animati da uno spirito imprenditoriale pionieristi­ co ed eroico. Datini non conosceva altre città che Avignone, Prato e Firenze, e non si era mai mosso dal suo «scrittoio». Era già inserito in un «sistema» che lo esentava dall'inter­ vento personale. Aveva i suoi «direttori generali», le sue «fi-

141 liali», i suoi corrispondenti, i suoi corrieri. Ma aveva soprat­ tutto le sue «lettere di cambio» che gli consentivano di spo­ stare con relativa facilità i suoi capitali. Con lui s'inaugura un capitalismo nuovo, basato più sul­ la tecnica e l'efficienza che sulla fantasia, l'inventiva e il co­ raggio. Come dice il Sapori, con gli uomini alla Datini il vo­ lume degli affari nell'economia italiana non si contrasse; ma si contrasse lo spirito degli uomini d'affari. E ora riprendiamo il filo del nostro racconto. CAPITOLO TREDICESIMO

IL PAPATO TORNA A ROMA

Può darsi che anche le suppliche e le minacce di Caterina avessero influito sulla decisione di riportare la sede aposto­ lica a Roma. Ma i motivi che più immediatamente vi contri­ buirono furono altri due. Il primo era che il Re di Francia in quel momento non aveva abbastanza forza per impedir­ lo. Si era lanciato contro l'Inghilterra in una guerra che do­ veva durare cent'anni e che allora volgeva decisamente in suo sfavore. Il paese era invaso dagli eserciti nemici e stre­ mato dalle pestilenze e dalle carestie. E anche la succursale angioina di Napoli, sotto il dissennato regime di Giovanna, non era in grado di esercitare pressioni. Il secondo motivo erano le allarmanti condizioni in cui versava l'Italia, e particolarmente gli Stati Pontifici. L'anar­ chia nella penisola era endemica, ma ora raggiungeva una delle sue fasi critiche. Le Signorie proliferavano, si combat­ tevano, si distruggevano e si riformavano. Ogni tanto scen­ deva in Italia uno di quei fatiscenti Imperatori che i tede­ schi seguitavano a eleggere, ma col sottinteso che non eser­ citassero il potere. Nel 1354 era stata la volta di Carlo IV di Boemia. A differenza di Ludovico, era d'accordo col Papa che Io fece coronare dal Cardinale Bernardi. S'incontrò, lo abbiamo detto, con Petrarca. Eppoi anche lui risalì la peni­ sola vendendo a varie città - fra cui Firenze, che lo comprò per centomila fiorini - il diritto di restare tranquille. Mai il prestigio della corona che aveva cinto la testa di Carloma- gno, di Barbarossa e di Federico II era caduto così in basso. L'Imperatore ormai non era più che l'esoso agente di un fi­ sco arbitrario. Però molti Signori italiani se n'erano serviti

143 per farsi dare il titolo di Vicari, che bene o male serviva a le­ gittimare il loro potere. In nome di quel fantomatico Impe­ ro, nell'intermezzo fra le spedizioni di Ludovico e Carlo, Cola di Rienzo aveva indossato la toga di Augusto e annun­ ziato il ritorno delle aquile e dei fasci littori sui «colli fatali» dell'Urbe. Cola era matto. Ma molto meno matti erano quei Signori e Signorotti che profittavano di tutto questo trame­ stìo per spartirsi l'Italia, compresa quella centrale che la Chiesa considerava sua esclusiva riserva di caccia. Malate - sta, Ordelaffi, Montefeltro, Varano, Trinci si stavano man­ giando gli Stati Pontifici. E i Visconti di Milano cominciava­ no a sprigionare una pericolosa forza di attrazione su tutta la penisola. La stessa Genova era caduta in mano loro nel 1353. E Genova più Milano potevano benissimo, con cinque secoli di anticipo sul Piemonte, fare l'Italia, cioè la cosa che la Chiesa più paventava. Fu questo pericolo che inquietò i Papi di Avignone, seb­ bene fossero francesi. Clemente VI aveva cercato di restau­ rare la sua autorità su Roma servendosi di Cola. E fu per questo che il tribuno, processato ad Avignone dopo la sua prima caduta, venne assolto e trattato più da ospite che da prigioniero. Subito dopo Clemente morì, e al suo posto ven­ ne eletto Innocenzo VI, uomo di ben diversa stoffa, tanto modesto e frugale quanto il suo predecessore era stato fa­ stoso e spendaccione, ma altrettanto fermo nella difesa dei diritti della Chiesa. Fu lui che, ingannato dall'apparente saggezza che Cola sembrava aver acquistato dopo tre anni di esilio avignonese, lo rispedì a Roma come suo emissario. Ma al fianco gli mise un Cardinale, che avrebbe benissimo figurato fra i luogotenenti di S. Domenico, dal cui Ordine d'altronde proveniva. Gli Alvarez Carrillo de Albornoz discendeva da una fa­ miglia dì aristocratici spagnoli, e il suo seminario era stata la caserma. Per le sue imprese in guerra, lo avevano fatto Arci­ vescovo di Toledo. Ora che lo mandavano come Cardinale in Italia, si preparò a fare il Generale. E infatti, lasciando

144 Cola proseguir da solo per Roma incontro a un nuovo ac­ cesso di demenza e al linciaggio, si fermò a Firenze e la per­ suase a dargli i fondi per organizzare un esercito. Non era­ no che un pugno di uomini, ma gli bastarono per giocare uno contro l'altro i vari signorotti che si erano divisi gli Sta­ ti della Chiesa. Invitava l'avversario a negoziare, e durante le trattative gli faceva demolire di sorpresa le piazzeforti. Così successe a Giovanni di Vico che venne da lui come Si­ gnore di Viterbo, Orvieto, Amelia, Narni e Terni; e alla fine dei colloqui si accorse di non avere più nulla, salvo il titolo di Vicario della Chiesa a Corneto. La sua tattica era quella di trattare coi piccoli potentati e di persuaderli che un pa­ tronato remoto come quello della Chiesa li avrebbe messi al sicuro dalla rapacità di quelli vicini e grandi. In questo mo­ do riuscì a isolare i Malatesta e gli Ordelaffì contro cui non c'era che la guerra. Il Malatesta, dopo una prima sconfìtta, s'impaurì e trat­ tò. Albornoz fu indulgente. Trascurando il fatto che il suo avversario era anche scomunicato, gli lasciò Rimini, Pesaro e Fano, ma da amministrare come Vicario della Chiesa. Con I'Ordelaffi fu più duro. Eia un tiranno temuto dai suoi sud­ diti per la sua spietatezza, ma anche rispettato per le sue in­ dubbie capacità. E per di più aveva al suo servizio un gene­ rale d'eccezione: la moglie Cia degli Ubaldini, reincarnazio­ ne di Minerva. Per venire a capo di questa pericolosa cop­ pia, Innocenzo la scomunicò, e l'Albornoz bandì addirittura una crociata promettendo la più larga indulgenza a chi vi partecipava, quali che fossero i suoi peccati, anche i più or­ rendi. Ladri e assassini accorsero da tutte le parti a ingros­ sare l'esercito papalino. Gli Ordelaffì risposero facendo bru­ ciare sulla piazza di Forlì fantocci di paglia che raffigurava­ no il Papa e i cardinali. «Ecco che sono scomunicato - gridò il tiranno -, non pertanto la carne, lo pane, lo vino che be- vemo ci fa buono.» L'Albornoz ottenne alcuni successi iniziali fra cui la presa di Cesena che Cia difese strada per strada con maschio co-

145 raggio. Ma venne improvvisamente richiamato ad Avigno­ ne e non si è mai saputo per quale motivo, e il suo successo­ re Androin de la Roche riperse tutto. Tornò l'Albornoz l'an­ no dopo (1357). E dopo venti mesi di aspra lotta gli Orde- laffi dovettero capitolare. Anche Bologna si consegnò al vin­ citore e consacrò la dedizione con un plebiscito in cui la scheda elettorale era rappresentata da una fava: 1644 furo­ no quelle bianche e 5 sole le nere. Ora che Emilia, Romagna, Marche, Umbria e Lazio era­ no ridiventati Stati della Chiesa (e Firenze era garante del­ la fedeltà della Toscana al Papa), Albornoz scese a Roma per ripristinarvi l'ordine. Il governo fu affidato a un Sena­ tore di nomina papale che doveva fornire soprattutto una garanzia: quella di non essere romano. Lo spagnolo, evi­ dentemente, aveva capito tutto. Egli era assecondato da sette riformatori della Repubblica, tutti di elezione popola­ re, con esclusione dei nobili. E Albornoz completò quest'o­ pera riformatrice dettando le famose «Costituzioni egidia- ne» che praticamente regolarono lo Stato Pontificio fino aH"800. La strada era libera per il ritorno del Papa nell'Urbe. Questo Papa non era più Innocenzo VI, morto da poco, ma Urbano V, che gli era succeduto nel '62, e ne continua­ va l'opera moralizzatrice e risanatrice. Nel '67 annunziò il ripristino della sede apostolica a Roma. E significativo che questa decisione coincidesse con una ennesima batosta del­ la Francia che sembrava definitiva perché il suo Re era ca­ duto prigioniero in mano agl'inglesi. I Cardinali, quasi tut­ ti francesi, inorridirono all'idea del trasloco e accusarono Urbano di essere succubo della retorica di Petrarca e delle minacce di Caterina. Ma Urbano rimase fermo nei suoi propositi. Nell'aprile del '67 s'imbarcò a Marsiglia, gioiosamente scortato da un codazzo di galee genovesi. Roma, che da ses­ santaquattro anni non vedeva più un Papa, lo accolse trion­ falmente. I più grandi Signori italiani, da Amedeo di Savoia

146 agli Este e ai Malatesta, vi si erano dati convegno. Alcuni di loro ressero il morso del bianco mulo su cui Urbano fece in­ gresso in città, e tutti, bardati nelle più belle armature, con séguiti in divise sgargianti, bandiere e baldacchini, lo scorta­ rono fino a San Pietro. Mancava solo Albornoz, morto pro­ prio alla vigilia di quel ritorno che rappresentava il suo per­ sonale trionfo. Questo spagnolo è stato forse l'unico grande uomo politico italiano del Trecento. Ma, finita la festa, il Papa fu colto dallo sgomento. Roma non era che un monumentale cimitero. La basilica di San Paolo era in rovine, quella di San Pietro tatuata di crepe, il Laterano semidistrutto da un recente incendio, palazzi ca­ denti, casupole ammucchiate alla rinfusa, selciati sconnessi e cariati di pantani, nessuna industria, plebi cenciose. Così aveva ridotto la città il malgoverno della più arrogante e inetta aristocrazia europea. Incapace di acclimatarsi in quell'area depressa, Urbano stanziò cospicui fondi per opere pubbliche di emergenza che lasciò in appalto al governo; e si ritirò a Montefiascone. Ma anche lì la nostalgia della Francia seguitò a consumarlo. II Petrarca, venuto a saperlo, gli mandò lettere su lettere per incitarlo a resistere. Santa Brigida di Svezia gli predisse che se lasciava l'Italia, sarebbe morto. Carlo IV fece solenne rinunzia ai diritti imperiali sull'Italia centrale, su cui l'Im­ pero aveva sempre conservato una teorica sovranità, venne di persona a Roma, umilmente tenne il morso al cavallo di Urbano e gli servì messa in San Pietro. Urbano resse fino al '70. Poi, sentendo approssimarsi la fine, non volle chiudere gli occhi prima di aver rivisto la sua diletta Avignone, e lì, poco prima del Natale del '70, morì rivestito nel suo saio di monaco benedettino sul pagliericcio di una stanzetta che somigliava a una cella. Il suo successore Gregorio XI era un nipote di Clemente VI, che lo aveva fatto cardinale a diciott'anni. E anche lui, come lo zio, preferiva Cicerone al Vangelo e il carnevale alla quaresima. Di ripetere l'esperienza di Urbano non aveva

147 nessuna voglia, e per sette anni rimase sordo all'eloquenza di Petrarca e alla disperazione di Santa Caterina. Per man­ tenere in piedi l'opera di Albornoz, aveva affidato gli Stati della Chiesa ai suoi Cardinali francesi in veste di Legati Pon­ tifici, i quali si comportarono come proconsoli in terra di conquista. Gli effetti del loro malgoverno non tardarono a farsi sentire. A Perugia il nipote del Legato perseguitò con tale insistenza una signora che costei, per non cedergli, si buttò da una finestra e morì. Scoppiò un subbuglio. A una deputazione che chiedeva un castigo, il Legato rispose arro­ gantemente: «Cosa credete? Che noi francesi siamo eunu­ chi?» La città si rivoltò, seguita da molte altre dell'Umbria delle Marche e della Romagna. Nel '75, tutta l'opera di Al­ bornoz era in rovine. Di sessantaquattro città che avevano riconosciuto la sovranità del Papa, una sola vi era rimasta fedele. E alla testa dell'insurrezione c'era quella che al pa­ gliaio del Papa aveva sempre montato la più ringhiosa guar­ dia: Firenze. Essa ora guidava, e naturalmente finanziava, la coalizione antipontificia sventolando una bandiera su cui era scritto Libertas. Gregorio cercò di resistere senza muoversi da Avignone. Scomunicò Firenze autorizzando così Francia e Inghilterra, che non se lo fecero dir due volte, a sequestrare gl'immensi patrimoni dei banchieri e mercanti fiorentini che operava­ no in quei due Paesi. Pur coi suoi commerci e finanze sul­ l'orlo del collasso, Firenze rispose confiscando i beni della Chiesa sul suo territorio, chiudendo i tribunali ecclesiastici, distruggendo gli edifici dell'Inquisizione, incarcerando i preti che non si sottomettevano, avviando i più riottosi al patibolo e lanciando un appello a Roma perché si unisse al­ la rivolta. Gregorio dovette correre ai ripari. Mandò a dire ai romani che, se rifiutavano l'invito, sarebbe tornato fra lo­ ro. E solo così si assicurò la fedeltà dell'Urbe. Ora che aveva promesso, doveva mantenere. Ma prima di mantenere, doveva ristabilire l'autorità pontificia sugl'in­ sorti, e per farlo non aveva più un Albornoz. Dovette affì-

148 darsi a quei capitani di ventura, di cui da qualche decennio l'Italia era diventata la mecca e su cui in seguito torneremo. Furono soprattutto due che in suo nome combatterono e si distinsero per ferocia e crudeltà. Uno era un avventuriero inglese, John Hawkwood, che gl'italiani ribattezzarono Gio­ vanni Acuto, ma anche «Io scannatare». Comandava una banda di predoni che, per il fatto di servire il Papa, si chia­ mò «Compagnia Santa», e dimostrò quanto lo fosse a Faen­ za dove scannò trecento inermi non perché ribelli ma per semplice sospetto che lo diventassero, e scacciò tutta la po­ polazione fuor di città «ritenendo solamente quelle donne che piacquero a lui e ai suoi». Ma non migliore fu il suo col­ lega e compare Roberto di Ginevra, sebbene fosse Cardina­ le. Alla testa di una masnada di Bretoni, s'impadronì con l'inganno di Cesena, vi massacrò quattromila persone, e de­ portò tutte le altre dopo il solito prelievo delle ragazze più giovani e avvenenti. Fu allora che Firenze mandò a Gregorio come ambascia­ trice Caterina e che costei pronunciò di fronte al Papa la fa­ mosa requisitoria per cui rischiò l'arresto e la scomunica. Quanto quel violento appello influisse su di lui, è impossibi­ le dire. Ma fatto sta che subito dopo Gregorio, pur contro­ voglia, s'imbarcò a Marsiglia, e ai primi del '77 raggiunse Roma. Non vi trovò l'accoglienza che vi aveva trovato il suo predecessore. Anzi, vi si sentì così poco sicuro che dopo po­ che settimane si ritirò ad Anagni e di lì cercò di riportare la pace nei suoi Stati non più con la forza, ma con la diploma­ zia. La fiducia nel Papato era talmente scossa che gli ci volle parecchio tempo per indurre le città a rovesciare i governi ribelli e a riconoscere la sua sovranità. L'ultima a cedere fu Firenze, per la quale si dovette ricorrere all'arbitrato di Ber­ nabò Visconti. Questi se ne fece profumatamente ripagare rimettendo come parcella la metà della somma che avrebbe estorto ai fiorentini come indennizzo della rimessa scomu­ nica. Epperciò li condannò a versare 800.000 fiorini. Ma il Papa li ridusse a 250.000.

149 Gregorio non visse abbastanza per vedere la pace inte­ ramente ristabilita nei suoi Stati. Sulla fine del '77 tornò a Roma, e pochi mesi dopo morì mormorando la parola: «Francia».

Così si era concluso il periodo del Papato avignonese, pas­ sato alla storia come la «cattività di Babilonia». E non c'è dubbio ch'esso abbia avuto un'influenza determinante sulla terribile crisi dello scisma che stava per aprirsi e che per poco condusse la Chiesa alla catastrofe: la quale del resto non venne evitata, ma solo dilazionata. Il Papato ad Avi­ gnone fu una jattura perché lo espose al sospetto di essere diventato uno strumento nelle mani del potere temporale francese, come la Chiesa ortodossa greco-orientale lo era nelle mani del potere temporale di Bisanzio. C'era insom­ ma il pericolo che s'istaurasse anche in Occidente un cesa­ ropapismo con un Papa ridotto a cappellano del Re di Francia come il Patriarca di Costantinopoli lo era nei con­ fronti del suo Imperatore. E che il Re di Francia mirasse a questo, è probabile. Come è probabile che ci sarebbe riusci­ to, se non si fosse imbarcato nella disastrosa guerra dei cen­ t'anni con l'Inghilterra. Che su 134 Cardinali nominati in tutto dai Papi di Avi­ gnone, ben 113 fossero francesi, dimostra appunto che la Francia intendeva accaparrarsi il Papato e strumentalizzarlo a uso della sua politica nazionale. Ciò naturalmente fornì i migliori argomenti a tutti coloro che, specie in Inghilterra e in Germania, preparavano la rivolta contro il potere centra­ le della Chiesa e il suo monolitismo. Senza dubbio i germi della Riforma che doveva spaccare in due la cristianità occi­ dentale furono seminati da Avignone. E infatti è da questo momento che data il primo assalto contro la struttura teo­ cratica e totalitaria della Chiesa: quello di Wycliff in Inghil­ terra. Ma non anticipiamo. Per il momento, riportando la sua sede nell'Urbe, la Chiesa si salvò. I fatti avevano dimostrato

150 ch'essa non poteva accasarsi altrove. Non già perché, come dicono i retori, solo Roma è investita da Dio di una missione universale. Ma perché essa non era - e non è mai diventa­ ta - la capitale di una Nazione che su quelli della Chiesa pos­ sa far valere i suoi diritti temporali e laici. Dovunque altrove la Chiesa avrebbe dovuto vedersela con uno Stato. In Italia essa è riuscita a impedire che lo Stato si formasse; e quando si formò, lo tenne prigioniero. C'è una ragione per cui da tempo immemorabile i Papi vengono scelti solo fra i Cardi­ nali italiani. Sono gli unici «apolidi». E quindi forniscono la garanzia di servire soltanto gl'interessi della Chiesa. CAPITOLO QUATTORDICESIMO

LO SCISMA E IL CONCILIO

Appena riavuto il Papato, i romani si affrettarono a mo­ strarsene indegni. Assediarono il Laterano dove si teneva il Conclave per l'elezione del successore di Gregorio, e minac­ ciarono di morte i Cardinali se non sceglievano un romano, o almeno un italiano. I Cardinali erano sedici, di cui dodici stranieri, in maggioranza francesi. Si affrettarono ad eleg­ gere l'Arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, e fuggiro­ no atterriti rimpiangendo i bei tempi di Avignone. Il nuovo Papa prese il nome di Urbano VI, e volle subito dimostrare che la Provvidenza può anche servirsi delle inti­ midazioni e dei ricatti per collocare l'uomo adatto nel posto adatto. Nominò Consoli e Senatori di sua fiducia, ma so­ prattutto organizzò una buona polizia per far capire ai ro­ mani che il carnevale era finito. Poi annunziò una riforma della Chiesa dicendo che l'avrebbe iniziata dal vertice cioè dall'alto clero di cui, nelle sue pubbliche prediche, denun­ ziò il malcostume in termini violenti. Abolì le parcelle e le «bustarelle» che i prelati di Curia si facevano pagare per qualunque «pratica». E quando il cardinale Orsini venne a protestare, lo scacciò dandogli dello «zuccone». Ma anche peggio capitò al Cardinale di Limoges che lo aveva contrad­ detto. Urbano gli si avventò addosso per schiaffeggiarlo. Santa Caterina gli scrisse per raccomandargli un po' di mo­ derazione. Ma Urbano non le badò e, per aver mano libera nelle sue spicciative riforme, fece un'infornata di nuovi Car­ dinali in modo da ridare agl'italiani e a se stesso la maggio­ ranza nel Conclave. Quelli francesi, vedendo compromesso il loro primato, si

152 riunirono ad Anagni e invalidarono l'elezione di Urbano, perché strappata a forza dalla popolazione. Molti altri pre­ lati sottoscrissero la dichiarazione, e il 20 settembre (1378) coronarono ad Avignone Roberto di Ginevra col nome di Clemente VII. Costui fu immediatamente riconosciuto dal Re di Francia, che aveva sobillato sotto banco la rivolta, e da quelli di Napoli, Spagna e Scozia. Ma il resto d'Europa ri­ mase fedele a Urbano. E così cominciò il grande scisma, che per decenni doveva fare della Chiesa un campo di battaglia. Anche i Santi si divisero. Caterina cui, malgrado tutto, il caratteraccio e il severo moralismo di Urbano piacevano, die­ de di Giuda a Clemente. Vincenzo Ferreri ritorse la qualifica contro Urbano. Ognuna delle due parti ritenne nulli i sacra­ menti somministrati dall'altra. E una intera generazione eu­ ropea visse senza sapere se era stata regolarmente battezzata e morì nel dubbio di aver ricevuto una valida assoluzione. Alcuni storici hanno visto in Urbano una reincarnazione di Bonifacio. Entrambi, col loro autoritarismo, provocarono una catastrofe. Ma il miscredente e cinico Bonifacio non ve­ deva, nell'autorità della Chiesa, che una proiezione di quel­ la sua. Urbano se ne considerava solo un soldato. L'uomo era frugale, devoto, senza esibizionismi né ambizioni perso­ nali. Sbagliò per eccesso di zelo, non per smania di potere. Ma come tutti i fanatici, fu anche crudele. Fece arrestare, torturare e uccidere sette Cardinali ribelli e ostinatamente rifiutò qualsiasi compromesso con la parte avversa. D'altronde lo scisma, più che colpa degli uomini, era frutto di una certa situazione politica: e cioè della progressi­ va affermazione degli Stati nazionali, ognuno dei quali vole­ va un Papa suo. E lo si vide quando, morti i due protagoni­ sti, lo scisma continuò. Al posto di Urbano, il Conclave di Roma elesse Pietro Tomacelli col nome di Bonifacio IX. Al posto di Clemente, il Conclave di Avignone elesse Pedro de Luna col nome di Benedetto XIII. Il Re di Francia propose che ambedue rinunziassero. Ma Benedetto rifiutò, e le cose rimasero come prima.

153 Così si era giunti alla fine del secolo, e Bonifacio indisse il Giubileo. Era la prova di forza fra i due Papi, e Bonifacio vi si mostrò del tutto degno del nome che portava. Lui sì che somigliava davvero al suo omonimo di un secolo prima. Non rinunziò a malizie, e nemmeno a bassezze, per assicu­ rarsi un successo di prestigio e di denaro. Prevedendo che Francia, Napoli e Scozia avrebbero frapposto ostacoli alla partenza dei pellegrini, attraverso i suoi predicatori promi­ se la remissione dei peccati a coloro che avessero pagato a lui le spese del viaggio, anche senza intraprenderlo. Molti di questi predicatori intascarono i soldi senza neanche esi­ gere la confessione, e Bonifacio li rimproverò. Ma quelli che tentarono di appropriarsi dei fondi raccolti li fece torturare finché non ebbero risputato fin l'ultimo centesimo. Ce ne furono che, sottoposti a quel trattamento su semplice so­ spetto, ci rimisero del loro per sottrarvisi. Ed altri che ven­ nero linciati dal popolino dell'Urbe perché avevano esenta­ to i benintenzionati dal venire a Roma e dal farsi spogliare dai tavernieri di Trastevere. Come «presenze», il Giubileo del Quattro fu meno trion­ fale di quello del Trecento. Ma come introito, per le casse del Papa, lo equivalse. Bonifacio se ne servì per rafforzare il suo potere personale. I Colonna gli si ribellarono e, aiutati dai francesi, reclutarono un esercito di ottomila uomini per ro­ vesciarlo. Bonifacio si chiuse dentro il castello di Sant'Ange­ lo, fin quando la folla si rivoltò contro gli assalitori. Una tren­ tina dei loro capi vennero catturati. A uno di essi Bonifacio promise la salvezza purché facesse da boia agli altri. Lo scia­ gurato accettò e impiccò anche suo padre e un suo fratello. Poco dopo Bonifacio morì, il suo posto fu preso da Inno­ cenzo VII, e i Colonna tornarono all'offensiva. Il Papa fuggì a Viterbo, e la volubile plebe mise a sacco il Vaticano, co­ sparse di fango e di sterco le insegne pontificie, violò gli ar­ chivi gettando dalla finestra e sparpagliando per le strade registri e storici documenti. Poi rifece pace con Innocenzo e lo richiamò a Roma appena in tempo per vedervelo spirare.

154 Seguì un altro conclave con l'elezione di Gregorio XII, che propose un accordo al suo rivale di Avignone, Benedet­ to. Costui si dichiarò pronto a dimettersi se Gregorio faceva altrettanto. Gregorio esitò, ma la sua famiglia intervenne con un perentorio divieto. Allora alcuni suoi cardinali indis­ sero un Concilio per eleggere un Papa che ricucisse nel suo nome la Chiesa. Stavolta fu Benedetto a rifiutare. Ma fu ab­ bandonato dal Re di Francia, e molti suoi Cardinali si uni­ rono a quelli che a loro volta avevano abbandonato Grego­ rio. Tutti insieme indissero un Concilio risolutore e ne fissa­ rono il luogo e la data: Pisa, 25 marzo 1409. La decisione non era stata dettata soltanto dall'emergen­ za. Già da un secolo un «movimento conciliare» si era deli­ neato in seno alla Chiesa, che intendeva metterne in discus­ sione la struttura monolitica e autoritaria. Guglielmo di Oc­ cam aveva sostenuto che la Chiesa non è il Papa, e nemme­ no il clero, ma la comunità dei fedeli. Essa può delegare la propria volontà a un Concilio, ma rimane sempre la deposi­ taria di ogni potere, compreso quello di eleggere, censurare e deporre il Papa. Marsilio da Padova aveva riecheggiato le medesime tesi. Il Concilio, diceva, è la cristianità stessa. Co­ me tale, non può essere monopolio dei preti. I laici hanno altrettanto diritto di parteciparvi. E il Papa non è che l'ese­ cutore delle sue delibere. Un teologo tedesco, Langenstein, aveva scritto su questo argomento un trattato, che aveva messo in subbuglio l'Uni­ versità di Parigi. Quali che possano essere le nostre idee, aveva detto, i fatti sono più eloquenti. Essi ci dimostrano che Papi e Cardinali non riescono a superare lo scisma. Quindi è chiaro che il loro potere di decisione non basta a scongiurare le crisi e che, quando queste scoppiano, biso­ gna attingere a una volontà superiore o per lo meno al di fuori della Gerarchia, quella del Concilio. Gerson aveva au­ dacemente ribadito questi argomenti dinanzi allo stesso pa­ pa Benedetto. Molto probabilmente erano stati questi concentrici attac-

155 chi alla tradizionale struttura della Chiesa che avevano spin­ to i Cardinali dell'una e dell'altra parte a indire il Concilio. Ma essi lo vedevano come un mezzo per trarre la Chiesa dal vicolo cieco in cui si era cacciata, non come un fine. Il loro scopo era di restituirle insieme con l'unità la sua fisionomia monolitica, non di smantellarla a beneficio di una specie di parlamento democratico, come volevano Occam e gli altri riformatori. Era il primo atto della drammatica rottura che sarebbe sopravvenuta un secolo dopo con Lutero. Come tutti i Concili, anche quello di Pisa si aprì infatti al­ l'insegna dell'equivoco. La vecchia città ghibellina, cui Ge­ nova aveva affondato la flotta e Firenze aveva tolto l'indi­ pendenza, non aveva mai visto pioversi addosso tanti turi­ sti, e non riusciamo a immaginare dove li alloggiasse. C'era­ no ventisei Cardinali, quattro Patriarchi, dodici Arcivescovi, ottanta Vescovi, ottantasette Abati, i Generali dei grandi or­ dini monastici, i delegati di tutte le più grandi Università, trecento Dottori di diritto canonico, le missioni diplomati­ che di quasi tutti i governi d'Europa, con uno stuolo di con­ siglieri, segretari, amanuensi, scribi, guardie e servitori. Il Concilio si proclamò «canonico», cioè qualificato a promulgare leggi valevoli per tutta la Chiesa, ed «ecumeni­ co», cioè interprete di tutta la cristianità. Di fatto, mancava­ no i rappresentanti della Chiesa greco-ortodossa. Ma co­ storo ormai, da quasi quattro secoli, erano considerati non già «fratelli separati», come si chiamano oggi, ma «fratelli perduti». E all'appello mancavano anche i due Papi in cari­ ca, Benedetto e Gregorio. Il Concilio rivolse loro solenne invito a presentarsi. E siccome essi non comparvero, li de­ pose, ed elesse Papa il Cardinale Arcivescovo di Milano col nome di Alessandro V dandogli mandato d'indire un altro Concilio. L'unico risultato di questo primo round fu che, invece di due Papi, la Chiesa ne ebbe tre, perché Benedetto e Grego­ rio ignorarono Alessandro. Costui, per complicare maggior­ mente le cose, morì quasi subito. E al suo posto fu eletto il

156 cardinale Baldassarre Cossa che prese il nome di Giovanni XXIII. Cossa aveva tutte le qualità che un sacerdote non dovreb­ be avere: era un politicante ambizioso e accorto, un ammi­ nistratore abile e rapace, un generale sagace e spietato. Per­ ché avesse fatto il prete invece che il condottiero, non si sa. Ancora meno si sa perché lo elessero Papa, e in un momen­ to come quello. Stando al suo segretario, egli aveva sedotto duecento fra ragazze, spose, vedove e suore. Né intendeva abbandonare questa piacevole attività, ora che aveva indos­ sato la tiara. Aveva ereditato da Alessandro l'impegno d'in­ dire il Concilio. Ma lo ritardò finché potè, cioè fin quando il nuovo imperatore Sigismondo ve lo costrinse. Troviamo superfluo ricostruire l'ingarbugliata matassa delle successioni che avevano procurato la corona imperiale a questo Re vagabondo fra Polonia, Ungheria e Boemia. 11 platonico titolo, lo abbiamo già detto, esisteva ancora, pomo di discordia fra le case regnanti soprattutto di Germania. E ogni tanto si trovava qualcuno come Arrigo VII che preten­ deva ridargli un contenuto. Sigismondo era di questi. Cre­ dette che la crisi del Papato gli facilitasse l'impresa e ci si cacciò in mezzo atteggiandosi a supremo arbitro delle sue lotte interne col piglio di un Costantino. Forse proprio per richiamo di questo prestigioso nome, indisse il Concilio a Costanza per il novembre del 1414, se ne autoproclamò Presidente, e v'invitò tutto il Gotha della Chiesa, dell'aristo­ crazia e della cultura. Accorsero circa cinquemila persone di cui, stando a Creighton, millecinquecento prostitute. Era (meno, s'in­ tende, le prostitute) la più imponente assise cristiana che si fosse vista dopo quella di Nicea del 325. Ma si trovò subito di fronte a un drammatico imprevisto: la fuga di papa Gio­ vanni. Qualcuno lo aveva informato che il Concilio stava per incriminarlo di adulterio, delitto ed empietà; e che l'u­ nico modo per lui di sottrarsi al processo era di fare atto di rinunzia alla tiara insieme a Benedetto e a Gregorio. Gio-

157 vanni dapprincipio aveva aderito. Ma poi alla chetichella prese il largo per rifugiarsi a Sciaffusa, presso l'Arciduca d'Austria Federico, nemico di Sigismondo. E di lì emanò un decreto, Sacrosancta, che qualcuno ha definito «il più ri­ voluzionario dei documenti ufficiali della Chiesa». Esso di­ ceva che il Concilio rappresentava la Chiesa Militante, de­ rivava la sua autorità direttamente da Dio, e quindi doveva essere considerato una specie di Costituente della Cristiani­ tà. Le sue delibere erano vincolanti per tutti, compreso il Papa, per quanto riguardava sia l'interpretazione del dog­ ma, sia la riforma e l'organizzazione della Chiesa, che d'ora in poi solo nel Concilio avrebbe avuto la sua unica e assolu­ ta fonte d'ispirazione. Il colpo era degno dell'uomo, della sua astuzia e spregiu­ dicatezza. Giovanni cercava di riprendere il mestolo in ma­ no mettendosi alla testa del movimento conciliare. La ma­ novra, anche se non gli riusciva, era una bella vendetta con­ tro i Cardinali che lo avevano estromesso. Essi erano natu­ ralmente avversi all'onnipotenza del Concilio, che li avreb­ be esautorati. E infatti si opposero con risolutezza riaffer­ mando il loro esclusivo diritto a eleggere il Papa. Ma furono sopraffatti. E per un momento parve che la Chiesa imboc­ casse la strada di una volontaria riforma in senso democra­ tico e antiautoritario. Il Concilio invitò Giovanni ad abdicare. Non ottenendo una risposta soddisfacente, lo chiamò a rispondere di cin­ quantaquattro reati fra cui c'erano il tradimento, il furto e la simonìa. Ma lasciò cadere altre sedici accuse ancora più gravi. Il 29 maggio (1415) Giovanni fu deposto e confinato nel castello di Heidelberg, di dove uscì tre anni dopo grazie a un intervento di Cosimo de' Medici, che l'ospitò e man­ tenne per il resto dei suoi giorni. Il Concilio solennizzò il proprio trionfo con un imponen­ te corteo. Ma quando riprese i lavori, si trovò di fronte al solito dilemma. L'elezione di un altro Papa avrebbe ribadito la triplice divisione della Chiesa perché Benedetto e Grego-

158 rio si ostinavano a restare in carica, e ciascuno di loro aveva i propri fedeli. Gregorio però ebbe un lampo di magnani­ mità, che forse era solo accortezza. Accettò di abdicare pur­ ché il Concilio a sua volta accettasse di essere nuovamente indetto e consacrato da lui. Cioè disse: «Prima voi mi rico­ noscete Papa con tutti i diritti che ne conseguono, fra cui quello d'indire un Concilio. Io lo indico, e abdico nelle sue mani a tutti i miei poteri». Con questa sottile manovra, egli ribadì che la fonte dell'autorità era il Papa, e il Concilio po­ teva esercitarla solo per sua delega. Era il rovesciamento del Sacrosancta. I Cardinali gli restituirono il servigio nominan­ dolo Legato e Governatore di Ancona. Restava da liquidare Benedetto che si ostinava a conside­ rarsi Papa. Ma non aveva più seguaci. Il Concilio lo depose senza correre rischi di scissioni. E il pover'uomo si ritirò in una specie di fortezza di famiglia vicino a Valencia dove tut­ ti lo chiamavano Santo Padre. Ci rimase fino a novantanni, quando morì, senza mai uscirne forse per timore che qual­ cuno gli negasse quel titolo. Ora la strada era aperta all'elezione di un Papa che fosse riconosciuto da tutti. Fu costui il cardinale Oddone Colon­ na che nel 1417 salì al Soglio col nome di Martino V. Lo sci­ sma era finito. CAPITOLO QUINDICESIMO

LA RIVINCITA DEL PAPATO

Da buon Papa romano, Martino pensò anzitutto a sistemare i parenti, facendone qualcuno Cardinale, qualche altro Se­ natore, qualche altro Generale. Ma vi era costretto anche dall'emergenza. L'Urbe era in un tale caos ch'egli stesso non potè insediarvisi e dovette vagabondare fra Ginevra, Man­ tova e Firenze. Aveva bisogno di uomini che rimettessero un po' d'ordine nell'Urbe, e naturalmente li scelse fra i suoi. L'impresa non era facile. Gli Stati Pontifici, lo abbiamo già detto, si erano decomposti in tante piccole Signorie ge­ stite da dittatori che dicevano di amministrarle in nome del Papa. Ma lo dicevano soltanto, perché nei fatti si comporta­ vano da sovrani assoluti. Tutte le strade che adducevano a Roma erano sotto il controllo di un capobrigante, Braccio da Montone, che intercettava i rifornimenti della città e a suo piacere l'affamava. Prima il trasferimento ad Avignone, poi lo scisma avevano deteriorato gli strumenti del governo papalino. Esso non aveva più un esercito, né un corpo di polizia, né un catasto, né un'annona. Non aveva più funzio­ nari. E soprattutto non aveva più un Tesoro: le casse erano vuote. Non c'era neanche di che largire un po' di pane a quella popolazione immiserita e abituata al parassitismo. Martino affrontò con coraggio e sagacia una situazione che non era difficile soltanto a Roma. Egli doveva il potere a un Concilio che glielo aveva affidato con l'impegno di ridi­ mensionarlo grazie a una riforma intesa a decentrare il co­ mando unico. Era strano che avessero delegato questo com­ pito a un Cardinale romano, erede di una tradizione auto­ ritaria, anzi assolutista. Certamente avevano avuto da lui

160 promesse e affidamenti. E Martino non vi contravvenne. Si limitò ad aggirarli. Anzitutto, appena eletto, estromise l'imperatore Sigi­ smondo dal Concilio dicendogli che la sua presidenza era plausibile solo finché mancava il Papa. Ma ora che il Papa c'era, la presidenza toccava a lui. Poi intavolò serie trattative coi Padri Conciliari, ma giuocando ogni gruppo nazionale contro l'altro. Così sbriciolò quella che avrebbe dovuto esse­ re la grande riforma della Chiesa in una serie di contratti parziali, avvolti in oscure formule che ognuno poteva inter­ pretare a modo suo. Questo metodo suscitò resistenze. Mar­ tino aspettò che si logorassero. Il Concilio durava già da tre anni: tre anni di fatiche, di spese, di lontananza dalla pro­ pria casa, dalla propria famiglia, dai propri affari. Alla fine tutti si arresero a quel Papa paziente e tergiversante che in­ vece aveva tempo da sprecare per dare ai suoi fiduciari quel­ lo di rimettergli in sesto Roma, e che del resto aveva preso impegno d'indire un altro Concilio entro cinque anni. Martino tornò nell'Urbe nel 1420, con un tesoro ancora esangue, ma con una milizia già abbastanza efficiente per tenere in briglia i banditi che infestavano l'Agro. La cerimo­ nia inaugurale del suo Pontificato fu infatti la decapitazione di alcuni loro caporioni catturati a Morlupo. E i romani as­ sistettero soddisfatti al rito, vedendovi un ritorno ai buoni vecchi metodi. Poi il Papa si diede a rinsanguare le finanze, e anche per questa impresa tornò ai vecchi, se non buoni, metodi, della vendita delle cariche e degli uffici. Si ramma­ ricava egli stesso di dovervi ricorrere; ma non aveva altre ri­ sorse, mentre i bisogni crescevano. Bisognava puntellare i monumenti in rovina, ricostruire ponti, riparare strade e fogne. Ci volevano fondi, e qualcuno rimproverò a Martino di non preoccuparsi che di questo invece di pensare un po' anche all'invocata riforma. «Ma senza riforme - rispondeva Martino con romano buon senso - la Chiesa va avanti da quattordici secoli. Senza denaro, rischia di non sopravvive­ re una settimana».

161 Ligio tuttavia agl'impegni, indisse il Concilio che si riunì a Pavia nel 1423. Ma non fu una oceanica adunata come quelle di Pisa e di Costanza. La peste, di nuovo scoppiata, trattenne molti dall'intervenire, consigliò un trasferimento di sede a Siena e infine un prematuro scioglimento. L'as­ semblea aveva reclamato ancora una volta il decentramento dei poteri. Martino la contentò ma soltanto in campo ammi­ nistrativo. Quel Papa terrestre aveva altre cose a cui pensa­ re. Più che della Chiesa, si preoccupava dello Stato della Chiesa e della sua capitale. Aveva chiamato a Roma Gentile da Fabriano, Pisanello e Masaccio per affrescare Santa Ma­ ria Maggiore e San Giovanni in Laterano. Si era preso come segretario Poggio Bracciolini, uno dei più famosi umanisti del tempo. E aveva rimpolpato il collegio dei Cardinali con uomini come Prospero Colonna, Giuliano Cesarini e Dome­ nico Capranica che di teologia sapevano poco, ma di lette­ ratura moltissimo. Insomma, quello che avrebbe dovuto es­ sere il Papa del Concilio contro la Curia fu - sia pure con molto tatto e sagacia - il Papa della Curia contro il Concilio. Forse egli sarebbe riuscito nel suo intento di addormen­ tare e disossare il movimento riformista, se ne avesse avuto il tempo. Ma nel 1431 morì, e il Conclave elesse al suo posto uno degli uomini meno attrezzati a occuparlo. Gabriele Condulmer, che prese il nome di Eugenio IV, era un agosti­ niano di Venezia, nipote per parte materna di Benedetto XII. Sul suo zelo e rigore non c'era nulla da dire. Anche da porporato aveva vissuto asceticamente, facendo della sem­ plicità e della preghiera la sua legge. Purtroppo, nemmeno la stretta dieta lo aveva salvato dalla gotta. Quel malanno gli procurava triboli che lo rendevano impaziente e poco socie­ vole. Inoltre era cocciuto: uno di quei cocciuti pieni di umil­ tà, che parlano sempre a occhi bassi, ma senza mai ascoltare l'interlocutore. I Cardinali che Io avevano eletto, avevano imposto, come prezzo dei loro voti, alcuni capitoli per salvaguardare i loro privilegi specie in fatto di «posti» e di stipendi, istaurando

162 così un metodo destinato a restare nei secoli. Soprattutto i Colonna avevano preteso che Eugenio garantisse loro le po­ sizioni di favore ottenute sotto il pontificato del loro Marti­ no. Ma Eugenio non mantenne gl'impegni, e trasformò i suoi elettori in nemici, proprio nel momento in cui il Conci­ lio, già indetto dal suo predecessore, si riuniva a Basilea, più battagliero e più che mai deciso alla riforma. Eugenio ne ordinò lo scioglimento. Esso rispose ordinan­ do a lui di presentarsi. I Colonna colsero l'occasione per or­ ganizzare una rivolta a Roma. Il Papa fuggì in barca lungo il Tevere, inseguito a sassate dal popolino. Trovò rifugio a Firenze, poi a Bologna. E ancora una volta, per nove anni, Roma rimase senza Papa. A Basilea si stava consumando un'autentica rivoluzione. I delegati erano in maggioranza francesi. E i loro propositi li riassunse nella maniera più franca e brutale l'Arcivescovo di Tours. «O strappiamo - egli disse - la Santa Sede agl'ita­ liani, o riduciamola a tale impotenza che la scelta della sua capitale non abbia più nessuna importanza». A quest'ultima alternativa si attennero. Decreto su decreto, una dopo l'al­ tra, il Concilio assunse tutte le prerogative del Papa, com­ prese la distribuzione delle cariche e la riscossione delle de­ cime. Da Bologna, Eugenio invalidò le decisioni e rinnovò l'or­ dine di scioglimento. Il Concilio lo proclamò decaduto e gli contrappose un altro Papa, Amedeo di Savoia, che prese il nome di Felice V. Era un altro scisma che cominciava. Il Re di Francia, Carlo VII, ne approfittò come aveva tentato Si­ gismondo convocando a Bourges un'assemblea di prelati, principi e giuristi. Costoro emanarono una «prammatica sanzione» che rovesciava quella di Costantino: essa conferi­ va al clero di ogni Diocesi il diritto di eleggere alle cariche ecclesiastiche locali, ma tenendo conto delle «raccomanda­ zioni» del Re, che così ne diventava l'arbitro come succede­ va a Bisanzio. Era proibito ricorrere al Papa e versargli l'in­ troito delle decime.

163 Il giuoco sembrava fatto. Il vecchio edificio monarchico della Chiesa andava in pezzi. La prammatica sanzione dava il via a una Chiesa indipendente gallicana, di cui il vero Pa­ pa era il Re, mentre un'altra ne nasceva a Praga, dove il Cardinale tuonava dal pulpito contro il Papa chiamandolo «la bestia dell'Apocalisse». Pareva che la Riforma avesse vin­ to prima che Lutero fosse nato. Il Papa fu salvo (per il momento) grazie al suo peggiore nemico: i «fratelli perduti» della Chiesa greco-ortodossa. Costantinopoli era minacciata dai Turchi che ormai aveva­ no assunto, grazie alle loro superiori qualità militari, la lea­ dership del mondo islamico. L'imperatore Giovanni e il suo Patriarca pensarono che solo l'Occidente cattolico poteva salvarli. Avevano già mandato un messaggio a Martino, po­ co prima che questi morisse, proponendo un Concilio per la riunificazione delle due Chiese cristiane. Eugenio prese la palla al balzo. Un simile Concilio avrebbe relegato in se­ condo piano, data l'importanza della posta, quello di Basi­ lea, che se ne rese conto e corse ai ripari. Così Giovanni si vide arrivare due offerte: quella di Eu­ genio che s'impegnava a indire immediatamente il Concilio a Ferrara sottintendendo che sarebbe stato lui a presiederlo e dirigerlo in modo da riaffermare la propria sovranità; e quella di Basilea, che si proclamava unico valido interlocu­ tore anche perché aveva la protezione dell'imperatore Sigi­ smondo, mentre il Papa non godeva di nessun appoggio temporale e non contava più nulla. Giovanni soppesò, da bravo mercante gréculo, le due proposte e decise di accetta­ re quella di Eugenio, che gli parve più sicura. Fu la fine di Basilea. I suoi uomini migliori, cioè quelli a cui la riunificazione del mondo cristiano sembrava un tra­ guardo più alto della lotta contro il Papato, accorsero a Fer­ rara, dove si puntava lo sguardo di tutta l'Europa cristiana che aveva sempre considerato lo scisma del 1054 unajattura per la vera Fede. Eugenio fece eccezione alla sua solita scon­ trosità e al suo proverbiale ascetismo predisponendo solenni

164 e festose accoglienze all'imperatore Giovanni, al Patriarca Giuseppe e ai diciassette Metropoliti, che arrivarono nel 1438 con un folto seguito di Vescovi, monaci e teologi. Aveva vinto. Nessuno si occupò più del Concilio di Basilea, che po­ co alla volta perse tutti i suoi delegati, finché si sciolse. Quello di Ferrara si presentava irto di difficoltà, che ven­ nero per così dire appaltate a speciali Commissioni. Il gros­ so ostacolo era sempre quello dello Spirito Santo che i catto­ lici facevano procedere dal Padre e dal Figlio, mentre i greci s'intestardivano a farlo procedere dal Padre attraverso il Fi­ glio. A complicare le cose, dopo alcuni mesi di puntigliose diatribe, scoppiò lì a Ferrara un'altra epidemia di peste. Co­ simo de' Medici offrì l'ospitalità di Firenze al Concilio, che si affrettò ad accettarla. Le discussioni ripresero in riva al­ l'Arno, e nel 1439 un primo accordo fu raggiunto. Le due parti convennero che fra i rispettivi punti di vista non c'era in fondo nessuna differenza. Ex Patre Filioque procedit, come dicevano i cattolici, e Ex Patre per Filium procedit, come dice­ vano gli ortodossi, significavano la stessa cosa, e quindi era­ no entrambe valide. Restava da spiegare come mai ci se n'accorgeva solo dopo quattrocent'anni di divorzio. Ma lo si capì quando si vide la barca del Concilio sbattere sullo sco­ glio del primato del Papa. Altro che il dogma! La vera posta del giuoco era quella. E su quella infatti le due parti s'irrigi­ dirono. Il Papa fu irremovibile, e l'imperatore Giovanni aveva già impartito ai suoi Metropoliti l'ordine di far fagot­ to, quando l'arcivescovo Bessarione di Nicea escogitò un compromesso che riconosceva al Papa un'autorità ecumeni­ ca cioè universale, ma confermava i privilegi ormai acquisiti dalle Chiese orientali. La formula fu accettata sebbene nessuno capisse con esattezza cosa significava, o forse proprio per questo. Il 6 lu­ glio (1439) il decreto che proclamava la riunione delle due grandi Chiese cristiane venne solennemente letto nella maestosa cattedrale su cui da appena tre anni svettava la stupenda cupola del Brunelleschi, in greco da Bessarione, e

165 in latino dal Cardinale Cesarini. I due prelati si scambiaro­ no il bacio della pace. Poi tutti, sull'esempio dell'Imperato­ re, piegarono il ginocchio davanti al Papa che sino a pochi mesi prima era sembrato il rottame di un naufragio. La gioia per la ristabilita concordia cristiana durò poco. Il popolo e il clero di Costantinopoli accolsero il loro Impe­ ratore e i suoi preti con fischi, insulti e pallòttole di sterco. Il patriarca Gregorio, che aveva avallato il «tradimento», do­ vette darsi alla fuga, e solo nel 1452 riuscì a dare lettura del decreto nella cattedrale di Santa Sofia. In segno di protesta, i fedeli smisero di frequentare quella ch'era stata la loro chiesa favorita. I Patriarchi di Alessandria, Antiochia e Ge­ rusalemme ripudiarono «il sinodo dei ladroni», come venne chiamato quello di Firenze. I partigiani dell'unità, o «Unia- ti», si accorsero di essere una minoranza, e non fecero adep­ ti nemmeno quando il Papa, fedele agl'impegni presi, spedì al soccorso di Costantinopoli un esercito che, insieme a quello del Re d'Ungheria, batté i turchi a Nish, riconquistò Sofia, ma poi si fece sbaragliare a Varna. Uniati e ortodossi seguitarono a scomunicarsi a vicenda sul problema del Filioque fino all'anno dopo (1453), quando a tagliar corto sopraggiunse Maometto IL Egli trasformò la capitale dell'Impero d'Oriente in quella dell'Islam, ma rico­ nobbe ai Cristiani piena libertà di pregare come volevano e di scannarsi quanto volevano. Il Papa era tornato a Roma in trionfo. Ve lo aveva prece­ duto il cardinale Vitelleschi, che aveva represso le turbolen­ ze con metodi non molto diversi da quelli di Alarico e di Genserico. Del Concilio di Basilea e della sua pretesa di so­ stituire la propria direzione collegiale all'autocrazia del Pa­ pa, non si ricordava più nessuno. Per il momento. E ora vediamo cos'era successo, in tutto questo periodo di trambusti ecclesiastici, nel resto d'Italia dove, da tempo, l'istituto comunale era entrato in crisi, e una nuova forma di governo - la Signoria - si stava sviluppando. PARTE TERZA

LA CIVILTÀ DEI SECOLI D'ORO CAPITOLO SEDICESIMO

FRA COMUNE E SIGNORIA

Come abbiamo raccontato nell'«Italia dei Comuni», la cellu­ la della democrazia comunale fu l'«adunanza dei vicini», o «vicinanza», un rudimentale parlamento popolare che si riu­ niva sul sagrato della chiesa e aveva per simbolo l'olmo che vi sorgeva in mezzo. I partecipanti vi dibattevano i temi dei loro rapporti col feudatario del luogo che, per investitura imperiale, esercitava poteri quasi assoluti sulle terre di suo appannaggio e sui loro abitanti. Era appunto per definire e sempre più limitare questi poteri che le «vicinanze» si riuni­ vano. Ognuna di esse formava un «popolo» che eleggeva i suoi rappresentanti presso il Signore. Si chiamavano buoni uomi­ ni o rettori, e in nome della collettività trattavano con lui o col suo rappresentante, o gastaldo, le questioni di comune interesse: l'esazione delle tasse, la riscossione dei dazi, l'alle­ stimento delle corvées, l'arruolamento delle milizie. Nelle città più popolose, ogni quartiere aveva la sua «vi­ cinanza». A Firenze, ad esempio, ce n'erano quattro che prendevano il nome dalle sue quattro porte (Duomo, San Pancrazio, Santa Maria e San Pietro), con quattro ben di­ stinti popoli. Ciascuno faceva capo alla propria chiesa, e in un certo senso vi sovrintendeva affiancando al parroco un rettore laico, cui era affidata la raccolta delle imposte. Lo stes­ so accadeva per i pubblici servizi. Ogni «popolo» provvede­ va alla manutenzione dei suoi ponti e delle sue strade e al drenaggio dei suoi canali di scolo. A una «pianificazione» generale non si riuscì ad arrivare quasi mai. Fu solo molto più tardi, e non senza gravi opposizioni,

169 che si formarono dei poteri centrali. Essi tuttavia non riusci­ rono a sovrapporsi a quelli periferici riducendoli all'obbe­ dienza; vi si giustapposero soltanto. Questa fu una delle cause dell'endemica debolezza dell'istituto comunale e della sua inefficienza. L'unificazione fu raggiunta solo al vertice quando i rettori si trasformarono in consoli. Ma questa nuova magistratura non fu mai in grado di funzionare perché ven­ ne regolarmente tenuta in scacco dagli altri poteri che non accettarono di subordinarsi ad essa. L'interesse collettivo, insomma, non riuscì mai ad avere la meglio su quelli parti­ colari. Questo però non impedì lo sviluppo del Comune, favori­ to anche dalla lontananza del Signore. Il suo potere, agli al­ bori del Mille, non era più quello d'un tempo, quando i re longobardi e franchi, in cambio dei servigi ch'egli aveva re­ so sui campi di battaglia, gli avevano dato in appalto una provincia, sulla quale egli s'era affermato padrone assoluto, disponendo a suo piacimento del territorio ch'essa ingloba­ va e dei suoi abitanti. Le ascendenze quasi sempre «barbare», cioè germaniche, e l'origine guerriera lo portavano a disprezzare la vita citta­ dina e a isolarsi nei turriti castelli del contado con le sue donne, i suoi armigeri e i suoi cavalli. E così accadde che, finché la società rurale prevalse su quella urbana e la terra fu l'unica fonte di ricchezza, la sua supremazia fu incontra­ stata. Ma quando le città si svegliarono dal loro letargo, il castello entrò in crisi e il Signore si trovò di fronte a una realtà nuova, che non aveva previsto e che finirà con lo schiacciarlo. Fu allora che i consoli presero il sopravvento su di lui e i suoi funzionari e diventarono di fatto i padroni del­ la città. Fin dapprincipio essi vennero scelti in base al censo. Era­ no i cittadini più ragguardevoli e intraprendenti e di solito appartenevano a quella classe dei mercanti che, dopo il Mil­ le, avevano dato vita a una nuova economia, aperta, dina­ mica e competitiva che s'affacciava al di là dei confini citta-

170 clini. La sua forza poggiava sulle corporazioni mercantili, o arti, che furono non soltanto le organizzazioni di categoria di quei tempi, ma il pilastro dell'organizzazione politica e sociale. All'inizio dell'XI secolo, a Firenze, i banchieri, i medici, gli speziali, i mercanti della lana e quelli della seta, i giudici, i notai avevano già le loro arti. Dapprincipio, queste erano limitate ai datori di lavoro e condizionavano l'intera econo­ mia cittadina. Determinavano i salari e i prezzi, fissavano gli orari di lavoro e sostenevano i propri prodotti tassando quelli forestieri o addirittura impedendone l'importazione. Col tempo, le loro competenze s'estesero al vettovagliamen­ to della città, alla costruzione di opere pubbliche, alla vigi­ lanza urbana. Diventarono insomma degli Stati nello Stato, contro i quali le organizzazioni sindacali operaie, che esiste­ vano appena allo stato embrionale e si chiamavano capitudi- ni, non avevano alcun potere, né di diritto né di fatto. Ogni corporazione aveva il suo palazzo con tanto d'uffi­ ci, archivi, cancellieri, tesorieri, e il suo tribunale che giudi­ cava in prima istanza perché per gli «appelli» si faceva ricor­ so alla magistratura ordinaria. Gli associati dovevano, in ca­ so di bisogno, soccorrersi vicendevolmente, pagare il riscat­ to se un membro veniva rapito dai briganti, versare la cau­ zione se finiva in prigione, risarcire i creditori se falliva. La corporazione aveva un codice morale assai rigoroso che non si limitava a dettare le norme di condotta ma stabiliva perfi­ no come i suoi aderenti dovevano vestirsi; aveva il suo santo patrono che festeggiava una volta l'anno con processioni e luminarie, e cui quasi sempre era dedicata una chiesa, che spesso ne custodiva una reliquia e in taluni casi le spoglie. Tutte le corporazioni contribuivano alla costruzione della cattedrale o al suo abbellimento, e versavano puntualmente il loro obolo al vescovo. Facevano anche del mecenatismo fi­ nanziando spettacoli teatrali e rappresentazioni sacre, e sov­ venzionavano ospedali, brefotrofi, lazzaretti, ospizi per vec­ chi. Ai capi di ogni arte erano tributati onori pari a quelli ri-

171 servati ai consoli, di cui nei cortei municipali essi formavano il seguito issando bandiere e labari con lo stemma e il motto della corporazione a cui appartenevano. L'egemonia dei mercanti durò fino al dodicesimo secolo quando anche i lavoratori indipendenti costituirono pro­ prie associazioni di categoria: dei sellai, dei macellai, dei conciatori, dei falegnami, dei bottai, dei cordari eccetera. In opposizione a quelle dei mercanti, dette arti maggiori, queste si chiamarono minori, o dei mestieri. Avevano anch'esse il lo­ ro santo protettore, la loro chiesa, i loro uffici, il loro stem­ ma, il loro statuto, il quale fissava i prezzi, i salari e l'orario di lavoro, che non doveva protrarsi oltre le sei del pomerig­ gio e vietava l'impiego di donne e bambini. Ogni corpora­ zione, maggiore o minore, contrassegnava i propri prodotti con un «marchio di fabbrica» e comminava severissime am­ mende ai falsificatori. I suoi membri erano inquadrati ge­ rarchicamente. Gli avventizi non avevano in media più di dodici-tredici anni, lavoravano dieci ore al giorno e per tut­ to l'apprendistato, che durava dai tre ai tredici anni, non venivano pagati, o riscuotevano un salario minimo. In cam­ bio, ricevevano vitto, alloggio e vestiario. Alla fine del tiroci­ nio venivano nominati lavoratori a giornata e diventavano padroni dei loro attrezzi. Se avevano un po' di denaro pote­ vano allora aprire una bottega, diventare maestri e iscriversi alle corporazioni dei mestieri. Era inevitabile che col tempo le arti maggiori, che forma­ vano il popolo grasso, e quelle minori, che costituivano il popo­ lo minuto, venissero in urto. Violenti moti sociali scoppiaro­ no nel corso del XIII secolo in numerosi Comuni. Nella lot­ ta s'inserì anche la classe dei nobili che la borghesia mercan­ tile aveva cercato d'escludere dal governo della città, e in molti casi c'era riuscita. Erano gli antichi abitatori dei castelli che, divisi fra guelfi e ghibellini e sempre in lotta tra loro per ragioni di presti­ gio e di primato, non avevano saputo mai organizzare una resistenza collettiva alle forze cittadine. Queste, dopo essersi

172 emancipate da loro, s'erano lanciate alla conquista del con­ tado obbligando i Signori a inurbarsi almeno per quattro mesi all'anno. Fra costoro ci fu chi scese a un compromesso con la città, giurandole fedeltà e ottenendo in cambio il ri­ conoscimento di una parte delle proprie terre. Quelli che preferirono la resistenza a oltranza ebbero i castelli distrut­ ti, e in città furono obbligati a istallarsi per sempre. Natural­ mente, non si contentarono della casetta di legno e di pa­ glia. Si costruirono palazzotti di pietra simili a piccole for­ tezze con torri quadrate alte fino a 140 braccia, cioè un'ot­ tantina di metri. Attorno ad essi si addossavano le case dei parenti e clienti sottolineando la solidarietà che univa questi gruppi e li rendeva ostili alla classe borghese dominante. Con un'accorta e demagogica propaganda questi nobili seppero manovrare contro di essa il popolo minuto, col quale s'allearono per dare la scalata al potere. Ciò provocò lo scatenamento delle fazioni che misero in crisi gl'istituti municipali e scavarono la fossa al Comune dove, verso la metà del XII secolo, il potere esecutivo era passato dalle mani dei consoli in quelle del podestà e del capitano del popolo. Questi aveva in guerra il comando supremo dell'esercito, che veniva reclutato in città e nel contado; quello era in pra­ tica il Capo dello Stato, ma i suoi poteri erano limitati dai consigli cittadini, che l'avevano eletto ma che spesso, dilaniati dalle discordie interne, gl'impedivano di governare. Inol­ tre, era lui stesso un uomo di partito, e ciò lo rendeva inviso alle opposizioni che di conseguenza miravano a paralizzar­ ne l'attività. Per ovviare a questo inconveniente molti Comuni pensa­ rono di ricorrere a podestà forestieri, estranei alle fazioni e alle beghe cittadine. Costoro vennero scelti fra i magistrati e i funzionari di un Comune vicino o lontano, ma più spesso lontano, Firenze ne reclutò parecchi a Milano e a Roma, l'E­ milia ne fece venire dalla Toscana, la Lombardia dal Veneto e dalla Liguria. Il prescelto, prima d'accettare, doveva otte­ nere il consenso della propria città, che di rado glielo nega-

173 va. Con un anticipo di cinque-sei giorni annunciava la data del suo arrivo per consentire al Consiglio cittadino di orga­ nizzare i festeggiamenti in suo onore. Il podestà uscente e il vescovo gli andavano incontro a cavallo fuori delle mura con una scorta di dignitari. Il popolo faceva ala al suo pas­ saggio, agitando fiori e ramoscelli d'ulivo, ma se il nuovo ar­ rivato non era di suo gradimento brandiva bastoni e minac­ ciosi cartelli. All'atto dell'insediamento, egli doveva giurare lo statuto davanti al Consiglio e al popolo e la domenica successiva pronunciare il «discorso programmatico». La costituzione gli vietava di intrattenere relazioni con privati cittadini per timore che si facesse corrompere, di uscire di casa dopo ce­ na, di fare o accettare inviti, di lasciare la città senza uno speciale permesso. Allo spirare del mandato doveva pre­ sentare al Consiglio un dettagliato rendiconto del suo ope­ rato, e solo se questo veniva approvato egli era libero di an­ darsene. Teoricamente, questo espediente costituzionale doveva salvaguardare i principi democratici, ma da un pezzo essi avevano cessato d'essere tali, o lo erano rimasti solo sulla carta. Né poteva essere altrimenti perché il Comune italia­ no fu oligarchico, corporativo e gerarchico. Qua e là ci furo­ no tentativi per renderlo democratico e popolare, ma quasi tutti abortirono sul nascere o ebbero vita breve. Il più duraturo fu quello compiuto nel 1292 a Firenze da Giano della Bella, un ricco aristocratico. Ricopriva la carica di Priore, era cioè uno dei tredici magistrati eletti ogni due mesi con l'incarico di vigilare sull'esecutivo. Facendo leva sulla piazza riuscì a imporre ai colleghi i cosidetti Ordina­ menti di giustizia, coi quali tutte le arti venivano parificate e riunite in una federazione unica a difesa del Comune. Ma dai posti direttivi Giano radiò tutti i grandi, o magnati, cioè i capi di quelle maggiori: in tutto circa tremila cittadini furono ostracizzati. Esclusi da ogni carica politica, essi diventarono dei «sorvegliati speciali». Su denuncia di qualunque popola-

174 no, potevano venire arrestati e gettati in una torre accanto al Bargello, che d'allora in poi si chiamò infatti «Pagliazza dei Magnati». Entro cinque giorni dalla denuncia, il Pode­ stà doveva procedere. Se non lo faceva, le arti dovevano proclamare lo sciopero generale chiudendo botteghe e la­ boratori. La prima reazione dei magnati agli Ordinamenti fu anar­ chica e scomposta. Non osando rifarsela sui popolani, or­ mai protetti da quelle leggi di ferro, sfogarono i propri ma­ lumori fra loro. Ma alla fine s'accorsero che quell'anarchia non conduceva a nulla, e riuscirono alla bell'e meglio a tro­ vare fra loro un accordo in vista di un'azione comune con­ tro il comune nemico. Sul finire del '94 scoppiò una sommossa, ci scappò il morto, e Giano fu accusato d'averla fomentata per impa­ dronirsi del potere. Fu il segnale della riscossa dei grandi che di lì a poco torneranno a spadroneggiare. Giano riuscì a lasciare la città, che lo condannò a morte in contumacia. Una delle cause che avevano reso possibile il piccolo col­ po di Stato era stata la lotta delle fazioni in cui i magnati era­ no divisi e che paralizzavano l'attività dell'esecutivo. Questo non succedeva solo a Firenze, ma un po' in tutti i Comuni, dove i podestà erano praticamente esautorati dai capi-parti­ to. E fu proprio in questo clima settario e turbolento che germogliò il seme da cui nacque la Signoria, allorquando il Podestà o il Capitano del popolo, giocando le fazioni una contro l'altra, riuscirono a farsi rinnovare il mandato, a ot­ tenere i pieni poteri e a diventare di fatto gli arbitri della si­ tuazione. Le popolazioni non si ribellarono. Stanche di una libertà che si confondeva con l'anarchia, le preferirono l'or­ dine, anche se si confondeva con l'arbitrio. Dai documenti dell'epoca risulta che già verso la metà del Duecento in alcuni Comuni il Podestà era designato co­ me «dominus civitatis», cioè Signore della città, e la sua cari­ ca da temporanea era diventata permanente. Ferrara, a esempio, fra il 1230 e il 1240, fu ininterrottamente gover-

175 nata dal ghibellino Salinguerra. A Treviso, Ezzelino da Ro­ mano, aizzando il popolo minuto contro quello grasso, riu­ scì a farsi proclamare Signore, e cose analoghe accaddero a Milano, a Como, ad Arezzo. Non siamo ancora alla grande Signoria del Rinascimento che s'instaurerà solo con l'introduzione del principio dell'e­ reditarietà quando il «dominus civitatis», in punto di morte, trasmetterà titolo e carica al figlio primogenito, ma già s'in­ travedono quelle che saranno le linee maestre e i presuppo­ sti giuridico-costituzionali del nuovo ordinamento. Seguiamone l'evoluzione nelle più importanti città. CAPITOLO DICIASSETTESIMO

MILANO DAI VISCONTI AGLI SFORZA

A Milano, l'arcivescovo Ottone aveva designato suo succes­ sore il nipote Matteo, a cui Arrigo VII, dietro pagamento di cinquantamila fiorini, aveva conferito il titolo di Vicario im­ periale: un titolo che lo qualificava a esercitare il dominio non solo su Milano e sul suo territorio ma anche su quelle città che, dilaniate dalle discordie interne e dalle lotte di fa­ zione, s'erano poste sotto l'egida milanese. A Matteo successe il figlio Galeazzo e poi il nipote Azzo- ne. Ma a gettare le basi della Signoria vera e propria, conce­ pita in senso rinascimentale come Stato monolitico e patri­ monio privato di una dinastia, fu Luchino. Infatti, quando costui morì per lasciare il posto al fratello Giovanni, il Con­ siglio generale di Milano proclamò l'ereditarietà del supre­ mo potere nella famiglia Visconti. Era l'atto di decesso della democrazia, la fine del Comune e la svalutazione dei suoi istituti. Secondo il malaugurato sistema visconteo, che ignorava il maggiorascato, Giovanni spartì l'eredità fra i suoi due ni­ poti Bernabò e Galeazzo IL Al primo toccarono Cremona, Bergamo, Brescia e il distretto a Est dell'Adda, Lodi, Pia­ cenza e Parma. Galeazzo II ebbe Como, Pavia, Asti, Torto­ na, Alessandria, Novara, Vigevano e Bobbio. Milano fu ta­ gliata in due: a Bernabò andarono i quartieri di Porta Ro­ mana, Tosa e Orientale; a Galeazzo quelli di Porta Comasi- na, Vercellina e Ticinese. Bernabò fissò la sua capitale a Mi­ lano, Galeazzo a Pavia. Galeazzo morì all'età di cinquantanove anni, nel 1378, designando successore il figlio Gian Galeazzo, passato alla

177 La signoria dei Visconti Storia come il Conte di Virtù, non perché di virtù avesse mai dato molte prove, ma dal nome di Vertus in Champa­ gne, il cui titolo comitale faceva parte della dote della mo­ glie, Isabella di Valois. A Milano Bernabò s'era reso impopolare inasprendo i vecchi balzelli e inventandone di nuovi. Gli abitanti erano scontenti e c'era aria di fronda. Ne approfittò Gian Galeaz­ zo per marciare con cinquecento uomini sulla città in cui penetrò senza colpo ferire. Davanti a Sant'Ambrogio incon­ trò Bernabò cui aveva dato appuntamento e che si presentò accompagnato dai figli. I soldati di Gian Galeazzo s'avventa­ rono su di loro, l'immobilizzarono e li trascinarono nel ca­ stello di porta Giovia. Quindi, Gian Galeazzo occupò la cit­ tà, accolto al grido: «Viva il Conte, a morte le gabelle». I mi­ lanesi non se lo fecero dire due volte. Diedero l'assalto agli uffici delle imposte, saccheggiarono gli archivi e bruciarono nelle piazze gli elenchi della Vanoni. Risparmiamo al lettore le guerricciole combattute da Gian Galeazzo per ingrandire il Ducato, i cui confini alla fi­ ne del secolo racchiudevano Milano, Pavia, Bergamo, Bre­ scia, Como, Lodi, Cremona, Novara, Vercelli, Alessandria, Valenza, Tortona, Piacenza, Parma, Reggio, Borgo San Donnino, Pontremoli, Verona, Vicenza, Feltre, Belluno fino a Pieve di Cadore e le valli del Boite. Era, a parte il Regno di Napoli, la più potente e vasta Si­ gnoria italiana. Gian Galeazzo la governò da despota sagace e illuminato. L'ideale che incarnò non era ancora quello del Rinascimento, ma non era più nemmeno quello del Medio Evo. Gian Galeazzo intuì che i Comuni avevano esaurito la loro funzione e che le barriere municipali non erano più adeguate alla realtà del nuovo mondo, in cui si formavano le grandi unità nazionali. Vagheggiò uno Stato unitario sot­ to lo stemma visconteo, ma lo concepì come un patrimonio privato, da amministrare come un bene di famiglia e a suo esclusivo beneficio. Istituì il Consiglio segreto e quello di Giustizia. Il primo era al tempo stesso una specie di ministe-

179 ro degli Esteri e della Difesa, designava i propri ambasciato­ ri e accreditava quelli forestieri, compilava il cerimoniale e dettava il protocollo. Funzionava anche come alta corte di giu­ stizia, ma solo in materia penale, perché le cause civili rien­ travano nella giurisdizione del Consiglio di giustizia. Una giustizia, s'intende, a uso e consumo del Signore. Per punire un oppositore politico, se non c'erano prove, s'inventavano. Le torture più raffinate venivano impiegate per estorcere le confessioni. La più orribile era quella della Quaresima: il condannato subiva successivamente la mutila­ zione di un arto, della lingua, del naso, degli orecchi. Era chiamata Quaresima perché, nelle intenzioni dei carnefici, doveva durare quaranta giorni, ma era raro che la vittima sopravvivesse ai primi dieci. Un supplizio non meno atroce fu quello applicato al can­ celliere Pasquino Capelli accusato di tradimento: Gian Ga­ leazzo lo fece avvolgere nudo in una pelle di bue e poi lo murò vivo in una cella del castello di Pavia. Analoghi sistemi adottò contro i feudatari del contado che non volevano ri­ conoscere la sua signoria. Fece imprigionare i più indocili, abbattere i loro castelli, mozzare le torri. Revocò in parte i privilegi e le immunità di cui godevano e vietò ai feudatari suoi vassalli di tenere nei loro manieri carceri private. Non visse abbastanza per liquidare il feudalesimo, le cui radici affondavano nei secoli bui e non erano facilmente estirpabili, ma gl'inflisse un colpo mortale. Lottò anche con­ tro i privilegi e le franchigie del clero, ma non soppresse i tribunali ecclesiastici e non interferì negli affari della Chiesa se questi non ledevano gli interessi dello Stato. Anzi, inco­ raggiò le manifestazioni religiose, dopo ogni vittoria faceva celebrare Te Deum di ringraziamento, finanziò pellegrinag­ gi, inasprì le pene contro gli eretici, comminò multe severe ai bestemmiatori, protesse i monaci e sovvenzionò la costru­ zione di numerose chiese, tra cui la Certosa di Pavia, cui po­ se personalmente la prima pietra (l'ultima vi sarebbe stata collocata un secolo più tardi). Nel 1383 diede il primo con-

180 tributo alla fabbrica del Duomo di Milano. In tredici anni erogò 12.416 fiorini, senza contare la concessione di gratui­ to sfruttamento delle cave di Candoglia, e il suo esempio fu imitato da tutti i milanesi che versarono il loro obolo per l'e­ rezione del grande tempio gotico. Era sempre stato fragile e delicato, ma con l'età erano au­ mentati gli acciacchi, propiziati da un'acuta ipocondria. Vi­ veva chiuso giornate intere in una delle stanze interne del castello di porta Giovia o di Pavia, immerso nei suoi pensie­ ri, sprofondato nella lettura dei classici. Quando morì, nel 1402, ucciso dalla peste, lasciò per testamento il cuore a S. Michele a Pavia e il resto dei visceri al convento di S. Anto­ nio a Vienne. Da buon Visconti, aveva voluto spartire anche le frattaglie. Era stato un uomo difficile, cupo e sgradevole. Ma, nonostante le bizzarrie, le crudeltà e i soprusi, era gra­ zie a lui che Milano era diventata una metropoli di rango e dimensioni europee. La città, che due secoli e mezzo prima era stata letteral­ mente spianata al suolo dal Barbarossa, era rinata più fasto­ sa e opulenta. A ricostruirla erano stati chiamati i più rino­ mati architetti. Un autentico boom edilizio aveva moltiplicato i suoi quartieri. Le case erano circa quattordicimila, le chie­ se oltre duecento, centotrenta i campanili, una quindicina i conventi e altrettanti gli ospedali. La popolazione s'aggira­ va sulle duecentocinquantamila anime. C'erano una qua­ rantina di medici e oltre centocinquanta chirurghi. I notai erano circa millecinquecento mentre i maestri elementari non arrivavano a cento. La città pullulava di macellerie - più di quattrocento - e di panetterie - oltre trecento - a cui bisognava aggiungere un migliaio di altre botteghe di gene­ ri vari. C'era lavoro e pane per tutti e lo spettro della care­ stia non faceva più paura come un tempo, quando un catti­ vo raccolto o una calamità naturale affamavano la città per mesi. Milano aveva già scelto il suo destino di grande emporio commerciale. Vi affluivano mercanti non solo dalle altre cit-

181 tà della Penisola ma dall'intero Continente. Era un via vai di uomini d'affari inglesi, francesi, tedeschi, veneziani, fio­ rentini. Vi si potevano acquistare le merci più disparate: dalle spezie ai broccati, dalle sete ai tappeti, agli animali eso­ tici. La periferia era costellata di botteghe di fabbri, di fuci­ ne, d'armerie, da cui uscivano spade, lance, scudi, celate, el­ mi che venivano venduti in tutt'Europa. Ma la città sapeva anche divertirsi. Feste, tornei, balli pubblici allietavano la vita dei suoi abitanti, che vi dovevano rinunciare solo in tempo di guerra, di pestilenze o di gravi torbidi, come quelli che seguirono alla morte di Gian Ga­ leazzo. Questi, come al solito, aveva diviso lo Stato fra i vari figli, legittimi e bastardi. A Giovanni Maria aveva assegnato, col titolo di Duca di Milano, Milano, Como, Lodi, Cremona, Piacenza, Parma, Reggio, Bergamo, Brescia, Siena e Peru­ gia. A Filippo Maria, nuovo Conte di Pavia, aveva lasciato Pavia, Novara, Vercelli, Tortona, Alessandria, Verona, Vi­ cenza, Feltre, Belluno, Bassano e la riviera di Trento. Al fi­ glio illegittimo Gabriele, Pisa e Crema. La moglie Caterina fu nominata reggente e tutrice dei fi­ gli. Era una donna ancora giovane e piacente, ma assoluta­ mente incapace di governare. I maligni le attribuivano una relazione col primo camerario di Gian Galeazzo, Francesco Barbavara, a cui essa affidò lo Stato. La Corte si divise in due fazioni: una favorevole a Giovanni Maria, l'altra alla madre, che ebbe la peggio, dovette abbandonare Milano e rifugiarsi nel castello di Pavia dove nel 1404 morì, pare av­ velenata. Ma sorte migliore non toccò a Giovanni che il 16 maggio 1412 fu assassinato mentre s'avviava al tempio di San Gottardo, per assistere alla messa. Filippo Maria, rimasto unico Signore, aveva ereditato l'ambizione e l'astuzia del padre, ma anche il suo carattere cupo, sospettoso e bigotto. Figlio di cugini primi, era cre­ sciuto gracile e mingherlino, e fino all'età di dieci anni era stato nutrito con pappe. Quando diventò Conte di Pavia si

182 seppellì nel castello avito, dove trascorreva le sue giornate a leggere Tito Livio e Petrarca. Parlava correntemente il fran­ cese e s'entusiasmava alle chansons de geste. I suoi passatempi preferiti erano il gioco della palla e le passeggiate lungo il Ticino, durante le quali raccoglieva fio­ ri e virgulti, che poi donava agli efebici paggi che egli stesso reclutava e alla cui educazione personalmente presiedeva. Erano i soli che potessero avvicinarlo in qualunque ora del giorno e della notte e gli unici di cui egli si fidasse. Ma dal momento in cui passavano al suo servizio dovevano tronca­ re ogni rapporto con la famiglia. Guai se venivano scoperti a parlare con qualche cortigiano senza l'autorizzazione del Signore che li impiegava come segretari, consiglieri e talvol­ ta come ministri e ambasciatori. Non l'abbandonavano mai. La mattina l'aiutavano a vestirsi, consumavano con lui i pa­ sti, con lui cavalcavano e andavano a caccia. Quando Filip­ po Maria si ritirava nei suoi appartamenti lo seguivano. II Duca viveva nel terrore d'essere avvelenato o assassi­ nato nel sonno. Non toccava cibo senza prima averlo fatto assaggiare ai suoi maggiordomi. Con l'età s'appesantì; mise su pancia e acquistò un aspetto greve e ripugnante. La sera, prima di coricarsi, chiudeva ermeticamente porte e finestre, e faceva disporre a corona intorno alla sua alcova una bar­ riera di letti per le guardie del corpo. Per paura del buio, dormiva con le candele accese. Vedeva dovunque fantasmi e spesso, in piena notte, si svegliava di soprassalto, brandiva la spada che teneva a portata di mano sotto il cuscino e co­ minciava a menare fendenti nell'aria, schiumando bava dal­ la bocca e pronunciando frasi sconnesse. Talvolta cambiava addirittura camera, e solo la luce dell'alba riusciva a placare le sue angosce. Se durante la notte aveva avuto un incubo, la mattina s'inginocchiava volgendosi prima a Oriente e poi a Occiden­ te, si batteva il petto e recitava le orazioni. Faceva spesso vo­ ti ma non sempre li manteneva. Parlava poco e non guarda­ va mai in faccia l'interlocutore. I suoi argomenti preferiti

183 erano la guerra, i cani e i cavalli. Quand'era di buon umore - ma lo era di rado - raccontava barzellette scurrili, ma poi si pentiva e ricominciava a pregare. Gli piaceva la buona tavola, era un bevitore accanito, ma scontava regolarmente i suoi peccati di gola con violente co­ liche di fegato, e alla fine ne morì, nel 1447, senza aver fatto in tempo a scrivere il testamento e a designare un successo­ re. Il giorno dopo, un gruppo di nobili, al grido di «Viva la libertà», dichiarò decaduto il Ducato e fondò la Repubblica Ambrosiana. Il popolino chiese la diminuzione delle tasse e smantellò il castello di porta Giovia. Molte città suddite ap­ profittarono di quel caos per riacquistare la libertà. Venezia, acerrima nemica di Milano, occupò Piacenza e Lodi. I governanti ambrosiani affidarono allora l'esercito al ge­ nero di Filippo Maria, Francesco Sforza, signore di Cremo­ na. Era figlio del condottiero Muzio Attendolo e aveva fatto carriera come capitano di ventura, al soldo di Venezia, Mi­ lano e Firenze. Fu il più grande generale del suo tempo. Era alto, possente, bello e coraggioso. Imbattibile nel maneggia­ re la spada e nel tirare d'arco, dormiva sotto la tenda coi suoi soldati, mangiava alla loro mensa, era sempre il primo a cacciarsi nelle mischie e l'ultimo a uscirne. Era uno strate­ ga nato e con le sue bande sgominò interi eserciti. Talvolta bastava la sua presenza a volgere in fuga il nemico. E quasi incredibile che la Repubblica Ambrosiana affi­ dasse la propria difesa proprio a lui che, come marito del­ l'unica figlia del Duca, ne era il naturale erede. Egli ricon­ quistò Piacenza e Lodi, battendo i veneziani. Ma poi si ac­ cordò in segreto con loro cedendogli il Bresciano, la Ghiara d'Adda e Crema, e ottenendo in cambio il riconoscimento dei suoi titoli alla successione del suocero. Quindi puntò su Milano e la cinse d'assedio. Dopo una breve resistenza, la città, vinta dalla fame, gli spalancò le porte e lo incoronò Duca. Correva l'anno 1450. Governò fino al 1466 con una magnificenza allergica a ogni preoccupazione di contabilità. Portò il Ducato sull'orlo

184 del fallimento e solo i prestiti bancari fiorentini lo salvaro­ no. Favorì l'immigrazione, proibì l'esodo della manodopera locale, premiò i cittadini più prolifici, bandì campagne de­ mografiche contribuendovi con uno stuolo di figli, di cui una ventina bastardi e otto legittimi. Dissanguò l'erario. Ma fece di Milano ciò ch'essa ancora non era: una splendida metropoli, di cui il castello Sforzesco e l'ospedale Maggiore rappresentarono i gioielli. Ebbe un debole per il sesso debole e riempì di corna la moglie, che da buona Visconti si vendicò uccidendogli l'a­ mante. L'età gli ridestò i reumatismi, che l'affliggevano fin dagli anni giovanili. Ogni estate passava le acque in quel di Bormio, adottava diete rigorose, si sottoponeva a salassi. Sebbene le guerre e gli affari di Stato gli impedissero di col­ tivare gli studi, seppe incoraggiare quelli altrui. Invitò a Milano l'umanista Filelfo, protesse le lettere e le arti, stimo­ lò le scienze, finanziò una scuola di pittura e chiamò a diri­ gerla Vincenzo Foppa da Brescia. Morì nel 1466 d'idropi­ sia, lasciandosi dietro un coro di rimpianti e una montagna di debiti. Nel figlio Galeazzo Maria che gli successe, il sangue «ca- liente» dei Visconti aveva avuto il sopravvento su quello pa­ terno, e aveva lasciato il segno. Secondo il Corio, che lo de­ finì «sozzo e libidinoso», il giovane duca teneva un harem, si circondava di prostitute e prosseneti, partecipava a orge e s'abbandonava alla crapula più sfrenata. Affetto da mania di grandezza sperperò tesori immensi per abbellire la sua Cor­ te, arruolò battaglioni di nani, buffoni, comici, musici, orga­ nizzò feste da «Mille e una notte». Quando viaggiava si face­ va scortare da una moltitudine di nobili e cortigiani che in­ dossavano vesti sontuose e montavano cavalli superbamen­ te ingualdrappati e irti di pennacchi. Nel 1471 andò a Fi­ renze con un seguito di duemila cavalieri, duecento muli, cinquecento coppie di cani, centinaia di falconi e sparvieri. Spese, in quella sola volta, la bellezza di duecentomila duca­ ti d'oro. Quando era al verde - e con quel treno di vita lo

185 era spesso - aumentava le imposte e puniva col carcere e talvolta con la morte chi non le pagava. I sudditi l'odiavano ed era inviso anche ai nobili. La mat­ tina del 26 dicembre 1476, mentre ascoltava la messa nella chiesa di Santo Stefano, tre giovani patrizi, Gerolamo Ol- giati, Andrea Lampugnani e Carlo Visconti, lo aggredirono e lo massacrarono a colpi di pugnale. Il Lampugnani fu a sua volta assalito dalle guardie del corpo del Duca e lincia­ to. Il Visconti e l'Olgiati riuscirono a darsi alla fuga, ma do­ po un lungo inseguimento furono acciuffati, processati «per direttissima» e squartati vivi. Galeazzo Maria lasciava un figlio di sette anni, Gian Ga­ leazzo, sotto la tutela della madre, Bona di Savoia, che affi­ dò il Consiglio di reggenza al sagace e intraprendente mini­ stro Cicco Simonetta, assistito da due fratelli del marito: Sforza Maria, duca di Bari, e Ludovico Mauro, conte di Mortara. Ludovico era il quarto figlio di Francesco Sforza. I mila­ nesi lo chiamavano «Il Moro» per il colorito bruno, i capelli e gli occhi neri. Ludovico, lungi dall'offendersi, s'era com­ piaciuto di quel nomignolo e per renderlo più pertinente aveva adottato costumi ed emblemi moreschi e s'era circon­ dato di schiavi mauritani. Non poteva dirsi un bell'uomo. Era prestante, di statura superiore alla media, ma aveva li­ neamenti aspri e irregolari: il naso lungo e falcato, il mento prominente, le labbra sottili e tirate, l'espressione imperiosa e accigliata di chi è abituato a comandare. Amava le belle donne e la buona tavola, ma detestava gli eccessi. Era ambi­ zioso e spavaldo, scettico e superstizioso, magnanimo e dif­ fidente. Grazie al Filelfo che l'aveva avviato allo studio dei classici, conosceva il latino e il francese, discuteva di filosofia ed era sensibile alle arti. Cicco Simonetta tentò di sbarazzarsene, ma Ludovico gli sobillò contro la Corte, dove aveva molti amici, tra cui un certo Antonio Tassino, che godeva i favori della Reggente. Questa riuscì a indurre il suo ministro a scendere a patti col

186 cognato, che per tutta ricompensa decapitò il Simonetta, esiliò la Duchessa, e assunse la tutela del nipote, con quali propositi è facile immaginare. Gian Galeazzo, che il Guicciardini definì «incapacissimo», non aveva ancora nove anni. Debole, malaticcio, timido e scontroso, viveva in un'ala del palazzo circondato da precet­ tori, e compariva in pubblico solo nelle cerimonie ufficiali, con indosso lo scettro e la spada e al dito il sigillo, simboli dell'autorità ducale. Morì, non si sa bene di che, nel 1494 li­ berando dalla sua remissiva, ma incomoda presenza lo zio sotto il quale Milano toccherà l'apogeo del suo splendore. Ma lasciamo questa storia che esula da quella nostra e puntiamo il cannocchiale al di là dei confini sforzeschi in di­ rezione di Venezia.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

VENEZIA DOGALE

Alla fine del Trecento la Repubblica di Venezia era lo Stato più potente della Penisola. Le lagune sulle quali era sorta ne avevano fatto un alle­ vamento di navigatori e di mercanti. Già ai primi del Mille le sue navi solcavano trionfalmente l'Adriatico e il Mediter­ raneo, trasportando da un capo all'altro merci e passeggeri. Venezia diventò il principale emporio europeo. Sui suoi moli venivano ogni giorno scaricati tappeti, spezie, dama­ schi, schiavi provenienti dall'Oriente; e ne ripartivano lane e manufatti. L'astuzia dei suoi armatori, la spregiudicatezza dei suoi ammiragli, l'abilità dei suoi diplomatici le conqui­ starono i mercati della Balcania e dell'Asia Minore. Dovun­ que spuntarono «fondachi» veneziani, piccole città coi loro depositi, alberghi, ospedali e chiese. Godevano d'immunità e privilegi e lo Stato che li ospitava preferiva non ficcarci il naso. Il Balivo che li governava, una specie di magistrato no­ minato dal Doge, aveva poteri di vita e di morte sugli abi­ tanti, amministrava la giustizia, e svolgeva anche funzioni di console. Questi avamposti commerciali fecero la fortuna di Venezia e gettarono le basi della sua supremazia economica. Ma la supremazia sarebbe stata assai effìmera se non fos­ se stata sostenuta all'interno da quella solida costituzione, di cui abbiamo già fornito i lineamenti ne «L'Italia dei comu­ ni». Formalmente essa era incarnata nel Doge, ma di fatto chi comandava era un'oligarchia aristocratica. Dalla metà del sec. XII il Doge fu assistito da un Consiglio dei Sapienti, o Consiglio Maggiore, formato all'inizio da trentacinque membri, al quale si aggiunse ben presto un ristretto Consi-

189 glio Minore (6 membri). Il numero degli appartenenti al Maggior Consiglio aumentò poi gradualmente. Essi decide­ vano su tutte le questioni non solo legislative ma anche poli­ tiche e militari. Il Doge, assistito da un comitato ristretto di sei Saggi, si limitava a ratificare gli atti di coloro che l'aveva­ no eletto e che potevano in qualunque momento deporlo. Egli non era che un altissimo simbolo cui venivano tributati onori quasi divini anche per tenerlo al riparo da tentazioni e ambizioni terrestri. Al Doge spettava la nomina del Patriarca di Venezia e dei canonici di San Marco, e fra i suoi titoli aveva anche quello di «Serenissimo Principe». Abitava il Palazzo Ducale, sfavil­ lante di ori, marmi e mosaici, foderato di sete e tappeti e che superava in sfarzo e monumentalità la reggia del Basi­ leus bizantino, di cui ricalcava il puntiglioso cerimoniale. Ogni suo gesto era un rito. Indossava vesti sontuose. La sua uscita era annunciata da squilli di tromba, dal suono delle campane, dai bandi degli araldi. Si faceva precedere da un corteo di trombettieri, di portabandiera e di dignitari. Com­ pariva issato su un seggio, ricoperto di un drappo dorato, sotto un pesante e sgargiante parasole. Lo seguivano i mem­ bri del Maggior Consiglio, le alte cariche dello Stato, gli am­ basciatori stranieri e il Capitolo di San Marco. Un siffatto apparato era destinato a colpire la fantasia del popolino e a consolarlo della perdita di quelle prerogative di cui un tempo aveva goduto quando, nel VII secolo, gl'i­ solotti della laguna si erano confederati per difendersi dagli assalti delle orde barbariche. I primi Dogi, infatti, quando cessarono di essere dei funzionari di Bisanzio e diventarono elettivi, erano designati dalla Concio publica o assemblea del popolo. Ma quando il popolo cominciò a crescere e a diffe­ renziarsi in classi, il cosidetto «potere decisionale» passò nel­ le mani di quelle più ricche e ogni ombra di democrazia scomparve. Sulla fine del Duecento, la costituzione veneziana subì una nuova spinta in senso oligarchico. Fin allora, almeno

190 sulla carta, tutti i cittadini potevano essere eletti al Maggior Consiglio. Di fatto vi accedevano solo i componenti di quelle due o trecento famiglie nelle cui mani era concentrata la ric­ chezza della Repubblica: banchieri, armatori, grandi mer­ canti. Essi costituivano l'aristocrazia del denaro, ch'era a Ve­ nezia un titolo di nobiltà superiore a quello del sangue. Ma questo monopolio, appunto perché tale, poteva suscitare in­ vidia in coloro che ne erano esclusi. Bisognava legittimarlo. Nel 1297 il Doge Pietro Gradenigo fece votare dal Mag­ gior Consiglio una legge che dichiarava praticamente eleggi­ bili soltanto coloro che dell'alto consesso, il quale veniva rin­ novato annualmente, già avessero fatto parte o i cui antena­ ti ne fossero stati membri. I loro nomi furono trascritti nel Libro d'Oro della Serenissima, una specie di Gotha venezia­ no. Un altro giro di vite si ebbe nel 1319 quando fu abolito il rinnovo annuale dell'Assemblea e aumentato il numero dei seggi. Il Maggior Consiglio diventò pletorico, si appesantì e dovette delegare a organi più ristretti molte delle sue fun­ zioni. Il Senato dei Pregadi venne istituito verso la metà del XIII secolo con funzioni dapprima soltanto amministrati­ ve. I suoi poteri aumentarono durante tutto il XIII secolo, finché nel XIV ebbe anche la direzione degli affari politici per delega del Maggior Consiglio. Regolamentava tutto ciò che concerneva navigazione e commercio, esercito e flotta, nominava gli ambasciatori, eccetto quello a Costantinopoli; ma il suo compito preminente era la direzione della politi­ ca estera. Era il Senato che decideva la pace e la guerra, che negoziava i trattati e le alleanze, che dava istruzioni agli ambasciatori, che ne riceveva i rapporti settimanali. Davan­ ti a esso venivano lette le note degli agenti diplomatici, le famose relazioni che davano un quadro completo delle va­ rie corti d'Europa e dei rapporti che con esse Venezia in­ tratteneva. Insomma, tutta l'autorità della Repubblica ri­ siedeva nel Senato. Un organo nuovo fu invece istituito nel 1310. In quel-

191 l'anno un patrizio, Baiamonte Tiepolo, ordì una congiura per impadronirsi del potere e instaurare a Venezia una dit­ tatura personale. Facendo leva sul malcontento suscitato in mezzo alla plebe dal colpo di Stato oligarchico di Pietro Gra- denigo riuscì a guadagnare alla sua causa un certo numero di popolani. Quando fu scoperto si consegnò spontanea­ mente al Doge. Gli fu risparmiata la vita, ma dovette emi­ grare in Dalmazia. Fu allora che il Maggior Consiglio, per impedire che simili incidenti avessero a ripetersi, nominò un comitato di salute pubblica, o Consiglio dei Dieci. I suoi membri furono dotati di poteri pressoché illimitati e di un'assoluta indipendenza. Vigilavano su ogni aspetto della vita pubblica e privata dei cittadini, indagavano su quelli sospetti, ne spiavano le mos­ se, vagliavano le denunce anonime, davano corso a quelle fondate, raccoglievano testimonianze, incoraggiavano le de­ lazioni. Dapprincipio i consiglieri venivano eletti ogni due mesi, in seguito ogni due anni. La loro scelta era assai accu­ rata e passava attraverso rigorosi tests. La loro lealtà verso la Repubblica doveva essere a prova di bomba e altrettanto sperimentata la loro incorruttibilità. Appena designati, i Dieci s'ammantavano d'un alone di mistero, diventavano inaccessibili, misuravano gesti e paro­ le, disertavano feste e cerimonie pubbliche, si riunivano ogni giorno a porte chiuse, e nulla trapelava dei loro conve­ gni. Non potevano lasciare Venezia se non in casi ecceziona­ li, e tre volte la settimana concedevano udienze alle spie e ai confidenti. Era insomma una vera e propria polizia segreta, una Ghepeu avanti lettera. Il Consìglio dei Dieci salvaguardò la costituzione oligarchi­ ca, ma instaurò nella Repubblica un regime di terrore. Nel 1355 sventò la congiura di Marin Faliero, esponente di una delle più cospicue famiglie veneziane che l'anno prima era successo al Doge Andrea Dandolo. Spavaldo e ambizioso, non s'accontentava di fare il simbolo. Voleva il potere, e co­ me Baiamonte Tiepolo tentò di realizzare il suo disegno aiz-

192 zando il popolino contro la nobiltà, cui per ceto e censo egli stesso apparteneva. Arruolò alcune centinaia di marinai e scaricatori di porto che nella notte fra il 15 e il 16 aprile avrebbero dovuto spargere per le calli della città la voce che la flotta genovese muoveva in assetto di guerra alla volta di Venezia. L'annuncio avrebbe seminato il panico fra la popo­ lazione e richiamato i nobili in piazza San Marco. Dalle viuz­ ze adiacenti i congiurati avrebbero fatto irruzione nella piazza e li avrebbero trucidati. Ogni cosa era stata predispo­ sta con cura quando, poco prima dell'ora fissata, uno dei congiurati denunciò il complotto, senza tuttavia fare aperta­ mente il nome del Faliero, a un membro del Consiglio dei Dieci, che si precipitò dal Doge. Questi cadde in gravi con­ traddizioni, prima negando i fatti e poi dicendo di esserne già stato messo al corrente. Ma quando i cospiratori furono arrestati e interrogati, il Faliero dovette gettare la maschera e ammettere la sua colpevolezza. Il giorno dopo comparve davanti a un tribunale straordinario formato dai Dieci e da uno speciale collegio di venti giudici. Condannato a morte, venne decapitato la mattina del 17 aprile sulla Scala dei Gi­ ganti, nello stesso luogo dove aveva ricevuto il «corno» du­ cale. Ai Dieci facevano capo anche le spie della Repubblica. Erano sguinzagliate dappertutto, ma specialmente pullu­ lavano a Genova, la più temibile concorrente di Venezia a cui per secoli contese il dominio sui mari. La posta in gio­ co era immensa: i mercati dell'intero bacino mediterraneo. Entrambe le Repubbliche avevano fondato colonie nei principali porti del Mare nostrum. Gl'incidenti fra genovesi e veneziani erano all'ordine del giorno, e a provocarli era il monopolio del traffico marittimo. La lotta ebbe alterne vicende. Nel 1298, nelle acque di Curzola, la flotta vene­ ziana fu sgominata da quella genovese. Ma nel 1380 le ga­ lere genovesi, temerariamente spintesi fino nelle lagune di Chioggia, vi furono imbottigliate dai dromoni della Sere­ nissima e colate quasi tutte a picco. L'anno successivo veni-

193 va stipulato il trattato di Torino che riconosceva a Venezia la supremazia marinara, condizione del primato navale ed economico. Nel XV secolo Venezia era la città più prospera della Pe­ nisola, la più fastosa e festosa. I suoi favolosi palazzi sul Ca­ nal Grande, dimore di mercanti assurti con la ricchezza al rango patrizio, davano alla città un fascino inimitabile. Una architettura magica li aveva ispirati. Le sottili colonne torti­ li, gli esili balconi a rosoni, le finestrelle binate conferivano a questi edifìci la preziosa levità di un merletto e li facevano somigliare alle cesellate miniature di un orefice. Erano il compendio di due stili raffinatissimi: il bizantino e il gotico, perfettamente fusi. Gli interni non erano meno sontuosi delle facciate. Ri­ gurgitavano di suppellettili squisite e di mobili di gran pre­ gio. Le pareti erano foderate di mosaici, di arazzi, di tele, le volte decorate di affreschi, gli zoccoli sfavillanti di monocro­ mi dorati. Per erigere le loro magioni e per decorarle, i Contarini, i Gritti, i Foscari, i Tiepolo, i Loredan avevano arruolato il fior fiore degli artisti veneziani, imitati dai Dogi e dai Patriarchi in una gara di magnificenza e di sfarzo. La scuola dei Bellini contribuì a fare di Venezia uno dei massimi templi dell'arte del Quattrocento. Il fondatore, Ja­ copo, dopo un tirocinio presso Gentile da Fabriano, dipinse a Verona, a Ferrara e a Padova, dove conobbe il grande An­ drea Mantegna, e gli diede in sposa la figlia. Tornato a Ve­ nezia, aprì una «bottega» dove i figli Gentile e Giovanni ap­ presero i primi rudimenti dell'arte paterna. Furono i due più geniali pittori del tempo. Gentile subì l'influsso del cognato nel disegno delle figure e nell'arditez­ za degli scorci, ma col passare degli anni il suo stile acquistò un'impronta del tutto personale. A rivelarlo furono i pan­ nelli che eseguì nella Sala del Gran Consiglio, andati pur­ troppo distrutti nel 1577 in seguito a un incendio. Fortuna­ tamente ne conserviamo gli schizzi di una squisita linea nar­ rativa. Abile anche come ritrattista, fu invitato a Costantino-

194 poli dal sultano Maometto II, di cui in un bellissimo «olio» tramandò ai posteri l'effige. Quando tornò in patria, fu sommerso da una valanga di ordinazioni. La Scuola di San Giovanni Evangelista gli com­ missionò tre pannelli che dovevano raffigurare una guari­ gione miracolosa, una processione del Corpus Domini e il ri­ trovamento di un frammento della croce. Gentile diede ai temi un ampio svolgimento e ambientò le scene nella Vene­ zia contemporanea. I pannelli sono popolati di folle devote, sfilanti in processione per piazza San Marco o di gruppi di fedeli che si accalcano nelle calli in attesa degli eventi so­ prannaturali. Il tocco dell'artista è intenso, la tavolozza sma­ gliante e variegata, i dettagli sono colti con fedeltà e saporo­ so realismo. L'ultima fatica di Gentile fu un «San Marco» che predica ad Alessandria. La morte non gli lasciò il tempo di condurlo a termine. Lo finì il fratello Giovanni. Di due anni più giovane di Gentile, cui sopravvisse di ot­ to, Giovanni aveva assimilato la tecnica del Mantegna che mise al servizio del colore. Il suo genio fu soprattutto cro­ matico ma al suo meglio dimostrò di possedere anche straordinarie qualità psicologiche e un autentico magistero narrativo. Diventò l'idolo dei veneziani e il pittore più ricer­ cato della Serenissima. Dipinse decine di Madonne che dis­ seminò in chiese, palazzi, conventi. Non c'è museo al mon­ do che non ne possegga una. Fu il pittore ufficiale e aulico della Repubblica, ed ebbe in appalto la ritrattistica dei Dogi. A lungo andare quei vec­ chioni solenni e ingualdrappati dovettero venirgli a noia, perché a un certo punto mutò ispirazione e cercò nuovi te­ mi nel pantheon della mitologia classica, che interpretò in chiave allegorica. Nella «Festa degli dei» raffigurò un vero e proprio pique-nique di donne avvenenti e discinte e di uomi­ ni ebbri e seminudi. Nel dipinto, conservato alla National Gallery di Washington, c'è un senso della vita pagano e sen­ suale, specchio fedele di quella Venezia quattrocentesca di cui i Bellini furono i mirabili interpreti.

195 Ma anche le arti cosiddette minori contribuirono ai fasti della Serenissima. Dai laboratori dei mosaicisti nel XV seco­ lo uscivano composizioni di squisita fattura, destinate a de­ corare le pareti delle chiese e dei palazzi. Capolavori di cri­ stallo - vasi, tazze, calici - venivano forgiati nelle vetrerie di Murano, sottoposte alla stretta vigilanza dello Stato, geloso custode dei segreti di lavorazione. Un'altra fiorente indu­ stria era quella delle armi che riforniva le corti di mezz'Eu­ ropa di elmi, corazze, scudi, pugnali abilmente cesellati e stupendamente intarsiati d'oro e d'argento. Questo rigoglio non si limitò alle arti figurative. Investi anche le lettere, sebbene a Venezia l'umanesimo abbia attec­ chito più tardi che altrove. Se nella Serenissima non ci fu quel pullulìo di scuole e di accademie che seguì al movi­ mento umanista a Firenze, non mancò una viva adesione al­ le idee che esso propugnava. La cultura era tenuta in gran­ de onore. Non c'era patrizio che non possedesse una biblio­ teca o non spalancasse le porte del suo palazzo a letterati e poeti. La dame dell'alta società accoglievano nei loro salotti teologi e filosofi. Le scuole non erano aperte solo ai rampol­ li dell'aristocrazia e della ricca borghesia. Anche i figli del popolo potevano accedervi. L'invenzione della stampa aveva allargato le maglie del­ la cultura, divulgando imparzialmente gli autori classici e quelli moderni. Venezia diventò una delle capitali dell'edi­ toria. I libri che nella seconda metà del Quattrocento usci­ vano dai suoi torchi erano per eleganza di caratteri, quali­ tà di carta e perfezione di stampa degli autentici gioielli. Alla fine del XV secolo solo a Venezia erano stati editi 2835 volumi. La maggior parte recavano la firma di un geniale tipo­ grafo: Aldo Manuzio. Era nato a Bassiano vicino a Velletri nel 1449, ma si era trasferito giovanissimo a Roma, dove s'e­ ra sprofondato nello studio dei classici latini. Poi aveva sog­ giornato a Ferrara, e qui aveva tradotto quelli greci e tenuto dotte conferenze su Platone, Tucidide e Cicerone. Per un

196 certo tempo aveva anche insegnato, e fra i suoi allievi ci fu Pico della Mirandola che, colpito dal suo sapere, lo voile precettore dei nipoti Lionello e Alberto, che poi diventaro­ no i primi finanziatori delle sue straordinarie imprese edi­ toriali. Manuzio si propose di stampare i classici greci in edizio­ ni economiche, alla portata di tutti. Ma quella del costo non era l'unica difficoltà. Bisognava anche reperire i testi e col­ lazionarli. Le innumerevoli trascrizioni li avevano contami­ nati e fatti oggetto di interminabili contestazioni. Poi occor­ reva - come si direbbe oggi - lanciare il prodotto, creare cioè un mercato. E fu per questo che Manuzio si trasferì a Venezia, arruolò uno stuolo di filologi e di dotti, e affidò lo­ ro la scelta e il commento dei testi. Fece affari d'oro, e quan­ do morì la sua opera fu continuata dai figli. Forse solo nella Firenze dei Medici l'iniziativa del tipo­ grafo avrebbe riscosso un successo altrettanto strepitoso e immediato. Nel XV secolo era infatti l'unica città che potes­ se competere con Venezia nella cultura e nell'arte. CAPITOLO DICIANNOVESIMO

IL PADRE DELLA PATRIA

Nessuno è mai riuscito a spiegare in maniera convincente i motivi del primato di Firenze non solo in Italia, ma in tutta Europa, fra il Tre e il Cinquecento. Dire che fu dovuto alla ricchezza non ha senso perché anche la ricchezza di Firenze aspetta una convincente spiegazione. La città non godeva di nessun vantaggio naturale. Era al centro di un contado po­ vero, o meno ricco di tanti altri. Non aveva materie prime. Non aveva una posizione geografica privilegiata. Non aveva nemmeno un grande fiume navigabile poiché TArno è in secca per buona parte dell'anno. Anche la sua vita politica garantiva tutto, fuorché l'ordi­ ne e la pace. La Signoria, come si chiamava il Governo, era tutt'altro che stabile. Le varie magistrature, lungi da divi­ dersi razionalmente il potere, se lo contendevano paraliz­ zandosi a vicenda. C'era un Gonfaloniere di giustizia cui era affidata l'esecuzione delle leggi e delle sentenze giudizia­ rie; c'erano otto Priori che formavano una specie di Mini­ stero; c'era un Parlamento rappresentato dal Consiglio del Popolo. Sulla carta, una simile organizzazione potrebbe sembrare democratica e funzionale. Ma solo per effetto della nomen­ clatura. La parola popolo, a Firenze, non aveva il significato che noi le diamo. Era riservata solo agl'iscritti alle arti, cioè alle corporazioni di mestiere. Queste erano divise in maggio­ ri e minori. Le maggiori erano sette e comprendevano le pro­ fessioni più nobili e ricche: i giudici e notai, gl'industriali della lana, della seta e dell'abbigliamento, i mercanti, i ban­ chieri, i medici e speziali eccetera. Le minori erano quattor-

198 dici e comprendevano i mestieri più poveri: i fabbri, i bec­ cai, i falegnami, i vinai, i muratori eccetera. Queste due categorie avevano insieme lungamente lotta­ to per strappare il potere alla vecchia aristocrazia terriera, e sulla fine del Duecento c'erano riuscite. Gran parte dei tur­ riti manieri che dall'alto dei colli tenevano in soggezione la città e ne minacciavano le comunicazioni e i rifornimenti erano stati demoliti dai popolani fiorentini. Altri erano ri­ masti orfani perché il governo borghese di Firenze ne aveva obbligato i proprietari a trasferirsi in città per poterli me­ glio controllare. Il municipio insomma aveva vinto la sua secolare battaglia contro il castello, e i ceti urbani con le loro industrie avevano preso il sopravvento su quelli rurali con la loro agricoltura. Ma, una volta raggiunto questo traguardo, la solidarietà delle Arti, cioè delle categorie produttive, si era rotta. Solo gl'iscritti nei loro elenchi erano cittadini di pieno diritto; e questa era già una discriminazione abbastanza grave, come risulta dalle liste elettorali: a metà del Trecento, su 90 mila abitanti - se è esatta la cifra che fornisce Villani - solo poco più di tremila potevano votare. Ma, anche dentro questa privilegiata minoranza, c'erano grosse sperequazioni testi­ moniate anche dai nomi: il popolo grasso delle Arti Maggiori e il popolo minuto delle Arti Minori. Il popolo grasso aveva già in mano tutto il potere econo­ mico poiché ad esso facevano capo l'industria, la banca e il commercio. Ma deteneva anche le leve di quello politico perché almeno quattro degli otto Priori e la metà del Consi­ glio del Popolo dovevano appartenere alle Arti Maggiori. Quelle minori, molto più numerose, non avevano quindi una rappresentanza adeguata alla loro vera forza. La Costituzione fiorentina era dunque ben lontana da quel modello di democrazia che alcuni storici hanno credu­ to di ravvisarvi. Si trattava di uno Stato corporativo in cui le masse non si erano affatto integrate. E lo dimostrano i tor­ bidi che ogni poco scoppiavano. Nel 1345 Cinto Bandini e

199 nove altri agitatori furono messi a morte per un tentativo di rivolta. Nel 1368 ci furono altre teste mozzate per lo stesso motivo. E dieci anni dopo divampò il «tumulto dei Ciompi», cioè dei salariati dell'Aite della Lana che, guidati da Miche­ le di Landò, s'impadronirono del potere. Lo tennero per poco perché lo esercitarono malissimo. Ma il disagio rima­ se, anzi fu acuito dalla reazione che ne seguì. Eppure, nonostante queste inquietudini politiche e so­ ciali, il «miracolo economico» di Firenze non aveva equiva­ lenti in tutt'Europa. Questa piccola città, da sola, aveva un reddito superiore a quello di tutta l'Inghilterra ai tempi del­ la grande Elisabetta. Il re Edoardo III era indebitato con al­ cune delle ottanta grandi banche fiorentine per un milione e mezzo di fiorini, che corrispondevano - all'ingrosso - a ol­ tre venti miliardi di lire attuali. Sebbene dichiarasse banca­ rotta come un mercante qualsiasi, la finanza fiorentina non crollò. Essa si rifece sugli altri mercati grazie alla sua supe­ riore organizzazione. Aveva inventato le polizze, cioè gli chéques, le lettere di credito, i buoni del tesoro, e il sistema della doppia contabilità. Ma soprattutto si era stabilmente legata con l'industria attraverso le partecipazioni azionarie. L'industria tessile fiorentina aveva sgominato qualsiasi concorrenza specie da quando si era impadronita dei segre­ ti chimici della tintoria. Federico Oricellari prese il nome appunto dalla orchella, un lichene da lui scoperto in Oriente che forniva un pregiato pigmento violetto, con cui fece mi­ liardi. Coi capitali forniti dalle banche di cui erano azionisti, i tintori attrezzarono i loro stabilimenti in modo che le loro lane subivano fino a trenta processi di lavorazioni successi­ ve, ognuno sovrinteso da maestranze specializzate. La fase artigianale aveva ceduto il passo a quella industriale vera e propria. Il nascente capitalismo s'incarnava in una nuova aristo­ crazia del denaro. Già al tempo di Dante essa aveva conteso il primato cittadino a quella del blasone: l'una era rappre­ sentata dai banchieri Cerchi, l'altra dal «barone» Donati. E

200 la lotta fra i due aveva insanguinato Firenze per decenni. Ora questi protagonisti erano scomparsi, e al loro posto ce n'erano altri, ma tutti di origine borghese e mercantile: i Bardi, i Peruzzi, gli Strozzi, i Pitti, i Rucellai, i Ricci, i Ridol- fi, i Valori, i Capponi, i Soderini, gli Albizzi. Questi ultimi, per un pezzo, tennero il mestolo in mano, ma quasi sempre per interposta persona e senza farsene ac­ corgere. Erano troppo avveduti per mettersi in mostra e rovesciare gl'istituti popolari. Si contentavano di mano­ vrarli sotto banco in modo da non stuzzicare la suscettibili­ tà dei fiorentini, attaccatissimi a una democrazia che da un pezzo non era più tale, e anzi non lo era mai stata. Fra gli ultimi decenni del Trecento e i primi del Quattrocento, gli Albizzi furono i grandi maestri del sottogoverno. E lo usa­ rono per tenere al riparo i ricchi dalle riforme giustizialiste dei poveri. Ma Firenze non sarebbe stata Firenze se la concordia del­ le classi capitaliste fosse durata all'infinito. Nel 1421 esse vi­ dero con compiacimento la nomina di Giovanni de' Medici a Gonfaloniere di Giustizia. Aveva una grossa banca, e quin­ di era dei loro. Ma il compiacimento si trasformò in sbigot­ timento e poi in furore, quando Giovanni impose sul capi­ tale una tassa del sette per cento che si chiamò catasto. Oggi vien da sorriderne: il fisco ci ha abituato a ben altro. Ma al­ lora parve un ladrocinio, un insopportabile sopruso. E Gio­ vanni fu considerato un «traditore della Confindustria». Veniva da una famiglia di recente potenza. Non si è mai saputo con esattezza né l'origine del nome, forse dovuto a qualche antenato medico, né quella dello stemma: sei palle - poi ridotte a tre - in campo d'oro. All'inizio del Duecento c'era stato un Medici consigliere comunale. Ma il vero fon­ datore della dinastia e del patrimonio era stato, ai primi del Trecento, Averardo, grazie a un'industria che non gii fa molto onore: l'epurazione. Era accaduto al tempo di Dante, quando i Neri avevano preso il sopravvento sui Bianchi. Averardo, che si era schierato dalla parte dei vincitori, ave-

201 va redatto un elenco aggiornatissimo dei «collaborazionisti» ricchi, e si era fatto dare in appalto il saccheggio delle loro case. E vero che la politica in Italia non è mai servita ad al­ tro. Ma Averardo ne fu un brillante pioniere. E dalle sue imprese casa Medici prese l'aìre. Sulla preda bellica fu fon­ data la banca. La banca procurò i miliardi. I miliardi frutta­ rono il potere. E il potere moltiplicò i miliardi. Quando Giovanni morì nel 1428, suo figlio Cosimo si trovò ad essere insieme il più forte capitalista della Toscana con un patrimonio di quasi 200 mila fiorini, oltre tre miliar­ di di lire, e il più popolare portabandiera del proletariato fiorentino per via del catasto applicato da suo padre contro i ricchi. Aveva una quarantina d'anni, e li aveva impiegati non soltanto a investire, ma anche a spendere bene il pro­ prio denaro, e a dominare le proprie impazienze e ambizio­ ni. Anche lui infatti si astenne dal far pesare il proprio pote­ re. Lo esercitò attraverso una delle magistrature meno ap­ pariscenti, come semplice membro del Consiglio dei Dieci, una specie di gabinetto militare che funzionava solo in tem­ po di guerra. Ma di guerra appunto era tempo in quel momento, poi­ ché si trattava di ridurre alla ragione Lucca, ribelle alla lea­ dership fiorentina. Cosimo non solo assunse la direzione del­ le operazioni, ma le finanziò di tasca propria quasi si fosse trattato di un'impresa privata. E vinse senza appesantire di una lira il bilancio dello Stato. Così il figlio di colui che ave­ va inventato la tassa contro i ricchi diventò anche il credito­ re della Signoria. E la sua popolarità salì a picco. Il popolo grasso capì che, se non lo fermava in tempo, il gioco era fatto. E la controffensiva partì naturalmente dalla famiglia cui il successo dei Medici più bruciava la pelle. Ri­ naldo degli Albizzi accusò Cosimo di ambizioni dittatoriali, e riuscì a strappare al Gonfaloniere Guadagni un mandato d'arresto contro di lui. Cosimo non tentò né la resistenza né la fuga, che gli sarebbero state ugualmente facili. Docilmen­ te si costituì, e lasciò anche che un parlamento adunato in

202 Piazza della Signoria decretasse, sotto la minaccia degli ar­ migeri di Rinaldo, la sua condanna a morte. Si limitò a mandare sotto banco una «bustarella» al Guadagni. E questi si rimangiò la sentenza, trasformandola in un bando al con­ fino di dieci anni. Cosimo si trasferì a Venezia, dove aveva già depositato gran parte della sua fortuna. E anche lì dovette investirla molto bene, perché poco dopo il Doge in persona sollecitò a Firenze il richiamo dell'esule. Ma non ce n'era bisogno per­ ché la nuova Signoria l'aveva già deciso per suo conto. Cosi­ mo rientrò in trionfo, ma mostrandosi dolorosamente stu­ pito della fuga degli Albizzi. Disse che non si sarebbe mai sognato di vendicarsi contro di loro, e probabilmente era sincero nel senso che non lo avrebbe mai fatto di persona. Lo avrebbe solo lasciato fare dai suoi seguaci, frattanto mol­ tiplicatisi. L'uomo aveva il sangue ghiaccio, ma la memoria lunga. Nemmeno stavolta, pur potendolo facilmente, sovvertì le magistrature democratiche. Anzi, dopo averne esercitata qualcuna, si ritirò dicendo che il potere corrompe l'anima e il corpo. Ma tutte le cariche erano occupate da uomini suoi, le masse erano con lui, e buona parte della plutocrazia era indebitata con la sua banca. Fu un dittatore moderato e benevolo. Ma quando qual­ cuno andò da lui a protestare perché i suoi amici Priori, avendo scoperto un complotto, ne avevano precipitato da una torre il capo, Bernardo d'Anghiari, Cosimo rispose so­ spirando: «Gli Stati non si governano coi paternostri». Tut­ tavia aveva capito una cosa fondamentale: e cioè che si pote­ va compiere una rivoluzione sociale senza spargere una goc­ cia di sangue, solo servendosi del fisco. Fu, crediamo, il pri­ mo uomo di Stato che abbia applicato in Europa la «scala mobile» e l'imposta progressiva sul reddito. Questa fruttò al bilancio, in vent'anni, quasi cinque milioni di fiorini, qual­ cosa come ottanta miliardi di lire. Molti ricchi, e special­ mente quelli terrieri, non potendo o non volendo pagare le

203 loro quote, lasciarono la città per tornare nei loro castelli di campagna. Erano quelli della vecchia aristocrazia che for­ mavano la «Società delle Torri» e davano un tono signorile alla vita fiorentina. Ma Cosimo non si mostrò desolato di questo esodo. «Provvederemo», disse, «a sostituirli. Oggi, per fare un nobile, basta qualche metro di panno rosso». Come banchiere, non sbagliava un affare, e soprattutto non sbagliava un investimento. Un giorno un suo socio gli rimproverò di aver prestato una forte somma al Vescovo di Bologna che non offriva nessuna garanzia. Ma di lì a poco quel vescovo diventò papa Niccolò V, e diede in appalto a Cosimo le finanze del Vaticano. Per tener dietro a tutti i suoi impegni, si alzava all'alba, andava a letto coi polli, mangiava e beveva con moderazione e questa regola lo tenne giovane e attivo fino ai settantacinqu'anni. Anche la sua vita di fami­ glia era ordinata. Solo una volta si concesse qualche libertà con una serva e n'ebbe un figlio illegittimo. Per sé, era spa­ ragnino. Ma per contribuire agli abbellimenti della città, non lesinava. Spese di tasca propria 400 mila fiorini, più di sei miliardi di lire, per finanziare architetti come il Brunel- leschi, scultori come Donatello e il Ghiberti, pittori come Botticelli, Gozzoli, Filippo Lippi e l'Angelico, filosofi e lette­ rati come Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, l'Alberti. Quando il più grande bibliofilo del tempo, Niccolò de' Nic­ coli, si fu completamente rovinato per acquistare manoscrit­ ti greci, Cosimo gli aprì un credito illimitato presso la pro­ pria banca, e quando morì rilevò per seimila fiorini gli otto­ cento testi che il bibliofilo aveva raccolto, per regalarli quasi tutti alla libreria di San Marco. Era l'idolo di tutta l'intellighenzia fiorentina. Botticelli, Pontormo e Gozzoli ce ne hanno lasciato coi loro pennelli un ritratto probabilmente abbellito dall'ammirazione e dal­ la gratitudine raffigurandolo come un uomo di media sta­ tura, dal volto olivastro e marcato, con due occhi fondi e pe­ netranti, e un naso in rilievo e a tutto sbalzo. Ma anche gli storici di parte democratica riconobbero in lui il più illumi-

204 nato dei dittatori, e Varchi ne fa addirittura il più grande protagonista della rinascita culturale italiana ed europea. Fu anche un abile diplomatico. Capì che il destino dell'I­ talia era condizionato dall'equilibrio fra le quattro grandi potenze che vi si erano formate: Milano, Venezia, Firenze e Napoli. E cercò con ogni mezzo di rafforzarlo. Quando Mi­ lano entrò in crisi dopo la morte di Filippo Maria Visconti e Venezia tentò di approfittarne, Cosimo aprì immediatamen­ te la borsa a Francesco Sforza per metterlo in condizione di resistere. Venezia volle vendicarsene facendo lega con Na­ poli contro Firenze. Cosimo si sottrasse alla minaccia sem­ plicemente richiamando tutti i crediti che aveva nelle due città, dove le più importanti ditte si trovarono di colpo sul­ l'orlo del fallimento. Lo chiamarono «Padre della Patria», certamente alluden­ do a una patria fiorentina. Ma Cosimo lo fu di tutta l'Italia. Forse egli carezzò un sogno di unità nazionale. Ma capì ch'e­ ra irrealizzabile, e quindi si contentò dell'unico traguardo che un uomo di Stato italiano, a quei tempi, poteva propor­ si: un Direttorio dei «quattro grandi» solidali nel proposito di mantenere la Penisola al riparo da intrusioni straniere. Questa fu la politica dei Medici sino alla fine del Quat­ trocento. Ad essa l'Italia è debitrice di quei decenni di rela­ tiva pace e di meravigliosa prosperità che consentirono il miracolo del Rinascimento.

CAPITOLO VENTESIMO

LORENZO E GIROLAMO

Quando Cosimo morì, nel 1464, gli successe il figlio Piero, che da lui aveva ereditato la ricchezza, il potere ma soprat­ tutto la gotta cui dovette il soprannome di «Gottoso» e una fine precoce. Di Cosimo aveva anche la laboriosità, il mece­ natismo e l'ordinatezza, ma non certo l'intuito e il tatto. Di ritorno dai funerali del padre, richiamò subito i prestiti che questi aveva abilmente fatto alle potenti casate fiorentine per legarle al proprio carro. Minacciati dal fallimento, i de­ bitori tentarono una rivoluzione in nome di una libertà che, disse poi Machiavelli, faceva soltanto da copertura delle lo­ ro cambiali in protesto. Ma queste erano tante che Piero a fatica riuscì a riconquistare il potere e a mantenerlo fino al­ la morte che lo colse nel 1469. Accortosi della cattiva salute di suo figlio e prevedendo­ ne la breve durata, Cosimo aveva particolarmente curato l'educazione del nipote Lorenzo, un ragazzo che promette­ va bene. Gli aveva dato i migliori istruttori: Argiropulo per il greco, Ficino per la filosofia, e se stesso per la politica e il commercio. Lorenzo aveva solo vent'anni quando suo pa­ dre morì; e suo fratello Giuliano, sedici. Il partito mediceo temette di esser rimasto senza un capo responsabile, specie quando Lorenzo dichiarò che non intendeva occuparsi di politica perché i suoi affari privati non gliene lasciavano il tempo. Una deputazione di cittadini andò a supplicarlo di rinunziare a questi propositi di ritiro: erano tutte persone che dovevano ai Medici la loro fortuna e i loro posti. Dopo molte esitazioni, Lorenzo si lasciò convincere. E da come in seguito si comportò, è chiaro che non chiedeva di meglio

207 ma da buon nipote di Cosimo non volle mostrarlo. Egli offrì tuttavia a Giuliano di partecipare al potere. Ma Giuliano, che aveva per lui una sottomessa adorazione e preferiva la poesia, la musica, le giostre e le donne, rifiutò. Fisicamente, Lorenzo non aveva nulla d'attraente. Era alto e robusto, di colorito olivastro come il nonno; ma il vol­ to aveva qualcosa di volgare per via della mascella pesante e delle narici larghe, schiacciate come quelle di un pugile e con una distorsione del setto che dava alla sua voce un tono sgradevolmente nasale. Ma tutti i testimoni sono concordi nel riconoscere che ba­ stava parlare cinque minuti con lui per essere immediata­ mente conquistati dalla sua cortesia e dalla sua straordina­ ria capacità d'aderire all'interlocutore. Col poeta, era poeta, con l'ambasciatore, uomo di Stato, con la canaglia, canaglia e mezzo. A vent'anni la madre, Lucrezia Tornabuoni, che Cosimo chiamava «l'unico uomo della famiglia», lo aveva sposato d'autorità con una principessa romana, Clarice Orsini, scel­ ta soprattutto perché era di «ricipiente grandezza e bianca». Lucrezia, preoccupata di migliorare il sangue dei Medici ta­ rato dalla gotta ereditaria, andò a scegliersi quella sposa co­ me si va a scegliere una giovenca al mercato: le donne ro­ mane avevano fama di essere più grossolanotte ma anche più «baliose» delle fiorentine. «Giudichiamo la fanciulla as­ sai più del comunale - scrisse al marito dopo il sopralluo­ go - ... Lorenzo l'ha veduta: intendi da lui se la li piace». A Lorenzo non piacque molto, ma la sposò ugualmente; un po' per far contenta la madre, un po' perché anche lui si preoccupava di rinfrescare il sangue della dinastia, un po' perché il matrimonio, specie a quei tempi, non implicava nessuna rinuncia. Dopo le nozze continuò ad amare Lucre­ zia Donati, ma senza trascurare i suoi doveri con Clarice, come dimostrano i sei figli ch'essa gli diede: Lucrezia, Piero, Maddalena, Giovanni, Luisa e Giuliano. Come il nonno, Lorenzo preferì restare ufficialmente

208 un privato cittadino, rifiutando ogni carica. Ma per dare ai suoi uomini il modo di governare un po' meglio fece nomi­ nare una balia che da temporanea si trasformò in organo permanente di direzione collegiale: il Consiglio dei Settan­ ta, eletti a vita. I suoi inizi non furono tutti fortunati. Quan­ do Volterra pretese delle royalties sulle proprie miniere che Lorenzo aveva nazionalizzato a benefìcio di Firenze, egli le inflisse un sanguinoso castigo da cui Cosimo si sarebbe cer­ tamente guardato. Ma subito se ne avvide e cercò di rime­ diare. Forse un altro errore di diplomazia, che per poco non costò a lui il potere e a Firenze l'indipendenza, lo commise cercando di annettere Imola alla Signoria fiorentina. L'im­ pulsivo e prepotente Sisto IV, avido di terre da distribuire ai suoi nipoti, reagì togliendo ai Medici la supervisione sulle finanze pontificie per darla ai loro più irriducibili avversari: i Pazzi. Non solo, ma incoraggiò questi ultimi a ordire una congiura contro Lorenzo. Il «colpo» fu tentato in Santa Maria del Fiore durante la messa del Sabato Santo del 1478. Lorenzo vi era intervenu­ to da solo, disarmato e senza seguito. Giuliano, ch'era rima­ sto a casa, fu indotto dai cospiratori a raggiungerlo. Al mo­ mento dell'elevazione, mentre il prete benediva gli astanti con l'ostia consacrata, i congiurati, fra i quali c'era anche l'Arcivescovo Salviati, s'avventarono sui due fratelli. Giulia­ no, trafitto dal Bandini, venne finito a pugnalate da France­ sco de' Pazzi. Lorenzo riuscì a proteggersi col braccio e, leg­ germente ferito, venne circondato dagli amici che lo spinse­ ro dentro la sacrestia sbarrandone le porte. Il Salviati, Fran­ cesco e Jacopo Pazzi e altri capoccioni si precipitarono in piazza della Signoria e tentarono di sollevare il popolo al so­ lito grido di «Libertà! Libertà!». Ma il popolo rispose: «Le palle!... Le palle!... », ch'erano l'emblema dei Medici. Il castigo fu duro. Un'ottantina di teste caddero. L'Arci­ vescovo che aveva brandito il pugnale in chiesa, e proprio nel momento culminante della messa, fu impiccato insieme

209 con Francesco de' Pazzi (e un giovane pittore di ventisei an­ ni, Leonardo da Vinci, si mise a ritrarlo dal di sotto della piazza, in tutt'i suoi particolari, pencolante nel vuoto). Il corpo di Jacopo, capo della casata, fu disseppellito due vol­ te, trascinato per le strade e gettato in Arno. Lorenzo com­ pose gli epitaffi in versi per le vittime e ordinò a Botticelli di eternarle in un affresco per Palazzo Vecchio. Sembra che papa Sisto, pur approvando il complotto, non avesse autorizzato l'attentato. Tuttavia l'impiccagione di un Arcivescovo gli fornì il pretesto per scomunicare Lo­ renzo con tutti i magistrati della città, sospendere i servizi religiosi e bandire una specie di guerra santa contro Firen­ ze. Re Ferdinando di Napoli vi aderì e lanciò un ultimatum alla Signoria: o essa consegnava Lorenzo al Papa, o il suo esercito avrebbe invaso la Toscana. Con medicea abilità, Lorenzo consigliò ai Priori di pie­ garsi all'ingiunzione e si offrì come capro espiatorio. Ma la Signoria rifiutò sdegnosamente, e fu la guerra. L'esercito fiorentino fu battuto a Poggibonsi, occorse appesantire le tasse per reclutarne un altro, e Lorenzo comprese che a lungo andare il popolo avrebbe mal sopportato di sacrifi­ carsi per lui. Allora, con una magnanimità condita di astu­ zia, ma anche di coraggio, partì in segreto e da solo, a Pisa s'imbarcò su una nave che lo condusse a Napoli, per pre­ sentarsi al Re suo nemico. Ferdinando godeva di una pessima reputazione. Poco prima aveva invitato come ospite il condottiero Jacopo Pic­ cinino, e poi lo aveva fatto proditoriamente assassinare. Se questo era il suo contegno verso gli ospiti, c'era da chiedersi come avrebbe trattato un nemico con cui era in stato di guerra dichiarata e già mezza vinta. L'esercito napoletano infatti continuava a mietere successi, e il Papa reclamava con insistenza la consegna di Lorenzo. Ma questi in pochi giorni aveva già annodato, un po' grazie al suo fascino per­ sonale, un po' grazie al suo conto in banca, solide amicizie. Soprattutto il potente conte Carafa, ministro degli Esteri, si

210 era schierato dalla sua parte. Lorenzo l'aveva convinto che l'indebolimento di Firenze significava il rafforzamento degli Stati Pontifici che pesavano sui confini di quelli napoletani, e che lo stato di guerra metteva tutta l'Italia alla mercé dei Turchi ora che costoro, padroni di Costantinopoli, lanciava­ no le loro flotte alla conquista del Mediterraneo. Ferdinando, che già era rimasto impressionato dall'au­ dacia di quel suo avversario e ne aveva subito l'ascendente, finì per arrendersi a questi argomenti. E invece di conse­ gnarlo al Papa, firmò con lui un trattato di pace e di allean­ za, e lo rimandò a godersi il trionfo a Firenze. Sisto fu colto da una crisi di furore. Ma anch'egli dovette arrendersi agli avvenimenti: un esercito turco era sbarcato a Otranto e mi­ nacciava di travolgere la Penisola, se questa restava divisa dalle guerre intestine. Lorenzo mandò ambasciatori al Pon­ tefice con un messaggio ispirato a devozione e umiltà. Sisto li accolse malissimo, li colmò di vituperi. Poi, recitata la sua parte, li perdonò, ricambiò a Lorenzo il messaggio d'amici­ zia, e gli chiese di equipaggiare quindici galere per la spedi­ zione contro i Turchi. Da allora, il potere di Lorenzo non fu più seriamente mi­ nacciato da nessuno, fino al Savonarola.

Girolamo Savonarola era nato a Ferrara nel 1452 e giovanis­ simo aveva abbandonato la famiglia per il convento. Era piuttosto brutto e, quel che è peggio, sgraziato, in un'epoca in cui la grazia rappresentava una specie di undicesimo co­ mandamento. Aveva la fronte schiacciata e fin da ragazzo ag­ grondata, il volto olivastro e rincagnato, il naso grosso e de­ formato, la bocca larga, le labbra carnose e renitenti al sorri­ so. In quel volto rozzo, temporalesco e chiuso come un pu­ gno chiuso, solo gli occhi erano belli: grigioscuri, intensi, ora fiammeggianti d'ira, ora delicatamente malinconici. Forse quello sguardo chiedeva simpatia, ma Girolamo non ne ispi­ rava. La timidezza e l'orgoglio, che vanno sempre in coppia, lo rendevano malaccorto e refrattario agli abbandoni.

211 Dopo un periodo di tirocinio come novizio nel convento di San Domenico a Bologna, nel 1481 era stato trasferito in quello di San Marco a Firenze, una delle istituzioni cittadi­ ne che più dovevano al mecenatismo dei Medici. Cosimo l'a­ veva fatto restaurare dal Michelozzi, profondendovi di tasca sua trentaseimila fiorini, ne aveva fatto affrescare le mura dal Beato Angelico, e lo aveva dotato di una ricchissima bi­ blioteca, trasformandolo in un centro d'arte e di cultura. Lorenzo aveva seguito l'esempio del nonno, aggiungen­ dovi uno stupendo giardino dove aveva raccolto centinaia di statue antiche, che tutti gli scultori fiorentini potevano studiare e copiare. Fra coloro che vennero a scoprirvi i se­ greti dello scalpello c'era già, ai tempi di Savonarola, un ra­ gazzetto di nome Michelangelo Buonarroti. Il Priore di San Marco assegnò a Girolamo il compito di lettore, cioè d'istruttore dei novizi. Era un compito impor­ tante cui probabilmente il Savonarola si era qualificato poco tempo prima, a un Capitolo dell'Ordine domenicano, che si era tenuto a Reggio Emilia. Egli c'era andato da Padova, e vi aveva trovato radunati, a discutere di dogma, non solo dei religiosi ma anche dei laici di gran dottrina, fra cui face­ va spicco Pico della Mirandola, appena diciottenne, ma già riconosciuto «Fenice degli ingegni». Fu lì, probabilmente, che i due si conobbero. Finché la discussione rimase su un piano puramente ac­ cademico, fra' Girolamo se ne stette muto e rinsaccato nel suo saio, e nessuno si accorse di lui. Ma quando il dibattito scantonò nei rapporti fra la Chiesa e il mondo, egli balzò in piedi come azionato da una molla e pronunciò una feroce requisitoria contro la mondanizzazione e corruzione del cle­ ro. L'uditorio ne rimase fulminato e sconvolto, ma più di ogni altro lo fu Pico che, allenato dagli studi umanistici a ben altra eloquenza, non doveva mai più scordare quella del frate. Arrivato a Firenze sulle ali di quel successo, e forse sul suo contraccolpo, era fatale che il frate, dopo un po' di cat-

212 tedra, fosse rimesso anche sul pergamo. Ma quello che gli assegnarono dimostra in che poco credito lo tenessero co­ me predicatore. I grandi teatri che facevano i grandi tenori dell'oratoria sacra fiorentina erano il Duomo, cioè Santa Maria del Fiore, e San Lorenzo. Su un gradino più basso erano Santa Maria Novella e Santa Croce. Savonarola fu relegato nella chiesetta delle monache be­ nedettine delle Murate, e in quella di Orsanmichele. Eppu­ re, per quanto di bocca buona, neanche quel pubblico di pe­ riferia apprezzò quel predicatore che teneva i suoi sermoni «all'apostolesca, senza dividerli», come scrisse un cronista, e diceva mi e ti. Col tempo e l'esperienza dovette tuttavia far qualche progresso, anche perché risulta che si sottopose a intensi esercizi fonetici per migliorare la voce e guarirla dal rozzo accento ferrarese: il che dimostra quanto forte fosse il suo impegno e diciamo pure la sua ambizione oratoria. Fra' Gi­ rolamo voleva il successo, e il Priore gliene fornì l'occasione offrendogli il pulpito di San Lorenzo. Ma fu un disastro. Qui l'uditorio era composto d'intellet­ tuali scettici e smaliziati, che in poche settimane si ridussero a una ventina, che forse gli rimasero intorno solo per il gu­ sto, tipicamente toscano, di metterlo in imbarazzo col loro sguardo ironico e il sorriso beffardo. Fu forse anche in seguito a questi fiaschi che il Priore di San Marco, nel 1486, ne ottenne il trasferimento in Lom­ bardia dove il frate abbandonò lo stile arcigno e didattico che tanto impopolare l'aveva reso a Firenze e acquistò quello appassionato, immediato, requisitorio e apocalittico, che ne avrebbe fatto un campione della grande oratoria re­ ligiosa. Dopo quattro anni di «esilio», Girolamo tornò a Firenze. A richiamarlo fu il Magnifico, che probabilmente neppure lo conosceva, su richiesta di Pico. Il Priore di San Marco gli affidò nuovamente l'insegnamento ai novizi. Ma la voce, su­ bito sparsasi in giro, ch'egli era tornato per interessamento

213 personale di Lorenzo, e le cose meravigliose che di lui ave­ va raccontato Pico nei salotti e nei circoli intellettuali, aveva­ no suscitato gran curiosità e attirato alle sue lezioni anche molti laici, come il Poliziano e il Ficino. In pochi giorni anzi la ressa fu tale che Savonarola dovette trasferire la sua catte­ dra in giardino, all'ombra di un boschetto di rose damaschi­ ne, perché non c'era aula capace di tanta scolaresca. Ma non erano lezioni, anche se cominciavano come tali. Ora che il pubblico aveva smesso d'intimorirlo, fra' Girola­ mo ricreava subito quel clima di magia di cui ormai era in­ sieme artefice e vittima ogni volta che prendeva la parola. E la lezione si trasformava in una predica che suscitava le rea­ zioni più diverse e contraddittorie, ma che comunque non mancava mai di suscitarne, ed era questo che sempre più infoltiva l'uditorio. Molti lo trovavano grossolano ed ele­ mentare, altri retorico e melodrammatico. Ma tutti erano dominati dall'empito, dal calore dalla sincerità di quell'elo­ quio che non prendeva a prestito da niente se non dalla Bibbia, e in cui non trapelava nulla di studiato e letterario. Firenze non era più abituata da decenni, forse da secoli, a un'oratoria così rozza, ma anche così genuina. Essa scanda­ lizzava, seduceva e fomentava discussioni che richiamavano altro pubblico intorno al controverso predicatore. Finché alcuni suoi ascoltatori gli fecero premura di risalire sul per­ gamo. La «rentrée» fu salutata da una folla strabocchevole che prese letteralmente d'assalto la chiesa di San Marco. Il Sa­ vonarola dovette sentirsene subito rinfrancato: quelle atmo­ sfere di tensione erano le più congeniali al suo tempera­ mento. Salì sul pulpito con passo sicuro, spalancò le braccia, e attaccò subito quell'uditorio frontalmente e con veemen­ za. Aveva scelto il tema che meglio si prestava alle sue cor­ de: l'Apocalisse. Forse non fece che ripetere ciò che per quattro anni era andato proclamando dai pergami lombar­ di. Ma agl'ignari fiorentini parve un'improvvisazione, tale fu l'impeto con cui quel procelloso frate flagellò la Chiesa

214 per la sua corruzione e i suoi vizi, le annunziò il castigo e le promise la «rinnovazione». A quanto pare l'uditorio, avvezzo a essere blandito e se­ dotto più che aggredito e intimorito, dapprima resistè a quel forsennato urlante e gesticolante. Ma poi gli s'abban­ donò, come ipnotizzato. E alla fine della predica, non po­ tendolo con gli applausi, manifestò la propria commozione con un mormorio che valeva più di un'ovazione. Ma ora, per il frate, veniva il momento più difficile. Il suc­ cesso aveva fatto di lui una ghiotta preda per gl'intellettuali fiorentini. Anche quelli fra loro che lo consideravano un grosso istrione, che copriva con le sue urla e minacce un vuoto di dottrina, pensarono ch'era meglio averlo dalla pro­ pria parte, e non lesinarono in seduzioni. Uno dopo l'altro, quasi tutti vennero a trovarlo in convento, sicuri che quel soggiogatore di folle fosse uno sprovveduto interlocutore nel colloquio a tu per tu, dove le suggestioni sono più difficili da esercitare. Ma le conversazioni col Savonarola li sedussero più di quanto non li avessero sedotti le prediche. Capirono che quell'uomo non disprezzava la cultura per ignoranza, ma perché la considerava pervertitrice dei costumi. Ma so­ prattutto capirono ch'egli non era corrompibile col successo mondano. Quel frate non aspirava a diventare, in quel seco­ lo cortigiano, un cortigiano, né un favorito dei salotti e delle accademie. La sua sfiducia nella filosofia non era che un ri­ flesso della sua sfiducia negli uomini e nella ragione. Fra' Girolamo seguitò a predicare in San Marco per circa un anno e mezzo, sino alla fine del '90. Poi quella chiesa non bastò a contenere tanta folla e il suo entusiasmo. E quasi a furor di popolo, per la quaresima del '91, egli venne issato sul pergamo del Duomo. Alcuni suoi aficionados furono compiaciuti ma anche preoccupati di quella promozione: il pergamo del Duomo era una tribuna impegnativa, da essa si parlava a tutta Firenze, bisognava misurare le parole e Gi­ rolamo non si era mai mostrato molto esperto nell'arte del­ le reticenze e delle sfumature. Cercarono di metterlo in

215 guardia, gli dissero che quel contìnuo annunciare guai e fla­ gelli, che già gli era valso il nomignolo di «predicatore dei disperati», rischiava di farlo passare per un menagramo bel- l'e buono; lo ammonirono che i riferimenti alle sue «visioni» potevano metterlo nei pasticci con la stessa Chiesa, la quale considera di frodo tutte quelle che non sono da essa auto­ rizzate. Ma soprattutto gli raccomandarono la prudenza e di non sconfinare dal campo della religione e della morale in quello della politica. Il frate accettò quei consigli trovandoli del tutto giustifi­ cati, e promise di seguirli. Grande dovett'essere quindi lo sconcerto dei suoi amici che lo attendevano alla prova nel grande Duomo gremito di gente e vibrante di attesa, quan­ do lo sentirono invece avventarsi in una requisitoria più fe­ roce del solito e più chiaramente del solito rivolta anche contro il potere temporale, cioè contro i Medici: «... Ormai non v'è grazia, non v'è dono dello Spirito Santo che non si venda e non si compri, mentre i poveri sono oppressi dalle tasse, e con cinquanta di rendita devono pagare cento d'im­ posta... Pensateci bene, o ricchi, perché su di voi ricadrà il castigo. Questa città non si chiamerà più Firenze, ma turpi­ tudine, sangue, covo di ladroni... Io non volevo più parlare in tuo nome, o Signore. Ma tu sei stato più forte di me, la tua parola è diventata fuoco che brucia le midolla delle mie ossa nelle quali s'è chiuso... » Più tardi, nel Compendio delle rivelazioni, egli stesso spiegò il perché di quel brusco voltafaccia: «Ricordo che prima di predicare in Duomo l'anno 1491 quando già avevo compo­ sto un sermone sulle mie visioni, decisi di sopprimerle e di non farvi mai più ricorso nemmeno in futuro. Dio mi è te­ stimone che tutto il giorno di sabato e l'intera notte mi logo­ rai nella ricerca di un'altra ispirazione. Ma non ne trovai nessuna. Sul far dell'alba, esausto dalla lunga vigilia, udii mentre pregavo una voce che diceva: Stolto, non vedi che il Signore vuole che tu seguiti per la medesima stradai Per il che fe­ ci quel giorno stesso una terribile predica».

216 Gli amici rimasero costernati, ma il successo popolare fu immenso. Era la prima volta da oltre mezzo secolo che qual­ cuno osava alzar la voce in pubblico contro i governanti. Ma costoro, certo su suggerimento di Lorenzo, o almeno col suo consenso, risposero alla provocazione del frate invitan­ dolo cortesemente a tenere un sermone addirittura in Pa­ lazzo Vecchio agli stessi esponenti e funzionari della Signo­ ria. La «trovata» era degna del Magnifico, della sua eleganza e accortezza. Infatti, colse un po' in contropiede il Savona­ rola, che cominciò il suo discorso con queste imbarazzate parole: «Davanti ai Signori non mi sento padrone di me co­ me in chiesa. Mi conviene essere più urbano e misurato co­ me Cristo in casa del Fariseo. Ma vi dirò che il bene e il ma­ le della Città dipendono dai suoi capi, e perciò in essi gran­ de è la responsabilità dei peccati anche piccoli...». E fin qui il discorso era davvero urbano e misurato, come Girolamo se l'era ripromesso. Ma poi, come trascinato da una miste­ riosa forza, aggiunse: «I tiranni sono incorreggibili perché superbi: amano le adulazioni e si rifiutano di restituire il mal tolto. Non ascoltano i miseri, non condannano i ricchi, pretendono che i poveri e i contadini lavorino gratis per lo­ ro, comprano i voti e vendono le gabelle per opprimere il popolo...». Quello che riferiamo non è il testo dell'allocuzione, ma solo il sunto che n'è pervenuto. Tuttavia esso risponde cer­ tamente alla sostanza dell'apostrofe, che dovette lasciare gli ascoltatori piuttosto perplessi. Savonarola aveva detto fra l'altro: «Voi dovete eliminare le discordie, fare giustizia, ri­ pristinare l'onestà». E forse quei professionisti della politica, cresciuti alla scuola medicea del buon senso senza illusioni, avranno sorriso di quelle parole e considerato chi le pro­ nunziava uno sprovveduto visionario. Più scettico di loro, ma anche più lungimirante, Lorenzo dovette invece preoccuparsene perché incaricò cinque citta­ dini di gran nome e prestigio di rinnovare al frate, come se

217 venisse da loro, l'ammonimento che, continuando di quel passo, poteva anche essere bandito da Firenze. Ma il frate capì subito da chi partiva l'iniziativa, e rispose: «Io non me ne curo, faccia lui. Ma sappia questo: che io sono forestiero, lui cittadino, e il primo della città. Eppure io ho da stare e lui se n'ha a andare, io a stare, e non lui». Forse, più che dalla minaccia, Lorenzo fu disturbato dal­ l'inurbanità del frate. Ma col suo abituale tatto, nemmeno stavolta volle replicare direttamente. Preferì affidarne l'in­ carico a un altro celebre frate di nome Mariano commissio­ nandogli un sermone polemico contro il Savonarola. Impa­ sto di cortigianeria e d'invidia, Mariano accettò con entusia­ smo la proposta che gli permetteva nello stesso tempo di compiacere al Signore e di rintuzzare un pericoloso rivale. Informata del retroscena, Firenze accorse in massa alla chiesa di San Gallo per assistere al duello. C'erano tutti, da Lorenzo stesso a Pico a Poliziano. Fosse un eccesso di zelo a tradirlo, o fossero quella folla e quell'atmosfera di attesa a dargli le vertigini, fatto sta che Mariano perse il senso della misura e delle proporzioni. Si lanciò in una requisitoria con­ tro Girolamo, più da taverna che da chiesa, lardellata di bas­ se accuse, volgari insinuazioni e grossolani vituperi, che di­ sgustarono l'uditorio. Lorenzo fu il primo a esserne nausea­ to, ma più ancora preoccupato. Egli comprese che quell'in­ successo di Mariano era il più grande successo del Savona­ rola che, anche se non era un gigante, dopo quel confronto lo sarebbe a tutti sembrato. Passò un mese, si era di luglio, e il posto di Priore di San Marco si rese vacante. Non esiste nessuna prova che l'Ordi­ ne interpellasse Lorenzo per la nomina del titolare. Ma ci sembra poco verosimile che potesse restar sordo a un suo veto, se il Magnifico l'avesse pronunciato. Noi crediamo che se non fu Lorenzo a provocare la nomina di Girolamo a Priore, certamente si astenne dall'impedirla, come avrebbe potuto. E Savonarola gli dimostrò la sua gratitudine, rifiu­ tandosi di andare a rendergli la visita di cortesia che tutti i

218 nuovi Priori di San Marco avevano sempre reso ai Medici a riconoscimento del loro alto patronato sul convento. A chi gli ricordava l'uso e gli faceva notare che la questione era solo di buona creanza, rispose asciutto: «Chi mi ha eletto Priore? Dio o Lorenzo? E Dio mio Signore voglio ringrazia­ re, non Lorenzo». Ma Lorenzo, quando queste parole gli vennero riferite, scosse la testa e commentò con una punta di rassegnato rammarico: «Vedete? Un frate forestiero è ve­ nuto ad abitare in casa mia, e non s'è degnato di venirmi a visitare». E il Burlamacchi, grande apologeta del Savonaro­ la, a riferire questo episodio, credendo che faccia onore al frate. E invece fa onore al Signore, e dimostra quanto il fra­ te avesse torto a qualificarlo tiranno. I sentimenti del Magnifico verso quell'intrattabile perso­ naggio rimarranno sempre un gran mistero. Il fascino che il predicatore esercitava dal pergamo sulla folla non era cer­ to da sottovalutare. Ma il regime dei Medici in quel momen­ to era solido, e Lorenzo godeva di un'autorità e di un pre­ stigio che gli avrebbero consentito di eliminare con tutta fa­ cilità qualsiasi oppositore, anche se coperto dalla tonaca. Al­ l'occorrenza, avrebbe avuto dalla sua anche il Papa, che considerava Lorenzo «l'ago della bilancia» cioè il puntello di quella coalizione fra i grandi Stati italiani che aveva fruttato alla Penisola decenni di pace e di prosperità. Firenze era la città che più ne aveva goduto: ciò che aveva perso in libertà lo aveva guadagnato in ordine e anche in giustizia sociale perché, qualunque cosa dicesse il Savonarola, il fisco medi­ ceo era per quei tempi un modello, e i poveri di Firenze era­ no i meno poveri d'Italia. L'opposizione insomma aveva po­ chi pretesti e si riduceva a una fronda ispirata alla nostalgia di una libertà che di fatto non c'era mai stata o era stata solo quella delle fazioni. E probabile che questa sicurezza di sé e del suo regime abbia contribuito alla tolleranza del Magnifico verso il frate turbolento e screanzato. Ma ci doveva essere anche dell'al­ tro, perché egli non si limitò a sopportarlo. A più riprese

219 venne da semplice privato in San Marco ad ascoltare gli apocalittici sermoni del predicatore. Non sappiamo se Giro­ lamo lo vedeva e lo riconosceva nella folla in mezzo a cui se ne stava confuso. Comunque, non se ne sentì mai intimidito né frenato, perché mai smise di tuonare contro il governo corrotto, contro le feste, i giochi, il carnevale (questa era la sua bestia nera), insomma contro tutto ciò di cui Lorenzo era l'incarnazione. Eppure, malgrado questi continui sgarbi, il Magnifico se­ guitava a frequentare San Marco, e mai ne usciva senza de­ positare qualche offerta nella cassetta delle elemosine. Una volta i frati ci trovarono addirittura un sacchetto di monete d'oro. Il Priore, comprendendo immediatamente da chi ve­ niva, mandò il donativo ai Buoni Uomini di San Martino per i loro «poveri vergognosi», e a mo' d'indiretto ringrazia­ mento pronunziò dal pergamo un apologo: «Il cane fedele non smette d'abbaiare a difesa del padrone, quando gli si getta un osso». Ma sembrava che queste insolenze incuriosissero Loren­ zo più di quanto lo ferissero. Un giorno venne a passeggia­ re nello splendido giardino del convento, apparentemente per ammirare le statue ch'egli stesso aveva donato e che fa­ cevano di quel parco un museo. In realtà sperava d'incon­ trare il frate, che mai gli si era presentato. Era convinto che una chiacchierata fra loro avrebbe appianato tutto: nessuno aveva mai resistito al calore di simpatia che il Magnifico ir­ raggiava, al suo tatto, al suo bonario umorismo, alla sua contagiosa cordialità. Ma forse c'era in lui anche l'ansia di vedere in faccia l'uomo che sembrava incarnare la smentita a tutte le sue convinzioni sugli uomini. Nonno Cosimo gli aveva insegnato con la parola e con l'esempio che amicizia e inimicizia non erano che un problema di tariffe. Era chiaro che con l'oro il frate non si comprava. Ma una moneta, an­ che per la sua anima, ci doveva essere. Quale? Per ore e ore, Lorenzo trascinò lungo i viali la sua gam­ ba gonfia e dolente, che ogni tanto l'obbligava a sedersi. I

220 novizi addetti al giardinaggio, incontrandolo e riconoscen­ dolo, correvano dal Priore a informarlo e a chiedergli se non era il caso che venisse a dargli il benvenuto «Ha chie­ sto di me?» domandava il Priore. «No» «E allora che seguiti a girare.» Il Magnifico seguitò per tutta la mattinata. Poi s'avviò rassegnatamente all'uscita. Aveva capito che il frate sapeva della sua presenza e di proposito non si mostrava. Ma sape­ va anche che il loro incontro sarebbe ugualmente avvenuto, e presto. Negli ultimi tempi la sua salute era peggiorata ed egli non si faceva illusioni perché il male che lo consumava era quello stesso che aveva distrutto suo padre, e ne conosceva il decorso a memoria. In aprile del '92 si fece portare in let­ tiga nella sua fastosa villa di Careggi dove uomini politici e letterati venivano a fargli compagnia. Da essi seppe che fra' Girolamo l'aveva già dato per spacciato profetando la sua morte entro l'anno, insieme con quella di papa Innocenzo e del Re di Napoli. Per costoro, data l'età, il pronostico era fa­ cile. Ma Lorenzo non aveva che quarantatre anni. A mezzanotte del 7 aprile, racconta Poliziano, gli annun­ ziarono il prete che recava il viatico. «Non sia detto che Ge­ sù», rispose Lorenzo, «venga in questa stanza. Toglietemi di qui, vi prego, che gli vada incontro.» Aveva già il blocco re­ nale e alzarsi era per lui un grosso repentaglio, oltre che un terribile sforzo. Ma se non la pietà, certo l'abituale cortesia gl'imponeva di ricevere il Signore da signore. Si fece porta­ re a braccia nel salotto, si prosternò ai piedi del sacerdote, e ricevette la Comunione. Subito dopo, un medico di gran fama, Ticino Logario, volle sperimentare un suo rimedio: una specie di «frullato» di pietre preziose e triturate. L'effetto fu quale ognuno può immaginare. Ma il morente ormai aveva riposto ogni spe­ ranza, sembrava turbato da ben altri affanni. A un tratto, di punto in bianco, chiese di Savonarola, e pregò di mandarlo a chiamare.

221 I suoi biografi raccontano che, quando ricevette il mes­ saggio, il Priore di San Marco esitò e mosse obbiezioni. Co­ munque, andò. E su quell'estremo colloquio ci sono due versioni. II Poliziano, unico testimone della scena, racconta che Lorenzo, dopo aver detto addio e impartito le ultime rac­ comandazioni al figlio Piero, stava affettuosamente conge­ dandosi anche da Pico della Mirandola, quando Savonaro­ la entrò. Non ci furono convenevoli; la situazione li rende­ va superflui. Il frate esortò il morente a mantenersi fermo nella fede; a vivere d'allora in poi senza peccato, se Dio gli concedeva di vivere; e ad accettare la morte con serenità, se Dio gli comminava la morte. Lorenzo rispose che la sua fede era salda, la sua rinunzia al peccato irrevocabile, il suo coraggio senza tentennamenti. Il frate accennò allora a riti­ rarsi, ma Lorenzo lo fermò chiedendogli la benedizione, abbassando la testa e gli occhi in atteggiamento devoto, e rispondendo «secondo il rito e a memoria alle parole e alle preghiere» di fra' Girolamo. Uscito costui, ricevette l'estre­ ma unzione, e attese la fine baciando e palpando un croci­ fisso. Era un crocifisso d'argento ornato di perle e di gem­ me che doveva dare, al tatto del Magnifico, una gradevole sensazione. Ma gli apologeti di Savonarola non si contentarono di un «finale» così semplice, e ne descrissero un altro, molto più drammatico. Essi dicono che il frate esigette la piena confessione del morente e per impartirgli l'assoluzione gli pose tre condi­ zioni. Anzitutto un atto di fede nella misericordia di Dio, che Lorenzo subito pronunziò. Poi un impegno a restituire tutto il mal tolto e a farlo restituire dagli eredi; e il Magnifi­ co acconsentì, ma dopo una lunga esitazione e con visibile sforzo. Dopodiché Savonarola si sarebbe levato in piedi, e con voce terribile e in tono ultimativo gli avrebbe ingiunto: «Terzo: vi bisogna rendere la libertà al popolo di Firenze». Il moribondo fissò quell'uomo che lo fissava senza nessuna

222 pietà, e raccogliendo le forze che gli restavano gli volse le spalle. E il frate si rifiutò di benedirlo. Crediamo che gli apologeti del Savonarola - nessuno dei quali era presente alla scena - abbiano mentito e ce lo au­ guriamo per lui. Quel ricatto a un moribondo non gli fa­ rebbe onore. Ma, purtroppo, dobbiamo riconoscere che gli somiglia. CAPITOLO VENTUNESIMO

LA CIVILTÀ MEDICEA E I SUOI PROTAGONISTI

Quando i Medici ne erano diventati i padroni, Firenze era già l'indiscussa capitale della cultura europea. Gli storici si sono affannati e tuttora si affannano a studiare i motivi di questo primato. Qualcuno lo attribuisce alla geografìa, qual­ che altro alla storia, qualche altro ancora allo sviluppo indu­ striale, che a sua volta attende una spiegazione. Lasciamoli alle loro discussioni, che ci sembrano poco convincenti e re­ stiamo ai fatti. A Firenze era nata la grande poesia con Dante, la grande narrativa con Boccaccio, la grande erudizione con Petrarca, la grande pittura con Cimabue e Giotto, la grande architet­ tura con Arnolfo. Evidentemente c'era in questa città qual­ cosa che la evocava naturalmente alle arti e alle lettere. Ma non c'è dubbio che i Medici se ne accorsero, e secondarono questa vocazione con un impegno, un'intelligenza e una li­ beralità che li fanno meritevoli dell'universale ammirazio­ ne. «Nel patronato della cultura», dice il Durant, «nessun'al- tra famiglia al mondo ha mai eguagliato i Medici.» Era stato Cosimo a inaugurare questa tradizione nelle lettere, nella poesia, nella filosofia e nelle arti. Spese un pa­ trimonio per l'incetta di manoscritti originali ad Atene, Co­ stantinopoli e Alessandria. Ma anche un'altra cosa egli fece, che in seguito doveva dimostrarsi decisiva per gli orienta­ menti del pensiero italiano e europeo: istituì l'Accademia Platonica. Gl'italiani di filosofia greca non sapevano nulla, o quasi. Conoscevano quel po' di Aristotele che gli era arrivato non direttamente, ma attraverso San Tommaso e gli altri maestri

224 della Scolastica, i quali della logica aristotelica avevano assor­ bito quanto gli faceva comodo e scartato quanto l'imbaraz­ zava. La filosofia, in Europa, era solo teologia. E la teologia non era appunto che un miscuglio di Bibbia e di logica ari­ stotelica, o meglio un tentativo di mettere la logica aristote­ lica al servizio della Bibbia, per dimostrare che la verità ri­ velata dai sacri testi non contrastava affatto con la ragione, anzi vi trovava una conferma e un avallo. Quanto a Platone, in Europa se ne sapeva ancora di meno. E a ogni modo nes­ suno aveva capito in cosa si distinguesse da Aristotele. Nel 1439 però avvenne un fatto nuovo. Su richiesta di Cosimo, a Firenze si riunì il grande Concilio Ecumenico per la riconciliazione delle due Chiese cristiane: quella cattolico- romana e quella greco-ortodossa che si erano separate quat- trocent'anni prima. L'Imperatore d'Oriente Giovanni Pa- leologo v'intervenne di persona, portandosi al seguito i suoi più grandi dottrinari fra cui lo Scolari, il Bessarione e Ge­ misto. Come abbiamo già riferito nel cap. XV, l'accordo alla meglio rabberciato là per là sul piano del dogma provocò l'insurrezione del clero di Costantinopoli, e il tentativo di ri­ conciliazione sfumò, anzi il suo fallimento aggravò il contra­ sto. Però l'intellighenzia fiorentina, che si era appassionata al dibattito, rimase conquistata dalla dialettica degli ospiti gre­ ci, che a sostegno delle loro tesi citavano a memoria i due grandi Maestri dell'antichità e argomentavano con una logi­ ca di cui in Italia non c'era nemmeno il sospetto. Fu una rivelazione. Gli sconfitti del Concilio diventarono i trionfatori della cultura: specialmente Gemisto che, accor­ tosi dell'ignoranza degl'italiani, pubblicò un opuscolo divul­ gativo in latino per spiegare la differenza fra Platone e Ari­ stotele. Si trattava di una spiegazione piuttosto parziale per­ ché Gemisto era un platonico arrabbiato, tanto che aveva assunto perfino lo pseudonimo di Pletone. E infatti i suoi col­ leghi aristotelici, Scolari e Gaza, lo rimbeccarono vivamen­ te. Ne nacque una polemica che sconfinò persino nella vol­ garità quando v'intervenne il Trapezunzio, detto anche

225 Giorgio da Trebisonda, che se la rifece non con Pletone, ma addirittura con Platone, accusandolo perfino di omosessua­ lità e ladrocinio. Il che costrinse Bessarione a una replica in difesa del grande Maestro. Ma la cosa più straordinaria (e anche un po' comica) fu la passione con cui gl'intellettuali italiani, che n'erano quasi completamente a digiuno, si gettarono in quella diatriba. Parlare di Platone e di Aristotele «faceva fino», ma i fiorenti­ ni furono in maggioranza per quello che a loro riusciva più nuovo, cioè per Platone, che cominciarono a venerare pri­ ma ancora di averlo letto. Stupito e commosso da tanto zelo, Gemisto pensò di ap­ profittarne. Andò da Cosimo e gli propose di restaurare lì a Firenze la famosa «Accademia Platonica», che tanto presti­ gio aveva goduto in Grecia. Cosimo ne vide subito la conve­ nienza, e designò anche l'alto sacerdote del nuovo culto: un giovanotto di nome Marsilio Ficino, figlio del suo medico personale, che mostrava un'autentica vocazione a quelle di­ scipline. Questo curioso personaggio incarnava il perfetto «uma­ nista» del Quattrocento. Era così bello che tutte le donne perdevano la testa per lui. Ma egli non ne ricambiò nessu­ na, perché nessuna trovò più attraente dei suoi libri. Era co­ sì innamorato del suo Maestro che si rivolgeva ai suoi disce­ poli chiamandoli «fratelli in Platone» invece che «fratelli in Cristo». Questo non gl'impedì, a quarant'anni, di farsi prete è di diventare canonico. Ma anche dopo aver preso i voti, seguitò ad accendere candele sotto il busto di Platone, che teneva a pie' del letto al posto del Crocefisso. Passò per un filosofo eccelso senza esserlo per mancanza d'idee originali. Il suo stile era farraginoso, e il suo acume critico scarso. Ma fu un grande erudito e compilatore che per primo affondò le mani e diede una veste latina a tutta l'opera di esegesi che gli alessandrini avevano compiuto del pensiero greco, illuminando i punti di contrasto fra le due grandi scuole. Gli aristotelici sostenevano che la natura ope-

226 ra senza rendersi ragione di ciò che fa, mentre i platonici le attribuivano uno spirito e una consapevolezza. Si trattava dunque di decidere se il mondo era regolato dalla ragione o dal caso, ed era abbastanza chiaro che solo la prima ipotesi - quella sostenuta da Platone - era conciliabile con la tesi cristiana di un Creato inteso come manifestazione dello spi­ rito, divino e universale, del Creatore. Aristotele invece non vi riconosceva che il cieco effetto delle leggi che governano la materia. Eppure Ficino non vide la gravità di questo dissenso su cui si era imperniata la polemica fra i dottrinari greci venu­ ti a Firenze. Facendo di ogni erba un fascio e prendendo a prestito anche da Confucio e Zoroastro, egli cercava di con­ ciliare l'inconciliabile, paganesimo e cristianesimo, in un'arruffata Theologia Platonica che testimonia solo la gran­ de confusione in cui versavano i cervelli occidentali a quel loro primo schiudersi al pensiero filosofico. Un dissennato entusiasmo per tutto ciò che avevano detto e scritto gli an­ tichi lo spingeva a cercare di giustificarli tutti, anche quan­ do si contraddicevano fra loro. Qualsiasi banalità, purché sostenuta da uno di essi, gli sembrava una rivelazione. E qualunque rivelazione, compresa quella di Cristo, per esse­ re valida e persuasiva, doveva trovar conforto in qualcuno dei loro testi. L'Accademia Platonica diventò con lui la grande palestra di questa nuova ginnastica. E i lettori d'oggi non riusciran­ no mai a immaginare di che febbre contagiò tutta l'intelli­ ghenzia europea che vi accorreva da ogni parte d'Italia, di Francia, di Germania, d'Inghilterra. C'erano tutti: da Pico della Mirandola al Poliziano al giovane Michelangelo. Si riu­ nivano nella stessa sontuosa dimora dei Medici, quella che ora si chiama Palazzo Riccairli. Ognuno prendeva le parti di questo o di quel personaggio dei Dialoghi di Platone, e ne sosteneva le tesi con un impegno che spesso scantonava nel­ l'aggressività e provocava baruffe. Il difficile era far quadra­ re quelle teorie con gl'insegnamenti cristiani, quando di es-

227 si ci si ricordava: il che non sempre avveniva, malgrado la presenza di molti prelati. In tal caso si ricorreva a qualche sofisma o a sottili e contorte allegorie. Ogni poco si rivolge­ va una apostrofe o si scioglieva un inno al busto dell'Im­ mortale che sovrastava, inghirlandato di alloro, da un alto piedistallo. Il 27 novembre, giorno in cui si riteneva che Pla­ tone fosse nato e fosse morto, era celebrato come una festa religiosa. E qualcuno degli accademici avanzò anche il pro­ getto di chiedere al Papa la canonizzazione del Maestro.

Lorenzo, che del Ficino era stato allievo, figurava fra i più assidui partecipanti a questi dibattiti e riti, che facevano di Firenze l'epicentro del pensiero occidentale. Ne aveva il tempo perché ormai aveva sistemato nella maniera più ac­ corta i suoi affari politici. Dopo la dura prova della guerra con Napoli, egli era riuscito a convincerne il Re Ferdinan­ do, Galeazzo Sforza di Milano e papa Innocenzo a formare con lui una Lega per il mantenimento della pace, cui aderi­ rono per forza di gravità gli staterelli minori. Solo Venezia rimase in disparte, ma tenuta in rispetto dalle forze coaliz­ zate degli altri quattro. Per la politica interna, Lorenzo la­ sciava fare ai Settanta che si davano il cambio nelle cariche, e si limitava a una generica supervisione. Il suo vero impegno erano le arti, le lettere e la vita sociale di Firenze, cui detta­ va il costume. E fu questo a valergli il titolo con cui la Storia doveva adottarlo. Di Magnifico, a quei tempi, si dava a ogni Signore. Ma Lorenzo lo fu per eccellenza e antonomasia. Oltre che per la cultura, la città impazziva per i cortei e le mascherate, che facevano del suo carnevale un avveni­ mento nazionale. Lorenzo secondò questi gai passatempi, ma ne perfezionò il gusto e lo stile. Assoldò i più grandi ar­ tisti del tempo per dipingere i carri su cui i giovani sfilava­ no da Ponte Vecchio a Piazza del Duomo in bizzarri ed evo­ cativi costumi e sovrintese di persona alla regia dei Trionfi con cui si concludevano queste parate. Ne compose anche le canzoni, i famosi Canti carnascialeschi, che tanto dovevano

228 mandare in bestia il Savonarola, quando li sentì, come un satanico incentivo alla perversione morale. In realtà il car- nascialismo era una vocazione del popolo e non infuriava soltanto a Firenze. Lorenzo si limitò a elevarne il livello. Egli aveva il genio della grande festa di massa e ne gode­ va. Nella sua complessa personalità c'era posto per tutto. L'uomo che con Ficino dibatteva i problemi filosofici del pla­ tonismo era lo stesso che discuteva di raccolti col fattore, di travature con Leon Battista Alberti e di musica con Squar- cialupi. Tuttavia crediamo che la componente più forte del suo ricco carattere fosse quella popolaresca. Lo dimostra il debole che, fra tutti i suoi amici e protetti, ebbe sempre per Luigi Pulci, l'autore del Margarite Maggiore. Pulci era un Cervantes plebeo che odorava di taverna. La sua satira non si esercitava soltanto sugli eroi delle «can­ zoni di gesta» burlescamente parodiati nel suo famoso poe­ ma. Aveva, da vero fiorentino, un senso vivo del grottesco, lo spirito polemico e mordace, la parola sboccata, la risata gorgogliante e rabelaisiana, la replica tagliente e colorita, i modi rozzi e grossolani. Ma a Lorenzo piaceva appunto per questi umori. «Gigi» era il suo compagno di ribotta. «E l'ani­ mella delle vostre palle» scriveva in tono di rimprovero a Lorenzo il Cappellano di casa, alludendo - sia chiaro - alle palle dello stemma mediceo. II fatto è che, pur favorendo gli studi del latino e del greco, pur finanziando l'Accademia Platonica, il Magnifico avvertiva il pericolo che la cultura fos­ se sopraffatta dall'erudizione e diventasse tutta una rimasti­ catura dei classici, come in realtà avvenne per nostra dan­ nazione. Amava il Pulci perché non seguiva questo andazzo, cui egli stesso si sottrasse nelle sue poesie: fra le pochissime di quel tempo che denunzino un'ispirazione schiettamente popolare e perfino uno squisito sentimento della natura, ra­ ri a trovarsi in una letteratura come quella nostra, rimasta accademica, professorale, aulica e cortigianesca fin quando sopraggiunse il giornalismo a stimolarla e ravvivarla. Fu grazie a Lorenzo che l'italiano mantenne il rango di

229 lingua colta che Dante gli aveva dato e che, se fosse stato per i latineggianti umanisti, avrebbe probabilmente perduto. Anzi, fu proprio alla Corte di Lorenzo ch'esso ricevette quei ritocchi che, secondo il Varchi, ne fecero la più dolce, ricca e raffinata di tutte le lingue non d'Italia, ma - per quei tem­ pi - del mondo intero. Il Magnifico non ne parlava altra, pur leggendo e scrivendo bene quelle antiche, né voleva che al­ tre se ne parlasse alla mensa, dove pure erano ospiti abitua­ li tutt'i grandi eruditi di allora, infatuati di greco e di latino. Fra costoro faceva spicco il Poliziano che di Lorenzo era due volte creditore: per avergli insegnato a poetare e per avergli salvato la vita. Era stato lui infatti che, quando il Ma­ gnifico venne assalito dai Pazzi in Cattedrale, lo aveva sot­ tratto ai loro pugnali e sospinto in sacrestia sbarrandone la porta. Era un perfetto cortigiano nel senso migliore della parola: uomo di mondo colto e raffinato, conversatore in­ cantevole, impenitente parassita cresciuto nella serra di Pa­ lazzo Medici, ma sinceramente affezionato e fedelissimo al suo Signore fino alla morte. Egli incarnava tuttavia la ma­ linconica avventura spirituale della nouvette vague umanisti­ ca. Era passato per un ragazzo prodigio quando, a poco più di vent'anni, aveva composto quelle stupende ottave sulla giostra di Giuliano de' Medici che sembravano designarlo alla successione del Petrarca del Canzoniere. Poi, appunto co­ me il suo maestro, soggiacque alla febbre del classicismo che ormai aveva contagiato tutti, e il poeta deperì in lui via via che fioriva l'erudito. Si mise a comporre in latino poemi de­ rivati da modelli greci, diventò un perfetto professore di metrica e filologia, e non produsse più nulla di originale. Ma fino all'ultimo restò un compiuto gentiluomo e un ami­ co devoto, immune da bassezze, miserie e invidie. Alla sua penna dobbiamo anche il più gradevole e ammi­ rativo ritratto di un altro campione della élite medicea: Pico della Mirandola. Poliziano lo descrive bellissimo, slanciato, di lineamenti delicati, di maniere soavi e illuminato da una luce interiore che aveva qualcosa di divino. Questo aristo-

230 cratico che alla vita di Corte aveva preferito quella di biblio­ teca a Bologna e a Parigi, era considerato il fenomeno del tempo. Lo chiamavano «Fenice degl'ingegni» perché una divorante sete di cultura lo aveva spinto a studiare di tutto in un anelito di universalità. I posteri hanno poi appurato che di tutto, sì, sapeva, ma poco e male. Anche di molte del­ le ventisette lingue che si vantava di conoscere, in realtà non comprendeva che qualche parola. Ma le molte letture e la ferrea memoria gli consentivano di lardellare il suo discorso di citazioni che in quella società di eruditi gli valevano la ge­ nerale ammirazione. Pico aveva scelto Firenze come sua patria di elezione, qui attendeva sotto il patronato di Lorenzo a un tentativo di condensare tutto lo scibile umano, di cui si riteneva (a torto) depositario, in novecento proposizioni. E si era dichiarato pronto a difendere in un torneo oratorio, contro chiunque, quel suo farraginoso «digesto» scientifico-filosofico. Ma nes­ suno aveva raccolto la sfida.

Questi erano i principali protagonisti della vita culturale fio­ rentina, cui Palazzo Medici e l'Accademia Platonica davano il la. In questi due epicentri si accendevano e divampavano, con una violenza di cui oggi stentiamo a renderci ragione, le grandi dispute dottrinarie che poi si ripercuotevano cre­ pitando nei salotti, nelle strade e perfino nelle bettole di quella città che, non avendo più una lotta politica in cui im­ pegnare le proprie esuberanti energie, le smaltiva in orge ideologiche. Cos'è l'anima? Un'idea, come dice Platone; o una forma, come dice Aristotele? E la dannazione come può essere eterna, e quindi infinita, come corrispettivo di qual­ cosa di finito come il peccato? Ecco i problemi che preoccupavano i fiorentini di Loren­ zo. Ma era una preoccupazione soltanto intellettuale, un giuoco dialettico, un fatto mondano, e basta. Vi partecipa­ vano anche le donne, alcune delle quali componevano saggi e poesie in latino o addirittura in greco. Tutto questo non

231 era limitato alle classi alte. Lorenzo - e questo fu il suo gran­ de merito di statista - non lesinò sforzi e mezzi alla divulga­ zione. A differenza e contro i consigli di Poliziano che, da buon intellettuale italiano, voleva fare della cultura un mo­ nopolio di casta, egli aprì immediatamente la borsa a Ber­ nardo Cennini quando istituì a Firenze la prima stamperia; e fece regalare un palazzo a Cristoforo Landino che si era rovinato per pubblicare l'edizione completa delle opere di Orazio, Virgilio, Plinio e Dante, con relativi commenti. Egli aveva a cuore la cultura del popolo e comprese quanto le nuove tecniche di diffusione avrebbero giovato ad alzarne il livello. Fu infatti sotto di lui che si formò quella tradizione del­ l'artigianato colto che ancor oggi a Firenze dura. Mentre i grandi pittori, scultori, architetti lavoravano nei palazzi e nelle chiese ogni più piccolo laboratorio di orafo o di inciso­ re aveva il suo «maestro» in un Finiguerra, o in un Baldini o in un Raimondi che inventavano nuovi metodi di lavorazio­ ne e discutevano con gli allievi quelli degli antichi. Si faceva­ no paragoni tra le varie scuole e i vari stili, si citava da Vi- truvio di cui Lorenzo aveva fatto pubblicare il De architectura e da Leon Battista Alberti, il primo critico d'arte italiano. Alberti era nato a Genova da una famiglia di esuli fioren­ tini. Era bello, alto e vigoroso. Aveva studiato i classici, cita­ va Platone e Virgilio, possedeva vaste cognizioni di matema­ tica, astronomia, musica e geometria, sapeva cavalcare e ti­ rare d'arco. La sua conversazione scintillante, dotta e spre­ giudicata, aveva conquistato i salotti di Firenze dove s'era trasferito, chiamato da Cosimo. Le dame dell'alta società se lo contendevano e facevano a gara nel colmarlo di favori. Leon Battista le ricambiava galantemente, ma con gli amici non perdeva occasione per corbellarle. Amava le donne, ma ai piaceri dell'alcova preferiva quelli dello spirito. Passava le notti chino su Aristotele e Lucrezio, avvolto in una pelliccia, al lume di una candela. Era solito ripetere: «L'uomo sa fare tutto, se vuole», e ne fornì la prova. Investigò ogni ramo

232 dello scibile e fu scrittore assai prolifico. Compilò un tratta­ to sulla pittura, a cui attinsero Piero della Francesca e Leo­ nardo da Vinci, al quale l'Alberti fu paragonato per il suo ingegno enciclopedico e proteiforme. Fu anche un discreto pittore, esigente e pignolo. Quando finiva un quadro, lo mostrava ai bambini, e solo se costoro lo giudicavano bello lo esponeva. Ma fu per la sua attività di architetto che acquistò fama. Patito dell'antichità classica, compì lunghi e minuziosi so­ pralluoghi a Roma per studiare i ruderi, misurare i monu­ menti, copiare i fregi e le decorazioni del Pantheon, del Co­ losseo, del teatro di Marcello. Con prodigiosa rapidità la sua matita traduceva sulla carta l'idea per la facciata di una cattedrale, per gli interni di un palazzo. Fu chiamato a Ri­ mini per riadattare la chiesa di San Francesco, che trasfor­ mò in un superbo tempio paganeggiante. Ma fu soprattut­ to a Firenze che egli operò. La facciata in marmo di Santa Maria Novella porta la sua firma. Su suo progetto fu co­ struita la cappella gentilizia dei Rucellai nella chiesa di San Pancrazio. Molte città italiane gli commissionarono edifici religiosi e civili. A Mantova disegnò la facciata della chiesa di Sant'Andrea, che abbellì di un grande arco trionfale d'i­ spirazione romana. Il Vasari, nelle Vite, lo celebra come uno dei più geniali architetti del tempo, inferiore solo al sommo Brunelleschi. Filippo Brunelleschi fu per il Quattrocento ciò che Mi­ chelangelo fu per il secolo successivo: l'inventore di uno sti­ le architettonico nuovo che ripudiò i tradizionali canoni go­ tici, conservandone tuttavia alcuni moduli e assimilandoli in una concezione moderna e vitale dello spazio. «Si può dire», scrisse il Vasari, «che Filippo Brunelleschi ci fu donato dal cielo per dare una nuova forma all'architettura, da centi­ naia d'anni smarrita.» Era nato a Firenze nel 1377 da una facoltosa famiglia. Il padre faceva il notaio e avrebbe voluto che Filippo seguisse le sue orme. Ma il ragazzo passava giornate intere a dise-

233 gnare e a contemplare le chiese e i palazzi. Poco più che de­ cenne fu assunto come garzone nella bottega di un orefice che gl'insegnò la difficile arte del cesello. In quegli anni co­ nobbe Donatello e imparò anche a scolpire. Ma ciò che più l'appassionava era l'architettura. Insieme con Donatello visitò ripetutamente Roma e frugò nelle sue reliquie con la pazienza di un certosino e l'ardore di un ar­ cheologo. I Romani, vedendo i due artisti girovagare per i fori con l'aria intenta e assorta li scambiavano per geomanti e li chiamavano «quelli del tesoro». Brunelleschi fu colpito dalla mole del Pantheon e dalla maestosa cupola, che gli ser­ vì da modello quando fu chiamato a innalzare quella di San­ ta Maria del Fiore. La copertura del Duomo di Firenze era diventata un au­ tentico rompicapo per gli architetti e gli ingegneri fiorenti­ ni incaricati di progettarla. I committenti la volevano alta, slanciata, grandiosa: doveva sovrastare tutti gli altri edifici cittadini e stagliarsi all'orizzonte a documentare l'afflato re­ ligioso e l'empito spirituale della città. La base doveva pog­ giare sul tamburo ottagonale del tempio, largo quarantasei metri ma privo di contrafforti all'esterno e di travi all'inter­ no. Ma la debolezza delle strutture sconsigliava l'erezione di un'alta cupola, la cui fragilità avrebbe messo in pericolo l'in­ columità della chiesa e quella dei fedeli. Brunelleschi dise­ gnò una copertura dalle linee ricurve a sesto acuto e la mo­ strò agli architetti fiorentini, i quali obiettarono che non sa­ rebbe stata in piedi. Filippo si fece allora portare un uovo, ne appiattì una delle estremità e lo piantò sul tavolo, intor­ no al quale erano seduti i colleghi. Qualcuno eccepì che una cupola non era un uovo, ma la maggior parte diede ragione al Brunelleschi. Per realizzarla l'artista impiegò quattordici anni, dal 1420 al 1434. La costruzione si rivelò più difficile del previ­ sto, a causa anche dell'alto costo dei materiali e delle gelosie dei rivali. Quando la cupola, che si ergeva quarantaquattro metri sopra i muri di sostegno, fu finita, tutti i fiorentini cor-

234 sero ad ammirarla, e anche molti forestieri vennero in città per vederla. Ad essa s'ispirerà Michelangelo per la copertu­ ra di San Pietro «più grande», com'egli scrisse, «ma non più bella di quella del Duomo». La cupola di Santa Maria del Fiore fu il capolavoro del Brunelleschi, che tuttavia legò il proprio nome anche a in­ numerevoli altre imprese architettoniche. I Pazzi, gli irridu­ cibili antagonisti dei Medici, gli affidarono la costruzione della cappella di famiglia nel chiostro di Santa Croce. Filip­ po immaginò un portico, slanciato al centro da un arco, scandito all'esterno da colonne, articolato all'interno da le­ sene e sormontato da una specie di tettoia con una cupolet- ta sovrastante. Nello stesso stile classico disegnò la chiesa di Santo Spirito a croce latina e a tre navate. Fu questa l'ultima fatica del Brunelleschi che morì prima che l'edificio fosse compiuto. La sua salma fu esposta sotto la cupola del Duo­ mo e Firenze gli tributò esequie solenni, alle quali parteci­ parono tutti gli artisti fiorentini, tra cui Donatello. Donatello era il diminutivo di Donato di Niccolò di Betto Bardi. Era nato anche lui a Firenze, cinque anni dopo Filip­ po. Poco sappiamo della sua famiglia e della sua infanzia. Lo troviamo giovinetto nella bottega del Ghiberti, il decora­ tore delle porte del Battistero, ma il suo tirocinio durò poco perché, appresi i primi rudimenti della scultura, abbando­ nò il maestro e si mise a lavorare in proprio. A ventidue an­ ni, il suo scalpello era conteso dalle fabbriche e dai mecena­ ti fiorentini. I capi delle corporazioni maggiori lo invitaro­ no a decorare la chiesa di Orsanmichele, l'inestimabile reli­ quiario della scultura fiorentina del Quattrocento. L'artista vi eseguì due poderose statue di Apostoli. Quando Miche­ langelo vide quella di San Marco esclamò: «Sarebbe stato impossibile rifiutare di credere al Vangelo predicato da un simile uomo». A ventitré anni il Capitolo del Duomo gli ordinò una sta­ tua di David, che diventerà un tema ricorrente e il soggetto prediletto di Donatello. Ne eseguì parecchi altri, e in uno,

235 quello conservato al museo del Bargello, raggiunse un gra­ do ineguagliato di perfezione. Il vincitore del gigante Golia cinge con la destra una lunga spada e ha ai piedi un elmo greco. Il braccio è puntato ad angolo sul fianco e il ginoc­ chio sinistro, leggermente piegato, fa gravare su quello de­ stro tutto il peso del corpo, nudo, liscio, flessuoso, modella­ to dal chiaroscuro, e in cui si sente l'influenza della statuaria greca di Fidia e Prassitele. Scolpì per il Battistero e per il Campanile di Giotto, visi­ tò Roma, Siena e Venezia, e nel 1444 si trasferì a Padova do­ ve attese al primo monumento equestre del Rinascimento. Erasmo Gattamelata s'ispira al Marc'Aurelio a cavallo in Campidoglio, ma è più mosso e drammatico. Il condottiero veneto è ritratto in tutta la sua possanza, i lineamenti del volto sono marcati e vigorosi, l'espressione virile, il braccio è atteggiato a un gesto di comando. Il monumento, che si erge in piazza del Santo, fu compiuto in sei anni e costò ai committenti 1650 ducati d'oro. Donatello tornò a Firenze dopo dodici anni chiamato da Cosimo, che lo alluvione di ordinazioni per le chiese di San Lorenzo e di Santa Croce. Artista e mecenate diventarono amici inseparabili e trascorsero insieme intere giornate a discutere di scultura, di poesia, di filosofia. Cosimo passava allo scultore un lauto stipendio che Donatello depositava in un cesto appeso al soffitto della bottega, a cui tutti potevano liberamente attingere. Sotto la protezione di casa Medici visse felice fino a ottant'anni, e quando morì fu tumulato con molti onori nella cripta di San Lorenzo. Fu il più grande plastico del Quattrocento. Aprì nuovi orizzonti alla scultura, specialmente a quella del ritratto, ri­ scoprì il nudo che l'arte medievale, d'ispirazione religiosa e d'intonazione edificante, aveva ripudiato, e fu il capostipite di quell'indirizzo realistico che in pittura ebbe nel Masaccio il suo più compiuto interprete. Masaccio si chiamava in realtà Tommaso Guidi ed era na­ to a San Giovanni Valdarno nel 1401. Gli avevano storpiato

236 il nome per la sua sciatteria e sbadataggine. Cominciò a di­ pingere in tenera età, fu allievo di Masolino da Panicale che gl'insegnò le regole della prospettiva, in cui eccelse, e fre­ quentò anche la bottega del Ghiberti, dove studiò anatomia. Di lui possediamo poche opere, poiché morì a soli venti­ sette anni. Il suo capolavoro è il ciclo d'affreschi ispirati alla vita di San Pietro che decora la Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine. Nel «Tributo a Cesare» sono stupenda­ mente compendiate le qualità pittoriche del Masaccio: la nobiltà del disegno, la maestosità delle figure, l'unità della composizione, la misura prospettica e l'intensità psicologica. Il Vasari definì moderno lo stile di questo artista geniale e solitario, che spianò la via a tutta la pittura toscana successi­ va. La Cappella Brancacci diventò meta e scuola dei mag­ giori pittori del tempo: dal Beato Angelico al Lippi e al Bot- ticelli. Guido di Pietro da Vicchio di Mugello, ribattezzato Bea­ to Angelico per la sua pietà e mansuetudine, entrò a ven­ t'anni nell'ordine domenicano. Dopo un periodo di novizia­ to in vari conventi della Toscana, fu assegnato a quello di San Marco, dove trascorse gran parte della vita a pregare e a dipingere. Affrescò il refettorio, i chiostri, il dormitorio, le celle del convento con scene tratte dai Vangeli e dalle Vite dei Santi. Prima di impugnare il pennello, faceva la comunione e recitava le orazioni, e non accettava commissioni senza l'au­ torizzazione del Priore. I suoi dipinti sono intrisi di un idea­ lismo soave e mistico, le figure, specialmente quelle femmi­ nili, sprigionano dolcezza e umiltà, le carni sono bianche e morbide, i profili delicati, le mani lunghe e affusolate, gli occhi languidi, i gesti composti e devoti, le vesti orlate da una fettuccia dorata e doviziosamente ricamate. Niccolò V lo chiamò a Roma per affidargli la decorazio­ ne della sua cappella privata, ma la vita di curia, fastosa, fe­ stosa e depravata, non era fatta per il mite e furtivo monaco che, dopo un anno, tornò a Firenze. Morì nel 1455 a sessan-

237 tott'anni, e l'umanista Valla coniò per lui questo epitaffio: «Non sia mia lode perché fui un secondo Apelle, ma perché diedi i miei guadagni ai tuoi fedeli, o Cristo». Lo stile mistico ed edificante dell'Angelico acquista un sapore sommessamente mondano in Filippo Lippi. Era fi­ glio di un macellaio fiorentino, ma a due anni rimase orfa­ no e fu allevato da una zia che a otto lo chiuse in convento dove, sotto la guida dei suoi superiori, studiò disegno e pit­ tura. Le sue prime opere sono andate perdute, ma il Vasari dice che eguagliavano per bellezza e perfezione quelle del Masaccio della Cappella Brancacci. A ventisei anni lasciò il convento, ma conservò la tonaca, che tuttavia non bastò a salvarlo dalle tentazioni. Era un gagliardo peccatore sem­ pre pronto ad abbandonare colori e pennello per correr dietro a una sottana. Un giorno Cosimo de' Medici gli com­ missionò un dipinto, ma vedendo che l'artista, distratto dal­ le donne, non si decideva a porvi mano, lo chiuse a chiave nello studio. La notte successiva il Lippi, in preda a un ac­ cesso erotico, fuggì calandosi con le lenzuola dalla finestra per riparare in un bordello. I suoi principali committenti erano i conventi, e predili­ geva quelli femminili. Nel monastero di Santa Margherita a Prato conobbe una suora, Lucrezia Buti, la sedusse e la ra­ pì. Lucrezia diventò la sua modella, e le sue fattezze sono ri­ prodotte in molte delle stupende Madonne del Lippi, fra le più soavi e delicate del Rinascimento. Nel 1461 Pio II, su ri­ chiesta di Cosimo, sciolse il monaco dai voti. Filippo, che non aveva perduto la foga giovanile, ripudiò Lucrezia, che con l'età era diventata grassa e piena di acciacchi, e s'inva­ ghì di una «lolita». La sedusse, e per vendetta i genitori del­ la fanciulla lo avvelenarono. Lasciò molte opere, dissemina­ te in chiese, conventi, edifici pubblici e privati, e un allievo, che diventò più famoso del maestro. Sandro Filipepi era nato a Firenze da una modesta fami­ glia. Poiché aveva poca voglia di studiare, il padre l'aveva messo come apprendista nella bottega dell'orafo Botticelli.

238 Il piccolo Sandro imparò così bene l'arte del cesello che gli affibbiarono il nome del padrone, col quale è passato alla storia. Filippino Lippi, che lo conobbe, lo descrive scorbuti­ co e sensuale, dai lineamenti sgraziati e irregolari, elegante e con una lunga chioma inanellata. A vent'anni aprì uno studio di cui i Medici diventarono i più assidui clienti. Per Lorenzo e Giuliano, di cui fu amico e compagno di ribotta, dipinse innumerevoli quadri di sog­ getto mitologico e d'ispirazione paganeggiante. Nella «Pri­ mavera», la sua opera più famosa, celebrò mirabilmente il sogno rinascimentale della bellezza e della gioia di vivere che Lorenzo aveva cantato nell'inno a Bacco. Ma la grazia epicurea di questi dipinti scompare nelle opere successive in seguito - pare - a un trauma spirituale. Intorno al 1485 l'artista, ascoltando una predica del Sa­ vonarola, fu talmente colpito dall'oratoria apocalittica del frate di San Marco che decise di mettere la sua arte al servi­ zio della religione. Illustrò in 88 disegni la Divina Commedia, e dipinse Madonne, Santi, Apostoli. Purtroppo - come dice Gide - le buone intenzioni non bastano a fare le buone ope­ re d'arte. Il suo pennello diventò agiografico e declamato­ rio, il vigore e lo smalto di un tempo s'appannarono e il ta­ lento perse ciò che la fede aveva guadagnato. La morte del Savonarola amareggiò la vecchiaia dell'artista, che a sessan­ tasei anni calò nella tomba, solo e dimenticato da tutti. Fu l'ultimo grande pittore del Quattrocento. Con lui l'arte fio­ rentina del XV secolo toccò il suo apogeo. Ma è giunto il momento di riprendere il nostro giro d'I­ talia e di far tappa in una delle città più vive, colte e festose del tempo: Ferrara, dove regnavano i Signori d'Este.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

GLI ESTE A FERRARA

Este era una piccola contea data in feudo verso la fine del 900 dall'imperatore Ottone I a un conte Azzo di Canossa, antenato della famosa Matilde di Toscana. Gli eredi seppe­ ro barcamenarsi con abilità fra Papato e Impero, che da se­ coli si contendevano una teorica sovranità su quelle terre al centro del triangolo Bologna-Milano-Venezia. E infatti fu in nome dell'uno e dell'altro, cioè giocando l'uno contro l'altro, che gli Estensi fin dai primi del Duecento diventa­ rono Signori di Ferrara, e poi la governarono col titolo di Marchesi. Ferrara era allora poco più di un borgo. Ma la geografia la favoriva, e gli Estensi seppero sfruttare con molta accor­ tezza questo privilegio. Come tutti i Signori del loro tempo, non erano afflitti da molti scrupoli e non si sentivano vinco­ lati dalle leggi ch'essi stessi promulgavano. Il ricorso alla coppa avvelenata o al pugnale del sicario per sopprimere gli oppositori interni o liberarsi da fastidiosi vicini annetten­ dosene le terre, rientrava nelle abitudini di famiglia. Ma non vi diventò mai un vizio o un passatempo. Gli Estensi uccidevano con moderazione, e quasi sempre per ragion di Stato, anche se poi questa non era che la ragione estense. Più che assetati di sangue, erano avidi di soldi. Ma non per cucirli dentro il materasso. Al contrario, li spendevano generosamente, anche se in opere più di pubblica voluttà che di pubblica utilità. Il popolo, per quanto tassato e tar­ tassato, non sembrava affatto scontento di quegli sciali, che almeno appagavano l'occhio e lusingavano l'orgoglio muni­ cipale. Tant'è vero che quando il papa Clemente V, ai primi

241 del Trecento, volle cacciare da Ferrara quegl'indocili vassal­ li, la città gli si ribellò, e il suo successore dovette revocare la «purga». Gli Estensi tornarono in trionfo impegnandosi so­ lo a pagare un tributo in denaro alla Chiesa. E la dinastia spiccò il volo verso nuovi e più luminosi destini rampollan­ do fra l'altro dal suo tronco due tra le famiglie reali di più lunga durata e di più alto prestigio europeo: i Brunswick e gli Hannover. Il Signore che meglio incarnò i caratteri della casata fu Niccolò III, che governò per quasi cinquant'anni, dal 1393 al 1441, guerreggiando, spendendo e sposando con identi­ ca generosità. I suoi sudditi dicevano che, sul piano demo­ grafico, le sue guerre erano costate molto meno di quanto avessero reso le sue attività galanti. Forse fu grazie a lui che Ferrara conquistò il primato nazionale dei figli bastardi che ha mantenuto fino ai nostri giorni. Questo impenitente donnaiolo trovò tuttavia, proprio nell'alcova, il suo castigo quando, rimasto vedovo per la ter­ za volta, impalmò la bella Parisina Malatesta, di quasi ven­ t'anni più giovane di lui. Essa s'innamorò perdutamente del figliastro Ugo, suo coetaneo. E Niccolò, da buon marito ita­ liano, reagì all'adulterio con un furore pari alla disinvoltura con cui egli stesso lo aveva sempre praticato. Non soltanto fece decapitare i due amanti, ma promulgò una legge che condannava a morte tutte le spose riconosciute infedeli. Un brivido di terrore corse la città, che temette di ridursi a un androceo. In realtà, l'assurda legge fu applicata una sola volta ai danni della moglie di un giudice che non riuscì a convincere della propria innocenza il Signore per il sempli­ ce motivo ch'era la sua amante. Poi venne revocata con gran sollievo dei mariti ferraresi che, come tutti i mariti, preferi­ vano le corna alla vedovanza. A parte questo drammatico e sanguinoso intermezzo co­ niugale, Niccolò fu un principe magnanimo, brillante e gau­ dente. Facendo eccezione alla regola dei padri, ridusse le tasse invece di aumentarle; e questa misura diede l'aìre a

242 una fioritura di commerci e d'industrie che fecero di Ferra­ ra una pericolosa concorrente di Venezia e di Milano. Nic­ colò non era colto: le guerre e le donne non gli avevano la­ sciato il tempo per diventarlo. Ma aveva il rispetto della cul­ tura, o almeno ne avvertiva l'importanza e l'utilità. Ferrara aveva già avuto un'Università, che poi era stata chiusa per mancanza di fondi. Niccolò la riaprì, ne ricoprì le cattedre con maestri di gran prestigio in tutte le discipline e ne fece uno dei più importanti atenei italiani. Fra le sue tante fortune ebbe anche quella di tre figlioli uno meglio dell'altro, sebbene illegittimi, o forse appunto per questo. Leonello, che per primo gli successe, fu una ra­ ra combinazione d'intelligenza speculativa e di pratica sag­ gezza, cioè la perfetta incarnazione dell'uomo del Rinasci­ mento. Come statista e diplomatico, non ebbe di mira che la pace, e riuscì ad assicurarla non soltanto al suo Marchesato. Nell'endemica lotta che imperversava in Italia fra le varie Signorie, egli svolse con grande discrezione una funzione di arbitro, un po' come più tardi avrebbe fatto Lorenzo de' Medici. Ma al prestigio che gliene derivò, contribuirono an­ che l'ammirazione che per lui avevano gli uomini di cultu­ ra, cioè gli «umanisti», dei quali era considerato l'alto patro­ no. Uno dei più celebri fra loro, il Filelfo, dichiarò di essere rimasto soggiogato dalla disinvoltura con cui il Marchese maneggiava il latino e il greco. E a quanto pare fu Leonello a denunziare per primo, come apocrifa, una certa raccolta di lettere di Seneca a San Paolo che a quei tempi tutti rite­ nevano autentica. A governare gli bastarono le leggi, senza bisogno di ricorso né alla coppa né al pugnale. Sicché quan­ do nel '50 morì, che aveva appena quarant'anni, tutta l'Ita­ lia lo pianse come il più illuminato Signore di quel periodo. Il fratello Borso, che ne prese il posto, era forse meno completo di lui, e certamente meno amabile. Di greco e di latino sapeva poco, forse punto. I suoi interessi erano sol­ tanto politici, e il suo carattere risentito e autoritario. Però anche lui perseguì, con successo, una politica di pace e se-

243 guitò a proteggere gli uomini di cultura che Leonello aveva chiamato a Ferrara. Era abbastanza accorto per capire che c'era bisogno anche di quegli strumenti per appagare l'am­ bizione, che lo rodeva, di un rango più alto. E, non riuscen­ do a ottenere dal Papa la promozione a Duca di Ferrara, comprò dall'Imperatore quella a Duca di Modena e Reggio, che il padre Niccolò si era annesse. La manovra fu costosa, lunga e complicata. Ma finalmen­ te, nel 1452, andò in porto. E il nuovo Duca ne celebrò il successo con feste proporzionate ai sacrifìci che gli era co­ stato. Per mesi la città fu tenuta in stato di giubilante mobili­ tazione. Tutta la nobiltà italiana vi accorse con le sue divise sgargianti e i suoi rutilanti seguiti. L'eco di quelle celebra­ zioni fu tale in tutto il mondo che quando, di lì a qualche anno, Borso fu riconosciuto Duca anche di Ferrara, molti sovrani stranieri gli mandarono ambascerie e doni intestati al «Re d'Italia». Quando, nel 1471, Borso calò nella tomba, gli successe il fratello Ercole. Munifico e magnifico, spese somme favolose per perpetuare la tradizione gaudente e festaiola degli Estensi. Colto, brillante e raffinato, non lesinò sovvenzioni ad artisti e letterati, ai quali amava mescolarsi. Fu prodigo anche col clero, finanziò la costruzione di chiese e conventi e protesse i monaci. Sposò per procura la figlia del re di Na­ poli, Eleonora, e ne festeggiò l'arrivo a Ferrara con fuochi d'artificio e balli pubblici. Ma quando il suocero, istigato dal Papa, dichiarò guerra a Firenze, che aveva condannato a morte gli attentatori di Lorenzo e Giuliano, non esitò a schierarsi dalla parte dei Medici. Nel 1482, il Pontefice, al­ leatosi con Venezia, si vendicò assediando Ferrara. Ercole, immobilizzato a letto da un attacco di gotta, non potè nem­ meno accorrere a difesa della città, che oppose al nemico una resistenza disperata e riuscì a salvarsi. Poiché la guerra aveva dissestato le finanze del Ducato, aumentò le tasse e inasprì le multe ai bestemmiatori e ai profanatori di luoghi sacri, grazie ai quali ogni anno afflui-

244 vano nelle casse dello Stato seimila corone. Aveva bisogno di denaro anche perché negli ultimi tempi la popolazione di Ferrara era cresciuta a un ritmo vertiginoso e la città ave­ va fame d'alloggi. Il boom demografico minacciava di para­ lizzarla. Ercole fece tracciare un nuovo piano regolatore, al­ largò la cinta muraria, creò nuovi quartieri, sventrò quelli vecchi, ampliò le strade e di alcune rettificò il corso. Ferrara diventò, in pochi anni, una delle città più moderne, funzio­ nali e razionali d'Europa. La nuova urbanistica non mutò le abitudini dei suoi abi­ tanti. Il popolo continuava a darsi convegno nella piazza del Duomo, i nobili nel castello fatto costruire da Niccolò. I suoi dedali sotterranei erano adibiti a galere mentre i piani su­ periori ospitavano sontuosi saloni dalle volte decorate a stucchi, dalle pareti affrescate e dai pavimenti foderati di soffici tappeti. Qui si svolgeva la vita di Corte in un vortice di feste, ban­ chetti, balli mascherati, concerti. I generali si mescolavano ai nani, gli ufficiali di Stato ai buffoni, gli artisti ai cantasto­ rie. Le dame, nelle loro stanze, ricevevano i cavalieri e si fa­ cevano declamare le chansons de geste. Eleonora teneva salot­ to e intorno a lei ruotava la café society di Ferrara. llintellighenzia si raccoglieva nelle aule dell'Università e nello studio del Guarino. Veronese di nascita ma ferrarese d'adozione, fu uno degli uomini più colti del suo tempo. Era nato nel 1370, aveva studiato il greco a Costantinopoli, dove aveva passato cinque anni, ed era tornato in Italia con alcune casse di manoscritti greci. Si racconta che, avendone perduta una durante la traversata, per il dolore i capelli gli diventarono bianchi. Prima di trasferirsi a Ferrara aveva in­ segnato a Venezia, a Verona, a Padova, a Bologna e a Firen­ ze. Niccolò gli affidò l'istruzione dei figli e lo nominò pro­ fessore di retorica e di greco all'Università. Richiamati dalla sua fama vi accorrevano studenti da tut­ te le parti d'Italia e anche dall'estero. Le sue lezioni erano sempre affollate e per assistervi si doveva fare la coda. Ri-

245 spolverò il teatro classico, tradusse le commedie di Plauto e di Terenzio e le fece rappresentare, curandone personal­ mente l'esecuzione. Viveva modestamente in una casa semplice e disadorna e quel che guadagnava lo spendeva per aiutare gli studenti più bisognosi coi quali divideva il tetto e la mensa. La sua doveva essere molto frugale se - come riferisce un croni­ sta - non prevedeva che un pasto al giorno, spesso a base solo di fave. Come facesse a mantenere anche una moglie e tredici figli non sappiamo. Abbandonò la cattedra nel 1460 quando, novantenne, calò nella tomba. Grazie a lui, Ferrara diventò una delle capitali intellet­ tuali del Rinascimento, centro di richiamo di letterati e arti­ sti: dal Boiardo al Tura, dal Cossa al de' Roberti. Matteo Maria Boiardo, conte di Scandiano, ambasciatore degli Estensi, apparteneva a una delle famiglie più potenti del Ducato. Possedeva una vasta cultura umanistica e tra una missione e l'altra indirizzava madrigali alle dame di cor­ te. Aveva un debole per il gentil sesso e le donne spasimava­ no per lui. Quando sposò Taddea Gonzaga cessò di com­ porre madrigali e scrisse un poema epico. MOrlando innamorato, compiuto nel 1486, narra la storia dell'amore tormentato e contrastato di Orlando per Angeli­ ca. Sono sessantamila versi infarciti di duelli, tornei, scene di guerra e di morte. La vicenda dei protagonisti s'intreccia con quelle di eroi fantastici e di donne bellissime. Mano a mano che finiva un canto, l'autore lo declamava al cospetto della Corte. Il poema infatti va sorbito a piccole dosi. Esso servirà da modello a Ludovico Ariosto, che ne trarrà ispira­ zione per il suo Orlando furioso. Cosmé Tura fu pittore di Corte dal 1458 al 1495. Ritras­ se intere generazioni di Estensi e decorò lo splendido palaz­ zo Schifanoia, residenza estiva dei duchi. Le sue figure au­ stere, contegnose e massicce destarono l'ammirazione del padre di Raffaello, pittore alla Corte dei Montefeltro, che annoverò il Tura fra i migliori artisti del tempo. Fra i suoi

246 allievi, il più geniale fu Francesco Cossa, di cui conserviamo due bellissimi affreschi in una delle sale di palazzo Schifa- noia: il «Trionfo di Venere» e «Le corse». A questi maestri faceva da contorno una folla di «minori» - arazzieri, miniaturisti, orefici - che lasciarono l'impronta della loro arte nelle chiese e nei palazzi di una città che sem­ brava costruita apposta per fare da cornice e da palcosceni­ co a una festa che raggiungeva l'acme di carnevale, ma che nemmeno la quaresima interrompeva, perché perfino le funzioni religiose e i sermoni del pergamo serbavano alcun­ ché di terrestre e di teatrale. Ritroveremo un pizzico di quest'atmosfera gaudente e aristocratica anche se tinta di colori più foschi in un'altra città italiana: Napoli. CAPITOLO VENTITREESIMO

IL REGNO DI NAPOLI

Quando nel 1343 Roberto d'Angiò calò nella tomba la nipo­ te Giovanna ne raccolse la successione e per quarant'anni governò, o per meglio dire sgovernò, il Regno di Napoli. Sedicenne, lo zio l'aveva data in sposa ad Andrea d'Unghe­ ria, un principe grossolano, volgare e strabico. Giovanna, bellissima e sensuale, lo detestava sebbene si fossero cono­ sciuti da bambini e avessero giocato insieme a Corte. Si rac­ contava che la notte si chiudeva in camera da letto per non farlo entrare. Doveva essere un uomo veramente ripugnan­ te se la moglie gli negava quei favori che non rifiutava a nes­ suno. Paggi, scudieri, maggiordomi, dignitari, ministri, ge­ nerali s'avvicendavano nella sua alcova, sotto la quale aveva fatto scavare una botola dove si diceva che precipitasse gli amanti indiscreti, dopo averli avvelenati. Come facesse, con queste abitudini, a trovarne sempre di nuovi, non si sa. Più che di amanti, doveva trattarsi di kamikaze. Andrea chiudeva un occhio e se la rifaceva sulle camerie­ re della moglie che ne prese pretesto per farlo strangolare, ma non certo per gelosia. Il delitto aveva ben altro moven­ te: Giovanna era incinta e voleva sposare il suo nuovo amante Luigi, principe di Taranto. Il popolo ne fu indigna­ to e chiese la punizione degli assassini, ben sapendo che la • maggiore responsabile del delitto era lei. Giovanna temen­ do di perdere il trono fece arrestare la propria cameriera Filippa la Catanese e il notaio da Melizzano, che essa aveva coinvolto nel complotto, e li condannò a essere squartati vi­ vi. Poco dopo scodellò un maschietto, che il Papa tenne a battesimo.

248 Il Re d'Ungheria, Luigi, informato dell'uccisione del fra­ tello, marciò su Napoli per vendicarlo. Entrò in città, di do­ ve Giovanna era fuggita, alla testa di un numeroso esercito assetato di vendetta e di rapina. Dio sa quanto sarebbe du­ rato il saccheggio se non fosse sopravvenuta un'epidemia di peste che costrinse Luigi a una precipitosa ritirata. Giovanna riprese allora la via di Napoli dove si presentò al fianco del principe di Taranto, sposato contro il parere della Corte e senza il consenso del Papa. Dopo pochi anni anche Luigi morì, stroncato dagli appetiti sessuali della mo­ glie. Questa si consolò impalmando il principe di Maiorca, un play-boy bello, aitante, simpatico e squattrinato. La sua gagliardia e virilità sembravano a prova di bomba. Ma dopo sette anni di Giovanna, anche lui restò vittima del male che aveva portato alla tomba il suo predecessore. L'insaziabile Regina lo rimpiazzò con Ottone di Brun­ swick che per non fare la stessa fine contenne le sue effusio­ ni al punto che Giovanna, sebbene avesse varcato da un pezzo le soglie della menopausa, si sentì autorizzata a pren­ dersi un amante ufficiale, di cui poco dopo si sbarazzò per sostituirlo con uno più giovane. I napoletani davano segni di malcontento. Non avevano mai amato la loro sovrana, non già per la sua dissolutezza sulla quale erano anche allora abbastanza corrivi, ma per la sua ferocia così antitetica al loro bonario carattere. Sicché quando nel 1382 Carlo di Durazzo con un colpo di stato la depose e la fece strangolare, esultarono. Nel 1386 anche Carlo calò nella tomba e il trono passò al figlio Ladislao che doveva restarvi assiso per ben ventotto anni. Gli successe la sorella Giovanna che dall'omonima zia aveva ereditato l'insaziabile lussuria. Dopo l'incoronazione, sposò Giovanni della Marca che per impedirle di governare la relegò in un'ala del palazzo e per anni ve la tenne prigio­ niera. La liberò solo quando il popolino, intenerito dall'infe­ lice sorte della Regina, lo costrinse a restituirla al suo rango. Giovanna ne approfittò per farsi amante Sergianni Ca-

249 racciolo, un giovane atletico e ambizioso, ma timido. Ogni volta infatti che vedeva la Regina arrossiva e scantonava. Giovanna allora gli tese un tranello. Sapendo che Sergianni aveva paura dei topi, lo invitò a giocare a scacchi nel suo ap­ partamento e durante la partita ne fece sguinzagliare una coppia. Il Caracciolo, in preda al panico, cercò riparo nella camera da letto della sovrana e si ficcò sotto le coperte dove, un attimo dopo, fu raggiunto dalla spasimante. Da quel mo­ mento egli diventò il più intimo consigliere di Giovanna che non prendeva alcuna decisione senza il suo consenso. Fu lui che le fece adottare e nominare legittimo erede Alfonso d'A- ragona, re di Sicilia, in modo da ricostituire il vecchio Re­ gno, e poi la indusse ad annullare la designazione in favore di Renato d'Angiò. La sua invadenza però aveva finito per allarmare la Corte e la stessa Giovanna che, una volta supe­ rata la cotta, decise di liberarsi di lui. Nell'agosto del 1432, durante una grande festa in onore della sovrana, Sergianni fu pugnalato a tradimento e poi abbandonato in una pozza di sangue ai piedi del letto. Tre anni dopo morì Giovanna e la corona passò sul capo di Renato. Ci restò poco perché Al­ fonso, dopo averlo cacciato da Napoli, gliela strappò, riuni­ ficando in tal modo l'Italia del Sud, peninsulare e insulare. Con lui cominciò, alla fine del 1442, la dominazione ara­ gonese destinata a durare fino al 1501. Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli scris­ se: «Ad Alfonso d'Aragona, Napoli non portò l'affetto che aveva sempre nutrito per i suoi re d'Angiò e anche per l'ul­ tima regina, che quasi filialmente proteggeva. Alfonso rima­ neva straniero e serbava modi da straniero e conquistatore, e faceva sentire la propria potenza di sovrano che era di va­ sti domini, in grado di tenere il Regno con la forza sover­ chiarne, e Io si vedeva attorniato da una folla di catalani, aragonesi e castigliani, ai quali conferiva gli uffici che gli an­ tichi re davano ai regnicoli; e quella gente, per le sue "su­ perbie, mali modi et tirannie grandissime" era odiata e face­ va odiare il re».

250 Eppure fu un sovrano splendido, avveduto e illuminato che fece di Napoli una capitale fastosa ed efficiente. Demolì i quartieri vecchi e fatiscenti e chiamò a erigerne di nuovi i più famosi architetti del tempo, affidandone la decorazione agli scultori e ai pittori più in voga. Ricostruì il Maschio An­ gioino innalzando nel centro un grandioso arco trionfale disegnato da Luciano Laurana. Ampliò il molo, restaurò l'arsenale, allargò le strade, scavò nuove fogne, bonificò i bassi. Abbellì la Corte arredandola sontuosamente con araz­ zi, quadri, tappeti e damaschi. Aveva un debole per le feste e ne diede di favolose profondendovi somme immense. Amava la cultura e protesse letterati, poeti, filosofi, artisti: il Filelfo, il Manetti, il Fazio e il più celebre di tutti, Lorenzo Valla. Valla era nato a Roma nel 1407 e aveva studiato alla scuo­ la di Leonardo Bruni che l'aveva avviato allo studio dei clas­ sici. Da buon umanista, era infatuato del latino al punto di propugnare l'abolizione della lingua italiana e il ritorno a quella di Cesare e Quintiliano. Aveva insegnato per un cer­ to tempo retorica a Pavia, ma in seguito a una disputa col giurista Bartolo dovette abbandonare la cattedra. Si mise a scrivere opuscoli polemici e dotti trattati, e nel 1431 pubbli­ cò un dialogo intitolato De voluptate et vero borio per dimostra­ re che tutti i piaceri sono sani finché non diventano abusi. L'autore vi condanna la castità giudicandola inutile e disu­ mana. Cento monache - dice - non valgono una cortigiana, la continenza fa male alla salute e non giova alla società. Lorenzo razzolò come predicò, si circondò di amanti, amò il lusso e la crapula. Violento e attaccabrighe ebbe mol­ ti nemici, fu spesso disoccupato e vagò per l'Italia in cerca di lavoro. Lo trovò alla Corte di Alfonso che l'accolse con molti onori e gli diede un lauto stipendio. A Napoli scrisse il De falso eredita et ementita Constantini donatione, la sua opera più famosa, in cui dimostra in modo inoppugnabile la falsi­ tà della donazione di Costantino, da lui definita una colos­ sale mistificazione della Chiesa per legittimare e giustificare

251 il suo potere temporale. Se anche - commenta il Valla - Co­ stantino avesse dato alla Chiesa questo potere, i delitti, l'avi­ dità e la corruzione dei preti lo avrebbero invalidato. Era un anticlericale feroce. «Io», diceva, «non attacco solo i morti, ma anche i vivi». Si scagliò con inaudita vio­ lenza contro i Papi additandoli come la fonte di tutti i guai da cui era afflitta l'Italia e invitò i Romani a prendere le armi contro il governo pontificio e ad abbatterlo. Eugenio IV lo denunziò all'Inquisizione. Prove alla mano, il Valla dimostrò che la lettera di Abgaro a Cristo era una volgare truffa e che gli Apostoli erano dei poveri diavoli, semianal­ fabeti e completamente digiuni di teologia. L'umanista non era uomo da far mistero delle proprie idee ma certa­ mente non le avrebbe messe per iscritto se Alfonso non ve 10 avesse istigato. Il Re odiava il Papa e ne era ricambiato; ma da buon po­ litico, quando ebbe bisogno di lui, non esitò a riconciliarsi. 11 Valla, fiutando il mutare del vento, si rimangiò tutto quel­ lo che aveva detto e scritto contro la Chiesa e in una lettera impetrò il perdono del Pontefice. Eugenio glielo negò, ma il successore Niccolò V lo nominò segretario della Curia e gli affidò traduzioni dal latino e dal greco. Calisto III lo fece canonico di San Giovanni in Laterano, dove l'ex-mangia- preti morì circondato dai preti e prete egli stesso, nel 1457. Alfonso lo seguì nella tomba l'anno dopo, pianto dai let­ terati e artisti che per il suo mecenatismo l'avevano sopran­ nominato «Il Magnanimo». Nonostante le roventi dispute con la Chiesa, fu a suo modo un buon cattolico, specialmen­ te negli ultimi anni, dopo la pace col Papa. Studioso di sto­ ria sacra, lesse quaranta volte la Bibbia, che teneva sul co­ modino e di cui sapeva a memoria lunghi brani. Un'altra sua passione furono le donne, con l'unica eccezione della moglie Maria di Castiglia. Ne ebbe moltissime, ma una in particolare ne amò: Lucrezia d'Alagno, una bella e formosa amalfitana di diciotto anni. Alfonso ne aveva molti di più e l'avrebbe sposata se il Pontefice gli avesse concesso il divor-

252 zio da Maria. La istallò a Corte, la trattava da Regina e nelle cerimonie ufficiali se la teneva al fianco. Il Capaccio la defi­ nì «la castissima Venere» e il papa Piccolomini scrisse che «Alfonso non si congiunse mai seco lei». Ma questo ci sem­ bra poco credibile, dato il temperamento dell'uomo e la ni­ diata di figli illegittimi che aveva messo al mondo. Fra di es­ si pescò anche il proprio successore: Don Ferrante. Lo aveva avuto da Margarita di Hijar, una donna di faci­ li costumi. Secondo il Pontano, che fu per lunghi anni se­ gretario del Re, Ferrante era figlio non di Alfonso, ma di un marrano spagnolo, cioè di un ebreo convertito al cristiane­ simo. Fisicamente non poteva dirsi un bell'uomo. Era goffo e tarchiato, aveva un volto largo e flaccido, occhi piccoli e pungenti, naso lungo e bitorzoluto, gote cascanti. Era diffi­ dente, taciturno, autoritario, ma non sprovvisto di qualità politiche. Fu un amministratore oculato e sagace e riassestò le casse dello Stato che la prodigalità di Alfonso aveva svuo­ tato. Incentivò l'industria, incrementò il commercio, inco­ raggiò l'iniziativa privata, diminuì le tasse, e per alcuni anni abolì il dazio di uscita sulle merci. Favorì l'insediamento nel Regno di colonie genovesi, veneziane, fiorentine e catalane. Spalancò le porte anche agli ebrei sebbene la popolazione li vedesse di malocchio e non perdesse occasione per dargli addosso. Nel 1490 alcuni frati fanatici sobillarono il popoli­ no contro di essi, scoppiò un tumulto, ci scappò il morto e i napoletani chiesero al sovrano la loro espulsione. Ma Fer­ rante s'oppose. L'afflusso di forestieri, l'apertura di fondachi e filiali, l'e­ sodo dalla campagna dei cafoni che s'inurbavano per sot­ trarsi al giogo dei baroni, fecero salire la popolazione a oltre centomila abitanti e obbligarono il Re ad allargare la cinta delle mura e a far edificare nuovi quartieri. Il Regno pro­ sperò, favorito dalla pace che Ferrante si assicurò con un'ac­ corta politica di alleanze matrimoniali. Diede la figlia natu­ rale Maria in sposa al duca di Amalfi, Antonio Piccolomini, ottenne per il figlio Alfonso la mano di Ippolita Sforza, s'im-

253 parente con la monarchia ungherese maritando un'altra fi­ glia a Mattia Corvino. Governò trentasei anni e solo una vol­ ta il suo trono vacillò, in seguito alla «congiura dei baroni». Rappresentavano costoro la nobiltà feudale del Regno, discendevano dai Longobardi, dai Normanni, dai Tedeschi, dai Francesi e dagli Spagnoli, e vivevano nelle campagne, arroccati nei loro turriti castelli. I più ricchi possedevano immensi latifondi, ma la maggior parte campava su pochi ettari di terra, coltivata da contadini affamati e ridotti allo stato di schiavi. I baroni disprezzavano la vita cittadina, snobbavano i borghesi e disdegnavano il commercio e le ar­ ti. La loro unica occupazione era la guerra. Se la facevano tra loro e si coalizzavano per farla al Re. Protervi, violenti, riottosi, «uomini», come disse Machia­ velli, «al tutto nimici di ogni civiltà», tribolavano il Regno con guerricciole fratricide, rivolte, colpi di mano. Molti dei mali che ancora affliggono il Mezzogiorno vanno addebitati a questi ambiziosi, intriganti e indocili signorotti che inde­ bolirono lo Stato fino a sfasciarlo. Per tenerli a bada i sovra­ ni li esoneravano da molti servizi, tra cui quello militare, li esentavano dalle tasse e riconoscevano loro il diritto di farsi giudicare da propri tribunali. L'anarchia dei baroni fu sul punto di essere domata quando Federico II ne fece abbattere i castelli e ne vietò la ricostruzione. Ma alla morte dell'Imperatore svevo essi rial­ zarono la cresta, né l'abbassarono quando nel Regno tornò l'ordine con gli Angioini. Alfonso d'Aragona concesse ai ba­ roni numerosi privilegi, tra cui quello di torturare il reo «senza limite di tempo» e di comminare pene superiori a quelle stabilite dalla legge. Ferrante li alleggerì di alcune imposte, ma nel 1485 essi tentarono di spodestarlo. L'esercito dei baroni si scontrò con quello regio, ebbe la peggio e mise i suoi capi alla mercé del sovrano. Sulle pri­ me Ferrante si mostrò molto magnanimo coi ribelli. Ma al­ cuni giorni dopo li invitò a Corte per festeggiare la riconci­ liazione. Tutti puntualmente vi si presentarono. Ferrante in

254 persona li accompagnò in una grande sala, ma a un segnale convenuto fece chiudere le porte di uscita, diede ordine di disarmare gli ospiti e li fece cacciare in prigione. L'indoma­ ni confiscò i loro beni e dopo una settimana li fece processa­ re e condannare a morte. Il primo a cadere sotto la scure del boia fu un certo Francesco de Petruciis che fu decapitato e poi squartato: la gamba sinistra fu esposta sul ponte della Maddalena, una spalla fu appesa a un gancio a Casa Nova e l'altra a Chiaia. Fino alla morte del sovrano, avvenuta nel 1494, il Regno non fu più funestato dalle sommosse dei baroni. Ma non si trattò che di una tregua. Col successore di Ferrante, infatti, esse tornarono a divampare. CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

ROMA DOPO AVIGNONE

L'esilio del Papato ad Avignone, lo abbiamo già detto, era stato per Roma una catastrofe. All'alba del Quattrocento, la città occupava una superfì­ cie dieci volte inferiore a quella dei tempi d'Aureliano e coi suoi sessantamila abitanti era meno popolosa di Milano, Ve­ nezia e Firenze. Le mura erano diroccate, le torri mozze e sbrecciate, le strade disselciate e affogate in pozzanghere fe­ tide e melmose, gli acquedotti intasati e slabbrati rendevano difficoltoso e precario il rifornimento idrico, e molti Roma­ ni erano ridotti a bere l'acqua del Tevere. Pestilenze e care­ stie decimavano la popolazione più delle guerre. Lo stato di disfacimento e di abbandono non era limitato ai rioni popolari e di periferia. Investiva anche il centro. I Fori erano trasformati in putridi catini, il Colosseo e il tea­ tro di Marcello erano adibiti a depositi d'immondezza, e il Campidoglio era costellato di catapecchie sbilenche e ma­ leodoranti. Vacche, pecore, maiali pascolavano sui sagrati delle chiese. Molte chiese, sebbene aperte al culto, avevano l'aspetto di ruderi, e i palazzi apostolici avevano perduto il nitore e il fasto d'un tempo. Col buio nessuno osava uscir di casa e avventurarsi per le strade, propizie agli agguati e in­ festate dai briganti. La vigilanza notturna era scarsa e com­ plice di coloro sui quali doveva esercitarsi. Ciascuna delle consorterie più potenti, che facevano ca­ po agli Orsini, ai Colonna, ai Caetani, aveva il suo esercito di «bravi», i suoi castelli, i suoi fortilizi e la sua «ragione di Stato». Fomentavano sommosse, tramavano complotti, aiz­ zavano il popolino sempre pronto a scendere in piazza e a

256 menare le mani per un tozzo di pane. Le lotte di fazione erano l'unica industria fiorente in una città priva di fabbri­ che e dedita esclusivamente alla pastorizia e al minuto com­ mercio. Tagliata fuori dalla grande rivoluzione comunale, l'Urbe mancava di una borghesia mercantile e imprendito­ riale capace d'inserirla in un circuito economico vasto e di­ namico, com'era avvenuto a Firenze, a Milano e nella mag­ gior parte delle città del Nord. La plebe viveva d'elemosine, i nobili di rendita e di rapine, il clero di decime, di usura e di simonia. Col trasferimento del Soglio ad Avignone molti tesori e capitali avevano preso la via della Francia. Quando Gregorio XI decise il ritorno a Roma, le finanze della Chiesa erano in pieno dissesto e non potevano certo contare sulle risorse di una città che non ne aveva punte. Ma in compenso c'erano quelle, tutt'altro che trascurabili, dello Stato Pontificio: vasto territorio che comprendeva tutto il Lazio e larghe fette del­ l'Umbria, delle Marche e della Romagna, inglobando una trentina di città, governate da Legati. Esso vantava inoltre diritti feudali sul Regno di Napoli e sui beni matildini di To­ scana, che si traducevano in oboli e tributi, ma per riscuoter­ li i Pontefici dovevano spesso ricorrere alla minaccia di sco­ munica. Quando anche questa si rivelava inefficace, faceva­ no appello alle milizie mercenarie, perché di regolari la Chiesa non ne aveva e le poche guardie che i Papi tenevano nell'Urbe bastavano appena - quando bastavano - a difen­ dere il Vicario di Cristo dalle violenze dei nobili e dai tumul­ ti del popolo. Fu solo grazie all'energia, al coraggio, alla sa­ gacia dei successori di Gregorio, Niccolò V, Pio II e Sisto IV, che Roma fu restituita al suo rango di Capitale e s'avviò a di­ ventare uno dei massimi centri del Rinascimento. Niccolò V si chiamava Tommaso Parentucelli ed era nato a Pisa, figlio di un chirurgo, ma aveva studiato e si era lau­ reato in teologia a Bologna. Qui conobbe l'arcivescovo Nic­ colò degli Albergati, che gli assegnò un'importante carica di sovrintendente e lo condusse con sé a Firenze, dove venne a

257 contatto con gli umanisti e sprofondò negli studi classici. Leggeva avidamente gli autori latini e greci, partecipava al­ le dispute letterarie e filosofiche e spendeva tutto quello che guadagnava in manoscritti. Conquistato dalla sua erudizio­ ne, Cosimo l'assunse come bibliotecario e gli assegnò un lauto stipendio. Fu unicamente per questi meriti culturali - e il fatto è ri­ velatore di un certo costume della Chiesa - che lo fecero pri­ ma Cardinale e poi Papa. Gli umanisti esultarono e Niccolò li reclutò in massa trasformando il Vaticano in una vera e propria Accademia. Affidò a Lorenzo Valla la traduzione in latino di Tucidide, commissionò a Guarino da Verona quel­ la di Strabone, pagò a Niccolò Perotti cinquecento ducati per quella di Polibio. Il più fortunato fu il Filelfo che in cambio della versione latina dei poemi omerici ricevette una bellissima casa a Roma e una vasta tenuta in campagna. Quando viaggiava, Niccolò si faceva seguire da uno stuo­ lo di letterati, artisti, traduttori, scrivani, coi quali familiar­ mente discuteva di Orazio, di Virgilio, di Aristotele. Se li portava dietro anche quando scoppiava un'epidemia, e a Corte dava loro la precedenza sui prelati coi quali poco se la diceva. Le questioni ecclesiastiche l'interessavano meno di quelle filosofiche e letterarie, e alla Bibbia preferiva i Carmi di Catullo e le Metamorfosi di Ovidio. La sera si chiudeva nel suo studio e fino all'alba rileggeva le traduzioni che gli uma­ nisti gli approntavano, e che poi faceva rilegare in velluto rosso e riporre in eleganti scaffali. Come tutti i Signori del Rinascimento, aveva il mal della pietra e spese somme immense per ridare a Roma il suo an­ tico volto architettonico. Riparò le mura, restaurò conventi, chiese, palazzi, innalzò nuovi edifici, costruì fogne, ponti, acquedotti, pavimentò strade. Affidò a Leon Battista Alberti il progetto di piazze e palazzi, incaricò Bernardo Rossellino di ripristinare San Giovanni in Laterano, Santa Maria Mag­ giore, San Paolo e San Lorenzo fuori le mura. Spalancò le sale vaticane ad Andrea del Castagno e al Beato Angelico

258 perché le decorassero. Investì quasi tutti gli introiti del Giu­ bileo del 1450 per abbellire la città che in quell'occasione vi­ de affluire centomila pellegrini, e per facilitarne l'accesso a San Pietro fece demolire numerose case, dopo averne sfrat­ tato gl'inquilini. Non andava per il sottile quando c'era da far soldi, e se le casse languivano non esitava a inasprire i balzelli. Eppure i Romani gli furono sempre ostili. Inscena­ rono violente manifestazioni di piazza per ottenere la re­ staurazione della Repubblica, infiammati dall'oratoria de­ magogica di un certo Stefano Porcaro, che Niccolò fece esi­ liare a Bologna e poi decapitare. Fu questo l'unico evento drammatico di un pontificato senza scosse. Niccolò morì a cinquantotto anni di gotta e di crepacuore, dopo aver tenta­ to invano di lanciare i principi cristiani d'Europa alla ricon­ quista di Costantinopoli, caduta nelle mani dei Turchi. Un cronista gli dedicò questo epitaffio: «Fu giusto, saggio, be­ nevolo, magnanimo, pacifico, affettuoso, caritatevole, umi­ le, virtuoso», gratificandolo così di elogi sbagliati, e defrau­ dandolo di quelli che meritava. Gli successe, col nome di Pio II, Enea Silvio Piccolomini, un senese di famiglia nobile e decaduta. Anche lui veniva non dal seminario, ma dagli studi umanistici fiorentini. A ventisette anni fu assunto come segretario dal cardinale Ca- pranica che accompagnò in lunghe e delicate missioni di­ plomatiche in Italia e fuori, rivelando doti non comuni di negoziatore. Era raffinato, brillante e ambizioso. Spendeva tutto quello che guadagnava, e divideva imparzialmente il suo tempo fra biblioteche, osterie e bordelli. Le donne im­ pazzivano per lui, ma egli evitava accuratamente quelle che volevano farsi sposare perché l'idea del matrimonio l'atter­ riva. Uno stuolo di concubine gli diedero una moltitudine di figli ch'egli affidava al proprio padre, perché non aveva tempo né voglia d'allevarli. Sfogò la sua sensualità in versi scurrili e racconti boccac­ ceschi. Scrisse un romanzo pornografico, che i nemici non si stancarono per tutta la vita di rinfacciargli, ma di cui du-

259 bitiamo che l'Autore ebbe mai a pentirsi. Si cimentò nei ge­ neri letterari più disparati e fu scrittore prolifico, vivace, elegante e piacevole. Lasciò una mole sterminata di poesie, epigrammi, dialoghi, romanzi, memoriali, note di viaggio, saggi, composti quasi tutti in latino. La sua conversazione non era meno deliziosa e scintillante della sua prosa, i salot­ ti alla moda se lo contendevano e le dame dell'alta società andavano in visibilio per i motti di spirito e i paradossi di questo Talleyrand del Quattrocento, che non dormiva più di cinque ore per notte e non restava mai inoperoso. Nel 1455 l'imperatore Federico, di cui era diventato pu­ pillo, lo spedì ambasciatore a Roma dove in poche settima­ ne conquistò la Curia, e dove si fece prete. Gli agiografi di­ cono che da quel momento visse in castità, sebbene avesse appena varcato le soglie della quarantina. Alla corte pontifi­ cia dispiegò il suo eccezionale talento diplomatico riconci­ liando il clero tedesco con quello romano. Il Papa per pre­ mio lo nominò vescovo di Siena e nel 1456 lo fece cardinale. Quando il Pontefice morì, il Sacro collegio elevò Enea Silvio al Soglio, chiudendo un occhio sul suo passato. Non aveva che cinquantatré anni ma ne dimostrava mol­ ti di più. Era pallido, smunto, pieno di rughe e di acciacchi. Soffriva di gotta, di calcoli renali e di tosse. «A volte», scrisse Platina «se non avesse parlato, nessuno avrebbe potuto dire che era vivo». I peccati di gioventù avevano lasciato il se­ gno, e a poco servivano ora le diete, i salassi e le cure dei medici. Quando poteva si ritirava in campagna, seguito da uno stuolo di umanisti, e organizzava bucolici convegni lun­ go le rive di un ruscello o nell'ombrosa quiete di un bo­ schetto. Come Niccolò, aveva in uggia i preti, alle dispute teologiche preferiva quelle filosofiche e letterarie, e aveva un debole per gli scrittori pagani e in particolare per Cice­ rone. Ficcò i suoi parenti dovunque, inventando nuove cariche perché quelle esistenti non bastavano ad accoglierli tutti, e fece del Vaticano una colonia di Piccolomini. Ma fu un buon

260 Papa. Tentò di arginare l'avanzata dei Turchi nei Balcani, e nel 1459 convocò a Mantova i principi europei per indurli a prendere la croce contro gli Infedeli. Ma nessuno vi si recò e Pio, non riuscendo a domare i mussulmani con la spada, cercò di convertirli con la penna. «Se tu», scrisse a Maomet­ to II, «dovessi farti cristiano, nessun principe ti supererebbe in gloria o ti eguaglierebbe in potenza. Noi ti riconoscerem­ mo Imperatore dei Greci e dell'Oriente, e ciò che hai otte­ nuto con la violenza e conservi con l'ingiustizia diventereb­ be tuo legittimo possesso... Se tu ti unissi a noi, tutto l'O­ riente si convertirebbe a Cristo e una volontà sola - la tua - darebbe pace al mondo intero.» Maometto, sebbene qualcuno lo facesse nato da madre cristiana, non raccolse l'invito e il Papa richiamò alle armi i sovrani europei. Ma non ebbe più fortuna che col Sultano. Solo Venezia rispose all'appello e mandò una piccola flotta ad Ancona dove, un paio di settimane prima, nel luglio 1464, era approdata quella pontificia, guidata dal Papa in persona. Quando Pio l'avvistò, provò tale emozione che ne morì. Con lui fu sepolto l'utopistico sogno crociato. Il suo posto fu preso, col nome di Sisto IV da Francesco Della Rovere, un ligure di umile famiglia contadina. Aveva assunto il cognome Della Rovere dopo aver fatto il precetto­ re nell'omonima famiglia. Poco si conosce di lui prima del­ l'ascesa al Soglio. Sappiamo solo che aveva studiato filosofia a Pavia, a Bologna, a Padova, e che per un certo tempo ave­ va fatto l'insegnante. Quando, a cinquantasette anni, fu elet­ to Papa godeva di una vasta e meritata fama di erudito e di letterato. Non potè dedicare allo studio il tempo e le cure di Niccolò V e di Pio II perché il suo pontificato fu difficile e contrastato. Vagheggiò anche lui una spedizione contro gli Ottomani, ma l'accresciuta potenza turca lo dissuase dal porvi mano. Spese tutte le sue energie a rafforzare e ingran­ dire lo Stato pontifìcio e a ridurre all'obbedienza la facino­ rosa nobiltà e la riottosa plebe romana. Ci riuscì, ma si gua­ dagnò l'odio dei sudditi, offesi anche dal suo sfacciato nepo-

261 tismo. Forse solo Alessandro Borgia lo eguagliò nell'elargire uffici e nel distribuire rendite e prebende a congiunti pros­ simi e lontani. Nel 1471 elesse cardinale il nipote venticin­ quenne Pietro Riario e gli assegnò quattro vescovati e un appannaggio annuo di sessantamila ducati. Nominò il fra­ tello di Pietro comandante dell'esercito pontificio e un altro nipote prefetto di Roma. Salendo al Soglio, aveva trovato le casse piene d'oro, ma in tredici anni le svuotò fino all'ultimo centesimo. Il denaro che non spese in guerra o non donò ai nipoti lo profuse in opere d'arte. Anche lui abbellì Roma, innalzò nuovi edifici pubblici e nuove chiese, restaurò e ampliò l'ospedale di San­ to Spirito, riorganizzò l'Università. Legò il suo nome alla Cappella Sistina, di cui affidò il progetto all'architetto Gio­ vannino de' Dolci e la decorazione delle pareti al Perugino, al Signorelli, al Pinturicchio, al Ghirlandaio, al Botticelli, al Rosselli e al Cosimo, che vi raffigurarono scene della vita di Mose e di Gesù. Si circondò di umanisti e arricchì di oltre mille volumi la Biblioteca vaticana che già ne conteneva oltre duemilacin­ quecento; affidò al Regiomontano la riforma del calendario giuliano, rimasta incompiuta per la prematura morte del matematico; invitò a Roma Giovanni Argiropulo a tenere un ciclo di conferenze sulla letteratura greca e incoraggiò ogni iniziativa volta a diffondere la cultura e l'arte. Sognava di riportare l'Urbe ai fasti augustei ma nel 1484 la malaria lo uccise. E a questi tre splendidi Papi che Roma dovette la sua ri­ nascita. La Chiesa forse non ha verso di loro altrettanti mo­ tivi di gratitudine. Essi contribuirono in maniera decisiva a trasformarla in una vasta impresa artistica e culturale spo­ standone gl'interessi sul piano temporale e mondano a tut­ to scapito di quelli spirituali. Con loro il Rinascimento entrò nelle basiliche e nelle cattedrali dell'Urbe. Dio ne uscì. CAPITOLO VENTICINQUESIMO

ALLA MERCÉ DEI MERCENARI

Nel tracciare le vicende delle più importanti città italiane nel Tre e Quattrocento abbiamo tralasciato le infinite guer- ricciole che ne accompagnarono lo sviluppo. Il lettore si ras­ sicuri: esse non mutarono le sorti del nostro Paese, ormai spaccato in cinque Stati - visconteo, veneziano, fiorentino, pontificio, angioino-aragonese - e in una galassia di state- relli. Spesso queste guerricciole non furono che scaramucce volte alla presa di un castello, all'aleatoria rettifica di un confine, alla conquista di una piazzaforte. Ma da tempo Co­ muni e Signorie avevano smesso di combatterle con milizie regolari, il cui reclutamento, oltre a essere molto costoso, distoglieva i sudditi dalle attività civili, e avevano fatto ap­ pello a truppe mercenarie, o compagnie di ventura. Le prime si formarono con lo sgretolamento del feudale­ simo e il trionfo del municipio sul castello. Molti nobili atti solo alle armi, piuttosto che inurbarsi con le loro masnade e diventare dei sedentari borghesi, preferirono mettersi al soldo di questo o quel Comune, di questo o quel Signore, e per esso guerreggiare. Arruolavano nelle loro bande avanzi di galera, fuorilegge, crociati rovinati dalle guerre sante, soldati calati in Italia con gli eserciti imperiali e travolti dal­ le loro disfatte. Compagnie di ventura spuntarono un po' dappertutto in Europa, ma fu soprattutto nei Paesi come l'Italia e la Germania, dove mancava un potere centrale, che esse più rigogliosamente prosperarono. Ciascuna era formata da alcune migliaia di fanti e cava­ lieri divisi in condotte, o squadre, muniti di elmo e corazza, armati di spada, pugnale e giavellotto. Aveva il proprio mot-

263 to e la propria bandiera e assumeva il nome del suo coman­ dante. Quella di fra' Moriate disponeva di tesorieri e di giu­ dici, che avevano il compito di dirimere le liti che regolar­ mente scoppiavano tra i soldati alla spartizione del bottino. Quando in tempo di pace esso mancava, le compagnie ricattavano le città, e solo in cambio di forti somme di dena­ ro s'astenevano dall'aggredhie e dal saccheggiarle. Pisa e Firenze dovettero sborsare rispettivamente sedicimila e ven­ timila fiorini a fra' Moriale per tenerne due anni lontano dalle loro mura le soldatesche. Avide di guadagno, animate da un insaziabile uzzolo di rapina, immuni dalle sanzioni della legge, le compagnie di ventura si mettevano al servizio della città o del Signore che le pagava di più e non esitavano a tradire se il nemico le al­ lettava con un soldo più vantaggioso. Giovanni Acuto militò sotto le insegne di Pisa, di Milano, del Pontefice e di Firenze e con molti voltafaccia diventò il più potente e temuto con­ dottiero del Trecento. La sua vicenda riassume esemplar­ mente il marasma italiano. Il suo vero nome era John Hawkwood ed era nato in un villaggio dell'Essex, in Inghilterra, nel 1320. Suo padre era un conciatore che morendo gli lasciò un piccolo gruzzolo. Con esso John acquistò un cavallo, una corazza, una spada e si arruolò nell'esercito del re Edoardo III che attraversava la Manica per andare a combattere in Francia. Era di statura superiore alla media, aveva spalle quadra­ te, collo taurino, braccia possenti, naso lungo e irregolare, labbra sottili e nervose, guance accese e mascella dura. Una chioma castana e riccioluta gli scendeva sulle orecchie e fol­ te sopracciglia gli sgrondavano sugli occhi bruni e profondi. Fin da bambino aveva avuto la passione delle armi e uno zio gli aveva insegnato a cavalcare, a tendere l'arco e a maneg­ giare la spada. In Francia prese parte alla battaglia di Crécy, dove per la prima volta gli inglesi fecero uso dell'artiglieria, e dieci anni dopo, sul campo di Poitiers, fu fatto cavaliere. Dopo la pace

264 di Bretigny, con un centinaio di compagni passò in Italia e si mise al soldo del condottiero tedesco Alberto Sterz, che comandava la famosa «Compagnia Bianca». Non passava giorno che le sue soldatesche non compisse­ ro scorrerie nelle fertili pianure piemontesi e lombarde, di­ struggendo le messi, scannando le greggi, svaligiando le ca­ scine, violentando le donne. Era la vita che Giovanni Acuto aveva sempre sognato. Lo Sterz ne fece il suo luogotenente e quando Pisa arruolò la Compagnia Bianca contro Firenze fu lui a dettare le condizioni dell'ingaggio e a condurre le operazioni di guerra. Quando esse cessarono, ottenne da Pisa che il bottino del nemico fosse assegnato alla Compa­ gnia e che i suoi uomini fossero liberi di muoversi nel terri­ torio della Repubblica e di svernarvi. In segno di gratitudi­ ne le truppe deposero lo Sterz e l'acclamarono comandan­ te. Pisa gli mise a disposizione una guardia del corpo e uno stuolo di paggi. Alla ripresa delle ostilità, l'Acuto reclutò forze fresche e le lanciò contro i fiorentini i quali, non riuscendo a conte­ nerle, inviarono al comandante inglese ambasciatori per in­ durlo a passare dalla loro parte. Giunti al cospetto del con­ dottiero, i messi estrassero dalle loro borse fiaschi di vino colmi di fiorini. L'Acuto li soppesò a lungo. Poi convocò i soldati e chiese cosa volevano fare. Tutti si trasferirono nel campo nemico. Al servizio di Pisa rimase solo l'Acuto con ot­ tocento inglesi. Ma non per fedeltà. Poco prima egli aveva ricevuto proposte ben più allettanti da un ricco mercante, Giovanni Agnello, che profittando del caos in cui era piom­ bata Pisa, mirava a impadronirsi della città. In cambio del suo aiuto, l'Acuto avrebbe ricevuto trentamila fiorini. Il col­ po di Stato riuscì e l'inglese, oltre alla somma pattuita, ebbe una lauta mancia. Ne aveva bisogno perché tempi duri s'annunciavano per le compagnie di ventura. Il papa Urbano V, dopo aver lan­ ciato contro di esse l'anatema, aveva invitato i principi d'Eu­ ropa a coalizzarsi per combatterle. Tutti avevano risposto al-

265 l'appello, e una potente lega si era costituita. Al momento di passare all'azione, però, la maggior parte dei suoi membri aveva fatto marcia indietro. Lo stesso Pontefice, allarmato dalle notizie che giungevano dalla Terrasanta, accantonò l'i­ dea di una crociata contro le milizie mercenarie. L'Acuto aveva nel frattempo raccozzato alcune migliaia di uomini e s'era abboccato segretamente con agenti di Ber­ nabò Visconti, che Io voleva al suo servizio. Il condottiero inglese vi si pose volentieri un po' perché il duca di Milano gli faceva ponti d'oro, un po' perché si trattava di combatte­ re contro il Papa, suo mortale nemico. La Compagnia, forte di oltre quattromila uomini, s'av­ ventò sugli Stati pontifici mettendoli a ferro e fuoco. L'Acu­ to ordinò di incendiare e radere al suolo chiese e conventi e di trucidare gli abitanti senza riguardo al sesso e all'età. Le scorrerie cessarono solo quando Bernabò richiamò il ma­ snadiere a Milano per lanciarlo alla conquista di Firenze e di Pisa. Ma quest'impresa fallì perché le soldatesche merce­ narie al soldo delle due repubbliche toscane erano molto più numerose. Il fiasco indusse l'ambizioso duca a ridurre 10 stipendio all'Acuto. E questi per ripicca passò col Pontefi­ ce che gli donò i feudi di Bagnacavallo, Cotignola e Conseli- ce, fra Rimini e Bologna, col titolo di Signore. Egli li cinse di mura, vi eresse torri, e di lì svolse con en­ comiabile zelo i suoi compiti di sbirro del Papa. Quando una rivolta antipapale scoppiò a Faenza, ordinò di metterla a sacco e di deportarne gli abitanti, escluse le donne giova­ ni, sulle quali i soldati commisero ogni sorta di abusi. Anche 11 loro comandante s'abbandonò a violenze inaudite. Un giorno, vedendo due mercenari che si contendevano una monaca, fece condurre la poveretta al proprio cospetto e con un colpo di spada la spaccò a metà, dicendo: «Ciascuno abbia la sua». Tornò poi nei suoi possedimenti, ma non ci restò a lungo. Cesena si era ribellata al governo pontificio e andava punita. Il condottiero l'assalì e in nome del papa trucidò duemilacinquecento abitanti. Poi la rase al suolo.

266 Negli ultimi tempi i suoi rapporti col Pontefice si erano raffreddati. Il Papa non pagava, e la Compagnia dava se­ gni di scontento. Ne profittarono Bernabò Visconti e la re­ pubblica di Firenze per strappare al Pontefice il capitano e arruolarlo al proprio servizio. Il duca di Milano gli offrì ad­ dirittura in sposa la figlia Donnina con una dote di diecimi­ la fiorini. L'Acuto accettò sebbene veleggiasse verso la ses­ santina. Era ancora un uomo vigoroso e non aveva perduto l'agi­ lità e la baldanza di un tempo. I capelli gli si erano incanuti­ ti ma egli li nascondeva con l'elmo e con un berretto di vel­ luto. Aveva perduto alcuni denti e sulla fronte erano com­ parse le rughe, ma nel complesso manteneva un aspetto giovanile. Donnina era bellissima. Aveva occhi e capelli ne­ ri, mani lunghe e affusolate e un'espressione dolce e inten­ sa. Il matrimonio fu celebrato con gran pompa al cospetto del Duca e della Corte e si concluse con una pittoresca gio­ stra che suggellò il passaggio dell'Acuto al servizio di Berna­ bò. Ma dopo un anno i due erano già in rotta, e l'Acuto si trasferì a Firenze che lo aveva nominato Capitano generale. Il condottiero sfilò per le vie della città pavesata a festa tra gli squilli delle trombe e i rintocchi delle campane impu­ gnando un piccolo scettro. La Signoria gli assegnò una son­ tuosa dimora in città, lo esentò dalle tasse e per una decina d'anni lo impiegò in scorrerie e scaramucce da un capo al­ l'altro della Penisola. Nel 1390 scoppiò un'ennesima guerra coi Visconti. Per l'Acuto fu l'ultima, e anche la più sfortunata. L'esercito du­ cale, forte di ventiseimila uomini, ebbe ragione della Com­ pagnia inglese, che ne contava appena settemila. Sebbene sconfitto, l'Acuto ebbe un aumento di stipendio dalla Signo­ ria che concesse la cittadinanza fiorentina a tutti i suoi pa­ renti. Aveva ormai settant'anni, più di cinquanta ne aveva pas­ sati sui campi di battaglia, era stanco e sentiva il bisogno di un po' di pace. Aveva due figlie in età da marito e voleva ac-

267 casarle: una la diede in sposa al conte di Porcia, l'altra a un capitano di ventura tedesco. Poi gli venne la nostalgia del­ l'Inghilterra e del villaggio dov'era nato e pensò di tornare in patria. Non l'aveva mai dimenticata e quando ne sentiva parlare si commuoveva fino alle lacrime. Aveva conservato le abitudini del suo popolo e non aveva mai voluto impara­ re l'italiano. Ogni cosa era ormai pronta per la partenza quando fu stroncato da un colpo apoplettico. Firenze gli tributò ese­ quie solenni. Il Gonfaloniere, i Priori e i cittadini più rag­ guardevoli seguirono in gramaglie il funerale. Dopo una lunga processione per le vie della città, il corteo raggiunse Santa Maria del Fiore, dove fu celebrata una messa di re­ quiem. Il feretro restò alcuni giorni esposto nel mezzo della navata centrale per essere poi inumato nel coro, di dove fu rimosso su richiesta del re Riccardo II, che fece traslare la salma in Inghilterra. Alcuni decenni più tardi, Paolo Uccel­ lo ritrasse su una parete del Duomo il condottiero a cavallo, immortalandone nei secoli la fama. Quando l'Acuto morì, Francesco Bussone aveva quattro anni. Carmagnola, una piccola città a sud di Torino, situata sulla riva destra del Po, gli aveva dato i natali nel 1394. Fi­ glio di un pastore, forse avrebbe seguitato per tutta la vita a pascolare greggi se il capitano di ventura Facino Cane non l'avesse arruolato tra i suoi mercenari. Era un ragazzo tarchiato e sveglio, dai lineamenti gros­ solani, con grandi occhi castani e due gote bianche e rosse. Il padre non aveva potuto mandarlo a scuola, né Francesco aveva sentito il bisogno di andarci. Aveva una sola passio­ ne: le armi. Quando per la prima volta brandì una spada, per poco non infilzò un cavaliere. Nella Compagnia di Fa­ cino si segnalò per l'eccezionale coraggio e il numero di ne­ mici trafitti. L'eco delle sue gesta giunse all'orecchio di Filippo Maria Visconti che s'accingeva a recuperare i territori andati per­ duti alla morte del padre Gian Galeazzo. Il duca di Milano

268 lo convocò a corte, l'assunse al proprio servizio e lo lanciò alla riconquista di fortezze, castelli e città. Francesco Busso- ne, che i suoi soldati ribattezzarono il Carmagnola, riportò tali vittorie che Filippo Maria lo nominò Conte di Castel- nuovo Scrivia e Signore di Vespolate, gli assegnò le vaste terre circostanti e ne fece il suo confidente. Il condottiero piemontese diventò una specie di eminenza grigia, temuto e invidiato dagli intriganti e ambiziosi cortigiani del Duca, che lo consideravano un intruso. L'odio per il brillante uffi­ ciale s'acuì quando fu annunciato il suo matrimonio con Antonia Visconti, figlia bastarda del duca Gian Galeazzo. Essa aveva sposato in prime nozze una guardia del corpo del padre, era ricca, giovane e bella. Le nozze furono cele­ brate con gran fasto nel Duomo. Gli sposi s'istallarono nel palazzo municipale dove, poco tempo dopo, il Carmagnola fu raggiunto dalla nomina a governatore civile di Genova. La promozione era in realtà una rimozione dal comando dell'esercito, di cui il condottiero non sapeva spiegarsi i motivi. Con una piccola scorta di uomini egli si recò al ca­ stello di Abbiategrasso dove si trovava il Duca e chiese di essere condotto al suo cospetto. Gli fu risposto che Filippo Maria non poteva riceverlo. Il Carmagnola, sdegnato, ri­ montò in sella, ma prima di partire scorse il Duca che lo spiava sogghignando da una feritoia della torre. Avrebbe voluto andare a Milano dove aveva lasciato moglie e figli, ma per strada seppe che il Visconti li aveva fatti arrestare. Non gli rimaneva che la fuga. Dapprima offrì i propri servigi al duca di Savoia Amedeo VIII, che li rifiutò perché non voleva inimicarsi Filippo Ma­ ria. Allora si rivolse a Venezia, che contrastava a Milano la supremazia sull'Italia del Nord. Il doge Francesco Foscari e i senatori l'accolsero con molti onori, gli affidarono il co­ mando di tutte le forze di terraferma, lo rivestirono delle insegne di San Marco e gli affiancarono due commissari col compito di seguirlo e di proteggerlo, ma anche di spiarlo. La guerra con Milano non tardò a scoppiare quando Fi-

269 renze e la Serenissima si unirono in lega per rintuzzare le mire espansionistiche viscontee. Alla testa di un esercito di sedicimila cavalieri e di seimila fanti, il Carmagnola mosse alla conquista di Brescia che capitolò dopo una fiacca difesa. Tornato a Venezia, fu portato in trionfo sul Canal Grande. Ma quando il Doge gli comandò di ripartire per il fronte, Francesco chiese un rinvio. Alcuni mesi prima cadendo da cavallo aveva battuto malamente la schiena, che ora gli do­ leva tanto da impedirgli di montare in sella, e i medici gli avevano consigliato una cura termale. Dopo un paio di set­ timane di fanghi riprese stancamente le armi, ma subito do­ po tornò a deporle. In aprile il Senato gli ordinò di marcia­ re sulla Lombardia, ma egli rispose che nei prati l'erba non era abbastanza alta per sfamare i cavalli, e che quindi biso­ gnava aspettare l'estate. A giugno, finalmente, levò le tende, ma a settembre le ripiantò. Stavolta il Doge perse la pazien­ za e minacciò di non pagare la cinquina alle truppe. Il Bus­ sone dovette arrendersi e attaccare i milanesi. I due eserciti si scontrarono ITI ottobre 1427 nella piana di Maclodio. Quello veneto riportò una vittoria strepitosa: diecimila ducali furono fatti prigionieri e tutte le loro armi vennero ammucchiate davanti alla tenda del Carmagnola, nelle cui mani cadde anche la bandiera viscontea, che fu de­ posta ai piedi di quella della Serenissima. In una brutta tra­ gedia il Manzoni ha descritto questa battaglia che segnò l'a­ pice della fortuna militare del Carmagnola e l'inizio della sua rovina, esaltando la generosità del condottiero, che la sera stessa della vittoria liberò i prigionieri. In realtà li libe­ rò secondo alcuni perché non sapeva dove metterli, secon­ do altri per ingraziarsi Filippo Maria. A Venezia la sconfitta viscontea fu accolta con tripudio. Il Gran Consiglio donò al Carmagnola un bellissimo palazzo sul Canal Grande e gli offrì per altri due anni il comando supremo dell'esercito. Dapprincipio il Bussone nicchiò, ma poi finì per accettare. Aveva da poco compiuto trentasette anni, e a parte la schiena ammaccata era nel pieno del suo

270 vigore fisico. Ma qualcosa in lui era cambiato. Era diventato taciturno, evitava gli amici, si faceva vedere di rado in giro, non frequentava donne e non partecipava ai sontuosi balli in Palazzo Ducale. Passava lunghe ore a leggere i messaggi che Filippo Maria da un po' di tempo gli inviava dandogli notizie della moglie e dei figli e promettendogli di reinte­ grarlo nei suoi domini milanesi. Il Carmagnola consegnava quelle lettere al Senato, alimentando i sospetti che, dopo Maclodio, s'erano venuti appuntando su di lui. Perché man­ teneva rapporti epistolari col nemico? La risposta i veneziani la videro, o almeno credettero di vederla, nelle successive campagne contro Milano, risoltesi per loro in rotte clamorose. Nel marzo 1432, il Doge riunì il Consiglio dei Dieci per giudicare lo sconcertante comporta­ mento del Carmagnola, che in quel momento si trovava a Brescia. Fu deciso di richiamarlo a Venezia con un pretesto. Di nulla sospettando, il condottiero si presentò. Giunto a Venezia fu accolto con molti onori da una delegazione di nobili che lo scortarono fino al Palazzo Ducale. Ma appena varcata la soglia le guardie lo sospinsero nei sotterranei do­ ve si trovavano le prigioni, e lo gettarono in una lurida cella dal soffitto basso, lunga poco più di un metro, dove non po­ teva né distendersi né stare in piedi. Per tre giorni non vol­ le mangiare. Il quarto fu condotto in camera di tortura, de­ nudato, appeso per i polsi al soffitto e ustionato con un fer­ ro rovente. Alla fine «confessò» e fu condannato a morte per alto tradimento. Francesco Bussone salì sul palco dell'esecuzione con pas­ so incerto, le mani legate dietro la schiena e con una sbarra di ferro in bocca a mo' di morso. Era pallido, scarmigliato e aveva il corpo cosparso di croste e lividi. Lo seguiva l'inse­ parabile cane bracco che gli aveva tenuto compagnia anche in carcere. La piazza traboccava di folla muta e attonita, mentre un coro di preti cantava inni funebri. A un dato se­ gnale il carnefice fece inginocchiare il Carmagnola e gli si­ stemò il capo sul ceppo. Poi levò la mannaia e per ben tre

271 volte la lasciò cadere sul collo del Bussone. Finalmente, re­ cisa dal tronco, la testa rotolò in un fiotto di sangue. Il cane guaiolando le si avvicinò e cominciò a leccarla. La sera stes­ sa i resti del Carmagnola furono ricomposti in una rozza ba­ ra e consegnati alla moglie. Il Machiavelli, nel Principe, gli dedicò questo epitaffio: «I Viniziani, vedutolo virtuosissimo, battuto che loro ebbono sotto il suo governo el duca di Milano, e conoscendo dall'al­ tra parte come egli era raffreddo nella guerra, iudicorono non potere con lui più vincere perché non voleva, né pote­ re licenziarlo per non riperdere ciò che aveano acquistato: onde che furono necessitati per assicurarsene ammazzarlo». A quanto pare il Machiavelli trovava dunque del tutto lo­ gico, anzi inevitabile, che il Carmagnola finisse a quel mo­ do, sebbene egli lo giudicasse innocente e perfino «virtuo­ sissimo». Da buon italiano del Rinascimento, egli considera­ va pienamente legittimo il delitto commesso per «ragion di Stato». Ma se il giudizio morale nel nostro Paese era sceso così in basso, la colpa era anche del mercenarismo. Esentandoli dal servizio militare, le compagnie di ventura non soltanto ave­ vano reso imbelli gl'italiani, ma avevano anche distrutto in loro il senso di quei valori che solo gli eserciti nazionali ten­ gono vivo. La mancanza d'ideali, l'ambizione di potere, la cupidigia di denaro, la disponibilità al doppio giuoco e al tradimento di un Acuto e di un Bussone non facevano scan­ dalo agli occhi di un popolo che più non sapeva, che anzi non aveva mai saputo cosa fossero patria, onore, lealtà, per il semplice motivo che gli era mancata la palestra in cui te­ nere in allenamento queste virtù: l'esercito. L'Italia è il paradiso dei «condottieri» perché non ha «sol­ dati». Ma un Paese senza soldati è anche un Paese senza «cit­ tadini». PARTE QUARTA

I NUOVI MONDI CAPITOLO VENTISEIESIMO

LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI

Alla fine di maggio del 1453, una notizia folgorò l'Europa cristiana: Costantinopoli era caduta sotto le vigorose spalla­ te degli eserciti turchi di Maometto II il Conquistatore. Ma l'avvenimento colpì soprattutto le fantasie per la sua dram­ maticità. Nessuno ne colse le decisive e catastrofiche impli­ cazioni politiche, nemmeno gli italiani che pure erano quel­ li destinati a pagarle a più caro prezzo. Solo gli ambasciatori veneti ne diedero, nei loro rapporti, una lucida premoni­ zione. Come quello d'Occidente, l'Impero Romano d'Oriente aveva ampiamente meritato la sua sorte. Da due secoli si so­ pravviveva intento solo a godere le delizie di uno splendido tramonto. Esso era incominciato con l'invasione crociata di Costantinopoli nel 1204 che, dopo aver sbalzato dal trono il Basileus Isacco Angelo, aveva smembrato il Paese riducen­ dolo a una galassia di staterelli indipendenti, in lotta perpe­ tua tra loro: gli imperuncoli di Trebisonda e di Nicea, il de­ spotato di Epiro, i principati di Filadelfia e di Rodi, l'Impe­ ro di Costantinopoli, il regno di Tessalonica, il ducato d'Ate­ ne, il principato d'Acacia, oltre al pulviscolo di signorie ve­ neziane disseminate lungo l'arcipelago. Nel 1261, dopo cinquantasette anni di caos, la potente famiglia dei Paleologi aveva restaurato la monarchia. Ma la lunga vacanza imperiale aveva ormai provocato guasti insa­ nabili. L'economia era in pieno sfacelo. L'agricoltura, che ne costituiva l'architrave, non aveva saputo adeguarsi a quello che oggi si chiamerebbe lo «sviluppo tecnologico». Legata a sistemi di coltivazione arcaici e improduttivi, irretita nel la-

275 tifondo, aveva dato vita a una specie di sottoproletariato ru­ rale, riottoso, iniettato di odio di classe, facile esca di dema­ gogiche «istanze» egalitarie. Gli agrari, dal canto loro, ostili a ogni riforma che mettesse in discussione i loro privilegi feudali, erano fermamente decisi a mantenere lo status quo. Una minaccia non meno grave era costituita dalle conti­ nue scorrerie dei popoli confinanti con l'Impero: gli Otto­ mani, i Serbi, i Bulgari, quand'erano a corto di viveri, e lo erano regolarmente alla vigilia dei raccolti, irrompevano con voracità di locuste nelle province bizantine e facevano razzia di messi e di bestiame. Lo stesso uzzolo di saccheggio animava gli eserciti imperiali nei loro spostamenti da un ca­ po all'altro del Paese, e non solo in tempo di guerra. Il Basi­ leus assisteva impotente a queste devastazioni, limitandosi a minacciare sanzioni che non venivano mai applicate. In condizioni non meno precarie versava il commercio, che aveva fatto la fortuna dell'Impero e per secoli aveva do­ minato incontrastato nel Levante. L'espansione a macchia d'olio dell'Islam nel bacino del Mediterraneo aveva inferto sin dal IX secolo un duro colpo ai traffici marittimi greci, ma la potente flotta mercantile bizantina, modernizzando le proprie attrezzature, s'era adeguata alla realtà nuova e ave­ va, in meno di un secolo, riconquistato l'antico primato. Il vero declino cominciò con le crociate, sulla cui onda vene­ ziani, genovesi e pisani consolidarono le loro colonie com­ merciali, spuntate come funghi sulle coste greche, dopo il Mille. Come abbiamo visto ne «L'Italia dei Comuni», esse godevano di franchigie, esenzióni fiscali e innumerevoli al­ tri privilegi che ne facevano Stati nello Stato, con propri quartieri, tribunali e chiese. I Balivi, che le governavano in nome della madrepatria, non esitavano, quando venivano in conflitto con l'Imperatore, a fomentare contro di lui som­ mosse e talvolta addirittura a capeggiarle. Il Basileus, temen­ do le rappresaglie delle repubbliche marinare, non osava reprimere i tumulti, che spesso ne generavano altri tra la popolazione greca, violentemente xenofoba.

276 L'agricoltura esausta e il commercio divenuto monopolio di mercanti stranieri, non tardarono a provocare il collasso finanziario dell'Impero, i cui principali cespiti erano appun­ to le imposte fondiarie e quelle doganali. I grandi proprie­ tari terrieri, che dovevano pagare le prime, non avevano difficoltà a corrompere gli agenti fiscali incaricati di riscuo­ terle; i Veneziani, i Genovesi e in misura minore gli Spagno­ li e i Francesi erano esentati dalle seconde, o almeno da quelle più gravose. Per far quadrare i bilanci, i Paleologi ridussero le spese militari e ridimensionarono l'esercito, senza rendersi conto che in tal modo avviavano il Paese al suicidio. Sguarnendo le frontiere essi diedero baldanza a quelle popolazioni slave e turche, affamate di terre e smaniose di facili conquiste, che s'ammassavano minacciose ai confini dell'Impero, pron­ te a varcarli non appena un qualunque capotribù ne avesse dato il segnale. A ogni battaglia perduta facevano eco nei fa­ volosi saloni del palazzo reale di Costantinopoli banchetti sontuosi e feste da «Mille e una notte». Per finanziarli, il Ba­ sileus attingeva a piene mani nelle casse dello Stato, prosciu­ gandole. Il treno di vita della Corte era splendido, come ai tempi d'oro di Giustiniano e Teodora. Inflazione e ricevi­ menti si susseguivano allo stesso incalzante ritmo. Nuovi edifici sorgevano ogni giorno nel recinto imperiale. Quelli vecchi venivano ridipinti e abbelliti. Il Palazzo Sacro era una fantasmagoria di ori, mosaici, arazzi, drappi di damasco, tappeti trapunti di gemme. L'Imperatore e l'Imperatrice in­ dossavano vesti sfarzose dagli ampi panneggi, tempestate di pietre preziose. Lo stesso sfarzo ostentavano dignitari e cor­ tigiani. Un cronista riferisce che nel 1347, in occasione del ma­ trimonio di Giovanni Paleologo, i cibi del banchetto nuziale furono serviti su piatti di terracotta e di stagno e che i dia­ demi degli sposi erano incrostati di pietre vili e di cocci di bottiglia. Ma questa testimonianza non concorda con quelle che ci hanno lasciato la maggior parte degli storici dell'epo-

277 ca, unanimi nel denunciare lo sfoggio di pompa dell'Impe­ ratore e della sua Corte. Quale spettacolo offrisse invece il resto della città alla vi­ gilia della caduta ce lo dice il diplomatico spagnolo Ruy Gonzàlez de Clavijo: «la Capitale rigurgita di edifici fati­ scenti, di chiese e monasteri in stato di completo abbando­ no». Questa descrizione richiama alla memoria l'immagine di Roma ai tempi dei Goti e dei Longobardi, con le strade trasformate in fogne, le piazze adibite a pascoli, le chiese convertite in bivacchi. La periferia di Bisanzio era ridotta a una fetida bidonville, infestata dai topi e dai pidocchi, popo­ lata di sciuscià e di barboni. Le carestie e le pestilenze deci­ mavano a turno la popolazione, scesa a poco più di cento­ mila anime. La società era in pieno disfacimento. Solo la filosofia e le arti non avevano perduto tutto il loro smalto. Per mancanza di studenti alcune scuole avevano chiuso i battenti, ma la maggior parte funzionavano regolarmente, anche se i fre­ quentatori si facevano sempre più rari. Dotti filosofi teneva­ no dotte lezioni su Platone e Aristotele, prendendo animo­ samente partito a favore dell'uno o dell'altro. Il Basileus Gio­ vanni VI Cantacuzene, migliore come studioso che come sovrano, sosteneva la superiorità di Aristotele su Platone. Anche l'arte, sullo sfondo del generale decadimento, eb­ be un estremo guizzo di vita. I temi e i motivi ai quali essa s'ispirava erano ancora quelli religiosi - il Vecchio e il Nuo­ vo Testamento, le vite dei santi - e il tono quello edificante e agiografico, ma un soffio di naturalismo aveva cominciato a pervaderla e a renderla meno uggiosa. Accanto a scene del­ la Passione e a leggende miracolose, gli artisti bizantini ri­ traevano bozzetti di vita quotidiana in grandiosi e policromi affreschi. Ma tutto questo non bastava a far da scudo contro la spada dell'Islam, brandita dai bellicosi Turchi Ottomani. Erano costoro una popolazione originaria dell'Asia cen­ trale, da cui erano refluiti verso sud. Dopo lunghe ed este­ nuanti marce attraverso monti e pianure, s'erano accampati

278 sugli altipiani dell'Anatolia. Vivevano in tende e in rozze ca­ panne di paglia. La pastorizia era la loro principale fonte di sostentamento, possedevano rudimentali cognizioni d'agri­ coltura ed erano cavalieri formidabili. Quando s'acquartie­ rarono nell'Asia Minore erano pagani. Invano i missionari bizantini cercarono di convertirli al cristianesimo. Furono invece i califfi arabi, quando arrivarono da quelle parti nel­ la loro folgorante diaspora, che li convertirono all'Islam: un credo molto più congeniale al loro temperamento anche perché lo si praticava con la scimitarra. Nella seconda metà del XIV secolo, il loro sultano Orkhan chiese e ottenne la mano di una principessa greca. Intorno al 1350, suo figlio Solimano, in seguito a una conte­ sa scoppiata tra i Paleologi e l'Imperatore in carica, Canta- cuzene, fu da quest'ultimo arruolato con il suo esercito con­ tro la dinastia rivale. Da allora, i Turchi non cessarono di profittare delle continue lotte fratricide che insanguinaro­ no, fino al crollo finale, il trono di Bisanzio, e cominciarono a prendersi degli anticipi sull'eredità annettendosi una do­ po l'altra le province balcaniche dell'Impero. Il protagonista di questo prodigioso moto d'espansione a nord-ovest fu il Sultano Murad, il vero fondatore dell'Im­ pero ottomano, uno dei più intrepidi condottieri del suo tempo. In lui le virtù guerriere s'allearono a eccezionali do­ ti politiche e diplomatiche. Divise i sudditi in cittadini di pri­ ma e di seconda categoria: alla prima assegnò i turchi e tut­ ti coloro che si convertivano all'Islam, alla seconda i cristia­ ni, che seguitavano a vivere secondo i loro costumi e le loro leggi, limitandosi a pagare al sultano speciali tasse. Se in tempo di guerra una città opponeva resistenza i suoi abitan­ ti venivano fatti schiavi e, se donne, diventavano concubine. Poiché la condizione di schiavo, di concubina e di cittadino di seconda categoria presentava molti inconvenienti e so­ prattutto impediva di far carriera, le conversioni erano nu­ merose. Fu grazie alla politica religiosa di Murad che l'Impero ot-

279 tornano, nel suo eterogeneo e pittoresco cosmopolitismo, trovò coesione e unità. Questo spregiudicato e lungimirante monarca legò il suo nome anche all'istituzione dei famosi giannizzeri, specie di guardia pretoriana, i cui componenti venivano reclutati in tenera età, allevati secondo una rigida disciplina militare nell'assoluta lealtà verso il sovrano e ad­ destrati nell'uso di tutte le armi. Godevano di speciali privi­ legi e ricevevano uno speciale soldo, molto superiore a quel­ lo che veniva corrisposto alle comuni milizie di carriera. Es­ si furono il primo corpo organizzato dell'esercito turco, che fino al principio del Trecento era stato poco più di un'orda. Quando nel 1451 diventò Sultano Maometto II, quello ottomano era già un Impero prospero, potente e temuto. Dominava buona parte della Penisola balcanica e una gros­ sa fetta dell'Asia Minore. Solo Costantinopoli era rimasta in­ dipendente, ma come può esserlo un castello assediato. Sul­ la carta era ancora la Capitale di un Impero, ma i suoi con­ fini ormai coincidevano col perimetro delle sue mura. Alla vigilia di Pasqua del 1453, i suoi abitanti furono mes­ si in allarme dall'annunzio che un'armata turca di centoqua- rantamila uomini, in pieno assetto di guerra, stava marcian­ do alla volta della città. Alcuni fuggirono e ripararono nelle campagne circostanti temendo che un assedio e una lunga carestia li facesse perire, ma i più si accinsero alla difesa. Il 2 aprile apparve minacciosa all'orizzonte l'avanguardia nemi­ ca. L'imperatore Costantino XI Paleologo ordinò la sortita di uno squadrone di cavalieri i quali, dopo aver seminato un po' di panico tra le file nemiche, vedendo approssimarsi il grosso dell'esercito, batterono precipitosamente in ritira­ ta. Tutti i ponti levatoi furono alzati, sigillate le porte di ac­ cesso alla Capitale. E per impedire che la flotta turca gettas­ se le ancore nella baia del Corno d'Oro, la bocca del porto fu sbarrata con una trincea di tronchi galleggianti, tenuti insieme da pesanti catene di ferro. Il 5 aprile, il Sultano s'attendò con il suo variopinto se­ guito in campo aperto a circa un miglio e mezzo dalla Capi-

280 tale, ma il giorno successivo spostò avanti l'accampamento di alcune centinaia di metri. Costantino rivolse un appello a tutti gli stranieri residenti a Bisanzio affinché concorressero alla difesa della città. I mercanti veneziani e genovesi, al co­ mando dei loro rispettivi Balivi, impugnarono le armi e si attestarono a difesa delle posizioni loro assegnate. Anche i monaci furono mobilitati e scaglionati lungo le mura come ufficiali di collegamento. I preti furono invitati a tenersi pronti a confessare i vivi e a recare il viatico ai moribondi. Il comandante della piazza fece puntare i cannoni in di­ rezione del campo nemico, ma alla prima bordata dovette rimuoverli perché i contraccolpi avevano aperto profonde crepe nei muri delle torri sulle quali erano stati issati. Al ri­ paro così dall'artiglieria bizantina, i Turchi avanzarono di qualche altro centinaio di metri. II Sultano spostò per la ter­ za volta la sua tenda rosso-oro e offrì ai Greci una tregua che fu sdegnosamente respinta. Allora ordinò ai cannonieri di bombardare le mura le quali in più punti subirono gravi brecce, che gli assediati s'affrettarono a tamponare alla bel- l'e meglio. Le artiglierie ottomane crepitarono per sei setti­ mane. Quando cessavano il fuoco, gli arieti, le testuggini e altre pesanti macchine da guerra venivano spinte a ridosso delle mura, mentre i difensori precipitavano dall'alto maci­ gni, pece e olio bollente. Il 28 maggio Maometto II ordinò ai trombettieri, ai tam­ burini e ai pifferai di dare il segnale dell'assalto. Le campa­ ne di tutte le chiese di Costantinopoli suonarono a distesa seminando il panico fra il popolino che abbandonò le pro­ prie case per cercare rifugio tra le navate di Santa Sofia o sul suo sagrato. Per l'occasione furono riesumate tutte le re­ liquie e impetrata l'intercessione dei santi e dei martiri più in voga. Qualcuno si ricordò di un'antica profezia secondo la quale un angelo, munito di una lunga spada, avrebbe ri­ cacciato gli Infedeli e liberato la città. Ma la profezia non si avverò. Dopo una resistenza dispe­ rata, Bisanzio fu espugnata da un battaglione di giannizzeri

281 che dilagarono nelle sue strade con l'impeto e il fragore di un torrente. Costantino, vistosi perduto, si spogliò delle in­ segne imperiali e, lancia in resta, si avventò con alcuni com­ pagni contro i Turchi. I cronisti contemporanei non ci dico­ no se uscì vivo dalla mischia. Probabilmente vi perì, suggel­ lando con un gesto nobile e prode la liquidazione di una di­ nastia che in due secoli non ne aveva compiuto nessuno. Maometto varcò le mura di Costantinopoli alcune ore dopo che il suo esercito l'aveva conquistata per consentire alla soldataglia di sfogare il suo uzzolo di saccheggio. Al suo ingresso i massacri e le rapine cessarono, anche perché da uccidere e da svaligiare c'era rimasto ben poco. Le strade e le piazze della città erano lastricate di cadaveri, molti dei quali orrendamente mutilati. Anche i monasteri erano stati presi d'assalto e i loro inquilini, senza distinzione di sesso, violentati e poi scannati. Alcune monache, per non cadere nelle mani dei vincitori, si erano affogate gettandosi nei pozzi dei conventi, altre si erano sfracellate dalle finestre, altre ancora si erano avvelenate. Dopo aver profanato i luo­ ghi sacri, gli Ottomani avevano invaso le biblioteche, depre­ dando l'immenso e inestimabile patrimonio di codici e ma­ noscritti che esse custodivano. Decine di migliaia di volumi furono dati alle fiamme o gettati in mare. Quando finalmente, dopo tre giorni, tornò la calma, il Sul­ tano diede ordine di convertire in moschee un certo numero di chiese. Gli Ulema s'arrampicarono sui pulpiti e annuncia­ rono che Allah era il vero dio e Maometto il suo profeta. Quindi, il Sultano convocò i suoi generali e al loro cospetto procedette alla spartizione del bottino, di cui s'aggiudicò una parte cospicua. Esso consisteva non solo in armi, trofei, gioiel­ li, argenteria e altri oggetti preziosi, ma comprendeva anche i membri superstiti della famiglia imperiale e un certo numero di ufficiali, dignitari e dame di corte, scampati alla carnefici­ na. Maometto concesse magnanimamente la libertà alle don­ ne meno avvenenti e assegnò al proprio serraglio le altre. Quindi s'accinse a rimettere un po' d'ordine in città. No-

282 minò un nuovo Patriarca nella persona del teologo Genna- dio, al quale affidò i cristiani di Bisanzio, su cui egli doveva vigilare come suo rappresentante. Ai primi di gennaio 1454, Gennadio ricevette dalle mani di Maometto le insegne del­ l'alto ufficio: la lunga veste, il bastone e la croce pettorale. Dopo la cerimonia, il Patriarca salì su un cavallo bianco, do­ no del Sultano, e s'avviò verso la chiesa dei Santi Apostoli, dove fu incoronato dal Metropolita di Eraclea. Infine guidò una lunga processione per le vie della città. Col titolo di Patriarca, Gennadio ottenne da Maometto numerosi privilegi: l'inviolabilità personale, l'esenzione fi­ scale, l'inamovibilità e il diritto di trasmettere queste prero­ gative ai successori. Inoltre, riuscì a strappare ampie con­ cessioni in materia giudiziaria, assicurando alla chiesa orto­ dossa il diritto non solo di giudicare le controversie religio­ se, ma anche le cause concernenti il matrimonio, il divorzio e la tutela dei minori. All'assetto religioso seguì quello economico di Costanti­ nopoli, che Maometto elesse a capitale dell'Impero ottoma­ no al posto di Adrianopoli. Invitò i commercianti greci a ri­ pristinare i loro traffici e gli artigiani a riaprire le loro botte­ ghe, lanciò un appello agli Armeni, agli Ebrei e ai Turchi residenti in altre parti dell'Impero affinché emigrassero a Bisanzio, reclutò una schiera di valenti architetti e affidò lo­ ro la ricostruzione della città e l'erezione di un palazzo reale in pieno centro, dove s'installò con la Corte e un dovizioso harem. In pochi anni la città resuscitò, quadruplicò la sua popolazione, e riacquistò il rango e il tono di Capitale. Quando Costantinopoli cadde, i contemporanei non si resero conto che la storia d'Europa avrebbe preso, dopo quell'evento, un nuovo corso. Con Bisanzio non era infatti crollata solo una Capitale, che non aveva fatto nulla per re­ stare tale. Era caduto l'ultimo bastione romano, e quindi oc­ cidentale, nella Penisola balcanica e nell'Asia Minore, per­ ché la Costantinopoli dei Paleologi non era solo l'erede di Giustiniano, ma anche dei Cesari.

283 La grande sconfitta fu però la Chiesa cristiana che si vide definitivamente soppiantata da quella fede mussulmana che per secoli aveva combattuto, e con le crociate aveva cercato d'estirpare. La spada dell'Islam aveva compiuto la vendetta affondando la sua lama fin sulla soglia della cristianissima Ungheria. Ma quella ottomana fu una rivincita non solo religiosa, ma anche economica. A farne le spese furono soprattutto le repubbliche marinare di Venezia e di Genova che dal Mille in poi avevano spadroneggiato nell'Adriatico e nell'Egeo monopolizzando i commerci, arricchendosi smisuratamen­ te, facendo e disfacendo alleanze e lacerando con la loro se­ te di guadagno e le loro sanguinose beghe il debole e cor­ rotto Impero d'Oriente. Non tutti i valori della grande civiltà bizantina andarono tuttavia perduti per l'Occidente. La resa di Costantinopoli provocò l'esodo in Francia e in Italia di uno stuolo di filoso­ fi, letterati, artisti greci che fecero conoscere all'Ovest i teso­ ri del pensiero e della cultura della Madrepatria. Furono costoro a spargere nel nostro Paese i semi di quella rinascita umanistica che contrassegnò i «secoli d'oro». CAPITOLO VENTISETTESIMO

LA SCOPERTA DELLAMERICA

La caduta di Costantinopoli chiuse all'Europa le vie del Me­ diterraneo orientale, e la obbligò a volgere gli occhi a Ovest. Nella fantasia popolare, l'Ovest era la sconfinata distesa d'acqua al di là dello stretto di Gibilterra, le cosiddette «co­ lonne d'Ercole», che segnavano il limite del mondo cono­ sciuto. Chi le varcava non faceva più ritorno, inghiottito dai flutti di un mare inaccessibile. Cosa nascondevano i suoi abissi? Fin dove s'estendevano le sue propaggini? A questi inquietanti interrogativi erano state date le risposte più biz­ zarre e fantastiche. Per molti secoli, filosofi, teologi e scien­ ziati avevano sostenuto, pur senza darne una plausibile mo­ tivazione, che l'Oceano, come nell'antichità era stato battez­ zato l'Atlantico, non era navigabile. Ma nel 986, i Normanni avevano osato affrontarlo spingendosi fin sulle coste della Groenlandia. Nel 1000, ripetendo l'impresa, avevano sco­ perto un nuovo Continente: ma, trovatolo deserto, avevano volto nuovamente le prue verso i loro fiordi di partenza. Queste gesta, tramandate nelle saghe nordiche, in Euro­ pa non trovavano molto credito. Ma accesero la fantasia di un giovane marinaio genovese, che nei suoi viaggi aveva sfiorato le coste della Scandinavia, donde cinquecento anni prima i vascelli normanni avevano preso l'avvio. Cristoforo Colombo era nato a Genova nel 1451 da una povera famiglia di tessitori ebrei emigrati dalla Spagna in Liguria e convertiti. Quand'era bambino, il padre, per sfug­ gire ai creditori, aveva dovuto trasferirsi a Savona, dove aveva trovato lavoro come oste. Le precarie finanze gli ave­ vano impedito di mandare a scuola i figli che, giunti alle so-

285 glie della pubertà, s'imbarcarono come mozzi su un vecchio mercantile. Nel 1471 Colombo fu promosso capitano. Cinque anni dopo, il suo vascello, veleggiando verso Lisbona, fu assalito dai pirati e affondato. Cristoforo si salvò per miracolo nuo­ tando per sei ore aggrappato a una tavola di legno. Nel 1477 visitò la Scandinavia, e fu in quell'occasione che sentì parlare delle imprese transoceaniche dei vichinghi. Egli non pensava che costoro avessero scoperto un nuovo conti­ nente. Credeva che avessero trovato la via occidentale verso l'India e la Cina, cioè il modo di eludere lo sbarramento ot­ tomano di Costantinopoli. Navigando, nelle lunghe pause d'ozio, aveva letto Xlmago Mundi di Pietro d'Ailly, YHistoria rerum ubique gestarum di Pio II, la traduzione italiana dell'Historia naturalis di Plinio e il Milione di Marco Polo, le cui favolose descrizioni della Cina e del Giappone avevano infiammato la sua vivida immagi­ nazione. Marco Polo fissava a cinquemila miglia a Ovest di Lisbona la più vicina isola del continente asiatico. La stessa distanza - secondo il medico fiorentino Paolo Toscanelli - si doveva percorrere per raggiungere dalle coste portoghesi, e per la via più breve, l'India. I biografi di Colombo riferi­ scono che furono queste valutazioni a far nascere nel navi­ gatore genovese l'idea di sfidare l'Oceano. Cristoforo, che dopo il naufragio si era accasato a Li­ sbona, scrisse al re del Portogallo chiedendogli tre cara­ velle e sottolineando i vantaggi che sarebbero derivati alla Fede cristiana dalla conversione degl'indigeni dell'Asia. Il bigotto sovrano sottopose la richiesta a una commissione di geografi i quali la giudicarono inaccettabile perché - se­ condo loro - la distanza tra il Portogallo e l'estremo lem­ bo orientale dell'Asia, che nessuno a quei tempi sospetta­ va fosse divisa dall'Europa da un altro Continente, era molto superiore a quella indicata da Colombo. Il capitano si rivolse allora a Genova e a Venezia, ma le due repubbli­ che marinare italiane gli negarono ogni aiuto. Bussò alla

287 porta dei sovrani di Spagna, Ferdinando e Isabella, i qua­ li nominarono una commissione di esperti, che ribadì le obiezioni sollevate dai geografi portoghesi. Deluso, ma non scoraggiato, pensò di recarsi in Francia, alla corte di Carlo Vili. Ma un amico, l'abate Perez, riuscì a dissua­ derlo fissandogli un'udienza con Isabella. Anche il mini­ stro Luis de Santander, un ebreo battezzato, intercesse presso la Regina affinché accordasse la sua protezione al­ l'impresa, che egli stesso s'impegnava a finanziare qualo­ ra i sovrani si fossero rifiutati di sovvenzionarla col pub­ blico denaro. Finalmente, Isabella e Ferdinando si decise­ ro a dare il loro consenso. In pochi giorni furono raccolti due milioni di maravedì e allestite tre caravelle: la Pinta, la Nifia e la Santa Maria. Quest'ultima era la nave ammiraglia, stazzava duecento- trentatré tonnellate ed era lunga circa trentacinque metri. Tutt'e tre erano dotate di bombarde caricate a palle di gra­ nito e dì spingarde, piccole artiglierie che sparavano proiet­ tili di piombo, e sui pennoni issavano una croce. Le stive erano state colmate di vino, acqua e generi alimentari per­ ché ogni marinaio aveva diritto a una dose quotidiana di trecentocinquanta grammi di biscotto, duecentottanta di carne o pesce e due litri di vino. Inoltre, erano stati imbar­ cati alcuni quintali di ortaggi, cipolle, formaggi e numerose casse di perle di vetro, specchi, berretti variopinti, spilli e aghi da distribuire agli abitanti del Catai e del Cipango, co­ me allora erano chiamati la Cina e il Giappone. L'Ammiraglio, istallatosi sulla Santa Maria, affidò il co­ mando della Pinta a Martin Alonso Pinzon e quello della Ni­ fia a Vicente Yanez Pinzon, uno dei più grandi navigatori spagnoli del tempo; e il 3 agosto 1492 la piccola flotta, salu­ tata dagli abitanti in festa, salpò dal porto di Palos. Dopo al­ cuni giorni di navigazione, la Pinta subì un'avaria e dovette essere rimorchiata fino alle isole Canarie, dove Colombo fe­ ce gettare le ancore e riparare l'imbarcazione. Solo dopo un mese, a causa della bonaccia e dei venti contrari, le tre navi

288 poterono riprendere il mare puntando diritte verso ponen­ te, cioè verso l'Ignoto. Al tramonto, l'equipaggio s'ammassava sul ponte a reci­ tare l'Ave Maria e a cantare le lente nenie castigliane e an­ daluse. Col passare dei giorni, mano a mano che le caravel­ le s'inoltravano nell'Oceano, gli animi dei naviganti si face­ vano agitati e dubbiosi. Ogni tanto qualcuno, colto dallo sconforto, si gettava in ginocchio, levava le mani al cielo e invocava la terra, oppure, in preda a un miraggio, la punta­ va col dito all'orizzonte. Ma quando la visione svaniva, ri­ piombava in un cupo sgomento. Erano quelli momenti di terribile angoscia per l'Ammiraglio. Una sera, alcuni marinai gli dissero che volevano tornare indietro. «Perdete il vostro tempo», rispose Colombo, «per­ ché io sono partito per il Catai e continuerò a navigare fin­ ché, con l'aiuto di Dio, non lo avrò raggiunto.» Non riu­ scendo con le buone a convincerlo a mutar rotta, l'equipag­ gio minacciò di ammutinarsi. Il complotto venne scoperto, e Pinzon consigliò Colombo di impiccare i ribelli. «Se non lo fate voi», avvertì, «lo faccio io.» Solo allora i marinai della Santa Maria tornarono all'obbedienza. LT1 ottobre, l'equipaggio della Pinta pescò una canna, un bastone intagliato, una tavoletta di legno e un ciuffo d'erba. I marinai intonarono un Te Deum e l'Ammiraglio or­ dinò alla vedetta notturna di tenere gli occhi bene aperti, perché l'approdo sarebbe stato imminente. Alle due, un col­ po di cannone sparato da bordo della Pinta destò gli equi­ paggi delle tre navi. Un certo Rodrigo de Triana aveva avvi­ stato la terra, guadagnandosi i mille maravedì che re Ferdi­ nando aveva promesso a chi per primo avesse scorto l'Asia. All'alba, le caravelle gettarono le ancore al largo di un'iso­ la boscosa e lussureggiante, orlata di una lunga spiaggia dal­ la sabbia sottilissima, popolata da uccelli esotici e da uomini nudi. Colombo fece calare in acqua una lancia e in compa­ gnia del Pinzon, del notaio e dell'ispettore della flotta, rag­ giunse la costa. Con la destra impugnava lo stendardo reale,

289 mentre gli altri due capitani sventolavano una bandiera con la croce. Tutti erano avvolti in vesti sontuose, ricamate d'oro e d'argento, e indossavano cappelli con ricchi pennacchi. Appena toccò terra, l'Ammiraglio dichiarò che prendeva possesso dell'isola in nome di Ferdinando e Isabella. Quindi aprì una borsa e distribuì il contenuto - perle di vetro, so­ nagli, berretti rossi e altre cianfrusaglie - agli indigeni che si erano fatti intorno agli spagnoli e mostravano una grande curiosità per i loro abiti e le luccicanti spade che cingevano ai fianchi. Colombo chiamò quella terra Guanahani. Era sicuro che essa si trovava in Asia, non lontano dalla città del Gran Khan. Per un paio di settimane vagò per le isole che faceva­ no corona a Guanahani, battezzandole con nomi spagnoli di principi e di santi: Santa Maria de la Conception, Fer- nandina, Isabela. Annotava nel diario ogni cosa che vedeva. Ciò che più l'aveva colpito, oltre alla bellezza del luogo e al tepore del clima, era stata la docilità degli indigeni. «Devo­ no essere buoni servi», scrisse due giorni dopo lo sbarco. «Se i Sovrani lo desiderano possono farli venire in Castiglia o chiuderli prigionieri nell'isola, perché con cinquanta uo­ mini armati li tengono tutti in loro dominio.» Come esem­ pio di carità cristiana non c'era male. L'Ammiraglio ordinò di arrestare un certo numero di sel­ vaggi, specialmente donne, e di battezzarli. Poi fece rizzare all'imboccatura del porto una grande croce, che fosse visibi­ le a molti chilometri di distanza. Alcuni giorni dopo, tornò a scrivere nel suo diario: «Io dico che la cristianità farà buoni affari con questi popoli, soprattutto la Spagna, alla quale tutti devono essere soggetti. E dico che le Altezze Vostre non dovranno permettere ad alcun forestiero di praticare o met­ ter piede qui eccetto i cristiani cattolici, perché questo fu il principio e la fine dell'impresa, che producesse l'accresci­ mento e la gloria della religione cristiana, né deve venire qui alcuno che non sia un buon cristiano». L'Ammiraglio continuò a esplorare l'arcipelago e il 28 ot-

290 tobre sbarcò a Cuba. Uno stuolo di indigeni circondò gli spagnoli e quando costoro, come sempre facevano quando prendevano possesso di un nuovo territorio, intonarono l'Ave Maria, s'unirono al coro e alcuni provarono anche a fare il segno della croce suscitando l'ilarità di Colombo e dei suoi compagni. Quando il capotribù, alludendo all'isola, pronunciò il nome di Cubanacam, che significa Cuba del­ l'interno, Colombo, che aveva capito El Gran Khan, esultò credendo di essere giunto finalmente nel Paese del Signore della Cina. Spedì subito due ambasciatori alla ricerca di quel fantomatico sovrano, e dopo alcuni giorni essi fecero ritor­ no con un rapporto circostanziato di quello che avevano vi­ sto. Invece del Gran Khan avevano trovato altri indigeni nudi e bruni che sprigionavano fumo dal naso, da cui spun­ tavano lunghe foglie accartocciate. Dissero di essere stati ac­ colti da quei selvaggi con molte feste e di avere assaporato anche loro l'aroma di quelle foglie ricavandone una strana sensazione di piacere. La scoperta del tabacco dovette sem­ brare ai due spagnoli molto più importante di quella del Nuovo Mondo. Non sappiamo se anche Colombo si ficcò quei cartocci nel naso e se ci provò gusto. Conoscendo l'uo­ mo ne dubitiamo. Era un asceta dominato da un pensiero fisso, quasi monomaniaco: scoprire il Catai e moltiplicare i fedeli di Gesù Cristo e i sudditi del Re di Spagna. Era stato questo a intorbidare i suoi rapporti con Martin Pinzon. Il comandante della Pinta perseguiva tutt'altri idea­ li e, abbandonata la Nina e la Santa Maria, era andato a cer­ care oro nelle innumerevoli isole disseminate intorno a Cu­ ba. Neanche a Colombo, intendiamoci, l'oro dispiaceva. Ne aveva trovato una certa quantità nell'isola di Haiti, dove era approdato ai primi di dicembre, e seguitava a dargli la cac­ cia. Ma una notte, a causa di un fortunale, la nave ammira­ glia s'incagliò e inabissò. Gran parte del carico fu salvato e imbarcato sulla Nina, lanciatasi al soccorso. I marinai e gli ufficiali raggiunsero a nuoto la riva di un'isola e furono rifo­ cillati dai suoi abitanti.

291 Il 16 gennaio, lasciata ad Haiti una guarnigione di uomi­ ni, l'Ammiraglio dette ordine alla Nina e alla Pinta di salpa­ re alla volta dell'Europa. Fu una lunga traversata, tribolata da violente procelle. Quando le caravelle giunsero nei pressi delle Azzorre, Pin­ zon si staccò dalla Nina. Voleva arrivare prima di Colombo in Spagna e dare ai Sovrani la notizia che l'Asia era stata raggiunta. Attardato da certi guasti, l'Ammiraglio non potè seguir­ lo. Alcuni marinai scesero a terra e si recarono in pellegri­ naggio a un santuario della Vergine per sciogliere un voto che avevano fatto quando la caravella, in pieno Oceano, era stata investita da un uragano che per poco non l'aveva cola­ ta a picco. Appena vi giunsero, furono circondati da soldati portoghesi, e imprigionati. Solo dopo quattro giorni, il co­ mandante dell'isola li rimise in libertà e li rispedì a bordo della Nina che, ripresa la navigazione, fu nuovamente col­ pita da un ciclone che ne sconquassò le vele. L'equipaggio fece voto di digiunare un giorno intero a pane e acqua se fosse scampato a quel cataclisma. Il 3 marzo, la Nina giunse in vista del Portogallo. Poiché le vele della caravella erano ridotte a un colabrodo e il por­ to di Palos distava ancora oltre 220 miglia, Colombo decise di approdare a Lisbona, dove riparò i danni. Il 15, final­ mente, la Nina gettò l'ancora nella baia di Palos salutata da una folla osannante. Colombo trovò un messaggio di Ferdi­ nando e Isabella che lo invitavano a Barcellona. I Sovrani avevano già saputo da Pinzon il felice esito dell'impresa. Ma, con regale correttezza, si erano rifiutati di riceverlo pri­ ma di Colombo. Questi si presentò a Corte seguito da uno stuolo di indi­ geni che recavano cassette d'oro e variopinti pappagalli. Quando il Re gli chiese a chi doveva consegnare i mille ma- ravedì che egli aveva promesso al marinaio che per primo avesse avvistato la terra, Colombo rispose che anche quell'o­ nore spettava a lui. Per sei mesi visse a Palazzo e ottenne dai

292 sovrani fondi per una nuova spedizione. Allestì una flotta di diciassette navi con milleduecento uomini, viveri, munizio­ ni e un certo numero di animali per popolare di fauna eu­ ropea quelle selvagge contrade, che una bolla papale aveva allora battezzato «Indie». Imbarcò anche cinque confessori per convertire al Cristianesimo gli indigeni. Il 25 settembre 1493, il convoglio salpò dal porto di Sivi­ glia e dopo neppure quaranta giorni di navigazione appro­ dò alle coste di un'isola che Colombo chiamò Dominica, perché vi giunse di domenica. Di lì penetrò nelle Piccole Antille, che battezzò Isole Vergini. Poi scoprì Portorico e fi­ nalmente fece vela per Haiti, dove aveva lasciato il piccolo presidio di spagnoli. Ne ritrovò uno solo. Tutti gli altri era­ no morti: alcuni erano stati uccisi dagli indiani, ai quali ave­ vano rapito le donne, altri si erano scannati tra loro. Istallò una nuova guarnigione nell'isola di Isabela e si ac­ cinse a circumnavigare Cuba, ma un ciclone risospinse le navi al punto di partenza. Ritrovò anche questo presidio let­ teralmente decimato; gli spagnoli avevano catturato alcuni giovinetti per farne degli schiavi, e gl'indigeni, per vendet­ ta, avevano assalito l'accampamento dei coloni e ne avevano trucidato la maggior parte. Colombo restò nelle Indie due anni e mezzo a reclutare schiavi e nel marzo del 1496 tornò in Spagna. Un cronista riferisce che su cinquecento indigeni che varcarono l'Atlan­ tico, duecento morirono durante la traversata e gli altri, in­ capaci di adattarsi al clima e alle usanze del Vecchio Mondo, perirono dopo pochi anni. Nel maggio del 1498 rivalicò l'O­ ceano alla scoperta di nuove terre. Fondò altri insediamenti e autorizzò i coloni a rapire e ad assoggettare gli indiani senza distinzione di sesso e di età. Ciò provocò violente ri­ volte che Colombo soffocò nel sangue, cospargendo le isole di forche. Il grande Ammiraglio era un pessimo governatore, ira­ condo, crudele e vendicativo. Anche i suoi collaboratori co­ minciavano a detestarlo e non perdevano occasione, nei

293 L'Europa nel 1492 rapporti che inviavano a Madrid, di criticarlo aspramente. Nel 1500, Ferdinando e Isabella, preoccupati, nominarono un commissario reale e lo mandarono nelle Indie con pieni poteri. Francisco de Bobadilla ne fece l'uso meno discreto. Arre­ stò Colombo, lo scaraventò in prigione con le manette ai polsi e le catene ai piedi, e lo rispedì in Spagna, dove il pri­ gioniero fu tenuto altre sei settimane in catene, eppoi con­ dotto dinanzi al Re. Ferdinando gli rinfacciò gli errori com­ messi dal governatore, lo dichiarò decaduto dalla carica, ma gli lasciò le sue proprietà nel Nuovo Mondo. Colombo ri­ batté le accuse e al momento del congedo chiese al sovrano di mettergli a disposizione un'altra flotta per continuare le sue esplorazioni. Nel maggio 1502, per la quarta volta, Colombo spiegò le vele. Visitò l'Honduras, il Nicaragua, la Costa Rica e la Gia- maica dove, in seguito a un uragano, le navi subirono tali danni che per oltre un anno non poterono riprendere il lar­ go. Quando giunsero gli aiuti da Santo Domingo, i naufra­ ghi spagnoli erano allo stremo delle forze e l'Ammiraglio, torturato dall'artrite, non vedeva l'ora di tornare in patria, dove sbarcò nel novembre del 1505. Aveva compiuto da poco cinquantotto anni, ma ne dimo­ strava parecchi di più. I capelli gli si erano fatti bianchi, pe­ santi rughe gli solcavano il viso cotto dal sole e segnato da profonde occhiaie. Si muoveva con difficoltà a causa degli acciacchi che l'affliggevano e che l'avevano piombato in una cupa malinconia. Appena la sua nave gettò l'ancora, chiese di nuovo udienza a Ferdinando, che lo ricevette alla Corte di Segovia. Colombo supplicò il Sovrano di reintegrarlo nei suoi antichi privilegi e di restituirgli la carica di governato­ re, ma il Re si limitò a offrirgli una vasta tenuta in Castiglia. Colombo rispose che non sapeva che farsene, e aveva ragio­ ne. Dopo pochi mesi la morte pose fine al suo amaro e soli­ tario crepuscolo. Fra i grandi protagonisti della Storia, Colombo non è dei

295 più coloriti e avvincenti. Le sue delusioni non furono solo il frutto dell'ingratitudine altrui, ma anche della sua grettez­ za, aridità e avidità. Ma la sua impresa resta tuttavia fra le più grandi e decisive di tutti i tempi. Il 1492, con cui molti studiosi fanno finire il Medio Evo e cominciare quello mo­ derno, è davvero una data fondamentale. Essa segna lo spo­ stamento del baricentro mondiale dal Mediterraneo al­ l'Atlantico. La grande avventura delle Repubbliche marinare italia­ ne finisce. Comincia quella di Spagna, Portogallo, Inghilter­ ra. La nuova geografia relega il nostro Paese in una parte di comprimario. Indro Montanelli - Roberto Gervaso

L'ITALIA DELLA CONTRORIFORMA (1492-1600) AVVERTENZA

Questa Italia della Controriforma è la quarta puntata di un'uni­ ca opera che, iniziata con L'Italia dei secoli bui, L'Italia dei Co­ muni e L'Italia dei secoli d'oro, si propone di giungere fino ai giorni nostri. Sappiamo benissimo quali sono i pericoli che presentano queste imprese. Chiunque tenti di condensare un periodo di due o tre seco­ li in un volume di cinque o seicento pagine è costretto fatalmente a una certa sommarietà di sintesi che offre agli specialisti i più como­ di pretesti di critica. Essi potranno facilmente contestare l'inesattez­ za di qualche particolare e la soggettività di certi giudizi. Potranno denunziare errori di proporzioni nel rilievo dato a certi avvenimen­ ti e personaggi a scapito di altri. Potranno soprattutto lamentare l'insufficiente approfondimento di certi temi. Non ci siamo mai illusi di sfuggire a queste accuse, da cui del resto ci sembra che nessuno storico, per quanto grande, sia al ripa­ ro. E non intendiamo confutarle. Certamente i nostri libri hanno delle pecche. Ma siamo convinti che abbiano anche un merito: quel­ lo di farci leggere piacevolmente e capire con facilità. Chi li comin­ cia, li finisce. E, arrivato infondo, non dico che sappia tutto quello che si può e si deve sapere su quei dati argomenti; ma l'essenziale, sì. Di quanti libri di storia italiani si può dire altrettanto ? Di tutti quelli che abbiamo scritto finora, questa Italia della Controriforma sarà probabilmente il più bersagliato: sia per il te­ ma che tratta, sia per il modo in cui lo fa. Dichiariamo con la mas­ sima franchezza che, di fronte a personaggi quali Wycliff, Huss, Lutero, Calvino, Zuinglio, ci siamo sentiti in obbligo di rinunziare a ogni pregiudiziale cattolica nel tentativo di rappresentarli, in tutta la loro verità umana e di pensiero. Quanto ci siamo riusciti non so;

299 ma ci siamo provati, pur sapendo a cosa ci esponevamo. Ci si ob- bietterà che anche da noi esistono già altre opere ispirate alla stessa imparzialità. E vero. Ma si tratta di opere di specialisti per speciali­ sti. In quelle destinate al grande pubblico e più ancora ai giovani delle scuole, la Riforma e i suoi protagonisti sono visti soltanto sotto l'angolatura della Chiesa e liquidati alla svelta sotto le voci «ereti­ ci» ed «eresie». Noi invece abbiamo dedicato loro il grosso di questo libro, e abbiamo cercato di farlo da una posizione di assoluta equi­ distanza, convinti che all'Italia proprio questo è mancato: la cono­ scenza obbiettiva dei problemi e degli uomini che provocarono il grande scisma del mondo cristiano. Non sappiamo se la Chiesa reagirà a questo nostro tentativo col silenzio o con le confutazioni. Ma contro queste ultime vogliamo co­ munque cautelarci presso il lettore. Specialmente ì gesuiti dispongo­ no di uomini agguerritissimi su tutte le questioni di dottrina, esper­ ti di testi, puntigliosi, cavillosi, rotti a ogni malizia polemica e av­ vezzi a mettere nel sacco qualunque interlocutore. Quando Erasmo pubblicò la sua versione in latino del Nuovo Testamento, che dava loro molto fastidio, i pedanti vi rilevarono quattromila inesattezze. E può anche darsi che avessero ragione. Ma questo non impedì al­ l'opera di Erasmo di raggiungere il suo obbiettivo che era quello di risvegliare la pubblica opinione ai problemi teologici e di divulgar­ ne i temi fondamentali, spianando così la strada a Lutero e a Cal­ vino. Perciò il nome di Erasmo rimane scolpito nella Storia, mal­ grado le sue quattromila inesattezze. Quello dei suoi pedanti censo­ ri, malgrado la loro precisione, ne è stato cancellato. Per scrupolo di onestà, dobbiamo aggiungere che anche i prote­ stanti troveranno da ridire su questo libro, anzi lo hanno già detto per bocca dì due docenti della Facoltà Valdese di Teologia, i Profes­ sori Corsani e Vinay. Chiamali a leggere il manoscritto e a darne un giudizio, hanno così concluso la loro relazione. «Gli autori sono scrittori di Storia provenienti dal giornalismo. Noi siamo degli stu­ diosi (e docenti) di teologia provenienti dal pastorato protestante: dal nostro punto di vista e con la nostra forma mentis avremmo probabilmente scritto questa opera (per lo meno alcune delle sue pa­ gine) con un diverso stile. Non soltanto le pagine che parlano del

300 Protestantesimo, ma anche quelle che parlano della Chiesa romana, sono molto spesso in una vena giocosa o ironica che non permette al lettore sprovveduto di rendersi conto che le miserie degli uomini e delle istituzioni sono in realtà la tragedia della Chiesa e dell'Evan­ gelo di Dio nel mondo; che il dramma religioso dell'Italia nel secolo XVI fu un dramma terribilmente serio, di cui il nostro Paese anco­ ra oggi paga le conseguenze». Accettiamo la critica, e la troviamo del tutto logica. E naturale che due docenti di teologia avrebbero scritto questo libro in modo del tutto diverso. Ma lasciamo giudicare al lettore se siamo riusciti, o no, a fargli capire, malgrado la vena giocosa, la terribilità del dramma religioso nell'Italia del Cinque­ cento. Noi non siamo mai stati tanto seri come nello scrìvere queste giocosità. Altro avvertimento. Qualche lettore, arrivato infondo all'ultima pagina, forse si chiederà come mai questo libro, che si propone di narrare le vicende italiane, ha così a lungo divagato in quelle stra­ niere. Purtroppo, dal Cinquecento in poi, non si può seguire altro metodo. Per quasi tre secoli, cioè con la fine delle invasioni barbari­ che e l'inizio dell'era comunale, l'Italia è stata la protagonista della storia europea. Lo è stata non solo politicamente, grazie al Papato uscito vittorioso dalla lotta contro l'Impero; ma anche sul piano eco­ nomico e culturale, grazie alla superiorità dei suoi istituti munici­ pali e alla vigoria dei suoi ceti mercantili e industriali. Militarmen­ te debole, anzi imbelle, essa è alla mercé degli eserciti tedeschi degli Ottoni e degli Hohenstaufen, di quelli francesi degli Angioini, di quelli spagnoli degli Aragona. Ma regolarmente conquista i suoi conquistatori. Le sue flotte dominano il Mediterraneo, la sua mone­ ta e le sue banche dettano legge su tutti i mercati, la sua arte e lette­ ratura forniscono i modelli a tutti gli altri Paesi. Chi voglia studia­ re la vita europea di questo periodo, specie alla sua acme dell'Uma­ nesimo e del Rinascimento, deve rifarsi all'Italia e può anche limi- tarvisi perché è l'Italia che le dà il la. Ma col Cinquecento il rapporto si rovescia: da protagonista, l'I­ talia viene degradata a oggetto delle vicende europee. Da allora la nostra storia nazionale perde la sua autonomia, diventa un riflesso di quelle altrui, e per ricostruirla bisogna andare a rintracciarne le

301 fila in Francia, in Spagna, in Germania. Riforma e Controriforma segnano appunto lo spartiacque: ed ecco perché su questi temi ab­ biamo insistito. Un'ultima cosa. Se siamo andati tanto avanti nella stesura di quest'opera e ci proponiamo di continuare, è perché i lettori ce l'hanno chiesto e quasi imposto col loro sempre più vivo interessa­ mento, documentato dalle «tirature» quasi astronomiche dei volumi pubblicati fin qui. Il «» assegnatoci nel '67 dai librai di Pontremoli per il libro di più grande successo ne è stata la definitiva conferma. A questi lettori vogliamo esprimere il nostro grazie più schietto e affettuoso.

Ottobre '68 I.M. R.G. PARTE PRIMA

LA PENISOLA CAPITOLO PRIMO

LA SCENA ITALIANA

Riassumiamo la situazione a cui eravamo arrivati con LItalia dei secoli d'oro, un'Italia frantumata in una galassia di Stati e staterelli in lotta fra loro per un impossibile primato. Il più vasto era, a sud, il Regno di Napoli, passato nel 1443 dagli Angioini di Francia agli Aragonesi spagnoli. Il primo sovrano di questa casa, Alfonso, governò con sagacia e magnanimità. Fu sotto di lui che Napoli diventò una capi­ tale fastosa e moderna. Alfonso diede alla città un volto ar­ chitettonico nuovo, demolì i vecchi quartieri, fatiscenti e malsani, incrementò l'edilizia popolare, costruì strade, sca­ vò fogne, eresse chiese e palazzi, restaurò il Maschio Angioi­ no, innalzando nel centro un grandioso arco trionfale. Ab­ bellì la corte, la riempì di quadri, tappeti, ori, arazzi e ne fe­ ce il fulcro della vita sociale, mondana e culturale del Re­ gno. Vi chiamò poeti, artisti, filosofi, letterati, fra cui il cele­ bre umanista Lorenzo Valla. Ma per realizzare quest'opera dilapidò somme favolose e portò il Regno sull'orlo della bancarotta. Per rinsanguare le casse esauste inasprì le tasse e si rese assai impopolare fra i sudditi, che alla sua morte trassero un respiro di sollievo. Il figlio e successore Ferdinando I (Don Ferrante) per rias­ sestare le finanze introdusse un regime di austerità, ridusse gli stipendi ai cortigiani e ai letterati, e concentrò gl'investi­ menti sulla industria e il commercio. Diminuì le tasse, e per alcuni anni abolì il dazio di uscita sulle merci. Spalancò i porti del Regno, soprattutto quello di Napoli, ai mercanti veneziani, genovesi e catalani e concesse l'immigrazione agli ebrei, sebbene il clero e il popolino li vedessero di maloc-

305 chio. Favorì anche l'esodo dalle campagne dei cafoni, che s'inurbarono in così gran numero che il sovrano dovette al­ largare la cinta delle mura e innalzare nuovi quartieri. Fu astuto e lungimirante anche in politica. Attraverso una serie di matrimoni si guadagnò potenti alleati e consoli­ dò il trono. Ma fu specialmente la sua lotta contro i baroni che ne raccomandò la fama ai posteri. I baroni costituivano la nobiltà feudale del Regno, discendevano dai conquistato­ ri normanni, tedeschi, francesi e spagnoli che si erano dati il cambio in questa contrada e vivevano nelle campagne, ar­ roccati nei loro turriti castelli. I più potenti possedevano im­ mensi latifondi e stuoli di schiavi, che sfruttavano e sottopo­ nevano a ogni sorta d'angherie, né conoscevano altra legge che quella della violenza e dell'arbitrio. Su costoro il Re non era in grado d'esercitare alcun potere, né di far valere i suoi diritti. Per accattivarseli Alfonso aveva loro concesso nume­ rosi privilegi e lo stesso Ferrante li alleggerì di alcuni balzel­ li. Ma i baroni odiavano il Re, e nel 1485 ordirono una con­ giura per sbalzarlo dal trono. Ebbero la peggio, e il sovrano li fece decapitare in massa. Quando nel 1494 calò nella tom­ ba, il cordoglio dei sudditi fu sincero. Il Regno era saldo e prospero, e sicuri i suoi confini, che a nord lo dividevano dal rapace e turbolento Stato pontificio. Il Papa, che vi aveva fatto ritorno nel 1377 dopo la lunga parentesi di Avignone, l'aveva trovato in preda alle solite lotte di fazione fra le facinorose famiglie dell'Urbe e le non meno riottose consorterie campagnole. All'alba del XV se­ colo, la città occupava una superficie dieci volte inferiore a quella dei tempi d'Aureliano, e la sua popolazione non su­ perava le sessantamila anime. Le mura erano ridotte a ru­ deri, le strade a trazzere polverose e ingombre di rifiuti, gli acquedotti erano intasati, le case tatuate di crepe e rivestite di muffa, i Fori trasformati in putridi catini, il Colosseo e il teatro di Marcello adibiti a depositi d'immondezza, il Cam­ pidoglio costellato di luride bidonvilles. Vacche, pecore, maiali pascolavano sui sagrati delle chiese. Di notte la città

306 era infestata dai briganti, le rapine e gli ammazzamenti era­ no all'ordine del giorno. La plebe viveva d'elemosine, i no­ bili di privilegi e di soprusi, il clero d'indulgenze, di decime e di usura. Quando Gregorio XI vi ritrasferì la sua sede, le finanze della Chiesa erano in pieno dissesto e i suoi Stati - che inglo­ bavano pressappoco Lazio, Umbria, Marche e Romagna - in totale decomposizione. Sembrava che nessuna forza umana potesse metter riparo allo sfacelo. Eppure, grazie a tre gran­ di pontefici, il Papato riacquistò in pochi decenni il fasto, lo splendore e la potenza dei tempi di maggior auge. Niccolò V ridiede a Roma l'antico fulgore, profondendo somme im­ mense. Riparò le mura, restaurò conventi, chiese, palazzi, innalzò nuovi edifici, costruì ponti, acquedotti, pavimentò strade. Affidò a Leon Battista Alberti il progetto di piazze e palazzi, incaricò Andrea del Castagno e il Beato Angelico di decorare le sale del Vaticano. Investì in abbellimenti quasi tutti gl'introiti del Giubileo del 1450, e si circondò di artisti e uomini di cultura, che tenne ai propri stipendi e colmò di favori. Fra i suoi successori Pio II imitò il suo esempio, finanziò gli studi umanistici e tenne una dotta corte di letterati, arti­ sti e filosofi; e Sisto IV spese tutte le sue energie a rafforzare e ingrandire lo Stato pontificio e a ridurre all'obbedienza la proterva nobiltà e la turbolenta plebe romana. Nepotista e spendaccione, ornò Roma di chiese, monumenti e palazzi, restaurò l'ospedale di Santo Spirito, riorganizzò l'Universi­ tà. Legò il suo nome alla Cappella Sistina, di cui affidò il progetto all'architetto Giovannino de' Dolci e la decorazio­ ne delle pareti al Perugino, al Signorelli, al Pinturicchio, al Ghirlandaio, al Botticelli, al Rosselli e a Piero di Cosimo. A questi tre magnifici e munifici Pontefici Roma dovette la riconquista di quel rango che, in seguito alla cattività avi- gnonese, aveva perduto e che per quasi tutto il Quattrocen­ to era stato appannaggio di Firenze. Abbiamo visto ne Llta- lia dei secoli d'oro chi furono gli artefici dello splendore di

307 questa città. Cosimo de' Medici ne fece una potenza econo­ mica, finanziaria e politica di livello europeo. Pur non rico­ prendo nella Repubblica cariche ufficiali, ne condizionò la vita e ne determinò le vicende. Le smisurate ricchezze, lo straordinario ingegno, la grande ambizione ne fecero il per­ fetto signore del Rinascimento di cui, col nipote Lorenzo, magnificamente incarnò gl'ideali. Anche Lorenzo cercò d'occuparsi di politica il più indi­ rettamente possibile. Ufficialmente, preferì restare un pri­ vato cittadino ma fino alla morte, avvenuta nel 1492, il suo potere fu praticamente incontrastato. Sotto di lui la città toccò il suo apogeo artistico e diventò l'indiscussa capitale della cultura europea. Il nonno vi aveva restaurato la famo­ sa «Accademia platonica», che diventò la più attrezzata pale­ stra filosofica del Rinascimento. Nelle sue aule convennero il fior fiore deW intellighenzia italiana, francese, inglese, tede­ sca, e lo stesso Lorenzo ne fu un frequentatore assiduo. In lui l'amore per la cultura s'accompagnò a un edonismo pa­ ganeggiante, di cui fornì ai suoi concittadini il modello. As­ soldò i più grandi artisti del tempo per dipingere i carri su cui i giovani sfilavano da Ponte Vecchio a Piazza del Duomo in bizzarri ed evocativi costumi e sovrintese di persona alla regia dei Trionfi con cui si concludevano queste parate. Fu amico e protettore del Pulci, del Poliziano, di Pico della Mi­ randola e di uno stuolo di altri umanisti. Col suo cuore ces­ sò un po' di battere anche quello di Firenze. A nord della Repubblica toscana, i due Stati più potenti erano quello milanese e quello veneziano. Milano, dopo un effimero intermezzo repubblicano, nel 1450 era passata per matrimonio dal dominio dei Visconti a quello degli Sforza. La nuova dinastia era stata inaugurata dal duca Francesco, signore di Cremona, che aveva sposato l'unica erede di Fi­ lippo Maria Visconti, e governò fino al 1466 con una ma­ gnificenza allergica a ogni preoccupazione di contabilità. Portò il ducato sull'orlo del fallimento e solo i prestiti delle banche fiorentine lo salvarono. Favorì l'immigrazione, proi-

308 bì l'esodo della manodopera locale, premiò i cittadini più prolifici, bandì campagne demografiche, contribuendovi di persona. Dissanguò l'erario, ma fece di Milano ciò ch'essa ancora non era: una fastosa metropoli, di cui il Castello Sforzesco e l'Ospedale Maggiore rappresentarono i gioielli. Sullo scorcio del secolo, la città era una delle più popolo­ se, animate e intraprendenti d'Europa. Un autentico boom edilizio aveva moltiplicato i suoi quartieri. Le case erano ol­ tre quindicimila, centinaia le taverne, migliaia le botteghe. I suoi mercati traboccavano di ogni ben di Dio. Vi affluivano uomini d'affari inglesi, francesi, tedeschi, veneziani, fioren­ tini. Vi si potevano acquistare le merci più disparate: dalle spezie ai broccati, dalle sete ai tappeti, agli animali esotici. La periferia era disseminata di fucine, laboratori, armerie, da cui uscivano spade, lance, scudi, celate, elmi che veniva­ no venduti in tutto il mondo. Ma la città amava anche di­ vertirsi: feste, tornei, balli pubblici allietavano la vita dei suoi abitanti. L'altro grande Stato del nord era Venezia. La sua stabili­ tà politica poggiava su una costituzione originale a carattere oligarchico, di cui abbiamo già fornito i lineamenti nei pre­ cedenti volumi. La sua potenza economica su una flotta mo­ derna e perfettamente addestrata, su una classe di mercanti abili, dinamici, audaci, su una capillare rete di scali interna­ zionali, o fondachi. Fino al 1453, la sua egemonia sull'Adria­ tico e il Mediterraneo orientale fu assoluta; ma quando, sot­ to le spallate degli eserciti ottomani, Costantinopoli cadde nelle mani dei Turchi, Venezia perse buona parte dei vecchi mercati balcanici e asiatici e dovette contrarsi e volgersi alla terraferma, dove fatalmente sarebbe venuta in urto con le altre potenze italiane, e soprattutto con Milano. Accanto a questi cinque Stati maggiori ce n'era una mi­ riade di minori, bramosi d'allargare i propri confini, gio­ cando i vicini gli uni contro gli altri, e mettendo di volta in volta al servizio del più potente le proprie masnade e i pro­ pri condottieri. Per tutto il Quattrocento la Penisola fu tea-

309 tro di scaramucce e guerricciole cittadine che indebolirono le parti ostacolando e ritardando di secoli il processo d'uni­ ficazione del Paese. Incapace di diventare una Nazione, es­ so finirà infatti, come vedremo, per trasformarsi in un cam­ po di battaglia e di rapina di eserciti stranieri, in una terra di conquista alla mercé del vincitore di turno. Il primo capitolo di questo asservimento lo scrisse nel 1494 il re di Francia, Carlo Vili, chiamato in Italia da Lu­ dovico il Moro. CAPITOLO SECONDO

IL MORO E CARLO Vili

Ludovico era il quarto figlio di Francesco Sforza. I milanesi lo chiamavano «il Moro» per la pelle bruna, i capelli e gli oc­ chi neri. Lungi dall'offendersi, Ludovico s'era compiaciuto di quel nomignolo e per renderlo più pertinente aveva adottato fogge e simboli moreschi e riempito la corte di schiavi negri. Fisicamente era piuttosto brutto sebbene fosse robusto e di statura superiore alla media. Aveva lineamenti aspri e irregolari: il naso lungo e bitorzoluto, il mento pro­ minente, le labbra sottili e tese, la grinta volitiva e imperio­ sa. La madre Bianca gli aveva dato come precettore l'uma­ nista Filelfo, che l'aveva avviato allo studio dei classici, spe­ cialmente latini. Ma fin da bambino egli aveva mostrato maggior predilezione per gli sport: dalla caccia alla pesca, al tiro dell'arco, all'equitazione. Si circondava di maghi e astrologi, di cui sollecitava e temeva gli oroscopi. Aveva un debole per le donne e la buona tavola, ma detestava gli ec­ cessi. Quando il fratello primogenito Galeazzo Maria Sforza, erede legittimo del Ducato, fu pugnalato nella chiesa di Santo Stefano, Ludovico diventò reggente di Milano in no­ me del nipote Gian Galeazzo, un bambino di dieci anni ma­ laticcio e abulico. Lo zio gli lasciò tutte le insegne esteriori del comando, ma lo privò del potere effettivo, che concen­ trò interamente nelle proprie mani. A Milano si rese subito popolare e dapprincipio i sudditi, abituati ai capricci e agli arbitri dei Visconti, credettero d'a­ ver trovato in lui il signore ideale. Era un uomo affabile, ge­ neroso e alla mano, che aveva a cuore il buon funzionamen-

311 to dello Stato e lo sviluppo della sua economia. Diede im­ pulso all'agricoltura, incrementò l'allevamento del bestia­ me, fece scavare canali d'irrigazione, favorì la coltivazione del riso, della vite e del gelso. Incoraggiò l'industria di tra­ sformazione, specialmente quella casearia, e incentivò quel­ la serica, che già a quei tempi era la principale risorsa del Ducato, dava lavoro a ventimila operai e i suoi prodotti ave­ vano conquistato i mercati italiani e internazionali. Sotto di lui, la popolazione salì a 130 mila abitanti. La città conobbe un periodo di grande prosperità e diventò più bella. Furo­ no costruiti nuovi palazzi, tracciati nuovi viali, una fungaia di nuove botteghe spuntò. La vita di corte diventò più fa­ stosa e più gaia in una girandola di balli, feste e tratteni­ menti cui partecipava il fior fiore dell'aristocrazia e della cultura europea. Nel 1491 nelle sontuose sale del Castello Sforzesco si svolse il ricevimento di nozze in onore della giovane sposa di Ludovico, la quattordicenne Beatrice d'Este. Fu uno de­ gli avvenimenti mondani più clamorosi del secolo, con in­ tervento di principi, ambasciatori, prelati, poeti, letterati. Beatrice non era particolarmente bella, ma possedeva spen­ sieratezza, vivacità e brio. Era cresciuta a Napoli, e ne aveva assimilato lo spirito allegro e festaiolo. Amava le vesti sgar­ gianti, i balli, il gioco. Ludovico aveva venticinque anni più di lei, ma questo non gl'impedì, dopo le nozze, di mantene­ re le vecchie relazioni, in particolare quella con l'avvenente Cecilia Galleranì, ch'egli aveva alloggiato a Corte con tutti gli onori. Solo quando la moglie minacciò di abbandonarlo, si rassegnò a salvare almeno le apparenze. Beatrice amava sentirsi al centro dell'universo. La pom­ pa e lo sfarzo, di cui si circondò a Milano, sono stati descrit­ ti dal cronista Bernardino Corio: «La corte era splendidissi­ ma, piena di nuove mode, abiti e piaceri. Quivi v'era scuola di greco, quivi risplendevano la poesia e la prosa latina, qui­ vi erano le muse nel rimeggiare, quivi i maestri nello scolpi­ re, quivi i più famosi nella pittura erano accorsi da lontani

312 paesi; quivi erano soavi e dolcissime armonie d'ogni genere di canti e di suoni che sembravano fossero mandati dal cielo all'eccellente Corte». Ma, come tutte le feste, anche questa durò poco. E a in­ terromperla fu proprio il piccolo, sbiadito e assente Gian Galeazzo, in nome del quale Ludovico governava, o per me­ glio dire la moglie che gli avevano dato: Isabella d'Aragona, figlia di Alfonso, a sua volta figlio di re Ferdinando di Napo­ li: una ragazza ambiziosa che, non rassegnandosi alla parte di Duchessa di complemento, invocò l'aiuto dei suoi per far valere i propri diritti. In realtà Ferdinando, gran canaglia ma non privo di buon senso, si rendeva benissimo conto che Gian Galeazzo era meglio che restasse dov'era: in un castello di Pavia a giuocare con cani, gatti e bambole. Ma Alfonso, che prima o poi gli sarebbe successo, prestava compiacente orecchio ai disperati appelli di sua figlia, secondo cui il Moro, per sba­ razzarsi di lei e del nipote, li stava lentamente avvelenando. Cosa che probabilmente il Moro non faceva ma che, dato il tipo, avrebbe potuto fare. Ad appianare questi dissapori fra Milano e Napoli aveva sempre provveduto Lorenzo de' Medici, che giustamente vedeva nell'armonia fra i cinque più grandi Stati l'unica ga­ ranzia dell'indipendenza italiana. Ma il suo successore, Pie­ ro, non seguì l'esempio del padre e allineò Firenze con Na­ poli. Analoga manovra compirono il Papa, che voleva tener­ si buono Alfonso, il cui territorio confinava con quello pon­ tificio, e Venezia che dopo la caduta di Costantinopoli in mano turca mirava a diventare una potenza di terraferma in competizione con Milano. La paura spinse così Ludovico a fare quello che del resto tutti i potenti italiani avevano sempre fatto e per secoli avrebbero seguitato a fare: cioè a chiamare in proprio aiuto contro gli altri italiani un padro­ ne straniero. Delle nazioni che circondavano l'Italia, la più potente era la Francia, dove re Luigi XI aveva completato l'opera d'uni-

313 Reazione debellando le resistenze dei suoi marchesi, conti e baroni, chiamati a ricoprire cariche di Corte e di governo, o assorbiti nell'esercito come ufficiali. Questo esercito era il migliore d'Europa come uomini, mezzi e disciplina. Luigi non lo aveva mai sprecato in imprese fuor dei confini. Egli aveva seguito una rigorosa politica del piede di casa, badan­ do solo a costruire uno Stato efficiente. Ma ora gli era suc­ ceduto il figlio Carlo Vili, che dal padre aveva ereditato quella stupenda macchina amministrativa e militare, ma non il buon senso e la sagacia. Il cronista fiorentino Bartolomeo Masi descrive il Sovra­ no francese «piccolo di persona, brutto di viso, le spalle grosse, il naso aquilino et ancora aveva pie ad uso d'oca, le dita appiccate insieme». Di quest'ultimo particolare non ab­ biamo trovato conferma in nessun documento. Ma che si trattasse d'una mezza cartuccia non c'è dubbio, e forse il suo velleitarismo non era che lo sfogo di un complesso d'infe­ riorità fisica. Questo gnomo buffo e semi-analfabeta, ma nu­ trito di poesia cavalleresca, sognava le gesta di Carlomagno in Europa e di San Luigi in Terrasanta. Che il Moro si rivolgesse a lui era naturale: non solo per sollecitarne l'aiuto, ma anche per prevenirne l'ostilità. Carlo infatti poteva ricordarsi che fra i principi del sangue - del suo sangue - c'era un Duca d'Orléans che vantava dei diritti su Milano come discendente di Valentina Visconti andata sposa a un suo bisnonno. Nel contratto di matrimonio era scritto che, se la dinastia Visconti fosse un giorno rimasta senza eredi ma­ schi, Milano sarebbe diventata appannaggio degli Orléans. La condizione si era realizzata dopo la morte dell'ultimo Visconti, Filippo Maria. Ma, come abbiamo già detto, il Ducato era pas­ sato al marito della figlia, Francesco Sforza, che inaugurava la nuova dinastia. Luigi XI, contrario alle avventure fuori di Francia, non aveva avanzato rivendicazioni. Ma Carlo, dato il suo temperamento, poteva farlo. E il Moro, sospettoso com'e­ ra e portato agl'intrighi, pensò di mettersi al riparo da questo pericolo offrendo al Re un'altra esca: Napoli.

314 Anche qui i Francesi avevano molto da rivendicare. Na­ poli era stata data dal Papa nel 1266 ai Duchi di Angiò, che ne erano rimasti Re per oltre un secolo e mezzo, e non ave­ vano rinunciato alla corona nemmeno quando gli Aragona gliel'avevano tolta. L'ultimo di essi, Renato, aveva lasciato i suoi diritti, o meglio le sue pretese, a Luigi XI, e questi a suo figlio. Il Moro non dovette incontrare grandi difficoltà a persuadere Carlo che il Reame di Napoli di diritto era suo, e avrebbe rappresentato un ideale trampolino di lancio per l'avventura in Terrasanta. Così s'illuse di prendere due piccioni a una fava salvando se stesso dalle peste e metten­ doci il proprio nemico. Tuttavia sarebbe ingiusto e storicamente semplicistico far ricadere solo su di lui e le sue manovre la responsabilità di quella catastrofe cui tutti gl'Italiani collaborarono con quel­ la concordia ch'essi trovano solo nella discordia e che li fa sempre pronti a dividersi per azzannarsi tra loro. All'amba­ sciatore di Firenze, che lo scongiurava in nome dell'Italia, il Moro rispose: «Di che Italia parlate? Io non la conosco». Ma 10 stesso ambasciatore avvertiva il suo governo che in fondo 11 Moro aveva ragione a badare ai propri affari, e che anche Firenze doveva fare altrettanto: se si fosse opposta alla cala­ ta di Carlo, questi si sarebbe rivalso sui mercanti fiorentini in Francia. Lo stesso Papa tenne una condotta incerta. Parigi formicolava di fuorusciti italiani che spingevano il Re all'impresa: c'erano quelli napoletani rimasti legati agli Angiò, c'erano quelli fiorentini capeggiati da Piero Capponi che volevano rovesciare i Medici, ci venne anche il Cardina­ le della Rovere che sperava di disfarsi del Papa Borgia, che odiava, e prenderne il posto. L'unica seria opposizione la fe­ cero i grandi dignitari francesi, un po' per atavica ostilità al­ le avventure e alle annessioni, un po' per sfiducia nel loro Re. L'invio dell'esercito oltre confine - dicevano - avrebbe lasciato il Paese alla mercé dei suoi due potenti vicini, la Spagna e la Germania; e anche se la spedizione non fosse costata molto sangue, sarebbe costata molto denaro. Meglio

315 valeva seguire la tradizionale politica di non ingerenza nelle faccende altrui, che aveva permesso alla Francia di diventa­ re una Nazione unita e uno Stato organico. Ma ormai Carlo si era innamorato dell'idea, e per realiz­ zarla nessun sacrificio gli parve esagerato. Dopo aver preso a prestito dal Moro e dalle banche genovesi, impegnò perfi­ no i gioielli della corona. E per cautelarsi contro eventuali attacchi della Spagna e dell'imperatore tedesco Massimilia­ no, cedette alla prima Perpignano e il Rossiglione, al secon­ do l'Artois, così disfacendo in parte quella unità geopolitica che suo padre aveva costruito con tanta fatica. Fra i suoi consiglieri il malumore era grande. Ma anch'essi dovettero arrendersi davanti ai rapporti dei messi francesi in Italia. Questi dicevano che solo il Regno di Napoli si apparec­ chiava a una resistenza, che sarebbe stata tuttavia facile da debellare specie ora che il vecchio re Ferdinando era morto e sul trono era salito il debole e incerto Alfonso. Altri eserci­ ti con cui vedersela non ce n'erano, salvo dei piccoli corpi mercenari ormai disabituati - come più tardi avrebbe detto Machiavelli - a «morire di ferro». Morivano solo per cadute da cavallo, quando morivano; ma di solito non morivano af­ fatto perché i loro combattimenti erano solo da giostra. La Penisola era inerme, divisa, e le popolazioni piuttosto favo­ revoli all'invasione, in cui ognuno vedeva il pretesto di una vendetta e di un saccheggio ai danni del vicino. Questa diagnosi purtroppo era vera alla lettera, e gli av­ venimenti lo dimostrarono. Solo alcune menti illuminate come Machiavelli e Guicciardini misurarono la gravità della catastrofe, ma ne compresero anche l'ineluttabilità. L'Italia non era la vittima di nessuno, se non di se stessa. Non era il Moro che l'aveva condannata. Erano gl'Italiani che seguiva­ no la loro vocazione alla discordia e al servilismo. Solo molti secoli più tardi, e più per imitazione e suggerimento altrui che di forza propria, sarebbe diventata una Nazione. Am­ messo che lo sia mai diventata. Nel marzo del '94, Carlo, alla testa di un esercito di di-

316 ciottomila cavalieri e ventiduemila fanti, partì da Lione e si mise in marcia alla volta dell'Italia. Valicò le Alpi e giunse ad Asti, dove trovò ad attenderlo il Moro, che l'accolse con grandi onori e gli consegnò una forte somma in denaro. Ma un improvviso attacco di vaiolo costrinse il re di Francia a mettersi a letto. Dopo alcune settimane riprese il cammino e, attraverso il Milanese, puntò su Firenze. Piero de' Medici gli andò incontro, gli consegnò alcune importanti fortezze e lo festeggiò. La tappa successiva fu Roma, dove Carlo giunse nel dicembre, facendosi precede­ re da una flotta che gettò le ancore nel porto di Ostia. Al­ l'avvicinarsi dei francesi, il Papa Borgia aveva cercato rifu­ gio in Castel Sant'Angelo, di dove spedì un'ambasciata di pace a Carlo. Fra il Sovrano e il Pontefice non correva buon sangue, ma il primo aveva bisogno del sostegno e della neu­ tralità del secondo per condurre a felice esito la spedizione. Alessandro e Carlo s'incontrarono in Vaticano. Il Re di Francia s'inginocchiò tre volte davanti al Papa, che gli ga­ rantì il libero passaggio delle truppe nei territori pontifici. Il 22 febbraio, senza incontrare resistenza, i Francesi entra­ rono a Napoli tra le acclamazioni della popolazione. Carlo varcò le mura a bordo di una sontuosa portantina, sormon­ tata da un ricco baldacchino trapunto di ori e di gemme, e sostenuta da quattro nobili. Per ingraziarsi gli abitanti di­ stribuì elemosine, ridusse le tasse, e su richiesta dei baroni istituì la schiavitù nelle campagne. L'incruenta impresa era stata coronata dal successo, e Carlo decise di goderselo. Fece accampare in città e nelle immediate vicinanze le soldatesche e s'abbandonò ai piaceri della mensa e dell'alcova, favoriti dalla buona stagione e da un clima tiepido e propizio agli ozi. Negli intervalli si dedi­ cò con meticolosa cura al sistematico saccheggio della città. Spogliò i conventi delle reliquie più rare, le chiese delle opere d'arte più preziose, i palazzi delle suppellettili di maggior pregio, che caricò sulle navi e spedì a Parigi. Ma le razzie suscitarono lo sdegno dei napoletani, offesi

317 dalla tracotanza degli invasori e dall'eccessiva galanteria che mostravano verso le loro donne. Anche i nobili cominciaro­ no a dar segno di scontento. Avevano aiutato Carlo a caccia­ re l'Aragonese e ora il Re minacciava di privarli dei loro possedimenti in favore degli antichi titolari angioini. Anche in tutto il resto d'Italia si andava delineando un movimento d'opposizione alla Francia. Ne era l'anima il Papa, allarma­ to dall'invadenza e dalla cupidigia di Carlo. Nel marzo del '95 Alessandro bandì una Santa Alleanza contro di lui, alla quale aderirono Venezia, Milano, il Re di Spagna e l'impe­ ratore Massimiliano. L'improvviso voltafaccia di Ludovico era stato provocato da un'effimera e inconcludente calata del Duca d'Orléans, Luigi, in Lombardia. Nel maggio, Carlo affidò il Regno di Napoli al cugino, e alla testa dell'esercito si mise in marcia verso il nord. Giunto nei pressi di Parma, a Fornovo, s'imbattè in quello della le­ ga, molto superiore di numero, ma poco affiatato e male ar­ mato. Fu una battaglia senza vincitori né vinti. I Francesi riu­ scirono ad aprirsi un varco e a ripassare indisturbati le Alpi. Nel Napoletano, immediate furono le conseguenze della ri­ tirata. La guarnigione francese fu cacciata, e gli Aragonesi riebbero il trono. Nonostante lo smacco, la Francia non depose le sue mire sull'Italia. Nel 1498, diventò Re lo stesso Duca d'Orléans, Luigi, che rispolverò il vecchio sogno di conquista del Mila­ nese. Ludovico chiese rinforzi a Venezia, ma la Repubblica, che non gli aveva mai perdonato l'invito a Carlo, si guardò bene dal fornirglieli. Il Moro allora si precipitò alla corte di Massimiliano e ne invocò l'aiuto. L'Imperatore gli mise a disposizione un esercito raccogliticcio di mercenari svizzeri e tedeschi coi quali Ludovico potè riprendere Milano, cadu­ ta durante la sua assenza nelle mani dei Francesi. Costoro cercarono rifugio con le artiglierie nel Castello Sforzesco, di dove cominciarono a bombardare la città. Gli abitanti terro­ rizzati obbligarono il Duca a trasferire la capitale a Pavia. I Francesi riacquistarono baldanza e Ludovico incaricò il co-

318 gnato Gianfrancesco Gonzaga di sloggiarli dal Milanese: co­ sa che costui si guardò bene dal fare. Anzi, s'intese col nemi­ co, imitato dai mercenari svizzeri al servizio del Moro, che consegnarono il Duca ai Francesi. Ludovico fu condotto a Lione e rinchiuso nel castello di Lys-Saint-Georges, dove, stanco e precocemente invecchiato, passò le giornate a leg­ gere la Bibbia, a pregare e a giocare con uno dei suoi innu­ merevoli nani che l'aveva seguito fin lì. Dal castello di Lys venne successivamente trasferito a quello di Loches, di dove cercò di fuggire travestito da contadino su un carro carico di paglia. Smascherato, fu relegato nei sotterranei, e qui la morte lo colse il 17 maggio del 1508, all'età di cinquantaset­ te anni. Contraddittori sono i giudizi degli storici su di lui. Per alcuni fu un traditore, per altri un tiranno astuto e illu­ minato, per altri ancora un avventuriero volubile, ambizio­ so e senza scrupoli. In realtà, fu un miscuglio di tutto que­ sto, come tutti i despoti del suo tempo. CAPITOLO TERZO

SAVONAROLA

La resa di Piero a Carlo Vili non era piaciuta ai fiorentini. Odiavano il figlio del Magnifico, lo chiamavano II fatuo e con questo nomignolo anche la Storia lo adottò. Ma forse Piero lo dovette solo, o soprattutto, alla sfortuna. Non aveva che vent'anni quando gli piombò sulle spalle una responsa­ bilità, cui suo padre non l'aveva preparato. Bel ragazzo dal corpo d'atleta, un po' bighellone e avventato, ma abbastan­ za colto grazie alla pedagogia del Poliziano, sapeva improv­ visare versi con una certa facilità e soprattutto era un cam­ pione nel gioco del calcio, nella sassaiola, nella scherma e nella giostra. Tutto questo avrebbe potuto farne un idolo della sportiva gioventù fiorentina, come già lo era stato suo zio Giuliano assassinato dai Pazzi, se egli non vi avesse por­ tato una protervia che i suoi concittadini, con squisito pa­ triottismo, addebitavano al sangue romano di sua madre Orsini. All'opposto di Lorenzo, gran maestro nell'arte di perde­ re, Piero voleva sempre vincere. E questo gli valse un'au­ reola d'alterigia, ch'era proprio la più pericolosa in una cit­ tà come Firenze dove il successo, per farsi perdonare, deve ammantarsi di modestia. I Medici avevano sempre praticato questa virtù e proprio alla loro mancanza d'ostentazione e alla semplicità dei modi avevano dovuto la loro perdurante fortuna. Piero faceva onesti sforzi per fingerla. Al Re di Na­ poli, che gli offriva un feudo e un titolo nobiliare nel suo Regno, rispose: «Io non sono degno di sì grande onore, né voglio essere barone». La risposta fu apprezzata, in quella città borghese. Ma fu addebitata più all'orgoglio che all'u-

321 miltà. Erano tuttavia difetti di gioventù da cui avrebbe po­ tuto emendarsi, se ne avesse avuto il tempo. Ma gli eventi lo misero subito di fronte a una situazione che sarebbe stata un duro banco di prova anche per il padre e il bisnonno. Anzitutto, la dissestata situazione patrimoniale. I Medici avevano sempre amministrato con la stessa accortezza la co­ sa pubblica e quella privata, ben sapendo che la ricchezza senza il potere era malsicura, ma il potere senza la ricchezza impossibile. Il Magnifico, per magnificenza, aveva deroga­ to, abbandonandosi a liberalità sproporzionate, ma soprat­ tutto convertendo quasi tutta la sua sostanza in terre che, impegnandolo molto meno, gli consentivano di dedicarsi interamente alla politica e alla cultura, le sue vere vocazioni. Le fattorie che lasciava in eredità al figlio erano splendide. Ma non rendevano come la banca e le industrie, quasi inte­ ramente liquidate. Ancora più minacciosa era la situazione politica, a comin­ ciare da quella internazionale. «La pace d'Italia è finita» aveva esclamato Innocenzo Vili alla notizia della morte del Magnifico, che l'aveva costruita con un capolavoro d'accor­ tezza, di pazienza e di tatto, sulla difficile concordia dei cin­ que Stati più potenti. Ma era appunto una pace che si reg­ geva solo sulle doti del suo tessitore. Di queste doti il figlio Piero era privo. Alla notizia della calata dei Francesi, invece di prepararsi alla difesa, cercò di comprare Carlo Vili con duecentomila fiorini, e ci riuscì. Ma i fiorentini non gli per­ donarono quella codardia, e quando Piero tornò da Sarza- na, dove era andato a incontrare il Re di Francia, gli sbarra­ rono le porte di Palazzo Vecchio e lo costrinsero ad abban­ donare in fretta e furia la città. Poi decisero di darsi una nuova costituzione. Fra coloro che furono chiamati a tracciarne i lineamenti, ci fu anche il Priore di San Marco, Girolamo Savonarola. Ne L'Italia dei secoli d'oro abbiamo già ampiamente presentato questo apocalittico personaggio. Dopo la morte di Lorenzo, la sua potenza a Firenze s'era notevolmente accresciuta. In

322 seguito alla fuga di Piero, che odiava e che a sua volta dete­ stava il frate, era diventato il padrone della Repubblica, an­ che se non ricopriva cariche ufficiali. Fu lui a dettare la nuo­ va costituzione, sul modello di quella veneziana, imperniata su un Maggior Consiglio di tremila membri scelti fra i citta­ dini che avessero già ricoperto pubblici uffici o discendesse­ ro da ex funzionari dello Stato. Il Maggior Consiglio elesse la Signoria, cioè il governo, composto da otto priori e un gonfaloniere, che duravano in carica due mesi. La riforma, illustrata dal Savonarola dal pulpito e nelle piazze, ottenne un autentico plebiscito popolare. Il 10 giu­ gno del '95 la Nuova Repubblica entrò in vigore. Come pri­ mo atto decretò l'amnistia dei seguaci di Piero, che potero­ no tornare indisturbati a Firenze. Poi abolì quasi tutte le im­ poste. Ad avvantaggiarsene furono soprattutto i mercanti, sui quali maggiormente il fisco gravava. Il commercio ripre­ se aìre. Fu invece mantenuta la tassa sugli immobili che col­ piva i grandi proprietari terrieri, ma anche il contadino di­ seredato. Su proposta del Savonarola fu istituito un Monte Pegni, che concedeva prestiti al tasso del cinque-sei per cen­ to, contro il trenta che solitamente esigevano gli usurai. Ma fu soprattutto contro il dilagante malcostume che i nuovi governanti, ispirati dal frate, s'accanirono. Furono proibiti tutti i passatempi che avevano deliziato la Signoria medicea e avevano fatto di Firenze una raffinata Mecca d'e­ donismo cosmopolita. Furono messi al bando i canti carna­ scialeschi che avevano riempito la città ai tempi di Lorenzo, aboliti i giochi d'azzardo, le scommesse, i balli, le corse dei cavalli. I contravventori incorrevano in pene severissime, che venivano comminate dopo estenuanti interrogatori, ac­ compagnati spesso dalla tortura. Ai bestemmiatori veniva tagliata la lingua. Sorte non migliore era riservata agli omo­ sessuali, di cui - pare - anche a quei tempi la città pullulava. Mai, come in quest'opera di moralizzazione, fu fatto tanto scialo di zelo. Nulla stava a cuore a Girolamo e ai Piagnoni (com'erano stati battezzati i suoi seguaci perché piangevano

323 ascoltando le prediche del frate) come la castità e la sobrietà dei cittadini. Per garantirle il Savonarola istituì le cosiddette «Compagnie della speranza». Attraverso una rete di infor­ matori e di spie, queste vigilavano sulla vita privata dei fio­ rentini e alla minima infrazione li denunciavano al frate, che a sua volta li denunciava alla Signoria. Questa specie di esercito della salvezza, che impiegava metodi da «rivoluzio­ ne culturale» cinese, veniva accuratamente selezionato. I suoi membri dovevano andare ogni giorno a messa, fare la loro brava comunione, tenersi lontani dai locali notturni e dai bordelli, leggere libri edificanti, portare i capelli corti, chiedere l'elemosina per le strade, redarguire le donne scol­ late e strappare loro di dosso le vesti troppo succinte. Le fiorentine accettarono il regime d'austerità instaurato dal frate, scambiandolo per una nuova moda, destinata a tramontare con la stessa rapidità con cui era spuntata. Smi­ sero d'imbellettarsi, di tingersi le labbra, di truccarsi gli oc­ chi e persino di fare il bagno, considerato un atto di lussuria e un'esca del demonio. Anche il popolino s'adeguò. Rinun­ ciò ai pittoreschi, festosi e un po' sguaiati cortei carnasciale­ schi, che degeneravano spesso in orge e gozzoviglie, ma che costituivano uno svago e un tripudio per tutti, e si consacrò al culto, alla preghiera e alla penitenza. Ogni giorno la città era percorsa da processioni. Le piazze rimbombavano di sermoni, le chiese echeggiavano di prediche, i confessionali rigurgitavano di fedeli, le reliquie dei santi erano meta di continui pellegrinaggi, gli oboli e le elemosine fioccavano. «La riforma - non si stancava di ripetere ai fiorentini il Sa­ vonarola - deve iniziare dalle cose dello spirito, e il benesse­ re temporale lo dovete dedicare al servizio della vostra salu­ te morale e religiosa, dalla quale esso dipende. E se avete udito dire che "gli Stati non si governano coi paternostri", ricordate che questa è la formula dei tiranni, una formula per opprimere e non per liberare una città. Se desiderate un buon Governo, lo dovete ridare a Dio.» Di Dio egli si considerava il portavoce in terra. Mirava a

324 trasformare la Repubblica fiorentina in una teocrazia che avrebbe dovuto fornire un modello di governo alle altre cit­ tà italiane, compresa Roma, ch'era quella che di una rifor­ ma più aveva bisogno. Ma come ogni teocrazia, anche quel­ la vagheggiata dal frate aveva i suoi limiti. Prima di tutto era noiosa con tutte quelle sue rinunce e penitenze. Dap­ principio i fiorentini accettarono queste e quelle, trascinati dall'oratoria magnetica del Savonarola. Ma dopo pochi me­ si cominciarono a dar segni d'insofferenza e a rimpiangere il gaudente e festaiolo regime di Lorenzo. I più accaniti oppositori del Savonarola erano gli Arrab­ biati. Dicevano che tali li aveva resi il Priore con le sue rifor­ me e le sue prediche. L'accusavano d'immischiarsi negli af­ fari dello Stato e di occuparsi più delle cose temporali che di quelle della chiesa. Quando, ai primi del '96, uno di loro, Filippo Corbizzi, riuscì a farsi eleggere gonfaloniere, de­ nunciò pubblicamente il Savonarola di attività disdicevole alla sua condizione di frate. Il Priore si difese malamente ci­ tando alcuni versetti della Bibbia. Alla domanda se le sue prediche fossero ispirate da Dio, si guardò bene dal rispon­ dere e preferì tornarsene in convento. I nemici gli rinfaccia­ vano le simpatie per la Francia, l'accusavano di essere un cattivo amministratore e di aver piombato la città sull'orlo della bancarotta. Giunsero persino a farne il capro espiato­ rio della siccità che nel '96 s'abbattè sulla Repubblica, deci­ mando il raccolto e affamando la popolazione. Dalle parole, Arrabbiati e Piagnoni vennero presto alle mani. Il giorno dell'Ascensione del 1497, mentre predicava, il frate fu assalito dai nemici, che tentarono di tirarlo giù dal pergamo e rapirlo, ma le sue guardie del corpo riuscirono a trarlo in salvo. Uno dei capi del partito avverso chiese alla Signoria di bandirlo da Firenze. La proposta fu messa ai vo­ ti, e per uno solo non ottenne la maggioranza. Ma al frate non erano ostili solo i suoi concittadini. An­ che il Papa lo detestava. Alessandro VI Borgia era da tempo il principale bersaglio dei suoi sermoni. Il Priore lo tacciava

325 di corruzione, di simonia, di empietà e non perdeva occa­ sione per lanciare contro la curia romana gli strali della sua arroventata oratoria. Non erano certamente queste accuse che preoccupavano Alessandro, ma piuttosto i legami del Savonarola con la Francia, dove si era rifugiato il più peri­ coloso nemico del Papa, il cardinale Giuliano della Rovere, che faceva pressioni su re Carlo perché indicesse un Conci­ lio e deponesse il Borgia come infedele ed eretico. Nel luglio del '95, il Papa scrisse al frate invitandolo a Ro­ ma. Il Priore rispose che la malferma salute gl'impediva d'intraprendere il viaggio. Il Papa gl'ingiunse allora d'aste­ nersi dal predicare e incaricò un vescovo domenicano d'e­ saminare uno per uno i sermoni del frate e di sottoporli a un rigoroso vaglio teologico. Dal punto di vista dell'orto­ dossia essi risultarono impeccabili. Le accuse che contene­ vano contro la depravazione del clero erano spietate, ma non puzzavano d'eresia. Alessandro revocò il veto, ma quando il Savonarola annunciò che avrebbe ricominciato a predicare spedì a Firenze un messo per offrirgli il cappello cardinalizio. Il frate accolse inurbanamente il nunzio ponti­ ficio e gli disse che gli avrebbe dato una risposta nel suo prossimo sermone. Il 17 febbraio del '96 tutta Firenze si diede convegno in Duomo per ascoltare il Priore che, dopo un anno di silen­ zio, risaliva sul pergamo. «Il papa - esordì - non può co­ mandarmi contro alla carità e contro al Vangelo. Io non cre­ do che il papa voglia mai farlo; ma quando lo facesse io gli direi: Tu, ora, non sei pastore, tu non sei Romana Chiesa, tu erri...» Girolamo era un osso duro e il Papa, che aveva in quel momento altre gatte da pelare, lasciò che col frate se la vedessero gli Arrabbiati, arrabbiati più che mai e più che mai decisi a cacciare il Priore da Firenze. Nel '97, in occasio­ ne del carnevale, essi annunciarono che avrebbero celebra­ to l'avvenimento con sfilate di carri, balli pubblici, sassaiole, giochi e banchetti. I Piagnoni risposero sguinzagliando per la città i «Compagni della speranza», che andavano bussan-

326 do a tutte le porte per farsi consegnare le «vanità»: bracciali, anelli, orecchini, parrucche, cosmetici, carte da gioco, dadi, strumenti musicali, immagini oscene, libri pornografici, fra cui il Decamerone e il Morgante Maggiore. Il 7 febbraio i se­ guaci del frate, intonando inni sacri, s'incamminarono in processione verso la piazza della Signoria e v'ammucchiaro­ no le «vanità». Precedentemente vi avevano innalzato una pira di legna, resina e pece, su cui rovesciarono gli oggetti incettati, fra i quali manoscritti rari e pregiate opere d'arte. Quindi appiccarono il fuoco, mentre le campane di tutte le chiese cittadine suonavano a festa. Venne la quaresima, e i Piagnoni si scatenarono. «Fatti in qua, ribalda Chiesa» tuonò il Savonarola dal pulpito del Duomo. «Io ti avevo dato, dice il Signore, le belle vestimen- ta e tu ne hai fatto idolo. I vasi desti alla superbia; i sacra­ menti alla simonia; nella lussuria sei fatta meretrice sfaccia­ ta, tu sei peggio che bestia; tu sei un mostro abominevole. Una volta ti vergognavi dei tuoi peccati, ma ora non più! Una volta i sacerdoti chiamavano nipoti i loro figliuoli; ora non più nipoti ma figliuoli, figliuoli per tutto... E così, o me­ retrice Chiesa, tu hai fatto vedere la tua bruttezza a tutto il mondo e il tuo fetore è salito al cielo. Molti di voi dicono che verranno scomuniche... Per me ti prego, o Signore, che la venga presto... Portatela in su una lancia questa scomunica e apritele le porte... O Signore io voglio solamente la tua croce: fammi perseguitare. Io ti domando questa grazia: che tu non mi lasci morire in sul letto; ma che io ti renda il sangue mio, come tu hai fatto per me.» Stavolta il frate aveva passato il segno, e fu scomunicato davvero. Il che non gl'impedì, il giorno di Natale, di celebra­ re ugualmente la messa e di somministrare la comunione ai Piagnoni. Nel febbraio scomunicò a sua volta il Pontefice, il quale minacciò l'interdetto su Firenze nel caso che la Signo­ ria non avesse impedito al frate di parlare in pubblico. In se­ guito anche alle pressioni dei mercanti fiorentini residenti a Roma, la Repubblica vietò a Girolamo di risalire sul pulpito.

327 Ma il frate non si diede per vinto. La Signoria gli aveva tappato la bocca, ma non poteva impedirgli di scrivere. Pre­ se la penna e indirizzò ai re di Francia, Spagna, Ungheria e Germania questa missiva: «Il momento della vendetta è giunto, il Signore vuol ch'io riveli nuovi segreti, e che sia manifesto al mondo il pericolo in cui versa la navicella di Pietro, a cagione della vostra lunga negligenza. La Chiesa è tutta piena d'abominazione dal capo alle piante, e voi non solamente non ponete mano al rimedio, ma adorate la ca­ gione stessa del male che la contamina. Onde il Signore s'è grandemente adirato e più tempo ha lasciato la Chiesa sen­ za pastore... E io vi testifico che questo Alessandro non è pa­ pa, né può esser ritenuto tale; imperocché lasciando da par­ te il suo scelleratissimo peccato della simonia, con cui ha comperato la sedia papale, ed ogni dì, a chi più ne dà, ven­ de i benefizi ecclesiastici, e lasciando gli altri suoi manifesti vizi; io affermo ch'egli non è cristiano e non crede esservi alcun Dio». Concludeva con l'invito a indire un Concilio per deporre il Borgia e riformare la Chiesa. Una di queste lettere finì nelle mani di Alessandro, che ne fu allarmato, sebbene a Firenze, specialmente fra i fran­ cescani, non gli mancassero alleati. Uno di costoro, un certo fra' Giuliano Rondinelli, sfidò il Savonarola alla prova del fuoco. Era certo di soccombere alle fiamme ma era altret­ tanto certo ch'esse avrebbero divorato anche il Priore e libe­ rato la città dalla sua ingombrante presenza. Ma Girolamo rifiutò il certame e in sua vece si presentò fra' Domenico da Pescia. Il giorno del giudizio tutta la città s'assiepò in piazza del­ la Signoria, nel cui centro erano state erette due pire. Do­ menico, seguito dal Savonarola che impugnava un crocifis­ so, si presentò con in mano un'ostia consacrata. Indossava un saio rosso di cui dovette spogliarsi quando si sparse la voce ch'era stregato. Fra' Giuliano avrebbe voluto che il ri­ vale deponesse anche l'ostia, ma Domenico rifiutò. I france­ scani dissero che con la particola sarebbe andato distrutto

328 anche il corpo di Cristo. I domenicani risposero che ciò era impossibile. La discussione durò alcune ore, e cessò solo sul far della sera, quando la Signoria decretò la sospensione della sfida. Nella piazza scoppiò il finimondo. Gli Arrabbiati addossarono ai Piagnoni la colpa del mancato spettacolo. Alcuni energumeni cercarono di impadronirsi del Savona­ rola, che a stento riuscì a porsi in salvo in San Marco. L'in­ domani, alcune migliaia d'Arrabbiati, armati di bastoni, for­ coni e spade, circondarono il convento domenicano. I suoi inquilini, assai inferiori di numero, suonarono a distesa le campane per chiamare in soccorso gli abitanti. Ma nessuno si mosse. La Signoria ne approfittò per far arrestare il Prio­ re, Domenico e un altro frate di nome Silvestro, che tra gli sberleffi e i lazzi osceni del popolino furono condotti in Pa­ lazzo Vecchio e imprigionati. Il Papa chiese alla Repubblica di far giudicare da un tribunale romano i tre monaci, ma la Signoria rispose che il processo doveva essere celebrato a Firenze. Esso fu preceduto da un'interminabile sede d'interroga­ tori durante i quali Girolamo, Domenico e Silvestro furono sottoposti alle più orribili torture. Silvestro fu il primo a ce­ dere e ammise tutti i capi d'imputazione che gli vennero contestati. Anche il Savonarola, dopo deboli resistenze, finì per riconoscersi colpevole. Solo Domenico tenne duro pro­ clamando senza tentennamenti la santità del suo superiore. Sotto l'accusa d'eresia e di scisma furono tutt'e tre condan­ nati all'impiccagione. Alessandro avallò la sentenza, ma con­ cesse magnanimamente l'assoluzione ai frati. L'esecuzione venne fissata per il 23 maggio (1498). Tutti i fiorentini volle­ ro assistere allo spettacolo, che si svolse in piazza della Si­ gnoria, nello stesso luogo dove l'anno precedente erano sta­ te bruciate le «vanità». Il Savonarola e i suoi compagni vi vennero condotti scal­ zi e senza saio. Stringendo un crocifisso s'avviarono con pas­ so fermo verso il capestro: Girolamo e Silvestro muti e gli occhi fìssi nel vuoto, Domenico col volto radioso e cantando

329 il Te Deum. Il boia cinse i colli col laccio ed eseguì la senten­ za. Gli spettatori, ai quali durante la cerimonia la Signoria aveva offerto un rinfresco, s'accalcarono intorno alle forche e bersagliarono con sputi, sassi ed escrementi i poveri corpi penzolanti. Sotto i capestri furono quindi ammucchiate fa­ scine di legna e accesi tre roghi, tra le cui fiamme i frati ab­ brustolirono. Per ordine della Signoria, che temeva diven­ tassero oggetto di venerazione, le ceneri furono gettate in Arno. «Col Savonarola - ha scritto il Durant - calò nella tomba il Medio Evo che sopravviveva al Rinascimento.» E vero. Nessuno meglio del frate domenicano compendiò gl'ideali dell'età di mezzo: il misticismo, l'ardore evangelico, l'intran­ sigenza dogmatica, l'anelito morale. Eppure, quest'uomo del passato fu anche l'anticipatore dell'avvenire e annunziò, se non le istanze teologiche, quelle morali di cui la Riforma avrebbe fatto, di lì a pochi decenni, il suo programma e la sua bandiera. Tutto sommato, il suo Medio Evo era più mo­ derno del Rinascimento. Il fatto che quest'uomo vissuto da santo e morto da martire sia stato anche un demagogo vi­ sionario e arruffapopolo non toglie nulla alla sua grandez­ za. E chi voglia convincersene non ha che da leggere il su­ perbo, esemplare Savonarola di Roberto Ridolfì. CAPITOLO QUARTO

I BORGIA

Quando il Savonarola salì sul rogo, Alessandro VI regnava da sei anni. Aveva cinto la tiara nel '92, dopo la morte di In­ nocenzo Vili, di cui era stato il più stretto collaboratore e il più ascoltato consigliere. La sua elezione fu una delle meno contrastate nella torbida storia dei conclavi. Quattro giorni bastarono a dargli non la maggioranza, ma addirittura l'u­ nanimità dei voti meno uno, quello del cardinale Della Ro­ vere. Tutti furono compensati, anche i suoi rivali: lo Sforza eb­ be la vice-cancelleria, e come mancia il palazzo degli stessi Borgia; l'Orsini il seggio (e le rendite) di Cartagena e il go­ vernatorato delle Marche. Alessandro poteva fare tutti i re­ gali che voleva, dopo quelli ch'egli stesso aveva ricevuto dai cinque Papi che aveva contribuito a eleggere e servito nei posti di più alta responsabilità e sicuro reddito. Nessun car­ dinale di Curia era mai stato ricco come lui. Mai incorona­ zione fu più solenne e fastosa della sua. I cronisti dell'epoca ce n'hanno lasciato un minuzioso re­ soconto. Lungo il tragitto del corteo furono distesi due chi­ lometri di sontuosi tappeti, i palazzi furono pavesati a festa e foderati di raso; archi di trionfo, ornati di ghirlande e d'i­ scrizioni cortigiane, costellarono l'itinerario pontificio. Allo spettacolo, accompagnato da balli, canti e salve di cannone, parteciparono diecimila cavalieri, centinaia di diplomatici e ambasciatori giunti a Roma da ogni parte d'Italia e d'Euro­ pa, uno stuolo di nobili e la Corte vaticana al gran comple­ to. Al nuovo Papa piaceva fare le cose in grande e strabiliare

331 i sudditi. L'amore del lusso e dell'esteriorità tradiva la sua origine spagnola, sebbene venisse da una famiglia di piccola nobiltà e di pochi mezzi, che certo non gli era stata di nes­ sun aiuto nella carriera: la via del papato è sempre stata particolarmente impervia agli stranieri. Rodrigo, come si chiamava prima di assurgere al Soglio, doveva il successo alle sue qualità intellettuali, ch'erano grandi, e ai suoi difetti morali, ch'erano ugualmente gran­ di. Fu prete solo a trentasette anni, ma cardinale già a venti­ cinque; e quando venne a Roma aveva un paio di figlioli, di cui non si conoscono le madri. Insistette nella sua spensie­ rata poligamia anche dopo essere entrato in Curia, e in un viaggio ad Ancona, al seguito di Pio II, contrasse una malat­ tia venerea «perché - disse pudicamente il suo medico - non aveva dormito da solo». Era bello, elegante, gran signo­ re, di sangue caldo e di maniere soavi. Ma, come tutti i se­ duttori, anche lui alla fine trovò la sua seduttrice: una Van- nozza de' Cattanei che, pur essendo già sposata, gli diede quattro figli: Giovanni, Cesare, Lucrezia e Giuffredo. Da quel momento gli affetti paterni presero in lui il sopravven­ to su qualunque altro sentimento. Quando diventò Papa aveva già passato la sessantina e non era più il bell'uomo d'una volta: il corpo si era appesan­ tito, le guance si erano fatte flaccide e cascanti, gli occhi ac­ quosi e bovini. Ma le facoltà mentali erano rimaste intatte. Il 31 agosto, cinque giorni dopo l'incoronazione, convocò un concistoro e nominò il figlio Cesare arcivescovo di Valenza con una rendita annua di sedicimila ducati, inaugurando quella sfacciata politica nepotistica che trasformerà la Curia romana in una colonia borgiana. Distribuì cariche, onori, prebende, benefìci, sinecure a figli, cugini, nipoti, pronipoti. Ma non s'accontentò di sistemare i parenti. Spalancò le por­ te del Vaticano anche a conoscenti, amici, amici degli amici, che fece affluire a frotte dalla Castiglia, dall'Aragona, dalla Catalogna. Un contemporaneo commentò: «Nemmeno dieci papa ti basterebbero a sbramare questo parentado».

332 Ma, nepotismo a parte, Alessandro debuttò bene. I pre­ decessori gli avevano lasciato molte gatte da pelare: le fi­ nanze in dissesto; l'Urbe in preda alle lotte di fazione tra i soliti Orsini, Colonna, Gaetani, Savelli; lo Stato Pontificio smembrato e in balia di tirannelli locali sui quali il potere centrale non era più da tempo in grado d'esercitare alcun controllo; il clero dilaniato dalla corruzione e dalla simonia. Alessandro si mise subito all'opera. Rinsanguò le casse vati­ cane, sfoltendo la burocrazia e bloccando i salari. Limitò al massimo le uscite, aumentò con nuove tasse le entrate e im­ pose alla Curia un regime d'austerità, cui essa non era abi­ tuata, e al quale egli stesso si sottopose. Ordinava per sé pa­ sti di una sola portata e quasi non toccava vino. I maligni in­ sinuavano che questa dieta gli era stata imposta dai medici e che nessuno accettava volentieri i suoi inviti a pranzo. Ma sul suo esempio molti ecclesiastici ridussero le spese e ab­ bassarono il treno di vita. Più difficoltà incontrò nel riportare l'ordine a Roma. Nell'Urbe regnava la più completa anarchia. I nobili, divisi in consorterie, spadroneggiavano e aizzavano il popolino contro i rivali e contro lo stesso Pontefice. Furti, omicidi, ra­ pine, violenze d'ogni genere erano all'ordine del giorno. Alessandro aumentò il numero degli sbirri, mise a setaccio i bassifondi della città, fece arrestare gli elementi più facino­ rosi e inasprì le pene contro i criminali. Invitò i nobili a non fomentare torbidi, pena la confisca dei beni, il bando e il ca­ pestro. Amo' di monito, appena cinta la tiara, fece impicca­ re una coppia di omicidi e ordinò che i loro corpi penzolas­ sero per due giorni dalla forca issata in una pubblica piazza. Ma ciò che più lo preoccupava era il caos in cui era piom­ bato Io Stato Pontificio, dove non si trattava solo di ridurre alla ragione i despotelli che ne avevano usurpato i territori, ma anche di ricacciare dai suoi confini le potenze straniere che li avevano varcati e che non intendevano ripassarli: Na­ poli, impadronitasi di Sora e dell'Aquila, e Milano, installa­ tasi a Forlì. Accanto ai tirannelli locali imperversavano i pic-

333 coli nobili riottosi, avidi, ingovernabili che seminavano il terrore nelle campagne, angariavano le popolazioni, depre­ davano le carovane, guastavano i pascoli. Molti Papi s'erano provati a domarli e a ridare un assetto agli Stati della Chie­ sa, ma senza fortuna. Alessandro ci riuscirà, ma dopo lun­ ghi anni di regno. Fin dall'inizio i romani presero a benvolerlo, perdonan­ dogli la smodata cupidigia, lo stuolo di amanti di cui si cir­ condava e lo sviscerato amore per i figli, soprattutto per Lu­ crezia, la cui figura egli fece immortalare dal pennello del Pinturicchio: un volto pallido e angelico, gli occhi a man­ dorla, il naso sottile e appuntito, la bocca piccola, il collo lungo e levigato, le mani diafane e affusolate, i capelli bion­ di e lunghissimi (così lunghi e pesanti che le procuravano violente emicranie). Il pittore umbro, che fu per un certo periodo agli stipendi del Papa, era noto per la sua cortigia­ neria. Dubitiamo perciò che questo ritratto sia fedele all'ori­ ginale anche perché da documenti scritti risulta che i con­ temporanei non si trovavano affatto d'accordo sull'avvenen­ za di Lucrezia. Se comunque essa non fu la stupenda crea­ tura dipinta dal Pinturicchio, ebbe molte altre doti che la resero una delle donne più affascinanti del Rinascimento, e una delle più discusse. Ebbe una buona educazione, studiò - come si conveniva alle ragazze altolocate del tempo - in un monastero, e trascorse un'infanzia gaia e spensierata. A tredici anni, per accattivarsi il duca di Milano, il padre la diede in sposa al nipote di Ludovico il Moro, Giovanni Sfor­ za, signore di Pesaro, che ne aveva ventisei. Lucrezia lasciò Roma e si trasferì nella città marchigiana, dove visse alcuni mesi. Giovanni le preferiva di giorno la caccia con gli amici e di notte non la degnava nemmeno di uno sguardo. Offesa e assalita dalla nostalgia, Lucrezia approfittò di una nuova rottura politica fra i due Stati per tornare a Roma. Alessan­ dro non solo la riaccolse a Corte ma chiese a Giovanni di ac­ consentire all'annullamento del matrimonio col riconoscer-

334 si impotente. Il giovane Sforza rispose accusando il Borgia di aver rapporti incestuosi con la figlia. Nella disputa inter­ venne Lucrezia, proclamandosi vergine. A questo punto, Alessandro incaricò due cardinali di sottoporre la figlia a un sopralluogo anatomico. Il verdetto diede ragione a Lucre­ zia. Per salvare l'onore del nipote, Ludovico invitò allora Giovanni a dimostrare pubblicamente, in presenza di un le­ gato pontificio, la sua virilità. Il giovane rifiutò, e poco dopo ammise ufficialmente che il matrimonio non era stato con­ sumato. Fu subito rimpiazzato col duca di Bisceglie, don Alfonso, figlio bastardo dell'erede al trono di Napoli. Anche questo secondo marito lo scelse Alessandro, che voleva tenersi buo­ no re Federico. Alfonso aveva diciassette anni, uno meno della sposa. Lucrezia se ne innamorò perdutamente e quan­ do Alfonso, in seguito a un rapprochement del Borgia col re di Francia, acerrimo nemico di Federico, l'abbandonò per tornarsene a Napoli, cadde in un tale stato di prostrazione che il padre, per distrarla, la nominò reggente di Spoleto e indusse Alfonso a ricongiungersi con lei. Ma fu un'unione breve. Pochi mesi dopo, i sicari del fra­ tello Cesare soffocarono nel sonno lo sventurato con un cu­ scino. Vedova per la seconda volta, Lucrezia si sposò per la terza con Alfonso d'Este, figlio del duca di Ferrara, Ercole. La ragion di Stato dettò anche questo matrimonio, che fu più felice e duraturo dei precedenti. Ferrara era uno dei potentati italiani più forti e costituiva per la Chiesa una sal­ da copertura in caso di guerra contro l'antipapale Bologna. Ma Lucrezia non sarebbe stata solo una pedina politica del padre. Secondo le malelingue ne fu anche l'amante. Uno storico la definì: «figlia, moglie e nuora del Papa». For­ se non si tratta che di un'infame calunnia, e noi non ci sen­ tiamo di avallarla. I rapporti fra il Borgia e la figlia non fu­ rono comunque mai molto chiari. E un fatto che ad Ales­ sandro la lontananza di Lucrezia riusciva intollerabile e lo piombava in cupi pensieri, ch'egli cercava di scacciare im-

335 mergendosi negli affari di Stato. Era un lavoratore infatica­ bile. S'alzava la mattina all'alba e si coricava a notte fonda. Voleva essere messo al corrente di tutto e su tutto vegliava. Riceveva ogni giorno principi, ambasciatori, ministri, cardi­ nali, leggeva e dettava decine di rapporti, emanava bolle, ordiva intrighi. Di religione non s'occupava punto. La lettu­ ra delle Sacre Scritture lo annoiava, ed era completamente digiuno di teologia. Considerava la Fede un instrumentum re­ gni per ingrandire lo Stato pontificio, renderlo più potente e più ricco. Nel 1500, trovandosi a corto di quattrini, promulgò il Giubileo e largì a piene mani dispense e indulgenze. A re Ladislao VII d'Ungheria concesse l'annullamento del ma­ trimonio con Beatrice di Napoli in cambio di trentamila ducati. Poiché l'anarchia che regnava nei territori pontifici limitò l'afflusso dei pellegrini e gl'introiti furono inferiori alle previsioni, indisse un concistoro e vendette ai migliori offerenti dodici galeri cardinalizi, ricavandone un bel gruz­ zolo. Aveva impellente bisogno di denaro per finanziare la riconquista degli Stati pontifici, cui mirava da quando era asceso al Soglio. Alla fine del 1499 aveva ordinato la prima spedizione contro Forlì e Imola, ponendovi a capo il figlio Cesare. Cesare era un giovane bello e atletico, dal volto lungo, la fronte alta, gli occhi falcati, il naso aguzzo, le labbra sottili e serrate, la chioma-bionda, lo sguardo penetrante e imperio­ so. Una rada barbetta gl'incorniciava le mascelle e il mento. Dotato di un'eccezionale forza fisica (una volta con le mani piegò un ferro di cavallo), era un cacciatore dalla mira infal­ libile, un cavaliere infaticabile, e da buon spagnolo un tore­ ro invincibile. Durante una corrida in piazza San Pietro ab­ batté due tori. Un'altra volta ne decapitò uno con un sol col­ po di spada. Fuori della lizza e dell'arena, era un gentiluomo dai mo­ di cortesi e raffinati, un parlatore forbito, un padrone di ca­ sa splendido e galante. Le donne se lo contendevano sog-

336 giogate, oltre che dalla sua avvenenza, dall'alone di mistero di cui si circondava. Non era colto e non sentiva il bisogno di diventarlo. Aveva seguito svogliatamente i corsi di legge all'università di Bologna, leggeva poco, e solo poesie. Ne componeva egli stesso, e pare di buona fattura. Sensibile al­ l'arte, si circondava di pittori e li sovvenzionava. Nel '93, il padre lo fece cardinale. Ma Cesare si sentiva così poco vota­ to alla vita ecclesiastica che quattro anni dopo chiese e ot­ tenne da Alessandro di tornare allo stato laico. Nel maggio del '99, su consiglio del Papa, sposò la sorella del re di Na- varra, Carlotta d'Albret che gli portò in dote il ducato di Va- lentinois e l'alleanza del Re di Francia. Affidando al figlio il comando dell'esercito pontificio, Alessandro non poteva fare una scelta migliore. Cesare si lanciò alla riconquista degli Stati della Chiesa con l'impeto e la determinatezza di un grande generale. Luigi XII gli ave­ va messo a disposizione trecento arcieri. Il Papa gli aveva fornito quattromila mercenari svizzeri e guasconi più due­ mila italiani, e in una bolla aveva proclamato usurpatori i si­ gnori di Forlì e di Imola. Questa città fu la prima a capitola­ re, senza opporre resistenza. Forlì ne seguì l'esempio, con­ segnandosi spontaneamente al duca Valentino, come Cesa­ re s'era fatto chiamare dopo le nozze con Carlotta. Solo Ca­ terina Sforza, signora della città, non abbassò le armi. Asser­ ragliata nella rocca con un pugno di fedeli, valorosamente rintuzzò gli assalti del nemico, ma dopo alcuni giorni dovet­ te arrendersi. Il vincitore magnanimamente le risparmiò la vita, la spedì a Roma e la fece rinchiudere in convento. Avrebbe voluto occupare altri capisaldi, ma la defezione degli arcieri francesi lo consigliò di tornare a Roma, dove fu accolto con onori degni di un sovrano. Il padre gli andò in­ contro, lo nominò vicario papale delle città sottomesse e gli mise a disposizione una forte somma di denaro per arruola­ re nuove truppe e assoldare uno dei condottieri più presti­ giosi del tempo, Vitellozzo Vitelli, cui Cesare affidò il co­ mando dell'artiglieria.

337 Nell'ottobre dello stesso '500, il duca Valentino guidò la seconda spedizione contro i nemici della Chiesa. Prima di puntare sulle Marche e la Romagna, assalì i castelli laziali dei Colonna e dei Savelli, li espugnò e vi lasciò a guardia presidi armati. Guidava ora un esercito di quattordicimila uomini perfettamente addestrati, seguito da uno stuolo di preti, prostitute, buffoni e giullari. Dovunque passò fu fe­ steggiato dalle popolazioni e salutato come un liberatore. Al suo avvicinarsi, Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, e Giovanni Sforza, signore di Pesaro, fuggirono lasciando le rispettive città in balìa dei papalini. Faenza, invece, sotto la guida di Astorre Manfredi e del fratello, sostenne un duris­ simo assedio e solo dopo alcuni mesi inalberò il vessillo del­ la resa. Anche stavolta Cesare si mostrò clemente. Chiamò al proprio cospetto i due Manfredi e ne lodò il coraggio. Astorre e il fratello ne furono talmente lusingati che chiese­ ro di porsi al servizio del vincitore. Secondo i maligni s'era­ no entrambi innamorati di Cesare, al cui fianco vissero per circa un anno. Nel 1501, per motivi che ignoriamo, il duca Valentino li fece imprigionare e l'anno successivo annegare nelle acque del Tevere. Nella primavera del 1502, Cesare allestì la terza spedi­ zione contro Camerino e Urbino. Governava questa città Guidobaldo da Montefeltro, despota illuminato, umanista squisito, mecenate munifico. Quando gli fu annunciato che l'esercito pontificio stava marciando su Urbino, si alzò dal letto, dove giaceva malato, e abbandonò il Ducato, che si sottomise pacificamente al Borgia. Un mese dopo, ugual sorte toccò a Camerino. Mai campagna ebbe esito più rapi­ do e fortunato. Troppo rapido e troppo fortunato per non allarmare e insospettire quegli Stati italiani, i cui interessi gravitavano ai confini dei territori riconquistati dal duca Valentino: Vene­ zia guardava con apprensione al reinsediamento di guarni­ gioni pontificie lungo la costa adriatica, e Firenze paventava mire borgiane sulla Toscana. Una certa inquietudine ser-

338 peggiava anche tra quei condottieri postisi al servizio di Ce­ sare, i cui territori non potevano non far gola al Papa e al suo bellicoso figlio. Li capeggiava quel Vitellozzo Vitelli, che tanto aveva contribuito con le sue artiglierie alle vittorie pontificie. Nel settembre del 1502, costui convocò in una lo­ calità chiamata «La Magione» sul lago Trasimeno alcuni ne­ mici di vecchia data dei Borgia. Fu convenuto di muovere guerra a Cesare, togliergli il titolo di Duca di Romagna, di cui s'era insignito, e restituire agli spodestati tiranni i loro staterelli. Agenti furono sguinzagliati nelle varie città per sollevare le popolazioni contro Cesare e appelli alla diser­ zione furono lanciati alle truppe pontificie. Il duca Valenti­ no chiese rinforzi al padre. Alessandro, in quel momento a corto di quattrini, mise all'asta alcuni benefici ecclesiastici e s'appropriò dell'eredità del cardinale Ferrali, cinquantami­ la ducati, che spedì al Valentino, il quale potè così arruolare seimila mercenari. Contemporaneamente il Pontefice si ab­ boccò coi congiurati e riuscì, con blandizie e promesse, a farli desistere dai loro piani e a riconciliarsi col figlio. La rappacificazione avvenne nella città di Senigallia. Ce­ sare invitò nel palazzo del Governatore i capi del complot­ to: Vitellozzo Vitelli, Oliverotto di Fermo, Paolo e Francesco Orsini. A un segnale, nella sala in cui si svolgeva il conve­ gno, irruppero le guardie armate del Duca, che arrestarono gli ospiti e l'imprigionarono. La notte stessa Vitellozzo e Oliverotto furono strangolati. I due Orsini sopravvissero di poco ai compagni e il 18 gennaio del 1503 vennero condan­ nati a morte. Fu un colpo maestro, che sbalordì i principi di tutt'Europa e riempì d'ammirazione gli storici contempora­ nei. Il Machiavelli lo definì una «impresa rara e mirabile», Luigi XII un'«azione degna dell'antica Roma», il vescovo Paolo Giovio un «bellissimo inganno». Prima di congedare le truppe, Cesare volle dare una le­ zione ai nobili del Lazio che profittando della sua lontanan­ za avevano rialzato la cresta, capeggiati da Giulio Orsini. Ne espugnò le fortezze e obbligò gl'inquilini a cedere i loro ter-

339 ritori al Papa. Quindi tornò a Roma e si riacquartierò in Va­ ticano. Aveva appena compiuto ventott'anni e il suo nome era sulla bocca di tutti, sebbene vivesse ritirato e di rado uscisse dai suoi appartamenti. Quando ne varcava la soglia si celava il volto sotto una maschera di seta nera per non far­ si riconoscere, o forse per nascondere le ulcere veneree che 10 deturpavano. Lavorava giorno e notte e si teneva in co­ stante contatto coi suoi luogotenenti in Romagna e nelle Marche. Parlava poco, impartiva ordini laconici e perentori e puniva con la morte chi li trasgrediva. Il mistero di cui s'avvolgeva accese la fantasia dei con­ temporanei, che gli attribuirono - ma più con ammirazione che con biasimo - i delitti più efferati. Fu accusato di aver fatto arrestare facoltosi prelati e di averli liberati dietro eso­ si riscatti; e i suoi più accaniti denigratori giunsero persino a imputargli l'assassinio del ricchissimo cardinale Michiel e di altri porporati, spogliati dei loro averi dopo essere stati sottoposti a tortura. Anche sulla sua crudeltà se ne raccon­ tavano di tutti i colori. Il veneziano Capello riferisce che un giorno il Duca fece condurre nel cortile del suo palazzo dei prigionieri e da una finestra li trafisse a uno a uno coll'arco. 11 cerimoniere del Papa assicura che a un banchetto dato in onore del padre e della sorella, egli invitò alcune prostitute, le fece spogliare, eppoi le obbligò a raccogliere castagne ch'egli si divertiva a lanciare sul pavimento. E difficile stabi­ lire l'autenticità di questi episodi. Forse i nemici di Cesare esagerarono ma, dati i tempi e i tipi, non ci stupiremmo se alla Corte pontificia certe cose realmente accaddero. Se Ce­ sare non fu l'Anticristo dipinto da alcuni storici, certamente non fu uno stinco di santo. Come certamente non lo fu il padre Alessandro. Il vecchio Papa, riconquistati gli Stati pontifici, si godette beatamente gli ultimi anni di regno. Scoppiava di salute, aveva abbandonato le diete impostegli dai medici, seguitava a circondarsi di amanti e, nonostante l'età, a esigerne pun­ tualmente i favori, che ricambiava con la consueta liberalità.

340 In un afoso pomeriggio d'agosto del 1503, fu invitato a ce­ na col figlio dal cardinale Corneto, che possedeva una bel­ lissima villa a un tiro di schioppo dal Vaticano. Alcuni giorni dopo quasi tutti i commensali furono assaliti da una violen­ ta febbre, accompagnata da sudore e vomito. I romani na­ turalmente parlarono di veleno. Si sparse la voce che Cesa­ re e Alessandro avevano assaggiato per errore il cibo ch'essi stessi avevano fatto spruzzare d'arsenico per sbarazzarsi del­ l'anfitrione e impossessarsi delle sue ricchezze. Ma questa volta l'accusa era infondata. In quei giorni sull'Urbe s'era abbattuta la malaria e i suoi abitanti morivano come mo­ sche. La perniciosa colpì anche i due Borgia. Per una setti­ mana Alessandro fu tra la vita e la morte. Poi si riprese e concesse persino alcune udienze. Il 13 agosto le sue condi­ zioni peggiorarono. Il 18, un attacco apoplettico lo stroncò. Pochi Papi nella storia ebbero, dopo morti, un trattamen­ to peggiore del Borgia; ma, a distanza di secoli, la sua me­ moria è stata parzialmente riabilitata. Il maggiore storico della Chiesa, il tedesco Pastor, ha scritto: «Alessandro fu da tutti dipinto come un mostro e gli fu attribuita ogni sorta di feroci delitti. Le ricerche della critica moderna l'hanno fatto giudicare in modo più clemente e hanno respinto alcune delle accuse peggiori mosse contro di lui... Dal punto di vi­ sta dei cattolici è impossibile biasimarlo troppo severamen­ te». «Quali che fossero i suoi delitti - ha scritto lo storico protestante Roscoe - non ci può essere dubbio che essi sono stati esagerati. E certo che egli si dedicò alla grandezza della sua famiglia e che usò dell'autorità della sua alta posizione per stabilire in Italia un dominio permanente nella persona del figlio; ma mi sembra ingiusto bollare il carattere di Ales­ sandro col marchio di un'infamia particolare e straordina­ ria, quando quasi tutti i sovrani d'Europa tentavano di sod­ disfare le loro ambizioni con mezzi ugualmente delittuosi.» Questo è anche il nostro giudizio. Alessandro fu figlio del suo tempo e al suo tempo s'adeguò. Usò gli stessi metodi impiegati dai rivali: il sotterfugio, il tradimento, l'inganno,

341 il veleno. Ma li usò meglio e quasi sempre riuscì a giocare i propri nemici. Ebbe molte debolezze, si macchiò di simonia, praticò impudentemente e impunemente il nepotismo. Ma al pari d'Innocenzo III, di Gregorio VII e di Bonifacio Vili, ebbe altissimo il senso dello Stato. Di uno Stato tem­ porale di cui, a spese di quello spirituale, perseguì con ogni mezzo, lecito e illecito, l'ingrandimento. E la Fede, ancora una volta, ne fu la vittima.

Nell'Urbe, la notizia della morte del Papa fu accolta con giu­ bilo, sebbene in passato i romani l'avessero amato. Qualcu­ no propose addirittura di riesumarne le spoglie e darle in pasto ai cani. Una donnetta giurò d'aver visto il diavolo por­ tare all'inferno l'anima di Alessandro. Il popolino, volubile e avido, diede l'assalto alle case degli spagnoli, le saccheggiò e le rase al suolo. I Colonna e gli Orsini piombarono in città dal Lazio e con le loro masnade vi seminarono il terrore. Dal letto in cui giaceva tuttora ammalato, Cesare era im­ potente a fronteggiare la situazione. Dalla Romagna gli giungevano notizie allarmanti. Aizzati dagli Stati del Nord, e specialmente da Venezia, i tirannelli romagnoli e marchi­ giani avevano riacquistato baldanza e sembravano decisi a riprendersi le loro terre. All'orizzonte s'andava profilando un nuovo conclave. Chi ne sarebbe uscito eletto? Il favorito era quel cardinale Della Rovere, nemico acerrimo di casa Borgia, che in passato aveva ripetutamente tentato di far deporre Alessandro. Bisognava impedirlo, ma non era faci­ le. Cesare ci provò e ci riuscì. Aveva dalla sua i cardinali spa­ gnoli, il cui voto fu decisivo nella scelta nel nuovo Papa, il cardinale Francesco Piccolomini, un uomo di sessantaquat­ tro anni, oberato dai figli e dagli acciacchi che, dopo neppu­ re un mese, lo condussero alla tomba. Il duca Valentino non osò opporsi una seconda volta al potentissimo Della Rovere. Preferì venire a patti con lui. Gli offrì i voti dei porporati spagnoli in cambio della riconfer­ ma del titolo di Duca di Romagna e comandante delle trup-

342 pe pontificie. Il Della Rovere accettò, o finse di accettare, e ottenne la tiara. Quando Cesare gli rammentò l'intesa, il Pontefice, che aveva preso il nome di Giulio II, gli comandò di recarsi a Imola a reclutare un nuovo esercito. Cesare ob­ bedì. Ma al momento di partire fu raggiunto da un messo papale che gli ordinò di consegnare alla Chiesa le sue for­ tezze romagnole. Il Duca rifiutò, fu arrestato e condotto a Roma, dove Giulio lo tenne prigioniero finché non ne ot­ tenne la capitolazione. Liberato, Cesare decise di cambiar aria, fuggì a Napoli e si diede ad arruolare un piccolo esercito per riconquistare le piazzeforti perdute. Appena il Papa ne fu informato, chie­ se a re Ferdinando di arrestare il Duca, che fu condotto in Spagna, dove languì in carcere due anni. Nel novembre del 1506 evase e riparò alla corte di Navarra, ponendosi al ser­ vizio del suo re, Giovanni d'Albret, fratello della moglie Carlotta. Giovanni gli affidò un esercito e lo spedì contro un suo vassallo, che s'era ribellato. Cesare attaccò la fortezza dove il nemico s'era asserragliato, ma durante un combatti­ mento fu ferito a morte. Aveva trentun anni. Il Machiavelli lo prese a modello del suo Principe. Nessu­ no, meglio di Cesare, ne incarnò i vizi e le virtù. Fu un gran­ de condottiero, un abile stratega, un politico spregiudicato, un diplomatico accorto, un despota lungimirante e senza scrupoli. Dubitiamo che covasse l'ambizione - attribuitagli dal grande storico fiorentino - di unificare l'Italia. Ma an­ che se l'avesse covata, dubitiamo che ci sarebbe riuscito. La Chiesa non gliel'avrebbe consentito, né gliel'avrebbero con­ sentito la Spagna e la Francia, di cui l'Italia s'avviava a di­ ventare una colonia. Dodici anni più tardi, nel 1519, dopo aver dato alla luce il settimo figlio, calò nella tomba Lucrezia. Da quando era diventata la moglie del Duca di Ferrara, nessun pettegolez­ zo l'aveva più sfiorata. A Corte la chiamavano Pulcherrima virgo, bellissima vergine, i poeti componevano versi in suo onore, i musicisti canzoni, i diplomatici la colmavano di lo-

343 di. Lucrezia ricambiava questi atti di devozione e di omag­ gio sovvenzionando le arti, circondandosi di umanisti, let­ terati e filosofi, leggendo i classici e imparando le lingue. Negli ultimi anni aveva subito una profonda crisi religiosa, s'era fatta terziaria francescana, si comunicava ogni matti­ na e passava lunghe ore del giorno in preghiera. Se per un certo periodo era vissuta da peccatrice, certamente morì da santa. CAPITOLO QUINTO

GIULIO II

Quando cinse la tiara, Giulio aveva sessantanni ma ne di­ mostrava parecchi di meno. I ritrattisti contemporanei lo rappresentano aggrottato e maestoso: naso robusto, fronte ampia, occhi scuri e profondi, mascelle dure. Era nato ad Albissola, presso Savona, da un'umile famiglia, ma giovanis­ simo s'era trasferito a Roma, chiamato dallo zio, il papa Si­ sto IV, che a ventisette anni lo fece cardinale. Amava la vita all'aria aperta, cavalcava, tirava d'arco, era un cacciatore dalla mira infallibile e, da buon ligure, un vo­ gatore instancabile. Imbandiva sontuosi banchetti ai quali intervenivano le più belle dame dell'Urbe. Sebbene fosse di modi rudi e d'approccio brusco, o forse proprio per questo, le donne impazzivano per lui, che impazziva per loro. Ne ebbe moltissime. Una gli diede tre figlie, un'altra una malat­ tia venerea che assieme alla gotta lo tormentò sino alla fine dei suoi giorni. Quando diventò Papa impedì a chiunque di baciargli il piede, deturpato dalla lue, che nel Cinquecento, dopo la scoperta dell'America, era diventata il «male del se­ colo». Alcuni storici hanno fatto di Giulio l'antitesi di Alessan­ dro, ma a torto. Se, come uomini, il Della Rovere e il Bor­ gia ebbero poco in comune - il primo era scorbutico e col­ lerico, il secondo gioviale e affabile - come Pontefici mira­ rono entrambi all'innalzamento della propria famiglia, ol­ tre che della Chiesa. In Alessandro il nepotismo fu più sfac­ ciato, ma anche Giulio non lesinò ai parenti benefici, pre­ bende e privilegi. Tre giorni dopo l'incoronazione convocò un concistoro e nominò cardinali il nipote Galeotto e il cu-

345 gino Clemente Grosso. Colmò di favori e di cariche il nipo­ te prediletto Francesco Maria, cui procurò in moglie Eleo­ nora Gonzaga. Anche in politica le idee di Alessandro e di Giulio coincisero. Tutt'e due perseguirono la grandeur della Chiesa e il suo primato temporale: il Borgia lanciando il fi­ glio alla riconquista degli Stati pontifici, Giulio guidandola di persona. Quando ascese al Soglio cupe nubi s'erano addensate su­ gli Stati pontifici. Faenza, Rimini e Ravenna erano cadute nelle mani di Venezia, Giovanni Sforza aveva riconquistato Pesaro, i Bentivoglio s'erano reinstallati a Bologna e i Ba- glioni a Perugia. Per reintegrare nel Patrimonio di San Pie­ tro i territori usurpati ci volevano mezzi e uomini. Giulio non aveva né gli uni né gli altri perché le guerre del duca Valentino avevano prosciugato l'erario. Il Della Rovere lo rinsanguò vendendo cariche e dispensando indulgenze. Ma i nemici erano potenti e per batterli bisognava cercare allea­ ti. Giulio si rivolse alla Francia, che unì i suoi eserciti a quel­ lo papalino, composto di quattrocento cavalieri, di alcune centinaia di guardie svizzere, di quattro cardinali e capeg­ giato dal duca di Urbino, Guidobaldo, al cui fianco si pose il Papa stesso a cavallo, munito di corazza e armato di lancia e spada. All'avvicinarsi delle truppe della lega, Giampaolo Baglio- ni fu colto dal panico, andò incontro al Pontefice e, dopo es- serglisi sottomesso, gli chiese perdono. Giulio gliel'accordò. Poi, in tono minaccioso, gli disse: «Ti assolvo dai tuoi pecca­ ti mortali, ma al primo fallo veniale che commetterai, pa­ gherai anche per tutti gli altri». Risposta degna di un guer­ riero, più che di un Papa. Ma Giulio era più un uomo d'ar­ mi che un pastore d'anime. Si mescolava alla truppa, consu­ mava il rancio coi soldati, ne condivideva i disagi e i repen­ tagli, dirigeva le operazioni, presiedeva personalmente alle fortificazioni lanciando moccoli e percuotendo con un no­ doso bastone chi contravveniva ai suoi ordini. Dopo la resa del Baglioni occupò Perugia, quindi puntò

346 su Bologna cingendola d'assedio dalla parte orientale men­ tre i francesi la investivano da quella occidentale. Poiché la città non si decideva a capitolare, ne scomunicò i governan­ ti. Poi invitò la popolazione a insorgere offrendo in cambio di ogni testa nemica l'indulgenza plenaria. Ne elargì parec­ chie e potè entrare trionfalmente in città, issato su una por­ tantina foderata di damasco e tempestata di gemme. Per ce­ lebrare la vittoria ordinò a Michelangelo una statua che lo raffigurasse in atteggiamento marziale davanti alla chiesa di San Petronio. Quindi tornò a Roma, dove fu accolto con onori solenni. Restavano da conquistare Faenza, Rimini e Ravenna. Ma Venezia era un osso assai più duro di Perugia e di Bologna. Possedeva una delle migliori flotte d'Europa, disponeva di eccellenti fanterie e aveva un'abbondante scorta di armi e munizioni. Sfidarne la potenza senza l'appoggio di alleati altrettanto potenti era una follia. Il 10 dicembre 1508 si co­ stituì a Cambrai una lega, alla quale aderirono l'imperatore Massimiliano, il re di Francia, Luigi XII, quello di Spagna, Ferdinando, e il Papa. Tutti avevano conti aperti con Vene­ zia. Massimiliano era stato privato dalla Repubblica di San Marco, di Gorizia, Pordenone, Trieste e Fiume; Luigi non era soddisfatto della spartizione dell'Italia del nord, che aveva dato luogo a una violenta lite con la Serenissima; Fer­ dinando rivendicava alcuni porti pugliesi, tra cui Brindisi e Otranto, che nel 1495 i Dogi avevano strappato al Regno di Napoli. Alla lega partecipò anche Ferrara, allarmata dalle mire espansionistiche di Venezia sulla terraferma. All'annuncio della coalizione il Senato della Repubblica rispose offrendo la restituzione al Pontefice di Faenza e Ri­ mini. Ma Giulio la rifiutò, anzi rispose addirittura con la scomunica, cui seguì l'invio di un esercito in Romagna. La guerra divampò su più fronti impegnando i veneziani al centro e al nord. Lo scontro decisivo avvenne il 14 maggio 1509 in Lombardia, dove l'esercito della Serenissima si scontrò con quello francese nei pressi di Agnadello ripor-

347 tando una sanguinosa disfatta. In un solo giorno perirono seimila uomini. La Repubblica richiamò le truppe e abbandonò nelle ma­ ni del nemico la Lombardia, la Romagna, la Puglia e una parte del Veneto. Ne profittò Massimiliano per assediare Padova che oppose una strenua resistenza, obbligando l'Im­ peratore a rinunziare all'impresa e a tornarsene in Germa­ nia. Luigi, ottenuta la sua parte di bottino, rivalicò le Alpi. Venezia rinnovò al Papa la precedente offerta, arricchendo­ la di altre cospicue concessioni. Stavolta Giulio, rimasto so­ lo, accettò. Ma il rafforzamento delle posizioni francesi nella Peniso­ la lo impensieriva: temeva che esse minassero quelle della Chiesa. Con un disinvolto e improvviso voltafaccia capovol­ se allora le alleanze e si schierò contro la Francia, alla quale era rimasta fedele Ferrara, che dopo le nozze di Lucrezia con Alfonso, il Borgia aveva esentato dal pagamento dei tri­ buti alla Chiesa. Il Pontefice si pose nuovamente alla testa dell'esercito e marciò su Mirandola. Dopo due settimane l'e­ spugnò. Poiché fra i difensori c'erano molti francesi, ordinò di ucciderli tutti, ma poi si pentì e li fece fuggire. Vietò ai soldati di mettere a sacco la città e non avendo denaro suffi­ ciente per pagar loro il soldo mise all'asta otto cardinalati. Da Mirandola raggiunse Bologna, ma dovette fuggirne su­ bito sotto l'incalzare delle truppe di Luigi, che l'obbligarono a riparare a Rimini. Sulle lance francesi i Bentivoglio torna­ rono al potere, festosamente accolti dalla popolazione, esa­ cerbata dai soprusi pontifici. L'odio per il Papa era tale che la sua statua davanti a San Petronio fu abbattuta e venduta come rottame al duca d'Este. Questi la fuse e ne fece un can­ none, che in scherno al Pontefice fu battezzato «la Giulia». Il Della Rovere scomunicò i bolognesi e quando apprese che alcuni cardinali filo-francesi volevano convocare a Pisa un concilio per deporlo tornò a Roma dove annunciò per l'a­ prile dell'anno successivo una solenne assise ecumenica nel palazzo del Laterano.

348 Nell'ottobre del 1511 costituì con spagnoli e veneziani una lega santa contro la Francia. Fu in quell'occasione che decise di farsi crescere la barba e di non tagliarsela finché i francesi non fossero stati cacciati dalla Penisola. Mentre era intento a tessere la trama della nuova alleanza s'ammalò. I medici lo diedero per spacciato e i cardinali si riunirono in conclave per eleggere il successore. Ma grazie alla sua forte fibra e ad abbondanti bevute di vino, ingollato all'insaputa dei sanitari, Giulio superò la crisi e potè attendere nuova­ mente alla lega, a cui aveva aderito anche l'Inghilterra. Re Luigi rispose riunendo il Concilio prima a Pisa e poi a Milano. LT1 aprile 1512 l'esercito francese sbaragliò quello nemico e dilagò in Romagna, mentre i cardinali scismatici dichiaravano deposto il Pontefice. Questi, senza darsene per inteso, inaugurò il 2 maggio il Concilio lateranense e quin­ dici giorni dopo potè trionfalmente annunciare che anche i tedeschi e gli svizzeri erano scesi in campo dalla sua parte. Ripetutamente battuti, i francesi furono costretti a evacuare Milano, Bologna e Ravenna. Ma Giulio non ebbe il tempo di godersi il trionfo. Dopo pochi mesi dovette mettersi di nuovo a letto, e questa volta per non rialzarsi più. La mattina del 4 febbraio (1513), chiamò il cerimoniere e diede istruzioni sul funerale. Disse che non doveva essere troppo sfarzoso, ma nemmeno scalcagnato come quello di Alessandro. I cardinali non vedevano l'ora che il Pontefice li liberasse dalla sua incomoda presenza, ma Giulio, nono­ stante i continui collassi, non si decideva ad accontentarli. Negl'intervalli di lucidità riceveva ambasciatori e prelati, dettava lettere, impartiva ordini. Teneva sotto il letto una bottiglia di malvasia che tracannava di nascosto ai medici, i quali invano tentavano di propinargli i comuni farmaci. Ogni poco faceva capolino nella stanza il confessore, ma Giulio regolarmente lo cacciava bestemmiando e branden­ do l'inseparabile bastone. Il 20 febbraio, presagendo la fine, si decise finalmente a ricevere il viatico, quindi chiamò al capezzale i cardinali e al loro cospetto dichiarò di essere un

349 gran peccatore e di aver malgovernato la Chiesa. Fu il suo ultimo - e unico - gesto di umiltà. Il cordoglio dei romani per la sua morte fu sincero. Lo piansero soprattutto i numerosi artisti di cui egli s'era cir­ condato, da Michelangelo a Raffaello, dal Sodoma a Giulio Romano, al Penni, al Peruzzi. Questo Papa bellicoso, rude e prepotente, fu infatti uno dei più splendidi e munifici me­ cenati della Chiesa. Sotto il suo pontificato Roma strappò a Firenze il primato nel campo delle arti figurative e diventò la Mecca dei più insigni pittori, scultori e architetti del Cin­ quecento. Ma su Giulio II, patrono e impresario di artisti, torneremo nei capitoli dedicati a Michelangelo e a Raffael­ lo, che a questo Papa dovettero la loro fama. CAPITOLO SESTO

LEONE X

A raccoglierne la successione fu chiamato un cardinale di trentasette anni, Giovanni de' Medici, che assunse il nome di Leone X. Figlio del Magnifico Lorenzo e fratello di Piero, era nato e vissuto a Firenze fino al 1491, salvo una breve parentesi per gli studi a Pisa. A sette anni aveva ricevuto la tonsura e un numero imprecisato di benefici ecclesiastici. A quattordi­ ci era stato fatto cardinale. Cresciuto nella colta e gaudente società medicea, ne aveva assimilato i gusti raffinati, l'ele­ ganza e la miscredenza. Marsilio Ficino l'aveva avviato allo studio della filosofia classica, Demetrio Calcondila gli aveva insegnato il greco, il quotidiano contatto coi dotti fiorentini che frequentavano la casa paterna gli aveva volto la mente a ogni ramo dello scibile: dalla poesia alla storia, dall'arte alla scienza, dalla matematica all'astronomia. Alle letture, alle conversazioni erudite, alle visite ai musei alternava esercizi all'aria aperta, lunghe cavalcate nei bo­ schi, partite di caccia e di pesca. Nel '92 si trasferì a Roma e s'istallò in un bellissimo palazzo con uno stuolo di servi e una piccola corte d'amici. I fiorini paterni, i privilegi di cui godeva come principe della Chiesa e la sua spensierata pro­ digalità fecero di lui uno dei porporati più in vista del Sacro Collegio. La sua dimora diventò un elegante centro di ritro­ vo di letterati, artisti e filosofi. Tra una lettura di Virgilio e una disputa su Platone vi si tenevano luculliani banchetti con contorno di musiche, canti e balli. Le donne v'interve­ nivano di rado perché a differenza dei suoi colleghi di Cu­ ria, il giovane cardinale era poco sensibile al fascino mulie-

351 bre. I maligni insinuavano che soggiaceva volentieri a quel­ lo maschile, ma si trattava di una calunnia sebbene a quei tempi l'imparzialità verso i due sessi fosse assai frequente e giudicata con indulgenza. Quando, dopo la morte di Lorenzo, la Signoria Medici entrò in crisi, Giovanni abbandonò in fretta e furia l'Urbe e tornò a Firenze a dar man forte al fratello Piero contro il quale il Savonarola e i suoi Piagnoni avevano aizzato i citta­ dini. Malgrado il suo aiuto, Piero fu costretto a lasciare pre­ cipitosamente la Repubblica e a riparare con tutta la fami­ glia a Bologna. Giovanni cercò con ogni mezzo di farlo rien­ trare a Firenze e per sei anni batté alla porta di principi, re e imperatori per impetrarne l'aiuto a favore del fratello. Nel 1500 tornò a Roma, riaprì casa e per una decina d'anni visse splendidamente e senza scosse. Nel 1511 Giulio II lo nominò legato pontificio e lo spedì in Romagna, dove cadde nelle mani dei francesi che lo condussero prigioniero a Milano. Ne fuggì poco dopo corrompendo col denaro i suoi custodi, si ricongiunse all'esercito ispano-papalino che stava assediando Firenze e potè assistere alla restaurazione di Piero. Quindi riprese la via dell'Urbe. Nel marzo del 1513 partecipò al Conclave che doveva dare un successore a Giulio. Tra i candidati alla tiara si face­ vano molti nomi, ma non il suo. La giovane età e l'odio che numerosi cardinali nutrivano per la sua famiglia sembrava­ no precludergli il Soglio. Invece, a dispetto dei pronostici, vinse. Quando il cugino Giuliano si recò da lui per congra­ tularsi della nomina, Leone rispose: «Poiché Dio ci ha con­ cesso il Papato, godiamocelo». E fu di parola. Per sette anni profuse immense ricchezze in commissioni agli artisti più famosi, in acquisti di manoscritti, di tappeti, di ori, di arazzi, in stipendi a letterati, umanisti, filosofi, in feste da «Mille e una notte». «Orgia di letteratura» definì il suo pontificato lo storico tedesco Gregorovius. Pochi mesi dopo l'ascesa al Soglio, unificò lo Studium sacri palatii e lo Studium urbis e ne fece

352 l'università di Roma, cui assegnò un corpo accademico di ottantotto professori, rigorosamente selezionati e profuma­ tamente pagati. Finanziò la traduzione dall'ebraico al latino della Bibbia e favorì la ripresa degli studi greci, fondando un'Accademia e facendo venire in Italia dall'Eliade uno stuolo di dotti. Sovvenzionò Aldo Manuzio, il più grande editore del Rinascimento, che stampò una bellissima edizio­ ne dei Dialoghi di Platone. Commissionò all'umanista Vari­ no Camerti un dizionario di latino e greco, incoraggiò ogni sorta di ricerche filologiche, promosse convegni di studi classici, dibattiti, conferenze. Ricompensò con forti somme di denaro, prebende e benefici gli scopritori di antichi codi­ ci e sguinzagliò per l'Europa torme di eruditi alla caccia di manoscritti classici. Arricchì la biblioteca vaticana di migliaia di volumi rari e i suoi scrigni di preziose reliquie, tra cui un osso di Tito Livio donatogli dai veneziani. Nominò bibliote­ cario uno degli uomini più dotti e brillanti del tempo, il poeta Tommaso Inghirami, di cui Raffaello ci ha lasciato un bellissimo ritratto. Non c'era letterato, non c'era erudito che non ottenesse da Leone un premio per le proprie fatiche. Il Bembo fu no­ minato segretario pontificio, il Bibbiena cardinale. Incarna­ va costui il tipo del perfetto uomo del Rinascimento: colto, scettico e raffinato. Componeva versi, scriveva commedie, era un conversatore squisito e un finissimo intenditore d'ar­ te. Giulio II lo aveva chiamato a Roma, Leone lo spedì co­ me nunzio apostolico in Francia alla corte di Francesco I. Un altro umanista che godette della fiducia e dell'intimità del Pontefice fu Paolo Giovio, un ex medico, autore di una storia d'Italia dalla calata di Carlo Vili all'ascesa al Soglio di Leone, aulica e agiografica. Dopo averla letta, il Papa as­ segnò al Giovio una lauta pensione. Nel campo dell'arte, Leone promosse un movimento di recupero e restauro delle opere antiche. Da tempo nell'Ur­ be, col beneplacito dei Pontefici, si abbattevano allegramen­ te vetusti edifici classici per ricavare materiale da costruzio-

353 ne. Antichi capitelli, are, colonne e frontoni venivano impu­ nemente divelti e fusi. Paolo II aveva fatto erigere il palazzo di San Marco con pietre del Colosseo, Sisto IV aveva smon­ tato un ponte sul Tevere per farne proiettili per le sue cata­ pulte. Leone pose fine a questi atti di vandalismo, spalancò le sale del Vaticano a ruderi e reliquie architettoniche, e nel 1515 nominò Raffaello sovrintendente ai monumenti. La letteratura e l'arte non distolsero Leone dalla politica, sebbene egli cercasse d'occuparsene il meno possibile. Era un diplomatico accorto e detestava la guerra, ma non gli sfuggivano i pericoli di un'egemonia francese o spagnola sulla Penisola. Per scongiurarla vagheggiò una confedera­ zione alla quale avrebbero dovuto aderire numerose città, tra cui Firenze, che vi si sarebbe posta a capo, Milano, Pia­ cenza, Parma, Modena, Ferrara e Urbino. Nel 1515, col concorso di potenti alleati, allestì un esercito per fronteg­ giare il Re di Francia e ne affidò il comando al Duca d'Urbi­ no, Francesco Maria Della Rovere. Ma, appena assunta la guida dell'esercito pontificio, il Duca tradì e passò al nemi­ co. Leone lo scomunicò, e quando il Re di Francia se ne tor­ nò oltr'Alpe, lanciò le sue truppe alla conquista di Urbino, depose Francesco e nominò duca della città il nipote Loren­ zo. Poco dopo si rappacificò col sovrano francese e per sug­ gellare la riconciliazione propose il matrimonio di Lorenzo con la bella e ricchissima Maddalena de la Tour d'Auvergne, appartenente a una delle più potenti famiglie di Francia. Fu un'unione breve e infausta perché dopo un anno Maddale­ na e Lorenzo calarono nella tomba: Leone ne profittò per incorporare Urbino allo Stato pontificio. Le campagne militari, il lusso di Corte, lo splendido me­ cenatismo avevano letteralmente dissanguato l'erario. Le uscite superavano le entrate, che ammontavano a circa 420 mila ducati annui. Il flusso di denaro dai Paesi stranieri s'andava paurosamente contraendo. Per rimpolpare le esauste casse vaticane, Leone mise all'asta 1353 nuove cari­ che, che gli fruttarono quasi novecentomila ducati, incre-

354 mento la vendita delle indulgenze e nel 1517 sfornò tren­ tun cardinali. Poiché neppure questi espedienti riuscivano a far quadrare i bilanci, ricorse al credito privato, indebitan­ dosi fino al collo con tutte le banche romane che gli fecero prestiti all'interesse strozzinesco del quaranta per cento. Per garantirli il Pontefice dovette impegnare suppellettili, ar­ genteria, tappeti, arazzi, ori. Per mancanza di fondi ridusse e poi sospese gli stipendi ai professori dell'Università e delle varie accademie. Anche il soldo dell'esercito subì gli alti e bassi di quella traballante finanza. La vita di corte invece seguitò a svolgersi fastosamente. La sua opulenza finì con lo scandalizzare gli stessi romani. «Leone - scrisse un anonimo contemporaneo - si è mangia­ to tre pontificati: il tesoro di Giulio II, le rendite di Leone e quelle del suo successore.» In otto anni di regno spese la bellezza di quattro milioni e mezzo di ducati, precipitando la Chiesa sull'orlo della bancarotta. La sua morte, il 2 di­ cembre 1521, all'età di quarantaquattro anni, fu salutata con sollievo da tutti. Leone spirò dopo una lunga agonia, stroncato dalla feb­ bre malarica e da una fistola anale. Qualcuno avanzò il so­ spetto che fosse stato avvelenato, ma mancano gli elementi per suffragare questa ipotesi, pur avvalorata da storici come il Guicciardini. La scomparsa del prodigo Papa segnò la ro­ vina dei suoi creditori: i Bini ci rimisero duecentomila du­ cati, i Gaddi trentamila, il cardinale Pucci centocinquanta­ mila. Eppure Leone fu un grande Papa, nonostante fosse in­ differente ai problemi dell'anima, preferisse la lettura di Ovidio e di Cicerone a quella dei Padri della Chiesa e si sen­ tisse più a suo agio nelle aule di un'accademia, fra artisti, letterati e filosofi, che in mezzo ai prelati o sull'altare. Tra­ sformò la Chiesa in un principato, ne fece un tempio delle arti, governato dalle Muse. Col suo fulgore tramandò ai po­ steri la propria fama. Al suo nome gli storici giustamente hanno intitolato un secolo.

355 Ma la Riforma ebbe in lui, che non ne avvertì neppure lontanamente la minaccia, un formidabile alleato. Insensibi­ le al travaglio morale della Chiesa, si preoccupò solo del suo abbellimento esteriore e del suo primato culturale, in com­ petizione coi munifici principi e le dotte corti del tempo. I valori del Rinascimento, nel bene e nel male, trovarono in questo Papa il più perfetto e raffinato compendio. Il bellissi­ mo ritratto di Raffaello ce ne offre la terrestre testimonian­ za: Leone è raffigurato in cappa e camauro d'ermellino su una sontuosa poltrona, affiancato dai cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi. Il corpo è obeso e solenne, il volto rotondo e paffuto, gli occhi bovini, la bocca carnosa, il naso forte, il mento cascante, l'espressione fissa e intensa, le mani bianche e levigate. La destra stringe una spessa lente, la si­ nistra è posata su una Bibbia miniata. Sullo sfondo è dise­ gnato un imponente scorcio di basilica. Ma nel ritratto non c'è niente di mistico. Da esso sprigiona quello spirito mon­ dano e paganeggiante che contrassegnò la Chiesa del Rina­ scimento e le costò lo scisma protestante. PARTE SECONDA

LA RIFORMA CAPITOLO SETTIMO

LA FINE DI UN MONDO

Sullo scorcio del Quattrocento, col ritorno del Papato a Ro­ ma e la fine dello scisma, la Chiesa credeva di essere venuta a capo dei suoi guai. Gravi accuse seguitavano a appuntarsi contro di essa. Ma non contenevano, almeno in apparenza, nulla di nuovo. La più insistente era quella della corruzione, che aveva trovato i suoi accenti più aspri e appassionati nella bocca di Arnaldo da Brescia, di Gioacchino da Fiore, di Savonarola, per limitarci agl'italiani. Dei Papi come il Borgia, Giulio II, e anche Leone X, nonostante le sue indubbie qualità umane e intellettuali, non erano i più indicati a disarmare le criti­ che dei moralisti. «I costumi del clero - diceva il Vescovo di Torcerlo - sono a tal punto marci da rappresentare un'offe­ sa alla morale dei laici.» E anche degli storici d'ineccepibile ortodossia cattolica, come il Pastor e La Tour, non lesinano la loro severità. «La Curia romana - scrive il primo - era una centrale d'infezione. Qualsiasi atto o documento vi po­ teva essere manipolato coi procedimenti più disonesti. Non c'è quindi da meravigliarsi che da tutte le parti della Cristia­ nità si levassero le più indignate recriminazioni.» E il La Tour: «Le innumerevoli testimonianze dell'epoca - aneddo­ ti, requisitorie, satire di poeti, ma anche bolle papali - sono concordi nella denunzia degli scandali. La vita monastica era quasi completamente scomparsa. Le antiche roccheforti della contemplazione e della preghiera si erano trasformate in focolai di disordine e dissipazione. Dalle inchieste giudi­ ziarie condotte nelle grandi abbazie si rileva che la maggio­ ranza dei monaci erano ladri e viziosi».

359 Si potrebbero riempir pagine di citazioni. Ma sarebbe un superfluo perditempo visto che nemmeno gli storici più in­ dulgenti verso la Chiesa contestano il malcostume in cui era piombata. Esso affondava la sua radice nei secoli perché, tutto sommato, rari e solo temporanei erano stati i periodi in cui la Chiesa si era mostrata all'altezza della morale che predicava. Ma stavolta la piaga era aggravata da due circo­ stanze. Anzitutto, essa non investiva più soltanto il vertice. Cer­ to, il cattivo esempio era sempre venuto di lì. Ma la Chiesa medievale aveva trovato un correttivo nel clero basso e spe­ cialmente nei grandi ordini monastici, spietati denunziatori di ogni deviazionismo. Ogni tanto essa era costretta a rico­ noscere come Santo un Francesco o un Domenico che la mettevano alla frusta, o ad accettare come Papi dei Gregori (il VII e il IX) che l'obbligavano a un bagno di purificazio­ ne. Insomma, essa aveva in se stessa i propri contravveleni. Stavolta invece la decadenza investiva tutto il suo organi­ smo, dal vertice alla base, come conseguenza di un fenome­ no difficilmente reversibile dal di dentro: la sua mondaniz- zazione. Se Cosimo de' Medici aveva detto che le Repubbli­ che non si governano coi paternostri, il suo bisnipote Leone X poteva dire che coi paternostri non si governano nemme­ no le Chiese. Egli stesso ne forniva la prova comportandosi più da grande banchiere che da grande prelato. E il daffare non gli mancava perché la Chiesa era forse la più disordina­ ta, ma anche la più vasta e potente impresa finanziaria del tempo. All'accumulo della sua ricchezza avevano contribuito va­ rie cose. Anzitutto, quelle che i miscredenti chiamavano le «assicurazioni antincendio», cioè contro il fuoco dell'infer­ no. Specie nel Medio Evo il prete, avendo in appalto anche le funzioni del notaio, riusciva a estorcere testamenti in fa­ vore della parrocchia o della diocesi in cambio dell'assolu­ zione. Molti però non aspettavano la morte per compiere questa operazione. Poiché i beni della Chiesa erano gli unici

360 relativamente al sicuro dal saccheggio dei banditi e dei sol­ dati e dalle requisizioni dei tiranni, i privati spesso intesta­ vano ad essa i propri patrimoni contentandosi di gestirli co­ me suoi usufruttuari. Una seconda causa di arricchimento erano state le Cro­ ciate. I Crociati non avevano «cinquina». Dovevano autofi- nanziarsi. E siccome allora la ricchezza era quasi esclusiva­ mente immobiliare, per convertirla in moneta, non restava che la vendita. Ma solo la Chiesa era in condizione di com­ prare, specie le proprietà dei grandi feudatari. E così si era costituito, a prezzi di liquidazione, il grande latifondo eccle­ siastico, di rinforzo a quello faticosamente (e onestamente) accumulato dagli ordini monastici con le loro opere di boni­ fica e d'irrigazione. Questo immenso patrimonio non solo era inalienabile, ma anche esente da tasse. Ogni tanto, è vero, un Re prepo­ tente o un signorotto indocile se ne appropriavano qualche fetta infischiandosi delle lamentele del Vescovo e financo della scomunica del Papa. Ma si trattava di rare e isolate ec­ cezioni alla regola. In tutti i Paesi d'Europa il tesoro della Chiesa non aveva fatto che moltiplicarsi. A quanto ammontasse nei vari Paesi è impossibile calco­ lare. Secondo la Dieta di Norimberga del 1522, la Chiesa disponeva di metà del reddito nazionale tedesco, e La Tour le attribuisce i due terzi di quello francese. Sull'esattezza di queste statistiche facciamo le nostre riserve, e molti storici infatti le contestano. Ma che si trattasse comunque di grosse aliquote in tutt'i Paesi, è indubbio. Tutto questo, ripetiamo, non aveva nulla di nuovo. La Chiesa aveva sviluppato ricchezza e corruzione - due cose che si tengono sempre per mano - nel corso dei secoli. E i suoi pastori potevano anche pensare che il gregge, pur pro­ testando come aveva sempre fatto, vi fosse abituato e solo in casi sporadici la critica potesse tradursi in aperta ribellione. Ma proprio questo fu il loro tragico eri^ore. Essi non ca­ pirono che se la Chiesa era sempre quella, mostratasi nella

361 sua lunga storia più forte dei mali che la minavano e che or­ mai potevano considerarsi parte della sua fisiologia, non più quella era la società in cui essa operava. La grande rivoluzione stava avvenendo lì. E a determi­ narla erano due fattori.

Il primo era l'urbanesimo. Il mondo arcaico e rurale del Medio Evo era stato per la Chiesa di facile governo. Il contadino non chiede spiegazio­ ni; attende miracoli, e ne vede dovunque: nella pioggia che ammorbidisce la terra per la semina, nel sole che fa matura­ re le messi, nella vendemmia, nel raccolto. Non solo. Ma la stessa struttura gerarchica e militaresca del feudalesimo lo predispone alla sottomissione. In una società siffatta, il prete ha la vita facile. Oltre al monopolio della verità rivelata, egli ha anche quello della cultura, che nessuno gl'insidia nemmeno al vertice della pi­ ramide perché gli stessi Signori sono analfabeti. Egli quindi può comodamente confiscare la coscienza dei fedeli e di­ sporne a piacimento. E quanto si è abituato a fare, fino a contrarvi una specie di deformazione professionale che gl'impedisce di adeguarsi alla nuova situazione. L'urbanesimo infatti trasforma radicalmente tutto il pa­ norama. L'operaio, l'artigiano, il mercante, il banchiere, vi­ vono in un mondo di macchine, anche se rudimentali, e di processi regolati dalla legge delle cause e degli effetti. E tutto questo li spinge a indagare i perché naturali delle cose, non quelli soprannaturali, cioè a rivolgersi alla Scienza, non più alle Scritture. Essi non si riuniscono sul sagrato della pieve all'ombra dell'olmo e sotto la guida spirituale del parroco, come facevano le «vicinanze» medievali. Il loro punto d'in­ contro è l'Arte o corporazione, dove la parola è al manager o al tecnico per il dibattito di problemi che per la prima volta, dopo i lunghi secoli bui, prescindono totalmente da quelli dell'anima e di Dio. Questi nuovi «fedeli», anche quando so­ no veramente tali, non lo sono più come quelli di una volta.

362 Il primo contraccolpo di questo mutamento si ha nel campo del diritto. La legge canonica, che fin qui ne è stata l'unica fonte e ha dato ai tribunali ecclesiastici una posizio­ ne di assoluta preminenza, non ha norme per regolare i rapporti di una società urbana. Ignora l'associazione pro­ fessionale che di questa società è diventata il pilastro. Igno­ ra le transazioni commerciali più semplici perché è rimasta allo scambio in natura dell'economia agraria o «curtense». Si ostina a condannare come «usura» il prestito a interesse che lo sviluppo industriale rende necessario. E insomma sempre più si lascia sopraffare dalla legge civile, ricalcata sui codici romani che sono stati riesumati dagli scantinati delle chiese e dei conventi. Il Vescovo perde quegli attributi di legislatore e di giudice che tanto avevano contribuito al suo prestigio. Ma fra le conseguenze dell'urbanesimo ce n'è una per la Chiesa ancora più grave: il distacco della cultura. Fino a Dante - Dante compreso - il pensiero è teologia, e la teologia è - si capisce - monopolio della Chiesa. Per l'uo­ mo dell'alto Medio Evo la vita non è che l'anticamera del­ l'aldilà, un «sogno di Dio», un grande mistero di cui solo il sacerdote ha la chiave; e anche chi dubita che quella chiave sia giusta, non ne ha altre cui ricorrere. Non conosce gli strumenti della logica e della ragione perché non ha ancora riscoperto la filosofia greca che li aveva elaborati. Ignora il sillogismo che del pensiero è appunto la sintassi. Si affida al prete che monopolizza il rudimentale sistema scolastico e che sin da bambino lo abitua a procedere, non per premes­ se, induzioni e deduzioni, ma per parabole, rivelazioni e mi­ racoli. Poi sopravviene la grande rivoluzione che abbiamo cer­ cato di raccontare ne Eltalia dei Comuni. Sono gli Arabi che, al termine della loro lunga cavalcata attraverso il nord-Afri­ ca, importano in Spagna la cultura greca. Gli Ebrei che li se­ guono, fin d'allora cosmopoliti e poliglotti, traducono in la­ tino Aristotele e i suoi commentatori e divulgatori arabi,

363 Averroè e Avicenna, e li regalano alla rozza Europa del do­ dicesimo secolo. La Chiesa cerca immediatamente d'impa- dronirsene, e per un certo tempo ci riesce. Essa prende, del razionalismo greco, ciò che le fa comodo e scarta ciò che la imbarazza. In mano a San Tommaso, il sillogismo aristoteli­ co serve a dimostrare che fra la fede e la ragione non c'è contrasto, che anzi la ragione è stata concessa da Dio all'uo­ mo perché si persuada ancora meglio delle verità eterne della fede. E siccome scuola e cultura sono ancora in mano alla Chiesa, la teologia conserva il monopolio del pensiero, anzi s'identifica con esso. Ma anche a questo monopolio l'urbanesimo pone fine. La società artigiana, mercantile, industriale della città con­ sente la nascita di una categoria di persone affrancate dal bisogno, che possono dedicarsi allo studio. Sono gli «umani­ sti». Essi si gettano alla riscoperta e alla divulgazione della letteratura e del pensiero classici. E nasce così, grazie ad es­ si, una cultura laica. Il colpo, per la Chiesa, è mortale. Essa ha sempre procla­ mato che fuori dal suo ambito nel campo dello spirito non c'è nulla. E invece il mondo s'avvede a un tratto che prima e senza di essa è fiorita una grande civiltà che tuttora si può prendere a modello. La Chiesa cerca di correre ai ripari adottandola, e tutto il Quattrocento trascorre nello sforzo di battezzare Aristotele e Platone presentandoli come pre­ cursori di Gesù e del Vangelo. Ma la battaglia è perduta. La nuova cultura se ne va per conto suo. La Ragione si rifiuta al ruolo subalterno di stru­ mento della Fede, ed elabora quella specie di teologia laica che si chiama Filosofia non più al servizio, ma in concor­ renza con quella della Chiesa. Letteratura e poesia non at­ tingono più ai grandi motivi religiosi che avevano ispirato Dante: diventano profane. La Storia si fa scopertamente secolare: Nicola di Cusa e Lorenzo Valla rivelano, prove al­ la mano, la truffa della cosiddetta «Donazione di Costanti­ no». E la Chiesa che fonda su quella grossolana «patacca» il

364 suo diritto al potere temporale, ne esce discreditata anche come Stato. Savonarola è l'unico ad avvertire lucidamente i pericoli che il «nuovo corso» presenta per la Fede. Ed è questa co­ scienza che anima e riscalda le sue terribili requisitorie con­ tro gli umanisti di Firenze e il loro protettore Lorenzo. Ma finisce sul rogo perché anche la Chiesa ormai si è lasciata contaminare dall'umanesimo, di cui anzi i Papi sono diven­ tati i grandi impresari. Questi Papi raffinati e colti, politi­ canti e guerrieri, pieni di mogli, di amanti e di figli, sono troppo impegnati a condurre eserciti, a innalzare basiliche, ad arricchire pinacoteche e biblioteche, per sentire la crisi che li minaccia. Non si preoccupano nemmeno dell'altra grande rivolu­ zione che matura nel mondo, e che sarà il decisivo fattore di rottura del fronte cattolico: la nascita degli Stati nazionali, cioè di centri di potere in concorrenza con quello ecclesia­ stico. Per tutto il Medio Evo la Chiesa non ha conosciuto rivali. Ha conosciuto soltanto dei ribelli, di cui è sempre venuta fa­ cilmente a capo. Pochi erano i temerari disposti a sfidare la scomunica in un mondo che non offriva, per così dire, so­ stegni di ricambio. Per l'uomo medievale il convento non era soltanto la tinozza dell'anima, ma anche il rifugio del corpo, il lazzaretto, l'ospizio. Sul sagrato della chiesa i «vici­ ni» regolavano i loro rapporti, il parroco era spesso l'unica persona che sapesse leggere e scrivere, e il tribunale eccle­ siastico era l'unico che garantisse un minimo di giustizia. Nel Quattrocento però già si delinea un potere laico che non si confonde più con la persona del titolare. Natural­ mente non si può parlare di uno Stato in senso moderno con la sua divisione in tre poteri - il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario - la cui indipendenza garantisce i diritti del cittadino. Per arrivare a questo traguardo, ci vorranno pa­ recchi secoli e fiumi di sangue. Ma nell'Inghilterra del Tre­ cento ce n'è già almeno il presentimento. Nel porgere la co-

365 rona al nuovo Re, l'Arcivescovo di Canterbury, suprema au­ torità religiosa del Paese, lo sottopone a un interrogatorio: «Sire, v'impegnate con giuramento a rispettare le leggi e le consuetudini del popolo inglese?» E il Re, se vuole infilarsi in testa quella corona, deve impegnarsi a farlo. Lasciamo stare se poi a quell'impegno terrà fede solo fino a un certo punto. E già molto importante, e in anticipo sui tempi, ch'e­ gli sia costretto a prenderlo con una formula in cui ricono­ sce e s'inchina a una volontà superiore alla sua. Né si tratta solo di una formula. Fra le leggi e consuetu­ dini che il Re giura di rispettare c'è anche quella di astener­ si dall'imposizione di nuove tasse o balzelli che non siano prima approvati dai rappresentanti del popolo. Ciò non si­ gnifica che in Inghilterra ci sia già un regime parlamentare nel senso che oggi diamo a questa locuzione. Quei rappre­ sentanti non rappresentavano tutto il popolo e il loro assen­ so era richiesto solo per le misure fiscali. Ma, per quanto ti­ mido, era già il principio di un governo democratico, con­ dizionato almeno per certe cose dalla volontà popolare. E ciò bastava a fare degl'inglesi non più soltanto dei «sudditi», ma dei «cittadiiri» che, sia pure limitatamente al costo della spesa, partecipavano alla cosa pubblica e al suo governo. In­ somma essi erano, come oggi si direbbe, «integrati». Inte­ grati in una comunità laica che, almeno sul piano tempora­ le, garantiva ciò che fin qui aveva garantito solo la comunità religiosa: una solidarietà umana, una legge, dei tribunali ri­ spettosi dei diritti del singolo, e non soltanto di quelli priva­ ti, ma anche di quelli civili e politici. Questo crea un nuovo tipo di «fedele» per il quale la sot­ tomissione alla Chiesa non è più una condizione di soprav­ vivenza, ma una scelta della coscienza. Anche per lui la dis­ sidenza, la rottura, la scomunica comportano parecchie sco­ modità. Ma non ne fanno un «apolide» perché egli ha già in tasca una cittadinanza di ricambio: quella riconosciutagli da uno Stato di cui egli è, come elettore, parte attiva, non sol­ tanto passiva, e che già si pone al di sopra del Sovrano e dei

366 suoi arbitri e capricci. L'inglese scacciato dal tempio non è alla mercé di chiunque, come l'italiano. Egli ha un rifugio nella famiglia laica di cui è riconosciuto membro. Naturalmente, ripetiamo, nel Trecento questo processo non è ancora maturo nemmeno in Inghilterra. Fra i giura­ menti che il Re pronunzia all'atto dell'incoronazione, c'è an­ che quello di usare il potere «per restare d'accordo e in pace con Dio e con la Santa Chiesa». Ufficialmente dunque anche lì lo Stato è ancora confessionale. Ma i fatti stanno per dimo­ strare che quanto più questo Stato prende coscienza di sé, tanto più esso sviluppa una forza concorrenziale nei con­ fronti della Chiesa, che incoraggia la protesta contro di essa. Le vicende di John Wycliff e di Huss riassumono e illu­ minano questa drammatica svolta. Chiediamo scusa al letto­ re se l'obblighiamo a un balzo indietro nel tempo. Ma esso è necessario per chiarire i «precedenti» della crisi che sta per scoppiare. CAPITOLO OTTAVO

WYCLIFF

Nel 1366 il Papa aveva sollecitato al Re d'Inghilterra Edoar­ do III un ennesimo tributo. Queste richieste erano ormai diventate un'abitudine da quando, un secolo e mezzo pri­ ma, re Giovanni aveva stabilito la regola di soddisfarle. Ma il suo successore non era altrettanto arrendevole, anche perché egli aveva qualche motivo di dubitare che il suo de­ naro finisse effettivamente nelle casse della Chiesa. Questa infatti, come ricorderete, non aveva più la sua se­ de a Roma, ma ad Avignone, cioè in Francia: un Paese con cui l'Inghilterra era impegnata in una guerra che durava da decenni. E francesi erano i Papi che si succedevano sul Soglio. Non si può dire ch'essi facessero più gl'interessi del­ la Francia che quelli della Chiesa; o per lo meno non si può dirlo di tutti. Ma si può capire che gl'inglesi lo sospettassero e che perciò temessero di finanziare, attraverso di essi, il lo­ ro nemico. Già nel 1353 Edoardo aveva opposto un primo rifiuto. Ma nel '66 volle dividerne la responsabilità col Parlamento chiamandolo a pronunziarsi sulla questione. Forse egli stes­ so non capì l'importanza rivoluzionaria di quel gesto. Il ca­ so di un Re che respingeva la richiesta del Papa non era nuovo. Ma fin allora questi dissensi avevano coinvolto solo i due protagonisti. Ora per la prima volta, con l'appello al popolo, veniva mobilitata l'opinione pubblica, e il conflitto fra Sovrano temporale e Sovrano spirituale si trasformava in un conflitto tra Stato e Chiesa. Il Parlamento inglese avallò l'opinione del Re con uno slancio che avrebbe dovuto mettere sull'avviso la Curia di

369 Avignone. Esso non solo rispose che il denaro dei contri­ buenti inglesi doveva restare in Inghilterra, ma volle giusti­ ficare questa tesi anche sul piano del dogma, e ne affidò l'in­ carico a un teologo di Oxford, John Wycliff, che si era fatto un nome non solo per la sua dottrina, ma anche per il suo anticonformismo. Wycliff aveva allora quarantasei anni e, da quando aveva preso i voti, non poteva certo lagnarsi del trattamento che la Chiesa gli aveva fatto. Aveva ricevuto dal Papa vari bene­ fici, cioè la rendita di alcune parrocchie, senza obbligo di ri­ siedervi: il che gli aveva consentito di dedicarsi interamente allo studio e all'insegnamento. Ma questo non aveva scorag­ giato la sua indipendenza critica, che rasentava la spregiu­ dicatezza. Non aveva nulla dei mistici ribelli del dodicesimo e tredicesimo secolo, sia di quelli rimasti nei ranghi nella Chiesa come San Francesco, sia di quelli che n'erano usciti come Valdo. Era piuttosto un uomo d'azione, un organizza­ tore, un guerriero, che sfogava le sue traboccanti energie e il suo spirito pugnace in libri e libelli. Li scriveva in un im­ pervio latino che avrebbe fatto accapponare la pelle al Pe­ trarca. Ma dentro c'erano delle idee che di lì a centocin- quant'anni avrebbero dimostrato la loro esplosiva vitalità. Secondo lui, la Chiesa non era né il Papa né il clero, ma tutta la comunità cristiana, come del resto era stato nei pri­ mi secoli dopo Cristo: quelli dell'apostolato e della fede mi­ litante. Il fedele, dice Wycliff, non ha bisogno d'un sacerdo­ te che gli faccia da intermediario col Signore: egli è già in rapporto diretto con Lui, e quindi è il sacerdote di se stesso, anche se non è ordinato e consacrato. Il Signore conosce le sue pecorelle, e ha già deciso quali di esse meritino di essere salvate, e quali dannate. Queste ultime non s'illudano di sot­ trarsi al loro destino con le preghiere o con le buone azioni. Le buone azioni non servono a procurare la Grazia. Servo­ no solo a dimostrare che vi si è predestinati. Hanno un valore indicativo, non strumentale. Soltanto Adamo ed Eva erano stati dotati di libero arbitrio, cioè

370 avrebbero potuto determinare, con la propria condotta, la propria sorte. Ma, essendo caduti in peccato, avevano perso questa facoltà per se stessi e per i loro discendenti. C'è da chiedersi come Wycliff avesse potuto sostenere e diffondere impunemente simili idee. Potremmo citare i no­ mi di parecchi suoi coetanei che per molto meno erano fini­ ti sul rogo. Se Wycliff non ci aveva rimesso neanche la tona­ ca e la cattedra, forse lo doveva proprio agli errori di gram­ matica e di sintassi che lardellavano la sua confusa e lutu­ lenta prosa latina e la rendevano oscura al lettore. Ma furo­ no gli avvenimenti a chiarirne il significato. Chiamato in servizio dallo Stato per motivare sul piano teologico il rifiuto del Re e del Parlamento, Wycliff sostenne in un trattato che il Signore, imponendo ai suoi Apostoli l'obbligo della povertà, aveva inteso condannare la ricchez­ za come una condizione del peccato. La Chiesa quindi non può pretendere tributi; e se li pretende, perde ogni diritto al suo magistero e all'amministrazione dei sacramenti. Anzi, in un mondo veramente cristiano, ogni forma di proprietà dovrebb'essere abolita. Dio è l'unico vero legittimo proprie­ tario. Di tutto. Solo ai predestinati alla Grazia è concesso «amministrare» qualche briciola di questo patrimonio. Le ultime proposizioni introducevano nel discorso teolo­ gico una venatura politica, a mezza strada fra l'anarchismo e il comunismo, che più tardi sarebbe risultata fatale a Wycliff e alla sua causa. Ma in quel momento il partito anti­ clericale, capeggiato a Corte da John Gaunt, trovò comodo adottare la dottrina del teologo e fece di lui il proprio cam­ pione, invitandolo a sostenere anche il diritto dello Stato a confiscare i beni della Chiesa. Wycliff consentì, e spalleggiò quel progetto in una serie di prediche che ottennero il più vivo successo popolare. La minaccia concreta ai loro benefici, stipendi e rendite sollevò l'indignazione dell'alto clero inglese, mostratosi così tollerante nei confronti delle teorie, per quanto eretiche, di Wycliff. Questi fu convocato da un concilio di Vescovi riuni-

371 to nella chiesa di San Paolo, ma vi si presentò accompagna­ to da Gaunt coi suoi armigeri. La discussione degenerò in un tafferuglio che indusse i prelati a rimandare ogni deci­ sione. Ma essi spedirono al Papa un rapporto in cui veniva­ no testualmente riferite le tesi del reprobo. Il Papa Io con­ dannò con una «bolla», e ordinò all'Arcivescovo Sudbury e al Vescovo Courtenay di arrestare il «deviazionista» in attesa di ulteriori istruzioni. Ma a questo punto in favore di Wycliff scattò quella se­ conda «cittadinanza» con cui la Chiesa non era abituata a fa­ re i conti. Per arrestarlo, ci volevano i gendarmi; i gendarmi erano al servizio dello Stato; e lo Stato era solidale con Wycliff. Il Parlamento che proprio allora si riuniva mostrò la più viva simpatia per la confisca dei beni della Chiesa che il teologo aveva caldeggiato, specie quando seppe ch'essi ammontavano a una buona metà del patrimonio nazionale. Wycliff, ancora una volta sollecitato a esprimere il suo pare­ re, rispose: «Il Reame d'Inghilterra, secondo le parole della Scrittura, dev'essere considerato un corpo, di cui l'aristo­ crazia, il clero e il popolo sono le membra». Era come dire che anche il clero apparteneva al Reame, non alla Chiesa, cioè doveva essere - come oggi diremmo - «nazionalizzato» con tutt'i suoi beni. Centocinquant'anni dopo riudremo quasi le stesse parole in bocca a Enrico VIII per giustificare la definitiva separazione della Chiesa d'Inghilterra da quel­ la di Roma. I prelati risposero pubblicando la bolla e ordinando al Rettore dell'Università di Oxford di procedere all'arresto del ribelle secondo gli ordini del Papa. Ma essi avevano di­ menticato che già da quasi cinquant'anni quell'Università aveva risolto il conflitto fra le due cittadinanze optando per quella dello Stato e dichiarandosi indipendente dalla Chie­ sa. La maggioranza degl'insegnanti si pronunciò contro le idee di Wycliff, ma a favore del suo diritto di esprimerle e di sostenerle. Il Rettore si rifiutò di arrestarlo e si limitò a con­ sigliargli di tenersi per un certo tempo in disparte.

372 Nel '78 Wycliff fu convocato da un'altra assemblea di Ve­ scovi, e stavolta vi si presentò solo, da uomo sicuro del fatto suo. Infatti sul più bello del dibattito la folla sfondò le porte e irruppe nell'aula urlando che in Inghilterra non c'era po­ sto per l'Inquisizione e i suoi metodi. I Vescovi impauriti ri­ mandarono ancora una volta ogni decisione, e subito dopo furono ridotti all'impotenza dallo scisma del Papato che praticamente li privava di sostegno e direttive. Wycliff ne approfittò per comporre e diffondere diecine e diecine di libelli in cui, oltre che al suo pensiero, diede fondo ai suoi polemici umori. Chiamò il Papa «la bestia dell'Apocalisse» e paragonò i conventi ad «allevamenti di ladri» e a «nidi di serpenti». Denunziò la rapacità e la lussuria dei preti «se­ duttori di ragazze, di vedove, di spose e perfino di mona­ che» e propose che i loro delitti venissero perseguiti dai tri­ bunali laici. Ma queste scompostezze anticlericali e grossola­ nità di linguaggio non erano che l'involucro di una proble­ matica che andava molto al di là del pretesto che le ispirava. Per il suo bene, dice Wycliff, la Chiesa deve rinunciare non solo a ogni materiale possesso, ma anche a ogni pote­ re. Essa cade in peccato mortale quando pretende di domi­ nare gli Stati. Questo diritto spetta solo al Re che ne ri­ sponde direttamente a Dio, dal quale deriva la sua investi­ tura. Perciò al Re spetta anche ordinare i preti che gli deb­ bono obbedienza come tutti gli altri sudditi. Questi preti sono tenuti soltanto a una vita di preghiera e a un esempio di carità. Il fedele, essendo anche lui in rapporto diretto con Dio, non ha bisogno di loro nemmeno per la confessio­ ne che, caso mai, dovrebb'essere pubblica come lo era pres­ so i primi cristiani. Quanto all'assoluzione, anche un laico può darla, purché sia puro e in stato di Grazia. Mentre i sa­ cramenti amministrati da un sacerdote in stato di peccato sono invalidi. Un'altra pretesa a cui la Chiesa deve rinunziare è quella di trasformare nel corpo e nel sangue di Cristo il pane e il vino dell'Eucarestia. Questo «miracolo» non è, secondo

373 Wycliff, che un abominevole sortilegio. Si capisce, egli dice, che Cristo è presente. Lo è sempre, in tutto ciò che si fa. Ma non sono il pane e il vino che si transustanziano in Lui per il potere carismatico di un prete magari predestinato alla dannazione. Questo punto, che intaccava uno dei dogmi fondamenta­ li della Chiesa, allarmò gli stessi sostenitori di Wycliff. Gaunt si precipitò da lui per indurlo a ritrattarsi sulla faccenda del­ l'Eucarestia, ma l'irriducibile teologo respinse il consiglio, e anzi ribadì le sue opinioni in una confessione ancora più po­ lemica. Per sua disgrazia proprio in quel momento scoppia­ va una rivoluzione nella quale egli si trovò involontariamen­ te coinvolto. I ribelli presero sul serio le sue teorie sull'abo­ lizione del diritto di proprietà e pretesero applicarle. Inva­ no egli cercò di separare le proprie responsabilità da quelle loro dichiarando che il suo era soltanto un ideale religioso. Il nuovo re Riccardo II, cui quella rivoluzione per poco non era costata la vita e il trono, una volta che l'ebbe domata, or­ dinò al rettore di Oxford di espellere Wycliff. Questi tuttavia non subì altre persecuzioni e potè conti­ nuare a scrivere libri e libelli: non più nel suo cattivo latino, ma in un robusto, popolaresco, gorgogliante inglese, che ancora meglio si prestava alla sua vocazione polemica. II successo che riscosse lo spinse a intraprendere anche la tra­ duzione della Bibbia per darla ai fedeli come l'unico infalli­ bile règolo della loro condotta. Anche questo era un atten­ tato ai privilegi della Chiesa che aveva sempre combattuto le versioni dei Sacri Testi in lingua volgare per riservare a se stessa il monopolio dell'interpretazione. Mentre attendeva al suo lavoro, il Papa lo convocò a Ro­ ma. Ma la morte non gli dette il tempo di disobbedire. Tut­ to ciò ch'egli aveva intrapreso era rimasto incompiuto. Ma nulla era destinato ad andare perso. Senza la rivoluzione che aveva spinto il Re e le classi privilegiate a far causa co­ mune con l'alto clero, forse l'Inghilterra si sarebbe staccata dalla Chiesa con un secolo e mezzo di anticipo. Ma Wycliff

374 gliene aveva comunque spianato la strada. Nella sua teolo­ gia sono anticipati molti elementi della Riforma: la predesti­ nazione, il rifiuto della transustanziazione nell'Eucarestia, la negazione del prete come insostituibile intermediario fra Dio e il fedele; e infine - decisivo elemento di vittoria - l'af­ fermazione della illimitata sovranità dello Stato laico nel campo temporale, il suo diritto di sottrarsi ai tributi e di no­ minare i suoi Vescovi. Era chiaro che d'ora in poi i ribelli della Chiesa potevano contare sull'appoggio dello Stato, almeno nei Paesi in cui uno Stato cominciava a nascere. La scomunica non li rende­ va «apolidi». Ormai potevano sfidarla. CAPITOLO NONO

HUSS

Fra gii ammiratori di Wycliff c'erano stati alcuni giovani boemi andati a Oxford con borse di studio. La Boemia era, insieme alla Polonia, il primo Paese in cui la fluttuante marca slava si era solidificata fino a formare qualcosa di simile a una nazione: il resto era ancora un li­ quido magma che dalle sterminate steppe dell'Est ogni tan­ to irrompeva al di qua dell'Elba, spariva, ricompariva, ma non riusciva a darsi un ordinamento più stabile e consisten­ te di quello dell'orda. La Boemia invece, incuneata nel cuo­ re dell'Europa, si era inserita anche nella sua storia e, sotto un'avveduta dinastia dal nome impossibile, i Przemyslid, era diventata un Reame. Nel Trecento questa dinastia si era estinta, e a fondarne un'altra era stato chiamato Giovanni di Lussemburgo. Co­ me governante e amministratore, la scelta non si rivelò for­ tunata: Giovanni a Praga ci stava solo nei ritagli di tempo, era allergico alle «scartoffie», il suo ufficio era il cavallo, dal­ la cui groppa scendeva di rado. Ma come agente pubblicita­ rio, i suoi sudditi non potevano trovarne uno più efficiente e redditizio. «Nulla si può fare senza l'aiuto di Dio e del Re di Boemia» era uno slogan che aveva corso in tutta Europa. Giovanni se l'era guadagnato alla normanna, cioè caccian­ dosi in tutte le guerre, anche le più lontane dal suo Paese ed estranee ai suoi interessi, per il solo gusto di combatterle e di vincerle. Anche quando una malattia - probabilmente la lue - l'ebbe lasciato completamente cieco, seguitò ad ar­ ruolarsi in tutte le crociate alla difesa del debole contro il forte.

376 Fu così che volò in soccorso della Francia, alla notizia che vi era sbarcato l'esercito inglese. Alla battaglia di Crécy, solo i suoi cinquecento cavalieri boemi, fra cui suo figlio Carlo, ressero all'urto del nemico. Quando seppe che tutto era perduto, Giovanni ordinò a due dei suoi di legare i loro ca­ valli al suo e di lanciarli contro gl'inglesi «perché non si dica che il Re di Boemia ha abbandonato il campo dell'onore». Il suo corpo crivellato di ferite fu portato come trofeo di vitto­ ria a re Edoardo che lo rispedì a Carlo con questo messag­ gio: «Oggi è caduto il fiore della Cavalleria». Carlo fu un sovrano molto meno pittoresco, manesco e avventuroso di suo padre, ma più saggio e illuminato am­ ministratore. Fu grazie a lui che Praga diventò non soltanto una delle più splendide capitali di Europa, qual è ancor og­ gi, ma anche uno dei più progrediti centri di cultura uma­ nistica. Egli consegnò a suo figlio Venceslao un Paese ricco, ordinato, già avanti nella industrializzazione, e provvisto di così eccellenti università da dare il suo nome, «la Bohème», a un modo di vita goliardico. Gli studenti di Praga lo espor­ tarono dovunque, in Italia, in Francia, in Germania, in In­ ghilterra. Fu qui che alcuni di loro conobbero Wycliff, ne tradussero le opere e trapiantarono in patria il seme del suo anticonformismo. Esso fiorì all'ombra di una chiesa, la Cap­ pella di Betlemme, che nel 1402 chiamò sul pulpito un gio­ vane e appassionato predicatore: Giovanni Huss. Huss derivava il proprio nome dal villaggio in cui era na­ to, Husinetz. Era di umilissime origini, ma la povertà non gli aveva impedito di studiare. Voleva guadagnarsi i galloni di sacerdote non, come tanti altri, per sbarcare il lunario, ma per autentica vocazione. Fu questa a sorreggerlo nella lotta contro il freddo e i digiuni. Passò d'un balzo dal banco di scolaro alla cattedra di professore, e quando prese i voti la regina Sofìa se lo scelse come confessore. Più tardi, quando cadde in odore di eresia, i suoi accusa­ tori dissero che, prima ancora di celebrare la messa, egli aveva manifestato alcuni dubbi sul dogma della transustan-

377 ziazione nella Eucarestia: il tema di cui Wycliff aveva fatto il suo cavallo di battaglia. Certo, di Wycliff conosceva le opere. E al processo confessò di aver esclamato, leggendole: «Ecco un uomo predestinato alla Grazia. Ma, fosse anche danna­ to, io vorrei che la mia anima raggiungesse la sua». Comunque, è accertato che le sue prediche dal pulpito della Cappella ottennero uno strepitoso successo anche per­ ché, invece di pronunciarle in latino com'era uso allora, le pronunciava in boemo, la lingua di tutti, che tutti capivano. Quanto al contenuto, possiamo facilmente desumerlo dai quarantacinque brani che a un certo punto il «capitolo» del­ la cattedrale, cioè i preti che vi sovrintendevano, isolarono dai suoi scritti - andati quasi tutti distrutti - per sottoporli al corpo accademico dell'Università che ne giudicasse l'orto­ dossia. Ci fu, tra i professori, battaglia grossa. Ma alla fine la maggioranza condannò le tesi di Huss e ne vietò la circola­ zione sia in pubblico che in privato. Evidentemente Huss ignorò il divieto, perché di lì a poco venne denunziato all'Arcivescovo come propagandista del pensiero di Wycliff. L'Arcivescovo scomunicò il reprobo e i suoi seguaci, ordinò la confisca di tutte le sue opere - circa duecento manoscritti - che vennero pubblicamente brucia­ te; e siccome il ribelle seguitava come se nulla fosse a dir messa in una chiesa gremita di fedeli, lanciò l'interdetto sul­ la città, cioè vi proibì le funzioni religiose: misura gravissi­ ma, specie a quei tempi, perché implicava una specie di bando dalla comunità cristiana. Huss si appellò al Papa, che lo convocò a Roma. Ma si ri­ fiutò di andarci. E quando di lì a poco lo stesso Papa bandì una ennesima vendita di indulgenze per rimpannucciare le sue vuote casse, Huss e il suo più fedele luogotenente, Ge­ rolamo da Praga, tornarono sul pulpito per incitare i fedeli al rifiuto. Il purgatorio, dissero, non c'è. E anche se ci fosse, non è certo coi soldi che si potrebbe evitarlo. I soldi servono soltanto alla Chiesa per i suoi lussi e i suoi vizi. Spaventato da tanta audacia e ancor più dal fatto che la

378 ribellione di Huss trovava nella popolazione i più vasti con­ sensi, il Re gli proibì di predicare e fece arrestare tre suoi seguaci. Al processo, Huss perorò in loro favore dichiaran­ dosi unico responsabile della loro condotta. Ma le sue paro­ le furono ignorate e i tre accusati vennero decapitati. Scomunicato anche dal Papa, e su consiglio di Venceslao, Huss si ritirò nel contado, e per due anni attese soltanto al­ la stesura dei suoi libri, alcuni in latino, altri in boemo. An­ che lui crede nella predestinazione, ribadisce i concetti di Marsilio e di Occam che negano alla Chiesa il diritto di pos­ sedere beni terreni, e precorre Calvino affermando che la Chiesa non è né il Papa né il clero e nemmeno la comunità di tutti fedeli, ma solo la piccola aliquota privilegiata dalla Grazia. Nel suo furore polemico prende perfino sul serio e avalla la leggenda della papessa Giovanna, il cui sesso, dice, fu scoperto quando diede alla luce un bambino. Questo, per dimostrare che il Papa può sbagliare. E quando sbaglia, «disobbedirgli è obbedire al Signore». I cristiani non devo­ no prenderlo per guida. La loro bussola è la Bibbia, e basta. Come si vede, sono pressappoco le tesi di Wycliff. Huss vi aggiunge solo, per ragioni politiche contingenti, una nota più marcatamente nazionalista, anzi razzista. Negli ultimi tempi la Boemia aveva subito una massiccia infiltrazione di elementi tedeschi. Già allora fra le due popolazioni si accen­ devano conflitti. Lo slavo Huss era violentemente antiger­ manico, e questa patriottica colorazione contribuiva alla po­ polarità delle sue tesi. La sua richiesta di una Chiesa nazio­ nale non si appuntava solo contro la Curia romana, ma an­ che contro l'alto clero in buona parte tedesco. E questa tesi nazionalistica è un elemento che ritroveremo in tutti i Paesi solidali con la Riforma. Ed eccoci all'anno fatale. Ne LItalìa dei secoli d'oro abbia­ mo già narrato le vicende del Concilio che nel 1414 si riunì a Costanza per mettere fine allo scandaloso scisma dei tre Papi che si contendevano la tiara. L'occasione era buona per sanare anche la rottura che si era determinata per via di

379 Huss nella Chiesa boema. A Praga, Venceslao non aveva fi­ gli che potessero continuare la dinastia lussemburghese. Al­ la sua morte, il Reame era destinato a entrare a far parte della corona del Sacro Romano Imperatore Sigismondo. Costui non volendo intoppi con la Chiesa che avrebbe do­ vuto consacrare l'operazione, pensò di approfittare del Concilio per cercar di riportare in Boemia la pace religiosa. Propose a Huss di andare a Costanza per tentare una ri­ conciliazione, promettendogli un pubblico e libero dibattito sulle sue tesi e garantendogli il salvacondotto per il ritorno. Nonostante gli ammonimenti dei suoi seguaci, Huss si mise in viaggio scortato da alcuni di loro e da tre nobili. Fu accol­ to cortesemente, trattato come ospite di riguardo, e dopo qualche giorno invitato a esporre il suo pensiero alla confe­ renza episcopale. Ma qui gli umori dei Padri conciliari cam­ biarono di colpo. Accusato di eresia e dichiarato colpevole, venne arrestato su due piedi. Il trattamento che subì in prigione fu tale che per due volte i medici lo salvarono a stento dalla morte. L'uomo che dopo sette mesi ricomparve davanti al Concilio non era più in grado di difendere il proprio pensiero. Tuttavia ebbe la forza di non rinnegarlo proprio del tutto, dicendosi pronto a ritrattare ciò ch'era in contrasto con le Scritture. Il Conci­ lio non se ne contentò e gli chiese una sconfessione comple­ ta. Per quanto sfinito, il ribelle la rifiutò. Lo ricondussero in prigione sperando di venire a capo della sua ostinazione con la fame e le minacce. Ma invano. In una cella accanto alla sua, languiva il fido Gerolamo, ar­ restato anche lui per aver predicato contro i metodi del Concilio nei confronti del suo Maestro. Il 5 luglio (1415) fu pronunziata la sentenza: Huss era proclamato eretico al pa­ ri di Wycliff, le sue opere dovevano essere bruciate e il suo corpo affidato al braccio secolare. Il relitto umano salì sul rogo con passo fermo e scomparve tra le fiamme intonando inni. L'anno dopo fu la volta di Gerolamo. Sotto gl'interroga-

380 tori, in un momento di terrore, aveva rinnegato Huss. Ma quando lo ricondussero davanti ai suoi giudici, ritrattò la ri­ trattazione con sì appassionata eloquenza che per un mo­ mento il tribunale ne parve sopraffatto. Gli offrirono la sal­ vezza se si pentiva e chiedeva perdono. Gerolamo rifiutò e morì sullo stesso rogo che aveva divorato il suo Maestro, an­ che lui cantando.

Sigismondo aveva protestato contro la violazione del salva­ condotto che aveva dato a Huss. Ma il Concilio gli aveva sec­ camente risposto che la Chiesa, quando si trattava di perse­ guire i suoi nemici, non aveva conti da rendere al potere temporale né poteva esserne condizionata. E Sigismondo aveva chinato la testa perché, nonostante il suo titolo impe­ riale, egli non aveva, come i Re d'Inghilterra, uno Stato cui fare appello. Questo spiega la diversa sorte toccata a Wycliff e a Huss. Tuttavia non finì lì. Alla notizia del rogo di Costanza, la Boemia prese fuoco, e i seguaci di Huss assunsero il potere, sia pure in nome di Venceslao. Quando questi morì di un attacco di cuore, essi offrirono la corona a Sigismondo, a patto che riconoscesse i cosiddetti «quattro articoli di Pra­ ga»: una specie di Costituzione religiosa che sanciva le prin­ cipali tesi di Huss. Sigismondo rifiutò e invase col suo eser­ cito il Paese, contro cui il nuovo Papa, Martino V, lanciò la scomunica. Da quel momento la causa di Huss s'identificava con quella dell'indipendenza nazionale: pericoloso fenome­ no che vedremo ripetersi in tutt'i Paesi della Riforma. Per due volte i patrioti ribelli sbaragliarono le forze im­ periali, e per diciassett'anni rimasero padroni della Boemia. Poi si divisero in sètte e cominciarono a combattersi tra loro gareggiando in radicalismo puritano. Il regime che lo in­ carnò fu una specie di comunismo che, per quanto si chia­ masse «evangelico», era già viziato di tutti peggiori attributi totalitari. Esso pretese realizzare un utopico «Regno di Dio» basato sull'assoluta uguaglianza dei cittadini e su una Chie-

381 sa nazionale il cui rituale ricopiava pari pari quello delle pri­ me ecclesiae dei tempi apostolici. Esso rifiutava tutt'i sacra­ menti, salvo il battesimo e la comunione, i Santi, il purgato­ rio e il culto delle immagini e delle reliquie. L'intolleranza e gli eccessi polizieschi finirono per provo­ care il malcontento della popolazione, che accolse con sol­ lievo una proposta del Concilio per l'appianamento del con­ flitto. I fanatici, che avevano la loro roccaforte nella città di Tabor, la respinsero. Ma furono sopraffatti dalla maggio­ ranza che alla fine accettò un compromesso, sia pure basato su un testo piuttosto equivoco che autorizzava qualsiasi in­ terpretazione, e riconobbe come re Sigismondo. Questo poscritto a Huss confermava che solo dove esiste­ va almeno un embrione di Stato, la Riforma poteva trionfa­ re. La Chiesa aveva ancora a disposizione un secolo per evi­ tare che gli Stati, il cui avvento era chiaramente inevitabile, trovassero nella Riforma il proprio puntello e a loro volta glielo fornissero. Ma sprecò quella specie di «condizionale» che la Storia le aveva concesso. E ora, ai primi del Cinquecento, i nodi venivano al petti­ ne. CAPITOLO DECIMO

ERASMO

Un uomo più di ogni altro aveva presentito la grande tem­ pesta, in cui doveva trovarsi egli stesso sballottato e per lun­ go tempo incerto sul partito da prendere, Erasmo si chiamò da Rotterdam appunto perché era na­ to in quella città, non si sa bene se nel 1466 o nel '69. Egli è stato piuttosto avaro d'informazioni sulle proprie origini perché era il figlio naturale di un prete, e per tutta la vita se ne vergognò e cercò di nasconderlo. Morendo, il padre la­ sciò a lui e a suo fratello un certo capitale in modo che po­ tessero mantenersi agli studi. Ma i tutori glielo mangiarono e si liberarono dei due ragazzi mettendoli in convento. Era­ smo, che già maneggiava splendidamente il latino, compose in questa lingua un saggio che portava lo stesso titolo di quello con cui aveva debuttato Savonarola: De contempli! mundi, sul disprezzo del mondo. Ma la somiglianza fra i due scritti si ferma lì. Il frate ferrarese il mondo lo disprezzava davvero; Erasmo fingeva soltanto per combatterne il desi­ derio. E infatti, presi i voti, abbandonò il monastero per an­ dar a fare il segretario del Vescovo di Cambrai. Questo Vescovo era un brav'uomo che capì subito i ta­ lenti del giovanotto, e li secondò. Erasmo, un po' come il Petrarca - cui per tanti aspetti somiglia - era dominato dal­ la passione dei libri e da una specie di delirio psico-motorio che per tutta la vita lo condusse ramingo per mezza Euro­ pa. Chiese di perfezionare i suoi studi a Parigi, e il buon prelato accondiscese e ce lo mantenne. Erasmo se ne dimo­ strò meritevole, almeno sul piano del profìtto. Divorò inte­ re biblioteche, affinò il suo latino fino a comporre con più

383 eleganza di Cicerone, s'innamorò di Seneca e di Epicuro, andò in brodo di giuggiole per Lorenzo Valla e i suoi libelli anticlericali. Ma quanto a condotta, lasciò parecchio a desi­ derare. Frequentò assiduamente le ragazze allegre del quar­ tiere e avanzò qualche dubbio a proposito della transustan­ ziazione nell'Eucarestia. A quei tempi i libri non erano meno costosi delle donne, anzi forse lo erano di più. Erasmo, sempre a corto di quat­ trini, non faceva che chiederne al suo Vescovo e, non riu­ scendo a forzarne la generosità oltre i limiti della parsimo­ nia, cercò altri mecenati. Una fu la madre di un suo alunno, la nobile fiamminga Anna de Vere, che lo tenne ospite nel suo castello e gli fece un cospicuo dono. Subito dopo un al­ tro suo allievo, Mountjoy, se lo condusse al seguito in In­ ghilterra e lo mise in contatto con Tommaso Moro, che a sua volta lo presentò al futuro re Enrico Vili e a tutti i più alti esponenti della cultura umanistica britannica. Come testimoniano le sue lettere, fu quello uno dei mo­ menti più felici della vita di Erasmo. Egli trovò incantevole la società di cui i Mountjoy erano il centro e squisiti i suoi modi. Fu sedotto da Moro, allora poco più che ventenne, forse anche perché Moro era sedotto da lui; e giunse perfi­ no a entusiasmarsi di un teologo di Oxford, Colet, nono­ stante la sua ortodossia. Ma nemmeno tutte queste delizie riuscirono a calmare la sua smania peripatetica. Di lì a poco volle tornare a Parigi, e a Dover i doganieri gli guastarono il ricordo di quel beato soggiorno sequestrandogli le sterline di cui i suoi amici lo avevano munito per il viaggio. Erasmo non se ne consolò mai. E d'allora in poi in fondo a ogni suo elogio dell'Inghilterra aggiungerà a mo' di correttivo: «Pur­ troppo la sua dogana...» A Parigi pubblicò la sua prima opera d'impegno, un'an­ tologia di adagi o moralità tratte da autori classici e debita­ mente commentate. E difficile oggi rendersi ragione del cla­ more che il lavoro sollevò. Le citazioni erano, come tutte le citazioni, di seconda mano, e i commenti intonati a una sag-

384 gezza un po' facilona e filistea o, come oggi si direbbe, qua­ lunquistica. Eppure quel libro, tradotto in cinque lingue, fu il best-seller del tempo, forse perché i lettori lo presero per un comodo manuale cui attingere, nei loro componimenti letterari e oratori, delle frasi già consacrate. Fatto sta che Erasmo ci campò sopra per anni, cioè avrebbe potuto cam­ parne, se non avesse avuto le mani bucate. Di nuovo al ver­ de, si rivolse ancora alla signora de Vere, e con un'insistenza che getta purtroppo qualche ombra sulla sua dignità. Per commuoverla, si attribuì perfino una grave malattia di oc­ chi che naturalmente guarì appena ricevuto il sussidio. Nel frattempo Erasmo aveva ricevuto allettanti offerte di «bene­ fici», cioè di ben retribuiti incarichi ecclesiastici. Ma li aveva rifiutati. Preferiva fare il mendicante e lo scroccone piutto­ sto che il sacerdote: lo riteneva, si vede, più consono alla sua qualità e libertà d'intellettuale. E impossibile, e forse anche di poca utilità, seguirlo in tutte le tappe del suo inquieto girovagare. Da Parigi a Lova- nio, da Lovanio di nuovo a Parigi, di qui ancora in Inghil­ terra, dall'Inghilterra in Italia come guida e tutore di due ra­ gazzi, figli del medico di Enrico VII, coi quali rimase un anno a Bologna frugando biblioteche e archivi, e che poi riac­ compagnò a Cambridge, dove tenne un ciclo di conferenze. Ma subito dopo tornò in Italia, richiamatovi dal rigoglio della cultura umanistica, dalla facilità della vita, ma soprat­ tutto da Aldo Manuzio, il famoso stampatore di Venezia. Erasmo adorava la bottega di questo geniale artigiano, dove trascorreva giorni e notti a discutere i caratteri tipografici, a comporne di sua mano, a impaginare, a correggere bozze. Come trovasse, con questi continui spostamenti, il tempo di lavorare, è un mistero. Eppure la sua produzione non subiva soste. Mentre traduceva Cicerone, la Ecuba di Euri­ pide, i Dialoghi di Luciano, componeva i Colloqui, e inonda­ va gli amici di lettere: ne scriveva fino a quaranta al giorno. Non c'è neanche da dire che tutto il tempo che non trascor­ reva in carrozza o a cavallo lo passasse a tavolino: partecipa-

385 va anzi attivamente alla vita di società, non perdeva occasio­ ne di conoscere, di farsi conoscere e soprattutto di farsi am­ mirare. Per maggior libertà aveva abbandonato il saio e adottato abiti civili dicendo di averne avuto il permesso dal papa Giulio II, che aveva incontrato a Bologna. Tutti sape­ vano che non era vero, ma nessuno mosse obbiezioni, nem­ meno i Cardinali di Curia soggiogati dalla sua cultura, dal suo spirito, e forse più ancora dalla sua impertinenza: final­ mente avevano trovato qualcuno che credeva in Dio ancora meno di loro, ma traduceva l'eresie in apologhi salottieri purgandole di ogni sapore di bestemmia e rendendole ac­ cettabili anche all'orecchio più timorato. Per gratitudine gli offrirono di diventare dei loro. E stavolta Erasmo si lasciò quasi tentare: una sinecura a Roma nei quadri di una Curia che gli concedeva tutto quanto a libertà di vita, di pensiero o di espressione, senza chiedergli nulla, poteva anche con­ venirgli. Ma mentre ci ripensava, gli giunse una lettera di Mountjoy: Enrico VII era morto e il successore Enrico Vili, l'amico suo, di Moro e degli umanisti, gli rivolgeva un inde­ clinabile invito: «Tornate in Inghilterra, mio caro Erasmo, e stabilitene voi stesso le condizioni. Noi consideriamo la vo­ stra presenza qui come il più prezioso dei doni. E non vi chiederemo niente, se non di fare del nostro reame la vo­ stra casa». Sia pure a malincuore, Erasmo disse addio a Roma e ai suoi amici Cardinali. Ma appena arrivato a Londra se ne pentì. Enrico gli porse un saluto che somigliava poco al ca­ loroso invito che gli aveva rivolto; eppoi, accampando i suoi impegni di lavoro, si disinteressò completamente di lui. Era­ smo dovette contentarsi delle rendite di una parrocchia del Kent, maggiorate da uno stipendio di professore a Cam­ bridge. Date le sue abitudini spendaccione non gli sarebbe bastato, se non ci fosse stata la solita risorsa dei sussidi da parte degli amici cui, per sdebitarsi, egli dedicava via via i suoi nuovi scritti. Come al solito, ne tirava avanti parecchi alla volta. Ma

386 quello che più lo assorbiva era un lungo saggio intitolato Laus stultitiae, o «elogio della follia», cui lavorò per due anni. Nello stile brillante e paradossale che sarà poi anche quello di Voltaire, Erasmo sostiene che tutto ciò che l'uomo ha fat­ to nel corso dei secoli lo deve non alla ragione, alla saggez­ za, al calcolo, all'intelletto, ma solo alla sua «follia», per tale intendendo l'istinto, la passione, l'entusiasmo, insomma ogni irrazionale impulso. Una esistenza governata dalla lo­ gica, dice Erasmo, sarebbe insopportabile: non conoscereb­ be né poesia, né eroismo, né sogni e nemmeno amore. Ecco perché bisogna liberarsi - mandandoli a combattere contro i Turchi che fuggirebbero atterriti alla loro vista - di tutti coloro che intendono pianificare la vita, a cominciare dai teologi, questi millantatori di credito, che si arrogano dei poteri che non hanno, in nome di un Dio che non gliene ha delegato nessuno. E via, contro tutte le autorità costituite a cominciare dal Papa, su questo tono fra la satira e la rampo­ gna. Il libro ebbe un successo che batté largamente quello de­ gli adagi. In dodici lingue ne furono stampate quaranta edi­ zioni, quante forse non ne aveva avute nemmeno la Bibbia in quindici secoli. Lo stesso Erasmo dovette esserne stupito. Ma il fatto è che, con perfetto tempismo, egli aveva antici­ pato (la prima edizione è del 1511, sei anni prima delle «Te­ si» di Lutero), nello stile più gradito e accessibile al pubbli­ co, una polemica ch'era già nell'aria. E difficile dire se il let­ tore gustasse di più la denunzia contro la Chiesa e la sua pretesa di spiegare razionalmente Dio e di amministrarne il castigo e il perdono, oppure lo sfavillio delle arguzie, delle «trovate», dei paradossi di cui Erasmo condiva la sua requi­ sitoria. Ch'egli sentisse profondamente il problema religio­ so, c'è da dubitarne, anzi è da escludere senz'altro. Ma sentì che lo sentiva la pubblica opinione, di cui colse e rappresen­ tò gli umori nel momento e nei modi più indovinati. I fatti poi dimostrarono ch'egli non intendeva fomentare scismi dentro la Chiesa. Ma, avendone presentito la crisi, non ave-

387 va resistito alla tentazione di farsene l'araldo, in tal modo contribuendo a precipitarla. Non immaginava di certo che di quella polemica, in cui era entrato per amor di successo, era destinato a restare egli stesso prigioniero, il giorno in cui Lutero, Zuinglio e Calvino l'avrebbero trasformata in una drammatica guerra di religione per la quale egli non era tagliato. Ma non anticipiamo. Visto che aveva toccato il tasto giusto, Erasmo v'insistè pubblicando nel 1514, ma senza firma, una corbellatura di Giulio II e dei suoi furori militareschi che non depone tan­ to a disonore di quel Papa, quanto a onore della sua tolle­ ranza. Il libello infatti avrebbe meritato un castigo non fos- s'altro che per il suo cattivo gusto. Giulio aveva effettiva­ mente più la stoffa del soldato che del prete. Ma era un ge­ nerale, non un caporale come Erasmo lo rappresentava. E lo dimostrò fingendo d'ignorare l'identità del suo calunnia­ tore sebbene fosse arcinota e lo stesso Erasmo, sul quale la vanità poteva quasi più della prudenza, facesse ben poco per serbare il segreto. Alcuni anni più tardi, nel 1518, egli diede alle stampe i Colloqui, che veniva componendo da oltre tre lustri e ch'egli stesso definisce «modelli di conversazione familiare, utili non soltanto al perfezionamento dello stile dei giovani, ma anche alla formazione del loro carattere». Sebbene non vi manchino le banalità, appartiene all'Erasmo moralista degli «adagi», cioè al miglior Erasmo. Ma anche in quest'opera egli trovò il modo di scandalizzare, ben sapendo che lo scan­ dalo era la fonte del successo. Infatti se ne vendettero venti­ quattromila copie: cifra enorme per quei tempi di diffuso analfabetismo (e anche per quelli nostri). Ma ora Erasmo era immerso in un altro e più impegnati­ vo lavoro: una traduzione dal testo greco del Nuovo Testa­ mento. Quando andò a Basilea per parlarne allo stampato­ re Froben, questi esitò. Una traduzione di quel testo esiste­ va già: era la cosiddetta Vulgata di San Girolamo, che la Chiesa considerava definitiva e intoccabile. E d'altra parte

388 su quale clientela laica un simile libro poteva contare? Ma era Erasmo, il più venduto degli autori, Froben non volle lasciarselo scappare e vide giusto perché Erasmo aveva an­ cora una volta azzeccato l'impresa e il momento di tentarla. Il pubblico, stufo di teologia, era assetato di Bibbia, e di una Bibbia restituita alle sue dimensioni di testo scritto da uomi­ ni, magari ispirati, ma per altri uomini. Erasmo vi riuscì splendidamente soprattutto con le note di commento che furono pubblicate in un volume a parte. Esse non conten­ gono nulla di eretico. Ma non perdono occasione di sottoli­ neare la differenza fra la Chiesa di Cristo e quella dei Papi. Dice Erasmo in una di esse su Matteo: «Niente si attaglia meglio alla natura dell'uomo che la fi­ losofia di Cristo, il cui solo fine è di renderle la sua innocen­ za e integrità. La Chiesa ci aggiunse parecchie cose, del tut­ to superflue alla fede, come per esempio le dottrine sulla Deità e la sua distinzione in più persone. E quante regole, e quante superstizioni e quanti inutili fasti appesantiscono il rituale! Che pensare dei voti, dell'autorità attribuita al Papa e dell'uso che si fa di dispense e assoluzioni? Meglio varreb­ be lasciare che Cristo governi secondo le leggi del Vangelo impedendo agli uomini di rafforzare coi loro decreti la pro­ pria oscurantistica tirannide». Era il benservito alla teologia, cioè a tutta l'impalcatura ideologica della Chiesa, e infatti sollevò violente proteste. Ma a silenziarle provvide il nuovo papa Leone X, cui Era­ smo si era in precedenza rivolto per ottenerne la dispensa dagli obblighi monastici. Leone non solo gliela concesse, ma accompagnò l'esenzione con una lettera personale in cui l'u­ manista aveva, come al solito, preso la mano al Pontefice: «Amato figlio, salute e apostolica benedizione. La vostra ra­ ra erudizione e gli alti meriti, testimoniati non soltanto dai monumenti dei vostri studi, ma anche dalla generale appro­ vazione degli uomini più colti, ci danno motivo di riservarvi un trattamento di particolare favore...» Anche il Papa dunque s'inchinava al successo di Erasmo,

389 e lo consacrava. Carlo V, tuttora Re di Spagna e Signore dei Paesi Bassi in attesa di diventare Imperatore, gli scrisse a sua volta offrendogli la carica di consigliere privato presso la sua Corte di Bruxelles. Per ragioni di concorrenza, Fran­ cesco I di Francia gli fece identica proposta. Erasmo scelse Carlo, ma di consigli gliene diede pochi. La politica non era il suo pane, e il trattato che le dedicò per giustificare alla meglio i suoi stipendi, l'Educazione di un principe cristiano, è un compituccio che deve aver fatto sorridere Machiavelli. Erasmo sfiorava ormai la cinquantina, e aveva ai suoi pie­ di l'Europa. I più potenti sovrani se ne disputavano i favori. I più grandi eruditi erano in corrispondenza con lui, e Tommaso Moro gli scriveva: «L'unica cosa che mi dà qual­ che diritto di sperare di essere ricordato ai posteri è il fatto che voi mi abbiate ritenuto degno delle vostre lettere». I più grandi pittori facevano a gara nel ritrarlo. Holbein batté i rivali per verità e potenza di rappresentazione. Fisicamente, Erasmo non aveva nulla di suggestivo. Era piccolo, fragile, esangue. Sul suo volto emaciato, malinconi­ co e assorto - il volto dell'intellettuale - facevano spicco un lungo naso a becco e gii occhi azzurri, vivaci e inquieti. Non si era mai sposato, forse per egoismo, forse per bisogno di libertà e di raccoglimento. E pur trovandosi a suo agio nel lusso delle case altrui, quella sua la preferiva semplice, co­ me del resto erano i suoi gusti. Soffriva d'insonnia, e forse questo è il segreto della sua meravigliosa produzione. Seb­ bene una congenita debolezza di stomaco l'obbligasse a una dieta rigorosa, detestava i digiuni e rifiutava il pesce anche nei giorni di magro. Probabilmente, dice Durant, fu la sua bile a colorare la sua teologia. In compenso beveva molto vino e lo sopportava benissimo: nessuno lo vide mai ubria­ co. Diceva d'infischiarsi del denaro, e forse è vero nel senso che non cercò mai di accumularne. Ma quando ne aveva bi­ sogno - e gli succedeva spesso -, non si vergognava di chie­ derne a dritta e a manca. Anche della gloria diceva d'infi­ schiarsi, ma non perdonava a chi non gliela riconosceva.

390 Chiunque gli rendesse servizio poteva contare sulla sua in­ gratitudine, e in alcune occasioni si dimostrò spietato, e per­ fino cinico, come quando, alla notizia che alcuni eretici era­ no stati bruciati, esclamò: «Che noia, questi roghi! Proprio ora che siamo alle porte dell'inverno, rischiamo di far rial­ zare il prezzo della legna!» Il tratto più caratteristico del suo talento era una straor­ dinaria capacità di concentrazione. All'opposto di Leonar­ do, i suoi interessi erano limitatissimi. Questo instancabile viaggiatore non si fermò mai ad ammirare l'architettura di una basilica, un affresco di Raffaello, una statua di Miche­ langelo o di Donatello; non sapeva nulla di scienza, sorride­ va dell'astronomia, non riuscì mai a convincersi che la terra fosse rotonda, e ai concerti si annoiava mortalmente. Le uniche sue passioni erano la letteratura e la filosofìa classi­ che. Non che le conoscesse a fondo, o per lo meno in esten­ sione. Leggeva il greco con fatica, di ebraico sapeva poche parole appena. Ma era uno di quei filologi che, sorretti da un gusto e da un intuito infallibili, riescono a penetrare an­ che ciò che non riescono a leggere. Spesso citava a memo­ ria, senza troppo curarsi dell'esattezza. Nella sua traduzio­ ne del Nuovo Testamento, gl'inveleniti teologi contarono quattromila errori. Forse avevano ragione. Ma nessuno di loro sarebbe stato e fu mai in grado di dare a un testo bibli­ co la splendida forma che gli diede Erasmo e di affezionarvi la massa dei lettori. Di questi lettori c'è da stupirsi che Erasmo riuscisse ad averne tanti, e così entusiasti, pur scrivendo in latino, cioè in una lingua che, ormai non più «parlata», anche lettera­ riamente cominciava a cedere il posto a quelle volgari, dalle quali Erasmo non fu mai tentato. Egli maneggiava malissi­ mo non solo il francese e l'inglese, ma anche il suo fiammin­ go. In compenso però il suo latino era un modello, e non d'imitazione. Se la struttura del periodo era classicamente ciceroniana, dentro c'erano uno spirito, un'originalità, un'immediatezza, che avevano il potere di trasformare quel-

391 la lingua morta in una lingua viva, più viva anche di quella del Petrarca. Questo fu il primo motivo del suo successo di scrittore, ma non il solo. La verità è che Erasmo, più che un grande erudito e profondo pensatore, fu un magnifico, inimitabile giornalista, che «sentiva» il pubblico e rispondeva puntual­ mente alle sue aspettative. Poteva sbagliare l'impostazione o la soluzione di un problema, ma mai il «tempo» di affron­ tarlo. Il giubilo con cui nella stamperia di Manuzio assiste, fra torchi e inchiostri, alla nascita della pagina, l'impazienza con cui ne sollecita la composizione per paura ch'essa perda di «attualità», sono indicativi. Altrettanto lo è la «misura» dei suoi scritti. Erasmo sbaglia il «trattato», non sempre azzecca il «saggio», ma brilla immancabilmente neh'«articolo», come testimoniano le lettere, insuperati modelli di altissimo repor­ tage, il suo vero capolavoro. Del giornalista ebbe anche i limiti, e lo dimostra il segui­ to della sua vita su cui torneremo. Per ora lasciamolo qui a Bruxelles, di dove, appena arrivatoci, scrisse al Cardinale di York: «In questa parte del mondo il mio naso avverte un gran puzzo di rivoluzione». Questa lettera porta la data del 9 settembre 1517, e ancora una volta dimostra che il suo na­ so non s'ingannava mai. La rivoluzione scoppiò infatti di lì a due mesi, anche se in Germania invece che in Belgio. Ma il naso di Erasmo, sebbene così lungo e sensibile, non lo fu ab­ bastanza da fargli presentire le proporzioni di un avveni­ mento destinato a sorpassare anche lui, che tanto aveva con­ tribuito a provocarlo. Era la sorte, comune appunto a tanti giornalisti, dell'ap­ prendista stregone. CAPITOLO UNDICESIMO

WITTENBERG, 1517

Il grande dramma della coscienza cristiana prese avvio da un futile pretesto. A Roma sedeva sul Soglio Leone X, il figlio di Lorenzo de' Medici, non meno Magnifico di suo padre. Abbiamo già detto che, cresciuto fra gli sfarzi e le raffinatezze della Fi­ renze quattrocentesca, egli possedeva le migliori qualità del Signore rinascimentale: la cultura, il gusto, il mecenatismo, la tolleranza. Avendo ereditato dal suo predecessore Giulio II una cassaforte piena di soldi, non aveva esitato ad attin­ gervi generosamente per restituire all'Urbe il suo rango di caput mundi. Venne il momento in cui le casse furono in sec­ co. E per rifornirle, il Papa ricorse al tradizionale sistema collaudato nei secoli. 1115 marzo 1517 promulgò YIndulgen­ za, cioè invitò tutti i fedeli a riscattare i propri peccati con un'offerta di denaro. Nessuno dei suoi consiglieri cercò di dissuaderlo. La Cu­ ria romana aveva sempre risolto, in caso di bisogno, i suoi problemi finanziari imponendo quella specie di pedaggio per l'accesso al paradiso. Gli unici che facevano opposizio­ ne, o almeno mostravano un certo malumore, erano i Re stranieri, scontenti di vedere il denaro dei loro sudditi pren­ dere la via di Roma. Ma Leone, figlio di banchiere, aveva già provveduto ad assicurarsene l'appoggio, garantendo lo­ ro una partecipazione agli utili dell'operazione. Enrico Vili d'Inghilterra era autorizzato a trattenere un quarto della somma raccolta; circa altrettanto veniva concesso a France­ sco I di Francia; e quanto a Carlo I di Spagna (quello che di lì a poco sarebbe diventato l'imperatore Carlo V), che anna-

393 spava fra gravi angustie di bilancio, fu tacitato con un anti­ cipo di 175.000 ducati sul gettito del suo Paese. Alla Germania fu riservato un trattamento meno genero­ so perché non c'era un potere centrale che potesse nego­ ziarlo. L'imperatore Massimiliano, come tutti gl'Imperatori, contava poco malgrado la solennità del titolo - non eredita­ rio, ma elettivo -, e quindi ebbe soltanto una mancia di 3.000 fiorini. Più laborioso fu l'accordo con la potente dina­ stia dei banchieri Fugger, che praticamente avevano in ma­ no il portafoglio del Paese. Essi però avevano in precedenza prestato 20.000 fiorini al principe Alberto di Brandeburgo, il quale li aveva versati al Papa per ottenerne l'investitura all'Arcivescovato di Magonza. Leone accettò che Alberto re­ stituisse ai suoi finanziatori quella somma sul gettito dell'in­ dulgenza, e per dargli il modo di raggranellarla gli affidò la raccolta degli oboli delle tre diocesi di Magonza, Magdebur- go e Halberstadt. Come suo agente e collettore, Alberto nominò un frate domenicano, Giovanni Tetzel, che in quel genere d'incari­ chi si era già distinto. Era un piazzista pieno d'entusiasmo per il prodotto che doveva smerciare: la Grazia. E per recla­ mizzarlo aveva dato prova di un autentico genio pubblicita­ rio. Dovunque andasse, con l'aiuto del clero locale, si faceva accogliere da folle plaudenti che lo scortavano con canti e bandiere. Mostrando la bolla dell'indulgenza posata su un cuscino di velluto, egli ne decantava agli astanti le virtù re­ dentrici. Dice un grande storico cattolico, il Pastor, che non può essere sospettato di simpatie protestanti: «Non c'è dub­ bio che Tetzel spacciava per dottrina cristiana l'assicurazio­ ne che un'offerta di denaro bastava a lavare il peccato, an­ che senza bisogno di confessione e di pentimento. Egli an­ che insegnava, secondo l'opinione corrente, che l'indulgen­ za era valida contro qualunque peccato. Partendo da questa premessa, Tetzel dava corpo al proverbio popolare: Appena il quattrino in cassa tinnisce - dal purgatorio l'anima fiorisce». E il francescano Miconio, forse anche per antipatia verso i do-

394 menicani, dopo aver udito Tetzel, osservò: «E incredibile co­ sa può dire quel monaco ignorante. Secondo lui, il Papa ha più potere degli Apostoli e dei Santi, e forse anche della Ma­ donna». Tuttavia, per quanto ignorante, Tetzel non lo era più di tanti altri monaci, che propagandavano l'indulgenza pres­ sappoco allo stesso modo. E quindi la Storia non avrebbe avuto alcun motivo di accoglierlo fra i suoi protagonisti, e nemmeno fra i suoi comprimari, se il caso non gli avesse as­ segnato, come collegio elettorale, anche la Sassonia. Questa regione, in seguito a una complicata eredità, era stata divisa in due province: quella Albertina, sotto la signo­ ria del duca Alberto di Wettin, e quella Ernestina, sotto la si­ gnoria di suo fratello Federico. Quest'ultimo era un princi­ pe saggio e moderato in tutto fuorché nella pietà, che scon­ finava addirittura nella bacchettoneria. Aveva dilapidato il suo patrimonio per incettare reliquie di Santi, delle quali in tutto il mondo si seguitava a fare indegno mercato fin dai tempi dei secoli bui, e a collezionarne migliaia nelle sue chiese. Era uno dei pochi signori che non si opponevano al­ le indulgenze, trovandole del tutto giustificate. Anzi, si era servito proprio di Tetzel per caldeggiare quella bandita se­ dici anni prima dal papa Borgia per finanziare una crociata contro i Turchi. Ma siccome poi la crociata non si era fatta, Federico si era rifiutato di versare i soldi a Roma e li aveva destinati invece al potenziamento dell'università di Witten- berg. Ne era derivata fra lui e il Vaticano una piccola «guer­ ra fredda» che ora induceva questo Principe devoto, ma ostinato, a proibire l'ingresso di Tetzel nei suoi domini. Tuttavia a Wittenberg essendosi saputo che il frate si ag­ girava nei paraggi, molti sconfinarono per raggiungerlo e procurarsi l'indulgenza, eppoi tornarono col loro bravo cer­ tificato di assoluzione. Ma non tutti gli acquirenti erano per­ suasi della sua validità. Qualcuno, dubitandone, andò a mo­ strarlo a un professore di teologia, che allora andava per la maggiore: Martin Lutero. Costui non volle pronunciarsi né

395 rilasciare perizie. Il suo rifiuto giunse all'orecchio di Tetzel. E questi lo denunziò all'Arcivescovo per indisciplina e ribel­ lione. Lungi dallo sgomentarsene, Lutero si preparò a difende­ re i suoi punti di vista. Li riassunse in una Disputatio prò de- claratione virtutis indulgentiarum, disputa sul potere delle in­ dulgenze, divisa in novantacinque Tesi o capitoli. E il 31 ot­ tobre (o forse il 1° novembre: la data è incerta) di quell'an­ no 1517 li affisse sulla porta della chiesa del castello in mo­ do che tutti ne prendessero visione. Così almeno dice la maggioranza degli storici. Ma secondo altri, le Tèsi non fu­ rono affisse, ma mandate in lettura ai Vescovi tedeschi. Comunque, il gesto non aveva in sé nulla di rivoluziona­ rio. L'affissione delle tesi era un vecchio uso delle Università medievali, che se ne servivano per richiamare l'attenzione della gente su qualche dibattito di particolare importanza. E anche il contenuto non implicava atteggiamenti di rivolta e di eresia. Lutero diceva che la corrività con cui si concedeva il per­ dono sminuiva il peccato facendone materia di facili e disin­ volti compromessi, e andava a tutto scapito della contrizio­ ne e della penitenza. Egli non negava la facoltà del Papa di amnistiare il peccatore dai castighi inflittigli dal sacerdote; ma quanto a quelli inflitti dal Signore a base di soggiorni in purgatorio, Lutero ne faceva dipendere la grazia non dal potere discrezionale del Papa, ma da quello d'intercessione delle sue preghiere, le quali potevano essere accolte, ma an­ che respinte, dall'Onnipotente. Tutti i cristiani, egli dice, possono beneficiare della Redenzione pagata da Gesù, per conto di tutti, col suo martirio, anche senza bisogno di una «raccomandazione» papale. Tuttavia, egli aggiunge, il Som­ mo Pontefice non può essere tenuto responsabile delle as­ surde pretese che gli attribuiscono i suoi predicatori, alte­ randone la parola e le intenzioni. Costoro, con la loro fre­ netica inflazione di perdoni, finiscono per discreditare lo stesso Papa esponendolo senza difesa alla insidiosa doman-

396 da dei miscredenti: «Perché dunque non svuota il Purgato­ rio redimendone in blocco le anime penitenti in nome del­ l'Amore predicato da Cristo, questo Papa che ha il potere di farlo per una miserabile manciata di quattrini?» Lutero diceva però di voler discutere questi problemi per amore della Fede e col proposito di renderne più chiari i precetti. Anzi, per evitare che sorgessero equivoci e malin­ tesi sulla loro interpretazione fra la gente poco esperta di latino, tradusse le Tesi in tedesco e diede al documento la più ampia diffusione fra i tremila abitanti di Wittenberg. Ne mandò una copia anche all'arcivescovo Alberto di Magonza. E il gesto ci dimostra quanto fosse lontano dal prevedere le conseguenze della sua polemica. Questa infatti rimase per il momento circoscritta fra lui e Tetzel, che replicò alle Tesi con un documento intitolato «Centosei Antitesi». Ma quando un suo emissario venne a diffonderne il testo fra gli studenti di Wittenberg, costoro lo malmenarono e bruciarono tutta la sua mercanzia. Lutero disapprovò la violenza con parole che tuttavia tradivano il suo compiacimento, e confutò le accuse del suo avversario con un «Sermone sulle indulgenze e la Grazia» che termina­ va con queste parole di sfida: «Finché a tacciarmi di eresia sono coloro che dalle mie verità vedono minacciate le loro borse, non me ne curo: la loro reazione deriva soltanto dal fatto che non conoscono la Bibbia». Ma questa replica ebbe una tale eco in tutta la Germania, che alcuni grossi calibri della Chiesa si videro indotti a in­ tervenire. Silvestro Prierias pubblicò a Roma un Dialogo che rabbiosamente ribadiva l'assoluto primato del Papa e la vali­ dità delle sue indulgenze. E Giovanni Eck, vice-rettore del­ l'Università di Ingolstadt, compose un Obelisci che additava in Lutero uno spacciatore del «veleno boemo», cioè un pro­ pagandista delle eresie di Huss. Lutero ribatté con un opuscolo in latino, Resolutiones, dal tono piuttosto aspro, ma che ancora una volta scagionava il Papa e lo escludeva dalla diatriba, anzi zie tesseva l'elogio.

397 «Ora che finalmente abbiamo un eccellente Pontefice come Leone X, la cui integrità e sapienza fanno la delizia di tutte le persone dabbene...» E con suprema abilità aggiungeva: «... in un periodo arruffato e corrotto come quello attuale, degno soltanto di Papi come Giulio II e Alessandro VI...» Ancora più riguardosa era la lettera che scrisse direttamen­ te a Leone mandandogli copia del suo opuscolo: «Beatissi­ mo Padre, mi offro prostrato ai piedi della Vostra Santità, con tutto ciò che io sono ed ho. Approvatemi o disapprova­ temi, chiamatemi o respingetemi, come più Vi sembra giu­ sto: io riconoscerò la Vostra voce come la voce di Cristo, e non mi ci sottrarrò». Il Papa lo prese in parola e lo convocò a Roma. Molto probabilmente non aveva nessuna intenzione di fargli fare la fine di Huss perché quei metodi ripugnavano non solo alla sua umanità, ma anche alla sua intelligenza. Ma Lutero riflettè che un uomo si poteva uccidere anche senza rogo, per esempio nominandolo Abate di un bel monastero del­ l'Urbe e lasciandovelo funghire per il resto dei suoi giorni. Tuttavia anche il rifiuto di presentarsi era un gesto d'insu­ bordinazione che implicava una confessione di colpevolez­ za. Prima di decidersi, scrisse a Giorgio Spalatino, cappella­ no del duca Federico, perché si facesse promotore di un at­ to che tutt'i Principi tedeschi avrebbero dovuto sottoscrive­ re per garantire i loro sudditi da eventuali estradizioni in Italia su richiesta della Chiesa. Era l'appello allo Stato: uno Stato che in Germania s'i­ dentificava col Land, cioè con la regione, invece che con la nazione; ma che già tendeva all'assolutismo. Federico accol­ se la richiesta e la inoltrò all'imperatore Massimiliano per­ ché l'avallasse in nome di tutta la Germania. Massimiliano probabilmente non ne comprese l'importanza. Ma pensò che Lutero poteva diventare una buona carta nel suo giuo­ co diplomatico con Roma. E rispose a Federico approvando la sua decisione e consigliandogli di «prendersi buona cura di quel monaco».

398 Così il conflitto uscì dall'ambito personale per investire i rapporti fra Stato e Chiesa. Ma prima d'inoltrarci nella sua vicenda, cerchiamo di capire chi era l'uomo che ne assume­ va la parte di protagonista e per quali circostanze politiche, economiche, sociali, oltre che spirituali, potè condurla in porto. CAPITOLO DODICESIMO

IL RIBELLE

Primogenito di una nidiata di sette fratelli, Martin Lutero era nato a Eisleben nel 1483. Suo padre Hans era un ex contadino fattosi minatore: un uomo severo, duro, colleri­ co, avaro e furiosamente anticlericale. Sua madre Grete era al contrario tutta casa e chiesa. Ma in comune col marito aveva un'incrollabile fede nell'efficacia pedagogica della fru­ sta. Martino più tardi confessò di avere a un certo momento odiato i suoi genitori per via delle busse che ne riceveva. E in quest'odio alcuni suoi biografi inclini alla psicanalisi han­ no creduto di ravvisare il trauma infantile che avrebbe ori­ ginato la sua rivolta contro la Chiesa: nel suo subconscio egli «trasferì» il padre nel Papa e ne fece l'oggetto di un inestin­ guibile rancore. E una tesi su cui non ci sentiamo di pronunciarci. Ma è comunque molto probabile che la prima immagine ch'egli si raffigurò di Dio - e se la raffigurò abbastanza presto - ri­ flettesse in qualche modo quella che col loro esempio gli avevano suggerito i genitori: non un tenero Padre disposto al perdono, ma uno spietato Giudice più largo di passaporti per l'inferno che per il paradiso. Il ragazzo era cresciuto a una stretta dieta di digiuni e penitenze. Hans aveva tenuto la famiglia a stecchetto anche dopo esser diventato un facol­ toso mercante perché secondo lui la ricchezza non consiste­ va nei soldi che si guadagnano, ma in quelli che non si spen­ dono. Tuttavia i successi scolastici di Martino lo indussero a fargli continuare gli studi dapprima a Magdeburgo, e poi a Eisenach. Per la prima volta a quattordici anni, il ragazzo conobbe

400 la tenerezza. Gliela prodigò Frau Cotta, la materna affitta­ camere da cui l'avevano messo a dozzina. Essa soleva ripete­ re che in questo mondo l'unica felicità consentita all'uomo è una buona moglie, e lo dimostrava con le sue sollecitudini. Su quell'insegnamento Martino rifletté fino a quarantadue anni. Ma poi lo mise in pratica. Anche i risultati dei suoi studi secondari furono così bril­ lanti, che Hans decise di allargare la borsa e lo mandò all'U­ niversità a Erfurt. La sua ambizione era di fare di quel pro­ mettente rampollo un avvocato, e probabilmente Martino finse di assecondarla per evitare il ritorno in famiglia. I suoi condiscepoli lo ricordarono in seguito come un compagno socievole e spensierato, per nulla allergico alle ribotte, sem­ pre pronto a unire la sua voce baritonalmente aggraziata ai cori goliardici accompagnandosi sul liuto. Ma non altrettan­ to soddisfatti erano i suoi professori, L'insegnamento a quei tempi era ancora interamente basato sulla teologia, cioè su quel miscuglio di Vangelo e di logica aristotelica che si chia­ ma «Scolastica». Lutero lo trovò indigeribile. Ma non meno disgustato fu dagli umanisti che volevano instillargli il culto di Virgilio e di Cicerone, cui il ragazzo preferiva la rozza prosa di Tertulliano. Tuttavia perfezionò il suo latino, impa­ rò anche un po' di greco e di ebraico. E questo gli bastò per conseguire il suo bravo titolo di «Maestro delle Arti» o, co­ me oggi diremmo, di «Dottore». Suo padre ne fu a tal pun­ to inorgoglito che in premio gli mandò una costosa edizione del Corpus Juris, convinto che suo figlio ne avrebbe fatto una miniera di «parcelle». L'irascibile uomo rischiò un travaso di bile quando seppe che l'ingrato aveva fatto un solo fagotto di quel prezioso libro, del certificato di laurea e dei suoi abi­ ti civili per chiedere ospitalità nel convento degli Agostinia­ ni di Erfurt e prendere il saio. I biografi di Lutero attribuiscono quella brusca decisione a un temporale. Fino a quel momento Martino era stato un ragazzo come tutti gli altri, che sembrava accettare, senza farne un dramma di coscienza, le debolezze di cui tutti sia-

401 mo impastati. Vigoroso, sanguigno e sensuale, probabil­ mente aveva avuto le normali esperienze dei giovani della sua età, sebbene alcuni suoi biografi lo neghino. E probabi­ le che il peccato gli procurasse rimorso. Ma nemmeno il ri­ morso lo tratteneva dal peccato. Un giorno però che da ca­ sa sua tornava a Erfurt, fu sorpreso dalla tempesta e quasi investito da un fulmine che si schiantò a pochi passi da lui. Egli ci vide un ammonimento del tutto in carattere col terri­ bile e vendicativo Dio di cui suo padre gli aveva suggerito il modello. E colto dal terrore, fece voto di obbedire al richia­ mo, chiudendosi nel chiostro. E una versione a cui possiamo credere, purché non se ne forzi il significato. E probabile che il fulmine abbia provoca­ to in Martino una brusca resipiscenza. Ma questa sarebbe venuta anche senza il fulmine. S'egli ci vide un segno di Dio, è perché un segno lo aspettava. Il ragazzo, contrariamente alle apparenze, doveva essere tormentato e inquieto, scon­ tento di sé e ansioso di riscattarsi. Fu infatti con giubilo che, arrivato a destinazione, invitò i suoi amici al festino di ad­ dio, per l'ultima volta bevve e cantò con loro, e infine an­ nunciò la sua decisione. Il convento che aveva scelto era dei più rigorosi. Ma il novizio fu ancora più rigoroso del convento. Spesso gli altri monaci lo trovavano riverso sul piancito della sua gelida cel­ la, sopraffatto dai digiuni e dalle flagellazioni che s'infligge­ va, forse per sfuggire alla tentazione dell'onanismo come Sant'Antonio. Reclamava per sé i servizi più umili e le peni­ tenze più dure dicendo che solo così poteva riparare le sue colpe. Invano i suoi compagni cercavano di persuaderlo che Cristo col suo martirio aveva già saldato il conto per tutti. Alla fine, per metterlo al riparo da quegli eccessi masochisti, gli abbreviarono il noviziato. Nel settembre del 1506 egli prese i voti di povertà, castità e obbedienza; e nel maggio successivo fu ordinato prete. La nuova condizione sembrò rappacificarlo con se stesso e gli permise di riprendere gli studi. Ma ancora una volta

402 rifiutò di tuffarsi nella teologia, cui preferì la lettura dei mi­ stici tedeschi. Un giorno gli capitò fra le mani un testo di Huss, chissà come scampato alla distruzione ordinata dalla Chiesa, e ne rimase profondamente scosso. «Chiusi il libro sentendomi ferito nell'anima all'idea che un uomo capace di scrivere con tanta passione cristiana avesse potuto essere bruciato come eretico.» Se ne confidò col Vicario Provincia­ le dell'Ordine, Staupitz, che molto paternamente cercò di placare il suo turbamento e gli dette da leggere Sant'Agosti­ no. Ma invano. Le parole di Huss gli tornavano con insi­ stenza alla memoria, e specialmente quelle sulla predestina­ zione. Scorrendo le lettere di San Paolo ai Romani aveva trovato un passaggio che sembrava confermare quella tesi: «E grazie alla fede che il giusto sopravvivrà». Dunque, argo­ mentava Lutero, non sono né le buone azioni né le preghie­ re che fanno da viatico alla Grazia. E la fede: quella fede che solo Dio può dare. Egli ha scelto, nel suo gregge, le pecore da salvare e quelle da dannare, come dice Huss. Staupitz, cui Lutero seguitava a confidare questi suoi tor­ menti, finì per allarmarsene e lo fece trasferire a Witten- berg, sperando che il nuovo ambiente servisse a distrarlo. Il cambio non piacque al monaco che trovò la città «un pove­ ro, insignificante villaggio con piccole, vecchie, brutte case di legno» e i suoi tremila abitanti «rozzi, ignoranti, ubriaco­ ni». Era lontano le mille miglia dall'immaginare che quella sarebbe stata la sua Medina. Nel 1510 i conventi agostiniani lo mandarono a Roma insieme a un altro monaco per risolvere una complicata be­ ga coi confratelli di Sassonia. Alla vista della città, cadde in ginocchio, levò le braccia al cielo e gridò: «Salute a te, santa Roma! » Per giorni e giorni visse ramingando, in stato di ra­ pimento, fra chiese e fori, salì in ginocchio la Scala Santa, e fece una tale collezione di indulgenze che a un certo punto si sorprese a desiderare che i suoi genitori fossero già morti per poterli riscattare dal purgatorio. I monumenti della Ri­ nascenza con le loro doviziose architetture, sculture e affre-

403 schi non lo interessarono. Ma non risulta che almeno lì per lì lo scandalizzassero. Solo dieci anni dopo, quando ormai era impegnato nella sua mortale lotta, ricordando quel viag­ gio, disse che Roma gli era parsa «un abominio», descrisse i Papi come satrapi da basso Impero e raccontò ch'essi si fa­ cevano servire il pranzo «da dozzine di ragazze nude». Pro­ babilmente erano storie raccattate dalla bocca del popolino di Trastevere perché non risulta che avesse frequentato gli ambienti della Curia. E sul momento non ci aveva creduto. Vi prestò fede solo quando gli convenne per ragioni pole­ miche. Il fatto stesso che, appena tornato, fu promosso vicario provinciale e incaricato di tenere un corso sulle Scritture, dimostra che non aveva offerto pretesti a dubbi sul suo zelo; né era uomo da tenersi in corpo l'indignazione, se ne avesse covata. Il suo distacco dalle dottrine ufficiali della Chiesa ebbe tutt'altra origine, avvenne per gradi, e forse sulle pri­ me egli stesso non se ne rese conto. Quanto ai suoi superio­ ri e confratelli, cominciarono a nutrire qualche inquietudi­ ne solo quando lo videro pubblicare, col titolo di Teologia germanica, un anonimo manoscritto tedesco da lui trovato in fondo a un archivio. All'orecchio dei cattolici ortodossi quel germanica suonava male: di teologia ce n'era una sola, che non si prestava alle nazionalizzazioni. Ma, anche se glielo fecero osservare, Lutero non se ne curò. Nelle sue lezioni egli parlava apertamente della Fede come dell'unica condizione per la salvezza dell'anima, attri­ buiva i vizi e la corruzione della società a quelli del clero, e accusava i piazzisti d'indulgenze di approfittare della dab­ benaggine del popolo. Forse fin d'allora sarebbe incappato in qualche guaio disciplinare, se a far da diversivo non fosse sopravvenuta una tremenda epidemia di peste. In quell'oc­ casione la condotta dell'irrequieto monaco fu esemplare per coraggio e slancio cristiano. Quando alla fine il flagello dile­ guò, il duca Giorgio della Sassonia Albertina invitò Lutero a tenere un ciclo di prediche a Dresda. Lutero ne approfittò

404 per esporre la sua teoria sulla Grazia e la dannazione, cioè sulla predestinazione. Il Duca ne fu turbato: non perché ci vedesse un attentato al dogma, di cui probabilmente nulla sapeva e poco gl'importava; ma perché, dal suo punto di vi­ sta di sovrano temporale, gli parve pericoloso insegnare ai suoi sudditi che la salvezza della loro anima non dipendeva dalla loro buona condotta. Ma in quel momento Tetzel era già in viaggio col suo ca­ rico d'indulgenze, che avrebbe scatenato la famosa polemi­ ca fra i due monaci. E ora vediamo perché essa stava per avere lì in Germania tanta risonanza. CAPITOLO TREDICESIMO

LE DUE GERMANIE

Come Reame, quello tedesco era allora il più potente, o al­ meno il più esteso d'Europa. Risparmiamo al lettore italia­ no l'ingarbugliata matassa dei conflitti dinastici che lo ave­ vano travagliato nel corso dei secoli. Gli basti sapere che al­ la fine del Quattrocento il titolare della Corona, che cumu­ lava anche quella di Sacro Romano Imperatore, era Massi­ miliano d'Asburgo, in cui Machiavelli riconosceva un mo­ dello di saggezza, di prudenza e di giustizia. Non erano elogi gratuiti. Con lui, dice il Durant, «era co­ me se un Principe italiano dell'alto Rinascimento fosse salito sul trono di Germania». E da Rinascimento infatti era la sua passione per la cultura, la poesia, l'arte, la musica. Fu grazie a questo sovrano poliglotta, perfetto conoscitore del greco e del latino, che una schiera di filologi e grammatici riusciro­ no a fondere i vari dialetti tedeschi in un gemeines Deutsch, in un idioma comune: quello in cui Lutero tradusse poi la sua Bibbia, dandogli così un testo scritto definitivo e ricevendo­ ne in cambio quel rango di «padre della lingua» che da noi viene riconosciuto a Dante. E fu anche questo un elemento che contribuì alla sua vittoria. Ma il capolavoro di Massimiliano fu la sua politica matri­ moniale. Dando in moglie al figlio Filippo l'unica erede di Ferdinando di Spagna, assicurò agli Asburgo la corona di quel Paese; e ripetendo l'operazione con due suoi nipoti, aggiunse ai loro vari troni quelli di Boemia e di Ungheria. Ora i domini della sua dinastia erano così vasti ch'egli pote­ va veramente considerarsi il padrone dell'Europa e accarez­ zare il sogno - che in realtà lo tentò - di diventarlo anche

406 sul piano spirituale deponendo Giulio II e incoronandosi Papa al suo posto. Dovette rinunziarvi perché la Dieta non gliene diede i mezzi. E questo rifiuto ci dice appunto quanto condizionato fosse il suo potere, che territorialmente sembrava illimitato. La Dieta era il Parlamento dei principi tedeschi, dai quali l'Imperatore derivava la sua elezione e ai quali doveva ren­ dere conto delle sue decisioni. Padroni quasi assoluti nei propri domini, erano loro che gli fornivano le reclute per formare l'esercito. Cioè in sostanza erano essi i padroni del padrone. Questo assetto feudale aveva fatto della Germania, al principio del Quattrocento, un Paese in ritardo di almeno un secolo sull'Italia. Il castello seguitava a sopraffare il mu­ nicipio, e la prevalenza della campagna sulla città faceva di quella tedesca una società lenta e conservatrice senz'artico­ lazioni né ricambi, e legata a un'economia puramente agra­ ria. Era il paradiso dei «baroni ladri», piccoli signorotti feu­ dali che, in mancanza di leggi, di tribunali, di forze di poli­ zia, infine di uno Stato, alla testa dei loro «bravi» tartassava­ no la popolazione imponendole arbitrari balzelli, saccheg­ giando le diligenze, ricattando, ammazzando e ostacolando lo sviluppo di una vita urbana. Le condizioni della massa erano quanto mai precarie. E forse le maggiori vittime di questo assetto non erano tanto i servi della gleba che, non avendo nulla da perdere, di nulla potevano essere spogliati, e un tozzo di pane bene o male lo avevano assicurato dal padrone; quanto i mezzadri e i pic­ coli proprietari, che invece erano sottoposti ai più inumani salassi da parte di tutti, compresi i preti che si arrogavano il diritto a un decimo dei loro magri raccolti. C'erano state rivolte che però non erano riuscite a diven­ tare vere e proprie rivoluzioni per mancanza di capi e d'i­ dee, e s'erano risolte in tumulti seguiti da feroci repressioni. Una di esse, nel 1431, aveva inalberato come vessillo uno zoccolo e perciò si chiamava Bundschuh, la lega della scarpa.

407 Nel '76 un'altra ne scatenò Hans Boehm, una specie di roz­ zo profeta, che si presentò come un inviato della Madre di Dio per annunziare l'imminente avvento del Regno del cie­ lo. Ma la più violenta fu quella che divampò lo stesso anno 1517 in cui Lutero scese in campo con Tetzel. Più di cento­ mila contadini misero a soqquadro l'Austria, e specialmente la Stiria e la Carinzia, facendovi piazza pulita di tutta l'im­ palcatura feudale. I castelli furono abbattuti, e i loro inquili­ ni massacrati. Massimiliano, cui in fondo non dispiaceva ve­ der penzolare dalla forca qualcuno dei suoi indocili vassalli, lasciò fare per oltre tre mesi. Intervenne solo quando si pro­ filò il pericolo che l'incendio si propagasse a tutto il Paese. L'ordine che fu restaurato era quello del cimitero. Ma sotto le sue apparenze seguitò a covare una ribellione che di lì a poco avrebbe mescolato le sue sorti a quelle della Riforma, alimentandosene e alimentandola. Mentre la campagna si abbandonava a queste sterili e anarchiche jacqueries, le città compivano una rivoluzione molto più silenziosa e incruenta, ma decisiva per il riassetto della società. Il loro sviluppo era arretrato. Nessuna vera e propria industria si era sovrapposta alle piccole botteghe artigiane, che avrebbero fatto sorridere per i loro arcaici metodi i fiorentini del Trecento. Ma d'improvviso era acca­ duto qualcosa che aveva provocato un autentico terremoto. L'Europa, in pieno boom economico, aveva bisogno di molte cose, ma soprattutto di una moneta universalmente accetta­ ta che facilitasse gli scambi. E la Germania scoprì nelle sue viscere ricchi filoni d'oro e d'argento. Molti Principi, fra cui quelli della Sassonia - provincia di Lutero - si trovarono d'un tratto con le casse rigurgitanti delle royalties che gli de­ rivavano dall'appalto delle miniere, come oggi capita col pe­ trolio a certi Re e Sceicchi del Medio Oriente. E questo li re­ se vieppiù indipendenti dalle autorità centrali. Ma ad arricchire furono anche gli appaltatori, che in bre­ ve volger di tempo raggranellarono quanto occorreva per dare l'aìre a una potente organizzazione bancaria. Fin allo-

408 ra erano stati gli ebrei ad avere il monopolio della scarsa moneta che circolava in Germania: ed era stato questo a renderli invisi alla popolazione. Ma da quel momento furo­ no le dinastie cristiane dei Welser, degli Hochstetter e so­ prattutto dei Fugger ad accaparrarselo. I Fugger furono dei Medici senza splendore. Agirono di padre in figlio secondo il criterio che tuttora regola i poten­ tati finanziari dei Mitsuhi in Giappone e dei Du Pont in America. Essi cioè non si consideravano i proprietari, ma solo i funzionari, o per meglio dire i sacerdoti del tesoro di famiglia per il quale erano pronti ai più duri sacrifici. In tre generazioni accumularono il più ricco patrimonio privato d'Europa, in grado di far prestiti a tutti, dall'Imperatore in giù. Giacobbe II, che fu l'esponente maggiore della casata, aprì un credito di 150.000 fiorini all'Arciduca d'Austria, ma negò a se stesso e ai parenti una cappa di ricambio a quella che solitamente portava d'estate e d'inverno. Tutto era po­ sposto al supremo interesse della ditta, anche l'amore. Fu così che con una serie di azzeccati matrimoni i Fugger as­ sorbirono i potentati rivali, compreso quello dei Thurzos di Cracovia, e crearono dei trusts o cartelli in grado di control­ lare tutta la produzione mineraria di Germania, Boemia, Ungheria e Spagna. Potendo attingervi quanto oro e argen­ to volevano, estesero il loro impero a tutte le industrie ma­ nifatturiere, dai tessili alle armi, vararono intere flotte, e or­ ganizzarono perfino un loro proprio servizio postale. Mai si vide un monopolio più esoso e sopraffattore di quello dei Fugger. L'unica loro bussola era il profitto. Un affare che desse un utile inferiore al cinquanta per cento era da essi considerato in perdita. Per rialzare i prezzi, non esitavano a provocare artificialmente carestie, imboscando i prodotti, anche se di assoluta necessità. E il bello è che questo capita­ lismo di rapina, cupido e senza scrupoli, conviveva con un sincero sentimento religioso. Gli unici investimenti per i quali non badavano al profitto furono quelli ch'essi fecero, o credettero di fare, in aree fabbricabili di Paradiso. Lo stes-

409 so Giacobbe che si lesinava la zuppa e le scarpe non badò a spese per regalare alla sua città, Augusta, una chiesa e un ospizio per i poveri, la Fuggerei, che ancora esiste. Queste liberalità non bastarono tuttavia a procurargli le simpatie della gente, che lo considerava uno strozzino. Ma Giacobbe non se ne curava. Imperatori, Papi e Re gli man­ davano ambasciatori come a un loro pari; Massimiliano lo nominò conte; e i più grandi pittori del tempo, Dùrer e Holbein, facevano a gara per ritrattarlo. Morendo, egli la­ sciò un capitale di oltre due milioni di fiorini, qualcosa che in termini attuali potrebbe corrispondere a più di trenta mi­ liardi di lire: tre volte più del reddito nazionale inglese se­ condo le valutazioni di allora. Mancava solo la cosa più im­ portante: un figlio che potesse raccogliere quell'imponente eredità e continuarla. I Fugger fecero la ricchezza della Germania, ma la ric­ chezza della Germania non fece la ricchezza dei tedeschi, fra i quali non si diffuse. Essa diede avvìo a una nuova casta di «Principi mercanti» che se la tennero stretta come i Prin­ cipi guerrieri e terrieri si tenevano stretto il potere politico. Le due aristocrazie formarono anzi una specie di santa al­ leanza, basata sui matrimoni fra doti e blasoni, per la difesa dei privilegi. Ed è questo uno dei motivi per cui la nobiltà tedesca ha conservato più a lungo di tutte le altre il mono­ polio di certi servizi come quello delle armi, che costa più di quanto renda, ma in una società militare come quella tede­ sca conferisce il più alto rango e prestigio. La massa rimase ancora più impoverita da questo sposa­ lizio di «vertice» che metteva il denaro a disposizione del po­ tere e il potere a disposizione del denaro a solo beneficio della classe che deteneva l'uno e l'altro. Ma fu appunto la sfacciataggine delle disuguaglianze economiche e sociali a provocare la reazione. Ulrich von Hutten additò alla furia popolare quattro categorie di ladroni: i nobili, i preti, i mer­ canti e i giuristi che fornivano un avallo legale alla prepo­ tenza e cupidigia degli altri tre. E Geiler von Keiserberg

410 propose che tutti questi profittatori fossero cacciati come lu­ pi «perché non hanno rispetto né di Dio né degli uomini e ingrassano solo sulla fame, la sete e la miseria di tutti». La più grande jattura della Chiesa fu di trovarsi coinvol­ ta, in questa lotta, dalla parte del privilegio. Era fatale che così fosse perché gran parte della nobiltà tedesca era com­ posta di Vescovi che gl'Imperatori avevano fatto Conti o Principi per accaparrarsene la fedeltà, e di Conti e Principi che il Papa aveva nominato Vescovi per assicurarsene i ser­ vigi. Il basso clero invece, mal pagato e mal trattato, era in maggioranza dalla parte del popolo, di cui condivideva le miserie. E naturalmente la pubblica opinione identificava la Chiesa negli alti prelati, e non già nei piccoli parroci. Ma anche un altro fenomeno si delineava, che poi dove­ va rivelarsi determinante. Fino all'esplosione dei Fugger e compagni, l'economia e la cultura tedesche non erano state che un'appendice di quelle italiane. Il capitalismo era nato ad Augusta appunto perché questa città a ridosso delle Alpi era la sede di tutte le compagnie di esportazione e d'impor­ tazione con la nostra penisola. E l'umanesimo si era svilup­ pato e aveva il suo quartier generale a Norimberga, altra città strettamente legata all'Italia. A Venezia c'era un «Fon­ daco Tedesco» che aveva affidato la decorazione dei suoi in­ terni a Giorgio ne e a Tiziano. I Fugger infersero un colpo mortale a questi legami fra i due Paesi quando, per rialzare il prezzo del rame, di cui era­ no i maggiori produttori, ne bloccarono la vendita ai vene­ ziani. Costoro risposero con la rappresaglia, chiudendo il porto alle navi dei Fugger. Proprio in quel momento i Tur­ chi, ormai istallati a Costantinopoli, affermavano il loro con­ trollo sull'Egeo e sul Mediterraneo orientale, facendo del­ l'Adriatico un budello strozzato; mentre la scoperta dell'A­ merica apriva immense prospettive ai porti del Mare del Nord, dove i Fugger trasferirono le loro sedi commerciali. Questa inversione di poli provocò sull'economia tedesca effetti rivoluzionari. Fin allora le capitali dell'industria, del-

411 la finanza e del commercio erano state le città meridionali, più a contatto con l'Italia. Le province settentrionali erano «area depressa». Ma quando i Fugger vi trasferirono i loro fondaci, Anversa, Brema, Amburgo diventarono in pochi anni quello che nell'Italia d'oggi è il cosiddetto «triangolo industriale », soppiantando Augusta e Norimberga. E fu appunto quest'altra Germania, più rozza, meno in­ trisa di cultura latina, e soprattutto indipendente dall'eco­ nomia italiana, anzi in posizione concorrenziale con essa, che fornì a Lutero i seguaci più ardenti, i mezzi per alimen­ tare la sua battaglia, e le protezioni per tenerlo al riparo dal­ la furia del Papa e dell'Imperatore. CAPITOLO QUATTORDICESIMO

LA SCOMUNICA

Papa Leone era rimasto contrariato dal rifiuto di Lutero di presentarsi a Roma, ma non gli aveva attribuito molta im­ portanza. Problemi molto più gravi lo assillavano. Voleva lanciare una crociata contro i Turchi, e per finanziarla ave­ va proposto all'Imperatore d'imporre ai suoi sudditi una nuova tassa sul reddito del dieci per cento per il clero e del dodici per i laici. Massimiliano convocò la Dieta per sentirne il parere. E la Dieta non solo rifiutò, ma colse il pretesto per stigmatiz­ zare nei termini più aspri e risoluti il sistematico «saccheg­ gio» che la Curia romana operava sulle finanze tedesche adducendo a pretesto Dio e la religione, ma in realtà - dis­ se - al solo scopo d'ingrassare i preti italiani. Questo dinie­ go non era nuovo, ma non si era mai espresso in forma tan­ to categorica e irriguardosa. Nel riferirne al Papa, l'Impe­ ratore consigliò la massima cautela, anche per quanto ri­ guardava le eventuali sanzioni contro Lutero, che sulle de­ cisioni della Dieta non aveva influito direttamente; ma in­ direttamente, sì. Leone accolse il suggerimento. Dispensò il ribelle dal ve­ nire a Roma, purché si presentasse ad Augusta presso il Le­ gato Pontificio, cardinale Caetano. A costui diede istruzioni di cercare un accordo col monaco, offrendogli pieno perdo­ no e allettanti promozioni se riconosceva il proprio errore e lo ritrattava, ma facendogli anche capire che, se si ostinava, Roma avrebbe chiesto alle autorità temporali la sua estradi­ zione. E per dare corpo, alla minaccia, cominciò subito a cir­ cuire il pio duca Federico, dal quale la sorte di Lutero diret-

413 tamente dipendeva, promettendogli la più alta di tutte le decorazioni ecclesiastiche, la Rosa d'Oro, che quel Principe sospirava da tempo. Lutero si presentò ad Augusta il 12 ottobre (del 1518), munito di un salvacondotto imperiale. E si trovò di fronte a un prelato che brillava più per austerità di vita e profondità di cultura che per diplomazia. Assumendo, in contrasto con le istruzioni ricevute, atteggiamenti inquisitoriali, egli si ri­ fiutò di discutere le idee del monaco. Sì limitò a contestargli con aspre parole il diritto di criticare le decisioni della Ge­ rarchia, e specialmente del Papa. E per concludere gl'in- giunse di riconoscersi colpevole d'insubordinazione. Fu un marchiano errore psicologico. Portata sul piano della teologia, la discussione avrebbe anche potuto recare qualche frutto. Ma il fatto che il Caetano non volesse nem­ meno intavolarla come se non ne considerasse all'altezza il suo interlocutore solo perché era soltanto un povero mona­ co, ferì a morte l'orgoglio di Lutero, che di orgoglio traboc­ cava (anche se nei suoi scritti e discorsi si sciolgono molti in­ ni all'umiltà). Il colloquio si arenò bruscamente. Ripreso due volte nei giorni successivi, servì soltanto a irrigidire vieppiù le opposte posizioni. E si concluse con un fiasco. Lutero si affrettò a informarne la pubblica opinione con un riassunto dei colloqui, non sappiamo quanto esatto, ma che ebbe una larghissima diffusione e provocò una vasta eco. Nel mandarne copia al suo amico Wenzel, gli scrisse: «Da tutto questo potete vedere se ho o no il diritto di pensa­ re che a tenere la Corte di Roma sotto la sua spada è l'Anti­ cristo in persona. Io lo considero peggiore di qualsiasi Tur­ co». E in un'altra lettera al duca Giorgio di Sassonia, di cui era stato ospite a Dresda, suggerì «una riforma che final­ mente segni in maniera chiara il limite fra il potere tempo­ rale e quello spirituale». Era la prima volta ch'egli usava questa parola Riforma, cui la Storia avrebbe intestato la sua ribellione. Leone seguitava a considerare quella faccenda «un pette-

414 golezzo di monaci». Cominciò a rendersi conto della sua gravità solo quando il Caetano riferì in un secondo rappor­ to che il duca Federico si rifiutava di estradare Lutero a Ro­ ma. E allora cercò di correre ai ripari. In una bolla, che rap­ presentava un'implicita ritrattazione, affermò che le indul­ genze non riscattavano il peccato e la colpa, ma valevano soltanto per le penitenze inflitte dalla Chiesa. Per quanto ri­ guardava la liberazione dal purgatorio, riconobbe che il Pa­ pa poteva influirvi soltanto con le sue preghiere. Era esatta­ mente quello che aveva sostenuto Lutero, di cui non si face­ va il nome, ma di cui si ratificavano le tesi. Insieme a questo documento, Leone spedì in Germania un giovane nobile tedesco, che faceva in Curia il suo novi­ ziato negli ordini minori, Carlo von Miltitz, per consegnare la Rosa d'Oro a Federico e riprendere i colloqui col ribelle su un tono più amichevole. Lutero vi si mostrò favorevolmente disposto. Si disse pronto ad abbandonare la polemica se i suoi contraddittori smettevano di provocarlo, a scrivere una lettera di sottomis­ sione al Papa, a riconoscere pubblicamente l'influenza delle preghiere per il riscatto delle anime dal purgatorio, e a rac­ comandare dal pulpito l'obbedienza ai precetti della Chiesa. Poneva soltanto una condizione: che gli altri particolari del­ la controversia venissero sottoposti al giudizio di un Vesco­ vo tedesco gradito ad ambedue le parti. Sembrava che tutto si mettesse al meglio. E a fare le spe­ se di questa insperata schiarita fu il povero Tetzel. Miltitz lo convocò a Lipsia, gli rinfacciò di aver ecceduto gli ordini del Papa e lo accusò di mendacio. Il poveraccio si ritirò nel suo monastero, ma non si riebbe più dal colpo. Sul letto di mor­ te ricevette un'affettuosa lettera di Lutero. Che non si ram­ maricasse, gli diceva, per quella storia delle indulgenze. Es­ sa non era stata la causa, ma solo il pretesto di un incidente «che non era figlio di quella madre»: le sue origini erano molto più profonde e complesse. Il monaco di Wittenberg aveva le sue generosità ed eleganze.

415 Cosa egli pensasse in quel momento, non ci è chiaro, e forse non lo era nemmeno a lui. Contemporaneamente a una lettera piena di devozione al Papa, ne scrisse una al confessore del duca Federico, Spalatino, in cui diceva: «Ve­ ramente non so se il Papa è l'Anticristo o il suo vicario». Co­ munque, quando Leone rispondendo alla sua lettera in ter­ mini amichevoli e paterni lo invitò per la seconda volta a Roma, per la seconda volta Lutero rifiutò. Alcuni storici dicono che in quel momento egli esitava di fronte alla responsabilità di rompere il fronte cristiano e che si sarebbe rassegnato a qualunque ritrattazione pur di evita­ re lo scisma. E probabile, o almeno possibile. Ma le cose pre­ sero un'altra piega grazie a un nuovo intervento di Eck, il vice rettore dell'Università di Ingolstadt, che nel suo Obelisci aveva tacciato Lutero di eresia. Lutero, abbiamo già detto, aveva ribattuto a quel libello con un altro libello, le Resolutiones. Ma ancora prima di lui, e in suo favore, aveva replicato Andrea Bodenstein, chiamato comunemente Carlstadt dal suo luogo di origine: un giova­ ne teologo, professore di filosofia tomista lì a Wittenberg, che dapprima aveva combattuto Lutero, ma poi n'era di­ ventato un entusiasta sostenitore. La polemica Eck-Carl- stadt si era sviluppata e invelenita proprio nel momento in cui Miltitz credeva di coronare la sua missione di pace. E i due avversari avevano finito per sfidarsi a un pubblico di­ battito. Il tema della controversia era questo: se il Vescovo di Roma, cioè il Papa, avesse sempre avuto il rango di Capo della Chiesa in qualità di successore di San Pietro e Vicario di Cristo, come sosteneva Eck in armonia con la tradizione ortodossa; oppure se lo fosse diventato per manovre politi­ che come sosteneva Carlstadt. Ma in realtà Carlstadt aveva derivato questa tesi dalle Re­ solutiones di Lutero. Il quale ora si trovava di fronte a una penosa scelta: o disconoscere la paternità di quell'afferma­ zione, lasciando il suo allievo solo a difenderla; oppure ri­ vendicarla a se stesso e intervenire nel dibattito. Nel primo

416 caso commetteva una diserzione; nel secondo mandava a monte la missione di pace che Miltitz stava svolgendo e che forse egli stesso desiderava. Scelse la seconda alternativa: non solo per senso di responsabilità e orgoglio, ma forse an­ che perché temette, non presentandosi, di deludere una pubblica opinione che già parteggiava massicciamente per lui, e di perdere il suo prestigio di Fùhrer di quella rivolta. La disputa si svolse a Lipsia fra la fine di giugno e i primi di luglio (del 1519). Lutero si presentò in compagnia di Caiistadt e di altri sei teologi, scortati da 200 studenti di Wittenberg. Teatro del dibattito fu il castello di Pleissen- burg, gremito di folla. Lo presiedeva lo stesso duca Giorgio, e l'atmosfera era carica di suspense. Alle tesi di Eck, sottile ar­ gomentatore e oratore efficacissimo, rispose per primo Carlstadt, e ne uscì piuttosto malconcio. Allora lo stesso Lu­ tero scese in lizza. Prove alla mano (e la Storia gliene forni­ va a bizzeffe), egli dimostrò che nei primi secoli dell'era cri­ stiana il Vescovo di Roma era stato il Vescovo di Roma e ba­ sta, come dimostrava il fatto ch'egli veniva eletto soltanto dal popolo e dal clero dell'Urbe, al pari di tutti gli altri Ve­ scovi. Eck ribatté che questa era la tesi di Huss, condannata come eretica proprio da uno di quei Concili - quello di Co­ stanza - cui lo stesso Lutero attribuiva un'autorità superiore a quella del Papa, e quindi decisiva in fatto di dottrina. Era un'abile risposta. Ma Lutero con altrettanta abilità replicò ch'egli, sì, attribuiva al Concilio un'autorità superiore a quella del Papa, ma non il dono dell'infallibilità, esclusiva prerogativa di Dio. Anche il Concilio, disse, poteva errare, e lo aveva dimostrato proprio condannando certe proposizio­ ni di Huss, che invece erano giuste. Il problema rimase insoluto, ma Eck aveva raggiunto il suo scopo. Egli infatti aveva proposto la disputa non per da­ re una risposta a quell'interrogativo, ma per inchiodare il suo avversario su una posizione eretica. Schierandosi con Huss, Lutero c'era cascato. La sua ribellione contro le in­ dulgenze, su cui la Chiesa poteva transigere e in realtà ave-

417 va già transatto, si era trasformata in una negazione del su­ premo Magistero papale. E su questo nessun compromesso era possibile. Col resoconto del dibattito, Eck si precipitò a Roma per sottometterlo a Leone, che tuttavia si rifiutò di adottare dra­ stiche misure. Anzi, l'unica decisione che prese fu quella di non prenderne nessuna, nella speranza che col tempo le co­ se si aggiustassero. Quel Papa tollerante, gaudente e ottimi­ sta non conosceva la Germania, la considerava un Paese di barbari analfabeti, e non immaginava che un «pettegolezzo di monaci», come lui si ostinava a considerare quel bisticcio, potesse metterla a fuoco. E invece era proprio quello che stava accadendo. Da Dù- rer a Pirkheimer in giù, quasi tutta l'Intellighenzia tedesca si era schierata dalla parte di Lutero. Ulrico von Hutten ne diventò il più eloquente bardo. Non contento di avventare le sue schiamazzanti satire contro la Chiesa e il Papa, scovò e pubblicò un vecchio manoscritto tedesco in cui si sostene­ vano le ragioni di Enrico IV nella sua lotta contro Gregorio VII (di cui abbiamo a lungo parlato ne L'Italia dei Comuni). E lo dedicò al nuovo imperatore Carlo V, proprio allora suc­ ceduto a Massimiliano, suggerendogli di vendicare l'affron­ to fatto allora da Roma alla Germania. Era il sentimento na­ zionale che si mobilitava dietro la disputa religiosa: una mi­ scela pericolosamente esplosiva. Un altro potente alleato la cultura aveva fornito a Lute­ ro con Filippo Schwarzert, grande umanista che aveva elle­ nizzato il proprio nome in Melantone: un ometto fragile, di poca salute, dalla voce incerta e dallo sguardo timido, che tuttavia esercitava dalla cattedra un tale fascino, che lo stesso Lutero andava sovente a sentirne le lezioni, confon­ dendosi fra gli alunni. «Non c'è virtù che gli sia estranea» diceva. Gli negava soltanto il mordente, quella «rabbia in corpo» che caratterizza il lottatore, e che lui invece sentiva di possedere in sommo grado. E forse era anche per questo che, non essendone geloso, riconosceva lealmente la supe-

418 riorità intellettuale di Melantone e ne fece l'ideologo del suo scisma. Perché ormai, non c'era più da dubitarne, di scisma si trattava. In una violenta Epitome, Lutero definiva Roma «una Babilonia imporporata» e la Curia «la sinagoga di Sa­ tana». E a Spalatino scriveva: «Ho tratto il dado. M'infischio della rabbia di Leone quanto dei suoi favori, e mai per l'e­ ternità mi riconcilierò con lui. Non lo temo più e mi accingo a pubblicare un libro sulla riforma cristiana usando contro il Papa lo stesso linguaggio che userei contro l'Anticristo». Trascinatovi per i capelli da questi attacchi, nel giugno di quell'anno 1520 Leone emanò una Bolla, Exurge Domine, che condannava quarantun proposizioni di Lutero, ordina­ va di bruciare i relativi testi e invitava il ribelle ad abiurare i suoi errori. Se entro sessanta giorni non obbediva, sarebbe stato scomunicato, le autorità temporali erano invitate a consegnarlo a Roma, e in qualunque comunità che gli aves­ se dato asilo i servizi divini sarebbero stati sospesi. Lutero impiegò quei sessanta giorni di ultimatum a scrive­ re, in lingua tedesca, una «lettera aperta alla nobiltà cristia­ na della Nazione tedesca». E come principale destinatario si rivolse al «nobile giovane» che pochi mesi prima era salito al trono imperiale col nome di Carlo V. Ogni cristiano, egli di­ ce, riceve col battesimo la consacrazione, e quindi è un pre­ te. Il fatto che poi egli faccia di questa condizione una «car­ riera» e diventi anche vescovo o papa, non impedisce che ri­ manga un cristiano come gli altri e come gli altri sia sotto­ posto, nei rapporti civili, alle autorità secolari e alle loro leg­ gi. Egli non ha nessun privilegio: nemmeno quello di deci­ dere l'interpretazione dei sacri testi perché qualunque fede­ le, in quanto prete anche lui, ha diritto di leggerli e d'inter­ pretarli a modo suo. Questi testi rappresentano la suprema autorità, cui nemmeno il Papa può sovrapporre la sua. In essi non si trova nulla che lo qualifichi a indire o a impedire i Concili. Se cerca di farlo brandendo l'arma della scomuni­ ca, «i fedeli hanno il diritto di trattarlo da pazzo e di ridurlo

419 alla ragione con tutt'i mezzi, anche coercitivi». E ora, egli di­ ce, di un Concilio c'è bisogno, che prenda in esame la ver­ gognosa anomalìa di una Curia corrotta fin nelle midolla dagli splendori mondani e ingrassata dalle rapine compiute sulla Germania. «E qui - soggiunge - veniamo al nòcciolo della questione. Si calcola che ogni anno oltre trecentomila gulden affluiscano dalla tasca del contribuente tedesco nelle casse del Papa. Se noi impicchiamo i ladri, perché dovrem­ mo trattare diversamente i romani?» A parte gli eccessi vituperativi, che del resto facevano parte del costume polemico del tempo, quella «lettera aper­ ta», era uno scampolo di bravura giornalistica. Con somma abilità, Lutero accantonava i problemi teologici, di cui egli stesso comprendeva lo scarso fascino sui suoi interlocutori; e si accaniva sul punto su cui li sapeva sensibili. Il suo era un demagogico appello al sentimento nazionale, contro cui neanche i tedeschi più timorati e ossequiosi verso la Chiesa potevano schierarsi senza passare per traditori. E infatti su­ scitò un'eco immensa. La popolarità che gliene derivò era tale che, quando Yul- timatum scadde e la bolla della sua scomunica fu pubblicata, egli non ne risentì nessuna conseguenza e in tutta tranquil­ lità potè attendere alla compilazione di altri due opuscoli: La cattività babilonese della Chiesa e un Trattato sulla libertà cri• stiana. Questi li scrisse in latino perché erano un riassunto della sua dottrina, destinato ai teologi. Ma subito dopo an­ ch'essi furono tradotti, e diventarono il pane quotidiano dei suoi seguaci. Huss, egli dice, aveva ragione: il prete non è dotato del taumaturgico potere di trasformare, nell'Eucarestia, il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Gesù. Questi è presente insieme col pane e col vino, cioè per consustanziazione, e non per transustanziazione. Il matrimonio non è un sacramento. Non lo è più di quanto lo fosse il matrimonio pagano e di quanto lo siano quelli ebrei e mussulmani. Esso è solo uno strumento per la procreazione dei figli, quindi si può benis-

420 simo contrarlo anche con un non cristiano, e in caso d'im­ potenza o adulterio, scioglierlo. Ciò che rende cristiani non sono né le preghiere né le opere buone, ma la fede in Cri­ sto, che solo Cristo può dare. Ogni uomo nasce così col suo destino, che nulla e nessuno può mutare. Questo, in sintesi, il suo pensiero. Egli lo aveva già espresso. Ma ora gli dava la sua formulazione definitiva in documenti scritti che rendevano patente l'eresia. Ciò mal­ grado Miltitz, che non aveva cessato di perseguire la sua missione di pace, andò a trovarlo e lo supplicò di scrivere una lettera al Papa. Lutero accettò. Ma, invece di redigerla nei contriti toni che Miltitz gli aveva consigliato, la ispirò a una specie di paterna indulgenza: «Chi ti dice che sei un se­ midio e che puoi fare tutto ciò che vuoi è una sirena che ti trae in inganno, mio caro Leone...» scriveva a un certo punto. E via di questo passo. Come reagisse il Papa, a questo confidenziale tuppertù di un semplice monaco, e scomunicato per giunta, non sap­ piamo, ma possiamo immaginarlo. Comunque, oramai la guerra fredda si era trasformata in guerra calda, e nessuno era più in grado di arrestarla. In molte città, gli ortodossi ebbero la meglio e i libri del ribelle furono bruciati. Lutero rispose bruciando a sua volta una copia della bolla che lo scomunicava davanti agli studenti di Wittenberg. Il monaco dava di eretico al Papa. CAPITOLO QUINDICESIMO

WORMS

Il «nobile giovane» di cui Lutero aveva fatto il principale de­ stinatario della sua «lettera aperta» era salito al trono impe­ riale col nome di Carlo V proprio nei giorni in cui il ribelle si era scontrato con Eck a Lipsia. Essendo nato col secolo, non aveva che vent'anni, ed era il frutto di uno di quei ma­ trimoni con cui suo nonno Massimiliano - Arciduca di Au­ stria, Re di Ungheria e Boemia, e Imperatore di Germania aveva accaparrato alla casa di Asburgo più di mezza Euro­ pa. Per quanto sia un'impresa ardua, cercherò di semplifi­ carne la genealogia, e il lettore mi scusi se non ci riesco. Suo padre Filippo, figlio appunto di Massimiliano, aveva sposato l'erede del trono di Spagna, Giovanna, figlia di Fer­ dinando e d'Isabella, che poi fu detta La loca, la pazza, per­ ché le diede di volta il cervello. La corona di Spagna com­ portava anche quella di Sicilia, di Sardegna, di Napoli e del nuovo continente latino-americano che Cortéz e Pizarro sta­ vano conquistando. A questo immenso reame di parte ma­ terna, Carlo aggiunse quelli di parte paterna, Belgio, Olan­ da e Franca Contea che subito dopo la morte di Filippo era­ no stati dati in reggenza a Margherita di Asburgo, figlia an­ ch'essa di Massimiliano e zia di Carlo. Questi non aveva che sedici anni quando assunse il governo di quelle sparpagliate province e pose la propria candidatura al titolo imperiale, il giorno che il nonno Massimiliano, ormai al declino, lo aves­ se lasciato vacante. C'era un rivale: Francesco I di Francia che godeva di molte simpatie presso gli elettori tedeschi, cioè i Principi che componevano la Dieta, o Parlamento, cui spettava l'elezio-

422 ne. Costoro cercavano regolarmente di evitare la scelta di un Imperatore abbastanza forte da ridurli in soggezione. Cosa sarebbe successo se su quel trono che comportava, ol­ tre alla corona di Germania, anche quelle di Austria, Boe­ mia e Ungheria, fosse salito un Sovrano come Carlo già tito­ lare di tutto quel bendidio? Costui sarebbe diventato un nuovo Carlomagno o un nuovo Barbarossa, insomma un «padrone». La lotta era quindi molto incerta. E Carlo ne venne a ca­ po solo allargando la borsa, cioè vuotandola completamente nelle tasche degli Elettori, che a quell'argomento erano sen­ sibilissimi. Ma ci vollero la bellezza di 850.000 fiorini. Carlo non li aveva. Glieli dettero gli unici che fossero in grado di darglieli: i Fugger. Ma naturalmente non si trattò di un re­ galo, perché i Fugger non avevano mai regalato nulla a nes­ suno. Essi ebbero in cambio i diritti di dogana nel porto di Anversa e l'appalto di tutte le miniere spagnole. Da quel momento la causa dell'Impero fu quella dei Fugger e vice­ versa: il che doveva far sentire i suoi effetti anche sulle sorti di Lutero e della Riforma. Il nobile giovane non aveva dunque compiuto vent'an- ni, quando s'infilò in testa quella corona imperiale che sem­ brava sproporzionata non solo alla sua verde età, ma anche al suo fisico. Piccolo, pallido, slavato, di caratteristico aveva soltanto un naso a becco che quasi faceva arco col mento. Soffriva di un sacco di malanni, dalla colite all'artritismo, i suoi modi erano impacciati e la voce stridula. Ma erano in pochi ad averla udita, perché Carlo taceva, sia pure in cin­ que lingue: fiammingo, tedesco, francese, spagnolo e italia­ no. Che cosa pensasse, per i suoi contemporanei fu sempre un gran mistero e in parte lo è rimasto anche per noi po­ steri. Il precettore che gli avevano dato, il vescovo Adriano di Utrecht, che più tardi fu Papa, aveva cercato d'iniziarlo alla filosofia, ma il ragazzo vi si era mostrato allergico. Le uniche materie che lo interessavano erano quelle che ave­ vano attinenza con l'arte di governo, e specialmente la di-

423 plomazia e la guerra. Quanto alla religione, di cui Adriano gli aveva istillato i precetti, Carlo si mostrò sempre uno scrupoloso osservante. Ma se fosse anche un credente, non si sa. Il nunzio apostolico Aleander, quando per la prima volta lo incontrò, così ne riferì in un rapporto a Leone: «Mi sembra dotato di una prudenza molto al di sopra dei suoi anni. E ho l'impressione che dentro la sua testa ci sia molto più di quanto la faccia non dica». Forse non era molto in­ telligente. Ma capiva gli uomini, che sono la cosa più diffì­ cile e più importante da capire, specie per un governante. E il suo sangue restava ghiaccio anche nei più gravi repen­ tagli. Molti lo consideravano indolente per la ripugnanza che di solito mostrava a prendere le decisioni. Ma in certi frangenti agiva con una risolutezza che lasciava tutti di stucco. Aveva sempre in serbo qualche sorpresa, anche per quei suoi intimi che credevano di conoscerlo. Ogni tanto nella sua taciturna malinconia faceva capolino l'umorismo: come quando, andato a visitare i suoi sudditi sardi, dopo averli guardati dal balcone, sotto il quale lo acclamavano, commentò: «Pochi, matti e divisi». Alzando la mano, pro­ clamò: «Todos caballeros, tutti cavalieri!» e non si fece mai più vedere nell'isola. Ora questo imperscrutabile e imprevedibile personag­ gio, appena coronato Imperatore, si trovò alle prese con la «grana» di Lutero. Il Nunzio Apostolico, dopo averne inva­ no sollecitato l'arresto al duca Federico, da cui il ribelle di­ rettamente dipendeva, portò la questione davanti a Carlo che si trovò in grave imbarazzo. Uno degli impegni ch'egli aveva preso con gli Elettori per accaparrarsene il voto era quello d'impedire l'estradizione di cittadini tedeschi prima ch'essi fossero processati e riconosciuti colpevoli da un tri­ bunale tedesco. Ma d'altra parte egli era anche Re di Spa­ gna, la patria degl'Inquisitori e del fanatismo cattolico, che non tollerava indulgenze e compromessi con gli eretici. Il cauto Carlo decise di lavarsene le mani, rimettendo il «caso» a una Dieta che venne convocata a Worms per gennaio

424 (1521). Essa non doveva soltanto occuparsi di Lutero, che anzi rappresentava un dettaglio. C'erano dei problemi mol­ to più gravi da discutere: la guerra con la Francia e coi Tur­ chi, per esempio. Il giovane Imperatore dovette quindi restare un po' sor­ preso, quando vide che, agli occhi degli Elettori, quei grossi fatti politici passavano in secondo piano rispetto alla vicen­ da teologica del monaco. Worms era letteralmente inondata di manifesti e libelli che inneggiavano a Lutero e mettevano alla berlina il Papa e i preti. «Non posso girare per le strade - scriveva il Nunzio a Leone -. Tutti appena mi vedono met­ tono mano al pugnale e mi mostrano i denti. Spero che Vo­ stra Santità m'invù un'indulgenza plenaria e si prenda cura della mia famiglia se mi succede qualcosa.» La partita per la Chiesa si metteva così male che il confessore di Carlo si ri­ volse a Spalatino, sapendolo amico di Lutero, perché cer­ casse una conciliazione in extremis. Ma Lutero rifiutò. Il 3 marzo ebbe inizio il dibattito del suo caso. Aleander reclamò un verdetto di condanna. La Dieta rispose che la condanna presupponeva un processo, e che per il processo ci voleva l'imputato. Carlo, che presiedeva l'assemblea, spic­ cò mandato di comparizione e inviò a Lutero un salvacon­ dotto con l'ordine di presentarsi. Gli amici di Wittenberg consigliarono al ribelle di disobbedire, ricordandogli l'e­ sempio di Huss che il salvacondotto di Sigismondo non ave­ va salvato dal rogo. E non avevano tutt'i torti, perché Adria­ no di Utrecht aveva già scritto al suo ex pupillo che gl'im­ pegni presi con un eretico non valgono: si può, diceva, anzi si deve contravvenirvi. Ma Lutero aveva già deciso: la Dieta era una tribuna nazionale che valeva qualunque rischio. Il 2 aprile si mise in viaggio. Le città in cui passò lo accolsero e salutarono come un eroe avviato al martirio. Alle porte di Worms ricevette un messaggio di Spalatino che lo supplica­ va di tornare indietro. Rispose: «Anche se a Worms ci fosse­ ro più diavoli che tegole sui tetti, ci andrò». Un manipolo di cavalieri gli venne incontro per scortarlo e migliaia di per-

425 seme fecero acclamante risacca intorno a lui. Egli comprese che poteva perdere la vita, ma non la battaglia. Il 17 aprile comparve davanti alla Dieta, solo, rivestito del suo saio. Dapprincipio rimase visibilmente smarrito allo spettacolo dell'Imperatore in paramenti, circondato da quell'imponente assemblea di Principi e prelati. Quando l'accusatore gli chiese se si riteneva colpevole di eresia ed era pronto ad abiurarvi, esitò come se il coraggio lo avesse di colpo abbandonato, eppoi con incerta voce chiese tempo per riflettere. Carlo gli accordò ventiquattr'ore e rinviò la seduta all'indomani. L'indomani quello che si presentò in sala era un altro Lu­ tero, cioè il Lutero di sempre, appassionato, risoluto e pu­ gnace. All'accusatore, che gli riproponeva in latino il quesi­ to della vigilia, rispose con voce ferma e in tedesco che, per quanto riguardava gli abusi e la corruzione della Chiesa, la sua denunzia era condivisa da tutti e quindi era da ritenersi giusta. L'Imperatore lo interruppe con un secco: «Non è ve­ ro!» Ma, sebbene pronunciato da una sì alta cattedra, nem­ meno quell'intervento sconcertò il monaco che ribatté con tutta la forza della sua convinzione: «Se ritrattassi questo punto, mi arrenderei alla tirannia e all'empietà. E la cosa sarebbe ancora più grave se risultasse che vi sono stato co­ stretto dal Sacro Romano Imperatore». Nella sala gremita e vibrante di attesa si propagò un mormorio di sgomento, ma anche di ammirazione per l'audacia di quel monito. Lutero si volse di nuovo all'accusatore per terminare la sua replica. Era pronto, disse, a riconoscere eretiche le proprie tesi e ad abiurarvi, se qualcuno gli dimostrava se e in che cosa erano contrarie alle Scritture. «Martino - ribatté l'accusatore sempre in latino -, ti fac­ cio osservare che questo è l'argomento addotto da tutti gli eretici, compresi Wycliff e Huss... Come puoi presumere di essere il solo a capire il senso delle Scritture, come puoi pre­ tendere di sovrapporre la tua interpretazione a quella di tanti uomini famosi?... Ti chiedo, Martino, e t'invito a ri-

426 spondere schiettamente e senza perifrasi: ripudi o non ri­ pudi i tuoi libri con tutti gli errori ch'essi contengono?» Ci fu un attimo di silenzio: il più decisivo attimo, dice Carlyle, nella storia del mondo moderno. Poi, sempre in te­ desco, Lutero disse, volto all'Imperatore: «Poiché Vostra Maestà e le loro eccellentissime Signorie pretendono una ri­ sposta schietta e senza perifrasi, eccola: io non accetto nes­ suna autorità, nemmeno quella dei Papi e dei Concili che già tante volte si sono fra loro contraddetti. Perciò, al di fuo­ ri delle Sacre Scritture, non rispondo che alla mia coscien­ za, perché senza o contro di essa sento che non c'è salvezza né sicurezza. Dio mi aiuti. Amen». Ci fu ancora, fra accusatore e imputato, qualche scambio di battute, che Carlo interruppe con un perentorio: «Basta. Visto che l'imputato nega perfino i Concili, non c'è bisogno di fargli ulteriore domande». Lo scisma si era aperto.

Lutero rientrò nei suoi alloggiamenti visibilmente scosso dalla terribile prova. Ma non meno turbato doveva essere l'Imperatore che l'indomani mattina convocò gli Elettori nelle proprie stanze per sottomettergli una dichiarazione stilata di sua mano, durante la notte. Essa diceva che, in omaggio alle tradizioni della sua famiglia, egli era deciso a restare fino in fondo fedele alla Chiesa e pronto a giuocare su questa carta «le mie terre, le mie amicizie, il mio corpo, la mia vita e la mia anima». Rispettando il salvacondotto che gli aveva rilasciato, aggiunse, consentiva a Lutero di tornar­ sene a casa indisturbato, purché a sua volta egli non distur­ basse pronunziando prediche e provocando tumulti. Ma dopo, concluse, «procederò contro di lui come si usa con gli eretici confessi, e chiedo a voi di pronunziarvi nello stesso senso». Dei sei Elettori lì presenti, quattro aderirono e con­ trofirmarono. Ludovico del Palatinato e Federico di Sasso­ nia, del quale Lutero era suddito, rifiutarono. Il giuoco delle parti si delineava. Reincarnazione del Sa-

427 ero Romano Impero, Carlo non poteva schierarsi contro la Chiesa. Per tutto il Medio Evo le due istituzioni si erano spesso combattute, ma rimanendo sempre legate da un vin­ colo di solidarietà, più forte di qualunque motivo di attrito: l'ecumenismo. L'una e l'altra perseguivano una organizza­ zione del mondo supernazionale, l'una e l'altra parlavano quella specie di esperanto ch'era il latino, l'una e l'altra combattevano tutto ciò che invece Lutero, a parte i suoi fon­ damentali motivi di dissenso sul piano teologico, evocava: la comunità nazionale organizzata in Stato con le sue leggi, la sua lingua e perfino la sua Chiesa. Questo era il punto su cui si sarebbero decise le sorti del­ la grande battaglia. Per il momento sembrava impossibile che un piccolo monaco potesse tenere in sacco le forze con­ giunte del Papa e dell'Imperatore. Ma il piccolo monaco camminava con la Storia; Papa e Imperatore, contro. CAPITOLO SEDICESIMO

LA GRANDE RIVOLTA

Lutero si era rimesso in viaggio per Wittenberg, ma senza nessuna certezza di arrivarci. Ignorava che frattanto papa Leone, con una correttezza che gli fa onore, aveva racco­ mandato a Carlo di rispettare il salvacondotto. Ma siccome questo stava per scadere, il duca Federico persuase Lutero a lasciarsi rapire per strada da uomini suoi e a farsi «imbosca­ re» nel castello della Wartburg. Ci domandiamo se Carlo credette al ratto. Sappiamo sol­ tanto che, dopo aver firmato la messa al bando dell'eretico, non fece nulla per appurare dove fosse finito. E papa Leo­ ne non sollecitò notizie. Entrambi erano unicamente preoc­ cupati della guerra con la Francia e a nessuno dei due pia­ ceva fare il persecutore. Appollaiata sull'alto di una collina, la Wartburg non era una piacevole residenza. Martino non aveva altra compa­ gnia che quella di un drappello di guardie né altro svago che la caccia. Per non farsi riconoscere, aveva cambiato il nome in quello di Junker Jòrg, abbandonato il saio e inau­ gurato una folta barba. L'inazione gli procurava insonnia e incubi. Una notte credette di veder Satana e gli lanciò con­ tro una bottiglia. Per liberarsi dalla sua persecuzione resta­ va a tavolino fino all'alba, a tradurre in tedesco la Bibbia. L'unico sollievo a tanti triboli erano le lettere dei pochi inti­ mi che conoscevano il suo rifugio. Quelle lettere portavano buone notizie. I frati del con­ vento agostiniano in cui egli aveva militato avevano abbrac­ ciato il luteranesimo. Melantone stava componendo un trat­ tato di dogmatica. Carlstadt, promosso arcidiacono della

429 Cattedrale, officiava in lingua tedesca e aveva messo in pra­ tica la tesi di Lutero, secondo cui i preti potevano ammo­ gliarsi, sposando a quarantanni una ragazza di quindici. Lutero ne fu molto soddisfatto, ma, «Santo cielo - scrisse -, è proprio sicuro che i nostri bravi wittenberghesi siano di­ sposti a dar le loro figlie a dei monaci?» Sembrava tuttavia di sì, perché gli agostiniani del suo convento si erano acca­ sati senza difficoltà. Senonché, in mezzo a queste incoraggianti nuove, ce n'e­ rano anche d'inquietanti. Alcuni studenti e popolani aveva­ no scacciato i preti ortodossi dagli altari in cui stavano offi­ ciando, altri ne avevano lapidato, e infine avevano saccheg­ giato il monastero francescano. Lutero capì subito il pericolo. Come tutte le rivoluzioni, anche quella sua rischiava di cader preda degli elementi più estremisti ed eversivi. Allora, mettendo da parte ogni pru­ denza, piombò clandestinamente a Wittenberg e tenne con­ siglio coi suoi per metterli in guardia contro gli eccessi. Ma non tutti si mostrarono sensibili al richiamo, e fra i più irri­ ducibili c'era Carlstadt. Tornato a Wartburg con molte preoccupazioni, Lutero inondò di lettere mezza Germania per richiamare all'ordi­ ne i deviazionisti. A Zwickau, uno dei più forti centri indu­ striali, la Riforma religiosa si era confusa con una specie di movimento socialista ispirato agli stessi principi dei tabori- ti boemi. Sedicenti apostoli del nuovo credo battevano la Germania sobillando gli ascoltatori a distruggere gli affre­ schi delle chiese e perfino gli organi, a disertare le scuole, e a tentare i più arditi esperimenti sociali. La Riforma ri­ schiava di decomporsi in una galassia di sètte in polemica l'una con l'altra. Ed era proprio su questo che Roma con­ tava. Lutero piantò definitivamente il suo rifugio, si tagliò la barba, riprese il saio, ricomparve sul pulpito di Wittenberg, e in otto giorni pronunziò otto sermoni, che rappresentano forse la gemma della sua ricchissima oratoria. «Ascoltatemi.

430 Io sono il primo ad aver ricevuto il messaggio del Signore. Io sono l'unico a cui Egli ha rivelato il senso delle Sue paro­ le.» Gli obiettarono che, dopo aver tanto sproloquiato con­ tro il Papa, egli parlava come il Papa. Ma alla fine la sua con­ vinzione convinse tutti. Tutti, meno Carlstadt che, dimesso­ si dal suo posto, si ritirò a Orlamunde, e di lì fulminò il suo vecchio maestro, chiamandolo «il nuovo infallibile di Wit­ tenberg». Questo appassionato e turbolento quacchero avanti lettera officiava ora vestito da laico, rifiutava compen­ si per il suo ministero, si guadagnava da vivere lavorando da contadino, anticipò la Christian non riconoscendo potere curativo che alle preghiere anche per le malattie del corpo. E alla fine, perseguitato dalla polizia per istigazione alla rivolta, tornò a cercare rifugio presso Lutero che frater­ namente lo accolse e poi gli procurò un posto di professore a Basilea. Ma il pericolo maggiore, per Lutero, non erano queste dissidenze individuali che restavano confinate sul piano ideologico; era di farsi coinvolgere nella ribellione sociale, com'era capitato a Wycliff. Nell'estate del '22 un gruppo di diseredati cadetti della piccola nobiltà feudale lanciarono un appello al popolo e attaccarono l'Arcivescovo di Treviri in nome della Riforma, ma in realtà per impadronirsi del patrimonio diocesano. Lutero fece in tempo a dissociare le proprie dalle loro responsabilità, prima ch'essi fossero bat­ tuti e dispersi. Ma l'episodio, aveva allarmato tutta la Ger­ mania conservatrice e benpensante. Per quanto Lutero si affannasse a sconfessarle, dovunque scoppiassero rivolte - e ne scoppiavano in continuazione - esse inalberavano il suo vessillo. Tutta la Germania proletaria era in subbuglio. In varie città si stabilirono governi comunisti che si chiamaro­ no «Fratellanze Evangeliche». Esse istituirono una specie di soviet avanti lettera a Memmingen, e redassero una costitu­ zione detta dei «dodici articoli», strano e inquietante miscu­ glio di biblicismo e di radicalismo populista, e lo mandaro­ no a Lutero per ottenerne l'avallo.

431 La scelta, per lui, era drammatica. Egli non poteva con­ dannare una rivoluzione che s'ispirava ai principi della Bib­ bia: non era stato lui a dire ch'era quella l'unica bussola per tutto e per tutti? D'altra parte non poteva giuocarsi le ami­ cizie e le simpatie dei Principi, a cominciare dal suo duca Federico, che seguitavano a dargli man forte contro l'Impe­ ratore e il Papa. Alcuni di essi, come Filippo di Assia, Casi­ miro di Brandeburgo, Ernesto di Liineborg, avevano già ab­ bracciato il suo credo. Vi si era convertita perfino una sorel­ la dello stesso Carlo, Isabella. Nella sua risposta, Lutero cercò di conciliare la ragion di Dio con quella di Stato. Elogiò i «dodici articoli» per il loro costante riferimento alle Scritture, ma ne criticò l'appello alla violenza. Biasimò i potenti per non avere in tempo ope­ rato le necessarie riforme, ma confermò il loro diritto a mantenere l'ordine. E concluse lanciando agli elementi più ragionevoli dell'una e dell'altra parte un appello alla conci­ liazione: «Voi, Principi, abbandonate la vostra ostinazione, rinunziando a un po' dei vostri poteri e patrimoni in modo che la povera gente abbia di che vivere e respirare. E voi, contadini, abbandonate le pretese incompatibili con la lega­ lità». Troppo tardi. La rivolta ormai divampava. Fu una gara di violenze, un'orgia di sangue. Lutero cercò invano di ar­ restarla rinnovando i suoi disperati richiami alla ragione e alla carità. Quando i ribelli, credendo di avere ormai partita vinta, incrudelirono ancora di più abbandonandosi ai più orribili eccessi, egli pubblicò un manifesto d'inaudita vio­ lenza «contro le orde assassine e saccheggiatrici dei contadi­ ni», invitando i Principi alla repressione e autorizzandoli a usare qualsiasi mezzo. E poco verosimile che sia stato questo intervento a propi­ ziare la rivincita delle forze conservatrici. Ma la sfortuna volle che, per via d'un ritardo di composizione, il manifesto fosse pubblicato proprio nel momento in cui i Principi ri­ prendevano l'iniziativa. Il loro esercito riuscì a isolare gl'in-

432 sorti e li obbligò a una battaglia campale: l'unica ch'essi non potevano vincere. In realtà, più che una battaglia, fu un massacro, di cui Lutero apparve come l'ispiratore e il com­ plice. Alla resa finale dei conti risultò che la ribellione aveva pagato la propria sconfitta con 130.000 cadaveri. Ma il pas­ sivo non si limitava solo a questo. La repressione aveva fatto piazza pulita di tutto: anche delle istituzioni democratiche che bene o male da quella tormenta sociale avevano preso avvio, anche del rinnovamento che si stava delineando in senso umanistico. La stessa Riforma ne fu ridotta allo stremo. I disperati tentativi compiuti da Lutero per dissociarsene gli erano ser­ viti solo ad apparire come il traditore di una rivoluzione che si richiamava alle sue dottrine evangeliche. Gli scampati al massacro lo chiamavano rancorosamente Doctor Lùgner, il dottor bugiardo. Mentre, dall'altra parte, Carlo aveva facile giuoco nel definire quella rivolta «un movimento luterano». Molti Principi cattolici si avvalsero di questa identificazione per estendere la vendetta ai seguaci del nuovo credo, anche se estranei alla ribellione. «Tutto quello che Dio ha fatto per gli uomini attraverso di me, è dimenticato - scriveva Lute­ ro -. Principi, preti e contadini sono d'accordo su una cosa sola: nel volere la mia morte.» Fu buon per lui che Wittenberg gli restasse fedele. L'a­ mabile e leale duca Federico era morto. Ma il suo succes­ sore Giovanni, sebbene avesse energicamente combattuto la rivolta, aveva abbracciato la Riforma. Lutero quindi, dentro le mura della città, era al sicuro. Ma fuori di esse non osava mettere piede, nemmeno per visitare la tomba del padre, come sempre aveva fatto. L'amarezza e la delu­ sione gl'ispirarono terribili libelli, specie contro i contadi­ ni che lo avevano rinnegato credendosi rinnegati da lui. «Ritengo preferibile - scriveva a un amico - che siano loro a perire, piuttosto che i principi e i magistrati: Dio non ha mai autorizzato questa rustica plebe a prendere la spada.» Parole spaventose, ispirate da un rancore che non gli per-

433 metteva neanche di vedere quanto prossima fosse la sua rivincita. Ma questa, più che merito suo, fu la conseguenza della situazione politica, cui ora conviene tornare. CAPITOLO DICIASSETTESIMO

FRA CARLO E FRANCESCO

Sembra un ghigno della sorte che la Chiesa abbia perso la battaglia con Lutero proprio nel momento in cui al Soglio salivano, uno dopo l'altro, alcuni dei migliori Papi della sua lunga storia. Leone X, Adriano VI, Clemente VII, Paolo III, pur non essendo immuni da difetti, erano senza dubbio uomini di qualità. Eppure furono proprio loro i responsabi­ li di una sconfìtta che, con un po' più di sagacia, si sarebbe potuto evitare. I motivi che l'indussero in errore non sono tuttavia diffi­ cili da capire. Il primo e il più grosso è da imputare più ai tempi che a loro. Nei lunghi secoli della Fede conquistatrice e trionfante - quelli che vanno all'incirca dai tempi di Gre­ gorio Magno a quelli di Dante - i Papi non si erano molto occupati del loro Stato: lo tenevano pressappoco nel conto di un «beneficio», cioè di una fattoria diocesana a disposi­ zione del Vescovo di Roma per attingervi i suoi mezzi di sus­ sistenza. Anche i Pontefici più risoluti e prepotenti come Gregorio VII e Gregorio IX difendevano, sì, questo loro feudo, la cui indipendenza era la garanzia di quella loro ma­ teriale. Ma si curavano poco d'ingrandirlo, perché la loro forza non la derivavano da quel boccone di terra; veniva dall'autorità ch'essi esercitavano, come Vicari del Signore, sulla coscienza di tutta la comunità cristiana, dal più umile dei contadini al più potente degl'imperatori, che al Signore ci credevano e quindi ai suoi vicari gli obbedivano. Ma nel Quattrocento, di questa fede operante non era ri­ masto che un pallido ricordo, specialmente in Italia, e più specialmente ancora nella Curia romana. Ormai interamen-

435 te conquistata alla cultura umanistica, essa valorizzava, a spese di quelli spirituali, gl'interessi terreni. E gl'interessi terreni erano soprattutto interessi politici, gl'interessi dello Stato. Da questo spostamento di valori era nato, fra l'altro, il fenomeno del «nepotismo». I Papi favorivano i parenti per acquisire alla propria dinastia Io Stato e renderlo sem­ pre più potente. Essi cioè si comportavano come tutti gli al­ tri Signori italiani del Rinascimento - gli Sfqrza, gli Este, i Gonzaga, i Medici, eccetera - che concepivano i loro posse­ dimenti come un patrimonio personale e di famiglia, ne adottavano i metodi di lotta - il complotto, il tradimento, il pugnale, il veleno - e con loro erano in gara per la conqui­ sta del primato politico nella Penisola. Giulio II sapeva mol­ to più di amministrazione, di diplomazia e soprattutto di guerra che non di teologia, di cui anzi non sapeva nulla. Non aveva di mira che lo Stato. E voleva che quello della Chiesa fosse il più forte d'Italia. Ma anche i suoi successori non badavano ad altro. Per loro, lo Stato della Chiesa conta­ va più della Chiesa. E questa deformazione mentale li indu­ ceva a preoccuparsi più della difesa dello Stato dalle altre potenze temporali, che di quella della Chiesa da Lutero e dalla Riforma. Vediamolo nei fatti.

Bisogna riprendere il filo del racconto che abbiamo lasciato in sospeso alla fine della prima parte. Il lettore ci perdonerà se dovremo ripetere cose già dette nei capitoli precedenti. Ma ora bisogna inquadrare quegli avvenimenti nel contesto europeo, fuori del quale essi rimarrebbero monchi. Allo scadere del Quattrocento la situazione è questa: Massimiliano d'Asburgo è ancora sul trono imperiale, e di lui abbiamo già detto come badasse a estendere i propri do­ mini più coi matrimoni che con gli eserciti (che non aveva). Sul trono francese è invece salito Luigi XII, sovrano molto più accorto ed energico del suo predecessore Carlo Vili. Fra i titoli ch'egli eredita ci sono anche quello di Re di Na-

436 poli e di Sicilia, lasciatogli dal cugino Renato, ultimo ram­ pollo di quella dinastia Angiò che, pur scacciata dagli Ara­ gona, non aveva mai rinunziato alle sue pretese su quelle province; e quello di Duca di Milano per via del famoso te­ stamento dei Visconti secondo cui, se un giorno questa ca­ sata non avesse più avuto eredi maschi, i suoi beni e titoli sarebbero passati agli eredi di Valentina, andata sposa, un paio di generazioni prima, al Duca di Orléans. La condizio­ ne si era realizzata: i Visconti erano rimasti senza eredi ma­ schi, ma il Ducato, invece di andare agli Orléans, era anda­ to come dote di Bianca agli Sforza. E Luigi XII, pronipote di Valentina, lo rivendicava in base al testamento. Ma anche Massimiliano vi pretendeva, perché Milano era storicamen­ te un feudo imperiale, tant'è vero che il suo attuale titolare, Ludovico il Moro, aveva chiesto proprio a lui che gliene confermasse l'investitura. E quindi, in caso di contestazione, stava a lui disporne. Inutile cercare da che parte fosse la ragione. Ciò che con­ tava era da che parte stesse la forza che in quel momento sembrava stare dalla parte della Francia. Questo Paese scop­ piava di salute, aveva la migliore organizzazione statale e il miglior esercito. Proprio negli ultimi mesi del secolo, Luigi XII scese in Italia. Ed ecco come i vari potentati si disposero nei suoi confronti. Venezia aveva già firmato un trattato di alleanza con lui per la spartizione della preda, cioè di Milano: essa si sareb­ be presa Cremona e i territori a est dell'Adda. Firenze si era anch'essa allineata coi francesi in cambio della loro garanzia alla sua libertà repubblicana contro le mire di Cesare Bor­ gia. A costui, per guadagnarsi i suoi favori e di conseguenza quelli del Papa suo padre, Luigi diede una moglie francese di sangue reale insieme al titolo di Duca di Valentino e ma­ no libera per la riconquista degli Stati Pontifici. Come abbiamo già detto, Ludovico non tentò nemmeno di resistere e cercò scampo in Austria. Tutti i piccoli Princi­ pati del centro-nord fecero atto di sottomissione. Solo Vene-

437 zia sotto i suoi Dogi e Napoli sotto i suoi Re aragonesi con­ servarono la loro indipendenza. Ma per Napoli Luigi tessè una sottile combinazione diplomatica proponendo al Re di Spagna Ferdinando il Cattolico di spartirsene con lui il Rea­ me. Sebbene stretto parente degli Aragona, Ferdinando non esitò a tradirli firmando con Luigi un patto segreto. Ab­ bandonato da tutti, a cominciare dai suoi sudditi, re Federi­ co di Napoli si arrese e accettò in cambio della sua rinuncia il Ducato di Angiò in Francia. Ma, scomparso lui, francesi e spagnoli si trovarono di fronte; e naturalmente, malgrado i patti, vennero in conflitto. Fu mentre si combatteva questa seconda guerra, che si svolse quella famosa «disfida di Barletta» che ha fornito il pretesto a tanta retorica. Come al solito, gl'italiani si erano divisi: alcuni militavano sotto le bandiere spagnole di Gon­ zalo de Cordoba, detto «il gran capitano», altri sotto quelle francesi di d'Aubigny. Un subalterno di costui disse che gl'i­ taliani erano codardi. E gl'italiani di parte spagnola allora sfidarono i francesi a scendere sul terreno, tredici contro tredici. La guerra fu di comune accordo momentaneamen­ te sospesa per cedere il passo a quel duello collettivo che si risolse coi tredici francesi feriti e fatti prigionieri dai tredici italiani. Palpiti di un patriottismo, che tuttavia non impedi­ va ai nostri di scannarsi fra loro, arruolandosi come merce­ nari in eserciti stranieri e nemici, invece di unirsi contro di essi a difesa del loro paese. La guerra, dapprima favorevole ai francesi, fu alla fine vinta da Gonzalo. Col trattato di Blois del 1505, Luigi riuscì solo a salvare la faccia assegnando la sua fetta di Reame ita­ liano a Germaine de Foix, che però doveva portarla in dote a Ferdinando, suo futuro marito. Così la corona di Napoli e di Sicilia fu unita a quella di Spagna, e tale doveva restare per oltre due secoli, cioè fino al 1707. Su questo sfondo di un'Italia divisa fra due vassallaggi, quello spagnolo al sud, quello francese al nord, va vista l'a­ zione diplomatica e militare di Giulio IL Dell'uomo, delle

438 sue terrestri ambizioni, del suo temperamento autoritario e guerriero, abbiamo già detto. Ricapitoliamone le gesta. Al­ cuni storici di parte cattolica lo presentano come un gran pa­ triota perché a un certo punto lanciò il grido: «Fuori i barba­ ri», cioè i francesi e gli spagnoli. Ma dapprincipio Giulio con questi barbari s'intese per eliminare l'ultima potenza italiana rimasta indipendente dopo Blois: Venezia. Fu lui infatti ad architettare nel 1508 la Lega di Cambrai con Luigi, Ferdi­ nando e Massimiliano, cioè con le tre più grandi potenze straniere, per lo smembramento della gloriosa Repubblica, in favore della quale nessuno Stato italiano si mosse. Dopo che i francesi ebbero annientato il suo esercito ad Agnadello, Venezia ritirò tutte le sue guarnigioni dalla ter­ raferma disponendosi all'assedio. Ma Luigi, incorporata la sua parte di bottino, richiamò il proprio esercito; Massimi­ liano fece altrettanto; e Giulio, soddisfatto anche lui della propria preda, consentì a firmare la pace. Fu allora che, guardandosi intorno e accorgendosi quanto pesavano sui suoi Stati i francesi, padroni di un Ducato di Milano che aveva incorporato quasi tutto il Veneto e tutori di una To­ scana legata con essi a filo doppio lanciò il famoso grido. Non per liberare l'Italia dai barbari ch'egli stesso vi aveva chiamato, ma per farne uno Stato della Chiesa. Eccolo dunque a macchinare un'altra lega, la cosiddetta «Unione Santa» (!) stavolta con Spagna, Venezia e Svizzera contro la Francia. Quest'ultima aveva à Milano una guarni­ gione al comando di un generale di ventidue anni, Gaston de Foix, che riportò una brillante vittoria, ma la pagò con la vita sua e quella dei suoi uomini migliori. I resti del suo esercito non poterono sfruttare il successo e dovettero riti­ rarsi dalla penisola. I vincitori si divisero le spoglie al congresso di Mantova, dove Giulio fu salutato come il «liberatore d'Italia». In real­ tà l'Italia aveva solo cambiato padrone. Il Ducato di Milano strappato ai francesi veniva assegnato a Massimiliano Sfor­ za, figlio del Moro, ma come feudo imperiale degli Asbur-

439 go; gli svizzeri si annettevano Lugano che fin allora aveva fatto parte del milanese; Firenze doveva accettare la restau­ razione dei Medici sotto la protezione spagnola che ora si estendeva anche su Verona e Vicenza. Ecco la situazione che Giulio aveva creato e che, morendo, lasciava ai successori. Al suo posto saliva Leone X che, da buon Medici, crede­ va più alla diplomazia che alla guerra, e forse sarebbe riu­ scito a tenerla lontana dall'Italia, se proprio in quegli anni non fosse morto anche il saggio Luigi XII per lasciare il tro­ no al più avventato e sventato Francesco I. Costui volle inaugurare il suo Regno riconquistando Milano. Brantóme dice che l'ambizione politica non c'entrava. Francesco aveva sentito dire che a Milano c'era una certa signora Clarice (o Clerici?), che passava per la più bella femmina d'Europa; e da quel donnaiolo che era, voleva guadagnarsene le grazie. La cosa non è molto verosimile, ma somiglia al personag­ gio. Nell'estate del '15 attraversò le Alpi alla testa di 40.000 uomini. Lo Sforza e i suoi protettori Asburgo misero in cam­ po 25.000 svizzeri, che passavano per la migliore fanteria del mondo e si battevano in falangi chiuse, irte di lunghissi­ me picche, come quelle macedoni di Filippo e di Alessan­ dro. Lo scontro avvenne a Melegnano (che allora si chiama­ va Malignano), e fu la più lunga e sanguinosa battaglia che si fosse svolta in Italia da parecchi decenni. La notte sorpre­ se i due eserciti, dopo una giornata di carneficina, ancora avvinghiati nel corpo a corpo. Francesco, che si era battuto con l'abituale spavalderia in mezzo ai suoi nobili, dormì sul fusto d'un cannone, e l'indomani fu il primo a ricominciare. La chiamarono «battaglia di giganti», e per gli svizzeri che vi perirono quasi tutti non fu soltanto una disfatta; fu la fine del loro primato militare in Europa. Francesco riebbe il suo Ducato di Milano, e forse anche la bella Clarice. Quanto a Massimiliano Sforza, fu deportato in Francia come suo pa­ dre. Solo che, invece della prigione, Francesco gli comminò una pensione, sia pure modesta.

440 Leone aveva parteggiato per gli sconfitti per motivi di fa­ miglia: i francesi erano i protettori dei repubblicani di Fi­ renze che non si rassegnavano alla restaurazione dei Medi­ ci. Ma, appunto perché anche lui era un Medici, non si la­ sciò sorprendere dagli avvenimenti; e al tavolo della pace che fu concordata a Bologna, si trovò schierato dalla parte del vincitore, cioè di Francesco, per il momento arbitro del­ la penisola. Gli Asburgo infatti erano cancellati dal nord; gli spagnoli confinati al Reame di Napoli. La potenza egemone era la Francia, padrona della Lombardia, di Genova e dei Ducati di Parma e Piacenza. Ma non era che una sistemazione provvisoria, una delle tante «figure» dell'interminabile quadriglia che l'Italia dan­ zava passando dal braccio di un cavaliere all'altro e traden­ doli tutti per restare alla fine tradita.

Non erano infatti trascorsi tre anni che la rivalità fra le due Potenze si riaccese. A scatenarla, fu la lotta per la corona im­ periale (di cui abbiamo già detto). Senza dubbio Francesco cercò di accaparrarsi il titolo per ambizione personale: quel giovane sovrano era assetato di gloria, di galloni, di pennac­ chi, e non accettava di essere secondo a nessuno. Ma a spin­ gerlo contribuì anche una motivata preoccupazione politi­ ca. Finché era rimasta sulla testa di Massimiliano d'Asburgo, in pratica la corona imperiale era stata soltanto la corona di Germania: Paese vasto, ma disunito e ribelle al potere cen­ trale. Se però essa diventava appannaggio del successore, il nipote Carlo, già per eredità materna Re di Spagna e di Na­ poli, nonché padrone delle Fiandre, la Francia rischiava di venire soffocata. Per prevenire questa catastrofe, Francesco pose la sua candidatura al titolo, spese un mucchio di soldi per corrompere i Principi-Elettori tedeschi che dovevano deciderne le sorti nella loro Dieta, e perse. Carlo spese di più e vinse. Da quel momento il conflitto diventava inevita­ bile. Fu Francesco a prendere l'iniziativa, sperando di coglie-

441 re contro piede l'avversario, in quel momento seriamente minacciato da disordini politici in Spagna e dalla rivoluzio­ ne religiosa in Germania. Egli spedì un esercito oltre i Pire­ nei e un altro in Italia per presidiare Milano. Il primo perse la battaglia. Il secondo perse il suo capo, il Duca di Borbo­ ne, «conestabile» di Francia (cioè pressappoco capo di stato maggiore), che disertò per mettersi agli ordini di Carlo. Questo Duca non era un traditore. Aveva combattuto bravamente a Marignano e finanziava di persona le proprie truppe. Francesco lo aveva ripagato invalidando il testa­ mento di sua moglie e incamerando l'immenso patrimonio ch'essa aveva lasciato al marito. Carlo sfruttò tempestiva­ mente la collera del Duca offrendogli la carica di luogote­ nente generale per l'Italia e la mano della propria sorella Eleonora. Il Borbone accettò, passò sotto la bandiera impe­ riale, rifece di Milano un feudo asburgico, batté i francesi a Romagnano, e si fece promotore di un'alleanza fra Carlo ed Enrico Vili d'Inghilterra per un'invasione simultanea della Francia. L'impresa fallì. E Francesco, schiumante di rabbia vendicativa, assunse di persona il comando delle forze fran­ cesi in Italia per infliggere al fellone il castigo. Mal consigliato, nell'estate del '24 mise assedio a Pavia che gli resisteva. E sotto le mura della città fu attaccato di sorpresa dalle forze coalizzate del Borbone, del viceré di Napoli Lannoy e del Marchese di Pescara. Come a Marigna­ no, combatté da prode sempre nel folto della mischia. Ma il suo difetto era proprio questo: che, per fare il soldato, egli spesso si dimenticava di fare il generale. L'avversario lo su­ però sul piano tattico, e alla fine lo sopraffece. Nell'annun- ziare per lettera a sua madre e a sua sorella la tremenda dis­ fatta, Francesco scrisse la famosa frase: «Tutto è perduto, fuorché l'onore», che testualmente suonava così: «Di tutto non m'è rimasto che l'onore e la vita, che è salva». Salva, ma non libera perché, crivellato di ferite, era ca­ duto prigioniero del fellone ch'egli voleva castigare e che lo relegò nella fortezza di Pizzighettone. Di lì Francesco in-

442 viò un umile appello a Carlo, rimasto a Madrid: «Se vorre­ te - gli diceva - garantire l'incolumità che merita un re di Francia prigioniero, potete contare che costui, per gratitu­ dine, rimarrà tale per sempre». Lo spavaldo giovanotto, coraggiosissimo in battaglia, non lo era altrettanto nella sconfìtta. Carlo non si lasciò inorgoglire, ma neanche commuovere dal messaggio. Lasciò passare qualche mese prima di far trasferire il prigioniero a Madrid, dove gli dette il benvenu­ to con una lettera fredda e cortese, ma lo rinchiuse in una cupa fortezza. E intanto mandò alla madre di Francesco, Luisa, che aveva assunto la Reggenza del Regno, una pro­ posta di pace che prevedeva, fra l'altro, la rinunzia della Francia a ogni pretesa sull'Italia e sulla Borgogna che dove­ va diventare provincia dell'Impero, alla Provenza e al Delfi- nato che avrebbero formato Stati indipendenti, alla Nor­ mandia, Angiò e Guascogna che sarebbero tornate all'In­ ghilterra. Dopodiché Francia e Impero avrebbero coalizza­ to le loro forze per una crociata contro i Turchi. Luisa rispose che la Francia non avrebbe ceduto un pal­ mo del suo territorio, segretamente inviò un messaggio al sultano Solimano per indurlo ad attaccare i Balcani e intri­ gò coi suoi ambasciatori a Roma e a Londra per convincere il Papa ed Enrico Vili che la strapotenza di Carlo era una minaccia per tutti. Il complicato giuoco diplomatico si concluse nel 1526, quando Francesco, demoralizzato dalla prigionia e dalla cat­ tiva salute, tagliò corto accettando non solo le condizioni dettate da Carlo, ma anche la consegna all'Imperatore dei suoi due figli maggiori in qualità di ostaggi. In più egli s'im­ pegnava a sposare la sorella del suo mortale nemico, Eleo­ nora, giurando per iscritto di riconsegnarsi prigioniero se non avesse tenuto le promesse. Ma quanto avesse in animo di farlo è dimostrato dalla dichiarazione da lui redatta in precedenza e spedita segretamente a Parigi con cui invali­ dava «qualunque patto e concessione incompatibili con l'o-

443 nore e con gl'interessi della corona» che gli fossero stati strappati in Spagna. Infatti, rientrato a Parigi, rinnegò subito gl'impegni, del tutto indifferente alla sorte dei suoi figli Francesco ed Enri­ co, che avevano preso il suo posto a Madrid. Carlo disse che chi non ottemperava al proprio giuramento non aveva di­ ritto alla qualifica di «gentiluomo». Ma il Papa (Clemente VII) ritorse che un giuramento sotto costrizione è nullo, e annodò con Francesco la «Lega di Cognac» in cui trascinò anche Milano, Genova, Firenze e Venezia per una crociata di liberazione dell'Italia dagli spagnoli. Per quali motivi la Chiesa avesse operato quell'ennesimo rovesciamento di alleanze, lo diremo dopo. Per ora fermia­ moci a questa fatale svolta della politica europea, che tutta­ via risulterebbe incomprensibile senza un cenno agli altri due suoi protagonisti: Enrico Vili d'Inghilterra, e Solima­ no di Turchia. Troviamo inutile diffonderci sulle vicende interne del­ l'Inghilterra che non riguardano la nostra storia. Basti dire che il Paese era appena uscito da una lunga anarchia feuda­ le grazie alla nuova dinastia dei Tudor. Il fondatore, Enrico VII, ristabilì l'ordine e la pace. Il suo successore, Enrico Vili, sembrava il meglio qualificato a ricalcarne le orme. Essendo stato inizialmente avviato non al trono, ma al sa­ cerdozio, aveva una discreta cultura specie di teologia. Uno dei suoi primi gesti fu, come abbiamo visto, l'invito a Era­ smo di stabilirsi in Inghilterra. Tutti coloro che lo avvicina­ vano restavano incantati, oltre che dalla sua atletica prestan­ za, dalla sua grazia e cortesia. Nei primi anni di regno si occupò poco di politica, prefe­ rendo lasciarla in appalto al cardinale Wolsey, di cui l'amba­ sciatore veneto Giustiniani ci ha tramandato nei suoi rap­ porti un mirabile ritratto: un bell'uomo, dice, che ha tutte le qualità, meno quelle morali. Ama in egual misura e serve con lo stesso impegno il Re, la patria, la propria carriera e il proprio patrimonio. Ambizioso, avido, geniale e snob, era

444 insomma un miscuglio di Richelieu, di Bonifacio Vili, di Brummel e di Winston Churchill, che aveva la suprema abi­ lità di far coincidere sempre gl'interessi dello Stato con quelli suoi personali. La sua politica europea ricordava un po' quella italiana di Lorenzo il Magnifico: egli fece dell'Inghilterra «l'ago del­ la bilancia» nel grande giuoco fra i Valois di Francia e gli Asburgo ispano-tedeschi. Per raggiungere questo scopo si servì delle donne di casa reale. La sorella di Enrico la diede in sposa a Luigi XII di Francia; la figlia Maria, che aveva due anni, la fidanzò al futuro Francesco I che aveva sette mesi. Tutto questo, per creare un contrappeso al matrimo­ nio spagnolo di Enrico, che aveva sposato Caterina di Ara­ gona, zia di Carlo V. E il lettore non pensi che si tratti di det­ tagli: questo intreccio coniugale avrà, come vedremo, la sua importanza. Quando esplose la ribellione di Lutero, Wolsey spiegò nel combatterla molta più accortezza dei Papi. Egli conosce­ va benissimo gli abusi del clero, anche perché ne era parte­ cipe egli stesso che godeva di numerosi e immensi benefici e - secondo lo storico Hughes - intascava un terzo di tutte le rendite ecclesiastiche inglesi. E sapeva anche che nella pa­ tria di Wycliff il seme della Riforma avrebbe trovato buon terreno per attecchire. Perciò, invece di affrontarla con la persecuzione, mirò a silenziarla togliendole i più efficaci pretesti di propaganda. Allontanò i prelati che più davano scandalo e chiuse i monasteri che violavano la regola. Quan­ to agli eretici, badò più a recuperarli che a perseguitarli. Sotto di lui in Inghilterra ci furono pochi roghi. E fu grazie a questo metodo che la Riforma per il momento non vi at­ tecchì. Enrico secondò la politica ortodossa del suo Cancelliere, anzi sottolineò la fedeltà alla Chiesa chiamando a raccolta i suoi ricordi di teologia e componendo una «Asserzione dei sette Sacramenti contro Martin Lutero», che qualcuno però attribuisce a Wolsey. Questo gli valse, da parte di Lutero, la

445 taccia di «Re delle bugie, somaro e pazzo»; e da parte di pa­ pa Leone il titolo di «Difensore della Fede». Ma intanto, fra il Sovrano e il Cancelliere, erano soprav­ venuti dei fatti nuovi. Anzitutto Wolsey, contravvenendo al­ la sua diplomazia dei contrappesi, aveva alleato l'Inghilter­ ra a Carlo nella guerra contro Francesco e mandato un esercito a invadere la Francia. Si era deciso a questo passo perché ambiva a diventar Papa e sperava che l'Imperatore lo aiutasse. Anche quando la campagna si risolse in un inu­ tile dispendio di denaro e di vite umane, Wolsey v'insistè e impose nuove tasse. Questo gli procurò una forte impopo­ larità che diventò ancora più forte quando, con la battaglia di Pavia, Carlo ebbe realizzato quell'egemonia europea, che Wolsey aveva sempre cercato d'impedire facendo l'ago della bilancia fra le due potenze rivali. Per rimediare, Wolsey ro­ vesciò il fronte alleandosi con la Francia contro Carlo. Ma costui era il nipote della regina, dalla quale ora Enrico vole­ va divorziare. Ed è a questo punto che i dettagli coniugali cominciano a far sentire il loro peso, come più tardi dire­ mo. Mentre l'Inghilterra cercava di ristabilire l'equilibrio tra Carlo e Francesco, anche Solimano s'inseriva in questo giuoco. E per esercitarvi un peso decisivo. Ne LItalia dei secoli d'oro abbiamo già succintamente riepi­ logato la vicenda dei Turchi Ottomani che, ultimi convertiti alla fede e alla civiltà dell'Islam, ne erano diventati i padro­ ni e le avevano restituito il guerriero mordente dei primi Califfi. Verso la metà del Quattrocento avevano dato la defi­ nitiva spallata all'Impero d'Oriente conquistando Costanti­ nopoli e facendone la propria capitale. Come vastità di pos­ sedimenti erano la più grande potenza mondiale. In Euro­ pa essi inglobavano ormai la Bulgaria, la Grecia - salvo al­ cune isole - la Romania e un buon boccone della Jugoslavia, premendo così e minacciando le province ungheresi e boe­ me dell'Impero asburgico. Nel 1520 il titolo di Sultano fu assunto da Solimano, che

446 poi i Turchi chiamarono «il legislatore» e gli europei «il ma­ gnifico». Non aveva che ventisei anni, ma possedeva già la stoffa del grande capo politico e militare. Naturalmente la leggenda cristiana dipinge anche lui, come tutti gli «infede­ li», un mostro di crudeltà. Ed effettivamente Solimano da ultimo lo fu nei suoi rapporti domestici, sotto l'influsso di una moglie ambiziosa che lo spinse a uccidere il figlio nato­ gli da un precedente matrimonio, eppoi anche il nipote. Ma il duplice delitto ha l'attenuante della vecchiaia e della pas­ sione. Nel pieno possesso delle sue facoltà, Solimano fu un Sovrano autoritario ma saggio, lungimirante e magnanimo anche coi suoi avversari. Inflessibile guerriero e mussulma­ no zelante, rendeva omaggio al nemico vinto, trattava con umanità i prigionieri cristiani, e mai perseguitò per motivi religiosi. Il conflitto dell'Islam con l'Europa cristiana era, come si suol dire, «scritto nelle stelle», e infatti durava da noveceirto anni, cioè da quando, nel settimo secolo, gli eserciti di Mao­ metto erano traboccati dall'Arabia e dopo la fantastica ca­ valcata conquistatrice lungo il nord-Africa, erano sbarcati in Spagna. I cristiani avevano preso la controffensiva con le Crociate; l'Islam aveva replicato annettendosi l'impero di Bisanzio, compresa la sua capitale, e spingendo come abbia­ mo detto i suoi eserciti fin nel cuore dei Balcani. Non c'era stato un Papa che non avesse bandito la sua brava crociata contro l'Islam; e non c'era stato un Sultano che non avesse promesso ai suoi Ulema di fondare una moschea a Roma. Ma a questi antichi «precedenti», ora si aggiunse una nuova tentazione. Nel 1525 Solimano ricevette una lettera di Francesco I. Prigioniero a Madrid, il Re francese invitava il Sultano a invadere l'Ungheria, provincia dell'Impero, sperando così d'indurre Carlo a scendere a patti con lui. Il Sultano rispose: «Il nostro cavallo è sellato, la nostra spada affilata». E dopo pochi mesi prese la strada di Budapest alla testa di centomila uomini. Il Papa lanciò un appello a tutti i Principi cristiani per un fronte comune. Ma, di questi Prin-

447 cipi, uno era quello che aveva istigato Solimano; un altro, Enrico Vili d'Inghilterra, stava rovesciando il fronte per allearsi con lui. Restava Carlo V, il maggiore interessato per­ ché l'invasione aveva di mira proprio le sue province impe­ riali. Ma quando chiese ai Principi tedeschi di fornirgli le truppe, quelli protestanti vi si rifiutarono su istigazione di Lutero. Il monaco ribelle proclamò addirittura che i Turchi erano mandati dal buon Dio, e che pertanto resistere a loro era come resistere a Lui. Il motivo di questa dissidenza non era difficile da capire. Lutero non voleva restare in balìa di un Carlo trionfante che, dopo essere venuto a capo del nemico esterno, avrebbe potuto rivolgere le sue armi vittoriose contro quello inter­ no, cioè contro la Riforma. Così gli Ungheresi, abbandonati a se stessi, furono facilmente sopraffatti. E così Solimano, piantate le sue bandiere a Budapest, era diventato uno de­ gli arbitri dell'Europa. Questa era all'ingrosso la situazione internazionale nel momento in cui si serrava il giuoco fra la Chiesa e Lutero. E ora cerchiamo di capire come la si vedeva e misurava da Ro­ ma. CAPITOLO DICIOTTESIMO

IL SACCO DI ROMA

Abbiamo detto che la pace di Bologna del 1516 aveva lascia­ to l'Italia praticamente in balìa di Francesco. Papa Leone si era piegato, ma non rassegnato a questa situazione. Tuttavia, quando tra Francesco e Carlo fu in giuoco la corona impe­ riale, il suo atteggiamento fu ambiguo, o quanto meno inde­ ciso. E del resto la scelta era difficile, per una Chiesa che an­ cora s'illudeva di fare una politica temporale. Proprio in quel momento Lutero bruciava la bolla con cui il Papa lo ave­ va scomunicato e il suo scisma faceva passi da gigante. Ma a Roma non ci s'inquietava di questo. Ci si preoccupava solo della sorte degli Stati Pontifici, e ci si chiedeva se essi sareb­ bero stati più sicuri con un Imperatore padrone soltanto del­ la Francia, o con uno che già lo era della Spagna, delle Fian­ dre, di Napoli, dell'Austria, dell'Ungheria e della Boemia. L'indecisione del Papa fece sì che Carlo si guadagnasse il titolo senza il suo appoggio e quindi non gliene fosse punto debitore. Il che spinse Leone a proporre un'alleanza milita­ re a Francesco. Questi tergiversò dando tempo a Carlo di attrarre il Papa nel suo campo facendogli le più allettanti offerte: la restituzione di Parma e di Piacenza, la restaura­ zione a Milano della dinastia Sforza, l'impegno alla difesa degli Stati Pontifici e di Firenze contro qualsiasi attacco, la promessa di una lotta a oltranza contro Lutero e la sua ere­ sia. Ma questa era forse la clausola che meno interessava a Leone, il quale si affrettò a firmare, fece ancora in tempo a vedere realizzate tutte le promesse che Carlo gli aveva fatto, e morì convinto di avere definitivamente risolto in suo favo­ re il giuoco diplomatico.

449 Questo giuoco subì una pausa grazie ad Adriano VI, de­ stinato a restare, fra i Papi del Rinascimento, una incom­ prensibile anomalia. Stando al Ranke, fu il cardinale Giulio de' Medici, cugino di Leone, a proporre come suo successo­ re Adriano Dedel, Arcivescovo di Utrecht, che non era nem­ meno presente al Conclave. Ma è probabile che il nome gli fosse stato suggerito sotto banco dallo stesso Imperatore, di cui Adriano era stato il precettore e godeva l'intera fiducia. Non c'è dubbio comunque che il più stupito di tutti dal­ l'elezione fu questo sacerdote severo e pio, che non aveva fatto nulla per procurarsela, non aveva mai messo piede a Roma, e tanto poco conosceva gli usi splendidi della Curia che, prima d'installarcisi da Papa portandosi al seguito una sola persona - la sua vecchia governante olandese -, scrisse a un amico del posto pregandolo di trovargli una casetta possibilmente con giardino. La vista del Vaticano gli tolse il respiro. Ma più ancora lo tolse ai romani l'apparizione di quest'uomo che sembrava incarnare, nella sua modestia e austerità, l'antirinascimento. Peggio ancora fu quando lo udirono parlare in un latino gutturale e impervio, e gli sen­ tirono dire che per il proprio mantenimento non voleva spendere più di un ducato al giorno, cioè qualcosa come sei o settemila lire d'oggi. La famosa statua di Pasquino, dove i romani usavano affiggere le loro proteste e corbellature contro le autorità costituite, si coprì di sferzanti satire con­ tro il nuovo Pontefice. Adriano non se ne curò. Egli non era affatto lo sprovve­ duto barbaro, l'incolto parroco di campagna che i suoi ca­ lunniatori, e soprattutto l'Aretino e il Berni, descrivevano. Era stato professore di filosofia e teologia nell'Università di Lovanio, era amico di Erasmo con cui si teneva in stretta corrispondenza, si orientava benissimo fra le correnti del pensiero contemporaneo. Ma era soprattutto uomo di Chie­ sa, che alla Chiesa era deciso a sacrificare anche la cultura, quando paganeggiava, com'era il caso di quella umanistica italiana. Licenziò gli allievi di Raffaello che seguitavano a

450 decorare le Stanze vaticane, mise alla porta i poeti che vive­ vano a sbafo della Corte, e dei cento stallieri che avevano accudito ai cavalli di Leone ne trattenne solo quattro. Intro­ dusse usi spartani gettando lo scompiglio fra i Cardinali, che si vedevano convocati da lui alle sei del mattino, cioè prima dell'ora in cui erano abituati a coricarsi. E ingaggiò frontalmente una disperata lotta contro i privilegi che si erano incrostati negli ultimi decenni. Voleva combattere la Riforma con una riforma della Chiesa che vi ripristinasse ordine morale, pulizia, carità, umiltà, spiritualità. Ma incontrò la resistenza che in Italia sono destinati a in­ contrare tutt'i riformatori. Adriano voleva eliminare le cari­ che abusive; ma quelle cariche erano state regolarmente comprate dai titolari che ora esigevano il rimborso. Voleva abolire la scandalosa vendita delle indulgenze, su cui la pen­ sava come Lutero. Ma qualcuno gli fece osservare che que­ sta misura non avrebbe riconquistato alla Chiesa la Germa­ nia, le avrebbe solo fatto perdere anche l'Italia. Del tutto indifferente alle sorti dello Stato, rifiutava ogni politica che non fosse quella, lineare, della difesa del mondo cristiano, in quel momento gravemente minacciato dai tur­ chi, come abbiamo detto. Solo le forze congiunte del Re di Francia e dell'Imperatore avrebbero potuto fermarli. E Adriano lavorò in questo senso, senza mostrare nessuna parzialità per il suo ex pupillo. Si schierò con Carlo solo quando s'accorse che Francesco trescava col nemico ottoma­ no servendosi, per questo disegno fellone, proprio di uno dei pochi cardinali italiani in cui egli aveva riposto fiducia: Francesco Soderini. Forse fu questa delusione che inferse il colpo definitivo alla sua malferma salute. Quando morì, do­ po solo tredici mesi di pontificato, i romani, convinti ch'egli fosse stato avvelenato dal suo medico, affissero sulla porta di costui, in segno di gratitudine, l'iscrizione: Liberatori pa- triae, al liberatore della patria, e celebrarono il lutto con ma­ nifestazioni di gioia. «Fu un gran peccato - dice il Durant - che Adriano non riuscisse a capire il Rinascimento. Ma fu

451 addirittura una sciagura che il Rinascimento non riuscisse a tollerare un Papa cristiano.» Una sciagura e un presagio di rovina. Al conclave che si riunì alla fine del '23 la lotta per la suc­ cessione fu aspra e durò quasi due mesi. Ma tutti furono sin dapprincipio d'accordo che la tiara dovesse tornare appan­ naggio di qualche Cardinale italiano della vecchia scuola ri­ nascimentale, cioè esente da puntigli moralistici, incline al mecenatismo, disponibile a ogni compromesso e soprattut­ to sollecito dello Stato, cioè della potenza temporale, dei sol­ di della politica. E chi poteva in questo senso fornire più ga­ ranzie, anche per il nome che portava, di Giulio de' Medici? Era figlio di quell'amabile Giuliano, fratello di Lorenzo, rimasto vittima della congiura dei Pazzi. Sebbene illegitti­ mo, il Magnifico lo aveva allevato insieme ai figli propri, fra i quali c'era il futuro Leone X. Costui se l'era portato a Ro­ ma, lo aveva fatto Cardinale e gli aveva dato le più impor­ tanti cariche amministrative. Giulio le aveva esercitate alla Medici, cioè con intelligenza, tatto e spregiudicatezza. Con lui, incoronato col nome di Clemente VII, ripresero possesso del Vaticano i pittori, i poeti, i cortigiani, i parassiti e anche le vecchie buone abitudini dell'intrallazzo e delle «bustarelle» che Adriano aveva cercato di liquidare. Egli compensò i suoi elettori con una larga distribuzione di be­ nefici che comportavano rendite fino ai sessantamila ducati annui, appagò con feste e liberalità l'inesausta smania di gozzoviglia dei romani, e accantonò ogni proposito di rifor­ ma della Chiesa per consacrarsi unicamente al giuoco che più lo interessava e per il quale si sentiva meglio attrezzato: quello politico. La situazione era quella che abbiamo già descritto nei precedenti capitoli. Nel suo motivo centrale, il conflitto fra Carlo e Francesco, Clemente s'inserì sperando anche lui di fare l'ago della bilancia con un'ambiguità ch'era un po' nel­ la sua stessa natura e nella tradizione della famiglia Medici, ma un po' anche nelle contraddizioni oggettive della sua

452 posizione. Da quando i Papi avevano dimenticato di essere al servizio di Dio e si consideravano solo al servizio dei loro Stati, il pericolo che più avevano sempre paventato era quello di restare nella morsa di una Potenza che li chiudesse territorialmente a nord e a sud. E proprio questo era avve­ nuto da quando Carlo era diventato padrone nello stesso tempo di Milano e di Napoli. Sconfitto Francesco e caduto prigioniero a Pavia, Cle­ mente si era affrettato a ritrattare l'alleanza che aveva se­ gretamente contratto con lui. Ma Carlo aveva scoperto la tresca e se n'era indignato. «Scenderò in Italia - proruppe -, e la farò pagare a tutti, ma specialmente a quel cialtrone di Papa. Forse è suonata l'ora di Lutero.» E queste ultime pa­ role dovevano terribilmente pesare sul seguito degli avveni­ menti. Per il momento però, minacciato com'era da Solimano, Carlo non ne fece di nulla. Inflisse al Papa una multa di centomila ducati, ma confermò la Signoria dei Medici su Firenze, ch'era quanto più stava a cuore di Clemente. Il quale tuttavia non rinunziò per questo al suo doppio giuo­ co. Liberò Francesco dall'impegno del giuramento che ave­ va fatto a Carlo di rispettare il trattato di Madrid, e sotto banco si diede a tessere le fila di una coalizione di Stati ita­ liani contro l'Imperatore a cui cercò di sottrarre anche il miglior generale, Pescara. Costui era italiano ma si consi­ derava spagnolo, e lo era per formazione, vocazione e leal­ tà. Fingendo di abboccare all'offerta, ne avvertì subito il suo sovrano. Carlo, non potendolo con l'esercito duramente impegna­ to dai Turchi, rispose con la diplomazia. Il Papa aveva in Roma un irriducibile nemico nei potentissimi Colonna. At­ traverso il suo ambasciatore Moncada, Carlo li scatenò. Essi attaccarono il Laterano con cinquemila armati, obbligarono Clemente a rifugiarsi in Castel Sant'Angelo e ne saccheggia­ rono gli appartamenti. Moncada s'intromise come paciere, fece restituire tiara e potere al Papa, ma dopo avergli estor-

453 to il perdono ai Colonna e un nuovo impegno di lealtà ver­ so l'Imperatore. Clemente subì il Diktat. Ma, appena partito il Moncada, sguinzagliò le sue milizie in spedizioni punitive contro i Colonna, ordinò al suo famoso e fedele condottiero, Gio­ vanni dalle Bande Nere, di scacciare da Milano lo Sforza, vassallo di Carlo, e lanciò un appello a Francesco di Fran­ cia e a Enrico d'Inghilterra per una lotta a oltranza contro gli Asburgo. Stavolta Carlo accantonò ogni scrupolo di devozione alla Chiesa. Proprio in quel momento si era riunita a Spira la Dieta dei Principi tedeschi per porre fine con un accordo alle dissidenze religiose che agitavano la Germania. L'Impe­ ratore, trattenuto in Spagna, vi si fece rappresentare da suo fratello Ferdinando d'Austria. Sebbene cattolico di stretta osservanza, costui era anche un Asburgo fedele alla dina­ stia, che non si sentì di difendere a oltranza gli interessi di un Papa così apertamente ostile a quelli della sua Casa. Egli lasciò che ortodossi e protestanti svolgessero liberamente le loro tesi. E alla fine propose una risoluzione conclusiva in cui, senza alcuna parola di omaggio al Pontefice, anzi senza nemmeno nominarlo, era detto che d'allora in poi ogni Principe era libero di scegliere per il proprio Stato la con­ fessione più gradita. Era la legalizzazione della Riforma, il riconoscimento della sua cittadinanza a parità di diritti con quella cattolica. Ma la vendetta di Carlo non si limitò a questo. Dalla bat­ taglia di Pavia, egli aveva lasciato in Italia un esercito co­ mandato da Giorgio von Frundsberg. Era costui un signo­ rotto tirolese che alla Riforma non si era convertito, ma sim­ patizzava per essa in odio a Roma e a tutto ciò ch'era italia­ no. Aveva venduto le sue terre, il suo castello e perfino i gioielli di sua moglie per assoldare a proprie spese diecimi­ la mercenari - i famosi «lanzichenecchi» -, che a Pavia ave­ vano dato il colpo di grazia a Francesco. Protestanti arrab­ biati, erano convinti che quella fosse solo la prima tappa di

454 una marcia su Roma, e molti, avendo preso sul serio le pa­ role di Carlo («E l'ora di Lutero»), si erano muniti di corde per impiccare il Papa e mettere al suo posto il monaco di Wittenberg. Da un anno bivaccavano nella pianura padana, inaspriti dall'inazione e dalla mancanza di «cinquina». Forse Carlo non conosceva i loro umori, quando ordinò a Frundsberg la spedizione punitiva sull'Urbe, e s'illudeva di poterla, all'occorrenza, fermare. Contro quella turba ca­ rica d'odio si fece solo, alla testa di scarsi drappelli, Giovan­ ni dalle Bande Nere. Era l'ultimo grande condottiero italia­ no e lo chiamavano così perché da quando era morto il suo grande patrono Leone X, non aveva più smesso il lutto. Fu l'ultima avventura di questo prode e leale capitano, in cui rivivevano l'audacia e la spavalderia di sua madre, Caterina Sforza. Cadde con la spada in pugno com'era vissuto, e non aveva che ventott'anni. Dopo di lui, Frundsberg non doveva incontrare più ostacoli sulla rotta della sua Strafexpedition, e la sua soldataglia ne approfittò largamente per fare della Lombardia «la più devastata contrada della Cristianità», co­ me anni dopo la definì un viaggiatore inglese capitato da quelle parti. A lui si unì la guarnigione imperiale di Milano, ora comandata da quel conestabile di Borbone di cui abbia­ mo già detto. E insieme essi discesero la via Emilia saccheg­ giando campagne e distruggendo paesi. Clemente, atterrito, fece appello al viceré di Napoli, Lan- noy, per la stipulazione di un armistizio. Lannoy gl'impose di versare 60.000 ducati a Frundsberg e ai suoi uomini. Ma costoro non ne vollero sapere; e siccome il Borbone cercava di convincerli, gli si rivoltarono obbligandolo alla fuga. Nel disperato tentativo di ristabilire un po' di disciplina, Frundsberg fu colto da un colpo apoplettico che lo mise fuo­ ri causa. Il conestabile potè riprendere il comando, ma solo formalmente: anche lui, come Clemente e Roma, era ormai in balìa di quell'orda assetata di vendetta e di rapina che non obbediva più a nessuno, nemmeno all'Imperatore. Una coltre di paura e di disperazione calò sull'Urbe co-

455 me ai tempi di Alarico e Genserico. Un eremita scalzo, chia­ mato Brandano, arringava le folle apostrofando il Papa: «Tu, bastardo di Sodoma! Per i tuoi peccati Roma sarà di­ strutta!» Clemente lanciava inutili messaggi di aiuto alla Francia, all'Inghilterra, agli Stati italiani, e procedeva a una massiccia distribuzione di galeri cardinalizi per procurarsi mezzi con cui reclutare un esercito. Ma non riuscì a raggra­ nellare più di 4000 uomini, troppo pochi per arrestare i 20.000 del Borbone. Costui, dopo un inutile tentativo su Firenze, ben difesa dalle sue mura e dalle sue milizie cittadine, aveva saccheg­ giato Viterbo e ora dilagava nella campagna romana. Al pri­ mo assalto contro le mura dell'Urbe fu ferito e morì subito dopo. Senza più il comandante, cioè senza più alcun freno, gli assalitori si avventarono sulla città, ne travolsero le debo­ li resistenze, e si abbandonarono a un saccheggio da far im­ pallidire quelli di Attila. Chiuso in Castel Sant'Angelo, Clemente cercò invano di fermarli a cannonate. Ai pezzi c'era anche Benvenuto Celli- ni che nella sua Vita doveva poi attribuirsi il merito di aver ucciso il conestabile. I lanzichenecchi si vendicarono sulla popolazione abbandonandosi a un indiscriminato massacro. In poco tempo più di diecimila cadaveri lastricarono il sel­ ciato e altri duemila galleggiarono sul Tevere. Il bersaglio preferito furono San Pietro e il Vaticano. I saccheggiatori erano persuasi che le ricchezze ammassate lì dentro fossero rubate nel loro Paese da quei ladroni di Papi e Cardinali, secondo quanto andava dicendo Lutero; e tutto quel che non poterono asportare distrussero nel loro furore icono­ clasta. A eccezione della Cancelleria, dove si erano rifugiati i Colonna che comprarono la propria salvezza per 50.000 ducati, tutt'i palazzi vennero devastati e i loro inquilini - Principi, prelati, servitori - uccisi. Le basiliche furono tra­ sformate in accampamenti e bordelli, e le Stanze di Raffael­ lo ridotte a stalle. Non furono risparmiati nemmeno i Car­ dinali spagnoli e tedeschi che, come sudditi dell'Impero,

456 credevano di essere al riparo dalle violenze. A ispirare tanta furia non erano solo istinti sanguinari e avidità di preda. A loro modo quegli scatenati barbari credevano, abbattendo altari, distruggendo statue e affreschi, bruciando librerie e stuprando monache, di servire Dio. Essi proclamarono Pa­ pa Lutero, e fu in suo nome che celebrarono quell'orgia de­ vastatrice. Carlo, quando ne fu informato, declinò le proprie re­ sponsabilità; ma approfittò dell'accaduto per imporre una pace umiliante al disfatto Papa. Costui doveva versargli 400.000 ducati e consegnargli Piacenza, Parma, Modena, le fortezze di Ostia, Civita Vecchia, Civita Castellana e Castel Sant'Angelo, dove egli stesso doveva restare prigioniero fin­ ché non avesse pagato la prima rata di quelle riparazioni. Clemente, che dal suo rifugio aveva assistito alla rovina, do­ vette arrendersi, e per far fronte agl'impegni vendette il po­ co vasellame ch'era riuscito a salvare. Non poteva più con­ tare nemmeno sull'aiuto finanziario di Firenze, che per la terza volta aveva espulso i Medici e si era costituita in Re­ pubblica: una strana Repubblica che aveva proclamato Ge­ sù Cristo suo Re. Inebetito, mormorava le parole di Giobbe: «Perché, Signore, mi hai tratto dal grembo? Potessi essermi consumato, prima di vedermi ridotto così!» Non si era più raso, e fino alla morte avrebbe portato quella barba espiato­ ria. In tutto il mondo cattolico il raccapriccio fu grande. Era­ smo, che pure aveva rivolto tante critiche al malcostume ro­ mano, scrisse a Sadoleto: «Roma non era solo il tempio del­ la fede cristiana, la nutrice delle anime nobili e il rifugio del­ le Muse, ma la madre delle nazioni. Questa non è la rovina di una città, ma della civiltà». Erano pressappoco le stesse parole risuonate undici secoli prima nella bocca di Agostino e di Gerolamo dopo il saccheggio di Alarico. CAPITOLO DICIANNOVESIMO

LO SCISMA INGLESE

Quelle che riemersero dalla catastrofe non erano più né la Chiesa né l'Italia di prima. Roma specialmente era ridiven­ tata il desolato e squallido borgo dei tempi di Avignone: tut­ to ciò che vi avevano costruito i Papi del Rinascimento era in rovina. Il colera, che già l'aveva visitata pochi anni pri­ ma, vi tornò coi lanzichenecchi mietendo imparzialmente vinti e vincitori per poi spargersi in tutto il resto della Peni­ sola, già devastata dalle battaglie tra imperiali e francesi. La culla della civiltà e dell'arte si avviava a diventare il cimitero d'Europa. A porgere aiuto al Papa prigioniero furono Francesco ed Enrico, ma mossi più dall'interesse che dalla devozione. En­ trambi erano più che mai preoccupati dalla strapotenza di Carlo, e per di più Enrico, smanioso di divorziare da Cate­ rina, capiva di non poterne ottenere il consenso da un Papa prigioniero del nipote di costei. I due Re si accordarono per offrire all'Imperatore, sempre alle prese con le difficoltà di bilancio, due milioni di ducati in cambio della restituzione della libertà a Clemente, tuttora sotto sorveglianza in Castel Sant'Angelo, e della sua reintegrazione nei propri Stati. Carlo rifiutò, e fu di nuovo la guerra fra l'Imperatore da una parte; Francia, Inghilterra, Venezia e Firenze dall'altra. I francesi attaccarono Genova e Pavia, ne fecero ciò che i lanzichenecchi avevano fatto di Roma; ma non osarono marciare sull'Urbe, tuttora ben presidiata dagl'imperiali, anche perché non avevano di che pagare la cinquina alle lo­ ro truppe. Sempre buon calcolatore, Carlo badò più a di­ sgregare con la diplomazia che a battere sul campo la coali-

458 zione avversaria. Fece liberare Clemente a condizione che non porgesse aiuto ai suoi nemici e che pagasse di sua tasca la guarnigione che lo teneva prigioniero. Per racimolare quella somma il Papa vendette tutto ciò che aveva un prez­ zo, compresi molti galeri cardinalizi. E nottetempo, travesti­ to da servo, abbandonò la città per rifugiarsi a Orvieto e poi a Viterbo. Contava ancora di giuocar doppio fra l'una e l'al­ tra parte, e quando vide che i francesi marciavano su Roma e Napoli per sloggiarne gl'imperiali, sperò che le forze in campo tornassero a bilanciarsi. Ma i francesi furono falciati dalla malaria, anche il loro comandante morì, e l'iniziativa non ebbe seguito. A Clemente non restava che una resa sen­ za condizioni. Carlo tergiversò prima di accettarla. Sembra che carez­ zasse il progetto di annettere gli Stati della Chiesa al suo Reame di Napoli, di fare di Roma la capitale del suo Impe­ ro e del Papa il proprio cappellano. Ma rinunziò al progetto nel fondato timore che la cattolicissima Spagna gli si ribel­ lasse lasciandolo in balìa dei protestanti tedeschi. Le condi­ zioni ch'egli impose a Clemente col trattato di Barcellona del 1529 furono relativamente miti. Il Papa riconosceva de­ finitivamente il Reame spagnolo di Napoli. In compenso ve­ niva reintegrato nei propri Stati e - cosa che gli stava più a cuore di tutte - la signoria Medici veniva restaurata in Fi­ renze. Poco dopo anche la Francia scendeva a patti con l'Impe­ ratore. A combinare la pace furono due donne, Luisa di Sa­ voia per suo figlio Francesco, e Margherita d'Austria per suo nipote Carlo. Perciò fu detta paix des Dames, pace delle due dame. Con essa la Francia rinunziava a ogni sua prete­ sa su province italiane, cioè riconosceva nel nostro paese una colonia spagnola. Papa e Imperatore s'incontrarono a Bologna sulla fine del '29 per suggellare questa nuova situazione. Strano a dir­ si, era la prima volta che Carlo scendeva in Italia. S'inginoc­ chiò e baciò la pantofola di colui che aveva trascinato nella

459 polvere e che ora era praticamente suo suddito e prigionie­ ro. Si mostrò equanime e generoso. Costrinse Venezia a re­ stituire i territori che aveva strappato al Papa, ma a costui impose di perdonare al Della Rovere che lo aveva tradito e di confermarlo nel Ducato di Urbino. Riconsacrò su Milano la signoria dello Sforza come suo vassallo. E infine ingiunse a tutti i Principati italiani di unirsi in una specie di fronte nazionale. Le spese dell'operazione le pagò Firenze che, appassio­ natamente attaccata alla sua Repubblica, non volle arren­ dersi al Diktat imperiale. Per recuperarla alla sua famiglia, Clemente versò settantamila ducati al principe Filiberto di Orange che la conquistasse con le sue truppe. Filiberto era colui che gli aveva fatto da capo carceriere in Castel San­ t'Angelo; e le sue truppe erano i lanzichenecchi che aveva­ no devastato Roma e proclamato Papa Lutero. Assediata, Firenze distrusse tutti i suoi stupendi giardini per impedire che gli assalitori vi trovassero riparo, e per ot­ to mesi ne rintuzzò gli attacchi. Oro, argenteria, gioielli fu­ rono spontaneamente offerti da chiese e famiglie private e fusi per fame moneta con cui procurarsi armi e munizioni. La carestia ridusse i fiorentini a nutrirsi di ghiande e di to­ pi. Con le sue prediche in cui risuonavano accenti savona- roliani, fra' Benedetto da Foiano fu l'anima di questa resi­ stenza. Michelangelo abbandonò le sue sculture nella cap­ pella medicea per costruire forti e bastioni. Francesco Fer­ rucci riuscì a evadere, raccolse nel contado duemila armati, attaccò temerariamente gli assedianti alle spalle, fu disfatto e finito a pugnalate dal calabrese Maramaldo mentre già agonizzava. Forse il coraggio e la tenacia di Firenze sarebbe­ ro stati premiati, se il generale a cui essa aveva affidato il co­ mando delle proprie milizie, Malatesta Baglioni non avesse tradito. Egli volse le sue artiglierie contro la stremata città che da quel momento fu alla mercé del nemico. Alessandro de' Medici fu il nuovo Duca di Firenze che non ravvisò in lui nessuna somiglianza con Cosimo e Lorenzo. La repres-

460 sione riempì i cimiteri e le galere. Fra' Benedetto fu spedito come strenna a Clemente che lo fece morir di fame in San­ t'Angelo. Ne andò di mezzo perfino la bella squillante cam­ pana di Palazzo Vecchio, che i fiorentini chiamavano «la vac­ ca», e ai cui rintocchi veniva convocato il Parlamento. Ales­ sandro la fece fondere perché - scrisse un cronista - la gen­ te più non sentisse il dolce suono della libertà. A questo risultato aveva condotto la politica dei Papi e la loro cupidigia di potere temporale. A saldare il conto dei lo­ ro errori era l'Italia, ridotta a colonia della Spagna. Ma an­ che alla Chiesa essi erano costati una bella parcella: qualche milione di anime inglesi.

Abbiamo già fuggevolmente accennato a Enrico VIII e alle sue vicende coniugali. Ma ora conviene dipanare un po' meglio questa complicata matassa che, se non la causa pro­ fonda, fu certo il pretesto dello scisma britannico. Caterina di Aragona, zia di Carlo, era venuta dalla Spagna in Inghil­ terra ai primi del Cinquecento, quando aveva sedici anni, come fidanzata del principe ereditario Arturo, fratello pri­ mogenito di Enrico, ch'era invece avviato alla carriera ec­ clesiastica. Pochi mesi dopo le nozze Arturo morì, e Cateri­ na si affrettò a dichiarare che il matrimonio non era stato consumato per poter recuperare i 200.000 ducati che aveva portato in dote. Il vecchio re Enrico VII, un po' per non perdere la bella somma, un po' per conservare l'amicizia della Spagna, propose che la vedova sposasse l'altro suo fi­ glio Enrico, diventato ora erede al trono, sebbene sei anni più giovane di lei. Ma il progetto provocò una controversia teologica, perché la Bibbia è in proposito alquanto contrad­ dittoria: secondo un passaggio del Deuteronomio, il matri­ monio con la vedova del proprio fratello è lecito; secondo un passaggio del Levitico, è sacrilego. I prelati inglesi si mo­ strarono nell'interpretazione non meno discordi della Bib­ bia; ed Enrico si appellò al Papa (Giulio II) che tagliò corto accordando il permesso. Le nozze furono tuttavia posposte

461 perché lo sposo aveva appena dodici anni e poco dopo chie­ se che il fidanzamento venisse annullato. Ma suo padre lo convinse che la ragion di Stato imponeva quell'unione. Il ragazzo vi si rassegnò, e subito dopo l'avvento al trono man­ tenne la promessa. Dopo poco, Caterina abortì, e nei quattro anni successivi diede alla luce tre figli che però tutti morirono in fasce. En­ rico pensò d'invocare il Levitico per un annullamento del matrimonio. Caterina se la cavò con una quinta gravidanza che finalmente dette un frutto vitale. Ma questo frutto fu una femmina, Maria, che all'età di due anni venne fidanza­ ta al «Delfino», cioè al principe ereditario di Francia. Per la sesta volta Caterina tentò di dare un erede maschio all'im­ paziente marito. Ma un secondo aborto deluse le sue ultime speranze, lasciando tutto come prima, anzi peggio di prima perché Maria, essendo l'unica qualificata alla successione, avrebbe portato in dote il trono al Delfino, facendo così del­ l'Inghilterra una provincia francese. Enrico, che non aveva mai avuto molti trasporti per quel­ la moglie devota e virtuosa ma non proprio avvenente, non ne aveva più nessuno ora ch'essa toccava la quarantina ed era sfasciata dalle gravidanze andate a male. Egli stesso non era più il delicato, colto, cortese giovane che tutti avevano tanto esaltato. La voracità e la sensualità avevano appesanti­ to il suo corpo diventato tracagnotto, sanguigno e volgare, e ottuso il suo spirito. Aveva già avuto delle diversioni coniu­ gali, quando conobbe certe Boleyn o Bolena, madre e due figlie. Secondo qualcuno, dapprima si prese per amante la madre. Poi la rimpiazzò con la figlia Maria. Ma quando da Parigi, dove l'avevano mandata a far l'ancella di Margherita di Navarra (e dove, a quanto pare, aveva contratto molte simpatie per i protestanti) tornò la secondogenita Anna, En­ rico perse addirittura la testa per lei. Quanto abbia influito questa passione sui suoi progetti di divorzio è difficile dire. Egli ne aveva già manifestati prima, giustificati dalla ragion di Stato che reclamava un erede. Ma

462 non c'è dubbio che Anna contribuì a renderli più impazien­ ti. La ragazza non era bella. Aveva le gambe troppo corte, il collo troppo lungo, la bocca troppo larga. Ma aveva anche una carica di sesso «da ridar la vita a un morto» e una divo­ rante ambizione. Non le bastava essere l'amante del Re; vo­ leva essere regina. Oltre a Caterina, fu Wolsey la vittima di questa vicenda coniugale. Il grande Cardinale aveva secondato le intenzio­ ni divorziste di Enrico, ma nella convinzione che costui vo­ lesse sposare una principessa francese. Era lui che voleva imporre quella scelta a Enrico, o era Enrico che fingeva di stare al giuoco del Cardinale per poi beffarlo a divorzio ot­ tenuto? Non sappiamo. Sappiamo solo che, mentre Wolsey trattava con Parigi, Enrico mandò un suo emissario segreto a Clemente con due richieste. La prima era che, non riu­ scendo Caterina a dargli un erede e nello stesso tempo non volendo divorziare, fosse consentito a lui prendersi una se­ conda moglie. La seconda era che il Papa gli desse dispensa di matrimonio con una donna con la cui sorella aveva avuto una precedente relazione (e naturalmente non poteva trat­ tarsi che di Anna Bolena). Per strada però il messo fu rag­ giunto da un contrordine: Enrico gl'ingiungeva di presen­ tare solo la seconda richiesta, la prima essendogli parsa - e a ragione - scandalosa fino alla provocazione. Clemente si dichiarò disposto a concedere l'invocato permesso, ma - ag­ giunse - a patto che prima fosse annullato il matrimonio con Caterina. Enrico prese quella risposta per una corbellatura, qual era in realtà visto che dell'annullamento lo stesso Papa era arbitro. Ma Clemente non poteva agire diversamente. S'era alla fine del '27, l'anno del sacco di Roma, il Papa era pri­ gioniero di Carlo, e Carlo non voleva quel divorzio. Enrico però non si arrese e avanzò una terza proposta: che la deci­ sione sull'annullamento venisse delegata a un tribunale ec­ clesiastico inglese presieduto da Wolsey e dal Legato ponti­ ficio a Londra. Clemente accettò e investì il cardinale Cam-

463 peggi della delicata missione, ma ordinandogli segretamen­ te di procrastinare il più possibile il verdetto e di non emet­ terlo che dietro sua istruzione. Carlo infatti aveva già prote­ stato contro la delega; e il Papa, come al solito, voleva vede­ re come si mettevano le cose prima di decidere. Appena a Londra, Campeggi tentò di indurre Caterina a accettare l'annullamento e a ritirarsi in un monastero. Cate­ rina vi si disse disposta purché Enrico facesse altrettanto. A sua volta Enrico accettò purché il Papa s'impegnasse a libe­ rarlo dal voto s'egli in seguito lo richiedeva. Campeggi si ri­ fiutò di trasmettere la proposta, conscio che il Papa non po­ teva accoglierla non solo perché oltraggiava la più elemen­ tare decenza, ma anche perché si era alla vigilia del trattato di Barcellona, e solo Carlo poteva restituire Ravenna agli Stati della Chiesa e Firenze alla casa dei Medici. Il tribunale di Wolsey e Campeggi convocò il Re e la Re­ gina alla fine di maggio del '29. Caterina si gettò ai piedi di Enrico, gli ricordò la propria devozione e fedeltà, e lo sup­ plicò di non ripudiarla. Enrico la rialzò affettuosamente, e spiegò che il divorzio gli era imposto solo dalla ragion di Stato. Ella si ritirò in lacrime e si rifiutò di comparire alle successive udienze, affidando la sua difesa al vescovo Fisher, che in seguito doveva pagarla con la vita. Giuste le istruzio­ ni ricevute, Campeggi tirò in lungo i dibattiti, finché Cle­ mente riavocò il caso a Roma. Wolsey si trovò di fronte a un drammatico dilemma. Sa­ peva di essere odiato da Anna che, se fosse diventata regina, avrebbe provocato la sua caduta. Ma sapeva anche che, se non lo fosse diventata, Enrico si sarebbe rivalso su di lui. Mandò «bustarelle» a Roma per strappare un verdetto posi­ tivo; ma Roma era piantonata dall'esercito di Carlo. Tutto congiurava contro l'onnipotente cancelliere: egli si era atti­ rato le generali antipatie imponendo tasse e balzelli per fi­ nanziare una politica estera che si era risolta in un totale naufragio. E ora non riusciva nemmeno a ottenere un di­ vorzio per il suo Re.

464 Certamente istigato da Anna, Enrico scelse la via più sub­ dola per disfarsi di lui. Lo fece denunziare per violazione dello statuto del praemunire che proibiva ai cittadini inglesi di collaborare con tribunali ecclesiastici per risolvere que­ stioni di competenza del Re. Wolsey poteva rispondere che aveva collaborato con Campeggi su richiesta dello stesso Re e nel suo interesse. Ma capì che con un simile uomo era inu­ tile invocare la legge. Meglio valeva appellarsi alla sua gene­ rosità, mandandogli una lettera di dimissioni in cui ricono­ sceva anche gli sbagli che non aveva commesso e impetrava perdono. Il Re incamerò il suo immenso patrimonio, ma gli lasciò le rendite dell'arcivescovato di York, di cui lo confer­ mò titolare. Wolsey si considerò miracolato. Ma l'anno se­ guente fu nuovamente incriminato d'intelligenza col nemi­ co - l'ambasciatore di Carlo - e di complotto contro lo Stato e le sue istituzioni. Non si è mai saputo quanto ci fosse di ve­ ro. Ma, dato il carattere dei personaggi, tutto è possibile: sia che Wolsey avesse realmente compiuto il tradimento, sia che il Re lo avesse inventato per sfogare sino in fondo la sua vendetta e quella di Anna. Il Cardinale sfuggì al patibolo so­ lo perché un violento attacco di dissenteria lo stroncò men­ tre lo traducevano a Londra. Shakespeare gli attribuisce sul letto di morte le famose parole: «Se avessi servito Dio con la stessa lealtà con cui ho servito il mio Re, Egli non mi avreb­ be abbandonato». A sostituirlo come Cancelliere era già stato chiamato Tommaso Moro, il grande umanista amico di Erasmo e compagno di giuochi dello stesso Enrico. Il piano del Re or­ mai era chiaro. Forte di un mandato del Parlamento che lo autorizzava a ridurre la ricchezza e la potenza del clero, egli indisse una «Convocazione», specie di conferenza episcopa­ le che di quando in quando si adunava a Londra sotto la presidenza dei due più alti prelati, gli Arcivescovi di Can­ terbury e di York, e le sottopose il quesito: se essa riconosce­ va nel Re il protettore e la suprema guida della Chiesa d'In­ ghilterra.

465 I convocati cercarono di tergiversare proponendo for­ mule ambigue e polivalenti che permettessero di conciliare la loro doppia lealtà di sacerdoti sottomessi al Papa e di sud­ diti obbedienti al Re. Ma Enrico le scartò tutte reclamando una risposta inequivocabile che si compendiasse in un sì o un no. Il vecchio arcivescovo Warham cercò di salvare il sal­ vabile aggiungendo la sfumata clausola che riconosceva il primato del Re anche in materia religiosa purché esercitato «in armonia con la legge di Cristo». L'assemblea accolse la proposta in silenzio. Il silenzio fu considerato consenso. E il consenso fu interpretato come risposta positiva al quesito del Re: la Chiesa d'Inghilterra riconosceva in lui il suo pro­ prio Papa. Quello di Roma era già praticamente estromes­ so, anche se il cosiddetto «Atto di Supremazia» che sanciva il definitivo distacco sopravvenne solo tre anni dopo, nel 1534. Così, con un atto del Parlamento e un tratto di penna, si consumò uno scisma che privava la già indebolita Chiesa ro­ mana di una delle sue province politicamente più stabili e spiritualmente più fertili. L'autore di questa dissidenza era colui che papa Leone aveva chiamato «Difensore della Fe­ de» e Lutero «Re delle bugie». Enrico non era certamente un protestante, né lo diventò nemmeno dopo la ribellione. La Chiesa anglicana da lui fondata rimase sostanzialmente cattolica nello spirito, nei dogmi, nel rituale, nella struttura organizzativa, in tutto. In tutto, meno che nella cosa che ai Papi stava più a cuore: la sua dipendenza. Essa accettava la propria cittadinanza in uno Stato laico, nel cui capo ricono­ sceva il suo. La cosa non finì lì, naturalmente. La Chiesa romana tro­ vò in Inghilterra dei difensori che non meritava in uomini come Moro e Fisher, che per essa salirono il patibolo. Per quanto legalizzato dal parlamento, lo scisma incontrò resi­ stenze accanite, specie in Scozia, e seguitò a provocare per decenni lotte, persecuzioni e vittime persino tra i Re. Ma sbagliano i faciloni che ne fanno risalire la causa unicamen-

466 te alle vicissitudini coniugali di Enrico e alla sua cieca pas­ sione per Anna. La ribellione contro Roma, il suo malcostu­ me, i suoi abusi, la sua cupidigia, le sue prevaricazioni sullo Stato datavano dai tempi di Wycliff, e nei capricci del Re trovarono solo il pretesto e lo strumento per farsi valere. Una volta riconosciuto capo della Chiesa anglicana, per Enrico fu facile farne invalidare il matrimonio con Caterina e rimpiazzarla con Anna. Clemente morì l'anno dopo. For­ se, se non fosse stato prigioniero di Carlo, avrebbe trovato un compromesso per conservare a Roma la fedeltà dell'In­ ghilterra. Si dirà che in quella condizione si era ridotto per i suoi errori. In realtà a quell'uomo ambiguo, ma per nulla sprovveduto e per certi tratti generoso e amabile, era tocca­ to pagare anche i conti degli altri. Con lui, era tutta la poli­ tica della Chiesa, di una Chiesa da secoli intenta solo a far politica, che ora faceva le spese delle proprie colpe. E torniamo a Lutero, ormai prossimo al trionfo. CAPITOLO VENTESIMO

LUTERO TRIONFANTE

A consentire la vittoria della Riforma in Germania, lo ab­ biamo già detto, fu anzitutto l'impossibilità in cui Carlo si trovò di combatterla. Oltre che con la Francia di Francesco I, egli doveva vedersela coi Turchi che in pieno slancio di conquista dal trampolino di Costantinopoli erano dilagati nei Balcani, avevano sommerso l'Ungheria e ora addirittu­ ra investivano Vienna, cioè il cuore stesso dell'Impero. Per far fronte all'emergenza, Carlo aveva bisogno dei tedeschi, nerbo del suo esercito. Non poteva consentirsi il lusso di discriminarli secondo il loro credo, e lanciarli gli uni con­ tro gli altri. Ma se la mancata persecuzione spiega come mai la Rifor­ ma non fu schiacciata, non spiega affatto perché seguitò a diffondersi e a far proseliti. Melantone su questo punto non nascondeva il suo scetticismo. «Questi nostri seguaci - scri­ veva - s'infischiano della religione: essi vogliono soltanto li­ berarsi dalla tutela dei Vescovi e appropriarsi i loro beni.» C'era del vero. Specie fra i Principi, la molla della loro sempre più massiccia conversione era proprio questa. Essi volevano che gli oboli e le decime dei loro sudditi, invece di prendere la via di Roma, restassero a disposizione del loro fisco; volevano governare i propri domini senza interferen­ ze ecclesiastiche; e sentivano che, sottraendosi alla tutela della Chiesa, si sottraevano anche a quella dell'Imperatore. Il clero luterano era il frutto dello Stato e la sua esaltazione. Esso obbediva al Principe e ne diventava lo strumento. Era logico che a sua volta i Principi lo proteggessero e ne ab­ bracciassero il credo.

468 Non per nulla infatti furono loro a condurre la crociata. Si erano riuniti in una Lega che, finché rimase minoritaria, badò esclusivamente a rintuzzare le velleità repressive della maggioranza cattolica. Nel '29 l'Imperatore aveva emanato un editto che consentiva il rito luterano negli Stati che già lo praticavano, purché lasciassero libertà di praticare anche ai cattolici; negli Stati cattolici invece il rito luterano era proi­ bito. La Lega insorse contro il trattamento discriminatorio e formulò una protesta ch'ebbe un duplice effetto: impedì l'applicazione del decreto e diede il nome non solo ai lute­ rani, ma a tutt'i transfughi del cattolicesimo, che d'allora in poi si chiamarono infatti, genericamente, protestanti. Ma una volta diventata maggioritaria e non più minac­ ciata di persecuzione, la Lega si arrogò anche i compiti di un vero e proprio Concilio per dare alla Riforma l'assetto organizzativo e ritualistico necessario a farne una vera e propria Chiesa. Il grande pericolo ch'essa aveva corso e tut­ tora correva era stato infatti, lo abbiamo già detto, la sua dispersione in sètte. Era un pericolo insito nella sua stessa natura. Lutero si era ispirato a una democrazia ecclesiastica, in cui ogni congregazione aveva il diritto non solo di nomi­ nare il proprio sacerdote o ministro, ma anche di determi­ nare il proprio rito. Era fatale che questa estrema libertà provocasse specie dapprincipio un grosso guazzabuglio d'interpretazioni, contro cui invano Melantone cercò di lot­ tare dettando principi e formule. L'anarchia durò un pezzo fornendo buoni argomenti ai cattolici per dimostrare all'Im­ peratore e ai Principi che quel caos era destinato a sconfina­ re dal piano religioso a quello politico e sociale provocando la disintegrazione di tutto. A questo punto furono i Principi stessi che intervennero, e ciascuno nel proprio Stato avocò a sé, cioè al potere tem­ porale, le prerogative che in origine Lutero aveva attribuito alle singole congregazioni. Furono essi a stabilire il rito se­ condo gli schemi approntati da Melantone, e i ministri che tentarono di resistere furono scacciati. Lutero, in buona

469 parte rinnegandosi, approvò quell'atto di forza. E la Chiesa che ne trasse origine si chiamò su suo suggerimento Evan­ gelica. Ora insorgeva tuttavia un terzo pericolo: ed era che il nuovo clero, così intimamente legato al potere temporale, si trasformasse in una pura e semplice burocrazia dominata soltanto dagl'interessi di casta o, nel migliore dei casi, dalla «ragion di Stato». Ed era proprio ciò che i cattolici si aspet­ tavano e si auguravano. Ma non avvenne. Contrariamente a quello che diceva Melantone, sotto le conversioni non c'era unicamente la molla del tornaconto e della cupidigia. Nelle masse agiva anche l'autentica aspirazione a un credo più semplice e sincero, a una Chiesa in comunione molto più diretta coi fedeli, che parlasse nella loro lingua - non in lati­ no - alle loro coscienze, e invece di escluderli, li rendesse partecipi del rito. I ministri luterani sentirono questo anelito di decenza e di partecipazione, e vi si adeguarono. Salvo poche e insigni­ ficanti eccezioni, essi diedero un edificante esempio di buon costume. Erano molto meno colti dei preti cattolici, l'uma­ nesimo non li aveva nemmeno sfiorati, di teologia sapevano poco o nulla. Ma le Scritture le conoscevano bene, e almeno l'umiltà ve l'avevano attinta. Le loro chiese non potevano certo rivaleggiare in adornamenti artistici con quelle italia­ ne. La loro architettura sobria e severa s'ispirava non a ca­ noni estetici, ma all'esigenza di un più intimo contatto fra officiante e fedeli. Il rito infatti aveva ritenuto molto di quel­ lo cattolico: l'altare, la croce, le candele, i paramenti. Ma a dominare non era più la cerimonia sacrificale, sibbene il ser­ mone. Ecco perché il tratto caratteristico di queste chiese sono le gallerie, studiate anche per il canto corale, decisivo strumento di partecipazione collettiva. Diceva un gesuita: «I protestanti hanno avvelenato più anime coi loro inni che con le loro prediche». Così, mentre il cattolicesimo italiano si esteriorizzava nella pittura e nella scultura, il protestante­ simo tedesco s'interiorizzava nella musica, come del resto

470 era logico di una religione che si proponeva di riportare Dio nelle coscienze. Lo stesso Lutero contribuì alla grande musica sacra della Riforma trasformandosi in compositore e sfogando in inni gagliardi e marziali la sua esplosiva carica di passione. Per­ ché il grande ispiratore della Riforma restava lui. Essa do­ veva la sua vittoria ai fattori politici che abbiamo detto; ma della sua anima restava debitrice unicamente a Lutero, che vi aveva trasfuso la sua.

Che uomo era questo straordinario protagonista che aveva cambiato il corso della Storia? Fino a qualche anno fa, in campo cattolico, ci si ostinava a farlo passare per uno psicopatico tormentato da incubi, terrori e fobìe. John Osborne lo presenta addirittura come un maniaco depressivo, spinto alla ribellione dal «comples­ so del padre» e dai triboli che gli procuravano la stitichezza e le emorroidi. Lutero stesso ha fornito ampio materiale a queste ipotesi diffondendosi nei suoi scritti sui propri ma­ lanni. Una volta, racconta, una colica renale lo ridusse a tal punto di disperazione, da indurlo a lanciare una specie di ultimatum al Signore: «Mio Dio - urlò -, se questo spasimo si prolunga, non riconoscerò più la Tua onnipotenza». Ma negli ultimi tempi gli storici cattolici più intelligenti hanno rinunziato alla stupida e ottusa pretesa di ridurre Lutero a un semplice caso patologico e cominciano a rico­ noscerne la grandezza. «Era un genio - dice il gesuita Courtnay Murray -, un genio traboccante di retorica, ma anche pieno d'illuminazioni.» E molto probabile che nella nuova atmosfera inaugurata dal Concilio la riabilitazione continui. E sarebbe ora. Cranach ci ha lasciato due suoi ritratti. Uno è del 1526, e ci mostra un Lutero poco più che quarantenne, robusto ma senz'adipe, ancora nero di capelli, di tratti contadineschi e marcati, mascella larga, naso carnoso, gli occhi scuri e pene­ tranti «in cui il demonio sghignazza» dicevano i suoi nemici.

471 L'altro è di sei anni dopo: un Lutero appesantito e obeso, ma tuttora gagliardo, con un'espressione cordiale, che sug­ gerisce l'ottimismo e la gioia di vivere. Ne aveva da vende­ re, infatti, malgrado i suoi guai: i calcoli renali, l'ulcera, l'in­ sonnia, la colite, tutte conseguenze dei suoi eccessi dietetici. Ogni tanto si castigava della propria ghiottoneria imponen­ dosi anche tre giorni di assoluto digiuno. Ma poi l'ingordi­ gia riprendeva il sopravvento. Era anche un robusto bevito­ re, e Melantone ricorda di averlo sentito tuonare per ore contro il vizio nazionale della birra, vuotandone boccali su boccali. A chi gli faceva osservare l'incongruenza, risponde­ va con un sospiro: «Se il buon Dio mi perdona di averlo tra­ dito per vent'anni come monaco cattolico, può anche per­ donarmi un bicchierozzo trangugiato alla Sua salute». Da un pezzo aveva abbandonato il saio e nel '25 si era sposato. A Melantone, che si meravigliava di vedergli com­ piere quel passo, rispose che vi si era deciso per fare un pia­ cere a suo padre e un dispetto al diavolo. Ma non era così. In realtà egli aveva sempre ritenuto che il sesso è un pecca­ to, anche nel matrimonio. «E se Dio mi avesse consultato su questo punto - aggiungeva -, Gli avrei consigliato di assicu­ rare la continuazione della specie col vecchio metodo usato per Adamo.» Ma siccome ormai altro mezzo non c'è, ag­ giungeva, e il bisogno sessuale richiede soddisfazione come quello del cibo, rassegnamoci al matrimonio. Il peccato con una moglie sarà sempre meno grave di quello con una con­ cubina. Per conto suo aveva deciso di restare scapolo e casto. Ma a un certo punto dovette occuparsi della sorte di certe mo­ nache che, essendosi convertite al suo credo, avevano ab­ bandonato il convento e naturalmente cercavano una siste­ mazione coniugale. Riuscì a trovar marito a tutte, meno una, Caterina von Bora. Le propose un certo dottor Glatz. Ma la ragazza rifiutò, dicendo che avrebbe accettato soltan­ to un tale di nome Amsdorf, oppure il dottor Lutero. Que­ sti interpellò Amsdorf, ma lo trovò renitente. Ci ripensò, e

472 forse ricordando ciò che gli aveva detto la sua vecchia pa­ drona di casa Frau Cotta, che una buona moglie è l'unica felicità consentita all'uomo, decise di tentarla. Caterina ave­ va ventisei anni, sedici meno dei suoi quarantadue, e poche attrattive. Ma il suo carattere era pacioso, e infatti si rivelò una sposa eccellente. Il generoso e benevolo Duca di Sassonia, come dono di nozze, diede alla coppia l'intero convento agostiniano dove Lutero aveva vissuto da monaco. Lutero si affrettò a ripo­ polarlo con sei figli e una dozzina di nipoti, di cui si assunse il mantenimento e l'educazione. Pare che Caterina non gra­ disse molto la trasformazione della sua casa in un asilo in­ fantile che doveva darle non poco da fare. Ma vi si rassegnò perché tutti quei ragazzi erano la gioia del marito che ado­ rava la loro gàrrula compagnia. E anche questo tratto di­ mostra quanto lontana dal vero sia l'immagine di un Lutero solitario, severo, scontroso e tormentato dal diavolo. Alcuni di questi suoi pupilli, via via che crescevano, cominciarono a prendere nota di ciò che diceva Lutero nell'intimità della famiglia. E ne venne fuori un monumentale volume di Tischreden, o conversazioni da tavola, che ci forniscono forse il più veridico ritratto dell'uomo: padre eccellente, affabile, comprensivo, sempre pronto alla battuta, alla risata, alla fa­ vola. La morte della sua bambina prediletta fu per lui una tragedia. Per giorni e notti, prostrato a terra, pregò per la sua guarigione. Quando vide che tutto era inutile, chiese al­ la piccola: «Figliolina mia, vuoi restare qui con tuo padre, o andare da quell'altro Padre, che ti chiama di là?» «Se mi chiama, voglio andare» rispose in un soffio la bambina. Per tutto il resto dei suoi giorni, Lutero seguitò a parlare con lei chiamandola du liebes Lenichen, tu mia amata Lenuzza. E ogni tanto diceva: «Che strano, sapere che lei è più viva e felice di noi, e soffrirne ugualmente». I suoi rapporti con Caterina non andavano altrettanto li­ sci. Sebbene di buon carattere, essa talvolta si spazientiva per la totale mancanza di senso pratico del marito. Lutero

473 s'infischiava del denaro, dissipava tutto ciò che guadagnava, rifiutava i diritti d'autore sui suoi libri che avevano fatto la fortuna dell'editore, e spesso la povera donna non sapeva come mandare avanti la famiglia che Martino le aveva cari­ cato sulle spalle. Egli aveva comprato una fattoria con polli mucche, maiali e orto. Ma era lei che doveva provvedere anche a quella, perché lui non sapeva distinguere una ci­ polla da una patata. Per di più essa doveva sopportare i bru­ schi salti d'umore di Martino, le sue collere improvvise. Ep­ pure, dalle lettere ch'egli le scrisse o che scrisse su di lei, ri­ sulta che il matrimonio fu sostanzialmente felice e che l'af­ fetto fra i due non fece che crescere con gli anni. Per celia egli parla sempre di Caterina come del «mio signor Katie», facendo capire che il vero padrone di casa era lei. Anche all'acme del successo, i suoi modi erano rimasti semplici. Si rifiutava di chiamar luterani i seguaci del suo credo; voleva che si chiamassero evangelici. E scoraggiò la pubblicazione della sua opera omnia, dicendo che quella let­ tura poteva andare a detrimento della Bibbia, unico testo che valesse la pena di leggere. Non si considerava affatto un Apostolo, un Santo, un fondatore di religioni, e a chi lo trat­ tava come tale rispondeva bruscamente che Dio non gli ave­ va dato nemmeno il potere di procurarsi una buona defeca­ zione. Il suo umorismo conservava qualcosa di rurale e insi­ steva su questi motivi corporali. «I miei nemici - diceva - non si stancano di spiarmi. Se faccio un peto a Wittenberg, a Roma ne sentono subito il puzzo.» Gli scrupoli di Melan­ tone, i suoi dubbi, le sue timoratezze, qualche volta lo face­ vano sorridere, ma più spesso lo mandavano in bestia. «Pec­ ca, pecca! - gli gridava - Dio rispetta i grandi peccati, è spie­ tato solo con quelli piccoli.» Era pieno di contraddizioni. Esaltava gli studi matematici come quelli che allenano «a ra­ gionare per dimostrazioni e prove sicure», ma rifiutava il si­ stema copernicano perché contrario alla Bibbia, e credeva nei diavoli e nelle streghe. La sua teologia non era del tutto originale. Discendeva

474 in linea diretta da quella di Wycliff e di Huss. Tutti e tre ave­ vano attinto le nozioni della predestinazione e della Grazia in Sant'Agostino, che a sua volta ne aveva tratto ispirazione da San Paolo. Questo è, per così dire, l'albero genealogico del Protestantesimo, di cui Lutero non era che l'ultima fronda, ma anche la più vigorosa. Per usare il suo linguag­ gio, egli redime il Cristianesimo da tutti gli apporti della cultura pagana, che specialmente gli umanisti gli avevano appiccicato addosso. Lutero rinnega sia Aristotele che Pla­ tone e si rifa ai Profeti. Cadendo in un'ennesima contraddi­ zione, egli odia gli ebrei, contro i quali pronunzierà in vec­ chiaia parole degne di Hitler, ma nello stesso tempo la sua concezione di Dio è tipicamente ebraica. Con lui, Dio perde gli attributi umani che la Chiesa gli aveva appiccicato, e ri­ diventa Jeovah: l'Altissimo, l'Assoluto, il Giudice Vendicato­ re che ha scagliato sugli uomini il diluvio universale, di­ strutto Sodoma, e ora si prepara a un Giudizio in cui «po­ chissimi saranno gli eletti, moltissimi i dannati». Tutto sommato, era un ritorno alla teologia medievale coi suoi incubi e terrori. Lutero era convinto di vivere in un mondo popolato di diavoli all'agguato, asseriva di conosce­ re personalmente Satana e si piccava di tenerlo a bada col suo flauto. Egli aveva dell'uomo la stessa sconsolata conce­ zione dei grandi quaresimalisti del dodicesimo e tredicesi­ mo secolo: lo considerava una povera debole creatura im­ potente di fronte al peccato, e destinata a restarne vittima. «Siamo i figli della colpa - diceva, mettendo nel mazzo an­ che se stesso. - Non c'è nessuno, in grado di redimersene.» Non ebbe mai la civetteria demagogica di presentarsi co­ me un innovatore. Si considerava anzi un restauratore, e il suo sogno sarebbe stato di perpetuare la società rurale in cui era nato. Chiamava il commercio «uno sporco affare», condannava l'interesse come usura, e abbiamo già riferito in che termini si espresse contro i contadini che si erano ri­ bellati ai Principi. Li chiamò delinquenti, li fulminò di ana­ temi, ne reclamò lo sterminio.

475 Questi eccessi reazionari si fecero sempre più frequenti via via che la sua salute si deteriorava. Negli ultimi anni, ri­ conosce uno dei suoi biografi più devoti, il Bainton, era di­ ventato «un vecchiaccio irascibile, petulante, maldicente e talvolta addirittura scurrile». Nel febbraio del '46 la sua ul­ cera si aggravò improvvisamente. Capì subito ch'era alla fi­ ne, e chiamò i suoi amici. Uno di loro gli chiese: «Reveren­ do Padre, resti fedele a Cristo e alla dottrina che hai predi­ cato in Suo nome?» Il morente rispose: «Sì», e subito dopo si accasciò colpito da apoplessia. I suoi difetti ed errori erano stati grandi. Nella polemica contro i suoi nemici smarriva non soltanto il senso della giu­ stizia, ma anche quello della decenza, e il suo linguaggio scadeva nel turpiloquio. Col nemico vinto poteva essere ge­ neroso, come lo fu con Tetzel; ma con chi non si arrendeva era incapace di carità. Le sue incoerenze erano state clamo­ rose e stridenti. «Aveva liberato - dice Durant - i suoi se­ guaci da un Papa infallibile, ma per sottometterli a un infal­ libile libro - la Bibbia - che, a differenza del Papa, non si poteva cambiare.» Della lotta contro il dogma aveva fatto un altro dogma, e nel combattere l'intolleranza dei preti si mo­ strava più intollerante di loro. Non c'è dubbio che fu lui a istillare nei tedeschi quella «rabbia teologica», che ancor og­ gi li spinge ad arruolare Dio anche nelle loro crociate più sfacciatamente anticristiane come quella del genocidio. Ma tutti questi lati negativi non erano che il rovescio di quelli positivi, e non meno di questi contribuirono al suo successo. Le passioni lo accecavano, ma solo un uomo acce­ cato dalle passioni poteva scendere in guerra contempora­ neamente contro il Papato e contro l'Impero. Sul piano filo­ sofico e dottrinario Melantone era molto più attrezzato di lui, più equo nei giudizi, più sottile, più penetrante. Ma le circostanze non richiedevano un intellettuale. Richiedevano soprattutto un lottatore, e Lutero lo fu con tutti i pregi e i difetti che un lottatore deve avere: il temerario coraggio, la forza di convinzione, l'impeto aggressivo, l'eloquenza gla-

476 diatoria, l'allergia al compromesso. Guai se egli avesse avuto il senso critico e lo scrupolo della giustizia: prima o poi avrebbe finito per arrendersi alle minacce o alle blandizie dei suoi avversari, e la Riforma sarebbe stata «riassorbita» da una Chiesa allenatissima a questo genere di operazioni. Non c'è cristiano, credo, che non consideri una catastro­ fe la rottura della Cristianità provocata dalla Riforma. Lute­ ro stesso dimostrò, con le sue esitazioni, quanto fosse con­ scio e atterrito della responsabilità che si assumeva. La sua esemplare milizia di monaco agostiniano, la sua umiltà, la sua indifferenza a ogni ambizione di carriera, documentano che non agì per interesse personale. Il suo anelito di ripor­ tare la Chiesa alle sue pure fonti evangeliche era sincero e vibrante. Non fu il primo, non fu il solo a covarlo. Ma l'ec­ cezionalità della sua figura sta nel fatto di averlo realizzato. Ognuno può giudicare il suo credo come vuole. Ma non c'è dubbio che da esso prese avvio il mondo moderno. Facendo del credente «il sacerdote di se stesso», senza l'intermedia­ rio del prete, l'obbligò ad assumersi le proprie responsabili­ tà, senza possibilità di mettersene al riparo dietro le spalle del confessore: giuoco che si presta agl'imbrogli che tutti noi cattolici vediamo, sappiamo, e purtroppo pratichiamo. E infine separando in maniera definitiva e perentoria, se­ condo il principio dei «due regni», lo spirituale dal tempo­ rale, egli fondò lo Stato laico moderno redento da ogni ipo­ teca e vassallaggio clericale. Questi sono i grandi meriti di Lutero nei confronti del mondo cristiano e della sua etica. Ma i tedeschi hanno ra­ gione di riconoscergliene anche degli altri. Coi suoi scritti, e specialmente con la sua splendida traduzione della Bibbia, egli fu per loro ciò che Dante era stato per l'Italia e Chau- cer per l'Inghilterra: il padre della lingua. Non ne fornì sol­ tanto il vocabolario, ma anche lo stile, il ritmo, il calore. Nessuno scrittore tedesco, nemmeno Goethe, è stato più te­ desco di Lutero nella sua compatta densità, nel suo pugna­ ce ardore, nei suoi furori apocalittici, nella sua risata gorgo-

477 gliante, e se si vuole anche nella sua marziale e contadine­ sca rozzezza. Insomma, una figura a tutto sbalzo, un arche­ tipo che, almeno sul piano umano, sovrasta anche quello dei suoi due grandi rivali nella leadership della Riforma: Zuinglio e Calvino. CAPITOLO VENTUNESIMO

ZUINGLIO

Ai primi del Cinquecento, un Paese chiamato Svizzera anco­ ra non c'era. Ma c'era, nel cantuccio di terra dove poi esso sarebbe sorto, rinsaccato fra i monti e cariato di laghi, un insieme di comunità valligiane, dette «Cantoni», che fra lo­ ro si erano unite in una Confederazione tuttora lontana dal formare uno Stato, ma sulla via per diventarlo. Tutto sommato, i Cantoni ne avrebbero fatto volentieri a meno. Ognuno di essi era gelosissimo della propria indi­ pendenza, e non avrebbe chiesto di meglio che di continua­ re a vivere e a svilupparsi per conto proprio. Fu l'istinto di conservazione che li obbligò prima ad allearsi tra loro e poi a fondersi, ma mai fino al punto di rinunziare alla propria personalità. Sulla fine del Quattrocento avevano dovuto di­ fendersi dalle mire della Borgogna, che allora formava uno Stato indipendente, e che cercava di annetterseli. Ma quan­ do essa fu inghiottita dalla Francia, i Cantoni tornarono a dividersi e anzi furono sull'orlo di una guerra fratricida per la spartizione delle spoglie del nemico vinto. Subito dopo però di nemici se ne profilò un altro, che li costrinse nuovamente a unirsi: Massimiliano d'Asburgo. Questo Sacro Romano Imperatore, lo abbiamo già detto, mirava a ingrandire il suo Reame più coi matrimoni che con le conquiste. Ma non c'era ereditiera che potesse portare in dote i Cantoni, perché questi non erano patrimonio privato di nessun Principe. Appartenevano alle singole comunità che se li amministravano ciascuno col proprio governo. Da questo però il lettore non tragga l'affrettata deduzio­ ne che la Svizzera avesse già realizzato quel modello di paci-

479 fica democrazia di cui oggi tutti ammiriamo l'ordine, la sag­ gezza e l'efficienza. No. Alcuni Cantoni avevano assorbito con la forza i territori circonvicini e li tenevano in stato di vassallaggio coloniale. E quanto alla pace, non ne fornivano un grande esempio. Anzi, siccome la povertà della terra ne faceva un'area depressa, i suoi figli emigravano per arruo­ larsi come mercenari in tutti gli eserciti stranieri. Inutile di­ re che l'imbelle Italia, dove il soldato non voleva né sapeva farlo nessuno, era la loro mecca. Gli svizzeri erano le miglio­ ri truppe di cui disponessero i nostri turbolenti Signori per scannarsi tra loro e seguitare a far dell'Italia una zattera del­ la medusa. E questo va detto per dissipare un grosso equi­ voco. Noi italiani comunemente crediamo che il modello di democrazia e di pace che gli svizzeri forniscono al mondo derivi da una tradizione di renitenza alla leva. E invece de­ riva da una grande tradizione militare e conferma quello che anche Machiavelli diceva, e cioè che solo chi sa fare il soldato sa essere un cittadino. Ma dopo la battaglia di Marignano del 1515, dove il loro contingente subì le più forti perdite, gli svizzeri si resero conto che quella di donatori di sangue era l'industria meno redditizia. Smisero di praticarla, volsero le loro collaudate virtù guerriere a scopi pacifici trasformandosi in artigiani e mercanti, e diedero avvio a una delle più ordinate e funzio­ nali civiltà d'Europa. Che la Riforma abbia attecchito tra lo­ ro proprio in questo periodo, non è un caso. Essa fu anzi il punto di partenza e lo strumento morale di questa evolu­ zione.

Le cose si erano svolte in maniera quasi pacifica, senza drammi né sussulti. In Svizzera c'era un clero che nel cam­ po della cultura aveva grossi meriti. Ne aveva portato il sof­ fio fra quei rozzi boscaioli, e fatto di Basilea, Zurigo e Gine­ vra dei centri di studi umanistici. Ma, quanto a corruzione, faceva il paio con quello italiano. A sentire lo Schaff, non c'era prete che non avesse il suo harem di concubine, e un

480 Vescovo che multò quelli della sua diocesi di quattro fiorini per ogni figlio naturale che avevano messo al mondo, di fio­ rini ne raccolse oltre 1.500 in un anno. Alcuni governi can­ tonali, e specialmente quello di Ginevra, decisero di mette­ re un po' d'ordine in questo disordine sottoponendo i preti, i conventi e i monasteri alla supervisione di una specie di consiglio del buon costume formato da funzionari e cittadi­ ni integerrimi. Era in pratica la sovrapposizione dell'autori­ tà temporale a quella ecclesiastica, cui la Chiesa si era sem­ pre violentemente ribellata. E i Vescovi infatti fecero appel­ lo al Papa perché l'impedisse. Ma il Papa in quel momento era Giulio II, che aveva più passione a comandare i suoi eserciti e a ingrandire i suoi Stati che a difendere le prero­ gative dei preti. Egli chiese a Ginevra un paio di reggimenti per portare avanti le sue conquiste, e in cambio le riconob­ be pieni poteri sul suo clero. La Svizzera aveva già risolto in senso moderno il rapporto fra Stato e Chiesa. Quando questo avvenne, Ulrico Zuinglio aveva ventisei anni. Era nato a San Gallo, terzo di una nidiata di dieci tra fratelli e sorelle, da una famiglia della buona borghesia di provincia. Suo padre era un magistrato, che aveva già deci­ so il destino di Ulrico avviandolo al sacerdozio. Il ragazzo aveva secondato il suo desiderio e studiato con ardore pri­ ma a Basilea, poi a Berna, poi a Vienna, e infine di nuovo a Basilea, dove seguì i corsi di Wyttenbach, un teologo che molto prima di Lutero aveva espresso parecchie riserve sia sul celibato dei preti che sulla vendita delle indulgenze. Ulrico però a questi problemi si era appassionato poco. Il suo interesse andava tutto alla grande letteratura classica. Per poterla studiare a fondo imparò per conto proprio il greco, e intrattenne una fitta corrispondenza con Erasmo e Pico della Mirandola. Anche dopo ch'ebbe preso i voti e ot­ tenuto un canonicato a Glarus, seguitò a pensare e a scrive­ re che un periodo di Cicerone e una strofa di Pindaro vale­ vano più di un versetto del Vangelo e che anche nell'ai di là avrebbe preferito trovarsi in compagnia di un Seneca che di

481 un Papa. Era insomma il tipo classico del prete umanista e ne condivideva anche la moralità, cioè l'immoralità. Peccava generosamente, specie con le donne, e senza provarne nes­ sun rimorso. Quando Ginevra, per ottenere il diritto di mettere sotto controllo laico il suo clero, mandò un contingente di soldati a Giulio II, Zuinglio vi si arruolò come cappellano. Il daffa­ re non gli mancò di certo a Marignano, dove gli svizzeri fe­ cero le spese della sconfitta. Lo spettacolo di quella carnefi­ cina fu per il giovane prete un trauma. Rientrato in patria, salì sul pulpito per denunziare con parole roventi lo sper­ pero del sangue svizzero nelle guerre straniere. L'umanista era diventato un nazionalista. E dal nazionalismo al prote­ stantesimo il passo era breve e fatale. La sua ribellione fu quasi coetanea di quella di Lutero, e quindi non si può dire che ne fosse influenzata. Eppure bat­ té pressappoco le medesime tappe. Egli predicò che l'unico direttore di coscienza, per un cristiano, doveva essere il Vangelo, non il Papa, e che le indulgenze erano uno sporco commercio perché solo il Signore poteva cancellare le colpe del peccatore ed esentarlo dal castigo. Come si vede, questi protestanti, anche senza passarsi parola, battevano in brec­ cia la Chiesa sugli stessi problemi. A distinguerli l'uno dal­ l'altro, più che le controversie di dottrina, erano i caratteri e gli umori. Zuinglio non aveva l'appassionato misticismo di Lutero, né il rigore puritano di Calvino. Al contrario di lo­ ro, non rinnegò la cultura umanistica in cui si era formato e di cui serbò fino in fondo le stimmate: l'argomentazione ra­ zionale, la bella oratoria latineggiante, il senso della misura. Forse è per questo che non incorse nella scomunica quando disse al frate Samson, venuto a vendere indulgenze, ciò che Lutero aveva detto a Tetzel. Il Papa anzi gli dette ragione e richiamò il monaco. Non abbiamo di lui nessun ritratto, ma tutti contempo­ ranei lo dipingono come un bell'atleta dai lineamenti forti e aperti. Pare che avesse anche una stupenda voce, non ulti-

482 mo motivo della suggestione che esercitava sugli ascoltatori. Tuttavia ciò che più contribuì alla sua popolarità furono, co­ m'era avvenuto per Lutero, l'abnegazione e il coraggio con cui assistè le vittime della grande epidemia di peste del '19. Anche quando ne fu egli stesso contagiato e ridotto allo stre­ mo, seguitò a preoccuparsi più degli altri che di sé. La sua guarigione fu salutata come un miracolo e il suo ritorno sul pulpito acclamato come quello di un eroe. Egli ne approfit­ tò per proclamare apertamente lo scisma, ma ci arrivò per gradi: dapprima vagheggiò una riforma erasmiana. Ma fra il '22 e il '23 questa parola riforma acquistò nella sua bocca un significato luterano. E qui si vide, meglio che dovunque altrove, quanto essa servisse allo Stato e quanto lo Stato ser­ visse alla Riforma. I Vescovi naturalmente protestarono quando egli attaccò le imposizioni fiscali della Chiesa, il primato del Papa, il cul­ to dei Santi, il celibato dei preti, e per meglio sottolineare quest'ultimo punto sposò pubblicamente Anna Reinhard, che era già morganaticamente sua moglie. Zuinglio chiese un dibattito sulle sue teorie e suggerì che esso si svolgesse sotto il patronato del «Consiglio» di Zurigo. Così quest'orga­ no dello Stato laico fu investito di una competenza teologi­ ca, e alla fine della controversia assolse Zuinglio dall'accusa di eresia e accolse la sua principale istanza invitando i preti ad attenersi nelle loro prediche alla parola delle Scritture, non alle istruzioni della Gerarchia. La maggior parte dei preti aderirono anche perché il Consiglio addossava allo Stato l'onere dei loro stipendi. Essi erano diventati dei «fun­ zionari». Zuinglio fece un uso moderato della sua vittoria. Si op­ pose risolutamente ad ogni eccesso e violenza contro i reni­ tenti e accolse nella sua teologia i punti fondamentali di quella cattolica. Derivò da Lutero la dottrina della predesti­ nazione, ma dette alla Grazia un carattere più formalistico, quasi legalitario. Per lui gli eletti non erano la sparuta mi­ noranza, ma la stragrande maggioranza, o comunque pote-

483 vano diventarlo. Quanto al peccato originale, esso non era affatto quello di Adamo ed Eva, di cui sarebbe stato mo­ struoso far ricadere le conseguenze sui discendenti. Il pec­ cato originale, secondo il credo molto più umano di Zuin­ glio, consiste nelle tendenze antisociali dell'uomo. Quest'ultimo punto sottolinea il tratto caratteristico di Zuinglio: la sua vocazione politica. Egli non era un mistico, lo abbiamo già detto, e nemmeno un moralista, ma un uo­ mo d'azione, un organizzatore, un guerriero, che realizzò compiutamente l'ideale biblico del profeta-legislatore assu­ mendo di fatto, se non di nome, la guida del governo di Zu­ rigo. Il momento era delicato. La Riforma aveva diviso i Cantoni. E quelli cattolici erano istigati dall'arciduca Ferdi­ nando d'Austria, fratello dell'imperatore Carlo, ad aggredi­ re quelli protestanti. Le persecuzioni infuriarono dall'una parte e dall'altra, e nel '29, se avessero dato retta a Zuinglio, la guerra fredda sarebbe sboccata nella guerra calda. Il buon senso prevalse solo all'ultimo momento dettando un compromesso che tuttavia durò solo due anni. Per sottrarsi al pericolo di venire schiacciato dalle forze coalizzate dei Cantoni cattolici, di Ferdinando d'Austria e di Carlo V, Zuinglio cercò di fondersi con la Germania prote­ stante. E per ottenere il beneplacito di Lutero, lo invitò a una specie di «tavola rotonda» a Marburg. I punti di contra­ sto fra le due dottrine era quattordici. Su tredici l'accordo fu raggiunto, grazie soprattutto all'arrendevolezza di Zuin­ glio cui la ragion di Stato stava più a cuore della teologia. Ma naufragò sul quattordicesimo, quello dell'Eucarestia, cui Zuinglio attribuiva il significato di un simbolo, e non di un miracolo. Battendo i pugni sul tavolo, Lutero rispose: «Il vostro spirito non è il nostro». Da quel momento mise Zuin­ glio sullo stesso piano del Papa e ne trattò i seguaci alla stes­ sa stregua con cui trattava i cattolici e i cattolici trattavano lui. La posizione di Zuinglio ne fu scossa anche sul piano po­ litico. Gli zurighesi mal sopportavano il suo piglio dittato-

484 riale. E forse fu anche per riguadagnare il suo credito e pre­ stigio ch'egli l'istigò nuovamente alla guerra. I Cantoni cat­ tolici lo facilitarono prendendone l'iniziativa. Zuinglio si ar­ ruolò non più come cappellano, ma come soldato fra i mil­ lecinquecento che nel '31 mossero contro il nemico forte di ottomila. Stavolta non ci furono compromessi. La battaglia infuriò, e si concluse col massacro di cinquecento protestan­ ti. Fra di essi era Zuinglio, il cui cadavere fu squartato e poi bruciato su una pira di sterco. Lutero, quando lo seppe, commentò: «Ecco il nostro trionfo». La causa di Zuinglio ebbe ancora dei seguaci, ma non più la forza di farla da protagonista del protestantesimo svizze­ ro. Per trovare il suo vero Riformatore, la Confederazione doveva aspettare Calvino. CAPITOLO VENTIDUESIMO

CALVINO

Il suo vero nome era Giovanni Cauvin, latinizzato in Calvi­ no secondo la moda del tempo. Ed era nato nel 1509, a No- yon, in Francia: una cittadina dominata dalla cattedrale e dal Vescovo. Suo padre Gerardo era appunto segretario amministrativo della diocesi, ma a un certo punto cadde in disgrazia per motivi disciplinari, fu scomunicato, e quando morì solo con molta difficoltà la famiglia ottenne di poterlo seppellire in luogo consacrato. Quanto questo episodio abbia influito sull'apostasia di Giovanni, non sappiamo. Il ragazzo, rimasto ben presto or­ fano di madre, aveva avuto un'infanzia difficile con la ma­ trigna, era stato avviato al sacerdozio insieme a due suoi fra­ telli e mandato a studiar lettere nel collegio di Montaigu, a Parigi. Ne uscì nel 1528, lo stesso anno in cui c'entrava Ignazio di Loyola. Era stato un alunno diligentissimo, timido, taciturno, pio fino alla bigotteria, e poco amato dai compagni, un po' per la sua sgobbonaggine, un po' per i suoi atteggiamenti di moralista. Lo studio del Diritto doveva affinare in lui questa vocazione censoria allenandolo a una casistica non meno puntigliosa e cavillosa di quella d'Ignazio e dei suoi gesuiti. Eppure il futuro puritano, spietato castigatore di peccati e generoso dispensatore d'inferno, debuttò con un elogioso saggio sul Della clemenza di Seneca. Dopo la laurea era venuto in contatto con ambienti intel­ lettuali che facevano capo a Roussel, un amico e consigliere di Margherita di Navarra, sorella del re Francesco I, e a Cop, rettore dell'Università. Costoro sapevano di Lutero,

486 ne conoscevano le opere e mostravano un vivo interesse alle sue teorie. Cop ne fece pubblicamente cenno, con simpatia, nella sua prolusione all'anno accademico 1533, e si dice che Calvino avesse collaborato alla stesura del testo. Ma non an­ dò liscia. Professori e studenti reagirono con violenza alla dottrina della predestinazione e tacciarono di eresia chi, sia pur cautamente, mostrava di avallarla. Cop fuggì, inseguito da una taglia di 300 fiorini, e riparò a Basilea. Ma un mandato di cattura fu spiccato anche per Roussel e Calvino, che si dettero entrambi alla macchia. Calvino tro­ vò rifugio in casa di un amico ad Angoulème, ma dopo qual­ che mese tornò a Noyon. Due volte arrestato e due volte li­ berato, riprese la via di Parigi, di dove gli scrivevano che la tempesta si era quietata. Invece proprio in quel momento essa tornava a scatenarsi per il gesto provocatorio di alcuni estremisti che avevano affisso ai muri dei manifesti prote­ stanti. Calvino fece appena in tempo a sottrarsi alla furiosa repressione ordinata dal Re fuggendo a Basilea. Qui ritrovò Cop. E qui, a ventisei anni, pose mano all'o­ pera che doveva fare di lui il più grande protagonista della Riforma insieme a Lutero: Iprincipi della religione cristiana.

Composto in latino e pubblicato in poche centinaia di copie, il libro si esaurì con tale rapidità che l'editore si affrettò a stampare una seconda edizione ampliata. Ma Calvino, ac­ corgendosi che il pubblico lo seguiva, ne preparò una terza in francese. È difficile dire quanto il successo che ottenne fosse dovuto al contenuto o alla prosa asciutta e tersa, che rappresenta ancor oggi un capolavoro stilistico. Fatto sta che da quel momento egli non fece, per tutta la sua vita, che ripubblicare quel testo di volta in volta arricchito fino a su­ perare le mille pagine. Esso si apre con un patetico appello al Re, la cui condot­ ta autorizzava qualche speranza di guadagnarlo alla causa. Francesco perseguitava i protestanti francesi, ma nello stes­ so tempo invitava quelli tedeschi a far lega con lui nella lot-

487 ta contro Carlo V. Dal piano politico il libro s'innalza su quello teologico per ribadire anzitutto il concetto della pre­ destinazione. Un Cristo che assolve o condanna le sue crea­ ture prima ancora che nascano e indipendentemente dai lo­ ro meriti e demeriti - riconosce Calvino - può sembrare ini­ quo alla ragione dell'uomo. Ma lo sbaglio consiste nell'attri- buire alla ragione dell'uomo il potere di comprendere le ra­ gioni di Dio. Eppoi, ciò non significa che pregare e pratica­ re le virtù cristiane sia inutile. Significa soltanto che non ba­ sta a modificare il nostro destino. Basta solo al compimento di un dovere, di cui dobbiamo essere paghi di per se stesso. La Chiesa, come organizzazione, è una truffa che vive di altre truffe: a cominciare da quella sacrilega pretesa ch'è la Messa di trasformare materialmente il vino e l'ostia nel san­ gue e nel corpo del Signore, fino al culto idolatra delle im­ magini che viola apertamente il secondo Comandamento. La Chiesa vera è la comunità non di tutti i cristiani, ma solo dei predestinati alla Grazia. Essa è invisibile perché chi e quanti siano costoro non è dato sapere. Poi ce n'è un'altra, visibile, rappresentata da coloro che professano la stessa fe­ de e la praticano con una vita esemplare e la partecipazione al Battesimo e all'Eucarestia, unici sacramenti che Calvino riconosce. Questa Chiesa è divina perché ha ricevuto da Dio il mandato di regolare il costume, la morale, la coscienza e l'anima della società cristiana. Perciò l'autorità secolare, cioè lo Stato, deve sottoporsi ad essa e diventare lo strumento di difesa contro la corruzione e 1'«idolatria» (che nel vocabola­ rio di Calvino è sinonimo di Cattolicesimo). Come si vede, il pensiero di Calvino attinge alle stesse fonti di quello di Lutero e di Zuinglio che a loro volta ave­ vano attinto a San Paolo e a Sant'Agostino. Anche la sua istanza teocratica di uno Stato al servizio della Chiesa è quel­ la stessa di cui all'undicesimo secolo si era fatto banditore Gregorio VII nella sua lotta contro l'imperatore Enrico IV. Egli rimette in discussione l'Umanesimo e il Rinascimento, cioè tutt'i valori della cultura contemporanea e ripiomba

488 l'uomo nei terrori del più buio Medio Evo lasciandolo in ba­ lìa di un Dio spietato che non gli concede nemmeno la fa­ coltà di mutare il proprio destino con le preghiere e le buo­ ne azioni. A prima vista riesce quasi incomprensibile che un simile credo guadagnasse alla propria causa, la causa della disperazione, quasi tutta la Svizzera, buona parte della Francia e dell'Inghilterra, la Scozia, il Nord-America. Ma l'incongruenza è solo apparente. Basta leggere Calvi­ no per capire che, pur mettendosi nel mazzo di tutti coloro che ignorano il proprio fato, egli era profondamente con­ vinto di appartenere ai pochi eletti avviati alla salvazione, e per sentirsi contagiati da questa certezza. Fu questo orgo­ glioso sentimento di appartenere a una minoranza predilet­ ta da Dio che moltiplicò le forze, il coraggio, l'intraprenden­ za, lo spirito missionario dei puritani inglesi, dei patrioti olandesi in rivolta contro la Spagna, degli ugonotti francesi e dei «Padri Pellegrini» che nel secolo successivo sarebbero andati a colonizzare il nuovo continente. Per costoro la fede in Dio non era che la fede in se stessi, ch'è il miglior conci­ me di qualunque impresa pionieristica e conquistatrice. Così, grazie a Calvino, la dottrina della predestinazione, lungi dal provocare nel fedele la passiva rassegnazione a una sorte prefabbricata, ne esaltava la fiducia e lo slancio; e quella che in teoria avrebbe dovuto essere una religione dell'abbandono e dell'impotenza sul tipo di quella indù, in pratica si trasformava nel più volontaristico di tutt'i credo. Sebbene molti storici la contestino, a noi sembra giusta e inconfutabile la tesi di Max Weber: che il capitalismo l'epo­ pea americana e più tardi la rivoluzione industriale, insom­ ma tutte le grandi avventure del mondo moderno prendo­ no avvio dallo spirito di crociata che Calvino seppe infon­ dere nei suoi seguaci persuadendoli ch'essi erano, in un mondo di dannati, gli unici «unti del Signore» e che il se­ gno di questa divina predilezione era il raggiungimento del successo contro qualsiasi ostacolo. Con ciò la ricchezza e la potenza cessavano di essere ambizioni mondane per diven-

489 tare doveri morali, manifestazioni della Grazia, garanzie per l'aldilà. Lo spirito dell'Occidente moderno, e specialmente del­ l'America, è tutto qui.

Non si sa molto dei successivi eventi della vita di Calvino. Secondo alcuni storici, mentre i tipografi di Basilea compo­ nevano i suoi Principi, egli scese in Italia e precisamente a Ferrara, chiamatovi dalla principessa francese Renata, figlia di Luigi XII e moglie del duca Ercole II d'Este. Poi intra­ prese altri viaggi, fra cui una rischiosa puntata a Noyon per vendervi alcune proprietà. Ma l'avvenimento decisivo fu la tappa che fece a Ginevra nel '36. Questa città, che ancora non faceva parte della Svizzera, era rimasta un viluppo di villaggi lacustri costruiti su pala­ fitte come ai tempi di Cesare, sotto la sovranità puramente nominale dei Duchi di Savoia. Di fatto, il Governo era eser­ citato da un Vescovo, ch'era anche Principe del Sacro Ro­ mano Impero, eletto di volta in volta dal clero diocesano e che si serviva, come organo esecutivo, di un «Consiglio dei Sessanta», reclutati fra le famiglie più cospicue. Contro questa oligarchia ducal-clericale, si era però organizzato il movimento laico dei cosiddetti Patrioti, che volevano affran­ carsi sia dai Savoia che dalla Curia, e per raggiungere que­ sto scopo avevano intavolato trattative coi protestanti tede­ schi. Costoro li chiamavano Eidgenossen, che significa «ami­ ci giurati». E questo termine, storpiato nella lingua di Gi­ nevra, ch'era ed è il francese, diventò Huguenols, in italiano Ugonotti. Due mesi prima che Calvino arrivasse, costoro avevano vinto la battaglia. Il Vescovo era fuggito, le forze ducali che lo avevano sostenuto erano state scacciate; e la città, ora ret­ ta da un più democratico «Gran Consiglio», aveva procla­ mato la propria indipendenza politica e aderito al prote­ stantesimo. Lanima di questa conversione era stato Guglielmo Farei,

490 alla cui infiammata parola nessuno sapeva resistere. Non gli resistette neanche Calvino quando Farei avendo intuito in lui, di fresco arrivato, la passione teologica e il talento pro­ pagandistico, gli propose di aiutarlo a organizzare la sua nuova Chiesa riformata. Calvino non ne aveva voglia, consi­ derandosi vocato solo a una vita di studioso e di scrittore. Ma dovette arrendersi alle suppliche - condite probabil­ mente di bibliche minacce - di quello scatenato, e in qualità di «lettore», iniziò le sue prediche nella chiesa di San Pietro, commentando le epistole di San Paolo, bussola e punto di riferimento di tutte le confessioni protestanti, componendo un Catechismo, e collaborando attivamente alla stesura di al­ cune leggi che miravano a fare di Ginevra un austero con­ vento. Tutti erano obbligati a frequentare la chiesa. Ogni manifestazione di cattolicismo - il culto delle immagini e delle reliquie, l'uso del rosario, la preghiera a un Santo - era severamente punita. L'ubriachezza, il giuoco, l'adulte­ rio, la frivolezza - compresa quella delle donne - comporta­ vano la prigione. I ginevrini si stancarono presto di questa regola monaca­ le. I Patrioti stavolta fecero lega coi cattolici e coi «libertini», cioè coi liberali. Contro questi ultimi, Calvino lanciò il suo anatema. E fu appunto lui che, facendone sinonimo di «cor­ rotto», diede al termine «libertino» il significato che poi ha conservato. Comunque, questa coalizione riuscì a conqui­ stare la maggioranza del Consiglio, lo ridusse a un organo laico cacciandone i pastori, e a questi ultimi intimò di aste­ nersi dalla politica. Farei e Calvino scomunicarono la città e vi sospesero i servizi divini fin quando non si fosse confor­ mata ai loro precetti, esattamente come facevano i Papi coi Comuni ribelli. Il Consiglio depose i due pastori e li espulse da Ginevra. Farei si trasferì a Neuchàtel, dove seguitò a svolgere il suo ministero fino alla morte. Calvino si rifugiò a Strasbur­ go, una città «libera», cioè che concedeva libertà di culto, e fu assunto come pastore nella chiesa protestante degli stra-

491 nieri. Per arrotondare il suo magro stipendio, prese a pen­ sione degli studenti e decise di sposarsi. Scrisse a Farei che gli cercasse una moglie, e nelle istruzioni che gl'impartì c'è il ritratto dell'uomo. «Io non sono uno di quei pazzi amato­ ri che, colpiti dalla bellezza di una donna, sono pronti ad abbracciare anche i suoi difetti. La sola bellezza che fa per me è quella di una creatura casta, cortese, semplice, econo­ ma, paziente e premurosa della mia salute.» Dopo molti ri­ pensamenti, trovò tutte queste doti in una povera vedova oberata di alcuni figli, Idelette de Bure, che ne dette uno anche a lui. Ma il bimbo morì in tenera età, e dopo dieci an­ ni di matrimonio la madre lo seguì nella tomba. Calvino non cercò di rimpiazzarla e si rassegnò alla solitudine per il resto della sua vita, ormai completamente dedita alla batta­ glia della Riforma. Ginevra lo aveva richiamato, dopo il clamoroso fallimen­ to del governo laico. Dei suoi quattro maggiori dirigenti, uno era finito in galera per omicidio, un altro per truffa, il terzo per tradimento, il quarto era stato ucciso mentre ten­ tava di fuggire. I costumi si erano scandalosamente rilascia­ ti: giuoco, ubriachezza e prostituzione imperversavano. E di tutto questo disordine approfittavano i cattolici per tentar di riguadagnare le posizioni perdute. I protestanti comin­ ciarono a chiedersi se col bando inflitto a Farei e a Calvino non si fossero privati degli unici capi in grado di assicurare la stabilità del regime. E dei due moralisti considerando - per errore - Calvino il meno intransigente e intollerante, lo invitarono a tornare. Calvino accettò solo di rendere una visita ai suoi vecchi amici. Ma la loro accoglienza fu così ca­ lorosa e festosa che decise di restare. La prima impresa cui si accinse fu la riorganizzazione della Chiesa Riformata che, dopo la sua partenza, si era di­ visa come al solito in sètte litigiose. Per ristabilire unità di comando, Calvino istituì una «Venerabile Compagnia», cioè un Consiglio di pastori, che dettò il modello a tutte le Chie­ se Riformate e Presbiteriane d'Europa e d'America.

492 A differenza di quello cattolico, questo nuovo clero non si attribuiva i miracolosi poteri di trasformare il pane e il vi­ no nel corpo e nel sangue del Signore nell'Eucarestia, né di assolvere il peccatore e di commutargli l'Inferno nel Purga­ torio. Anzi, non si attribuiva nemmeno nessun carattere sa­ cerdotale perché l'essenza del calvinismo, sul piano gerar­ chico, è questa: che l'unico vero «sacerdote» è Dio. Ma in compenso il Concistorio o Presbiterio aveva illimitato diritto di supervisione e censura morale su tutta la cittadinanza. Poteva, anzi doveva tenere sotto controllo ogni casa e fami­ glia, convocare il fedele e sottoporlo a interrogatorio, accu­ sarlo pubblicamente, multarlo e perfino bandirlo per le sue mancanze. Tutti erano obbligati ad ascoltare il sermone do­ menicale, anche i malati, anche i seguaci di un credo diver­ so, compreso quello cattolico. E tutti dovevano attenersi al rito d'obbligo e all'interpretazione della Scrittura fornita dal pastore. Per impedire che la Riforma seguitasse a frantu­ marsi in sètte, Calvino rinnegava il principio stesso che l'a­ veva originata: l'affrancamento della coscienza individuale dall'autorità del sacerdote. Chi non accettava il verbo di Cal­ vino era considerato eretico. E siccome l'eresia a sua volta era considerata non solo un insulto a Dio ma anche un'offe­ sa allo Stato, chi se ne macchiava veniva penalmente perse­ guito. In vent'anni cinquantotto eretici salirono il patibolo, e altre quattordici persone furono bruciate come «untori», agenti di Satana per seminar pestilenze. C'è da chiedersi perché i ginevrini sopportassero un si­ mile regime. Ma il fatto è che l'ordine instaurato da Calvino si dimostrava il più proficuo per quella società d'intrapren­ denti industriali e mercanti. Anche Calvino, come Lutero, accettava l'ingiustizia sociale e la divisione in classi come vo­ lute da Dio e additava i segni della Grazia nella disciplina, nella diligenza, nella frugalità, cioè in tutto ciò che esclude la lotta di classe e torna a profitto del profitto. All'opposto dei teologi cattolici, egli ammetteva che il denaro fruttasse un interesse, pur assegnandogli come limite il cinque per

493 cento. Sarebbe fare un torto agli altissimi valori spirituali del calvinismo il dire che il suo Dio era un Dio capitalista. Ma era comunque, almeno in pratica, un Dio che sembrava tagliato proprio sulla misura di quegli svizzeri industriosi e attaccati al soldo. Tanto è vero che i primi centri europei in cui, dopo Ginevra, il calvinismo attecchì furono quelli di più avanzato sviluppo mercantile: Londra, Amsterdam, Anver­ sa; e a farsene banditrici furono le classi medie in impetuosa crescita, cui conveniva una religione che accettava i postula­ ti dell'economia moderna, e anzi li consacrava. A un uomo che rendeva simili servigi si poteva anche perdonare i difetti che rendevano piuttosto pesante il suo giogo. Certo, i ginevrini che avevano invitato Calvino al ri­ torno considerandolo più ragionevole e tollerante di Farei avevano ora di che ricredersi. Ma pretesti per attaccarlo non ce n'erano poiché egli razzolava nello stesso modo in cui legiferava e predicava. Non aveva un vizio. Mangiava poco, e spesso digiunava del tutto, era astemio, lavorava dalle quattordici alle diciott'ore al giorno, non gli si cono­ sceva né una debolezza né un'indulgenza. Rassomigliava in­ somma allo spietato Dio, al terribile Giudice che descriveva nei suoi sermoni. Il ritratto a olio che ci resta di lui nella biblioteca dell'U­ niversità di Ginevra ne fornisce anche una conferma fisica: la fragilità del corpo, il pallore del volto, la fronte stempiata, l'intensità dello sguardo, più che del mistico, sono i tratti del fanatico, ma di sangue ghiaccio e d'intelligenza lucida e ordinata. Calvino non aveva il calore umano e il sanguigno impeto di Lutero. Ma in compenso possedeva il metodo si­ stematico dell'organizzatore e la chiarezza raziocinante del legislatore, spinta fino alla pedanteria. Nella sua smania di fare di Ginevra la «città di Dio», dettava perfino le diete ai cittadini, prescriveva i colori degli abiti, faceva imprigionare le donne che ostentavano gioielli e pettinature provocanti, imponeva nomi biblici ai neonati, e una volta inflisse quat­ tro giorni di carcere a un padre che pretendeva di chiama-

494 re suo figlio Claudio invece che Abramo. Sotto la timidezza nascondeva un immenso coraggio, e dietro la ritrosia uno smisurato orgoglio. La totale mancanza di umorismo lo ren­ deva sensibilissimo alle critiche. La censura che aveva istau­ rato sui libri gii serviva per purgarli non solo delle offese a Dio e alla morale, ma anche di quelle a Calvino, molto più infallibile e intoccabile del Papa. Quando un «libertino» af­ fisse un manifesto contro di lui tacciandolo d'ipocrita, Calvi­ no lo fece arrestare, torturare finché ebbe confessato, eppoi decapitare. Egli stesso si rendeva conto di questi eccessi e cercava di controllarsi. Ma a un amico confessò che incon­ trava meno difficoltà a combattere gli eretici che a domare «la selvaggia bestia della mia rabbia». Nelle dispute di dot­ trina era terribile, e specialmente nell'«affare» Serveto, colui che aveva tanto elogiato la clemenza di Seneca dimostrò quanto ne fosse incapace. Michele Serveto era un «notabile» spagnolo, le cui avven­ ture teologiche riflettevano esemplarmente l'inquietudine spirituale dell'epoca. Fin da ragazzo s'era imbevuto di Bib­ bia e di Corano, e a vent'anni aveva pubblicato un libello in latino, in cui ribadiva la tesi mussulmana secondo cui la Tri­ nità non era che una forma abilmente truccata di politei­ smo, come il culto dei Santi. Questo attentato al dogma lo aveva esposto alla persecu­ zione e obbligato alla fuga. Serveto si era trasferito sotto fal­ so nome a Parigi, vi aveva studiato un po' di tutto, aveva col­ laborato col grande Vesalio ai primi esperimenti di dissezio­ ne anatomica; ma poi, ripreso dal furore teologico, si era trovato coinvolto nell'eresia di Cop e costretto a una secon­ da fuga a Lione. Qui aveva pubblicato prima un saggio sul­ la geografia tolemaica, poi una traduzione in latino della Bibbia in cui aveva spiegato che nella profezia di Isaia («Una vergine concepirà») la parola «vergine» non andava intesa nel senso nostro, ma in quello ebraico di «giovane donna» cui non occorre nessun miracolo per restare incinta e con­ cepire.

495 Questa tesi lo espose alle ire non soltanto dei cattolici, ma anche dei protestanti. Il loro concentrico assalto, lungi dallo scoraggiare, esaltò la furia polemica dell'intrepido e appas­ sionato spagnolo, che in quel momento si era rituffato negli studi di medicina e stava componendo un saggio sulla sua ultima scoperta: la circolazione del sangue fra il cuore e i polmoni, che basterebbe ad assicurargli un posto di prima fila nella storia della scienza. Serveto ridiscese nell'arena teologica e, solo contro tutti, pubblicò un trattato per confu­ tare i Principi di Calvino e soprattutto la dottrina della pre­ destinazione. La diatriba fra i due si accentuò nelle lettere che si scambiarono privatamente, così cariche d'insulti che Calvino scrisse a Farei: «Se Serveto viene a Ginevra, farò in modo che non ne esca vivo». Serveto a Ginevra ci venne, dando prova di una temerità che rasentava la follia. Ma prima ancora Calvino aveva cer­ cato di annientarlo con espedienti che non gli fanno onore. Lo spagnolo aveva pubblicato la sua confutazione, che com­ prendeva anche le lettere private all'avversario, firmando solo con lo pseudonimo. Arrestato e incriminato di eresia dall'Inquisitore di Lione, negò di essere l'autore di quell'o­ pera. Calvino si affrettò a fornire all'accusa gli originali di quelle lettere: prova irrefutabile della identità di Serveto. Pur di distruggere il suo nemico, Calvino era pronto a col­ laborare anche con l'Inquisizione, che infatti condannò a morte il prigioniero. Questi riuscì a evadere e, fremente d'odio e di vendetta, si presentò a Ginevra. Calvino lo fece arrestare. Trattandosi di un ospite di passaggio, la pena massima prevista dalla legge era l'espulsione. Ma Calvino, rotto com'era a tutti i ca­ villi giuridici, riuscì a farlo incriminare di eresia. Seguì un clamoroso e spettacolare processo in cui accusato e accusa­ tore si affrontarono in una battaglia da circo, che toccò in­ sieme i vertici delle più alte discussioni teologiche e delle più basse risse da trivio. Mezza Ginevra, tutta quella «pa­ triota» e «libertina» parteggiava per Serveto; e forse fu pro-

496 prio questo a irrigidire Calvino nella sua richiesta di morte. Prima di pronunciarsi, il tribunale sollecitò il parere di tutte le altre Chiese protestanti della Svizzera. Unanimemente esse chiesero una condanna, a esclusione di quella capitale. Ma la volontà di Calvino riuscì a prevalere di tutto e di tutti. Senza un briciolo di carità né di rimorso, egli scrisse più tar­ di, ungendo la vendetta di sarcasmo, che quando Serveto udì la sentenza che gli comminava il rogo, «cominciò a la­ mentarsi come un pazzo, battendosi il petto e mugolando in spagnolo: misericordia, misericordia!» L'unico suo gesto di generosità verso la vittima fu di offrirgli la consolazione del­ la vera fede, se ritrattava le sue eresie. Serveto rifiutò. Chie­ se soltanto che gli commutassero il rogo nella decapitazio­ ne. Calvino vi si mostrò disposto, ma Farei insorse taccian­ dolo di «debolezza» eppoi inseguì la vittima, mentre la con­ ducevano al supplizio, ingiungendole di riconoscere e ri­ trattare i suoi errori. Ancora una volta Serveto rifiutò, e pri­ ma di scomparire tra le fiamme impetrò da Dio il perdono dei suoi persecutori. Era il 1553. Esattamente tre secoli e mezzo dopo, nel 1903, la calvinista Ginevra decise d'innalzare un monumen­ to a Serveto sulla collina che ne aveva visto il martirio. Ad aprire con una cospicua offerta la lista delle sottoscrizioni fu la «Venerabile Compagnia» di Calvino. Morto in odor di eresia sia dei protestanti che dei cattoli­ ci, Serveto non trovò avvocati difensori né fra questi né fra quelli. Sia detto a nostro onore, gli unici che ne esecrarono il supplizio e ne rivendicarono pubblicamente l'innocenza furono tre intellettuali italiani emigrati a Ginevra: Matteo Gribaldi, Giorgio Blandrata e Valentino Gentile. I primi due furono per questo loro gesto perseguitati ed espulsi, Gentile ci rimise addirittura la testa, e non in senso traslato perché lo decapitarono. Quanto a Calvino, non risulta che la sua coscienza fosse turbata dal rimorso. Anche a ceneri raffreddate, egli seguitò a imperversare sulla sua vittima con un libello «Contro i

497 prodigiosi errori di Michele Serveto». Era convinto di aver interpretato, mandandolo al rogo, la volontà di Dio; e dopo questo gesto si sentiva più che mai «unto del Signore». A procurargli triboli era soltanto il corpo. Sempre più era af­ flitto da emicranie lancinanti, coliche renali, asma e gotta. Ma non smise di predicare nemmeno quando non fu più in grado di muoversi e dovettero trasportarlo in chiesa su una lettiga. Neanche in punto di morte ebbe dubbi e ripensa­ menti. Chiese solo scusa agli astanti dei suoi soprassalti di collera e il 25 aprile del '64 chiuse gli occhi col sereno intre­ pido coraggio dell'uomo di fede. Di tutti grandi riformatori, era stato senza dubbio il me­ no amabile e umano, ma anche il più efficiente sul piano or­ ganizzativo e il più incisivo su quello morale. Ultimo arriva­ to della grande rivoluzione protestante, egli strappò mezza Europa e quasi tutto il Nord-America a Lutero, confinando­ ne l'influenza alla Germania e alla Scandinavia. Fu in suo nome e sotto il suo influsso che presero avvio le più esaltan­ ti imprese del mondo moderno. CAPITOLO VENTITREESIMO

L'INTELLETTUALE ALLE CORDE

Di fronte alla grande battaglia che metteva a soqquadro la Chiesa e la coscienza cristiana, Erasmo assunse atteggia­ menti contraddittori che dimostrano il suo crescente di­ sagio. Lo abbiamo lasciato in Belgio, consigliere privato del futuro imperatore Carlo V. Era ancora lì, e insegnava latino all'Università di Lovanio, quando Lutero affisse le famose Tesi. Leggendole, Erasmo non ne fu affatto scandalizzato. Anzi ne mandò copia ai suoi amici inglesi Moro e Colet ac­ compagnandole con parole di elogio, e più tardi scrisse a un amico: «Io credo che queste tesi piaceranno a tutti... La Curia romana è la rovina della Cristianità...» Ma quando dalla critica delle indulgenze Lutero passò al disconoscimento dell'autorità del Papa e dei Concili, Era­ smo diventò più cauto. Il Papa era quel Leone X dal quale egli aveva ricevuto particolari favori e al quale si sentiva le­ gato da interessi di cultura umanistica. Ma oltre a questo, c'era anche un fatto di temperamento. Erasmo era uomo di discussione sul piano filosofico, ma­ gari anche di polemica, ma non di lotta. Egli voleva, sì, una riforma della Chiesa, ma non la Riforma, cioè la rivolta por­ tata fino allo scisma. Per cui fu profondamente turbato, quando molti teologi ortodossi cominciarono a mormorare che il vero ispiratore di tutto quello sconquasso era lui e che Lutero aveva soltanto covato l'uovo che Erasmo aveva de­ posto. «Sì - rispose con la sua tagliente ironia -, ma il mio uovo era di gallina. Lutero ne ha tratto fuori un gallo da combattimento.» Un po' per dimostrare la sua buona fede, un po' per evi-

499 tare che le cose arrivassero al punto d'imporre anche a lui una scelta cui il suo carattere conciliante e l'amor del quieto vivere repugnavano, ma un po' anche per la sincera preoc­ cupazione di una drammatica rottura dell'unità cristiana, si era messo in contatto con gli ambienti cattolici più liberali e «aperti», Colet, Moro, il vescovo Fisher, l'arcivescovo War- ham, per spingere la Chiesa a concessioni che spianassero la strada a un compromesso disarmando gli estremisti della parte avversa. Ma Lutero non gliene diede il tempo. Il mo­ naco ribelle, che sebbene così dissimile da Erasmo, o forse proprio per questo, nutriva una sconfinata ammirazione per lui e ne aveva divorato tutte le opere, gli scrisse una let­ tera piena di devoto affetto in cui, riconoscendolo suo mae­ stro, ne invocava l'appoggio. Erasmo si sentì solleticato nella sua vanità, ma anche pro­ fondamente imbarazzato. Che fare? Restare il figlio della Chiesa, o diventare il padre della Riforma? La sua perples­ sità è documentata nella risposta: «Carissimo fratello in Cri­ sto, le vostre parole, che dimostrano l'acutezza della vostra mente e il calore di uno spirito religioso, mi giunsero parti­ colarmente gradite. Non vi potete figurare l'emozione che i vostri scritti stanno suscitando qui. Io non riesco a dissipare nei lettori il sospetto che a ispirarli sia stato io e che io per­ ciò sia il vessillifero del vostro partito. Ho giurato che mi siete del tutto sconosciuto, che sinora non avevo mai letto li­ bri vostri, che non li approvo né li disapprovo, ma che tutti dovrebbero leggerli prima di parlarne a vanvera. Invano. Continuo a essere il bersaglio della generale animosità... Qui voi avete degli amici, a cominciare da me. Ma il mio pa­ ne è la letteratura. A questa cerco di limitare i miei interessi, tenendomi il più possibile estraneo ad altre dispute, nelle quali tuttavia penso che la cortesia sia più produttiva della violenza. Perciò credo che sarebbe più saggio da parte vo­ stra denunziare coloro che abusano dell'autorità del Papa che non censurare lui, e seguire la stessa regola per i Re e i Principi. Le vecchie istituzioni non possono essere sovverti-

500 te dall'oggi al domani. Evitate i toni sediziosi. Mantenetevi calmo. Non incolleritevi. Non odiate. Cristo vi dia il Suo spi­ rito per la Sua gloria e il bene di tutti». A conferma dell'ambivalenza di questa lettera, Erasmo ne scrisse altre due: una a Froben, editore suo e di Lutero, sconsigliandogli di pubblicare altri scritti del monaco; l'al­ tra all'elettore Federico di Sassonia per incoraggiarlo a pro­ teggere il ribelle. Ma quella posizione di equilibrio era dif­ ficile da mantenere proprio nel momento in cui l'estremi­ smo prendeva il sopravvento da una parte e dall'altra. Il clero fiammingo reclamò e ottenne la sua estromissione dalla cattedra di Lovanio. Questa mossa, per dirla con Tal- leyrand, era peggio che un delitto; era un errore, che avrebbe potuto spingere definitivamente l'amareggiato Erasmo nelle braccia di Lutero facilitandone il trionfo, se costui, non meno irriducibile e massimalista dei suoi avver­ sari, non avesse reagito alla scomunica del Papa scomuni­ candolo a sua volta, bruciandone pubblicamente la «bolla» e invitando i tedeschi a «lavarsi le mani nel sangue dei Ve­ scovi e dei Cardinali». Questo era troppo per Erasmo, che se ne dichiarò indi­ gnato. Lutero, ormai disperando di guadagnarlo alla sua causa e fedele al motto di tutti fanatici: «Chi non è con noi è contro di noi», gli si scagliò contro tacciandolo di codardo, rinnegato, camaleonte, disertore, e altre qualifiche in tono col suo stile polemico. Ma nemmeno questo brutale e ma­ laccorto attacco disarmò le diffidenze e l'acredine dei prela­ ti fiamminghi che seguitarono a considerare Erasmo un criptoluterano o, come oggi si direbbe, un «compagno di viaggio». Disgustato, Erasmo si ritirò a Basilea, la cittadella dell'u­ manesimo svizzero, rimasta fin'allora estranea alla mischia. Sperava di ritrovarvi la pace. Ma fu raggiunto da una lette­ ra di papa Adriano VI, suo vecchio amico dei tempi di Utrecht, succeduto a Leone. Essa documenta l'immenso credito che lo scrittore seguitava a godere, malgrado l'ostra-

501 cismo inflittogli da ambedue le parti. « Sta a voi, con l'aiuto di Dio, recuperare le anime deviate da Lutero... Venite a Roma da me, che son rimasto quello che avete conosciuto quando eravamo insieme studenti... Ho bisogno del vostro consiglio...» La risposta di Erasmo era piena di amarezza: «Voi pensa­ te che le mie parole abbiano ancora qualche peso. Purtrop­ po la popolarità di cui godevo ha ceduto il posto all'odio. Il Principe delle Lettere, come un tempo mi chiamavano, la Stella della Germania, l'Alto Sacerdote della Cultura, il Campione della Pura Teologia, non è più nulla di tutto que­ sto. Una parte dice che io sono per Lutero perché non sono contro di lui; l'altra dice che io sono contro Lutero perché non sono per lui. Nei miei libri c'è materia per sostenere l'una e l'altra tesi. Ma anche in San Paolo ci sono dei passag­ gi che avallano le dottrine di Lutero. La verità è che io da Lutero dissento...» Adriano morì subito dopo. Ma il suo successore Clemen­ te VII si avvalse di questa dichiarazione per sollecitare Era­ smo in termini ancora più pressanti a schierarsi con la Chie­ sa. Erasmo finì per arrendersi, e compose un trattato, De li­ bero arbìtrio, con cui rifiutava, pur senza direttamente attac­ carla, la tesi fondamentale di Lutero: la predestinazione. Certamente lo fece per sottrarsi al pericolo della scomunica e della persecuzione, ora che la Chiesa accennava a restau­ rare i metodi inquisitoriali e polizieschi. Ma non solo per questo. Il fatto è che un uomo della sua formazione spiri­ tuale e culturale non poteva assumere altro atteggiamento. La Chiesa aveva non soltanto tollerato, ma incoraggiato l'umanesimo, testandone essa stessa profondamente intrisa. Specialmente i Papi dell'ultimo Quattrocento avevano aiu­ tato e finanziato la riscoperta di testi classici, sul tacito pre­ supposto che questo ritorno ai modelli filosofici, letterari e artistici della grande civiltà pagana restasse confinato alle élites d'Europa senza turbare l'ortodossia delle masse. Il fat­ to che queste élites non comunicassero fra loro che in latino,

502 le riduceva a una specie di accademia senza contatti col po­ polo. Era insomma una cultura di «notabili», aristocratica e iniziatica, che poteva adottare Aristotele e mettere Platone alla pari di Gesù, aggirare il dogma e perfino bestemmiare, senza gettare lo scompiglio nel gregge. Gli umanisti, fra i quali militavano anche dei Papi, non erano degli eretici. Erano soltanto degl'increduli, privi d'interessi teologici. Es­ si criticavano la Chiesa, ma ne apprezzavano la tolleranza e soprattutto ci vedevano il puntello di quella unità spirituale e culturale che meglio si confaceva al loro universalismo. Erasmo non si sarebbe mai rassegnato a essere uno scrittore soltanto fiammingo. Egli voleva corrispondere con Moro e Colet a Londra, coi Cardinali di Roma, con Manuzio a Ve­ nezia, con Froben a Basilea. Per questo non aveva mai volu­ to scrivere e parlare che in latino, questo esperanto della in­ tellighenzia europea, ch'era anche la lingua della Chiesa: una Chiesa che, proprio grazie all'umanesimo, aveva sempre più accantonato il retaggio biblico ed ebraico, per fare sem­ pre più posto a quello della cultura pagana di Roma e della Grecia. La Riforma rompeva brutalmente questo idillio fra Chie­ sa e cultura. Gli umanisti avevano dapprima creduto di ve­ dere in Lutero un monaco semplicione che, avendo preso sul serio le loro critiche a un certo malcostume del clero (di cui essi stessi erano, sì, i denunziatori, ma anche i maggiori responsabili), s'illudeva di potervi rimettere ordine. Ma sor­ risero del suo rozzo e lutulento latino, e più ancora della fo­ ga, del calore, della passione che portava nelle sue diatribe sulla consustanziazione e la Trinità. Questi problemi ormai essi li avevano relegati in soffitta, appartenevano al reperto­ rio medievale. Come poteva, uno spirito moderno, pren­ derli ancora sul serio? Ma il rapido diffondersi dell'incendio e i suoi effetti de­ vastatori li obbligarono a ricredersi. Con Lutero, che scrive­ va e parlava in tedesco, le lingue nazionali prendevano il so­ pravvento sul latino e fornivano alle masse il mezzo per par-

503 tecipare ai problemi culturali del momento. Il monopolio delle élites finiva. E finiva anche il loro costume, il loro gu­ sto, la loro mentalità. La Riforma spogliava le Chiese met­ tendo al bando le opere d'arte, rituffava la coscienza dei fe­ deli nei terrori dell'anno Mille richiamando in servizio il Diavolo che la Chiesa del Rinascimento aveva congedato, svalutava la vita terrena rifacendone la semplice anticamera dell'aldilà, spodestava la ragione a beneficio della Fede; e dando con la dottrina della predestinazione per predispo­ sto e inevitabile tutto ciò che accadeva sulla terra, negava tutti i valori di cui l'uomo rinascimentale aveva acquistato l'orgoglio: l'intelligenza, il coraggio, l'iniziativa, la sapienza. Erasmo non poteva accettare nulla di tutto questo. Egli vide chiaramente - e lo disse - che dovunque la Riforma trionfava, la cultura declinava. Lutero rispose che a declina­ re non era la cultura, ma soltanto quella pagana, cioè non cristiana. Aveva ragione. Ma per l'umanista Erasmo non ce n'erano altre. Così il crepuscolo della sua vita coincideva con quello del suo mondo. Seguitò ad agitarsi per cercare un impossibile compromesso fra le due opposte concezioni. Raccomanda­ va a tutti prudenza e misura. Sollecitava riforme come uni­ co antidoto alla Riforma. C'era ancora molta gente che lo ammirava e gli dava ascolto. Dovunque andasse, lo accoglie­ vano con grandi onori; e quando la pensione che gli passa­ va Carlo V cominciò a farsi saltuaria, intervennero i Fugger con cospicue sovvenzioni. Ma sentiva l'inutilità della sua lot­ ta e sempre più era sopraffatto dallo scoraggiamento. II grande Dùrer ne colse con mano maestra l'ombra nel ritrat­ to che gli fece in questi tempi e che lo mostra ancora più magro, esangue e impresciuttito del solito, col volto deva­ stato di rughe e le mani rattrappite dall'artrite. La gotta, i calcoli, i disturbi intestinali si erano acuiti. Ogni più piccolo sbalzo di temperatura gli provocava una bronchite. E que­ sto lo costringeva a restarsene confinato in casa, e spesso a letto. Le visite e le lettere degli amici diradarono. Froben,

504 che lo teneva ospite in casa sua, non osava dirgli che i suoi libri, un tempo delizia di tutta l'Europa colta, ingombrava­ no il magazzino della stamperia perché non trovavano più lettori. Il nuovo pubblico, rozzo e ignaro di latino - il pub­ blico di Lutero -, non mostrava alcun interesse per la lette­ ratura, era assetato solo di Dio, di Bibbia e di teologia. Ma Erasmo, che aveva sempre sentito tutto col suo infallibile fiuto di giornalista, probabilmente sentiva anche questo. Nel giugno del '36 fu colpito da un attacco di dissenteria, e capì ch'era la fine. Ma non chiamò il confessore. E così l'uomo che al momento della scelta suprema aveva preferi­ to la fedeltà alla Chiesa, chiuse gli occhi invocando il nome di Cristo e di Maria, ma senza i sacramenti. Basilea gli tribu­ tò solenni esequie e ospitò i suoi resti nella cattedrale. Ma le sue traversìe non erano finite. I protestanti seguitarono a tacciarlo di codardia e di diserzione; i cattolici lo accusarono di eresia e proibirono la ristampa dei suoi testi. Ancora due secoli dopo Walpole lo definiva «un parassita mendicante, che aveva avuto abbastanza talento per vedere la verità, ma non abbastanza coraggio per professarla». Solo nell'Ottocento, a polemica placata, le due Chiese ab­ bandonarono questa nobile gara di acredine e di ottusità nei confronti di Erasmo, e ne riconobbero la grandezza. I fanatici non potevano capirla. E questo è il miglior elogio che gli si possa fare.

PARTE TERZA

IL MERIGGIO DEL RINASCIMENTO CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

PANORAMA ITALIANO

L'Italia era ormai un dominio spagnolo, di cui Napoli e Mi­ lano costituivano i capisaldi. Dal 1504, la città partenopea era governata da un vice­ ré, che in nome di Madrid vi esercitava il potere assoluto. Dapprincipio egli si servì dell'elemento indigeno, ma col tempo ogni funzione pubblica diventò monopolio dì casi­ gliani e aragonesi. Nella capitale stanziava un piccolo eser­ cito, bene armato e di una fedeltà a tutta prova. Sugli abi­ tanti vigilava un'efficiente polizia, da cui dipendevano e a cui facevano capo centinaia di spie e informatori. Speciali corrieri facevano la spola fra Napoli e Madrid, di dove par­ tivano gli ordini ai governatori e ai viceré del più vasto im­ pero del mondo. Nei primi decenni del Cinquecento, Napoli era una delle città più popolose della Penisola. L'inurbamento dei baroni dalle campagne ne aveva dilatato i confini e al tempo stesso aveva introdotto nella capitale un pericoloso elemento d'in­ stabilità. La riottosità e spavalderia di questi nobilucci di campagna, l'insolente fasto di cui facevano sfoggio, l'osten­ tato disprezzo per ogni genere di lavoro furono all'origine di un costume e di una mentalità che purtroppo si sono per­ petuati fino ai nostri giorni. Non meno corrotta e socialmente quasi altrettanto inuti­ le era la borghesia, formata di speculatori e avvocati. I pri­ mi appaltavano gabelle, gestivano banche, costruivano pa­ lazzi, esportavano frumento, importavano manufatti. Molti erano forestieri, soprattutto genovesi e fiorentini. I secondi erano in maggioranza indigeni. Il loro numero era enorme,

509 ma bastavano appena al fabbisogno della capitale, i cui pas­ satempi preferiti erano già allora le contese giudiziarie. Da­ ta da quei tempi, anche se il modello si perfezionò nel seco­ lo successivo, la formazione del meridionale leguleio, fac­ cendiere, imbroglione, esperto di cavilli, e quella del magi­ strato formalista che allo scrupolo del codice sacrifica quello della giustizia: una malformazione che seguita a contamina­ re l'Italia tutta. Le condizioni della plebe erano migliori che nel resto del Mezzogiorno ma peggiori che nel resto d'Italia. I napoleta­ ni godevano infatti di numerosi privilegi, fra cui l'esenzione dal focatico, o imposta di famiglia; ma vivevano ammucchia­ ti come acciughe in luridi bassi, infestati da topi e pidocchi. In una città come quella priva d'industrie, e quindi di fonti di lavoro e di guadagno, campavano di elemosine e di pic­ coli espedienti, e la loro fisiologica e cronica disponibilità a ogni tentativo d'eversione sociale era la costante preoccupa­ zione dei viceré. Costoro, più che a sfamare le masse, pen­ savano a divertirle con spettacoli pirotecnici, parate, esecu­ zioni capitali, funerali, messi in scena senza economia e con sfarzo tutto spagnolesco. Nel 1532 fu nominato viceré il marchese di Villafranca Don Pedro di Toledo, un moralista duro e autoritario ma efficiente, che governò Napoli per oltre vent'anni, elevò il tenore di vita dei suoi abitanti e abbellì la città. Per tenere a bada plebe e aristocrazia, aizzò l'una contro l'altra, ergen­ dosi ad arbitro delle contese che opponevano continuamen­ te questa a quella. Sotto di lui, i delitti, i furti e le rapine di­ minuirono e la corruzione trovò un argine. Bandì i duelli, proibì le musiche notturne e le ciambellarie, burle di giovina­ stri ai danni delle vedove che si rimaritavano, riunì i bordel­ li in un unico quartiere, vietò alle loro inquiline di uscirne, fece radere al suolo le grotte di Chiatamone, luogo di con­ vegno di pederasti e baldracche, comminò pene severissime a coloro che di notte si facevano vedere in giro con scale a piuoli, di cui i napoletani si servivano per compiere i furti e

510 rapire donne. Perseguitò gli usurai e istituì il Monte di pie­ tà, bonificò paludi, costruì case, scuole, ospedali, elargì sus­ sidi ai disoccupati e proibì le «superstiziose dimostrazioni di duolo, che si facevano ne' funerali, non solo con lungo e smoderato strascico d'abiti luttuosi, ma anche con urli e pianti e graffiature di viso, fino a mezzo delle pubbliche strade». Dalla Spagna importò le corride, di cui era un patito. Scendeva personalmente nell'arena, e una volta fu ferito al­ la coscia da una cornata. Ma i napoletani erano piuttosto al­ lergici a questo genere di spettacoli, che spesso si conclude­ vano con autentiche ecatombi di tori e toreri. Preferivano sport e giochi meno cruenti. Erano già fin d'allora la più fe­ stosa, pittoresca e spensierata popolazione italiana, che di­ menticava facilmente i propri guai. E fu questo a facilitare la dominazione vicereale, che durò due secoli e isolò il Mez­ zogiorno dal resto della Penisola.

L'altro caposaldo iberico in Italia era Milano. Per il suo pos­ sesso, spagnoli e francesi erano ripetutamente scesi in cam­ po e con alterne vicende ne erano stati di volta in volta i pa­ droni. Nel 1526, col trattato di Madrid, il ducato era stato assegnato, sia pure solo nominalmente, a Francesco Maria Sforza, secondogenito di Ludovico il Moro. Di fatto su di es­ so esercitava un controllo assoluto Carlo V, che nel 1535, al­ la morte di Francesco, ufficialmente se l'annesse, nominan­ dovi un governatore. Le innumerevoli guerre di cui era stata teatro, avevano ridotto Milano a un cimitero. L'industria era stremata, il commercio languiva, molti artigiani avevano dovuto chiu­ dere bottega; nelle campagne, saccheggiate dagli eserciti, i raccolti non bastavano a sfamare nemmeno i contadini. Il patriziato, che sotto gli Sforza costituiva il ceto dominante e deteneva il capitale, era stato dissanguato dalle lotte di par­ te, che l'avevano diviso in fazioni favorevoli ora alla Francia ora alla Spagna.

511 Con l'avvento di quest'ultima, il ducato si ridusse al ran­ go di colonia e conobbe uno dei periodi più tristi della sua storia. All'inizio vi regnò il caos, aggravato dall'inettitudine e dalla rapacità dei primi governatori. Solo nell'agosto del 1545, Carlo si decise a dare un assetto stabile. Al vertice del­ la gerarchia era un governatore dal quale dipendevano l'amministrazione e la giustizia. Gli editti e le leggi che in nome del sovrano egli emanava si chiamavano gride e veni­ vano rese pubbliche da araldi che le «strillavano» per le stra­ de. Il supremo organo giudiziario era il Senato, che sulla carta godeva di ampia autonomia ma in pratica era il notaio del Re di Spagna, di cui passivamente registrava gli atti. I suoi membri erano in gran parte nobili e patrizi di collau­ data fedeltà alla Corona. L'ultima opposizione alla Spagna era stata brutalmente liquidata. Il partito filo-francese era stato sciolto e i suoi membri decapitati o banditi. Un suda­ rio di conformismo, aduggiato dalla trionfante reazione cat­ tolica, avvolse il ducato e ne inaridì la vita. Per Madrid, Mi­ lano non era solo una provincia da sfruttare e uno scudo contro la Francia. Era anche un ideale osservatorio su altri due importanti Stati: Genova e Torino. Fin dal 1528 la città ligure era entrata nell'orbita spagno­ la. In quell'anno il celebre ammiraglio Andrea Doria, ram­ pollo di una delle famiglie più potenti della Repubblica, get­ tava le ancore nel porto di Genova issando lo stendardo im­ periale. Fino a poco tempo prima aveva militato sotto le in­ segne della Francia, che esercitava il pieno dominio sulla Li­ guria. A provocare il voltafaccia era stata la promessa di Carlo di scacciare i francesi e restituire ai genovesi la libertà. Il colpo riuscì, e la Repubblica riacquistò la propria indi­ pendenza, almeno sulla carta. L'ammiraglio risparmiò a Carlo lo scomodo di spedire a Genova un viceré assolven­ done egli stesso le funzioni, e a Genova l'umiliazione di es­ sere governata da uno straniero. La città gli dimostrò la sua gratitudine offrendogli il titolo di Duca. Ma il Doria preferì quello di «Padre della Patria» un po' perché comportava l'e-

512 senzione dalle tasse (era genovese, no?), un po' perché, seb­ bene avesse superato la sessantina, non voleva rinunziare alla carriera d'ammiraglio. Nel 1531, infatti, si rimise in ma­ re, espugnò Patrasso, Sidone e Corinto, e condusse Carlo alla conquista di Tunisi. Ogni suo ritorno a Genova veniva salutato da fiaccolate, fuochi d'artificio, feste, balli. Ma sotto la cenere della con­ cordia covava la brace della ribellione. I Fieschi, pur osten­ tando il più gran rispetto per l'Ammiraglio, trescavano coi francesi contro di lui. Quando il Doria fu informato della congiura non volle crederci. Gian Luigi Fieschi, che la ca­ peggiava, era uno dei suoi amici più assidui. Quando si vide scoperto, cercò di mettersi in salvo su una nave, ma nel sa­ lirvi cadde in mare e scomparve tra i flutti. Il fratello Giro­ lamo riuscì a rifugiarsi nel suo feudo di Mondobbio, da do­ ve, alcuni mesi dopo, fu snidato e impiccato. La vendetta di Andrea s'abbattè su tutti i cospiratori e le loro famiglie. Do­ podiché egli si sentì più che mai «Padre della Patria» e, seb­ bene la gotta non gli desse tregua, si mise nuovamente alla testa della flotta della Repubblica e la lanciò contro i corsari che infestavano il Tirreno. Fu una delle sue ultime imprese. Il 25 novembre 1560, all'età di novantaquattro anni, calò nella tomba. In Piemonte l'egemonia spagnola era stata più a lungo contrastata. La geografia poneva il ducato di Savoia nella sfera d'influenza francese, e la lingua e i costumi ricalcava­ no quelli d'Oltr'Alpe. Tra la fine del '300 e il principio del '400, mentre in Francia divampava la guerra dei Cento An­ ni, il Piemonte era riuscito ad allentare i propri vincoli col potente vicino e per un certo tempo aveva goduto di una relativa indipendenza. Ma con l'avvento al trono di Luigi XI era ripiombato sotto l'egemonia francese, invano contra­ stata dalla Spagna. Non contento d'esercitarvi questo dominio di fatto, nel 1536 Francesco I decise d'annettersi il Piemonte e di farne una base per la riconquista del Milanese. Il 3 aprile, senza

513 colpo ferire, l'esercito francese occupò Torino. Francesco diede alla città un parlamento, privilegio concesso ai terri­ tori del Regno a diritto misto, ma ordinò la chiusura dell'U­ niversità, una delle più rinomate della Penisola, per paura che diventasse un focolaio d'irredentismo. La dominazione francese non era però destinata a dura­ re a lungo. Carlo V, colto di sorpresa dalla mossa francese, non tardò a reagire. Le forze dei due sovrani si logorarono per quasi vent'anni in una serie d'inutili guerricciole e sca­ ramucce, che insanguinarono il Piemonte fin quando, nel 1556, Emanuele Filiberto di Savoia si schierò con Filippo II, anzi fu nominato comandante dell'esercito spagnolo che a San Quintino sconfisse quello francese. La Spagna poteva ora contare su un suo Doria anche in Piemonte. Il Nord della Penisola era interamente nelle sue mani. Ma anche al centro Madrid aveva importanti pedine. A Firenze la caduta della Repubblica aveva riportato al potere i Medici. Il duca Alessandro governava con pugno di ferro. La sua elezione aveva ingrossato le file dei fuorusciti, che l'accusavano di tirannide e d'immoralità e chiedevano al­ l'Imperatore la sua testa. Carlo V indisse a Napoli una spe­ cie di tribunale. Alessandro vi si presentò e fu assolto, grazie alle arringhe dei suoi avvocati Baccio Valori e Francesco Guicciardini. L'Imperatore, per farsi forse perdonare di aver dubitato della sua innocenza, gli diede in moglie la fi­ glia naturale Margherita e due mesi dopo si recò a Firenze in visita ufficiale, suggellando solennemente i vincoli d'ami­ cizia che univano l'Impero ai Medici. Fu un duro colpo per gli oppositori di Alessandro, che vedevano così sfumare il loro sogno di restaurazione repubblicana. Fra di essi c'era un certo Lorenzino, cugino del Duca, un letterato fallito, ambiguo, diffidente, invidioso e privo di scrupoli. Alessandro, di cui era nota la smodata lussuria, ne aveva fatto il suo ruffiano. Lorenzino, che i fiorentini aveva­ no soprannominato Lorenzaccio, allacciava tresche e pro­ cacciava donne al suo signore. Alessandro era di bocca buo-

514 na, gli piacevano tutte, ma aveva un debole per le monache, specialmente se minorenni. Lorenzino era quindi l'uomo più adatto ad attuare il piano dei fuorusciti di assassinare il Duca e restituire a Firenze la libertà. Era divorato dall'am­ bizione, odiava il cugino, e sebbene avesse solo ventidue an­ ni, sognava di prenderne il posto. La sera dell'Epifania (1537), Alessandro si recò a casa di Lorenzino, dove avevano luogo i suoi convegni amorosi, e in attesa che il cugino gli portasse la dama di cui s'era inva­ ghito, si spogliò e si distese sul letto. Lorenzino si presentò puntuale all'appuntamento, accompagnato, invece che dal­ l'amante, da un ceffo del Mugello, di nome Scoronconcolo. I due trovarono Alessandro addormentato. Lorenzino s'av­ vicinò al cugino e lo trafisse con uno stocco. Il Duca lanciò una specie di barrito e s'avvinghiò all'assalitore, ma Scoron­ concolo gli dette il colpo di grazia. Compiuto il delitto, i due congiurati lasciarono Firenze e s'unirono ai fuorusciti per tornare insieme ad essi quando la città, conosciuta la morte del tiranno, si sarebbe sollevata. Ma la sollevazione non ci fu. Le simpatie per i Medici erano scarse. Ma ancora più scarse erano quelle di cui godevano i loro nemici. Alla successione fu designato il figlio di Giovanni dalle Bande Nere, Cosimo, un giovane di diciassette anni, che fi- n'allora aveva vissuto con la madre in campagna, dedito alla caccia, al nuoto e all'equitazione. I fiorentini accolsero con scetticismo la sua nomina e gli pronosticarono un regno breve e contrastato. Ma di lì a poco, quando i fuorusciti ar­ marono un esercito per rovesciarlo, Cosimo fece cingere d'assedio il castello di Montemurlo, fra Pistoia e Prato, dove i capi dell'opposizione s'erano asserragliati, e prima che le truppe repubblicane giungessero in loro soccorso, li catturò in massa, li trascinò a Firenze e li fece decapitare. La fulminea impresa destò l'ammirazione dei contempo­ ranei. L'Imperatore in persona si congratulò col Duca. Cosi­ mo ne profittò per chiedergli la mano della figlia Margheri­ ta, vedova del predecessore. LImperatore gliela negò, ma il

515 Duca non si diede per vinto e lo invitò a trovargli un'altra moglie. Carlo gli propose la primogenita del viceré di Na­ poli. Cosimo chiese e ottenne di sostituirla con la secondo­ genita, più giovane e carina. Il 29 giugno 1538, nella chiesa di San Lorenzo, si celebrarono le nozze. Cosimo aveva vent'anni, la moglie diciassette. Lui era chiuso, enigmatico, freddo, calcolatore; lei devota, austera, tutta casa e chiesa. Eppure, fu un'unione esemplare, allieta­ ta da uno sciame di figli e durata ventitré anni. La coppia si trasferì dal palazzo avito di via Larga a quello della Signo­ ria, munito come un fortilizio. Il Duca lo riempì di pretoria­ ni che lo seguivano dovunque e di notte ne vegliavano i son­ ni. Lorenzino era ancora vivo, i fuorusciti stavano rialzando la cresta, e Cosimo temeva di far la fine del suo predecesso­ re. I sicari che, dopo aver assunto il potere, egli aveva sguin­ zagliato dalla Francia alla Turchia sulle orme del tirannici­ da, erano tornati in patria a mani vuote. Ma nel 1547 si sparse la voce che Lorenzino si trovava a Venezia. Cosimo vi spedì subito i suoi killer, sotto i cui pugnali il Medici cadde trafitto mentre, una mattina all'alba, usciva dalla chiesa di San Polo. Ora il Duca poteva dormire sonni tranquilli. Eliminato il più temibile dei fuorusciti, s'accinse a consoli­ dare il potere e ad allargare i confini del ducato. Il principa­ le ostacolo era costituito da Siena, alleata dei francesi, che presidiavano la città con una guarnigione. Con mossa abile e improvvisa, profittando dell'impossibilità della Francia a in­ viare rinforzi, Cosimo spedì un esercito alla conquista della città. Colta di sorpresa, dopo una resistenza eroica e dispera­ ta, Siena s'arrese. Correva l'anno 1555. La Toscana s'avviava a diventare uno degli Stati più temuti della Penisola e, con quello pontificio, il più potente dell'Italia centrale.

Dopo il tragico scacco del '27, il dominio temporale della Chiesa aveva rischiato di sfasciarsi. Nella sola capitale la po­ polazione s'era quasi dimezzata: da oltre cinquantamila ani­ me era scesa a trentamila. Ai saccheggi e alle carneficine dei

516 lanzichenecchi erano seguite epidemie e carestie. Roma sembrava tornata ai tempi più barbari del passato con i suoi stupendi palazzi e le sue superbe chiese degradati a stalle e bivacchi di truppe. Nel 1534, con Paolo III, cominciò l'opera di rinascita. I romani, che avevano salutato con tripudio la nomina a Pon­ tefice di un loro concittadino, ne furono insieme i beneficia­ ri e le vittime perché il nuovo Papa aumentò le vecchie ga­ belle e ne impose di nuove. Gli edifìci scempiati dalle orde tedesche furono restaurati e nuovi ne spuntarono al centro e alla periferia. La città lentamente si ripopolò, il commer­ cio si rianimò, la vita artistica rinacque. Nel 1545, col Conci­ lio di Trento, Paolo III diede ufficialmente il via alla con­ troffensiva cattolica e l'Urbe riacquistò in pieno il suo rango di capitale dell'ortodossia. Ma prima di affrontare le vicende della Controriforma, tracciamo un breve panorama della vita culturale e artistica italiana che proprio in questa prima metà del Cinquecento dava i suoi frutti più maturi, prendendo le mosse dalla Mantova d'Isabella Gonzaga e del Mantegna. CAPITOLO VENTICINQUESIMO

LA MANTOVA D'ISABELLA E DEL MANTEGNA

Isabella d'Este, della potente casata dei Signori di Ferrara, aveva sei anni quando, nel 1480, venne fidanzata al figlio del Marchese di Mantova e suo futuro erede. I matrimoni a quei tempi erano considerati - e non soltanto nelle Case re­ gnanti - una cosa troppo seria per lasciarli decidere agli in­ teressati sulla base di un elemento instabile e precario come l'amore. Li contrattavano i genitori con la consulenza di no­ tai, tenendo conto soprattutto delle convenienze politiche, dei titoli e delle doti. Di doti, Isabella aveva soltanto quelle fisiche e intellet­ tuali. Gli Este erano ricchi ma spendaccioni, e alla fine di ogni mese gli mancava sempre qualche lira per quadrare il bilancio. La borsa d'Isabella era quindi piuttosto sguarnita quando arrivò, sposina sedicenne, a Mantova. Ma non ebbe bisogno di ricorrervi per sedurre tutti, dal suocero in giù. Tiziano la ritrasse slanciata ed elastica come una indossatri­ ce moderna, con occhi neri e capelli biondissimi. Forse la cortigianeria del pittore, che oltre tutto la conobbe già pas­ satella, aggiunse qualcosa all'originale. Ma bella era di certo e di straordinaria eleganza perché anche i veneziani, i fran­ cesi e i fiorentini, che non avevano nessuna ragione di adu­ larla, la chiamarono «lo specchio della moda» e «la regina del gusto». Ma erano soprattutto le maniere e la conversazione che la rendevano irresistibile. Sapeva di tutto: di latino, di gre­ co, di filosofia; ma lo sapeva solo con chi ne sapeva altret­ tanto o di più; con gl'ignoranti fingeva di esserlo anche lei. E fu così che si fece amare da tutti quei gaudenti, ma gros-

518 solanotti e maneschi Gonzaga, che dapprincipio avevano te­ muto di sentirsi in imbarazzo per i loro errori di grammati­ ca e di sintassi. L'unico che non subì mai il suo fascino fu il marito. Gian- francesco era un bullo dal corpo tracagnotto, dalla fronte bassa sotto la capigliatura folta e ruvida, che amava la caccia e la guerra, e concepiva le donne come il riposo del guer­ riero. L'unica a cui rimase a suo modo fedele non fu la mo­ glie, ma l'amante Teodora, che si conduceva al seguito quando andava a torneare nelle città vicine, e a cui preten­ deva che tutti rendessero omaggio come alla sua legittima consorte. Isabella non se ne mostrò mai ferita. Veniva da una fami­ glia e da una città dove ne aveva viste di peggio. Essa stessa era figlia di un figlio illegittimo. Ma oltre all'educazione e all'esempio, doveva renderla refrattaria alla gelosia anche una certa frigidità. Non ne abbiamo, s'intende, la prova. E se spesso non riusciamo a capire il carattere della nostra moglie, figuriamoci se riusciamo ad afferrare quello di una donna di cinquecent'anni orsono. Ma sta di fatto che in quella società di corte, in cui l'adulterio era la regola, Isa­ bella rimase fedele a un marito che le dava il diritto di non esserlo, e senza che l'astinenza la rendesse acida e moralista. Le occasioni certamente non le sarebbero mancate per­ ché aveva intorno a sé il meglio di tutto: della pittura, della poesia, della cultura, dell'intelligenza, della galanteria. Essa si compiaceva dell'adorazione che la circondava e sapeva corrispondervi con le frasi più adatte, coi gesti più indovi­ nati, con lettere deliziose, con regalucci, che però si faceva ripagare con regaloni. Perché questa piccola regina aveva la stoffa di una grande «mantenuta», ma di altissimo bordo, che con la scusa della «congiuntura» e del disavanzo nel bi­ lancio dello Stato, accumulò un tesoro senza spendere una lira. Bembo, Ariosto, Bernardo Tasso scrissero gratis per lei. Gratis o per pochi soldi, strappò ad Aldo Manuzio alcune delle sue più eleganti edizioni. E il bello era che riusciva an-

519 che a farsene ringraziare dai rapinati. Pianse tutte le sue la­ crime e si proclamò «rovinata» quando van Eyck pretese da lei centoquindici ducati per il «Passaggio del Mar Rosso». E non perdonò mai a Leonardo e al Bellini l'impertinenza di averle chiesto un anticipo, ch'essa non pagò, per dei lavori ch'essi non fecero. Ma ancora più delle opere d'arte e dei libri rari essa ama­ va i gioielli, che rappresentavano un «investimento» più si­ curo, e non fu mai a corto d'arti per procurarsene specie quando dovette prendere il posto di suo marito, mandato in putrefazione dalla sifilide, alla testa dello Stato. Ci stette benissimo, ma da donna. Pur con la sua sapienza e la sua «apertura» d'intellettuale moderna, credeva ciecamente agli astrologi e alle cartomanti, e vi ricorreva anche prima di prendere decisioni politiche e di governo. II suo salotto era un'accademia di letteratura e di musica, cui essa presiedeva da grande etèra. Ma il suo luna park privato era una tribù di nani, ch'essa aveva alloggiato in sei stanze dell'appartamen­ to. Solo con loro si divertiva, forse perché solo con loro de­ poneva la maschera e si slacciava il busto, diventando quel che era, e che nessuno ha mai saputo cosa fosse. Fra tanta gente che l'amava, chi essa abbia realmente amato non si sa: non il marito, sebbene fosse una moglie perfetta; e forse nemmeno i figli, sebbene fosse una madre esemplare. Dalle lettere che scambiò con loro (fra le più bel­ le, vive, immediate e umanamente ricche di tutta quell'epo­ ca agghindata e letteraria), si direbbe che i suoi grandi affet­ ti siano stati sua sorella Beatrice e sua cognata Elisabetta. Però quando Elisabetta fu scacciata dal suo marchesato di Urbino da Cesare Borgia, Isabella inviò un grazioso mes­ saggio all'usurpatore solo per chiedergli di regalarle un Cu­ pido di Michelangelo che la cognata non aveva fatto in tem­ po a portar via. Nemmeno la menopausa, il doppiomento e la cellulite riuscirono ad appannare il suo fascino. Se è vero che la don­ na del Rinascimento è uno dei pochi capolavori dell'umani-

520 tà, Isabella fu il capolavoro del capolavoro. Ingannò tutti senza essere infedele a nessuno. Sfruttò gli artisti facendose­ ne considerare la protettrice. Tinse di generosità la propria avarizia. Innamorò i maschi senza indispettire le donne. Si lasciò adorare senza concedere nulla. E fu un uomo di Stato senza rinunziare alle gonnelle, anzi giocando esclusivamen­ te su quelle e portando nella politica ciò che gli uomini non possono, il sex-appeal, pur senza avere il sesso, o forse ap­ punto per questo. Isabella ne seminava l'odore dappertut­ to: nei suoi appartamenti, nella sua biancheria, nelle sue di­ rettive agli ambasciatori, nelle sue lettere a papi, imperato­ ri, re, musicisti, poeti, artisti. Teneva tutti in caldo, come so­ lo le donne frigide sanno fare. Dettò uno stile e un modello al di sopra di ogni moda e il Bembo la definì «la più saggia e fortunata delle donne».

Sotto il suo regno, Mantova toccò l'acme del proprio fulgo­ re artistico per merito di uno dei più geniali pittori del Ri­ nascimento. Andrea Mantegna era nato nel 1431 a Isola di Carturo, vicino a Padova dove, a dieci anni, emigrò in cerca di lavo­ ro. Lo trovò nella bottega di un pittore allora molto in voga, Francesco Squarcione, che lo prese a benvolere e l'adottò come figlio. Lo Squarcione era un patito dell'arte classica e aveva stipato il suo laboratorio di busti, statue, fregi, capitel­ li dei tempi di Pericle e d'Augusto. A queste reliquie gli al­ lievi dovevano ispirarsi, copiandole minuziosamente in ogni dettaglio. Il giovane Mantegna se ne infatuò al punto che vestiva da centurioni romani e da eroi greci anche i suoi contemporanei. Fu l'influsso di quegli anni a fargli disegna­ re sfondi classici di templi, mausolei, archi di trionfo. Co­ nobbe Donatello che gli svelò i segreti della sua arte, dram­ matica e realistica, e fu in contatto con Firenze dove Masoli- no, Paolo Uccello e Masaccio avevano scoperto la prospetti­ va e l'anatomia. Quando, nel 1448, lo Squarcione gli affidò la decorazione della chiesa degli Eremitani, l'allievo era pa-

521 drone della tecnica pittorica quanto e più del maestro. In sette anni dipinse otto pannelli sacri, di cui due soli sono giunti fino a noi. Il ciclo fu ammirato e studiato da innumerevoli artisti. Iacopo Bellini, quando lo vide, diede in moglie al suo auto­ re la propria figlia. Le nozze furono a lungo contrastate dal­ lo Squarcione che vi s'oppose con tutti i mezzi, giungendo perfino a definire i pannelli che il figlio adottivo aveva di­ pinto agli Eremitani pedisseque imitazioni dell'antico. Le critiche non erano del tutto infondate e in realtà Andrea aveva esagerato. Quando anche il suocero e i cognati gliele ribadirono, incluse nelle due ultime tavole del ciclo una de­ cina di ritratti «dal vero», tra i quali quello dello Squarcione che - forse per vendicarsi - raffigurò torvo e rinfagottato, come magari non era. Dopo un soggiorno di quattro anni a Verona, dove ese­ guì un polittico per la chiesa di San Zeno, nel 1459 il mar­ chese Ludovico Gonzaga gli offrì di diventare pittore di Corte. Mantegna accettò anche perché l'invito includeva vit­ to, alloggio e uno stipendio di quindici fiorini al mese. Ap­ pena giunto a Mantova fu sommerso da un diluvio di ordi­ nazioni. Affrescò ville, palazzi, chiese, dipinse una moltitu­ dine di quadri, polittici, pale d'altare. Molte di queste opere sono andate perdute, ma quelle che restano bastano a darci un'idea del talento del loro autore. La Camera degli Sposi, in Palazzo Ducale, è la più cele­ bre. In un ciclo d'affreschi il Mantegna rappresenta i Gon­ zaga e la loro Corte. Il pittore ha tracciato anche il proprio ritratto, che è quello di un uomo stanco, corrucciato e pre­ cocemente vecchio, sebbene egli non avesse allora che qua­ rantatre anni. Forse si attribuì quei sembianti per commuo­ vere il marchese, poco puntuale nei pagamenti. Quando Ludovico morì, il figlio Federico e il nipote Gianfrancesco gli confermarono l'incarico ed egli pose ma­ no al «Trionfo di Cesare», un ciclo di nove tele, dipinte a tempera e destinate alla corte vecchia del palazzo Ducale. Il

522 romano vittorioso attraversa su un cocchio le strade dell'Urbe seguito da una moltitudine di legionari, sacerdo­ ti, prigionieri, elefanti, tori. Il «Trionfo» culmina con l'inco­ ronazione, sullo sfondo architettonico della Roma classica. Quest'opera costò al Mantegna lunghi anni di ricerche, e lo si vede nella perfezione del disegno, nel calcolo delle pro­ spettive, nel rapporto fra figure e ambiente e nel timbro cromatico. Nel 1488, l'artista fu chiamato a Roma dal papa Inno­ cenzo VIII, ma dopo un anno, disgustato dall'avarizia di quel Pontefice, tornò a Mantova. Malato e oberato di debiti, continuò infaticabilmente a lavorare sino alla fine, ispiran­ dosi ai temi sacri del Nuovo Testamento e a quelli profani della mitologia classica. Con l'età si fece scorbutico e misan­ tropo e s'isolò dalla Corte e da Isabella, che l'aveva protetto e aiutato ma anche, coi suoi continui consigli su come dove­ va dipingere, irritato. Morì nel 1506, povero e abbandonato da tutti, lui che da solo o quasi, con l'aiuto d'Isabella, aveva fatto di Mantova una delle capitali del Rinascimento. CAPITOLO VENTISEIESIMO

CORTI E CORTIGIANI

Ritroviamo a Urbino quella civiltà di Corte splendidamente incarnata a Mantova da Isabella. Col titolo di duchi, i Mon- tefeltro ne erano i signori dal Milleduecento. Essi dovevano il loro rango e le loro ricchezze alle armi, sebbene non aves­ sero mai avuto eserciti propri. Avevano militato con succes­ so in quelli altrui, specialmente veneti, e s'erano acquistati fama di grandi condottieri. Per tutto il Trecento e la prima metà del Quattrocento il loro dominio fu poco più d'un bor­ go arcigno, fuori mano e scarsamente popolato. Nel 1444 il titolo passò al giovane e valoroso Federico che aveva eredi­ tato le eccezionali doti militari degli avi, ma a differenza di costoro era uomo di mondo e amava la cultura. Aveva com­ battuto sotto le insegne venete, milanesi, fiorentine e ponti­ ficie senza mai conoscere una sconfitta. La professione delle armi gli aveva fruttato molto denaro, ch'era servito a impin­ guare le casse del piccolo ducato e a pareggiarne il bilancio. Federico amava il lusso e le cose belle, e non voleva che la sua città fosse da meno di Ferrara, Mantova, Verona, che fra i centri minori del Rinascimento erano i più fiorenti e fastosi. Fu accusato di aver le mani bucate e d'amministrare con eccessiva prodigalità lo Stato. Ma egli non si curò mai di queste critiche perché le uniche cose che gli stavano a cuore erano il prestigio della casata e il benessere dei sudditi, che trattava paternallsticamente amministrando di persona la giustizia e ricevendo tutti coloro che avevano qualcosa da dirgli o qualche lagnanza da fargli. Sovvenzionava con lar­ ghezza chiese, conventi, ospedali, brefotrofi, sussidiava i di-

524 soccupati, faceva la dote alle orfanelle, condonava i debito­ ri. Come la maggior parte dei Signori del suo tempo era af­ flitto dal mal della pietra. Costruì il superbo Palazzo Ducale, uno dei capolavori architettonici del Rinascimento, su pro­ getto del dalmata Luciano Laurana, che concepì un edificio solido e maestoso a quattro piani fiancheggiato da due torri a forma di campanile. Fece decorare gl'interni da pittori, incisori e arazzieri di grido: il fiammingo van Ghent, lo spa­ gnolo Berruguete, gli italiani Paolo Uccello, Melozzo da Forlì, Piero della Francesca, Perugino. Destinò i locali più belli alla sua biblioteca privata, la più ricca dopo quella vati­ cana. Era un lettore accanito, aveva un debole per la storia e i classici latini. E quando, nel 1482, calò nella tomba gli ar­ tisti, i letterati e i poeti, di cui in vita s'era circondato e ai quali aveva spalancato le porte del suo palazzo, offrirono i loro servigi al successore. Guidobaldo non aveva la stoffa del padre né la sua straordinaria energia. Era smilzo, anemico e ossessionato dalla paura delle malattie. Se l'intendeva più coi medici che coi ministri, e le cure dello Stato preferì affidarle alla mo­ glie- Elisabetta Gonzaga non possedeva forse il fascino e l'in­ telligenza della cognata Isabella, ma era fine, colta e sensibi­ le. Amava il marito, al quale restò sempre fedele, sebbene Guidobaldo fosse impotente. Aveva ricevuto una buona educazione umanistica, conosceva parecchie lingue, s'inten­ deva d'arte, scriveva con garbo, si dilettava di musica. Di giorno, accudiva alle faccende politiche. La sera, quando il duca, seguito da un codazzo di cerusici e infermieri, si riti­ rava nei suoi appartamenti per sottoporsi a clisteri e salassi, riuniva nella sala grande del Palazzo artisti, musici, letterati e poeti e per lunghe ore, talvolta fino all'alba, l'intratteneva e si faceva intrattenere. I poeti declamavano i loro versi, i letterati facevano sfoggio della loro erudizione, i filosofi esponevano i loro sistemi, i musicisti allietavano coi loro strumenti queste elette ed eterogenee adunate, alle quali

525 partecipavano prelati, dignitari, cavalieri e dame. Fu così che sotto Elisabetta, Urbino diventò uno dei più attraenti luoghi di convegno dell'intellighenzia italiana. Vi s'incontra­ vano il poeta Bembo, il cardinale e drammaturgo Bibbiena, il cantante Bernardino Accolti, lo scultore Cristoforo Roma­ no, il mondano e raffinato Baldassarre Castiglione.

Il conte Castiglione era nato nel 1478 a Casatico, in quel di Mantova, e aveva ricevuto una solida educazione classica a Milano, alla scuola dei celebri umanisti Merula e Calcondi- la. Come tutti i giovani patrizi del suo tempo sapeva caval­ care, tirare d'arco e di scherma, ballare con grazia, suonare il liuto e la viola, comporre galanti madrigali. S'intendeva di arte, vestiva con eleganza ma senza ostentazione, andava a caccia, piaceva alle signore, sebbene fosse di sensi piutto­ sto pigri. Fisicamente non poteva dirsi un bell'uomo: era pesante e rotondetto, aveva una lunga chioma nera e una folta barba, occhi piccoli e azzurri, incarnato pallido, mani lisce e grassocce. A diciott'anni, Ludovico il Moro lo aveva preso al suo servizio avviandolo alla carriera delle armi, come si conve­ niva a un nobile. Quando il Duca di Milano perse il trono, Baldassarre si fece assumere dal marchese Francesco Gon­ zaga, ma l'anno dopo lo lasciò per Guidobaldo, che aveva conosciuto a Roma e di cui era diventato amico. La rude vi­ ta militare poco si confaceva al suo animo e ai suoi modi soa­ vi e delicati. Si sentiva più a suo agio nei salotti e nelle aule di palazzo che sui campi di battaglia. Elisabetta, che doveva avere la vocazione degli uomini svogliati, ne fece il suo favorito. II Castiglione le fu sempre assai devoto, scrisse versi in suo onore, e finché visse a pa­ lazzo tenne sul comodino il suo ritratto. Guidobaldo era troppo preoccupato della sua salute per captare le languide occhiate che la moglie lanciava al giovane Baldassarre. Ma quando alcuni zelanti cortigiani gliele fecero notare, nomi­ nò il Castiglione ambasciatore e lo spedì in Inghilterra. Po-

526 chi mesi dopo, però, il Conte gli chiese di tornare a Urbino. Guidobaldo lo richiamò e ne festeggiò il rientro con un son­ tuoso banchetto. Fu uno degli ultimi cui partecipò perché l'anno dopo (1508), morì. Salvo brevi intervalli, Baldassarre restò a Urbino fino al 1516. In quell'anno andò a Mantova a cercare moglie. Aveva trentotto anni ma ne dimostrava di più, forse per­ ché aveva messo su pancia. Non aveva fin'allora pensato al matrimonio e certamente avrebbe seguitato a non pensarci se la madre non ve lo avesse costretto. Scelse una ragazza di quindici anni, Ippolita Torelli, bella e delicata, che morì quattro anni dopo dando alla luce una bambina. Baldassar­ re la pianse, affidò la figlia alla propria madre e riprese la vita di scapolo. Federico Gonzaga, al cui servizio nel frattempo era pas­ sato, lo mandò ambasciatore a Roma. La Corte dello scetti­ co e colto Leone X era allora la più splendida d'Europa. Vi si davano feste da «Mille e una notte», vi si tenevano cosmo­ polite adunate di dotti, i cardinali gareggiavano in munifi­ cenza, nepotismo e corruzione, il Rinascimento insomma vi trionfava. Il Castiglione, abituato all'atmosfera rarefatta e un po' sofisticata di Urbino, vi si sentiva un pesce fuor d'ac­ qua; e quando il nuovo papa Clemente VII, al quale il Gon­ zaga l'aveva ceduto, lo nominò nunzio a Madrid, lasciò l'Ur­ be senza rimpianti. Alla Corte spagnola fu raggiunto nel '27 dalla notizia del sacco di Roma, di cui fu ritenuto uno dei responsabili per non aver anticipato al Papa i piani dell'Imperatore. Baldas­ sarre, sconvolto, scrisse al Pontefice per scagionarsi. Cle­ mente ne riconobbe l'innocenza ma, pochi mesi dopo, il nunzio morì di crepacuore. Con lui scomparve il più perfet­ to gentiluomo del Rinascimento, i cui ideali trovarono nel Cortegiano il loro aulico compendio. Il Cortegiano nacque in quel palazzo di Urbino dove ogni sera Elisabetta riuniva letterati, poeti, filosofi e artisti. L'ope­ ra è concepita in forma di dialogo, al quale prendono parte

527 Ludovico di Canossa, Federico Fregoso, Bernardo Bibbiena e Giuliano de' Medici. L'Autore non vi compare e finge d'a­ ver avuto notizia di quei convegni da amici comuni. Tema del dialogo sono le qualità del perfetto Cortigiano. Nelle sue vene deve innanzitutto scorrere sangue blu, sinonimo di educazione, buone maniere, uso di mondo, eleganza, caval­ leria. Ma il blasone non basta. Il Cortigiano dev'essere uo­ mo d'armi, magnanimo e sprezzante del pericolo. Non tut­ te le imprese belliche tuttavia gli s'addicono. Egli si trova in prima linea quando si dà l'assalto a un castello o si rintuzza un attacco nemico, si lancia con foga nel mezzo della mi­ schia; ma evita accuratamente di prender parte a saccheggi, stupri, furti di bestiame, razzie di polli, azioni disonorevoli e volgari. Sa cavalcare, tirar di scherma, giostrare e toreare. Porta con la stessa disinvoltura la corazza e il lucco. Si sente a proprio agio al fronte come a Corte, in mezzo ai soldati e fra i principi. E galante, balla con eleganza, si muove con garbo, è un parlatore forbito e un ascoltatore attento, fa sfoggio di citazioni greche e latine, conosce la Storia, scrive versi e li declama, canta con voce melodiosa, ma solo a ri­ chiesta. E maestro nell'arte d'amare, perché l'amore ingen­ tilisce e purifica. Disdegna le donne scollacciate e ignoranti, e corteggia quelle raffinate, colte e pudiche, almeno in pub­ blico. Le guarda senza ostentazione e non lancia occhiate la­ scive. Se tuttavia una dama gli mostra involontariamente una gamba, egli la esamina con attenzione per vedere se la calza è ben tesa. Non sappiamo quanto questi precetti fossero seguiti e quali sanzioni la società che ad essi s'ispirava comminasse a coloro che vi contravvenivano. Ma il libro ha un valore di documento perché, anche se non rappresenta il costume di quella società, ne incarna gli ideali. Ogni gentiluomo aveva il dovere di ispirarvisi perché una buona Corte fa un buon principe, e un buon principe fa un buono Stato. Il Castiglio­ ne rivendica alla Corte una funzione didattica e affinatrice ignorando, o fingendo d'ignorare, ch'essa era anche una

528 sentina di vizi, un focolaio di corruzione, un ricettacolo di mariuoli. Egli ne vide cioè solo il bene. Il suo contempora­ neo Pietro Aretino ne colse solo il male.

Era nato ad Arezzo nel 1492, diceva d'essere figlio bastardo di un nobile, ma in realtà il padre faceva il calzolaio e la ma­ dre era una donnetta semplice e pia. Non conosciamo il suo cognome, ch'egli tenne sempre nascosto per accreditare la leggenda della nascita aristocratica. Abbiamo anche poche notizie della sua adolescenza e dei suoi studi, che dovettero essere scarsi e svogliati. A dodici anni lasciò Arezzo. Lavorò per un certo tempo a Perugia dedicandosi alla pittura. La città pullulava allora di artisti, e Pietro ne divenne la «ma­ scotte». D'ingegno vivace, di lingua pronta, socievole e sca­ vezzacollo, sapeva conquistarsi le simpatie di tutti, e profit­ tarne. Dopo Perugia, i suoi vagabondaggi non si contano. A Ro­ ma fece il cameriere, a Vicenza il cantante, a Bologna lavò i piatti in una locanda. Ebbe più di una volta noie con la giu­ stizia e fu condannato per tre mesi ai remi. Bazzicò chiese e monasteri, da cui fu cacciato per scostumatezza. Nel 1516 riprese la via di Roma, conobbe Agostino Chigi, che l'assun­ se come cameriere. Fu in quell'epoca che scrisse le prime satire, che fecero il giro dei salotti romani e richiamarono sul loro autore l'attenzione dello stesso Pontefice. Al gau­ dente e scettico Leone non dispiacevano quei versi da taver­ na, sboccati e pieni di doppi sensi, ma schietti e senza arzi­ gogoli. Pietro fu invitato a Corte e assunto ufficialmente co­ me poeta, in realtà come buffone. Ci restò tre anni, fino alla morte di Leone. Quando salì al Soglio il monastico, austero e scorbutico Adriano VI, lasciò l'Urbe e riprese a girovagare per l'Italia. Tornò a Roma dopo l'elezione di Clemente VII, che cer­ cò d'ingraziarsi con una poesia traboccante d'elogi. Il Papa ne fu lusingato e l'accolse nella sua cerchia. Pietro ne pro­ fittò per chiedere sussidi, protezioni e favori. Non badava a

529 mezzi per procurarsi quello che voleva. E questo fornì buo­ ni argomenti ai suoi nemici che riuscirono ad alienargli la simpatia del Papa e lo costrinsero a far fagotto. Andò a Pa­ via, dove aveva saputo che si trovava Francesco I, che gli consigliò di riconciliarsi col Pontefice. L'Aretino prese carta e penna e scrisse un'ode in onore di Clemente, che lo ri­ chiamò a Roma, lo nominò cavaliere e gli assegnò una lau­ ta pensione. Pietro mise su casa, arruolò uno stuolo di maggiordomi e servitori, acquistò quadri, arazzi, sculture, rinnovò il guardaroba, si circondò di dame, buffoni e parassiti. I signori romani se lo contendevano, e non solo per godersi la sua conversazione caustica, piccante e scan­ zonata. Temevano la sua lingua biforcuta e volevano met­ tersi al riparo dai suoi ricatti. Pietro non s'accontentava di adulare, calunniare e imbrogliare i romani. Promise al marchese di Mantova, Federico, il favore del Pontefice in cambio di quattro camicie ricamate e due berretti. Federi­ co, che conosceva il suo pollo, gli mandò otto camicie e quattro berretti. Questi metodi valsero all'Aretino l'inimici­ zia del datario del Pontefice, Giovanni Matteo Giberti, che decise di farlo assassinare. Una calda sera di luglio (1525) l'Aretino se ne andava a cavallo per la città quando fu assalito da un sicario che, do­ po averlo disarcionato, lo colpì al petto con due pugnalate. Pietro stramazzò al suolo e sulle prime sembrò morto. Ma le ferite, inferte con troppa fretta, non erano penetrate in pro­ fondità, e dopo poche settimane la vittima guarì. Dopo l'at­ tentato, l'aggressore era fuggito e aveva fatto perdere le proprie tracce. L'Aretino si rivolse direttamente al Pontefice per ottenere giustizia. Clemente fece arrestare numerose persone e ordinò un processo. Pietro avrebbe voluto che il Papa incriminasse anche il Giberti, che a Roma tutti indica­ vano come il mandante, ma Clemente, sebbene fosse con­ vinto della sua colpevolezza, ne prese le difese. L'Aretino, furioso, accusò allora il Pontefice stesso. Poi forse si pentì, ma ormai per lui l'aria dell'Urbe s'era fatta irrespirabile.

530 La barattò per quella di Mantova, ma dopo poche bocca­ te si rimise in cammino diretto a Lodi, dov'era accampato col suo esercito Giovanni dalle Bande Nere. Condottiero e poeta diventarono subito grandi amici. Giovanni promise all'Aretino, di cui ammirava il talento, un feudo e il titolo di marchese. Quando il valoroso capitano morì in seguito alle ferite riportate in battaglia, Pietro, che per Giovanni aveva forse nutrito l'unico sentimento disinteressato di cui sia mai stato capace e che per tutta l'agonia era stato al suo capezza­ le, lo pianse come un fratello. Dopodiché decise di trasferir­ si a Venezia, dove giunse nel marzo del 1527 e dove, salvo brevi assenze, restò fino alla morte. La Serenissima era la città più elegante e cosmopolita d'Italia, e forse d'Europa, e anche l'unico Stato italiano che fosse riuscito a sottrarsi alle ingerenze francesi e spagnole. Aveva un regime stabile, un buon esercito, una potente flot­ ta, la geografìa le garantiva una certa sicurezza, gli abitanti erano ospitali, le strade pullulavano di belle ragazze, c'era abbondanza di prostitute e di dame, balli, feste, mascherate erano all'ordine del giorno, nei salotti si davano convegno patrizi, artisti di grido, letterati famosi, cortigiane. Pietro s'istallò in una bella casa sul Canal Grande e assa­ porò con voluttà gli aromi di questa nuova vita festaiola e godereccia. Da tempo la sua fama aveva raggiunto la lagu­ na. Quando vi approdò il suo nome era già sulla bocca di tutti. Il doge Andrea Gritti, che in una lettera egli aveva de­ finito «padre del popolo», lo ricevette a Palazzo Ducale e gli assegnò un vitalizio. Diventò in poco tempo il letterato più in vista e più temuto della Repubblica. La sua casa era ogni giorno meta di pellegrinaggi. Nobili, popolani, preti, stu­ denti, monache, baldracche, mercanti, artisti facevano la co­ da per vederlo. La gente lo fermava per strada, gli chiedeva sussidi, gli rivolgeva suppliche, gli consegnava manoscritti. Gl'incisori scolpivano medaglie con la sua maestosa effigie: fronte spaziosa, naso aguzzo e gibboso, occhi neri e pene­ tranti, barba lunga e ondulata. I ceramisti lo raffiguravano

531 su piatti, scodelle, insalatiere. Aretina fu addirittura battez­ zata una razza di cavalli e Rio dell'Aretino fu chiamato il cana­ le sul quale s'affacciava il suo palazzo. Pietro, che aveva un debole per la pubblicità e non aveva mai badato ai mezzi per procurarsene, godeva di questa straordinaria fama e dei suoi inebrianti clamori. Viveva co­ me un nababbo in una specie di reggia foderata di arazzi e tappeti, rutilante di ori e argenti. Aveva elevato il parassiti­ smo a virtù e fatto sì che tutti gareggiassero a renderle tri­ buto. Tintoretto gli aveva decorato i soffitti, Sebastiano del Piombo, Bronzino, Vasari gli avevano affrescato le pareti, Tiziano gli aveva fatto il ritratto. Era circondato da parassiti e mantenute, che mangiavano alla sua mensa e gli spillava­ no i quattrini ch'egli stesso spillava ai suoi patroni. Si lamen­ tava di non guadagnare abbastanza, sebbene fosse lo scritto­ re più pagato del suo tempo. Riceveva appannaggi, pensio­ ni, doni da patrizi, dame, ricchi borghesi, ai quali dedicava le sue opere. Queste andavano letteralmente a ruba, raggiungevano tirature per quei tempi astronomiche, erano lette nei salotti e per le strade, venivano tradotte in tutt'Europa, le gazzette ne riproducevano le parti più scabrose, i predicatori le ad­ ditavano al pubblico ludibrio moltiplicandone la diffusione. Esse sgorgavano di getto dalla penna di questo prodigioso scrittore, che passava a tavolino non più di due ore al gior­ no, che in dieci mattine compose due commedie e in diciot­ to la prima parte dei Ragionamenti, la sua opera più famosa. I Ragionamenti sono conversazioni tra ruffiani e prostitu­ te e mettono alla gogna, in chiave ferocemente satirica, la società romana, dominata dalla corte pontificia. I protago­ nisti sono Nanna e la figlia Pippa che la madre vuol sistema­ re. Nanna, che in gioventù ha fatto la monaca e la cortigia­ na, racconta alla figlia le proprie esperienze. Dopo averle ascoltate, Pippa decide di far la cortigiana. La madre gliene insegna le arti e la mette in guardia contro i sotterfugi e i raggiri degli uomini. E un'opera in cui si specchia un'uma-

532 nità laida e corrotta, popolata di baldracche, mezzane, ma­ gnaccia e invertiti. Il linguaggio è intonato all'ambiente che descrive, plautino e popolaresco. Lo stesso tanfo di trivio e di lupanare aleggia nelle commedie Talanta e La Cortigiana. Nelle Lettere, alle quali l'Aretino dovette la straordinaria fama presso i contemporanei e la ricchezza per i ricatti che minacciavano, lo stile si fa ampolloso e magniloquente. In esse Pietro loda e denigra, adula e insulta, seduce e beffeg­ gia, e non fa mistero delle ragioni che lo inducono a scriver­ le. Gliele detta un'inesauribile sete di denaro. Ne chiede a tutti e fissa anche l'ammontare. Chi glielo rifiuta viene som­ merso sotto un diluvio di contumelie e calunnie. Chi paga riceve lodi sperticate e iperbolici ossequi. La diffusione di queste lettere induceva naturalmente i più a cedere alle estorsioni dell'autore. L'Aretino non maschera la sua scroc- coneria. Anzi, in un certo senso, la riscatta con una schiet­ tezza che talvolta sconfina addirittura nel candore. Scrisse anche opere religiose parafrasando i Salmi peni­ tenziali e raccontando a modo suo la vita di Maria, Santa Caterina e San Tommaso. Si professava cattolico, ma odiava i preti non meno dei luterani. Ogni tanto si prendeva il lus­ so di fare anche il moralista. Nel 1547 si scandalizzò veden­ do il Giudizio universale di Michelangelo popolato di nudi, e chiese al Pontefice di coprirli. Alla fine, si riconciliò anche con la curia romana. Quando nel 1553 Pietro andò a Roma, il Papa lo ricevette e l'abbracciò. LAretino aveva allora sessantadue anni, non aveva più il vigore d'una volta, profonde rughe gli solcavano il volto, la barba gli s'era incanutita, numerosi acciacchi l'affliggevano. La sua ultima amante, la giovanissima Pierina Riccia, mo­ glie del suo segretario, alla quale aveva sacrificato tutte le al­ tre e che quando era stata malata aveva assistito come una figlia, l'aveva abbandonato. Anche la fortuna gli aveva volta­ to le spalle. Molti dei suoi finanziatori erano morti, ed era rimasto quasi al verde. La sua penna era spuntata e non fa­ ceva più paura. La Controriforma era già nell'aria e la cap-

533 pa di piombo della Restaurazione cattolica stava avvolgendo la Penisola in un sudario di conformismo e d'ipocrisia. Il padrone di casa lo sfrattò perché da mesi non pagava l'affìt­ to. Lasciata la casa sul Canal Grande, l'Aretino si trasferì in un modesto appartamento alla periferia. Nell'ottobre del 1556, a sessantaquattro anni, fu colpito da apoplessia. Chia­ mò il prete, si confessò, fece la comunione e morì come non era vissuto: in grazia di Dio. La sua fine suggellò un'epoca e una morale. L'Ariosto lo chiamò «Flagello dei principi», il Varchi lo definì il «nuovo Socrate», il Berni lo paragonò all'Anticristo. Egli stesso si proclamò il Quinto Evangelista. Un epitaffio, che qualcuno attribuisce al Giovio, ma che forse fu dettato da qualche suo rivale in «pasquinate», dice: «Qui giace l'Aretin, poeta tosco / che d'ognun disse mal fuorché di Cristo / scusandosi col dir: non lo conosco». Meglio di chiunque altro aveva rap­ presentato, nel bene e nel male, la sua epoca, e l'immensa popolarità di cui aveva goduto n'era stata la conferma. Fu un grande giornalista e libellista, il più grande del suo tem­ po. Non si curò quasi mai di dire la verità, e quando la disse lo fece per puro calcolo. Visse di adulazioni e ricatti, odiato, temuto, amato, idolatrato da re, principi, papi, cortigiane. Fu privo di scrupoli e d'ideali in un secolo che non ne ebbe punti. Incarnò tutti i vizi che denunziò negli altri. E li con­ dannò solo per avere il pretesto di parlarne, come il pubbli­ co voleva, dettando un modello a cui certa pubblicistica con­ temporanea non cessa di ispirarsi. CAPITOLO VENTISETTESIMO

LUDOVICO ARIOSTO

Fu senza dubbio il mecenatismo dei principi che consentì la grande fioritura artistica e letteraria del Rinascimento. Ma esso le impresse anche quei caratteri cortigiani, adula­ tori e declamatori, di cui la cultura italiana non è mai più riuscita a disfarsi. Nel campo della poesia, essi trovarono la loro più compiuta - e più compita - espressione in Ludovi­ co Ariosto. Ariosto era nato a Reggio, di cui il padre Niccolò era go­ vernatore in nome dei Marchesi di Ferrara. Niccolò avreb­ be voluto, tanto per cambiare, fare di lui un avvocato, ma Ludovico odiava i codici. Seguì svogliatamente i corsi di leg­ ge e non si prese neppure la laurea. Aveva una sola passio­ ne, la poesia, prediligeva quella epica, e nella sua biblioteca abbondavano i poemi cavallereschi. Aveva cominciato a scri­ vere versi fin da ragazzo, e li declamava in pubblico e nei sa­ lotti della buona società ferrarese, deliziando le signore che facevano a gara nell'offrirgli le loro grazie in cambio di un mazzetto di rime. Ludovico ne approfittava, ma con parsi­ monia. Fisicamente non poteva dirsi un fusto: di statura supe­ riore alla media, era piuttosto grassoccio, aveva barba e ca­ pelli neri, colorito pallido e malaticcio, naso aguzzo, bocca carnosa. Vestiva con eleganza e distinzione, era timido, ma­ linconico e debole di polmoni. Per curarli, faceva vita all'a­ ria aperta, era un camminatore instancabile, ma non prati­ cava alcuno sport. Questo cantore di eroismi atletici, questo esaltatore di gladiatorie imprese muscolari, non sapeva nuotare, detestava la caccia, la vista di un cavallo l'atterriva

535 e non imparò mai a maneggiare la spada. Era di gusti sem­ plici, mangiava poco e beveva con moderazione. Aveva po­ chi amici, non frequentava bordelli e taverne, si teneva lon­ tano dalle brigate troppo chiassose, la sera si coricava di buon'ora e s'alzava all'alba per tornire e limare i suoi ende­ casillabi. La poesia non aveva mai avuto un «impiegato» più diligente e zelante di lui. Nel 1500 Niccolò morì lasciando dieci figli e un gruzzolo insufficiente a sfamarli tutti. Da un giorno all'altro Ludovi­ co, che aveva ventisei anni, si trovò nella dura necessità di cercarsi un lavoro, sebbene vi si sentisse del tutto imprepa­ rato. Il Duca gli offrì la capitaneria del castello di Canossa. Ludovico avrebbe preferito essere assunto a corte e impie­ gato in un ufficio più confacente alla sua vocazione sedenta­ ria; ma, pressato dal bisogno, finì per accettare. Con la spe­ ranza forse d'essere esonerato dall'ingrato incarico, compo­ se un aulico epitalamio in occasione delle nozze di Alfonso con Lucrezia Borgia, e l'anno dopo un epigramma traboc­ cante di elogi in onore del fratello del duca, Ippolito, che dopo averlo letto prese l'autore al suo servizio. Il cardinale Ippolito era un uomo d'azione, grossolano e ignorante, crapulone e donnaiolo. Sebbene non fosse insen­ sibile alle lodi di Ludovico, non era disposto a passargli uno stipendio, per cui il poeta dovette cercar di conciliare le sue aspirazioni letterarie con le esigenze di un ufficio che non amava e che l'obbligava a continui spostamenti. Il cardinale gli affidava piccole missioni presso le varie corti italiane, di cui voleva guadagnarsi il favore. Nel 1509 lo spedì a Roma a rabbonire Giulio II, in collera con gli Estensi. Ludovico sfoggiò molto tatto e abilità diplomatica, ma purtroppo con un interlocutore che non era in grado di apprezzarla e che si dimostrò irremovibile. Esito non migliore ebbero le due successive visite del poeta al terribile Pontefice, che una vol­ ta minacciò perfino di farlo arrestare. A parte questo piccolo incidente, la vita al servizio d'Ip­ polito non l'esponeva a repentagli e, tra un viaggio e l'altro,

536 gli lasciava anche il tempo di scrivere. Quando però nel 1517 il cardinale gli chiese d'accompagnarlo in Ungheria, Ludovico rifiutò adducendo motivi di salute. L'autoritario Ippolito lo licenziò in tronco e il povero Ariosto si trovò da un giorno all'altro disoccupato e senza il becco d'un quattri­ no. Venne in suo soccorso il Duca, che lo nominò familiare e gli assegnò una pensione annua di ottantaquattro corone, tre servi e due cavalli. Inoltre lo esentò dalle missioni più gravose e lontane e gli spalancò le porte della Corte. Quella di Ferrara non aveva nulla da invidiare a quelle di Mantova e Urbino. Gli Estensi ne avevano fatto un co­ smopolita luogo di convegno di letterati, artisti, filosofi e scienziati. Leonello, successo nel 1441 al bellicoso Niccolò, vi aveva importato i germi e gli aromi del Rinascimento, di cui egli aveva splendidamente incarnato gli aneliti e le «istanze». Il fratello Borso, che ne aveva preso il posto, seb­ bene piuttosto ignorantello, aveva seguitato a proteggere gli uomini di cultura chiamati a Ferrara dal predecessore. Ercole, diventato Duca alla morte di Borso, aveva speso somme favolose per perpetuare la tradizione gaudente e fe­ staiola degli Estensi. Colto, scettico, raffinato, non aveva le­ sinato sovvenzioni ad artisti e letterati, ai quali s'era sempre mescolato. Aveva arricchito i saloni del favoloso castello fat­ to costruire da Niccolò, di tappeti, arazzi, affreschi, ori e in una girandola di feste, banchetti, concerti vi aveva celebrato i fasti della dinastia. Ma era col figlio Alfonso che Ferrara toccava ora l'acme della sua potenza e del suo fulgore. A differenza dei prede­ cessori, casalinghi e provinciali, Alfonso aveva viaggiato e conosceva il mondo. Era stato in Francia, in Inghilterra, in Olanda e vi aveva appreso i segreti della tecnica artigianale e industriale più evoluta. Tornato a Ferrara, s'era messo a fabbricare ceramiche, a fondere cannoni e a governare lo Stato, lasciando alla moglie Lucrezia Borgia il patrocinio della cultura. Grazie a lui Ludovico pose fine alla sua vita randagia e

537 potè finalmente dedicarsi allo studio del greco, che non im­ parò mai, e alla poesia. Nel 1521, dopo una relazione dura­ ta sette anni, sposò Alessandra Benucci, che aveva conosciu­ to a Firenze e dalla quale aveva avuto due figli. L'anno do­ po, Alfonso lo nominò governatore della Garfagnana. Ludovico avrebbe preferito restarsene a Ferrara, ma la prospettiva di più ricchi emolumenti l'indusse ad accettare. La Garfagnana era una delle regioni più impervie e inospi­ tali del Ducato, infestata da briganti, tribolata dalle discor­ die e dalle faide dei piccoli signorotti locali. Ludovico era l'uomo meno adatto a ridurre costoro all'obbedienza e a ri­ stabilirvi l'ordine. La lontananza della moglie lo immalinco­ niva e la paura degli attentati e delle bronchiti gli toglieva il sonno. Non passava giorno che non scrivesse al Duca sup­ plicandolo di farlo tornare a Ferrara. Solo dopo tre anni Al­ fonso si decise a richiamarlo. Coi risparmi raggranellati in Garfagnana, Ludovico ac­ quistò un fazzoletto di terra in via Mirasole, alla periferia della città, e si fabbricò una casetta, sulla cui facciata fece in­ cidere questi versi oraziani: «Piccola, ma adatta a me, ospi­ tale, dignitosa e costruita col mio denaro». La recinse con un giardino e un orticello, che coltivava di persona nei rari momenti che la poesia gli lasciava liberi. Dal 1506 lavorava a un poema cavalleresco, L'Orlando fu­ rioso. Voleva essere la continuazione di quell'Orlando inna­ morato del Boiardo che tanto successo aveva riscosso in Ita­ lia e fuori alla fine del Quattrocento. Il Boiardo aveva nar­ rato la storia dell'amore tormentato e contrastato di Orlan­ do per Angelica in sessantamila versi lardellati di tornei, duelli, scene di guerra e di morte, intrecciando la vicenda dei protagonisti con quelle di eroi fantastici e donne bellissi­ me. L'Ariosto si mantenne fedele all'ambiente e alle figure dell'Innamorato che ricompaiono puntualmente nel Furioso, ma arricchendo il suo racconto di nuovi protagonisti tratti dall'albero genealogico degli Estensi per contribuire alla gloria della casata e meritarsene gli stipendi.

538 Al racconto fa da sfondo la guerra tra i cristiani e i sara­ ceni che, capeggiati da Agramante, minacciano Parigi. Ai combattimenti in nome della Fede s'alternano quelli, ben più drammatici, per il cuore di una donna, la bella maliarda e volubile Angelica. Tutti spasimano per lei, ma più di tutti spasima l'aitante, il valoroso, l'invincibile Orlando, l'eroe per eccellenza, la prima spada dell'esercito cristiano. Ma an­ che agli eroi capita talvolta di non essere corrisposti. Angeli­ ca, dopo aver fatto girare la testa a tanti prodi guerrieri, ha perduto la sua per Medoro, un soldato qualunque, medio­ cre e sempliciotto. Quando Orlando lo viene a sapere, dà in ciampanelle, salta in piena notte dal letto, balza a cavallo e vaga per i boschi piangendo e ululando, sradicando con la spada alberi e frantumando rocce. Accorre in suo aiuto Astolfo che si lancia alla ricerca del senno perduto dall'ami­ co. A bordo di un ippogrifo galoppa in Paradiso dove in­ contra San Giovanni, che lo guida sulla Luna, sulla cui su­ perficie è finito il cervello di Orlando. Astolfo lo recupera e lo riconsegna all'eroe. Su questa vicenda s'innestano innumerevoli altri episodi magici e fantastici: cavalli che volteggiano in cielo, foglie che si trasformano in navi, uomini che diventano piante, vesci­ che che sprigionano venti. Scene d'amore si mescolano a scene di pietà e di sangue. L'autore passa disinvoltamente dalle une alle altre infischiandosi dell'unità di tempo e di luogo, preoccupato solo di catturare la curiosità del lettore, di strappargli la risata, di sbrigliarne la fantasia, insomma di divertirlo. Ci riesce quasi sempre. Quello invece che non gli riesce quasi mai è di dare un brivido di commozione. Nel suo endecasillabo, che rintocca come una campana d'argen­ to, si sente la mano del maestro. Il cuore, no. L'Ariosto impiegò dieci anni a scrivere i quarantasei canti del poema e sedici ad ampliarli e limarli. Tra un canto e l'al­ tro compose cinque commedie e sette satire. Nelle prime s'i­ spirò a Plauto e Terenzio, i due autori classici più in voga nel Cinquecento, nelle seconde prese a modello Orazio e

539 Giovenale mettendo alla gogna la corruzione del clero, il nepotismo dei papi, la grettezza e tirchieria del cardinale Ippolito, l'infedeltà delle donne, con l'eccezione di quella sua, la viltà dei cortigiani. La tubercolosi, che gli covava da tanti anni nei polmoni, non gl'impedì di lavorare febbrilmente sino alla fine. Ma nel 1532 il male s'aggravò e l'anno successivo lo portò alla tomba. I contemporanei paragonarono l'Ariosto a Omero e il suo poema, la cui lunghezza eguaglia l'Iliade e l'Odissea messe insieme, diventò uno dei best-sellers del secolo. Nessu­ no meglio di lui seppe evadere dalla trita e uggiosa realtà quotidiana ed evocare con maggiore felicità e vivezza un mondo più fantastico e bizzarro. Nessuno meglio di lui sep­ pe nascondere, dietro le inesauribili risorse della sua inven­ tiva, la mancanza d'ispirazione. E nessuno meglio di lui sep­ pe svolgere con tanta dignità d'arte l'indegno compito del poeta di Corte, costretto a suonare la grancassa al suo pa­ drone esaltando le gesta eroiche dei suoi antenati e attri­ buendo loro delle imprese che non avevano compiuto. Co­ me tutti i poeti aulici, che scrivono su commissione, era fal­ so. Ma riuscì a non far mai scadere l'adulazione nella retori­ ca. E ciò basta a fare di lui il più grande, o il meno piccolo, dei poeti italiani del Cinquecento. CAPITOLO VENTOTTESIMO

BENVENUTO CELLINI

Nella galleria del Rinascimento, accanto al galante ed effe­ minato Castiglione, al gaudente e irriverente Aretino, al dotto e sedentario Ariosto, un posto di proscenio spetta al ribaldo e spavaldo Cellini. L'autoritratto ch'egli ci ha lasciato nella celebre Vita, co­ me tutti gli autoritratti, va preso con le molle. Fra i molti pregi, non ha certo quello della obiettività. Più che una con­ fessione, è una sfacciata autoapologia, in cui è difficile sce­ verare il grano della verità dal loglio della mistificazione. Egocentrico e spudorato, l'autore domina la scena dalla pri­ ma all'ultima pagina, unico protagonista in mezzo a una fol­ la di comparse, sullo sfondo dei grandi avvenimenti che sconvolsero quel grande secolo. Esagera la parte che vi ebbe e vuole puntata su di sé la luce di tutti i riflettori. Era nato a Firenze nel 1500, figlio di un povero suonato­ re di flauto. Ma si vergognava di queste umili origini, e per tutta la vita si vantò di discendere da un capitano di Giulio Cesare. Il padre voleva avviarlo alla propria professione - la musica -, e Benvenuto dapprincipio lo secondò. Ma fra una suonata e l'altra, prendeva lezioni di disegno e cesello nella bottega di qualche orafo fiorentino. Diventò amico dei pit­ tori e degli scultori in voga e fece di Michelangelo il suo ido­ lo e il suo modello. A diciannove anni comprò un ronzino e in compagnia dell' amico Giambattista Tasso andò a Roma. Trovò lavoro presso un famoso orafo, mise su casa e si tuffò nella «dolce vita» dell'Urbe, dove rimase fino al '21. Piaceva alle donne per la sua faccia tosta, per la sua mano lesta, per l'atletica

541 muscolatura. Sfoggiava una cultura che non aveva, era un conversatore piccante e scanzonato, senza peli sulla lingua, tutto punta e taglio. Cavalcava con abilità, era un buon cac­ ciatore e un agile schermitore. Prepotente e attaccabrighe, non c'era zuffa in cui non si cacciasse, e nel '23 dovette ab­ bandonare definitivamente Firenze e cercar rifugio nell'Ur­ be appunto perché, venuto a diverbio con un giovane, lo colpì con un pugnale e lo lasciò tramortito e sanguinante sul terreno, tanto che credette d'averlo ucciso. Clemente VII volle conoscerlo e lo prese al suo servizio come incisore della zecca e suonatore di flauto, attività che, per compiacere al padre, Benvenuto non aveva mai abban­ donato. Cellini aprì un laboratorio che diventò subito il più rinomato dell'Urbe. Dalle sue fornaci uscivano monete, si­ gilli, medaglie, monili, tutti capolavori di cesello, che anda­ vano a colmare gli scrigni e ad arricchire le collezioni del Pontefice e dei ricchi prelati romani. Questo delinquente aveva la mano di Mida: qualunque cosa toccasse, se non era lo stiletto, ne faceva un gioiello. Guadagnava un sacco di soldi, ma li sperperava tutti in donne e taverne. Passava not­ ti intere all'osteria a gozzovigliare e lanciare dadi con gente d'ogni risma. Spesso queste ribotte si concludevano in risse, e qualche volta ci scappava il morto. Benvenuto non ne pro­ vò mai rimorso. Era sempre convinto d'essere dalla parte della ragione, di esercitare un suo elementare diritto o di essere rimasto vittima di una fatalità. Di un tale ch'ebbe l'i­ navvertenza di provocare la sua collera, scrive: «Tirandogli per dare al viso, lo spavento che lui ebbe gli fece volger la faccia, dove io lo punsi appunto sotto l'orecchio; e quivi raf­ fermai due colpi soli, che al secondo mi cadde morto di ma­ no, quale non fu mai mia intenzione». Insomma, la colpa era sempre dell'ammazzato, mai dell'ammazzatore. E la po­ lizia doveva essere dello stesso parere, visto che Benvenuto usciva sempre impunito da queste avventure. Nel 1527 si trovava a Roma quando i lanzichenecchi del Frundsberg la cinsero d'assedio. Offrì i propri servigi d'arti-

542 gliere al Pontefice, si schierò in prima linea, e fu, pare, un suo proiettile a uccidere il Borbone e a ferire il principe Fi­ liberto d'Orange. Nella Vita e per tutta la vita, Benvenuto si vantò di queste gesta che, dobbiamo riconoscere, gli somi­ gliano. Certamente il suo contributo alla difesa della città dalle orde tedesche fu considerevole se Clemente, tornato a Roma, lo nominò mazziere con uno stipendio di duecento corone l'anno. Papa Medici aveva un debole per questo suddito spacco­ ne e un po' mariuolo, e gli perdonò tutte le marachelle e i misfatti che commise. Tutti, tranne uno. Quando venne a sapere che Benvenuto faceva la cresta sull'oro destinato alla zecca, sostituiva i metalli buoni con quelli vili e falsificava le monete, diede ordine d'arrestarlo e impiccarlo. Gli sbirri non fecero in tempo a eseguirlo perché l'artista riuscì a met­ tersi in salvo a Napoli, dove aveva un'amante. Anche Paolo III dapprincipio gli fu benevolo e, dopo averlo richiamato a Roma, lo colmò di favori e commissioni. Poi per l'ostilità, pare, del figlio Pier Luigi Farnese, gli revo­ cò queste e quelli. Cellini dovette lasciar l'Urbe e trasferirsi a Parigi, dove lo chiamava il munifico Francesco I, alle cui orecchie era giunta l'eco della sua fama. Durante il viaggio, fece tappa a Padova, ricevuto dal Bembo che gli chiese un ritratto e gli diede in cambio tre cavalli. Nella capitale francese fu accolto freddamente. La noti­ zia del suo arrivo aveva suscitato le gelosie e messo in allar­ me gli altri artisti, che avevano fatto di tutto - e non ci vole­ va molto - per screditarlo agli occhi del sovrano. Benvenu­ to rifece fagotto e tornò a Roma, dove ricominciarono subi­ to i guai. Un suo lavorante l'accusò d'aver sottratto dalle casse della Chiesa, durante il sacco del '27, ottantamila du­ cati. Benvenuto negò, ma non fu creduto. Nel novembre 1538 Pier Luigi Farnese lo fece rinchiudere in Castel San­ t'Angelo, dove restò sino alla fine dell'anno seguente pre­ gando, bestemmiando, leggendo la Bibbia e imprecando contro i nemici. Una notte tentò d'evadere, ma si ruppe

543 una gamba e fu riagguantato. Liberato per intercessione d'Ippolito d'Este, nel marzo del '40 rivalicò le Alpi, diretto a Fontainebleau, dove Francesco I aveva fissato la sua splendida Corte. Il sovrano francese stavolta l'accolse con tutti gli onori e gli mise addirittura a disposizione un ca­ stello, che Benvenuto adibì ad abitazione e a studio. Poiché i vecchi inquilini non volevano sloggiare, gettò i loro mobi­ li dalla finestra. Uno degli sfrattati l'accusò davanti al tribu­ nale di Parigi ed egli si vendicò spiccandogli le gambe a col­ pi di spada. Anche in famiglia andava per le spicce. Quando scoprì che la giovane modella Caterina lo tradiva con un garzone la battè a sangue. Quando una delle sue amanti gli scodellò una figlia, la cacciò di casa. Alla fine, il paziente Francesco si spazientì e Benvenuto, temendo di perderne il favore, deci­ se di rientrare definitivamente in Italia. Siccome il sovrano gliene negava il permesso, partì di nascosto alla volta di Fi­ renze, dove Cosimo lo prese al suo servizio. Su ordinazione del Duca eseguì la sua opera più celebre, quel Perseo la cui drammatica fusione mirabilmente descrisse nella Vita. Poi­ ché Cosimo era sempre al verde e lo pagava con ritardo, nel 1552 Benvenuto si trasferì nuovamente a Roma. Ma, dopo un breve soggiorno, assalito forse dalla nostalgia, tornò a Firenze. Perché malgrado quell'esistenza avventurosa e dis­ sipata, la mano non aveva perso il tocco di Mida e fra duelli e fughe aveva seguitato a produrre capolavori. La Corte gli era aperta e i salotti alla moda se lo disputavano, sebbene egli continuasse a preferire le taverne e i bordelli e a dar scandalo e filo da torcere alla giustizia. Nel 1556 fu due vol­ te incarcerato per immoralità criminale. Nel 1558, con gran stupore di tutti, prese gli ordini reli­ giosi e ricevette la tonsura. Fu in quell'anno che pose mano alla Vita. Ecco come gliene venne l'idea: «Tutti gli uomini d'ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, o sì veramente che le virtù somigli, doverieno, essendo veri­ tieri e da bene, di lor propria mano descrivere la loro vita;

544 ma non si Gioverebbero cominciare una tal bella impresa prima che passato l'età de' quarantanni». Benvenuto ne aveva cinquantotto suonati ma, come si vede, nel barare al giuoco e nello spacciare per virtù i pro­ pri vizi, aveva ancora il vigore di un ventenne. Non aveva perduto la passione per la buona tavola, le belle donne e i giochi d'azzardo, fra i quali prediligeva una specie di toto­ calcio demografico di sua invenzione, basato sulla divinazio­ ne del sesso dei nascituri. Pochi erano esperti come lui in fatto di prole. Ne aveva sparsa dappertutto. Degli otto figli che gli vennero attribuiti, sei erano bastardi e due legittimi. Questi glieli diede una certa Monna Piera, che sposò a ses­ santaquattro anni dopo aver sciolto i voti, e a settantuno la­ sciò vedova. Con lui uscì dalla scena il prototipo dell'avventuriero ita­ liano del Rinascimento, miscuglio di genio e sregolatezza, cinismo e devozione, spavalderia e servilismo. Senza scru­ poli e senza ideali, incarnò meglio di chiunque altro l'impa- vidità intellettuale e la sordidezza morale di un secolo che non tollerò le mezze figure e le mezze misure né nel bene, né nel male. CAPITOLO VENTINOVESIMO

NICCOLÒ MACHIAVELLI

Agli Uffizi c'è un ritratto di Niccolò Machiavelli in atteggia­ mento pensoso: gli occhi neri e penetranti, il naso aguzzo, le labbra esangui e serrate, gli zigomi prominenti, le orec­ chie a ventola, la fronte spaziosa, i capelli neri. Quando l'au­ tore del Prìncipe posò per l'anonimo pittore doveva essere sulla soglia della cinquantina, nel pieno della maturità. For­ se il dipinto fu eseguito nella casa di campagna di San Ca- sciano, a pochi chilometri da Firenze, dove Niccolò s'era ri­ fugiato in seguito alla caduta della Repubblica di Savonaro­ la, al tempo della calata di Carlo Vili in Italia. Il ritorno dei Medici l'aveva infatti privato della carica di segretario dei Dieci della guerra, che aveva tenuto per quattordici anni. Vi era stato preposto nel 1498, quando ne aveva ventinove, e la sua nomina era stata accolta con sorrisetti di sufficienza dai vecchi notabili, scandalizzati che un posto così impor­ tante fosse affidato a un uomo così giovane, e per giunta privo di titoli di studio. Niccolò aveva seguito svogliatamente i corsi di legge, ma alla vigilia della laurea li aveva abbandonati per la politica. Gli affari dello Stato, di uno Stato come quello fiorentino diviso dalle lotte di fazione, tribolato dal gioco delle parti, lo interessavano molto più dei codici e delle pandette. Abbrac­ ciando la carriera politica, Niccolò aveva dato un grosso di­ spiacere al padre, ch'era avvocato, e sperava di fare del fi­ glio il proprio successore, e alla madre, donna tutta casa e chiesa, che sognava di farne un prete. Era stata la lettura di Svetonio, Tito Livio, Tacito a infatuare Niccolò della Storia e dei suoi protagonisti. I fasti di Roma repubblicana e impe-

546 riale, le conquiste militali e i trionfi civili dei suoi consoli e dei suoi principi l'avevano esaltato. L'ufficio di segretario era un ideale osservatorio politico e un magnifico trampolino di lancio per un uomo ambizio­ so. Metteva chi lo ricopriva a diretto contatto col Gonfalo­ niere, coi più alti magistrati della Repubblica, coi suoi gene­ rali, con gli ambasciatori stranieri. Sul suo tavolo passavano ogni giorno relazioni segrete, lettere riservate, rapporti con­ fidenziali, documenti compromettenti. Il giovane segretario teneva gli occhi bene aperti. Nulla gli sfuggiva. Nello stesso 1499, la Signoria lo spedì in missione presso Caterina Sforza, contessa d'Imola e Forlì, una specie di vira­ go diventata famosa in tutta la Penisola per essere salita sul­ le mura della città e aver mostrato il ventre ai sudditi ribelli che stavano di sotto e minacciavano di uccidere i suoi tre fi­ gli, urlando: «Ho di che farne altri». A questa ambasceria al­ tre ne seguirono. Nel 1500 fu alla Corte di Luigi XII, impa­ rò il francese, visitò la provincia e mandò in patria rapporti così acuti che ottenne uno scatto di grado. Fu il buon esito di questa missione che due anni dopo indusse la Signoria ad affidargliene un'altra presso Cesare Borgia. Machiavelli non conosceva il duca Valentino, ma ne aveva ammirato le strabilianti imprese. Il segretario fiorentino e il figlio d'Ales­ sandro diventarono amici, e Niccolò vide in lui il principe ideale capace di cacciare lo straniero e unificare la Penisola. Quando tornò a Firenze molti l'accusarono d'essersi fatto abbindolare dal Borgia, ma egli seppe abilmente disarmare i critici e riconquistarsi la fiducia della Repubblica. Il Gonfaloniere e i Dieci della guerra non prendevano una decisione senza prima consultarsi con lui. Nel 1505 Ma­ chiavelli propose la formazione di una milizia nazionale che sostituisse quelle mercenarie volubili, infide e corrotte. L'i­ dea piacque e Niccolò fu incaricato di mettere insieme un esercito. Lo reclutò soprattutto fra i contadini, più vigorosi e meglio adatti a sopportare i disagi della guerra. L'anno dopo Firenze aprì le ostilità con Pisa e spedì la nuova mili-

547 zia a cingerla d'assedio. La capitolazione della città nemica fu il trionfo di Machiavelli, che oltre a quelle politiche acca­ rezzava grosse ambizioni militari. Ma i suoi napoleonici so­ gni durarono poco. Quando Firenze dovette vedersela non più col piccolo e raccogliticcio esercito di Pisa, ma con quel­ lo raccolto da Giulio II nella cosiddetta «Lega Santa» istitui­ ta per riportare i Medici al potere, le milizie di Machiavelli sbandarono al primo urto, e Niccolò ci rimise il posto. Cer­ cò d'ingraziarsi i nuovi padroni per riottenerlo, e ci sarebbe forse anche riuscito se proprio in quei giorni non fosse stata scoperta una congiura che portò all'arresto di due giovani nelle cui tasche venne trovata una lista di nomi fra i quali quello del Machiavelli. Sebbene nessuna prova contro di lui fosse stata raccolta, l'ex segretario fu imprigionato. Sottopo­ sto a tortura e riconosciuto innocente, dopo un mese venne liberato. Gli amici gli consigliarono di cambiar aria. Aveva moglie e figli e non poteva esporli a repentagli. Decise di trasferirsi nella casa paterna di San Casciano, dove resterà quindici anni. Conserviamo una celebre lettera all'ambasciatore Fran­ cesco Vettori, in cui Niccolò descrive la sua giornata di esule volontario. La mattina s'alza al canto del gallo e va nel bo­ sco. S'intrattiene un paio d'ore coi taglialegna e quindi si di­ rige verso una fonte leggendo ad alta voce un canto di Dan­ te o un sonetto del Petrarca. Rientrando, si ferma all'osteria a far quattro chiacchiere col fornaio, il macellaio e il farma­ cista. Al tocco rincasa, mangia e torna all'osteria. Gioca tutto il pomeriggio a cricca e a tric-trac, bevendo Chianti e be­ stemmiando. A sera riprende la via di casa e si chiude nello studio: «In sull'uscio - confida all'amico - mi spoglio questa vesta cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle anti­ que corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amo­ revolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e ch'io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandoli della ragione delle loro actioni, e quelli per loro

548 humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro». Nel silenzio della notte, nella solitudine di una stanzetta ingombra di libri e scartoffie, al chiarore di un vecchio lu­ me, Niccolò scrive in una calligrafia minuta e compatta i Di­ scorsi sulla prima Deca di Livio che dedica agli amici Jacobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai. I Discorsi, rimasti incom­ piuti, sono un atto di fede nei valori spirituali del mondo classico. Ma Niccolò li lasciò a mezzo per porre mano all'o­ pera che doveva renderlo immortale. Cominciò // Principe nel 1513 e in pochi mesi, nello stesso anno, Io portò a termi­ ne. Dapprincipio pensò d'indirizzarlo a Giuliano de' Medi­ ci, ma questi morì, e allora lo dedicò a Lorenzo, Duca d'Ur­ bino, sempre nella speranza di tornare nelle grazie della re­ staurata dinastia. Per quasi trent'anni il libro circolò mano­ scritto e solo nel 1532, cinque anni dopo la morte del Ma­ chiavelli, fu pubblicato. Sorta di vangelo politico e di ma­ nuale pratico del perfetto tiranno, diventò uno dei best- sellers del Cinquecento e uno dei più Ietti - o almeno dei più citati - di tutti i tempi. Con lucido e spietato realismo l'auto­ re fa il quadro della situazione politica italiana, ne mette a nudo le magagne e detta i rimedi. Machiavelli vede la Penisola frantumata in un pulviscolo di staterelli eternamente in lotta tra loro. Venezia guarda in cagnesco Milano, Firenze fa la guerra a Pisa, il Re di Napoli odia il Papa, e ne è ricambiato. Si fanno e disfanno leghe, si stipulano e capovolgono alleanze, ci si scambia giuramenti, li si viola, ci si tradisce, ci si scanna. Tutti vogliono comanda­ re. Purtroppo le forze s'equivalgono e impediscono che una s'imponga alle altre e le pieghi alla propria volontà. «E veramente alcuna provincia - scrive Machiavelli - non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una Repubblica o d'un principe, come è avvenuta alla Francia e alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in

549 quel medesimo termine, né abbia anch'ella una Repubblica o un principe che la governi, è solamente la Chiesa; perché, avendovi abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tal virtù che l'abbia potuto occupare il restan­ te d'Italia e farsene principe.» Per Niccolò dunque non c'è dubbio: la colpa dell'abortita unità nazionale è della Chiesa. Essa ha sempre giocato uno Stato contro l'altro per impedire che quello più forte diven­ tasse troppo forte e la fagocitasse. Ogni volta che ce n'è sta­ to bisogno non ha esitato a far ricorso allo straniero, trasfor­ mando l'Italia in un campo di battaglia e in una colonia alla mercé di tedeschi, francesi, spagnoli. Ma tutto questo - dice Machiavelli - lo si sarebbe potuto anche perdonare alla Chiesa, se sotto lo stemma pontificio essa fosse riuscita a unificare la Penisola. Solo un principe «virtuoso» cioè astuto, ambizioso e senza scrupoli - perché questa è la «virtù», secondo Machiavelli - potrebbe fondare in Italia uno Stato nazionale sul modello della Francia, della Spagna e dell'Inghilterra. La virtù non ha nulla a che fare con la morale, i buoni sentimenti non fan­ no i buoni governanti, il fine giustifica i mezzi, cioè ogni azio­ ne, anche la più nefanda, diventa legittima quando la si com­ pie per accrescere la potenza di uno Stato ed estenderne l'e­ gemonia. Il nemico va annientato a qualunque costo e con qualunque mezzo. Chi minaccia il principe dev'essere elimi­ nato o messo in condizione di non nuocere. Il veleno è un'ot­ tima risorsa per ridurre al silenzio gli oppositori. Il principe, per difendere il trono, dev'essere sempre pronto a far la guerra. La stabilità di uno Stato dipende dalla forza del suo esercito. Ma guai se esso è formato di mercenari. Refrattari a ogni ideale di patria, costoro combattono solo per avidità di guadagno, sono sempre pronti a cambiar bandiera per schierarsi con chi li paga di più, obbediscono a ogni uzzolo di rapina, sono sanguinari e vandali, seminano dovunque il terrore e l'anarchia. Solo una milizia nazionale può dar fidu­ cia e sicurezza al principe e renderlo potente.

550 Il despota perfetto deve farsi temere dai sudditi, negar loro la libertà e concederne solo le apparenze, perché uno Stato tollerante è destinato a perire. Per tenere a bada il po­ polo il principe deve «... parere pietoso, fedele, integro, re­ ligioso, ed essere; ma stare in modo edificato, con l'animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare al con­ trario... Debbe adunque avere un principe gran cura che li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle sopra scritte cinque qualità; e sia, a vederlo e udirlo tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto religione... Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simula­ tore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare... Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti». Queste qualità, Machiavelli le vide incarnate in Cesare Borgia. Il duca Valentino gli aveva fornito un modello vi­ vente di condottiero e di tiranno. L'unico nell'Italia del tem­ po. Sul Borgia, Niccolò aveva puntato tutto, forse anche la carriera. Ma quando apprese la notizia della sua morte, at­ tribuita nelle prime versioni a una coppa di veleno, ebbe un moto di delusione e di stizza. Come aveva potuto il suo Prin­ cipe, con la sua crudeltà di lupo e la sua astuzia di volpe, ca­ dere in una così grossolana trappola? Non sappiamo come reagì il Machiavelli quando seppe che il duca Valentino era morto in combattimento. Ma ormai la realtà italiana aveva fatto naufragare tutte le sue speranze. Rinunziò a impartire ai principi ulteriori lezioni di arte di governo, risprofondò nello studio del passato. Nel 1520 il cardinale Giulio de' Medici gli ordinò una storia di Firen­ ze, in cambio di trecento ducati. Niccolò si rimise al lavoro. Cinque anni dopo le Storie fiorentine erano finite. Esse costi­ tuiscono l'opera di maggior impegno e di più vasta mole del Machiavelli, un'opera per quei tempi rivoluzionaria. Fin'al- lora la storia non era stata infatti che un'arida e piatta suc-

551 cessione di cronache, lardellate di nomi e di date, senza un filo conduttore né un corredo aneddotico. Nelle Storie fiorentine, Machiavelli non s'accontenta d'e­ sporre meccanicamente i fatti. Li sviscera, ne indaga i retro­ scena, ne rianima i protagonisti. Ripudia tutte le leggende di cui i cronisti precedenti avevano infiorettato la storia di Firenze, che l'autore non limita alla politica ma estende al­ l'economia, alla società e al costume. In uno stile limpido, stringato, maschio, tutto pepe e midollo, vi è ripresa anche la polemica contro la Chiesa che per conservare e rafforzare il proprio potere temporale ha seminato zizzania nella Peni­ sola, ostacolandone l'unificazione. Quando il papa Clemen­ te VII lesse l'opera che Machiavelli aveva dedicato proprio a lui, si congratulò con l'autore, che aveva sì fustigato la Chiesa ma non aveva mancato di tessere l'elogio dei Medici. E Clemente VII si sentiva più Medici che Papa. Con le Storie rientrò nelle grazie della potente famiglia fiorentina. 11 18 maggio 1526 fu nominato capo dei Curatori delle mura, un comitato addetto alle fortificazioni. Era, dopo quattordici anni, la prima ripresa di contatto con la vita po­ litica. Ma fu anche l'ultima. Un anno dopo, quando i lanzi­ chenecchi di Carlo V calarono su Roma e ne scacciarono Clemente, i fiorentini rovesciarono i Medici e restaurarono la Repubblica. Il grande teorico della Realpolitik, l'esaltatore del calcolo opportunistico, in pratica non ire azzeccava una. Di aver cambiato così spesso bandiera, non si può fargli col­ pa: rientrava nella morale del suo tempo. Ma si può sorri­ dere del fatto che il maestro del cinismo e della spregiudica­ tezza, quale egli è considerato, puntasse sempre sul cavallo sbagliato. Quando il 10 giugno fece domanda per riottene­ re il posto di segretario dei Dieci, la Signoria gliela bocciò. Machiavelli ne morì di dolore. Prima di congedarsi dal mondo chiamò un prete e si confessò. Lasciò una moglie, cinque figli e molti debiti. Lì per lì la sua fine passò quasi inosservata. I lunghi anni di San Casciano avevano piombato il suo nome nell'oblio.

552 Quel po' di fama di cui aveva goduto non la doveva né al Principe né alle Storie fiorentine ma a una commedia scollac­ ciata e anticlericale che aveva deliziato le platee ed era stata applaudita dallo stesso Pontefice. La mandragola è la storia di un marito ingenuo e sterile (Nicia), di una moglie proca­ ce e fedele (Lucrezia) e di un aitante e intraprendente play­ boy (Callimaco). Callimaco vorrebbe portare a letto Lucre­ zia, ma urta contro la sua caparbia virtù. Per espugnarla ri­ corre a uno stratagemma. Si spaccia per medico, si fa pre­ sentare al marito e gli predice che se Lucrezia berrà una certa pozione a base di erbe, tra cui la mandragola, potrà fi­ nalmente avere un figlio. L'unico inconveniente è che l'uo­ mo col quale Lucrezia s'accoppierà, dopo aver sorbito la po­ zione, dovrà morire. A Nicia l'idea di pagare con la vita il piacere di diventare padre garba poco. A questo punto Cal­ limaco gli offre di immolarsi al suo posto. Nicia accetta. Più diffìcile è convincere la casta Lucrezia. Ci provano un po' tutti e alla fine ci riesce un frate, prezzolato dalla madre del­ la donna. Lucrezia beve la mandragola, si concede a Calli­ maco e fra la soddisfazione generale resta incinta. La com­ media, considerata il capolavoro del teatro del Rinascimen­ to, seguita a passare per tale anche agli occhi di un critico acuto come il Ridolfi, che è anche il grande biografo di Ma­ chiavelli. Ma noi non riusciamo a condividere questi entu­ siasmi. La trama è scontata, il tema del triangolo è frusto, i caratteri dei personaggi sono forzati. Il dialogo è abbastan­ za brillante e qua e là strappa la risata, ma spesso anche sca­ de nello scurrile e nell'osceno. L'elemento più vivo e valido è la polemica antifratesca. La mandragola procurò al suo autore una fama di liberti­ no, meritata solo a metà. Niccolò ebbe sempre un debole per le donne. Non si curò mai del loro rango, ma solo della loro disponibilità. Preferiva le contadine e le cameriere alle signore. Le trovava più schiette, genuine, accomodanti. Non facevano storie se Niccolò le concupiva nel retrobotte­ ga di un'osteria o in mezzo ai campi senza nemmeno to-

553 gliersi il cappotto, come spesso gli capitava. Possediamo una lunga lista di nomi: la Sandra, la Mariscotta, la Riccia, la Barbara. Quest'ultima era una sciantosa di gagliardi appeti­ ti e di gamba lesta. Celebre è rimasta la risposta che diede a un tizio che le rinfacciava la sua condotta: «E roba mia e la do a chi mi pare». Sebbene fosse piuttosto bruttina, fu la donna che Machiavelli più amò e che meglio lo capì. In vita Niccolò fu quello che si dice un genio incompre­ so, e ne soffrì tutte le amarezze. Solo dopo la pubblicazione del Principe il suo nome diventò famoso. Il successo dell'o­ pera fu strepitoso, scatenò un'ondata di polemiche senza precedenti e divise il pubblico in ammiratori e denigratori del suo autore. Machiavellico e machiavellismo diventarono termini alla moda anche fuori d'Italia, dove il libro venne abbondantemente tradotto, commentato e meditato. Lo les­ sero re, principi, papi, imperatori. Carlo V lo teneva sul co­ modino e ne sapeva a memoria lunghi brani. La fortuna del Principe crebbe nei secoli successivi: Enrico III ed Enrico IV di Francia lo portavano sempre con sé, Richelieu lo consul­ tava alla vigilia di ogni importante decisione, Guglielmo d'Orange ne fece il proprio breviario. Nessun'opera, dai tempi d'Aristotele, influenzò tanto la scienza politica e l'arte di governo. «Dobbiamo essere grati - scrisse Francesco Bacone - al Machiavelli e agli scrittori come lui, che ci hanno detto senza peli sulla lingua quello che gli uomini fanno e non quello che dovrebbero fare». Oggi il problema del giudizio morale da trarre dall'ope­ ra di Machiavelli non si pone più. Tutti riconoscono in lui il fondatore di una disciplina che a questo giudizio si sottrae. Le sue leggi non sono né morali né immorali, come non lo sono quelle della fisica e dell'economia. Ma Machiavelli non fu soltanto il loro scopritore e ordi­ natore. Sotto l'apparente freddezza del teorico che dal caso concreto induce il principio generale, palpita la passione del grande italiano che assiste all'aborto dello Stato nazio­ nale e non sa rassegnarvisi. Ed è questo che fa la sua gran-

554 dezza di scrittore. Da buon toscano (e Guicciardini lo sarà anche più di lui), egli ostenta il cinismo per nascondere l'a­ marezza. Questo voltagabbana che tradì gl'ideali repubbli­ cani rimase per tutta la vita fedele a quello di un'Italia uni­ ta, armata e spretata. Per realizzarlo era pronto a vendere l'anima non solo ai Medici, non solo al Valentino, ma anche al diavolo. La delusione distrusse l'uomo e fecondò l'artista. CAPITOLO TRENTESIMO

FRANCESCO GUICCIARDINI

La restaurazione repubblicana che aveva portato alla tomba Machiavelli fu salutata con sollievo dai fiorentini. Il nuovo regime si divise subito in due opposte fazioni: una d'ispira­ zione borghese, l'altra popolare. La prima cercava di barca­ menarsi tra il Papa, Carlo V e Francesco I; la seconda, estre­ mista e radicale, era tutta per la Francia. Queste divergenze portarono alla deposizione del gonfaloniere Niccolò Cap­ poni, leader dei moderati, sostituito dal popolare Carducci. Il trionfo del partito filo-francese rinfocolò i sentimenti antimedicei dei fiorentini e scatenò epurazioni e rappresa­ glie. Uno dei palleschi - come si chiamavano i seguaci dei Medici - più invisi alla Signoria era il luogotenente pontifi­ cio Francesco Guicciardini. Consigliere e fiduciario di Cle­ mente VII, era stato il cervello della Lega di Cognac, e - a giudizio di molti - uno dei responsabili della sua disfatta, culminata nel sacco di Roma. Alcune delle accuse che gli erano state mosse, come quella di aver intascato la cinquina dei soldati, erano false; altre avevano invece tutta l'aria d'es­ sere fondate. Lo spauracchio di un processo e di una con­ danna indusse Francesco a cambiar aria e a ritirarsi con la famiglia nella tenuta di Finocchieto, dove restò due anni, che dovettero sembrargli un'eternità poiché, fin'allora, non aveva conosciuto che successi, onori e scatti di grado. Nel 1511, a ventotto anni, la Repubblica l'aveva nomina­ to ambasciatore alla corte di Ferdinando il Cattolico. La scelta non era stata dettata solo da valutazioni di merito, sebbene Francesco fosse dotato di un eccezionale ingegno, ma soprattutto di ceto e di censo. I Guicciardini appartene-

556 vano a quella classe degli ottimati che a Firenze facevano il buono e il cattivo tempo, occupavano posti chiave nella vita pubblica, influenzavano la politica quando non la facevano direttamente, vivevano in compounds, si spartivano cariche e prebende, erano uniti da vincoli di parentela e d'interessi, e quando non si scannavano si sostenevano a vicenda. Di que­ ste famiglie, la più ragguardevole e potente era, natural­ mente, quella dei Medici, intorno alla quale le altre orbita­ vano, rendendosi reciproci servigi. Sebbene di sentimenti palleschi, i Guicciardini mantene­ vano rapporti amichevoli col partito repubblicano che s'al­ ternava coi Medici al governo della città. Papà Piero se n'e­ ra guadagnata la stima al punto ch'era riuscito a ottenere per il figlio la missione in Spagna. Francesco aveva del re­ sto tutti i titoli per meritarsela. D'intelligenza precoce, acu­ ta e pratica, era stato uno scolaro modello. Compiuti gli studi inferiori a Firenze, a diciassette anni s'era trasferito a Ferrara per seguirvi quelli di giurisprudenza. Piero avreb­ be preferito che si fosse dedicato alla filosofia, alla quale il ragazzo era stato avviato dal padrino Marsilio Ficino, uno dei grandi maestri del platonismo. Ma Francesco aveva una sola passione, la politica, e una laurea in legge gli faceva comodo. Quando nel 1505 tornò a Firenze non gli fu difficile, gra­ zie alle relazioni paterne, ottenere una cattedra di diritto. L'anno dopo lo Studio fiorentino chiuse, e Francesco dovet­ te cercarsi un altro lavoro. Scelse quello di avvocato che gli avrebbe assicurato buoni guadagni e procurato nuove ami­ cizie. Ma la politica l'ossessionava e ad essa era disposto a sa­ crificare tutto, compresi i piaceri della sua età. Sebbene fos­ se un bell'uomo, di costituzione atletica e sanguigna, ricco, elegante, colto, era insensibile al fascino femminile. Amò, o finse d'amare, una sola donna, Maria Salviati, che diventò sua moglie. La sposò a venticinque anni, secondo i maligni per puro calcolo. Costei era infatti figlia di Alamanno Sal­ viati, uno dei notabili più influenti della città. Sulla nomina

557 di Francesco ad ambasciatore dovette certamente pesare an­ che questa parentela. A dorso di mulo, seguito da un codazzo di famigli, sullo scorcio del 1511, Francesco lasciò Firenze diretto in Spagna. Nel marzo dell'anno successivo arrivò a Burgos, dove Ferdi­ nando aveva fissato la sua corte. Per diciotto mesi cercò di scoprire le mire del Re spagnolo sull'Italia. Ma l'astutissimo sovrano era un maestro nell'arte della simulazione e l'am­ basciatore dovette rientrare in patria senz'aver nulla capito e previsto. Ci tornò volentieri perché importanti eventi s'erano veri­ ficati a Firenze durante la sua assenza. Il primo settembre del '12, diciott'anni dopo esserne stati scacciati dal Savona­ rola, i Medici erano risaliti al potere sulle lance spagnole. Nel marzo del '13 il risorto dominio dei palleschi era stato suggellato dall'assunzione al Soglio di Leone X, figlio di Lo­ renzo il Magnifico. Francesco esultò e s'affrettò a offrire i propri servigi ai nuovi padroni. Ottenne d'entrare a far parte di una delle massime magistrature cittadine, gli Otto di Balìa. Quando, l'anno dopo, il Pontefice, diretto a Bolo­ gna per incontrare Francesco I, passò per Firenze, Guicciar­ dini fu tra coloro che gli andarono incontro e gli resero omaggio. Leone lo nominò avvocato concistoriale, titolo che gli conferiva un notevole rango presso la Curia romana. Ma Francesco voleva il governo di una città pontificia. Il Papa l'accontentò offrendogli quello di Modena. La Chiesa aveva usurpato questa turbolenta città al Duca di Ferrara e non voleva saperne di restituirgliela, sebbene si fosse ufficialmente impegnata a sgombrarla. La popolazio­ ne era furiosamente anticlericale e non perdeva occasione per dimostrarlo, trucidando i governatori papalini, o obbli­ gandoli a fuggire a suon di legnate. Costoro facevano di tut­ to per meritarsele. Sottoponevano i sudditi a ogni sorta d'angherie, rubavano, aizzavano le fazioni e spesso ne cade­ vano in balìa. Venivano reclutati tra il clero, erano comple­ tamente digiuni d'amministrazione e costituivano per la

558 Chiesa una vera iattura. A rendere vieppiù precaria la stabi­ lità degli Stati pontifici concorrevano i fuorusciti che negli intervalli tra un governatorato e l'altro, o durante le vacan­ ze del Soglio, piombavano nella città che li aveva banditi, saccheggiavano, uccidevano, stupravano, incendiavano. Pochi giorni dopo l'arrivo di Guicciardini, trecento mo­ denesi presero volontariamente la via dell'esilio. Il nuovo governatore aveva fama di «duro» e i suoi primi atti ne for­ nirono la conferma. Fece passare la città al setaccio, ordinò vasti rastrellamenti nel contado, imprigionò tutti coloro sui quali pesava un minimo sospetto d'eversione, e fece decapi­ tare i più facinorosi. Prese tutte queste misure senza chiede­ re il permesso alla Curia romana, da cui dipendeva e alla quale doveva rendere conto del suo operato, per timore ch'essa glielo negasse. Si limitò a informarla a cose avvenu­ te. A chi gli rimproverava la sommarietà dei suoi metodi ri­ spondeva: «Bisogna governare con terrore e con esempi straordinari». Pacificata Modena, fu spedito dal Pontefice a riportare l'ordine in Romagna. Era questa, già nel Cinquecento, la regione più anarchica d'Italia. Il duca Valentino l'aveva do­ mata a fatica, ma in seguito alla sua caduta gli odi di parte s'erano riaccesi e il caos era tornato a regnare. «Non vi po­ trei dire - scrisse Guicciardini all'amico Colombo, quando fu nominato governatore - quanto male volentieri io vada in Romagna, provincia avviluppata, dove bisognerà mettere mano al sangue, né potrò mai sperare di avere a trattare al­ tro che faccende fastidiose e odiose.» V'impiegò gli stessi metodi spicciativi e brutali adottati a Modena. Papa Clemente VII per premio lo chiamò a Roma e lo nominò luogotenente dell'esercito pontificio, che in le­ ga con quelli fiorentino, veneziano e francese doveva af­ frontare quello imperiale. Abbiamo già descritto in un pre­ cedente capitolo le sfortunate fasi di questa guerra e il suo tragico epilogo: il sacco di Roma del '27. A Firenze fu re­ staurata la repubblica. E il Guicciardini, che aveva fin da

559 principio vantato «la facilità dell'impresa et la vittoria cer­ ta», diventò uno dei capri espiatori della sconfìtta e dovette rifugiarsi con la famiglia nella villa di Finocchieto. L'esilio cessò quando il Pontefice, con un ennesimo voltafaccia, ab­ bandonò la Francia e s'alleò all'Impero, grazie al quale i Me­ dici furono reintegrati a Firenze. Francesco, che non aveva mai disgiunto le proprie fortu­ ne da quelle di Clemente e dei palleschi, riottenne un im­ portante incarico politico con la nomina a governatore di Bologna. Sebbene la città fosse divisa in due fazioni che fa­ cevano capo alla famiglie dei Pepoli e dei Malvezzi, egli riu­ scì a ristabilire anche qui l'ordine e la legalità. Con la morte di Clemente e l'avvento al Soglio di Paolo III Farnese, Fran­ cesco tornò a Firenze, dove Alessandro de' Medici lo nomi­ nò consigliere. Quando Alessandro fu assassinato, Guicciardini caldeg­ giò l'elezione del giovinetto Cosimo, forse perché sperava di poterlo facilmente dominare. Ma Cosimo non era malleabi­ le come il suo predecessore, voleva fare da sé e non inten­ deva affidarsi a tutori, anche se si chiamavano Guicciardini. Nel 1538, più per toglierselo di mezzo che per onorarlo, no­ minò Francesco commissario a Pistoia. L'ex governatore e luogotenente pontificio fece buon viso a cattiva sorte, ma al­ la scadenza del mandato si ritirò in campagna. «Mi sono da­ to tanto all'agricoltura - scriveva nell'ottobre del '39 all'ami­ co Lanfredini - che, se vo continuando così, tengo per certo che quest'altro anno sarò diventato contadino in tutto et di buona voglia, perché non veggo arte che mi piaccia più dì questa.» Francesco mentiva. La sola arte che gli piaceva era la politica il cui tarlo seguitava a roderlo. Ma i tempi erano mutati, i suoi grandi protettori erano morti e i nuovi l'ave­ vano accantonato. E fu un bene per lui che, se fosse rimasto impigliato nel giuoco del potere e nelle beghe dei partiti, non avrebbe mai trovato il tempo di scrivere quella Storia d'Italia, che lo rese immortale. Non sappiamo quando Guicciardini pose mano a que-

560 st'opera, che rimane il suo capolavoro. Essa abbraccia in venti libri il periodo che va dal 1492 al 1534, anno della morte di Clemente VII, e ha per sfondo l'Italia contesa da spagnoli e francesi. Le vicende italiane sono inquadrate in un contesto europeo che conferisce modernità alla narra­ zione. Nessuno storico, prima del Guicciardini, aveva spinto 10 sguardo al di là dei confini nazionali, anzi spesso non ave­ va saputo varcare nemmeno quelli della propria città o del proprio Stato. Oltre alla latitudine della visione, colpisce la mole della documentazione. Nato nel 1483, Guicciardini descrive avvenimenti di cui è stato attore o spettatore. Li ha visti dal di dentro, ne conosce i moventi, i retroscena e i ri­ svolti, li ha annotati nei suoi diari, ha vissuto gomito a go­ mito coi suoi protagonisti. Il materiale di cui intesse la sua storia è tutto di prima mano. A differenza dell'amico Ma­ chiavelli, poco scrupoloso nel vaglio delle fonti, Guicciardi­ ni le sottopone a una critica pedante e rigorosa. Il periodo involuto e lardellato di coordinate e subordinate rende osti­ ca la lettura. La fitta successione di eventi e personaggi e l'abbondanza dei dettagli nuocciono alla chiarezza dell'e­ sposizione. Ma questi difetti non infirmano la validità della monumentale opera, che fa del suo autore il più grande sto­ riografo del Cinquecento. La Storia d'Italia appartiene alla maturità del Guicciardi­ ni. Quella di Firenze ai suoi anni giovanili. A questa circo­ stanza essa deve forse la maggiore immediatezza e freschez­ za. Francesco la scrisse di getto a ventisette anni e vi tracciò la storia della sua città dal 1454 al 1509. È una galleria pit­ toresca e variegata di personaggi visti controluce e scolpiti a tutto sbalzo. Il principale difetto è la sproporzione tra le parti, l'eccessivo rilievo dato a figure minori e ad eventi se­ condari. Alle storie fanno da corollario i Ricordi politici e civili, rac­ colta di massime e sentenze, in cui Guicciardini ha distillato 11 suo pensiero politico, filosofico e morale. «Tre cose - scri­ ve - desidero vedere innanzi alla mia morte... uno vivere di

561 repubblica bene ordinata nella nostra città, Italia liberata da tutti e' barbari, e liberato il mondo dalla tirannide di questi scellerati preti.» Francesco sa che si tratta di pie illusioni, specialmente l'ultima. «Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de' preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tut­ ti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio, e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici m'ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Lu­ ther quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge introdotte dalla religione cristiana nel modo che è interpre­ tata e intesa comunemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità.» Francesco ha dunque il coraggio delle proprie viltà. Odia il clero, ne denuncia i vizi e le magagne, ma riconosce che per il suo «particulare», cioè per i propri interessi, non ha mai esitato a mettersi al suo servizio e a far carriera sotto le sue insegne. Dice peste e corna dei Papi, ma ne sollecita i fa­ vori. Lo troviamo sempre dalla parte del più forte, fautore ora dell'alleanza col Re di Francia, promotore subito dopo di un'intesa con l'Imperatore. Ritiene la libertà e l'ugua­ glianza ideali irraggiungibili. Perseguiamo la prima - dice - per confiscarla agli altri quando l'abbiamo ottenuta. Sban­ dieriamo la seconda pur conoscendone l'utopia. Anche sul popolo non si fa illusioni. La massa non ha volontà né di­ scernimento, è in balìa delle passioni, succuba dei demago­ ghi, obbedisce al più forte. La democrazia è irrealizzabile. L'unica forma di governo è la dittatura di uno o di pochi. Meglio di pochi. Sono conclusioni non molto diverse da quelle cui era giunto Machiavelli. Ma questi aveva riscattato il suo cinismo e pessimismo con qualche ideale. Nell'Italia ci credeva, e

562 proprio per correr dietro all'impossibile sogno dell'unità nazionale aveva commesso quelle ingenuità che ce lo rendo­ no amabile. Questo esaltatore dell'ipocrisia era un uomo sincero e sprovveduto, nelle cui parole si sente vibrare l'ac­ cento di una nobile passione. In quelle di Guicciardini, no. Il cinismo che predicava, egli anche lo praticava. Duro, arido, calcolatore, il perso­ naggio non era simpatico. E forse anche a questa sua man­ canza di palpiti fu dovuta la sua disgrazia politica. Ma sono proprio questi difetti umani che fanno la sua grandezza di scrittore. Il vero Machiavelli non è Machiavelli, ma Guic­ ciardini, questo mostro di egoismo e opportunismo, che non si prende neanche la pena di dissimularli. La sfiducia e lo scetticismo che d'allora in poi dovevano marcare il carat­ tere degl'italiani, e distruggerlo, trovano la loro più com­ piuta e disperata espressione in questo scrittore che final­ mente dà a ogni italiano la sua vera bandiera: el suo particu- lare. CAPITOLO TRENTUNESIMO

LEONARDO

Nel Quattrocento Firenze detenne incontrastata il primato artistico in Italia. Nel secolo successivo esso cessò d'essere suo esclusivo monopolio e diventò appannaggio di Milano, Venezia e Roma. Milano toccò lo zenit del suo splendore sotto Ludovico il Moro, che fece affluire da ogni parte della Penisola pittori, scultori, architetti. La sua era una delle Corti più opulente e raffinate d'Europa. Nelle sue sale s'imbandivano banchetti trimalcionici, si organizzavano feste, concerti, balli, si rap­ presentavano commedie; nei suoi cortili si svolgevano tor­ nei, palii, gare di scherma e di tiro. A tutto sovrintendeva il Duca che non concepiva il potere senza il manto del fasto. Ogni pretesto era buono per sfoggiarlo: un matrimonio, una vittoria, l'arrivo o la partenza di un ospite illustre. Nel 1482 vi approdò un giovane di trent'anni, bello, raffinato e ambizioso, che avrebbe fatto parlare molto di sé. Leonardo era nato a Vinci nel 1452, figlio di un facoltoso notaio e di un'umile contadina che dopo averlo dato alla lu­ ce fu messa in disparte. Il ragazzo, raccolto dal padre che poi impalmò una donna del proprio rango, visse coi fratel­ lastri fino al 1467, quando entrò nella bottega del Verroc- chio, uno dei pittori fiorentini più in voga. Sin da bambino aveva rivelato una straordinaria attitudine al disegno. An­ notava ogni cosa che vedeva e ne faceva lo schizzo su un quaderno che portava sempre con sé e di notte teneva sotto il cuscino. Il Verrocchio fu talmente colpito dal talento del ragazzo che gli affidò l'esecuzione della parte sinistra di un Battesimo, di cui egli aveva dipinto la destra. Il Vasari rac-

564 conta che quando il maestro vide l'opera dell'allievo ne ri­ conobbe la superiorità e decise di non prendere più in ma­ no il pennello. Ma siamo dispensati dal credervi, visto che possediamo dipinti del Verrocchio posteriori al Battesimo. Nel 1472, a vent'anni, Leonardo s'iscrisse all'Arte dei medici e degli speziali, di cui facevano parte anche i pittori. Era un lavoratore infaticabile: dipingeva, disegnava, divo­ rava trattati di matematica, fisica, astronomia, botanica, medicina. Negl'intervalli faceva lunghe cavalcate nei bo­ schi, cantava e suonava il liuto. Sebbene con le donne se la dicesse poco, si vestiva con raffinata eleganza, portava una lunga barba, era affabile e delicato. Nel 1476 fu coinvolto in uno scandalo e accusato di sodomia. Ma questo non im­ pedì al governo mediceo di commissionargli una pala d'al­ tare per la Cappella di San Bernardo e di fargli ritrarre, dopo la congiura de' Pazzi, la scena dell'impiccagione di due cospiratori. Nel 1481, i monaci di San Scopeto gli ordi­ narono una Adorazione dei Magi per l'aitar maggiore di San Donato. Leonardo eseguì numerosi disegni e poi di­ pinse la tavola, che raffigura la Vergine con in mano il Bambino, circondata dai Magi, sullo sfondo di un diruto anfiteatro, affollato di scalpitanti destrieri. Ma l'opera - co­ me molte delle successive - è incompiuta. L'Autore non era mai soddisfatto del proprio lavoro: faceva, disfaceva, rifa­ ceva, intascando gli anticipi, infischiandosi delle scadenze e spazientendo i committenti, che dopo avergli ordinato un dipinto, e non vedendoselo consegnare per tempo, si rivol­ gevano ad altri pittori, meno esigenti ma più puntuali. Egli non se ne adontava perché considerava l'idea più impor­ tante dell'esecuzione che - diceva - poteva essere affidata a dei semplici aiuti. Possediamo la lettera che nel 1482 indi­ rizzò a Ludovico il Moro che cercava uno scultore, un pit­ tore e un ingegnere militare. In essa Leonardo, fra le cui virtù non brillava la modestia, si vanta di saper gettare pon­ ti, dragare fiumi, fabbricare bombarde, catapulte, carri ar­ mati, costruire palazzi, scolpire, disegnare, dipingere. La

565 lettera piacque al Moro che invitò l'artista a Milano, lo in­ caricò di allestire spettacoli e banchetti, confezionare cintu­ re femminili e costruire uno stanzino da bagno per la Du­ chessa. Più tardi gli commissionò il proprio ritratto e quelli della moglie, dei figli e delle amanti. I dipinti, andati pur­ troppo perduti, furono molto ammirati e accrebbero enor­ memente la fama del loro autore. Nel 1483 i Fratelli della Concezione gli ordinarono una pala d'altare per la chiesa di San Francesco. Leonardo ese­ guì la Vergine delle rocce, oggi al Louvre, una delle sue opere più celebri, sperimentandovi quella tecnica del chiaroscuro, che ritroveremo nell'Ultima cena, il capolavoro del periodo milanese. Gliela commissionò il Moro per il refettorio della bramantesca chiesa di Santa Maria delle Grazie. L'artista vi lavorò a pezzi e bocconi per tre anni, nonostante le solleci­ tazioni del Duca e del priore del convento, smaniosi di ve­ dere il dipinto compiuto. Questo occupa un'ampia parete e rappresenta l'ultima agape di Cristo con gli Apostoli. La fi­ gura di Gesù è al centro, quelle degli Apostoli sono riunite in quattro gruppi disposti frontalmente lungo una bianca tavola sullo sfondo di tre finestre che s'affacciano su un in­ distinto paesaggio. I ritratti di Giacomo Maggiore e Giaco­ mo Minore sono degni di Rembrandt. Quello di Cristo in­ vece è impersonale, manca di potenza drammatica e sem­ bra tracciato da un'altra mano. Dei dipinti leonardeschi, la Cena è stato [recentemente] restaurato. L'autore disdegna­ va la tecnica dell'affresco, che richiede una grande rapidità d'esecuzione, e impiegò colori a olio che sbiadirono subito e irreparabilmente si deteriorarono. Nel 1656 i frati deturpa­ rono il dipinto scavando tra le gambe degli apostoli una porta per mettere in comunicazione il refettorio con la cuci­ na. L'umidità, la pioggia, l'usura del tempo fecero il resto, aiutate dalla totale indifferenza dei pubblici poteri e della pubblica opinione alle cose dell'arte e della cultura, che nel nostro Paese si tramanda di secolo in secolo e di regime in regime.

566 All'attività di pittore Leonardo alternava quella di sculto­ re. Maneggiava con eguale destrezza il pennello e il bulino, e quando il Duca gli commissionò la statua equestre del pa­ dre Francesco, che avrebbe dovuto emulare e superare quella donatelliana del Gattamelata e quella verrocchiana del Colleoni, s'accinse con entusiasmo all'impresa, che come le precedenti e le successive non condusse mai a termine. Dopo aver a lungo studiato l'anatomia equina ed eseguito centinaia di disegni, plasmò un modello in gesso, alto otto metri e mezzo. Il Moro lo fece esporre in pubblico per le nozze della nipote Bianca Maria, mandando in visibilio i mi­ lanesi, che a migliaia corsero ad ammirarlo. Ma quando Leonardo gli chiese il denaro per fondere in bronzo la sta­ tua, lo squattrinato Duca glielo negò. Nel 1499 il monu­ mento fu mutilato dai francesi che ne spedirono Oltralpe alcuni brandelli. Due anni dopo, Luigi XII ordinò di trasfe­ rirne in Francia anche il resto. In seguito alla fuga del suo protettore, Leonardo abban­ donò Milano e si recò a Mantova, dove fu accolto dalla splendida Isabella d'Este, che gli ordinò un ritratto, di cui l'artista fece solo lo schizzo. Da Mantova andò a Venezia, e di qui a Firenze. Ci mancava da diciassette anni, e forse sen­ tiva un po' di nostalgia. Vi giunse in compagnia di alcuni giovani agghindati e bellissimi, che Io seguivano dovunque e che egli generosamente manteneva. A Milano aveva gua­ dagnato bene e s'era messo da parte un gruzzolo che gli consentiva ora di vivere agiatamente. Era all'apice della fa­ ma, e i fiorentini l'alluvionarono di commissioni. I frati ser­ viti gli chiesero una pala d'altare per la chiesa dell'Annun­ ziata, di cui egli come al solito si limitò a fornire i disegni. Ma la pittura l'attirava sempre meno, mentre cresceva il suo interesse per la scienza. Passava giornate intere spro­ fondato nello studio della fisica, della matematica e dell'in­ gegneria. Riempiva montagne di quaderni di avveniristici disegni che corredava di note illeggibili, redatte in una gra­ fia minuta e indecifrabile stesa, all'uso orientale, da destra a

567 sinistra. Non sappiamo se scrivesse così perché era mancino 0 perché voleva tener nascoste le sue strabilianti invenzioni, sebbene pochi, a quei tempi, sarebbero stati in grado d'af­ ferrarne l'importanza. Nel 1502 Cesare Borgia gli offrì un posto d'ingegnere militare. Leonardo accettò, ma alla caduta del Valentino tornò a Firenze e si rimise a dipingere. La Signoria aveva deciso d'affrescare la sala dei Cinquecento a Palazzo Vec­ chio e affidò l'incarico ai due artisti che in quel momento andavano per la maggiore. Leonardo e il giovane Miche­ langelo dovevano celebrare su due diverse pareti una vitto­ ria della Repubblica. Michelangelo scelse quella di Cascina, Leonardo quella d'Anghiari. Eseguì innumerevoli bozzetti di guerrieri e di cavalli (ch'erano il suo tema preferito) e ap­ prontò un bellissimo cartone. Ma quando passò a dipinger­ lo, fissò male i colori che sbavarono sulla parete imbrattan­ dola e cancellando le immagini. Deluso, rinunziò al cimento e accettò di ritrarre una gentildonna di nome Lisa, moglie di un certo Francesco del Giocondo. La figura si staglia su un paesaggio costellato di alberi, torrenti e rocce. Il volto è morbido e tondeggiante, la pelle calda e vellutata, il naso ben modellato, le pupille accese, le labbra atteggiate a un enigmatico sorriso, sul cui significato 1 critici seguitano ad accapigliarsi da quasi cinque secoli. La mano destra è posata sulla sinistra e una lunga chioma bru­ na scende sulle spalle carnose, fasciate da un'ampia veste dall'abbondante panneggio. E questo il dipinto più famoso di Leonardo. Quando, molti anni fa, esso venne trafugato dal museo del Louvre, tutto il mondo si commosse. E tutto il mondo esultò alla notizia del suo ritrovamento. La Gioconda fu una delle ultime composizioni fiorentine dell'artista, che nel 1506 tornò a Milano, dove soggiornò quasi ininterrottamente per sette anni dipingendo, deco­ rando palazzi, costruendo ponti e canali. Nel '13, dopo la cacciata dei francesi, si recò a Roma. Fu presentato a Leone X che gli ordinò un quadro, che, come al solito, non fu mai

568 eseguito. L'Urbe brulicava di artisti, Raffaello aveva il mo­ nopolio degli appalti pontifici, e Leonardo capì che per lui c'era poco posto. Nel '15 si riacquartierò a Milano, occupata dal nuovo Re di Francia, Francesco I, un monarca colto, gaudente e raffinato, amante delle arti e patrono degli arti­ sti. Francesco aveva sentito parlare di Leonardo e volle co­ noscerlo. Ne fu immediatamente conquistato e gli propose di trasferirsi in Francia come pittore e ingegnere reale con uno stipendio di settecento corone l'anno. Nel 1516, in compagnia del giovane Melzi, Leonardo partì per Amboise, residenza abituale del Re. Francesco ascoltava estasiato il suo enciclopedico interlocutore. Non c'era domanda alla quale Leonardo non sapesse rispondere, né enigma che non fosse in grado di sciogliere, né problema di cui non tro­ vasse la soluzione. Ci manca lo spazio per enumerare tutte le invenzioni e le scoperte che portano il nome di Leonardo. «Ogni giorno - scrisse il Vasari - egli faceva modelli e disegni, da potere scaricare con facilità monti e forargli per passare da un pia­ no all'altro e per via di leve e di argani e di vite mostrava potersi alzare e tirare pesi grandi: e modi da votar porti, e trombe da cavare da' luoghi bassi acque.» Ideò la prima mi­ tragliatrice, disegnò il primo paracadute e osservando il vo­ lo degli uccelli dimostrò che anche l'uomo poteva star so­ speso nell'etere. Si racconta che un giorno s'attaccò un paio di ali alla schiena e si lanciò nel vuoto. Dicono che l'esperi­ mento riuscì. Ma il fatto ch'egli non lo abbia più ripetuto ce ne fa dubitare. All'inventore non fu inferiore lo scienziato che negò il moto del sole intorno alla terra, compilò una carta geografi­ ca dell'Italia paleologica, gettò le basi dell'anatomia compa­ rata, confutò la leggenda biblica secondo la quale la distru­ zione di Sodoma e Gomorra fu causata dalla scostumatezza dei suoi abitanti, sostenendo che le due città scomparvero invece per lo sprofondamento del terreno nei pressi del Mar Morto. Anche la filosofia e la teologia l'appassionaro-

569 no, ma gli mancò il tempo d'approfondirle. Troppe cose contemporaneamente l'attiravano, di cui egli si limitò a co­ gliere l'essenza. Possedeva infatti in sommo grado il senso della sintesi. Nel 1517 un colpo apoplettico gli paralizzò il lato destro, ma essendo mancino potè seguitare a disegna­ re. Negli ultimi anni numerosi altri acciacchi lo tormentaro­ no sebbene fosse vegetariano, si sottomettesse a rigide diete e si circondasse di medici. La morte lo colse nel '19 a sessan­ tasette anni, in grazia di Dio e, pare, fra le braccia del Re. Nessuno meglio di Leonardo seppe esprimere l'anelito intellettuale e la sete di sapere del suo tempo. Quelle che vengono chiamate le sue invenzioni non erano in realtà che intuizioni. Ma egli spaziò in tutti i rami dello scibile, previde con prodigioso anticipo gli sviluppi della scienza e recò ad essa un contributo più vasto e moderno. Molte scoperte dei secoli successivi non sarebbero state possibili senza gli studi e i calcoli di Leonardo. I cinquanta quaderni che ci restano dei centoventi che riempì documentano la versatilità, il fiu­ to e anche la scontentezza di colui che fu definito «l'uomo più completo del Rinascimento e forse di tutti i tempi». Come tutti gli uomini anch'egli ebbe i suoi limiti e le sue debolezze. L'inesauribile curiosità, la febbre di novità, la smania di perfezione gl'impedirono di realizzare gl'innu­ merevoli progetti scientifici e di condurre a termine le ope­ re pittoriche. L'ambizione lo portò a cambiar padrone con eccessiva disinvoltura e a mettersi al servizio di quello di turno. Era un adulatore cui piaceva essere adulato, amava il denaro e il lusso, e non risulta che la sua predilezione per i guaglioni, di cui non fece mai mistero, gli abbia procurato scrupoli morali e soprassalti di rimorso. Ma ciò non impedi­ sce che in quel secolo di giganti che fu il '500 la figura di Leonardo sovrasti le altre per completezza e universalità. L'unica che può farle concorrenza è quella di Michelangelo. Ma di lui parleremo più tardi. CAPITOLO TRENTADUESIMO

GIORGIONE, TIZIANO, TINTORETTO, VERONESE

È l'ora di Venezia, dove l'arte sbocciata coi Bellini matura e rifulge con Giorgione, Tiziano, Tintoretto e Veronese, i «quattro grandi» della capitale adriatica. Di Giorgione poco sappiamo. Nelle sue celebri Vite il Va­ sari gli dedica una decina di paginette, più per esaltarne il genio precoce e le straordinarie doti pittoriche che per for­ nirci notizie. Era nato a Castelfranco, ma ancora ragazzo s'e­ ra trasferito a Venezia per fare l'apprendista nella bottega di Giovanni Bellini, che gl'insegnò a maneggiare i pennelli e a mescere i colori. A diciotto anni possedeva già un'ottima tecnica, che gli consentì di mettersi in proprio. I clienti non si fecero attendere e in poco tempo diventò un uomo ricco. Acquistò una bella casa in uno dei quartieri più eleganti del­ la città, ne affrescò personalmente la facciata, ornò gl'inter­ ni di suppellettili pregiate, vi tenne mensa imbandita e ne fece luogo di convegno di dame spensierate. La natura l'a­ veva fornito di una voce melodiosa e di un certo talento mu­ sicale. Cantava con grazia e suonava la viola. Erano i suoi passatempi quando non dipingeva. Quali siano stati col Bellini i suoi maestri, è controverso. Certamente Carpaccio influì su di lui e gl'inspirò il senso dell'eleganza e della bellezza. Da Leonardo apprese l'uso del chiaroscuro e il gusto degli sfondi sognanti ed evane­ scenti. La lettura di un poeta in quegli anni assai in voga, Jacopo Sannazzaro, autore di un'opera, XArcadia, che cele­ brava la sana vita dei campi, lo volse a quel genere bucolico che dominerà la pittura nei secoli successivi, ma che fin'allo­ ra non aveva avuto seguaci. A morbidi e vaporosi paesaggi

571 agresti s'ispirarono i suoi più celebri dipinti. La tempesta, ch'è forse il suo capolavoro, s'inquadra in uno scenario af­ follato di alberi, ruscelli, fiori, praticelli. Aveva un debole per le donne nude, che ritrasse innu­ merevoli volte, purgandole però di ogni fremito sensuale. Le sue figure femminili sono corpi stupendi, perfettamente plasmati ma privi di sex-appeal. Eppure i modelli in carne e ossa ai quali il pittore si rifaceva di sesso ne avevano a josa. E al sesso anche Giorgione, come il suo contemporaneo Raf­ faello, non sapeva resistere. Quando la sua ultima amante s'ammalò di peste, seguitò a frequentarla, ne fu contagiato e a soli trentaquattro anni pagò con la vita la sua devozione e la sua incontinenza. Fra coloro che l'accompagnarono al cimitero ci fu un cer­ to Tiziano Vecellio, di appena un anno più giovane. Era ori­ ginario di Pieve di Cadore, di dove ragazzo era emigrato a Venezia. Anche lui come tutti i giovani che volevano darsi alla pittura era finito nella bottega dei Bellini, ci aveva co­ nosciuto Giorgione e n'era diventato amico. Insieme aveva­ no dipinto le pareti del «Fondaco dei tedeschi» e alcune al­ tre opere, che oggi la critica non sa a chi dei due attribuire. Nel 1511, anno della peste, Tiziano fuggì a Padova. Sebbe­ ne avesse passato la trentina, il suo nome era assai meno co­ nosciuto di quello di Giorgione. Basta vedere gli affreschi che eseguì in quel periodo alla scuola del Santo per capirne i motivi. Le figure sono grossolane e impacciate, e anche il colore lascia a desiderare. Pochi artisti ebbero un'evoluzio­ ne più lenta e faticosa di lui. Nel 1513 tornò a Venezia e offrì il proprio pennello al servizio della Serenissima. Ottenne la carica di ritrattista uf­ ficiale dei Dogi e pittore di Stato con uno stipendio di tre­ cento corone l'anno. Ci è impossibile tener dietro alla ster­ minata produzione di questo artista che campò fino a no­ vantanove anni e lasciò centinaia di dipinti. Anche lui, come Giorgione, amò il nudo femminile, e in un'opera famosa, Amore sacro e amore profano, ne diede uno splendido saggio-

572 Dopo averlo visto, Alfonso I d'Este invitò l'autore a Ferrara. Il Tiziano ritrasse il Duca, l'ormai attempatella Lucrezia Borgia e un pacioso poeta di nome Ariosto, che bazzicava quella corte gaudente e ospitale. Quando fece ritorno a Venezia, il vescovo Jacopo Pesaro gli commissionò per la chiesa dei Frari una pala d'altare che celebrasse la vittoria della Repubblica sui turchi. Il pittore attese sette anni a quest'opera, che fu assai lodata e imitata. Ormai l'artista godeva di una fama che nessuno, almeno a Venezia, era in grado di contrastargli, e la cui eco s'era spar­ sa per tutta la Penisola. Non c'era signore che non deside­ rasse arricchire la propria galleria di un suo dipinto. Il Pa­ pa lo voleva a Roma, Federico Gonzaga lo invitava a Manto­ va. Qui si recò nel 1523 ed eseguì alcuni ritratti, fra cui quello d'Isabella, che fu assai contrariata della straordinaria somiglianza all'originale e chiese all'artista di rifarglielo non più dal vero ma su una copia del Francia. Nel 1530, l'Aretino lo presentò a Carlo V. Il parsimonio­ so Imperatore posò per un ritratto e ricompensò il suo au­ tore con un ducato. Tiziano se n'ebbe a male e per rabbo­ nirlo il Gonzaga dovette sborsare di tasca propria altri cen­ tocinquanta ducati. Dopo quel primo infelice incontro altri ne seguirono, e sovrano e artista finirono col diventare grandi amici. I più bei ritratti che di questo onnipotente monarca possediamo recano la firma di Tiziano. Carlo lo premiò nominandolo conte palatino, cavaliere dello Speron d'oro e pittore di Corte. Dopo l'Imperatore fu la volta del Papa. Paolo III voleva tramandare ai posteri la propria immagine, ma non si fida­ va dei pittori romani. Chiamò Tiziano nell'Urbe, l'alloggiò splendidamente in uno dei palazzi apostolici, lo colmò di fa­ vori, gli assegnò un lauto appannaggio e per otto mesi posò per lui. Ne uscì un capolavoro. Dopo averlo compiuto, Ti­ ziano lasciò Roma e si trasferì a Firenze. Ci restò poco per­ ché alcuni mesi dopo Carlo lo convocò ad Augusta per farsi fare ancora due ritratti. A questo soggiorno altri ne seguiro-

573 no. Nel 1552, a settantacinque anni suonati, l'artista si riac­ casò definitivamente a Venezia. Nel 1556 eseguì l'ultimo di una lunga serie di autoritratti: un volto solcato da profonde rughe, due occhi chiari un po' appannati dal tempo, una folta barba rossa, un naso imponente, la destra che stringe un pennello. L'artista lavorò sino alla fine con la stessa infaticabile lena dei vent'anni, noncurante dell'età e degli acciacchi. Alla vi­ gilia della morte fu incaricato di dipingere una Deposizione per la chiesa dei Frari in cambio di una tomba. Ma la peste non ne gliene lasciò il tempo. Centinaia di veneziani segui­ rono i suoi funerali, che furono celebrati in forma solenne a spese dello Stato. La Serenissima restò orfana del suo più grande artista. Solo Raffaello, con la sua formidabile bottega e lo stuolo di aiuti, eguagliò per mole la produzione del Tiziano che, sal­ vo rare eccezioni, lavorò sempre da solo. Non tutte le sue opere s'equivalgono. La maggior parte sono autentici capo­ lavori, ma alcune sono tirate via e non hanno alcun pregiò artistico. Il disegno è inferiore a quello di Leonardo, la for­ ma è imperfetta, gli effetti drammatici sono insignificanti, e quasi mai è raggiunta la sintesi spaziale. Ma in tutte eccelle il colore che nessuno prima e dopo il Tiziano seppe usare con altrettanto estro e più potente fantasia. Quando Tiziano calò nella tomba, Tintoretto aveva cin­ quantotto anni, ma ne dimostrava parecchi di più. Aveva avuto una vita tribolata e lotte e delusioni gli avevano lascia­ to il segno nello spirito e nel corpo. Si chiamava in realtà Ja­ copo Robusti ed era figlio di un tintore, da cui il sopranno­ me col quale è passato ai posteri. Aveva fatto l'apprendista presso il Tiziano che l'aveva in malo modo licenziato, chi di­ ce per invidia, chi per scarsa attitudine al disegno. Quando il Tintoretto andò a bottega era un ragazzetto di tredici­ quattordici anni e Tiziano che aveva già passato la cinquan­ tina, era un artista famoso. Ci è difficile credere che fosse geloso dell'allievo. Più probabilmente pensò che Jacopo non

574 sarebbe mai diventato un buon pittore. Il discepolo non gliene volle e per tutta la vita proclamò che il suo ideale era d'eguagliare Michelangelo nel disegno e Tiziano nel colore. Raccontano i biografi che dopo essere stato cacciato dal maestro, il Tintoretto si guardò bene dal cercarsene un al­ tro, ma in un certo senso si mise alla scuola di tutti quelli che potevano insegnargli qualcosa. Studiò le opere dei Bel­ lini, del Carpaccio, del Giorgione, del Tiziano, le ricopiò con diligenza, si procurò le riproduzioni dei dipinti più ce­ lebri di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, acquistò calchi di gesso di sculture famose, divorò tutto quanto era stato scritto sull'arte, dissezionò decine di cadaveri per approfon­ dire l'anatomia umana. Riempì quaderni interi di disegni e schizzi, sperimentò ogni tecnica pittorica. Era sgobbone. Si fece tutto da sé e non si diede mai per vinto di fronte a nes­ suna difficoltà. Per molti anni s'adattò a verniciare mobili e a eseguire piccoli lavori di cesello. Espose i suoi quadri per­ sino nelle calli veneziane e in piazza San Marco. Ma, sebbe­ ne li vendesse sotto costo, non trovava acquirenti perché i pittori rivali s'erano accaparrati il monopolio delle ordina­ zioni. A furia di sacrifici e umiliazioni riuscì alla fine a sfon­ dare. Per cento ducati ottenne l'incarico d'affrescare il coro nella chiesa della Madonna dell'Orto. Il dipinto gli valse molte lodi e gli procurò nuovi clienti. Diventò un pittore al­ la moda. Nel 1564 la Scuola di San Rocco bandì un concorso per la decorazione del suo «albergo». I partecipanti dovevano eseguire uno schizzo del dipinto raffigurante il Santo. Dopo che Paolo Veronese e Andrea Schiavone ebbero presentato i loro cartoni, il Tintoretto invitò i giudici nella sala dove la tela avrebbe dovuto essere collocata e mostrò loro il quadro già bell'e fatto e incastonato nel soffitto. I colleghi protesta­ rono, ma Jacopo ottenne la ghiotta ordinazione di tutto il resto del lavoro, che condusse a termine in diciotto anni. Fu in questo periodo che decise di porre fine alla vita randagia e metter su famiglia. Prese per moglie una ragazza bella e

575 formosa, che gli scodellò otto figli, e andò a vivere in una modesta casa. Usciva di rado, non aveva amici e non voleva averne. Era chiuso e taciturno. Dipingeva giornate intere e qualche volta si dimenticava persino d'andare a letto. Fu con Tiziano il maggior ritrattista veneto. Davanti alla sua ta­ volozza passarono dogi, principi, prelati, re, gentildonne, cortigiane. In Palazzo Ducale il suo pennello celebrò su pa­ reti e soffitti la gloria della Serenissima. A sessantotto anni si cimentò in un'impresa che avrebbe scoraggiato un giovane e dipinse il Paradiso, una ciclopica tela di ventidue metri per sette, popolata da cinquecento figure, che purtroppo il tempo ha guastato. Fu la sua ultima grande fatica. Morì nel 1594, a settantasette anni, e venne inumato nel­ la chiesa della Madonna dell'Orto, dove aveva conosciuto i primi trionfi. Fu definito il «Michelangelo della laguna» per la potenza drammatica, la ricerca dell'immane e del sovru­ mano. Predilesse le scene di massa, le folle oceaniche, i temi grandiosi. Si curò poco dei particolari e puntò alla visione d'insieme e agli effetti corali. Rappresentò mirabilmente la grandezza della Repubblica, e attraverso l'allegoria religiosa ne esaltò i trionfi terrestri. Paolo Caliari, detto il Veronese, ne immortalò invece gli aspetti domestici e quotidiani. Dopo aver frequentato per un certo periodo nella città natale la bottega di Antonio Ba­ dile s'era trasferito a Venezia. Era un ragazzo amabile, so­ cievole e delicato, si guadagnò subito la simpatia dei colle­ ghi, e i salotti alla moda gli spalancarono le porte. Egli fece ogni sforzo per adeguarsi alla vita di quella società opulenta e festaiola, investì i suoi guadagni in abiti, pellicce, gioielli e diventò l'idolo delle signore. Cercava la compagnia dei ric­ chi, mise il suo pennello al loro servizio e si limitò a ritrarre i nobili, i facoltosi borghesi, le matrone di rango, i principi della Chiesa, sullo sfondo di trimalcionici banchetti, feste sontuose, balli favolosi. Si specializzò nella decorazione dei soffitti e firmò le vol­ te delle più belle ville venete. I Barbaro lo incaricarono d'af-

576 frescare la loro residenza estiva di Maser, vicino ad Asolo, che Andrea Palladio aveva disegnato. Paolo la trasformò in una specie di galleria mitologica, traboccante di divinità pa­ gane, di donne nude, carnose e rubiconde, e d'innumere­ voli cani perché era un cinofilo arrabbiato. E difficile trova­ re un suo dipinto senza un cane accucciato ai piedi di una dama o scodinzolante a un gentiluomo. A trentotto anni impalmò la figlia del suo vecchio mae­ stro Badile, dalla quale ebbe due figli. Temperò la noia del matrimonio con l'adulterio e si circondò di amanti, che re­ clutava di preferenza tra le mogli dei suoi clienti. Visse da gran signore nel lusso e nell'abbondanza, e coronò la car­ riera affrescando le sale del Palazzo Ducale distrutte dagli incendi del 1574 e del 1577. Con lui, stroncato a sessantanni da una misteriosa feb­ bre, Venezia perse l'artista che meglio ne aveva interpretato i fasti mondani e i frivoli umori. La sua tavolozza fu più leg­ gera e «disimpegnata» di quella di Tintoretto, ma anche più gustosa e raffinata. Fu allergico a ogni misticismo, non s'ac­ corse della Controriforma, e anche per questo ebbe una vita felice. CAPITOLO TRENTATREESIMO

RAFFAELLO

A Roma, i maestri del Rinascimento furono un umbro e un toscano. Raffaello era nato nel 1483 a Urbino, figlio del pit­ tore di Corte Giovanni de' Santi. Urbino era allora - lo ab­ biamo già detto - uno dei centri artistici più vivi della Peni­ sola. I duchi di Montefeltro ne avevano fatto una specie di Mecca dell'arte e della cultura. Non per nulla il Castiglione vi aveva trovato lo spunto per il suo Cortegiano. Raffaello accompagnava spesso il padre a Corte, si sede­ va al suo fianco mentre affrescava le pareti del Palazzo o ri­ traeva i duchi, e ardeva dal desiderio d'emularlo. A scuola ci andava malvolentieri perché i pennelli e i colori lo inte­ ressavano più dei libri. Quando, a undici anni, rimase orfa­ no sapeva già dipingere con straordinaria abilità. Gli zii, presso i quali andò a vivere, l'affidarono al pittore Timoteo Viti, che gii fece per un certo tempo da maestro. Nel 1499 lasciò Urbino e si trasferì a Perugia nella bottega di Pietro Vannucci, detto il Perugino, la cui fama eguagliava allora quella di Leonardo e Michelangelo. Lavorò con lui tre anni e sotto la sua guida perfezionò la propria tecnica. Il Van­ nucci lo volle con sé nella decorazione del Palazzo del Cam­ bio e ne fece il suo principale aiuto. Il nome di Raffaello di­ ventò famoso e le ordinazioni si fecero sempre più numero­ se. Chiese, monasteri, enti pubblici e privati cittadini se lo contendevano a suon di ducati. L'artista lavorava giorno e notte: solo le donne riuscivano a distrarlo dal cavalletto. Gli piacevano tutte, ma prediligeva quelle brune e formose. Ne aveva a josa perché era bello, galante e generoso. Un auto­ ritratto ce lo raffigura di lineamenti delicati e colorito palli-

578 do, la bocca a cuore, gli occhi grandi, il naso robusto, i ca­ pelli lunghi e bruni. Pare che non si sia trattato di narcisi­ smo: anche gli altri lo vedevano bello così. Si vestiva con ele­ ganza e portava alle dita costosi anelli. L'urbanità, la squisi­ tezza di modi, il talento gli guadagnarono l'amicizia dei col­ leghi, tra i quali il Pinturicchio, che lo invitò a Siena e gli af­ fidò i cartoni per la biblioteca del Duomo. Nel 1504 si trasferì a Firenze, dove scoprì e studiò i gran­ di maestri del passato. Lo colpì soprattutto Masaccio e i suoi stupendi affreschi della chiesa del Carmine. Conobbe Fra' Bartolomeo, pittore allora assai in voga, e forse incontrò Leonardo e Michelangelo. Restò a Firenze quasi ininterrot­ tamente fino al 1508, dividendo il suo tempo fra la pittura e gli amori. Ne ebbe moltissimi, e le numerose madonne che dipinse in questo periodo ce ne forniscono la prova, perché le loro fattezze ricalcano quelle delle donne amate. Di questi anni sono alcuni dei suoi ritratti più celebri: La bella giardi­ niera, La deposizione, le Madonne del Granduca, del Prato, del Cardellino. Ora la fama dell'artista aveva varcato i confini di Firenze e della Toscana e s'era sparsa in tutt'Italia. Nel 1508 Giulio II lo chiamò a Roma e l'incaricò d'affrescare il suo nuovo appartamento in Vaticano. Nell'Urbe lavorava da tempo Michelangelo e forse fu anche questa circostanza a indurre Raffaello ad accettare l'invito. Sebbene di otto anni più gio­ vane, l'idea di un cimento col Buonarroti, che stava affre­ scando la volta della Sistina, l'esaltava. Eppoi Roma pullula­ va di donne, la cui reputazione non era migliore di quella delle fiorentine, e vi era una società della quale a Firenze, dai tempi del Magnifico, s'era perduto il ricordo. Cardinali, banchieri e ricchi borghesi gareggiavano in mecenatismo e munificenza. Insomma, era la città ideale per un giovane ambizioso e gaudente, sebbene Giulio non fosse un cliente comodo. Quel Papa-soldato, collerico e autoritario, usava con gli artisti gli stessi modi rudi e prepotenti con cui, sul campo di battaglia, trattava la truppa.

579 Raffaello si mise subito al lavoro e cominciò a decorare la Stanza della Segnatura. In stupendi affreschi raffigurò la celebrazione dell'Eucarestia, la scuola d'Atene, il concilio dei poeti sul monte Parnaso. Lo stesso Papa e i più dotti umanisti della corte pontificia gli fornirono i temi, mesco­ lando la teologia con la filosofia classica, la poesia pagana con la fede cristiana. Dalla Stanza della Segnatura, Raffaello passò a quella d'Eliodoro, la cui cacciata dal tempio fu il pri­ mo affresco che eseguì. Data la mole dell'impresa il Pontefi­ ce consentì all'artista d'arruolare alcuni aiuti. Giulio Roma­ no e il Penni lavoreranno a fianco del maestro fino alla sua morte e saranno gli esecutori materiali di gran parte della sua sterminata produzione. D'ora in poi infatti Raffaello si limiterà a fornire agli allievi i disegni e i cartoni intervenen­ do solo eccezionalmente nella stesura pittorica. Le Stanze lo resero altrettanto popolare di Michelangelo e una valanga di commissioni gli piombò addosso. Nel '13 morì Giulio e gli successe Leone X, di cui Raffaello diventò il pupillo, come il Buonarroti lo era stato del predecessore. Il nuovo Pontefice e il giovane pittore erano fatti per inten­ dersi. Sebbene Leone possedesse una vasta cultura e Raf­ faello fosse ignorantissimo, avevano gli stessi gusti, la stessa concezione edonistica della vita, la stessa amabile indulgen­ za, lo stesso amore per il lusso e la buona tavola. Solo sulle donne non si trovavano d'accordo perché ad esse papa Me­ dici era refrattario. Raffaello seguitava invece a correr die­ tro alle gonnelle, che si teneva vicine anche quando dipin­ geva. Affrescando la villa Tiberina del banchiere senese Agostino Chigi ottenne che l'amante di turno vi fosse allog­ giata, in modo da poterne, fra una pennellata e l'altra, go­ dere le grazie. Guadagnava molto e aveva acquistato un bellissimo pa­ lazzo dove viveva come un principe, circondato da uno stuolo di servi, adulato e riverito. Era un esteta, aveva biso­ gno del lusso e dell'eleganza, il brutto e il volgare gli dava­ no una sofferenza fisica. Quando usciva, un corteo di allievi,

580 amici e scrocconi lo seguiva. Aveva libero accesso alla corte pontificia e non c'era festa, banchetto, manifestazione mon­ dana alla quale non prendesse parte. I salotti alla moda se lo contendevano, i patrizi, i ricchi borghesi, i cardinali gli commissionavano quadri, affreschi, disegni. Raffaello dice­ va di sì a tutti e assumeva nuovi aiuti. Nel '14 Chigi lo inca­ ricò di decorare una parete nella chiesa di Santa Maria del­ la Pace. L'artista eseguì un gruppo di angeli e sibille, rie­ cheggiando lo stile di Michelangelo. L'opera fu molto am­ mirata e Raffaello chiese al tesoriere del Chigi, che già gli aveva versato cinquecento ducati, un sovrappiù. Poiché co­ stui non ne voleva sapere, propose di far giudicare il dipin­ to dal Buonarroti, il quale disse che la testa di ognuna delle quattro sibille valeva almeno cento ducati. Il banchiere or­ dinò subito di sborsare la somma e commentò: «Se m'avesse fatto pagare anche i drappeggi delle vesti, sarei andato in rovina». Raffaello aveva passato da poco la trentina e i suoi dipin­ ti andavano a ruba. Il Papa non gli dava tregua. Nel '15 gli ordinò una serie di arazzi per le pareti della Sistina. Raffael­ lo disegnò i cartoni e li spedì a Bruxelles dove vennero tra­ sposti su tessuto. Due anni dopo Leone gli affidò la decora­ zione delle logge vaticane, sulle cui volticelle gli allievi raffi­ gurarono cinquantadue scene del Vecchio e Nuovo Testa­ mento. Nel 1517 il cardinale Giulio de' Medici, il futuro Clemente VII, gli commissionò una pala d'altare per la cat­ tedrale di Narbonne. Contemporaneamente il prelato ne ordinò un'altra a Sebastiano del Piombo, amico di Miche­ langelo e nemico acerrimo di Raffaello che, pungolato dal confronto, eseguì di propria mano il disegno e le figure principali del dipinto. Sebbene incompiuto, esso resta una delle testimonianze più alte dell'arte raffaellesca, il commia­ to del maestro dalla pittura e dal mondo. La morte prematura e improvvisa gl'impedì infatti di condurlo a termine. A provocarla furono, pare, gli eccessi sessuali. Scrive il Vasari: «Raffaello combinò fuori di modo i

581 piaceri amorosi; onde avvenne ch'una volta tra l'altro disor­ dinò più del solito, perché tornato a casa con una grandissi­ ma febbre, fu creduto da' medici che fosse riscaldato. Onde non confessando egli disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue, di maniera che indebo­ lito si sentiva mancare, laddove egli aveva bisogno di risto­ ro. Per che fece testamento: e prima come cristiano mandò l'amata sua fuori di casa e le lasciò modo di vivere onesta­ mente, dopo divise le cose sue fra' discepoli suoi, Giulio Ro­ mano, il quale sempre amò molto, Giovan Francesco Fio­ rentino, detto il Fattore, e un non so che prete da Urbino, suo parente... Poi, confesso e contrito, finì il corso della sua vita il giorno medesimo che nacque, che fu il Venerdì San­ to, d'anni trentasette (6 aprile 1520)». L'«amata» cui accenna il Vasari era la celebre Fornarina, ritratta dall'artista in uno dei suoi quadri più belli. Al mo­ mento del trapasso la donna sarebbe stata allontanata dalla stanza di Raffaello per ordine del confessore, che rifiutava di dare l'assoluzione al moribondo in sua presenza. La For­ narina non potè nemmeno partecipare ai funerali, e per il dolore quasi uscì di senno. Il cardinale Bibbiena le consigliò di farsi monaca, e in un convento la poveretta passò il resto dei suoi giorni. La scomparsa dell'artista destò nell'Urbe un compianto vasto e sincero. Il più afflitto fu il Pontefice, che amava Raf­ faello come un figlio. Alle solenni esequie intervenne un'im­ mensa folla, fra cui centinaia di donne: tutte quelle ch'egli aveva amato più quelle che avrebbero desiderato esserlo. La salma fu inumata nel Pantheon e il Bembo dettò questo epitaffio: Me hic est Raphael. Pochi artisti ebbero vita altrettanto breve e feconda. Seb­ bene buona parte delle opere che Raffaello firmò siano sta­ te eseguite dagli aiuti, suoi furono la concezione e i disegni. Non tutta la vastissima produzione che porta il suo nome è di prima qualità. Gli affreschi dell'ultima Stanza e le Logge vaticane sono mediocri, o addirittura scadenti. Anche i ri-

582 tratti non sono di uguale bellezza. Quelli eseguiti dal mae­ stro - come il celebre Leone X - rivelano un genio pittorico che invano cercheremmo negli allievi. Raffaello piacque ai contemporanei più di Michelangelo e di Leonardo perché meglio rappresentò, nella vita e nel­ l'arte, gl'ideali della sua epoca e più felicemente ne incarnò 10 spirito scettico e spensierato, forse perché gli mancarono 11 senso del dramma e il sentimento del divino. Con lui calò nella tomba il sogno pagano del Rinascimento.

PARTE QUARTA

LA CONTRORIFORMA CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO

GLI ERETICI ITALIANI

Molti storici si stupiscono che l'Italia, nonostante il suo altis­ simo livello di cultura, abbia dato uno scarso contributo di uomini e di pensiero alla Riforma. Noi al contrario ci stu­ piamo che un contributo tuttavia lo abbia dato. A scoraggiarlo, c'era anzitutto l'interesse economico. Da secoli l'Italia era in buona parte mantenuta da quelle che oggi si chiamerebbero «le rimesse» dei fedeli di tutta Euro­ pa. La Chiesa era un esattore puntiglioso che si serviva dei suoi parroci come di agenti del fisco per spremere «oboli» e «decime». Da tutti i Paesi del continente questo rivolo d'oro affluiva nelle casse della Curia romana, ma di qui si diffon­ deva in tutta la Penisola. E siccome il motivo più immediato della Riforma, quello che le aveva procurato i più caldi con­ sensi popolari nei Paesi del Nord, era stata proprio la ribel­ lione a questa mungitura, era logico che gl'italiani, suoi uni­ ci beneficiari, vedessero nella sua fine una minaccia al loro benessere. La scoperta dell'America e lo spostamento delle grandi vie di traffico dal Mediterraneo ad altri mari aveva­ no messo in crisi l'economia italiana. Cosa sarebbe successo se fossero venuti a mancare anche i rifornimenti che la Chiesa attingeva all'estero coi suoi pedaggi per il paradiso? D'altra parte mancavano nel nostro Paese quei fermenti spirituali, quei dubbi, quelle angosce, che altrove alimenta­ vano la «sete di Dio» e rendevano attuale il problema reli­ gioso. Da un pezzo gl'italiani avevano trovato un comodo compromesso fra paganesimo e cristianesimo in un credo politeistico popolato di benevoli Santi protettori; dalle loro concezioni avevano bandito la dannazione, e dalle loro pro-

587 spettive l'inferno; e si erano abituati a dare alla loro pietà un carattere festoso, per non dire festaiolo, a base di spetta­ colari manifestazioni, cortei, processioni eccetera. Il loro Dio non somigliava più neanche di lontano al terribile Jco­ vali del Vecchio Testamento e nemmeno al severo Giudice di Dante. Era diventato un Padre affettuoso cordiale e in­ dulgente, disposto a perdonare tutta una vita di peccati per un gesto di resipiscenza in punto di morte. A questi motivi si era ispirata tutta la grande arte rinascimentale, di cui pro­ prio la Chiesa era diventata l'alta patrona e impresaria. E tutto questo creava un clima poco ricettivo alla passione teo­ logica di Lutero e al rigorismo morale di Calvino, al loro minaccioso e intransigente Dio, e soprattutto alla spietata dottrina della predestinazione che abbandonava l'uomo alla mercé di una sorte prefabbricata e imperscrutabile. C'erano, è vero, delle minoranze intellettuali per le quali questi motivi non valevano o comunque non bastavano a scoraggiare il loro anelito a una più grande libertà di co­ scienza, di pensiero e di espressione. Ma esse avevano già trovato sfogo nella cultura. E difficile dire se la Chiesa, favo­ rendo l'umanesimo, avesse seguito un preordinato e abile piano di diversione. Ma è certo ch'essa, incoraggiando gl'in­ tellettuali italiani a riscoprire il pensiero e la letteratura clas­ sica, li aveva distratti dal problema religioso. Non per nulla l'unico uomo che avrebbe potuto diventare il Lutero italia­ no, Gerolamo Savonarola, aveva violentemente combattuto la moda umanistica: essa sottraeva il meglio della nostra in­ telligenza a quella ch'egli considerava la più importante, an­ zi l'unica missione dell'uomo: ritrovare il contatto diretto con Dio attraverso una fede più semplice e pura e un costu­ me di vita ispirato unicamente al Vangelo. E non per nulla la Chiesa aveva mandato questo guastafeste al rogo. Molti artisti e letterati lo avevano pianto, sentendo confusamente che con lui era morto l'unico possibile capo di una crociata nella quale anch'essi avrebbero potuto arruolarsi. Ma poi erano tornati alle loro dispute - più allettanti e meno pen-

588 colose - su Aristotele e Platone, cui Papi e Cardinali non so­ lo l'incoraggiavano, ma partecipavano con fervore. Proprio quella mondanità che faceva la debolezza della Chiesa agli occhi dei rozzi e appassionati uomini del Nord, faceva la sua forza agli occhi degli scettici e civili italiani. Ma, oltre a questi, giuocava contro la Riforma un fattore su tutti decisivo: la mancanza di un potere laico che potesse con le sue leggi e i suoi tribunali mettere l'eretico al riparo dalla persecuzione. In Italia c'era una galassia di Signorie e Repubbliche, che in materia politica e temporale si trovava­ no spesso in contrasto con lo Stato Pontificio. Ma in materia spirituale non avrebbero mai osato ribellarsi alla Chiesa. Fi­ renze, Venezia, Milano, Napoli potevano litigare col Papa per il possesso di una città o di una fortezza; ma non pote­ vano sfidare il suo anatema in materia religiosa. Anche se nel loro seno fosse nato un Lutero o un Calvino, esse, a dif­ ferenza di quanto avevano fatto Wittenberg e Ginevra, lo avrebbero consegnato all'Inquisizione. Per il protestante in­ glese o tedesco insomma c'era soltanto il pericolo, per quel­ lo italiano c'era la certezza del martirio. La mancanza di uno Stato laico impediva l'attecchimento dei moti di Riforma, e la mancanza dei moti di Riforma impedì la nascita di uno Stato laico. Questa era la disperata condizione dell'Italia.

Eppure, di movimenti ce ne furono, sebbene in molti casi non sia chiaro se i loro protagonisti mirassero a sovvertire la Chiesa o a migliorarla. Iniziatore e capofila fu uno spagnolo, Giovanni Valdés, il cui fratello Alfonso era uno dei segretari di Carlo V. Aveva­ no scritto in collaborazione un saggio sotto forma di «dialo­ ghi», come allora usava, in difesa di tesi piuttosto eterodos­ se. Alfonso, fedele discepolo di Erasmo, sosteneva che la Chiesa aveva commesso un marchiano errore scomunican­ do Lutero invece di «riassorbirlo» accettandone i saggi sug­ gerimenti. Giovanni aveva scansato il problema religioso, li-

589 mitandosi a quello politico. Era un socialista massimalista, secondo cui il Principe non era che il depositario della ric­ chezza dei sudditi, i quali avevano il diritto di parteciparvi secondo i loro bisogni. Il Papa, ch'era allora Clemente VII, naturalmente prefe­ rì Giovanni e lo fece suo ciambellano, forse nella speranza che la vita di Curia, coi suoi lussi, Io inducesse ad annacqua­ re il suo radicalismo. Ma Giovanni era uno di quegli uomini che credono in ciò che dicono e agiscono in conseguenza. Abbandonò quel posto di tutto comodo e, ritiratosi a Napo­ li, si dedicò all'insegnamento. Senza rompere con la Chiesa, sostenne tuttavia la dottrina luterana della predestinazione. E questo richiamò intorno a lui un gruppo d'intellettuali d'ambo i sessi: Pietro Carnesecchi e Vittoria Colonna, Ver­ migli e Costanza d'Avalos, Bernardino Ochino e Giulia Gonzaga, Marcantonio Flaminio e Isabella Manriquez. Ochino è forse il caso umano più complesso e drammati­ co. Era di Siena, e vi aveva respirato l'aria mistica di Santa Caterina. Trovando che i francescani, fra i quali si era ar­ ruolato, difettavano di zelo, si trasferì nel più severo ordine dei cappuccini, ma anche fra loro il suo fervore fece spicco, tanto che Io promossero quasi subito vicario generale del­ l'Ordine. Per quanto vaste, le chiese di Roma, Firenze, Ve­ nezia, non lo erano abbastanza per contenere gli appassio­ nati delle sue prediche, di cui non s'era sentito l'eguale dai tempi di Savonarola. E nessuno, ascoltandolo, avrebbe im­ maginato che quell'uomo era destinato a morire scomuni­ cato. Ma a Napoli incontrò Valdés che lo familiarizzò con le opere di Calvino e di Lutero. La dottrina della predestina­ zione lo sconvolse, forse perché già egli stesso se n'era pro­ posto il problema. I cenni che cominciò a farne nei suoi di­ scorsi diventarono sempre più perentori e precisi fino al giorno in cui a Venezia gli proibirono di risalire sul pulpito e Pio III lo convocò a Roma per una spiegazione. Il cardi­ nale Contarmi, che serviva la Chiesa ma non se ne fidava e

590 soprattutto non voleva persecuzioni, gli sconsigliò il viag­ gio. Forse Ochino non avrebbe tenuto conto del suo ammo­ nimento, se per strada non avesse incontrato un altro tosca­ no, il priore Pietro Martire Vermigli di Lucca. Anche Vermigli aveva imboccato strade poco ortodosse. Sosteneva che l'Eucarestia non era affatto un sacramento, ma soltanto la simbolica rappresentazione della passione di Cristo. I suoi superiori lo avevano risaputo e lo avevano convocato a Genova. Ma Vermigli disse a Ochino che teme­ va un agguato e perciò aveva deciso di emigrare a Zurigo. Ci andò infatti, di lì passò successivamente a Strasburgo e poi a Oxford, dove compose vari scritti di denuncia contro gli abusi della Chiesa. Ma continuò a esercitare una notevo­ le influenza a Lucca, dove i suoi amici - Martinengo, Zan- chi, Secondo Curione - seguitarono a propagare le sue dot­ trine fino al giorno in cui anch'essi dovettero emigrare per sottrarsi all'Inquisizione. Ochino, dopo aver parlato con Vermigli, decise di seguir­ ne l'esempio. II fratello della sua vecchia amica Vittoria Co­ lonna gli dette un cavallo con cui raggiunse Ferrara, ch'era diventata una specie di rifugio per i perseguitati, grazie alla duchessa Renata. Costei, figlia di Luigi XII di Francia, era stata iniziata al protestantesimo dalla sua governante, Ma­ dame Soubise. Renata se la portò dietro quando si trasferì a Ferrara in seguito al matrimonio con Ercole d'Este. Le due donne organizzarono a Corte un piccolo cenacolo di ugo­ notti francesi che Ercole accolse con rinascimentale liberali­ tà fino al giorno in cui uno di essi, durante una funzione re­ ligiosa, gridò: «Idolatria!» L'Inquisizione, che già teneva d'occhio quel gruppo di malpensanti, spiccò contro di essi mandato di comparizione. Sebbene tra di loro ci fosse an­ che la Duchessa sua moglie, Ercole non si oppose alla ri­ chiesta, e l'episodio dimostra quel che s'è già detto: quanto gli Stati italiani fossero sottomessi alla Chiesa, cioè quanto poco fossero degli Stati veri e propri. Dei convocati, uno sfuggì, che gl'inquisitori non si sarebbero lasciati scappare

591 di certo se avessero immaginato a quale carriera era avviato perché, sotto un nome d'accatto, si trattava di Calvino in persona. Gli altri se la cavarono con una ritrattazione a fior di labbra, e ricominciarono a far la fronda. Ercole, che non voleva storie col Papa, esiliò l'ostinata Duchessa in una villa di campagna, le strappò le figlie ch'essa aveva iniziato alla fede protestante, poi la relegò in un convento per un buon lavaggio del cervello, e alla fine la denunziò egli stesso al­ l'Inquisizione. Riconosciuta eretica e condannata all'erga­ stolo, Renata si rassegnò a un'abiura che le permise di ri­ prendere il suo posto a Corte. Ma ci visse da prigioniera; e, rimasta vedova, tornò in Francia. Tutto questo però non era ancora avvenuto, quando Ochino bussò alla sua porta. Essa lo rifornì di vestiti, di de­ naro e di lettere di presentazione per i suoi amici di Zurigo e di Ginevra. Dopo aver vagabondato per la Svizzera, il fuggiasco si sta­ bilì ad Augusta come predicatore, e prese moglie. Ma nel '47 i magistrati della città l'avvertirono che contro di lui c'era un mandato di arresto imperiale. Ochino ebbe appena il tempo di fuggire prima a Zurigo, poi a Basilea, infine a Londra do­ ve ottenne un modesto impiego a Canterbury. Lì per sei an­ ni fu tranquillo e potè attendere ai suoi scritti - forse i più importanti del pensiero protestante italiano - cui Milton at­ tinse l'ispirazione del suo Paradiso perduto. Quando però sul trono d'Inghilterra salì la cattolica Ma­ ria Tudor, Bernardino dovette riprendere la sua peripateti­ ca vita di apolide. Gli dettero un posto di pastore a Zurigo, ma lo perse perché anche come protestante egli seguitava a protestare e non riusciva ad andar d'accordo con nessuno: era un deviazionista nato, un trotzkista avanti lettera. Espul­ so dalla città, ramingò con la moglie e i quattro figli fra Ba­ silea che lo respinse come «indesiderabile», Norimberga, la Polonia e la Moravia. Per strada incontrò la peste che gli portò via tre delle sue quattro creature. Schiantato dal col­ po, egli le seguì nella tomba due mesi dopo. Le sue ultime

592 parole furono: «Non ho mai voluto essere né un papista né un calvinista, ma solo un cristiano»: la vocazione più diffici­ le, l'ambizione più sbagliata in quel mondo diviso dagli odi teologici, i più spietati, i più anticristiani di tutti. Certamente hanno torto certi storici italiani di parte lai­ ca, che cercano di maggiorare la portata di questi movimen­ ti protestanti. E vero che Lutero si vantava di avere nella Penisola circa trentamila seguaci. Ma si trattava di una cifra propagandistica. In Italia ci saranno state, sì, trentamila persone, e forse anche di più, che mostravano simpatia per la Riforma perché avevano in uggia la Chiesa. Ma si trattava più che altro di un generico anticlericalismo, cioè di una protesta all'italiana, senza un vero impegno morale. Il solo nucleo di notevole importanza fu quello dei Valdesi del Pie­ monte. Ma più che «riformati», costoro erano i precursori della Riforma. Lo erano da quattro secoli, durante i quali non avevano più partecipato alla vita religiosa italiana. Di essi preferiamo rimandare la storia al successivo volume «L'Italia del Seicento» perché è nel Seicento che questo gruppo fa sentire, attraverso il martirio, la sua voce. Per ora è solo una eccentrica minoranza che vive, geograficamente e spiritualmente, a margine del Paese. Tuttavia aveva torto anche Calvino quando scherniva i nostri ribelli chiamandoli «nicodemi» dal nome di colui che, secondo il Vangelo di Giovanni, era andato da Gesù, ma di notte, per non farsi riconoscere. Una cosa era fare l'eretico a Ginevra; un'altra era farlo a Roma o a Lucca sotto la su­ pervisione degli spagnoli e dell'Inquisizione. La vicenda di Ochino dimostra che questi nicodemi sapevano anche sfida­ re rischi mortali per aiutarsi tra loro. E fra di essi ci fu an­ che un Carnesecchi che, ambiguo durante il processo, salì poi sul patibolo «tutto attillato con la camicia bianca, con un par di guanti nuovi e una pezzòla bianca in mano», come scrisse un cronista fiorentino. Date le circostanze, era logico che gl'italiani toccati dallo spirito protestante prendessero un'altra strada: quella della

593 Riforma, sì, ma dal di dentro della Chiesa e per la sua rige­ nerazione, non dal di fuori e per la sua distruzione. Questa scelta sarà stata suggerita anche dal calcolo e dalla paura. Ma bisogna riconoscere ch'era la più realistica. Senza la pro­ tezione di un potere laico e senza seguito popolare, la Rifor­ ma in Italia non poteva fare che dei martiri, e ne fece. Ma i loro cadaveri non concimarono nulla. A raggiungere qual­ che risultato furono solo coloro che decisero di agire con la Chiesa invece che contro di essa. E fra costoro c'erano anche una dozzina fra vescovi e arcivescovi. Vediamoli all'opera.

CAPITOLO TRENTACINQUESIMO

RATISBONA

Quello su cui Clemente VII chiuse morendo gli occhi nel 1534 era un cumulo di rovine. Nei dodici anni del suo Pon­ tificato la Chiesa aveva perso il monopolio della coscienza cristiana, e anche il suo potere temporale, ch'essa aveva spe­ rato di affermare nella Penisola, si era ridotto a poche con­ trastate province, su cui incombevano da ogni parte gli eser­ citi dell'Imperatore e dei suoi vassalli di Napoli, Firenze, Milano. Mai bancarotta era stata più completa. Abbiamo già detto che sarebbe ingiusto addebitarla sol­ tanto a Clemente. Egli aveva pagato anche gli errori degli altri. Ma dalla scelta che il conclave fece del successore, si doveva arguire che di quegli errori la Curia non avesse ac­ quistato nessuna consapevolezza. Alessandro Farnese sembrava infatti il meglio qualificato a continuare la tradizione di quei Papi faccendieri e monda­ ni che, sacrificando gl'interessi spirituali a quelli temporali e facendo dell'astuzia e dell'intrigo le loro supreme Virtù, avevano provocato il disastro. Era stato un allievo di Pom­ ponio Leto, aveva frequentato la corte fiorentina dei Medici e condotto un'esistenza così dissipata che sua madre lo ave­ va fatto arrestare sperando che la galera gli servisse da casa di correzione. Quando diventò cardinale, aveva ventiset- t'anni e due figli naturali. Si fece subito costruire un palaz­ zo, volle che fosse il più bello di Roma, e vi accasò tutta la sua famiglia, delle cui fortune si mostrava non meno solleci­ to dei Borgia. Era un uomo fine, colto, smagliante conversa­ tore, uno squisito padrone di casa, un collezionista d'arte avveduto, un paziente e sottile tessitore di trame diplomati-

596 che: insomma un vero uomo del Rinascimento nella linea degli Alessandri, dei Giuli, dei Leoni. Non nascondeva la propria smania di potere. Accusava Clemente di avergli «ru­ bato» dodici anni di Pontificato. E appena si fu istallato al suo posto col nome di Paolo III, elevò alla dignità cardinali­ zia due nipoti che non la meritavano punto. Ma nella fallimentare situazione che aveva ereditato, questo Papa mondano diede subito prova di straordinaria sagacia. Anche lui, come Clemente, correva il rischio di ve­ dersi ridotto a vassallo dell'Imperatore. Ma per stornarlo ri­ corse ad altri espedienti. Invece di spingere Francesco con­ tro Carlo, cercò di diventare il loro «mediatore». La cosid­ detta «pace delle due Dame» non era stata che una tregua nella interminabile rissa fra i due Sovrani. Francesco segui­ tava a aizzare i turchi e i protestanti tedeschi contro il rivale per tenerlo tra due fuochi, e Carlo rispondeva con spedizio­ ni punitive in Francia. Nel '38 Paolo li convocò entrambi a Nizza per indurli invece a un fronte unico contro Solimano, o almeno per consentire a Carlo di concentrare le sue forze contro il Sultano. Per raggiungere quello scopo, che alta­ mente lo riqualificava come suprema autorità spirituale, mobilitò anche Leonora, sorella di Carlo e moglie di Fran­ cesco. L'ambasciatore veneziano che fu presente a quel «vertice a tre», nel riferirne al suo governo, disse che il Papa vi aveva spiegato non soltanto un'eccezionale abilità di negoziatore, ma anche una dignità, uno zelo e una pazienza ammirevoli. Egli riuscì a trovare i termini di un accordo se non definiti­ vo, certo meno precario di quelli che lo avevano preceduto. Ma è tipico dell'uomo che nemmeno nella grande festa di quella riconciliazione europea e cristiana egli trascurasse i suoi piccoli interessi di famiglia. Come parcella dei suoi buoni uffici, si fece riconoscere i diritti di sovranità su Ca­ merino e ne diede l'investitura a suo nipote Ottavio, per il quale ottenne anche la mano di Margherita, figlia naturale di Carlo. E per evitare che Francesco se ne avesse a male,

597 diede sua nipote Vittoria in sposa al Duca di Vendòme. Co­ sì imparentò i Farnese alle due più potenti dinastie d'Euro­ pa e nello stesso tempo restituì al Papato una certa iniziativa nel grande giuoco della politica mondiale. I suoi talenti di uomo di Chiesa non erano minori di quelli che spiegava come uomo di Stato. Qui i problemi era­ no ancora più complessi, incerti e sfuggenti. La Chiesa non sapeva più dove finissero i suoi confini e cominciassero quelli della Riforma. Tutti i Paesi scandinavi erano massic­ ciamente passati sotto le bandiere di Lutero. In Inghilterra la partita era indecisa perché la nuova regina, Maria, figlia di Caterina d'Aragona, era cattolica e poteva disfare ciò che suo padre aveva fatto. La Germania e la Svizzera erano tut­ tora campi di battaglia, anche se la Riforma vi guadagnava terreno ogni giorno. In Francia la partita era aperta: la mo­ narchia cattolica aveva dalla sua la massa della popolazione, ma doveva vedersela con gli Ugonotti di Calvino ch'erano, sì, una minoranza, ma fanatica e disposta a qualunque eroi­ smo. Di sicuro, la Chiesa poteva contare soltanto sul Porto­ gallo, sull'Irlanda, sulla Spagna per la sua appassionata de­ vozione che la faceva pronta a qualunque Crociata, e sull'I­ talia per la sua totale indifferenza che la rendeva disponibi­ le a qualsiasi conformismo. Ma il problema della Chiesa non consisteva tanto in un rapporto di forze, quanto in una scelta di mezzi. Qual era la tattica migliore per combattere la Riforma: quella elastica o quella rigida? Si doveva cercare di riassorbirla accettandone alcune istanze o ci si doveva chiudere a testuggine per com­ batterla frontalmente? Questi problemi non se li poneva la Curia, dove gl'inte­ ressi mondani - la carriera, i soldi, il potere, lo Stato - se­ guitavano a far premio su quelli spirituali e morali; ma in­ quietavano un gruppo di uomini, che con angoscia avevano seguito lo scisma e non sapevano rassegnarvisi. Erano una cinquantina di prelati che si riunivano nell'oratorio del Di­ vino Amore: e fra di essi facevano spicco il Giberti, Gaetano

598 di Thiene, Giacomo Sadoleto, Luigi Lippomano e il Carafa. Non erano tutti della stessa pasta e non avevano le stesse idee. Ma erano animati dal medesimo zelo. Secondo alcuni di loro, per confutare Lutero, bisognava anzitutto ricono­ scerne le verità. Egli ne aveva dette molte a proposito del malcostume del clero, della sua simonia e rapacità; e con la sua ribellione a Roma aveva interpretato l'anelito delle po­ polazioni transalpine a costituirsi in Stati, la cui sovranità era condizionata da una totale indipendenza dalla Chiesa in campo politico. Infine, anche sul piano dogmatico, non tut­ te le sue proposizioni erano da rifiutare a priori solo perché a enunciarle era stato lui. La sua dottrina della «giustifica­ zione», per esempio, era almeno discutibile, e infatti la Chiesa ne aveva sempre discusso. Che per salvare l'uomo, ancestralmente corrotto dal peccato di Adamo, occorra la Grazia, e che a procurare la Grazia serva solo la fede - non le preghiere o le buone azioni -, cioè qualcosa che Dio solo può dare o negare secondo i Suoi imperscrutabili disegni, è cosa che prima di Lutero avevano già detto San Paolo e San­ t'Agostino, e su cui quindi si poteva riaprire il dibattito. Per­ ché non farlo? Una Chiesa restituita nel suo spirito e nei suoi uomini alla sua purezza evangelica, che avesse fatto so­ lenne atto di rinunzia ai suoi interessi mondani dando a Ce­ sare quel ch'è di Cesare, cioè riconoscendo agli Stati la pie­ na sovranità in campo temporale, e che per di più si fosse mostrata aperta anche sul piano della dottrina concedendo piena libertà di discussione senza tacitare i dissensi con la minaccia dell'anatema e della scomunica, avrebbe falciato l'erba sotto i piedi dell'eresia e restituito alla coscienza cri­ stiana la sua responsabilità, cioè la sua dignità. Il maggior esponente di questa linea era quel Contarini, che abbiamo già incontrato nella vicenda di Ochino. Conta­ rini non faceva parte del gruppo dell'oratorio, col quale pe­ rò si teneva in corrispondenza. Era un laico veneziano, di grande famiglia e di profonda cultura, che si era trovato in Germania, come ambasciatore della Serenissima, proprio

599 nel momento della ribellione di Lutero. I rapporti che inviò al suo governo sono un avvincente documento di altezza in­ tellettuale, d'integrità di carattere e di appassionata religio­ sità (è stupefacente - e mortificante - che di un simile uomo non si sia divulgata l'opera, non si sia scritta una biografia, e quasi non si ricordi il nome). Contarmi aveva capito subito che quello non era affatto un «pettegolezzo di monaci», ne aveva misurato immediatamente la portata, e aveva messo in guardia gli uomini di Curia suoi amici dall'illusione di venirne a capo solo con delle «bolle» di scomunica. Poi, tor­ nato in patria e andato a Roma, si era dedicato con infatica­ bile zelo a propagandare le sue idee di riforma e a concre­ tarle in un programma di azione. Contro di lui era la corrente rigorista capeggiata dal Ca- rafa, un sacerdote in cui sembrava che si fosse reincarnato lo spirito fanatico, pugnace e autoritario di certi Papi me­ dievali alla Ildebrando. Anche lui voleva una riforma della Chiesa, ma in un senso del tutto opposto a quello del suo antagonista: non già per aprire il dialogo - come oggi si di­ rebbe - con gli eretici, ma per chiuderlo. Niente discussione sui dogmi, che anzi andavano resi vieppiù intoccabili. Nes­ suna ristrutturazione in senso democratico della Chiesa, di cui anzi andava rafforzato il monolitismo, basato sulla disci­ plina e l'obbedienza. Nessuna concessione al potere laico, che anzi andava ricondotto alla sua medievalesca condizio­ ne di tributario di quello ecclesiastico. L'unico punto pro­ grammatico che questa corrente aveva in comune con quel­ la di Contarini era la «purga» del clero nei suoi rappresen­ tanti e nel suo costume. Bisognava restituire al sacerdozio la purezza, lo zelo, il mistico fervore dei tempi eroici, farne una santa milizia per il recupero delle anime traviate. Ma per questo recupero, Contarini invocava l'amore e la carità; Carafa, i tribunali e il rogo. II Farnese non faceva parte di nessuna di queste due cor­ renti. Era troppo occupato a costruire il suo palazzo, ad am­ ministrare il patrimonio di famiglia, a procurare titoli e

600 principati ai suoi parenti, a discutere di metrica latina e a corteggiare nobildonne. Eppure, appena asceso al Soglio, nominò cardinali, insieme ai suoi due nipoti, sia il Carafa che il Contarini. Quest'ultimo, che nemmeno conosceva il Pontefice e che in quel momento ricopriva un'alta carica nel governo veneziano, ne fu informato da un amico: il Papa non lo aveva nemmeno interpellato. E anche questo di chia­ mare al servizio della Chiesa gli uomini migliori, anche se non facevano parte della sua clientela, era tipico di Paolo. Restava tuttavia da chiarire per quale delle due politiche - quella, come oggi si direbbe, dei «falchi» carafiani, o quel­ la delle «colombe» contariniane - egli propendesse. Dapprincipio sembrò che desse la preferenza alla secon­ da. L'Imperatore insisteva per un tentativo d'accordo. Egli ne aveva urgente bisogno per ristabilire la pace fra i suoi sudditi tedeschi e portarli compatti contro Solimano che se­ guitava a minacciare il cuore dell'Europa. Il Papa accolse l'invito e affidò la delicata missione a Contarini, autorizzan­ dolo a intavolare trattative con gli emissari luterani. L'incontro si svolse a Ratisbona nell'aprile del '41. E, se fosse dipeso dai protagonisti, il successo sarebbe stato sicu­ ro. Non lo voleva soltanto Contarini, ma anche i suoi inter­ locutori Melantone e Bucero, entrambi uomini di pace, alie­ ni da ogni fanatismo. Sia l'uno che gli altri capivano che quella era l'ultima grande occasione. Ma sia l'uno che gli al­ tri ignoravano sino a che punto potevano spingersi sulla via del compromesso. Le istruzioni che Paolo aveva dato al Contarini erano volutamente vaghe. Ma prima di ogni altra cosa a lui premeva che venisse riconosciuto e ribadito il pri­ mato del Papa. Contarini comprese che questa pregiudizia­ le rischiava di mandare tutto a monte. E, disobbedendo, la pospose. Se si fosse trovato l'accordo su tutto il resto, egli pensava, poi lo si sarebbe raggiunto anche su questo. E get­ tò sul tavolo gli altri problemi, compreso quello della giusti­ ficazione, sul quale si dichiarò praticamente d'accordo coi protestanti nel ritenere che la Grazia fosse frutto della fede,

601 non delle preghiere e delle buone azioni. Bucero esultò. «Questo - disse - è ciò che abbisogna e basta a vivere beato, giusto e santo di fronte a Dio e alla società.» E con lui esulta­ rono tutti i moderati dell'una e dell'altra parte. Non era tutto. Ma era molto. E c'è da chiedersi quale ef­ fetto l'accordo avrebbe sortito, anche nel mondo cattolico, se fosse arrivato in fondo. Ma occorreva l'approvazione de­ gli articoli già concordati da parte del Papa e di Lutero. Quest'ultimo aveva accettato il confronto senza credere al suo successo e forse senza neanche augurarselo. La vec­ chiaia lo aveva reso ancora più ostile e sospettoso nei con­ fronti dei «romani», fra i quali si rifiutava di discriminare. Anche in Contarini vedeva un imbroglione diverso dagli al­ tri solo perché più abile; e perfino dei propri luogotenenti diffidava considerandoli troppo molli e arrendevoli. Nel te­ sto che gli sottomisero egli scorse un'artificiosa giustapposi­ zione di due tesi diverse e inconciliabili. E ne concluse che doveva esserci sotto uno dei soliti imbrogli. Non migliore accoglienza il documento incontrò a Ro­ ma. Sull'articolo della giustificazione il Carafa scatenò il pandemonio. Ma più determinanti di quelle di dottrina fu­ rono le opposizioni politiche. La pace di Nizza, che aveva assicurato tre anni di proficua tregua, era finita. Sia France­ sco che i principi tedeschi e molti italiani in Curia e fuori non avevano nessun interesse a una pacificazione religiosa, di cui Carlo sarebbe stato il maggior beneficiario. Tutte que­ ste forze negative posero assedio al Papa per indurlo a rom­ pere le trattative. Paolo si barcamenò con la sua abituale evasività. Era un temporeggiatore d'inesauribile pazienza e a prova di qualsiasi suggestione. Ma Carlo commise un er­ rore: accennò alla necessità di risolvere la diatriba coi prote­ stanti a mezzo di un concilio ecumenico, lasciando intende­ re che riservava a se stesso il diritto di arbitrarlo. Il Papa che, ricordando quelli di Costanza e Basilea, vedeva in ogni concilio un attentato al suo primato, reagì rompendo gl'in­ dugi e ordinando al Contarini di rifiutare ogni compromes-

602 so. L'Imperatore cercò di salvare il salvabile proponendo che almeno venissero ratificati gli articoli sui quali l'accordo era stato raggiunto. Ma la proposta fu respinta sia da Paolo che da Lutero, una volta tanto d'accordo. Per Contarini fu un dramma, e non perché si sentisse personalmente «bruciato» da quel fallimento. O almeno non solo per questo. Egli vide con chiarezza - e i suoi scritti lo testimoniano - che ora alla Chiesa non restava che una stra­ da da battere: quella indicata dal Carafa, quella della perse­ cuzione e della repressione inquisitoriale: cioè la strada me­ no congeniale alla coscienza cristiana. Non sopravvisse che pochi mesi, e con lui scomparve dalla scena il miglior servi­ tore della Chiesa. CAPITOLO TRENTASEIESIMO

LOYOLA

In questa emergenza capitò a Roma un monaco spagnolo, •(! che per realizzare i suoi disegni non poteva scegliere mo­ mento più adatto. \ Ignazio di Loyola era un aristocratico che i genitori ave- |: vano avviato alla carriera delle armi. Allo studio aveva dedi- j.J cato poco tempo. L'unica sua lettura - o quasi - erano stati i j. poemi cavallereschi, cui aveva attinto il suo ideale di vita, f Quando, com'era d'uso, lo armarono cavaliere, egli si scelse if come «regina del cuore» la seconda moglie del re Ferdinan- Ì1: do il Cattolico, indossò i suoi colori, e sognò di battersi e ma- Ì gari di morire per lei in qualche torneo. Com'egli stesso rac- | conta nella sua disadorna e sincera autobiografia, questo p amore ideale non gl'impedì di coltivarne degli altri più pro- I' saici, ma senza mai restarne schiavo. La carne gli pesava po­ lì; co anche perché poca ne aveva sulle fragili ossa: era piccolo, | magro, già mezzo calvo, di profilo tagliente, e come consu- S ' mato da una febbre che gli accendeva gli occhi neri e intensi. Nel '21, fra i tanti episodi dell'interminabile conflitto tra Carlo e Francesco, ci fu una spedizione francese su Pamplo- na. Ignazio era lì di guarnigione, sempre in attesa della glo­ ria militare. Si batté con estremo coraggio, ma ci rimise una gamba, fratturata da un colpo di cannone. I dottori sbaglia­ rono nel rimettergliela a posto, tornarono a rompergliela, sbagliarono una seconda volta, dovettero procedere a una seconda rottura, e infine contentarsi di lasciargli l'arto più corto. I tormenti fisici furono, per il paziente, terribili; ma più ancora forse lo furono quelli morali: l'invalidità perma­ nente era la fine dei suoi sogni di gloria guerriera. 604 Per sottrarsi ai suoi cupi pensieri e ingannare la noia del­ la degenza, chiese qualche libro. La biblioteca dell'ospedale ne aveva due soli: una vita di Cristo e una raccolta di agio­ grafie di Santi. Ignazio fu sulle prime annoiato da quelle ba­ nali e stucchevoli letture, ma poi piano piano vi si appassio­ nò. Da buon spagnolo egli trasferiva sul piano religioso il suo ideale epico e guerriero e in quei «cavalieri di Cristo» fi­ nì per vedere un tipo di eroe ancora più esaltante del cabal- lero castigliano al cui modello egli si era fin lì ispirato. Una notte ebbe una visione in cui gli apparve la Madonna col Bambino. Svegliato, si alzò dal letto, s'inginocchiò e fece il voto di diventare un soldato di Cristo e di Maria. Era l'uni­ co esercito in cui poteva arruolarsi anche da zoppo. Appena potè rimettersi in piedi, inforcò un mulo, rag­ giunse il monastero benedettino di Monserrato, si spogliò della sua pesante armatura, indossò un saio, rimase tre gior­ ni e tre notti ai piedi dell'altare, e ancora traballando sulla gamba cionca prese la via di Barcellona per imbarcarsi alla volta di Gerusalemme. Per strada fece sosta in un convento di domenicani, che rimasero atterriti dalle sue pratiche espiatorie. Rifiutava il cibo e si autoflagellava in un selvag­ gio ed eroico sforzo di mortificare il corpo e ridurlo a stru­ mento della volontà. Fu un anno di lotta, punteggiato da crisi di scoraggiamento che lo condussero sull'orlo del suici­ dio. Ma alla fine sentì di aver vinto e di poter interamente disporre di se stesso. Proseguì per Barcellona, s'imbarcò, fe­ ce una breve tappa prima a Roma, poi a Venezia, e di qui ri­ prese il mare per la Palestina. Voleva fare il missionario lag­ giù per convertire i mussulmani. Ma i turchi che occupava­ no il Paese, pur permettendo ai cristiani di visitarlo, gli vie­ tavano di predicare. E il «provinciale» dei francescani di Ge­ rusalemme che aveva in custodia i Luoghi Santi e non vole­ va «grane» con le autorità, gli ordinò il rimpatrio. Si dette alla predicazione in Spagna, e subito si accorse che quel mestiere, fra i «fedeli», comportava gli stessi incon­ venienti che fra gli «infedeli». A Barcellona alcuni padri e

605 mariti, allarmati dell'ascendente ch'egli aveva acquistato sulle loro donne, lo bastonarono a sangue. Ad Alcalà, dove tentò d'indurre al pentimento e alla redenzione le prostitu­ te, cadde vittima dell'Inquisizione che lo tenne due mesi in galera. Identica esperienza gli capitò a Salamanca. Ignazio ne trasse la conclusione che, per raggiungere qualche risul­ tato nel campo missionario, la fede non bastava; ci volevano anche la dottrina e la dialettica. Per impadronirsene, a tren­ tadue anni tornò a scuola, e scelse la più severa: il collegio di Montaigu dove, entrando, incrociò sulla porta Calvino che ne usciva. Il volto esangue, il corpo macilento per i lunghi digiuni, la barba lunga, l'abito a brandelli gli valsero le corbellature dei compagni. Ma due di essi rimasero alla fine soggiogati dalla coerenza e dall'assorta intensità dei suoi propositi: il savoiardo Pietro Faber e lo spagnolo Francesco Saverio. Ignazio li sottopose agli esercizi ch'egli stesso aveva speri­ mentato e li condusse alla medesima vittoria della volontà sul corpo, dello spirito sulla materia. Quei due conversi fu­ rono la prima «cellula» della sua organizzazione, basata su un credo semplice e assoluto: la Chiesa essendo l'unica in­ terprete delle Sacre Scritture, se essa dice che una cosa è ne­ ra, noi dobbiamo crederci anche se ai nostri occhi appare bianca. Altre reclute affluirono, ma solo nove resistettero a quel tirocinio. Fedele alla sua antica vocazione militare, Ignazio la chiamò «Compagnia di Gesù», ma senza sottintesi guer­ rieri. In quel momento non pensava affatto di scendere in campo contro i protestanti. Il suo piano era quello di con­ durre questo drappello di uomini in Terrasanta a rivivervi per quanto possibile la vita di Cristo per la salvezza delle lo­ ro anime e basta. Alla fine del '37 scese a Roma con Faber e Laynez. Papa Paolo li ricevette poco dopo, approvò il loro desiderio di emigrare in Palestina e gli fornì i fondi per pagare il viag­ gio. Ma questo confermandosi inattuabile, Ignazio restituì 1

606 soldi, chiamò gli altri compagni e decise di trasformare la piccola compagnia in un Ordine vero e proprio. Ai voti di povertà e castità fu aggiunto quello dell'obbedienza cieca e assoluta al «Generale», che naturalmente fu lo stesso Igna­ zio, e che rispondeva del suo operato solo al Pontefice. Que­ sti era considerato, come Vicario di Dio in terra, insindaca­ bile e infallibile comunque e dovunque. Era la trasposizione sul piano religioso della mentalità militare in cui Loyola si era formato. Gli adepti si chiamarono «Chierici regolari del­ la società di Gesù». Il nome di Gesuiti fu coniato più tardi; e ad affibbiarglielo fu Calvino con intonazione di scherno. D'allora in poi Ignazio concentrò le sue inesauribili ener­ gie nel lavoro di organizzazione. La suprema autorità del­ l'Ordine era esercitata da una «Congregazione» di cui face­ vano parte il Generale e due delegati di ogni Provincia. Un «ammonitore» assistito da quattro aiutanti doveva controlla­ re il Generale, consigliarlo e, in determinati casi di estrema gravità, convocare la Congregazione per deporlo. L'impe­ gno più grosso e delicato erano il reclutamento e la forma­ zione dei quadri. In due anni di tirocinio gli adepti doveva­ no abituarsi, attraverso una serie di rigorosissimi esercizi, a rinunziare totalmente a se stessi e a rendersi disponibili «co­ me cadaveri» all'esecuzione di qualsiasi ordine. Coloro che superavano queste prove - ma erano pochi - erano ammes­ si, anche come laici, a una «seconda classe», e così di selezio­ ne in selezione, fino alla categoria dei «professi», esigua mi­ noranza di eletti ferratissimi in campo dottrinario, maestri di dialettica e rotti a ogni sorta di pericolo e cimento. La Storia, dice Durant, presenta pochi casi di una crea­ tura così somigliante al suo creatore e che sia rimasta nei se­ coli altrettanto marcata dalla sua personalità. Ignazio non aveva dato alla Compagnia solo una struttura organizzativa; le aveva anche dettato il modello umano e fornito l'esempio della suprema dedizione. Indifferente ai triboli del suo cor­ po malaticcio e dei nervi esausti, non concedeva al sonno più di quattr'ore e spesso si nutriva di una manciata di noci

607 con un tozzo di pane, per dedicarsi interamente al perfezio­ namento della sua «macchina». Da essa uscivano uomini che da soli e senza un soldo affrontavano interminabili e peri­ gliose traversate sulle precarie navi e sulle malcerte rotte di quei tempi per andare a fondare succursali nel nuovo mon­ do americano da poco scoperto, in Cina e in Giappone. A darne l'esempio fu il primo luogotenente d'Ignazio, Fran­ cesco Saverio, che raggiunse Goa, ne imparò la lingua eser­ citando la medicina, convertì migliaia d'indù e di mussul­ mani, e dopo morto fu santificato. In Europa i Gesuiti penetrarono nella società soprattutto attraverso la scuola. In pochi anni i loro collegi furono di gran lunga i migliori in ogni Paese. Vecchie e accreditate città universitarie come Coimbra in Portogallo e Lovanio in Belgio diventarono loro colonie. Ignazio diceva: «Non con­ tentatevi di formare le menti degli allievi. Accaparratevi le loro anime, che siano vostre per sempre». Così i Gesuiti di­ ventarono i mentori, i confidenti e confessori, i direttori di coscienza delle più grandi famiglie europee, comprese quel­ le regnanti. Mai ne fecero strumento di ambizione e torna­ conto personale. Mai o quasi mai spinsero la loro influenza oltre i limiti del ragionevole. Ignazio aveva detto anche che le virtù cui dovevano ispirarsi erano lo zelo e la prudenza ma, dovendo scegliere, la prudenza era più necessaria dello zelo. Fu per questo che i Gesuiti, pur approvando in linea di principio l'Inquisizione, si guardarono bene dal parteci­ parvi. Quando Loyola morì, nel '57, la Società contava un mi­ gliaio di aderenti, di cui solo una trentina erano «professi»: e da questo il lettore induca quanto dura fosse la selezione. La scelta del successore scatenò una lotta a coltello fra i su­ perstiti luogotenenti, e solo dopo mesi e mesi si risolse a fa­ vore di Diego Laynez. Questi dovette affrontare una doppia crisi: l'opposizione dei Gesuiti spagnoli, tuttora i più nume­ rosi e potenti, che gli rimproveravano l'origine ebraica; e l'ostilità del Pontefice, che vedeva nel «Papa Nero» - come

608 poi si sarebbe chiamato il Generale dell'Ordine - un perico­ loso rivale, e pretendeva ridurne il potere ponendo un limi­ te di tre anni alla sua carica. Ma Laynez - in tutto degno del suo predecessore quanto a energia, coraggio e sagacia - sor­ montò quelle difficoltà, e sotto il suo polso di ferro la Socie­ tà diventò la forza traente della Chiesa sia nel campo mis­ sionario che in quello scolastico e culturale. Quando di lì a pochi anni il Concilio di Trento si accinse a dare la definitiva sistemazione alla dottrina cattolica battu­ ta in breccia dalla Riforma, furono i Gesuiti a condurre e ri­ solvere la battaglia sul piano teologico. La Chiesa aveva tro­ vato nelle reclute d'Ignazio i suoi migliori soldati. CAPITOLO TRENTASETTESIMO

ESORDI A TRENTO

Ai primi del '46 Lutero morì, e con lui scomparve il grande animatore della Riforma tedesca, il suo puntello morale. Quasi contemporaneamente Solimano, per domare la Per­ sia, propose all'Imperatore una tregua di cinque anni. Car­ lo finalmente poteva rivolgere tutte le sue forze contro i principi protestanti di Germania. I Fugger gli fecero un grosso prestito, e il più abile generale tedesco, Maurizio di Sassonia, si mise ai suoi ordini tradendo la propria fede lu­ terana. Carlo agì con accortezza. Disse che voleva ristabilire in Germania un ordine soltanto politico, cioè frenare le ten­ denze eversive e affermare il potere centrale. Nel problema religioso, disse, non avrebbe interferito: le popolazioni ri­ formate avrebbero potuto continuare a professare il loro credo. La promessa fu presa sul serio, e i principi protestan­ ti si trovarono a corto di reclute. A muovere in loro aiuto fu soltanto il Papa! Da quando suo nipote Ottavio aveva sposato la figlia di Carlo, Paolo III aveva favorito i disegni dell'Imperatore. Non contento di lanciare una bolla di scomunica contro i suoi nemici, gli aveva mandato anche un contingente di truppe. Ma non per aiutare il grande difensore del cattoli­ cesimo. Egli sperava che Carlo desse a Ottavio il Ducato di Milano facendone così un feudo dei Farnese. E per assicu­ rarsene l'acquisto, consentì anche a indire quel famoso Con­ cilio che l'Imperatore non cessava di reclamare per riunifi­ care i suoi Stati non solo sul piano politico, ma anche su quello religioso. Il Papa, lo abbiamo già detto, aveva sempre

610 nicchiato: un po' perché tutti i concili rappresentano una minaccia per l'organizzazione monolitica e autoritaria della Chiesa; e un po' perché Carlo, essendone l'ispiratore, pote­ va diventarne anche l'arbitro. Ma, se s'impegnava in una guerra, il pericolo delle sue interferenze si attenuava. Ep- poi, c'era di mezzo Milano, che al Farnese stava più a cuore del problema della Grazia e dell'Eucarestia. Da questi calco­ li e sotterfugi prese le mosse quella che doveva passare alla Storia come la più importante e decisiva assise della cattoli­ cità. Paolo la indisse a Trento per il dicembre del 1545. E dei suoi sviluppi parleremo più avanti. Per ora, restiamo al giuoco politico che la aveva occasionata. Paolo dunque si decise al Concilio pensando soprattutto a Milano. Ma, dopo aver lasciato un po' la cosa nel vago, Carlo dimostrò che a Milano non intendeva rinunziare, mentre i successi militari e diplomatici facevano presagire una sua facile vittoria. Fu allora che Paolo fece bruscamente marcia indietro: richiamò il suo contingente, non nascose la propria soddisfazione per la gagliardìa con cui i protestanti si battevano, e istigò Francesco di Francia a correre in loro soccorso. Ma Carlo non gli diede il tempo di sviluppare la sua manovra. A Mùhlberg, nell'aprile del '47, disfece i suoi avversari e ne prese prigionieri i capi più importanti. La stessa Wittenberg, roccaforte di Lutero, cadde nelle mani dell'esercito imperiale cattolico, mentre a distanza di poche settimane l'uno dall'altro sparivano i più irriducibili avver­ sari di Carlo: Francesco di Francia ed Enrico d'Inghilterra. Sembrava che nessuna forza potesse più opporsi al piano ecumenico di un impero mondiale sotto lo scettro degli Asburgo. Il Papa avrebbe dovuto esultarne. Invece ne fu co­ sternato. Che gli Asburgo fossero zelanti cattolici, a Paolo importava poco. Egli non vedeva in loro che una minaccia al suo potere temporale. I suoi timori non erano infondati. Carlo aveva risaputo dal suo ambasciatore a Roma, Mendoza, tutte le mene del Papa contro di lui, e si apprestava al castigo. Diede ordine

611 ai vescovi spagnoli che partecipavano al Concilio di Trento di presentare alcune proposte, che miravano a ridurre l'au­ torità del Papa. Paolo replicò trasferendo il Concilio a Bolo­ gna, cioè nei propri Stati, con la scusa che a Trento, provin­ cia imperiale, era scoppiata un'epidemia di tifo. Carlo in­ giunse ai suoi di non muoversi. E così il Concilio, che avreb­ be dovuto riportare l'unità nel mondo cristiano, provocò la disunione di quello cattolico fra vescovi «guelfi» fedeli al Pa­ pa e vescovi «ghibellini» fedeli all'Imperatore. Il conflitto esplose in un assassinio di cui fece le spese il figlio del Papa, Pier Luigi, cui era toccato il Ducato di Parma e Piacenza. Non c'è il minimo dubbio che ad armare la mano dei sicari era stato il governatore imperiale di Milano, se non per or­ dine di Carlo, certo per compiacergli. La reazione di Paolo è rivelatrice del suo carattere. Ado­ rava Pier Luigi, nel quale aveva investito le fortune e le spe­ ranze della dinastia Farnese. Eppure non si lasciò prendere la mano dal dolore e dalla smania di vendetta. Finse di non credere alla responsabilità dell'Imperatore nel delitto, aderì al suo invito di riportare il Concilio a Trento e gli promise perfino di fare di lui il proprio successore al Soglio pontifì­ cio. Tutto questo, pur di salvare il Ducato di Parma e Pia­ cenza. Siccome Carlo lo contestava ai Farnese, Paolo lo ri­ vendicò come feudo ecclesiastico. Era chiaro che in seguito intendeva riannetterlo alla sua famiglia. Ma il nipote Otta­ vio non gliene lasciò il tempo. Sentendosene defraudato, cercò d'impadronirsi con la forza delle due città, che il Papa aveva affidato a un suo governatore. E siccome non vi riu­ scì, scrisse allo zio una lettera insolente. Amareggiato da tanta ingratitudine, il vecchio Pontefice mandò a chiamare l'altro nipote, il cardinale Alessandro, sperando di trovare in lui appoggio e conforto. S'accorse invece che parteggiava per Ottavio e gli aveva tenuto bordone. Per la prima volta in vita sua non riuscì a dominare la collera, e non se ne rieb­ be più. Morì pochi giorni dopo, il 10 novembre del '49, lascian-

612 do la Chiesa pressappoco nelle stesse catastrofiche condizio­ ni in cui l'aveva ereditata da Clemente. Ma i romani anda­ rono a baciargli il piede per tutto il bene che aveva fatto alla loro città arricchendola e abbellendola. Come sovrano tem­ porale, l'Urbe non ne aveva avuto di migliori.

Il Concilio, fino a quel momento, aveva traccheggiato fra rinvìi, trasferimenti e zuffe, senza venire a capo degli equi­ voci fra i quali era nato. Ritracciamone in sintesi la storia. A esigerlo era stato Carlo per le ragioni che abbiamo detto, cioè per ragioni di Stato. L'Imperatore non si era mai cura­ to di problemi di dogma. Ma non ammetteva ch'essi gettas­ sero la disunione fra i suoi sudditi. Il Concilio, ai suoi occhi, doveva essere, come oggi si direbbe, l'apertura di un dialo­ go fra le due parti in lotta. Ma a reclamarlo, sia pure per tutt'altri motivi, erano sta­ ti anche molti cattolici: tutti quelli che non si rassegnavano alla rottura del mondo cristiano e che speravano di poterla ancoia evitare con qualche concessione, specie sul piano or­ ganizzativo e strutturale. Dai tempi di Costanza e Basilea era sopravvissuta una tendenza conciliare che intendeva ri­ mettere in discussione, se non proprio il primato del Papa, almeno il suo assolutismo nel governo della Chiesa. E su questo terreno era disposta a spingersi un pezzo in là incon­ tro ai protestanti, in cui vedeva più degli alleati che dei ne­ mici. Ma era appunto questa coincidenza d'interessi a provo­ care la diffidenza e il boicottaggio della Curia romana. Gli argomenti non le mancavano. Clemente VII aveva obbietta­ to che un Concilio non sarebbe servito a nulla, visto che Lu­ tero gli aveva a priori negato ogni autorità, riconoscendola solo al Vangelo. Inficiato da una simile pregiudiziale, diceva Clemente, il Concilio sarebbe servito solo a inasprire e ren­ dere irrevocabile la rottura. Eppoi, c'era il problema della sede. Carlo voleva che lo si tenesse in una città tedesca, in modo da poterne controllare lo svolgimento. Ma Francesco

613 aveva già dichiarato che in tal caso avrebbe proibito ai ve­ scovi francesi di parteciparvi. Paolo III non aveva, verso il Concilio, meno riserve di Clemente. Ma, invece che a evitarlo badò a impadronirsene e a farne uno strumento dei propri interessi di Pontefice e di Farnese. Nel '36 ne indisse uno a Mantova, invitandovi i protestanti: ma a condizione che costoro s'impegnassero ad accettarne le deliberazioni. A Lutero fu facile denunciare il tranello: i protestanti sarebbero stati una minoranza, e quindi avrebbero dovuto subire le imposizioni dei loro av­ versari. E l'invito naturalmente fu declinato. Ma Paolo ave­ va dimostrato la sua buona volontà e poteva dire che la col­ pa dell'insuccesso non era sua. Seguirono estenuanti negoziati per la designazione di un'altra sede. Sia il Papa che l'Imperatore volevano restare padroni di casa, e la scelta di Trento - città di popolazione italiana, ma facente parte dell'Impero - rappresentò un compromesso fra le opposte esigenze. Il Concilio vi fu indet­ to per il 1° novembre del 1542. Ma la sua inaugurazione si risolse in un fiasco, perché Francesco aveva mandato a effet­ to la sua minaccia e proibito ai suoi vescovi di parteciparvi. A intervenire furono solo pochi prelati italiani; che non pote­ vano pretendere di rappresentare qualcosa di ecumenico, cioè di universale. Sicché il Papa ebbe buoni argomenti per moti­ vare un rinvio al giorno in cui Carlo e Francesco si fossero messi finalmente d'accordo. La condizione si realizzò tre an­ ni dopo con la pace di Crépy, una delle tante effimere tre­ gue nell'interminabile conflitto fra i due sovrani. Ma in quel momento c'erano ancora i turchi alle porte, e fu lo stesso Carlo a chiedere un'altra dilazione. Solo il 13 dicembre del '45 si potè procedere alla cerimonia di apertura del Concilio - il diciannovesimo nella storia della Chiesa - che però di ecumenico seguitava ad avere solo il nome. In tutto non c'e­ rano che quattro arcivescovi, tutti italiani; venti vescovi, di cui solo due francesi e un tedesco; cinque generali di ordini monastici, alcuni abati e un piccolo gruppo di teologi.

614 Il Papa non intervenne, ma delegò la regìa dei dibattiti a tre Cardinali, Del Monte, Cervini e Pole, che sin da princi­ pio dettarono le regole del giuoco. A differenza di quanto era accaduto a Costanza e Basilea, dove si era riconosciuto a tutti, anche ai laici, il diritto di votare e per gruppi naziona­ li in modo che, faccio per dire, il gruppo di quattro tedeschi contava quanto quello di quaranta italiani; a Trento il voto sarebbe stato individuale e riservato solo a chi aveva rango di cardinale, vescovo, abate o generale: il che significava l'assoluto predominio degl'italiani. Non solo. Ma la formu­ lazione degli «schemi», cioè dei problemi da discutere, era riservata alle Congregazioni che si tenevano a Roma sotto la diretta supervisione del Papa. Paolo, insomma, pur conce­ dendo il Concilio, aveva preso tutte le precauzioni per im­ pedire che gli sfuggisse di mano. I primi contrasti si accesero sulla procedura. Gl'italiani volevano dare la precedenza alle questioni di dogma per eli­ minare subito ogni possibilità di dialogo coi protestanti: L'Imperatore e i suoi vescovi spagnoli e tedeschi volevano invece che la precedenza fosse data alle riforme di struttu­ ra: l'Imperatore perché coi protestanti cercava l'accordo, i vescovi perché dalle riforme speravano una limitazione dei poteri del Papa e quindi una maggiore propria autonomia. Anche questa diatriba fu risolta con un compromesso. Si decise di procedere a corrente alternata, a ogni dibattito sui dogmi facendone seguire uno sulle riforme e viceversa. Ma la causa del dogma Paolo l'affidò a due avvocati che subito vi si mostrarono imbattibili e la condussero a suo piacimen­ to: i gesuiti Laynez e Salmeron, cui poi si aggiunsero Cani- sio e Le Jay. Le «colombe» si trovarono a mal partito contro la superiore erudizione e l'agguerrita dialettica di questi «falchi», maestri di cavillo (e Dio sa quanto la teologia vi si presti). Essi sostennero e dimostrarono l'impossibilità di un accordo coi protestanti. Anzitutto perché - dissero - costoro si erano divisi in tante e così differenti sètte che la concessio­ ne fatta ad una non valeva per le altre. Ma poi c'era fra i

615 due credo un'incompatibilità di fondo. Quello cattolico si ba­ sa sull'autorità del sacerdote e sul suo imprescrittibile dirit­ to a porsi come unico interprete del dogma. E un punto che la Chiesa non può rimettere in discussione. Facendolo, e in qualunque modo lo faccia, tutto il suo edificio crolla. Attri­ buire al credente laico la facoltà di un dialogo diretto con Dio e il diritto d'interpretarne la volontà secondo la propria coscienza - che sono i fondamenti della teologia protestante -, si toglie alla Chiesa il monopolio cui essa attinge la sua ra­ gione d'essere e che giustifica la sua autorità. Naturalmente Laynez e i suoi collaboratori non lo disse­ ro in maniera così brutale e disadorna. Le loro argomenta­ zioni furono - come vuole la teologia - complesse, involute, lardellate di citazioni e puntellate da una casistica minuzio­ samente esemplificata, che ridusse al silenzio gli oppositori d'altronde in netta minoranza. E così la quarta sessione, che si chiuse nell'aprile del '46, ribadì punto per punto e anzi rese definitivamente intoccabili gli assiomi della dottrina tradizionale. Essa confermò che l'autorità della Chiesa era pari a quella delle Scritture poiché essa sola, essendo infalli­ bile, poteva interpretarle. Per quanto riguardava la Bibbia, l'unico testo latino considerato valido e quindi intoccabile nel presente e nel futuro era la Vulgata di Gerolamo. E qua­ lunque speculazione teologica doveva adottare come busso­ la la Summa di San Tommaso, che perciò venne depositata sull'altare sotto la Bibbia e i Decretali. Fin dalle prime battute dunque il Concilio aveva imboc­ cato la strada opposta a quella desiderata dai suoi sostenito­ ri. Invece che l'avvìo a un compromesso, era il trionfo del­ l'ortodossia più intransigente. Le «colombe» corsero ai ripa­ ri e si presentarono alle successive sessioni molto più nume­ rose e decise a difendere le proprie tesi. Nessuno osò solle­ vare apertamente l'eccezione più logica: e cioè che le con­ clusioni cui si era giunti si basavano su una premessa che veniva data per scontata, mentre occorreva dimostrarla: l'infallibilità della Chiesa. Simili dubbi esponevano all'accu-

616 sa di eresia. E fra l'eresia e il rogo, in quell'epoca di gran ri­ presa inquisitoriale, non correva neanche un passo. L'opposizione scelse perciò un altro terreno: quello della «giustificazione». Lutero aveva detto che l'uomo si giustifica davanti a Dio, cioè si salva solo grazie alla fede. E Lutero era stato dichiarato eretico. Ma qualcosa di simile avevano detto anche San Paolo e Sant'Agostino, che eretici non erano e contro cui anche Laynez si sarebbe trovato in difficoltà. Su questo punto si accesero zuffe violente, e due vescovi ven­ nero addirittura alle mani. L'Imperatore, in cerca di prete­ sti per interferire nei dibattiti, mandò a dire che se si segui­ tava di quel passo, sarebbe venuto di persona a placare gli scalmanati con un bel bagno nell'Adige. Ma nemmeno il suo ammonimento valse a sedare i tumulti. Il cardinale Pole, che aveva abbandonato l'Inghilterra per fedeltà alla Chiesa, ma aveva sempre condiviso le vedute concilianti e riforma­ trici di Contarini, espresse opinioni che gli valsero l'accusa di «luterano» da parte del suo collega Carafa; e preferì riti­ rarsi a Padova con la scusa di una malattia. Il suo posto fu preso da Seripando, che tentò di rimettere in discussione e di far approvare gli accordi raggiunti a Ratisbona. Ma Lay­ nez lo ridusse al silenzio e ottenne che il Concilio ribadisse una volta per tutte la tesi ortodossa: e cioè che le preghiere e le buone azioni valevano, per la salvezza dell'anima, quan­ to la fede. Era la definitiva chiusura a ogni possibilità di compromesso. Com'era nei piani di Paolo e della Curia romana, l'ap­ profondimento dei problemi di dogma aveva relegato in se­ condo piano quelli di riforma. Contro la corruzione del cle­ ro si erano pronunciate violente requisitorie che tuttavia non avevano suscitato polemiche perché tutti erano d'ac­ cordo nel denunciare questo malanno, anche coloro che vi contribuivano. Ma misure se n'erano adottate poche. Si era anche rivolto al Papa l'invito a una riforma della Dataria, l'ufficio della Curia che sovrintendeva al conferimento dei benefici ecclesiastici, alla loro difesa dalle usurpazioni lai-

617 che, alla concessione di grazie e di dispense matrimoniali: tutte cose che rappresentavano per il Papa altrettanti stru­ menti di potere e fonti di finanziamento. Ma su questo ter­ reno il Farnese non tollerava interferenze conciliari. Egli considerava di sua esclusiva spettanza le questioni organiz­ zative. E anzi fu proprio perché l'Imperatore gl'ingiungeva di risolverne finalmente qualcuna, che Paolo, prendendo a pretesto un'epidemia di tifo scoppiata lì a Trento, trasferì il Concilio a Bologna. I delegati italiani obbedirono all'ordine del Papa; i tede­ schi e gli spagnoli obbedirono all'Imperatore, e restarono a Trento. Ma era il momento - lo abbiamo già detto - che Carlo schiacciava a Muhlberg le forze protestanti e si pre­ sentava come l'incontrastato padrone d'Europa. Quali fos­ sero le sue intenzioni nei confronti del Farnese, lo aveva di­ mostrato facendogli assassinare il figlio. Egli era ormai in condizione d'impadronirsi del Concilio, specie se questo avesse continuato a svolgersi in una città presidiata dalle sue milizie. Paolo non poteva opporglisi. Alle minacce dell'Im­ peratore, rispose promettendogli di riportare il Concilio a Trento. Ma c'è da chiedersi se lo avrebbe fatto, anche se ne avesse avuto il tempo. La morte comunque non glielo con­ cesse. Quando, di lì a quattro anni, la grande assise cattolica tornò a ricomporsi, le circostanze politiche erano radical­ mente mutate. CAPITOLO TRENTOTTESIMO

PAOLO IV

Il conclave che si riunì dopo la morte del Farnese diede un risultato a sorpresa. Il cardinale Del Monte non aveva amici per via del suo carattere autoritario e irascibile, e doveva tutta la sua carriera a Giulio II che proprio per affinità di temperamento se l'era scelto come camerlengo. Forse a far convergere i voti su di lui fu il fatto ch'egli passava per uno dei pochissimi porporati di tendenza filo-imperiale, proprio nel momento in cui sembrava che appunto di questo ci fos­ se urgenza. Carlo trionfava, e bisognava fare i conti con lui che, dopo la politica di Clemente e di Paolo, non poteva nu­ trire molto affetto per la Curia romana. Solo un Papa amico poteva rabbonirlo. Del Monte, che per gratitudine verso il suo benefattore assunse il nome di Giulio III, diede subito a Carlo un pe­ gno delle sue buone intenzioni: riconvocò il Concilio a Trento, come l'Imperatore desiderava, ma facendogli subi­ to prendere un'altra decisione in materia di dogma che chiudeva le porte a ogni possibilità di riconciliazione coi protestanti: riconfermò la dottrina ortodossa della transu­ stanziazione che nell'Eucarestia attribuisce al sacerdote il miracoloso potere di trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue del Signore. Tuttavia, siccome Carlo insisteva che un tentativo di accordo si facesse ugualmente, i luterani furono invitati a mandare una loro rappresentanza. Sebbene Carlo avesse subito rilasciato ai delegati un sal­ vacondotto, costoro esitarono parecchio a mettersi in viag­ gio. Ricordavano l'esempio di Huss cui il salvacondotto del­ l'imperatore Sigismondo non era bastato per salvarsi dal ro-

619 go; e ne vollero un altro anche per il ritorno. I loro timori non erano infondati. Il giorno stesso del loro arrivo, un fra­ te domenicano predicò dal pergamo della cattedrale di Trento che il destino degli eretici non poteva essere che il patibolo. Se il tentativo era fallito a Ratisbona, dove tanti elementi sembravano congiurare ai suo successo, era impossibile che riuscisse qui, dove tutto congiurava al suo insuccesso. I pro­ testanti svolsero le loro tesi senza perifrasi. Chiedevano che venissero approvati i decreti di Costanza e Basilea relativi alla superiorità dei concili sul Papa, e che quindi i vescovi convenuti a Trento declinassero ogni impegno di obbedien­ za a Giulio. Chiedevano l'annullamento di tutte le prece­ denti decisioni e la dissoluzione di quell'assise in un'altra più vasta, che ammettesse una loro adeguata rappresentan­ za. Il Papa si rifiutò di prendere in considerazione quelle proposte. E il Concilio decise un ennesimo aggiornamento al maggio successivo (del '52). Ma quei pochi mesi bastaro­ no a sovvertire il rapporto delle forze in giuoco. Succeduto al padre Francesco sul trono di Parigi, Enrico II aveva posto fine alla guerra contro gl'inglesi per fare lega coi protestanti tedeschi e aiutarli a prendersi una rivincita su Carlo. Maurizio di Sassonia, il grande generale luterano che aveva rinnegato la sua fede per mettersi al servizio del­ l'Imperatore, cambiò di nuovo bandiera, o meglio tornò sotto quella sua portandosi al seguito le migliori truppe, più fedeli a lui che a Carlo. I Farnese coinvolsero l'Italia in que­ sta ennesima guerra spalancando le porte di Parma alle guarnigioni francesi con cui speravano di recuperare Pia­ cenza al loro Ducato. Il Papa li tacciò di «miserabili vermi» e disse ch'era sua ferma intenzione «salire sulla stessa barca dell'Imperatore e affidarsi alla stessa sua sorte». Tanta coerenza faceva più onore al suo carattere che alla sua accortezza. Preso tra due fuochi e con un brandello di esercito logorato dalle diserzioni, colui che sino a pochi me­ si prima era apparso come l'incontrastato signore d'Euro-

620 pa, era ridotto a una penosa anabasi, sotto l'incalzare di Maurizio in marcia su Innsbruck. Non era nemmeno in gra­ do di difendere Trento, donde i padri conciliari fuggirono dopo aver sospeso il Concilio sine die. Carlo si sottrasse alla catastrofe firmando una pace che sostanzialmente dava par­ tita vinta ai suoi nemici. Essa riconosceva pieno diritto di professione religiosa ai protestanti, che nello spazio di cin­ que anni erano così passati dalla parte di grandi sconfitti a quella di trionfatori. Il loro Imperatore non era più in gra­ do d'imporgli una Canossa. Da quel momento essi voltaro­ no le spalle al Concilio. Lo fecero, c'è da giurarlo, con un sospiro di sollievo, lo stesso sospiro di sollievo che trassero i cattolici ortodossi. L'intransigenza aveva vinto da una parte e dall'altra.

I successivi tre anni, Giulio li dedicò quasi esclusivamente alla costruzione di una sontuosa villa con uno stupendo giardino. Dopo gli smacchi che vi aveva subito, aveva perso ogni interesse alla grande politica e si contentava di quella piccola, intesa alle fortune della sua famiglia. Offriva pranzi sontuosi e metteva in imbarazzo i suoi convitati raccontan­ do storielle da taverna. Quanto agli affari della Chiesa, la­ sciava che andassero per il loro verso: un verso del tutto fa­ vorevole alla corrente rigorista, che sempre più s'impadro­ niva delle leve di potere nella Curia. Lo si vide al conclave che si riunì dopo la morte del Papa nel '55. Esso scelse come successore il cardinale Cervini che prese il nome di Marcello IL Era una delle figure più inte­ gre del collegio cardinalizio e fra i più strenui propugnatori della riforma del clero. Il suo primo gesto fu la proibizione ai parenti di raggiungerlo a Roma. Era un debutto che au­ torizzava le più rosee speranze. Purtroppo, Marcello non ebbe il modo di dimostrare quanto fossero fondate, perché il suo pontificato non durò che tre settimane. Ma il conclave lo rimpiazzò con l'uomo che più gli somigliava o promette­ va di somigliargli: il Carafa.

621 , • nMliiift'i IfilWIlh s

Fra i rigoristi, era forse l'esponente di più grande presti­ gio. Veniva dall'oratorio del Divino Amore, come vescovo di Chieti aveva fondato l'austero ordine dei Teatini, e a Trento era stato in prima fila, gomito a gomito con Laynez, nella difesa delle posizioni più ortodosse. Aveva già settantanove anni quando salì al soglio col nome di Paolo IV, ma non li dimostrava. Alto e asciutto, tutto nervi, con due occhi neri infossati e brucianti, portava la sua umiltà con aristocratico orgoglio. Veniva infatti da una grande famiglia napoletana, che aveva sempre parteggiato per gli Angiò contro gli Ara­ gonesi. Non potendo attribuire la propria elezione ai Cardi­ nali fra i quali, con quel caratteraccio, aveva pochi amici, l'attribuì a Dio. E questa convinzione lo rese ancora più au­ toritario e ingovernabile. Dati i suoi trascorsi, tutti si aspettavano che cinta la tiara, egli portasse a compimento l'opera di pulizia iniziata da Marcello. Invece uno dei suoi primi gesti fu quello di nomi­ nar cardinale suo nipote Carlo, che fino a quel momento aveva fatto il soldato di ventura macchiandosi di efferati de­ litti, e di attribuire ad altri due nipoti un ducato e un mar­ chesato strappati con le armi ai Colonna. Molti sospettaro­ no che sotto quel puritano avesse sonnecchiato un Borgia più ipocrita. Ma come poi si vide, non si trattava di questo. Il Carafa aveva innalzato i nipoti non per affetto e interesse di fami­ glia, ma perché quei giovanotti sembravano condividere il suo odio per Carlo, ch'era forte quasi quanto il suo amore per la Chiesa. Odiava Carlo perché era spagnolo, perché era imperatore, e perché non sterminava i protestanti, che secondo lui era l'unico modo di combattere l'eresia. E que­ sta passione era così divorante e assoluta da fargli dimenti­ care tutto il resto, compresa la riforma della Chiesa e il Con­ cilio di Trento, che infatti sotto il suo pontificato smise di riu­ nirsi. Il Papa aveva altro a cui pensare. Circondato dai ni­ poti che soffiavano su quel fuoco, davanti a un boccale del suo vino preferito che non per nulla si chiamava Mangia­ mi guerra, Paolo trascorreva le sue giornate a preparare i piani della crociata di liberazione. Il momento sembrava favorevole. Proprio lo stesso anno 1555 che vedeva l'ascesa di Paolo al Soglio, vedeva la discesa di Carlo dal trono. Non era vecchio, ma lo sembrava per le afflizioni che lo tribolavano: l'artrite gli aveva distorto le ma­ ni, l'asma gl'impediva di dormire, gotta e ulcere lo immobiliz­ zavano spesso. Ma a questo si aggiungevano le delusioni. Ave­ va sognato di ridare all'Europa l'unità politica e spirituale di Carlomagno e di condurla compatta in una grande crociata di liberazione di Costantinopoli e della Terrasanta dai turchi. Per questo aveva cercato prima di annientare la Riforma, poi di riconciliarla con la Chiesa, di ridurre alla ragione la Fran­ cia, di ristabilire l'ordine in Germania. E niente di tutto que­ sto gli era riuscito. Convocò a Bruxelles suo figlio Filippo, cui aveva già affidato il governo delle Fiandre e di Milano, e lo investì della corona di Spagna con tutt'i suoi possedimenti del vecchio e del nuovo mondo. Per sé mantenne il titolo d'Im­ peratore, sperando di passare più tardi anche quello a Filip­ po. Ma suo fratello Ferdinando, che in quella carica era sem­ pre stato il suo rappresentante, la reclamò con tale insistenza che Carlo due anni dopo gliela concesse, dividendo così defi­ nitivamente la casa di Asburgo in due rami, lo spagnolo e l'au­ striaco, e lasciando a quest'ultimo il titolo imperiale. L'anno dopo Carlo rientrò in Spagna per seppellirsi nel monastero di San Giusto. I monaci esultarono all'idea che un simile personaggio volesse condividere la loro umile vi­ ta. Ma Carlo si annesse un'intera ala dell'edifìcio, la trasfor­ mò in un palazzo, vi allogò una cinquantina di servitori, fra cui una dozzina di cuochi, perché nemmeno la cattiva salu­ te riusciva a correggere la sua ghiottoneria. Era diventato querulo e bigotto. Rimpiangeva di non aver mandato arro­ sto Lutero e raccomandava a tutti di guardarsi dalle donne scostumate. Forse gli era riciclato nelle vene il sangue di sua madre Giovanna la Pazza, e la sua mente non era più del tutto in ordine. Morì nel settembre del '58.

623 Così due sovrani trentenni si trovarono di fronte, alla te­ sta dei due più potenti Stati di allora: Filippo II in Spagna ed Enrico II in Francia. Filippo non amava la guerra. Era un re burocrate, un hombre de cabinete, come dicono gli spa­ gnoli, e infatti non prese mai il comando di un esercito. Suo padre lo aveva fatto governatore di Milano a tredici anni, reggente di Spagna a sedici, e lo aveva circondato di consi­ glieri capaci, raccomandandogli di aizzarli l'uno contro l'al­ tro e di diffidare di tutti: cosa che Filippo fece fino alla fine dei suoi giorni. Sebbene i suoi caratteri somatici fossero au­ striaci - pelle e occhi chiari, capelli biondi -, era spagnolissi- mo, anzi castigliano, nel carattere chiuso, cupo, inflessibile, dominato dall'idea ossessiva, e quasi voluttuosa della morte, e da un senso del dovere ai limiti della mania. Enrico invece aveva ereditato dal padre la baldanza e le ambizioni. Incapace di rassegnarsi agli smacchi che la Fran­ cia aveva subito da Carlo, vide nel cambio della guardia sul trono nemico la grande occasione della rivincita. E il Papa immediatamente si attaccò al suo carro per realizzare il suo sogno: la cacciata degli spagnoli dall'Italia e soprattutto da Napoli. Qui c'era come governatore il duca d'Alba che immedia­ tamente prese le sue contromisure invadendo lo Stato pon­ tificio. Il Papa aveva reclutato qualche migliaio di romani, e li riteneva invincibili perché sfilavano bene in parata. Ma quando si trovò a contatto degli spagnoli, questa raccoglitic­ cia truppa dileguò. Per fortuna Alba era un cattolico zelante che, pur obbedendo al suo Re, mai e poi mai avrebbe man­ cato di rispetto al Pontefice. Sicché, sebbene Roma fosse alla sua mercé, si guardò dall'entrarvi. In quel momento però scendeva dalle Alpi un contingen­ te francese, che secondo Enrico avrebbe dovuto marciare su Milano. Il Papa reclamò il suo dirottamento su Napoli, assi­ curando - forse in buona fede - che una rivolta dall'interno avrebbe facilitato la conquista. Ma la rivolta non ci fu, le truppe spagnole tennero benissimo le loro posizioni, e il dis-

624 sidio scoppiò fra italiani e francesi. Questi ultimi abbando­ narono il campo per risalire verso Nord, i papalini furono sconfitti, e ancora una volta Roma fu alla mercé di Alba. Ma l'esito di questa guerricciola naturalmente dipendeva da quello della partita che si era ingaggiata fra i due eserciti veri: quello spagnolo, comandato da Filiberto di Savoia, e quello francese comandato dal Montmorency. Essi si scon­ trarono a San Quintino, dove i francesi vennero irrimedia­ bilmente schiacciati. Sembrava che Filippo dovesse celebra­ re la sua vittoria a Parigi, e molti si chiesero perché non lo faceva. Ma Filippo, che non si era nemmeno mosso dalla sua reggia, invece di strappare la corona a Enrico, gli chiese la mano di sua figlia e firmò con lui a Cateau-Cambrésis una pace che avrebbe potuto essere per il vinto molto più rovi­ nosa. Naturalmente, per quanto riguardava l'Italia, il pre­ dominio spagnolo vi diventava assoluto e definitivo. Della sorte dei singoli Stati della Penisola diremo più det­ tagliatamente in altra sede. Per ora basti ricordare che Mila­ no con tutta la Lombardia, Napoli, Sicilia e Sardegna erano direttamente annessi alla corona spagnola, e quasi tutti gli altri Principati ridotti in condizioni di vassallaggio: a comin­ ciare dai Medici che in premio della loro fedeltà si annesse­ ro Siena e di lì a poco ebbero il titolo di Granduchi di To­ scana, ai Farnese che restavano titolari di Parma e Piacenza, alla repubblica di Genova, ormai entrata nel sistema econo­ mico e marittimo della Spagna e affidata alla benevola ditta­ tura di Andrea Doria. Di veramente indipendente, era ri­ masta solo Venezia. La pace di Cateau-Cambrésis avrebbe potuto non essere definitiva, se di mezzo non ci si fosse messo anche il caso. Forse per consolarsi della batosta, Enrico II scese in torneo, ch'era il suo sport favorito, ebbe un occhio infilato dalla lan­ cia dell'avversario, e pochi giorni dopo morì, lasciando il trono a dei bambini malaticci sotto la reggenza della loro madre, Caterina de' Medici. Era una situazione malcerta che non incoraggiava a tentativi di rivincita.

625 Anche il Papa dovette convenirne. Filippo non si era pre­ so vendette contro di lui, nonostante la sua alleanza coi francesi e l'aggressione a Napoli. Anzi, aveva confermato gli Stati pontifici nei loro confini. Ma su questi confini da tutte le parti incombeva direttamente o indirettamente la Spa­ gna: non c'era più posto per sogni di riscatto alla Giulio II. I sentimenti del Carata erano rimasti gli stessi. Egli aveva trasferito su Filippo l'odio che aveva sempre nutrito per Carlo; e con gl'intimi seguitava a sfogarlo. Ma sul piano po­ litico e diplomatico doveva fare i conti con la realtà. Fu appunto qui che si vide quanto poco per lui gli affetti e gl'interessi di famiglia avessero contato nella elevazione dei nipoti. Il Papa aveva creduto di trovare in loro gli stru­ menti della sua politica antispagnola. Ora che quella politi­ ca si rivelava impossibile, gli strumenti diventavano inutili. Un giorno il cardinal Carafa, mentre si recava nel suo uffi­ cio di segretario di Stato, fu bloccato dalle guardie svizzere e cacciato dal Laterano. E siccome protestava fu mandato al confino insieme agli altri due favoriti di famiglia. Da Napoli accorse la loro vecchia mamma per impetrare clemenza. Paolo non solo si rifiutò di riceverla, ma fece divieto agli al­ berghi di ospitarla. Trattenne solo, di tutta la sua casata, un pronipote di diciott'anni, che la sera recitava il breviario con lui; ma con l'ordine di non fare mai neanche il nome degli altri parenti. Dopo la liquidazione della famiglia, venne l'esame di co­ scienza. Di colpo Paolo si rese conto di aver ribadito la Chie­ sa nel suo vecchio vizio di sacrificare gl'interessi spirituali a quelli temporali e trascurato la riforma di cui egli stesso era stato un tempo il grande assertore. Si diede a questo compi­ to con l'impeto e la passionalità che gli erano propri. Im­ merse la Curia in un bagno di puritanesimo. Spinse l'Inqui­ sizione ad abbandonare ogni scrupolo di misericordia nei suoi procedimenti. Per un semplice dubbio sulla loro orto­ dossia fece gettare in prigione perfino i cardinali Morone e Foscherati.

626 Ma questa intransigenza lo condusse ad errori ancora più gravi di quelli che intendeva riparare. Fra le vittime del­ la sua epurazione ci fu anche il cardinale Pole, il grande amico di Contarini, che Giulio III con molta intelligenza aveva rimandato come Legato pontificio in Inghilterra. Nell'isola la lotta di religione era ancora incerta. Dopo la morte di Enrico Vili, la corona era passata a suo figlio Edoardo VI, protestante convinto, ma sovrano debole; e dopo di lui era andata a Maria Tudor, la figlia di Caterina d'Aragona che l'aveva educata alla più rigorosa ortodossia cattolica. Pole era diventato il suo uomo di fiducia nell'ope­ ra di restaurazione, quando il Papa lo accusò assurdamente di eresia e gli revocò l'incarico per affidarlo a un monaco rozzo e ignorante. La Regina e il Cardinale morirono lo stesso giorno. E al trono fu innalzata Elisabetta, la figlia di Anna Bolena, per amore della quale Enrico aveva fatto secessione dalla Chiesa e che poi aveva fatto decapitare. Alla morte della madre, Eli­ sabetta era stata dichiarata illegittima, poi perseguitata e in­ fine riabilitata dalla sorellastra Maria, a cui ora succedeva. Non si sapeva bene di che sentimenti fosse, nei confronti della religione: sotto il regno di Edoardo si era dichiarata per i protestanti, sotto Maria aveva praticato da cattolica. Forse era completamente agnostica e seguiva solo la ragion di Stato. Comunque, appena ascesa al trono, si affrettò a comuni­ carlo al Papa, chiedendone il riconoscimento. Era un segno di devozione, che un uomo come Pole avrebbe saputo certa­ mente sfruttare. Paolo invece rispose che, come figlia di An­ na Bolena, cioè di una unione che la Chiesa non aveva mai consacrato, essa era soltanto una bastarda senza nessun di­ ritto alla corona. Il risultato fu che Elisabetta si gettò fra le braccia dei protestanti, i cattolici furono sottoposti a una si­ stematica persecuzione, e la Chiesa perse l'ultima occasione di riconquistare l'Inghilterra. Questo era il Carafa. Fino all'ultimo rimase incrollabile

627 MI 'i ii l*l**T~r —a

nella sua intransigenza castigatrice e persecutoria. Neanche in punto di morte spuntò in lui un barlume di carità. L'ulti­ ma invocazione che rivolse al Signore fu per la propria ani­ ma e per l'Inquisizione, che del resto si somigliavano. CAPITOLO TRENTANOVESIMO

IL CONCILIO

Se cercava una figura che facesse da contrappunto a quella del Carata e promettesse di mitigarne i rigori, il conclave fe­ ce la scelta più indovinata. L'eletto fu Angelo Medici, che però non aveva nessun legame di parentela con la grande famiglia fiorentina. Era anzi un milanese di umili origini, e sia lui che suo fratello Giangiacomo avevano dovuto penare per farsi strada. Giangiacomo prese quella delle armi, e ac­ cantonando gli scrupoli riuscì a diventare generale nell'e­ sercito imperiale e poi anche marchese. Angelo dapprima studiò medicina, poi andò a Roma, si conquistò la simpatia e la fiducia di Paolo III che si tradussero in un galero cardi­ nalizio (forse anche perché suo fratello aveva frattanto spo­ sato una cognata di Piero Farnese, il nipote prediletto del Papa), e si distinse soprattutto negl'incarichi politici. La sua buona stella parve ecclissarsi sotto il pontificato del Carafa, che lo detestava e lo mise in disparte. Ma forse fu proprio a questa ostilità ch'egli dovette la sua elezione. Prese il nome di Pio IV, e come prima cosa provvide a sal­ dare i conti coi Carafa che avevano seguitato a farne di tutt'i colori. Senza tanti complimenti il Cardinale e suo fratello Giovanni furono mandati a morte. Gli altri si salvarono con la fuga, ma dovettero restare in esilio. Dopo aver dato questo esempio sui nipoti altrui, ne chia­ mò uno suo di vent'anni, per nominarlo cardinale e segre­ tario di Stato. Ma, fortunato in tutto, questo Papa lo fu an­ che nei parenti. Quel giovanotto era Carlo Borromeo, un santo, di fronte al quale la Curia non potè che inchinarsi. Forse quello che meno lo apprezzava era proprio Pio, che

629 per la santità non aveva vocazione. Non che fosse un pecca­ tore alla Borgia. Ma amava la vita e sapeva goderne, sia pu­ re con misura. Non era un grand'uomo. Non possedeva la personalità del suo predecessore. Ma aveva quelle qualità medie, che specie per un capo di Stato sono forse più pro­ ducenti di quelle eccelse: l'equilibrio, il buon senso, la co­ scienza dei propri limiti, e una moderata sfiducia negli uo­ mini, a cominciare dai preti. Voleva la pace. Non si stancava di dire ai suoi consiglieri che la Chiesa non era più in condizioni di svolgere una poli­ tica per conto suo, in concorrenza a quella di Re e Impera­ tori. Bisognava, diceva, far di necessità virtù, ridimensio­ nando certe pretese. E fu partendo da questi realistici pre­ supposti che affrontò anche il problema del Concilio, rima­ sto da troppi anni in sospeso. Il Medici capì che bisognava a tutt'i costi concluderlo, e che l'unico modo di farlo senza mettere in pericolo le tradizionali strutture della Chiesa era di contrattarne le deliberazioni non a Trento e fra Vescovi, ma nelle Corti e coi capi del potere temporale, l'imperatore Ferdinando, Filippo II, Caterina de' Medici - reggente di Francia - e i suoi consiglieri. Così il 18 gennaio del 1562 i padri conciliari tornarono a riunirsi nella cattedrale di Trento. C'erano cinque Cardina­ li, tre Patriarchi, undici Arcivescovi, novanta Vescovi, quat­ tro Generali, quattro Abati e una folla di rappresentanti lai­ ci dei vari sovrani temporali. La situazione europea era as­ sai diversa da quella che aveva fatto da sfondo alle prece­ denti sessioni. Non c'era più un Imperatore che potesse tentare di condurre il Concilio a suo piacimento, Ferdinan­ do, a cui il titolo era rimasto, contava molto in Austria, poco in Germania e nulla in Italia. Egli chiese, come al solito, che un invito fosse diramato ai protestanti con relativo salvacon­ dotto. E il Papa ordinò di contentarlo. Ma nello stesso tem­ po si affrettò a dichiarare che quello non era un Concilio nuovo, ma la continuazione di quello precedente, volendo dire di quello che già aveva chiuso le porte a ogni possibilità

630 di riconciliazione con gli eretici. E infatti l'invito cadde nel vuoto: nessuno si presentò. Risolto così il problema più pericoloso, ne restavano tut­ tavia degli altri di organizzazione interna, che potevano pre­ sentare grossi rischi per la Curia. Vi diede la stura il Cardi­ nale di Lorena sollevando la questione dell'investitura dei Vescovi. Secondo lui, essi derivavano il loro potere diretta­ mente da Dio, non dal Papa. Il discorso era obliquo, come sempre lo sono i discorsi degli uomini di Chiesa. E sottin­ tendeva questo: che, se i Vescovi erano investiti da Dio, era­ no pari al Papa, che perciò non poteva pretendere a nessun primato su di essi. Era una delle proposizioni per cui Lute­ ro era stato dichiarato eretico. Su questo punto s'ingaggiò una battaglia che durò dieci mesi. Francesi, tedeschi e spagnoli erano concordi sulla tesi del Lorena. Ma, anche sommati insieme, restavano in mi­ noranza rispetto agl'italiani, risoluti sostenitori del primato del Papa, dal quale strettamente dipendevano. Si arrivò a parole aspre. I francesi dicevano che il Concilio era ispirato da uno Spirito Santo che ogni settimana arrivava da Roma in una borsa. Era vero. La borsa era quella del corriere del Papa che mandava le sue istruzioni in linguaggio cifrato. Non era la prima volta che si ricorreva a questo sistema. A inventarlo era stato un secolo prima Lorenzo il Magnifico che lo prati­ cava coi suoi ambasciatori. Ora col Concilio esso diventava corrente in tutta la diplomazia. Il cardinale Morone, presidente dell'assemblea e uomo di fiducia del Papa, capì che per disincagliarsi da quelle sec­ che, non c'era che un modo: scavalcare i padri conciliari e intendersi direttamente coi «padroni del vapore». Senz'av­ vertirne nessuno, andò a Innsbruck da Ferdinando per chiedergli di richiamare all'ordine i prelati tedeschi. L'ac­ cordo fu raggiunto facilmente sulla base del comune inte­ resse. Sia alla Chiesa che allo Stato infatti conveniva che l'autorità dei Vescovi non venisse troppo esaltata, perché se

631 J„-, «IÉÉÌIIIII'I ' i iMWl li» essi prendevano il sopravvento nei confronti della Chiesa, avrebbero avuto più potere anche nei confronti dello Stato. Meglio quindi valeva che Papa e Imperatore regolassero le questioni fra loro prima di portarle al Concilio. E per met­ tersi al riparo da spiacevoli sorprese, disse Morone, l'unica cosa da fare era che l'iniziativa delle proposte restasse mo­ nopolio dei Legati del Papa che le avrebbe concordate con gli Ambasciatori imperiali. Dopo questo accordo che praticamente toglieva ai padri conciliari ogni autorità, era difficile per Ferdinando insiste­ re sulla pretesa - ch'egli aveva sempre avanzato - di una di­ chiarazione che sancisse la superiorità del Concilio sul Papa. Chiese soltanto una riforma che, lasciando intatta «la testa» della Chiesa (cioè l'onnipotenza del Papa e della Curia ro­ mana: ed era questo l'unico punto che interessava a Moro­ ne), desse nuova struttura alle «membra», cioè una riforma del clero, dei suoi organici, del suo costume eccetera. «Quando a Trento - dice lo stesso Morone - si sentì della buona decisione dell'Imperatore, e ci si avvide del buon ac­ cordo dei suoi Legati con quelli papali, il Concilio cominciò a mutare volto e a farsi reggere con molta maggiore facili­ tà.» L'opposizione infatti aveva perso l'elemento tedesco. E i francesi e gli spagnoli si accorsero subito che la stessa mano­ vra svolta da Morone a Innsbruck, i Nunzi del Papa la sta­ vano compiendo a Madrid e a Parigi. Era chiaro ormai che le decisioni importanti non si prendevano più lì a Trento, e il Cardinale di Guisa giunse addirittura a proporre un in­ contro dei «quattro grandi» - Papa, Imperatore, Re di Fran­ cia e Re di Spagna -, per la sistemazione di tutto: ch'era una specie di benservito al Concilio. A questo restava tuttavia da trovare delle formule di compromesso che salvassero almeno le apparenze di un di­ battito. E sulle questioni di dogma fu facile perché in realtà, una volta caduta ogni speranza di un «dialogo» coi prote­ stanti, nessuno del dogma si era più seriamente preoccupa­ to. Bastarono tre sessioni infatti a liquidare problemi di ca-

632 pitale importanza, su ognuno dei quali si poteva impiantare uno scisma, come l'esistenza del Purgatorio, la validità delle indulgenze e del culto dei Santi, il sacramento del matrimo­ nio, la consacrazione dei sacerdoti. Erano le grandi questio­ ni rimesse in discussione dalla Riforma. E vennero risolte senza serie opposizioni, secondo i criteri della più rigorosa ortodossia. Così il Concilio si trasformò soltanto in una prova di for­ za fra le tendenze centralizzatrici e assolutistiche della Curia romana, e quelle autonomistiche dei vari Episcopati. Que­ sto conflitto dette ancora qualche fiammata. Gli spagnoli per esempio insisterono fino all'ultimo sull'origine divina del potere dei Vescovi che, come ho detto, li avrebbe parifi­ cati al Papa. Ma dovettero rassegnarsi a un decreto che, pur riconoscendo la plausibilità di questa pretesa, la respingeva con una formula di cui il Laynez elogiò calorosamente l'am­ biguità. Un'altra battaglia, ma sempre di retroguardia, ci fu sul cosiddetto «diritto di proposta». Il Concilio si era ribellato al fatto che solo i Legati del Papa potessero proporre proble­ mi e soluzioni. E il Papa riconobbe che gli oppositori aveva­ no ragione, che tutti avevano il diritto di chiedere e di dire. Ma quando qualcuno si provò a valersi di questa autorizza­ zione, gli tapparono la bocca dicendogli che chiedere e dire non significava proporre. Proporre, spettava solo al Papa e ai suoi rappresentanti. La polemica si riaccese sulla questione della pluralità dei benefìci. La cosa riguardava soprattutto i Cardinali, che sui benefìci avevano stabilito una specie di privativa, riparten­ dosi fra loro quelli più redditizi. Tutti sentivano che biso­ gnava eliminare questo scandalo, ma il Papa non poteva af­ fidarne il compito al Concilio, senza rimetterci della sua au­ torità, e anche su questo punto vinse la partita. Il 4 dicembre del '63 i padri conciliari si riunirono per l'ultima volta. Fra di essi non c'era più nessuno di coloro che avevano inaugurato, quasi vent'anni prima, quell'assise.

633 E non potevano dirsi molto soddisfatti del risultato. Voluto da molti, compreso l'imperatore Carlo, per la ricerca di un compromesso coi luterani, il Concilio aveva invece sancito la completa rottura con loro. Invocato da altri per ridurre il potere assoluto del Papa e della Curia romana, si conclude­ va invece col suo rafforzamento. Ma era già un miracolo che fosse arrivato in porto, dopo tutte le tempeste che aveva in­ contrato sulla sua rotta, e che per due volte ne avevano pro­ vocato lo scioglimento. Gli storici di parte cattolica dicono che da Trento uscì una Chiesa nuova e migliore. E in un certo senso hanno ra­ gione. Per combattere la Riforma che poneva la massima cura nella selezione dei suoi «ministri» e «pastori», occorre­ va un clero che potesse reggerne il confronto. E di averlo riconosciuto fu effettivamente il grande merito di Trento. Gli ordini monastici furono riconvertiti al loro primitivo ri­ gore; e il clero secolare fu sottoposto a drastiche purghe che gli restituirono una disciplina e una moralità di cui sembrava perso anche il ricordo. Perfino quello italiano, così intriso di rinascimentale mondanità, fu immerso in un bagno puritano che ne trasformò radicalmente il costume. Questa rigenerazione della coscienza cattolica può senz'al­ tro considerarsi uno dei più brillanti successi della Riforma protestante. Un altro grande risultato positivo del Concilio fu la ri­ nunzia, da parte del Papato, alle sue tentazioni temporali. I Medici, i Farnese, i Carafa non avevano potuto condurre il Concilio a loro piacimento perché facevano una politica di Stato che li esponeva al ricatto del potere laico. Per amplia­ re i possedimenti pontifici e quelli dei loro parenti, per far ridare a uno della loro famiglia il Ducato di Firenze o quel­ lo di Parma e Piacenza, erano costretti a giuocare fra Impe­ ratori e Re, e quindi a subirne l'iniziativa anche a Trento. Pio IV, sebbene intellettualmente molto più modesto dei suoi predecessori, o forse proprio per questo, ebbe il buon senso di fare solo il giuoco della Chiesa rinunziando a quel-

634 lo dello Stato della Chiesa. E fu questo che gli permise di trattare con Ferdinando, Enrico e Filippo senza subirne né la lusinga né la minaccia. Che cosa questi potenti sovrani potevano promettere di dare o minacciare di togliere a lui o a suo nipote Borromeo, che aveva già regalato tutto il suo ai poveri? Con Pio infatti finisce un'epoca. Anche dopo di lui, in­ tendiamoci, vedremo dei Papi intesi a procurare un cappel­ lo cardinalizio a qualche loro parente. Ma di nipoti alla Ce­ sare Borgia o alla Pier Luigi Farnese non ne vedremo più. Con Trento la Chiesa finalmente si libera di questa piaga, fra le più gravi che l'abbiano afflitta. Ma accanto all'attivo, c'è anche il passivo. Il Concilio, lo abbiamo detto, non si era risolto a Trento. Si era risolto a Innsbruck, a Parigi e a Madrid, nelle contrattazioni coi capi di Stato laici. Così si era saldata un'alleanza fra due poteri ugualmente autoritari e ugualmente interessati al soffoca­ mento di ogni libertà individuale. A Trento non si è risolto, si è soltanto negato il problema di coscienza, abolendo la co­ scienza. Solo il prete decide che cosa è il bene e che cosa è il male. Perciò gli si è attribuito diritto di spionaggio e di cen­ sura, gli si è dato facoltà di frugare nell'animo e nel pensie­ ro del fedele e di castigare il delitto di opinione, fra poco lo si armerà dell'Indice. Questo prete-inquisitore sarà moral­ mente migliore del prete-umanista che lo ha preceduto; ma più inflessibile contro ogni anelito di libertà e dignità indivi­ duale e ormai legato a filo doppio col gendarme, specie in Spagna e nei Paesi spagnolizzati come l'Italia. Il potere spirituale, che Trento ha reso più assoluto e au­ toritario di prima, può ora contare sulla spada di un potere temporale non meno di esso interessato al liberticidio. Ci sono tutte le premesse, che verranno puntualmente mantenute, di un conformismo senza scampi, piatto e soffo­ cante, in cui non possono incubare che codardia e ipocrisia. Sotto questo sudario si forma il nuovo italiano. CAPITOLO QUARANTESIMO

LE GUERRE DELLA CONTRORIFORMA

Non c'è dubbio che la Controriforma restituì alla Chiesa un'austerità morale, uno slancio, un mordente, un ardore di crociata, ch'essa aveva perso dai tempi eroici dell'alto Me­ dio Evo, e che le consentirono di riguadagnare molte delle posizioni strappatele dai protestanti. Ma è anche vero che, più che spirituale, la rivincita fu temporale, grazie alla forza che le prestò il suo braccio secolare, cioè Filippo IL Tutto l'ultimo trentennio del secolo è dominato dalla lotta contro gl'infedeli, sia turchi che protestanti. Ma per comprenderne la vicenda, bisogna prima ricostruire il quadro europeo in cui essa si svolge. Al momento di ritirarsi, lo abbiamo già detto, Carlo V aveva diviso l'immenso patrimonio degli Asburgo tra il fi­ glio Filippo e il fratello Ferdinando. A quest'ultimo erano toccate le corone di Austria, Ungheria e Boemia (l'attuale Cecoslovacchia), nonché quel titolo d'Imperatore, che con­ feriva una platonica autorità sugli Stati germanici. A Filippo erano rimaste le corone di Spagna e delle Fiandre, i posse­ dimenti italiani che gli assicuravano il controllo sull'intera Penisola, e quelli sterminati delle due Americhe che Cortéz, Pizarro e altri predoni stavano sbrigativamente conquistan­ do. Questa divisione non aveva affatto indebolito Filippo. Lo aveva al contrario liberato dagl'insolubili problemi della po­ litica tedesca, che avevano assorbito l'energie e stremato le forze di suo padre. Carlo era stato un Re senza fissa dimora, obbligato a spostarsi continuamente da un capo all'altro d'Europa per correr dietro ai suoi eserciti impegnati ora sui

636 Pirenei, ora sul Danubio, ora sul Garigliano, ora contro i francesi, ora contro i turchi, ora contro i protestanti di Ger­ mania. Non si era mai potuto dedicare alla costruzione di uno Stato. E alla fine aveva dovuto rinunziare a questo suo disperato tentativo di tenere uniti sotto il suo scettro dei po­ poli tanto diversi per storia, lingua, tradizione e vocazione. Filippo si trovava in condizioni più favorevoli. Anche dei suoi possedimenti, nonostante la perdita della quota tede­ sca assegnata allo zio, si poteva dire ciò che s'era detto di quelli di suo padre: e cioè ch'erano così vasti, fra Vecchio e Nuovo Mondo, che il sole non vi tramontava mai. Ma il loro baricentro era ben definito: la Spagna. Il resto non erano che colonie, e come tali dimostrò subito di considerarle il nuovo Re, eleggendo a sua capitale Madrid, cioè il centro di quel baricentro, e solo per questo. Madrid infatti non era che un villaggio dimenticato da Dio e dagli uomini, nel cuo­ re della petraia castigliana, la più desolata della Penisola. Fi­ lippo vi si fece costruire una Reggia faraonica, l'Escuriale, solenne e tombale. Le uniche stanze arredate con spartana semplicità furono quelle del suo appartamento, in cui egli visse da monaco, senza allontanarsene quasi mai. La città nacque dopo, come appendice della reggia, e ancor oggi conserva questo suo carattere di capitale astratta, burocrati­ ca e militare. Filippo era anche a vent'anni un uomo solitario e cupo che cercava nel lavoro uno scampo alle proprie mestizie e ossessioni, e per questo Io prolungava fino a quattordici o sedici ore al giorno. Costruì uno Stato che gli somigliava: monolitico, dispotico, diffidente e persecutorio nei confron­ ti dei sudditi, rigidamente gerarcaizzato e accentrato nelle mani del Sovrano, come lo saranno quelli dei vicereami spa­ gnoli in Fiandra e in Italia. Si occupava personalmente di tutto, e non c'era atto amministrativo e giudiziario, anche il più trascurabile, che non recasse la sua firma orgogliosa: Yo, el Rey, io il Re. Anche il tribunale dell'Inquisizione, invece che da Roma, dipendeva da lui. Ed era lo strumento con cui

637 egli controllava, o s'illudeva di controllare, anche le menti e le coscienze dei sudditi. Socialmente, il suo regime restaura­ va il modello medievale e il suo costume. Nobiltà e clero ri­ pagavano i larghi privilegi di cui erano investiti con una de­ dizione assoluta, di tipo feudale, al Sovrano. L'etichetta era rigida, i titoli altisonanti, puntiglioso il senso dell'onore che provocava duelli anche per minuscole questioni di prece­ denza. Le uniche attività pregiate, a parte il sacerdozio, era­ no il servizio di Stato e soprattutto quello delle armi, cioè le attività parassitarie. Il lavoro, sia materiale che intellettuale, era ritenuto squalificante. In breve volger di tempo, esso ri­ mase quasi esclusivo monopolio dei moriscos e dei marrani, cioè degli arabi e degli ebrei convertitisi - più o meno since­ ramente - al cristianesimo. Lo spagnolo vero faceva il prete, o il guerriero, o il funzionario. Quando non gli riusciva, emigrava nelle Americhe, dove c'era spazio per ogni avven­ tura. I ceti medi mercantili e industriali, che già stentavano a formarsi, furono spazzati via. Sotto le classi privilegiate, restava soltanto un contadiname acefalo, che forniva la co­ siddetta «carne da cannone». Le guerre non erano finite con la pace di Cateau-Cam­ brésis del 1559, che aveva consacrato il primato spagnolo in Italia e in Fiandra. Ma esse non avevano più come protago­ nista, cioè come antagonista, i Valois di Francia. Costoro erano troppo impegnati a risolvere i problemi interni, dina­ stici e religiosi. A Enrico II, morto in un incidente di tor­ neo, era succeduto il figlio Francesco II, un minorenne ta­ rato nel fisico e nel morale. Sua madre Caterina - la Medici, nuora di Francesco I - lo aveva sposato alla regina di Sco­ zia, Maria Stuarda, e lo teneva relegato gran parte del tem­ po lassù a Edimburgo: un po' per guadagnarsi la fedeltà di quei sudditi riottosi, un po' perché a Parigi voleva seguitare a governare lei. Il Paese attraversava un momento critico per via della di­ visione sempre più profonda fra cattolici e ugonotti, che si ripercuoteva anche al vertice, cioè fra i più alti esponenti

638 dell'aristocrazia e dello Stato. Per quasi trentanni la Francia doveva restare paralizzata da questa lotta intestina che ne indeboliva la politica estera, o per meglio dire la faceva di­ pendere da quella interna: favorevole a Filippo e alla Chie­ sa quando prevalevano i cattolici, favorevole all'Inghilterra e ai calvinisti fiamminghi in perpetua rivolta contro il giogo spagnolo, quando prevalevano gli ugonotti. Fra le tante stragi, la più grossa e orrenda fu quella rimasta famosa del­ la notte di San Bartolomeo del 1573, con cui i cattolici s'illu­ sero di avere per sempre estirpato il seme dell'eresia. Inve­ ce essa rinacque dalle ceneri e riprese la lotta fino a guada­ gnarsi, sulla fine del secolo, diritto di cittadinanza. Quando si fanno i conti di ciò ch'è costata alla Francia quella lunga guerra civile la statistica allinea queste cifre: ottocentomila morti e centotrentamila case distrutte. A prendere il posto della Francia, come antagonista della Spagna, doveva essere a poco a poco l'Inghilterra. Ma per il momento anche questo Reame, povero di mezzi e di popo­ lazione (non contava che 4 milioni di abitanti) era troppo assorbito dai suoi problemi interni. Morendo, Enrico VIII aveva lasciato il caos, specie in campo religioso. Egli aveva fondato come abbiamo già detto, una chiesa anglicana che non era protestante perché riconosceva tutti i dogmi di quella cattolica, e non era cattolica perché respingeva il pri­ mato del Papa e lo attribuiva al Re. Il figlio Edoardo, che per primo gli successe, era protestante e perseguitò i cattoli­ ci, ma morì presto e senza eredi. La sorellastra Maria, figlia del primo matrimonio di Enrico - quello con Caterina d'A­ ragona - era cattolica e perseguitò i protestanti con tale fe­ rocia da meritarsi il nomignolo di Bloody Mary, Maria la San­ guinaria. Per poter condurre con più vigore la sua crociata, aveva sposato Filippo II: il che rischiava di fare dell'Inghil­ terra una colonia spagnola. Ma il matrimonio rimase sterile, e poco dopo anche Maria morì. La sua sorellastra Elisabetta - figlia di Enrico e di Anna Bolena - era scampata per caso alla sua furia persecutoria.

639 E probabilmente fu proprio Filippo a salvarla, per un com­ plicato calcolo dinastico. Visto che Maria non poteva avere un erede, se anche Elisabetta scompariva, la corona d'In­ ghilterra sarebbe passata agli Stuard di Scozia, ch'erano i parenti più prossimi dei Tudor. Ma gli Stuard, in seguito al matrimonio di Maria con Francesco II, erano completa­ mente sotto l'influenza francese. E Filippo non voleva che questa influenza si affermasse anche a Londra. Ecco perché aveva impedito alla moglie di eliminare Elisabetta. Quando costei salì sul trono, nessuno pensava che ci sa­ rebbe restata fino alla vecchiaia e che il suo sarebbe passato alla Storia come il periodo più aureo dell'Inghilterra. Non aveva che venticinque anni, molti contestavano il suo diritto alla successione considerandola bastarda, e il Paese, dilaniato dal contrasto religioso, sembrava sull'orlo della guerra civile. Non si sapeva di che opinioni essa fosse. La sorellastra l'aveva ritenuta protestante. Ma, come abbiamo già raccontato, al momento di cingere la corona, essa scrisse al Papa - Paolo IV - una lettera devota che sembrava quasi sollecitare il suo consenso. Il Carafa rispose da Carafa, cioè da parroco ottuso, intimandole di rimettere a lui la questione della sua legittimi­ tà. Elisabetta dovette cercarsi un altro protettore, e lo trovò in Filippo II promettendogli di sposarlo. Fu uno dei più lunghi fidanzamenti della Storia, e non arrivò mai a conclusione per­ ché Elisabetta se ne servì solo per guadagnare tempo. In questa vicenda sentimentale c'è tutto il personaggio. Come donna, Elisabetta lo era a mezzo perché una imperfe­ zione fisica o qualche disfunzione ghiandolare - non si è mai saputo con esattezza - le impedirono di esserlo comple­ tamente, e perciò la chiamarono «la Regina vergine». Ma anche come vergine, lo era solo a mezzo perché per tutta la vita non fece che passare da un amante all'altro. Era allergica a ogni soluzione definitiva, e questo fu il segreto del suo successo. Sin da piccola, quando aveva dovuto bar­ camenarsi fra il fratellastro protestante e la sorellastra catto­ lica per sopravvivere, si era abituata a tergiversare. Seguitò

640 a farlo con tutti: con Filippo, coi ministri, coi favoriti, coi sudditi, con Dio, sempre ricorrendo a compromessi. Anche se non ne aveva il sesso, della donna aveva l'intuito, il calco­ lo e l'ambiguità. Nel suo complesso carattere c'era tutto e il contrario di tutto. E ciò fece di questa mezza donna il più completo uomo di Stato del Cinquecento. I due più grossi problemi che dovette affrontare erano l'indipendenza del Paese e la sua pacificazione interna. Il primo si confondeva con quello dei rapporti con la Spagna, la potenza egemone d'Europa, e perciò Elisabetta si era fi­ danzata con Filippo. Non aveva altro modo di sfuggire alla minaccia della Francia che pesava addosso non solo dalla costa dirimpettaia della Manica, ma anche dalla Scozia, che della Francia ormai era una dipendenza grazie al matrimo­ nio di Maria Stuarda con Francesco. Bisognava dunque an­ zitutto liberarsi di questa insidia. La Stuarda era l'antitesi umana di Elisabetta: femmina fino in fondo, appassionata e sempre pronta alle decisioni estreme, anche per semplice capriccio. I suoi rozzi sudditi l'amavano perché era donna, perché era bella e perché la consideravano debole, specie dopo che fu rimasta vedova. Ma, quasi tutti convertiti al calvinismo più intransigente, mal sopportavano il suo cattolicesimo e i suoi gusti e modi francesi. Elisabetta sotto sotto sobillava questa fronda. E Ma­ ria, che in fondo era una scervellata, le fornì i migliori pre­ testi, lasciandosi coinvolgere in clamorosi scandali. Dopo la morte di Francesco si era risposata con un suo cortigiano bello e brutale, Darnley, che la picchiava. Essa si consolò con un segretario italiano, Rizzo, che Darnley le pugnalò sotto gli occhi. Poco dopo Darnley cadde malato, e mentre giace­ va a letto venne fatto saltare in aria da una mina con tutto il suo castello. La voce pubblica accusò del misfatto il conte Bothwell. Ma Maria fermò l'inchiesta giudiziaria contro di lui e Io sposò. Feriti nel loro puritanesimo calvinista, i sud­ diti si sollevarono. E alla Stuarda non restò altro scampo che la fuga oltre il confine con l'Inghilterra.

641 Elisabetta accolse Maria da regina a regina e la ospitò in un castello. Maria la ripagò male, ordendo complotti contro di lei con gli spagnoli e i francesi. L'opinione pubblica, indi­ gnata, non cessava di reclamare il castigo contro la colpevo­ le che non dava segni di resipiscenza. Ma Elisabetta si rifiu­ tò per vent'anni di mandarla al patibolo. Vi si risolse solo nel 1587, quando sul mare comparivano le vele dell'Armada invencible mandata alla conquista dell'Inghilterra da Filippo II, con cui Maria aveva trescato. Questa mitezza non era dovuta a orrore del sangue. Quando era necessario, Elisabetta sapeva far correre anche quello dei suoi amanti. Ma il fatto era che la testa di Maria era reclamata soprattutto dai suoi sudditi calvinisti, di cui la Regina voleva indigare la crescente influenza. Col suo intui­ to di donna, essa avvertiva il pericolo che vi si celava. Tra­ dotto in politica, questo credo che nega il principio stesso di autorità, diventava fatalmente un'istanza democratica e re­ pubblicana, di cui Elisabetta non voleva restare prigioniera. Scettica in materia religiosa e unicamente intesa alla ra­ gion di Stato, essa aveva mirato a raggiungere un compro­ messo fra le tre forze in giuoco - i cattolici, gli anglicani e i calvinisti o «presbiteriani» -, e c'era riuscita dirottando ver­ so l'esterno le tensioni interne che quella divisione compor­ tava. Essa distolse i suoi sudditi dalla guerra di religione tra­ sformandoli in pirati e lanciandoli nella grande avventura della conquista del mare. Questo la metteva fatalmente in contrasto con la Spagna, che del mare aveva bisogno di re­ stare padrona assoluta per garantirsi libertà di comunica­ zione e di scambi coi suoi possedimenti di Fiandra, d'Italia e d'America. Ed era fatale che questo contrasto dovesse pri­ ma o poi sboccare in una guerra. Ma Elisabetta seppe ritar­ darla graduando le iniziative della propria flotta fin quando questa fu in grado di affrontare quella spagnola. Nei primi anni del suo regno si guardò bene dal provocare Filippo, cui anzi per un pezzo seguitò a promettere il matrimonio. Si limitò ad azioni di disturbo sulle sue rotte, facendone poi

642 ricadere la responsabilità sui propri ammiragli e talvolta fin­ gendo di castigarli. Non più minacciata dalla Scozia, ormai sottratta all'influenza di Parigi, né dalla Francia tuttora im­ mersa nella guerra civile, Elisabetta potè dedicarsi esclusi­ vamente alla costruzione dello Stato, e ci riuscì in maniera mirabile. Fu un'esplosione di energie in tutti i campi: artisti­ co, culturale, economico, amministrativo, militare. Ma fu possibile solo grazie alla pace, che Elisabetta seppe assicura­ re al Paese. Essa aiutò sotto banco gl'insorti fiamminghi che obbligavano gli spagnoli a una guerra dissanguatrice di tipo vietnamita, ma si guardò dal lasciarvisi coinvolgere. Per il momento anche l'Inghilterra, come la Francia, non rappre­ sentava una minaccia al primato spagnolo. Il vero pericolo, per Filippo, erano i Turchi. E non per i loro eserciti che, tuttora accampati in Ungheria, inquietava­ no molto di più suo zio Ferdinando; ma per le loro flotte che infestavano il Mediterraneo e che terrorizzavano le co­ ste. I Turchi, gente terragna, non erano mai stati grandi ma­ rinai. Ma potevano contare su 25.000 schiavi cristiani co­ mandati da alcuni rinnegati italiani come Euli Ali e Cighala, che di vele e di voga s'intendevano. Algeri era il loro nido. Di lì partivano per le loro razzìe, e Malta si era salvata dal loro attacco solo grazie all'eroismo di La Valette. Nel '69 Tu­ nisi cadeva nelle loro mani. L'anno dopo fu la volta di Ci­ pro, colonia veneta, dove Marc'Antonio Bragadin e tutti i suoi uomini furono massacrati dopo un'eroica resistenza. Fu nello spirito della Controriforma che finalmente Spa­ gna, Savoia, Genova e Venezia accantonarono i loro dissidi e rivalità per il lancio di una Crociata contro gì'«infedeli». Nel 1571 le loro flotte riunite sotto il comando di Don Gio­ vanni d'Austria, fratellastro di Filippo, affrontarono quella turca nelle acque di Lepanto, colarono a picco cinquanta navi e ne catturarono centodiciassette: una vittoria schiac­ ciante, che avrebbe potuto essere definitiva, se i vincitori l'a­ vessero completata con un'azione di polizia contro i pirati e

643 i loro nidi africani. Invece si divisero, lasciarono ricadere Tunisi, Tripoli, La Goletta in mano dei mussulmani, e il Me­ diterraneo ridiventò più insidioso di prima per le flotte cri­ stiane. La diserzione di Filippo era tuttavia giustificata. Egli do­ veva concentrare le sue forze nelle Fiandre, dove gli spa­ gnoli cadevano come mosche, in quella guerra senza quar­ tiere. Cadevano anche gl'insorti. Ma invece di diminuire, si moltiplicavano. Alla fine Filippo dovette contentarsi delle province meridionali, pressappoco quelle che oggi formano il Belgio, in prevalenza cattoliche. Quelle settentrionali, che corrispondono all'attuale Olanda, in maggioranza calvini­ ste, si sottrassero al suo giogo e diedero avvìo a una straor­ dinaria avventura nazionale. Pressappoco negli stessi anni, Filippo si era annesso an­ che il Portogallo, col suo ricco patrimonio di flotte, di basi navali, di esperienza marinara. E ciò acuì il contrasto con l'Inghilterra che sui mari stava sempre più rafforzando il proprio dominio. Ma una spinta ancora più decisiva al con­ flitto la diede la Chiesa che vedeva in Elisabetta la grande patrona di tutta la resistenza protestante in Europa, la chia­ mava «empia Iezabel» e prometteva il paradiso a chi l'avesse assassinata. E anche questo dimostra quanto la causa della Spagna e quella della Controriforma fossero intimamente legate. Ma l'Inghilterra contro cui ora Filippo si apprestava a rovesciare la sua immensa forza non era più quella, povera e divisa, che Elisabetta aveva ereditato dalla sorellastra. Con la sua accorta politica di pace, la regina vergine aveva rista­ bilito l'ordine, risanato le finanze e trasformato il Paese in un cantiere. La sola avventura in cui si era lasciata invischia­ re era la conquista dell'Irlanda, dove i suoi governatori e generali urtavano contro l'ostinata resistenza della popola­ zione. E questo fece credere a Filippo che il momento fosse maturo per tentare il grande colpo. Nel 1588 prese il via da Lisbona la famosa «invincibile

644 armata»: 130 navi con 30.000 uomini a bordo e 2.400 can­ noni. Gli ammiragli inglesi non ne avevano nemmeno la metà, ma in compenso erano ammiragli veri allenati da de­ cenni alla guerra di corsa, al comando di veri marinai. Gli spagnoli invece, gente di terra, consideravano la flotta solo come un mezzo di trasporto dell'esercito. Le loro navi, stra­ cariche di soldati, erano più grandi ma più lente di quelle nemiche, e la loro tattica consisteva unicamente nell'abbor­ daggio in modo da trasformare la battaglia di mare in una battaglia di terra. Ma gl'inglesi, grazie alla loro maggiore rapidità, non si lasciarono agganciare. Volteggiavano intor­ no all'avversario, tempestandolo coi loro cannoni di più lunga gittata, e dileguavano per ricomparire più in là. Quando giunse in vista delle coste fiamminghe, l'invinci­ bile armata era già decimata e non più in grado di tentare lo sbarco. Per salvare il salvabile, cercò di rientrare alle basi circumnavigando l'Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda. Era un piano pazzesco e si risolse in un disastro. Filippo, che spera­ va di aggiungere l'Inghilterra alla sua vasta collezione di possedimenti e di ricondurla all'obbedienza della Chiesa, non vide tornare che un brandello della sua flotta, e dovette rinunziare per sempre al dominio del mare. Cercò di rifarsi sulla Francia, approfittando della crisi di­ nastica che la travagliava. L'ultimo discendente dei Valois, figlio di Enrico II e di Caterina de' Medici, era morto senza prole e aveva designato al trono Enrico di Navarra, il futu­ ro Enrico IV, campione degli ugonotti. Se costui saliva sul trono, la Francia sfuggiva alla Chiesa e passava in campo protestante. Anche in questa occasione Filippo agì come braccio secolare della Controriforma. Approfittando della divisione che regnava in campo francese, attaccò il vecchio nemico dai Pirenei, dalle Fiandre e dalla Savoia. E per un momento parve che la lunga e paziente opera di unificazio­ ne nazionale compiuta per cinque secoli dai re di Francia andasse in pezzi. Ma Enrico, con un colpo da maestro, abiu­ rò nelle mani dei Vescovi alla sua fede protestante pronun-

645 L'Italia alla pace di Cateau-Cambrésis (1559) dando la famosa frase: «Parigi vale bene una messa», e si appellò al patriottismo dei suoi sudditi. Il Paese ritrovò la propria unità e fornì a quel suo spregiudicato Re un eserci­ to per battere gli spagnoli. Correva il 1595, e Filippo era ancora il sovrano più po­ tente della Terra. Il sole seguitava a non tramontare sul suo Regno che inglobava metà Fiandre, l'Italia, la Spagna, il Portogallo e mezza America. Ma il suo sogno di ricondurre tutto il Vecchio e il Nuovo Mondo sotto la guida temporale sua e quella spirituale del Papa, era fallito. Sia lui che la Chiesa dovevano rassegnarsi a coesistere con le potenze e con le coscienze protestanti. Il nostro Paese non aveva preso quasi nessuna parte a queste vicende. E noi ne abbiamo riassunto - molto somma­ riamente - il filo solo per fornire al lettore qualche punto di riferimento che gli consenta d'inquadrare nel contesto eu­ ropeo gli eventi italiani cui ora conviene tornare. Ma non prima di aver messo a fuoco il vero perché di questo insuc­ cesso. CAPITOLO QUARANTUNESIMO

IL NEMICO INVINCIBILE

Col secolo - quel secolo splendido e tormentato -, anche la vita di Filippo volgeva alla fine. La gotta aveva ridotto il suo corpo a una piaga purulenta e lo stava disfacendo pezzo a pezzo. Da buon spagnolo, egli si preparò alla morte come a una festa lugubre e solenne. Si rinchiuse nella cripta dell'E- scuriale, piazzò il suo letto fra le tombe degli antenati e tra­ scorse gli ultimi mesi a pregare insieme ai monaci che gli ronzavano intorno. Non aveva paura del Gran Mistero per­ ché per lui non lo era. La Grazia non poteva mancargli, vi­ sto che aveva assolto tutti i suoi doveri di Re e di cattolico combattendo gl'infedeli e perseguitando gli eretici. La Sto­ ria non aveva conosciuto un sovrano più sgobbone, bacchet­ tone e inflessibile di lui. Non aveva avuto una vita felice: anche la famiglia gii ave­ va dato poche consolazioni. Il figlio primogenito, Don Car­ los, che avrebbe dovuto succedergli, era gobbo e squilibra­ to, e Filippo aveva dovuto rinchiuderlo in prigione per complotto contro la sicurezza dello Stato. Lì il ragazzo era morto in circostanze non del tutto chiare, e la gente diceva ch'era stato il padre a ucciderlo. Forse non era vero. Ma avrebbe potuto esserlo, e non per questo Filippo si sarebbe sentito meno degno della Grazia. Anzi. Ora la successione toccava al secondogenito, Filippo come lui, ma solo nel no­ me: un giovanotto abulico e svogliato, propenso a evadere tutti i problemi e a lasciarli in appalto agli altri pur di non far fatica. La sola consolazione del moribondo era stata la figlia Isa­ bella, per la quale Filippo aveva sognato il trono d'Inghil-

648 terra, una volta che la sua invincibile armata fosse riuscita a conquistarla. Ma era rimasto un sogno. Per darle comun­ que una corona, Filippo all'ultimo momento l'aveva sposata a un Asburgo del ramo austriaco, l'arciduca Alberto, asse­ gnandole come dote le Fiandre, che così finalmente si libe­ ravano dell'odiato giogo spagnolo. Filippo sperava che ciò bastasse a quietare quel turbolento Paese e che la sua nina potesse regnarvi in pace. La morte non gli diede il tempo di accorgersi che anche questo calcolo era sbagliato. Insomma, nonostante l'impegno che ci aveva profuso, tutta la sua fatica restava incompiuta. Invulnerabile dentro la sua cintura di mari, l'Inghilterra seguitava a lanciare le sue agili flotte all'attacco di quelle spagnole e al saccheggio delle loro basi. Filippo aveva tentato di rivalersene riaccen­ dendo il fuoco della rivolta in Irlanda e sbarcandovi un cor­ po di spedizione. Ma gl'inglesi erano già alla controffensiva e il corpo di spedizione tagliato dalla madrepatria. La Fran­ cia si era stretta intorno a Enrico IV, e Filippo aveva dovuto rassegnarsi a firmare con lui una pace che ribadiva quella di Cateau-Cambrésis, cioè si concludeva con un nulla di fatto. Nonostante i rivoli d'argento che avevano cominciato ad af­ fluire dal Perù, le casse dello Stato erano disperatamente vuote, tanto che nel '96 - ed era già la terza volta che succe­ deva - Filippo aveva dichiarato fallimento come un privato qualsiasi per sottrarsi ai propri creditori. Le guerre lo ave­ vano dissanguato. Era incredibile che un Reame potente come il suo, spal­ leggiato dalla Chiesa e assecondato dagli altri Asburgo d'Au­ stria, Ungheria e Boemia, non fosse riuscito a ristabilire l'u­ nità in Europa, e che un pugno di pezzenti fiamminghi e di marinai inglesi fosse riuscito a tenerlo in scacco. Nella sua politica ci doveva essere qualcosa di sbagliato. Ma cosa? Anche se niente lo prova, è verosimile che Filippo sul let­ to di morte si sia posto questa domanda. Ma è assolutamen­ te inverosimile che vi abbia trovato risposta. Filippo era un uomo dei suoi tempi: i suoi calcoli erano basati unicamente

649 su rapporti di forza materiale. E questi rendevano più che plausibile il suo sogno egemonico. Non si può dire che nel perseguimento dei suoi piani egli avesse commesso più er­ rori dei suoi avversari e rivali. Su costoro aveva anche il van­ taggio di una migliore informazione. Oltre ai rapporti ch'e­ gli esigeva dai suoi ambasciatori e agenti, sul suo tavolo si accatastavano quelli dei gesuiti, che facevano capo a lui e che la sapevano più lunga di tutti. E con la frenesia di lavo­ ro che lo distingueva, quel Re burocrate e scartoffiaio non ne trascurava uno. Era senza dubbio il sovrano più al cor­ rente della situazione mondiale. Nulla gli sfuggiva. Nulla, meno la cosa più importante, anche se più imponderabile: la comparsa sulla scena della Storia di un nuovo protagoni­ sta che si sottraeva a ogni calcolo basato sull'estensione dei possedimenti, sul numero dei sudditi, sul potenziale degli eserciti: la coscienza individuale. A svegliarla, più che Lutero, era stato Calvino. La causa del monaco di Wittenberg si era confusa con quella del na­ zionalismo tedesco e n'era stata condizionata. La sua effi­ cacia infatti non aveva travalicato i confini dei Paesi di lin­ gua e cultura germanica. Ma, oltre che del suo accento teu­ tonico, essa soffriva di un'altra limitazione, grazie ai com­ promessi cui aveva dovuto scendere per vincere la sua bat­ taglia. Erano i Principi che avevano salvato Lutero dalla persecuzione e coi loro eserciti avevano impedito a Carlo V di annientare la Riforma. Lutero se n'era sdebitato aval­ lando la loro autorità e anzi attribuendole carattere sacro. «Non c'è autorità che non provenga da Dio» badava a ripe­ tere (e di questa concezione noi contemporanei abbiamo visto un tardivo ma eloquente frutto nella docilità con cui tanti onesti tedeschi si piegarono davanti a Hitler fino a se­ condarne gli atti più criminali perché anche lui incarnava un'autorità che, come tale, proveniva da Dio). Nel momen­ to insomma in cui liberava la coscienza del fedele dal magi­ stero del sacerdote, Lutero affidava questo magistero al Principe autorizzandolo a farne strumento di governo.

650 Egli non aveva distrutto il principio di autorità. Lo aveva soltanto laicizzato. Calvino non aveva dovuto fare i conti né col nazionali­ smo né coi Principi. Il destino lo aveva condotto in una cit­ tà, Ginevra, che faceva parte di un coacervo di cantoni pluri- razziali e plurilingui, e che già si reggeva su un autogover­ no di semplici cittadini. Egli non era quindi oberato da esi­ genze di tattica e di strategia né costretto a compromessi. La coscienza del fedele era insieme l'unico teatro della sua battaglia e la posta da conquistare. Alla sua scuola nasce infatti un nuovo tipo d'uomo. Un uomo che anzitutto considera l'istruzione un dovere morale perché solo quando avrà imparato a leggere potrà accostar­ si al Libro, cioè alle Sacre Scritture che Calvino gli ha pro­ posto come unica bussola della sua condotta. La salvezza, dice Calvino, è lì, e soltanto lì. Quindi l'analfabeta, che non può decifrare il Libro e attingervi la sua regola, è già desti­ nato alla dannazione. Il pastore, che non è sacerdote, non può nulla per lui. Può dare qualche consiglio o suggerimen­ to. Ma il Libro non ammette interpreti. Ognuno deve cer­ carvi per suo conto la propria guida. E ognuno è diretta­ mente responsabile di fronte a Dio del modo in cui lo farà e vi si atterrà. Non ci sono preghiere né gesti caritatevoli che possano rimediare a eventuali deviazioni. Così, per rintracciare nel Libro il proprio itinerario, vec­ chi e giovani, uomini e donne, si ritrovano la sera nelle loro piccole assemblee o «congregazioni» là dove il culto è libero, e nelle case o nelle cantine di qualche «fratello» là dove il culto è perseguitato, a leggere o a compitare secondo i casi. Non ci sono gerarchie in questo gregge perché lo stesso pa­ store non svolge nessun compito di mediazione ma, caso mai, quello di semplice maestro di scuola; e tanto meno ci sono differenze di classe. Il nobile è solo di fronte a Dio non meno del borghese e del popolano, siede sul loro stesso ban­ co, parla il loro stesso linguaggio, anche perché è soggetto agli stessi pericoli d'inquisizione e di rogo. Qui infatti nasce

651 la democrazia, quella vera, che si basa sul sentimento reli­ gioso dell'uguaglianza e sull'impegno della responsabilità personale. Tutte le altre, che non attingono a questa fonte, sono di similoro e ne hanno la consistenza, come purtroppo si vede nei Paesi in cui il cattolicesimo della Controriforma ha trionfato in assoluto. Non è un credo comodo, quello calvinista. Il grande ri­ formatore non è stato tenero nemmeno coi suoi. Non pro­ mette loro il paradiso. Li consegna senza neanche una pa­ rola di «raccomandazione» a un Giudice di cui egli stesso confessa di non penetrare le ragioni e il codice, e di cui nul­ la vale ad ammorbidire la severità. Il cattolico conosce, o crede di conoscere, la via della salvezza. Se rinnega il mon­ do - questo regno di Satana - per sfuggire alle sue tentazio­ ni, se si assorbe nella preghiera e si abbandona all'estasi mi­ stica, è sicuro di entrare nelle grazie di Dio. Al calvinista questi conforti sono negati. Non ha scappatoie. Nessuno può dargli una mano. E solo. Il Giudice al cospetto del qua­ le si trova giorno e notte, non gli si rivela per nessun segno né di assoluzione né di condanna. Alla salvezza gli offre una strada sola, che non è la contemplazione e la fuga dal mon­ do, ma il Dovere di fronte al mondo. Il calvinista (o «puritano», come lo chiamano in Inghil­ terra) è l'uomo del dovere, cioè del sacrificio: in famiglia, nel lavoro, nella società. Invece di andare a pregare in con­ vento come faceva il suo antenato medievale, perché nella sua morale ciò equivarrebbe a diserzione e la preghiera non serve a nulla, trasforma in convento la sua casa, la sua botte­ ga, la sua corporazione. Ogni sera ha il suo bravo conto da rendere al terribile Dio che lo sorveglia. Deve dimostrargli coi fatti che ha prodotto più di quanto ha consumato, che ha risparmiato più di quanto ha speso, che ha penato più di quanto ha goduto. E questa religione del lavoro e del risparmio che dà av­ vio, fornendogli un fondamento morale, al capitalismo nel senso moderno della parola. Il borghese fiorentino del Tre

652 e del Quattrocento accumulava danaro per acquistare ran­ go sociale e potere politico, con ciò accettando implicita­ mente le strutture della società aristocratica in cui viveva e solo badando a inserirvisi meglio che poteva col titolo nobi­ liare comprato dal Papa o dall'Imperatore, col palazzo, col mecenatismo. Il calvinista, cresciuto nell'atmosfera demo­ cratica della «congregazione» e sotto il segno di un Dio ega­ litarie, rifiuta le gerarchie della società rinascimentale, non cerca di guadagnarvi un posto, e vede nel danaro non uno strumento di potenza politica o di «promozione» sociale, ma un segno della Grazia. Il ricco, nel credo calvinista, è «l'eletto». Votato alla solitudine dalla sua stessa concezione religio­ sa, represso per tutte le rinunzie che s'impone a cominciare da quelle dei sensi, sparagnino fino all'avarizia, intransigen­ te con gli altri come lo è con se stesso, nemico di ogni sfarzo e ostentazione, sempre pronto a infiorare il suo discorso di citazioni bibliche e a giudicare tutto e tutti dall'alto della sua orgogliosa certezza di appartenere agli «unti del Signore», il calvinista è un personaggio di difficile commercio, talvolta francamente sgradevole. Ma rappresenta l'elemento pro­ pulsore del mondo moderno. E lui che istaura la civiltà del lavoro e dell'efficienza, di cui noi stessi siamo i figli. È lui nella sua qualità d'imprenditore e di capitano d'industria che sta per strappare il ruolo di protagonista al militare e al prelato sovvertendo le strutture della società tradizionale. E lui soprattutto che oppone un ostacolo insormontabile a ogni tentativo di restaurazione autoritaria. Non ha nulla dalla sua. Religione di ceti medi urbani, da Ginevra il calvi­ nismo si è diffuso nei centri mercantili e industriali d'Euro­ pa, da Lione ad Anversa. Ma, a differenza del luteranismo, non ha né uno Stato né un esercito. Ha solo un rifugio, ma inespugnabile: la coscienza, che Calvino ha finalmente libe­ rato da ogni costrizione esteriore e restituito alla piena e as­ soluta responsabilità. Filippo s'era trovato di fronte questo nemico soprattutto

653 in Fiandra. E probabilmente sul letto di morte si domanda­ va cosa aveva dato a quel pugno di pezzenti olandesi sen­ z'armi né danaro la forza di resistere alla sua flotta, al suo esercito, alla sua diplomazia. Il Re della Controriforma non capiva, non poteva capire che la sua lotta contro l'eresia era stata la lotta contro il mondo moderno, che proprio da quel­ l'eresia prendeva l'avvio. Tutti i suoi sforzi e quelli della Chiesa erano riusciti soltanto a sottrarre a questa rivoluzio­ ne il loro feudo: la Spagna, l'Italia e il continente latino­ americano. Con quali conseguenze per questi Paesi lo ve­ diamo ancor oggi. PARTE QUINTA

IL CREPUSCOLO DEL RINASCIMENTO CAPITOLO QUARANTADUES1MO

L'ITALIA SI SPEGNE

L'egemonia spagnola sull'Italia, diventata definitiva con la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, aveva significato la fi­ ne delle lotte fratricide fra Stato e Stato, fra città e città, che per secoli avevano insieme assorbito ed esaltato le energie del nostro Paese. Viceré e gendarmi di Madrid garantivano l'assetto dato alla Penisola, che infatti rimase pressappoco inalterato fino ai primi del Settecento. Essi governavano direttamente il Milanese, le due Sicilie, la Sardegna e i Pre­ sidi di Maremma. Ma su tutto il resto esercitavano una su­ pervisione che lasciava poco spazio alle iniziative locali. Il Piemonte dei Savoia, la Repubblica di Venezia, il Grandu­ cato di Toscana, gli Stati Pontifici e i piccoli Principati lom­ bardo-emiliani che si dividevano il resto dello stivale non erano autonomi che sulla carta. In realtà dovevano unifor­ marsi alle direttive della Spagna sia in politica estera che in quella interna. Non si possono sottovalutare i benefici che ne derivaro­ no. Per la prima volta, dopo tanti secoli, l'Italia conosceva finalmente un po' di pace. Il Paese era stremato, devastato dalle invasioni, demograficamente impoverito dalle pesti­ lenze e carestie, e geograficamente declassato dalla scoperta del Nuovo Mondo che favoriva le nazioni atlantiche. Ma il dominio spagnolo, fedele alleato della Chiesa, lo metteva al riparo dalle furiose lotte di religione e di supremazia marit­ tima che invece divampavano nel resto d'Europa; e forse molti italiani ne avevano salutato l'avvento con un respiro di sollievo. A valutare il prezzo di questa pace, a sentire qua­ le immiserimento non soltanto politico ed economico, ma

657 anche spirituale, essa comportava, furono in pochi. Lo di­ mostra la docilità con cui il Paese, nel suo insieme, accettò la nuova situazione. Il gendarme spagnolo e il tribunale del­ l'Inquisizione non trovavano in Italia l'ostacolo che avevano incontrato in Olanda: una coscienza individuale resa consa­ pevole dalla Riforma dei propri diritti e doveri e quindi de­ cisa a tutto pur di salvare la sua autonomia dal sopruso au­ toritario. La trionfante Controriforma aveva tolto agli italia­ ni questa difesa, e li rendeva disponibili a tutto. E da questo momento infatti che si sviluppa nel nostro popolo la pro­ pensione ai mestieri «servili», in cui tuttora gl'italiani eccel­ ! lono. Essi sono i migliori camerieri del mondo, i migliori §1 maggiordomi, i migliori portieri d'albergo, i migliori lustra­ scarpe, perché cominciarono a esserlo fin d'allora, quattro secoli fa. E fin d'allora, quando rinunziarono a quell'esame di coscienza che le Chiese riformate pongono a supremo re­ golo dell'umana condotta, s'abituarono a misurare le pro­ prie azioni, sia nel campo privato che in quello pubblico, se­ condo un metro puramente utilitario, svincolato da qualsia­ si impegno morale. L'italiano non bada più che al «suo par­ ticulare», già invocato dal Guicciardini, in netta antitesi col civismo e la socialità, che il calvinismo invece sviluppa ed esalta nei popoli anglosassoni. Questo spiega l'acquiescenza italiana - destinata a durare tre secoli - alla situazione di Paese diviso e aggiogato al carro straniero. Dopo la pace di Cateau-Cambrésis la Penisola non ha più neanche una Sto­ I ria, che non sia il riflesso di quella del padrone di turno. Questo padrone per ora è la Spagna. Vediamo rapida­ mente come si svolge, sotto la sua regia, la vicenda dei vari Stati italiani nell'ultimo quarantennio del secolo. E una vi­ cenda povera d'eventi, e anche di protagonisti, ridotti come sono a una condizione di vassalli.

A Napoli, la politica del viceré Don Pedro di Toledo venne continuata dai successori. Quello che per energia più gli so­ migliò fu il duca d'Alcalà, giunto a Napoli dalla Catalogna

658 nel 1559. Era il vero tipo dell'hidalgo, altero, sprezzante, ma­ niaco del protocollo e dell'etichetta. La sua prima preoccu­ pazione fu di estirpare gli eretici di Calabria, poche migliaia di poveri contadini, discendenti da un pugno di valdesi, che sulla fine del XIII secolo avevano cercato rifugio nei paesini di San Sisto e La Guardia. I signorotti del luogo li avevano sempre perseguitati, ma non erano mai riusciti a disperder­ li. Il Viceré ordinò una caccia all'uomo senza precedenti, che portò letteralmente allo sterminio di quegli innocenti. In undici giorni ne vennero massacrati duemila e altrettan­ ti furono imprigionati in attesa di fare la stessa fine. Un con­ temporaneo così descrisse quel «sacro macello»: «Oggi a buon'ora si è ricominciato a far l'orrenda iustitia di questi Luterani, che solo in pensarvi è spaventevole: e così sono questi tali come una morte di castrati; li quali erano tutti serrati in una casa, e veniva il boia e li pigliava a uno a uno, e gli legava una benda davanti agli occhi, e poi lo menava in un luogo spazioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare, e con un coltello gli tagliava la gola, e lo la­ sciava così; di poi pigliava quella benda così insanguinata, e col coltello sanguinato ritornava a pigliar l'altro, e faceva il simile». Non contento di tanta carneficina, l'Alcalà chiese a Filip­ po II d'introdurre a Napoli l'Inquisizione spagnola. Ma il sovrano, memore dell'insurrezione che un analogo tentati­ vo aveva scatenato nel 1547, rifiutò. Meno fortunato fu il Viceré nella lotta contro i briganti, che costituivano veri e propri eserciti armati. Quello del bandito Marco Berardi, soprannominato Re Marcone, con­ tava 1500 uomini, di cui seicento cavalieri. Infestavano le contrade, assalivano le diligenze, derubavano i viandanti, violentavano le donne. Qualche volta s'ergevano a paladini delle popolazioni contro i soprusi del Viceré e dei suoi in­ tendenti, ricevendone in cambio asilo e garantendosene l'o­ mertà. Anche i pirati turchi che imperversavano lungo le coste

659 diedero all'Alcalà molto filo da torcere. Ma neppure di co­ storo egli venne a capo. Deluso, malato e odiato, chiese di tornarsene in Spagna, ma alla vigilia della partenza fu stroncato da un attacco di bronco-polmonite. I successori mirarono a spremere le popolazioni e a por­ tar oro alle casse dell'Escuriale. Fecero poco e male; e il Mezzogiorno diventò vieppiù un'area depressa, con le con­ seguenze facilmente immaginabili: il commercio si rarefece, l'agricoltura, abbandonata a se stessa e ai grandi latifondisti, decadde in modo irreparabile. Anche la società e il costume ne risentirono. I napoletani cominciarono a vivere di ripor­ to, scimmiottando in tutto e per tutto lo stile, i gusti e le fog­ ge dei padroni. I signori presero a indossare tuniche corte, scarpe con fibbie d'oro, tempestate di diamanti; le dame a portare abiti sgargianti e svolazzanti di pizzi, trine e merlet­ ti; gli avvocati a ostentare quei piccoli copricapi di paglia fo­ derati di taffetà nera, ancor oggi in voga, che gli valsero il nomignolo di «pagliette». Entrò nell'uso il don davanti ai no­ mi propri. Si diffusero gli ampollosi titoli di «eccellenza», «magnificenza», «reverendo» e l'espressione «bacio le ma­ ni», accompagnati da grandi scappellate e profondi inchini. Delle nuove mode quella che più fece furore fu il duello, forse perché forniva uno sfogo alla cavillosa litigiosità parte­ nopea. Si incrociavano le armi per le più futili questioni d'e­ tichetta e di precedenza. Sebbene le leggi punissero severa­ mente chi si faceva giustizia da sé, le «singoiar tenzoni» era­ no all'ordine del giorno, degeneravano spesso in zuffe col­ lettive e regolarmente ci scappava il morto. Sullo scorcio del secolo la capitale del Vicereame sfiorava il mezzo milione d'anime. La plebe seguitava a vivere, anzi a morire, d'elemosine nei luridi «bassi». Laristocrazia aveva perduto la ricchezza e molti degli antichi privilegi, ma non il sussiego e la spocchia, e una nuova nobiltà, quella di toga, ne aveva preso il posto. Giocando e aizzando una classe con­ tro l'altra, i Viceré riuscivano però facilmente a tenere in pugno il paese.

660 L'altro caposaldo iberico in Italia era Milano. Ridimen­ sionato nei suoi possedimenti, il vecchio Ducato dei Viscon­ ti e degli Sforza aveva perduto con l'indipendenza molto del suo antico splendore, sebbene la Capitale fosse ancora una città ricca e culturalmente viva. Ma gli agenti del fisco spagnolo e i tribunali dell'Inquisizione la stavano finanzia­ riamente e moralmente drenando. Nel 1565 i suoi abitanti esultarono alla notizia dell'arrivo del nuovo arcivescovo, Carlo Borromeo. Il papa Pio IV, suo zio, l'aveva designato a quell'alto incarico cinque anni pri­ ma, quando Carlo ne aveva solo ventidue. Ma per un lustro aveva voluto tenerselo con sé a Roma come segretario di Stato, un posto di solito riservato a uomini più maturi. Pio vi aveva collocato Carlo non solo perché si trattava del nipo­ te, ma anche perché questo nipote metteva gl'interessi della Chiesa al di sopra persino di quelli propri. Era un giovane d'ingegno straordinariamente precoce, di vaste letture, di costumi illibati, sensibile, volitivo, eloquente, non bello ma pieno di fascino, che incarnava la Controriforma in tutto il suo rigore. Debuttò rinunziando a tutte le proprie rendite per costruire nuove chiese e ospedali. Il gesto piacque ai mi­ lanesi ma dispiacque all'alto clero che a simili esempi non aveva nessuna voglia di ispirarsi. Anche l'opera di moraliz­ zazione degli ordini religiosi procurò all'Arcivescovo molti nemici, specialmente fra gli Umiliati, tali ormai solo di no­ me. Il 26 ottobre 1569 un prete, assoldato da costoro, sparò un'archibugiata contro il presule che stava recitando il rosa­ rio nella sua cappella privata. L'attentatore mancò il bersa­ glio e riuscì a fuggire. Acciuffato pochi mesi dopo, finì sul patibolo assieme ai mandanti. Nemmeno per la Spagna il Borromeo fu un interlocuto­ re comodo. Era un irriducibile assertore della supremazia del potere spirituale su quello temporale, e finché fu a capo della diocesi milanese, cioè sino alla morte, avvenuta nel no­ vembre 1584, non riconobbe, almeno in teoria, altra autori­ tà al di sopra della propria, riuscendo persino a impedire

661 che l'Inquisizione spagnola venisse introdotta nella sua cit­ tà. Forse per questo fu tanto amato dai milanesi, che ne fe­ cero con Ambrogio il loro grande Santo. Sebbene indiretto, il dominio iberico si faceva sentire an­ che a Genova. La città manteneva però una certa autono­ mia, grazie ai servigi che Andrea Doria aveva reso alla Spa­ gna. Questa aveva strettamente legato a sé la classe dirigen­ te che dominava la Repubblica, e che era a sua volta domi­ nata dalle grandi dinastie dei Doria, dei Grimaldi, degli Spi­ nola, da cui dipendeva anche la strapotente Banca di San Giorgio. La migliore cliente della Banca era la corona di Spagna, dissanguata dalle guerre europee e sempre a corto di quattrini. In cambio dei suoi prestiti, Madrid concedeva ai mercanti genovesi speciali privilegi. I prodotti della Re­ pubblica affluivano a Milano, Cadice, Lisbona, Barcellona, nei Paesi Bassi, nelle colonie americane, dovunque svento­ lasse la bandiera del Re cattolico. La Spagna doveva importare tutto, compresi i tecnici e la manodopera specializzata, priva com'era d'industrie e con un'agricoltura in perpetua crisi per l'incessante esodo dei contadini, serbatoio e nerbo degli eserciti imperiali. Nell'orbita spagnola ruotava anche il Piemonte. Il duca Emanuele Filiberto, che a San Quintino, alla testa dell'eser­ cito spagnolo, aveva battuto quello francese, ne era diventa­ to l'incontrastato padrone. Fin'allora la sua capitale era sta­ ta Chambéry perché i suoi possedimenti erano più di là del­ le Alpi, in territorio francese, che di qua, in territorio italia­ no. Emanuele Filiberto la trasferì a Torino, spostando il campo della sua azione politica dalla Savoia al Piemonte. Anzi, a una parte del Piemonte, perché il resto apparteneva ai marchesati di Saluzzo e del Monferrato. Si procurò anche uno sbocco al mare annettendosi la Contea di Tenda, che gli dava accesso a Nizza, e comprando dai genovesi il porto di Oneglia. Era un uomo chiuso, taciturno, enigmatico. Aveva un de­ bole per le donne, era di gusti semplici, odiava il lusso e

662 ogni forma d'ostentazione al punto da vietare ai sudditi l'u­ so di abiti troppo sfarzosi. Era un cattolico fervente, arginò con un editto il moto calvinista dilagante nelle valli piemon­ tesi, dichiarò guerra agli eretici e ne spedì molti sul rogo. Nel giugno 1561, per intercessione della moglie Margheri­ ta, concesse però libertà di culto ai valdesi. Avvolse il Pie­ monte in un sudario d'austerità, ma ne fece uno degli Stati italiani più ordinati, efficienti e prosperi. Il figlio Carlo Emanuele I lo prese in consegna nel 1580 e lo tenne fino alla morte, avvenuta cinquant'anni dopo. Continuò la politica del padre con una spregiudicatezza che Emanuele Filiberto avrebbe forse disapprovato, ma che s'in­ tonava al suo carattere energico, autoritario e alla sua sconfi­ nata ambizione. Non tutte le imprese in cui si cacciò gli riu­ scirono. Fra quelle fortunate, la più fortunata fu l'annessio­ ne del marchesato di Saluzzo. Lo strappò alla Francia, pro­ fittando delle guerre di religione che la dilaniavano. Quan­ do la Francia fu in grado di riprenderselo, egli propose di barattarlo con le terre fra Lione e Ginevra che facevano par­ te del suo patrimonio di famiglia. Queste valevano molto di più di Saluzzo, ma avevano il torto di essere al di là delle Al­ pi. Anche per Carlo Emanuele I il destino del suo Stato e della sua dinastia si giocava ormai solo al di qua. Un altro alleato su cui Madrid poteva, ma fino a un certo punto, contare era il Duca di Toscana. Da buon «padre del­ la Patria», infatti, Cosimo aveva cercato di mantenere il suo Stato al di fuori delle beghe franco-spagnole, badando solo ad amministrarlo bene e a renderlo prospero. Fra il novem­ bre e il dicembre 1562 il Duca era stato colpito da una serie di lutti familiari. In poche settimane la perniciosa gli aveva ucciso due figli e la moglie Eleonora, che adorava. Ne era stato talmente sconvolto che nel marzo 1564 affi­ dò lo Stato al figlio Francesco e si ritirò a vita privata. Non rinunziò però né alla supervisione degli affari politici, né al titolo di Duca che, nell'agosto 1569, il Papa trasformò in quello di Granduca. Libero dagli impegni ufficiali di Stato,

663 si risposò con la fatua e procace Cammilla Martelli, dalla quale fu sottoposto a tali maratone erotiche che, già soffe­ rente di gotta, s'ammalò anche di cuore. Cammilla comin­ ciò allora a tradirlo spudoratamente e a maltrattarlo in tutti i modi, rifiutandosi persino d'imboccarlo e fingendo, la not­ te, di non udirne i lamenti. Solo la morte, nell'aprile 1574, lo liberò da quell'impossibile compagna. Il successore Francesco non aveva la stoffa del padre. Più che la politica lo interessavano le storte e gli alambicchi. Aveva infatti Vhobby della chimica e della meccanica e si van­ tava d'essere un esperto di balistica e pirotecnica. Cosimo gli aveva dato per moglie Giovanna d'Austria. Francesco non la digerì mai e alla sua morte impalmò l'amante Bianca Cappello, alla quale fu fedelissimo, come lo fu alla Spagna, di cui fece il puntello del suo Stato. Il fratello Ferdinando I che gli successe nel 1587 continuò la politica interna del pa­ dre, ma in quella estera riuscì a sottrarsi all'influenza di Ma­ drid per porsi sotto quella di Parigi. Ma ormai Firenze non era più la Mecca intellettuale, po­ litica ed economica d'un tempo. Era ancora una città colta, raffinata, elegante ma non aveva più un signore come Lo­ renzo, né artisti come Brunelleschi, Donatello, Michelan­ gelo. Le grandi industrie della lana e della seta erano in crisi, le banche s'erano impoverite, il capitalismo da mer­ cantile era diventato agrario. Concentrandosi sulla terra, tagliato fuori dal grande gioco finanziario europeo, aveva perduto molto del suo peso economico e tutto il suo peso politico. A Sud e a Est del Granducato si stendeva lo Stato pontifi­ cio. La Controriforma l'aveva trasformato in una cupa e im­ mensa sacrestia. Il potere dei Papi s'era fatto più che mai as­ soluto anche per l'appoggio incondizionato del cattolicissi­ mo Filippo II, che aveva consentito ai Pontefici non solo d'allargare i loro domini, che ora inglobavano, da Ferrara a Terracina, il Lazio, l'Umbria, le Marche, la Romagna e una buona fetta dell'Emilia, compresa Bologna, ma anche di ri-

664 durre all'obbedienza le piccole e riottose signorie che vi s'e­ rano istallate. Nel 1566 salì sul Soglio, col nome di Pio V, Michele Ghi- slieri. Pochi come lui avevano le carte in regola per occupa­ re quel posto. Aveva militato nell'ordine domenicano e s'era segnalato come inquisitore, mandando sul rogo tutti gli ere­ tici che gli erano capitati a tiro. Da Papa seguitò a dare la caccia ai nemiei del cattolicesimo e a portar fascine agli au­ todafé. Scomunicò Elisabetta d'Inghilterra e incitò i suoi sudditi cattolici alla ribellione, incoraggiò le persecuzioni degli ugonotti in Francia e applaudì la repressione del duca d'Alba nei Paesi Bassi. Adottò la maniera forte anche all'in­ terno della Chiesa e della stessa Curia. Revocò i benefici ai vescovi che non risiedevano nelle loro diocesi, abolì favoriti­ smi, privilegi, sinecure, licenziò i parassiti e i bighelloni che affollavano la Curia romana. Visse e morì da asceta, mace­ rato dai digiuni e dalle penitenze, senza provare rimorsi e senza suscitare rimpianti. Gregorio XIII non ebbe la tempra del predecessore, ma ne condivise lo zelo ortodosso, celebrando con un Te Deum di ringraziamento il massacro di San Bartolomeo. Più che delle anime ebbe cura delle finanze pontificie, che cercò di rinsanguare confiscando terre ai nobili. Costoro reagirono scatenandogli una guerriglia senza quartiere. Per farla ces­ sare, il Papa dovette revocare gli espropri. Gregorio calò nella tomba dopo tredici anni di regno, la­ sciando in eredità ai posteri un nuovo calendario, che da lui prese appunto il nome di gregoriano. Fin'allora s'era segui­ to quello di Giulio Cesare che aveva diviso i quadrienni in tre anni di 365 giorni e uno di 366: il che, per quei tempi, rappresentava un miracolo di precisione. Ma gli astronomi e i matematici del Cinquecento avevano appurato che, se­ condo quel calcolo, ogni quattrocento anni il cosiddetto an­ no «tropico», cioè l'anno naturale, anticipava di tre giorni l'anno giuliano: per cui, per esempio, nel Cinquecento l'e­ quinozio di primavera veniva a cadere in realtà ITI marzo,

665 mentre il calendario lo fissava al 21. Gregorio, per rimette­ re ordine in quella dissestata contabilità, ordinò nel 1582 che undici giorni fossero saltati in ottobre - dal 4 al 15 - e che d'allora in poi gli anni centenari, cioè di chiusura di un secolo, non fossero più bisestili, come fìn'allora erano stati considerati, ma ordinari, meno quelli la cui somma delle prime due cifre fosse divisibile per quattro (ad esempio il 1700). Successivi studi stabilirono che nemmeno questo computo era assolutamente esatto poiché esso conduce a un ritardo di 61 diecimilionesimi di giorno ogni cento anni. Ma lo scarto è tale che solo fra quattromila anni occorrerà sop­ primere un altro bisestile per riportare il conto in parità. La riforma gregoriana incontrò vivaci resistenze. Molti erano convinti che il Papa avesse voluto «rubare undici gior­ ni alla povera gente», e specialmente i Paesi protestanti l'o­ steggiarono a lungo. Ma, alla fine, anche questi dovettero arrendersi e accettare il nuovo metro di misura. I Paesi gre­ co-ortodossi invece rimasero ostinatamente fedeli al calen­ dario giuliano nonostante la sua riconosciuta imprecisione, solo perché a riformarlo era stato il capo dell'odiata Chiesa cattolica. A Gregorio successe Felice Peretti col nome di Sisto V. Sanguigno, violento e autoritario, diede filo da torcere a tutti. Ai briganti che infestavano l'agro romano; ai nobili, che non volevano licenziare i loro bravacci; agli omosessua­ li, agli adulteri, alle baldracche, agli eretici. Mai, come sotto questo Pontefice, arsero tanti roghi e furono innalzate tante forche. Sisto rafforzò lo Stato della Chiesa sradicando la ma­ lavita, riconducendo all'obbedienza le fazioni romane e ri­ stabilendo la disciplina del clero. Abbellì l'Urbe, costruì nuove chiese e palazzi, allargò le strade, stasò le fogne, ma tassò e tartassò il popolo, che il giorno della sua morte tentò d'abbatterne la statua in Campidoglio. I soli che ai suoi fu­ nerali piansero furono i parenti, ai quali Sisto aveva distri­ buito a piene mani prebende, favori e benefici. Grazie a questo Papa tornò in auge il nepotismo, che la Controrifor-

666 ma sembrava aver per sempre estirpato. Poiché esso non as­ sunse le forme macroscopiche e sfacciate del Rinascimento, fu battezzato piccolo-nepotismo, ma non per questo fu meno nefasto e corrotto. Col piccolo-nepotismo i familiari del Papa non diventano più principi o duchi. S'accontentano di posti di sottogoverno e di lucrosi intrallazzi, che ottengono grazie alla istituzionalizzazione della nuova carica di cardinale-nipo­ te, cioè del nipote favorito del Papa, fatto cardinale appunto per sfamare il parentado. La piaga dei piccolo-nepotìsmo in­ fetterà la Chiesa fino all'800 e ne farà lo Stato più dissoluto e peggio governato della Penisola. Quanto agli altri Stati italiani, Madrid gli aveva lasciato un sembiante d'indipendenza, ma solo un sembiante, per­ ché in qualunque momento era in grado di ridurli all'ordi­ ne. L'unico che avesse conservato le sue istituzioni e potesse fare una sua politica era Venezia, rimasta padrona del Ve­ neto, di una fetta di Lombardia, di gran parte dell'Istria e della Dalmazia, e di alcune isole dell'Egeo. La Serenissima doveva questa sua situazione di privilegio un po' alla sua na­ tura di città anfibia, difficilmente espugnabile da terra, un po' all'intelligenza dei suoi uomini di Stato, abilissimi nel barcamenarsi fra gli Asburgo d'Austria e quelli di Spagna. Ci riuscirono sempre giocando sulla flotta, necessaria ad en­ trambi per la lotta contro i turchi. Anche nei confronti della Chiesa, Venezia seppe mantenersi indipendente. Dopo il Concilio di Trento fu l'unico Stato italiano veramente libero e tollerante in fatto di religione. Quanto ai principati italiani minori, essi erano tuttora in mano alle vecchie dinastie rinascimentali. Al loro Ducato di Mantova i Gonzaga avevano aggiunto quello del Monferra­ to, che fra non molto i Savoia gli toglieranno. I Farnese era­ no rimasti signori di Parma grazie ad Alessandro, che era stato assieme a Emanuele Filiberto uno dei grandi condot­ tieri dell'esercito spagnolo. Gli Este mantenevano il domi­ nio su Ferrara, Reggio e Modena. Ma, avendo sempre par­ teggiato per la Francia, ora che questa era stata estromessa

667 dalla Penisola, erano rimasti senza protettore. Alla fine del secolo, quando la dinastia entrò in crisi per mancanza di successori diretti, papa Clemente Vili ne approfittò per in­ globare Ferrara negli Stati pontifici, col tacito consenso del­ la Spagna. Gli Este del ramo cadetto dovettero contentarsi di Reggio e Modena. Pochi decenni erano bastati a trasformare l'Italia dei se­ coli d'oro fremente d'energie competitive, campionario di personalità d'eccezione che le avevano assicurato il primato in tutti i campi, in uno squallido cimitero. Ma gl'italiani non se n'erano nemmeno accorti. Il dramma di questa improv­ visa, irreparabile decadenza trovò un'eco solo nella turbata coscienza di alcuni uomini, sopravvissuti scampoli della grande generazione rinascimentale, che lo rifletterono nella loro opera e nella loro vita. A illuminare il tramonto di un'ultima luce sono un ge­ nio, un pazzo e un martire. CAPITOLO QUARANTATREESIMO

MICHELANGELO

Michelangelo Buonarroti era nato il 6 marzo 1475 a Capre­ se, una cittadina a pochi chilometri da Firenze, dove il pa­ dre Ludovico faceva il podestà. Il Vasari, nelle sue celebri Vite, racconta che la nascita dell'artista coincise con un pro­ digioso evento astrale, la congiunzione di Mercurio e Vene­ re con Giove, che qualificava il pargolo a un grande destino. Come tutte le profezie a posteriori, anche questa si rivelò esatta. I Buonarroti, sebbene appartenessero alla borghesia, di­ cevano di discendere dalla marchesa di Canossa. Non sap­ piamo quanto questa pretesa fosse fondata, ma sappiamo che per tutta la vita Michelangelo non si stancò di sbandie­ rarla, spendendo un sacco di soldi in ricerche e perizie aral­ diche che la confermassero. Nell'autunno dello stesso 1475, alla scadenza del mandato, Ludovico con la moglie e i figli tornò a Firenze, e a sei anni il piccolo Michelangelo fu man­ dato a scuola. Fu un cattivo allievo. Imparò a leggere e a scrivere con difficoltà e non riuscì a familiarizzarsi col greco e il latino. Aveva invece una straordinaria inclinazione al di­ segno, con gran disperazione di Ludovico, il quale voleva che il figlio facesse l'avvocato o si dedicasse alla politica. Ma Michelangelo era un ragazzo ostinato, che venne a capo an­ che delle resistenze paterne. A tredici anni entrò come apprendista nella bottega di Domenico Ghirlandaio, uno dei pittori più in voga del tem­ po. Molti artisti avevano studiato sotto la guida di questo maestro, che li arruolava non tanto per istruirli, quanto per fare fronte col loro aiuto alle commissioni di cui era obera-

669 to. Più che allievi insomma, erano dei «negri» che prestava­ no la loro opera in cambio di vitto, alloggio e uno stipendio di pochi soldi. Il Vasari riferisce che Domenico s'impegnò a versare al piccolo Buonarroti sei fiorini il primo anno, otto il secondo e dieci il terzo. Quando la bottega chiudeva e i compagni andavano nel­ le osterie e nei bordelli a far ribotta, Michelangelo, armato di carta e matita, vagabondava per la città, passava in rasse­ gna i suoi monumenti, visitava le sue chiese e meticolosa­ mente ricopiava cupole, archi, capitelli, statue. Ma non s'accontentava di studiare le opere d'arte e riprodurle sui suoi quaderni. Anche la natura l'entusiasmava. Stava ore intere davanti alle vetrine dei macellai a disegnare quarti di bue, costate di manzo, lombi di cavallo, e se per strada incontrava un gobbo o uno sciancato si fermava a ritrarlo. Era uno dei più assidui frequentatori degli Orti Medicei di San Marco, che Cosimo e Lorenzo avevano riempito di sta­ tue antiche e messo a disposizione degli scultori fiorentini. Ve lo abbiamo già incontrato, parlando del Savonarola. Un giorno il Magnifico lo sorprese a riprodurre in un blocco di marmo le fattezze di un fauno. Rimase colpito dell'abili­ tà con cui quel ragazzo maneggiava lo scalpello; lo invitò nel suo palazzo, ve lo alloggiò, e per due anni se lo tenne a tavola insieme agli altri suoi amici Pulci, Poliziano, Ficino, Pico, che rappresentavano l'elite intellettuale di Firenze e del mondo intero. Tali erano i modi e i costumi di quel grande signore. Sebbene avesse poco più di quindici anni, Michelangelo profittò al massimo di quel privilegio. Non si concedeva sva­ ghi, disdegnava la compagnia dei coetanei e soprattutto del­ le coetanee, era ombroso, taciturno e scontroso. Un giorno litigò con un certo Pietro Torrigiano, che gli sferrò un pu­ gno al naso deformandoglielo in maniera ir^parabile. Da quel momento si fece vieppiù diffidente e scorbutico. E for­ se fu soprattutto per un'affinità di carattere che diventò un appassionato seguace del Savonarola, sebbene costui fosse il

670 mortale nemico del suo benefattore. Ma il benefattore gli perdonò anche questa. Nel 1492 Lorenzo calò nella tomba e il giovane artista tornò in famiglia. Per due anni non fece che scolpire e dis­ sezionare i cadaveri che l'ospedale di Santo Spirito gli met­ teva a disposizione. Ma al principio del '94 il successore del Magnifico, Piero, lo richiamò a palazzo. Michelangelo ci ri­ mase fin quando, spaventato da un sogno che gli annuncia­ va la cacciata dei Medici dalla città, fuggì a Bologna, dove lavorò per un certo periodo nella chiesa di San Petronio. Ma gli scultori locali, o che fossero urtati dal suo brutto ca­ rattere, o che annusassero in lui il rivale pericoloso, l'obbli­ garono a dimettersi. Tornò a Firenze, dove nel frattempo il suo sogno s'era avverato: i Medici erano stati cacciati e la città aveva restaurato la Repubblica affidandone la guida al Savonarola. Pur ammirandolo, Michelangelo non sollecitò lavori al nuovo padrone, che del resto non era uomo da conceder­ gliene. Seguitò a lavorare in disparte, e fra le altre cose gli capitò di scolpire, su ordinazione, un Cupido in stile classi­ co, ma così bene imitato che un antiquario lo acquistò come autentico per trenta ducati e lo rivendette per trecento al Cardinale romano Raffaello Riario. Questi scoprì la patac­ ca, diede indietro la statua facendosi restituire il denaro, ma volle conoscerne l'autore. Michelangelo accettò l'invito del prelato a trasferirsi nell'Urbe e mettersi al suo servizio. Ci si trovò male perché il Riario, uomo gretto e taccagno, lo la­ sciava inoperoso e Michelangelo rimuginò di tornarsene a Firenze. Ma alla vigilia della partenza conobbe il banchiere e mecenate Jacopo Galli che gli commissionò un Bacco e un Cupido. Quando il cardinale Jean de Villiers, ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, vide le due statue ne fu tal­ mente ammirato che ordinò a Michelangelo una Pietà. L'o­ pera, condotta a termine in un anno, sbalordì i contempo­ ranei. E una delle sculture più belle del Buonarroti e uno dei capolavori di tutti i tempi.

671 La Pietà procurò al suo autore, che aveva da poco com­ piuto ventitré anni, fama e denaro. Dal 1498 in poi le ordi­ nazioni non si contarono. Michelangelo diventò uno sculto­ re alla moda, conteso da principi, cardinali, ricchi signori. Ma nemmeno il successo addolcì il suo carattere. Non aveva amici, non frequentava donne, non varcava mai la soglia di un'osteria, indossava abiti tatuati di toppe, sporchi e sbrin­ dellati, non si pettinava, si lavava di rado, si coricava vestito e con gli stivali. Era di modi bruschi, qualche volta brutali, aveva una voce dura e sgraziata. Non poteva dirsi un bel­ l'uomo perché era di statura inferiore alla media, aveva spalle sproporzionate al resto del corpo, fronte solcata da rughe precoci, zigomi sporgenti, bocca amara, e quel naso deformato dal cazzotto del Torrigiano. Eppure, in lui ci do­ veva essere qualcosa di magnetico perché chiunque l'avvici­ nava ne subiva il fascino. Nel 1501 tornò a Firenze per aiutare il padre, rimasto disoccupato, e i fratelli più piccoli. Anche qui le ordinazioni non si fecero attendere. Il Duomo gli commissionò una grande statua e gli mise a disposizione un blocco di marmo alto quattro metri e mezzo. Michelangelo attese all'opera per più di due anni. Quando la titanica scultura che raffigu­ rava il Davide fu ultimata, i committenti chiesero a un grup­ po di artisti, fra cui Botticelli, Leonardo e Ghirlandaio, do­ ve suggerivano di collocarla. Poiché i pareri furono discor­ di, fu interpellato lo stesso autore, che propose di sistemarla davanti Palazzo Vecchio. Qui il colosso venne trasportato da quaranta uomini e qui restò fino al 1873, quando venne tra­ sferito all'Accademia di Belle Arti. Il Davide fruttò a Michelangelo quattrocento fiorini e ne accrebbe la fama al punto che il gonfaloniere Soderini lo in­ vitò ad affrescare una delle pareti della sala del Gran Consi­ glio in Palazzo Vecchio. A decorare quella opposta era stato chiamato Leonardo. Fra i due artisti non correva buon san­ gue. Leonardo era amabile, mondano, elegante, effemina­ to. Michelangelo era schivo, trasandato, misantropo e forse

672 geloso del rivale, che tutti consideravano il maggior pittore del momento. Probabilmente fu proprio lo stimolo della competizione e il desiderio di superare Leonardo che in­ dusse il Buonarroti ad accettare l'offerta della Signoria, seb­ bene fin'allora non avesse quasi toccato il pennello. Scelse come tema la Battaglia di Cascina, ma non ne eseguì che lo schizzo. L'invito a recarsi a Roma, rivoltogli da Giulio II, gl'impedì di porre mano all'affresco. Il terribile Papa voleva farsi costruire un mausoleo che eguagliasse in grandiosità e splendore i più maestosi monu­ menti dell'antichità. Michelangelo era il suo scultore prefe­ rito e a lui aveva deciso d'affidare l'impresa. Data la peren­ torietà dell'invito, che aveva tutto il sapore d'un ordine, il gonfaloniere sciolse Michelangelo dall'impegno in Palazzo Vecchio e a malincuore lo lasciò partire per l'Urbe. Il Buo­ narroti vi si recò volentieri perché considerava la scultura la sua vera vocazione, e non s'ingannava. Eppoi, era attratto da papa Giulio. Non lo conosceva, ma sapeva ch'era un ca­ ratteraccio. E lui solo coi caratteracci se l'intendeva. Infatti s'intesero in tutto: anche nel maltrattarsi a vicenda. Michelangelo progettò un mausoleo lungo nove metri e largo sei, ornato di quaranta statue simboleggianti le arti e le virtù. La più grande doveva raffigurare Mose. In cima al­ la tomba, un sarcofago avrebbe racchiuso le spoglie di Giu­ lio. L'artista fece un preventivo di parecchie migliaia di du­ cati e quindi andò a Carrara a far provvista di marmo. Du­ rante la sua assenza, il Bramante, ch'era allora l'architetto più in voga, temendo che l'alto costo del mausoleo scorag­ giasse Giulio dal commissionargli la cupola di San Pietro, persuase il Papa a rimandare l'esecuzione della tomba. Quando Michelangelo, di ritorno da Carrara, chiese udien­ za al Papa per ottenere un nuovo finanziamento, Giulio si fece ripetutamente negare e non volle riceverlo. Offeso, l'artista gli scrisse una lettera che terminava: «Se avete anco­ ra bisogno di me, venitemi a cercare», e partì per Firenze. A Poggibonsi fu raggiunto dai corrieri del Papa, che lo richia-

673 mava a Roma. Michelangelo rispose che Giulio aveva man­ cato ai suoi impegni e che lui sarebbe tornato nell'Urbe solo se il Pontefice avesse dato immediato corso ai lavori del se­ polcro. A Firenze la Signoria l'accolse con un misto di gioia e d'allarme. Con un tipo come Giulio c'era poco da scherzare. Per riavere lo scultore il Pontefice sarebbe stato anche capa­ ce di dichiarar guerra alla Repubblica. Per fortuna, in quel momento il terribile Papa aveva altre gatte da pelare e Mi­ chelangelo potè attendere in pace alla Battaglia di Cascina, di cui eseguì finalmente il cartone. Andato purtroppo per­ duto, ce ne rimangono solo delle copie che tuttavia docu­ mentano l'eccezionale abilità di Michelangelo nella ripro­ duzione del nudo. Ogni poco lo scultore veniva convocato dal Gonfaloniere che gli leggeva un messaggio del Papa con l'ingiunzione di tornare a Roma. Ma l'artista faceva orecchio da mercante. Quando però nel novembre 1506 Giulio occupò Bologna e da quella città intimò al Buonarroti di raggiungerlo, il So- derini ordinò all'artista di partire. Il Papa l'accolse con aria in apparenza burbera, in realtà felice di riconciliarsi con quell'indocile artista, che lo trattava da pari a pari e che tan­ to gli somigliava. Non accennò al mausoleo, ma gli commis­ sionò subito una grande statua in bronzo, alta tre metri e mezzo, che lo riproducesse in atteggiamento marziale, da collocarsi davanti alla chiesa di San Petronio. Michelangelo aveva più dimestichezza col marmo che col bronzo, ma ac­ cettò con entusiasmo l'incarico. Due anni dopo il colosso era finito. Prima di lasciare Bologna, il Papa gli aveva detto che lo rivoleva a Roma. Nel 1508 Michelangelo vi si recò, certo che Giulio gli avrebbe affidato finalmente il sepolcro. Il Pontefi­ ce lo incaricò invece d'affrescare la volta della Cappella Si­ stina. L'artista ebbe un bel dirgli ch'era uno scultore e non conosceva la tecnica dell'affresco; ebbe un bel proporgli di prendere al suo posto il giovane Raffaello, che era un pitto-

674 re già affermato. Giulio era più cocciuto del suo interlocuto­ re, e alla fine la spuntò. Michelangelo s'accinse di malavo­ glia all'impresa, che più di qualunque altra doveva renderlo immortale. Data la mole, decise di farsi aiutare da cinque pittori fiorentini, che chiamò apposta a Roma, ma che subi­ to dopo licenziò per la loro inettitudine. Cominciò a dise­ gnare i cartoni, poi passò alla traduzione pittorica vera e propria, che gli costò una fatica sovrumana. Il soffitto della Cappella l'obbligava a lavorare disteso sulla schiena, posata sulle assi di un ponte, al lume di candela. I primi affreschi furono divorati dalla muffa, formatasi in seguito alla cattiva preparazione dei colori e dell'intonaco. Grazie ai consigli del Sangallo, maestro in questo genere di pittura, il Buo­ narroti potè però subito porvi rimedio. La decorazione della volta della Sistina tenne impegnato Michelangelo quasi ininterrottamente dal maggio 1508 al­ l'ottobre 1512. Quattro anni di tormenti indicibili, che invec­ chiarono l'artista di venti, ne deformarono il corpo, ne inde­ bolirono la vista e ne peggiorarono il carattere. Per tutto quel tempo, salvo brevissimi viaggi, restò infatti inchiodato al ponte, prigioniero del terribile Giulio, l'unico che avesse accesso alla Cappella. Ogni giorno il Papa ne varcava la so­ glia, s'arrampicava sull'impalcatura, si sedeva accanto a Mi­ chelangelo e brandendo l'inseparabile bastone minacciava di percuoterlo se appena accennava a un po' di stanchezza. Quando il titanico affresco fu terminato, tutti i romani e molti forestieri corsero ad ammirarlo. Nessun artista aveva compiuto da solo un'impresa di tanta mole, nessuno aveva saputo esprimere in toni più potenti, concitati e drammatici l'epopea della genesi, la caduta dell'uomo e la sua redenzio­ ne. Nella volta, nei pennacchi, nelle lunette, Michelangelo tradì la sua anima inquieta, agitata dai lemuri della morte e dal terrore della dannazione. Protagonista del ciclopico af­ fresco il corpo umano, colto in tutti i suoi atteggiamenti e movimenti: teso e rilassato, esultante e affranto, ispirato e attonito, superbo e umile.

675 Quattro mesi dopo lo scoprimento della Sistina, Giulio morì. Il dolore di Michelangelo fu sincero: con quel Papa calava nella tomba non solo il suo protettore ma anche il vecchio sogno di portare a compimento il mausoleo. Il Pon­ tefice aveva incaricato i suoi eredi di provvedervi, ma costo­ ro, a corto di quattrini, chiesero a Michelangelo di ridimen­ sionare il progetto. L'artista, deluso, attenderà straccamente e saltuariamente alla sua realizzazione fino al 1545. Con Leone X, sebbene lo conoscesse dall'infanzia e anzi fosse amico di casa, Michelangelo non s'intese. Quando Se­ bastiano del Piombo gli chiese perché non dava commissio­ ni al Buonarroti, il Papa rispose: «È un uomo impossibile...» Le sue simpatie erano tutte per il dolce e compito Raffaello, il cui carattere infatti era molto più congeniale al suo. Per tornare in auge, Michelangelo dovette aspettare l'avvento di Clemente VII che lo prese invece subito a benvolere e l'alluvionò di commissioni. Sotto il suo pontificato, eseguì la Cappella Medici e le due bellissime statue di Giuliano e Lo­ renzo. Il Papa gli passava uno stipendio mensile di cinquan­ ta corone che egli in parte devolveva ai parenti bisognosi, in parte ai poveri. Dopo il sacco di Roma l'emolumento non gli venne più corrisposto e l'artista accettò il posto d'inge­ gnere militare che gli offriva Firenze, dove nel frattempo erano stati cacciati i Medici e ripristinata la Repubblica. Nel settembre del '29, presentendo la restaurazione medicea, lasciò la città per fuggire in Francia, ma poi, per timore di rappresaglie contro i familiari, tornò a Firenze. La restaura­ zione lo trovò rintanato in casa di un amico, dove aveva cer­ cato asilo per sottrarsi alla vendetta dei nuovi padroni. Ma invece del mandato d'arresto, fu raggiunto da un messag­ gio di Clemente che gli offriva di riprenderlo al suo servi­ zio. E curiosa questa diffidenza di Michelangelo per i Medi­ ci che pure non avevano mai smesso di proteggerlo. Il successore di Clemente, Paolo III, era sempre stato un fervente ammiratore di Michelangelo. Quando ascese al So­ glio lo nominò architetto, scultore e pittore del Vaticano e lo

676 proclamò «sommo». L'artista entrò a far parte del seguito ufficiale del Pontefice e ottenne un vitalizio annuo di mille­ duecento corone. In cambio dovette, suo malgrado, rimet­ tersi a dipingere. Clemente, prima di morire, gli aveva affi­ dato la decorazione della parete di fondo della Sistina, ma Michelangelo aveva sempre rimandato l'inizio dei lavori. Paolo III riuscì a vincerne le remore e il Buonarroti riprese in mano il pennello. Il Giudizio Universale fu un'impresa non meno podero­ sa della Sistina. Costò all'artista cinque anni di lavoro. An­ che stavolta Michelangelo s'ispirò alla Bibbia, ch'era il suo libro preferito, uno dei pochi che avesse letto e di cui cono­ scesse a memoria lunghi brani. Il Vecchio Testamento, do­ minato dalla concezione pessimistica dell'umanità e dal sen­ so inesorabile del peccato, era congeniale al suo spirito. L'o­ pera riflette i dubbi, le inquietudini, il travaglio di una co­ scienza profondamente toccata dalla Riforma. Quel Cristo che chiama a sé gli eletti e respinge i reprobi somiglia più agli apocalittici patriarchi biblici che al benevolo Padre del Vangelo e si porta addosso un vago odore di Calvino, o al­ meno di Savonarola. Il Giudizio, come la Volta, è un'apo­ teosi del nudo: orgia di muscoli, nervi, garretti, bicipiti, to­ raci possenti, colli taurini, braccia gladiatorie. Quando l'A­ retino vide l'affresco lo giudicò - proprio lui! - indecente. In realtà voleva vendicarsi di Michelangelo che gli aveva ri­ fiutato alcuni disegni. Anche il nuovo Pontefice, Paolo IV, se ne mostrò scandalizzato e ordinò a Daniele di Volterra di coprire quelle vergogne. Nel 1541, quando il Giudizio fu scoperto, Michelangelo aveva sessantasei anni, era afflitto da innumerevoli acciacchi, fra cui la calcolosi renale, soffriva d'insonnia e il suo caratte­ re s'era fatto più cupo. Solo l'amicizia di Tommaso Cavalieri e di Vittoria Colonna riusciva a dargli un po' di serenità. Il Cavalieri l'aveva conosciuto nel 1532. Era un nobile romano bellissimo, elegante, delicato. Amava la pittura e aveva scelto il Buonarroti per maestro. Michelangelo ne aveva fatto il suo

677 pupillo, secondo i maligni il suo amante. Forse si trattò di una passione platonica, ma a leggere i sonetti che il maestro dedicò all'allievo c'è di che insospettirsi. Di Vittoria, Miche­ langelo era diventato amico alcuni anni dopo, quando lei ne aveva cinquanta e lui una quindicina di più. Che la loro sia stata una comunione puramente spirituale, fondata su una straordinaria affinità elettiva, non c'è dubbio: Vittoria era una Lucrezia di adamantina virtù, una «vedova di ferro» che non tradì il marito neanche da morto. I 143 sonetti che Mi­ chelangelo le dedicò non hanno nulla di terrestre e di carna­ le. Si vedevano spesso ma non parlavano che di arte, di filo­ sofia e di Dio, perché anche Vittoria aveva respirato l'aria della Riforma, aveva fatto parte del circolo di Valdes, e la sua lealtà alla Chiesa era incrinata da dubbi e turbamenti. Quan­ do morì, Michelangelo ne fu sconvolto come dalla perdita dell'unica creatura umana che Io avesse sino in fondo capito. Lì per lì cercò d'affogare il dolore nel lavoro. Il Pontefice gli aveva affidato la direzione della fabbrica di San Pietro e il progetto della cupola. Per anni l'impresa gli arrovellò la mente e gli tolse il sonno. Fece un modello in creta e uno in legno e immaginò un tempio alto 132 metri. Molti lo critica­ rono e chiesero ripetutamente al Papa la sua testa. Ma Mi­ chelangelo restò al suo posto. La sua fama di architetto eguagliò ben presto quella di pittore e scultore. Adattò a chiesa le Terme di Diocleziano, sistemò la piazza del Campi­ doglio, eseguì il progetto di Porta Pia. Fino all'ultimo, la sua attività non conobbe soste. La vigilia della morte lo trovò in­ tento a scolpire una Pietà, rimasta incompiuta. Aveva ottan­ tanove anni, ma non aveva perduto le sue abitudini sparta­ ne. L'aldilà non gli faceva più paura come un tempo. «Io so - scriveva al Vasari - che voi conoscete nel mio scrivere ch'io sono alle 24 ore, e non nasce in me pensiero che non sia dentro sculpita la morte». Questa lo colse il 18 febbraio 1564. Tutti i romani ne seguirono il feretro, che fu poi tra­ sportato a Firenze e deposto nella chiesa di Santa Croce in una tomba di cui lo stesso Vasari disegnò il modello.

678 Di tutti i grandi artisti del Rinascimento, era stato senza dubbio il più grande, e l'unico che non si fosse accontentato di una ricerca gratuita e compiaciuta del bello. Aveva sem­ pre preferito la scultura alla pittura perché gli consentiva di concentrarsi unicamente sulla figura umana (anche nei suoi affreschi egli non dedica nessuna cura al paesaggio). Ma le sue rappresentazioni non si riducono a studi di anatomia, per quanto superbi. Sotto quei muscoli, dentro quei corpi ci sono sempre i dubbi, le angosce, le inquietudini di Miche­ langelo. Dicono che la sua potenza, la sua abbondanza, la sua teatralità diedero avvio e dettarono il modello al baroc­ co. Ma il barocco fu un michelangiolismo senza il meglio di Michelangelo: l'anima. Egli sentì, sia pure confusamente, che l'Italia stava perdendo la sua. E lo disse in una quartina famosa, quando nella cappella medicea di Firenze scopriro­ no la sua statua della Notte:

«Caro m'è il sonno, e più l'esser di sasso mentre che i danno e la vergogna dura. Non veder, non sentir m'è gran ventura. Però non mi destar; deh, parla basso!» CAPITOLO QUARANTAQUATTRESIMO

TORQUATO TASSO

Quando Michelangelo calò nella tomba, Torquato Tasso aveva vent'anni. Era nato a Sorrento nel 1544. Il padre, Bernardo, d'origine bergamasca, era segretario del princi­ pe Ferrante Sanseverino, possedeva una buona cultura clas­ sica e si dilettava di poesia. La madre, Porzia de' Rossi, ap­ parteneva a una famiglia napoletana di gran nome ma di scarse rendite. Quando il figlio aveva sette anni, Bernardo abbandonò il regno di Napoli perché coinvolto in un com­ plotto ordito dal Sanseverino contro il viceré don Pedro di Toledo. Ignoriamo la parte che egli vi ebbe, ma sappiamo che tutti i beni gli furono confiscati. Dovette fuggire a Parigi, lasciando moglie e figlio a Na­ poli. In questa città Torquato iniziò gli studi in un collegio di gesuiti, che gl'instillarono la passione per il greco e il lati­ no e una profonda devozione religiosa. A dieci anni il ra­ gazzo componeva e recitava orazioni e poesie, che gli valse­ ro le lodi degl'insegnanti e l'invidia dei compagni. Quando il padre tornò in Italia e si stabilì a Roma, Tor­ quato e la madre lo raggiunsero. Nel '56 Porzia morì e il fi­ glio ne fu sconvolto. D'allora in poi Bernardo lo condusse con sé nelle sue peregrinazioni, e a sedici anni lo mandò a studiare legge a Padova. Ma coi codici e le pandette Torqua­ to poco se la diceva. Lo rodeva il tarlo della poesia e scara­ bocchiava versi anche sui muri. Virgilio era il suo autore preferito e il suo modello. Teneva YEneide sotto il cuscino e ne conosceva a memoria lunghi passi, che declamava nei sa­ lotti alle signore. Subiva il fascino femminile, ma solo se ac­ compagnato dal blasone e dal rango. Snobbava le popolane

680 e le prostitute, e anche da goliardo non varcò mai la soglia di un bordello. Sceglieva gli amici come le donne, in base al ceto e al censo, e forse per questo ne ebbe pochi. In questo periodo ce lo descrivono come un giovane al­ to, magro, con barba e capelli castani, mento quadrato, fronte spaziosa, naso a uncino, occhi celesti, miopi e legger­ mente strabici, incarnato pallido ed esangue, voce cristalli­ na e risata stanca, che amava cavalcare e tirar di spada, e si vestiva sempre di nero secondo la moda spagnolesca del tempo. Ma già sin d'allora i suoi umori erano inquietanti: incerti, cangevoli, facili in egual misura all'esaltazione e alla depressione. A Padova studiò molto, ma non le materie alle quali era stato destinato. Lesse i filosofi antichi, i padri della Chiesa, i poemi epici e cavallereschi. A questi s'ispirò nel Rinaldo, un romanzo in versi d'avventure e d'amore, che compose in dieci mesi. Quando Bernardo, che due anni prima aveva pubblicato un brutto poema cavalleresco, lo lesse, consentì finalmente al figlio d'abbandonare i corsi di legge e abbrac­ ciare quelli di lettere e filosofia. Torquato si trasferì a Bolo­ gna, ma ci restò poco. Certi caustici epigrammi che scrisse contro i suoi professori l'obbligarono infatti a tornare a Pa­ dova. Nel 1565 il padre riuscì a farlo assumere come segretario dal cardinale Luigi d'Este. Torquato dovette andare a Fer­ rara, che non aveva perduto il suo rango di città colta, gau­ dente e festaiola. Nelle sale del Palazzo Ducale seguitavano a darsi convegno artisti, letterati, eruditi. Animavano queste adunate le sorelle di Alfonso, Lucrezia e Leonora. Sebbene avessero parecchi anni più di lui, che ne aveva ventuno, il poeta s'invaghì d'entrambe e le sommerse sotto una valan­ ga di componimenti amorosi. Non fu corrisposto né dall'u­ na né dall'altra, ma non cessò, da perfetto cortigiano quale già era, di spasimare. Serviva il Cardinale con devozione e zelo. Luigi l'aveva ammesso alla sua mensa, gli pagava i de­ biti e gli forniva le candele per la notte, che Torquato passa-

681 va a leggere e comporre versi. Aveva da tempo posto mano a un grande poema epico, che doveva celebrare la liberazio­ ne di Gerusalemme e che egli intendeva dedicare al Duca. Nel 1569 il padre morì povero e pieno di debiti. Per pa­ garli Torquato ne fece a sua volta e impegnò tutti i propri averi al Monte di Pietà. Dopo circa un anno andò a Parigi, al seguito del suo padrone. Giunto nella capitale francese, Luigi l'abbandonò in una specie di stamberga e non lo fece nemmeno ricevere a Corte. Forse il Cardinale era allarmato da certe critiche che il segretario aveva mosso al re Carlo IX, di cui erano note le simpatie ugonotte. Torquato restò in Francia cinque mesi, visitò molte città e conobbe i poeti della Pleiade. Tornato a Ferrara deluso e senza il becco d'un quattrino, chiese al Duca di prenderlo al suo servizio. Alfon­ so gli assegnò una pensione che gli consentì di dedicarsi in­ teramente alla sua attività di poeta. Fu in questi anni che compose YAminta, un dramma pa­ storale in cinque atti e quattro intermezzi, che alcuni critici considerano il suo capolavoro. Rappresentato nel luglio del 1573 al cospetto del Duca e della Corte, ebbe molto succes­ so e valse al suo autore le lodi di Alfonso e uno scatto di sti­ pendio. Quelle e questo lo spronarono ad attendere con maggior lena alla Gerusalemme. Ora veleggiava verso la tren­ tina e la sua fama aveva già da un pezzo varcato i confini del Ducato, accompagnata da piccanti pettegolezzi. Si diceva che coltivasse amicizie particolari e fosse affetto da pazzia. L'accusa di sodomia era infondata. Che la sua mente desse invece fin d'allora segni di squilibrio era vero. «Quando so­ no sveglio - scriveva a un amico - sembrami vedere fochi infiammati, che temo perdere la vista. Altre volte sento fra­ cassi spaventevoli, de' fischi, de' tintinnii, de' suoni di cam­ pane e dei tremiti quasi tramandati da orologi che si con­ certino e battano l'ore. Dormendo, parmi che un cavallo precipiti su di me e mi rovesci a terra, o m'immagino di es­ sere coperto d'animali immondi. Tutte le mie articolazioni se ne risentono, la mia testa si fa pesante e in mezzo a tanti

682 dolori e paure ora m'appare l'immagine della Vergine gio­ vane e bella col suo figlio coronato di un'iride.» Si trattava di schizofrenia, lipemania, alienazione, mania di persecuzione? Non sappiamo. Certamente anche gl'in­ numerevoli acciacchi fisici che già affliggevano il poeta con­ tribuirono a indebolirne il cervello. Febbri, dispepsie, emi­ cranie non gli davano tregua e l'insonnia lo torturava. Ve­ deva dovunque spie e nemici che volevano ucciderlo e car­ pirgli i manoscritti. Temeva d'essere avvelenato e non tocca­ va cibo prima che il suo servo non l'avesse assaggiato, non si fidava di nessuno e con nessuno si confidava. L'idea della morte e la paura dell'inferno l'ossessionavano. Andava ogni mattina a messa, si confessava, faceva la comunione, si cir­ condava di preti e monaci, collezionava crocifissi, amuleti e santini, pregava, faceva penitenza, digiunava. Viveva nel- l'incubo d'essere denunciato all'Inquisizione e di finire sul rogo per difetto di fede. Il Duca lo faceva continuamente visitare dai medici di corte, che gli prescrivevano clisteri, salassi e purghe, che vieppiù l'indebolivano. Agli accessi fobici s'alternavano pe­ riodi di lucidità e di calma, che col tempo si fecero però sempre più rari. Nel 1575 il poeta chiese ad Alfonso il per­ messo d'andare a Roma ad assistere al Giubileo. Il Duca glielo concesse, ma quando seppe che il suo suddito s'era fermato a Firenze per offrire i propri servigi ai Medici, ne­ mici irriducibili degli Estensi, montò su tutte le furie. Si rab­ bonì tuttavia quando Torquato, in seguito al rifiuto del duca Francesco, tornò a Ferrara, e non solo non lo punì, ma lo nominò storico di corte. Neppure quest'onore riuscì a smobilitare le diffidenze del poeta e placarne le angosce. All'inizio del '77, riassalito dagli scrupoli religiosi, andò a Bologna, si presentò sponta­ neamente al tribunale dell'Inquisizione, denunciò peccati che non aveva mai commesso e fu assolto. Rientrato a Fer­ rara, cadde nuovamente preda della mania di persecuzio­ ne. Un giorno, mentre parlava con Lucrezia d'Este, credet-

683 te di ravvisare una spia in un servo entrato casualmente nel­ la stanza, e gli si avventò addosso brandendo un coltello. L'avrebbe certamente ucciso se non fosse stato disarmato da altri servi, messi in allarme dalle grida della vittima. I medi­ ci consigliarono allora Alfonso di far cambiare aria al poeta, che lasciò la corte e si trasferì prima nella villa del Duca a Belriguardo, e poi al convento di San Francesco. Ma quan­ do accusò i monaci di volerlo avvelenare, Alfonso lo richia­ mò a Ferrara e lo fece rinchiudere a palazzo. Torquato riu­ scì a evadere, travestito da pastore. Varcò i confini del Du­ cato, attraversò a piedi la Toscana e il Lazio e approdò a Sorrento, dove viveva la sorella Cornelia, che dall'infanzia non aveva più visto. Volendone mettere alla prova l'affetto, le disse che il fratello era in fin di vita; e solo quando la po­ veretta svenne, sopraffatta dal dolore, il poeta si dichiarò. Cornelia lo supplicò di restare a Sorrento, ma Torquato le rispose che doveva tornare a Ferrara a impetrare il perdo­ no del suo Signore. Il Duca gli fece sapere che gliel'avrebbe accordato solo se si fosse docilmente affidato alle cure dei medici. Torquato promise e rientrò a Ferrara. Non trovò più il suo appartamento a palazzo e dovette acquartierarsi in una casa privata messagli a disposizione da Alfonso, con un servo che gli faceva anche da infermiere. Il Duca seguitò a passargli lo stipendio, ma non volle più ve­ derlo. Anche il resto della corte gli chiuse le porte in faccia. Il poeta piombò in uno stato di prostrazione indicibile, che diventò disperazione quando il Duca, temendo che in un accesso di follia l'autore lo distruggesse, fece sequestrare il manoscritto della Gerusalemme. Torquato se n'adontò al pun­ to che fuggì a Mantova. Di qui, dopo molte peregrinazioni, giunse a Torino, accolto con molti onori dal duca Carlo Emanuele. Ma, dopo pochi mesi, la nostalgia lo richiamò a Ferrara. Vi giunse alla vigilia delle nozze di Alfonso. Offeso per non esservi stato invitato, insultò pubblicamente il Du­ ca, la Duchessa e la corte. Alfonso perse la pazienza e ordi­ nò di rinchiuderlo nel manicomio di Sant'Anna.

684 Qui Torquato restò sette anni, sepolto in una cella tetra e angusta, infestata da pidocchi e scarafaggi, lacerata dalle ur­ la degli altri pazzi. Negli intervalli di lucidità leggeva, com­ poneva versi e scriveva lettere agli amici. Quando il male l'assaliva, dava in escandescenze e s'abbandonava a pianti dirotti e disperati. Per calmarlo i medici lo purgavano e lo salassavano. Ogni tanto, qualche pietosa dama di corte an­ dava a trovarlo e gli portava dei libri. Egli implorava le sue visitatrici d'intercedere presso il Duca affinché lo liberasse. Finalmente, nel 1586, Vincenzo Gonzaga gli ottenne la gra­ zia, ma a patto che lasciasse Ferrara. Si rifugiò prima a Mantova, poi ramingò per varie città del Nord, vendendo sonetti e lodi di circostanze e raggra­ nellando qua e là piccoli sussidi. La mania di persecuzione, che gli faceva vedere sicari, coltelli e veleni dappertutto, era ora accompagnata da una specie di delirio ambulatorio, che lo spingeva a spostarsi continuamente da un luogo all'altro, alla ricerca di una pace che non trovava. I capelli gli s'erano fatti canuti, le spalle cadenti, lo sguardo spento e assente. Aveva perduto anche la memoria. Nel 1594 si trasferì a Roma. Il papa Clemente Vili, che proteggeva i letterati, gli elargì un sussidio e promise di far­ lo coronare poeta. Torquato trovò dapprima ospitalità nel palazzo dei cardinali Cinzio e Aldobrandino, poi nel con­ vento di Sant'Onofrio. Qui, improvvisamente, la sua salute peggiorò, gli accessi di follia, accompagnati da febbri vio­ lente e tremori, si fecero sempre più frequenti. Il 24 aprile 1595, sentendo prossima la fine, si fece portare un crocifis­ so, lo strinse al petto e chiese ai medici d'essere lasciato solo col suo confessore. Morì, invocando il nome del Signore. Aveva cinquantun anni. Sulla bara il Papa diede ordine di deporre la corona d'alloro che il poeta non aveva fatto in tempo a cingere da vivo. Alle solenni esequie intervennero prelati, letterati e nobili. Il cordoglio degl'italiani fu sincero. Il Tasso aveva goduto di una fama riservata a pochi, la sua opera maggiore era stata un autentico best-seller e aveva

685 raggiunto una tiratura di decine di migliaia di copie. Dedi­ cata al «magnanimo Alfonso», è ispirata alla prima crociata e ambientata in Terrasanta. Goffredo di Buglione, sprona­ to dall'arcangelo Gabriele ed eletto condottiero supremo dei cristiani, muove con un poderoso esercito alla conqui­ sta di Gerusalemme, caduta nelle mani degl'infedeli. Il go­ vernatore della città, il turco Aladino, appresta le difese, ordina lo sterminio dei cristiani e fa appello agli dei infer­ nali perché scendano in campo con lui contro Goffredo. Plutone convoca un concilio che delibera di spedire la bella maga Armida a sedurre i cavalieri cristiani, molti dei quali cedono alle lusinghe e dimenticano la loro missione. Le sorti della guerra sembrano volgere a favore degl'infedeli quando entrano in lizza i paladini cristiani Rinaldo e Tan­ credi che compiono ogni sorta di prodezze. Il primo uccide in duello la bellissima eroina mussulmana Clorinda e il ter­ ribile guerriero Argante, il secondo spezza uno dei tanti in­ cantesimi messi in atto dai demoni contro i crociati. Alla fi­ ne la città santa capitola e i suoi difensori, in nome di Dio, vengono massacrati. Quando il Tasso pose mano al poema, sull'Europa pesa­ va ancora la minaccia turca, sventata a Lepanto nel 1571. Questa coincidenza diede attualità alla Gerusalemme Liberata e ne favoli la diffusione. L'opera fu accolta benevolmente dal pubblico e con molte riserve dalla critica. Il Lombardel­ li la definì noiosa, priva d'originalità e d'ispirazione, stirac­ chiata, stilisticamente imperfetta. Poco in realtà il poeta mi­ se di suo e molto prese a prestito da Omero, Virgilio, Dante e Petrarca. I canti sono infarciti di duelli, scene di guerra e d'amore, magie, sortilegi, interventi divini, che richiamano l'Odissea e l'Eneide. L'intento apologetico è evidente: l'autore celebra la cristianità, ne esalta la potenza e vede nello ster­ minio degl'infedeli il segno della provvidenza e la santità della causa crociata. Ma alla Gerusalemme fanno difetto la fantasia, lo humour e la musicalità dell'Orlando Furioso. E un'opera seria, a volte noiosa, con squarci di genuina poe-

686 sia, ma più saltuari di quanto certi critici vorrebbero farci credere. Quella che conta è la modernità del Tasso, primo esem­ pio di poeta «maledetto» e tormentato. Certamente le sue angosce hanno un fondo patologico, che rientrano più nel campo della psichiatria che della letteratura. Ma non c'è dubbio che a scatenarle contribuì molto anche l'atmosfera opprimente della Controriforma. Tasso si sentiva prigionie­ ro di qualcosa, anche se non sapeva di che. La sua fantasia malata esagerava i pericoli della persecuzione. Ma il perse­ cutore c'era davvero, a dare esca alle sue fobie. Il personaggio è più significativo e commovente del poe­ ta. CAPITOLO QUARANTACINQUESIMO

GIORDANO BRUNO

La claustrofobia che condusse alla demenza il Tasso condus­ se sul rogo Giordano Bruno. Era nato a Nola nel 1548, figlio di un uomo d'armi. Ave­ va studiato retorica, logica e dialettica nella vicina Napoli, a diciassette anni s'era fatto monaco domenicano ed era pas­ sato da un convento all'altro, intento più allo studio che alla preghiera. Leggeva avidamente i classici latini e i filosofi greci, ebrei e arabi e si proclamava seguace di Democrito, Epicuro e Lucrezio. La sua forza era soprattutto una prodi­ giosa memoria e il suo pungolo un'inesauribile curiosità che lo rendeva ghiotto di ogni ramo dello scibile, dalla filosofia alla letteratura, dall'astronomia alla fìsica, dalla matematica alla magia. Trascorreva gran parte del suo tempo nelle bi­ blioteche e negli archivi, immerso in letture sacre e profane, incurante d'assecondare una vocazione che non aveva e che l'opprimeva al punto da fargli maledire il giorno in cui s'era fatto monaco. Il sangue meridionale che gli scorreva nelle vene gli rimescolava i sensi evocandogli i fantasmi di donne nude e bellissime. Se è vero che aveva preso i voti per sot­ trarsi alle tentazioni della carne, a un certo punto dovette riconoscersi vinto e buttare la tonaca alle ortiche. Aveva ventotto anni e non poteva dirsi un bel ragazzo; la vita di convento l'aveva debilitato. Ma il suo sguardo e le sue paro­ le sprigionavano una carica di passione che conquistava. La sua oratoria, magniloquente e torrentizia, lardellata di cita­ zioni, gladiatoria e scomposta, travolgeva più che convince­ re, ma anche gli ascoltatori più provveduti ne restavano so­ praffatti.

688 Fu grazie ad essa che, abbandonata Napoli, trovò un po­ sto d'insegnante d'astronomia a Noli, in Liguria. Ma, dopo pochi mesi, si trasferì a Torino, poi a Venezia e a Padova, dove alcuni monaci l'indussero a rivestire il saio. La sua na­ tura irrequieta e randagia lo portò successivamente a Bre­ scia, a Bergamo, quindi al di là delle Alpi, a Chambéry, Lio­ ne e Ginevra, ospite del marchese de Vico. In questa città, roccaforte del calvinismo, divampavano ancora le contro­ versie fra cattolici e protestanti. Giordano se ne tenne al di fuori, allergico com'era alle polemiche religiose e tutt'assor- bito dalle speculazioni filosofiche e da certi studi sulla scien­ za mnemonica, allora assai di moda in Europa. Si concede­ va frequenti scappatelle con le dame che il marchese gli pre­ sentava e per avere con loro rapporti più liberi rinunciò per la seconda volta alla tonaca. Il suo soggiorno a Ginevra fu interrotto nell'estate del 1579, quando denunciò pubblicamente gli strafalcioni di un professore della locale università. Fu denunciato, deferito al concistoro teologico e condannato a una multa. La pagò e si trasferì a Tolosa, una delle città più tolleranti d'Europa, do­ ve proprio in quei giorni s'era resa vacante una cattedra di filosofia. Giordano riuscì a farsela assegnare e l'inaugurò con una lezione sul De anima di Aristotele. Ma dopo diciotto mesi rifece fagotto e partì per Parigi. Si procurò anche qui un posto d'insegnante e tenne un corso di filosofia sui tren­ ta attributi divini. Il successo che riscosse gli diede da un giorno all'altro un'immensa popolarità. Il re, Enrico III, che aveva sentito parlare della straordi­ naria memoria del Bruno, volle conoscerlo. Giordano gli dette alcuni consigli di ginnastica mnemonica e il sovrano Io ricompensò con una cattedra al Collegio di Francia, dove il filosofo insegnò due anni. Nel 1582, la pubblicazione del Candelaio, una commedia ambientata nella Napoli famelica e corrotta del tardo Cinquecento, gli alienò le simpatie della Corte, della Chiesa e del mondo accademico. Il lavoro era infatti una satira feroce contro il clero, gli eruditi e i pedan-

689 ti, in cui molti professori della Sorbona credettero di rico­ noscersi, e forse non avevano torto perché Bruno ebbe per tutta la vita l'uzzolo della provocazione e del litigio. Riprese i suoi vagabondaggi, stavolta in direzione del­ l'Inghilterra, dove approdò nel marzo del 1583, munito di una commendatizia reale per l'ambasciatore francese, Mi­ chel de Castelnau, che l'ospitò in casa. La grande Elisabetta aveva fatto di Londra un centro intellettuale vivo e cosmo­ polita. A Corte, nei salotti e nelle accademie si davano con­ vegno artisti, filosofi e scienziati di gran nome, cui la Regi­ na concedeva di discutere su tutto meno che sulla monar­ chia. Giordano conobbe il conte di Leicester, John Florio, Edmund Spencer e altri celebri personaggi. L'Università di Oxford gli spalancò le porte ed egli tenne un ciclo di confe­ renze sull'immortalità dell'anima. Ma si urtò col direttore del Lincoln College, tornò a Londra e s'accasò nuovamen­ te presso il suo vecchio protettore francese. Fu in questo periodo che scrisse in un italiano goffo, ampolloso, lambic­ cato, pieno di ripetizioni e d'astruserie, le sue opere filoso­ fiche più famose. Non vi mancano squarci d'autentica poe­ sia, ma nel complesso la loro lettura è impervia, noiosa e svogliante. Anche sull'originalità del contenuto vanno fatte delle riserve. Bruno prende a prestito da filosofi antichi e contemporanei, impasta idee vecchie e nuove senza troppo curarsi della loro compatibilità, ed elabora una teoria sul­ l'universo in cui c'è un po' di Aristotele, un po' di Democri­ to, un po' di tutto, e alla rinfusa. Paragona la Terra a un cosmo infinitamente piccolo, annegato in un cosmo infini­ tamente grande. Il nostro pianeta non è al centro dell'uni­ verso perché questo, eterno e incommensurabile, non ha confini. I mondi che lo popolano non si contano e sono in continuo movimento. Neppure le stelle fisse sono immobi­ li. Un flusso incessante anima la volta celeste, costellata di astri, abitati da esseri viventi e intelligenti, in ciascuno dei quali palpita la divinità. Le contraddizioni in cui l'uomo e la natura si dibattono sono soltanto apparenti perché un

690 equilibrio superiore e una sublime armonia regolano la vi­ ta dell'universo. Man mano che sviluppava il suo sistema, Giordano l'e­ sponeva agli amici londinesi, definendosi «l'amante di Dio, dottore della più alta teologia, professore di cultura purissi­ ma e innocente, noto filosofo, accolto e ricevuto presso le prime accademie d'Europa, vincitore dell'ignoranza pre­ suntuosa e persistente, che tuttavia protesta che nelle sue azioni c'è amore per tutti i suoi simili, per i britanni non me­ no che per gli italiani, per le donne non meno che per gli uomini, per i sovrani non meno che per i prelati». Fra le molte virtù, il filosofo non aveva certo quella della modestia. Si sentiva investito di una missione soprannatura­ le, voleva cambiare il mondo e riformare gli uomini. Gli stu­ di d'occultismo e di magia l'avevano fuorviato. Era supersti­ zioso, credeva nel potere degli astri, diceva che i nati sotto l'influsso di Venere erano fortunati in amore, mentre quelli favoriti da Marte erano violenti e bellicosi, attribuiva ai nu­ meri e agli oggetti proprietà esoreistiche e taumaturgiche e si riteneva egli stesso un mago. Fu certamente un precurso­ re di molte cose, ma anche di Cagliostro. Alla fine del 1585, in seguito al richiamo in patria dell'a­ mico ambasciatore, lasciò Londra e partì per Parigi. Ci restò pochi mesi, poi ricominciò i suoi vagabondaggi attraverso l'Europa, a Praga, a Zurigo, a Francoforte, dove pubblicò le sue opere latine. Nel 1591 tornò in Italia, accogliendo l'in­ vito del nobile veneziano Giovanni Mocenigo, che voleva da lui lezioni d'occultismo e mnemonica. Sapeva che l'Inquisizione gli dava la caccia, ma fidava nella protezione del Mocenigo, sebbene questi fosse un fer­ vente cattolico, e in quella della Repubblica, che in fatto di religione si mostrava tollerante. Seguitò perciò anche a Ve­ nezia a professare le sue idee, che puzzavano d'anticonfor­ mismo e d'eresia e ad assumere atteggiamenti d'indipen­ denza e di sfida. Fin quando il suo timoratissimo anfitrione, istigato dal confessore, lo denunziò all'Inquisizione. Prima

691 però, avendole già pagate, volle che il maestro terminasse le lezioni. Il 23 maggio 1592, il filosofo fu arrestato e rinchiuso nel­ le carceri del Sant'Uffizio sotto l'accusa d'aver negato l'in­ carnazione, la Trinità e la transustanziazione, messo in dub­ bio i miracoli di Gesù e degli apostoli, dileggiato i frati, deri­ so la religione e proposto di sostituirla con la filosofia. Gli fu anche rimproverato d'essere dedito alla lussuria e d'aver frequentato troppe donne. Mocenigo disse agl'inquisitori che Giordano si vantava d'averne avute più di Salomone, al quale la Bibbia ne attribuisce mille. Bruno si presentò la prima volta davanti ai giudici il 26 maggio. Le udienze si protrassero per molte settimane, e l'imputato dovette subire minuziosi ed estenuanti interro­ gatori. Si difese con abilità, facendo una sottile distinzione fra il credente che accetta senza discutere le verità rivelate, e il filosofo che le sottopone al vaglio critico della ragione. Riconobbe d'aver dubitato che la prima persona della Trini­ tà fosse distinta dalla seconda e dalla terza, ma a sua discol­ pa disse che mai l'aveva messo per iscritto o predicato. Am­ mise anche d'aver mangiato carne il venerdì, e dichiarò di volerne fare ammenda. «Tutti gli errori che ho commesso fino al presente giorno ora io li detesto et aborrisco et ne so­ no pentito d'aver fatto, detto, creduto e dubitato di cosa che non fosse cattolica, et prego questo sacro tribunale che co­ noscendo le mie infermità voglia abbracciarmi nel grembo di Santa Chiesa, provvedendomi di rimedi opportuni alla mia salute, usandomi misericordia.» Fu subito rispedito in prigione. A settembre, il cardinale Severino chiese al Senato l'e­ stradizione del filosofo, ma solo dopo lunghi tira e molla l'ottenne. A febbraio Giordano giunse a Roma, e a dicem­ bre ricomparve in tribunale. II processo andò avanti a sin­ ghiozzo per sette anni, durante i quali il Bruno fu sottopo­ sto a ogni sorta di sevizie. La più perfida e raffinata era quella di rimandare la sentenza alle calende greche per esa-

692 sperare l'imputato e sfibrarne la volontà. Ma il filosofo, seb­ bene malato, non si piegò. Anzi, si rimangiò le ritrattazioni precedenti e fino all'ultimo tenne fieramente testa agli in­ flessibili inquisitori, tra i quali spiccava il gelido e ascetico car­ dinale Bellarmino. Alla fine di ogni udienza, quando rien­ trava nella sua lugubre cella, pronunciava terribili bestem­ mie, che poi venivano addotte come prove della sua em­ pietà. Finalmente, l'8 febbraio del 1600, riconosciuto «eretico, impenitente e pertinace», il filosofo fu condannato a morte. Ascoltò la sentenza in ginocchio; ma, a lettura finita, si levò in piedi e puntando l'indice contro i giudici esclamò: «Il ti­ more che provate voi a infliggermi questa pena è superiore a quello che provo io a subirla». All'alba del 17 fu condotto in Campo di Fiori, scortato da sette padri di quattro ordini religiosi diversi che per tutta la notte avevano inutilmente tentato di strappargli un gesto d'abiura. Poi lo spogliarono e legarono a un palo, sotto il quale erano state accatastate numerose fascine. Per paura che dalle sue labbra uscissero frasi blasfeme, gli venne ser­ rata la lingua in una morsa. Prima di appiccare il fuoco, un monaco gli mise sotto gli occhi un crocifìsso, ma Giordano volse sdegnosamente lo sguardo. Un attimo dopo, le fiam­ me presero lentamente a divorarlo. L'Europa protestante inorridì, sebbene di roghi nemme­ no essa fosse avara. E Bruno diventò il pretesto di una pole­ mica anticattolica che falsò completamente la statura e il si­ gnificato del protagonista. Bruno fu certamente una vittima della Controriforma, ma non un gladiatore del libero pen­ siero, che anche in Italia aveva trovato ben più validi e coe­ renti campioni negli Ochino e nei Carnesecchi. Gliene man­ cò l'impegno morale, il vigore e l'ascesi. Bruno era soltanto un anticlericale. E a metterlo in contrasto con la Chiesa non fu una diversa concezione religiosa, ma uno smisurato ego­ centrismo, ribelle a qualsiasi autorità per protervia, non per impegno di coscienza.

693 Tuttavia seppe morire. E se il martirio non basta a confe­ rire alla vittima le dimensioni del titano, basta però ad attri­ buire i connotati dell'aguzzino a chi lo inflisse. Quel rogo che chiude il Cinquecento e apre il Seicento illumina della luce più pertinente lo squallido paesaggio dell'Italia della Controriforma: un prete e un gendarme intenti ad arrosti­ re un ribelle privo anche del conforto di una causa a cui in­ testare il proprio sacrificio. CRONOLOGIA

1250 - Morte di Federico II. 1258 - Manfredi, figlio naturale di Federico II, è re di Sicilia. 1260 - I ghibellini di Siena e di Firenze sconfiggono i fiorentini guelfi a Montaperti. 1265 - Nasce Dante Alighieri. 1265 - Sale al soglio pontificio Clemente IV. 1266 - Vittoria di Carlo d'Angiò nella battaglia contro i ghibellini a Benevento. Morte di Manfredi. 1268 - A Tagliacozzo disfatta di Corradino di Svevia. 1280 - È eletto papa Martino IV. 1282 - A Firenze si istituisce il Priorato delle Arti. 1282 - Ha inizio in Sicilia la «guerra del Vespro». 1284 Disastrosa sconfitta di Pisa per opera di Genova, alla Melo- ria. 1289- Battaglia di Campaldino, vinta da Firenze contro Arezzo. 1294 - È nominato papa Bonifacio VIII. 1298 - Vittoria navale dei genovesi sui veneziani presso Curzola. 1300 - Papa Bonifacio VIII indice il primo giubileo. 1302 - Fine della «guerra del Vespro» e trionfo degli Aragonesi (pace di Caltabellotta). 1302 - A Firenze, vittoria dei Neri sui Bianchi. Esilio di Dante. 1303 - Morte di Bonifacio VIII.

695 1304 - Nasce Francesco Petrarca. 1305 - Papa Clemente V trasferisce la residenza pontificia da Ro­ ma ad Avignone. 1308 - Morte di Corso Donati. 1310 - Arrigo VII scende in Italia. 1311 - Matteo Visconti fonda la potenza viscontea a Milano. 1312 - Arrigo VII è incoronato a Roma. 1313 - Morte di Arrigo VII. 1313 - Roberto d'Angiò riceve la signoria di Firenze. 1313 - Nasce Giovanni Boccaccio. 1321 - Muore Dante Alighieri. 1327 - Ludovico IV il Bàvaro scende in Italia. 1343 - Morte di Roberto d'Angiò. 1343-1382 - Sfacelo del regno angioino sotto Giovanna I. 1347 - Moto antinobiliare a Roma capeggiato da Cola di Rienzo. 1348 - Catastrofica epidemia di peste in gran parte dell'Europa. 1354 - Carlo IV di Boemia scende in Italia. 1354 - Morte di Cola di Rienzo. 1355 - Congiura a Venezia di Marin Fallerò. 1357 - Il Cardinale d'Albornoz emana le «Costituzioni egidiane». 1367 - Tentativo di Urbano V di riportare la Sede Apostolica a Roma. 1374 - Muore il Petrarca. 1375 - Muore il Boccaccio. 1377 - Gregorio XI riporta il papato a Roma. 1378 - A Firenze scoppia il «tumulto dei Ciompi». 1378 - Inizio dello scisma d'Occidente.

696 1393-1441 - Niccolò III signore di Ferrara. 1402 - Morte di Gian Galeazzo Visconti. 1406 - Firenze conquista Pisa e Livorno. 1409 - Concilio di Pisa. Sono eletti contemporaneamente tre pa­ pi: Gregorio XII, Alessandro V e Benedetto XIII. 1414 - Concilio di Costanza. 1418 - Fine dello scisma d'Occidente con l'elezione a papa di Martino V. 1421 - Giovanni de' Medici è nominato a Firenze Gonfaloniere di Giustizia. 1423 - È eletto doge di Venezia Francesco Foscari. 1427 - Battaglia di Maclodio, vinta dal Carmagnola. 1431 - Muore Martino V e gli succede Eugenio IV. 1431 - Concilio di Basilea. 1432 - Condanna a morte del Carmagnola, accusato di alto tradi­ mento. 1434 - Cosimo de' Medici diviene signore di Firenze. 1442 - Inizio della dominazione aragonese nell'Italia del Sud. 1447 - Morte di Filippo Maria Visconti. 1447 - Cinge la tiara Niccolò V. 1451 - Nascita di Cristoforo Colombo. 1452 - Nasce Gerolamo Savonarola. 1453 - Caduta di Costantinopoli, per opera di Maometto II. 1454 - Pace di Lodi, tra i Visconti e Venezia. 1458 - È eletto papa Pio II. 1464 - Muore Cosimo de' Medici. 1478 - Congiura dei Pazzi. Assassinio di Giuliano de' Medici. 1478-1492 - Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze.

697 1485 - Congiura dei Baroni a Napoli contro re Ferdinando. 1492 - Scoperta dell'America. 1492 - Morte di Lorenzo de' Medici. 1494 - A Firenze, repubblica dominata dal Savonarola. 1494 - Discesa in Italia di Carlo VIII. 1499 - Pace di Basilea. Indipendenza dei Cantoni svizzeri. 1502 - Il Duca Valentino, Cesare Borgia, occupa Urbino e Came­ rino. 1503 - Disfida di Barletta. 1503-13 - Pontificato di Giulio II. 1508 - Lega di Cambrai organizzata da Giulio II. 1509 - Firenze vince la guerra contro Pisa. 1509 - Sconfitta dei Veneziani ad Agnadello. 1509-47 - Regno di Enrico VIII. 1512 - I Medici rientrano a Firenze. 1512 - «Lega santa» organizzata da Giulio II contro la Francia. 1513-21 - Pontificato di Leone X. 1515-47 - Regno di Francesco I. 1517 - Lutero affigge le 95 Tesi. 1519 - Morte di Leonardo da Vinci. 1519-56 - Regno di Carlo V. 1520 - Muore Raffaello. 1520 - Leone X scomunica Lutero. 1521 - Dieta di Worms. 1522-34 - Lotte della Riforma in Germania. 1525 - Francesco I è sconfitto e fatto prigioniero a Pavia. 1527 - Sacco di Roma.

698 1127 - Muore a Firenze Niccolò Machiavelli. 1529 - «Pace delle due dame», tra Francesco I e Carlo V. 1530 - Clemente VII incorona Carlo V imperatore. 1533 - Morte di Ludovico Ariosto. 1533 - Clemente VII scomunica Enrico Vili. 1534 - Enrico Vili d'Inghilterra si proclama capo della Chiesa anglicana. 1534-49 - Pontificato di Paolo III. 1535 - In Inghilterra Tommaso Moro e Giovanni Fisher salgono il patibolo. 1536 - Calvino giunge a Ginevra: organizzazione della Chiesa evangelica. 1537-74 - Cosimo I Signore di Firenze. 1540 - Fondazione della Compagnia di Gesù. 1541 - Dieta di Ratisbona. 1542 - Sorge il «Santo Uffizio della romana Inquisizione», fonda­ to da Paolo III. 1544 - Nascita di Torquato Tasso. 1545-63 - Concilio di Trento. 1546 - Morte di Martin Lutero. 1548 - Nascita di Giordano Bruno. 1555-59 - Pontificato di Paolo IV. 1557 - Emanuele Filiberto di Savoia sconfigge i francesi a San Quintino. 1558-1603 - Regno di Elisabetta I d'Inghilterra. 1559 - Trattato di Cateau-Cambrésis. Fine delle guerre franco­ spagnole. 1564 - Muore a Roma Michelangelo Buonarroti. 1564 - Nasce Galileo Galilei.

699 1570 - Pio V scomunica la regina Elisabetta di Inghilterra. 1571 - Sconfitta navale dei Turchi a Lepanto. 1571 - Morte di Benvenuto Cellini. 1572 - A Parigi strage degli ugonotti (notte di san Bartolomeo). 1582 - Riforma del calendario giuliano a opera di Gregorio XIII. 1588 - Distruzione della Invincibile armata. 1594 - Enrico IV abiura il Protestantesimo e diviene re di Fran­ cia. 1595 - Muore il Tasso. 1600 - Giordano Bruno viene condannato al rogo.