Di P. Renato Kizito Sesana Perché Predichiamo, Catechizziamo
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SENTIRSI DISCEPOLI. UN METODO PER LA MISSIONE di p. Renato Kizito Sesana Perché predichiamo, catechizziamo, insegniamo - e facciamo pochi discepoli? Perché anteponiamo dottrine, progetti, e programmi all’amore per le persone. E non c’è chiesa né ricerca di Dio, se non c’è amore. Come testimoniano tre catechisti nuba. Come sono riusciti i catechisti nuba, nelle sperdute montagne del centro del Sudan, a mantenere viva la fede e a far crescere la chiesa durante i lunghi anni, 10 e 15 a seconda delle zone, di completo isolamento? Quale “metodologia missionaria” hanno usato i tre catechisti anziani - Jibril Tutu, Musa Arat e Paul Chalu - autentici “padri della chiesa” fra i nuba? Ho intuito la risposta durante la mia più recente visita sulle loro montagne, a Kujur Shabia, dove ho tenuto un corso per maestri. Ho visto arrivare Paul da lontano, stanco per le oltre sei ore di cammino, accompagnato da tre giovani catechisti che lui ha formato. Si è seduto per raccontarmi il motivo della sua visita e gli altri tre hanno dialogato e lo hanno anche contraddetto, con l’attento, affettuoso rispetto che in Africa si usa per gli anziani. Guardando i quattro che, seduti sulle rocce, al tramonto, sorseggiando l’acqua fresca da un grande guscio di zucca essiccato, parlavano della vita della comunità cristiana, mi è parso di vedere un’illustrazione del Vangelo, e ho improvvisamente trovato la risposta alle mie domande. I catechisti nuba, senz’altra formazione se non la lettura continua del Vangelo, hanno istintivamente seguito la “metodologia” di Gesù e degli apostoli, formando dei discepoli. Come Gesù, hanno annunciato la buona novella e raccolto intorno a sé i giovani più aperti, hanno continuato a camminare con loro, in comunione di vita, insegnando e guidando insieme la comunità. Hanno cioè praticato il metodo del discepolato, in cui il “maestro” condivide la vita dei discepoli, li istruisce e li esorta sulla strada della ricerca del Regno, e con loro risolve i problemi della comunità che cresce. Senza mai dimenticare che di Maestro ce n’è uno solo, e gli altri ne sono solo una debole immagine, sono sempre discepoli-maestri. Matteo ha scritto che Gesù dopo la resurrezione ha inviato i discepoli dicendo loro: “andate, fate discepoli di tutte le nazioni, battezzateli… e ammaestrateli”. Come mai questo fate discepoli non è stato considerato, almeno nel recente passato missionario, un’indicazione di metodo? Eppure sarebbe la conclusione più logica, Gesù che durante la sua vita pubblica ha insegnando facendo discepoli, lascia ai discepoli la consegna di continuare l’annuncio del Regno facendo altri discepoli. Come mai in alcune traduzioni in lingue moderne il “fate discepoli” diventa “ammaestrate”. Che è una ripetizione dell’indicazione che viene poco dopo? Chiamata gratuita Tornato a Nairobi ho ricercato nelle biblioteche teologiche tutto ciò che è stato scritto sul “discepolato”. Non ho trovato niente sul discepolato come metodo. L’unico riferimento, ma di passaggio, in molte pagine dedicate al discepolato come sequela di Gesù, è di un autore che si chiede perché, secondo Matteo, Gesù abbia detto nell’ordine, “fate discepoli…battezzate…e ammaestrate”, mentre invece negli ultimi secoli la chiesa missionaria ha seguito l’ordine opposto, cioè ha prima ammaestrato e poi battezzato. La risposta è che Matteo mettendo il battesimo prima dell’ammaestrare vuole fare una dichiarazione teologica, sottolineando che il battesimo è una chiamata gratuita, un dono di grazia. Non è per caso che l’autore voglia rimettere in discussione la prassi missionaria degli ultimi secoli? Forse la chiesa missionaria era prigioniera di una ecclesiologia un po’ burocratica, che accentuava l’appartenenza alla chiesa come “società perfetta” e aveva come priorità acquisire nuovi membri, mentre Gesù era più interessato a mantenere viva la tensione verso il Regno di Dio, il senso della vita come cammino verso il Padre. Gesù prima conquista il cuore, chiama i pescatori che stanno rammendando le reti, la samaritana che attinge acqua al pozzo, il funzionario delle tasse, il ricco curioso che si arrampica sull’albero per poterlo vedere almeno per un attimo, e poi li ammaestra. Chi si è innamorato apre il cuore alla verità che viene dall’Altro. Il Vangelo ci presenta l’avvicinarsi a Gesù non come una ricerca guidata dalla ragione, ma come un’esperienza di amore, spesso come un colpo di fulmine. La sequenza dei verbi in Matteo diventa logica se si considera il diventare discepoli come la decisione irrevocabile di mettersi alla ricerca di Dio e al servizio del prossimo seguendo l’insegnamento di Gesù. È l’inizio di un sentiero difficile, l’aprirsi di una nuova visione del mondo, tutta orientata alla scoperta della presenza e dell’amore di Dio nella vita del discepolo e della storia umana. L’insegnamento viene dopo, poco a poco, quando la realtà dell’amore è stata accettata. Anche oggi chi in Africa (e nel mondo intero) si avvicina a Gesù lo fa perché vuole conoscere il maestro, lo vuole sentire come persona viva e risorta che cammina per le strade del proprio villaggio e quartiere, vuole sperimentare il suo amore, per poi capire e vivere la sua verità. Così i catechisti nuba hanno fatto conoscere il Maestro, l’hanno reso presente nei sentieri impervi fra le rocce e nelle valli disseminate di palme. Spesso invece ammaestrato la chiesa insegna una dottrina codificata e definita, dimenticando di far gustare ai chiamati un’esperienza d’amore. A chi cerca una persona che dia un senso pieno al mistero della vita, noi presentiamo il libro del catechismo. Così non dobbiamo meravigliarci se il giovane che ci avvicina non domanda “cosa devo fare per avere la vita eterna?” ma piuttosto, come è capitato a tutti i missionari in Africa, “come posso diventare membro della vostra associazione?”. Se l’appartenenza alla chiesa, i documenti, i certificati di battesimo, vengono percepiti più importanti di un genuino rapporto d’amore col Maestro, la comunità nasce già sclerotica. Mi pare, e parlo da missionario della foresta e degli slum, che ciò che contraddistingue il discepolato come metodo sono due elementi: la continua ricerca di Dio e la comunione di vita col maestro. Ed è il maestro che guida il cammino nella comune ricerca di Dio. Ricordo con disappunto gli anni della formazione quando mi insegnavano a non “attaccarmi” agli altri, perché era negativo per un prete mantenere un rapporto con le persone che formava. Ma come si può comunicare e insegnare l’amore se non si ama? Tre preti italiani come Zeno Saltini, Primo Mazzolari e Lorenzo Milani hanno amato intensamente le persone affidate alle loro cure, i loro discepoli, coloro che li avevano riconosciuti come maestri capaci di ricondurre al Maestro. Non c’è chiesa se non c’è amore. Amore, perdono, riconciliazione, servizio si insegnano solo amando, perdonando, riconciliandosi, servendo. Non sono né gli anni di studio né l’ordinazione sacerdotale che fanno di una persona un testimone, un maestro; è la sua comunione di vita con Dio. Il vangelo lo si impara praticandolo, non studiando. Basta rileggere le espressioni di tenero affetto che san Paolo indirizza ai suoi discepoli per capire che la trasmissione della fede avviene solo là dove c’è un contesto di affetto, tenerezza, amore. Il mezzo e il fine sono inscindibili. Non si può parlare di Dio che è amore senza praticare l’amore. I piccoli gesti di padre Silvano Nella mia prima missione, Chadiza, in Zambia, i cristiani venivano a vivere nella missione per un intero mese prima di ricevere il battesimo e poi la cresima. In questo periodo facevano un corso intensivo di catechismo. Ma ciò che lasciava una traccia profonda nei cristiani era la convivenza coi missionari. Li vedevano alzarsi presto al mattino e andare in chiesa a pregare, li vedevano insegnare e mettersi al loro servizio se qualcuno si ammalava. Mangiavano insieme, intingendo tutti la polenta sullo stesso piatto. Vedevano concretamente che la vita al seguito di Gesù era possibile e tornavano a casa raccontando episodi di fraterna attenzione ricevuta dai missionari. Tutto questo contesto incideva nella loro vita più delle lezioni. I nuba apprezzano una lezione sapiente e ricca di citazioni bibliche, ma apprezzano ancor di più l’ascolto attento, la parola rispettosa, il piccolo gesto di affettuosa attenzione. Un anziano nuba mi ha detto di essere diventato cristiano perché padre Silvano, uno dei primi comboniani che li ha evangelizzati, si interessava a tutto ciò che lo riguardava. “E io mi domandavo: ma perché questo bianco si interessa a me, e alla mia famiglia, si preoccupa se mia figlia si ammala? Che cosa lo fa diverso dai commercianti e viaggiatori che passano di qua? Ed ho scoperto che padre Silvano viveva il Vangelo”. Molti nuba, ancora oggi, dopo decenni che non lo vedono, considerano padre Silvano il maestro che li ha avviati sulla strada del cristianesimo, perché ha fatto loro sperimentare l’amore che trascende ogni divisione di lingua, cultura, popolo. Diventare discepoli significa mettersi in cammino insieme, gli occhi fissi su di lui, mettendo i piedi dove li mette lui. Perché lui, o lei, ci vuole portare a Lui. Diventare discepolo è giocare tutta la vita su Gesù prima di aver capito e analizzato tutte le sue parole, è una scelta senza ritorno. “Prendi la croce e seguimi”, dice Lui, cioè accetta che la tua vita non sia più incentrata su di te, ma su di me, definitivamente. Allora sei pronto a camminare con me. Sei pronto ad accettare, e amare, l’incomprensibile. Quella sera Paul e i suoi discepoli sono stati svegli a lungo, alla luce della luna, per raccontarmi la storia della loro comunità, per parlare di come ridare speranza e recuperare alla vita cristiana la ragazza che era stata violentata in prigionia, come nutrire la fede di un piccolissimo gruppo di cristiani che vivono a sei giorni di cammino dalla comunità più vicina.