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Enrico Brizzi - Vincere o morire

Lunedì 13 Giugno 2016

GLI ASSI DEL CALCIO IN CAMICIA NERA I Mondiali del 1934

1926-1938. È il periodo più fastoso del calcio italiano: i mondiali vinti nel ’34 e nel ’38 sono solo la punta più alta di una stagione sportiva indimenticabile. Enrico Brizzi in Vincere o morire. Gli assi del calcio in camicia nera racconta i protagonisti, le vittorie, ma anche le enormi contraddizioni di quegli anni. Ve ne proponiamo un brano qui di seguito.

I Mondiali del 1934 dovevano rappresentare il biglietto da visita dell’Italia fascista, e la macchina organizzativa era stata studiata in ogni dettaglio per impressionare i visitatori. Uno dei punti di forza della manifestazione erano gli stadi: pur senza raggiungere le dimensioni elefantiache di un Hampden Park o dello Stadio del Centenario di Montevideo, erano in media piuttosto spaziosi. Cosa piu importante, erano tutti moderni – nuovi, o rinnovati per l’occasione – e ognuno di essi risultava un edificio significativo dal punto di vista architettonico.

Il decano degli stadi italiani era l’Arena Civica di Milano, ma il più vecchio tra quelli dedicati al calcio era l’impianto genovese di Marassi. In vista dei Mondiali era stato rimodernato e ingrandito sino a poter ospitare 30.000 spettatori, e aveva assunto la denominazione ufficiale di Stadio Luigi Ferraris, in onore del capitano genoano caduto nella Grande Guerra: in occasione della cerimonia di riapertura la medaglia d’argento di Ferraris era stata solennemente sepolta in prossimità della porta sotto la gradinata nord. Il più grande e moderno era il Benito Mussolini di Torino, capolavoro dell’architettura fascista rivolta alla modernità, che aveva visto oltre 60.000 spettatori affollare le gradinate per la partita dell’Italia contro il Wunderteam austriaco. Il Littoriale di Bologna, con i suoi 50.000 posti ufficiali (ma per Italia-Spagna del 1927 vi si erano stipate 10.000 persone in più), era il secondo per capienza; il suo stile, che richiamava le arene d’epoca classica, sembrava adattissimo per rappresentare i legami dell’Italia fascista con i fasti imperiali. L’impianto milanese di San Siro, ancora composto da quattro tribune rettilinee separate fra loro, si fermava a 35.000 posti. Lo Stadio Nazionale di Roma, ufficialmente Stadio del Partito Nazionale Fascista, era stato riedificato in forma monumentale nel 1927 sul preesistente impianto eretto nel cinquantenario dell’Unita nazionale; in occasione di Italia-Inghilterra aveva sfiorato il “tutto esaurito” ospitando oltre 45.000 spettatori. Analoga capienza aveva il Giovanni Berta di Firenze, inaugurato nel 1931, che condivideva con l’impianto torinese la qualifica di capolavoro dell’architettura razionalista. A Napoli, l’Ascarelli, eretto nel 1930 dallo sfortunato patron del Napoli, era stato ricostruito in cemento armato, ingrandito fino a 40.000 posti e ribattezzato Stadio Partenopeo. Per finire, il più piccolo fra gli impianti che avrebbero fatto da teatro ai Mondiali era il Littorio di Valmaura, casa della Triestina dal 1932, capace di ospitare sino a 23.000 spettatori.

Ancora una volta, a trovarsi ai margini era stato il Sud che, ad eccezione di Napoli, poteva contare su impianti meno capienti e prestigiosi, o ancora incompleti. Erano state fatali le esclusioni del grande stadio voluto a Bari dal podestà Di Crollalanza, la

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cui costruzione non era ancora ultimata, e del Littorio di Palermo, che i tifosi rosanero chiamavano La Favorita: inaugurato nel 1932 e capace di 20.000 posti ufficiali fra tribuna e gradinata, sui lati corti del campo presentava semplici pendii sui quali si accalcavano gli spettatori non paganti. Del pari, non si era neppure presa in considerazione l’ipotesi di giocare qualche partita del torneo al Littorio di Salerno (attivo dal 1931 con la sola tribuna, e integrato dagli altri settori nelle stagioni successive), né allo spartano Michele Bianchi di Reggio Calabria, anch’esso datato 1932.

Dopo la cocente sconfitta patita con l’Austria, un dubbio si era affacciato nelle menti dei più fervidi calciofili: forse non era un genio. Di certo, il vecchio ufficiale degli alpini non era un visionario come Chapman o Hugo Meisl. Pero aveva dimostrato di saper tenere le redini del gruppo e, cosa più importante, riusciva a trarre profitto dai suoi errori. Inoltre, non gli difettava il carisma, né quando si trattava di gestire i veterani, né per pungolare i giovani: in questo senso andava letta l’esclusione degli appagati senatori juventini a favore dei ragazzi di belle speranze nella partita contro la Grecia. Ora restava da vedere a chi avrebbe dato fiducia in occasione delle partite più importanti della sua carriera.

Per non svelare in anticipo le proprie carte, e lasciarsi il tempo di decidere all’ultimo momento la lista dei ventidue convocati, il commissario tecnico invito al ritiro pre-mondiale un numero spropositato di giocatori: settanta, una buona frazione della . In pratica, l’unico escluso di grande spessore tecnico era Renato Cesarini, che Pozzo giudicava inaffidabile e troppo estroso per il clima monacale necessario a preparare il torneo: che se ne restasse pure nel suo locale di Torino, quel saltimbanco, a ballare il tango con le figliole del demi-monde! Fra i prescelti, invece, c’era , caduto in un vortice di depressione dopo l’esclusione dalla Roma. Pozzo era andato a recuperarlo di persona nella capitale: l’aveva trovato in una taverna, ubriaco fradicio e in compagnia poco raccomandabile. Nel riconoscere Pozzo, tanto “er Più” quanto i suoi sodali erano rimasti di sasso, e il commissario, assunta una postura teatrale, aveva indicato il calciatore pronunziando poche, bibliche, parole: «Alzati e cammina!». Ferraris, tentando di darsi un contegno, l’aveva seguito con gli occhi lucidi: dovunque Pozzo volesse portarlo, sarebbe stato meglio che restar li. Per preparare la truppa alla pugna, venne praticamente requisito un albergo in località Alpino, una frazione di Stresa rinomata per il suo clima salubre. Lassù il panorama spaziava dalle isole del

Lago Maggiore al profilo delle cime che marcavano il confine con la Svizzera, ma Pozzo trasformo quell’angolo di paradiso in una sorta di campo d’addestramento militare. Il pallone, i suoi, lo videro di rado: dovevano limitarsi a correre, correre e correre. Già la stampa dava per favorite Austria e Cecoslovacchia, non volevano mica concedere ai danubiani anche la supremazia atletica? Quando apparivano stremati, toccava loro un discorsetto sui valori del sacrificio per la Patria, e poi si ricominciava a trottare. A pranzo e cena si mangiava sano, il vino era razionato, e la sera i ragazzi cascavano dal sonno. Gli unici divertimenti ammessi erano le carte – proibito pero giocare a soldi – e il ping-pong, nel quale Orsi era un maestro imbattibile. Si andava, naturalmente, a letto presto, in camerette doppie studiate per abbinare giocatori di club diversi e indurli a fraternizzare. La coppia più improbabile era quella composta da e “Luisito” Monti, che al centravanti bolognese aveva quasi sbriciolato un ginocchio saltandoci sopra: si temeva che si sarebbero scannati, invece i due finirono per riappacificarsi e diventare quasi amici. Il commissario tecnico conosceva i suoi polli, e fece in modo di tenere vicini anche i due più insofferenti alla disciplina, lo sregolato Meazza e Attilio Ferraris. A loro, e solo a loro, concedeva qualche scappatella serale a fondovalle: meglio saperli a donne in paese, che chiusi in camera a fumare e giocarsi le mutande a poker. Dopo due settimane, i ragazzi erano come nuovi.

Prima di levare le tende, Pozzo ufficializzo la lista dei ventidue che avrebbero partecipato al Mondiale. Per loro era prevista un’ulteriore tranche di ritiro in Toscana, stavolta dedicata alla tattica e al calcio giocato. La lista dei prescelti non dissipava i dubbi su chi sarebbe effettivamente sceso in campo, ché era una miscela di senatori, semiesordienti e debuttanti assoluti. Come portieri vennero designati Carlo Ceresoli dell’Ambrosiana, il veterano Combi della Juventus e , estremo difensore del Napoli di origini vercellesi. Quasi obbligata la lista dei terzini: i “veci” Rosetta e Caligaris, e i “bocia” Monzeglio e Allemandi.

Fra i mediani furono selezionati l’imprescindibile “Luisito” Monti e i compagni juventini Mario Varglien e Bertolini; il redivivo Attilio Ferraris; l’elegante gigliato Pizziolo, fra tutti loro il più tecnico e meno portato alla mischia, e il nerazzurro Armando Castellazzi. Per giostrare sulle ali c’erano i tre oriundi “Mumo” Orsi, “Filó” Guarisi e il “Corsaro nero” Guaita.

Interni naturali erano e l’“italiano d’Argentina” Demaria dell’Ambrosiana; Pietro Arcari del Milan poteva sostituire in caso d’emergenza uno dei due, oppure un’ala.

Il “Balilla” Meazza, vero uomo-chiave della squadra, poteva giocare tanto come interno, a dirigere la manovra, quanto di punta, mentre i centravanti puri erano il poderoso Schiavio e il guizzante “Farfallino” Borel. Per loro si spalanco la porta di un nuovo romitaggio: sede designata era Roveta, sulle colline sopra Firenze.

Enrico Brizzi, Vincere o morire. Gli assi del calcio in camicia nera 1926-1938

Enrico Brizzi, bolognese classe 1974, si è fatto conoscere giovanissimo col romanzo d’esordio Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994), seguito da Bastogne (1996) e Tre ragazzi immaginari (1998).

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