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Università LUISS “Guido Carli”

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Scienze Politiche

Dopo la Ragione. Eric Voegelin e Michael Oakeshott fra crisi del liberalismo e rinascita del pensiero conservatore.

Relatore: Prof. Sebastiano MAFFETTONE

Tesi di Laurea di: Tommaso MILANI Matricola: 057462

Anno Accademico 2008/2009

Indice Generale

Avvertenza relativa alle indicazioni bibliografiche……………………………….. p. 4

Cap. I. Introduzione. Conservatorismo: uno, nessuno, centomila

par. I: Un secolo conservatore? ………………………………………………. p. 6

par. II: Il potere delle idee ……………………………………...... p. 8

par. III: La definizione situazionale e i suoi limiti ………………………...... p. 12

par. IV: Alle radici dell’ideologia conservatrice ……………...... p. 14

Cap. II. La vita e i tempi dell’ordine liberale

par. I: Capire il : il ruolo delle idee ………………………………… p. 17 par. I.1: Contro l’economia classica: Adolf A. Berle e Rexford G. Tugwell ….. p. 26 par. I.2: Rinnovare il liberalismo: John Dewey e John Maynard Keynes ...... p. 32 par. I.3: La scienza politica al servizio della trasformazione: Charles E. Merriam ………………………………………………………………………… p. 38

par. II: L’entrata in guerra: declino e tramonto della «Old Right» ……………. p. 44

par. III: Il secondo dopoguerra: il trionfo delle scienze sociali e l’esaurimento del riformismo …………………………………...... p. 50

par. IV: L’eredità del New Deal: il “liberal consensus” ……………………….. p. 56

Cap. III. Liberalismo rivisitato: Berlin, Talmon, Hayek, Niebuhr

par. I: Liberalismo realista e liberalismo critico ……………………………….. p. 73

par. II : C’est la faute à Rousseau: la critica all’Illuminismo giacobino ……… p. 80 par. II.1: Isaiah Berlin e i nemici della libertà umana ………………………… p. 80 par. II.2: Jacob L. Talmon e la democrazia totalitaria ………………………… p. 84

par. III: Commercianti contro ingegneri: Friedrich A. Von Hayek …………… p. 87

par. IV: Il disincanto di una superpotenza: Reinhold Niebuhr ………………... p. 93

par. V. Conclusioni …………………………………………………………….. p. 102

2 Cap. IV. Verso un ordine post-liberale: Eric Voegelin e Michael Oakeshott

par. I: Le ragioni di un confronto ………………………………… …….. p. 106

par. II: La cecità della scienza politica contemporanea …………………. p. 109

par. III: La rappresentanza distorta ……………………………………… p. 118

par. IV: Razionalismo e liberalismo ……………………………………… p. 127

par. V: Gnosticismo e politica della fede ………………………………… p. 137

par. VI: Gli spazi perduti della politica: balzo nell’essere e conversazione … p. 145

par. VII: Epilogo: un breve incontro …………………………………………. p. 151

Cap. V. Conclusione. Il conservatorismo fra stabilità e reazione

par. I: Preservare o rifondare? ..………………………………………………. p. 153

par. II: Ideologia debole contro ideologie forti ……………………………… p. 161

*** Bibliografia ……………………………………………………………………………. p. 167

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Avvertenza relativa alle indicazioni bibliografiche

Nel corso di questa ricerca si è fatto ampio ricorso a testi in lingua non italiana, gran parte dei quali non tradotti. È opportuno segnalare che, laddove il titolo del testo riportato è esclusivamente quello originale, la traduzione dei passi citati è stata realizzata dall’autore del presente lavoro. Laddove, invece, il titolo originale si accompagna al riferimento alla traduzione italiana, il testo riportato coincide con quest’ultima.

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Alla loro felicità quel governo lavora volentieri, ma vuo- le essere l’unico agente e il solo arbitro di quella felicità; esso provvede alla loro sicurezza, previene e sopperisce alle loro necessità, li aiuta a conseguire i loro piaceri, si occupa dei loro principali problemi, dirige le loro indu- strie, regola le successioni e spartisce la loro eredità; perché non dovrebbe risparmiare loro tout court la fatica di pensare e il fastidio di vivere?

ALEXIS DE TOCQUEVILLE, 1840

Oggi assistiamo a una trasformazione di grande impor- tanza nella società, a un’enorme espansione del Potere. Le rivoluzioni e i colpi di Stato che punteggiano la no- stra epoca non sono altro che episodi insignificanti, che accompagnano l’avvento del protettorato sociale. Una potenza benefica veglierà su ogni uomo, dalla culla alla tomba, una potenza che porrà riparo ai mali che lo affliggono, anche a quelli originati da lui, dirigerà il suo sviluppo individuale e lo orienterà verso l’uso più appro- priato delle sue forze. Per un corollario necessario, essa dovrà disporre di tutte le risorse della società al fine di portarle al più alto grado di rendimento e di moltiplicare, così, le sue opere benefiche. Il Potere assume in qualche modo il compito di realizza- re la felicità pubblica e privata; una clausola indispensa- bile di questo contratto sarà che tutte le proprietà, tutte le forze produttive, tutte le libertà gli dovranno essere con- cesse; i materiali, cioè, e la manodopera senza i quali es- so non potrà adempiere a un compito tanto gigantesco. Si tratta, dunque, di costruire un immenso patriarcato o, se si preferisce, un matriarcato, dal momento che ci viene detto che la potenza collettiva deve esser animata da sen- timenti materni.

BERTRAND DE JOUVENEL, 1945

Il socialismo può servire a insegnare in modo assai bru- tale e incalzante tutti i pericoli delle accumulazioni di potere statale, e in questo senso ad ispirare diffidenza contro lo Stato stesso. Quando la sua voce rauca pro- romperà nel grido di guerra: “Quanto più Stato possibi- le!”, in un primo momento questo grido diverrà così più fragoroso che mai; ma tosto proromperà, con forza tanto maggiore, anche l’altro grido opposto: “Quanto meno Stato è possibile!”.

FRIEDRICH NIETZSCHE, 1878

5 I. Introduzione Conservatorismo: uno, nessuno, centomila

I. Un secolo conservatore?

Nel dicembre 1999 Robert S. Redmond dava alle stampe un articolo significativamente inti- tolato «A conservative century». Il Novecento si chiudeva, sosteneva Redmond, con il partito con- servatore inglese «al nadir delle sue fortune», ma ciò non poteva oscurare il fatto che «per due terzi del ventesimo secolo i Tories avevano governato il Paese, in solitudine o alla guida di una coalizio- ne1». L’analisi di Redmond era corroborata da ulteriori dati empirici, che avevano da qualche tempo attirato l’attenzione degli studiosi. In quattordici delle ventisei tornate elettorali, il partito di Salisbury e MacMillan aveva conseguito una robusta maggioranza parlamentare, e in altre otto ave- va comunque beneficiato di una maggioranza relativa. Solo in quattro occasioni – 1906, 1945, 1966 e 1997 – la sua sconfitta poteva dirsi netta, e in appena tre casi la percentuale dei voti ottenuti era scesa sotto il 40%. Non a caso Anthony Seldon e Stuart Ball, nel 1994, avevano impiegato l’etichetta di «conservative century» per sintetizzare il “secolo breve” inglese2. L’espressione ha conosciuto un certo successo anche in ambito statunitense. Gregory Schneider, ad esempio, ne ha fatto il titolo di un suo recente lavoro, evidenziando come una conce- zione inizialmente impopolare ed elitaria, fatta propria da ristretti gruppi di intellettuali, si sia tra- sformata nel collante ideologico di un imponente movimento di massa3. Ma già nel 1993 (probabilmente il vero ideatore della formula) riteneva di poter scorgere un nuovo «secolo conservatore» all’orizzonte4. Di primo acchito, la definizione, se applicata retrospettivamente, appare meno calzante al caso americano che a quello britannico. Dall’osservatorio privilegiato di fine secolo, non si può dire che il Grand Old Party – la formazione più sensibile ai valori del conservatorismo5 – abbia goduto

1 R. S. REDMOND, A Conservative Century, in Contemporary Review, vol. 275, 1999. 2 Cfr. A. SELDON, S. BALL, A Conservative Century: the Conservative Party since 1900, Oxford, Oxford University Press 1994. Cfr. anche E. H. H. GREEN, Ideologies of Conservatism: Conservative Political Ideas in the Twentieth Cen- tury, Oxford, Oxford University Press 2004, p. 1. 3 Cfr. G. SCHNEIDER, The Conservative Century: from Reaction to Revolution, Lanham, Rowman & Littlefield Pub- lisher, 2008. 4 I. KRISTOL, The Coming ‘Conservative Century’, “Wall Street Journal”, 1 febbraio 1993; ora in I. KRISTOL, Neocon- servatism: the autobiography of an idea, Chicago, Ivan R. Dee Publisher 1999, pp. 363-368. 5 Il Partito Repubblicano non può comunque essere definito come un partito conservatore, né come il partito conserva- tore americano. È corretto dire, semmai, che storicamente il conservatorismo è stato una delle anime del Partito Repub- blicano, sia pure tra le più influenti. Sul punto, cfr. M. C. BRENNAN, Turning Right in the Sixties: The Conservative

6 di un predominio paragonabile a quello dei Tories. Esso ha espresso, fra il 1901 e il 2000, undici presidenti su diciotto, ma i democratici hanno controllato entrambi i rami del Congresso dal 1933 al 1947, dal 1955 al 1981 e dal 1987 al 1995. Nel XX secolo, un solo presidente repubblicano eletto dopo il New Deal – – ha goduto dell’appoggio del Senato per un intero mandato. E quando il Partito dell’elefante, dopo un quarantennio, è riuscito a strappare la Camera ai rivali, nel 1994, opinionisti e commentatori hanno descritto l’evento in termini quasi miracolosi. Uomini schierati su posizioni conservatrici hanno quindi guidato il Paese, ma il più delle volte lo hanno fat- to in condizioni di «governo diviso»6. Una simile impostazione, tuttavia, ci rivela una porzione assai ridotta di verità, e nemmeno la più importante. Va anzitutto precisato che il conservatorismo americano ha storicamente goduto di una cospicua rappresentanza anche all’interno del partito democratico, soprattutto negli Stati del Sud: il che rende arduo, per non dire impossibile, identificare una sconfitta dei repubblicani con un’avanzata degli ideali liberal, e viceversa7. In secondo luogo, misurazioni e percentuali scontano una loro intrinseca limitazione: esse non comunicano nulla sulla linea più o meno moderata assunta dai partiti, né chiariscono in che misura le metamorfosi in seno all’opinione pubblica abbiano modi- ficato lo spettro politico. Ad una simile difficoltà si può ovviare – in prima approssimazione – esa- minando la performance di partiti che s’identificano organicamente con un certo patrimonio ideolo- gico: ad un successo delle forze socialiste si può far corrispondere un riallineamento verso sinistra degli orientamenti politici; ad uno delle forze moderate, un riallineamento verso destra, e così via. È questo il caso della Gran Bretagna e di buona parte del resto d’Europa. Ma laddove simili scorcia- toie sono impraticabili – poiché, ad esempio, la pluralità dei cleavages presenti in seno alla società fa sì che destra e sinistra non siano compiutamente incarnate da due o più partiti alternativi8 – sol-

Capture of the GOP, Chapel Hill, University of North Carolina Press 1995, pp. 6-18; A. S. REGINER, Upstream. The Ascendance of American Conservatism, New York, Threshold 2008, pp. xiii-xvi. 6 W. C. BINNING, L. E. ESTERLY, P. A. SCRACIC, Encyclopedia of American Parties, Campaigns, and Elections, West- port, Greenwood Publishing Group 1999, pp. 451-454. Sulla formula «devided government» cfr. M. FIORINA, Divided Government, New York, MacMillan 1992; G. C. JACOBSON, The Electoral Origins of Divided Government: Competi- tion in U.S. House Elections, 1946-1988, Boulder, Westview Press 1990. 7 N. V. BARTLEY, The New South, Baton Rouge, Louisiana University Press 1995, cap. II e III; K. FREDERICKSON, The Dixiecrat Revolt and the End of the Solid South, 1932-1968, Chapel Hill, North Carolina University Press 2001; N. C. RAE, Southern Democrats, New York, Oxford University Press, 1994, esp. pp. 65-110. Sul peso dei dixiecrats all’interno del Partito Democratico dagli anni ’40 agli anni ’90, si vedano le statistiche contenute in N. W. POLSBY, How Congress Evolves: Social Bases of Institutional Change, New York, Oxford University Press 2004, pp. 75-80. Cfr. anche G. R. BOYNTON, Southern Conservatism: Constituency Opinion and Congressional Voting, in The Public Opin- ion Quarterly, vol. 29, n. 2, 1965, pp. 259-269. 8 Negli Stati Uniti, le divisioni etniche hanno contribuito (e probabilmente contribuiscono tuttora) a determinare l’adesione ad un partito almeno quanto le inclinazioni ideologiche. I repubblicani sono tradizionalmente appoggiati da buona parte dell’elettorato wasp e di pelle bianca, mentre i democratici sono il punto di riferimento politico delle altre minoranze (neri, ispanici, ebrei…). Cfr. D. KNOKE, R. B. FELSON, Ethnic Stratification and Political Cleavage in the United States 1952-1968, in The American Journal of Sociology, Vol. 80, No. 3, 1974, p. 630. Ciò ha indotto , nei primi anni ’70, ad auspicare la nascita di un “partito democratico etnico” (Cfr. R. NOVAK, Unmeltable E- thnics. Politics & Culture in American Life, New Brunswick, Transaction Publishers 1996 (1a ed. 1972), pp. 314-344).

7 tanto lo studio delle piattaforme, dei programmi e dei valori ispiratori delle forze in competizione può chiarire quale sia, al tempo X, la cultura predominante in un dato sistema politico9. Ebbene: optando per questo approccio, emerge come l’America sia divenuta, fra il 1968 e il 2000, un Paese più conservatore. Nell’efficace sintesi di Giuseppe Mammarella, «la naturale rea- zione alle vicende degli anni ’60, che nel giudizio dell’americano medio ha portato tanti liberal su posizioni troppo radicali, è lo spostamento a destra del pendolo politico. Presto esso si manifesterà con una crescita di consensi per il partito repubblicano e una lenta erosione delle posizioni e anche dei programmi del partito democratico, in parallelo all’accentuarsi di una ideologia conservatrice e neoconservatrice che negli anni a venire inciderà profondamente sulla vita politica del paese, sui va- lori e sulla cultura10». In questa prospettiva, l’elezione di Carter e quella – duplice – di Clinton non possono essere interpretate come segnali in vera e propria controtendenza, giacché il primo, ha no- tato Arthur M. Schlesinger Jr., «divenne il presidente democratico più conservatore dai tempi di , un secolo prima (…). Da una prospettiva più ampia le differenze tra Reagan e Carter appariranno meno importanti delle loro affinità. Entrambi i presidenti risposero con ardore all’impulso conservatore che percepivano nella nazione11», mentre il secondo aderì ai valori del centrismo e della Terza Via12.

II. Il potere delle idee

Formulare un modello interpretativo organico in grado di spiegare le affermazioni delle for- ze conservatrici in Gran Bretagna e negli Stati Uniti durante il XX secolo esula dagli obiettivi di questo scritto. È comunque indubbio che tale modello dovrebbe basarsi su una pluralità di fattori, alcuni strutturali, altri contingenti. Naturalmente – come ripetutamente evidenziato dalla storiogra- fia, che tradizionalmente privilegia un approccio idiografico – queste affermazioni sono state con-

Per una visione d’insieme, corredata da ampi richiami a studi settoriali, cfr. J. G. GIMPEL, Separate Destinations: Mi- gration, Immigration, and the Politics of Places, Ann Arbor, University of Michigan Press 1999, esp. pp. 1-30. 9 Sul concetto di cultura politica, cfr. G. A. ALMOND, S. VERBA, The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton, Princeton University Press 1963, G. A. ALMOND, S. VERBA, Un approccio allo studio della cultura politica, in G. SARTORI (a cura di), Antologia di scienza politica, Bologna, Il Mulino 1970, pp. 215-222. 10 G. MAMMARELLA, Liberal e Conservatori: l’America da Nixon a Bush, Roma-Bari, Laterza 2004, p. 7. Secondo Mammarella, il fenomeno culminerà con le elezioni del 1980, contraddistinte dal «prevalere di una nuova coalizione di forze economiche e sociali, di una filosofia politica fondata sulla riproposizione integrale dei principi fondamentali sui quali per due secoli si è retta l’America, e infine di una nuova cultura legata allo spostamento da Est a Ovest dei settori più avanzati dell’economia nazionale e dei centri creativi e più dinamici della società americana» (G. MAMMARELLA, Storia degli Stati Uniti dal 1945 ad oggi, Roma-Bari, Laterza 1993, p. 468). Cfr. anche R. M. CRUNDEN, A Brief His- tory of American Culture, Armony, North Castle Books 1996, pp. 291-332. Anche analisi di segno opposto, che negano una svolta conservatrice negli anni ’80, riconoscono comunque un «esaurimento del liberal momentum» durante gli an- ni ’70 (T. W. SMITH, Liberal and Conservative Trends in the United States Since World War II, in The Public Opinion Quarterly, vol. 54, n. 4, 1990, pp. 479-507). 11 A. M. SCHLESINGER JR., The Cycles of American History, Boston, Houghton Mifflin Books 1999 (1a ed. 1986) p. 33. 12 Sul centrismo “necessario” di Bill Clinton, cfr. J. F. HARRIS, The Survivor: Bill Clinton in the White House, New York, Random House 2005.

8 seguite localmente, in momenti storici determinati, interagendo con elementi autoctoni e congiuntu- rali. Per limitarci al caso americano, è innegabile che la «straordinaria crescita delle forze religiose in politica», in virtù della mobilitazione di congregazioni ed associazioni di fedeli, del cui apporto «ha beneficiato soprattutto la destra13» abbia favorito l’ascesa di Ronald Reagan, così come la scar- sa credibilità del presidente Carter abbia contribuito a determinare l’esito delle elezioni del 198014. Ampliando ulteriormente la prospettiva, si potrebbe probabilmente individuare un nesso fra il decli- no economico dell’URSS e la popolarità di un progetto che «puntava essenzialmente a liberare la produzione e distribuzione della ricchezza dalla supervisione e gestione statale15», e così via. Eppure – senza voler sminuire l’apporto di queste componenti – ciò che preme evidenziare è il ruolo della variabile ideologica, la quale possiede una sua autonomia ed un suo peso. Il presupposto da cui la nostra analisi muove, infatti, è che il conservatorismo sia un’ideologia, nell’accezione debole del termine: intendendo, con ciò, «un insieme di idee e di valo- ri riguardanti l’ordine politico e avente la funzione di guidare i comportamenti politici collettivi16». Per dimostrare la bontà di tale impostazione, evidenzieremo ora le carenze presenti negli ap- procci interpretativi che non valorizzano adeguatamente il fattore ideologico (dimostrazione a con- trario). Anzitutto, sono da avversare le tesi di quanti scorgono nel conservatorismo un fenomeno culturalmente sterile, incapace di incidere in profondità nella civic culture e di modificarne i pre- supposti. Se ad esempio, come ha sostenuto Larry Schwab, «negli anni ’80 gli Stati Uniti sono ri- masti nella stessa era politica cominciata negli anni ’30. Nessun cambiamento fondamentale si è ve- rificato nell’opinione pubblica, nelle idee politiche e nelle politiche pubbliche per far entrare il si- stema politico in una nuova era, repubblicana e conservatrice»17, allora come dar conto della fun- zione moderatrice esercitata dalla Nuova Destra sulle ambizioni riformatrici dei suoi oppositori18? E come mai numerosi osservatori, a cavallo del nuovo millennio, hanno individuato nella fase con- clusiva del Novecento un periodo complessivamente favorevole all’«ordine dell’egoismo»19, non

13 D. PLOTKE, The success and anger of the modern American Right, in D. BELL (ed.), The Radical Right, New Bruns- wick, Transactions Publishers 2002, p. LXII 14 Cfr. G. M. POMPER, The Election of 1980: Reports and Interpretations. New York, Chatham 1980. 15 Z. BAUMAN, Europe: an Unfinished Adventure, Cambridge, Polity 2004, tr. it. L’Europa è un’avventura, Bologna, Il Mulino 2006, p. 74. 16 «Nel suo significato debole, “ideologia” designa il genus, o una species variamente definita, dei sistemi di credenze politiche: un insieme di idee e di valori riguardanti l’ordine politico e avente la funzione di guidare i comportamenti po- litici collettivi» (M. STOPPINO, Potere e teoria politica, ECIG, Genova 1983, p. 103). 17 L. M. SCHWAB, The Illusion of a Conservative Reagan Revolution, New Brunswick, Transaction Publishers 1991, p. 225. 18 Esemplare, in questo senso, la ricostruzione, realizzata da Mark Mazower, dell’impatto che il thatcherismo ebbe sui leader europei, anche socialdemocratici (cfr. M. MAZOWER, Dark Continent: Europe’s Twentieth Century, New York, Alfred A. Knopf 1999, pp. 327-360). 19 Con l’espressione «ordine dell’egoismo» John Dunn ha inteso designare le forze antiegualitarie e stabilizzatrici che costituiscono una delle anime delle moderne democrazie rappresentative. Tale ordine si basa su un’offerta rivolta dai governanti ai governati «che non è un’entità fissa e immutabile, ma una formula altamente flessibile e sempre parzial-

9 soltanto in Gran Bretagna o negli Stati Uniti? «Assistiamo alla sconfitta storica, di un’ampiezza senza precedenti, dei valori della sinistra» proclamava nel 1997 Alain Caillé, nella seconda delle sue Trenta tesi20. «Sotto certi aspetti le somiglianze con il periodo con il periodo di poco meno di cent’anni fa sono sorprendenti» rifletteva Ralf Dahrendorf un anno dopo. «Una lunga fase di cre- scente prosperità sotto le insegne liberali sta dietro di noi (così all’inizio del secolo). Adesso le in- segne sono neoliberali»21. Secondo Perry Anderson, dalla fine della Guerra Fredda in poi «le idee di destra hanno guadagnato terreno, il centro vi si è adattato, e la sinistra, parlando in generale, batte in ritirata»22. Mentre Andrew Sullivan, rievocando il keynesismo e alle politiche sociali degli anni ’40-’60, ha formulato nel 2006 un giudizio in linea con lo spirito dei tempi: «oggi è difficile credere che qualcuno abbia davvero riposto fiducia in queste cose»23. Le voci riportate – e se ne potrebbero citare molte altre – sono accomunate dal riconoscimento di un mutato atteggiamento di individui e gruppi sociali nei confronti delle istituzioni e dello spazio pubblico; conseguenza, questa, di una tra- sformazione culturale figlia dell’età reaganiana e thatcheriana, e del credo conservatore che l’ha ac- compagnata24. In secondo luogo, vanno respinte le tesi che sottendono un’immagine, meno tranchant e per- tanto più credibile, del conservatorismo come agglomerato di risposte locali a problemi locali, con- traddistinte dalla valorizzazione, caso per caso, delle soluzioni maggiormente conformi al senso comune e agli usi autoctoni25. Se davvero il conservatorismo fosse riconducibile al tradizionalismo

mente oscura. Essa unisce un minimo riconoscimento a un’estesa tutela dei requisiti istituzionali dell’ordine dell’egoismo, attraverso la garanzia del diritto di proprietà, la regolamentazione del commercio e un opportuno equili- brio tra imposizione fiscale sufficiente a garantire la scurezza e adeguata protezione da tutte le forme di espropriazione (compresa appunto la tassazione), affinché l’ordine dell’egoismo proceda a ritmo sostenuto sulla sua strada. L’estensione del riconoscimento e il livello della protezione offerta vengono continuamente negoziati»: così J. DUNN, Setting the People Free: The Story of Democracy, London, Atlantic Books 2005, tr. it. Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia, Milano, Egea-Università Bocconi Editore 2006, p. 158. 20 A. CAILLÉ, Trenta Tesi per la Sinistra, Roma, Donzelli 1997, pp. 6-8. 21 R. DAHRENDORF, Bilanz und Hoffnung, in «Der Spiegel», 45/1998, ora in R. DAHRENDORF, La società riaperta. Dal crollo del muro alla guerra in Iraq, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 265. 22 P. ANDERSON, Spectrum. From Left to Right in the World of Ideas, London, Verso 2005, p. xiv. 23 A. SULLIVAN, The Conservative Soul, New York, Harper 2006, p. 17. 24 R. BUCKLEY, Up for Conservatism, in The American Conservative, I, 2009. Sul ricorso all’espressione “credo”, cfr. D. T. KOYZIS, Political Visions and Illusions: A Survey and Christian Critique of Contemporary Ideologies, Downers Grove, InterVarsity Press 2003, pp. 75-78. 25 Relativismo e localismo contribuiscono a comporre l’identità conservatrice: non stupisce, quindi, che Jerry Z. Muller abbia concluso una sintetica trattazione di esso riconoscendone «le inevitabili varietà» (J. Z. MULLER, Conservatism: an Anthology of Social and Political Thought from David Hume to the Present, Princeton, Princeton University Press 1997, pp. 3-31). Il punto, semmai, è se relativismo e localismo riassumano in sé il conservatorismo nella sua interezza. Signi- ficativa, in questo senso, la posizione di Roger Scruton, secondo cui «il conservatorismo esalta lealtà storiche, identità locali e quel tipo di impegno a lungo termine che scaturisce tra la gente grazie alle sue circoscritte e limitate afferma- zioni. Mentre il socialismo e il liberalismo sono sostanzialmente globalistici nei loro scopi, il conservatorismo è pretta- mente locale». Ciononostante, Scruton, lamentando «i ripetuti insuccessi nel lasciare un segno nel mondo delle idee» da parte dei Tories, rivendica l’importanza di «delineare le aree in cui il pensiero filosofico è necessario se la posizione conservatrice vuole diventare intellettualmente convincente» (R. SCRUTON, A political philosophy, London-New York, Continuum 2006, p. VIII-IX, tr. it. Manifesto dei conservatori, Milano, Raffaello Cortina Editore 2007, pp. 5-6).

10 localistico26, e si esaurisse in esso, come spiegare, ad esempio, l’associazione, che tuttora perdura nell’immaginario collettivo, di due leader di paesi diversi, come Ronald Reagan e Margareth Tha- tcher27? E come giustificare l’influsso da loro esercitato su numerosi policy makers al di fuori del mondo anglosassone28? Simili esempi dimostrano come il conservatorismo possa strutturarsi in modelli capaci di at- tecchire all’interno di sistemi socio-economici assai variegati, e ciò dovrebbe indurre ad una più ac- corta disamina della sua articolazione teorica. Non ci si può accontentare, in conclusione, di una concezione che scorga nei successi di par- titi e movimenti conservatori un prodotto di fattori meramente endogeni a singoli Paesi, e la con- temporaneità di tali successi a mere giustapposizioni cronologiche. Per abbandonare un simile, in- giustificato riduzionismo, occorre aggiungere almeno un quid: e questo quid è rappresentato, per l’appunto, dall’ideologia. È anche al messaggio conservatore che bisogna guardare; al suo radica- mento, alla vitalità dei suoi principi e all’impatto che è in grado di esercitare sui processi socio- politici. È ben vero che gli stessi conservatori si mostrano inclini, non di rado, a presentarsi come esponenti di un pensiero a-ideologico, ossia estraneo ed immune alle ideologie29. Ma, al di là di si- mili tendenze – spesso di natura tattica, strategica30 – , non si può negare la cruciale funzione di le- gittimazione che il conservatorismo, al pari di ogni altra ideologia, svolge nel processo elettorale, e più in generale nel processo politico.

26 La differenza fra conservatorismo e tradizionalismo è colta, fra gli altri, da A. AUGHEY, G. JONES, W. T. M. RICHES, The Conservative Political Tradition in Britain and the United States, Pinter, London 1992, pp. 13. Cfr. anche B. CRICK, The Strange Quest for an American Conservatism, in Review of Politics, vol. 17, n. 3, 1955, pp. 359-376. 27 Cfr., ad. es., P. PIERSON, Dismantling the Welfare State? Reagan, Thatcher and the Politics of Retrenchment, New York, Cambridge University Press 1994. Sulla stima reciproca dei due leaders, cfr. i loro interventi raccolti nel volume di M. RESPINTI (a cura di), Ronald W. Reagan. Un americano alla Casa Bianca, Soveria Mannelli, Rubbettino 2005, pp. 82-101. 28 Secondo Margaret Hanson e James J. Hentz, «gli anni ’80 e i primi anni ’90 hanno visto un’ondata neoliberale inve- stire le aree del mondo in via di sviluppo», in particolare l’Africa subsahariana, nella quale «almeno 29 paesi hanno co- nosciuto quasi un decennio di riforme strutturali, alcuni un periodo più lungo» (M. HANSON, J. J. HENTZ, Neocolonia- lism and Neoliberalism in South Africa and Zambia, in Political Science Quarterly, vol. 114, n. 3, 1999, p. 479). 29 Michael Freeden ha rilevato come l’«immagine profondamente radicata di anti-intellettualismo» cui il conservatori- smo è associato è generalmente condivisa dai conservatori stessi (M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory. A Con- ceptual Approach, Oxford, Clarendon Press 1996, tr. it. Ideologie e teoria politica, Bologna, Il Mulino 2000, p. 408). Roger Scruton ha così riassunto la medesima attitudine: «I conservatori sono di vario genere. Ma essi condividono l’opinione secondo cui la politica si mantiene, o dovrebbe mantenersi, più sul piano della conoscenza pratica che su quello della conoscenza teoretica» (R. SCRUTON, Review of “Conservatism” by T. Honderich, in The Philosophical Quarterly, vol. 41, n. 163, 1991, p. 256). 30 La capacità, da parte del conservatorismo, di riorganizzarsi programmaticamente attorno a valori differenti, talora in- compatibili, per reagire ad un tentativo di trasformazione repentina e radicale dell’ordine sociale presuppone che esso non sia declinato secondo modalità eccessivamente restrittive e rigide. È questa flessibile eterogeneità a rendere il con- servatorismo «un modo di pensare e un contenuto di pensiero che può essere usato, se necessario, in difesa delle cose come sono» contrapponendo una forza eguale e contraria ai sostenitori di una riforma dell’ordine sociale: da questo punto di vista, fra radicalismo e conservatorismo esiste una corrispondenza, dal momento che entrambi sono «fragili nella loro dichiarazione di intenti, fatte salve le linee generali» (F. WILSON, A Theory of Conservatism, in The American Political Science Review, vol. 35, n. 1, 1941, pp. 29-43. Corsivo mio).

11 È l’ideologia, più o meno consapevolmente adottata, a filtrare infatti la percezione che i cit- tadini hanno dei loro interessi, dei loro bisogni, delle loro aspettative; è l’ideologia a mediarne la percezione della realtà e ad indurli a fissare le loro “scale di preferenze” in un modo anziché in un altro; è l’ideologia, infine, a garantire i processi di auto-identificazione simbolica in grado di orien- tare il voto31. Non stupisce, quindi, che proprio un conservatore dichiarato abbia fatto del primato delle idee sugli interessi materiali un punto centrale della propria proposta teorica32. Le nostre idee, diceva Alain, sono i nostri occhiali.

III. La definizione situazionale e i suoi limiti

Ciò chiarito, occorre compiere un passo ulteriore, e domandarsi se l’ideologia conservatrice si presti ad uno studio autonomo ed oggettuale, o non vada interpretata principalmente in chiave funzionalista, ponendola in stretta correlazione con gli equilibri socio-politici che vorrebbe preser- vare. In questo secondo caso, il problema della “conservazione” travalicherà la sfera propriamente concettuale e si sovrapporrà alla disamina dei processi sociologici. Va rilevato, in effetti, che forze tecnicamente “conservatrici”, cioè contraddistinte dall’opposizione ad una determinata trasformazione istituzionale, emergono in seno a ciascun si- stema politico ogniqualvolta il rischio di una paventata trasformazione si profila all’orizzonte. Dalla Grecia antica sino ai nostri giorni, non appena determinati gruppi hanno manifestato la volontà di riformare o di sostituire le istituzioni esistenti, altri gruppi – che dall’assetto vigente ottenevano, o ritenevano di ottenere, maggiori benefici – hanno reso esplicito il loro disaccordo ed elaborato dot- trine in grado di legittimare la loro pretesa di salvaguardia dello status quo. È appena il caso di no- tare che la dialettica fra “innovatori” e “conservatori” è elemento strutturale dello sviluppo politico, destinata a verificarsi sempre e comunque, dal momento che la vita associata non si regge mai su un esercizio cristallizzato e incontestato dal potere, bensì conosce margini di assestamento ed evolu- zione, nei quali il contrasto fra ideologie alternative, e gruppi sociali con finalità antitetiche, finisce col riprodursi 33. All’interno di questa prospettiva può essere meglio compresa la definizione situazionale del conservatorismo, elaborata da Samuel P. Huntington in aperta polemica con quanti lo identificano con «un sistema di idee autonomo e con una sua generale validità» . Per Huntington, invece, il con-

31 Sui processi di auto-identificazione, cfr. P. J. CONOVER, S. FELDMAN, The Origins and Meaning of Libe- ral/Conservative Self-Identifications, in American Journal of Political Science, vol. 25, n. 4, 1981, pp. 617-645. 32 Il riferimento è a Irving Kristol. Sul punto, cfr. F. FELICE, Prospettiva neocon. Capitalismo, democrazia, valori nel mondo unipolare, Soveria Mannelli, Rubbettino 2005, pp. 115-116. Felice riporta anche una frase di N. Podhoretz, se- condo cui i neoconservatori possono essere definiti “gramsciani” per l’attenzione che prestano alla sfera culturale (N. PODHORETZ, : an Eulogy, in «Commentary», marzo 1996, p. 26). 33 Cfr. D. FISICHELLA, Politica e mutamento sociale, Lungro di Cosenza, Costantino Marco Editore 1999.

12 servatorismo costituirebbe «quel sistema di idee utilizzato per giustificare ogni ordine sociale stabi- lito, indipendentemente da quando o dove esso trovi la propria origine, e utilizzato contro ogni sfida alle fondamenta di questo e della sua stessa esistenza, indipendentemente dalla parte da cui tale sfi- da provenga34». Huntington espone argomenti convincenti a sostegno della propria posizione, e lo fa con lo stile brillante, accattivante e sofisticato che contraddistingue i suoi scritti. Permane, nondimeno, un chiaro limite nel suo approccio: il pervenire ad una definizione meramente formale ed esteriore del conservatorismo, che trascura variabili cruciali quali la natura dell’ordine sociale da preservare, le modalità del cambiamento istituzionale, i sistemi di valori interiorizzati da gruppi ed individui. Huntington pone al centro dell’analisi la dicotomia staticità / mutamento, intrinsecamente avalutati- va e descrittiva, in luogo di quella desta / sinistra, assiologica e normativa. Apparentemente, il con- servatorismo sembra identificarsi in entrambi i casi con il primo dei due poli. In verità, un’applicazione rigorosa della definizione situazionale potrebbe ad esiti piuttosto paradossali: si giungerebbe a classificare come “conservatori”, per citare qualche esempio storico, gli esponenti delle gerarchie militari dell’URSS, custodi dell’ortodossia marxista-leninista, ostili a Gorbacev, o i minatori dello Yorkshire protagonisti del lungo sciopero contro le privatizzazioni governative nel 1984-1985. Conclusione, questa, che potrà risultare utile a fini tassonomici nello studiare processi di transizione da un regime politico all’altro35, ma appare fuorviante e inadeguata se applicata alla storia delle idee36. Sorge peraltro spontaneo domandarsi cosa abbia spinto Huntington ad adottare un approccio così rigido, assolutizzando l’approccio sociologico e negando alla radice la possibilità di formulare una teoria positiva e organica del conservatorismo: «il conservatorismo appare differente da tutte le altre ideologie ad esclusione del radicalismo: ad esso manca ciò che potremmo definire un ideale concreto […]. Non esiste alcun ideale conservatore che svolga la funzione di termine di giudizio. Nessuno scienziato politico ha mai descritto un’utopia conservatrice. In ogni società saranno sem- pre presenti delle istituzioni da conservare, ma non ci saranno mai delle istituzioni conservatrici37».

34 Cfr. S. P. HUNTINGTON, Conservatism as an Ideology, in The American Political Science Review, vol. 51, n. 2, 1957, pp. 454-473, tr. it. (parziale) in C. MONGARDINI, M. L. MANISCALCO (a cura di), Il pensiero conservatore. Interpreta- zioni, giustificazioni e critiche, Milano, Franco Angeli 1999, pp. 165-179. I passi citati sono reperibili alla p. 455 (tr. it. pp. 166-167). Corsivi miei. 35 La dialettica fra conservatori e progressisti (in senso “situazionale”) è ampiamente scandagliata proprio da Huntin- gton nel suo studio sui processi di democratizzazione dal 1974 al 1990 (cfr. S. P. HUNTINGTON, The Third Wave : De- mocratization in the Late Twentieth Century, Norman, University of Oklahoma Press 1991). 36 Michael Freeden scorge, giustamente, nell’incapacità di spiegare perché il conservatorismo possa assumere connotati aggressivi e “rivoluzionari”, come fece il thatcherismo britannico, un limite strutturale del posizonalismo huntingtonia- no (M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory. A Conceptual Approach, op. cit., p. 331, tr. it. p. 424). 37 S. P. HUNTINGTON, Conservatism as an ideology, in The American Political Science Review, op. cit., pp. 457-458, tr. it. pp. 170-171.

13 Huntington estremizza alcuni tratti tipici del conservatorismo (la vaghezza contenutistica, il polimorfismo programmatico, l’antiutopismo, etc.) per negare la validità di un’analisi oggettuale. Perché? In fondo, proprio in quegli anni, Robert Nisbet aveva tentato di elaborare un’interpretazione sistemica e metodologicamente rigorosa del conservatorismo, enucleandone con- cetti essenziali da declinare adeguatamente nella fase storica e nel contesto culturale di riferimen- to38. In verità – ed è una notazione necessariamente fugace, poiché esula dal nostro attuale per- corso – Huntington propone la teoria situazionale per rimarcare il proprio distacco dai teorici del «nuovo conservatorismo» americano affermatosi nel secondo dopoguerra. Con argomentazioni e vis polemica non dissimili da quelle sfoggiate negli stessi anni da Arthur Schlesinger39, Huntington cri- tica aspramente la deriva “ideazionale” impressa al conservatorismo da autori come Kirk e Viereck: «Con il desiderio di importare il senso europeo dell’aristocrazia nell’America borghese, sognano ri- cordando un epoca con meno democrazia, meno eguaglianza, meno industrialismo, un’età in cui so- lo un’élite deteneva il potere e le masse sapevano restare al proprio posto […]. Al posto di un’energica difesa della democrazia costituzionale americana, i libri di Kirk sono pieni di un desi- derio forzato, sentimentale, nostalgico ed antiquato per una società che è tramontata. Kirk e i suoi discepoli sono fuori tempo e fuori luogo nell’America contemporanea40». E ciò perché Huntington vede nel l’unica tradizione intellettuale in grado di difendere le istituzioni ame- ricane durante la Guerra Fredda. In altre parole, un pensiero conservatore autonomo sarebbe inutile, poiché spetterebbe ai liberal esercitare un ruolo conservatore e difensivo al cospetto della sfida in- carnata dal sistema sovietico41.

IV. Alle radici dell’ideologia conservatrice

38 Cfr., ad es., R. NISBET, Conservatism and Sociology, in The American Journal of Sociology, vol. 58, n. 2, 1952, pp. 167-175. Nisbet metteva in guardia contro una lettura esclusivamente psicologica del conservatorismo, a scapito dello studio delle idee, «conservatrici non soltanto nel senso, superficiale, che ciascuna di esse ha come referente un aspetto della società che concerne il mantenimento o la conservazione dell’ordine, ma nell’importante senso che tutte queste parole sono parti integranti della storia intellettuale del conservatorismo europeo» (ibidem, p. 167). Su Nisbet, cfr. B. L. STONE, Robert Nisbet. Communitarian Traditionalist, Wilmington, ISI Books 2000. 39 Sul punto, cfr. cap. II par. IV del presente scritto. 40 S. P. HUNTINGTON, Conservatism as an ideology, in The American Political Science Review, op. cit., p. 471, tr. it. p. 176. 41 «Le istituzioni americane rappresentano un modello di liberalismo, partecipazione popolare e democrazia. Esse pos- sono essere difese nella maniera migliore da coloro che credono nel liberalismo, nel controllo popolare e nella demo- crazia. Come gli aristocratici erano i conservatori nella Prussia del 1820 ed i proprietari di schiavi erano i conservatori negli Stati del sud del 1850, così i liberaldemocratici possono diventare i conservatori dell’America di oggi […]. Oggi la necessità primaria non è più rappresentata dalla creazione di un numero maggiore di istituzioni liberaldemocratiche, quanto alla difesa di quelle tra di esse che sono già presenti. Questa difesa richiede che i liberaldemocratici mettano da parte la loro ideologia liberaldemocratica e che accettino i valori del conservatorismo per tutta la durata della minaccia portata alle istituzioni americane» (S. P. HUNTINGTON, Conservatism as an Ideology, in The American Political Science Review, op. cit., p. 167, tr. it. p. 178).

14 Respinta, quindi, la prospettiva huntingtoniana, possiamo ora domandarci: quali elementi hanno favorito l’affermarsi di un’influente ideologia conservatrice nell’ultimo trentennio? Quali spazi, nell’ambito della teoria politica e nei processi di legittimazione delle scelte collettive, sono stati occupati dalla Nuova Destra? L’interrogativo è vasto, e non è nostra intenzione avanzare una risposta esauriente. Il presen- te lavoro, tuttavia, suggerisce una possibile – benché necessariamente parziale – interpretazione. Lo sviluppo del liberalismo razionalistico, fra gli anni ’30 e gli anni ’50, rappresentò una fase di straor- dinario rilievo nella storia del pensiero politico contemporaneo. L’esperimento del New Deal costi- tuì un tentativo inedito e, per molti versi, rivoluzionario di coniugare libertà individuale e sicurezza sociale. Quando quella formula politica e quel paradigma teorico si esaurirono – in parte a causa di fattori esogeni, riconducibili alla crescita economica e ai rapporti di forza internazionali; in parte sotto l’influsso di nuove interpretazioni del pensiero liberale –, il conservatorismo ebbe modo di at- tecchire. La crisi de liberalismo progressista, quindi, è la precondizione ideologica ed istituzionale dell’affermazione thatcheriana e reaganiana negli anni ’70. Tale impostazione si riflette nell’organizzazione del presente scritto. Il capitolo II verterà su una ricostruzione della parabola dell’«ordine liberale», dagli anni ’30 agli anni ’50. Ci concentreremo, in particolare, sul rapporto di cooperazione instauratosi fra liberali- smo e scienze sociali, che costituì un elemento imprescindibile nella formulazione del paradigma progressista. Il capitolo III, attraverso l’analisi comparata di alcune opere – risalenti tutte nel 1952 – di quattro autori (Berlin, Talmon, Hayek e Niebuhr), evidenzia il graduale distacco, in seno alla tradi- zione liberale, dal radicalismo politico e dalla carica riformatrice propria del New Deal Liberalism. Tale processo coincise con un parallelo affioramento di concetti e sensibilità limitrofi alla tradizione conservatrice. Il capitolo IV, dedicato alle figure di Eric Voegelin (1901-1985) e di Michael Oakeshott (1901-1990), si sforza di ricostruire i punti nodali di quella concezione critica della modernità che rappresenta il nucleo duro del pensiero conservatore contemporaneo. In Voegelin e Oakeshott è in- fatti possibile a nostro avviso, rinvenire i tratti principali della polemica conservatrice contro il ra- zionalismo politico: dal rifiuto del costruttivismo illuministico alla denunzia dei pericoli insiti nel processo di secolarizzazione, dalla critica alla metodologia delle scienze sociali di derivazione posi- tivistica all’avversione per l’ingegneria sociale, nonché una ridefinizione dei compiti e dei limiti che contraddistinguono la sfera politica. Il capitolo V, infine, espone alcune riflessioni conclusive, relative all’effettiva contiguità tra la riflessione di Voegelin e di Oakeshott e la sensibilità neoconservatrice.

15 Possiamo riassumere come segue l’oggetto del presente lavoro: svolgere un’analisi compa- rata di alcuni scritti di due filosofi politici, alla luce: a) della loro elaborazione teorica precedente e successiva; b) del contesto culturale di riferimento (elemento statico); c) delle tendenze evolutive che andavano affermandosi all’interno di tale contesto (elemento dinamico)42. Il metodo che ci sforzeremo di seguire si basa sull’integrazione dell’analisi teorica con ampi riferimenti eventografici. Le idee – è il caso di ribadire – non si diffondono nel vuoto pneumatico. Esse interagiscono con avvenimenti specifici e contingenti: traggono forza da essi ovvero ne sono indebolite; ma, nel contempo, possono a loro volta influenzare lo svolgimento di tali eventi, indu- cendo gli attori ad orientare le proprie scelte in un senso anziché in un altro, a privilegiare determi- nate opzioni in virtù di specifiche, non neutre, gerarchie di valore. Ed è, appunto, nello spazio sottile, ma pur sempre esistente, fra vincoli di natura storica ed istituzionale e creatività della filosofia politica che prende forma – al pari di ogni altra ideologia – la «visione»43 che contraddistingue il conservatorismo contemporaneo. Nostro compito è cogliere i tratti salienti della sua genesi.

42 L’importanza del contesto è ampiamente sottolineata negli scritti metodologici di Q. Skinner. Cfr., in particolare, Q. SKINNER. Meaning and Understanding in the History of Ideas, in Visions of Politics, vol I., Cambridge, Cambridge University Press 2002, pp. 57-89. Alcuni scritti metodologici di Skinner (fra cui quello citato) sono apparsi in lingua italiana in Q. SKINNER, Dell’interpretazione, Bologna, Il Mulino 2001. 43 Cfr. S. WOLIN, Politics and Vision, Princeton, Princeton University Press 2004, pp. 17-20. Il termine “visione”, nel lessico di Wolin, contiene in sé elementi descrittivi, ma anche una forte carica emotiva e creativa.

16 II. La vita e i tempi dell’ordine liberale

Il “piano” e l’ordine sono presenti, anche in forma laten- te, in tutti i processi industriali, nelle progettazioni, nei preventivi, negli schemi organizzativi, nello studio dei tempi, nei grafici che nella centrale motrice registrano i valori di produzione giorno per giorno, ora per ora […]. Quello che ancora deve essere perfezionato è l’applica- zione di queste tecniche industriali al più vasto ordina- mento sociale.

Lewis Mumford, Technics and Civilization, 193444

I voted for Him for lots o' jobs, I'd vote His name again; He tried to find an honest job for every idle man; This world was lucky to see Him born…

Woody Guthrie, Dear Mrs. Roosevelt, 194545

I. Capire il New Deal: il ruolo delle idee

Nel 1978, tracciando un bilancio della storiografia statunitense sul New Deal, Ellis W. Ha- wley notava come studi recenti avessero incrinato la tradizionale immagine di un’America divisa fra haves – il mondo degli affari arricchitosi negli anni ’20, ostile all’azione riformatrice di Roose- velt – ed haves not – operai, azionisti, piccoli imprenditori travolti dalla Grande Depressione, soste- nitori del Presidente. Un’impostazione così schematica, da un lato, non riusciva a spiegare come mai le due parti, malgrado l’asprezza dello scontro, avessero continuato a condividere alcuni princì- pi e valori fondamentali; dall’altro, trascurava linee di conflitto più sottili, quasi capillari, che divi- devano élites consolidate ed emergenti, gruppi etnici e culturali, sostenitori ed oppositori della mo- dernizzazione. Ulteriori complicazioni emergevano affrontando lo sviluppo, dagli anni ’30 in poi, dell’organizzazione. Quest’ultima poteva essere descritta come una “zona grigia”, né interamente statale, né del tutto privata, dominata da una burocrazia altamente specializzata; un ambito «che si formava tra il mercato e la politica e sviluppava la sua disciplina e le sue ricompense46». I suoi membri «stabilirono nuovi servizi ed infrastrutture amministrative per correggere quelli che essi percepivano come carenze del sistema di mercato o dell’apparato politico; e cercando nuove fonti di autorità, essi permisero ad élite manageriali o tecniche di impadronirsi di grandi spazi politici e di

44 L. MUMFORD, Technics and Civilization, Hartcourt, Brace and Co. 1934, tr. it. Tecnica e Cultura, Milano, Net 1995, p. 422. 45 Cit. in P. SEEGER (ed.), Woody Guthrie Folk Songs, London-New York, Berkeley Books 1973, pp. 18-19. 46 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, Bologna, il Mulino 1981, pp. 331-339, spec. p. 332.

17 erigere e fortificare le loro basi di potere47». L’organizzazione rappresentava il punto di contatto fra governo ed imprese, il luogo in cui funzionari e manager dei due settori si confrontavano e coope- ravano, creando i presupposti per un più armonico bilanciamento fra tutela dell’interesse pubblico ed iniziativa privata. Simili strutture avevano ben presto dato vita ad un’incontrollata proliferazione di collegi, commissioni ed altri circoscritti centri di potere, maldisposti verso qualsiasi ipotesi di co- ordinamento o di razionalizzazione. «Come in numerose società europee, un pluralismo mal funzio- nante ha dato adito non ad un commonwealth socialista o ad una regolamentazione statale, ma ad un certo livello di “corporativizzazione”, radicata nei “governi privati” approvati pubblicamente o so- stenuti dallo Stato, in un’infrastruttura di comitati di consultazione che collegano l’azione pubblica a quella privata, in consigli nazionali di coordinazione economica, ed in giudici esperti di ciò che è “illuminato” e fattibile48». Oltre ad approfondirne le modalità di affermazione e le trasformazioni successive, era ne- cessario, secondo Hawley, comprendere se e in che misura la corporativizzazione statunitense fosse «un’espressione istituzionale di particolari tipi di culture o di storie nazionali49». Questo perché «gli studiosi hanno tendenzialmente considerato il cambiamento istituzionale come l’opera di uomini non legati ad alcuna ideologia che affrontavano situazioni o problemi particolari. Tuttavia le analisi recenti del pensiero degli ambienti finanziari, politici, sindacali e professionali hanno scoperto una varietà di individui o gruppi che hanno dato voce a ideali organizzativi con caratteristiche sia plura- listiche che corporative50». Dopotutto, non andava dimenticato che «l’idea di disciplinare la com- battività di un gruppo attraverso l’introduzione di una componente corporativa piuttosto che statali- sta ha avuto in America i suoi ideologi51». Concepire la corporazione come un modello alternativo tanto allo statalismo quanto al lais- sez-faire, conferendole i caratteri di progetto autonomo, comportava la messa di discussione di un altro luogo comune, alimentato dal più consolidato approccio storiografico: l’idea che il centro poli- tico rappresentasse un punto d’incontro meramente compromissorio fra sostenitori di un Welfare

47 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, op cit., ibidem 48 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, op cit., p. 333. 49 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, op cit., ibidem. 50 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, op cit., p. 334. 51 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, op cit., ibidem.

18 circoscritto e simpatizzanti del capitalismo temperato. Si poteva ipotizzare, invece, l’esistenza di un «liberalismo corporativo», in grado di bilanciare radicalismi opposti, e la cui forza si era mostrata soprattutto nei periodi di crisi. «Se non è stato un fattore importante di cambiamento istituzionale» sottolineava Hawley, questo liberalismo «ha avuto le sue ripercussioni sui comportamenti politici ed intellettuali, e merita un’analisi molto più approfondita di quella che ha ricevuto sinora52». Qualora l’esistenza del liberalismo corporativo fosse stata confermata da indagini più accu- rate, le rappresentazioni canoniche del New Deal sarebbero state profondamente ridiscusse: non un progetto politico favorevole ai ceti deboli, come pretendevano i progressisti, né un esperimento di parziale collettivizzazione del sistema economico, come lo giudicavano i conservatori, bensì il ten- tativo di dar vita ad «uno stato che avrebbe organizzato un complesso di interessi riconosciuti ed a- vrebbe poi agito come componente della funzione coordinatrice e pianificatoria svolta da quello stesso complesso53». Questa impostazione avrebbe permesso di affermare che «molto di ciò che ac- cadde negli anni Trenta faceva parte di un vecchio modello e si può ben sintetizzare non tanto come un risultato della lotta di classe o come l’avvento del “grande governo”, ma come lo sforzo di un ordinamento sociale pluralistico con fedeltà liberali di trovare strutture private ed élites capaci di correggerne i difetti e le presunte disfunzioni54». In una prospettiva di ancor più lungo periodo, sa- rebbe stato possibile concludere «che il cardine della storia americana moderna non consiste nella lotta di classe, nel conflitto tra mondo degli affari e governo, o tra mercato e stato; consiste semmai in un pluralismo organizzativo in cui le agenzie statali collaborarono e si unirono agli ordini privati; in crisi ricorrenti derivanti da carenze di coordinamento e della resistenza ai valori organizzativi; nel persistere della fiducia nei valori liberali e nelle possibilità di realizzarli attraverso strutture corpora- tive che impiegavano progetti e discipline private55». Vale la pena di soffermarsi sulle argomentazioni di Hawley per due ordini di ragioni. Anzi- tutto perché esse abbozzano un approccio sintetico, in grado di offrire una chiave di lettura parzial- mente unitaria per un fenomeno complesso e denso di contraddizioni quale il New Deal56. In se-

52 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, op cit., p. 335. 53 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, op cit., p. 336. 54 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, op cit., pp. 337-338. 55 E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp. 309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New Deal, op cit., p. 338. 56 Sulle contraddizioni del New Deal, cfr. H. W. ARNDT (ed.), The Economic Lessons of the Nineteen-Thirties, London, Oxford University Press 1944, pp. 34-35; W. LEUCHTENBURG, Franklin D. Roosevelt and the New Deal, New York, Harper & Row 1963, pp. 167-197; P. ABBOTT, The Exemplary Presidency: Franklin D. Roosevelt and the American Political Tradition, Amherst, University of Massachusetts Press 1990, pp. 186-187; D. RODGERS, Atlantic Crossings:

19 condo luogo, esse sottolineano l’importanza di ricondurre l’affermazione del modello organizzativo corporativo anche all’influsso di alcune idee, od elaborazioni teoriche. Ed è su questo secondo a- spetto che concentreremo la nostra attenzione. Sostenere, come si intende fare in questa sede, che le origini del New Deal affondino in idee e teorie – idee relative ad un determinato rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, teorie incentrate sulle modalità di gestione della conflittualità sociale, sulla ridistribuzione del reddito, sui doveri so- ciali di uno Stato democratico – potrebbe apparire un punto tanto ovvio da non meritare alcuna di- scussione preliminare. Eppure, ancora un certo fascino esercita l’interpretazione “consensualista” (o classica) dell’età rooseveltiana proposta da autori come Richard Hofstadter e Arthur M. Schlesinger Jr., inte- ramente focalizzata sull’abilità strategica e la spregiudicatezza del Presidente, assistito da uomini descritti come pragmatici ed anti-ideologici57. Parallelamente sopravvive, soprattutto fra economisti e sociologi, la tendenza a considerare la «grande trasformazione» degli ’30 il prodotto oggettivo e necessitato di determinati fattori, quasi che i policy-makers del tempo si fossero limitati a prendere atto delle mutate condizioni sociali ed avessero agito nell’unico modo possibile per superare la cri- si58. Tanto nel primo quanto nel secondo caso, la riflessione filosofico-politica avrebbe giocato un ruolo secondario, tutt’al più residuale, nel determinare priorità e modalità di intervento da parte dei riformatori. È quindi opportuno, anzitutto, sottoporre ad una concisa critica entrambi tali orientamenti. Per quanto concerne l’interpretazione classica, è indubbio che la personalità di Roosevelt – come rilevato soprattutto da Hofstadter59 – rappresenti un elemento imprescindibile nel quadro del

Social Politics in a Progressive Age, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press 1998, pp. 409-415; E. D. RUSSELL, New Deal Banking Reforms and Keynesian Welfare State Capitalism, New York, Routledge 2008, pp. 15-30, 65-82. 57 Cfr. R. HOFSTADTER, The Age of Reform: From Bryan to FDR, New York, Knopf 1955; A. M. SCHLESINGER, The Age of Roosevelt, Boston, Houghton Miffin 1957. 58 William H. Leuchtenburg ha citato una domanda rivoltagli da Herbert Stein, consigliere economico di Nixon e Ford, che perfettamente sintetizza questo punto di vista: «Cos’ha di tanto speciale il New Deal? Qualsiasi parte del mondo voi consideriate, vi renderete conto che negli anni ’30 essa ha conosciuto un’espansione dello Stato. Il New Deal è soltanto una variante di un’inevitabile tendenza mondiale» (W. E. LEUCHTENBURG, The New Deal at the End of the Twentieth Century, in S. M. MILKIS, J. M. MILEUR (ed.), The New Deal and the Triumph of Liberalism, Amherst, University of Massachusetts Press 2002, pp. 23-30, spec. p. 25). Ma già negli anni ’60 Louis Booker Wright rilevava come fra gli storici esistesse un «generale accordo sulla natura, il significato e l’inevitabilità del New Deal» (L. B. WRIGHT, The Democratic Experience: a Short American History, Chicago, Scott Foresman 1963, p. 415). Vanno in genere collocate in questo filone le opere di quanti scorgono nella graduale crescita delle funzioni di governo un processo lineare ed inar- restabile, che attraversa la storia statunitense dalla fine del XIX secolo in poi (cfr. ad. es. H. G. VATTER, J. F. WALKER, The Inevitability of Government Growth, New York, Columbia University Press 1990; B. C. CAMPBELL, The Growth of American Government: Governance from the Cleveland Era to the Present, Bloomington, Indiana University Press 1995; T. FOSTER, The Inevitability of Government, in Challenge, vol. 40, n. 4, 1997, pp. 83-95). Tale processo, peraltro, è quasi sempre descritto in termini quantitativi, anziché qualitativi: il che non permette di distinguere, ad esempio, una crescita della spesa pubblica cagionata da un rafforzamento del settore militare da una dovuta ad un innalzamento dei sussidi. 59 Cfr. R. HOFSTADTER, The American Political Tradition and the Men who Made it, New York, Knopf 1948, pp. 315- 352.

20 New Deal, nonché, in termini più generali, la dimostrazione di come il carisma di un leader possa concretamente influenzare il corso degli eventi, orientandoli in un senso anziché in un altro. Se- ymour Martin Lipset, in ricerche approfondite ed assai documentate, ha dimostrato come Roosevelt abbia deliberatamente scelto di riunire tutte le forze antisistema all’interno della propria piattaforma politica, impedendo la nascita di un terzo partito di massa, populista e socialista, negli Stati Uniti60. Con riferimento alla sua politica estera, è arrivato a sostenere che il Presidente a- vrebbe comunque condotto l’America in guerra, con o senza l’aggressione giapponese a Pearl Har- bor61. Ma queste considerazioni, che pure meritano spazio ed attenta considerazione, non giustifi- cano la reductio ad Roosevelt di un processo politico più che decennale, che ha coinvolto, con gradi e responsabilità diverse, l’apparato governativo, l’industria privata, l’amministrazione, il sistema giudiziario, il sistema informativo, e la cui eredità continua a far discutere non i soli Stati Uniti, ma l’intera opinione pubblica occidentale62. La suggestiva immagine, proposta da Hofstadter, di Roo- sevelt come «patrizio alla ricerca del compromesso» è utile ad inquadrare la condizione psicologica in cui operò il Presidente, non la sua azione riformatrice, né il lascito di essa. Roosevelt – non va dimenticato – fu parte del New Deal, non il New Deal. E poiché, in ogni ambito dell’agire umano, la condotta dei singoli attori rileva, rispetto a fattori esogeni, quanto più la disamina è circoscritta a livello spaziale e temporale63, si può ragionevolmente sostenere che la mentalità o la cultura del Presidente siano del tutto irrilevanti in una macrointerpretazione tanto delle sue riforme, quanto del loro retaggio istituzionale. Quanto all’insistenza sul “senso pratico” dei riformatori, il giudizio secondo cui «la grande energia» sprigionata dal New Deal «risiedeva nell’istintivo rigetto, da parte di persone pratiche,

60 Cfr. ad es. S. M. LIPSET, Why Is There No Socialism in the United States? in S. SLUZAR (ed.), Sources of Contempo- rary Radicalism, Boulder, Westview Press 1977, pp. 31-149; Radicalism or Riformism: The Sources of Working-Class Politics, in American Political Review, n. 77, 1983, pp. 1-18. 61 Cfr. H. KISSINGER, Diplomacy, New York, Simon & Schuster 1994, tr. it. L’arte della diplomazia, Milano, Sperling & Kupfer 1996, pp. 300-301. 62 Per una panoramica delle trasformazioni introdotte dal New Deal nel campo dell’amministrazione, cfr. B. J. COOK, Burocracy and Self-Government: Reconsidering the Role of Public Administration in American Politics, Baltimore, Johns Hopkins University Press 1996, pp. 98-130. Sull’impatto del New Deal, cfr. B. J. SILVER, E. SLATER, The Social Origins of World Hegemonies, in G. ARRIGHI, B. J. SILVER, I. AHMARD (ed), Chaos and Governance in the Modern World System, Minneapolis, University of Minnesota Press 1999, pp. 151-216, spec. pp. 204-205; M. VAUDAGNA, A Checkered History; The New Deal, Democracy, and Totalitarianism in Transatlantic Welfare States, in L. MOORE, M. VAUDAGNA (ed.), The American Century in Europe , Ithaca, Cornell University Press 2003, pp. 219-242. 63 Riprendendo una terminologia cara a Kenneth Waltz, possiamo interpretare l’abbandono di una chiave di lettura roo- sevelt-centrica e culturalmente riduttivista del New Deal come tappa necessaria al passaggio da una prima ad una se- conda ed una terza «immagine» di esso, quelle in cui le azioni dei singoli attori – Presidente, new dealer, loro oppositori … – vanno considerate alla luce dell’«insieme di condizioni di costrizione» in cui essi operano, derivanti dal sistema politico nazionale e/o internazionale. La metafora delle immagini è esposta in K. WALTZ, The Man, the State and The War, New York, Columbia University Press 1959. La citazione è tratta da K. WALTZ, Theory of International Politics, Reading, Addison-Wesley 1979, tr. it. Teoria della politica internazionale, Bologna, Il Mulino 1987, p. 155).

21 energiche e compassionevoli, di dogmi assoluti64» merita un ridimensionamento. Si può convenire con chi sottolinea come le riforme rooseveltiane siano state «una risposta a una crisi e non un pro- gramma elaborato in anticipo per riformare la società, l’economia e lo Stato65»; non, però, accettare l’immagine fittizia, oltre che poco credibile, di un’equipe di riformatori del tutto scevri da precon- cetti o distorsioni culturali, che si sarebbero affidati al puro e semplice “common sense” per dar vita ad un ampliamento «senza precedenti per velocità ed estensione66» dei compiti di regolazione affi- dati al governo67. Come notato da Tiziano Bonazzi, assumere questo punto di vista implicherebbe «un’indebita semplificazione», basata sulla rimozione del «sicuro e moderno tessuto teorico sul quale si fondano lo sperimentalismo e il “pragmatismo” dei newdealer68». La tendenza a concepire il New Deal in termini rozzamente deterministici si mostra ancor più inadeguata a cogliere il peso svolto dal dibattito teorico e dalle evoluzioni dottrinali. Se l’inter- pretazione classica aveva il merito di sottolineare incertezze e cambi di rotta nell’agenda del Presi- dente, pur sottostimando l’impatto della cultura politica, i “deterministi” sorvolano sulla conflittua- lità esistente fra le diverse anime del movimento. È ragionevole presumere, ad esempio, che il si- stema economico statunitense sarebbe oggi significativamente diverso se i sostenitori delle riforme “strutturali” e della pianificazione, fra il 1937 e il 1940, non avessero perso influenza su Roosevelt a beneficio dei keynesiani, che preferivano agire tramite l’emissione monetaria69. Un simile scontro non può essere adeguatamente compreso senza riconoscere l’esistenza di un articolato dibattito dot- trinale, ed ammettendo così che il New Deal avrebbe potuto intraprendere strade diverse da quelle effettivamente battute70.

64 A. M. SCHLESINGER, The Age of Roosevelt, op. cit. vol. III, p. 647. 65 C. FOHLEN, Il New Deal negli Stati Uniti, in N. TRANFAGLIA, M. FIRPO (a cura di), La storia. Il mondo attuale (1919- 1981), vol. III, Torino, Utet 1986, p. 251. 66 A. ROMASCO, The Politics of Ricovery: Roosevelt’s New Deal, New York, Oxford University Press 1983, p. 219. 67 Un estimatore di Hofstadter, Alan Brinkley, ha ammesso che l’aver «chiaramente sottovalutato il livello d’influenza esercitato dall’ideologia progressista sui policy-makers del New Deal» sia un punto debole della sua opera più nota (A. BRINKLEY, Richard Hofstadter’s the Age of Reform: a Reconsideration, in Reviews in American History, vol. 13, n. 3, 1985, pp. 462-480, spec. p. 475). Secondo Ethan Fishman, Schlesinger confonde pragmatismo e prudenza: mentre il primo insiste sui risultati tangibili e manca di una “visione guida”, la prudenza in senso classico è compatibile con la difesa di alcuni principi che guidino la pratica politica. La condotta di Roosevelt, suggerisce Fishman, sembra più con- forme al secondo fra questi atteggiamenti (E. FISHMAN, The Prudential FDR, in M. J. ROZELL, W. D. PEDERSON, FDR and the Modern Presidency: Leadership and Legacy, Westport, Praeger 1997, pp. 147-166, spec. p. 160). 68 T. BONAZZI, Il New Deal e il Leviatano: la cultura politica della tradizione riformatrice americana, in T. BONAZZI, M. VAUDAGNA (a cura di), Ripensare Roosevelt, Milano, Franco Angeli 1986, pp. 60-98, spec. pp. 61-62. 69 John W. Jeffries ha ricostruito questo dibattito, periodizzando il New Deal in tre fasi e sostenendo che il liberalismo americano abbia cambiato indirizzo, «passando dall’enfasi sulle riforme strutturali e la sicurezza economica nel primo e nel secondo New Deal, al liberalismo keynesiano dell’abbondanza» nel terzo (J. W. JEFFRIES, The “New” New Deal: FDR and American Liberalism, 1937-1945, in Political Science Quarterly, vol. 105, n. 3, 1990, pp. 397-418, spec. p. 398). Cfr. anche A. BRINKLEY, The New Deal and the Idea of State, in . FRASER, G. GERSTLE (ed.), The Rise and Fall of the New Deal Order: 1930-1980, Princeton, Princeton University Press 1989, pp. 85-121, che distingue fra «sostenitori della regolamentazione» e «sostenitori dell’approccio fiscale» (spec. p. 94). 70 È questo l’argomento cruciale di quanti scorgono nel New Deal una “rivoluzione incompleta”, caratterizzata da un progressivo esaurimento della spinta riformatrice (cfr. ad. es. T. SKOCPOL, America’s Incomplete Welfare State: the Limits of New Deal Reforms and the Origins of the Present Crisis, in M. REIN, G. ESPRING-ANDERSEN, L. RAINWATER

22 Affondare lo studio del New Deal da un punto di vista ideologico impone una ridefinizione delle priorità di ricerca. Il nostro obiettivo, infatti, non sarà offrirne una interpretazione globale, né studiarne le ricadute sul sistema politico americano od internazionale attraverso una molteplicità di profili (economico, sociale, giuridico…). Nostro compito sarà, invece, cercare di comprendere attraverso quali elaborazioni te- orica i riformatori, nel corso degli anni ’30, riuscirono ad imprimere un inedito e – per molti aspetti – rivoluzionario cambio di rotta al liberalismo americano. Quest’ultimo ruppe, infatti, i ponti con quella che James Holt ha definito «tradizione antistatalista71» e promosse una più intensa attività di intervento in campo economico e sociale da parte del potere politico. I liberal abbandonarono la tradizionale fiducia, ritenuta “dogmatica”, verso il mercato deregolamentato e tentarono di coniuga- re democrazia rappresentativa e sicurezza sociale72. La battaglia che si consumò attorno al New Deal, ha giustamente rilevato Eric Forner, verte- va sul significato del concetto di libertà e sulla filosofia (il liberalismo) che ne faceva il proprio va- lore fondante. L’interrogativo che divideva gli americani era lo stesso che, nel 1937, un economista aveva così formulato: «la libertà politica è ristretta o allargata dalla regolamentazione economi- ca?73». I liberal propendevano per l’allargamento. Roosevelt «trasformò il termine “liberalismo” da sinonimo di governo debole e di economia del laissez-faire, nella fede in uno Stato interventista e socialmente impegnato, un’alternativa sia al socialismo sia al capitalismo senza regole. Rivendicò inoltre il termine “libertà” dai conservatori e lo rese uno slogan mobilitante del New Deal74». Poiché, come egli aveva proclamato, «gli uomini in stato di necessità non sono uomini libe- ri75», compito delle istituzioni doveva diventare l’alleviamento – e, in prospettiva, il definitivo su- peramento – di tale condizione, correggendo direttamente discriminazioni ed abusi, ovvero pro- muovendo condizioni di favore per le categorie svantaggiate: veterani, lavoratori, salariati, donne,

(ed.), Stagnation and Renewal in Social Policy: the Rise and Fall of Policy Regimes, Armonk, M. E. Sharpe 1987, pp. 35-58). 71 Cfr. J. HOLT, The New Deal and the American Anti-Statist Tradition, in J. BRAEMAN, R. H. BREMNER, D. BRODY (ed.), The New Deal: the National Level, Colombus, Ohio State University Press 1975, pp. 27-49. 72 Sul versante opposto, l’ex Presidente e la American Liberty League di democratici conservatori come Dean Acheson e ribadirono la propria fedeltà al liberalismo classico ottocentesco. Non a torto, George Lloyd ha intravisto nello scontro ideologico fra Hoover e Roosevelt, «le due facce del liberalismo», un conflitto «sulle stesse questioni su cui dibatte la politica contemporanea» (G. LLOYD, Introduction, in G. LLYOD (ed.), The Two Faces of Li- beralism: How the Hoover-Roosevelt Debate Shapes the 21th Century, Salem, M&M Scrivener Press 2006, pp. 1-24, spec. p. 1). Sull’American Liberty League, cfr. F. RUDOLPH, The American Liberty League, 1934-1940, in The Ameri- can Historical Review, vol. 56, n. 1, 1950, pp. 19-33, in cui il programma dell’associazione è definito «una vigorosa e ben argomentata difesa dell’individualismo e del liberalismo ottocentesco, una elaborazione più esplicita e precisa di quella che si possa trovare da qualsiasi altra parte nella storia americana» (ibidem, p. 20). 73 Cfr. T. V. SMITH, Political Liberty Today: Is it Being Restricted or Enlarged by Economic Regulation?, in American Political Science Review, n. 31, 1937, pp. 243-252. 74 E. FORNER, The Story of American Freedom, New York, W. W. Norton & Company 1998, tr. it. Storia della libertà americana, Roma, Donzelli 2000, pp. 264-280, spec. p. 271. 75 F. D. ROOSEVELT, An Economic Bill of Rights, in S. I. ROSENMAN (ed), The Public Papers and Addresses of Franklin D. Roosevelt, New York, Random House 1938-1950, vol. 13, p. 32.

23 bambini, minoranze etniche e religiose. La battaglia contro lo “stato di necessità” comprendeva tan- to il riconoscimento del ruolo del sindacato, concepito come indispensabile controparte della grande industria, quanto la creazione di un moderno sistema previdenziale basato su sussidi, gran parte dei quali destinati a pensionati e disoccupati76. È questa metamorfosi del liberalismo che approfondiremo, nel presente capitolo. Ciò impo- ne alcuni sacrifici ed accorgimenti metodologici. Tralasceremo, anzitutto, ogni riferimento alle concrete realizzazioni della amministrazione Roosevelt. La storia istituzionale rappresenterà, per così dire, lo sfondo della nostra discussione, ma non verificheremo in che misura ed in quali occasioni le idee astratte ebbero incidenza sulle singole misure di policy-making. In secondo luogo, ci avvarremo di coordinate cronologiche diverse da quelle della storiogra- fia evenemenziale. Il liberalismo “rooseveltiano” può essere descritto come un insieme di idee, mai espresse in forma sistematica, alcune preesistenti, altre sviluppatesi nel corso della sua amministra- zione, che egli promosse e con cui orientò il proprio operato politico77. Tali, idee, tuttavia, gli so- pravvissero e continuarono ad esercitare una forte influenza sulla scena pubblica. Il liberalismo dei new dealer conobbe un profondo radicamento nella cultura americana, esercitando un ruolo di pri- mo piano nel dibattito pubblico sino ai primi anni ’50, e – sia pure in forma edulcorata – per tutto il decennio successivo. Ecco perché il presente capitolo si spinge ben oltre gli anni ’30, e delinea un quadro che lambisce gli anni ’60. La nostra attenzione, in altri termini, non si concentrerà sul New Deal in sen- so stretto, bensì sulla fase di consolidamento di quello che alcuni storici hanno definito New Deal Order, e che altri preferiscono chiamare Liberal Order, o Democratic Order78. Tali espressioni designano, certo, una peculiare distribuzione di potere all’interno del siste- ma americano, un assetto stabilizzato che coinvolgeva il Presidente ed il congresso, il governo fede- rale ed i singoli stati, gli elettori ed il sistema partitico. Ma, come Gary Gerstle e Steve Fraser hanno opportunamente evidenziato, esse sono utili a scandagliare anche «i fondamentali cambiamenti […]

76 S. J. SAVAGE, FDR’s Party Leadership, in M. J. ROZELL, W. D. PEDERSON, FDR and the Modern Presidency: Lead- ership and Legacy, op. cit., pp. 119-132; C. SINYAI, Schools of Democracy: a Political History of the American Labor Movement , Ithaca, ILR Press 2006, pp. 110-135; J. SINGLETON, The American Dole: Unemployment Relief and the Welfare State in the , Westport, Greenwood Press 2000, pp. 1-26; G. MINK, The Wages of Mother- hood: Inequality in the Welfare State, Ithaca, Cornell University Press 1995, pp. 123-150. 77 La reciproca influenza fra pensatori liberali e riformatori rooseveltiani è evidenziata nell’eccellente lavoro di J. R. PI- PER, Ideologies and Institutions: American Conservative and Liberal Governance Prescriptions since 1933, Lanham, Rowman & Littlefield 1997, pp. 13-14. 78 Cfr. S. FRASER, G. GERSTLE (ed.), The Rise and Fall of the New Deal Order: 1930-1980, op. cit.; S. F. HAYWARD, The Age of Reagan. The Fall of the Old Liberal Order, Roseville, Forum 2001; D. PLOTKE, Building a Democratic Po- litical Order: Reshaping American Liberalism in the 1930s and the 1940s, Cambridge, Cambridge University Press 1996. Secondo la celebre periodizzazione di Arthur M. Schlesinger sr., il ciclo politico progressista iniziò nel 1931 e si esaurì attorno al 1947: questa scansione cronologica corrisponde, appunto, al consolidamento del New Deal Order de- scritto nel presente capitolo (cfr. A. M. SCHLESINGER SR., Paths to the Present, New York, Macmillan 1949).

24 nell’economia della nazione, nella struttura sociale e nella cultura politica79». Benché sia possibile impiegare il concetto di New Deal Order in senso restrittivo80, è assai più proficuo estenderlo allo studio delle «élites economiche, dei network di policy-making, delle ideologie e dei programmi po- litici che hanno dato forma alla distribuzione del potere e influenzato il carattere di quest’epoca. Sono proprio queste élites, questi programmi e queste ideologie – fattori, nella vita politica della nazione, che gli studiosi dei sistemi elettorali hanno tendenzialmente sottostimato – che il nostro termine “ordine politico” vuole ricomprendere81». Il presente capitolo può essere considerato un contributo allo studio del New Deal Order, in- centrato sull’analisi dei suoi connotati ideologici. Questi ultimi saranno individuati nella combina- zione di tre differenti aree di riflessione e di studio: i progetti di economia organizzata avanzati da autori come Adolf A. Berle e Rexford G. Tugwell; il “nuovo liberalismo” proposto da John Dewey e da John Maynard Keynes; le scienze sociali promosse da Charles E. Merriam (par. I). Benché non sempre convergenti, questi filoni contribuirono a definire una nuova concezione dell’ordine politi- co, retto non più dalla sola interazione spontanea fra portatori di interessi privati, ma anche dal rico- noscimento di spazi di «sperimentazione» politica, in cui nuovi diritti e nuove libertà potevano es- sere garantiti. Esamineremo quindi le tesi dei principali oppositori del New Deal, esponenti di una visione più tradizionale del liberalismo. Evidenzieremo, inoltre, l’impatto che ebbe la Seconda Guerra Mondiale nel determinare la loro emarginazione dalla scena pubblica (par. II). In seguito, sottolineeremo le difficoltà che il liberalismo progressista dovette affrontare fra il 1945 e il 1950, e come, proprio in quegli anni, le scienze sociali accrebbero la loro influenza sulla vita intellettuale americana (par. III). Mostreremo infine come il liberalismo, nel corso degli anni ’50, smarrisse poco a poco i ca- ratteri riformistici e progressivi acquisiti negli anni ’30, e – pur continuando a rappresentare la cul- tura politica prevalente – perdesse in vitalità ed in capacità di interpretare bisogni ed aspirazioni emergenti (par. IV). Ascesa, consolidamento, declino: sono queste le tappe cruciali che ripercorreremo, studian- do l’ordine liberale in un’ottica ideologica.

I.1 Contro l’economia classica: Adolf A. Berle e Rexford Tugwell

79 Cfr. S. FRASER, G. GERSTLE (ed.), The Rise and Fall of the New Deal Order: 1930-1980, op. cit., p. x. Corsivo mio. 80 Per un approccio di questo tipo, focalizzato soprattutto sulle coalizioni elettorali ed i partiti, I. W. MORGAN, Beyond the Liberal Consensus: a Political Hisoty of the United States since 1965, New York, St. Martin’s Press 1994, pp. 12- 20. 81 Cfr. S. FRASER, G. GERSTLE (ed.), The Rise and Fall of the New Deal Order: 1930-1980, op. cit., p. xi.

25 Il 22 ottobre 1928, davanti ad un’assemblea di sostenitori, il candidato repubblicano alle Presidenziali, Herbert Hoover, promise, se eletto, di smantellare controlli e regolamentazioni risa- lenti all’entrata in guerra. Metodi e strumenti inevitabili durante un conflitto potevano rappresentare una seria minaccia in tempo di pace, divenendo la premessa per un «dispotismo centralizzato che si fa carico di responsabilità mai assunte in precedenza, acquista poteri autocratici e si immischia negli affari dei cittadini». Già sul finire degli anni ’10, ammoniva Hoover, si era profilato lo scontro fra «il sistema americano dell’individualismo radicale e la filosofia europea, basata su dottrine opposte, dottrine come il paternalismo e il socialismo di stato». Quello scontro si era ora trasferito sul suolo statunitense. Hoover sosteneva di aver toccato con mano, in qualità di Ministro del Commercio, i guasti prodotti dall’ampliamento delle competenze del governo federale, «le tirannie, le ingiustizie, la distruzione dell’autogoverno, la sottovalutazione degli istinti profondi che spingono le persone verso il progresso». Sceglierlo come Presidente avrebbe significato difendere i «prìncipi di decen- tramento, libertà ordinata, eguali opportunità, e libertà individuale», grazie ai quali «l’esperimento americano ha prodotto un livello di benessere senza eguali nel resto del mondo». Seguiva una pro- fezia, rimasta celebre: «Si sta avvicinando l’abolizione della povertà, la fine della paura e del biso- gno, che mai l’umanità ha raggiunto in precedenza82». Cinque anni dopo – anni scanditi dal tracollo di Wall Street, del collasso del sistema produt- tivo, dell’esplosione della disoccupazione di massa – il giurista e new dealer Adolf A. Berle83 so- stenne la necessità di rivisitare criticamente molti degli assunti su cui si era basata la teoria econo- mica dominante, e su cui uomini come Hoover avevano costruito la propria credibilità pubblica: «Per diverse generazioni i governi hanno fondato le loro scelte sulla teoria dell’equilibrio naturale delle forze economiche. La legge della domanda e dell’offerta avrebbe regolato i prezzi […]. Il pro- duttore efficiente avrebbe avuto successo mentre l’inefficiente sarebbe fallito, e ciò avrebbe mante- nuto la capacità produttiva al passo con le necessità di consumo. Se ci fosse stato bisogno di crediti, i banchieri li avrebbero forniti; mentre ad una eccessiva erogazione creditizia, sarebbe seguito un periodo di inflazione generale che avrebbe ridotto il debito. Tutto ciò era acquisito nella teoria di governo dell’epoca, che si basava essenzialmente sulle teorie economiche classiche di Adam Smith84».

82 H. HOOVER, Campaign Speech. New York, October 22, 1928, in G. LLYOD (ed.), The Two Faces of Liberalism: How the Hoover-Roosevelt Debate Shapes the 21th Century, op. cit., pp. 35-39, spec. pp. 35-36. 83 Adolf A. Berle (1895-1971) è ricordato anzitutto come uno dei primi e più autorevoli studiosi delle corporations nel sistema americano. Uomo di punta nei trust di Franklin D. Roosevelt, insegnò Corporate Law presso la Harvard University. Su Berle, cfr. J. A. SCHWARZ, Liberal: Adolf A. Berle and the Vision of an American Era, New York, Free Press 1987). 84 A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine, n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, Roma, Gangemi 2007, p. 103.

26 Sennonché, la rivoluzione industriale aveva permesso che l’organizzazione divenisse una forza interna al sistema economico. Organizzazione aveva significato, almeno inizialmente, inve- stimenti capillari e mirati, ma ben presto essa aveva creato una discrasia nei meccanismi di alloca- zione che regolavano la legge della domanda e dell’offerta. Berle avvertiva che «noi non possiamo più fare affidamento sulla teoria economica dell’equilibrio naturale per provvedere ai bisogni uma- ni. L’effetto dell’organizzazione è tale da alterare e ritardare in misura fino ad ora indispensabile le forze che tendono a ristabilire l’equilibrio85». Tali forze, beninteso, non erano del tutto scomparse: esse, lentamente, continuavano ad ope- rare, ma necessitavano tempi lunghi per assestarsi. Tutto ciò non offriva alcuna garanzia a quanti si trovavano improvvisamente espulsi dal mercato e faticavano a rientrarvi. «Si può dire che il New Deal sia soltanto un riconoscimento del fatto che gli esseri umani non possono essere definitiva- mente sacrificati a milioni per gli effetti delle forze economiche aggravati dal fattore organizzativo. Inoltre, si può fare appello al mero processo organizzativo che può produrre il meccanismo econo- mico, per evitare il terribile pedaggio sulla vita, la salute e la felicità che impone una ristrutturazio- ne nelle attuali condizioni86». Tra i problemi che Roosevelt aveva affrontato con maggior risolutezza vi erano quelli con- nessi alla concentrazione industriale. E questo perché «prima d’ora si presumeva che l’industria fos- se fatta di imprese, dirette a fini privati di guadagno, fornitrici di merci e servizi richiesti dal paese: invece è molto più di questo. È infatti uno dei canali principali attraverso i quali si distribuisce il reddito nazionale87». Una più equilibrata distribuzione di tale reddito avrebbe garantito l’accesso ai consumi a fasce crescenti della popolazione, creando un ciclo virtuoso fra crescita della produzione ed innalzamento dei salari. «Nel pensiero politico» sosteneva Berle «questo è un nuovo modo per considerare il problema della ricchezza. I comunisti parlano di abolizione completa della proprietà privata e della necessità di distribuire direttamente beni e servizi; così concepiscono la giustizia so- ciale. I sociologi pensano ad un reddito distribuito egualmente, basandosi sulla teoria che una vasta classe media o, meglio, una nazione fatta di persone in possesso di mezzi limitati, forma le basi per una vita nazionale più sana. Allo studioso di provata tempra spetta il compito di elaborare la sem- plice equazione che senza una distribuzione sufficientemente ampia del reddito nazionale non ci so-

85 A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., ibidem. 86 A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 104. 87 A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 105.

27 no abbastanza compratori per far lavorare gli impianti e che se gli impianti vengono chiusi per man- canza di lavoro anche i salari e gli stipendi crollano88» Mobilitazione ed organizzazione erano i principi guida dell’azione di Roosevelt, il trait d’union fra iniziative come la NRA, la legislazione sull’agricoltura, la disciplina del settore dei tra- sporti. Simili interventi avevano «lo scopo di introdurre nel sistema economico una forza organizza- tiva da usare per controbilanciare gli effetti della mancanza di coordinazione, per assicurare che gli oneri del riassestamento vengano equamente distribuiti e che nessun gruppo sociale sia brutalmente sacrificato alle esigenze imposte dall’equilibrio economico89». L’unica alternativa realistica alle riforme, secondo Berle, era la completa socializzazione del sistema produttivo. Ciò avrebbe comportato requisizioni di massa, la trasformazione di produttori e fornitori di servizi in agenzie distributive del governo, la soppressione di debiti e crediti, la creazio- ne di un sistema di tesseramento che riconoscesse ad ogni cittadino un potere d’acquisto necessario ad ottenere i beni di prima necessità. Questa ipotesi, tuttavia, presentava due punti deboli. Da un lato, essa avrebbe eliminato l’incentivo del profitto individuale, e ciò avrebbe forse comportato una diminuzione dell’efficienza produttiva. «Non credo» affermava però Berle, con un argomento che avrebbe fatto inorridire Hoo- ver e gli individualisti, «che questa obiezione sia molto seria. Quel che sappiamo circa la produzio- ne ai fini del profitto individuale ci basta per rilevare che essa è tanto spesso efficiente quanto inef- ficiente; che mentre il profitto individuale in una piccola impresa è un fattore di efficienza, in una grande impresa la ricerca del profitto si risolve con ogni probabilità in un saccheggio su vasta sca- la90». Più seria era la seconda critica, che evidenziava l’impossibilità, da parte del governo, di sfrut- tare al meglio talenti e capacità dei cittadini. Ciò avrebbe richiesto l’elaborazione di criteri più det- tagliati nell’allocazione delle risorse, tali da permettere, ad esempio, alle persone più istruite di be- neficiare di servizi migliori. La socializzazione, comunque, sarebbe stata una soluzione estrema, da adottare temporane- amente ed unicamente in condizioni di emergenza. Berle non si diceva del tutto terrorizzato da una tale eventualità: dal momento che «la gente non cambia le proprie abitudini facilmente», e quindi un sistema sovietico in terra americana «assomiglierebbe molto di più al Rotary Club o alle Confrater- nite delle quattro ferrovie che non al Soviet di Mosca91». La sua predilezione andava, comunque,

88 A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 106. 89 A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 109. 90 A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 111. 91 A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 113.

28 alla «via […] della moderazione e della ricostruzione92» che saggiamente Roosevelt aveva deciso di seguire. Per Berle, e per i new dealer moderati, una puntuale opera legislativa e la creazione di orga- nismi ad hoc avrebbero permesso il ripristino del corretto funzionamento per il sistema capitalistico. Radicali come Rexford Tugwell93 miravano, invece, al superamento del capitalismo competitivo, e all’abbandono della «concezione del governo come un residuo di poteri destinati ad essere abban- donati uno dopo l’altro quando altri corpi sociali fossero in grado di assumerli94». Esisteva, secondo Tugwell, un sentimento diffuso in base al quale il governo avrebbe dovuto assumere compiti più vasti della semplice regolamentazione: «come si possono alleviare le difficol- tà in cui si dibattono gli agricoltori senza l’organizzazione a livello federale di nuove istituzioni? In quale altro modo i lavoratori possono realizzare le loro aspirazioni?95». Né le leggi antitrust, né le commissioni governative, del resto, si erano mostrate efficaci contro i mali prodotti dalla concor- renza sfrenata, come dimostrato dallo sfruttamento dei lavoratori, dalla bassa qualità dei prodotti, dalla nascita di monopoli di fatto, e questo perché «l’abilità dei legali delle corporations ha superato quella dei legislatori e dei governanti96». La grave crisi che attanagliava l’America poteva essere superata, ma soltanto abbandonando preclusioni verso nuovi ordinamenti politici, economici, socia- li. «La sfida agli uomini di governo è molto simile a quella che abbiamo dovuto affrontare non mol- ti anni fa per assicurare il mondo alla democrazia. Ritenemmo allora che si trattasse di una crisi tan- to grave da dover fare appello a tutte le nostre riserve di energia umana e di capacità di governo. Per una volta, tutte le forme tradizionali di organizzazione furono abbandonate a favore di quelle che imponevano le imminenti vicende97». Quella guerra di cui Hoover aveva denunciato il potenzia- le impatto autoritario sulla mentalità e la costituzione materiale statunitensi diveniva per Tugwell un esempio di audacia e di apertura alla sperimentazione98.

92 A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., ibidem. 93 Rexford G. Tugwell (1891-1979), economista agrario, protagonista del primo Brain Trus di Rooseveltt, si dimise nel 1936 quando la Resettlement Administration da lui guidata finì nel mirino del Congresso con l’accusa di socialismo. Fu in seguito presidente della Commissione pianificatrice della città di New York e Governatore di Porto Rico. Su Tug- well, cfr. B. STERNSHER, Rexford Tugwell and the New Deal, New Brunswick, Rutgers University Press 1964. 94 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 77. 95 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 78. 96 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 82 97 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 83. Corsivo mio. 98 Già nel 1918, Tugwell aveva definito la Prima Guerra Mondiale un «laboratorio sociologico» ed aveva guardato con simpatia alle conquiste sociali del socialismo di guerra (Cfr. R. G. TUGWELL, The War-Time Sociological Laboratory, in Nation, CVI, 1918, pp. 258-259; America’s War-Time Socialism, in Nation, CXXIV, 1927, pp. 364-367). La mobili- tazione bellica aveva fortemente suggestionato progressisti come Dewey o Veblen, che vi avevano intravisto una possi- bilità di ascesa sociale per classi e gruppi etnici svantaggiati, nonché un ottimo esempio di compenetrazione fra politica

29 La richiesta di sicurezza economica proveniente dai cittadini – «sicurezza di accedere ai beni di una vita semplice, sicurezza di lavorare, sicurezza in caso di malattia e di vecchiaia99»– andava soddisfatta con piani nazionali e forme di integrazione e coordinamento tra le imprese. La pianifica- zione settoriale era un’illusione, poiché regolamentare un settore avrebbe comportato ricadute sugli altri, e solo un intervento esteso garantito gli effetti previsti. Pianificazione significava, per Tu- gwell, assegnare alle imprese i capitali sufficienti per vendere le merci ad un prezzo eguale al costo di produzione; limitare la libertà di circolazione dei capitali; evitare che l’eccessiva competizione comportasse la saturazione del mercato e portasse alcuni produttori al fallimento. Simili progetti, che non esigevano radicale discontinuità con la conformazione costituzionale americana, avrebbero comunque richiesto un ampliamento dei poteri del governo federale. Ad opporvisi sarebbero stati, profetizzava Tugwell, cogliendo peraltro nel segno, «i fautori del laissez-faire come filosofia eco- nomico-politica. Subito dopo, i sostenitori più convinti dell’autonomia statale contro l’ingerenza fe- derale, perché le nuove disposizioni indicherebbero chiaramente la necessità di un governo federale. Da un ultimo, ci sarebbe l’opposizione, ne possiamo essere sicuri, da parte di un certo numero di in- teressi costituiti, come quelli rappresentati dagli avvocati costituzionalisti, dai consulenti di società e da altri che esercitano la professione legale e trovano il loro più lucroso campo di attività nei dia- bolici tentativi di eludere le leggi vigenti100». Successivamente, sarebbe stato necessario intervenire su prezzi e tariffe, nell’ottica di un riequilibrio delle disuguaglianze. «I prezzi per i consumatori dovrebbero essere fissati localmente da uffici di un comitato per il controllo che operano tramite le amministrazioni regionali. I prezzi delle merci destinate alla produzione – materie prime grezze o semilavorate –entrerebbero a far par- te di un piano per impedire alle imprese più forti di sfruttare quelle più deboli e per regolamentare i rapporti interaziendali101». La pianificazione ipotizzata da Tugwell si distingueva da quella propugnata dai socialisti perché non sarebbe stata interamente imposta dall’esterno, da parte dello Stato, bensì presupponeva un coinvolgimento attivo delle aziende e delle associazioni industriali. Queste ultime «dovrebbero formare i propri organismi di pianificazione e le strutture direttive centrali allo scopo di mantenere certi livelli di concorrenza e di controllare i prezzi massimi e i salari minimi. Per la gestione ordina- illuminata e progresso tecnologico. William Leuchtenburg è arrivato a sostenere che le forme di pianificazione introdot- te sotto Wilson abbiano rappresentato un modello mutuato dai new dealer (cfr. A. F. DAVIS, Reform and World War I, in American Quarterly, vol. 19, n. 3, 1967, pp. 516-533; W. LEUCHTENBURG, The New Deal and the Analogue of War, in J. BRAEMAN, R. H. BREMNER, E. WALTERS (ed.), Change and Continuity in Twentieth Century, Columbus, Ohio Sta- te University Press 1965, pp. 81-143). 99 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 84. 100 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 93 101 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 95-96.

30 ria questa struttura direttiva agirebbe senza interferenze esterne mentre, per l’affiliazione di più gruppi industriali, verrebbe istituita una commissione centralizzata di queste associazioni con la funzione di mediare e integrare le diverse componenti». Una struttura gerarchica avrebbe permesso di premiare con incentivi le industrie più disciplinate, nonché di finanziare fondi economici, a bene- ficio dei disoccupati, più ricchi rispetto al sistema sui sussidi: il che avrebbe rappresentato «il primo passo americano verso la sicurezza sociale102». Queste e molte altre idee, però, avrebbero trovato applicazione solo se e quando gli america- ni avessero compreso l’urgenza di una rifondazione del sistema produttivo, emancipandosi da gran parte dei dettami della scuola economica classica. «Questo bisogno non è ancora avvertito con chia- rezza dagli americani, in parte perché essi non hanno capito i progressi tecnici che sono avvenuti in- trono a loro, in parte perché ci sono potenti interessi che hanno gran voce in capitolo, che non gradi- scono il cambiamento103». Occorreva persuadere l’americano medio che l’immagine ottocentesca di piccole imprese in competizione fra loro era del tutto inadeguata a descrivere la società americana, dominata da trust e colossi industriali, e che un rafforzamento del potere centrale era inevitabile per evitare che le grandi imprese sfuggissero alla giurisdizione dei singoli Stati. I new dealer si vedeva- no costretti ad agire in un quadro di norme costituzionali antiquate, il che spiegava contraddizioni ed incertezze nel loro operato. Eppure, il successo delle loro riforme si sarebbe basato sulla capaci- tà, da parte del governo federale, di dimostrare «di conoscere l’industria più degli industriali stes- si104». Superiore conoscenza, per Tugwell, implicava la percezione chiara che bisognasse «escogita- re un sistema di relazioni tra le imprese in cui ogni unità sia complementare a ciascun altra ed in cui la cooperazione – in luogo dell’attuale conflittualità – sia il principio ispiratore105». Soltanto un as- setto così congegnato avrebbe garantito un giusto punto d’equilibrio fra esigenze delle imprese e salvaguardia dell’interesse pubblico.

I.2. Rinnovare il liberalismo: John Dewey e John Maynard Keynes

La sfiducia nutrita da Berle, Tugwell ed altri new dealer verso il metodo concorrenziale e l’individualismo possessivo non si basava su una teoria politica coerentemente espressa. La filoso-

102 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 99. 103 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 100. 104 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 102. 105 R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933, pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., ibidem.

31 fia di John Dewey106 rappresentò invece un punto di riferimento per quanti, sull’onda delle riforme rooseveltiane, iniziarono a declinare il liberalismo in chiave democratica e progressista. In una conferenza del 1934107, Dewey descrisse il liberalismo tradizionale come un’ideologia funzionale alla rivolta contro il mondo aristocratico e feudale, in cui la rivendicazione dei diritti di libertà era associata al desiderio di emancipazione dall’oppressione politica, economi- ca, religiosa. Il liberalismo dei secoli XVIII e XIX postulava l’esistenza di un ordine naturale, costi- tuito da leggi oggettive, con cui il potere politico non avrebbero dovuto interferire: «l’intervento governativo nell’industria e nello scambio era considerato una violazione non solo della libertà in- dividuale, ma anche delle leggi naturali108». Questa dottrina, sosteneva Dewey, aveva reso un servizio egregio alla causa della libertà, ma non era riuscita a superare il suo limite congenito: «la mancanza di percezione della relatività stori- ca109». Tale mancanza comportava che l’individuo, esaltato dai liberali, fosse concepito come «qualcosa di dato, completo in sé» e la libertà «un possesso bell’e pronto, che necessita soltanto del- la rimozione delle barriere esterne per manifestarsi in tutto se stesso110». In questo modo, concepito alla stregua di un atomo nella teoria newtoniana, l’individuo veniva isolato dal suo contesto tempo- rale e spaziale, ed il nesso fra individualismo e libertà veniva a costituire una «verità assoluta ed e- terna, buona per tutti i tempi e tutti i luoghi111». Assolutizzare una delle possibili concezioni della libertà aveva trasformato, secondo Dewey, molti liberali in pseudo-liberali: fra costoro potevano essere annoverati Hoover, gli esponenti della Liberty League, e tutti coloro i quali «fossilizzavano e soffocavano aspirazioni generose112» in no- me del passato. Pur servendosi delle parole d’ordine della tradizione liberale, i vetero-liberali lotta- vano «per qualcosa di profondamente diverso», e tendevano a servirsi di «idee che un tempo erano state armi di emancipazione come mezzi per conservare il potere e la ricchezza che avevano con- quistato113». La loro stessa incapacità di capire che ciò che era progressista nel XIX secolo poteva considerarsi reazionario nel XX testimoniava la loro mancanza di senso storico. Contrapporre individuo e Stato, infatti, poteva avere un senso sotto un regime tirannico ed assolutista, ma risultava assurdo in democrazia, e finiva per gettare discredito sull’idea stessa di in-

106 John Dewey (1859-1952) filosofo e pedagogista, fu l’esponente più autorevole del progressismo americano. Teorico dello sperimentalismo, si occupò anche di psicologia e si dedicò alla politica attiva nei ranghi della sinistra newyorkese nel corso degli anni ’30. Su Dewey, cfr. A. RYAN, John Dewey and the High Tide of American Liberalism, New York- London, Norton 1995. 107 Molti dei concetti enunciati in questa conferenza saranno esposti in modo esteso e più approfondito nel volume Libe- ralism and Social Action (1935) (cfr. J. DEWEY, Liberalism and Social Action, New York, Putnam’s Son 1935). 108 J. DEWEY, The Future of Liberalism, in The Journal of Philosophy, vol. 32, n. 9, 1935, pp. 225-230, spec. p. 225. 109 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., spec. p. 226. 110 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 111 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 112 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 113 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.

32 dividualità, associata a comportamenti egoistici ed antisociali. «Gli amari frutti» di questa mentalità erano facilmente riscontrabili nella difesa ad oltranza, promossa dai liberali ortodossi, «della sfrena- ta libertà di impresa114». Il nuovo liberalismo, emancipato dalla tentazione di assolutizzare valori storicamente deter- minati, avrebbe dovuto riconoscere che «un individuo non è qualcosa di fisso, di già pronto. È qual- cosa di acquisito, e di acquisito non in condizioni di isolamento, ma con l’aiuto ed il supporto di al- cune condizioni, culturali e fisiche – includendo, fra quelle culturali, le istituzioni economiche, giu- ridiche e politiche, così come la scienza e le arti115». I liberali dovevano rendersi conto che «le con- dizioni sociali possono restringere, distorcere e pressoché impedire lo sviluppo dell’individualità116». Per questo le istituzioni politiche non avrebbero dovuto meramente difendere la libertà esistente, bensì promuoverla e diffonderla attraverso nuove forme, e con nuovi metodi. Logicamente, poiché «il contenuto dell’individuo e della libertà mutano al mutare del tem- po; vale per il mutamento sociale ciò che vale per lo sviluppo del singolo, nel passaggio dall’infanzia alla maturità117», i liberali avrebbero dovuto accettare lo sperimentalismo. «La con- nessone fra relatività storica e metodo sperimentale è istintiva. Tempo significa cambiamento. Il si- gnificato dell’individualità, in rapporto alle politiche sociali, muta al mutare delle condizioni in cui l’individuo vive. Il precedente liberalismo, essendo assolutista, era anche antistorico118». Il nuovo liberalismo avrebbe dovuto, al contrario, accettare una «continua ricostruzione» delle idee di indivi- dualità e di libertà, alla luce dei mutamenti nelle relazioni sociali. «Un metodo sperimentale si basa sulla ricognizione del cambiamento temporale nelle idee e nelle politiche sociali, in modo tale che le seconde possano coordinarsi con i fatti, anziché opporvisi119». Qualsiasi altro approccio alla tra- dizione liberale, sosteneva Dewey, degenerava nel concettualismo, nell’illusoria pretesa di poter va- lutare idee e concetti in una dimensione extrastorica. Relativismo storico e sperimentalismo rappresentavano le stelle polari di un liberalismo che non si contrapponeva al radicalismo politico, «se col termine radicalismo si intende l’adozione di politiche che comportino un drastico cambiamento sociale, anziché uno graduale120». Al contrario, pur sottolineando l’opportunità di uno «studio intelligente del mutamento sociale121», volto ad indi- viduare le migliori procedure per introdurre una riforma, non vi era nulla, nel liberalismo, che lo co- stringesse ad essere «una dottrina all’acqua di rose, impegnata nella ricerca del compromesso e fa-

114 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., p. 227. 115 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 116 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 117 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 118 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., p. 228 119 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 120 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 121 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.

33 vorevole a riforme di piccolo rango122». Esisteva, invece, un conflitto con quelle forme di radicali- smo che giudicavano irrinunciabile un sovvertimento violento dell’ordine esistente. Questo perché, secondo Dewey, l’essenza del liberalismo consisteva nella «massima fiducia nell’intelligenza123». E poiché, per un liberale autentico, era sempre necessario valutare le conseguenze pratiche dei princi- pi professati, nonché rapportare fini e mezzi, era assurdo sostenere che metodi dittatoriali potessero essere funzionali all’affermazione di un più elevato grado della libertà umana. Nell’America degli anni ’30, tuttavia, un contrasto con i radicali era da escludere poiché e- rano i reazionari, e non i radicali, ad esercitare un controllo quasi dittatoriale della forza – nella stampa e nella scuole, nell’esercito e nelle forze di polizia –: «la sola ragione per cui costoro non ri- chiedono l’utilizzo della forza è che già ne sono in possesso, cosicché la loro politica consistere nel nascondere questo fatto con frasi idealistiche – di cui l’attuale uso dei principi della libertà e della libera iniziativa è un esempio124». I liberali, per contrastare un così vasto e solido blocco d’interessi, erano chiamati a servirsi di tutte le forze intellettuali a disposizione, e a chiarire che per loro «il si- gnificato pratico della libertà va molto al di là della relazione fra individuo e governo, per tacere della mostruosa dottrina secondo cui, in ogni circostanza, l’azione governativa e la libertà indivi- duali si trovano in sfere separate e indipendenti l’una dall’altra125». La libertà dei liberali avrebbe dovuto essere anzitutto una libertà culturale, una «libertà completa dello spirito umano» raggiungi- bile soltanto in condizioni di «effettiva opportunità di condividere le risorse culturali della civil- tà126». Ogni declinazione della tradizione liberale che non ponesse la libertà spirituale, anziché quella strettamente economica, al centro del propria azione poteva considerarsi «degenerata e delu- dente127». La filosofia politica di Dewey, debitrice tanto del pragmatista William James quanto dei ri- formatori degli anni ’10128, poteva essere descritta come «l’articolazione dottrinale del gospel pro- gressista», un credo che scorgeva nel metodo scientifico e nella pedagogia gli strumenti essenziali ad un’emancipazione, concreta e quotidiana, degli esseri umani129.

122 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 123 J. DEWEY, The Future of Liberalism, p. 229. Corsivo mio. 124 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 125 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., p. 230. 126 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 127 J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem. 128 Cfr. R. GALE, William James (1842-1910) and John Dewey (1859-1952): the Odd Couple, in P. A. FRENCH, H. K. WETTSTEIN (ed.), The American Philosophers, Boston, Blackwell 2004, pp. 149-167; D. ROSS, The Origins of Ameri- can Social Science, Cambridge-New York, Cambridge University Press 1991, pp. 162-171. 129 A. E. MURPHY, John Dewey and American Liberalism, in The Journal of Philosophy, vol. 57, n. 13, 1960, pp. 420- 436, spec. p. 422. Nadia Urbinati ha notato che «Dewey incorpora la dimensione ideale dell’uomo in una nozione di democrazia come regno ideale, il solo luogo dove può aversi un ininterrotto processo di accomodamento tra la realtà ideale e il mondo del quotidiano e del sociale» (N. URBINATI, Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultu- ra politica americana, Roma, Donzelli 1997, p. 136). È proprio questa declinazione in chiave progressista della demo- crazia – ha sottolineato Giovanna Cavallari – a separare Dewey dai liberali “proceduralisti” alla Schumpeter: «Dewey insiste invece sulle capacità innovative del sistema democratico, che consistono – come ha scritto uno dei suoi più noti

34 Eppure – al di là di alcune influenze e suggestioni prettamente americane130 – è possibile cogliere una consonanza profonda fra la proposta di rinnovamento del liberalismo avanzata da De- wey e quella che John Maynard Keynes aveva sostenuto, in modo frammentario e asistematico131, nell’Inghilterra degli anni ’20132. Essa emerge nitidamente dalla lettura di due testi complementari, il saggio La fine del laissez-faire, pubblicato nel 1926, e la conferenza Am I a Liberal?, di qualche mese precedente. Ripercorrendo le principali tappe dell’affermazione del liberoscambismo come dottrina so- ciale, Keynes notava come gli economisti avessero svolto un ruolo di primo piano nel legittimare l’idea di un armonica combinazione fra interesse privato e benessere collettivo, basata sull’assunto secondo cui «gli individui che perseguono il proprio illuminato interesse in condizioni di libertà tendono sempre a promuovere nello stesso tempo l’interesse generale133». Poiché tale assunto si era dimostrato, alla prova dei fatti, falso, si rendeva necessaria un’opera di smascheramento di pregiu- dizi, dogmi e luoghi comuni che ruotavano attorno al ruolo dello Stato nel settore economico. «Non è vero che sia prescritta una “libertà naturale” per le attività economiche degli individui. Non esiste alcun patto o contratto che conferisca diritti perpetui a coloro che posseggono o a quelli che acqui- stano. Il mondo non è governato dall’alto in modo che gli interessi privati e quelli sociali coincida- no sempre; né è condotto quaggiù in modo che coincidano134». Proprio gli economisti avrebbero potuto individuare casi concreti in cui un più marcato in- tervento pubblico avrebbe permesso di accrescere il benessere diffuso. Con un’intuizione divenuta poi centrale nel progetto di “capitalismo organizzato” dei new dealer, Keynes affermava: «Credo che in molti casi la dimensione ideale per l’unità di controllo e di organizzazione sia un punto in- termedio fra l’individuo e lo stato moderno. Ritengo perciò che il progresso stia nello sviluppo e nel

interpreti americani – nel “chiamare donne e uomini a costruire comunità nelle quali ogni individuo possa contare sulle necessarie opportunità e risorse per realizzare pienamente le proprie capacità e i propri poteri attraverso la vita politica, sociale e culturale”» (G. CAVALLARI, Introduzione a J. DEWEY, Scritti politici, Roma, Donzelli 2003, p. IX). 130 Cfr. J. CAMPBELL, Understanding John Dewey: Nature and Cooperative Intelligence, Chicago, Open Court 1995, pp. 2-7. 131 Questa frammentarietà è probabilmente all’origine dello scarsissimo interesse nutrito dagli studiosi verso il pensiero politico di Keynes, che risulta pressoché nullo se confrontato a quello suscitato dalle sue teorie economiche. È prevalsa l’immagine di un Keynes indifferente alla teoria politica, o quantomeno a fondare in modo teoreticamente adeguato le proprie idee politiche (cfr. A. HANSEN, The American Economy, New York, McGraw-Hill 1957, p. 152; C. WALIGOR- SKI, Liberal Economics and Democracy: Keynes, Galbraith, Thurow, and Reich, Lawrence, University Press of Kansas 1997, p. 38). Una lettura di Keynes come «political thinker» è stata, tuttavia, recentemente avanzata da più parti (cfr. P. F. DRUCKER, The Ecological Vision: Reflections on the American Condition, New Brunswick, Transaction Publisher 1993, pp. 119-120; B. BIGGS, Hedge Hogging , Hoboken, Wiley 2006, pp. 290-292). 132 La connessione fra Keynes e il “nuovo liberalismo” inglese è ben colta in P. CLARKE, The Keynesian Revolution in the Making, 1924-1936, Oxford, Oxford University Press 1988, spec. pp. 229-230. 133 J. M. KEYNES, The End of Laissez-Faire, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971- 1989, vol. IX, pp. 272-294, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, Utet 2005, pp. 107-134, spec. p. 112. 134 J. M. KEYNES, The End of Laissez-Faire, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971- 1989, vol. IX, pp. 272-294, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, op. cit., spec. p. 126.

35 riconoscimento di enti semiautonomi entro lo stato: questi enti avrebbero come unico criterio di a- zione, nel proprio campo, il bene pubblico come essi lo concepiscono, e dalle loro deliberazioni sa- rebbero esclusi movimenti di vantaggio privato135». Simili strutture non avrebbero affossato il capi- talismo, ma l’avrebbero anzi preservato, rendendolo più solido e stabile. E benché esso fosse criti- cabile da molti punti di vista, concludeva Keynes, «da parte mia, credo che il capitalismo saggia- mente governato, possa probabilmente essere reso più efficiente di qualsiasi altro sistema ora in vi- sta per quel che riguarda la realizzazione di obiettivi economici136». Proprio il partito liberale, che aveva più titoli dei laburisti e dei conservatori per parlare in nome della libertà individuale e del mercato, avrebbe potuto contribuire a sgomberare il campo dal «ciarpame del passato»: «a mio avviso non vi è spazio oggi (se non nell’ala sinistra del partito con- servatore) per quanti rimangono legati all’individualismo vecchio stile e al laissez-faire integrale, nonostante il grande contributo che essi hanno dato al progresso nel XIX secolo. Dico questo non perché ritenga che tali dottrine fossero sbagliate nelle condizioni che le hanno generate (vorrei aver appartenuto a quel partito, se fossi nato cent’anni prima!), ma perché non sono più applicabili alle condizioni moderne137». I nuovi liberali sarebbero stati chiamati ad accettare con maturità e consa- pevolezza il fatto che «in futuro il governo dovrà assumersi molte responsabilità che in passato ha evitato. E per assolverle non serviranno né i ministri né il Parlamento138», ma i già citati «enti se- miautonomi od organismi amministrativi139», da far coesistere, in un equilibrio non semplice ma possibile, accanto alle istituzioni democratico-rappresentative. Keynes elencava una serie di problematiche sociali – biopolitiche, si direbbe oggi140 – dive- nute, da private che erano, questioni pubbliche, e in quanto tali oggetto di disciplina normativa: «controllo delle nascite e uso degli anticoncezionali, legislazione matrimoniale, trattamento giuridi- co dei reati sessuali e delle anormalità sessuali, posizione economica delle donne, organizzazione

135 J. M. KEYNES, The End of Laissez-Faire, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971- 1989, vol. IX, pp. 272-294, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, op. cit., pp. 126-127. Corsivo mio. 136 J. M. KEYNES, The End of Laissez-Faire, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971- 1989, vol. IX, pp. 272-294, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, op. cit., p. 132. Corsivo mio. 137 J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX, pp. 295-306, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, op. cit., p. 252. 138 J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX, pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, Milano, Il Saggiatore 1994, pp. 248-258, spec. pp. 253- 254. 139 J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX, pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, op. cit., p. 254. 140 La nozione di biopolitica, ha notato Laura Bazzicalupo, sottende una «sempre maggiore pervasività del dominio po- litico nell’ambito del biologico» (L. BAZZICALUPO, Biopolitica, in R. ESPOSITO, C. GALLI (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico, Roma-Bari, Laterza 2000, p. 70).

36 economica della famiglia141». Tutto ciò – assieme alla gestione della moneta, altro ambito tradizio- nalmente lasciato agli equilibri scaturenti nel mercato – richiedeva una ridefinizione stessa della no- zione di libertà individuale, chiamata a coesistere con forme di controllo e di sanzione che garantis- sero la convivenza pacifica. «Per metà, almeno, il libro della saggezza dei nostri statisti si basa su teorie vere un tempo, in tutto o in parte, ma che diventano di giorno in giorno meno vere. Dobbia- mo» insisteva Keynes, rivolgendosi ad una platea di liberali, «inventare una nuova saggezza per una nuova epoca. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo agitarci, mostrar- ci eterodossi, pericolosi, disobbedienti ai nostri progenitori142». Non stupisce quindi che Keynes l’eterodosso, colui che sollecitava il liberalismo inglese a «trovare nuovi strumenti e nuovi criteri politici per controllare e intervenire nel funzionamento delle forze economiche, di modo che non interferiscano oltre misura con i criteri validi oggi in materia di stabilità sociale e di giustizia sociale143», nel 1933 si rivolgesse a Roosevelt con una lettera aperta il cui incipit incarna alla perfezione speranze, obiettivi e slancio etico del nuovo liberalismo, raziona- lista e costruttivista: «Voi siete diventato il vessillo di tutti coloro che in ogni paese cercano di cor- reggere i mali della nostra condizione per mezzo di esperimenti ragionati, nel contesto dell’attuale sistema sociale. Se voi fallirete, sarà gravemente pregiudicata la possibilità di trasformare il mondo secondo schemi razionali ed esso resterà in balia dell’ortodossia e della rivoluzione. Ma se voi avre- te successo, metodi nuovi e più arditi verranno sperimentati ovunque e noi potremo datare il primo capitolo di una nuova era economica del vostro ingresso alla presidenza144». Ma, affinché quell’era potesse nascere, e l’ideologia del New Deal Order trovare una formu- lazione organica, era necessario un ulteriore contributo teorico, senza il quale le intuizioni di Berle e Tugwell, la filosofia sociale di Dewey e la nuova economia keynesiana non avrebbero potuto coesi- stere entro un quadro comune. Quest’ultimo contributo venne offerto dalle scienze sociali.

I.3. La scienza politica al servizio della trasformazione: Charles E. Merriam

Il liberalismo razionalistico, sperimentale e relativista di John Dewey presupponeva una so- lida alleanza fra liberalismo e scienze sociali145. Soltanto lo «studio intelligente del mutamento so-

141 J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX, pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, op. cit., p. 254. 142 J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX, pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, op. cit., p. 257. 143 J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX, pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, op. cit., p. 258. 144 J. M. KEYNES, The Collected Works, op. cit., vol. XII, pp. 457-468, tr. it. in J. M. KEYNES, Come uscire dalla crisi, Bari, Laterza 1983, pp. 107-116. 145 Cfr. T. V. KAUFMAN-OSBORN, John Dewey and the Liberal Science of Community, in The Journal of Politics, vol. 46, n. 4, 1984, pp. 1142-1165. Kaufman-Osborn sottolinea che fra i compiti attribuiti da Dewey alle scienze sociali rien-

37 ciale» avrebbe garantito quella declinazione flessibile ed evolutiva delle idee di individualismo e di libertà che i liberali assolutisti negavano; soltanto il liberalismo avrebbe permesso che le elabora- zioni teoriche degli scienziati sociali trovassero concreta applicazione in campo politico. Già da tempo Dewey sosteneva che «il compito della filosofia e della scienza politica è contribuire a creare metodi che permettano sperimentazioni meno alla cieca, meno in balia degli accidenti, svolte in modo più intelligente, cosicché gli uomini possano trarre profitto dai propri errori146». Questi meto- di avrebbero avuto un’enorme rilevanza pratica, dal momento che la scienza era «il mezzo supremo per compiere in modo valido tutte le valutazioni, in tutti gli aspetti della vita umana sociale147». Esistevano condizioni di particolare favore, in America, per tentare una simile cooperazione. Diversamente da quanto era avvenuto in Europa, negli Stati Uniti non si era un verificato un Methodenstreit fra sostenitori di un approccio umanistico tradizionale ed uno scientifico allo studio delle problematiche sociali: il ricorso a metodologie sperimentali, basate sulla verifica empirica, a- veva anzi trovato nel pragmatismo un terreno di incontro tra filosofia e sapere operativo148. Le sim- patie statunitensi per l’«illuminismo applicato» – l’idea secondo cui la ragione poteva essere impie- gata in modo rigoroso e sistematico per promuovere il benessere sociale – avevano, per giunta, un radicamento storico ed erano condivise da un vasto numero di intellettuali149. Tutto ciò, però, valeva all’interno dell’accademia, all’interno di una élite intraprendente, ma numericamente ristretta e non sempre influente. Fuori da essa, negli anni ’20, a dominare era lo spi- rito anti-intellettualistico, che diffidava della commistione tra potere politico ed esperti150. Un simi- le punto di vista era ampiamente rappresentato nel Congresso, nella stampa, nelle chiese e nel mon- do dell’associazionismo religioso. La scienza sociale attecchì rapidamente in campo universitario, ma fu vista con scetticismo od avversata al di fuori di esso151.

tra anche la creazione di un nuovo linguaggio politico, diverso da quello tramandato di generazione in generazione. Questo nuovo linguaggio avrebbe dovuto essere astratto ed avalutativo (cfr. ibidem, pp. 1150-1153). 146 J. DEWEY, The Public and Its Problems, New York, Henry Holt 1927, p. 34, citato in J. FARR, John Dewey and American Political Science, in American Journal of Political Science, vol. 43, n. 2, 1999, pp. 520-541, spec. p. 523. 147 J. DEWEY, Theory of Valuation, Chicago, Chicago University Press 1939, p. 66, citato in A. E. MURPHY, John Dewey and American Liberalism, op. cit., spec. p. 425. Corsivi miei. 148 Cfr. T. BONAZZI, Storia e scienze sociali: il lavoro dello storico come professione negli Stati Uniti, in N. TRANFA- GLIA (a cura di), Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca, vol. 10, Firenze, La Nuova Italia 1983, pp. 751- 770; B. CRICK, The American Science of Politics: Its Origins and Condition, Berkeley, University of California 1964, pp. 88-94. 149 R. DAHRENDORF, Die Angewandte Aufklärung. Gesellschaft und Soziologie in Amerika, R. Piper & Co. Verlag, München 1963, tr. it. Società e sociologia in America, Bari, Laterza 1967, pp. 21-31. 150 Come ha ben chiarito Richard Hofstadter, l’anti-intellettualismo andava di pari passo con l’antistatalismo: riformato- ri e i tecnocrati venivano considerati elementi potenzialmente autoritari, perché lontani dalle esigenze degli “uomini di strada” e desiderosi di servirsi dei poteri di governo per sovvertire l’ordine sociale americano (Cfr. R. HOFSTADTER, An- ti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963). 151 Gli stessi scienziati sociali, ha notato Merle Curti, evitarono, almeno inizialmente, di trarre le conseguenze più radi- cali dall’applicazione del metodo sperimentale, per il timore di essere accostati a chi, nei regimi autocratici, mirava a soggiogare integralmente la condotta umana (M. CURTI, The Growth of American Thought, New York, Harper and Bro- thers Publishers 1951, tr. it. Storia della cultura e della società americana, Venezia, Neri Pozza 1959, p. 755),

38 Tutto ciò contribuì ad avvicinare i social scientists ai liberali progressisti come Dewey. Ad unirli vi erano, oltre alla scarsa capacità di incidere sulla scena pubblica, alcune idee comuni, alcune premesse teoriche che contribuirono ad avvicinare le loro riflessioni. Tanto i primi quanto i secondi sostenevano quella che Francis G. Wilson ha definito «teoria laica o scientifica dell’intelligenza». In base a tale concezione, «la ragione e l’attività mentale sono un prodotto selettivo dell’evoluzione e solo in parte consapevole. La nascita biologica del pensiero umano è la storia completa dell’evoluzione delle forme animali e la psicologia umana si può studia- re sotto importanti aspetti quasi ad ogni livello dell’intelligenza animale. Non vi è distinzione, quin- di, tra scienze naturali e morali; non c’è un ordine morale dipendente dall’intelligenza e volontà di Dio; e infine la prova di una proposizione qualsiasi può essere unicamente scientifica o empirica. La prova viene dalla scienza, e la scienza nasce dallo studio dell’esperienza, perché nemmeno l’attività della mente può aggiungere o sottrarre qualcosa alla natura. Il lavoro della mente è, per sé stesso, parte del processo dell’esperienza152». In secondo luogo, essi condividevano quella «fede nella plasmabilità quasi illimitata della natura umana153» in cui Dahrendorf individuava un tratto saliente del razionalismo americano. Non deve stupire che tanto Dewey quanto i social scientists degli anni ’20, ’30 e ’40 si siano assidua- mente occupati di educazione e propaganda: l’una e l’altra, infatti, rappresentano momenti di mani- polazione dell’uomo, occasioni in cui l’individuo poteva essere indirizzato verso condotte egoisti- che ed antisociali, ovvero indotto ad abbracciare i principi del civismo democratico154. Tanto gli scienziati sociali quanto i riformatori, infine, erano persuasi dell’«inadeguatezza del vecchio ordine155», di cui rigettavano la comprensione intuitiva e non sistematica dell’azione sociale, nonché l’adesione acritica a regole e modelli di condotta tradizionali. Ecco perché, al di là di alcune, significative differenze di fondo156, le scienze sociali statuni- tensi condividevano con il liberalismo progressista l’essere «animate, se non proprio dall’utopia, dalla volontà di riforma nel senso più ampio della parola, dall’ambizione di conoscere di manipola-

152 F. G. WILSON, The American Political Mind: a Textbook in Political Theory, New York, McGraw-Hill 1949, tr. it. Il pensiero politico americano, Venezia, Neri Pozza 1959, pp. 476-477. 153 R. DAHRENDORF, Die Angewandte Aufklärung. Gesellschaft und Soziologie in Amerika, R. Piper & Co. Verlag, München 1963, tr. it. Società e sociologia in America, op. cit., p. 26. 154 Si accosti, per esempio, la definizione della scienza politica come «scienza del civic training» proposta da C. E. Mer- riam (cfr. C. E. MERRIAM, The Making of Citizens: A Comparative Study of Methods of Civic Training, Chicago, Uni- versity of Chicago Press 1931) al progetto di educazione democratica elaborato da Dewey (J. DEWEY, Democracy and Education: an Introduction to the Philosophy of Education, New York, The Macmillan Company 1929). In materia di propaganda, cfr. ad es. L. A. LOWELL, Public Opinion and Popular Government, New York, Longmans-Green 1913 e ancora J. DEWEY, The Public and Its Problems, op. cit. 155 B. CRICK, The American Science of Politics: Its Origins and Condition, Berkeley, University of California 1964, p 95. 156 Su alcune conflittualità metodologiche ed epistemologiche fra il liberalismo di Dewey e gli scienziati sociali, cfr. P. MANICAS, John Dewey and American Social Science, in L. A. HICKMAN, Reading Dewey: Interpretations for a Po- stmodern Generation, Bloomington, Indiana University Press 1998, pp. 43-62.

39 re157». Ed ecco perché esse – aggirando la rivendicazione di avalutatività che caratterizzava il loro statuto epistemologico158 – proponevano, al pari del liberalismo, «una filosofia della cittadinanza in cui la capacità di adattamento perpetuo al nuovo era supportata dall’informazione e delle azioni svolte in comune. Il risultato fu che le tendenze democratiche delle scienze sociali e le convinzioni ideologiche degli scienziati politici americani si trovarono a coesistere armoniosamente. Costoro e- rano allo stesso tempo buoni cittadini democratici e rigorosi, nonché difensori obiettivi dell’ethos scientifico159». Esemplare, in questo senso, è la parabola intellettuale e personale di Charles E. Merriam160, da considerare – assieme ad Harold Laswell e Vladimer O. Kay – il fondatore della moderna scien- za politica statunitense. Nel 1921, Merriam rilevava che «in tempi relativamente recenti la teoria politica è entrata in contatto con forze che debbono per tempo modificare le sue procedure da un punto di vista estre- mamente concreto. La dottrina, relativamente recente, secondo cui le idee politiche e i sistemi poli- tici – al pari di altre idee sociali e di altri sistemi sociali – sono un prodotto dell’ambiente, tanto nell’ottica del determinismo economico o di quello ambientale, rappresentano una sfida a tutti i si- stemi di pensiero161». Ancor più rivoluzionario era il «processo di misurazione, comparazione e standardizzazione […], stimolato dall’opera di migliaia di pazienti investigatori, che ricercano la verità attraverso masse di fatti misurabili e comparabili162». Si sarebbe potuto tentare qualcosa di analogo in campo politico? Sì, secondo Merriam, ma un impulso decisivo sarebbe dovuto venire dalle istituzioni pubbli- che. Eppure, allo stato attuale, «i ricercatori più equipaggiati, nei centri di studio meglio equipaggia- ti, difficilmente dispongono di strumenti comparabili con quelli dei migliori studi legali, dei miglio- ri ingegneri, o dei migliori esperti nel campo delle corporation […]. Le scienze politiche e sociali sono state, in genere, sopravanzate dalle cosiddette scienze “naturali” – ora l’aggettivo “naturali” è

157 R. ARON, La Société Américaine et Sa Sociologie, in Cahiers Internationaux de Sociologie, XXVI, 1959, pp. 55-68, spec. pp. 59-60. 158 Nel secondo dopoguerra, fu David Easton a enunciare in forma compiuta i principi metodologici della scienza politi- ca in senso moderno. Vale la pena di elencarli: «1) la ricerca di regolarità e di uniformità; 2) la subordinazione di ogni asserzione alla verifica empirica; 3) l’adozione di precisi metodi di ricerca; 4) la quantificazione; 5) l’avalutatività» (D. EASTON, The Current Meaning of “Behavioralism”, in J. C. CHARLESWORTH (ed.), Contemporary Political Analysis, New York, Free Press 1967, tr. it. Teorie e metodi in scienza politica, Bologna, Il Mulino 1971, pp. 52-53. 159 J. SHKLAR, Redeeming American Political Theory, in American Political Science Review, vol. 85, n. 1, 1991, pp. 3- 15, spec. p. 14. 160 Charles E. Merriam (1874-1953), docente presso l’Università di Chicago, fu a lungo l’animatore dell’American Poli- tical Science Association e membro dell’amministrazione cittadina. Dopo aver servito il governo federale nel primo conflitto mondiale, collaborò in misura crescente con la Presidenza, divenendo consulente di Hoover, Roosevelt e Tru- man. Su Merriam, cfr. B. D. KARL, Charles E. Merriam and the Study of Politics, Chicago, University of Chicago Press 1974). 161 C. E. MERRIAM, State of the Study of Politics, in The American Political Science Review, vol. 15, n. 2, 1921, pp. 173-185, spec. p. 174. Corsivo mio. 162 C. E. MERRIAM, State of the Study of Politics, in The American Political Science Review, op. cit., spec. ibidem.

40 caduto in disuso – che sono di gran lunga meglio supportate da ricercatori e da attrezzature per la ricerca163». Per colmare lo scarto creatosi, sarebbe stato necessario «lo sforzo organizzato e persi- stente di molti studenti […]. Con l’aiuto di varie agenzie governative, di numerosi centri studio, e forse di fondi di ricerca privata, i professionisti nel campo della scienza politica potrebbero essere posti in condizioni di servirsi di dati e di assistenza utili per un uso tecnico. Ma, sino ad allora, sia- mo costretti a zoppicare, là dove ci muoviamo164» Cinque anni dopo, tracciando un bilancio dell’impatto esercitato dal sapere applicativo sulla cultura americana, Merriam si mostrava più ottimista. In campo urbanistico, «centri di ricerca, den- tro e fuori dalle mura universitaria, sono fioriti in tutto il paese, e ricercatori municipali hanno mate- rialmente contribuito ad un’analisi intelligente dei fenomeni di urbanizzazione e a dirigerne lo svi- luppo165». Significativi successi erano stati riscontrati nello studio dei partiti, della teoria politica, delle relazioni internazionali, nel diritto. Raduni e convegni nazionali avevano affrontato questioni metodologiche inerenti le discipline del ramo. Esisteva un nutrito gruppo di periodici che promuo- veva la moderna politologia. «Il numero di studenti seri è ovviamente cresciuto, per numero e per livello di preparazione, ma il punto è che il gruppo è ancora circoscritto e penosamente inadeguato ai compiti che è chiamato ad affrontare166». Malgrado gli esiti soddisfacenti, Merriam poteva lamentare l’ostracismo che alcune autorità politiche e molti colleghi riservavano alla loro attività. Da un lato, i social scientist dovevano fron- teggiare «la diffusa tendenza popolare al fondamentalismo politico167», che ostacolava la libertà di ricerca e di pensiero; dall’altro, gli stessi scienziati politici erano considerati con scetticismo da stu- diosi affermati, e addirittura da altri scienziati sociali. Eppure, tutto lasciava presupporre che, indi- pendentemente dai regimi politici che sarebbero apparsi nel futuro, la politica non sarebbe scompar- sa, ed anzi avrebbe rafforzato il proprio legame con le scienze applicate: «poiché la complessità del- le relazioni sociali cresce, ci sarà probabilmente in futuro più politica; più regole governative e più regolamentazioni, mentre prima ve ne erano meno168». Anche per questo, Merriam suggeriva di abbandonare la capziosa separazione fra economia e politica, che trascurava una verità fondamentale: tanto l’una quanto l’altra si occupavano di pro- blemi sociali. «Nella realtà, la politica e l’economia non sono mai state separata, o almeno non han- no mai divorziato […]. Uno dei problemi di base dell’organizzazione sociale è quello della relazio- ne fra unità organizzative politiche ed economiche e l’autorità. Questo problema caratterizza tutte le

163 C. E. MERRIAM, State of the Study of Politics, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 175. 164 C. E. MERRIAM, State of the Study of Politics, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 176. 165 C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, vol. 20, n. 1, 1926, pp. 1-13, spec. p. 1. 166 C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 3 167 C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., ibidem. 168 C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 5.

41 organizzazioni, quelle urbane, le stateli, le nazionali e le internazionali. Ma è un problema che con- cerne l’economia o la politica?169». Era impossibile tracciare una nitida linea di distinzione. Concludendo, il politologo di Chicago poteva affermare che «sta divenendo evidente, in mi- sura crescente, che i problemi di base dell’organizzazione e della condotta politica vanno riaffronta- ti alla luce delle nuove scoperte e delle nuove tendenze; che va riesaminata la natura del governo in una società di massa; che bisogna esplorare nuovamente i caratteri ed il grado di interesse popolare verso l’attività di governo, e i metodi per servirsene; che possiamo servirci della scienza tanto per contribuire a far finire una guerra quanto per scatenarne una; che i meccanismi e i processi politi devono essere soggetti ad una assai più minuziosa analisi di quella che finora hanno ottenuto dagli studenti delle tecniche di governo, da un punto di vista molto più approfondito, e da angolazioni di- verse170». Secondo Merriam, anche le scienze naturali avrebbero offerto un aiuto straordinario all’impresa, poiché le une e le altre «procedono insieme in uno sforzo comune, e uniscono le loro forze nella più grande impresa che l’umanità abbia sinora fronteggiato: la comprensione, tramite l’intelletto, ed il controllo del comportamento umano171». Idee come quelle di Merriam non avevano, di per sé, ricadute sovversive sul piano politico. Negli anni ’10, i sociologi si limitavano a suggerire che, «debitamente consultati, potevano insegna- re alla nuova generazione come si potesse ottenere un futuro sicuro172». Ma la crisi del 1929 spa- lancò nuovi spazi a beneficio degli intellettuali, e galvanizzò le loro pretese di riorganizzare in ter- mini razionali l’ordinamento sociale. «Alle menti ribelli d’America sembrò che ciascuna delle loro profezie si avverasse. Alla fine lo splendido edificio del capitalismo cadeva, e gli intellettuali, in larga parte già disavvezzati dal sostenere il vecchio sistema, erano portati ad accettare i giudizi degli spiriti americani rivoluzionari173». Questa “rivoluzione” non fu simboleggiata, però, da figure quali l’agitatore socialista, o l’irrazionalista di destra174. La vera cifra del New Deal – e del New Deal Order che ne scaturirà – può essere rinvenuta nello straordinario ruolo che venne conferito agli esperti. Nasceva l’ingegneria politica, ossia un metodo di risoluzione dei conflitti che presupponeva contiguità, sia fisica che ideologica, fra decisori politici e specialisti: «esiste un problema; manca la

169 C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 8. 170 C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 11. 171 C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 12. 172 F. G. WILSON, The American Political Mind: a Textbook in Political Theory, New York, McGraw-Hill 1949, tr. it. Il pensiero politico americano, Venezia, Neri Pozza 1959., p. 489. 173 F. G. WILSON, The American Political Mind: a Textbook in Political Theory, New York, McGraw-Hill 1949, tr. it. Il pensiero politico americano, op. cit., pp. 498-499. 174 Secondo John Diggins, «il fascismo ottenne una certa approvazione in campo democratico poiché, come primo e- sempio di una società caratterizzata da un sistema economico misto e gestita in modo tecnologico, rappresentava una sfida inedita, una innovazione storica che apriva la strada a nuove possibilità di pianificazione». A ciò si accompagnava, tuttavia, una forte ripugnanza per i metodi violenti e non democratici con cui i partiti fascisti tendevano ad impossessar- si del potere (J. DIGGINS, Flirtation with Fascism: American Pragmatic Liberals and Mussolini’s Italy, in The American Historical Review, vol. 71, n. 2, 1966, pp. 487-506, spec. p. 505).

42 conoscenza necessaria per risolverlo o per scegliere fra soluzioni alternative; la ricerca genera la conoscenza mancante; e una soluzione è raggiunta. Tipicamente si renderà necessario un solo stu- dio. Esso, con i suoi dati, le sue analisi e le sue conclusioni, inciderà sulle scelte dei decision- makers. È implicita in questo approccio, l’esistenza di un accordo sui fini. Si assume che i decisori e i ricercatori concordino su quale debba essere lo stato di cose finale desiderabile175». I fini su cui un gran numero di scienziati sociali e decisori politici ebbero occasione di convergere, dagli anni trenta sino alla fine del decennio successivo, erano quelli del liberalismo progressista, formulato da autori come Dewey e Keynes, che a loro volta ben si conciliavano con la corporate economics de- lineata da Berle e Tugwell. L’apporto degli intellettuali al New Deal, ha rimarcato Richard Hofstadter, nasceva da esi- genze tanto spirituali quanto materiali. «Al pari di tutti gli altri ceti, il ceto intellettuale aveva soffer- to per la crisi economica, avevano conosciuto anch’essi la disoccupazione, anche il loro morale era rimasto scosso. Il New Deal dette lavoro a migliaia di giovani giuristi ed economisti, i quali afflui- rono in massa a Washington per entrare nei nuovi enti di regolazione che ivi erano stati creati. I progetti della WPA e della NYA relativi alla ricerca, all’arte e al teatro aiutarono artisti e disoccu- pati, intellettuali e studenti universitari. Ancor più importante di questo aiuto pratico fu il sostengo morale, fortissimo: usando teorici e professori come consiglieri e ideologi, il New Deal stabilì tra la forza della mente e il potere un rapporto che non c’era mai stato a memoria d’uomo, un legame strettissimo che non c’era più stato dai tempi dei Padri Fondatori176». È vero che il rapporto fra trust di intellettuali e classe politica fu tutt’altro che lineare e paci- fico. Dewey e Keynes lamentarono le modalità incerte e contraddittorie d’intervento dei New Dealer, Merriam ribadì in più occasioni che «l’organizzazione dei vecchi sistemi di valore e della nuova scienza in forme e pratiche coerenti con i problemi emergenti» era tutt’altro che compiuta, mentre i riformatori più audaci finirono sulla graticola della propaganda di destra177. Eppure, gli anni ’30 rappresentarono un momento straordinario nella storia dell’illuminismo applicato. E questo perché il riconoscimento dell’importanza dell’intellettuale «non avvenne più al- le condizioni caldeggiate dai gentleman-riformatori dei decenni precedenti […]. Ora invece i diritti dell’intelletto non dipendevano dalla posizione sociale degli uomini che lo impersonavano, ma dal

175 R. BULMER, The Uses of Social Research, London, Allenò and Unwin 1982, p. 42, cit. in A. PANEBIANCO, Le scien- ze sociali e i limiti dell’illuminismo applicato, in A. PANEBIANCO (a cura di), L’analisi della politica. Tradizioni di ri- cerca, modelli, teorie, Bologna, Il Mulino 1989, pp. 563-596, spec. p. 568. 176 R. HOFSTADTER, Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963, tr. it. Società e intellettuali in Amer- ica, Torino, Einaudi 1968, p. 213. 177 R. B. WESTBROOK, John Dewey and American Democracy, Ithaca, Cornell University Press 1991, pp. 441-442; D. D. DILLARD, The Economics of John Maynard Keynes; The Theory of Monetary Economy , New York, Prentice-Hall 1948, p. 157; C. E. MERRIAM, Politics in Its Place, in International Journal of Ethics, vol. 46, n. 2, 1936, pp. 127-150, spec. p. 150; R. HOFSTADTER, Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963, tr. it. Società e intellettu- ali in America, op. cit., pp. 214-215.

43 fatto che questi uomini potevano servire per mobilitare e dirigere l’inquietudine critica e le energie riformatrici del paese. L’intelletto fu riabilitato non per la sua presumibile influenza conservatrice, ma per l’aiuto che poteva dare alla trasformazione178» Affermatisi in un’età di crisi economica, il liberalismo progressista e le scienze sociali co- nobbero una straordinaria popolarità e diffusione a ridosso della Seconda Guerra Mondiale. La cir- costanza non è causale. Proprio come Dewey aveva ammonito vent’anni prima, la guerra offriva «possibilità sociali179»: occasioni di sperimentazione in campo economico, ma anche opportunità di ascesa per gruppi etnici e sociali emarginati. E l’esaltazione dell’organizzazione fatta dai New Dealer rappresentava pur sempre «un equivalente morale della guerra»: un modo per mobilitare, in tempo di pace, energie e risorse altrimenti inespresse, mal distribuite o sprecate180. Come ebbe a dichiarare Franklin D. Roosevelt nel 1944, il “dottor New Deal” aveva ceduto il posto al dottor “Win the War”181. Ma metodi ed obiettivi rimasero gli stessi, e il conflitto bellico si rivelò decisivo nell’emarginare dalla scena pubblica i più intransigenti oppositori del “nuovo libe- ralismo”.

II. L’entrata in guerra: declino e tramonto della «Old Right»

Nel corso degli anni ’30, intellettuali e politici schierati a destra polemizzarono con durezza contro lo sperimentalismo dei New Dealer, denunciando la perdita di senso pratico dei leader politi- ci, manipolati da individui «trascinati fuori da una spoglia e fetida aula scolastica […] e buttati su un trono quasi adatto a Caligola, a Napoleone I o a J. Pierpont Morgan182». Il secondo conflitto mondiale, tuttavia, impose una attenuazione della conflittualità interna, e spinse un numero crescen-

178 R. HOFSTADTER, Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963, tr. it. Società e intellettuali in Ame- rica, op. cit., pp. 188-189. Corsivo mio. 179 J. DEWEY, What Are We Fighting For?, in Independent, XCIV, 1918, p. 480, cit. in J. M. COOPER (ed.), Causes and Consequences of World War I, New York, Quadrangle Books 1972. 180 Cfr. W. JAMES, The Moral Equivalent in War, in W. JAMES, Writings 1902-1910, New York, Literary Classics of the United States 1987, pp. 1281-1293. La descrizione del New Deal come una guerra contro i potentati economici, gli interessi costituiti e la povertà che ne scaturiva non si limitava alla retorica rooseveltiana. Prova ne sia, ad esempio, l’idea di Richard T. Ely di costituire un esercito regolare di disoccupati con cui fronteggiare le emergenze interne (cfr. R. T. ELY, Hard Times. The Way In and the Way Out, With a Special Consideration of the “Seen and Unseen”, New York, The Macmillan Company 1931). 181 F. D. ROOSEVELT, Complete Press Conferences of Franklin D. Roosevelt, New York, Da Capo Press 1972, vol. 22, cit. in H. E. EVANS, The Hidden Campaign: FDR’s Health and the 1944 Election, Armonk, M. E. Sharpe 2002, p. 29. 182 H. L. MENCKEN, The New Deal Mentality , in American Mercury , vol. XXXVIII. 1936, p. 4, cit. in R. HOFSTADTER, Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963, tr. it. Società e intellettuali in America, op. cit., pp. 217. Nel 1934, un manifesto politico approvato dal Republican National Committee descrisse la battaglia contro il New Deal come una difesa di una civiltà plurisecolare, che quattro anni di amministrazione democratica avrebbe potuto distrugge- re. Benché, con la candidatura di Alf Landon nel 1936, il Partito Repubblicano si assestasse su una linea decisamente più moderata, l’immagine di un New Deal profondamente un-american si consolidò nell’immaginario della destra ame- ricana (cfr. A. J. LICHTMAN, White Protestant Nation. The Rise of American Conservative Movement, New York, Ath- lantic Monthly Press 2008, pp. 85-86; D. CRITCHLOW, The Conservative Ascendancy, in D. CRITCHLOW, N. MACLEAN, Debating the American Conservative Movement: 1945 to the Present, Lanham, Rowman & Littlefield 2009, pp. 1-157, spec. p. 9).

44 te di oppositori di Roosevelt a riconoscere l’utilità della cooperazione fra esperti e potere politico: non per promuovere la libertà progressiva, come auspicato da Dewey, ma per sconfiggere la minac- cia dell’Asse. L’entrata in guerra finì con lo screditare, anzitutto, quel complesso e contraddittorio con- glomerato di posizioni passate alla storia sotto l’etichetta di «isolazionismo». Non di una omogenea e coerente dottrina si trattava, quanto piuttosto di un impulso – ha notato Ronald E. Powaski – «an- tico quanto la nazione stessa», una nazione nata dal desiderio di emanciparsi dai vincoli religiosi prima, ed economici poi, imposti dal Vecchio Continente183. Il «rifiuto di impegni politici e militari nei confronti di, o in alleanza con, potenze straniere, particolarmente quelle europee», che, secondo Manfred Jonas, costituisce l’essenza dell’atteggiamento isolazionista184, accomunava leader, intel- lettuali e simpatizzanti dalla sinistra radicale all’estrema destra. Socialisti come Norman Thomas, elitisti come Lawrence Dennis e ammiratori del militarismo tedesco come Charles Lindbergh con- dividevano l’obiettivo, principalmente difensivo, di mantenere gli Stati Uniti al di fuori del reticolo di rapporti di forza, e alla logica di potenza ad essi sottesa, che reggeva le relazioni fra Stati in Eu- ropa e in Asia. Le «controversie di vecchia data interne alla famiglia delle nazioni», per dirla con Lindbergh, non avrebbero dovuto condizionare l’operato americano, né nelle forme canoniche della diplomazia bilaterale, né in quelle proprie delle nascenti organizzazioni internazionali. A guidare la classe politica avrebbe dovuto essere, sostenne il senatore William E. Borah, la cura dell’interesse americano e l’impegno devoto degli americani verso se stessi185. Adottare un indirizzo isolazionista in politica estera non significava, tuttavia, propugnare la totale estraniazione degli Stati Uniti dallo scenario internazionale. Come intuì Albert K. Weinberg, il principio della libertà d’azione non andava confuso con il desiderio di inattività, né il rifiuto dell’entanglement (coinvolgimento) presupponeva di per sé l’assenza di rapporti amichevoli con al- tri Paesi186. Le amministrazioni Harding, Coolidge e Hoover – almeno sino alla crisi del 1929-1930 – avevano dimostrarono come il disimpegno verso la Società delle Nazioni, la sfiducia nei confronti dell’ordine internazionale emerso a Versailles, la rivendicazione dell’“eccezionalismo” statunitense

183 Cfr. S. ADLER, The Isolationist Impulse: Its Twentieth-Century Reaction, London, Abelard-Schuman, 1957; R. E. POWASKI, Toward an entangling alliance: American isolationism, internationalism and Europe, 1901-1950, New York, Greenwood press 1991, p. xi. 184 Cfr. M. JONAS, Isolationism, in A. DE CONDE (ed.), Encyclopaedia of American Foreign Policy: Studies of the Prin- cipal Movements and Ideas, New York, Scribner’s 1978, pp. 496-506. 185 Per una ricognizione ad ampio raggio sull’isolazionismo statunitense alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, cfr. M. JONAS, Isolationism in America: 1935-1941, Imprint Publications, Chicago 1990, J. D. DOENECKE, J. E. WILTZ, From Isolation to War, Arlington Heights, Harlan Davidson 1991. La frase di Lindbergh è riportata da J. D. DOENECKE, Isolationism, in AA. VV., American Conservatism. An Encyclopedia, Washington, ISI Books 2006, p. 442. Le parole di Borah sono citate in G. MARTEL (ed.), American Foreign Relations Reconsidered: 1890-1993, New York, Routledge 1994, p. 90. 186 A. K. WEINBERG, International Affairs: The Historical Meeting of the American Doctrine of Isolation, in The Ameri- can Political Science Review, vol. 34, n. 3, 1940, pp. 539-547.

45 fossero pienamente compatibili con una politica economica liberoscambista, in grado di imporre una sfera d’influenza americana nell’area asiatica187. Il nesso fra libertà individuale, Stato minimo, apertura dei mercati internazionali ed isola- zionismo era al centro della proposta teorica della cosiddetta Old Right, un agglomerato di intellet- tuali e uomini politici che ebbero in riviste come The Freeman e American Mercury il loro centro di aggregazione188. Ad accomunarli, in prima istanza, era «una profonda ostilità ed antipatia nei confronti del potere del governo». All’intervento pubblico contrapponevano la difesa della libertà del singolo, e del libero mercato come istituzione più idonea a garantirne la libera scelta. «La Old Right applicava la propria avversione al governo tanto in politica interna quanto in quella estera», e concepiva l’imperialismo come una inevitabile conseguenza dell’ampliamento del potere politico a scapito della società civile189. Richiamandosi alla Scuola di Manchester di Bright e Cobden, i suoi esponenti ritenevano che un mercato internazionale deregolamentato avrebbe favorito il reciproco armonizzarsi degli interessi tra le nazioni, mentre la guerra rappresentava il logico corollario della centralità conferita agli apparati statuali nelle relazioni internazionali. Così, se da un lato rigettava- no l’idea di una comunità internazionale costituita da monadi autarchiche, separate l’una dall’altra da dazi e barriere doganali, dall’altro rifiutavano l’idea wilsoniana di un “direttorio mondiale”, die- tro cui scorgevano il tentativo di riprodurre a livello sopranazionale le medesime logiche di subor- dinazione ed oppressione che contraddistinguevano la politica interna. «Crediamo che una lega del- le nazioni sia inevitabile, e che essa si realizzerà automaticamente e spontaneamente» sosteneva nel 1919 il filosofo Albert J. Nock, una tra le voci più autorevoli della Old Right. «La rimozione delle barriere economiche e delle restrizioni ora imposte dai governi sull’industria ed il commercio pro- durrà, io credo, la stessa libera unione economica tra le nazioni del mondo di quella che oggi preva- le tra gli Stati Uniti d’America; e noi pensiamo che una libera unione economica sia l’unico mezzo per ottenere qualcosa». La Società delle Nazioni, al contrario, era caratterizzata da una logica antie- gualitaria che poneva alcune grandi potenze in una posizione di dominio. «I governi degli Stati Uni- ti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone sono la lega delle nazioni; sono il suo consiglio esecu- tivo; essi nominano falsi direttori; essi trascurano qualsiasi qualificazione dei candidati; essi sono,

187 Secondo William Appleman Williams e gli storici revisionisti a lui vicini, l’immagine di un’America isolazionista negli anni ’20 rappresenta una vera e propria leggenda (cfr. W. A. WILLIAMS, The Legend of Isolationism in the 1920’s, in «Science & Society», vol. 18, 1954, pp. 1-20). Molto dipende dall’accezione che al termine «isolazionismo» si inten- de conferire: esso può infatti essere impiegato per definire una linea di disimpegno politico volta a promuovere l’interscambio commerciale. 188 Per una dettagliata trattazione della pubblicistica della Old Right, cfr. R. LORA, W. H. LONGTON (ed.), The Conser- vative Press in Twentieth-Century America, Westport, Greenwood Press 1999, pp. 269-303, pp. 305-319. 189 M. ROTHBARD, The Foreign Policy of the Old Right, in Journal of Libertarian Studies, vol. 2, n. 1 (1978), pp. 85-96, in spec. p. 85.

46 in breve, un’oligarchia assoluta ed irresponsabile190». Per Nock, insomma, pace e libertà sarebbero andate a braccetto soltanto se mezzi economici, e non politici, avessero regolato i rapporti fra i po- poli191. Il libertarismo di Nock, ha sintetizzato Walter E. Grinder, «si traduce in un radicale laissez- faire o nella filosofia politica anarchica della Old Right, secondo la quale l’unico scopo delle istitu- zioni “politiche” è impedire qualsiasi intervento coattivo nei pacifici affari dei membri della società. È la filosofia politica dell’anti-statalismo192». Ad indirizzare i teorici della Old Right verso l’opzione neutralista non era, però, soltanto la fiducia verso le potenzialità pacificatrici del libero commercio. A terrorizzarli era l’eventualità che gli Stati Uniti compissero a ritroso il cammino che Herbert Spencer giudicava proprio della civiltà moderna: divenendo cioè, da società industriale che erano, una società militare193. L’artefice di que- sta involuzione aveva, ai loro occhi, un nome ed un cognome preciso: Franklin D. Roosevelt. Il New Deal, sostenne a più riprese il polemista John T. Flynn, poteva essere considerato la variante americana del fascismo europeo. Esso condivideva con i regimi totalitari «l’idea di riordinare la so- cietà creando un’economia pianificata e coercitiva, anziché libera, nella quale il mondo degli affari sarebbe stato riunito in grandi gilde od immense strutture corporative, combinando elementi di au- togoverno o supervisione governativa con una politica economica nazionale di sostegno a queste strutture». Un’organizzazione di questo tipo, supportata dall’indebitamento pubblico perpetuo, da centri autonomi di pianificazione e dall’inarrestabile ampliamento della burocrazia, sarebbe sfociata nel militarismo. Esso, infatti, avrebbe garantito posti di lavoro, cospicui guadagni per le imprese del settore della difesa, coesione sociale. «Il militarismo» annotava sarcasticamente Flynn nel 1944 «è uno di quegli affascinanti lavori pubblici sulla quale un gran numero di membri della comunità può far convogliare il proprio consenso194». La posizione di Flynn, per quanto radicale, era tutt’altro che isolata. Storici come Harry El- mer Barnes e persino generali come Robert R. McCormick condividevano il timore che gli Stati U-

190 A. J. NOCK, The Ends and the Means, in The State of the Union: Essays in Social Criticism, Indianapolis, Liberty Press 1991, pp. 77-79 e 79, citato in A. DONNO, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, Fi- renze, Le Lettere 2004, pp. 26-27. Il libro di Donno contiene un lungo saggio dedicato alla figura di A. J. Nock. 191 La distinzione fra mezzi economici (basati sullo spontaneo incontro delle volontà) e mezzi politici (intrinsecamente coercitivi) è al centro dell’opus magnum di Nock (A. J. NOCK, Our Enemy the State, New York, W. Morrow & Company, 1935, tr. it. Il nostro nemico, lo Stato, Macerata, Liberilibri, 1995). 192 W. E. GRINDER, Introduction to A. J. Nock, Our Enemy the State, San Francisco, Fox & Wilkes 1994 (1a ed 1935), p. XI, citato in A. DONNO, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, op. cit., p. 18. 193 Su Spencer, cfr. T. GRAY, Herbert Spencer’s Liberalism – from Social Statics to Social Dynamics, in R. BELLAMY (ed.), Victorian Liberalism: Nineteenth Century Political Thought and Practice, London, Routledge 1990, pp. 110-130. Sul rapporto fra liberalismo economico e pacifismo nella cultura inglese, e fra la Scuola di Manchester e Spencer in par- ticolare, cfr. G. ALDOBRANDINI, The Wishful Thinking. Storia del pacifismo inglese nell’Ottocento, LUISS University Press 2009, p. 89-107, spec. 100-101. 194 J. T. FLYNN, As We Go Marching, New York, Doran 1944, pp. 193-194 e 198. Citato in M. ROTHBARD, For a New Liberty. The Libertarian Manifesto, Auburn, Ludwig Von 2006 (1° ed 1973) pp. 351-352. Su Flynn, cfr. J. M. MOSER, Right Turn: John T. Flynn and the Transformation of American Liberalism, New York, New York Uni- versity Press 2005, spec. pp. 112-137.

47 niti potessero trasformarsi in una potenza imperiale retta da un’economia di guerra195. Il rapporto della Commissione Nye e saggi come Road to War (1935), che addebitavano la partecipazione al primo conflitto mondiale alla collusione fra potere politico ed industria militare, sembravano raffor- zare le loro tesi196. Alla «inorridita reazione contro la rivoluzione rooseveltiana, contro il Grande Balzo in Avanti verso il collettivismo che aveva inebriato gli intellettuali socialisti e fatto infuriare i devoti cultori delle istituzioni e dei severi limiti posti al governo centrale», essi associavano la con- vinzione che «il coinvolgimento in una guerra su larga scala, specialmente per motivi globali e non nazionali, avrebbe trasformato l’America in uno Stato-Guarnigione permanente, che avrebbe di- strutto la libertà americana e i limiti costituzionali nella misura in cui avesse esteso l’Impero ameri- cano all’estero197». Non va dimenticato che alcuni irriducibili, come Barnes o Frank Chodorov, an- ni dopo avrebbero individuato nell’attivismo persecutorio di Joseph McCarthy una minaccia più concreta e reale per il popolo americano di quanto non lo fossero i progetti espansionistici di Sta- lin198. L’aggressione subita il 7 dicembre 1941 assestò il colpo di grazia alle pretese isolazioniste di mantenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto. Flynn, Barnes ed altri intellettuali appartenenti alla galassia della Old Right furono licenziati dai periodici cui collaboravano con l’accusa di antipatriot- tismo. In un clima di intolleranza crescente, quasi un’anticipazione della futura ondata maccartista, una trentina di neutralisti di destra finirono sottoprocesso per sedizione nel 1944, un anno dopo che un pamphlet di successo, “Under Cover”, aveva sommariamente riunito isolazionisti, antisemiti e filohitleriani sotto l’etichetta di «the Nazi underworld of America»199. La disfatta del fronte isolazionista, tuttavia, non può essere addebitata al solo attacco subito a Pearl Harbor. Collocando il casus belli in una prospettiva più ampia, è facile di come tale sconfitta fu anzitutto culturale. Dal 1939 in avanti, infatti, l’amministrazione Roosevelt aveva intrapreso una massiccia opera di mobilitazione, diretta a sconfiggere gli umori neutralisti presenti nel Paese. La

195 Su Barnes, cfr. A. GODDARD (ed.), Harry Elmer Barnes, Learned Crusader; the New History in Action, Colorado Springs, R. Myles 1968. Su McCormick, cfr. R. N. SMITH, The Life and Legend of Robert R. McCormick, 1880-1955, Boston, Houghton Miffin Company 2003, spec. pp. 387-419. 196 Sulla Commissione Nye e le sue conseguenze, cfr. J. DUROSELLE, Histoire Diplomatique de 1919 à Nos Jours, Paris, Dalloz 1990, tr. it. Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Milano, LED 1998, pp. 297-298. 197 M. ROTHBARD, Life in the Old Right, in J. SCOTCHIE, The Paleoconservatives: New Voices of the Old Right, New Brunswick, Transaction Publishers 1999, pp. 19-30, spec. pp. 19 e 22 198 Per una panoramica sui diversi atteggiamenti degli intellettuali libertarians di fronte alla Guerra Fredda, cfr. N. BJERRE-POULSEN, Right face: organizing the American conservative movement 1945-65, Copenhagen, Museum Tuscu- lanum 2002, pp. 98-100. 199 G. BORGOGNONE, La destra americana. Dall’isolazionismo ai neocons, Roma-Bari, Laterza 2004, p. 19. L’accostamento al maccartismo è sviluppato in L. P. RIBUFFO, United States Vs. Williams: the Roosevelt Administration and the Far Right, in M. R. BELKNAP (ed.), American Political Trials, Westport, Greenwood Press 1994, pp. 179-206. Sul “Great Sedition Trial” del 1944, cfr. R. W. STEELE, Free Speech in the Good War, New York, St. Martin’s Press 1999, pp. 223-234.

48 retorica presidenziale, culminata nella celeberrima enunciazione delle «quattro libertà»200, descri- veva la lotta antinazista come la continuazione, su scala mondiale, della battaglia antischiavista di Lincoln. La libertà del “nuovo liberalismo” non poteva essere frenata dai confini artificiali delle na- zioni. L’impossibilità di vivere in un mondo «per metà libero e per metà schiavo», come recitava un popolare manifesto dell’Office of War Information, traeva origine, non da ultimo, dalla consapevo- lezza che lo sviluppo tecnologico permetteva di colpire un numero crescente di obiettivi: per secoli – notò il generale George Marshall – la configurazione geografica del continente americano aveva garantito agli Stati Uniti l’immunità da attacchi esterni, ma la situazione era drasticamente mutata nel precedente ventennio201. L’immagine di un’America pacifica, liberoscambista e neutrale in un mondo dominato da potenze bellicose e militariste rappresentava soltanto una pia illusione202. Si trattò quindi di uno scontro fra due visioni antitetiche, l’una – quella della Old Right – che rivendicava la bontà dei mezzi tradizionali (a cominciare dalla cosiddetta «diplomazia del dolla- ro»203) per salvaguardare gli interessi americani; l’altra, di matrice rooseveltiana, che ne postulava l’inadeguatezza e non escludeva a priori la possibilità di un impegno diretto in Asia ed in Europa. E fu l’argomento tecnologico avanzato dagli scienziati sociali, assai più di quello democrati- co-umanitario, sposato dai liberali progressisti, a fare breccia tra gli oppositori del Presidente. Ar- thur H. Vandenberg, senatore repubblicano del Michigan, uno dei più accaniti sostenitori delle leggi

200 Sulla funzione del concetto di libertà nella retorica interventista rooseveltiana, Cfr. E. FORNER, The Story of Ameri- can Freedom, New York, W. W. Norton & Company 1998, tr. it. Storia della libertà americana, op. cit., pp. 291-328. Le implicazioni internazionalistiche delle “quattro libertà” sono sottolineate da J. DOENECKE, Storm on the Horizon: The Challenge to American Intervention, 1939-1941, Lanham, Rowman & Littlefield Publishers, 2000, pp. 43-44. 201 La frase di Marshall compare in M. S. SHERRY, In the Shadow of War. The United States since the 1930s, New Ha- ven, Yale University Press 1997, p. 44, citata da M. DEL PERO, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, op. cit., p. 254. Ma si veda anche il discorso di F. D. Roosevelt del 14 aprile 1939 all’Unione Panamericana: «La famiglia delle nazioni americane può oggi con pieno diritto parlare al resto del mondo. Noi abbiamo un interesse, più ampio della me- ra difesa del nostro continente circondato dai mari. Oggi noi siamo consapevoli che lo sviluppo della prossima genera- zione renderà gli oceani che ci separano dal Vecchio Mondo così stretti che le nostri abitudini e le nostre azioni saranno necessariamente coinvolte con le altrui, che ci piaccia o meno. Al di là di ogni dubbio, nel giro di pochi anni flotte aree sorvoleranno gli oceani con la medesima facilità con cui oggi sorvolano i mari chiusi d’Europa. Pertanto, il funziona- mento dell’economia mondiale diverrà necessariamente unitario; nessuna disfunzione, in futuro, potrà evitare ripercus- sioni ovunque» (F. D. ROOSEVELT, in The Public Papers and Addresses of Franklin D. Roosevelt, Random House, New York 1938-1950, vol. 9, pp. 198-199). 202 Il nesso fra sicurezza interna ed alleanze internazionali venne esplicitamente messo in risalto da Roosevelt nel 1940. «Alcuni fra noi sembrano ritenere che le guerre in Europa ed in Asia non siano affar nostro. Ma è una questione di vita- le importanza per noi che gli artefici delle guerre in Asia e in Europa non ottengano il controllo degli oceani che li con- durrebbero a questo emisfero. Centodiciassette anni fa la dottrina Monroe fu concepita dal nostro Governo come stru- mento difensivo a fronte di una minaccia proveniente da un’alleanza europea. Non esisteva alcun “accordo non scritto”. Tuttavia, esisteva il sentimento, dimostratosi storicamente corretto, che noi, in qualità di vicini, potessimo risolvere qualsiasi disputa con strumenti pacifici. È un dato di fatto che per tutto questo tempo l’emisfero occidentale non è stato oggetto di aggressioni dall’Europa e dall’Asia. Qualcuno può seriamente credere che ci vedremo costretti a temere un attacco se una libera Gran Bretagna rimarrà il nostro più potente alleato navale nell’Atlantico? Può qualcuno seriamente credere, al contrario, che rimarremmo in pace se le potenze dell’Asse fossero i nostri vicini?» (F. D. ROOSEVELT, Radio Address, 29 december 1940, riprodotto in F. D. ROOSEVELT, Rendezvous with destiny; addresses and opinions of Franklin Delano Roosevelt, selected and arranged with factual and historical references and summaries by J.B.S. Hardman, New York, The Dryden Press 1944, pp. 164-171). 203 J. L. THOMAS, The Great Republic: a History of American People, Lexington, Heath & C. 1985, tr. it. La nascita d una potenza mondiale, Bologna, Il Mulino 1988, pp. 178-181.

49 di neutralità adottate fra il 1935 e il 1939, lo pose al centro di un noto discorso, pronunziato nel gen- naio 1945. La tecnologia, sostenne, aveva reso irrilevanti le difese naturali degli Stati Uniti. Si ren- deva quindi necessaria la creazione di meccanismi di sicurezza collettiva in grado di garantire l’interdipendenza fra le nazioni. Per conseguire tale scopo, sarebbe stato necessario sviluppare una politica estera condivisa, capace di travalicare le divisioni partitiche. Vandenberg – che si sarebbe distinto, in qualità di delegato, alla Conferenza di San Francisco nella primavera del 1945 – riuscì ad imporre la propria linea, inizialmente minoritaria, al suo stesso partito204. Nel secondo dopoguerra, il declino di figure come Robert A. Taft e il fallimento di campa- gne neoisolazioniste quali il Bricker Amendment segnarono la definitiva emarginazione della Old Right dallo scenario politico americano205. La nuova destra che ne prese il posto si mostrò assai più incline a sostenere massicci investimenti nel settore della difesa e ad implementare una strategia an- ticomunista su scala mondiale. Una destra che – ha rilevato Allen Guttman –, rivendicando la pri- mazia dell’ordine sociale e delle gerarchie istituzionali su diritti e pretese del singolo, si mostrava sensibile alle sirene del militarismo più di quanto non lo fosse la generazione precedente, ancorata ai valori dell’individualismo e del limited government206.

III. Il secondo dopoguerra: il trionfo delle scienze sociali e l’esaurimento del riformismo

Quando la guerra arrivò a Monterey e a Cannery Row tutti più o meno com- batterono, in un modo o nell’altro. Quando cessarono le ostilità ognuno ave- va le sue ferite.

204 Per un quadro sintetico, ma compendioso, dell’approdo all’internazionalismo di Arthur H. Vandenberg, cfr. J. A. GAZELL, Arthur H. Vandenberg, Internationalism and the United Nations, in Political Science Quarterly, vol. 88, n. 3 (1973), pp. 375-395, spec. 385-386 per il discorso del 10 gennaio 1945. Una lettura più estesa è offerta da C. D. TOM- PKINS, Senator Arthur H. Vandenberg: the Evolution of a Modern Republican, 1884-1945, East Lansing, Michigan Sta- te University Press 1970. La storiografia individua nella scelta di Dwight D. Eisenhower come candidato alle presiden- ziali del 1952 il momento di approdo definitivo del mainstream repubblicano all’internazionalismo. È però indubbio che il sostegno alla Dottrina Truman e al coinvolgimento nella Guerra Fredda garantito da uomini come Vandenberg, Dewey e J. F. Dulles abbia rappresentato una precondizione necessaria per la candidatura di Eisenhower. Sul tema, cfr. R. E. DARILEK, A Loyal Opposition in Time of War: The Republican Party and the Politics of Foreign Policy from Pearl Harbor to Yalta, Westport, Greenwood Press 1976. 205 Sull’approccio alla politica estera di Robert A. Taft nel secondo dopoguerra e la sua tardiva conversione alla Guerra Fredda, cfr. C. E. WUNDERLIN, Robert A. Taft: Ideas, Tradition and Party in U.S. Foreign Policy, Lanham, SR Books, pp. 107-175. cfr. Sul Bricker Amendment, cfr. L. EDWARDS, The Conservative Revolution: The Movement that Remade America, New York, Free Press 1999, pp. 73-74; A. J. LICHTMAN, White Protestant Nation. The Rise of American Conservative Movement, op cit., pp. 187-188. 206 Cfr. A. GUTTMANN, The Conservative Tradition in America, New York, Oxford University Press 1967, pp. 100-102. Questo punto di vista fu chiaramente espresso nel 1947 da , un ex trozkista convertitosi alla nuova de- stra, allorché sostenne che «l’unica alternativa all’impero mondiale comunista è un impero americano che sia, se non dotato di confini formalmente mondiali, capace almeno di esercitare un controllo decisivo sul mondo» (J. BURNHAM, The Struggle for the World, New York, The John Day Company 1947, p. 182). Pochi anni dopo, William F. Buckley jr. affermava che dovere dei conservatori era «sostenere la creazione di ampi eserciti e grandi forze dell’aria, l’energia a- tomica, l’intelligence, la produzione di guerra, e i custodi del potere centrale a Washington» (W. F. BUCKLEY Jr., A Young Republican View, in Commonweal, 25 Jan. 1952, pp. 392-393, spec. p. 393).

50 Le ditte produttrici di scatolame condussero la guerra facendo sospendere le restrizioni sulla pesca e acchiapparono tutto il pesce. Fu fatto per motivi pa- triottici, ma i pesci non tornarono più. Come quella storia delle ostriche in Alice nel Paese delle Meraviglie, “Se li erano mangiati tutti”. Lo stesso no- bilissimo impulso che fece abbattere le foreste dell’Ovest e adesso fa pom- pare l’acqua dalla terra della California più velocemente di quanto non ne possa tornare con le piogge. Quando avremo il deserto la gente sarà triste; proprio come successe a quelli di Cannery Row quando tutte le aringhe fu- rono prese, inscatolate e mangiate. Le fabbriche grigio-perla del tetto di la- miera ondulata tacevano e un guardiano che faceva la ronda era l’unico se- gno di vita. La strada, che un tempo risonava dallo strepito dei camion, era vuota e tranquilla207.

La provincia americana stanca ed infiacchita descritta da Steinbeck, un luogo in cui la guerra era «rimasta addosso a tutti», può rappresentare un’ottima metafora della situazione di stallo in cui il nuovo liberalismo si trovò sul finire degli anni ’40. La Old Right era stata spazzata via, la diffi- denza verso la cooperazione fra potere politico e scienza sociale fortemente attenuata. La guerra era stata, per molti versi, una prosecuzione del New Deal con altri mezzi, ed il Partito Democratico – in cui i liberal ormai si identificavano – era una realtà strutturata su scala nazionale208. Eppure, proprio la guerra aveva indotto la classe politica ad accantonare i progetti di riforma più radicali, potenziando il settore militare a scapito del welfare209. Ne scaturì una latente conflit- tualità sociale, culminata nell’ondata di scioperi di massa fra il 1945 e il 1947210. Non solo. Proprio in quegli anni i liberal si trovarono costretti a fronteggiare una contraddi- zione culturale, interna al campo riformatore, ben riassunta dal paradosso formulato da Leucthen- burg: «quanto più il New Deal riusciva nei suoi intenti, tanto più demoliva se stesso. Quanto più prospero diveniva il paese, tanto più la gente tornava ai soli valori che conoscesse, quelli collegati a una società individualistica, avida di successo211». Per la prima volta, il “nuovo liberalismo” dovette infatti affrontare le sfide di una società opulenta, che proiettava la propria ricchezza sull’intero globo. «La seconda guerra mondiale ampliò

207 J. STEINBECK, Sweet Thursday, New York, Viking Press 1954, tr. it. Quel fantastico giovedì, Milano, Mondadori 1965, p. 11. 208 Particolarmente significativo era stato il coinvolgimento di donne e minoranze etniche nello sforzo produttivo, il che era in linea con l’obiettivo di espandere il mercato del lavoro promosso dai new dealer (Cfr. S. E. HIRSCH, No Victory at the Work Place: Women and Minorities at Pullman during World War II, in L. A. ERENBERG, S. E. HIRSCH (ed.), The War in American Culture: Society and Consciousness during World War II, Chicago, University of Chicago Press 1996, pp. 241-262). Sul rapporto fra strutturazione del Partito Democratico ed affermazione delle organizzazioni sindacali, cfr. M. DUBOFSKY, The State & Labor in Modern America, Chapel Hill, University of North Carolina Press 1994, pp. 169-195, spec. pp. 188-195. 209 Cfr. B. WADDELL, The War Against the New Deal: World War II and American Democracy, DeKalb, Northern Illi- nois University Press; A. BRINKLEY, The End of Reform: New Deal Liberalism in Recession and War, New York, Knopf 1995. Il libro di Brinkley è, ad oggi, la più documentata opera che ripercorra il progressivo esaurimento del New Deal nel coso degli anni ’40. 210 Cfr. P. Y. NICHOLSON, Labor’s Story in the United States, Philadelphia, Temple University Press 2004, pp. 242-250. 211 W. LEUCHTENBURG , Franklin D. Roosevelt and the New Deal: 1932-1940, New York, Harper & Row 1963, tr. it. Roosevelt e il New Deal, Bari, Laterza 1976, pp. 251-252.

51 a dismisura il gap di potenza tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. La superiorità statunitense si fe- ce netta ed indiscussa. A fronte di un’Europa e di un Giappone devastati e prostrati dal conflitto, gli Stati Uniti emersero dalla guerra più floridi che mai. Tra il 1939 e il 1945 il PIL statunitense crebbe più dell’80%, sotto lo stimolo delle esigenze militari e del conseguente incremento degli investi- menti federali. La produzione industriale aumentò a tassi del 15% annuo. A fine conflitto il 75% delle spese militari complessive erano statunitensi. Gli USA possedevano i due terzi delle risorse aurifere mondiali. Il sistema di Bretton Woods aveva fatto del dollaro la principale valuta del siste- ma internazionale. In termini assoluti, le economie delle altre due grandi potenze rimaste, Gran Bre- tagna e Unione sovietica, corrispondevano a circa un quinto di quella degli Stati Uniti212». E il trend era destinato a perdurare: «agli inizi degli anni ’50, l’America, col 6% della popolazione mondiale, produceva da sola la metà di tutti i beni prodotti nel mondo213». Gli storici concordano nel riconoscere il nesso causale fra coinvolgimento bellico e rilancio economico. Si può anzi dire, con Horst Dippel, che «la guerra fece quello che non era riuscito al New Deal214». Secondo Maldwyn A. Jones, «i disoccupati scesero dai 9 milioni del giugno 1940 ai 780.000 del settembre 1943. Anzi, fu difficile trovare un numero sufficiente di operai per le indu- strie militari215». Mammarella calcola che «dal 1° luglio 1940 al 31 dicembre 1941 le fabbriche e i cantieri americani avevano prodotto ventitremila aerei di ogni tipo, 4.258 carri armati e 1.800.000 tonnellate di naviglio; era solo l’inizio. A poche settimane dallo scoppio del conflitto, il presidente Roosevelt già indicava i nuovi obiettivi da raggiungere nei due anni successivi: una produzione di quarantacinquemila aerei nel 1942 da portare a centomila nel 1943, quarantacinquemila carri armati nel 1942 da portare a settantacinquemila nel 1943 e un aumento del tonnellaggio mercantile da otto milioni di tonnellate nel 1942 a dieci milioni del 1943. I traguardi indicati da Roosevelt sembrarono allora utopistici ai suoi stessi collaboratori, ma le realizzazioni non dovevano discostarsi molto dagli obiettivi dichiarati, e in certi casi li superarono. In totale, nei cinque anni dal luglio 1940 al luglio 1945, l’industria americana produceva 296.601 aerei e 86.388 carri armati, mentre i cantieri varava- no quasi settantacinquemila mezzi navali di ogni tipo per più di sessantatre milioni di tonnella- te216».

212 M. DEL PERO, Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il Mondo 1776-2006, Roma-Bari, Laterza 2008, p. 277. 213 R. PETRIGNANI, L’era americana. Gli Stati Uniti da Franklin D. Roosevelt a George W. Bush, Bologna, Il Mulino 2001, p. 113. 214 H. DIPPEL, Geschichte der Usa, Beck, Műnchen 1996, tr. it. Storia degli Stati Uniti, Carocci 2002, p. 105. 215 M. A. JONES, The Limits of Liberty. American History 1607-1980, Oxford-New York, Oxford University Press 1983, tr. it. Storia degli Stati Uniti: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, Milano, Bompiani 2002, p. 458. 216 G. MAMMARELLA, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti 1900-2003, Roma-Bari, Laterza 2003, pp. 112-113. Ulte- riori statistiche relative alla produzione bellica sono reperibili in appendice a S. E. MORISON, H. S. COMMAGER, The Growth of the American Republic, New York, Oxford University Press, 1950, tr. it. Storia degli Stati Uniti d’America, Firenze, La Nuova Italia 1974, pp. 1235-1237.

52 Nessun Paese avrebbe potuto sostenere un simile sforzo produttivo senza una solida struttura economica alle spalle, unita alla disponibilità di un’ingente forza lavoro. Entrambi questi elementi sono stati evidenziati da Paul Kennedy: «L’autorizzazione del 1940 a raddoppiare la flotta da com- battimento della marina, il piano dell’aviazione dell’esercito per creare 84 stormi composti da 7.800 aerei d a guerra e la creazione (tramite il Selettivi Service and Training Act) di un esercito di quasi un milione di uomini, ebbero conseguenze sull’economia, la quale non soffriva, come quella italia- na, francese o britannica, di gravi problemi strutturali, ma era semplicemente sottoutilizzata a causa della Depressione». L’entrata in guerra degli Stati Uniti rappresentò davvero – nota Kennedy para- frasando Yamamoto – il risveglio di un gigante217. Questo gigantesco sforzo produttivo non era destinato a restare senza conseguenze. Se il gi- gante si era ridestato, se la disoccupazione era stata riassorbita, il liberalismo progressista avrebbe comunque continuato a esercitare fascino sull’elettorato? O non era vero piuttosto, come alcuni membri dell’amministrazione Truman sembravano ventilare, che il riformismo economico, risposta ad esigenze transitorie, dovesse essere definitivamente archiviato218? Lo scenario internazionale, inoltre, assunse ben presto contorni assai diversi da quelli pro- spettati dai liberal. Nel 1945, gli Stati Uniti – ha notato Ennio di Nolfo –«erano l’unica potenza ca- pace di essere presente al tempo stesso su tutti i continenti del globo: dominante in quello america- no; liberatoria e garante in Europa; presente e influente in Africa, nonostante i limiti posti dalla competenza giuridica francese o inglese; presente in varie parti dell’Asia; prevalente nell’Oceania». Non l’espansione territoriale, ma la supremazia economica, tecnologica e militare sancivano ine- quivocabilmente il nuovo primato219. Si ponevano così, anche a livello internazionale, le premesse per la diffusione del modello americano su scala globale: un modello imperniato su liberaldemocra- zia ed economia di mercato, certo, ma che esorbitava dalla sfera propriamente politica, pervadendo usi, costumi, atteggiamenti, modi di porsi e di comunicare. Di lì a poco, l’ascesa dell’«irresistibile impero220», che Henry R. Luce nel 1941 aveva entusiasticamente descritto come «vulcano degli i-

217 P. KENNEDY, The Rise and Fall of the Great Powers: Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York, Random House 1987, tr. it. Ascesa e Declino delle Grandi Potenze, Milano, Garzanti 1989, p. 461. 218 Cfr. J. BELL, The Liberal State on Trial: the Cold War and American Politics in the Truman Years, New York, Co- lumbia University Press 2004, pp. 150-181 Va inoltre precisato che l’amministrazione Truman fu composta prevalen- temente da esponenti centristi o della destra del partito, e che «per le cariche minori Truman si orientò nettamente verso esponenti del mondo industriale e finanziario. Delle 125 più importanti nomine a posizioni federali fatte nel corso del ’46-’49, 77 andarono a banchieri, finanzieri uomini d’affari, 31 a militari e 17 ad avvocati e consulenti economici legati al mondo degli affari» (G. MAMMARELLA, Storia degli Stati Uniti dal 1945 ad oggi, Roma-Bari, Laterza 1993, pp. 40- 43, spec. p. 41). 219 E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza 2008, p. 603. Sul tema, cfr. anche E. DI NOLFO, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale dal XX secolo ad oggi, Roma-Bari, Laterza 2008, pp. 148-164. 220 Cfr. V. DE GRAZIA, Irresistible Empire. America’s Advance through 20th Century Europe, Cambridge, The Belknap Press of Harvard University 2006.

53 deali di Libertà e di Giustizia» del XX secolo221, non sarebbe rimasta circoscritta all’ambito – a- stratto e spesso intangibile per l’uomo comune – dei rapporti di forza internazionali, ma si sarebbe riverberata nel quotidiano, innescando processi ora di adesione ed identificazione, ora di rifiuto e diversificazione222. L’esito vittorioso della guerra alimentava nei liberal la convinzione di poter instaurare un ordine internazionale pacifico e duraturo223, ma l’ipotesi si dimostrò errata. L’Unione sovietica, che nel 1945 «non aveva ancora fatto breccia sul piano della politica di potenza, nel senso che non ave- va raggiunto una reale eguaglianza di possibilità con la più forte delle potenze avversarie224», si tra- sformò ben presto in un temibile rivale, una minacciosa superpotenza con cui nessuna cooperazione era realizzabile. La sconfitta della Germania hitleriana apparve sempre più soltanto la prima fase di uno scontro più vasto, che contrapponeva i difensori della libertà ai sostenitori del «totalitarismo» - termine che in quegli anni si prese a circolare con insistenza, tanto nella pubblicistica quanto negli studi accademici225. Ripresa produttiva e «guerra fredda» misero a dura prova il liberalismo progressista, che proponeva una definizione non economicistica della libertà e tendeva a trasferire il proprio ottimi- smo antropologico nel campo delle relazioni internazionali. Non così le scienze sociali, che dal se- condo conflitto mondiale avevano ricevuto un impulso ancor più forte di quello impresso loro dal New Deal, ed avevano individuato nuovi campi di applicazione e di studio226. Un riconoscimento inequivocabile del ruolo pubblico delle scienze venne dalla lettera con cui Roosevelt, nel 1944, chiese suggerimenti a specialisti del settore, suggerendo che una loro mag-

221 H. R. LUCE, The American Century, in Life Magazine, n. 10, 1941, in M. J. HOGAN (a cura di), The Ambiguous Leg- acy: U.S. Foreign Relations in the "American Century", Cambridge, Cambridge University Press 1999, pp. 11-30. 222 Cfr. A. STEPHAN, The Americanization of Europe. Culture, Diplomacy and Anti-Americanism since 1945, New York-Oxford, Berghan 2006; M. KAZIN, J. A. MCCARTIN (a cura di), Americanism: New Perspectives on the History of an Ideal, Chapel Hill, University of North Carolina 2006, pp. 169-262. 223 È possibile scorgere questo convincimento dietro l’attivismo diplomatico di Henry Hopkins, inviato a Mosca nel 1945 per dialogare con Stalin (cfr. W. D. MISCAMBLE, From Roosevelt to Truman: Postdam, Hiroshima and the Cold War, Cambridge-New York, Cambridge University Press 2007, pp. 154-162). Il principale sostenitore della possibilità di un intesa pacifica con l’URSS era il vicepresidente uscente Henry A. Wallace, che nel 1948 ruppe con i democratici e partecipò alla corsa alla Casa Bianca guidando un raggruppamento progressista (cfr. G. WHITE, J. MAZE, Henry A. Wal- lace: His Search for a New World Order, Chapel Hill, University of North Carolina Press 1995). 224 A. HILLGRUBER, Der Zweite Weltkrieg 1939-1945, Kohlhammer, Verlag 1982, tr. it. Storia della Seconda Guerra Mondiale. Obiettivi di guerra e strategia delle grandi potenze, Roma-Bari, Laterza 1987, p. 203 Sul lascito del Secondo Conflitto Mondiale, cfr. N. WERTH, Histoire de l’Union Soviétique: de l’Empire Russe à l’Union Soviétique1900-1990, Paris, Puf 1990, tr. it. Storia dell'Unione Sovietica: dall'impero russo alla Comunità degli Stati Indipendenti, 1900- 1991, Bologna, Il Mulino 1993, pp. 395-405. 225 Sulle implicazioni ideologiche presenti nel concetto di totalitarismo, cfr. A. GLEASON, Totalitarianism: the Inner Hi- story of the Cold War, Oxford, Oxford University Press 1995. 226 Cfr. C. J. FRIEDRICH, Instruction and Research: Political Science in the United States in Wartime, in The American Political Science Review, vol. 41, n. 5, 1947, pp. 978-989; D. P. HANEY, The Americanisation of Social Science: Intel- lectuals and Public Responsibility in the Post War United States, Philadelphia, Temple University Press 2008, pp. 22- 45. Si pensi, ad esempio, al vasto impiego delle scienze statistiche, che di lì a poco sarebbero state estese allo studio del- la psicologia e del comportamento sessuale (cfr. T. ADORNO (ET AL.), The Authoritarian Personality, New York, Harper 1950; A. KINSEY (ET AL.), Sexual Behavior in the Human Female, Philadelphia, Saunders, 1953).

54 giore e decisori politici sarebbe andata a tutto vantaggio del governo227. Gli scienziati, assai più dei filosofi politici, iniziarono a rappresentare un punto di riferimento per coloro i quali desideravano «riformare»: e ciò che valeva per le scienze naturali, a maggior ragione valeva per le scienze uma- ne. Alla base del behaviouralism – il nuovo filone inaugurato dalla scienza politica – vi era l’idea che «la comprensione e l’interpretazione del comportamento politico logicamente precedono e forniscono la base per ogni tentativo di utilizzare le cognizioni politiche nella soluzione di concre- ti ed urgenti problemi sociali228». Il vaglio degli esperti diveniva, così, una tappa indispensabile nel- la formazione di qualsiasi proposta di legge, o di intervento amministrativo. La forza delle scienze sociali, ha notato Bernard Crick, risiedeva nella loro capacità di confinare sullo sfondo i problemi metafisici, e di considerare tutti i valori un «riflesso delle strutture sociali229». Soltanto gli scienziati sociali, pertanto, erano credibili interpreti della vita collettiva, gli unici in grado di contromisure ri- sposte valide alle sfide cui la democrazia era sottoposta. Ne scaturì una crescente commistione fra liberalismo progressista e scienze sociali, che in- franse l’equilibrio instauratosi, all’intero del New Deal Order, negli anni ’30. Non erano più le scienze sociali a porsi al servizio di un’idea filosofica di libertà, bensì era la filosofia a dover accet- tare l’optimum di libertà che le scienze sociali le imponevano230. I liberali tesero sempre più ad appropriarsi dello stile e della mentalità degli scienziati socia- li, mentre questi tesero sempre più a professarsi liberali. Ancora una volta, ad unirli era il desiderio di amministrare razionalmente i rapporti socio-politici. Proprio come Humbolt Fisher, figura chiave del romanzo capolavoro di Saul Bellow, gli uni e gli altri erano persuasi che «arrivò un tempo (all’inizio dell’Evo Moderno) in cui la vita perse, a quanto pare, la capacità di organizzarsi da sé.

227 M. A. DENNIS, Reconstructing Sociotechnical Order: Vannevar Bush and US Science Policy, in S .JASANOFF (ed.), States of Knowledge: the Co-Production of Science and Social Order, London-New York, Routledge 2004, pp. 225- 253, spec. pp. 240-242. 228 D. EASTON, The Current Meaning of “Behavioralism”, in J. C. CHARLESWORTH (ed.), Contemporary Political Analysis, New York, Free Press 1967, tr. it. Teorie e metodi in scienza politica, op. cit., pp. 53. Corsivo mio. 229 B. CRICK, The American Science of Politics: Its Origins and Condition, op. cit. 224. 230 Leo Strauss ha sintetizzato i termini del conflitto fra scienza politica e filosofia politica: «come le scienze naturali si reggono sulle loro gambe, e tutt’al più offrono involontariamente materiali ai filosofi della natura per le loro specula- zioni, così la scienza politica si regge da par suo e tutt’al più offre involontariamente materiali per le speculazioni dei filosofi politici. Considerando il contrasto che c’è fra la solidità che la prima cerca e la pietosa pretenziosità dell’altra, è abbastanza ragionevole liberarsi in un sol colpo di tutte le vaghe e futili speculazioni dei filosofi politici, piuttosto che porsi nel solco di una tradizione tanto decrepita quanto screditata. Le scienze, sia naturali sia politiche, sono dichiarata- mente non-filosofiche. Hanno bisogno solo di un genere di filosofia: quella metodologica, o logica. Ma queste discipli- ne non hanno nulla a che spartire con la filosofia politica. La scienza politica “scientifica” è incompatibile, infatti, con la filosofia politica» (L. STRAUSS, What is Political Philosophy? (1959) in An Introduction to Political Philosophy: Ten Essays, Detroit, Wayne University Press 1989, pp. 3-58, spec. p. 8). Il politologo che sostenne con maggior forza la ne- cessità di liberarsi dalla “dottrina”, per lasciare campo libero alla scienza politica, fu Harold Laswell (cfr. R. SEIDEL- MAN, E. J. HARPHAM, Disenchanted Realists: Political Science and the American Crisis, 1884-1984, Albany, State University of New York Press 1985, pp. 133-137. Il testo contiene un interessante comparazione fra l’opera di Merriam – che concepiva le scienze sociali come strumenti al servizio dell’azione politica – e quella di Laswell, secondo cui non esiste ambito discrezionale di azione politica sottratta ai dettami delle scienze sociali).

55 Andava riorganizzata, e gli intellettuali se ne assunsero il compito». Ed al richiamo del potere, fede- li alla convinzione che «l’impresa umana – così grandiosa e infinitamente varia – dovesse essere ormai gestita da persone eccezionali», essi reagivano con la stessa sicurezza sfoggiata da Humboldt: «Well, why not?231». Nel 1950, Gabriel A. Almond poteva affermare che le università costituivano il luogo privi- legiato in cui «un consensus democratico poteva essere alimentato ed una disciplina democratico- elitaria incoraggiata232». Proprio di questo consensus dobbiamo occuparci, per comprendere le evo- luzioni in seno al New Deal Order, e il progressivo deterioramento del liberalismo progressista che seguì.

IV. L’eredità del New Deal: il “liberal consensus”

L’America, allora come oggi, era il sanatorio di ogni genere di possibile sta- tistica. Ci prendevamo grande cura delle statistiche. Cercavamo di capirle. Facevamo il possibile per mantenerle in salute. Per noi i numeri erano im- portanti, perché qualsiasi paura avessimo che la nostra mente potesse andare in pezzi veniva in gran parte esorcizzata dall’appagamento del sapere con precisione in quale modo eravamo spinti alla follia, a quanti decibel, a quan- ti mach, a quale forza di resistenza aerodinamica. Per cui c’era come un tra- sferimento di pazzia, uno sdoppiamento, fra i numeri in sé e chi li creava e li accudiva. Ne avevamo un bisogno estremo, era evidente. Con i numeri era- vamo in grado di celare i dubbi. I numeri rendevano sopportabile il presente, preannunciavano gli impressionanti eccessi del futuro e fornivano una sottile configurazione illusoria ai ricordi del passato, per quel che valevano. Era- vamo tutti scienziati nati. Tempo di guerra o di pace che fosse, la conta delle vittime per noi era tutto233.

Nell’ottobre del 1972, il settimanale Neewsweek pubblicò un numero speciale dedicato agli anni ’50. Sotto al titolo Yearning for the Fities: The Good Old Days, compariva una sorridente Marylin Monroe in abito da sera – impegnata a cingere pudicamente i capelli con una mano, dietro la nuca –. Decisi a onorare quegli «anni semplici», cui l’americano medio poteva legittimamente guardare con ammirazione, i redattori si abbandonarono ad una prosa celebrativa e nostalgica. I Nifty Fifties, gli splendidi Cinquanta, apparivano un’oasi di serenità ed equilibrio, lontana dalle in- certezze e dai timori dei decenni successi. Proprio come i protagonisti dell’omonima commedia di

231 S. BELLOW, Humboldt’s Gift, New York, Penguin Books 1996 (1a ed. 1973), p. 29, tr. it. Il dono di Humboldt, Mi- lano, Rizzoli 1976, pp. 35-36. 232 G. A. ALMOND, The American People and Foreign Policy , New York, Hartcourt, Brace 1950, p. 234, citato in N. GILMAN, Mandarins of the Future: Modernization Theory in Cold War America , Baltimore, Johns Hopkins University Press 2003, p. 53. 233 D. De LILLO, Americana, Boston, Houghton Miffin 1971, tr. it di M. Pensante, Americana, Milano, Il Saggiatore 2000, p. 164.

56 Tim Kelly, i giovani del tempo potevano trascorrere ore a conversare su Pat Boone e Chuck Berry, e a ballare sulle loro note234. Benché illusoria, e finanche grottesca nella sua deformazione, l’immagine idilliaca di un de- cennio quieto ha radici profonde nell’immaginario americano. L’«ideologia nazionale dell’ottimi- smo235», in cui Gabriel Kolko ha individuato una costante nella storia statunitense, trova negli anni ’50 una delle espressioni più alte, facendone un’età in cui «uomini puntigliosamente vestiti in com- pleto e cravatta e donne con acconciature impeccabili e abiti sgargianti sembravano più interessati ad essere parte della nuova, benestante classe media, godendone la prosperità, che non a protestare per le ineguaglianze sociali o le ingiustizie politiche236». Gli anni Cinquanta, ovviamente, furono anche altro: un’epoca frenetica, in cui l’isteria anti- comunista, la corsa agli armamenti, gli scontri fra America bianca e minoranze etniche lasciavano intravedere nodi irrisolti, destinati a riemergere in stagioni successive237. Eppure, soprattutto dal 1953 in poi, un numero crescente di statunitensi cominciò a guardare con fiducia alle opportunità offerte dallo sviluppo industriale e tecnologico. Fra il 1950 e il 1960 il prodotto nazionale lordo passò da 355,3 a 452.2 miliardi di dollari, con un aumento del 27%, pari al 4-4,5 % anno. La cresci- ta annuale – con un tasso che superava quello riscontrato mediamente fra il i1 1913 e il 1950 – ben- ché incostante, alimentò le aspettative della middle class. In un decennio, il potere d’acquisto delle famiglie aumentò di un terzo. Politiche fiscali restrittive ebbero ricadute positive sull’inflazione, mentre la disoccupazione – se si eccettua una punta nel 1958 – non superò mai il 5%. A trainare la ripresa fu il boom edilizio, oltre alla generalizzata crescita dei consumi: un numero crescente di a- mericani divenne proprietario della propria abitazione, attrezzandola con elettrodomestici sempre più moderni e, talora, rivoluzionari. Fra il 1948 e il 1955, due famiglie americane su tre acquistaro- no un televisore. Nacque così l’Home Teathre, l’intrattenimento domestico. Accanto a film e noti- ziari, nuove produzioni “in serie” allietavano le serate degli americani: a cominciare dalle sitcom, produzioni in serie che esaltavano gli agi della vita familiare. La più popolare, I Love Lucy, incen- trata sulle vicissitudini di una madre desiderosa di sfondare nel mondo dello spettacolo, fu celebrata da Time e divenne oggetto di venerazione per milioni di telespettatori. Nel 1989, il Presidente Ge- orge H. W. Bush conferì alla protagonista una Medal of Freedom postuma, nello stesso anno in cui la prestigiosa onorificenza, riservata a individui che avessero offerto «un contributo particolarmente

234 D. T. MILLER, M. NOVAK, The Fifties: The Way We Really Were, Garden City, Doubleday 1977, pp. 3-4; T. KELLY, The Nifty Fifties: a Musical Comedy Tribute to the 1950s, Denver, Pioneer Drama Service 1997. 235 G. KOLKO, Main Currents in Modern American History, New York, Harper 1976, p. 10. 236 AA.VV., America in the 20th Century, North Baltimore, Marshall Cavendish Corporation 2003, p. 726 237 Cfr, ad. es., J. FOREMAN (ed.), The Other Fifties: Interrogating Midcentury American Icons, Urbana, University of Illinois Press 1997.

57 meritevole alla sicurezza, agli interessi nazionali degli Stati Uniti, alla pace mondiale, alla cultura », veniva attribuita al teorico del «contenimento», George Kennan238. La mirabolante crescita della produttività costitutiva la chiave di volta del sistema – un si- stema che sembrava in grado di offrire una generalizzata espansione delle chances di vita e scardi- nare ogni forma di conflittualità sociale –239. La superiorità era garantita dall’efficienza dell’operaio medio, che si rifletteva nella minore quantità di ore lavorative (minuziosamente conteggiate) neces- sarie per acquistare beni di primaria necessità, rispetto ad un collega europeo o sovietico240. La rin- novata fiducia verso la prosperità che un’economia di mercato poteva garantire finì per soffocare, poco a poco, l’avversione contro la grande impresa e le concentrazioni oligopolistiche radicatasi ai tempi del New Deal241. Nel 1953, David E. Lilienthal, un uomo d’affari divenuto esponente di primo piano della tecnocrazia rooseveltiana, direttore della TVA (Tennessee Valley Authority)242 dal 1941 al 1946, diede alle stampe Big Business: a New Era. Nel saggio, Lilienthal sosteneva la necessità di abban- donare la tendenza a favorire unità organizzative ed economiche di ridotte dimensioni. «Noi siamo in grado» scriveva Lilienthal «di soddisfare la domanda domestica ed internazionale grazia alla no- stra capacità produttiva, ma potremo farlo soltanto se sfrutteremo a fondo il nostro talento nell’organizzare su larga scala e nell’amministrare l’industria, la ricerca, la distribuzione, il credito, la conservazione delle risorse». Un’analisi attenta, secondo Lilienthal, avrebbe dimostrato i molti

238 Sulla crescita economica statunitense, Cfr. J. D. GOULD, Economic Growth in History: Survey and Analysis, London, Methuen 1972, pp. 22. 31; J. PATTERSON, Grand Expectations: the United States 1945-1974, New York, Oxford Uni- versity Press 1996, p. 312; M. RUSHEFSKY, Public Policy in the United States: at the Dawn of the Twenty-First Century, Armony, M.E. Sharpe 2003, pp. 64-66. Sulla diffusione della televisione e l’impatto dell’Home Theatre, cfr. L. SPIGEL, Make Room for TV: Television and the Family in Ideal in Postwar America, Chicago, Chicago University Press 1992, spec. pp. 99-135. Su I Love Lucy, cfr. M. M. DALTON, I Love Lucy: Television and Gender in Postwar Domestic Ideol- ogy, in M. M. DALTON, L. R. LINDER (ED.), The Sitcom Reader: America Viewed and Skewed, Albany, State of Press 2005, pp. 99-109. 239 Come giustamente rileva Meier, «l’opinione americana concepiva la transizione verso una società dell’abbondanza come un problema ingegneristico, non politico» (C. S. MEIER, The Politics of Productivity: Foundation of American International Economic Policy After World War II, in International Organization, vol. 31, n. 4 (1977), pp. 607-633, esp. p. 615). Un’opinione perfettamente riassunta da John K. Galbraith: «Sull’importanza della produzione non c’è nes- suna divergenza fra repubblicani e democratici, destra e sinistra, bianchi e negri, cattolici e protestanti […]. Gli scien- ziati godono di un discreto prestigio nella nostra epoca, ma perché siano veramente utili noi ancora pretendiamo che es- si siano al servizio di uomini che si dedicano alla produzione […]. Questo nostro ansioso interesse per la produzione è il risultato culminante di potenti fattori psicologici e storici, ai quali possiamo sperare di sottrarci soltanto con un atto di volontà. La produttività, come abbiamo visto, ci ha messo in grado di evitare o di attenuare le tensioni una volta provo- cate dallo stato di ineguaglianza e dai suoi inadeguati rimedi, ed è essa è diventata il centro dei nostri sforzi per ridurre l’insicurezza […]. La produzione occupa nella nostra mente un posto così notevole, che noi sentiamo che essa lascereb- be un vuoto incolmabile, se venisse confinata ad un ruolo più modesto» (J. K. GALBRAITH, The Affluent Society, Hou- ghton Miffin, Boston 1998 (1a ed. 1958), pp. 99-10, tr. it. La società opulenta, Torino, Boringhieri 1972, pp. 149-151). 240 Cfr. I. KRAVITZ, Work Time Required to Buy Food, 1937-1950, in Monthly Labor Review, 70, 1951, pp. 487-493. 241 Particolarmente intensa fu, a riguardo, l’attività di propaganda svolta dalla business community, impegnata a pro- muovere l’idea che gli industriali, assai più della classe politica, fossero in grado di soddisfare i bisogni delle comunità locali (cfr. E. A. FONES-WOLF, Selling Free Enterprise: the Business Assault on Labor and Liberalism, 1945-1960, Ur- bana, University of Illinois Press 1994, pp. 158-186). 242 La TVA era – ed è tuttora – una corporation operante nel settore idroelettrico e dei trasporti nell’area del fiume Ten- nessee, istituita da Roosevelt nel 1933. Sulla TVA, cfr. E. C. HARGROVE, Prisoners of Myth: the Leadership of the Ten- nessee Valley Authority, 1933-1990, Princeton, Princeton University Press 1994.

58 vantaggi che la grandezza (Bigness) avrebbe garantito al popolo americano: maggiore stabilità, un output produttivo più elevato, una competizione più valida al servizio degli acquirenti. La grandez- za avrebbe rafforzato tanto la sicurezza nazionale quanto quella privata. Nell’armonico quadro trac- ciato da Lilienthal, le uniche perplessità riguardavano i mezzi, non i fini. La stessa concezione di li- bertà uscita trasfigurata. Non si trattava più – ha notato Michael J. Sandel – di difendere i diritti di cittadinanza dei piccoli proprietari, stritolati dal grande capitale e ostaggio delle grandi compagnie; andava, al contrario, garantita la loro libertà di scelta, la libertà di muoversi senza interferenze all’interno del mercato, che avrebbe offerto loro un numero crescente di beni e servizi. Nella pro- spettiva di Lilienthal, si trattava di abbandonare un sogno antico – l’individuo indipendente, impe- gnato in un’attività autonoma e di circoscritte dimensioni – per coltivarne uno nuovo: «un mondo di grandi macchine, con l’uomo al comando, che inventa e si serve di queste creature inanimate per e- dificare un nuovo genere di indipendenza»: l’indipendenza che scaturisce dal dominio assoluto dell’uomo sulla natura, e dalla illimitata capacità di sfruttarla e di piegarla ai suoi fini243. Al libera- lismo succedeva la tecnocrazia. Questa tendenza affiorava con forza nella pubblicistica progressista del tempo, sempre più impregnata di un lessico d’ispirazione scientifica. Secondo Stuart Chase, polemista ed ideatore, nel 1932, dell’espressione “New Deal”, la Nuova Società avrebbe conosciuto il definitivo «trionfo degli esperti», ossia degli «ingegneri», termine col quale la rivista Time soleva definire i manager di suc- cesso244. Nessun campo sarebbe rimasto escluso. «L’applicazione del metodo scientifico alle cose umane», avrebbe condotto a benefici enormi, se soltanto fosse stata superata l’ottusità dei politici e dell’uomo comune. Nel suo The Proper Study of Mankind (1948) – un vero e proprio manifesto in- tellettuale –, venivano elencati i numerosi problemi cui un sapiente intervento governativo avrebbe potuto porre rimedio: «disoccupazione delle masse, mancanza di mezzi di sostentamento nella vec- chiaia, lavoro dei fanciulli, scioperi, crolli nei trasporti, alloggi e quartieri poveri, istruzione pubbli- ca, erosione del suolo, delitti, sgombro delle immondizie – problemi che gli individui isolati non posso risolvere». Compiaciuto, Chase citava l’attivismo del mondo accademico nel creare gruppi di lavoro in grado di approfondire i fenomeni citati ed elaborare possibili contromisure. «Il Social Science Research Council ha creato dei comitati per lo studio della situazione. Le università hanno aperto corsi di amministrazione pubblica, hanno istituito scuole specializzate per laureati, come la Littauer a Harvard, e formato interi dipartimenti che lavorano sulle tecniche amministrative, come

243 D. LILIENTHAL, Big Business: a New Era, New York, Arno Press 1973 (1a ed. 1953), pp. 10-11; M. SANDEL, De- mocracy’s Discontent: America in Search of a Public Philosophy, Cambridge, Belknap Press of Harvard University 1996, pp. 272-273. Su Lilienthal, cfr. S. NEUSE, David E. Lilenthal: The Journey of American Liberal, Knoxville, Uni- versity of Tennessee Press 1996. 244 P. A. NDIAYE, Nylon and Bombs: DuPont and the March of Modern America, Baltimore, Johns Hopkins University Press 1997, p. 218.

59 nell’Università della California. Nell’amministrazione d’una grande città, i metodi moderni inclu- dono la nomina d’un amministratore, l’organizzazione di un sistema uniforme per i conteggi, un piano urbanistico, la costruzione di case e l’eliminazione di quartieri poveri, l’apertura di parchi e campi di gioco, l’istituzione di grandi centri ricreativi come quello di Jones Beach, presso New York». Una tanto fruttuosa cooperazione fra intellighenzia e potere non avrebbe dovuto limitarsi, però, all’ambito locale. «Il President’s Committee on Administrative Management, diretto da Char- les E. Merriam, ha dato contributi originali al problema dei grandi mutamenti avvenuti negli ultimi anni nei compiti della presidenza americana, affermando che, a causa degli interessi particolari e dei gruppi che fanno pressione con richieste diverse, i quali impacciano l’attività del congresso, solo il Presidente può ora rappresentare veramente tutto il popolo». Diffidenti verso l’ordinario funziona- mento della democrazia rappresentativa, uomini come Chase speravano che un ampliamento delle competenze presidenziali, oltre alla compenetrazione di scienze sociali e scienze naturali, potessero rinnovare profondamente l’ordinamento americano. La Nuova America sarebbe dovuta assomiglia- re ad una gigantesca TVA, una sorta di falansterio in cui sarebbero coesistite fianco a fianco «sia le scienze sociali sia quelle naturali – fisica, chimica, installazioni per l’energia atomica, biologia, in- gegneria, amministrazione pubblica, relazioni del lavoro, economia, sociologia, società cooperative, conservazione del suolo, cicli idrologici, antropologia sociale, medicina, salute pubblica…–. Può darsi che la TVA trovi una formula base per arrivare a una conciliazione con la macchina, una formula attraverso cui semplici cittadini, uomini d’affari, lavoratori, funzionari del governo e pro- fessionisti, cooperino tutti per il reciproco benessere, e attraverso cui la decentralizzazione sia por- tata fino al limite compatibile con il sistema dell’energia elettrica e gli imperativi della tecnica». Lungi dall’essere irrealizzabile, il Grande Disegno – quello di una «struttura politica in cui la dottrina scientifica dell’uomo nella società sia applicata a beneficio del popolo» – era però osta- colato dall’«arretratezza culturale. L’interdipendenza delle tecniche moderne rende necessari oggi interventi governativi su larga scala, ma secondo le credenze di molti solidi cittadini delle classi più ricche, tali interventi sono “dannosi”». Gli stessi leader di partito, peraltro, avrebbero dovuto padro- neggiare al meglio i mezzi di comunicazione di massa, affinché tutti i potenziali sostenitori del pro- cesso riformatore potessero essere coinvolti. È sintomatica, a riguardo, la critica che Chase solleva- va all’indirizzo di Roosevelt. Se egli avesse reso più capillare la sua propaganda, anziché presentar- si come alfiere dei poveri contro i benestanti, il suo consenso sarebbe stato maggiore. «Sfortunata- mente egli vide la situazione in termini di battaglia, di buoni contro cattivi, quando invece non era affatto così. Diede ai “cattivi” una quantità di titoli sgradevoli: “strozzini”, “monarchici dell’eco- nomia” e simili. Naturalmente questo infuriò i ricchi, che concentrarono su Roosevelt tutte le delu- sioni e le paure che la depressione economica aveva fatto nascere in loro. Se il Presidente avesse

60 parlato in nome di tutto il popolo che la depressione aveva colpito o sconcertato e l’avesse spronato a muoversi, come unità compatta, verso la ricostruzione e la libertà dalla paura, molto meno odio si sarebbe rovesciato su di lui245». Il magico mondo di Stuart Chase – un mondo compiutamente pacificato, in cui i contrasti potevano essere appianati grazie a tecnologie più sofisticate, a progetti più audaci, e a moderne tec- niche di persuasione che indirizzassero l’opinione pubblica verso gli scopi prefissati dai governan- ti246 – poteva apparire attraente ad un gran numero di persone, soprattutto se depurato dai suoi ri- svolti più radicali. Pochi americani avrebbero condiviso l’entusiasmo di Chase per la pianificazione centralizzata; molti di più avrebbero sottoscritto la sua affermazione secondo cui lo scienziato so- ciale, «lavorando in una squadra di specialisti, tenendo presenti tutte le caratteristiche, stando all’erta contro le astrazioni e ricercando sempre i fatti, potrà far presente a un governo se i suoi pia- ni abbiano una possibilità di successo o siano simili alle macchine per il moto perpetuo247». Essere contrari al socialismo non significava essere favorevoli al governo limitato, opponendosi coinvol- gimento di specialisti nel processo di decisionale. Nell’America degli anni ’50, notava Bruno Leoni, esisteva un big government, ma il collettivismo era guardato con simpatia da appena un quarto della popolazione248. Questo big government era entusiasticamente appoggiato da opinionisti, tecnici e specialisti, che operarono con entusiasmo non inferiore a quanti nella generazione precedente, erano accorsi a Washington per entrare nei . «La maggior parte degli intellettuali»– sostennero i parteci- panti ad un simposio della «Partisan Review», periodico capofila della sinistra anticomunista ame-

245 S. CHASE, The Proper Study of Mankind. An Inquiry into the Science of Human Relations, New York, Harper 1948, tr. it. Studio dell’umanità. Inchiesta per una scienza delle relazioni umane, Milano, Bompiani 1952, pp. 5, 347, 348, 19, 349, 415. Corsivo mio. Su Chase, cfr. R. B. WESTBROOK, Tribute of the Technostructure: The Popular Economics of Stuart Chase, in American Quarterly, vol. 32, n. 4, 1980, pp. 387-408, ricco anche di riferimenti biografici. 246 Ma non certamente dalla filosofia. In che conto Chase tenesse la teoria politica lo si ricava da un giudizio di Har- tcourt Morgan, anch’egli dirigente della TVA, che Chase cita in modo ammirato: «Hartcourt Morgan osserva come le teorie economiche e politiche sulle società umane furono formulate dai Greci e da altri antichi molto tempo prima che il mondo fisico fosse interamente investigato dagli scienziati. Lo studio delle società umane nei corsi universitari è ancora pieno di questi venerabili indovinelli, rudimentali o informi, secondo il caso. È ora compito degli scienziati sociali, dice il dr. Morgan, “spazzar via i detriti delle morte ideologie da Aristotele a Marx e accingersi a un nuovo inizio, combi- nando le note provvidenze e proibizioni della natura con le capacità e potenzialità dell’uomo moderno» (S. CHASE, The Proper Study of Mankind. An Inquiry into the Science of Human Relations, New York, Harper 1948, tr. it. Studio dell’umanità. Inchiesta per una scienza delle relazioni umane, op. cit., 1952, p. 79) 247 S. CHASE, The Proper Study of Mankind. An Inquiry into the Science of Human Relations, New York, Harper 1948, tr. it. Studio dell’umanità. Inchiesta per una scienza delle relazioni umane, op. cit., p. 426 248 «La Seconda Guerra Mondiale e quella di Corea hanno accelerato il fenomeno dell’espansione delle attività governa- tive, aumentando l’apparato burocratico federale, che in determinati periodi ha assistito ad un aumento dei suoi impie- gati dell’imponente somma di 1500 nuovi funzionari al giorno; come se il totale dei dipendenti dovesse raggiungere, come si è detto, una cifra uguale a quella rappresentata dai membri del partito comunista russo, e una cifra superiore a- gli arruolati nell’esercito, nella marina e nell’aviazione nordamericana messi insieme […]. Ma sarebbe comunque un grave errore concludere da questi dati che il sistema americano è oggi irrimediabilmente orientato verso il collettivismo. Come ho appena ricordato, il 75% dei nordamericani si ritiene in buona fede contrario al collettivismo» (B. LEONI, La polémica “liberista” contemporànea en los Estados Unidos de America, in Revista de Estudios Politicos, n. 88, 1956, pp. 3-29, tr. it. La polemica “liberista” contemporanea negli Stati Uniti, in Il pensiero politico moderno e contempora- neo, Macerata, Liberilibri 2008, pp. 377-410, spec. pp. 382, 384.

61 ricana, nel 1952 – «non accetta più l’alienazione come il destino dell’artista in America; al contra- rio, costoro desiderano fortemente essere parte della vita americana. Un numero crescente di intel- lettuali hanno cessato di concepire se stessi come ribelli ed esuli. Essi sono ora persuasi che i loro valori […] possano essere realizzati in America, e in relazione con la condizione attuale della vita americana249». Questo “essere parte”, questo rinnovato coinvolgimento, non va inteso in termini soltanto immateriali. Nello stesso anno, un rapporto dell’Accademia Nazionale delle Scienze offriva un qua- dro dettagliato della situazione della ricerca accademica negli Stati Uniti. L’aspetto più significativo riguardava il crescente ruolo del finanziamento governativo, passato dai 240 milioni di dollari del 1941 al miliardo e 600.000 del 1952. «Nel 1930, il Governo finanziava il 15% del budget comples- sivo nazionale per la ricerca, pari a 166 milioni di dollari. Oggi, il Governo paga per il 50% dei complessivi 3 miliardi annuali. Lo stesso Governo è la prima fonte di finanziamento in campi di ri- cerca quali l’energia atomica, le armi da guerra, e l’aeronautica. Finanzia una parte maggioritaria della ricerca in ambito agricolo, geologico e medico. Per la chimica e la biologia, il suo contributo è ancora ridotto, ma, negli anni recenti, esso ha esteso i propri interessi alla psicologia applicata, le cosiddette “risorse umane”250». Il mutamento non era soltanto quantitativo. Una quota crescente di fondi – dal 62% del 1949 all’80% del 1960, secondo i calcoli di David Noble – venne attribuita ge- stita dal Dipartimento della Difesa, ed utilizzata per sostenere progetti relativi alla sicurezza nazio- nale251. Situazione anomala per gli Stati Uniti, gran parte dell’expertise si trovò a lavorare, diretta- mente od indirettamente, per un breve od un lungo periodo, alle dipendenze del potere politico252. Ne scaturì – ha notato Patrick Joseph McGrath –una vera e propria militarizzazione della scienza, la quale rappresentò «il culmine di un lungo processo di mutamento ideologico e istituzionale, prodot- to dalle ambizioni politiche e professionali degli scienziati non meno che da quelle delle autorità

249 Il manifesto fu successivamente pubblicato nella rivista medesima (Our Country and Our Culture, in Partisan Re- view, 19, May-June 1952, pp. 282-284). Sulla Partisan Review e la sua linea editoriale nel corso della Guerra Fredda, cfr. T. A. COONEY, The Rise of the New York Intellectuals: Partisan Review and Its Circle, 1934-1945, Madison, University of Wisconsin Press 1996, pp. 251-269. 250 E. W. SCOTT (ed.), Applied Research in the United States; Report of the National Academy of Sciences, National Research Council to the Mutual Security Agency, under project TA-OEEC-83, March 1st 1952, p. 13 251 D. NOBLE, Academia Incorporated, in Science for People, January-February 1983, cit. in J. FELDMAN, Universities in the Business of Repression : the Academic-Military-Industrial Complex and Central America, Boston, South End Press 1989, p. 151. 252 «Solo nel corso della Seconda Guerra Mondiale l’esercito americano cominciò ad avvalersi di consulenti civili, e un vasto numero di intellettuali (alcuni dei quali ex new dealer) vennero coinvolti nell’attività di pianificazione e di esecu- zione. Alla fine della guerra, per mantenere questo legame, l’aeronautica creò la Rand Corporation (Ricerca e Svilup- po); l’esercito ebbe un analogo “brain trust” nell’Operation Research Office presso la Johns Hopkins University e la CIA, se non proprio al di fuori del governo, poteva operare in condizioni di immunità nella supervisione del settore» (D. RIESMAN, The American Crisis (1960), in Abundance for What?, New Brunswick, Transaction 1993, pp. 28-51, spec. p. 28).

62 politiche e militari253». Lungi dall’essere imposti dall’esterno, principi e codici di condotta veniva- no spontaneamente accettati da promettenti neolaureati desiderosi di far parte della nuova “élite del potere”: essa garantiva posti di lavoro, opportunità di carriera, nonché un elevato prestigio socia- le254. Poteva così accadere che cultori di relazioni internazionali come Henry Kissinger, Walt R. Rostow o McGeorge Bundy scalassero i vertici tanto dell’accademia quanto dell’amministrazione; e che illustri politologi come Samuel P. Huntington, accanto ai tradizionali impieghi didattici, svol- gessero un’intensa attività di consulenze a beneficio della CIA255. Nel 1959, il presidente di Har- vard, Nathan Pursey, poteva orgogliosamente affermare: «il genere di attività di cui ci occupiamo, nelle classi e nei laboratori di Cambridge, sta offrendo un vasto contributo agli immensi sforzi na- zionali che stiamo facendo, e che saremo in futuro costretti a compiere, per farci carico delle acqui- site responsabilità nel mondo, lottando contro il nostro mortale nemico, l’URSS256». E ciò che va- leva per l’Ivy League, a maggior valeva per i medi e piccoli atenei sparpagliati per il Paese, le cui modeste risorse finanziarie rendevano più allettanti i generosi contratti governativi257. «I venticinque anni fra il 1945 e il 1970 segnarono il momento in cui la nazione formava la propria élite nei campus» ha ricordato il teologo Jacob Neusner: un periodo in cui «camminando da un ufficio accademico all’altro, in un qualsiasi campus americano, un avviso del presidente del college, del rettore o del preside dichiarava di poter impiegare quasi ogni disciplina nella battaglia nazionale. E il governo avrebbe certamente offerto i fondi per sostenere ciò che il presidente del college era in grado di inventare258». In modo non dissimile, Edward Said – che nei primi anni ’50 faceva il suo ingresso, in qualità di «scolaretto appena arrivato dal Medio Oriente», nel mondo ac- cademico statunitense, ha osservato: «Grossomodo dal 1945 al 1975, il credo ufficiale che in Ame- rica regnò virtualmente incontrastato esigeva che nel Terzo Mondo libertà equivalesse automatica- mente a libertà dal comunismo. Di qui la tesi infinite volte rielaborata da legioni di sociologi, antro- pologi, studiosi di scienze politiche ed economisti, secondo cui “sviluppo” non ha a che fare con

253 P. J. MCGRATH, Scientists, Business and the State, 1890-1960 , Chapel Hill, University of North Carolina Press 2002, p. 130. 254 Cfr. C. W. MILLS, The Power Elite, New York, Oxford University Press 1956. 255 Cfr. K. BIRD, The Color of Truth: McGeorge Bundy and William Bundy, Brothers in Arms: a Biography, New York, Simon & Schuster 1998, pp. 99-116; 117-153; G. D. CLEVA, Henry Kissinger and the American Foreign Policy, Lewis- burg, Bucknell University Press 1989, pp. 118-121; I. OREN, Our Enemies and US: America’s Rivalries and the Making of Political Science, Ithaca, Cornell University Press 2003, pp. 1-22, spec. pp. 2-4; 256 Citato in J. TRUMPBOUR (ed.), How Harvard Rules: Reason in the Service of Empire, Boston, South End Press 1989, p. 51. 257 Cfr. A. C. MILLS, Cia Off Campus: Building the Movement Against Agency Recruitment an Research, Boston, South End Press 1991. Il volume elenca numerosi esempi di partecipazione, soprattutto finanziaria, da parte del Governo Fe- derale a programmi di ricerca, pubblicazioni, e simili. Cfr. anche A. D. GROSSMAN, Neither Dead nor Red, London, Routledge 2001, spec. pp. 41-68 258 J. NEUSNER, N. M. M. NEUSNER, The Price of Excellence: Universities in Conflict during the Cold War Era, New York, Continuum 1995, pp. 81, 34

63 l’ideologia, è portato soltanto dall’Occidente e comporta il decollo dell’economia, la modernizza- zione, l’anticomunismo nonché l’adesione di alcuni leader politici a patti di alleanza formale con gli Stati Uniti […]. Stupisce sempre rilevare in quale ampia misura, negli anni in quale ampia misura, negli anni in cui gli Stati Uniti contendevano l’egemonia mondiale all’Unione Sovietica, l’ordine del giorno della sicurezza nazionale influenzasse le priorità e l’orientamento della ricerca accademi- ca […]. Soltanto adesso cominciamo a poco a poco ad aprire gli occhi: il Dipartimento di stato e il Ministero della Difesa hanno sovvenzionato la ricerca universitaria nel campo della scienza e della tecnica più di qualsiasi altro singolo donatore, soprattutto al Mit e a Stanford, dove per decenni sono affluiti i finanziamenti maggiori. Ma in quegli anni le stessa facoltà di scienze sociali, e anche di scienze umane, ricevettero dal governo la loro parte di fondi generalmente finalizzati alla stessa a- genda.259». Il nuovo scenario delineatosi era tanto eclatante da non lasciare indifferente nemmeno l’establishment. Una certa diffidenza verso i «problem-solvers», intellettuali che «si facevano vanto del loro essere “razionali”, spaventosamente al di sopra di ogni “sentimentalismo”, e innamorati della “teoria”, il mero mondo dello sforzo mentale260» parve affiorare, sul finire degli anni ‘50, per- sino tra le mura della Casa Bianca. Nel suo celebre quanto profetico Farewell Address, pronunciato il 17 gennaio 1961, il Presidente uscente Eisenhower non si limitò a denunciare la pericolosità del «complesso militare-industriale» – basato sulla collusione fra potere politico, economico e militare –, ma ne chiarì limpidamente i presupposti. All’origine di tutto vi era la rivoluzione tecnologica dei decenni passati, durante la quale «la ricerca era divenuta centrale, più specializzata, complessa e co- stosa. Una percentuale decisamente crescente è condotta da, o sotto la direzione del, Governo Fede- rale. Oggi», dichiarava l’ex generale «l’inventore solitario, che armeggia nel suo ufficio, è stato so- pravanzato da équipe di scienziati in laboratori e campi di sperimentazione. Allo stesso modo, l’università libera, che storicamente ha rappresentato la sorgente delle libere idee e della scoperta scientifica, ha conosciuto una rivoluzione nella conduzione della ricerca. In parte per gli elevati co- sti richiesti, un contratto governativo diviene virtualmente un sostituto per la curiosità intellettuale. Al posto di ogni vecchia lavagna ci sono ora centinaia di nuovi computer. La prospettiva di un do- minio della comunità intellettuale da parte degli impieghi federali, delle allocazioni dei progetti, e del potere del danaro è sempre presente – e vi si deve guardare con apprensione. Ma, pur trattando

259 E. SAID, Representations of the Intellectual, New York, Pantheon Books 1994, tr. it. Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli 1995, p. 117; pp. 88-89. 260 H. ARENDT, Lying in Politcs. Reflections on the Pentagon Papers, New York, Hartcourt Brace Jovanovich 1972, tr. it. La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers, Genova, Marietti 2006, p. 21. Continua la Arendt: «In vir- tù del loro appetito per l’azione e del loro amore per le teorie, difficilmente avranno la pazienza tipica dello scienziato di aspettare che le teorie e le spiegazioni ipotetiche siano verificate o inficiate dai fatti. Invece, saranno tentati di adatta- re la loro realtà – che, dopotutto, è stata creata dagli uomini e avrebbe potuto essere altrimenti – alla loro teoria, liberan- dosi mentalmente dalla sua sconcertante contingenza» (ibidem, p. 23).

64 le ricerche e le scoperte scientifiche con rispetto, come dovremmo, è nostro dovere stare all’erta contro l’eguale ed opposto rischio che la politica stessa divenga prigioniera dell’élite scientifico- tecnologica261». Sarebbe stata la Guerra del Vietnam – una «unwinnable war» durata tredici anni, scandita da ripetute quanto inefficaci escalation panificate dal Pentagono, e da numerose rivelazioni sulle mo- dalità di disinformazione e propaganda messe in campo dall’apparato governativo – a dimostrare la fondatezza dei timori di Eisenhower, incrinando la fiducia dell’opinione pubblica nelle capacità dei «migliori e più brillanti», come David Halberstam definì, non senza ironia, i componenti dell’entourage kennediano262. Sino ad allora, tuttavia, i liberal rimassero i dominatori, quasi indi- scussi, della scena pubblica. È indicativo, però, che tale centralità fosse garantita dai trionfi del sapere applicativo, e non dall’affermazione di una idea «forte» di libertà, come era avvenuto nel corso del New Deal263. Lo straordinario sviluppo delle scienze sociali, l’elaborazione di una politica estera condivi- sa, l’anticomunismo, il sostegno allo sviluppo economico favorirono il costituirsi di un’agenda poli- tica condivisa, cui il liberalismo diede voce. Geodfrey Hodgson ha definito «liberal consensus» l’insieme questo insieme di precetti, che contrassegnavano il discorso pubblico statunitense ed era- no condivisi da tutti i policy-makers: «1) Il sistema americano basato sulla libertà d’impresa è diffe- rente dall’antico capitalismo. È democratico. Crea abbondanza. Possiede un potenziale rivoluziona- rio per la giustizia sociale; 2) La chiave di questo potenziale è la produzione: nello specifico, l’accrescimento della produzione, o la crescita economica. Ciò rende possibile far incontrare il cre- scente bisogno di risorse da parte della gente. Il conflitto sociale fra le classi per il controllo delle risorse (quella che Marx definiva “la locomotiva della storia”) è pertanto divenuta obsoleta e super- flua; 3) Pertanto esiste una naturale armonia fra gli interessi, all’interno della società. La società americana sta diventando più eguale. È un processo che tende ad abolire, o forse ha già abolito, le classi sociali. I capitalisti sono stati sorpassati dai manager. I lavoratori stanno diventando membri

261 D. D. EISENHOWER, Public Papers of the Presidents of the United States: Dwight D. Eisenhower, 1961, Washington, GPO 1961, pp. 1045-1050. Citato in J. E. CLELLAN III, H. DORN, Science and Technology in World History: an Intro- duction, Baltimore, Johns Hopkins University Press 2006, p. 433. Corsivo mio. 262 La definizione della campagna militare in Vietnam come di una «immoral and unwinnable war» è attribuita ad un membro dell’amministrazione Johnson, George Ball (L. C. GARDNER, T. GETTINGER (ed.), The Search for Peace in Vietnam, 1964-1968, College Station, Texas A&M University Press 2004, pp. 74-75); cfr. anche J. PRADOS, Vietnam: the History of an Unwinnable War, 1945-1975, Lawrence, University Press of Kansas 2009. Per una trattazione genera- le della propaganda governativa interna, cfr. R. W. CHANDLER, War of Ideas: the U.S. Propaganda Campaign in Viet- nam, Boulder, Westview Press 1981; una ricostruzione dell’operato della lobby a sostegno del governo di Ngo Dinh Diem (composta da giornalisti, accademici, leader politici) è al centro di J. T. FISHER, “A World Made Safe for Diver- sity”. The Vietnam Lobby and the Politics of Pluralism, 1945-1963, in C. G. APPLY, Cold War Constructions: the Po- litical Culture of United State Imperialism, 1945-1966, Amherst, University of Massachusetts Press 2000, pp.217-237. Cfr. D. HALBERSTAM, The Best and the Brightest, Random House, New York 1972. 263 Per una visione ad ampio raggio su questa evoluzione, cfr. il fondamentale T. LOWI, The New Public Philosophy: Interest-Group Liberalism, in T. FERGUSON, J. ROGERS, The Political Economy: Reading in the Politics and Economics of American Public Policy, Armony, M. E. Sharpe 1984, pp. 49-66.

65 della classe media; 4) I problemi sociali possono essere risolti alla stregua dei problemi industriali. Il problema è dapprima identificato; programmi sono disegnati per risolverlo, da un governo illumi- nato dalle scienze sociali; il denaro ed altre risorse – come uomini specializzati – sono allora coin- volti nella risoluzione del problema in qualità di imput; gli output sono prevedibili; i problemi sa- ranno risolti; 5) La principale minaccia a questo benefico sistema viene dagli aderenti delusi del marxismo. Gli Stati Uniti e i sui alleati, il Mondo Libero, deve pertanto impegnarsi in una prolunga- ta battaglia contro il comunismo; 6) Al di là della minaccia comunista, è dovere e destino degli Stati Uniti esportare i benefici del sistema della libera impresa al resto del mondo264». Ma, appunto, di consensus si trattava; non di un credo battagliero da contrapporre a qualche ideologia rivale o a qualche interesse costituito. La raffigurazione più efficace della nuova colloca- zione dei liberal nello spettro politico fu fornita da Arthur M. Schlesinger Jr. e dal suo «centro vita- le». Esso non indicava né un progetto definito, né un programma politico, bensì un luogo, un punto di contatto fra moderati di diversi partiti, intenzionati a conservare il modello di vita americano, proteggendolo dagli opposti estremismi265. Salta agli occhi la pochezza della riflessione filosofico-politica dei progressisti negli anni ’50, se paragonata ai successi delle scienze applicate. L’inverno dei filosofi politici – come ebbe a definire il proprio tempo Peter Laslett, nel 1956 – altro non era che il logico sbocco di una cultura che affrontava i problemi collettivi in termini eminente empirici e avalutativi, una conseguenza del- la visione positivista secondo cui il come, e non il perché, doveva costituire la principale preoccu- pazione del buon professionista intellettuale266. Hannah Arendt denunciò nel 1958 le pericolose im- plicazioni mistificanti insite nell’analisi della vita associata elaborata dai comportamentisti. «Le leggi della statistica sono valide solo quando si applicano a grandi numeri o a lunghi periodi, e i singoli atti o eventi possono apparire statisticamente solo come deviazioni o eccezioni […]. L’applicazione della legge dei grandi numeri o dei lunghi periodi alla politica o alla storia non si- gnifica niente altro che la deliberata obliterazione della loro vera sostanza, ed è vano cercare un senso nella politica o un significato nella storia quanto tutto ciò che non sia comportamento quoti- diano o tendenza automatica è stato scartato come irrilevante […]. In nessun modo si può dire che la uniformità statistica sia un innocuo ideale scientifico; essa è il dichiarato ideale politico di una

264 G. HODGSON, America in Our Time: From World War II to Nixon, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2005 (1a ed. 1978), pp. 67-98, spec. p. 76. 265 Cfr. A. M. SCHLESINGER JR., The Vital Center: The Politics of Freedom, Boston, Houghton Miffin 1949; A. L. HAMBY, Beyond the New Deal: Harry S. Truman and American Liberalism, London-New York, Columbia University Press 1973, pp. 279-282. M. Sperling MCAULIFFE, Crisis On the Left: Cold War Politics and American Liberals, 1947- 1954, Amherst, University of Massachusetts Press 1978, pp. 130-145. 266 P. LASLETT (ed.), Philosophy, Politics and Society, Oxford, Blackwell 1956, p. VII.

66 società che, interamente sommersa nella routine della vita quotidiana, accetta la prospettiva scien- tifica intrinseca nella sua esistenza267». Ma la sua era quasi una voce nel deserto. Nel 1946, Lionel Trilling aveva scritto: «nella nostra classe colta i liberal predominano. Cercare di chiarire il significato di “liberalismo” sarebbe un’impresa ardua: qui intendo soltanto di- re che la nostra classe colta diffida, seppur in modo blando, dell’incentivo del profitto, crede nel progresso, nella scienza, nella legislazione sociale, nella pianificazione, nella cooperazione interna- zionale, forse soprattutto quando vi è coinvolta la Russia268». L’atteggiamento benevolo verso l’URSS e la diffidenza verso l’impresa privata erano andati rapidamente scemando, ma l’influenza dei liberal nel campo delle idee a Washington era rimasta sostanzialmente intatta. Né i confini con- cettuali del liberalismo americano si erano fatti più nitidi – al contrario, essi apparivano estrema- mente malleabili e vaghi. Era il prezzo del potere; o, per meglio dire, dell’egemonia culturale. Poi- ché tutti (o quasi) si definivano liberal, il liberalismo aveva smarrito un significato autonomo, obiet- tivi specifici propri. Esso finì con inaridire lentamente, affievolire poco a poco, mostrandosi incapa- ce di intercettare i fermenti che – da destra e da sinistra – si manifestavano nel Paese. Pur conser- vando il proprio prestigio pubblico e la propria influenza sui policy-makers, esso assomigliò sempre più ad un generico richiamo all’“ingegneria sociale a spizzico”, al benessere pubblico, alla ricerca del compromesso fra mondo del lavoro e mondo della produzione269. Assecondando il moderatismo, la stabilità sociale, il centrismo, gli intellettuali liberal si tro- varono ben presto a fronteggiare una stagione di riflusso e di disimpegno con armi spuntate. Se – come sosteneva – le nuove generazioni stavano riscoprendo le gioie del confor- mismo, che non significava stupidità e inconsapevole adesione alle convenzioni, quanto piuttosto una genuina emancipazione dall’infantilismo radicale270, compito dei progressisti era loro offrire

267 H. ARENDT, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Pres 1958, tr. it. Vita Activa. La condizione u- mana, Milano, Bompiani 2003, pp. 31-32. Corsivo mio. 268 L. TRILLING, The Liberal Imagination, Garden City, Doubleday Anchor 1950, pp. VII, 93-94. 269 Secondo Alonzo L. Hamby, «il “centro vitale” diede al liberalismo una definizione può in linea con il significato sto- rico del termine e lo preservò, facendone una forza importante, per non dire trionfante, della politica americana» (A. L. HAMBY, Beyond the New Deal: Harry S. Truman and American Liberalism, op. cit., p. 505). Il limite della visione di Hamby consiste nel confondere la vitalità di un’idea con la sua permanenza nelle stanze dei bottoni. È senza dubbio ve- ro che il liberalismo “riveduto e corretto” continuò a influenzare l’operato dei decisori politici, ma – presso l’opinione pubblica – esso finì per significare poco o nulla. Così, nel 1962, Nelson Rockefeller aveva giuoco facile nel descriverlo come un concetto «artificiale, che distorce le questioni e confonde i cittadini […], uno slogan che sostituisce il pensie- ro» (N. ROCKEFELLER , The Future of Federalism, Cambridge, Harvard University Press 1962, p. 21). Né, col senno di poi, si poteva dire del tutto infondata la denuncia di Frank S. Meyer nel 1964: «La bancarotta intellettuale del liberali- smo collettivista che ha dominato il pensiero americano nell’ultimo mezzo secolo diventa giorno dopo giorno più ovvia. L’immaginazione, la verve, la passione spirituale che un tempo lo aveva caratterizzato, nei giorni in cui si dirigeva ver- so la conquista del potere, sono state da tempo rimpiazzate da una stanca ripetizione di slogan privi di contenuto, e oggi a sostenerlo c’è solo il penso e l’inerzia della burocrazia» (F. S. MEYER, Freedom, Tradition and Power, in F. S. ME- YER (ed.), What is Conservatism?: a Timely, Important and Provocative Examination of American Conservatism by Twelve Leading Conservative Thinkers and Spokesman, New York, Holt, Rinehart & Winston 1964, pp. 7-22, spec. p. 7) 270 Citato in D. T. MILLER, M. NOVAK, The Fifties: The Way We Really Were, op. cit., p. 237. Va ricordato, a riguardo, che Norman Podhoretz continuò a frequentare ambienti liberal sino alla fine degli anni ’50, prima di divenire

67 era una saggia gestione dell’esistente, in cui la selezione di una classe dirigente capace contava più della costruzione di un’alternativa programmatica. Se Daniel Bell era nel giusto nel sostenere che «sono rimasti in pochi a credere, seriamente, che si possano proporre “progetti” e, ricorrendo alla “ingegneria sociale”, dar vita a nuove utopie armoniciste», ma ancor meno numerosi erano i loro oppositori, sostenitori di un ritorno al laissez-faire, i liberal potevano limitarsi a ripetere ostinata- mente il loro mantra deideologizzato: «l’accettazione del Welfare State; l’auspicabilità di un potere decentrato; un sistema a economia mista e il pluralismo politico271». È piuttosto sorprendente l’atteggiamento distaccato o assente con cui numerosi esponenti del liberalismo degli anni ’50 e ’60 assistettero al manifestarsi di fenomeni antichi e nuovi, contrastanti con l’immagine di una realtà armonica, equilibrata e secolare. Pochi si accorsero del lento riapparire di una religiosità «orientata alla famiglia, assai consapevole della guerra fredda, ed intimamente tradizionalista nel suo tentativo di adeguarsi ad una società in rapida crescita e in fase di cambia- mento272». Ancora meno parvero intuire lo snaturamento di espressioni chiave del frasario liberal, come la rooseveltiana “libertà dal bisogno”: una libertà sempre più spesso interpretata come facoltà di accedere al mercato di beni e servizi, possibilità di consumare ed accrescere il proprio standard di vita senza interferenze da parte dello Stato. A fronte di chi, come lo storico David Potter, sosteneva che il funzionamento della democrazia americana dipendesse dall’immensa prosperità materiale, suggerendo implicitamente che riducendo o ridistribuendo quest’ultima, anche la democrazia sareb- be stata messa a repentaglio, i liberali avevano poco o nulla da obiettare. Anzi, economisti come George H. Hildebrand assicuravano che «l’opportunità per i consumatori di avere un ampio margine di autogoverno è parte dell’idea liberale essa stessa. La concezione liberale è del tutto compatibile con alcune protezioni o funzioni svolte dallo Stato, ma la sua enfasi è posta sullo sviluppo delle ca- pacità di autogoverno individuale in tutti i campi della vita umana273». Il progressivo affievolimento della spinta riformatrice dei liberal fra il 1950 e il 1960 parve- ro confermare una celebre intuizione di Alexis de Tocqueville, secondo cui l’estensione e il godi- mento dei diritti di proprietà rappresentano il miglior argine contro ogni radicale sconvolgimento

un’autorità nel campo neoconservatore. È peraltro significativo che l’addio al liberalismo di Podhoretz sia avvenuto in coincidenza con l’esplosione della cultura beatnik, nel quale egli scorgeva una rivolta neotribale contro valori di razio- nalità e temperanza propri della middle class americana, rivolta cui troppi liberal guardavano con condiscendenza (M. FRIEDMAN, The Neoconservative Revolution. Jewish Intellectuals and the Shaping of a Public Policy, Cambridge, Cambridge University Press 1999, pp. 34-35). Podhoretz ha ricostruito il proprio percorso di avvicinamento al neocon- servatorismo in un denso volume autobiografico (N. PODHORETZ, Breaking Ranks. A Political Memoir, New York, Harper & Row 1979). 271 D. BELL, The End of Ideology: On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Cambridge, Harvard University Press 2000 (1a ed. 1960), pp. 402-403. 272 R. S. ELLWOOD, The Fifties Spiritual Marketplace: American Religion in a Decade of Conflict, New Brunswick, Rutgers University Press 1997, p. 16. 273 K. DONOHUE, Freedom from Want: American Liberalism and the Idea of Consumer, Baltimore, Johns Hopkins Uni- versity 2003, pp. 276-277; G. H. HILDEBRAND, Consumer Sovereignty in Modern Times, in American Economic Re- view, vol. 41. n. 2, 1951 19-33, spec. p. 31.

68 dell’ordine politico274. L’America più ricca si riscopriva anche più moderata, e l’unica strategia che i liberal seppero contrapporre a questo slittamento fu il richiamo all’illuminismo applicato, la fidu- cia nelle potenzialità dello studio empirico della politica e della società. Nessuno meglio del paladino di una “nuova generazione di americani”, John F. Kennedy, presenziando alla consegna delle laurea presso l’Università di Yale nel giugno 1962, seppe dar voce all’atteggiamento di sfiducia verso la teoria politica astratta che contrassegnava il «centro vitale». Nel suo discorso egli affermò solennemente: «i principali problemi interni del nostro tempo sono più delicati e meno semplici. Essi non hanno a che fare con scontri di fondo in campo filosofico o ideologico, ma con modi e mezzi per raggiungere obiettivi comuni – con la ricerca di soluzioni sofi- sticate per la questioni complesse e ostinate […]. [Antichi stereotipi] si frappongono fra noi e la so- luzione di problemi gravi e complessi. Non è la prima volta che dibattiti del passato finiscono con l’oscurare la realtà del presente. Ma il danno che potrebbe scaturirne è oggi maggiore di quanto non lo fosse in passato, poiché oggigiorno la sicurezza del mondo interno – l’intero futuro della libertà – dipende, quanto mai in precedenza, da una sensibile e lucida amministrazione degli affari interni degli Stati Uniti […]. Ciò che è in gioco nelle nostre decisioni economiche oggi non è una qualche grande battaglia fra ideologie rivali che possano coinvolgere in modo appassionato il paese, ma la gestione pratica di un’economia moderna […]. Le etichette politiche e le impostazioni ideologiche non hanno niente a che fare con le soluzioni275». Kennedy era in errore. La filosofia politica non era morta, l’ideologia non si era dissolta, e nuove idee andavano rapidamente germogliando. Troppo impegnati a restare a metà del guado, i li- berals non si accorsero del radunarsi di truppe nemiche su entrambi i lati del fiume, e finirono ac- cerchiati. Alla loro sinistra, patirono l’offensiva della cosiddetta New Left, un eterogeneo movimento reso coeso dal “gran rifiuto” della società industriale, della quale contestavano le pratiche repressive e guerrafondaie, il disprezzo per l’individualità, la celebrazione della sensibilità piccolo-

274 A. DE TOCQUEVILLE, De la Démocratie en Amérique, Paris, Pagnerre 1848, parte II°, cap. XXI, tr. it. La democrazia in America, Milano, Rizzoli 1982, pp. 670-672. 275 J. F. KENNEDY, Public Papers of the Presidents of the United States: John F. Kennedy, 1962, vol. 2, Washington, CPO 1962, pp. 470-475, cit. in J. N. GIGLIO, S. G. RABE, Debating the Kennedy Presidency, Lanham, Rowman & Lit- tlefield Publishers 2003, pp. 173-180. Corsivi miei. Per rendersi conto di quanto la retorica kennediana fosse influenzata dal «liberalismo della guerra fredda», si ponga a confronto il presente discorso con S. HOOK, Heresy Yes – But Conspi- racy No, in New York Times Magazine, 9 july 1950, pp. 2-33, ora in E. SCHRECKER (ed.) The Age of McCarthysm. A Brief History with Documents, New York, Palgrave 2002, pp. 263-270. Qui Hook afferma: «I problemi che una società liberale deve affrontare sono di dimensioni terrificanti. Essi non possono essere risolti citando Jefferson, né mettendo fuori legge il partito comunista e quanti vi gravitano attorno con qualche legge speciale. Essi richiedono un’intelligenza costruttiva, la scoperta e l’applicazione di tecniche in ogni campo in cui minacce cospiratorie verranno mosse al fun- zionamento delle istituzioni liberali, senza però creare cospirazioni ancora maggiori» (ibidem, p. 267. Corsivo mio).

69 borghese276. Nel suo One-Dimensional Man (1964), che presto divenne il testo di riferimento per attivisti e simpatizzanti, Marcuse – con argomenti non troppo dissimili da quelli di Arendt277 – at- taccava frontalmente l’epistemologia operazionista, secondo cui gli unici concetti utilizzabili dalla scienza erano quelli descrivibili in termini di operazioni. Sulla scorta di tale metodo, «molti dei concetti capaci di recare i più gravi turbamenti vengono “eliminati” […]. L’assalto dell’empirista radicale […] fornisce in tal modo agli intellettuali la giustificazione metodologica per svuotare di senso l’attività della mente: forma di positivismo che, col suo diniego di elementi trascendenti dalla Ragione, costituisce il riscontro accademico del comportamento sociale richiesto». Nell’ottica di Marcuse, le scienze sociali finivano con lo svolgere una funzione eminentemente repressiva, poiché la loro era la «parola che ordina e organizza, che induce le persone a fare, a comprare, e ad accetta- re278». La frattura col liberalismo tradizionale, che aveva fatto dell’avalutatività scientifica posta al servizio dell’amministrazione un punto cruciale della propria Weltanschauung, non poteva essere più netta. La furibonda guerriglia urbana scatenata per le strade di Chicago nel 1968, durante la Convention del Partito Democratico, fu la rappresentazione emblematica non soltanto di uno scon- tro generazionale, ma dello spalancarsi di una voragine culturale: da un lato, i giovani radicali so- stenitori di Eugene McCarthy; dall’altro le forze di polizia agli ordini del sindaco Daley, che – agli occhi dei dimostranti – incarnavano quel modello di spietato ed efficiente apparato coercitivo di cui liberal moderati si servivano per conservare l’egemonia nel campo progressista279. La sfida mossa al cold war liberalism da destra avvenne con modalità meno irruente ed ap- pariscenti, ma non per questo si rivelò meno letale. Inizialmente, la comparsa di volumi come Con- servatism Revisited: the Revolt Against the Revolt 1815-1949 (1949) di Peter Viereck, The Conser- vative Mind (1953) di o A Quest for Community: a Study in Ethics of Order and Free- dom (1953) di Robert Nisbet fu giudicata un fenomeno transitorio, privo di solide radici nella tradi- zione americana. In un’ironica recensione, Arthur M. Schlesinger Jr. paragonò tali autori a cavalieri senza macchia o a dinoccolati galantuomini irritati dalla società di massa. Il loro tentativo di impor- re una «controrivoluzione nella filosofia politica» si sarebbe rivelato fallimentare: il conservatori-

276 Sulla cultura politica della New Left, cfr. I. UNGER, The Movement: a History of the American New Left, 1959-1972, New York, Mead and Company 1974; W. BREINES, Community and Organization in the New Left, 1962-1968: the Great Refusal, New Brunswick, Rutgers University Press 1989. 277 Cfr, soprattutto H. ARENDT, On Violence, New York, Hartcourt Brace & Co. 1970. 278 H. MARCUSE, One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Boston, Beacon Press 1964. tr. it. L’uomo ad una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi 1967, pp. 35, 104. Sul rapporto fra Marcuse e la New Left, cfr. D. KELLNER, Introduction: Radical Politics, Marcuse and the New Left, in H. MARCUSE, The New Left and the 1960’s, New York-London, Routledge 2005, pp. 1-37. 279 Per un’accurata ricostruzione degli scontri di Chicago, cfr. D. FABER, Chicago ’68, Chicago, Chicago University Press 1988. Un sondaggio realizzato due mesi dopo gli scontri rivelava un dato significativo: se il 36% dei sostenitori di McCarthy riteneva che la polizia avesse abusato della forza, soltanto il 22% fra quanti appoggiavano il vincitore mode- rato della Convenzione, Humphrey, condividevano questa opinione: una percentuale molto simile – 19% – la si riscon- trava fra i supporter del repubblicano Nixon (J. P. ROBINSON, Public Reaction to Political Protest: Chicago 1968, in The Public Opinion Quarterly, vol. 34, n. 1 (1970), pp. 1-9, esp. p. 3).

70 smo, nobile quanto ininfluente, assomigliava ad una «pianta da serra, coltivata con cura nelle acca- demie da uomini che sognano di dimorare in residenze di marmo». L’unica forma di conservatori- smo in grado di attecchire negli Stati Uniti – una società priva di un passato feudale alle spalle – era quello degli industriali, dei banchieri e dei leader politici: le stesse categorie cui i teorici come Kirk e Viereck, colmi d’ammirazione per l’aristocrazia britannica, guardavano con disprezzo280. Contra- riamente alle previsioni di Schlesinger, però, il pensiero conservatore trovò terreno fertile al di fuori dell’accademia, generando organizzazioni militanti, circoli, associazioni, riviste, fondazioni e centri studi. La sorprendente conquista della nomination repubblicana del 1964 da parte di Barry Goldwa- ter rappresentò soltanto una delle tappe che segnarono l’ascesa del movimento281. I tempi cambiarono, e i ruoli si rovesciarono in modo beffardo. A trentatré di distanza dalla sua recensione, Schlesinger sottoscrisse un appello, pubblicato dal New York Times, a difesa del li- beralismo, «una delle più antiche e nobili tradizioni» americane, di cui teorici e leader conservatori – a cominciare dal Presidente Reagan – si facevano ormai pubblicamente beffa282. Quella dottrina – in cui Schlesinger, Louis Hartz, Trilling, e molti altri, avevano identificato la sola tradizione politica autenticamente americana – era soggetta, negli anni ’80, ad un’offensiva tale da trasformare il rela- tivo aggettivo, liberal, in un «termine denigratorio, da cui qualsiasi politico intenzionato a correre per un incarico nazionale avrebbe fatto meglio a tenersi alla larga283». Se, nel breve periodo, fu la Nuova Sinistra a svelare con maggior forza le contraddizioni del liberal consensus, evidenziando il latente autoritarismo di una concezione che sostitutiva l’amministrazione asettica al discorso politico, e soffocava gli interrogativi più profondi e radicali sotto una ridda di grafici, tabelle e misurazioni statistiche, nei decenni successivi fu soprattutto la destra a beneficiare del discredito in cui versavano il New Deal e il centro vitale. L’affermazione delle categorie intellettuali conservatrici non fu un processo né rapido né li- neare, che non si intende ripercorrere in questa sede284. Ciò che tenteremo di sviluppare, nel capito- lo seguente, è una disamina più approfondita della crisi interna al liberalismo razionalistico dopo la Seconda Guerra Mondiale, da un punto di vista non più storico, bensì teorico. Esamineremo dibattiti e concetti all’origine di tali crisi, e cercheremo di comprendere quali assunti furono contestati, ridi- scussi, ridefiniti. Individueremo alcuni autori ed alcune opere di riferimento – ricorrendo, ovvia- mente, ad una drastica semplificazione –. Al termine, saranno forse più chiare le modalità tramite

280 A. M. SCHLESINGER, The Politics of Nostalgia, in Reporter, vol. 2 (1955), pp. 9-12, ora in A. J. SCHLESINGER Jr., The Politics of Hope and the Bitter Heritage: American liberalism in the 1960s, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2008, pp. 92-104. 281 Su Goldwater, cfr. A. DONNO, . Valori americani e lotta al comunismo, Firenze, Le Lettere 2008. 282 A Reaffirmation of Principle, New York Times, 26 october 1988, p. 21. 283 B. J. CRAIGE, American Patriotism in a Global Society, Albany, State University of New York Press 1996, p. 103. 284 Con riferimento agli Stati Uniti, la ricostruzione più convincente è quella di G. NASH, The Conservative Intellectual Movement in America since 1945, Wilmington, ISI Books 1998.

71 cui si svolse lo svuotamento del paradigma teorico del liberalismo razionalistico, e gli spazi che tale svuotamento concesse alla formulazione di una ideologia alternativa – l’ideologia conservatrice.

72 III. Liberalismo rivisitato: Berlin, Talmon, Hayek, Niebuhr

Non cerchiamo nella democrazia le sublimi sottigliezze delle sue virtù, ma le sue caratteristiche reali, che ci por- tano a constatare appunto che la sua essenza risiede nell’accettazione della pacifica concorrenza.

Raymond Aron, Démocratie et Révolution, 1952285.

I socialisti hanno portato un bel po’ di colore e di diver- sità nella vita americana, e in un certo senso ci dispiace lasciarceli alle spalle. Ma vale la pena di notare che è sta- to un sforzo politico autenticamente americano a scon- figgerli.

Redattore anonimo, Life, 1952286.

I. Liberalismo realista e liberalismo critico

I travagliati anni ’30 rappresentano, come detto, lo sfondo storico entro cui la tradizione li- berale fu costretta, volente o nolente, a reinventarsi. Se, in Europa, essi coincisero con una stagione di crisi e decadenza degli ideali liberali – soppiantati da nuovi princìpi e nuove forme di integrazio- ne sociale, dalla nazionalizzazione delle masse al “socialismo di guerra” 287 –, negli Stati Uniti si verificò piuttosto un processo di contaminazione: il liberalismo riuscì ad offrire un quadro teorico credibile entro cui convogliare le istanze di riforma, accettando di dialogare con correnti culturali e movimenti – dal populismo al radicalismo – che il Grande Crollo del 1929 aveva riportato in au- ge288. Esso assunse caratteri più marcatamente razionalistici e costruttivistici; guardò con favore ad

285 R. ARON, Introduction à la Philosophie Politique. Démocratie et Révolution, Paris, Editions de Fallois 1997, tr. it. Introduzione alla filosofia politica. Democrazia e rivoluzione, Lungro di Cosenza, Costantino Marco 2005, p. 38. 286 A Farewell to Socialism, in Life, n. 24, 16 giugno 1952, p. 22. 287 L’espressione «crisi e decadenza» è utilizzata da G. BEDESCHI, Storia del pensiero liberale, Roma-Bari, Laterza 1990, pp. 255. Sugli anni ’30, valga per tutti l’icastico giudizio formulato da Simone Weil nel 1934: «Mai l’individuo è stato così completamente abbandonato a una collettività cieca, e mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sot- tomettere le loro azioni ai pensieri, ma persino di pensare […]. In apparenza quasi tutto ai nostri giorni si realizza meto- dicamente; la scienza è sovrana, il macchinismo invade poco a poco tutto l’ambito del lavoro, le statistiche assumono un’importanza crescente e, su un sesto del globo, il potere centrale tenta di regolare l’insieme della vita sociale in base a dei piani […]. La vita pratica assume un carattere sempre più collettivo, e l’individuo in quanto tale è sempre più insi- gnificante […]. Quanto all’insieme della vita sociale, questa dipende da fattori così numerosi, ciascuno dei quali è im- penetrabilmente oscuro e mischiato con gli altri in rapporti inestricabili, che a nessuno verrebbe neppure l’idea di tenta- re di concepirne il meccanismo. Così la funzione sociale più essenzialmente legata all’individuo, quella che consiste nel coordinare, dirigere, decidere, oltrepassa le capacità individuali e diventa in una certa misura collettiva e come anoni- ma» (S. WEIL, Réflexions sur les Causes de la Liberté et de l’Oppression Sociale, Paris, Gallimard 1955, tr. it. Rifles- sioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Milano, Adelphi 1983, pp. 108-111). 288 Un tentativo di riallacciare il liberalismo newdealista al riformismo populista, incarnati rispettivamente da Franklin D. Roosevelt e da Andrei Jackson, è presente in A. M. SCHLESINGER JR., The Age of Jackson, Boston, Little, Brown and Company 1945. Cfr. B. O’CONNOR, A Political History of the American Welfare System: When Ideas Have Conse- quences, Lanham, Rowan & Littlefield 2003, p. 40.

73 una crescita dei poteri di regolamentazione ed intervento da parte del governo, in modo da controbi- lanciare la grande industria; individuò nella sicurezza sociale una precondizione per il godimento pieno dei diritti di libertà e di cittadinanza. Nacque un “nuovo liberalismo”, un liberalismo «prag- matico» che mirava a limitare anche il potere dei privati e non concepiva il libero mercato come un luogo di interscambio neutrale fra soggetti paritetici289. Tuttavia, malgrado la popolarità che conobbe tra le due guerre, questa declinazione della fi- losofia politica liberale non soppiantò integralmente altri filoni interni alla medesima tradizione – a cominciare dal più antico, ancorato agli scritti di Locke e Hume, che concepiva la libertà in termini essenzialmente negativi, e le istituzioni pubbliche come enti funzionali alla sua protezione290. Ciò accrebbe notevolmente la complessità e l’eterogeneità della famiglia liberale; una caratteristica che permane tuttora, e che rende opportuno dotarsi di mappe concettuali per orientarsi al suo interno. Ragionando non più in termini storici, bensì teorici, possiamo tracciare una linea di demar- cazione fra liberalismo realista e liberalismo critico291. Con questi termini designiamo due poli, due centri di gravitazione attorno cui si ruotano molteplici versioni, interpretazioni, riformulazioni della teoria politica liberale, sovente in contrasto tra loro. Tale bipartizione ha un’evidente utilità tasso- nomica, poiché permette di enucleare le controversie emerse in seno al paradigma liberale, nonché di abbozzare una topografia – un atlante, nelle parole di Raimondo Cubeddu – della tradizione stes- sa292. È bene precisare, comunque, che tale impostazione non è l’unica possibile. William A. Gal- ston ha ad esempio distinto un liberalismo dell’autonomia da un liberalismo della diversità. Il primo pone l’accento sull’esigenza di tutelare la libertà di scelta individuale, anche all’interno di gruppi – elettivi o meno – di cui il singolo fa parte; il secondo sottolinea con maggior forza l’opportunità di

289 Charles W. Anderson, esplicitamente richiamandosi all’eredità di Dewey e Commons, ha definito il «liberalismo pragmatico» americano nei termini seguenti: «Il liberalismo pragmatico concerne l’applicazione dei principi liberali alle varie forme di azione sociale organizzata, ai “modi collettivi di azione” che emergono ed evolvono dando forma e con- tenuto alla società liberale, altrimenti nulla più che una struttura formale. Possiamo analizzare e criticare le associazioni e le iniziative alla luce dei valori liberali […]. Il liberalismo pragmatico presume che esista una dimensione “pubblica” per quanto riguarda istituzioni e associazioni generalmente definite “private” nel liberalismo classico. Per il liberalismo pragmatico le associazioni umane rappresentano tutte modi per svolgere funzioni pubbliche, e a tutte si applicano i cri- teri di valutazione propri della vita pubblica» (C. W. ANDERSON, Liberalismo pragmatico, in Biblioteca della Libertà, vol. XXIII, n. 102, 1988, pp. 39-63, ora in AA.VV., 1980-2000. Vent’anni di cultura liberale nelle pagine di «Bdl»: un’antologia, vol. I, Biblioteca della Libertà, XXXIX, n. 173-175, 2004, pp. 85-104, spec. 88-89). 290 Negli Stati Uniti, i sostenitori del liberalismo classico si richiamano spesso all’autorità di Thomas Jefferson, e sono talora classificati come “jeffersoniani”. Esemplare, in questo senso, l’interpretazione del pensiero politico di Jefferson offerta da J. T. ADAMS, The Living Jefferson, New York, Scribner’s Sons 1936. Sulle origini del “jeffersonismo”, cfr. L. M. BASSANI, Il pensiero politico di Thomas Jefferson. Libertà, proprietà, autogoverno, Milano, Giuffré 2002, spec. pp. 263-274; E. S. GAUSTAD, On Jeffersonian Liberty, in J. C. BRAUER (ed.), The Lively Experiment Continued, Macon, Mercer University Press 1987, pp. 85-104. 291 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, Roma, Donzelli 1996, pp. 69-95. 292 Cfr. R. CUBEDDU, Atlante del liberalismo, Roma, Ideazione 1997.

74 tutelare il pluralismo culturale all’interno di una società libera293. Privilegiamo, in questa sede, la distinzione fra liberalismo critico e liberalismo realista non perché essa sia, necessariamente, la chiave di lettura più valida dei differenti filoni della tradizione liberale; ma perché – sottolineando alcune significative differenze di natura epistemologica, ed evidenziando un differente atteggiamen- to verso la sfera economica – permette di mettere a fuoco molti dei tratti peculiari degli autori di cui, nei paragrafi successivi, ci occuperemo. Tanto il liberale realista quanto il liberale critico sono favorevoli ad istituzioni politiche ba- sate sul consenso. Entrambi condividono l’assunto secondo cui «le maggiori istituzioni sociali – quelle politiche, a cominciare dallo stato, ma anche da quelle economiche, a partire dal mercato – sono legittimate se e solo se esiste un consenso di chi le vive e le pratica, che le giustifichi294». Tale consenso deve basarsi su preferenze espresse da individui singoli, universalmente concepiti come indistinguibili l’uno dall’altro. «Il liberalismo filosofico ci appare così come una giustificazione teo- rica dell’ordine sociale a partire dalla libertà individuale, giustificazione la cui principale caratteri- stica consiste nell’essere basata su una dottrina consensualista delle istituzioni295». Sennonché i liberali non concordano sulle modalità di accertamento di tale consenso. A det- ta del realista, «le istituzioni […] sono giustificate dal consenso effettivo e reale di chi le vive nel loro ambito. Ogni ulteriore argomento, politico o teorico che sia, pro o contro tale consenso effet- tuale, sarebbe pretestuoso e magari perverso, perché capace di generare esiti autoritari nella misura in cui un individuo o un’élite potrebbero adoperarlo a sostegno delle proprie tesi, non sempre con- divise dagli altri296». Nella prospettiva realista, è estremamente arduo – per non dire infattibile – so- stituire un consenso ipotetico a quello concretamente riscontrabile all’interno di comunità esistenti ed operanti. Da qui l’insistenza sui limiti e la fallibilità della conoscenza umana: «è impossibile, per così dire, mettersi nei panni degli altri, come per sostituirsi loro nelle decisioni politiche, anche per- ché – data la debolezza della ragione umana in generale – non siamo in grado di penetrare nei loro sentimenti e credenze297». A ciò si aggiunge una scarsa fiducia nell’altruismo e l’individuazione dell’interesse privato come motore primario dell’agire umano. «Ne segue sovente una forma di di-

293 Le due diverse interpretazioni del liberalismo, rileva Galston, inducono a promuovere due differenti modelli di asso- ciazione libera: «Secondo il modello autonomistico, la libertà di associazione è soggetta al limite che la struttura interna e le pratiche di tutti i gruppi devono conformarsi ai requisiti dell’autonomia individuale […]. Il modello di diversità dell’associazione libera basato sulla diversità è molto diverso. Da questa prospettiva, i gruppi possono essere illiberali nella loro struttura e nelle loro pratiche, finché la libertà di ingresso e di uscita è salvaguardata con zelo da parte dello Stato» (W. Galston, Two Concepts of Liberalism, in Ethics, vol. 105, n. 3, 1995, pp. 516-534, spec. p. 533). 294 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, op. cit., pp. 70-71. 295 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, op. cit., p. 71. 296 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, op. cit., ibidem. 297 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, op. cit., ibidem.

75 scontinuismo tra etica e politica […], che privilegia la realtà delle istituzioni e della storia, rispetto ad una fondazione morale, come base della libertà. Siamo al cospetto, in sostanza, di un liberalismo realista, attento alla storia, preoccupato del disegno istituzionale, tendenzialmente economicistico, motivazionalmente prudente, antropologicamente pessimistico ed epistemologicamente scettico298» Al contrario, secondo il liberale critico, è possibile ed auspicabile «cercare di andare oltre le preferenze effettuali, anche perché il modo in cui le preferenze si formano non è ritenuto irrilevante allo scopo di considerarle significative rispetto alla giustificazione dell’ordine299». Diventa priorita- rio comprendere il contesto entro cui le preferenze effettive si sono formate, poiché condizioni di vita improprie o discriminazioni possono averle rese inautentiche o scarsamente rappresentative. Si può, pertanto, giungere a sostituire il consenso concreto con uno ipotetico, puramente razionale, che riproduca ciò che gli individui avrebbero realmente scelto, se posti in condizioni di eguaglianza. Un simile sforzo sottende, come è ovvio, un certo grado di fiducia nella razionalità individuale, un mi- nor pessimismo epistemologico ed una connessione più stretta fra etica e politica. «Siamo al cospet- to, in sostanza, di un liberalismo critico, più filosofico che politico, meno realistico e più idealistico, più basato sull’etica che sull’economia, motivazionalmente più ricco, antropologicamente più otti- mista ed epistemologicamente più fiducioso300». Tutto ciò si ripercuote sul diverso atteggiamento dei liberali nei confronti delle altre culture politiche. «Il liberalismo realista che parte dalle preferenze effettuali, infatti, tende a prendere molto sul serio la storia istituzionale e la cultura tramandata, e quindi è limitrofo al rispetto della tradizio- ne, che è tipico del conservatorismo […]. Inoltre, per la sua stessa natura, il liberalismo realista insi- ste sulle preferenze delle persone così come sono. Non è, quindi, particolarmente interessato a pro- getti di emancipazione individuale o sociale, o perlomeno ritiene che questi possano avvenire sol- tanto in maniera spontanea. L’interazione tra i privati, e non la sfera pubblica, viene così di solito considerata il luogo reale dell’integrazione sociale e della partecipazione concreta alla vita colletti- va301». Viceversa, il liberalismo critico si avvicina al radicalismo, «poiché la visione normativa di ciò che si dovrebbe preferire in condizioni ideali rassomiglia a una teoria critica e revisionista dei bisogni302». La sfera pubblica, anziché quella privata, diviene l’ambito primario entro cui individui e comunità possono emanciparsi o autorealizzarsi, e non soltanto soddisfare interessi reciproci.

298 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, op. cit., pp. 71-72. 299 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, op. cit., p. 72. 300 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, op. cit., ibidem. 301 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, op. cit., p. 73. 302 S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filoso- fia politica, op. cit., ibidem.

76 La distinzione fra realisti e critici ci permette di inquadrare in modo adeguato la riscoperta del liberalismo classico operata in Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fu, questa, una congiuntura storica in cui la sensibilità degli autori liberali progressivamente slittò dal polo critico verso il polo realista. Il liberalismo “antico” – l’unico, secondo intellettuali come Hayek o Mises, che potesse essere considerato tale303 – pareva offrire un argine più sicuro contro il marxismo- leninismo, una dottrina variamente descritta come iperdemocratica, democratico-totalitaria, iper- razionalista, ultraegualitaria304. Al cospetto della minaccia collettivista, la libertà negativa teorizzata da Isaiah Berlin – «l’area entro cui una persona può agire senza essere ostacolata da altri» – garan- tiva una trincea robusta, una linea Maginot da contrapporre alle velleità progettuali e riformatrici di filosofi e ideologues305. Una concezione, questa, che non avrebbe entusiasmato le masse, né soddi- sfatto gli intellettuali radicali, ma che costituiva pur sempre – come il liberalsocialista Norberto Bobbio non cessava di ricordare agli esponenti del marxismo teorico italiano – una condizione indi- spensabile affinché esistesse un sistema realmente democratico-rappresentativo, e la partecipazione dei cittadini non si trasformasse in un rito di genuflessione plebiscitaria innanzi ai governanti306. In che modo si realizzò questo riavvicinamento al polo realista? Esso prese le mosse, anzi- tutto, da un riesame della cultura illuminista settecentesca. Poiché il comunismo – diversamente dal

303 Hayek distingue fra liberalismo evoluzionistico, di matrice anglosassone, e liberalismo razionalistico, prevalente- mente continentale. Quest’ultimo, tuttavia, è spesso raffigurato come una degenerazione del primo, anziché come una sua variante (Cfr. F. A. VON HAYEK, Liberalism, in New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, Chicago, University of Chicago Press 1978, pp. 119-151). Per la critica hayekiana al liberalismo continentale, cfr. D. P. O’ BRIEN, Hayek as an Intellectual Historian, in J. BIRNER, R. VAN ZIJP (ed.), Hayek, Co-ordination and Evo- lution: His Legacy in Philosophy, Politics, Economics, and the History of Ideas, London, Routledge 1994, pp. 343-374, spec. pp. 351-355. Non dissimile la visione di Mises (Cfr. L. VON MISES, Liberalism: the Classical Tradition (1a ed. 1927), Indianapolis, Liberty Fund 2005, pp. 198-201). 304 La convergenza fra marxismo, illuminismo radicale e millenarismo era stata sostenuta, già negli anni ’30, da Carl L. Becker, in un volume di grande fortuna editoriale (C. L. BECKER, The Heavenly City of the Eighteenth Century Philo- sophers, New Haven, Yale University Press 1932). Non stupisce che gli scritti di Becker – scomparso nel 1945 – siano stati abbondantemente riscoperti nel corso degli anni ’50, allorché prese piede una lettura fortemente critica della Rivo- luzione francese (cfr., ad es., C. W. SMITH, Carl Becker: On History and the Climate of Opinion, Ithaca, Cornell University Press 1956). 305 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, Oxford, Clarendon Press 1958, tr. it. Due concetti di libertà, in Libertà, Milano, Feltrinelli 2005, pp. 169-222, spec. p. 172. La metafora della linea Maginot applicata al concetto di libertà negativa compare in C. TAYLOR, What’s Wrong with Negative Liberty, in A. RYAN (ed.), The Idea of Freedom, Oxford, Oxford University Press 1979, pp. 175-193, tr. it. Cosa c’è che non va nella libertà negativa, in I. CARTER, M. RICCIARDI (a cu- ra di), L’idea di libertà, Milano, Feltrinelli 1996, pp. 75-99, spec. p. 80. 306 «La volontà come autonomia presuppone una situazione di libertà come non impedimento. In altre parole, una gene- rale situazione di larga liceità è condizione necessaria per la formazione di una volontà autonoma. Si può dare una so- cietà in cui i cittadini godano di certe libertà senza averle essi stessi volute (si pensi alle costituzioni octroyées). Non può esistere una società in cui i cittadini diano origine ad una volontà generale nel senso rousseauiano senza esercitare alcuni fondamentali diritti di libertà» (N. BOBBIO, Politica e cultura (1a ed. 1955), Torino, Einaudi 2005, pp. 146-147). Su una linea sostanzialmente analoga, argomentava Sartori: «La messa a fuoco del problema della libertà politica è quella liberale, poiché è la libertà da e non la libertà di che segna la demarcazione tra libertà ed oppressione politica. Quando si definisce la libertà come un “potere di”, il potere di libertà (dei cittadini) ed il potere di coercizione (dello Stato) tornano a commescolarsi, e non c’è più modo di distinguere il problema dei limiti e del controllo sul potere poli- tico, da quello inverso del controllo e dei vincoli imposti dal potere politico. La libertà al positivo si può adoperare in tutte le direzioni e per qualsiasi scopo; è solo la libertà al negativo, la rivendicazione di una sfera di non impedimento, che sta dalla parte dei sottoposti e che non può ritorcersi contro di loro» (G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bolo- gna, Il Mulino 1957, pp. 208-209).

77 nazionalsocialismo – non si prestava ad essere liquidato come un puro e semplice cedimento alla barbarie, diveniva essenziale inquadrarne le origini all’interno della tradizione filosofica occidenta- le. Comprensibilmente, l’attenzione fu attratta dalla Rivoluzione francese e dalla sua involuzione terroristica sotto Robespierre. Il giacobinismo venne interpretato come l’antecedente più prossimo del leninismo, mentre la dittatura della Comitato di Salute Pubblica segnò, simbolicamente, il punto di rottura fra liberalismo costituzionale e radicalismo egualitario307. In modo pressoché consequenziale, i liberali classici riscoprirono la figura di Edmund Bur- ke. Egli era stato, sì, l’inflessibile censore degli avvenimenti del 1789-1790, ma aveva anche simpa- tizzato per la rivoluzione americana – una «rivoluzione costituzionale», basata sulla difesa di anti- che guarentigie e poteri locali, e non un salto nel buio compiuto sulla base di teorie puramente a- stratte308. Burke, inoltre, forniva solidi strumenti epistemologici contro il razionalismo “forte”. La visione burkeana dello sviluppo istituzionale si ispirava a principi scettici e fallibilisti, ed era natu- ralmente diffidente verso ogni tentativo di “direzione cosciente” dell’ordine sociale. Ragioni non troppo dissimili regalarono al cattolico liberale Lord Acton una rinnovata popolarità nell’America dei primi anni ’50309. Parallelamente, venne teorizzato l’abbandono di un’antropologia ottimistica e di ogni conce- zione che vedesse nella politica un campo aperto al dispiegamento di forze compiutamente raziona- li. Il problema del male, associato alla corruzione della natura umana, assunse un peculiare rilievo

307 La critica al costituzionalismo francese, che indirettamente aveva spianato la strada all’onnipotenza del governo as- sembleare, poteva, negli Stati Uniti, essere fatta risalire addirittura agli scritti dell’ex presidente John Quincy Adams (1767-1848), implacabile censore dell’opzione monocamerale (cfr. R. SAMUELSON, John Adams and the Republic of Laws, in B. P. FROST, J. SIKKENGA (ed.), History of American Political Thought, Lanham, Lexington Books 2003, pp. 114-131). 308 Rielaborando tesi già esposte nel suo The American Revolution: a Constitutional Interpretation (1924), lo storico di Harvard Charles H. McIlwain ribadiva nel 1940 lo stretto rapporto fra antico costituzionalismo inglese e moderno costi- tuzionalismo americano. Il punto di raccordo era rappresentato proprio dall’autore delle Reflections on the Revolution in France: «Nel 1791 Burke, mentre combatteva le dottrine estremiste dei radicali, riaffermava espressamente la sua antica opinione che gli americani, nella loro lotta contro l’Inghilterra, erano stati “nella medesima relazione con l’Inghilterra in cui questa si era stata con Giacomo II nel 1688”» (C. H. MCILWAIN, Constitutionalism: Ancient and Modern, Ithaca, Cornell University Press 1940, tr. it. Costituzionalismo antico e moderno, Bologna, Il Mulino 1990, p. 30). Le interpre- tazioni «costituzionali» della Rivoluzione americana sono ampiamente discusse in N. MATTEUCCI, La rivoluzione ame- ricana: una rivoluzione costituzionale, Bologna, Il Mulino 1987. 309 Rivelatore, a riguardo, un giudizio di Hayek: «Nel diciannovesimo secolo, l’individualismo vero è stato rappresenta- to in maniera esemplare nell’opera di due dei più grandi storici e filosofi della politica vissuti in quell’epoca: Alexis de Tocqueville e Lord Acton. Mi sembra che questi due uomini abbiano sviluppato quello che vi era di meglio nella filoso- fia politica dei filosofi scozzesi, di Burke e dei whig inglesi, con più successo di qualsiasi altro scrittore io conosca» (F. A. VON HAYEK, Individualism: True and False, London, Routledge & Kegan Paul 1949, tr. it. Individualismo: quello vero e quello falso, Soveria Mannelli, Rubbettino 1997, pp. 42-43). Ed è parimenti significativo che Gertrude Himmel- farb, autrice di un importante studio su Acton nel 1952, abbia in seguito contrapposto l’illuminismo angloamericano di Hume e Burke, rispettoso dei diritti individuali e dei costumi tradizionali, a quello di ascendenza francese, anarchico e dispotico (Cfr. G. HIMMELFARB, Lord Acton: a Study in Conscience and Politics, Chicago, University of Chicago Press 1952; G. HIMMELFARB, The Roads to Modernity: the British, French, and American Enlightenments, New York, Knopf 2004).

78 nella trattazione delle relazioni internazionali, alle cui sfide l’idealismo liberaldemocratico pareva offrire risposte inadeguate310. Con ciò, la transizione del mainstream liberale dal polo critico al polo realista poteva dirsi compiuta. L’interesse prioritario dei teorici si concentrò sull’individuazione del livello minimo di coercizione richiesta per il mantenimento di una società libera: un’impostazione che, enfatizzando il rapporto oppositivo fra individuo e Stato, si riallacciava al costituzionalismo ottocentesco311. Anche i presupposti universalistici al cuore del liberalismo vacillarono. Occorreva elaborare una «più pro- fonda, più realistica versione del liberalismo, emendata […] dalle aspettative compiacenti del XVIII e XIX secolo, che si dedicasse non alla creazione di un’utopia cosmopolita, ma alla difesa di una umana gestione delle scelte difficili, il che è inseparabile dalla condizione umana312». A questo sco- po le teorie pluraliste – esaltando la diversità e svalutando il potenziale creativo della ragione – permettevano di creare un solco fra la tradizione liberale e l’idea di progresso, emancipando la pri- ma da una filosofia della storia che, dati ormai per assodati i rapporti fra Illuminismo e totalitari- smo, veniva percepita come destabilizzante ed ingombrante313. Esamineremo ora in modo più dettagliato questa parabola, soffermandoci su alcune opere salienti, pubblicate tutte nel 1952. Tale coincidenza cronologica risulta nel contempo casuale e si- gnificativa. Casuale, perché gli autori di cui ci occuperemo (riconducibili tutti, sia pure con molte precauzioni e distinguo, al campo liberale) elaborarono i loro scritti indipendentemente l’uno

310 Un acuto pessimismo antropologico accomunava tanto Reinhold Niebuhr, di cui ci occuperemo, quanto Hans J. Mor- genthau, altro grande esponente della tradizione realista non appartenente al filone liberale: neoagostiniano quello del primo; di derivazione hobbesiana quello del secondo (sul realismo hobbesiano di Morgenthau, cfr. M. C. WILLIAMS, The Realist Tradition and the Limits of International Relations, Cambridge, Cambridge University Press 2005, pp. 82- 127, spec. 125-127). 311 Nel 1989, Judith Shklar – che già rifletteva su questi temi fra gli anni ’50 e ’60 – avrebbe coniato l’efficace dizione «liberalismo della paura» per proporre un’interpretazione del liberalismo che insisteva, in modo quasi esclusivo, sulla tutela delle minoranze, sì da farle uscire da una condizione di minorità e angoscia. Secondo Shklar, «il liberalismo deve mantenersi ristretto nel campo della politica e limitarsi a reprimere gli abusi di potere, in modo da rimuovere il fardello della paura e del privilegio dalle spalle di donne e uomini adulti, cui va permesso di condurre le proprie vite in accordo con le loro credenze e preferenze, almeno finché non impediscono agli altri di fare lo stesso» (J. SHKLAR, Liberalism of Fear in N. ROSENBLUM, Liberalism and the Moral Life, Cambridge, Harvard University Press 1989, pp. 21-38, spec. p. 31). Shklar, al pari di altri liberali degli anni ’50, può essere considerata una sostenitrice della moralità negativa, poiché compito primario della politica è, a suo avviso, «l’estirpazione o la minimizzazione della crudeltà, il summum malum» (J. ALLEN, The Place of Negative Morality, in Political Theory, vol. 29, n. 3, 2001, pp. 337-363, spec. p. 340). L’impat- to dell’esperienza totalitaria sui suoi scritti è evidenziato in M. WALZER, On Negative Liberalism, in B. YACK (ed.), Li- beralism Without Illusions: Essays on Liberal Theory and the Political Vision of Judith N. Shklar, Chicago, University of Chicago Press 1996, pp. 17-24, in cui il liberalismo di Shklar – ebrea lettone fuggita dal paese durante l’occupazione hitleriana – viene definito «una barriera contro il nazismo in particolare e contro la polizia segreta in generale» (spec. p. 17). 312 Questo giudizio, formulato da George Crowder a proposito di Isaiah Berlin, ben sintetizza, a mio avviso, un’esigenza condivisa dai principali autori liberali del tempo (G. CROWDER, Isaiah Berlin: Liberty and Pluralism, Cambridge, Po- lity 2004, p. 2). 313 Sul rapporto fra liberalismo e pluralismo, cfr. J. GRAY, Agonistic Liberalism e From Post-Liberalism to Pluralism, in G. W. SMITH (ed), Liberalism: Critical Concepts in Political Theory, vol. 4, London-New York, Routledge 2002, pp. 3- 26; 27-39.

79 dall’altro, fatta salva un’eccezione314. Significativa, perché appunto tale indipendenza testimonia quanto profonda fosse la crisi del liberalismo critico, posto in discussione da più voci, nonché da prospettive molteplici.

II. C’est la faute à Rousseau: la critica all’Illuminismo giacobino

II.1 Isaiah Berlin e i nemici della libertà umana

Nell’autunno del 1952 il Terzo Programma radiofonico della BBC trasmise un ciclo di con- ferenze intitolato Freedom and Its Betrayal. Le sei puntate, ognuna delle quali incentrata su un pen- satore politico del XVIII o del XIX secolo, riscossero un notevole successo di pubblico e garantiro- no una certa popolarità all’oratore ed autore dei testi, il quarantatreenne Isaiah Berlin315. Promettente accademico ad Oxford, Berlin fornì un’interpretazione del razionalismo sette- centesco ad influire profondamente sulla cultura politica conservatrice e liberale moderata316. Dei sei nemici della libertà scelti da Berlin, due – Helvétius e Rousseau – erano ascrivibili alla tradizio- ne illuminista; altri due – Fichte ed Hegel – avevano ammirato la rivoluzione francese; Saint-Simon era stato un estimatore di Voltaire, mentre De Maistre, il grande controrivoluzionario, aveva com- preso così a fondo la sfida rappresentata dai Lumi da poter esser considerato «ultramoderno, nato non tanto dopo quanto prima della sua epoca317». Berlin non credeva che all’origini delle tragedie novecentesche vi fosse il culto della Dea Ragione; o, per meglio dire, che il culto della Dea Ragione fosse sufficiente a spiegarne le origini. Come ha chiarito George Crowder, «l’archeologia berliniana del totalitarismo, che aveva avuto ini- zio con il moderno tradimento della libertà ed era continuata con lo studio dello scientismo illumi- nista e la successiva reazione controilluminista, raggiunge il suo livello più profondo con l’analisi del monismo morale. Secondo Berlin, le radici dei peggiori orrori del ventesimo secolo non affon-

314 L’eccezione è rappresentata da Talmon, che ebbe contatti con Berlin già nel 1947, e col quale condivise alcune idee destinate ad incidere sulla stesura di The Origins of Totalitarian Democracy (cfr. G. GRAEME, Counter-enlightenments: From the Einghteenth-Century to the Present, London-New York, Routledge 2006, pp. 91-92). Berlin ha rievocato il proprio rapporto con Talmon in un breve articolo commemorativo (I. BERLIN, A Tribute to My Friend, Forum, n. 38, 1980, pp. 1-4). 315 Le conferenze furono successivamente raccolte e pubblicate dal curatore delle opere di Berlin, Henry Hardy, nel vo- lume I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, Milano, Adelphi 2005. 316 Sino ad allora poteva dirsi paradigmatica la rappresentazione dualista della democrazia liberale esposta – sempre dal 1952 – da George H. Sabine. Da un lato, vi era la tradizione anglosassone, humeana e burkeana, imperniata sulla libertà individuale e il governo costituzionale, dall’altro quella continentale, riconducibile a Rousseau, che valorizzava i diritti di cittadinanza e la sovranità popolare. Sennonché, per Sabine i due modelli si completavano vicendevolmente, e la mo- derna democrazia liberale poteva essere descritta come un virtuoso compromesso fra queste due anime (G. SABINE, The Two Democratic Traditions, in Philosophical Review, n. 61, 4, 1952, pp. 451-474). 317 I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 205.

80 dano soltanto nelle nozioni di libertà positiva, o nei sogni di pianificazione tecnocratica dell’Illuminismo, né nell’irrazionalismo di pensatori come Maistre e Hamann, ma nella credenza, centrale nella filosofia occidentale, secondo cui tutte le domande hanno una sola risposta, e tutte le risposte si combinano l’una con l’altra in un’unica, sistematica configurazione della realtà318». E tuttavia, ciò malgrado – o forse proprio per questo – Berlin non vedeva nella dicotomia Illuminismo / Antilluminismo una contrapposizione fra civiltà e barbarie, quanto piuttosto una dialettica fra due movimenti di idee contrapposti, all’interno dei quali operava – sia pure a livelli ed intensità diverse – la vocazione monista319. In cosa consistesse, questa vocazione, Berlin lo chiarì in numerosi dei suoi saggi, non ultimo un breve resoconto autobiografico in cui, a molti anni di distanza dalle conferenze del 1952, de- scrisse il proprio atteggiamento nei confronti del razionalismo settecentesco. Il passo merita di esse- re riportato integralmente, perché trasmette efficacemente il senso di distacco e di sfiducia con cui Berlin guardava alle certezze implicite nella filosofia dei Lumi:

Abbagliati dagli spettacoli successi delle scienze naturali nel loro secolo e in quelli che l’avevano preceduto, uomini come Helvétius, d’Holbach, d’Alembert e Condil- lac, e propagandisti di genio come Voltaire e Rousseau, si convinsero che una volta scoperto il metodo giusto sarebbe stato possibile portare alla luce la verità essenzia- le nel campo della vita sociale, politica, morale e personale – quel tipo di verità che aveva ottenuto così grandi trionfi nelle indagini rivolte al mondo esterno. Gli Enci- clopedisti credevano nel metodo scientifico in quanto unica chiave per accedere a questa conoscenza: Rousseau e altri credevano in verità eterne scoperte mediante gli strumenti dell’introspezione. Ma quali che fossero le loro divergenze, essi ap- partenevano a una generazione convita di essere sulla via che conduceva alla solu- zione di tutti i problemi che avevano afflitto l’umanità fin dai suoi inizi. Al di sotto di quest’idea stava una tesi più ampia: ossia che tutte le vere domande debbono ammettere una e una sola risposta vera, tutte le altre essendo false; altri- menti le domande non possono essere autentiche domande. Non può non esistere una via che conduce chi pensa con chiarezza a trovare le risposte giuste a queste domande, nei mondi della morale, della politica e della società non meno che in quello delle scienze naturali, si tratti oppure no dello stesso metodo; e una volta ri- unite insieme tutte le risposte giuste alle più profonde domande morali, sociali e politiche che occupano (o dovrebbero occupare) l’umanità, il risultato costituirà la soluzione finale di tutti i problemi dell’esistenza. Naturalmente, può darsi che non troveremo mai queste risposte: è possibile che gli esseri umani siano troppo confusi dalle loro emozioni, o troppo stupidi, o troppo sfortunati per essere in grado di arri- varci; o può darsi che le risposte siano troppo difficili, i mezzi inadeguati, le tecni- che troppo complicate da scoprire; ma comunque sia, se le domande sono autenti- che domande, le risposte debbono esistere. Se noi non riusciamo a conoscerle, ci riusciranno forse i nostri successori, e se neppure loro ci riusciranno, allora Adamo nel Paradiso le conosceva, o se non lui gli angeli; e se neppure gli angeli sanno le

318 G. CROWDER, Isaiah Berlin: Liberty and Pluralism, op. cit., p. 125. 319 Appare riduttiva, quindi, la sintesi offerta da Enzo Traverso, secondo cui Berlin concepirebbe il totalitarismo come un «prolungamento dell’eredità dell’anti-illuminismo» (E. TRAVERSO, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Milano, Bruno Mondadori 2002, p. 108). In verità, per Berlin, il totalitarismo affonda le proprie radici tanto nell’anti- illuminismo quanto nell’illuminismo, essendo un precipitato della tendenza monista che attraversa l’intera filosofia oc- cidentale.

81 risposte, sicuramente Dio le conosce – insomma, le risposte non possono non esi- stere. Se le risposte alle domande sociali, morali e politiche vengono scoperte, allora, co- noscendole per ciò che sono – ossia la verità – gli uomini non potranno non seguir- le, perché non saranno minimamente tentati di agire in modo diverso. Una vita per- fetta può dunque essere concepita. Magari non è raggiungibile ma in linea di prin- cipio deve potersene formare il concetto – in effetti, non si non può credere, per motivi di principio, nella possibilità di scoprire le uniche risposte vere alle grandi domande dell’umanità.

Era, questa, una tendenza non circoscrivibile all’Illuminismo, poiché coinvolgeva l’intera tradizione occidentale: tendenza, però, che l’Illuminismo aveva radicalizzato, in virtù del proprio scientismo320. Berlin concludeva con una significativa notazione personale relativa al monismo: «Non so perché io abbia sempre guardato con scetticismo a questa credenza pressoché universale, ma è così. Può essere una questione di temperamento, ma è un fatto321» L’autore che più di ogni altro aveva declinato in senso autoritario il proprio razionalismo e- ra, a detta di Berlin, Jean-Jacques Rousseau. Nella sua lecture del 1952, Berlin contestò anzitutto l’interpretazione di quanti, facendo dell’autore del Contratto Sociale un protoromantico, sottovalu- tavano il ruolo che egli conferiva alla ragione. Essa poteva al contrario offrire, secondo Rousseau, una soluzione definitiva e permanente ai principali problemi di ordine etico, politico o sociale. «Come nelle scienze una risposta vera data da uno scienziato sarà accettata da tutti gli altri scienzia- ti che siano altrettanto ragionevoli, così in etica e in politica la risposta razionale è la risposta giusta: la verità è una, soltanto l’errore è molteplice322». Il problema che assillava Rousseau era la concilia- zione di libertà individuale ed obbligazione politica. Dove si situava il punto di equilibrio? Questo era l’interrogativo al centro della riflessione contrattualista, da Hobbes a Locke. «Era giocoforza ar- rivare a un compromesso; e la soluzione (l’individuazione di una linea di confine) la si trovava in armonia con quella che a ciascuno sembrava essere la vera costituzione della natura umana323». Quest’approccio, tuttavia, appariva del tutto insoddisfacente a Rousseau. Poiché dignità umana e li- bertà coincidevano, e la libertà presupponeva una completa capacità di autodeterminazione, qualsia- si compromesso fra libertà ed autorità andava respinto. «Cedere “un poco” della nostra libertà è come morire un poco, disumanizzarci un poco […]. La libertà dell’uomo – la sua capacità di sce-

320 Col termine «scentismo» Berlin indica la pretesa di applicare i metodi delle scienze naturali allo studio dei processi sociali. L’antiscentismo di Berlin – più radicale di quello di Popper e di Hayek – lo indusse a respingere anche il model- lo di spiegazione nomologico-deduttivo di Carl G. Hempel, nonché la pretesa di oggettività delle scienze sociali (cfr. E. DI NUOSCIO, Il mestiere dello scienziato sociale. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze sociali, Napoli, Li- guori 2006, pp. 57-58). 321 I. BERLIN, My Intellectual Path, in New York Review of Books, n. XLV, 8, 1998, ora in The Power of Ideas, Prince- ton, Princeton University Press 2000, tr. it. Il potere delle idee, Milano, Adelphi 2003, pp. 28-31. 322 I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 60. 323 I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 63.

82 gliere i propri fini in piena indipendenza e autonomia – è per Rousseau un valore assoluto; e dire di un valore che è assoluto equivale a dire che nessun compromesso è possibile a suo riguardo324». Come si concilia il valore assoluto della libertà con le imposizioni derivanti dalla vita in so- cietà? La questione sembrerebbe irrisolvibile poiché, per Rousseau, le leggi umane non sono espe- dienti convenzionali od utilitari per assicurare l’ordine; esse esprimono, al contrario, dettami razio- nali, cui l’uomo intimamente sente, per ragioni di coscienza, di doversi sottomettere. «Ci troviamo così di fronte a un paradosso. Abbiamo due valori assoluti: il valore assoluto della libertà e il valore assoluto delle regole giuste. E non ci è lecito alcun compromesso fra i due […]. Né l’uno né l’altro dei due principi assoluti permette deroghe: derogare dalla libertà significa uccidere l’anima immor- tale dell’uomo; derogare dalle regole significa accettare qualcosa di assolutamente sbagliato, assolu- tamente cattivo, assolutamente perverso325». Non potendo scegliere fra autorità e libertà, Rousseau giunse così a sostenere che libertà e autorità coincidevano. Alla stregua di un «matematico folle, il quale abbia trovato una soluzione non già semplicemente vera, ma dimostrabile mediante regole logiche talmente ferree che nessuno riaprirà mai più la questione326», egli descrisse il loro contrasto come apparente: i due valori assolu- ti, in verità, non entravano in conflitto, poiché erano la stessa cosa. La dottrina della volontà generale era l’espediente unanimistico con cui Rousseau conciliò libertà e coercizione, fondendo l’una nell’altra. «Tale coincidenza deriva dal fatto che se si vuole che gli uomini siano al contempo liberi e capaci di vivere insieme in società e di obbedire alla legge morale, bisogna che vogliano soltanto ciò che la legge morale comanda327». Da un lato esistono le pulsioni egoistiche, atomistiche, individualiste, ciò che gli uomini apparentemente desiderano e che li porta a scontrarsi gli uni con gli altri; ma, ad un livello più intimo e profondo, esiste una volontà autentica, davvero razionale, intrinsecamente buona, pienamente compatibile con la ragione e la vo- lontà altrui. È questa la teoria che Berlin definisce dell’“io reale”, e che Rousseau ha lasciato in ere- dità a tutte le ideologie autoritarie e illiberali dei secoli XIX e XX. «Costringere un uomo a essere libero significa costringerlo a comportarsi in una maniera razionale. Un uomo libero è un uomo che ottiene ciò che vuole; e ciò che realmente vuole è un fine razionale. Se non vuole un fine razionale, non si può dire che voglia davvero; se non vuole un fine razionale, ciò che vuole non è una vera li- bertà, ma una falsa libertà […]. Non c’è alcun motivo per cui agli esseri umani si debbano offrire

324 I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 67. 325 I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 70. 326 I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 73. 327 I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 81.

83 delle scelte, delle alternative, quando l’alternativa giusta è una sola. Non c’è dubbio che debbano scegliere, poiché se non scelgono non sono spontanei, non sono liberi, non sono esseri umani; ma se non scelgono l’alternativa giusta, se scelgono l’alternativa sbagliata, è perché non è attivo il loro ve- ro io. Non sanno ciò che cos’è il loro vero io mentre io, che sono saggio, che sono razionale, che sono il grande e benevolo legislatore – io lo so328». Con ciò, Rousseau – mosso dall’esigenza di tutelare la libertà assoluta, una libertà integrale ed incorrotta – aveva finito con l’avallare un benevolente collettivismo paterno, che negava alla ra- dice ogni legittimo dissenso e giustificava l’onnipotenza dei governanti. Era stato, paradossalmente, il suo sincero e smisurato amore per la libertà umana a farlo diventare «uno dei più sinistri e formi- dabili nemici della libertà nell’intera storia del pensiero moderno329».

II.2 Jacob L. Talmon e la democrazia totalitaria

Un’interpretazione ampiamente convergente con quella di Berlin, esposta però in più forma sistematica, venne proposta dallo storico israeliano Jacob Talmon nel fortunato The Origins of Tota- litarian Democracy330. Talmon – nato in Palestina nel 1916, studi a Parigi e a Londra sul tema del messianesimo nell’età medioevale331 – scorgeva nel XVIII secolo un periodo storico contraddistin- to non dalla semplice involuzione degli ideali democratici, bensì dalla nascita di una vera e propria teoria democratico-totalitaria contrapposta a quella tradizionale, di ascendenza liberale. «In realtà, secondo la prospettiva più ampia e valida della metà del ventesimo secolo», notava in apertura, con un occhio all’Unione Sovietica, «la storia degli ultimi centocinquant’anni sembra una preparazione sistematica per il grave conflitto tra democrazia empirica e democrazia liberale da una parte e de- mocrazia totalitaria e messianica dall’altra, conflitto in cui consiste la crisi mondiale contemporane- a332». La democrazia empirica e liberale «procede per tentativi ed errori, e considera i sistemi poli- tici espedienti pragmatici escogitati dall’ingegno e dalla libertà dell’uomo», senza avere la pretesa di realizzare una completa eguaglianza in ogni sfera dell’esistenza umana. La democrazia messia- nica e totalitaria, al contrario, muove dal presupposto dell’esistenza di una «sola e assoluta verità

328 I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., pp. 86-87. 329 I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 88. 330 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino 2000. 331 Sulla vita ed il pensiero politico di Talmon, cfr. M. HACOHEN, Jacob Talmon Between Zionism and Cold War Libe- ralism, in History of European Ideas, vol. 34, n. 2, 2008, pp. 146-157. 332 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 5.

84 politica», conoscibile e realizzabile. Essa opera conseguentemente in modo dogmatico, applicando rigidamente alla realtà principi dottrinari e astratti, affinché, presto o tardi, un ordine definitivo ed immanente, compiutamente armonico e depoliticizzato, si instauri fra gli uomini. Così, mentre la democrazia liberale si batte per la riduzione della coercizione, e ritiene che l’armonia ideale sia rag- giungibile unicamente tramite «prove e riprove», in un futuro indefinito, la democrazia totalitaria non lesina l’imposizione forzata dei propri scopi, considerando a portata di mano il Paradiso Terre- stre333. La democrazia totalitaria, secondo Talmon, aveva conosciuto la propria Età dell’Oro in Francia, negli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione. È nell’Illuminismo radicale di Hel- vétius e Holbach, di Morelly e Mably, che affondano le proprie radici tanto la sanguinosa parentesi giacobina quanto le manovre cospiratorie del babouvismo. Un ruolo di primo piano spetta, comun- que, a Rousseau. «L’amore per la disciplina rappresentava il sogno invidioso del paranoico tormen- tato334» scrive Talmon, riproponendo suggestioni psicologiche già presenti nelle conferenze radio- foniche di Berlin. L’accanimento di Talmon nei confronti di Rousseau è rivelatore della profonda sfiducia nutrita dall’autore nei confronti dell’intera tradizione del liberalismo razionalistico. Era sta- to Rousseau ad inculcare nel lessico del contrattualismo una massiccia dose di collettivismo autori- tario. Era stato Rousseau a postulare l’esistenza di una volontà generale unica e intelligibile, una volta accantonati pregiudizi ed interessi particolari. Era stato Rousseau, soprattutto, a scorgere nell’esercizio della sovranità «la convalida di una verità335». In altri termini, «Rousseau dimostra chiaramente la stretta relazione tra la sovranità popolare portata all’estremo e il totalitarismo». E ciò perché aveva sovrastimato, e persino frainteso, gli effetti della partecipazione popolare alla vita pubblica: «egli era inconsapevole del fatto che l’assorbimento totale e profondamente emotivo nella attività politica collettiva è destinato a soffocare ogni forma di vita privata, che l’agitazione della folla riunita può esercitare una forte pressione tirannica e che l’estensione dell’ambito della politica a tutte le sfere dell’interesse della capacità degli uomini, senza lasciare posto allo svolgimento dell’attività casuale ed empirica, era la via più breve verso il totalitarismo. La libertà è più sicura nei paesi in cui la politica non è considerata importantissima e in cui vi sono numerosi livelli di at- tività apolitica privata e collettiva, sebbene non via tanta democrazia popolare diretta, che nei paesi in cui la politica supera facilmente ogni cosa e il popolo siede in assemblea permanente336».

333 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., pp. 8-9. 334 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 58. 335 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 65. 336 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 69. Corsivo mio.

85 Lo scetticismo nutrito da Talmon verso le società ad alto tasso di partecipazione politica ben si conciliava con il suo moderatismo, che trapelava in più punti del testo. Fra le critiche mosse al giacobinismo, vi era, ad esempio, l’aver trascurato «le forze viventi intangibili e senza forma, le tradizioni, le sostanze imponderabili, le abitudini, l’inerzia e l’indolente conservatorismo» della na- tura umana, nonché «le caratteristiche nazionali e locali» che contribuiscono a determinare i caratte- ri della vita politica di un popolo337. Questo atteggiamento trovava piena espressione nelle Conclu- sioni, che del volume rappresentano una sezione sostanzialmente autonoma, e meritano un’analisi più accurata. La democrazia totalitaria, sosteneva Talmon, non aveva cessato di esercitare il proprio in- flusso sulla cultura occidentale con Robespierre, ma aveva pervaso il marxismo teorico. Anzi, «il marxismo stesso fu soltanto una, senz’altro la più vitale, delle varie versioni dell’ideale democratico totalitario, che si sono susseguite negli ultimi centocinquant’anni338». Ideale che, alimentato dal «sentimento del progresso continuo verso una soluzione del dramma storico», finì col pervertire i valori dell’individualismo liberale, giacché «ebbe in origine un atteggiamento troppo perfezionista verso di essi339». Mirando alla distruzione delle istituzioni e alla cancellazione dell’eredità del pas- sato, esso mitizzò l’uomo, spogliandolo «di tutti quegli attributi che non sono compresi nella sua comune umanità». Così facendo, lo pose interamente alla mercé del potere illimitato e senza freni dello Stato. Pertanto, se «nel giacobinismo l’individualismo e il collettivismo appaiono insieme per l’ultima volta, in equilibrio instabile340», col babouvismo persino l’argine della proprietà privata fu infranto, e la pretesa di instaurare una ortodossia uniformante fu estesa anche alla sfera economica. «Prima che il diciottesimo secolo terminasse, l’estremo individualismo si trasformò dunque comple- tamente in un sistema di coercizione collettivista. Tutti gli elementi e tutte le configurazioni della democrazia totalitaria emersero o si delinearono prima del volgere del secolo341». Col fallimento della Comune di Parigi, le forze espressione dell’utopismo rivoluzionario in Occidente erano scese a patti con l’ordine costruito e decisero di competere per la conquista del po- tere nel rispetto della legge.«Lo spirito rivoluzionario dilagò allora verso est finché trovò la sua sede

337 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., pp. 8-9, pp. 188-189. 338 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 341. 339 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 342. 340 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 343. 341 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 345.

86 naturale in Russia, dove ricevette un nuovo impulso dal risentimento creato da generazioni di op- pressione e dalla predisposizione degli Slavi al messianismo342». Che ammonimento trarre dalle vicende del secolo passato? Secondo Talmon, «la lezione più importante da trarre da questa ricerca è l’incompatibilità dell’idea di un credo che tutto comprende e tutto risolve, con la libertà343». Il più grave errore dei sostenitori della democrazia totalitaria era sta- to concepire la libertà come possibile unicamente nello stadio ultimo della vita politica, ossia nel momento in cui ogni forma di dissenso o di contestazione è stata rimossa, e dunque l’esercizio della libertà stessa risulta sterile. «la libertà non ha senso senza il diritto di opporsi e la possibilità di dif- ferire». Un simile errore derivava da una visione distorta della natura umana, che aveva indotto i ri- voluzionari a vedere nella pluralità delle forme di vita e delle organizzazioni sociali «un cattivo ac- cidente, uno sfortunato residuo, un’aberrazione temporanea». Per Talmon, nelle cui parole è facile scorgere più di un’eco della filosofia burkeana, «il regno della dottrina esclusiva e tuttavia onniriso- lutiva della democrazia totalitaria si oppone agli insegnamenti della natura e della storia». E ciò perché «la natura e la storia mostrano la civiltà come l’evoluzione di una molteplicità di gruppi do- vuti all’esistenza sociale e a tentativi sociali comuni formati storicamente e pragmaticamente, e non come la realizzazione dell’uomo astratto su un unico piano di esistenza344». Il pericolo che l’edificazione di nuove istituzioni ad opera di una ristretta cerchia di “eletti” – siano essi i membri della Convenzione o i moderni pianificatori – finisse per annichilire la spon- taneità della vita sociale era per Talmon ancora attuale nell’epoca del Welfare State. Dal momento che «la questione della libertà è legata indissolubilmente al problema economico», l’accentramento e l’irrigimentazione economica avrebbero potuto metterla a repentaglio, se non distruggerla. «La li- bertà», concludeva l’autore, «è meno minacciata dagli sviluppi oggettivi che si verificano per così dire da soli, e senza alcun contesto di un credo messianico, che da una religione messianica che ve- de in questi sviluppi una realizzazione solenne345». Forse l’avvento dello Stato assistenziale era davvero una “necessità storica”, ma ciò non esimeva gli intellettuali dal vigilare sulla sua realizza- zione e, nel caso, denunciarne le degenerazioni autoritarie.

III. Commercianti contro ingegneri: Friedrich A. Von Hayek

342 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 346. 343 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., ibidem. 344 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 348 345 J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della de- mocrazia totalitaria, op. cit., p. 349. Corsivo mio.

87 La prudente apertura concessa al Welfare State da Talmon non era condivisa da Friedrich A. Von Hayek, che nel 1944 l’aveva descritto la pianificazione economica come il primo passo verso l’instaurazione di regimi totalitari in Occidente346. Pur essendo favorevole a circoscritte forme di intervento pubblico, che garantissero la produzione di quei beni che i processi di mercato non a- vrebbero potuto offrire347, Hayek costantemente denunziò i rischi che il progetto assistenziale com- portava per una società libera. A suo avviso, tale progetto traeva origine da un’errata interpretazione dei compiti delle scienze sociali, da cui scaturiva l’illusoria pretesa di poter dirigere e manipolare liberamente la condotta umana, soprattutto a livello aggregato. Si può dire che l’opposizione haye- kiana al razionalismo costruttivista avesse anzitutto un fondamento epistemologico: è la limitata possibilità di conoscere – che accomuna pianificatori, scienziati sociali e operatori nel mercato – a rendere impraticabile una direzione dei processi economici che sia allo stesso tempo centralizzata ed efficiente348. Alla critica della concezione “scientista” delle scienze sociali è dedicata la prima parte di The Counter-Revolution of Science, raccolta di saggi scritti nel corso degli anni ’40. Nel seguito dell’opera Hayek ripercorreva le origini dell’impostazione “scientista” nella storia delle idee, con- centrandosi sul positivismo di Comte e Saint-Simon349. È forse opportuno rimarcare come la polemica antiscientista di Hayek non fosse rivolta con- tro i metodi della scienza naturale in sé e per sé, ma contro la loro acritica trasposizione nel campo

346 Cfr. F. A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, Chicago, Chicago University Press 1944. Sulla ricezione dell’opera negli Stati Uniti, cfr. T. ROSENHOF, Freedom, Planning and Totalitarianism: The Reception of F. A. Hayek’s «Road to Serfdom», in Canadian Review of American Studies, n. 5, 1974, pp. 149-165. Significativo è il commento al libro che Charles E. Merriam (cfr. cap. II, par. I.III), formulò, in presenza di Hayek, nel corso di una trasmissione radiofonica: «Mi occupo di pianificazione da circa quaranta anni – pianificazione a Chicago, pianificazione statale, pianificazione regionale, pianificazione nazionale a Washington – e non mi pare che la nostra pianificazione stesse portando alla schiavitù, anzi portava piuttosto alla libertà, all’emancipazione, ai più elevati livelli della personalità umana. Ritengo che questo libro non sia particolarmente significativo nel nostro campo eccetto per il fatto che tende a confondere le persone riguardo al significato della pianificazione in questo paese» (il giudizio di Merriam è riportato in F. A. VON HAYEK, Hayek on Hayek. An Autobiographical Dialogue, Chicago, University of Chicago Press 1994, pp. 97-98). 347 Secondo Raimondo Cubeddu, Hayek «ritiene che per produrre alcune tipologie di beni, i cosiddetti collective goods, lo Stato sia indispensabile. Hayek individua la distinzione tra teoria liberale e teoria democratica nel fatto che mentre la prima tende a porre dei limiti alla produzione politica di collective goods, la teoria democratica non si occupa di stabili- re un limite e lo delega al risultato di una competizione elettorale» (R. CUBEDDU, Hayek tra Menger e Mises in U. TER- NOWETZ (a cura di), Friedrich A. Von Hayek e la Scuola Austriaca di Economia, Soveria Mannelli, Rubbettino 2003, pp. 65-96, spec. p. 75). Sulla necessità – sottolineata da Hayek – di azioni governative a tutela dei soggetti più deboli, esclusi dal mercato, ha insistito Dario Antiseri (cfr. ad es. D. ANTISERI, Ragioni della razionalità. Proposte teoriche, Soveria Mannelli, Rubbettino 2004, pp. 432-434). 348 Nelle parole di John Gray, secondo Hayek «l’impossibilità del socialismo è epistemologica. Non è un problema di motivazioni o di volontà, di egoismo o della limitata simpatia che intercorre fra uomini e donne, ma dell’incapacità di qualsiasi ordine sociale in cui il mercato sia stato soppresso o distorto di utilizzare in modo efficace le conoscenze prati- che di cui i cittadini dispongono» (J. GRAY, Hayek on Liberty, Oxford-New York, Blackwell 1986, p. 40). 349 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, Firenze, Vallecchi 1967. Su questa parte dell’opera, si veda, a mo’ di introduzione, J. BIRNER, F. A. Hayek’s Research Programme, in U. TERNOWETZ (a cura di), Friedrich A. Von Hayek e la Scuola Austriaca di Economia, op. cit., pp. 209-250, spec. pp. 229-234).

88 dell’attività umana350. Hayek si curava di aggiungere che, assai spesso, non vi era coincidenza fra i metodi effettivamente impiegati nel campo delle scienze della natura e quelli che i loro estimatori tentavano di imporre nel campo delle scienze sociali. Lo scientismo poteva quindi essere corretta- mente descritto come una riproduzione – spesso distorta – del metodo scientifico, contraddistinta dalla «meccanica e acritica applicazione di certi abiti di pensiero a campi diversi da quelli nei quali si sono formati351». L’atteggiamento scientista comportava, secondo Hayek, l’occultamento di almeno una di- versità sostanziale tra scienze naturali e scienze sociali: quella relativa ai rispettivi oggetti d’indagine. Mentre gli scienziati naturali si occupano di corpi inanimati, e dunque possono – anzi, debbono – emanciparsi da pregiudizi e credenze fallaci comunemente nutrite nei confronti della na- tura, le scienze sociali (o morali) non possono trascurare idee e motivazioni che spingono gli uomini ad orientare la propria condotta in un modo anziché in un altro352. Il mondo che interessa la scienza naturale «non è quello dei nostri concetti o delle nostre sensazioni, quali dati immediati dell’esperienza. Suo obiettivo è la riorganizzazione di tutta la nostra esperienza del mondo esterno e, per raggiungerlo, essa è costretta non solo a riplasmare le nostre concezioni, ma anche a far astra- zione delle qualità sensibili, sostituendovi una diversa classificazione dei fenomeni353». Viceversa, le scienze sociali, correttamente intese, si occupano delle «azioni coscienti o riflesse dell’uomo, quelle cioè compiute da un soggetto che abbia preliminarmente effettuato una scelta fra diverse al- ternative possibili354». Tali scelte vengono effettuate sulla base non di un «corpus di dottrina dotato di consistenza e di coerenza proprie», bensì di conoscenze che «esistono soltanto nella forma par- ziale, diffusa e frammentaria in cui si manifestano nelle innumerevoli menti singole355».

350 Il bersaglio polemico di Hayek, al pari di Mises e del suo maestro Menger, non è il valore conoscitivo della scienza naturale, bensì «la mitizzazione della scienza e l’attribuzione ad essa di un potere salvifico che la trasforma, in una so- cietà laica, nell’equivalente della fede. Nella prospettiva di Hayek la modernità non è quindi il punto d’arrivo di un pro- cesso iniziato con la razionalizzazione e con la secolarizzazione del cristianesimo, e giunto alla sua inevitabile conclu- sione nel relativismo e nel nichilismo. Non si tratta tanto di riconoscere nella modernizzazione l’ineluttabile esito di un processo, quanto una serie di errori che è possibile evitare di ripetere» (R. CUBEDDU, Friedrich A. Von Hayek, Roma, Borla 1995, p. 80). 351 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 14. 352 Come riassume Eammon Butler, «i materiali grezzi che dobbiamo analizzare in economia e nelle altre scienze sociali non sono oggetti fisici, passibili di una descrizione oggettiva senza riferimento agli scopi umani. I materiali grezzi delle scienze sociali sono gli uomini e le cose come “appaiono” agli uomini. Ogni tentativo di spiegare il comportamento umano nella comunità, prescindendo dalle attitudini e motivazioni degli uomini stessi, è perciò destinato a fallire» (E. BUTLER, Hayek – His Contribution to the Political and Economic Thought of Our Time, London, Temple 1983, tr. it. Friedrich A. Hayek, Pordenone, Studio Tesi 1986, p. 196). 353 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 24. 354 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 27. 355 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 32.

89 Evidenziando l’importanza che le idee rivestono nel campo delle scienze sociali, Hayek pre- cisava come tale rilevanza andasse però circoscritta alle idee costitutive: «mentre nelle scienze della natura il contrasto fra l’oggetto della ricerca e la spiegazione che ne diamo coincide con l’abituale distinzione fra le idee e fatti oggettivi, nelle scienze sociali è necessario introdurre una distinzione fra le idee costitutive, che sono cioè parte integrante dei fenomeni che intendiamo spiegare e le idee che noi medesimi, o le persone stesse di cui vogliamo spiegare le azioni, possiamo esserci fatti a proposito di tali fenomeni. Queste ultime idee non sono generatrici di strutture sociali, ma teorie in- torno alle strutture stesse356». L’approccio scientista, che tendeva a trascurare l’importanza delle i- dee del primo tipo, finiva per abbracciare quelle del secondo, fondando le proprie teorie su conce- zioni puramente speculative dell’ordine sociale357. A questo punto, la critica di Hayek si estendeva dallo scientismo ai suoi parenti più prossi- mi, il collettivismo metodologico (anticamera di quello politico) e lo storicismo. Ciò che rileva, ai fini della nostra trattazione, è invece la disamina di uno specifico aspetto della mentalità scientista denunciata da Hayek: la simpatia per tutto ciò che è coscientemente diretto, deliberatamente proget- tato; e la susseguente esaltazione della figura dell’ingegnere, la cui figura rappresenterebbe il proto- tipo dell’illuminato riformatore sociale. Secondo la mentalità corrente, ampiamente influenzata da idee scientiste, «il fatto che qual- cosa non risulti guidato in modo “cosciente” come un tutto, è considerato già di per sé un difetto, una prova della sua irrazionalità e della necessità di sostituirlo integralmente con qualche congegno che sia frutto di intenzionale progettazione358». Una recente radicalizzazione di questa tendenza po- teva essere riscontrata nella «richiesta di esercitare un controllo cosciente della mente umana359», riscontrabile in autori come L. T. Hobbhouse, Joseph Needham o Karl Mannheim. Ad accomunarli era la convinzione «che, studiando la ragione umana dal di fuori come totalità compiuta, si possano scoprire le leggi del suo sviluppo in maniera più completa e più profonda di quella consentitaci da una paziente esplorazione di essa dal di dentro, che segua fedelmente lo svolgimento dei processi nei quali si esplica l’interazione delle menti singole360». L’atteggiamento iper-razionalistico, che presuppone la possibilità di un’illimitata crescita delle facoltà intellettive dei soggetti, sconfinava paradossalmente nell’irrazionalismo, nella misura

356 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 39. 357 Sul punto, cfr. D. ANTISERI, Friedrich A. Von Hayek e il compito delle scienze sociali teoretiche, in U. TERNOWETZ (a cura di), Friedrich A. Von Hayek e la Scuola Austriaca di Economia, op. cit, pp. 27-64, spec. p. 30-33. 358 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 105. 359 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 106. 360 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 107.

90 in cui rifiutava di accettare l’esistenza di ordini spontanei, non deliberatamente progettati, più effi- caci di quelli scaturiti da una pianificazione. Secondo Hayek, «la presuntuosa aspirazione che la “ragione” diriga la propria crescita può avere, in pratica, soltanto l’effetto di porre limitazioni a questa crescita, di ridurne l’attività soltanto al perseguimento di quei risultati che la mente direttiva individuale riesce a pervenire361». Su questo punto si consumava la frattura fra individualismo e collettivismo. Il primo, «con- scio delle limitazioni intrinseche della singola mente umana, si propone di mostrare come l’uomo che vive in società riesca, utilizzando le risultanti del processo sociale, ad accrescere i suoi poteri con l’ausilio delle conoscenze che sono in quelle implicite e delle quali non è mai interamente con- sapevole362». Il secondo «non si accontenta della parziale conoscenza che di questo processo si può acquisire dal di dentro, e che di fatto rappresenta tutto quello che l’individuo può ottenere, ma fonda le sue pretese di controllo cosciente sulla presunzione di poter abbracciare questo processo come una totalità compiuta e utilizzare tutte le conoscenze in forma sistematicamente integrata». Portato alle conseguenze più estreme, ma logiche, l’approccio collettivista induce a simpatizzare per «un sistema nel quale tutti i membri della società diventano meri strumenti di un’unica mente direttiva e tutte le forze sociali spontanee, cui di fatto è dovuta la crescita delle mente, si estinguono363». Il campo in cui l’ideale di un controllo cosciente dei fenomeni sociali aveva riscontrato più successo era quello economico. Qui, la diffusione delle idee scientiste aveva garantito notevole po- polarità alla figura dell’ingegnere, cui pianificatori e tecnocrati si richiamavano, da un punto di vista tanto simbolico quanto operativo. Contestando tali analogie, Hayek elencava alcune diversità so- stanziale fra le competenze richieste agli ingegneri e quelle necessarie alla gestione di una società moderna. In primo luogo, «i compiti tipici dell’ingegnere sono compiuti in se stessi: egli deve occu- parsi di un obiettivo singolo, controlla l’insieme degli sforzi necessari al suo perseguimento e di- spone, a tal fine, di una certa e prestabilita quantità di risorse». In altri termini, l’ingegnere dispone della totalità dei dati necessari allo svolgimento dei propri compiti, in una fase anteriore alla realiz- zazione dell’opera. Ciò lo pone nella privilegiata condizione di poter operare in modo apparente- mente indipendente, «in un mondo nettamente separato ed esclusivamente suo proprio364». Egli può

361 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., pp. 109-110. 362 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 110. 363 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 111. 364 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 115.

91 quindi prescindere da considerazioni relative al tempo ed al luogo, poiché la sua conoscenza è cir- coscritta ad elementi invariabili, privi di connessioni con specifiche situazioni umane. Tuttavia, questa raffigurazione era ampiamente illusoria, nella misura in cui trascurava le molte variabili che l’ingegnere può dare per scontate, ma che rappresentano presupposti indispensa- bili allo svolgimento della sua professione. «I suoi piani si integrano nel più vasto complesso delle attività sociali, perché egli li fonda su dati che il mercato gli offre; inoltre, egli può considerare il suo lavoro come qualcosa di compiuto in se stesso, semplicemente perché non è costretto a interes- sarsi anche di come il mercato possa procuragli ciò di cui ha bisogno365». Nella misura in cui bene- ficia di conoscenze disperse altrui, l’ingegnere dipende da processi di mercato – ad esempio, nella fissazione del livello medio dei prezzi – non meno di qualunque altro individuo. Secondariamente, «l’ideale dell’ingegnere, la cui realizzazione egli ritiene impedita dalla presenza di forze economiche “irrazionali”, si fonda sulla sua conoscenza delle proprietà oggettive delle cose e si presenta normalmente sotto la specie di qualche optimum meramente tecnico di vali- dità universale366». La mentalità ingegneristica tende a generalizzare condizioni che, concretamen- te, non possono prescindere da elementi contingenti, a cominciare dalla scarsità di capitale. Secondo Hayek, «l’applicazione delle tecniche ingegneristiche all’intera società presuppone che chi la dirige possieda di quest’ultima la stessa conoscenza completa che l’ingegnere ha del suo limitato settore di attività. La pianificazione economica centralizzata non è che l’applicazione dei principi dell’ingegneria all’insieme della società, in base al presupposto che sia possibile codesta centralizzazione integrale di tutte le conoscenze necessarie367». Alla figura dell’ingegnere poteva essere contrapposta quella del commerciante, più coerente col paradigma individualista patrocinato da Hayek. Questi svolge una professione più “sociale”, maggiormente interconnessa con quella di altri uomini. «Con la sua attività egli contribuisce a farci progredire di qualche passo verso il raggiungimento ora di questo ora di quel fine, senza partecipare mai a tutte le fasi del processo che conduce al soddisfacimento di un bisogno finale368». Il suo o- biettivo è utilizzare al meglio i mezzi particolari di cui dispone, e la conoscenza su cui può basarsi – benché circostanziale, mai riassumibile in enunciati generali, né sempre valida – non è meno utile di quella scientifica, malgrado il discredito gettato su di essa dal razionalismo costruttivista. Soltanto i singoli commercianti, infatti, sanno sfruttare al meglio le risorse effettivamente presenti nel merca-

365 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 116. 366 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 117. 367 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 118. 368 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 119.

92 to, e benché ciascuno di essi disponga di una quota estremamente ridotta d’informazione, la loro in- terazione garantisce un’allocazione più efficiente di quanto non potrebbe fare un singolo pianifica- tore. «Ed è appunto nella sua qualità di persona che deve tener conto di questi fatti che il commer- ciante si troverà sempre in conflitto con gli ideali dell’ingegnere, con i cui piani egli interferisce, e sarà perciò sempre oggetto della sua antipatia369». L’avversione ingegneristica per il mercato traeva origine da un fraintendimento nei confronti dei compiti dell’organizzazione sociale. Lo scopo di quest’ultima, sosteneva Hayek, non è unificare conoscenze disperse, ma metterle a frutto. «Il fatto che nessuna mente singola può conoscere più di una frazione di ciò che è noto all’insieme di tutte le menti degli altri individui, fissa dei limiti preci- si all’entità dei miglioramenti che una direzione cosciente può conseguire rispetto ai risultati rag- giunti per la via dei processi sociali non-coscienti370». Compito delle scienze morali sarà allora evi- denziare i limiti di tale direzione cosciente, e sottolineare che la rinunzia all’iper-razionalismo è in verità un sacrifico necessario per il progresso sociale, «un’abnegazione che i singoli dovrebbero sentirsi sollecitati a compiere per accrescere i poteri della collettività, per liberare le conoscenze e le energie di innumerevoli individui la cui utilizzazione non potrebbe mai aver luogo in una società di- retta coscientemente dall’alto371». Poteva essere la cultura umanistica – «lo studio della storia o del- la letteratura, delle arti o del diritto372» – a fornire i necessari anticorpi contro il culto della tecnolo- gia e della scienza che sempre più connotava l’educazione dell’epoca, e che induceva le menti più brillanti, una volta disilluse dai fallaci ideali razionalisti, a gettarsi a capofitto nell’irrazionalismo estremo373.

IV. Il disincanto di una superpotenza: Reinhold Niebuhr

Se pensatori come Berlin e Talmon avevano segnalato la tentazione autoritaria insita nel li- beralismo razionalistico e Hayek aveva aspramente polemizzato contro i sostenitori della “direzione

369 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., pp. 119-120. 370 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 121. 371 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 118. 372 F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 124. 373 L’idea che l’educazione classica possa rappresentare un antidoto al razionalismo costruttivistico ed al materialismo era già stata avanzata dai cosiddetti New Humanists nel corso degli anni ’20 (cfr. J. D. HOEVELER, JR, The New Huma- nism. A Critique of Modern America, 1900-1940, Charlottesville, University Press of Virginia 1977). Nel secondo do- poguerra, il conservatore Leo Strauss sostenne una linea simile, contrapponendo l’educazione “liberale” in senso uma- nistico a quella tecnico-scientifica di derivazione positivistica. In linea con Hayek, Strauss affermava che «l’educazione liberale, che si basa nel costante rapporto con i più illustri pensatori, prepara alla forma più eccelsa di modestia, per non dire di umiltà» (L. STRAUSS, Liberalism Ancient and Modern (1a ed. 1968), Chicago, University of Chicago Press 1995, p. 8).

93 cosciente” dei processi sociali, nessuno quanto Reinhold Niebuhr – teologo e pastore protestante – denunciò i pericoli che ottimismo ed idealismo creavano nel campo delle relazioni internazionali. Niebuhr fu un pensatore complesso, il cui itinerario intellettuale appare meno lineare di quello di altri teorici a lui coevi. Malgrado ciò, il suo ascendente fu enorme. È difficile, per non dire impossi- bile, individuare una cultura politica statunitense – dal socialismo al neoconservatorismo, dal libera- lismo al repubblicanesimo – che non si sia confrontata con l’insegnamento di Niebuhr, e non abbia tratto alimento dal suo magistero374. Come ebbe a scrivere di lui Arthur M. Schlesinger Jr., «nessun uomo ha avuto tanta influenza, come predicatore, su questa generazione e nessun predicatore ha mai influito tanto sul mondo laico375». Da dove trasse origine l’autorità di Niebuhr? Come mai un uomo di chiesa, dotato di una prosa profonda ma non scorrevole, che faceva ampio ricorso a metafore bibliche e scriveva in una prospettiva fortemente connotata in senso religioso, si trasformò, fra gli anni ’40 e ’50, in uno dei più ascoltati analisti della politica estera statunitense? Una possibile risposta – che non intende esse- re esaustiva, ma si limita a cogliere una delle implicazioni del «caso Niebuhr» – può forse essere la seguente: Niebuhr, dagli anni ’30 in poi, fu il più rigoroso ed implacabile critico (da sinistra) del li- beralismo idealista e razionalista statunitense. Quando gli Stati Uniti, fra il 1941 e il 1951, speri- mentarono le asprezze di una guerra mondiale e dell’impegno internazionale in funzione anticomu- nista – in un contesto che sembrava confermare molte delle intuizioni della scuola realista nel cam- po delle relazioni internazionali376 – le sue idee assunsero un fascino ed un rilievo particolari. Fra i liberal, tenere un atteggiamento “niebuhriano” era il modo migliore per ancorare l’opzione antico- munista ad una visione comunque progressista e solidaristica. A destra, un rafforzamento del presti- gio di Niebuhr contribuiva a gettare discredito sul liberalismo perfezionista e positivista, egemone dai tempi del New Deal377.

374 Sull’impossibilità di una eredità univoca del pensiero di Niebuhr, cfr. J. W. COOPER, Reviving the Legaci of Reinhold Niebuhr, in Teaching Political Science, 16:1, 1988, pp. 29-32. 375 A. M. SCHLESINGER JR., Reinhold Niebuhr’s Role in American Political Thought and Life, in C. W. KEGLEY, R. W. BRETALL (ed.), Reinhold Niebuhr: His Religious, Social and Political Thought, New York, Macmillan 1956, p. 149. 376 «Il realismo politico ritornò in auge dopo il fallimento dell’appeasement negli anni ’30, il trauma della Seconda Guerra Mondiale, e l’inizio della Guerra Fredda. Il realismo riguadagnò importanza dopo che dittature e guerra avevano trasformato buona parte del mondo in un cumulo di rovine. Questo approccio intellettuale sembrava cogliere nel segno nell’addossare la guerra e la lotta per il potere ad un lato malvagio della natura umana» (P. JAMES, International Rela- tions and Scientific Progress: Structural Realism Reconsidered, Columbus, Ohio State University Press 2002, pp. 5-6). Non va dimenticato che Edward H. Carr, nel suo The Twenty Years’ Cris: 1919-1939 – uno dei volumi che più ha con- tribuito al rilancio del paradigma interpretativo realista durante gli anni ’40 –, definisce The Moral Man and Immoral Society di Niebuhr una delle due opere che più hanno influenzato il suo pensiero (cfr. E. H. CARR, The Twenty Years’ Crisis: 1919-1939. An Introduction to the Study of International Relations, London, Macmillan 1940, tr. it. Utopia e realtà. Un’introduzione allo studio della politica internazionale, Soveria Mannelli, Rubbettino 2009, p. 8). 377 Ha scritto il liberal Daniel Bell nel 1988, ripercorrendo la genesi della propria opera più nota: «Vivere negli anni Trenta e Quaranta è stato come entrare stare in una casa degli orrori, sotto il segno della paura. C’erano i campi di ster- minio nazisti, una barbarie che andava oltre ogni immaginazione per le persone civili; e i campi di concentramento so- vietici, che stendevano un drappo funebre su ogni visione utopistica. Che spiegazione si poteva offrire? Una concezione naturalista, come quello avanzata da Sidney Hook, sosteneva che essi erano il prodotto dei modelli culturali di quelle

94 L’intera riflessione filosofica e teologica di Niebuhr ruotava attorno al problema della natura umana e della sua corruzione. Decisivo era stato l’incontro col pensiero di Karl Barth, che lo aveva indotto ad abbandonare le rassicuranti certezze del protestantesimo liberale. Se il contemptus mundi andava respinto, in quanto espressione di grettezza morale e disimpegno, il cristianesimo non pote- va essere però essere degradato al rango di un’etica sociale, da abbracciare mediante il semplice ri- corso alla ragione. Il “salto nella fede” imponeva una visione più profonda e problematica della per- sona umana, nonché l’elaborazione di un messaggio potenzialmente in grado di operare in modo critico ed oppositivo nei confronti delle strutture socio-economiche esistenti378. L’avversione di Niebuhr nei confronti del protestantesimo liberale traeva origine, inoltre, da concrete esperienze di vita: a cominciare dal contatto quotidiano con la classe operaia di Detroit negli anni ’20, composta da uomini sottopagati e malnutriti, ai quali le congregazioni religiose sembravano offrire soltanto un’ipocrita difesa dello status quo ed un’acritica esaltazione del progresso. «Le chiese americane» annotava Niebuhr sul suo diario «sono nel complesso interamente perpetrate dagli interessi e dai pregiudizi delle classi medie. Credo che sia un ottimismo infondato aspettarsi da loro un serio con- tributo alla riorganizzazione della società». E ancora: il liberalismo religioso «apprezza troppo poco la tragedia della vita per capire la croce»379. Su questo terreno si consumò la frattura con John Dewey ed i liberali razionalisti, con cui Niebuhr condivideva l’avversione per i guasti prodotti dal mercato deregolamentato. Se, per De- wey, le contraddizioni della società moderna potevano essere superate mediante un “nuovo liberali- smo”, pragmatico e costruttivista, in grado di rimuovere le cause della conflittualità fra gruppi ed interessi380, per Niebuhr tutto ciò si riduceva ad uno sterile esercizio di utopismo, poiché trascurava un elemento cruciale: l’innato egoismo umano, che impediva di fissare un limite universale e con- diviso ai bisogni di ciascuno. «La speranza che ci possa essere un giorno una società ideale, in cui ciascuno possa senza alcun limitazione trarre dall’organizzazione produttiva e sociale quanto gli serve, non tiene in alcun conto i limiti della natura umana. L’uomo avrà sempre abbastanza imma- società ed erano quindi fenomeni storici distinti. Contraria a questa era l’opinione neoagostiniana di Reinhold Niebuhr, che scorgeva in tali orrende azioni la ricorrente duplicità della natura umana, dell’uomo quale uomo duplex, che nell’età moderna cerca l’infinito e precipita nell’idolatria quando supera i limiti del finito. Per me e per i miei amici, la spiega- zione di Niebuhr era la più convincente. Come ho scritto in questo volume, “la nostra è una generazione che ha trovato la sua saggezza nel pessimismo, nel male, nella tragedia e nella disperazione”». (D. BELL, The End of Ideology: On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, op. cit., p. 415). Sul versante opposto, è significativo l’apprezzamento rivol- to a Niebuhr da Thomas S. Eliot nel 1953: «È fonte di grande soddisfazione per me trovare una così stretta consonanza con la sua sensibilità politica, specialmente alla luce del fatto che i nostri punti di partenza sono profondamente diversi» (citato in C. C. BROWN, Niebuhr and His Age : Reinhold Niebuhr’s Prophetic Role and Legacy, Harrisburg, Trinity Press International 2002, p. 191). Giudizio che un neoconservatore come Michael Novak sembra nella sostanza condi- videre (cfr. M. NOVAK, On Cultivating Liberty: Reflections On Moral Ecology, Lanham, Rowman & Littlefield 1999, pp. 201-212, spec. pp. 203-204). 378 Cfr. C. LASCH, The True and Only Heaven: Progress and Its Critics, New York, Norton 1991, tr. it. Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Milano, Feltrinelli 1992, pp. 350-351. 379 Citato in G. ZORZI, Il realismo cristiano di Reinhold Niebuhr, Bologna, EDB 1984, pp. 66-67. 380 Cfr. cap. II, par. I.2.

95 ginazione per desiderare più cose del necessario e sarà sempre abbastanza egoista da sentire più ur- genti i suoi bisogni che quelli degli altri»381. L’antiutopismo di Niebuhr, la sua insistenza sulla natura inevitabilmente precaria ed incom- piuta di ogni sforzo rivolto al perfezionamento morale o politico, lo indussero ad una precoce oppo- sizione al marxismo382. La pretesa di pacificazione incarnata dal mito della società aclasssista ed apolitica gli sembrava un viatico sicuro verso l’oppressione e la negazione dei più elementari valori umani. Nel 1931, in un articolo su Atlantic Monthly, paragonò il comunismo sovietico ad una reli- gione basata sui testi di Marx e Lenin anziché sulla Bibbia, ed il regime che ne era scaturito ad una sorta di ordine monastico, all’interno del quale un’aristocrazia carismatica – periodicamente purifi- cata dalle purghe – deteneva un potere assoluto ed arbitrario. Il testo di Niebuhr sottolineava ele- menti che il dibattito sulle «religioni politiche» avrebbe messo in luce soltanto alcuni anni dopo, e va notato che la sua pubblicazione, a ridosso della crisi del ’29, coincideva con un periodo di note- vole popolarità dell’esperimento sovietico in vasti settori della sinistra americana, cui Niebuhr ap- parteneva383. Tre anni dopo, in un saggio dai toni quasi apocalittici, aveva ribadito che la civiltà ma- terialista e capitalista era destinata a crollare, ma la speranza di un mondo più equo ed umano non avrebbe potuto essere affidata ad ideologie che consideravano l’ingiustizia un problema puramente sociale e negavano la forza della carità cristiana: il riferimento al marxismo era esplicito384. È impossibile ripercorrere, nemmeno per sommi capi, le successive tappe della riflessione niebuhriana. Gli aspetti evidenziati sin qui, tuttavia, sono essenziali per comprendere la peculiare

381 R. NIEBUHR, Moral Man and Immoral society; a Study in Ethics and Politics, New York, Scribner’s Sons 1932, tr. it. Uomo morale e società immorale, Milano, Jaca Book 1968, p. 139. L’obiezione citata, rivolta ai marxisti, è analoga a quella rivolta ai liberali, poiché anch’essi s’illudono che l’uomo possa frenare razionalmente i propri impulsi acquisiti- vi: «Il crescere della giustizia sociale dipende in qualche misura dall’estendersi della razionalità. Ma i limiti della ragio- ne fanno sì che sia una meta impossibile l’azione morale pura, soprattutto nel campo delle intricate e complesse relazio- ni collettive. Gli uomini non saranno mai del tutto ragionevoli, e la proporzione di ragionevolezza contenuta negli im- pulsi diventa sempre minore mano a mano che passiamo dalla vita individuale a quella dei gruppi sociali» (ibidem, p. 32). Sul contrasto con Dewey, cfr. D. F. RICE, Reinhold Niebuhr and John Dewey: an American Odyssey, Albany, State University of New York Press 1993, spec. pp. 17-28. 382 Eppure, dato il suo eclettismo, non deve stupire che Niebuhr si sia servito di alcuni elementi di derivazione marxia- na– soprattutto di matrice sociologica – per attaccare l’armonicismo liberale e l’illusione secondo cui la fascia benestan- te della popolazione avrebbe spontaneamente accettato programmi di riforma favorevoli ai ceti più deboli (cfr. R. H. STONE, Professor Reinhold Niebuhr: a Mentor to the Twentieth Century, Louisville, Westminster / John Knox Press 1992, pp. 88-90). 383 R. NIEBUHR, The Religion of Communism, in Atlantic Monthly, CXLVII, 1931, citato in M. RUBBOLI, Politica e re- ligione negli Usa. Reinhold Niebuhr e il suo tempo (1892-1971), Milano, Franco Angeli 1986, pp. 140-141. Basti pen- sare che il celebre testo di Eric Voegelin – autore di cui ci occuperemo nel capitolo successivo – intitolato Die Politi- schen Religionen risale al 1938. Non si può dire che il testo di Niebuhr goda di grande notorietà fra gli studiosi. Emilio Gentile, ad esempio, ha citato Niebuhr in un volume sul tema, ma si è rifatto ad un suo articolo del 1935 (cfr. E. GENTI- LE, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma-Bari, Laterza 2001, pp. 5, 124). In verità, già quat- tro anni prima Niebuhr aveva chiara l’immagine del marxismo come religione immanentizzata. 384 Cfr. R. NIEBUHR, Reflections on the End of an Era, New York, Scribner’s Son 1934. Curiosamente, le Reflections sono l’opera in cui Niebuhr concede maggior credito all’apporto che il marxismo può offrire all’interno di una società democratica, ma sono anche il primo testo in cui prepotentemente affiora il tema del peccato originale, l’idea per cui «negli esseri umani esiste un elemento oscuro ed attivo, che oppone resistenza a tutti i tentativi di miglioramento, tanto sotto il profilo educativo quanto sotto il profilo fisico» (G. MCKENNA, The Puritan Origins of American Patriotism, New Haven, Yale University Press 2007, p. 252).

96 critica della politica estera americana elaborata da Niebuhr durante gli anni ’40 e ’50, un originale impasto di idealismo e realismo destinato ad avere una vasta eco negli studi specialistici. Un primo approccio a questioni internazionali è rinvenibile nell’ultimo capitolo di The Chil- dren of Light and the Children of Darkness (1944), probabilmente il suo libro più celebre. Obiettivo di Niebuhr era offrire «una giustificazione più forte e stringente» della democrazia, «una rivendica- zione più alta e realistica di quella che è stata offerta dalla cultura liberale385». In cosa consisteva questa giustificazione? Essenzialmente nel suo temperato pessimismo antropologico, in base al qua- le l’uomo, pur essendo capace di distinguere il bene dal male, vive nella perpetua incapacità di rea- lizzarlo in modo compiuto. Ne seguiva che «la capacità di giustizia dell’uomo rende possibile la democrazia, ma la sua inclinazione rende la democrazia necessaria386», poiché è la medesima fragi- lità della natura umana a rendere indesiderabile il governo assoluto387. Col termine democrazia, Niebuhr non designava tanto un ideale, una configurazione metastorica dell’“ottimo governo”, quanto piuttosto un insieme di accorgimenti istituzionali e procedurali volti a limitare l’uso della coercizione da parte dei detentori del potere. «La democrazia è un metodo per trovare soluzioni, ap- prossimative e temporanee, per problemi altrimenti irrisolvibili388», scrive Niebuhr, con una frase che pare riecheggiare Popper e Schumpeter. Nella dominante retorica democratica, tuttavia, questa consapevolezza finiva per smarrirsi. L’errore più grave degli idealisti era credere che fosse possibile «risolvere facilmente la tensione e il conflitto fra interesse individuale ed interesse generale389». Ciò induceva i liberali ad accrescere a dismisura la sfera autonoma a disposizione del singolo individuo, senza interrogarsi a fondo se tale libertà non finisse per sconfinare in quella altrui, e similarmente spingeva i marxisti a non interrogarsi sull’organizzazione della futura società socialista. Benché sto- ricamente e socialmente contrapposti, marxismo e liberalismo condividevano il medesimo errore di fondo: «il marxismo era il credo sociale e il pianto sociale di quelle classi che sapevano, per l’esperienza della propria miseria, che il credo dei liberali ottimisti non era che una trappola e una delusione. Il marxismo insisteva nell’affermare che il conflitto sociale nelle società democratiche

385 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, Roma, Gangemi 2002, p. 47. 386 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 48. 387 L’affermazione di Niebuhr può essere accostata al noto aforisma di Lord Acton, secondo cui «il potere tende a cor- rompere, ed il potere assoluto corrompe in maniera assoluta». Sul punto, cfr. P. VIERECK, Unadjusted Man in the Age of Overadjustment: Where History and Literature Intersect, New Brunswick, Transaction Publishers 2004, p. 50). 388 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 117. 389 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 54.

97 sarebbe dovuto divenire sempre più aperto e si sarebbe chiuso amaramente. Ma il marxismo era an- che convinto che, dopo il trionfo delle classi subalterne, sarebbe emersa una nuova società nella quale sarebbe stata stabilita, fra tutte le forze sociali, esattamente quell’armonia che Adam Smith aveva considerato come una possibilità per ogni tipo di società. Le somiglianze tra la teoria classica del laissez-faire e la visione del millennio anarchico del marxismo sono significative, quali che sia- no le differenze superficiali390». Recuperando categorie bibliche, Niebuhr riteneva che liberali e marxisti potessero essere de- finiti “figli della luce”, mentre conservatori, nazionalisti, militaristi e sostenitori di ulteriori forme di particolarismo fossero “figli delle tenebre”. «Possiamo definire i cinici morali, che non conoscono altra legge se non quella della propria volontà, con le parole della Scrittura: “figli di questo mondo” o “figli delle tenebre”. Coloro i quali credono, invece, che l’interesse egoistico debba essere ricon- dotto sotto la disciplina di una legge superiore, possono essere chiamati “figli della luce”391». Il più grave limite dei figli della luce risiedeva nella cecità, nell’incapacità di cogliere le più profonde pul- sioni dell’animo umano. «I “figli delle tenebre” sono il male perché non riconoscono alcuna legge sopra di sé. Essi sono saggi, sebbene malvagi, perché capiscono il potere dell’interesse egoistico. I “figli della luce” sono virtuosi perché hanno coscienza di una legge superiore rispetto alla propria volontà ma, solitamente, sono stolti perché non riconoscono la potenza della volontà e sottostimano il pericolo dell’anarchia sia nella comunità nazionale sia in quella internazionale392». Il grande pa- radosso, secondo Niebuhr, consisteva quindi nella cronica incapacità dei “buoni” di misurarsi col problema del Male, nell’affrontarlo e nello sconfiggerlo. Tanto il liberalismo quanto il marxismo, al pari delle altre forme di secolarismo, avevano preferito lasciarsi sommergere «da un’ondata di otti- mismo sociale senza limiti393», condannandosi all’impotenza e lasciando campo libero ai loro rivali. «Il risultato di questa cecità per i fatti tragici e ovvi della storia sociale umana, è che la democrazia ha dovuto difendersi dalla frode e dalla malizia dei “figli delle tenebre” mentre i suoi leaders e sta-

390 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., pp. 68-69. 391 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 55. 392 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 56. 393 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 59.

98 tisti congetturavano intorno a piani astratti e abortivi per la creazione di comunità nazionali e inter- nazionali perfette394». Con ciò, beninteso, Niebuhr non invitava i figli della luce ad unirsi ai figli delle tenebre; la logica di potenza che detta legge sulla Terra non avrebbe dovuto indurli ad abbondare i loro merito- ri obiettivi, che Niebuhr variamente evoca come superamento del particolarismo, rafforzamento del- la fratellanza, instaurazione di una comunità tendenzialmente universale395. I figli della luce, al con- trario, avrebbero dovuto comprende il significato delle aspre lezioni impartite loro dai successi dai figli delle tenebre, ed accettare la tragicità insita nella condizione umana. «La preservazione della civiltà democratica richiede la saggezza del serpente e l’innocuità della colomba. I “figli della luce” devono armarsi della saggezza dei “figli delle tenebre” ma rimanere liberi dalla loro malvagità; essi devono conoscere il potere dell’egoismo nella società umana senza dargli giustificazione morale396». Partendo da queste premesse, Niebuhr gettava uno sguardo inquieto e disincantato sulla poli- tica estera statunitense. «Durante tutto il secolo scorso, e particolarmente, dopo la prima guerra mondiale, i nostri “figli della luce” liberali hanno dispiegato innumerevoli piani di ordine mondiale, tutti caratterizzati dalle illusioni tipiche degli universalisti semplicisti. Erano tutti basati sull’assunto che la logica intrinseca al carattere universalistico dell’imperativo morale e all’interdipendenza glo- bale di una civiltà tecnica avrebbe portato ineluttabilmente e naturalmente le istituzioni politiche a conformarsi ad essa. Tutti sottovalutavano la potenza delle vitalità particolari e limitate nella storia umana. Essi mancarono di tener conto della persistenza e della potenza dell’orgoglio delle nazioni e di comprende la forza inerziale delle lealtà tradizionali397». Questo eccesso di ottimismo, di perfezionismo e di volontarismo contribuiva a rendere pre- caria la posizione degli Stati Uniti sullo scenario mondiale. «Se l’America raggiungerà la maturità, il segno di ciò si avrà nella sua capacità di assumere responsabilità permanenti nella comunità delle nazioni. Noi dobbiamo cercare di mantenere un atteggiamento critico verso i nostri impulsi di po- tenza, che dovrà essere informato dall’umile riconoscimento del fatto che il possesso del potere è,

394 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 60. 395 È questo aspetto a rendere Niebuhr non pienamente assimilabile al realismo politico. Per lui, il principe di Machia- velli non è un modello di condotta, bensì il simbolo di chi «non conosce altra legge se non quella del proprio volere e potere» (R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 55). 396 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 74. 397 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 144.

99 per ogni nazione, una tentazione a usarlo con ingiustizia. L’innocenza o l’inesperienza relative nella gestione del potere non sono una garanzia di virtù; al contrario sono un pericolo proprio per il rag- giungimento della virtù. Il possesso del potere, d’altra parte, dà responsabilità che non possono es- sere evitate, anche se sappiamo che esse non possono essere sostenute senza un certo grado di cor- ruzione egoistica398». Era, dopotutto, questa “inevitabile corruzione” a costituire l’ironia della storia americana – come recitava il titolo di un suo lavoro, pubblicato nel 1952399. La Guerra Fredda vedeva gli Stati Uniti impegnati in una lotta estrema per la libertà e contro la tirannide, uno scenario che la presenza di armi nucleari rendeva tragico. Ma la situazione conteneva anche elementi ironici: «i nostri sogni di pura virtù si sono dissolti in una situazione in cui l’esercizio della responsabilità verso la comuni- tà delle nazioni è possibile soltanto avvicinandosi al crimine rappresentato dalla bomba atomica. E l’ironia è accresciuta dai convulsi sforzi degli idealisti di sfuggire alla dura realtà, fantasticando su progetti di un ideale ordine mondiale privi di rilevanza alcuna, a fronte tanto dei pericoli che at- tualmente corriamo, quanto dei nostri impellenti obblighi400». Il sogno di sottoporre l’intera storia sotto al controllo della volontà umana era andato in frantumi, ma i “figli della luce” faticavano ad rassegnarsi, accettando l’impossibilità di guidare con mano salda il corso degli eventi verso traguar- di di pace e giustizia. «La condizione di frustrazione storica in cui troviamo diviene doppiamente ironica se si pensa che il potere che si contrappone alla realizzazione delle nostre più profonde spe- ranze è alimentato da un credo demoniaco, politico-religioso, che è persuaso di poter trovare una via di fuga dal problema della forza e della debolezza umana in un modo più semplice persino del nostro. Secondo il credo comunista, è possibile per l’uomo, in un particolare momento della propria storia, compiere il balzo dal regno della necessità al regno della libertà. La crudeltà del comunismo in parte deriva dalla convinzione di trovarsi sul punto di compiere quel salto e di avere la storia nel- le proprie mani401». Ancora una volta, per Niebuhr, era necessario liberarsi dal provvidenzialismo inconsapevole che animava le ideologie secolari. «Nel mondo descritto dai liberali, i mali della natura umana e della storia sono ricondotti ad alcune istituzioni sociali, all’ignoranza o a qualche altro correggibile difetto della natura o degli uomini. La dottrina comunista è ancora più esplicita, e pertanto ancor più pericolosa. Essa ascrivere le origini del male nell’istituzione della proprietà privata. La sua aboli- zione, sotto i regimi comunisti, ha indotto a ritenere come una cosa innocente la più vasta concen-

398 R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della de- mocrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 157. 399 R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), Chicago, Chicago University Press 2008. 400 R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit, p. 1. 401 R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit, pp. 2-3.

100 trazione di potere nella storia umana. Il distillato di malvagità prodotto da queste rivendicazioni d’innocenza è abbastanza ironico. Ma è ancor più ironico il fatto che il cosiddetto mondo libero debba macchiarsi di colpe per scongiurare il pericolo comunista402». L’ironia della storia americana rifletteva, per Niebuhr, un’ironia più profonda e superiore, che coinvolgeva ogni essere umano, del quale rappresentava, per così dire, un elemento distinto, ca- ratterizzante la sua condizione. L’uomo pecca non perché vi sia costretto, né perché liberamente scelga di farlo, ma poiché, essendo imperfetto, non è in grado di prevedere appieno le conseguenze delle proprie azioni. Egli usa in modo improprio le facoltà di cui dispone, e ciò spesso lo conduce a situazioni paradossali. «L’uomo è una creatura ironica, dal momento che dimentica di non essere solo creatore, ma anche creatura403», ed è appunto tale dimenticanza a renderlo debole, incapace di disgiungere le buone intenzioni dai buoni esiti. È stato sostenuto che le idee di Niebuhr abbiano finito per alimentare la logica di contrappo- sizione frontale tra le superpotenze successiva al 1947, e che ciò sia stato reso possibile dalla loro banalizzazione e volgarizzazione – processo cui Niebuhr si prestò in modo consapevole404. A dire il vero, Niebuhr evitò sempre di sposare in modo acritico la politica estera dell’epoca, come testimo- niano l’ostilità verso l’amministrazione Eisenhower e la contrarietà all’impegno in Vietnam, in cui scorgeva un’ulteriore espressione della stupidità dei “figli della luce”405. È vero invece, ad un livel- lo meno superficiale, che il suo desiderio di emancipare la politica dall’utopia, facendone «un con- creto progetto per il futuro dell’uomo, attenta sia alla natura umana che alle contingenze storiche406», rispecchiava la condizione di profonda crisi ed incertezza in cui versavano gli intellettuali progressisti. Ciò, forse, aiuta a comprendere come mai un autore non enfatico come Ar- thur M. Schlesinger Jr. abbia evocato con toni appassionati il suo incontro intellettuale e personale con Niebuhr407. O perché recensori non apologetici definirono The Irony of American History, alla sua uscita, com e «un’irresistibile specchio dei nostri tempi», un’opera in grado di «raggiungere con

402 R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit, p. 4. 403 R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit., p. 156. 404 Cfr. M. L. KLEINMAN, A World of Hope, a World of Fear: Henry A. Wallace, Reinhold Niebuhr, and American Lib- eralism, Columbus, Ohio State University Press, pp. 297-302. 405 Questi ed altri aspetti sono adeguatamente sottolineati M. HALLIWELL, The Constant Dialogue. Reinhold Niebuhr & American Intellectual Culture, Lanham, Rowman & Littlefield 2005, pp. 200-215, spec. pp.204, 214. 406 G. ZORZI, Il realismo cristiano di Reinhold Niebuhr, op. cit., pp. 157-158. 407 «La mia generazione era stata educata a considerare la natura umana come benigna e la società umana come perfetti- bile. Il male era una superstizione teologica. Le riforme pedagogiche e istituzionali avrebbero svolto il ruolo di salvatori della società. Queste erano le premesse del progressismo americano di buon cuore, pieno di speranza, nello stile di John Dewey. Ma tali premesse, viste alla funesta luce di Hitler e Stalin, apparivano superficiali e vacillanti. È ovvio che la natura umana ha i suoi abissi oscuri che vanno oltre il campo d’azione del progressismo convenzionale […]. [Grazie a Niebuhr] arrivai a comprendere che il peccato originale, una questione che ero disposto ad accettare non come verità rivelata, ma come potente metafora, minava le pretese assolutiste e poneva confini marcati alla saggezza e alle aspira- zioni umane. E la presa di coscienza della colpa originaria non implica passività o rinuncia: questa era l’idea che avevo sentito per la prima volta all’Harvard Memorial Church. L’uomo è allo stesso tempo libero e vincolato, creatore così come creatura della storia; è costretto ad agire o a subire l’ingiustizia. Il suo sapere è frammentario, la sua giustizia illu- soria; i suoi movimenti corrotti, ma pur nella consapevolezza dell’aleatorietà del suo sforzo l’uomo è costretto a lottare. Agisce meglio quando capisce la sua inerente fallibilità e la sua piccolezza di fronte all’eterno […]. La personalità di

101 ta, come «un’irresistibile specchio dei nostri tempi», un’opera in grado di «raggiungere con auda- cia» profonde e radicate verità storiche408, e ancora ad un quindicennio di distanza se ne celebrasse il benefico impatto sulla storiografia statunitense409. A conti fatti, se è vero, come Friedrich A. Von Hayek andava sostenendo in quegli anni, che le idee più potenti ed influenti non sono quelle appartenenti ad una singola corrente intellettuale, ma quelle che accomunano tutte le correnti, giacché esse rappresentano il perimetro entro cui il dibatti- to è confinato410, la popolarità di Niebuhr può essere considerata il punto di non ritorno dell’ege- monia liberale. La piattaforma liberal, il substrato che aveva contraddistinto la vita pubblica ameri- cana per circa un ventennio, aveva orami confini quanto mai incerti e porosi. Uomini che avevano sostenuto il New Deal e il Fair Dear, che si erano identificati con Dewey e Tugwell, eleggevano a loro mentore un pensatore neoagostiniano, che aveva trascorso gran parte della propria vita a conte- starli e che, proprio in The Irony of American History, aveva descritto le comunità politiche come entità «soggette ad una crescita organica» assai più che ad una razionale: espressioni ed argomenta- zioni, queste, che avvicinavano Niebuhr alla sensibilità conservatrice411. Il prestigio di cui godette Niebuhr nel corso degli anni ’50 rappresentò il punto di massimo scostamento della cultura progres- sista dalle proprie radici ottimistiche, razionalistiche, costruttivistiche. Fare un passo oltre Niebuhr – un passo che filosofi come Voegelin e Oakeshott compirono – avrebbe significato ridiscutere la tradizione liberale non più dall’interno, ma contestarla da fuori, ossia da prospettive che non riven- dicavano legame alcuno, né formale né sostanziale, con i valori e gli assunti propri del liberalismo.

V. Conclusioni

L a polemica contro-illuministica di Talmon e Berlin, la denunzia dell’ingegneria sociale fat- ta da Hayek, la rifondazione antropologica del progressismo sollecitata da Niebuhr testimoniano un

Niebuhr rafforzava la sua filosofia. Nella vita un motivo di tristezza è che la scoperta che le persone sono meno grandi dei libri che scrivono. Niebuhr non deluse mai» (A. M. SCHLESINGER JR., A life in the Twentieth Century, Boston, Houghton Miffin 2000, tr. it. Il mio secolo americano: ricordi di una vita, 1917-1950, op. cit., pp. 611-613). 408 C. PAGE SMITH, Review at The Irony of American History, in The William and Mary Quarterly, vol. 9, n. 3, 1952, pp. 416-419, spec. p. 419; J. HIGHAM, Review at The Irony of American History, in The Mississippi Valley Historical Re- view, vol. 39, n. 2, 1952, pp. 357-358, spec. p 358. Per un punto di vista più critico, C. STROUT, Niebuhr’s Irony and American History, in American Quarterly, vol. 5, n. 2, 1953, pp. 174-177. 409 Cfr. H. F. MAY, A Meditation on an Unfashionable Book, in Christianity and Crisis, XXVIII, n. 9, 1968. 410 «In ogni epoca, il contenuto dei dibattiti è costituito dai temi sui quali dissentono le maggiori correnti culturali. Ma, da un punto di vista generale, il clima intellettuale di un’epoca è sempre determinato da quel fondo comune di idee che le correnti stesse, pur nella loro contrapposizione, condividono. Queste idee costituiscono le premesse implicite di ogni ragionamento, la piattaforma comune e incontestabile su cui si fonda ogni dibattito» (F. A. VON HAYEK, The Counter- Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 236). 411 R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit, p. 142. Sul punto, cfr. A. DONNO, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, op. cit., p. 69. Non a torto Charles C. Brown ha rilevato come in quest’opera Niebuhr avesse «incorporato consapevolmente temi cari al conservatorismo burkeano nel suo pensiero» (C. C. BROWN, Niebuhr and His Age : Reinhold Niebuhr’s Prophetic Role and Legacy, op. cit, p. 192)

102 profondo malessere verso il liberalismo critico, così come esso era stato declinato in Occidente da- gli anni ’30 in avanti. Può apparire curioso, peraltro, che nessuno di questi autori abbia accettato l’etichetta di “conservatore”, o rivendicato la propria appartenenza alla destra. Al momento della stesura delle sue lectures, Berlin poteva essere descritto come un liberal- socialista. Era stato un sincero ammiratore di Franklin D. Roosevelt, di cui aveva apprezzato tanto la sua politica esterna quanto la sua politica interna, da lui definita «il compromesso più costruttivo tra libertà individuale e sicurezza economica di cui sia stato testimone il proprio tempo». Cittadino inglese, nel 1945 aveva sostenuto il Labour e il suo vasto programma di riforme sociali. Nel 1950 aveva preferito sostenere il partito liberale, perché insoddisfatto dell’atteggiamento tiepido tenuto da Clement Atlee verso il neonato stato di Israele. Le sue simpatie andavano alla socialdemocrazia britannica, concepita essenzialmente come realizzazione interclassista dei principi del liberalismo ottocentesco412. Talmon era un convinto sionista, sostenitore di uno Stato – quello ebraico – nato con tratti marcatamente socialisti, soprattutto in campo economico. Pur mantenendo un forte distacco dalla politica attiva, i valori che ispirarono la sua opera possono essere descritti come liberaldemocratici ed umanistici. Il tratto saliente del suo profilo pubblico fu la rivendicazione d’appartenenza nazio- nale, il suo essere «totalmente impegnato, in termini di lealtà e di coinvolgimento, verso Israele, in- teso come ideale e come realtà, a favore del suo sviluppo e della sua sopravvivenza413». Hayek impugnò carta e penna nel 1960 per rimarcare, in un poscritto al suo The Constitution of Liberty, ciò che lo divideva dai conservatori, dei quali non condivideva la tendenza a confidare nell’autorità e nella coercizione, l’immobilismo, lo scetticismo verso le regole astratte e l’assenza di chiari principi guida nell’azione politica414. Ed anche se questa difesa non ha convinto tutti gli stu- diosi della sua opera – più o meno simpatetici nei suoi confronti 415–, la sua figura non può essere agevolmente ricondotta né al conservatorismo tradizionale, né al neoconservatorismo, né al liberta-

412 L’ammirazione di Berlin per Roosevelt traspare chiaramente nel suo saggio Mr. Churchill and FDR, in Atlantic Monthly, 184, n. 5, 1949, ora in I. BERLIN, Personal Impressions, New York, Viking Press 1981, tr. it. Impressioni per- sonali, Milano, Aldelphi 1988, pp. 13-48. Il giudizio sul New Deal compare in Political Ideas in the Twentieth Century, in Foreign Affairs, n. 3, 1950, ora in I. BERLIN, Liberty, Oxford, Oxford University Press 2002, tr. it. op. cit., pp. 57-96, spec. p. 86. Per una rassegna delle idee politiche di Berlin fra il 1945 e il 1950, cfr. M. IGNIATIEFF, Isaiah Berlin. A life, New York, Metropolitan Books 1998 tr. it. Isaiah Berlin. Ironia e libertà, Roma, Carocci 2003, pp. 216-217. 413 Y. ARIELI, Jacob L. Talmon. An Intellectual Portrait, in Y. ARIELI, N. ROTENSTREICH (ed.), Totalitarian Democracy and After : International Colloquium in Memory of Jacob L. Talmon, Jerusalem, 21-24 June 1982, Jerusalem, Magnes Press-Hebrew University 1984, pp. 1-34, spec. p. 2. 414 Cfr. F. A. VON HAYEK, Why I Am Not a Conservative in The Constitution of Liberty, Chicago, Chicago University Press 1960, pp. 397-411. 415 Cfr., ad. es., H. GISSURARSON, Hayek’s Conservative Liberalism, New York, Garland Publisher 1987; N. MATTEUC- CI, Friedrich A. Von Hayek alla ricerca di un ordine spontaneo, in Filosofi politici contemporanei, Bologna, Il Mulino 2001, pp. 145-186, spec. p. 186.

103 rismo416. Il suo «old whiggism» lo rende una personalità a sé stante, e per molti versi anomala, nel panorama intellettuale del XX secolo417. Niebuhr, infine, continuò a sostenere il Partito Democratico, e benché, col passare degli an- ni, avesse riconosciuto al conservatorismo piena legittimità intellettuale, continuò tuttavia a depre- carne le conseguenze politiche con argomenti analoghi a quelli utilizzati nel 1954, allorché aveva accusato Russell Kirk di servirsi del realismo di Burke per promuovere l’accettazione acritica delle gerarchie, dell’ineguaglianza, del conformismo e dello status quo418. Tuttavia, proprio questa riluttanza ad accettare una collocazione al di fuori del campo libera- le, accompagnata dall’insoddisfazione per ciò che il liberalismo era divenuto dagli anni ’30 in poi, dimostra una volta di più come questi autori abbiano vissuto e scritto in un’età di transizione. Il loro lascito intellettuale non si sottrae ad un paradosso: decisi a rifondare la tradizione di cui si sentivano parte o con cui dialogavano, riorientandola verso nuove necessità teoriche e pratiche, paradossal- mente contribuirono ad affossarla. I loro argomenti, infatti, funsero da stimolano a quanti non vole- vano emendare o restaurare il liberalismo, ma superarlo – dando vita ad un ordine politico radical- mente alternativo a quello vigente. Probabilmente non esiste un solo pensatore conservatore viven- te, in Europa o negli Stati Uniti, che non abbia un debito verso Berlin, Talmon, Hayek o Niebuhr. Naturalmente, il tracollo del liberalismo non fu né rapido né automatico. Intercorre sempre un certo lasso di tempo – insegna John Maynard Keynes – tra la formulazione di un’idea ed il mo- mento in cui essa entra a far parte del senso comune419. Quando la reazione esplose, tuttavia, essa stupì non pochi osservatori per la sua irruenza. Sul finire degli anni ’70, l’opinione pubblica parve volgere definitivamente le spalle al liberalismo positivista e avalutativo degli «intellettuali tecni- ci»420, un liberalismo il cui criterio ultimo – come Nicola Matteucci aveva notato – «resta spesso

416 Il complesso rapporto fra Hayek e l’universo delle destre è ampiamente trattato in A. GAMBLE, Hayek. The Iron Cage of Liberty, Cambridge, Polity Press 1996, tr. it. FRIEDRICH A. VON HAYEK, Bologna, Il Mulino 2005, pp. 169-209. 417 Si veda anche il gustoso paradosso con cui Hayek descrive le proprie convinzioni politiche nella sua autobiografia: «Sto diventando un Whig burkeano […]. Io semplicemente ritengo che Burke fosse fondamentalmente un Whig; e pen- so che anche Adam Smith lo fosse. Abbastanza curiosamente, penso lo sia anche la signora Thatcher – e sono certo di non avergliene mai parlato. L’ultima volta che l’ho incontrata, ha detto: “So che lei vorrebbe fare di me una Whig; e invece no, io sono una Tory». Dunque lei aveva chiaramente intuito il mio punto di vista» (F. A. VON HAYEK, Hayek on Hayek: an Autobiographical Dialogue, op. cit., p. 125). 418 Cfr. R. NIEBUHR, Liberalism and Conservatism, in Christianity and Society, n. 20, 1954-1955, pp. 3-4. 419 «Sono sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato, in confronto all’affermazione progressiva delle idee. Non però immediatamente, ma dopo un certo intervallo; giacché nel campo della filosofia economica e politica non vi sono molti sui quali le nuove teorie fanno presa dopo che essi abbiano passato l’età di venticinque o trent’anni; cosicché le idee che i pubblici funzionari e gli uomini politici e perfino gli agitatori applicano agli avvenimenti correnti non è probabile che siano le più recenti. Ma presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituti, che sono pericolose sia nel bene, sia nel male» (J. M. KEYNES, The General Theory of Employment, Interest and Money, London, Macmillan 1936, tr. it. Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, Utet 2005, p. 577). 420 Cfr. G. P. PRANDSTRALLER, L’intellettuale-tecnico, Milano, Edizioni di Comunità 1968. L’Intellettuale-tecnico, se- condo Prandstraller, si serve del proprio sapere in modo applicativo, e non si preoccupa – diversamente dall’intellettuale filosofo – di riflettere sull’essenza od il fondamento ontologico dei fenomeni. Agli occhi dell’intellettuale-tecnico, «la strada migliore perché l’uomo riacquisti il senso pieno della vita sembra passare proprio attraverso l’allentamento della

104 quello dell’efficienza di un sistema dato, non i problemi di libertà che esso presenta421». E poco im- portava, in fondo, se gli elettori si mostravano attratti più dalle personalità carismatiche alla guida della Nuova Destra che dalle idee li ispiravano422: era comunque impossibile comprendere la popo- larità di personaggi come Ronald Reagan e George W. Bush Sr. senza tener conto dell’intensa mo- bilitazione popolare che li supportava423. La torsione impressa al lessico politico e ai fondamenti delle public policies dai conservatori negli anni ’70 e ’80 rappresentava una trasformazione assai più radicale di quanto i realisti degli an- ni ’50 avrebbero preteso da un liberalismo rivisitato e corretto. Ma – è noto – le conseguenze inin- tenzionali si verificano anche nel campo delle idee.

IV. tensione verso l’assoluto» (ibidem, p. 84). Egli può quindi essere descritto tanto un artefice quanto un prodotto della se- colarizzazione, e dell’inclinazione «agnostica» (p. 85) nel rapportarsi con i problemi ultimi che essa reca con sé. 421 N. MATTEUCCI, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Bologna, Il Mulino 1972, pp. 88-89. Matteucci defini- va «tecnocratico» questo liberalismo, in realtà intrinsecamente antiliberale. Un simile atteggiamento era pienamente ri- scontrabile, a suo avviso, nella moderna scienza politica americana: «se vuole progettare il futuro, le interessano solo i dati del comportamento dell’uomo, non i suoi valori, le funzioni e non la sostanza dei fenomeni. Infatti spesso il polito- logo si interessa solo al controllo tecnico dei processi sociali, non a una presa di coscienza storico-politica da parte degli individui, per orientare la loro azione nella vita sociale: l’ingegnere sociale non pensa certo a persuadere gli uomini, a far loro comprendere il senso dei fatti, tutto preso, com’è, dal compito di migliorare “tecnicamente” i meccanismi del sistema. La sua è una logica economica o amministrativa, non etica o politica» (ibidem). 422 Cfr. J. A. SCHOENWALD, A Time for Choosing: The Rise of Modern American Conservatism, Oxford, Oxford Uni- versity Press 2001, p. 12. 423 Sergio Fabbrini ha intravisto nella rinnovata centralità della leadership un tentativo di reagire alla crisi dei partiti po- litici nel sistema istituzionale americano: essa «ha una responsabilità affatto principale in tale difficoltà della società ci- vile a rappresentarsi politicamente e, nello stesso tempo, quella crisi contribuisce a rendere più acuto il bisogno di una identità politica da parte della società civile e delle sue componenti. Il legame carismatico e plebiscitario tra la Presi- denza e il popolo (the people), costituisce la forma specifica della risposta che i reaganiani hanno cercato di offrire a quel bisogno». Fabbrini ha anche definito «mobilitazione non partecipata» la base del consenso reaganiano, chiarendo che, pur non manifestandosi nelle canoniche forme di adesione partitica, questo consenso si è coagulato «introno ad is- sues particolari che non di rado attraversano gli individui, i gruppi e le classi sociali» (S. FABBRINI, Neoconservatori- smo e politica americana. Attori e processi politici in una società in trasformazione, Bologna, Il Mulino 1986, pp. 194, 311).

105 Verso un ordine post-liberale: Eric Voegelin e Michael Oakeshott al paragone

Una civiltà cannibalesca, dove la giungla ha invaso la città e alla cui formazione attendono statisti e filosofi, banchieri e operai, arsi da una frenesia di suicidio […]. Questo può succedere, perché la guida della città può es- sere affidata a una politica senza morale, e cioè senza guida. E allora tu vedi che la morale è la protezione della tua esistenza fisica, della tua ricchezza, del tuo lavoro: della tua umanità insomma; mentre l’assenza della mora- le, sollecitando l’invadenza del disumano, apre l’accesso alla città dannata, dove governa l’Omicida.

Igino Giordani, Disumanesimo, 1949424

Machiavelli rompe con la Grande Tradizione e inizia l’Illuminismo. Resta da vedere se l’Illuminismo meriti il suo nome o se il suo vero nome non sia Oscuramento.

Leo Strauss, Thoughts on Machiavelli, 1957425

I. Le ragioni di un confronto

Eric Voegelin e Michael Oakeshott sono due autori profondamente diversi. Lo sono nelle ri- spettive biografie, prima ancora che sotto il profilo teorico. Da un lato, un esule tedesco, già allievo di Hans Kelsen e docente a Vienna, emigrato negli Stati Uniti dopo l’Anschluss del 1938; dall’altro, uno storico con vasti interessi filosofici, studente a Cambridge e in seguito professore in alcune fra le più note università del Paese426. Diversità che, presumibilmente, si riflettono nel rispettivo ap- proccio allo studio dei classici del pensiero politico, alla problematizzazione del rapporto fra ragio- ne e trascendenza, al legame con la propria tradizione nazionale. Eric Voegelin fu un mitteleuropeo costretto ad espatriare, che assistette in prima persona all’affermazione del nazionalsocialismo e dedicò larga parte della propria opera ad indagarne le ori- gini profonde: «il fenomeno Hitler non si esaurisce nella sua persona. Il suo successo va compreso nel contesto di una società moralmente ed intellettualmente in rovina, in cui personalità che, in alti casi, risulterebbero grottesche e marginali conquistano il potere politico perché rappresentano per- fettamente le persone che li ammirano427». Ed è appunto la crisi della civiltà – una crisi che è sì «ci-

424 I. GIORDANI, Disumanesimo, Roma, Città Nuova 2007, pp. 32-33. 425 L. STRAUSS, Thoughts on Machiavelli, Glencoe, Free Press 1958, tr. it. Pensieri su Machiavelli, Milano, Giuffré 1970, p. 203. 426 Per i rispettivi profili autobiografici, cfr. E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution, New Brunswick, Transaction Pub- lishers 2000; P. FRANCO, Michael Oakeshott: an Introduction, New Haven, Yale University Press 2004. 427 E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections , Baton Rouge, Louisiana State University 1989, p. 18 (cfr. tr. it. Rifles- sioni Autobiografiche, Milano, Giuffré 1993, p. 93. Mi discosto qui dalla non troppo fedele versione italiana).

106 vica», ossia politica, ma anche e soprattutto spirituale – a costituire una linea rossa (forse la princi- pale) nella riflessione voegeliniana428. Oakeshott fu invece – e si considerò sempre – un fedele interprete della tradizione inglese. Il conservatorismo di Oakeshott è incomprensibile se si ignora la peculiarità della società britannica, o quantomeno la percezione che i suoi estimatori ne hanno: la capacità di evolvere nella continuità, l’attitudine a mediare – e ad arginare, quando necessario – il cambiamento richiamandosi al senso comune e all’esperienza429. Essere conservatori, per Oakeshott, significava contrastare non soltanto il laburismo in sé e per sé, ma le «categorie della politica continentale», che non avrebbero dovuto attecchire oltremanica430. La sua prospettiva fu, per molti aspetti, “insulare”, e non aveva torto Ber- nard Crick quando giudicava impossibile comprenderne il pensiero trascurando la visceralità dello spirito tory431. Proprio queste diversità, tuttavia, rendono il raffronto particolarmente stimolante. Se perso- nalità così diverse per formazione, sensibilità, ambiente intellettuale e prospettive di ricerca giunse- ro a condividere alcune idee e preoccupazioni nei confronti del proprio tempo; se entrambe avverti- rono l’inadeguatezza di alcuni concetti cruciali nel discorso filosofico corrente; se l’una e l’altra, in- fine, si sforzarono di superare alcune preclusioni – che potremmo definire «chiusure» – nella rifles- sione filosofico-politica dell’epoca, allora la comparazione si rende necessaria: per cogliere, benin- teso, tanto le similarità quanto gli elementi di diversificazione. Vale la pena di segnalare, una volta di più, l’importanza dell’elemento temporale. Eric Voegelin mise a punto la categoria di gnosticismo, di cui si servì per ricostruire la de- cadenza del pensiero filosofico-politico moderno, fra il 1951 e il 1952, preparando il ciclo di confe- renze alla base di The New Science of Politics. Rationalism in Politics di Oakeshott risale al 1947, e di cinque anni dopo la stesura di The Politics of Faith and the Politics of Skepticism, che recupera precedenti intuizioni, riformulandole in modo dicotomico. Nel III° capitolo del presente lavoro abbiamo già evidenziato la natura non puramente acci- dentale delle coincidenze cronologiche nella storia delle idee. In un brevissimo periodo di tempo, autori diversi sottolinearono limiti e storture del liberalismo razionalista: alcuni – come Berlin, Talmon, Hayek e Niebuhr – rifacendosi in qualche misura al liberalismo classico; altri – tra essi, E-

428 Cfr. J. HERNDON, Eric Voegelin and the Problem of Christian Political Order, Columbia, University of Missouri Press 2007, pp. 19-27. 429 Su questa visione dell’ordinamento inglese, cfr. L. COMPAGNA, Gli opposti sentieri del costituzionalismo, Bologna, Il Mulino 1999; M. PICCININI, Corpo politico, opinione pubblica, società politica. Per una storia dell’idea inglese di costituzione, Torino, Giappichelli 2000, spec. pp. 1-9. 430 M. OAKESHOTT, Contemporary British Politics, in The Cambridge Journal, I, 1947-1948, pp. 474-490, spec. pp. 479-480. 431 Sull’insularità del pensiero britannico, cfr. il classico di J. T. MERZ, A History of European Thought in the Nine- teenth Century, New York, Dover Publications 1965 (1a ed. 1903). Sull’anima tory di Oakeshott, cfr. B. CRICK, The World of Michael Oakeshott, or The Lonely Nihilist, in Ecounter, 20, 1963, pp. 65-74.

107 ric Voegelin e Michael Oakeshott – muovendosi fuori da questo perimetro. Di nascita di un ordine liberale si è parlato, con riferimento agli anni ’30; di percorso verso un ordine post-liberale432 si sta per discutere, privilegiando la ricostruzione teorica su quella politico-istituzionale. Meno chiaro appare la connessione spaziale: perché affrontare, in un’analisi sinora focaliz- zata esclusivamente sugli Stati Uniti, un pensatore inglese come Oakeshott? La risposta è duplice. Da un lato, riprendendo una metafora formulata a proposito di Tocqueville, potremmo dire di aver guardato alla America come ad una sorta di laboratorio, un punto d’osservazione privilegiato in cui esaminare fenomeni destinati ad estendersi al resto del mondo433. Ciò costituisce una parte di verità. Vi è però, un secondo aspetto, di natura prettamente storica, da considerare: la vittoria laburista del 1945 e la susseguente edificazione del Welfare State in Gran Bretagna. Sottraendo ad Alexander Gerschenkron un’espressione celebre434, possiamo considerare Clement Attlee il «sostituto specifi- co» di Franklin D. Roosevelt, l’uomo che si propose di modernizzare il sistema sociale britannico ampliando l’assistenza pubblica e incrementando la regolamentazione del mercato, sulla scia dell’e- sperienza bellica435. Ciò avvicina la figura di Oakeshott a quella della Old Right americana: non perché egli ne condividesse l’antistatalismo ortodosso, ma perché, da difensore della tradizione, sperimentò da vicino le conseguenze di una nuova declinazione, in senso costruttivistico e progres- sivo, dell’idea di libertà. Come Joseph Schumpeter suggerì in quegli anni, con l’ingresso delle forze di sinistra al governo le vicende inglesi si ponevano nel solco di quelle americane, e tanto le prime quanto le seconde sembravano procedere in modo spedito verso una qualche forma di socialismo di stato436. Un’ultima precisazione riguarda le modalità di comparazione. Non è nostra intenzione e- stendere l’analisi all’intera opera di Voegelin e Oakeshott. Ci concentreremo, al contrario, su un ri- stretto numero di scritti, redatti in un periodo di tempo circoscritto. Riferimenti ad altri testi saranno saltuari e ristretti all’essenziale. Non analizzeremo ciascuno dei singoli testi, bensì alcuni problemi comuni. Sarà nostra cura, infine, non soffermarci soltanto sul punto di affinità più trasparente fra i due: l’avversione al totalitarismo. Impostare il raffronto in questi termini risulterebbe generico e fuorviante, e non metterebbe in luce, soprattutto, la posizione critica di Voegelin e Oakeshott verso

432 L’espressione è tratta dal bel volume di T. V. MCALLISTER, Revolt Against Modernità. Leo Strauss, Eric Voegelin & the Search for a Postliberal Order, Lawrence, University Press of Kansas 1995, in cui però essa non viene mai tematiz- zata. 433 La paternità della metafora del laboratorio è controversa, venendo riproposta – senza fonte – in quasi tutti gli studi su Tocqueville. Cfr., la fra le tante, F. M. DE SANCTIS, Tempo di democrazia: Alexis de Tocqueville, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1986, p. 127. 434 Cfr. A. GERSCHENKRON, Economic backwardness in historical perspective, a book of essays, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press, 1962. 435 Per un più approfondito approccio storico, cfr. P. HENNESSY, Never Again: Britain 1945-51, London, Jonathan Cape 1992; K. LAYBOURN (ed.), Modern Britain Since 1906: a Reader, London, I. B. Tauris 1999, pp. 206-229. 436 J. SCHUMPETER, Capitalism, Socialism and Democracy, New York, Harper 1950, tr. it. Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etas Kompass 2001, pp. 384-385.

108 quelle deviazioni della cultura occidentale che del totalitarismo sono all’origine, ma non soltanto nel totalitarismo si esprimono. Ecco perché, a nostro avviso, è opportuno muovere da un altro punto di partenza: la critica alla metodologia delle scienze empiriche della politica, che costituisce il pri- mo passo verso una critica organica al pensiero liberale.

II. La cecità della scienza politica contemporanea

The New Science of Politics di Eric Voegelin inizia con un’ampia introduzione metodologi- ca. L’autore dichiara, sin dalle primissime righe, l’esigenza di restaurare la scienza politica, inten- dendo con ciò «un ritorno alla consapevolezza dei princìpi, non un puro e semplice ritorno al conte- nuto specifico di soluzioni del passato437». Questo ritorno consiste, dunque, in una riteorizzazione: si tratta di ridiscutere criticamente i princìpi fondanti la disciplina. Ma l’idea stessa che una restaurazione fosse indispensabile sottende- va un giudizio fortemente negativo sulle condizioni in cui versava la scienza politica coeva: «una restaurazione della scienza politica si rende necessaria perché si è perduta la consapevolezza dei princìpi. In realtà, il processo di riteorizzazione si presenta come un’opera di ricostruzione dopo il fenomeno di distruzione della scienza che caratterizzò l’era del positivismo nella seconda metà del secolo decimonono438». Il positivismo, secondo Voegelin, si basa sulla combinazione di due assunti. Il primo affer- ma l’intrinseca validità dei metodi propri delle scienze naturali e suggerisce che la loro estensione alle altre scienze possa essere gravido di successi. «Di per sé, questa convinzione sarebbe stata un’innocua idiosincrasia, destinata a dissolversi non appena gli entusiastici ammiratori del metodo additato a modello lo avessero messo alla prova nell’ambito della loro scienza, constatando che, no- nostante la sua applicazione, non si conseguivano i successi sperati439». Il secondo assunto, tuttavia, impedisce ai positivisti di prendere atto del loro fallimento, e rappresenta – assai più del primo – una minaccia per la natura stessa della scienza. In base ad esso, i metodi delle scienze naturali di- vengono criteri di validità teorica generale: è teorico soltanto ciò che si presta ad essere analizzato mediante tali metodi. «Dalla combinazione di questi due presupposti è derivata la ben nota serie di asserzioni che uno studio della realtà non si può considerare scientifico soltanto se usa i metodi del- le scienze naturali; che i problemi formulati in altri termini sono illusori; che le questioni metafisi-

437 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, Borla, Roma 1999, p. 35. 438 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 36. 439 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 37.

109 che in particolare, le quali non ammettono risposta in base ai metodi delle scienze dei fenomeni, de- vono essere accantonate; che gli aspetti dell’essere non accessibili ad una esplorazione condotta con i metodi proposti a modello sono estranei alla scienza e, al limite, che tali aspetti addirittura non esi- stono440». Già si delinea, qui, uno dei tratti salienti della critica voegeliniana al pensiero moderno: l’incapacità di affrontare problemi più vasti di quelli confinabili entro un angusto perimetro meto- dologico. Per ora, basti comunque notare che Voegelin va ben oltre la critica allo scientismo formu- lata da Hayek441. L’errore del positivismo non consiste soltanto nell’acritico trasferimento del me- todo sperimentale nel campo dell’attività umana, né nell’illusoria pretesa di liberazione dai pregiu- dizi tramandati che caratterizzerebbe lo studioso “libero da valori”: secondo Voegelin, il positivista fallisce perché identifica i problemi empirici con la totalità dei problemi. In altre parole, perché re- scinde il legame intercorrente fra scienze dell’uomo e metafisica. Estremamente significativa è la descrizione del corretto approccio scientifico esposta da Vo- egelin. «La scienza prende avvio dall’esistenza prescientifica dell’uomo; dalla sua inserzione nel mondo con il suo corpo, con la sua anima, con il suo intelletto, con il suo spirito; dalla sua fonda- mentale presa su tutti gli ambiti dell’essere, resa possibile dal fatto che la sua natura li compendia tutti. Da questa fondamentale partecipazione conoscitiva, carica di passione, emerge poco a poco la consapevolezza della via da seguire, del methodos, per raggiungere alla spassionata contemplazione dell’ordine propria dell’atteggiamento speculativo442». L’uomo partecipa – fisicamente e spiritual- mente – alla realtà. Ciò non comporta, come pretenderebbe il positivista, una qualche attenuazione delle sue facoltà interpretative o critiche. Questa partecipazione costituisce, al contrario, una forma di esperienza, l’essere-nel-mondo. Sperimentare l’essere-nel-mondo è la precondizione indispensa- bile affinché vi sia scienza. La scienza si pone in un rapporto di tensione con l’autointerpretazione pre-scientifica, poiché ne costituisce una più sofisticata rielaborazione, ma non arriva mai a negarla, e permette – una volta individuato il metodo giusto – di pervenire alla contemplazione dell’Essere443. Anche quest’ultimo aspetto merita una sottolineatura. Al pari di Aristotele, per Voe- gelin non l’azione, bensì la contemplazione dell’ordine è il fine ultimo della scienza politica. La scienza politica, nella sua più intima essenza, non è un sapere operativo. La cesura con la tradizione dell’illuminismo applicato, retta dalla logica baconiana del scientia propter potentiam, non potrebbe essere più netta.

440 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 37. 441 Cfr. cap. III, par. III del presente lavoro. 442 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 38. 443 Sulla metodologia voegeliniana, cfr. l’approfondito lavoro di E. MORANDI, La società accaduta: tracce di una nuova scienza sociale in Eric Voegelin, Milano, Franco Angeli 2000.

110 E proprio alla contestazione del positivismo Voegelin dedica una sezione rilevante dell’introduzione. Con tale termine, precisa Voegelin, non va disegnata «la dottrina di questo o quel pensatore di rilievo», quanto piuttosto «il principio generale» che logicamente precede le sue «par- ticolari manifestazioni concrete444»: questo principio consiste appunto, nella pretesa intelligibilità dei fenomeni umani grazie al ricorso ad un metodo totalmente empirico. Voegelin mira, quindi, ad individuare l’essenza del positivismo, senza però ricondurne le molteplici versione entro un quadro unitario tramite il metodo compositivo. È bene avere chiaro sin da ora questo approccio, poiché Vo- egelin lo riproporrà nella disamina del liberalismo. Tre sono, a suo giudizio, le conseguenze negative della mentalità positivistica nello studio dei problemi umani. In primo luogo, l’accumulazione di fatti, frutto di un’interpretazione puramente formale del metodo di ricerca. Poiché, per il positivista, il valore di un’asserzione dipende esclusi- vamente dal rispetto di alcune regole procedurali, «tutte le asserzioni relative ai fatti risultano eleva- te alla dignità di scienza, indipendentemente dalla loro importanza, nella misura in cui derivano da un corretto uso del metodo445». In secondo luogo, «la manipolazione di materiali interessanti in ba- se a erronei principi teorici. Studiosi di gran merito hanno consacrato una immensa erudizione alla digestione di materiali storici e il loro sforzo è stato in gran parte sprecato,m perché i loro principi di selezione e interpretazione dei fatti non avevano un adeguato fondamento teorico, ma derivavano dal Zeitgeist, da preferenze politiche o da personali idiosincrasie446». Vi è, infine, l’illusoria pretesa di distinguere giudizi di fatto e giudizi di valore. Qui è opportuno fare chiarezza, onde evitare di scorgere in Voegelin un ideologo, o quanto- meno uno studioso indifferente verso il rischio che le scienze dell’uomo subiscano un’involuzione acritica e propagandistica. Al contrario, egli riconosce a tale distinzione il merito di sgombrare il campo da alcuni pericolosi equivoci: «Nella misura in cui la lotta contro i giudizi di valori fu una lotta contro l’opinione acritica camuffata da scienza politica, essa ebbe il salutare effetto di una pu- rificazione teorica447». La distinzione, nondimeno, è infondata da un punto di vista teorico, poiché presuppone una distinzione artificiale fra tipologie di asserzioni che, le une e le altre, coesistono fianco a fianco in una concezione più antica – e più rigorosa – delle scienze dell’uomo: «né l’etica e la politica classica, né l’etica e la politica cristiana contengono “giudizi di valore”, ma studiano, empiricamente e criticamente, i problemi dell’ordine che derivano dall’antropologia filosofica come

444 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 39. 445 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., pp. 40-41. 446 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 42. 447 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., pp. 44-45.

111 parte di una ontologia generale. Soltanto quando l’ontologia non fu più considerata una scienza e quando, di conseguenza, l’etica e la politica non poterono più essere intese come scienze dell’ordine in cui la natura umana raggiunge la massima attuazione, questo ambito della conoscenza poté di- ventare sospetto ed essere considerato come un campo nel quale si esprimevano soltanto opinioni soggettive e acritiche448». Voegelin ha, dunque, un atteggiamento ambivalente verso la distinzione fra Werturteil e Ta- tsachenurteile. Le riconosce una qualche utilità contingente, volta a frenare gli eccessi del soggetti- vismo interpretativo, ma la giudica inidonea a fornire una solida base all’opera di restaurazione che è deciso a intraprendere. «Né la più scrupolosa cura nel mantenere “libero da giudizi di valore” il lavoro concreto dello studioso, né il più coscienzioso rispetto del metodo critico nello stabilire i fatti e le relazioni di causalità, potevano impedire alle scienze storiche e politiche di sprofondare nella palude del relativismo449». L’opera che più di ogni altra, secondo Voegelin, testimonia il fallimento del programma di ricerca positivistico è quella di Max Weber. La riflessione weberiana si concentrò sulla costruzione di tipi ideali, caratterizzati dalla indi- viduazione di regolarità tra fenomeni e da un certo numero di nessi causali intercorrenti fra essi. «Una scienza siffatta non sarebbe stata in grado di dire a qualcuno se doveva essere un economista liberale o un socialista, un costituzionalista democratico o un rivoluzionario marxista, ma poteva indicargli quali sarebbero state le conseguenze di un eventuale tentativo di trasposizione nella prati- ca politica dei valori da lui professati. Da una parte, c’erano i “valori” dell’ordine politico, al di là di qualsiasi valutazione critica; dall’altra, c’era una scienza della struttura della realtà che poteva esse- re utilizzata come conoscenza tecnica dell’uomo politico450». Questa impostazione riflette, per Voegelin, una ratio incompiuta: essa giunge all’analisi del- la causalità dell’azione, ma si arresta di fronte ai princìpi. Ciò porta Weber a identificare la realtà come un universo demoniaco in cui valori indimostrabili ed indiscutibili configgono l’uno con l’altro. Eppure, lo stesso Weber mostrò di intuire la potenziale distruttività della prospettiva “poli- teistica”, e si impegnò ad individuare contromisure efficaci in grado di limitarne gli effetti, soprat- tutto sul piano politico. La prima via indicata fu il riconoscimento di un’etica della responsabilità, distinta dall’etica dell’intenzione. «Questa weberiana “etica della responsabilità” non è affatto cosa da poco. Weber la mise a punto per raffrenare l’ardore rivoluzionario degli intellettuali politici dogmatici, soprattutto

448 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 44. 449 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 45. 450 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 46.

112 dopo il 1918, e per rendere familiare il principio secondo il quale gli ideali non giustificano né i mezzi né i risultati dell’azione, l’azione coinvolge nella colpa e la responsabilità degli effetti politici ricade direttamente sull’uomo che ne è stato la causa451». In secondo luogo, egli elaborò un giudizio fortemente pessimistico sulla politica del tempo, in cui l’elemento demoniaco dominava oramai su quello razionale. Egli, infine, concretamente dimostrò, tramite l’insegnamento, che una corretta relazione pe- dagogica non poteva basarsi sulla completa neutralizzazione dei valori. È interessante soffermarsi brevemente su questo aspetto, perché le obiezioni di Voegelin evidenziano una latente contraddi- zioni del modello ingegneristico, già trattate nel cap. II452: l’idea che la collaborazione fra istituzio- ni pubbliche, scienziato politico e studente possa avvenire in forma compiutamente depoliticizzata. «La concezione weberiana della scienza, per esempio, presupponeva una relazione sociale fra scienziato e uomo politico, resa attiva nell’istituzione di una università, dove lo scienziato come maestro illustra ai suoi discepoli, ai futuri homines politici, la struttura della realtà politica. A questo punto sorge spontanea la domanda: quali finalità dovrebbe avere siffatta illustrazione?453». Secondo Voegelin, «insegnare in una università una scienza della politica libera da giudizi di valore sarebbe senza senso se non ci si proponesse di influenzare i valori dei discepoli mettendo a loro disposizione una conoscenza oggettiva della realtà politica. Nella misura in cui fu un grande maestro, Weber pra- ticamente smentì la sua convinzione che i valori fossero decisioni demoniache454». La relazione fra maestro ed allievo, ma anche fra docente e potere politico è quindi tutto fuorché neutrale: poiché l’educazione coinvolge la sfera valoriale, e le università sono funzionali alla creazione di figure pubbliche, la pretesa di neutralità assoluta, nel processo formativo – ma, potremmo aggiungere, an- che in quello decisionale – , è illusoria. La vera grandezza di Weber, tuttavia, non risiede negli espedienti elaborati per aggirare l’arbitrarietà della metodologia positivista, ma nell’avere indirettamente reintrodotto lo studio dei princìpi: non entro una prospettiva filosofica – il che, per Weber, sarebbe stato errato – , bensì entro una storica. «L’“oggettività” della scienza di Weber poteva derivare solo dagli autentici princìpi dell’ordine quali erano stati scoperti ed elaborati nella storia del genere umano. Poiché nella situa- zione intellettuale di Weber l’esistenza di una scienza dell’ordine non poteva essere ammessa, il suo

451 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 47. 452 Cfr. cap. II, par. III del presente lavoro. 453 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., ibidem. 454 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 48.

113 contenuto (o la maggior parte possibile di esso) doveva essere recuperato attribuendo alle sue e- spressioni il carattere di fatti e fattori causali della storia455». Le notevoli acquisizioni conoscitive contenute negli studi sociologici di Weber furono al- meno in parte inficiate da incongruenze ed omissioni. Fra queste ultime, Voegelin cita l’assenza di uno studio dedicato al cristianesimo anteriore alla Riforma. «La ragione dell’omissione appare ov- via: non è possibile impegnarsi in un serio studio del cristianesimo medievale senza scoprire tra i suoi “valori” la credenza in una scienza razionale dell’ordine umano e sociale e specialmente del di- ritto naturale456»: proprio ciò che il positivismo considerava illegittimo. Ciò malgrado, egli ebbe il merito di reintrodurre – sia in modo né coerente né esplicito – lo studio dei princìpi: «Egli aveva ri- dotto ad absurdum il principio di una scienza libera da giudizi di valore […]. Quando Weber costruì il grande edificio della sua sociologia (che è poi la scappatoia positivistica dalla scienza dell’ordine), egli non si dedicò affatto a tutti i “valori” come eguali. Egli non si dedicò affatto a una inutile raccolta di materiali qualunque, ma manifestò sensibilmente preferenze per fenomeni ritenuti “importanti” nella storia del genere umano; e seppe fare una netta distinzione fra grandi civiltà e fe- nomeni secondari, meno importanti, come pure tra “religioni mondiali” e fenomeni religiosi di scar- sa importanza. In mancanza di un principio di teorizzazione razionalmente fondato, egli si lasciò guidare non dai “valori”, ma dall’auctoritas maiorum e dalla propria sensibilità per quanto c’è di più elevato457». Da grande studioso, Weber si sforzò di superare le contraddizioni del positivismo. Da posi- tivista, ne rimase in parte prigioniero. Voegelin se ne congeda con un suggestivo ritratto, che ne sot- tolinea la levatura quasi titanica: «L’evoluzione del genere umano verso la razionalità della scienza positiva era per Comte uno sviluppo nettamente progressivo: per Weber era un processo di disin- cantamento e di dedivinizzazione del mondo. Col suo acuto rimpianto per la scomparsa dell’incanto divino dal mondo, con la sua accettazione del razionalismo come una fatalità da sopportare ma non da desiderare, col manifesto rincrescimento che la sua anima non fosse all’unisono col divino, egli mostrò chiaramente di sentirsi partecipe del dolore di Nietzsche […]. Egli sapeva quel che cercava, ma qualcosa gli impedì di trovarlo. Egli vide la terra promessa, ma non poté entrarvi458». Riassumendo, si può quindi dire, in estrema sintesi, che per Voegelin il positivismo sia: a) una negazione della scienza dell’ordine classica e cristiana; b) un atteggiamento di «chiusura» verso

455 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 49. 456 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 51. 457 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., pp. 52-53. 458 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 54.

114 la trattazione dei princìpi, e l’approdo ad un’antropologia filosofica in grado di problematizzare, ad un livello metafisico, l’esistenza umana; c) l’indebito tentativo di imporre alle scienze umane i me- todi propri delle scienze naturali. Le sue conseguenze sono relativistiche, sotto il profilo gnoseolo- giche, e nichilistiche, sotto quello politico459. In Michael Oakeshott manca una discussione critica della metodologia positivistica parago- nabile a quella di Voegelin; eppure, è possibile individuare, in alcuni passi dei suoi scritti, una pro- fonda avversione alla commistione fra attività scientifica ed attività politica, nonché fra storiografia e sapere applicativo. Voegelin avversa l’epistemologia positivistica in sé e per sé, come obnubila- mento dei princìpi primi e della riflessione meta-empirica; Oakeshott contesta, principalmente, la presunzione scientifica – connessa al positivismo – di inglobare ed imprigionare il reale, facendo della scienza il criterio ultimo di valutazione della condotta umana. Pur con differenze significative, tanto Voegelin quanto Oakeshott scorgono in un certo modo di intendere la scienza una forma di υβρις: per Voegelin, essa risiede nella negazione della trascendenza; per Oakeshott, in quella della pluralità delle sfere conoscitive che caratterizzano l’esistenza. Una rigida distinzione fra storia, scienza e pratica è rinvenibile nel primo saggio di grande rilievo di Oakeshott, Experience and Its Models (1933). Essa va citata perché aiuta ad inquadrare l’atteggiamento separatista con cui l’autore affrontò, fin dai primi anni di attività, il tema. Oakeshott descrive infatti queste tre sfere come ambiti autonomi del pensiero, totalmente in- dipendenti l’una dalle altre. La conoscenza umana è il frutto di reciproche interconnessioni fra que- ste tre sfere, ognuna delle quali si serve di criteri propri e interpreta la realtà secondo le modalità che le competono. La specificità della scienza risiede nell’osservazione sub specie quantitatis. Tale prospettiva, in sé e per sé del tutto legittima e coerente con i propri presupposti, non può rivendicare alcuna forma di primato sulle altre sfere. Né possono farlo la pratica – sotto cui ricade l’attività poli- tica – o la filosofia, la quale, lungi dal rappresentare una forma di sintesi di tutte le branche della scienza, rappresenta soltanto una possibile modalità conoscitiva. Nella mappa della conoscenza di Oakeshott, ha notato Giovanni Giorgini, «ciascun universo di esperienza appare in sé “sovrano”, e con una propria identità da difendere. In quanto autofondato costituisce un tutto omogeneo e coe- rente, assolutamente “impenetrabile” agli altri mondi; esso, infatti, non rappresenta un “dominio” specifico di esistenza, uno stadio dell’esperienza che può essere superato, bensì una modificazione, l’adozione di un punto di vista limitato nell’osservare la totalità. In questo senso, parlare di una “po-

459 Su questi aspetti, cfr. A. BIRAL, Voegelin e la restaurazione politica, in G. DUSO (a cura di), Filosofia e pratica del pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Milano, Franco Angeli 1988, pp. 53-68; V. DINI, Phronesis: scienza politica, virtù esistenziale. Eric Voegelin e l’ontologia dell’etica e della politica, in R. RANCINARO (a cura di), Ordine e storia in Eric Voegelin, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1988, pp. 49-58.

115 litica scientifica” o di una “storia scientifica” è una mostruosità, una totale ignoratio elenchi460», come Oakeshott definisce il tentativo di applicare le peculiarità di un mondo di esperienza ad un al- tro. Ciò pone Oakeshott in una condizione di curiosa ambivalenza verso il positivismo. «In effetti, ci sono chiare somiglianze fra la visione che Oakeshott ha della scienza e quella dei positivisti logi- ci dell’epoca. Tuttavia, ciò che Oakeshott stava in verità facendo era rivolgere il positivismo contro se stesso, servendosene per mostrare i suoi limiti461». La necessità di distinguere fra conoscenza scientifica e conoscenza storica riemerge con chiarezza nel saggio The Activity of Being an Historian, del 1958, e nel volume On History and O- ther Essays, del 1983, che riunisce saggi inediti del periodo precedente (la datazione è tuttavia in- certa). Oakeshott non ricorre più all’immagine delle sfere distinte – sintomo di un’evoluzione del suo pensiero a riguardo462 –, ma ribadisce l’impossibilità di mescolare pensiero pratico e riflessione storica. Il primo, in particolare, non può pretendere di ricavare assunti normativi dallo studio del passato, né fare di quest’ultimo materiale passivo per la verifica di qualche generalizzazione teorica (le “leggi”) 463. L’uomo pratico «riconosce e si interessa soltanto a quegli eventi del passato che può mettere in relazione con le attività del presente. Egli guarda al passato per spiegare il mondo presente, per giustificarlo, o per renderlo un luogo più confortevole e meno misterioso». In quest’ottica, «il pas- sato consiste in avvenimenti che si ritiene abbiano contribuito o non contribuito ad uno stato di cose successivamente verificatosi, ovvero che siano favorevoli od ostili a uno stato di cose desidera- to464». Ma questo non può, né deve essere il punto di vista dello storico, per il quale «il passato non è visto in rapporto al presente, e non è trattato come se fosse il presente». Il passato non può diven- tare occasione per scindere gli avvenimenti “opportuni” da quelli “inopportuni”, e tanto meno gli avvenimenti necessari da quelli accidentali. Diversamente da quanto crede l’uomo pratico, «l’intervento di un Papa non modifica il corso degli eventi, bensì è il corso degli eventi, e conse- guentemente la sua azione non è un intervento. X non è morto “troppo presto”: è morto quando è morto. Y non ha dissipato le sue risorse a causa di una serie di guerre inutili: le guerre appartengono al corso degli eventi effettivo, non a qualche corso immaginario, definibile come illegittimo465».

460 G. GIORGINI, L’avventura filosofica di Michael Oakeshott, in Filosofia Politica, n. 2, anno I, 1987, pp. 377-402, spec. p. 384. 461 L. O’SULLIVAN, Oakeshott on History, Exeter-Charlottesville, Imprint Academic 2003, p. 93 (cfr. anche pp. 92-96, pp. 107-110). 462 Cfr. G. GIORGINI, L’avventura filosofica di Michael Oakeshott, op. cit., pp. 377-402, spec. pp. 385-389, O’SULLIVAN, Oakeshott on History, op. cit., 151-162; E. C. COREY, Michael Oakeshott on Religion, Aesthetics, and Politics, Columbia, University of Missouri Press 2006, pp. 63-65. 463 Cfr. S. COTELLESSA, Il ragionevole disaccordo. Hayek, Oakeshott e le regole “immotivate” della società, Milano, Vita e Pensiero 1999, pp. 28-32; T. NARDIN, Oakeshott’s Philosophy of the Social Science, in C. ABEL, T. FULLER (ed.), The Intellectual Legacy of Michael Oakeshott, Exeter-Charlottesville, Imprint Academic 2005, pp. 220-237. 464 in Rationalism in Politics, Indianapolis, Liberty Fund 1991 (1a ed. 1962), p. 168. 465 in Rationalism in Politics, op. cit., p. 169.

116 Ciò parrebbe avvicinare il metodo storico al metodo scientifico: «si potrebbe dire che l’attività dello storico (alla luce della sua emancipazione da un interesse pratico verso il passato) dimostri un interesse negli eventi passati in sé e per sé, indipendentemente da eventi presenti o suc- cessivi. In breve, potremmo riconoscergli quello che io, in senso generale, ho chiamato atteggia- mento “scientifico” verso il passato466». Ma, così facendo, vi è il rischio di imbattersi in uno «sco- glio»: si potrebbe arrivare a credere che «là dove conduce l’attività dello scienziato (divenendo via via più specifica), l’attività dello storico dovrebbe seguirla». E che «l’interesse dello scienziato per le cause astratte e per le condizioni necessarie e sufficienti467» debba essere emulato da chi scrive la storia. Non è così, poiché, sostiene Oakeshott, «la ragione di questo interesse, da parte dello scien- ziato, è l’applicazione [di cause astratte e condizioni necessarie e sufficienti] a situazioni ipoteti- che468». Lo storico, viceversa, si occupa di casi singoli, non della loro astrazione e generalizzazione, in modo da formulare analogie. Servirsi della conoscenza storica per fini sperimentali significhe- rebbe, del resto, sprofondare nuovamente in quella dimensione pratica di cui si è detto: ecco perché, se uno scienziato può operare in condizioni di «combustione od ossidazione», facendo scaturire la reazione prevista dalla combinazione di elementi, lo storico non può farlo senza tradire il proprio scopo, schiettamente idiografico. Applicare il metodo scientifico alla storia può essere «eccitante e può (per un certo tempo) distogliere l’attenzione dalla comprensione storica in senso proprio469», ma – euristicamente – l’impresa si dimostrerà fallimentare. In On History and Other Essays, la prospettiva è – se possibile – radicalizzata. Gli eventi storici appaiono come «misteri circondati da misteri470», e su di essi opera un potente filtro lingui- stico. La lingua stessa è un precipitato storico, di cui abbiamo una conoscenza frammentaria e par- ziale. Oakeshott parla degli avvenimenti storici come di rappresentazioni (performances), in cui co- esistono molteplici manifestazioni dell’attività umana. Quella di Oakeshott, ha rilevato Elizabeth C. Corey, è una «concezione assolutamente non-teleologica del passato471», in cui scompaiono sia la dimensione didascalica – propria dell’attività pratica – che quella deduttivo-previsionale – propria della scienza –. Tutto ciò avvicina la comprensione storica alla sfera propria dell’estetica472.

466 in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 170-171. 467 in Rationalism in Politics, op. cit., p. 171. 468 in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 171-172. 469 in Rationalism in Politics, op. cit., p. 174. 470 M. OAKESHOTT, Historical Events, in On History and Other Essays, Indianapolis, Liberty Fund 1999 (1a ed. 1983) p. 53. 471 E. C. COREY, Michael Oakeshott on Religion, Aesthetics, and Politics, op. cit., p. 64. 472 Cfr. W. H. DRAY, William Oakeshott’s Theory of History, in P. KING, B. C. PAREKH (ed.), Politcs and Experience: Essays Presented to Professor Michael Oakeshott On the Occasion of His Retirement, Cambridge, Cambridge Univer- sity Press 1968, pp. 19-42, spec. pp. 32-33.

117 Sottoponendo a critica il modello nomologico473, Oakeshott sostiene che sia impossibile, «in una ricerca, indagare una situazione storica in modo anatomico, astrarne caratteristiche quantificabi- li e, qualora fossero sufficientemente numerose, collocarle in un grafico, per spiegare tale situazione come una struttura composta da relazioni». Questa non è storia, ma «cliometria». Gli eventi storici non possono essere ridotti «a esempi di caratteri ricorrenti, i fatti antecedenti e susseguenti non pos- sono essere reciprocamente correlati, e capire ciò che significano è possibile solo all’interno di una ricostruzione consequenziale474». Persino la causalità, così come la intendono i positivisti, va ride- finita: è più opportuno parlare di «relazione contingente475» tra fatti anteriori e posteriori. «La ri- cerca storica non è un esercizio esplicativo, né è l’occasione per risolvere un problema; è l’impegno a capire, a comprendere in modo discorsivo e ad immaginare il carattere di un avvenimento storico. Prende le mosse da ciò che è sopravvissuto, fra presente e passato, e si regge ad ogni passo soltanto grazie alla lettura di ciò che suggerisce l’evidenzia delle circostanze476». Senza addentrarci ulteriormente nella teoria storiografica oakeshottiana, possiamo già avere un quadro chiaro dei limiti che, per Oakeshott, caratterizzano la comprensione scientifica dell’agire umano. Da un lato, troviamo una distinzione rigida – che Oakeshott attenuerà col passare degli anni, ma a cui non rinunzierà mai – fra attività pratica ed attività scientifica. Dall’altro, la convinzione che sia la storia – e non la scienza sociale – ad offrirci un’immagine più veritiera della condotta u- mana in quanto esistenza storica. Il «razionalismo in politica», di cui tratteremo nei paragrafi suc- cessivi, altro non è che una ignoratio elenchi, ossia il travisamento epistemologico operato da chi ritiene possibile trasformare la conoscenza umana in una «enciclopedia di informazioni», ovvero ri- durla «alla “conoscenza fisica”477», a fini costruttivistici e manipolativi.

III. La rappresentanza distorta

Tanto Voegelin quanto Oakeshott forniscono numerosi esempi di distorsioni concettuali po- sitivistiche nel lessico della teoria politica. Ci concentreremo ora sull’idea di rappresentanza, al cen- tro di The New Science of Politics. Non risulta che questo tema sia stato affrontato da Oakeshott in modo organico. Una critica del significato corrente di democrazia rappresentativa è comunque rin- venibile in alcuni saggi risalenti agli anni ’50, ed essa ci servirà come elemento di raccordo col pa- ragrafo successivo, dedicato alla critica del liberalismo razionalistico.

473 Per una trattazione specifica, cfr. R. TSENG, The Sceptical Idealist: Michael Oakeshott as Critic of the Enlighten- ment, Thorverton-Charlottesville, Imprint Academic 2003, pp. 48-70, spec. pp. 63-66. 474 M. OAKESHOTT, Historical Events, in On History and Other Essays, p. 99. 475 M. OAKESHOTT, Historical Events, in On History and Other Essays, p. 101. 476 M. OAKESHOTT, Historical Events, in On History and Other Essays, p. 103. 477 in Rationalism in Politics, op. cit., p. 195.

118 È stato giustamente osservato che The New Science of Politics è un «testo centrato sulla no- zione di rappresentanza478». Come si spiega tale centralità? Secondo i parametri filosofico-politici correnti, dopotutto, la rappresentanza è soltanto uno dei problemi che la teoria politica è chiamata a discutere, né più né meno importante di altre questioni concernenti il giusto ordine sociale479. Per Voegelin, invece, essa costituisce «il problema centrale della teoria politica480». È bene premettere che il nostro interrogativo non verte sul ruolo che l’idea di rappresentanza ricopre nella filosofia politica di Voegelin481, bensì, più banalmente, sul perché egli muova proprio da una critica all’idea moderna di rappresentanza per tentare di dimostrare l’opportunità di restaura- re la scienza politica classico-cristiana. La tesi che si intende qui sostenere è che, secondo Voegelin, l’inadeguatezza della nozione di rappresentanza moderna dimostra, meglio di ogni altra, l’incapacità del liberalismo positivista di aprirsi alla trascendenza. Conseguentemente, tale incapacità testimonia l’inadeguatezza del bagaglio teorico con cui i liberali positivisti intendono fronteggiare la minaccia totalitaria482: tema oggetto del paragrafo IV. Per verificare la validità di questa tesi, è necessario ripercorrere, sia pure in modo sommario, l’argomentazione voegeliniana. Voegelin distingue, anzitutto, una rappresentanza definita elementare da una definita esi- stenziale. L’una non necessariamente si contrappone all’altra; la seconda, tuttavia, è precondizione per il corretto esercizio della prima483. La rappresentanza in senso elementare può essere descritta come il processo scaturente dal rispetto di alcune norme formali volte a garantire un rapporto fiduciario fra elettore ed eletto; «una sorta di delega immediata di opinioni ed interessi individuali484». «Nei dibattiti politici, nella stam- pa, nella pubblicistica, paesi come gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia, la Svizzera, i Paesi bassi o i regimi scandinavi sono normalmente considerati paesi a istituzioni rappresentative. In tali conte- sti il termine ricorre come un simbolo di una realtà politica485». È possibile elencare una pluralità di caratteristiche riscontrabili nei sistemi democratico-rappresentativi: fra esse, l’esistenza di elezioni

478 C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Roma-Bari, Laterza 2009, p. 209. 479 Cfr. S. VECA, La filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 3-32; V. MURA, Categoria della politica. Elementi per una teoria generale, Giappichelli, Torino 2004. 480 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 34. 481 Sul punto, cfr. G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, Bologna, Clueb 1989, pp. 47-53; 482 «Il modello gnostico liberale […] proprio per reagire ai rischi del lato totalitario della gnosi distrugge quella tensione [verso l’Essere] in senso contrario, cioè elimina senz’altro la trascendenza e crede che la forma politica possa scaturire da una rappresentanza elementare, la cui misura è sì individualistica, ma è anche tutta immanente, ovvero privata del rapporto articolante con l’assenza della trascendenza (in modo, in senso lato, nichilistico)» (C. Galli, Contingenza e ne- cessità nella ragione politica moderna, op. cit., pp. 219-220) 483 Cfr. F. MERCADANTE, La democrazia plebiscitaria, Milano, Giuffré 1974, pp. 219-220. 484 C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, op. cit., p. 210. 485 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 65.

119 periodiche, il costituirsi di determinati rapporti di forza fra potere esecutivo e potere legislativo, un’estensione sufficientemente ampia del suffragio. «Nella teorizzazione delle istituzioni rappresen- tative, a questo livello, i concetti che entrano nella costruzione del tipo descrittivo si riferiscono a semplici dati del mondo esterno. Si riferiscono ad ambiti geografici, ad esseri umani che vi risiedo- no, a uomini e donne, alla loro età, al loro voto che consiste nel porre dei segni su pezzi di carta ac- canto a nominativi in essa segnati, ad operazioni di spoglio e di calcolo che porteranno alla designa- zione di altri esseri umani come deputati, al comportamento di rappresentanti che si esprimerà in at- ti formali riconoscibili come tali attraverso dati esterni, etc.486» Questi «dati del mondo esterno», tuttavia, rappresentano soltanto una delle sfaccettature del problema rappresentativo; arrestarsi a questo livello, sostiene Voegelin, significherebbe trascurare la «struttura esistenziale» che opera dietro e prima rispetto alle forme rappresentative in senso ele- mentare, una struttura altrimenti destinata a «rimanere in ombra487». A Voegelin non interessa de- molire la definizione di rappresentanza in senso elementare; al contrario, gli preme chiarire che «il tipo elementare di istituzioni rappresentative non esaurisce il problema della rappresentanza488». Tale non-esaurimento è dimostrato dall’esistenza dell’Unione Sovietica. «Mentre si può ne- gare radicalmente che il governo sovietico rappresenti il popolo, non ci può essere dubbio alcuno sul fatto che il governo sovietico rappresenta la società sovietica in quanto società politica pronta all’azione nella storia. Gli atti legislativi e amministrativi del governo sovietico sono efficaci nell’ambito nazionale, nel senso che i comandi governativi trovano obbedienza nel popolo, a parte il loro margine, politicamente irrilevante, di inefficacia; e l’Unione Sovietica è una potenza sulla sce- na della storia perché il governo sovietico può in realtà manovrare un’enorme macchina militare a- limentata dalle risorse umane e materiali della società sovietica489». L’esempio ci fa intuire il modo in cui Voegelin riformula il problema della rappresentanza. Tale nozione abbraccia ora il problema fondamentale dell’ordine politico: il rapporto coman- do/obbedienza, la possibilità che i membri di una comunità – di un ordine, nella terminologia voe- geliniana – compiano azioni latu sensu collettive sotto la guida di uno o più leader490. «Le società politiche, per essere pronte all’azione, devono avere una struttura interna che consenta ad alcuni dei loro membri – il legislatore, il governo, il principe, il sovrano, il magistrato, etc., secondo la termi- nologia delle diverse epoche – di ottenere abituale obbedienza per i loro atti di comando; e questi

486 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 66. 487 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 68. 488 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 68. 489 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 69. 490 C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, op. cit., pp. 231-232,

120 atti devono servire la necessità esistenziali della società, come la difesa del regno e l’amministrazione della giustizia – se è lecito richiamare questa classificazione medievale dei fini. Tali società, con la loro organizzazione interna per l’azione, non esistono come entità cosmiche immutabili dall’eternità, ma crescono nella storia: questo processo per cui esseri umani si costitui- scono in una società per l’azione è quello che noi chiamiamo articolazione di una società491». Vale la pena di rimarcare il carattere necessario di tale articolazione. Una società o è artico- lata o non è. Affinché sia «pronta per l’azione», una società ha bisogno che le azioni di alcuni – i “rappresentanti” – siano imputate alla società nel suo complesso. Ciò implica, in altre parole, che queste azioni detengano una «forza obbligante492» nei confronti dei restanti membri della società. Allorché tale forza obbligante viene meno, per ragioni materiali ovvero spirituali493, l’ordine politi- co si disgrega494. La dissoluzione dell’ordine è quindi il pericolo incombente che l’interpretazione in senso e- lementare della rappresentanza reca con sé. Ciò è chiarito dal lungo excursus storico che Voegelin dedica alla dottrina della rappresentanza in Occidente, da John Fortescue a Maurice Hariou. Non ci interessa, in questa sede, ripercorrerlo minuziosamente; conta però rilevare come, secondo Voege- lin, nella nozione moderna di rappresentanza «il simbolo “popolo” ha finito con l’assorbire i due si- gnificati che si erano mantenuti distinti nel Medioevo, quando senza resistenze emozionali si raparla di «regno» e di «sudditi»495». Questo assorbimento, per Voegelin, non è affatto una conquista496. Non lo è perché fa del populus l’elemento caratterizzante l’ordine politico, laddove quest’ultimo è invece frutto di un complesso processo di articolazione, che trova nel regnum la sintesi compiuta497.

491 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 70. 492 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., ibidem. 493 «Una società politica può dissolversi non solo per la disintegrazione delle credenze che fanno di essa un’unità attiva nella storia; essa può venire distrutta anche a causa della dispersione dei suoi membri in maniera tale che la comunica- zione tra essi diventi fisicamente impossibile o, più radicalmente, a causa del loro sterminio fisico; può anche subire gravi danni, distruzione parziale del patrimonio tradizionale e lunga paralisi a causa della eliminazione di quei membri attivi che sul piano politico e intellettuale costituiscono le minoranza dirigenti di una società» (E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 65) 494 «Con il simbolo “articolazione” si intende quel processo storico per cui le società politiche, le nazioni, gli imperi sor- gono e cadono, come pure le evoluzioni e rivoluzioni che hanno logo fra i due estremi della nascita e della caduta» (E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 74). 495 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 71. 496 Va infatti notato come, per Voegelin, esperienze sempre più intense ed articolate della trascendenza vanno di pari passo con una crescita della differenziazione nel linguaggio politico atto a interpretarle (sul concetto di differenziazione, cfr.. G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., pp. 54-55) 497 Rievocando l’idea di rappresentanza medievale, Voegelin scrive: «il punto interessante, sotto il profilo teorico, è che i rappresentanti delle comunità articolate, quando si riuniscono a consiglio formano comunità di un ordine più elevato, fino al vertice, costituito dal Parlamento bicamerale, che si considera consiglio rappresentativo di una società ancor più vasta, il regno nella sua interezza. Col progredire dell’articolazione della società, dunque, si sviluppa un particolare or- gano rappresentativo composito, insieme con il simbolismo che ne esprime l’intera struttura gerarchica» (E. VOEGELIN,

121 Questo regnum, secondo John Fortescue, poteva essere considerato alla stregua di un corpus mysticum, ossia un’unione di persone animate da un motore spirituale definito intencio populi. «Questa “intencio populi” è il centro del corpo mistico del regno; ricorrendo ancora una volta ad una analogia organica, Fortescue parlò di essa come del cuore, che trasmette al capo e alle membra del corpo, come sua corrente sanguigna nutritiva, le provviste per la prosperità del popolo. Si faccia attenzione, in questo contesto, alla funzione dell’analogia organica: essa non serve a identificare un dato membro di una società con un corrispondete organo del corpo, ma, al contrario, essa tende a sottolineare che il centro animatore di un corpo sociale non è individuabile in alcuno dei suoi mem- bri umani. La “intencio populi” non è localizzata né nel rappresentante regale, né nel popolo come moltitudine di soggetti, ma è l’intangibile centro vivificante del regno nel suo complesso498». La “intencio populi” è quindi qualcosa di assai diverso dal «principio maggioritario tempe- rato» che disciplina, secondo i teorici della democrazia liberale, il funzionamento delle istituzioni rappresentative499. L’“intencio populi” – che potremmo definire la tensione umana verso uno o più principi ordinatori, nonché il centro vivificatore di un ordine – costituisce il fulcro della rappresen- tanza esistenziale. Proprio come il regnum ed il populus sono entità distinte, ma gerarchicamente ordinate (poi- ché il primo, sovraordinato, racchiude in sé il secondo, subordinato), così la “intencio” è all’origine del processo di articolazione sociale più di quanto non lo siano le maggioranze numeriche scaturenti dalla competizione per il voto popolare. L’“intencio” può essere equiparata, secondo Voegelin, all’idéé directrice in cui Maurice Hauriou individua il «centro attivo500» dello Stato. Essa garantisce l’effettiva rappresentatività di un ordine politico, non perché – è il caso di ribadirlo – la rappresen- tanza elementare sia una forma distorta di rappresentanza, ma perché, da sola, non è in grado di ga- rantire l’esistenza di rappresentanti in senso esistenziale. Scrive con chiarezza Voegelin, sintetiz- zando la lezione di Hauriou: «non basta che un governo sia tale in senso costituzionale (il nostro ti- po elementare di istituzioni rappresentative); esso deve essere rappresentativo anche nel senso esi- stenziale di realizzare l’idea dell’istituzione501». Non contrapposizione, dunque, ma integrazione. E questo perché «se un governo è rappresentativo soltanto in senso costituzionale, sarà spazzato via,

The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza poli- tica , op. cit., pp. 71-72). 498 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 76. 499 Cfr. ad es. G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino 1957, pp. 15-28. 500 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 80. 501 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 81. Corsivi miei.

122 presto o tardi, da un capo rappresentativo in senso esistenziale; e molto probabilmente il nuovo capo esistenziale non sarà neppure rappresentativo in senso costituzionale502». Quest’ultima osservazione aiuta a comprendere l’atteggiamento ambivalente tenuto da Voe- gelin nei confronti della rappresentanza elementare, che si presta ad essere paragonato a quello, di metodo, relativo alla distinzione weberiana fra giudizi di fatto e giudizi di valore503. La rappresen- tanza elementare svolge indubbiamente un ruolo importante, nella misura in cui dà voce ai molte- plici interessi affioranti all’interno di una società (laddove la distinzione weberiana è utile a scinde- re le opinioni infondate dai giudizi critici). Essa, tuttavia, è inadatta a comprendere in modo appro- fondito il processo di articolazione di un ordine politico, così come la metodologia weberiana è cie- ca rispetto ai princìpi teorici che dovrebbero guidare la scienza politica. La controprova è fornita, nel primo caso, dall’Unione Sovietica – ossia dall’esistenza di società articolate e pronte all’azione non governate con metodo democratico –; nel secondo caso, dalla filosofia classica e cristiana ante- cedente la Riforma – ovvero dall’esistenza di scienze umane che riconoscono all’ontologia dignità di scienza –. Esiste, però, una differenza di fondo non trascurabile. Pur apprezzando alcune ricadute pra- tiche della distinzione weberiana, Voegelin ritiene necessario superarla; ma, al contrario, non pro- spetta alcun “superamento”, in termini istituzionali, del modello liberaldemocratico. Ciò che gli pre- me sottolineare è che «la fondamentale questione» dell’esistenza di una società politica non può es- sere affrontata tramite la «pura e semplice descrizione della realizzazione esterna» di essa504. Non può perché questa esistenza – che, per Voegelin, coincide con l’articolazione – è sempre problema- tica, e mai pienamente conciliata con il funzionamento formale delle istituzioni. «Hauriou ha indi- cato con molta energia come la rappresentanza in senso elementare non costituisca una garanzia contro la disgregazione e riarticolazione esistenziale di una società. Quando un rappresentante non adempie al suo compito esistenziale, la legalità della sua posizione non può salvarlo; quando una minoranza creativa, per usare la terminologia di Toynbee, diventa una minoranza di dominio, corre il pericolo di essere sostituita da una nuova minoranza creativa505». Se la nozione di rappresentanza elementare, di per sé, non produce effetti disgreganti, li ge- nera invece il dogmatismo di quanti circoscrivono il problema della rappresentatività di un ordine

502 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., ibidem. 503 Cfr. cap. IV, par. II del presente lavoro. 504 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 81. 505 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 82.

123 politico al grado di rappresentanza elementare in essa praticato: primi fra tutti, i liberali506. L’errore del riduzionismo liberale, cui si perviene applicando in modo acritico la dottrina elementare della rappresentanza, non risiede quindi nel dare «per scontata la struttura esistenziale che sta dietro alle istituzioni rappresentative507», ma nel fatto di negarla alla radice. Per il liberale, sembra suggerire Voegelin, non esiste alcuna “intencio populi”, alcuna “idée directrice”, poiché l’essenza della de- mocrazia risiede, a suo avviso, nel governo popolare. La discussione sull’ordine politico può essere circoscritta allo studio empirico, poiché il liberale – al pari, come vedremo, del totalitario – nega al- la metafisica la dignità di scienza, e tende a fare dell’articolazione dell’ordine un problema squisi- tamente intramondano. È appunto questa negazione, questo occultamento a precludere al liberali- smo la possibilità di una visione ampia, aperta alla trascendenza, dell’ordine508. Non diversamente dalle ideologie totalitarie, il discorso politico liberale è confinato all’immanenza. L’opposizione trascendenza/immanenza è invece estranea alla riflessione oakeshottiana. Se Aristotele e Platone sono i punti di riferimento dichiarati di Voegelin, Oakeshott si muove entro una prospettiva saldamente terrena: il suo punto di riferimento è Hobbes, in cui non scorge – come fa invece Voegelin – l’espressione di un razionalismo degenerato, scaturito dagli sconvolgimenti pro- dotti dalle guerre di religione509, bensì un pensatore scettico, influenzato dalla tradizione epicurea, in cui è impossibile trovare «qualsiasi idea del governo come strumento di perfezionamento o di miglioramento umano510». Sul punto, quindi, la distanza fra i due autori non potrebbe essere mag- giore511.

506 «Dal punto di vista politico, la tesi di Voegelin significa inoltre che le istituzioni rappresentative liberaldemocratiche – ovvero il livello della legalità costituzionale, della rappresentanza elementare – non sono sufficienti a garantire la vit- toria contro le “minoranze creative”, cioè contro i progressisti liberal che spianano la via agli attivisti gnostico-totalitari. La possibilità che la società occidentale esista in forma articolata gli appare insomma massimamente minacciata» (C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, op. cit., p. 235). 507 G. CAMMAROTA, La scienza politica come scienza teorica. La teoria della rappresentanza in Eric Voegelin, in R. RANCINARO (a cura di), Ordine e storia in Eric Voegelin, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1988, pp. 95-112, spec. p. 100. Cammarota, peraltro, nota successivamente come Hans Kelsen, recensendo criticamente The New Science of Po- litics, «prenda in considerazione la rappresentanza solo in senso elementare ed esistenziale, senza citare nemmeno la rappresentanza di una verità trascendente: infatti il suo relativismo filosofico gli impediva di considerare una qualsiasi verità trascendente» (p. 102). È appunto questa incapacità di comprendere il nesso fra rappresentanza politica e rappre- sentanza trascendente a costituire, per Voegelin, la cecità del liberalismo. 508 Ha così riassunto Michael P. Federici: «La rappresentanza elementare non può essere compresa isolandola da altri aspetti dell’idea di rappresentanza. Gli aspetti istituzionali del governo non esistono, o non funzionano, in modo indi- pendente dalla ricerca di significato e di autocomprensione da parte dell’uomo» (M. P. FEDERICI, Eric Voegelin: the Re- storation of Order, Wilmington, ISI Books 2002, p. 62). 509 Sull’interpretazione voegeliniana di Hobbes, cfr. C. GALLI, Strauss, Voegelin, Arendt lettori di Thomas Hobbes: tre paradigmi interpretativi della forma politica della modernità, in G. DUSO (a cura di), Filosofia e pratica del pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Milano, Franco Angeli 1988, pp. 25-52. 510 M. OAKESHOTT, On Human Conduct, London, Clarendon Press 1975, p. 79. 511 Gli scrtti di Oakeshott su Hobbes sono raccolti in M. OAKESHOTT, Hobbes on Civil Association, Oxford, Blackwell 1975. In estrema sintesi, possiamo dire che, mentre per Voegelin Hobbes appartiene al novero di quei pensatori che hanno preteso di edificare una nuova società politica con mezzi puramente razionali, in una prospettiva interamente in- tramondana, Oakeshott considera Hobbes «un nemico della perfezione», che ritiene compito delle istituzioni politiche garantire norme universali ed astratte, anziché conferire loro fini specifici da perseguire (cfr. D. CANDREVA, The Ene- mies of Perfection: Oakeshott, Plato and the Critiche of Rationalism, Lanham, Lexington Books 2005, pp. 101-105).

124 Eppure, se Voegelin ricorre all’analisi dell’idea di rappresentanza per dimostrare l’inadeguatezza teorica del positivismo, Oakeshott polemizza con non minor forza contro la defini- zione di democrazia rappresentativa dominante nel senso comune. Col termine democrazia, sostiene Oakeshott nel 1957, si suole designare «una concreta mo- dalità di governo», oppure «certe caratteristiche del modo con cui si governa512». La diversa sfuma- tura, apparentemente di poco conto, ha in verità conseguenze significative, poiché la prima defini- zione si concentra sulla costituzione che contraddistingue il governo; la seconda guarda invece agli impegni e ai compiti di cui il governo si fa carico. In questa seconda accezione, il governo democra- tico tende a identificarsi col suffragio universale, l’estensione della programmazione economica, il rafforzamento della Camera dei Comuni, ed ulteriori correttivi istituzionali promossi dai progressi- sti. Sennonché, come scritto due anni prima, «la democrazia è qualcosa di più antico dell’idea astratta contenuta nella sua dottrina513». Essa non va confusa con la sua ideologizzazione, ossia con un insieme di principi astratti da realizzare, sempre e dovunque, a prescindere dal momento storico o dalle tradizioni nazionali. Nel lessico corrente, «la “democrazia” appare […] come un oggetto del quale è possibile chiedere: “che cos’è?”; un oggetto – o un insieme di condizioni – in cui i democra- tici, dopo aver risposto alla domanda, possono vivere, proprio come se fosse una casa, o che posso- no provare a costruire, quasi si trattasse di una navicella spaziale514». Lungi dall’essere un conge- gno artificiale o la risultante di una riflessione astratta sul “governo del popolo”, la democrazia rap- presenta il precipitato dell’esperienza storica europea, basata sul governo della legge () ed il riconoscimento di diritti individuali. Essa ha avuto origine da governi, originariamente non democratici, sufficientemente forti per «mantenere l’ordine, senza il quale le aspirazioni dell’individuo non possono essere realizzate515», ma non abbastanza per opprimere oltre misura l’individuo stesso. «In un primo tempo, i metodi riconosciuti per trasformare gli interessi in diritti erano giudiziali: i “parlamenti” e i “consigli” del Medioevo erano principalmente corpi giudiziari. Ma da queste corti della legge emerse uno strumento che poneva maggiore enfasi nel convertire tali interessi in diritti e doveri: nacquero i corpi legislativi516». Lo Stato moderno estende, in modo uni-

512 M. OAKESHOTT, Democracy in England (1957), in What is History ? And Other Essays, Exeter-Charlottesville, Im- print Academics 2004, pp. 279-282, spec. p. 279. 513 M. OAKESHOTT, The Social and Political Doctrines of Contemporary Europe (1939), in What is History ? And Other Essays, op. cit., pp. 149-160, spec. p. 153. 514 M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History ? And Other Essays, op. cit., pp. 245- 254, spec. p. 253. 515 M. OAKESHOTT, The Masses in Modern Politics (1961), in Rationalism in Politics, Indianapolis, Liberty Fund 1991, pp. 363-384, spec. p. 369. 516 M. OAKESHOTT, The Masses in Modern Politics (1961), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 363-384, spec. ibidem..

125 versale ed uniforme, i privilegi feudali alla popolazione intera. È il rule of law a costituire, secondo Oakeshott, l’essenza della democrazia517. Oltre che con l’esperienza storica, la concezione corrente di democrazia rappresentativa de- ve fare i conti con la struttura e i compiti propri di qualsiasi organizzazione politica. Come afferma- to in altra sede, non è del tutto scorretto dire che un governo è rappresentativo «se è assemblato e composto in modo tale da “rappresentare” tutte le diverse classi, gli interessi, le credenze, le opinio- ni518». Tale “rappresentanza” non deve però entrare in contrasto con i compiti propri di uno Stato, al quale non spetta la tutela di un fine specifico, bensì la salvaguardia di quelle condizioni giuridi- che tali per cui una pluralità di fini possa liberamente esplicarsi in seno alla società civile519. Non è possibile, in questa sede, addentrarci nella teoria dell’associazione civile di Oake- shott, che costituisce probabilmente il suo contributo teorico più noto520. Ci basti rilevare come la metafora che meglio descriva l’attività di governo sia per Oakeshott quella dell’arbitrato. «In altre [metafore], il governare è inteso come un’attività di gestione di un tipo o di un altro; il compito del governante è imprimere direzione, ispirazione ed energia alle attività di cui si occupa. Ma quando l’attività di governo è concepita come un arbitrato, il suo compito non è offrire direzione ed energia, bensì garantire un controllo di un altro tipo521». La distorsione più frequente, impressa da liberali razionalisti e socialisti, al concetto di rappresentanza democratica consiste appunto nel volere con- ferire al governo un fine specifico, da perseguire mediante gli strumenti coercitivi di cui lo Stato di- spone. Tale pretesa rispecchia la tendenza a concepire l’attività politica come «l’acquisizione del potere e dell’autorità per imporre condizioni sostantive di vita a chi ne è soggetto – condizioni come la prosperità, o la virtù». La tradizione del rule of law, espressa dalla figura del giudice-arbitro, sug- gerisce al contrario che l’azione politica consista nel «il prevenire che ogni singola condizione so- stantiva sia imposta a scapito di tutte le altre522». Oakeshott non contesta, dunque, la legittimità del- la rappresentanza democratica, bensì le possibili ricadute teleologiche che il governo rappresentati- vo possono avere sul rule of law e l’attività di governo. Riassume bene George Feaver: «Per Oake- shott, in sintesi, è valido quel tipo di democrazia che presuppone un certo grado di civilizzazione, in cui la socievolezza può fiorire; che si coniuga con l’autorità ultima dello Stato e induce la politica a

517 Sul punto, cfr. anche M. OAKESHOTT, The Rule of Law, in On History and Other Essays, op. cit., pp. 129-178. 518 M. OAKESHOTT, Current Ideas about Government (1959), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 283- 300, spec. p. 285. 519 «Una molteplicità non regolamentata di associazioni spontanee finalizzate a un obiettivo può esistere soltanto dove lo Stato non è esso stesso un’associazione finalizzata a un obiettivo» (M. OAKESHOTT, On Human Conduct, op. cit., p. 316). 520 Per una introduzione, cfr. S. COTELLESSA, Il ragionevole disaccordo. Hayek, Oakeshott e le regole “immotivate” della società, op. cit., pp. 83-89. 521 M. OAKESHOTT, Current Ideas about Government (1959), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 283- 300, spec. p. 296. 522 M. OAKESHOTT, Current Ideas about Government (1959), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 283- 300, spec. p. 298.

126 restringere i propri spazi; che consapevolmente cerca di trovare un compromesso con la monarchia, o col repubblicanesimo aristocratico; e che abbraccia la politica dello scetticismo e dell’individualità, assai più che quella della fede e del collettivismo523». Preoccupazioni, queste, avvicinano Oakeshott alla sensibilità propria del liberalismo realista, e lo pongono agli antipodi del liberalismo critico524.

IV. Razionalismo e liberalismo

Abbiamo sin qui rilevato come tanto Voegelin quanto Oakeshott si schierino contro la meto- dologia positivistica ed evidenziato ciò che li separa dalla concezione “progressista” della democra- zia rappresentativa. Sulla scorta di quanto detto, è possibile esaminare, in modo più approfondito, le critiche di entrambi alla tradizione liberale. L’uno e l’altro si professano oppositori della forma mentis ideologica, che identificano con la proliferazione degli “ismi” nel discorso politico. «Per molti di noi» scriveva Oakeshott nel 1955 «la politica è diventata un’attività in cui spesso ci riteniamo in grado di prendere decisioni solo quando abbiamo trovato risposta a domande come: cos’è la libertà? Cos’è la giustizia? Cos’è la de- mocrazia? E il socialismo? E il liberalismo? E il comunismo, eccetera525». Questa ideological poli- tics finisce per irretire il pensiero, imprigionandolo in assiomi indiscutibili. Così, «il “liberale” ritie- ne che alle persone dovrebbe essere permesso di pensare e di dire quello che credono. Egli ha orrore della censura, in ogni sua forma, ed ha una sensibilità eccessiva al benché minimo sentore che qual- che opinione è stata messa a tacere. Eppure, capita che si trovi in situazioni in cui il giudizio pratico gli fa ritenere che le opinioni proferite siano troppo pericolose per essere tollerate. Così, egli accetta un compromesso con i suoi principi liberali, ma è infelice, si sente in colpa, e considera sé stesso un traditore526». Ciò accade perché la politica ideologica non solo muove dal significato delle parole per ricavare princìpi d’azione, ma anche perché «la condotta che scaturisce dalla politica ideologica ci costringe a confrontarci con situazioni che ci inducono a indagare in modo perpetuo quei principi,

523 G. FEAVER, Regimes of Liberty. Michael Oakeshott on Representative Democracy, in C. ABEL, T. FULLER (ed.), The Intellectual Legacy of Michael Oakeshott, Exeter-Charlottesville, Imprint Academic 2005, pp. , 132-159, spec. p. 157. Per il riferimento alla politica dello scetticismo e alla politica della fede, si veda il par. VI di questo capitolo. 524 Cfr. cap. III par. I del presente lavoro. E, tuttavia, la sua posizione è ancor più radicale, poiché – ha sottolineato John Gray – Oakeshott respinge in toto «il progetto di liberale di fissare, tramite una teoria o una dottrina, gli scopi propri ed i limiti dell’autorità di governo, determinandoli una volta per sempre, sforzo tentato da Locke, Kant o J. S. Mill, o, nei nostri tempi, da Rawls e Nozick […]. Per Oakeshott, al pari di Aristotele, il discorso politico è una forma di ragiona- mento pratico, ed in virtù di ciò non può mai gli si può mai chiedere di andare oltre, o di raggiungere il livello di cer- tezza che si trova (almeno secondo Aristotele) nelle scienze teoretiche» (J. GRAY, Post-liberalism, Studies in Political Thought, London, Routledge 1993, pp. 40-41).. 525 M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245- 254, spec. p. 246 526 M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245- 254,, ibidem.

127 come se tale indagine fosse il modo più intelligente ed onesto per risolvere i dilemmi527» in cui ci imbattiamo. L’ideologia è una cristallizzazione del pensiero che tende, pertanto, a rafforzarsi al cre- scere delle sfide cui l’ideologia stessa è sottoposta. È ben vero che Oakeshott propone un significato alternativo di ideologia: «uno specifico modo di comportarsi, definito in base a principi generali», derivante dalla «propensione a comportarsi in certi modi528». Così intesa, l’ideologia «non si riferi- sce ad un oggetto ideale; non ci si può aspettare che ci dica nulla su come comportarci; ci comunica soltanto qualcosa sul modo in cui possiamo riflettere in modo profittevole sui problemi529» . Ma è, chiaramente, un modo assai peculiare di concepire l’ideologia, soprattutto perché essa viene inte- gralmente privata di qualsiasi contenuto prescrittivo/normativo, e la si vuole fondata, sempre e co- munque, su qualche esperienza diretta. L’ideologia di cui parla Oakeshott è quanto di meno utopi- stico si possa immaginare530. Rationalism in Politics del 1947 è l’opera in cui l’avversione per il liberalismo costruttivisti- co assume i contorni più netti, benché esso non venga mai direttamente citato. In questo saggio – uno fra i più ambiziosi e celebri di Oakeshott – a finire sotto accusa è addirittura il ruolo che il pen- siero politico moderno ha inteso conferire alla ragione, così come il nesso intercorrente fra secola- rizzazione e ideologizzazione della politica. Oakeshott precisa subito – e Voegelin sicuramente si sarebbe detto d’accordo – che il razio- nalismo contro cui polemizza è quello moderno, post-rinascimentale: «non c’è dubbio che, in super- ficie, esso rifletta la luce del razionalismo proprio di età più antiche, ma, nel profondo, possiede ca- ratteristiche che sono esclusivamente sue531». Il successo di tale razionalismo è stato notevole, co- sicché «oggigiorno, quasi tutta la politica è diventata razionalista, o quasi razionalista532». Esso, tut- tavia, non limita il proprio influsso alla vita associata. Poiché le sue radici affondano in una precisa concezione antropologica, significativi riflessi se ne hanno anche in ambito gnoseologico, morale e religioso. È razionalista, secondo Oakeshott, l’individuo che predica l’indipendenza di pensiero ed il rifiuto di ogni autorità, al di fuori di quella conferita alla ragione. Il razionalista è «il nemico dell’autorità, del pregiudizio, di ciò che è abituale, consuetudinario, o semplicemente tradiziona-

527 M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245- 254, spec. p, 248. 528 M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245- 254, spec. p, 251. 529 M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245- 254, spec. p. 252. 530 Solo in questo secondo senso Oakeshott accetta, coerentemente, di definirsi conservatore (cfr. M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956), in Rationalism in Politics, op. cit., 407-437). 531 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec. p. 5 532 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., ibidem.

128 le533». Scettico verso tutto ciò che è proviene dal passato, non lo è nei confronti della possibilità di separare con sicurezza il vero dal falso, di liberarsi dai preconcetti e dalle imperfezioni. Confida in una ragione universale, comune a tutto il genere umano, ma – malgrado questa esteriore forma di egualitarismo – nell’intimità del proprio cuore è «un individualista, che trova difficile credere che qualcuno possa pensare, onestamente e con chiarezza, qualcosa di diverso da ciò che pensa lui534». Il razionalista limita le esperienze a quelle che può compiere di persona; non riconosce vali- dità alle altrui. L’esperienza, a suo avviso, non si accumula di generazione in generazione e, di con- seguenza, il passato è soltanto un fardello. Egli manca sia di negative capability – la capacità di ac- cettare l’esistenza di misteri insondabili tramite l’esperienza – che di negative enthusiasm – il gusto per l’ignoto e la sfera non razionale. Introducendo un termine che, negli scritti di Voegelin, diverrà centrale, Oakeshott definisce «gnostica535» l’impostazione mentale del razionalista, per il quale la ragione si riduce ad uno «strumento neutrale, finemente messo a punto536» mediante cui costruirsi un’identità finalmente libera da tutto ciò che è imposto o tramandato. Così facendo, il razionalista si emargina volontariamente dalla dimensione pratica, rinchiu- dendosi in una prigione psicologica che, poco a poco, lo separa dal reale. «La sua mente non ha at- mosfera, non conosce cambi di stagione né di temperatura; il suo percorso intellettuale, per quanto è possibile, è impermeabile a tutte le influenze esterne ed avanza nel vuoto. Avendo tagliato tutti i ponti con la tradizionale conoscenza della società, e negato valore a qualsiasi educazione che sia qualcosa di più di un addestramento ad una tecnica di analisi, egli è incline a considerare l’umanità inesperta nel fronteggiare tutti i momenti critici della vita537», benché – nota sarcasticamente Oake- shott – l’umanità sappia benissimo come sopravvivere. L’atteggiamento razionalista, che tende a diffondersi in ogni ambito dell’esistenza, è pene- trato con forza persino nella sfera politica, ove un ruolo chiave viene svolto da ciò che è «tradizio- nale, circostanziale, transitorio538». Ma di tutto ciò il razionalista non si cura. Poiché l’unica forma di cambiamento che accetta è quella indotta e cosciente, è cieco innanzi alle evoluzioni spontanee che avvengono in seno alla tradizione. Non a caso – come Hayek negli stessi anni notava539– «il ca- rattere cui il razionalista si ispira è quello dell’ingegnere, la cui mente (si crede) è controllata trami- te una tecnica appropriata, e il cui primo passo consiste nel disinteressarsi di tutto ciò che non ha di- rettamente a che fare con le sue intenzioni specifiche540». «L’assimilazione della politica all’inge-

533 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 6. 534 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec. ibidem. 535 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., ibidem. 536 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec. p. 7. 537 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec. ibidem. 538 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec, p. 7. 539 Cfr. cap. III par. III del presente lavoro. 540 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 9.

129 gneria541», sostiene Oakeshott, tende a ridurla a strumento per la soddisfazione di bisogni immedia- ti. Il razionalista «guarda alle circostanze per individuare i problemi, ma rifiuta il loro aiuto nel for- mulare le soluzioni542». La politica del razionalista mira all’uniformità e alla perfezione, e questi è incapace di intenderla se non come «risoluzione di problemi543». Proprio come il Rousseau di Ber- lin544, il razionalista è convinto che «non ci può essere spazio per preferenze che non siano raziona- li, e che tutte le preferenze razionali necessariamente coincidono545». Espressioni concrete di questo atteggiamento , sono per Oakeshott, «il progetto della cosiddetta ri-unione delle Chiese Cristiane, della diplomazia aperta, di una tassa unica, di una amministrazione che non abbia “ulteriori qualifi- che al di fuori delle proprie abilità personali”, la società coscientemente pianificata, il Rapporto Be- veridge, il Voto alle Donne, il Catering Wages Act, la distruzione dell’Impero Austro-Ungarico, lo Stato Mondiale (di H. G. Wells o di qualcun altro), ed il recupero del Gaelico come lingua ufficiale dell’Eire546». Contrariamente a quanto crede il razionalista, afferma Oakeshott, esistono in realtà due for- me di conoscenza: quella tecnica, «formulata in regole che sono, o possono essere, deliberatamente apprese, ricordate e, come si suol dire, messe in pratica547», e quella pratica, che «esiste solo nell’uso, non è riflessiva e, diversamente dalla tecnica, non può essere condensata in regole548». A prima vista sembra emergere il problema della conoscenza dispersa, che avrebbe indotto Hayek a sostenere la superiorità del mercato rispetto alla pianificazione549. In verità, Oakeshott sta pensando ad una forma di sapere che si avvicina molto alla sensibilità artistica: non a caso, egli cita la cucina, la pittura, la musica e la poesia tra i campi in cui sapere pratico e sapere tecnico si mescolano indis- solubilmente. Anche in ambito scientifico «nessuna scoperta significativa è stata mai raggiunta semplicemente seguendo le regole550». Benché i caratteri della conoscenza pratica non vengano mai chiariti, essa si presta ad essere descritta come un sapere intuitivo, parzialmente filtrato dall’espe- rienza551.

541 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., ibidem. 542 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 9. 543 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 10. 544 Cfr. cap. III, par. I del presente lavoro. 545 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 11. 546 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., ibidem. 547 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 12. 548 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, ibidem. 549 Cfr. cap. III par. III del presente lavoro. 550 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 13. 551 «La conoscenza pratica si acquista precisamente nel modo in cui uno si impadronisce della moralità ordinaria: trami- te l’esperienza, il che significa con la pratica e l’attività. Se la conoscenza tecnica di suonare il piano può essere tra- smessa da un libro, la conoscenza pratica la soltanto sedendo a fianco di un pianista esperto. Essa consiste nell’osservare e nel tentare di riprodurre ciò che uno ha osservato – non solo da un punto di vista fisico, ma anche nei modi, nei sentimenti, nelle abitudini dell’essere musicista, da un punto di vista generale» (E. C. COREY, Michael Oake- shott on Religion, Aesthetics, and Politics, op. cit., p. 162).

130 Vale la pena di soffermarsi ora su una notazione storica presente nel saggio. Ricostruendo le origini del razionalismo moderno, Oakeshott esamina le figure di Bacone e Cartesio e si domanda quali circostanze abbiano permesso alle loro idee di esercitare un influsso così vasto sulla cultura occidentale. Il motivo principale risiederebbe nel «declino della fede nella Provvidenza: una tecnica benefica e infallibile rimpiazzò un Dio benefico e infallibile552». Il legame fra razionalismo e seco- larizzazione non è ulteriormente approfondito in Rationalism in Politics, ma va comunque rilevato come Oakeshott individui in Pascal il vero oppositore di Cartesio. Alla pretesa razionalistica di con- siderare conoscenza soltanto la conoscenza scientifica, Pascal contrappone «la dottrina della proba- bilità: l’unica conoscenza certa è certa in virtù della propria parzialità; il paradosso è che la cono- scenza “probabile” contiene una parte più consistente di verità della conoscenza certa553». Oake- shott non sembra cogliere, comunque, il nesso fra scetticismo e fede nel pensiero di Pascal554. La dimensione entro cui si muove resta, una volta, ancora interamente secolare555. Nelle pagine conclusive del saggio, l’attenzione si concentra sui pericoli che l’approccio ra- zionalistico comporta per una corretta educazione. Il rischio non consiste nella pretesa – condivisa dal nazionalsocialismo e dal comunismo – di bandire ogni forma di educazione diversa dalla som- ministrazione della dottrina razionalistica dominante, bensì nel «progetto di non concedere spazio a qualsiasi forma di educazione che non sia generalmente razionalistica nei suoi fondamenti556». Il fatto che il razionalismo abbia «iniziato a corrompere risorse ed istituzioni educative della nostra società557» è dimostrato dal gran numero di tecnici che stanno facendo il loro ingresso in ambito accademico: «la domanda di tecnici è ora così grande che le istituzioni adibite a preparali risultano insufficienti, e le università si stanno attrezzando per soddisfare la domanda. La sinistra frase “l’università ha preparato (trained) donne e uomini” si sta radicando, e non solo nel vocabolario del Ministero dell’Istruzione558». Dalla lettura di Conduct and Ideology in Politics e di Rationalism in Politics possiamo quin- di concludere che, per Oakeshott, il razionalismo: a) è il modo predominante di concepire la politica nel mondo contemporaneo; b) si basa sull’erronea riduzione della conoscenza alla conoscenza tec- nica; c) tende ad affermarsi in tutti i campi dell’attività umana; d) è una minaccia per una corretta

552 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 23. 553 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., pp. 22-23. 554 Cfr. D. ANTISERI, Come leggere Pascal, Milano, Bompiani 2005. 555 Oakeshott si serve del concetto di “idolatria” per definire la moralità del self-made man razionalista, ma, ancora una volta, il riferimento è accidentale e non approfondito (cfr. M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationa- lism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 41). 556 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 37. 557 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 39. 558 M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 40.

131 educazione; e) conosce formulazioni molteplici, a seconda dei principi professati dall’ideologia ra- zionalistica di turno: nel novero di tali formulazioni, figura anche il liberalismo559. Anche Voegelin giunse a considerare il liberalismo come una proiezione delle tendenze ra- zionalistiche operanti in seno alla civiltà occidentale. In una conferenza tenuta pressò l’Università Cattolica Bavarese, nel 1960, scelse di esaminarlo sotto quattro profili: politico, economico, religio- so e scientifico. Politicamente, il liberalismo consiste nella «opposizione a certi abusi, che devono essere eliminati. Il liberalismo si oppone anzitutto allo stato di polizia di vecchio stampo; per cui è contro l’invadenza del potere esecutivo su quello legislativo e giudiziario; in ambito costituzionale, pretende la separazione dei poteri560». Economicamente, «significa repulsione per le antiche restri- zioni legali, che limitano la libera attività economica561», la quale è animata da un illuminato inte- resse individuale. Da un punto di vista religioso, mira non tanto alla separazione fra Chiesa e Stato, bensì «rigetta la rivelazione e il dogma come fonti di verità562». La sua prospettiva scientifica con- siste nell’«assunto dell’autonomia della ragione umana immanente come fonte di conoscenza. I li- berali parlano di libera ricerca nel senso di liberazione dalle “autorità”, il che significa liberazione non solo dalla rivelazione e dal dogmatismo, ma anche dalla filosofia classica, il cui rifiuto è motivo d’onore, vista la sua commistione con la scolastica medievale563». È bene precisare che Voegelin, pur enucleandone i tratti specifici, non identifica il liberali- smo come la dottrina di questo o quel pensatore, ma lo ritiene parte di «un movimento occidentale comune564», una fase nel «movimento politico secolare565» che contraddistingue la modernità. La comprensione del pensiero liberale, al pari di quello positivista566, non può non vertere sulla sua es- senza, sul principio generale che precede le singole manifestazioni concrete. Bisogna pertanto sot- toporre a critica non i singoli autori liberali, presi singolarmente, ma – verrebbe da dire – «il libera- lismo come concezione della vita567», posizione filosofica coerente che concepisce il problema dell’ordine in termini rigorosamente secolari568.

559 Paul Franco ha sostenuto che, soprattutto con On Human Conduct, Oakeshott ha tentato di «purificare il liberalismo dal materialismo e dall’economicismo con cui storicamente si è mescolato» (P. FRANCO, The Political Philosophy of Michael Oakeshott, New Heaven, Yale University Press 1990, p. 159). Possiamo estendere tale riflessione e chiederci se l’intera opera di Oakeshott non sia un tentativo di emancipare la tradizione del rule of law dal razionalismo politico cui comunemente è associata. 560 E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, in The Review of Politics, vol. 36, n. 6, 1974 (testo originale in lingua tedesca del 1960), pp. 504-520, spec. p. 514. 561 E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 515. 562 E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., ibidem. 563 E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., ibidem. 564 E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 504. 565 E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 505. 566 Cfr. par. II del presente capitolo. 567 Mutuo la definizione dall’omonimo saggio di Benedetto Croce (cfr. B. CROCE, La concezione liberale come conce- zione della vita, in Etica e Politica, Bari, Laterza 1967 (1a ed. 1931), pp. 235-243). 568 Secondo Voegelin, è appunto l’essere parte di un movimento comune a rendere il liberalismo tanto eterogeneo, stori- camente e geograficamente: (cfr. E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 506).

132 Ciò premesso, risulta chiaro che Voegelin condivide con Oakeshott la tesi secondo cui il li- beralismo razionalistico consiste in una forma di ribellione contro l’autorità. Sennonché l’emancipazione liberale descritta da Oakeshott è principalmente una rivolta contro il passato, le u- sanze tramandate, le consuetudini plurisecolari, e la practical kwnoledge che recano con sé; mentre la rivolta delineata da Voegelin è essenzialmente spirituale, volta a immanentizzare la ragione e a ripudiare la dimensione trascendente. «L’idea del mutamento pacifico, e di una politica basata sull’adattamento temporale alla si- tuazione sociale, che – nell’età della rivoluzione industriale – muta rapidamente, è oggi divenuta una costante di tutte le forme di liberalismo569». Diversamente dai totalitari, i liberali ambiscono ad una qualche forma di stabilità sociale, e, per ottenerla, contemperano «una visione liberale dell’economia con la politica del Welfare State570». Ma ciò li rende davvero capaci di fronteggiare compiutamente, da un punto di vista intellet- tuale, il totalitarismo? Se, come Voegelin sostenne a più riprese, quest’ultimo consiste in un proces- so di ridivinizzazione della politica571, ed è esso stesso un prodotto della secolarizzazione, può un’ideologia secolare come quella liberale contrapporvisi con efficacia? La risposta, per Voegelin, è negativa. E ciò emerge con chiarezza dalla lettura di almeno due suoi scritti: la recensione del 1947 dedicata a The Myth of the State di Ernst Cassirer, pubblicato po- stumo un anno prima, e quella – più nota – a The Origins of Totalitarianism di Hannah Arendt, del 1953. Nella prima, dopo avere reso omaggio a Cassirer, Voegelin rileva come l’opera, malgrado l’erudizione contenutavi, sollevi forti perplessità nel lettore più accorto: «l’ammirazione per la grande maestria dell’autore si mescola inevitabilmente con un senso di sgomento, risultato dalla constatazione che vengono tralasciate questioni fondamentali572». Ciò che Voegelin contesta a Cassirer è un’implicita filosofia della storia, basata sull’assunto che «il pensiero dell’uomo evolva da un originario stadio mitico verso una penetrazione del mondo sempre più razionale: i feticci del mito aprirebbero la strada alla ragione e alla scienza573». Questo punto di vista, di derivazione comtiana, culmina nella convinzione secondo cui «a coronare l’edificio della scienza è la sociologia, che dissolverà le ultime ombre degli idola fori: una visione della scienza che nello studio della società riscontra gli stessi modi di ragionare, la stessa esattezza

569 E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 509. 570 E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 514. 571 Cfr. G. SEBBA, Introduzione alla filosofia politica di Eric Voegelin. Il mito della comunità e la società razionalistica, Roma, Astra 1985, pp. 82-85. 572 E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGE- LIN, Anni di guerra, Soveria Mannelli, Rubbettino 2001, pp. 131-135, spec. p. 131. 573 E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGE- LIN, Anni di guerra, Soveria Mannelli, Rubbettino 2001, ibidem.

133 metodologica propria della fisica e della chimica574». La proliferazione di miti politici del XX seco- lo, connessi all’affermazione dei regimi totalitari, dimostrerebbe, per Cassirer, che l’umanità non è ancora in grado di approdare ad una percezione compiutamente razionale del mondo e del proprio ruolo all’interno di esso575. Secondo Voegelin, concepire l’evoluzione del pensiero occidentale come un cammino verso un più compiuto stadio di razionalità è possibile soltanto distorcendo gli scritti di numerosi autori del passato. Platone e Machiavelli, ad esempio, possono essere considerati alfieri del razionalismo soltanto trascurando la centralità, nei loro scritti, di due elementi prettamente “mitici”: l’anima so- cratica e la virtù del Principe. Ma c’è di più: Cassirer non sembra rendersi conto che il pensiero mi- tico esiste, ed anzi si rafforza, in parallelo all’espandersi della razionalità: «il nuovo mito nasce per- ché il vecchio è stato distrutto576». Secondo Voegelin, «il mito è un elemento indispensabile per la costruzione di un ordine sociale577», e la pretesa di liberarsene può avere conseguenze tragiche, poi- ché «il nuovo mito che prende inevitabilmente il posto di quello passato può risultare molto sgrade- vole. Il Mito dello Stato è scritto come se all’autore non fosse mai venuto in mente che alterare un mito, a meno che non sia migliore di quello da mettere al suo posto, è un passatempo pericolo- so578». Nella seconda recensione, Voegelin giudica meritevole di attenzione l’opera di Arendt, poi- ché tenta di analizzare criticamente un fenomeno complesso, variamente connotato nello spazio e nel tempo, come quello del totalitarismo, in una fase storica in cui la scienza politica (torna qui la critica metodologica esposta nell’introduzione di The New Science of Politics) ha smarrito princìpi rigorosi e trascura l’antropologia filosofica. Ciò malgrado, il meritorio tentativo è inficiato dalle ca- renze di fondo che contraddistinguono la concezione positivistica di scienza: il libro «reca le ferite dello stato insoddisfacente della teoria a cui abbiamo alluso579». I deragliamenti teorici rinvenibili in esso «rivelano la confusione intellettuale della nostra epoca e mostrano in modo più convincente

574 E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGE- LIN, Anni di guerra, op. cit., spec. p. 132. 575 Sarebbe interessante comparare le posizione filosofica di Cassirer con quella – del tutto speculare – del liberal statu- nitense Sidney Hook, secondo cui il totalitarismo non deriva da un eccesso di razionalismo, ma dall’applicazione ancora imperfetta dei metodi razionalistici alla risoluzione dei problemi sociali (cfr. S. HOOK, The New Failure of Nerve, in Partisan Review, vol. 10, n. 1, 1943, pp. 2-23). 576 E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGE- LIN, Anni di guerra, op. cit., spec. p. 133. 577 E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGE- LIN, Anni di guerra, op. cit., ibidem. 578 E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGE- LIN, Anni di guerra, op. cit., ibidem. 579 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 162.

134 di qualsiasi argomento perché le idee totalitarie trovano un consenso di massa e lo troveranno anco- ra per molto tempo580». Dopo aver ripercorso e lodato la ricostruzione storica arendtiana, Voegelin ne contesta l’assunto. «La trattazione dei movimenti del tipo totalitario al livello di situazioni e di cambiamenti sociali, come anche dei tipi di governo da essi determinati, è soggetta a conferire alla causalità sto- rica un’aura di fatalità581». Arrestarsi a questo livello – che coincide, potremmo osservare, con la sua descrizione elementare, o empirica – significa precludersi la possibilità di interpretare il totalita- rismo in modo più profondo, evidenziandone i tratti di malattia spirituale del proprio tempo: «la ma- lattia spirituale è l’agnosticismo delle masse moderne, e i paradisi o gli inferni sono i suoi sintomi, ma le masse soffrono della malattia sia che si trovino nel loro paradiso che nel loro inferno582». Accettare questa chiave di lettura implicherebbe una diversa organizzazione dei materiali, nonché una diversa impostazione di ricerca. «Se il disagio spirituale è la caratteristica decisiva che distingue le masse moderne da quelle dei secoli passati, ci si aspetterebbe che lo studio del totalita- rismo non fosse delimitato dal crollo istituzionale delle società nazionali e la crescita delle masse socialmente superflue, ma piuttosto dalla genesi del disagio spirituale, semplicemente perché la ri- sposta del crollo istituzionale reca chiaramente i segni di esso583» La tesi proposta da Voegelin – provocatoria, ma coerente con i propri presupposti filosofici – è che Arendt non sia in grado di analizzare tale disagio poiché essa stessa lo condivide e ne è e- spressione. In The Origins of Totalitarianism è rintracciabile l’idea che «i movimenti totalitari non si propongono di porre un rimedio ai mali sociali mediante i cambiamenti industriali, ma vogliono creare un millennio nel senso escatologico mediante la trasformazione della natura umana584». Que- sta trasformazione, tuttavia, è concepibile solo tramite un pervertimento della fede cristiana nella perfezione, trasferita dalla trascendenza all’immanenza. Pervertimento che, afferma Voegelin, è condiviso da Arendt quando sottolinea «”le necessarie limitazioni”585» che alla modificazione della natura umana andrebbero poste. «Quando ho letto questa frase, non ho quasi creduto ai miei occhi. “Natura” è un concetto filosofico: esso denota che si identifica una cosa come una cosa di questo genere e non di un altro.

580 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 163. 581 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 166. 582 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 167. 583 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, pp. 167-168. 584 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 168. 585 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, ibidem.

135 Una “natura” non può essere cambiata o trasformata; un “cambiamento della natura” è una contrad- dizione in termini; il cercare di alterare la “natura” di una cosa significa distruggere la cosa586». Di tutto ciò Arendt sembra però essere inconsapevole: «l’autrice infatti adotta l’ideologia immanentista, assume un “atteggiamento aperto” riguardo le atrocità totalitarie, considera la que- stione del “cambiamento della natura” come una materia che va determinata con il principio della “prova e dell’errore”, e dal momento che la “prova” non si è potuta ancora servire delle possibilità offerte da un laboratorio globale, la questione resta in sospesa per il momento587». Ciò non signifi- ca, sottolinea Voegelin, che la Arendt conceda qualche attenuante alla spietatezza del nazismo o del comunismo. Simili affermazioni, tuttavia, «riflettono un tipico atteggiamento liberale, progressista e pragmatista verso i problemi filosofici […]. E questo atteggiamento è infatti di generale importanza perché rivela quanto terreno hanno in comune i liberali e i totalitari: l’immanentismo essenziale che li unisce supera alquanto le differenze di carattere che li dividono588». Voegelin conclude il proprio affondo con una frase che, ai fini della nostra trattazione, è del- la massima importanza: «la vera linea divisoria della crisi contemporanea non corre fra liberali e to- talitari, ma fra i trascendentalisti religiosi e filosofici da un lato e i settari immanentisti liberali e to- talitari dall’altro589». Conta poco, ai fini della nostra analisi, quanto Voegelin abbia davvero compreso della ri- flessione di Arendt; preme invece rilevare il nesso che egli individua fra determinate interpretazioni del totalitarismo e i presupposti filosofici del totalitarismo medesimo. Da qui deriva l’impossibilità, da parte dei liberali, di pensare il totalitarismo come qualcosa di diverso da una forma di pazzia, di smarrimento della ragione. E proprio alla categoria di follia – sostiene Voegelin nella sua History of Political Ideas590 – ricorsero nell’Ottocento i positivisti liberali come Littré, per spiegare come mai il loro maestro, Auguste Comte, avesse teorizzato una religione civile con cui rimpiazzare quelle ri- velate. Il liberale, «vivendo nell’illusione che i problemi si possano risolvere intaccando il prestigio di una Chiesa o abolendola del tutto, è fortemente sorpreso e addirittura spaventato quando gli si presenta davanti una nuova variante dello spirito, a lui ancora meno gradita del cristianesimo, che reclama di essere istituzionalizzata al posto di quella Chiesa di cui si è appena liberato591». Pur es-

586 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 168-169. 587 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec., p. 169. 588 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, ibidem. 589 E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 169. 590 Va sottolineato che il volume From Enlightment to Revolution, citato in seguito, è un estratto della mai pubblicata History of Political Ideas, redatta sul finire degli anni ’40. 591 E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Durham, Duke University Press 1975, tr. it. Dall’Illuminismo alla Rivoluzione, Roma, Gangemi 2005, p. 174.

136 sendo animato da una sincera buona fede, egli «ha delle carenze che gli impediscono di essere sen- sibile ai problemi spirituali e di affrontarli in modo adeguato592». Di fronte all’avanzata di un pro- cesso che egli stesso ha contribuito ad innescare, non può che arretrare, poco a poco, su posizioni sempre più retrograde, ma è incapace di organizzare una reazione efficace. «La rottura di Littré con Comte si deve alla paura che questi provò di fronte allo spettro della dittatura, sebbene egli fosse cieco alla logica inerente al passaggio di Comte dal “positivismo intellettuale” alla sua forma reli- giosa. Per quanto si possa dire delle virtù e dei vizi di ognuno, non c’è molto da scegliere fra loro: il liberale positivista riduce il senso dell’umanità al potere che, grazie alla scienza, si ha sulla natura e sull’uomo, il quale rimane così privato della propria dimensione spirituale. L’escatologista dittato- riale raccoglie invece i castrati e trapianta in loro il suo spirito. L’uno fa il gioco dell’altro, e me- diante questa interazione la crisi continua sempre più rapidamente il suo corso593». Alla fine del quale, ammonisce Voegelin in The New Science of Politics, vi è appunto la società totalitaria, «l’approdo finale della ricerca gnostica di una teologia civile594».

V. Gnosticismo e politica della fede

Per Voegelin, è impossibile comprendere le carenze del pensiero liberale senza inquadrarne le origini in un processo più vasto, risalente al Medioevo: l’affermazione dello gnosticismo. Anche per Oakeshott – che esprime in modo meno drastico a riguardo595 – esistono tendenze, operanti in seno alla tradizione moderna, che trasformano la politica in un’attività volta a promuovere l’uniformità e l’oppressione. Per entrambi, queste forme degenerate di pensiero derivano da un rap- porto distorto con la religione: esse sottendono, in estrema sintesi, una pretesa escatologica che vede nel mondo un luogo adatto alla realizzazione di una compiuta e definitiva società giusta. Sono sei, secondo Voegelin, le caratteristiche che contraddistinguono lo gnostico: «1) Biso- gna evidenziare, anzitutto, che lo gnostico è insoddisfatto dalla situazione attuale. Questo, di per sé, non è sorprendente. Tutti noi abbiamo motivo per non essere completamente soddisfatti di qualche aspetto della situazione in cui ci troviamo; 2) Non molto comprensibile è, invece, il secondo aspetto dell’atteggiamento gnostico: la credenza che gli inconvenienti della situazione derivino dal fatto che

592 E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Durham, Duke University Press 1975, tr. it. Dall’Illuminismo alla Rivoluzione, op. cit., , ibidem. 593 E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Durham, Duke University Press 1975, tr. it. Dall’Illuminismo alla Rivoluzione, op. cit., p. 175. Corsivi miei. 594 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., p. 202. 595 Va comunque precisato che Voegelin non identifica tutto il pensiero moderno con lo gnosticismo, pur considerando lo gnosticismo la forma più influente di filosofia post-rinascimentale apparsa in Occidente. Sulla funzione e le origini della categoria nella filosofia politica di Voegelin, cfr. P. J. OPITZ, Le tesi sullo gnosticismo. Osservazioni sull’interpre- tazione della modernità del mondo occidentale in Eric Voegelin, in Filosofia Politica, XIII, n. 2, 1999, pp. 225-242.

137 il mondo sia intrinsecamente poco organizzato […]; 3) La terza caratteristica è la credenza che sal- varsi dal male del mondo sia possibile; 4) Da ciò segue la convinzione che l’ordine dell’essere deb- ba essere mutato nel corso di un processo storico. Un mondo buono può evolvere, storicamente, a partire da un mondo disorganizzato […]; 5) Col quinto punto giungiamo al tratto gnostico vero e proprio: la convinzione che un cambiamento nell’ordine dell’essere dipenda dall’azione umana; che un atto che porti alla salvezza sia possibile attraverso lo sforzo dell’uomo; 6) se è possibile, comun- que, operare un cambiamento strutturale nell’ordine dell’essere dato, allora la sfida dello gnostico diviene scovare le prescrizioni per questo cambiamento. La conoscenza – “gnosis” – del metodo per alterare l’essere è la centrale preoccupazione dello gnostico. Come sesta caratteristica dell’atteggiamento gnostico, pertanto, riconosciamo la costruzione di una formula di salvezza per sé e per il mondo, così come la prontezza con cu lo gnostico si presenta in qualità di profeta, che pro- clamerà ciò che sa riguardo alla salvezza della genere umano596». Gnostico è colui il quale volta le spalle alla trascendenza e si cala in modo compiuto in una dimensione intramondana. Per lui, la realtà non ha una struttura stabile, immodificabile dall’uomo – quella che Voegelin definisce, sulla scia di Platone, metaxy597 – bensì è malleabile; si presta ad es- sere alterata e manipolata. Egli, inoltre, è incapace di praticare la metafisica, o di intuire il rapporto esistente fra politica ed antropologia filosofica. Voegelin conia il termine «logofobia» per descrive- re il disprezzo con cui lo gnostico tratta i problemi ontologici598. Non è possibile indagare qui, in modo approfondito, le molteplici sfaccettature che Voegelin individua in questa figura. Va però sottolineato come lo gnosticismo cerchi di rovesciare quel rap- porto di de-divinizzazione della realtà introdotta dal cristianesimo. «La vita delle prime comunità cristiane non risultò stabile sul piano dell’esperienza concreta, ma oscillò tra l’attesa escatologica della parousia che avrebbe realizzato il regno di Dio e l’interpretazione della Chiesa come apocalis- se di Cristo nella storia. Poiché la parousia non si verificò, la Chiesa di fatto passò da una escatolo- gia del regno nella storia a una escatologia della perfezione ultrastorica e soprannaturale599». Il grande artefice della svolta fu Sant’Agostino. Nel De Civitate Dei «egli liquidò apertamente come “ridicola favola” la credenza nel millennio e, quindi, affermò risolutamente che il regno millenario era il regno di Cristo nella sua Chiesa nel tempo presente, che sarebbe continuato fino al giudizio finale e all’avvento del regno eterno nell’aldilà600». Grazie all’influsso di Agostino, «il chiliasmo

596 E. VOEGELIN, Ersatz Religion: The Gnostic Mass Movement in Our Time (1a ed. 1960), in Science, Politics, Gnosti- cism, Willington, ISI Books 2002, pp. 59-88, spec. pp. 64-65. 597 Cfr. G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., pp. 63-71. 598 Cfr. M. P. FEDERICI, Eric Voegelin. The Restoration of Order, op. cit., pp. 56-58. 599 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., pp. 143-144. 600 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., pp. 144-145.

138 giudaico venne bandito insieme con il politeismo, allo stesso modo che il monoteismo era stato bandito assieme con il monoteismo pagano, metafisico. In questo modo, la Chiesa diventava l’universale organizzazione spirituale di santi e di peccatori che professano la loro fede in Cristo, come rappresentante della civitas Dei nella storia, riflesso dell’eternità nel tempo. E, parallelamente, in base a questa concezione, l’organizzazione di potere della società diventava una rappresentazione temporale dell’omo, nel senso specifico di una rappresentanza di quella parte della natura umana che si dissolverà con la trasfigurazione de tempo nell’eternità. L’unica società cristiana risultò così articolata nei suoi due ordini, spirituale e temporale. Nella sua articolazione temporale, essa accet- tava la conditio humana senza illusioni chiliastiche, mentre elevava l’esistenza naturale mediante la rappresentanza del destino spirituale attraverso la Chiesa601». E proprio contro tale separazione insorge Gioacchino da Fiore, il primo grande gnostico. Mentre Agostino distingueva tra storia profana, basata sul succedersi degli imperi, e storia sacra, in- centrata sul ruolo della Chiesa e di Cristo, Gioacchino e i suoi seguaci – che Voegelin identifica, fra gli altri, in Voltaire, Comte, Saint Simon, Hegel, Marx – aboliscono questa distinzione. «La nuova età di Gioacchino avrebbe portato una maggiore pienezza spirituale nella storia, ma ciò non sarebbe stato determinato da un’eruzione dall’interno: esso sarebbe venuto da una nuova irruzione trascen- dentale dello Spirito. L’idea di un incremento completamente immanentistico di pienezza spirituale si andò affermando piuttosto lentamente, nel corso di un lungo processo che potrebbe essere com- pendiato nella formula “dall’umanesimo all’illuminismo”: solo nel secolo diciottesimo, con l’idea di progresso, l’incremento di significato nella storia divenne un fenomeno intramondano, senza ir- ruzioni trascendentali. Qualificheremo come “secolarizzazione” questa seconda fase del processo di immanentizzazione602». Alla base di tutto, vi è l’esigenza di sottrarsi alla condizione di insicurezza in cui versa il ve- ro cristiano. «Il tentativo di immanentizzare il significato dell’esistenza è, in sostanza, il tentativo di assicurare alla nostra conoscenza del trascendente una presa più salda di quella consentita dalla co- gnitio fidei, dalla cognizione della fede; e le esperienze gnostiche offrono questa più salda presa perché esse dilatano l’anima a tal punto dia includere Dio nell’esistenza dell’uomo603». La “scorcia- toia” gnostica avviene «mediante un ripiegamento dalla trascendenza e conferendo all’uomo e alla sua azione intramondana un significato di compimento escatologico604». L’essenza della modernità

601 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 145. 602 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., pp. 154-155. 603 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 159. 604 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 164.

139 risiede, dunque, in un processo di distaccamento dal cristianesimo agostiniano e nella sua sostitu- zione con le ideologie immanentistiche e totalizzanti. «Quanto maggiore è la frenesia con cui tutte le energie umane vengono consacrate alla grande impresa della salvezza attraverso l’azione imma- nente al mondo, tanto più gli esseri umani che si impegnano in questa impresa si allontanano dalla vita dello spirito. E poiché la vita dello spirito è la fonte dell’ordine nell’uomo e nella società, i suc- cessi di una civiltà gnostica divengono causa del suo declino. Una civiltà può quindi progredire e regredire nello stesso tempo – ma non indefinitamente. C’è un limite a questo processo ambiguo; e il limit e è raggiunto quando una setta attivistica, che rappresenta la verità gnostica, organizza la ci- viltà in un impero di suo dominio. Il totalitarismo, inteso come dominazione esistenziale di attivisti gnostici, è la forma conclusiva alla quale approda ogni civiltà votata al culto del progresso605». La figura di Agostino ha un ruolo di primo piano anche negli scritti di Oakeshott606. Fin dai suoi primi lavori, Agostino è colui che ha distinto città divina e città terrena, sostenendo l’impossi- bilità, per la seconda, di assicurare la salvezza dell’anima. «Per Agostino», scrive nel 1946, «iusti- tia e pax, che costituiscono i frutti dell’associazione civile, non sono nulla di più che un rimedio ne- cessario per conseguenze immediate derivanti dal peccato originale; essi hanno una relazione speci- fica con la giustizia di Dio e la pax coelestis, ma non possono di per sé condurre alla “unione, per- fettamente ordinata unione dei cuori nella gioia di Dio, e di ciascuno con l’altro in Dio”607». È l’antiutopismo di Agostino, fondato sulla consapevolezza che il perseguimento di fini “oggettivi” non esaurisce la vita umana, né costituisce la componente più elevata di essa, a suscitare l’interesse di Oakeshott. Si comprende perché, dunque, in The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, la con- trapposizione fra due modi antitetici di intendere la vita associata ruoti attorno ai nomi di Agostino (rappresentante della seconda) e di Pelagio (rappresentante della prima). Pelagiana è la vocazione perfezionista e costruttivista ad identificare un mondo giusto, in cui il dissenso sia bandito e l’esistenza appiattita sulla sfera politica. Pelagiana è l’attitudine a pretendere dall’uomo più di quan- to la sua natura possa effettivamente offrire. Pelagiana, infine, è la tendenza a scorgere nel mondo qualcosa da sfruttare, anziché da contemplare e di cui godere. Tre sono, secondo Oakeshott, le caratteristiche fondamentali della politica della fede. In primo luogo, la convinzione che «la perfezione, o la salvezza, sia qualcosa da acquistare in questo mondo; l’uomo può essere redento nella storia. Ed è sulla base di questo elemento che tale modo di

605 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., pp. 166-167. 606 Cfr. G. WORTHINGTON, Michael Oakeshott and the City of God, in Political Theory, vol. 28, 3, 2000, pp. 377-398. 607 M. OAKESHOTT, Introduction to Leviathan (1946) in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 221-294, spec. p. 292.

140 intendere la politica può essere, in maniera rilevante e rivelatrice, definito “pelagiano”608». In se- condo luogo, la persuasione che, affinché tale scopo sia raggiunto, è impossibile affidarsi all’azione individuale, necessariamente disordinata e incostante: «il principale agente del miglioramento, che culmina nella perfezione, è il governo. Pertanto, da ciò discende che l’attività di governo viene con- cepita come forma di controllo e di organizzazione dell’attività umana mirante al raggiungimento della perfezione dell’uomo609». Né il primo né il secondo di questi atteggiamenti sono riscontrabili unicamente nella politica della fede; ma entrambi questi scopi si fondono in essa, e vi compaiono in forma radicalizzata (questo il terzo punto). «Questo stile politico richiede una doppia fiducia: che il potere necessario [per perseguire gli obiettivi prefissati] sia effettivamente disponibile, o possa esse- re creato; e la convinzione che, anche se non sappiamo esattamente in cosa consista la perfezione, conosciamo la strada che ci permette di raggiungerla […]. Nella politica della fede, la decisione e l’impresa politica possono essere concepite come la risposta ad una ispirata intuizione di cosa è il bene pubblico, o la conclusione di un ragionamento razionale; esse sono mai, però, espedienti tem- poranei, o qualcosa che si fa affinché le cose possano procedere regolarmente. Conseguentemente, in virtù di questa interpretazione della politica, le istituzioni del governo non saranno trattate come mezzi che permettono agli eventi di fare il loro corso, né come congegni per implementare decisioni di qualche genere, ma come strumenti per arrivare alla “verità”, per eliminare l’“errore” e fare in modo che tale “verità” prevalga610» «Chiaramente» aggiungeva Oakeshott «appartiene a questo stile politico detenere il potere con soddisfazione, assai più che l’esserne imbarazzati; e nessuna quantità di potere sarà considerata eccessiva […]. In proporzione al potere che avrà a disposizione, l’attività di governo, in questa otti- ca, diverrà puntuale, inquisitoria, priva di indulgenza: la società sarà trasformata in un panopticon e i governanti saranno i guardiani-osserviatori dall’alto (panoverseers)611». Questi ultimi si disinte- resseranno della legalità formale, delle procedure e dei limiti costituzionali, e baderanno soprattutto all’efficace perseguimento dei fini che si sono imposti. Inoltre, «sarà proprio di questo modo di go- vernare, votato al perseguimento della perfezione, a richiedere non mera obbedienza, né sottomis- sione al soggetto, ma approvazione, ed anche amore. Il dissenso e la disobbedienza saranno puniti, non in qualità di condotte turbolente, ma come “errore” e “peccato” […]. Infine, dovere del governo – un dovere che sopravanza tutti gli altri – sarà perseguire l’elevazione morale, il che porterà a con-

608 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, New Haven-London, Yale University Press 1996, p. 23 609 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 24. 610 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 27. 611 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., pp. 28-29.

141 siderare i politici, e i loro collaboratori, come servitori, leader e salvatori della società, tutto nello stesso tempo612» La politica della fede, pur non essendo – come vedremo – l’unico atteggiamento verso la po- litica riscontrabile in età moderna, costituiva comunque, per Oakeshott, una delle concezioni domi- nanti del suo tempo, avendo tratto enorme forza dalla nascita dello Stato moderno, del cui avvento non fu generatrice, ma, tutt’al più, «figlia casuale613». Mentre il Medioevo poteva essere descritto come un’età in cui la società aveva assunto forme policentriche e frammentate, priva di nuclei deci- sionali onnipotenti in grado di dominare un territorio, «l’aver riunito in un solo centro poteri di go- verno estremamente diffusi614» costituì il presupposto storico della diffusione della politica della fede in Occidente. «L’instancabile, inquisitoria, onnipresente mano del governo stava iniziando a poter raggiungere ogni luogo, inducendo i sudditi a ritenere che nulla potesse restare al di là del suo controllo, e spalancando agli scrittori in vena di speculazioni l’immagine di illimitate possibilità fu- ture615». Proprio in quel periodo, lo straordinario sviluppo della tecnologia – nelle comunicazioni, nei sistemi di credito, nella navigazione, nella burocrazia – rendeva ancor più suggestiva la crescita dell’apparato pubblico. «Lo spettacolo di un governo dotato di tanto potere già a sua disposizione, combinato con la previsione di quello che sembrava potesse acquisire, grazie al perfezionamento delle tecniche di controllo e di direzione delle attività umana – perfezionamento che egli stesso po- teva favorire – provocò un gran numero di reazioni616». I sostenitori della politica della fede lo ce- lebrarono «con applausi entusiasti, come l’alba di un una nuova era di felicità, sinora mai ritenuta possibile617». Il primo, grande esponente della nuova tradizione fu Francis Bacon. Diversamente da altri autori che avevano elaborato teorie sulle modalità di impiego del potere – su tutti, Machiavelli – Bacon non proponeva una visione pessimistica della natura umana. Egli teorizzava, al contrario, l’esistenza di un progresso materiale «da perseguire o imporre, che egli intendeva non come una un diritto autoevidente del genere umano, quanto piuttosto come una restaurazione di ciò che l’umanità aveva smarrito dai tempi della Caduta618». Tale progresso poteva essere identificato col benessere. «Bacon fu inspirato dalla capacità, che intravide nella razza umana, di conquistare il proprio “be- nessere” (well-being)619», e ritenne che tale sforzo potesse essere meglio perseguito da un governo inteso come «garante unico della perfezione e primum mobile nell’impresa della salvezza monda-

612 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., pp. 29-30. 613 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., pp. 45-46. 614 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 48. 615 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 49. 616 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 50 617 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., ibidem. 618 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit.,, p. 53. 619 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Sceptcism, op. cit.,, p. 55.

142 na620», anziché dallo spontaneismo individualistico. «In poche parole […], gli scritti di Francis Bacon dimostrano che, anche prima della fine del sedicesimo secolo, il governo aveva acquisito il potere necessario per dar vita alla politica della fede, che in effetti si era posto su questa strada, e che i principi di questo stile politico stavano iniziando a diffondersi: tanto lo stile che la compren- sione di questo stile erano senza dubbio emersi621». Nei secoli successivi, la politica della fede aveva assunto due distinte varianti: una religiosa ed una economicista. La prima, sostiene Oakeshott, «può essere compresa solo nel contesto della storia moderna622», caratterizzata dalla frattura della Res Publica Christiana e dall’affermazione della Riforma. «La politica del puritanesimo inglese apparve inizialmente come una politica di op- posizione; essa si contrapponeva al governo dell’epoca e, in particolare, alla situazione ecclesiasti- ca623». Ben presto, però, gli esponenti più radicali del movimento raggiunsero posizioni molto più estreme: «per costoro, l’attività di governo era in tutto e per tutto l’attività della Grazia che si impo- neva sulla natura, per raggiungere le condizioni identificate con la “Salvezza”624». Pelagiani anch’essi, aspiravano a «stabilire una comunità sacra in cui l’unica distinzione intercorreva fra i santi (chiamati a governare) e i non rigenerati (destinati ad essere governati)625». La seconda, inve- ce, identificava i compiti propri del governo col «dirigere e l’integrare tutte le attività dei soggetti, cosicché esse possano convergere nel perseguimento di una condizione descrivibile come “benesse- re” o “prosperità”, che costituisce il genere di perfezione cui può ambire l’umanità626». Politica del- la fede anch’essa, poiché – al pari del puritanesimo – presupponeva l’esistenza di un fine ultimo oggettivo, raggiungibile razionalmente, alla cui realizzazione ci si poteva opporre solo per motivi di futile egoismo. «La “sicurezza” divenne dapprima salute (Welfare) e quindi “salvezza”; il “lavoro” divenne dapprima diritto, quindi dovere; “tradimento” fu infedeltà rispetto alla morale, ovvero ri- spetto ad un credo religioso; e ogni minima [esigenza] fu ricondotta all’espressione massima ella “libertà al bisogno” e al godimento della felicità, i quali vennero proclamati come diritti627». Ben- ché Oakeshott non faccia alcun nome, è possibile che si riferisca a forme pre-marxiane di egualitari- smo socialista, come quello dei diggers di Winstanley. Terza formulazione – ma Oakeshott dice po- co o nulla a riguardo –, quella dei philosophes illuministi. Giunti a questo punto, va precisato che Oakeshott non respinge la politica della fede in quanto tale – e in ciò si distingue dal giudizio voegeliniano sullo gnosticismo –, quanto piuttosto le

620 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., ibidem. 621 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 56. 622 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 58. 623 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 59. 624 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 60. 625 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., ibidem. 626 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 61. 627 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 63.

143 sue espressioni più estreme, accettate dai più in modo acritico. Ad esse preferisce contrapporre la politica dello scetticismo, i cui numi tutelari sono «Agostino, Pascal, Hobbes, Locke, Halifaz, Hu- me, Burke, Paine, Bentham, Coleridge, Burckhardt, Tocqueville, Acton628». Da costoro il «governo è inteso come un’attività specifica, e in particolare è concepito come disgiunto dal perseguimento della perfezione umana. Da un punto di vista intellettuale, si può pervenire a questa separazione in più modi: o concependo la perfezione umana come qualcosa che non riguarda la sfera mondana, oppure conferendo perseguimento di tale perfezione qualche altra istituzione, distinta dal gover- no629». Ma esso si concilia anche – e non è una precisazione di poco conto, se paragonata al tra- scendentalismo di Voegelin – con il puro e semplice agnosticismo: la convinzione di poter capire poco, ed apprendere poco, riguardo alla natura umana. «La separazione priva l’attività di governo di quella finalità omnicomprensiva (il persegui- mento del bene comune) che è alla base della politica della fede. Il compito del governo, qui, non è quello di calarsi nei panni di architetto, progettando il modo perfetto di vivere, o (come la politica della fede lo intende) di migliorare il modo di vivere, o qualsiasi modo di vivere in tutto e per tut- to630». Anche la politica dello scetticismo aspira a garantire l’esistenza di un ordine, ma quest’ordine è sempre inteso come precario e imperfetto; lo Stato essere caricato di mansioni più o meno estese, essere più o meno forte, ma è sempre e comunque limitato, a cominciare dai fini per cui è istituto. «Partendo, teoreticamente, da un’interpretazione della condotta umana che postula il conflitto, e vedendo che non c’è modo di abolirlo, senza sopprimere molte altre cose allo stesso tempo, lo scettico non è disposto a dimenticare che le cariche di governo sono occupate da uomini della stessa pasta di cui sono fatti i governati – uomini, cioè, sempre pronti, allorché giungono al potere, ad andare oltre i propri compiti e imporre alla comunità “un ordine” particolarmente favore- vole ai loro interessi o (per un eccesso di generosità e di ambizione) a stabilire qualcosa che va mol- to al di là dell’ordine. Ed è per questa ragione, appunto, che la politica dello scetticismo tende a centellinare la quota di potere conferita al governo631» Lo scettico non pensa che la discussione sia necessaria per dimostrare la verità, bensì che rappresenti un’occasione per valutare molteplici aspetti che tendono ad essere dimenticati o frainte- si; ritiene che esistano attività più ricche, e più complesse, della politica, e che – infine – «il gover- nare non è proprio nulla di entusiasmante, e che non spetta al governo chiedere entusiasmo per i suoi servizi. I governanti vanno onorati e rispettati, ma non tenuti in alta considerazione: e la loro

628 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 129. 629 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit.,, p. 31. 630 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 32. 631 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 33.

144 principale virtù sarà il non pretendere di possedere un’abilità divina nel dirigere l’attività dei gover- nati – dis te minorem quod geris imperas632» «La storia moderna (con riferimento all’attività di governo)» scrive ancora Oakeshott, «è una con- cordia discors di questi due stili: e credo che quelli scorgono il trionfo della fede nel fallimento del- lo scetticismo, o il trionfo dello scetticismo nel collasso della fede, siano in errore633». Ma se è vero che la cultura politica europea trae alimento e vitalità da questi poli, e ognuno di essi, preso singo- larmente, si rivelerebbe «autodistruttivo634», sarebbe erroneo collocare Oakeshott in una posizione di equidistanza da entrambe. Le sue simpatie vanno chiaramente alla sceptical politics. Proprio co- me la costruzione della Torre di Babele, la politica della fede ha qualcosa di «empio635». L’insegnamento dell’apologo biblico consiste, appunto, nella messa in guardia contro «una forma di vita morale che è pericolosa per l’individuo e disastrosa per la società. Per l’individuo, è un azzardo che può portare una ricompensa quando i limiti di una società, che non è parte dello stesso azzardo, vengono superati; per la società, è una mera follia636».

VI. Gli spazi perduti della politica: balzo nell’essere e conversazione

Abbiamo sin qui ripercorso alcune tappe nella riflessione di Eric Voegelin e Michael Oake- shott, concentrandoci su snodi rilevanti. In principio, abbiamo evidenziato la critica mossa da en- trambi alle pretese totalizzanti della metodologia positivistica. In secondo luogo, ci siamo concen- trati sul problema della rappresentanza, che tanto Voegelin quanto Oakeshott impostano in modo differente rispetto al mainstream liberale e progressista. Successivamente abbiamo indagato la loro contestazione del razionalismo, focalizzandoci sulla sua variante liberale. Il nostro sguardo si è infi- ne allargato allo gnosticismo e alla politica della fede, le forme più estreme cui è pervenuto un certo filone della tradizione intellettuale moderna. Resta da chiedersi, una volta esaurita la disanima della pars destruens antirazionalistica: esi- ste una pars costruens nella filosofia di Voegelin e Oakeshott? Quale spazio, in particolare, essi in- tendono conferire alla politica? Essa manterrebbe la predominanza che il razionalismo “gnostico” le ha conferito? Ovvero verrebbe sopravanzata da forme differenti di azione o di condotta? Non è nostra intenzione, in questa sede, offrire una risposta esaustiva ad un quesito tanto complesso, che ha attirato l’attenzione di numerosi studiosi. Gianfranco Zanetti ha ad esempio rile- vato che «la nozione di ordine, in Voegelin, è tutta giudicata sul rischio, sull’incertezza,

632 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepiticism, op. cit., p. 38. 633 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 30. 634 M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 113. 635 M. OAKESHOTT, The Tower of Babel (1948), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 465-487, spec. p. 466. 636 M. OAKESHOTT, The Tower of Babel (1948), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 465-487, spec. pp. 476-477.

145 sull’impossibilità di qualsiasi progetto politico “forte”637». E Luigi Franco si è spinto oltre, soste- nendo che «sembra difficile poter attribuire a Voegelin l’intenzione di costruire un orizzonte anche solamente critico-normativo, dal momento che il cuore del suo discorso mette capo al nocciolo filo- sofico che sta al centro di ogni esperienza638». Parimenti, Elizabeth C. Corey ha sottolineato che «Oakeshott intende la politica come un’attività che non guida, ma segue639». E Michael Freeden ha affermato che «respingendo la possibilità di elevarsi al di sopra del concreto e del particolare, Oake- shott rinuncia ad applicare una facoltà critica esterna, in particolare la possibilità di utilizzare fram- menti di esperienza per ricombinarli in un modello esortativo differente640». Ciò che possiamo fare, invece, è richiamare l’attenzione su due elementi, presenti negli scrit- ti di Voegelin e Oakeshott, che lasciano intravedere nuovi “spazi politici” in senso lato, nuovi ambi- ti in cui individuo e comunità possano recuperare un momento di interazione e di (precario) equili- brio. Voegelin definisce «salto nell’essere» (leap in being) il momento in cui un individuo fa e- sperienza diretta della trascendenza. È stato giustamente scritto: «La coscienza, di fronte agli irrigi- dimenti e ai simboli ossificati che ipostatizzano surrettiziamente la tensione dell’anima verso il fon- damento trascendente che la ordina, può attingere in se stessa una più alta comprensione della tra- scendente fonte dell’ordine. È questa la chance che Voegelin concede all’uomo sul piano esistenzia- le, ciò che lo rende più propriamente umano: nella profondità dell’anima giace in qualche modo la possibilità di rimettere tutto in discussione, di rinnovare la radicalità della questione del fondamento e di rivendicare per la propria più differenziata comprensione un maggior grado di luminosità e tra- sparenza641». Ma questa esperienza, lungi dall’essere meramente individuale, può coinvolgere interi popoli. Voegelin così interpreta l’Esodo israelitico dall’Egitto alla Terra Promessa, o il viaggio in- trapreso dai pellegrini olandesi ed inglesi verso il Nuovo Mondo642. Del tutto analogo, del resto, è l’impatto della filosofia socratica sull’ordine della polis: una radicale ridiscussione delle pratiche quotidiane di vita. «Voegelin chiarisce che, col termine esodo, intende “un movimento del cuore”. Il nuovo stato di esistenza, il volgere le spalle al mondo, crea una tensione fra l’ordine socio-politico esistente e l’anima trasformata, e spesso questa tensione induce a una fuoriuscita (exodus) dall’ordine esistente643».

637 G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., p. 93. 638 L. FRANCO, Storia e politica nella riflessione di Eric Voegelin, in R. RANCINARO (a cura di), Ordine e Storia in Eric Voegelin, op cit, p. 143-166, spec. p. 161. 639 E. C. COREY, Michael Oakeshott on Religion, Aesthetics, and Politics, op. cit., p. 156. 640 M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory: A Conceptual Approach, Oxford, Clarendon Press 1996, tr. it. Ideolo- gie e teoria politica, Bologna, Il Mulino 2000, p. 414. 641 Cfr. G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., pp. 70-71. 642 Cfr. E. VOEGELIN, Order and History, vol I: Israel and Revelation, Louisiana State University Press 1956. 643 M. FEDERICI, Eric Voegelin: the Restoration of Order, op. cit., p. 157.

146 Si travisa però la natura del leap in being se lo si intende come un programma d’azione, un insieme di proposizioni normative vincolanti. Il leap in being è l’opposto delle imposture intellet- tuali gnostiche, perché non cristallizza il problema dell’ordine, non imprigiona l’umanità in una simbologia perpetua, non sbarra la strada a nuove aperture verso l’essere. «L’esodo è il tempo del rinnovamento, della rigenerazione spirituale che radicalizza nuovamente la questione del fondamen- to perfezionandone la valenza differenziante644». Non esisterà mai, rileva ancora Zanetti, un leap in being definitivo, una manifestazione storicamente determinata dell’Essere che precluda alla co- scienza nuove esplorazioni, destinate a riflettere in nuove articolazioni sociali. «L’esodo non può mai, perciò, offrire soluzioni belle e pronte al problema dell’ordine politico; non è un pacchetto di informazioni sistematiche né un progetto di fondazione. L’esodo, al contrario, consta ad ogni suo verificarsi dell’impossibilità storica di una fondazione politica in senso stretto645». Tutto ciò avvicina, e molto, la filosofia di Voegelin al misticismo. Vena, questa, che si ma- nifesterà in tutta la sua forza nell’ultimo volume di Order and History e in Anamnesis646. A riguar- do, vale la pena di riferire l’opinione di Ellis Sandoz, suo allievo ed amico: «Fu Eric Voegelin uno scienziato fin dentro al midollo? Sì. Fu un filosofico mistico in tutta la sua opera, dagli anni ’20 si- no alla fine dei suoi giorni. Sì – come ha dichiarato lui stesso sul finire degli anni ’60. Si può con- temporaneamente essere sia filosofi mistici che scienziati politici, nel senso filosofico che Platone e Aristotele hanno conferito [a queste espressioni] nell’antichità classica? Sì, e questa fu la posizione di Voegelin per come io la intendo, così come penso la intendesse lui, e come ho tentato di esporla negli studi che gli ho dedicato647». E ha aggiunto: «L’atteggiamento di Voegelin alla fine dei suoi giorni è quello di un uomo che vive in una condizione di “apertura reattiva” (responsive openness) al richiamo divino. Ritiene che la sfida non riguardi Dio, ma la verità dell’esistenza umana, nella quale il ruolo persuasivo del filosofo non è mutato sin dall’antichità: quello di insistente difensore della realtà – provata (experienced) nella propagazione della verità esistenziale. Questa è la vera vocazione dello studioso. Ammesso possa esistere una “risposta” alla domanda che si pone colui che medita senza fine, essa può essere trovata nell’esistenza di un’Unità (Oneness) divina, oltre la pluralità degli Dei e delle cose. Alla fine della lunga battaglia, Voegelin [comprende che] la Realtà provata-simboleggiata (experienced-symbolized) è un’unità misteriosa, ordinata e disordinata nel contempo, che si pone in stato di tensione, diretta verso la perfezione del suo Oltre (Beyond) – non verso un sistema648».

644 G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., p. 78. 645 G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., ibidem. 646 Cfr. M. P. MORISSEY, Consciousness and Trascendence: the Theology of Eric Voegelin, Notre Dame-London, Uni- versity of Notre Dame Press 1994. 647 E. SANDOZ, Republicanism, Religion and the Soul of America, Columbia, University of Missouri Press 2006, p. 157. 648 E. SANDOZ, Republicanism, Religion and the Soul of America, op. cit., p. 169.

147 Ciò che ci interessa rimarcare, in questa sede, è che l’esperienza mistica non solo ha – sia pure indirettamente – ricadute politiche, ma abbraccia una pluralità di esperienze gnoseologiche. «Nell’esperienza dell’amore per l’origine dell’essere che trascende il mondo, nell’amore (philia) per ciò che è saggio (sophon), nell’amore (eros) verso il buono (agathon) ed il bello (kalon), l’uomo diventa filosofo. Da queste esperienze emerge l’immagine dell’ordine dell’essere. All’aprirsi dell’anima – questa è la metafora che Bergson usa per descrivere l’evento – l’ordine diviene visibile anche nel suo Fondamento e nella sua origine, nell’Oltre (Beyond), la platonica epekeina, a cui l’anima partecipa, soffre e conquista la propria apertura649». Senza spingerci oltre, non fosse altro per le ambiguità che l’ermetica prosa voegeliniana reca con sé, possiamo comunque notare che il leap in being è anche un’esperienza estetica. Questa sfumatura è stata ben colta da Gianfranco La- mi. Egli cita un passo dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis: «“Io non so, ma mi sembra che ci sia- no due vie verso la conoscenza della storia umana. L’una, la via dell’esperienza, difficile e stermi- nata, con infinite incurvature; l’altra, un salto soltanto, la via dell’osservazione interna. Il viandante della prima deve ricavare una cosa dall’altra con penosi calcoli, mentre l’altro può osservare, con uguale immediatezza, la natura di ogni avvenimento e di ogni osa, considerarla nei suoi vari rappor- ti virtuali, e paragonarla con tutto il resto, come figure su una tavola650». E commenta: «Non so se Voegelin conoscesse espressamente l’Enrico di Novalis, pure è certo che l’analogia, non solo dal punto di vista dei concetti, ma anche dal punto di vista delle parole impiegate, risulta impressionan- te. Ebbene, senza cadere nella banalità di una identificazione, che farebbe di Voegelin una specie di epigono del romanticismo tedesco di inizio secolo verrebbe la voglia di proseguire il confronto, solo perché incuriositi dalla definizione che i “mercanti” indirizzano alla volta del suo interlocutore: En- rico è un “poeta”. Il suo modo di ragionare è “poesia”, e “poetico” il suo atteggiarsi a fronte del mondo651». Questo elemento ci conduce a Oakeshott, che proprio alla dimensione estetica si rivolge per elaborare una visione della vita civile alternativa a quella razionalistica. Timothy Fuller, uno degli interpreti più sottili ed empatici del suo pensiero, ne ha riassunto l’intera filosofia con la formula «la poetica della vita civile652». E perché proprio la poetica? Perché è nelle arti che l’uomo può risco- prire il valore dell’individualità, ma anche della riflessione non teleologica, della meditazione, dell’incertezza. In Experience and its Model, del 1933, Oakeshott accosta religione ed estetica. Non considerando – come invece farà in seguito – la vita pratica come una forma deteriore di esistenza,

649 E. VOEGELIN, Science, Politics and Gnosticism (1a ed. 1959), in Science, Politics and Gnosticism, op. cit.,, pp. 13- 14. 650 G. LAMI, Introduzione, in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 5-45, spec. p. 14. 651 G. LAMI, Introduzione, in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 5-45, ibidem. 652 T. FULLER, The Poetics of Civil Life, in J. NORMAN, The Achievement of Michael Oakeshott, London, Duckworth 1993, pp. 67-81.

148 ma riconoscendole la stessa dignità della scienza o della filosofia653, suggerisce che «la forma più profonda e positiva di vita pratica è quella dell’artista o del mistico654». Oakeshott «colloca se stes- so nella rispettabile tradizione filosofica moderna che vede nel “disinteresse” la caratteristica cen- trale dell’esperienza estetica […]. Per Oakeshott la poesia è un genere di attività disinteressata655», così come lo sono la musica, o la conversazione. E appunto a quest’ultimo tema è dedicato il saggio The Voice of Conversation in the Education of Mankind, del 1948. «Le persone dicono che la vita è una cosa; ma io preferisco concepirla come una conversa- zione. La conversazione è in fondo un’arte, la più civilizzata e la più civilizzatrice delle arti - com- parabile soltanto quella a culinaria. L’arte culinaria non nacque né per caso (come Charles Lamb sembra ritenere), né (come ci dicono gli antropologi) come rito di purificazione primitiva; è iniziata quando il piacere (non il mero nutrimento) è stato associato al mangiare, ossia quando si iniziò a mangiare per il gusto di mangiare. E la conversazione fiorisce appunto dal senso di piacere che si ha nel parlare. Essa si manifesta ogni qualvolta uno indulge nel parlare per il gusto di farlo, senza ulte- riori motivi, ed essendosi emancipato dalla servitù di dover attendere, per farlo, un soggetto appro- priato, un maestro, o anche un’occasione656». Se, per Voegelin, è la trascendenza a sottrarre il filo- sofo dai pericoli della “vita inautentica”, Oakeshott scorge nella conversazione una dimensione esi- stenziale di gratuità estrema, del tutto scevra da interessi materiali. «L’arte della conversazione si basa sull’’accettazione della convenzione secondo cui parlare non significa né ricercare una verità, né propagandare un credo, ma realizzare un’unione (partnership) nel piacere intellettuale657». La conversazione è un viaggio avventuroso, ma privo di meta; non prevede che alcuni siano sconfitti né che alcuni vincano; non è del tutto ironica, né completamente seria. «L’obiettivo non è persuade- re, o convincere, non piegare un rivale col ragionamento, o tramite l’eloquenza; non è informare o migliorare, ma – semplicemente parlare in un modo tale per cui ciò che viene detto spinge a parlare di qualcos’altro658». Al buon conversatore manca il desiderio di dominare gli altri; non c’è pensiero che provi la validità di alcunché, nessuna tesi da dimostrare, nessun piano da seguire. La conversa- zione ha successo se chi la pratica ha successo nel «mantenere questo delicato aereo equilibrio, mantenendo in vita qualcosa che, miracolosamente, ha visto la luce659».

653 Cfr. cap. IV par. II del presente lavoro. 654 Cfr. M. OAKESHOTT, Experience and Its Models, op. cit., p. 296. 655 Cfr. E. PODOKSIK, The Voice of Poetry in the Thought of Michael Oakeshott, in The Journal of History of Ideas, vol. 63, n. 4, 2002, pp. 717-733, spec. p. 726. 656 M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Es- says, op. cit., pp. 187-200, spec. p. 187. 657 M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Es- says, op. cit., pp. 187-200, spec., p. 188. 658 M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Es- says, op. cit., pp. 187-200, spec. p. 190. 659 M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Es- says, op. cit., pp. 187-200, spec., ibidem.

149 Proprio come la trascendenza voegeliniana, la conversazione ha un effetto dirompente sulle certezze granitiche, i simboli consuetudinari. Nella conversazione scompaiono i “fatti”, intesi come oggetti statici e chiusi in sé stessi, poiché«l’arte della conversazione è precisamente un’arte della dissoluzione; essa disintegra le forme fisse che gli uomini pratici hanno imposto al mondo e rivela ciò che avvicina cose apparentemente distanti l’una dall’altra660». Oakeshott si richiama ad autore caro a Voegelin, Aristotele, per fissare il numero ideale di partecipanti – cinque – per dedicarsi a questa attività. Essa è sì sociale, ma, nel contempo, riflette predisposizioni individuabili nel singolo. «La conversazione è meramente la voce dell’anima naturaliter conversationalis. E coloro che sono disposti a parlare secondo i canoni della conversazione useranno la voce della conservazione quan- do saranno soli, o quando parleranno unicamente a se stessi»661. Il campo che più di ogni altro può trarre beneficio dalle virtù della conversazione è, appunto, la politica. E qui torna, prepotentemente, il tema già affrontato nel par. III: la degenerazione della rappresentanza. «La politica democratica è stata pervertita e portata in rovina dall’averla identificata con il potere del popolo, il governo della maggioranza, la propagazione di una fede dogmatica ed il perseguimento di un modo di vivere da imporre egualmente a tutti gli uomini662». Eppure la tradi- zione britannica, immune da quel razionalismo che Oakeshott paragona ad una forma di ubriachez- za, ci offre un’immagine diversa dell’esistenza rettamente vissuta. «Tutta la vita è necessariamente imperfetta; è piena di opportunità, ma povera di certezza. La politica della conversazione è la sola a riconoscere questa necessaria imperfezione. È la politica che, in tempi grami, fa meno danno di qua- lunque altra, avendo risorse interne sue proprie che la tengono lontana da impegni irreparabili. È il solo stile politico che riconosce, in modo univoco, che governanti e governati non sono né dei, né eroi, ma uomini mortali in un mondo di uomini mortali663». Ed ecco che la conversazione, da passa- tempo, assurge a vera e proprio stile di vita: il solo stile “civile” che «accetta le condizioni inevita- bili della vita umana e ne tira fuori il meglio664». Se l’alternativa all’ingegnere razionalista risiede, per Voegelin, nel mistico, nel “poeta”, nel pensatore, Oakeshott opta per la figura del conversatore. Pur con notevoli differenze, mistico e con- versatore condividono alcune somiglianze non superficiali. Non hanno verità a portata di mano da diffondere, né società perfette da edificare. Non ritengono la ragione umana uno strumento autosuf-

660 M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Es- says, op. cit., pp. 187-200, spec. p. 192. 661 M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Es- says, op. cit., pp. 187-200, spec. p. 193. 662 M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Es- says, op. cit., pp. 187-200, spec. pp. 194-195. 663 M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Es- says, op. cit., pp. 187-200, spec, p. 196. 664 M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Es- says, op. cit., pp. 187-200, spec, p. 198.

150 ficiente con cui orientarsi nel reale. Partecipano ad un flusso di eventi che non possono, né intendo- no padroneggiare appieno. Considerano i sistemi chiusi come una paralisi del pensiero. Rigettano come materialista le interpretazioni utilitaristiche dell’azione individuale. Hanno un atteggiamento critico verso la modernità, che – almeno in parte – identificano con un tentativo di alterare i caratteri più profondi della natura umana. Sono antiutopisti. Accettano la democrazia liberale, ma ne scorgo- no i fraintendimenti e le debolezze. La loro percezione dell’universo è caratterizzata da un senso di incertezza; la condotta umana sempre segnata dalla consapevolezza del limite. La filosofia di Voegelin e Oakeshott non può essere definita «politica» in senso stretto, ep- pure è densa di implicazioni politiche, poiché frontalmente configge con le modalità più diffuse con cui la politica è stata teorizzata e praticata in Occidente nel secolo XX.

VII. Epilogo: un breve incontro

«Il professor Voegelin, della Louisiana, non è il genere di scrittore che si guarda spesso at- torno, per capire se i suoi lettori stanno al passo con lui. Tiene un passo celere, e ignora le grida “a- spettami!” che provengono da molti dei suoi compagni di viaggio. Per di più, è sempre in movimen- to; se uno resta per un momento all’ombra della sua saggezza, appena rialza lo sguardo si rende conto di non vederlo più. E, inoltre, ha la sconcertante abitudine di puntare una strada per poi per- correrne un’altra665». Inizia così, fra sottile ironia e sottesa ammirazione, la recensione che Michael Oakeshott dedicò a The New Science of Politics di Eric Voegelin. Questo breve scritto, di per sé non molto significativo, merita comunque di essere citato, poiché fu l’unica occasione in cui uno dei due studiosi commentò un’opera dell’altro. Oakeshott non esita a definire il testo, pur riscontrandovi alcuni limite, «uno dei più illumi- nanti saggi sul carattere della politica europea che sia apparso nell’ultimo mezzo secolo666». L’apprezzamento è indicativo. Proseguendo nella lettura, tuttavia, è percepibile un velato scettici- smo, soprattutto nei confronti delle implicazioni radicali che la difesa voegeliniana della trascen- denza porta con sé. Agli occhi di Oakeshott, la tesi della ridivinizzazione della politica come rea- zione al cristianesimo, «posta in modo così grezzo, può apparire implausibile667». Essa, inoltre, sot- tovaluta l’incidenza delle contingenze storiche sul pensiero filosofico. Tuttavia, ammette Oakeshott,

665 M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234, spec, p. 229. 666 M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234, spec, ibidem. 667 M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234, spec, p. 232.

151 «nei capitoli centrali, [Voegelin] spiega il processo in modo tale da risultare convincente668». Ma il vero punto critico è un altro, già fugacemente emerso nell’analisi comparata svolta sin qui: il diver- so atteggiamento nei confronti della tradizione. Secondo Oakeshott, il vero limite di Voegelin consiste nella «sottovalutazione dello sforzo e nella vitalità di quello che, nella storia moderna cristiana, può essere definito neo-agostinismo poli- tico669», ossia del pessimismo antropologico alla base della politica dello scetticismo670. Questo fi- lone non si è esaurito; sopravvive e può vanificare, o quantomeno arginare l’entusiasmo dei razio- nalisti. Per Oakeshott, apprezzare pienamente il presente è possibile soltanto se si guarda con defe- renza al passato: e ciò vale sia per i costumi ed i modi di agire, sia per la riflessione politica. Ma ciò che Voegelin non desidera, appunto, è ancorare la propria filosofia a qualche elabo- razione teorica preesistente671. Non deve stupire che Hume – il grande scettico, cui Oakeshott, in modo più o meno esplicito, sovente si richiama672 – sia, agli occhi di Voegelin, “conservatore” nel senso deteriore del termine: un difensore dello status quo, che idealizza la società dell’epoca pur rendendosi conto che ciò «è equivalente a un’assenza di princìpi673». La ricerca dell’ordine è un processo sempiterno, mai concluso, che impone sforzi teoretici inediti, nuovi674. Ecco perché la fi- losofia di Voegelin è – almeno in parte – destinata a confliggere con quella di Oakeshott, così come con quella di ogni pensatore che tenda ad identificarsi con forme di pensiero già affermatesi stori- camente.675. Come gli scrisse, in una lettera privata, Leo Strauss: «Detta in una frase: io credo che la filosofia, in senso platonico, sia possibile e necessaria – mentre tu credi che la filosofia così con- cepita sia resa obsoleta dalla rivelazione676». Ciò che vale per Platone, vale per qualunque altro filo-

668 M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234, spec, ibidem. 669 M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234, spec, ibidem. 670 Cfr. cap. IV par. V del presente scritto. 671 Ha suggerito Dario Caroniti, cercando di spiegare il disinteresse di Voegelin per la figura di Burke, che esso deriva dalla scelta «di fondare il proprio credo conservatore su determinati aspetti della cultura occidentale e non sulle partico- lari strutture politiche e sociali che in un dato momento si sono affermate» (D. CARONITI, Introduzione a E. VOEGELIN, Dall’Illuminismo alla Rivoluzione, Roma, Gangemi 2005, pp. 7-32, spec. p. 27). 672 Cfr. W. J. COATS, JR., Oakeshott and His Contemporaries: Montaigne, St. Augustine, Hegel, et al., Selinsgrove, Sus- quehanna University Press 2000, pp. 89-102. 673 E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VII: Revolution and the New Science, Columbia, Missouri University Press 1999, cit. in M. FEDERICI, Eric Voegelin: The Restoration of Order, op. cit., p. 152. 674 E ciò vale sia per il contenuto, sia per il metodo. Ha notato Gianfranco Lami: «come è consentito accedere all’uno metafisico attraverso i sentieri non segnati dalla esperienza del trascendente di una Chiesa, così la singola via può illu- minarsi per chi ha occhi sufficientemente penetranti. Del resto, non esiste grazia che non debba venir aiutata indivi- dualmente. Anzi, su questo punto le insistenze di Voegelin si fanno chiarificatrici e prescinderne significherebbe non comprendere a pieno il messaggio della sua ontologia» (G. LAMI, Introduzione a Eric Voegelin: dal mito teo- cosmogonico al sensorio della trascendenza: la ragione degli antichi e la ragione dei moderni, Milano, Giuffré 1993, p. 247). 675 Rileva Federici: «la vera risposta al rivoluzionario e al radicale non è, suggerisce Voegelin, la dottrina giusta, ma l’anima ordinata in modo giusto» (M. FEDERICI, Eric Voegelin: The Restoration of Order, op. cit., p. 153). 676 Citato in E. SANDOZ, Republicanism, Religion and the Soul of America, op. cit., p. 134.

152 sofo: il sensorio della trascendenza è sempre attivo, e il salto nell’essere sempre possibile. È questa opportunità, per Voegelin, a garantire l’esistenza di una «società aperta677».

V. Conclusione Il conservatorismo fra difesa e reazione

Margareth Thatcher sopportava a fatica gli argomenti in difesa della tradizione e del cambiamento graduale, e a- veva scarsissimo rispetto per le venerabili istituzioni che le si contrapponevano. Il parlamentare conservatore Ju- lian Critchley disse di lei una volta che non poteva con- cepire un’istituzione senza desiderare di colpirla con la sua borsetta.

Ian Adams, Ideology and Politics in Britain Today, 1998678

La madre di Reagan educò il figlio ad una variante parti- colarmente rigida del protestantesimo […]. Quando cor- se per la Presidenza, [Reagan] mescolò la teologia cri- stiana conservatrice con gli attacchi allo statalismo. Se questa visione religiosa e politica era indigesta a molti americani, per milioni di essi dava invece voce ai valori e alle convinzioni immutabili dell’America, che risaliva- no ai Padri Fondatori.

David Lynn Holmes, The Faith of the Founding Fathers, 2006679

I. Preservare o rifondare?

In una conferenza del 1956, Michael Oakeshott mise a fuoco le caratteristiche di fondo del conservatorismo, giudicandolo – prima ancora che un insieme di princìpi e di idee coerenti – una «disposizione680». Proprio della mentalità conservatrice è «preferire il familiare all’ignoto, il prova- to al non provato, il fatto al mistero, l’attuale al possibile, il limitato all’illimitato, il vicino al distan- te, il sufficiente al sovrabbondante, il conveniente al perfetto, la risata dell’oggi alla felicità dell’utopia681». Quest’approccio alla vita – destinato ad avere, come vedremo, conseguenze anche sul piano politico – può derivare da una scelta consapevole, ovvero da una propensione «che si ma-

677 E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections , Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Auto- biografiche, Milano, Giuffré 1993, p. 177-185. 678 I. ADAMS, Ideology and Politics in Britain Today, Manchester, Manchester University Press 1998, p. 82. 679 D. L HOLMES, The Faith of the Founding Fathers, Oxford-New York, Oxford University Press 2006, p. 175. 680 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, Indianapolis, Liberty Fund 1991, p. 407. 681 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 408.

153 nifesta, in modo più o meno frequente, nelle preferenze e nelle avversioni, e non è scelta, né coltiva- ta in modo specifico682». Suo malgrado, il conservatore è perennemente costretto a convivere col cambiamento; la sua indole, nondimeno, lo induce a non accettare il mutamento indiscriminato, o le trasformazioni radi- cali. Egli è incline «ad apprezzare ciò che è presente e disponibile683», poiché prova attaccamento ed affetto verso ciò che già conosce. Quando cambiare significa rompere con la tradizione, il con- servatore soffre per ciò che viene sacrificato, «non perché quel che è andato perduto fosse intrinse- camente migliore di ogni ipotesi di miglioramento, né perché ciò che l’ha rimpiazzato sia incapace di dargli gioia, ma perché quel che è andato perduto è qualcosa che già gli piaceva, che aveva già imparato ad apprezzare, ed egli non avverte alcun legame con ciò che lo ha sostituito684». Con ciò, il conservatore non parteggia per l’immobilismo assoluto; tiene però un atteggia- mento prudente, critico verso ciò che è nuovo. A turbarlo non è mai la stabilità, quanto piuttosto l’ipotesi di uno stravolgimento improvviso. Poiché innovare senza migliorare è follia, i progressi potenziali vanno verificati e soppesati con cura. I cambiamenti circoscritti sono preferibili ai cam- biamenti drastici; le perdite devono sempre superare i vantaggi. «Qualunque sia l’innovazione, si può star certi che il cambiamento sarà più ampio di quanto si credesse; vi sarà allora perdita, così come guadagno; e perdite e guadagni non saranno equamente distribuiti fra le persone coinvolte. C’è la possibilità che i benefici derivati siano più grandi di quelli calcolati; ma c’è anche il rischio che portino al peggio685». Essere conservatori significa prediligere il conosciuto all’ignoto, operare con cautela al co- spetto del pericolo, anche se ciò urta con la mentalità corrente. «C’è un pregiudizio favorevole ver- so ciò che non è stato ancora tentato. Facilmente presumiamo che ogni cambiamento, in qualche modo, porti al meglio, e ci lasciamo convincere facilmente che tutte le conseguenze della nostra at- tività di innovatori siano di per sé miglioramenti, o – quantomeno – un ragionevole prezzo da paga- re per ciò che desideriamo686». È questo pregiudizio che induce a guardare alle antiche credenze morali e religiose come a motociclette ed apparecchi televisivi oramai antiquati: «l’occhio si con- centra sempre sul nuovo modello687». Al contrario, secondo Oakeshott, vi sono «circostanze in cui una disposizione [conservatri- ce] rimane non appropriata, ma assolutamente appropriata688» e relazioni del tutto conformi alla sensibilità conservatrice, nei loro tratti fondamentali. Fra queste ultime possono essere annoverati

682 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 409. 683 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., ibidem. 684 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 409-410. 685 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 411. 686 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 414. 687 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., ibidem. 688 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 415.

154 tutti i rapporti «che trovano la loro ragione in se stessi, che danno piacere per ciò che sono e non per quel che offrono689»: l’amicizia, il cameratismo, la conversazione. Simili forme di interazione non si basano sul do ut des, in vista del raggiungimento di un fine; esse, al contrario, si reggono sulla condivisione di esperienze, sulla partecipazione emotiva, sul senso di soddisfazione che origina la presenza dell’altro. Più in generale, «quando la stabilità è più vantaggiosa del miglioramento, quan- do la certezza ha più valore della speculazione, quando un errore condiviso è superiore ad una verità controversa, quando il male è più tollerabile della cura, quando soddisfare le aspettative è più im- portante del fatto che esse siano o non siano giuste, quando una regola di qualche sorta è preferibile al rischio di non averne alcuna, la disposizione ad essere conservatori è appropriata più di ogni al- tra; e, in base a qualsiasi disamina della condotta umana, queste situazioni si verificano in un nume- ro non trascurabile di circostanze690». Politicamente, il conservatorismo consiste nel trasferimento di questa sensibilità – prudente, scettica, refrattaria a rapporti dettati da ragioni meramente utilitaristiche o strumentali – dalla sfera privata alla sfera pubblica. «Io non credo che [il conservatorismo] abbia a che fare con particolari convinzioni sull’universo, sul mondo, o sulla condotta umana in generale. Esso è legato, al contra- rio, a certe convinzioni relative all’attività del governare e agli strumenti di governo […]. Non ha nulla a che vedere con la legge naturale o l’ordine provvidenziale, nulla da spartire con la morale o con la religione; consiste nell’osservazione del nostro corrente modo di vivere, combinato alla con- vizione […] che governare è un’attività specifica e limitata, consistente nella salvaguardia e nella custodia di regole generali di condotta, intese non come piani imposti per azioni specifiche, bensì come strumenti che permettono alle persone di svolgere, con il minimo della frustrazione, le attività che decidono di intraprendere691». L’idea che compito dello Stato sia custodire regole maturate dall’esperienza, applicandole in modo quanto più rigoroso e imparziale, rappresenta, per Oakeshott, il nucleo duro della conservati- ve politics. «Compito del governo non è imporre convinzioni o attività a coloro che sono sottoposti ad esso, né educarli, né renderli migliori da qualche punto di vista; non galvanizzarli in vista dell’azione, e tanto meno indurli a coordinare le loro attività in modo che non sorga alcun conflitto. Compito del governo è meramente regnare (to rule). Questa è un’attività specifica e limitata, che facilmente si corrompe quando viene combinata con qualche altra, ma che, nelle presenti circostan- ze, resta indispensabile692». Ciò non significa rendere il governo impotente, o sottovalutarne l’importanza: il suo ruolo consiste nel «risolvere alcuni dei contrasti scaturiti dalle diverse convin-

689 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit.,, p. 416. 690 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 418. 691 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 423-424. 692 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 427.

155 zioni e attività; nel mantenere la pace693», non sopprimendo la diversità e il pluralismo, bensì of- frendo un quadro giuridico di riferimento (vinculum juris) in cui pratiche diverse, svolte con fini di- versi, possano civilmente coesistere. E quando le regole di condotta, salvaguardate dallo Stato, necessiteranno di modifiche, «il conservatore non avrà nulla a che spartire con innovazioni progettate per situazioni meramente ipo- tetiche; egli preferirà imporre (enforce) una regola di cui già dispone, piuttosto che crearne una nuova; penserà che è opportuno ritardare la modifica delle regole se sarà chiaro che il cambiamento non sarà momentaneo; sarà sospettoso dei propositi di cambiamento più ampi di quanto la situazio- ne richieda; diffiderà della richiesta, da parte dei governanti, di poteri straordinari per realizzare grandi mutamenti, e di quei proclami generali che si richiamano al “bene pubblico” o alla “sicurez- za sociale” […]. In parole povere, egli sarà incline a concepire la politica come un’attività i cui pre- ziosi attrezzi vengono sostituiti poco a poco, nel tempo, e non come un’occasione di stravolgere o- gni volta, in modo perpetuo, l’intero equipaggiamento694». Il conservatorismo di cui scrive Oakeshott – che, per inciso, non sta ricostruendo in modo asettico un paradigma filosofico, bensì dando voce alla propria concezione filosofico-politica – può, entro certi limiti, essere ricondotto al tradizionalismo695: in base a tale visione, esistono regole di condotta, scaturenti dalla pratica, che le istituzioni pubbliche sono chiamate a riconoscere e salva- guardare; essere conservatori significa arginare la pretesa di alterare o di negare l’esistenza di tali regole da parte dei razionalisti (che vorrebbero introdurne di nuove). Ma che fare quando una tradizione è stata pesantemente intaccata, e sostituita da un nuovo corpus teorico? Che fare quando le stesse categorie del discorso politico sono state corrotte da for- me distorte di pensiero, manipolate dai demolitori della tradizione intellettuale pre-esistente? Questa è la condizione in cui si trovò ad operare Eric Voegelin, nell’America positivista de- gli anni ’50. «Lo gnosticismo non domina assolutamente e incontrastato il campo», scriveva in con- clusione a The New Science of Politics, poiché andava tenuto presente «che la tradizione classica e cristiana della società occidentale è ancora viva; che l’emergere di una resistenza spirituale e intel- lettuale contro lo gnosticismo in tutte le sue varianti è un fattore importante nella nostra società; che la ricostruzione di una scienza dell’uomo e della società è uno degli eventi più importanti dell’ultimo mezzo secolo e, considerata retrospettivamente, potrà forse apparire in futuro come l’evento più importante del nostro tempo696».

693 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 428. 694 M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 431. 695 Cfr. R. STAAL, The Irony of Modern Conservatism, in International Political Science Review, vol. 8, n. 4, 1987, pp. 343-353; C. COWELL, The Redefinition of Conservatism, Houndmills, MacMillan 1986, p. 114 J. AGASSI, Science and Culture, Dordecht, Kluwer Academic Publishers 2003, p. 378. 696 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , Borla, Roma 1999, p. 204.

156 Questa rivolta contro la rivolta697, da realizzare all’interno di società in cui «la civiltà passa per reazione e l’alienazione morale per progresso698», assumeva inevitabilmente i caratteri di un ro- vesciamento, del tutto analogo a quello che Augusto Del Noce ha colto nell’interpretazione voege- liniana del processo di secolarizzazione699. Il rigetto dall’esperienza trascendente, l’espulsione del sacro della sfera pubblica, il trionfo della razionalità pragmatica, lungi dal rappresentare l’emancipazione definitiva da ogni oscurantismo, costituivano invece il «mito del mondo nuo- vo700», contro cui il saggio era chiamato ad uno strenuo sforzo di resistenza e di contrasto, morale ed intellettuale. Chi ha tentato di ricostruire l’impatto dell’opera di Eric Voegelin sul movimento conserva- tore ha sovente rimarcato la difesa del modello democratico anglo-americano contenuto nelle ultime pagine di The New Science of Politics701. Senza arrivare a definire quelle considerazioni «deboli» e «contraddittorie», come fa Giuseppe Duso702, le si può comunque considerare scarsamente rilevanti ed incisive, soprattutto perché collocate in appendice ad un saggio incompatibile – ha giustamente sottolineato Carlo Galli – con ogni interpretazione manichea della Guerra Fredda703.

697 Mi avvalgo qui della formula coniata da Peter Viereck per definire la rinascita del conservatorismo occidentale (Cfr. VIERECK, Conservatism Revisited: the Revolt Against the Revolt (1815-1949), London, John Lehman 1950). 698 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 216 699 Cfr. A. DEL NOCE, Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità, in E. VOEGELIN, La nuova scienza politica. Bo- la, Roma 1999, pp. 7-28, spec. p. 7. 700 È questo il titolo della traduzione italiana di Science, Politics and Gnosticism (cfr. E. VOEGELIN, Il mito del mondo nuovo, Milano, Rusconi 1970). 701 «La rivoluzione inglese, nel secolo diciottesimo, si compì in un’epoca in cui lo gnosticismo non aveva ancora suito la sua radicale secolarizzazione […]. La rivoluzione americana, benché i suoi dibattiti fossero più profondamente in- fluenzati dalla psicologia dell’Illuminismo, ebbe tuttavia anch0essa la buona sorta di giungere a conclusione nel clima istituzionale e cristiano dell’Ancien Régime […]. La società occidentale nel suo complesso è una civiltà quanto mai stra- tificata, nella quale le democrazie americana e inglese rappresentano lo strato tradizionale più antico e più saldamente consolidato della civiltà stessa, mentre l’area germanica ne costituisce lo strato più spiccatamente moderno. In una si- tuazione di questo genere resta una favilla di speranza, perché la democrazia americana e inglese, che più saldamente rappresentano la verità dell’anima, sono anche le potenze più forti sul piano esistenziale» (E. VOEGELIN, The New Sci- ence of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p. 226). Sul punto, cfr. R. KIRK, Enemies of the Pernanent Thngs: Observations of Abnormality in the Literature and Poli- tics, New Rochelle, Arlington House 1969, pp. 253-281; B. COOPER, Introduction in E. VOEGELIN, The Collected Works of Eric Voegelin, vol. 13, Columbia, University of Missouri Press 2001, pp. 1-8. 702 G. DUSO, Filosofia pratica o pratica della filosofia? La ripresa della filosofia pratica ed Eric Voegelin, in G. DUSO (a cura di), Filosofia e pratica del pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Milano, Franco Angeli 1988, pp. 159-191, spec. p. 191. 703 «Se si prescinde dal contesto teorico in cui questo pensiero è nato, e dai risultati scientifici che ha conseguito, è in- dubbio che buona parte del ductus argomentativo della Nuova Scienza Politica deriva da un evidente disagio di Voege- lin davanti alla modernità dispiegata, comunista o capitalista che sia; da un’insofferenza vetero-europea davanti tanto alla società chiusa quanto alla società aperta; da un rifiuto sia del pensiero dialettico (hegelismo e marxismo) sia del ra- zionalismo costruttivistico (Hobbes) sia delle recenti forme fenomenologiche di sapere sociale (Weber)» (C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Roma-Bari, Laterza 2009, p. 235). E, in altra sede, lo stesso Galli colloca Voegelin nel novero di quei pensatori propensi «a non riconoscersi intellettualmente in nessuno dei due protagonisti del conflitto di civiltà allora in corso, a non schierarsi ideologicamente né con gli Usa né con l’Urss, poiché in quel dualismo di superficie essi scoprono un’identica matrice teorica: i due nemici in realtà forniscono due declina- zioni diverse del medesimo tipo di rapporto fra le società umane e la natura, la storia, la politica» (C. GALLI, Lo sguardo di Giano: saggi su Carl Schmitt, Bologna, Il Mulino 2008, pp. 153-154).

157 Assai più interessanti e pertinenti, invece, sono i riferimenti – rinvenibili qua e là negli scritti di Voegelin – al modo in cui contrapporsi al degrado intellettuale e politico cagionato dai movimenti gnostici. Pur non costituendo un’organica teoria della reazione, essi lasciano intuire una modalità di “rieducazione” alla filosofia politica rettamente intesa che prevede un coinvolgimento diretto degli intellettuali. Va infatti notato come la battaglia contro il secolarismo, pur prendendo le mosse da un’attività cosciente del singolo, non si limita alla sfera individuale, alla stregua di una te- stimonianza morale. Nota infatti Voegelin che «nessuno è obbligato a prendere parte alla crisi spirituale di una società; al contrario, ciascuno è chiamato a sottrarsi a questa follia e a vivere in ordine la propria vi- ta704». Sennonché proprio l’aggressività distruttiva del credo gnostico impedisce ad un gran numero di persone di mantenere inalterato il proprio legame con la trascendenza. «L’uomo è essenzialmente sociale; vivere nella verità contro l’apparenza allorché il potere di una società è schierato al fianco dell’apparenza costituisce per l’anima di molti un fardello impossibile da sopportare, e difficile da tollerare per quella di pochi705». Affinché sia possibile sottrarsi all’«accecamento dell’anima706» e alla ri-divinizzazione della realtà ad opera delle ideologie, la società intera è pertanto chiamata ad uno sforzo collettivo di liberazione dall’imprigionamento che il razionalismo illuministico le impo- ne. «Si devono ricostruire le categorie fondamentali dell’esistenza, dell’esperienza, della coscienza e della realtà. Ed allo stesso tempo si devono esplorare le tecniche e le strutture delle deformazioni che ingombrano la vita quotidiana, ed elaborare concetti con i quali classificare le forme della de- formazione esistenziale ed i suoi modi di espressione simbolica707». Nello specifico quadro storico dell’America del tempo, la restaurazione avrebbe comportato uno scontro frontale contro l’intelli- ghenzia e la cultura accademica. Le Riflessioni Autobiografiche, rilasciate da Voegelin all’allievo ed amico Ellis Sandoz nei primi anni ’70, sono un documento di primaria importanza per poter comprendere l’idiosincrasia con cui Voegelin guardava al progressismo americano, identificato con le élite dominanti nel mon- do universitario. «È necessario riconoscere che un’ampia fascia di intellettuali americani è antiame- ricana – anche se vorrebbe negarlo –; e si tratta di quello stesso antiamericanismo reperibile tra gli intellettuali europei. Questo antiamericanismo, comunque, a parte alcuni movimenti estremisti, non è assolutamente vero comunismo; se non altro perché, eccetto pochi studiosi, i più ardenti intellet- tuali liberal non sono abbastanza alfabetizzati per leggere pensatori della statura di Hegel o Marx.

704 E. VOEGELIN, Science, Politics and Gnosticism (1959) in Science, Politics and Gnosticism, Wilmington, ISI Books 2007, p. 17. 705 E. VOEGELIN, Order and History, vol. III: Plato and Aristotle, Columbia, University of Missouri Press 2001 (1a ed. 1956), p. 133. 706 E. VOEGELIN, Order and History, vol. III: Plato and Aristotle, op. cit., ibidem. 707 E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Auto- biografiche, op. cit., p. 161

158 Ciò che abbiamo non è un movimento comunista o marxista, ma un grottesco movimento paramar- xista, che sempre fallisce nella pratica, perché i problemi considerati da Marx travalicano ampia- mente l’orizzonte delle sue capacità di comprensione. Eppure, anche in questa forma volgare, i mo- vimenti di questo tipo sono un fattore di disturbo all’interno della società […]. Ciò che realmente è accaduto è stato il costituirsi di un movimento intellettuale, sconsiderato ed in parte analfabeta, che inavvertitamente si è polarizzato rispetto alla realtà sociale americana ponendosi al di fuori di essa, e che ora deve pagare il prezzo della sconfitta per la sua svista pragmatica708». La stessa opposizione alla guerra in Vietnam appariva a Voegelin una dimostrazione del grado di corruzione intellettuale in cui versavano gli Stati Uniti: se la campagna del Tet poteva esse- re spacciata come una disfatta americana, ed il sostegno alla Cambogia in funzione di opposizione al Vietnam del Nord essere equiparato ad un’aggressione imperialista da parte americana, allora l’incapacità di interpretare in modo onesto l’attualità politica poteva dirsi totale. «Dal momento che questa malattia degli intellettuali non si limita ai giornalisti o ai commentatori televisivi ma che essa è penetrata profondamente nel mondo accademico, e attraverso quest’ultimo nell’educazione delle giovani generazioni, diventa necessario riconoscere in queste tendenze un pericolo per il governo democratico, che deve fare dopo tutto affidamento sul contatto con la realtà da parte della gente709». E concludeva: «Oggi dobbiamo confrontarci con una forza socialmente omogenea di aggressiva di- sonestà intellettuale che pervade il mondo accademico ed altri settori della società. Una situazione che richiederà correzione, in una forma o nell’altra, qualora dovesse farsi davvero critica710». Non è chiaro a che genere di correzione, nell’immediato, pensasse Voegelin, e a lungo si po- trebbe discutere se un’ostilità tanto veemente contro i liberal fosse una logica conseguenza della sua posizione filosofica, ovvero di esperienze dirette e personali all’interno dell’ambiente intellettuale americano711. E tuttavia è difficile non scorgere una forte affinità fra il desiderio di ridefinire le coordinate di fondo del dibattito pubblico che animava Voegelin e quello al centro della proposta neoconserva-

708 E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Auto- biografiche, op. cit., p. 179. 709 E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Auto- biografiche, op. cit., p. 181 710 E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections , Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Auto- biografiche, op. cit., ibidem. Corsivo mio. 711 Si vedano ancora le Riflessioni autobiografiche, nel punto in cui Voegelin spiega ciò che lo spinse a trasferirsi da un’università della East Coast ad una del profondo Sud, sul finire degli anni ’30: «Bennington fu per me un’esperienza del tutto nuova, che all’epoca potei assorbire soltanto parzialmente, perché la mia conoscenza di fondo della società americana era piuttosto difettosa. Capii inoltre che non sarei voluto rimanere nonostante l’offerta molto seducente di assistant professorship con salario di 5.000 dollari per l’anno successivo. La ragione per la quale rifiutai l’offerta cer- cando qualcos’altro era l’ambiente della costa orientale. A Bennington, in particolare, notai una forte componente di sinistra, che comprendeva alcuni comunisti professi all’interno della facoltà, ma molti di più tra gli studenti. Quest’ambiente non mi piaceva molto di più di quanto mi fosse piaciuto quello nazionalsocialista che avevo appena ab- bandonato» (E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections , Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Rifles- sioni Autobiografiche, op. cit., p. 126).

159 trice712. Il passo che meglio rispecchia questa comunanza di intenti lo si ritrova in From Enli- ghtment to Revolution, nelle pagine dedicate al liberalismo francese post-comtiano. In esse, Voege- lin respinge il gradualismo come valido metodo di risoluzione dei problemi politici, allorché una società versa in uno stato di crisi. «Una società è per definizione in uno stato di crisi quando le sue capacità di porre rimedio, sempre che ve ne siano, risultano socialmente inefficaci. I problemi so- ciali che richiedono un’immediata soluzione non possono essere risolti, perché è assente nella classe dirigente la forza spirituale e morale necessaria alla bisogna. In questa situazione, il consiglio di fa- re ciò che non si è fatto, siccome non può essere fatto, è ovviamente inutile. Il suggerimento non è soltanto vano, ma si aggiunge perfino alla gravità della crisi, giacché sottrae attenzione alla ricerca di una vera alternativa713». Questa «vera alternativa», per Voegelin, non consisteva certo in un programma di riforme «stagnanti», bensì nella «restaurazione della sostanza spirituale nella classe dirigente di una socie- tà, con la conseguente restaurazione della forza morale atta a creare un giusto ordine sociale714». L’accenno è fugace, l’idea non sviluppata, ma lascia intravedere una sorta di élitismo dello spirito non troppo distante da quello di Leo Strauss, e certamente limitrofo, per terminologia e sensibilità, alla dichiarazioni d’intenti di alcune frange del fondamentalismo cristiano715. Erano, forse, simili suggestioni a indurre l’intellettuale di destra Brent Bozell, speech-writer di Barry Goldwater, a ri- chiamarsi esplicitamente a Voegelin quando, nel 1964, davanti a una platea di 18.000 giovani attivi- sti dell’associazione conservatrice YAF (Young Americans for Freddom), declinò un manifesto in difesa dell’America cristiana716. E un’eco se ne avverte nel celebre discorso del Presidente Reagan contro l’Impero del Male, tenuto alla National Association of Evangelicals, nel 1983: «Sono lieto di essere qui con voi oggi che mantenete gli Stati Uniti grandi perché li mantenete giusti. Solo attra- verso il vostro impegno e le preghiere vostre e di milioni di altre persone possiamo sperare di so- pravvivere a questo secolo pericoloso, mantenendo vivo questo esperimento compiuto nella libertà,

712 Cfr. S. T. FRANCIS, Beautiful Losers. Essays on the Failure of American Conservatism, Columbia, University of Missouri Press 1993, pp. 88-94; W. E. PEMBERTON, Exit With Honor: the Life and Presidency of Ronald Reagan, Armony, M. E. Sharp 1997, pp. 46-47; R. SCRUTON, Gentle Regrets: Thougths From a Life, London-New York, Con- tinuum 2005, pp. 37-38. 713 E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Duke University Press 1975, tr. it Dall’illuminismo alla rivoluzione, Roma, Gangemi 2007, p. 210. 714 E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Durham, Duke University Press 1975, tr. it Dall’illuminismo alla rivoluzione, Roma, Gangemi 2007, ibidem. Corsivo mio. 715 Sulla destra religiosa, cfr. J. L. HIMMELSTEIN, To the Right: the Transformation of American Conservatism, Berke- ley, University of California Press 1990, pp. 97-12. Si consideri anche la seguente affermazione di Voegelin: «la rela- zione tra scienza e potere, con la conseguente dannosa estensione del segmento utilitaristico dell’esistenza, hanno intro- dotto nella civiltà moderna un consistente elemento di cultura magica. La tendenza a restringere il campo dell’esperienza umana all’area della ragione, della scienza e dell’azione pragmatica, la tendenza a sopravvalutare quest’area in relazione al bios theoretikos e alla vita dello spirito, la tendenza a fare di tutto ciò l’unica preoccupazione dell’uomo e rendendola predominante sul piano sociale attraverso la pressione economica nelle cosiddette società libere e attraverso la violenza negli stati totalitari, tutte queste tendenze sono parte di un processo culturale dominato dall’idea di operare sulla sostanza dell’uomo grazie agli strumenti della volontà pragmaticamente concepita» (FER, p. 210). 716 A. S. REGNERY, Upstream: the Ascenance of American Conservatism, New York, Thhreshold Editions 2008, p. 262.

160 che è la speranza ultima e migliore dell’uomo. Voglio che sappiate che questa Amministrazione è motivata da una filosofia politica che individua la grandezza degli Stati Uniti in voi, che siete il po- polo, e nelle vostre famiglie, nelle vostre chiese e nei quartieri e nelle comunità che voi animate: va- le a dire nelle istituzioni che sostengono e nutrono valori quali la sollecitudine per gli altri e il ri- spetto del Rule of Law di cui Dio è il signore717». Oakeshott è animato dal desiderio di arginare, temperare, smorzare il nuovo; Voegelin aspi- ra a rifondare l’antico. Ma se il primo può fare riferimento ad usi e costumi esistenti, ad equilibri i- stituzionali già instauratisi – forte è il richiamo, abbiamo visto, al rule o law inglese –, il secondo non può che ragionare in termini di restaurazione e di rovesciamento718. Voegelin percepisce e, in qualche misura, vive in prima persona il paradosso dei conservatori tradizionalisti, i quali – ha scrit- to Ted V. McAllister – «si ritrovano con poco da conservare719». E ne trae le debite conseguenze: «la sola opzione concreta in questi tempi è cercare la ricostruzione, assai più che la conservazio- ne720».

II. Conservatorismo: una prospettiva di indagine

Nel 1994, uno dei massimi studiosi del liberalismo newdealer, Alan Brinkley, tentava di ri- spondere al provocatorio interrogativo che Leo P. Ribuffo rivolgeva ai colleghi: «Perché c’è tanto conservatorismo negli Stati Uniti e come mai così pochi storici ne sanno qualcosa721». Rilevava Brinkley: «Molti storici hanno narrato la storia dello sviluppo politico e culturale americano nel XX secolo enfatizzando il trionfo di uno Stato liberale-progressista, e di un sensibilità moderna, cosmo- polita, che l’ha accompagnato e che in larga misura l’ha sostenuto722». Esistevano, però, altri stu- diosi che, soprattutto in tempi recenti, avevano evidenziato caratteristiche diverse del sistema statu- nitense, come «la cronica debolezza dello Stato progressista, le enormi difficoltà dei liberal nell’assicurare e nel mantenere vive le lealtà popolari, e l’impegno persistente di altre forze (molte

717 Cfr. AA.VV., Tear Down This Wall: The Reagan Revolution – A History, New York, Continuum, 2004, pp. 30-37, spec. p. 31. 718 Cfr. M. FRANZ, Brothers under the Skin: Voegelin and the Common Experiential Wellsprings of Spiritual Order and Disorder in Society, in G. HUGHES, The Politics of the Soul: Eric Voegelin on the Religious Experience, Lanham, Rowman & Littlefield Publishers 1999, pp. 139-162, che evidenzia come la filosofia di Voegelin sia destinata a con- fliggere con ogni posizione politica meramente passatista od immobilista. 719 T. MCALLISTER, Revolt against Modernity. Leo Strauss, Eric Voegelin & the Search for a Post-Liberal Order, Law- rence, University of Kansas 1995, p. 278. 720 T. MCALLISTER, Revolt against Modernity. Leo Strauss, Eric Voegelin & the Search for a Post-Liberal Order, Law- rence, University of Kansas 1995, ibidem. 721 Cfr. L. P. REBUFFO, Why There is So Much Conservatism in the United States and Why Do So Few Histrians Know About it, in The American Historical Review, vol. 99, n. 2, 1994, pp. 438-449. 722 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, in The American Historical Review, vol. 9, n. 2, 1994, pp. 409-429, spec. p. 409.

161 delle quali, per mancanza di un termine migliore, chiamiamo in genere conservatrici) in una batta- glia, irrisolta, per definire la natura culturale e politica dell’America723». Lo sviluppo di questo filone revisionista era in qualche modo conseguenza dell’incapacità, da parte di un gran numero di intellettuali liberal, di comprendere la potenza del messaggio conser- vatore. «Le spiegazioni, offerte da quegli studiosi, relative alla “destra radicale”, o “nuova Destra”, o “rivolta pseudo-conservatrice”, lasciavano poco spazio alla tesi secondo cui i conservatori erano persone le cui idee e lamentele andavano prese sul serio, e che la destra avrebbe meritato attenzione, come elemento distinto della tradizione politica americana […]. Il risultato fu che la tendenza, da parte degli studiosi “consensualisti” a spiegare il conservatorismo americano come un tipo di pato- logia – uno “stile paranoico”, una “politica simbolica”, un “prodotto dell’ansietà di status”, una “a- berrazione irrazionale, o semi-razionali, rispetto ad un mainstream consolidato724» . Questo atteggiamento, tuttavia, non era più accettabile negli anni ’90: troppa acqua era pas- sata sotto i ponti, affinché il conservatorismo potesse essere considerato una forma di devianza momentanea. E poiché esso «si compone di un vasto numero di idee, impulsi e conformazioni, e molti conservatori non avvertono l’obbligo di scegliere fra impulsi in conflitto tra loro, persino in- compatibili», diventava necessario fissare alcuni eventi cruciali che ne chiarissero la genesi. Uno di essi, notava Brinkley, era sicuramente il New Deal. «Ciò che giungemmo a conosce- re come “liberalismo” a metà del ventesimo secolo, in America, veniva ad identificarsi con un ripu- dio consapevole degli elementi antistatalisti propri della tradizione del liberalismo classico. Esso rappresentava, piuttosto, il fondamento per costruire le condizioni di uno Stato più attivo e più po- tente (benché uno in cui le idee di diritti individuali giocavano un ruolo importante, spesso centra- le)725». Al cospetto dell’amministrazione Roosevelt, coloro che si professavano “veri liberali” dife- sero «i diritti individuali contro l’“ingegneria sociale” e il paternalismo della sinistra726». Su questo fronte, uomini come Friedrich A. Hayek, e Michael Oakeshott rappresentarono «una voce importante a favore del libertarianism nella società moderna, ed una spina nel fianco del “collettivismo” che si diffondeva a macchia d’olio in Gran Bretagna e negli Stati Uniti durante gli anni ’30727». A costoro si aggiunsero, negli anni ’50, «un numero di intellettuali conservatori (molti dei quali non erano parte dell’élite tradizionale, né southerners)», i quali «lanciarono uno strenuo assal- to alla visione libertaria e relativistica della società, e sottolinearono l’importanza dei valori traman-

723 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 410. 724 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., pp. 411-412. 725 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., pp. 415. 726 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., pp. 416. 727 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., ibidem.

162 dati e delle norme tradizionali728». Autori come Russell Kirk, ma anche difensori della filosofia classica come Strauss sostenevano che «la teoria politica liberale, con la sua enfasi sulla libertà in- dividuale e la moralità soggettiva, il suo entusiasta rifiuto della legge naturale […] conduce al nichi- lismo – o è identica al nichilismo729». Anche i «cattolici conservatori (fra questi, il più noto William F. Buckley) avevano da tempo nel mirino il relativismo e lo smoderato individualismo dei liberali moderni730», cui contrapponevano un modello di comunità organica di stampo tomista e medievale. Gli anni ’70, infine, segnarono l’affermazione del fondamentalismo religioso organizzato. «L’obiettivo della destra fondamentalista era sfidare i valori scientifici e secolari della cultura mo- derna, valori che i liberal erano giunti a considerare norme vincolanti. Molti liberal furono pertanto stupiti, ed anche sconcertati, dall’improvviso, violento assalto a simboli del progresso come la seco- larizzazione della cultura popolare, l’insegnamento dell’evoluzionismo, la separazione fra Chiesa e Stato731». Per i sostenitori della destra cristiana, la linea di confine divideva «quelli che credono che le leggi e le politiche pubbliche derivino da credenze religiose e coloro che invece rigettavano tale assunto732». La combinazione di queste forse faceva sì che «alla fine degli anni ’80, era più possibile li- quidare il fondamentalismo conservatore in America come una peculiarità di una civiltà rurale de- clinante733», che la modernizzazione sospingeva inesorabilmente nell’oblio. Contrariamente a quan- to i liberal avevano creduto, «era possibile, per una persona, essere membro della stabile e opulenta classe media, far parte del mondo moderno burocratizzato, abbracciare una cultura consumistica, raggiungere e godere del successo mondano, ma nel contempo aggrapparsi a credenze religiose e culturali che sono agli antipodi di alcune nozioni basilari della modernità734». Se i liberal continua- vano a considerare l’America «una società votata al moderno razionalismo, alla libertà di ricerca, alla scienza, e soprattutto al progresso», ormai andava riconosciuta l’esistenza di un vasto numero di statunitensi «descrivevano l’America come una società assai differente: un bastione dei valori tradizionali (o “familiari)” e della fede tradizionale in un’età sempre più senza Dio; una cittadella di rigore morale nel mondo corrotto; l’unica, autentica Nazione Cristiana sulla terra735» Bisognava ammettere, concludeva Brinkley, che la modernità progressista, che un vasto numero di studiosi, con fare compiaciuto, dava per scontata, considerandola inattaccabile […] può non essere, nei fatti, tanto radicata quanto pensano costoro. Bisogna ammettere che il culto della

728 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 420. 729 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., pp. 420-421. 730 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 421. 731 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 423. 732 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., ibidem. 733 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 424. 734 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 427. 735 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 428.

163 modernità non è ancora davvero incontestato; che, anche in America, alcuni dei valori e delle istitu- zioni basilari di una società moderna non hanno ottenuto piena legittimazione da un vasto, e politi- camente influente, segmento della popolazione736» ***

L’esposizione del diverso atteggiamento – difensivo l’uno, restaurativo l’altro – suggeriti da Oakeshott e Voegelin nei confronti del filone razionalistico-costruttivistico della modernità conclu- de idea lmente il nostro itinerario. Affinché essi possano essere adeguatamente contestualizzati, bi- sogna fare riferimento al quadro storico delineato nelle pagine precedenti, e al breve excursus di A- lan Brinkley riportato qui sopra. L’analisi svolta nel presente lavoro ha preso il via da un chiarimento preliminare relativo al- la nozione di conservatorismo: questo termine non designa – abbiamo sostenuto nel capitolo I – un puro e semplice atteggiamento difensivo, culturalmente sterile, di fronte all’innovazione; né rappre- senta una risposta locale a problemi locali. Ancor meno si presta ad essere inquadrato in termini funzionali: essere conservatori non implica riconoscersi sempre e comunque nello status quo, ma prevede la possibilità di alterare, persino in modo radicale, gli equilibri socio-politici che reggono la vita di una comunità. La problematicità dell’atteggiamento conservatore riemerge con forza in chiusura. Senza vo- lersi avventurare in ulteriori delimitazioni e definizioni, bisogna comunque chiedersi: può esistere una teoria politica conservatrice in senso proprio? Il conservatorismo è davvero un’opzione alterna- tiva, ma analoga nella sua articolazione concettuale, al liberalismo, al socialismo, al nazionalismo, e alle altre elaborazioni dottrinali che hanno caratterizzato «l’epoca delle ideologie737»? Ovvero è de- stinato a vivere di luce riflessa, contrapponendosi di volta in volta a quelle enunciazioni filosofiche, e a quelle rivendicazioni politiche, che destabilizzano, nei fatti o in potenza, l’armonia della res pu- blica? La questione è complessa quanto controversa, eppure lo studio degli scritti di Eric Voegelin e di Michael Oakeshott ci indirizza verso una possibile – benché parziale – risposta, diversa dalle due appena ipotizzate. In termini descrittivi, il conservatorismo può essere definito come un’ideo- logia in senso debole, poiché costituisce (recuperiamo qui la citazione di cui ci avvalemmo nel pri- mo capitolo) «un insieme di idee e di valori riguardanti l’ordine politico e avente la funzione di gui-

736 A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 429. 737 Cfr. K. BRACHER, Zeit der Ideologien : eine Geschichte politischen Denkens im 20. Jahrhundert, Stuttgart : Deu- tsche Verlags-Anstalt 1982.

164 dare i comportamenti politici collettivi738». Guidare, però, non significa progettare. Da un punto di vista normativo, infatti, il conservatorismo è radicalmente ostile all’ideologia in senso forte739: ri- fiuta cioè il pensiero sistemico, basato su inferenze da postulati indimostrabili; rigetta l’utopismo, ossia la pretesa di edificare società pacificate e perfette; respinge la possibilità di un cambiamento cosciente dell’organizzazione sociale con metodi puramente razionali. L’ordine politico, nella con- cezione conservatrice – ha rilevato Michael Freeden – non può prescindere da una qualche fonte di legittimazione extra-individuale ed extra-razionale740: sia essa la tradizione, la trascendenza, o qual- siasi altra forza che prescinda dal volontario consenso formulato da individui liberi e responsabili. La Ragione perde quel ruolo attivo, creativo e costruttivo che le ha conferito larga parte della tradi- zione moderna. La politica cessa di essere un terreno neutro di sperimentazione, in cui la natura umana trova compiuta armonizzazione in un dato assetto istituzionale, sia esso lo Stato costituzio- nale, la società senza classi, la Nazione o l’Impero. Dice ancora bene Freeden: nella visione conser- vatrice, la politica «rifiuta deliberatamente di occuparsi dei fini e dei valori umani universali e della realizzazione del potenziale umano nell’ambito di strutture organizzative appositamente create741». Per il vero conservatore, ha rimarcato Russell Kirk, i problemi politici sono, in ultima istanza pro- blemi morali e religiosi742. L’ordine non è il prodotto dell’attività consapevole degli individui; sono gli individui che, al contrario, appartengono a qualche forma di ordine, cui partecipano in modo più o meno consapevole, e con cui – più o meno consapevolmente – convivono. Quando quest’ordine viene negato, aggredito o infranto, il conservatore sveste i panni di “moderato” per trasformarsi in “radicale”743. Le pagine di Voegelin sono illuminanti in questo sen- so. Di fronte alla corruzione intellettuale, alla menzogna, al rifiuto della dimensione vitalizzante e vincolante che l’ordine reca con sé, il conservatore reagisce. E reagisce aggredendo, sradicando, smantellando quelle istituzioni, quelle teorie, quegli ideali di «società giusta» che il razionalismo ha proposto, realizzato, difeso. Per il conservatore – momentaneamente trasformatosi in rivoluzionario – la distruzione costituisce una forma di decontaminazione; è necessaria per garantire il ripristino delle condizioni minime affinché l’ordine – il vero ordine – possa nuovamente esplicarsi in tutte le sue potenzialità.

738 «Nel suo significato debole, “ideologia” designa il genus, o una species variamente definita, dei sistemi di credenze politiche: un insieme di idee e di valori riguardanti l’ordine politico e avente la funzione di guidare i comportamenti po- litici collettivi» (M. STOPPINO, Potere e teoria politica, ECIG, Genova 1983, p. 103). 739 Sul concetto di ideologia in senso forte, cfr. G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Bologna, Il Mulino 1987, pp. 111-137 740 M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory. A Conceptual Approach, Oxford, Clarendon Press 1996, tr. it. Ideolo- gie e teoria politica, Bologna, Il Mulino 2000, p. 428. 741 M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory. A Conceptual Approach, Oxford, Clarendon Press 1996, tr. it. Ideolo- gie e teoria politica, op. cit., p. 421 742 Cfr. R. KIRK, The Conservative Mind, from Burke to Santayana, London, George W. Allen 1954, pp. 17-20. 743 Cfr. G. DAHL, Radical Conservatism and the Future of Politics, Nottingham, Trent University 1999; R. B. TOPLIN, Radical Conservatism: the Right’s Political Religion, Lawrence, University Press of Kansas 2006.

165 *** Valutare modalità e tempi della rivolta conservatrice, che sul piano politico è stata incarnata dall’Amministrazione Reagan negli Stati Uniti e dal governo Thatcher in Gran Bretagna, prescinde dagli obiettivi di questa analisi. Quest’ultima si è sforzata di collocare, al contrario, gli scritti di Eric Voegelin e Michael Oakeshott nell’arco di una parabola intellettuale più ampia, sintetizzabile come l’ascesa e il declino del liberalismo razionalistico (cap. II). Nell’arco di un ventennio (1932-1952), la società statunitense conobbe una ridefinizione profonda dell’idea di libertà e una nuova declina- zione, in senso progressista, della tradizione liberale. Quando, sul finire degli anni ’40, il progetto del New Deal mostrò chiari segni di esaurimento, alcuni autori se ne allentarono, pur mantenendosi all’interno di una prospettiva liberale (cap. III). Eric Voegelin e Michael Oakeshott, al contrario, ruppero in modo radicale con quella tradizione, impostando una critica globale alla modernità che li rende protagonisti, e nel contempo precursori, del riemerge del conservatorismo come forza politica di primo piano all’interno delle società contemporanee (cap. IV). Un’ultima considerazione concerne la metodologia alla base del presente lavoro. Spazi pressoché equivalenti sono stati dedicati al quadro storico ed alla trattazione filosofica. Non è un caso. È profonda convinzione di chi scrive che la connessione fra storia e teoria, fra tra- sformazioni istituzionali e pensiero critico sia più stretta, e nel contempo più oscura, di quanto ten- denzialmente si creda. Attualmente, non possiamo far altro che sottoscrivere la saggia e prudente osservazione di Karl Mannheim: «l’emergere e lo sparire dei problemi del nostro orizzonte intellet- tuale sono governati da un principio di cui non siamo ancora pienamente consapevoli744». Ma, pro- prio come Mannheim, possiamo ragionevolmente affermare che «i complessi rapporti sussistenti tra i diversi problemi, in un dato tempo e luogo, vanno in ogni caso, considerati nel quadro generale della società in cui si danno, anche se esso non può sempre fornirci un’idea esatta di tutti i particola- ri745». La speranza, da parte di chi scrive, è che il presente lavoro contribuisca – nel suo piccolo – a ribadire che né l’analisi storica, né la riflessione teorica, se isolate l’una dall’altra, possano garantire una comprensione adeguata dell’agire politico.

744 K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, Bonn, F. Cohen 1929, tr. it. Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino 1972, p. 121. 745 K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, Bonn, F. Cohen 1929, tr. it. Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino 1972, ibi- dem.

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746 Si cita, in questa sede, la versione direttamente utilizzata, che non necessariamente coincide con quella originale. Laddove un’opera in lingua non italiana compare con titolo italiano, è stata quest’ultima versione ad essere utilizzata. Laddove compaiono entrambi i titoli, sono state utilizzatre entrambe le versioni.

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