L'abbandono Della Feudalità E L'avvento Della Agricoltura Capitalistica in Sicilia
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1 L'abbandono della feudalità e l'avvento della agricoltura capitalistica in Sicilia. La proletarizzazione dei contadini nella storia della comunità agricola di Limina 2 CAPITOLO I - La questione contadina nella “Memoria” del sindaco Filippo Chillemi Il contesto socio-economico Il documento che abbiamo avuto il piacere di leggere è una “memoria” politica scritta da un coraggioso sindaco socialista che ha governato la piccola comunità di Limina negli anni difficili della prima decade del Novecento. Il documento, per noi che lo leggiamo a distanza di un secolo,rappresenta una alta testimonianza della capacità civile di un sindaco coraggioso che ha saputo lasciare un esempio di rettitudine morale e senso di giustizia messi al servizio dell'interesse comune della sua comunità paesana. Riferito al contesto dell’Italia post-unitaria, esso ci sembra una delle pagine più sincere di quella stagione politica e sociale originaria che è tra le più complicate ed equivoche della storia nazionale, l'età nella quale si è radicata la complicità mafia-politica, si è determinato il dualismo economico nord-sud, si è praticata una disastrosa politica di potenza e di prevaricazione antidemocratica in tutta la nazione. Il racconto dei fatti accaduti in quegli anni non sempre è stato rispettoso dei fatti stessi: si sono diffuse versioni narrative tendenziose che, a mio giudizio, hanno mirato a sminuire il valore della storia contadina in Italia con il risultato finale di disinnescare la forza della protesta che proprio le lotte contadine hanno avuto in un periodo molto lungo che va dai primi anni del 1800 alla prima metà del novecento. La “memoria” del sindaco Chillemi è stata scritta nel 1915, ma si riferisce a fatti accaduti nella seconda metà del XIX secolo. La seconda metà del diciannovesimo secolo è la stagione dell'avvio della macchina statale dell'Italia unita, e contemporaneamente è la stagione dell'avvento del capitalismo italiano. Definita e risolta l'indipendenza e l'Unità sul piano istituzionale, con Roma capitale dal 1870, e assicurata una impostazione centralistica e piemontese della amministrazione pubblica, il regno d'Italia dei Savoia si caratterizzò per la sua impostazione autoritaria e classista. I problemi della neonata nazione furono affrontati con politiche che risultarono, nella nuova geografia politico-economica della penisola, vantaggiose solo per una parte del paese, forse per gli imprenditori del nord e per alcune categorie sociali delle aree urbane, ma non per le regioni del sud, per le popolazioni di campagna e per le classi lavoratrici. I primi governi furono quelli della cosiddetta “destra storica”, cui subentrarono, dopo le crisi degli anni 70/80 dell'Ottocento, governi della cosiddetta “sinistra storica”, ma la questione contadina attraverso i diversi periodi politici rimase irrisolta. La rappresentanza parlamentare allora era affidata a partiti di notabili, spesso avvocati, più o meno ricchi, o ad altri appartenenti al ceto dei professionisti, componente minoritaria nella popolazione tutta. Essi si rivolgevano al 1,9% della popolazione, quella che ebbe diritto al voto sulla base della legge elettorale voluta dai primi governi che erano governi della destra storica. La prima riforma del suffragio fu proposta dalla sinistra storica nella campagna elettorale del 1876, e fu poi attuata nel 1882, con cautela, che in Italia vuol dire con lentezza, predisponendo molti contrappesi e tutele affinché il suffragio allargato non fosse capace di produrre sovvertimenti. 3 I rappresentanti del popolo erano dunque espressione di una selezionata società di borghesi, intenzionati a conservare i vantaggi che la nuova gestione dello Stato aveva assicurato loro e a procurarsi ulteriori occasioni di crescita e avanzamento socio- economico. L'elettorato crebbe nel 1882 e andò a 8% circa della popolazione, ma rimase il problema della rappresentanza del popolo italiano, dei ceti più poveri, che certo non si riconoscevano negli eletti, né erano capiti da essi, che ne ignoravano le problematiche e i bisogni. Già dai primi anni dello sviluppo della produzione industriale le crisi di sovrapproduzione che ciclicamente costringevano alla disoccupazione e alla fame le masse operaie e le masse contadine, mettevano in evidenza le contraddizioni dell'economia italiana, scissa tra l'interesse alla crescita industriale e la naturale vocazione e la tradizione di paese agricolo. La prima grave crisi capitalistica del 1873 lasciò un lungo strascico di sofferenza e di conflitti non solo nelle aree urbane, ma anche in quelle agricole, al nord quanto al sud. Quando Chillemi, il sindaco socialista di cui stiamo ricostruendo la storia politica, scrive la sua “Memoria”, affidando all'avvocato Renato Paoli la rappresentanza legale e il patrocinio della sua causa, di crisi economiche ce ne sono state almeno quattro dall'Unità d'Italia. Quattro grandi crisi, analoghe per origine e per gravità, marcate come sempre dalle proteste, dagli scioperi, dalle manifestazioni, cui fecero sempre seguito leggi speciali di riduzione delle libertà, interventi dell'esercito contro i manifestanti, repressioni. Chillemi scrive per denunciare un sopruso subito dal popolo degli indigenti di Limina. La sua denuncia ha la data del 1915, ma si riferisce a vecchie ingiustizie perpetrate nel 1888. Essa non si propone come una tardiva petizione di giustizia, ma con la forza di una rivendicazione attualissima, legittimata dalla speranza che una giustizia giusta possa affermarsi ancora. Quello di Chillemi è un atto politico più che una causa giudiziaria. Era consapevole che il suo ruolo di sindaco di Limina comportava anche il compito di rappresentare le necessità e le aspettative della cittadinanza priva di mezzi, della maggioranza della cittadinanza, tradita e oppressa, che aveva subito non una, ma mille ingiustizie a cui bisognava mettere fine. Nella memoria che ci apprestiamo a ripercorrere e a capire le argomentazioni di Chillemi hanno ancora la forza di suscitare ammirazione per la tenacia di una volontà che non si arrende al dato di fatto, che cerca un rimedio, una soluzione per realizzare un grado maggiore di equità. Compito alto e nobile della politica che presta attenzione ai bisogni delle comunità e si mette al servizio del bene comune. Iniziando la ricostruzione dei fatti Chillemi si dice “legalmente autorizzato ad esperire tutti i mezzi di legge per la tutela dei diritti del Comune”, ove per Comune intende quello che la parola evoca nel modo più sincero e autentico: il bene comune, l'interesse della popolazione tutta. Gli antefatti della questione contadina La storia dell'Italia agricola si svolge dal 1809 al 1952 intorno alle stesse questioni da nord a sud: le leggi eversive del feudalesimo. Esse sostituirono le convenzioni e le forme giuridiche feudali con nuovi rapporti basati sulla proprietà esclusiva, capitalistica della 4 terra. Contemporaneamente avvenne l'emersione di nuovi ceti e la ricchezza passò in nuove mani. L'abbandono degli usi civici e dei diritti promiscui, che permettevano in passato la messa a frutto dei suoli da parte delle comunità agricole perseguendo solidalmente un beneficio comune, produsse la proletarizzazione dei ceti contadini, l'abbandono e lo spopolamento di molte aree agricole con il conseguente degrado che riguardò la produzione, le relazioni politiche e sociali, la stessa demografia delle aree agricole. Per uso civico e diritto promiscuo si intendono forme di “utilizzazione collettiva del suolo facenti capo agli abitanti di un comune, o di una frazione, di una Università, come allora si chiamavano le comunità agricole, o altra associazione agraria". Così vengono ancora definiti gli usi civici dall'art. 1 della legge n. 1766 del 1927 che, insieme al regolamento (del 26 febbraio 1928) per l'applicazione della 1766, e alla legge n. 1078 del 1930, regolò conclusivamente la materia. Il contenuto della legge che stiamo citando è infatti una ratifica conclusiva della vittoria degli interessi dei grossi agrari sugli interessi e i diritti dei contadini, così come nell'arco di un quarto di secolo, tra gli anni 50 e 80 dell'Ottocento, si sono affermati. A vincere furono gli speculatori borghesi a danno delle comunità, generalmente composte da pochi piccoli coltivatori diretti e molti nullatenenti. Questi dalla campagna avevano fino ad allora tratto sostentamento, malgrado non avessero proprietà, esercitando i loro riconosciuti diritti di uso comune delle terre, antica consuetudine basata su una concezione feudale, comunitaria, delle proprietà. Il riordino giurisdizionale della vastissima materia che riguardava i diritti di proprietà e gli usi dei suoli si era resa necessaria già da molto prima che Mussolini emanasse la L.1766, chiudendo l'intera questione della destinazione che avevano avuto nel tempo le terre degli antichi feudi, dei demani comunali, delle mense vescovili, dei latifondi medioevali in genere. L'amministrazione fascista definì la questione all'insegna della volontà di abbandonare gli usi civili, di abolire il godimento diretto da parte della popolazione delle proprietà collettive, liberando la terra dai retaggi dell'agricoltura del villaggio. Un compendio di tutti i dispositivi emanati dalla suprema Commissione feudale riassumeva ben 2.187 sentenze riguardanti i feudi e i demani, da cui attingevano i Regi Commissari Ripartitori e i Tribunali chiamati a risolvere questioni e vertenze ancora all’inizio del Novecento. 1Sotto il regime feudale intorno alle Università comunali e ai villaggi si raccoglievano i ceti produttivi più liberi