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L'abbandono della feudalità e l'avvento della agricoltura capitalistica in Sicilia.

La proletarizzazione dei contadini nella storia della comunità agricola di Limina

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CAPITOLO I - La questione contadina nella “Memoria” del sindaco Filippo Chillemi

Il contesto socio-economico

Il documento che abbiamo avuto il piacere di leggere è una “memoria” politica scritta da un coraggioso sindaco socialista che ha governato la piccola comunità di Limina negli anni difficili della prima decade del Novecento. Il documento, per noi che lo leggiamo a distanza di un secolo,rappresenta una alta testimonianza della capacità civile di un sindaco coraggioso che ha saputo lasciare un esempio di rettitudine morale e senso di giustizia messi al servizio dell'interesse comune della sua comunità paesana. Riferito al contesto dell’Italia post-unitaria, esso ci sembra una delle pagine più sincere di quella stagione politica e sociale originaria che è tra le più complicate ed equivoche della storia nazionale, l'età nella quale si è radicata la complicità mafia-politica, si è determinato il dualismo economico nord-sud, si è praticata una disastrosa politica di potenza e di prevaricazione antidemocratica in tutta la nazione.

Il racconto dei fatti accaduti in quegli anni non sempre è stato rispettoso dei fatti stessi: si sono diffuse versioni narrative tendenziose che, a mio giudizio, hanno mirato a sminuire il valore della storia contadina in Italia con il risultato finale di disinnescare la forza della protesta che proprio le lotte contadine hanno avuto in un periodo molto lungo che va dai primi anni del 1800 alla prima metà del novecento. La “memoria” del sindaco Chillemi è stata scritta nel 1915, ma si riferisce a fatti accaduti nella seconda metà del XIX secolo.

La seconda metà del diciannovesimo secolo è la stagione dell'avvio della macchina statale dell'Italia unita, e contemporaneamente è la stagione dell'avvento del capitalismo italiano. Definita e risolta l'indipendenza e l'Unità sul piano istituzionale, con Roma capitale dal 1870, e assicurata una impostazione centralistica e piemontese della amministrazione pubblica, il regno d'Italia dei Savoia si caratterizzò per la sua impostazione autoritaria e classista. I problemi della neonata nazione furono affrontati con politiche che risultarono, nella nuova geografia politico-economica della penisola, vantaggiose solo per una parte del paese, forse per gli imprenditori del nord e per alcune categorie sociali delle aree urbane, ma non per le regioni del sud, per le popolazioni di campagna e per le classi lavoratrici. I primi governi furono quelli della cosiddetta “destra storica”, cui subentrarono, dopo le crisi degli anni 70/80 dell'Ottocento, governi della cosiddetta “sinistra storica”, ma la questione contadina attraverso i diversi periodi politici rimase irrisolta.

La rappresentanza parlamentare allora era affidata a partiti di notabili, spesso avvocati, più o meno ricchi, o ad altri appartenenti al ceto dei professionisti, componente minoritaria nella popolazione tutta. Essi si rivolgevano al 1,9% della popolazione, quella che ebbe diritto al voto sulla base della legge elettorale voluta dai primi governi che erano governi della destra storica. La prima riforma del suffragio fu proposta dalla sinistra storica nella campagna elettorale del 1876, e fu poi attuata nel 1882, con cautela, che in Italia vuol dire con lentezza, predisponendo molti contrappesi e tutele affinché il suffragio allargato non fosse capace di produrre sovvertimenti. 3

I rappresentanti del popolo erano dunque espressione di una selezionata società di borghesi, intenzionati a conservare i vantaggi che la nuova gestione dello Stato aveva assicurato loro e a procurarsi ulteriori occasioni di crescita e avanzamento socio- economico. L'elettorato crebbe nel 1882 e andò a 8% circa della popolazione, ma rimase il problema della rappresentanza del popolo italiano, dei ceti più poveri, che certo non si riconoscevano negli eletti, né erano capiti da essi, che ne ignoravano le problematiche e i bisogni.

Già dai primi anni dello sviluppo della produzione industriale le crisi di sovrapproduzione che ciclicamente costringevano alla disoccupazione e alla fame le masse operaie e le masse contadine, mettevano in evidenza le contraddizioni dell'economia italiana, scissa tra l'interesse alla crescita industriale e la naturale vocazione e la tradizione di paese agricolo. La prima grave crisi capitalistica del 1873 lasciò un lungo strascico di sofferenza e di conflitti non solo nelle aree urbane, ma anche in quelle agricole, al nord quanto al sud.

Quando Chillemi, il sindaco socialista di cui stiamo ricostruendo la storia politica, scrive la sua “Memoria”, affidando all'avvocato Renato Paoli la rappresentanza legale e il patrocinio della sua causa, di crisi economiche ce ne sono state almeno quattro dall'Unità d'Italia. Quattro grandi crisi, analoghe per origine e per gravità, marcate come sempre dalle proteste, dagli scioperi, dalle manifestazioni, cui fecero sempre seguito leggi speciali di riduzione delle libertà, interventi dell'esercito contro i manifestanti, repressioni. Chillemi scrive per denunciare un sopruso subito dal popolo degli indigenti di Limina. La sua denuncia ha la data del 1915, ma si riferisce a vecchie ingiustizie perpetrate nel 1888. Essa non si propone come una tardiva petizione di giustizia, ma con la forza di una rivendicazione attualissima, legittimata dalla speranza che una giustizia giusta possa affermarsi ancora. Quello di Chillemi è un atto politico più che una causa giudiziaria. Era consapevole che il suo ruolo di sindaco di Limina comportava anche il compito di rappresentare le necessità e le aspettative della cittadinanza priva di mezzi, della maggioranza della cittadinanza, tradita e oppressa, che aveva subito non una, ma mille ingiustizie a cui bisognava mettere fine. Nella memoria che ci apprestiamo a ripercorrere e a capire le argomentazioni di Chillemi hanno ancora la forza di suscitare ammirazione per la tenacia di una volontà che non si arrende al dato di fatto, che cerca un rimedio, una soluzione per realizzare un grado maggiore di equità. Compito alto e nobile della politica che presta attenzione ai bisogni delle comunità e si mette al servizio del bene comune. Iniziando la ricostruzione dei fatti Chillemi si dice “legalmente autorizzato ad esperire tutti i mezzi di legge per la tutela dei diritti del Comune”, ove per Comune intende quello che la parola evoca nel modo più sincero e autentico: il bene comune, l'interesse della popolazione tutta.

Gli antefatti della questione contadina

La storia dell'Italia agricola si svolge dal 1809 al 1952 intorno alle stesse questioni da nord a sud: le leggi eversive del feudalesimo. Esse sostituirono le convenzioni e le forme giuridiche feudali con nuovi rapporti basati sulla proprietà esclusiva, capitalistica della 4 terra. Contemporaneamente avvenne l'emersione di nuovi ceti e la ricchezza passò in nuove mani. L'abbandono degli usi civici e dei diritti promiscui, che permettevano in passato la messa a frutto dei suoli da parte delle comunità agricole perseguendo solidalmente un beneficio comune, produsse la proletarizzazione dei ceti contadini, l'abbandono e lo spopolamento di molte aree agricole con il conseguente degrado che riguardò la produzione, le relazioni politiche e sociali, la stessa demografia delle aree agricole.

Per uso civico e diritto promiscuo si intendono forme di “utilizzazione collettiva del suolo facenti capo agli abitanti di un comune, o di una frazione, di una Università, come allora si chiamavano le comunità agricole, o altra associazione agraria". Così vengono ancora definiti gli usi civici dall'art. 1 della legge n. 1766 del 1927 che, insieme al regolamento (del 26 febbraio 1928) per l'applicazione della 1766, e alla legge n. 1078 del 1930, regolò conclusivamente la materia. Il contenuto della legge che stiamo citando è infatti una ratifica conclusiva della vittoria degli interessi dei grossi agrari sugli interessi e i diritti dei contadini, così come nell'arco di un quarto di secolo, tra gli anni 50 e 80 dell'Ottocento, si sono affermati.

A vincere furono gli speculatori borghesi a danno delle comunità, generalmente composte da pochi piccoli coltivatori diretti e molti nullatenenti. Questi dalla campagna avevano fino ad allora tratto sostentamento, malgrado non avessero proprietà, esercitando i loro riconosciuti diritti di uso comune delle terre, antica consuetudine basata su una concezione feudale, comunitaria, delle proprietà.

Il riordino giurisdizionale della vastissima materia che riguardava i diritti di proprietà e gli usi dei suoli si era resa necessaria già da molto prima che Mussolini emanasse la L.1766, chiudendo l'intera questione della destinazione che avevano avuto nel tempo le terre degli antichi feudi, dei demani comunali, delle mense vescovili, dei latifondi medioevali in genere. L'amministrazione fascista definì la questione all'insegna della volontà di abbandonare gli usi civili, di abolire il godimento diretto da parte della popolazione delle proprietà collettive, liberando la terra dai retaggi dell'agricoltura del villaggio. Un compendio di tutti i dispositivi emanati dalla suprema Commissione feudale riassumeva ben 2.187 sentenze riguardanti i feudi e i demani, da cui attingevano i Regi Commissari Ripartitori e i Tribunali chiamati a risolvere questioni e vertenze ancora all’inizio del Novecento. 1Sotto il regime feudale intorno alle Università comunali e ai villaggi si raccoglievano i ceti produttivi più liberi e autonomi dalla autorità oppressiva dei feudatari, malgrado le stesse Università fossero soggette al “Regio assenso”, e malgrado dovessero pagare una tassa generale che veniva redistribuita su tutti gli abitanti “secondo il valore e il reddito dell’industria e proprietà che possedevano”. Il conflitto che i sovrani dovettero sostenere per reprimere la “baldanza” dei baroni che contro di loro ordivano congiure e ribellioni, comportò fin dal quindicesimo secolo, l’età del basso medioevo, che i

1 Alfonso Perrella, L’eversione della feudalità nel napolitano. Dottrine che vi prelusero. Storia, legislazione e giurisprudenza., Arnaldo Forni editore, 1909, 5 sovrani accettassero di vendere alle Università che lo richiedevano i feudi, che così tornavano al Regio demanio, ossia sotto la giurisdizione della corona. 2 Da allora fu accordato il diritto di prelazione che consentiva alle Università o ai semplici cittadini di essere preferiti a qualsiasi barone qualora ci fosse stato da vendere un feudo, per riconcessione o per pagare dei crediti al fisco. “Proclamare al demanio” significava per una Università sottrarsi al dispotismo feudale. Esse si ritrovavano però presto nella necessità di rivendere demani e gabelle di cui si erano caricati l’onere comprando il feudo, quando non bastò ripartire il debito sui cittadini, oppure di infeudarsi di nuovo, spesso sacrificando frazioni, borghi o casali periferici

Si praticò per un tempo molto lungo la trasformazione dei feudi in proprietà singole, quotizzando a porzioni i fondi in modo da rendere accessibile anche ai piccoli capitali l'acquisto di una proprietà. Infine con la legge del 1927 si esclusero dalla intestazione delle proprietà le associazioni agrarie, data l'ostilità che il fascismo aveva nei confronti della cooperazione e dell'associazionismo. Si sciolsero definitivamente le promiscuità e si chiusero le vertenze sulla appartenenza dei fondi che stavano su più comuni, mettendo fine a molte vertenze tra comuni. Con la legge del 1927, cosa ben più dura da accettare, fu riconosciuta la proprietà nominale delle terre intestate anche attraverso procedure illegali, di chiunque avesse in precedenza occupato terre comuni, anche usurpandole con tranelli fraudolenti messi in opera con la compiacenza di qualche amministrazione comunale. Nel 1915, quando Chillemi inizia la sua azione legale da sindaco a nome dei suoi concittadini nullatenenti, la questione è ancora tutta aperta, anzi si poteva sperare nel successo di un’azione legale ben formalizzata, che chiarisse la verità dei fatti passati, potendo contare sulla novità politica della sua sindacatura socialista e su una più democratica applicazione delle leggi sulla divisione del demanio. Per rendere comprensibile l'importanza che attribuiamo a questo documento, tenteremo di fare una ricostruzione storica dei processi economici, politici e sociali che hanno avuto conseguenze sulla definizione dei nuovi rapporti di proprietà della terra nel tempo del Risorgimento italiano, il cui significato più autentico è, a nostro giudizio, il passaggio dal feudalesimo al capitalismo.

L'alienazione dei feudi e la nuova proprietà capitalistica

L'affermazione della concezione capitalistica della proprietà della terra era iniziata con la modernizzazione introdotta dalla amministrazione napoleonica già nel 1808. Rendere esclusiva e individuale la proprietà era nei piani di Murat che governò il regno di Napoli in quegli anni.3 Ciò avrebbe permesso di incrementare le colture specializzate, di

2 Prammatica “De baronibus et eorum officio” e Prammatica “At post bellorum strepitus” di Ferdinando I, detto il Giusto – 1412; Prammatica XI e XVI “De baronibus” di Carlo V - 1530 3 Gioacchino Murat – 1808/1815 -Prima di lui Giuseppe Bonaparte il 2 agosto 1806 aveva abolito i diritti feudali personali e le giurisdizioni private dei baroni concedendo loro una indennità e decretando la vendita dei beni ecclesiastici. Nel 1807 furono aboliti i fidecommessi. Il riformismo napoleonico era moderato: non voleva ridistribuire le terre a spese della nobiltà. In questo periodo quasi il 10% del patrimonio dello Stato cambiò proprietario. Il 65% di questi beni fu acquisito da 154 persone, per un terzo esponenti dell’alta nobiltà. Pasquale 6 incrementare il profitto per il proprietario attraverso una gestione della produzione basata su nuovi metodi, su migliorie strutturali e su scelte orientate al mercato estero. La proprietà privata della terra avrebbe ottimizzato la produzione mediante investimenti per ammortizzare i quali avrebbe incrementato la resa agricola dei suoli. Queste erano le stesse direttive che erano state immaginate qualche tempo prima dai fisiocrati4 dei governi dell'illuminismo assolutista della corte dei Borboni a Napoli. I nuovi criteri con cui si discuteva di economia e di politiche agrarie facevano disprezzare “la vergogna del maggese” che era stato il rimedio all'esaurimento dei suoli agricoli nei tempi antichi, quando veniva praticata la rotazione delle culture.

Cosa rendeva inadeguati gli usi della gestione feudale della campagna e della produzione agricola? Il sistema feudale si reggeva su una investitura signorile che comportava, per il feudatario, la giurisdizione e il godimento dei beni, ma non la libera disponibilità delle terre, sulle quali venivano mantenuti diritti a favore delle popolazioni: era la collettività che si organizzava economicamente intorno al beneficio del feudatario; non esisteva un diritto individuale proprietario del feudo che consentisse, per esempio, la vendita. Nelle terre demaniali, chiunque ne fosse il proprietario, che fosse un feudatario, un comune o un ente religioso, venivano esercitati gli usi civili. Le proprietà allodiali, che erano proprietà private, o del comune o del feudatario, erano “uti singuli”, i demani invece erano “uti universi”. Anche le proprietà della Chiesa, che per tutto il medioevo andarono crescendo per effetto di donazioni, di acquisti o per effetto di usi e convenzioni come la manomorta e il fedecommesso, venivano messe a coltura con contratti agrari che consentivano l'usufrutto, ma non escludevano l'uso civico, espressione tra l'altro della ineludibile cooperazione tra i contadini nelle età antiche.

Anche quando, in età più recenti, la proprietà della terra divenne esclusiva, i diritti delle popolazioni non sono stati esclusi. Sulle ex- terre infeudate, dopo le leggi eversive del feudalesimo, nella seconda metà del Settecento, si continuò a mantenere una forma di dominio collettivo, gli usi civici, fino ai tempi di cui stiamo ricostruendo lo scenario. Fino a tutto il XVIII secolo fu mantenuto il diritto di semina e di raccolta nelle terre lasciate all'uso comune, per un tempo sufficiente a una semina e alla relativa raccolta. Nelle aree, specie del sud, dove fu forte l'influenza normanna e sveva, i diritti dei feudatari riguardavano le terre assegnate in feudo, ma non gli allodi, che erano proprietà private, né i demani comunali o universali che avevano un proprietario collettivo, ma il cui utilizzo era aperto e non esclusivo. Il detto “ubi feuda ibi demania” vale per dire che la logica su cui si regge il feudo è la compatibilità e la contemporaneità della proprietà con gli usi civili, per i bisogni delle popolazioni nullatenenti.

Villani,“La vendita dei beni dello Stato nel Regno di Napoli, 1806-1815”, Milano 1964; P. Villani, “Feudalità, riforme, capitalismo agrario”, Bari, 1968 4 Intellettuali e uomini politici che promossero idee di governo illuminato, libertario, riformista. Ritenevano urgente attuare riforme economiche migliorando l’agricoltura e il commercio – Genovesi, Tonucci, Filangieri, Galanti e altri nel Regno di Napoli di Carlo III a metà del Settecento. 7

A cominciare dal XVIII sec. gli indirizzi economici mirarono alla affermazione dell'individualismo agrario. In generale cominciarono ad essere considerate dannose le forme di gestione collettiva. La svolta nell'uso dei suoli e nella concezione della proprietà terriera, che segna la fine del feudalesimo, è per il sud rappresentata dalla Prammatica XXVI “De administratione Universitatum” del 23 febbraio 1792 di Ferdinando IV re di Napoli. Essa contiene norme per la valutazione delle proprietà e l'affrancazione degli usi civili nei demani feudali, per la divisione dei demani e lo scioglimento delle promiscuità.

Le fasi della modernizzazione nella politica agricola

Excursus storico sugli usi civici

All'inizio dell'800, quasi un secolo prima dei fatti che la memoria del sindaco socialista Chillemi riallinea in un racconto infervorato a difesa dei diritti collettivi dei contadini nullatenenti, la questione degli usi civili e collettivi si presentava anti-moderna, svantaggiosa, problematica, esattamente all'opposto della prospettiva socialista di Chillemi. Si affermava allora una logica nuova che è la logica del profitto, del diritto privato prevalente sul diritto pubblico, dell'uso esclusivo a detrimento dell'uso condiviso, della sperequazione, della distinzione sociale tra chi ha e chi non ha proprietà concepita come un valore, come una necessaria conseguenza della liberalizzazione dei suoli, a prescindere dalla diminuzione dei vantaggi sociali.

Successivamente, con gli sconvolgimenti politici che derivarono dalla conquista di Napoleone Bonaparte, iniziò per sua volontà un processo di modernizzazione indotto dall'alto, che riguardò l'amministrazione, i rapporti sociali, le istituzioni politiche, l'economia in tutta l'Europa, sud compreso. Il secondo atto in questa direttiva fu il decreto di Giuseppe Napoleone sulla ripartizione dei demani e lo scioglimento delle promiscuità. Normative queste che miravano ad accertare i diritti imprescrittibili delle popolazioni, consultando una preposta Commissione feudale che in 18 mesi emise 3000 sentenze. Per procedere nelle suddivisioni furono nominati Commissari speciali, poi sostituiti da Intendenti Provinciali.

Se Ferdinando IV aveva in vista una modernizzazione dello stato borbonico già nel 1792, ancora di più accelerò il processo di abbandono del feudalesimo la spallata rivoluzionaria e modernista del 1799, rappresentata dall'avvento della Repubblica partenopea, una delle Repubbliche sorelle che si organizzarono, come in un mosaico, per iniziativa dei patrioti italiani, ma assoggettate alla supremazia francese, nel ruolo di patner politici ed economici. L'arrivo delle truppe napoleoniche e la amministrazione napoleonica, finirono per scardinare l'ordine dell'antico sistema feudale. Già la rivoluzione francese ne aveva stigmatizzato le insopportabili ingiustizie, l'inefficienza economica, l’inutilità dei privilegi che venivano accordati al clero e agli aristocratici. Una nuova classe dirigente, coinvolta nel lavorio teorico intorno alle questioni del buon governo, che dall'illuminismo in poi era diventata questione centrale, fa le sue prime, dirette, esperienze politiche in questa fase di svecchiamento post-rivoluzionario, che coincide con l'avvento del capitalismo sul piano economico e del nazionalismo sul piano politico. 8

La modernizzazione promossa e accelerata, fu tutta a vantaggio dei ceti borghesi che desideravano sostituirsi alla vecchia aristocrazia nelle decisioni politiche, accedere al potere per governare, procurandosi facilitazioni per gli affari e per lo sviluppo industriale e commerciale. Il mondo post napoleonico è il mondo segnato dall'avvento del capitalismo borghese e dall'industrialismo competitivo della seconda industrializzazione, quando gli Stati divennero soggetti economici, decisero politiche di potenza idonee a difendere gli interessi borghesi del profitto e delle rendite, come se fossero interessi nazionali. Lo sfondo della narrazione del sindaco Chillemi è il mondo del capitalismo avanzato degli anni 80 e 90 dell'Ottocento, che vorrà praticare una agricoltura di mercato, specializzata, capace di trovare mercati esclusivi e produrre utili, non solo rendite, attraverso una modalità intensiva di sfruttamento del suolo e del lavoro dei braccianti per quote sempre più alte di profitto.

La legge sulla abolizione della feudalità è del 1806. E' stata emanata dopo la conquista napoleonica di marzo, la fuga a Palermo del re Borbone Ferdinando IV, e la nomina del fratello maggiore di Napoleone, Giuseppe, a re di Napoli. Seguono una serie di decreti e regolamenti attuativi, di non facile elaborazione dovendo essi riordinare una materia che si sciorinava su convenzioni, usi antichi, antiche tradizioni feudali locali. Le decisioni del riordino nascevano dall'interesse ad allearsi con la parte della società che aveva disponibilità economiche, in concorrenza e in alternativa con gli interessi dei nullatenenti, da un lato, e della proprietà parassitaria feudale dall'altro. La legge eversiva del feudalesimo prevedeva infatti una divisione tra acquirenti, baroni o borghesi, delle terre feudali, comprese le terre dei luoghi pii e delle Università, cioè comprese quelle terre in cui il contadiname praticava gli usi civili per il proprio sostentamento. Una commissione si sarebbe occupata di dirimere le cause tra i nuovi proprietari e le Università. I tribunali ordinari, dipoi, si sarebbero occupate delle questioni non risolte dalla Commissione. Gli intendenti prima, e i Commissari Ripartitori poi, furono incaricati di decidere la ripartizione dei demani comunali e la divisione delle quote tra i cittadini.

L'intenzione della legge era di preservare per i comuni parte del demanio feudale in ragione degli usi comuni: Dopo aver ripartito le quote individuali, il Comune poteva disporre delle terre non coltivabili, ma adatte a pascolo o legnatico o altra attività di ricerca, procedendo anche a fare contratti di affitto, a sciogliere le “promiscuità”, ossia a escludere gli usi misti dei suoli con altri comuni. Non furono quotizzate le colonìe perpetue, ossia terreni del feudo assegnati anticamente a coloni dietro il pagamento di una gabella o fitto, che furono equiparati a proprietà acquisite. Gli altri coloni dovevano continuare a pagare al Comune un canone: si riconosceva cioè la proprietà del demanio al Comune, che vi riscuoteva quindi legittimamente il canone. Le quotizzazioni erano di piccole proprietà e prevedevano una forma di riscatto del bene attraverso il pagamento di un censo.

Con la Restaurazione, successivamente alla sconfitta del repubblicanesimo affiliato filo-francese, dopo la sconfitta di Napoleone, volendo abolire anche le tracce dell'età napoleonica e dell’epopea repubblicana, il Borbone tornato sul trono nel 1816, legiferò in linea con le direttive precedenti. La legge del 1816 di Ferdinando IV, tornato al potere col 9 nome di Ferdinando I del Regno delle due Sicilie, compresa l'isola, proibiva la vendita o la cessione dei fondi ottenuti con le quotizzazioni, forse per impedire quanto purtroppo invece avvenne, che cioè sui fondi si facessero speculazioni che deviassero l'operazione delle leggi eversive verso altri fini di arricchimento. Spesso l'assegnatario di un appezzamento di bassa produttività non ebbe di che pagare il canone al Comune, o la tassa fondiaria allo Stato, o di che pagare le spese per la coltivazione, e spesso il raccolto scarso non diede speranza di veder cambiare la situazione di miseria in cui il piccolo assegnatario si ritrovò. Le condizioni dei contadini erano peggiorate anziché migliorare. In questi casi il fondo finì per essere venduto.

Le quotizzazioni differenziarono una popolazione agricola più stratificata e di diverso reddito. Le quotizzazioni di fatto volevano creare un ceto agricolo di piccoli proprietari, ed ebbero la valenza di una specie di riforma agraria che ripartisse le terre a chi le lavorava, eliminando l'indigenza indifferenziata delle masse contadine attraverso il riordino delle proprietà, ma “per la maggior parte accadde che a trarre vantaggio dalle quotizzazioni fu la borghesia terriera che controllava le amministrazioni comunali”.

In Sicilia, diventata periferia nel nuovo regno di Francesco I, successore di Ferdinando II Borbone, le leggi eversive della feudalità furono applicate dal 1825. Nell'Isola un editto sulle chiudende del 6 ottobre 1820 diede vita a piccole unità produttive - le chiuse qualcosa di simile ai campi chiusi della campagna francese o inglese di fine Settecento. Successivamente, per insistere sulla modernizzazione produttiva rappresentata dalla gestione aziendale di iniziativa privata, la L.15 aprile 1851, n. 1192 proibì il pascolo comune anche sui terreni aperti. L'ottica era quella di stimolare la produzione intensiva e battere la concorrenza dei prodotti stranieri che invadevano il mercato con prezzi bassi.

La Gran Corte dei Conti si occupò di dirimere le vertenze in materia demaniale fino all'Unità d'Italia, fino alla legge sulla Unità Amministrativa del 20 marzo 1865, quando fu la corte d'appello a occuparsene. Con la nuova gestione dei Savoia dopo la conquista del sud, con la legge 23 aprile 1865 n. 2252, anche i diritti civici di legnatico e ricerca vennero aboliti : gli ademprivi e i diritti di cussorgia, termini sardi per indicare diritti e beni civici, furono aboliti dietro compenso. Nello Stato unitario con la L.2794 1° novembre 1875, fu poi disposta e regolamentata l'affrancazione dei diritti d'uso sui boschi demaniali.

Oggi la gestione comunitaria dei terreni è residuale: è mantenuta su terreni della collettività entro certi limiti, non essendosi del tutto estinti i terreni di proprietà collettiva. Gli usi civili esercitati dalla collettività su terre non proprie, che comportavano in passato diritti d'uso, di servitù, condomini, erano certamente destinati a sparire attraverso un procedimento estintivo di liquidazione. Ma non sempre chi aveva capitali per liquidare le servitù, partecipando alle quotizzazioni, ha trovato conveniente farlo.

La questione contadina nel regno delle due Sicilie (1815 / 1860)

I fondi archivistici, che oggi sono consultabili on line grazie al sistema di digitalizzazione degli inventari, contengono una documentazione estremamente ampia riguardante l'attività amministrativa e di recupero di fondi demaniali. Esistono registri, libri 10 maggiori, giornali d'introito e di esito, volumi di conti attestanti i nomi di chi effettuava i pagamenti: è indicata l'entità delle cifre versate per l'affrancazione di censi. Si può conoscere l'entità delle somme versate per la privatizzazione di quote dei terreni comuni del feudo, o per gli acquisti dei fondi alle aste pubbliche. Si sa che i censi pagati erano destinati anche all'indennizzo dei creditori espropriati, ossia dei feudatari o enti ecclesiastici o Università i cui beni erano stati alienati, indennizzo che veniva ammortizzato in parte col ricavato della vendita di quei beni.

Un nucleo documentario importante, riunito alle carte del Ministero delle finanze riguardanti le vendite dei beni demaniali, è quello dei demani derivanti soprattutto dalla soppressione degli ordini religiosi. Le proprietà confiscate prevalentemente erano infatti fondi appartenuti a ordini soppressi, come quello dei Basiliani a Messina.

Il fondamentale degli usi civili era considerato lo ius pascendi, il taglio dell'erba e la ricerca di legname da ardere. Queste attività hanno attinenza con una agricoltura di sussistenza, tradizionalmente povera. Dopo gli anni quaranta dell'800, sembrò improrogabile il superamento degli usi civili per avviare l'agricoltura delle fertili terre del meridione verso produzioni specialistiche destinate ai mercati esteri. Fu strategico per l’affermazione politica dello Stato, avviare un flusso di esportazione capace di fare concorrenza alle altre nazioni d'Europa. La modernizzazione agricola passava però attraverso l’esclusione e lo sfruttamento della maggior parte della popolazione nullatenente e la ineludibile conseguenza della creazione della questione sociale che in Italia si presentò associata all'argomento dell’indipendenza e dell’Unità, soprattutto quando, con i moti del 1848, la primavera dei popoli, i nullatenenti coltivarono la speranza di una nascente età dell'avvenire socialista in cui le terre diventassero di tutti. Il socialismo utopistico in Europa aveva elaborato soluzioni filantropiche che tornavano a indicare l'uso comunistico delle terre, ossia la messa in comune della ricchezza, come rimedio per attuare una sorta di giustizia sociale originata dall'egualitarismo nel lavoro. Ovunque si era fatta grave l'indigenza e la povertà. Le classi borghesi temevano sovvertimenti drastici, rivoluzionari, e stavano sulle difensive.

Nel 1861 i Regi Commissari Ripartitori furono rimessi all'opera per procedere allo scioglimento delle promiscuità, ossia alla separazione delle terre demaniali pertinenti ai comuni, sia feudali che ecclesiastici, alla reintegra dei demani usurpati e alla quotizzazione delle terre spettanti ai comuni.

Nei decenni seguenti l'ondata rivoluzionaria andò crescendo, ma il controllo della politica da parte dei borghesi vincolò gli Stati agli interessi della loro parte. La soluzione del problema della cancellazione degli ultimi retaggi di feudalesimo sembrò irrinunciabile. La legge del 24 giugno 1888 n. 5489, quella del 2 luglio 1891, il testo unico del 3 agosto 1891, i provvedimenti del 4 agosto 1894 ratificarono lo stato di fatto della attribuzione di proprietà delle terre del demanio, ratificarono anche le usurpazioni che c'erano state, irragionevolmente, dal momento che di usurpazioni si trattava. C'erano stati dei soprusi nell'affare delle liquidazioni dei diritti feudali, c'erano state delle false liquidazioni con canoni simbolici, si erano falsificati i dati sulle quantità e sulle qualità delle terre demaniali. 11

Le terre migliori erano state incamerate senza difficoltà dagli stessi politici delle amministrazioni locali, appartenenti a quella borghesia affaristica che usurpò le terre comuni, appropriandosene gratis o con un minimo investimento di capitali a loro disposizione.

Tutta la questione risulta conservata negli archivi di Stato, nei fondi versati dai Commissari per la liquidazione degli usi civili, che contengono atti come le sentenze della Commissione feudale per l’eversione dal feudalesimo, documenti sui procedimenti per le quotizzazioni dei territori soggetti a usi civili, le risoluzioni di promiscuità, le legalizzazioni, le reintegrazioni, documenti sulle usurpazioni di demani indivisi che solo i grandi proprietari, che avevano anche più grandi disponibilità finanziarie, si accaparrarono.

Si trattò la terra per la prima volta come merce finanziaria, come un bene che ha valore in qualità di bene capitalistico di investimento, non d'uso, in vista del profitto che la proprietà della terra fornisce attraverso lo sfruttamento del lavoro. L'obiettivo autentico della legge eversiva dalla feudalità, che aveva lo scopo si creare un ceto di proprietari più ampio, capace di incrementare la produzione e modernizzare le colture, fallì. Dove si fecero le quotizzazioni, la partizione riguardò fondi troppo piccoli per dare un reddito sufficiente al mantenimento dei contadini che dovevano, per intestarsi il bene, pagare spesso due tasse: il canone al Comune e la fondiaria allo Stato. Le proprietà, spesso, vennero cedute a grandi proprietari, malgrado la proibizione della alienazione delle quote, contenuta sia nella legge di Murat che nella legge borbonica di Ferdinando I. I latifondi, che avevano dominato la campagna feudale, si ricostituirono in mano non più alla aristocrazia, ma alla borghesia agraria, che impoverì i lavoratori agricoli, sfruttandone il lavoro e togliendo loro il beneficio degli usi civici.

Le vertenze che furono aperte, come dimostra la petizione contenuta nella memoria di cui ci stiamo occupando, ebbero inutili lungaggini e le cause furono perse per la stessa complicità della burocrazia amministrativa che moltiplicava gli organi che avevano competenza sulla materia e dovevano pronunciarsi: si ricorreva al giudice amministrativo, cioè all'Intendente, ma ad esso si contrapponeva l'autorità giudiziaria. L'assenza di mappe catastali era l'ostacolo maggiore a definire le questioni su basi reali e su prove. Il catasto del regno delle due Sicilie era descrittivo, senza carte e misure, malgrado Murat durante il suo governo avesse dato istruzioni (10 marzo 1810) per “levare la pianta” dei terreni prima di determinare l'entità delle terre da dividere.

Dopo l'Unità, nel 1861, l'intera materia si complicò per l'intreccio della questione contadina con la questione amministrativa centralista dei governi piemontesi. La guerra non dichiarata dei Savoia del nord contro i Borboni del sud, lo sfascio del regno del sud, con i fatti gravi delle defezioni dei militari, della anarchia che si venne a creare, con il sopravvento e l'occupazione garibaldina e savoiarda esercitata con una dittatura provvisoria e un governo militare, l'imposizione dei plebisciti coatti, dove si fecero, e l'estensione dello Statuto Albertino, e infine le leggi speciali che furono emanate dai Savoia per il sud occupato, tutto ciò comportò un periodo lungo di assenza di governo, di illegalità e di soprusi. L'opposizione politica in questo scenario fu trattata come reato 12 contro lo Stato, tradimento, e fu causa del risentimento che lacerò il rapporto del popolo con lo Stato unitario.

Le proteste contadine venivano percepite come dissenso originato dall'ignoranza e dalla viltà. Il pregiudizio orientò un certo giudizio morale rendendo incomprensibili ai governanti le lotte contadine e l'opposizione delle popolazioni che aspettavano dalla politica la soluzione del problema della terra. Le promesse garibaldine furono tutte disattese e, invece che partecipare alla liquidazione della proprietà fondiaria feudale, la classe contadina ebbe da sostenere una maggiore pressione fiscale, l'esclusione dalle decisioni, la negazione del diritto alla terra. Le proteste e le occupazioni simboliche delle terre furono segnali che la politica non ascoltò. Le proteste di Bronte e di Biancavilla, sedate nel sangue dall'esercito garibaldino, erano proteste per le terre, rivendicazioni esacerbate dalla lunga attesa, per una riforma agraria inapplicata che li escludeva dalla divisione dei feudi, ma non furono le sole: in molte ducee e marchesati si rinnovò il rito delle cavalcate di protesta coi muli, delle manifestazioni di contadini a cui Garibaldi aveva promesso la terra, che lo stesso Garibaldi ordinò di reprimere.

La legge Pica del 1863, affrontò il problema contadino come se fosse una questione di ordine pubblico, non una questione sociale, legata al lavoro e al riconoscimento del diritto alla terra per la sopravvivenza, in rispetto sia delle leggi emanate precedentemente che delle promesse politiche proclamate con l'indipendenza. I governi della destra storica tentarono di pacificare il sud con l'esercito. Ciò causò ulteriore distanza e incomprensione. La questione meridionale5 divenne la questione Irlandese d'Italia: da una parte l'esercito di occupazione di ben 120.000 soldati, dall'altra il dissenso, organizzato o spontaneo, rappresentato dai cosiddetti “briganti”, ossia di quanti si mettevano a capo di proteste e manifestazioni di dissenso. Vittima ne fu la popolazione che venne trattata da complice e venne immiserita da operazioni militari e da politiche vessatorie praticate col fisco e con le nuove leggi. Nello sfondo la questione agraria venne lasciata alle lentezze della burocrazia: le operazioni di liquidazione dei demani si basarono sulla legge 20 marzo 1865. La lentezza produsse la soluzione: i Comuni abbandonarono la speranza di vedere risolta la lite con gli usurpatori, i quali trionfarono senza sforzo. Le vertenze quindi spesso si conclusero con una resa da parte dei Comuni.

Negli archivi, insieme alla notevole quantità di atti amministrativi e giuridici, si trovano molte memorie di sindaci, volumetti a stampa, redatte per rivendicare le ragioni delle comunità paesane in relazione allo scioglimento degli usi promiscui. La rappresentazione del territorio con mappe, lucidi, seguendo le istruzioni che Murat aveva emanato, dove si

5 - Il primo ad interrogarsi risolutamente sulla questione meridionale fu Pasquale Villari che nel 1875 pubblicò le "Lettere Meridionali". Uomo della destra storica, il Villari denunciò lo stato di crisi in cui versava il mezzogiorno, indagando soprattutto sull’inefficienza e la debolezza delle istituzioni politiche, che non erano riuscite a radicarsi nel territorio. La difficile situazione del meridione poteva essere risolta, a suo parere, solo riavvicinando il governo ai contadini meridionali, operando quindi una netta svolta nella politica della Destra storica, che per raggiungere il pareggio di bilancio non aveva esitato ad imporre tassazioni impopolari al contadiname, cosa che aveva creato forti tensioni con il proletariato contadino e industriale sia del nord che del sud Italia. 13 fece, diede frutti: lì le questioni si andavano dirimendo con precisi rilievi del territorio e attente misurazioni.

Il capitalismo italiano e la questione contadina nella “Memoria”di Chillemi

L’ Italia del trentennio che va dal 1870 al 1900 mostra i nervi scoperti di una neonata nazione in cui gli atti di governo, i provvedimenti di legge provocano una reazione popolare divergente: da una parte della popolazione il plauso, dall'altra la protesta. La classe politica dell'epoca in questa schizofrenia non ha saputo comporre intorno a un progetto comune gli interessi collettivi. Hanno prevalso gli interessi di classe e hanno vinto gli interessi della classe economicamente più forte, che hanno veicolato il tornaconto delle lobby, comprese le organizzazioni mafiose che si appoggiavano alle vittorie dei potenti.

Notizie su Limina

A Limina, “piccolo comune, situato all'interno della provincia di Messina e a 14 chilometri dalla stazione della littorina di Santa Teresa Riva, e a 16 da quella di Sant'Alessio Etneo” all'epoca dell'azione giudiziaria di Chillemi contava 2.185 abitanti. Di questi paesini la popolazione bisogna contarla due volte, con due numeri, quello dei residenti, la popolazione legale, e quello degli emigrati, la popolazione assente dei Liminesi all'estero. Con quest'ultima gli abitanti sarebbero stati 2456. E’ una zona storica di produzioni agricole specialistiche, di vite, nella zona collinare dei Peloritani, e di limoni e baco da seta nel 1800. Qui le specializzazioni agricole sono state un'opportunità di crescita e di modernizzazione. L'intera zona ricca di storia fin dai tempi della colonizzazione fenicia e poi greca, è tra le più belle della costa orientale. Tra le più belle e le più povere malgrado la qualità e la diversità delle sue produzioni.

Eventi catastrofici hanno da sempre fatto tabula rasa delle risorse messe in essere dagli abitanti, i quali hanno imparato a difendersene stanziandosi nelle colline impervie interne, a una certa distanza dalla costa : le invasioni, i pirati, gli tsunami, i terremoti, le alluvioni, si sono ripetuti diverse volte nel tempo. L'ultimo tifone nella zona costiera è del 1763 e il terremoto più distruttivo che si ricordi, che allora abbatté anche Messina, è quello del 1908.

Il Comune nel 1915 aveva un bilancio di 11 mila lire di entrata cui si aggiungeva il sussidio governativo per il terremoto del 1908. Nel 1915 una lira valeva circa 5,2 euro attuali. Da lì a poco ci sarà una galoppante svalutazione che porterà la lira nel 1920 all'equivalente del valore attuale di 1,5 euro. Undici mila lire erano come circa 60.000 euro di adesso.

A Limina, Chillemi racconta, c'erano 30 proprietari principali, quattrocento piccoli proprietari e centosettanta nullatenenti. I danni calcolati dello “scelleratissimo” terremoto del 1908 ammontavano a circa 100.000 lire. Dalla ricognizione che Chillemi scrive, si comprende come le quotizzazioni agricole dei feudi avevano ottenuto il risultato della creazione di un ceto medio contadino numeroso, ma che le quotizzazioni stesse avevano 14 lasciato nell'indigenza quei 180 cittadini nullatenenti per i quali le terre comuni erano fonte di sostentamento.

La nobiltà d'animo di Chillemi comincia a mostrarsi da questi primi, puntuali, rilievi sociologici che fanno da prefazione alla sua rivendicazione delle terre del demanio per gli abitanti di Limina, per quella parte della popolazione che aveva subito due volte un danno, quando aveva perso i suoi beni per il terremoto, volontà del destino, e quando aveva perso la possibilità stessa di sopravvivere a causa del sopruso subito da parte di una conventicola di mafiosi che usurpò le terre su cui prima trovava di che vivere.

Chillemi tiene conto delle condizioni generali della economia del paese. La sua analisi socio- economica ispira la sua azione politica. Non altro ha come obiettivo che quello di promuovere una soluzione ragionata, motivata, con la legge, a rimedio di una ingiustizia evidente. La sua analisi dà forza alla sua richiesta, la rende comprensibile. L'urgenza di ripristinare l'uso comune dei suoli agricoli, che erano stati privatizzati facendo carte false, nasceva dalla consapevolezza che la povertà diffusa di una parte importante della popolazione di Limina era insostenibile. L'unica fonte di sostegno per quei 180 nullatenenti che ben conosceva, era ciò che veniva dalla terra e che, stando alla portata di tutti, avendo accesso alle terre di uso comune, rendeva possibile vivere.

Prima della grande guerra, nel 1915, quando Chillemi scrive, le masse contadine sollevavano da ogni parte d’Italia una protesta per ottenere la riforma dei patti agrari e migliori condizioni di vita. La promessa, che a questa generazione di lavoratori in lotta per la sopravvivenza sarà fatta, e che loro ascolteranno con fiducia quando saranno al fronte a buttare l'anima nelle trincee per difendere il suolo italiano, sarà quella di una riforma agraria che finalmente concederà la terra a chi la lavora. Negli ultimi decenni dell'800 il processo di proletarizzazione del ceto contadino era stata conseguenza della privatizzazione delle terre demaniali, divise in censi, che i ceti dei possidenti agiati si accaparrarono a prezzi agevolati, escludendo le attività di pascolo e di legnatico, e a volte di semina, che avevano rappresentato l'unica possibilità di sussistenza per i ceti contadini più poveri.

Usi antichi, feudali, quelli dei campi aperti, open fields, messi a coltura con tecniche estensive. Quando divennero campi chiusi e proprietà private liquidando i vecchi usi, le proprietà terriere divennero fonte di migliori rese, anzi di lauti profitti per i loro proprietari. Nei tempi di crisi e di bassa produttività, per congiunture di clima o di mercato, si è sempre praticata un'agricoltura più efficiente, con modalità aziendali, ricercando nuove tecniche, nuovi sistemi di gestione e nuove colture, sfruttando meglio la terra. Quando in Inghilterra il ceto dei proprietari decise le enclosures per praticare agricoltura e allevamento in complementarietà, e i poveri vennero esclusi dall’uso comune della terra, Tommaso Moro6 disse che “le pecore mangiavano gli uomini”. In Inghilterra allora i poveri dalle campagne

6 Tommaso Moro, un intellettuale e politico della corte di Edoardo VII ed Enrico VIII. Thomas More, Londra 1478 – Londra 1535 – Avvocato, scrittore, politico inglese condannato a morte dal re Enrico VIII per insubordinazione. Autore di “Utopia” 1516 15 emigrarono verso la città, dove alimentarono le file dell'accattonaggio, regolato addirittura da una legge, tale era l'affollamento dei nullatenenti immiseriti dalla privatizzazione dei suoli agricoli. Essi saranno arruolati nella nascente industria manifatturiera inglese e saranno la forza lavoro facile da sfruttare per i primi lucrosi guadagni della borghesia imprenditoriale inglese.

Chillemi aveva ben presenti questi meccanismi della trasformazione della proprietà in Sicilia e in tutto il sud contadino, che passò dalla modesta agiatezza precedente alla indigenza più impotente. Privi di industrie, ossia di stabilimenti per la lavorazione dei limoni, e privi di significative attività commerciali, tuttavia i liminesi avevano una “sufficiente agiatezza” dice Chillemi, in ragione del fatto che “aggiungevano i proventi degli usi civili, che da tempo immemorabile e pacificamente esercitavano su vastissime plaghe del territorio, situate in quel d'Antillo” una estesa zona di 3.600 ettari, demanio comunale che era in parte bosco,in parte seminativo, in parte pascolo.

Su questi fondi tutti esercitavano i diritti di condomini, come utenti delle terre che pure avevano un padrone. L’uso si fa risalire a un istituto feudale di diritto germanico: “condominio a mani giunte” (Gierke7), destinato a trasformarsi con la liquidazione del feudalesimo nel condominio frazionario o per quote, di diritto romano.

Di fatto si verificava — già nel corso del 1800 - una notevole dispersione dei patrimoni collettivi rispetto alla loro antica consistenza. A provocare la continua erosione dei patrimoni collettivi non è stata una disattenzione giuridica o l'assenza di leggi, ma le continue occupazioni di terre da parte dei singoli, facilitate dalla carenza di gestioni utili e dalla scarsa tutela di questi beni da parte degli organi gestori, quindi la responsabilità si carica tutta sulla classe politica locale e sulle amministrazioni intese come enti gestori.

Storia antica delle enclosures8

Si può capire cosa può aver significato l'esclusione dei nullatenenti dall'uso comune dei suoli se si fa un confronto con l'impoverimento subito dalle masse contadine dell'Inghilterra del 1600 quando i proprietari attuarono le enclosures come rimedio a fronte di una resa agricola che si era ridotta per effetto della perdita di fertilità dei suoli e per una congiuntura climatica negativa in presenza di una marcata crescita demografica. Allora i proprietari cercarono di mantenere alte le rendite attraverso una gestione aziendale dei fondi, sommando agricoltura ad allevamento e integrando ad esse le manifatture della lana. Ma gli esclusi, i nullatenenti, non ebbero più la possibilità di entrare nelle proprietà recintate per cercare legna o pascolare le bestie, o cercare erbe. Un grande commentatore di quella che fu la prima proletarizzazione delle masse contadine, provocata dal nuovo sistema di conduzione della produzione agricola, che si avviava a

7 Otto Friedrich von Gierke , 1841 / 1921 – giurista tedesco studioso delle istituzioni medioevali di scuola romantica 8 Campi aperti trasformati in campi chiusi, recintati, per ottimizzare l'attività agricola e di allevamento 16 prendere la forma della agricoltura capitalistica, fu Tommaso Moro.9 Mi pare che si possa accostare questa antica situazione con la situazione che si generò in Europa e in particolare in Italia, e ancora più nel sud Italia, quando si mise fine al feudalesimo. In entrambe le circostanze si considerò conveniente una gestione proprietaria di singoli possidenti, anziché il modo del lavoro agricolo nella economia di villaggio. Tommaso Moro così individuò i fattori principali dell'impoverimento improvviso e grave dei contadini delle campagne inglesi dicendo che le recinzioni avevano gettato in rovina grandi masse:

“Le vostre pecore, che un tempo erano così mansuete (..) adesso sono divenute così insaziabili da mangiarsi perfino gli uomini e da devastare i campi, le case, le città (...) i contadini ... sono cacciati via e spogliati dei loro possessi, o spinti dalle vessazioni, sono costretti a venderli. .. Ne consegue il vagabondaggio e una situazione di povertà con facile sbocco nella malvivenza: che altro resta loro da fare se non mettersi a rubare (..) o andar mendicando? (...) Dove tutto si misura col denaro non è possibile che la vita dello Stato sia svolga giusta e prospera.” “ è la rapacità di nobili, ricchi e alto clero, che oziando e scialacquando beni, depredano le classi lavoratrici di contadini e artigiani, in particolare con le recinzioni delle terre comuni, che vengono ridotte a pascoli privati, producendo abbandono di case e villaggi, disoccupazione e vagabondaggio.” “I nobili, i signori e perfino alcuni abati (..) recingono tutti i campi ad uso di pascolo, e non lasciano nulla alla coltivazione. Demoliscono case, distruggono i borghi ...” Nell'Inghilterra di Tommaso Moro non furono rari i casi in cui aristocratici e ricchi borghesi si appropriano di quote di demanio recintando ben oltre le loro proprietà e usurpando terreni limitrofi che erano demaniali.

Gli usi comuni e la questione contadina a Limina

L'avvento del capitalismo nel mondo agricolo in Europa, poiché richiedeva l'impiego di importanti risorse finanziarie e consentiva altissimi profitti attraverso le speculazioni, rovinò i piccoli possidenti che non furono più in grado di competere con i grandi proprietari e non ebbero i mezzi per sostenere i costi della coltivazione, avendo rese agricole bassissime rispetto alle grandi proprietà. Si andò verso la ricostituzione dei feudi quando i piccoli dovettero vendere i loro campi e magari andare a lavorare a giornata nelle grandi proprietà Le condizioni di vita dei contadini che pure avevano prosperato fino ad allora, divennero insostenibili: non si trattava più di onorare gli obblighi di lavoro gratuito e di osservare le convenzioni e gli usi vassallatici, mantenendo il proprio posto nella società contadina, usufruendo delle terre incolte, ma di una generale riduzione alla condizione di bracciante, sfruttato perché retribuito con bassi salari, spesso in natura, con rapporto di lavoro precario e discontinuo.

9 Thomas More, Londra 1478 – Londra 1535 – Avvocato, scrittore, politico inglese condannato a morte dal re Enrico VIII per insubordinazione. Autore di “Utopia” 1516 17

Per una lettura storicamente contestualizzata della vicenda presentata dal sindaco Chillemi che nel 1915 ancora torna a richiedere giustizia per i liminesi, per i nullatenenti angariati e usurpati del feudo di Antillo nel Messinese, sarà necessario riferirsi al macro- fenomeno che ebbe luogo in Europa, nel momento dell'abbandono delle leggi feudali, ossia alla nascita del capitalismo agrario nei tempi lunghi della storia degli ultimi tre secoli, parallelamente alla industrializzazione dei processi di produzione delle merci e all'avvento della società divisa per ceti e non più feudale.

Nel sud Italia come anche in altre aree dei sud d'Europa, dove l'avvento del capitalismo non produsse un contemporaneo avvento dell'industrialismo, le masse contadine diseredate non ebbero l'alternativa di inurbarsi e offrirsi come forza lavoro negli opifici, manovalanza dequalificata della produzione. Laddove la politica lo consentì, fluirono verso altre aree economiche del mondo per una sistemazione migliore.

Prima di tutto ciò, dice Chillemi nel memoriale, “Il popolo di Limina, specie i nullatenenti, potevano, senza dover pagare tasse, né indennizzi ad alcuno, raccogliere legna per uso domestico, tagliare il legname necessario per la costruzione di capanne e casupole; potevano seminare nei terreni più fertili senz'altro obbligo che quello di pagare al comune una decima del frumento raccolto; potevano altresì esercitare il diritto di fida10 del bestiame, semi-gratuitamente, pagando per un anno di pascolo meno di 2,5 lire per ciascun capo di bestiame grosso e meno di 50 centesimi per ciascun capo di bestiame piccolo: il che rendeva fiorente e lucrosa l'industria della pastorizia, una delle principali risorse della generalità degli abitanti”

Quella di Limina è una vicenda emblematica, di interesse generale pur essendo solo un esempio di una vicenda interna a uno dei nodi irrisolti della questione agricola, non solo della Sicilia, ma di tutto il sud, compresa la Sardegna, uno dei retaggi che hanno ostacolato l’Isola a decollare per raggiungere il livello di sviluppo del nord Italia e dell’Europa. Conoscitore delle capacità produttive e delle condizioni di vita dei liminesi, Chillemi scrive in una Italia diversa da quella risorgimentale, in un periodo che è quello in cui la classe contadina è stata mandata sul lastrico. Nel feudalesimo esistevano molte tipologie di contratto e di rapporto agricolo che differenziavano la posizione sociale, senza forti sperequazioni rispetto alle condizioni di vita. C'era un’antica consuetudine di concedere a pascolo l'uso di un territorio in cambio del pagamento di una fida, così si chiamava, una tassa che competeva alle Università, ossia alle associazioni di agricoltori per il godimento collettivo di terreni. Il possesso di beni immobili da parte delle Università era immune da ogni soggezione dei feudatari o dei re. Le Università avevano il dominio diretto sui demani. Il permesso di uso che i comuni concedevano si chiamava fida ossia “ius di fidare”, diritto di concederne l'uso, ma non la proprietà. Erano le montagne e i suoli di pascolo che venivano concessi in fida, anche agli stranieri, in cambio di una tassa,

10 Fida: o “affidatura”: tipo di servitù feudale che consiste in una tassa che deve essere corrisposta al feudatario per l’uso del pascolo su terreni demaniali o su terre burgensatiche, ossia di proprietà baronale, ove si possano esercitare usi civici. Detta anche “dogana delle pecore”, equivalente a forme dialettali come il sardo ademprivio. 18 gratis per i cittadini del comune che avevano il diritto di usarne liberamente. Le leggi eversive della feudalità abrogarono questi usi: la fida come licenza di entrare per pascolo agli stranieri divenne una tassa generale da pagare per l'uso civico del pascolo, non solo da parte dei forestieri, ma da parte di tutti, cittadini compresi, che entravano nel demanio e poiché si misurava su ogni “collo” di animale portato al pascolo, venne applicata anche sui buoi aratori, che semplicemente passavano dal pascolo.

Il mondo agrario passò dal sistema feudale a quello del latifondo di rendita con lo scossone che Napoleone diede all'ancién régime11. Il nuovo regime che andò affermandosi fu quello di uno stato borghese, che ridistribuiva la ricchezza in nuove mani, escludendo i ceti marginali che, invece, venivano ridotti all'indigenza. Napoleone, figlio della rivoluzione francese, vedeva nell'abbandono degli schemi medievali di esercizio del potere la sua missione civilizzatrice e progettò di esportare democrazia, cioè con l'esercito si propose di imporre le riforme che dopo la rivoluzione egli aveva concepito per generare un mondo economico e politico adeguato ai nuovi bisogni della borghesia emergente, e diede all'Europa un nuovo ordine sociale e civile assicurando dei vantaggi alla Francia nazionalistica che, con lui, divenne egemone.

Un decreto del 13 febbraio 1807 sancì la soppressione di gran parte delle comunità monastiche del regno e fu seguito da altri decreti con cui furono incamerati e venduti molti dei beni e delle proprietà appartenute a feudatari, a monasteri a istituzioni ecclesiastiche.

La ricca borghesia urbana vide nei provvedimenti delle confische anticlericali e nella successiva alienazione di quei beni da parte dello Stato che li rivendeva per fare cassa, un'occasione da tempo attesa e richiesta di avere accesso alle ricche proprietà delle classi egemoni di aristocratici ed ecclesiastici, a prezzi bassi, anzi bassissimi, e senza concorrenti. Ma la gran massa dei contadini, pur in piccola parte beneficiata dalla suddivisione dei demani comunali, restò esclusa dal processo di redistribuzione fondiaria. Si riformarono le grandi proprietà fondiarie dalla liquidazione dei beni dell'asse ecclesiastico e contemporaneamente si aggravò la vecchia divisione tra latifondisti e nullatenenti, con la differenza che nel vecchio sistema tutta la cultura e la visione del mondo e della vita soggiaceva alla sperequazione come a un destino naturale e ineludibile, mentre nella nuova era post rivoluzionaria, post illuminista, post napoleonica, emerse la questione dei diritti, declamati, forse utopicamente, ma efficacemente, tanto da aprire una lunga stagione di lotte sociali per l'attuazione di politiche rispettose di questi diritti. Non si tornò alla sottomissione dei tempi del feudalesimo.

Il nuovo latifondo in mano a poche famiglie che non vivevano in campagna e non ne condividevano né le preoccupazioni, né le fatiche, acuisce il conflitto sociale, rende inaccettabili le differenze non tanto di ricchezza quanto di tutele e garanzie riconosciute da parte dello stato e delle leggi in vigore ai ceti abbienti e non ai lavoratori indigenti. I nuovi

11 Antico regime. Si intende la forma di potere esercitato in modo autarchico e assoluto dal sovrano che concedeva ai nobili e al clero privilegi ed esenzioni; in particolare la forma di governo dei sovrani di Francia prima della rivoluzione francese del 1789. 19 proprietari borghesi, che intesero coltivare i loro interessi secondo i nuovi sistemi di conduzione capitalistica, hanno poi incrementato ulteriormente le proprietà e sfruttato il vantaggio garantito dalle politiche messe in atto in loro favore dai governi borghesi per avere diritti esclusivi, anche nelle parti di demanio che erano stati ritagliati per gli usi civili. Cercarono di limitare o di abolire gli usi civili, si appropriano dei demani comunali. Praticano uno sfruttamento intensivo della terra e della manodopera, arricchendosi a danno dei loro viddani.

Con l’Unità d’Italia il processo di smantellamento del latifondo medievale giunse a compimento e la nuova classe di ricchi proprietari consolidò il proprio potere e intensificò lo sfruttamento della terra con il sistematico disboscamento e la costruzione di nuove e grandi masserie nelle quali si concentrò la manodopera, lo stoccaggio e la lavorazione dei prodotti.

Chillemi commenta: “la maggiore e più notevole risorsa che da detti demani comunali indirettamente traevano i comunisti di Limina, non si poteva vedere, non si poteva valutare in moneta contante, non appariva sotto forma di prodotto agricolo, o di ricchezza materiale, eppure tuttavia conferiva più d'ogni altra risorsa a mantenere in ogni tugurio una diffusa, modesta, tranquilla agiatezza, per la quale non accadeva che sotto i tetti di Limina si celasse quella negra e paurosa miseria che s'abbatte talvolta anche sui paesi più benedetti della natura, nei quali presso la ricchezza raccolta in poche mani fortunate, sta l'indigenza delle moltitudini, sprovviste di tutto” -

Il sindaco Chillemi ha bene inteso che il valore economico di un bene, il suo valore venale, non basta a descrivere tutto il bene: c'è un valore sociale, morale, affettivo aggiunto, che costituisce la parte maggiore del bene e fa giudicare preferibile la pace sociale e il godimento di un bene familiare, seppur modesto, a una ricchezza sovrabbondante che escluda i più. C'è anche nella povertà una dignità che la povertà non cancella e che costituisce l'essenza della soddisfazione per la propria collocazione sociale, la rete affettiva, la sensatezza della propria vita lavorativa nel mondo. Un profitto e un arricchimento sproporzionato rispetto ai bisogni e perfino alla reale possibilità di godimento dei beni acquisiti, non sono più ragionevoli e preferibili rispetto a un benessere diffuso ed equo in un mondo sociale solidale. Che “in ogni tugurio” ci fosse “una diffusa, modesta, tranquilla agiatezza”, rispetto alla “ paurosa miseria”che sopravviene negli Stati moderni in cui la “ricchezza raccolta in poche mani fortunate” si confronta e si contrappone alla “indigenza delle moltitudini” è il rimpianto più accorato che avvertiamo nella ricostruzione del ricorso Chillemi.

I proventi dei demani comunali, dove si esercitava il diritto di fida permettevano di ricavare quanto bastava per sopperire alle spese del Comune e assicurare la loro vita finanziaria, senza dover imporre nuovi balzelli e imposte, dirette o indirette, che pesavano più sui poveri che sui ricchi.

Il racconto di Chillemi segue l'impostazione verista e con attenta e umana sensibilità politica presenta una visione della gestione finanziaria del comune, integrata con le 20 prospettive e le conseguenze che ne derivano sul piano umano, non solo fiscale. Il principio della progressività fiscale, che fu tema dominante della protesta sociale, presente in Italia dopo la crisi del 1873 e poi del 1886 e poi degli anni novanta, viene programmaticamente sostenuto da Chillemi, gestore della cosa pubblica, socialista, democratico, nel 1915.

Il testo da cui ricostruisco la vicenda del feudo di Limina è un ricorso. Ci si aspetterebbe un'impostazione linguistica burocratica e fredda, ma la passione politica di Chillemi trasforma la verbalizzazione in letteratura. Egli intesse la sua ricostruzione con commenti e annotazioni, figure retoriche, come l'ellissi, che servono ad evidenziare la tragicità dell'ingiustizia subita dal popolo, enfatizzano la quotidiana fatica dei contadini in uno scenario politico a loro ostile, avvicinano la vicenda alla dimensione tragica del racconto dei vinti. “Venne il giorno in cui questa fonte principale e perenne della diffusa agiatezza di Limina ad un tratto s'inaridì: e non già per uno di quegli spaventosi fenomeni tellurici, che così spesso devastano queste regioni, quasi a castigarle dell'inestinguibile sorriso che loro rivolge il “Ministro maggiore della natura... ma per la scelleratezza degli uomini, per l'ingordigia e la prepotenza di taluni amministratori.” Amministratori, dice: dunque la responsabilità del maggior male, che allora fu l'espropriazione degli usi civici, è politica, di chi difese gli interessi dei pochi a danno degli interessi della parte “prevalente della popolazione”.

L'analisi socialista delle cause della povertà non segue la pista filantropica del socialismo utopistico, ma la via scientifica positivistica dell'analisi marxista. Non ci furono cause naturali all'impoverimento, non ci fu inefficienza e incapacità delle persone che si impoverirono, non retaggi di marginalità pregresse, ma condizioni di svantaggio determinate strutturalmente e utilitaristicamente dalle azioni del ceto dominante: “Così avvenne che il triste bisogno, la miseria perfida consigliera, s'assisero presso ogni focolare di Limina e più non se ne vollero andare.” Con una rapida svolta narrativa, un feedback efficacissimo, la narrazione torna alle origini per spiegare e ricostruire la cronologia dei fatti.

Si parte dalla Mensa Archimandritale.

Alle origini

Chi erano i viddani che esercitavano gli usi civici e chi amministrava questa terra? Con la fine del feudalesimo in Sicilia, avvenuta il 12 dicembre 1816 sotto il regno di Ferdinando I di Borbone, vennero aboliti tutti i terreni demaniali, sia quelli comunali, che quelli ecclesiastici, nonché i feudi. L’applicazione di questa legge venne ritardata: si dovette attendere il dicembre del 1841 per realizzare la ripartizione e la vendita dei demani. Gli interessi in gioco erano tanti in una età di sommovimenti politici che si complicarono ancora di più quando la volontà generale si orientò a realizzare l'Unità nazionale e l'indipendenza. Di fatto con la riforma delle leggi eversive del feudalesimo nel sud borbonico si sarebbero rimodellate le gerarchie sociali e si sarebbe legittimata l'egemonia della borghesia del denaro. I demani dovevano per legge essere alienati 21

(venduti) e unica classe sociale che aveva la possibilità di appropriarsene era quella intermedia della borghesia: erano i gabellotti, che al servizio dei feudatari si erano arricchiti, i professionisti, i ricchi proprietari di altri fondi, baroni redditieri, insomma un ceto nuovo che voleva raggiungere uno status equivalente a quello degli aristocratici redditieri della società precedente . Si assiste all'avvento del capitalismo avanzato che sostituì alla concezione della ricchezza come terra, la rappresentazione della ricchezza come potere finanziario, cioè della terra come ricchezza.

Gran parte delle terre che si trovavano nella Marina di Savoca e nel territorio furcese appartenute alla baronia dell’abbazia dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò, furono divise e messe in vendita dalla Mensa Archimandritale del SS. Salvatore di Messina. I maggiori beneficiari, coloro i quali si affrettarono a diventarne i padroni, furono i rappresentanti delle famiglie nobili, i quali ne comprarono la gran parte e costituirono delle vaste tenute, come quelle dei Fleres, dei Trimarchi, dei Crisafulli, dei Trischitta, dei Chillemi, dei Gregorio e altre. Una delle più estese di queste proprietà ricavate dalla parcellizzazione per la vendita delle proprietà dell'Archimandrita di San Salvatore fu quella dei Villadicani, i principi di Mola, che comprendeva un’area che andava dalla costa fino alle colline retrostanti.12

La storia delle istituzioni ecclesiastiche

La storia dell'Archimandritato incrocia sia la storia dei cambiamenti politici della prima metà del 1800 che la storia dei cambiamenti nella gestione delle proprietà della Chiesa.

L’Archimandritato del SS. Salvatore era stato fondato nel secolo XII°, al tempo del Conte Ruggero d’Altavilla. La Concattedrale del Santissimo Salvatore, prima cattedrale dell’Archimandritato, fu costruita insieme al Monastero dei Basiliani nel quale risiedeva l’Archimandrita o capio dei vari monasteri. Si tratta di antichi monasteri di rito greco che possedevano molte salme di terra (297 salme di terra il monastero bizantino della Val Demone). L'abate poteva sedere nel braccio ecclesiastico del parlamento siciliano in posti di primo piano, al pari di vescovi e conti, grazie alla potenza dei monasteri. Erano famosi per la produzione di incunaboli le loro copisterie abbaziali. I monasteri basialiani decaduti passarono i loro beni librari ai benedettini tra il 600 e il 700. Al declino dei monaci basiliani della Sicilia orientale(l’Archimandritato di Messina), si sostituirono i monaci di Piana degli Albanesi a occidente. Quello di San Salvatore fu elevato poi al rango di Diocesi con il suo proprio territorio, nel 1635 dal Papa Urbano VIII

12 Antiche proprietà nel territorio di Limina: La tenuta dei Fleres, originari di Savoca con possedimenti anche in contrada Contura d’Agrò, confinava con la Vanella di Furci a sud e con la strada Consolare Valeria a Est. Originari di Savoca erano anche i Crisafulli, che possedevano un appezzamento di circa otto ettari in contrada Contura di Disi, confinante a sud con il torrente Savoca, ad est col fondo della famiglia Chillemi, con quello dei Trimarchi ad ovest. Nella stessa piana si trovavano le proprietà dei Trischitta e dei Nicotina. La tenuta dei Trimarchi si estendeva dal torrente Savoca fino alla zona collinare dove sorge la frazione di Grotte. Gli Stagnitta di Forza d’Agrò e i Coco di Messina, comprarono i terreni lungo il costone in contrada Litania. La famiglia Gregorio, infine, possedeva una vasta tenuta nell’alta valle del torrente San Filippo, adibita a pastorizia, in seguito venduta alla famiglia Sturiale di Artale. 22

Dal 1812 comincia la lenta agonia per la perdita dei possedimenti feudali. Nel 1866 tutto viene abbandonato a causa delle leggi sabaude, la “preziosa” biblioteca viene dispersa tra Messina, Venezia, Roma, Palermo e la stessa Troina, sede originaria.

Nel 1861 le diocesi del Regno delle due Sicilie erano ufficialmente 123, un numero altissimo rispetto al territorio. Le principali leggi che ne modificano lo status sono, oltre lo Statuto Albertino del 4 marzo 1848, che nel 1861 diventa lo Statuto fondamentale del Regno d'Italia, la legge n. 214 del 13 maggio 1871, cosiddetta delle Guarantigie13, qualificata anch'essa “legge fondamentale”. A queste si devono aggiungere le leggi piemontesi–sarde estese al regno in seguito alle varie annessioni: la n.1013 del 9 aprile 1850 che aboliva il privilegio del Foro ecclesiastico e altre immunità; la n. 1037 del 5 giugno 1850 che vietava l'acquisto di stabili e immobili senza autorizzazione governativa; la n. 1192 del 15 aprile 1851 con cui si abolivano le decime; la n. 878 del 29 maggio 1855 con cui si abolivano gli ordini religiosi che non fossero predicatori, educatori, e simili; la n.794 del 21 agosto 1862 con cui si ordinava la devoluzione al demanio dello Stato dei beni immobili in cambio di una rendita del 5%. Ne seguono altre nel 1864 sull'affrancamento dei canoni enfiteutici e l'eliminazione di altri obblighi dovuti a enti morali.

Nel 1866 furono emanate altri decreti di soppressione di ordini e congregazioni religiose. Nel 186714 furono emanate le leggi per la liquidazione dell'asse ecclesiastico. Contemporaneamente alla perdita dei grandi patrimoni immobiliari, la Chiesa moderna assimilò gli elementi strumentali della civiltà moderna, che le consentirono di inserirsi nella società borghese e di collegarsi con i gruppi capitalistici, allontanandosi dalla prossimità che aveva avuto fino ad allora con la mentalità feudale. Si inserì così nelle lotte politiche e sociali ed esercitò una sua influenza, mentre l'acquisto dei beni ecclesiastici da parte dei borghesi portò le nuove classi dominanti a trovare un saldo accordo con la Chiesa, favorito

13 Leggi delle Guarantigie: legge del 13 maggio 1871, n. 214, con la quale si determinò la condizione giuridica del pontefice e della Santa Sede a seguito dell'annessione di Roma e del Lazio al Regno d'Italia. Fu votata con 105 voti favorevoli e 20 voti contrari. Il titolo I (art. 1-13) di detta legge, determinando le “Prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede”, (si concedeva l’extraterritorialità della Santa Sede) intendeva risolvere la questione romana. Furono conservate al papa, per l'alta sua dignità e perché fosse assicurato l'esercizio del suo potere, le “prerogative personali dei sovrani”. La Santa Sede però non accettò mai la legge delle guarentigie, perché era stata emanata unilateralmente dallo Stato italiano. In risposta il Papa Pio IX emanò l’Enciclica “Ubi nos” dove affermava l’indivisibilità di suo potere spirituale e temporale. Nel 1874 il Papa emanò il “Non expedit” ancora in ostilità allo Stato italiano. I rapporti fra lo Stato italiano e la Santa Sede rimasero interrotti fino ai Patti Lateranensi del 11 febbraio 1929 14 Con la legge 7 luglio 1866 il nuovo Stato italiano prendeva misure radicali nei confronti degli enti religiosi cattolici, presenti nel Regno, e del loro patrimonio. La legge in questione disponeva infatti la soppressione di ordini, corporazioni e congregazioni religiose «i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico». La legge 15 agosto 1867 sopprimeva 25.000 enti ecclesiastici che non avevano cura d’anime. In forza delle norme contenute nelle due leggi citate i fabbricati di proprietà degli enti soppressi passavano a Comuni e Province per essere adibiti ad uso pubblico (scuole, asili, ospedali, caserme ecc.). A fine Ottocento risulterà che nove edifici pubblici su dieci erano costituiti da beni acquisiti grazie alle leggi del 1866-67. Lo Stato incamerò anche libri, manoscritti, opere d’arte degli enti soppressi, destinandoli a biblioteche e musei pubblici. 23 dallo sviluppo delle attività bancarie e finanziarie facenti capo alla Santa Sede e al movimento cattolico.

Marx definì questo “processo idilliaco dell'accumulazione primitiva” che trasformò i beni della manomorta in proprietà privata moderna. Malgrado il Vaticano continuasse a “fulminare scomuniche” contro i sacrileghi acquirenti dei beni ecclesiastici, i borghesi trovarono compiacenti confessori e possibilità di accordi. I beni degli enti conservati, degli ordinariati, delle abbazie, dei capitoli cattedrali, dei seminari, delle fabbricerie, delle confraternite equiparate a enti di beneficenza, e quanto altro, vennero convertiti in demanio mentre, a favore degli enti espropriati, venne assicurata una rendita del 5% che di fatto trasformò la precedente rendita fondiaria in rendita finanziaria.

Un'indagine statistica del 1879 (Bertozzi, Annali di statistica II vol IV p. 116) ci informa che vennero soppresse 4.056 case monastiche per 57.492 membri successivamente al 1855.

In genere l'indifferentismo e la docilità dei laici contribuirà a mantenere la pace religiosa, a rafforzare l'assolutismo papale e a inserire la Chiesa nella società capitalistica, dalla parte dei borghesi, pur conservando un ascendente presso le masse che sono stati i suoi strumenti di intervento politico ed economico nella vita del paese.

Nella nuova disciplina per il clero le visite pastorali resero i vescovi depositari di una conoscenza capillare delle situazioni socio-economiche. Quando un nuovo senso di giustizia sociale si affermerà provocando le lotte contro lo sfruttamento del salariato agricolo e artigiano, i parroci si divideranno tra chi le appoggerà e chi no. La crisi della religiosità, nella analisi dei parroci sensibili al tema sociale, sarà attribuita alla insofferenza per la corruzione delle classi dirigenti: “il male viene dall'alto”. Il parroco diviene catechista, organizzatore, educatore. Ma la vicinanza o la lontananza alla causa degli ultimi definì una gamma molto variegata di stili nell'esercizio pastorale. Paradossalmente nell'800 si formarono 183 nuovi istituti religiosi che avranno il riconoscimento della condizione di enti laici e si salveranno dalle confische. In Sicilia solo gli Scolopi furono del tutto dispersi. Per sfuggire alle leggi eversive ci si ingegnò a inventare trucchi giuridici: intestare i beni a singoli religiosi, intestare i beni a enti che li affidavano a religiosi, rivendicare la natura di opera pia dei collegi, avanzare petizione affinché venisse riconosciuto il carattere monumentale del bene, che poteva così essere dato in custodia ai religiosi. Vi fu l’interesse reciproco a fare alleanza con i borghesi, proprio mentre le forze socialiste e la protesta sociale si faceva forte.

L'applicazione delle leggi eversive del feudalesimo comunque non fu di giovamento alle casse dello Stato. La legge del 1855 estesa a Umbria , Marche e province napoletane procurò i beni devoluti alla cassa ecclesiastica di 13.964 enti religiosi, per circa 300 milioni di lire. Capitale che fruttava circa 14.936 lire, da cui bisognava togliere il 38% di spese per l’amministrazione. La legge del 1867 fece affluire direttamente alle casse dello stato la somma di 30 milioni e 200 mila lire, per 14.600 rivendicazioni relative a un patrimonio di 111 milioni di lire, cioè 57 milioni di beni immobili e 54 di sostanze in capitali. Da questa 24 liquidazione ci si aspettava di ricavare 600 milioni. Tra il 1861 e il 1865 il debito pubblico aveva un disavanzo di 387 milioni. Nel 1866 il disavanzo arrivò a 740 milioni. Minghetti15 esclamava : “E' inutile farsi illusioni. Lo Stato ci perderà o alla meno peggio non ci guadagnerà e dovrà accontentarsi di riscuotere lentamente grado a grado.”

La vendita dei beni indemaniati non fu un affare nemmeno sotto il profilo amministrativo giuridico: le autorità civili si trovarono impelagate in mille questioni tutte di nessun interesse fondamentale, ma che suscitavano diatribe e liti come l'ingresso di novizi nei monasteri, o la conservazione dell'abito religioso. Senza dire che la soppressione nel settore della istruzione o della beneficenza ebbero effetti negativi, soprattutto in Sicilia: i moti del 1866 a Palermo sono stati messi in relazione a queste leggi.

Dopo l'Unità d'Italia la politica dei primi governi tenuti dalla destra storica, orientati a fare una politica liberista di modernizzazione e di sviluppo economico, continuò lo smantellamento dell'assetto feudale della società e dell'economia e insieme procedette alla confisca dei beni ecclesiastici. I Savoia avevano già con Cavour e con le leggi Siccardi16ridotto le proprietà della Chiesa confiscando conventi e beni degli ordini considerati inutili, i contemplativi. Molti collegi erano stati chiusi e molte terre acquisite e subito alienate, ossia vendute. A seguito delle leggi eversive del 1865 anche il monastero dei Basiliani dovette essere abbandonato dai monaci. Fu trasformato in una caserma delle Guardie di Finanza. Rimase la cattedrale, ricca di dipinti bizantini e di una Trasfigurazione del Guarnaccia, ma perdette molto della sua importanza, perché venne meno la sua funzione di Sede Archimandritale. Nel 1884 il Papa Leone XIII decretò l’unione dell’Archimandritato con l’Arcidiocesi; in pratica vennero unite le due curie, i due seminari e le due cattedrali.

All'avvento dei governi della sinistra storica, dopo la svolta del 1876, emerse nella sua gravità la questione sociale. Diremo come i conflitti nel mondo del lavoro, soprattutto nel sud, hanno avuto un esito disastroso e tragico per le popolazioni. Per adesso diciamo solo che anche il papato, sebbene con ritardo e con una posizione di cauto equilibrio, intervenne nella questione sociale. Impoverita essa stessa dalle confische e dagli espropri, la Chiesa si riaccostò agli umili e ne sostenne le ragioni. Nel 1891 il papa Leone XIII, che aveva dovuto affrontare l'emergenza della perdita della centralità della Chiesa in questa fase, emanò l'enciclica De Rerum Novarum con cui fece appello ai sentimenti dei

15 Minghetti – Presidente del Consiglio della XI legislatura, terzo governo dopo l’Unità, in carica dal 10 luglio 1873 al 25 marzo 1876 , ultimo governo della destra storica, successivamente al secondo governo post-unitario di Ricasoli, Ebbe precedenti incarichi di governo a cominciare dalla stagione risorgimentale. 16 Leggi Siccardi : Progetto di legge del 1850, che prende il nome dal suo promotore. Mirava all'abolizione del foro ecclesiastico, delle immunità del clero, della manomorta (con divieto per gli enti morali di acquistare immobili per donazioni tra vivi o per testamento senza l'approvazione regia), alla riduzione delle festività religiose e all'abolizione delle penalità per l'inosservanza delle stesse. Altre leggi successive furono le leggi eversive del 1867 per la soppressione degli ordini cosiddetti “inutili”, e del 1873 di esproprio dei beni della Chiesa in Lazio. A seguito delle leggi eversive il numero dei religiosi passò da 30.632 a 9.163. 25 capitalisti chiedendo rispetto per i lavoratori, e ai lavoratori chiedendo rispetto per le proprietà e i proprietari.

Nei comuni di Limina, Roccafiorita, Savoca, Casalvecchio, la Mensa Archimandritale possedeva feudi da tempo immemorabile, feudi su cui le popolazioni esercitavano diversi usi civili. Quando subentrò la norma dello scioglimento dei diritti promiscui, che comportava la censuazione dei feudi e la vendita a privati, si costituì una Commissione provinciale per la vendita dei beni del demanio, dei pubblici stabilimenti e dei luoghi pii laicali.

I fondi archivistici contengono una documentazione estremamente ampia riguardante l'attività amministrativa per il recupero di fondi demaniali. Sono consultabili registri, libri maggiori, giornali d'introito e di esito, volumi di conti attestanti i nomi di chi effettuava i pagamenti ed entità delle cifre versate per l'affrancazione di censi, ossia per la privatizzazione, previo pagamento, di una quota dei terreni comuni del feudo. Si può conoscere l'entità delle cifre sborsate per gli acquisti dei fondi all'asta pubblica, ed altro ancora. I censi che si ricavavano dalle aste erano destinati all'indennizzo dei creditori espropriati, ossia dei feudatari o degli enti ecclesiastici o delle Università che erano stati espropriati e che venivano ammortizzati in parte col ricavato della vendita di quegli stessi beni. Le proprietà confiscate prevalentemente erano fondi appartenuti a ordini soppressi, come quello dei Basiliani a Messina.

Con l'estensione delle leggi piemontesi all’Italia unita dopo l'impresa dei mille, 331 case di ordini religiosi vennero chiuse: certosini, olivetani, crocefisse, ecc. Complessivamente il nuovo Stato italiano dei Savoia cacciò 4.540 religiosi, incamerò beni per 2 milioni di lire, estese al sud le leggi dello Stato di Sardegna dopo la conquista. Il conflitto anticlericale dei Savoia fu radicale, tanto che si arrivò ad arrestare 9 cardinali tra il 1860 e il 1864, tra cui il futuro Leone XIII. La legge Siccardi era del 1850, e dopo il 1860 fu estesa estese al regno unito: 20.000 ecclesiastici furono dispersi, 1.100 conventi furono chiusi. Nelle lotte indipendentiste 64 sacerdoti furono fucilati, di cui 32 del sud. Vennero incamerati 600 milioni di lire attraverso la vendita. Ne scaturì un lungo periodo di ostilità tra la Chiesa e lo Stato dei Savoia. La reazione contadina anti-savoiarda venne assimilata a quella ecclesiastica e interpretata con pregiudizio come conseguenza della “ristrettezza mentale” e della “naturale” propensione all'immobilismo delle masse contadine ignoranti”. In effetti il movimento contadino vedeva nel latifondo uno spreco e nelle usurpazioni borghesi del demanio un furto a danno della comunità e si oppose fin dall'inizio alla concentrazione della proprietà e allo sfruttamento del lavoro che cominciò ad essere praticato dai nuovi proprietari. La questione cattolica trova nelle lotte contadine la cartina di tornasole della sua autenticità: lontano dagli interessi politici del papato che affermò la sua infallibilità17 con un Concilio, la Chiesa di base, dal 1874 con l'Opera dei congressi, organizzò la sua azione sociale accanto ai lavoratori in lotta. Solo nel 1891, come abbiamo

17 Concilio Vaticano I – convocato il 18 luglio 1870 dal Papa Pio IX, di ispirazione gesuita, proclamò l’infallibilità del Papa che emette sentenze di natura dogmatica quando parla ex cathedra. 26 già detto, ci fu una posizione ufficiale del papato (il De rerum novarum di Leone XIII) che dichiarava il suo appoggio alle rivendicazioni popolari in concorrenza, o competizione, con il movimento socialista. La Chiesa del sud impoverita dalla confische fece richieste unitarie di decentramento, democrazia, equità, libertà. Solo nel 1904 verrà sospeso il non expedit, ma già la militanza cattolica nelle grandi questioni si era palesata.

Il nuovo Stato che si affermò ebbe due anime: I Savoia se ne considerarono i padroni conquistatori e di conseguenza si comportarono occupando militarmente le regioni più restie e dissidenti, mentre il popolo, che in massa aveva sostenuto volontariamente l'impresa, trascinato dal carisma di Garibaldi, considerava questo un nuovo inizio per uno stato repubblicano, in continuità con le repubbliche post-napoleoniche in vista di una maggiore giustizia sociale e per la difesa dei diritti. Quando il governo Ricasoli18 applicò la legge di unificazione amministrativa istituendo le Prefetture nel resto d'Italia, e il controllo del territorio divenne capillare, la protesta venne stigmatizzata come brigantaggio, come reato contro l'ordine e la sicurezza e furono 5.212 i briganti uccisi, 5000 gli arresti, 20.000 le vittime. In seguito 123.000 emigranti all’anno lasciarono l'Italia. Dal 1876 al 1891 complessivamente ben 14 milioni di italiani se ne erano andati.

Il successivo governo Lanza19 dal 1869 al 1873 fu quello che si avvantaggiò di un allentamento della pressione militare francese20 e risolvette il problema di Roma capitale, ma proprio in quel periodo (dal 1861 al 1870) ancora 85.000 furono gli insorti che si opposero a provvedimenti fiscali, come la tassa sul pane introdotta con la legge Quintino Sella21 sul macinato, o come le imposizioni di leva che allontanava per otto anni gli uomini adulti dal lavoro dei campi.

La lotta contadina nel sud ha in quegli anni l'acme. E' diventata lotta politica, organizzata, temuta e ingigantita perché in essa si sovrapponevano la questione contadina, la questione cattolica e la questione dello sviluppo capitalistico.

Lo Stato dei Savoia nel 1857 aveva un debito pubblico di 1.000 milioni per 4 milioni di abitanti a causa della sua onerosa e pletorica burocrazia e della sua politica militarista. Lo

18 Governo Ricasoli : Governo della VIII legislatura (secondo governo unitario dopo quello di Cavour del 1860; Presidente del Consiglio nel 1861/62 e nel 1866/67 , si dimise dal suo secondo incarico per contrasti con re Vittorio Emanuele II. Fu promotore dell’invio del generale Cialdini in Meridione per reprimere sommosse. Dovette poi sostituire Cialdini, troppo crudele, con il generale La Marmora, lo stesso che aveva bombardato Genova dopo i moti del 1849. 19 Governo Governo Giovanni Lanza – dal 14 dicembre 1869 al 10 luglio1873. Il più lungo dei governi dell’Italia monarchica. 20 Napoleone III conduceva una politica estera di amicizia con la Santa Sede, anzi di difensore del Papato. La soluzione della questione romana per lo Stato italiano si ebbe solo nel 1870 proprio perché la Francia di Napoleone III allora fu sotto attacco da parte prussiana e dovette pensare esclusivamente a difendersi. 21 Quintino Sella, ministro delle finanze durante I governi Rattazzi, La Marmora, Lanza. si impegnò a fondo nel pareggio del bilancio statale (lui stesso definì la sua politica una “economia fino all'osso”), arrivando a privatizzare molti degli enti pubblici e degli immobili appartenuti alla Chiesa (da poco incamerati dallo Stato), ma soprattutto imponendo nuove imposte o inasprendone altre, tra le quali l'impopolare tassa sul macinato. 27

Stato dei Borboni aveva un debito di 500 milioni per 9 milioni di abitanti, debito che per lo più dipendeva dalle spese per la flotta militare. Questa situazione aveva messo entrambi i due regni nella necessità di trovare una facile fonte di liquidità che non poteva essere esclusivamente quella fiscale: oltre una certa soglia infatti la tassazione avrebbe scatenato l'insofferenza delle popolazioni. Entrambi si mossero allora nella direzione delle leggi eversive della feudalità per liquidare i demani e privatizzarli.

I Savoia negli anni cruciali delle guerre anti-austriache ebbero spese militari che assorbivano il 60% del bilancio dello Stato, mentre le spese per forme di assistenza e sostegno sociale si aggiravano allora intorno al 2% del bilancio. Le condizioni di vita popolari erano peggiorate: negli anni 60 la mortalità neonatale si aggirava intorno al 20%. In generale la mortalità infantile riguardava il 45% dei decessi. Il nuovo Stato unitario attivò con i primi governi una politica di sviluppo economico incrementando la spesa pubblica, per bonifiche idrauliche, per esempio, ma l'attenzione andò alle regioni del nord con 458 milioni di spesa mentre al sud andarono solo 3 milioni di spesa pubblica. Se aggiungiamo a ciò la maggiore pressione fiscale motivata dalla necessità di ammortizzare le spese per la guerra del Meridione, e se aggiungiamo che le casse dello stato borbonico contenevano all'atto della conquista 80 milioni, ci rendiamo conto che la conquista fu un affare per i Savoia e che la protesta sociale, solo se fosse stata presentata come ribellione criminosa poteva essere repressa senza scandalo per l'opinione pubblica e la coscienza nazionale. Incamerati i beni della Chiesa e dei sovrani spodestati, i Savoia divennero i sovrani più ricchi d’Europa. Ma la questione agraria e le promesse di far partecipare i ceti contadini alla liquidazione dei feudi, si fermò alle promesse antiche degli ultimi anni dei Borboni e a quelle più recenti della propaganda garibaldina, alle dichiarazioni con cui Garibaldi22 aveva annunciato la divisione delle terre.

La proletarizzazione dei contadini – L'iter delle leggi

Istituita con la legge del 4 settembre 1806, primo atto della eversione del feudalesimo, esisteva una Amministrazione generale della Cassa di ammortizzazione e una Direzione generale del Gran Libro del Debito pubblico, che furono riunite sotto il controllo del Ministero delle finanze con R.D. del 25 agosto 1848, quando Ferdinando II Borbone tornò sul trono e represse i moti rivoluzionari di maggio, non esitando a bombardare Messina.23

Nel Gran Libro era iscritto il debito pubblico consolidato, comprese le pensioni civili e militari e gli assegni destinati ai religiosi di entrambi i sessi appartenenti ai monasteri soppressi. Nel 1817 la Cassa di ammortizzazione era stata riorganizzata, assumendo la denominazione di Cassa di ammortizzazione del Regno delle Due Sicilie, nuova

22 A sollevare il problema della terra fu per primo Garibaldi che emanò un decreto dittatoriale con cui dispose che ogni combattente per la patria avrebbe avuto diritto all'assegnazione di una quota della terra dei demani comunali ancora non ripartiti. Ma quei beni si aspettava che fossero divisi tra gli abitanti aventi diritto mediante sorteggio 23 Ferdinando II di Borbone soprannominato “Re Bomba” perché ordinò il bombardamento di Messina il 5 settembre 1848 per reprimere i moti rivoluzionari. 28 denominazione del regno dei Borboni con Napoli capitale. Vi si chiariva che "lo stato attivo della Cassa di ammortizzazione era composto: dalle somme contanti, valori di portafoglio, crediti liquidi, fondi, stabili rustici ed urbani e iscrizioni sul Gran Libro". Il suo stato passivo, ossia il suo debito, era "l'intero capitale del debito consolidato del Gran Libro, da estinguersi progressivamente, la restituzione delle somme versate in numerario per cauzioni antecedenti, il pagamento degli interessi dovuti ai contabili per le cauzioni, l'indennizzo dei censi e capitali affrancati di proprietà delle mense vescovili, dei Capitoli, delle parrocchie e di quei luoghi pii rimasti in piedi ai tempi dell'occupazione militare, tuttora esistenti". Un ulteriore decreto del 26 novembre 1821 aveva attribuito alla Cassa di ammortizzazione i fondi e beni disponibili e le rendite dipendenti dalla direzione generale del demanio pubblico, mentre con decreto 20 dicembre 1821 era stata sancita l'applicabilità alla cassa delle disposizioni riguardanti il demanio pubblico: di qui la nuova denominazione dell'ufficio quale Amministrazione generale della cassa di ammortizzazione e del demanio pubblico. Da quanto abbiamo appena detto, pur confusamente, e ce ne scusiamo, ricaviamo, semplificandola, l'informazione che i feudi vengono trattati come beni dello Stato e messi in bilancio come credito, ossia come risorsa di cassa spendibile per le necessità di amministrazione e governo, ma anche come debito, ossia come spesa pubblica prevista per le quote necessarie ad ammortizzare o indennizzare gli enti dei feudi affrancati.

L'amministrazione dell’eversione del feudalesimo e della partizione e censuazione dei feudi e del latifondi era scissa dalla questione religiosa. Si stava traghettando la produzione agricola dalla modalità parassitaria dei grandi latifondi a bassa produttività, alla moderna produzione intensiva e proprietaria, favorendo la nascita di un ceto di coltivatori diretti, capaci di far fruttare le proprietà senza lasciarne parti improduttive. La politica dei Borboni era orientata a risarcire i proprietari dei fondi che venivano censiti e divisi. Chi li acquisiva doveva ammortizzare con un canone il redditiero precedente; con ciò non si negava il diritto di proprietà, ma si intendeva la ricchezza, ossia la proprietà della terra un bene sociale che doveva sottostare alla giurisdizione laica dello Stato.

Non diverso fu il modo di procedere dei Savoia: Uno dei primi atti del neonato Regno d'Italia nel 1861 fu la cosiddetta quotizzazione dei demani comunali: i fondi dovevano essere ripartiti per quote ed assegnati a famiglie di coltivatori diretti, prioritariamente a quelli nullatenenti, in maniera da creare una classe di piccoli proprietari terrieri e ridurre le disparità economiche e sociali, disinnescando il conflitto sociale. Con questo provvedimento lo Stato cominciò ad incidere sull'assetto della proprietà. Nel 1862 fu emanata la legge di alienazione del demanio dello Stato, e infine nel 1866 e 1867 vennero emanate le due leggi di eversione dell'asse ecclesiastico.

Con il Regio decreto n. 3036 del 7 luglio 1866 fu negato il diritto di proprietà patrimoniale a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed ai ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, e contemporaneamente venne sancito l'obbligo di iscrizione nel libro del debito 29 pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto (in sostituzione della precedente cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna). Venne inoltre sancita l'incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie. Ogni forma di resistenza all'incameramento dei beni e ogni inventario consegnato incompleto potevano essere puniti per legge.

Con la legge n. 3848 del 15 agosto 1867 furono soppressi tutti gli enti secolari ritenuti dallo Stato superflui per la vita religiosa del Paese (fra essi i capitoli delle chiese cattedrali e di quelle collegiate). Da tale provvedimento restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e ordinariati. Successivamente (legge 1402 del 19 giugno 1873), il primo ministro Giovanni Lanza estese l'esproprio dei beni ecclesiastici anche ai territori appartenenti all'ex Stato pontificio. I fabbricati conventuali incamerati dallo Stato furono alienati, oppure concessi ai Comuni e alle Province (con la legge del 1866, art. 20), previa richiesta di utilizzo per pubblica utilità, entro il termine di un anno dalla presa di possesso. Complessivamente, furono immessi sul mercato e ceduti a prezzi stracciati alla grande borghesia terriera oltre 3 milioni di ettari (2,5 milioni soltanto nel Sud) con modalità che sono state ampiamente criticate sia dagli storici che dai giuristi. Le due leggi del 1866 e 1867 generarono guadagni all'erario e permisero la redistribuzione di un'enorme quantità di beni immobili essendo stati soppressi 1322 monasteri in tutto il Regno d'Italia.

Contrariamente alle promesse garibaldine che avevano fatto sperare ai contadini di poter ottenere terra da coltivare, l'obiettivo delle leggi di eversione fu quello di attuare una generale privatizzazione, in un modo che precluse la possibilità di coinvolgere le classi più povere, che nella maggior parte dei casi non si trovarono nelle condizioni di accedere alle vendite e che, anzi, ne furono escluse poiché era previsto che «i beni nazionali» andavano venduti «esclusivamente» ai creditori dello Stato, in cambio della restituzione dei titoli del debito pubblico. Si ottenne l'effetto di far finire le nuove proprietà nelle mani di pochi privilegiati: i vecchi nobili, gli appartenenti alla borghesia degli affari e gli alti funzionari dello Stato, gabellotti e campieri arricchiti, professionisti. In particolare, nelle zone rurali il processo di eversione della feudalità lentamente sostituì al vecchio feudatario un proprietario unico, spesso non un coltivatore, che non viveva neppure in campagna.

Pochi privilegiati, dunque, riuscirono ad accaparrarsi le terre demaniali ed i possedimenti ecclesiastici. Ne furono aggravate in maniera rilevante le condizioni delle plebi contadine, costituenti il 90% della popolazione meridionale, "che videro recintate le nuove proprietà e soppressi gli usi civili, vale a dire tutti i secolari diritti d'uso quali far pascolare le pecore, raccogliere legna o erba (diritti di pascolo, legnatico, erbatico”

La nuova borghesia agraria, assunse in seguito il completo controllo delle amministrazioni locali e provvide ad accaparrarsi anche ciò che restava del demanio e delle terre comunali, ricostituendo una nuova manomorta, per via politica, strumentalizzando le procedure amministrative. Il neonato Regno d'Italia, anche per far fronte ad esigenze di bilancio, diede seguito alla liquidazione delle terre espropriate alla 30

Chiesa (il cosiddetto asse ecclesiastico), ancora negli anni ottanta e novanta dell'Ottocento.

La storia dei provvedimenti legislativi che hanno eliminato il feudalesimo nel sud comincia con il decreto 11 feb. 1815 - provvedimento di affidamento di competenza in materia di beni regolati durante “l’occupazione militare” alla Cassa di ammortizzazione,

28 mag. 1816, n. 377 - provvedimento di regolamentazione della vendita di fondi della Stato che considerava alienabili tutti i fondi, rustici ed urbani, appartenenti allo Stato, indicando le modalità da osservarsi per la vendita.

18 set. 1816, n. 487 - provvedimento relativo all’affrancazione dei censi. che sempre per il Napoletano, permetteva l’affrancazione dei censi da corrispondersi a luoghi pii e a pubblici stabilimenti, purché non di patronato familiare, escludendo pure dalla possibilità di affrancazione quei canoni dovuti in derrate, o in parte in derrate e in parte in danaro, fissando le modalità da osservarsi.

6 nov. 1816, n. 552 - provvedimento relativo alle concessioni dei beni già eseguite nel tempo “dell’occupazione militare” che confermava le concessioni dei beni, fondi e rendite, già eseguite nel tempo “dell’occupazione militare”, affidando la vendita e l’affrancazione dei fondi rustici e urbani – previste dai precedenti decreti nn. 377 e 487 - alla Cassa di ammortizzazione, alla quale il decreto 11 febbraio 1815 aveva affidata la competenza in materia di beni regolati durante “l’occupazione militare”.

27 nov. 1816, n. 554 - provvedimento relativo alle vendite dei beni rustici dello Stato che fissava le modalità da osservarsi per le vendite dei beni rustici dello Stato, vendite da eseguirsi mediante subaste.

23 feb. 1818, n. 1124 - provvedimento di organizzazione della Cassa di ammortizzazione Una nuova disciplina della Cassa di ammortizzazione veniva data successivamente con decreto 23 febbraio 1818, n. 1124.

3 lug. 1818, n. 1234 - provvedimento relativo alla vendita dei beni rustici dello Stato e dei pubblici stabilimenti , Intervenuto il Concordato con la Chiesa cattolica, il decreto 3 luglio 1818, n. 1234, prescriveva che dalla vendita dei beni rustici dello Stato e dei pubblici stabilimenti dovessero escludersi solo i beni ecclesiastici, ciò in ossequio a quanto era contemplato dall’art. 12 del Concordato.

16 gen. 1822, n. 186 - provvedimento relativo a norme da seguirsi nel caso di vendite, “volontarie e forzose”, nei domini di là del Faro Il decreto 16 gennaio 1822, n. 186, provvedeva a dare dettagliate norme da seguirsi nel caso di vendite, “volontarie e forzose”, nei domini di là del Faro. A questo scopo, anzi, si istituiva a Palermo una speciale “commissione temporanea”, composta dal presidente di quella Gran corte dei conti (che doveva presiederla), dal vicepresidente della medesima gran corte, e da un consigliere della Suprema corte di giustizia. Tale commissione aveva competenza esclusiva in materia di vendite, volontarie o forzose, riguardanti immobili, nonché in materia di liberazione all’asta giudiziale e all’aggiudicazione dei detti immobili. La sua giurisdizione si estendeva su tutte le valli della Sicilia e le sue decisioni erano inappellabili, ammettendo solo ricorso alla Suprema corte di giustizia. Tale commissione veniva abolita dal decreto 18 agosto 1825, n. 232, che prescriveva “che la commissione delle vendite volontarie e forzose nei domini oltre il Faro [cessava] dalle sue funzioni, [rimettendosene] le cause innanzi ad essa pendenti ai giudici deputati o ai tribunali ordinari”.

18 ago. 1825, n. 232 - provvedimento di abolizione della commissione delle vendite volontarie e forzose nei domini oltre il Faro

24 mar. 1834, n. 2074 - provvedimento di costituzione in Palermo una commissione di magistrati e di funzionari amministrativi Il decreto 24 marzo 1834, n. 2074, - rifacendosi alle sovrane determinazioni del 7 e del 22 gennaio 1834, relative all’istituzione in Sicilia di un Gran libro del debito pubblico, nonché della corrispondente Cassa di ammortizzazione - procedeva ad istituire in Palermo una “commissione di magistrati e di funzionari amministrativi”, incaricata di verificare i “titoli originari ed originali” del così detto debito 31 perpetuo e di altri debiti di quella tesoreria generale, da iscriversi nel Gran libro del debito pubblico. Tale commissione si componeva del presidente di quella Gran corte dei conti - quale presidente -, da un consigliere della Suprema corte di giustizia, dal direttore generale dei rami e diritti diversi, dal vice presidente della Gran corte civile di Palermo e da un giudice di quella medesima gran corte civile; un altro consigliere della Suprema corte di giustizia vi esercitava le funzioni di pubblico ministero.

19 dic. 1838, n. 5007 - provvedimento relativo all’abolizione della feudalità e allo scioglimento dei diritti promiscui. Annesso al decreto 24 marzo 1834, n. 2074, seguiva un dettagliato regolamento di pari data. Poco dopo il decreto 19 dicembre 1838, n. 5007, dettava, per la Sicilia, norme per portare a compimento l’abolizione della feudalità, nonché lo scioglimento dei diritti promiscui. Con esso si conferivano estesi poteri agli intendenti, incaricati di attivarsi, a tal fine, presso i tribunali ordinari, procedendo pure, nei casi dubbi ad interpellare il procuratore generale presso la Gran corte dei conti onde ottenerne pareri.

11 dic. 1841, n. 7095 - provvedimento relativo alla riscossione e all'esercizio di diritti ex-feudali aboliti successivamente, il decreto 11 dicembre 1841, n. 7095 ordinava perentoriamente che in tutte le province della Sicilia dovesse cessare la riscossione, e l’esercizio, di qualsiasi diritto, o abuso, ex-feudale, di già abolito, ma che tuttavia risultasse ancora sussistere.

11 dic. 1841, n. 7096 - provvedimento relativo allo scioglimento delle promiscuità e alla ripartizione delle terre demaniali esistenti nei domini oltre il Faro. Nella stessa data 11 dicembre 1841, il decreto n. 7096 approvava le Istruzioni, che venivano date agli intendenti per addivenire allo scioglimento delle promiscuità e alla ripartizione delle terre demaniali esistenti nei domini oltre il Faro.

11 dic. 1841, n. 7097 - provvedimento relativo alla liquidare di compensi dovuti per gli aboliti diritti ex- feudali e per le segrezie24 di Sicilia. Altro decreto, sempre dell’11 dicembre 1841, n. 7097, incaricava taluni magistrati per liquidare i compensi, dovuti per gli aboliti diritti ex-feudali e per le segrezie di Sicilia. Per raggiungere tale scopo, veniva costituita una commissione composta: dal vice presidente della Gran corte dei conti di Palermo, quale presidente, da un consigliere della medesima Gran corte dei conti, con le funzioni di avvocato generale, da un giudice della Gran corte civile di Palermo, e dal procuratore presso il Tribunale civile di Palermo, questi ultimi due quali consiglieri aggiunti dalla predetta commissione.

6 giu. 1842, n. 7424 - provvedimento relativo alla censuazione dei beni ecclesiastici di regio patronato esistenti in Sicilia In relazione a quanto era stato disposto con il decreto 19 dicembre 1838, n. 5007, il decreto 6 giugno 1842, n. 7424, dettava particolari disposizioni per la censuazione dei beni ecclesiastici di regio patronato, esistenti in Sicilia.

16 feb. 1852, n. 2847 - provvedimento relativo all'alienabilità dei beni del demanio pubblico, dei luoghi pii laicali, degli stabilimenti e delle corporazioni. In considerazione che anche in Sicilia era stato istituito il Gran libro del debito pubblico, il decreto 16 febbraio 1852, n. 2847, dichiarava alienabili i beni del demanio pubblico, dei luoghi pii laicali, degli stabilimenti e delle corporazioni, esistenti nei domini al di là del Faro, con esclusione di quelli fra di essi che fossero di natura ecclesiastica o che appartenessero al “patrimonio regolare” o che fossero dei comuni. Il medesimo decreto affidava a una Commissione la competenza a concedere le affrancazioni, o a consentire le vendite. Essa veniva istituita contestualmente in ciascuna provincia della Sicilia. Doveva essere composta dall’intendente, che fungeva da presidente, da un direttore provinciale, dal regio procuratore presso il Tribunale civile, dal vicario diocesano (o, in mancanza, da un consigliere del Consiglio degli ospizi), dal consigliere d’intendenza più anziano.

29 mar. 1852, n. 2934 - provvedimento di approvazione del regolamento per la permutazione e l’affrancamento dei beni del demanio

15 feb. 1860, n. 666 - provvedimento di estensione dell'applicabilità del decreto 16 feb. 1852, n. 2847 – esso estendeva l’applicazione dei decreti 16 febbraio 1852, n. 2847 e 29 marzo 1852, n. 2934, (quest’ultimo

24 Segrezie o pertinenze erano partizioni del territorio assoggettate al pagamento di tasse. 32 approvante il regolamento per la permutazione e l’affrancamento dei beni del demanio) anche ai beni patrimoniali dei comuni - prima esclusi - purché non si trattasse di boschi. 33

Capitolo II

Il ricorso Chillemi

In Sicilia la promulgazione delle leggi eversive della feudalità giunse in ritardo, anche rispetto al Mezzogiorno continentale, e quando giunse, queste leggi non vennero applicate se non dopo molto tempo. Benché i feudi fossero stati trasformati in allodi, cioè in proprietà private, non ne derivò la formazione di una classe di piccoli e medi proprietari. La grande proprietà, anzi, si consolidò per effetto della vendita dei beni dell'asse ecclesiastico e per effetto delle usurpazioni dei beni del demanio comunale tollerate, anzi favorite. Negli anni di crisi i grandi redditieri aumentavano i canoni di affitto tanto più quanto più le rese agricole diminuivano. Il prezzo dei terreni agricoli però continuò a crescere anziché diminuire, malgrado la crisi. L'inchiesta Jacini25, promossa dal governo Depretis26 nel 1877, mise in evidenza la forbice sempre più ampia che divideva la popolazione in ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.

Le terre vendute dai baroni in dissesto finanziario finirono per ingrandire ulteriormente i latifondi di altri ex-feudatari e di gabelloti arricchiti. Il latifondo, quindi, continuò a caratterizzare l'agricoltura e la struttura sociale siciliana. Anzi, le condizioni dei contadini peggiorarono per la perdita, in seguito alla eversione della feudalità, dei diritti comuni e degli usi civici.

Qui si innesca la storia del ricorso che il sindaco Chillemi scrive per recuperare diritti che alla popolazione di Limina erano prima stati, prima riconosciuti e poi tolti.

Il Comune aveva chiesto e ottenuto di mantenere il diritto di legnatico, di pascolo, di raccolta di ghiande ecc. negli ex feudi archimandritali, che i nativi di Limina mantennero fino alla usurpazione del 1888, denunciata nella memoria dal sindaco Chillemi. Il Comune aveva proceduto a risolvere la questione della promiscuità delle terre. Dopo “lunghe pratiche e numerose sentenze” a Limina vengono assegnate (verbale del 16 dicembre 1839) in proprietà i feudi di Acquicella, Palmenti, Mattoli e porzione del feudo Gerasia. Proprietà libera da promiscuità con l'Archimandrita.

Abbiamo ricostruito la posizione del bosco di Antillo nel catasto borbonico. Esistono documenti cartografici che costituiscono un “monumento archivistico” di primaria

25 Inchiesta Jacini- Proposta in Parlamento nel 1872, venne affidata alla presidenza del deputato Stefano Jacini nel 1881 e conclusa nel 1886. Nel 1884 furono pubblicati i risultati che mostrarono le gravi condizioni di povertà in cui viveva il popolo delle campagne. Dopo le elezioni del 1876 la questione agraria era riemersa nella sua complessità nazionale. Per comprendere in che condizioni versavano le classi popolari, in Parlamento si prospettò l'opportunità di avviare una indagine conoscitiva. L'inchiesta agraria sulle condizioni delle classi agricole, nota come inchiesta Jacini fu ideata, promossa e organizzata da Salvatore Maiorana Calatabiano, ministro dell'agricoltura, industria e commercio, deputato siciliano della nuova sinistra, studioso di economia. Presentata alla camera e poi realizzata con provvedimento di legge nel 1877, l'inchiesta della Commissione parlamentare presieduta dal senatore Jacini, fece conoscere il mondo rurale regione per regione. 26 Governo Depretis – Presidente del Consiglio nel 1876, anno della svolta e dell’avvento al governo della sinistra storica. Ebbe l’incarico per nove volte dal 1876 al 1887. L’ultimo governo in carica dal 1881 al 1887. 34 importanza e che sono frutto di una politica agraria che nel passaggio dal feudalesimo all'età moderna ha richiesto una lettura organica del territorio del Regno delle due Sicilie.

Le mappe dell'Archivio Mortillaro si trovano presso il Centro Regionale per l'inventario, la catalogazione e la documentazione grafica, fotografica, aerofotografica, fotogrammetrica e audiovisiva dei beni culturali e ambientali della Regione Siciliana di Palermo. Scoperto all'indomani del terremoto della Valle del Belice del 1968, all'interno di una cassa riposta in un palazzo di Montevago, l'archivio è composto da mappe catastali borboniche dei territori e degli abitati di Sicilia. Il fortuito ritrovamento ha fornito una vasta documentazione cartografica della Sicilia ottocentesca che si riteneva irrimediabilmente perduta. Le mappe catastali ritrovate hanno datazioni tra il 1837 ed il 1853. Sono state redatte sulla base dei dettami del Real Decreto per la Rettifica del Catasto Fondiario dell'8 agosto 1833 e delle modifiche apportate con un nuovo decreto il 17 dicembre 1838. Con tali disposizioni Ferdinando II di Borbone intendeva realizzare una distribuzione equa delle contribuzioni da parte dei cittadini “in questa parte de' nostri reali dominii”.

L'operazione catastale era stata in realtà iniziata a partire dal 1810, anno in cui si decise di abbandonare il metodo della tassazione per “donativi” ponendo le basi per la redazione di un vero catasto, in applicazione delle disposizioni murattiane di modernizzazione e laicizzazione dello Stato. Ma a distanza di quarant'anni da quella data i lavori non erano ancora terminati. Per tale motivo nel 1850 venne affidato l'incarico di concludere il lungo iter burocratico della complessa opera al Marchese Vincenzo Mortillaro di Villarena, nominato Delegato speciale per la compilazione dei catasti di Sicilia. Questi dichiarò chiusi i lavori nel 1853 consegnando il materiale descrittivo al Grande Archivio, trattenendo le mappe che costituiscono oggi la raccolta.

Il 12 ottobre 1852 l'architetto agrimensore Antonino Benincasa concluse la stesura della Carta Topografica del Comune e del Territorio di Antillo, primo documento cartografico ufficiale del territorio antillese di cui si hanno notizie. La carta topografica è rappresentata su supporto cartaceo bordato con nastro telato verde con inchiostri colorati, utilizzando la tecnica a penna ed acquarello, è senza scala ed ha una dimensione di mm. 716 x 512. Il territorio viene suddiviso in sette sezioni catastali: la Sezione A “Circuito di Antillo” comprende l'abitato principale, i nuclei di Malatesta, Canigliari, Ferraro e Marzulli; la Sezione B “Spirone Ammare”; la Sezione C “Acquicella- Gerasia”; la Sezione D “Màttoli”; la Sezione E “Casella”; la Sezione F “Pinazzo-Groata” e la sezione G “Vissi”. Nella cartografia vengono indicati due mulini: Antillo e Serra, una fornace in prossimità della confluenza tra il fiume Serra e il fiume di Antillo, un palmento, l'”Antica fonderia” vicino il fiume omonimo e gli ex-feudi riportati nelle singole sezioni. La mappa del territorio di Antillo fa parte della raccolta del Marchese, nominato allora Delegato speciale del Re Ferdinando II di Borbone per la compilazione dei catasti di Sicilia, denominata archivio cartografico Mortillaro di Villarena: è composto da 427 carte, per lo più catastali, relative ai territori e agli abitati dell'Isola e da alcuni documenti allegati. Le mappe sono redatte da agrimensori, architetti, ingegneri, geometri, periti urbani ed in ognuna l'eterogenea e variegata stesura delle carte risente della sensibilità, della cultura, dell'esperienza del singolo redattore. La qualità delle piante topografiche è estremamente diversificata così come la metodologia della rappresentazione, oscillante tra i sommari schizzi topografici, magari ingentiliti da tenui acquerellature, le vedute assonometriche o a volo d'uccello e le piante di tipo geometrico mentre il formato è estremamente variabile. Frequentemente le carte 35 recano il visto di una speciale Commissione appositamente nominata e presieduta da un “Controllore” delle Contribuzioni Dirette e, in alcuni casi, anche un timbro dell'organismo provinciale preposto alla rettifica.

A questa raccolta fanno anche parte le mappe di alcuni territori comunali della Val d'Agrò quali Savoca (redatta dall'ingegner agronomo Eutichio Prestogiovanni il 15 marzo 1845), Casalvecchio (redatta sempre da Prestogiovanni il 20 dicembre 1846), Limina (redatta da Antonino Benincasa il 20 Ottobre 1851) e Roccafiorita (il 5 dicembre 1851 da Benincasa) oltre numerose altre cartografie dei Comuni del Comprensorio Jonico della Provincia di Messina27. Questo tipo di catasto, il “descrittivo siciliano”, rimane in vigore fino a poco tempo prima della seconda Guerra Mondiale.

Dopo l'invasione piemontese del 1860, i "galantuomini", cioè i nuovi proprietari borghesi, si impossessarono delle terre demaniali e ecclesiastiche (solo queste ultime ammontavano al 40% del territorio), che furono espropriate dai nuovi dominatori con la legge del 1863: un enorme “lascito” che finì nelle mani dei Piemontesi. Le terre furono

27 Documentazione pubblicata da Domenico Costa architetto e urbanista Presidente di Archeoclub Area Ionica (ME) - onlus

36 vendute con aste frettolose, per fare cassa, e così furono rastrellati risparmi e capitali che vennero poi investiti dappertutto tranne che nel sud stesso.

In questa storia generale si colloca la storia dei territori comunali di Limina. Il comune concesse i feudi di Acquicella, Palmenti, Mattoli e Gerasia in affitto, ma rispettò sempre anche gli usi comuni (uti universi) di legnantico, pascolo, raccolta e semina annuale. Il nostro Sindaco ne dà prova con gli atti di affitto che sono stati sottoscritti dal 1849 al 1887. “In base alle leggi in vigore il Comune concede il demanio censito vincolando i concessionari a pagare un canone e a riservare parte di fondi per usi comuni.”

Una prima sentenza del 10 marzo 1847 della Gran Corte Dei Conti borbonica assegnava ai comuni interessati una quota libera che doveva rimanere tale, esentata anche dal pagamento della decima all'Archimandrita. Era quella assegnata agli usi comuni. Con l'andare del tempo, nello scenario degli sconvolgimenti politici, occasione per diverse imprese non proprio eroiche, ma di spericolata speculazione, avvenne che l'affare delle terre espropriate in balia di nessun proprietario, anzi di un proprietario istituzionale, non fu lasciato al caso o alla giustizia giusta. I maggiorenti del comune, aiutati dalle stesse amministrazioni comunali del tempo, formate dallo stesso ceto sociale, videro nelle quotizzazioni l'occasione per appropriarsi di terre demaniali defraudando la proprietà comune, e s'impossessarono di vasti appezzamenti che “tennero come propri”.

Nell'occasione delle celebrazioni dei 150 anni di storia italiana, molto di questa espropriazione è stata raccontata, recuperando la memoria storica di questi furti e di queste speculazioni. Era generale nel regno del sud una situazione paradossale di incertezza e di assenza del potere istituzionale, in contraddizione con l'ultimo periodo del regno di Ferdinando II di Borbone che fu caratterizzato da una condotta politica vigile e determinata. In assenza di controllo ispettivo superiore, si inventarono atti di vendita, iscrizioni catastali, divisione di quote, donazioni, testamenti che intestavano porzioni del demanio comunale a singoli proprietari, fino alla completa scomparsa delle terre di uso comune.

False compravendite furono prodotte dagli stessi amministratori che facevano uso privato dell'incarico pubblico e si attribuirono reciprocamente le proprietà, approfittando dell'assenza di autorità che tutelassero gli interessi generali della popolazione. Nelle rivoluzioni a cominciare dal 1838, neanche a dirlo, il fuoco agli archivi e ai catasti rese impossibile accertare la verità di quanto veniva dichiarato: ci furono false dichiarazioni di iscrizioni al catasto. Nessuna traccia, né di testamenti, né di atti catastali, né di altra ufficiale intestazione dei beni.

Chillemi ricostruisce tutta la vicenda e fa nomi e cognomi. Negli anni 80 dell'800, la marcia trionfale delle lobby affaristiche in Italia è al suo massimo impeto. Il consigliere Leo Giuseppe, fu Antonio, istigò il Consiglio comunale ad avallare l'usurpazione: si era impadronito di circa 57 ettari di terreno , stando ai verbali, di ben 250 ettari dei terreni stando alla testimonianza dei fatti, con tanto di delibera consiliare in data 6 febbraio 1881 e 31 ottobre 1884. Il Consiglio comunale da lui presieduto deliberò la censuazione dei 37 boschi comunali senza altra vendita, dicendo che era impossibile reintegrare il Comune delle proprietà dei suoi boschi, dichiarando che il possesso di detti boschi era da secoli dei cosiddetti condomini, cioè loro, possesso continuativo non interrotto, né disturbato, situazione che renderebbe legittimo il possesso, una sorta di diritto per usucapione, come convenzionalmente si chiama. Tale diritto del lungo possesso è ovviamente la menzogna che Chillemi denuncia usando, a smentita, i contratti di affitto che dal 1847 al 1887 il comune aveva sottoscritto. Doppiamente menzogna perché quello che valeva per le proprietà private, cioè la possibilità di pagare un canone in cambio di una censuazione, non valeva per le proprietà demaniali.

Abbiamo, qui come altrove in quei tempi di sommovimento sociale e politico, dove si è fatta terra bruciata del diritto e della legge, la negazione di un principio di giustizia, dietro l'esempio ben più scandaloso delle speculazioni che si facevano dai vertici della politica italiana: pensiamo ai vari scandali della vendita del monopolio dei tabacchi28, all'affare della Banca di Roma29. Altro che politiche liberiste!

I nullatenenti di Limina protestarono e il Prefetto di Messina, Regio Commissario Ripartitore delle terre demaniali, si impegnò per imporre l'osservanza del decreto, alla lettera e nello spirito. Così decretò il 26 dicembre 1884 che le due delibere del Consiglio

28 Vendita del monopolio della fabbrica dei tabacchi - Il 15 luglio 1868 il Parlamento approvò la concessione della privativa di fabbricazione dei tabacchi ad una Regìa costituita da una società di capitalisti privati. Convinti inoltre che i privati fossero più adatti dello Stato a gestire le imprese economiche, gli uomini di governo stipularono una convenzione con un gruppo di investitori italiani e stranieri (la Società Generale del Credito Mobiliare Italiano, il gruppo Stern di Parigi, Londra e Francoforte e il gruppo della Banque de Paris). In sostanza, lo Stato concedeva il monopolio sui tabacchi per 15 anni a una Società anonima, in cambio di un’anticipazione di 180 milioni di lire, un canone fisso annuale e una partecipazione agli utili pari al 40%. La concessione si rivelò vantaggiosa per il capitale privato. Per la sua approvazione in Parlamento fu determinate il voto di alcuni deputati, contro i quali si scatenarono accese polemiche e accuse di corruzione, in quanto proprietari di quote finanziarie della Regìa stessa. Allo scandalo seguì nel 1869 un’inchiesta parlamentare. 29 Nel 1889, a causa della crisi del settore edilizio, alcune banche si erano trovate sull’orlo del fallimento. La cosa accreditò le voci che circolavano da tempo circa un’eccessiva emissione di carta moneta da parte delle banche autorizzate. Il ministro dell’agricoltura Miceli promosse un'inchiesta amministrativa, per verificare l’operato delle banche autorizzate a stampare moneta: bisognava capire, in particolare, se il quantitativo di denaro emesso fosse congruo ai parametri stabiliti. I risultati confermarono i sospetti: la Banca romana aveva stampato 25 milioni di lire in più e aveva sanato l’ammanco di diversi milioni con una serie di biglietti falsi (duplicava cartamoneta già stampata). L'imbroglio fu realizzato con il coinvolgimento diretto del governatore della banca, Bernardo Tanlongo. La Banca aveva utilizzato questo denaro non solo per finanziare le speculazioni edilizie, ma anche politici e giornalisti. Per evitare lo scandalo durante i tre anni successivi Crispi, Giolitti e anche Di Rudinì preferirono tenere segreti i risultati in nome degli interessi più alti della patria. L’inchiesta, che seguì allo scandalo, venne insabbiata per scongiurare le conseguenze negative che avrebbe avuto tanto sul sistema creditizio che sul mondo politico. Il processo del 1894 assolse tutti, anche Tanlongo, per insufficienza di prove, le ripercussioni, però, furono notevoli. Dal punto di vista politico la più evidente fu la scomparsa – momentanea – di Giolitti dalla scena politica. Dal punto di vista finanziario, la più importante fu l’istituzione nel 1893 della Banca d’Italia – che sarebbe poi diventata l’unico istituto di emissione dello Stato – a cui fu affidata la liquidazione della Banca romana. 38

Comunale fossero considerate nulle e ordinò la reintegrazione30 dei beni censiti e privatizzati abusivamente. Il Comune fece ricorso, ma il re confermò il decreto prefettizio. Il Comune dal 1884 fino al 1887 fece ancora contratti di affitto

La ricostruzione di Chillemi nel suo sviluppo narrativo evidenzia il paradosso che mentre si afferma ufficialmente da parte della amministrazione di voler difendere la legalità, in realtà si ratifica uno stato di fatto che contiene un sopruso, perpetrato all'ombra della legge e del diritto. Il racconto suscita indignazione anche a distanza di tanti anni. Erano anni di crisi economica, di governo interventista occupato a proteggere le lobby dei militari, del partito di corte, praticando una politica dispendiosa e autocratica, totalmente insensibile alle condizioni di vita delle popolazioni, in guerra contro il dissenso sociale.

Arriviamo al 1888. La svolta protezionistica31 ha già messo in crisi il settore agricolo e la cerealicoltura, danneggiata dall'afflusso del grano statunitense. Il prezzo del grano crolla. La produzione siciliana è costretta a competere con la produzione statunitense, abbondante e di basso prezzo. La causa del vantaggio del grano statunitense che esportava a prezzi bassissimi è legata ai nuovi sistemi produttivi meccanizzati che avevano fatto crescere le rese agricole e abbattuto i costi di produzione nelle verdi praterie granicole statunitensi. Le nuove culture specializzate siciliane dal canto loro trovavano i mercati di esportazione chiusi. Fu la svolta protezionistica che rese ostili i paesi vicini a importare prodotti italiani dal momento che l'Italia non intendeva importare i loro. Il conflitto commerciale fu letale per le economie agricole di tutto il sud.

Lo Stato cominciava a fare una politica industriale di sostegno alla industria “bambina” italiana con potenti iniezioni di credito, agevolazioni fiscali, commesse statali che le imprese godevano come fossero concessioni di monopolio.

L'emigrazione aveva tolto di mezzo la questione sociale che non fu mai affrontata dato che proprio le categorie sociali artigiane e produttive impoverite e proletarizzate fuoriuscirono. Gli emigrati involontariamente fecero poi un doppio regalo allo Stato italiano, che pure mai glielo riconobbe, quando cominciarono spedire ai familiari le rimesse dall'estero, valuta pregiata che potenziò le riserve monetarie del credito italiano e mise a disposizione delle banche i capitali per le imprese. Di fatto il vero capitalismo italiano fu proprio il capillare stillicidio di rimesse dall'estero, che con l'intenzione di risolvere un

30 “ Un terreno demaniale, di cui non si riscontrino condizioni di titoli per poterlo legittimare o alienare è reintegrato nel possesso della collettività. Le spese sono a carico dell’occupatore”. 31 - Nella storia dell’economia italiana e in quella della questione meridionale, un momento particolarmente importante è quello della svolta protezionistica del 1887. Il provvedimento viene varato sulla scorta di quelli approntati da quasi tutte le nazioni europee - con l’eccezione inglese- nello stesso periodo e che sono volti a tentare di porre un argine alla crisi agraria e al rafforzamento della produzione industriale, considerata adesso un elemento chiave per lo sviluppo delle economie nazionali. Le tariffe protezionistiche rendono difficile l’importazione di merci e favoriscono in tal modo l’industria nazionale che può immettere sul mercato interno i propri prodotti senza doversi preoccupare della concorrenza straniera. Si tratta di provvedimenti che rendono possibile grandi accumulazioni di capitali per l'industria, che si giova anche delle commesse statali per le opere pubbliche e per le forniture militari,. Essi però penalizzano notevolmente i semplici cittadini, costretti ad acquistare merci a prezzi più elevati che in passato, quando vigeva un sistema di concorrenza. 39 problema di sopravvivenza per i familiari, risolse senza volerlo e senza saperlo, un problema di sopravvivenza economica allo Stato, che però sciupò in spese militari e in speculazioni distruttrici e corruzione e imbrogli gran parte delle sue economie. L'intrallazzo era diventato stile: speculazioni edilizie, a Firenze come a Roma; “zuccherini”32 per ammorbidire chi resisteva ai condizionamenti di poteri forti esterni alle istituzioni; mazzette e voti di scambio nell'affare delle privatizzazioni. Un esempio di cui abbiamo già parlato fu quello della privatizzazione dell'industria del tabacco, che fu concessa in regime di monopolio in cambio di soldi, tanti soldi (la mazzetta per il re fu di 6 milioni, solo per lui) con la complicità della stampa corrotta che cominciò a funzionare come serva del potere, come macchina del fango, che con la calunnia eliminò chi si opponeva alle manovre. Altro affare fu quello della privatizzazione delle ferrovie che coinvolse i vertici delle istituzioni. Anche le forniture per l'esercito in Africa furono occasione di speculazione e di accaparramenti indebiti e di arricchimento privato.

L'affare delle terre deve essere sembrato un affare minore alle cricche politiche che, ottenute le amministrazioni comunali (nel 1888 votava ancora un 8% di abbienti proprietari e alfabeti33) procedettero a fare i propri affari, assente lo Stato, che non era più borbonico e nemmeno moderato.

Il Prefetto di Messina, regio Commissario Ripartitore delle terre demaniali, allertato dalle manifestazioni di protesta dei nullatenenti del comune, nel dicembre del 1884, si impegnò a esigere l'osservanza delle disposizioni di legge e con decreto prefettizio dichiarò nulle le deliberazioni della amministrazione comunale di Limina e ordinò la reintegra a favore del Comune dei beni usurpati. Il Comune, amministrato dai Leo, fece ricorso, ma il Governo, in risposta al ricorso del Comune, confermò la delibera prefettizia. Per qualche anno la questione parve risolta: il Comune continuò a godere del possesso del demanio che veniva affittato a canone, mantenendo gli usi civici. Ultimo contratto di affitto è dal 1884 al 1887. In quegli anni di crisi il governo si lanciò nell'avventura coloniale, dietro la pressante richiesta del partito di corte che cercava un abbrivio per la propria affermazione internazionale nel contesto dei paesi europei, per evitare di fare la parte di un vaso di coccio accanto a vasi di ferro quali gli Stati vicini erano diventati, stati borghesi, soggetti economici forti, alleati dell'imprenditoria che metteva in moto capitali e a cui lo Stato dava appoggio con le sue politiche. Lo stato borghese di Crispi e i famelici speculatori del suo entourage videro nella guerra “per le fertili terre africane” un'occasione di sviluppo per il settore siderurgico, un affare su cui speculare e procurarsi facili

32 “Zuccherini” venivano allora chiamati le tangenti e le “bustarelle” che fecero parlare di corruzione in molte occasioni. Nel testo “Intrighi d'Italia” di Fasanella e Grippo citato nella bibliografia si racconta che i giornali francesi riportarono la notizia che il re era stato accusato di avere intascato diversi milioni provenienti dalla Francia e destinati ai terremotati di Casamicciola nel 1883. 33 Legge elettorale delle sinistre – La riforma presentata nella campagna elettorale del 1876 dal candidato della sinistra storica Depretis allargò il diritto ai maschi che avessero compiuto il ventunesimo anno d'età (la soglia precedente era stabilita su 25 anni) forniti di licenza elementare indipendentemente dal reddito. Anche gli analfabeti avrebbero potuto votare pagando un reddito venti lire. Per effetto di queste modifiche la base elettorale crebbe significativamente, passando dal 2% al quasi 8% della popolazione 40 guadagni. In questo scenario alcune categorie sociali, i militari per esempio, o i fornitori dell'esercito, o le compagnie commerciali, o gli armatori di navi, ebbero lauti profitti.

Le politiche liberiste di interscambio internazionale avrebbero reso possibile trovare mercato alle produzioni agricole specialistiche del sud , se nel 1882 il governo non avesse messo invece in atto una politica estera protezionistica, antifrancese. L'ostilità reciproca Francia – Italia era economica e politica, avendo la Francia conquistato la Tunisia, in anticipo rispetto alla iniziativa coloniale italiana, che pure era stata autorizzata, diciamo così, al congresso di Berlino nel 1878 dalla diplomazia internazionale. Secondo quegli accordi, vanto della capacità diplomatica del Cancelliere tedesco Bismarck che aveva organizzato il gioco solo apparentemente pacifico della spartizione dell'Africa, all'Italia, ultima arrivata, toccava, per prossimità e per qualità e pregio secondario della colonia, proprio la Tunisia. Ne derivò una politica estera filo austriaca, filo tedesca, che si espresse nella adesione alla alleanza militare della triplice34. Nella crisi di quegli anni, mentre da un lato, nel mondo degli affari, emerge la famelica borghesia delle speculazioni, dall'altro si aggrava la miseria. Il flusso migratorio raggiunge cifre bibliche: 150.000 emigranti all'anno, dalle province del sud e dalle aree agricole del nord. Anche a Limina comincia un flusso migratorio che la spopola.

Nel 1888 l'amministrazione del comune di Limina era costituita in maggioranza dagli usurpatori, famiglie che volevano urgentemente procedere alla censuazione del demanio in modo che loro e i loro amici potessero diventare impunemente i proprietari delle terre migliori. L'amministrazione dunque sospende i contratti di affitto e scioglie la promiscuità dei beni comunali. Era il 12 maggio. La nota del Prefetto era del 25 aprile 1888 n. 8022 (12.2.137 div.I sez. Demani35). L'amministrazione dei Leo produsse il censimento delle terre comuni e da esse escluse le terre migliori che furono dai consiglieri usurpate: Il sindaco Leo Vincenzo fu Antonio, i suoi fratelli Leo Giuseppe, Leo Filippo e Leo Pietro si accaparrano 92,35.74 ettari di terreni formalmente, ma in effetti di 350 ettari di terreni, e poi Salimbeni Giuseppe e Salimbeni Sebastiano, figli del dott. Salimbeni Francesco, cugini dei Leo, cognati di Leo Giuseppe si accaparrano di 13.56.15 ettari formalmente, ma realmente divennero padroni di una quantità maggiore di terre. Infine Chillemi Giuseppe cugino anch'egli e cognato di Salimbeni usirpò 5.84.13 ettari, Scaldara Giovanni dottore, altri 49.45.98 ettari.

“E con questo po' po' di parentela” - dice il nostro sindaco - “si è voluto sostenere colla più bella faccia fresca del mondo che i deliberati comunali non erano...taglierini fatti in famiglia!” Gli otto insospettabili consiglieri ai quali naturalmente – e nessuno può creder

34 Triplice alleanza fu un Patto difensivo segreto siglato tra Germania, Austria, Italia (20 maggio 1882), promosso dal cancelliere tedesco O. von Birsmarck per isolare la Francia. Prevedeva l’aiuto reciproco tra Italia e Germania in caso di aggressione o neutralità nel caso che uno dei firmatari fosse indotto a dichiarare guerra. 35 Bibliografia: La raccolta più completa delle leggi degli Stati preunitari è contenuta nel Codice degli usi civici di Acrosso e Rizzi, Jandi Sapi Ed.1956, ristampa 1994. Per ampi riferimenti alle leggi preunitarie nelle diverse Regioni d’Italia, v. “Gli usi civici “ di M. Zaccagnini e A. Palatiello, Jovene 1984. 41 cosa diversa – premeva più il vantaggio del comune e dei comunisti che il proprio utile, merita d'essere trascritta .., “per la storia”.

L'ironia di Chillemi rende possibile accostarsi a una verità così dolorosa, che è stata mistificata sfacciatamente, senza rabbia, ma con la consapevolezza dell'ingiustizia.

“...tortuosa nelle speciose ragioni di diritto, spavalda, provocatrice nei riguardi della Autorità tutoria che doveva controllare e tutelare gli interessi comuni”. Il voto consiliare viene raccontato e trascritto a onore del vero, proprio per documentare la protervia di quella cricca che abusò della legge e del diritto, imbrogliando con vili raggiri giuridici.

Chillemi usa la metafora del discorso del lupo che avoca a sé il diritto di proteggere l'agnello. I termini della deliberazione farebbero ridere, se non facesse piangere la loro conseguenza. Essi si dicono difensori disinteressati della perfetta autonomia comunale, e aggiungono alla menzogna la minaccia: “in ultimo il Consesso fa istanza perché il sullodato ed ill.mo signor Prefetto ponderi bene le questioni di diritto e possesso dei condomini ed i vantaggi che verrebbe a trarre il comune dal censimento, realizzando una rendita netta, senza ledere i diritti dei terzi e per conseguenza apporvi la presente deliberazione nei modi di legge”.

I motivi del voto consiliare così vengono elencate nel verbale:

“1° - che le terre del bosco comunale, possedute promiscuamente dall'amministrazione municipale e dai privati, non formano beni patrimoniali di esclusiva proprietà del comune, ma che invece sono i condomini che vantano più proprietà e possesso perché hanno esercitato i loro diritti da secoli addietro e in virtù di titoli, atti e contratto pubblici”;

2° - che dette terre sono state quotizzate da epoca immemorabile, come chiaramente si scorge, perché della loro estensione ne sono possessori più di mille condomini del paese, quasi tutti poveri che vivono coi lavori agricoli che in essi vi fanno per migliorare l'agricoltura, l'industria e il commercio”;

3° - che indipendentemente dallo anzidetto, qualora la Comune volesse, ciò che non può, vantare diritti come proprietaria ed assoluta padrona delle terre di cui trattasi, siti in territorio del comune di Antillo, dovrebbe sperimentare lunghissimi giudizi con tutti i comunisti di Limina, dei quali non si ha famiglia che non abbia le sue possessioni nel bosco comunale, ciò che sarebbe ingiusto, infondato ed immorale, dovendo la rappresentanza municipale negare e contrastare ai suoi propri comunisti i diritti di proprietà che hanno sempre avuti”;

4° - che non reggendosi l'asserzione adottata dalla R. Prefettura che per effetto dell'ordinanza emessa dalla stessa il 17 marzo 1882, sovranamente approvata, il comune entrò in pieno ed assoluto possesso delle terre, è ragionevole, a seconda di giustizia, che le terre in parola fossero censite a favore dell'amministrazione comunale, ed in tal modo, poco ledendo i diritti dei proprietari promiscui, il comune realizzerebbe una rendita netta, con procedura più facile, più vantaggiosa, perché i comproprietari, invece di corrispondere, 42 come nell'attualità, l'erbaggio e la decima terratica, pagherebbero il censo loro imposto, e liberi di coltivare a loro talento, migliorerebbero sempre più l'agricoltura e l'industria.”;

5° - che col censimento il comune viene ad ottenere gli stessi diritti e gli stessi vantaggi che vuol mettere avanti il detto Ill.mo signor Prefetto della Provincia nella qualità di R. Commissario del Demani comunali senza incontrare difficoltà alcuna.”;

6°- Che avuto riguardo alla perfetta autonomia dei comuni, spetta a questa amministrazione il garentire gli interessi comunali a tutto vantaggio dell'ente morale con economia di tempo e di danari.” ...delibera all'unanimità di censire le terre del bosco comunale di Limina posto in territorio di Antillo, ai singoli comproprietari che godono i diritti di possesso da secoli addietro con titoli od atti pubblici, considerandosi le terre suddette come quotizzate perché possedute da oltre mille famiglie od individui più o meno poveri del paese, e con ciò ottenendosi a favore della Amministrazione municipale gli stessi diritti e gli stessi vantaggi di cui è cenno nella lettera dell'Ill.mo signor Prefetto più sopra citata; facoltarsi la Giunta municipale per tutte le successive operazioni cioè per mettere in esecuzione la tariffa approvata con decreto reale per l'estimo delle terre e di boschi in parola, nominare periti, stipulare contratti, dopo che sarà approvato il presente deliberato dalla superiore autorità tutoria.” Questa lunga citazione serve per comprendere la puntuale confutazione di Chillemi.

In Sicilia anche le miniere, quelle di zolfo, per esempio, erano considerate fonti di rendita come i suoli agricoli. Anche per le zolfatare la maggiore resa era perseguita come obiettivo delle privatizzazioni. La cessione in regime di monopolio delle privatizzazioni a gruppi di interesse trasformò la modernizzazione in inganno e sopruso poiché si attuò con l'esclusione di soggetti sociali non affiliati al sistema di potere, cioè con l'esclusione proprio degli onesti dalla gara alla appropriazione di un intero settore produttivo.

Le “varie falsità” della delibera della giunta mafiosa che Chillemi denuncia, vengono messe in elenco dal sindaco nella sua memoria. Sembra di leggere una requisitoria da tribunale: una pubblica accusa che solleva una questione di giustizia davanti al tribunale della storia, per coloro che ameranno conoscere la verità , verità che sarebbe per sempre negata se ci attenessimo alle mistificazioni contenute nelle “carte” pubbliche, se non si potesse scrivere questa pagina di ricostruzione storiografica seguendo la voce degli sconfitti, dei vinti.

“Il consiglio comunale diceva e sapeva di dire il falso”: diceva che il bosco comunale non formava un bene patrimoniale. Invece da tempo il comune ne era in possesso legittimo e indiscutibile e la popolazione vi esercitò gli usi civili fino al 1894/95, anno della censuazione. Essi stessi, gli usurpatori, fino a quella data avevano in uso i terreni atti alla semina limitatamente al periodo di un anno sino al raccolto, come prevedeva appunto l'uso comune. Sulle terre demaniali concesse in uso dal Comune per la semina, i contadini pagavano una decima del raccolto come tassa d'uso. Le stoppie stesse, dopo il raccolto restavano del Comune, proprietario degli alberi, dell'erba e di ogni risorsa si trovasse nelle 43 terre demaniali, come si trova testimonianza negli atti di gabella cioè nei registri delle tasse che gravavano sui contratti degli immobili dati a censo -

Lucio Villari (Bella e perduta . L'Italia del Risorgimento, ed. Laterza, 2009) sostiene che la proclamazione delle leggi anti-feudali già dal 1799, quando furono emanate dalla Repubblica Partenopea, furono più incisive della stessa dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. In quegli anni la patriota liberale Eleonora Fonseca di Pimentel dal “Monitore”36 scriveva: “Dopo la disfatta del trono, ragion volea che seguisse immediatamente nella nostra Repubblica l'abolizione dell'oppressione feudale”.

Si desume da ciò che la questione sociale si incrociava con la questione politica e che il Risorgimento ebbe per il sud il significato di una forte spinta modernista, per lo svecchiamento, sia in senso sociale, con il superamento del sistema classista del feudalesimo, sia in senso economico, con l'avvio di una economia di mercato finalizzata alla specializzazione e alla crescita delle esportazioni.

Il Risorgimento inoltre ebbe nelle aree agricole e povere un contenuto ideale di contrasto all'oppressione sociale, alla ingiustizia; portò i segni della lotta per combattere la miseria e l'oppressione, col suo appello all'associazionismo, al mutuo soccorso.

Già dal 1830 i giornali di orientamento socialista che pubblicavano nella Parigi rivoluzionaria, come l'Artisan, journal de la classe ouvrière, facevano appello al mutuo soccorso per combattere la miseria e risolvere la questione sociale. Il Risorgimento ha avuto anche questi presupposti ideologici che gli hanno garantito le adesioni popolari.

La requisitoria di Chillemi

Gli usurpatori dissero che le terre erano state quotizzate da epoca immemorabile, ma era falso: avrebbe dovuto esistere la pratica della quotizzazione ossia il decreto di affrancamento e il riscontro delle migliorie del suolo, obbligatorie per affrancare terre di demanio, ma tali atti di quotizzazione non c’erano.

Falso era che le terre fossero possedute da più di mille condomini mentre era vero che la terza parte del bosco comunale era stato usurpato dagli 8 consiglieri di cui fa nome e cognome Chillemi. Essi stessi votarono il censimento che li metteva al sicuro della proprietà delle terre usurpate. Con “somme meschine” furono censite le terre di cui si sono intitolati proprietari e le altre terre censite per i loro congiunti. Alle 250 famiglie di Limina che furono escluse dalle terre comuni si lasciò la parte più povera del bosco, arida e improduttiva.

Contro la logica del malaffare che assicura ai potenti la libertà di fare prepotenze e ai deboli e indifesi si rivolge con l'invito alla rassegnazione, Chillemi scrisse questo

36 Il Monitore Napoletano fu un giornale periodico che pubblicò le notizie ufficiali della Repubblica partenopea dopo la rivoluzione del 1799. Fu diretto dall'inizio fino all'ultimo numero, dalla patriota la marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel il cui nome comparve solo con la sigla "E.F.P.

44 memoriale che è un testo di militanza politica chiaro ed esplicito: “Il Prefetto non si lasciò friggere il cervello” e senza farsi irretire dalla autonomia comunale sbandierata a legittimazione dell'impresa infida di questi amministratori del tornaconto, non “ingollò” il rospo: annullò quella deliberazione artificiosa e falsa dichiarando che era inattuabile la censuazione dato che l'ordinanza prefettizia del 17 marzo 1882 approvata dal sovrano attribuiva al Comune il possesso delle terre. Anzi, iniziassero le pratiche per il reintegro delle terre.

La guerra della amministrazione comunale contro le delibere del Prefetto continuò con la mossa della amministrazione del 28 luglio 1888. Anche la nota del sottoprefetto di Castroreale n. 3254 del luglio 1888 rimase inascoltata e l'amministrazione deliberò ancora la censuazione escludendo le terre dagli usi civici e dalle servitù comuni, di fatto privando la comunità dei mezzi di sussistenza principali. La svolta autoritaria del 1888 che appoggiò l'avvento del capitalismo, quando il trattamento disuguale riservato alla popolazione divenne più grave, è ben visibile più che nei provvedimenti del re, nelle pratiche amministrative e giurisdizionali locali, che il popolo subì.

L'indignazione rende l'italiano di Chillemi una lingua intensa e nuova nei significati. Le parole con cui oggi si narra e si commentano i fatti, sono parole alienate, lontane dai sensi profondi, massificate e massificanti, parole tradite e separate dalla loro origine e dal loro significato, che nascondono e mistificano anziché dare forma comunicabile alla realtà. Per esempio, la parola comunista nel documento di Chillemi ci pare non sia mai velata dal pregiudizio che ha fatto di questa parola un emblema di fede che divide, associato a ben altri contesti che non quelli della sua chiara e semplice denotazione: Chillemi dice comunista per dire cittadino del comune, soggetto pubblico, titolare di pubblico interesse, come era nell'originale uso del termine.

La delibera della amministrazione dei Leo & company “riconosciuto ed ammesso il diritto di possesso dei singoli proprietari delle terre del bosco comunale, il quale può riguardarsi come quotizzato da antico tempo” riafferma con protervia, “avuto riguardo al disposto dell'art. 18 delle istruzioni approvate con regio decreto l'11 dicembre 1841 , volendo mettere fine alla questione “con mezzi conciliativi” su proposta del sindaco delibera di, udite udite, “sottoporre i possessori delle terre suddette iscritti in apposito elenco catastale, proprietari per diritto da epoca immemorabile (!) al pagamento di un canone annuo nelle proporzioni stabilite con progetto 21 luglio 1873 approvato con regio decreto il 9 aprile 1882, redimibile al 5% escludendoli da servitù e usi civili.” - come dire - deliberiamo la censuazione delle proprietà demaniali e, come previsto, ci costringiamo al pagamento di un canone, a risarcimento del proprietario espropriato (la comunità), ma non consentiamo che si entri nelle terre che abbiamo reso nostre, disobbedendo alle norme che obbligavano invece al mantenimento degli usi comuni anche sui beni censiti. Questo è quello che Chillemi chiama “sopruso”. La normativa viene rispettata a metà, è evidente l'inganno. Ma il sindaco della amministrazione del 1888, Leo, lo impone, il sopruso, come fosse una mediazione, e gli altri la votano all'unanimità. Non ancora contenti “i compari” in quella delibera concludono: “..Il Consiglio riserva in completa forma i diritti che vantano i 45 detti possessori delle terre, che col presente deliberato non intendono menomare, ma che anzi si riconoscono e si confermano, di guisa che, nel caso che la presente deliberazione non venga approvata e messa in esecuzione come a mezzo conciliativo delle pretese del signor Prefetto commissario regio per il comune, e dei diritti di proprietà dei privati condomini, in allora questo verbale si ritiene come non avvenuto e privo di qualunque effetto giuridico che danno recar potesse all'interesse dei particolari suddetti”. La delibera è contraria alle decisioni spettanti all'autorità superiore. Si può dare ad intendere che così stando le cose essa vale come mezzo conciliativo? No. Le decisioni del Prefetto, organo giurisdizionale superiore, possono essere considerate pretese? No. Ma è chiaro l'abuso! Chillemi fa conoscere i contenuti dell'azione amministrativa dei Leo con le parole stesse della delibera, e ciò basta a evidenziare la prepotenza e a trovare il carattere “mafioso” della operazione portata a termine. Le frasi verbalizzate hanno un contenuto esplicito che rivela la volontà recondita di difendere il maltolto. Delibera “immorale, iniqua e illegale” per Chillemi, di questi otto che procedono a censire i fondi: per pochi denari l'Antillo divenne proprietà privata dei già ricchi proprietari, e dei male intenzionati amministratori, loro complici. Nessuno fece notare al re i vizi di forma e di sostanza di questa delibera e di simili delibere che hanno prodotto quel trasferimento di ricchezze nelle mani di un ceto di affaristi e hanno determinato la proletarizzazione del ceto contadino in tutto il sud, di cui abbiamo abbondantemente parlato. Le baronie precedenti e il sistema dei soprusi che le baronie facevano subire ai sottoposti contadini aveva avuto la collaborazione di una manovalanza messa al loro servizio: i campieri, loro strumento armato, che vessavano il contadiname. Ora le stesse categorie sociali della aristocrazia terriera e dei nuovi politici delle amministrazioni da loro strumentalizzate e dirette, facevano bello e cattivo tempo.

La politica dei Savoia fu distratta e insensibile alle esigenze delle masse contadine del sud, anzi legata da pregiudizi e da intolleranze. Essi già stavano gravando sulle popolazioni con una politica fiscale sperequata nord- sud. La militarizzazione del consenso, la guerra del Meridione37 come guerra per l'ordine pubblico, non permise al sovrano e ai suoi governi l'assunzione di un punto di vista al di sopra delle parti e le azioni di governo non furono capaci di affermare uno stato di diritto, a correzione di uno stato di fatto. Il re con i decreti del 15 aprile 1894 e 23 gennaio 1896 e 4 marzo 1897 e 21 dicembre 1899 approvò le ordinanze del Regio Commissario Ripartitore. In questi anni la protesta contadina stava perdendo. In Sicilia il biennio terribile dei fasci contadini si è concluso con diverse stragi.

Sulla Gazzetta Ufficiale di quel periodo leggiamo di un congresso dei sindaci a Roma (adesione di 500 di essi) e leggiamo del processo De Felice a Catania e delle azioni militari e politiche contro i fasci, allora presentati dalla stampa compiacente come subbugli di anarchici e facinorosi, interessati ad appropriarsi di beni cui non avrebbero avuto diritto.

37 Guerra del meridione – Chiamiamo così il conflitto che la politica accentratrice dei Savoia provocò dichiarando lo stato di assedio dal 1862 al 1864 nelle regioni del sud dove mandò 120.000 soldati per reprimere il dissenso politico e la protesta che andò sotto il nome di “brigantaggio”. 46

“PALERMO - Processo contro De Felice Giuffrida - Il teste Manera, maggiore dei carabinieri, dichiara essere arrivato a Catania quando I Fasci erano già organizzati e la propaganda sovversiva ferveva attivissima, in seguito al discorsi sediziosi di De Felice. Parlò dei vari disordini avvenuti nella provincia e specialmente di quello di Catenanova, ove si recò dopo due mesi De Felice a farvi apologia dei tumulti. ..al discorso di De Felice al teatro Nazionale di Catania, … assistette pure un gruppo anarchico. In quel discorso, De Felice, accennando al disagio economico, disse che bisognava muoversi, che l'ora era suonata e che si poteva contare sull'appoggio del continente. Calpiati, maggiore dei carabinieri, comandante la sottozona di Plana del Greci, dice che i membri del Fasci erano turbolenti e provocanti. Scopo dei Fasci (si legge nel verbale della testimonianza) non era il miglioramento delle condizioni del lavoratori. La maggior parte del membri dei Fasci agognavano alla ripartizione delle terre. Barbato aveva un grandissimo ascendente. Negli ultimi tempi raccomandava la calma, accorgendosi non essere propizio il tempo per insorgere. Riferisce le parole pronunziate da una ragazza arrestata in seguito ai tumulti. Essa rivolgendosi a un carabiniere gli disse: “Resteremo poco in carcere; se non verranno a liberarci i nostri amici, verranno i francesi”.

Successivamente la politica dei supervisori provinciali cambiò segno: la Giunta Provinciale Amministrativa, negli anni del contrasto, anzi della guerra ai , diede l'appoggio alla amministrazione Leo e ratificò la censuazione fatta in difformità della normativa. Nel documento di Chillemi vengono ricordate anche le altre delibere della amministrazione comunale, emanate fino al 1998, con cui si continuò a censire le partizioni privatizzate e si procedette nelle quotizzazioni per il riscatto delle terre. Si assegnò al comune un canone annuo irrisorio di 1300 lire che i condomini, in realtà gli usurpatori delle terre, dovevano pagare, ma rimase a carico del Comune l'onere della tassa sulla ricchezza mobile e parte della imposta fondiaria pertinente a quelle terre, mentre gli usurpatori, come insisteva a chiamarli Chillemi, si esonerarono dal consentire sui fondi gli usi civili. Il pastrocchio artificioso, l'azione avviata a titolo di condomini, fu un inganno della cricca che amministrava Limina in quegli anni, come se fosse una comunità di contadini utenti delle terre demaniali, mentre non lo era. La privatizzazione a metà lasciava il carico delle imposte al comune ed escludeva gli usi comuni che la legge delle privatizzazioni del demanio invece non escludeva, in nessun caso.

Ora, il nostro Chillemi non polemizza contro la possibilità della privatizzazione dei suoli. Non afferma, e neanche lontanamente fa pensare, di considerare la proprietà un furto, come si leggeva nei libri di Proudhon38 prima della grande rivoluzione del 1848, negli anni infuocati della primavera dei popoli. La sua reazione civile riguarda piuttosto la negazione abusiva di un diritto collettivo, per assicurare, con la prepotenza un vantaggio a pochi illegittimi usurpatori. La privatizzazione, attuata in questa forma e con questi metodi,

38 Pierre-Joseph Proudhon (1809 – 1865) Nel 1840 pubblicò Cos'è la proprietà?, in cui sostiene la sua ormai celebre tesi secondo cui "la proprietà è un furto". E' stato un filosofo, sociologo, economista e anarchico francese, il primo ad attribuire un significato positivo alla parola "anarchia"

47 ebbe il contenuto di un danno, di un abuso, e non funzionò in vista di un incremento della produttività dei suoli e di un assetto più leggero dello Stato moderno che superasse il feudalesimo; questa privatizzazione non comportò progetti migliorativi delle terre, invece la legge ordinava le quotizzazioni con il vincolo delle migliorie ai suoli. Avrebbe potuto essere un avvio alle innovazioni, alla modernizzazione, allo sviluppo agricolo, invece divenne un danno economico per la parte pubblica e collettiva. Inoltre radicò l'idea che l'interesse privato nella cosa pubblica fosse praticabile, prassi che divenne consueta nella amministrazione. Ingenerò la considerazione del ruolo di rappresentanza del popolo come strumento per la affermazione degli interessi di chi si candidava e veniva eletto, anziché come servizio orientato al bene comune.

Le ragioni della adesione al partito socialista, di Chillemi come di tanti altri cittadini anche non appartenenti al ceto popolare, hanno sicuramente avuto un carattere morale: consistono in questa indomabile protesta contro l'abuso, la prepotenza, la menzogna costruita ad arte, per piegare le leggi ai propri comodi. La questione è una questione morale, prima e più che una questione giuridica, o politica. L'opposizione di Chillemi alle privatizzazioni potrebbe sembrare una posizione passatista a chi non avvertisse nella sua ricostruzione lo scandalo per il sopruso di cui è testimone, da politico, da sindaco subentrato alla amministrazione dei Leo, quando si rese conto che erano state abbandonate le vie legali, ed erano state praticate modalità mafiose nella gestione della cosa pubblica. Lo scandalizzano, lo indignano le amministrazioni che “travisano i fatti” , “alterano cifre”, fanno apparire utile l'inutile, conveniente l'inconveniente. L'epilogo triste delle usurpazioni fu che la popolazione indigente di Limina emigrò, chi in Africa, chi in America. Quella privatizzazione fu causa dell'impoverimento radicale, depresse chi si sentì escluso ingiustamente, svantaggiato in anticipo. La popolazione cercò altrove la propria fortuna.

Il pregiudizio ha costruito la rappresentazione dell'emigrante come il lazzarone, il fuoriuscito, l'eversore, l'escluso, il rinunciatario, mentre invece le masse emigranti sono sempre state capaci di una intraprendenza senza limite, di un coraggio inaudito, di una animosità eroica se si pensa alle difficoltà e al dolore che affrontano. L'Italia non ha avuto un vero capitalismo autonomo e capace del rischio di impresa. Il vero capitalismo italiano fu quello delle centinaia di migliaia di migranti che non potettero più vivere a casa loro, si videro derubati di quello che la legge diceva un loro diritto, ma dimostrarono altrove la loro bravura e continuarono a mantenere economicamente e affettivamente un rapporto con la terra di origine verso cui mandarono i loro risparmi. Mai riconosciuto, ebbero il merito di fare onore alle proprie radici, di farsi ambasciatori di una civiltà del lavoro, quale è la civiltà italiana. Ebbero il merito di disimpegnare il conflitto sociale, di saper cogliere le occasioni di affermazione in uno scenario internazionale in cui l'Italia non avrebbe mai avuto un posto se non avesse avuto questi speciali emissari, capaci di tanta abnegazione nel lavoro e nel risparmio. Senza riconoscimenti! Molte giornate delle memorie nella storia recente sottolineano alcune date come memorabili per conservare il senso della vita sociale collettiva. Non è ancora considerato un valore la memoria delle vittime del dualismo economico, dei migranti sfruttati e maltrattati, delle vittime del profitto, nelle miniere, come 48 nelle fabbriche, come nelle campagne. Quando lo sarà troveremo, tra le masse anonime dei tanti da ricordare, molti di quei contadini del sud, beffeggiati da una certa politica bacchettona che si accanisce contro capri espiatori incolpevoli invece di trovare i veri responsabili dei disastri economici che tocca a tutti subire. Se invece di dire “è colpa dei meridionali” in certi ambienti della politica si fosse cercato di difendere come orgoglio nazionale il ruolo dei nostri emigranti, si sarebbe conosciuto un sentimento di solidarietà e di collaborazione oggi così importante per la soluzione delle divisioni, dei particolarismi, dell'illegalità che è il vero e solo problema del paese intero. Se alla ricchezza si fosse riconosciuto un valore sociale, se alle professioni fosse stato attribuito un valore ben al di là dei piccoli privilegi di consorteria, se della povertà ci si fosse occupati senza colpevolizzarla, se della capacità produttiva dei suoli agricoli si fosse fatta una difesa radicale per la conservazione dei paesaggi e delle specializzazioni produttive, oggi racconteremmo un'altra storia. E' in quella direzione che prima o poi dovremo rivolgere le nostre speranze per avere sviluppo produttivo. “I termini sacri di assoluta proprietà privata” affermati allora misero la parola fine all'economia contadina di intere regioni, dove, anziché una espansione dalle nuove opportunità commerciali e industriali, si produsse recessione e un ritorno alla ri-feudalizzazione dei suoli, alla ricostruzione di latifondi, dove in molti casi tornarono ad essere proprietari dei beni gli stessi proprietari antecedenti alle leggi eversive del feudalesimo.

Non si tratta di una semplice lamentela, o di una semplice protesta: Chillemi trova le ragioni del degrado che produsse il dualismo economico che ha reso sud e nord così diversi proprio a cominciare dalla seconda metà dell'800. A riprova delle sue argomentazioni mette a confronto l'andamento economico del comune limitrofo di Roccafiorita che allora aveva meno di 500 abitanti e che sfruttava, mantenendo gli usi civili, un demanio che misurava la quinta parte di quello di Limina. In un anno il comune di Roccafiorita ricavava 2.200 lire di fitti che si aggiungevano al vantaggio per i comunisti dell'uso civile dei suoli. Laddove, come a Limina, invece si affermò il sopruso della privatizzazione illegale, e si censirono le proprietà evadendo anche il fisco, dato che la registrazione riguardò solo un terzo delle terre, anzi un quarto delle effettive proprietà usurpate, non ci fu nessun guadagno pubblico.

Il demanio di Limina era di circa 3.600 ettari. Ne furono censiti solo 650 ettari. I fondi furono censiti come di qualità scadente, di terzo, quarto livello, facendo una dichiarazione falsa che oggi chiamiamo elusione del fisco, uno dei modi di evadere il fisco. La narrazione di Chillemi si dipana con una tensione civile alta soprattutto quando allarga lo sguardo al danno provocato dalla usurpazione non solo nell'immediato, immiserendo i singoli, ma più in generale alla comunità intera, del presente e del futuro, producendo un'ingiustizia e un danno irreversibili.

Per incarico della Unione Operaia di Limina, Chillemi nel 1905 era stato delegato di fare ricorso al re affinché venisse cancellata la delibera comunale del 28 luglio 1888 e di conseguenza venissero cancellati i provvedimenti governativi del 15 aprile 1894, del 24 gennaio 1896 e del 4 marzo 1897, cioè tutti gli atti di ratifica che ne erano seguiti. Passati 49 gli anni dello stato di assedio anti-operaista e anti-contadino, passata la guerra ai fasci siciliani che furono repressi nel sangue, dopo gli eccidi di Caltavuturo39 e Lercara, la svolta autoritaria continuò con i governi post-crispini di Pelloux40 e Rudinì41. La vittoria militare contro I fasci aveva reso I governi più spregiudicati: a Milano42 nel 1898 contro la gente comune che manifestava in piazza il suo dissenso per l'aumento del prezzo del pane si spararono cannonate, parecchie centinaia di persone rimasero ferite e 85 furono i morti, repressione impresentabile in uno stato fondato su una Costituzione (quella Albertina43). Il secolo Novecento inizierà con l'assassinio del re Umberto per vendicare questi morti.

Il governo nel 1905 era in capo a Giolitti44, un politico con una carriera di funzionario alla spalle, senza un passato politico nella storia risorgimentale, implicato, come tutti,

39 Caltavututo e Lercara, in provincia di Palermo, luoghi dell'eccidio del 1893, tragico evento consumatosi il 20 gennaio giorno di San Sebastiano. Tutto avvenne a seguito dell’occupazione simbolica delle terre del feudo San giovannello che il duca di Ferrandina, dopo una lunga trattativa, aveva concesso ai contadini ma che i gabellotti avevano usurpato. Al ritorno in paese i 500 contadini che avevano partecipato alla manifestazione trovarono ad accoglierli l’esercito ed i carabinieri intenzionati, a loro modo, a ristabilire “l’ordine pubblico”. La tensione, altissima, sfociò ben presto in disordini. Alla fitta sassaiola, provocata da infiltrati, la forza pubblica rispose non facendosi scrupolo di sparare sulla folla, provocando la morte di 11 manifestanti ed il ferimento di ben altri 40. Nella strage di Natale che si consumò a Lercara Friddi il 25 dicembre del 1893 i morti furono sette. 40 Luigi Gerolamo Pelloux è stato un generale e politico italiano, Presidente del Consiglio dei ministri Italiano dal 29 giugno 1898 al 24 giugno 1900. Durante il suo gabinetto avvennero moti popolari, al sud come al nord, repressi nel sangue. 41 Antonio Starabba marchese di Rudinì è stato un politico e Prefetto italiano. Fu più volte ministro e fu presidente del Consiglio dei ministri dal 6 febbraio 1891 al 15 maggio 1892 e dal 10 marzo 1896 al 29 giugno 1898, costretto a dimettersi in seguito alle manifestazioni popolari di Milano del maggio 1898. 42 Nel maggio 1898, in occasione dei gravi tumulti milanesi – passati alla storia come la “protesta del pane”, il governo guidato da Rudinì proclamò lo stato d'assedio e il generale Bava Beccaris, in qualità di Regio commissario straordinario, ordinò di sparare cannonate sulla folla provocando una strage, in cui furono uccisi 80 cittadini e altri 450 rimasero feriti. In segno di riconoscimento per quella che dalla monarchia fu giudicata una brillante azione militare, Bava-Beccaris ricevette dal re Umberto I la Gran Croce dell'Ordine militare di Savoia, poi fu senatore. 43 Carlo Alberto, re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, principe di Piemonte, duca di Savoia e duca di Genova dal 1831 al 23 marzo 1849, emanò una costituzione o Statuto, proclamato l'8 febbraio 1848, tre giorni prima che il Granduca di Toscana prendesse la stessa decisione, ed un mese prima di Pio IX, per sua benevola generosità. Con una politica paternalistica lo presentò con la velata minaccia di non procedere oltre se i "popoli" non fossero stati "degni" delle sue manifestazioni di apertura. Lo Statuto fi poi esteso a tutta l'Italia unificata sotto il regno dei Savoia. 44 Giolitti - Uomo politico e statista italiano (1842 – 1928). Segretario generale della Corte dei Conti e poi Consigliere di stato, fu deputato (1882, 1924), ministro del Tesoro (1889-90) e degli Interni (1901-03), presidente del Consiglio (1892-93, a più riprese fino al 1914, 1920-21). Considerato uno tra i maggiori protagonisti della storia unitaria italiana, G. ha dominato la scena politica nel primo quindicennio del Novecento, periodo che è stato definito "età giolittiana", dando un'impronta liberale alle linee di governo, specie rispetto ai conflitti dei lavoratori. Egli espresse una posizione neutralista nei conflitti sociali. Era convinto che per placare il malcontento popolare bisognava permettere ai lavoratori di conquistarsi migliori condizioni di lavoro e di vita. Non represse quindi gli scioperi e favorì l’organizzazione di associazioni di lavoratori, allargò il suffragio e creò anche enti governativi in favore dei lavoratori e degli emigranti. Giolitti promosse numerose riforme in campo sociale, riconoscendo la 50 nell'affare dello scandalo della Banca di Roma, aperto alle ragioni della minoranza socialista, amico dello stesso Turati45 che rappresentava la coscienza più sensibile e la mente più acuta del partito socialista. La sua linea di governo rispetto alla questione operaia era neutralista: teorizzava l'equidistanza dello Stato nelle questioni del conflitto sociale tra le parti. A cominciare dal 1903, ma in modo particolare nel 1905, la linea neutralista del suo governo aveva lasciato libertà alla classe operaia di lottare per ottenere un incremento dei salari e condizioni di vita e di lavoro migliori. Sembrò il momento buono per sanare l'ingiustizia subita nella stagione dell'autoritarismo che aveva dato man forte ai soprusi di fine secolo. Chillemi in questo periodo fa il suo primo ricorso.

Tutto era cambiato nella capitale con il governo dell'età giolittiana, ma niente era cambiato nelle amministrazioni locali, dove la famosa cricca familistica dei Leo aveva occupato il potere senza demordere. Il sindaco era ancora lo stesso, stessa la giunta. Ovviamente i notabili di Limina, i Leo, fecero un contro-ricorso l'11 aprile dello stesso anno. L'occupazione del potere amministrativo locale da parte di una categoria di affaristi, ebbe il valore di una occupazione delle cariche politiche duratura nel tempo perché finalizzata a darsi delle garanzie di immunità e di protezione in vista di interessi privati che venivano coltivati attraverso la politica. Si può parlare già per quei tempi di democrazia bloccata. Questa realtà fu il brodo di coltura ideale per quell'intreccio di mafia e politica che esercitò il controllo del territorio anche senza gestire un ruolo istituzionale. Tutelare i propri interessi fu il loro impegno. Si può parlare in questo senso di una dittatura plutocratica, di una complicità criminosa tra politica e mafia, con largo anticipo rispetto a quanto si vedrà accadere in seguito in Italia, fino ai giorni nostri.

Nel contro-ricorso i Leo mostrarono molta astuzia e molta conoscenza delle trappole del linguaggio della legge. Presentarono i loro argomenti confusamente riferiti alla questione antica delle pertinenze del Comune rispetto all'Archimandrita che era stato espropriato in età napoleonica. Le ragioni del comune vennero presentate come le ragioni antiche volte a farsi riconoscere i diritti dopo l'esproprio ai danni dell'ente religioso che ne era titolare, prima dell'ondata di confische dei Savoia. Si fece apposta confusione tra quella questione antica che non aveva sollevato proteste popolari, e la questione più recente della contesa per i diritti dei comunisti, ossia per gli usi civili nei demani, contro la privatizzazione. Usurpatori e politici si auto-rappresentarono nel ricorso come rappresentanti della popolazione tutta. Nella pletora dei provvedimenti che abbiamo precedentemente cercato di illustrare, il contro-ricorso dei Leo ingarbugliò ad arte i contenuti delle leggi e le cronologie e il significato degli atti amministrativi precedenti. La “malafede”, che scandalizzava Chillemi, arrivava al punto da far intendere che la deliberazione comunale del 28 luglio 1888 mirava a far intervenire il Prefetto come Commissario ripartitore affinché vigilasse sulla legalità delle pratiche amministrative,

validità degli scioperi, tutelando il lavoro delle donne e dei fanciulli con appositi provvedimenti di legge e con l’istituzione degli uffici del lavoro. 45 Filippo Turati è stato un politico e giornalista italiano, tra i primi e importanti leader del socialismo italiano, e tra i fondatori a Genova, nel 1892, dell'allora Partito dei Lavoratori Italiani. 51 mentre invece la delibera dei consiglieri era stata una delibera di censimento dei beni del demanio, e con essa si erano intestate le terre. Avevano anche nominato un perito di loro fiducia per la stima del valore delle proprietà affinché creasse ad arte anche dei vantaggi fiscali dichiarando il falso.

La distanza degli anni e il perdurare dell'ingiustizia subita una volta, rende tragica la lotta di Chillemi che si rende conto di come la verità sepolta sotto la menzogna, nel tempo, perde le prove e i testimoni per la sua affermazione finale. Ecco che la memoria funge da stabile riferimento per il ripristino della verità, per chi la voglia cercare. La bugia che strumentalmente allora venne inventata per danneggiare i contadini - coloni dei feudi fu che essi non pagavano la decima, creando fastidi e procurando un danno erariale al comune. Ciò avrebbe reso opportuno il rimedio di alienarsi la proprietà del demanio per risolvere il problema privatizzando, come se il fastidio di esigere le tasse su un bene pubblico fosse bastante per decidere di rinunciarci per sempre. Detta in altri termini l'azione dei Leo fu quella di dividere la proprietà pubblica assoluta, del Comune, tra proprietari non contadini, né coloni, ma inamovibili titolari della proprietà esclusiva di terre degli ex feudi, che non furono riscattati e rimasero senza migliorie.

Nel contro-ricorso la amministrazione Leo si oppose alla richiesta di reintegro del demanio di proprietà del Comune e alla censuazione a favore dei “coloni” previo pagamento del canone previsto per assicurare una rendita fiscale al Comune. La realtà fu mistificata: i nullatenenti non avevano avuto nessuna parte nella spartizione del demanio. Chi aveva privatizzato non era “colono”. Chi aveva privatizzato aveva censito la proprietà in modo infedele per eludere le tasse. Le ragioni della richiesta del 1888 non riguardavano la reintegra del demanio, ma il mantenimento degli usi comuni e quindi la proprietà promiscua con il Comune affinché rimanesse titolare del demanio. Il Prefetto a nome del governo aveva più volte deliberato in questa direzione annullando le delibere del Consiglio comunale dei Leo. La censuazione fu voluta e praticata dalla amministrazione comunale Leo a prescindere da ogni regola e da ogni decisione delle sezioni sovraordinate del governo del territorio. La reazione popolare alla “mafioseria” di quella amministrazione, dopo la riforma elettorale46 giolittiana che rese il suffragio maschile universale, fu la vittoria elettorale di un sindaco socialista, Chillemi appunto, a cui il voto affidò il preciso mandato di recuperare per il Comune la titolarità delle terre perdute per restituire ai contadini gli usi comuni. Le casse del comune avevano perso un introito: se prima, pur mantenendo gli usi civili, il Comune riscuoteva 2.500 lire di fitto, adesso dai proprietari, finti coloni e inamovibili, che non permettono gli usi comuni in quelle che erano divenute le loro proprietà, riscuote 1.300 lire annue. E il bene non gli appartiene più. Fu questa in sintesi la vittoria del liberismo. I suoli pubblici anche oggi sono minacciati dalle speculazioni che

46 Riforma elettorale giolittiana allargò il diritto di voto a tutti i cittadini maschi, anche analfabeti, di età superiore ai trent’anni; coloro che avevano prestato il servizio militare e coloro che avevano i requisiti richiesti dalla precedente legge elettorale potevano votare dopo i ventuno anni. Le circoscrizioni elettorali ed il sistema di scrutinio uninominale rimasero invariati. Il corpo elettorale passò a quasi nove milioni di cittadini, cioè dal 7% al 23% della popolazione 52 pregiudicano ogni possibilità futura di sviluppo verso forme e modelli economici alternativi. Le ipoteche che sul suolo pubblico vengono oggi imposte sono dovute all'urgente bisogno di liquidità da parte delle amministrazioni. Oggi si fa finanza con i suoli agricoli che vengono resi edificabili ed edificati erodendo in misura massiccia i suoli agricoli.

Il ricorso Chillemi del 1905, presentato a nome della Unione Operaia, venne respinto con un Regio Decreto in data 22 luglio 1906 registrato in data 11 agosto 1906 (R.D. 38 F. 198). La fiducia nelle istituzioni e nella politica, che avevano dato speranza ai liminesi di poter affermare un principio di giustizia, seppur a distanza di anni, venne del tutto delusa.

“Noi sappiamo” dice Chillemi - “che non ci fu una legittimazione del Regio commissario Ripartitore, ma che fu il Comune amministrato ancora dai Leo a legittimare quel 28 luglio 1888. Sappiamo che annullare la legittimazione significa annullare gli atti che ne derivarono, e cioè le conciliazioni successive, come nulla sarebbe la nomina del perito prontamente assunto per le misurazioni e le valutazioni degli accaparramenti da parte dei privati, e le sue perizie. Bisognava forse richiedere l'annullamento degli atti di tutta la censuazione e non di una sola delibera.” La sottoprefettura di Castroreale accompagnò la trasmissione del Regio decreto con la precisazione che il procedimento demaniale avrebbe potuto essere messo in questione se fossero state messe in questione le deliberazioni comunali a partire dal 1841. E richiese se esistesse la volontà di mantenere il ricorso. E' ancora l'amministrazione Chillemi che nel 1915 a distanza di dieci anni rimise in azione la richiesta di annullamento della deliberazione fatidica, oltre che delle altre del 1896, del 1897, del 1898, l'ordinanza del 1893 e dei decreti del 1894, 1896, 1897, 1899 che approvavano le ordinanze del Regio Commissario Ripartitore e le omologazioni e le conciliazioni.

Insomma Chillemi parte al contrattacco seguendo alla lettera la capillare disamina e recusazione di tutto ciò che aveva ratificato la prima ordinanza all'origine dell'ingiustizia fatta subile ai liminesi. E sono passati 27 anni, dei più cruenti e problematici nella storia d'Italia, anni in cui l'Italia cambiò nella sostanza e nella forma. Il capitalismo avanzato si era affermato militarizzando il lavoro, mettendo in competizione gli Stati per creare imperi commerciali dove riversare le merci delle industrie, preparativi di guerra erano già in atto da più di un lustro, per usare la forza ove non bastasse la diplomazia. La questione sociale era ancora viva e forte, soprattutto al sud, tenuto come feudo elettorale da sfruttare con le promesse facili e il ricatto del voto di scambio.

Chillemi riporta lunghi stralci della Legge sul contenzioso amministrativo del 21 marzo 1817 dove all'art. n. 176 si legge “ogni occupazione e ogni alienazione illegittima del demanio comunale è dichiarata abusiva a qualunque epoca l'una e l'altra rimonti; essa non potrà in verun caso essere considerata come titolo di promiscuità e sarà in ogni tempo improduttiva di alcun diritto od effetto”. La sottoprefettura di Castroreale che veniva autorizzata dal Consiglio Comunale di Chillemi chiese di avere in elenco i nomi degli usurpatori con i quantitativi di terra usurpati per verificare la volontà degli usurpatori a un bonario rilascio dei terreni attraverso un agente conciliatore. 53

Chillemi ribadisce che le usurpazioni non risalivano a età antica, che il Comune non le aveva mai riconosciute prima della giunta Leo, anzi a dimostrazione di ciò fa riferimento ai contratti di affitto e agli atti d'archivio. Ribadisce che i beneficiari della privatizzazione non erano coloni e che avevano agito fuori legge e che il censimento era stato illegittimo, e riferisce dell'insistenza del Prefetto di Messina che imponeva il reintegro dei beni. E mette in elenco i difetti di forma e di sostanza che pure il rifiuto del ricorso nel 1905 aveva riconosciuto: Le conciliazioni stipulate dall'agente avvocato Melchiorre Quartarone nel 1891 e nel 1893 erano state approvate anziché dal Consiglio, come di norma, dalla Giunta Provinciale Amministrativa cui non spettava; le conciliazioni affermavano il falso. Nel 1895 tutti i consiglieri che deliberarono avevano, compreso il segretario, interesse privato in quella pratica. Secondo la stessa legge in vigore art. 249 TU 10 febbraio 1889 c'era conflitto di interesse. Bisognava confutare che i Leo & company fossero condomini, coloni. Essi non potevano avere uti singuli le terre, non si poteva procedere a conciliazioni benevole, né a censuazione, né a fitti con tariffe irrisorie. La giunta provinciale amministrativa si era basata sulla perizia di un agronomo, quel Quartarone, nominato seduta stante, all'unanimità, in quel 22 luglio 1888 dagli stessi amministratori. Chillemi elenca i nomi di quanti alla conciliazione del 1895 avevano interessi privati e gradi di parentele e affinità con gli usurpatori. Chiede il reintegro con urgenza dato che i “galantuomini” interessati si sono rivolti al Pretore di Santa Teresa di Riva per affrancare terre comunali con cifre irrisorie : un valore di 1000, pagato per 54 lire. Di questa misura i finti acquisti che hanno trasferito ricchezze in poche mani. Allora le gare d'appalto per aggiudicarsi le terre o l'esercizio di servizi pubblici si facevano per mezzo di un'asta. Ricostruiamo con Chillemi l'uso antico della gara d'asta: il banditore accendeva una candela la cui base era tinta di verde. Finché la candela non era arrivata al verde, era lecito fare offerte; dopo, non più. Da qui il detto “rimanere al verde” 54

Capitolo III

La questione Contadina nel contesto socio-economico dell’Isola

La Sicilia dei fasci

Dal 1866 al 1894 le condizioni dell’isola invece di migliorare peggiorarono, soprattutto in conseguenza della svolta protezionistica nel 1887. Nelle campagne il disagio dei contadini era aggravato dall’occupazione, da parte dei borghesi, delle terre demaniali, occupazione che destò una viva resistenza e che portò a tragici episodi come quello di Caltavuturo, di cui qualcosa abbiamo già detto, quando la truppa sparò sui contadini uccidendone undici, mentre nelle città e nelle zolfare gli operai chiedevano lavoro e aumenti salariali.

A cominciare dal 1890-91, la propaganda socialista era penetrata nell’isola ed erano sorti i Fasci dei lavoratori. Il movimento fu contrastato, dal secondo ministero Crispi47, con la forza: fu decretato lo stato d’assedio e sospesa la libertà di stampa; furono sciolti i Fasci e gli arrestati deferiti ai tribunali militari.

Poiché la borghesia capitalistica isolana aveva acquistato i terreni, essa non ebbe più disponibilità finanziaria per le migliorie fondiarie, né per lo stesso pagamento dei salari ai braccianti, quando sopravvenne la crisi agraria e il prezzo del grano crollò. Fu in queste condizioni che i contadini protestarono con l’ultima rivolta risorgimentale siciliana, quella del “Sette e mezzo”, dal 15 al 22 settembre del 1866. La rivolta fu domata coi soliti mezzi coercitivi dal generale Raffaele Cadorna48.

Il peso fiscale salì paurosamente. La Sicilia si vide ingiustamente ricompensata dallo Stato, che spendeva 71,15 lire annue per abitante in Liguria, e solo 19,88 lire annue per abitante in Sicilia. A segnalare il disagio delle masse contadine proletarizzate bastano i dati relativi all'emigrazione. Privati anche degli usi civili della terra demaniale, ai lavoratori della terra non rimase che seguire la via dell'esilio verso l'America, la Francia, o la Germania: dal 1871 al 1914 più di un milione di Siciliani lasciò la patria. Interi paesi si svuotarono: nel 1861 partirono in 5.525; nel 1862 furono 4.287; 1863 ancora 5.070; 1864: 4.879; 1865: 9.742; 1866: 8.790; 1867: 18.447; 1868: 18.120; 1869: 23.325; 1870: 15.473;

47 Gli anni dei due primi governi di Crispi (agosto 1887-febbraio 1891) furono segnati da importanti decisioni in tutti gli ambiti della vita nazionale: in politica estera, con il potenziamento della scelta a favore della Triplice alleanza, l'inizio della guerra commerciale con la Francia e l'avvio, dopo la sconfitta di Dogali (26 gennaio 1887), di una decisa politica coloniale per risollevare "l'onore militare" dell'Italia intensificando le conquiste in Etiopia; in politica economica, con la svolta in senso protezionistico. La carriera politica di Crispi, improntata a metodi autoritari, come dimostrò la dura repressione dei Fasci siciliani, fu solo in parte compromessa dallo scandalo della Banca romana. Il suo declino fu causato dagli esiti della politica coloniale, e in particolare dallo scacco subito in Etiopia con l'eccidio di Adua (marzo 1896). 48 Fu a capo delle truppe inviate nel 1866 a Palermo a sedare la cosiddetta rivolta del sette e mezzo. La rivolta palermitana fu domata dalla Marina del regno, dopo un feroce cannoneggiamento dal mare durato quattro giorni. Le vittime furono numerosissime. Nel 1869 ottenne da pieni poteri per reprimere le rivolte scoppiate in tutt'Italia a seguito dell'introduzione dellatassa sul macinato. 55

1871: 15.027; 1872: 16.256; 1873: 26.183. (I dati sull'emigrazione dal 1875 nelle tabelle Nitti49)

Percentualmente, in quei primi anni, l’85% degli emigranti usciva dalle regioni del Nord d’Italia, fu solo dopo la crisi agraria degli anni ’80 che I migranti meridionali presero il sopravvento raggiungendo il 56% nel 1920. Nell’anno 1900 l'emigrazione italiana complessiva aveva già raggiunto l'enorme cifra di 8 milioni di individui di cui 5 milioni provenivano dall' ex Stato delle Due Sicilie (di essi 3.4 milioni andarono oltreoceano). Espatriò dal Sud oltre il 30% della popolazione. “Nel 1901 il sindaco di Moliterno, in Lucania50, porgendo il saluto della città al capo del governo51, venuto a visitarla, diceva: "La saluto in nome di ottomila concittadini, tremila dei quali risiedono in America, mentre gli altri cinquemila si preparano a seguirli”. Nel 1898 l’Italia era già balzata al primo posto, tra tutti i paesi, per numero di emigranti in America; nel successivo decennio 1901-1910 partirono per nave più di 350.000 persone all'anno, poi aumentarono negli anni successivi e nel solo 1913, che fu l'anno della più forte emigrazione, lasciarono l'Italia per le Americhe 560.000 persone, cui si devono aggiungere 313.000 partenze per Paesi europei.

I fatti del 1888 e l'intervento di Chilemi. La questione contadina siciliana entra nella storia politica europea

Un nuovo racconto aspetta ancora di essere divulgato a proposito delle agitazioni, anzi delle ribellioni che passano sotto il nome di fasci siciliani che sono stati derubricati come ribellismo separatista. Con questa spiegazione semplicistica è stata disinnescata la loro pericolosità politica. Trattati come aspirazione al separatismo, la loro sconfitta viene, nella sensibilità comune, apprezzata più che deplorata: sarebbero una specie di errore politico sanzionato dal destino, che invece, fortunatamente, ha permesso la conservazione dell'Unità. Ma c'è ben altro che un incubo separatista da raccontare. C'è la questione sociale che da nord a sud si presenta come argomento urgente per la politica, e c'è la questione contadina, antica e nuova, di una agricoltura che non si modernizza, e dei rapporti di lavoro basati sul sopruso e sull'ingiustizia.

Il racconto dei fasci siciliani contiene molte storie individuali ed aneddoti affascinanti per la forza morale dei protagonisti, dei contadini oppressi, dei leader, generosi e lungimiranti, che sono stati capaci di una grande sensibilità politica e di responsabilità oltre ogni sospetto.

49 I dati sull'emigrazione sono dello storico Francesco Nitti che nel 1888, ancora studente universitario, divenne redattore del "Corriere di Napoli" e corrispondente della "Gazzetta Piemontese". Nello stesso anno pubblicò il saggio L'emigrazione italiana e i suoi avversari. Nitti si dedicò strenuamente al tema meridionalista. 50 Lucania nome antico di un'area che comprendeva quasi tutta l'odierna Basilicata, con l'esclusione della zona settentrionale del Vulture e della zona più orientale oltre il fiume Bradano dove si trova Matera, ma con l'aggiunta a ovest del Cilento e del vallo di Diano oggi in Campania, ed sud-ovest fino al fiume Lao oggi in Calabria. 51 Presidente del Consiglio dal 15 febbraio 1901 al 3 novembre 1903 fu - XXI Legislatura del Regno d'Italia

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Francesco Renda52, ricostruisce con dovizia di particolari la storia della Sicilia italiana dal 14 maggio del 1860, quando Garibaldi, Dittatore militare, assunse il governo dell'Isola a Salemi “su invito di nobili cittadini e su deliberazione dei Comuni liberi dell'isola”. Tre giorni dopo Garibaldi ad Alcamo nominò segretario di Stato e consigliere politico. Unitariamente abolì la tassa sul macinato e altre imposizioni fiscali del governo borbonico. Comandante in capo dell'esercito fino al 2 giugno, Garibaldi assolse funzioni militari e politiche. E' lui che il 31 maggio con la mediazione inglese dell'ammiraglio George Mundy53 firmò, con il generale borbonico Ferdinando Lanza, la pace. Dunque esercitò funzioni di governo da solo fino a quella data. Nei successivi cinque mesi si decise il tipo di integrazione e il ruolo che avrebbe avuto la Sicilia nel nuovo regno. Garibaldi non era più un mazziniano repubblicano, ma un ex mazziniano, monarchico. Subito dopo la battaglia di Calatafimi e la liberazione di Palermo, Cavour54 aveva mandato il messinese Giuseppe La Farina55 in missione presso Garibaldi in Sicilia per far approvare immediatamente la annessione della Sicilia al Regno Sabaudo. L'annessione avrebbe avuto il significato di un rientro nell'ordine costituito, la fine dello Stato senza leggi e senza magistrati. I proprietari terrieri lo desidervano per essere rassicurati sul possesso delle loro rendite. Ciò che tutti temevano era che la rivoluzione contadina disturbasse i piani politici che i potenti d'Italia e d'Europa stavano realizzando dentro il quadro del Risorgimento italiano. Contemporaneamente i discorsi trascinanti di Garibaldi generavano l'entusiasmo popolare perchè si sintonizzavano con la forte speranza di giustizia che da troppo tempo veniva negata, e in particolare intercettavano il desiderio di una soluzione alla questione delle terre da dividere. Non c'era nel governo piemontese, però, alcuna disponibilità a svolgere una politica in risposta alle esigenze popolari del sud agricolo.

Garibaldi su proposta di Crispi il 2 giugno 1860 emanò il decreto dittatoriale con cui dispose che ogni combattente avrebbe avuto diritto all'assegnazione di una quota di terra dei demani comunali che andavano ripartiti. I beni demaniali, dovevano essere divisi in ogni comune tra gli abitanti, procedendo con sorteggio. Ma la decisione di riconoscere il privilegio della distribuzione della terra ai garibaldini volontari, già allora fece emergere

52 Francesco Renda, storico di formazione marxista, è uno dei più importanti studiosi del movimento contadino siciliano. Importanti le sue opere sui fasci siciliani e la sua storia della Sicilia in tre volumi. Ha scritto una sua Autobiografia politica, pubblicata da Sellerio nel 2007. 53 11 maggio 1860 I garibaldini sbarcano a Marsala in circostanze "fortuite", protetti da una divisione navale inglese comandata dal contrammiraglio sir George Rodney Mundy, ufficialmente a difesa degli stabilimenti vinicoli Ingham e Woodhouse. Lo sbarco fu favorito da due navi da guerra inglesi, l'Argus e l'Intrepid, provenienti da Palermo. Già da tempo altre imbarcazioni della marina militare britannica solcavano le acque del Tirreno nei pressi delle coste delle Due Sicilie. 54 Camillo Benso conte di Cavour, statista (Torino 1810 - 1861). Fece il suo ingresso in politica nel 1847, fondando il giornale “Il Risorgimento”. Deputato (1848, 1849), fu più volte ministro (1850, 1851) e Presidente del Consiglio (1852). Nel 1860 assunse il pieno controllo diplomatico dell’impresa garibaldina. Fu per l'unità e per la monarchia. Morì prima di essere riuscito a portare a compimento il suo progetto di stato laico e liberale. 55 Giuseppe La Farina - Uomo politico e storico ( 1815 – 1863). Repubblicano, prese parte, in Sicilia, ai moti del 1837 e alla rivoluzione del 1848. Esule in Francia e poi a Torino, aderì (1856) alla monarchia e fu collaboratore di Cavour. Inviato (1860) in Sicilia per promuoverne l'annessione al Piemonte. Deputato dal 1960. 57 una contraddizione. Ne derivò una controversia, anzi una rivolta in diversi punti della Sicilia. A Biancavilla, e ancora di più a Bronte, furono presi d'assalto i municipi, le case e i beni dei privati. Anche le persone addette all'amministrazione dei beni della ducea dei Nelson56, concessa nel 1799 da Ferdinando III, furono aggrediti. Gli inglesi che avevano appoggiato Garibaldi, se ne lamentarono, e chiesero garanzie di ordine. Garibaldi diede incarico a Bixio57 di recarsi a Bronte e ripristinare l'ordine more bellico. In due giorni Bixio sedò la rivolta e mandò a morte i colpevoli, senza riconoscere loro il diritto di difesa, agghiacciante rappresaglia, macchia indelebile della impresa garibaldina. Il prodittatore garibaldino Mordini il 15 ottobre sollevò ancora la questione della terra ai contadini e con decreto dispose la censuazione dei beni ecclesiastici, ma essendo passata alla destra l'iniziativa di governo, il decreto fu inefficace.

Contro i volontari garibaldini e il loro sacrificio si mise ogni pregiudizio ad ostacolo. Solo Garibaldi riconobbe la loro opera e consegnò medaglie e rese omaggio alle formazioni garibaldine volontarie, assente il re che pure aveva promesso di presentarsi alla cerimonia. La convalida dell'opera della rivoluzione non ci fu da parte ufficiale. A Garibaldi per ragioni politiche fu negato di rimanere ancora per un anno nel Mezzogiorno come luogotenente. Egli chiese che il suo esercito non venisse disperso, ma non l'ottenne. Al progetto di Statuto regionale nel quadro dell'Unità d'Italia e all'attesa di un ordinamento autonomistico, come era nell'orientamento del Consiglio straordinario di Stato presieduto da Mordini, prodittatore nominato da Garibaldi, non si diede seguito, ma da Torino si chiese il plebiscito coatto. Sciolte le camere del parlamento del Regno di Sardegna, a dicembre si fissarono le elezioni per il 27 gennaio, le prime dell'Italia unita. La legge elettorale prevedeva che votanti fossero i venticinquenni, alfabeti e contribuenti fiscali per almeno 40 lire. In Sicilia aveva il diritto di voto I'1,9% della popolazione, ma votò il 57% degli aventi diritto. Il risultato fu, come prevedibile, una vittoria dei moderati che ebbero l'80 % dei deputati. Eletti 15 aristocratici e 18 avvocati. Della riforma regionalista non si potè più parlare. Morto Cavour58 il partito dei moderati liberali che aveva avuto 350 seggi su 443, con Ricasoli al posto di Cavour, motivò le ragioni del no alla riforma regionalista con il

56 L'abbazia di Santa Maria di Maniace, chiamata anche Ducea di Nelson, Castello di Nelson e Ducea di Maniace, è un edificio che si trova al confine fra i comuni di Bronte e Maniace, in provicnia di Catania. Nel 1799 Ferdinando III la donò all’Ammiraglio Horatio Nelson in premio della soffocata repubblica partenopea. 57 Gerolamo Bixio, detto Nino è stato un militare, politico e patriota italiano, tra i più noti e importanti protagonisti del Risorgimento. Fu uno degli organizzatori dei Mille . Combatté a Calatafimi, a Palermo, a Reggio, al Volturno. A lui fu affidata la repressione della rivolta contadina di Bronte, che attuò con spietata decisione (1860). Entrato dopo il 1860 nell'esercito regolare ed eletto deputato, assunse posizioni politiche moderate. 58 Cavour morì il 6 giugno, e quello stesso giorno l'ambasciatore britannico Hudson inviò a Londra un rapporto segretissimo. Per lui, non c’era alcun dubbio: “Dire che Cavour è morto stamani alle ore 7.05, non sarebbe la corretta definizione di un evento così nefasto. Sarebbe invece più veritiero dire che Cavour è stato condotto alla morte dai suoi fisiatri. Lo affermo apertamente, giacché penso di non essere lontano dalla verità nel qualificare il decesso di Cavour come un assassinio compiuto dai medici”. Da “La Fiera delle Parole 2012, Le ombre della storia d'Italia, 14 ottobre 2012, da documenti inediti.

58 rischio della confusione legislativa che ne sarebbe derivata. In tutta Italia si estese l'ordinamento sabaudo del 1859 con la legge Rattazzi: l'impostazione del nuovo Stato risultava centralista. Vittorio Emanuele a Palermo ricevette da Mordini i risutati del plebiscito e le dimissioni. Al suo posto fu incaricato il lugotenente del re Massimo Cordero di Montezemolo. Nessuna festa civile per commemorare l'ingresso della Sicilia nella storia d'Italia, nè per la nascita del nuovo stato. Il Parlamento eletto il 27 gennaio non fu chiamato mai a proclamare in modo solenne la creazione del Regno d'Italia. Le annessioni furono praticate come procedure burocratiche finalizzate all'espansione del regno. La prima legislatura d'Italia fu l'ottava legislatura del Parlamento subalpino. Non cambiò nulla per i nobili che tennero il titolo e la condizione.

La prima fase della nuova era durò dal 1861 al 1915. Di essa i primi 15 anni, fino al 1876, sono gli anni della destra storica, il secondo decennio quello della sinistra storica, dal 1876 al 1887. Il periodo che va dal 1887 al 1898 è il cosiddetto periodo crispino, e infine, con un biennio di transizione caratterizzato da un colpo di stato, possiamo dire, militare , si giunge al periodo giolittiano dal 1900 al 1915.

Dopo il primo e breve governo Cavour, si ebbero 12 governicchi presieduti a turno da Rattazzi, La Marmora, Menabrea, Minghetti, Ricasoli, Farini, Lanza. Nel periodo della sinistra i governi furono 11 per lo più presieduti da Depretis e Cairoli. Nel periodo crispino furono 10 i governi, presiedui da Crispi, Rudinì e Giolitti. Segue il biennio dei governi terroristici di Pelloux e Saracco, e infine gli 11 governi Giolitti, Fortis, Salandra, Sonnino Luzzatti e Zanardelli. In tutto 43 ministeri di cui il più lungo durò 13 mesi. La Sicilia nell'intero periodo ebbe due presidenti del consiglio e 13 ministri, quindici personaggi in tutto.

La rappresentanza sociale in Sicilia fu di 8 nobili (2 principi, 4 marchesi, 1 conte e 1 barone) 12 avvocati, 2 colonnelli dell'esercito, 3 professori, 1 magistrato di Cassazione, 1 medico, 1 diplomatico. La Sicilia fu divisa in 7 province, rette da Prefetti alla diretta dipendenza del governo.

Finita la fase rivoluzionaria, l'ordinaria amministrazione fu assicurata con pratiche politiche repressive del garibaldinismo e del brigantaggio e di ogni forma di protesta e di contestazione, come anche della diserzione alla leva. L'incomprensione dei funzionari piemontesi e dei generali che comandavano le divisioni stanziate nell'isola, i quali si fecero un vanto di aver sopraffatto la rivoluzione garibaldina, spiega il perché delle parole di disprezzo nei confronti della popolazione del sud, come quelle che Farini59 , il luogotenente del re incaricato al posto di Garibaldi, scrisse a Cavour da Napoli: “Altro che

59 Luigi Carlo Farini è stato un medico, storico e politico italiano, per breve tempo Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia tra il 1862 e il 1863. Nel 1859 assume la carica di dittatore delle «Provincie provvisorie» (entità composta dall'unione di ex Ducati ed ex Legazioni). Sotto il suo comando avviene l'abolizione dei feudi, dei fedecommessi e della censura preventiva sulla stampa. Successivamente viene incaricato di governare tutto il territorio da Piacenza a Cattolica, fino al confine con le Marche. Come Governatore, gestisce i Plebisciti di annessione al Regno di Sardegna (11-12 marzo 1860). 59

Italia! Questa è affrica!: i beduini a riscontro di questi caffoni sono fior di virtù civili”. Il luogotenente di Palermo Montezemolo scrisse: “dubito assai che nelle Cabilie la tempra sia più feroce che nei beduini di questa parte d'Italia.” E Govone60, incaricato della repressione della renitenza alla leva, chiamata brigantaggio, disse: “La Sicilia non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. E così Domenico Piraino governatore di Messina ancora nel 1881 scriveva: “La Sicilia che esce dagli artigli di un governo brutale, non è abbastanza civile e morale per non abusare della libertà che ci offre il governo di Vittorio Emanuele”. Il marchese Rudinì relazionando nel 1866 sulla rivolta di Palermo, di cui era sindaco, disse : “ Confesserò non senza rossore che una buona parte del popolo minuto di Palermo e dei paesi che la circondano è forse la più corrotta d'Italia”. La repressione militare del brigantaggio e del borbonismo nella penisola fu feroce, come la repressione anti-garibaldina. La guerra contro il brigantaggio ebbe le connotazioni politiche e sociali di una vera guerra civile. Lo sbando sociale provocato dall'emergenza rivoluzionaria, fu sfruttato dalla criminalità organizzata, già mafia, parola che apparve nel 1865 nel linguaggio burocratico. Nel 1863 erano già 26.225 i renitenti alla leva che si davano alla macchia. Contro di loro fu emanata la legge Pica61. Furono perseguitate anche le famiglie dei renitenti e i loro paesi di origine.

Il mito di Garibaldi continuò ad avere un significato patriottico, nel sud anche di liberazione politica e di riscatto sociale, quasi un fideismo. Se nel 1860 intorno a lui si raccolse un volontariato al 90% di settentrionali, nel 186262 per l'impresa che doveva mirare alla conquista di Roma, ci furono 2000 meridionali, quasi tutti siciliani. L'impresa sosteneva ancora ragioni sociali di riscatto e di giustizia; lo capì bene il re Vittorio Emanuele che la definì un appello alla ribellione, alla guerra civile. L'impresa non andò oltre l'Aspromonte, dove i 2000 volontari si trovarono di fronte a 3500 soldati in divisa savoiarda. Garibaldi ordinò di non sparare. Tuttavia 7 furono i morti da una parte e cinque dall'altra; una ventina i feriti tra cui Garibaldi. Furono tutti denunciati al tribunale militare. Con una amnistia il re graziò poi Garibaldi, evitando un processo contro l'eroe, mentre furono arrestati i parlamentari garibaldini a cui non venne riconosciuto il diritto all'immunità parlamentare. Sei soldati che avevano abbandonato i reparti per seguire Garibaldi furono

60 Giuseppe Govone, militare (1825 - 1872) proveniente da una famiglia della piccola nobiltà piemontese avviato alla carriera militare. Partecipò alla prima guerra di indipendenza e, dopo Novara, fu incaricato di reprimere il moto genovese dell’aprile 1849. Combatté nella seconda guerra di indipendenza e nel 1860, promosso maggiore generale, fu inviato nelle province meridionali da poco annesse. Nel 1862 fu destinato in Sicilia come comandante della IX divisione di stanza a Palermo. Deputato dal 1868, comandò il corpo di stato maggiore dal 1867 al 1869 e nel 1870 fu ministro della Guerra. 61 Il 15 agosto 1863 fu varata la legge 1409, nota come Legge Pica, con lo scopo di reprimere il brigantaggio e qualsiasi forma di resistenza armata nelle province meridionali. La legge, presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, fu più volte prorogata e rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Prevedeva l’istituzione di milizie volontarie per la caccia ai briganti, stabilendo anche premi in danaro per ogni persona catturata o uccisa. La legge aveva inoltre effetto retroattivo. 62 Nel 1862 ci fu il primo tentativo da parte di Garibaldi di conquistare Roma, ma Napoleone III, difensore della cattolicità, intimò Urbano Rattazzi, leader dei democratici moderati, di fermare Garibaldi che fu bloccato dall’esercito regolare sull’Aspromonte. 60 fucilati con giudizio sommario. E continuò la caccia al garibaldino. A metà degli anni 60, nel 1866, mentre era in corso quella che gli storici chiamano la terza guerra63 di indipendenza contro l'Austria, a Palermo si sollevò una sommossa: erano contadini provenienti dai dintorni, circa 3000, armati. Alla testa gli stessi capi squadra che avevano preso parte alle imprese garibaldine nel 1860 e nel 1862. Fonti governative parlarono di 20, 30, 40 mila insorti armati. Per sette giorni e mezzo tennero la città: la rivolta del sette e mezzo venne chiamata. Rimase circoscritta a Palermo e si risolse drammaticamente con la repressione: cannonate all'americana da parte di Cadorna. Non ci sono stime sul numero dei morti. Lo racconta Camilleri nel racconto “Biografia del figlio cambiato”. E fu l'ultima rivolta, senza esito né frutto per i ribelli. Sconfessata anche da Mazzini, la rivolta palermitana fu raccontata come un tentativo di secessione contro l'Unità, tentativo di scatenare il flagello di una guerra civile. Ma in effetti c'era ben altro. In quella rivolta c'era un coacervo di interessi divergenti che si sono caricati sulla protesta contadina, che da almeno mezzo secolo aveva l'unico obiettivo della riforma agraria. Fu usata in maniera equivoca da quanti vi aderirono con l'intenzione di sfruttarne la forza, e poi farla fallire nel suo obiettivo primario. Nella sommossa si muovevano interessi di destra, con obiettivi di restaurazione clericale e reazionaria, mentre le sinistre vi cercavano obiettivi repubblicani. La sfavorevole congiuntura economica e l'impoverimento dei ceti agricoli, il momento critico di una guerra che volgeva male per la sconfitta del 24 giugno a Custoza e la sconfitta della flotta del 20 luglio a Lissa erano fatti che rendevano la protesta di Palermo più preoccupante. Garibaldi a Bezzecca64 vincendo il 21 luglio riscattò la vergogna di Custoza e Lissa, così l'armistizio del 26 potè essere firmato da vincitori. E la rivolta di Palermo, nell'emergenza del momento, fu fermata con le stragi. Ma lo stesso generale Cadorna che la sedò, la interpretò come causata da motivi sociali, dalla miseria. Su proposta di Mordini, allora, il parlamento decise un'inchiesta parlamentare sulle condizioni economiche e morali d'Italia. Con l'Unità d'Italia fu decisa l'espulsione della Compagnia di Gesù e lo scioglimento delle corporazioni e degli ordini religiosi, che, espropriati dei loro beni, delle proprietà fondiarie, delle biblioteche e delle opere d'arte e di ogni proprietà, furono soppressi. I beni incamerati nell'immediato servirono all'ubicazione di uffici, musei, istituzioni, caserme, prigioni e altri pubblici uffici.

Per lo Stato Italiano il problema della terra, affrontato con politiche riformiste nel periodo del dispotismo illuminato del Settecentesco, rappresentò un pieno fallimento anche in termini di politica economica, oltre che sociale. Quando nel 1812 era stata proclamata l'abolizione della feudalità, i baroni avevano tenuto i loro beni non a titolo di feudo, ma a titolo di patrimonio personale. Nel 1860 anziché metterlo in discussione, questo status fu confermato, togliendo spazio di iniziativa ai contadini che avevano

63 Terza guerra di indipendenza nel contesto del conflitto Austro – prussiano. L'esercito italiano fu sconfitto a Lissa e Custoza. 64 Battaglia di Bezzecca fu un episodio della invasione italiana del Trentino durante la terza guerra di indipendenza. La battaglia fu combattuta il 21 luglio 1866 e vinta dal Carpo dei volontari di Garibaldi che fermarono il tentativo del comandante austriaco del Tirolo meridionale di ricacciarli verso il lago d'Idro. 61 creduto alla promessa, già fatta in età illuministica dai Borboni, della distribuzione delle terre e che avevano sperato nella possibilità di avere un podere da coltivare.

Passarono tutti gli anni della guerra del sud e passarono anche i governi della destra storica. Quando ci fu la vittoria di Depretis e la sinistra ebbe il governo, eletto deputato il medico Corleo65 al collegio di Salemi e di Trapani, nel 1882, egli ripropose l'attuazione delle legge del 10 agosto 1862, resuscitando la promessa politica del garibaldino Mordini, ma aggiornandone gli obiettivi: non più dare la terra ai contadini poveri, ma quotizzare il demanio e favorire la formazione della piccola e media proprietà terriera. Non più una politica egualitaria e filantropica, ma una politica per la modernizzazione e la crescita della produttività agricola. Centonovantaduemila mila ettari di terra furono concessi in enfiteusi, divisi in 20.300 lotti (lotti di 9,5 ettari). Nelle province di Catania, Caltanissetta e Palermo furono fatte le concessioni più vaste (46 mila ettari, 33 mila, 32 mila). A Messina 16 mila, 13 mila a Siracusa, 27 mila a Trapani, 22 mila a Girgenti66. Il 7% delle terre fu assegnato a piccoli proprietari, artigiani, contadini, negozianti. Ma il 93% delle terre andò a grandi o medi proprietari. Grande fu la delusione di chi sperava in una riforma in un'ottica socialista. In luogo della piccola proprietà di coltivatori diretti, si tornarono a costituire i latifondi di proprietari assenteisti, che acquistarono per investimento e non per impresa. La legge Corleo non fu la soluzione del problema sociale. Pur presentando il provvedimento come una soluzione alla povertà, esso mirò ad allargare e rafforzare le basi economiche della borghesia agraria, incrementando il consenso verso il regime moderato della media e grande borghesia fondiaria. Ai contadini rimase il debito della legge Garibaldi del 2 giugno e l'inattuato decreto Mordini del 18 ottobre 1860. Ben 171 mila ettari di terre buone furono accaparrate dalla borghesia a prezzi stracciati, col risultato che il capitale che avrebbe potuto essere destinato a investimenti in agricoltura fu dirottato, da parte di chi aveva liquidità, all'acquisto di nuovi fondi per incrementare il patrimonio. La mancata riforma agraria fu conseguenza della sconfitta di Garibaldi. A Teano l'emarginazione dell'eroe significò la disfatta delle classi contadine che avevano visto nel Risorgimento la loro liberazione dai vecchi padroni e dal feudalesimo. Col ritiro a Caprera di Garibaldi il decreto Mordini divenne carta straccia. La distribuzione della manomorta fondiaria solo parzialmente comportò una riconversione agricola e una crescita produttiva, laddove i nuovi proprietari furono dei coltivatori: si passò dalla cerealicoltura tradizionale a produzioni specialistiche principalmente di vite e di limoni. La modernizzazione riguardò anche la Chiesa espropriata che dal 1862 al 1872 riprese vigore nel segno della spiritualità, e della riscossa contro la laicizzazione. Ebbe fine il patronato dello stato sulla Chiesa. Ebbe fine il diritto di nomina dei vescovi da parte del re, ebbe fine il giuramento dei vescovi al re.

65 Simone Corleo, insegnò filosofia e matematica nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo. Lasciata la carriera ecclesiastica si laureò in medicina presso l'Università di Palermo. Venne nominato da Garibaldi governatore di Salemi. Creò nel 1889 il primo laboratorio di psicologia sperimentale in Italia. 66 Girgenti, antico nome di Agrigento. 62

Nel 1876 l'avvento dei governi della sinistra storica fu dovuto all'insofferenza per la pressione fiscale, finalizzata al pareggio di bilancio, ed esercitata con tasse dirette, come fu la tassa sul macinato proposta da Quintino Sella. L'opposizione a quella tassa ha fruttato alla sinistra la vittoria alle elezioni. Ma i fini politici della sinistra non erano riforme fiscali in senso popolare. Nel 1876 la Sicilia era la più schierata a sinistra: “terra delle iniziative” “laboratorio politico” dalle elezioni del 1874. Allora la destra era scesa dal 80% al 54 % dei voti e la sinistra dal 20% era passata al 46 %. L'imprevedibile successo della sinistra, pur di non riconoscerne il radicamento in un consapevole giudizio critico nei confronti delle politiche impopolari di governo, venne allora attribuito a un voto avvelenato da molte possibili implicazioni extra-politiche: si parlò di mafia, camorra, brigantaggio, manutengolismo, socialismo, legittimismo borbonico e clericale, municipalismo e clientele. Diomede Pantaleoni67 scrisse che il sud votava diversamente dal centro e dal nord “perchè ne era inferiore il grado di civiltà”. Le critiche erano ovviamente strumentali: provenivano da uomini della destra che avevano perso le elezioni criticando sia la legge agraria, sia il suffragio universale promessi dalle sinistre in campagna elettorale. Da parte sua la sinistra prospettava una modernizzazione in senso nazionalista, in senso liberista, in senso borghese.

La svolta protezionistica e le complicità della mafia nello sfruttamento del lavoro.

Nella storia politica e sociale dell'isola si inserisce, come soggetto non protagonista, la mafia delle origini, sia con i governi della destra che con quelli della sinistra storica. Era cresciuta la presenza e la forza di intervento di una categoria di persone, potenti baroni e soggetti affiliati, alcuni possidenti e i loro campieri armati, che senza avere visibilità, né politica né amministrativa, determinavano il successo e l'insuccesso per le intraprese economiche, politiche e socio-amministrative, con mezzi extralegali. Uno dei successi iniziali della destra era stata la vittoria contro il brigantaggio. La disfatta del brigantaggio aveva creato paradossalmente dei vantaggi proprio alla mafia, non ai mafiosi di bassa leva, o “stuppagghieri” come venivano chiamati, ma ai campieri dei latifondi, ai guardiani dei giardini e all'alta mafia dei gabelloti, la mano armata dell'antico ceto latifondista dominante borbonico. Anzi la metamorfosi della mafia, alleata del governo e delle forze dello Stato per distruggere il brigantaggio, fu un passaggio obbligato per la sua conservazione e per la sua penetrazione nel tessuto sociale. Nel 1874 anche la sinistra storica dei notabili liberisti aveva vinto grazie al sostegno di caporioni di appartenenza mafiosa. Fu però la stessa sinistra che chiese l'applicazione dell'art. 7 della legge di pubblica sicurezza che già dal 1871 imponeva che chi esercitasse il mestiere di campiere,

67 Pantaleóni Diomede - Patriota e uomo politico (1810 – 1885), medico, di tendenze moderate, fu membro (1848) del Consiglio dei deputati dello stato pontificio. Si legò di viva amicizia con Cavour, dal quale ebbe l'incarico (1861) di trattare le basi di un accordo con la Santa Sede per la soluzione della questione romana. Deputato per l'8a legislatura, senatore (dal 1873), scrisse “L'idea italiana nella soppressione del potere temporale dei Papi (1884) e “L'ultimo tentaivo del Cavour per la liberazione di Roma nel 1861” (1885).

63 sovrastante, guardiano, curatolo, guardia campestre per conto di proprietari avesse la fedina penale pulita. Il controllo del territorio era infatti stato realizzato dalla mafia attraverso la rete di sovrastanti di questo tipo, definiti da Bonfadini nel 1877 nella sua relazione al parlamento “stromenti attivi del le prepotenze, delle intimidazioni, delle speculazioni ...aristocrazia del delitto”. L'applicazione dell'art 7 avrebbe scardinato il potere di controllo del territorio della mafia. La legge purtroppo prevedeva per essere applicata che si scrivesse un apposito regolamento. Esso non fu mai scritto. Così la legge divenne inapplicabile. Quando subentrò la sinistra al governo l'argomento divenne inattuale perché intanto una congiuntura internazionale positiva aveva distratto l'attenzione dalle tematiche della crisi e del conflitto sociale. L'apertura del canale di Suez e la guerra di secessione americana, avevano comportato una diminuzione del flusso dei prodotti che venivano da oltre oceano, come cotone e grano. L'occasione fu propizia per il lancio di una produzione siciliana, anche di cotone: 65 ditte, quasi tutte siciliane, ebbero l'occasione di emergere. Crebbero aree coltivate a cotone e crebbero I realizzi. Velocemente migliaia di ettari coltivati a grano o riservati a pascolo furono convertiti in orti, giardini, vigneti, oliveti, mandorleti, mentre altre terre e boschi vennero messe a colture granarie. In quegli anni l'interesse per la terra e per le nuove occasioni di arricchimento incrementò le quotizzazioni di demanio e fenomeni di accaparramento delle terre. Ci furono vere e proprie recinzioni illegali. Secondo i risultati dell'inchiesta agraria nel 1880/84 in Sicilia c'erano 321.000 ettari di vigneti, 138 mila di oliveti, 27 mila di agrumeti. Agli inizi degli anni novanta le terre convertite con le nuove produzioni furono circa 700 mila ettari. Dal 1870 al 1880 raddoppiò la produzione vinicola. Verga racconta nella novella “Nedda” di un ricco proprietario che faceva dissodare un gran tratto delle sue chiuse da mettere a vigneto. Era una buona speculazione che rendeva ai proprietari e permetteva anche salari più lauti: 30 soldi a uomini e 20 a donne, senza minestra, per lavorare al dissodamento di nuovi terreni messi a coltura. Così crebbe anche la produzione di agrumi, che con le ferrovie e le navi a vapore potevano raggiungere mercati lontani, diventando genere di largo consumo accessibile a tutti e non solo prodotto esotico. Per la conversione ad agrumeto servivano terreni adatti e disponibilità di acqua per l'irrigazione. I terreni che erano stati trascurati al tempo delle leggi eversive perché la produzione di grano dominante non li faceva considerare appetibili, diventano appetibili ora. La piana intorno a Palermo fu oggetto di questa trasformazione diventando la conca d'oro. E così fu per la valle del Simeto e per la campagna di Catania. L'ottimizzazione della resa spinse a conversioni anche successive: da vigneti agrumeti, o viceversa. Fatto sta che dal 1860 al 1890 la Sicilia fu il segmento forte dell'economia agricola italiana. I due terzi della produzione furono di agrumi destinati al mercato interno e all'esportazione; la produzione di vite superava il 20 % di quella nazionale; il marsala era esportato in tutto il mondo; il 18% della produzione di grano era isolana. La situazione fu del tutto sottovalutata dai governi della sinistra che praticarono una svolta protezionistica proprio a metà degli anni ottanta a scapito di questa economia fiorente che fu ridotta alla rovina. Non il latifondo, ma l'agricoltura capitalistica era nel segno dell'espansione, ma fu proprio l'agricoltura di impresa e di investimento che venne danneggiata. 64

Una annotazione a parte merita la produzione siciliana di zolfo e le lotte dei salariati delle miniere che insieme ai contadini nullatenenti tennero in scacco la politica con le loro rivendicazioni. Le zolfatare, che pure erano conosciute dall'età antica, erano diventate un affare già dai primi del Settecento: i primi lavori estrattivi ebbero inizio intorno al 1730, seppure con metodi rudimentali. In coincidenza con lo sviluppo dell'industria chimica in Francia e in Inghilterra la grande richiesta di acido solforico per la produzione della soda fece aumentare le richieste di zolfo, stimolando la ricerca e l'apertura di nuove miniere. In questo periodo masse di contadini passarono dai campi alle miniere, e nacque la Sicilia delle zolfare e degli zolfatari. Per un periodo di oltre 150 anni da allora le miniere di zolfo costituirono una delle principali fonti di reddito per molti comuni dell'entroterra nisseno ed ennese. Il bacino ricco di giacimenti dell'area centrale dell'isola cominciò ad essere sfruttato con sistemi di estrazione intensiva dal XIX secolo, con modalità estrattive di carattere marcatamente industriale. L'attività a metà dell'800 era florida e consentiva lauti guadagni ai proprietari della terra: ne ricavavano una rendita affittando il terreno a chi realizzava l'estrazione, ai picconieri. Nel 1867, per uno scoppio di gas all'interno delle gallerie con conseguente incendio, morirono ben 42 operai alla Trabonella, proprietà del barone Morillo. Era la più grande delle miniere nissene, sia per il numero di operai, sia per la dotazione di attrezzature estrattive. Le condizioni di lavoro scandalosamente misere nelle miniere di zolfo e le modalità di sfruttamento stesse rendevano evidente l'urgenza di un cambiamento.

Nei pozzi si lavorava in una atmosfera da bolgia dantesca, nudi per le elevate temperature e a continuo rischio per la vita data l'assenza di qualsiasi norma che garantisse un minimo di sicurezza. Ciò che rendeva quei luoghi, luoghi di tortura più che luoghi di lavoro, non erano i retaggi del feudalesimo, ma i nuovi sistemi di sfruttamento del capitalismo avanzanto, così come avveniva nelle campagne. Le condizioni di sfruttamento nelle miniere erano pesanti perché esse venivano concesse in affitto ai picconieri, che nella scala delle categorie dei lavoratori erano i principali, con il sistema delle gabelle, analogamente a come avveniva per le coltivazioni, secondo una pratica di tipo feudale. lo sfruttamento dei giacimenti veniva fatto in modo intensivo, senza alcuna progettualità. Parallelamente lo sfruttamento della manodopera, soprattutto minorile, sottoposta alla gerarchia piramidale dei ruoli in miniera e alla mancanza di garanzie sociali, rendeva la condizione di lavoro in miniera penosissima, simile alle lontanissime condizioni di schiavitù. Non si formò una classe imprenditoriale locale, poiché i vecchi proprietari delle terre ne rimanevano i padroni, ma i gabellieri si arrichivano con i subaffitti, senza assumere ruoli di direzione di impresa.

Generalmente per ottenere maggiori profitti la superficie veniva frazionata e data in gabella a diversi affittuari. Il grande sviluppo delle zolfare siciliane si ebbe dopo il 1820 quando nell'isola si contavano circa 719 miniere che impiegavano circa 32.136 persone fornendo i 4/5 della produzione mondiale di zolfo. In quel periodo nel mondo si producevano circa 470 mila tonnellate di zolfo e di queste 378 mila erano siciliane. A partire dal 1830, grazie all'introduzione di nuovi mezzi meccanici, l'attività assunse una maggiore rilevanza. 65

Con l'unificazione l'estrazione di zolfo passo da 150 mila tonnellate a 170 e poi a 200 mila negli anni 70 e 300 mila nella seconda metà degli anni 70. Improvvisamente il prezzo crollò per effetto dell'eccessivo sfruttamento che determinò una sovrapproduzione. Quando gli Stati Uniti cominciarono a fare una concorrenza invincibile allo zolfo siciliano avvenne l'inesorabile declino delle solfare. Lo zolfo americano infatti, veniva estratto con la sonda Frash68 molto più rapidamente e a costi più bassi, quindi era più competitivo.

La storia delle solfare finisce quando la riorganizzazione del settore minerario avviata negli anni '40 del 900 dall'Ente zolfi italiani e dopo il 1962 dall'Ente minerario siciliano, anziché risollevare la sorte dell'industria estrattiva siciliana, la fece declinare inesorabilmente mentre si triplicava il prezzo dello zolfo. Le vittime dell'avvento del capitalismo in Sicilia furono i più indifesi dei lavoratori: i carusi, i bambini, spesso in età scolare, che per pochi soldi, un salario che veniva chiamato “soccorso morto”, venivano ceduti dai propri familiari “in affitto” ai picconieri della miniera. I familiari venivano pagati in anticipo per cui si creava un debito che il ragazzo era obbligato ad onorare spesso lavorando come uno schiavo, privato di ogni diritto. Dai documenti raccolti nel 1882 dall'allora Prefetto di Girgenti, Senatore Tamajo69, in 72 miniere della provincia, delle quali 56 a Comitini, si trovarono ben 2.626 fanciulli a lavoro.

Il fallimento della politica

Alla nascita dello Stato italiano le corporazioni religiose possedevano nel sud oltre 300 mila ettari di terra e un patrimonio edilizio incalcolabile che fu confiscato per essere venduto a vantaggio del fisco. Questo introito fu il maggiore tratto dall'isola dalla finanza nazionale. A Palermo fu aperta la sede siciliana della Banca Nazionale con due succursali a Messina e Catania. Venne concessa licenza per aprire la Cassa di Risparmio di Palermo Messina e Catania, poi riunite per iniziativa degli armatori Florio nella cassa centrale di risparmio Vittorio Emanuele con sede a Palermo. Nel 1865 nacque il Banco di Sicilia che fu il maggiore istituto finanziario dell'isola che gettò le basi per la raccolta dei risparmi e la loro messa a disposizione dello sviluppo economico. Ma né la liquidazione dell'asse ecclesiastico, né la nascita delle imprese bancarie furono capaci di suscitare, come accadde altrove, per esempio nelle aree agricole del nord, il superamento delle condizioni

68 Il processo con la sonda Frasch si basa sull’estrazione dello zolfo tramite la sua fusione in loco. Il metodo non consente di estrarre tutto lo zolfo del giacimento, ma quello che si ottiene è praticamente puro. Ideato nel 1894 da Hermann Frash, il processo venne largamente usato a partire dai primi anni del 20° secolo. Questo metodo è sfruttabile solo in presenza di grandi giacimenti di zolfo. Non richiedeva alti costi di scavo, né molta mano d’opera; non produceva ammassi di scorie in superficie, ma erano necessari grandi impianti di produzione di vapore e conseguentemente elevate quantità di acqua e combustibile. Non venne mai utilizzato in Italia. 69 Giorgio Tamajo Grassetti, partecipò ai moti del 1848 e alla spedizione dei Mille. Il 20 febbraio 1880 ebbe nomina di prefetto a Girgenti, nel settembre 1881 ad Arezzo, nell'agosto 1882 a Reggio di Calabria, nel maggio 1887 a Siracusa e nel novembre 1888 a Siena. Promosso nel 1893 a Prefetto di prima classe . Il secondo collegio di Messina lo aveva mandato suo rappresentante alla Camera elettiva dalla VIII sino alla XIII legislatura. Fu membro della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle condizioni della Provincia di Palermo, in seguito ai disordini del 1866. 66 di arretratezza economica. Mancava una rete ferroviaria: il governo garibaldino aveva decretato la costruzione di una linea Palermo – Caltanissetta – Catania - Messina con diramazione per Canicatti e Licata per agevolare l'esportazione dello lo zolfo, ma la sua attuazione, in mano ai governi seguenti, malgrado le buone intenzioni, fu rallentata da diversità di vedute rispetto all'urgenza di dare risposte ai bisogni della agricoltura o della industria. Ci vollero 15 anni per collegare 5 delle 7 province nell'area delle riconversioni agricole. Ne fu avvantaggiata Catania, dove avvenne una piccola rivoluzione agricola, e l'area dello zolfo: la Sicilia con le sue 100 “pirrere” aveva fino agli anni 80 il monopolio mondiale del minerale, che procurava, dall'esportazione, valuta pregiata per risanare la bilancia dei pagamenti con l'estero, sebbene il trasporto incidesse sui costi per il 20 - 30%.

Responsabilità delle mancate iniziative amministrative fu l'inettitudine degli amministratori: la classe politica locale non fu all'altezza. Erano personaggi privi di lungimiranza politica, ma anche di spessore morale. Alla caduta del regime borbonico l'89% degli abitanti siciliani era di analfabeti. Quando le leggi sull'istruzione obbligatoria vennero estese al sud (legge Coppino70 - 1877) l'obbligo non venne ottemperato, e l'analfabetismo in 40 anni si abbassò di solo 18 punti, mentre la media nazionale si abbassò di 26 punti. Quando la crisi, che non mancherà mai più per effetto dei cicli di crescita-decrescita del capitalismo, farà crollare l'economia nazionale in coincidenza con il fallimento della politica coloniale e l'avvento dell'industrialismo, più grave sarà la caduta dell'economia siciliana. Infine la concorrenza dello zolfo americano, la crisi dell 1885-86, la boria militarista dei ceti e delle lobby militari, l'esito della protesta della lotta socialista, cattolica e dei fasci spontanei, furono le concause della depressione degli anni novanta dell'Ottocento.

I fasci furono un movimento popolare spontaneo, aperto a tutta la classe operaia e contadina, confrontabile con le preesistenti società operaie di mutuo soccorso71 di ispirazione mazziniana e democratica. Le società di mutuo soccorso erano forme molto diffuse di collaborazione fra soci che pagavano quote mensili e promuovevano a volte scioperi o manifestazioni per richiedere miglioramenti salariali. I fasci rispetto alle società di mutuo soccorso diedero più spazio alle rivendicazioni. Il giudizio politico sui fasci fu

70 Legge “Coppino” venne emanata il 15 luglio 1877 durante il periodo di governo della sinistra storica, con a capo Depretis. Essa portava a cinque le classi della scuola elementare e la rendeva gratuita, elevava l' obbligo a tre anni e introduceva le sanzioni per chi lo disattendeva. 71 Società di Mutuo Soccorso sono associazioni le cui forme originarie videro la luce intorno alla seconda metà dell'800, nate per sopperire alle carenze dello stato sociale ed aiutare così i lavoratori a darsi una difesa. Le SOMS furono esperienze di associazionismo fin dalla prima rivoluzione industriale, per rispondere alla necessità di forme di autodifesa del mondo del lavoro. Dopo il 1848 la loro diffusione subisce un notevole incremento grazie alle concessione di Costituzioni liberali. Prima di tale data la libertà di associazione era fortemente limitata ed ostacolata dagli ordinamenti nati nel clima poliziesco della Restaurazione. Il funzionamento delle SOMS in Italia venne regolato con la legge 15 aprile 1886, n° 3818. 67 molto diversificato: ci fu chi , come Labriola, le considerò organizzazioni di massa operaiste, chi , come Salvemini, le considerò jacquerie72 di affamati saccheggiatori.

La crisi del 1887 fece da acceleratore dello sviluppo del consenso intorno ai fasci: quando le vecchie e le nuove attività economiche furono messe a rischio dalla svolta protezionistica di quegli anni, i fasci nacquero insieme al movimento operaio e al partito socialista in cui ebbero un punto di riferimento determinante, tanto che quando i socialisti furono espulsi dal movimento dei fasci, essi finirono. La storia dei fasci, e soprattutto la loro fine, rappresenta il primo errore del movimento socialdemocratico che in Italia ebbe uno sviluppo distorto. I socialisti, per pregiudizio ideologico, pensavano che l'appartenenza al proletariato industriale fosse il requisito fondamentale per poter aderire al movimento socialista. Non si ammettevano altri soggetti rivoluzionari. Invece i fasci erano una organizzazione interclassista: dei fasci erano seguaci anche piccoli proprietari, impoveriti dalle ipoteche, dall'usura, dalle tasse. I demani comunali si erano dileguati tornando a far parte dei grandi patrimoni e la protesta per la terra era rimasta attuale nelle rivendicazioni socialiste, che con l'argomento della riforma agraria continuavano a fare proselitismo in campagna. I fasci, che furono un movimento mezzo sindacale e mezzo politico, autonomo dal partito socialista, ma vicino ad esso, ebbero rapidamente la più larga adesione sul finire degli anni ottanta, quando la questione contadina riesplose. Non dimentichiamo che comunità agricole come Limina in quegli anni stavano subendo il furto delle terre demaniali che erano la loro ultima risorsa per sopravvivere agli stenti della crisi.

La seconda internazionale dei partiti socialisti nel 1889 aveva escluso i contadini dalle categorie proletarie a cui rivolgeva la sua azione politica in quanto, a essere ortodossi col pensiero marxista, non erano equiparabili ai nullatenenti. Solo i salariati, ossia i braccianti, potevano considerarsi proletari al pari degli operai dell'industria. Tuttavia nel 1892, quando il movimento operaio divenne da partito dei lavoratori, partito socialista, nei congressi di Genova e di Reggio Emilia, i fasci vi trovarono una grande attenzione. Negli altri paesi d'Europa la questione della conquista dei contadini alla causa del socialismo era uno degli obiettivi della propaganda: “ai campi ai campi” per la seconda internazionale73 in Germania, Belgio, Olanda fu lo slogan di una campagna di proselitismo nelle aree agricole. L'alleanza con i contadini, da sempre considerati inadeguati alla lotta di classe, avrebbe rovesciato i rapporti di forza nei paesi industrializzati. Il consenso iniziale, convinto, di Turati, fondatore e dirigente del P.S.I., non fu compreso dai più, che invece se ne dissociarono. Il dirigente socialista, Olindo Malagodi, accusato perfino da Croce di

72 Jacquerie è un termine entrato nella terminologia storica per indicare un'insurrezione popolare contadina spontanea che spesso sfocia nel compimento di azioni vilente. Il termine è derivato da Jacques Bonhomme, il soprannome dato ai contadini.

73 L'Associazione internazionale dei lavoratori (A.I.L.), fondata nel 1864, conosciuta anche come Prima Internazionale, era un organismo avente lo scopo di creare un legame internazionale tra i diversi gruppi politici socialisti, anarchici, repubblicani mazziniani, marxisti e tra le varie organizzazioni di lavoratori, in particolare operai. La Seconda internazionale, che vide la scissione degli anarchici, durò dal 1889 al 1916. 68

“avere eccitato, trascinato, masse ignoranti e inconsapevoli”, in un articolo del 1893 sul giornale “Lotta di classe” scriveva: “Noi sappiamo che la nostra voce non arriverà purtroppo sino a coloro di cui si parla, sino a coloro a cui vorrebbe essere diretta... tanta è la miseria e l'ignoranza in cui sono sprofondati. I contadini, questo popolo pronto pel socialismo, non ci possono né ascoltare, né forse capire. Ma se v'è fra gli uomini coscienti del nostro esercito qualcuno che abbia la volontà di lavorare, che senta la febbre di creare qualcosa di forte, di duraturo, di far vibrare un fremito di agitazione e di vita sulla morta palude che ci circonda, egli può ascoltarci per loro. - Gettatevi per la campagna! Ecco il terreno migliore della nostra azione, che non aspetta che la nostra azione per fruttificare esuberantemente.”. Se avessero avuto un fondamento le ostilità socialiste all'alleanza coi contadini, allora la stessa rivoluzione sovietica in Russia, un paese contadino, avrebbe dovuto essere inammissibile. Questa linea rivoluzionaria produsse una forzatura tragica nel volere a tutti i costi trasformare un paese agricolo in un paese industriale e proletario, eliminando le proprietà, le piccole come le grandi, e con le proprietà le persone, i milioni di kulaki che vennero sterminati perché sospettati pregiudizialmente di essere contrari alla rivoluzione.

I fasci rappresentarono una continuazione della iniziativa meridionale nel Risorgimento, che, abbiamo già detto, fu l'emersione della questione contadina prestata alla causa dell'indipendenza e dell'Unità. Di fatto dopo di allora la Sicilia non darà più per decenni alcun segno di vita politica autonoma e cesserà di essere una regione vocata a sostegno della rappresentanza politica di sinistra. Nell'ultima fase del 1893 fu organizzato il grande sciopero dei terraggeri, finalizzato al riconoscimento dei patti di Corleone. A Corleone il movimento dei fasci aveva elaborato una proposta di riforma dei patti agrari per eliminare i retaggi, le angherie e le ingiustizie derivanti dai vincoli agricoli di antica tradizione feudale. Uno dei contratti più iniqui era appunto il terraggio.

Organizzatore dello sciopero fu un personaggio sorprendente per dedizione e onestà, , che a Corleone diede un forte contributo per formulare le richieste di riforma dei patti colonici. Il deputato Sonnino74, che certo non era un socialista, ma che aveva una equivoca posizione per la sua condizione di agrario da un lato, e politico modernista dall'altro, possidente di tenute sia nella parte occidentale che in quella orientale dell'isola, alla camera presentò un disegno di legge che riprendeva i contenuti della proposta corleonese. Ma il partito socialista criticò aspramente i patti di Corleone. Anche l'iniziativa per la riforma tributaria locale non ebbe l'adesione dei socialisti. In generale giornali e politici non di sinistra vi lessero lo spettro della sovversione rivoluzionaria. I ceti dominanti dell'isola chiesero lo scioglimento dei fasci. Giolitti75 preferì

74 Sidney Costantino Sonnino il 15 gennaio 1897 pubblica un articolo sulla "Nuova Antologia", dal titolo "Torniamo allo Statuto", nel quale lancia l'allarme per le minacce che clero e socialisti rappresentano per il liberalismo ed auspica la cancellazione del governo parlamentare ed il ritorno all'assegnazione del potere esecutivo al re come unico atto possibile per scongiurare il pericolo. 75 è stato un politico italiano, più volte presidente del Consiglio dei ministri. Nella storia politica dell'Italia unita, la sua permanenza a capo del governo fu una delle più lunghe. Di particolare rilevanza il periodo 69 dimettersi che acconsentire, ma Crispi vi accondiscese, anzi, in sovrappiù, dichiarò lo stato d'assedio, che comportò un intervento militare cruento e indiscriminato contro l'intera popolazione. Lo Stato fu creduto in pericolo in questo frangente come all'epoca della protesta contadina del 1866. La supposta pericolosità dei contadini, la loro temibile istintiva propensione alla jacquerie, suscitò la “grande paura” dei ceti dominanti. In effetti le manifestazioni avevano luogo con lunghe cavalcate o “passeggiate” di popolo verso le terre di latifondo che venivano simbolicamente occupate. La rabbia dei contadini si esprimeva più nei canti di lotta che nelle azioni di protesta. I canti sono rimasti nella tradizione folcloristica, dove indignazione, sarcasmo, risentimento, ira vendicativa contro padroni, gabelloti e campieri, contro le angherie e gli abusi, compongono un miscuglio esplosivo e trascinante. Il poeta catanese Mario Rapisardi, nel “canto dei mietitori” ne imita i toni:

“La falange noi siam de' mietitori,

falciam le messi a lor signori

Ben venga il sol cocente, il sol di giugno

che ci arde il sangue, ci annerisce il grugno

e ci arroventa la falce nel pugno

quando falciam le messi a lor signori

noi siam venuti da molto lontano

scalzi cenciosi con la falce in mano

ammalati da l'aria del pantano

per falciar le messi a lor signori

i nostri figlioletti non han pane

e chi sa? Forse moriam domane

invidiando il pranzo al vostro cane

e noi falciam le messi a lor signori

ebbro di sole ognun di noi barcolla

acqua ed aceto, un tozzo e una cipolla

ci disseta, ci allena, ci satolla

falciam, falciam le messi a lor signori

dal 1901 al 1914, poi battezzata dagli storici come "età giolittiana". Giolitti iniziò come Ministro dell'Interno nel governo Zanardelli per continuare da Presidente del Consiglio, carica ricoperta per tre volte e quasi ininterrottamente dal 1903 al 1914. 70

il sol ci cuoce, il sudore ci bagna

suona la cornamusa e ci accompagna

finché cadiamo a l'aperta campagna

falciam, falciam le messi a quei signori.

Allegri o mietitori, o mietitrici!

noi siamo, è vero, laceri e mendici,

ma quei signori son tanto felici!

Falciam, falciam le messi a quei signori

Che volete? Noi siam povera plebe

noi siam nati a vivere come zebe

e a morir per ingrassar la glebe

Falciam, falciam le messi a quei signori

o benigni signori, o pingui eroi

vengano un po' dove falciamo noi

balleremo il trescon, la ridda e poi

poi falcerem la testa a lor signori.

Nell'incipit della novella di Verga“La libertà” si legge .. “come il mare in tempesta” ..“scuri e falci che luccicavano” ..“ai galantuomini, ai cappelli! Ammazza!Ammazza! Addosso ai cappelli!” Queste ricostruzioni letterarie dovevano destare molta preoccupazione nei galantuomini.

I contadini tornarono ad occupare le terre di latifondo, rivendicandole per la comunità. Sarà così ancora fino agli anni 50 del 900. I noti fatti di Portella delle Ginestre76, malgrado il nome della località sia così poetico, ne sono l'ultimo clamoroso atto.

76 Portella delle ginestre- Località che prende il nome dai fiori di ginestra che vi sbocciano in abbondanza in primavera, ed è nota per essere stata teatro il 1° maggio 1947 della prima strage dell'Italia repubblicana. 71

Se non basta la letteratura a illustrare le condizioni di vita dei contadini e la loro rabbia per le ingiustizie di cui vennero fatti oggetto, ci sono gli atti della Giunta per l'inchiesta agraria sulla condizione della classe agricola. Nei fasci però nessuna jacquerie contro persone o cose, nessun eccidio ad opera di contadini in occasione di grandi scioperi. Invece fece scandalo l'intervento dell'esercito, crudele e immotivato. A Caltavuturo un eccidio. Nel vuoto di potere che si determinò per le dimissioni di Giolitti, l'esercito si assunse il compito, poi ratificato da Crispi, in nome dell'ordine, di intervenire contro le manifestazioni che chiedevano la riforma agraria e l'abolizione delle imposte comunali.

Tra il 1893 e il 1894 un mese di repressione: 85 morti e moltissimi feriti. A sparare furono soltanto i soldati. L'unica reazione alle sparatorie militari, l'assalto ai municipi e i tanto deprecati dalla stampa assalti ai casotti daziari. Il comitato centrale dei fasci, riunito segretamente, approvò un documento per il presidente del Consiglio Crispi, e uno per la stampa, in cui chiedeva l'abolizione del dazio delle farine, una inchiesta sulle pubbliche amministrazioni, una riforma dei patti colonici secondo la proposta di Corleone, la costituzione di sindacati per lo zolfo, la costituzione di collettività agricole cui affidare i beni comunali incolti, ossia le terre non ancora vendute, l'espropriazione forzata dei latifondi, compensata dal riconoscimento di una rendita annua del 3% del valore dei terreni, leggi sociali sui minimi salariali e sulla durata della giornata di lavoro, uno stanziamento di spesa pubblica per avviare le attività agricole collettive, impegnandosi contemporaneamente presso i contadini per il ritorno all'ordine.

I giornali soffiarono sul fuoco parlando di una cospirazione socialista internazionale, inventando congiure inesistenti. In questo clima apocalittico, Crispi dispose l'arresto dei dirigenti dei fasci e il loro deferimento ai tribunali militari. Crispi non pensò che “con la baionetta si può tutto, tranne che sedercisi sopra”, e continuò a usare metodi di governo repressivi, che gli si ritorsero contro.

Da accusati, i dirigenti dei fasci divennero accusatori e il processo si trasformò in una tribuna di propaganda socialista dove si esaltarono gli ideali di uguaglianza, libertà, 72 progresso che animavano I fasci. Furono condannati De Felice a 18 anni, Verro a 16, Bosco e Barbato a 12, Montalto a 10, altri 1900 persone al domicilio coatto. Il partito socialista fu messo fuori legge. In seguito, travolto dall'insuccesso coloniale, Crispi dovette dimettersi e Rudinì, il nobile che gli successe con l'incarico di primo ministro, amnistiò i carcerati che furono mandati al domicilio coatto. La repressione dei fasci avvenne con una violenza che non ebbe uguale; fu la prima tragica repressione del socialismo europeo e mondiale.

Nel 1860 e ancora nel 1874 la Sicilia aveva avuto un ruolo politico trainante, di svolta. L'isola era stata quello che oggi viene definito “un laboratorio politico”. Nel 1893 invece fu sola. La conseguenza del su isolamento fu la perdita di peso di tutto il Meridione nella vita politica italiana. La questione meridionale che ne derivò fece della Sicilia un angolo remoto da cui provennero solo recriminazioni e risentimenti per l'assenza dello Stato più che per le azioni dello Stato. La stessa pressione autoritaria che giunse a sopraffare la protesta popolare al sud fu esercitata con successo anche al nord. L'artefice fu ancora quel latifondista, barone siciliano, ex garibaldino, che aveva ordinato la repressione a Palermo della rivolta del sette e mezzo, Rudinì. A Milano, per decisione di Rudinì primo ministro nel 1898 il popolo che protestava contro l'aumento del prezzo del pane, fu massacrato a cannonate dallo stesso generale Bava Beccaris77. Rudinì istituì per la Sicilia un Commissario civile, una specie di Ministro tecnico, che per cinque anni fungesse da Sostituto del governo centrale. Più di un Prefetto il Commissario avrebbe rappresentato una specie di ispettore con un potere di dirigenza della polizia e di vigilanza sui lavori pubblici. C'era già un Commissario militare, cui si aggiungeva ora un commissario civile. Questo nuovo Commissario ebbe tanti titoli e funzioni e ruoli, un numero esagerato di incarichi, tanto da far pensare che lo si volesse mettere nella impossibilità di fare alcunché, proprio per eccesso di incombenze. La classe politica egemone in Sicilia moralmente e politicamente risultava deficitaria. Cadronchi, primo Commissario civile non risolse le irregolarità e tutto rimase come prima.

La questione meridionale viene raccontata sempre commentando i dati della emigrazione, la più vistosa conseguenza del suo acutizzarsi. Tra il 1861 e il 1901 c'era stato un aumento della popolazione che era passata da 2.392.414 ab a 3.529.709. L'incremento totale era stato del 47,5%. L'incremento medio decennale era stato dell'11,87 % , quasi doppio a quello nazionale. In 40 anni l'incremento italiano era stato del 29%, a una media decennale del 7%. Nel primo decennio fino al 1871 l'aumento fu del 6,8% e quello nazionale del 10,7%. Non fu il terremoto di Messina del 1908 a ridurre la popolazione in modo così drastico, ma un altro terremoto demografico che fu l'emigrazione, con cifre che crescevano continuamente: dai circa 29.000 del 1900 ai 37.000 dell'anno seguente, ai 59.000 dell'anno dopo ancora, ai 127.600 del 1906, ai 146.000 nel 1913. Un milione gli espatri. Questa assenza demografica ha rappresentato l'assenza di un fattore umano che altrove, dove è rifluita la popolazione migrante, ha

77 Fiorenzo Bava Beccaris è stato un generale italiano, noto per aver guidato la repressione dei moti milanesi del 1898. 73 generato processi di miglioramento e di ammodernamento produttivo in relazione a una maggiore occupazione di forza produttiva e di una maggiore richiesta di beni per effetto della maggiore pressione demografica dovuta alla loro presenza stessa. L'ammanco della crescita demografica, e anzi lo spopolamento del sud, fu causa e conseguenza del sottosviluppo, ovunque, con rare eccezioni. Mentre nel nord avviene la crescita industriale, al sud la rivoluzione migratoria transoceanica ha messo in ginocchio la viticultura. Solo la cerealicoltura, tipica del latifondo, si mantenne, in un territorio che si svenò di emigrazione. L'emigrazione andò a vantaggio indirettamente della crescita produttiva del nord: le rimesse dei migranti resero disponibile il plusvalore delle divise pregiate, che, cambiate nelle banche, venivano spese e accendevano il circolo virtuoso della crescita dei consumi e della ulteriore domanda di prodotti per la ripresa industriale del nord. Colaianni78 parlò di “iniezione di oro”. La contropartita e il rischio, intravvisto dallo stesso Colaianni, fu l'impoverimento demografico del sud, il peggioramento della sua composizione sociale, della varietà di genere, di età, di professione. Questo imponente flusso fu contemporaneamente conseguenza e causa della crisi della campagna, della crisi della vecchia società rurale, arcaica e patriarcale, e della crisi della gerarchia dei rapporti sociali e culturali di quel contesto. Per molti versi si può anche dire che anche la stessa politica si trasformò, sotto la scorza protettiva della mafia. Le vicende della commistione mafia- politica in quella stagione si constatarono subito, a cominciare dall'assassinio del ex sindaco di Palermo e Direttore del Banco di Sicilia Notarbartolo79. Nell'età giolittiana l'attenzione politica fu tutta per il nord: alle officine di Palermo e ai cantieri navali dell'isola nessuna commessa. Alla industrializzazione del sud non credettero nemmeno i pochi uomini d'affari, come i Florio80, che scelsero di sostenere il partito agrario.

I fasci non ebbero diritto di cittadinanza nemmeno dentro il partito socialista europeo e italiano. Dal governo ne fu proibita la ricostituzione. Il controllo poliziesco si fece soffocante e i capi storici si dispersero: De Felice andò in Grecia, Bernardino Verro emigrò in Francia, Francesco Lo Sardo andò dai suoi parenti a Napoli. Il rifiuto di assunzione da parte socialista della causa contadina ebbe effetti disastrosi. La negata cittadinanza ai problemi della terra in Italia rese impossibile al socialismo italiano di divenire maggioranza politica, forza di governo, e tolse al mezzogiorno la prospettiva di una iniziativa democratica pari a quella della svolta degli anni 70 dell'Ottocento.

78 , Politico e studioso (1847- 1921),combatté con Garibaldi in Aspromonte (1862) e in Trentino (1866), poi emigrò nell’America del Sud (1871). Deputato repubblicano dal 1890, fu tra i maggiori meridionalisti di fine Ottocento. Professore di statistica a Palermo e a Napoli, nel 1895 fondò “La Rivista Popolare” he diresse fino alla morte. Combatté energicamente la tesi dell’inferiorità razziale delle popolazioni dell’Italia meridionale. 79 Notarbartolo nel 1882 il marchese fu sequestrato per un breve periodo. Il 1° febbraio 1893 venne ucciso con 27 colpi di pugnale da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, legati alla mafia siciliana. Questo caso avrebbe acceso un importante dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e in Italia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica, ma inizialmente nessuno osò fare nomi. 80 I Florio sono una famiglia italiana di tradizione industriale che fu protagonista del periodo della cosiddetta belle époque. La vicenda storica della famiglia, di origini calabresi, si svolse nella ricca Palermo degli anni a cavallo fra il XIX e il XX secolo. 74

Il nuovo modo, dimesso, di concepire il socialismo si riconosce in un memorandum di Rosario Garibaldi Bosco81 scritto per il Commissario civile Codronghi insieme alla richiesta che si concedesse alla Sicilia l'autonomia regionale. Vi leggiamo la seguente riflessione autocritica: “L'avere impedita l'organizzazione dei lavoratori, e compressa la loro resistenza, isolandoli ed offrendoli all'ingordigia ignorante degli accaparratori del lavoro, li condusse a un punto in cui il bisogno di organizzarsi divenne impulsivo, violento, irresistibile.... Gli argini infine si ruppero e le organizzazioni sorsero improvvisamente. Nacquero i fasci. Ma queste organizzazioni, affrettate e in ritardo, hanno avuto carattere nevrotico, impaziente” - Bosco chiedeva alle classi dominanti moderazione e tolleranza: “Lasciateli associare, lasciateli organizzare questi lavoratori!.... nasceranno leghe di resistenza e associazioni politiche di lavoratori, ma nasceranno alla luce del sole e svolgeranno l'azione loro sotto gli occhi di tutti e faranno le loro conquiste lentamente, senza disordini” .

A livello nazionale si era differenziato il socialismo gradualista e quello rivoluzionario massimalista, ma né l'uno, né l'altro avevano una teoria della questione agraria. Argomento escluso. Anche nel pensiero di Gramsci82 più tardi non si trovò che la possibilità di una alleanza tra proletariato urbano e agricolo. Gramsci che era un sardo, ma pensava torinese, vide una possibilità di lotta per le classi operaie sfruttate, non per le classi contadine oppresse.

Gli ex capi dei fasci aderirono quasi tutti al socialismo riformista di Bissolati83 tenuto a battesimo nel 1912 (De Felice, Giuffrida, Rosario Garibaldi Bosco, Giacomo Montalto, Enrico La Loggia). Esso fu un movimento social-riformista ed ebbe fine col fascismo. Fu considerato una specie di socialismo di campagna, circoscritto nelle zone di latifondo, non nelle campagne trasformate in aziende borghesi, dove lavoravano braccianti e “jurnatari”, ma presente dove era prevalsa la signoria feudale, o la borghesia redditiera. Privo del proletariato di fabbrica, sovraccarico di un sottoproletariato informe di una campagna, arretrata, feudale, il socialismo qui non ebbe la prospettiva di diventare maggioritario. Il partito socialista affrontò la questione agraria solo nell'area padana. Lo storico Renda la chiama “padanizzazione della politica agraria del PSI”. I dirigenti socialisti del movimento dei fasci non riuscirono a diventare qualcosa oltre che politici di provincia. Verro di

81 Rosario Garibaldi Bosco ( 1866 - 1936) è stato un politico e scrittore, repubblicano d'ispirazione socialista. Costituì i Fasci dei lavoratori di Palermo (1892) e fece parte del comitato centrale dei Fasci siciliani dei lavoratori. A seguito della repressione di Crispi subì l'arresto e venne sottoposto a processo. Assolto per l'imputazione di cospirazione armata fu condannato a 12 anni per incitamento alla guerra civile. Comunque nel 1895 fu eletto alla Camera dei deputati nel collegio di Palermo, ma la nomina fu annullata perché la sua età era inferiore a quanto previsto dalla legge. Successivamente fondò la Federazione socialista di Palermo (1896).

82 Antonio Gramsci è stato un politico, filosofo, giornalista, linguista e critico letterario italiano, oltre che uno dei più importanti pensatori marxisti del XX secolo . Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia e nel 1926 venne incarcerato dal regime fascista. 83 fu uno dei più importanti esponenti del movimento socialista italiano a cavallo tra la fine dell'Ottocento e il Novecento 75

Corleone, Panepinto, maestro elementare, pittore, poeta, artista poi emigrato, di Santo Stefano Quisquina, Longi Di Prizzi, Cammareri, Scurti, perito agrario che animò le leghe e le cooperative agricole di Marsala, Barbato di Piana Degli Albanesi, che fu eletto deputato nel collegio di Corato, unico parlamentare nazionale, non furono appoggiati dal partito nazionale. Fecero militanza generosa, e caddero uno dopo l'altro sotto il fuoco della reazione, per mano della mafia. Strana anticipazione della fine tragica riservata a tanti uomini della sinistra, meridionali.

Le lotte agrarie nel 1902, sotto la guida di Verro, ebbero di nuovo la scena politica. Molti scioperi vennero organizzati dal movimento cattolico: L. Sturzo84, in seguito al “De Rerum Novarum”, convenne sulla necessità di uscire dall'interclassismo e incoraggiare lo sciopero. Cattolici e socialisti agirono in accordo, fino a quando non prevalse il richiamo papale a fronteggiare il socialismo, piuttosto che lo sfruttamento. Il fantasma dell'ateismo o delle sette che avrebbero prevaricato il cattolicesimo spaventò i cattolici. Essi agirono pertanto in concorrenza con I socialisti, promossero principalmente casse rurali e la cooperazione agricola che consentiva di prendere in affitto grossi latifondi ripartendoli tra i soci. Si chiamava affittanza collettiva: il fondo affittato veniva ripartito ad ogni socio che ne coltivava una parte versando alla cooperativa la quota parte del canone d'affitto. Così si escludeva l'intermediazione parassitaria dei gabelloti e i ricatti. Verro diceva: “Finché erano stati i soli (i gabelloti) a prendere in affitto gli ex feudi, avevano potuto imporre ai proprietari e ai contadini le condizioni più favorevoli ai loro interessi, mentre con la cooperativa agricola e coi relativi scioperi erano venuti a trovarsi di fronte a una concorrenza formidabile” . Anche Verro promosse l'affittanza socialista a Corleone. Le affittanze cattoliche gestivano10 mila ettari; nel 1910 ne gestivano ancora 18 mila.

La crisi dello zolfo, la crisi del vino, l'abolizione delle sovvenzioni statali alle linee marittime gestite da compagnie private, come quella dei Florio, furono i segni del declino, anche dei Florio in quanto realtà meridionale. La Sicilia aveva 22 punti in più di analfabetismo ( 58%),

Nel dibattito sulla questione contadina all'interno del movimento socialista divenne un pensiero comune il disprezzo

84 Don Luigi Sturzo fu uno dei più lucidi interpreti della realtà contadina nei primi anni del novecento. Fondatore del Partito Popolare nel 1919 sostenne la necessità di difendere e rafforzare la piccola proprietà contadina meridionale, in cui vedeva l’unica forza capace di opporsi con successo ai latifondisti assenteisti. Sturzo intendeva favorire la nascita e lo sviluppo “di quel ceto medio economico, che è molto limitato nel mezzogiorno, e che è uno dei nessi connettivi più saldi della società.” 76 nei confronti dei contadini medi, definiti gente avara, ignorante, reazionaria, analfabeta. Fratta85, anche lui dirigente socialista così interveniva sulla questione contadina: “..Coloni, mezzadri, piccoli affittuari, piccoli proprietari, coltivatori diretti non sono che piccoli lavoratori capitalisti e costituiscono la grandissima maggioranza della popolazione rurale. (essa) dà all'esercito i migliori soldati , cioè i più forti, i più stupidi i più proclivi all'obbedienza passiva...domandano ad alta voce la ripartizione dei demani comunali ancor indivisi e talvolta se ne impossessano dando luogo a conflitti sanguinosi. … i socialisti non debbono proporsi che due scopi : cercare che la forma industriale entri quanto più presto è possibile nella produzione agraria; difendere i contadini nelle persone e nella salute ed istruirli.... i socialisti debbono rivolgere la loro azione politica e sociale ai seguenti obbiettivi; favorire l'emigrazione, ottenere l'abolizione del dazio sui cerali, liberare da ogni tassa i contratti agrari e i trasferimenti della proprietà fondiaria, promuovere la costruzione di canali di irrigazione e serbatoi di acqua nei luoghi che ne difettano, favorire i consorzi agrari e l'introduzione di macchine nella agricoltura”.

Nell'800 si erano intensificate le affrancazioni delle terre pubbliche. Nelle aree montuose, aree di pascolo, i contadini lottarono per il ripristino del godimento collettivo dei terreni su cui prima esercitavano liberamente i diritti di pascolo e legnaggio. La richiesta di ripristinare gli usi civici sulle terre comuni, nella analisi socialista ufficiale era segno di arretratezza e di ritorno al passato. Non furono I socialisti a proporla. Essa partì da intenti filantropici, fu promossa da un movimento molto forte nel primo novecento in Sicilia, ma ancora di più in Umbria e Lazio. Il primo ricorso del sindaco Chillemi per ottenere il rispristino degli usi civici del demanio a Limina è appunto di questo periodo.

Dalla circolare del 1906 alle Giunte arbitrali con cui il ministro dell'agricoltura Pantano affrontò la questione sappiamo che furono evitati inasprimenti: la condizione contadina, si sapeva, era esplosiva; una politica moderata di contenimento della rabbia, che arginasse lo spettro del socialismo, sembrò più efficace. Si giunse alla legge 8 marzo 1908 n. 76 che rinviava ad altro successivo provvedimento la regolamentazione piena della materia e intanto dichiarava inalienabili i beni demaniali su cui si esercitavano gli usi civili. Da una cronaca riferita al Lazio leggiamo: “ Nella maggior parte dei paesi si tratta di una vera e propria epidemia ...i contadini hanno invaso , hanno fatto causa, ..il paese si divide in due partiti. Da una parte il municipio, perché sindaco, assessori, consiglieri sono in genere affittuari, ministri, guardiani del principe romano; dall'altra la massa del popolo, quasi sempre capitanata da un artigiano, quasi mai un contadino la massa del popolo direttamente interessata. Questa massa ha bisogno di qualche intellettuale che l'organizzi, la consigli, l'assista. Si va o si scrive a Roma, si ottiene dalla camera del lavoro l'indirizzo di qualche avvocato e l'agitazione s'inizia in certo qual modo disciplinata”.

85 “La socializzazione della terra” di Pasquale Di Fratta. - Milano : Uffici della Critica sociale, 1893. - 48 p. ; 19 cm. ((Estr. da: Critica sociale, 2 (1892), n. 17, 21, 24 e 3 (1893), n. 1 77

Dagli atti del III° Congresso delle leghe contadine di Lazio e Sabinia, si legge: “... considerando che i più grandi possessori delle terre pubbliche in Italia sono lo Stato i Comuni le Opere Pie fa voti che vengano non solo conservati ma ricostituiti mediante i terreni demaniali e comunali dell'Asse ecclesiastico delle parrocchie, mense vescovili, ecc. gli attuali residui della proprietà collettiva del suolo integrandoli colla Cooperazione agricola che in una prossima radicale riforma della legge sulle opere pie che sono e dovrebbero essere il vero patrimonio dei poveri, esse vengano trasformate nel senso di metterle all'unisono coi nuovi e impellenti bisogni delle classi diseredate sostituendo al concetto della preferenza dei poveri quello della esclusione dei ricchi. ...constatando che le leggi del 24 giugno 1888 n. 5489 e 2 luglio 1891 per l'abolizione della servitù di pascolo nelle ex proprietà pontificie si sono rivelate, nella pratica, dei mezzi di spoglio legale in danno delle popolazioni lavoratrici i cui diritti millenari, quando pure non furono disconosciuti, vennero liquidati in misura irrisoria..dichiara che il nuovo progetto di legge ...in sostituzione delle vigenti leggi deve assumere veramente il carattere di di una legge sociale ispirandosi ai seguenti fondamentali concetti: che l'affrancazione debba farsi a vantaggio delle popolazioni e solo a loro richiesta...liquidandosi i diritti del proprietario mediante pagamento di un modico canone annuo; ..che sia fatto obbligo al proprietario .. di concedere le terre già vincolate alla collettività dei lavoratori del luogo, costituiti in consociazioni agrarie sotto forma di affittanze di lunga durata e col corrispettivo di un modico annuo canone.... chiede di decretare la espropriazione totale o parziale a favore delle stesse consociazioni dei latifondi non assoggettati a coltura intensiva esistenti nel loro territorio .. affinché divisi in lotti convenienti possano concedersi in affitti di lunga durata a quelle società cooperative di lavoratori agricoli e a quelle famiglie di contadini che assumeranno di coltivarli direttamente e di bonificarli” . In questo documento troviamo la soluzione che fu praticata nelle aree centrali dove l'associazionismo contadino e il cooperativismo funzionò. Gli stessi problemi sono stati affrontati dal nostro Chillemi. La causa che egli difese aveva una dimensione nazionale, non ha interesse solo sotto il profilo della storia locale di Limina e del suo territorio. Ancora nel 1915 si presentava come causa di giustizia a livello nazionale – europeo, facendo appello a una equa riforma agraria

Personaggio del riformismo socialista fu Salvemini che sollecitò ripetutamente i socialisti del nord a farsi carico della questione meridionale non per un impegno sentimentale, ma come condizione imprescindibile per la nascita di un movimento veramente unitario, per una lotta unitaria per le riforme strutturali: abolizione del latifondo e creazione di una classe di piccoli coltivatori, in alternativa alla collettivizzazione. Nel 1899 egli scriveva che ai contadini del sud non mancavano grandi uomini, ma mancava una classe egemone che potesse produrre la riforma : non la faranno mai i latifondisti e la piccola borghesia locale. “Il proletariato rurale è vittima del latifondo, angariato dal fisco e dal parassitismo borghese, vittima di ladrerie politiche e amministrative, maggioranza eppure debole, perché priva di rappresentanza politica, priva di una guida unitaria. Vi sono uomini disinteressati, nobili, generosi che abbandonano la propria classe e scendono tra i contadini per educarli alla lotta per i loro diritti, ma non succederà mai che siano le classi 78 egemoni di borghesia e latifondisti a prendere le parti dei contadini. Rara eccezione uomini come Barbato che seppe ….lottare nella oscurità di una piccola città di provincia a ogni momento contro le insidie, le menzogne, le calunnie, i tranelli di tutta la piccola borghesia che pure è la classe in cui si è nati e si vive, vivere coi contadini una vita di miseria, mentre un piccolo cambiamento di condotta vi procurerebbe l'agiatezza e la pace, sentirsi combattuto e odiato senza misericordia da tutti i galantuomini, che sono pure la vostra classe naturale mentre dipende da voi solo da voi il rientrare festeggiato adulato premiato in pace con i vostri nemici, tutto questo sacrificio di sé non può essere opera del primo venuto”. In questa lunga citazione trovo una somiglianza, che fa onore al nostro Chillemi, con i grandi dirigenti dei fasci, dirigenti che nei diversi momenti della storia politica italiana si sono collocati oltre l'area del proprio interesse di classe.

Scrive ancora Salvemini: ma “nei settentrionali ci sono molte sfavorevoli prevenzioni contro l'Italia meridionale e a voler essere giusti bisogna riconoscere che non hanno tutti i torti. L'Italia meridionale è la Vandea d'Italia, è per la classe dirigente il serbatoio delle forze parlamentari reazionarie; ….gli stessi cosiddetti socialisti meridionali non hanno mai data, salvo al solito le debite eccezioni, molto buona prova di sé …....ben diversi erano i contadini meridionali che quei garzoncelli (parla dei giovani borghesi avvocati che si candidavano a dirigere il partito socialista) dichiaravano di rappresentare, mentre nemmeno un contadino faceva parte dei loro circoli. Bisogna che i socialisti settentrionali smettano tutti i loro pregiudizi sul conto del mezzogiorno. ...il proletariato meridionale ha le sue qualità buone e cattive, ma non vale meno del proletariato settentrionale: solo è più disgraziato. ...finché nell'Italia meridionale la legalità sarà nelle mani dei latifondisti e della piccola borghesia, qualunque riforma sarà impossibile in tutta Italia; ...finché i contadini saranno dai settentrionali disprezzati e abbandonati a se stessi non potranno mai far nulla, oppure si lasceranno sfruttare politicamente dagli imbroglioni mente sono sfruttati economicamente dai padroni”.

Nei tempi lunghi della storia politica del nostro paese queste parole risultano di una inaudita attualità sia che si riferiscano alle lotte di fine Ottocento, sia che si riferiscano alle lotte sindacali dell'inizio del 900 e anche alle successive. Nel cosiddetto biennio rosso86, i turbolenti anni che precedettero l'avvento del fascismo, l'occupazione delle terre nell'estate del 1919, rappresentò il seguito della vecchia faccenda della eversione del feudalesimo e della rivendicazione delle terre. Proprio nel biennio 1919-1920, la parola d’ordine fu la “terra ai contadini”. Il 2 settembre 1919 fu emanato il decreto legge n. 1633 detto

86 Biennio rosso - periodo tra il 1919 e il 1920. La classe operaia esplose con scioperi, dimostrazioni ed agitazioni a livelli impressionanti nelle fabbriche italiane, contro il taglio degli stipendi e le serrate. Tra le cause di questa ondata di scioperi ci furono la crisi economica conseguente alla guerra appena terminata, ma ebbe un ruolo importante anche il mito della rivoluzione russa. Le proteste iniziarono nelle fabbriche di meccanica, per poi continuare nelle ferrovie, trasporti e in altre industrie, mentre i contadini occupavano le terre. Le agitazioni si diffusero anche nelle campagne della pianura padana, innescando duri scontri fra proprietari e braccianti, con violenza da una parte e dall’altra, soprattutto in Emilia e Romagna. 79

Visocchi-Falcioni87 dal nome dei proponenti, che doveva favorire la concessione di proprietà di terra ai contadini reduci di guerra. Gli agrari lo rifiutarono. Con il decreto Visocchi del 2 settembre 1919, emanato per opporre un freno alle occupazioni più che per dare un riconoscimento legale a quelle avvenute, le occupazioni delle terre furono, si può dire, legalizzate, ma la soluzione non fu che una debole mediazione: si riconobbero non più di 27 mila ettari di terra agricola nell'Italia centrale, a braccianti che le lavoravano. Si trattava di una concessione temporanea, con canone fissato da un esperto, che vide proprietari e braccianti davanti a una commissione paritetica, ma che si schierarono su due fronti contrapposti in una lotta cruenta. I contadini attuarono allora lo sciopero al rovescio che consisteva nel coltivare latifondi abbandonati e poi chiedere ai proprietari la corrispondente retribuzione. Ne seguirono episodi sanguinosi di violenza: mentre gli ex- combattenti della prima guerra mondiale, delusi dalle false promesse di riforma agraria assaltavano i municipi per chiedere la ripartizione dei demani comunali, i braccianti prendevano di mira i padroni, che a loro volta reagivano con le armi o trovavano aiuto nell'appoggio che forniva loro la polizia con I suoi metodi repressivi . Tutto il sud visse una tragica contrapposizione tra gli agrari armati e ben difesi, e i braccianti reduci di guerra in lotta per ottenere ciò che la legge riconosceva loro. Molte le stragi che ancora si ricordano, come quella di Marzagaglia in Puglia. I processi che attrassero molto l'opinione pubblica si conclusero quasi sempre con l'assoluzione degli agrari. In quegli anni vennero trucidati in attentati mafiosi i vecchi dirigenti dei fasci. Il 3 novembre 1915 a Corleone, venne ucciso Bernardino Verro, già dirigente dei Fasci e allora sindaco del comune.

Così si leggeva nel decreto sulle affittanze collettive: “L'occupazione temporanea dei terreni sui quali vertano questioni di usi civili non può essere disposta che a favore dell'associazione agraria o dell'ente che rappresenta gli utenti” “per provvedere alla necessità concernenti l'incremento della produzione agraria con speciale riferimento ai cereali legumi e tuberi commestibili” “la durata dell'occupazione non può oltrepassare i quattro anni” “al proprietario sarà corrisposta un'equa indennità, “ “Prima della scadenza dell'occupazione provvisoria le associazioni o l'ente a favore del quale venne concessa l'occupazione provvisoria potrà richiedere che essa sia resa definitiva sempre che trattasi di terreni suscettibili di importanti trasformazioni culturali o che siano soggetti ad obblighi di bonifica” . L'intenzione del decreto era evidentemente quello di promuovere una occasione di sviluppo produttivo anche facendo manutenzione migliorativa dei suoli. Il fascismo troncò il movimento delle occupazioni e restituì le terre, che intanto erano state dissodate e coltivate dagli occupanti, ai precedenti proprietari.

La crisi degli anni 90, che fu il contesto della storia dei fasci, fu una “una carestia” capitalistica: mancò il denaro per pagare le tasse e i contratti erano congegnati in modo che gli effetti recessivi fossero subiti dal lavoro e non dalle rendite, né dal capitale. I frutti del progresso agrario erano stati assorbiti dai grandi proprietari con l'aumento sistematico

87 Visocchi Falcioni - Il cosiddetto "decreto Visocchi", più propriamente il regio decreto legge 2 settembre 1919 n.1633, recante provvedimenti per l'incremento della produzione agraria, fu emanato dal governo presieduto da Nitti, su proposta del ministro dell'agricoltura Achille Visocchi. 80 dei canoni di affitto e del prezzo della terra che rimase alto malgrado la crisi. I maggiori oneri erano stati scaricati sui contadini peggiorando i rapporti di compartecipazione di subaffitto per ridurre al minimo la quota parte lasciata ai lavoratori. Si sostituì infatti la mezzadria col terraggio: Il terraggere poteva portare a casa un po' di grano solo se la resa superava i 6 / 7 quintali per ettaro (una resa abituale stava al 4). Una diminuzione della resa che stesse sul 30%- 35 % comportava che il contadino consegnasse tutto al gabelloto concedente. Risolvere la questione dei patti colonici era essenziale per risolvere l' ingiustizia che i contadini subivano.

Quando esplose la questione dei patti colonici, scoppiò la contraddizione tra la crescita da una parte delle rendite e la crisi e la rovina economica invece dei settori produttivi più moderni della agricoltura dell'isola. Si fromarono le grandi fortune da un lato e la miseria dei nullatenenti dall'altro: da qui l'allentamento dei vincoli sociali e la critica delle gerarchie istituzionali e sociali che fece assumere alla lotta contadina toni così duri. Il rispristino delle Università agrarie, associazioni di agricoltori per il godimento collettivo di terreni, che nell'età feudale funzionavano come ammortizzatori sociali, immuni da ogni soggezione feudale o statale, parve la soluzione nuova.

Le più mature sensibilità politiche dei capi del partito socialista misero “all'ordine del giorno il tema della conquista dei contadi al socialismo” per aprire la battaglia della “rivendicazione del suolo come proprietà comune dei lavoratori della terra” .Tra il vendere a privati, dividere gli appezzamenti agli abitanti poveri dei comuni contermini, concedere a un consorzio di comuni, la soluzione indicata per la valle padana dal socialista Costa88 fu quella di una cooperativa degli abitanti per lo sfruttamento comune. L'indirizzo del cooperativismo agrario di produzione e lavoro di braccianti dalla valle padana si trasferì al resto d'Italia, ma il mondo agrario nel resto d'Italia aveva situazioni e tradizioni differenti dalle condizioni dei braccianti, dei coloni, dei mezzadri padani. Mancò nella analisi e nelle proposte socialiste come integrare nella lotta contadina anche i piccoli proprietari coltivatori diretti, che in alcune aree erano numerosi e che erano stati proletarizzati dalla crisi.

In Italia più che il partito socialista ad andare verso le masse contadine furono le masse contadine a cercare una propria rappresentanza dentro il socialismo. Nel loro tentativo di diventare protagoniste della loro storia. Secondo il sociologo tedesco Sombart89la situazione delle campagne italiane differisce da quella degli altri paesi perché “presenta una enorme percentuale di lavoratori agricoli senza terra..mezzadri, parcellari, giornalieri, braccianti, ..e i contrasti di classe sono più profondi. ..Non ci sono dipendenti della proprietà, ma cittadini di campagna, ove contadino coincide con lavoratore agricolo.” La transizione dal feudalesimo al capitalismo aveva provocato una separazione del contadino dalla terra attraverso l'espropriazione praticata con le usurpazioni dei beni

88 Andrea Costa, fondatore del socialismo italiano. 89 Werner Sombart (1863 – 1941) è stato un economista e sociologo tedesco, capocorrente della nuova scuola storica tedesca e uno dei maggiori autori europei del primo quarto del XX secolo nel campo delle scienze sociali. 81 demaniali, la alienazione dei beni ecclesiastici durante il regno borbonico e savoiardo, la distruzione degli usi civili praticata da baroni e da borghesi. Ora negli ex-feudi, come in quel di Antillo, il problema era nuovo: la concentrazione della proprietà in poche mani, il prevalere del latifondo cerealicolo, la prevalenza di rapporti agrari di compartecipazione, precari e angarici, che facevano essere il contadino una specie di salariato in natura con retribuzione incerta. Ciò spiega la adesione di massa dei contadini, anche coltivatori diretti, ai fasci.

In una lettera aperta, forse di Verro, pubblicata nel settembre del 1892 sul giornale “L'Isola” si legge: “pochi giorni di vita conta questo fascio e già i contadini corrono a centinaia ad iscriversi, scorgendo in una forte organizzazione la loro ancora di salvezza. Non così la pensano i ricchi borghesi e i rivenditori di indulgenze. Gli intelligenti tra i primi sogghignano di diffidenze; gli ignoranti, atteggiandosi a puntelli della civiltà minacciata, si arrabattano insultando, calunniando ed intimando...Un pretonzolo, villano pur esso, che puta ancora di concime, ardì sconsigliare dal pergamo i contadini ad associarsi, smentendo in tal modo quanto consigliava Gesù Cristo. Povero sciocco , ritiene forse che il fascio si occuperà di religione? Manco per pensarlo, ognuno creda quel che vuole., ma creda pure che i preti sono atei, menzogneri e che cercano di sfruttare le tasche e l'anima di poveri gonzi...” .. I fasci si qualificano come nuovo blocco sociale che muove dal basso che unisce città e campagna, operai e contadini, proletariato urbano e agricolo con la piccola e media borghesia. I quadri del nuovo movimento resi autorevoli dal basso, devono tutto la movimento. Per esempio Verro, impiegato del comune di Corleone, viene licenziato per rappresaglia politica, e divenne un capo autorevole dei fasci, capace di trattare da pari con i vertici politici, compreso Sonnino. Barbato, da medico di campagna diventò presidente di un fascio dei lavoratori e ne fu un simbolo, sempre accompagnato da un corteggio di contadini a cavallo, corteggio che non è né guardia armata né segno di distinzione, ma attestato di fiducia, segno del carisma. Barbato parlava a nome dei contadini che sono con lui sempre, mandatari della fiducia popolare che gli si affidavano per la sua capacità persuasiva. Erano capi infaticabili. Dovunque andassero un'onda immensa di popolo li andava a ricevere. a Santo Stefano Quisquina era un oscuro maestro elementare e viveva delle sue piccole proprietà e dello stipendio della moglie, maestra anche lei, quando divenne un quadro dei fasci. Le adesioni di massa nascevano da una specie di contagio interno al movimento contadino, per autoproduzione policentrica. Tutti rigorosamente segnalati come sospetti della polizia. In un rapporto di polizia su Panepinto si legge: “un po' esaltato nel propugnare i diritti dei lavoratori” .. “Non percepisce alcuna sovvenzione essendosi rifiutato di accettare la proposta fatta di taluni di pagargli ciascun socio una lira all'anno, .. ha tenuto finora buona condotta ..ma si ritiene che potrebbe essere capace di trascendere in casi di perturbamento dell'ordine pubblico”. Si organizzavano passeggiate “che servono ad affratellare e a conoscere gli operai”, utilissime, scrive l'Unione a commento di una passeggiata del fascio di Misterbianco. In Sicilia gli oratori nelle grandi manifestazioni erano parte degli stessi manifestanti. Non sono cittadini che imparano dai libri le ragioni dei contadini. 82

A Caltavuturo, in provincia di Palermo, dai verbali del Prefetto di Chiaromonte Gulfi si viene a conoscenza delle condizioni di miseria dei contadini che erano gravi. A Caltavuturo, al grido di pane e lavoro, la protesta aveva trovato spunto dalla controversia intorno ad alcune terre demaniali che dovevano essere quotizzate tra i contadini. Le terre erano state occupate e lavorate. I fasci non erano ancora stati costituiti; nascono di fatto dopo l'eccidio, con le manifestazioni a cui si diede vita per commemorare le vittime e dare le somme raccolte alle famiglie. La reazione istituzionale al primo moto fu di incomprensione: il movimento venne considerato sovversivo e vennero interrotte le manifestazioni che erano state organizzate. Invece si diede spazio alle allarmate richieste di intervento degli agrari, sostenuti dalle amministrazioni rette da sindaci compiacenti che fecero uso di tutta la forza di pressione politica e sociale di cui erano capaci. Il governo intervenne col pugno di ferro, mentre si diffondeva in tutta Italia l'iniziativa di scioperi e proteste socialiste per ottenere aumenti salariali. Furono arrestati i capi e interrotte le trattative, che pure erano vicine a un accordo. Il giro di vite non era giustificato: i fasci non avevano carattere di massa, non avevano dato vita a fenomeni di violenza o di pericolo. Ma in quell'anno furono 1.718.000 gli scioperanti in Italia. Questo fu l'alibi per l'irrigidimento del governo Giolitti in senso antisocialista. Fu presentata come una politica di “precauzione”, “perché se a tanti poveri ingannati si togliesse ogni freno, sa iddio quali gravi sciagure domani noi avremmo a lamentare”

In parlamento erano in discussione i bilanci di previsione di spesa dei ministeri e l'esito delle votazioni era risultato negativo per il governo: erano stati respinti con pochi voti il bilancio di spesa del ministero di grazia e giustizia e il ministro era stato costretto alle dimissioni il ministro. Si doveva votare il bilancio di previsione del ministero degli interni e per salvare il governo in Senato fu necessario l'appoggio della destra. Uno dei maggiori rappresentanti della destra era il senatore siciliano Di Camporeale, proprietario nel corleonese e nel palermitano. Così gli scioperi agricoli del corleonese in Sicilia acquistarono una centralità nazionale e Corleone divenne il vulnus della intera questione della tenuta del governo. I parlamentari della destra fecero valere il loro peso nell'equilibrio politico parlamentare e chiesero lo scioglimento dei fasci in cambio del loro voto, malgrado nessuna illegalità giustificasse un tale atto. Ovunque in Europa in quegli anni le repressioni antipopolari da parte di governi interventisti di stati borghesi in crisi erano all'ordine del giorno. In Inghilterra furono emanate leggi anti-socialiste e furono perseguitate le trade unions, l'equivalente delle nostre società di mutuo soccorso. La presa di posizione pubblica del giovane P.S.I. contro chi sperava di “spegnere l'incendio siciliano con qualche secchio di sangue siciliano” e le dichiarazioni di solidarietà coi compagni perseguitati per la difesa dei diritti, “contro il nuovo brigantaggio (inteso come accordo mafioso dei possidenti) in mentite spoglie che si sta inaugurando contro di loro”, mise nuova energia nella protesta, ma, dopo il congresso del P.S.I. di Reggio Emilia, e la distanza che il partito prese dalla questione contadina per stare in linea con l'indirizzo del partito a livello europeo, I fasci furono lasciati soli. Antonio Labriola scrivendo a Engels il 1° luglio 1893 espresse il dubbio che dentro il movimento ci fossero altre speculazioni anarchiche. Così scriveva, che era difficile “farsi un'idea di cosa stesse succedendo nella 83 lontana isola...nemmeno qui a Roma si arriva a capire che cosa ci sia nella pretesa agitazione siciliana di socialismo, di anarchismo, di affarismo, di mafioso. Secondo me non accadrà nulla, salvo che qualche furto campestre e qualche uccisione di di carabiniere. Questi fasci sono lavoro di fantasia, e ci sono dentro studenti, avvocati, appaltatori, falliti, giovanotti allegri...”. Insomma ai vertici del PSI prevalse il sospetto, l'incomprensione e, diciamo così, la prudenza anziché la solidarietà. La preoccupazione per l'ordine crebbe e infine il Prefetto di Palermo chiese lo scioglimento dei fasci poiché “ i discorsi e le manifestazioni tenutisi al congresso socialista sicula, e l'ordine del giorno votato dai rappresentanti dei fasci dell'isola dimostrano con evidenza che la propaganda socialista è ormai uscita dal campo della legalità dal momento che si afferma la lotta di classe, cioè l'odio contro la borghesia e il governo”. Ma non si intervenne: non erano risultate azioni illegali. La questione contadina venne, con malafede, intrecciata, anzi confusa, con quella della pubblica sicurezza.

Si ripetevano da tempo reati di sequestro di persona, omicidi, violenze, rapine. Dei due fenomeni, della criminalità mafiosa e delle proteste contadine, si fece di tutta l'erba un fascio: le agitazioni politiche furono accostate ai fatti criminali, trattati insieme ai problemi di polizia, malgrado le relazioni dei Prefetti avessero escluso in modo chiaro una complicità tra mafia e movimento. Con un pregiudizio strumentalmente costruito, si legittimò l'attacco contro il movimento presentato come intervento legittimo della forza pubblica contro la recrudescenza della criminalità e della mafia. Nei precedenti trenta anni di vita unitaria la commistione di mafia e politica si era resa ben nota, ed erano ben note le modalità delle azioni mafiose. La schedatura degli aderenti ai fasci come mafiosi fu una manovra mistificatoria, la prima schedatura che possiamo dire politica. Non potendo presentare informazioni accusatorie con riscontri reali, si agì con rapporti di spionaggio, usando mezzi investigativi extralegali, come l'uso di confidenti anonimi, con un ovvio seguito di errori, minacce, ricatti. Per errore, o per vendetta, o rappresaglia vennero inclusi nelle liste anche cittadini estranei ai fasci. Colajanni denunciò: “Si parla di elenchi addirittura inventati di sana pianta”. Gli statuti dei fasci vietavano l'adesione a chi si fosse reso indegno della pubblica stima, a vagabondi o mafiosi, a “uomini di mal'affare”. A escludere la commistione con la mafia era la stessa natura dei fasci che erano organizzazioni popolari, socialiste, in contrasto col potere costituito, con personale politico giovane, di estrazione popolare, estranei ai ceti dominanti. La mafia non era un fenomeno di classi subalterne, anche se subalterna era la manovalanza criminosa, il braccio operativo, disciplinato e stupido. Sul piano culturale, la concezione mafiosa nega autonomia e iniziativa egemone al popolo. L'emancipazione e la solidarietà predicata dai socialisti dei fasci era in chiara antitesi al principio della ideologia mafiosa, che imponeva l'omertà. La mafia stava coi gabelloti e i proprietari, non con I fasci.

Le elezioni amministrative parziarie del 9 luglio furono la prima prova elettorale per il neonato partito socialista. Si provò in tutti I modi di impedire l'affermazione del partito socialista cui I fasci aderivano, ma non servì a nulla; furono inefficaci anche le revisioni 84 delle liste degli aventi diritto. I risultati furono di vittoria, piena nei paesi dove la lotta era stata dura, e c'erano stati anche arresti di massa. Malagodi90 sulla “Critica Sociale” scrisse che “il proletariato agricolo bisognava averlo seco; per il socialismo italiano è una necessità, ..perché in Italia è esso solo il il vero e potente proletariato; il proletariato industriale è una miseria”

Quando Giolitti rassegnò le dimissioni, caduto sul viscido terreno dello scandalo della Banca di Roma, e le camere alla chetichella (senza dibattito) vennero chiuse, venne dato l'incarico a Zanardelli in attesa che decantassero i contrasti più forti tra I partiti. Le questioni urgenti erano ovviamente quelle economico finanziarie. La questione agraria in Sicilia rimase un problema in attesa di soluzione. Un nuovo Commissario speciale, Sensales, capo della polizia, instaurò una dura repressione, manifestatamente illegale contro i fasci, indiscriminata: 800 arresti spettacolari, ma senza sparatorie. La disfatta della sinistra liberale diede spazio a Crispi, che, con la parola d'ordine della pacificazione, ottenne consensi in una larghissima maggioranza e avviò la sua riscossa antisocialista, lui, ex garibaldino, “unico uomo energico da cui la nazione nelle condizioni attuali può ripromettesi rispetto all'estero, assetto nelle finanze, tranquillità all'interno”. La proclamazione dello stato di assedio che Crispi autorizzò, consentiva ai militari la possibilità di fare fuoco; era stata una loro precisa richiesta, poiché non potevano accettare di non usare le armi contro i manifestanti: ne andava della loro autorità e immagine, che ne sarebbe risultata sminuita! Crispi si appoggiò all'esercito, ma promise anche riforme: la modifica dei patti agrari, la limitazione delle ore di lavoro, l'obbligo per i datori di lavoro di fare il pagamento dei salari in denaro, un aiuto all'emigrazione, l'abolizione dei dazi, un imminente progetto i legge di quotizzazione obbligatoria delle terre comunali.

Nella inchiesta Jacini di qualche anno prima erano stati classificati i diversi tipi di csfruttamento che veniva praticato imponendo contratti leonini ai coltivatori. I braccianti erano esclusi da contratti che prevedessero la trasformazione del fondo da seminerio a cultura specializzata. I contratti più in uso erano il terraggio, paraspolo, compagno e padrone.

Le richieste dei fasci, ribadite nell'ultima seduta clandestina, si concludevano con questa frase “in questo momento solenne mettiamo alla prova le declamazioni umanitarie della borghesia” , e un appello: “ritornate alla calma, perché coi moti isolati e convulsionari non si raggiungono benefici duraturi”. Si concluse così, con questa solenne assunzione di responsabilità politica l'opera dei socialisti siciliani. Il 3 gennaio ebbe inizio la repressione, decretata con lo stato d'assedio lo stesso giorno. Il seguito fu la diaspora dei fasci. Nessuna reazione morale nel paese, come ci sarà invece a seguito delle cannonate di

90 Olindo Malagodi nel 1892 iniziò a collaborare con “Critica sociale”, nelle cui pagine, oltre a scrivere di critica letteraria, rivelando una sensibilità che lo avrebbe condotto negli anni successivi a una rimarchevole produzione narrativa e poetica, si occupò inizialmente della situazione emiliana, che egli ben conosceva. Maturò il convincimento che in Italia il socialismo potesse gettare radici soprattutto nelle campagne e che quindi il Partito dovesse prestare attenzione principalmente alla questione agraria. 85

Bava Beccaris a Milano. La strage di Caltavuturo e Lercara si consumarono il 20 gennaio 1893, a seguito dell’occupazione simbolica delle terre del feudo San Giovannello. Il duca di Ferrandina, proprietario di oltre 6.000 ettari di terreno, contrario a mantenere gli unsi civici, si era impegnato a cedere al Comune 250 ettari di terra in contrada San Giovannello, in cambio e a risarcimento degli usi civici non voluti. L’amministrazione comunale doveva quotizzarlo e distribuirlo alla popolazione, ma gli amministratori e i notabili del paese rinviavano continuamente l’operazione. I primi perché aspiravano ad appropriarsene personalmente e i secondi perché erano interessati a tenere nella fame la povera gente, che così era costretta a rimanere disponibile come manodopera a basso costo per le loro aziende. I gabellotti di fatto usurparono le terre col metodo del rinvio delle quotizzazioni. Ciò spiega la rabbia del popolo che manifestò la sua protesta con l'occupazione delle terre. L’esercito ed i carabinieri intervenuti per ristabilire “l’ordine pubblico” risposero alla sassaiola, provocata da infiltrati, provocando la morte di 11 manifestanti.

La consapevolezza che tutti avevano del disagio sociale delle masse contadine che si esprimeva con il movimento di protesta dei fasci, dovuti alla fame e alla miseria, fece valutare come eccessivo e fuori luogo il provvedimento militare repressivo. Dalle pagine della “Tribuna” giornale della compagine ministeriale, il corrispondente Adolfo Rossi scriveva “ in molti paesi basterebbe che invece di carabinieri e di soldati andasse qualche funzionario di buon senso a promuover la formazione di commissioni miste di proprietari, gabelloti e contadini”.

I giornali sospettarono una ripresa della tentazione separatista come possibile reazione allo scioglimento dei fasci: La crisi avrebbe potuto mettere in discussione anche la tenuta dell'Unità nazionale. Da parte cattolica ci fu una reazione di mistificazione: fu attribuita ai fasci un' anima vile di furfanti che “non lavorano il giorno (scioperano) ma lavorano di notte, (rubano). Una cauta apertura da parte del clero della azione sociale come quella del vescovo di Caltanissetta, Guttadauro91 che dichiarò: “ il ricco per lo più abusa della necessità del povero, che viene costretto a vivere di fatica di stento di disinganno....reclamino i reverendi parroci, naturali protettori dei poveri, presso i proprietarie i gabelloti, che si ristabilisca la giustizia e l'equità nei contratti che si cessi dall'usura manifesta o palliata, ...ricordino in ogni occasione ai padroni e ai capitalisti l'insegnamento della Chiesa che grida altamente per bocca del sommo pontefice essere loro dovere : non tenere gli operai in conto di schiavi, rispettare in essi la dignità dell'umana persona..”

Abbiamo raccontato questa vicenda perché ritroviamo una profonda analogia con i fatti narrati nella memoria di Chillemi e quindi dimostriamo che l'affare particolare da cui

91 Guttadauro, vescovo di Caltanissetta – (1811 – 1896) contribuì alla formazione delle prime società operaie di mutuo soccorso nel nisseno, in contrapposizione alle società operaie socialiste, e dopo le vicende legate al movimento dei Fasci Siciliani, si fece promotore del cattolicesimo sociale di ispirazione leoniana, favorendo sino alla morte il radicamento del Movimento cattolico nisseno. 86 siamo partiti ha un legame intrinseco con la grande storia, d'Italia e d'Europa, se consideriamo la centralità della questione agraria nei grandi eventi del novecento. Ci pare di ravvedere nello svolgimento dei fatti e nelle dinamiche socio-politiche d'Italia una costante, che attribuiamo non al destino o a forze naturali della storia, ma alla presenza della mafia nel confronto pubblico e al prevalente coinvolgimento degli interessi privati a danno di quelli comuni, attraverso l'uso di strumenti di prevaricazione che ci sembrano gli stessi.

Raccontare i fasci siciliani non si fa più nemmeno a scuola. Ci si passa sopra con una lapidaria interpretazione, sostenuta unanimemente da tutti i manuali, che li fa consistere in uno strascico di rivendicazionismo separatista, questione irrisolta proveniente dalla modalità della unificazione come conquista. Al più si raccontano come anticipazione dei moti del pane del 1898, e allora, facile facile, essi vengono interpretati come l'ennesimo e immancabile tumulto degli affamati. Noi siciliani che pensiamo di capire meglio i siciliani, siamo stati i più proliferi narratori e interpreti di questa vulgata. Negli Archivi di Stato di Napoli o di Palermo i fondi e i documenti sulla questione per lo più devono ancora essere scandagliati. La questione della terra è oggi fuori dall'interesse comune, anzi, di più, non sembra esserci alcun problema a definire i rapporti di proprietà, gli ambiti di interesse pubblico e di interesse privato nei rapporti di proprietà. L'agricoltura non è più il lavoro dei più e per fortuna neanche la fame è un problema urgente e generale. Ma non possiamo dimenticare che abbiamo un atavico cordone ombelicale che ci lega alla terra. Ci capita, se camminiamo in campagna, istintivamente di sorprenderci a cercare con gli occhi qualche riconoscibile erba selvatica da raccogliere. Il ricordo più vicino che ho di mia madre è la figura di lei che con naturalezza e allegria riempie la tasca ricavata piegando alla vita un largo grembiule con il tenerume di qualche erba mangereccia: ce n'erano di diverse in base alla stagione, nelle campagne della mia infanzia. Quando parliamo di uso civico dei suoli, si intende anche questa naturale immancabile possibilità di cui i contadini godevano attraversando la campagna, non solo la propria, ma anche la altrui, o meglio quella che sembrava essere la campagna di tutti. E non è mai scomparsa dalla nostra aspirazione quella di avere della terra da zappare, da dissodare, da allineare, da seminare, e infine da godere raccogliendone qualche frutto. Proviamo una gioia speciale nel ritrovare tra i tanti luoghi di campagna quello noto fin dall'infanzia, l'angolo di mondo che ci conobbe prima di ogni esperienza di vita autonoma, nel riconoscere e far conoscere ai nostri figli già grandi il luogo dove noi stessi diventammo grandi pensando al lavoro come a una generosa azione di cura della terra, delle piante, mentre aiutavamo nel lavoro nostro padre, che ci insegnava come tagliare una talea, come irregimentare il rivo d'acqua con cui si irrigava l'agrumeto, come raccogliere i frutti senza danneggiare le piante. Nel presente ci sentiamo ancora coinvolti nelle occasioni in cui si discute di programmazione agricola, di specializzazioni agricole, di uso produttivo dei suoli, di difesa della qualità dei suoli, di difesa del patrimonio naturale. Il retaggio della nostra appartenenza per una piccola parte della nostra vita alla società contadina che non c'è più è appunto il senso della terra e il valore della conoscenza della terra e delle sue leggi. Oggi l'argomento non sembra popolare e si fatica a rappresentare,, a chi non la sa, l'importanza della natura 87 anche sotto il profilo economico- alimentare e i rischi che possono derivare da una distrazione grave delle democrazie, ossia dalla incuria e dal disinteresse della pubblica opinone su argomenti di governo dei suoli. Sappiamo il rischio delle politiche dissennate che producono l'erosione dei suoli agricoli. Abbiamo visto prevale l'interesse a fare fruttuosissime speculazioni occupando I suoli con quartieri residenziali e costruzioni più o meno utili. Si fa finanza con le case e mentre si snatura il senso delle case, che diventano merci da cui ricavare rendite, si snatura il senso della terra. Il rischio maggiore verso cui ci esponiamo è la dipendenza alimentare dalle politiche agricole delle multinazionali che stanno acquisendo i terreni agricoli di vaste aree, anche e soprattutto nei paesi non industrializzati, praticando monocolture con imponenti investimenti tecnologici e riducendo in proprio dominio la produzione agricola che viene monopolizzata, provocando la proletarizzazione delle classi contadine, e ottenendo guadagni esorbitanti con la commercializzazione di grandi quantitativi di prodotti alimentari movimentati a livello planetario sulle lunghe distanze. L'impegno verso la terra e verso il diritto alimentare di tutti e per conservare dignità al lavoro e autonomia esistenziale, sembrano ingenuità improduttive. Oggi la questione della difesa dei terreni boschivi è punto di programma di governo del territorio per salvaguardare la salute dei cittadini e il paesaggio. La Costituzione indica all'art. 9 importante la difesa del territorio come bene comune al di là della sua opportunità in termini economici.

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Agatina Salamone – docente ordinario di Storia e Filosofia presso il Liceo Classico Statale “P.Sarpi” di Bergamo

“Gli usi civici furono sempre considerati come riserve di dominio, implicitamente od esplicitamente farre dal Sovrano a favore delle popolazioni, perché non fossero rimaste prive de' mezzi necessari alla sussistenza”

“Chi intende alla ricercadelle origini di molti Comunelli, trova spesso poche case raccolte attorno al castello del Feudatario; in quelle case erano ppche famiglie, che, lungo la china dei secoli, hanno dato vita ad altre famiglie; e così si è creato il Comune, con dritto naturale di vivere sul feudo”

“Qual vita avrebbero poturo trarre gli abitanti se non fosse stato loro permesso il dritto di pascere di acquare, di pernottare, di coltivare con una corrisposta al Feudatario, di legnare per lo stretto uso del fuoco e degli istrumenti rurali per edifizi, di cavar pietre o fossi di prima necessità, di occupare suoli per abitazioni?” da “ALFONSO PERRELLA, L'eversione della faudalità nel napolitano. Dottrine che vi prelusero. Storia, legislazione e giurisprudenza, Arnaldo Forni editore.

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Indice

CAPITOLO I – La questione contadina nella “Memoria” del sindaco Filippo Chillemi Il contesto socio-economico...... p. 1 Gli antefatti della questione contadina …………………………………………………p. 2 L'alienazione dei feudi e la nuova proprietà capitalistica...... p. 4 Le fasi della modernizzazione nella politica agricola Excursus storico sugli usi civici ………………………………………………………..p. 6

La questione contadina nel regno delle due Sicilie (1815 / 1860) ...... p. 8 Il capitalismo italiano e la questione contadina nella “Memoria”di Chillemi ...... p.11 Notizie su Limina ……………………………………………………………………….… p.12 Storia antica delle enclosures...... p.14 Gli usi comuni e la questione contadina a Limina ...... p,15 Si parte dalla Mensa Archimandritale.- Alle origini ………………………………..…...p.19 La storia delle istituzioni ecclesiastiche ...... p.20 La proletarizzazione dei contadini – L'iter delle leggi ...... p.26

CAPITOLO II Il ricorso Chillemi ...... p.31 La requisitoria di Chillemi ...... p.42

CAPITOLO III La questione Contadina nel contesto socio-economico dell’Isola – La Sicilia dei Fasci ….…………………………………………………………….……. p.53 I fatti del 1888 e l'intervento di Chilemi. La questione contadina siciliana entra nella storia politica europea………...... p.56 La svolta protezionistica e le complicità della mafia nello sfruttamento del lavoro. ……………………………………………..…………..p.63

Il fallimento della politica …………………………………..…………..……….……...p.66