Il cinema italiano e il calcio

Il calcio è notoriamente lo sport più popolare nel nostro Paese, quello per cui si litiga, si gioisce, si piange, quello per cui un intero popolo ritorna ad essere finalmente unito sotto un’unica bandiera, magari per un Europeo o un Mondiale di calcio. Scandali, complotti, trionfi, moviole, var, marketing, cocenti sconfitte…insomma il calcio rimane un turbinìo di emozioni, e unisce proprio perché la passione per essa, coinvolge senza distinzioni di sorta tutte le classi sociali, dagli intellettuali ai proletari. E l’altra cosa che unisce più di tutti, che fa sognare, che fa riflettere è il Cinema. Nella storia del glorioso cinema italiano, numerosi sono stati i connubi tra lo sport più amato dagli italiani e il cinematografo, certo non sempre memorabili: ad onor del vero il calcio non ha mai trovato sullo schermo una messinscena che fosse in grado di renderne al meglio le peculiarità agonistiche. Ma non mancano di certo casi eclatanti, interessanti, professionali, rimasti nella memoria collettiva.

Negli anni della commedia brillante post-seconda guerra mondiale il calcio si va affermando come pretesto per raccontare storie divertenti, spensierate ed allegre. E’ il caso di Undici uomini e un pallone (1948), una delle prime commedie brillanti che vuole sfruttare il successo popolare del calcio. Il film ha molti punti a favore. In primis l’utilizzo di numerosi giocatori professionisti dell’epoca: Campatelli, Parola, Amadei, Puricelli, Biavati, Costagliola, Remondini. E poi, l’argomento terribilmente attuale della frode sportiva, ovvero il tentativo di truccare l’ultima partita di campionato. A tener le redini del tutto ci sono però, Carlo Dapporto e Carlo Campanini, che assicurano un sano divertimento, da fuoriclasse, dato che siamo in tema calcistico. Dapporto è trascinante nel ruolo del portiere colabrodo imposto in squadra dal centravanti goleador, per un debito infantile, che ironia della sorte parerà il rigore decisivo, nella scena più divertente del film; mentre Campanini è l’arbitro che viene ricattato nell’incresciosa combine. Un film da vedere, grazie ai due assi della risata.

Ed è nei primi anni ’50 che il calcio, raccontato al cinema, raggiunge un livello elevato, come fenomeno di massa e di costume. In Parigi è sempre Parigi (1951) Luciano Emmer, dopo Domenica d’agosto (1950), continua a descrivere i desideri e i sogni della piccola borghesia narrando la trasferta francese di alcuni italiani al seguito della nazionale, tra gli interpreti , Ave Ninchi, Lucia Bosè ed un giovanissimo Marcello Mastroianni. Mario Camerini, in Gli eroi della domenica (1952), utilizza Raf Vallone, ex giocatore del Torino, per portare in scena un giocatore corruttibile in una squadra che ha la possibilità di passare in serie A. In L’inafferrabile 12 (1950) di , Walter Chiari fa la parte di un portiere della Juventus con un gemello che scatenerà la commedia degli equivoci. Nel film di Mattoli compaiono i ‘veri’ giocatori della squadra dando il via a un fenomeno che diventa in breve una caratteristica del film calcistico: la costante apparizione di calciatori o operatori del settore nel ruolo di sé stessi. Citiamo anche il grande Totò, delizioso presidente di calcio di una scalcinata squadra della provincia pugliese, nel film Gambe d’oro (1958).

Ben riuscita appare anche la parodia del cinema di Sergio Leone nella regia accorta di un calcio di rigore contenuta nel divertente film Don Franco e don Ciccio nell’anno della contestazione (1970) di Marino Girolami, con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia deliziosi mattatori della pellicola. E in quello stesso anno Alberto Sordi convince nei panni del Presidente del Borgorosso football club. Nell’omonimo film Sordi è perfetto nel tratteggiare questo carnale e sanguigno presidente, che dapprima disinteressato, piano piano si appassiona al calcio e alla sua squadra, diventandone il più accanito tifoso. Storie del passato, in chiave nostalgica, ambientate nel mondo del calcio e del consumo che gli ruota attorno sono messe in scena in Italia-Germania 4 a 3 (1990) di Andrea Terzini e in Figurine (1997) di Giovanni Robbiano. In Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati, Nino Manfredi ha il ruolo di un cameriere emigrato in Svizzera, il quale, pur essendosi tinti i capelli di biondo per apparire più simile al modello nordico, non si contiene di fronte a un gol della nazionale italiana, denunciando così le proprie origini. Questa scena codifica una situazione tipica del film ad argomento calcistico: l’incapacità di autocontrollo emotivo da parte del tifoso. Il tifoso semplicemente non riesce a contenere umori e rabbie.

Degni di nota, nell’ambito di una comicità grezza, al passo con l’involuzione culturale degli anni ’70 e ’80, sono da evidenziare sia I due maghi del pallone (1970), con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, sia L’allenatore nel pallone (1984), con Lino Banfi. Il suo personaggio di Oronzo Canà,ha avuto talmente tanto successo, da essere rimasto nella memoria collettiva. Struggente e nostalgico è invece Ultimo minuto (1987), film di alta scuola diretto da Pupi Avati e interpretato da Ugo Tognazzi, in una delle sue ultime memorabili interpretazioni. Un film bellissimo sul mondo del calcio, con una storia appassionante, attuale e popolare, certamente la migliore interpretazione dell’ultimo Tognazzi. Ciò nonostante, Tognazzi, non riceve alcuna candidatura in nessun premio nostrano, e inspiegabilmente in un paese di fanatici del pallone il film non avrà grande successo al botteghino, ma rimane il miglior film italiano sul mondo del calcio.

Continuando a parlare di calcio al cinema, certo non si può non ricordare la partita di calcio in Mediterraneo (1991) della “truppa Salvatores” e l’arrivo sull’isoletta greca di Antonio Catania in groppa al suo bimotore alato; o ancora la partita tra scapoli e ammogliati del primo Fantozzi (1976), un gioiello di comicità grottesca e delirante. E come scordare, rimanendo ancorati al personaggio del ragionier Ugo Fantozzi reso immortale da Paolo Villaggio, il programmino irrinunciabile del ragioniere ad una partita della Nazionale in tv? “Infradito, mutande, canotta rigorosamente macchiata, frittatone di cipolle, familiare di birra ghiacciata, tifo indiavolato e rutto libero”. Scrivendo viene in mente anche un’altra sequenza epocale, di un film, che da molti è ritenuto il migliore di Lino Banfi, quel Al bar dello sport (1982), in cui l’attore pugliese fa 13 al Totocalcio, grazie ad un’intuizione di Parola, uno splendido Jerry Calà muto e ad uno storico Juventus-Catania 1- 2. La sequenza in cui Banfi si accorge di aver vinto e pone fine alle sue angherie familiari è da antologia della risata. Per completezza è giusto citare altri film del genere, non particolarmente rilevanti seppur molto popolari: Il tifoso, l’arbitro e il calciatore (1983), con Pippo Franco, Mario Carotenuto e Alvaro Vitali; ancora Alvaro Vitali protagonista nel terribile Paulo Roberto Cotechino, centravanti di sfondamento (1983); per concludere con il superiore Mezzo destro, mezzo sinistro (1985), oggi divenuto un cult, con protagonista la coppia composta da Gigi e Andrea (Gigi Sammarchi e Andrea Roncato), molto popolari negli anni ’80.

Caso a parte quello di Eccezziunale…veramente (1982), film incentrato interamente sul tifo calcistico e sulla macchietta del terrunciello, che ha reso famoso Diego Abatantuono. Il film è infatti uno dei suoi maggiori successi, nonostante non ci sia un’inquadratura decente: ma in questo caso l’attore ha saputo creare icone, modi di dire e tormentoni alla stregua di un grande comico. Quello di questo film è lo spaccato di un’Italietta sottoproletaria e piccolo-borghese, cialtronesca e naìf, dotata di una vitalità incosciente e genuina.

Negli anni 2000 va nominata l’accoppiata oleografica e nostalgica inventata da Fausto Brizzi: Notte prima degli esami (2006), in cui il regista racconta i giovani degli anni ’80, e lo fa ambientando il film proprio durante le epiche notti mondiali dell’82, in cui l’Italia vinse il suo storico terzo mondiale di calcio. E l’anno dopo nel trasferire ai giorni d’oggi l’esame di stato, cosa fa? Ambienta Notte prima degli esami-oggi (2007), proprio nell’estate del 2006, l’anno dell’incredibile quarto mondiale azzurro. Due chiari escamotage, in cui lo sfondo (ovvero le vittorie della Nazionale ai Mondiali), conta più di ciò che avviene in primo piano, e senza questa furba operazione “nostalgia”, sarebbero risultati insignificanti prodotti dello scadente cinema popolare italiano di inizio millennio. Molto meglio allora la bellissima opera di Luca Lucini, dal titolo Amore, bugie e calcetto (2008), con Claudio Bisio, Giuseppe Battiston e Pietro Sermonti. Una brillante commedia calcistica che costruisce un mondo di sentimenti contrastanti risolti in campo. Amore, bugie e calcetto registra e racconta il calcio dilettantistico anche per parlare d’altro. Per parlare di un gruppo di sette amici, ognuno con i propri problemi, lavorativi, sentimentali, ma che si ritrova ogni settimana su un campetto da calcio, classico appuntamento fisso del maschio italico. Il calcetto è un elemento del quotidiano (soprattutto) maschile, che ha il sapore dell’amore e dell’amicizia, dello spirito di aggregazione e di squadra, che riflette su più generazioni ed è contraltare ludico delle vite più o meno risolte e più o meno felici dei personaggi. Mancava un film sul mondo del calcio giocato dalla gente comune e Lucini lo ha realizzato con una “buona visione del gioco”, aiutando le donne a capire perché i loro uomini si divertono così tanto con una palla di cuoio cucita a mano e con una cosa banale e umida come lo spogliatoio. Il risultato tecnico è poi un ottimo affiatamento di squadra tra gli attori, proprio come una squadra di calcio unita, con il capolavoro della macchietta di Giuseppe Battiston, capitano del gruppo e della squadra, grasso e tabagista, che entra in campo solo per battere le punizioni, e non fallisce un colpo.

Insomma, che il calcio nel cinema non abbia mai decollato appieno è un dato di fatto; ma che non ci sia stato un congruo numero di film degni di nota, beh…questo è sbagliato. Di certo quelli nominati, circa una ventina, tra alti e bassi, sono i migliori prodotti italiani, dove direttamente o indirettamente, si parla di calcio, si vive il calcio e spesso ci si interroga più in profondità nei meandri profondi e cupi di questo sport (vedasi Ultimo minuto o Amore, bugie e calcetto). Traguardi del cinema italiano: i film campioni di incasso dal 1946 al 2017 (prima parte '46-59')

Nella maggior parte dei casi è la critica cinematografica a stilare una lista delle migliori pellicole del cinema, siano esse riferite ad un genere, magari divisi per nazionalità, o ad un particolare filone cinematografico ecc ecc. Ma il cinema, è fatto soprattutto, dal pubblico del cinematografo che ha affollato le sale nel corso degli anni, e che ha decretato il successo di attori, registi e di pellicole entrate nell’immaginario popolare. Tutto ciò avvenne anche in Italia, e dai dati ufficiali, vigenti dal 1946 in poi, possiamo desumere le pellicole campioni di incassi, anno per anno, quelle per intenderci che al giorno d’oggi avrebbero vinto il “biglietto d’oro”, per il maggior incasso dell’annata, che come ovvio va dal 1 Gennaio al 31 dicembre, partendo dal primo giorno di uscita nelle sale. In questo elenco di film, fatto dal pubblico, e non dalla critica, specializzata o meno, ci sono titoli famosi, che hanno oltrepassato le epoche, ma anche film curiosi, inusuali, alcune volte comici, alcuni drammatici.

Gli attori più presenti in questa lista, sono un po’ il top del cinema nostrano, segno che il pubblico, non è poi così sprovveduto o leggero, come per anni cotanta critica specializzata ci ha fatto, erroneamente, intendere. Mastroianni, De Sica e addirittura Celentano comandano questa curiosa classifica, seguiti a ruota da Manfredi, Troisi, Gassman, Tognazzi, la coppia Bud Spencer & Terence Hill, Sordi, la Mangano, Totò, Macario, Rascel, Cervi, Benigni, Moschin, Montagnani, Pieraccioni e la lista potrebbe ancora continuare. Detto ciò ricordiamo anche che diversi film incassarono ben più di quel “poco” che sarebbe bastato a rendere l’investimento remunerativo; incassarono, in altre parole, molto, anzi moltissimo in assoluto.

Si pensi a tal proposito alla coppia Franchi & Ingrassia, che nei soli anni ’60, pur non avendo mai avuto nessun film campione di incassi, da soli rappresentarono il 10% degli incassi di Cinecittà del decennio; oppure a Totò, a Rascel, a o a Nino Taranto sempre costantemente ai primi posti come gradimento del pubblico. Ecco quindi, l’elenco dettagliato dei film campioni di incassi nelle sale, dal 1946 al 2017 (N. b. seguiranno aggiornamenti). Non è possibile desumere incassi precisi, prima del 1946, perché fino ad allora in Italia mancava una vera e propria banca dati, un vero e proprio archivio che registrasse i dati pellicola per pellicola.

N. b. in alcuni casi per annata sono segnalati due film, sia per l’esigua distanza di incassi l’uno con l’altro, sia perché poteva capitare che un film non campione di incassi in Italia, con gli introiti del mercato internazionale poteva raggiungere o anche superare gli incassi del film primatista nelle sale nazionali. Si badi bene inoltre, che il valore degli incassi di anno in anno tende a salire, per via dell’inflazione e dell’aumento di valore della Lira, per cui non è possibile una comparazione veloce sugli incassi, se non tramite complessi calcoli matematici.

Quel che interessa in questo saggio, è comunque annotare il film o i film campioni di incassi annata per annata, pietre miliari assolute del nostro cinema. 1946: Aquila nera- di Riccardo Freda. Con Gino Cervi e Rossano Brazzi. Adattamento riuscito del racconto Dubrowskij di Aleksan Puskin. 195 milioni di lire di incasso bastarono per diventare il film più visto di quell’annata.

1947: Come persi la guerra- di Carlo Borghesio. Con Macario e Vera Carmi. Curioso ritratto antiretorico del soldato nazionale, coraggioso suo malgrado, a cui la comicità stralunata di Macario aggiunge un tocco di surreale pacifismo. Quasi 300 milioni di lire incassati in Italia, e se si somma il mercato estero gli incassi raggiungono l’incredibile somma di 808 milioni di lire incassati, risultati per l’epoca strepitosi.

1948: Fifa e arena- di Mario Mattoli. Con Totò e . Grande successo per il secondo film del sodalizio Mattoli-Totò. Numerosi momenti di puro delirio totesco con dialoghi genialmente surreali. Incassi di 391 milioni di lire a fronte di più di 4 milioni e mezzo di presenze in sala.

1949: Catene- di Raffaello Matarazzo. Con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Inaspettato record d’incassi della stagione, con la mostruosa cifra di 735 milioni di lire di incasso, il film lanciò il nome di Matarazzo come quello di autentico maestro del melodramma all’italiana.

Napoli Milionaria- di Eduardo De Filippo. Con Eduardo De Filippo, Leda Gloria, Totò e Titina De Filippo. Tratto dalla omonima commedia teatrale, il capolavoro di Eduardo offre uno specchio che ha il potere di riflettere una realtà alterata dagli individui e dietro la quale si annida il vuoto più profondo. Rinvigorito anche dalla presenza di Totò, affianco all’amico e collega Eduardo, il film sul mercato nazionale incassa 446 milioni di lire ( il secondo incasso dell’annata), però nettamente al primo posto se si considera il mercato internazionale. Tutto ciò grazie al grande successo che la commedia aveva ottenuto al festival di Cannes. L’enorme consenso internazionale contribuì a far conoscere l’opera di Eduardo anche fuori d’Italia.

1950: L’imperatore di Capri- di Luigi Comencini. Con Totò e Mario Castellani. Pellicola di grande successo con Totò esilarante nei panni del dandy, alle prese con rocambolesche avventure sull’isola dell’amore. Oltre 400 milioni di lire di incassi.

1951: Io sono il Capataz- di Giorgio Simonelli. Con Renato Rascel e Luigi Pavese. 450 milioni di lire di incassi e la stella cinematografica di Rascel, da questo momento in poi, splenderà luminosa. Esilaranti le avventure di Rascel tra equivoci e peripezie varie, in un folkloristico sud America.

1952: Don Camillo– di Julien Duvivier. Con Fernandel e Gino Cervi. Successo di pubblico senza precedenti: 1 miliardo e mezzo di incassi, 12 milioni di biglietti venduti nelle sale. Fernandel nei panni di Don Camillo e Gino Cervi in quelli di Peppone entrano nella leggenda. Film e personaggi epocali, con quattro seguiti, nati dalla sagace penna di Giovannino Guareschi.

1953: Pane, amore e fantasia- di Luigi Comencini. Con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida. 2 miliardi di incassi e quasi 14 milioni di biglietti venduti, per uno dei film più famosi e più visti della storia del cinema italiano. Indimenticabile Vittorio De Sica nei panni del maresciallo dei carabinieri; ed anche la Lollobrigida, consacrata da questo film a ruolo di star. Tre seguiti.

1954: Ulisse- di Mario Camerini. Con Kirk Douglas e Silvana Mangano. Dall’Odissea di Omero, il film italiano più costoso del dopoguerra, prodotto da Ponti-De Laurentiis. Kirk Douglas è Ulisse, SIlvana Mangano interpreta invece, sia Penelope che la Maga Circe. Gli incassi sfiorano i 2 miliardi di lire, in Italia è leggermente sotto al contemporaneo “Pane, amore e gelosia”, anche se con il mercato americano, lo stacca nettamente.

Pane, amore e gelosia– di Luigi Comencini. Con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida. Il seguito delle avventure del maresciallo dei carabinieri e della bella “bersagliera”, ancora sostenuto dall’umanissimo umorismo di De Sica e dalla popolare avvenenza della Lollo. Talmente richiesto dal successo di pubblico del precedente film che inizia esattamente dove finiva l’altro. E gli incassi aumentano: 2 miliardi e 300 milioni incassati. Primo incasso della stagione sul mercato nazionale, superato con gli introiti del mercato internazionale dall’Ulisse di Ponti e De Laurentiis.

1955: Pane, amore e…- di Dino Risi. Con Vittorio De Sica, Sophia Loren e Antonio Cifariello. Terzo film della serie, la novità è la sostituzione della Lollobrigida con la Loren, sua mortale nemica nell’immaginario cinematografico nazionale. Sullo sfondo di una Sorrento mozzafiato, De Sica continua ad incantare, prendendo in giro l’irriducibile gallismo nazionale. 1 miliardo e mezzo di incassi, in calo rispetto ai primi due della serie, ma sufficienti per essere incoronato per il terzo anno di fila, campione di incassi del cinema italiano.

1956: Poveri ma belli- di Dino Risi. Con Renato Salvatori, Maurizio Arena, Marisa Allasio, Alessandra Panaro e Lorella De Luca. Un film che ormai fa parte della storia del nostro cinema: dialettale, giovanilmente scanzonato, divertente, che piacque molto al pubblico: un miliardo di incasso al botteghino, due seguiti. Uno dei capostipiti della commedia all’italiana. I cinque attori, poco conosciuti fino ad allora, passarono subito alla notorietà.

1957: Belle ma povere- di Dino Risi. Con Renato Salvatori, Maurizio Arena, Marisa Allasio, Alessandra Panaro e Lorella De Luca. Il successo di Poveri ma belli impone un seguito, che conferma lo spirito scanzonato del primo episodio e soprattutto l’indovinata fusione tra ambiente popolaresco e aspirazioni piccolo-borghesi. Inalterato il quintetto di attori, leggermente in calo gli incassi: 808 milioni di lire, comunque sufficienti per essere il film più visto dell’anno.

Arrivederci Roma– di Roy Rowland e Mario Russo. Con Renato Rascel, Mario Lanza e Marisa Allasio. Ispirato alla omonima canzone rasceliana e realizzata in co-produzione dalla Titanus con l’americana MGM, la pellicola incassa 798 milioni di lire solo in Italia, ad un soffio dalla pellicola Belle ma povere. E’ ovvio che, con gli incassi in territorio americano, il film in questione superi abbondantemente l’opera di Risi. Rimane comunque una grande interpretazione di Rascel, in un vero e proprio inno alla città eterna. Curiosità: in entrambi i film c’è Marisa Allasio, sex symbol italiano del periodo.

1958: I soliti ignoti- di Mario Monicelli. Con Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Tiberio Murgia, Claudia Cardinale, Carlo Pisacane e Totò. La migliore commedia all’italiana di sempre. Un bel ritmo, piccole annotazioni gustose e una serie di personaggi sbozzati alla perfezione e che sono entrati a far parte della nostra memoria collettiva. Quasi un miliardo di lire di incassi e nomination all’Oscar come miglior film straniero. Con due seguiti.

1959: La Grande Guerra- di Mario Monicelli. Con Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Silvana Mangano e Romolo Valli. Confezione di gran classe, numerose figurine memorabili: la prostituta Costantina della Mangano; l’umano tenente Gallina di Romolo Valli. E a tener le redini di tutto, i due protagonisti, Gassman e Sordi, più esuberante il primo, più pacato il secondo. Kolossal sulla prima guerra mondiale, di grande efficacia: uno dei capolavori assoluti del nostro cinema. Leone d’oro al festival di Venezia, 1 miliardo e mezzo di incassi.

Addio a Carlo Vanzina, il “cineasta” della moderna commedia all'italiana

Se il cinema rappresenta, come dice Edgar Morin, ‘lo spirito del tempo’, nel panorama italiano non esiste regista che quello spirito lo abbia rappresentato meglio di Carlo Vanzina.

Già, perché il cinema di Carlo Vanzina, è molto più complesso di quel che si possa pensare. Un cinema che acquista linfa e vitalità dalla quotidianità, dall’attuale, rispecchiando fedelmente la società italiana degli anni ’80 e degli anni ’90. D’altronde Carlo era figlio di Steno, genio della commedia all’italiana degli anni d’oro, quelli dei ’50 e dei ’60, ed è cresciuto imparando da Monicelli e dallo stesso padre: il gotha della commedia all’italiana. Il cinema di Carlo Vanzina, e del fratello Enrico, beninteso, splendido sceneggiatore di tanti film cult, è commedia all’italiana pura, che ha rappresentato la decadenza degli ultimi decenni del XX secolo, quelli delle televisioni commerciali, delle volgarità gratuite e scurrili, quelli della censura ormai inesistente. E analizzata da questo punto di vista, allora il cinema dei fratelli Vanzina, acquista spessore, prestigio e si erge come narratore di un pezzo storico nazionale, intrinsecamente molto più esaustivo di un trattato sociologico. I fratelli Vanzina, sono stati veri scopritori di talenti (Diego Abatantuono, Jerry Calà, Christian De Sica, Massimo Boldi, Maurizio Micheli), così come i loro padri cinematografici (n.d.r. Monicelli, Comencini, Risi, Scola, Steno, Salce) avevano scoperto e portato al successo i vari Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi. Certo, quella generazione era una di quelle d’oro, di quelle irripetibili, di quelle che accadono una volta ogni 1000 anni; però quella scoperta dai Vanzina, se non è d’oro, almeno è d’argento, e nel panorama comico nazionale è comunque tanta roba.

Sotto l’ala protettiva dei Vanzina, ad esempio, arrivò al successo Diego Abatantuono con Eccezzziunale…veramente e Il ras del quartiere, attore dal grande talento poliedrico, futuro protagonista dei capolavori di Salvatores. Ma il primo vero grande successo epocale dei Vanzina, è Sapore di Mare, seguito immediatamente dopo da Vacanze di Natale. Siamo nel 1982, anno epocale anche per altri fatti extra-cinematografici, quando i registi Carlo ed Enrico Vanzina, rispolverarono la morente commedia all’italiana, creandone una nuova, con altri volti e altre storie. Dopo il successo commerciale del loro Sapore di mare, il produttore Aurelio De Laurentiis commissionò un’opera simile per l’anno successivo, ma ambientata stavolta in una località sciistica, da mettere in programmazione nei cinema nel periodo natalizio. I due fratelli pensarono quindi a una rilettura contemporanea di un film del 1959 interpretato da Alberto Sordi e Vittorio De Sica (padre di Christian), Vacanze d’inverno, in cui il regista Camillo Mastrocinque aveva tratteggiato, sullo sfondo di Cortina d’Ampezzo, i costumi italici del tempo. Nacque così nel 1983 il primo Vacanze di Natale girato anch’esso tra la regina delle Dolomiti. Ma la pellicola più rilevante, proprio perché apre la strada a tutto il resto, è proprio Sapore di mare.

I fratelli Vanzina ebbero l’intuizione di rinfrescare una vecchia formula – la commedia balneare anni ’50 – con tocchi goliardici e dialoghi parolacciari al passo con i tempi (Calà, il vero mattatore della pellicola, entra in scena cantando “Per quest’anno, non cambiare, vengo in spiaggia per ciurlare”): e infilano una serie di episodi e di caratterizzazioni semplici, ma destinati a rimanere nelle menti del pubblico, con un’accorta e accurata “operazione nostalgia” delle atmosfere spensierate della commedia anni ’50-60, che contribuirà ad aprire il “filone nostalgico”, elemento tipico del cinema dei Vanzina. Attraverso una specie di ironico “amarcord” di quei mitici anni – dai successi di Cassius Clay sul ring, alla vittoria di Felice Gimondi al Tour de France, alle serate del “bandiera gialla” sulla riviera adriatica, alla moltitudine di canzoni anni ’60 nella colonna sonora – i fratelli Vanzina riescono nell’intento di riunificare una serie di episodi legati agli amori vacanzieri di un gruppo di personaggi fortemente caratterizzati, con una colonna sonora che riecheggia i maggiori successi commerciali del periodo, riscuotendo in questo modo un successo senza precedenti: 10 miliardi di lire di incassi nel 1982. Girato sulle spiagge della Versilia, e più precisamente di Forte dei Marmi, il film contribuì a lanciare le stelle di Jerry Calà e di Christian De Sica verso la grande popolarità, dopo anni di dura gavetta. Il malinconico finale, immortalato dal primo piano di Jerry Calà, sulle note di “Celeste nostalgia” di Riccardo Cocciante, vale il prezzo del biglietto e simboleggia la nostalgia dei bei tempi andati e della propria gioventù. Un classico come potrebbe esserlo “Questo piccolo grande amore” di Claudio Baglioni, un riuscito mix di romanticismo a sfondo balneare, goliardia di stampo giovanilistico e furbissima colonna sonora che rimane tra i migliori film dei fratelli Vanzina.

Da allora sono seguiti altri 55 film in 35 anni di carriera, tra cui alcune perle come Io no spik english”(1995), con il grande Paolo Villaggio; o Il pranzo della domenica(2003), con Giovanna Ralli. Tra gli ultimi Caccia al tesoro(2017) e Non si ruba a casa dei ladri(2016), entrambi con Vincenzo Salemme come mattatore, l’attore più impiegato dai fratelli Vanzina nei loro ultimi lavori sul set.

Ad oggi, anche mentre Carlo era in vita e si affannava nei suoi ultimi dignitosi e divertenti lavori, i suoi film sono oggetto non solo di studio, ma di revisione e rivalutazione, così come accadde a Totò, a Franchi & Ingrassia, a Peppino De Filippo, vittime predestinate di critici sciagurati, di intellettuali di retroguardia e di falsi moralismi. In fondo, e questo è un dato che può far intuire il talento dei Vanzina, i migliori prodotti dei bistrattati “cinepanettoni”, sono proprio quelli diretti da Carlo: S.P.Q.R. 2000 e mezzo anni fa, A spasso nel tempo, con la coppia storica Boldi-De Sica.

Addio ad Anna Maria Ferrero dimenticata, dolce e tenera attrice dell’Italia del Boom economico

Scoprii Anna Maria Ferrero per strada, in via Aurora a Roma, mentre camminava al fianco di una signora. Cercavo la ragazzina per il film e vidi questo scricciolo che aveva una tale intensità negli occhi. Fece un provino meraviglioso, era nata attrice.

(Claudio Gora, regista)

Era il 1949, quando appena quindicenne, ma già bellissima, la giovane Anna Maria Ferrero, venne notata dal regista Claudio Gora e scritturata per una parte nel film Il cielo rosso. Fu l’inizio di una sfolgorante, ma breve carriera artistica, che si districò nell’arco di un quindicennio o poco più, per scelta personale infatti, dopo aver sposato l’attore francese Jean Sorel, Anna Maria Ferrero decise di abbandonare il mondo dello spettacolo. Soltanto brevi altre apparizioni pubbliche, dopo il mediometraggio Cocaina di domenica parentesi del film ad episodi Controsesso, simpatico film interpretato al fianco di Nino Manfredi, la Ferrero decide per il ritiro dalle scene, sulla falsariga di ciò che aveva fatto qualche anno prima, un’altra diva dell’epoca, ovvero Marisa Allasio. Utilizzata in parti più “impegnate” della Allasio, Anna Maria Ferrero si contraddistinse per una bellezza elegante, fuori dal comune e per una classe di interprete raffinata e fuori dagli schemi.

I l f a s c i n o e l e g a n t e d i Anna Maria Ferrero, “stella” del cinema italiano del boom economico. Bella come poche, elegante come poche, affascinò tutti i più grandi cineasti dell’epoca. Fidanzata per molto tempo con Vittorio Gassman, sposò nel 1962 l’attore francese Jean Sorel e nel 1965 si ritirò dalle scene.

Fu “musa” ispiratrice per i più grandi cineasti dell’epoca, da Monicelli a Lizzani, e fu anche abbastanza utilizzata sulle copertine delle maggiori riviste mondane dell’epoca. Si chiamava Anna Maria Guerra, ma utilizzò il cognome d’arte “Ferrero”, in omaggio al suo padrino, il musicista statunitense Willy Ferrero, diventando Anna Maria Ferrero, anche per il fatto che egli stesso sarà l’unico a incoraggiarla ad intraprendere la carriera d’attrice, al contrario dei suoi genitori, specie suo padre, che si dimostreranno in un primo momento contrari alla scelta della figlia. Nel 1952 è impegnata nella lavorazione del suo primo film da protagonista, Le due verità di Antonio Leonviola. Nonostante la giovane età, Anna Maria offre un’ottima interpretazione, e finalmente la critica incomincia ad accorgersi di lei, così come registi e produttori. L’anno successivo si rivelerà il più prolifico della sua carriera, interpreta addirittura otto film, tra cui spicca la sua commovente e realistica interpretazione nel film Le infedeli di Mario Monicelli; o ancora Siamo tutti inquilini, al fianco di attori del calibro di Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo. Nel settembre del 1953 partecipa alla 14ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nella rassegna viene proiettato il film Napoletani a Milano dove Anna Maria recita accanto ad Eduardo de Filippo e, grazie alla sua sempre ottima interpretazione, l’attrice sarà ammirata come una delle più interessanti giovani promesse del cinema italiano dell’epoca. U n ’ i m m a g i n e a c o l o r i d i A n n a M a r i a F e r r e r o , d a t a 1958, all’apice del suo successo.

Anche il 1954 si rivelerà un grande anno per Anna Maria, darà sfoggio della sua bravura nel film Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani, ancora una volta nella parte di una servetta, e soprattutto in Totò e Carolina, dove con la sua passionale recitazione, riesce a stare sullo stesso piano recitativo di Totò stesso. Tuttavia i ruoli che le vengono proposti sono tutti un po’ simili, ricalcano tutti il personaggio della ragazza debole ed ingenua, insicura nelle sue scelte, lasciata a se stessa.

A n n a M a r i a F e r r e r o i n c o p p i a c o n T o t ò, nel discusso “Totò e Carolina”(1953).

Le cronache mondane dell’epoca si interessarono di Anna Maria Ferrero anche per una lunga e spesso burrascosa relazione con Vittorio Gassman, durata dal 1954 al 1960, e interrotta, per il rifiuto di Gassman a sposarsi. Inoltre lo stesso Vittorio, spesso la rimproverava del fatto di doversi dedicare più assiduamente alla carriera cinematografica che a quella teatrale. Proprio nel 1960, l’anno della loro separazione ufficiale, la carriera di Anna Maria Ferrero ottiene un’improvvisa impennata. Accantonato per il momento il teatro, e senza le imposizioni di Gassman, l’attrice accetta di partecipare alle numerose pellicole che le vengono proposte dai produttori. Fra quelli interpretati in questo periodo, va ricordato, quella dell’intraprendente camerierina innamorata di Walter Chiari, imbranato professore in Le sorprese dell’amore(1959); e soprattutto quello della tenace ebrea Giulia ne L’oro di Roma(1961), il capolavoro di Carlo Lizzani, ambientato nella Roma occupata dalle truppe nazi-fasciste nell’ottobre del 1943. A detta della stessa attrice, sarà la sua migliore interpretazione di sempre.

L a l o c a n d i n a o r i g i n a l e d el film “L’oro di Roma”(1961), di Carlo Lizzani, da molti ritenuta l’interpretazione della vita di Anna Maria Ferrero, in un ruolo drammatico di grande intensità emotiva.

Il 1960 segnerà per Anna Maria un incontro che cambierà non poco la sua vita. In aprile ad una festa a casa dell’attore Pierre Brice incontra l’attore francese Jean Sorel, all’epoca pressoché sconosciuto. I due si fidanzeranno e di lì a poco si sposeranno. L’anno successivo Anna Maria protagonista del film L’oro di Roma suggerirà al regista che proprio al suo nuovo compagno venga affidato un ruolo nel film. Anna Maria preferisce recitare insieme all’attore francese, evitando così quelle distanze fatali che avevano contribuito a far fallire la sua precedente relazione con Vittorio Gassman. Non sarà la prima volta che l’attrice aiuterà la carriera del marito con le sue conoscenze.

I due si sposeranno nel 1962, continuando, almeno per un paio di anni, la loro carriera artistica parallelamente, non disdegnano qualche apparizione insieme, come in Un marito in condominio. Nel 1964, dopo Controsesso, recitato al fianco di Nino Manfredi, Anna Maria decide improvvisamente di lasciare tutto. L’attrice romana non spiegherà mai il vero motivo di tale rinuncia, forse perché in 15 anni di carriera cinematografica e 10 di quella teatrale, le occasioni per dimostrare appieno tutto il suo talento sono state molto poche, o forse perché spinta dal desiderio di dedicarsi alla famiglia. A n n a M a r i a F e r r e r o , i n s ieme a Nino Manfredi e Carlo Ponti sul set del film “Cocaina di domenica” episodio del lungometraggio “Controsesso”(1964).

La sua vita proseguirà lontano dai set cinematografici, da tempo trasferitasi a vivere nella periferia di Parigi, tornando raramente in Italia. Non riuscirà a diventare madre, e questo fatto si ripercuoterà negativamente sul suo matrimonio con l’attore francese. Nel decennio successivo le notizie sulla sua vita saranno pochissime, l’attrice concederà solo alcune interviste ai vari quotidiani dell’epoca, mentre le sue apparizioni pubbliche saranno praticamente nulle. Tuttavia Anna Maria dichiarerà di essersi pentita non poco di aver abbandonato la carriera d’attrice, e già dopo pochi anni dal suo ritiro avrebbe volentieri accettato una parte in un film. Un suo ritorno sui set cinematografici era previsto per il 1985, in un piccolo ruolo nel film Maccheroni di Ettore Scola, ma alla fine l’attrice romana ci ripensò e quello fu il suo ultimo contatto con il mondo del cinema. L’ultima apparizione in pubblico di Anna Maria Ferrero avviene nell’aprile del 2008, quando fa parte della giuria del Busto Arsizio Film Festival, accanto al marito Jean Sorel. In quell’occasione è stata proiettata la versione restaurata del film L’oro di Roma. A n n a M a r i a F e r r e r o e il marito Jean Sorel, in una foto dei primi anni ’60.

Di lei comunque, rimangono soprattutto le immagini degli oltre 40 film interpretati, rimane l’immagine di una donna forte, bella, bellissima; rimane l’immagine di una grande e giovane attrice. Anna Maria Ferrero fu la diversa bellezza che piace, non tutta curve tipo Sophia Loren, Marisa Allasio, piuttosto come una “nostrana” Audrey Hepburn in miniatura: elegante, raffinata, minuta, ma bella, dotata di un sorriso ipnotizzante. Nonostante spesso in questo Paese, così superficiale, si rischi di cadere nel dimenticatoio facilmente, Anna Maria Ferrero conserva comunque il suo spazio indelebile nella storia del cinema italiano. Film che sono rimasti nei cuori della gente, forse perché rimangono legate all’epoca più bella della storia italiana: quella del boom economico, quella di Cinecittà soprannominata la “Hollywood sul Tevere”. Tempi d’oro, malinconici, inarrivabili, di cui la Ferrero era una delle stelle indiscusse.

I film del sequestro di Aldo Moro e il “caso” profetico di “Todo Modo”

A Roma, in via Fani, la mattina del 16 marzo 1978 un commando delle brigate rosse assale la scorta dell’onorevole Aldo Moro, uccide cinque uomini e porta via con sé il presidente della Democrazia Cristiana. La prigionia dura 55 giorni, durante i quali le Brigate Rosse comunicano con l’esterno attraverso dei comunicati fatti trovare dai giornali e informano dello svolgimento di un processo popolare che vede come imputato Aldo Moro, che verrà condannato a morte. Viene infatti ucciso il 9 maggio e fatto trovare nel portabagagli di una Renault rossa in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure a pochi passi dall’Altare della Patria. Molti misteri avvolgono la vicenda, ancora oggi a 40 anni di distanza e dopo numerose commissioni d’inchiesta finite con un buco nell’acqua. C’è tutta una letteratura che affronta gli incredibili lati oscuri del sequestro Moro.

Il titolo di un docume ntario è incredibi lmente esplicati vo: “La notte della Repubbli ca”, e rapprese nta quella che è ritenuta un po’ da tutti, la pagina più oscura della Repubblica Italiana, anche più del fantomatico golpe Borghese di inizio anni ‘70. Anche il cinema si è occupato a più riprese del sequestro Moro, a partire già dal 1986 con Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, per arrivare al 2003 con Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli e il bellissimo Buongiorno Notte di Marco Bellocchio.

Al centro del film Il caso Moro, c’è sicuramente la grandiosa interpretazione di Gian Maria Volontè, splendido soprattutto durante i dialoghi con i suoi carcerieri. Si tratta di un’interpretazione davvero meravigliosa che aumenta di molto la qualità di un film schematico e dai tratti documentaristici. Si tratta infatti di una puntuale ricostruzione dei 55 giorni del sequestro, molto utile per conoscere i momenti fondamentali di tutta la vicenda. Non ci sono momenti particolarmente “artistici”, se così si può dire. E’ un film austero di un cinema sociale il cui unico scopo è quello di informare, con punte però di grande qualità. Peraltro lo stesso Volonté aveva interpretat o una figura di politico riconducibil e ad Aldo Moro, già nel 1976, due anni prima del rapimento del politico pugliese, nel discusso, ma non discutibile Todo Modo, profetico oltre ogni misura. Dal cast stellare, e diretto da un Maestro audace come Elio Petri, il film ispirato all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, presenta toni cupi, accentuati dall’ambientazione claustrofobica in albergo-eremo-prigione post- moderno collocato sottoterra, e satirici, nell’intento di fornire una parodia amara e realistica della classe politico-dirigenziale che deteneva il potere in Italia dal dopoguerra: la Democrazia Cristiana. Il film uscì, durante il governo di Aldo Moro, era il periodo in cui si iniziò a parlare di compromesso storico tra DC e PCI). Lo stesso Sciascia, all’uscita del film, ebbe a dichiarare: «Todo modo è un film pasoliniano, nel senso che il processo che Pasolini voleva e non poté intentare alla classe dirigente democristiana oggi è Petri a farlo. Ed è un processo che suona come un’esecuzione… Non esiste una Democrazia Cristiana migliore che si distingua da quella peggiore, un Moro che si distingua in meglio rispetto a un Fanfani. Esiste una sola Democrazia Cristiana con la quale il popolo italiano deve decidersi a fare definitivamente e radicalmente i conti». L a p e l l i c o l a , d a l m arcato sapore espressionista e dall’esplicita vena grottesca, con cui propone la propria visione della DC e della politica italiana in generale, aveva l’obiettivo dichiarato di denunciare la corruzione, il malcostume, l’imperversare di interessi personali nella gestione della res publica italiana, ricorrendo al grottesco come unica arma possibile per denunciare senza incorrere in censure particolari. Il personaggio del Presidente è apertamente calcato sulla figura di Aldo Moro (che, all’uscita del film, era a capo del governo da due anni), pur senza mai nominarlo direttamente; ma la fisicità, il modo di comportarsi ed il ruolo rivestito non lasciano spazio a dubbi in merito. Volontè per quest’interpretazione prese a studiare i comportamenti di Moro, i suoi discorsi, la sua mimica facciale e corporale, l’inflessione della sua voce, la sua vena conciliatrice. Petri ricordò che i primi due giorni delle riprese furono cestinati di comune accordo perché la somiglianza tra i due “era imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco”, considerando che egli non doveva interpretare direttamente Moro, bensì fornirne una maschera, una caricatura, un simulacro. Tra gli altri attori impegnati nel film vi è Marcello Mastroianni, nei panni di Don Gaetano, un prete astuto e calcolatore, molto potente sul piano politico, e anch’egli assetato di potere. Il successivo rapimento e omicidio di Aldo Moro rese di fatto il film politicamente non presentabile, facendolo sparire per molti anni, e lo rese dannatamente profetico. C a l a n o a n n i , a n z i d e c e nni di silenzio “cinematografico” sulla vicenda, finché a riprendere le redini della storia, ci pensa nel 2003 Renzo Martinelli, con il suo Piazza delle cinque lune, girato in perfetto stile spy story. Il film va alla ricerca delle tesi che più di tutte vanno ad infoltire le teorie dietrologiche, ossia tutte le osservazioni e riflessioni che rendono più spessa la linea d’ombra che grava su tutta la vicenda. Il film parte da un’ipotesi fantastica: un misterioso individuo fa pervenire presso un magistrato sulla soglia della pensione (Donald Sutherland) un documento straordinario: si tratta di un filmato in formato super-8 che mostra proprio il momento dell’assalto e del sequestro dell’onorevole Aldo Moro. Parte così l’ultima inchiesta del magistrato che la prende come la missione che serve a dare un senso a tutta la sua carriera. Il film è forse quello di più facile visione proprio per il suo stile “giallo” e per il fatto di basarsi interamente sui misteri del caso Moro. Quel che però lo rende inferiore al precedente di Ferrara, almeno sul piano realistico, è proprio la fantomatica ricostruzione del sequestro. Ragion per cui le conclusioni del film, sono dunque frutto della fantasia dei soggettisti e non verità assolute, anche se, a ragion del vero, nemmeno la storia, quella reale, ha fatto chiarezza in questa incredibile tragedia della nostra prima repubblica. S e m p r e n e l l a s t e s s a annata esce nelle sale Buongiorno notte, di Marco Bellocchio, ben più riuscito del coevo film di Martinelli. Si tratta di una ricostruzione che dà molto spazio alla fantasia e che culmina nel momento liberatorio finale, con proiezioni oniriche culminanti nell’ipotetica liberazione di Moro (un molto efficace Roberto Herlitzka), provando ad immaginare cosa sarebbe successo se lo statista pugliese fosse stato liberato e quali terribili segreti di Stato sarebbero potuti essere scoperchiati come un moderno vaso di Pandora. Questo film si muove su più piani: la ricostruzione dei momenti della prigionia, i documenti originali che vengono mostrati solo negli schermi delle TV, i momenti di incredibile quotidianità della brigatista donna che lavora in una biblioteca e poi a casa nasconde l’onorevole Moro. Così la quotidianità si mescola con l’ideologia e ne incrina le certezze. Un’altra dimensione è dunque quella femminile, mai affrontata nei film precedenti, e del suo rifugiarsi nel sogno. Un grande tocco d’arte è poi l’inserimento di immagini tratte dalla storia del cinema, immagini in bianco e nero che fungono da poetiche interferenze. Una tra tutte: la scena dell’uccisione del soldato americano tratto da Paisà di Roberto Rossellini. Senza reticenze si tratta di un film bellissimo e assolutamente consigliabile. Un film che va oltre il film e getta un’ulteriore ombra di mistero, sul più grande segreto di Stato della nostra Repubblica, e che i vari Cossiga, Andreotti, Berlinguer, Fanfani, co-protagonisti della oscura storia, si sono portati nella tomba.

Bifest 2018: i verdetti

L’edizione del Bifest, appena terminata, ha registrato un’affluenza senza precedenti, e verrà ricordata per essere l’edizione delle Donne e delle tematiche di guerra. Interessante infatti, il premio per il miglior regista, andato al tedesco Robert Schwentke per “Der Hauptmann”, una drammatica storia realmente accaduta verso la fine della seconda guerra mondiale quando Willi Herold, un disertore, per sopravvivere arrivò a fingersi capitano e, grazie a questa falsa identità, commise diversi efferati crimini di guerra. Un racconto molto duro e cruento sulla disumanità dei conflitti, girato in uno splendido bianco e nero, che ha davvero impressionato il pubblico barese, oltre alla giuria, che ha voluto anche premiare Max Hubacher per il suo ambiguo ruolo di Herold.

Il pr em io pe r la mi gli or e int er pr et e è inv ece andato alla splendida Maria Mozhdah, che ha ritirato di persona il riconoscimento, per essersi perfettamente calata nel personaggio della 16enne Nisha, una pachistana cresciuta in Norvegia e poco propensa ad adattarsi ai rigidi costumi tradizionali della sua famiglia, in “Hva Vil Folk Si” di Iram Haq.

I d u e e x m a g i s t r a ti e scrittori pugliesi Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo hanno guidato due giurie del festival. Tutta all’insegna delle donne, le categorie competitive dedicate al cinema italiano. La giuria di “ItaliaFilmFest – Opere prime e seconde”, guidata dal magistrato, scrittore e sceneggiatore Giancarlo De Cataldo, ha dovuto valutare 12 opere molto diverse tra loro in un’annata particolarmente felice per il nostro giovane #Cinema che ha ricevuto molti apprezzamenti in tutti i principali festival.

I l r e g i s t a B e r n a r d o Bertolucci.

Alla fine a spuntarla è stato “Tito e gli alieni” di Paola Randi, che si è portato a casa il “premio Ettore Scola per il miglior regista” e il “premio Gabriele Ferzetti per il miglior attore protagonista”, ritirato da Valerio Mastandrea. Questa originale commedia che – fatto davvero inusuale in Italia – si ispira ai capolavori di Steven Spielberg, sarà in sala il prossimo giugno. Quest’anno il “premio Mariangela Melato per il Cinema per la miglior attrice protagonista” registra un’inevitabile ex aequo per le interpreti di “Figlia mia” di Laura Bispuri, Valeria Golino e Alba Rohrwacher, per la prima volta insieme in due ruoli di madre, opposti e complementari.

Quella del Bifest 2018 è stata un’annata particolarmente curata degna di nota, con l’importante incontro con Bernardo Bertolucci e la proiezione in “prima assoluta” della versione restaurata di “Ultimo tango a Parigi”; senza scordarsi la retrospettiva dedicata completamente al talento del compianto cineasta Marco Ferreri.

Lo scrittore ed ex magistrato Gianrico Carofiglio, presidente della giuria, ha comunicato sul palco dello splendido Teatro Petruzzelli di Bari i nomi dei vincitori. Audrey e Marcello, icone di stile e di eleganza nel mondo

“L’eleganza è la sola bellezza che non sfiorisce mai. Si dice che l’abito non faccia il monaco. Ma a me la moda ha dato spesso la sicurezza di cui avevo bisogno. Personalmente dipendo da Givenchy come le donne americane dipendono dal loro psichiatra”.

(Audrey Hepburn)

Lei è Audrey Hepburn, l’attrice, la diva che più di ogni altra ha segnato un’icona di stile e di eleganza nel mondo. Modello di vita per tutte le donne che facciano del glamour e dell’eleganza uno stile, Audrey impose fin da subito il suo charme fuori dagli schemi, la sua bellezza moderna, e conquistò le riviste di moda; si pensi che le ballerine indossate da lei diventarono più seducenti dei tacchi a spillo. Elegante, semplice e affascinante. Sorrideva sempre ai fotografi che le puntavano contro l’obiettivo. E non la si incontrava mai per strada sciatta e trasandata. Fu proprio il cinema a consegnarle i ruoli della vita e a farla diventare la “diva delle dive” internazionale. Erano precisamente i tempi in cui Hollywood si era trasferita a Cinecittà e in cui Roma e Via Veneto erano diventati il centro del mondo cinematografico e mondano. In questo humus culturale si gira un film “storico”, divenuto grande grazie a tutto questo ecosistema cinematografico che gira intorno a Via Veneto, a Piazza di Spagna e a Cinecittà, ovvero Vacanze romane.

Si a m o ne l 19 52 e qu est a è la pe llic ola ch e re nd e famosa Audrey Hepburn in cui recita con Gregory Peck. Il ruolo, conteso con Elizabeth Taylor, è affidato a lei per “il fascino, l’innocenza e il talento” che mostra di possedere, come disse lo stesso regista William Wyler. Ed è proprio grazie a Vacanze Romane che la Hepburn vince l’Oscar come migliore attrice protagonista. Ancora accanto ad un’altra star del cinema, la vediamo in Sabrina del 1954. Il film, diretto da Billy Wilder, la vede protagonista insieme a Humphrey Bogart.

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Ed è grazie a questo film che si stringe un importantissimo sodalizio per il mondo del cinema e della moda tra Audrey Hepburn e Hubert de Givenchy. Lo stilista esalta al massimo la sua femminilità, rendendola un’icona di stile. Ma Audrey fa di più, fa sognare il mondo qualche anno dopo con il ruolo dell’adorabile folle Holly di Colazione da Tiffany che la fa entrare nell’eternità e la trasforma in un modello d’eleganza universale: il tubino nero indossato nel film, creato da Givenchy, fu messo all’asta da Christie’s nel 2006 (aggiudicato per la cifra record di 700mila euro). I s u o i p u n t i f o r t i , i n f a t t o d i a b b i g l i a m e n t o , s ono rappresentati dall’uso di scarpe basse come le numerosissime paia di ballerine colorate e i mocassini. Questo stile mascolino non nascondeva, bensì esaltava la sua femminilità. Molto importante era anche il foulard, indossato sia per doveri di lavoro (per proteggere i capelli), sia per passione nei confronti di questo accessorio, di cui acquistava diversi modelli durante i suoi viaggi. Insomma Audrey, grazie soprattutto alla sua personalità e anche alla sua innata eleganza ha rappresentato il modello estetico per eccellenza dello stile e dell’eleganza femminile, al pari del “nostro” Marcello Mastroianni, quasi definibile il suo “alter ego” al maschile. Fu considerato, suo malgrado, un sex symbol, non a caso ebbe una breve relazione con la divina Silvana Mangano e una lunga storia con Catherine Deneuve (dalla quale nacque la figlia Chiara), ma sul grande schermo tutti lo ricordano infatuato come un adolescente di fronte ad Anita Ekberg che lo invita a tuffarsi nella Fontana di Trevi e partner di Sophia Loren in tantissime pellicole.

Di proverbiale eleganza, i suoi personaggi restano un punto di riferimento costante nella moda e per i marchi che celebrano la tradizione sartoriale italiana. Indimenticabili l’abito scuro a due bottoni indossato con camicia bianca e cravatta sottile nera (trend tornato in voga da diversi anni) e l’abito bianco del finale de “La dolce vita” indossato con camicia nera. Di mezzo la vestaglia da camera di seta e gli storici occhiali Persol 649 di “Divorzio all’italiana”, l’abito gessato a tre pezzi e i guanti da automobilista di “Matrimonio all’italiana”, l’irrinunciabile cappello (modello Borsalino)che conferisce sempre un’aria distinta durante la bella stagione. Pochi uomini al mondo sono in grado di indossare un frac blu, come quello confezionato dalla storica sartoria Farani di Roma per “Intervista”, perchè in fondo l’eleganza non è mai solo un abito, ma è un modo di fare disinvolto e mai artificioso. Marcello Mastroianni tra donne e trench. Roma e Parigi. Città dove l’attore fa ritorno durante la malattia che lo porta via per sempre, persino dalla Città Eterna, il 19 dicembre del 1996 a 72 anni. Quella voce nasale che ritorna nelle orecchie di chiunque stia leggendo la sua biografia. Quella voce inconfondibile che Marcello Mastroianni ha diffuso nel mondo. Cresciuto tra le colline di Frosinone non sente il richiamo delle colline di Hollywood: ma laggiù lo amano. Quasi quanto oltralpe dove ha come antagonisti di set belli e impossibili come Alain Delon e dove sul piatto di un duello estetico anche l’altezza di Marcello Mastroianni viene passata in rassegna (1,76 centimetri). Ma nonostante tutto e tutti, a Parigi Marcello Mastroianni conquista una Catherine Deneuve che sarà sua croce e delizia, una figlia, Chiara Mastroianni attaccatissima al padre e la foto che fa il giro del mondo del divo Mastroianni in trench e occhialoni neri che tiene per mano la piccola Chiara tra le strade di Parigi. Foto che fa a cazzotti con l’immagine di cattivo cattolico nell’Italia anni ’60 che non vede di buon occhio il suo principale divo di Cinecittà che tradisce in prima pagina la prima moglie, Flora Carabella (da cui ha avuto la primogenita Barbara).

PER APPROFONDIRE:

■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

La tradisce e non divorzierà mai da lei – sposata quando era 26enne – neppure quando conosce Faye Dunaway con la quale gira “Amanti” di Vittorio De Sica in un inglese impeccabile. Impeccabile è anche il suo modo di mordere i collant di Sophia Loren nello spogliarello più famoso del cinema in “Ieri, oggi e domani”. Un ululato, quello di Mastroianni, che cambia il cinema: altro che dialoghi serrati, “basta” un riverbero animale e sinistro quanto basta per scuotere i buoni costumi dell’Italia democristiana (il film è del 1963 e Mastroianni ha un’amante in un’altra città).

Marcello Mastroianni è Federico Fellini: alter ego sullo schermo del più importante regista visionario, provocatorio e maschilista (apparentemente tale) del cinema moderno. Quell’ “8 e 1/2” faraonico con il finale all’alba di una ballata verso la fine di un tramonto artistico (non per Mastroianni) consegnano a Marcello le chiavi dell’eternità. Città eterna che Marcello Mastroianni aveva conosciuto già nel 1960: “Marcello come here” urlato da Anita Ekberg dalla fontana di Trevi de “La dolce vita” (da cui nasce anche il modo di chiamare così la maglia a collo alto). Motto cinematografico che corrisponde alla frase- cliché di “Je suis Catherine Deneuve”. Classici del parlato comune che inchiodano il cinema nelle nostre vite. E ironia della sorte sono proprio Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve a raccontare l’amore moderno sull’asse Parigi-Roma. Mastroianni è ancora sposato ma la relazione con Catherine dura quattro anni. Pochi ma sufficienti per metterli al centro della mondanità (e di un’ironia della stampa benpensante visto che si conoscono sul set del film “La Cagna” commedia di Marco Ferreri con loro sperduti su un’isola deserta). Per visionare attentamente la filmografia di Marcello Mastroianni non basta una vita: 147 film in 58 anni. Carriera infinita costellata da registi incredibili che tra le mani hanno una delle figure più poliedriche del cinema. Difficile da odiare perché così incapace di essere sempre e solo il reporter gossipparo de “La Dolce vita” o il volto di gomma de “Il Bell’Antonio”. Lui no, conduce con mano sicura una giovanissima Monica Vitti ne “La Notte” (in una Milano spettrale), è lui il ladruncolo de “I soliti ignoti” (e quell’Ostia che fa venire le lacrime), è lui che corre tra le masserie del sud Italia in “Casanova ’70”. Ed è lui l’attore italiano più premiato sia all’estero che in Italia.

“Il mestiere dell’attore io lo vivo come un gioco meraviglioso. Recitare è quasi meglio che fare l’amore perché è inebriante assumere sembianze, atteggiamenti e psicologie di qualche altro. E’ quello che fanno i bambini. E’ il gioco più antico. E’ il primo gioco che inventiamo quando facciamo finta di essere tu il poliziotto, io il gangster. Io mi nascondo lì, tu fai così. E uno ci crede”.

(Marcello Mastroianni)

David di Donatello 2018: i verdetti

L’edizione numero 62 degli Oscar italiani, ovvero dei David di Donatello, si è tenuta in una sfarzosa serata di inizio primavera, lo scorso 21 marzo: gli “Oscar tricolore, la grande festa del cinema italiano” come avrà modo più volte di sottolineare il presentatore Carlo Conti. Una festa che premia Ammore e Malavita dei Manetti Bros, come il miglior film dell’anno, in una escalation che lo porterà a vincere altre quattro statuette. Una vittoria, quella del film dei Manetti Bros, meritata per un musical d’azione all’americana, ma girato in salsa napoletana, che davvero lascia il segno. Peraltro, è la prima volta che accade, la pellicola vincitrice del premio come miglior film, non è nella lista dei 20 maggiori incassi dell’annata, a fronte comunque di un incasso dignitoso. Segno tangibile, della qualità della giuria dei David, che non si piega al commerciale, nonché della decisione di premiare la qualità, piuttosto che la quantità. Ammore e Malavita vince comunque altre 4 statuette, tra cui quella alla Miglior attrice non protagonista, di una bella e commossa Claudia Gerini. Più che l’edizione del ritorno in Rai, questa dei 62esimi David di Donatello, rimarrà come l’edizione delle donne. Quella di Paola Cortellesi che spiega come certe parole declinate al femminile acquistano un significato sgradevole; di Jasmine Trinca che vince come miglior attrice per Fortunata, dopo aver meritatamente vinto a Cannes l’anno precedente; di Claudia Gerini che a stento riesce a trattenere l’emozione; di Stefania Sandrelli che corona «un sogno iniziato nel 1961», vincendo il David alla Carriera; di Diane Keaton che ringrazia Woody Allen per aver lanciato la sua carriera senza vergognarsene.

Ma è stata anche l’edizione della “Tenerezza”, la tenerezza di un vecchio, grandissimo attore come Renato Carpentieri, che commosso ottiene non solo il David di Donatello come miglior attore protagonista, ma anche la standing ovation del pubblico e dei colleghi presenti in sala. Alla veneranda età di 76 anni, l’attore napoletano si issa come il più anziano vincitore del premio come “miglior attore protagonista” e dice «la tenerezza è una virtù straordinaria, nella cortesia c’è un pizzico di ipocrisia, la tenerezza è così com’è», parafrasando l’omonimo film di Gianni Amelio. Momento internazionale da brividi con il David alla carriera a Steven Spielberg, che ricorda come Lina Wertmüller sia stata la prima donna mai candidata come miglior regista agli Oscar, a Diane Keaton che canta Three Coins in the Fountain senza musica.

Da segnalare, inoltre, il trionfo del giovane Jonas Carpignano come miglior regista per A ciambra che ringrazia l’Accademia e fa una battuta a Pierfrancesco Favino («prima portavo il caffè e ora sei tu a portarmi qualcosa»); i quattro David a Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli e i due a Gatta Cenerentola, il primo lungometraggio di animazione ad aver ricevuto la candidatura come miglior film. Poco male, il cartone animato prodotto da Rai Cinema si porta a casa il premio per il miglior produttore e i miglior effetti speciali. A sorpresa il premio come miglior film straniero va a Dunkirk di Christopher Nolan, che beffa La La land; infine, premio del miglior film dell’Unione Europea a The square di Ruben Ostlund.

Frammenti segreti di ingerenze politiche nel cinema italiano

I primi due mesi del 2018, si sono vissuti interamente, o quasi, in campagna elettorale. Le elezioni si sa, catalizzano l’attenzione mediatica dei mass-media e diventano un po’ un fenomeno di costume. Oggi c’è Berlusconi, c’è Renzi e c’è Di Maio; una volta c’era la DC e c’era il PC. Oggi c’è la televisione, prima del 1954 invece no. C’era però il Cinema, con la sua proverbiale capacità trascinatrice. Oggi la politica entra dappertutto, come allora, come allora nel Cinema. E dato che parliamo di Cinema, proviamo ora a raccontarvi quattro storie di Cinema segrete, curiose, quattro storie di ingerenze politiche a cavallo tra Italia e Francia. Fissiamo l’inizio del nostro racconto nel 1951 e precisamente nell’estate del 1951, quando nella Bassa Padana arriva la gente del Cinema, da Roma, da Cinecittà, e inizia un folle giro tra le province di Parma, Reggio Emilia e Piacenza, alla ricerca di un borgo particolare. Questa è la genesi della avventure epocali di Don Camillo e del Sindaco comunista Peppone, sul quale produttori e registi, sapevano già che ci sarebbero stati parecchi problemi, e si cercò in maniera preventiva di trovare un accordo con la censura. La pellicola ovviamente trae spunto dalle avventure di Don Camillo e del sindaco Peppone, nati dalla sagace penna di Giovannino Guareschi, reazionario e comunque pesantemente schierato politicamente.

G i n o C e r v i e F e r n a n d e l, ovvero Don Camillo e Peppone, sul set del film omonimo tratto dai racconti di Giovannino Guareschi.

Il primo regista a essere interpellato fu Alessandro Blasetti, che cominciò a pensarci con entusiasmo e poi, visti i problemi di natura politica che ne sarebbero sorti, rifiutò in modo simpatico e cordiale. L’affare passò nelle mani del produttore Peppino Amato, che coinvolse la Cineriz di Angelo Rizzoli, e furono interpellati altri registi. Mario Camerini, che nel 1972 avrebbe diretto “Don Camillo e i giovani d’oggi”, non se la sentì di passare per anticomunista. Vittorio De Sica si vantò su “l’Unità” di aver rifiutato sdegnosamente l’offerta. Luigi Zampa, solo all’idea di mischiarsi a quel bifolco reazionario di Guareschi disse che non ci pensassero nemmeno. Lo scoglio politico pareva insormontabile, quanto meno in Italia. Vista la fermezza di Guareschi e visto che in Italia la fifa faceva 90, Amato tentò all’estero. Il primo a essere interpellato fu Frank Capra, ma il regista americano si sarebbe liberato solo nel 1953, troppo tardi per i progetti del produttore. Finalmente si arrivò a Julièn Duvivier, uno dei cineasti di maggior successo in quel periodo, che accettò e ottenne la possibilità di riscriverne il copione. Affidare dunque ad uno straniero la direzione del film sembrò a tutti la direzione migliore per superare gli ostacoli di natura politica, che rischiarono di far naufragare il film. Si creò, comunque durante il film un grosso polverone politico e il frutto un simile baccano risultò essere la fifa a scoppio semiritardato di Duvivier.

Fin dall’inizio aveva avuto qualche remora nell’associarsi a un reazionario dichiarato come Guareschi. Ma ora proprio voleva prenderne le distanze. Cominciò modificando la sceneggiatura e compiendo una vera e propria opera di depoliticizzazione lasciando spazio al solo umorismo. Eppure, quando il film andò nelle sale nel 1952, gli spettatori capirono ugualmente quello che Guareschi aveva voluto dire. Merito dei suoi personaggi, delle sue atmosfere, del suo sentimento della vita. E merito anche di quella accoppiata fantastica e bizzarra, ma azzeccata fatta da Fernandel e Gino Cervi. Pochi ci avrebbero scommesso al momento di metterli insieme, tanto che della serie ci saranno altre quattro riuscite pellicole negli anni a seguire. Stessa cosa grosso modo, accadde per “Ho scelto l’amore” del 1953, anche se in questo caso ancor di più si può parlare di ingerenze politiche che determinano il risultato della pellicola stessa. Anzi, il film venne messo in piedi appositamente per un interesse politico. Siamo alla vigilia delle elezioni del 1953 e la DC incarica la “Film costellazioni”, società di produzione cattolica dei democristiani Turi Vasile e Diego Fabbri, di realizzare un film di chiara satira anticomunista che screditasse il partito comunista in previsione delle imminenti elezioni nazionali. Il volto del protagonista è quello di Renato Rascel, in quel momento l’attore più acclamato del cinema italiano. La vicenda che ne segue è una bizzarra e incredibile storia di auto-censura della stessa censura. La censura, ovviamente era dunque un organo strettamente correlato con la situazione politica e quindi con il governo, e dunque con la DC, si poteva quindi facilmente ipotizzare che non ci sarebbero stati alcun problema di visto. Niente di più ipotizzabile. Ed infatti il film ottiene (guarda caso) senza problemi il visto pieno e completo il 23/ 02/ 1953, due mesi prima delle elezioni, quel che serviva alla Democrazia Cristiana. R e n a t o R a s c e l n e l f i l m “ I l cappotto”.

Senonché a fine febbraio muore Stalin, e all’ultimo momento viene stoppato e rinviato, per evitare scontri nel paese (l’Italia) dove l’ideologia comunista godeva ancora di un certo numero di sostenitori. La pellicola uscì comunque ad aprile e fece in tempo ad assolvere il compito per cui era stata concepita. E come per “Don Camillo”, la regia del film venne affidato ad uno straniero, Mario Zampi, regista italo-americano, nato a Sora nel 1903, ma che dalla metà degli anni ’30 viveva e lavorava stabilmente nel Regno Unito. Tutto ciò per prudenza, per una sorta di preventiva prudenza che governava su queste cose troppo grosse, troppo eccessive per quello che era il clima culturale, politico ed ideologico dell’Italia degli anni ’50. Addirittura l’intervento censorio venne esteso anche sulle locandine pubblicitarie correlate alle pellicole stesse, le quali non dovevano ovviamente ledere il buon costume e mostrare espliciti riferimenti a sesso, politica, religione o violenza. Tre casi su tutti vorrei qui enunciare. Per la locandina de “La famiglia Passaguai”(1952) di e con Aldo Fabrizi, venne censurata una delle locandine, perché Aldo Fabrizi mostra un disegno di un corpo di donna nudo, su cui aveva inserito il suo viso; e il manifesto del film “Poveri ma belli”, venne modificato, quindi censurato, su indicazione delle istituzioni ecclesiastiche, perchè il fondoschiena di Marisa Allasio era ben in evidenza; anche il manifesto di “Dove sta Zazà”, con Nino Taranto, venne censurato perchè la locandina mostrava chiaramente il disegno di una donna in costume da bagno. V a l t e r C h i a r i e L u c a B a rbareschi sul set di Romance

Ma le ingerenze politiche non si limitano soltanto alla censura di un film o alla sua creazione per scopi meramente politici. Come in molti concorsi, ahimé, la politica è parte integrante, spesso, dei risultati che scaturiscono dai Festival. Due casi spiacevoli su tutti, ci aiuteranno a capire questo concetto. Parliamo ancora di Renato Rascel e di quella che da molti è ritenuta una delle più belle interpretazioni della storia del cinema italiano, ovvero quella del “Cappotto”, di Alberto Lattuada. Il film è talmente tanto applaudito, da mettere d’accordo pubblico e critica (spesso, troppo spesso, in disaccordo) e unanime è l’apprezzamento per l’interpretazione di Rascel, che dal film riceve ampia notorietà e fama internazionale. Il film presentato in concorso alla quinta edizione del Festival di Cannes, riceve sonori e scroscianti applausi sia per la sua confezione che per l’interpretazione dell’attore protagonista; leggenda vuole che i giurati stiano per dare la coppa per la miglior interpretazione proprio a Renato Rascel, il film come detto piace molto, ma Marlon Brando con Viva Zapata gliela porta via. Tale fu il clamore suscitato da quell’incredibile ingerenza politica, neanche troppo malcelata, che sei anni più tardi, Renato è di nuovo a Cannes, sfila di nuovo sul red carpet del Festival francese, e questa volta il suo film in gara, “Policarpo, ufficiale di scrittura” vince il premio come miglior commedia della kermesse. Un risarcimento per l’efferato scippo di sei anni prima? Forse. Probabile. Ma peggio, molto peggio si fece nel 1986, con il grande Walter Chiari, rientrato dopo anni di faticosa risalita, alla ribalta, in seguito a quell’assurda storia di droga, che gli tolse fama e lavoro.

Al film “Romance”, appunto presentato alla 43esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, resta legato un episodio molto spiacevole divenuto poi famosissimo. Proviamo a ricostruire il fattaccio. Era un settembre bollente e Venezia si era fatta bella per accogliere il meglio del cinema mondiale. Alla kermesse era presente anche un piccolo grande film, poetico,elegante, sincero, che aveva riportato una vecchia volpe dello spettacolo come Walter Chiari, ai fasti di un tempo. Il titolo era “Romance” e il regista Massimo Mazzucco. Il film fu applauditissimo dal pubblico e osannato dalla critica, e da outsider, si issò ben presto addirittura, come il film favorito per la vittoria finale del Leone d’oro, o almeno per la Coppa Volpi al miglior attore. Il giorno prima della premiazione ad un Walter Chiari raggiante fu annunciato da un incaricato della giuria che avrebbe vinto il premio per la migliore interpretazione maschile. Lui pazzo di gioia chiamò amici e parenti al Lido, per vedere consegnare, durante la cerimonia finale, il premio ad un altro attore, Carlo Delle Piane, che proprio Walter aveva tenuto a battesimo in teatro fin dagli anni ’50. Così quello che avrebbe potuto essere un giusto riconoscimento per un grande attore giunto al termine della sua carriera si tramutò in una beffa feroce. Una brutta storia che conferma come il grande successo di Walter Chiari sia sempre stato scomodo a qualcuno. Questa fu quindi la storia di un tradimento allucinante, eclatante e orrendo. Nella notte prima della premiazione, secondo una ricostruzione alquanto attendibile, suonano i telefoni della giuria, una misteriosa voce dall’altra parte della cornetta li riunisce tutti, in piena notte e in grande segreto. La motivazione? Togliere il premio già assegnato a Walter Chiari e assegnarlo ad un altro, magari a Carlo Delle Piane, perché no. Lì c’è stata un’ingerenza politica talmente evidente che Grazzini sul Corriere della Sera scrisse: “vittoria artistica di Walter Chiari, vittoria politica di De Mita [allora a capo del Governo] e Pupi Avati”. Fu un grosso sgarbo fatto a Walter, tanto che la protesta dei fotografi che poggiarono le macchine a terra e i fischi della platea, al momento della consegna del premio a Carlo Delle Piane, sono rimasti nella storia. Curiosamente dieci anni dopo lo stesso Pupi Avati, consegnerà a Massimo Boldi il ruolo della vita, facendogli interpretare il personaggio di Walter Chiari e ricostruendo gli attimi concitati della 43esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e di tutto quello che successe in quella tormentata edizione della kermesse italiana. Il film si chiamerà proprio “Festival” e rappresenta la vetta artistica di un Massimo Boldi sorprendente, per la prima e unica volta drammatico. Ed è tantissima roba.

Ci siamo dilungati, ma se il mondo è pieno di ingerenze politiche, volte a rovesciare sovente i verdetti, per opportunità, per comodità o per scomodità, anche il Cinema bisogna ammettere non è scevro da questo cancro. Abbiamo elencato i casi più comuni, più eclatanti, quelli che hanno fatto storia e che, per colpa di ingerenze politiche, ci hanno regalato casi orribili, come quello capitato al povero Walter Chiari, che innanzitutto era una brava persona ed un’artista insuperabile e non avrebbe meritato questo tipo di trattamento.

David di Donatello 2018 - Le nominations Se per la notte degli Oscar ormai è conto alla rovescia, anche gli Oscar italiani, ovvero i David di Donatello, scaldano i motori. Sono stati annunciati infatti il 14 febbraio scorso le candidature per quello che è definito il premio cinematografico nazionale più importante d’Italia e d’Europa. La 63esima edizione dei David di Donatello si terrà negli studi Rai di Cinecittà, essendo stato l’evento riacquistato dalla Rai, dopo due anni di monopolio Sky. La cerimonia di premiazione, in grande stile e in diretta su Rai Uno, il 21 marzo prossimo, vedrà collegati oltre due miliardi di persone da tutto il mondo, per celebrare quello che da sempre è il secondo cinema più importante del mondo e il più importante d’Europa, ovvero il CINEMA ITALIANO.

Quella della “notte dei David” sarà come sempre una festa del cinema, che celebra non solo il presente, ma anche il passato glorioso del nostro cinema e dell’Accademia dei David. A farla da padrone nelle “cinquine” dei candidati ai vari premi è Ammore e malavita. Per la pellicola dei Manetti Bros le candidature sono ben 15 comprese quella a miglior film, miglior regia, miglior attrice non protagonista e miglior attore non protagonista, rispettivamente Claudia Gerini e Carlo Buccirosso. Grandi consensi anche per Ferzan Ozpetek ed il suo Napoli velata con 11 nomination. Completano il podio a quota 8 La tenerezza di Gianni Amelio e The Place di Paolo Genovese. Da notare anche come nella 4 categorie attoriali, invece sia Come un gatto in tangenziale di Riccardo Milani a collezionare ben 3 nominations su 4 massime (Antonio Albanese come “miglior attore protagonista”, Paola Cortellesi come “miglior attrice protagonista”, Sonia Bergamasco come “miglior attrice non protagonista”). Per il premio più ambito, quello di miglior film, concorrono: A Ciambra di Jonas Carpignano, Ammore e malavita dei Manetti Bros, il film d’animazione Gatta Cenerentola di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone, La tenerezza di Gianni Amelio e Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli. Similare a quella di miglior film, la categoria dedicata al miglior regista: Jonas Carpignano (A Ciambra), Manetti Bros (Ammore e malavita), Gianni Amelio (La tenerezza), Ferzan Ozpetek (Napoli Velata), Paolo Genovese (The Place). P a o l a C o r t e l l e s i e Antonio Albanese candidati nelle categorie per miglior attore e attrice protagonista per Come un gatto in tangenziale.

Grandi nomi del cinema italiano anche nelle nomination a migliore attore ed attrice protagonista. Nella prima categoria le nomination sono: Antonio Albanese per Come un gatto in tangenziale, Nicola Nocella per Easy – Un viaggio facile facile, Renato Carpentieri per La tenerezza, Alessandro Borghi per Napoli Velata, Valerio Mastrandrea per The Place. Nella seconda invece: Paola Cortellesi per Come un gatto in tangenziale, Jasmine Trinca per Fortunata, Valeria Golino per Il colore nascosto delle cose, Giovanna Mezzogiorno per Napoli Velata, Isabella Ragonese per Sole cuore amore.

Rimanendo sulle categorie attoriali, di livello assoluto anche le cinquine dei migliori attori e attrici non protagonisti. Per la categoria maschile nominations per Alessandro Borghi (Fortunata), Elio Germano (La tenerezza), Peppe Barra (Napoli velata), Giuliano Montaldo (Tutto quello che vuoi) e il già nominato Carlo Buccirosso (Ammore e malavita). La categoria femminile è popolata dalle nominations di Claudia Gerini per Ammore e malavita; Sonia Bergamasco per Come un gatto in tangenziale; Micaela Ramazzotti per La tenerezza; Anna Bonaiuto per Napoli velata; Giulia Lazzarini per The place.

Già assegnato oggi invece il premio al miglior cortometraggio. La giuria ha scelto Bismillah di Alessandro Grande, in una cinquina che conteneva anche Mezzanotte zero zero, del tarantino Nicola Conversa, meglio conosciuto come membro dei Nirkiop. D o n a t o C a r r i s i sul set del film “La ragazza nella nebbia”.

Nella categoria Miglior regista esordiente emerge la candidatura di Donato Carrisi e il suo La ragazza nella nebbia, grosso successo al botteghino della seconda parte dell’anno 2017. Al suo fianco Cosimo Gomez per Brutti e cattivi; Roberto De Paolis con Cuori puri; Andrea Magnani con Easy- un viaggio facile facile; Andrea De Sica con I figli della notte.

Per quanto riguarda le categorie dedicate al cinema internazionale, l’equivalente italiano all’Oscar come miglior film straniero, la cinquina di assoluto livello si compone delle seguenti pellicole: Dunkirk di Christopher Nolan ; L’insulto di Ziad Doueiri; La La Land di Damien Chazelle; Loveless di Andrey Zviagyntsev; Manchester by the sea di Kenneth Lonergan. Importante anche il premio come miglior film dell’Unione Europea che vede in gara, tra gli altri, film come 12 battiti al minuto di Robin Campillo e The square di Roben Ostlund.

Top secret sui premi speciali assegnati ogni anno per particolari interpretazioni degne di nota, o quelli alla carriera sui cui nomi c’è il massimo riserbo. La cerimonia di premiazione sarà presentata da Carlo Conti, volto notissimo della Prima Rete Nazionale.

Appuntamento al 21 marzo allora, per quelli che sono e resteranno sempre gli “Oscar italiani”, ovvero i “David di Donatello”, l’eccellenza del nostro cinema.

Cinema, internet e social network

Da sempre il Cinema ha subito continue influenze derivanti dai molteplici cambiamenti della società, che si sono sviluppati nell’arco dei suoi 120 anni di vita. L’arte cinematografica appare dunque come un’arte alla continua ricerca di nuovi stimoli e territori da esplorare. Il cinema mondiale infatti, già da qualche anno ha rivolto spesso la propria attenzione a quello che, da un punto di vista sociologico, è di gran lunga il fenomeno di maggior rilievo da almeno un decennio a questa parte: la diffusione dei social network e il ruolo preponderante che la comunicazione via internet ha assunto nella nostra esistenza. Internet, del resto, costituisce uno degli aspetti fondamentali della nostra vita quotidiana: per molti di noi a livello professionale, per quasi tutti noi pure nelle relazioni sociali, che volenti o nolenti oggi passano in gran parte (in alcuni casi, soprattutto) attraverso la rete. E il cinema, ovviamente, non poteva non essere contagiato da un elemento tanto importante, se non addirittura emblematico della nostra epoca.

La curiosità del cinema nei confronti della realtà virtuale di internet (e dell’area social nello specifico) ha abbracciato generi diversi, dal dramma alla commedia, passando anche per l’horror. Nel 2010 ad esempio, nel pieno dell’esplosione della popolarità di Facebook, il regista giapponese Hideo Nakata, ha realizzato un thriller dall’ambientazione assai atipica: I segreti della mente. Il film si svolge quasi del tutto all’interno delle chatroom. Aaron Taylor-Johnson interpreta il ruolo di William Collins, adolescente di Chelsea, disadattato e con tendenze autolesioniste, che decide di sfogare la propria depressione nel dialogo virtuale con quattro suoi coetanei sconosciuti; ma il tentativo di condividere i rispettivi problemi sfocerà in un meccanismo di sudditanza psicologica gravido di rischi.

Parlando di cinema, internet e social media, un’altra tematica verso cui diversi film hanno puntato lo sguardo è la voglia di essere notati e di apparire esattamente il contrario di quello che siamo nella vita reale: quella bizzarra commistione fra la volontà e l’esigenza di aprirsi a un ‘auditorio’ quanto più vasto possibile e le barriere di una solitudine che, talvolta, la rete non fa altro che accentuare. Questo è uno degli aspetti rintracciabili, nel capolavoro dedicato al fenomeno della socialità in rete: The Social Network, il film del 2010 di David Fincher sceneggiato da Aaron Sorkin e ricompensato con tre premi Oscar. Se The Social Network costituisce una sapiente ricostruzione della nascita di Facebook e un intrigante ritratto del suo creatore, il giovane e ambizioso Mark Zukerberg (Jesse Eisenberg), il valore della pellicola va al di là della cronaca di una svolta epocale per il nostro stile di vita: perché all’interno del film si può cogliere pure una riflessione amarissima sui social media come compulsiva forma di reazione ad un senso di isolamento, di alienazione e di rifiuto contro il quale, però, non basterebbero neppure cinquemila “amici”, giusto per parafrasare il limite di amicizie per ogni profilo su facebook.

Dall’ambito della socialità sul web ci spostiamo ora verso fenomeni pur sempre collegati ad internet come “villaggio globale”, in cui la riservatezza- e la segretezza – sono beni preziosi nonché oggetti di violazioni e diffusioni indesiderate. E il cinema dell’ultimo lustro ha affrontato questo peculiare aspetto nelle maniere più differenti, dalla docu-fiction alla comicità, dai pubblici scandali sulla politica mondiale ai piccoli scandali di singoli individui. A tal proposito molto riuscita appare la commedia Sex Tape – Finiti in rete (2014), per la regia di Jake Kasdan, che getta uno sguardo sulla moda dei filmini erotici “fatti in casa”, con Cameron Diaz e Jason Segel nei panni di una coppia che, per errore, diffonde sul web un video osé che sarebbe dovuto restare privato.

Interessante anche Friend Request (2016), che parte da interrogativi che tutti coloro che frequentano i social network si sono posti (o dovrebbero porsi) più e più volte: qual è il “codice di comportamento” più corretto laddove le nostre interazioni con l’altro sono filtrate interamente attraverso internet? E in quale misura una richiesta d’amicizia approvata o respinta può influire sulla nostra privacy e sul modo in cui scegliamo di ‘proporci’ al mondo esterno?

Concludiamo il saggio con un film tutto italiano, ovvero il nostrano Perfetti sconosciuti (2016) che getta uno sguardo terribile e aberrante sui piccoli, grandi, meschini segreti che ognuno di noi nasconde tra smartphone, facebook e watshapp. Il concetto del film di Paolo Genovese si riassume tutto in questa frase: “Quante coppie si sfascerebbero se uno dei due guardasse nel cellulare dell’altro?” È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo di amici di lunga data che si incontrano per una cena destinata a trasformarsi in un gioco al massacro. E la parola gioco è forse la più importante di tutte, perché è proprio l’utilizzo “ludico” dei nuovi “facilitatori di comunicazione” – chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social – a svelarne la natura più pericolosa: la superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella scatola nera che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi moderni e pensando di non andare incontro a conseguenze, o peggio ancora, flirtando con quelle conseguenze per rendere tutto più eccitante. I “perfetti sconosciuti” di Genovese in realtà si conoscono da una vita, si reggono il gioco a vicenda e fanno fin da piccoli il gioco della verità, ben sapendo che di divertente in certi esperimenti c’è ben poco. E si ostinano a non capire che è la protezione dell’altro, anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.

Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l’allargarsi dei cerchi nell’acqua di questi “giochi” finisca per rivelare la “frangibilità” di tutti: e la scelta stessa di questo vocabolo al limite del neologismo, assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi) tutti. Il copione lavora bene sugli incastri e sugli snodi narrativi che rimangono fondamentalmente credibili, instilla verità nei dialoghi (che certamente verranno riecheggiati sui social e nelle conversazioni da salotto, perché questo fanno certe “conversazioni”: l’eco), descrive tipi umani riconoscibili. Il cast, anch’esso corale, fa onore al testo, e ognuno aggiunge al proprio ruolo una parte di sé, un proprio timore reale.

Perché questa società così liquida da tracimare di continuo, sommergendo ogni nostra certezza, fa paura a tutti, e tutti ne portiamo già le cicatrici, abbiamo già assunto la posizione del pugile che incassa e cerca di restare in piedi (o sopravvivere, come canta il motivo di apertura sopra i titoli di testa). Il tono è adeguato alla narrazione: non farsesco, non romanticamente nostalgico, non cinico, ma comico al punto giusto, con sfumature sarcastiche e iniezioni di dolore. Questa “cena delle beffe” attinge a molto cinema francese e americano, ma la declinazione dei rapporti fra i commensali è italiana, con continui riferimenti a un presente in cui il lavoro è precario, i legami fragili e i sogni impossibili. La scrittura è crudele, precisa, disincantata, e ha il coraggio di lasciare appese alcune linee narrative, senza la compulsione televisiva a chiudere ogni scena. C’è anche una coda alla Sliding Doors che mostra come il “gioco” (prima che diventi al massacro) sia gestibile solo con l’ipocrisia e l’accettazione di certe regole non scritte: ed è questa la strada che più spesso scelgono gli esseri “frangibili”. Come un gatto in tangenziale - Il film

Cortellesi e Albanese: la “nuova” coppia del cinema italiano. Tra i tanti film usciti nell’annata 2017, esso verrà ricordato anche per il sodalizio artistico nato tra Antonio Albanese e Paola Cortellesi, due fuoriclasse dell’attuale commedia all’italiana. Curiosamente diretti dal marito di lei, Riccardo Milani, nel 2017 sono stati nelle sale con due commedie amare, riuscite e di grande successo: “Mamma o Papà?” e “Come un gatto in tangenziale”. I due film confermano la propensione tipica di Albanese di farsi portavoce dei problemi sociali dei tempi attuali e quella di Paola Cortellesi, una vera forza della natura, strepitosa quando deve disegnare ruoli di donna autentici. Insieme la Cortellesi e Albanese hanno creato un coppia ben affiatata, che potrebbe anche trionfare ai prossimi Nastri, nella categoria dedicata alle coppie (Nastro d’argento intitolato a Nino Manfredi), anche soprattutto considerato il successo unanime di pubblico e critica che hanno avuto nel corso delle loro due interpretazioni insieme. Sembra essere nata una nuova coppia del cinema italiano, una coppia “alta” in grado di sorprenderci. Il loro primo film è uscito nelle sale il 14 febbraio del 2017, “Mamma o Papà?” che è una divertente commedia grottesca dove genitori e figli si invertono i ruoli ed i primi diventano il peggior incubo dei secondi. Politicamente scorretto, diseducativo ed eccessivo, il film fa ridere, con un retrogusto amaro tipico dello stile di entrambi gli attori, che qui per la prima volta in coppia funzionano a meraviglia. E quando il risultato ottenuto supera le più rosee previsioni, si dice “squadra che vince non si cambia”. Fin da subito, dalla primavera 2017 Riccardo Milani e la moglie Paola Cortellesi, hanno iniziato a lavorare su un secondo film con Antonio Albanese. Questa volta il tema è più ambizioso e il risultato ancora più riuscito, forse per un maggiore affiatamento, forse per una maggiore consapevolezza dei propri mezzi. “Con questo film siamo partiti da un livello di conoscenza diversa – conferma lo stesso Albanese – con Paola abbiamo trova un’intesa di sguardi e gestualità che si traducono in comicità. Mi spaventa che gli italiani stiano perdendo la loro storica ironia, forse l’umorismo non può trovare sempre soluzioni ma può dare una mano a sostenere il tema”.

“Come un gatto in tangenziale” è una commedia amara, al di là dei molti momenti comici anche piuttosto riusciti, e racconta l’incontro-scontro tra l’intellettuale snob Giovanni e l’ex cassiera Monica. I loro figli s’innamorano, Romeo e Giulietta 2.0 divisi dal Raccordo anulare – lui in borgata, lei in una bellissima casa del centro storico – e dallo stile di vita dei genitori. La storia dei due ragazzini sarà destinata a naufragare vittime delle differenze sociali tra i due, mentre quella dei due genitori decollerà a fine film, unita dalla voglia di lei di staccarsi dall’arretramento culturale e sociale della borgata di Roma in cui vive; e dalla consapevolezza di lui, che in fondo bisogna conoscere le realtà popolari e le persone oneste che ci vivono, per capire che i sentimenti e la dignità sono appannaggio di tutte le classi sociali, senza distinzioni. Il quartiere “a rischio” prescelto è quello di Bastogi, a Roma, un luogo studiato a fondo dal regista, prima di procedere alla stesura della sceneggiatura: “Abbiamo fatto dei sopralluoghi, abbiamo incontrato persone, fatto molte interviste, volevamo essere il più accurati e credibili possibile – dice il regista– Durante questo periodo si sono creati dei rapporti, abbiamo ascoltato storie incredibili anche divertenti, nella loro dimensione tragica, raccontate con la flemma e il dialetto di certi romani”. Insomma, dentro ad un film dove si ride e si sorride perché la situazione è paradossale, perché l’argomento toccato è attuale, perché Paola Cortellesi e Antonio Albanese sono attori comici capaci; c’è un altro film che incalza, un altro film più coraggioso, meno scontato, più aderente alla realtà. Un film necessario come necessario è il tema, e come necessario è raccontarlo con la sagacia del nostro stile di fare commedia, confermando ancora una volta la rinascita della “commedia all’italiana” come specchio della nostra società, dei quali Paola Cortellesi e Antonio Albanese ne rappresentano la parte più “alta”, pur non rinnegando la comicità pura, dalla quale entrambi derivano e con la quale entrambi gli attori hanno costruito la loro intensa carriera cinematografica. Forse nel 2018 per una terza volta in coppia? Chissà, ci speriamo un pò tutti, anche il pubblico, che ha dimostrato di apprezzare entrambi i film affollando le sale cinematografiche.

Il meglio del cinema italiano nel 2017

Il 2017 per il cinema italiano è stato un anno fruttuoso, importante, che conferma la propensione italiana a fare del Cinema un’arte. Con quasi 500 lavori ufficialmente registrati presso l’ANICA, il nostro cinema si conferma come quantità di prodotti, il primo d’Europa e il secondo del mondo, in ossequio alla sua gloriosa storia. E anche come qualità questo è stato un buon anno, ci confermano questa sensazione i resoconti del festival di Venezia e dei film italiani presentati a Cannes. La figura femminile italiana che spicca in quest’annata è quella di Jasmine Trinca, trionfatrice a Cannes per la splendida e sofferta interpretazione del film di Sergio Castellitto, Fortunata. La giovane Jasmine Trinca si issa così tra le attrici più promettenti del panorama cinematografico nazionale. Proprio dal festival francese provengono quelli che probabilmente sono i tre migliori film italiani dell’annata: Cuori puri, A ciambra, L’intrusa. Tre film di autori diversissimi tra loro, ma che si pongono di fronte alle cose e alle persone, e ai loro rapporti con il contesto italiano, per provare a raccontarlo e a volte a interpretarlo.

A ciambra di Jonas Carpignano è un film più di constatazione che di interpretazione. Racconta gli “anni di apprendistato” di un adolescente rom, Pio, in un paese calabrese, un ragazzo che per diventare adulto deve accettare le regole degli adulti che ha intorno: quelle della sua comunità rom (rom e non sinti), marginale da tutti i punti di vista, anche per la legge; quelle della comunità degli immigrati africani, che oggi sono marginali per definizione, ma si spera che le cose possano cambiare; e infine quelle della ‘ndrangheta. Roberto De Paolis in Cuori puri mostra una periferia romana dove le scelte sono ancora possibili, dove la prepotenza della società può essere combattuta dall’amore tra i due protagonisti e, sullo sfondo, dal gruppo a cui la ragazza appartiene. Mentre in L’intrusa, di Leonardo Di Costanzo, ci troviamo tra i cosiddetti “operatori sociali”, dentro un’esperienza educativa nella periferia napoletana dove si impone il confronto tra i “buoni” che si occupano del prossimo, tra cui i bambini – puri o recuperabili di per sé –, ma anche certi adulti che partecipano di una cultura e di una pratica camorriste. Direttamente da Venezia ereditiamo invece Il colore nascosto delle cose, di Silvio Soldini, con Adriano Giannini ed una strepitosa Valeria Golino, che non ha vinto per la terza volta a Venezia solo perché il film era presente alla kermesse fuori concorso. L’attrice rende in maniera impeccabile la complessità di una diversa condizione esistenziale ed interpreta una donna forte, in gamba, tenace che però deve fare i conti con la propria cecità. Fa da contraltare il personaggio interpretato da Adriano Giannini, un creativo che lavora presso un’importante agenzia di pubblicità e che quindi della vista ne fa praticamente il suo lavoro. Lui ci vede, fa un lavoro in cui l’elemento visivo o la sua evocazione sono fondamentali, ma la sua vita sembra avere bisogno di una messa a fuoco sia nel confronti di un passato familiare complesso sia nell’ambito delle relazioni uomo/donna. Il personaggio interpretato dalla Golino, che non è nata priva della vista, non ha dimenticato i volti e i colori che ha conosciuto nel passato così come non nega la propria disabilità ma non la affoga nel auto compatimento ed è in grado di affrontare un rapporto con la maturità che ciò che ha vissuto le ha consentito di sviluppare. I due finiranno per trovarsi, per innamorarsi l’uno dell’altro, rendendo al meglio la sensibilità del regista nei confronti del tema.

Nella seconda parte dell’anno, quella commercialmente più rilevante val la pena nominare una serie di film, che si caratterizzano per la capacità tutta italiana di creare pellicole dalla struttura corale ben orchestrata. Così risultano particolarmente riusciti The place, di Paolo Genovese, con Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Rocco Papaleo; Caccia al tesoro, con Vincenzo Salemme; la saga di Smetto quando voglio, di Sydney Sibilla che sfocia negli ultimi due strepitosi capitoli della serie, Masterclass e Ad Honorem; La casa di famiglia, con Lino Guanciale e Stefano Fresi; Il premio, con Gigi Proietti, Alessandro Gassman e Rocco Papaleo; Come un gatto in tangenziale con Paola Cortellesi e Antonio Albanese; Chi m’ha visto? con la strana coppia composta da Beppe Fiorello e Pierfrancesco Favino, tanto bizzarra da funzionare. Un film niente affatto banale che analizza con tono ironico, i turbamenti provenienti dall’attenzione mediatica e degli effetti collaterali ad esso collegati, come il fatto che la notorietà conta più del talento, in questa società anestetizzata da programmi televisivi in cerca di un facile scoop.

A concludere l’anno cinematografico all’italiana va citata la classica sfida di Natale, orfana di Leonardo Pieraccioni, che sarà nei cinema il prossimo anno, tutta incentrata sulla sfida tra i due ex compagni cinematografici De Sica e Boldi. Il primo in sala con il sequel di Poveri ma ricchi dal titolo Poveri ma ricchissimi; il secondo con lo squallido Natale da chef. Sfida stra-vinta dal sempre bravo Christian De Sica, che nel periodo natalizio è come sempre campione di incassi, come da trent’anni a questa parte. Infine chiudo l’articolo con quello che vuol’essere un omaggio a due stelle di prima grandezza del cinema italiano, che quest’anno ci hanno lasciato, ovvero Paolo Villaggio e Gastone Moschin. Due Maestri del cinema a cui il nostro Paese deve tantissimo e che ci mancheranno senza dubbio. Natale 2017: cosa ci aspetta al cinema

Arriva il Natale e come ogni anno l’offerta cinematografica si fa variegata e aperta a tutti i gusti. Mai come quest’anno però, si assiste ad un cambiamento marcato, in cui ai classici cinepanettoni si aggiungono film d’autore, film amari, in un contesto mai verificato, perlomeno dall’avvento del nuovo millennio.

Il primo dato che balza all’occhio è l’assenza dopo 21 anni, del Cinepanettone “apocrifo” della “Medusa” (la quale quest’anno vira sul classico Boldi), che era solita, ormai dal lontano 1996 alternare Aldo, Giovanni & Giacomo negli anni pari e Leonardo Pieraccioni negli anni dispari. E’ proprio l’assenza di quest’ultimo che colpisce, mentre perlomeno il trio comico, a quanto pare però ai ferri corti già da qualche mese, l’anno scorso il loro lo avevano fatto discretamente (Fuga da Reuma-Park).

Quest’anno si rinnova la solita sfida De Sica-Boldi, tra un fake e una notizia reale di riavvicinamento tra i due, ex coppia comica storica del cinema italiano. I due attori si ritroveranno uno contro l’altro e paradossalmente anche contro se stessi, dal 14 dicembre, nella tripletta Poveri ma ricchissimi (Warner Bros.) con De Sica, Natale da chef di Neri Parenti con Boldi (Medusa), e in duetto vintage nel best of dei cinepanettoni di Filmauro, Super vacanze di Natale, film di montaggio curato da Paolo Ruffini.

Quest’ultimo film ha creato non poche polemiche, primo fra tutti perché è un film di montaggio dal costo ovviamente zero, secondo ha ricevuto critiche sonore da parte dei suoi protagonisti storici: De Sica ha dichiarato che De Laurentiis non lo ha neanche messo al corrente preventivamente; Boldi ha intentato una causa giudiziaria per diritti d’immagine, persa però sonoramente in quanto il materiale è di proprietà della Filmauro e quindi nella piena disponibilità della Casa di produzione.

In Super vacanze di Natale dei fili conduttori tematici cuciranno insieme scene da 33 film girati in 35 anni.

Fra gli interpreti, con Boldi e De Sica, si ritroveranno, fra gli altri, Alberto Sordi, Stefania Sandrelli, Massimo Ghini, Sabrina Ferilli, Diego Abatantuono, Michelle Hunziker. ”Dopo 35 anni di successi ci è sembrato bello regalare al pubblico un film unico, che racconti diverse decadi di comicità ma anche di bellezza e cambiamenti nella società” aveva spiegato Luigi De Laurentiis a margine della presentazione del prodotto.

Tuttavia sull’operazione non sono mancate le frecciate: ”Quest’anno vanno di moda i film di Natale riciclati, il nostro invece è inedito” aveva ironizzato Brizzi (regista di Poveri ma ricchissimi) che ora, travolto dallo scandalo molestie sessuali non parteciperà alla promozione del film ed è stato anche cacciato dalla Warner che non produrrà più suoi film. Di questo film però la produzione ha confermato la data d’uscita proprio perché “è il risultato della creatività, del lavoro e della dedizione di centinaia di donne e di uomini di cast e produzione”. Poveri ma ricchissimi è il seguito di Poveri ma ricchi (remake del successo francese Les Tuche) che pur in un panorama di segno negativo al botteghino, è stato il maggior incasso italiano dello scorso Natale. Con De Sica, ritroviamo Enrico Brignano, Anna Mazzamauro, Lucia Ocone, Lodovica Comello e nuovi innesti come Paolo Rossi e Massimo Ciavarro.

Stavolta La famiglia Tucci, diventata nel primo film straricca grazie alla lotteria, ”si dà alla politica e organizza nel proprio paese, Torresecca, un referendum per una Brexit ciociara” aveva spiegato il regista. Se perlomeno la saga dei Tucci è divertente e comunque solidamente poggiata su un cast istrionico di livello (De Sica-Brignano-Ocone), quello di Natale da chef è il solito cinepanettone scaduto con Massimo Boldi, Enzo Salvi e Biagio Izzo, che ormai davvero ha segnato il tempo: soliti equivoci a sfondo sessuale, solita comicità riscaldata, solita comicità slapstick di basso livello.

Davvero ci si sorprende come un film del genere possa attirare la benché minima attenzione del pubblico del cinematografo. Meglio, decisamente molto meglio, invece la commedia amara, un po’ road-movie, un po’ walzer dei sentimenti di Alessandro Gassmann, dal titolo Il premio, già uscito nelle sale il 6 dicembre scorso. Protagonista uno scrittore famoso, interpretato da uno straordinario Gigi Proietti (davvero il film merita soprattutto per la performance da urlo dell’attore romano) che parte da Roma, accompagnato dai due figli (Gassmann e Anna Foglietta) e dal suo fidato segretario (Rocco Papaleo) per andare a ricevere il Nobel a Copenhagen. ”E’ una storia che mi riguarda venendo anch’io da una famiglia un po’ speciale ma certe dinamiche sono le stesse per tutti” ha spiegato l’attore-regista, che infatti analizza il rapporto ingombrante che un figlio può avere nel corso della sua vita con un padre famoso e celebrato. In questo, nella figura di Gigi Proietti vi si può riconoscere quella di Vittorio Gassman; mentre la presenza di Papaleo sembra quasi una restituzione del favore all’amico, anch’egli attore-regista per averlo chiamato sempre o quasi per i suoi lavori. Oltretutto, Gassman e Papaleo al loro quinto film insieme, stanno ormai per entrare nell’Olimpo delle coppie del cinema italiano.

L’offerta per il periodo natalizio si chiude con un film d’autore e una bella commedia dei sentimenti. Alessandro Borghi e Giovanna Mezzogiorno sono protagonisti in Napoli velata di Ferzan Ozpetek (28 dicembre): ”Racconto – ha detto il regista – i segreti di una città che conosce oro e polvere, una città pagana e sacra allo stesso tempo. E dentro alla cornice del thriller esplode una potente storia d’amore”. Invece Antonio Albanese e Paola Cortellesi, tornano di nuovo come coppia cinematografica nelle sale con Come un gatto in tangenziale, dopo il successo di Mamma o papà del febbraio scorso, ancora diretti da Riccardo Milani, che per la cronaca è il marito della Cortellesi. Dopo i litigi del precedente film, dove i due attori interpretavano una coppia sull’orlo della separazione; questa volta Antonio Albanese e Paola Cortellesi vestono i panni di Giovanni e Monica, due persone idealisticamente opposte, ma entrambi hanno un obiettivo in comune: separare i propri figli, i quali si sono appena fidanzati.

Insomma, riusciranno nei loro intenti, o invece il destino ha altro in serbo per loro? Non spoileriamo il finale, ma è tutto facilmente intuibile, in un trionfo dei sentimenti, che in fondo è parte integrante del “buonismo” natalizio. Non c’è da lamentarsi però, in confronto a tante altre pellicole coeve, questa si poggia su una buona sceneggiatura e su una coppia di attori di eccelso livello, infatti sia Albanese che la Cortellesi, hanno già dimostrato in passato il loro livello assoluto.

Dunque l’offerta cinematografica natalizia si ferma qui. Probabilmente negli scorsi anni non c’era mai stata una tale varietà di pellicole e soprattutto di generi, capaci di cogliere un po’ tutti i gusti, dai più facilotti (che ahimè non fa minimamente bene al cinema) ai più forbiti. C’è anche un’altra nota positiva, non ci sono né Checco Zalone, né Alessandro Siani all’orizzonte; e se non ci fosse stato neppure Boldi, sarebbe stato perfetto. Ma non si può pretendere l’impossibile.

Il Natale e i business cinematografici

Fin dagli albori del cinema, i primi produttori cinematografici statunitensi e poi anche europei, hanno capito il legame che avrebbe unito il periodo natalizio, la sala cinematografica e il cinema inteso come pellicole da distribuire e proiettare. Che il Natale fosse un business economico per diversi settori della società occidentale è un fatto ormai noto, e lo era anche negli anni ’30 negli Usa; e qui da noi dal boom economico degli anni ’50 in poi. Ma il Natale è anche una miniera di diamanti per i produttori, e non stiamo qui parlando prettamente dei Cinepanettoni o dei film dichiaratamente natalizi; ma soprattutto della predisposizione del pubblico del cinematografo ad andare nei cinema, nel periodo pre-natalizio o strettamente natalizio.

Nella storia del cinema italiano, ad esempio, il 60% delle pellicole distribuite nelle sale cinematografiche hanno un arco temporale che va dal 10 novembre al 20 febbraio, segno che questo è il periodo clou, da sempre, per chi voglia spendere bene il proprio film. Certo, esiste un altro exploit, a cavallo tra la primavera e il festival di Cannes, parliamo quindi del periodo compreso tra aprile e gli inizi di giugno, che però si fermano al 25%, su base nazionale, rapportato per oltre cento anni di storia. Tutti i film che sono usciti, o escono in altri periodi dell’anno vengono considerati “fuori stagione”.

Ciò comporta ad esempio, che se un film deve essere boicottato, lo si fa uscire in luglio, dove storicamente le presenze al cinema si contano con il lumicino.

E non è soltanto una questione meramente di opportunità. Anche il cinema, come le stagioni, vive il suo momento ciclico durante l’anno. L’estate, ad esempio, tra maggio e settembre, è il momento in cui si girano il maggior numero di pellicole, e in cui le produzioni sono più attente a girare e spendere, quel che poi guadagneranno in inverno. Questo perché la bella stagione è quella più indicata per le scene all’aperto, anche se questa caratteristica deriva principalmente e storicamente dalla Gran Bretagna, immaginate infatti se si dovesse girare un film in esterna di inverno in una qualsiasi cittadina del Regno Unito. E questa fu una delle ragioni che nei primi anni ’50, portò Hollywood a scegliere come base europea Cinecittà, piuttosto che il Regno Unito o la Francia. Il Natale dunque, diventa un business per tutti: per la produzione, che deve recuperare i soldi investiti in estate; per le case di distribuzione che distribuiscono le pellicole nelle sale traendone benefici e guadagni; per le sale cinematografiche, che attirano il pubblico in sala e si rifanno delle forti perdite dei mesi precedenti; e infine per tutto il sistema cinematografico nel suo complesso, dalle maestranze ai massimi autori. Il film di Natale infatti, storicamente non è il film che parla del Natale, e in questo i cinepanettoni hanno un po’ scombussolato il sistema; ma è soltanto il periodo storico migliore per guadagnare, anche perché la pubblicità che viene proiettata nelle sale cinematografiche, prima di una proiezione, investe proprio nel periodo di garanzia che va da novembre a febbraio.

Un po’ come avviene in televisione, ed è anche questa forse la ragione, perché un film un po’ più complesso, magari di nicchia, esce storicamente nelle sale “fuori” stagione, proprio perché nel periodo di garanzia non sono ammessi flop.

Ed è per questo motivo che il cinepanettone e il film comico in generale, ha avuto da sempre il suo massimo momento di diffusione in inverno, proprio perché questo periodo assicurava la certezza del successo. Certo, prima c’erano i vari Totò, Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Marcello Mastroianni, Franchi & Ingrassia, che erano presenti tutti i mesi nelle sale, e rappresentano un caso a parte, perché tutti i mostri sacri del cinema italiano di un tempo, sfuggivano dalla logica commerciale, per ovvie ragioni, prima fra tutti il loro enorme successo. E’ chiaro dunque, che nel periodo di Natale si assiste ad un sovraffollamento di pellicole cinematografiche nelle sale, senza contare poi quelle del mercato estero, che vanno ad inserirsi in un contesto di distribuzione totalmente saturo. E la logica conseguenza è che il resto dell’anno, spesso, le sale cinematografiche rimangono tristemente vuote.

Ma si sa, è la logica del mercato, della pubblicità, degli introiti, del business. Da sempre l’economia regola il mondo, e in quanto il Cinema, è svago, è arte, ma è anche industria, allora tutto si spiega.

La casa di famiglia - Il film

La casa di famiglia – Il film

Opera prima del regista Augusto Fornari, è nelle sale in questi giorni il film “La casa di famiglia”.

Un film che sembra una commedia road-movie degli anni ’60, quelli della migliore commedia all’italiana. Il cast corale è ricco e ben affiatato, difatti i protagonisti, totalmente a proprio agio nelle vesti dei personaggi, sono in grado di sfruttare pienamente il potenziale del racconto e della sceneggiatura. Perfetto il quartetto composto da Lino Guanciale, Stefano Fresi, Libero De Rienzo e Matilde Gioli, che interpretano la parte di quattro fratelli, ognuno nel classico stereotipo delle caratterizzazioni tipiche da commedia all’italiana.

C’è Lino Guanciale che interpreta il fratello sciupa femmine e combina guai; Stefano Fresi, il “grosso” della compagnia è l’ingenuo sognatore, artista e direttore di una piccola orchestra per ragazzini; Libero De Rienzo è il fratello in carriera, affermato, rispettato, che però ha totalmente sepolto ogni tipo di sentimento; e infine c’è Matilde Gioli, la sorella del gruppo, bella come il sole, ma disperata per una tormentata storia d’amore. E poi c’è un quinto protagonista, il padre di famiglia (Luigi Diberti), in coma da cinque anni, che di colpo si risveglia, e costringe i quattro fratelli a riacquistare la vecchia casa di famiglia.

L a c a s a d i f a m i g l i a – I l f i l m

Il film scorre via piacevolmente, un po’ road-movie, un po’ commedia dei sentimenti, un po’ parabola familiare dei rapporti spesso complessi che si vivono in ogni famiglia. La sua fluidità da walzer degli affetti, il suo ritmo incalzante da commedia all’italiana, l’affiatamento tra gli attori così sapientemente dosati dal regista, sono gli ingredienti di un film gradevolissimo, che forse non avrà il successo che meriterebbe, ma testimonia la capacità italiana di fare buon cinema, quando si ha a che fare con una storia che si eleva dalla volgarità dilagante di molte altre pellicole coeve. E per finire, non manca neanche una piccola e velata critica sociale ai tempi attuali. C’è infatti un piccolo ricatto che non va a buon fine, solo perché ormai non ci si vergogna più di mettere in piazza le nostre performance imbarazzanti, merito (o colpa) dei social network che hanno dato la parola a chi in altri luoghi non avrebbe avuto spazio; ma ha dato anche la possibilità ad alcuni improbabili “mostri” della società di mostrare il lato peggiore di se stessi. Un film educativo, consigliabile, dove è possibile ritrovare un po’ tutti i generi, mischiati sapientemente.

Unico difetto?

Il finale moscio, per una storia cui si sarebbe potuto osare di più proprio nel capitolo conclusivo. Comunque un film riuscito, con una previsione: scommettiamo che ai Nastri e ai David prossimi questo piccolo film otterrà perlomeno qualche nominations, anche importante?

Pensiamo a Lino Guanciale, a Stefano Fresi, o anche a Matilde Gioli (probabilmente la migliore).

La situazione attuale del cinema italiano: crisi, riforme, multisale e produzioni di qualità

Il cinema italiano, nella sua gloriosa storia, ha affrontato due momenti di profonda crisi, superate entrambe a fasi alterne. La prima coincise a fine anni ’80, con lo svuotamento delle sale cinematografiche, anche a causa della definitiva consacrazione del mezzo televisivo, con l’avvento delle televisioni private, che hanno in qualche modo monopolizzato lo spettacolo italiano. La seconda affonda le sue radici nello svuotamento culturale che il cinema umoristico italiano ha sofferto nel primo decennio degli anni 2000. Innanzitutto bisogna chiarire come il cinema italiano è stato quasi sempre orientato verso il brillante, l’umoristico a tratti venato da punte di malinconia o amarezza.

Il tutto nacque subito dopo la guerra e tale è rimasto fino ad oggi, saggiamente gli autori e i produttori dell’epoca si indirizzarono al solo campo nel quale le grosse produzioni internazionali non avrebbero potuto batterci, ossia a quello che aveva a che fare più da vicino con gli italiani stessi, con la nostra cronaca locale, con i nostri vizi e i nostri pregi, e in chiave prevalentemente umoristica. Così nacque la commedia all’italiana e così nacque la capacità dei nostri autori di parlare prettamente di noi stessi. Perché si scelse, e ancora oggi si sceglie la chiave umoristica? Perché il terreno dell’umorismo è quello dove l’identità nazionale è più salda, dove il rischio dell’invasione da parte di un prodotto straniero è più ridotto. D’altronde la situazione del nostro cinema è stata quasi sempre salvata dai film comici o comunque brillanti. Ad inizio anni ’60, le sale cinemat ografich e si reggono con i film della commed ia all’italia na; tra la metà degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 la coppia composta da Franchi & Ingrassia tiene in vita il cinema italiano; così come la crisi degli anni ’80 è salvata dalla commedia sexy. Negli anni ’90 la comicità toscana di Leonardo Pieraccioni fa il tutto esaurito, così come i cinepanettoni di Boldi e De Sica. Oggi il successo di Checco Zalone, Ficarra & Picone, Alessandro Siani, confermano la propensione italica al cinema di intrattenimento. Insomma, sta di fatto che il genere comico apparve ben presto quello più richiesto dal pubblico italiano all’industria nazionale, né le cose sarebbero cambiate troppo in seguito.

Ritornando allo svuotamento delle sale cinematografiche, tutto nacque dalla diffusione del mezzo televisivo, ricordando come già dal 1955 al cinema si assistette ad un’inversione di tendenza, con una perdita di 29 milioni di biglietti venduti. Crollo verticale che non si è mai fermato, in oltre 60 anni di storia da allora ad oggi. Ciò coincideva con l’ingresso in campo del nuovo e formidabile avversario del cinema, ovvero la televisione, che però spesso si è servita e si serve del cinema, proiettando e riproiettando pellicole di tutti i tipi.

Senza una vera e propria disciplina, tanto è vero che è del mese di ottobre, la nuova riforma sul cinema, voluta fortemente dai professionisti del settore. L’attuale riforma, diventata legge da pochissimi giorni, impone alle televisioni (Rai, Mediaset, La7, Sky in primis) di inserire nei loro palinsesti, in prima serata, il 30% della programmazione annuale, dedicata alle serie televisive italiane e alle pellicole nazionali, con particolare riferimento alle produzioni dell’ultimo ventennio. La situazione attuale delle produzioni italiane, in linea con la nostra storia, soffre i grossi prodotti internazionali, ma si rifà sfruttando la capacità prettamente italiana di parlare di noi stessi. Alla tecnologia, agli effetti speciali e ai film d’avventura americani, rispondiamo con l’antica arte della commedia, con la parodia e con l’umorismo. In questo, anche oggi, il cinema italiano è insuperabile e regge il confronto con i capitali enormi delle produzioni internazionali. Lo svi lu pp o po i, de lle m ult isa le, ha pe rm esso di attrarre nei cinema, un po’ tutte le fasce d’età, offrendo una varietà di generi e di pellicole in contemporanea, che hanno senza dubbio risollevato le sorti delle sale cinematografiche. Facendo questo però, si è assistito ad una selezione, che ha portato alla chiusura delle sale di provincia, magari quelle storiche, e al monopolio delle “nuove” multisale, tecnologiche e super attrezzate. Arrivati a questo punto val la pena trattare, un argomento che ha ottenuto parecchia risonanza negli ultimi anni, ovvero la necessità di insegnare l’arte del cinema alle nuove generazioni. Bisogno tenuto per anni nel dimenticatoio e che ha portato ad una sorta di analfabetizzazione cinematografica del nostro paese, che non giova all’Italia, soprattutto in riferimento al nostro patrimonio cinematografico di inestimabile valore, secondo solo a quello americano e primo in Europa. Per questa ragione, negli ultimo quinquennio, il SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani) si è battute in tutte le sedi opportune per ottenere l’insegnamento del cinema nelle scuole. La riforma è passata lo scorso anno, ma si attende ancora un nuovo disegno di legge che possa stabilire tempi e modi di insegnamento, ovvero come inserire l’arte cinematografica nei programmi ministeriali scolastici, riferite alle scuole medie superiori di tutte le tipologie.

Soffermandoci, in ultimo, sulla mera quantificazione dei nostri prodotti cinematografici, soltanto nell’ultimo anno tra cortometraggi, lungometraggi e documentari sono attualmente usciti oltre 540 lavori, la metà di quelli americani, ma il doppio dei prodotti inglesi, che ci confermano il secondo paese al mondo nel Cinema, in ossequio alla nostra grande storia. La situazione attuale del cinema italiano è in continua evoluzione, è come un calderone pronto ad esplodere, dopo anni o addirittura decenni di immobilismo, con la riconquistata consapevolezza che il Cinema, nell’ambito della cultura nazionale, deve necessariamente rivestire un ruolo di primissimo piano e che questo non deve essere assolutamente disperso. Il Ministro - Il film

Favola nera, anzi nerissima, che ha avuto una distribuzione limitata, sul complicato intrigo di corruzione e connivenze in cui molti si muovono, e a cui alcuni hanno venduto l’anima tout court. Nessuno è innocente in questa storia, e il cinismo crudele che anima tutti i personaggi non li abbandonerà dalla prima all’ultima scena, mostrando un coraggio e una coerenza narrativi non comuni nel cinema italiano contemporaneo, sempre pronto alla deriva piaciona e buonista. Inquietante la didascalia iniziale prima dei titoli di testa che avverte: “storia probabilmente accaduta”, il che la dice tutta sull’attualità della storia e sulle sue dinamiche. Il film però va ben oltre, è un ritratto attento, ironico e cattivo su usi e costumi della società di oggi, a prescindere dalle vicende politiche. L’immoralità politica e le abitudini poco pulite (diciamo così) sembrano in effetti una naturale conseguenza di modi maleducati e irrispettosi al limite della legalità di una intera società. Da lla pri m a sc en a si int uis ce su bit o ch e il fil m no n far à sc on ti sul la pe rs on ali tà de l pr ot ag on ist a, no n cerca di rendercelo simpatico. Franco, uno splendido e inusuale Gianmarco Tognazzi, è continuamente incazzato e in tensione, spende e spande soldi a casaccio: per comprare un vino costosissimo (un Sassicaia che “…non si sposa però bene con il coniglio” – l’episodio alla enoteca è uno dei più simpatici) e ingaggiare all’ultimo momento una escort che si rivelerà in seguito “solo” una ballerina di burlesque (Jun Ichikawa). Per far bella figura non si fa problemi a comprare cocaina da uno strozzino chiamato “Il Pitone” e nascondere nella scrivania del suo studio la valigetta con la maxitangente. Franco non si fa scrupoli nemmeno nel sedurre e indurre alla prostituzione la sua affascinante cameriera di colore (Ira Fronten) una volta accortosi che al ministro non dispiacerebbe. Franco è quindi un protagonista antipatico, irresponsabile e sicuramente negativo. Di contro abbiamo la moglie e il cognato che non sono di meno: egoisti e privi di qualsiasi morale condivisa. Possiamo sperare nel ministro? Sarà lui la svolta positiva alla storia? Quello che ci farà ricredere sulla politica italiana?

La commedia di Giorgio Amato è di quelle cattive, anzi cattivissime, politicamente scorrette verso qualsiasi categoria, amare come sapeva essere la migliore commedia all’italiana dei tempi d’oro. Questa commedia non è sicuramente di quelle che mette d’accordo tutti, di quelle accomodanti dove la risata è strappata dalla battutaccia o dal luogo comune. La risata che ne scaturisce è di quelle amare, che lasciano il ghigno una volta passata. Il malcostume politico è una conseguenza dei comportamenti poco puliti di chi la politica non la fa, una sorta di assuefazione all’illegalità o comunque ad una maleducazione diffusa. Tra i personaggi in questione non c’è mai una parvenza di pentimento o di ripensamento verso ciò che stanno facendo, la corruzione è un comportamento dovuto per ottenere ciò che si vuole.

Il film è sorretto da un ottimo cast, su tutti il protagonista, Gianmarco Tognazzi, presente in quasi ogni scena, che riesce a mantenere un ritmo e un livello sempre alto fino al finale che rasenta il grottesco. Tognazzi sa stare al centro dell’attenzione e allo stesso tempo dare il giusto spazio ai compagni di lavoro. Un ruolo quello di Gianmarco Tognazzi, che è quasi un omaggio ai ruoli più riprovevoli interpretati dal padre Ugo. Poi c’è Fortunato Cerlino, il ministro “perfetto”, quello che ognuno di noi vorremmo vedere al governo in questi ultimi anni. La cena che ci viene raccontata nel film, e che è la sequenza centrale del film, pare prendere vita da uno dei tanti articoli letti, o dalle notizie apprese nei telegiornali, e la memoria fa presto ad andare ai festini in maschera organizzati dai nostri politici nazionali. Ma quello che rende il film divertente e per nulla scontato sono proprio i personaggi femminili, che non sono relegati a puro oggetto del desiderio e merce di scambio per i loschi affari, ma al contrario si rivelano essere le menti più astute di tutta la combriccola. Amato, insomma costruisce una galleria di nuovi mostri senza possibilità di redenzione, ma ognuno animato da una disperazione di fondo che rende l’etica un fantoccio nelle mani dell’economia. L’ispirazione è chiaramente la commedia all’italiana anni ’60, il modello è quello della cattiveria castigatrice di Monicelli, Salce e Risi. Questa del film “Il Ministro” è una bella commedia caustica, come non se ne vedono da un po’ nella nostra cinematografia, e meriterebbe quell’attenzione, che ad esempio, hanno commedie e pellicole molto meno meritevoli di questa.

“Chi m’ha visto”- Il film

Primo film rilevante della nuova stagione cinematografica italiana “Chi m’ha visto”, l’opera prima di Alessandro Pondi racconta di come, al giorno d’oggi, la notorietà conti più del talento, in questa società anestetizzata da programmi televisivi in cerca di un facile scoop.

Il film ha tre grandi protagonisti e su di loro si poggia, per ovviare ad alcune lacune in fase di sceneggiatura, che però vengono ben camuffate da Beppe Fiorello, Pierfrancesco Favino e dal paesaggio mozzafiato della Murgia tarantina della cittadina di Ginosa. A fare faville è però l’inedito duo composto da Fiorello e Favino, il primo lavora in levare, nei panni di Martino, malinconico musicista dal talento sopraffino che vorrebbe emergere e si inventa la sua scomparsa per salire alla ribalta, aiutato dall’amico Peppino, che a differenza sua è portatore sano di tutti gli istinti primordiali dell’uomo: cibo, sesso, danaro. Peppino è uno strepitoso Favino, vera anima comica del film, uno showman che mette su una macchietta che diventa presto un carattere, di quelli delle nostre commedie degli anni d’oro.

Sue le scene più esilaranti, le battute più guascone, la goliardia. Favino fa quasi l’effetto di un Sordi, di un Gassman, di un Peppino De Filippo, quando è lui in scena la pellicola si illumina di luce propria. La pellicola vive su un umorismo venato di malinconia, degno delle migliori commedie all’italiana degli anni passati, e tratta in maniera adeguata, ma leggera, due temi forti della nostra società contemporanea.

Il primo, il flagello degli artisti di ogni tipo, che se suoni, canti, dipingi o altro, non stai davvero lavorando ma giocando. Non importa se sei ricco, rispettato, conosciuto o famoso, il lavoro è sudore, per cui stai solo perdendo tempo. L’altro è l’influenza dei media sulla gente, soprattutto la TV spazzatura con i suoi reality, i talk show sensazionalisti, i programmi studiati per generare ansie ed emozioni pilotate.

Facendo questo però, la sceneggiatura lascia fuori completamente i social, che nel film non vengono mai nominati, ma che invece nella realtà, plasmano l’opinione pubblica, quanto e forse anche di più dei media.

Menzioni speciali per le riuscite caratterizzazioni delle due presenze femminili del film: la prostituta dal cuore d’oro (Mariela Garriga) che nasconde anche cultura e saggezza e che fa innamorare il musicista-poeta impersonato da Fiorello; e la sempre eclettica Sabrina Impacciatore negli esilaranti panni della conduttrice di “Scomparsi”, che altro non sarebbe che il celebre programma di Rai Tre, chiamato in un altro modo.

A completare il film, decine di gustosi camei di celebri cantanti italiani in ansia per le sorti del loro musicista Martino/Fiorello, da Jovanotti a Max Pezzali, passando per Giuliano Sangiorgi, Fedez, Elisa, Giorgia, Gigi D’Alessio, Gianni Morandi. “Chi m’ha visto” è un film che rimarrà, per tanti motivi: per la qualità sopraffina dei due protagonisti, per la suggestione di paesaggi mozzafiato, che in un film non guastano mai e per la capacità di raccontare la nostra società, i nostri difetti e le nostre “involuzioni”, cosi come facevano i maestri della commedia all’italiana 50 anni fa.

Perché il cinema italiano si fa grande, solo quando racconta l’Italia e gli italiani e questo è nel nostro DNA, ed è una qualità e una prerogativa che ci porteremo sempre appresso.

Il Cinema e le implicazioni socio- economiche negli anni del Boom

Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia è un paese profondamente ferito dai bombardamenti anglo-americani e dalle distruzioni lasciate dai nazisti, stanco, sfiduciato, senza prospettive precise, incerto addirittura sulla sua stessa unità. L’economia è prostrata; la società è sostanzialmente la stessa di inizio secolo: agricola, arretrata e provinciale; la presenza di un fortissimo partito comunista rende incerta la posizione dell’Italia sullo scacchiere internazionale.

Siamo nel 1946. Quarant’anni più tardi, con due “miracoli economici” alle spalle, lo stesso paese è uno dei sette più industrializzati del mondo, saldamente integrato nel sistema occidentale di mercato, il tenore di vita dei suoi cittadini si può a buon diritto definire tra i più elevati del mondo. Il volto dell’Italia è dunque decisamente cambiato da allora, e per certi aspetti è addirittura irriconoscibile, trasformato da un processo di accumulazione, di urbanizzazione e di secolarizzazione così rapido e profondo da avere pochi altri riscontri nella storia europea del dopoguerra. In questo clima culturale di ammodernamento, fondamentale risulta essere il ruolo svolto dal Cinema, che mai come in Italia, ha rappresentato e rappresenta lo specchio della società.

Il Cinema infatti, ha accompagnato i profondi mutamenti socio-economici del nostro Paese con tempismo e precisione sociologica di straordinaria efficacia.

Primi scampoli di benessere economico si registrano già a partire dai primi anni ’50 in due capisaldi della commedia all’italiana: “La famiglia Passaguai” di e con Aldo Fabrizi; e “Pane, amore e fantasia” con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida, due film leggendari che ironizzano splendidamente sui comportamenti di una piccola borghesia che si confronta a fatica con i primi segni del benessere, ma che guarda con rinnovata fiducia verso il futuro. E poi venne la fine degli anni ’50 e pellicole leggendarie come “Poveri ma belli”, con Maurizio Arena e Renato Salvatori; “I soliti ignoti” con Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni e ancora Renato Salvatori; e “La dolce vita”, che contribuirono a lanciare nel mondo il mito della “dolce vita” italiana, sinonimo di spensieratezza e di benessere economico. In particolare quel 1960 de “La dolce vita” di Fellini e Mastroianni e de “La ciociara” di De Sica e della Loren, è il nostro anno mirabilis: ciliegina sulla torta le Olimpiadi di Roma ’60, il punto più alto dell’Italia del secolo scorso.

E poi, in pieno clima di benessere economico, venne la commedia all’italiana, vera e propria rappresentazione dei nostri vizi e delle nostre virtù, supportata da attori di eccezionale livello artistico: Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Walter Chiari…

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Venti anni dopo sopraggiunse il secondo boom economico, quello degli anni ’80, un decennio che ha portato con se una inimitabile ventata di ottimismo, modernità e spensieratezza. Un decennio che arriva dopo i cupi anni ’70, dopo le stragi delle Brigate Rosse, dopo un’epoca di tumulti nella società e nella politica italiana. Solo pochi anni prima erano accadute alcune gravi tragedie che avevano scosso l’opinione pubblica: la strage di Piazza Fontana a Milano, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, il suicidio “sospetto” di un grande e popolare artista come Alighiero Noschese.

Eppure quando arrivano gli anni ’80, cambia tutto. Un rinnovato clima di spensieratezza riavvolge l’Italia, come se ci fossimo ricatapultati venti anni addietro, ovvero negli anni ’60. E il Cinema ancora una volta si ripropone di raccontare quegli anni, così come aveva fatto fino ad allora. Infatti, negli anni ’70, in sintonia con i tempi, la commedia all’italiana si era fatta cupa, triste, sconsolata (“Una storia triste è meglio per l’Inverno”, dice il piccolo Mamilio in The Winter’s Tale, di William Shakespeare); e quella più popolare era diventata irrimediabilmente volgare, trita e ritrita di seni al vento e di parolacce sconce, in linea con l’involgarimento culturale della società italiana. La ripresa del decennio successivo, nasceva da una buona situazione dell’economia mondiale, favorita soprattutto dal ribasso dei prezzi del petrolio, e da una nuova disponibilità interna degli imprenditori ad investire. L’”urbanizzazione” e la “nuclearizzazione” nonché una maggiore ricchezza delle famiglie italiane comportò la nascita di un “terziario” come non era mai avvenuto prima, il quale da una parte offriva servizi ad una famiglia non più in grado di essere autosufficiente e dall’altra offriva servizi alla persona in ragione delle nuove esigenze e bisogni.

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E nel cinema riprende dunque, a marciare la “nuova” commedia all’italiana, finalmente epurata da quegli elementi tristi che l’avevano caratterizzata nel decennio precedente. Arrivano anche le cosiddette “nuove leve”: Paolo Villaggio, Enrico Montesano, Massimo Troisi, Carlo Verdone, Lino Banfi, Jerry Calà, Adriano Celentano, Diego Abatantuono, Christian De Sica…tutti attori brillanti, in sintonia con il determinato periodo storico. Vale la pena qui, citare alcuni titoli, destinati a rimanere nella storia degli anni ’80: “Vieni avanti cretino”(1982), con Lino Banfi; “”Ricomincio da tre”(1982), con Massimo Troisi; “Sapore di mare”(1983), con Jerry Calà e Christian De Sica; “Bianco, rosso e Verdone”(1982), con Carlo Verdone; “Aragosta a colazione”(1980), con Enrico Montesano.

In conclusione, un saggio come questo, ha l’obiettivo di far capire come il Cinema sia parte integrante del processo socio-economico del nostro Paese, e come quest’ultimo addirittura sia influenzato dal Cinema stesso, subendone mutamenti al passo con i tempi. Per il rapporto tra Cinema, società e storia, vale ancora quella famosa citazione, che semplifica in maniera esaustiva la valenza che il Cinema ha nelle nostre vite: “Il Cinema è la maniera migliore per rivivere una fetta importante della storia del nostro paese, meglio di qualsiasi trattato sociologico”.