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L’è el dì di Mort, alegher! De là del mur di franco brevini

1. Genesi e storia.

1.1. «Una vergogna della critica italiana». Un lettore raffinato come Pietro Paolo Trompeo, non certo sospet- tabile di tendenziosità meneghina, scriveva nel 1950 che se è necessario studiare il greco per leggere Saffo, bisogna imparare il milanese per ca- pire Tessa1. Il lusinghiero apprezzamento dell’illustre francesista roma- no riesce quanto mai caratteristico della critica tessiana: isolati, autore- voli giudizi, provengano essi da Croce o da Pasolini, da Linati o da Men- galdo, da Fortini o da Isella, campeggianti in un panorama di generale indifferenza. Tanto che ancora nel 1978, presentando Tessa nella bene- merita antologia Poeti italiani del Novecento, Mengaldo poteva denun- ciare nel «disinteresse per questo poeta, uno dei più grandi del nostro Novecento senza distinzione di linguaggio, una vergogna della critica ita- liana»2. È noto come nel corso degli anni Sessanta-Settanta si sia consumata la crisi della vecchia storiografia letteraria fondata sulle riviste e sui grup- pi, all’origine del primato accordato alla linea novecentesco-ermetica, dalla «Voce» a Ungaretti. La ripresa di interesse verso Tessa, culminata nella fondamentale edizione critica delle poesie allestita da Dante Isella nell’85, si colloca in quel clima di rinnovamento degli studi. Si rendeva finalmente possibile, come annotava Fortini nel 1977, il recupero di quan- to di espressionistico, plurilinguistico e dialettale si è manifestato negli scorsi sessant’anni3. Eppure, se oggi le poesie di Tessa tornano a essere accessibili, dopo una lunga assenza dalla scena editoriale, se nessuno dubita più del valo- re del poeta milanese, la sua opera stenta ancora a trovare un’adeguata considerazione critica. Continuano infatti a mancare, non si dice una buona monografia, ma indagini più ravvicinate dei suoi testi. Per non di- LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 320

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re di vistose discriminazioni tuttora vigenti nel dosaggio degli spazi an- che all’interno di pregevoli opere manualistiche: a fronte delle molte pa- gine riservate a figure pur rilevanti come Saba, Ungaretti e Montale, li- quidare Tessa in una paginetta, come accade in una certa storia lettera- ria, pare francamente un po’ riduttivo. Una responsabilità nella scarsa sollecitudine della critica verso l’o- pera di Tessa, almeno fino all’edizione Isella4, è spettata tuttavia al cat- tivo stato delle stampe. Per decenni i suoi libri sono risultati introvabi- li. Tessa è autore dalla vena non copiosa: il corpus della sua produzione in versi, quale è consegnata al volume einaudiano dell’85, L’è el dì di Mort, alegher! De là del mur e altre liriche, comprende solo trentanove te- sti distribuiti in un arco di tempo di circa un trentennio. Ma soprattut- to Tessa mostrò, almeno inizialmente, una singolare reticenza alla pub- blicazione dei suoi versi5. Sappiamo che il primo e unico volume che vi- de la luce vivente l’autore, L’è el dì di Mort, alegher! («È il giorno dei Morti, allegri!»), apparve da Mondadori nel 19326 solo dietro le insi- stenze dell’amico Luigi Rusca, ai tempi direttore generale della casa mi- lanese («el Rusca col me liber», come ha ricordato Isella, è uno degli

Delio Tessa Nato il 18 novembre 1886 a Milano, compie gli studi presso il liceo Beccaria; nel 1911 si lau- rea in giurisprudenza presso l’Università di Pavia. Aveva cominciato, nel frattempo, a dedi- carsi alla poesia, mostrando anche vivo interesse per il cinema e la musica; negli stessi an- ni (1909-12) si innamora di una giovane pianista, una passione avversata dalla famiglia di lei e di cui porterà memoria lungo il corso della sua vita. Mentre frequenta l’Accademia scientifico-letteraria, di cui segue le lezioni di filosofia, intraprende la carriera legale, eser- citando la professione di avvocato e di giudice conciliatore. Non riuscendo a ricavarne gua- dagni sufficienti, decide di affiancarvi, dagli anni Trenta in poi, l’attività giornalistica, dap- prima svolta in collaborazione con la stampa locale, poi, dal 1935, con alcuni giornali tici- nesi – per i quali scrisse anche di critica cinematografica – e con la Radio della Svizzera ita- liana. L’anno successivo, inoltre, iniziò a collaborare all’«Ambrosiano», dove comparvero in quel periodo gli articoli di importanti letterati del tempo: Tessa volle intitolare le sue cro- nache, che descrivevano la vita cittadina, Ore di città (pubblicate postume nel 1984 a cura di Dante Isella). La sua cultura letteraria risentí fortemente dell’influenza della lezione dei grandi poeti mi- lanesi, anzitutto di Porta, dei cui versi fu pubblico declamatore; altri debiti espressivi con- trasse con le tendenze decadentiste degli ambienti letterari della città e con la scapiglia- tura. Improntò la sua poesia all’osservazione e alla rappresentazione della vita popolare, da cui ricavò materia linguistica e ispirazione tematica: il frutto di questo lavoro è visibile an- che nell’opera, inedita, Frasi e modi di dire del Dialetto milanese. Nel 1932 l’editore Mondadori stampa L’è el dí di Mort, alegher!,l’unico testo pubblicato in vita, dove alla raffigurazione dell’ambiente quotidiano milanese si sovrappongono gli even- ti tragici della Prima guerra mondiale. De là del mur, suo ultimo libro di poesie, apparve do- po la sua morte, avvenuta il 21 settembre 1939 a Milano. LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 321

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enuegs che infastidiscono il poeta-ciclista sul fango della «Comasna»)7. Già questa reticenza, come vedremo, ci fornisce un primo dato inter- pretativo. Le milleseicento copie del volume mondadoriano uscivano accompa- gnate da un «testo esplicativo in lingua» assai corrivo, di probabile fat- tura editoriale. Non si trattava di una vera traduzione, ma di un «ri- scontro» inteso a evitare note e glossario. Fortunato Rosti lo sostituí con una nuova versione di propria mano, quando ristampò la raccolta nel 1960, accompagnandola con una nota di Emilio Guicciardi8. Malgrado il prestigio del primo editore, la raccolta di Tessa non ebbe tuttavia né echi di critica, né fortuna di mercato (l’autore stesso allude in Il buon gobbetto, in Ore di città9, alla «tristezza in cui verso da anni nel sapere che quasi tutta l’edizione è rimasta nel gobbo della Mondadori»). Non molto diversa la sorte della successiva ristampa presso un piccolo edito- re come Scheiwiller. Da un’Autopresentazione a Radio Monteceneri del 1935 (ora in Criti- che contro vento)apprendiamo del progetto di un nuovo libro di versi: «Avevo intenzione di pubblicare una nuova raccolta di miei recenti ver- si e già tutto era pronto ma poi vi ho rinunciato»10. Negli anni successi- vi gli accenni al nuovo libro si moltiplicano. In Parlando con loro (poi in Ore di città), una prosa risalente al 1937, il fiuto dei librai milanesi Bal- dini e Castoldi viene provato dal fatto che gli avveduti commercianti-edi- tori «il mio nuovo libro di poesie non lo vorrebbero neanche a ammaz- zarli...»11. Che Tessa ci avesse quanto meno ripensato è testimoniato an- che da un articolo dell’«Ambrosiano» dello stesso anno, non raccolto in Ore di città e intitolato Questa sera a Bagutta. Nel testo, firmato con lo pseudonimo Illius, Tessa osserva: «Se mi capitasse di pubblicare un al- tro volume lo vorrei con questa fascetta: “Un libro d’eccezione! – que- sto autore non è mai stato premiato”»12. La dicitura sarebbe poi stata suggerita dal poeta per la promozione di De là del mur, come ricorda l’An- tonicelli nell’edizione di Poesie nuove ed ultime13. Un più esplicito riferimento all’opera inedita cade in una lettera del- l’anno precedente all’editore Formiggini, di cui ha dato notizia Renzo Cremante14. Il documento è interessante per più ragioni. Intanto perché Tessa accenna alle famose «pagine del dicitore», lo «specialissimo com- mento» che il poeta aveva preparato per i suoi versi: «Nel progetto del mio nuovo volume di poesie avrei abbandonato il sistema delle tradu- zioni per sostituirlo con una sorta di disco-pagina a fronte del testo. Es- LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 322

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sa sarebbe un po’ di tutto e cioè: traccia per il dicitore, traduzione e il- lustrazione della lirica». Inoltre perché il poeta menziona la Poesia della Olga, che avrebbe do- vuto già figurare nella prima raccolta, sottolineando il parallelismo con il capolavoro portiano: «Nel volume verrebbe inclusa la “Poesia della Ol- ga” che ritengo sia quanto di meglio io ò saputo immaginare e fare. Car- lo Porta nella sua “Ninetta” à cantato la “tosa de Casin” e io la “Ruf- fiana”». Tuttavia la raccolta, che ad un tratto sembrò persino dovesse appari- re presso un editore di Lugano, evidentemente per la polemica verso il regime, non vide mai la luce durante la vita del poeta. Le due sole poe- sie a essere stampate dopo L’è el dì di Mort, alegher! furono La giornata de me zio pescaú de Lacciarella15 e Finester16. Tessa morí nel’39 e le sue carte passarono all’amico Fortunato Rosti, il quale già nel ’41 informa il ticinese Piero Bianconi che Einaudi si sa- rebbe assunto l’iniziativa di ripubblicare il corpus poetico tessiano. In realtà il libro, con il titolo Poesie nuove ed ultime, apparirà solo nel ’47 LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 323

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Eugenio Spreafico, Dolori (La sagra dei morti), 1886. Mon- za, Musei Civici.

da un altro editore torinese, De Silva (presso cui l’anno seguente apparirà la seconda edizio- ne di Sera di Virgilio Giotti), per le cure del Ro- sti e di Franco Antonicelli. Veniva annunciato come primo volume di un’edizione integrale, purtroppo mai realizzata, degli Scritti di Delio Tessa. L’opera era suddivisa in due sezioni: la pri- ma comprendeva De là del mur («Al di là del muro»), il libro che al Tessa non era riuscito di stampare, per il quale i curatori avevano potu- to servirsi del testo dattiloscritto approntato dal poeta stesso. Una nota d’autore riferisce che la raccolta avrebbe dovuto inizialmente intitolar- si I cinqu settacuu, «quel piombar giù che si fa d’improvviso sull’osso sacro e per di più con gran difficoltà a rialzarsi». Fu poi optato per un titolo più neutro «per non urtar subito e tutti». La seconda sezione sotto il titolo Poesie fatte comprendeva una scelta di sedici liriche sparse, di solito degli ultimi an- ni, fra cui la celebre A Carlo Porta. Accanto a esse compariva qualche te- stimonianza delle prime prove tessiane «trascritte da un quadernone di tela nera “aperto nel novembre 1906, chiuso nel luglio 1912”, ma an- ch’esse rivedute dal poeta più tardi e destinate a una futura pubblica- zione». In nota a Poesie nuove e ultime si legge pure un terzo dialogo, che avrebbe seguito i due Del poeta e del Consigliere Delegato del 1936-37, con cui si apriva De là del mur. Protagonisti del colloquio, che anche Tes- sa aveva tralasciato nel dattiloscritto predisposto in servizio dell’edizio- ne, e che è ambientato «molti anni dopo», sono due anonimi personag- gi, A e B, che si aggirano nella Milano del 2000, rievocando la dramma- tica età fra le due guerre in cui era occorso di vivere al poeta: «Nessun poeta è venuto a noi da quella disgraziata metà del novecento. Questo è un sintomo. Un popolo senza poesia è un corpo senz’anima: un cadave- re vivente». LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 324

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1.2. Poesia e oralità. Il canale privilegiato che Tessa concepiva per la sua poesia, assai più che la lettura silenziosa, era, come si è visto, la dizione orale: dapprima in cerchie ristrette di amici e conoscenti, più tardi anche in sale pubbli- che, per tacere di un’inconsueta recitazione in una casa di tolleranza di Piazza Vetra, cui l’autore accenna in Piazza Vetra (la Vecchia)17. Sono del resto ben note e tramandate da una ricca aneddotica le sue singolari do- ti di dicitore di versi propri e altrui, fra questi ultimi soprattutto del Por- ta, ma anche di simbolisti francesi e di autori moderni italiani. Ne rima- se colpito persino Croce, ascoltandolo recitare in casa del conte Casati. Nel più suggestivo ritratto del poeta, «El Tessa», dovuto alla penna di Carlo Linati, leggiamo: Uomo piacevole, di vena, e dicitore squisito, veniva spesso invitato in case d’a- mici a dir cose sue e del Porta. Allora infilava l’abito buono, il solino duro con le alet- te e si recava a quei ritrovi a dire La nomina del Cappellann, Ona vision, La messa noeuva, e poi cose sue: Caporetto, La mort della Gussona, I deslipp di Càmol o qual- cuna delle sue violente e argute poesie civili... Negli ultimi anni aveva posto una sol- lecitudine singolare nel rendere sempre più ben colorite le sue dizioni, cercando di intonare e di muovere il verso con appropriati chiaroscuri, intercalando pause stu- diate, sorvegliando il gestire. [...] ... Il Tessa otteneva effetti bellissimi come dicito- re. Chi non ha sentito dire da lui Il Miserere con quelle cantatine di preti vicciurinatt e quei loro dialoghetti in pelle in pelle ch’egli riproduceva a meraviglia, non può sa- pere a quale grandezza d’effetti può arrivare la poesia ambrosiana18. Il poeta stesso ci ragguaglia intorno a questa attività nel primo Dia- logo del Poeta e del Consigliere Delegato che apre De là del mur e in alcu- ne prose di Ore di città; la citata Piazza Vetra (la Vecchia) e Notturno. In un testo pubblicato nel 1934 su «Radioprogramma», periodico della Ra- dio della Svizzera Italiana, cui Tessa collaborò assiduamente nel corso degli anni Trenta, leggiamo: «Non immagino la lirica se non come una musica della parola e le mie dizioni le preparo come si preparerebbe un concerto»19. Del resto tutte le poesie di De là del mur, insieme a qualche altra ap- prontata per la stampa, con una capziosità che documenta quanto l’a- spetto fonico-ritmico risultasse decisivo per il poeta, sono sempre ac- compagnate dalle famose «pagine del dicitore». Un solo esempio, tratto da I deslipp di Càmol («Le disdette di una famiglia»): La dizione di questa lirica discorsiva e caricaturale comincia pianamente ma si infervora subito. Dal terzo al settimo verso sottolinea in progressione di forza l’ac- canimento del destino contro la quieta famiglia borghese... [...]. Poi riprende il tono LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 325

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dimesso e quasi segreto da confidenza, da pettegolezzo. Dizione ondosa, incerta, tan- to che nessun tema prevale. (p. 154). Mentre la nota a L’è el dì di Mort, alegher!, si apriva con questa ine- quivocabile dichiarazione: «Come un fascio di musiche si affida all’ese- cuzione canora, cosí i miei saggi lirici attendono la voce del dicitore» (p. 143). Ora, corredare il testo di minute istruzioni per la sua esecuzione ora- le vuol dire ancora una volta privilegiare un tipo di circolazione, che a partire dall’ermetismo avrebbe sofferto un crescente discredito, pur co- noscendo ancora una certa diffusione negli anni Trenta. Anche Marinetti aveva insistito sull’aspetto vocale della poesia, benché poi il testo futu- rista divenga puro pretesto per la performance avanguardistica. Ma si trat- ta comunque di un’eccezione in un panorama che inclina ormai verso la sillabazione interiore e la «degustazione» solipsistica dei lirici nuovi. Anche nella scelta di questa anacronistica comunicazione Tessa riba- diva dunque la propria fedeltà alla tradizione dialettale. Senza risalire al- le vere e proprie tournées, che Testoni, Pascarella e Trilussa compirono nei primi anni del secolo, tenendo pubbliche letture nei principali teatri della penisola, basta citare il caso di un dialettale di prim’ordine come Noventa e la sua orgogliosa difesa de «i versi, | che mi digo e me basta de dir»20, riservati a uno scelto cenacolo di amici e «toseti». Si può dire che almeno fino alla metà del Novecento il dialetto con- tribuisca, nei modi più diversi, a mantenere ancorato il poeta alla di- mensione dell’oralità. Il salto dal parlato allo scritto comporta per il dia- lettale, che spesso fa precedere la pubblicazione del testo da una lunga consuetudine di recitazione (a proposito di Tessa Pancrazi ricorda come le sue poesie fossero cose molto elaborate e rifinite, dette e ridette, col- laudate dalla viva voce e dall’aria prima che stampate sulla carta)21, un inconveniente assai grave: autore ed esecutore cessano di coincidere, il rischio che l’appiattimento sulla pagina impoverisca il testo è per il poe- ta in dialetto tutt’altro che teorico. Se Leopardi è nato per lo scritto, già il Giusti di «Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco» pone il problema della realizzazione orale, proprio perché la sua operazione si compie a ri- dosso del parlato. E su cosa gioca la letteratura dialettale se non sugli ef- fetti derivanti dall’importazione nella pagina scritta della lingua dell’o- ralità quotidiana? Del resto un’analoga riluttanza a pubblicare non si ri- trova forse in Paganini o, spostandoci altrove, in Petrolini, in personag- gi cioè che ugualmente hanno puntato tutto sulla coincidenza delle due LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 326

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figure dell’autore e dell’esecutore? Tessa stesso nel già ricordato Perché scrivo in dialetto? confessa la sua scarsa simpatia per la pagina scritta: «Una poesia scritta, e fin che è lí adagiata sulla pagina di un libro, mi di- ce ben poco: bisogna portarla fuori, bisogna impararsela a memoria, fa- re come faceva Bellini coi versi del Romani: se li diceva ad alta voce e dalla dizione gli nasceva la musica»22. A questo disagio verso lo scritto, che gli impedisce di controllare l’ut- terance, la pronuncia, il poeta dialettale reagisce di solito intensificando le ricerche sulla rappresentazione grafica della sua lingua. È questo il ca- so più diffuso: basti pensare a Di Giacomo, che si inventa un nuovo na- poletano letterario, fino a giungere a talune curiose soluzioni dei neo- dialettali, che, alle prese con parlate inedite, gremiscono la pagina di se- gni grafici, fino a trasformare la lettura in un percorso di guerra. Ogni volta che questo rapporto con l’oralità si attenua nella coscien- za dell’autore, ci troviamo di fronte a un segnale inconfondibile di poe- sia, malgrado il mezzo, «antidialettale», che versa cioè le lingue orali in stampi culturali allotri: è il caso di taluni esiti di Giotti, di Marin o di Firpo e in generale dei dialettali più vicini alla convenzione ermetica. Tessa aveva alle spalle un’illustre tradizione letteraria, che almeno dal Balestrieri vantava ormai un secolo e mezzo di codificazione grafica. Que- sto spiega perché egli si sia attenuto alla norma del milanese. Ma, al di là delle licenze che si prende, non rinuncia a stipare la pagina di istru- zioni e didascalie, che gli consentano di pilotare a distanza la restituzio- ne orale dei suoi testi, nel tentativo di reintegrare sulla pagina scritta i diritti della voce.

1.3. L’anacronismo di Tessa. Tessa e Noventa, nonostante la loro diversità, restano in pieno No- vecento i più tenaci e autorevoli assertori di una poesia dialettale che punta sugli elementi di continuità con la tradizione, con il “genere”, piut- tosto che sulla rottura impartita dalla svolta novecentesca, avviatasi con Di Giacomo e portata a termine da Giotti. Le differenze riguarderanno semmai gli esiti: nel poeta veneto improntati a un aristocratico anacro- nismo e caratterizzati da un’intonazione ironico-discorsiva, orgogliosa- mente opposti all’ascetismo della forma e alla religione estetica dei «le- terati»; nel collega milanese, invece, a una partenza radicata nella con- venzione bozzettistica ottocentesca e dialettale nel senso più deteriore dell’aggettivo, corrisponderanno approdi di imprevedibile modernità. LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 327

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Per intendere l’anacronismo di Tessa, rilevato da quasi tutti i suoi let- tori (anche al livello più esteriore Linati notava che il poeta era un po’ sempre come uno che fosse rimasto indietro con la moda di qualche de- cennio)23, occorre chiarire il suo atteggiamento verso la tradizione dia- lettale. Il poeta milanese parte da una concezione, che proprio nel primo decennio del Novecento sarebbe entrata in una crisi irreversibile: la poe- sia dialettale è un sottosistema della letteratura italiana, che le ha rita- gliato la zona ben identificata del comico, antitetica al sublime della pro- duzione in lingua. Chi scrive in dialetto non può non tenere conto di ciò: la forza del codice si sprigiona dai suoi stessi vincoli. D’altro canto lo spento panorama della produzione vernacolare del secondo Ottocento (si veda l’affollatissimo repertorio procurato dal Fon- tana nella sua Antologia meneghina)24 era lí a dimostrare a quali opachi ri- sultati conducesse l’accettazione passiva di quello statuto minore. L’u-

Passeggiata domenicale in carrozza nel quartiere San Siro a Milano, 1890. LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 328

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nica figura che si sollevi dal depresso orizzonte meneghino, schiacciato dalla presenza troppo ingombrante del Porta, è il modesto Rajberti, il medico-poeta, che peraltro avrebbe ottenuto risultati ben più significa- tivi esercitando la propria musa satirica in italiano. Alla crisi della letteratura dialettale del secondo Ottocento concor- revano in primo luogo fattori socio-linguistici. La secolare diglossia su cui si era retta la vita della penisola veniva posta di fronte a un fatto sen- za precedenti: anche l’italiano, come era accaduto secoli prima per le prin- cipali lingue di cultura europee, poteva finalmente contare su una na- zione, che lo aveva adottato come lingua ufficiale. Il rapporto tra lingua e dialetto si modificava. Mentre la lingua si avviava a diventare sempre più un codice veicolare, il dialetto, che proprio nel decennio giolittiano, in concomitanza con la prima grande modernizzazione della società ita- liana, registrava i segni di una contrazione tuttora in corso, tendeva pro- gressivamente ad assumere le caratteristiche di un idioma prezioso. Ciò comportava il venire meno dell’equazione che aveva sempre fondato la poesia dialettale: dialetto uguale lingua della realtà. Ma per capire la svolta che interviene nella poesia dialettale con l’i- nizio del nuovo secolo occorre tenere conto di due altri elementi più pro- priamente letterari. Da una parte la liquidazione dei vecchi schemi del verismo e del positivismo si accompagna a un crescente disimpegno dal- la realtà, con conseguente conquista di un’egemonia sempre più incon- dizionata della lirica. Dall’altra parte la rivoluzione pascoliana si era in- caricata di dimostrare con l’autorevolezza del proprio esempio che la poe- sia non richiedeva più una lingua della poesia e che dunque tutti i codici potevano essere liberamente utilizzati, senza subire i vincoli delle ipote- che retoriche della tradizione. Il che significava per il dialetto la possi- bilità di spaziare dall’epico al lirico, dal comico al sublime. A quei vincoli sarebbe rimasto fedele Tessa, come lo sarebbe rimasta ancora fin verso la metà del nuovo secolo la maggior parte della produ- zione dialettale di livello medio. Se tuttavia egli si sottrae all’interioriz- zazione del dialetto, non per questo sceglie una strada di restaurazione letteraria, come fanno molti modesti seguaci delle tradizioni municipali. La sua opera ci pone infatti di fronte a esiti di estrema modernità, otte- nuti servendosi di soluzioni molto diverse da quelle dei dialettali erme- tizzanti. Tessa opera secondo una strategia che potremmo ricondurre a uno schema di tipo pascoliano. Il poeta di Myricae aveva smantellato la poesia italiana dall’interno, forzandone l’istituto mediante una serie di LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 329

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violazioni e di varianti. Tessa fa lo stesso con la tradizione dialettale lom- barda. Prende le mosse da Porta e dalle forme chiuse, pervenendo alla distruzione delle orditure del verso narrativo tradizionale, che esplode in una pluralità di frammenti acustici flottanti sulla pagina. Mentre la so- luzione di Noventa resta di tipo prevalentemente sarcastico e restaura- tivo, il più dotato Tessa punta al nuovo, ma lo raggiunge con gli stru- menti dell’antico. Il risultato sarà una poesia che, nelle sue punte, per originalità di dettato e forza visionaria, per la corposità degli impasti e la verità umana, non può essere paragonata a nulla di quanto è stato scrit- to nel nostro Novecento. Con la peculiarità del loro profilo, i maggiori poemetti tessiani rientrano fra le non moltissime pagine davvero alte del- la letteratura italiana contemporanea.

2. Struttura.

2.1. Dall’orrore della storia all’orrido della decadenza biologica. De là del mur nasce dall’illividirsi degli elementi all’origine del carat- teristico schema primo-novecentesco della passeggiata, di cui peraltro il poemetto tessiano conserva ancora alcuni squarci. Anzi l’andamento più caratteristico di De là del mur, rispetto ad esempio a un testo compatta- mente dostoevskiano come La poesia della Olga, consiste proprio nell’al- ternanza di momenti idillici (la gita fuori porta, dove il promeneur si ri- converte modernamente nel ciclista), passaggi ossessivi (l’incubo nottur- no), squarci visionari (lo scavalcamento del muro) e apparizioni surreali (il famoso «struzz a porta Volta», che prosegue la linea dell’hallucination vraie delle farfallette del finale della Gussona: v. 376, p. 223). La poesia si regge su un meccanismo di tipo antifrastico. In un uni- verso in preda alla follia il mondo bello andrà ricercato paradossalmente proprio a Mombello, che ai milanesi evoca subito l’immagine del mani- comio. De là del mur, scrive Tessa nella pagina del dicitore, è la lirica del- la smania di evadere, di rifugiarsi nella pazzia, nell’ebetismo, nell’ubria- chezza. Il muro, che per Montale era un limite metafisico, diventa in Tes- sa l’inquietante, concretissimo diaframma che separa due diversi tipi di follia. E quella che sta al di qua appare agli occhi del poeta meno prefe- ribile di quella che sta «de là del mur». Né necessariamente i confini tra le due appaiono cosí marcati, se, di ritorno alla «normalità» della Mila- LIE15_DEF 09-11-2007 14:56 Pagina 330

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Angelo Morbelli, Giorno di festa al Pio Albergo Trivulzio, 1892. Parigi, Musée d’Orsay.

no serale, il poeta è atteso dall’enigmatica, inquietante apparizione del- lo «struzz | viv, che me guarda», altra incarnazione della volontà di ac- cecamento e di fuga (vv. 382-83, p. 223). Gli uomini sono reclusi in una cattività dalla quale tentano invano di fuggire. L’immagine del Vanni segregato nella stanza notturna è terribi- le ed emblematica: «(presonee che cammina... | cammina) [...] ch’el pic- ca alla stramezza, | par ch’el voeubbia vegní foeura... [...] on bus e vegní foeura | foeura... on bus»1. Prigione, incubo, veglia angosciosa, sedativi, follia, manicomio: ecco i nuovi orizzonti della vita urbana definiti da Tes- sa. Si badi che le parole che permettono di passare la muraglia sono quel- le dell’ossessione e dell’insensatezza: «“Cotolett frett... cotolett | frett...” || Nun per sti parolett... | (incantèsem... deliri...) | passom quel- la muraja!!...»2. La fuga dall’incubo approda alla follia: «podè liberass | di penser... andà in oca, | [...] desmentegass» («poterci liberare dai pensieri – in mi- lanese vale soprattutto preoccupazioni – andare in oca [...] dimenticar- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 331

Struttura 331

ci»). E alla fine restare lí sulla panchina «come on sacch | de strasc, in- semenii...» («come un sacco di stracci, svampito...»). Rien faire comme une bête ricorda un celebre aforisma adorniano. E Tessa: «Vess come la gallina | sull’era, el boeu in stalla!» («Essere come la gallina sull’aia, il bue in stalla!»: cfr. rispettivamente vv. 247-49, 303-4 e 297-98, pp. 205 e 211). Tessa stesso pone in risalto nel commento il disarticolarsi della lirica, che accoglie alla rinfusa e come in una testa malata ricordi, aspirazioni, paesaggi e canzoni. Ma questo non è il modo tipico della costruzione tes- siana? Il che starebbe a significare che il poeta viveva la frammentazio- ne del testo come la risposta consapevolmente patologica alla follia del mondo. Nella sua fuga dalla città Tessa è approdato alla follia e alla ferinità animale. In altri testi il regresso avverrà negli abissi del fisiologico, con un accanimento sull’orrido e sul corrotto: figure devastate dalla consun- zione come On mort in pee o come il protagonista della sceneggiatura ci- nematografica inedita Uomini maledetti o ancora il «bell maghetta», cui le streghe «la vita foeura | coi scinivij | ghe sùscen... foeura» («la vita fuo- ri colle cervella gli succhiano... fuori», vv. 48-50, p. 108) oppure perso- naggi sbandati nella morte come la Gussona, fino al deforme paradigma ricavato da un almanacco dell’Ospizio di Cesano Boscone: dall’orrore della storia all’orrido della decadenza biologica. – «Idioti e semi idioti, scemi, ciechi» – t’han miss in lista... – «paralitici, vecchi impotenti» – ... in quell prospett te see «dei nostri ricoverati» che gh’óo in studi dedree a quella maistaa... – «Epilettici, infermi, orfani di guerra; Totale: Numer: domilatresentses» –3.

2.2. La necrofilia di Tessa. È questo virulento pessimismo a delineare l’architettura dei due libri tessiani: non semplici raccolte, ma canzonieri montati secondo un preci- so disegno, che, a scanso di equivoci, il poeta stesso si premura di illu- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 332

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strare nelle note d’autore. Il tema mortuario del volume del ’32, annun- ciato nel titolo, ma anche, con accanimento necrofilico, sia dalla sinistra dedica («musocco | campo 61 - fossa 800 | per | questa tomba» – era la sepoltura del padre), sia dall’epigrafe da Turgenev («La cosa più inte- ressante, | nella vita, è la morte»), è ripreso dallo schema del «piccolo ci- clo che sta fra due Morti. Una vecchia pianta e una vecchia signora», cioè La pobbia de Cà Colonetta e La mort della Gussona. Al centro del li- bro sta il «funebre baccanale» di Caporetto 1917, mentre nel «dittico» di Cittàa «si adombra un aspetto della vita moderna. Il persecutore in caccia e la vittima all’erta». Da questo universo in cui il male è dilagan- te non c’è che la salvezza della «piccola oasi di pace» del Gatt del sur Pi- nin o i «ricordi sereni di tempi lontani» di Sui scal e El cavall de bara (No- ta, p. 143). Ricorrono tutti gli estremi per giustificare l’epiteto di «eter- no menagramm» con cui il poeta stesso si definisce in un articolo del ’38 sul «Corriere del Ticino». Il raccordo con De là del mur è indicato in Primavera, dove risuonava «la prima, profonda nota di dolore: preludio alla vita che dura». Ri- prendendo il discorso nella nota al secondo libro, Tessa confermava la sua desolata diagnosi: «Dura tuttora, ahimè! immersa in un’atmosfera da catastrofe». Del primitivo titolo della raccolta, I cinqu settacuu (ma Isella segnala anche la dicitura «La Mort l’è chi per chi», figurante su uno dei manoscritti)4, è rimasto «lo spirito che la dettò». I deslipp di Càmol è la prima caduta; è il settacuu famigliare. Poi, in De là del mur, c’è la rovina dell’intelletto, cui segue, colla Poesia della Ol- ga, lo sfacelo morale. Chiude il ciclo dei tre saggi di centro On mort in pee. Qui c’è qualcosa di più e di peggio della naturale conclusione della vita: c’è la morte stessa annidata talvolta nell’uomo che pur cammina e pur mangia e beve ma che, per essa, è già un fantasma che tutti fuggono. La gente è fatta cosí: non aut pati, aut mori, ma soffrire e morire, l’uno e l’altro. Il dolore ci segue e la morte ci aspetta. Ed ecco Viv, a chiusura del libro, ecco il trit- tico del nostro viaggio con questa meta e con questo triste compagno. (Nota, p. 327). Il tono dei due libri non è probabilmente cosí omogeneo come Tessa vorrebbe farci credere. Ci sono momenti di caduta di tensione, nei qua- li riaffiora l’idillio dialettale. Il forte dislivello dei testi concorre a impe- dire la lettura unitaria suggerita da Tessa. Ma proprio l’autoesegesi del- le due raccolte riesce quanto mai preziosa al fine di chiarire le intenzio- ni dell’autore. Del resto la sua diagnosi mi pare perfettamente centrata per quanto riguarda i testi maggiori. Né la sanzione finale delle «poesie fatte» sembra sostanzialmente smentire l’interpretazione tessiana. LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 333

Struttura 333

Il carattere ossessivo della sua ispirazione non riguarda solo il tono. Quanto egli abbia scavato in un piccolo mondo dai confini fin troppo certi, quasi provasse una sorta di agorafobia per quanto stava al di fuo- ri, è documentato dal riapparire nelle prose di figure e motivi delle poe- sie, per non dire del ritorno degli stessi personaggi legati alla sua bio- grafia, dal Vanni alla Keller al Rosti, rispettivamente l’ingegner Pier Gior- gio Vanni, la pittrice Elisabetta Keller, il fedele Fortunato Rosti. Non solo dunque la sua opera poetica è accuratamente costruita, ma è anche caratterizzata da una ricca intertestualità. Qualche esempio. La pob- bia de Cà Colonetta, con l’invito a distogliere lo sguardo dal macabro ri- germogliare della vita in un mondo di morte, si ritrova in Giardinetti de- nudati: «Ma cosí queste piante non possono stare. [...] Le abbatteranno. [...] Non guardatele troppo le povere piante»5. In Tre gatti e un uomo6, ri- compare il mondo del Gatt del sur Pinin, mentre in Evocazione7 troviamo uno dei quadri di Navili e in Andare in Teatro8 incontriamo la signora Gus- soni. Ma spesso Tessa non si limita a presentare le stesse situazioni delle poesie: vi introduce anche suoi versi. Accade in Il caffè della sciora Cechi- na, Piazza Vetra (la vecchia), Natale in campagna e in città, ecc.

3. Tematiche.

3.1. Un mondo sconfitto. Mentre la Milano portiana è popolata di nobili, funzionari e artigia- ni, dai testi del Tessa viene fuori la città logora e dignitosa della piccola borghesia. La maggiore poesia in dialetto della prima metà dell’Otto- cento aveva scelto la città come luogo topico. In Porta e Belli si affaccia la condizione dell’uomo urbano, attorniato da solitudine, ingiustizia, in- differenza. Il destino della Ninetta o dei vari Bongee è lo stesso dei «mor- ti de Roma»: essere buttati «a la mucchia», soccombere nell’anonimato. La grandezza dei due maggiori esponenti della dialettalità ottocentesca nasceva anche dalla descrizione della realtà cittadina, in contrasto con la ricorrente tentazione arcadica delle nostre lettere. Alla metropoli i poeti dialettali del secondo Ottocento e del primo Novecento oppongono invece la provincia in quanto luogo, che, proprio per la sua perifericità, è al riparo dalle tempeste della storia e dalle lace- razioni della cultura. Questi limbi gretti e sonnolenti, ma anche strug- gentemente familiari, con il loro scarto rispetto alla cultura dei grandi LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 334

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centri urbani, sono già un emblema della poesia dialettale e del suo or- goglioso ritardo verso quella in lingua, travolta dall’innovazione nove- centesca. L’autore di L’è el dì di Mort, alegher!, confermando una volta di più l’eccentricità della propria posizione, rappresenta la sola eccezione a que- sta regola. Ma subito va precisato che esistono almeno due Tessa: il poe- ta di una cordiale città, tutta raccolta intorno alla Madonnina del Duo- mo, coi suoi tipi curiosi e le impagabili battute di una parlata affabil- mente feriale, e, all’opposto, il poeta visionario della degradazione e del- la follia, quale emerge dalla Poesia della Olga e da De là del mur. Va notato che Tessa non sembra conoscere mezze misure. O è l’autore sconvolgente di pochi altissimi testi – Caporetto 1917, De là del mur, La poesia della Olga, A Carlo Porta, in parte La mort della Gussona, Tossan in amor – o, quando manchi quella tensione poetica, è l’autore di versi di imbaraz- zante modestia. Quello che semmai colpisce nella sua operazione poeti- ca è la capacità di attingere la tragedia partendo da quel mondo tutto sommato piuttosto angusto e limitato. Malgrado le sue discese negli inferi della prostituzione, del degrado fisico e della follia, l’immagine del Villon non si adatta alla pacifica fi- gura dell’avvocato, che, lontano da ogni maledettismo, guarda al suo mon- do con viva partecipazione sentimentale. Chi fosse il Tessa ce lo dicono meglio di qualunque altra testimonianza le prose di Ore di città. In esse il poeta rievoca l’antica semplicità della vita milanese, con i suoi aned- doti umoristici e la stralunata saggezza del mondo popolare. È una città provinciale, in cui tutti parlano ancora dialetto come nella città portia- na (e dialetto significa riconoscimento: «Mi fa l’impressione che se qual- cuno parlasse milanese mi ritroverei, ma non parlano e mi sento lonta- no, estraneo...»)1. Solo in quegli anni i picconi e le ruspe delle demoli- zioni e le fanfare della modernizzazione fascista stanno risvegliandola dal suo sonno secolare. La disposizione più profonda del poeta è di tipo ma- linconico-nostalgico. In una nota autobiografica premessa a Finester e ri- ferita da Isella il poeta scrive: Due soci che avevano il loro studio di macchine da tessitura in via S. Andrea e che d’anno in anno capivano sempre meno dei nuovi indirizzi dell’industria, si di- cevano l’un l’altro per confortarsi: «Nun semm vecc!» Questo è pure il mio motto. Fra le nuove generazioni io mi sento decrepito. Ho cent’anni2. Ancora in una prosa di Ore di città osserva: «Nell’arte e nella vita Eli- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 335

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sabetta Keller non ha il culto del passato come certuni – me compreso»3. Mentre in apertura a Brutte fotografie di un bel mondo, del 1937-38, an- nota: «Non riesco a distaccarmi dai morti, non so vivere più»4. E in A Carlo Porta: «ai coss d’incoeu | e alla gent che ven su d’intornovia | var- di senza capí» («guardo alle cose di oggi e alla gente che vien su tutt’at- torno senza capire», vv. 211-12, p. 405). La poesia di Tessa riflette una drammatica accelerazione storica, che l’autore vive con lo sgomento e lo scandalo di chi contempla inorridito il nuovo appigliandosi all’antico (il «mond che se sputtana a la roversa»). L’autore di L’è el dì di Mort sembra ripetere a distanza l’esperienza de- gli scapigliati. Anch’essi all’indomani dell’Unità non accettavano le nuo- ve strutture della società borghese, in cui vedevano la negazione dei lo- ro ideali estetici, e vi si ribellavano, senza peraltro individuare un qual- siasi orizzonte alternativo. La disperazione e la dissipazione erano l’al- tra faccia del loro anarchismo. Il Tessa vive tra due condizioni antropologiche: «el veggiumm», il vecchiume della Vetra, e la «primavera noeuva», la dannunziana «Italia renascenta» (l’intento di prendere in contropiede l’immaginifico si ri- presenta in Tessa, dal «Cantemm, Olga, cantemm de qui tosann | anti- ch la grama sorta», vv. 41-42, p. 235, beffarda eco del «Cantiamo, can- tiamo dei nostri avi», all’«Italia renascenta» che rimanda al nome dei grandi magazzini milanesi La Rinascente, dovuto appunto all’autore del- l’Alcyone). Questo attrito vecchio-nuovo produrrebbe i consueti impa- sti melassosi cari alla nostalgia dialettale, se Tessa non investisse la ma- teria con un violento processo di identificazione viscerale. Prostitute, ir- regolari, matti non sono che le proiezioni del proprio rifiuto del mondo. È attraverso di esso che egli giunge al naturalistico «dramma di cui nes- suno si cura» dell’introduzione a Vecchia Europa5. Unico tra i dialettali Tessa raffigura la moderna esperienza urbana dell’anonimato e dell’e- straneità («Anche a quest’ora tarda quanta gente da queste parti!»)6, con- templandola dall’osservatorio degli emarginati, dei disadattati, dei de- relitti («cantemm de qui tosann | antich la grama sorta», «cantiamo di quelle ragazze antiche la grama sorte»). In tal senso il dialetto è la lingua di una condizione antropologico-sociale più arcaica in fase di liquidazio- ne, la lingua di quel mondo sconfitto dalla modernizzazione, cui il poe- ta guarda con struggimento inconsolabile. L’immagine di una realtà che si decompone percorre la sceneggiatu- ra Uomini maledetti: è l’allegoria dello sfasciarsi dell’antico, a partire dal- la malattia che travolge, insieme al corpo di un industriale, la sua fab- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 336

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brica e l’universo che vi è legato. Il senso di vivere alla vigilia dello sfa- celo riaffiora in Vecchia Europa, dove Tessa parla dell’Italia come di una «Veggia pelanda, razza | de cioj, | assa marscia, insedida | in quella ba- racca | decrepeta che se squanquassa» («vecchia baldracca, razza di min- chioni, asse marcio, innestato in quella baracca decrepita che si scon- quassa»). La diagnosi della poesia A Carlo Porta sarebbe stata inequivo- cabile: Pover el me farlocch, damm a trà a mi tant tant adess gh’è pu nagott de fà, se salvom pu, remedi ghe n’è pu; conven nanca stà lí, andemm sull’onda della merda che monta, e poeu, se la ven fada, andemm in bionda putost e femegh su ona biccerada!7.

3.2. Il pessimismo di Tessa. Questo processo di incupimento del mondo tessiano è stato progres- sivo ed è venuto avanti di conserva con il dilagare del disordine nelle for- me poetiche. Tessa stesso parla di perduti momenti idillici. «Potevo al- lora goder delle cose semplici e pure, ma oggi mi trovo preso nei gorghi dell’umanità in tempesta». La data in cui scrive queste parole è 1935 e l’epoca gli appare immersa in un’atmosfera di catastrofe. «Lo riconosco: vivo da tempo nella zona violetta da ecchimosi di settacuu, dei disastri. Ed è per questo che la presente nuova raccolta di cinque poesie doveva appunto intitolarsi “I cinqu settacuu”» rilevava nella nota a De là del mur (tutte le citazioni da p. 327). Era partito dalla rappresentazione, tipica della convenzione verna- colare, di personaggi ai margini, di figure crepuscolarmente desuete, tra- volte o dimenticate dai ritmi della modernità: vecchi (protagonisti in- tramontati della poesia tessiana, dalla Gussona a On mort in pee a Gri- mett al sô), bambini (figurano in Pupin sul trii, El popò indorment e El popò malaa), animali (si pensi a testi come El cavall de bara del 1912, con la fi- gura del cavallone sironiano che si trascina anacronistico per la città, o come il più tardo El gatt del sur Pinin, con il gatto perduto nel «nient» delle sue giornate; un po’ diverso il caso di L’asen). Altra situazione ca- nonica e tipicamente primonovecentesca è quella della passeggiata, che consente di volgere sul mondo uno sguardo scetticamente disincantato pigramente dispersivo («mi me ricordi pu || de nagott... mi voo a spass!», «non mi ricordo più di nulla... vado a spasso!», Primavera, vv. 12-13, p. LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 337

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39). Per rifarci a un’opposizione cara a Walter Benjamin: da una parte il flâneur dall’altra i ritmi tayloristici della società. Il movimento che domina la poesia di Tessa è di duplice allontana- mento dalla città: nello spazio verso la campagna, nel tempo in direzio- ne di un’altra, più civile Milano. La poesia A Carlo Porta e le prose di Brutte fotografie di un bel mondo documentano questa seconda fuga: «Sia- mo ridotti a un decimo della felicità che si godeva nei primi anni del se- colo». Quanto all’evasione nel contado, basta leggere ancora una volta Primavera: «Ciappi e luster, voo via, | via de chì, che son stuff» («Pren- do il largo, vado via, via di qui, che sono stanco», vv. 81-82, p. 44). E poco più avanti: «Voo foeura || in campagna, là giò | cont i besti vuj stà, | el viran mi vuj fà, | pensacch pu, se se po, || dacch on taj!» («Vado fuo- ri in campagna, laggiù colle bestie voglio stare, il bifolco voglio fare, non pensarci più se è possibile, finirla!», vv. 96-101, p. 44). In nuce c’è già qui il regresso, che, con ben altra drammaticità, sarà al centro di De là del mur. Il presupposto è il rifiuto della vita activa, del borghese e meneghino defà. «Là non facevo niente [...]. Non ho mai fatto niente nella vita, ho sempre guardato gli altri muoversi», annotava Tessa in Brutte fotografie di un bel mondo8. E nella Poesia della Olga dirà «De quell nagott che foo, de quell’eterno | nagotta che mi foo, no me rebelli» («Da quel niente che faccio, da quell’eterno niente che io faccio, non mi riscuoto», vv. 1-2, p. 239). All’altezza del duplice Dialogo del Poeta e del Consigliere Delegato, in apertura a De là del mur, la polemica tessiana si è precisata anche nei suoi riferimenti economico-sociali. Le due prose, datate 1936 e 1937, si in- caricano di tratteggiare lo sfondo su cui si accampano le poesie della rac- colta: i grandi testi della follia e della degradazione umana sono i pro- dotti di un mondo dominato dalla logica economicistica e strumentale, di cui si fa interprete la figura un po’ alla Grosz del Consigliere Delega- to. Quell’uomo senza scrupoli, perfetto esponente di un mondo di pe- scecani, che ha il suo simbolo nella violenza del traffico automobilistico – lo si ritrova dal Cavall de bara a A Carlo Porta, passando attraverso De là del mur: «(... un utomôbel... s’cioppa!) [...] (... macchin... macchin... la spoeula | fan...)», vv. 44-48, p. 179 – è l’emblema dell’universo con cui deve misurarsi l’autore: poesia e capitalismo. Che Tessa sia perve- nuto a una contrapposizione tanto nuda e lucida mi sembra un ulteriore segno della sua modernità. Nessun altro poeta italiano giunge in quegli anni a una formulazione altrettanto netta, compreso il corollario dell’i- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 338

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nutilità della poesia, mirabilmente fissato nell’indifferente sordità del ca- pitano d’industria. Il bersaglio dell’anticapitalismo romantico di Tessa è quella che uno storico inglese ha definito la modernizzazione reazionaria. Il poeta, soli- tamente tanto controllato, si lascia andare in un passo di L’uomo dei moc- colotti a una confessione, che ci fa capire da quali posizioni sociologiche egli contestasse la società del suo tempo. Discorrendo dell’amica pittri- ce Elisabetta Keller, notava: «Che le valse l’intuito dell’arte e la signo- rilità del tratto? Il passato conta sempre per qualche cosa o pro o contro nella vita dell’uomo. La gente non ti considera se scopre che tu eri di più di quello che sei e ti pospone a chi in altri tempi faceva lo spazzacamino o il doganiere»9. Tessa esprime dunque la resistenza della vecchia borghesia delle pro- fessioni ai nuovi ceti rampanti saliti alla ribalta economico-sociale di con- serva con i processi di razionalizzazione produttiva, cui per esempio guar- dava con favore negli anni Trenta Roberto Tremelloni. Questo spiega il carattere strettamente reazionario dell’antifascismo tessiano. Sonno («In sto mond birba, pien de travaij, | l’unech remedi l’è de dormí», «In que- sto mondo furfante, pieno di affanni, l’unico rimedio è dormire», Navi- li, vv. 19-20, p. 430) e accecamento (si pensi all’immagine dello struzzo in De là del mur o alla nebbia che cancella Milano in A Carlo Porta: «Neb- bia! Nebbia ven su!, vólzet fumeri | di riser, di marscitt! Nebbia ven su! | Tra el Redefoss, el Lamber e l’Olona, | scigheron della bassa, | im- pattònom , sfóndemel sott!», «Nebbia! Nebbia, vieni su. Alzati, fumea delle risaie e delle marcite. Nebbia vieni su. Tra il Redefossi, il Lambro e l’Olona, tu, nebbione della Bassa, avvolgimi Milano nella tua coltre, sprofondamelo sotto!», vv. 18-22, p. 392) sono gli stati in cui re- gredisce il soggetto posto di fronte alla realtà del regime. Quanto al fan- tasma della morte, come s’è visto, la sua presenza riesce addirittura os- sessiva nella poesia di Tessa. La poesia A Carlo Porta chiarisce meglio di qualunque altra la posi- zione ideologica del Tessa. Il testo è stato letto come un coraggioso ma- nifesto di antifascismo. E certamente è difficile trovare nella produzio- ne coeva un’invettiva altrettanto violenta contro le dittature. Tuttavia non si può fare a meno di rilevare come nei versi prenda forma una po- lemica contro il potere assai più genericamente qualunquista e reaziona- ria. Nihil sub sole novi sembra suggerire Tessa quando ricorda che «no- bel» e «marchesononn» imperversavano nella Milano portiana «giust co- me al dì d’incoeu», vv. 104-6, p. 399). O quando pochi versi dopo com- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 339

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menta: «Dopo cent ann e pu, | dopo tanto penà, per tant ch’el vaga | el mond l’è semper quell» («Dopo cento e più anni, dopo tanto penare, co- munque vada il mondo, è sempre lo stesso», vv. 118-20, p. 400). E an- cora: «Per ti bona Taliana, | come ai temp de Franzisch, per ti l’è el ba- st, [...] eternament e senza remission | ghe l’eet d’avè sui spall», («Per te bona Taliana, come ai tempi di Francesco, per te è il basto, [...] eterna- mente e senza remissione tu l’hai d’avere sulle spalle», vv. 129-35, pp. 400-1). Il fascismo, con il «beato asperges del baston», contribuisce sol- tanto ad acuire la percezione tessiana del male: gli offre la prova speri- mentale che il mondo è in preda alle sue trame. L’immagine della storia umana come male che implacabile si ripete è consegnata al finale di To- sann in amor, in cui si annuncia un futuro fantascientifico oscillante fra Kafka («come i avi... | se moveven... viveven...», «come le api... si muo- vevano... vivevano...», vv. 118-19, p. 454) e Orwell («Immensitaa | gre- va d’ona zittaa | d’azzal e de cristal [...] el Mond – me figuravi – | lon- tan... del Gran Millesem!», «Immensità greve di una città di acciaio e di cristallo! [...] il Mondo lontano – mi immaginavo – del Gran Millen- nio!», vv. 110-17, p. 454): Umanitaa trista e sapienta!... orba termidera che va...... lenta ciappada dent in d’on ingranagg che lavora!...... e desora per tutti... come l’aria limpeda...... in eterna... quella maledizion d’ona legg che governa unica... volontaria!10. Se sulla storia grava questa scettica ipoteca, perché dunque il Tessa guarda con nostalgia alla città ottocentesca («L’è la nostra Milan | veg- gia – tiremm el fiaa – l’è la nostra Milan, zion», «È la nostra Milano vec- chia – tiriamo il fiato – è la nostra Milano, zione», vv. 37-39, p. 394)? Come tutti i reazionari il poeta ha una terribile paura del nuovo. Anche Belli odiava più i giacobini dei cardinali impietosamente satireggiati nei sonetti. La Milano del xix secolo appariva al poeta come un sistema di rapporti inevitabilmente fondati sull’ingiustizia, ma almeno consolidati e certi. La nuova metropoli del fascismo, invece, con la sua repentina ac- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 340

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celerazione storica, che aveva portato al potere nuovi ceti rampanti e spregiudicati, gli si opponeva con la minaccia di un male ignoto e perciò ancor più temibile. Il regime non rappresenta agli occhi del poeta che l’ultima incarnazione di un negativo, che sembra essere assai più cosmi- co che storico e che si incanaglisce ogni giorno di più. Oggi è peggio di ieri, domani sarà peggio di oggi. La storia non è che la crescita entropi- ca di un male sempre peggiore: «el se impocciacca | el mond de prepo- tent e de cagoni!» («s’impantana, il mondo, di prepotenti e di calabra- che»). Ovvero: «andemm sull’onda | della merda che monta» («lascia- moci portare dall’onda della merda che sale»). È in un universo tanto livido e depresso, atterrito e deforme, che ac- quistano il loro significato la disperata allegria, il macabro umorismo, che fanno il tono della poesia tessiana: «Van a fass salamitt | i cavalitt e ri- den»; «L’è el dì di Mort, alegher!»; «alegher | fioeuj, che semm fottuu»; «t’han bigollaa... evviva!»

3.3. «Vacch e ruffian». In un piano editoriale dell’opera segnalato da Isella11 Tessa ricondu- ceva la propria produzione a tre grandi temi: «i matt», «i vacch», «i mort». Il tópos del bordello, diffuso nella letteratura del verismo e del de- cadentismo, come da Strindberg a Pirandello lo era quello del matto, in Tessa ha prima di tutto una radice biografica. Il poeta era quello che si definiva allora un «topo di casino». L’immagine dell’«avvocatt porscell», che trascorre lunghe ore fra le donne di vita, ci rimanda alla situazione di eterna goliardia in cui si era cristallizzata la vita dell’autore. «Ho sognato anch’io di avere una famiglia e qualcuno che venisse dopo di me: mi tro- vo uno scapolo e basta» osservava presentandosi a Radio Monteceneri12. Ma, ben oltre questi riferimenti biografici, la casa chiusa rappresen- ta una metafora decisiva all’interno dell’opera di Tessa. Il «lett di troj», dal quale il poeta medita «buttaa là come on roj» («rovesciato là come un maiale», La poesia della Olga, vv. 7-8, p. 229), è la carnevalesca cat- tedra, il mondo alla rovescia, da cui pronuncia la sua invettiva contro la società del suo tempo: Mi come porch e ti come baltrocca con bottega de fiocca... onori... onora i caff de la ruffianeria resorta! O primavera noeuva che s’infiora! Italia renovada in di io vacch!13. LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 341

Henri Toulouse-Lautrec, Donna che si mette le calze, fine Ottocento. Parigi, Musée d’Orsay. LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 342

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Tessa guarda al mondo che odia dal luogo della trasgressione istitu- zionalizzata. E la sua diagnosi è inconfondibile: dall’interno del casino è la società stessa ad apparire come un grottesco, sconfinato bordello. La sentenza della «sapienta donna» (l’Olga «Capa-vacca» è altrove defini- ta «galanta donna»), con quel tanto di metafisico che ha, ci pone di fron- te a un ennesimo statement della tragica antropologia tessiana: «“Ruf- fian... ruffian... ruffian... ecco coss’hin | i omen!” “Olga, e i donn?” “I donn?... hin vacch, | hin vacch i donn... vacch e ruffian...”» («“Ruffia- ni... ruffiani... ruffiani... ecco cosa sono gli uomini!” “Olga, e le don- ne?” “Le donne?... sono vacche, sono vacche le donne... vacche e ruf- fiani...”», vv. 15-17, p. 231). Nel finale della seconda parte il panorama che si offre alla tenutaria del «casott» appare scandalosamente omoge- neo: «e cà, e donn, e cà... per quant la gira | l’oeucc... olter no la ved d’intornovia!» («e case e donne e case... per quanto giri l’occhio, altro non vede tutt’intorno!», vv. 281-82, p. 269). Si badi che l’osservatorio prescelto da Tessa non è un qualsiasi lupa- nare, ma il più squallido e decrepito fra i luoghi del vizio, quella casa del- la Vetra, il cui ambiente anche Linati descrive nel suo El Tessa. La pro- stituta, di cui il poeta ricostruisce una storia molto portiana, fino all’ap- prodo – questo invece tutto tessiano –, al degrado fisico e alla follia, non è che l’ennesima incarnazione del personaggio basso caro alla tradizione letteraria in dialetto. Tessa racconta esperienze di vita con meno chan- ces della sua, si cala in personaggi avvinti alla catena della necessità. Nel- la sua discesa agli inferi della società, nell’universo gravitazionale del dia- letto, incontra un’umanità per cui il cielo è chiuso e la storia è fato. Il male non è, come in Leopardi, il risultato di un teorema: è un postulato. Giustizia non ce n’è, né a Milano, né a’sto mondo. Dopo gli umili di Manzoni e gli umiliati di Porta, Tessa dipinge un universo orrendo bel- liano, dove nessuno è più senza colpa («Se rangen tucc... hin tucc della partida, | tucc della lega... basta ch’el te veda | vun e el te ciolla!...», «Si arrangiano tutti... sono tutti dell’intesa, tutti della lega... basta che uno ti veda e ti fotte!...», vv. 136-38, pp. 249-51). Appunto «vacch» e «ruf- fian». La grandezza di Tessa sta in fondo nell’avere trascinato il suo picco- lo mondo liberty alla Vetra o a Mombello. È al contatto con questi offu- scati universi che si sprigiona la reazione chimica della sua poesia più al- ta. E il prodotto è tanto grottescamente originale poiché il poeta salta a piè pari tutti gli stereotipi veristico-decadenti della prostituta e del bor- dello (si pensi ancora nel 1902 a un romanzo romantico-naturalista co- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 343

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me Olocausto di Oriani, storia di una ragazza che il bisogno induce a pro- stituirsi), grazie a un’idea di realismo che si fonda sulla realtà sperimen- tale, sull’esperienza in prima persona, piuttosto che sulla convenzione istituzionalizzata. Vecchia Europa mette in luce, attraverso una studiata costruzione con- trappuntistica, la «coesistenza pacifica» delle due grandi strutture su cui si regge la società, Chiesa e bordello, i luoghi simbolici dell’anima e del corpo. I due tópoi attraversano la poesia e in fondo la biografia tessiana, se è vero che l’autore, partito dalle case della Vetra, approda alla Casa di ricovero ecclesiastica di don Pietro Rusconi («Voo via | voo giò del pont a stà | con Don Peder Ruscon e i so pret vecc», «vado via, vado al di là del ponte a stare con don Pietro Rusconi e i suoi preti vecchi», dichiara in A Carlo Porta, vv. 215-17, pp. 405-6). Ma più che luoghi topici della civiltà borghese, Chiesa e bordello sono nel Tessa una delle apparizioni della miseria umana, quale egli la contempla dal suo pessimismo a sfon- do religioso. Si aggiunga che nessuno come lui ha saputo cogliere lo squal- lore delle case di tolleranza, la malinconia degli amori mercenari, l’umi- liazione della lussuria. «Mettetel in la ment: | chinscí | pu che porch no te troeuvet» («Mettitelo in testa: qui più che maiali non trovi»), spiega la vecchia meretrice alla giovane debuttante di Vecchia Europa, mentre nella Poesia della Olga la padrona urla crudamente: «“In dove tocchen | sporchen, sti malarbetti puttanee... | ... i sciori... i sciori... pissen... ca- ghen... forchen... || vardel chí sto lenzoeu!...”» («“Dove toccano spor- cano, questi maledetti puttanieri... i signori... i signori... pisciano... ca- cano... forcano... guardalo questo lenzuolo!...”», vv. 182-85, p. 257). E cos’è la stupefacente scena dei muti ululanti di godimento se non una surreale epifania della degradazione dell’uomo baudelairianamente ri- dotto a bête fauve? All’ingresso del postribolo. La Peppa (I) è al posto della Vella. Sta leggendo il giornale. Uno strano ululato scende dal piano superiore. Un Cliente (II) che sta per uscire. II Chi l’è? I Hin i mutt... quand van su lor fan semper inscí. A poco a poco il vestibolo e la casa si riempiono degli urli bestiali dei sordo-muti in foia. Si rivede la sala poi di nuovo il vestibolo, si assiste all’ilarità generale14. LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 344

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Come il bordello, anche la Chiesa, custode dello spirito, è il luogo del- la disfatta umana. Si erge «sul mare furioso e limaccioso del mondo», se- condo l’epigrafe di Papini premessa a Vecchia Europa, offrendo il suo pie- toso conforto all’umana colpa o attendendo paziente che la morte compia la sua opera. «D’intorna | se magna... se bev | e se caga; | se bestemma e se ciava! | La Vita! La Gesa | la lassa che faghen... | la speccia... la spec- cia | che tornen! [...] Se riven je ciappa, | se van | la lassa che vaghen [...] La sa che a sta porta | se torna, in la cassa» («Intorno si mangia... si beve e si caga; si bestemmia e si chiava! La Vita! La Chiesa lascia che faccia- no... aspetta... aspetta che tornino! [...] Se arrivano li prende, se vanno lascia che vadano [...] Sa che a questa porta si torna dentro la cassa». Le immagini del cadavere dell’uomo facoltoso e della prostituta sfi- nita crocifissa al letto della sua fatica, su cui si chiude Vecchia Europa, dimostrano in quale dolente, crudele materia affondi le sue radici il pes- simismo tessiano: corruzione fisica e corruzione morale. A fronte di questo universo di abiezione, sottolineata dall’anafora di «besti», ac- quista un’imprevedibile umanità, semmai, l’estrema apparizione dei gatti, che nella notte risvegliano il portinaio affinché li faccia entrare in casa: «Qui pover besti! | [...] L’intelligenza | de qui besti. || Quand se dis i besti». Il cerchio si chiude: come già in De là del mur, anche qui alla colpa umana fa riscontro l’ebete innocenza dell’animale. Tessa ha tratteggiato un universo senza luce, dominato da un senso del male, dolente e acco- rato, immedicabile e cupo, che è l’imprinting più inconfondibile della sua poesia. Solo un dialettale, con la sua lingua grumosa e sconfitta, ha sa- puto testimoniare tanto emblematicamente la tenebra di quegli anni, sui quali il poeta profeticamente vedeva incombere la catastrofe bellica. «Dev’essere stato poco piacevole vivere fra due guerre senza potersi ri- fare della prima e attendendo d’ora in ora la seconda» aveva fatto dire all’abitante di un lontano futuro nel dialogo citato. Nei giorni in cui la situazione politica precipita di ora in ora Tessa scrive la sua ultima poesia. Si intitola Preghiera ed è un’accorata invoca- zione al Signore affinché salvi «quel pocch che vanza | de onestaa e de onor» («quel poco che resta di onestà e onore»). Tre mesi dopo, il 21 set- tembre 1939, una setticemia si porta via il poeta a soli cinquantatre an- ni, mentre la storia europea si sta incaricando di avvalorare il suo pessi- mismo. Aveva scritto nel 1934 a proposito dei propri versi: Perché, mi son detto, porgere al lettore un altro non desiderato specchio in cui debba mirare il suo volto corrucciato? LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 345

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Aspetterò cosí che la bufera si plachi. Se la calma verrà rimarranno i miei ultimi versi come il ricordo di un incubo notturno, ma se i tempi volgeranno al peggio an- cora una volta verrà dimostrato che poesia è sovente profezia15.

4. Modelli e fonti.

4.1. Dal «Verzee» alla «Vedra». La stella polare di Tessa resta inconfondibilmente il Porta. Gibellini ha persuasivamente mostrato i debiti del nostro autore verso il grande poeta dell’Ottocento1. Fino dai testi di data più alta la poesia di Tessa appare contraddistinta da un’intonazione realistico-narrativa, cui l’au- tore milanese si manterrà fedele fino alla fine. Tutta l’opera tessiana vi- ve della tensione, spesso lacerante, istituita con il grande modello: il de- siderio di attingere il mondo portiano e insieme la coscienza di esserne separato da una drammatica frattura, storica ancor prima che estetica. Del resto proprio nell’attaccamento a una poesia che narra e al poe- metto, che resta la forma più congeniale alla sua ispirazione, il Tessa ri- badisce una volta di più la propria estraneità alle poetiche moderne del- l’illumination e del frammento. In un testo del’37 pubblicato in Svizzera, Due anni e non più, scriveva: «La lirica propriamente detta si è rinsec- chita, ha cessato di narrare alcunché, è diventata astratta, antidescritti- va, s’è fatta ermetica per mancanza di un oggetto definito cui riferirsi»2. Portiano è anche l’ossequio tributato dal Tessa, nel 1932, in apertu- ra del suo primo libro, a un molto ottocentesco e romantico popolo, ri- conosciuto depositario della parola poetica: «Riconosco ed onoro un so- lo Maestro, il popolo che parla. Squisitamente parla ancora un suo mu- tevole linguaggio sempre ricco, sempre vario, sempre nuovo come le nu- vole del cielo. Non è morta la lingua milanese come nessun dialetto morrà» (p. 7). In Piazza Vetra (la vecchia) nella raccolta Ore di città Tessa confessa- va: «Devo alla vecchia piazza e al suo popolo acquartierato quel poco che so di lingua milanese»3. Il vecchio modello portiano della «scœura de len- gua del Verzee» riaffiora nell’elenco di oltre cinquecento lemmi, che Tes- sa raccolse con scrupolo filologico nel fascicolo inedito Frasi e modi di di- re del Dialetto milanese. «Ho fatto – senza visibili frutti – del dialetto che parla il sobborgo uno studio paziente». E infatti, a fronte della famosa virata novecentesca del dialetto da «lingua della realtà» a «lingua della LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 346

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poesia», il milanese di Tessa resta un documento linguistico preziosissi- mo, spesso non attestato in alcun altro repertorio. In un articolo, pub- blicato nel febbraio del 1934 nel Canton Ticino, su «Radioprogramma», leggiamo: «Cosí il dialetto è vita, vera vita da noi e la lingua è molto spes- so accademica. Io personalmente non mi adatterò mai a parlare e a scri- vere l’italiano della borghesia milanese». E prosegue a proposito di quel- l’italiano: «La sua tavolozza è morta e bituminosa; questa gente non so- spetta nemmeno che al suburbio non si disarma, si custodisce, si arric- chisce il vecchio e glorioso idioma che, ben lungi dal temere gli apporti delle altre regioni italiane, se ne fa patrimonio e cresce in ricchezza e splendore. Qui soltanto, io vivo, mi muovo e mi sento a posto»4. Questa opzione mimetico-realistica caratterizzerà inconfondibilmen- te la ricerca di Tessa, che nel saggio su De Marchi scriverà: «D’accordo che ci vuol dell’ardire nel dare ai personaggi di un libro i nomi veri che essi hanno nella vita, ma se li togli loro, la creazione artistica è menoma- ta»5. Gli esordi del poeta milanese ci pongono di fronte a un cordiale uni- verso bozzettistico, animato di figurine e tipi pittoreschi, crepitante di citazioni di parlato dialettale. Le atmosfere in cui si muovono le prime prove tessiane sono quelle feriali di un tranquillo epigonismo portiano, con l’accenno a un ristretto mondo municipale, i consueti procedimenti di aversio alludenti a un cordiale, ammiccante rapporto con il lettore, gli immancabili tópoi vernacolari della personificazione dell’animale (El ca- vall de bara), della coloritura idiomatica («Oej che sprella!... t’è andaa a mal i bigatt?», «Ohilà che asperella!... ti sono andati male i bachi?» tra- duce letteralmente Isella, Sui scal, vv. 26-27, p. 22), dell’espressività gras- sa e caricaturale («El gh’à mollaa | on slavesg d’ona pissada!», «Ha la- sciato andare un diluvio d’una pisciata», El caval de bara, vv. 91-92, p. 34). All’occorrenza fa la sua comparsa anche la formula della bosinada («Ei! ma sí! Per fatt piasè | disaroo ona bosinada | ancamò; chè tanta, asnada | pu, asnada men, quand gh’è || la salut...», «Eh! ma sí! per farti piacere dirò ancora una bosinata; che tanto scempiaggine più scempiag- gine meno, quando c’è la salute...», Sui scal, vv. 1-5, p. 21). Regolarità di metri e adozione di forme chiuse ne sono gli inevitabili corollari. Si tratterà per Tessa di investire questo «vecchio armamentario dia- lettale» (la definizione poco simpatetica viene dall’antologia di Anceschi e Antonielli)6 con la violenta carica centrifuga di una sensibilità, ancor prima che di una cultura, maturata alla scuola del moderno. Eppure fi- no alla fine Tessa oscillerà fra soluzioni formali quanto mai intransigen- ti e indulgenza a una bonarietà e affabilità tipicamente dialettali, che at- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 347

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tribuiscono alla sua poesia quell’inconfondibile tonalità. Basti pensare al reciso ripudio dell’io anonimo e grammaticalizzato dell’ermetismo, a fa- vore di un altro più cordialmente impuro io poetico, che entra come per- sonaggio nel testo, recando tutta la vivacità di una ben tratteggiata con- dizione biografica. ... sent i gatt... chí, la nott, dove me fogni coi me cart e pensi e sogni... chí l’è el sitt classegh di gatt!7. Un’altra volta: «E mi, come per solet, | andavi cont el coo | in di ni- vol...» («E io, come al solito | andavo con la testa fra le nuvole»). La via seguita dal Tessa era la stessa dei crepuscolari: se D’Annunzio aveva proiettato la propria biografia nello splendore estetico dell’opera, essi riportavano invece l’opera nel grigiore di un privato assolutamente imitabile nella sua logora normalità.

4.2. Narrazione e frammento. Entrambe le raccolte di Tessa recano la dicitura «saggi lirici». Saggi vale evidentemente esperimenti, studi, prove. Da una parte il poeta, con understatement anti-novecentesco, sembra volerci rammentare il caratte- re non assoluto, ma provvisorio e sperimentale dei propri testi, confer- mato peraltro dalla lentezza di composizione e dalla protratta attività correttoria. Dall’altra suggerirci che le sue ricerche, soprattutto quelle più mature, lo conducevano in territori inusuali alla tradizione milane- se. Questo messaggio di trasgressione avrebbe dovuto ispirare l’annun- cio pubblicitario del secondo libro. Nel «Bando di pubblicazione» per De là del mur, di cui ci dà notizia Antonicelli in una nota di Poesie nuo- ve ed ultime, è lo stesso autore a suggerire: Delio Tessa è al suo secondo volume. Meglio di prima e peggio di prima. Meglio di prima perché il Tessa, in De là del mur, à attinto ancor più profonda- mente al popolo della sua città e ne à cavata zampillante la freschissima polla della lingua viva. Peggio di prima perché dopo la lirica De là del mur per un verso e la Poesia della Olga per l’altro, tutti i ponti che ancora lo univano alla tradizione letteraria e alle buone costumanze sociali sono definitivamente bruciati8. Anche Antonicelli, in un articolo del 1937, riprodotto da Giuseppe Anceschi, osservava a proposito del rapporto con il Porta: LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 348

Fotoritratto di Paul Válery.

Ha fatto i suoi passi in là, nel creare e nel versificare, in poesia e in poetica: non è modesto verseggiator dialettale che vada, senza alzare il muso, sulla strada del mae- stro, ma gli sentite dentro un’esperienza nuova, un’arditezza, una sprezzatura, una nervosità moderna, un pudore del cantar facile, ch’è fin troppo, di oggi, e una pietà umana e una malinconia che fan pensare a Baudelaire9. Quanto a lirici, i saggi di Tessa lo sono in un senso evidentemente di- verso rispetto all’idea di lirica nutrita, ad esempio, da Croce. Il poeta mi- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 349

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lanese pensava piuttosto alla frantumazione simbolista delle orditure, al- la narrazione spezzata in mille affanni, filtrata attraverso l’io e dunque in contrasto con la tradizionale impersonalità e linearità del racconto. Non mancava dunque in Tessa la consapevolezza del lavoro di rin- novamento che egli stava conducendo nella tradizione dialettale, tro- vando magari una legittimazione nell’epigrafe da Valéry posta in aper- tura a De là del mur: «Il mondo à valore per ciò che è estremo, è perma- nente per ciò che è mediocre». Ma si trattò di un’evoluzione che coprì non meno di due decenni, giungendo a maturazione a partire dalla fine degli anni Venti. Basta confrontare le parti della Mort della Gussona o di De là del mur precedenti il 1915 per trovare prevalentemente quartine di ottonari e di settenari rimati ABBA. Mentre con la ripresa dei primi an- ni Trenta entrambi i poemetti vedono dilagare un incontenibile disordi- ne, che mostra quanto Tessa avesse abbracciato la causa novecentesca della libertà metrica. L’evoluzione, tuttavia, non andò esente da scarti cronologici, che dipendono in notevole misura anche dalla materia trat- tata, se è vero che un testo già notevolmente moderno come Caporetto 1917 sembra risalire al ’19, mentre El gatt del sur Pinin, bozzettistico e tradizionale, risale al ’21-22. Anche nelle prove di data più alta colpisce comunque rilevare una pre- coce tendenza alla costruzione nervosa, allo scarto e alla spezzatura sti- listica: si veda un testo fra i più antichi di Tessa, Sui scal, che non va ol- tre il 1912. Sa taseven, te sentivet ancamò qui dò là sù: «On guantin!...» dò parolett e bott lí... che quist tornaven a fass sott...10. Nella movimentazione del racconto, nella disarticolazione del perio- do e nel conseguente rompersi della strofa agiva l’eredità della Scapi- gliatura. Tessa era un narratore autentico, che tuttavia avvertiva l’im- possibilità di utilizzare gli schemi del suo più autorevole predecessore, il Porta, nel racconto in versi milanesi. Questo aspetto è stato efficace- mente posto in luce da Isella suggerendo il parallelismo con l’asse Gad- da-Manzoni11. Nella tradizione lombarda sono proprio gli scapigliati a se- gnare il momento in cui il rapporto tra lo scrittore e la realtà si fa più pro- blematico, imponendo la rinuncia alle ampie e ordinate strutture man- zoniane. In tal senso è attraverso la scomposizione scapigliata che Tessa LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 350

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legge Porta, spingendo poi alle estreme conseguenze il processo di fram- mentazione avviato dagli scrittori della bohème lombarda. Narrare è so- lo possibile per lacerti, schegge, interferenze e sottintesi lirici, accettan- do pienamente la disarmonia della condizione moderna. È a questa luce che si spiegano affermazioni come quella riferita da Linati nel suo ritratto del poeta: Tessa diceva di non saper costruire un racconto: concepiva per visioni, per idee. La pagina sempre in presa diretta sul quotidiano, l’attenzione verso le malattie e i derelitti, la predilezione per l’orrido e il macabro, cioè il «maledettismo» di Tessa, gli interni esplorati con gusto quasi surreale, l’attribuzione di una forte impronta locale al testo sono ulteriori elementi che documentano il debito verso le pagine di Tronconi e Valera, come voleva Giannessi, ma anche di Cletto Arrighi, di Tarchetti, di Dossi, se teniamo conto più in generale della lezione tecnica da essi fornita. Ma esistono anche rapporti più direttamente documentabili sul piano te- stuale. Vecchierelli al sole di Emilio Praga ha certo contato per Grimett al sô, come Egloga, con la sua ansia di fuga dalla città («Come, come re- star fra queste mura | quando sapete | che son fioriti il monte e la pianu- ra [...]? [...] Come, come restar fra questi avelli | che chiaman stanze?»), per Primavera (si pensi ai vv. 81-96), mentre I cà deve qualcosa a Case nuove di Arrigo Boito12. Quanto Tessa sia legato a una precisa atmosfera letteraria cittadina lo dimostrano ancora le analogie tra la città rievocata nella poesia A Car- lo Porta e il Milanin Milanon di Emilio De Marchi13, testi entrambi indi- rizzati con struggente rimpianto al grande dialettale ottocentesco. Fra l’altro «el noster Milanin» è citazione demarchiana ricorrente in Navili, mentre nel commosso saggio dedicato all’autore di Demetrio Pianelli Tes- sa non rinuncia a un’autocitazione dal proprio omaggio portiano (si trat- ta dei vv. 47-49). La Milano tessiana nascerà proprio dall’aggiornamen- to della città miserabile e nebbiosa, naturalista e crepuscolare, cara alla letteratura del secondo Ottocento, con l’immagine baudelairiana della metropoli come gouffre commun. La lettura di Baudelaire costituisce un’altra delle grandi esperienze formative tessiane. In Galleria di Benefattori il poeta ricorda la sua am- mirazione per l’autore delle Fleurs du mal («glielo esaltavo nel mio fer- vore»)14, che proprio verso la fine del secolo conosce una crescente for- tuna in Italia. Di citazioni baudelairiane sono in effetti disseminate di- verse prose del Tessa (Notturno, «Dammi di che nutrire», ecc.), che nel poeta francese sapeva cogliere immagini e atmosfere tipiche dei propri LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 351

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versi milanesi. I riferimenti a Crépuscule du matin e a La mort des pauvres, ad esempio, ci pongono di fronte a due tópoi quanto mai caratteristici del Tessa come la città notturna e la morte. Baudelaire resta per Tessa il poeta della solitudine urbana, il «popoloso deserto» della Traviata, del tutto assente dalla letteratura italiana, salvo appunto alcune pagine di De Marchi. I temi del vizio, della malattia, dell’esclusione e della degrada- zione cari all’autore delle Fleurs, che aveva rivelato la fisiologia delle mo- derne città, sono al centro anche dei tableaux milanesi di Tessa. Una sug- gestiva ipotesi interpretativa ci potrebbe condurre a riconoscere nei mou- vements brusques e nei soubresauts della costruzione tessiana il riflesso di quell’esperienza della modernità, cui allude anche Benjamin in Angelus Novus parlando del prezzo a cui si acquista la sensazione della moder- nità: la dissoluzione dell’aura nell’“esperienza” dello choc. Del resto I cinqu settacuu non era forse il primitivo titolo di De là del mur? Ma se gli scapigliati additarono a Tessa la strada della frammenta- zione, se Baudelaire lo pose di fronte alla rappresentazione della moder- nità metropolitana, quali furono le altre esperienze culturali che con- sentirono a Tessa di distanziare rapidamente la convenzione milanese? Sostanzialmente tre: un’educazione letteraria non certo vasta, ma attenta al rinnovamento degli istituti procurato dalla letteratura moderna, che per Tessa voleva dire Pascoli, Palazzeschi, i futuristi, fino a Ungaretti; una sensibilità per i fatti musicali del resto diffusa nella cultura dell’e- poca e attestata anche dalla biografia del poeta, assiduo frequentatore della Scala non meno che della Società del Quartetto; infine l’interesse per il cinema e le sue soluzioni espressive. Nel Pascoli Tessa trovava una poesia leggibile e gremita di cose, an- che se poi tutt’altro che “facile”, forse la prima colma di tanto amore per la concretezza e l’humilitas: insomma davvero en plein air. Come Pasco- li in una celebre pagina aveva rimproverato a Leopardi come «errore d’in- determinatezza» l’incongruenza botanica del «mazzolin di rose e di vio- le», cosí Tessa in una prosa del 1936, Natale in campagna e in città, pren- deva posizione contro l’astrattezza libresca delle patrie lettere. Se la letteratura italiana – lasciatemelo dire cosí di volo – anziché cibarsi dei clas- sici rosicchiando i fossili, fosse entrata in quelle stalle ad ascoltare le fole delle vec- chiette ai nipotini, se si fosse occupata più della gente che dei libri, vivrebbe ora di una vita sua, di una vita vera che purtroppo invece deve accontentarsi di invidiare agli altri15. Ma accanto al poeta dal linguaggio basso e preciso, che agirà sulla poe- sia dialettale prevalentemente di livello medio, Pascoli era anche l’auto- LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 352

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re che nella sua variegata cucina aveva sviluppato una feconda ricerca plurilinguistica. Gli intarsi di parlato o le citazioni, che già Porta aveva magistralmente utilizzato in testi su cui Tessa mostra di avere meditato con profitto, quali il Miserere, si affiancavano al ricorso all’onomatopea e allo sfruttamento delle risorse fonosimboliche. L’altro aspetto della modernizzazione poetica disposta dal Pascoli in- veste la sfera metrico-formale. Pascoli era stato il solo, dopo i vari Prati e Aleardi e prima di Gozzano, a tentare il racconto in versi. Grandissi- mo narratore, aveva saputo dosare continuità e frammentazione, realiz- zando una poesia in cui la durata si accompagnava alla scompaginazione del verso e delle orditure metriche. Proprio Pancrazi, ricordando Tessa all’indomani della morte, citerà le industrie metriche e acustiche del Pa- scoli. Si può dire che il poeta milanese fu l’unico fra i dialettali a mette- re davvero a frutto questo aspetto cosí decisivo della rivoluzione pasco- liana.

4.3. Il futurismo e Palazzeschi. La lezione del futurismo milanese operò in Tessa nel senso di un’ul- teriore legittimazione dell’impressionismo, di una sintassi quasi esclusi- vamente nominale, del largo ricorso all’onomatopea. Il poeta della Olga non poteva evidentemente riconoscersi nell’ideologia del movimento, con il suo azzeramento della tradizione, l’attivismo, il bellicismo, l’esal- tazione della macchina. Ma certamente la semplificazione sintetica del- le «parole in libertà» dovette agire nell’esplosione della strofa tessiana in una rosa di frammenti, che finivano per enfatizzare l’aspetto iconi- co-visivo non meno che acustico del testo. Tessa non si serví mai della variazione tipografica dei caratteri, ma Isella ci informa che nei suoi ma- noscritti vengono talvolta impiegati inchiostri di vario colore per distin- guere i diversi piani del racconto. Certamente più consona alle atmosfere feriali del dialetto fu la lezio- ne proveniente da Palazzeschi, su cui ha giustamente insistito Isella. La sua eversione sorridente e domestica era nelle corde del poeta assai più del teoricismo avanguardista. La passeggiata è stata opportunamente in- dicata come un precedente dell’oltranza impressionistica tessiana quale prende corpo nel finale della Poesia della Olga o in De là del mur, con quell’inglobamento dell’accidentale e del caotico di cui ha parlato Men- galdo (si può aggiungere In altoparlante, una prosa di Ore di città, che spe- rimenta le stesse soluzioni espressive). Analogo discorso può farsi per gli LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 353

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inserti dialogati, che, diversamente da quanto accade nella tradizione dia- lettale, si affollano sulla pagina, smembrati e ridotti nella loro babelica dissonanza, a puri flatus vocis. Una suggestione palazzeschiana non mancò probabilmente neppure nell’accostamento del Tessa a figure di irregola- ri, anche se nel poeta milanese i toni virano decisamente dal fantastico e dal buffo verso il tragico, il macabro e il grottesco. Ma certo testi co- me Le beghine o La fiera dei morti hanno contato qualcosa per Tessa. So- prattutto quest’ultimo, con la sua ossimorica associazione di «dì di mort» e allegria, deve avere offerto più d’una suggestione a Caporetto 1917. Trombe tamburi e piatti, tutti gridan come matti: è la fiera dei morti. [...]

Gustave Courbet, Charles Baudelaire, 1848. Montpellier, Musée Fabre. LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 354

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Nelle osterie, al suon delle chitarre, si cantano romanze paesane, [...] Giunge fin sulla strada un odore stuzzicante di lepre e di pappardelle. Tutti si riservano per mangiare a crepapelle. I carabinieri a cavallo, coi loro pennacchioni rossi e blu, si fan posto trionfanti fra la calca stordita dei festanti: putupun putupun putupun... [...] E per le vie polverose, per le serpeggianti vie campagnole, in un bel tramonto pieno di vapori, di fiamme e di viole, la gente se ne ritorna dai camposanti... allegramente16. Le differenze con il capolavoro tessiano sono evidenti. Il poeta mila- nese, che il tema del «dì de’ morti» aveva incontrato nella terza parte dell’Ildegonda di Grossi, come in un testo poetico di Tarchetti (Nel dì de’ morti), brucia rapidamente quel tanto di fumista che si trova in Palazze- schi. A mutare è soprattutto il tono. Mentre La fiera dei morti è costrui- ta sul gioco letterario del comico che fa attrito sul funebre, in Caporetto 1917 di questa scanzonata impertinenza non resta quasi nulla, come non resta nulla del gusto necrofilico degli scapigliati. A imporsi è invece il senso di una tragedia collettiva incombente, evocata nella seconda par- te con cupa forza allucinatoria. La frammentazione connessa allo sche- ma della passeggiata, che Palazzeschi sfrutta con allegra sfrontatezza, sembra piuttosto rinviare in Tessa a una «funzione Céline». Essa pre- suppone la condizione baudelairiana dell’uomo moderno che sperimen- ta il reale come accidentalità e minaccia. Infranti ogni ordine e ogni ge- rarchia, la realtà affluisce nella sua casualità, aggredendo il soggetto con voci, parole, immagini. Al rapporto con Ungaretti, infine, dedica un cenno Linati in «El Tes- sa» («spesso diceva piacergli l’Ungaretti»), sospettando però «un po’ di snobismo». Al di là delle idiosincrasie del Linati stesso, va riconosciuto che la riconsacrazione novecentesca del poeta disposta dall’autore del- l’Allegria, sia pure quale sacerdote dell’aridità e del silenzio, era lonta- nissima dal gusto di Tessa (il quale in Scherzo, una prosa di Ore di città, LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 355

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scrive maliziosamente: «Anche i pappagalli sono diventati ermetici, poe- ti ungarettiani... Calze Barbesti... m’illumino d’immenso...», e altrove: «Se lo fiuto lungamente m’illumina un mondo di cose»). Ma il rallenta- mento della dizione imposto dal primo Ungaretti, con la sua disgrega- zione del verso tradizionale in frammenti intensamente evocativi, che isolano la parola, caricandola di forza espressiva, non poteva non sugge- stionare il poeta milanese.

5. Considerazioni stilistiche.

5.1. «Come un fascio di musiche». Trompeo definí Tessa un poeta-musicista. Indubbiamente tutta l’o- pera abbonda di indicazioni e riferimenti musicali, mentre la biografia testimonia un’assiduità con la musica, che va dalla frequentazione delle sale di concerto alla dedica della Poesia della Olga a Toscanini. Primave- ra reca il sottotitolo «Gran Fantasia e Fuga», Caporetto 1917 «Sonada quasi ona fantasia», La mort della Gussona «Tema e variazioni», mentre Viv è presentato come una «Sonadina», articolata nei tre tempi «Prelu- di, Notturno, Final». Quanto a Navili, una nota di Poesie nuove ed ultime ci informa che «doveva essere un “quartetto” e avere un accompagna- mento musicale. Forse un melologo». Sull’autografo Tessa avrebbe as- segnato le parti: Navili I Violino, Acqua del Navili II Violino, La Bru- gna Violoncello, La Roeuda Viola. In linea con queste indicazioni si collocano i numerosi rilievi formu- lati da Tessa sull’analogia tra testo e spartito, tra poesia e musica. Si va da affermazioni quali «Suprema legge! Tutto è musica nella sincera espres- sione popolaresca» alle minute istruzioni di lettura con cui egli accompa- gna, quasi fossero appunto «un fascio di musiche», le proprie poesie. L’insistenza sull’aspetto musicale mi pare rientri nella nuova sensibi- lità promossa dal decadentismo, che aveva smantellato le antiche gerar- chie estetiche, proclamando l’unità di tutte le arti. Da una parte l’indi- viduazione orfica della musique come essenza, come Ursprache della poe- sia, dall’altra le discussioni che si moltiplicarono anche in Italia intorno a Wagner e alle società musicali con i loro repertori di «tedescherie», avevano contribuito alla crescente fortuna culturale della musica. Si pen- si solo ad alcune poesie disperse montaliane degli anni Venti dai titoli LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 356

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emblematici: Musica silenziosa, Sonatina di pianoforte, la serie Accordi con i sette testi intitolati ad altrettanti strumenti musicali (Violini, Violon- celli, Contrabbasso, ecc.)1. Ma direi che tutto ciò non coglie che le valenze culturali del proble- ma. Il nodo veramente decisivo è individuato da Linati quando scrive che Tessa pensava a una poesia tutta di musica e suono. Quanto il poe- ta fosse sensibile alla forza evocativa della parola sta lí a documentarlo, nella trasparenza del laboratorio, De là del mur, che Tessa stesso addita come la lirica ad esaltazione del potere illimitato della parola. Essa è il nucleo generatore del testo, che si aggrega e cresce intorno al suo fanta- sma sonoro: «Mi disariss ch’intorna | tutt on mond ghe se forma, | rimm che ressònen... vuna | la ciama | l’altra a campagna e via | via te filet via | vol de la fantasia! – ...» («Io direi che intorno tutto un mondo gli si for- ma, rime che risuonano, una chiama l’altra come le campane, e via via t’involi – volo della fantasia!», vv. 88-94, pp. 186-87). La scelta stessa del dialetto viene motivata con ragioni eufoniche in una testimonianza consegnata a «Radioprogramma», il periodico della Radio della Svizze- ra Italiana: «Scrivo per il mio unico piacere e scrivo in dialetto perché so che la lingua italiana non può, assolutamente non può, fornire quel mondo di suoni che mi occorre per esprimermi come voglio»2. Se tuttavia andiamo a vedere qual era la musica dei versi tessiani, ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso da quanto il poeta dove- va ascoltare al Quartetto e alla Scala: sussultoria, dissonante, mai canta- bile. E anche non volendo seguire Arbasino, che, riferendosi al «dizioni- smo» teso al silenzio del poeta milanese, ha citato Webern3, è indubbio che per trovare qualcosa di paragonabile alla pagina tessiana dovremo sca- lare almeno fino al Puccini: all’autore che tenta di coniugare una certa cantabilità con la frammentazione dei ritmi del parlato e del dialogo. L’attenzione maniacale del Tessa verso l’aspetto musicale del verso comincia dalla sapiente orchestrazione delle risorse del dialetto milane- se, con i suoi scheggiosi monosillabi e le sue finali consonantiche o tron- che, che permettono al poeta di prendere le distanze dalla cantabilità del verso italiano. Un esempio da La mort della Gussona: Ghe voo lí derent: «E donca come valla?» ghe foo. Nò: la secudiss el coo: ... la me guarda... la me bronca ona man... «Robba de pocch... uff.. l’è nient... el passa... el passa...» LIE15_DEF 09-11-2007 14:57 Pagina 357

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Nò... la dis de nò... la biassa, la mastega, la fa mocch, mocch de dio! per dí su on quaj coss, ma no la pò pu parlà... l’è inutil, nò, la fa segn che la pò pu, la pò pu... l’è sassinada chí in la lengua... pu parlà... pu. La volta el coo in là e la fà giò ona lucciada...4. Scrive nel 1936 sull’«Illustrazione ticinese»: Il guaio dell’italiano sono le parole lunghe, le parole piane, l’eccesso di vocali e so- prattutto quelle maledette vocali sempre in fondo di parola. Ora le vocali addolci- scono, stemperano, diluiscono i suoni. A lungo andare tutta quella melassa diventa insopportabile. L’italiano è un’orchestra d’archi. Altre lingue invece, giovandosi dei suoni duri, netti, brillanti di molte consonanti accostate offrono una ricchezza di timbri ben maggiore5. Cresciuto su parnassiani e decadenti, soprattutto francesi, e poi su Pascoli, Tessa si dimostra particolarmente accurato nella tessitura del verso, manifestando in verità una maggiore attenzione per l’aspetto rit- mico piuttosto che per quello timbrico. Isella ha rilevato ad esempio la tendenza alla smorzatura della rima. Non la smentiscono gli esiti di gu- sto gozzaniano del tipo «Firenze... Piazza della Signoria... | un bacio dal- la Cia...» (La poesia della Olga, vv. 206-7, p. 259), che sono deliberata- mente in falsetto, né la rima Schuster - scatolin del luster in La mort della Gussona (vv. 57 e 60, p. 130), che è invece una tipica strizzatina d’oc- chio della bonomia dialettale. E in entrambi i casi si tratta comunque di episodi isolati. Al contrario assai frequente è l’uso della rima interna, che raddoppia per cosí dire i circuiti, affiancando alla cantabilità più esteriore della strofa una seconda, più sofisticata tramatura di richiami fonici. «... sí...... sí... va ben tuscoss... l’è brava in stanza e l’è ona tosa d’ora... ma la mia cà... – dighel ti, Maria, – ... anca per lee... riva la nott e cossa la se vanza? ... capissi anmí... se ghe fa mal i pee... ma chichinscí l’è minga la Baggina...»6. Non mancano certo nella poesia tessiana momenti di particolare ad- densamento sonoro («on mis-masc, | on mes’cioss, mucc de strasc», Ca- poretto 1917, vv. 226-27, p. 68; oppure: «la tira giò madonn... la s’cep- LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 358 LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 359

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pa i legn... || imbestiada in de la corridora | stretta tra la stramezza e la stuetta», La poesia della Olga, vv. 265-67, p. 267; «l’era || ona mattina grisa | d’ottober senza el vol | d’on passer, senza sol!...», De là del mur, vv. 36-39, p. 179; e ancora «... bolla d’aria nell’aria | parolla solitaria», De là del mur, vv. 101-2, p. 187; né manca un largo ricorso a un istituto tanto pascoliano come l’onomatopea: «(cru... cru...... cru...) [...] – pumm... pumm... pumm... –», De là del mur, vv. 175 e 183, p. 197; «... titirlicch... titirlecch... | titirlicch... titirlecch... [...] – tutrucch... | tutrucch... [...] “... I... i... i... i...”», Grimett al sô, vv. 1-2, 17-18 e 42, pp. 313, 315 e 317. Quanto la lezione del fonosimbolismo del poeta di San Mauro sia stata meditata da Tessa lo documenta il «pendolo mono- sillabico che batte le ore notturne – nott... sogn... nott», che il poeta stes- so si incarica di segnalare nelle pagine del dicitore di De là del mur o la tendenza alla risemantizzazione del morist della civetta e del mamuss (dal tedesco man muss) della cantilena popolare, questi ultimi già indicati da Mengaldo. Ma è più spesso alle improvvise accelerazioni e ai ralenti («giò vers Milan l’è quasi | scur... rong e semineri, | navili e cimiteri | suden ada- si, adasi», Caporetto 1917, vv. 63-66, p. 59), alle continue rotture del- la cadenza, ai repentini cambi di marcia, in sostanza alla vistosa irrego- larità ritmica, tutti fortemente sottolineati dall’organizzazione grafica della pagina, che il Tessa affida la novità del proprio verso. Non si trat- ta solo dei violenti enjambements rilanciati addirittura tra una strofa e l’altra. Si tratta di un attentato più radicale recato alla linearità del rac- conto e tanto più clamoroso proprio perché operato su una poesia che si presenta appunto come narrativa. Metrica e sintassi si scollano e si contraddicono senza posa. Il poeta milanese varia continuamente il pro- prio passo, sia all’interno della stessa misura metrica con bruschi salti ritmici, sia passando a diversa misura metrica, come accade con l’inter- polazione dei brandelli di canti in Caporetto 1917, o della filastrocca nel- la Poesia della Olga, o ancora, in un testo notevolmente più disarticola- to come De là del mur, servendosi di una gamma di versi che spazia dal- l’ottonario al trisillabo. Addirittura nei due poemetti che restano i ri- sultati più alti del Tessa l’alternanza si stabilisce fra zone metricamente più regolari e zone invece più corrose, come la seconda parte in De là del mur o il finale nella Poesia della Olga, in cui appare arduo rintrac- ciare uno schema.

Il direttore d’orchestra Arturo Toscanini, al quale Tessa dedicò la Poesia della Olga. LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 360

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In un articolo di Ore di città intitolato I miei mesi il poeta sembra in- direttamente difendere il proprio operato. Dopo aver dichiarato di ono- rare un solo maestro nel popolo che parla, precisa che la sua più alta le- zione non consiste altro che in un appello antiletterario all’irregolarità. Il popolo, quando crea, non ama né i versi giusti né le rime esatte. Lascia gli uni e le altre ai poeti di professione e costoro, qualche volta, cercano di imitarlo, si af- fannano a scoprire il segreto della metrica popolare che è un po’ il segreto dei sen- tieri delle mandre e dei pastori. Ci sono, ma bisogna saperli scoprire e non perderli di vista perché a tratti scompaiono per riprender più in su. Al turismo letterario si consigliano le strade asfaltate e le carte del R.A.C.I. Su quelle e con quelle si va co- modamente da strofa a strofa come da chilometro in chilometro. Luna fa rima con cuna e bella con stella7. Annotazioni di paesaggio, spezzoni di parlato, interiezioni, canti, commenti del poeta, si accalcano sulla pagina di Tessa con il caratteri- stico procedere singhiozzante e sospensivo enfatizzato da quel tipico isti- tuto tessiano che sono i puntini di sospensione, accampandosi su fonda- li metrico-ritmici continuamente mutevoli. Il testo si presenta dunque come un patckwork o, se si preferisce, un collage, che ricuce insieme pez- zi di diversa provenienza. Anche qualora non vi siano interferenze, co- me nel caso della strofa della Poesia della Olga sopra riportata, ma venga citato uno stesso discorso, Tessa ha bisogno di spezzarne la linearità me- diante una specie di iperrealismo del parlato. In una certa misura è pro- prio conducendo alle sue estreme conseguenze la registrazione del parla- to, con le sue iterazioni e le sue incongruenze («Come la gente parlando ripete e insiste nella parola che assomma il concetto!» scrive in L’è el dì di Mort, alegher!, p. 9), che nasce il caratteristico ductus del Tessa. An- che in ciò la sua soluzione appare profondamente dialettale: nel servirsi degli strumenti del parlato per travolgere le orditure dello scritto. Non sappiamo se Marinetti conoscesse i testi del Tessa, ma certo nessuno co- me il poeta milanese aveva realizzato l’auspicio formulato dal caposcuo- la del futurismo italiano nella prefazione a una curiosa raccolta del 1937 curata da Filippo Fichera, Il Duce e il Fascismo nei Canti dialettali d’Ita- lia. Affinché i dialetti non muoiano, notava Marinetti, occorrono poeti capaci di esprimere fuori dalle tiritere col verso libero o con le parole in libertà il grande dinamismo della vita d’oggi dove tutti i sentimenti si modificano attraverso l’accelerato e nuovo travaglio di denaro industria commercio rivoluzioni guerre in terra mare cielo. Questa stilistica della discontinuità e del montaggio ci conduce a fa- re i conti con l’esperienza che forse più di ogni altra, più della letteratu- LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 361

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ra e della musica, ha contribuito ad accostare Tessa alla sua tipica co- struzione giustappositiva: il cinema. Lo aveva riconosciuto già il ticine- se Piero Bianconi in una recensione a L’è el dì di Mort, alegher!, nella qua- le afferma che nelle liriche dell’ultimo periodo specialmente si faceva strada con più decisione quella che è la novità più appariscente di que- sto poeta: e cioè un certo modo di vedere e di rappresentare che richia- ma insieme i procedimenti del cinematografo o addirittura la sovrappo- sizione di visioni e di scene. Persuaso dell’influsso del cinema sulla sua poesia era lo stesso Tessa, che il 1° maggio 1933, ringraziando Bianconi, scriveva: Gentile signore, intanto mi permetto ringraziarla per lo studio veramente indovinato e ap- profondito sulle mie poesie. Soprattutto quello scoprire la tendenza cinematografi- ca nella mia lirica è particolarmente vero. Le dirò a questo proposito che ho scritto un soggetto lirico di cinematografia e ne ho in mente altri8. Appassionato e competente della nuova forma espressiva, per lunghi anni critico cinematografico (le sue rubriche si chiamavano Vita dello schermo sulla «Perseveranza» e Cinematografo sul «Corriere del Ticino») e autore in proprio di due copioni, Vecchia Europa e Uomini maledetti, il secondo tuttora inedito, il poeta milanese coglie come forse nessun altro le opportunità compositive offerte dalla pellicola. Se il futurismo e Pa- lazzeschi hanno contribuito all’opera di rottura della costruzione tradi- zionale, il cinema alla soglia del sonoro ha offerto a Tessa una nuova sin- tassi per tentare inediti, audaci montaggi dei materiali, in linea con il suo gusto dell’intermittenza, dell’ellissi e della sottrazione. Il poeta vi ha av- vertito tutta la suggestione di un’arte che abolisce i nessi logici tra qua- dro e quadro e che procede per salti e flash-back. Si dice che Tessa pen- sasse ad alcuni grandi maestri del cinema contemporaneo. Il nome da ci- tare, accanto a René Clair e Marcel Carné ipotizzati da Stella9 come pos- sibili interlocutori del copione tessiano, mi sembra il più simpatetico Robert Bresson, con i suoi arditi accostamenti di immagini non imme- diatamente connesse. Ma ha ragione Mengaldo quando scrive: Partito per porsi al servizio di un’arte diversa appassionatamente amata e capita, e dunque per trascendere la propria letterarietà e la propria stessa autonomia, in realtà questo testo ha introiettato interamente il cinema nella propria scrittura letteraria, te- sa al massimo delle sue possibilità; e dunque basta orgogliosamente a se stesso10. Il copione è forse lo schema che più si avvicina all’andamento del poe- metto tessiano: tra le parti più frante dei testi maggiori e i brani milane- LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 362

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si di Vecchia Europa non corre infatti una differenza sostanziale. Ma an- che esiti minori come Pupin sul trii o I cà mostrano come Tessa proceda con una costruzione scorciata, in cui semplicemente e un po’ misteriosa- mente un quadro si succede all’altro. Questo frenetico mutare del piano cinematografico, il lampeggiare continuo di inquadrature, l’interferen- za, la contrapposizione, il mix sono la vera anima della lirica tessiana. Sul rapporto tra cinema e poesia ci soccorre nell’introduzione a Vec- chia Europa un rilievo dello stesso autore, che dichiara di aver voluto «portar l’arte cinematografica decisamente nel campo poetico»: L’arte cinematografica per la sua grande mobilità e per gli arditissimi voli che es- sa sola consente, si avvicina ben più alla lirica che alla drammatica. Ma Tessa si spinge più in là, rintracciando una giustificazione profon- da alla pratica del frammentismo, da cui emerge lo strettissimo rappor- to tra scelte stilistiche ed esperienza psicologica. Si notò pure che la vita d’ognuno è costituita da un’infinità di elementi staccati che soltanto in rapporto e in funzione dell’inscindibilità dell’io acquistano valore di unità e costituiscono l’ambiente della personalità attiva. Di questi frammenti, in ap- parenza estranei al soggetto, vive il dialogo, talché l’osservatore dovrebbe trovarsi per essi nel piano della vita giornaliera11.

5.2. Una poesia “en plein air”. Malgrado la destrutturazione del racconto tradizionale, Tessa resta un autentico, per quanto straniato, narratore. Mentre Gadda, che opera nella Milano di quegli stessi anni, appare soprattutto uno scrittore, in- tento a scavare negli spessori del linguaggio, forzando tutti gli equilibri normali, Tessa lavora direttamente sulle strutture narrative. C’è in Gad- da una violenta aggressività satirica, che travolge parodizzandolo il mon- do rappresentato. Tessa ha invece un atteggiamento affettuosamente complice, aderisce con passione mimetica alla Milano suscitata dalla sua parola. La pagina tessiana è composta di minuti frammenti naturalistici, dotati ciascuno di senso autonomo e registrati con scrupolo documenta- rio. La sua novità riguarda semmai la composizione di quei frammenti, che nel loro accavallarsi e nelle loro intermittenze travolgono proprio la restituzione naturalistica della realtà. Gadda, al contrario, procede me- diante un’instancabile, brulicante invenzione linguistica, che rinvia piut- tosto alle figure del groviglio e del pastiche, straniando e deformando l’im- magine. Semplificando drasticamente: il vero interesse di Tessa è la realtà, quello di Gadda la parola. LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 363

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Anche l’impianto linguistico delle poesie milanesi del Tessa resta so- stanzialmente naturalistico. «Scrittor dialettale alle fonti rimango» leg- giamo nella Dichiarazione che inaugura L’è el dì di Mort, alegher!, (p. 8). E per Tessa le fonti sono, come sappiamo, quelle del «popolo che parla» (p. 7). Infatti aveva scritto poco prima a proposito del vocabolario: «Ho pochissima simpatia per questo libro. A chi scrive in lingua non pure, ma ai cultori di lettere dialettali sembrami il vocabolario un inciampo al cam- mino» (ibid). Tessa mira alla lingua viva e preferisce dunque mezzi più sperimentali. Il suo strumento di lavoro è piuttosto il famoso registro compilato in proprio delle Frasi e modi di dire del Dialetto milanese. Que- sto operare in presa diretta sul parlato ha come conseguenza un atteg- giamento spregiudicatamente remoto da ogni purismo dialettale. Leg- giamo sempre nella citata Dichiarazione: Crea la gente parlando i suoi vocaboli di tempo in tempo. Le più belle, le più efficaci parole rimangono, se ne vanno le altre. Il popolo non te- me i neologismi; li ama, li cerca, li forma. Una lingua senza nuovi apporti è un orga- nismo che vive di cellule morte. Osservo pure che il dialetto desidera alcune volte parole non sue. (ibid.). Il milanese di Tessa non è la lingua di Porta o della tradizione lette- raria: è la Umgangsprache della Milano dei primi del Novecento. Ciò si- gnifica sia una lingua polifonica, fortemente articolata sul piano diato- pico, diastratico e diafasico, sia un codice che non esita ad aprirsi a voci impure, a calchi, a espressioni non registrate nei dizionari. Il dialetto di Tessa colpisce in primo luogo per la sua intensa carica mimetica, che si connette al forte rilievo scenico-drammatico della scrit- tura. È un milanese vivacemente idiomatico e gergale, ancora fresco di tutti gli afrori e le asprezze del plein air. La drammatica verità e serietà della poesia tessiana nascono dal sapore di realtà della sua lingua, tal- mente infitta nelle cose e nel tempo da porre qualche problema di deci- frazione. Vista la forte marcatura naturalistica è inevitabile che il milanese mu- ti a seconda dei testi, oscillando tra il dialetto borghese e italianizzante di De là del mur e quello espressionistico e popolare della Poesia della Ol- ga, dove, come ha rilevato Isella, alla maîtresse vengono messe in bocca le stesse parole che le sono attribuite nel famoso brogliaccio delle Frasi e modi di dire del Dialetto milanese. Nel descrivere la ricca stratificazione della lingua di Tessa occorre muovere dall’asse diatopico. Caporetto 1917 («“O Tanoeu, | scià... gnè- man...”», vv. 237-38, p. 69), De là del mur («“O vu Regió... disii | ch’a LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 364

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paes l’è cost chí?”»; «Dopo i dí de laô | sira della domènega. || “chichin- scí l’è sempru festa”», vv. 74-75 e 333-35, pp. 183 e 217; ecc.) e La poe- sia della Olga («“El me apà” la fava [...] “Oh mamm... o pà...”», II, vv. 148 e 158, p. 253) documentano il dialetto del contado, sia nei dialoga- ti, sia nelle parti narrative, quale strumento di caratterizzazione del- l’ambiente rustico. Accanto al milanese «bosino» c’è quello urbano del poeta, che può spaziare dalla punta idiomatica all’esito italianizzante fun- zionale alla descrizione del decoro borghese. È la stessa lingua citata in tante pagine dell’Adalgisa. Si vedano La mort della Gussona («... Ari... boff d’ari notturni... | Rugabella... loeugh sotturni! [...] Loeugh fanta- stech, loeugh decrèpet», IV, vv. 14-21, pp. 127-28), o La poesia della Ol- ga («Al par dell’avvocatt, dell’ingegnee | se metten al mestee zelantement: [...]... e la cà l’è moderna! scal de marmor, | rovera de slavonia, mezz pa- stell, | acqua calda, piastrell...», II, vv. 67-73, p. 241), dove il poeta gio- ca sul contrasto di questo lindo, modernissimo interno con l’osceno ber- ciare della «Capa-vacca». Molte voci del milanese tessiano non sono registrate dai vocabolari dell’epoca. Da un rapido spoglio dalla Tosa del Borgh: marangagn («ma- lanni»), menarell («segaiolo»), gràgen («gracchiano»), gh’òo rossaa sù («gli ho sporcato di rosso»). In I deslipp di Càmol: L’era propi andaa a pettao | cont el coo («era proprio partito con la testa») oppure on quaj ciappa – | daj, on quaj rebell («qualche parapiglia, qualche rovescio»). Talvolta vi si intravede il poeta suggestionato dalla mirabile creatività linguistica del popolo che parla, colto negli accessi d’ira come nella Tosa del Borgh (ge- neron de spiaggia, incrocio tra due espressioni vess un bell gener e tipo spiag- gia o faccion de scocca, fantasiosa abbreviazione di faccion de cavall de scocca, «faccia di cavallo a dondolo»). Altre volte si tratta di vere e proprie invenzioni d’autore. In De là del mur il nome comune viran («villano») diventa Viro, che strizza l’occhio al vir del classicismo fascista. O ancora si veda il fantasioso battegh la cat- tolega, dove cattolico è incrociato con cattà («questuare»). Nella Poesia della Olga troviamo la se cocchetta («fa la coquette allo specchio»), impo- lonada («rossa come un pollon, un tacchino»). Talvolta sono esigenze eufoniche a sospingere verso la forzatura linguistica. In On mort in pee la parola sudor perde la dentale divenendo suor. Spiega il Tessa nella pa- gina del dicitore: «Da suor ho fatto appositamente scomparire il d per rendere madida, molle, la parola». Pur non essendo un autore babelico, Tessa introduce sulla pagina tut- ta una serie di altri materiali linguistici non strettamente dialettali, se LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 365

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Obice abbandonato dai soldati italiani dopo la disfatta di Caporetto, 1917. Gorizia, Mu- seo della Grande Guerra. non all’occorrenza per una sommaria velatura fonetica, che corrispon- dono alla rappresentazione della prassi borghese urbana. In primo luogo si tratta di voci legate alle professioni e alla tecnica (motor, uricemich, transatlantech, patrocinador legaj, cunt corrent, ecc.). Poi di termini legati alla vita politica (giolittian, socialista, democratich, liberaj, ecc.). Non man- cano forestierismi più o meno fedelmente trascritti (trench, traveller’s che- ques, tout-de-même, camïons, side-car, gut morghen, ecc.), né marchi com- merciali (Delage, Buick, Calminn, Lenci, Codeina, pillol Walda, ecc.), che acquisteranno l’autonomia di vere e proprie tessere nel corso delle pas- seggiate tessiane (negozio consorziato, Cugini Praga, ecc.). Ci sono poi altri contingenti linguistici, che accedono alla pagina di conserva con le citazioni importate nel testo. I più tipici sono le - LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 366

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ni popolari, il latino ecclesiastico frequentemente interlineato secondo il ben noto modello portiano (da La mort della Gussona al finale della Poe- sia della Olga fino a Interno di chiesa), l’italiano inerte del bollettino di guerra in Caporetto 1917 («“... a destra | del Brenta, incendiati | i depo- siti, in dura | lotta nella pianura, | ci siamo ripiegati...”» fino al malizio- so gioco intorno al burocratico evacuato: «“abbiamo...” | “Cossa l’à ditt? abbiamo... | e poeu? se capiss nò!” || “L’à ditt – evacuato! –” | “Cos- s’è?” “Mah!” “ad occidente... | abbiamo nettamente | respinto...” “... Evacuato | putost!” “... in nostre mani...”», vv. 125-29 e 142-48, pp. 63 e 64). In italiano suonano anche molte delle voci della boccioniana rissa in galleria di Caporetto 1917, dove si intuisce lo scontro tra i ceti medi interventisti e italianizzanti o i questurini infiltrati, da una parte, e il po- polo scettico e dialettofono, dall’altra («“Allarmista!” | “Napoli!” “Di- sfattista!” | «Va al tò paes, rognon | de fidigh!... aria” “Lei, | Lei, ven- ga con me, Lei!”», vv. 159-63, pp. 64-65). E sempre in italiano è in Gri- mett al sô la lingua del potere («“Si faccia...” | e diseva...»), e perfino del super-io borghese («“Besana...” | Alla mattina lu | per podé saltà su | el s’inzigava... “... alzati... | su, non fare il poltrone!...”», vv. 77-82, pp. 319-20).

6. Nota bibliografica.

La raccolta di esordio di Tessa è L’è el dì di Mort, alegher! nove saggi lirici in dialetto milanese con testo esplicativo a fronte, Milano 1932; poi con testo esplicativo in lingua a cura di F. Rosti e una nota di E. Guic- ciardi, Milano 1960. Segue postuma Poesie nuove ed ultime, saggi lirici in lingua milanese corredati dalle pagine del dicitore, a cura di F. Antonicelli e F. Rosti, Torino 1947. I curatori si avvalsero delle carte del poeta, attualmente di- sperse. Per De là del mur poterono anzi contare sul «volume dattiloscritto riveduto dall’autore per la stampa». Nel dopoguerra, per iniziativa sia del Rusca, sia del fedele Rosti, con- tinuò la pubblicazione del tutto occasionale di inediti del poeta. Più or- ganico e criticamente supportato il volume Alalà al pellerossa, satire an- tifasciste e altre poesie disperse presentate da D. Isella, Milano 1979. Nel 1985, dopo molte vicissitudini editoriali, ha visto finalmente la luce l’edizione critica delle poesie tessiane per le cure del massimo filo- LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 367

Nota bibliografica 367

logo di cose lombarde, Dante Isella. Il volume reca il titolo L’è el dì di Mort, alegher! De là del mur e altre liriche, è accompagnato da una fonda- mentale introduzione dello stesso Isella ed è pubblicato da Einaudi (To- rino). Per la prima volta tutte le poesie sono tradotte e commentate, for- nendo al lettore uno strumento indispensabile per valutare la lingua del poeta. In appendice sono elencate le prose giornalistiche di Tessa. L’edizione Isella comprende le due prime raccolte, integrandole con ventitre altre liriche disperse, ma già edite, cui aggiunge un inedito, Pre- ghiera, scritta pochi mesi prima di morire, ed elimina La corridora di veg- gett, che figurava in Poesie nuove ed ultime, pur appartenendo alla sce- neggiatura cinematografica Vecchia Europa (va però detto che il poeta amava recitarla separatamente). Nell’impossibilità di accedere alle irreperibili carte Rosti-Antonicel- li, Isella si attiene di solito a Poesie nuove ed ultime, integrandole all’oc- correnza con i manoscritti disponibili e correggendo gli eventuali errori. Meno condivisibile, benché filologicamente corretta, la decisione di ri- pristinare l’originaria lezione dei versi 59, 61 e 64-65 della Poesia della Olga. Il Tessa, nell’impossibilità di recitarli pubblicamente per la diret- ta allusione a Mussolini, li aveva sostituiti con una lezione, che ancora oggi ci appare esteticamente più convincente, tanto che anche Antoni- celli, non più gravato da censure, l’aveva conservata. Assai opportuna in- vece la reintegrazione dei vv. 110-13, riportati in nota da Antonicelli. Nel saggio introduttivo (ibid., pp. vii-xxiii) Isella situa Tessa nella tra- dizione dialettale lombarda, indicando in lui il rappresentante, sul ver- sante della poesia, della linea Dossi-Gadda. La sua inevitabile distanza dal Porta può essere paragonata a quella dell’ingegnere da Manzoni. Il saggio di Isella resta fondamentale per l’ampia analisi del linguaggio e della metrica di Tessa, oltre che per un’articolata ricostruzione della sua cultura. Riserve sull’edizione Isella esprime e. bonora, Rassegna biblio- grafica, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXII (1986), 523, pp. 431-46. Negli anni successivi vedono la luce altri testi tessiani. Per prima una scelta delle prose giornalistiche: d. tessa, Ore di città, a cura di D. Isel- la, Torino 1988 (una selezione delle collaborazioni giornalistiche era ap- parsa con il titolo Piazza Vetra (la vecchia) e altre prose «ambrosiane», con un ritratto di Tessa di C. Linati e una bibliografia di D. Isella, Milano 1979; poi con il titolo Ore di città una scelta più ampia a cura di D. Isel- la, Milano 1984; infine una raccolta ancora più estesa con il titolo Color LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 368

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Manzoni. 60 prose ambrosiane, sempre a cura di D. Isella, Milano 1988). Il Tessa firmò circa centosettanta articoli giornalistici, concentrati per la maggior parte nell’arco di un quinquennio, dal 1934 al 1939. Gli interventi sulla stampa elvetica sono stati riuniti da g. anceschi, Critiche contro vento. Pagine «ticinesi» 1934-1939, con una nota di G. Orelli, Lugano 1990. Delle due sceneggiature cinematografiche ha visto la luce solo Vec- chia Europa, a cura di M. C. Sacchi, con una premessa di A. Stella, Mi- lano 1986. A questi volumi si devono aggiungere altri testi sparsi: il saggio di d. tessa, Emilio De Marchi e il suo mondo, in e. de marchi, Racconti lom- bardi, a cura di M. Cantella e D. Magrassi, Milano 1984; il volume De- lio Tessa, immagini e documenti nel Centenario della nascita, a cura di A. Stella, Pavia 1986; la raccolta I morti non si fanno mai vivi. Sei lettere di Delio Tessa a Elisabetta Keller, a cura di A. Stella, in «Autografo», V (1988), n. 15. Una bibliografia tessiana, che giunge fino al 1989, si trova nella mo- nografia di g. anceschi, Delio Tessa. Profilo di un poeta, Milano 1990. Le milleseicento copie dell’edizione Mondadori, rimaste in gran par- te invendute, passarono nella generale distrazione della critica. Le ecce- zioni furono poche: l’amico c. linati, in «Pegaso», IV (1932), e l’anno dopo le segnalazioni di b. croce, Poesia dialettale, in «La Critica», XXXI (1933), e dello scrittore ticinese p. bianconi, Bosinad, in «L’Educatore della Svizzera Italiana», febbraio-marzo 1933, che fa un cenno ai rap- porti della scrittura tessiana con il cinema. Si aggiungano un’affettuosa recensione dell’amico f. rosti, in «Il Convegno», aprile 1934, e due ri- cordi, rispettivamente di c. linati, Serate con Tessa, in «L’Ambrosiano», 15 aprile 1936, e di f. antonicelli, Il Tessa recita, in «Il Biellese», 19 novembre 1937 (riportato da g. anceschi, Delio Tessa cit., pp. 177-79, nota 4), che ritraggono Tessa dicitore. Fra i non molti necrologi usciti al- la morte del poeta va segnalato il lucido articolo di p. pancrazi, Ricordo di Delio Tessa (1939), in Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori di oggi, a cura di C. Galimberti, III, Milano-Napoli 1967. Negli anni successivi troviamo sempre attivo Linati. Nel 1943 con un ritratto che diverrà celebre: c. linati, El Tessa, in id., Il bel Guido e al- tri ritratti, a cura di G. Lavezzi e A. Modena, Milano 1982; nel 1945 con un articolo sul «Corriere d’informazione» del 31 luglio, «Alalà» per il pellerossa. Le satire antifasciste di Tessa il poeta che non vide «l’ora gran- da»; nel 1948 Linati firmerà invece un ritratto dedicato a Tessa in «Bel- LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 369

Nota bibliografica 369

fagor», III. Al ’46 risale anche una testimonianza di l. rusca, Delio Tes- sa poeta civile, in «Svizzera Italiana. Rivista mensile di cultura [Locar- no]», n. 2. Anche la pubblicazione di Poesie nuove ed ultime non mosse molte ac- que recensorie. Va segnalato però nel ’47 un testo di p. p. pasolini, Per Delio Tessa, postilla a id., Sulla poesia dialettale, in «Poesia. Quaderni in- ternazionali», VIII (1947). Qualcosa in più uscì nel decennale della mor- te, ma ad opera dei soliti amici. Si veda f. antonicelli, Ricordo di Tes- sa in Scritti letterari 1934-1974, a cura di F. Contorbia, introduzione di N. Bobbio, Pisa 1986. Al 1949 risale anche il primo incontro con Tessa di f. giannessi, Sulla poesia di Delio Tessa, in «Humanitas», IV, n. 10, che avrebbe consegnato un più articolato contributo alla Letteratura ita- liana di Marzorati, I contemporanei, I, Milano 1963, pp. 731-57 (ora No- vecento, IV, Milano 1979, pp. 3672-700). Giannessi insisteva sui rap- porti del poeta con la Scapigliatura dei Tronconi e dei Valera, che gli avrebbe fornito la materia dei suoi versi, poi elaborati con originale di- sposizione non lontana dalla sensibilità di un Lautréamont. Sulla presenza della musica in Tessa è ancora utile l’articolo di p. p. trompeo, Poesia dell’asino (1950), in id., La pantofola di vetro, Napoli 1952. Nel 1952 Tessa fa il suo ingresso nell’antologia Poesia dialettale del Novecento a cura di P. P. Pasolini e M. Dell’Arco, Parma 1952. Nell’in- troduzione, poi ristampata in p. p. pasolini, Passione e ideologia, Milano 1960 (e poi con saggio introduttivo di C. Segre, Torino 1985, pp. 117-21), Pasolini parlava del «gusto assolutamente moderno del narra- re» del Tessa, ricondotto sotto l’etichetta dell’espressionismo europeo, citando un po’ genericamente «il più bituminoso Kokoschka, il più per- fido e puerile Beckmann». Situava poi Tessa, che nel suo pessimismo sa- rebbe più vicino a Belli che a Porta, nel solco della «polemica anti-bor- ghese della Voce, in cui, proprio come dati linguistici, trapassano i più vividi fermenti delle Scapigliature». Nel 1969 la critica tessiana registra per la prima volta il nome del suo più autorevole esponente, d. isella, La quercia e il pioppo, in «Strumenti critici», III, 8, pp. 25-29, dove esamina l’ascendenza pascoliana della Pobbia de Cà Colonetta. Sui rapporti di Tessa con la tradizione lombarda e in particolare con il Porta si veda p. gibellini, Ragioni portiane per Delio Tessa, in id., La poesia di Carlo Porta e la tradizione milanese, Milano 1976, in cui vengo- no esemplificati i procedimenti attraverso cui Tessa opera la distruzione delle strutture tradizionali, fino a sfondare nell’«asemantico». LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 370

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Poche, efficaci pagine dedica a Tessa f. fortini, Da Ungaretti agli Er- metici (1976), in id., I poeti del Novecento, Roma-Bari 1977, pp. 109-12, che rileva come una materia tradizionale di ascendenza ottocentesca sia investita da una violenta carica visionaria, dietro cui sta un «radicale pes- simismo antropologico». L’anno successivo Pier Vincenzo Mengaldo, do- po che il poeta aveva ricevuto giudizi limitativi nella Lirica del Novecen- to di Anceschi e Antonielli ed era stato escluso dalla Letteratura dell’Ita- lia unita di Contini, assegna finalmente a Tessa il posto che gli spetta nel- l’antologia Poeti italiani del Novecento, a cura di P. V. Mengaldo, Milano 1978, pp. 447-500. Mengaldo denuncia il disinteresse della critica verso Tessa, gettando poi le basi per un approccio meno impressionistico ai problemi del linguaggio, da cui emerge che Tessa «è l’unico dialettale del Novecento che sia giunto a un uso propriamente surreale ed onirico del dialetto». Di Mengaldo si veda anche la recensione a Vecchia Europa (1986), ora in La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino 1991, pp. 117-21. Nel 1984 alcune pagine vengono dedicate a Tessa da p. gibellini, L’Adda ha buona voce. Studi di letteratura lombarda dal Settecento al No- vecento, Roma, e da f. brevini, Lo stile lombardo. La tradizione letteraria da a Franco Loi, Lugano, autore anche di un nuovo ritratto dedicato al poeta in «Belfagor», XXXIX (1984), n. 4. Di Bre- vini si possono vedere anche il capitolo dedicato a Tessa nell’antologia Poeti dialettali del Novecento, Torino 1987, e il profilo ospitato in Le pa- role perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Torino 1990. Fra gli in- terventi più occasionali, Delio Tessa giornalista, in «Corriere della Sera», 2 gennaio 1991. Sempre del 1984 è il saggio di m. casella, Il dialetto: un elemento fon- damentale dell’espressionismo tessiano. Note sulle prose ticinesi di Delio Tes- sa, in «Cenobio», XXXIII (1984), n. 1. Fra i numerosi interventi sollecitati dall’edizione Isella si vedano al- meno: g. giudici, Amarcord di Milano in 39 poesie, in«L’Unità», 16 gen- naio 1986; g. raboni, Un Céline sotto la Madunina, in «L’Europeo», 1° febbraio 1986; a. arbasino, Tanti versi per una città, in «L’Espresso», 16 marzo 1986; m. vallora, Racconta con rabbia, in «Il Giornale», 23 mar- zo 1986 (del quale si veda anche l’intelligente recensione delle prose tes- siane: id., Sinfonie da cortile, in «Il Giornale», 14 febbraio 1988); f. loi, Delio Tessa: la strada, la gente, le parole, in «Autografo», III (1986), n. 8. Del poeta di Stròlegh si vedano anche gli articoli in «Il Sole-24 Ore», 3 giugno e 2 settembre 1990. Inoltre vanno segnalati p. giovannetti, LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 371

Nota bibliografica 371

«... Alegher fioeuj, che semm fottuu!». Le benefiche bastonate del Tessa, in «Linea d’ombra», n. 60 (1991); e. mazzali, Rilettura di Delio Tessa, in «Il Ponte», XLVII (1991), n. 5. Quanto alle antologie in cui figurano testi tessiani, oltre a quelle di Fortini, Mengaldo e Brevini già citate, si segnalano, tutte consultabili ad indicem: Lirica del Novecento. Antologia di poesia italiana, a cura di L. An- ceschi e S. Antonielli, Firenze 1953; L’antologia dei poeti italiani del- l’ultimo secolo (1963), a cura di G. Ravegnani e G. Titta Rosa, Milano 19722; Poesia italiana. Il Novecento, a cura di P. Gelli e G. Lagorio, Mi- lano 1984 (il profilo è di F. Loi); Le parole di legno, a cura di M. Chiesa e G. Tesio, Milano 1984; The Hidden Italy. A Bilingual Edition of Italian Dialect Poetry, a cura di H. Haller, Detroit 1986; a. stella, c. repossi e f. pusterla, Lombardia, Brescia 1990 (nella collana «Letteratura del- le regioni d’Italia. Storia e testi»); Poesia dialettale dal Rinascimento a og- gi, a cura di G. Spagnoletti e C. Vivaldi, Milano 1991.

Note.

1. Genesi e storia. 1 Cfr. p. p. trompeo, Poesia dell’asino (1950), in id., La pantofola di vetro, Napoli 1952. 2 Poeti italiani del Novecento, a cura di P. V. Mengaldo, Milano 1978, p. 448. 3 Cfr. f. fortini, I poeti del Novecento, Roma-Bari 1977. 4 d. tessa, L’è el dí di Mort, alegher! De là del mur e altre liriche, a cura di D. Isella, Torino 1985. Questa l’edizione da cui si cita, dando fra parentesi, nel corso del testo e nelle note, la sola in- dicazione del numero dei versi e delle pagine. 5 Sulla storia editoriale cfr. d. isella, Nota al testo, ibid., pp. 507-19. 6 d. tessa, L’è el dí di Mort, alegher!, nove saggi lirici in dialetto milanese con testo esplicativo a fronte, Milano 1932. 7 d. isella, Nota al testo cit., p. 509. 8 d. tessa, L’è el dí di Mort, alegher!, nove saggi lirici in dialetto milanese con testo esplicativo in lingua a cura di F. Rosti, con una nota di E. Guicciardi, Milano 1960. 9 id., Ore di città, a cura di D. Isella, Torino 1988, p. 101. 10 id., Critiche contro vento. Pagine «ticinesi» 1934-1939, a cura di G. Anceschi, con una nota di G. Orelli, Lugano 1990, p. 15. 11 id., Ore di città cit., p. 31. 12 Con il titolo Serate milanesi. Il decennale di Bagutta il testo fu ripreso nel «Corriere del Ticino» del 22 gennaio 1937 e si legge in id., Critiche contro vento cit., p. 84. 13 id., Poesie nuove ed ultime, saggi lirici in lingua milanese corredati dalle pagine del dicitore, a cura di F. Antonicelli e F. Rosti, Torino 1947, p. 349, nota. 14 r. cremante, Letteratura e critica nell’esperienza editoriale di Formiggini, in Angelo Fortunato Formiggini. Un editore del Novecento, a cura di L. Balsamo e R. Cremante, Bologna 1981. 15 Nell’antologia aa.vv., Scrittori d’oggi, Milano 1935. LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 372

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16 Cfr. Poeti milanesi contemporanei, a cura di S. Pagani, Milano 1938. 17 d. tessa, Ore di città cit., pp. 10-11. 18 c. linati, El Tessa, in id., Il bel Guido e altri ritratti, a cura di G. Lavezzi e A. Modena, Mila- no 1982. Accenni al Tessa dicitore si ritrovano in un’altra importante testimonianza: id., Se- rate con Tessa, in «L’Ambrosiano», 15 aprile 1936, Si aggiunga f. antonicelli, Il Tessa recita (1937), in g. anceschi, Delio Tessa, profilo di un poeta, Milano 1990, pp. 177-79, nota 4, con un pittoresco ritratto: «Quando recitava, tirava il collo in su, come un gallo a cantare, col suo pennacchietto di capelli bianchi, gli occhi perduti dietro due spessissime lenti e i denti d’oro che gli brillavano in bocca». 19 d. tessa, Perché scrivo in dialetto (1934), in id., Critiche contro vento cit., pp. 3-4. 20 id., Nei momenti che i basi fermemo..., in id., Versi e poesie (1960), Milano 19752, p. 88. 21 Cfr. p. pancrazi, Ricordo di Delio Tessa (1939), in id., Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori di oggi, a cura di C. Galimberti, III, Milano-Napoli 1967. 22 d. tessa, Perché scrivo in dialetto cit., pp. 3-4. 23 Cfr. c. linati, El Tessa cit. 24 Apparsa nel 1900 a Bellinzona e poi nel 1915 in edizione accresciuta presso la Libreria Editri- ce Milanese (ristampa anastatica Milano 1982).

2. Struttura. 1 «(Prigioniero che cammina... cammina) [...] che picchia alla tramezza, pare che voglia venir fuo- ri... [...] un buco e venir fuori, fuori... un buco» (De là del mur, vv. 146-98, pp. 193-99). 2 «“Cotolette fredde... cotolette fredde”, Noi per queste paroline (incantesimo... delirio...) pas- siamo quella muraglia» (ibid., vv. 224-28, p. 203). 3 «– “Idioti e semi idioti, scemi, ciechi” – ti hanno messo in lista... – “paralitici, vecchi impo- tenti” – ... sei in quel prospetto “dei nostri ricoverati” che ho in studio dietro a quell’immagi- ne sacra – “Epilettici, infermi, orfani di guerra; Totale: Numero: duemilatrecentosei” –» (ibid., vv. 270-82, p. 209). 4 Cfr. d. isella, Nota al testo cit., p. 514, nota 1. 5 d. tessa, Giardinetti denudati, in id., Ore di città cit., p. 63. 6 id., Tre gatti e un uomo, ibid., pp. 19-22. 7 id., Evocazione, ibid., pp. 107-8. 8 id., Andare in Teatro, ibid., pp. 135-38.

3. Tematiche. 1 Ibid., p. 59. 2 id., L’è el dì di Mort, alegher! cit., p. 470. 3 id., L’uomo dei moccolotti, in id., Ore di città cit., p. 123. 4 id., Brutte fotografie di un bel mondo, ibid., p. 173. 5 Cfr. id., Vecchia Europa, a cura di M. C. Sacchi, con una premessa di A. Stella, Milano 1986. 6 id., Ore di città cit., p. 59. 7 «Povero mio babbeo, dammi retta, tanto e tanto adesso non c’è piú niente da fare, non ci sal- viamo piú, non c’è piú rimedio; non conviene neppure starci a pensare, lasciamoci portare dal- l’onda della merda che sale, e poi, se si dà il caso, andiamo in cimbali, piuttosto, e facciamoci su una bicchierata!» (A Carlo Porta, vv. 148-54, p. 402). 8 d. tessa, Brutte fotografie di un bel mondo cit., p. 213. 9 id., L’uomo dei moccolotti cit., p. 124. 10 «Umanità triste e sapiente!... cieco termitaio che si muove... lento... preso dentro un ingra- naggio che lavora!... e sopra, per tutti... come l’aria limpida... in eterno... quella maledizione di una legge che governa, unica e dispotica» (Tosann in amor, vv. 124-37, pp. 454-55). LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 373

Note 373

11 d. tessa, L’è el dì di Mort, alegher! cit., p. 514. 12 id., Critiche contro vento cit., p. 3. 13 «Io come porco e tu come baldracca con bottega di fiocca... onoro, onora i caporioni della ruf- fianeria risorta! O primavera nuova che rifiorisce! Italia rinnovata nelle tue vacche!» (La poe- sia della Olga, vv. 62-66, p. 547; Isella relega in apparato questa versione). Ricordo che anco- ra piú inconfondibilmente i vv. 64-65 recitavano originariamente: «Benito Mussolini nostro Duce! | In sul porton ghe l’emm in tricolora», pp. 239-41). 14 d. tessa, Vecchia Europa cit., pp. 162-63. 15 id., Critiche contro vento cit., p. 16.

4. Modelli e fonti. 1 Cfr. p. gibellini, Ragioni portiane per Delio Tessa, in id., La poesia di Carlo Porta e la tradizione milanese, Milano 1976. 2 d. tessa, Due anni e non piú (1937), in id., Critiche contro vento cit., p. 89. 3 id., Piazza Vetra (la vecchia), in id., Ore di città cit., p. 9. 4 id., Critiche contro vento cit., pp. 3-4. 5 id., Emilio De Marchi e il suo mondo, in e. de marchi, Racconti lombardi, a cura di M. Cantel- la e D. Magrassi, Milano 1984. 6 Cfr. Lirica del Novecento. Antologia di poesia italiana, a cura di L. Anceschi e S. Antonielli, Fi- renze 1953. 7 «... Senti i gatti! qui la notte, dove mi intano con le mie carte e penso e sogno... qui è il luogo classico dei gatti!» (La mort della Gussona, IV, vv. 1-4, p. 127). 8 d. tessa, Poesie nuove ed ultime cit. 9 f. antonicelli, Il Tessa recita cit., pp. 177-79. 10 «Se tacevano, sentivi ancora quelle due là in alto: “Un manicotto!...” due paroline e basta...: che questi altri tornavano ad azzuffarsi...» (Sui scal, vv. 67-71, p. 25). 11 d. isella, Introduzione a d. tessa, L’è el dì di Mort, alegher., cit., pp. xviii-xix. 12 Tutti e tre i testi si leggono nell’antologia Poesia italiana. L’Ottocento, a cura di M. Cucchi, Mi- lano 1978. 13 e. de marchi, Milanin Milanon. Prose cadenzate milanesi, Milano 1902; ora insieme ad Altri scrit- ti milanesi, a cura e con introduzione di G. Rosa, Milano 1976. 14 d. tessa, Galleria di Benefattori, in id., Ore di città cit., p. 142. 15 id., Natale in campagna e in città (1936), ibid., p. 27. 16 Dalla sezione Cittadino di a. palazzeschi, Poesie 1904-1914, Firenze 1942.

5. Considerazioni stilistiche. 1 e. montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino 1980, pp. 760-72. 2 d. tessa, Perché scrivo in dialetto cit., p. 3. 3 a. arbasino, Tanti versi per una città, in «L’Espresso», 16 marzo 1986. 4 «Le vado lí vicino: “E dunque come va? bene?” le domando. No, scrolla la testa... mi guar- da... mi afferra una mano... “Roba da poco... uff... non è niente... passa... passa...” No... di- ce di no... biascica, mastica, fa smorfie, smorfie, smorfie dell’altro mondo! per dire qualche co- sa, ma non può piú parlare... è inutile, no, fa segno che non può piú, non può piú... è acciden- tata qui nella lingua... piú parlare... piú. Volge la testa dall’altra parte e lascia colare lagrime in silenzio ...» (La mort della Gussona, III, vv. 73-88, pp. 125-26). 5 d. tessa, Critiche contro vento cit., p. 36. 6 «“... Sí...... sí... va bene tutto... è brava in stanza ed è una ragazza d’oro... ma la mia casa... – di- glielo tu, Maria, – ... anche per lei... si fa notte e cosa si guadagna?... capisco anch’io... se le fan- no male i piedi... ma qui non è mica la Baggina...”» (La poesia della Olga, vv. 98-103, p. 245). LIE15_DEF 09-11-2007 14:58 Pagina 374

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7 d. tessa, I miei mesi, in id., Ore di città cit., p. 70. 8 id., Lettera a Piero Bianconi del 1° maggio 1933, in r. martinoni, Delio Tessa in Ticino, in «Corriere del Ticino», 3 novembre 1986. 9 a. stella, Premessa a d. tessa, Vecchia Europa cit., p. 12. 10 p. v. mengaldo, La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino 1991, p. 121. 11 d. tessa, Vecchia Europa cit., p. 18.