Cutolo, Sabato l’esame autoptico sulla salma

E’ stata fissata per sabato l’autopsia sulla salma di Raffaele Cutolo, il boss della Nuova camorra organizzata morto mercoledì nel carcere di Parma. Oggi la procura di Parma affiderà l’incarico a un consulente medico legale che eseguirà gli esami anatomo-patologici sulla salma che si trova nell’ospedale Maggiore cittadino. Soltanto dopo l’autopsia, le spoglie del 79enne capo della Nuova camorra organizzata potranno essere consegnate alla famiglia, in particolare alla moglie Immacolata Jacone e alla figlia 14enne Denise, che si trovano nella città emiliana da due giorni. I familiari stanno valutando con il legale di fiducia, Gaetano Aufiero, se conferire l’incarico a un di parte per seguire gli esami autoptici. “Da cristiano mi auguro che sia riuscito a ottenere il perdono di tutti i familiari delle vittime cadute per le sue drammatiche decisioni criminali, a partire dal barbaro assassinio di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale”. La premessa è di Catello Maresta, sostituto procuratore generale a Napoli ed ex pm anticamorra. “Il dottor Salvia è un simbolo, un esempio, per quanti in questo Paese servono lo Stato tenendo sempre la schiena dritta – ricorda il magistrato – Salvia si scontrò direttamente con Raffaele Cutolo, perchè pretese, al rientro da un’udienza in un processo, che il boss di Ottaviano fosse perquisito, come prescritto dal regolamento. Anzi Salvia perquisì personalmente Cutolo. Decisione che pagò con la vita in un agguato, ordinato da Cutolo, sulla tangenziale di Napoli. Anche oggi nel commentare la morte di un camorrista che ha sporcato l’immagine di Napoli e di Ottaviano, preferisco ricordare e onorare le vittime innocenti delle mafie”. “Lo Stato con Cutolo ha mostrato, dopo pagine opache e inquietanti anche di presunti accordi, di essere diventato autorevole mettendolo in carcere al 41 bis e riducendone al lumicino la sua potenzialità criminale”, aggiunge il magistrato. Con la morte di Cutolo, oltre ad onorare le vittime innocenti di mafia, dice Maresca, “mi piace ricordare a tutti noi che la nostra legislazione antimafia è stata scritta col sangue di queste persone. Onorarle significa mantenere in vita in maniera seria norme come il 41 bis e altre che consentono alla magistratura e alle forze di polizia giudiziaria di eradicare il fenomeno mafioso. Perche’ la mafia non si deve contrastare ma recidere come si fa con un cancro. E’ questione di volontà politica. Come è questione di volontà politica la certezza e la dignità della pena che deve tendere alla rieducazione del detenuto ed assicurare condizioni dignitose di espiazione a tutti.”

“Cutolo, un gigante diventato nano, un ragazzo diventato criminale”

Un malavitoso “che aveva i suoi momenti di depressione”, un uomo “dalla doppia personalità, afflitto dai suoi fantasmi, uscito perdente dalla guerra contro i suoi avversari e contro lo Stato”: in poche parole “un gigante diventato nano, un ragazzo diventato criminale, e poi boss in carcere, per una condanna troppo dura”. A delineare la personalita’ del boss della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo è una esperta giornalista della sua città, Ottaviano, che con il “professore”, per molti anni, ha tenuto in piedi un fitto scambio epistolare. Lei si chiama Gemma Tisci, una giornalista esperta che su “don Raffaele” ha scritto un libro intitolato “Ricordi in bianco e nero”, ricavato proprio da quelle lettere che Cutolo le mandava quando era già in cella. “L’ho intitolato cosi’ – dice Gemma – perche’ l’epoca in cui quei fatti sono accaduti, le fotografie erano in bianco e nero. Ed io l’ho sempre immaginato così, quell’uomo: sempre solo, con i suoi fantasmi attorno, e con queste lettere che per me erano fotogrammi della sua vita e delle sue verità”. Gemma è convinta che è stato il primo delitto di Cutolo, e la pena esemplare che gli venne comminata, “senza tenere conto che a subirla sarebbe stato un giovane di appena 22 anni incensurato” a creare “il mostro”, colui che poi, caso più unico che raro, “sarebbe diventato un boss feroce dotato di un’enorme caratura criminale, emerso tra le mura di una prigione”. “Dalle lettere che mi spediva – ricorda la giornalista e scrittrice – traspariva la sua depressione, il pentimento per avere rovinato la vita della moglie, la signora Jacone”. “Credo che se quel giudice avesse avuto un po’ di compassione nei confronti di quel ragazzo – dice convinta Gemma – condannandolo, certo, ma a una pena maggiormente adatta a un incensurato, probabilmente, oggi non staremmo qui a parlare del capoclan Raffaele Cutolo”. “Molti anni dopo – ricorda ancora Gemma – quel giudice, confidandosi con un avvocato, disse, affranto: “il mostro l’ho creato io”. Gemma ci tiene anche sottolineare che il delitto in questione, quello di Mario Viscito, avvenuto il 24 settembre 1963, lungo il corso di Ottaviano, scaturì da una rissa e non per vendicare l’onore della sorella Rossetta. Come anche altri prima di lei, anche Gemma, che ha respirato una guerra di camorra ferocissima e vissuto gli sviluppi processuali di molti di quegli omicidi, ritiene che i segreti del “professore”, “sono segreti di pulcinella”. “E se ce ne sono, – aggiunge – anche se ne dubito fortemente, finiranno nella tomba della sorella Rosetta, oltre che nella sua”. Gemma Tisci ricorda anche come è nato lo scambio epistolare con Raffaele Cutolo, durato molti anni: “Dovevo intervistare la moglie, Immacolata Jacone, e decisi di recarmi a casa sua, così senza alcun preavviso. Bussai alla sua porta, mi aprì donna Jacone. Le chiesi se potevo intervistarla e lei, in maniera estremamente gentile, mi risposte che per rispetto al marito dovevo prima chiedere il permesso a lui. Non mi persi d’animo: lo feci. Il giorno successivo gli mandai un telegramma. E lui, dopo 24 ore, mi rispose, con un altro telegramma, concedendomi l’intervista. E fu così, che tra noi, iniziò questa corrispondenza, a periodi altalenante. Lettere nelle quali – ricorda – mi confessò addirittura di essere stato il mandante di omicidio per il quale invece era stato assolto”. “Sia ben chiaro – sottolinea Gemma Tisci – era un uomo intelligente e quindi sapevo che si trattava della sua verità, ma molto di quello che mi diceva in quelle missive, dopo tempo trovavano conferma”.

Cutolo, Con una voce fioca, “voi siete Liguori?” di Pina Ferro

Il cronista Gino Liguori grazie ad un suo ragionamento decise di non recarsi sul luogo dell’arresto di Cutolo ma di attenderlo a dove, a suo parere sicuramente sarebbe stato tradotto. E così fu. Era l’alba quando riuscì addirittura a strappare alcune dichiarazioni al boss della Nco. Un’intervista rubata ad un uomo il cui pensiero era quello di assicurarsi che il figlio Roberto stesse bene. Che cosa successe e come fu catturato Raffaele Cutolo? «Quella notte fu una notte terribile, – precisa Gino Liguori – il telefono di casa mia squillava in continuazione. Gli amici, mi informavano di Raffaele Cutolo e mi chiedevano se avessi saputo della notizia. Naturalmente io non rispondevo, qualcuno addirittura mi diceva “cercate di trattarlo bene” ma questo non era nei miei compiti, naturalmente. Io ero un giornalista che al momento aspettava di poter fotografare, con l’indimenticabile Giovanni Liguori fotoreporter de Il Mattino, il Cutolo che era evaso dal manicomio giudiziario di Aversa e da un anno era latitante. Ebbi un colpo di genio, anziché andare ad pensai che un personaggio come il nuovo capo della camorra dovesse essere diciamo “in mani sicure” quindi, lo devono portarlopresso la caserma dei carabinieri . E, fu così che anziché andare sul posto dove 100 carabinieri schierati avevano arrestato Cutolo, andai a Largo dei , alla caserma dei carabinieri. Era quasi l’alba il piantone mi disse: “ma voi che fate” e io, spontaneamente, dissi che dovevo aspettare il comandante che mi aveva telefonato. Dopo una ventina di minuti, le sirene delle betulle dei carabinieri si sentivano da lontano. Era il momento che Cutolo veniva portato al comando di Lago dei Pioppi. Riuscii a salire sopra nei corridoi degli uffici, e mi trovai, poco dopo, faccia a faccia con don Raffaele; naturalmente io rimasi un po’ atterrito nel vedere il personaggio ma lui mi disse, con una voce fioca: “voi siete Liguori?”, questo è il segno che Raffaele Cutolo sapeva io chi fossi, sapeva di tutti. Nel e a Salerno aveva amici dappertutto che agivano per conto suo e secondo le sue indicazioni. Dopodichè gli chiesi del bambino sequestrato ad Acerra e Cutolo rispose che Cutolo i bambini li fa crescere, non li sequestra.Poi aggiunse: “Se avrò la possibilità, appena sarò al sicuro, – riferendosi al carcere – cercherò di mettere le mani su quei personaggi che hanno sequestrato quel ragazzino”. Piuttosto, vedete – mi disse – nella porta accanto, c’è mio figlio. Era Roberto, arrestato anche lui e ammazzato tempo dopo alla periferia di Milano da un gruppo armato. In carcere Cutolo seppe della morte del figlio. Poi, l’intervista continuò su altri argomenti che riguardavano il napoletano, sui delitti commessi. Lui candidamente smentì tutto, dicendo di essere accusato di tutto. “Tutto ciò che succedeva in negativo nel napoletano è addebitato a Cutolo. L’ho detto tante volte anche durante interviste televisive fatte con Marrazzo” il giornalista di Rai Uno. E così continuò il discorso per una ventina di minuti ma poi dovetti interrompere perchè dal comandante dei carabinieri presi uno di quei cicchetti sonori perchè si accorse che stavo intervistando Cutolo in Caserma. Cutolo mi disse di vedere se il figlio avesse bisogno di qualcosa, lui (Cutolo) era infreddolito. Mi alzai e presi dalla macchinetta un caffè che portai a Roberto Cutolo, nella stanza a fianco. Gli dissi “questo questo lo manda tuo” padre. Roberto era impaurito, sapeva cosa gli aspettava. Per me, giornalista di allora era stato un bel colpo e non mi accorsi che Liguori aveva fotografato quel momento. Qui finì la storia. Cutolo mi chiese se fumavo, dopo 20 giorni circa mi consegnarono un pacchetto: Cutolo mi aveva mandato 4 sigari cubani originali che ho conservato per molti anni».

Cutolo. La fuga dall’ospedale psichiatrico la latitanza ad Albanella e l’arresto

Pina Ferro

Nel 1979 in un casolare di Albanella finì la latitanza di Raffaele Cutolo. Nel della Piana del il boss della Nuova camorra organizzata si era rifugiato nel ’78 scappando dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Evase teatralmente e in modo violento, grazie all’aiuto di Giuseppe Puca: una carica di nitroglicerina piazzata all’esterno dell’edificio squarciò le mura permettendo la fuga del boss. Con il falso nome di Prisco Califano, Cutolo girò l’Italia. Fu poi ad Albanella che il boss trovò rifugio per più di anno. Il 15 maggio 1979, venne catturato in un casolare ad Albanella. All’epoca, a esaudire ogni suo desiderio e a proteggere la sua latitanza ci sarebbe stato il camorrista della zona, Giovanni Marandino. A raccontare la cronaca dell’arresto di Raffaele Cutolo, sulle colonne de “Il Mattino”, all’epoca fu il giornalista Gino Liguori il quale raccontanto quei momenti scrisse: L’operazione è scattata di notte: 100 caraninieri in pieno assetto di guerra, caschi e giubbotti antiproiettili tute mimetiche gli hanno teso una trappola. Lui, il boss il capo riconosciuto della «mala» campana Raffaele Cutolo, 38 anni, 24 anni per omicidio ed un ricovero all’ospedale psichiatrico criminale di Aversa non attentato minimamente di opporsi alla cattura. Ha cercato, per un momento solo, una via di scampo attraverso il finestrino della stanza da bagno. Poi si è arreso. Quando lo hanno ammanettato era in pigiama. Un elegante pigiama di flanella rosso mattone a strisce beige che s’era un po’ sciupato nel tentativo di abbandonare il casolare nel quale era nascosto per la via meno dignitosa per un boss della sua fama e della sua temerarietà. Raffaele Cutolo al colonnello Barrio di carabinieri che dirigeva le operazioni ha chiesto soltanto di potersi rivestire. Gli è stato consentito: un po’ di decoro doveva pur salvarlo, lui che era stato protagonista della camorra fuga dal manicomio Aversano, quando a liberarlo a suon di dinamite accorsero, in forze, i suoi scherani, che, ieri mattina, nelle campagne di Albanella, tra gli uliveti che sovrastano la Valle dei templi di pesca non c’erano. prima di calarsi dal finestrino del bagno Raffaele Cutolo aveva assicurato i carabinieri di essere pronto ad arrendersi senza opporre alcuna resistenza: «ditemi quello che devo fare e io vi obbedirò. Non sparate. Sono un uomo inerme». Poi aveva eseguito scrupolosamente le disposizioni del colonnello Bario che con un megafono, ne aveva guidato la breve marcio fino ad un cespuglio dove una pattuglia di carabinieri del gruppo di Salerno lo haammanettato. Albeggiava appena quando i carabinieri Hanno accerchiato il casolare per disporsi all’ultimo atto di un’indagine che era già scattata concretamente qualche giorno addietro quando «don» Raffaele aveva telefonato ad un giornale per far sapere del rapimento del piccolo Gaetano Casillo. I carabinieri tacciono, come d’abitudine sul modo in cui sono riusciti ad arrivare al nascondiglio, ma ammettono che il boss vesuviano si spostava frequentemente dalle di Albanella per incontrarsi con i suoi picciotti ed anche per qualche summit nel quale continuava ad esercitare la sua autorità di indiscusso padrino. Ad Albanella aveva riunito un po’ della sua famiglia. C’erano con lui una sorella più anziana Rosa ed un ragazzo Roberto Liguori, 17 anni, che don Raffaele non nega di considerare «a giusta ragione» un suo figliuolo. Mentre scendeva dal cellulare per raggiungere la caserma a chi gli chiedeva il perché della presenza del giovane ha risposto a strappacuore: «Perché i figli vanno addò stanno ‘o pate e ‘a mamma!». Ad ospitarlo erano invece Giuseppe lettieri, 53 anni, ed Elvira Lisi, 49 anni arrestati per favoreggiamento. A catturarli sono stati i carabinieri del nucleo operativo di Salerno al comando del maresciallo Ucci. Hanno sfondato la porta del casolare e li hanno bloccati. Non hanno opposto resistenza neppure loro. Quando, nell’interno, il colonnello Bario e i capitani Raggetti Conforti, Gentile e Merenda hanno fatto un inventario delle cose da sequestrare il bilancio è stato ragguardevole: sei pistole di cui una munita di silenziatore, due fucili munizioni per tutte le 8 armi e una bustina di cocaina: 10 grammi in tutto.

“Aiutai l’assessore Cirillo, potevo fare lo stesso con lo statista I politici mi dissero di non intromettermi”

Nel 1980, per 270 milioni di lire, acquistò da un nobile il Castello Mediceo di Ottaviano, in provincia di Napoli, che divenne il simbolo della forza, della sua autorità. Il castello, nel 1991, gli venne confiscato diventando, successivamente, di proprietà del Comune. Era il camorrista per eccellenza Raffaele Cutolo, fondatore nonchè capo della Nuova Camorra Organizzata morto nel reparto sanitario del carcere di Parma, lo stesso dove spirò a fine 2017 Toto’ Riina, dopo una lunga malattia. Aveva 79 anni ed era il carcerato al 41bis piu’ anziano. Era detenuto, ininterrottamente dal 1979, dopo il suo arresto ad Albanella, in provincia di Salerno. Un anno prima era evaso in maniera clamorosa, a colpi di bombe, dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa (Caserta). Cutolo, non si è mai distaccato dalla mentalità camorristica, non ha mai voluto intraprendere un percorso di collaborazione con la giustizia ed è sempre rimasto fedele alle sue convinzioni. Sulla sua vita sono stati scritti miriadi di articoli, libri e sono stati anche girati dei film. Don Raffaele rilasciò delle dichiarazioni agli inquirenti della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli (il pm Ida Teresi e il capo della Dda dell’epoca, Giuseppe Borrelli, attuale procuratore a Salerno) rivelando di avere avuto addirittura la possibilità di impedire l’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Furono parole “pesanti” quelle pronunciate dal professore, messe a verbale il 25 ottobre del 2016: “Potevo salvare Moro ma fui fermato. Aiutai l’assessore Cirillo (rapito e successivamente rilasciato dalle Br, ndr), potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi”. Nel ’78 Cutolo era latitante e si sarebbe fatto avanti per cercare, sostiene lui, di salvare Moro. “Per Ciro Cirillo si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava”. |”Con la morte di Cutolo – commenta Ciro Auricchio, segretario del sindacato di Polizia Penitenziaria USPP – si chiude una delle pagine più buie delle carceri italiane: l’uccisione del vice direttore della casa circondariale di Napoli Poggioreale Giuseppe Salvia, a cui oggi è in intitolato l’istituto di pena, assassinato a Napoli nell’aprile del 1981 perchè non voleva rispettare le “regole”“.

Addio o’ Professore – Fondatore della Nuova camorra organizzata è spirato alle 20.21 di ieri nell’ospedale Maggiore di Parma, aveva 79 anni di Pina Ferro

E’ morto “‘o professore” della camorra. Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova camorra organizzata (Nco) è morto alle 20.21 di ieri, all’ospedale Maggiore di Parma. Nell’ultimo periodo era stato più volte trasferito dal carcere al reparto ospedaliero. L’ultima volta che ha fatto parlare di se’ è stata a meta’ 2020, per la complessa vicenda legata alla sua malattia e alla circolare del Dap a marzo che consentiva a detenuti anche al 41 bis di andare ai domiciliari se anziani e con patologie. E il boss entrato nella leggenda già da vivo come o’ professore era anziano, 80 anni molti dei quali passati in molti istituti di pena italiani, e malato. Il 19 febbraio 2020 infatti era già stato ricoverato all’ospedale civile di Parma per una crisi respiratoria e aveva anche rifiutato cure e tac. Dimesso a inizio aprile, e tornato nel carcere di Parma, il suo avvocato, Gaetano Aufiero, aveva chiesto i domiciliari al tribunale di Reggio Emilia a causa delle condizioni di salute, ma l’istanza venne respinta poichè può essere curato in cella, le sue patologie non erano “esposte a rischio aggiuntivo”, dato che il regime di 41 bis gli permetteva “di fruire di stanza singola, dotata dei necessari presidi sanitari”. Cutolo riprova a reiterare la richiesta e il 10 giugno il tribunale di Sorveglianza di Bologna la rigetta di nuovo: “Si puo’ ritenere che la presenza di Raffaele Cutolo potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco, gruppi rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma”, scrivono i giudici. Per Cutolo “non appare ricorrere con probabilità il rischio di contagio da Covid-19″, e, “nonostante l’età e la perdurante detenzione rappresenta un “simbolo” per tutti quei gruppi criminali che continuano a richiamarsi al suo nome”. La sua presenza “potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco, gruppi rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma. In tanti anni di detenzione non ha mai mostrato alcun segno di distacco dalle sue scelte criminali”. Il 30 luglio 2020 è stato trasferito dal carcere di nuovo in ospedale. Per l’avvocato non era più lucido: la moglie era andata a trovarlo il 22 giugno e Cutolo non l’aveva riconosciuta. Raffaele Cutolo, ‘o professore nonostante abbia solo una licenza elementare, era figlio di un mezzadro e di una lavandaia di Ottaviano, paesino alle falde del Vesuvio, Michele e Carolina Ambrosio. Nasce il 4 novembre 1941 e la sua carriera criminale l’ha costruita nella cornice di avventure romanzesche e forse romanzate. Poeta e duellante con la “molletta” dentro un carcere; pazzo per finta o per davvero; evaso dal manicomio giudiziario di Aversa; latitante, padre che vede l’unico figlio maschio ed erede ucciso dalla ‘ndrangheta; l’uomo che forse ha ispirato il celebre “professore” di Fabrizio De Andre’ e probabilmente ha urinato sulle scarpe di Toto’ Riina come racconta un pentito; il boss che ha sposato nel carcere dell’Asinara una donna molto giovane e che poi l’ha resa madre con l’inseminazione artificiale, ha quattro ergastoli sulle spalle e aveva compiuto pochi fa mesi 79 anni. A 22 anni commise il suo primo omicidio, il 24 settembre 1963, durante una rissa; la vittima è Mario Viscito, che ha fatto un apprezzamento di troppo alla sorella di Cutolo, Rosetta, la donna che lo ha affiancato anche anni dopo nella gestione del potere criminale. Ha riconosciuto due figli, Roberto, nato dalla breve relazione con Filomena Liguori, e Denise, figlia di Immacolata Iacone, la donna che sposerà nel carcere dell’Asinara, concepita con l’inseminazione artificiale e che lo vedrà sempre dietro le sbarre. Due i nipoti, Raffaele, 34 anni, suo omonimo, e Roberta, 30 anni, entrambi figli di Roberto, pregiudicato, ucciso a Tradate, in Lombardia, da affiliati della ‘ndrangheta il 19 dicembre 1990, per volontà di uno dei maggiori antagonisti di Cutolo, il boss vesuviano Mario Fabbrocino. Nel corso di uno dei suoi periodi di latitanza, ha avuto una relazione con Lidarsa Bent Brahim Radhia, una donna tunisina a cui dedichera’ una poesia, che dara’ alla luce Yosra. Nel 1980 Cutolo acquistò da Maria Capece Minutolo, vedova del principe Lancellotti di Lauro, il Castello Mediceo, a Ottaviano, poi confiscato nel 1991 e ora del Comune del paese vesuviano, quello in cui i suoi genitori avevano lavorato come guardiani, pagandolo 270 milioni di lire. E’ stato condannato a quattro ergastoli da scontare a partire dal 1995 in regime di 41 bis. Il boss ha più volte criticato tale regime che, a suo parere, viola i diritti umani. Per il primo omicidio, Cutolo ebbe una condanna a 22 anni in Appello, che comincia a scontare nel carcere di Napoli-Poggioreale. Ed è in questo istituto di pena che emergono la sua personalità e il suo carisma, quando, nelle dinamiche di relazione dei detenuti, sfida a duello il boss Antonio Spavone, una sfida con il coltello a scatto, la molletta, alla quale questi non si presentò. Cutolo diventa il protettore di tutti i detenuti. Nel 1970 torna libero per decorrenza termini e si occupa di contrabbando di sigarette, un business lucroso che lo mette in contatto con la mala pugliese e poi con le ‘ndrine dei Mamolito, dei Cangemi e dei De Stefano. Viene di nuovo arrestato nel 1971, ed è di nuovo a Poggioreale che medita la nascita della Nuova camorra organizzata. Un modello nuovo di clan, basato sui meccanismi piramidali (picciotto, camorrista, sgarrista, capozona e santista) della mafia siciliana e della ‘ndrangheta, con affiliazione attraverso rituali di ispirazione massonica e culto della personalità del capo; ma soprattutto una concezione della criminalità organizzata ideologizzata, con una ispirazione meridionalista e ribellista, dotata però anche di una capacità economica, tanto che Cutolo vuole accanto a se’ un imprenditore, Alfonso Rosanova, capace di moltiplicare il denaro che proviene dagli affari illeciti. E poi c’e’ l’organizzazione paramilitare, la base di picciotti giovani e spietati reclutati nel sottoproletariato desideroso di riscatto e di denaro facile. E’ stato anche coinvolto nelle trattative per la liberazione di Ciro Cirillo, uomo della Dc campana della corrente di Antonio Gava rapito dalle Brigate rosse nell’aprile 1981, vicenda complessa sulla quale non c’e’ ancora chiarezza.

di Pina Ferro

La droga arriva nella Piana del Sele e non solo, grazie ad un’alleanza stipulata in carcere tra i Del Giorno e i Giorgi, famiglia della ‘ndrina calabrese: i giudici della Corte di Appello di Salerno hanno rideterminano la pena per alcuni degli imputati che in primo grado avevano scelto di essere giudicati con il rito dell’abbreviato. Al termine della camera di consiglio i giudici di secondo grado hanno inflitto sei mesi di reclusione e 1330 euro di multa a Daniele Fimiano (in primo grado era stato condannato a 8 mesi e 2000 euro di multa); tre anni e 8 mesi di reclusione a Angelo Fezza (in primo grado 4 anni 6 mesi e 20 giorni); 4 anni 8 mesi e 20 giorni a Luigi Del Giorno alias “Gigino Muschill” (in primo grado 5 anni e 10 mesi e 12 giorni); 2 anni e 4 mesi ciascuno a Massimo Cerrone alias “O’ Bersagliero” o “collo storto” (in primo grado 3 anni, 2 mesi e 10 giorni) e Pasquale Moccaldi (in primo grado 3 anni, 2 mesi e 10 giorni). Inoltre, i giudici hanno revocato le pene accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante la pena ed hanno applicato l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di 5 anni. Revocata l’interdizione dai pubblici per 5 anni a carico di Pasquale Moccaldi e Massimo Cerrone. Al vertice del sodalizio criminale operante tra – Campagna e la Piana del Sele, vi era Luigi Del Giorno il quale grazie ai rapporti stretti durante il periodo di detenzione con il detenuto calabrese Bruno Giorgi , impartiva direttive ai propri familiari sulle fonti di approvvigionamento e le metodiche di trasporto della sostanza stupefacente dalla Calabria e fino al comune di Campagna, L’alleanza era stata “stipulata in carcere” prima a Carinola , nel casertano e poi a Sulmona. E’ dal periodo di codetenzione che prende vita il canale di approvvigionamento di stupefacenti dalla Calabria fino alla Piana del Sele. A seguito del patto, ogni settimana, nella Piana arrivano circa mezzo chilo di cocaina e 10 chilogrammi di marijuana. All’improvviso poi quell’asse si è interrotto bruscamente a causa del mancato pagamento delle forniture settimanali di stupefacente. I Del Giorno avevano accumulato un debito pari a 30mila euro. A mettere la parola fine all’asse della droga tra la Piana del Sele e la Calabria furono gli uomini della compagnia di Eboli, al termine di una laboriosa attività investigativa avviata nel dicembre del 2015 e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia presso la Procura di Salerno. L’attività investigativa fu avviata nel dicembre del 2015, a seguito di controlli del territorio di routine e, alla segnalazione fatta ad un appartenente dell’Arma circa alcuni strane riunioni che avvenivano nel retrobottega della pizzeria “Antico Borgo” di proprietà di Angelo Fezza. I carabinieri, con pedinamenti e intercettazioni, appurarono l’esistenza di un gruppo criminale, con base a Campagna, dedito al traffico e allo spaccio di droga e capeggiato da soggetti della famiglia Del Giorno ritenuti dagli inquirenti “contigui ad ambienti della criminalità organizzata della Piana del Sele”.

Favori al clan:assolto Enrico Bisogni di Pina Ferro

Riciclaggio e favori ai clan e soggetti vicini ad essi: assolto Enrico Bisogni. Condannati a 2 anni e 10 mesi l’imprenditore Giovanni Attanasio, Raffaele del pizzo collaboratore di giustizia a 2 anni ciascuno Sergio La Rocca ed il collaboratore di giustizia Raffaele Del Pizzo. La sentenza è stata emessa ieri mattina dal giudice per le udienze preliminari del Triunale di Salerno Mariella Albarano dinanzi alla quale è stato celebrato il rito dell’abbreviato. Per Enrico Bisogni il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a nove anni di reclusione. “Un “ufficio di collocamento” per ex detenuti vicini ai clan”. Così il magistrato titolare dell’inchiesta definì il gruppo di società facenti capo aGiovanni Attanasio di Pontecagnano. Il tramite tra il mondo imprenditoriale e quello della malavita sarebbe stato, secondo la Procura, la figura apicale del clan Pecoraro – Renna Enrico Bisogni. A smantellare l’intera organizzazione furono gli uomini della Guardia di Finanza e del Gico di Salerno. Per tutti le accuse furono di associazione finalizzata alla commissione di reati di riciclaggio, di intestazione fittizia di beni, di false attestazioni all’Autorità giudiziaria e di reati tributari. Una rete di circa 30 aziende operanti, prevalentemente, nel settore della somministrazione del lavoro interinale. Attanasio, era riuscito a mettere su le sue società, ricorrendo alla fraudolenta intestazione, attribuzione e trasferimento di beni, valori ed attività economiche. Parte di questo denaro è finito all’estero in società ed investimenti anche all’estero: Danimarca, a Copenaghen, e in Estonia, a Tallin. Venticinque furono le persone ritrovate tra gli assunti del “gruppo Attanasio”, sul cui capo pendono accuse di associazioni a delinquere di stampo camorristico appartenenti al clan Pecoraro- Renna, Giffoni-Noschese, Sistema , De Feo, Stellato, Panella-D’Agostino e Serino. Nel concreto, Enrico Bisogni, responsabile della Sva – società facente parte del gruppo – avrebbe procurato falsi attestati di impiego lavorativo presso le imprese di Attanasio a numerosi pregiudicati, destinati a essere prodotti all’autorità giudiziaria al fine di ottenere benefici in sede di esecuzione della pena.

Gestione del sito di compostaggio avviso di conclusione indagine per Cariello e altre cinque persone di Pina Ferro

Gestione dell’impianto di compostaggio di Eboli, avviso di conclusione indagini per sei persone. L’atto è stato notificato all’allora sindaco Massimo Cariello, all’’ex dirigente comunale Rosario La Corte, oggi in pensione, e gli imprenditori Gianni Gallozzi ed Angelo De Gregorio, rispettivamente rappresentante con procura speciale e delegato ambientale della società “Ladurner srl” di Bolzano, affidataria della gestione dei rifiuti nell’impianto, a Simone Paoli procuratore speciale della società “Ladurner srl”, Andrea Silvestri legale rappresentante e amministratore unico della società “Ladurner srl”. L’impianto di compostaggio in questione era stato anche posto sotto sequestro da parte della Magistratura. L’inchiesta è affidata al sostituto procuratore Maria Carmela Polito. Diverse le contestazioni mosse a carico dei destinatari dell’avviso di conclusione indagine. A causa dell’irregolare gestione del sito erano state riscontrate emissioni odorigene nauseabonde e moleste. La triturazione dei rifiuti biodegradabili avveniva veniva effettuata sul piazzale esterno per poi essere spostati sotto la tettoia. Il magistrato sottolinea anche che le griglie di raccolta delle acque piovane presenti nell’area e le caditoie per la raccolta del percolato ubicate nella cunetta prospiciente la tettoia di stoccaggio dei rifiuti erano ostruite da materiali con conseguente ristagno del percolato. Inoltre, sempre dai sopralluoghi effettuati fu accertato che le aree di deposito destinate a contenere i rifiuti classificati con Cet 20 02 01 e Cer 13 12 12 erano colme e al limite della loro capacità. I rifiuti erano trasbordanti e invadevano l’area dove era depositato il compost. Ancora, i rifiuti Cet 19 12 12 provenienti dall’impianto di vagliatura erano depositati in area non coperta, , non erano confinati ed erano esposti agli agenti atmosferici. Presso l’impianto vi era una quantità di rifiuti notevolmente maggiori rispetto a quelli autorizzati . Infine il magistrato titolare dell’inchiesta sottolinea che durante le operazioni di movimentazione dei rifiuti tra le varie strutture dell’impianto viene effettuata sistematicamente la prolungata e permanente apertura dei portelloni del capannone di prima maturazione e della tettoia di seconda maturazione, in violazione della prescrizione contenuta nel provvedimento numero 2020.0554327 dek 23/11/2020 della Regione che tra l’altro prescrive proprio di “mantenere sempre chiuse le aperture del capannone centrale eccezione del tempo necessario per lo spostamento di materiale all’esterno di esso. Gli indagati ora hanno a disposizione venti giorni di tempo per essere sentiti dal magistrato o per presentare memorie difensive, successivamenre il sostituto procuratore inoltrerà al giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Salerno la richiesta di rinvio a giudizio.

Minacce a ristoratore, condanna bis per Campione

Avrebbe minacciato un ristoratore che non pagava il fitto di un locale confiscato: condanna bis per l’imprenditore della cittadina capofila della Piana Sele Antonio Campione e per la moglie Maria Coppola. I giudici della Corte di appello di Salerno hanno confermato la sentenza inflitta in primo grado, a 4 anni e 2 mesi per Campione e 2 anni ed 8 mesi per Coppola. Alcuni locali situati in via Gramsci a Battipaglia e di proprietà di Maria Coppola, furono sottoposti a confisca previo sequestro dal Tribunale di Salerno. A seguito della confisca Antonio Campione, ritenuto dai giudici l’effettivo proprietario dei locali, convocò il gestore del ristorante di via Gramsci, chiedendogli 4mila euro mensili , per il locale in fitto dal 2003 a 1870 euro mensili. Difronte al diniego del ristoratore, che già pagava un canone di 1890 pattuito direttamente con il custode giudiziario e che quindi non avrebbe potuto corrispondere altri 2mila euro in “nero”, Campione si sarebbe rivolto all’affittuario con tono minaccioso affermando che il custode giudiziario non «contava nulla e non era nessuno. I soldi li dovrai dare a me». Successivamente incontrando il ristoratore per strada Campione ribadì: «Mi devi dare la differenza del fitto, altrimenti o con le buone o con le cattive ti metto in condizioni di andartene e lo sai che ho la possibilità e le conoscenze per farlo». Il ristoratore intimorito dalle minacce, decise di cedere la gestione del ristorante al proprio figlio Vincenzo, ma le richieste del pagamento del fitto in nero non si arrestarono. «I soldi li voleva e basta, altrimenti lo avrebbe costretto a chiudere l’attività e gli avrebbe mandato i controlli di vigili urbani e dipendenti comunali». Dopo la condanna di primo grado è arrivata la conferma della sentenza.