“Una vera bandiera in campo”

di Fabbri Filippo

da La Voce del 11 gennaio 2010

ROMAGNA – In un’epoca in cui le bandiere sono sempre più sbiadite, la sua risplende incurante del tempo. Per anni è stato il giocatore italiano con il maggior numero di partite giocate nello stesso club in A e B, superato negli anni a venire da due totem che non hanno bisogno di presentazioni: e . Anche Giampiero Ceccarelli non necessita di tante premesse. Per lui parlano le 19 stagioni e le 520 partite sempre col Cesena. Guidato da allenatori dello spessore di Gigi Radice, , Pippo Marchioro, Osvaldo Bagnoli, . Ma se la giovinezza è sempre stata in Romagna, da alcuni anni fa il globetrotter. Per conto di Lippi visiona, relaziona, studia giocatori e avversari in vista del mondiale in Sudafrica. Incontro Ceccarelli nella sua casa a Cervia, in una stanza tappezzata da quindici fotografie che equivalgono ad altrettante stagioni del Cesena calcio. In quelle immagini c'è di tutto: giocatori con barba e zazzera anni ’60, calzoncini attillati anni ’70, visi più “puliti” anni ’80.

Se dico Giampiero Ceccarelli una vita per il Cesena?

“Dice il vero. Ho iniziato a Cesena quando avevo 9 anni. In realtà ne avevo 7, ma siccome era necessario averne 9 mi son dato due anni in più pur di giocare. Ho fatto tutta la trafila delle giovanili, ad eccezione della Berretti (equivale alla Primavera di oggi) in quanto sono andato subito in prima squadra”.

Una scelta naturale quindi il suo approdo a Cesena?

“In tutti i sensi visto che a dieci anni i miei genitori hanno preso casa dietro la curva dello stadio. Per la mia famiglia essere sempre lì al campo a giocare era sinonimo di sicurezza: sapevano dov’ero”.

Il 15 gennaio del 1967 esordio in prima squadra contro la Carrarese in C.

“Mi ricordo bene, ero tesissimo, giocavamo fuori casa. In quegli anni Cesena era una società piuttosto piccola, il fatto però di giocare nella squadra della mia città mi dava una soddisfazione doppia”.

Nella stagione successiva il quotidiano “Stadio” la premia migliore giocatore della C.

“Il premio me lo consegnò Pascutti, a Bologna davanti alla televisione. Non era usuale muoversi davanti alle telecamere in quegli anni. In quella stagione giocai piuttosto bene, 23 partite in tutto, favorito dall’infortunio di Spanio”. Giocava a centrocampo.

“Sin dalle giovanili sono partito come mediano, davanti alla difesa. Nei successivi quattro anni in B (dal 1968 al 1972, nda) ho ricoperto diversi ruoli anche difensivi, a seconda delle esigenze”.

Chi l’ha scoperta poi terzino, ruolo dove si è affermato?

“Gigi Radice. Era un allenatore piuttosto moderno, concepiva il terzino di fascia come fluidificante, anche d’attacco”.

Si è fatto quindi la classica trafila dei ruoli, a seconda delle forze e degli anni.

“Direi di sì, centrocampista, terzino, infine libero con Bagnoli. Quel ruolo in realtà l’aveva Perego, siccome però si sganciava spesso io lo coprivo, fungendo da secondo libero.

A 23 anni la fascia da capitano.

“Avevo già fatto quattro campionati di B e due di C, quindi malgrado la giovane età avevo alle spalle già una buona esperienza. Ricordo che Radice, uomo di poche parole, mi disse che sarei stato il capitano. Ovviamente ho accettato senza pensarci”.

Perché scelse lei?

“Perché per fare il capitano ci vogliono qualità extracalcistiche, più legate alla persona. Per capirci, un impulsivo non potrà mai farlo. Il capitano ha un ruolo fondamentale all’interno dello spogliatoio, soprattutto nei momenti critici”.

Racconti un episodio.

“Il primo anno di Radice a Cesena, non eravamo partiti benissimo. A Catanzaro in camera mia viene un gruppo di giocatori con l’intento di mettere in discussione il tecnico. Chiedevano il mio appoggio in quanto capitano. Risposi subito che non stava ai giocatori prendere questo tipo di decisioni. Radice non era un tipo facile, io però non ho mai sopportato il comportamento di questi giocatori”.

Scelta azzeccata visti i risultati.

“Direi di sì, l’anno dopo (1972-73, nda) siamo andati in ”.

E quei giocatori “ribelli”?

“Ovviamente Radice li ha mandati via”.

Tornando alla fascia da capitano: dal 1973 al 1977 la cede a Cera. “Un po’ mi è dispiaciuto. Però di fronte a un vicecampione del mondo, già campione d’Italia mi è sembrato un passaggio naturale”.

Nel 1973 arriva la serie A, la prima nella storia del Cesena.

“Sapevo che alcune squadre mi cercavano, andai subito da Manuzzi per dirgli che non avrei accettato nessuna richiesta. Per me giocare in A col Cesena era il massimo”.

Ricorda la prima gara nella massima serie?

“Esordio col Torino alla Fiorita. Pioveva a dirotto, mi feci male alla caviglia: un po’ zoppo, giocai fino alla fine”.

Nel 1975/76 il Cesena conquista la Uefa, l'apice nella sua storia.

“Eravamo una buona squadra, con un allenatore molto preparato come Marchioro, fresco da Coverciano. Rispetto a Radice eravamo un po’ più spregiudicati. Non a caso i miei tre gol in serie A li ho fatti con lui”.

Se qualcuno a inizio stagione le avesse detto che il Cesena sarebbe andato in Uefa, lei cosa avrebbe risposto?

“Che non credevo alle favole”.

In Uefa incontrate una squadra esperta come il Magdeburgo.

“Nella gara d’andata nella Germania dell’Est abbiamo pagato l’inesperienza (3-0 il risultato, nda). Siamo caduti nelle loro provocazioni, culminate nell’espulsione di Oddi per un fallo di reazione. Inferiorità numerica a parte, abbiamo giocato comunque male”.

Nel ritorno però le cose cambiano.

“Ce l’avevamo quasi fatta a raddrizzare il risultato (3-1 il finale, nda). Purtroppo la Uefa era arrivata nel momento in cui il ciclo degli anni precedenti con Marchioro volgeva al termine”.

Delle 19 stagioni a Cesena quale la più esaltante?

“Le due promozioni in serie A: la prima con Radice nel 1972/73, l’altra con Bagnoli nel 1980/81”.

La più deludente?

“La retrocessione del 1976/77. Finire ultimi nell'anno della Uefa ha significato che qualcosa non aveva funzionato a dovere”. Quale spiegazione si è dato?

“Fu sbagliata la campagna acquisti. Non faccio nomi, però si puntò troppo su giocatori dal nome affermato e dalla carriera ormai al tramonto. Se ci fosse stato un allenatore come Radice questo non sarebbe avvenuto”.

Lei ha conosciuto i due storici presidenti: un giudizio su Manuzzi?

“Magari non era un esperto di calcio, però era un personaggio scaltro che sapeva farsi volere bene. Poi era furbissimo nei contratti”.

Perché?

“Strappare qualcosa in più era sempre un'impresa. Mi voleva dare sempre un poco di meno degli altri facendo leva sul campanilismo: «siccome sei di Cesena…». Il clima però era sempre amichevole”.

E Lugaresi?

“Diciamo che era già un po’ più moderno a conferma che ogni persona è figlia del proprio tempo. Sul fronte dei contratti ho avuto meno «baruffe»”.

L’allenatore a cui si sente più legato?

“Sarò ripetitivo ma dico ancora Radice e Bagnoli”.

La partita del Cesena più esaltante della sua carriera?

“A Torino contro la Juventus nel 1975/76: finì 3 a 3. Un’emozione particolare visto poi che da bambino tifavo Juve”.

520 partite in bianconero, 8 reti: quale la più bella?

“Contro il Brescia il secondo anno con Bagnoli. In allenamento provavamo e riprovavamo uno schema su punizione, al punto che non ne potevo più. Contro le rondinelle lo applichiamo e faccio gol. Non mi sembrava vero”.

Lei ha avuto fiori di allenatori, un giudizio su alcuni di loro. Partiamo da Radice.

“Un innovatore che credeva nella forza del gruppo. Senza Radice non saremmo andati in serie A”.

Bersellini?

“Un tattico, sempre preoccupato senza trasmettere ansia”. Bagnoli?

“Tatticamente il numero uno. Ricordo un curioso aneddoto mai raccontato. Nell’anno 1980/81 a volte mi faceva giocare col numero 4 a fianco del libero. Il pubblico rumoreggiava pensando che giocassi mediano, ruolo che ritenevano non più adatto a me dato che avevo 33 anni. Teniamo conto che erano gli anni in cui i numeri sulle maglie avevano il loro peso”.

Bagnoli cosa fa?

“Un giorno mi prende da parte e mi anticipa che mi avrebbe ridato il numero 3, pur giocando nella posizione di sempre. Giochiamo la gara, il pubblico non si accorge di nulla, addirittura vinciamo. A fine partita, mentre sto uscendo dal campo, Bagnoli mi strizza l’occhio, come dire li abbiamo fregati”.

Torniamo alla lista, Marchioro?

“Un arrembante e spregiudicato che dava la giusta carica”.

Andiamo agli allenatori di cui è stato vice: Lippi?

“Personaggio con una passione per il calcio che ho visto in pochi. Era capace di guardarsi 4-5 partite di seguito in cassetta come fossero film”.

Bigon?

“Un grande allenatore che purtroppo non è riuscito ad avere la continuità dei risultati. Ancora oggi sarebbe moderno soprattutto nella gestione dello spogliatoio”.

Tardelli?

“Era all’inizio e forse non si è mai scrollato di dosso l’essere stato campione del mondo. Da lui ci si aspettava sempre qualcosa di più in ciò che faceva. Queste aspettative le ha pagate a caro prezzo”.

Lei è stato una bandiera in campo: esistono ancora nel calcio di oggi?

“Se il calcio va avanti così penso di no. Oggi è il mercato a dettare le regole, difficile quindi rimanere tanti anni sempre nella stessa squadra. L’ultima bandiera è stata Maldini, di quelli in attività ci sono rimasti Totti e Del Piero”.

La forza del Cesena è sempre stato il settore giovanile: è ancora così?

“Storicamente sì. Per esempio nell’anno della prima A c’erano 4-5 giocatori cresciuti nel vivaio. Ultimamente è stato un po’ trascurato ed è un errore: una società che non ha molti soldi deve far leva sul settore giovanile”.

Ha rifiutato delle proposte allettanti?

“Diverse: Roma, Bologna e Atalanta. All’età di 33 anni poi una richiesta dalla Sampdoria: ero in vacanza in Sardegna e ricordo la telefonata. Dissi di no perché avevo da poco iniziato un’attività a Bertinoro e quindi non mi volevo allontanare. Se avessi accettato avrei incontrato Lippi, in quegli anni tra i blucerchiati”.

Rimpianti per quella decisione?

“Era un’esperienza che mi sarebbe piaciuta fare”.

Dall’esordio nel 1967 all’ultima gara nel 1984 come è cambiato il calcio?

“Tantissimo. Due le svolte: nel 1972 grazie ai corsi di Coverciano e all’avvento di Radice che è stato un grande innovatore; poi con Sacchi che ha cambiato il modo di pensare. Anche se devo dire che il suo pensiero da tanti è stato travisato, soprattutto in chi l’ha trasmesso ciecamente ai settori giovanili. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: in serie A oggi ci sono difensori che non sanno marcare. Si è persa una generazione che non sa cosa sia la tecnica difensiva”.

Il suo primo stipendio da calciatore?

“Il primo anno di serie C non presi nulla. Il secondo, 100mila lire al mese equivalevano allo stipendio di un insegnante”.

Epilogo amaro a Cesena, da vice allenatore con Tardelli prima e Benedetti poi tra le polemiche.

“Sono state dette tante falsità in proposito. Come la voce che andassi a ballare con i giocatori, insieme a Tardelli. Tutto falso. Insieme a società e giocatori avevamo concordato che il giovedì si andasse fuori e alle undici si rientrasse a casa. Malgrado fossero uscite regolate è passata la voce che i giocatori andassero a ballare accompagnati dal sottoscritto. L’errore è stato in parte anche mio, ho peccato di ingenuità. Anche se lo sbaglio più grande l’ho fatto successivamente”.

Quale?

“Una volta mi telefonano alle 3 di notte e mi riferiscono che alcuni giocatori sono in una discoteca della zona. Mi alzo, vado nel locale e porto a casa i 5-6 giocatori presenti. È stato lo sbaglio più grande della mia vita”.

Perché?

“E’ passata la voce che fossi a ballare anch’io insieme ai giocatori. Tant’è vero che mi è venuto il sospetto che fosse stata una situazione creata ad arte”.

Da chi?

“Passiamo alla prossima domanda”.

Rimane comunque un po’ di amarezza per un finale così?

“Sì, tanto dispiacere”.

Nel 1999 è il vice di Bigon in Grecia all’Olympiakos.

“Bella esperienza, un po’ meno per Bigon visto che dopo cinque mesi è stato esonerato. Io invece sono rimasto due anni”.

Dopo la Grecia, osservatore della nazionale per conto di Lippi.

“Andai a Torino per salutare Marcello che allenava la Juventus. Mi chiese se ero disponibile a fargli da osservatore per i bianconeri. Dopo alcuni mesi mi telefona per dirmi che avrebbe allenato la Nazionale, chiedendomi se ero disposto ad entrare nel suo staff”.

Ora gira il mondo per il calcio.

“Sì. Lippi mi chiede di monitorare alcuni giocatori o di andare a vedere le partite delle nazionali. Lo scorso anno sono andato a visionare 14 volte Rossi in Spagna e 12 volte Grosso in Francia”.

Chiudo con quattro domande canoniche. Favorevole alla Regione Romagna?

“Non ne vedo la necessità, però sono favorevole al federalismo. Ogni Regione deve gestire le sue risorse”.

Favorevole all’insegnamento del dialetto a scuola?

“Sono favorevole che si parli in famiglia e si tramandi ai ragazzi d’oggi”.

Il pregio di un romagnolo?

“La disponibilità”.

Il migliore giocatore romagnolo?

“Eraldo Pecci”.