Dipartimento di Studi Umanistici – Area di Studi sul Mondo Antico Dottorato in Civiltà e Tradizione Greca e Romana (XXVII Ciclo) SSD: L-FIL-LET/05 Filologia Classica

Gli Aratea di Cicerone Saggio di commento ai frammenti di tradizione indiretta

Dottoranda: Nunzia Ciano Matricola: 15175/297

Coordinatore del Dottorato: Prof.ssa Chiar.ma Carla Lo Cicero

Docente Tutor: Prof. Chiar.mo Vittorio Ferraro

Docente Co-Tutor: Prof. Dr. Chiar.mo Alexander Arweiler

ANNO ACCADEMICO 2014/2015 ABSTRACT

Il lavoro, articolato in due parti, presenta nella prima un commento ai trentatré frammenti di tradizione indiretta degli Aratea ciceroniani; nella seconda, due approfondimenti, uno al frammento II e uno al frammento XIII. I dati raccolti in sede di commento si rendono utili in più punti al superamento di ambiguità interpretative e illuminano meglio la prassi traduttoria del giovane Arpinate. I frequenti ampliamenti che Cicerone opera rispetto ad Arato rivelano infatti una preponderante dipendenza dagli scolî aratei. Ciò da un lato potenzia l’inscindibilità del poema greco dal suo apparato scoliastico; dall’altro, qualifica la versione ciceroniana come un prodotto tipico della letteratura latina, caratterizzata fin dalle origini dalla traduzione di originale greci e dall’interpretazione degli stessi per mezzo di materiale esegetico preesistente, scoliastico in special modo. Dai dati raccolti in sede di commento si passa poi agli approfondimenti, che forniscono un primo saggio dell’importanza degli Aratea per il successivo vocabolario poetico. Difatti, l’opera, oltre a costituire il primo sistematico veicolo di lessico astronomico latino, inaugura a Roma la “letteratura aratea”, cioè la tematica astronomica di marca squisitamente poetica. La poesia successiva mostrerà dunque un forte debito nei confronti degli Aratea nella trattazione sia di tematiche propriamente celesti sia di tematiche diverse, ma correlate in qualche modo alla componente astronomica; debito di cui la principale spia saranno appunto le scelte lessicali ed espressive. (sc. grammaticus) nec, si rationem siderum ignoret, poetas intellegat, qui (ut alia omittam) totiens ortu occasuque signorum in declarandis temporibus utantur. Quint. inst. 1, 4, 4 PREMESSA

La perdita quasi totale della prima produzione poetica ciceroniana (Pontius Glaucus, Nilus, Uxorius, Alcyones, Limon, Thalia maesta)1 ha indotto gli studi a limitarsi a ravvisare nella giovanile produzione dell’Arpinate un’adesione alla poetica callimachea o, più estensivamente, alessandrina. Di conseguenza Cicerone sarebbe stato, rispettivamente, un precursore di quei poetae novi da lui più tardi avversati oppure un significativo interprete di quella poesia ellenistica che influenzò la letteratura latina fin dalle sue origini2. All’oggettiva penuria di basi testuali dalle quali procedere per una più ampia valutazione della produzione poetica ciceroniana si somma poi il pregiudizio di un Cicerone cattivo poeta, invalso nella critica antica e, a tratti, in quella moderna. Ciò in conseguenza dei due celebri versi cedant arma togae, concedat laurea laudi (cons. fr. 6 Soub.) e o fortunatam natam me consule Romam (cons. fr. 7 Soub.), il secondo dei quali, in particolare, è stato messo sotto accusa sia per il contenuto (eccessiva autocelebrazione del proprio consolato) sia per lo stile (cacofonica parechesi). Questo pregiudizio ha ripetutamente ostacolato un’analisi equanime dei versi dell’Arpinate3. Una maggiore attenzione è stata però riservata agli Aratea, anche perché la loro estensione, ben superiore a quella delle altre giovanili prove poetiche ciceroniane, pervenuteci solo in esigui frammenti o addirittura nei soli titoli, ha spesso impegnato gli studi nell’analisi del contributo che gli Aratea hanno apportato all’evoluzione dell’esametro latino, in particolare per ciò che riguarda, ad esempio, la limitazione dello iato, l’incidenza delle elisioni, la regolarizzazione della clausola, l’adozione di determinati schemi prosodici4.

1 Sul dibattuto titolo dell’ultima opera elencata, Traglia 19713, pp. 12 s.

2 Knox 2011.

3 Cf. Gee 2001, p. 522 n. 9.

4 Peck 1897; specifici contributi sul raffronto tra la tecnica versificatoria di Cicerone e quella di Lucrezio in Merrill 1921 e 1924; contributi su aspetti specifici dell’esametro ciceroniano in Ewbank 1933, pp. 40-71, e in Brush 1971, pp. 89-170; sull’importanza di Cicerone poeta per l’evoluzione della tecnica esametrica latina, Traglia 1950, pp. 159 ss. e passim, con annessi rilievi stilistici, per esempio sull’apporto dato all’incremento dell’enjambement rispetto all’esametro arcaico; invece, sul purismo prosodico e metrico di Cicerone, precursore delle soluzioni virgiliane, Soubiran 1954; sulla regolarizzazione delle clausole, Soubiran 1955. Il ricorso a soluzioni metriche che precorrono i neoterici è correlato poi da Kubiak 1981 all’influsso avuto da Cicerone sullo sviluppo dell’epillio latino, in riferimento all’episodio di Orione in Arat. fr. 34, 418-435; infine, con lo sperimentalismo metrico anche lo sperimentalismo praticato dall’Arpinate nell’uso di grecismi sintattici, sul quale sinteticamente Gee 2001, p. 522 n. 10. I Un capitolo da riscrivere sull’importanza degli Aratea ciceroniani riguarda invece l’apporto di quest’opera al successivo vocabolario poetico5; ciò a prescindere sia dalla terminologia astronomica che gli Aratea attestano spesso per la prima volta in latino, determinandone così l’affermazione, sia dal riconoscimento degli Aratea come opera che inaugura a Roma la letteratura astronomica di tradizione aratea6. Nonostante che l’ormai datata monografia di Traglia, La lingua di Cicerone poeta (Bari 1950), risulti ancora un punto di riferimento nello studio della tecnica poetica dell’Arpinate, anche sotto il profilo delle scelte lessicali ed espressive, e nonostante Pasquali ribadisse che «negli Aratea di Cicerone c’era già più che in germe la lingua della poesia augustea»7, ad oggi mancano studi sistematici e aggiornati che valorizzino la portata degli Aratea sui poeti posteriori, specie su quelli delle due generazioni successive; in particolare, Lucrezio e Catullo della prima, Virgilio e gli augustei della seconda8. Ritengo che a monte di questa lacuna esegetica ne rimanga un’altra, da colmare preliminarmente. Mi riferisco all’assenza di un commento sistematico agli Aratea9, utile ad illuminare meglio, al di là del ciceroniano modus vertendi dell’originale arateo, le risorse lessicali ed espressive esperite in questa traduzione / interpretazione di Arato, nonché gli esiti nella poesia latina successiva. Da qui dunque la mia scelta di commentare gli Aratea, in particolare i trentatré frammenti di tradizione indiretta. Due ragioni hanno dettato questa scelta; la prima, i prescritti limiti di tempo hanno sconsigliato di estendere il lavoro al lungo frammento di tradizione diretta (480 vv.); la seconda, il nesso di causalità da me colto tra l’assenza di studi aggiornati sugli Aratea e l’assenza di un commento agli Aratea medesimi mi ha sollecitata a non circoscrivere il lavoro al solo commento, bensì a valorizzare i dati in esso raccolti per approfondimenti in funzione di un primo saggio sull’importanza degli Aratea per la poesia successiva.

5 Cf. Townend 1965, p. 130.

6 Jonin 1974, pp. 254 s.

7 In calce all’incompiuto articolo di Ferrari 1940, p. 95.

8 Una sintetica rassegna è rappresentata dal cap. II B. L’influence sur la poésie postérieure dell’Introduction di Soubiran 1972, pp. 72-85. Sintomatici di una svolta in tal senso sono ora l’articolo di Gee 2013 (b), nel quale la studiosa dà un primo schizzo dell’influsso della poesia ciceroniana, in particolare degli Aratea, su Lucrezio, Catullo e Virgilio, e la monografia di Gee 2013 (a), dove al cap. IV. Lucretius’ Aratea ella indaga in maniera più sistematica l’influsso degli Aratea su Lucrezio, con corredo di un’utile tabella sinottica di loci similes nei due autori, pp. 81-109 e 189-231.

9 Il commento di Ewbank 1933 riguarda l’intera produzione poetica di Cicerone e risulta dunque succinto ed essenziale. II Un vivo ringraziamento ai due Tutor di questa tesi dottorale, Prof. Dr. Alexander Arweiler e Prof. Vittorio Ferraro, ai quali rimango grata per la Loro preziosa guida. Si intende che l’eventuale presenza di imprecisioni, sviste o refusi rimane di mia esclusiva responsabilità.

III INDICE

Introduzione………………………………………………………………………………..p. 1

Testo, traduzione e commento…………………………………………………………….p. 17

Fr. I………………………………………………………………………………………..p. 18 Fr. II……………………………………………………………………………………….p. 22 Fr. III………………………………………………………………………………………p. 32 Fr. IV……………………………………………………………………………………….p. 40 Fr. IV bis…………………………………………………………………………………...p. 43 Fr. V………………………………………………………………………………………...p. 44 Fr. VI……………………………………………………………………………………….p. 51 Fr. VII………………………………………………………………………………………p. 55 Fr. VIII……………………………………………………………………………………..p. 65 Fr. IX…………………………………………………………………………………….…p. 74 Fr. X………………………………………………………………………………………. ..p. 87 Fr. XI………………………………………………………………………………………p. 90 Fr. XII………………………………………………………………………………………p. 93 Fr. XIII…………………………………………………………………………………….p. 94 Fr. XIV……………………………………………………………………………………p. 98 Fr. XV…………………………………………………………………………………….p. 102 Fr. XVI……………………………………………………………………………………p. 112 Fr. XVII………………………………………………………………………………….p. 123 Fr. XVIII…………………………………………………………………………………p. 125 Fr. XIX……………………………………………………………………………………p. 136 Fr. XX……………………………………………………………………………………p. 138 Fr. XXI……………………………………………………………………………………p. 140 Fr. XXII………………………………………………………………………………….p. 142 Fr. XXIII…………………………………………………………………………………..p. 146 Fr. XXIV…………………………………………………………………………………p. 148 Fr. XXV…………………………………………………………………………………p. 150 Fr. XXVI………………………………………………………………………………….p. 154 Fr. XXVII………………………………………………………………………………..p. 156 Fr. XXVIII……………………………………………………………………………….p. 160 Fr. XXIX…………………………………………………………………………………p. 162

IV Fr. XXX…………………………………………………………………………………p. 164 Fr. XXXI………………………………………………………………………………..p. 166 Fr. XXXII……………………………………………………………………………….p. 171 Fr. XXXIII………………………………………………………………………………p. 176

Approfondimenti…………………………………………………………………………p. 177

I. La coppia tempestas – vetustas da Cicerone a Seneca e le sue metamorfosi nella poesia augustea…………………………………………………………………………………p. 178

II. L’arte di cantare la Corona di Arianna. Da Arato ad Avieno…………………………p. 191

III. Nel “segno” di Omero. Arat. 72; Ap. Rh. 3, 1002; Nonn. D. 33, 374………………p. 222

Zusammenfassung………………………………………………………………………p. 233

Bibliografia…………………………………………………………………………….p. 240

V INTRODUZIONE

1. I Phaenomena di Arato e il loro Nachleben

I Phaenomena di Arato (315-240 a. C. ca.), unica opera del poeta di Soli giuntaci per intero1, furono composti probabilmente tra il 280 e il 260 a. C., alla corte macedone di Pella e sotto il patronato di Antigono Gonata2. Sono un trattato di 1154 esametri divisibile in due macrosezioni, i Phaenomena propriamente detti e le Diosemeiai, precedute dal proemio, vv. 1-183. Nella prima macrosezione sono descritte le costellazioni boreali e australi (vv. 19-558) e si fornisce un calendario nel quale il trascorrere del tempo è calcolato in base alla levata e al tramonto in simultanea delle costellazioni e dei segni dello Zodiaco (vv. 559-757); nella seconda macrosezione, invece, vengono esposti gli indizi che segnalano le variazioni del tempo meteorologico, vv. 758-11544. La bipartizione della materia aratea si ripete nella bipartizione del commento ai Phaenomena allestito intorno alla meta del II sec. a. C. dallo stoico Boeto di Sidone, dal quale Cicerone avrebbe derivato, per la seconda parte della propria traduzione, il titolo di Prognostica5.

Sul piano contenutistico l’opera aratea si mostra in debito per la parte astronomica, ossia per la prima sezione, con l’omonimo trattato in prosa di Eudosso di Cnido (408-355 a. C.), come testimoniano sia il commento dell’astronomo Ipparco (II sec. a. C.)6 sia Cicerone, rep. 1, 227; per la seconda sezione, ossia per la parte metereologica, essa si mostra invece in debito con un perduto trattato peripatetico del IV secolo, attribuito a Teofrasto e a noi noto da una versione in prosa, probabilmente successiva ad Arato8. Sul piano tematico e stilistico, poi, già

1 Per una lista delle opere perdute di Arato, Martin 1956 (a), pp. 177-182, e Ludwig 1965, pp. 27-30.

2 Fantuzzi – Hunter 2002, p. 302.

3 Fantuzzi – Hunter 2002, p. 329 n. 144, con informazione sulla discussione in atto già presso gli antichi sulla struttura del poema.

4 Cf. Martin 1956 (b), pp. xxiii s.

5 Maass 1892, pp. 156-158, e Siebengartner 2012, p. 113, il quale coglie, tra l’altro, l’influsso di Boeto su Cic. Arat. fr. 2, dove l’incipitario quem sarebbe da riferire ad un antecedente quale mundum, considerata la probabile adesione ciceroniana all’idea dell’eternità del mondo asserita da Boeto.

6 Hunter 1995, p. 1; Fantuzzi – Hunter 2002, p. 303.

7 Cuius (sc. sphaerae) omnem ornatum et descriptionem sumptam ab Eudoxo multis annis post non astrologiae scientia sed poetica quadam facultate versibus Aratum extulisse; Cusset 2011, n. 13.

8 Hutchinson 1988, pp. 214 s.; Hunter 1995, p. 1; Fantuzzi – Hunter 2002, p. 304. 1 Callimaco rilevava debiti con Esiodo9, particolarmente evidenti nel proemio e nel catasterismo della Vergine (vd. infra, commento ai frr. 1 e 17-19), raffrontabili rispettivamente col proemio e col mito delle età nelle Opere e giorni10, opera con la quale il poema didascalico di Arato condividerebbe anche la maggior parte dei suoi destinatari, cioè contadini e marinai che necessitano per la loro attività di essere istruiti sulla sfera celeste11.

I Phaenomena riscossero un immediato successo soprattutto tra gli stoici, interessati ai fenomeni sia celesti12 sia linguistici, con particolare riguardo all’etimologia; aspetto, questo, per il quale Arato mostra grande sensibilità, attraverso giochi fonici volti a rilevare l’origine e il significato delle parole13. Il successo dell’opera si protrasse senza soluzione di continuità fino al Rinascimento ed è testimoniato su più versanti, non solo dalla copiosa tradizione

9 Epigr. 27 Pf. (=AP 9, 507) Ἡσιόδου τό τ’ ἄεισμα καὶ ὁ τρόπος· οὐ τὸν ἀοιδὸν / ἔσχατον, ἀλλ’ ὀκνέω μὴ τὸ μελιχρότατον / τῶν ἐπέων ὁ Σολεὺς ἀπεμάξατο· χαίρετε λεπταί / ῥήσιες, Ἀρήτου σύμβολον ἀγρυπνίης “canto e modi sono d’Esiodo. Non sull’ultimo degli aedi ma, temo, su quanto c’è di più fluente in quei versi s’è modellato il poeta di Soli. Salve, linguaggio sottile, frutto delle inesauste veglie di Arato” (trad. M. Marzi). L’epigramma ha sollevato non poche difficoltà in rapporto al finale σύμβολον ἀγρυπνίης (v. 4), emendamento di Ruhnken, accolto da Pfeiffer, del tràdito σύντονος ἀγρυπνίη, difeso invece da altri; p. es., D’Alessio 20074, I, p. 240 n. 36, e Gärtner 2007, pp. 160-162, il quale peraltro rileva come il tecnicismo medico σύντονος ἀγρυπνίη risulti particolarmente efficace nel suo trasferimento in àmbito poetico; più recente la proposta di Stewart 2008 di emendare σύντονος in σύντομος, emendamento che, oltre alla plausibilità paleografica, avrebbe il pregio di richiamare la συντομία di Omero, una delle qualità più apprezzate nel principale modello stilistico di Arato. Quanto all’accostamento tra συντομία e λεπτότης, che sarebbe il punto forte dell’emendamento, esso però sconta la mancata esplicitazione delle sue fonti, al di là dei tardi testimoni ecclesiastici e di testi spurî o di dubbia attribuzione ad Ermogene. Non persuade infine, nelle conclusioni, la suggestione che σύντομος qualifichi come “breve” l’insonnia di Arato in quanto per i proprî Phaenomena il poeta non avrebbe studiato i corpi celesti di notte, bensì avrebbe solo versificato l’omonimo trattato in prosa di Eudosso, e di giorno; contra, vd. Cinna, fr. 11, 1 s. Bl. Arateis multum invigilata lucernis / carmina, di per sé già sufficiente per il mantenimento del tràdito σύντονος ἀγρυπνίη; cf. Lewis 1992, p. 98, la quale però scrive erroneamente vigilata in luogo di invigilata.

10 La sintesi aratea tra il modello poetico di Esiodo per lo stile e il modello prosastico di Eudosso per il contenuto si porrebbe in parallelo con la sintesi di Epicuro ed Empedocle ad opera di Lucrezio; Taub 2010, p. 121.

11 Così Hunter 1995, p. 2, e Fantuzzi – Hunter 2002, p. 308; vale comunque la cautela di Bing 1993, p. 100, a non sopravvalutare i contadini e i marinai quali destinatari dell’opera, in ragione soprattutto della sua pregevole fattura letteraria. Quanto alle affinità tra Esiodo ed Arato, va ricordato che al poeta di Ascra era attribuito un poemetto astronomico sicuramente noto al poeta di Soli e che la bipartizione della materia aratea rifletterebbe quella delle Opere e giorni, la cui seconda parte sui segni metereologici si pone come «referente…obbligato» per le Diosemeiai aratee; D’Alessio 20074, I, p. 240 n. 36. L’influsso esiodeo su Arato potrebbe essere stato mediato dal suo maestro Menecrate di Efeso, autore di un perduto poema didascalico intitolato Erga e ispirato ad Esiodo; Aujac 1984, p. 266, e Kidd 1961, p. 5.

12 Jones 2003, pp. 332 s.

13 Pendergraft 1995, pp. 64-67. 2 manoscritta14 e dallo studio ininterrotto del poema fino al XV sec.15: a. giudizi lusinghieri, parodie di terzi, allusioni e citazioni dall’opera; b. fioritura di una paraletteratura costituita dalle Vitae Arati, dai commentarî e dagli scolî; c. versioni in altre lingue, specie in latino. a. I giudizi sull’opera, formulati in epigrammi da Callimaco16, da Leonida di Taranto17 e da un incerto re Tolomeo18, condividono tutti il riconoscimento della λεπτότης che contraddistingue lo stile di Arato, il quale presenta ai vv. 783-787 proprio l’acrostico λεπτή, programmatico per l’individuazione nei Phaenomena di un’opera improntata al fondamentale principio letterario alessandrino, la raffinatezza formale19. Parimenti in forma epigrammatica sono i riferimenti in sede parodica fatti da poeti come Lucillio20, Filodemo21 e Antipatro di

14 Un sistematico studio a riguardo in Martin 1956 (a); ma vd. pure Kidd 1997, pp. 49-71, e Martin 19982, I, pp. cxxvi-clxxviii. Parallelamente, sulla tradizione manoscritta dei tre principali Aratea latini, Reeve 1983.

15 Citti 1965, pp. 146 s.

16 Vd. n. 9.

17 AP 9, 25 γράμμα τόδ’ Ἀρήτοιο δαήμονος, ὅς ποτε λεπτῇ / φροντίδι δηναιοὺς ἀστέρας ἐφράσατο, / ἀπλανέας τ’ ἄμφω καὶ ἀλήμονας, οἷσιν ἐναργὴς / ἰλλόμενος κύκλοις οὐρανὸς ἐνδέδεται. / αἰνείσθω δὲ καμὼν ἔργον μέγα, καὶ Διὸς εἶναι / δεύτερος, ὅστις ἔθηκ’ ἄστρα φαεινότερα “questo è il libro del dotto Arato, che già con finezza di mente osservò le stelle imperiture, sia le fisse che le erranti, e le orbite a cui il cielo fulgente è legato nel suo ruotare. Lode a chi compì un’opera grande; sia tenuto un secondo Zeus chi accrebbe lo splendore degli astri” (trad. M. Marzi). Il dettato leonideo è dettagliatamente analizzato da Amerio 1981/1982, la quale individua la matrice pitagorico-platonica della lectio dell’epigramma; di matrice platonica, con particolare riferimento al Cratilo, parlerebbe pure il gusto per l’etimologia in forma di giochi di parole ravvisabile in Ἀρήτοιο δαήμονος (v. 1) e in φαεινότερα (v. 6); essi alluderebbero, rispettivamente, alla connessione tra Arat. 2 ἄρρητον e la forma ionica del nome di Arato, Ἄρητος, e al titolo del poema di Arato, Φαινόμενα; in proposito, Bagordo 2000.

18 P. 79, 8-11 Maass (=SH 712) πάνθ’ Ἡγησιάναξ τε καὶ Ἕρμιππος <τὰ> κατ’ αἴθρην / τείρεα καὶ πολλοὶ ταῦτα τὰ φαινόμενα / βίβλοις ἐγκατέθεντο, †ἀπὸ σκοποῦ δ’ ἀφάμαρτον†/ ἀλλ’ ὅ γε λεπτολόγος σκῆπτρον Ἄρατος ἔχει. Potrebbe trattarsi del Filadelfo secondo Kidd 1997, 36, e Lefkowitz 2001, p. 68 n. 48; dell’Evergete secondo Hurka 2010, col. 70.

19 Cf. Amerio 1981/1982, p. 117 n. 20 e Haslam 1992, pp. 199 s.; Pendergraft 1995, p. 44 n. 2, rileva come non sia casuale che all’interno del poema arateo forme dell’aggettivo λεπτός appaiano congiunte con forme del verbo φαίνομαι.

20 AP 11, 136 οὐχ οὕτω κακοεργὸν ἐχαλκεύσαντο μάχαιραν / ἄνθρωποι διὰ τὰς ἐξαπίνης ἐνέδρας, / οἷον ἀκήρυκτον, Καλλίστρατε, καὶ σὺ προσελθὼν / ποιεῖς μοι φονικῶν ἑξαμέτρων πόλεμον. / Σάλπιγξον ταχέως ἀνακλητικόν· εἰς ἀνοχὰς γὰρ / καὶ Πρίαμος κλαύσας ἡμερίων ἔτυχεν “non così malefica è la spada che forgiarono gli uomini per improvvisi agguati, come la guerra non dichiarata di micidiali esametri che tu, Callistrato, muovi contro di me. Suona presto la ritirata. Anche Priamo con le lacrime mitigò i suoi nemici fino a strappare una tregua” (trad. M. Marzi); il nesso κακοεργὸν ἐχαλκεύσαντο μάχαιραν (v. 1) è una ripresa parodica di Arat. 131; Amerio 1981/1982, p. 114 n. 12.

21 AP 11, 318 Ἀντικράτης ᾔδει τὰ σφαιρικὰ μᾶλλον Ἀράτου / πολλῷ τὴν ἰδίην δ’ οὐκ ἐνόει γένεσιν· / διστάζειν γὰρ ἔφη, πότερ’ ἐν κριῷ γεγένηται / ἢ διδύμοις ἢ τοῖς ἰχθύσιν ἀμφοτέροις. / Εὕρηται δὲ 3 Tessalonica22, mentre allusioni ai Phaenomena è dato riscontrare in Apollonio Rodio e in Teocrito23. Le citazioni riguardano invece il primo emistichio del v. 1 Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα (Theocr. 17, 1 Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα24 e AP 12, 1, 1 Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα, καθὼς εἴρηκεν Ἄρατος)25, il primo emistichio del v. 5 τοῦ γὰρ καὶ γένος ἐσμέν (Act. 17, 28, discorso dell’Areopago dell’apostolo Paolo)26 e i vv. 1-9 per intero (Eus. PE 13, 12)27. b. La tradizione manoscritta conserva quattro Vitae, alle quali se ne aggiunge una quinta nell’Aratus Latinus e una sesta nella Suda28. Queste biografie pongono l’accento sullo stoicismo di Arato, facendone un allievo di Zenone di Cizio, fondatore dello stoicismo, e riportando la stesura dei Phaenomena al soggiorno del poeta alla corte di Antigono Gonata, simpatizzante dello stoicismo. Quest’associazione tra Arato e lo stoicismo, favorita dal fatto che la Cilicia, regione di nascita del poeta, diede i natali anche ad illustri stoici (Crisippo di Soli e Zenone, Antipatro ed Archedemo di Tarso)29, è stata di recente ridimensionata sul piano della ricezione dei Phaenomena. Più precisamente, queste notizie biografiche, dipendenti da fonti stoiche, più che testimoniare l’adesione di Arato allo stoicismo,

σαφῶς ἐν τοῖς τρισί· καὶ γὰρ ὀχευτὴς / καὶ μωρὸς μαλακός τ’ ἐστὶ καὶ ὀψοφάγος “Anticrate conosceva gli astri molto meglio di Arato, ma non capiva il proprio oroscopo. Era incerto, disse, se fosse nato sotto l’Ariete o i Gemelli o la coppia dei Pesci. S’è trovato senz’altro che nacque sotto i tre: è corridore, pazzo, effeminato e ghiottone” (trad. M. Marzi); qui la parodia di Anticrate, uno sconosciuto e risibile astrologo-astronomo, è incentrata sul paragone con Arato; Amerio 1981/1982, p. 114 n. 12 e p. 119.

22 AP 9, 541 θειογένης Πείσωνι τὰ τεχνήεντα κύπελλα / πέμπει· χωροῦμεν δ’ οὐρανὸν ἀμφότερα· / δοιὰ γὰρ ἐκ σφαίρης τετμήμεθα, καὶ τὸ μὲν ἡμῶν / τοὺς νοτίους, τὸ δ’ ἔχει τείρεα τἀν Βορέῃ. / Ἀλλὰ σὺ μηκέτ’ Ἄρητον ἐπίβλεπε· δισσὰ γὰρ ἀμφοῖν / μέτρα πιὼν ἄθρει πάντα τὰ φαινόμενα “Teogene invia a Pisone noi, artistiche coppe. Entrambe conteniamo il cielo, ché fummo tagliate in due parti da una sfera, e una di noi ha le costellazioni australi, l’altra le boreali. Non volgere più l’occhio ad Arato ma, vuotando il contenuto d’entrambe, contempla tutti i Fenomeni” (trad. M. Marzi); le due coppe sono ritenute così preziose da annullare l’utilità della lettura di Arato e nel finale «l’espressione τὰ φαινόμενα è volutamente ambigua, in quanto adombra sia il titolo del poema di Arato che l’oggetto della contemplazione celeste (le costellazioni)»; Amerio 1981/1982, p. 119.

23 Kidd 1997, pp. 38-41; Pendergraft 1986; più sinteticamente, Hurka 2010, coll. 69-70; vd. inoltre i testimoni delle allusioni al contenuto del poema arateo riportati da Amerio 1981/1982, p. 120.

24 Fantuzzi 1980.

25 Amerio 1981/1982, p. 115 n. 14; ma vd. pure Cic. rep. 1, 56 imitemur ergo Aratum, qui magnis de rebus dicere exordiens a Iove incipiendum putat… rite ab eo (sc. Iove) dicendi principia capiamus e Quint. inst. 10, 1, 46 ut Aratus ab Iove incipiendum putat, ita nos rite coepturi ab Homero videmur.

26 Frøvig 1936, p. 45.

27 Ludwig 1965, p. 38.

28 Kidd 1997, p. 3.

29 Lewis 1992, p. 106. 4 proverebbero il successo dell’opera in ambienti stoici, i quali avrebbero poi avuto interesse a far passare il poema arateo come il capolavoro poetico della loro dottrina30. La fortuna dei Phaenomena in questi ambienti è del resto testimoniata dal sopra ricordato commento dello stoico Boeto di Sidone, autore a sua volta di una Vita Arati31.

La materia tecnica dell’opera aratea, sia pur nei limiti della sua esposizione in forma poetica32, stimolò fin da subito un interesse scientifico di cui è testimone il più antico commento a noi pervenuto, quello dell’astronomo Ipparco di Nicea (II sec. a. C.). Il commento è utile a rilevare sia la dipendenza di Arato da Eudosso di Cnido sia le imprecisioni astronomiche del poeta di Soli, le cui correzioni ad opera di Ipparco furono spesso una guida sicura per la versione latina di Germanico. Il commento ipparcheo restituisce inoltre alcuni estratti di un precedente commento ad Arato, allestito da Attalo di Rodi, che Ipparco talora cita in disaccordo con la sua interpretazione di luoghi aratei33. A questi commenti propriamente astronomici si affiancarono poi commenti sia linguistici sia relativi ai miti stellari, inglobati nella prima edizione definitiva del testo di Arato e alla base di parte degli scolî a noi pervenuti. Gli scolî non riconducibili a questa prima edizione definitiva (ad opera del grammatico Teone, di età augustea, oppure di Teone matematico di Alessandria, IV sec. d. C.) rimontano invece all’edizione Φ, del II o III sec. d. C., nella quale confluirono, insieme a materiale di commento ad Arato, anche estratti da altre opere astronomiche e mitologiche, in particolare i cosiddetti Catasterismi di Eratostene34. c. Numerosissime furono le traduzioni in latino del poema arateo35, in parte perdute oppure attestate in maniera molto frammentaria36. La stagione della fortuna romana di Arato fu

30 Ibid.; Cusset 2011.

31 Lewis 1992, p. 105.

32 Lo stesso Cicerone ammette come Arato fosse apprezzabile per le sua qualità poetiche più che per la sua perizia astronomica; de orat. 1, 69 constat inter doctos nomine ignarum astrologiae ornatissimis atque optimis versibus Aratum de coelo stellisque dixisse e rep. 1, 22 cuius (sc. sphaerae) omnem ornatum et descriptionem sumptam ab Eudoxo multis annis post non astrologiae scientia sed poetica quadam facultate versibus Aratum extulisse. Santini 2002, p. 153 sottolinea la volontaria rinuncia di Arato ad una esposizione sistematica, da trattato; in questa prospettiva è inoltre significativo che i Phaenomena versifichino l’omonimo trattato in prosa di Eudosso di Cnido, che già di per sé non aveva lo spessore tecnico dell’altra sua opera, Le velocità, per noi perduta; cf. ivi, pp. 151 s.

33 In sede di commento si farà dunque riferimento talora all’esegesi di Ipparco, il cui testo è riportato secondo l’edizione di Manitius 1894.

34 Per maggiori dettagli, Dickey 2007, pp. 56-60. 35 Valga la testimonianza di Gerolamo, che con specifico riferimento alle traduzioni latine di Arat. 5 attesta che molti si cimentarono nella traduzione dei Phaenomena; così in Tit. 1, 2 quod hemistichium 5 inaugurata dagli Aratea di Cicerone, cui seguirono gli Aratea di Germanico (I a. C. – I d. C.) e quelli di Avieno (IV d. C.)37, ai quali si aggiunge la versione in prosa dell’Aratus Latinus (VIII sec.)38. La diffusione dell’opera nel mondo latino è inoltre confermata da ripetuti riferimenti ad Arato in autori di diversa epoca, e in forma non solo esplicita - oltre che in Cicerone39 e Cinna40, anche in Varrone Reatino41, Vitruvio42, Igino43, Pomponio Mela44, Ovidio45, Seneca46, Petronio47, Stazio48, Plinio il Giovane49, Quintiliano50, Agostino51,

in Phaenomenis Arati legitur, quem Cicero in Latinum sermonem transtulit, et Germanicus Caesar et nuper Avienus, et multi quos enumerare perlongum est; Blume – Haffner – Metzger 2012, p. 28.

36 Tra le versioni perdute figurerebbe quella dell’imperatore Gordiano I (III sec. d. C.); tra le versioni frammentarie quella di Ovidio, della quale avanzano due soli frammenti, frr. 1 e 2 Bl.; di Varrone Atacino rimangono invece due frammenti dell’Ephemeris, frr. 21 e 22 Bl., dai quali traspare l’adattamento della sezione aratea sui segni premonitori della pioggia; Calderón Dorda 1990, pp. 28, 32 e 37. Si aggiungano poi la riformulazione virgiliana delle Diosemeiai aratee, georg. 1, 351-465, e il forte debito del primo libro degli Astronomica di Manilio col poema arateo; Lewis 1992, pp. 96 s.

37 Essi si iscrivono in un trittico completato dalla trattazione della geografia delle terre, Descriptio orbis terrae, e delle coste, Ora maritima, cui si aggiunge, per il parallelo interesse per la geografia, una libera parafrasi in esametri della Periegesi di Dionisio di Alessandria; Santini 2002, pp. 163 s., e Mastrorosa 2002, p. 179. La fortuna del poeta di Soli nel IV sec. trova riscontro anche in Ammiano Marcellino, il quale afferma come il buon governo dell’imperatore Giuliano abbia riportato la Giustizia sulla terra, un tempo volata in cielo a causa dei misfatti degli uomini, come appunto risulta dal mito arateo della Dike, vv. 96-136; 22, 10, 6 vetus illa Iustitia, quam offensam vitiis hominum Aratus extollit in caelum, imperante eo reversa ad terras; Lewis 1992, p. 99.

38 Studiato sistematicamente da Le Bourdellès 1985.

39 Vd. n. 32.

40 Vd. n. 9.

41 Men. fr. 206 Astbury (=204 Cèbe) non subsilies ac plaudes et ab Arato posces astricam / coronam?, dove l’inedita astrica corona, mai esistita a differenza, p. es., di quella poetica, sottolinea la celebrità conferita da Arato alla materia astronomica.

42 9, 6, 3 Aratus ceterique ex astrologia parapegmatorum disciplinis invenerunt et eas posteris explicatas reliquerunt; su Arato come fonte per l’astronomia di Vitruvio, Soubiran 1969 (a), pp. l-li.

43 Astr. praef. 67 etenim praeter nostram scriptionem spherae quae fuerunt ab Arato obscurius dicta persecuti planius ostendimus; vd. poi 2, 2; 6; 18 e passim.

44 1, 72 iuxta in parvo tumulo Arati poetae monimentum ideo referendum.

45 Am. 1, 15, 16 cum sole et luna semper Aratus erit; cf. Bartalucci 1981, p. 162.

46 Nat. 1, 13, 3 cum utrimque solem cinxit talis effigies, tempestas, si Arato credimus, surgit. 47 Cap. 40 “sophos” universi clamamus et sublatis minibus ad cameram iuramus Hipparchum Aratumque comparandos illi nomine non fuisse; il nesso Hipparchum Aratumque attesterebbe l’autorità in àmbito astronomico di Arato in coppia con Ipparco, uno dei più grandi astronomi dell’antichità, nonché suo commentatore; Lewis 1992, pp. 98 s. 6 Paolino di Nola52, Sidonio Apollinare53, Venanzio Fortunato54, Gregorio Magno55 - ma anche in forma implicita56. Fuori dalla latinità, completano il quadro della fortuna del poema arateo un testo prosastico in armeno57 e frammenti di una traduzione in arabo58.

48 Silv. 5, 9, 19-23 at tu, seu membris emissus in ardua tendens / fulgentisque plagas rerumque elementa recenses, / quis dues, unde ignes, quae ducat semita solem, / quae minuat Phoeben quaeque integrare latentem / causa queat, notique modos estendi Arati?.

49 Epist. 5, 6, 43 vides, ut Aratus minutissima etiam sidera consectetur et colligat; modum tamen servat: non enim excursus hic eius, sed opus ipsum est; cf. Lewis 1992, p. 99.

50 Oltre a inst. 10, 1, 46 (vd. supra, n. 25), pure 10, 1, 55 Arati materia motu caret, ut in qua nulla varietas, nullus adfectus, nulla persona, nulla cuiusquam sit oratio, sufficit tamen operi, cui se aequalem credidit.

51 Civ. 16, 23 postremo quicumque universum stellarum numerum comprehendisse et conscripsisse iactantur sicut Aratus vel Eudoxus vel si qui alii sunt, dove Agostino, pur attaccando l’opera di Arato perché basata sulla falsa premessa di poter contare e dunque studiare le stelle, secondo le Scritture innumerabili come i discendenti di Abramo, testimonia comunque la diffusione dei Phaenomena nel V secolo; Lewis 1992, p. 99.

52 Carm. 22, 124 s. nunc tria miremur texentem fata Platonem / aut Arati numerous aut picta Manethonis astra?, dove l’associazione di Arato con l’astrologo egiziano Manetone e con Platone rifletterebbe la ricezione dei Phaenomena come opera astrologica; Lewis 1992, p. 100.

53 Epist. 9, 9, 14 neque te satis hoc aemulari quod per gymnasia Aeropagitica vel prytanea curva cervice Speusippus Aratus panda, Zenon fronte contracta; dove con l’associazione di Arato allo stoico Zenone Sidonio enfatizzerebbe la tradizionale connessione del poeta di Soli con lo stoicismo; Lewis 1992, pp. 100 s.

54 Carm. 7, 12, 25 s. Archyta Pythagoras Aratus Cato Plato Chrysippus, / turba Cleantharum stulta favilla cubat, dove Arato continua ad essere associate con gli stoici; Lewis 1992, p. 101.

55 Moral. 9, 11 nequaquam sermo veritatis vanas Hesiodi, Arati et Callimachi fabulas sequitur ut Arcturum nominans, estremam stellarum septem caudam Ursae suspicetur et quasi Orion gladium teneat amator insanus, dove la mitologia stellare di Esiodo, Arato e Callimaco è rigettata come vana fabula; Lewis 1992, p. 101.

56 L’astronomo indicato con una perifrasi in Verg. ecl. 3, 40-42 in medio duo signa, Conon et – quis fuit alter, / descripsit radio totum qui gentibus orbem, tempora quae messor, quae curvus arator haberet? sarebbe proprio Arato, identificazione avvalorata anche dal riferimento al v. 42 al calendario agricolo nel segno di Arato e della sua traduzione ad opera di Cicerone; inoltre, i duo signa del v. 40 indicherebbero due costellazioni o, meglio, due coppie di sei costellazioni ciascuna, in effigie dunque delle dodici costellazioni zodiacali. Considerando che la coppa di Dameta raffigura Orfeo, simbolo del mondo naturale terrestre, la coppa di Menalca, la quale reca i duo signa, sarebbe ad essa complementare, in quanto raffigurante il mondo naturale celeste. Il motivo decorativo completerebbe così l’allusivo riferimento ad Arato nel quesito di Menalca; Fisher 1982 e Cucchiarelli 2012, pp. 216 s. All’allusione virgiliana ad Arato si aggiunga la sua dipendenza dal poeta di Soli nell’uso degli acrostici; in particolare, la sezione georgica sulla descrizione delle fasi lunari (1, 424-435) presenterebbe ai vv. 429, 431 e 433 l’acrostica σφραγίς MA(ro) VE(rgilius) PU(blius), avvalorata dal fatto che la corrispondente sezione aratea sulla descrizione delle fasi lunari presenta anch’essa un acrostico, quel λεπτή dei vv. 783-787 ricordato sopra; successivamente, Val. Fl. 2, 367 ss. avrebbe riproposto, nel luogo sugli Argonauti bloccati a Lemno a causa del maltempo e significativamente 7 Diverse le ragioni addotte a spiegare l’immediato e continuativo successo dei Phaenomena. Una prima ragione sarebbe da individuare nella versificazione della materia astronomica di Eudosso, accurata sul piano scientifico ma arida sul piano stilistico. La forma poetica avrebbe dunque fatto sì che il poema arateo, benché non concepito come un manuale di base per l’astronomia59, di fatto si imponesse come tale. Parallele alla forma poetica sono l’accuratezza formale e la tecnica squisitamente alessandrina, che sarebbero state determinanti nella fortuna dell’opera non solo nell’immediato, ma soprattutto a Roma. Ai motivi riconducibili alla scelta del verso e alla particolare tecnica poetica si aggiungerebbe la componente stoica dell’opera, da individuare nel proemio celebrativo di Zeus e nella sua figurazione quale dio provvidenziale che regola l’universo fissando in cielo i corpi celesti a beneficio dell’umanità60. A queste tre prevalenti ragioni se ne aggiungono altre tre: l’uso astrologico della sezione sulla levata e sul tramonto delle costellazioni, il ricorso alla mitologia, la configurazione del poema come un’opera di religione astrale61. Tra queste ragioni, le ultime due risultano particolarmente deboli: alla seconda osta il racconto di soli quattro miti stellari o catasterismi (le Orse; la Dike; Pegaso; Orione), troppo pochi per spiegare la fama dell’opera in virtù delle sue parti mitologiche; alla terza osta l’assenza di riscontro in Arato di costellazioni tratteggiate dall’autore come esseri divini, ad eccezione della Vergine-Dike che però ha una specifica valenza esemplare sul piano letterario della ricezione e dell’allusione di aperto dal riferimento alla luna, sia l’acrostico dei proprî tria nomina, come Verg. georg. 1, 429-433, sia la disposizione dell’acrostico medesimo in obliquo e in diagonale, analogamente al λεπτή di Arato, disposto sia in verticale, vv. 783-787 , sia in orizzontale, v. 784. La combinazione dei due modelli, Arato e Virgilio, sarebbe stata infine corollata da un avanzamento rispetto ad entrambi nel nuovo technopagnion di Valerio Flacco; Castelletti 2015. Nel caso di Ovidio e di Lucano, invece, si registrano puntuali dipendenze da Arato, pur in assenza di esplicito o allusivo riferimento al poeta di Soli; in particolare, per l’influsso di Arato sui Fasti di Ovidio, Gee 2000; per la riscrittura aratea dei segni premonitori della tempesta per bocca del pescatore Amiclate in Lucan. 5, 540-550, Esposito 2007, pp. 95-100 e 103-108; per l’attenzione di Lucano ai fenomeni naturali e celesti in particolare, Domenicucci 2013.

57 Martin 19982, I, p. cxxv.

58 Honigmann 1950.

59 Santini 2002, p. 153.

60 Su questi tre aspetti, Kidd 1961 e Sale 1966, i quali si diversificano tra loro nel dare maggiore o minore rilievo a ciascuno di essi. Secondo Dehon 2003, pp. 94 s., inoltre, il successo dell’opera sarà dipeso dalla presentazione della materia astronomica nella forma di un compendio e al contempo di una compilazione sistematica particolarmente gradita poi al pragmatismo romano, incline all’accoglimento di precetti ben definiti e direttamente applicabili alla vita quotidiana, in specie agricola e marittima.

61 Lewis 1992, pp. 102-105.

8 Arato ad Esiodo. Le spiegazioni più persuasive risultano dunque le prime tre, sintetizzabili nella veste poetica come più facile veicolo di conoscenze astronomiche generalmente esposte in trattati prosastici, nel pregio stilistico-letterario proprio del poema alessandrino e nella componente stoica. Se in linea con gli studi più recenti si limita però lo stoicismo dell’opera sul piano soltanto della ricezione, come detto sopra, solo le prime due spiegazioni rimangono in piedi. Dalla prima è stata poi derivata la specificazione che i Phaenomena si sarebbero imposti non solo come basilare testo astronomico, ma più specificamente come testo scolastico di astronomia. La spiegazione dell’utilizzo pedagogico dell’opera è resa persuasiva dalla constatazione che Cicerone la traduce intorno ai diciassette anni, Virgilio vi allude già nella terza egloga per poi richiamarsi ad essa nel primo libro delle Georgiche e Ovidio esibisce grande familiarità con la materia aratea già negli Amores, che il poeta compone prima dei vent’anni, per poi cimentarsi in prima persona in una traduzione latina dei Phaenomena62. Ciò orienta a credere che tutti e tre gli autori si siano imbattuti nell’opera di Arato durante la loro fase di studio, in giovane età appunto, quando cioè avranno studiato astronomia sull’opera di Arato; ipotesi resa verosimile anche dalla prassi mnemonica della scuola antica, prassi cui era particolarmente congeniale la disposizione poetica della materia in generale, dell’astronomia aratea in particolare, che non manca di esibire una disposizione versificatoria delle parole che sembrerebbe funzionale proprio alla memorizzazione dei contenuti63. L’utilizzo dei Phaenomena come testo scolastico, utilizzo che si presterebbe a leggere negli scolî il materiale esegetico primario per lo studio del testo a scuola del grammatico64, si integra con la finalità ravvisata nella loro traduzione ad opera del giovane Arpinate. È noto infatti che gli adattamenti e le traduzioni della letteratura greca erano alla base del processo educativo romano, tanto che nel curriculum studiorum Livio Andronico, Ennio, Accio e Pacuvio erano studiati in parallelo ai loro originali greci. Sembra allora del tutto plausibile che Cicerone, traducendo per primo Arato in latino, ambisse a che il poema greco, adoperato come testo astronomico scolastico, venisse studiato a Roma anche con il concorso della sua versione65, il cui pregio maggiore è individuato da Cicerone stesso, per bocca di Balbo, proprio nella sua latinità; nat. deor. 2, 104 (carmina Aratea) conversa ita me delectant, quia Latina sunt, ut multa ex iis memoria teneam. A questo punto è dato cogliere due aspetti

62 Ivi, p. 114.

63 Un esempio è ai vv. 545-549; Kidd 1961, p. 11.

64 Weinhold 1912, p. 24.

65 Kubiak 1979, p. 24.

9 significativi: la fortuna dei Phaenomena in ragione della loro fruizione scolastica; la versione ciceroniana quale esercizio giovanile finalizzato a fornire del testo arateo una traduzione che permettesse lo studio in parallelo dell’originale greco e della sua versione ciceroniana appunto, destinata ad imporsi come riferimento obbligato per ogni autore successivo che vorrà partire da Arato. A questi due aspetti ne aggiungerei ora un terzo. L’approccio ciceroniano al testo di Arato, avvenuto nella fase giovanile di formazione scolastica, porta infatti a presupporre la guida pedagogica di un maestro o, meglio, di un grammaticus, figura alla quale competeva la conoscenza e la trasmissione delle conoscenze astronomiche di base, come in qualche modo ci testimonia Quint. inst. 1, 4, 4 (sc. grammaticus) nec, si rationem siderum ignoret, qui (ut alia omittam) totiens ortu occasuque signorum in declarandis temporibus utantur. Diventa verosimile adesso che questo grammaticus sia potuto essere Lucio Elio Stilone Preconino, e ciò in considerazione del fatto che egli, prima di diventare maestro di Cicerone, nel 100 a. C. accompagnò l’amico Quinto Metello Numidico in esilio volontario a Rodi. Significative risultano sia la data del 100 a. C., anteriore alla traduzione ciceroniana di Arato, sia la destinazione rodiese, in quanto Rodi era all’epoca centro di prim’ordine degli studi scientifici ed astronomici. Basti ricordare che proprio a Rodi fu attivo, nella metà del II sec. a. C., Ipparco di Nicea, autore, come detto sopra, di un commento ai Phaenomena di Arato e a quelli di Eudosso; sempre a Rodi fu attivo, negli ultimi decenni del II e nei primi decenni del I sec. a. C., Posidonio di Apamea, allievo di quel Panezio cui la stessa Rodi diede i natali, nonché più tardi Gemino, il quale, nato e vissuto a Rodi dove forse operò tra l’80 e il 10 a. C., scrisse un’introduzione ai Phaenomena. Si aggiunga l’attrattiva che questi studi esercitarono su Roma: Panezio si recò infatti più volte a Roma dove entrò in contatto, probabilmente tramite Polibio, con il Circolo degli Scipioni, mentre del suo allievo, Posidonio, Cicerone seguì le lezioni a Rodi nel 78 a. C.66 In tal senso, non sfuggirà che i due testi più studiati da Posidonio, i Phaenomena di Arato e il Timeo di Platone67, siano stati entrambi tradotti in latino da Cicerone. Ciò rifletterebbe l’importanza assunta a Roma sia dall’astronomia sia dalla filosofia platonica, alla base del Medio Stoicismo inaugurato da Panezio e da Posidonio, nel comune denominatore del centro rodiese da cui questo interesse scientifico e filosofico si propagò e arrivò a Roma. Ritornando ora a Elio Stilone, appare del tutto plausibile che egli, divenuto grammaticus di Cicerone dopo il suo soggiorno a Rodi, florido centro di studi scientifici e astronomici, abbia guidato il giovane Arpinate nella sua versione latina di Arato; o, meglio, incentivato il genio precoce di Cicerone a cimentarsi in un

66 Marinone 1997 (a), p. 60.

67 Sedley 2003, p. 20. 10 esercizio nel quale egli potesse dare prova delle sue abilità e fornire, al contempo, un utile versione latina di Arato ad uso scolastico dei Romani. In questa luce si può ora comprendere meglio l’orgoglio che Cicerone esibisce per questa sua traduzione, per la quale, data la giovane età e nonostante l’intelligenza viva, egli avrebbe avuto la guida di un competente grammaticus, che, alla luce di quanto fin qui esposto, sarà da identificare verosimilmente con Elio Stilone.

2. Gli Aratea e i Prognostica ciceroniani: la loro discussa datazione

In linea con la bipartizione del poema arateo in sezione astronomica e sezione metereologica, Cicerone traduce l’originale greco in due opere distinte, gli Aratea e i Prognostica. Il distinguo contenutistico e nominale è attestato dallo stesso Cicerone, il quale usa l’espressione Arateum carmen per riferirsi alla sezione astronomica (nat. deor. 2, 104 utar…carminibus Arateis; leg. 2, 7 sicut in Arateo carmine), Prognostica per riferirsi alla sezione metereologica: Att. 2, 1, 11 Prognostica mea cum oratiuncolis propediem expecta; 15, 16b Prognostica nostra vera sunt; div. 1, 13 Prognostica tua referta sunt e 2, 47 Prognostica nostra. La distinzione tra le due opere, confermata pure da testimoni successivi, è violata soltanto in div. 2, 14 nostra quaedam Aratea memoriter a te pronuntiata sunt, dove Aratea è usato nel senso di Prognostica, citati precedentemente in 1, 13-1568. Mentre questa distinzione risulta assodata, molto discussa è stata invece la datazione sia degli Aratea sia dei Prognostica. In relazione specifica agli Aratea, se da un lato è riconosciuta la loro redazione in età giovanile dell’autore, dall’altro rimane dibattuta la loro esatta cronologia. Secondo Traglia69, gli Aratea risalirebbero al triennio compreso tra l’89 e l’86. Secondo Kumaniecki70, invece, quest’opera sarebbe stata composta, insieme ai Prognostica, nel triennio 86-84 a. C., periodo in cui agli esercizi retorici Cicerone avrebbe affiancato i primi tentativi letterari appunto, nonché il proseguimento degli studi filosofici, con particolare attenzione alla logica, sotto la guida dello stoico greco Diodoto. Analogamente, secondo Gelzer71 l’attività poetica ciceroniana, comprendente la versione di Aratea e Prognostica, risalirebbe agli anni di preparazione alla carriera oratoria e precederebbe dunque l’esordio forense nell’81. Secondo

68 Soubiran 1972, p. 11.

69 Traglia 1950, pp. 9 s.

70 Kumaniecki 1972, pp. 68 s.

71 Gelzer 1969, pp. 9 s.

11 Leo72 gli Aratea sarebbero stati composti poco dopo l’assunzione della toga virile (90 a. C.), presumibilmente nell’86; datazione, questa, condivisa da Cugusi73. La datazione più bassa è quella avanzata da Castorina, secondo il quale gli Aratea sarebbero stati composti non molto prima dell’8074. La datazione più persuasiva degli Aratea appare quella di Buescu75, condivisa poi da Soubiran76: entrambi raffrontano l’admodum adulescentulus che in Cic. nat. deor. 2, 104 introduce l’autocitazione di molti frammenti di tradizione indiretta degli Aratea con la stessa espressione che in rep. 1, 23 sta riferita a Scipione Emiliano, il quale all’epoca era diciassettenne. Ne deriva che admodum adulescentulus indichi il ragazzo di diciassette anni e di conseguenza, poiché Cicerone nacque nel 106, gli Aratea saranno da far risalire al 90/89. Il che si accorda perfettamente con la proposta, qui avanzata, della guida pedagogica di Elio Stilone della quale Cicerone verosimilmente si avvalse77, dal momento che Stilone fu maestro dell’Arpinate proprio nel 90; cf. Cic. Brut. 207 cum essem apud Aelium adulescens eumque audire per studiose solerem, dove Cicerone presenta sé stesso diciassettenne e in qualità di scolaro e frequentatore della casa di Elio78. Rispetto all’90/89 proposto da Buescu e da Soubiran, gli Aratea saranno probabilmente da ricondurre più esattamente al 90, in considerazione del fatto che nell’89 l’Arpinate prestò servizio militare, durante il quale non avrebbe certo avuto modo di dedicarsi ad un simile esercizio versificatorio.

Quanto alla relazione cronologica di Aratea e Prognostica, essa è resa complicata da una lettera ad Attico del giugno 60, nella quale Cicerone annuncia all’amico l’imminente invio dei proprî Prognostica; Att. 2, 1, 11 Prognostica mea cum oratiunculis propediem expecta. In proposito, sono state avanzate tre ipotesi: 1. Cicerone tradusse l’intero poema di Arato in giovinezza e nel 60 a. C. rielaborò i soli Prognostica, curandone una edizione riveduta79; 2. Cicerone tradusse l’intero poema di Arato nel 90/89 e nel 60 inviò ad Attico una semplice

72 Leo 1914, p. 191 n. 3.

73 Cugusi 1994, p. 25.

74 Castorina 1953, p. 142 n. 3.

75 Buescu 1966, pp. 28 s.

76 Soubiran 1972, p. 9.

77 A quanto mi risulta, l’unico studioso che abbia parlato della guida di un maestro in rapporto alla traduzione ciceroniana di Arato è stato Bruwaene 1973, pp. 433 ss., il quale pensa però al poeta Archia. Secondo lo studioso, inoltre, Cicerone avrebbe poi nell’87 tradotto i Prognostica per influsso di Molone di Rodi; ivi, p. 437.

78 Galli 1958, p. 177. 79 Leo 1914, p. 191 n. 3; Pease 1917; Ewbank 1933, pp. 22-24; Townend 1965, pp. 113 s. 12 copia dei Prognostica, composti trent’anni prima80; 3. Cicerone tradusse in giovinezza la sola sezione astronomica di Arato, gli Aratea, mentre nel 60 tradusse la sezione metereologica, i Prognostica81.

La prima ipotesi, quella cioè di due diverse edizioni dei Prognostica, fu avanzata da Pease (1917) sulla base della notevole differente in cui progn. fr. 4, 4-8 Soubiran era citato da Cic. div. 1, 14 saepe etiam pertriste canit de pectore carmen / et matutinis acredula vocibus instat, / vocibus instat et adsiduas iacit ore querellas, / cum primum gelidos rores aurora remittit da un lato; da Isid. orig. 12, 7, 37 et matutinos exercet acredula cantus dall’altro. L’espansione ciceroniana rispetto alla citazione di Isidoro proverebbe che l’autocitazione dell’Arpinate rimonti ad una seconda e definitiva edizione dei Prognostica e che invece la citazione di Isidoro sia tratta dalla prima e giovanile edizione dei Prognostica medesimi. Contro quest’argomento, Luiselli (1964) ha però rilevato la precisa rispondenza tra il verso citato da Isidoro, et matutinos exercet acredula cantus, e Verg. georg. 1, 403 nequiquam seros exercet noctua cantus, il che deporrebbe a favore di un’alterazione isidoriana del verso ciceroniano per influsso del verso virgiliano, tale da inficiare la possibilità di due edizioni distinte dei Prognostica. Gamberale82 ha invece sostenuto la genuinità della citazione isidoriana sulla scorta del carme De philomela, Anth. Lat. 762, 15 s. vere calente novos componit acredula cantus / mattinali tempore rurirulans. Poiché questo carme è del tutto indipendente da isidoro, lo studioso deduce che in epoca tarda il verso ciceroniano circolasse nella forma in cui Isidoro lo cita. L’ampliata autocitazione ciceroniana in div. 1, 14 sarebbe allora una variante d’autore, al pari di altre di cui gli Aratea in particolare offrono esempi sicuri83.

La seconda ipotesi, cioè quella dell’invio ad Attico nel 60 di una semplice copia e non di una seconda edizione dei Prognostica, è stata avanzata da Soubiran (1972, p. 15) sulla base del pl. carminibus Arateis di nat. deor. 2, 104 che a suo avviso si riferirebbe, in maniera onnicomprensiva, sia agli Aratea sia ai Prognostica, tradotti entrambi dall’Arpinate nel 90/89

80 Soubiran 1972, pp. 9-16: p. 16.

81 Drumann – Groebe 1919, V, p. 237 n. 3; Laurand 19393, p. 39; Traglia 1950, pp. 10-14; Luiselli 1964; Cugusi 1994, p. 39.

82 Gamberale 1971, pp. 250-252.

83 Ivi, pp. 254-257.

13 a. C. L’argomento è risultato però poco probante, in considerazione del frequente riferimento del pl. carmina ad una sola opera84.

La terza ed ultima ipotesi, cioè quella della composizione dei Prognostica nel 60 a. C., a ben trent’anni di distanza dagli Aratea, è stata avanzata da Traglia (1950, pp. 25-38) sulla base della più evoluta tecnica poetica, in specie stilistica, che i Prognostica esibiscono rispetto ai più rozzi Aratea. Tuttavia, la grande disparità quantitativa tra le due opere (ai ben 550 esametri degli Aratea si oppongono i soli 27 dei Prognostica) inficia l’argomento della più o meno matura tecnica poetica. La stessa aporia valga per il raffronto metrico tra gli esametri delle due opere, dal quale Büchner85, in maniera antitetica a Traglia, traeva la conclusione che i Prognostica fossero non di molto posteriori agli Aratea ed anteriori al Marius. L’ipotesi della posteriorità dei Prognostica rispetto agli Aratea è stata di recente riproposta da Pellacani86, il quale da un lato considera l’espressione carmina Aratea come un iperonimo rispetto all’iponimo Prognostica, il che suggerirebbe la recenziorità di questi ultimi; dall’altro, valuta le affinità tra Prognostica e De consolatu suo, opera scritta proprio nel 60 e in cui è centrale il tema dei segni premonitori oggetto dei Prognostica, come indicative di una composizione coeva delle sue opere. Egli inoltre si avvale di Hist. Aug. 3, 1 adulescens cum esset Gordianus, de quo sermo est, poemata scripsit, quae omnia exstant, et quidem cuncta illa quae Cicero, et de Mario et Arat[h]um et Halcyonas et Uxorium et Nilum per sostenere che qui Aratum sarà da riferire ai soli Aratea, affiancati al Marius da intendere, sulla scorta di Ferrarino87, come un’opera giovanile e non della maturità. Il riferimento di Aratum ai soli Aratea è corroborato dai grammatici, che spesso introducono la citazione dagli Aratea con l’espressione Cicero in Arato, mentre da questa lista di opere giovanili si trarrebbe e silentio la posteriorità dei Prognostica. Le argomentazioni tratte da Hist. Aug. 3, 1 risultano più persuasive rispetto all’argomento dell’affinità di Prognostica e De consulatu suo, dal momento che l’affinità tematica delle due opere non implica ipso facto una loro composizione coeva. Tuttavia, non sarebbe neppure da escludere che l’Aratum di Hist. Aug. 3, 1, a differenza di analoghe espressioni nei grammatici, sia da riferire, in maniera onnicomprensiva, all’intera traduzione ciceroniana di Arato, cioè ad Aratea e Prognostica

84 Ivi, p. 246 n. 1.

85 Büchner 1939, col. 1265, seguìto da Castorina 1953, pp. 141 s.

86 Gli Aratea di Cicerone. Problemi e prospettive, intervento esposto il 15 dicembre 2014 nell’àmbito della Terza Giornata di Studio del Gruppo di Ricerca sui manoscritti astronomici illustrati “La Musa del cielo. Gli Aratea di Cicerone e il ms. Harley 647”; l’intervento è registrato on line su https://www.yputube.com/watch?v=BWqiSy5aBJW.

87 Ferrarino 1986, p. 149; precedentemente, Traglia 1950, pp. 38-42. 14 insieme, che dunque potrebbero essere stati composti entrambi nel 90 a. C. A ciò si aggiunga pure la cautela con la quale è opportuno trattare la testimonianza dell’Historia Augusta, in considerazione del suo testo ampiamente corrotto, della sua datazione piuttosto tarda (II metà del IV sec.) e della sua autorità talora discutibile88. D’altro canto, invece, a sostegno del riferimento dell’Aratum di Hist. Aug. 3, 1 ai soli Aratea si può ora aggiungere il tràdito nat. deor. 2, 104 carminibus Arati eis in luogo dell’emendamento carminibus Arateis stampato dagli editori, ad eccezione di Bruwaene89. Proprio Bruwaene90 ricavava dal testo tràdito il riferimento ai soli Aratea, rispetto quali i Prognostica sarebbero stati a suo avviso tradotti poco più tardi, nell’87.

Ritorniamo infine alla seconda ipotesi, quella del Soubiran: alla data del 60 a. C. (Att. 2, 1, 11) potrebbe riferirsi l’invio di una semplice copia dei Prognostica probabilmente sollecitata da una richiesta di lettura a fini personali oppure editoriali da parte dell’amico Attico, richiesta da correlare al ritorno in auge del tema dei segni premonitori centrali nel discorso di Urania nel De consulatu suo, composto proprio nel 6091. L’affinità tematica tra Prognostica e De consulatu suo è del resto evidenziata dalla giustapposizione di versi tratti dalle due opere nel De divinazione (1, 13-14 e 17-22), giustapposizione che non pare però in alcun modo decisiva per una coeva cronologia di entrambe le opere92. Piuttosto, a favore della datazione alta dei Prognostica torna persuasiva l’idea che nel 60 l’Arpinate avrà avuto interessi ben diversi da quelli di “poesia leggera”, composta in giovinezza93. Del resto, la centralità che i segni premonitori hanno tanto nei Prognostica quanto nel De consolatu suo non deve oscurare la loro diversa funzionalità: nei Prognostica la funzione predittiva dei segni è applicata all’àmbito meteorologico; nel De consulato suo, invece, essa è piegata allo scopo celebrativo del consolato ricoperto da Cicerone nel 63 a. C., anno in cui l’Arpinate sventò la congiura di Catilina; non a caso, il discorso di Urania (cons. fr. 2 Soub.) presenta non poche affinità con le Catilinarie, appunto94. La mutata prospettiva rispetto ai segni premonitori appare sintomatica, in definitiva, di un mutato interesse: poetico e giovanile quello dei Pronostica; politico e maturo quello del De consulatu suo. Pur con la dovuta cautela del caso,

88 Brush 1971, p. 21.

89 Bruwaene 1978, p. 137.

90 Bruwaene 1973.

91 Büchner 1939, col. 1238.

92 Brush 1971, p. 20.

93 Büchner 1939, coll. 1237 s., e Soubiran 1972, p. 15. 15 l’ipotesi più economica appare, in definitiva, quella della datazione al 90 tanto degli Aratea quanto dei Prognostica.

94 Soubiran 1972, p. 243 n. 1 e pp. 256 s. 16 Testo, traduzione e commento*

*Il testo degli Aratea è riportato secondo l’edizione di Soubiran 1972; quello dei Phaenomena secondo l’edizione di Kidd 1997. Per gli scolî ad Arato ho seguìto prevalentemente l’edizione di Martin 1974 (indicato sempre con M.); quando invece ho seguìto l’edizione di Maass 1898, ho citato in esteso il nome dell’editore. Mia la traduzione, che rispecchia quanto emerso in sede di commento.

17 A Iove Musarum primordia

“Da Giove gli inizi del canto”

Testimonium: Cic. leg. 2, 3 “A Iove Musarum primordia”, sicut in Arateo carmine orsi sumus; cf. rep. 1, 56 imitemur ergo Aratum, qui magnis de rebus dicere exordiens a Iove incipiendum putat

Arat. 1 Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα

A Iove R. Stephanus : maiore AB2 maiorem B1H

Solenne incipit95 che da un lato ricalca l’ordo dell’originale, ἐκ Διὸς ~ a Iove, dall’altro modifica il costrutto da verbale (ἀρχώμεσθα) in nominale (primordia)96. In più, Cicerone menziona le Muse97, già in posizione incipitaria nell’ipotesto esiodeo di Arato (Th. 1 Μυσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ’ ἀείδειν)98 e ora associate a Zeus probabilmente con l’intento di sottolinearne la filiazione, probabilmente nel solco dello scolio arateo ad l., che appunto menziona il dio quale padre delle Muse, τῶν Μουσῶν ἀρχηγέτης αὐτός ἐστιν99. L’aderenza ciceroniana allo scolio rifletterebbe pure la scoliastica difesa παρὰ τὸ πρέπον della scelta di Arato di cominciare da Zeus piuttosto che dalle Muse100; sch. Arat. 1-18, p. 176, 3-7 Maass proprium exposuit principium…a Iove, eo quod et Camenis, id est Musis, princeps est ipse Iuppiter e p. 177, 5-9 Maass conveniens magis hoc aestimavit principium Phaenomenis…quoniam et ipsarum Camenarum est origo Iuppiter. Quanto a Musarum, si

95 A Iove rispetto all’atteso ab Iove avrebbe il pregio di presentare in successione le cinque vocali, così da conferire solennità in apertura di opera; così poi Lucr. 1, 1 Aeneadum genetrix, hominum; Verg. Aen. 1, 1 Arma virumque cano; Ov. am. 1, 1, 1 Arma gravi numero; met. 1, 1 nova fert animus; fast. 1, 1 Tempora cum causis; Katz 2009, pp. 81 s.

96 Trencsényi-Waldapfel 1961, p. 172.

97 Sulla compresenza di Giove e delle Muse, cf. Theocr. 17, 1 Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα καὶ ἐς Δία λήγετε Μοῖσαι; sul rapporto tra l’esordio arateo e quello teocriteo, vd. Martin 1956 (b), pp. 3-5, e Fantuzzi 1980.

98 Cusset 1999, pp. 290 s., e Gallego Real 2004, p. 72. Per il legame tra Arato ed Esiodo, con particolare riferimento al proemio, già Pasquali 1911, pp. 113-117 (= 1986, pp. 130-133); Erren 1967, pp. 11 s. e 25 s.; Schwabl 1972, pp. 336-341; per la definizione del proemio arateo quale “mosaico esiodeo”, Traina 19862, p. 160; sulle sue affinità linguistiche e strutturali con Hes. op. 1-10, Fakas 2001, pp. 11-18; sull’intreccio nell’incipit arateo di temi, motivi e funzioni letterarie diverse dall’epica didascalica, ma accomunate dalla finalità paideutica, Grandolini 2004.

99 Atzert 1908, p. 4; Goetz 1918, p. 13; Panichi 1969, p. 1; Kubiak 1994, p. 58.

100 Bishop 2011, pp. 71-73.

18 oscilla tra il significato concreto di “Muse”101 e quello traslato di “canto”102. Benché l’indicazione incipitaria della parentela tra Zeus e le Muse trovi riscontro pure in Hes. Op. 2 (sc. Μοῦσαι) Δί’ ἐννέπετε σφέτερον πατέρ’ ὑμνείουσι103, più attesa sarebbe la dichiarazione di iniziare il canto da Zeus, come da tradizione104, tanto da assumere carattere proverbiale proprio a partire da Arato105. Dirimente diviene allora la scelta di primordia, che nell’uso arcaico palesa il significato di “inizio” in senso cronologico (vd. infra, s.v. primordia), prima di specializzarsi con Lucrezio nell’ontologica nozione di “origine”, “causa”, “fondamento”, in riferimento agli atomi. Proprio la specializzazione filosofica del termine potrebbe spiegare la scomparsa di primordium /-a in favore di principium nelle riprese di questa formula: Verg. ecl. 3, 60 Ab Iove principium Musae, Iovis omnia plena106 (con mutato referente, cf. 8, 11 a te principium, tibi desinam; Hor. carm. 3, 6, 6 hinc omne principium, huc refer exitum; Ov. fast. 3, 75 a te [sc. Martio] principium Romano dicimus anno; Hor. sat. 2, 6, 22 s. tu [sc. Iane] carmini esto / principium; Apul. flor. 18, 37 principium…ab Aesculapio deo capiam); Germ. 1 s. Ab Iove principium magno deduxit Aratus / carminis, in allusiva parafrasi dell’esordio arateo107; Calp. ecl. 4, 82 ab Iove principium, si quis canit aethera sumat; Stat. silv. praef. 16 s. sumendum…erat ab Iove principium. Per la prosa, Val. Max. praef. 1 si prisci oratores ab Iove Optimo Maximo bene orsi sunt, si excellentissimi vates a numine aliquo principia traxerunt, mea parvitas eo iustius ad favorem tuum (sc. Caesaris) decucurrerit, con evidente

101 Buescu 1966, p. 170, «Jupiter prélude aux Muses…»; Soubiran 1972, p. 158, «Par Jupiter préludent les Muses».

102 3 Traglia 1971 , p. 64, «Da Giove prendiamo le mosse del canto»; Katz 2009, p. 80, «From Jove [is my] Muses’ [i.e., song’s] beginning».

103 Al contrario, nella Teogonia il motivo genealogico è menzionato solo dopo l’aretologia musaica sulla danza e sul canto, v. 52 Μοῦσαι Ὀλυμπιάδες, κοῦραι Διὸς ἀἰγιόχοιο.

104 2 Kidd 1997, p. 162, e Martin 1998 , II, pp. 139 s.

105 Fakas 2001, p. 5 n. 1; sulla cristianizzazione della formula nel tipo incipitario in nomine Dei e simili, Opelt 1976.

106 Ewbank 1933, p. 130; il verso virgiliano ha diviso gli studiosi sull’interpretazione di Musae come vocativo oppure come genitivo; poiché in entrambi i casi il verso si avvantaggia del raffronto, rispettivamente, con Theocr. 17, 1 Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα καὶ ἐς Δία λήγετε Μοῖσαι e con Cic. Arat. fr. 1 A Iove Musarum primordia, risulta persuasiva la lettura nel senso di una volontaria ambiguità sintattica, volta al richiamo dell’ipotesto esiodeo sotteso tanto al verso di Teocrito quanto al verso di Cicerone, che si pongono rispettivamente come variazione e come traduzione di Arat. 1 Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα; così Pellacani 2014 (a).

107 Santini 1990, p. 20.

19 strumentalizzazione politica della formula, ravvisabile già in Verg. ecl. 8, 11 a te principium rivolto a Pollione; quindi, Germ. 1 s. rivolto ad Augusto o a Tiberio108, e Stat. silv. praef. 17 a Domiziano. Il verso ciceroniano viene chiaramente echeggiato da Ov. met. 10, 148 s. Ab Iove, Musa parens, (cedunt Iovis omnia regno) / carmina nostra move. primordia plurale inedito in luogo del singolare di Pacuv. trag. 50 s. R3. dubito…quod primordium / capissam ad stirpem exquirendum, dove il nesso primordium capere esprime l’idea di “cominciare, prendere avvio dall’origine prima”109; dietro a Pacuvio anche Ter. Haut. 1044 neque quod principium capiam ad placandum scio110. Direttamente raffrontabile con l’espressione pacuviana è il ciceroniano capienda primordia, successivo all’autocitazione di questo frammento nel De legibus, ab eodem (sc. Iove) et a ceteris diis immortalibus sunt nobis agendi capienda primordia111. L’espressione “da Giove l’inizio” ritorna inoltre in rep. 1, 56 rite ab eo (sc. Iove) dicendi principia capiamus, dove da Giove si dipartono gli inizi della narrazione112. Ciò porterebbe ad intendere questi dicendi primordia come un’alternativa prosastica al poetico Musarum primordia, indicante gli inizi dell’opera poetica tramite l’impiego figurato di Musa, simbolo dei versi; da qui la traduzione data sopra. Il plurale primordia si ripete nel significato di “inizi” in senso cronologico in Arat. fr. 34, 39 aestatis primordia clarat, cui fa eco Q. Cic. fr. 1, 4 Bl. aridaque aestatis Gemini primordia pandunt113, dove il principio della stagione estiva è rimarcato dalla ripresa di aestatis primordia e del verbo pando, già riferito dal fratello Marco ad un’altra costellazione estiva, il Cancro: Arat. fr. 34, 320 aestifer est pandens ferventia sidera Cancer. Elevata frequenza di

108 Per una sintesi della questione, Lewis 1986, pp. 213 s. n. 16. La maggior parte degli studiosi propende per Augusto; a supporto di questa interpretazione, con aggiunti argomenti a favore di Augusto ancora vivente e non già morto e divinizzato, Caldini Montanari 2010, pp. 13 s. e 41-46.

109 Vd. gli affini Enn. trag. 207 s. R3. neve inde navis incohandi exordium / coepisset e Plaut. Poen. 2 inde mihi principium capiam ex ea tragedia, cui rinvia Schierl 2006, p. 176.

110 Ed. Marouzeau 19906; aggiungerei che il raffronto con Pacuvio, dove parimenti l’espressione “prendere inizio” è seguita dal costrutto ad + gerundivo, milita a favore della genuinità della lezione capiam contro la variante incipiam, benché suggestiva, questa, per figura etimologica.

111 Vd. pure Cic. Vatin. 14 omnium rerum magnarum ab dis immortalibus principia ducuntur.

112 Cf. Quint. inst. 10, 1, 46 ut Aratus ab Iove incipiendum putat, ita nos rite coepturi ab Homero videmur.

113 Raffronta i due luoghi Traglia 1992, p. 68; sull’influsso degli Aratea sul frammento astronomico di Quinto Cicerone, Courtney 1993, pp. 180 s., e Gee 2007, pp. 569 s.; raffronta invece Q. Cic. fr. 1, 4 Bl. primordia pandunt con Lucr. 1, 55 primordia pandam, parimenti a fine verso, Dehon 2000, p. 266.

20 primordia nel poema di Lucrezio114, a designare gli elementi primordiali e costitutivi della materia, per lo più tramite gli inediti rerum primordia e primordia r.115; quindi, Manil. 1, 125 s. permixta chaos rerum primordia quondam / discrevit partu, e Avien. carm. ad Flav. 24 hic (sc. Iuppiter) dispersa locis statuit primordia iustis116, entrambi in luogo proemiale e in riferimento agli elementi primordiali generati dal caos. Diversamente Ovidio, per il quale primordia sono le origini di città117 e di popoli118, onde poi Stat. Theb. 1, 4 gentisne canam primordia dirae e Sil. 1, 658 Rutulae primordia gentis.

È verosimile che Cicerone, nella resa dell’arateo Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα, abbia aggiunto la menzione delle Muse alludendo alla posizione incipitaria che esse avevano nell’ “ipotesto esiodeo” di Arato (Th. 1), laddove il poeta di Soli le subordinava al padre divino e le confinava in posizione marginale, nominandole tardivamente al v. 17. L’operazione di contaminare l’originale arateo con il suo modello esiodeo trova conferma, del resto, nel trittico dei frammenti ciceroniani sul mito di Dike (frr. 17-19), dove Cicerone mutua da Esiodo elementi omessi o modificati da Arato119.

114 A partire da 1, 55 rerum primordia pandam, significativamente in articolazione con il verbo pando, come Q. Cic. fr. 1, 4 Bl.; in totale settantadue occorrenze, quasi tutte nei primi due libri.

115 Sul valore di primordia in Lucrezio, Bailey 1947, II, pp. 606 s., e Grimal 1974 (=1986).

116 Vd. pure Stat. Theb. 9, 301 illum (sc. Tydeum inhumatum) terra vehit suaque in primordia solvet.

117 Met. 15, 58 s. talia constabat certa primordia fama / esse loci positaeque Italis in finibus urbis; ars 3, 337 et profugum Aenean, altae primordia Romae, dove la solenne apposizione verosimilmente «grandly implies that Aeneas is the (Lucretian) “original substance” of Rome: primordia does not occur in Catullus or the other Augustan poets, but Lucretius uses it 72 times (half of those time in the phrase primordia rerum)»; Gibson 2003, pp. 235-236; inoltre, met. 15, 67 magni primordia mundi.

118 Met. 5, 190 adspice, ait, Perseu, nostrae primordia gentis; am. 2, 14, 11 generis primordia nostri; ep. 16, 57 Phrygiae…primordia gentis.

119 Sulla conoscenza dell’opera esiodea da parte di Cicerone, Malcovati 1943, pp. 55 s.

21 II

Quem neque tempestas perimet, neque longa vetustas interimet stinguens praeclara insignia caeli

“che né tempesta distruggerà né lunga vetustà logorerà, spegnendo le fulgide insegne del cielo” Testimonium: Prisc. GL 2, 504, 12 ss. “extinguo” etiam “extinxi”, cuius simplex “stinguo” in raro est usu…Cicero tamen in Arato “stinguens” participio usus est, quod a verbo “stinguo” nascitur : “quem…caeli” Arat. 10 s. (?) αὐτὸς γὰρ τά γε σήματ’ ἐν οὐρανῷ ἐστήριξεν / ἄστρα διακρίνας

Frammento di interpretazione incerta, in ragione della mancanza di sicura corrispondenza nell’originale greco e del problematico quem incipitario, riportato senza referente dal testimone.

Il frammento presenta una struttura retorica e fonica particolarmente accurata. Nel primo verso risalta la collocazione di perimet tra due cesure, pentemimera ed eftemimera, quasi a spezzare di netto l’isosillabismo e l’omoteleuto che congiungono i due fattori distruttivi, tempestas e vetustas. Questa infrazione del doppio legame tra tempestas e vetustas si presta a riflettere gli effetti dell’azione violenta di tempestas. Il verbo interimet, invece, esaltato dall’enjambement, rallenta il senso della distruzione operata dalla vetustas, che non a caso è detta longa. Infine, parallelo all’omoteleuto dei due sostantivi è l’omoteleuto dei due verbi, perimet…interimet. All’omofonia dei due omoteleuti si associa nel primo verso l’allitterazione della vocale e nonché delle nasali, al secondo quella del protosillabico in, interimet stinguens…insignia. In entrambi i versi la seconda sede è riempita da uno spondeo, ma al ritmo prevalentemente dattilico del primo esametro si oppone quello quasi interamente spondaico del secondo, come a voler sottolineare anche sul piano metrico, attraverso il rallentato ritmo spondaico appunto, la lentezza con la quale vetustas compie la sua opera di distruzione. Alla luce di questi accorgimenti retorici, fonici e metrici, nonché dell’arcaismo della coppia coordinante neque…neque, si desume la chiara volontà di solennizzare quanto qui espresso, anche perché il contenuto dei due versi, in quanto aggiunta personale di Cicerone, si prestava ad un innalzamento dello stile che ne rilevasse la novità.

Un modello stilistico è offerto da Enn. ann. 344 s. Sk. (Pergama) quae neque Dardaniis campis potuere perire / nec quam capta cepi nec quam combusta cremari, dove parimenti si

22 trova in apertura il relativo seguìto da neque e un insistito gioco allitterante, coadiuvato dalle figure etimologiche e dal sistema delle incisioni120. Questo enniano quae neque…/ nec…nec può essere raffrontato con ann. 208 s. Sk. [cum] neque…/ nec121, versi che, per la loro importanza (autoelogio del Rudino quale primo dicti studiosus)122 e per la loro collocazione nel proemio del settimo libro, aprono a loro volta al raffronto con l’elogio di Epicuro nel proemio del primo libro del De rerum natura, vv. 68 s. quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti / murmure compressit caelum, sed eo magis acrem. La solennità dello stile, ottenuta sia da Ennio sia da Lucrezio rispettivamente con duplice e triplice ripetizione degli arcaici neque / nec, si aggiunge ora a corroborare la collocazione del frammento ciceroniano, dove campeggia quem neque…neque, ad inizio degli Aratea e non altrove.

1 quem a sostegno dell’ipotesi che il referente qui possa essere ordo o, meglio, mundus123, si aggiunga ora quanto asserito dallo stoico Balbo in Cic. nat. deor. 2, 115 nihil maius quam quod ita stabilis est mundus…ad permanendum ut nihil ne excogitari quidem possit aptius e ac. 2, 119 eum (sc. mundum) undique aptum ut nulla vis tantos queat motus mutationemque moliri, nulla senectus diuturnitate temporum existere ut hic ornatus umquam dilapsus occidat, nonché Manil. 1, 518 ss., il quale, dopo aver spiegato che tutto è soggetto a mutamento, afferma che il mondo, al contrario, rimane inalterato, ricorrendo ad un giro di frase che rinvia a quello del frammento ciceroniano; et manet incolumis mundus suaque omnia servet, / quem nec longa dies auget minuitque senectus / nec motus puncto curvat cursusque fatigat; / idem semper erit quoniam semper fuit idem124. neque…neque la congiunzione neque, arcaica come nec rispetto al semplice non125, è diffusa, in forma di doppia correlazione, soprattutto nel teatro126, dove figura già

120 Jackson 2006, p. 230.

121 Ivi, p. 229.

122 Tomasco 2002, p. 189.

123 Buescu 1966, p. 265 nn. 3 e 4; Panichi 1969, p. 1; Soubiran 1972, p. 197 n. 3; Siebengartner 2012, p. 112; diversamente Bartalucci 1981 argomenta in favore della variante quae da riferire ad ipotetici carmina Arati, presupponendo così un elogio di Arato e del suo poema più tardi attestato da Ov. am. 1, 15, 16 cum sole et luna semper Aratus erit.

124 Sulla scorta di Liuzzi 1983, p. 144, si accoglie qui l’emendamento quem di Goold del tràdito quae.

125 Ne illustra il carattere di arcaismo Murphy 1958, pp. 44-51; parimenti arcaica la collocazione preconsonantica di neque, in contrasto con la tendenza ad elidere la ě finale che si sviluppa dall’età augustea in poi ad eccezione di Orazio (su questa generale tendenza, però in rapporto specifico ad atque, anche Butterfield 2008); esemplificativo l’uso plautino di neque non eliso, continuato poi da

23 l’articolazione con quem incipitario127; in particolare, Ter. Ad. 306 s. quem (Getam) neque fides neque iusiurandum neque illum misericordia / repressit neque reflexit neque…obtulerat, dove analogamente risaltano sostantivi astratti e gli allitteranti repressit – reflexit, dei quali Cicerone conserva l’effetto fonico sostituendovi la coppia perimet – interimet. Dopo l’arateo neque tempestas…neque …vetustas, il nesso correlativo si ripresenterà ugualmente articolato con due sostantivi astratti, gli stessi in Lucr. 4, 227 e in Verg. Aen. 5, 458 nec mora nec requies, con aggiunta del relativo da parte del Mantovano, vv. 783 s., quam nec longa dies pietas nec mitigat ulla / nec Iovis imperio fatisque infracta quiescit128. I due luoghi virgiliani risultano legati tra loro da una rispondenza interna, nec longa dies ~ nec mora e quiescit ~ requies, che presenta un parallelismo lessicale accostabile a Cic. Sest. 101 quem neque periculi tempestas, neque honoris aura potuit umquam…demovere, acclarato locus similis del verso arateo129, dove il nesso neque…neque, parimenti dopo il relativo, realizza un parallelismo sintattico con quanto precede, quem numquam ulla vis, ullae minae, ulla invidia labefecit.

La correlazione neque…neque (nec, non), inoltre, appare particolarmente gradita al Mantovano130; quem seguìto da correlazione negativa anche in Catull. 68, 5 ss. quem (te)

Lucrezio e probabilmente attribuibile, tra gli altri fattori, al carattere enfatico che la maggiore lunghezza di neque rispetto a nec conferisce al discorso; in proposito, Richmond 1965, pp. 97-99; sull’impiego plautino e lucreziano di atque e neque, poi, Richmond 1972, pp. 86-97; non passa inosservato, inoltre, come in Lucano otto dei dodici casi di neque non eliso siano nella seconda metà del primo piede (ivi, p. 88), proprio come nel verso ciceroniano in esame; aggiungerei che Lucan. 2, 283 nunc neque Pompei Brutum neque Caesaris hostem ripresenta la correlazione con i non elisi neque nella seconda metà del primo e del quarto piede, cioè nelle stesse sedi del ciceroniano neque…neque.

126 P. es., Plaut. Amph. 1010 neque domi neque in urbe; Bacch. 476 ipsus neque amat nec tu creduas; Mil. 430 nec te neque me novisse ait haec; Ter. Haut. 779 at ego illi neque do neque despondeo.

127 P. es., Plaut. Trin. 1141 quem ego nec qui esset noram neque eum ante usquam conspexi prius; Caecil. com. 206 R.3 quem neque quo pacto fallam nec quid inde auferam; Acc. trag. 538 R.3 quem neque tueri contra neque fari queas; in aggiunta, Enn. ann. 456 Sk. quem nemo ferro potuit superare nec auro ~ Verg. Aen. 7, 692 quem neque fas igni cuiquam nec sternere ferro.

128 Locus similis registrato da Buescu 1966, p. 331.

129 Ibid.

130 P. es., Aen. 1, 546 ss. quem si fata virum servant…/…neque…crudelibus occubat umbris / non metus. officio nec te certasse priorem / paeniteat; 2, 726 s. me quem…non ulla iniecta movebant / tela neque adverso glomerati ex agmine Grai; 12, 544 s. Argivae quem non potuere phalanges / sternere nec Priami regnorum eversor Achilles.

24 neque sancta Venus molli requiescere somno /…perpetitur / nec…Musae / oblectant, dove significativamente già figura il verbo requiesco variato poi da Virgilio nel succitato parallelismo requies ~ quiescit, Aen. 5, 458 e 784; quindi, p. es., Ov. met. 3, 408 ss.131 L’analisi di questi luoghi dà la misura della solidità della compresenza di quem col nesso neque…neque (nec, non), solidità che dissuade dall’alternativa quae (sc. carmina Arati) proposta dal Bartalucci132 in luogo di quem. tempestas sull’opportunità di precisarne il significato nel senso di “maltempo”, “tempesta”, “intemperie”, vd. infra, in Approfondimenti, I. La coppia tempestas-vetustas da Cicerone a Seneca e le sue metamorfosi nella poesia augustea. Sull’inefficacia distruttiva degli agenti atmosferici, cf. Lucr. 3, 19 ss. (sedes quietae) quas neque concutiunt venti nec nubila nimbis / aspergunt neque nix acri concreta pruina / cana cadens violat, dove l’inalterabilità delle divine sedi celesti ad opera di venti, nubi e neve è espressa dal relativo iniziale seguìto da trimembre correlazione negativa. longa vetustas il concetto qui espresso, secondo il quale il lungo trascorrere del tempo non potrà distruggere verosimilmente il mondo, verrà ribaltato con un’interrogativa retorica di tipo negativo da Lucr. 5, 1215 ss. (moenia mundi) an divinitus aeterna donata salute / perpetuo possint aevi labentia tractu / immensi validas aevi contemnere viris. Sull’azione distruttiva del tempo, cf. Enn. ann. 406 Sk. postremo longinqua dies confecerit aetas, in riferimento alle statue e ai mausolei che i re si fanno erigere con la vana prospettiva di un’eterna fama. tempestas perimet…longa vetustas / interimet sulla congiunta azione corrosiva e distruttrice di tempestas e vetustas, Cic. leg. 1, 2 cum eam (quercum) tempestas vetustasve consumpserit e Phil. 9, 14 statuae intereunt tempestate, vi, vetustate133; Vitr. 1, 5, 3 ei materiae nec caries nec tempestates nec vetustas potest nocere; Phaedr. 4, 22, 5 s. ascendit navem, quam tempestas horrida / simul et vetustas; mantiene l’associazione tra vetustas e tempestas, tramite agenti direttamente riconducibili a quest’ultima, Val. Fl. 2, 528 s. (scopulos vicinaque saxa) quantum ventis adiuta vetustas / impulerat pontive fragor, in variazione di Verg. Aen. 12, 685 s. cum ruit (saxum) avulsum vento, seu turbidus imber / proluit aut annis

131 Quem neque pastores neque pastae monte capellae / contigerant aliudve pecus, quem nulla volucris / nec fera turbarat nec lapsus ab arbore ramus.

132 Bartalucci 1981.

133 Tempestate, vi, vetustate secondo i principali editori; la variante vel vetustate, che riprende leg. 1, 2 tempestas vetustasve, viene respinta come glossa subentrata nel testo da Magnaldi 2008, p. 173.

25 solvit sublapsa vetustas134. Per la rovina causata invece da sola vetustas, Cic. Marcell. 11 nihil est…opere et manu factum quod non conficiat et consumat vetustas e Deiot. 37 senatus…iudicia…, quae…litteris monumentisque consignata sunt, quae umquam vetustas obruet aut quae tanta delebit oblivio?. Per la vetustas distruttrice in poesia, vd. Verg. Aen. 3, 415 tantum aevi longinqua mutare vetustas135, Ov. met. 5, 131 s. longa vetustas / destruit; Pont. 4, 8, 49 tabida consumit ferrum lapidemque vetustas. Dietro a Enn. ann. 282 Sk. multa tenens antiqua, sepulta vetustas e al frammento ciceroniano, regolare collocazione di vetustas a fine esametro; ancora Verg. Aen. 10, 792 e 12, 686; quindi Prop. 3, 1, 23, Hor. epist. 2, 2, 118 e tutte le diciassette occorrenze ovidiane del termine136. Muove parimenti da Ennio (antiqua vetustas; longinqua aetas) e da Cicerone (longa v.) l’aggettivazione di vetustas; oltre a Verg. Aen. 3, 415 longinqua v., anche Ov. ars 2, 647 multa v.; trist. 5, 2, 11 e Anth. 418, 1 Riese2 (=Sen. epigr. 26, 1 Prato2) annosa v. 137; Pont. 3, 1, 115 prisca v. e Sil. 1, 26 alta v. Per la clausola longa v., Lucan. 8, 867; Stat. silv. 4, 1, 28; Paul. Nol. carm. 21, 719; Drac. satisf. 9 (=Eug. Tolet. satisf. 7); Anth. Lat. 716, 40. perimet verbo più raro del successivo interimo ma più frequente in poesia138, dove occorre a partire da Cicerone con quattro ripetizioni: cons. fr. 2, 19 abdidit et subito stellanti nocte perempta est (luna); 41 et divom simulacra peremit fulminis ardor; Hom. frr. 1, 17 hunc ubi tam teneros volucris matremque peremit (draco) e 7, 3 quo magis est aequum tumulis mandare peremptos; ma vd. pure Tim. 40 neque vos ulla mortis fata periment nec fraus valentior quam consilium meum139. Dietro al ciceroniano tempestas, soggetto astratto anche in

134 Tarrant 2012, p. 266.

135 Locus similis registrato da Buescu 1966, p. 331.

136 Con le due di sopra, anche met. 1, 445; 7, 446; 12, 182; 15, 156; 234; 623; 872; fast. 1, 31; 675; 4, 203; ars 2, 647; 3, 77; trist. 4, 6, 17; 5, 2, 11; Pont. 3, 1, 115.

137 Per l’influenza ovidiana sugli epigrammi senecani, Prato 1964, p. 11, in riferimento ad annosa vetustas. Invece, sulla valorizzazione senecana di Ovidio, Mazzoli 1970, pp. 238-247; per uno studio più specifico delle reminiscenze senecane di opere ovidiane dell’esilio, con conseguente utilità anche per il corpus degli epigrammi di Seneca, Degl’Innocenti Pierini 1980.

138 Oltre ad Axelson 1945, p. 67, vd. TLL X 1.2, 1473-1477, con particolare riferimento alla tabella che dà la misura della distribuzione dei due verbi in poesia e in prosa; 1473, 38-53.

139 L’affinità tra Cic. Arat. fr. 2, 1 neque…perimet, neque e Tim. 40 neque…periment nec si aggiunge a quanto già noto circa la traduzione ciceroniana di Platone, in particolare del Timeo, la cui letterarietà, pur nei limiti della prosa, non sarebbe molto diversa da quella degli Aratea appunto; Traina 1989, p. 108.

26 Lucr. 1, 225 s. praeterea quaecumque vetustate amovet aetas, / si penitus peremit consumens materiem omnem, probabile memoria del ciceroniano longa vetustas, che è parimenti riferito all’azione devastatrice del tempo; in prosa, Curt. 5, 1, 34 cum vetustas non opera solum manu facta, sed etiam ipsam naturam paulatim exedendo perimat recupera il verbo arateo ampliando Cic. Marcell. 11 nihil est…manu factum quod non conficiat et consumat vetustas con il probabile apporto di Seneca (p. es., epist. 91, 12 omnia mortalium opera mortalitate damnata sunt; nat. 6, 1, 14 non homines tantum, qui brevis et caduca res nascimur, urbes oraeque terrarum et litora et ipsum mare in servitutem fati venit); cf. poi Anth. Lat. 716, 40 omne manu factum consumat longa vetustas.

2 interimet verbo di forte espressività e di maggiore diffusione in prosa, mentre la poesia lo riserva principalmente al teatro140. Non è dunque casuale che Cicerone ripeta questo verbo tre volte in traduzione dalle Trachinie di Sofocle, sempre nel significato di “uccidere”141. In questo frammento, tuttavia, in verosimile riferimento al mondo, il verbo varrebbe non “uccidere”, sempre riferito a persone, bensì “distruggere”, così come farà da opposto di conservo in nat. deor. 1, 50 si quae interimant innumerabilia sint, etiam ea quae conservent infinita esse debere e 109 quia sunt quae interimant, sint quae conservent142. La negazione dell’efficacia distruttiva del ciceroniano interimo troverà séguito unicamente in Lucr. 1, 216 neque ad nilum interemat res (natura) e 2, 1002 s. nec sic interemit mors res ut materiai / corpora conficiat, con ripetizione della congiunzione negativa neque / nec143. Nella poesia successiva prevarrà invece l’accezione teatrale di “uccidere”, in quanto interimo si regolarizzerà come sinonimo di interficio e di neco144. stinguens verbo inedito e ripetuto in progn. fr. 1, 2 stinguuntur radii (solis) caeca caligine tecti ~ Curt. 4, 3, 16 quidquid lucis internitebat offusa caligine extinctum est, raffronto che si

140 P. es., Plaut. Cas. 659 interemere ait velle vitam; Merc. 607 disperii, illaec interemit me modo oratio; Ter. haut. 635 interemptam oportuit…/ non simulare mortem verbis; Acc. trag. 51 R.3 hospitam depositam interemes?

141 Soph. fr. 1, 11 ipse inligatus peste interemor textili; 18 feminea interimor manu; 42 s. haec (dextra) interemit tortu multiplicabili / draconem.

142 Si tratterebbe di un uso esclusivo di quest’opera ciceroniana, secondo TLL VII.1, 2206, 58 ss.

143 Vd. pure 3, 286 s. ni calor ac ventus sorsum sorsumque potestas / aeris interemant sensum diductaque solvant; il riferimento del verbo alla materia troverebbe attestazione poetica soltanto in Cicerone arateo e in Lucrezio; vd. TLL VII.1, 2206, 44 ss.

144 P. es., Verg. Aen. 10, 428; Hor. carm. 4, 4, 72; sat. 2, 3, 131; Ov. met. 13, 245; fast. 2, 809; Sen. Phaedr. 1127; Oed. 1122.

27 aggiunge a sostegno dell’idea che stinguo sia una forma secondaria di exstinguo sviluppata dalla poesia in linea con la sua predilezione del semplice al composto145. Poiché exstinguo come σβεννύω “spegnere, estinguere”, glossa di stinguo (CGL II 430, 13)146, è riferito primariamente al fuoco, il ciceroniano stinguens si presta ora a conservare il medesimo valore in considerazione della teoria stoica sulla composizione ignea degli astri, attestata più tardi dallo stesso Cicerone, nat. deor. 2, 40 tota (sidera) esse ignea duorum sensuum testimonio confirmari Cleanthes putat, tactus et oculorum e 118 sunt autem stellae natura flammeae; ma vd. pure rep. 6, 15 illis sempiternis ignibus quae sidera et stellas vocatis. In particolare, Achille Tazio (II sec. d. C.) nella sua Introduzione ad Arato testimonierà che gli stoici ritenevano gli astri formati da fuoco divino, inestinguibile e del tutto brillante147; egli riporta inoltre il pensiero del matematico Diodoro di Alessandria (I sec. a. C.), anch’egli autore di un commento ad Arato, secondo il quale gli astri partecipano della stessa sostanza del luogo nel quale si trovano148. Ora, la teoria astronomica antica riteneva che le stelle fossero infisse nella sfera celeste più alta e più esterna, propriamente detta caelum (Cic. rep. 6, 17 unus [globus] caelestis est, extumus…in quo sunt fixi illi qui volvuntur stellarum cursus sempiterni) ed identificata con l’etere, Cic. nat. deor. 1, 37 Cleanthes autem…ultimim et altissimum atque undique circumfusum et extremum omnia cingentem atque complexum ardorem, qui aether nominetur, certissimum deum iudicat; 2, 41 astra quae oriantur in ardore caelesti aether vel caelum nominatur149. Qui le relative riflettono il legame etimologico tra αἰθήρ “etere” e αἴθω “ardere”150, il quale, suggerito da Cicerone già in poesia, Arat. 87 s. at propter se Aquila

145 DELL, s.v. stinguo; erroneamente, Ewbank 1933, p. 130, ritiene che stinguens sia qui adoperato in luogo del più usuale distinguens; sull’indifferenziato valore delle forme verbali semplici e di quelle composte in Cicerone poeta, Traglia 1950, p. 139.

146 DELL, s.v. stinguo.

147 P. 40, 15-17 M., οἱ Στωϊκοὶ δὲ ἐκ πυρὸς λέγουσιν αὐτούς (ἀστέρας), πυρὸς δὲ τοῦ θείου καὶ οὐ παραπλησίου τῶι παρ’ ἡμῖν· τοῦτο γὰρ φθαρτικὸν καὶ οὐ παμφαές.

148 P. 39, 6-7 M., ἀστήρ ἐστι κατὰ Διόδωρον…σῶμα θεῖον οὐράνιον τῆς αὐτῆς μετειληφὸς οὐσίας τῶι ἐν ὧι ἐστι τόπωι.

149 Vd. pure nat. deor. 2, 102 ultimus et a domiciliis nostris altissimus omnia cingens et coercens caeli complexus, qui idem aether vocatur, extrema ora et determinatio mundi, in quo cum admirabilitate maxima ignaeae formae cursus ordinatos definiunt; sul riferimento di ignaeae formae alle stelle, cf. il rinvio a nat. deor. 2, 40 tota (sidera)…ignea di Pease 1958, p. 798.

150 In proposito, Pease 1955, p. 242; cf. Arist. mund. 392 a 5-9, dove l’autore contesterebbe questa etimologia degli stoici, proponendo in alternativa quella platonica (Crat. 410 b), secondo la quale l’etere trae il nome dal fatto che corre sempre, διὰ τὸ ἀεὶ θεῖν ~ Apul. mund. 1 aether vocatur, non ut quidam putant quod ignitus sit et incensus, sed quod cursibus rapidis semper rotetur; al contrario,

28 ardenti cum corpore portat, / igniferum mulcens tremebundis aethera pinnis151 e cons. fr. 2, 1 s. principio aetherio flammatus Iuppiter igni / vertitur et totum conlustrat lumine mundum, spiega il pensiero di Diodoro di Alessandria nel senso che gli astri, collocati nell’etere, ne condividono la natura ignea; in proposito, pure Lucr. 5, 585 postremo quoscumque vides hinc aetheris ignis e 587 dum tremor clarus, dum cernitur ardor eorum152. La scelta di stinguens dunque, rinviando alla dottrina stoica degli astri fatti di fuoco eterno, dottrina conosciuta e condivisa pure da Lucrezio, potenzia l’inefficacia distruttiva di tempestas e di vetustas. In rapporto ai praeclara insignia, cf. Lucr. 5, 120 praeclarum…velint restinguere solem153. Dopo Cicerone, il semplice stinguo compare soltanto in quattro luoghi lucreziani e sempre come infinito retto da possum154; in particolare, 1, 485 s. quae sunt rerum primordia, nulla potest vis / stinguere, dove nessuna forza può annullare gli atomi, indistruttibili per natura, proprio come i ciceroniani tempestas e vetustas non possono estinguere le fulgide insegne celesti, spegnendone la fiamma. praeclara insignia per l’uso sostantivato di insignis, già Plaut. Bacch. 70 pro insigni sit corolla plectilis; poi Enn. ann. 173 s. Sk. induvolans secum abstulit hasta / insigne e Acc. trag. 632 R.3 insignibus florere, tutti con riferimento alle insegne militari155. La scelta di insignia sarà allora da correlare con caeli, identificato con l’etere quale sede delle stelle fisse; in proposito, cf. analogamente il corradicale attributo signifer, detto appunto dell’etere trapunto di stelle; p. es., Lucr. 6, 481 urget enim quoque signiferi super aetheris aestus, dove inoltre aestus richiama la succitata etimologia di etere, e Lucan. 8, 172 (sidera) signifero

Reale 1974, pp. 206 s. n. 18, ritendo che il trattato sia autentico e non di autore platonizzante, coglie qui una polemica con Anassagora e non con la Stoà; a supporto della sua tesi si pone Aristot. cael. 1, 3, 270 b, 22-25, riportato da Pease 1955, ibid.

151 Possanza 2004, p. 70 n. 40, il quale sottolinea come ardenti rinforzi il legame etimologico di cui sopra, idea che ora è supportata pure da Cic. nat. deor. 1, 33 caeli ardorem; 37 ardorem qui aether nominetur; 2, 41 in ardore caelesti qui aether vel caelum nominatur; si noterà che curiosamente l’aquila è definita “ardente” in Hom. Il. 15, 690 αἴθων, dove spicca la scelta aggettivale.

152 Ciappi 1999, p. 37.

153 Buescu 1966, p. 331, e Jackson 2013, pp. 169 s.

154 1, 485 s.; 665 s.; 2, 827 s.; 4, 1098.

155 Cf. quanto opportunamente osservato da Jackson 2002, p. 165, «questo termine (sc. signum), che ha in sé il significato di “fissare”, ben si addice ad indicare le costellazioni, “segni” quasi inchiodati alla volta del cielo, e nello stesso tempo…ricorda nell’immaginazione i vessilli punto di riferimento dei soldati in marcia o in battaglia».

29 quaecumque fluunt labentia caelo. Nel luogo ciceroniano, tuttavia, i praeclara insignia starebbero ad indicare non soltanto le stelle fisse ancorate all’etere, bensì la luna, il sole e le stelle tutte: cf. nat. deor. 1, 100 ex operibus magnificis atque praeclaris, cum ipsum mundum, cum eius membra, caelum terras, maria, cumque horum insignia, solem, lunam, stellasque vidissent, dove operibus…praeclaris parrebbe richiamare per enallage i praeclara insignia poetici. Sugli insignia che, sorgendo dall’etere, sono dotati della sua stessa componente ignea, nat. deor. 2, 92 ex aethere…innumerabiles flammae siderum existunt, quorum est princeps sol omnia clarissima luce conlustrans…deinque reliqua sidera magnitudinibus immensis. Cicerone è il primo ad articolare l’aggettivo sostantivato (insignia) con un attributo (praeclara) che, in maniera poi quasi fissa nella sua prosa, ne potenzia il senso di “segno distintivo”; p. es., div. 1, 30 lituus…quod clarissimum est insigne. L’attributo praeclarus tornerà riferito ai corpi celesti in Arat. fr. 34, 9 (Deltoton) praeclara relucet e 371 Cancer praeclaro…ortu ~ Q. Cic. fr. 1, 5 Bl. praeclarus…Cancer, nonché in nat. deor. 2, 107 praeclara species (Draconis)156. Al nesso poetico rinvia Lucr. 5, 1138 capitis summi praeclarum insigne nel significato di “corona radiosa”, l’ornamento distintivo della dignità regale157, mentre il solo aggettivo sarà riferito al sole da Lucr. 2, 1032 solis praeclara luce nitorem; 5, 700 radiatum insigne diei (sc. sol) ~ 5, 120 praeclarumque velint caeli restinguere solem, che si avvantaggia di un rinvio intertestuale al nostro stinguens praeclara e, dato il riferimento agli epicurei, di un rinvio intratestuale a 3, 1044 s. qui (Epicurus) genus humanum ingenio superavit et omnis / restinxit stellas exortus ut aetherius sol. In riferimento ai due astri maggiori, inoltre, il superlativo clarissimus di Verg. georg. 1, 5 s. clarissima mundi / lumina, dove il sole e la luna sono detti guidare in cielo la corsa dell’anno, labentem caelo quae ducitis annum (v. 6), con espressione ripresa poi da Ov. fast. 3, 113 caelo labentia signa e accostabile a Cic. Arat. fr. 3, 1 s. cetera labuntur…caelestia…/ cum caelo e a Lucr. 1, 2 caeli subter labentia signa. In particolare, la collocazione dei signa lucreziani ad inizio opera richiama quella degli insignia ciceroniani, nella comune indicazione dei corpi celesti come “segnali”158; cf. tale insistenza nell’incipit arateo: v. 6 σημαίνει; v. 10 σήματα; v. 12

156 Gee 2007, p. 570.

157 Il luogo è registrato nella tabella sinottica dei paralleli tra l’opera lucreziana e gli Aratea ciceroniani di Gee 2013 (a), p. 226.

158 De Meo 1983, p. 245.

30 σημαίνοιεν159. Il riferimento arateo ai corpi celesti come indicatori dei tempi adeguati alle attività marinaresche160 ed agricole161 trova riscontro ancora in Lucrezio, nel successivo riferimento al mare solcato da navi e alla terra apportatrice di frutti; Lucr. 1, 3 mare navigerum…terras frugiferentis162.

In relazione all’enunciato del fr. (indistruttibilità e dunque eternità del mondo) vd. la polemica lucreziana contro l’antropocentrismo e il finalismo di prevalente marca stoica, nonché contro l’eternità del mondo; 5, 156-163 dicere porro hominum causa voluisse parare / praeclaram mundi naturam proptereaque / allaudabile opus divum laudare decere / aeternumque putare atque immortale futurum / nec fas esse, deum quod sit ratione vetusta / gentibus humanis fundatum perpetuo aevo, / sollicitare sui ulla vi exsedibus umquam / nec verbis vexare et ab imo evertere summa, dove risalta praeclaram (v. 157), aggettivo che Lucrezio trasferisce dai ciceroniani praeclara insignia caeli, inestinguibili luminari di un mondo indistruttibile, alla natura transeunte del mondo epicureo, destinato a distruzione. La praeclara natura del mondo “eterno” e “immortale”, contrastata da Lucrezio insieme alla concezione del mondo quale allaudabile opus divum (v. 158), avrà poi sollecitato la risposta polemica di Cic. nat. deor. 1, 100 ex operibus…praeclaris, cum ipsum mundum…cumque… insignia163 e ac. 2, 119 eum (sc. mundum) undique aptum ut nulla vis tantos queat motus ~ Lucr. 5, 162 ulla vi. La polemica a distanza di Cicerone con Lucrezio prosegue con Manilio, il quale non solo torna a riaffermare l’eternità del mondo con un giro di frase raffrontabile direttamente con quello del fr.

159 La corrispondenza di insignia a σήματα spiegherebbe dunque l’accostamento di Cic. Arat. fr. 2 ad Arat. 10 s., benché quanto espresso dall’Arpinate appaia più verosimilmente un’aggiunta personale; Buescu 1966, p. 264, e Soubiran 1972, p. 197.

160 Cf. Cic. Arat. fr. 34, 89 s. grave maestis / ostendit nautis perturbans aequora signum (sc. Aquila).

161 Varro ling. 7, 73 arbitror antiquos rusticos primum notasse quaedam in caelo signa quae praeter alia erant insignia atque ad aliquem usum culturae et tempus designandum convenire animadvertebantur; parimenti agli agricoltori un’osservazione delle costellazioni non meno attenta di quella di chi viaggi per mare raccomanda Verg. georg. 1, 204-207.

162 Lucr. 1, 2 caeli subter labentia signa parrebbe riecheggiato da Ov. fast. 4, 12 lapsaque sub terras ortaque signa cano, con ritorno dell’espressione in un inno a Venere, di nuovo apostrofata come alma Venus con forte iperbato, vv. 1 e 14. Si consideri, inoltre, che lo stesso verso ovidiano era già stato adoperato, come in Lucrezio, ad inizio opera, fast. 1, 2 lapsaque sub terras ortaque signa canam; in merito al verso ovidiano, Gee 2000, p. 66, nota il richiamo all’opera didascalica di Arato e alla relativa chiave di lettura stoicheggiante dell’importanza delle stelle in termini di utilitas, concetto alla base dell’esposizione calendariale ovidiana.

163 Diversamente, i versi lucreziani sono molto prossimi a quanto espresso dall’epicureo Velleio in Cic. nat. deor. 1, 21-23; Jackson 2013, p. 191.

31 ciceroniano (vd. supra, s.v. quem), ma la ribadisce pure riutilizzando antifrasticamente le parole lucreziane; Manil. 4, 440 nec fas est verbis suspendere mundum164 ~ Lucr. 5, 160 nec fas esse e 162 verbis vexare.

III

Cetera labuntur celeri caelestia motu, cum caeloque simul noctesque diesque feruntur “tutti gli altri corpi celesti si volgono con moto rapido e insieme al cielo si muovono di notte e di giorno” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 104 utar…carminibus Arateis, quae a te admodum adulescentulo conversa ita me delectant, quia Latina sunt, ut multa ex iis memoria teneam. ergo, ut oculis adsidue videmus, sine ulla mutatione aut varietate “cetera…feruntur” Arat. 19 s. Οἱ μὲν ὁμῶς πολέες τε καὶ ἄλλυδις ἄλλοι ἐόντες / οὐρανῷ ἕλκονται πάντ’ ἤματα συνεχὲς αἰεί

Sul concetto di moto simultaneo e continuo del cielo e degli astri cf. Apul. mund. 1 caelum…quod…onustum videmus, pulcherrimis ignibus et perlucidis solis et lunae reliquorumque siderum, cum quibus fertur per orbem dierum et noctiumque curriculis, agens…intermino lapsu, finem nulla aevi defectione factura. Oltre a fero e a lapsus in designazione specifica del moto celeste, è rilevante la presenza del nesso dierum…noctiumque, che rinvia al ciceroniano noctesque diesque165; in più al senso del frammento precedente rimanda la nozione dell’impossibilità del tempo di distruggere i corpi celesti, finem…factura.

Per la presenza di celeri in verso marcatamente allitterante, già Enn. ann. 67 Sk. hinc campum celeri passu permensa parumper, dove la velocità della lupa viene messa in risalto dall’incalzante ripetizione fonica (alle dominanti nasali si affiancano prima la c e poi la p, addirittura con allitterazione a vocale interposta variabile nel finale permensa / parumper), a

164 Sulla spiegazione e sulla difesa del tràdito suspendere contro l’emendamento splendescere, Liuzzi 1994, p. 117.

165 Sindeto epico secondo Panichi 1969, p. 2; vd. pure i loci similes registrati da Buescu 1966, p. 331, ai quali si aggiungano le numerose occorrenze del nesso proprio nella prosa ciceroniana; p. es., Verr. 1, 52 noctes diesque; de orat. 1, 260 noctes et dies (Brut. 90 e 308; Tusc. 5, 70); Att. 12, 46, 1 et dies et noctes; S. Rosc. 6, 67 e 81 dies noctesque; in proposito, von Albrecht 2003, p. 41 n. 177.

32 sua volta sottolineata dalle quattro arsidieresi. Si aggiunga Enn. ann. 336 Sk. sollicitari te Tite sic noctesque diesque, dove la ripetizione delle dentali (-ta-, te, Ti-te, -tes-), l’allitterazione disposta a chiasmo o “a ponte” (sollicitari te Tite sic) e l’assonanza in clausola (noctesque diesque) focalizzano l’attenzione sull’irrefrenabile inquietudine del console Tito166. Al pari dunque dei precedenti enniani, dove la ricercata sonorità del verso pone in risalto le caratteristiche dei personaggi (la velocità della lupa, l’inquietudine di Tito), il forte effetto allitterante dei due versi ciceroniani (cetera…celeri caelestia…/cum caeloque…noctesque diesque) si direbbe tutt’altro che meramente esornativo167 o addirittura inutile e probabilmente inintenzionale168. Piuttosto, esso porrà in rilievo sul piano contenutistico il veloce ed incessante moto degli astri; sul piano metrico, quella variante del verso aureo realizzata qui con il primo aggettivo posto enfaticamente all’inizio e con il verbo nel secondo colon, seguìto dal secondo aggettivo e dai due sostantivi, cetera labuntur celeri caelestia motu169; cf. Arat. fr. 34, 103 inferiora tenet truculenti corpora Tauri, con ripetuta associazione tra la medesima variante del verso aureo e l’allitterazione. Tale associazione, utile qui a creare piena rispondenza tra la nozione del celere moto astrale e il tessuto fonico- ritmico che aggiunge rapidità al verso, si direbbe aver influito direttamente sulla figura di Achille pie’ veloce di Catull. 64, 340 s. (sc. Achilles) qui persaepe vago victor certamine cursus / flammea praevertet celeris vestigia cervae, dove alla triplice coppia allitterazione (vago victor, certamine cursus, celeris cervae) si somma la stessa variante ciceroniana del verso aureo, con aggiunta ripetizione del medesimo schema prosodico di fr. 3, 1 (DSDSDS) e ricollocazione di celer dopo cesura pentemimera. Tra l’altro, questa collocazione di celer sarà tutt’altro che frequente nella successiva poesia latina e quindi segnale di un impiego elitario, di trasparente ascendenza ciceroniana; dopo Catull. 64, 341, nuovo riscontro in Ov. met. 2, 70 s. adde quod adsidua rapitur vertigine caelum / sideraque alta trahit celerique volumine torquet, dove Apollo, per dissuadère il figlio Fetonte dalla guida del suo carro, elenca i rischi ad essa connessi e, tra questi, il moto inarrestabile del cielo, che trascina con sé le stelle nella sua vorticosa corsa. La palmare affinità col nostro frammento, relativo al veloce ed inarrestabile moto degli astri, è quindi sottolineata dall’eccezionale posizione di celer dopo cesura pentemimera e da un marcato effetto allitterrante, al quale il veloce ritmo olodattilico

166 Jackson 2006, pp. 207 s.

167 Guendel 1907, p. 14.

168 Ewbank 1933, p. 130.

169 Conrad 1965, p. 235.

33 del v. 71 imprime ulteriore rilievo. Per la medesima posizione metrica di celer, vd. pure met. 6, 216 dixit idem Phoebe celerique per aëra lapsu, che ricorda il ciceroniano labuntur celeri…motu riferito al movimento degli astri, variato ora in celeri…lapsu e adattato ad Apollo e Diana, personificazioni dei due astri maggiori, scesi rapidamente dal cielo per punire l’offesa arrecata da Niobe alla madre Latona. La riformulazione della clausola ciceroniana, riferita a tutti i corpi celesti, si prestava quindi al nuovo riferimento ai due corpi principali, il Sole e la Luna, che tralùcono dietro i protagonisti dell’episodio ovidiano, Apollo e Diana.

1 labuntur il verbo, frequentissimo negli Aratea170, viene riferito alle stelle erranti, in contrapposizione a quelle fisse, in Cic. Tim. 36 sunt sidera, quae infixa caelo non moventur loco…quae autem vaga et mutabili erratione labuntur. Qui Cicerone avrà mal interpretato il testo greco, nel quale il giovane traduttore avrà letto non ἐόντες “che sono”, bensì ἰόντες “che si muovono”171, sulla scorta di alcuni grammatici che modificarono il testo arateo in considerazione del movimento delle stelle, senza intendere che qui Arato si occupasse delle stelle fisse in opposizione alle stelle erranti o pianeti172. Lo stesso fraintendimento si ritrova in Germ. 17 s. cetera, quae toto fulgent vaga sidera mundo, / indefessa trahit proprio cum pondere caelum. In base al precedente ciceroniano, evocato dall’incipitario cetera173 e dalla collocazione del referente dopo cesura eftemimera, Germanico parla infatti di stelle erranti (vaga sidera) presupponendo a sua volta l’erroneo ἰόντες dei grammatici174. celeri…motu alla ripresa, già registrata175, di Lucr. 4, 176 e 210 celeri motu simulacra ferantur, si aggiunga la ripetizione della clausola lucreziana da parte di Q. Cic. fr. 1, 16 Bl. mobile curriculum et Lunae simulacra feruntur176.

170 Arat. fr. 34, 55 labens…Equus; 226 s. quae per bis sex signorum labier orbem / quinque solent stellae; 329 Aries obscura lumine labens; 365 (Arctophylax) labens claro cum corpore; 414 (fera Pistrix) labitur.

171 Ewbank 1933, p. 130; Buescu 1966, p. 281.

172 Martin 1974, p. 63.

173 Si aggiunga Germ. 18 trahit proprio cum pondere ~ Cic. Arat. fr. 34, 132 s. magno cum pondere nautae / aversam…trahunt…puppim. Incipitario cetera anche in Manil. 5, 26 ceteraque (sidera) in toto passim labentia caelo, registrato da Buescu 1966, p. 331.

174 Pease 1958, p. 804, «the origin of Cicero’s labuntur and Germanicus’s vaga seems to be in the 2 reading ἰόντες» e Martin 1998 , I, p. 2 (in apparato).

175 Buescu 1966, p. 331, dove si vedano pure i loci similes riferiti all’impiego di labor in designazione del movimento astrale.

34 caelestia hapax poetico in designazione degli astri, contro numerose e successive occorrenze prosastiche, a partire da Cic. rep. 1,15 qui (Panaetius)…caelestia…studiosissime solet quaerere177.

2 cum caeloque simul noctesque diesque feruntur unico riscontro nella poesia ciceroniana di cesura del quarto trocheo, la quale, assieme a quella del secondo e del quinto trocheo, si somma qui alla cesura principale, la pentemimera. Di séguito, p. es, Verg. Aen. 1, 85 una Eurusque Notusque ruunt creberque procellis178, dove alla cesura del quarto trocheo si aggiunge la correlazione -que…-que179 propria dello stile epico e più volte iterata nei vv. successivi; in particolare, v. 88 caelumque diemque, raffrontabile col ciceroniano noctesque diesque180, riecheggiato da Vergilio, con aggiunta del verbo in clausola al pari del ciceroniano feruntur, in Aen. 5, 766 complexi inter se noctemque diemque morantur e 8, 94 olli remigio noctemque diemque fatigant. La clausola ciceroniana si ripete identica in Sil. 15, 576 atque indefessi diemque noctemque feruntur. noctesque diesque correlativo diffuso soprattutto nella poesia epica, quale calco del corrispondente omerico τε…τε; p. es., Enn. ann. 404 Sk. statuasque sepulcraque ~ Hom. Il. 16, 457 e 675 τύμβῳ τε στήλῃ τε e var. 41 V.2 capitur magnusque bonusque ~ Od. 6, 276 ἕπεται καλός τε μέγας τε181. Parimenti ad Ennio, ann. 336 Sk. sollicitari te Tite sic noctesque diesque, sarà da rapportare il nesso ciceroniano, la cui memoria enniana trasparirà chiaramente in prosa; Cluent. 195 huius expectatio iudicii dies noctesque sollicitat, con lieve

176 Dehon 2000, p. 267; l’autore conclude che Quinto Cicerone si sarebbe ispirato sia agli Aratea del fratello Marco sia al poema lucreziano, specie alla sezione cosmologico-astronomica del quinto libro, che egli avrà dovuto conoscere prima del febbraio del 54 a. C.; ivi, p. 269.

177 Quindi Tusc. 5, 10 studioseque ab iis (antiquis philosophis)…anquirebantur…cuncta caelestia e nat. deor. 2, 4 cum caelum suspeximus caelestiaque contemplati sumus; più tardi, p. es., Sen. benef. 6, 23, 3 debemus…et soli et lunae et ceteris caelestibus beneficium e epist. 88, 26 qua ratione constent caelestia…sapiens scit; Plin. nat. 17, 23 dicemus…proximo (sc. volumine) plura caelestia e 18, 267 caelum intellegas et caelestia scias.

178 Traglia 1950, pp. 204 s., con aggiunta pure di Hor. epist. 1, 9, 4 dignum mente bonoque legentis honesta Neronis. Secondo lo studioso, questa particolare scansione ritmica sarebbe funzionale in Cicerone a richiamare l’eterna e regolare successione del giorno e della notte, in Virgilio a riprodurre invece il fragore della tempesta.

179 Cf. Hom. Il. 2, 145 Εὖρός τε Νότος τε; Wills 1996, pp. 373 ss.

180 Cf. Enn. ann. 336 Sk. sollicitari te Tite sic noctesque diesque; Buescu 1966, p. 331.

181 Wills 1996, p. 372.

35 variazione del correlativo ma con ripetizione del verbo enniano182 (cf. Sil. 6, 562 sollicitant precibus. requiem tenebraeque diesque); fin. 1, 51 easque ipsas sollicitudines quibus eorum animi noctesque diesque exeduntur, dove il verbo del Rudino è variato nel suo equivalente nominale; Cato 1, 1, dove Cicerone cita alla lettera ann. 336 Sk. giocando coll’enniano vocativo Tite per rivolgersi all’amico Tito Pomponio Attico183. Qui il nesso traduce Arat. 20 πάντ’ ἤματα συνεχὲς αἰεί, raffrontabile con Hom. Od. 9, 74 ἔνθα δύο νύκτας δύο τ’ ἤματα συνεχὲς αἰεί, del quale Arato ripete la clausola con medesimo allungamento della prima sillaba di συνεχές, ma varia e amplifica l’indicazione temporale, che passa da “due notte e due giorni” che costrinsero all’immobilità Ulisse e i suoi compagni, trattenuti a terra dal maltempo, ai “giorni che si succedono l’uno all’altro senza soluzione di continuità” (cf. Plaut. Amph. 168 noctesque diesque assiduo satis superque est)184, con messa in risalto dell’innarrestabile moto dei corpi celesti185. Considerato che Enn. ann. 336 Sk. noctesque diesque riproduce l’omerico νύκτας τε καὶ ἦμαρ (vd., in particolare, Od. 24, 63, parimenti in clausola e con lo stesso ictus su νύκτας)186, Cicerone avrebbe dunque restituito l’omerismo arateo attraverso un omerismo enniano187. Nelle sue numerose ripetizioni all’accusativo plurale o al singolare188, il nesso si presenterà poi equamente distribuito tra collocazione in clausola, al pari dell’enniano noctesque diesque189, e collocazione dopo cesura pentemimera,

182 Jackson 2006, p. 206.

183 Skutsch 1985, p. 512.

184 Marca di stile elevato che, ricorrendo altrove in fine di verso o di colon, renderebbe molto probabile l’ipotesi che Plauto l’abbia desunta da Ennio, il quale era solito colmare in questo modo la clausola esametrica; Fränkel 1960, pp. 200 s.

185 Martin 19982, II, p. 153.

186 Jackson 2006, p. 208.

187 La scelta di compenso sarebbe segnalata pure dall’effetto allitterante dell’omoteleuto noctesque diesque, in considerazione del ricorso ciceroniano all’allitterazione quale strumento utile a caratterizzare spesso alla maniera enniana la resa di versi aratei dalla patina omerica; Ceccarelli 1985, p. 83.

188 Esaustivo elenco in Christensen 1908, p. 200.

189 P. es., Verg. Aen. 6, 556 noctesque diesque; Hor. sat. 1, 1, 76 noctesque diesque; Manil. 1, 578; 3, 231; 463 noctemque diemque; 3, 383 noctesque diesque; Germ. 434 e 498 noctemque diemque; Stat. Theb. 6, 335 noctemque diemque; Val. Fl. 2, 98 noctemque diemque; Sil. 4, 811 noctemque diemque.

36 al pari del ciceroniano noctesque diesque190. Ad imitazione del fratello Marco, il genitivo di Q. Cic. fr. 1, 2 Bl. curriculum Aries aequat noctisque dieique. feruntur il mediale feror, al pari del precedente labor191, esprime il movimento dei corpi celesti, ma con un valore essenzialmente passivo che riflette la concezione antica del cielo come sfera solida alla quale sono ancorate le stelle fisse, trascinate dunque dal moto della volta celeste192. In tal senso, pure l’impiego di φορέομαι in Arato, il quale spesso riferisce il verbo anche alle costellazioni, in quanto sottoposte al movimento della sfera delle stelle fisse propriamente trascinate dal cielo193. Da qui le successive occorrenze ciceroniane di feror in pari riferimento a costellazioni: Arat. frr. 12, 1 (Engonasi) feratur; 25, 1 (Auriga) feretur; 34, 204 (Centaurus) feretur; 291 Orion…fertur; analogamente, vd. i circoli stellati portatori di costellazioni e infissi nella volta celeste, fr. 34, 238 s. e 301194. In Cicerone il verbo ricorre ripetutamente anche nel De natura deorum195; in particolare, 2, 103 stellae quas vagas dicimus circum terram feruntur, con il verbo riferito al movimento delle stelle erranti che sono distinte dalle stelle fisse menzionate subito dopo (2, 104 sequitur stellarum inerrantium maxima multitudo) e poi ripetuto nel paragrafo successivo per i poetici cetera caelestia. Qui inoltre (104 quo spectaculo [sc. stellarum vagarum motu] nihil potest admirabilius esse, nihil pulchrius) viene rilevata la bellezza del moto delle stelle erranti, secondo un andamento sintattico raffrontabile con il séguito del discorso, dove si afferma come non esista nulla di più desiderabile della contemplazione dei poetici cetera caelestia, 104 s. “cetera…feruntur” quorum contemplatione nullius expleri potest animus naturae constantiam videre cupientis. Il parallelismo nell’uso di feror e nel rilievo estetico porterebbe a leggere nell’autocitazione un

190 P. es., Verg. Aen. 5, 766 noctemque diemque morantur; 8, 94 noctemque diemque fatigant; Manil. 3, 396 noctemque diemque per horas; Sil. 1, 604 noctemque diemque querelis; Stat. Theb. 7, 398 noctemque diemque sub armis; 12, 396 noctesque diesque locutus; Mart. 12, 38, 1 noctesque diesque cathedras.

191 Sull’impiego del verbo in àmbito astronomico, TLL VII. 2. 2, 786, 42 ss.

192 Le Boeuffle 1987, p. 134.

193 Martin 19982, II, p. 161.

194 Al di là di quest’uso ciceroniano, prossimo a quello arateo, vd. pure il riferimento del verbo al sole e alla luna, rientranti tra i pianeti e non tra le costellazioni; p. es., Q. Cic. fr. 1, 16 Bl. lunae simulacra feruntur; Lucr. 4, 396 ea quae (sol et luna) ferri res indicat ipsa; Paneg. in Mess. 159 (Phoebus) aestivum fertur in orbem; Manil. 1, 232 (luna) fertur in orbem; in generale, TLL VI. 1, 563, 84 ss.

195 P. es., 2, 44 quod eorum (astrorum) motus in orbem circumque ferretur e 105 Arctoe duae feruntur.

37 riferimento alle stelle erranti e non alle stelle fisse196, estendendo a feruntur il fraintendimento del testo arateo ravvisabile nel precedente labuntur. Tuttavia, dirimente a favore del riferimento dei cetera caelestia alle stelle fisse diventa l’espressione che immediatamente precede l’autocitazione, sine ulla mutatione aut varietate. Poiché essa verrà ripresa affermativamente in nat. deor. 2, 155 eorum (sc. solis et lunae reliquorumque siderum)…varietates mutationesque cognovimus con riferimento alla mutevolezza di astri quali il sole e la luna, rientranti tra i pianeti, per converso l’assenza di mutatio e varietas è da riferire alle stelle fisse. Un ulteriore elemento a favore delle stelle fisse viene dalla corrispondenza del ciceroniano cum caeloque simul…feruntur agli scoliastici σὺν τῷ οὐρανῷ φέρονται e συμπεριφέρονται τῷ οὐρανῷ (pp. 62, 4 e 64, 4 s. M.)197, espressione che si ritrova pressoché identica in Aristot. mund. 392 a 10 τῶν…ἄστρων τὰ μὲν ἀπλανῶς τῷ σύμπαντι οὐρανῷ συμπεριστρέφεται, in riferimento agli astri che, restando fissi, girano assieme a tutto il cielo, a differenza dei pianeti menzionati immediatamente dopo198. Inoltre, vd. Sen. nat. 7, 24, 3 ceteras (stellas) stare, fixum et immobilem populum. Al valore passivo di feror nel senso di “essere trascinato” si allinea l’emendamento trahuntur di Hensius199, probabilmente concepito per rendere il testo ciceroniano ancora più aderente al dettato arateo, dove le stelle fisse, prive di moto proprio, sono trascinate dal movimento del cielo al quale sono ancorate; Arat. 20 (ἀστέρες) οὐρανῷ ἕλκονται200. L’emendamento diventa più intellegibile alla luce di Germ. 17 s. cetera, quae toto fulgent vaga sidera mundo, / indefessa trahit proprio cum pondere caelum e di Avien. Arat. 77 s. omnia quae flammis pingunt radiantibus aethram / nox agit et verso ceu fixa trahuntur Olympo, ma risulta tuttavia innecessario e contrastabile da

196 Traglia 1971, p. 135 n. 50, «si allude alle stelle fisse, in opposizione ai pianeti».

197 Cicerone accoglie dunque il valore sociativo conferito dagli scolî ad Arat. 20 οὐρανῷ; per converso, altri due scolî colgono nel dativo il valore di complemento d’agente: p. 63, 10 s. M. ὑπὸ τοῦ οὐρανοῦ ἕλκονται καὶ ἀναφέρονται e p. 64, 15 s. M. ἀντὶ τοῦ ὑπὸ τοῦ οὐρανοῦ, ὁμηρικῷ σχήματι. Sull’oscillazione tra il valore sociativo e quello d’agente, restituito il primo da Cicerone, il secondo da Germ. 17 s. cetera…/ indefessa trahit proprio cum pondere caelo e da Avien. Arat. 78 verso ceu fixa trahuntur Olympo, Citti 1965, p. 152.

198 Cf. pure Arist. mund. 392 a 3-5 ὁ μὲν (πόλος) ἀεὶ φανερός ἐστιν ὑπὲρ κορυφὴν ὢν κατὰ τὸ βόρειον κλίμα, ἀρκτικὸς καλούμενος, ὁ δὲ ὑπὸ γῆν ἀεὶ κατακέκρυπται, κατὰ τὸ νότιον, ἀνταρκτικὸς καλούμενος ~ sch. Arat. 19, p. 64, 10-12 M. ὁ μὲν (πόλος) εἷς ἀφανὴς διὰ παντὸς ὑπὸ τῆς γῆς <ὁ> καλούμενος νότιος, ὁ δὲ ἀειφανὴς ὑπὲρ τὸν ὁρίζοντα διὰ παντὸς ὁρώμενος, ὁ καλούμενος βόρειος.

199 Buescu 1966, p. 281.

200 Erroneamente TLL VII. 2, 786, 44 s. intende il verbo greco tradotto da labuntur di Cic. Arat. fr. 3, 1, piuttosto che dal feruntur del verso successivo.

38 un lato col parallelismo labuntur – feruntur, per il quale vd. Cic. Arat. fr. 34, 442 ss. labitur illa simul…/ Cassiepia, neque ex caelo depulsa decore / fertur; cons. fr. 2, 9 (stellae) certo lapsu spatioque feruntur ~ Lucr. 5, 505 certo fert impete labens (sc. aether); Lucr. 4, 444 ss. signa videntur / labier adversum nimbos atque ire superne / longe aliam in partem ac vera ratione feruntur; 5, 717 s. corpus…quod fertur et una / labitur; dall’altro, con la ripetizione di feruntur per le stelle fisse in sch. Germ., p. 221, 2-3 Breysig stellarum aliae cum caelo feruntur ideoque quod non excedunt suos locos fixae nominantur.

Sul moto congiunto del cielo e delle stelle fisse, cf. pure Enn. ann. 205 Sk. vertitur interea caelum cum ingentibus signis e Isid. orig. 3,63 feruntur (sc. sidera) quae caelo fixa sunt et cum caelo volvuntur.

39 IV

Extremusque adeo duplici de cardine vertex dicitur esse Polus

“e così i due vertici estremi dell’asse sono detti Poli” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 105 “extremusque…Polus” Arat. 24 Καί μιν πειραίνουσι δύω πόλοι ἀμφοτέρωθεν

Il frammento attesta per la prima volta il termine polus, traslitterazione di πόλος, il cui significato di “estremità dell’asse” è chiarito dal precedente vertex201, utilizzato come corrispondente del termine greco in base alla comune derivazione da un verbo di movimento, πέλομαι ~ verto202. La glossa vertex = polus è inoltre incastonata in un’espansione di Arato derivata dallo scolio ad l., che definisce i poli come estremità dell’asse, sch. Arat. 24, p. 69, 14 M. τοῦ δὲ ἄξονος τὰ πέρατα πόλοι εἰσὶν εἰρημένοι203; vd. inoltre sch. Arat. 22, p. 66, 2-4 M. τὰ δὲ πέρατα τοῦ οὐρανοῦ, ἃ δὴ παρὰ τοῖς ἄκροις (cf. ciceroniano extremus) τοῦ ἄξονος ἐξ ἑκατέρων τῶν μερῶν (cf. ciceroniano duplici de cardine) νοοῦνται, πόλοι [ταῦτα] καλοῦνται. I poli sono di fatto due (cf. Arat. 24 δύο πόλοι), ma Cicerone trasferisce per enallage tale duplicità all’asse204 (per enallage di duplex, cf. Arat. fr. 15, 1 pressu duplici palmarum). Sulla corrispondenza tra polus e vertex e sul numerale, cf. Plin. nat. 2, 63 a verticibus duobus, quos appellaverunt polos e 172 quicquid est subiectum duabus extremis utrimque circa vertices, con ripetuta enallage dell’aggettivo. Polus verrà percepito come un forestierismo; cf. Varro ap. Gell. 3, 10, 3 duos minimos (circulos)…πόλους appellari dicit205

201 Traglia 1950, p. 149, «notevole…il tentativo ciceroniano di dare al greco πόλος un corrispondente più latino che non la semplice forma latinizzata polus…In realtà vertex non sostituisce qui polus, ma lo dichiara».

202 Vd. LSJ, s. vv. πόλος e πέλομαι.

203 Sulla dipendenza della traduzione ciceroniana dallo scolio, Atzert 1908, p. 4; Panichi 1969, p. 2; Bishop 2011, p. 62.

204 Traglia 1950, p. 149.

205 Ewbank 1933, p. 131.

40 e Vitr. 9, 1, 2 cardines orbiculos…qui graece poloe nominantur206, dove il grecismo è rilevato da verba dicendi al passivo, al pari del ciceroniano dicitur. Al contrario, vertex si specializzerà presto nel significato tecnico di “polo”, sostituendo πόλος e la sua trasliterrazione latina; vd., p. es, Cic. Arat. fr. 34, 297 summo de caeli vertice; rep. 6, 21 caeli verticibus ipsis; nat. deor. 2, 106 eundem caeli verticem; Verg. georg. 1, 242 hic vertex nobis semper sublimis207.

1 extremus…vertex l’iperbato a cornice costituisce un «procedimento di richiamo e di risalto»208 che, enfatizzato qui dalla «posizione “liminare” della sillaba ex»209, nello specifico porrebbe in rilievo la collocazione dei poli, posti all’estremità dell’asse. L’aggettivo ritorna in posizione iniziale e in iperbato rispetto al suo referente, p. es., in Lucr. 3, 599 extremum cupiunt vitae reprehendere vinclum, dove la collocazione liminare della coppia aggettivo- sostantivo pone in risalto il tentativo estremo, fatto ad un passo dalla morte, di riappropriarsi delle forze vitali; Verg. ecl. 10, 1 extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem, dove l’iperbato rileva l’importanza dell’ecloga quale ultima fatica del poeta; Aen. 5, 498 extremus galeaque ima subsedit Acestes, dove la disposizione verbale sottolinea l’importanza di Aceste, il quale, benché non sorteggiato per la gara di tiro con l’arco, scocca un dardo che dà luogo ad un fausto prodigio. Nel verso ciceroniano l’iperbato si somma alla disposizione chiastica degli aggettivi e dei sostantivi (extremus…duplici…cardine vertex), come poi Arat. frr. 27 corniger est valido conixus corpore ; 34, 111 aestiferos validis erumpit flatibus ignes e 438 extremas medio contingens corpore terras210. Questa costruzione211 ritornerà con incipitario

206 Qui cardo risulta specializzato ad indicare i poli e non l’asse come in Cicerone; in indicazione dell’asse si impose presto, in luogo di cardo, il termine axis, come già Arat. fr. 34, 296; Traglia 1950, p. 150.

207 Questi ed altri luoghi in Le Boeuffle 1987, p. 69.

208 Traglia 1950, p. 222.

209 Pellacani 2013, p. 53.

210 Traglia 1950, pp. 222 s.

211 In merito a questi versi ciceroniani, Conte 1994, p. 202, rileva che essi «are good examples of that special artificial arrangement of words (i. e. “silver verse”), Alexandrian in origin, that would be dear to the verse technique of the Augustan age».

41 extremus, p. es., in Catull. 76, 18 extremam iam ipsa in morte tulistis opem; Prop. 2, 28, 16 extremo venit mollior hora die212; Ov. met. 4, 48 extremos albis in turribus egerit annos.

1 duplici de cardine a riprova dell’enallage aggettivale, cf. Ov. fast. 3, 106 geminos…sub axe polos, riecheggiamento di Arat. 24213; Manil. 1, 603 seque secant (sc. circuli) gemino coeuntes cardine mundi, dove cardo, nel significato di “polo”, è accompagnato dal numerale che ai poli pertiene; Stat. Theb. 11, 114 ut Notus et Boreas gemino de cardine mundi, che ripresenta la clausola maniliana nell’indicazione della provenienza dei venti Noto e Borea dalle due estremità del mondo, cioè dai poli. Cardo nel significato di “asse” si attesta in Cicerone come hapax semantico, al quale l’autore sostituirà poi axis214 (Arat. fr. 34, 296; nat. deor. 1, 53; ac. 1, 123). Questo valore si conserverà nella poesia successiva, dove cardo ritornerà spesso in ablativo a coprire la quinta sede esametrica215. Il significato di “asse”, attestato qui come tecnicismo astronomico per la prima volta216, discende per similitudine dal cardine della porta217.

2 dicitur esse due ripetizioni in presenza di grecismi, Arat. frr. 6, 2 dicitur esse Helice e 16, 1 Arctophylax vulgo qui dicitur esse Bootes. Ancora in riferimento a grecismi Manil. 2, 740 s. dodecatemorii quid sit quod dicitur esse / dodecatemorium, ma vd. pure Plin. nat. 5, 23 quod (oppidum) Hipponem Dirutum vocant, Diarrhytum Graecis dictum.

212 L’iperbato extremo…die «sottolinea l’eufemistica caratterizzazione della morte»; così Fedeli 2005, p. 791.

213 Stok 1990, p. 179 n. 5.

214 Traglia 1950, p. 150.

215 Ov. fast. 1, 120; Manil. 1, 449; 2, 929 e 3, 623; Sen. Phaedr. 963; Herc. F. 1139; Thy. 877; Lucan. 1, 552; Avien. Arat. 97 e 978; Le Boeuffle 1987, p. 68.

216 Liuzzi 1990, p. 159.

217 TLL III, 443, 80 ss.: 444, 5 s.; in particolare, a proposito di Avit. carm. 5, 621 cardine mundum, Arweiler 1999, p. 172, «Die Übertragung der technischen Bezeichnung bei Türkonstruktionen auf das Weltgefüge ist ein Topos paganer und auch christlicher Dichtung».

42 IV bis Hic [est qui] terra tegitur “(dei poli) questo è coperto dalla terra” Testimonium: Isid. nat. rer. 12, 6 cui contrarius est (axis) Notius, qui australis dicitur. “Hic est qui terra”, ut ait Cicero, “tegitur”, et aphanes a Graecis nominatur Arat. 25 ἀλλ’ ὁ μὲν (sc. πόλος) οὐκ ἐπίοπτος est qui seclusimus

Il frammento è inserito tra quelli di tradizione indiretta degli Aratea dal solo Soubiran, in linea con la proposta di Kauffmann di collocarlo dopo il fr. 4218. Il polo in questione è quello meridionale, nascosto sotto la terra. Al neoconio arateo ἐπίοπτος “visibile”219, che preceduto da negazione equivale ad ἀφανής (sull’invisibilità del polo sud, p. es., Aristot. cael. 285b 21 τὸ ἄνω…τὸν ἀφανῆ πόλον e sch. Arat. 21-23, Maass 61, 27 s. ὃ δὲ νότιος καὶ ἀεὶ ἀφανής), Cicerone sostituisce la ragione di questa invisibilità, per la quale cf. Aristot. mund. 392a 3-4 ὁ δὲ ὑπὸ γῆν ἀεὶ κατακέκρυπται, κατὰ τὸ νότιον; in tal modo, l’espressione ciceroniana parrebbe configurarsi come «una sorta di glossa esplicativa, probabilmente in risposta al neologismo arateo»220. Direttamente raffrontabile con il verso ciceroniano è Apul. mund. 1 alter (vertex) antarcticus humo tegitur. Sulla visibilità del polo nord in contrapposizione all’invisibilità del polo sud, Verg. georg. 1, 242 s. hic vertex nobis semper sublimis; at illum / sub pedibus Styx atra videt Manesque profundi; Ov. trist. 4, 10, 108 occultum…conspicuumque polum; Vitr. 9, 1, 2 naturalis potestas…collocavit…unum (sc. cardinem) a terra et mari in summo mundo ac post ipsas stellas Septentrionum, alterum trans contra sub terra in meridianis partibus. Sull’espressione ciceroniana, avrei qualche esitazione a ritenere preferibile la sua limitazione al solo sintagma allitterante terra tegitur221: la contrapposizione tra i due poli, resa in Arato dai correlativi ὁ μήν… ὁ δέ, ripetuta dallo scolio ad l. e riprodotta sia dal virgiliano hic…illum sia dal vitruviano unum…alterum, orienterebbe

218 Kauffmann 1888, p. 45, «Isid. de nat. rer. c. 12, 6 verba “hic (scil. polus australis) est qui terra, ut ait Cicero, tegitur”…ad Ciceronis “Aratum” referenda esse censeo et post quartum Bährensii fragmentum inserenda».

219 In variazione del più comune ἔποπτος, probabilmente con la finalità espressiva di voler suggerire il vedere qualcosa proiettato sullo sfondo del cielo; Citti 1965, p. 154.

220 Pellacani 2013, p. 55.

221 Diversamente da Pellacani 2013, ibid.

43 verso la genuinità di hic, nel suo valore contrappositivo in casi di enumerazioni (OLD, s.v., a7 e b13); p. es., Stat. Theb. 11, 115 hic (sc. Boreas) nive Riphaea, Libycis hic (sc. Notus) pastus harenis, dove inoltre la provenienza rispettivamente settentrionale e meridionale dei due venti passa attraverso l’indicazione cardinale data dai due poli (v. 114 gemino de cardine mundi), in riflesso della loro denominazione quali ὁ βόρειος e ὁ νότιος πόλος222.

V

Quas nostri Septem soliti vocitare Triones “che i nostri sono soliti chiamare Settentrione” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 105 “ex his altera apud Graios Cynosura vocatur, altera dicitur esse Helice”, cuius quidem clarissimas stellas totis noctibus cernimus, “quas nostri Septem soliti vocitare Triones” Versus post Arat. 27 Ἄρκτοι ἅμα τροχόωσι· τὸ δὴ καλέονται Ἅμαξαι addendus est

Il verso è ritenuto un’espansione di Arat. 26 s. Δύω…/ Ἄρκτοι…καλέονται Ἅμαξαι volta a fornire l’equivalente latino del nome greco delle due Orse, secondo un procedimento di latinizzazione della terminologia astronomica greca attestato più volte negli Aratea con ricorso al calco morfologico (frr. 6, 1 s. altera apud Graios Cynosura vocatur, altera dicitur esse Helice; 14 quem claro perhibent Ophiucum nomine Grai; 28, 1 has Graeci stellas Hyadas vocitare suerunt; 34, 5 s. signum Deltoton dicere Grai quod soliti), al calco semantico (fr. 34, 222 Antecanem, Graio Procyon qui nomine fertur) oppure all’esegesi del grecismo (fr. 34, 317 s. Zodiacum hunc Graeci vocitant, nostrique Latini / Orbem Signiferum perhibebunt nomine vero)223. Di conseguenza, l’incipitario quas andrebbe riferito ad un antecedente quale Ursae224 o, meglio, Arctoe, del quale Cicerone avrebbe qui fornito la corrispondenza con il latino Septem…Triones. In direzione di simile referente orienterebbe ora pure Ov. fast. 3,107 ss. senserat, aut geminos esse sub axe polos, / esse duas Arctos, quarum Cynosura petatur / Sidoniis, Helicen Graia carina notet, dove alla menzione dei due poli, già raffrontata col

222 Analogamente, Belardi 1950, p. 58, spiega come il termine Septemtrio indichi sia la costellazione più vicina al polo, l’Orsa Maggiore, e quindi lo stesso polo nord, sia il vento che soffia dal nord.

223 Soubiran 1972, p. 88.

224 Ivi, p. 197.

44 precedente frammento, segue quella di entrambe le Orse prima, della loro utilità per i naviganti poi, cioè esattamente come in Cicerone a Septem…Triones seguono i nomi delle due Orse, Cynosura ed Elice (fr. 6), e il riferimento alla loro rispettiva importanza per i naviganti fenici e greci (fr. 7). Tuttavia, l’autocitazione nel De natura deorum riferisce il relativo alle chiarissime stelle della sola Orsa maggiore, Elice. A sostegno di questo riferimento, vd. Cic. ac. 2, 66 Helicen et clarissimos Septentriones, dove le sette stelle di Elice sono definite clarissimae come nel De natura deorum; Varro ling. 7, 73 has septem stellas Graeci ut omerus vocat ἄμαξαν…nostri eas septem stellas r ones; Gell. 2, 21, 9 antiqui Graecorum ἄμαξαν dixerunt, nostri quoque a bubus iunctis septentriones appellarunt. Il verso ciceroniano si collocherebbe allora in corrispondenza del secondo emistichio di Arat. 37. La sua interposizione tra la menzione di Cinosura ed Elice e la spiegazione della loro reciproca importanza per i naviganti fenici e greci (Arat. 37-44) rifletterebbe l’intento di latinizzare il greco Ἑλίκη, secondo quella nota pratica di sopra ricordata225. La corrispondenza del sg. ἄμαξα al pl. Septem Triones, attestata da Varrone e da Gellio, riflette l’originario riconoscimento di una sola Orsa, quella Maggiore, testimoniato in poesia fin da Omero226 (cf. il varroniano ut Homerus vocant); ora vd. pure sch. Arat. 27, p. 77, 8-10 M., dove si chiarisce come il nome ἄμαξα sia propriamente riferito alla sola Elice, in quanto le sue sette stelle sono disposte a formare un carro, κυρίως…ἡ Ἑλίκη ἄμαξα λέγεται· οἱ γὰρ ἑπτὰ αὐτῆς ἀστέρες ἁμάξης τύπον ἔχουσιν; cf. Q. Cic. fr. 1, 18 s. Bl. fulgentes Arcera septem / magna quatit stellas227, che si direbbe avere influenzato direttamente Manil. 1, 297 septem illam (sc. Helicen) stellae certantes lumine signant e Germ. 44 (sc. Helice) stella micat caelo, septem quam Cresia flammis228. Questi riscontri, mostrando il riferimento del ciceroniano Septem Triones alle sette stelle di Elice, persuadono a mantenere l’ordine nel quale il verso è citato nel De natura deorum, come riscontrabile nell’edizione del solo Ewbank. Gli altri editori, al contrario, invertono l’ordine dell’autocitazione in prosa, forse alterato per la prima

225 Caldini Montanari 2006, pp. 129 s. e 133 ss.

226 Pease 1958, p. 805.

227 Gee 2007 sostiene che il frammento astronomico di Quinto sarebbe piuttosto da attribuire al fratello Marco e che in particolare i vv. 17-20 sarebbero da collocare tra il fr. 8 e il fr. 9, vista la loro corrispondenza ad Arat. 50-52; inoltre, l’Arcera del v. 18, secondo la testimonianza di Nonio Marcello, sarebbe vocabolo attestato solo in Varrone e Marco Tullio Cicerone, non nel fratello Quinto; ivi, p. 580.

228 I passi di Manilio e di Germanico sono citati a sostegno del riferimento del ciceroniano Septem…Triones alla sola Orsa Maggiore da Caldini Montanari 2006, p. 135.

45 volta dal Grozio229. Contradditorio Traglia, il quale da un lato rapporta il verso ciceroniano ad Arat. 27 riferendo implicitamente Septem…Triones ad entrambe le Orse; dall’altro, riconosce come in origine il termine si riferisse soltanto alle sette stelle dell’Orsa Maggiore230. Sul piano metrico, il verso è caratterizzato da quattro arsidieresi, cioè da quattro arsi su finale di parola (quas nostri Septem soliti), funzionali, come già in Ennio231, a rimarcare la musicalità allitterante del dettato, qui data dalla spirante; in proposito, cf. Arat. fr. 28, 1 has Graeci stellas Hyadas vocitare suerunt, con ripetizione di vocitare in quinta sede e sostituzione di soliti con suerunt. quas sulla scia di Plasberg, Ax ha considerato il relativo parte integrante della cornice prosastica, piuttosto che parola iniziale dell’autocitazione232; Buescu ha inoltre sospettato un originario pronome dimostrativo233, che si avvantaggerebbe ora del raffronto con Arat. fr. 34, 29 s. hae septem vulgo perhibentur more vetusto / stellae, dove lo stesso numerale del nostro frammento, ora riferito alle sette Pleiadi, figura preceduto dal dimostrativo hae (cf. pure fr. 34, 179 hae tenues stellae perhibentur nomine Aquai). Tuttavia, contro quanto supposto dagli editori, cf. il ritorno del relativo ad inizio di versi attestanti nomenclature astronomiche: Arat. frr. 14 quem claro perhibent Ophiucum nomine Grai; 34, 17 quem veteres soliti Caelestem dicere Nodum; 212 quam (sc. quadrupedem) nemo certo donavit nomine Graium234. Si aggiunga poi la trasparente memoria del verso ciceroniano in Hyg. astr. 2, 2 quas (sc. utrasque Arctos) nostri Septentriones dixerunt. nostri numerosissime le occorrenze dell’aggettivo sostantivato riferito ai Romani, in espressioni di corrispondenza tra un termine greco ed uno latino, a partire da Pacuv. trag. 90 R.3 id quod nostri caelum memorant, Grai perhibent aethera, peraltro citato da Cic. nat. deor.

229 Caldini Montanari 2006, p. 126 n. 13.

230 3 Traglia 1971 , pp. 65 e 135 n. 51. Sulla corrispondenza di Septem Triones all’Orsa Maggiore, Traglia 1950, p. 142.

231 Witte 1914, p. 213.

232 2 Ax 1933 , p. 91.

233 Buescu 1966, p. 281, «quas non arateis, sed libris de n. d. dant Plasberg – Ax, fortasse recte; in arateis ipsis utrum Cicero relativo pronomine usus sit an demonstrativo incertum est».

234 Ho riportato i versi che contemplano il relativo in posizione incipitaria, diversamente da Pease 1958, p. 807, il quale, oltre al sullodato Arat. fr. 14, cita fr. 34, 222 Antecanem, Graio Procyon qui nomine fertur.

46 2, 91 hoc, quod memoro, nostri caelum, Grai perhibent aethera235. Il verso pacuviano e quello del frammento in esame rimangono le uniche attestazioni poetiche236. Per l’unione con forme verbali simili al nostro soliti vocitare, cf. Cic. nat. deor. 2, 149 plectri similem linguam nostri solent dicere; 3, 19 nostri…multa solent dicere; Varro rust. 1, 17, 2 quos obaerarios nostri vocitarunt.

Septem…Triones la prima attestazione della parola in Plaut. Amph. 273 nam neque se septentriones quoquam in caelo commovent, che presenta subito dopo anche la latinizzazione di Hesperus e delle Pleidi in Vesperugo e Vergiliae (v. 275)237. L’inedita tmesi ciceroniana, dettata da necessità metriche238, godrà di grande fortuna in poesia, dove Triones sarà sempre collocato in clausola239, anche nei casi di omissione di septem240 o di sua sostituzione con il numerale “due”, in riferimento ad entrambe le Orse241. Per la ripetizione della tmesi anche in

235 L’alterazione del verso è probabilmente dovuta a citazione mnemonica; Pease 1958, p. 776.

236 Sempre in riferimento a terminologia astronomica, Cic. nat. deor. 2, 14 quas (stellas) Graeci κομήτας, nostri cincinnitas vocant (cf. Plin. nat. 2, 10 cometas Graeci vocant, nostri crinitas); 111 has Graeci stellas Hyadas vocitare suerunt…nostri imperite Suculas (cf. Plin. nat. 18, 247 Hyadas appellantibus Graecis…nostri…imperitia appellavere Suculas); Hyg. astr. 2, 21 eas stellas (Pleiadas) nostri Vergilias appellaverunt (=3, 20, 109 quas Vergilias nostri, Graeci autem Pleiadas appellaverunt); 26, 72 Scorpius…in duo signa dividitur quorum unius effigiem nostri Libram dixerunt; Vitr. 9, 4, 1 quam (stellam) nostri Provindemiatorem, Graeci Προτρυγητήν vocant; Sen. nat. 5, 17, 3 hanc lineam Graeci ὁρίζοντα vocant, nostri finitorem dixerunt (cf. Cic. div. 2, 92 qui [orbes] a Graecis ὁρίζοντες nominantur, a nobis finientes rectissime nominari possunt); Plin. nat. 6, 211 quae (segmenta mundi) nostri circulos appellavere, Graeci parallelos. Per termini non astronomici, vd. Cic. Tim. 38 quos Graeci δαίμονας appellant, nostri opinor Lares; Varro ling. 5, 6 Graeci νέμη, nostri nemora; 35 feretrum nostri, Graeci φέρετρον; 6, 2 Graeci... ἕσπερον, nostri vesperuginem; Vitr. 5, 11, 4 quas Graeci παραδρομίδας, nostri xysta appellant; 6, 7, 6 nostri telamones appellant…Graeci vero eos ἄτλαντας vocitant; Quint. inst. 7, 4, 12 hoc genus ἀντίστασις Graece nominatur, comparativum nostri vocant; Plin. 6, 107 quod Rubrum dixere nostri, Graeci Erythrum.

237 Plaut. Amph. 271-276 è difatti una significativa attestazione di alcuni termini astronomici autoctoni, non mutuati dal greco; Domenicucci 2002.

238 Gundel 1907, p. 59; Conrad 1965, p. 211.

239 P. es.,Verg. georg. 3, 381; Ov. met. 1, 64; 2, 528; Avien. Arat. 1654; Mart. Cap. 8, 808 septem solitus servare triones, con ripetizione di solitus e dell’allitterazione della sibilante; Drac. laud. dei 1, 5 e 3, 6; Boeth. cons. 2, 6, 11; Anth. Lat. 798a, 27.

240 P. es., Ov. met. 2, 171; 10, 446; Mart. 6, 58, 1; 7, 80, 1; 9, 45, 1; Claud. Hon. cos. 3, 205; Hon. cos. 4, 429; 474; Stil. cos. 1, 217; 2, 458; Goth. 169; rapt. Pros. 1, 102.

241 P. es., Verg. Aen. 1, 744 [=3, 516]; Claud. Stil. cos. 2, 458; cf. Pease 1958, p. 808, il quale però annovera erroneamente Avien. Arat. 1654 tra i casi di omissione di septem.

47 prosa, vd., p. es., Plin. nat. 2, 172 trionum septem vocatur e Gell. 2, 21, 10 hae septem stellae triones appellatae sint. Simile tmesi, avvertita come una trasgressione poetica da Quint. inst. 8, 6, 66 poetae quidem etiam verborum divisione faciunt transgressionem “Hyperboreo septem subiecta trioni” (=Verg. georg. 3, 381) quod oratio nequaquam recipiet, diventerà poi un esempio da manuale nella trattatistica grammaticale242. Quanto all’etimologia di Triones, la cui prima occorrenza è in Naev. trag. 59 R.3 trionum hic moderator rusticus, il termine è connesso dagli antichi ai buoi aratori; cf. Varro ling. 7, 74 triones enim et boves appellantur a bubulcis etiam nunc maxime cum arant terram; Gell. 2, 21, 8 cum L. Aelio et M. Varrone sentio qui triones rustico cetera vocabulo boves appellatos scribunt, quasi quosdam terriones, hoc est arandae colendaeque terrae idoneos; Fest. p. 456, 1-3 L. trio…appellent, quod iunc…quasi terrioneṃ; Isid. orig. 3, 71, 7 triones…proprie sunt boves aratorii243. Tuttavia, più probabilmente si tratterebbe di un nomen agentis derivato da tero244, in indicazione dei “buoi che trebbiano”, con assimilazione nell’immaginario collettivo tra il lento movimento circolare delle sette stelle dell’Orsa Maggiore attorno al polo e quello dei buoi che, parimenti in cerchio, battono il grano sull’aia245. Considerata la derivazione di Ἑλίκη da ἑλίκη, sinonimo di ἕλιξ “spirale” e deverbativo di ἑλίσσω “volgere”246, in virtù della circumvoluzione dell’Orsa Maggiore247 (vd. sch. Arat. 37, p. 87, 3-4 M. τὴν μείζονα Ἄρκτον Ἑλίκην παρὰ τὰς ἕλικας καὶ συστροφὰς αὐτῆς), la sua latinizzazione avrebbe dunque conservato memoria del peculiare movimento circolare della costellazione attorno al polo nord248.

242 P. es., Don. GL IV 401, 14 s.; Consent. GL V 390, 36; 391, 4 s.; Mar. Victorin. GL VI 39, 1-2; 56, 5 s.; Sacerd. GL VI 449, 7-9; 466, 25 s.; Pease 1958, p. 807.

243 Pease 1958, p. 808; Maltby 1991, pp. 560 s.

244 Gundel 1907, pp. 64 s.; Scherer 1953, pp. 135 s.; Le Boeuffle 1977, pp. 87 s.

245 Le Boeuffle 1977, pp. 87 s.; Caldini Montanari 2006, p. 131.

246 DELG, s.v. ἑλίκη.

247 Le Boeuffle 1977, p. 84 n. 5.

248 Un’ulteriore etimologia, piuttosto improbabile, è riportata da Mayor 1883, pp. 222 s., il quale segnala la connessione operata da M. Müller tra il lt. trio, il sansc. tara “stella” e l’omerico τείρεα (Il. 18, 485); supponendo l’esistenza di due parole omonime, significanti l’una “stella” e l’altra “bue”, l’identificazione delle due sarebbe esattamente parallela all’identificazione dei due significati del sansc. rikshas, “luminoso” e “orso”, utile al passaggio da “sette stelle luminose” a “sette orse”.

48 soliti vocitare vd. le tre ripetizioni dell’affine soliti…dicere in Arat. fr. 34, 5 s. signum Deltoton dicere Grai / quod soliti; 17 quem veteres soliti caelestem dicere nodum (cf. Enn. sat. 70 V.2 soliti quod dicere nodum)249; 167 Australem soliti quem dicere Piscem; quindi Lucr. 1, 458 haec sumus…eventa soliti vocare. Oltre a Enn. ann. 214 Sk. Poeni soliti suos sacrificare puellos250, vd. pure Plauto251 e Terenzio252. Cicerone ripete il frequentativo vocito altre tre volte, sempre per denominazioni fissate dalla tradizione greca: frr. 12 Engonasin vocitant, genibus quia nixa feratur in riferimento alla costellazione di Engonasi che Cicerone latinizzerà poi in Nixus253; 28, 1 has Graeci stellas Hyadas vocitare suerunt, cui segue in nat. deor. 2, 111 la spiegazione del nome greco e del suo corrispondente latino, “has Graeci stellas Hyadas vocitare suerunt” a pluendo (ὕειν enim est pluere), nostri imperite Suculas, quasi a subus essent non ab imbribus nominatae; 34, 317 s. Zodiacum hunc Graeci vocitant, nostrique Latini / Orbem Signiferum perhibebunt nomine vero254, dove curiosamente i vv. 317-320 spiegano la maggiore precisione di Orbis Signiferus rispetto a Zodiacus, corrispondente ad Arat. 544 Ζωϊδίον…κύκλον, ma al contempo formano in acrostico il grecismo zona255. L’uso di vocito in rapporto a nomi greci risale già a Plaut. Capt. 984 Paegnium vocitatust, dove così è soprannominato il giovinetto venduto in Aulide, e viene riproposto da Cicerone anche in prosa: de orat. 3, 139 illam veterem Italiae Graeciam, quae quondam magna vocitata est e Rab. Post. 23 qui (Demetrius) Phalereus vocitatus est; in entrambi i casi, il verbo occorre in una lista di personaggi greci illustri, per lo più filosofi. Contro questa regola, vocito è qui riferito non ad un nome greco, bensì a Septem…Triones.

249 Ewbank 1933, p. 153; Buescu 1966, p. 337.

250 Buescu 1966, p. 332.

251 Poen. 136 s. nam tuae blanditiae mihi sunt, quod dici solet, gerrae germanae.

252 In espressioni proverbiali, Andr. 426 volgo quod dici solet e Haut. 520 visa verost, quod dici solet, aquilae senectus.

253 Apparentemente senza esito, dato che Manil. 5, 646 prediligerà il grecismo; Morford 1967, p. 114; si considerino, tuttavia, l’affine Innixus di Germ. 673 e Avien. Arat. 205, nonché le perifrasi nixa genu species (Manil. 5, 645; Germ. 627), nixa species genibus (Manil. 1, 316) e nixa genu facies (Germ. 467); per questi luoghi, Le Boeuffle 1977, p. 101.

254 Per l’alternanza del frequentativo con perhibeo, p. es., Lucr. 6, 701 s. in summo sunt vertice enim crateres, ut ipsi / nominitant, nos quod fauces perhibemus et ora; vd. inoltre Buescu 1966, p. 332.

255 Hurka 2006, p. 90, spiega come l’acrostico ciceroniano funga da glossa alla latinizzazione della terminologia aratea e richiami, inoltre, il programmatico acrostico di Arat. 317-321 λεπτή, con il quale l’autore illustrerebbe il carattere tutto alessandrino del proprio poetare.

49 Poiché il verbo è fatto rientrare tra i termini che testimoniano quel processo di romanizzazione che Cicerone estenderà poi dalla poesia astronomica alla prosa filosofica256, è particolarmente significativo che vocito si accompagni ad un tecnicismo latino e non ad un grecismo. A differenza degli altri casi, in cui il verbo enfatizza termini greci, qui vocito viene quasi a sottolineare l’orgoglio con cui Cicerone è ricorso alla propria lingua per evitare il grecismo. La differenza tra verbo semplice e frequentativo è ulteriormente sottolineata dal fatto che nel frammento successivo o, meglio, precedente (così Ewbank e Caldini Montanari), il grecismo Cynosura è accompagnato da voco, contro l’atteso vocito di regola riferito alla terminologia greca, ma ora selezionato in designazione dei Septem…Triones. L’inversione di tendenza, oltre che da comodità metrica257, sembrerebbe motivata dalla volontà ciceroniana di dare rilievo al suo latinismo con il frequentativo, che aggiunge il lustro di una dizione tradizionale di origine nostrana, in alternativa a quella greca. Questa funzionalità del frequentativo di mettere in risalto la contrapposizione tra grecismo e latinismo pare confermata da rep. 2, 49 hoc nomen (tyranni) Graeci regis iniusti esse voluerunt; nostri quidem omnes reges vocitaverunt qui soli in populos perpetuam potestatem haberent. Per converso, apud Graios Cynosura vocatur evidenzierebbe ulteriormente la già rilevata difficoltà di fornire del grecismo un equivalente astronomico latino258.

256 Morford 1967, p. 113.

257 Buescu 1966, p. 172 n. 2; Panichi 1969, p. 3.

258 Panichi 1969, p. 3.

50 VI

Ex is altera apud Graios Cynosura vocatur, altera dicitur esse Helice “di queste l’una è chiamata dai Greci Cinosura, l’altra si dice sia Elice” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 105 hunc circum (sc. polum) Arctoe duae feruntur numquam occidentes “ex his…Helice” Arat. 36 s. Καὶ τὴν μὲν Κυνοσουραν ἐπίκλησιν καλέουσιν, / τὴν δ’ ἑτέρην Ὲλίκην is Plasberg : iis vel eis vel his vel hiis codd.

1 ex is alla correzione di Plasberg, accolta da Traglia259 e da Soubiran260, osta la mancanza di attestazioni esametriche di ex is, al quale sarebbe preferibile l’ex his di Ewbank261, per la cui collocazione incipitaria cf. Hor. sat. 2, 7, 89; Ov. trist. 3, 8, 22; Cypr. Gall. lev. 94; Isid. carm. 1, 2. A ciò si aggiunga l’incipitario dimostrativo di frr. 7, 1 hac fidunt…Phoenices e 8, 1 has inter, riferito rispettivamente a Cynosura e ad entrambe le Orse. È inoltre probabile che ex his «rinvii a un termine collettivo riferito alle due Orse collocato dopo l’excursus mitologico»262, cioè dopo la mitica presentazione di Cynosura ed Elice quali nutrici di Giove (Arat. 31-35). In proposito, cf. Hyg. astr. 2, 2 nonnulli etiam Helicen et Cynosuram nymphas esse Iovis nutrices dicunt…et utrasque Arctos appellatas esse. altera…altera la correlazione, che riproduce Arat. 36 s. τὴν μὲν Κυνόσουραν ἐπίκλησιν καλέουσιν263, / τὴν δ’ ἑτέρην Ἑλίκην, sostituisce al parallelismo del modello una struttura chiastica (altera…Cynosura vocatur / altera dicitur…Helice), per la quale cf. Plaut. Asin. 618 alter hinc, hinc alter appellemus. Il ritorno della correlazione in Arat. fr. 34, 49 s. altera pars huic obscura est et luminis expers, / altera nec parvis nec claris lucibus ardet è invece contraddistinto da parallelismo, come già Plaut. Cas. 445 illorum me alter cruciat, alter macerat; Rud. 807 alter istinc, alter hinc adsistite; Enn. ann. 238 Sk. alter nare cupit, alter pugnare paratust. Essa si ripresenta riferita alle due Orse quali guide della navigazione in Ov.

259 Traglia 19713, p. 65.

260 Soubiran 1972, p. 159.

261 Ewbank 1933, p. 79.

262 Pellacani 2013, p. 56.

263 Sull’allitterazione tra il verbo, marker etimologico, e i due accusativi, Pendergraft 1995, p. 60.

51 trist. 4, 3, 1 s. magna minorque ferae, quarum regis altera Graias / altera Sidonias, utraque sicca, rates. apud Graios…vocatur cf. Plaut. Cas. 30 s. Clerumenoe vocatur haec comoedia / graece, latine Sortientes; Mer. 9 s. graece haec (comoedia) vocatur Emporos Philemonis / eadem latine Mercator Macci Titi; Ter. Ph. 23 s. Epidicazomenon quam vocant comoediam / Graeci, Latini Phormionem nominant; apud Graios rimane una rarità in poesia, ripetuta soltanto da Stat. Theb. 8, 342; l’aggiunta ciceroniana sarebbe qui volta a sottolineare l’inevitabile adozione del grecismo, in assenza di adeguato corrispettivo latino264. apud la preposizione, frequentissima negli scenici, in specie Plauto, diviene piuttosto rara nella poesia successiva265, a causa del suo maggiore utilizzo nella lingua parlata piuttosto che in quella scritta266. Qui l’allungamento per posizione della u267 attesta per la prima volta la scansione giambica della parola268, nonché la sua collocazione prima della cesura pentemimera269. Dal punto di vista grafico, sarà preferibile apud270 ad aput271, in quanto quest’ultimo rifletterebbe una pronuncia diffusasi per analogia con parole terminanti in vocale lunga o dittongo e dentale sorda, la quale sostituì definitivamente a fine età repubblicana l’originaria sonora (p. es., haut < haud)272.

Graios a differenza del corradicale Graecus273, attestato prevalentemente in prosa, Graius è un poetismo appartenente soprattutto alla lingua epica e tragica274, dove la denominazione non vale come mera indicazione etnografica ma assume piuttosto valore nobilitante, in

264 Ewbank 1933, p. 131.

265 TLL II 336, 35-40.

266 Leumann – Hofmann – Szantyr 1965, p. 224.

267 TLL II 336, 13 rinvia a col. 128, 1 s.v. ante, la cui prima vocale breve diventa lunga per posizione.

268 Zinn 1941, p. 289.

269 Ibid., p. 299.

270 Stampato da Ewbank 1933, p. 79; Buescu 1966, p. 173, e Soubiran 1972, p. 159.

271 Stampato da Traglia 19713, p. 65.

272 Leo 1912, pp. 250-252.

273 Frisk 1960, s.v. Γραικός, «ohne k- Suffix erscheint der Name in lat. Graius».

274 DELL, s.v. Graius.

52 riferimento soprattutto ai greci del passato275. Il termine si ripeterà in Cicerone poeta altre sei volte (Arat. fr. 14; 34, 5; 212; 222; cons. fr. 2, 8; Soph. fr. 1, 15) e si riferirà puntualmente a denominazioni astronomiche fissate dai Greci tranne che nel passo tragico (non Graia vis, non barbara ulla immanitas), dove varrà a distinguere l’eroismo greco dalla ferocia barbara (cf. Naev. trag. 61 R.3 Grai atque barbari e Cic. rep. 1,58 Graeci dicunt omnes aut Graios esse aut barbaros). Sempre in riferimento a terminologie greche, cf. Enn. ann. 140 Sk. vento quem perhibent Graium genus aera lingua e, oltre al succitato Pacuv. trag. 90 R.3 (vd. supra, fr. 5, s.v. nostri), Afran. com. 299 R.3 Sophiam vocant me Grai, vos Sapientiam, dove risalta lo stesso verbo del frammento ciceroniano. Di séguito, si ritrova spesso in versi dove sono riportate denominazioni greche276. Poiché tuttavia Cicerone impiega anche Graecus in tal senso (cf. Arat. fr. 28, 1 has Graeci stellas Hyadas vocitare suerunt; 34, 317 Zodiacum hunc Graeci vocitant), non è da escludere che qui sia stato scelto il più solenne Graius, posto in rilievo dalla collocazione fra pentemimera ed eftemimera, per restituire la matrice omerica sia della clausola di Arat. 36 ἐπίκλησιν καλέουσιν277, già riferita all’Orsa Maggiore in Il. 18, 487 (=Od. 5, 273) e 22, 29278, sia dell’aggettivo di Arat. 367 ἄνδρες Ἀχαιοὶ, raffrontabile con l’omerico Δάρδανος ἀνήρ e con la modalità latina arcaica di sostantivare l’aggettivo; vd. il Graius homo di Enn. ann. 165 Sk. e Lucr. 1,66279.

Cynosura “coda di cane” sarebbe la denominazione più antica dell’Orsa Minore, tratta dall’accostamento popolare tra l’allineamento delle sue sette stelle e la coda drizzata di un cane (cf. sch. Arat. 35, p. 87, 1-2 M. Κυνόσουραν τὴν ἐλάττω λέγει μὴν ὅτι τοῖς κυσὶν ὁμοίαν ἔχει τὴν οὐρὰν ἀνακεκλασμένην), contro l’ordinaria designazione di ἡ μικρὰ Ἄρκος e quella secondaria di Φοινίκη, oscillante tra genesi mitologica (dal nome dell’omonima nutrice di Artemide, il che ricorda la medesima funzione svolta dalle due Orse sull’Ida per Zeus infante) e genesi razionale (i marinai fenici hanno l’Orsa Minore come punto di riferimento perché la

275 Per maggiori dettagli, Ernout 1962, pp. 214-216; Hadas-Lebel 2012, p. 69.

276 P. es., Lucr. 1, 830 s.; 2, 629 s.; 3, 100; 6, 424; 908; Verg. georg. 3, 147 s. (Grai…vocantes); Aen. 1, 530 (= 3, 163); 3, 210; 6, 242; Germ. 21 s.; 335; Manil. 2, 694; 897; 909; 3, 162; 4, 298; 4, 818 s..; 5, 645; Ov. fast. 4, 61; 5, 166 (Graius…vocat); 6, 545.

277 Cf. Pellacani 2013, p. 57.

278 Kidd 1997, p. 188.

279 Vd. Skutsch 1985, p. 331, e Jackson 2002, p. 109.

53 costellazione fu scoperta dal fenicio Talete)280. Dietro la ciceroniana traslitterazione del grecismo, ripetuta in Arat. fr. 29, il termine si ritroverà spesso in poesia281, nonché in prosa282.

2 dicitur esse vd. supra, fr. 4, 2, s.v. In relazione al fr. precedente si rileva il passaggio dalla diatesi attiva a quella passiva, indicativo della alterità della nomenclatura astronomica latina, nostri soliti vocitare, da quella greca, apud Graios…vocatur /…dicitur.

Helice sul significato del termine, vd. supra, fr. 5, s.v. Septem…Triones. Al pari di Cynosura, il termine è qui traslitterato per la prima volta e ripetuto in Arat. fr. 25, 2, dove è nuovamente collocato prima dell’eftemimera, come poi Germ. 42; Manil. 4, 792; Lucan. 2, 237; Val. Fl. 1, 18; Avien. Arat. 122. Questa collocazione potrebbe essere qui influenzata da Arat. 37 τὴν δ’ ἑτέρην Ὲλίκην. Ὲλίκῇ γε μὲν ἄνδρες Ἀχαιοι, dove l'iterazione del termine è resecata tra pentemimera ed eftemimera. La sua discreta diffusione in poesia, agevolata da comodità metrica, rifletterebbe l’influenza di Arato nella produzione letteraria latina283. Il termine rientra infine tra quei nomi di origine greca dei quali Cicerone adotta la quantità e la desinenza greche, contro l’uso arcaico di adeguarli al sistema flessionario latino284.

280 Le Boeuffle 1977, pp. 90 s. e 190.

281 Ov. fast. 3, 107; Germ. 39; 41; 45; 51; 54; 187; 313; Manil. 1, 299; 628; 2, 30; 5, 696; 712; Sen. Thy. 872; Lucan. 3, 219; 8, 180; 9, 540; Stat. Theb. 4, 295; Val. Fl. 1, 17; Sil. 3, 665; 14, 457; Avien. Arat. 122; 124; 136; 443; 509; 685; orb. ter. 1051.

282 Cic. ac. 2, 66; nat. deor. 2, 105 e 211; Hyg. astr. 2, 2; fab. 224, 2, 5; Vitr. 9, 4, 6.

283 Le Boeuffle 1977, p. 84.

284 Traglia 1950, pp. 157 s.

54 VII

Hac fidunt duce nocturna Phoenices in alto; sed prior illa magis stellis distincta refulget, et late prima confestim a nocte videtur. haec vero parva est, sed nautis usus in hac est: nam cursu interiore brevi convertitur orbe. “A questa, quale guida notturna, si affidano i Fenici in mare aperto, ma quell’altra, adorna di stelle, rifulge di più ed è ampiamente visibile già subito all’inizio della notte. Questa è invero piccola, ma proprio essa è utile ai naviganti; infatti ruota percorrendo un breve tratto con un’orbita più stretta” Testimonia: Cic. nat. deor. 2, 106 paribusque stellis similiter distinctis eundem caeli verticem lustrat parva Cynosura. “Hac fidunt duce nocturna…nam cursu interiore brevi convertitur orbe”; ac. 2, 66 meas cogitationes sic dirigo, non ad illam parvulam Cynosuram qua “fidunt duce nocturna Phonices in alto”, ut ait Aratus, eoque directius gubernant, quod eam tenent quae “cursu interiore brevi convertitur orbe”, sed Helicen et clarissimos Septentriones285 Arat. 39-43 τῇ δ’ ἄρα Φοίνικες πίσυνοι περόωσι θάλασσαν. / Ἀλλ’ ἡ μὲν καθαρὴ καὶ ἐπιφράσσασθαι ἑτοίμη / πολλὴ φαινομένη Έλίκη πρώτης ἀπὸ νυκτός, / ἡ δ’ ἑτέρη ὀλίγη μέν, ἀτὰρ ναύτῃσιν ἀρείων, / μειοτέρῃ γὰρ πᾶσα περιστρέφεται στροφάλιγγι 1 Hac nat. deor. Ω : qua ac. Ω, ob conexum ‖ 5 Nam nat. deor. Ω (Arat. 43 γάρ) : quae ac. Ω, ob conexum

1 Hac fidunt duce nocturna Phoenices in alto ai quattro dattili di Arat. 39, volti a sottolineare la rapida avanzata delle navi fenicie, Cicerone sostituisce un verso prevalentemente spondaico, che sembrerebbe piuttosto focalizzare l’immagine della nave quasi immobile in alto286. hac la posizione incipitaria riproduce quella di Arat. 39 τῇ δ’ἄρα. La duplice testimonianza ciceroniana chiarisce il riferimento del dimostrativo a Cinosura, reso altrimenti non immediato dalla precedente menzione di Cinosura prima, di Elice poi, alla quale si sarebbe

285 Gamberale 1973, p. 110, include nella citazione dei versi negli Academica i relativi qua e quae considerando il passo «come contenente versi interi, e non tronconi inizianti rispettivamente da fidunt e cursu»; inoltre, lo studioso ritiene che i due relativi, a fronte dell’hac e del nam tràditi dal De natura deorum, si pongano come “caso limite” del modo poco riguardoso con cui Cicerone cita i propri testi poetici.

286 Panichi 1969, p. 3.

55 portati a ricondurre l’incipit del frammento in epigrafe287. Oltre ai due testimoni, chiariscono il riferimento a Cinosura numerosi luoghi successivi288: Hyg. astr. 2, 2 omnes qui Peloponnesum incolunt, priore utuntur Arcto; Phoenices autem, quam (sc. Cynosuram) a suo inventore (sc. Thalete) acceperunt, observant; Germ. 40 s. dat Grais Helice cursus maioribus astris, / Phoenicas Cynosura regit; Ov. fast. 3, 107 s. esse duas Arctos, quarum Cynosura petatur / Sidoniis, Helicen Graia carina notet (per la clausola Cynosura petatur, cf. Arat. fr. 6, 1 ex his altera apud Graios Cynosura vocatur, nonché il probabile riecheggiamento di apud Graios tramite Graia carina)289; epist. 18, 149 nec sequor aut Helicen, aut, qua Tyros utitur, Arcton; trist. 4, 3, 1 s. (vd. supra, fr. 6, 1, s.v. altera); Manil. 1, 296- 302; Sen. Herc. f. 6 s. hinc Arctos alta parte glacialis poli / sublime classes sidus Argolicas agit; Med. 697 maior Pelasgis apta, Sidoniis minor; Lucan. 3, 219 certior haud ullis duxit Cynosura carinis; Val. Fl. 1, 17 s. Tyriis Cynosura carinis / certior aut Grais Helice servanda magistris290; Sil. 3, 665 Sidoniis Cynosura regit fidissima nautis; Avien. Arat. 124 s. namque Helice Graios, Tyrios Cynosura per altum / parva regit e 136 denique Sidoniis duce te, Cynosura, carinis (per la clausola, cf. i sopracitati Lucan. 3, 219 e Val. Fl. 1, 17). duce in riferimento al sole, vd. Cic. rep. 6, 17 Sol…dux et princeps et moderator luminum reliquorum e Tusc. 1, 68 eorum…omnium (sc. caeli corporum) moderatorem et ducem solem. Il femminile, attestato qui per la prima volta, tornerà riferito a corpi celesti in Catull. 66, 67 (sc. Coma Berenicis) vertor in occasum, tardum dux ante Booten e in Manil. 1, 298 qua duce (sc. Helice) per fluctus Graiae dant vela carinae, con trasferimento del termine da Cinosura ad Elice (cf. 1, 295 signa…ducentia, riferito ad entrambe le Orse). Il maschile verrà invece adoperato da Ovidio in riferimento alla luce dell’amore come unica guida sicura, epist. 18, 157 s. est aliud lumen, multo mihi certius istis, / non errat tenebris quo duce noster amor, in contrapposizione a quella dei corpi celesti, primi fra tutti le due Orse, vv. 151 s. non sequor aut Helicen, aut, qua Tyros utitur, Arcton; / publica non curat sidera noster amor, contrapposizione rimarcata dalla ripetizione della clausola noster amor.

287 Vd. Ewbank 1933, pp. 132 s.

288 Vd. De Jonge 1951, p. 97; per un’analisi della maggior parte dei luoghi sopracitati, Hübner 2005, pp. 142-146.

289 Sul probabile recupero del ciceroniano apud Graios nell’ovidiano Graia carina, a sua volta riecheggiato da Manil. 1, 298 Graiae…carinae, vd. Stok 1990, p. 179 n. 5.

290 Riporto il testo di Liberman 1997; difende invece la correzione di Heinsius Tyriae…carinae Spaltenstein 2002, p. 34.

56 Phoenices traslitterazione di Arat. 39 Φοίνικες (ripetuto poi da Callim. fr. 191, 54 Pf. in riferimento all’Orsa minore quale guida per i naviganti fenici), utile a designare primariamente i Fenici e non i Cartaginesi soltanto, a fronte di Poeni, più antico per assenza di aspirazione e indicante in origine i soli abitanti di Cartagine291 (cf. Tyrii e Sidonii, estensivamente poi adoperati in riferimento ai Fenici). In riferimento allo stesso tema, il termine ritorna in Hyg. astr. 2, 2 e Germ. 41. in alto frequente clausola esametrica per lo più riferita al mare, come qui, a partire da Enn. ann. 369 Sk. isque Hellesponto pontem contendit in alto (di séguito, Lucr. 3, 784; Verg. ecl. 6, 76; Aen. 7, 200; Hor. epist. 1, 11, 15; Ov. epist. 17, 237), oppure riferita a luoghi sopraelevati, solitamente posti in cielo e con esso coincidenti292, come Arat. fr. 34, 375 (Nixus) inlustrem linquit in alto293 / plantam. Il duplice riferimento alla profondità del mare e alla sommità del cielo, congiuntamente attestato in Enn. trag. 268 R.3 ex alto in altum despexit mare, aggiunge l’espressione alla serie di caratteristiche che per traslato la poesia tende a trasferire dal mare al cielo e viceversa294. L’ennianismo sarà qui funzionale a restituire la matrice omerica della clausola di Arat. 39 περόωσι θάλασσαν, attestata in Od. 6, 272 e 9, 129295 con rispettivo riferimento alla navigazione dei Feaci e a quella dei Ciclopi. Clausola affine in Avien. Arat. 124 s. namque Helice Graios, Tyrios Cynosura per altum / parva regit, dove parimenti Elice e Cinosura fanno rispettivamente da guida per i naviganti fenici e greci.

2 sed prior illa fedele riproduzione di Arat. 40 ἀλλ’ ἡ μέν tramite incipitaria avversativa e comparativo, funzionale a richiamare Elice, precedentemente nominata prima di Cynosura296, e a ricreare la contrapposizione del modello, ἡ μὲν… ἡ δ’ ἑτέρη ~ prior…haec. Prior ha dunque il valore di ribadire l’ordine in cui sono state precedentemente menzionate le due

291 DELL, s.v. Poenus.

292 Vd. OLD, s.v. altum, in particolare per il distinguo tra 1a. (the open see, deep water, “the deep”) e 2a. (a high place or position, usually in the sky).

293 Di séguito, p. es., Lucr. 4, 133 s.; 5, 465 e 584; Verg. georg. 4, 78; Aen. 6, 436; Ov. met. 6, 517.

294 Con esempi tratti proprio da Ennio, Gualandri 1965, pp. 113-116.

295 Martin 19982, II, p. 169.

296 Su questo valore di prior, vd. OLD, s.v., 5a; in unione con ille, TLL X 2.1, 1335, 36-41.

57 Orse297, piuttosto che di rilevare il brillare di Elice per prima298, dato luminoso specificato soltanto dal successivo prima…a nocte. magis stellis distincta refulget alla traduzione di Soubiran «avec ses étoiles mieux reconnaissables»299 sarà da preferire quella di Buescu «de ses cairese étoiles, brille davantage»300 e quella di Traglia «rifulge maggiormente adorna di stelle»301, dalle quali traspare il riferimento di magis a refulget (cf. Sen. Phaedr. 657 in te magis refulget incomptus decor e l’affine Troad. 1138 s. fulgent genae / magisque solito splendet extremus decor), giusto in quanto l’Orsa Maggiore è più luminosa dell’Orsa minore, ma al pari di essa è contraddistinta da sette stelle. Il rilievo del dato luminoso rende magis…refulget aderente ad Arat. 40 καθαρή302, mentre nella corrispondenza di stellis distincta ad Arat. 40 ἐπιφράσσασθαι ἑτοίμη si noterà come le stelle di Elice fungano da ornamento della costellazione e al contempo ne costituiscano un elemento distintivo tale da renderla facilmente individuabile e distinguibile in virtù del duplice significato di distinguo, “ornare” e “distinguere”. L’affine nesso luminibus distinguo verrà poi utilizzato per l’ornato retorico: Cic. Br. 275 erant autem et verborum et sententiarum illa lumina…quibus tamquam insignibus in ornatu distinguebatur omnis oratio; de orat. 3, 201 est quasi luminibus distinguenda et frequentanda omnis oratio sententiarum atque verborum. stellis distincta con medesimo riferimento alla luminosità dei corpi celesti, Arat. fr. 34, 161 vario pinxit distinguens lumine formas (natura); 241 densis distincta…signis (lumina) e 353 stellis distincta Corona, come poi nat. deor. 2, 95 caelum totum…astris distinctum303 e 106 paribusque stellis…distinctis eundem caeli verticem lustrat parva Cynosura. Nella poesia

297 3 Cf. le opportune traduzioni di Buescu 1966, p. 172, «mais la première », e di Traglia 1971 , p. 66, «ma quell’altra (sc. Elice)».

298 Così Soubiran 1972, p. 159, «mais l’autre brille la première», e p. 198 n. 6.

299 Soubiran 1972, p. 159.

300 Buescu 1966, p. 172.

301 Traglia 19713, p. 66.

302 Cf. Panichi 1969, p. 3; al contrario Kidd 1997, p. 190, rileva che l’aggettivo arateo non significa “luminoso” ma “chiaro”, nel senso di essere chiaramente definito e dunque distinguibile; a questa osservazione osterebbe tuttavia il successivo ἐπιφράσσασθαι ἑτοίμη “facile da individuare”, che sarebbe allora pleonastico, nonché il riferimento dell’aggettivo alla luce, volto a rimarcarne la luminosità, in Pind. Pyth. 6, 14.

303 Pease 1958, p. 786.

58 successiva, ove specificato, al distinguo luminoso tende a sostituirsi quello cromatico; p. es., Hor. carm. 2, 5, 11 lividos distinguet Autumnus racemos purpureo varius colore; Ov. met. 5, 266 distinctas floribus herbas; Culex 71 (florida tellus) vere notat dulci distincta colori bus arva, similare a Catull. 64, 90 aura…distinctos educi verna colores304; Luc. 10, 121 testudinis…terga…distincta zmaragdo. refulget verbo inedito, a differenza del semplice fulgeo attestato a partire da Pompon. com. 74 R.3 cum in caelo fulgit propter lunam lucifer, del quale il composto ciceroniano mantiene il riferimento ai corpi celesti: Arat. fr. 34, 108 Canis stellarum longe refulgens; 154 (Pistricis spina) evalida cum luce refulgens; 410 (Corona) extremo candore refulget. Di séguito, Verg. Aen. 8, 623 (caerula nubes) solis inardescit radiis longeque refulget; Hor. carm. 1, 12, 28 quorum (Castorum) simul alba nautis stella refulsit; Ov. ars 2, 722 ut sol a liquida saepe refulget aqua; Manil. 2, 729 luna refulsit (=Germ. 194 e Val. Fl. 3, 195 s.); 3, 658 s. refulget / Libra. Particolarmente interessante Sen. Herc. f. 945 refulget…Leo, in quanto poco dopo, al v. 948, compare l’espressione ignes efflat. L’immagine del Leone che espira fiamme, passata per inusuale, sarebbe evidente aggiunta di Seneca, volta a potenziare la consueta figurazione ignea di questa costellazione che caratterizza l’alta stagione305. A ben vedere, però, l’immagine è già in Cic. Arat. fr. 34, 107 ss. rutilo cum lumine claret / fervidus ille Canis, stellarum longe refulgens /…toto spirans de corpore flammam / aestiferos validis erumpit flatibus ignes / totus ab ore micans iacitur mortalibus ardor. Sebbene qui sia di scena la costellazione del Cane, appaiono evidenti le affinità tra i due luoghi: in entrambi i casi, una costellazione estiva arreca la calura, propriamente detta canicola, alitando fuoco; a ciò si aggiunge la corrispondenza precisa tra i ciceroniani rutilo, fervidus e refulgens (vv. 107 s.) e i senecani refulget, fervet e rutilam (vv. 946 ss.). L’immagine ciceroniana del Cane che emette fiamme, oltre che dalla bocca, da tutto il corpo, toto spirans de corpore flammam, trova poi corrispondenza nel Leone di Arat. fr. 22, 3 magnu’ Leo tremulam quatiens e corpore flammam, al quale è accostabile il comportamento di un’altra costellazione estiva, quella dei Gemelli, fr. 34, 331 Gemini clarum iactantes lucibus ignem. Questi luoghi chiariscono l’associazione tra le costellazioni estive e le fiamme, in quanto esse emanano luci ignee, luminose e calde insieme. Nel figurare il Leone dall’alito di fuoco, Seneca non opera quindi

304 Raffronta i due luoghi Nuzzo 2003, p. 90.

305 Fitch 1987, p. 365, «Leo is naturally called “fiery” in view of its zodiacal association with high summer…but the detail that it breathes fire is unusual…and clearly added by Sen. to heighten the thematic use of fire imagery».

59 un’aggiunta personale, ma, verosimilmente consapevole dell’associazione qui rilevata306, adatta al Leone il repertorio espressivo utilizzato da Cicerone per le costellazioni estive, prima fra tutte quella del Cane.

3 et late…videtur per l’avverbio, cf. Strabo trag. 3 R.3 flammeam per aethram late fervidam ferri facem e Varro Men. 269, 2 s. cum pictus aer fervidis late ignibus / …ostenderet, dove risalta la compresenza di late e di fervidus, che Cicerone riformula in Arat. fr. 34, 108 fervidus ille Canis, stellarum longe refulgens previa sostituzione di late con longe. La sostituzione, priva di necessità metrica, sembrerebbe motivata dalla riproduzione con longe refulgens di un effetto fonico analogo a quello del frammento in esame, refulget / et late…nocte. L’avverbio late occorre altre sei volte negli Aratea (fr. 34, 95; 105, con ripetizione di video; 175; 252; 397; 419), mentre ripetono la posizione incipitaria del nostro et late, sempre in riferimento a fenomeni celesti, Lucr. 5, 469 et late diffusus (aether) in omnis undique partis e Dirae 77 et late teneant (imbres) diffuso gurgite campos. Successivamente, Verg. Aen. 2, 698 (stellae sulcus) dat lucem et late circum loca sulphure fumant e 8, 24 (aquae lumen) omnia pervolitat late loca trasferisce il riferimento dell’avverbio dai corpi celesti ai corpi colpiti dalla loro luminosità. Così Aen. 2, 698, dove i luoghi interessati dal passaggio di una cometa emanano per lunga estensione lo zolfo rilasciato dalla medesima; parimenti 8, 24, dove si diffonde ampiamente la luce dell’acqua colpita dai raggi del sole o della luna, dei quali essa riflette l’immagine. Qui l’avverbio traduce Arat. 41 πολλή, posto parimenti ad inizio verso e da riferire alla luminosità della costellazione secondo lo scolio ad l. (p. 89, 8 s. M. πολλὴ φαινομένη : οὐ τῷ μεγέθει, ἀλλὰ τῇ λαμπηδόνι)307, ma preferibilmente alla grandezza secondo l’impiego arateo dell’aggettivo (cf. vv. 87, come qui in contrapposizione ad ὀλίγος; 165 πολλή τε καὶ ἀγλαή ~ Cic. Arat. fr. 26, 1 haec (Capra) magno atque inlustri praedita signo; 188; 316; 611 πολλή ~ Cic. Arat. fr. 34, 397 late, come qui)308. Late viene riadattato nell’autocitazione di ac. 2, 66 meas cogitationes sic dirigo…ad…Helicen et clarissimos Septentriones id est rationes has latiore specie non ad

306 Difatti, per le caratteristiche del Leone descritte ai vv. 947 ss., il commento di Fitch 1987 ad l. rinvia a testi astronomici, quali Manil. 5, 206 e Germ. 149.

307 Riferisce l’aggettivo alla luminosità della costellazione Panichi 1969, p. 3, secondo il quale le corrispondenze magis…refulget ~ καθαρὴ; stellis distincta ~ ἐπιφράσσασθαι ἑτοίμη; late…videtur ~ πολλὴ φαινομένη «sono in realtà in funzione di ipallage: se è limpida risplende di più, se si distingue per le sue stelle è facile a essere individuata, se brilla con molta luce (πολλὴ) viene vista per largo tratto».

308 2 Cf. Kidd 1997, p. 190, e Martin 1998 , II, p. 169; vd. inoltre Soubiran 1972, p. 198 n. 7.

60 tenue limatas; eo fit ut errem et vager latius. Pregnante la traduzione di φαίνομαι con videtur, che restituisce la componente della visibilità propria del riferimento verbale ai corpi celesti309. Per l’unione dell’avverbio con video, cf. Arat. fr. 34, 105 s. quem (Orionem) qui…/ late dispersum non viderit; Lucr. 6, 619 at pelage multa et late substrata videmus; Ov. fast. 4, 582 qui (sol) late facta diurna videt; Claud. Hon. VI cos. 453 nox erat et late stellarum more videbam. prima…a nocte fedele riproduzione di Arat. 41 πρώτης ἀπὸ νυκτός, poi variato da Avien. Arat. 129 inter primordia noctis. L’aggettivo rioccorre riferito al primo calare della notte in Arat. fr. 34, 339 prima de nocte, dietro Ter. Hec. 822 nocte prima. Parimenti teatrale l’impiego di primus ad indicare la fase iniziale di altre parti del dì; p. es., Plaut. Cist. 525 primo luci, ripreso nella prosa ciceroniana di S. Rosc. 19 primo diluculo, e Curc. 4 prima vespera. Di séguito, p. es., Hor. carm. 3, 7, 29 prima nocte e Ov. fast. 5, 111 s. ab Iove surgat opus. prima mihi nocte videnda / stella est (sc. Capella), dove si noti, oltre al riecheggiamento dell’incipit arateo310, l’associazione degli inizi della notte alla visibilità di una stella dietro l’associazione ciceroniana della visibilità di Elice fin dal primo calare della notte; in aggiunta, la ripresa in nocte videnda della clausola ciceroniana nocte videtur. confestim avverbio molto raro in poesia311, dove occorre a partire da Naev. com. 48b e 92b R.3, nella duplice accezione di “rapidamente” e “ininterrottamente”312. Successivamente, confestim si accompagna spesso a verbi di moto significando “subito”, “rapidamente”313. Stesso significato, pur in assenza di verbo di movimento, nel frammento in epigrafe, dove l’avverbio è interposto al centro di prima…a nocte. L’articolazione con ablativo retto da a / ab rimane un’eccezione in poesia, a differenza dalla prosa314. In riferimento alla luce, vd. poi Lucr. 4, 189 suppeditatur enim confestim lumine lumen; 340 insequitur candens confestim lucidus aer e 5, 283 suppeditatque novo confestim lumine lumen (sc. aetherius sol), dove la

309 Per le puntualizzazioni sul verbo greco, Kidd 1997, p. 190.

310 Frazer 1929, IV, p. 11.

311 Vd. TLL IV, 192, 63-72.

216 Così Char. GL I 196, «confestim velut competenti festinatione…confestim pro continuo et sine intervallo…Naevius in Tarentilla et in Corollaria».

313 P. es., Plaut. Mer. 68; Tri. 798; Lucr. 4, 340; Catull. 64, 285; Verg. Aen. 9, 231; Lucan. 4, 434; Sil. 3, 428; 10, 428; 16, 69.

314 Vd. TLL IV, 194, 26-32.

61 diffusione della luce senza soluzione di continuità315 viene rimarcata dall’avverbio, che ritorna collocato dopo la pentemimera.

4 haec…est, sed…in hac est il poliptoto haec…in hac e l’iterazione di est, posto a fine dei due emistichi, creano una simmetria che sottolinea il contrasto tra la piccolezza della costellazione e la sua grande utilità per la navigazione. L’avversativa sed viene ripetuta da Manil. 1, 300 s. quam spatio tam luce minor; sed iudice vincit / maiorem Tyrio, dove il parallelismo ciceroniano viene riformulato attraverso gli antonimi minor / maior, i quali rilevano come l’Orsa Minore, per quanto più contenuta in termini di dimensione e di luminosità, sia per i Fenici superiore all’Orsa Maggiore in termini di utilità. vero di Arat. 42 l’avverbio non renderà ἡ δ’ e dunque la contrapposizione tra Elice e Cynosura – così Traglia: “questa invece è piccola”316 –, bensì μέν – così Buescu e Soubiran: “il est vrai”317 –, sottolineando come le piccole dimensioni dell’Orsa Minore siano tuttavia di grande utilità. L’avverbio ritorna con l’aggettivo parvus nel significato di “in realtà”, “invero”, qui da prediligere ad “invece”, in Arat. fr. 34, 30 stellae, cernuntur vero sex undique parvae. La contrapposizione tra le caratteristiche di Cinosura (vero…sed) trova inoltre riscontro in sch. Arat. 42, p. 89, 13-90, 2 M. ἡ δὲ Κυνόσουρα τῷ φωτί μὲν ὀλίγη, ἔστι γὰρ ἀμυδροτέρα, τοῖς δὲ ναυτιλλομένοις ἐπιτηδειοτέρα, dove la notazione dell’utilità per i naviganti è direttamente raffrontabile col ciceroniano nautis usus, più aderente allo scoliastico ἐπιτήδειος “utile”, “adatto”, che ad Arat. 42 ἀρείων. parva aggettivo che ritorna nelle due autocitazioni ciceroniane, ac. 2, 66 parvulam Cynosuram e nat. deor. 2, 106 parva Cynosura, e nel sopracitato Avien. Arat. 124 s., mentre viene sostituito dall’equivalente brevis, qualificativo di costellazioni con dimensioni ridotte, da Germ. 187 brevem…Cynosuran318 e da Manil. 1, 299 Cynosura brevis.

315 Così Canali 1990, pp. 345, 355 e 445, il quale diversifica il significato di confestim in Lucr. 4, 189 “senza tregua” e 5, 283 “senza interruzione” da 4, 340 “subito”, dove il senso di rapidità è dato dal successivo insequitur; diversamente Bailey 1947, III, p. 1222, accoglie indistintamente per tutti e tre i luoghi il significato di “quickly”, “immediately”. Curiosamente, lo studioso limita sostanzialmente l’impiego di confestim al solo Lucrezio, tacendone oltre tutto il precedente ciceroniano, la cui importanza è data dal medesimo riferimento alla luce dei corpi celesti; ivi, I, p. 136.

316 3 Traglia 1971 , p. 66.

317 Buescu 1966, p. 174, e Soubiran 1972, p. 159.

318 Le Boeuffle 1987, p. 73.

62 5 cursu interiore brevi…orbe alla chiastica concordanza cursu interiore – brevi orbe di Buescu319 e di Soubiran320, il quale parla in proposito di “sintassi equivoca”321, sarà da preferire la più complessa struttura cursu brevi – interiore orbe, rilevata da Traglia e supportata da Manil. 1, 299 angusto Cynosura brevis torquetur in orbe322 in fedele riproduzione dell’iperbato di Arat. 43 μειοτέρῃ γὰρ πᾶσα περιστρέφεται στροφάλιγγι323, reso da Cicerone con la collocazione dell’aggettivo e del sostantivo alla fine di entrambi gli emistichi, interiore…orbe. Dell’arateo μειοτέρῃ… στροφάλιγγι vengono qui riproposti l’aggettivo al grado comparativo e la collocazione a fine verso del relativo sostantivo, che al pari dell’equivalente greco sottolinea l’andamento circolare dell’astro, στροφάλιγξ ~ orbis “orbita”, con relativa esclusione della concordanza di interiore con cursu. Alla figura etimologica περιστρέφεται στροφάλιγγι viene invece sostituito un forte effetto allitterante, cursu interiore brevi convertitur orbe, dove l’inversione sillabica di rev (brevi) in ver (convertitur) potenzia il senso verbale di “volgersi”, “rigirarsi” e dunque “ruotare”, rimarcato dalla ripetizione della r nell’intero verso. Rispetto ad Arato, cursu brevi si configura poi come un’aggiunta del traduttore, probabilmente influenzata dagli scolî (p. 90, 2-3 M. ἐλάττονι στροφῇ χρῆται καὶ περιφορᾷ; p. 91, 1-2 ἐλάττονα κύκλον περιγράφει τῇ στροφῇ καὶ τῷ πόλῳ); per cursu…brevi convertitur cf. Hyg. astr. 4, 3 quae (sc. minor Arctus) brevi spatio vertitur. A sostegno della concordanza interiore…orbe, cf. poi Hor. sat. 2, 6, 26 s. bruma nivalem / interiore diem gyro trahit324 per tre motivi: 1. stesso intreccio delle coppie aggettivo – sostantivo; 2. riferimento di interior a gyrus, sinonimo di orbis nel significato di “orbita”, atto a qualificare il movimento circolare e rotatorio dei corpi celesti325; sull’equivalenza gyrus = orbis, cf. Avien. Arat. 133 s. haud mora longos / pigra tenet gyros (sc. Cynosura), dove gyrus corrisponde ad Arat. 43 στροφάλιγξ e a Cic. Arat. fr. 7, 5 orbis; ma vd. pure Sen. epist.

319 Buescu 1966, p. 174.

320 Soubiran 1972, p. 159.

321 Soubiran 1972, p. 198.

322 Pease 1958, p. 809; per Liuzzi 1988, pp. 121 s., nel brevis torquetur in orbe di Manilio, calco ad metrum del ciceroniano brevi convertitur orbe, sarebbe invece da cogliere un’enallage: Cynosura brevis in luogo del ciceroniano brevi…orbe.

323 L’iperbato, incorniciando il verso, rifletterebbe il movimento circolare delle stelle dell’Orsa Minore; Kidd 1997, p. 191.

324 Citato invece da Buescu 1966, p. 174, a sostegno di cursu interiore.

325 Vd. TLL VI.2, 2387, 1-29.

63 12, 6 angustissimum habet dies gyrum, raffrontabile con l’angusto…in orbe di Manil. 1, 299; 3. presenza di brevis tanto in bruma, che in poesia passa ad indicare la stagione invernale a partire dall’originaria brevissima dies326, il giorno più corto dell’anno, tanto in trahit, sciolto dallo Ps.-Acrone in brevem facit327. Il verso oraziano non mancherà inoltre di rinviare al Capricorno, uno dei segni zodiacali dell’inverno, di Cic. Arat. fr. 34, 61 brumali flectens contorquet tempore currum. Il secondo emistichio ciceroniano, brevi convertitur orbe, sarà echeggiato da Germ. fr. 2, 13 Le Bouf. hoc peragit spatium breviore citatior orbe. cursu…convertitur cf. Arat. fr. 34, 264 in quo (sc. Cancro) consistens convertit curriculum Sol e Lucr. 5, 654 s. aut quia sub terras cursum (sc. Solis) convortere cogit / vis eadem, supra quae terras pertulit orbem, dove al ripetuto riferimento al Sole si associa la riformulazione della clausola ciceroniana convertitur orbe in convortere…/…orbem. Per il composto convertitur, plausibilmente dettato dall’arateo περιστρέφεται e atto a sottolineare il compimento del moto circolare328, cf. con medesimo riferimento a Cinosura Avien. Arat. 133 cardine nam toto convertitur, haud mora longos, e ciò a difesa del verbo tràdito contro l’emendamento cum vertitur di Soubiran329. interiore…convertitur orbe cf. Arat. fr. 34, 269 supero convertier orbe (parimenti in clausola, per la quale pure Lucr. 5, 510 vortitur orbis) e rep. 6, 17 in infimo…orbe luna radiis solis accensa convertitur.

La sezione relativa alle due Orse termina in Arato col v. 44, τῇ και Σιδόνιοι ἰθύντατα ναυτίλλονται, che varia il v. 39 mantenendone tuttavia lo stesso ordo verborum, τῇ δ’ ἄρα Φοίνικες πίσυνοι περόωσι θάλασσαν330. Della resa ciceroniana di Arat. 44 possediamo solo l’adattamento prosastico in ac. 2, 66 eoque directius gubernant, sulla scorta del quale Soubiran restituisce un esametro del tipo hac adeo Tyrii directius arte gubernant331.

326 Bruma < *brevima, antico superlativo di brevis ed equivalente di brevissima (dies); vd. Walde- Hofmann 1938, I, s.v. bruma, e DELL, s.v. bruma.

327 Fedeli 1994, p. 706.

328 Le Boeuffle 1987, p. 269.

329 Soubiran 1981, p. 99.

330 Kidd 1997, p. 192.

331 Soubiran 1972, p. 198 n. 8.

64 VIII

Has inter, veluti rapido cum gurgite flumen, torvu’ Draco serpit supter superaque revolvens sese, conficiensque sinus e corpore flexos. “Tra queste, come un fiume dalla rapida corrente, serpeggia torvo il Drago, intorcendosi di sopra e di sotto e formando col corpo attorte spire” Testimonia: Cic. nat. deor. 2, 106 et quo sit earum stellarum admirabilior aspectus, “has…flexos”; Prisc. GL 3, 30, 1 ss. quaedam etiam syncopam passa sunt, ut supra pro supera et infra pro infera et extra pro extera. nam antiqui trisyllabe ea proferebant, ut Cicero in Arato “torvus Draco serpit supter superaque retorquens sese”; 3, 55, 23 ss. et super tamen et supra a supera, illud per apocopam, hoc per syncopam facta sunt. sic enim antiqui frequenter protulerunt, et maxime Cicero in poematibus, ut in Arato “torvus Draco serpit supter superaque retorquens sese”

Arat. 45-47 τὰς δὲ δι’ ἀμφοτέρας οἵη ποταμοῖο ἀπορρὼξ / εἰλεῖται, μέγα ϑαῦμα, Δράκων περί τ’ ἀμφί τ’ ἐαγώς, / μυρίος, αἱ δ’ ἄρα οἱ σπείρης ἑκάτερϑε φέρονται

2 superaque PRISC. Ω CIC. cod. O : supra- CIC. ω ‖ revolvens CIC. Ω : retorquens PRISC. Ω utroque loco (v. A. ST. Pease, comm. N. D., t. II, p. 810) ‖ 3 flexos CIC. Ω : -xo Grotius, Buescu

Questo e i due frammenti successivi formano un trittico incentrato sul Drago, guardiano dei pomi d’oro nel giardino delle Esperidi ucciso poi da Ercole, alla cui costellazione sono dedicati i frr. 11 e 12. I tre frammenti vertono rispettivamente sulla collocazione del Drago, sinuoso come un fiume, tra le due Orse; sulla distribuzione delle cinque stelle localizzate sul suo capo; sull’apparente tramonto della costellazione medesima. Per l’associazione tra il moto celeste del Drago e lo scorrere sinuoso di un fiume, cf. Verg. georg. 1, 244 s.; Germ. 48; Sen. Thy. 869 s.; Med. 694 s.; Avien. Arat. 139; Firmic. 8, 17.

1 has inter aderente riproduzione dell’anastrofe di Arat. 45 τὰς δὲ δι’ ἀμφοτέρας, ripetuta poi da Germ. Arat. 48 has inter medias abrupti fluminis instar332 e da Manil. 1, 305 has inter fusus circumque amplexus utramque333. Prima attestazione nell’esametro latino dell’anastrofe

332 Mutilo il rinvio di Ewbank 1933, p. 133, il quale riporta solo la seconda parte del verso (abrupti fluminis instar), rilevando così soltanto la ripetizione della similitudine del fiume e non anche quella dell’anastrofe iniziale.

333 Al contrario di Cicerone e di Germanico, Manilio conserva del testo greco il riferimento alle due Orse; sulla sua maggiore precisione in questo luogo, Liuzzi 1988, p. 137.

65 di preposizioni bisillabiche334; di questa inversione, particolarmente frequente in Lucrezio335 e in Virgilio336, Norden337 supponeva un’origine enniana, benché gli esempi arcaici (con erga, penes, propter) siano tutti plautini. veluti rapido cum gurgite flumen la similitudine tra il serpente e il fiume occorre già in [Hes.] fr. 70, 23 M.-W. καὶ τε δι’ Ἐρχομενοῦ ἠπείγμενος εἶσι δράκων ὥς338 e la sua ripresa da parte di Arato, sintomatica dello ζῆλος esiodeo del poeta di Soli (cf. sch. Arat. 45, p. 92, 2 s. ἐν τούτῳ δὲ Ἡσιόδου ζηλωτὴς φαίνεται· οὗτος γὰρ ποταμὸν εἴκασε δράκοντι εἰπών), amplia il dato astronomico desunto da Eudosso, al quale riconduce simile enunciato Hipparch. 2, 3 s. Εὔδοξος περὶ μὲν τοῦ Δράκοντος οὕτως γράφει· “μεταξὺ δὲ τῶν Ἄρκτων ἐστὶν ἡ τοῦ Ὄφεως οὐρά”339. L’anapestico veluti, utile ad introdurre similitudini al pari del pirrichio velut340, occorre nella stessa sede metrica di Enn. ann. 79 e 432 Sk., mentre nella poesia successiva questa collocazione si alternerà con quella preceduta da monosillabo lungo incipitario, attestata a partire da Lucil. 1215 (nam veluti). In particolare, di Enn. 432 s. Sk. concurrunt veluti venti, quom spiritus Austri / imbricitor Aquiloque suo cum flamine contra spicca, oltre alla medesima collocazione metrica del ciceroniano veluti, il nesso riferibile all’Aquilone, suo cum flamine, raffrontabile qui con rapido cum gurgite. Il luogo enniano deve aver influenzato la menzione lucreziana dei venti, 1, 291 (flamina) quae veluti…, ora assimilati ai fiumi, i quali vertice torto / corripiunt rapidique rotanti turbine portant (vv. 293 s.) ~ rapido cum gurgite…/ retorquens, variante priscianea superiore al tràdito revolvens; vd. infra, s.v. revolvens. rapido cum gurgite numerosi casi di cum interposto tra aggettivo e sostantivo ad esprimere qualità; vd. Arat. fr. 33 contortis Aries cum cornibus e i frequenti riferimenti alla luce nel fr.

334 Altri casi aratei riporta Buescu 1966, p. 174 n. 4.

335 P. es., 1, 766 quam contra; 4, 608 quae circum e 1026 lacum propter; 6, 785 eas subter.

336 P. es., georg. 4, 30 haec circum; Aen. 6, 398 quae contra; 8, 418 quam subter e 671 haec inter; 12, 177 quam propter.

337 Norden 19263, pp. 226 s.

338 Vd. pure il rinvio di Serv. georg. 1, 245 a [Hes.] 293 M-W ποταμῷ ῥείοντι ἐοικώς, citato da Martin 19982, II, p. 171.

339 2 Martin 1998 , II, pp. 170 s.

340 Cupaiuolo 1984, p. 438.

66 34341, dove inoltre rifigura il fiume al v. 146 magnis cum viribus amnem, echeggiato poi da Lucr. 1, 287 molibus incurrit validis cum viribus amnis342. Di séguito, quest’articolazione arcaica343 si ripete riferita al fiume Tevere in Verg. Aen. 9, 816 ille (Thyber) suo cum gurgite flavo344, chiaramente riecheggiato da Sil. 16, 679 flaventem…sacro cum gurgite Thybrim. rapido aggettivo propriamente detto di fiumi e corsi d’acqua, ripetuto all’ablativo concordato con gurgite, ma senza cum, da Sen. Thy. 175; Luc. 5, 234 e Sil. 4, 629; 6, 163; 11, 507. gurgite ripetono l’ablativo singolare in quinta sede Arat. fr. 34, 422 quos tenet Aegaeo defixa in gurgite Chius345; progn. frr. 3, 7 cana fulix itidem fugiens e gurgite ponti; 6 caprigeni pecoris custos de gurgite vasto. Parola squisitamente poetica, fin dall’esordio in Lucil. 40 e gurgite salso, dove il termine già copre all’ablativo singolare la penultima sede esametrica, come regolarmente di séguito; dopo le quattro occorrenze ciceroniane, tutte conformi a quest’uso, le tre di Lucrezio346 e le cinque di Catullo347, con sporadiche diverse collocazioni da parte dei poeti successivi348. Ripete gurgite in quinta sede Manil. 1, 710 quas (undas) tortus verso movit de gurgite vertex349, dove il termine figura, come qui, in una

341 Vv. 28 e 155 tenui cum luce; 95 tenui cum lumine; 107 rutilo cum lumine; 136 clara cum luce; 154 evalida cum luce; 164 e 180 parvo cum lumine; 242 magno cum lumine; 277, 298, 323 e 389 claro cum lumine; 367 claris cum lucibus; 394 larga cum luce; 458 laeto cum lumine; altrove, tranne che in 132 magno cum pondere, il riferimento è al corpo: 87 ardenti cum corpore; 89 e 429 ingenti cum c.; 215 flexo cum c.; 365 claro cum c.; 462 toto cum c.

342 Munro 1886, II, pp. 57 s., cui rinvia pure Pease 1958, p. 810.

343 Naev. trag. 25 R.3 cum argutis linguis mutas quadrupedis; Enn. ann. 371 Sk. Hannibal audaci cum pectore; 507 quod tu tristi cum corde gubernas; 563 optima cum pulcris annis Romana iuventus; Caecil. com. 59 R.3 indomitis cum moribus.

344 Hardie 1994, p. 249, nota che l’uso di cum con un aggettivo e un possessivo è arcaico, rinviando ad Aen. 8, 72 tuque, o Thybri tuo genitor cum flumine sancto che è adattamento di Enn. ann. 26 Sk. teque pater Tiberine tuo cum flumine sancto.

345 Per la prima volta qui gurgite è concordato con un etnico, come poi Catull. 65, 5 Lethaeo gurgite e Verg. georg. 4, 387 Carpathio…gurgite; probabile dipendenza ciceroniana da Pacuv. trag. 421 R.3 in Aegaeo fretu; vd. Clausen 1986, p. 166.

346 4, 397 medio de gurgite; 5, 387 ex alto gurgite e 482 salso…gurgite.

347 64, 14 candenti e gurgite; 18 e gurgite cano; 178 gurgite lato; 183 gurgite; 65, 5 Lethaeo gurgite.

348 Vd. TLL VI. 2, 2360, 3-9.

349 Riporto il testo di Liuzzi 1990, pp. 108 e 200.

67 similitudine introdotta da veluti, nella quale Cicerone rileva la rapidità del fiume in analogia col sinuoso movimento del Drago; Manilio rileva invece il candore della schiuma del mare agitato, assimilato alla luminosità della Via Lattea.

2 torvu’ Draco sull’elisione di –s finale, attestata altre sei volte negli Aratea350, cf. Cic. orat. 161 quod iam subrusticum videtur, olim autem politius, eorum verborum, quorum eaedem erant postremae duae litterae quae sunt in optimum, postremam litteram detrahebant, nisi vocalis insequebatur: ita non erat ea offensio in versibus, quam nunc fugiunt poetae novi, testimonianza dalla quale emerge come simile fenomeno prosodico, aborrito dai poetae novi (con l’eccezione di Catull. 116, 8 dabi’ supplicium), non fosse avvertito come un arcaismo al momento della produzione degli Aratea351. Il termine draco, calco di δράκων adattato alla morfologia latina352, occorre a partire da un verso tragico ascrivibile alla Medea di Ennio o di Accio, trag. inc. 172 R.3 non commemoro quod draconis saevi sopivi impetum, in designazione del guardiano del vello d’oro ucciso da Giasone. Dietro il riferimento ciceroniano al guardiano dei pomi aurei delle Esperidi, ucciso da Ercole e poi catasterizzato da Era nella costellazione boreale353 (per il legame tra il Drago celeste e quello terrestre, cf. Arat. fr. 9, 6 optutum in cauda Maioris figere dicas [sc. Draconem] e Soph. fr. 1, 43 draconem auriferam optutu adservantem arborem), il termine passerà ad indicare sia questo specifico mostro (vd. TLL V.1, 2063, 35-44) sia questa determinata costellazione, in alternativa ad altre anguiformi come l’Idra e il Serpentario; in tal senso Draco, qui per la prima volta adoperato in senso astrale, suggerirebbe il legame mitologico con la vicina costellazione di Ercole354. Per l’espressione torvus Draco, cf. Verg. Aen. 6, 571 s. torvos…/...anguis, dove la variante tortos riflette il frequente accostamento etimologico tra

350 Frr. 22, 3 magnu’ Leo; 34, 25 elapsu’ repente; 92 lustratu’ nitore; 97 Aquiloni’ locatae; 121 Orioni’ iacet; 263 magnu’ Leo; Ewbank 1933, pp. 70 s., e Traglia 1950, p. 98.

351 Traglia 1950, pp. 96 e 99.

352 Le Boeuffle 1977, p. 98.

353 Secondo la versione mitica più diffusa nella letteratura greco-romana, cui si affianchi l’identificazione della costellazione col drago ucciso da Cadmo o col Pitone ucciso da Apollo; vd. sch. Arat. 45, p. 92, 7-10 M.; sulle varianti del mito, vd. Le Boeuffle 1996, pp. 55 s., il quale rileva inoltre che dall’immagine del Drago polare attorto intorno ad un albero, simbolo dell’asse rotazionale della sfera celeste, sarebbe poi derivata la rappresentazione medievale del serpente tentatore nel paradiso terrestre; ivi, p. 57 n. 17; aggiungerei che simile figurazione astrale ricalca la postura del guardiano delle Esperidi attestata in Lucr. 5, 32 ss. aureaque Hesperidum servans fulgentia mala, / asper, acerba tuens, immani corpore serpens / arboris amplexus stirpem.

354 Le Boeuffle 1977, p. 99.

68 torvus e torqueo355; Val. Fl. 8, 60 s. lumina torva draconis / aspicis, dove gli occhi luminosi del drago guardiano del vello d’oro, scambiati da Giasone col chiarore sinistro di una lugubre stella, richiamano l’associazione tra lo sguardo truce del Drago ciceroniano e le ardenti luci che risplendono dai suoi occhi, fr. 9, 3 e trucibus oculis duo fervida lumina flagrant; Mart. Cap. 2, 98, 4 et spiris torvo nituerunt astra Draconi. serpit il verbo, detto propriamente del serpente, è inoltre riferito allo snodarsi serpentino dei fiumi, sia celesti (l’Eridano di Arat. fr. 34, 150 e l’Idra di Arat. fr. 34, 215; 386; 478), sia terrestri (il Cidno di Tibull. 1, 7, 1; il Danubio di Ov. trist. 3, 10, 30), contribuendo così col revolvens di fine verso (o, meglio, col priscianeo retorquens) ad una contaminazione di campi semantici realizzata dal riferimento di entrambi i verbi ad ambedue i termini del paragone, il rettile e il fiume356. Ad indicazione di un movimento “tortuoso cursu”357, si considerino le cooccorrenze con torqueo in favore della plausibile genuinità della variante retorquens (vd. infra, s.v. revolvens): Ov. met. 3, 37 s. longo caput extulit antro / caeruleus serpens e 41 s. ille volubilis squamosos nexibus orbes / torquet, cui significativamente segue il paragone proprio col Drago che serpeggia tra le due Orse, v. 45 geminas qui separat arctos, e Lucan. 9, 822 s. ecce, procul saevus sterili se robore trunci torsit et immisit (iaculum vocat Africa) serpens. Per l’allitterazione della sibilante che si riverbera anche nel verso suggestivo, evocando così la sinuosità del serpente358, vd. poi Verg. Aen. 11, 753 s. saucius at serpens sinuosa volumina versat / arrectisque horret squamis et sibilat ore, esempio di “sigmatismos espressivo” già esperito per i serpenti che uccidono Laocoonte e i suoi figli, 2, 210 s. ardentisque oculos suffecti sanguine et igni / sibila lambebant linguis vibrantibus ora359. supter superaque traduzione di Arat. 46 περί τ’ ἀμφί τ’, nesso di matrice omerica ed esiodea poi imitato da Verg. georg. 1, 245 circum perque duas, il quale nella descrizione del Drago (vv. 244-246) contaminerebbe Arato con la relativa traduzione ciceroniana360 (vd.

355 Iodice Di Martino 1990.

356 Sul duplice referente di revolvens e di retorquens, Caldini Montanari 2000, p. 156.

357 Forcellini 1940, IV, s.v. serpo.

358 Pease 1958, p. 810.

359 Conte 2002, p. 14.

360 Thomas 1988, p. 110.

69 infra, s.v. sinus…flexos), e da Manil. 1, 305 has inter fusus circumque amplexus utramque361. Rispetto al modello, che evoca con la duplicazione dell’avverbio la doppia piega sinuosa del Drago362, Cicerone focalizza l’attenzione sulla posizione delle spire. In rapporto a supera, all’osservazione di Pease, secondo il quale questa variante tràdita da Prisciano e dal codice O meglio si accorda con l’usus ricavabile dagli Aratea363, si aggiunge ora la constatazione che con supraque Cicerone avrebbe qui violato eccezionalmente la regola da lui osservata di considerare breve la vocale seguita da muta + liquida364. revolvens in luogo dell’unanime lezione manoscritta, accolta da tutti gli editori, la Caldini Montanari365 sostiene la genuinità della variante priscianea retorquens, più adatta al tessuto fonico del verso, torvus…retorquens366, e atta a restituire il legame etimologico tra torvus e torqueo; torvus e retorquens, posti enfaticamente alle estremità dell’esametro, potenzierebbero allora gli occhi torti e quindi feroci del Drago, sui quali Cicerone insisterà nel frammento successivo col probabile intento di richiamare il legame etimologico tra draco e δέρκομαι367. A sostegno di retorquens, oltre a Germ. 49 immanis serpens sinuosa volumina torquet368, vd. ora sch. ad l., p. 60, 16 Breysig quem illa (sc. draconem Minerva) contortum caelo immiserit (cf. Hyg. astr. 2, 3 Minervam…adreptum draconem contortum ad sidera iecisse…eum inplicato corpore)369 e Stat. Theb. 5, 520 s. (sc. serpens) saevior anfractu laterum sinuosa retorquens / terga solo siccique nocens furit igne veneni, dove il nesso retorquens terga è raffrontabile con Arat. 216 haec (sc. Hydra) caput atque oculos torquens

361 Kidd 1997, p. 194.

362 Ibid.

363 Lo studioso cita come casi sicuri di evidenza manoscritta per supera i vv. 79, 309, 335, 339, 354 e 396 del fr. 34; dello stesso frammento, egli cita poi i vv. 19, 187 e 350, dove supera è generalmente accolto come emendamento.

364 Peck 1897, pp. 65 s.

365 Caldini Montanari 2000.

366 Cf. pure vv. 2 s. torvus…/…corpore, dove retorquens potenzierebbe l’effetto fonico di corpore in quinta sede rilevato da Chausserie-Laprée 1976, tramite opportuno raffronto, tra gli altri, con fr. 15, 2 corpore torto; su questi versi, ivi, pp. 134 s.

367 Caldini Montanari 2000, p. 158.

368 Ivi, pp. 154 s. Nel verso citato, la lezione torquet si oppone alla variante versat; vd. p. 154 n. 16.

369 Per il luogo iginiano, ivi, p. 155.

70 ad terga Nepai370; inoltre Verg. georg. 3, 433 s. (sc. anguis) exilit in siccum et flammantia lumina torquens / saevit agris (saevior ~ saevit; sicci ~ siccum; retorquens ~ torquens in clausola). Significativo Claud. got. 65 s. (Typhoeus) spiramque retorquens / lamberet attonitas erectis anguibus Arctos, dove l’immagine dei serpenti che, ritorti da Tifeo, lambiscono minacciosamente le due Orse sembra direttamente modellata sul Drago che si ritorce tra le due Orse quasi toccandole minacciosamente e suggerisce dunque la genuinità di retorquens. Il priscianeo retorquens ha inoltre il pregio di rendere adeguatamente Arat. 46 ἐαγώς il quale, detto del fiume dalla corrente sinuosa (p. es., Hdt. 1, 184 περὶ καμπὰς πολλὰς ἀγνύμενος)371, non solo è parallelo a v. 45 ποταμοῖο ἀπορρώξ, ma si presta anche ad un ulteriore rilievo della stretta dipendenza di Arato da Eudosso rilevata da Ipparco: l’arateo σπείρη “spira” (vv. 47; 50; 52) sostituisce infatti Hipparch. 1, 2, 3 καμπή “sinuosità di fiume”, detto per analogo contorcimento della spira del Drago, appunto372. L’analogia tra il fiume e il rettile celeste, la quale poggia evidentemente sulla sinuosità di entrambi, risulta dunque sciupata dal tràdito revolvens, al quale sarà da prediligere retorquens373. Cf. ora pure Q. Cic. fr. 1, 17 Bl. squama…torta Draconis, oltre all’Idra, altro rettile celeste, di Cic. Arat. fr. 34, 215 s. (Hydra) precipiti lapsu flexo cum corpore serpens. / Haec caput atque oculos torquens ad terga Nepai (ma vd. pure la costellazione del Serpente in Ov. met. 2, 138 tortum…Anguem) e al serpente di Mar. fr. 3, 5 (sc. anguem) quem se intorquentem lanians rostroque cruentans (Iovis…pinnata satelles, sc. aquila), raffronto utile qui per retorquens / sese, e di Hom. fr. 1, 11 vidimus immani specie tortuque draconem374.

370 In relazione alla superiorità di retorquens su revolvens per ragioni foniche, si noti che anche i versi sull’Idra, Arat. fr. 34, 216-218, sono caratterizzati da un marcato effetto ritmico, ottenuto in particolare con allitterazioni a vocale interposta variabile: vv. 216 torquens ad terga e 217 s. convexo…/ Centaurum…contingit; per maggiori dettagli, Ceccarelli 1985, pp. 76-78.

371 Kidd 1997, p. 194.

372 Cf. Aujac 1996, p. 213.

373 Cf. Caldini Montanari 2000, p. 156, «retorquens si addice…molto bene ad entrambi i termini del paragone: rettile e fiume, e si inserisce perfettamente nella traduzione del luogo arateo. Si deve certo aggiungere che il significato di revolvens non sarebbe molto diverso, anche se mi pare icasticamente meno efficace, indicando il tornar indietro delle spire dell’enorme rettile, laddove retorquens evoca meglio l’immagine del contorcimento»; diversamente Pease 1958, p. 810, «I accordingly here accept supera, without adopting retorquens, since Priscian was quoting primarly to illustrate the form supera, and retorquens is attested neither by the mss of the De natura deorum nor by any other passage in the Phaenomena».

374 Caldini Montanari 2000, p. 154.

71 3 sese per l’enjambement del pronome riflessivo, cf. Enn. ann. 106 Sk.; Arat. fr. 34, 461; Lucr. 3, 575; Sil. 16, 441. Con probabile riferimento al draco Andromedae imminens, Enn. scaen. 102 R.3 circum sese urvat…caput375 e, di nuovo per il Drago celeste, Vitr. 9, 4, 6 intorta replicataque se attollens reflectitur, dove risaltano sia intorqueo (cf. priscianeo retorquens) sia reflectitur (cf. sinus…flexos). A supporto qui di una plausibile dipendenza del pronome da retorquens, cf. Stat. Theb. 9, 803 sese…retorsit. La scelta della forma pronominale raddoppiata potrebbe essere dettata dalla volontà di richiamare con le estremità del verso, sese…flexos, Enn. ann. 200 Sk. sese flexere, tràdito peraltro da Cic. sen. 16 ed evocato in Arat. fr. 34, 282 s. flexu / se376. flexos lezione tràdita all’unanimità dai codici, ma avvertita come ridondante377 e quindi corretta da Grozio in flexo, stampato poi da Schaubach e da Buescu in base ad Arat. fr. 34, 215 (Hydra) flexo cum corpore serpens e 455 (Anguis) flexo de corpore. All’osservazione di Ewbank secondo la quale «to destroy ms. authority for such a reason seems unjustifiable»378, viene aggiunge il supporto di Verg. georg. 1, 244 maximus hic flexu sinuoso elabitur Anguis, dove, a proposito del Draco celeste, il nesso flexu sinuoso sarebbe stato suggerito dal ciceroniano sinus…flexus379. Rispetto al nesso ciceroniano Virgilio invertirà l’ordine del sostantivo e dell’aggettivo, quest’ultimo neoconio in –osus privo di precedenti380. Ora vd. pure Prop. 4, 6, 35 flexos…orbes con pari riferimento ad un serpente guardiano, il Pitone dell’oracolo delfico, e Ov. met. 9, 64 qui (sc. anguis) postquam flexos sinuavi corpus in orbes, dove al raffronto flexos…in orbes ~ sinus flexus si aggiunga corpus ~ corpore, entrambi in quinta sede e senza aggettivo; 15, 689 (sc. serpens) serpit humum flectitque sinus, rapportabile al ciceroniano serpit…revolvens / sese, conficiensque sinus e corpore flexos381 e

375 Vd. TLL III, 400, 29 s.

376 Jackson 2002, p. 153.

377 Probabilmente in ragione dell’equivalenza tra i sostantivi flexus e sinus, per la quale vd. TLL VI. 1, 910, 80-911, 8; tuttavia, non mancano casi di ridondanza in cui il sostantivo flexus si accompagna ad aggettivi quali sinuatus, sinuosus, tortuosus e tortus; ivi, 912, 14-18 e 19-20; da ciò l’opportunità di preservare il ciceroniano sinus…flexos.

378 Ewbank 1933, p. 134.

379 Caldini Montanari 2000, p. 154 n. 17.

380 Thomas 1988, p. 110.

381 Questi versi inaugurano nella poesia latina la marcata allitterazione della sibilante nella descrizione delle contorsioni del serpente; cf. Verg. Aen. 11, 753 (draco) saucius at sinuosa volumina versat e Germ. 49 immanis Serpens sinuosa volumina torquet; Possanza 2004, pp. 149 s.

72 raffrontabile per l’espressione sinus flectere - priva di paralleli secondo il commento ad l. di Bömer382 - con Manil. 1, 692 (orbis lacteus) suos sinuat flexus e 5, 14 fluminaque errantis late sinuantia flexus383.

382 Bömer 1986, p. 436.

383 Pease 1958, p. 810.

73 IX

Huic non una modo caput ornans stella relucet, verum tempora sunt duplici fulgore notata, e trucibusque oculis duo fervida lumina flagrant, atque uno mentum radianti sidere lucet; obstipum caput, a tereti cervice reflexum, obtutum in cauda Maioris figere dicas.

“A questo non fa luce un astro soltanto adornandone il capo, ma le tempie sono contrassegnate dal fulgore di due stelle, dai suoi truci occhi emanano due ardenti luci e il mento brilla di un’unica stella raggiante; diresti che il suo capo piegato, girato fin dal collo levigato, fissi lo sguardo sulla coda dell’Orsa Maggiore” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 107 eius (Draconis) cum totius est praeclara species, in primis aspicienda est figura capitis atque ardor oculorum “huic…dicas” Arat. 55-59 οἰόθεν οὐδ’ οἶος κεφαλῇ ἐπιλάμπεται ἀστήρ, / ἀλλὰ δύο κροτάφοις, δύο δ’ ὄμμασιν, εἷς δ’ ὑπένερθεν / ἐσχατιὴν ἐπέχει γένυος δεινοῖο πελώρου. / Λοξὸν δ’ ἐστὶ κάρη, νεύοντι δὲ πάμπαν ἔοικεν / ἄκρην εἰς Ἑλίκης οὐρην 5 a Ω : at Madvig, Traglia : ac R. Klotz 1 huic…caput espressione variata nel fr. successivo tramite poliptoto dell’incipitario dimostrativo e concordanza con caput (fr. 10, 1 hoc caput), la cui collocazione qui dopo cesura pentemimera riproduce quella di Arat. 55 κεφαλῇ. La fedeltà al verso greco passa inoltre attraverso la riproposizione della litote (non una modo…stella ~ οἰόθεν οὐδ’ οἶος… ἀστήρ) e il ricorso al composto verbale (relucet ~ ἐπιλάμπεται), entrambi in Arato di ascendenza omerica384. Proprio l’impronta omerica del dettato arateo potrebbe avere influenzato il ricorso ciceroniano sia all’arcaismo prosodico mŏdō (cf. Plaut. Pseud. 689; Lucil. 298; 448; 703; Lucr. 2, 941; 1135; 4, 1181 una mŏdō)385 sia al neoconio reluceo. ornans verbo di cui si registrano altre tre occorrenze in Cicerone poeta (Arat. fr. 34, 115; 306; 425), con ripetuto riferimento all’ornamento fornito dalla luce dei corpi celesti in Arat. 306 (sc. orbes) ornantes lumine mundum e poi nella prosa filosofica: Tusc. 1, 68

384 2 Sul confronto tra la litote aratea e quella di Hom. Il. 7, 39 e 226, Martin 1998 , II, p. 173; quanto ad ἐπιλάμπω, vd. LSJ, s.v., dal quale risulta come il verbo prima di Arato fosse stato adoperato soltanto da Hom. Il. 17, 650 (sole) e h. Merc. 141 (luna), distinguendosi dal semplice λάμπω per lo specifico riferimento al bagliore dei corpi celesti.

385 Pease 1958, p. 811.

74 nocturnamque caeli formam undique sideribus ornatam; nat. deor. 1, 22 mundum signis et luminibus…ornare; 2, 95 caelum totum…astris distinctum et ornatum. I tre luoghi prosastici sono preceduti da una chiara eco di questo particolare uso di orno in Lucr. 5, 695 (loca caeli) omnia dispositis signis ornata notarunt, per il quale, al rinvio di Bailey386 a Cic. Arat. 162 s. has ille astrorum custos ratione notavit / signaque dignavit caelestia nomine vero per l’impiego di noto in riferimento all’osservazione scientifica degli astri, si aggiunga Cic. Arat. fr. 9, 1 dove inizia l’uso di orno in riferimento agli ornamenti celesti387. Più tardi, oltre a Germ. 56 s. ardent ingentes oculi, cava tempora claris / ornantur flammis, mento sedet unicus ignis388, anche Apul. mund. 21 caelum…siderum facibus ornavit e Macr. Sat. 1, 19, 13 ambitus caeli stellarum luminibus ornatus. Per l’immagine ciceroniana del capo ornato, che arricchisce il semplice locativo di Arat. 55 κεφαλῇ, cf., p. es., Verg. ecl. 6, 68 (sc. pastor) floribus atque apio crinis ornatus amaro; georg. 3, 21 ipsae caput tonsae foliis ornatus olivae; Hor. carm. 4, 8, 33 (sc. Liber) ornatus viridi tempora pampino. relucet verbo inedito389 che, ripetuto poi in clausola in Arat. fr. 34, 9 e 219, rimarrà di scarsa diffusione in poesia, dove conserverà, come nei precedenti ciceroniani, la collocazione nella sede finale dell’esametro; p. es., Verg. georg. 4, 385; Aen. 2, 312 e 12, 300; Ov. met. 11, 617; epist. 13, 113390. In particolare, Sil. 4, 538 s. pone, improbe, quicquid / restat in ore fero et truncata fronte relucet riferisce il verbo a quanto di feroce rimane sul volto di Annibale e continua a rilùcere sulla sua fronte ferita, forse rievocando con frons relucens il ciceroniano caput…relucet. Con nuovo riferimento alla luce degli astri, vd. poi Apul. mund. 30 machinam…claram et sideribus relucentem.

386 Bailey 1947, III, pp. 1435 s.

387 I due luoghi ciceroniani sono portati a raffronto con Lucr. 5, 694 s. da Gee 2013 (a), p. 224.

388 Ewbank 1933, p. 134.

389 Traglia 1950, pp. 137 e 141, osserva che reluceo rientra in quella «serie notevole di verbi con prefisso, usati press’a poco col valore dei verbi semplici e alternati con questi…anche se con una sfumatura di maggiore intensità» e che con altri verbi affini, quali refulgere ed emicare, esso figura tra «i termini costanti di un identico motivo (sc. la luminosità delle stelle e dei gruppi stellari)».

390 Di Ovidio si segnalano due ulteriori occorrenze di reluxit, met. 7, 77 …exstinstaque flamma reluxit e 14, 769 (solis imago) reluxit; il perfetto viene però in entrambi i casi ricondotto a relucesco piuttosto che a relucere; Bömer 1976, p. 222.

75 2-3 verum tempora sunt duplici fulgore notata / e trucibus oculis duo fervida lumina flagrant ampliamento di Arat. 56 ἀλλὰ δύο (sc. ἀστέρες) κροτάφοις, δύο δ’ ὄμμασιν391, che espande in due versi interi la menzione di ciascuno dei due elementi aratei, ora elencati con variatio retorica: al chiasmo tempora…duplici fulgore notata segue il parallelismo trucibus oculis…fervida lumina.

2 duplici fulgore notata per la ripresa di duplex fulgor in riferimento alle due stelle localizzate sulle tempie del Drago, vd. Avien. Arat. 153 sed saetosa duplex adolet duo tempora fulgor. Per la ripetizione di fulgore in quinta sede esametrica, cf. Arat. frr. 13 e 32, 1. Per la clausola, cf. Arat. fr. 34, 249 Lacteus (orbis) hic nimio fulgens candore notatur e Lucr. 5, 612 circum se nullo qui sit fulgore notatus392; per il numerale, invece, Ciris 534 unum quem (Scorpionem) duplici stellarum sidere vidi393 e Manil. 2, 188 Arquitenens…duplici formatus imagine394. Si aggiunga ora la prossimità all’intero verso da parte di Manil. 1, 21 ad duo templa precor duplici circumdatus aestu, per la posizione in seconda sede di templa, al pari del ciceroniano tempora foneticamente affine, e per la clausola con participio perfetto e ablativo duplici + sostantivo.

3 e trucibus oculis duo fervida lumina flagrant l’insistenza sulla luminosità degli occhi del Drago è confermata pure da quanto precede l’autocitazione, nat. deor. 2,107 in primis aspicienda est figura capitis atque ardor oculorum, raffrontabile con la descrizione degli occhi dell’Idra in Arat. fr. 34, 479 oculorum ardentia lumina, esempio di uso ambiguo di lumen in àmbito astronomico per il duplice riferimento agli occhi dell’astro e alla luce da esso emanata395. Il risalto del dato luminoso passa inoltre attraverso il nesso fervida…flagrant: poiché sia fervidus sia flagro sono specifici per il sole e per costellazioni estive quali Sirio,

391 Secondo Ewbank 1933, p. 134, «a bold and successful expansion».

392 Ivi, pp. 134 e 189; Buescu 1966, p. 332, raffronta questa clausola con quella di Arat. fr. 34, 162 ratione notavit e 227 r. notari, presupponendone un’origine enniana.

393 Il verso è riportato nella forma tràdita dai manoscritti, che diversi editori correggono in unum quem duplici stellarunt sidere divi. Sostiene l’emendamento stellatum in luogo di stellarum e il mantenimento del tràdito vidi Salvatore 1984, pp. 239 s.

394 Vd. Lyne 1978, p. 319.

395 Vd. TLL VII 2.2, 1817, 62 s. Analogamente, in rapporto a oculus, vd. Le Boeuffle 1987, p. 202, il quale rileva che il termine, in casi di astrotesia, indica meglio di altre parti anatomiche la luminosità delle stelle.

76 Cancro e Leone396, il loro riferimento qui al Drago, situato nel segno invernale del Sagittario, sottolineerà come gli occhi del rettile celeste siano luminosi a tal punto da ardere a guisa delle costellazione canicolari. In rapporto a quest’ardente luminosità, cf. i bagliori di fuoco emanati dagli occhi del cinghiale di Acc. trag. 443 R.3 (aper) frigit saetas rubore ex oculis fulgens flammeo, dove figura la coppia allitterante fulgens / flammeo che Cicerone ripropone con fervida…flagrant. A partire dall’immagine ciceroniana, la figurazione del serpente dagli occhi di fiamma, già presente nella poesia greca397, sarà diffusamente ripresa dalla poesia latina successiva, da Verg. georg. 3, 433 flammantia lumina torquens (sc. anguis); Aen. 2, 210 ardentisque oculos suffecti sanguine et igni (vd. pure Culex 173 aspectuque micant flammarum lumina torvo); quindi Ov. epist. 12, 107 flammea…lumina (draconis); met. 15, 674 (serpens) constitit atque oculos circumtulit igne micantes; Sen. Herc. f. 218 s. igneos serpentium / oculos; Sil. 2, 586 ignea sanguinea radiabant lumina flamma; 6, 220 terribilis gemino de lumine fulgurat ignis398, ma senza trascurare Drac. Romul. 4, 22 flammea lux oculis (serpentis), dove i vv. 20-23399 compendiano degli elementi principali della topica ofidica. Alla descrizione ciceroniana del Drago più di tutti, comunque, si avvicina Culex 173 aspectuque micant flammarum lumina torvo400, in virtù della corrispondenze trucibus oculis ~ aspectu…torvo e fervida lumina flagrant ~ micant flammarum lumina401. Per trucibusque

396 Le Boeuffle 1987, pp. 135 s.

397 P. es., Eur. Ion. 1262 s.; Theocr. 24, 18 s.

398 In merito al motivo dei serpenti dagli occhi fiammeggianti o iniettati di sangue, ampiamente sviluppato dalla poesia latina, curiosamente Sauvage 1975, p. 245 n. 38, registra questi luoghi omettendo proprio Cic. Arat. fr. 9, 3.

399 Nam mihi reptanti tumida cervice dracones / Iuno duos misit, quis frontem crista tegebat, / flammea lux oculis pro spumis taetra venena, / sibila vibrabant lingua sub dente trisulcis.

400 Secondo il testo di Clausen – Goodyear – Kenney – Richmond 1966 e di Salvatore 1997.

401 Omette il precedente ciceroniano Seelentag 2012, la quale inoltre diverge dei precedenti editori stampando aspectusque micat flammarum lumine torvo. Questa risoluzione presenta tre limiti: 1. accoglie l’improbabile integrazione congetturale aspectus di Helm, che si scontra con l’attendibilità del nesso aspectuque…torvo e che in più sottrae al verso un’ordinata struttura circolare, per la quale cf. i vv. 93 iucundoque…somno; 143 ipsaeque…lentae; 222 sanguineique…orbes; 404 herbaque…Sabina; a ciò si aggiunga che l’iperbato a cornice tra aggettivo e sostantivo è particolarmente ricercato proprio nei versi che descrivono il serpente, vv. 163-200: v. 164 immanis…serpens; v. 168 squamosos…orbes; v. 183 parvulus…alumnus. 2. comporta l’inattesa concordanza di aspectus con mico, verbo riferito di regola agli occhi e ai corpi ignei, che dunque ben si accorderebbe qui col tràdito flammarum lumina; 3. perde ogni richiamo al verso ciceroniano, che si configura come capostipite della descrizione del serpente nella poesia latina.

77 oculis concordati in cesura, secondo un modulo espressivo già frequente in Ennio402, cf. Arat. fr. 34, 256 hunc sura laeva Perseus umeroque sinistro e 313 et quantos radios iacimus de lumine nostro403. trucibus aggettivo ampiamente attestato tanto in poesia quanto in prosa, a partire da Pacuv. trag. 3 R.3 con riferimento allo sguardo della tartaruga, brevi capite cervice anguina aspectu truci. Da notare che in rapporto ad animali, solo Pacuvio e Cicerone riferiscono l’aggettivo alla ferocia che si percepisce tramite la vista404; altrove trux è solito qualificare in senso più generale la ferinità animale405. È curioso notare che nel verso pacuviano vengono descritti della tartaruga la testa, il collo e la vista; tre elementi, cioè, che in ordine inverso – occhi, testa, collo – ritorneranno insieme nella descrizione ciceroniana del Drago. In particolare, la cervix anguina della tartaruga pacuviana è facilmente rapportabile al caput…cervice reflexum del Drago, il cui “collo ritorto” completa l’immagine ciceroniana dell’animale celeste. Dunque, il luogo pacuviano e quello ciceroniano condividono il medesimo impiego di trux e la descrizione, nei rispettivi animali, della testa, del collo e della vista. Si aggiunga che soltanto con Cicerone il nesso trux oculus figura riferito ad animale; altrimenti, l’espressione “(dallo) sguardo truce” è riferita di regola a persone, tanto in poesia406 quanto in prosa407, dove, dietro il riferimento alla testudo pacuviana e al draco ciceroniano, l’aggettivo si «specializza a designare uno sguardo che…assume caratteri di bestialità»408.

402 Jackson 2006, p. 228.

403 Su questi ed altri luoghi del lungo frammento di tradizione diretta degli Aratea ciceroniani, Shackleton Bailey 1994, pp. 18 s.

404 Schierl 2006, p. 110, per aspectu truci rinvia difatti soltanto a Cic. Arat. fr. 9, 3 Soubiran.

405 P. es., Plaut. Bacch. 1148 arietes truces; Prop. 3, 15, 38 trucis…bovis; Ov. met. 10, 715 trux aper; Val. Fl. 2, 73 truces…ursi; Apul. met. 5, 17 trucis bestiae.

406 Sen. Oed. 921 oculi truces. Töchterle 1994, p. 586, riconosce in oculi truces una iunctura poetica di matrice ciceroniana, la cui pregnanza nel passo è data dal suo riferimento ad Edipo qui paragonato ad un leone libico, in quanto il nesso è di regola riferito proprio ad animali; per espressioni simili, cf. Verg. Aen. 10, 447 iuvenis…truci…visu; Hor. epod. 5, 4 quid omnium vultus in unum me truces?; Lucan. 7, 291 conspicio faciesque truces oculosque minaces.

407 Liv. 2, 10, 7 truces minaciter oculos; Vell. 2, 100, 5 supercilio truci; Plin. nat. 11, 145 (oculi) truces; Tac. Germ. 4 truces oculi.

408 Caviglia 1990, p. 306.

78 flagrant verbo inedito, di séguito riferito agli occhi di fiamma; p. es., Catull. 64, 91 s. flagrantia declinavit / lumina409; Ov. met. 4, 347 flagrant…lumina; Sil. 8, 560 flagrabant lumina e 17, 409 dira flagrantia lumina flamma. Dopo Cicerone l’accostamento allitterante fervidus / flagro trova séguito solo con Virgilio, ma strutturato in maniera nuova, più complessa: Aen. 7, 397 s. ipsa (sc. Amata) inter medias flagrantem fervida pinum / sustinet e 9, 72 atque manum pinu flagranti fervidus implet (sc. Turnus)410. Nei due luoghi virgiliani la presenza del nesso flagrantem fervida e flagranti fervidus sottolinea da un lato «l’accostamento tra il furore bacchico di Amata e il furore bellico di Turno»411, nel comune denominatore del furor scatenato in entrambi i personaggi dalla Furia Alletto; dall’altro, la natura sinistra, quasi demoniaca, assunta sia da Amata412 sia da Turno413. È detto esplicitamente che il carattere mostruoso dei due personaggi passa attraverso gli occhi, rispettivamente 7, 399 sanguineam torquens aciem e 9, 731 continuo nova lux oculis effulsit. A conferma di tale evidenza, aggiungerei che diventa significativo l’impiego congiunto della coppia fervidus / flagro che, in quanto già riferita da Cicerone allo sguardo truce del Drago, con Virgilio diviene segnale di ferinità, che appunto si manifesta attraverso la vista.

L’allitterazione fervida…flagrant, di ascendenza arcaica414 e mirabilmente ristrutturata da Virgilio, scandisce la particolarità metrica del secondo emistichio del v. 3, dove quarto, quinto

409 Il verso è citato da Conrad 1965, p. 248, come esempio del valore enfatico assunto dall’aggettivo in quanto unito al sostantivo tramite enjambement e al verbo declinavit dal lento ritmo spondaico. Si aggiunga che declinavit è uno degli otto hapax legomena che realizzano, su un totale di 24 casi nel carme 64, clausola spondaica quadrisillabica ad iniziale consonantica, per la quale vd. Soubiran 1969 (b), pp. 336 s.

410 Il verso parrebbe riecheggiato poi da Stat. Theb. 10, 843 multifidam quercum flagranti lumine vibrat (sc. Capaneus).

411 Bocciolini Palagi 2007, p. 146.

412 Horsfall 2000, p. 275, individua nello sguardo iniettato di sangue di Amata una caratteristica propria delle Furie.

413 Hardie 1994, pp. 86 s., rileva l’affinità del gesto di Turno con quello dei Centauri di Eur. Her. 372 s. e la conseguente somiglianza di Turno a mostri mitologici, sottolineando come l’aspetto demoniaco del re dei Rutuli raggiunga il vertice nella sua apparizione ai vv. 731-735.

414 Precede il luogo acciano esaminato sopra, Plaut. Am. 1030 faciam ferventem flagris; ripetizione di analoga allitterazione trimembre in Enn. trag. 79 R.3 fana flamma deflagrata, dove si levano alte le fiamme dell’incendio di Troia.

79 e sesto piede sono costituiti ciascuno da una singola parola415, férvida lúmina flágrant (cf. Arat. fr. 34, 134 aéthera vértitur Árgo; 185 lúmina témpore tránat e 214 pártibus érigit Hýdra), per giunta all’interno di un verso olodattilico che costituisce una rarità nella poesia ciceroniana (cf. Arat. fr. 12; 34, 141; progn. fr. 4, 6; cons. 2, 65 e 73). I duo…lumina saranno inoltre ricollocati nel secondo emistichio e rimarcati da nesso allitterante in Arat. fr. 34, 175 e multis tamen is duo late lumina fulgent. Per la clausola lumina flagrant, cf. Ov. met. 14,847 (sc. sidus) decidit in terras a cuius lumine flagrans.

L’importanza del v. 3 dal punto di vista contenutistico (prima comparsa a Roma del serpente dagli occhi di fiamma), messa in ulteriore rilievo dal tessuto fonico e dalla peculiarità metrica, contrasta sensibilmente con l’osservazione di E. Panichi416.

4 radianti sidere radio è verbo a circolazione limitata e prevalentemente poetica; rientra nel «fondo linguistico poetico risalente a Ennio e agli arcaici»417, affiorando al participio perfetto in Ennio418 e in Accio419, con pari riferimento al sole, come poi Cic. Arat. fr. 23 radiantis (sc. Solis) e Lucr. 5, 462 radiati lumina solis e 700 radiatum insigne diei420. Riferito agli astri, dopo Cicerone il verbo ricorre, sempre in forme participiali, in Lucr. 4, 213 sidera… radiantia; Verg. Aen. 8, 23 radiantis imagine lunae; Ov. met. 2, 325 radiantia lumina; 4, 193 radiata…lumina; 7, 325 radiantia…sidera; 9, 272 radiantibus…astris; Stat. silv. 2, 1, 42 radiata…lumina. lucet rima quasi identica rispetto al composto relucet (vd. clausola v. 1), al pari del quale il verbo torna ad essere accompagnato dal numerale unus, v. 1 una…stella relucet ~ v. 4 uno…sidere lucet. Questo parallelismo da un lato bilancia la chiastica elencazione dei

415 Peck 1897, p. 64.

416 Panichi 1969, p. 5, «L’elocutio si fa ancor più adiposa al v. 3, puramente gratuito nella sua ampollosità in riscontro al semplice δύο ὄμμασιν (v. 56). Né riscatta questo verso, anzi lo sottolinea negativamente, l’allitterazione (fervida…flagrant)».

417 Traglia 1950, p. 83.

418 Il verso, probabilmente dell’Aiax, è citato da Cic. de orat. 3, 162 (=trag. inc. XXIV R.3) oculis postremum lumen radiatum rape.

419 Il verso, tratto dal Brutus, è citato da Cic. div. 1, 43 (=Brutus I 11-12 R.3) orbem flammeum / radiatum solis.

420 Per l’imitazione ciceroniana nel verso di Lucrezio, notata da Traglia 1950, p. 262, vd. supra, fr. 2, 2, s.v. insignia.

80 numerali (v. 1 una; v. 2 duplici; v. 3 duo; v. 4 uno), arricchita dal poliptoto di unus e dalla coppia duplex – duo; dall’altro rispecchia la parallela corrispondenza logica sia tra una stella e duo lumina sia tra duplici fulgore e uno sidere. Per la clausola sidere lucet cf. Arat. fr. 34, 37 lumine lucent, affine, oltre che ad Enn. ann. 148 Sk. lumina lucent421, a Plaut. Curc. 182 luce lucebit (cf. Cic. rep. 6,16 luce lucebat) e a Lucr. 5, 610 lampade lucens (per la ripetizione in clausola di fulgore notatus al v. 612, vd. supra, fr. 9, 2, s.v. duplici fulgore notata; cf. pure v. 613 radiorum col ciceroniano radianti)422.

5 obstipum aggettivo di limitato e quasi esclusivo uso poetico423, inizialmente Enn. ann. 265 obstipo lumine solis424 e 419 Sk. montibus obstipis obstantibus, quindi Cicerone e poi Lucr. 4, 516 omnia mendose fieri atque obstipa necesse est425. In riferimento al capo reclinato (obstipum c.), precedentemente Caecil. com. 99 R.3 resupina obstipito capitulo sibi ventum facere tunicula, poi Hor. sat. 2, 5, 92 stes capite obstipo, multum similis metuenti e Pers. 3, 80 obstipo capite et figentes lumine terram.

Al raro obstipum, attributo di caput, corrisponde il greco λοξός, di impego marcatamente settoriale426 e raramente riferito al capo oppure al collo; prima di Arat. 58 λοξὸν…κάρη, solo

421 Ewbank 1933, p. 156.

422 In proposito, Gee 2013 (a), p. 221, rileva come Lucrezio abbia presente, qui come altrove, questo luogo ciceroniano.

423 Non più di qualche occorrenza nella prosa imperiale: Colum. 7, 10, 1 obstipae sues transversa capita ferunt; Svet. Tib. 68, 3 cervice rigida et obstipa e per via congetturale Apul. Socr. 1 p. 118 radios solis obstipi (con. Ribbeck).

424 Traglia 1950, p. 74, nota che l’aggettivo «è di derivazione enniana, ma le due espressioni, quella di Ennio (ann. 283) e quella di Cicerone (Arat. fr. 9, 5), sono – naturalmente – del tutto diverse. Il primo allude agli obliqui raggi del sole che obstipo lumine tramonta, l’altro descrive il bel tornito capo del Serpente, inclinato in avanti da una parte (λοξός)».

425 Rinvia ai due luoghi enniani Bailey 1947, III, p. 1242.

426 L’aggettivo ricorre nel linguaggio astronomico, spesso unito a κύκλος, per indicare l’eclittica; in proposito, Dicks 1964, p. 47; nel linguaggio militare in riferimento all’ala della falange che si trova in posizione più avanzata; negli scritti di medicina in riferimento a vari organi e parti del corpo, ferite e bendaggi. In poesia, oltre alle occorrenze riportate sopra, si aggiungano Anacr. 75, 1; Ap. Rh. 4, 475 e Theocr. 20, 13 per il riferimento allo sguardo torvo. Si aggiunga, infine, l’accezione metaforica di “ambiguo” in riferimento soprattutto ad oracoli, da cui l’epiteto di Apollo Λοξίας. Per una sintetica rassegna delle varie accezioni e per l’etimologia di λοξός, Skoda 1991, pp. 389 s.

81 Tyrt. 11, 2 αὐχένα λοξὸν ἔχει e Thgn. 536 αὐχένα λοξὸν ἔχει427, dove la medesima espressione qualifica nel primo caso il collo obliquo di Zeus, nel secondo quello di uno schiavo. Ne discende che la rarità dell’espressione “(dal) capo inclinato”, impreziosita da una scelta aggettivale selezionata tanto in greco quanto in latino, conferisca risalto alla sua ricomparsa dopo Cicerone nei soli Orazio e Persio.

In particolare, Orazio riferisce l’espressione capite obstipo al capo inclinato dello schiavo Davo nella commedia, posizione remissiva da imitare maliziosamente per ottenere i favori e la cospicua eredità di qualche riccone. Considerato che gli interlocutori oraziani sono due personaggi greci, Tiresia ed Ulisse, e che per tale motivo la satira presenta diversi arcaismi428 e grecismi429, non sarà azzardato ipotizzare che con l’espressione capite obstipo Orazio guardasse proprio al ciceroniano obstipum caput che, in quanto traduzione dal greco, faceva rilùcere dietro obstipus il corrispondente λοξός. Per Orazio l’aggettivo greco presentava infatti il pregio di essere stato riferito già da Teognide al collo piegato di uno schiavo430 e di conseguenza il corrispondente latino obstipus diventava quanto mai appropriato in riferimento al capo reclinato del suo Davo.

Se si considera che obstipus è specifico in riferimento alla testa piegata, senza possibilità di alternativa con i sinonimi obliquus431 e inclinatus432, ne discende che il precedente

427 Curiosamente, riportando l’occorrenza teognidea il LSJ aggiunge «of a slave, as type of dishonesty», mentre l’intero passo, di séguito citato secondo la riproduzione del testo greco adottata per la traduzione da Ferrari 1989, pp. 158 s.: οὔποτε δουλείη κεφαλὴ ἰϑεῖα πέφυκεν / ἀλλ’ αἰεὶ σκολιή, καὐχένα λοξὸν ἔχει. / οὔτε γὰρ ἐκ σκίλλης ῥόδα φύεται ούδ’ ὑάκινθος, / οὔτε ποτ’ ἐκ δούλης τέκνον ἐλευθέριον “uno schiavo non sta mai col capo eretto, ma tiene sempre la testa storta e il collo di traverso. Come da una scilla non nascono rose o giacinti così da una schiava non può nascere un uomo libero”, suggerisce piuttosto che il capo abbassato e reclinato è connaturato alla condizione schiavile come segno di sottomissione, non di disonestà e di furba ambiguità. Vd. van Groningen 1966, p. 212, «c’est una constitution naturelle. Partout au monde la tête baissée est signe de soumission et de manque de dignité».

428 V. 9 pauperies; v. 10 ditescere; v. 11 privus; v. 31 gnatus; v. 36 paupero.

429 V. 7 apotheca; v. 92 similis metuenti. Su quest’ultimo, oltre a Pianezzola 1965, p. 194, vd. Traina 2 1969, p. 74 (=1991 , p. 97).

430 Fedeli 1994, p. 693, osserva che «l’arcaico obstipus è sinonimo di obliquus e, riferito alla testa, indica che essa è inclinata sul collo: era questa, d’altronde, la posizione dello schiavo secondo Teognide»; sul chiarimento di obstipus tramite i sinonimi obliquus e inclinatus, Kiessling–Heinze 196810, p. 294.

431 Di obliquum caput del serpente parla Plin. nat. 8, 36 obliquo capite speculatus invadat in fauces.

432 Stando a TLL VII.1, 948-949, risulterebbe tardivamente solo Physiogn. 115 inclinato…capite.

82 ciceroniano si candidi, insieme a quello di Cecilio, come modello diretto sia di Orazio sia di Persio, dove inoltre il termine rifigura nella stessa sede metrica ciceroniana.

In particolare, Persio riferisce il capo inclinato ai filosofi che, avulsi dalla realtà, si perdono nelle loro osservazioni e cogitazioni, quasi perforando il suolo con l’occhio indagatore della scienza. Persio (obstipo capite et figentes lumine terram) e Cicerone (obstipum caput…optutum in cauda Maioris figere) condividono l’associazione del capo reclinato con lo sguardo fisso ed immobile sull’oggetto di osservazione, tramite l’impiego dello stesso aggettivo obstipus in congiunzione col verbo figo. In Persio, per di più, l’arcaico obstipus si carica di una particolare valenza espressiva, che lo rende parola-chiave per l’esegesi dell’intero passo. In bocca al rozzo centurione, che qui descrive il comportamento dei filosofi secondo la figurazione che il popolino ignorante ha dello studioso, l’arcaismo diviene segnale linguistico di un comportamento desueto, arcaico come la parola che lo esprime e quindi risibile, rispetto a quello abituale del volgo comune. Senza dire che proprio nell’arcaismo proferito dallo zotico soldato sta tutta la vis del passo, che vuole polemicamente contrapporre all’opinione comune l’importanza profonda del sapere filosofico proprio come all’ignoranza del centurione si contrappone comicamente la sua dizione arcaica e quindi aulica433. Il contrasto è altresì accentuato dall’elisione del tribraco capite col successivo et, che rileva il linguaggio disarticolato del centurione nella trattazione di temi filosofici434. a tereti cervice reflexum atereti nei codici, impossibile e di controverso rimedio. Soubiran, come già Buescu, stampa a tereti, sulla scorta di Enn. ann. 483 Sk. caput a cervice revulsum, soluzione che presenta il duplice vantaggio di conservare sia il testo tràdito previa separazione di a da tereti sia il plausibile riecheggiamento ciceroniano di Ennio; contra metrum altri editori hanno stampato il semplice tereti, mentre altri ancora hanno rimediato con e tereti, et tereti, ac tereti435. Si aggiunga at tereti di Madvig, accolto e difeso da Traglia mediante raffronto con Lucr. 1, 35 tereti cervice reposta e Verg. Aen. 8, 633 tereti cervice reflexam,

433 In merito, Scivoletto 1956, p. 74, si limita ad osservare che obstipo capite è espressione già oraziana, anche se ne esclude l’uso in Persio con lo stesso valore, e che figentes lumine terram è una delle immagini più belle di tutta la satira; per obstipo capite rinvia al nostro verso ciceroniano, senza però rilevare la compresenza del verbo figo, Kissel 1990, p. 461; infine, Nikitinski 2002, p. 163, riporta soltanto lo scolio ad l., quod tacita et intenta cogitatione quasi obstupidi videantur; obstipo, id est inclinato et gravitatem simulante et cum obliquitate fixo.

434 Tordeur 1974, p. 360.

435 Per una sinottica rassegna delle diverse scelte editoriali, Buescu 1966, p. 282.

83 dove non c’è preposizione436, e sulla scorta di Arat. 58 λοξὸν δ’ ἐστὶ κάρη, νεύοντι δὲ πάμπαν ἔοικεν, dove Traglia legge nel secondo δέ valore avversativo437. Se da un lato non riesce difficile immaginare che atereti possa essere errore dovuto ad aplografia di at tereti, meno comprensibile diventa l’integrazione at col conforto di un presunto valore avversativo del δέ, particella che, quando ripetuta a breve distanza come in Arat. 58, assume piuttosto valore copulativo438; cf. Callim. fr. 110, 55 Pf. Inoltre, il valore copulativo del δέ di Arat. 58 trova conferma nella descrizione della testa del Drago in Avien. Arat. 164 at declive caput vertexque obliquior astri (sc. Draconis). Per questo motivo, non trascurabile diventa la risoluzione con congiunzione copulativa, che presenterebbe qui il vantaggio di correlare obstipus e reflexus in maniera tale che il secondo aggettivo fornisca del primo un’epesegesi, con aggiunta la specificazione dell’inclinazione della testa nel senso di una rotazione. Escludendo l’ac tereti di Klotz439 in considerazione del fatto che ac non figura mai con valore copulativo negli Aratea, rimane in alternativa l’et tereti di Minuziano440, a favore del quale cf. per la medesima collocazione metrica di et e per la coordinazione proprio di caput e cervice, benché in diverso giro di frase, progn. fr. 4, 9 demersit caput et fluctum cervice recepit.

Per questa via risulterebbe ancora più stringente il raffronto con Pers. 3, 80 obstipo capite et figentes lumine terram, dove la successione sillabica capite et riprodurrebbe per inversione un plausibile et tereti ciceroniano.

Per la clausola invece, cf. Verg. Aen. 10,535 s. reflexa / cervice e il nesso cervice reflexa di Ov. ars 3,779; Stat. Ach. 1,382; Coripp. Ioh. 6,402. Su tutti, però, vd. Manil. 1,334 molli cervice reflexus (cf. Verg. Aen. 11, 622 mollia colla reflectunt), dove l’espressione, parimenti riferita ad una costellazione anguiforme quale il Serpentario441, attesta, oltre al sopracitato Verg. Aen. 8, 633, l’articolazione di reflecto con ablativo semplice, il che dissuaderebbe dalla lettura a tereti di enniana memoria. L’accettazione di a + ablativo, richiesta dall’enniano revello ma anomala per il ciceroniano reflecto, costringe di fatto i traduttori a forzare il senso

436 Vd. anche Manil. 1, 334 respicit ille tamen molli cervice reflexus.

437 Traglia 1950, p. 85.

438 Il che si evince anche dalla traduzione di Kidd 1997, p. 77, «its head is slanted and looks altoghetheras if it is inclined…» (il grassetto è mio).

439 Klotz 1864, p. 74.

440 Vd. Buescu 1966, p. 282.

441 Vd. Liuzzi 1988, pp. 143 s.

84 letterale “piegato a partire da” in “piegato su”442, rendendo quindi preferibile la soluzione con ablativo semplice preceduto da congiunzione coordinante con relativa traduzione “il capo obliquo e ripiegato sul collo tornito”.

6 obtutum in cauda Maioris figere dicas specificazione aggiuntiva443 rispetto ad Arat. 58 s. λοξὸν δ’ ἐστὶ κάρη, νεύοντι δὲ πάμπαν ἔοικεν444 / ἄκρην εἰς Ἑλίκης οὐρήν, che parla più genericamente della testa del Drago protesa verso l’estremità della coda di Elice. obtutum…figere nesso inedito; precedente attestazione in Pacuvio del solo sostantivo, raro dopo Cicerone e maggiormente diffuso nel latino tardo, in specie cristiano445. Obtutus446 figura di regola in contesti in cui la fissità dello sguardo, rimarcata talora da verbi quali (de)figo e haereo447, è strettamente connessa ad uno stupore immobilizzante o ad una sensazione di paura. In particolare, Pacuv. trag. 395 R.3 quid me obtutu terres, mulces laudibus? è riferito allo sguardo immobile che incute paura, come qui con Cicerone, dove il Drago, coi truci occhi che risplendono di luci fiammeggianti, fissa minacciosamente con lo sguardo la coda dell’Orsa Maggiore. Alla minaccia subentra lo stupore con Verg. Aen. 1, 495 dum stupet obtutuque haeret defixus in uno (sc. Aenea), quindi Sen. Ag. 238 iacensque vultu languido optutus stupet? e Stat. Theb. 1, 490 ss. stupet omine tanto / defixus senior…obtutu gelida ora premit, laetusque per artus / horror iit. Si aggiunga la fissità dello sguardo nei momenti prossimi alla morte, come in Verg. Aen. 12, 666 Turnus…obtutu tacito stetit e Sil. 10, 263 torvoque obtutu labentem in Tartara Paulum.

442 Vd. Buescu 1966, p. 176, e Soubiran 1972, p. 160 n. 10.

443 Caldini Montanari 2000, p. 158, osserva che «optutum…figere dicas, espressione assai più precisa del νεύοντι…ἔοικεν riferito alla testa della costellazione da Arato (v. 58), vuole probabilmente richiamare il legame etimologico tra Δράκον (e quindi Draco) e δέρκομαι, di cui parlano varie fonti».

444 Sulla mancata resa ciceroniana del nesso ἐοικώς + participio presente, Caldini Montanari 1993, pp. 191 s.

445 Vd. TLL IX.2, 305-308.

446 A differenza di Soubiran 1972, p. 160, Buescu 1966, p. 177, e Traglia 19713, p. 67, prediligono la variante grafica optutum, tràdita dalla maggioranza dei codici.

447 P. es., Verg. Aen. 7, 249 ss. defixa Latinus / obtutu tenet ora soloque immobilis haeret / intentos volvens oculos; Sen. dial. 5, 4, 1 oculis..in uno obtuto defixis et haerentibus.

85 La singolare scelta ciceroniana di obtutus in luogo di oculi o lumina, frequentemente connessi al verbo figo nella poesia successiva a partire da quella augustea448, è coerente con la potenzialità che il termine ha di esprimere una componente minacciosa sulla scorta del precedente pacuviano e di completare, dandole risalto, la figurazione degli occhi truci del Drago (v. 3). Nella poesia ciceroniana il termine rioccorre in Soph. fr. 1, 42 draconem auriferam optutu adservantem arborem in riferimento al guardiano delle Esperidi, cioè al mostro che sarebbe stato catasterizzato, secondo la versione più diffusa nel mito, proprio nella costellazione del Drago. Come nel caso arateo, anche qui la menzione dello sguardo del drago è un’aggiunta rispetto a Soph. Trach. 1099 s., dove «la scelta di obtutus è determinata…dalla presenza della radice di tueor…che comporta l’idea di “custodia”»449. L’indicazione dello sguardo del drago celeste ritornerà in Avien. Arat. 158 flectitur et Helices caudam spectare videtur.

Maioris l’ellissi del sostantivo Arctis, attestata qui per la prima volta, ritornerà in Hyg. astr. 3, 1 e 2; Manil. 1, 301; Sen. Med. 696450.

448 P. es., Verg. Aen. 1, 482 fixos oculos; 11, 507 oculos fixus; Ov. met. 13, 541 figit…lumina; epist. 20, 242 lumina fixa; trist. 4, 2, 29 lumen…fixit; Sil 13, 822 oculos…fixos; Stat. Ach. 2, 25 oculis…fixis; Val. Fl. 7, 104 s. fixa…lumina.

449 Caldini Montanari 2000, p. 158 n. 39.

450 Le Boeuffle 1977, p. 83.

86 X

Hoc caput hic paulum sese subitoque recondit, ortus ubi atque obitus parti[m] admiscetur in una “Questa testa (del Drago) per breve tempo e repentinamente si nasconde qui, dove in un unico punto si confonde la levata e il tramonto” Testimonium : Cic. nat. deor. 2, 108 et reliquum quidem corpus Draconis noctibus cernimus “hoc…in una”; Hyg. astr. 4, 3 quicumque…ad ipsum caput Draconis habitant ita longo die utuntur ut ne tertia quidem horae pars in unaquaque nocte his obtingat. Itaque Aratus ait (…citantur 61 s.). Idem Cicero dicit “quod caput…in una” Arat. 61 s. κείνη που κεφαλὴ τῇ νίσσετται, ἧχί περ ἄκραι / μίσγονται δύσιές τε καὶ ἀντολαὶ ἀλλήλῃσι 1 Hoc Cic. Ω : Quod Hyg. Ω || subitoque recondit Cic. Hyg. Ω : subito aequore condit Grotius, Baehrens || 2 parti Camerarius, Kochanowski : -tim Cic. ω -te Cic. cod. M, Hyg. Ω || admiscetur Cic. Ω : -centur Hyg. Ω

Arato, in linea con Eudosso, parla della testa del Drago che col suo movimento arriva a toccare l’orizzonte, indicato come il punto dove le levate e i tramonti si confondono tra loro, senza mai scendere al di sotto di esso. Il movimento della costellazione (νίσσετται) viene reso da Cicerone con recondit, che aggiunge, rispetto al modello, l’indicazione della scomparsa del Drago al di sotto dell’orizzonte. L’aggiunta riflette la posizione di Attalo di Rodi, il quale, secondo la testimonianza di Ipparco, riteneva che la testa del Drago, posta un po’ più a sud del circolo artico, venisse appunto a trovarsi per breve tempo al di sotto dell’orizzonte451; Hipparch. 1, 4, 7 s. ὁ μὴν…Ἄρατος ἀκολουθῶν τῷ Εὐδόξῳ ἐπὶ τοῦ ἀεὶ φανεροῦ κύκλου φησιν αὐτὴν (sc. Δράκοντος κεφαλῆν) φέρεσθαι λέγων οὓτως· “κείνη…ἀλλήλῃσιν”. ὁ δὲ Ἄτταλος μικρῳ νοτιωτέραν αὐτὴν εἶναί φησι τοῦ ἀεὶ φανεροῦ κύκλου, ὥστε αὐτὴν ὑπό τὸν ὁρίζοντα βραχὺν γίνεσθαι χρόνον…οὐχ, ὡς ὁ Ἄτταλός φησι, νοτιωτέρα οὖσα δύνει βραχὺν χρόνον καὶ ἀνατέλλει ~ ciceroniano paulum452. Al concetto di brevità Cicerone somma quello di rapidità (subito), forse mutuato dall’accentuazione dei brevi istanti nei quali la testa del Drago sfiora l’orizzonte; sch. Arat. 62, p. 351, 18 s. Maass ὀλίγον…σφόδρα τοῦ ὁρίζοντος ἐπιψαύει453. Inoltre, l’idea che la testa del Drago si nasconda sotto l’orizzonte fa sì che in

451 2 Sulle diverse posizioni, Martin 1998 , II, pp. 176-178.

452 Pease 1958, p. 812.

453 Diversamente Panichi 1969, p. 6, confronta il solo paulum con lo scoliastico ὀλίγον…σφόδρα.

87 questo punto venga situata la confluenza delle levate e dei tramonti, il che fa convergere la resa ciceroniana con quanto espresso da Cratete di Mallo; sch. Arat. 62, p. 100, 3-4 M. ὁ δὲ Κράτης φησίν· ὑπό τὸν ὁρίζοντα μίξις (cf. ciceroniano admiscetur) ἀμφοτέρων (sc. δύσεως κ. ἀνατολῆς) γίνεται. Ciò corrobora l’idea che proprio Cratete possa aver influenzato Attalo in merito al tramonto della testa del Drago454, dato che Cicerone recepisce verosimilmente per questa via e che poi il traduttore arpinate aggiunge rispetto ad Arato.

2 ortus ubi atque obitus la duplice elisione455, ub(i) atqu(e), conferisce rapidità al ritmo, potenziando la coesione della coppia ortus…obitus, tenuta in rilievo pure dall’assonanza e dall’omoteleuto. La coppia ritornerà ripetutamente in Cicerone, Arat. fr. 34, 347; de orat. 1, 187; inv. 1, 59; div. 1, 106 (= Mar. fr. 3, 8 Soub.) e 128; fat. 17; nat. deor. 2, 19 e 153. In poesia Catull. 66, 2; Verg. georg. 1, 256; Ov. met. 15, 310; Manil. 1, 192 s.; Sen. Herc. f. 1060 s.; Herc. O. 1113; Stat. silv. 2, 7, 94; 5, 1, 81; 3, 243; in prosa, Apul. Socr. 2, 8; Plat. 1, 10 e 14; mund. 19. Tra le occorrenze poetiche, particolarmente significativo appare Catull. 66, 2 qui stellarum ortus comperit atque obitus, annoverato da Traglia tra gli esempi di richiamo nel c. 66 alla traduzione ciceroniana, Arat. fr. 10, 2 e 34, 347456. Benché il raffronto con le due occorrenze della coppia negli Aratea sia stato cassato da Marinone quale «appoggio, in verità assai debole, alla tesi che Catullo abbia “ricalcato qui l’espressione ciceroniana”»457, a supporto della ripresa ciceroniana ravvisata da Traglia nel verso catulliano si presta ora il riesame di Arat. fr. 34, 346 s. certas ipse notas caeli de tegmine sumes / ortus atque obitus omnis cognoscere possis. Cicerone rileva che dall’osservazione della volta celeste, con particolare riguardo alle levate e ai tramonti di ogni costellazione, è possibile trarre indizi certi. Il senso del passo avrà reso congeniale il riuso della coppia ortus…obitus nell’incipit catulliano, il quale esalta le capacità di Conone che, proprio perché esperto di osservazioni astronomiche (v. 1 magni dispexit lumina mundi), riuscì ad individuare in cielo una nuova costellazione, la Chioma di Berenice. Il che vorrebbe dire che attraverso la perizia astronomica, la quale annovera l’osservazione di ortus atque obitus, si approda a certae notae,

454 2 Martin 1998 , II, p. 177.

455 Pensando forse a questa elisione, Traglia 1950, p. 105 n. 2, annovera erroneamente il verso precedente (hoc caput hic paulum sese subitoque recondit) tra gli esempi di elisione di parola plurisillabica a finale giambica, come, p. es., Arat. fr. 34, 354 partem etiam supera atque alia de parte repulsa.

456 Traglia 1955, p. 438.

457 Marinone 1997 (b), p. 80.

88 ora corrispondenti alla scoperta della Chioma. Tra l’altro, anche l’agg. ciceroniano certus verrà ripetuto subito dopo, c. 66, 4 ut cedand certis sidera temporibus, mentre ille Conon…vidit (v. 7) richiama sia Cic. Arat. fr. 34, 162 ille astrorum custos sia cons. fr. 2, 15 (astrorum motus) vidisti. parti…in una a fronte dell’oscillazione tra partim dei codd. ciceroniani e parte di M e di Igino, Buescu458 e Soubiran accolgono l’emendamento parti del Camerarius e del Cochanovius, da preferire in quanto restituisce un arcaismo morfologico (cf. Arat. fr. 34, 76 nocti e 340 orbi)459 occorrente pure in Plaut. Men. 479; Lucr. 1, 1111; 3, 611; 4, 515; 5, 511 e 721; 6, 694 e 721; Manil. 2, 726 e 3, 395460. Al contrario, Traglia stampa il partim tràdito da tutti i codd. del De natura deorum, ad eccezione di M461. admiscetur in luogo del pl. admiscentur dei mss. di Igino sarebbe preferibile il sg., in quanto tràdito da tutti i mss. del De natura deorum e soprattutto lectio difficilior che «peut se justifier par l’idée d’unité que contient le vers»462. A favore del pl., invece, Arat. 62 μίσγονται; Germ. 63 tanguntur (cf. 441 s. videntur / occasus ortusque)463; la clausola di Verg. Aen. 12, 714 miscentur in unum464. A sostegno però del sg. vd. ora schol. Arat. 61-62, p. 100, 9-12 M. ἐκείνῃ τῆ ὁδῳ πορεύεται ἡ κεφαλῆ τοῦ Δράκοντος, καθ’ ἣν ἔχει συμβολὴν ἡ δύσις καὶ ἡ ἀνατολή, che si aggiungerebbe ai casi di traduzione degli scolî piuttosto che del testo arateo, casi più numerosi proprio nella prima parte degli Aratea per mancanza di familiarità con la tematica astronomica465. Dal punto di vista metrico, la clausola admiscetur in una costituirebbe l’unico esempio di epìtrito quarto (ādmīscētŭr) seguìto da baccheo o anfibraco (ĭn ūnā o ūnǎ), clausola infrequente già negli arcaici e generalmente evitata dai poeti successivi a causa della sua durezza466.

458 Buescu 1966, pp. 282 s., con rassegna delle diverse scelte editoriali.

459 Traglia 1950, p. 110.

460 Pease 1958, p. 812.

461 Traglia 1950, p. 110.

462 Soubiran 1972, p. 199 n. 14.

463 Buescu 1966, p. 283, a sostegno del pl. admiscentur da lui stampato.

464 Pease 1958, p. 812, il quale tuttavia riconosce nel pl. una lectio facilior.

465 Panichi 1969, p. IX.

466 Traglia 1950, p. 198.

89 XI

…defessa velut maerentis imago vertitur “la spossata figura ruota come fosse afflitta” Testimonium : Cic. nat. deor. 2,108 id autem caput attingens “defessa velut maerentis imago vertitur” Arat. 63 s. τῇ δ’ αὐτοῦ μογέοντι κυλίνδεται ἀνδρὶ ἐοικὸς / εἴδωλον Initium prioris versus dubium

Questo frammento e il successivo si riferiscono alla costellazione dell’Engonasi o dell’Inginocchiato, per lo più identificata con Ercole, la cui prossimità alla testa del Drago contribuisce a suggerire l’identificazione del Drago stesso con il drago guardiano delle Esperidi, ucciso appunto dall’eroe467. Della descrizione aratea della costellazione (vv. 63-70), incentrata sulla postura delle ginocchia, delle braccia e del piede destro468, avanzano solo due versi nella traduzione ciceroniana, utili a spiegare rispettivamente la posizione ed il nome della costellazione.

L’autocitazione in nat. deor. 2, 108 id autem caput attingens defessa velut maerentis imago vertitur ha diviso gli editori: da un lato, Ewbank, Buescu e Traglia accolgono nella versione poetica attingens, participio per il quale Buescu suppone un significato avverbiale del tipo di proxima, vicina, attigua tramite raffronto con l’inizio di Arat. 63469, a sua volta problematico470, ma per il quale gli scolî propongono il senso di “in prossimità di” con riferimento alla testa del Drago471; dall’altro, Soubiran rileva che l’accoglimento del solo participio, privo dell’oggetto id caput, rende la sintassi insostenibile, facendo dunque partire il verso da defessa e segnalando in alternativa la possibilità di escludere il solo autem e di

467 Per altre identificazioni, vd. sch. Arat. 65, p. 102, 1-5 M., e Rehm 1905, col. 2564.

468 Il riferimento al piede destro, ripetuto pure da sch. Arat. 69, p. 102, 16 M., fu criticato da Hipparch. 1, 2, 6 e 1, 4, 9, il quale specificò che fosse il piede sinistro dell’Engonasi, non quello destro, a sovrastare la testa del Drago; su questa puntualizzazione e, più in generale, sulle contraddizioni nei testi astronomici tra destra e sinistra, vd. Bakhouche 1997, pp. 150 s.

469 Buescu 1966, p. 283.

470 Τῇ δ’ αὐτοῦ Martin : τῆς δ’ ἀγχοῦ Kidd: τῆς δ’ αὐτοῦ sch. ad l.

471 Sch. Arat. 73, p. 100, 17 ss. M.; vd. pure Kidd 1997, p. 201.

90 stampare due versi lacunosi, iniziante il primo con id caput attingens, terminante il secondo con defessa velut maerentis imago472. Sempre in considerazione del fatto che attingens non possa stare senza oggetto, già Grozio corresse attingens in quod tangens, correzione alla quale si allinea la proposta id tangens di Pellacani, che spiega il prosastico id caput attingens come «alterazione dettata dalla volontà di chiarire l’antecedente del determinativo» e che supporta questo attacco del verso tramite raffronto con Ov. met. 4 ,646 id metuens e Stat. Theb. 1, 398 id volvens473. Per l’espressione caput attingens, cf. Arat. fr. 32, 1 s. huic (sc. Andromemedae) Equus…summum contingit caput. defessa…imago la nota di stanchezza, priva di parallelo in Arato, influenzerà la descrizione dell’ Inginocchiato in Germ. 65 haud procul effigies inde est defecta labore, 71 fessi e Avien. Arat. 202 s. post tergum Nixi pars volvitur, ac velut haerens / rursum defessi reseratur nuntia signi (cf. i ciceroniani vertitur e velut). Imago è affiancabile a termini quali simulacrum, facies, species ed effigies – questi ultimi due verranno adoperati rispettivamente da Manil. 1,316 e da Germ. 65 in riferimento all’Inginocchiato –, vocaboli che rinviano alla componente visuale che è alla base dell’astronomia e delle sue relative rappresentazioni figurative474. Esso tornerà in ultima sede esametrica in riferimento a costellazioni con Manil. 4, 306 e con Germ. 217; 635; 678, nonché con Avien. Arat. 172 in riferimento proprio all’Inginocchiato475. velut maerentis traduce Arat. 63 μογέοντι…ἀνδρὶ ἐοικὸς476, di ascendenza omerica477, cui poi corrisponderà Avien. Arat. 172 laboranti similis, dove al pari del modello greco il participio pone l’accento sulla fatica fisica478, piuttosto che sul senso di afflizione espresso dal

472 Soubiran 1972, p. 161 n. 1.

473 Pellacani 2013, p. 77.

474 Bakhouche 1997, pp. 147 s.

475 Cf. Le Boeuffle 1977, p. 61, e 1987, p. 153.

476 La iunctura ἐοικώς + participio presente sarà solo con Verg. georg. 3, 193 laboranti similis opportunamente resa con similis + participio presente, per influsso diretto del poeta di Soli sul Mantovano; Traina 1969 (=1991); Cicerone, invece, non traduce mai alla lettera la iunctura aratea; di conseguenza, mentre il nesso greco è funzionale a descrivere i corpi celesti in base ad un criterio di somiglianza con figure umane o animali, la resa ciceroniana perde questa mediazione, descrivendo le figure celesti come esseri reali. Un’attenuazione a riguardo è rappresentata proprio da questo frammento, oltre che da Arat. frr. 9, 6 obtutum…figere dicas e 34, 5 s. signum, Deltoton dicere Grai / quod soliti, simili quia forma littera claret; Caldini Montanari 1993, pp. 183-192.

477 Kidd 1997, p. 201.

478 Ibid., in merito al participio greco.

91 ciceroniano maereo, qui sostantivato479. Non sarà da escludere che simile patetizzazione volesse riflettere la componente emotiva di Arat. 63 κυλίνδεται, tradotto col successivo vertitur “ruota”. Il verbo greco infatti, qui inserito nella tessera omerica ἐοικώς + participio presente, proprio in Omero palesa il significato di “rotolarsi”, “struggersi per il dolore”, come, p. es., quello derivante dalla morte di Ettore in Il. 22, 414 e da quella di Agamennone in Od. 4, 541. Non a caso il verbo ritornerà in Arato riferito a due costellazioni “afflitte”, quali Cassiopea (v. 188) e Andromeda (v. 197). Sarebbe dunque da escludere nell’arateo κυλίνδω l’assenza di un doppio senso che qualifichi la costellazione sia sotto il profilo del movimento sia sotto il profilo della sua caratterizzazione480, laddove proprio il doppio senso permette di cogliere la pregnanza del ciceroniano maeror. Considerato inoltre il raro uso del verbo de rebus personatis481, esso contribuisce all’umanizzazione della costellazione, che si ripeterà per la mesta Andromeda, Arat. fr. 31. Il verbo tornerà riferito ad Ercole in Sen. Herc. O. 758, 764 e 1596, dove l’eroe passerà da soggetto addolorato a oggetto del dolore derivante dalla sua morte. vertitur il verbo è spesso adoperato in poesia al medio-passivo in riferimento a fenomeni celesti, tanto da occupare il posto più importante nella terminologia delle rivoluzione del cielo e degli astri482; vd. Enn. ann. 205 Sk., dove il verbo è posto ad inizio esametro, e la relativa ripresa in Verg. Aen. 2, 250; Cic. Arat. fr. 29, 1 e cons. fr. 2, 2, dove il verbo ritorna in enjambement; Lucr. 5, 510; Manil. 3, 308. Qui l’enjambement del verbo corrisponde all’enjambement del sostantivo in Arat. 64 εἴδωλον.

479 Su quest’uso del verbo, vd. TLL VIII, 41, 7-17.

480 Simile assenza rileva Kidd 1997, p. 201.

481 Vd. TLL VIII, 39, 76-84.

482 Le Boeuffle 1987, p. 268.

92 XII Engonasin vocitant, genibus quia nixa feratur “Sono soliti chiamarla Engonasi, perché si muove appoggiandosi sulle ginocchia” Testimonium : Cic. nat. deor. 2, 108 quam (sc. imago) quidem Graeci “Engonasin…feratur” Arat. 66 s. ἐν γόνασιν καλέουσι, τὸ δ’ αὖτ’ ἐν γούνασι κάμνον / ὀκλάζοντι ἔοικεν Engonasin ed. Romana : engonasiam vel engnosiam codd.

Engonasin la collocazione incipitaria viene qui mantenuta dietro Arato e poi riproposta da Manil. 5, 646483 e da Anth. Lat. 761, 9. Si tratta dell’unica occorrenza ciceroniana di questo calco morfologico, contro il calco semantico Nixus (cf. Arat. fr. 34, 45; 373; 400; 456; 460; per la corrispondenza tra i due termini, vd. Mart. Cap. 8, 838 Nixus…quem alii Engonasin dicunt), privo a quanto consta di precedenti – si direbbe dunque una sostantivizzazione del participio nixus qui adoperato – e destinato nei successivi scritti astronomici a coesistere con Engonasin484, di cui è tardivamente attestato per retroformazione il nominativo Engonasis (Mart. Cap. 8, 827)485. Alla traslitterazione Engonasin è affiancabile l’equivalente Ingeniculatus (Vitr. 9, 4, 5), mentre con Nixus (e Innixus di Germ. 673 e Avien. Arat. 205) sono raffrontabili delle perifrasi (oltre al ciceroniano genibus quia nixa feratur, vd. nisus in genibus di Vitr. 9, 4, 4 e nixa genu species di Manil. 5,645) che riflettono la denominazione della costellazione a partire dalle sue ginocchia flesse, come indicato già da Arato486, il quale riferisce l’assenza di una denominazione certa per questa costellazione487 (cf. Cic. Arat. fr. 34, 400 vacans vulgato nomine Nixus) e la conseguente derivazione del nome Engonasi dalla postura delle ginocchia, piegate dalla fatica (vv. 64-67). La traslitterazione Engonasin ritornerà spesso in perifrasi del tipo “is qui Engonasin vocatur” (o “dicitur”), a testimonianza

483 Qui l’incipitario Engonasin è correzione del Barth, confrontabile con En gonasi del Regiomontanus, rispetto a et gonas iu di M, et comas in di L, et comes in di GL2. Il nome in posizione incipitaria rivelerebbe la dipendenza di Manilio da Arato e da Cicerone, del quale ultimo Manilio riformulerà il genibus…nixa in 1,316 nixa…species genibus e 5,645 nixa genu species; così Liuzzi 1988, p. 141.

484 Cf. Traglia 1950, pp. 152 s.

485 Le Boeuffle 1977, p. 101.

486 Sulla trasparente etimologia di Arat. 66 Ἐγγόνασιν…ἐν γούνασι, Pendergraft 1995, p. 55.

487 Ciò indicherebbe l’origine non greca, ma probabilmente vicinorientale, della costellazione; vd. Kidd 1997, p. 200.

93 della sua non piena integrazione nella lingua latina488. Mentre in latino è sempre attestata la forma Engonasin, il testo arateo presenta la forma separata ἐν γόνασιν489, che crea con parallelismo strutturale un gioco etimologico (ἐν γόνασιν καλέουσι… ἐν γούνασι κάμνον), riprodotto da Engonasin…genibus in virtù del legame corradicale tra gli apofonici γόνυ e genu e chiarito nel suo valore epesegetico dal nesso causale quia, raffrontabile con Arat. 66 δέ. vocitant vd. supra, fr. 5, s.v. soliti vocitare. feratur vd. supra, fr. 3, 2, s.v. feruntur.

XIII Hic illa eximio posita est fulgore Corona “Qui venne collocata la famosa Corona di singolare fulgore” Testimonium : Cic. nat. deor. 2, 108 “hic…Corona” Arat. 71-73 Αὐτοῦ κἀκεῖνος Στέφανος, τὸν ἀγαυὸν ἔθηκε / σῆμ’ ἔμεναι Διόνυσος ἀποιχομένης Ἀριάδνης, / νώτῳ ὕπο στρέφεται κεκμηότος εἰδώλοιο

Si tratta della Corona Boreale, regolarmente identificata fin dagli Alessandrini con la corona di Arianna (Ap. Rh. 3,1003 e Callim. fr. 110, 59 s. Pf. = Catull. 66, 59 s.)490, quella che Dioniso avrebbe regalato ad Arianna e poi trasformato in costellazione a memoria perenne della sposa scomparsa. Secondo un’altra versione del mito, Arianna, andando in sposa a Dioniso, avrebbe ricevuto come dono nuziale da Afrodite e dalle Ore la corona che successivamente trovò posto in cielo come segno dell’amore del dio per la fanciulla491. I versi aratei definiscono il ruolo avuto da Dioniso nel catasterismo e la posizione della Corona alle spalle dell’Engonasi. Della traduzione ciceroniana residua soltanto questo verso, il quale aggiunge alla rapida menzione della costellazione il rilievo del suo eccezionale splendore. Per

488 Le Boeuffle 1977, p. 101.

489 Arat. 66 Ἐγγόνασιν è correzione del Bekker rispetto ad ἐν γόνασιν dei codd.; la seconda occorrenza 2 del nome (v. 669) è poi stampata da Martin 1998 , I, p. 40, nella forma Ἐνγόνασιν, priva però di paralleli.

490 Kidd 1997, pp. 204 s.

491 Sch. Arat. 71, p. 107, 4 s. M.

94 un esame della figurazione della Corona nella poesia latina successiva, vd. Approfondimenti, II. L’arte di cantare la Corona di Arianna. Da Arato ad Avieno.

Hic illa eximio posita est fulgore Corona l’incasellamento del nesso verbale (posita est) tra le cesure pentemimera ed eftemimera dà risalto al chiasmo di questo verso a struttura aurea492, riproposta poi per la medesima costellazione da Verg. georg. 1, 222 Gnosiaque ardentis decedat stella Coronae. Il Mantovano si discosta tuttavia dalla ciceroniana distribuzione a chiasmo dei due sostantivi e dei due aggettivi (ripetuta invece da Germ. 71 clara Ariadnaeo sacratast igne Corona) e aderisce alla più evoluta tipologia di verso aureo, nella quale i due sostantivi e i due aggettivi sono disposti in parallelo493.

Hic la posizione incipitaria riproduce fedelmente Arat. 71 αὐτοῦ, avverbio che quasi da prolettico anticipa la posizione, di séguito specificata, della Corona494: Arat. 73 νώτῳ ὕπο στρέφεται κεκμηότος εἰδώλοιο (sc. Στέφανος) ~ Cic. nat. deor. 2,108 atque haec quidem a tergo ~ Germ. 70 tum fessi supter costas atque ardua terga. illa precisa corrispondenza con Arat. 71 ἐκεῖνος, parimenti situato dopo l’iniziale avverbio di luogo. L’enfatico aggettivo omaggia la notorietà della Corona495, dovuta e alla celebrità del suo mito (vd., p. es., [Verg.] Lydia 49 notum Minoidos astrum) e alla sua facile individuabilità in cielo in virtù del semicerchio di stelle che la compongono496. Si direbbe che il dato della notorietà abbia condizionato l’uso dell’attributo clarus in alcune successive descrizioni della costellazione, dove esso si presta oltre che al significato di “luminoso, fulgente”, rapportabile al ciceroniano eximio…fulgore, anche a quello di “famoso”, raffrontabile col ciceroniano illa; vd. Ovid. met. 8, 177 s. ut…perenni / sidere clara foret; Germ. 71 clara…Corona e Manil. 5, 253 clara Ariadnae quondam monumenta Coronae.

492 La predilizione dell’Arpinate per il verso a struttura concentrica di fatto esclude dalla sua poesia il verso aureo “genuino”, con disposizione parallela delle due coppie degli aggettivi e dei sostantivi; per i dettagli, Conrad 1965, pp. 234-241.

493 Cf. georg. 1, 468 impiaque aeternam timuerunt saecula noctem, verso esemplificativo della più canonica tipologia di verso aureo (abVAB); Conrad 1965, p. 234.

494 Diversamente, Soubiran 1972, p. 199 n. 4, riferisce l’avverbio al verso precedente (Arat. 70), con conseguente errata collocazione della Corona tra il piede destro dell’Inginocchiato e la testa del Drago.

495 Vd. TLL VII.1, 344, 45-76 : 70, in riferimento al luogo ciceroniano.

496 Vd. Ewbank 1933, pp. 137 s., e Buescu 1966, p. 267.

95 eximio…fulgore l’espressione, apparentemente priva di parallelo nel modello greco, rappresenta di fatto un’epesegesi di Arat. 71 ἀγαυόν tramite lo scolio ad loc., p. 107, 9 s. M. ἀγαυὸν… τουτέστι λαμπρόν. Sull’attributo arateo, vd. Approfondimenti, II. L’arte di cantare la Corona di Arianna. Da Arato ad Avieno. Per fulgore in quinta sede, cf. supra, fr. 9, 2, s.v. duplici fulgore notata. Poiché Arat. fr. 34, 353 definisce la Corona stellis distincta, particolare riformulato poi da Manil. 1, 320 e 322 stella…distinguit497, la scelta di questo fulgore sarà raffrontabile con Arat. fr. 7, 2 stellis distincta refulget, detto dell’Orsa Maggiore.

L’amplificazione ciceroniana della componente luminosa della Corona, dotata nella realtà astronomica di stelle non particolarmente brillanti498, inaugura un’iperbole di successo nella poesia latina (p. es., Ovid. met. 8,180 dumque volat [sc. corona] gemmae nitidos vertuntur in ignes e Stat. silv. 1, 6, 88 Gnosiacae facem coronae), iperbole probabilmente dettata dalla celebrità del mito di Arianna e quindi della relativa costellazione499. Una simile esagerazione sarà riproposta da Catull. 66, 9 fulgens clare in riferimento alla Chioma, la quale in realtà risplende di stelle ben poco luminose500. Il nesso catulliano riformulerà analoghe iuncturae ciceroniane (cf. Arat. fr. 34, 107 s. claret /…refulgens; 137 s. fulgens / clari; 367 s.. claris cum lucibus… /…fulgens), col fine di enfatizzare la luminosità del ricciolo regale, ora assurto tra gli astri. posita est traduzione di Arat. 71 ἔθηκε, che conserva il suo primario valore di “porre”, “collocare” in contesti di astrotesia. Su tutti, vd. il catasterismo del ricciolo di Berenice, Callim. fr. 110, 64 Pf. ἔθηκε = Catull. 66, 64 posuit, dove all’osservazione che sia nel caso della Corona sia nel caso della Chioma la metamorfosi astrale avviene ad opera di una divinità, rispettivamente Dioniso ed Afrodite501, si somma ora il rilievo della ripetuta traduzione di τίθημι con pono in analogo contesto. Ciò è reso ancor più evidente dalla menzione della Corona di Arianna che ivi precede, Callim. fr. 110, 58-60 Pf. = Catull. 66, 58- 60502. Tra le frequenti attestazioni negli scolî aratei di ἄστρον ἔθηκε oppure ἐν ἄστροις ἔθηκε,

497 Liuzzi 1988, p. 135.

498 Leuthold 1942, p. 22.

499 Soubiran 1972, p. 199 n. 6.

500 Marinone 1997 (b), pp. 89 e 253.

501 Massimilla 2010, p. 492.

502 Ivi, p. 489, lo studioso osserva che «il fatto che nei vv. 59-62 Callimaco menzioni l’una accanto all’altra la Corona di Arianna e la Chioma di Berenice può avere prodotto una certa confusione tra le

96 utili a designare i catasterismi (p. es., sch. p. 73, 13; 109, 14sg.; 118, 6sg.; 219, 11 M.)503, vd. in particolare sch. Arat. 63-70, p. 190, 20 ss. Maass (=Eratosth. Catast. 5) ὁ Ζεὺς κρίνας τὸν ἆθλον μνήμης ἐν τοῖς ἄστροις ἔθηκε τὸ εἴδωλον, dal quale emerge come il catasterismo di Ercole sia avvenuto per la volontà di Zeus di ricordare la fatica compiuta dall’eroe nell’uccisione del guardiano delle Esperidi, proprio come il catasterismo della vicina Corona è conseguenza della volontà di Dioniso di ricordare la dipartita della sposa Arianna (Arat. 72 σῆμα ~ sch. Arat. 71, p. 106, 9 μνημόσυνον e 13 M. μνήμῃ). Per l’uso di pono in riferimento a corpi celesti, qui attestato per la prima volta, vd. poi Arat. fr. 34, 42 inde Fides posita et leviter convexa videtur in riferimento alla costellazione della Lira, notoriamente considerata trasformazione siderale della lira inventata da Mercurio, il quale dopo averla costruita la collocò in cielo, Arat. 270 ἔθετο504; Ov. met. 2, 173 quaeque polo posita est glaciali proxima Serpens; trist. 4, 3,3 (sc. Ursae) omnia cum summo positae videatis in axe (cf. Cic. Arat. fr. 34, 42 posita…videtur); Hyg. astr. 2, 24 (sc. Berenices) crinem in Veneris Arsinoes Zephyritidis posuisse templo.

Corona la collocazione in clausola verrà ripetuta in Arat. fr. 34, 351; 353; 409 e 448, nonché da Manil. 1,319 e Germ. 71. Il termine, calco di κορώνη che indica la “corona” per derivazione dal riferimento ad oggetti di forma ricurva, è attestato con valore astronomico a partire proprio dagli Aratea ciceroniani e da Catull. 66, 61505. Il corrispondente Στέφανος è invece attestato con riferimento alla Corona Boreale a partire da Epimenid. fr. 25 Diels.

due costellazioni: sarebbe cioè riconducibile al precedente callimacheo, piuttosto che a una vera e propria invenzione, l’erroneo posizionamento del Πλόκαμος ovvero Crinis (sic) di Arianna nel punto del cielo occupato dalla Chioma di Berenice (vale a dire accanto alla coda del Leone)».

503 Cf. Massimilla 2010, p. 493, e Harder 2012, p. 838.

504 La ripetizione della stessa forma verbale, posita est, per la Corona e per la Lira sembrerebbe riflettere la posizione simmetrica delle due costellazioni rispetto all’Inginocchiato e la loro associazione sul piano mitico, in quanto attributi caratteristici di Arianna e di Teseo rispettivamente, benché qui e nell’originale arateo si tratti della Lira di Ermes; sul legame tra le due costellazioni, Martin 19982, II, pp. 179-182.

505 Le Boeuffle 1977, p. 99.

97 XIV quem claro perhibent Ophiucum nomine Grai “(sc. il Serpentario) che i Greci con nome noto chiamano Ofiuco” Testimonium : Cic. nat. deor. 2, 109 atque haec (sc. Corona) quidem a tergo (sc. Engonasis), propter caput (sc. Engonasis) autem Anguitenens “quem…Grai” Arat. 74-76 νώτῳ μὲν Στέφανος πελάει, κεφαλῇ γε μὲν ἄκρῃ / σκέπτεο πὰρ κεφαλὴν Ὀφιούχεον, ἐκ δ’ ἄρ’ ἐκείνης / αὐτὸν ἐπιφράσσαιο φαεινόμενον Ὀφιοῦχον nomine Ω : lumine Mayor

Il frammento ha per oggetto la costellazione del Serpentario, per lo più identificato con Esculapio, il quale, non contento di guarire i malati, avrebbe cominciato a risuscitare i morti. Da qui l’ira di Plutone, che persuase Giove a trasformare Esculapio in una costellazione. In virtù dell’associazione tra il serpente, simbolo di vita e di eterna giovinezza, ed Esculapio, figura di guaritore per antonomasia, la costellazione ha la forma di un uomo che stringe tra le mani un serpente, dal quale egli rimane avvinto attorno alla vita506. quem il relativo, utile ad introdurre una proposizione che spiega la denominazione greca della costellazione, ha come referente Anguitenens (oltre che nel testimonium, il termine rioccorre in Arat. fr. 34, 260; 293; 358; 454), calco semantico del nome parlante Ὀφιοῦχος (vd. sch. Arat. 75, p. 110, 16 s. M. εἴρηται δὲ Ὀφιοῦχος ὅτι ὄφιν ἔχει καὶ φέρει)507, qui attestato per la prima volta e poi sdoppiato nelle sue due componenti, nominale e verbale, da Ov. met. 8, 182 qui (sc. locus) medius Nixique genu est Anguemque tenentis in riferimento al luogo celeste occupato dalla Corona, la cui collocazione tra l’Inginocchiato e il Serpentario riflette la posizione mediana ad essa riservata nella menzione aratea e ciceroniana delle tre vicine costellazioni. Dopo Cicerone, il calco morfologico Ophiucus verrà privilegiato a quello semantico Anguitenens, che ritornerà solo in Hyg. astr. 2, 14 Ophiucus. qui apud nostros scriptores Anguitenens est dictus, con notazione linguistica esattamente opposta a quella

506 Su altre identificazioni e sul simbolismo del serpente, vd. Frazer 1929, pp. 319-322; in sintesi, Le Boeuffle 1977, p. 198.

507 Inaccettabile, dunque, l’osservazione di Traglia 1950, p. 115, secondo il quale «Anguitenens è un ἅπαξ con cui si vuol rendere liberamente il greco Ὀφιοῦχος»; la sottolineatura è mia.

98 ciceroniana; Manil. 5, 389; Avien. Arat. 227 e 1218; Anth. Lat. 679, 5 e 761, 13508. Ancora più rari di Anguitenens, altri equivalenti latini come Anguifer, Anguiger e Serpentarius, per lo più attestati tardivamente509. Sul ricorso ciceroniano ad un calco semantico in precedenza mai attestato e seguìto dalla citazione del corrispondente greco, cf. Arat. fr. 34, 222 Antecanem Graio Procyon qui nomine fertur ~ 378 s. Procyon qui sese fervidus infert / ante Canem. claro…nomine la iunctura, attestata a partire da Acc. trag. 186 R.3, tornerà in Arat. frr. 16, 4 Arcturus nomine claro e 34, 38 magnum nomen signi clarumque. Nel primo caso, il nesso accompagna nuovamente un calco semantico (Arcturus) del nome parlante Ἀρκτοῦρος “guardiano dell’Orsa”, composto di Ἄρκτος “orsa” e οὖρος “guardiano”510, e nella iunctura spicca la presenza di clarus in virtù della notazione che Arturo risplende di raggi luminosi, stella micans radiis, Arcturus nomine claro (cf. Manil. 1,319 s. at parte ex alia claro volat orbe Corona / luce micans varia). In tal senso, l’aggettivo rinvierebbe con la sua polisemia sia all’evidenza del nome Arturo quale nome parlante, sia per enallage alla luminosità e alla fama della stella511. Quanto alla seconda occorrenza ciceroniana del nesso nomen clarum, Arat. fr. 34, 38, risalta il suo riferimento ad un’altra costellazione dal nome parlante, le Pleìadi, così chiamate per la loro indicazione del periodo di inizio e fine della navigazione (Πλειάδες < πλείω), benché nel contesto ciceroniano l’evidenza nominale sia celata dalla latinizzazione del calco Pleiadi in Vergiliae. In questo caso, dunque, clarus si riferirebbe pure alla facile intelligibilità della denominazione greca, oltre che alla più immediata celebrità della costellazione (Arat. 264 ὀνομασταὶ e sch. ad l., p. 209, 3 M. ὀνομασταὶ εἰσι καὶ ἐπίδοξοι), nota per la sua “segnalazione” del periodo adatto alla semina, Arat. 267 σημαίνειν ~ Cic. Arat. fr. 34, 38 signi. La funzione del nesso quale marker etimologico si aggiunge a rendere qui improbabile l’emendamento del Mayor di nomine in lumine. Ad esso, teoricamente possibile per il facile scambio nei codd. tra lumen e nomen512, osta già la corrispondenza del nesso medesimo non ad Arat. 76 φαεινόμενον, che tra l’altro significherebbe “chiaramente

508 La maggiore diffusione di Ophiucus rispetto ad Anguitenens, così come il ricorso ovidiano alla perifrasi Anguem…tenentis, rientrano nella tendenza augustea ad evitare composti nominali con forme participiali dal sapore arcaico; in proposito, Lindner 1996, p. 20.

509 Le Boeuffle 1977, p. 118; più dettagliatamente, Pellacani 2015.

510 Sulla problematica e improbabile derivazione di Ἀρκτοῦρος da Ἄρκτος e οὐρά nel significato di “coda dell’Orsa”, Le Boeuffle 1977, p. 96 nn. 2 e 3.

511 Buescu 1966, p. 178 nn. 3 e 5.

512 TLL VII. 2.2, 1810, 82.

99 visibile” anziché “luminoso”513, quanto piuttosto ad Arat. 76 αὐτὸν514; in proposito, Arat. 94 s. αὐτὸς /… Ἀρκτοῦρος ~ Cic. Arat. fr. 16, 4 Arcturus nomine claro515. perhibent…nomine per la iunctura, cf. Cic. Arat. fr. 34, 179 hae tenues stellae perhibentur nomine Aquai e 318 orbem signiferum perhibebunt nomine vero, dove si fornisce la corrispondenza tra il greco Zodiacum e il latino orbem signiferum, così come qui ad Anguitenens segue la denominazione greca Ophiuchus. Il verbo ricorre in contesti di equivalenza tra nomenclature greche e latine già in Enn. ann. 140 Sk. vento quem perhibent Graium genus aera lingua e Pacuv. trag. 90 R.3 id quod nostri caelum memorant, Grai perhibent aethera, come poi Lucr. 4, 369 aer id quod nos umbram perhibere suemus e 6,702 (sc. crateres) nominitant; nos quod fauces perhibemus et ora. Con riferimento a Grai, vd. pure Verg. Aen. 8, 135 ut Grai perhibent, dove il verbo, figurando in incidentale secondo un uso attestato già da Cic. Arat. fr. 34, 447 ut perhibent, riflette l’adesione del poeta ad una consolidata tradizione516, in linea col dettame callimacheo di non cantare nulla che non sia testimoniato, fr. 612 Pf. ἀμάρτυρον οὐδὲν ἀείδω. In tal senso, si considerino pure le occorrenze catulliane del verbo, circoscritte a c. 64, 76 e 124. Per il nesso perhibent…Grai, cf. anche Mela 1, 17 (quod mare) nos Tuscum, Grai Thyrrenicum perhibent. Sulla ripetizione del verbo pure nella prosa ciceroniana, vd. nat. deor. 2, 65 aethera…hunc perhibeto Iovem (cf. Enn. var. 54 s. V.2 istic est is Iupiter quem dico, quem Graeci vocant / aerem, nonché la citazione del sopracitato Pacuv. trag. 90 R.3 in nat. deor. 2, 91) e fin. 2, 15 ut Heraclitus “cognomento qui σκοτεινός perhibetur, quia de natura nimis obscure memoravit”, dove si noti la compresenza di memoro (cf. Pacuv. trag. 90 R.3 memorant), a sua volta diffuso nei riferimenti a terminologia greca; p. es., Enn. ann. 487 Sk. Musas quas memorant nosce nos esse Camenas, tra l’altro probabilmente preceduto da Grai alla fine del verso precedente517; Lucr. 1,830 s. homoeomeriam / quam Grai memorant; Prisc. periheg. 417 s. (sc. lapidem) quem Grai nomine vero / asbestum memorant.

Ophiucum dopo quest’unica occorrenza ciceroniana, qui attestata per la prima volta e collocata dopo cesura pentemimera come in Arat. 75, il termine ritornerà come hapax in

513 Kidd 1997, p. 207.

514 Buescu 1966, p. 283.

515 Pease 1958, p. 815.

516 Norden 19263, pp. 123 s.

517 Skutsch 1985, p. 650.

100 Manil. 1, 331 Serpentem magnis Ophiucus nomine spiris, dove l’estraneità del calco morfologico alla lingua latina è segnalata dalla ripetizione, ora al nominativo, dell’accusativo ciceroniano Ophiucum nomine in medesima sede esametrica518, e Sen. Med. 698. Diffuse, invece, le occorrenze del termine in Germanico519 e Avieno520, nonché nella prosa di Igino521, Vitruvio (9,4,4) e Marziano Capella522, a testimonianza della preponderante diffusione del grecismo in luogo del composto Anguitenens di colorito arcaico523. nomine Grai per la posizione in clausola, vd. Lucr. 2, 629 s. hic armata manus, Curetas nomine Grai / quos memorant Phrygios; 6, 908 (sc. lapidem) quem magneta vocant patrio de nomine Grai; Anth. Lat. 486, 32 s. accipe preterea, parvo quam nomine Grai / mnam vocitant nostrique minam dixere priores, sempre in contesti di equivalenza tra un termine greco e uno latino. In indicazione di un termine astronomico greco, il nesso si ripete, benché non in clausola, in Germ. 335 Sirion hunc Grai proprio sub nomine dicunt. Le occorrenze poetiche di Grai (vd. supra, fr. 6, 1, s.v. Graios) giustificano la scelta da parte degli editori di questa forma in luogo del Graii attestato nell’autocitazione ciceroniana, nat. deor. 2, 109.

518 Cf. Liuzzi 1988, p. 143.

519 Vv. 75; 80; 508; 592 e 676.

520 Arat. 205; 226; 237; 960; 1007; 1087; 1219 e 1308.

521 Astr. 2, 14; 3, 13; 14; 15; al.

522 8, 828, 312; 829, 313; 814, 317; al.

523 Le Boeuffle 1977, p. 118.

101 XV

Hic pressu duplici palmarum continet Anguem atque eius ipse manet religatus corpore torto: namque virum medium Serpens sub pectora cingit. Ille tamen nitens graviter vestigia ponit atque oculos urget pedibus pectusque Nepai.

“Questo trattiene con la stretta di entrambe le mani il Serpente ed egli stesso rimane avvinto dal tortuoso corpo di quello; e infatti il Serpente cinge l’uomo a metà del corpo, sotto il petto. Quello tuttavia, puntellandosi con tutto il suo peso, poggia le piante e con i piedi preme gli occhi ed il petto dello Scorpione” Testimonia : Cic. nat. deor. 2, 109 “hic pressu…Nepai”; Prisc. GL 2, 285 (de genet. –ai) qua frequenter veteres Romanorum poetae utuntur…Cicero in Arato “atque…Nepai” pro Nepae, id est Scorpii; Rab. Maur. 111, 619 Migne Cicero “atque…Nopai” pro Nopae, id est Scorpii Arat. 82-86 ἀμφότεραι δ’ Ὄφιος πεπονείαται, ὅς ῥά τε μέσσον / δινεύει Ὀφιοῦχον, ὁ δ’ἐμμενὲς εὖ ἐπαρηρὼς / ποσσὶν ἐπιθλίβει μέγα θηρίον ἀμφοτέροισιν, / Σκορπίον, ὀφθαλμῷ τε καὶ ἐν θώρηκι βεβηκὼς / ὀρθός 2 atque eius ω : eius et B2 (unde apogr.), ad vitandam prosodiam insolitam (de qua v. L. Mueller, De re metr.2, p. 320) || torto ω : toto A2, edd. multi : tortus Baehrens || 3 pectora Ω : -re edd. nonn.

1 pressu duplici palmarum il sostantivo pressus, che rimane una rarità524, verrà ripetuto da Cicerone in riferimento alla possente stretta delle mani e delle braccia di Ercole, con le quali l’eroe uccise il leone nemeo, Soph. fr. 1, 35 s. (sc. o…manus / …o lacertorum tori) vestrone pressu quondam Nemeaeus leo / frendens efflavit graviter extremum halitum?, nonché nella prosa di de orat. 3, 43 ipso oris pressu et sono e Tusc. 2, 54 animus intentione sua depellit pressum omnem ponderum525. Nell’indicazione del numerale, corrispondente ad Arat. 82 ἀμφότεραι (sc. χέρες), si rileverà la medesima ipallage aggettivale di fr. 6, 1 duplici de cardine vertex (con ripetizione di duplex all’ablativo singolare), ora enfatizzata dall’allitterazione della labiale sorda. Simile descrizione influenzerà direttamente Germ. 80 (Anguis) pressus utraque manu, medium cingens Ophiucum526 e Ov. fast. 6, 736 et gemino

524 Vd. TLL X 2.1, 1198, 73-75; 1199, 1-25.

525 Cf. Pease 1958, p.815.

526 Di allusione a Cicerone parla Maurach 1977, p. 347 n. 37.

102 nexas porrigit angue manus527, dove il numerale è trasferito dalle mani del Serpentario ai serpenti che ne avvinghiano i polsi, con una riformulazione dell’espressione ciceroniana paragonabile a quella che Ov. met. 9, 186 vosne, manus, validi pressistis cornua tauri? e 197 his elisa iacet moles Nemeaea lacertis opera per il suo Ercole rispetto all’Ercole di Cic. Soph. fr. 1, 33 ss. o ante victrices manus, / o pectora, o terga, o lacerto rum tori, / vestrone pressu quondam Nemeaeus leo, ricalcato più da vicino da Sen. Ag. 829 s. (sc. Herculem) te sensit Nemeaeus arto / pressus lacerto fulmineus leo, Herc. f. 225 pressus lacertis gemuit Herculeis leo e Herc. O. 1235 s. hisne ego lacertis colla Nemeaei mali / elisa pressi?528. Come il pressus dell’Ercole ciceroniano influenzerà la descrizione dell’uccisione del leone nemeo in Seneca tragico, così anche il pressus del Serpentario tornerà echeggiato dallo stesso Seneca, Med. 698 pressasque tandem solvat Ophiucus manus. Le due occorrenze ciceroniane del sostantivo pressus condizioneranno dunque la scelta di premo nella poesia successiva, al momento di esprimere la pressione delle mani tanto del Serpentario quanto di Ercole in lotta con il leone nemeo. Per il nesso duplici palmarum, da intendere nel senso di duplicum palmarum, cf. Verg. Aen. 1, 93 ingemit et duplicis tendens ad sidera palmas (nonché 9, 16 duplicis…palmas e 10, 667 duplicis…manus)529 e Avien. Arat. 1219 amborum capita et palmas geminas Ophiuchi. continet Anguem nella resa di Arat. 82, dove il verbo sottolinea la lotta tra il Serpente e il Serpentario che si affanna a stringere l’animale tra le mani530, il verbo ciceroniano, in virtù del valore intensivo del prefisso cum, potenzierebbe la fatica della stretta531. A tal proposito, cf. ora Avien. 235 ille (sc. Ophiucus) Angue manum consertam utramque, dove al ripetuto ricorso ad un composto di cum si associa il nesso manum conserere, tipico della lotta532 e quindi particolarmente idoneo per la costellazione in oggetto, il cui eterno scontro col

527 Vd. pure la descrizione di Ercole in Verg. Aen. 8, 289 monstra manu geminosque premens eliserit angues ~ Ov. epist. 9, 23 tene (sc. Herculem) ferunt geminos pressisse tenaciter angues ~ Claud. rapt. Pros. 2, 31 qui (sc. Hercules) timidae matri pressos ostenderit angues.

528 Herc. O. 1235 s. hisne ego lacertis colla Nemeaei mali / elisa pressi? combina Cic. Soph. fr. 1, 35 vestrone pressu quondam Nemeaeus leo con Ov. met. 9, 186 vosne, manus, validi pressistis cornua tauri? (fatica del toro di Creta) e 197 his elisa iacet moles Nemeaea lacertis (fatica del leone Nemeo).

529 TLL VI.1, 2269, 5-7 e 17-19.

530 Kidd 1997, p. 209.

531 Vd. Pellacani 2013, p. 85.

532 Vd. TLL IV, 416, 21-43.

103 Serpente è efficacemente descritto da Manil. 1, 336 semper erit paribus bellum quia viribus aequant. Il termine anguis, antica parola indoeuropea sviluppasi nella lingua religiosa e di prevalente impiego poetico533, ricorre in àmbito astronomico a designare tre diverse costellazioni anguiformi, il Drago, il Serpente e l’Idra; così Serv. georg. 1, 205 tres sunt angues in caelo, unus qui inter septentriones est, alter Ophiuchi, tertius australis. La collocazione a cornice di verso di Anguitenens, qui referente dell’incipitario hic, come il contesto dell’autocitazione chiarisce, e di Anguem verrà riproposta in Arat. fr. 34, 358 e 454, col probabile intento di rievocare la figura etimologica tra Ὀφιοῦχος e Ὄφις534. Per la collocazione in clausola del sostantivo Anguis, diffusa nell’esametro, vd. per la ripetuta forma all’accusativo Cic. Mar. fr. 3, 3 subrigit ipsa feris transfigens unguibus anguem.

2 atque eius ipse manet religatus corpore torto rispetto al testo arateo il verso costituisce un’aggiunta volta verosimilmente a riprodurre col chiamo (eius…corpore torto / ipse…religatus) l’intreccio tra le due costellazioni, intreccio che nei codici illustrati degli Aratea e di Igino verrà reso attraverso l’immagine del serpente intorto attorno al corpo e alle gambe del Serpentario535. L’espressione ad incastro proporrebbe inoltre nella vicinanza dei due pronomi (eius ipse) una «trasposizione “visiva” del contatto tra le due costellazioni»536. eius monosillabo per sinizesi, secondo un uso attestato negli scenici arcaici537 e riproposto poi da Lucrezio538. Non è da escludere che con simile arcaismo prosodico il traduttore latino abbia voluto rispondere ad Arat. 82 πεπονήαται539, epicismo che presenta l’allungamento della vocale in luogo della normale forma ionica πεπονέαται540. corpore torto il dettaglio della torsione si dirà derivato da Arat. 83 δινεύει, verbo che esprime movimento in forma circolare. Il nesso ciceroniano tornerà riferito ad un serpente in Verg. Aen. 5, 276 nequiquam longos fugiens dat corpore tortus, dove il raro sostantivo

533 DELL, s.v. anguis, e Le Boeuffle 1977, p. 118.

534 Cf. Pellacani 2013, p. 85.

535 Vd. Gundel 1939, col. 651, ll. 66 ss., e Pease 1958, p. 815.

536 Vd. Pellacani 2013, p. 85.

537 Vd. Traglia 1950, p. 165.

538 Bailey 1947, I, pp. 81 s.

539 Vd. Pellacani 2013, p. 85.

540 Kidd 1997, p. 209.

104 tortus541 in luogo del participio aggettivale appare modellato proprio su Cicerone poeta, Hom. fr. 1, 11 vidimus immani specie tortuque draconem e Soph. fr. 1, 43 s. haec (sc. manus) interemit tortu multiplicabili / draconem auriferam optutu adservantem arborem?, e sarà poi detto proprio del Serpente da Germ. 593 (Anguis) ultima cauda micat, tortus habet illa timendos. Per il nesso in esame, vd. pure Manil. 1, 332 dividit et torto cingentem corpore corpus, dove l’emendamento del tràdito toto in torto, apportato dallo Scaligero, illumina il passo maniliano di una reminescenza ciceroniana che ben si inserisce nella descrizione dell’Ofiuco, nella quale Manilio richiama in più punti l’Arpinate542.

3 virum medium Serpens…cingit virum medium è traduzione di Arat. 82 s. μέσσον /… Ὀφιοῦχον, nella quale virum, oltre ad eludere il grecismo, non funge solo da mero sostituto di eum, evitato nella poesia dattilica a partire da Ennio543, ma enfatizza anche l’alterità del Serpentario rispetto al Serpente544. Come già i due pronomi accostati nel verso precedente (eius ipse), anche qui dunque l’accostamento tra virum medium e Serpens torna utile a suggerire lo stretto contatto fra le due costellazioni. Per il nesso medium…cingit, vd. Enn. ann. 414 Sk. nox quando mediis signis praecincta volabit. In proposito, risulterà utile pure un raffronto metrico tra i due versi. In quello enniano alla cesura pentemimera ed eftemimera, che isolano signis, precede la tritemimera, che a sua volta isola mediis, il cui significato viene potenziato dalla collocazione a metà del verso. La successione delle cesure contribuisce così a porre in rilievo il nesso mediis signis, nel quale «entrambi i lessemi sono congiunti dall’omoteleuto in –is sotto ictus»545, mentre alla congiunzione in clausola di praecincta a volabit fa da contraltare l’iperbato di nox. Tornando ora al verso ciceroniano, si noterà parimenti la presenza di tutte e tre le cesure. Di queste le prime due rimarcano l’unità sintattica di virum medium, unità a sua volta congiunta dall’omoteleuto in –um sotto ictus e nella quale la ripetuta ricollocazione di medius al centro del verso ripropone la piena corrispondenza tra significato e incisione ritmica; cf. Avien. Arat. 237 flexilis et medium cingit spiris Ophiucum. La terza cesura rileva invece la centralità di Serpens che, benché postposto all’asse mediano del verso segnato dalla pentemimera, si pone al centro degli

541 Vd. OLD, s.v.

542 Liuzzi 1988, p. 143.

543 3 Norden 1926 , p. 185.

544 Buescu 1966, p. 267 n. 7.

545 Flores 2006, p. 417.

105 elementi della frase riferiti al Serpentario (virum medium Serpens sub pectora), bilanciandone così gli estremi di riferimento. Inoltre, la sequenza Serpens sub pectora cingit riverbera nel secondo emistichio ciceroniano quell’iperbato tra soggetto e verbo che nel verso enniano si presentava strutturato a cornice dell’intero verso, nox quando mediis signis praecinta volabit. L’anticipazione del ciceroniano virum medium sulle cesure tritemimera e pentemimera rispetto all’enniano mediis signis su pentemimera ed eftemimera si dirà ora dettato dalla volontà di riservare un rilievo ritmico anche a Serpens, incorniciato tra pentemimera ed eftemimera. La posizione di cerniera di medium e di Serpens, posti rispettivamente prima e dopo la cesura principale, potenzia così il contatto tra le due parole come riflesso verbale del contatto tra le due costellazioni, ad ulteriore sostegno di «un’iconica analogia tra verso e cielo in cui l’astrotesia si riflette nell’ordo verborum»546. Per quanto concerne poi l’uso di medius ad indicare la parte centrale del corpo, esso è limitato e per giunta circoscritto per lo più a contesti di combattimento547, in linea dunque con l’immagine della lotta delle due costellazioni; in proposito, vd. Enn. ann. 527 Sk. succincti gladiis, media regione (sc. corporis) cracentes e Verg. Aen. 10, 815 s. validum namque exigit ensem / per medium Aeneas iuvenem totumque recondit. Qui significativamente ritornano le cesure tritemimera, pentemimera ed eftemimera e in particolare, come già in Cicerone, a ridosso della cesura principale stanno i due protagonisti, Enea e Lauso, il che dà rilievo metrico al contatto Aeneas iuvenem, funzionale a giustapporre i due contendenti548. In merito al verso ciceroniano si può allora aggiungere che la contiguità tra virum medium e Serpens, oltre a riflettere il contatto tra le due costellazioni, suggerisce pure la contrapposizione tra il Serpentario e il Serpente in lotta tra loro. sub pectora la precisazione, assente in Arato, si configura sviluppo della spiegazione scoliastica di μέσος, aggettivo da intendere in senso lato in quanto la spira del Serpente si allenta all’incirca a metà delle cosce del Serpentario, sch. Arat. 82, p. 113, 7-8 M. μέσον δὲ ἀκουστέον ἐν πλάτει· σχεδὸν γὰρ εἰς μέσους τοὺς μηροὺς ἡ σπεῖρα κεχάλασται. Non è da escludere, dunque, che il traduttore latino abbia voluto accentuare il dettaglio della stretta del rettile che è particolarmente forte nella parte superiore del corpo del Serpentario, parte

546 Pellacani 2013, p. 86.

547 Vd. TLL VIII, 586, 9-13.

548 Harrison 1991, p. 266.

106 corrispondente alla vita e centro della figura posto subito sotto il petto549. Il nesso sub pectora, così stampato da Ewbank, Buescu e Soubiran in luogo dell’emendamento sub pectore del Baehrens accolto da Traglia, ritornerà soltanto in Lucan. 5, 116 e Val. Fl. 6, 603. In particolare, pectora si configura come plurale poetico, secondo un uso attestato a partire da Liv. Andr. fr. 40, 1 R.3 at celer hasta volans perrumpit pectora ferro, che, in traduzione da Hom. Od. 22, 93 διὰ δὲ στήθεσφιν ἔλασσε, ne riflette l’origine greca; così pure Cic. Soph. fr. 1, 34 o pectora ~ Soph. Trach. 1080 ὦ…στέρνα. Per questa via, in considerazione del fatto che ai plurali poetici negli Aratea corrispondono dei singolari nell’originale greco, si può dunque pensare che qui come altrove abbia agito il ricordo di Omero e dei tragici550. Del resto, negli Aratea l’articolazione di sub tanto con l’accusativo quanto con l’ablativo (vd. infra, fr. 22, 1) riflette l’arcaica articolazione di entrambi i casi con super e subter, derivanti dalla preposizione sub e solo più tardi regolarizzati col solo accusativo, come testimoniato dai grammatici Servio551 e Pompeo552. cingit il verbo tornerà riferito al serpente, oltre che in forma composta con Hyg. astr. 3, 13 Anguis…medium ut praecingens Ophiucum, in Germ. 80 (Anguis) pressus utraque manu, medium cingens Ophiucum, Manil. 1, 332 (Ophiucus) dividit et toto cingentem (Serpentem) corpore corpus, dove il poliptoto riproduce il contatto dei pronomi ciceroniani eius ipse, e Avien. Arat. 237 (Serpens) flebili et medium cingit spiris Ophiucum. Manilio adopererà il verbo per il Drago, 1, 306 dividit et cingit stellis ardentibus Anguis553. Cicerone invece ripeterà il verbo in relazione ai serpenti della Gorgone, Verr. 4, 124 Gorgonis os…cinctum anguibus; quindi Verg. Aen. 7, 658 cinctam…serpentibus hydram e Ov. trist. 4, 7, 11 s. ora Medusae / Gorgonis anguinis cincta fuisse comis.

4 s. nitens graviter… / urget pedibus nitens graviter traduce Arat. 83 εὖ ἐπαρηρὼς “ben saldo”, alla luce del quale al nesso ciceroniano si addice il senso di “puntellandosi,

549 Diversamente Pellacani 2013, p. 86, ritiene che la precisazione ciceroniana non discenda dallo scolio, ma che piuttosto rifletta l’iconografia della costellazione.

550 Vd. Maas 1973, pp. 573-577, cui rinvia TLL X 1.1, 908, 44.

551 GL IV 419, 27-29, in sub super et subter et accusativae sunt et ablativae; sed apud maiores nostros indifferenter ponebantur, id est nulla lege servata; 35 verum tamen aetas posterior super et subter accusativas fecit.

552 GL V 277, 1-3 super vero et subter hodie debent iungi accusativo; apud maiores nostros varie invenimus, et legimus sive accusativo sive ablativo iunctas.

553 Sul riferimento di Anguis a tre diverse costellazioni, vd. Liuzzi 1988, p. 139.

107 piantandosi con tutta la forza del peso”554. A sostegno dell’esclusione della concordanza dell’arateo εὖ ἐπαρηρὼς con ποσσίν del verso successivo555 si pone proprio la traduzione ciceroniana (nitens graviter ~ εὖ ἐπαρηρὼς; ποσσὶν ἐπιθλίβει…ἀμφοτέροισι ~ urget pedibus), nella quale il plurale pedibus, nonostante l’eliminazione del numerale arateo, ignora la puntualizzazione scolastica; essa, riportando il pensiero di Eudosso e di Ipparco (per l’esattezza, Hipparch. 1, 4, 15), precisa infatti come non tutti e due i piedi dell’Ofiuco poggiassero sullo Scorpione: sch. Arat. 83, p. 114, 3-6 M. Εὐδόξῳ δὲ καὶ Ἱππάρχῳ, ἀρχαιοτέροις οὖσιν Ἀράτου, οὐ δοκεῖ ἀμφοτέρους τοὺς πόδας βεβηκέναι [τοῦ Ὀφιούχου] ἐπὶ τοῦ Σκορπίου, ἀλλὰ μόνον τὸν ἕτερον. Di simile puntualizzazione farà invece tesoro Germ. 81 s. Scorpios ima pedum tangit, sed planta sinistra / in tergo residet, vestigia dextera pendent, al contrario di Avien. Arat. 238 s. (Ophiucum) quem super haerentem plantarum mole duarum / Scorpios. Per l’unione di graviter con participio vd. Cic. Mar. fr. 3, 4 (anguem) semianimum et varia graviter cervice micantem, mentre per la compresenza di urgeo cf. Soph. fr. 1, 8 (sc. vestis) urguensque graviter pulmonum haurit spiritus. Il verbo urgeo, che qui esprime la pressione risultante dallo stretto contatto tra la costellazione dell’Ofiuco e quella della Scorpione556, si riferisce inoltre ad un tipo di pressione esercitato in maniera continuativa; in tal senso il verbo ritorna in Cic. rep. 6, 21 australis ille (sc. cingulus terrae) in quo qui insistunt adversa vobis urgent vestigia557, dove risalterà la presenza di vestigia e di cingulus in rapporto qui ai vv. 3 s., cingit / …vestigia. Non è dunque da escludere che il poetico vestigia ponit /…urget pedibus voglia esprimere una pressione al contempo per stretto contatto e senza soluzione di continuità, idea presente nell’avverbio di Arat. 83 ἐμμενὲς, il quale inoltre «brings out the permanance of the »558. Per il nesso urget pedibus cf. Verg. Aen. 12, 748 (sc. Aeneas) insequitur trepidique pedem pede fervidus urget, mentre per la compresenza di ponit e di pectus cf. Ov. fast. 2, 803 (sc. Lucretia) effugiat? positis urguentur pectora palmis. Inoltre, in rapporto al nitens graviter del verso

554 Coglie nel segno la sola traduzione di Soubiran 1972, p. 162, «lourdement campé», contro quella di 3 Buescu 1966, p. 178, «il fait pourtant de gros efforts» e quella di Traglia 1971 , p. 68, «facendo grandi sforzi».

555 Kidd 1997, p. 209.

556 Vd. OLD, s.v., 1b.

557 Ivi, 1a.

558 Kidd 1997, p. 209. Da qui la seguente resa di Arat. 83-85: «he (sc. Ophiucus) constantly, with a good firm stance, tramples with both his feet the great monster Scorpion»; ivi, p. 79; la sottolineatura è mia.

108 precedente, cf. Lucr. 6, 558 s. (sc. ventus) urget / obnixus magnis speluncas viribus altas, dove il vento incalza premendo con forza irresistibile. vestigia ponit contro l’idea avanzata da Norden559 ed accolta da Buescu560 che si tratti di un poetismo desunto da Ennio, vd. il rinvio di Traglia561 a Cic. Phil. 3, 31 posuit vestigium, cui si aggiungano, p. es., fin. 5, 2 vestigium ponimus; Val. Max. 9, 1, 7 vestigia pedum ponerent; Sen. epist. 56, 7 vestigium ponitur.

5 oculos…pedibus pectusque in luogo di Arat. 85 ὀφθαλμῷ e di sch. Arat. 83, p. 114, 2 M. ἐπὶ τοῦ ὀφθαλμοῦ, il pl. oculos, ripetuto da Avien. Arat. 240 e da Arat. Lat. 85, trova riscontro in Hipparch. 1, 4, 15 ὁ Ἄρατος…φησι…(sc. Ὀφιούχον) βεβηκότα ἔν τε τοῖς ὀφθαλμοῖς τοῦ Σκορπίου, con probabile interpretazione del singolare arateo in qualità di plurale562. Di influsso ipparcheo sembrerebbe parlare pure l’interposizione di pedibus tra oculos e pectus, la quale riflette la posizione della gamba sinistra dell’Ofiuco tra la fronte ed il petto dello Scorpione, Hipparch. 1, 4, 15 τῇ δὲ ἀριστερᾷ μόνον κνήμῃ…μεταξὺ κειμένῃ τοῦ τε μετώπου καὶ τοῦ στήθους τοῦ Σκορπίου563; il pl. pedibus oscura però la distinzione ipparchea tra arto destro ed arto sinistro, tenuta invece presente da Germ. 81 s. Scorpios ima pedum tangit, sed planta sinistra / in tergo residet, vestigia dextera pendent.

Nepai parola di origine africana, probabilmente punica564, utile a designare tanto la costellazione del Cancro quanto quella dello Scorpione; Paul. Fest. p. 163, 12-13 Lindsay Afrorum lingua sidus, quod cancer appellatur, vel, ut quidam volunt, scorpios. Proprio la possibilità del duplice referente ha posto in dubbio il valore del termine in Plaut. Cas. 443 recessim dabo me ad parietem, imitabor nepam e in Enn. trag. 186 Jocelyn cum Capra aut Nepa aut exoritur nomen aliquod beluarum, secondo quanto testimoniato da Non. p. 211, 16-

559 Norden 19263, p. 182.

560 Buescu 1966, pp. 333 s.

561 Traglia 1950, p. 95.

562 Kidd 1997, p. 210; secondo Pellacani 2013, p. 88, «all’origine di tale scarto…si deve probabilmente aggiungere l’influenza della tradizione iconografica, che rappresenta entrambi gli occhi dello Scorpione».

563 Diversamente Pellacani 2013, p. 88, interpreta l’ordo verborum ciceroniano come un ulteriore riflesso dell’iconografia dell’Ofiuco, rappresentato con i piedi posti tra gli occhi ed il petto dello Scorpione. Si dirà ora che nella resa ciceroniana non sarebbe da escludere un’interferenza tra testo (ipparcheo) ed immagine.

564 Le Boeuffle 1977, p. 168.

109 17 L. dubium in utroque. nam vere nepa scorpius dicitur. Sta di fatto che in Plauto il termine si riferisce al granchio, piuttosto che alla costellazione del Cancro o a quella dello Scorpione. Nel caso di Ennio poi, dove è chiaro il riferimento astrale, v. 185 J. astrologorum signa in caelo quid sit observationis?, l’ambiguità del referente è risolta a favore dello Scorpione in considerazione del fatto che il verso enniano tornerà riecheggiato da Cic. nat. deor. 3, 40 stellas…beluarum nomine appellas, ut Capram, ut Nepam565, dove Nepa è chiaramente la costellazione dello Scorpione. Ciò conferisce valore aggiunto alla testimonianza di Enn. trag. 185-187 J. in Cic. rep. 1, 30, in rapporto al riferimento di Nepa in entrambi gli autori alla costellazione dello Scorpione566. In particolare, l’Arpinate privilegia nettamente al grecismo Scorpios (Arat. fr. 34, 77; 208 e 430) l’africano Nepa (Arat. fr. 34, 183; 278; 405 s.; 434). Per la clausola Nepai, vd. Arat. fr. 34, 216, dove però il termine indica il Cancro; 324 e 418. La preferenza dell’Arpinate per Nepa (attestato anche in prosa; oltre a nat. deor. 3, 40, vd. fin. 5, 42) sarà dovuta al fatto che il termine africano, entrato nella lingua latina molto prima rispetto a quello greco, fosse percepito a Roma come maggiormente integrato nella lingua patria567; in merito, vd. pure Lyd. De Magistr. 1, 42 τὸν σκορπίον οἱ Ῥωμαῖοι πατρίως νέπαν καλοῦσιν. Il genitivo arcaico in –ai, ben attestato negli Annales di Ennio, ritorna nove volte in Cicerone poeta568, per lo più in riferimento a nomi propri569. Nel Rudino inoltre simile arcaismo morfologico è quasi sempre collocato in clausola, per giunta con valenze particolari570. Parimenti qui Nepai, spostato in clausola rispetto all’incipitario Arat. 85 Σκορπίον, rivendica a sè la funzione speciale di solennizzare il trimembre nesso allitterante in labiale sorda, pedibus pectusque Nepai, corollando così a fine verso l’iterazione fonica iniziata alla fine del verso precedente con ponit e ora proseguita dopo il marcato omoteleuto in –us sotto ictus. La clausola bisillabica spondaica -ai, ripetuta con Nepai da Q. Cic. fr. 1, 10 Bl. e da Anth. Lat. 394, 11, tornerà poi spesso in Lucrezio prima di essere sensibilmente limitata nella poesia

565 Traglia 1950, p. 155 n. 7.

566 Pease 1958, p. 816.

567 Traglia 1950, p. 156.

568 Interessante notare come un terzo di queste occorrenze sia costituito da aquai: Arat. fr. 34, 179; progn. fr. 4, 1; Hom. fr. 1, 10. Analogamente in Lucrezio il sostantivo aqua, inquadrabile tra quelli ricorrenti nelle dimostrazioni per i quali viene privilegiata la forma in –ai, presenterà venti volte sulle trenta occorrenze al genitivo l’uscita arcaica; Zanardi 1932, p. 148.

569 Traglia 1950, p. 110.

570 Jackson 2006, p. 243.

110 augustea; il che ha portato a leggere nell’uso di questa terminazione arcaica in Cicerone e in Lucrezio uno degli elementi di stretta dipendenza dei due poeti da Ennio571.

571 Wreschniok 1907, pp. 13-15.

111 XVI

Arctophylax, vulgo qui dicitur esse Bootes, quod quasi temone adiunctam prae se quatit Arctum ̲ ̮ ̮ ̲ subter praecordia fixa videtur stella micans radiis, Arcturus nomine claro. Sub pedibus †profertur† finita Booti, Spicum illustre tenens, splendenti corpore Virgo. “Artofilace, che è comunemente chiamato Boote, poiché spinge dinanzi a sé l’Orsa come se fosse aggiogata al timone (di un carro)…sotto i suoi precordi si vede infissa una stella che risplende coi suoi raggi, dal nome noto di Arturo. Sotto i piedi di Boote, delimitata da essi, si muove la Vergine dal corpo splendente, che reca la luminosa Spiga” Testimonia : XVI, 1-2 Cic. nat. deor. 2, 109 Septentriones autem sequitur “Arctophylax…Arctum”; 3-4 Cic. nat. deor. 2, 110 Dein quae sequuntur : “Huic” enim Booti “subter…claro”; 5-6 Prisc. GL 2, 247 (de genet. –i nom. Graec.) idem (Cicero) in Arato “sub pedibus…Virgo”; 6 Cic. nat. deor. 2, 110 cuius subiecta fertur “Spicum…Virgo”; Serv. georg. 1, 111 dicimus autem et “hic spicus” et “hoc spicum”: Cicero in Arato “Spicum…Virgo” Arat. 92-97 Ἀρκτοφύλαξ, τόν ῥ’ ἄνδρες ἐπικλείουσι Βοώτην, / οὕνεχ’ ἁμαξαίης ἐπαφώμενος εἴδεται Ἄρκτου, / καὶ μάλα πᾶς ἀρίδηλος· ὑπὸ ζώνῃ δέ οἱ αὐτὸς / ἐξ ἄλλων Ἀρκτοῦρος ἑλίσσεται ἀμφαδὸν ἀστήρ. / Ἀμφοτέροισι δὲ ποσσὶν ὕπο σκέπτοιο Βοώτεω / Παρθένον, ἥ ῥ’ ἐν χειρὶ φέρει στάχυν αἰγλήεντα 2 temone ω : -ni H2, edd. multi || 3 Initium versus incertum, v. not. || 5 profertur ω : fertur codd. duo; versum mancum alii aliter correxerunt, v. not. || 6 tenens Cic. Ω Prisc. Ω : insigni Serv. Ω

Questo e i tre frammenti successivi sviluppano il mito della Giustizia, che da una primigenia fase di abitazione sulla terra, in perfetta armonia con la razza umana (età dell’oro), passò a ritirarsi sui monti a séguito della degenerazione dei costumi (età dell’argento) e, infine (età del bronzo), a fissare la sua dimora in cielo, dove si tramutò nella costellazione della Vergine. L’ampia trattazione del mito arateo (Phaen. 96-136)572 sarà riproposta da Germ. Arat. 96- 139573 e Avien. Arat. 273-352574.

572 Tra i numerosi contributi sul rapporto tra Arato ed Esiodo, con particolare riferimento al mito della Dike e delle cinque razze, vd. Gatz 1967, pp. 58-63; Schwabl 1972, pp. 342-356; Schiesaro 1996.

573 Per l’influsso esercitato su Germanico dalla virgiliana età dell’oro, contraddistinta dal regno di Saturno, Possanza 2004, pp. 128-145.

112 1 Arctophylax…Bootes l’equivalenza ripete esattamente quella di Arat. 92 Ἀρκτοφύλαξ, τόν ῥ’ ἄνδρες ἐπικλείουσι Βοώτην, con mantenimento dei due nomi alle estremità del verso, come poi Avien. Arat. 257 Arctophylax sive, ut veteres cecinere, Bootes; in rapporto pure al verso successivo, vd. Hyg. astr. 2, 2 ille, qui antea plaustrum sequens Bootes appellabatur, Arctophylax est dictus. La costellazione, oltre che col nome di Boote (cf. Manil. 1, 316 Arctophylax idemque Bootes), è chiamata anche Arturo, a partire dalla sua stella più luminosa; vd., p. es., Serv. georg. 1, 67 Arcturus…idem Arctophylax…idem Bootes; Hier. in Am. 5, 8 Arcturi…quem vulgo Bootem vocant; Mart. Cap. 8, 838 (Arcturum) quem alii Booten appellant. L’equivalenza tra Arctophylax e Arcturus si pone inoltre a conferma della più accreditata etimologia di Ἀρκτοῦρος quale “guardiano dell’Orsa”, supportata pure da sch. Arat. 91-95, p. 122, 3-5 M. ὁ αὐτὸς (sc. Ἀρκτοῦρος) καί Ἀρκτοφύλαξ, ἐπειδὴ τῆς Ἄρκτου φυλακτής. οὐρεῖν γάρ ἐστι τὸ φυλάσσειν. La denominazione Βοώτης è invece quella più antica (Hom. Od. 5, 272), di origine agricola, e riflette dello stretto legame del “Bovaro” con l’Orsa Maggiore, inizialmente denominata “Carro”575; vd. Hyg. astr. 2, 2 in initio…non Arctum sed Plaustrum nominaverunt576. Si noterà come i nomi “Orsa” e “Carro”, entrambi attestati in Hom. Il. 18, 487 e Od. 5, 273 Ἄρκτόν θ’, ἣν καὶ Ἅμαξαν ἐπίκλησιν καλέουσιν577, siano ivi messi in relazione temporale dal nesso ἐπίκλησιν καλέουσιν, che rileva l’anteriorità del nome “Carro” rispetto a quello di “Orsa”. Parimenti Arat. 92 ἐπικλείουσι, direttamente raffrontabile col nesso omerico, pone in rilievo l’anteriorità del nome“Boote” rispetto a quello di “Arctofilace”. La precedenza onomastica è pienamente restituita anche dalla traduzione ciceroniana, che con vulgo…dicitur riflette la maggiore antichità e la maggiore diffusione del termine Boote. Invece Arctophylax è la denominazione più tardiva, la quale, attestata a partire da Eudosso, risente del passaggio del nome di “Carro” a quello di “Orsa”578. Le due denominazioni verranno poste in alternativa tra loro, in rispettivo rispecchiamento della dicitura “Orsa” e “Carro”579, da Ov. fast. 3, 405 sive est Arctophylax, sive est piger ille Bootes, dove inoltre la cesura principale riparte i due nomi tra i due emistichi (per il sive, cf. Germ. 91 sive ille Arctophylax e Avien. Arat. 257 Arctophylax…sive Bootes). In àmbito

574 Dettagliatamente, Bellandi–Berti–Ciappi 2001.

575 Per il legame tra le due figure, spesso evidenziato dagli autori latini, Le Boeuffle 1977, p. 94.

576 Le Boeuffle 1977, p. 85 n. 4.

577 Kidd 1997, p. 181.

578 Kidd 1997, p. 213.

579 Frazer 1929, p. 94.

113 latino, accanto Arctophylax, traslitterazione di Ἀρκτοφύλαξ (lo stesso dicasi per Βοώτης >Bootes, che nella poesia latina successiva si stabilizzerà di regola in clausola) si svilupperà più tardi anche il termine Custos: Vitr. 9, 4, 1 e 5; Ov. fast. 2, 153; trist. 1, 4, 1; 11, 15580. vulgo…dicitur nesso affine a dici solet (cf. supra, fr. 5, s.v. soliti vocitare), introduce espressioni proverbiali in Ter. Andr. 425 s. verum illud verbumst, volgo quod dici solet, / omnis sibi malle melius esse quam alteri e Haut. 421 s. illud falsumst quod volgo audio / dici, diem edimere aegritudinem hominibus e successivamente diffuso soltanto in prosa; p. es., Cic. fin. 2, 105; Sen. contr. 1 praef. 11; Plin. nat. 18, 111; Quint. inst. 4, 5, 16. dicitur esse espressione che accompagna traslitterazioni latine di grecismi; cf. frr. 4, 2 dicitur esse Polus e 6 altera dicitur esse Helice, detto proprio dell’Orsa Maggiore di cui Arctofilace è appunto il guardiano.

2 quod quasi la posizione incipitaria del causale quod corrisponde esattamente a quella di Arat. 93 οὕνεχ’. La collocazione ad inizio di verso di quod quasi ritorna in Lucr. 1, 432 e Ven. Fort. carm. 1, 9, 10, dove il nesso accompagna come qui una denominazione invalsa nell’uso più antico; vv. 9 s. nomine Vernemetis voluit vocitare vetustas, / quod quasi fanum ingens Gallica lingua refert. temone adiunctam…Arctum i termini temo e Arctos sono disposti chiasticamente rispetto ad Arctophylax e Bootes del verso precedente: da un lato il timone, quale parte costitutiva del carro, rinvia per estensione al rapporto tra il Grande Carro, equivalente dell’Orsa maggiore581 (vd. Arat. 93 ἁμαξαίης…Ἄρκτου), e Boote (cf. Ov. met. 10, 447 flexerat obliquo plaustrum temone Bootes); dall’altro l’Orsa e il suo guardiano, posti a cornice dei due versi, si richiamano a specchio, riproponendo la stessa collocazione di Arat. 92 s. Ἀρκτοφύλαξ, τόν ῥ’ ἄνδρες ἐπικλείουσι Βοώτην, / οὕνεχ’ ἁμαξαίης ἐπαφώμενος εἴδεται Ἄρκτου. Temo figura inoltre riferito proprio al Carro celeste in Enn. trag. 188-191 J. quid noctis videtur? in altisono / caeli clipeo temo superat / stellas sublimum agens / etiam atque etiam noctis iter582, il che potenzia la corrispondenza tra l’Orsa Maggiore e il Grande Carro e l’immagine di Boote alla sua guida. Il participio adiunctam, che qui salda l’equivalenza tra

580 Le Boeuffle 1977, p. 94.

581 Ivi, pp. 85 s.

582 Ivi, pp. 86 s.

114 Orsa e Carro in parallelo con quella tra Arctofilace e Boote583, tornerà in forma semplice riferito all’Orsa in Ov. met. 2, 132 (sc. polum) effugit australem iunctamque aquilonibus Arcton, in significativa presenza di un carro, quello del Sole, sulla cui guida vengono qui impartiti consigli all’improvvido Fetonte. In virtù del ciceroniano quasi temone adiunctam, nonché di Nonn. D. 1, 25 ἁμαξαίῳ…κύκλῳ e 47, 252 ἁμαξαίης…Ἄρκτου (stessa sede metrica dell’identica espressione aratea), il neologismo di Arat. 93 ἁμαξαίης è più convincentemente da intendere come aggettivo584 piuttosto che come sostantivo585. Arctos è nel fr. ciceroniano la terza traslitterazione dal greco, qui per la prima volta attestata; vd. poi Arcti in Arat. frr. 22, 1 e 29, 1 e per l’ellissi del sostantivo, sempre al gen. sg., fr. 9, 6 in cauda (sc. Arcti) Maioris. L’accusativo Arctum segue qui la flessione latina, contro successive attestazioni dell’accusativo greco Arcton; p. es., Verg. georg. 1, 138 Pleiadas, Hyadas, claramque Lycaonis Arcton; Ov. met. 3, 595 Taygetenque Hyadasque oculis Arctonque notavi e 13, 293 Pleiadasque Hyadasque immunemque aequoris Arcton, dove il grecismo riflette il modello omerico, Il. 18, 486 s. Πληϊάδας θ’ Ὑάδας τε τό τε σθένος Ὠρίωνος / Ἄρκτόν θ’, ἣν καί Ἅμαξαν ἐπίκλησιν καλέουσιν e Od. 5, 272 s. Πληϊάδας τ’ ἐσορῶντι καὶ ὀψὲ δύοντα Βοώτην / Ἄρκτόν θ’, ἣν καί Ἅμαξαν ἐπίκλησιν καλέουσιν. Considerato che gli stessi versi omerici, Il. 18, 487 e Od. 5, 273 Ἄρκτόν θ’, ἣν καί Ἅμαξαν ἐπίκλησιν καλέουσιν, costituiscono pure il modello di Arat. 92 Ἀρκτοφύλαξ, τόν ῥ’ ἄνδρες ἐπικλείουσι Βοώτην (nonché di Arat. 27 Ἄρκτοι ἅμα τροχόωσι· τὸ δὴ καλέονται Ἅμαξαι)586, la novità ciceroniana di traslitterare dal greco il nome dell’Orsa si direbbe dettata dalla volontà di restituire l’inveterata denominazione greca. prae se quatit più che rendere Arat. 93 ἐπαφώμενος, participio indicante un tocco leggero e forse qui adoperato per indicare la vicinanza tra la mano di Boote e l’estremità della coda dell’Orsa Maggiore587 (vicinanza spiegata dallo scolio come un contatto quasi a scopo

583 Possanza 2004, p. 70 n. 40.

584 Martin 19982, II, p. 196.

585 Kidd 1997, p. 214.

586 O’Hara 1992, pp. 48 s., mostra come la connessione tra Hom. Il. 18, 487 ἐπίκλησιν καλέουσιν e Arat. 27 καλέονται e 92 ἐπικλείουσι fosse ben presente a Virgilio, il quale sostituisce al marker etimologico greco, ἐπίκλησις, l’equivalente latino nomen nell’etimologia delle Pleiadi da lui accolta in georg. 1, 137 s., navita tum stellis numeros et nomina fecit / Pleiadas, Hyadas, claramque Lycaonis Arcton.

587 Kidd 1997, p. 214.

115 difensivo, in virtù dell’equivalenza Arctofilace-Boote; sch. Arat. 91-95, p. 121, 17-19 M. [Βοώτης] τῇ δὲ ἀριστερᾷ ἐφάπτεσθαι δοκεῖ τῆς Ἁμάξης Ἄρκτου, καὶ ὥσπερ φυλάττειν αὐτήν), l’espressione ciceroniana chiarisce la denominazione di Boote nel senso di “colui che spinge avanti i buoi” (Arat. 91 ἐλάοντι ἐοικὼς; analogamente, poi, Lucan. 2, 722 flexi…plaustra Bootae), rapportabile alla rappresentazione dell’Orsa Maggiore come un carro tirato da buoi, in dipendenza dagli scolî aratei; p. 120, 6-8 M. βοωτεῖν δὲ τῆς Ἁμάξης τῆς λεγομένης Ἄρκτου, ὥσπερ τὰς ἐν αὐτῇ βοῦς ἐλαύνων. καλαύροπα φέρει ὅ ἐστι ῥόπαλον. L’immagine di Boote che guida il Carro tenendo nella mano destra una verga (p. 121, 15-17 M. ὁ Ἀρκτοφύλαξ, ὃν δὴ οἱ ἄνθροποι ἐπικαλοῦσι Βοώτην, ὅτι τῇ μὲν δεξιᾷ καλαύροπα φέρει) e che deriva dunque il nome da questa sua funzione (p. 122, 6-7 M. καλεῖται δὲ Βοώτης ὡς ἐοικὼς ζευγηλάτῃ καὶ μέλλοντι ῥαπίζειν τὴν Ἄρκτον “è detto Boote in quanto simile a chi conduce una coppia [di buoi] e si appresta a colpire con un bastone l’Orsa ”) passerà poi in Manil. 1, 316 s. a tergo nitet Arctophylax idemque Bootes, / quod simili iunctis instat de more iuvencis588, il quale ripete l’incipitario quod ciceroniano riformulando l’ ἐοικώς + dativo di Arato e dello scolio in simili…de more; Germ. 90 inde Helicen sequitur senior baculoque minatur (cf. 139 tardus in occasu sequitur sua plaustra Bootes); Avien. Arat. 259 s. (Bootes) at licet instanti similis similisque minanti / terga Helices iuxta premat arduus, haud tamen umquam, con fedele riproduzione del nesso greco ἐοικώς + participio al dativo tramite similis + participio al dativo dei verbi precedentemente adoperati da Manilio e da Germanico: Avien. instanti ~ Manil. instat; Avien. minanti ~ Germ. minatur. Quanto al ciceroniano quatit, il verbo registra la sua prima occorrenza proprio in riferimento a bestiame, Enn. ann. 169 Sk. balantum pecudes quatit, omnes arma requirunt, tornando poi riferito all’Orsa in Q. Cic. fr. 1, 19 Bl. (Arcera) magna quatit stellas, quam servans serus in alta (con ripetizione al v. successivo della clausola di Arat. fr. 34, 394 cum luce Bootes) e, per traslato, in Val. Fl. 5, 272 (Perses) signa gerens omnemque quatit rumoribus Arcton, dove Perse, nella guerra contro Eeta, smuove a suo favore tutto il nord.

3 ̲ ̮ ̮ ̲ così Soubiran, il quale, tenendo conto della luminosità di Boote espressa nel primo emistichio di Arat. 94 καὶ μάλα πᾶς ἀρίδηλος, avanza la possibilità di un genitivo iniziale - fulgentis oppure illustris - da rapportare a praecordia, oppure di un nominativo

588 Così il testo tràdito, contro l’interposta integrazione di Goold; una puntuale rassegna delle diverse posizioni a riguardo sia del testo tràdito sia dell’integrazione in Caldini Montanari 1993, pp. 196-198.

116 seguìto da congiunzione, del tipo lucidus, et oppure splendidus, et589. Al contrario, l’incipitario huic, tràdito da Cic. nat. deor. 2, 110 e stampato sia da Buescu590 sia da Traglia591 con successiva integrazione di vero, ha alta probabilità di appartenere all’inserto poetico dell’autocitazione in prosa; esso figura infatti negli Aratea 4 volte ad apertura di verso (frr. 9, 1; 20, 1; 32, 1; 34, 7), per di più riferito come qui al particolare fulgore dell’astro di turno. Su tutti, fr. 20, 1 s. huic supera duplices umeros adfixa videtur / stella micans tali specie talique nitore, dove l’incipitario possessivo è seguìto da supera…umeros, affine al nostro subter praecordia, con uguale ripetizione dell’enjambement dei vv. 3 s., fixa videtur / stella micans ~ adfixa videtur / stella micans. subter praecordia la localizzazione di Arturo nella parte sottostante ai precordi di Boote, piuttosto che al di sotto della sua cintura (Arat. 94 ὑπὸ ζώνῃ), discende da sch. Arat. 94, p. 121, 4-5 M. [Βοώτης] ἕνα [ἀστέρα] δὲ ἔχει ἐν μέσῃ τῇ ζώνῃ [sc. Ἀρκτοῦρον], con esito in Manil. 1, 318 Arcturumque rapit medio sub pectore secum, dove la scelta aggettivale si dirà mutuata dallo scolio, mentre sub pectore trarrebbe origine dal ciceroniano subter praecordia592; da qui, probabilmente, anche Germ. 95 Arcturum dixere, sinus qua vincula nodant e Avien. Arat. 271 aurea qua summos adstringunt cingula amictus, i quali collocano Arturo sopra la cintura di Boote e non, come Arato, al di sotto di essa. L’espressione ciceroniana ritorna in Arat. fr. 34, 109 (Canem) hunc tegit obscurus subter praecordia venter, ampliando il semplice Arat. 329 γαστέρα, nonché in Tusc. 1, 20 (Plato) cupiditatem subter praecordia locavit; analogamente, in unione con parti del corpo, Arat. fr. 34, 107 pedes subter; 120 subter…pedes; 178 spinigeram subter caudam. Il solo praecordia in Arat. 457, puntuale traduzione di Arat. 671 στήθεα593. Quanto alla grafia della preposizione, al supter di Buescu594 e di Traglia595 sarà da preferire il subter di Ewbank596 e di Soubiran597: subter

589 Soubiran 1972, p. 200 n. 4.

590 Buescu 1966, pp. 121 e 181.

591 3 Traglia 1971 , p. 69.

592 Liuzzi 1988, p. 125.

593 TLL X 2.1, 511, 27-31.

594 Buescu 1966, p. 181.

595 3 Traglia 1971 , p. 69.

596 Ewbank 1933, p. 81.

117 «deriva dalla preposizione sub e dal suffisso comparativo –ter» e «si formò in un’epoca in cui sub aveva ancora soltanto significato locale»598; attestato raramente prima di Cicerone (p. es., Acc. trag. 402 R.3), esso occorre frequentemente a partire proprio dall’età ciceroniana, iniziando dopo gli Aratea ad essere privilegiato dai poeti come equivalente di sub, o metri causa oppure perché, al pari di altre preposizioni bisillabiche, esso poteva essere collocato in anastrofe dopo pronomi599, come Arat. fr. 34, 321 hunc subter. fixa videtur / stella micans cf. Arat. fr. 20,1 s. adfixa videtur / stella micans; nella somiglianza della clausola, che riproduce la iunctura aratea ἑλίσσεται ἀστήρ (vv. 95 e 137), è stata colta un’affinità di contenuto, dal momento che i due luoghi si riferiscono ad Arturo e alla Vendemmiatrice, cioè a «stelle particolarmente note e impiegate nella calendarizzazione agricola»600. Questa affinità contenutistica, veicolata dall’affinità formale, può essere ulteriormente suffragata dalla considerazione che la Vendemmiatrice, o meglio l’Annunciatrice della Vendemmia (Προτρυγητήρ), traeva il suo nome proprio dal suo sorgere prima di Arturo, la levata del quale segnalava appunto la stagione della vendemmia, sch. Arat. 137, p. 142, 14-16 M. τοῦτον (ἀστέρα) οἱ μὲν Προτρυγητῆρα καλοῦσιν ὅτι προανατέλλει τοῦ Ἀρκτούρου, ἐπειδὴ σημαίνει ἡ ἀνατολὴ αὐτὴν τὴν ὥραν τῆς τρύγης. Da qui l’altro nome di Boote, cioè Vendemmiatore, sch. Arat. 91, p. 121, 2 M. (Βοώτης) λέγεται δὲ καὶ τρυγητήρ, evidentemente tratto per estensione da Arturo, la sua stella più brillante. Al legame onomastico tra Arturo e l’Annunciatrice della Vendemmia si aggiunge la prossimità celeste di queste due stelle alla Vergine, costellazione sovrastata da Boote (fr. 16, 5) e sopra le cui spalle riluce l’Annunciatrice della Vendemmia, fr. 20, 1. Considerato allora che i frr. 17-19 trattano il mito della Giustizia, poi trasformata nella Vergine, l’affinità formale tra i frr. 16, 3 s. fixa videtur / stella micans e 20, 1 s. adfixa videtur / stella micans incornicerebbe l’excursus mitico nei versi interposti tramite la ripetizione di questa sorta di refrain in riferimento ad Arturo e all’Annuncitrice della Vendemmia, che si pongono come estremità testuali, oltre che astronomiche, della Vergine celeste. La funzione di cornice dei due versi affini, frr. 16, 3 s. e 20, 1 s., è supportata dal modello greco, dove il primo e l’ultimo verso sulla Vergine sono parimenti legati dall’affinità formale in clausola, v. 96 Ἀμφοτέροισι δὲ ποσσὶν ὕπο σκέπτοιο

597 Soubiran 1972, p. 162.

598 Pini 1958, p. 72.

599 Ivi, p. 74.

600 Pellacani 2013, p. 102.

118 Βοώτεω (Παρθένον) ~ v. 136 Παρθένος ἐγγὺς ἐοῦσα πολυσκέπτοιο Βοώτεω. Il participio fixa, qui detto della stella Arturo, tornerà ad essa riferito in Arat. fr. 34, 395 cuius in adverso est Arcturus corpore fixus.

4 stella micans per la posizione incipitaria, cf. Arat. fr. 20, 2 stella micans; Ov. met. 15, 850 stella micat; Germ. 44. stella micat. In riferimento alle stelle, mico si ripeterà, p. es., in Ov. met. 7, 100 stellas…micantes (ma vd. pure, in relazione al successivo radiis, vv. 325 s. dempserat, et quarta radiantia nocte micabant / sidera) e Sen. Thy. 49 micant stellae, nonché eccezionalmente nella prosa senecana, dial. 6, 18, 2 stellas micare e 12, 8, 6 stellas micantis. Nuovamente per Arturo, Germ. 94 sed proprio tamen una micat sub nomine flamma; per Arctofilace, Ov. fast. 2, 189 s. signa propinqua micant: prior est, quam dicimus Arcton, / Arctophylax formam terga seguentis habet; per il Carro, Germ. 27 tres temone rotisque micant sublime quaternae; per Boote, [Verg.] Aetna 242 Lucifer unde micet, quave Hesperus, unde Bootes. nomine claro la iunctura sembra sottolineare l’evidenza di Arturo quale nome parlante, “guardiano dell’Orsa”, in considerazione della sua corrispondenza ad Arat. 95 ἀμφαδὸν, avverbio che rioccorre solo al v. 64 in prossimità di un altro nome parlante, l’Engonasi. La funzione etimologica del nesso ciceroniano trova poi riscontro in Germanico, v. 94 (Arcturus) sed proprio tamen una micat sub nomine flamma (cf. sch. Arat. 94, p. 121, 5 s. M. ὅστις διὰ τὴν ὑπερβολὴν τῆς λαμπρότητος ἰδίως καὶ αὐτὸς λέγεται Ἀρκτοῦρος), il quale ripete la medesima iunctura riportando l’etimologia greca della stella Sirio, v. 395 Sirion hanc Grai proprio sub nomine dicunt ~ Arat. 331 s. ὀξέα σειριάει, καί μιν καλέουσ’ ἄνθρωποι / Σείριον601. Tuttavia, in considerazione del grande fulgore di Arturo602, stella micans radiis, questo claro non manca di ricordare qui per enallage la luminosità dell’astro, precedentemente celebrata dallo stesso Arturo in Plaut. Rud. 3 ita sum ut videtis splendens stella candida e 5 s. …nomen Arcturo est mihi. / noctu sum in caelo clarus atque inter deos, dove significativamente figurano ben tre termini riadoperati da Cicerone, e quindi ribadita da Germ. 625 (Bootem) quem claro veniens Arcturus nuntiat ore e, complessivamente, da Avien. Arat. 264-272; ma vd. pure Hyg. astr. 3, 3 in zona unam (stellam) clarius ceteris lucentem – haec stella Arcturus appellatur, che ricorre alla forma avverbiale, come Arat. 95 ἀμφαδόν,

601 Sull’etimologia aratea di Sirio, Pendergraft 1995, p. 57, e Possanza 2004, p. 60.

602 Vd. pure Arat. 745 δεινοῦ…Ἀρκτοῦροιο, dove l’aggettivo esprime la particolare luminosità della stella; in proposito, Negri 2000.

119 parimenti in riferimento alla luminosità di Arturo603. Infine, Arat. 94 s. αὐτὸς /…Ἀρκτοῦρος è spiegato dallo scolio con riferimento sia alla luminosità della stella, e per estensione all’intera costellazione di Boote (p. 122, 10-16 M.), sia al mito del catasterismo di Arturo, p. 122, 17-20 M., dove è seguita la versione che identifica Arturo con Filomelo, inventore del carro, trasformato in astro dalla madre Demetra. Di conseguenza, il ciceroniano claro, riferito per enallage ad Arturo, ne indicherebbe sia la luminosità sia la celebrità sul piano mitico. Sulla polisemia dell’aggettivo, cf. l’Ofiuco di Cic. Arat. fr. 14 quem claro perhibent Ophiucum nomine Grai604 e la Corona di Ov. met. 8, 178; Manil. 5, 253 e Germ. 71605.

5 sub pedibus…Booti riproduzione delle estremità di Arat. 96 Ἀμφοτέροισι δὲ ποσσὶν ὕπο…Βοώτεω, previa eliminazione del numerale e dell’anastrofe della preposizione e mantenimento dell’interposizione verbale, σκέπτοιο ~ fertur. Booti, genitivo arcaizzante in –i, rimane in poesia una rarità assoluta, a differenza delle forme Bootae e Bootis606. profertur a fronte dell’oscillazione dei mss. priscianei tra fertur e profertur, Soubiran stampa quest’ultimo tra cruces, stante il problema del verso ametrico. Alla cautela di Buescu607 e dello stesso Soubiran608, rassegnati a ritenere il luogo insanabile, si sono contrapposti numerosi tentativi di colmare la lacuna. In particolare, Traglia609 integra tum prima di profertur, presupponendo una particella di passaggio corrispondente al δέ di Arat. 96; di séguito, Mastandrea610 ha proposto di accogliere fertur (sul valore mediale di fero, cf. Arat. frr. 3, 2; 25, 1; 34, 204; 238; 291; 444) e di integrare la lacuna con geminis, sulla scorta di Arat. 96 ἀμφοτέροισι e di Ov. fast. 2, 154 geminos…pedes (sc. Custodis Ursae).

603 Cf. Kidd 1997, p. 215, «ἀμφαδὸν...here the meaning is that the can be clearly observed and identified».

604 Qui la polisemia agirebbe su tre diversi livelli esegetici (mitico, astronomico e linguistico), indicando delle due costellazioni la fama, la luminosità e il nome parlante; Pellacani 2013, pp. 83 e 93.

605 Vd. infra, in Approfondimenti, II. L’arte di cantare la Corona di Arianna. Da Arato ad Avieno.

606 TLL II, 2128, 35-40.

607 Buescu 1966, pp. 81 e 284.

608 Soubiran 1972, p. 200 n. 6, con un sintetico elenco degli emendamenti, seguìto dalla constatazione che «aucune ne s’impose».

609 3 Traglia 1971 , p. 69.

610 Mastandrea 1986, pp. 239-241.

120 Bellandi611, invece, ha ipotizzato fertur, sostenendo la genuinità di fertur con nat. deor. 2, 110 cuius subiecta fertur (Virgo)…atque ita dimetata signa sunt e prevedendo la possibilità dell’avverbio certe dall’equivalenza di finita con dimetata “separata” , “delimitata in maniera netta ed esatta”, sulla scorta di Lucr. 1, 985 s. (sc. omne spatium) certis…oris / finitum. Successivamente, Barigazzi612 ha congetturato fertur supponendo corruttela di prōptefertur in profertur, dovuta al mancato scioglimento del segno abbreviativo per nasale e alla caduta del te facilitata dal fe immediatamente successivo. Nella scelta verbale sarà da preferire fertur, il quale, oltre ad essere attestato in nat. deor. 2, 110, è testimoniato da un autorevole ms. priscianeo, il Vat. Lat. 3313; esso reca la lezione porro fertur, già ipotizzata da Kochanowski e riabilitata come genuina dall’analisi di De Nonno613, il quale intende porro come probabile traduzione del corrispondente Arat. 96 δέ614. finita all’equivalenza finita = dimetata proposta da Bellandi615 sulla scorta di Cic. nat. deor. 1, 110 atque ita dimetata signa sunt ut in tantis descriptionibus divina sollertia appareat, passo successivo all’autocitazione del v. 6 e probabilmente da riferire a tutte le costellazioni nominate prima da Balbo616, sarà preferibile intendere finita come un sinonimo di finibus circumscripta617, come suggerisce la ripetizione del participio in Arat. fr. 34, 142 caerula vestigat, finita in partibus Austri (Pistrix), dove la Balena è collocata e al contempo circoscritta nelle regioni dell’Austro618; per la collocazone della Vergine sotto i piedi di Boote, vd. Cic. nat. deor. 2, 110 cuius subiecta fertur…Virgo e Hyg. astr. 3, 24 Virgo infra pedes Bootis conlocata.

611 Bellandi 1988.

612 Barigazzi 1989.

613 De Nonno 1977, pp. 398-401, e 1990.

614 De Nonno 1977, p. 400; per la facile corruzione di porro fertur in profertur, ibid., n. 4.

615 Bellandi 1988, pp. 236-238.

616 Pellacani 2013, p. 94.

617 TLL VI.1, 781, 24-25.

618 Buescu 1966, p. 214, traduce con “placée” il participio finita di Cic. Arat. fr. 34, 142, inteso quindi come un semplice sinonimo dei vicini locatam (v. 139) e sitam (v. 141); più sfumata, ma sempre in direzione di “collocata”, è la resa del finita in esame, “immédiatement sous les pieds du Bouvier”; ivi, p. 180.

121 6 Spicum illustre tenens, splendenti corpore Virgo il verso inverte le estremità di Arat. 97 Παρθένον, ἥ ῥ’ ἐν χειρὶ φέρει στάχυν αἰγλήεντα, con ricollocazione dei due nomi proprî uno in apertura e uno in chiusura dell’esametro, come al v. 1 Arctophylax…Bootes. Lo spostamento della forma verbale dall’eftemimera (Arat. 97) alla pentemimera conferisce all’esametro una maggiore simmetria, secondo la quale tenens fa da spartiacque tra la luminosa spiga e lo splendente corpo della Vergine; al parallelismo strutturale si somma il chiasmo Spicum illustre…splendenti corpore.

Spicum illustre tenens il raro neutro spicum (Serv. georg. 1, 111 a neutro vero raro et tantum singularem) verrà soppiantato dal femminile spica, derivante da un antico neutro plurale619. Cicerone manca di specificare in quale mano la Vergine tenga la Spiga, come se l’interprete latino sospendesse il giudizio dinanzi all’oscillazione χειρὶ / χερσὶ620 dei mss. aratei e alla precisazione scoliastica in favore della mano sinistra, sch. Arat. 97, p. 122, 23; 126, 15; 127, 5 M.621. L’aggettivo illustre verrà trasferito dalla Spiga alla Vergine in Arat. fr. 34, 380 exoritur pandens inlustria lumina Virgo, mentre tenens sarà echeggiato nell’identificazione della Vergine con Cerere da sch. Germ. 96, p. 65, 18 s. Breysig alii dicunt eam (Virginem) esse Cererem, quod spicas teneat622. splendenti corpore Virgo aggiunta rispetto ad Arat. 97, il quale rileva la luminosità della sola Spiga, come poi Germ. 97 fulget spica manu maturisque ardet aristis. L’ampliamento ciceroniano è riproposto, con lieve variazione ma con clausola identica, in Arat. fr. 34, 322 (Leonem) quem rutilo sequitur conlucens corpore Virgo. La collocazione del nome Virgo sotto Booti (fine v. 5) trasporrebbe nell’ordo verborum la collocazione astronomica della Vergine al di sotto di Boote623.

619 Le Boeuffle 1977, p. 165.

620 Sull’improbabilità del plurale, Kidd 1997, pp. 216 s.

621 Landolfi 1996, pp. 25 s. In virtù della spiga, l’associazione tra la Vergine e Demetra figura già in sch. Arat. 96-97, p. 126, 8 M., come segnalato da Schiesaro 1996, pp. 14 s., il quale rileva anche l’affinità tra le due figure in termini di dispensatrici di giustizia, Arat. 107 δημοτέρας ἤειδεν ἐπισπέρχουσα θέμιστας ~ Callim. Cer. 18 πολίεσσιν ἑαδότα τέθμια δῶκε.

622 Landolfi 1996, p. 26.

623 Pellacani 2013, p. 96.

122 XVII Malebant tenui contenti vivere cultu “Preferivano vivere contenti di un vitto frugale” Testimonium: Lact. inst. 5, 5, 5 “malebant…cultu”, ut Cicero in suo Arato (in suo narrat codd.)624 Arat. 110 αὕτως δ’ ἔζωον

Se la scelta di contenti si può ricondurre allo scoliastico ἠρκεῖτο625, per il resto Cicerone si separa dal modello e dai relativi scolî, introducendo l’idea della spontanea adesione della generazione aurea alla sobrietà del vitto. Il tema della temperanza alimentare, caro a stoici, cinici ed epicurei626, si ripresenterà più tardi negli scritti filosofici dell’Arpinate, dove ritorneranno gli stessi termini del frammento (contentus, cultus, tenuis)627. In questo modo «il giovane traduttore latino realizzava probabilmente un bisogno di esemplarità morale, una volontà di trasporre l’età dell’oro in idealizzazione “filosofica”»628. L’antica scelta di frugalità palesa il suo valore esemplare anche in àmbito retorico, dove contraddistingue la continenza avìta; Cic. Flacc. 28 minimo contenti tenuissimo cultu viverent (sc. maiores nostri). Alla luce dell’associazione tra vita agreste e vita aurea, che scende a Verg. georg. 2, 473 s. extrema per illos (sc. agricolas) / Iustitia excedens terris vestigia fecit da Arato-Cicerone629, non trascurabile diventa il riferimento dei termini ciceroniani, adoperati qui per gli Aurei, alle popolazioni asiatiche dedite all’agricoltura e appagate da un modesto tenore di vita; Cic.

624 Il testo tràdito potrebbe voler dire in suo (sc. Arateo carmine) narrat, e ciò sulla scorta della precedente citazione dagli Aratea di Germanico, che Lattanzio così introduce: ut Germanicus Caesar in Arateo loquitur carmine.

625 Schol. Arat. 111, p. 359, 1-2 Maass ἕκαστος ἠρκεῖτο τοῖς ἐν τῇ ἰδίᾳ χώρᾳ γινομένοις; Goetz 1918, p. 15; utili precisazioni in Barchiesi 1981, p. 186 n. 16. In rapporto al ciceroniano contenti, vd. pure Hes. Op. 118 ἐθελημοί “contenti”, detto però degli Aurei appagati da quanto dispensato loro spontaneamente dalla terra e non aderenti volontariamente ad una dieta frugale, come invece qui. Il possibile influsso di Esiodo attesterebbe un altro intarsio esiodeo in Cicerone traduttore di Arato; Bellandi 2000 (a), p. 61 n. 72, e Pellacani 2013, p. 97.

626 Vischer 1965, pp. 60-88.

627 Landolfi 1996, pp. 28 s., il quale rinvia, oltre che a Cic. Tusc. 5, 26 e 89 e a Lael. 86 (già Barchiesi 1981, p. 187), anche a Tusc. 3, 49; 5, 97; fin. 2, 91; off. 1, 12; 70; 158; div. 1, 61.

628 Barchiesi 1981, p. 187.

629 Ivi, p. 187 n. 19.

123 Flacc. 71 homines sunt tota ex Asia frugalissimi…patres familias suo contenti, aratores, rusticani…mallem…si iam te crassi agri delectabant. Infine, dal ciceroniano cultu dipenderebbe Germ. 110 s. (sc. Virgo) iura dabas cultuque novo rude vulgus in omnem / formabas vitae sinceris artibus usum630. tenui contenti vivere cultu sul contentarsi del vitto frugale, cf. Plaut. Capt. 176 s. pauxillum potes contentus; con particolare riferimento alla dieta degli Aurei, Ov. met. 1, 103 (sc. mortales) contenti …cibis nullo cogente creatis631. In linea con l’associazione vita aurea – vita agreste, il motivo si ripresenterà nelle lodi della paupertas contadina: Hor. carm. 2, 16, 13 s. vivitur parvo bene, cui paternum / splendet in mensa tenui salinum632; Prop. 3, 7, 43 si contentus patrio bove verteret agros; Tibull. 1, 1, 25 iam modo, iam possim contentus vivere parvo. Per il contrasto tra la dieta cerealicola degli Aurei e quella carnivora introdotta più tardi attraverso l’uccisione dei buoi aratori (vd. infra, fr. 18), Ov. fast. 1, 343 ara dabat fumos herbis contenta Sabinis e 347 s. qui nunc aperit percussi viscera tauri / in sacris nullum culter habebat opus, dove ad una iniziale fase di dieta vegetariana, aderente ai dettami pitagorici e dallo stesso Pitagora ovidiano assimilata proprio a quella dell’età dell’oro633, segue la consumazione di carni animali.

630 Pellacani 2013, p. 97.

631 Barchiesi 1981, p. 187 n. 17.

632 Mette 1961, pp. 138 s., sottolinea come la celebrazione oraziana della frugalità del vitto rifletta l’orgoglio del poeta delle proprie umili origini e come questo modesto stile di vita trovi complementarità nella scelta letteraria della Musa pedestris. Su tenuis come parola tipica delle dichiarazioni di gusto alessandrino, Cucchiarelli 1994, p. 158 n. 24, il quale cita tra gli esempi proprio Orazio, sat. 2, 4, 9 tenui sermone, dove il riadattamento di moduli della letteratura “alta” ad un tema gastronomico conferma, benché in chiave satirica, la connessione tra genus tenue e mensa tenuis analizzata da Mette 1961. In considerazione del valore di tenuis in àmbito letterario, Bishop 2011, p. 67, ritiene che il ciceroniano tenuis, corrispondente del gr. λεπτός, abbia il sovrasenso di riflettere l’adesione del giovane Arpinate all’estetica ellenistica.

633 Met. 15, 96 ss. at vetus illa aetas, cui fecimus aurea nomen, / fetibus arboreis et, quas humus educat, herbis fortunata fuit nec polluit ora cruore; Frazer 1929, p. 147.

124 XVIII Ferrea tum vero proles exorta repentest ausaque funestum primast fabricarier ensem et gustare manu iunctum domitumque iuvencum. “Allora invero sorse di colpo la generazione del ferro, che per prima osò fabbricare la spada funesta e assaporare le carni del giovenco aggiogato e domato dalla mano dell’uomo” Testimonium : Cic. nat. deor. 2, 159 quibus (bubus) cum terrae subigerentur fissione glebarum ab illo aureo genere, ut poetae loquuntur, vis nulla umquam adferebatur: “ferrea…iuvencum” Arat. 130-132 χαλκείη γενεὴ προτέρων ὀλοώτεροι ἄνδρες, / οἳ πρῶτοι κακοεργὸν ἐχαλκεύσαντο μάχαιραν / εἰνοδίην, πρῶτοι δὲ βοῶν ἐπάσαντ’ ἀροτήρων 1 repentest Baehrens : repente est A3 H V repente sunt B1 repente B2

La rottura dell’equilibrio dell’età aurea brilla di sinistri segnali sul piano retorico; come le scellerate azioni degli uomini del Ferro appaiono prive di raziocinio, così la disposizione di iunctum domitumque…iuvencum secondo hysteron proteron e il duplice ἀπό κοινοῦ - dipendenza di manu da entrambi i participi634, ausa reggente entrambi gli infiniti635 - sottaggono il dettato poetico ad un lineare ordo verborum. L’abominio consistente nella degustazione delle carni del bue aratore è inoltre evidenziato dall’estensione del suono cupo della u all’intero v. 3636, con effetto fonico potenziato dal triplice omoteleuto iunctum domitumque iuvencum messo in ulteriore rilievo dalla collocazione tra le due cesure, la pentemimera e la eftemimera, e dalla clausola.

1 Ferrea…proles la razza ferrea sostituisce quella bronzea del modello, Arat. 130 χαλκείη γενή, «con l’epiteto sempre in prima sede ma con un supplemento di enfasi dovuto all’iperbato che sposta proles fra pentemimere ed eftemimere, in rilievo al centro del verso»637; stesso iperbato con attributo incipitario e proles tra pentemimera ed eftemimera in Germ. 133 aerea sed postquam proles terris data nec iam, dove alla ripresa formale si associa

634 Cf. Bellandi 2000 (a), p. 72 n. 106.

635 Landolfi 1996, p. 32.

636 Bellandi 2000 (a), p. 71 n. 103.

637 Ivi, p. 64, dove inoltre si rileva la coincidenza tra il «Ferro» ciceroniano ed il «Bronzo» arateo, stadi degenerativi caratterizzati entrambi dall’invenzione delle armi, dall’uccisione dei buoi aratori e dalla consumazione delle loro carni.

125 la correzione concettuale del verso ciceroniano, con la razza bronzea che, in luogo di quella ferrea, recupera la successione aratea delle età, oro > argento > bronzo638. ferrea ripeterà l’enfatica posizione iniziale dell’aggettivo639, in elegiaca trasposizione del mito delle età, Tibull. 2, 3, 35 ferrea non Venerem, sed praedam, saecula laudant, dove il passato rustico (età dell’oro), durante il quale gli uomini onoravano Venere, verrà contrapposto al presente urbano (età del ferro), contrassegnato dalla brama di preda, per il cui ottenimento i contemporanei del poeta dispiegheranno mezzi cruenti e confacenti alla loro durezza morale rimarcata dall’aggettivo ferreus, aggettivo che precede il riferimento alle guerre nei vv. successivi. Stessa posizione incipitaria dell’aggettivo in due centoni virgiliani, Proba cento 300 = Hos. Geta Med. 229 (=Anth. Lat. 17, 229 Riese2) ferrea progenies duris caput extulit arvis (cf. Verg. georg. 2, 341 terrea progenies duris caput extulit arvis), e nel panegirico in lode di Giustino Augusto, Coripp. Iust. 3, 78 ferrea nunc abeunt atque aurea saecula surgunt (cf. Verg. ecl. 4, 8 s. tu modo nascenti puero, quo ferrea primum / desinet ac toto surget gens aurea mundo). proles sulla sua caratura arcaica e poetica, Cic. de orat. 3, 153 inusitata (verba) sunt prisca fere ac vetustate ab usu cotidiani sermoni iam diu intermissa, quae sunt poetarum licentiae…tamen raro habet etiam in oratione poeticum aliquod verbum dignitatem. neque enim illud fugerim dicere…prolem e Quint. inst. 8, 3, 26 prolem dicere versus est. In quanto indicatore di discendenza, il termine suggerisce un legame parentale tra la razza ferrea e quella argentea, riflettendo così quel rapporto di filiazione tra le generazioni dichiarato apertamente dalla Dike in Arat. 123 s. οἵην χρύσειοι πατέρες γενεὴν ἐλίποντο / χειροτέρην·

638 Rispetto al mito esiodeo delle età (Op. 106-201), Arato riduce il numero delle razze da cinque a tre, sostituendo poi all’ultima razza esiodea, quella del ferro ossia la peggiore di tutte, la razza del bronzo. Inoltre, mentre in Esiodo la razza ferrea comprendeva i contemporanei del poeta, così che la parabola discendente dell’umanità culminava in una forte polemica contro il presente degenerato, in Arato l’età del bronzo rimane nella dimensione atemporale del mito, con lo scopo soltanto di fornire un paradigma morale e di ricordare che la Dike, ormai fuggita in cielo e ivi trasformatasi nella Vergine, funge nottetempo da monito per gli uomini, la cui guida è ora detenuta da sovrani illuminati, in particolare Antigono Gonata, i quali garantiscono sulla terra quella giustizia che un tempo, durante l’età dell’oro, viveva in carne ed ossa in mezzo agli uomini. Sulla valenza politica della modifica dell’ipotesto esiodeo ad opera di Arato, modifica volta alla lode del buon governo di Antigono e all’omissione delle guerre che a quel tempo gravavano sul regno di Antigono medesimo, Schiesaro 1996, pp. 20-24, e Bellandi 2000 (a), pp. 37-52. Dal canto suo, Cicerone sostituisce alla razza bronzea di Arato quella del ferro, recuperando la componente degenere dell’esiodea età del ferro e la relativa allusione al presente, per l’Arpinate gravato dal Bellum Sociale (90-88 a. C.) e dai sintomi di rottura tra Mario e Silla; Bellandi 2000 (a), pp. 65 s.

639 Conrad 1965, p. 233.

126 ὑμεῖς δὲ κακώτερα τεξείεσθε640. La differenza tra questo proles, corrispondente alle γενεαί aratee, e il genus di nat. deor. 2, 159 ab illo aureo genere641, verrà riproposta da Ovidio, che contrapporrà il più generico aetas degli Aurei (met. 1, 89 aurea…aetas) al proles indicante la genìa degli uomini dell’Argento, del Bronzo e del Ferro: vv. 114 argentea p.; 125 aenea p.; 127 de duro est ultima (sc. proles) ferro. Considerati i frequenti riferimenti poetici di proles a divinità, nonché a personaggi mitici o storici dei quali si vogliano esaltare i natali, non sarà da escludere nel termine ciceroniano un riferimento all’ipotesto esiodeo di Arato, dove le generazioni non sono tra loro consanguinee, bensì sono create dagli dèi642. Si tratterebbe allora di un ulteriore caso di window-reference, cioè di allusione ciceroniana al modello (Esiodo) del modello (Arato), da aggiungere agli altri che si concentrano proprio nei tre frr. superstiti della traduzione aratea del mito delle età. Per la iunctura di proles con exorior, vd. trag. inc. 120 s. R.3 Thesprote, si quis sanguine exortam tuo / prolem inter aras s sacram immolet e, col verbo semplice, Claud. rapt. Pros. 2, 370 felix oritur proles643. tum vero il nesso, ripetuto nella sua pregnanza di indicatore temporale644 in Arat. fr. 34, 436 tum vero fugit Andromeda ad indicare il tramonto di Andromeda a séguito del sorgere dello Scorpione, pare qui amplificare il portato funesto della razza ferrea, a giudicare anche dalla sua successiva collocazione in momenti culminanti; così Lucr. 6, 1153 omnia tum vero vitai claustra lababant e Verg. georg. 3, 505 tum vero ardentes oculi riferiscono il nesso al momento di massima crudescenza della peste, quello che precorre il decesso; Catull. 64, 231 s. tum vero facito ut memori tibi condita corde / haec vigeant mandata al momento in cui Teseo, tornando da Creta e scorgendo la sua Atene, avrebbe dovuto segnalare al padre la vittoria sul Minotauro cambiando subito il colore delle vele; la dimenticanza del monito paterno (funestam antennae deponant undique vestem, v. 234) risulterà fatale all’eroe e funesterà il suo rientro a casa con il suicidio del padre che, viste le vele nere, lo aveva ritenuto morto, vv. 246 s. sic funesta domus ingressus tecta paterna / morte. Il valore temporale di tum

640 Sul legame parentale tra le generazioni aratee, in contrasto con quelle esiodee prive di continuità genetica in quanto create ed annientate dalla divinità, Bellandi 2000 (a), pp. 37 s. n. 1.

641 Di uso più ampio ma più appropriato in riferimento agli Aurei per i quali non serve indicare la discendenza; ivi, p. 64 n. 82.

642 Vd. n. 534.

643 TLL X. 2. 2, 1823, 58-59; sul riutilizzo di proles nelle trattazioni poetiche del mito delle età, ivi, 1821, 57-63.

644 Su questo valore di tum vero, Bellandi 2000 (a), p. 67 n. 93.

127 vero, ribadito due versi dopo da simul ac (v. 233), anticipa anche qui un evento drammatico, evento già presagito dal ciceroniano funestus, ora addirittura iterato a sottolineare il compimento delle maledizioni di Arianna, v. 201 tali mente, deae, funestet seque suosque645. Il nesso è poi assai frequente nell’Eneide, dove si inserisce nella narrazione di episodi salienti e sconvolgenti, rimarcandone la carica emozionale646. exorta repentest con il legame genetico espresso da proles parrebbe stridere il predicato exorta repentest, che orienterebbe piuttosto verso la genitura imprevista e quasi spontanea degli uomini del Ferro647, se non fosse che Cicerone l’adopererà spesso per indicare improvvise e sconvolgenti contingenze negative: Cluent. 12 repente est exorta mulieris…nefaria libido; rep. 2, 63 subito exorta est maxima perturbatio; Lae. 85 repente in medio cursu amicitias, exorta aliqua offensione, disrumpimus; fam. 1, 5a, 2 subito exorta est nefaria Catonis promulgatio. Ciò avvalora l’idea che «Cicerone…avrà usato questo tipo di espressione non tanto per denotare il sorgere imprevisto ed istantaneo della generazione ferrea, quanto per sottolineare il carattere ineluttabile e sconvolgente della malvagità che con questa generazione appare d i c o l p o sulla scena della storia»648; così anche Ov. met. 1, 127 ss. de duro est ultima (sc. proles) ferro / protinus inrupit venae peioris in aevum / omne

645 Nuzzo 2003, p. 136.

646 P. es., 1, 485 tum vero ingentem gemitum dat pectore ab imo, dove Enea rivede l’immagine del corpo di Ettore straziato da Achille; nuovo riferimento ad Enea in 2, 309 e 624 (Troia in fiamme) e 3, 47 (la voce di Polidoro fuoriesce dall’arbusto reciso); 2, 105 s. tum vero ardemus scitari et quaerere causas, / ignari scelerum tantorum artisque Pelasgae, dove il nesso, raccordando sul piano della narrazione l’interruzione della parole di Sinone e il prosieguo del suo discorso dietro esortazione dei Troiani, associa al suo valore temporale l’anticipazione di qualcosa di infausto, qui la caduta di Troia, di cui diviene spia anche il termine scelus; cf. 228 ss. tum vero tremefacta novos per pectora cunctis / insinuat pavor, et scelus expendisse merentem / Laooconta ferunt; su questi due luoghi, vd. rispettivamente Austin 1964, p. 67, e Ganiban 2008, p. 46; per la presenza di tum vero in altri momenti di grande pathos, vd. 4, 397 s. (separazione di Enea da Didone); 9, 424 s. (morte di Eurialo); 7, 519 e 10, 647 (fasi cruciali del combattimento), con relativi commenti ad l. di Fordyce 1977, p. 155, e Harrison 1991, p. 228.

647 Landolfi 1996, p. 30, e Bellandi 2000 (a), p. 67; cf. pure Plaut. Pseud. 38 s. quasi solstitialis herba paulisper fui / repente exortus sum, repentino occidi e Lucr. 1, 187 e terraque exorta repente arbusta salirent.

648 Bellandi 2000 (a), p. 68, che inoltre cf. Ov. met. 1, 128 s. protinus inrupit…omne nefas, citato sopra, e Ps. Sen. Oct. 426 maximum exortum est malum. Per la compresenza di maximus e composti di orior, aggiungerei Cic. Verr. 1, 46 tum subito tempestates coortae sunt maximae e 5, 39 maximam vim criminum exortam. Diversa l’interpretazione di Landolfi 1996, p. 30, secondo il quale «il sintagma tum…exorta repentest lascia intravvedere un presumibile cenno ad un fatto in qualche misura concomitante o contestuale alla nascita della generazione del ferro, per noi indistinguibile».

128 nefas, dove con la comparsa della generazione ferrea si ha l’immediata irruzione di ogni malvagità; cf. Juv. 6, 23 omne aliud crimen mox ferrea protulit aetas. Ripete exorior, con pari risalto di repente in clausola, Arat. fr. 34, 379 s. non pauca e caelo depellens signa, repente / exoritur pandens inlustria lumina Virgo649, dove non sfuggirà il richiamo del repentino sorgere della Vergine all’improvvisa e nefasta apparizione della ferrea proles, che con i suoi scelera mise in fuga la Giustizia, divenuta poi essa stessa la Vergine650.

2 ausa…primast il verbo sottolinea qui l’empietà delle azioni compiute dalla ferrea genìa, compensando l’eliminazione dell’anafora di Arat. 131 s. οἳ πρῶτοι… / …πρῶτοι651; l’associazione tra audeo e il motivo del πρῶτος εὑρετής, relativo qui ad un’azione empia quale la fabbricazione della spada foriera di morte, ritorna in Lucr. 1, 67 est…ausus primus, dove in maniera antitetica l’empietà non riguarda più l’azione compiuta dal πρῶτος εὑρετής, Epicuro, - benché la sua dottrina possa essere tacciata proprio di empietà, vv. 80 s. vereor ne forte rearis / impia te rationis inire elementa - bensì quella religio sottomessa da Epicuro stesso e causa di scelerosa atque impia facta (v. 83), come per eccellenza il sacrificio di Ifigenia, vv. 84-101. Il nesso ritorna ad essere riferito alla trasgressione umana, attuata ora con la violazione del mare da parte della nave Argo, in Sen. Med. 301 s. audax nimium qui freta primus /…rupit (~ 318 ausus Tiphys) e Stat. Theb. 6, 19 primum ausurae trans alta ignota biremes652. Il nesso ausus primus ricorre altresì per pioneristiche imprese letterarie; p. es., Hor. sat. 2, 1, 62 s. cum est Lucilius ausus / primus in hunc operis conponere carmina

649 Cf. Lucr. 1, 22 s. (sc. Venere) sine te quicquam dias in luminis oras / exoritur, dove solo grazie alla dea tutto può sorgere alle divine regioni della luce, così come negli stessi termini sorge la costellazione ciceroniana della Vergine; Gee 2013 (a), p. 85.

650 Questa rispondenza tra le due occorrenze di repente exorior crea un nesso tra l’ultima fase di permanenza di Dike sulla terra e la sua successiva trasformazione nella Vergine celeste; in questo modo Cicerone avrebbe riproposto la connessione tra uccisione dei buoi aratori, causa della fuga di Dike, e collocazione della Vergine accanto a Boote, alla quale Arato dà rilievo con la posizione in clausola di Βοώτης a inizio e a fine episodio (vv. 96 e 136); sul solo testo greco, Bellandi 2004, p. 28.

651 Bellandi 2000 (a), pp. 68 s.

652 Sul motivo dell’empia navigazione, già Hor. carm. 1, 3, 23 ss. impiae / non tangenda rates transiliunt vada / audax omnia perpeti / gens humana ruit per vetitum nefas. Significativo che tra le prerogative dell’età dell’oro rientri proprio l’ignoranza della navigazione (Arat. 110 s. χαλεπὴ δ’ ἀπέκειτο θάλασσα / καὶ βίον οὔπω νῆες ἀπόπροθεν ἠγίνεσκον), che Ovidio descrive con termini che richiamano da vicino la nave Argo di Catullo: met. 1, 94 s. nondum caesa suis, peregrinum ut viseret orbem, / montibus in liquidas pinus descenderat undas (am. 2, 11, 1 s. prima malas docuit mirantibus aequoris undis / Peliaco pinus vertice caesa vias) ~ c. 64, 1 ss. Peliaco quondam prognatae vertice pinus / dicuntur liquidas Neptuni nasse per undas /…cum lecti iuvenes…/ ausi sunt vada salsa cita decurrere puppi. Il parallelo, trascurato dal commento ad l. di Bömer 1969, si avvantaggia anche dell’affinità tra i vv. 145-150 e la chiusa del carme catulliano.

129 morem, dove Lucilio è celebrato come inventor del genere satirico, e Lucan. 3, 220 s. Phoenices primi…ausi / mansuram rudibus vocem signare figuris, dove si ricorda l’invenzione fenicia dell’alfabeto. Nell’àmbito della critica letteraria, il medesimo nesso è inoltre variato in audeo / audax articolato con novo / novus; Cic. Tim. 13 Graece analogia (audendum est enim, quoniam…novantur) conparatio proportiove dici potest, dove l’autore sottolinea il proprio merito di aver adattato il lessico filosofico greco alla terminologia latina, e Hor. carm. 4, 2, 10 s. per audaces nova dithyrambos / verba devolvit (sc. Pindarus), dove il poeta esalta invece la produzione ditirambica di Pindaro. funestum…ensem la scelta di ensis deriverebbe da sch. Arat. 131 μάχαιραν, p. 137, 6 s. M.

οὕτο δεόντως ἀντὶ τοῦ ξίφος, ἐπειδὴ καὶ Ὅμηρος <μάχαιραν> λέγει τὸ ξίφος, laddove la resa di μάχαιραν, il “coltello” del grassatore, con ensem, il “brando” del guerriero, rifletterebbe la riabilitazione dell’istituzione bellica, forse dettata pure dalle contingenze politiche dell’Arpinate653, contro la marginalizzazione aratea della guerra ufficiale negli atti di ladroneria o pirateria654. Il riferimento arateo ad una violenza marginale, da strada, trova riscontro nell’attributo κακοεργὸν “da malfattore”, del quale il ciceroniano funestum renderebbe solo il significato più generico di “malefico”, con un fine patetizzante655 rimarcato anche dalla collocazione prima della pentemimera, a forte connotazione emozionale656. Per il nesso, cf. Catull. 64, 355 infesto…ferro (fine verso); Verg. Aen. 8, 621 fatiferum…ensem; Ov.

653 Vd. n. 531.

654 Bellandi 2000 (a), pp. 50 e 69 s., e 2004, p. 29; per lo slittamento d’immagine dall’arateo μάχαιραν al ciceroniano ensem, ripetuto da Verg. georg. 2, 540 ensis, dove la spada da guerra è correlata alle trombe di guerra, v. 539 classica, Barchiesi 1981, p. 185 n. 14. Contra Calderón 2005 legge in μάχαιραν / εἰνοδίην di Arat. 131 s. il coltello usato per i sacrifici, i quali, misfatto inusitato, sarebbero stati puniti con l’esilio dei responsabili, giustificando così la scelta dell’aggettivo εἰνοδίην “per / della strada”, per il quale si respinge la glossa scoliastica λῃστρικήν “da predone”, accolta invece da Bellandi 2000 (a), p. 50. Da qui due diverse interpretazioni di Arat. 131 s.: per Bellandi 2000 (a), p. 51, non c’è alcun nesso di causalità tra la forgiatura della spada atta ad aggredire per strada e l’uccisione dei buoi aratori, mentre per Calderón Dorda 2005, pp. 150 s., l’arma forgiata per la prima volta dalla razza bronzea è il coltello adoperato per sacrificare i buoi aratori. Sulla scia di quest’ultima interpretazione, i due versi aratei riproporrebbero dunque la prescrizione pitagorica ed empedoclea di astenersi dal sacrificio e dalle carni del bue aratore, il che ne spiegherebbe la citazione nel De esu carnium di Plutarco (998 A), citazione integrata tra versi dal colorito pitagorico-empedocleo appunto; Traglia 1963, pp. 382-385, indipendentemente però dalle due diverse interpretazioni dell’arateo μάχαιραν.

655 Bellandi 2000 (a), pp. 50 s. e 69.

656 Conrad 1965, p. 211.

130 met. 6, 251 fatifero…ferro (fine verso); Juv. 15, 165 ferrum letale incude nefanda657. Nella trattazione del mito delle età recupera la posizione in clausola di ensis, con aggiunto l’aggettivo ferreus a richiamare le estremità dei due versi ciceroniani ferrea proles…/...fabricarier ensem, Lucr. 5, 1293 ferreus ensis658; la collocazione metrica del nesso ciceroniano è poi ripetuta da Germ. 112 nondum vesanos rabies nudaverat ensis, in riferimento all’età dell’oro. Sull’estraneità dell’ensis all’età dell’oro, Tibull. 1, 3, 47 s. nec ensem / immiti saevus duxerat arte faber659, pentametro aureo che richiama l’esametro argenteo660 di Verg. georg. 2, 540 impositos duris crepitare incudibus ensis661, parimenti in lode dell’età dell’oro. fabricarier la perdita della figura etimologica di Arat. 130 s. χαλκείη γενεή…/ ἐχαλκεύσαντο662, il cui effetto fonico è sostituito dall’allitterante ferrea…funestum…fabricarier663, è compensata a livello semantico dalla scelta di fabricor

657 Bellandi 2000 (a), p. 69 n. 96, cita il passo di Virgilio e quello di Giovenale a supporto di funestus quale equivalente di fatifer e di letalis.

658 Gee 2013 (a), p. 51.

659 Cf. 1, 10, 1 s. quis fuit horrendos qui protulit enses? / quam ferus et vere ferreus ille fuit! e 11 s. nec tristia nossem / arma nec audissem corde micante tubam.

660 Così è definito il verso formato da due aggettivi concordati in maniera chiastica con due sostantivi che seguono il verbo posto nel mezzo; Wilkinson 1963, p. 216.

661 Lo stesso contenuto del verso virgiliano e tibulliano rende significativa nei due poeti l’affinità di ordo verborum; raffrontano i due luoghi senza però rilevarne l’affine struttura verbale Némethy 1905, p. 120; Putnam 1973, p. 81; Murgatroyd 1980, p. 115, e Maltby 2002, p. 199; si limita a segnalare il verso aureo, senza raffronto con Verg. georg. 2, 540, Perrelli 2002, p. 107; non rinviano a Tibullo i commenti virgiliani di Thomas 1988, p. 263, Mynors 1990, p. 176, ed Erren 2003, pp. 546 s. Si aggiunga pure che al di fuori dall’Eneide curiosamente ensis rioccorre soltanto in georg. 1, 508 et curvae rigidum falces conflantur in ensem, dove parimenti si registra una variante di verso aureo che viene a richiamare da vicino Catull. 64, 42 squalida desertis rubigo infertur aratris, della cui allusione diviene spia il verbo del precedente verso virgiliano, squalent abductis arva colonis (v. 507). Si direbbe che la scelta virgiliana di ensis al di fuori dell’opera maggiore venga sottolineata da uno speciale ordo verborum, utilizzato anche da Catullo e da Tibullo per esprimere concetti simili a quelli di Virgilio georgico. Non a caso, molti commentatori hanno ipotizzato che Catull. 64, 38-42 abbia tenuto presente una descrizione dell’età dell’oro; sta di fatto che questi versi catulliani saranno ripresi proprio in riferimento all’età aurea da Verg. ecl. 4, 40 s. e da Tibull. 1, 3, 41-46; Nuzzo 2003, pp. 71- 73.

662 Pendergraft 1995, p. 58.

663 Bellandi 2000 (a), pp. 70 s.

131 che, rispetto al più generico χαλκεύω664, pone in risalto il sacrilegio compiuto dagli uomini dell’età del ferro attraverso la fabbricazione della spada, considerato il regolare riferimento del verbo in poesia a costruzioni realizzate da divinità, a partire da Acc. trag. 559 s. R.3 heu Mulciber! / arma ignavo invicta es fabricatus manu, dove il dio fabbro forgia appunto delle armi665; di séguito, Cic. Arat. fr. 34, 43 s. Mercurius parvus manibus…/ infirmis (sc. Fidem) fabricatus e, analogamente, 302 s. nemo cui sancta manu doctissima Pallas / sollertem ipsa dedit fabricae rationibus artem; Verg. Aen. 9, 144 s. moenia Troiae / Neptuni fabricata manu (~ Sen. Ag. 651 moenia divum fabricata manu); Ov. met. 1, 259 tela…manibus fabricata Cyclopum; Manil. 2, 442 s. fabricata…Lybra / Vulcani. La rarità negli Aratea della penultima pentasillabica666, congiunta all’arcaismo morfologico dell’infinito in –ier667, suggerirebbe qui un innalzamento stilistico, verso cui orienterebbe anche ensis, parola riservata da Cicerone alla sola poesia668; in proposito, vd. Cic. Rab. Post. 7 damnetur is qui fabricatus gladium est, indicativo dell’uso ciceroniano di riservare ensis alla poesia e gladius alla prosa669 e dove il verbo fabricor è ripetuto per il costruttore dell’arma da taglio, connotato negativamente. Il verbo verrà inoltre adottato per un’altra invenzione umana apportatrice di morte, il toro del tiranno siciliano Falaride ideato dall’ateniese Perillo, Claud. in Eutr. 18, 164 ss. (sc. Perillus) qui funesta novo fabricaverat aera dolori, / primus inexpertum Siculo cogente tyranno / sensit opus docuitque suum mugire iuvencum. L’audacia dell’inventor, evidenziata qui da novo…primus, consiste nella realizzazione di uno strumento di tortura, opportunamente detto funestus. Risalta la ripetizione di ben quattro termini del frammento ciceroniano, al quale sembrerebbe alludere anche la scelta di iuvencus in luogo del più atteso taurus (cf. Ov. ars 1, 653 Phalaris tauro e Juv. 8, 82 admoto…tauro), benché non sia infrequente in poesia l’alternanza tra bos, iuvencus e taurus.

3 et gustare manu iunctum domitumque iuvencum cf. Verg. Aen. 7, 114 et violare manu malisque audacibus orbem, dove oltre alla ripetizione della successione et + infinito + manu,

664 Come qui riferito alla forgiatura della spada in Soph. Ai. 1034 Ἐρινὺς… ἐχάλκευσε ξίφος.

665 Parimenti a Vulcano si riferisce la prima occorrenza di χαλκεύω, Hom. Il. 18, 400.

666 Traglia 1950, p. 200.

667 Ivi, pp. 107 s.

668 Pellacani 2013, p. 99.

669 Tre le occorrenze di ensis in Cicerone poeta contro le 89 di gladius nei suoi scritti in prosa; per una sinossi sulla distribuzione dei due termini in poesia ed in prosa, TLL V.2, 608, 40-65, e Axelson 1945, p. 51.

132 risaltano l’aggettivo audax (cf. ausa del v. ciceroniano precedente) e il riferimento di violo al fatto che Enea e i suoi, costretti dalla fame, arrivino a divorare le mensae. L’allusività del verso virgiliano a quello ciceroniano poggerebbe sul comune riferimento a un abominio derivante da un’empia consumazione di cibo: la carne dei buoi aratori in Cicerone, le focacce destinate alle are in Virgilio670. gustare il verbo, attestato fin da Plauto671 e Lucilio672, starebbe a sottolineare la prelibatezza delle carni del giovenco, implicando tuttavia una componente orrorosa. L’assaggio di questo cibo, inedito e assaporato per la prima volta, avviene infatti previo compimento di uno scelus, qual è l’uccisione dei buoi aratori, che si configura come un «atto di irriconoscenza verso gli antichi benefattori»673, in quanto sodales dell’uomo nel lavoro dei campi674. Questo gustare corrisponde all’arateo ἐπάσαντο, aoristo di πατέομαι, verbo che, talora riferito da Omero alla consumazione delle viscere di animali sacrificati675, si attesta come epicismo circoscritto al teatro676 e alla prosa ionica677, dove risulta di regola riferito a pasti macabri oppure rientranti in una dieta rituale. Tuttavia, il verbo ciceroniano pare piuttosto dipendere da sch. Arat. 132, p. 138, 12 s. M. πρῶτοι δὲ Ἀθηναῖοι ἐγεύσαντο τῶν τοιούτων βοῶν (sc. ἀρότων)678, vista

670 In proposito, nulla in Fordyce 1977.

671 Capt. 137 foris aliquantillum etiam quod gusto id beat; Per. 473 hodie alienum cenabit (sc. ancilla), nihil gustabit de meo; Ps. 883 s. ut quisque quicque conditum gustaverit / ipsus sibi faciam ut digitos praerodat suos.

672 Sat. 637 si nil gustat internundino e 1183 gustavi crustula solus.

673 Bellandi 2004, p. 25.

674 In rapporto al ciceroniano iuvencum, vd. Varro ling. 5, 96 iuvencus, iuvare qui iam ad agrum colendum posset.

675 Il. 1, 464; 2, 427; Od. 3, 9 e 461; 12, 364.

676 Aesch. Sept. 1036; Ag. 1408; Soph. Ant. 202; Aristoph. Pax 1092 e 1281.

677 P. es., Hdt. 1, 73 Κυαξάρης καὶ οἱ παρεόντες δαιτυμόνες τῶν κρεῶν τούτων ἐπάσαντο “Ciassare e i convitati presenti mangiarono quelle carni”, cioè quelle di un ragazzo fatto a pezzi ed imbandito come selvaggina a séguito di un’infruttuosa battuta di caccia; altrove il verbo è riferito ad usanze alimentari di tipo rituale e sacrale; p. es., 2, 37 ἰχθύων δὲ οὔ σφι ἔξεστι πάσασθαι “non è loro consentito cibarsi di pesci”, in riferimento ai sacerdoti egiziani, per i quali venivano cotti cibi sacri; 47 τοὺς ὗς θύσαντες πατέονται τῶν κρεῶν “dopo aver sacrificato i maiali (sc. quelli in onore di Selene e Dioniso) si cibano (sc. gli egiziani) delle loro carni”; 4, 186 βοῶν…θηλέων οὐδὲ αἱ Κυρηναίων γυναῖκες δικαιεῦσι πατέεσθαι διὰ τὴν ἐν Αἰγύπτῳ Ἶσιν “anche le donne di Cirene ritengono giusto astenersi dalle carni di vacca per riguardo a Iside egizia”.

678 Cf. Bellandi 2000 (a), p. 73 n. 110.

133 l’esatta corrispondenza tra γεύομαι e gusto (cf. Varro ling. 6, 84 quod graece γεύεται, latine gustat) e il doppio significato del verbo greco, quello concreto di “assaporare i cibi” e quello metaforico di “provare”, “fare esperienza di qualcosa”679, ben adatto quindi a chi assaggia per la prima volta un cibo, sperimentandone il sapore. La componente della novità del cibo, sottolineata da πρῶτοι ~ prima, è dunque complementare a quella del piacere da esso procurato680. manu oltre a rilevare la violenza esercitata dall’uomo sull’animale, dinanzi a domitum il sostantivo parrebbe ora riecheggiare anche qui l’ipotesto esiodeo del mito arateo delle età; in proposito, vd. Hes. Op. 152 καὶ τοὶ μὲν χείρεσσιν ὑπὸ σφετέρῃσι δαμέντες “domati dalle loro stesse mani”, in riferimento agli uomini dell’età del bronzo uccisi dalla loro stessa violenza e malvagità; il concetto è ribadito pure per gli uomini dell’età del ferro, per i quali la giustizia risiede nella sola forza delle mani, Hes. Op. 192 δίκη δ’ ἐν χερσί. iunctum domitumque sulla genuinità di iunctum, tràdito dalla maggioranza dei codd. contro vinctum di alcuni deteriori, stampato tuttavia da molti editori e da altri corretto in victum681, vd. sch. Arat. 132, p. 138, 7-9 M. οἱ ἀρχαῖοι ἐφυλάττοντο τοῦς ἐργάτας βοῦς καθιερεύειν τοῦτο δὴ καὶ Ὅμηρος οἶδε (γ 382-383)· “βοῦν…ἀδμήτην, ἣν οὔπω ὑπὸ ζυγὸν ἤγαγεν ἀνήρ”682, e Buescu683, ai cui loci similes si aggiunga, in rapporto al contiguo domitum, Ov. rem. 171 s. colla iube domitos oneri supponere tauros / sauciet ut duram vomer aduncus humum, dove i tori aggiogati a scopo agricolo sono raffrontabili con il bue aratore di fast. 4, 414 s. apta iugo cervix…/ (sc. bos) vivat et in dura saepe laboret humo, del quale risalta l’abitudine al giogo; in proposito, già Cic. nat. deor. 2, 159 cervices (sc. boum) natae ad iugum684, che introduce l’autocitazione di questi versi, nei quali iuvencus corrisponde appunto ai buoi aratori di Arat. 132 βοῶν…ἀροτήρων, previa sostituzione sia del pl. con il sg., forse

679 LSJ, s.v.

680 La componente edonistica di gusto accrescerebbe l’orrore per l’uccisione dei buoi, rientrando nelle topica polemica contro gli sprechi del vitto proprî del I sec. a. C.; Landolfi 1996, p. 34.

681 Ewbank 1933, p. 142.

682 Barchiesi 1981, p. 185, rileva come il passo omerico citato dallo scolio arateo possa aver influenzato la versione ciceroniana: domitum ~ ἀδμήτην; iunctum ~ ἣν οὔπω ὑπὸ ζυγὸν ἤγαγεν ἀνήρ.

683 Buescu 1966, pp. 284 s.; all’ivi citato Verg. georg. 3, 169 iunge…iuvencos, si aggiunga v. 164 vitulos hortare viamque insiste domandi, con riferimento di entrambi i verbi ad animali giovani come il ciceroniano iuvencum.

684 Cf. Bellandi 2004, pp. 29 s. n. 10.

134 per volontà di prolungare il suono cupo della u già presente in gustare manu…iuvenc-685, sia dei buoi (animali adulti) con il giovenco (animale giovane), al fine di enfatizzare la crudeltà dell’uomo che si ciba delle carni dell’animale di tenera età686. Per l’associazione tra domo e iugum, vd. poi Stat. Theb. 10, 232 s. domandi / ferre iugum (sc. equi). Nella poesia sul mito delle età l’addomesticamento degli animali per i lavori agricoli è inteso come una pratica ignota all’età dell’oro e, quindi, connotata della negatività propria del degenerativo succedersi delle epoche; così Verg. ecl. 4, 41 robustus quoque iam tauris iuga solvet arator celebra il ritorno all’età dell’oro attraverso la liberazione dell’animale dal giogo, mentre Tibull. 1, 3, 41 s. illo non validus subiit iuga tempore taurus / non domito frenos ore momordit equus ricorda come nell’età dell’oro gli animali non venissero né domati né aggiogati687.

685 Bellandi 2000 (a), p. 71 n. 103.

686 Ivi, p. 71 n. 104.

687 I due luoghi, insieme a Ps. Sen. Oct. 412 s. premere subiectos iugo / tauros feroces (dove l’infinito è retto da auderet, v. 410, che rimarca nuovamente l’empietà dell’azione), mostrano l’oscillazione tra bos e taurus negli autori interessati al tema; ivi, p. 71 n. 102.

135 XIX Et Iovis in regno caelique in parte resedit “e si stabilì nel regno di Giove e in (questa) parte del cielo” Testimonium: Lact. inst. 5, 5, 9 sed postquam Saturnus a filio pulsus in Latiumque delatus est… “deseruit propere terras iustissima Virgo” (Germ. 137), sed non, ut ait Cicero, “et Iovis…resedit”. Quomodo enim poterat in eius regno residere aut commorari qui patrem regno expulit, bello persecutus est, exulem toto orbe iactavit? Arat. 134 ἔπταθ’ ὑπουρανίη, ταύτην δ’ ἄρα νάσσατο χώρην

et Iovis…resedit Iovis in regno amplia l’arateo ὑπουρανίη, con allusivo recupero di Hes. Op. 259 αὐτίκα πὰρ Διὶ πατρὶ καθεζομένη Κρονίωνι, dove la Giustizia è assisa vicino al padre Zeus688. Cicerone risolverebbe dunque alla maniera esiodea la paternità della dea lasciata in sospeso da Arato, vv. 98 s. εἴτ’ οὖν Ἀστραίου κείνη γένος…/… εἴτε τευ ἄλλου, o quanto meno darebbe rilievo all’ipotesi alternativa della filiazione da quell’arateo “qualcun altro”, ora esplicitato col nome di Giove689. Alla luce dell’identificazione aratea tra Dike e Parthénos, la probabile allusione ciceroniana ad Esiodo, che pare funzionale a riprodurre quegli “intarsi esiodei” già operati in questa sezione da Arato690, risulta corroborata dalla specificazione in Esiodo della verginità della Giustizia, Op. 256 παρϑένος ἐστὶ Δίκη. Inoltre, come Arato ricorre a due diverse denominazioni della stessa divinità, Dike e Parthénos, così Cicerone adopera due diverse denominazioni della stessa entità, il cielo, individuato come sede mitica prima (Iovis in regno ~ ὑπουρανίη), astronomica poi della Parthénos, caeli…in parte ~ ταύτην…χώρην. L’equivalenza nominale è rimarcata dalla simmetria strutturale dei due emistichi, bilanciati dalle due anastrofi (Iovis in regno / caeli in parte)691 e dall’allitterazione

688 Landolfi 1996, p. 7 n. 25.

689 Bellandi 2000 (a), p. 57. Quanto all’alternativa genealogica di Arat. 98 s., Bellandi 2000 (b) sottolinea come il poeta prenda così le distanze da entrambi le versioni mitologiche: se infatti Arato propendesse per la paternità di Astreo, padre degli astri, cadrebbe nella contraddizione di ammettere che la Vergine sia astro da sempre, e non che lo sia diventato a séguito del catasterismo; d’altro canto, la paternità di un “qualcun altro” lascia aperta l’allusione sia alle diverse tradizioni sul tema, sia alla paternità di Zeus, il cui nome però non viene esplicitamente menzionato per non compromettere il dio supremo nella storia della decadenza umana, il cui valore simbolico è l’unico ad interessare davvero il poeta di Soli.

690 Bellandi 2000 (a), pp. 57 s.

691 Landolfi 1996, p. 35 n. 43.

136 sillabica fra le due parole finali di ciascun emistichio (regno / resedit)692, caratterizzati entrambi dalla presenza della congiunzione copulativa (et / -que), del genitivo di specificazione (Iovis / caeli) e del complemento di stato in luogo (in regno / in parte), per giunta isosillabici693. La caratura mitica del nesso Iovis in regno è sottolineata anche nella sua rioccorrenza in [Verg.] Aetna 255 in Iovis errantem regno perquirere deos, dove l’autore contrappone all’irrazionale indagine mitica sulle divinità la razionale indagine scientifica sulla natura, esemplificata nei versi precedenti proprio dalla ricerca delle cause dei fenomeni celesti. Quanto alla clausola in parte resedit, cf. Arat. fr. 34, 188 (sc. Arae) Iuppiter, huic parvum inferiore in parte locavit, dove la variazione della forma verbale rimarca il distinto ruolo di Giove: nel caso della Vergine, la costellazione si fissa in cielo in maniera autonoma694; nel caso dell’Altare, è invece Giove ad assegnare alla costellazione uno spazio celeste695. La distinzione è ora corroborata pure dalla ripetizione di resedit nella metamorfosi astrale della Lira, Arat. fr. 34, 45 haec genus ad laevum Nixi delapsa resedit: la nuova costellazione, posta in cielo da Mercurio, si è fermata vicino al ginocchio sinistro dell’Inginocchiato scegliendo dunque la sua sede celeste indipendentemente dal dio696, proprio come la Vergine.

692 Bellandi 2000 (a), p. 56 n. 59.

693 Pellacani 2013, p. 100.

694 Qui resedit, probabilmente dettato da Hes. Op. 259 καθεζομένη, rifletterebbe la scelta precisa della sede celeste da parte della Vergine, corrispondendo da vicino all’arateo ναίομαι “stabilirsi”, detto anche di emigranti e fondatori di colonie che scelgono opportunamente le proprie sedi; il motivo della scelta della sede celeste da parte della Vergine sarà poi esplicito in Avien. Arat. 351 unde procul terras summa vix cerneret aethra; Bellandi 2000 (a), pp. 56 n. 59 e 57 n. 62. In rapporto ad Arat. 134 νάσσατο e al ciceroniano Iovis in regno…resedit, ora vd. pure Hes. Op. 18 Κρονίδης…αἰθέρι ναίων.

695 Landolfi 1996, pp. 34 s.

696 Arat. 270 attribuisce invece a Mercurio la scelta della sede celeste della Lira.

137 XX Huic supera duplices umeros adfixa videtur stella micans tali specie talique nitore “Al di sopra delle spalle della Vergine si vede infissa una stella che brilla di tale aspetto e di tale nitore” Testimonium: Prisc. GL 3, 55 s. (de voce “supera”, cf. fr. VIII,2) : idem (Cicero) in eodem (Arato) “huic…nitore” Arat. 137 τῆς ὑπὲρ ἀμφοτέρων ὤμων εἱλίσσεται ἀστὴρ e 139 τόσσος μὲν μεγέθει, τοίῃ δ’ἐγκείμενος αἴγλῃ

1 huic frequente attacco esametrico (cf. Arat. frr. 9, 1; 16, 3; 32, 1; 34, 7) da riferire alla costellazione poco prima nominata, cioè la Vergine, e che qui ripropone la posizione incipitaria di Arat. 137 τῆς. supera duplices umeros fedele traduzione di Arat. 137 ὑπὲρ ἀμφοτέρων ὤμων, con ricollocazione delle “due spalle” sulle cesure pentemimera ed eftemimera; per la ripetizione di umeros nella stessa sede metrica, cf. Arat. fr. 25, 3 umerum; Arat. 18 umero; 417 e 477 umeros. Quanto a supera, vd. supra, fr. 8, 2, s.v. Il nesso duplices umeros tornerà riformulato in Verg. Aen. 5, 421 haec fatus duplicem ex umeris reiecit amictum697, mentre il solo aggettivo è ripetuto per parti doppie del corpo in Arat. fr. 34, 258 pedes duplices; Lucr. 6, 1146 duplicis oculos; Verg. Aen. 1, 96 duplicis…palmas (cf. supra, fr. 15, 1, s.v. pressu duplici palmarum, e Serv. ad l. duplices duas, secundum morem antiquum: nam duplices duos dicebant, ut hoc loco). Arat. fr. 34, 14 (Piscium) atque horum e caudis duplices velut aere catenae traduce, come qui, Arat. 242 s. ἀμφοτέρων δέ σφεων ἀποτείνεται ἠΰτε δεσμὰ / οὐραίων, con trasferimento del numerale dalle code dei Pesci alle catene che da queste si dipartono698. adfixa videtur / stella micans vd. supra, fr. 16, 3 s. fixa videtur / stella micans. Per l’enjambement cf. Lucr. 4, 391 s. sidera cessare aetheriis adfixa cavernis / cuncta videntur e, in riferimento all’Annunciatrice della Vendemmia come qui, Germ. 140 s. Virginis at placidae praestanti lumine signat / stella umeros e Avien. Arat. 353 s. istius extremis umerorum partibus urget / stella facem. Il participio adfixa, corrispondente ad Arat. 139

697 Su duplicem…amictum vd. Serv. ad l.

698 TLL VI.1, 2269, 11-39: 11-23.

138 ἐγκείμενος, tornerà in forma semplice riferito alle stelle in Arat. 235 s. (signa) verum haec, quae semper certo volvuntur in orbe / fixa (ma vd. pure il prosastico infixus; p. es., rep. 6, 17 infixi…stellarum cursus e Tusc. 5, 69 sidera…certis infixa sedibus)699; Lucr. 5, 1205 templa super stellisque micantibus aethera fixum700; Ov. met. 2, 204 s. hac sine lege ruunt altoque sub aethere fixis / incursant stellis701. tali specie talique nitore traduzione di Arat. 139 τόσσος μὲν μεγέθει, τοίῃ δ’ἐγκείμενος αἴγλῃ che, in rapporto alla corrispondenza dell’esametro precedente ad Arat. 137, comprova la validità dell’espunzione di Arat. 138702. Alla variazione aratea τόσσος…τοίῃ, messa in evidenza dalla rispettiva collocazione ad inizio emistichio, corrisponde ora la duplicazione di tali (cf. Germ. 142 quique micat cauda quique armum fulget ad ipsum, che somma all’incisione aratea la duplicazione e il verbo ciceroniani); l’aggettivo è ripetuto da Avien. Arat. 357 talis utrimque modo simul et fulgore micat lux per la stella collocata sotto la coda dell’Orsa Maggiore, alla quale Arato assimila per grandezza e luminosità proprio l’Annunciatrice della Vendemmia, vv. 139 s.703. Specie e nitore, che traducono rispettivamente μεγέθει “grandezza” e αἴγλῃ “luminosità”, torneranno associati in Arat. fr. 34, 165 consimilis specie stellae parilique nitore, dove esprimono nuovamente la somiglianza tra stelle, e in Ov. met. 4, 231 in veram rediit speciem solitumque nitorem, con riferimento al Sole che si palesa a Leucotoe nel suo reale sembiante e nel suo consueto splendore704 (ma vd.

699 Ciappi 1999, p. 34, correla l’uso di fixus e composti per le stelle alla teoria di Anassimene secondo la quale le stelle erano infisse nella volta celeste “come chiodi”, teoria destinata ad ampia diffusione nell’astronomia antica.

700 Ibid., con chiarimento di super come avverbio e non come preposizione in considerazione del fatto che qui Lucrezio segue la dottrina astronomica antica che considerava le stelle infisse alla volta celeste, cioè all’etere, la sfera celeste più alta. Lucrezio varia dunque con questa nozione delle stelle fisse, in virtù della quale aethera fixum stellis micantibus equivale a aethera in quo stellae micantes fixae sunt, l’espressione enniana caelum stellis aptum, sulla quale vd. Timpanaro 1996, pp. 54-59.

701 TLL VI.1, 719, 54-65.

702 2 Martin 1998 , I, p. 9.

703 L’assimilazione aratea tra l’Annunciatrice della vendemmia e la stella principale della costellazione dei Cani da Caccia, entrambe stelle di terza grandezza, salva il ciceroniano tali specie talique nitore 3 dall’accusa di esagerazione del dato luminoso mossa da Buescu 1966, p. 184 n. 3, e da Traglia 1971 , p. 136 n. 62; in proposito, Soubiran 1972, p. 201 n. 8.

704 Sul riferimento di nitor e di nitidus al fulgore degli astri, primo fra tutti del sole, vd. Catull. 66, 3 flammeus…solis nitor; Verg. georg. 1, 467 caput obscura nitidum ferrugine texit (sol); Hor. Saec. 9 alme Sol, curru nitido diem qui promis; Ov. met. 14, 768 nitidissima solis imago.

139 pure la metamorfosi astrale della corona di Arianna, 8, 180 s. gemmae nitidos vertuntur in ignes /…specie remanente coronae); analogamente, il nesso ciceroniano micans…nitore, attestato anche in trag. inc. 242 R.3 micant nitore tecta sublimi aurea, tornerà riferito in Ovidio proprio alla reggia del Sole, met. 2,1 ss. regia Solis erat sublimibus alta columnis / clara micante auro flammasque imitante pyropo; / cuius ebur nitidum fastigia summa tegebant. Sull’associazione tra aspetto e splendore, vd. pure Lucr. 1, 9 s. placatumque nitet diffuso lumine caelum. / nam simul ac species patefacta verna diei.

XXI

Tertia sub cauda ad genus ipsum lumina pandit “Una terza stella diffonde la sua luce sotto la coda (dell’Orsa), proprio in prossimità del ginocchio” Testimonium: Prisc. GL 2, 210 s. Cicero tamen in Arato hoc genus pro genu protulit: “tertia…pandit” Arat. 145 ἄλλος δ’ οὐραίοις ὑπὸ γούνασιν

Tertia l’aggettivo, ripetuto in posizione incipitaria con isosillabismo del primo emistichio in Hom. fr. 5 tertia te Phtiae tempestas laeta locabit, rende qui Arat. 145 ἄλλος, i cui precedenti εἷς μὲν… εἷς δ’ (v. 144) spiegano la precisazione di ἄλλος col numerale tertia, verosimilmente suggerito dallo scoliastico τρίτου (p. 146, 9 M.) e nuovamente riferito alla medesima stella da Avien. Arat. 363 s. …genibusque dehinc se tertia promit / aemula, qua rutilae flagrant confinia caudae. sub cauda ad genus ipsum la collocazione della stella sotto le ginocchia posteriori dell’Orsa Maggiore, Arat. 145 οὐραίοις ὑπὸ γούνασιν705, viene qui resa dal riferimento alla coda, sub cauda, utile a restituire il senso letterale dell’arateo οὐραίοις “della coda” e lo scolio ad l., p. 146, 11-13 M. ἐστὶν ὑπὸ τὴν οὐρὰν κείμενος κατ’ ἀντιδιαστολὴν τῶν ὑπὸ τοὺς ἐμπροσθίους ὤμους γονάτων, dove la contrapposizione tra le ginocchia posteriori e quelle anteriori si presta a spiegare anche l’enfatico ipsum ciceroniano riferito al ginocchio, con passaggio al sg. indipendente dal modello e dai relativi scolî, il cui pl. è restituito da Avien.

705 Sul significato estensivo di οὐραῖος “posteriore”, cf. Arat. 352 ποσσὶν ὑπ’ οὐραίοισι ~ Cic. Arat. fr. 34, 138 posteriora…vestigia e sch. Arat. 145, p. 146, 10-11 M. ἄλλος δ’ οὐραίοις ὑπὸ γούνασιν, τοῖς ὀπισθίοις λέγων ~ Hipparch. 1, 2, 9 ἄλλος ὑπὸ τοὺς ὀπισθίους πόδας; in particolare, Ipparco riporta l’espressione di Eudosso per dimostrare come da lui dipenda Arat. 143-145; Kidd 1997, p. 233.

140 Arat. 363 genibus. L’accusativo neutro sg. genus, che risponderebbe all’esigenza metrica di ottenere una sequenza dattilica e di evitare l’elisione706, compensa in qualità di arcaismo morfologico707 la grafia omerica di Arat. 145 γούνασιν in luogo di γόνασιν. Tra le ripetizioni di genus negli Aratea (fr. 34, 27; 45 s.; 254; 375; 399; 403), vd. in particolare Arat. fr. 34, 27 at propter laevum genus (sc. Persei) omnis parte locatas, il cui riferimento alle Pleiadi farà del genus di Ov. fr. 1, 1 Bl. Pleiades ante genus (sc. Persei) septem radiare feruntur708 una chiara imitazione della forma ciceroniana, dal momento che questa forma è attestata in questi due soli luoghi in riferimento al medesimo soggetto astronomico709. lumina pandit aggiunta probabilmente dettata da Arat. 141 s. δεινοὶ…/ἀστέρες, in riferimento alla luminosità delle tre stelle che circondano l’Orsa Maggiore. La clausola, leggermente variata in Arat. fr. 34, 452 Antepedum contecta, simul cum lumine pandit (Centaurus), sarà ripetuta da Lucr. 5, 657 aetheris auroram differt et lumina pandit e successivamente da Arator act. 2, 532 (aquila) eius in igne fovet nocturnaque lumina pandit; per il nesso cf. Arat. fr. 34, 380 exoritur pandens illustria lumina Virgo e Culex 185 qua diducta genas pandebant lumina gemmis.

706 Ewbank 1933, p. 143.

707 Traglia 1950, p. 110.

708 TLL VI.2, 1881, 75-78.

709 Ciappi 2003, p. 366.

141 XXII Et natos Geminos invises sub caput Arcti; subiectus mediaest Cancer, pedibusque tenetur magnu’ Leo tremulam quatiens e corpore flammam “e osserverai i Gemelli sotto il capo dell’Orsa (Maggiore); al di sotto della sua metà corpo il Cancro, e dai piedi (dell’Orsa) è toccato il grande Leone che scuote dal corpo una tremula fiamma” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 110 “et…flammam” Arat. 147 s. Κρατὶ δέ οἱ Δίδυμοι, μέσσῃ δ’ ὕπο Καρκίνος ἐστίν, / ποσσὶ δ’ ὀπισθοτέροισι Λέων ὕπο καλὰ φαείνει 1 Et Ω : At Patricius, Buescu || natos Ω : stratos Gain (coll. Ph. 172) || 2 mediaest codd. vett. : mediae est vel media est dett.

I due versi aratei sono caratterizzati da parallelismo strutturale: al v. 147 la pentemimera riparte tra i due emistichi la menzione dei due referenti, i Gemelli e il Cancro, i cui nomi isosillabici (Δίδυμοι / Καρκίνος) seguono al parimenti isosillabico dativo (κρατὶ / μέσσῃ) che, in apertura di ciascuno dei due emistichi, è retto apo koinoù da ὕπo; la preposizione, in anastrofe, è collocata dopo il quarto ictus qui e nel verso successivo710, entrambi terminanti con una forma verbale, ἐστίν e φαείνει. A differenza di Arat. 147, Cicerone colloca al centro del verso il verbo, invises, che viene ora ad assolvere la stessa funzione dell’incisione aratea, cioè a distinguere la menzione dei Gemelli (natos Geminos) e la loro collocazione sotto la testa dell’Orsa (sub caput Arcti), dove il genitivo Arcti è aggiunto rispetto ad Arato711. Il primo emistichio di Arat. 147 viene espanso in un intero verso (v. 1)712, mentre il secondo emistichio è sviluppato in subiectus mediaest Cancer (v. 2), con rilievo al nome della costellazione tramite sua interposizione tra cesure pentemimera ed eftemimera; analogamente, Geminos precede la pentemimera al v. 1, Leo la tritemimera al v. 3. Rispetto ad Arat. 148, alla minore precisione ciceroniana sulla collocazione del Leone (l’Arpinate omette di tradurre

710 Cf. Possanza 2004, p. 40.

711 Possanza 2004, p. 41, rileva che «Aratus chooses and arranges his word sto create a syntactic design that is a world-map of the celestial order»; analogamente, Pellacani 2013, p. 104, coglie in questa aggiunta una trasposizione grafico-sintattica dell’importanza rivestita qui dall’Orsa, a partire dalla quale è possibile individuare la posizione dei Gemelli, del Cancro e del Leone.

712 Kubiak 1979, pp. 50, 103 n. 16 e 158-160, rileva inoltre come la collocazione del nome proprio a fine verso trovi significativo esito nella Chioma di Catullo.

142 ὀπισθοτέροισι “posteriori” e aggiunge tenetur), si contrappone un’espansione relativa alla luminosità del medesimo (v. 3), rimarcata dall’ enjambement (vv. 2 s. pedibusque tenetur / magnu’ Leo) che sottolinea pure l’ampliamento dello spazio testuale riservato a questa costellazione (da un verso in Arato ad un verso e mezzo in Cicerone).

1 natos Geminos invises cf. Arat. fr. 34, 20 e pedibus natum summo Iove Persea vises. Per il nesso natos Geminos, rilevato qui dall’omoteleuto in –os sotto ictus, cf. Plaut. Men. 1103 geminos, una matre natos et patre uno uno die; Verg. Aen. 5, 285 Cressa genus, Pholoe, geminique sub ubere nati; Prop. 4, 1, 89 dixi ego, cum geminos produceret Arria natos; Sil. 6, 403 ecce trahens geminum natorum; esso verrà riformulato da Manil. 2, 561 Geminis nati in riferimento ai nati sotto il segno dei Gemelli, mentre per la costellazione vd. vv. 568 gemini fratres e 662 geminos iuvenes. Il verbo, variando qui i descrittivi ἐστίν e φαείνει, conferisce al dettato un tono didascalico713; ad esso, equivalente poetico di conspicio714, corrisponderanno Germ. 147 subiectum respice cancrum (cf. v. 2 subiectus…Cancer) e 149 cerne leonem; Avien. Arat. 369 subiectos capiti Geminos tibi cernere fas est. sub caput Arcti resa di Arat. 147 κρατὶ…ὕπo con aggiunta di Arcti, genitivo ricollocato in clausola in Arat. fr. 29 e riproposto da Avien. Arat. 368 s. …ipsius (Arctoe) autem / subiectos capiti Geminos tibi cernere fas est; cf. sch. Arat. 147, p. 148, 15-16 M. τῆς…κεφαλῆς αὐτῆς. In rapporto al precedente invises, vd. la riformulazione del nesso con aggiunto verbum videndi in Arat. fr. 34, 79 iam supera cernes Arcti caput esse Minoris, dove risalta lo stesso verbo selezionato poi da Avieno nella sua versione di Arat. 147. La preposizione sub regge l’accusativo anche in Arat. frr. 15, 3 sub pectora e 34, 315 sub eum, contro le ben più numerose attestazioni coll’ablativo: Arat. frr. 16, 5; 34, 172 e 176 sub pedibus; 21 sub cauda; 25, 1 sub laeva…parte; 34, 4 sub pectore; 26 sub culmine; 47, 233 e 239 sub tegmine; 149 sub laeva…planta; 193 sub media…regione; 221 Geminis…sub ipsis. Sul grecismo Arcti, vd. supra, fr. 16, 2, s.v. temone adiunctam…Arctum.

2 subiectus mediaest Cancer il prefisso verbale sub ripete la preposizione sub del v. precedente, riproponendo la duplicazione di ὕπο nel modello, Arat. 147s.715; analogamente, Germ. 147 s. qua media est Helice, subiectum respice Cancrum; / at capiti suberunt Gemini,

713 Possanza 2004, p. 41; ma vd. pure Kubiak 1979, p. 50, secondo il quale «Cicero vivifies the Latin version by the addition of invises».

714 TLL VII.2.1, 224, 8-16.

715 Possanza 2004, p. 41.

143 raffronto che dissuade dal mediae est stampato nel fr. ciceroniano da Ewbank716, dativo cui osterebbe pure il parallelismo tra i due sub ciceroniani e i due ὕπο aratei, parallelismo che abilita la reggenza dello stesso caso: sub + acc., caput e media ~ ὕπο + dat., κρατὶ…μέσσῃ…ποσσὶ δ’ ὀπισθοτέροισι; inoltre, il raffronto con Germanico farebbe ora propendere per il media est dei deteriores a fronte del mediaest dei vetustiores, stampato da Buescu717, Traglia718 e Soubiran719; in proposito, cf. pure Paneg. in Mess. 158 at media est Phoebi semper subiecta calori, dove, al di là della variazione sintattica, risalta anche il participio. Il sintagma ciceroniano è scandito da tre cesure, utili ad incorniciare prima media al centro dell’emistichio, poi Cancer al centro del verso; cf. fr. 15, 3 namque virum medium Serpens sub pectora cingit. Sui contigui subiectus mediaest, posti in rilievo dalle incisioni, cf. Manil. 1, 225 post medio subiecta polo quaecumque coluntur (terrae), dove le cesure tritemimera ed eftemimera rilevano il nesso medio…polo, mentre subiectus…Cancer verrà invece riformulato da Sen. Phaedr. 287 (ora) si qua ferventi subiecta cancro est, dove, nonostante il diverso giro sintattico, la clausola rinvia direttamente ad Arat. 147 Καρκίνος ἐστίν. pedibusque tenetur omissione dell’hapax arateo ὀπισθοτέροισι720 (diversamente, Germ. 148 qua posterior pes e Avien. Arat. 391 qua postrema pedum), compensata dall’aggiunta di tenetur che però suggerisce il contatto tra l’Orsa e il Leone, astronomicamente inesistente.

3 magnu’ Leo sull’elisione di –s finale, vd. supra, fr. 8, 2, s.v. torvu’ Draco. L’espressione ritorna nella stessa sede metrica, in enjambement col verso precedente e in riferimento al Leone associato al Cancro in Arat. fr. 34, 262 s. at vero totum spatium convestiet orbis / magnu’ Leo et claro conlucens lumine Cancer. L’aggettivo tornerà riferito alla costellazione in Germ. Arat. fr. 4, 94 Le Boeuffle; Manil. 2, 504 e 5, 234; all’animale in Verg. ecl. 4, 22. Esso suggerisce qui la grande estensione del Leone, per la quale cf. Germ. Arat. fr. 4, 124 Le B. e Manil. 4, 176 vasti…Leonis; Avien. Arat. 393 s. membra dehinc, longi quae semet tramite caeli / plurima protendunt e 894 s. spatiosa Leonis / viscera.

716 Ewbank 1933, pp. 81 e 144; così pure Pease 1958, p. 819.

717 Buescu 1966, pp. 185 e 285.

718 3 Traglia 1971 , p. 71.

719 Soubiran 1972, p. 163.

720 Sull’aggettivo greco, Kidd 1997, p. 236.

144 tremulam quatiens e corpore flammam autonoma espansione di Arat. 148 καλὰ φαείνει, luogo chiarito dallo scolio ad l. col riferimento a Regolo, la stella più luminosa della costellazione (p. 151, 12-14 M. ὁ Λέων ἔχει ἐπὶ τῆς καρδίας ἀστέρα λαμπρὸν Βασιλίσκον λεγόμενον), a cui probabilmente allude il sg. tremulam…flammam; cf. Avien. Arat. 392 maxima flammigeri mundus trahit ora Leonis721. Il nesso tremulam…flammam sarà ripetuto da Verg. ecl. 8, 105 tremulis …flammis, Sil. 1, 357 tremula…flamma e Paul. Nol. carm. 18, 37 tremulas…flammas, il quale ripete dei precedenti sia la collocazione in clausola di flammas sia la collocazione di tremulas in seconda sede esametrica come il ciceroniano tremulam; ma vd. pure Drac. laud. dei 2, 6 pendula quod tremula vibrant face sidera flammas. La iunctura, in riferimento alla luce, richiama Enn. trag. 253 R.3 lumine sic tremulo terra et cava caerula candent722; il solo aggettivo, invece, rioccorre riferito alla luminosità dei corpi celesti in Cic. cons. fr. 2, 15 vidisti et claro tremulos ardore cometas e Germ. 105 s. (Aegoceros)…tremuloque nitore / flagrantis teli mortalia lumina vincet. Per i contigui tremulam quatiens, cf. Catull. 6, 10 tremuli…quassa lecti; Ov. met. 8, 375 hastarum tremulo quatiebant spicula motu; Petron. bell. civ. 227 sanguineam tremula quatiebat lampada dextra. Per la ripetizione di quatiens nella stessa sede metrica, Arat. frr. 25, 1 huic Equos ille iubam quatiens fulgore micanti (cf. Ov. ars 2, 721 aspicies oculos tremulo fulgore micantes) e 34, 51 quatiens e corpore flammam. Dal momento che tremulus è aggettivo riferito anche al tremore del corpo (p. es., Pompon. Atell. 108 R.3 e Catull. 64, 307 corpus tremulum) o di alcune sue parti (p. es., Enn. ann. 34 Sk. tremulis…artubus; Ov. epist. 19, 26 pollice…tremulo; Sen. Od. 289 tremulo…genu), qui tremulam si riferirebbe sia alla luce emessa dal Leone (cf. Arat. fr. 34, 51 sed mediocre iacit quatiens e corpore lumen e 110 nec vero toto spirans de corpore flammam) sia al tremore del suo corpo, per effetto di quatiens; in proposito, vd. Arat. fr. 34, 68 tum fixum tremulo quatietur frigore corpus, dove l’aggettivo dal chiaro valore causativo si riferisce al corpo tremante per il freddo causato dai gelidi soffi dell’Austro, nonché Drac. Orest. 264 saucius et tremulo quatiebat corpore terram. Il veloce movimento del Leone, consistente in uno scuotimento, è qui esaltato dal ritmo dattilico, cui dà rilievo, per contrasto, lo spondeo in quarta sede723.

721 Soubiran 1981, p. 199 n. 9.

722 Sulla iunctura enniana lumine…tremulo, Jocelyn 1967, p. 387.

723 Ewbank 1933, p. 144.

145 XXIII Hoc motu radiantis etesiae in vada ponti “Quando il (Sole) raggiante si muove (col Leone), i venti etesii (si abbattono) sui flutti del mare” Testimonium: Cic. orat. 45, 152 omnes poetae praeter eos qui, ut versum facerent, saepe hiabant, ut Naevius…, et quidem nos “hoc…ponti” Arat. 152 τῆμος καὶ κελάδοντες ἐτήσιαι εὐρέι πόντῳ radiantis etesiae in A : -anti hetesiae in O2 -antis est aein F -anti se teste in PO1. De hiatu etesiae in, cf. Arat., l. c., Lucr., VI, 716 eodem versus loco

hoc motu radiantis l’espressione è da collegare ad Arat. 151 ἠελίου τὰ πρῶτα συνερχομένοιο Λέοντι, in riferimento al movimento del sole che entra nella costellazione del Leone, ed ha valore temporale, come chiarisce Arat. 152 τῆμος “allora”, “in quel tempo”. Il participio, detto anche delle costellazioni - Arat. frr. 9, 4 radianti sidere [Draconi] e 34, 172 radiantis Aquari-, tornerà riferito al sole in Catull. 63, 39 Sol radiantibus oculis; Ov. trist. 2, 325 radiantia lumina Solis; Opt. Porf. carm. 11, 10 radians Hyperion; Drac. satisf. 243 sol oculus caeli radians; Romul. 10, 402 Phoebus radians; 540 e Coripp. Iust. 4, 101 Sol radians. etesiae traslitterazione di Arat. 152 ἐτήσιαι (cf. pure la clausola, πόντῳ ~ ponti), con fedele riproduzione dell’abbreviamento in iato del termine greco nella stessa sede metrica724. Il fenomeno prosodico, segnalato dallo stesso Cicerone (vd. testimonium), tornerà in Lucr. 6, 717 (aquilones) anni tempore eo qui etesiae esse feruntur con rilievo della periodicità dei venti Etesii, suggerita già dal loro stesso nome (per antonomasia da ἐτήσιος “annuale”, detto specificamente della periodicita dei venti da Aristot. Pr. 940 a 35). Curiosamente, come in Lucrezio, la menzione di questi venti segue quella delle piene del Nilo, così Cicerone ripete il sostantivo in prosa (nat. deor. 2, 131) subito dopo aver parlato dell’apporto del Nilo alla fertilità dell’Egitto725. Gli scolî specificano che questi venti iniziano a soffiare quando il sole si trova nella costellazione del Cancro e che diventano più forti quando il sole entra a fine

724 Buescu 1966, p. 268 n. 9.

725 Pease 1958, p. 891, nota che Hdt. 2, 20 correla gli Etesii alle piene del Nilo, chiedendosi se questa connessione, alle base della giustapposizione dei due fenomeni in nat. deor. 2, 130 s., sia giunta spontaneamente alla mente di Cicerone o se dipenda da Panezio, citato da Anon. in Arat., p. 97 Maass. Ora, la precedenza del testimone lucreziano farebbe propendere per un’associazione derivante dall’usuale connessione tra il Nilo e gli Etesii.

146 luglio nel Leone726, il che si correla a quanto segue nel testo arateo (vv. 153-155) circa la pericolosità della navigazione in questo particolare periodo dell’anno. Lo stesso Cicerone, in prosa, indicherà spesso gli Etesii come venti avversi alla navigazione727. in vada ponti al concetto arateo di estensione del mare (εὐρέι πόντῳ) viene qui sostituita l’immagine dei flutti, variazione compensata dal grecismo ponti che estende alla clausola quella fedeltà al modello registrata per etesiae. La scelta di pontus è inoltre funzionale ad indicare il mare agitato dai venti728 (cf. Arat. fr. 34, 62 hoc cave te in pontum studeas committere mense, cui segue la descrizione del mare mosso dall’impetuoso Austro), mentre vada tornerà riferito ai flutti gonfiati proprio dagli Etesii in Tac. ann. 6, 33, 3 flatibus etesiarum implentur vada. Esclusivamente poetica la voce pontus, attestata a partire da Enn. ann. 217 Sk. e per lo più riservata alla clausola come necessaria alternativa metrica a mare729. Sia vada sia ponti ritorneranno, seppure non congiuntamente, nelle due successive versioni latine del luogo arateo; Germ. 154 ne mihi tum remis pulset vada caerula puppis e Avien. Arat. 403 s. …longis hoc tempore in anni / otia sunt remis, pontus vehit ipse carinas. La iunctura ciceroniana, riformulata da Lucr. 1, 200 non potuit, pedibus qui pontum per vada possunt730, sarà particolarmente cara ad Avieno, il quale tuttavia non la ricollocherà in clausola: Arat. 307; 915; 1140; orb. ter. 120; 157; 905.

La struttura nominale del frammento venne integrata dal Patricius con , probabilmente sulla base di Arat. 153 ἀθρόοι ἐμπίπτουσιν731; analogamente, il cadunt di Schrickx732.

726 P. 156, 14-16 M. ἄρχεσθαι τοὺς ἐτησίας πνεῖν ἔτι ὄντος ἡλίου ἐν τῷ Καρκίνῳ, σφοδροτέ<ρους> δὲ γίνεσθαι ὅτε ἐν τῷ Λέοντι.

727 Pease 1958, p. 891.

728 TLL X 1.2, 2686, 69 – 2687, 13.

729 Skutsch 1985, p. 390; Tomasco 2002, p. 206.

730 Cf. Gee 2013 (a), p. 192.

731 Buescu 1966, p. 285.

732 TLL, X.1.2, 2686, 73, s.v. pontus.

147 XXIV Navibus absumptis fluitantia quaerere aplustra “distrutte le navi, cercare i fluttuanti aplustri” Testimonium: Prisc. GL 2, 351 et aplustra enim et palustri antiqui protulisse inveniuntur. Cicero in Arato “navibus…aplustra” Arat. 158 s. (Αἰγὸς) αὐτῆς ἠδ’ Ἑρίφων, οἵ τ’ εἰν ἁλὶ πορφυρούσῃ / πολλάκις ἐσκέψαντο κεδαιομένους ἀνθρώπους

Il frammento amplia una scena di naufragio appena accennata in Arato (vv. 158 s.), secondo il quale la Capra e i Capretti sono soliti assistere al naufragio degli uomini, dispersi nel mare che ribolle di flutti. La stessa espansione si ritrova in Germ. 170-173 e in Avien. Arat. 417- 420, i quali aggiungono questi versi dopo aver parlato della scarsa luminosità dei Capretti (Arat. 166), oggetto di Cic. Arat. fr. 26, 2733. La mancata corrispondenza al modello ha creato discrepanze nella collocazione del frammento734; la soluzione migliore appare quella adottata da Buescu, il quale, alla luce di Germanico e di Avieno, colloca questo verso dopo la menzione dei Capretti nel fr. 26. navis absumptis il verbo, diffuso maggiormente in prosa, tornerà riferito alle navi in Liv. 37, 26, 4; Tac. ann. 15, 18; Svet. Iul. 25; Iust. 4, 1, 16735. La distruzione delle navi potrebbe essere qui causata dai marosi, in considerazione della possibile espansione di Arat. 158 εἰν ἁλὶ πορφυρούσῃ; cf. Germ. 173 s. iactatam videre ratem nautasque paventis / sparsaque per saevos morientum corpora fluctus e Avien. Arat. 420 et vaga ceruleas involvant aequora puppes. fluitantia quaerere aplustra il frequentativo fluito, detto primariamente del fluttuare delle acque e per traslato degli oggetti, in specie navi o loro parti, su di esse galleggianti736, tornerà riferito agli aplustra in Lucr. 2, 555 per terrarum omnis oras fluitantia aplustra, dove i fluttuanti aplustri sono parte di una scena di naufragio che dovrebbe valere da monito ad

733 Soubiran 1972, p. 164 n. 3.

734 Ewbank 1933, p. 145, e Buescu 1966, p. 186 n. 6.

735 TLL I, 217, 36-41.

736 TLL VI.1, 954, 57 – 955, 2.

148 evitare le insidie del mare737. Dipendente dal passo lucreziono apparirà la descrizione del naufragio in Sil. 10, 324 s. et transtra et mali laceroque aplustra velo / ac miseri fluitant revomentes aequora nautae, dove alla ripetizione di termini già del naufragio lucreziano (transtra…mali ~ Lucr. 2, 553 s. transtra / malos) si associa la riformulazione del nesso fluitantia aplustra, con riferimento qui del verbo non solo alle parti della nave andate distrutte, ma anche ai marinai in lotta con i flutti. In virtù dell’identificazione degli aplustra con i rostra (sch. Juv. 10, 136 aplustra. tabulatum ad decorandum superficium navis adpositum. alii dicunt rostra navis. ornamentum puppis, ἄφλαστα)738, vd. pure Manil. 5, 51 Punica nec toto fluitabunt aequore rostra. Il neutro pl. aplustra, attestato già in Enn. ann. 608 Sk., è la forma più antica, sostituita poi nel latino argenteo da aplustria, cui Lucan. 3, 586; 672 e Juv. 10, 136 affiancheranno il sg. aplustre. Il vocabolo deriva da ἄφλαστος, forse per mediazione etrusca739. Il nesso quaerere aplustra realizza la rara elisione della tesi del quinto dattilo, come Arat. fr. 34, 179; 372 e 430740.

737 La dipendenza lucreziana da Cicerone è corroborata pure dal raffronto tra Lucr. 2, 556 mortalibus edant e Cic. Arat. fr. 34, 335 mortalibus edit, sul quale vd. Gee 2013 (a), pp. 98-100 e 201 s.

738 TLL II, 241, 27-28.

739 TLL II, 241, 13-24; Traglia 1950, pp. 76 s.; Skutsch 1985, p. 738.

740 Traglia 1950, p. 165 n. 2.

149 XXV Sub laeva Geminorum obductus parte feretur; adversum caput huic Helice truculenta tuetur, at Capra laevum umerum clara obtinet. “Sotto la parte sinistra dei Gemelli (l’Auriga) si muove proteso in avanti; Elice guarda torva il suo capo posto in direzione opposta, mentre la luminosa Capra occupa la spalla sinistra (dell’Auriga)” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 110 Auriga “sub laeva…obtinet” Arat. 160-163 (Ἡνίοχον) αὐτὸν μέν μιν ἅπαντα μέγαν Διδύμων ἐπὶ λαιὰ / κεκλιμένον δήεις, Ἑλίκης δέ οἱ ἄκρα κάρηνα / ἀντία δινεύει, σκαιῷ δ’ ἐπελήλαται ὤμῳ / Αἲξ ἱερή, τὴν μέν τε λόγος Διὶ μαζὸν ἐπισχεῖν 2 adversum Ω : aversum Buescu || Helice Ω : -cae Grotius –ces Davies || 3 clara codd. AB : -ro HV

1 sub laeva Geminorum…parte spostamento ad inizio verso della clausola di Arat. 160 Διδύμων ἐπὶ λαιὰ, con aggiunta inversione del genitivo di specificazione ed eliminazione del riferimento alla grandezza dell’Auriga, Arat. 160 (Ἡνίοχον) αὐτὸν… ἅπαντα μέγαν, restituito poi da Germ. 163 ipse ingens transversus abit laeva Geminorum, il quale conserva pure la clausola aratea ma ripetendo i termini ciceroniani, e da Avien. Arat. 411 ss. …pronus procul in Geminorum / laeva iacet fusoque super se corpore tendit / plurimus, dove sia l’ubicazione sia l’estensione dell’Auriga sono rilevate dal doppio enjambement, rispettivamente di laeva e di plurimus. obductus la posizione inclinata dell’Auriga, Arat. 161 κεκλιμένον ~ Germ. 163 transversus, è qui specificata nel senso di “proteso in avanti”, in plausibile dipendenza e in accentuazione di sch. Arat. 161, p. 160, 8-9 M. οὐ γάρ ἐστιν ἔξορθος, ἀλλ’ ὥσπερ ἐπινεύων καὶ πρὸς τὸ ἐλαύνειν ἐπειγόμενος “non è ritto, ma è come se accennasse e si affrettasse a spingersi in avanti”741; per questa via, poi, Avien. Arat. 411 pronus. Tra le traduzioni del passo la più precisa risulta dunque quella di Soubiran742, te le verras s’avancer, étendu sous le

741 Ewbank 1933, p. 145, si limita a segnalare che obductus ha di solito il significato di “coperto”, il quale però non avrebbe senso in traduzione di κεκλιμένον; il participio ciceroniano viene invece abilitato al significato di “nascosto” da Pellacani 2013, p. 108, per il quale «alla base della scelta sta forse uno stimolo tratto dagli scholia», con riferimento specifico allo scolio riportato sopra. Mi pare però evidente che lo scolio in questione non contenga nessun elemento sviluppabile nel senso di “nascosto”.

742 Soubiran 1972, p. 164.

150 partie gauche des Gémeaux743, la quale rende con s’avancer l’idea del movimento in avanti, obductus feretur, contaminando però la versione ciceroniana, priva del futuro “vedrai” e del dettaglio della grandezza dell’Auriga, con Arat. 160 s. (Ἡνίοχον) αὐτὸν μέν μιν ἅπαντα μέγαν Διδύμων ἐπὶ λαιὰ / κεκλιμένον δήεις. feretur al didascalico Arat. 161 δήεις “vedrai” si sostituisce il descrittivo feretur, futuro forse dettato dal corrispondente verbo arateo, attestato solo al presente ma con significato futuro744. Il verbo, in rima col tuetur di fine verso successivo745, è spesso collocato in clausola negli Aratea, ad esprimere il movimento dei corpi celesti; frr. 3, 2 e 34, 238 feruntur; 12 feratur; 34, 204 feretur; 291 e 301 fertur.

2 adversum caput huic Helice truculenta tuetur la sintassi equivoca di Arat. 161 s. Ἑλίκης δέ οἱ ἄκρα κάρηνα / ἀντία δινεύει, dove il genitivo Ἑλίκης può dipendere tanto da ἄκρα κάρηνα quanto da ἀντία con conseguente riferimento alla testa di Elice oppure a quella dell’Auriga rispettivamente, è risolta in favore del riferimento alla testa dell’Auriga dagli scolî ad l.; p. 160, 10-14 M., Ἑλίκης δέ οἱ ἄκρα κάρηνα: πληθυντικῷ ἐχρήσατο ἀντὶ ἑνικοῦ· ἀντὶ τοῦ ἡ κεφαλὴ αὐτοῦ… ἀντία δινεύει746; p. 160, 17 - 161, 1 ἡ τοῦ Ἡνιόχου κεφαλὴ ἐξ ἐναντίας τῶν γενύων τῆς Ἑλίκης κεῖται. La versione ciceroniana rispecchia la spiegazione scoliastica di ἄκρα κάρηνα quale plurale pro singulari, sostituendo al pl. arateo il sg. caput (cf. Avien. Arat. 413 ab ore; diversamente, Germ. 164 ora), e riproduce l’individuazione della testa dell’Auriga tramite dativo di possesso, Arat. 161 οἱ ἄκρα κάρηνα ~ caput huic747. Rispetto al testo greco, dove il soggetto è dunque l’Auriga, Cicerone inverte però la prospettiva sintattica, rendendo ora soggetto Elice. In più l’Arpinate duplica il concetto dell’opposizione tra le due costellazioni, adversum caput…Helice truculenta, per effetto forse della duplice interpretabilità del modello; cf. sch. Arat. 161, 6-7 M. τὸ δὲ κάρηνα ἐπ’ ἀμφοτέροις δύναται λαμβάνεσθαι, che accentua l’ambiguità aratea aprendo alla possibilità di riferire “testa” ad

743 Diversamente da Buescu 1966, p. 186, «gravitera étendu sous la partie gauche des Gémeaux», e da Traglia 19713, p. 70, «esso ruoterà situato sotto la parte sinistra dei Gemelli».

744 Kidd 1997, p. 241.

745 Pease 1958, p. 820.

746 Il nesso ἀντὶ τοῦ ricorre frequentemente negli scoli ad Arato col valore di “in luogo di”; vd., p. es., p. 38, 1 M.; sul riferimento dello scolio sopracitato alla testa dell’Auriga, cf. Kidd 1997, p. 241.

747 2 Sul valore possessivo dell’arateo οἱ, Martin 1998 , II, p. 226.

151 entrambe le costellazioni748. Innecessaria la correzione di Buescu del tràdito adversum in aversum749, mentre l’integrazione Helice di Davies (analogamente Helicae del Grozio; vd. supra, in apparato ~ Arat. 161 Ἑλίκης), stampata poi da Traglia750, oltre a non tener conto della spiegazione scoliastica del luogo arateo, dà luogo ad un improbabile genitivo di specificazione postposto al suo referente, caput…Helices, contro cui vd. Avien. Arat. 413 Helices caput inclinatur ab ore. Qui, al di là del possibile riferimento di Helices sia a caput sia a ab ore in riproduzione della sintassi equivoca del modello751, resta ferma l’antecedenza di Helices quale genitivo di specificazione. L’integrazione è inoltre resa improbabile dalla pentimemera che, cadendo dopo huic, riparte nei due emistichi il riferimento all’Auriga e a Elice. L’incisione rimarca pure il contatto dei nomi delle due costellazioni; cf. Arat. fr. 15, 3 namque virum medium Serpens sub pectora cingit.

Helice truculenta tuetur su Helice vd. supra, fr. 6, 2, s.v. L’aggettivo truculenta752 è volto qui ad umanizzare la costellazione, in virtù del consueto riferimento di questo attributo a persone; p. es., Culex 255 (fratres) truculenta ferunt infestaque lumina; Sen. Ag. 950 vultusque prae se scelera truculenti ferunt; Oed. 958 s. ardent minaces igne truculento genae / oculi; per lo sguardo, già Plaut. Asin. 401 truculentis oculis. In riferimento a costellazioni, vd. Arat. fr. 34, 103 truculenti…Tauri (cf. Germ. 174 trux…Taurus) e 213 (Centaurus) truculentus; in rapporto al referente “orsa”, cf. Ov. met. 13, 803 (Galatea) asperior tribulis, feta truculentior ursa. Per le estremità del verso, adversum…tuetur, cf. Verg. Aen. 4, 362 talia dicentem iamdudum aversa tuetur; sullo sguardo torvo, espresso qui dalla clausola allitterante truculenta tuetur che riproduce l’effetto fonico della clausola di Arat. 161 ἄκρα κάρηνα, cf. Verg. ecl. 3, 8 novimus et qui te, transversa tuentibus hircis (cf. Val. Fl. 2, 154 (matrem) exanimat, quam iam miseros transversa tuentem) e Aen. 6, 467 talibus Aeneas ardentem et torva tuentem, con ripetute allitterazioni in clausola.

748 Ivi, p. 227.

749 Buescu 1966, pp. 121, 187 e 285.

750 3 Traglia 1971 , p. 70, cui segue la traduzione “torvo di contro a questa guarda il capo di Elice”; ivi, p. 71; truculenta assume così valore avverbiale, per il quale vd. Pease 1958, 820, e OLD, s.v. truculentus, e s.v. tueor, 1a.

751 Soubiran 1981, p. 200 n. 4.

752 Diversamente, sul suo valore avverbiale, vd. n. 644.

152 3 Capra…clara l’aggettivo si presta al polisemico significato di “luminoso” (sulla luminosità della Capra, Arat. 165 ἀλλ’ἡ μὲν πολλή τε καὶ ἀγλαή ~ Cic. Arat. fr. 26, 1 verum haec est magno atque inlustri praedita signo) e di “famoso”, dal momento che Arat. 163 Αἲξ ἱερή, τὴν μέν τε λόγος Διὶ μαζὸν ἐπισχεῖν identifica la costellazione con la capra che nutrì Zeus; su questa identificazione, vd. pure Enn. trag. 200 s. R.3 astrologorum signa in caelo quaesit observat, Iovis / cum Capra aut Nepa aut exoritur nomen aliquod beluarum. L’aggettivo ritornerà riferito alla Capra in Germ. 168 sidere quae claro gratum testatur alumnum e sarà tramutato in avverbio da Avien. 414 s. ut Capra laevo / fixa umero clare sustollitur. Al termine Capra si affiancherà poi il diminutivo Capella, preferito dai poeti per comodità metrica e infine prevalso nella nomenclatura astronomica moderna753. laevum umerum la iunctura, scandita dalle cesure pentemimera ed eftemimera che rimarcano l’omoteleuto, sarà allusa da Germ. 713 s. vertice lucebit, teneros manus efferet Haedos / laeva, Iovis nutrix umero radiabit in ipso, e tornerà con lieve variazione in Avien. Arat. 414 s. …laevo / ...umero. obtinet resa di Arat. 162 ἐπελήλαται, utile ad esprimere sia la posizione sia il movimento delle stelle fisse quale effetto del moto della volta celeste cui esse sono ancorate754; poiché nel caso specifico la Capra poggia sulla spalla sinistra dell’Auriga (cf. Germ. 169 hanc Auriga umero positam gerit), Cicerone precisa il dato astronomico con obtinet “occupa”, da lui nuovamente riferito ad un astro in rep. 6, 17 mediam…regionem sol obtinet755; sulla Capra che sovrasta l’Auriga, in quanto collocata sulla sua spalla, cf. Arat. fr. 34, 468 Aurigam instantemque Capram.

753 Le Boeuffle 1977, p. 110.

754 2 Martin 1998 , II, pp. 227 s.

755 Sul riferimento del verbo alla posizione dei corpi celesti, TLL IX.2, 285, 26-29.

153 XXVI Verum haec est magno atque illustri praedita signo, contra Haedi exiguum iaciunt mortalibus ignem “Ma questa (la Capra) è dotata di una contraddistintiva grandezza e luminosità, mentre i Capretti emettono ai mortali una fievole luce” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 110 tum quae sequuntur: “verum…ignem” Arat. 165 s. ἀλλ’ἡ μὲν πολλή τε καὶ ἀγλαή· οἱ δέ οἱ αὐτοῦ / λεπτὰ φαείνονται Ἔριφοι καρπὸν κάτα χειρός

Verum haec est magno atque illustri praedita signo rispetto all’originale, Cicerone da un lato riproduce l’ordo verborum greco (verum ~ ἀλλ’; ἡ μὲν ~ haec; πολλή τε καὶ ἀγλαή ~ magno atque illustri…signo); dall’altro sostituisce al sintagma nominale un solenne costrutto verbale, est…praedita + ablativo756, che qui rimarca la grandezza e la luminosità della Capra, cui Cicerone riserva un intero verso; il costrutto si ripeterà per le stelle erranti in Tim. 33 siderum errores…moltitudine infinita, varietate admirabili praeditos757. Poiché la Capra è una stella singola, signo non va inteso né come “stella”758 né come “costellazione”759, bensì come “segno distintivo, caratteristico”760; il termine sarà invece riferito alla Capra nel suo consueto valore di stella in Ov. fast. 5, 113 nascitur Oleniae signum pluviale Capellae. Per la clausola praedita signo, cf. Drac. Romul. 8, 615 prima ratis iuvenis regali praedita signo.

2 contra Haedi l’avverbio non ha valenza locativa761, ma contrappositiva: alla grande luminosità della Capra si oppone la luce fioca dei Capretti762. Haedi è qui per la prima volta attestato con valore astronomico e tornerà ripetuto in Arat. fr. 34, 468 parvos…Haedos; ad

756 TLL X 2.1, 572, 67-71.

757 TLL X 2.1, 574, 74-79.

758 Diversamente da Buescu 1966, p. 186 n. 3.

759 Diversamente da Traglia 19713, p. 72.

760 Le Boeuffle 1977, p. 24; Soubiran 1972, p. 202 n. 8.

761 Pease 1958, p. 821.

762 Pellacani 2013, p. 111, «il concetto, già presente nel modello, è enfatizzato dal parallelismo fra i due versi, funzionale alle opposizioni binarie verum haec / contra Haedi e magno…signo / exiguum…ignem, coerentemente con la tendenza ciceroniana a strutturare il contenuto in chiari isomorfismi fra unità sintattiche e unità di senso».

154 esso si affiancherà in età augustea il sg. Haedus, mentre tardivo è il diminutivo Haeduli, analogico di Capella quale sostituto di Capra763. exiguum…ignem Cicerone elimina la collocazione dei Capretti sul polso dell’Auriga - cf. Arat. 166 καρπὸν κάτα χειρός ~ Germ. 169 s. (Aurigae) at manus Haedos / ostendit e 713 s. (Myrtilos)…teneros manus efferet Haedos / laeva ~ Avien. 415 s. ipsius autem / fine manus parvas Haedorum suspice flammas, dove parvas echeggia Cic. Arat. fr. 34, 468 parvos…Haedos e flammas l’ignem in oggetto, parimenti in clausola - e rende così Arat. 166 λεπτὰ φαείνονται, con mutazione dell’avverbio in aggettivo. L’aggettivo sarà poi riferito alla scarsa luminosità del torrente dell’Aquario, Arat. fr. 34, 174 (amnis) exiguo qui stellarum candore nitescit (ma vd. pure Rut. Nam. 1, 635 [Lepus] exiguum radiis sed magnis fluctibus astrum), e alla piccolezza delle stelle tra la Balena e il Timone di Argo, 155 (stellae) exiguae tenui cum lumine multae. Per la iunctura, cf. Verg. georg. 1, 196 igni exiguo; Lucan. 8, 766 exiguam…flammam; Stat. Theb. 10, 428 exiguam…facem (cf. pure iacentis di fine verso col ciceroniano iaciunt); Claud. Goth. 248 exiguum…ignem e Alc. Avit. carm. 6, 467 exiguus…ignis, entrambi nella stessa sede metrica ciceroniana. iaciunt mortalibus ignem cf. Arat. fr. 34, 51 (Ales) sed mediocre iacit quatiens e corpora lumen; 112 (Canis) totus ab ore micans iacitur mortalibus ardor; 331 et Gemini clarum iactantes lucibus ignem764; Lucr. 2, 675 (quaecumque igni flammata) unde ignem iacere et lumen summittere possint765. Il dativo mortalibus sarà ripetuto con chiara funzione di vantaggio da Lucr. 2, 556 ut videantur et indicium mortalibus edant, la cui clausola, oltre a rinviare a quella di Cic. Arat. fr. 34, 335 mortalibus edit766, produce in indicium un gioco fonico rispetto al ciceroniano iaciunt. Non è da escludere allora che Lucr. 2, 556 indicium mortalibus edant fonda e riformuli Cic. Arat. fr. 26, 2 iaciunt mortalibus e 34, 335 mortalibus edit. Poiché nel luogo lucreziano viene descritto un naufragio, la ripetizione dei fluitantia aplustria ciceroniani e la riformulazione dei Capretti che iaciunt mortalibus in indicium mortalibus alluderebbero alla connessione di questa costellazione con il maltempo e, dunque, col naufragio. Ciò suffraga ulteriormente la collocazione da parte di Buescu di Arat. fr. 24

763 Le Boeuffle 1977, p. 110.

764 Sull’impiego di ignis in àmbito astronomico, Le Boeuffle 1977, p. 41; 1987, p. 153, e TLL VII.1, 294, 41-57.

765 Su iacio “de igne, ardore, lumine, flamma sim.”, TLL VII.1, 40, 42-61.

766 Vd. n. 631.

155 Soub. immediatamente dopo il frammento in epigrafe. Per la clausola mortalibus ignem, vd. Lucr. 5, 1092 e 1101; al pl., Val. Fl. 7, 568 mortalibus ignes.

XXVII

Corniger est valido conixus corpore Taurus “Il cornigero Toro dal corpo possente è accosciato” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 110 cuius (Aurigae) sub pedibus “corniger…Taurus” Arat. 167 πὰρ ποσὶ δ’ Ἡνιόχου κεραὸν πεπτηότα Ταῦρον conixus Lambin : connixus dett. : co(n)nexus ω

corniger l’aggettivo, privo di precedenti ma esemplato sui composti epico-teatrali in –ger e in –fer, è usato sia per animali sia per divinità767 e tornerà riferito alla costellazione del Toro, parimenti ad inizio esametro, in Germ. 536 corniger hic Taurus, cuius decepta figura e in Avien. Arat. 422 cornigeri late tenduntur pectora Tauri, il quale ripropone il ciceroniano iperbato a cornice768 - cf. Hom. 1, 9 aurigeris divom placantes numina tauris769 ~ Verg. georg. 1, 217 s. candidus auratis aperit cum cornibus annum / Taurus - operando nella scelta verbale una commistione tra questo luogo e Cic. Arat. fr. 34, 105 (Taurum) late dispersum. Per le costellazioni, vd. anche l’Ariete di Manil. 5, 39 e il Capricorno di Avien. Arat. 662, con collocazione interna dell’aggettivo. Con duplicazione in prima e quinta sede, in riferimento rispettivamente all’Ariete e al Toro, Anth. Lat. 622, 1 s. corniger in primis Aries et corniger alter / Taurus. In riferimento all’animale, con rilievo dell’aggettivo in prima sede, Ov. am. 3, 5, 20 (taurus visus erat) cornigerum terra deposuisse caput e met. 15, 511 corniger hinc taurus ruptis expellitur undis. L’iperbato a cornice, corniger…Taurus, verrà amplificato con enjambement da Verg. georg. 1, 217 s. candidus auratis aperit cum cornibus annum / Taurus et adverso cedens Canis occidit astro, dove inoltre le allitterazioni in c e in a770 appaiono

767 Arens 1950, pp. 248 s., con aggiunta una lista di composti greci raffrontabili con corniger.

768 Sulla frequenza di simile iperbato in Cicerone, Buescu 1966, p. 277 n. 12, e Pearce 1966, p. 164.

769 Il solenne composto aurigeris è esaminato da Traina 1961, p. 151, nel quadro di quell’accentuazione del pathos caratteristica del vertere latino, con riferimento, per Cicerone poeta, alle sue traduzioni epiche e tragiche, nonché ad alcuni versi dei Prognostica, dove al pathos della vita umana si sostituisce il pathos della natura.

770 Sugli effetti fonici dei due versi virgiliani, Ceccarelli 1986, pp. 87 s.

156 riformulare l’effetto allitterante del verso ciceroniano. L’iperbato ciceroniano si presta ad ingrandire la mole dell’animale, che l’enjambement virgiliano accresce ulteriormente. est conixus in rapporto ad Arat. 167 πεπτηότα, forma epica del participio perfetto sia di πίπτω “cadere”, da cui il significato risultativo di “giacere accasciato, disteso”, sia di πτήσσω “accovacciarsi, acquattarsi”, vd. la disambiguazione scoliastica in favore di πίπτω, p. 163, 4-5 M. παρὰ δέ τοῖς ποσὶ τοῦ Ἡνιόχου ὑποπεσόντα ζήτει τὸν Ταῦρον; cf. Germ. 174 Aurigae pedibus trux adiacet ignea Taurus. La traduzione ciceroniana si allinea alla spiegazione scoliastica, la quale riferisce il verbo arateo alla postura del Toro, piegato sulle zampe: p. 162, 10-12 M. πεπτηότα διὰ τὸ ποιὸν κατάστημα. ὥσπερ γὰρ ὀκλάσας ἐστίν (“accosciato”, specifico per animali rannicchiati sulle zampe), ἡμίτομος δέ, καὶ τούς ὀπισθίους οὐκ ἔχων πόδας771; in proposito, vd. Arat. fr. 34, 290 atque genu flexo Taurus conititur (cf. Manil. 1, 361 nixo…Tauro; 2, 258 s. Taurus / succidit incurvo claudus pedes), dove inoltre il verbo rioccorre con una sola nasale, così come Arat. fr. 34, 260 conititur, supportando qui l’emendamento conixus del Lambino (vd. supra, in apparato)772, al quale il solo Ewbank preferisce connixus773. Il participio conixus, regolarmente con nasale raddoppiata nei codd. dett.774, è arcaico rispetto a conisus (vd. Serv. ad Aen. 1, 144 “adnixus” antiquum est ut “conixus”, quibus hodie non utimur; dicimus enim, “adnisus” et “conisus”)775 e costituisce l’unica forma verbale diffusa tra i poeti; le rare eccezioni sono rappresentate, oltre che da Cic. Arat. fr. 34, 260 e 290 conititur, da Acc. trag. 23 R.3 deinde eius (arietis) germanum cornibus conitier, dove inoltre risaltano la presenza dell’ariete, fornito di corna come il toro, e il nesso allitterante cornibus conitier, che anticipa il ciceroniano corniger…conixus corpore (gioco fonico enfatizzato dal chiasmo corniger…valido…corpore Taurus), e successivamente da Stat. Theb. 10, 94 conitere776. In Arat. fr. 34, 260 Anguitenens umeris conititur e 290 genu flexo Taurus conititur il verbo esprime la postura appoggiata che fa leva su una determinata parte del corpo, rispettivamente le spalle e il ginocchio; nel fr. in esame, invece,

771 Kidd 1997, p. 244, il quale inoltre rileva come il composto παραπεπτηῶτος, v. 615, sia opportunamente riferito all’Inginocchiato.

772 Cf. Pease 1958, p. 821.

773 Ewbank 1933, p. 82.

774 TLL IV, 318, 65-66.

775 Ivi, 67-69.

776 Ivi, 77-79.

157 valido…corpore non va inteso in senso locativo con riferimento al punto di appoggio – così Buescu «haut en cornes, accroupi sur son corps robuste, le Taureau»777; Traglia «accosciato sul suo robusto corpo sta il cornigero Tauro»778; Soubiran « haut en cornes, le Taureau est là, ramassé sur son corps puissant»779 – bensì in senso qualitativo (vd. la traduzione data sopra); in proposito, cf. Arat. fr. 13 hic illa eximio posita est fulgore Corona, con stessa disposizione chiastica delle coppie aggettivo + sostantivo, participio perfetto + est e nesso ablativale in chiara funzione qualitativa, nonché l’usuale riferimento di validus al toro per esprimerne la distintiva qualità della forza (vd. infra, s.v. valido…corpore). Per l’interposizione di conixus tra aggettivo e sostantivo in ablativo, ma nel più consueto significato di “sforzarsi”, cf. Verg. Aen. 9, 410 s. dixerat et toto conixus corpore ferrum / conicit, che inoltre riformula il ciceroniano corniger…conixus corpore in un nuovo trimembre nesso allitterante, conixus corpore…/ conicit, rilevato ora dall’enjambement e dalla ripetizione delle prime due sillabe dei due composti, conixus / conicit, e 10, 127 fert ingens toto conixus corpore saxum, con mantenimento di conixus corpore dopo cesura pentemimera (luoghi imitati da Sil. 10, 196 auferri signum, conixus corpore toto); Val. Fl. 3, 193 torserat hic totis conisus viribus hastam ~ Sil. 2, 229 ille iacit totis conisus viribus aegrum. valido…corpore il nesso, aggiunto rispetto al modello, registra un precedente in Lucil. 189 si tam corpus loco validum ac regione maneret (analogamente, Lucil. 248 validis cervicibus ~ Cic. Arat. fr. 34, 358 validis…a cervicibus) e appare echeggiato da Hor. epist. 1, 8, 7 sed quia mente minus validus quam corpore toto. L’aggettivo, frequentemente collocato in seconda oppure in terza sede esametrica, tornerà ad esprimere qualità, corredato da sostantivo, in Arat. fr. 34, 111 aestiferos validis erumpit flatibus ignes, dalla struttura chiastica come qui, e 195 tum validis fugito devitans viribus Austrum. In riferimento al toro, ora come animale terrestre, Tibull. 1, 3, 41 illo non validus subiit iuga tempore taurus con spostastamento dell’allitterazione in clausola rispetto al ciceroniano corniger…conixus corpore Taurus (cf. Prop. 2, 34, 47 s. sed non ante gravi taurus succubi aratro, / cornua quam validis haeserit in laqueis); Ov. met. 7, 538 s. validos... /…tauros e 9, 186 vosne, manus, validi pressisti cornua tauri?, che riformula i ciceroniani corniger e valido780; Val. Fl.

777 Buescu 1966, p. 186.

778 3 Traglia 1971 , p. 72.

779 Soubiran 1972, p. 163.

780 Riformulazione che si somma a quella di Cic. Soph. fr. 1, 33 nel medesimo verso ovidiano; vd. supra, fr. 15, 1, s.v. pressu duplici palmarum.

158 4, 684 valido…robore tauros; Endel. mort. 81 s. taurus…/ cervicis validae (cf. Lucil. 247 s. tauri / …validis cervicibus); Maxim. eleg. 1, 269 validi…tauri; analogamente, Verg. georg. 4, 538 e 550 (=Aen. 8, 207) prestanti corpore tauros; in prosa, Rhet. Her. 4, 49, 62 corpore tauri validissimi, impetu leonis acerrimi simili; cf. anche, benché con mutato referente, Tac. ann. 2, 14, 3 corpus…ad brevem impetum validum e 6, 21, 1 corpore valido, ad esprimere come qui qualità. Sull’effetto fonico di corpore in quinta sede, in rapporto ai precedenti corniger…conixus781, cf. Arat. fr. 8, 2 s. torvus…retorquens /…conficiens…corpore. Per la sequenza allitterante conixus corpore Taurus, cf. Arat. fr. 34, 433 constravit corpore terram; per la clausola corpore Taurus in verso marcatamente allitterante, cf. Arat. fr. 34, 103 inferiora tenet truculenti corpora Tauri e Avien. Arat. 546 urget et averso surgentem corpore Taurum.

Taurus la collocazione del nome della costellazione nell’ultimo piede riproduce fedelmente Arat. 167 e si ripeterà con Germ. 174; Manil. 1, 361 e 2, 258782; Avien. Arat. 422. Il termine, attestato in àmbito astronomico a partire da questo luogo ciceroniano, è un calco formale del gr. Ταῦρος783.

781 Chausserie-Lapréé 1976, pp. 138 s.

782 Liuzzi 1988, p. 149.

783 Per ulteriori dettagli, Le Boeuffle 1977, pp. 154 s. e 207.

159 XXVIII Has Graeci stellas Hyadas vocitare suerunt. Iam Tauri laevum cornu dexterque simul pes “I Greci sono soliti chiamare Iadi queste stelle. Poi il corno sinistro del Toro e il piede destro insieme” Testimonium: 1 Cic. nat. deor. 2, 111 (Tauri) eius caput stellis conspersum est frequentibus; “has…suerunt”; 2 Prob. GL 4, 223 (de nominativo cornu): si nominativum casum collocare volueris, ultimam hanc syllabam longam ponito…ut Tullius in Arato “iam Tauri…pes” Arat. 172-175 καὶ λίην κείνων ὄνομ’ εἴρεται, οὐδέ τοι αὕτως / νήκουστοι Ὑάδες· ταὶ μέν ῥ’ ἐπί παντὶ μετώπῳ / Ταύρου βεβλέαται, λαιοῦ δὲ κεράατος ἄκρον / καὶ πόδα δεξιτερὸν παρακειμένου Ἡνιόχοιο 1 has Graeci stellas Hyadas vocitare suerunt per la successione di quattro arsidieresi con aggiunto vocitare in quinta sede esametrica, cf. Arat. fr. 5 quas nostri Septem soliti vocitare Triones, dove soliti peraltro, raffrontabile con questo suerunt, presuppone parimenti una consuetudine di tale denominazione astronomica, rimarcata anche dal frequentativo vocitare; cf. Arat. 172 s. οὐδέ…/ νήκουστοι Ὑάδες784. Frequente è la collocazione incipitaria del dimostrativo785, mentre per Graeci…vocitare cf. Arat. fr. 34, 317 Zodiacum hunc Graeci vocitant, nostrique Latini. In rapporto a nomenclature greche, è più frequente Grai (vd. supra, fr. 6, 1, s.v. Graios) di Graeci, del quale si registrano due soli precedenti in tal senso, Enn. var. 54 s. V.2 istic est is Iupiter quem dico, quem Graeci vocant / aerem e Ter. Phorm. 25 s. Epidicazomenon quam vocant comoediam / Graeci, Latini Phormionem nominant. La voce Graeci, maggiormente diffusa in prosa, tornerà riferita alle Iadi con Plin. 2, 106 suculis…quas Graeci ob id pluvio nomine appellant e 18, 247 nimborum argumento Hyadas appellantibus Graecis. Il nome Iadi, per le stelle localizzate sulla testa del Toro (vd. Arat. 173 s. ταὶ μέν ῥ’ ἐπί παντὶ μετώπῳ / Ταύρου βεβλέαται; Cic. nat. deor. 2, 111 [Tauri] eius caput stellis conspersum est frequentibus; “has…suerunt”), è spiegato in quattro modi differenti: 1) per disposizione simile allo Υ greco; 2) da Iante, fratello delle Iadi, le quali, suicidatesi a séguito della sua morte, furono poi trasformate in stelle; 3) da ὕω “piovere”, etimologia accolta da Cic. nat. deor. 2, 111 a pluendo (ὕειν enim est pluere), nostri imperite Suculas, quasi a subus

784 Secondo Traglia 1963, pp. 388 s., il raro aggettivo arateo, attestato solo qui e in Empedocle, ha il valore passivo di “inaudito”, non altrimenti attestato, in significativa variazione diatetica e semantica dell’empedocleo νήκουστος, equivalente di νηκουστῶν nel significato attivo di “sordo”, “disobbediente”.

785 Tra i soli frr. di tradizione indiretta, vd. frr. 7, 1 hac fidunt duce, dove inoltre la triplice arsidieresi rileva a livello fonico la duplicazione sillabica du; 4 haec; 8, 1 has; 9, 1 huic; 10, 1 hoc; 15, 1 hic; 16, 3 huic; 20, 1 huic; 23 hoc; 31, 1 hanc; 32, 1 huic.

160 essent non ab imbribus nominatae, subito dopo l’autocitazione; 4) da ὗς “scrofa”, reso dal latino Suculae, criticato da Cic. l. c.786. L’etimologia del nome Iadi, al pari di di quello di Pleiadi, fu in antico molto discussa; tra le quattro possibilità, tuttavia, la più accreditata rimane la terza, per la quale vd. Verg. Aen. 3, 516 pluviasque Hyadas, con l’aggettivo che funge da glossa del nome787 (così Sen. Med. 337 s. pluvias / Hyadas); Ov. fast. 5, 165 s. ora micant Tauri septem radiantia flammis, / navita quas Hyadas Graius ab imbre vocat788; 6, 197 s. postera lux Hyadas, Taurinae cornua frontis, / evocat, et multa terra medescit aqua, dove frontis in clausola è direttamente raffrontabile con la clausola di Arat. 173 μετώπῳ (cf. Germ. 178 fronte micant ). Per l’espressione vocitare suerunt, cf. Lucr. 1, 60 (semina rerum) appellare suemus e 4, 369 aer id quod nos umbram perhibere suemus789, con dieresi di suemus come nel ciceroniano suerunt790.

2 iam l’avverbio sottolinea il passaggio dal generale al particolare, in riferimento rispettivamente alle Iadi che ricoprono la fronte del Toro e all’unica stella che occupa al contempo il corno sinistro del Toro e il piede destro dell’Auriga; cf. Arat. 173 s. μέν… /…δὲ.

Tauri…pes resa di Arat. 174 s. λαιοῦ δὲ κεράατος ἄκρον / καὶ πόδα δεξιτερόν, la quale, alla luce di Arat. 176 εἷς ἀστὴρ ἐπέχει, viene integrata, in traduzione, sia da Soubiran, du Cocher sont matérialisés par une seule étoile791, sia da Traglia, dell’Auriga tiene una sola stella792. Sul piano metrico, il verso, formato da cinque spondei, esalta con la cesura eftemimera la comunanza delle due parti anatomiche data dalla stella che le tiene insieme (simul). La clausola costituita da plurisillabo e monosillabo finale (cf. Arat. fr. 34, 57 Equi vis; 64 e 189 curriculo Nox; 264 curriculum Sol; 475 signipotens Nox) è un tratto caratteristico della poesia greca e latina arcaica, in particolare enniana793. Il ciceroniano simul tornerà poi riferito in

786 Pease 1958, pp. 822 s.; Le Boeuffle 1977, pp. 155-159 e 207s.

787 O’Hara 1992, p. 50.

788 Luogo registrato sia da Ewbank 1933, p. 147, sia da Buescu 1966, p. 335, e discusso da O’Hara 1992, pp. 58-61.

789 Buescu 1966, p. 335.

790 Soubiran 1972, p. 165.

791 Ivi, p. 165 n. 3.

792 3 Traglia 1971 , p. 72.

793 Buescu 1966, p. 271 n. 3.

161 Avieno al moto simultaneo dell’Auriga e del Toro, accomunati dalla stella che ne occupa rispettivamente il piede destro ed il corno sinistro; Arat. 437 s. una pedem Aurigae dextrum cornumque sinistrum / stella tenet pecoris. Simul in convexa feruntur.

XXIX

Namque ipse ad tergum Cynosurae vertitur Arcti “E infatti egli (sc. Cefeo) ruota alle spalle dell’Orsa Minore” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 111 minorem autem Septentrionem Cepheus passis palmis [terga] subsequitur; “namque ipsum…Arcti” Arat. 182 αὐτὸς μὲν κατόπισθεν ἐὼν Κυνοσουρίδος Ἄρκτου ipse Davies : ipsum Ω || Cynosur(a)e B1 B3 : -ra ω

Questo e i due frr. successivi riguardano Cefeo e la sua famiglia. Secondo la leggenda, Cefeo, re d’Etiopia, sposò Cassiopea, la quale, volendo rivaleggiare in bellezza con le ninfe marine, fu punita dall’invio di un mostro marino al quale, secondo prescrizioni oracolari, ella dovette offrire in pasto la figlia Andromaca al fine di placare l’ira delle Nereidi. In soccorso di Andromeda, legata ad una rupe marina per essere facile preda del mostro, giunse Perseo, il quale liberò e sposò la fanciulla794. Poiché tutti i protagonisti furono infine trasformati in astri, anche Pegaso, il cavallo alato di Perseo, venne identificato con una costellazione, la costellazione del Cavallo (fr. 32).

Namque ipse l’avverbio incipitario si porrebbe a raccordo di quanto doveva precedere il contenuto di questo fr., in considerazione di Arat. 179 ss. dove si introduce la descrizione celeste di Cefeo, di Cassiopea e di Andromeda, trasformati in astri in quanto consanguinei di Zeus. Nei versi aratei spicca il fatto che la famiglia di Cefeo, dato il legame parentale con Zeus, non possa rimanere immenzionata, dal momento che questo nesso di causalità, sottolineato da Arat. 180 ἄρρητον e 181 Διὸς ἐγγύθεν, richiama l’incipit dell’opera, 1 s. Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα, τὸν οὐδέποτ’ ἄνδρες ἐῶμεν / ἄρρητον795. Nel contesto prosastico dell’autocitazione, questo incipitario namque funge da esplicativo di quanto precede, nat.

794 Ewbank 1933, pp. 147 s. In particolare, sulla vicenda di Andromeda come materia mitica e tragica, Klimek – Winter 1993, pp. 4-21.

795 2 Cf. Martin 1998 , II, p. 236.

162 deor. 2, 111 minorem autem Septentrionem Cepheus passis palmis [terga] subsequitur796; “namque…Arcti”. Il pronome ipse, correzione del tràdito ipsum (vd. supra, in apparato) che è a torto stampato da Buescu797, trova riscontro in Arat. 182 αὐτὸς e Germ. 187 ipse798. ad tergum Cynosurae vertitur Arcti cf. Avien. Arat. 443 donavitque polo. tergo Cynosuridos Ursae, che sostituisce al ciceroniano genitivo di denominazione Cynosurae (cf. sch. Arat. 179, p. 170, 14 M. Κυνοσούρας Ἄρκτου) il raro aggettivo Cynosuridos, attestato in clausola già in Ov. trist. 5, 3, 7 e perfettamente aderente alla clausola di Arat. 182 Κυνοσουρίδος Ἄρκτου. L’espressione ad tergum, se intesa “alle spalle”, costituisce un’imprecisione astronomica, dal momento che Cefeo si trova non alle spalle dell’Orsa Minore, ma all’estremità della sua coda799. Non è allora da escludere che ad tergum valga più genericamente “dietro”, come poi Germ. 187 post Cynosuran800; questo secondo significato pare supportato da Cic. nat. deor. 2, 111 Cepheus…[terga] subsequitur, che esprime il seguire dappresso, per il quale, in àmbito astronomico, cf. Ov. fast. 2, 190 Arctophylax formam terga seguentis habet ~ sch. Arat. 91-95, p. 121, 14-16 M. ἐκ τῶν ὄπισθεν μερῶν τῆς Ἑλίκης Ἄρκτου ἐλαύνοντι παραπλήσιος φαίνεται ὁ Ἀρκτοφύλαξ; analogamente qui Arat. 182 κατόπισθεν ~ Cic. fr. 29 ad tergum. Per la stessa collocazione metrica di vertitur, cf. Arat. fr. 34, 134 e 253. La clausola ciceroniana sarà echeggiata da Avien. orb. terr. 1232 quippe nivosa poli qua cardine vertitur arctos.

796 Sull’espunzione di terga, probabile variante marginale del successivo tergum, Pease 1958, II, pp. 823 s.

797 3 Buescu 1966, p. 189; ambiguo Traglia 1971 , p. 72, il quale, pur stampando ipse, traduce come se leggesse sia ipse sia ipsum ad tergum, «ché egli ruota proprio alle spalle dell’Orsa Minore».

798 Soubiran 1972, p. 165 n. 4.

799 2 Vd. Hipparch. 1, 2, 11, citato da Martin 1998 , II, p. 237.

800 Soubiran 1972, p. 202 n. 5.

163 XXX Obscura specie stellarum Cassiepia “Cassiopea, dall’oscuro aspetto delle (sue) stelle” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 111 (Cephea) hunc antecedit “obscura…Cassiepia” Arat. 188 s. τοῦ δ’ ἄρα δαιμονίη προκυλίνδεται οὐ μάλα πολλὴ / νυκτὶ φαεινομένη παμμήνιδι Κασσιέπεια

Obscura specie stellarum la traduzione riflette l’erronea interpretazione di Arat. 188 οὐ μάλα πολλὴ “non molto grande” da parte di Ipparco, il quale intende l’espressione aratea nel senso di “non molto brillante” (1, 5, 21). L’astronomo, infatti, specifica che la maggior parte delle stelle di Cassiopea sono più brillanti di quelle poste sulle spalle dell’Ofiuco, delle quali Arato aveva dichiarato la visibilità anche in caso di plenilunio (Arat. 77-79), cioè nella stessa circostanza astronomica alla quale è ora correlata la visibilità di Cassiopea; di conseguenza, Ipparco critica Arat. 188-190 sulla base dell’erronea comprensione di οὐ μάλα πολλὴ801. Diversamente, gli scolî distinguono, come nel testo di Arato, tra dimensione e luminosità della costellazione; sch. Arat. 188, p. 174, 7-10 M. οὐ μάλα πολλὴ: καὶ γὰρ μικρὸν ἐπέχει τοῦ οὐρανοῦ τόπον, καὶ οὐ πάντη ἐν νυκτὶ πανσελήνῳ λαμπρὰ φαίνεται. οὐ γὰρ πολλοὶ αὐτὴν λαμπρύνουσιν ἀστέρες802 e p. 174, 17 – 175, 2 M. ἐν νυκτὶ δὲ ἐχούσῃ πλήρη τὴν σελήνην οὐ πολλὴ καὶ λαμπρὰ φαίνεται ἡ Κασσιέπεια· ἀμυδροτέρους γὰρ ἔχει τοὺς ἀστέρας. A livello stilistico, la separazione di οὐ μάλα πολλὴ e Κασσιέπεια, posti in clausola dei due vv. contigui, è riformulata nell’iperbato a cornice obscura…Cassiepia, mentre l’eliminazione ciceroniana della litote aratea, οὐ μάλα πολλὴ, è compensata dall’aggiunta allitterazione della sibilante. L’iperbato ciceroniano verrà amplificato dall’enjambement di Germanico, vv. 193- 195 Cassiepia virum residet sublimis ad ipsum, / clara, etiam pernox caelo cum luna refulsit, / sed brevis et paucis decorata in sidere fammis, il quale afferma che Cassiopea è luminosa pure in occasione del plenilunio, ma più piccola ed ornata da un numero ridotto di stelle, rilevando con clara in enjambement la sua correzione dell’errata interpretazione ipparchea di

801 Kidd 1997, p. 252.

802 Pease 1958, p. 824, rapporta il ciceroniano obscura allo scoliastico οὐ γὰρ πολλοὶ αὐτὴν λαμπρύνουσιν ἀστέρες.

164 Arato803. Germ. 194 clara…cum luna, in riferimento al plenilunio, rinvierà inoltre a Cic. cons. 2, 18 s. cum claram speciem concreto lumine luna / absidi, dove però la luna si eclissa e dove ritorna specie del fr. in oggetto, ora all’accusativo. Sulla scia di Germanico, Avien. Arat. 451 s. sed nec multa tamen, cum caelum lumine toto / Luna replet taetram ut superet fax aurea noctem, con recupero in nec multa della litote di Arat. 188 οὐ μάλα πολλὴ soppressa tanto da Cicerone quanto da Germanico, e 454 tenuis rubet ignis, dove la fioca luminosità di Cassiopea è da intendere non in senso assoluto, ma in rapporto al fenomeno del plenilunio menzionato due versi prima804.

Cassiepia calco del gr. Κασσιέπεια attestato a partire da Eudosso, ap. Hipparch. 1, 2, 13, e quindi in Arato; quella di Cicerone rimane la grafia più frequente del termine805, che in questa forma tornerà in clausola, qui in riproduzione di Arat. 189, in Arat. fr. 34, 23; Germ. 252 e 662; Manil. 1, 354 e 686; Avien. Arat. 450, 565 e 1202; Anth. Lat. 761, 9 (per la clausola, vd. pure Anth. Lat. 679, 3 Cassiopea). La rara clausola pentasillabica, avvertita da Quint. inst. 9, 4, 65 come praemolle e relativamente diffusa nella poesia arcaica, è riservata a parole ad effetto nel contesto (p. es., Cic. Arat. fr. 34, 388 posteriores, dove il termine focalizza sia le zampe posteriori del Cane, che trascina poi dietro di sé la Poppa, sia la marcata allitterazione della labiale sorda dei vv. 388 s.; Verg. Aen. 11, 614 sonitu…quadrupedantum ~Acc. trag. 604 R.3 quadripedantum sonipedum) o a nomi propri, come per lo più attesta Cicerone negli Aratea; fr. 34, 23 Cassiepiae; 35 Taygeteque; 293 Anguitenentis806.

803 Sul valore di questo enjambement come segnale linguistico di correzione concettuale, Steinmetz 1966, p. 468, il quale però intende che qui Germanico migliori Arato e non, come giustamente, Ipparco.

804 2 Diversamente Martin 1998 , II, p. 238.

805 Le Boeuffle 1977, p. 126.

806 Cf. Ewbank 1933, pp. 61 s.

165 XXXI Hanc autem illustri versatur corpore propter Andromeda, aufugiens aspectum maesta parentis “Vicino a questa ruota poi Andromeda dal corpo luminoso, la quale fugge mesta dallo sguardo della madre” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 111 “hanc…parentis” Arat. 197 s. αὐτοῦ γὰρ κἀκεῖνο κυλίνδεταἰ αἰνὸν ἄγαλμα / Ἀνδρομέδης ὑπὸ μητρὶ κεκασμένον. οὔ σε μάλ’ οἴω 2 aufugiens A2 B2 : hau vel haud vel aut fugiens ω || aspectum Ω : -tu Plasberg (coll. Lucr. 1, 99)

1 hanc…propter l’indicazione spaziale dell’originale, Arat. 197 s. αὐτοῦ…/ ὑπὸ μητρὶ, viene riformulata nell’anastrofe preposizionale (vd. supra, fr. 8, 1, s.v. has inter) e nell’iperbato a cornice, con risalto alla struttura chiastica del verso, hanc autem illustri versatur corpore propter. Il forte iperbato viene a riflettere a livello stilistico la spiegazione scolastica della posizione di Andromeda, la quale ruota separata e non proprio vicino alla madre Cassiopea, sch. Arat. 198, p. 179, 1-3 M. τὸ δὲ κεκασμένον κεχωρισμένον· οὐ γὰρ πάνυ πλησίον αὐτῆς ἐστιν. Diversamente, Germ. 201 nec procul Andromede, mentre Avien. Arat. 459 subest rende con “sotto” Arat. 198 ὑπὸ μητρὶ, prescindendo dunque dallo scoliaste, al quale aderisce per questo punto il solo Cicerone. autem in rapporto ai precedenti Cefeo e Cassiopea, l’avverbio segnala il passaggio ad Andromaca, a completare il riferimento alle tre figure della stessa famiglia; preso dunque nel significato di “anche”, “poi”807, qui autem si presta a rendere Arat. 197 κἀκεῖνο. Privo di corrispondenza all’originale è invece il valore avversativo colto tanto da Buescu808 quanto da Soubiran809; assente, infine, la resa dell’avverbio in Traglia810.

807 OLD, s.v., 3a, “moreover, also, too, furthermore”.

808 Buescu 1966, p. 188, «…mais, auprès d’elle, tourne la resplendissante Andromède qui, triste, fuit le regard de sa mère…».

809 Soubiran 1972, p. 165, « mais auprès d’elle tourney le corps resplendissant d’Andromède, qui, pleine de chagrin, fuit le regard de sa mère».

810 3 Traglia 1971 , p. 72, «vicino a questa, ruota la splendente Andromeda, che triste fugge lo sguardo di sua madre».

166 illustri…corpore espansione di Arat. 198 κεκασμένον “brillante”, significato estensivo di καίνυμαι “eccellere”, “essere ben fornito” con sottinteso riferimento alla luminosità, come suggerisce il confronto scoliastico tra Andromeda e (la meno fulgida) Cassiopea, p. 178, 22 – 179, 1 M. Ἀνδρομέδης ὑπὸ μητρὶ κεκασμένον: ὡς πρὸς σύγκρισιν τῆς μητρός811; analoga espansione in Avien. Arat. 460 Andromeda, ingenti quae semper luce coruscans. L’ampliamento arateo del consueto spettro semantico del verbo è affine ad Arat. 71 ἀγαυόν, che sviluppa il tradizionale significato di “mirabile”, “distinto”, restituito da Cic. Arat. fr. 13 eximio, in quello nuovo di “luminoso”, segnalato dallo sch. ad l. e reso dal ciceroniano fulgore, in riferimento all’eccelsa luminosità della Corona boreale; le due costellazioni saranno curiosamente associate per la loro luminosità da Ov. epist. 18, 151 Andromedan alius spectet claramque Coronam. Per la luminosità di Cassiopea, vd. pure sch. Arat. 198, p. 179, 10-11 M. λαμπροτάτη οὖσα καὶ ἐν παμμήνιδι νυκτὶ φαίνει, aggettivo raffrontabile con Cic. Arat. fr. 34, 4 s. clarae / Andromedae, aggiunto rispetto ad Arat. 234 Ἀνδρομέδης. Il nesso illustri…corpore è raffrontabile con un’analoga espansione per la Vergine, Arat. fr. 16, 6 Spicum illustre tenens, splendenti corpore Virgo, dove a splendenti corpore, aggiunto rispetto al modello, si affianca l’attributo illustre riferito a Spicum. Il nesso si ripete identico in Arat. fr. 134, 144 (Pistricem) fluminis inlustri tangentem corpore ripas, in significativo riferimento alla Balena, cioè al mostro marino a cui fu esposta Andromeda e che anche in cielo, ormai trasformato in costellazione, va in minacciosa ricerca della fanciulla. La ripetizione a distanza della iunctura sembra riflettere la distanza astronomica tra la costellazione della Balena e quella di Andromeda, collocate rispettivamente nell’emisfero australe e in quello boreale, mentre l’identica qualificazione, illustri…corpore, riflette sul piano astronomico lo stretto legame tra le due sul piano mitico. versatur di Arat. 197 κυλίνδεται viene riprodotta sia la diatesi media sia la collocazione metrica, qui rilevata dall’interposizione del verbo tra cesura pentemimera ed incisione del quarto piede. Il gr. κυλίνδω “rotolare” esprime movimento circolare (vd. Arat. 539 κυλίνδεται

811 2 Kidd 1997, p. 256; Martin 1998 , I, p. 12, e II, p. 243. Diversamente Ewbank 1933, pp. 148 s., basandosi sulla spiegazione scoliastica (sch. Arat. 198, p. 179, 1 s. M.) di κεκασμένον con κεχωρισμένον, suppone nello scolio la varia lectio κεχασμένον “allontanandosi”, dalla quale sarebbe derivato l’ampliamento ciceroniano su Andromeda che evita lo sguardo di sua madre; contro l’ipotesi di Ewbank, Pellacani 2014 (b), p. 21, adduce tre valide ragioni: 1. lo scoliastico κεκασμένον è attestato pure da Hipparch. 1, 2, 14, che cita il verso; 2. κεχασμένον è forma estremamente rara, che troverebbe attestazione solo nel tardo Teodoro Studita; 3. a κεκασμένον corrisponde il ciceroniano illustri…corpore. L’A. conclude che l’aggiunta ciceroniana dipenda da fonti non letterarie, bensì iconografiche.

167 in riferimento al quarto cerchio celeste, dove la scelta verbale è correlata al raffronto tra il movimento sferico dei cerchi celesti e appunto quello delle ruote, 530 κυλινδόμενα τροχάλεια); opportuna risulta qui la traduzione di Arat. 197 κυλίνδεται con versatur, in quanto il frequentativo, accostabile per senso al semplice vertitur (in proposito, Arat. 63 κυλίνδεται ~ Cic. Arat. fr. 11 vertitur), esprime l’andamento regolare e sferico dei movimenti celesti; p. es., Cic. nat. 1, 52 (mundum) nullo puncto temporis intermisso versari circum axem caeli812. Arat. 197 κυλίνδεται, propriamente reso da Avien. Arat. 459 rotatur, richiama qui il composto adoperato per Cassiopea, v. 188 προκυλίνδεται, la quale ruota protesa in avanti; simile postura è chiarita dai vv. 195 s. ὀλίγων ἀποτείνεται ὤμων / ὀργυιήν· φαίης κεν ἀνιάζειν ἐπὶ παιδί, dove Cassiopea protende le braccia quasi dando l’impressione di affliggersi per la figlia, come nell’atteggiamento di colpirsi il petto; sch. ad l., p. 177, 7 s. M. ἐσχημάτισται γὰρ ὥσπερ στερνοκοπουμένη. Questa specificazione affettiva non escluderebbe che il κυλίνδεται dell’afflitta Andromeda, αἰνὸν ἄγαλμα, abbia a sua volta una componente affettiva, in recupero del valore estensivo del verbo in Omero (Il. 22, 414; Od. 4, 541) nel senso di “rotolarsi per il dolore, affliggersi”813. corpore propter la marcata allitterazione, che condensa in clausola l’analogo effetto fonico di Arat. 197 s. αὐτοῦ γὰρ κἀκεῖνο κυλίνδεται αἰνὸν ἄγαλμα / Ἀνδρομέδης, si ripeterà nella medesima posizione in Arat. fr. 34, 91 tum magni curvus Capricorni corpora propter / Delphinus, dove all’allitterazione, estesa ora a quasi tutto il verso, si somma l’enjambement di Delphinus, raffrontabile con l’enjambement di Andromeda al verso successivo.

2 Andromeda riproduce l’enjambement e la posizione incipitaria di Arat. 198 Ἀνδρομέδης, la quale rimarrà poi la più diffusa. La forma grafica ciceroniana si attesterà come predominante814.

Andromeda aufugiens aspectum maesta parentis le prime tre parole ripropongono l’allitterazione di Arat. αἰνὸν ἄγαλμα / Ἀνδρομέδης; per la sinalefe di Andromeda, cf. Arat. fr. 34, 257 Andromeda hic e 436 fugit Andromeda et815, dove inoltre spicca fugit in relazione ad

812 Per questo ed altri luoghi, Le Boeuffle 1987, p. 268.

813 Il verbo arateo, oltre che ai vv. 197, 530 e 539, occorre al v. 63 riferito alla spossata figura dell’Engonasi, in rapporto alla quale Erren 1967, p. 109, rileva la componente affettiva del verbo 2 stesso, esclusa invece da Kidd 1997, p. 201, e da Martin 1998 , II, p. 179.

814 Le Boeuffle 1977, p. 127.

815 Ewbank 1933, p. 149, e Pease 1958, p. 825.

168 aufugiens. Inedita la costruzione transitiva di aufugiens, che trova in poesia successiva attestazione solo in Prop. 1, 9, 30816, dove però all’aufuge dei codd. Fedeli predilige la correzione a fuge di Bolt, in considerazione del fatto che l’isolato precedente ciceroniano parve sospetto a Plasberg, il quale, sulla scorta di Lucr. 1, 99 mactatu maesta parentis, dove la stessa clausola ciceroniana è preceduta da ablativo, corresse aspectum in aspectu, effettivamente di facile corruttela per geminazione della m di maesta817. Il raffronto di Plasberg prende ora maggior corpo in rapporto a Lucr. 1, 89 maestum…parentem e 91 aspectu, riformulazioni del secondo emistichio ciceroniano seguite poi dal v. 99 hostia concideret mactatu maesta parentis. Qui si ripetono le stesse cesure (pentemimera ed incisione del quarto piede) e lo stesso ordo verborum del verso ciceroniano, mentre al ripetuto maesta ciceroniano si associa il mutato riferimento dell’ancipite parens, trasferito da Cassiopea ad Agamennone818; le affinità formali risultano particolarmente significative in ragione del comune destino di Andromeda e di Ifigenia, entrambe vittime immolate per espiare la colpa di un genitore819. Tra l’altro, aspectu occorre in Lucrezio solo tre volte; oltre che al v. 91, con riferimento all’aspetto di Ifigenia quale vittima sacrificale, al v. 65 horribili super aspectu mortalibus instans, dove il riferimento alla religione anticipa l’occorrenza del v. 91 per Ifigenia, immolata proprio in nome dell’orribile religione, e in 6, 780 (multa) aspectu fugienda, saporeque tristia quae sint, ulteriore sostegno per il ciceroniano aufugiens aspectu maesta; di conseguenza, la traduzione di sopra tiene conto della correzione aspectu. maesta parentis l’aggettivo ritornerà in Arat. 89 s. maestis / …nautis; 147 maestae Phaetontis…sorores; Aesch. fr. 2, 18 (aquilam) hanc custodem maesti cruciatus alo; Eur. fr. 5, 3 maestam fugam, che rievoca il nostro aufugiens…maesta. Quanto alle due occorrenze negli Aratea, fr. 34, 89 e 147, l’aggettivo esprime l’afflizione rispettivamente dei naviganti, a rischio di vita nelle tempeste scatenate dalla funesta costellazione dell’Aquila, e delle sorelle

816 In prosa, soltanto Hyg. fab. 258 e il tardo Cod. Iust. 3, 23, 1; TLL II, 1342, 17-22.

817 Fedeli 1980, pp. 247 s., dove inoltre per il luogo properziano si argomenta in favore di a fuge contro il tràdito aufuge in considerazione pure di Prop. 1, 11, 5, dove all’insostenibile adducere dei codd. gli editori hanno preferito l’emendamento a! ducere dello Scaligero. Nel luogo ciceroniano, invece, l’emedamento aspectu è ritenuto innecessario sia da Pease 1958, p. 825, sia da Pellacani 2014 (b), p. 20 n. 3.

818 Cf. Pellacani 2013, p. 121.

819 Ivi, dove si rileva inoltre che Enn. trag. 119 J. e 204 J. riferisce l’aggettivo innocens tanto ad Andromeda quanto ad Ifigenia per suggerirne il comune destino.

169 di Fetonte, che piangono la morte del fratello. Questa componente luttuosa dell’aggettivo820 è probabilmente presente anche qui: il ciceroniano mesta interpreterebbe infatti Arat. 197 αἰνὸν “addolorata”, detto di Andromeda. Cf. pure l’afflizione di Cassiopea, Arat. 196 φαίης…ἀνιάζειν ἐπὶ παιδί821, la quale sembra battersi il petto per il dolore (vd. sch. ad l.); a ciò si allinea la variante scoliastica di Arat. 198 κεκασμένον, p. 179, 3-4 γράφεται καὶ κεκομμένον, ἵν’ ᾖ τεθρηνημένον, che specifica il compianto di Andromeda. Nel suo riferimento ad una costellazione, maesta sembra attestare per la prima volta il noto processo latino di umanizzazione degli astri. L’attribuzione di sentimenti alle stelle si ritroverà riferita ad Andromeda in Germ. 358 terretur monstro pelagi gaudetque sub axe, dove la sua gioia per la nuova condizione siderale822 si contrappone al terrore provato dinanzi al mostro marino pronto ad ucciderla; l’aggettivo maesta tornerà per Andromeda in Avien. Arat. 1277 s. maestae / Andromedae, ma vd. pure 958 maerens Andromeda. La clausola maesta parentis, posta in risalto qui dall’incisione del quarto piede, viene poi riformulata da Lucr. 1, 89 maestum… parentem e ripetuta al v. 99 maesta parentis, a sottolineare la condizione di Ifigenia quale mesta vittima sacrificata dal padre. Sulla scorta della riformulazione della clausola ciceroniana in Lucr. 1, 89 maestum… parentem, vd. Catull. 64, 209 s. mandata / maesto…parenti e Verg. Aen. 10, 840 maesti…mandata parentis, dove il nesso diviene presagio linguistico della morte di Egeo e di Lauso, rispettivamente. Nel primo caso, l’immemore Teseo, dimentico delle raccomandazioni paterne di cambiare le vele da nere in bianche in caso di vittoria sul Minotauro, sarà direttamente responsabile della morte del padre Egeo, che colto da disperazione alla vista delle vele scure si suiciderà. Nel secondo caso, il riferimento è ai messaggi che il padre di Lauso spesso inviava al figlio, mandato a combattere al suo posto. Il genitore è qui detto “mesto” perché subito dopo raggiunto dalla notizia della morte del giovane. Con Virgilio si ritorna dunque alla lucreziana mestizia del padre afflitto dalla morte del figlio, ucciso prematuramente per causa sua, ma passando attraverso Catullo, con il quale si spiega l’aggiunta virgiliana di mandata. Per la clausola maesta parentis, pure Ciris 235 e il tardo Paul. Petric. Mart. 2, 513. Parimenti in clausola le varianti di Ciris 360 maesta parentem e di Stat. Theb. 11, 737 maestosque parentis (cf. Verg. Aen. 2, 681 maestorumque…parentum); ma vd. anche Val. Fl. 1, 712 maesti…genitoris imago. Di successo sarà pure il riferimento dell’aggettivo ciceroniano alle sorelle di Fetonte, Arat. fr. 34,

820 Vd. TLL VIII, 48, 47-63.

821 Cf. Ewbank 1933, p. 149, e Pease 1958, p. 825.

822 Sul motivo del gaudium sideris, De Meo 1983, p. 240.

170 147; cf. Germ. 366 maestae Phaetontides e, per enallage, Sen. Herc. O. 187 s. maesta sonat Phaetontiadum / silva sororum; Stat. silv. 4, 3, 57 s. maestum pelagus gementis Helles / intercludere; Sil. 4, 691 s. Eridanus cursus, Nympharum…maestus / …chorus.

XXXII

Huic Equus ille iubam quatiens fulgore micanti summum contigit caput alvo, stellaque iungens una tenet duplices communi lumine formas, aeternum ex astris cupiens conectere nodum. “Il celebre Cavallo, scuotendo la criniera dal fulgore scintillante, tocca col ventre la sommità del capo di lei (sc. di Andromeda) e un’unica stella tiene unite le due figure celesti con una luce comune, come volendo stringere dagli astri un nodo eterno” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 111 “huic…nodum” Arat. 205-207 ἀλλ’ἄρα οἱ καὶ κρατὶ πέλωρ ἐπελήλαται Ἵππος / γαστέρι νειαίρῃ, ξυνὸς δ’ ἐπιλάμπεται ἀστὴρ / τοῦ μὲν ἐπ’ ὀμφαλίῳ, τῆς δ’ ἐσχατόωντι καρήνῳ 2 summum Ω : -ma Morelius

1 ss. huic…/…caput…stella…./una…duplices cf. Arat. fr. 9, 1 s. huic non una modo caput ornans stella relucet, / verum tempora sunt duplici fulgore notata. All’incipitario huic segue stella anche in Arat. frr. 16, 3 s.; 20, 1 s.; 34, 7 e 9. Il pronome traduce qui Arat. 205 οἱ.

Equus ille come Arat. fr. 13 illa…Corona, anche qui l’aggettivo sottolinea la fama del referente suggerita dal relativo mito; cf. Arat. fr. 34, 55 ipse…Equus ille. Si tratta infatti del cavallo dal cui colpo di zoccolo sgorgò sull’Elicona la fonte Ippocrene, che reca nel nome evidente traccia della sua genesi, Arat. 214-221. Questo cavallo, che Arato mai nomina esplicitamente, è da identificare con Pegaso; in tale direzione orienta v. 205 πέλωρ…Ἵππος, dove πέλωρ, più volte in Omero ed Esiodo riferito alla Gorgone, richiama la nascita di Pegaso dal sangue della testa mozzata del mostro; cf. poi v. 218 πηγαῖς, con allusione al legame esiodeo tra il nome di questo cavallo e le sorgenti presso cui è nato, con Hes. Th. 281 s. …Πήγασος ἴππος /…παρὰ πηγὰς; v. 224 ἐν Διὸς εἱλεῖται ~ Hes. Th. ? Ζηνὸς δ’ ἐν δώμασι ναίει, in riferimento alla dimora di Pegaso presso Zeus. L’identificazione trova riscontro sia in Germ. 218 ss. Gorgonis hic proles; in Pierio Helicone, / vertice cum summo non dum decurreret unda, / museos fontis dextri pedis ictibus hausit sia nell’iconografia del Cavallo,

171 rappresentato come Pegaso823. La denominazione moderna della costellazione è appunto Pegaso824. iubam quatiens enniana è l’immagine del Cavallo che scuote la criniera, fr. inc. 538 Sk. (equos) saepe iubam quassat simul altam825, del quale spicca anche la forza profusa per spezzare le sue catene, v. 536 vincla suis magnis animis abrumpit, specificazione forse tenuta presente da Cicerone al v. 4, aeternum ex astris cupiens conectere nodum, aggiunto rispetto ad Arato e volto a presentare il Cavallo celeste indissolubilmente legato al capo di Andromeda dalla loro comune stella, in contrasto con il cavallo enniano libero da ceppi. Il modello enniano è inoltre ravvisabile in Arat. fr. 34, 57 Equi vis, perifrasi del cavallo che per la sua collocazione in clausola riformula quella di Enn. fr. inc. 465 Sk. quomque gubernator magna contorsit equos vi826. L’espressione ciceroniana viene riadattata in contesto astronomico da Calv. fr. 5 Bl. Hesperium ante iubar quatiens827, inizio di un esametro che ripropone la collocazione di quatiens prima dell’eftemimera e la sinalefe ciceroniana di ille iubam in ante iubar. Interessante notare come iubar, indicante dapprima Vespero e Lucifero e poi per estensione riferito al fulgore dei corpi celesti828, fosse in antico collegato proprio a iuba “criniera”; Varro ling. 6, 6 eadem stella (Vesper) vocatur Iubar quod iubata e 7, 76 in summo quod habet lumen diffusum ut leo in capite iubam829, raffrontabile qui con iubam…fulgore micanti / summum…caput. Parallelo al legame tra iubar e la iuba leonina è il successivo riferimento di quatio allo scuotimento della criniera del leone aizzato da Cibele in Catull. 63, 83 rutilam ferox torosa cervice quate iubam, esemplato su Lucr. 5, 1315 (leones) terrificas capitum quatientes undique cristas e poi echeggiato per il Leone celeste da Sen. Herc. f. 948 s. rutilam iubam / cervice iactans830 (cf. Herc. Oet. 70 iactans fervidam colle

823 Santoni 2013.

824 Le Boeuffle 1977, pp. 114 s. e 197.

825 Locus similis registrato da Ewbank 1933, p. 149, e da Buescu 1966, p. 336.

826 L’ascendenza enniana di Cic. Arat. fr. 34, 57 Equi vis è comprovata pure dall’ungula vemens del v. 53, reminiscenza di Enn. ann. 263 Sk. summo sonitu quatit ungula terram; Gee 2001, p. 525.

827 Buescu 1966, p. 336.

828 Le Boeuffle 1977, p. 240.

829 Le Boeffle 1977, p. 238.

830 Morisi 1999, p. 143. Il luogo senecano è riportato con la correzione del copista del cod. E, che in un primo momento aveva scritto rutilat, tràdito anche dal cod. A. La correzione viene difesa contro rutilat, verosimilmente influenzato dal precedente efflat, e contro la correzione rutila del Lipsius, da

172 iubam). Il luogo senecano risente, inoltre, delle figurazioni ciceroniane delle costellazioni estive (vd. supra, fr. 7, 2, s.v. refulget), tra le quali proprio il Leone, fr. 22, 3 magnu’ Leo tremulam quatiens e corpore flammam, dove il participio quatiens occorre nella stesse sede metrica del nostro; in proposito, vd. anche Arat. fr. 34, 51 sed mediocre iacit quatiens e corpore lumen. Il verbo tornerà riferito al Cavallo in Avien. Arat. 488 (Equus) et quatit aetherias primis modo cruribus auras. fulgore micanti per la clausola, cf. Ov. ars 2, 721 fulgore micantes; Sil. 2, 395 fulgore micantem; Ps. Isid. fabr. 25 fulgore micantes; ma vd. pure Cic. cons. 2, 12 ardore micanti[s]. Il nesso, aggiunto al modello, sembra compendiare Arat. 208-213, in riferimento alle tre stelle luminose sui fianchi e sulle spalle del Cavallo cui si contrappone l’oscurità della testa e della cervice, compensata tuttavia dalla luminosissima stella sulla bocca. Benché dunque la ciceroniana criniera di scintillante fulgore non rispecchi fedelmente il modello, in quanto apposta sulla testa e sulla cervice scarsamente brillanti, complessivamente essa si presta ad esprimere la luminosità dell’animale celeste; cf. sch. Arat. 205, p. 180, 5-7 M. πέλωρ…διὰ τὸ λαμπροὺς ἔχειν ἀστέρας. Escluderei la possibilità di riferire fulgore micanti al capo di Andromeda831: nonostante Arat. fr. 34, 413 Andromedae clarum caput, il riferimento del nesso al Cavallo è indirettamente avvalorato da Germ. 208 s. vertice et Andromedae radiat quae stella, sub ipsa / alvo fulget Equi, dove fulget è detto della stella che risplende sotto il suo ventre. Per micanti, vd. supra, fr. 16, 4, s.v. stella micans. Il composto emicat figurerà in Virgilio (Aen. 11, 496) riferito al cavallo che, spezzate le catene, corre libero; poiché il luogo virgiliano (vv. 492-497) è esemplato su Enn. fr. inc. 535-539 Sk.832, già modello del Cavallo ciceroniano, è possibile che la scelta verbale sia stata influenzata proprio dall’intermedio Equus…micanti ciceroniano.

2 summum contingit caput alvo innecessaria la correzione del tràdito summum in summa833: cf. Arat. 207 ἐσχατόωντι καρήνῳ; Germ. 208 vertice et Andromedae radiat quae

Zwierlein 1986, p. 64; in particolare, lo studioso riporta diversi passi di tragedie senecane in cui aggettivo e sostantivo sono collocati a fine verso, il che si verifica anche qui accogliendo rutilam iubam, con aggiunta di loci similes in cui il sostantivo iuba è accompagnato da aggettivi che ne qualificano il colore. Accoglie invece rutila, correzione del Lipsius, Caviglia 1979, p. 178; infine, stampa rutilat Fitch 1987, pp. 97 e 365 s.

831 Diversamente da Soubiran 1972, p. 203 n. 10.

832 Skutsch 1985, p. 684.

833 Vd. supra, in apparato, e Ewbank 1933, p. 149.

173 stella, sub ipsa; Avien. Arat. 472 s. alvus Equi. summo quae fax in vertice vibrat / virginis834. Per contingit, cf. Arat. fr. 34, 218 (Hydra) Centaurum levi contingit lubrica cauda835; per alvo, Arat. fr. 34, 267 (Leo) pectoribus validis atque alvo possidet orbem836. Il termine alvo rende qui Arat. 206 γαστέρι νειαίρῃ “basso ventre”, prescindendo dall’aggettivo greco e dalla relativa precisazione al v. 207 ὀμφαλίῳ “ombelìco”, trascurata poi anche da Germanico e da Avieno. Ancora più generico Manil. 1, 349 s. (Equus) festinat pectus fulgenti sidere clarus / et finitur in Andromeda (vd. anche Vitr. 9, 4, 3 lucidissima stella finit ventrem Equi et caput Andromedae).

2 s. stellaque iungens / una il numerale e il verbo corrispondono a sch. Arat. 206, p. 182, 2-4 M. εἷς δὲ ἀστήρ ἐστιν, ὃς διαζεύγνυσι τῆς τε Ἀνδομέδας τὴν κεφαλὴν καὶ τὴν τοῦ Ἵππου ἡμίτομον γαστέρα, ma con sostituzione dello scolastico διαζεύγνυσι “disgiunge” coll’antonimo iungens, potenziato poi da conectere (v. 4). L’enjambement di una dà risalto alla prossimità dei due numerali al v. successivo, una…duplices. Per iungens una cf. Manil. 3, 373 per totidem menses iunget nox una tenebras. duplices communi lumine formas il chiasmo duplices…formas / communi lumine riflette la struttura chiastica di Arat. 205-207, κρατὶ / γαστέρι νειαίρῃ / ὀμφαλίῳ… ἐσχατόωντι καρήνῳ; la duplicazione aratea delle parti anatomiche delle due costellazioni è riformulata in un duplice chiasmo, in quanto duplices…formas è a sua volta chiastico rispetto a stella…/ una. Il numerale figura in chiasmo anche in fr. 9, 2 tempora…duplici fulgore notata, dove però duplici fulgore è parallelo a una…stella del v. precedente; usualmente riferito a parti per natura doppie (cf. fr. 4 duplici de cardine vertex e 15, 1 pressu duplici palmarum), esso tornerà riferito ai piedi proprio del Cavallo, fr. 34, 258 imponitque pedes duplices Equus; ma vd. pure 34, 14 ss. duplices…catenae / discedunt, quae diversae per lumina serpunt / atque una tamen in stella communiter haerent, cui segue la menzione del Nodo Celeste con la collocazione di nodum a fine esametro come nel v. successivo. Per duplices…formas cf. Manil. 2, 662 duplicem…formam (ma anche 174 duplici…figura). Per il nesso allitterante communi lumine, che anticipa l’allitterazione in nasale del v. successivo, cf. Mat. fr. 9, 2 Bl.; Manil. 1, 379 e Iuvenc. evang. 1, 657, tutti in riferimento al sole. Per la clausola lumine

834 Buescu 1966, p. 286.

835 Sull’impiego del verbo de sideribus, TLL IV, 716, 61-68.

836 Su questo ed altri luoghi, TLL I, 1801, 71-77.

174 formas, cf. Arat. fr. 34, 161; Ov. met. 3, 439 lumine formam; Avien. Arat. 1339 lumine formae; 1523, Sedul. carm. pasch. 4, 201 e Alc. Avit. carm. 1, 17 lumine formas.

4 aeternum…nodum l’intero verso è aggiunto rispetto al modello. Il nesso aeternum…nodum, di séguito attestato solo in Lucan. 6, 797 aeternis…nodis, è qui posto in risalto dall’iperbato a cornice, per il quale cf., tra i numerosi casi ciceroniani837, Arat. fr. 34, 225 aeternumque volens mundi pernoscere motum, con affine ordo verborum. Per il riferimento di nodum a un’unica stella che unisce due costellazioni, cf. Arat. fr. 34, 17 Caelestem…Nodum, della stella che unisce i Pesci838; proprio in riferimento ad essa, riformulerà il ciceroniano conectere nodum Germ. 370 vincula conectit, nodus cristam super ipsam. Per il nesso conectere nodum, cf. Ov. met. 12, 430 e Cypr. Gall. iud. 622. Dato il riferimento ad Andromeda e al Cavallo, non è da escludere che nodum, oltre che per il suo valore astronomico, sia stato qui aggiunto per allusione al fatto che Andromeda, incatenata dai suoi alla rupe, figuri legata anche in cielo, Arat. 203 δεσμὰ δέ οἱ κεῖται καὶ ἐν οὐρανῷ; aeternum, prevalentemente riferito ad elementi celesti da Cicerone poeta (Arat. fr. 34, 189 aeterno…curriculo Nox; 236 e 332 aeterno…lumine; cons. 2, 5 aetheris aeterni), viene allora ad esprimere l’indissolubilità del nodo siderale che lega appunto in eterno le due costellazioni.

837 Buescu 1966, p. 277 n. 12.

838 Pease 1958, pp. 825 s.

175 XXXIII Exin contortis Aries cum cornibus haeret “Poi è infisso l’Ariete dalle corna ritorte” Testimonium: Cic. nat. deor. 2, 111 “exin…haeret” Arat. 225 αὐτοῦ καὶ Κριοῖο θοώταταί εἰσι κέλευθοι

Exin forma tronca di exinde (cf. Cic. orat. 154 dein etiam saepe et exin pro deinde et exinde dicimius), attestata quasi esclusivamente ad inizio esametro; p. es., Enn. ann. 85; 147 e 491 Sk.; Cic. Arat. fr. 34, 139 e 323; Lucr. 4, 101; Stat. Theb. 2, 223; Sil. 3, 14. contortis…cum cornibus haeret connotazione aggiunta rispetto al modello e rimarcata dall’allitterazione; per l’interposizione di cum tra aggettivo e sostantivo ad esprimere qualità, vd. supra, fr. 8, 1, s.v. rapido cum gurgite. Il particolare connotativo influenzerà poi Manil. 2, 246 Aries…in cornua tortus, che inoltre ripeterà a fine verso il verbo ciceroniano, 5, 704 namque Aries capiti, Taurus cervicibus haeret839 (ma vd. pure 3, 579 Piscibus est Aries et sorte et finibus haerens). Il nesso contortis…cornibus registra nelle successive attestazioni la forma verbale semplice, Varro rust. 2, 2, 4 arietes…tortis cornibus e Lucan. 9, 514 tortis cornibus Hammon840. Quanto al verbo, in specifico riferimento alle stelle fisse, cf. Cic. Arat. fr. 34, 169 (Piscis) procul illis Piscibus haerens; Tusc. 5, 69 sidera…caelo inhaerentia; rep. 1, 22 stellisque quae caelo inhaererent; Tim. 36 sidera quae…inhaerent841. La scelta verbale riflette qui l’ἐστήρικται di sch. Arat. 225, p. 185, 18 M. e di Arat. 230. Cf. poi Hyg. astr. 4, 3 inque eo (circulo aequinoctiali) Aries ut adfixus videatur e, in virtù della corrispondenza στηρίζω ~ sto842, Avien. Arat. 522 Aries statione locatus, parimenti a fine verso.

Aries calco semantico del gr. Κριός attestato in senso astronomico a partire da questo luogo ciceroniano, dietro il quale il termine si affermerà per indicare la costellazione dell’Ariete843.

839 Liuzzi 1988, p. 126.

840 Loci similes registrati da Buescu 1966, p. 336, e da Pease 1958, p. 826.

841 Pease 1958, p. 826.

842 Le Boeuffle 1987, p. 250.

843 Le Boeuffle 1977, pp. 153 s.

176 Approfondimenti

177 La coppia tempestas - vetustas da Cicerone Seneca e le sue metamorfosi nella poesia augustea*

Il fr. 2 degli Aratea ciceroniani,

quem neque tempestas perimet neque longa vetustas interimet stinguens praeclara insignia caeli tràdito da Prisciano844 e costituito senza divergenze dagli editori845, non gode di un’interpretazione sicura; oltre alla mancanza di riscontro attendibile nell’originale greco, nuoce l’enigmatico quem iniziale, raccomandato dal consenso dei codici846 ma riportato senza referente dal testimone. Rimane poi da precisare il significato di tempestas, per il quale le traduzioni oscillano tra due diverse interpretazioni: la prima, tempo meteorologico ovvero “maltempo”, la tempête di Buescu847; la seconda, tempo cronologico ovvero “corso del tempo”, il tempo di Traglia848, così motivato: «tempestas non significa “tempesta”, ma il “tempo”, e il concetto è chiarito da longa vetustas»849; nella stessa direzione, infine, il temps di Soubiran850 e il time di Siebengartner851.

* Il contenuto di questo articolo in corso di stampa è stato da me esposto il 10. X. 2013 al Quarto Stage Dottorale “Didattica della ricerca” (Allumiere, 9-12 ottobre 2013), organizzato dal Dottorato in “Civiltà e Tradizione Greca e Romana” dell’Università ROMA TRE.

844 GL II 504, 12 ss. “extinguo”…cuius simplex “stinguo” in raro est usu…Cicero tamen in Arato “stinguens” participio usus est…«quem…caeli».

845 Buescu 1966, p. 171; Traglia 19632, p. 74; Soubiran 1972, p. 158; precedentemente, Baehrens 1879, p. 3.

846 Senza storia il quod di K, peraltro poi corretto a margine in quem, e il quae di R2. Generalmente i due versi vengono considerati un’aggiunta ciceroniana e dubitanter accostati ad Arat. 10 s. αὐτὸς γὰρ τά γε σήματ’ ἐν οὐρανῷ ἐστήριξεν / ἄστρα διακρίνας, con tendenza a supporre mundus oppure ordo come referente di quem; Ewbank 1933, p. 130; Buescu 1966, p. 265 nn. 3 e 4; Panichi 1969, p. 1; Soubiran 1972, p. 197 n. 3; con argomenti nuovi ha provato invece a difendere il quae di R2, riferendolo però ad ipotetici carmina Arati, Bartalucci 1981.

847 Traglia 19632, p. 170.

848 Traglia 19713, p. 64.

849 Ivi, p. 135 n. 49.

850 Soubiran 1972, p. 158.

851 Siebengartner 2012, p. 109 n. 50.

178

Attraverso una rilettura mirata della coppia tempestas – vetustas all’interno della prosa ciceroniana ci si propone qui di superare tale ambiguità e di portare alla luce alcune variazioni introdotte dalla poesia augustea. Si dà il caso che la lettura di tempestas nel senso di tempo cronologico, proposta da Traglia e tacitamente accolta da Soubiran, in realtà manchi di argomentato sostegno; essa inoltre si scontra con il correlativo neque…neque, che da solo già farebbe escludere la presenza di una dittologia sinonimica852. Non servirà poi nemmeno invocare Fest. 498, 32 L. tempestatem pro tempore frequenter antiqui dicebant, dato che tempestas e vetustas seguiteranno a fare coppia con sistematico riferimento a due agenti distruttivi differenti, ben distinti l’uno dall’altro853. Così di nuovo Cic. leg. 1, 2

cum eam (sc. quercum) t e m p e s t a s v e t u s t a s v e consumpserit, tamen erit his in locis quercus quam Marianam quercum vocant 854 con riferimento alla cosiddetta quercia mariana dalla quale, in agro arpinate, si era involata l’aquila nunzia dei futuri successi militari di Mario, evento celebrato da Cicerone stesso nel Marius855. Per bocca del fratello Quinto, l’Arpinate giunge ora ad affermare che detta quercia, in quanto celebrata e resa famosa dai proprî versi, sopravvivrà alla morte fisica, dopo che o tempestas o vetustas l’avranno abbattuta. È evidente che questi due agenti, in quanto posti in alternativa l’uno all’altro per mezzo del disgiuntivo enclitico –ve856, hanno significati

852 Vd. Kühner – Stegmann 1966, pp. 46 s.

853 Isolate le occorrenze di tempestas in luogo di tempus, solitamente in ablativo (di tempo determinato) e in funzione di effetti speciali; p. es., Cic. de orat. 3, 153 habet etiam in oratione poeticum aliquod verbum dignitatem. neque enim illud fugerim dicere, ut Coelius: q u a t e m p e s t a t e Poenus in Italiam venit e div. 1, 75 eademque tempestate che, variando l’eodem tempore del paragrafo precedente, segna un innalzamento di stile che qui impreziosisce la traduzione di un estratto dello storico Callistene; in proposito, Fränkel 1951, p. 194.

854 Riporto il testo dell’edizione di Ziegler 19793. Sull’opportunità di conservare il tràdito vocant in luogo dell’emendamento vocabunt di R. Klotz, accolto da numerosi editori, Ferrarino 1939, p. 462 (=1986, p. 50), con la motivazione che la forma del presente meglio si addice alla fama ormai acclarata della quercia mariana.

855 Courtney 2003, pp. 174 s., e Blänsdorf 20114, pp. 166 s.

856 Kenter 1972, p. 25; cf. Ernout 1958, p. 190, e Kühner – Stegmann 1966, p. 111.

179 differenti e quindi varranno “tempesta”, “maltempo” il primo; “vetustà”, “annosità” il secondo857. Non diversamente Phil. 9, 14 statuae intereunt t e m p e s t a t e, vi, v e t u s t a t e858, sepulcrorum autem sanctitas in ipso solo est, quod nulla vi moveri neque deleri potest, atque, ut cetera exstinguuntur, sic sepulcra sanctiora fiunt vetustate dove all’inviolabilità delle tombe garantita dal suolo, che resta inamovibile e indistruttibile, viene contrapposta l’inevitabile rovina delle statue, alla quale puntualmente concorrono le intemperie (tempestas) e la vetustà (vetustas)859. Da non sottovalutare poi la presenza del verbo exstinguo, difficilmente immemore del participio stinguens del frammento in epigrafe e perciò attendibile come segno di legame tra i due luoghi. Non trascurabili, inoltre, le numerose occorrenze ciceroniane di tempestas nel senso metaforico di “sciagura, disgrazia” per indicare i torbidi della politica, in riferimento a situazioni che l’autore giudica esiziali per la vita dello Stato860. E’ indubbio che questo

857 Curiosamente anche qui si registra incertezza tra il significato di “tempesta” e quello di “tempo”, per il primo dei quali propendono, ma senza produrre riscontro, Kenter 1972, p. 25, «tempestas vetustasve: -ve leaves us the choice between two different causes: “storm or age”…; “time or age” and… “les saisons et l’âge” are less correct. Tempestas for “time” is, by the way, rare in Cicero, cf. de orat. 3, 153», e Rudd – Wiedemann 1987, p. 53, «tempestas probably “weather” rather then “time”, in view of vetustas». Soprassiede Dyck 2004.

858 Così stampano Fedeli 1982 e Shackleton Bailey 1986. Degna di attenzione diventa la correzione, di mano tarda (V2), di vi in vel, se raffrontata ora con la disgiuntiva di leg. 1, 2 tempestas vetustasve; avrei perciò qualche esitazione a ritenere vel vetustate una glossa subentrata nel testo e quindi da espungere, come invece intende Magnaldi 2008, p. 173. Traccia un buon quadro delle scelte editoriali Manuwald 2007, II, p. 1086.

859 Ben coglie dunque la differenza semantica tra i due termini Manuwald 2007, I, p. 287, traducendo tempestas e vetustas rispettivamente con “weather” e “age”; per il concetto della rovina delle statue ad opera delle intemperie, vd. anche il suo rinvio (II, p. 1086) ad Hor. carm. 3, 30, di cui si dirà meglio più avanti.

860 P. es., har. resp. 4 prospexi quanta tempestas excitaretur, quanta impenderet procella rei publicae e prov. 43 ecce illa tempestas, caligo bonorum et subita atque improvisa formido, tenebrae rei publicae, ruina atque incendium civitatis, ma pure Phil. 10, 11 quae tempestas…quae flamma, quae vastitas, quae pestis Greciae; Cluent. 96 vis illa fuit et…ruina quaedam atque tempestas; Coel. 59 quanta impenderet procella mihi, quanta tempestas civitati; Sest. 101 quem neque periculi tempestas neque honoris aura potuit umquam…demovere; si noti qui la ripetizione del nesso arateo quem neque…neque, già registrata da Buescu 1966, p. 331.

180 metaforico tempestas presupponga il senso concreto, meteorologico, di “tempesta”, “maltempo”861. In conclusione, nella prosa ciceroniana la coppia tempestas – vetustas seguiterà a distinguere due concetti, “maltempo” da un lato e “vetustà” dall’altro, senza possibilità di sovrapposizione862. A sottolineare ancora meglio la netta distinzione semantica tra tempestas e vetustas nel frammento in esame concorre, in ultima analisi, la contrapposizione tra i verbi perimo e interimo. I rispettivi prefissi, per e inter, valgono infatti a distinguere tra distruzione istantanea da un lato e distruzione graduale dall’altro863, tipica la prima dei fenomeni violenti, soprattutto quelli temporaleschi864; la seconda, del lento logorio del tempo, che alla lunga distrugge, anzi molto alla lunga, come enfatizzato dall’enjambement. Preciserei pertanto la traduzione in questo modo: “che né tempesta distruggerà né lunga vetustà logorerà, spegnendo le fulgide insegne del cielo”865. * * *

861 P. es., inv. 2, 32 cum magna in alto tempestas esset e 51 postea…quoque tempestas vehementius iactare coepit; rep. 1, 29 cum ex alto ignotas ad terras tempestas…detulisset; Tusc. 3, 22 maris subita tempestas; nat. deor. 2, 167 si segetibus aut vinetis cuiuspiam tempestas nocuerit; div. 2, 94 qui ventus, qui imber, qui tempestas. Eccezionale il contrario, div. 1, 52 tertia te Phtiae tempestas laeta locabit (= Cic. Hom. fr. V Soubiran), dove tempestas, pur nel suo consueto valore meteorologico, assume il significato positivo di “giornata soleggiata”, quindi “bel tempo”, in virtù dell’attributo laeta; Traina 1959, pp. 79 s. (=1970, p. 94).

862 Vd. pure Cic. off. 2, 13 si (sc. tecta) aut vi tempestatis aut terrae motu aut vetustate cecidissent; più tardi, p. es., Vitr. 1, 5, 3 ei materiae nec caries nec tempestates nec vetustas potest nocere , sed ea…permanet sine vitiis utilis sempiterno e Phaedr. 4, 23, 9s. ascendit navem, quam tempestas horrida / simul et vetustas medio dissolvit mari, dove tempestas vale inequivocabilmente “procella”, evento che causò il naufragio della nave del poeta Simonide.

863 Sul diverso valore dei due preverbi, Leumann – Hofmann – Szantyr 1965, pp. 232 e 240. Su interimo e perimo, cf. Lucr. 1, 215 s. huc accedit uti quidque in sua corpora rursum / dissolvat natura neque ad nihilum interemat res, dove il verbo interimo indica la particolare modalità distruttrice della natura, la quale disgrega ogni corpo nei suoi elementi costitutivi senza però arrivare a ridurli gradatamente al nulla; 225 s. praeterea quaecumque vetustate amovet aetas, / si penitus perimet consumens materiem omnem, dove invece si pone per assurdo che il tempo annienti per intero la materia. Il riferimento lucreziano di interimo e di perimo rispettivamente alla natura e al corso del tempo pare porsi come un esatto rovesciamento del ciceroniano tempestas perimet / vetustas interimet.

864 P. es., Cic. cons. fr. 2, 41 Soubiran divom simulacra peremit fulminis ardor e Lucr. 5, 216 (magno quaesita labore) subiti peremunt imbres gelidaeque pruinae, dove il riferimento del verbo perimo ad agenti metereologici si allinea alla iunctura ciceroniana tempestas perimet.

865 Riservo un’analisi più dettagliata di questi due versi ad un lavoro di prossima pubblicazione, lì rinviando anche per la questione se Cicerone sia stato il primo ad elaborare la coppia dei due agenti distruttivi o se egli abbia avuto dei precedenti.

181

Alla luce di questa lettura, la coppia ciceroniana tempestas - vetustas esibirà un sorprendente profilo di continuità nella poesia augustea e nella prosa senecana, senza mai contravvenire alla netta distinzione semantica tra i suoi due componenti o le relative variazioni. Più che da Arat. fr. II 1, tale continuità trarrà incentivo da leg. 1, 1s., precisamente dal lusinghiero pronostico sulla futura gloria dei versi ciceroniani del Marius e sul potere che questi avrebbero avuto di eternare saeclis innumerabilibus la memoria della quercia mariana una volta estinta, schiantata da maltempo o consunta da vecchiaia.

Il primo riscontro del favore riscosso tra i poeti augustei dalla coppia tempestas – vetustas si cela dietro ad una sapiente interpretatio virgiliana, in verità riconoscibile come tale solo adesso, in virtù delle indicazioni raccolte sopra; georg. 2, 290-295

altior ac penitus terrae defigitur arbos,

aesculus in primis, quae, quantum vertice ad auras

aetherias, tantum radice in Tartara tendit.

Ergo non hiemes illam, non flabra neque imbres

convellunt; immota manet multosque nepotes,

multa virum volvens durando saecula vincit. 866

Al di là del precedente omerico867 che dona un colorito epico868 alla grandiosità di questo aesculus869, il referente arboreo e lo speciale vocabolario degli ultimi tre versi qui riportati lasciano trasparire adesso una raffinata decodifica della coppia tempestas -vetustas all’interno di un quadro nuovo, ma strettamente legato a quello ciceroniano di leg. 1, 2870. Il sg. tempestas viene qui scomposto, evidentemente a scopo amplificante, in una serie di ben tre

866 Riporto il testo dell’edizione di Geymonat 20082.

867 Il. 12, 131-4 τὼ μὲν ἄρα προπάροιθε πυλάων ὑψηλάων / ἕστασαν ὡς ὅτε τε δρύες οὔρεσιν ὑψικάρηνοι, / αἵ τ’ ἄνεμον μίμνουσι καὶ ὑετὸν ἤματα πάντα, / ῥίζῃσιν μεγάλῃσι διηνεκέεσσ’ ἀραρυῖαι “stavano entrambi davanti all’altissima porta, come sulle montagne le querce dall’alto fogliame, che intere giornate resistono alla pioggia ed al vento, ben salde sulle radici immense, ramificate” (trad. G. Cerri); Mynors 1990, p. 136.

868 Barchiesi 1989, p. 159.

869 Su analogie e differenze con la quercia, Maggiulli 1977.

870 Della memoria ciceroniana nessuna traccia nei commenti correnti; tra i più recenti, Thomas 1988; Mynors 1990; Erren 2003.

182 plurali sineddochici, generalizzante il primo, hiemes “inverni” 871, particolarizzanti gli altri due, flabra e imbres, designanti l’inverno nelle sue manifestazioni più tipiche, venti e piogge. Parallelamente viene scomposto vetustas nella coppia multi nepotes e multa virum saecula, con rinvio di saecula all’incipit del De legibus, dove la quercia mariana canescet s a e c l i s innumerabilibus. Dell’aesculus Virgilio tratteggia in tal modo una solidità straordinaria872, tale da resistere a qualsiasi intemperie e durare molti secoli, richiamando da vicino la perennità della quercia mariana celebrata dall’Arpinate873.

Parimenti nascosto dietro variata lectio il ri-uso del pronostico ciceroniano da parte di Orazio, carm. 3, 30, 1-5

Exegi monumentum aere perennius

regalique situ pyramidum altius,

quod non imber edax, non Aquilo impotens

possit diruere aut innumerabilis

annorum series et fuga temporum 874

Sono stati individuati qui due modelli, greci entrambi875: da un lato Pindaro876, nella sua orgogliosa dichiarazione di aver eretto un “tesoro” di inni che non sarebbe mai stato leso né

871 Per hiems = tempestas, già georg. 1, 321 e 391; in proposito, Barchiesi 1989, p. 20; vd. poi il parallelo tra georg. 1, 100 hiemes…serenas ed Enn. ann. 527 V.2 tempestate serena, su cui Erren 2003, p. 74.

872 Forte rilievo alla resistenza di quest’albero sarebbe conferito dalla serrata struttura ritmica; Paratore 1946, pp. 156 s.

873 Proprio con riferimento ad una quercia, Verg. Aen. 4, 445 s. ripeterà alla lettera georg. 2, 291 s.; Briggs jr. 1981-1982, pp. 142 s. e 146. Consapevolezza del legame fra i due luoghi virgiliani lascia intendere Stat. Theb. 9, 532 s. procumbit, Getico qualis procumbit in Haemo / seu Boreae furiis putri seu robore quercus, echeggiando da un lato la quercia dell’Eneide nella sua riformulazione con ripetuto riferimento ad una quercia, per cui vd. Dewar 1991, p. 159; dall’altro, l’ischio delle Georgiche nella riformulazione degli agenti distruttivi che, se inefficaci in Virgilio, riescono ora in Stazio ad abbattere l’albero: Verg. georg. 2, 293 flabra ~ Stat. Theb. 9, 533 Boreae furiis; Verg. georg. 2, 295 saecula ~ Stat. Theb. 9, 533 putri…robore.

874 Riporto il testo dell’edizione di Shackleton Bailey 20014. Da considerare che proprio sulla scorta di Hor. carm. 3, 30 il Patricius (M. T. C. fragmenta, libris quatuor cum annotationibus, Venetiis 1565) arrivò ad ipotizzare che Cic. Arat. fr. 2 fosse un’aggiunta del traduttore latino e che l’incipitario quem si riferisse al prodotto poetico; da qui la collocazione del frammento in un presunto epilogo, anticipatore dell’exegi monumentum oraziano; contra Buescu 1966, p. 265 n. 4, «il est fort peu probable que l’ “adulescentulus” Cicéron ait ajouté à sa version un épilogue, et surtout sur un ton si présomptueux».

183 da pioggia né da vento di tempesta877; dall’altro Simonide878, nella sua celebrazione del monumento sepolcrale ai caduti delle Termopili, destinato a non essere scalfito, secondo il poeta, né da ruggine né da lunga serie di anni. Sono stati rilevati anche alcuni elementi di tradizione romana879; mai però un cenno alla coppia ciceroniana tempestas - vetustas, per quanto difficilmente ignorata da Orazio nell’operazione di congiungimento del motivo pindarico della pioggia e del vento con quello simonideo dell’annosità distruttrice. Tale operazione consisterebbe nella risoluzione della coppia ciceroniana tempestas - vetustas in due coppie distinte, complementari tra loro e quasi epesegetiche dei rispettivi termini di partenza: da un lato, imber e Aquilo in luogo di tempestas; dall’altro, innumerabilis annorum series e fuga temporum in luogo di vetustas. Così facendo, Orazio mostra di emulare Cicerone tramite Virgilio. In virtù del precedente georgico (2, 293), che attesta la prima interpretatio

875 Dopo Pasquali 1920, pp. 748-750, tra i più informati Kiessling – Heinze 19307, pp. 382 s.; Pöschl 1967, pp. 265 s. (=19912, pp. 253-255); Romano 1991, I.2, p. 843; Cavarzere 1996, pp. 237-239; Syndikus 20013, pp. 259 s.; Nisbet – Rudd 2004, p. 365. Per quanto riguarda il verso incipitario dell’ode, si tratterebbe di una memoria isocratea – Antid. 7 ἤλπιζον…τὸν ἀυτὸν τοῦτον (sc. λόγον) μνημεῖόν μου καταλειφθήεσθαι πολὺ κάλλιον τῶν χαλκῶν ἀναθημάτων – filtrata attraverso la mediazione di Enn. ann. 567 V.2 (= 579 Sk.) huic statuam statui maiorem etiam arbitro ahenis, così ricostruito da S. Mariotti; in proposito, Pinto 2010.

876 Pyth. 6, 10 ss. (sc. ὓμνων θησαυρόν) τὸν οὔτε χειμέριος ὄμβρος, ἐπακτὸς ἐλθὼν / ἐριβρόμου νεφέλας / σρατὸς ἀμείλιχος, οὔτ’ ἄνεμος ἐς μυχοὺς / ἁλὸς ἄξοισι παμφόρῳ χεράδει / τυπτόμενον “(sc. tesoro di inni) che né pioggia invernale, che si abbatta come uno spietato esercito invasore di nube tonante, né vento potranno sospingere negli abissi del mare, sotto i colpi del pietrame che tutto trascina con sé” (trad. mia).

877 Con implicita allusione alla cassa in muratura che custodiva il tesoro nel santuario di Delfi, il poeta indica per metafora l’edificio da lui stesso eretto in onore di Senocrate d’Agrigento, destinatario del carme, secondo un accostamento tra arte poetica e architettura reso con τετείχισται (v. 9); nell’affermare che questo suo “tesoro” non potrà essere abbattuto né da pioggia invernale né da vento, il poeta intenderebbe superare la fragilità della struttura contenente il tesoro delfico, le cui mura, che avrebbero dovuto fermare i detriti accumulati dalle piogge, erano state danneggiate proprio dalle tempeste invernali; Wilamowitz-Moellendorf 1922, p. 139; di séguito, Farnell 1932, p. 184; Gallavotti 19512, p. 217, e più di recente Giannini 1995, p. 543.

878 Fr. 531, 4 s. PMG ἐντάφιον δὲ τοιοῦτον οὔτ’ εὐρὼς / οὔθ’ ὁ πανδαμάτωρ ἀμαυρώσει χρόνος “né la ruggine né il tempo che tutto doma potranno distruggere un sepolcro simile” (trad. mia). Sul rapporto tra il luogo simonideo e quello oraziano, Woodmann 1974, p. 118. Prossima alla metafora del tempo che tutto doma è l’altra metafora, parimenti simonidea, del tempo che, munito di denti, tutto divora (eleg. 88, 1 s. West2 ὅ τοι Χρόνος ὀξὺς ὀδόντας / καὶ πάντα ψήχει καὶ τὰ βιαιότατα ~ Hor. carm. 3, 30, 3 imber edax; Nisbet – Rudd 2004, pp. 365 s.); sulla fortuna di questa metafora, Pontani 2001.

879 In particolare, l’autoepitaffio di Enn. var. 17s. V.2 nemo me lacrimis decoret nec funera fletu / faxit. cur? volito vivos per ora virum, del quale conserva memoria anche Hor. carm. 2, 20, 21 absint inani funere neniae. Nell’ode poi non mancano riferimenti all’ambiente e al costume romani, soprattutto nella menzione di Libitina, della vestale, del pontifex e del Campidoglio, ancorché in presenza di modelli lirici greci; Fränkel 1957, p. 302.

184 dei ciceroniani tempestas e vetustas – la tempestas è variata con i venti e le piogge, caratteristiche intemperie invernali, la vetustas con il succedersi di molte generazioni e di molti secoli –, il Venosino può passare ad indicare il maltempo per mezzo soltanto delle sue topiche manifestazioni, la pioggia e il vento, con la novità di nominarle al singolare e in ordine inverso rispetto a Virgilio, aggiungendo inoltre l’indicazione della provenienza settentrionale del vento, il freddo e tempestoso Aquilone; Verg. georg. 2, 293 non hiemes…neque flabra neque imbres ~ Hor. carm. 3, 30, 3 non imber edax, non Aquilo impotens. Tramite Virgilio si comprende inoltre la personale riformulazione oraziana del concetto di vetustas. In analogia con il Mantovano, il quale aveva introdotto la coppia multi nepotes e multa virum saecula, Orazio crea infatti una propria, differente coppia con innumerabilis annorum series e fuga temporum. L’ennesimo punto di contatto tra i due poeti nella ripresa dall’incipit del De legibus è visibile nel fatto che il virgiliano saeculum da un lato e l’oraziano innumerabilis880 dall’altro esercitino funzione di richiamo al ciceroniano canescet saeclis innumerabilibus881.

In parallelo con Virgilio, dunque, anche Orazio dimostra di aver colto una netta distinzione semantica tra gli originari tempestas e vetustas, gli stessi termini con i quali poi, curiosamente, il commentatore spiegherà la riformulazione oraziana; Ps. Acro ad l., hoc est: dicta sua n e c v e t u s t a t e ne c t e m p e s t a t i b u s abolenda. Dello stesso commentatore non meno illuminante per la riconduzione di innumerabilis annorum series e fuga temporum a vetustas diventa il rinvio a Verg. Aen. 12, 686 annis solvit sublapsa vetustas882, cioè all’emistichio che chiude la descrizione della caduta di un masso da una cima

880 La ripetizione dell’aggettivo ciceroniano si aggiunge al parallelo tra Hor. carm. 3, 30, 7s. usque ego postera / crescam laude recens e Cic. leg. 1, 1 canescet saeclis innumerabilibus in base al comune impiego metaforico del concetto di crescita; Pöschl 1967, p. 262 n. 4 (=19912, p. 249 n. 4). Sull’oraziano innumerabilis, Traina 1998, p. 163.

881 La predizione della fama del Marius ciceroniano tramite l’augurale canescet saeclis innumerabilibus riscosse immediato successo tra i poeti; vd. Cinna fr. I 2 Coutney innumerabilibus…saeclis e Catull. 95, 6 Zmyrnam cana diu s a e c u l a p e r v o l v e n t; Courtney 2003, p. 175. In particolare, il Veronese prospetta una fama imperitura per la Smirna dell’amico Cinna, tanto che le generazioni future incanutiranno a leggerne dal primo all’ultimo i mirabili versi, propriamente definiti parva monimenta (v. 9). Nella celebrazione catulliana della gloria intramontabile del poeta risalta oltretutto la scelta di pervolvent, che ora non manca di anticipare la lectio di Verg. georg. 2, 295 multa virum v o l v e n s durando s a e c u l a vincit (sc. aesculus).

882 Il commentatore oraziano aggiunge un rinvio ad Aen. 4, 310 et mediis properas aquilonibus, al fine di sottolineare il carattere tempestoso dell’Aquilone, spiegando dunque con tempestates gli oraziani imber e Aquilo.

185 montana, staccato dal vento, dalla pioggia o per effetto di crepe prodotte nel tempo dalla vetustas, vv. 684-686

ac veluti montis saxum de vertice praeceps

cum ruit avolsum v e n t o, seu turbidus i m b e r

proluit aut annis solvit sublapsa v e t u s t a s 883

Il Mantovano continua così a distinguere, inequivocabilmente, da un lato la violenza distruttiva di ventus e turbidus imber, che richiamano georg. 2, 293 non flabra neque imbres nella comune riconducibilità di entrambe le coppie a tempestas; dall’altro l’azione di lento logoramento prodotto dal lungo trascorrere del tempo, ora indicato appunto con vetustas884. Rimane da valutare quale funzione possa avere avuto la ripresa di Cic. leg. 1, 1s. da parte di Orazio. Nel caso di Virgilio georgico lo scopo è quella di dare, evidentemente, un precedente illustre alla vita plurisecolare dell’ischio. Nel caso del monumentum oraziano, invece, la ragione può essere individuata nella natura immortale della quercia arpinate, natura che non dipende da speciali caratteristiche fisiche dell’albero, bensì dalla sua celebrazione poetica nel Marius, che l’ha reso e lo renderà celebre nei secoli a venire885. Per bocca del fratello Quinto, infatti, Cicerone afferma che detta quercia, proprio perché sata…ingenio, riuscirà a sopravvivere alla sua stessa morte, una volta che sarà stata abbattuta da maltempo o da vecchiaia, in quanto nullius …agricolae cultu stirps tam diuturna quam poetae versu seminari potest. Al pari dunque della poetica quercia mariana, i carmi di Orazio sopravvivranno come monumentum del suo ingenium, in virtù del quale l’autore stesso sfuggirà all’oblio, come egli dirà immediatamente dopo, vv. 6-9 Non omnis moriar multaque pars mei vitabit Libitinam. usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita virgine pontifex 886

883 Riporto il testo dell’edizione di Geymonat 20082.

884 Quindi Ov. met. 15, 872 (opus exegi quod) nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas.

885 Pertinente quanto osservato ad analogo proposito da Rosati 1979, p. 123, «condizione indispensabile perché un elemento della realtà conquisti fama immortale è che esso “entri” nell’universo della poesia, che esso diventi oggetto dei carmina».

886 Cf. Verg. Aen. 9, 446-449 fortunati ambo! si quid mea carmina possunt, / nulla dies umquam memori vos eximet aevo, / dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum / accolet imperiumque pater Romanus habebit; diversamente, Ov. met. 15, 875-879 parte tamen meliore mei super alta perennis / astra ferar nomenque erit indelebile nostrum; / quaque pater domitis Romana potentia terris, / ore legar populi perque omnia saecula fama, / siquid habent veri vatum praesagia, vivam, il quale «a garanzia della sua immortalità non assume tanto l’eternità di Roma…quanto piuttosto i praesagia

186

Quest’ingenium che sottrae all’oblio porterebbe così la “firma” di Cic. leg. 1, 1s.; il che si comprende ancora meglio alla luce della ripresa dell’ode oraziana da parte di Prop. 3, 2, 19-26

nam neque Pyramidum sumptus ad sidera ducti, nec Iovis Elei caelum imitata domus, nec Mausolei dives fortuna sepulcri mortis ab extrema condicione vacant. aut illis flamma aut i m b e r subducet honores, a n n o r u m aut i c t u, pondere victa, ruent. at non ingenio quaesitum nomen ab aevo excidet : ingenio stat sine morte decus.887

L’Assisiate non solo sèguita a tenere distinti i due agenti di matrice ciceroniana, tempestas e vetustas, metaforizzandoli rispettivamente con imber, di evidente segno oraziano, e annorum ictus - l’aggiunta di flamma è una novità888 - ma recupera pure quell’ingenium che Cicerone aveva celebrato889, prima di Orazio890, come motore di poesia eternatrice.

vatum…È così che anzitutto si coglie, mi pare, il senso della esplicita ripresa della sphragís oraziana: se è vero, come Ovidio afferma, che la gloria del poeta trova la garanzia della sua eterna durata nei praesagia vatum, quale modo migliore si offriva al poeta stesso di affermare l’orgogliosa certezza della propria immortalità che f o n d a r l a, nel gesto dell’allusione, sui praesagia di un vates già consacrato alla gloria (sc. Orazio)?»; così Rosati 1979, pp. 119 s. Questo allusivo richiamo di Ovidio al praesagium oraziano sarà ora collegabile agli allusivi richiami poetici del praesagium ciceroniano, leg. 1, 1 canescet saeclis innumerabilibus.

887 Riporto il testo dell’edizione di Fedeli 1984.

888 Sul suo ritorno tra gli altri agenti distruttori, vd. poi Ov. met. 15, 871 (infra, n. 53) e Sen. epist. 91, 12 casurae stant (sc. urbes); omnis hic exitus manet, sive interna vis flatusque…excusserint, sive torrentium …effregerit, sive flammarum violentia…ruperit, sive vetustas…expugnaverit minutatim, sive gravitas caeli egesserit populos et situs deserta corruperit.

889 Oltre che nell’incipit del De legibus, ingenium sarà termine chiave nella pro Archia; p. es., § 4 (Archias) celeriter antecellere omnibus ingeni gloria contigit; 19 omne ingenium contulerit Archias ad populi Romani gloriam laudemque celebrandam. Cicerone non mancherà inoltre di rilevare la superiorità delle opere scritte sulle opere statuarie, spianando così la via alla metafora oraziana della poesia quale monumentum perenne; § 30 statuas et imagines, non animorum simulacra sed corporum, studiose multi summi homines reliquerunt : consiliorum relinquere ac virtutum nostrarum effigiem nonne multo malle debemus summis ingeniis expressam et politam? ego vero omnia, quae gerebam, iam tum in gerendo spargere me ac disseminare arbitrabar in orbis terrae memoriam sempiternam; sulla matrice greca, specificamente isocratea, del concetto ciceroniano, Vretska 1979, p. 181; infine, sul potere della poesia di conferire una memoria eterna agli oggetti del proprio canto, vd. § 24 nisi Ilias illa exstitisset, idem tumulus, qui corpus eius (sc. Achillis) contexerat, nomen etiam obruisset.

890 In merito alla congiunta allusione di Prop. 3, 2, 23 at non ingenio quaesitum nomen a Hor. carm. 2, 18, 9 at…ingeni e 3, 30, 14s. superbiam / quaesitam, Miller 1983, pp. 296-298; per affinità concettuale, vd. pure AP 7, 225 (adesp.) ψήχει καὶ πέτρην ὁ πολὺς χρόνος, οὐδὲ σιδήρου / φείδεται, …/ οὔνομα μὴν ἥρωος ἀεὶ νέον · οὐ γὰρ ἀοιδάς / αμβλύνειν αἰών, κἢν ἐθέλῃ, δύναται “la vecchiaia

187

Chi più tardi tirerà i fili del discorso, con trasparente consapevolezza dell’intero percorso compiuto dalla coppia tempestas – vetustas da Cicerone in poi, sarà Seneca, nel suggerire a Polibio di commemorare con un suo scritto il fratello morto da poco, dial. 11, 18, 2

fratris quoque tui produc memoriam aliquo scriptorum monumento tuorum; hoc enim unum est rebus humanis opus cui nulla t e m p e s t a s noceat, quod nulla consumat v e t u s t a s. Cetera, quae per constructionem lapidum et marmoreas moles aut terrenos tumulos in magnam eductos altitudinem constant, non propagant longam diem, quippe et ipsa intereunt: i n m o r t a l i s est i n g e n i m e m o r i a. Hanc tu fratri tuo largire, in hac eum conloca; melius illum duraturo semper consecrabis ingenio quam inrito dolore lugebis 891.

Spiega il filosofo che i comuni monumenti commemorativi, perfino le grandiose moli marmoree e i più alti tumuli di terra, sono destinati a scomparire; solo il monumento letterario, in quanto opera dell’ingenium, avrà inmortalis memoria e mai sarà scalfito n é da tempestas n é da vetustas892.

Ad evidenziare la matrice ciceroniana delle parole di Seneca concorrono sia la correlazione nulla…nulla, palmare variazione di Arat. fr. II 1 neque…neque893, sia la frequenza di stilemi ciceroniani894, su tutti l’originaria coppia tempestas - vetustas. Proprio questo ritorno alla consuma anche la pietra né risparmia il ferro…ma la fama dell’eroe è sempre verde; infatti il tempo, pur volendo, non può affievolire i canti poetici” (trad. mia); in proposito, Fedeli 1985, p. 106.

891 Riporto il testo dell’edizione di Reynolds 1977.

892 Per converso, in merito all’azione distruttiva del tempo su opere edili, vd. già Cic. Marcell. 11s. quae quidem tanta est ut tropaeis et monumentis tuis adlatura finem sit aetas - nihil est enim opera et manu factum, quod non conficiat et consumat vetustas, at haec tua iustitia et lenitas florescent cotidie magis. Ita quantum operibus tuis diuturnitas detrahet, tantum adferet laudibus, con il quale cf. il sopra citato Prop. 3, 2, 18-26; in proposito, Heyworth – Morwood 2011, pp. 111 s. Vd. pure la citazione del passo ciceroniano da parte di Lact. inst. 6, 11, 25s. nihil…magis, con personale riformulazione del concetto di partenza, nec opera eorum (sc. qui publicis operibus extructis memoriam nomini suo quaerunt) sempiterna sunt, siquidem aut uno tremore terrae dissipantur et corruunt aut fortuito consumuntur incendio aut hostili aliquo impetu diruuntur aut certe vetustate ipsa dissoluta labuntur.

893 L’allusivo richiamo del senecano nulla…nulla all’arateo neque…neque si allinea all’allusiva variazione properziana del modello oraziano nell’uso di connettivi negativi; Miller 1983, p. 294 n. 24. Lo stesso Seneca, inoltre, tradisce altrove l’imitazione di Ovidio proprio attraverso l’enfatica ripetizione delle negazioni; Degl’ Innocenti Pierini 1980, p. 124. Sull’anafora allusiva, Wills 1996, pp. 354-362.

894 Cetera…intereunt ~ Cic. Phil. 9, 14 statuae intereunt tempestate, vi, vetustate…ut cetera exstinguuntur; melius…consecrabis…quam...lugebis ~ Cic. Phil. 14, 34 quos (viros) laudare quam lugere prestabit; nessuna segnalazione da Kurth 1994.

188 coppia di partenza, dopo la stagione augustea delle sue “interpretazioni”, si traduce in una restituzione del topos alla sua iniziale formulazione, facendo risaltare in Seneca la consapevolezza della paternità ciceroniana di un “luogo comune” piuttosto dinamico895 e di indubbio successo896.

In sintesi, l’analisi del tragitto della coppia tempestas-vetustas da Cicerone a Seneca porta a due conclusioni. La prima è che viene a cadere la pretesa di leggere nel fr. II degli Aratea una dittologia sinonimica, smentita sopra dal ritorno in coppia dei due termini, sempre in alternativa l’uno all’altro e in riferimento a due agenti distruttivi distinti897. La seconda conclusione è che questa lettura ha consentito di accedere qui per la prima volta ad inaspettate interpretationes della coppia tempestas –vetustas ad opera dei poeti augustei, ricondotte infine da Seneca alla comune matrice ciceroniana. Il Cordovano raccorderà infatti il motivo dei due agenti distruttivi con quello dell’eternità poetica, lasciandone trasparire la paternità di Cicerone, poeta e prosatore.

895 Hinds 1998, p. 40.

896 Tra le numerose personalizzazioni, Ov. met. 15, 871 ss. iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignes / nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas /…parte tamen meliore mei super alta perennis / astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum / …perque omnia saecula fama, / siquid habent veri vatum praesagia, vivam; sull’azione distruttrice del solo tempo cronologico, Sen. dial. 10, 15, 4 honores, monumenta, quidquid aut decretis ambitio iussit aut operibus extruxit, cito subruitur, nihil non longa demolitur vetustas et movet; at iis quae consecravit sapientia nocere non potest; nulla abolevit aetas, nulla deminuet e Ps. Sen. epigr. 27, 1-6 Prato (=Anth. Lat. 418, 1-6 Riese) nullum opus exurgit, quod non annosa vetustas / expugnet, quod non vertat iniqua dies, / tu licet extollas magnos ad sidera montes / et calidas aeques marmore pyramidas. / Ingenio mors nulla nocet, vacat undique tutum; / inlaesum semper carmina nomen habent; diversamente Mart. 7, 84, 6-8 certior in nostro carmine voltus erit / casibus hic nullis, nullis delebilis annis / vivet, Apelleum cum morietur opus e 10, 2, 11 s. at chartis nec furta nocent et saecula prosunt, / solaque non norunt haec monumenta mori.

897 Di conseguenza, cade pure il raffronto, portato da Luck 1976, p. 233, con la sinonimia di Catull. 64, 73 illa tempestate…quo ex tempore, invero anche questa tutt’altro che scontata; in proposito, Heusch 1954, pp. 51-53 e Nuzzo 2003, pp. 84 s.; nel caso ciceroniano, poi, contro la sinonimia adesso anche Pellacani 2013, p. 47, lavoro del quale ho preso conoscenza solo al momento di licenziare questo articolo per la stampa.

189

Abstract : Cicero’s Arat. fr. II 1 claimed synonymy between tempestas and vetustas in the meaning of “age” is denied by the recurrence of the two words together in Cicero’s prose, where their sure meaning is respectively “bad weather” and “age”. Augustan poetry (Virgil, Horace, Propertius, Ovid) repeatedly combines the destructive power of these two elements, now expressed in a new way but directly having reference to Cicero’s binomial. The evidences of this connection finally find in Seneca a further remarkable proof.

Keywords : tempestas / vetustas / Cicero.

190 L’arte di cantare la Corona di Arianna. Da Arato ad Avieno *

Si tiene ormai per acquisito che nel sistema letterario della poesia antica la memoria verborum vada intesa come imitazione non letterale ma letteraria, nel senso che tale memoria assume l’importante funzione di una retorica di formule sovrapposte, per così dire, dove l’intertesto allusivo si carica di valori eminentemente simbolici, che arricchiscono di significati profondi e complessi tanto l’ipotesto quanto l’ipertesto e condizionano la memoria del lettore, sollecitandola ripetutamente con richiami verbali, tematici, retorici. La poesia antica si porrebbe dunque come “une oeuvre d’art universelle où des voix subtiles redonnent vie à nos lectures successives”898.

Dei cantori latini della Corona di Arianna899, costellazione altrimenti definita Corona Boreale, avanzano diversi luoghi da analizzare meglio alla luce del quadro generale sintetizzato sopra, e ciò nella prospettiva di spostare in avanti di qualche punto l’asticella delle nostre acquisizioni, anche in tema di memoria verborum.

A Roma la celebrazione poetica della Corona esordisce negli Aratea di Cicerone, vale a dire nella prima versione latina dei Phaenomena di Arato, e prosegue negli Astronomica di Manilio900 e negli Aratea di Germanico prima di approdare all’omonimo trattato di Avieno901;

* Il contenuto di questo articolo in corso di stampa è stato da me esposto il 20. IX. 2014 al Quinto Stage Dottorale “Didattica della ricerca” (Allumiere, 17-20. IX. 2014), organizzato dal Dottorato in “Civiltà e Tradizione Greca e Romana” dell’Università ROMA TRE. Rimango particolarmente grata al Prof. Dr. Alexander Arweiler, al Prof. Mario De Nonno e al Prof. Vittorio Ferraro per i loro preziosi suggerimenti ed osservazioni.

898 Barbaud 2005, p. 92; qui anche le linee principali del quadro delineato sopra e i riferimenti ai maggiori lavori sull’intertestualità (pp. 92 s., nn. 1-4), succedutisi all’ormai classico studio di Conte 1974.

899 Raccolta di loci in Pease 1958.

900 Liuzzi 1988 rileva il debito di Manilio nei confronti di Arato in materia astronomica, nei confronti di Cicerone per la traduzione di termini greci tramite neologismi e perifrasi, cui si sommano corrispondenze stilistiche, retoriche e metriche con gli Aratea ciceroniani; Abry 2007 analizza invece le affinità strutturali tra i Phaenomena e gli Astronomica, rilevando del poema maniliano i maggiori tratti originali.

901 Gli Aratea di Cicerone, di Germanico e di Avieno sono le tre principali e più complete versioni latine dei Phaenomena di Arato e ad essi si è soliti riferirsi come testimoni fondamentali della fortuna romana del poeta di Soli; agli Aratea di questi tre autori sono tuttavia da affiancare numerose altre versioni dell’opera di Arato, conservate solo in forma frammentaria o addirittura andate perdute; in proposito, Calderón Dorda 1990; sulla fortuna romana dei Phenomena di Arato, vd. Hübner 2005;

191 ma registra continuità e sviluppi rilevanti anche in opere di genere diverso, solo episodicamente comunicanti con il versante astronomico arateo, come la Chioma di Catullo902, le Georgiche di Virgilio903, le Metamorfosi e i Fasti di Ovidio904.

Qui si prova a dar conto di come la retorica della memoria verborum governi questo percorso celebrativo da protagonista assoluta, con largo impiego, da parte dei poeti, di risorse espressive man mano sempre più raffinate e più cospicue.

quanto al valore artistico dei tre Aratea maggiori, Dehon 2003, pp. 96 e 115, osserva che «un examen des Aratea révèle que pour leurs auteurs, la traduction du modèle n’est pas un simple exercice de transposition en latin du texte grec, mais un travail minutieux d’adaptation, d’acclimatation de l’original et même de la pensée qu’il véhicule», ravvisando nelle riscritture dei versi aratei sul Capricorno (vv. 284-299) da parte di Cicerone, Germanico e Avieno «exemples éloquentes de la manière dont les trois écrivains, dans le cadre présumé rigide et contraignant d’une traduction, parvennient à affirmer leur propre personnalité, à laisser parler leur talent, leur latinité, leur originalité».

902 Sia Traglia 1955 sia Kubiak 1979, pp. 149-168, rilevano il debito della Chioma catulliana nei confronti degli Aratea ciceroniani, primo veicolo di terminologia astronomica nella poesia latina.

903 Il rapporto stretto con Arato è segnalato già nei versi iniziali, dove il poeta, con allusivi giochi di parole e una significativa concentrazione di enjambements, richiama l’esordio dei Phaenomena; in proposito, Katz 2008, al quale si rinvia anche per la bibliografia precedente; sull’influenza dell’opera di Arato sulla struttura del primo libro delle Georgiche, con speciale riguardo ai versi della cosiddetta astrologia metereologica, Montanari Caldini 1981 e in particolare, per il rapporto tra Virgilio e le Διοσημεῖαι di Arato, vd. la bibliografia di p. 163 n. 1; ad essa, tra gli studi successivi, si aggiunga almeno quello di Boccuto 1985, la quale analizza la riscrittura dei segni premonitori del maltempo in Arat. 909-987 da parte di Verg. georg. 1, 356-392 passando attraverso due predecessori latini, Cic. progn. frr. 3-4 Soubiran e Varro At. fr. 22 Blänsdorf; quanto alla reinterpretazione virgiliana di luoghi aratei per il tramite ciceroniano, vd. Barchiesi 1981; Landolfi 1986; Bellandi 2004.

904 Un importante punto di contatto tra i Phaenomena e le Metamorfosi è rappresentato dai catasterismi, tema privilegiato dall’eziologia alessandrina; in proposito, Myers 1994, p. 22; quanto invece alla componente astronomica di matrice aratea nei Fasti, Gee 2000.

192 1. La Corona in Arato e il suo modello omerico

La più estesa menzione aratea della Corona di Arianna è nei vv. 71-73905

αὐτοῦ κἀκεῖνος Στέφανος, τὸν ἀγαυὸν ἔθηκε σῆμ’ ἔμεναι Διόνυσος ἀποιχομένης Ἀριάδνης, νώτῳ ὕπο στρέφεται κεκμηότος εἰδώλοιο

71 ἀγαυὸν Mγρ sch. sch. A. R. : ἀγαυὸς MES sch. Alex. Aphr. 73 ὕπο στρέφεται scripsi : ὑποστρέφεται codd. || κεκμηότος MES : κεκμηκότος C906

La lezione ἀγαυόν è quella accolta dai maggiori editori, tra i quali Maass907, Martin908, Erren909, Kidd910, con motivazione però solo da quest’ultimo: «the manuscripts support ἀγαυóς, which certainly makes good sense with Dionysus: in Homer it is used of gods and heroes. But here it seems somewhat otiose, whereas with the Crown the epithet makes a point in bringing out the importance of these as both legend and »911. In sintesi, il maschile ἀγαυός, da riferire a Διόνυσος912, avrebbe un mero valore esornativo913; invece il neutro ἀγαυόν, da riferire alla Corona tramite σῆμα, ne sottolineerebbe l’importanza sul piano sia mitico sia celeste. Del neutro ἀγαυόν, accolto dunque a ragion veduta, pare tuttavia sia sfuggita la rarità del riferimento ad essere inanimato (σῆμα). Avanzerebbero infatti due soli precedenti, h. Hom. 18, 442 δῶρον ἀγαυόν e Pind. Pae. 9, 36 ἀγαυόν …θρόον, il primo dei quali fa risaltare

905 Un successivo riferimento alla Corona è nei vv. 572-574, relativi al tramonto della costellazione.

906 Testo e apparato dell’edizione di Kidd 1997.

907 Maass 1893, il quale segnala, a supporto, che ἀγαυόν «legerunt Cic fr. XII Ovidius Manilius Germ. v. 71».

908 Martin 1956 (b) e 19982.

909 Erren 1971.

910 Kidd 1997.

911 Kidd 1997, p. 205.

912 In Omero l’aggettivo qualifica personaggi di spicco, da un’eminenza come Nestore (Il. 18, 16) ad un eroe straordinario come Tideo (Il. 5, 277), ad una divinità come Proserpina (Od. 11, 213); poi Hes. Th. 461 e 632, rispettivamente con riferimento ai Celesti e ai Titani.

913 Sugli epitheta ornantia vd. Kroll 1924, pp. 274-279, e Lausberg 1969, pp. 156 s.

193 nell’attributo arateo una raffinata lectio di ascendenza omerica914. Al piccolo Ermes, autore qui di un’eccellente esibizione musicale e canora, Apollo chiede infatti se egli possegga queste abilità meravigliose (v. 440 θαυματὰ ἔργα) fin dalla nascita o se piuttosto non le abbia ricevute, appunto come δῶρον ἀγαυόν “dono mirabile”, da un dio o da un mortale915. Appare fondamentale in questo precedente il particolare del “dono” offerto da un dio, così che il ri- uso arateo di ἀγαυόν viene a richiamare lo status iniziale della Corona, quello di dono, del dono nuziale che Dioniso916 - oppure Afrodite e le Ore, come vorrebbe una seconda versione del mito917 - avrebbe fatto ad Arianna. Ne discende che il precedente innodico venga a investire di luce nuova l’ἀγαυόν arateo918 e a riscattare la forma neutra come lectio difficilior rispetto al maschile ἀγαυός dei codd., peraltro già ostacolato dalla sua stessa posizione predicativa. L’arateo ἀγαυόν amplia inoltre il tradizionale spettro semantico dell’aggettivo (“mirabile”, “distinto”, “illustre”)919 aggiungendo il senso di “fulgido”920, in virtù del suo nuovo riferimento a corpi celesti (vv. 90; 392; 469; 506). Questa novità semantica della luminosità,

914 Benché l’inno a Ermes non sia omerico e sia anzi ritenuto il più tardo della raccolta innodica, esso è tuttavia testimone di una tradizione rapsodica definibile omerica nel complesso; sulla struttura, sulla cronologia e sull’origine dell’inno, Càssola 1975, pp. 171-174.

915 Apollo scarterà presto l’ipotesi del dono, riconoscendo ad Ermes l’esclusiva delle sue abilità; vv. 443-446 Θαυμασίην γὰρ τήνδε νεήφατον ὄσσαν ἀκούω, / ἣν οὔ πώ ποτέ φημι δαήμεναι οὔτε τιν’ ἀνδρῶν / οὔτε τιν’ ἀθανάτων οἳ Ὀλύμπια δώματ’ ἔχουσι, / νόσφι σέθεν φιλῆτα Διὸς καὶ Μαιάδος υἱέ “meravigliosa è la nuova voce che odo, e io affermo che mai alcuno degli uomini ne è venuto a conoscenza né alcuno degli dei che abitano le dimore dell’Olimpo, se non tu, furfante, figlio di Zeus e di ” (trad. Càssola).

916 Sch. Od. 11, 322, p. 506, 14-16 Dindorf, che riporta quanto narrato da Ferecide di Atene; EGM I, pp. 352 s.

917 Eratosth. Cat. 5; sch. Arat. 71, pp. 106, 11-107, 3; v. 73, p. 109, 8 s. M.; Hyg. astr. 2, 5, 1.

918 Prima di Arat. 71, vd. Pind. Pae. 9, 34-37 ἐκράνθην ὑπὸ δαιμονίῳ τινί / λέχει πέλας ἀμβροσίῳ Μελίας / ἀγαυὸν καλάμῳ συνάγεν θρόον / μήδεσί τε φρενὸς ὑμ[ε]τέραν χάριν “da un…divino fui reso capace presso il talamo immortale di Melìa di radunare col flauto e con i pensieri della mia mente un nobile coro per voi”; Bona 1988, pp. 214 e 218. Pare evidente che come h. Hom. 18, 442 ἀγαυόν definisce “mirabile” il “dono” di Ermes, consistente nel suo canto e nella sua perizia musicale, così Pind. Pae. 9, 36 riferisce analogamente l’attributo ἀγαυόν al canto che il poeta può intonare avendone avuto facoltà ed ispirazione da un dio; in entrambi i casi, dunque, siamo in presenza di un canto mirabile in quanto fuori dal comune, addirittura divino.

919 Sul legame etimologico con ἄγαμαι “ammirare”, DELG, s.v. ἀγαυός.

920 Panichi 1969, p. 8.

194 che al v. 71 registra la sua prima occorrenza in assoluto, trova puntuale sottolineatura nello scolio ad l., p. 107, 6-10 M. τὸν ἀγαυὸς ἔθηκεν: ἐὰν μὲν ἀ γ α υ ὸ ς ἀναγνῶμεν, ὁ Διόνυσος· ἐὰν δὲ ἀ γ α υ ό ν ᾖ, τὸν ἐπίσημον (σημαίνει δὲ καὶ τὸν ἔνδοξον), ὅτι τὸν τῆς ἐρωμένης στέφανον ἀγαυὸν ἐποίησεν ἐν οὐρανῷ τουτέστι λαμπρόν921 il quale spiega come ἀγαυόν, detto della Corona, ne indichi da un lato la celebrità - τὸν ἐπίσημον…τὸν ἔνδοξον (sc. Στέφανον), come già Arat. 71 κἀκεῖνος Στέφανος -, dall’altro la luminosità (ἀγαυὸν…τουτέστι λαμπρόν), cioè due qualità riconducibili la prima alla notorietà del mito, la seconda alla collocazione in cielo922. Con l’osservazione che «with the Crown the epithet makes a point in bringing out the importance of these stars as both legend and constellation»923 Kidd riporta dunque una parafrasi dello scolio, opportunamente però aggiungendo alla duplice spiegazione di ἀγαυόν un duplice significato anche di σῆμα, “simbolo commemorativo” e “costellazione”924. Egli parla propriamente di «word-play on two meanings of σῆμα “memorial” and “constellation”»925, trovando conferma della compresenza di entrambi i significati nel pl. monumenta di Manil. 1, 323 Gnosia desertae fulgent monumenta puellae926. Da questa angolatura sarà dunque possibile dare di Arat. 71-73 una duplice traduzione:

921 “Se leggiamo ἀγαυός, Dioniso; se invece fosse ἀγαυόν, la celebre corona (indica infatti l’insigne corona), in quanto Dioniso rese mirabile in cielo, cioè luminosa, la corona dell’amata”; mia la traduzione di questo e di tutti gli altri luoghi esaminati di séguito, salvo diversa indicazione.

922 L’interazione tra mitologia ed astronomia in riferimento alle costellazioni è del resto già propria dell’opera stessa di Arato; vd. Bishop 2011, p. 31, «while they (sc. constellations) have gained literary-mithological fame, they are also quite literally splendid as heavenly body in the sky».

923 Kidd 1997, p. 205.

924 Bartalucci 1988, p. 366, «Il catasterismo è il signum, il σύμβολον di qualcosa che ha attinenza col referente mitologico: già in Arato, 72, si trova σῆμα con questo valore».

925 Kidd 1997, p. 205; così pure Poochigian 2010, p. 47, «sēma…a pun conveying that the crown is both a sign in the sky and a memorial (funerary) marker for Ariadne».

926 Al rilievo di Kidd 1997, p. 205, si aggiunga ora che il significato omerico di σῆμα “tomba” (Il. 2, 814), segno materiale di commemorazione, verrà pienamente restituito pure nella ripresa del verso di Manilio da parte di Marziale, 9, 34, 7 “Gnosia vos” inquit “nobis monumenta dedistis”, dove il nuovo Gnosia…monumenta indica appunto una tomba, quella di Giove sul monte Ida a Creta.

195 1) “lì anche la famosa Corona, che Dioniso pose perché fosse mirabile segno commemorativo di Arianna defunta, ruota alle spalle della figura spossata (l’Engonasi)”; 2) “lì anche la famosa Corona, che Dioniso pose perché fosse fulgida costellazione di Arianna defunta, ruota alle spalle della figura spossata (l’Engonasi)”927. Sarebbe inoltre da notare come l’aggettivo ἀγαυόν palesi, insieme alla suddetta patina omerizzante928, anche una stretta complementarità con le due tessere omeriche presenti nei versi aratei sulla Corona929. La prima, nell’attacco del v. 72 σῆμ’ ἔμεναι, per cui vd. Hom. Od. 24, 74 s. χρύσεον ἀμφιφορῆα· Διωνύσοιο δὲ δῶρον / φάσκ’ ἔμεναι, ἔργον δὲ περικλυτοῦ Ἡφαίστοιο930, dove risalta l’anfora dorata, dono di Dioniso ed opera di Efesto, esattamente

927 Sch. Arat. 73, pp. 108, 19-22 τὸν…περικαλλῆ στέφανον ὅνπερ ἔσχεν αὕτη ἐν τῷ οὐρανῷ ἐστήριξε σημεῖον εἶναι τῆς Ἀριάδνης καὶ τοῦ πρὸς αὐτὴν ἔρωτος e 109, 1-4 M. (Ἄρατος) προειπὼν γὰρ περὶ τοῦ Διός (10)·”αὐτὸς τάδε σήματ’ ἐν οὐρανῷ ἐστήριξε”, νῦν τὸν Διόνυσον λέγει τὸν Στέφανον ἀναθεῖναι τῷ οὐρανῷ assimilano il catasterismo della Corona da parte di Dioniso alla fissazione delle costellazioni in cielo da parte di Zeus; analogamente Ovidio, fr. 2, 1-3 Bl. tot numero talique Deus simulacra figura / imposuit caelo perque atras sparsa tenebras / clara pruinosae iussit dare lumina nocti, in riferimento al catasterismo delle Pleiadi, con imposuit caelo rende di Arato sia v. 453 οὐρανῷ εὖ ἐνάρηρεν sia v. 10 ἐν οὐρανῷ ἐστήριξεν, rievocando così nei tre versi conclusivi dei proprî Phaenomena (cfr. Latt. inst. 2, 5, 24 is eum librum, quo Phaenomena breviter comprehendit, his tribus versibus terminavit) la funzione di Zeus ad inizio dell’opera di Arato; sulla rispondenza anulare tra il finale ovidiano e l’inizio arateo, Cicu 1979, pp. 126 s., e Calderón Dorda 1990, pp. 43 s.

928 Sugli omerismi in Arato, fondamentale Ronconi 1937 (=1968, pp. 45-107); sulla rielaborazione di espressioni omeriche ad opera del poeta di Soli, Traina 1956 (=1970, pp. 205-220).

929 Non escluderei che la concentrazione di omerismi sia funzionale a richiamare la versione omerica della vicenda di Arianna, inserita nel catalogo delle defunte avvistate da Ulisse nell’Ade (Od. 11, 321- 325); secondo questa versione, la fanciulla, lasciato lo sposo Dioniso per il mortale Teseo, venne punita con la morte da Artemide dietro denuncia del dio, il quale, pentitosi poi di aver causato la morte dell’amata, ne trasformò la corona in costellazione; sulla possibilità che Arat. 71-73 si riferisca a questa versione del mito, Armstrong 2006, p. 313; pare certo, comunque, che Arato derivi da Omero la mortalità dell’eroina, distaccandosi dalla versione esiodea secondo la quale Zeus dispensò la fanciulla, sposa di Dioniso, dalla morte e dalla vecchiaia, Th. 947-949.

930 In considerazione del distacco di Arato dalla versione esiodea sull’immortalità di Arianna, Fakas 2001, p. 181 n. 20, interpreta Arat. 72 σῆμ’ ἔμεναι come una probabile allusione a Hes. Th. 500 σῆμ’ ἔμεν, dove Zeus erige e fissa a Delfi la pietra precedentemente ingurgitata da Crono come “segno” per tutti i mortali; la probabile allusione è ora corroborata per un verso dall’esiodeo στήριξε (Th. 498), in base alla correlazione negli scolî aratei tra l’ἔθηκε di Dioniso e appunto l’ἐστήριξε di Zeus (vd. n. 927), sulla cui dipendenza dal precedente esiodeo vd. Cusset 1999, p. 294; per altro verso, dalla qualificazione dell’esiodeo σῆμα quale θαῦμα per i mortali (Th. 500 σῆμ’ ἔμεν ἐξοπίσω, θαῦμα θνητοῖσι βροτοῖσι), il che sollecita un palmare raffronto con la Corona di Arato, “mirabile segno” della mortale Arianna.

196 come la corona nuziale di Arianna931; la seconda, nei vv. 71 s. ἔθηκε /…ἔμεναι, dove in dipendenza da ἔθηκε l’infinito epico ἔμεναι assume valore finale, come principalmente nell’uso omerico932; p. es., Il. 12, 260 e 21, 405, nonché Od. 19, 257, dove peraltro è dato cogliere un’affinità contenutistica, oltre che formale, con il luogo arateo. Siamo al punto in cui Penelope racconta ad Ulisse, ancora finto mendico, di aver dato personalmente al marito quel mantello e quello spillone dei quali egli le ha appena parlato, riferendole di aver conosciuto personalmente l’eroe e di ricordarlo proprio in virtù del suo regale abbigliamento. Si comprende allora come il mantello e lo spillone, appuntato su quel mantello vent’anni prima da Penelope (vv. 256 s. πτύξασ’ ἐκ θαλάμου, περόνην τ’ ἐπέθηκα φαεινὴν / κείνῳ ἄγαλμ’ ἔμεναι), diventino segni distintivi di Ulisse, e ne riportino memoria a distanza di molti anni. L’omerico costrutto finale (ἐπέθηκα…ἔμεναι) ritorna nell’arateo ἔθηκε… ἔμεναι (vv. 71 s.) riferito alla Corona, la quale, analogamente allo spillone di Ulisse, veicolo del ricordo dell’eroe, venne collocata in cielo da Dioniso per essere parimenti segno distintivo e memoria di Arianna, σῆμα “mirabile” e “fulgido” insieme. L’omerismo arateo non sfuggirà a Callimaco, il quale lo riproporrà, appunto parlando della Corona, nella Chioma; da qui esso transiterà verso Catullo e verso Ovidio, per i quali vd. infra, punto 4. Il valore finale dell’arateo ἔθηκε… ἔμεναι (vv. 71 s.) troverà esito, infine, nella proposizione finale adottata da Nonno di Panopoli proprio in riferimento al catasterismo della corona di Arianna ad opera di Dioniso, D. 47, 451 s. ἀλλά σοι ἀστερόεν τελέσω στέφος, ὥς κεν ἀκούσῃς / εὐνέτις αἰγλήεσσα φιλοστεφάνου Διονύσου.933

2. La Corona ciceroniana alla luce di Arato e degli scolî

Lo scolio ad Arat. 71 di cui sopra, ponendo l’alternativa tra celebrità e luminosità della Corona, di fatto espone l’arateo ἀγαυόν a duplice interpretazione, condizionando la

931 Secondo la versione dei Cretica attribuiti ad Epimenide (EGM I, p. 82), ripetuta poi da Hyg. astr. 2, 5 (corona) dicitur etiam a Vulcano facta ex auro et Indicis gemmis e da sch. Germ. 71, p. 62, 5-6 Breysig coronam donum Ariadnae…Vulcani opere confectam ex auro et gemmis; cf. Martin 1956 (a), pp. 64 s.

932 Curtius 191016, pp. 323 s.

933 Analogamente, Nonn. D. 8, 98 καὶ Στέφος ἀστερόφοιτον ἐπιχθονίης Ἀριάδνης ~ Arat. 72 σῆμ’ ἔμεναι Διόνυσος ἀποιχομένης Ἀριάδνης.

197 figurazione della Corona nella poesia latina a partire dalla versione ciceroniana, Arat. fr. 13 (apud Cic. nat. deor. 2, 108)

hic illa eximio posita est fulgore Corona

“Qui venne collocata la famosa Corona di singolare fulgore”.

Dell’originale greco l’Arpinate ripete sia la posizione iniziale dell’avverbio di luogo (αὐτοῦ ~ hic), che quasi da prolettico anticipa la collocazione della Corona alle spalle dell’Engonasi934, sia la posizione, a seguire, dell’aggettivo dimostrativo, κἀκεῖνος ~ illa935. Quanto all’eximio fulgore aggiunto da Cicerone in riferimento alla Corona, appare riduttivo considerarlo una «typical hyperbole»936, riconducibile a quell’enfatica nota di luminosità solitamente attribuita ai corpi celesti tanto da Arato937 quanto dal suo interprete latino938. Si dà il caso invece che il nesso ablativale restituisca entrambi i significati messi in conto dallo scolio, cioè “celebre” e “fulgido”939. Al suo interno, infatti, da un lato eximius si presta a rendere del greco ἀγαυόν il tradizionale significato di “mirabile”, “distinto”, addirittura potenziandone il senso di distinzione940 in qualità di hapax941; dall’altro fulgor ne restituisce il secondo e nuovo significato di “fulgido”, introdotto da Arato e opportunamente spiegato dal relativo scolio942.

934 Arat. 73 νώτῳ ὑπο στρέφεται κεκμηότος εἰδώλοιο [sc. Στέφανος] ~ Cic. nat. deor. 2, 108 “hic…Corona”. atque haec quidem a tergo; a differenza di Arato e di Cicerone, Germanico indicherà per prima la posizione della Corona, v. 70 tum fessi supter costas atque ardua terga, per la quale cf. Cic. nat. deor. 2, 108 a tergo.

935 Cf. Pellacani 2013, pp. 80 s.

936 Kidd 1997, p. 205.

937 Hutchinson 1988, p. 217.

938 Traglia 1950, p. 141; Soubiran 1972, p. 91.

939 Non così Pellacani 2013, p. 81, il quale osserva che «in accordo con la sua tendenza all’enfasi del dato luminoso…Cicerone amplifica, fino all’esagerazione, l’ἀγαυόν di Arat. 71», pur riconoscendo che «è tuttavia possibile che la resa ciceroniana sia stata influenzata dagli scholia».

940 Kidd 1997, p. 205.

941 Sottovaluta questa potenzialità dell’hapax Panichi 1969, p. 8, osservando che «all’ἀγαυόν di Arato…fa riscontro eximio…fulgore, piuttosto generico, nonostante l’apparente forza espressiva di eximio che negli Aratea costituisce un hapax».

942 Per l’incidenza degli scolî aratei sugli Aratea ciceroniani, vd. Atzert 1908, pp. 3-11; Goetz 1918, pp. 12-18; Leuthold 1942, pp. 12-15; Malcovati 1943, p. 82; Bishop 2011, pp. 26 e 57-78.

198 La mediazione scoliastica tra il testo arateo e la versione latina troverà ulteriore riscontro sia nel pl. monumenta di Ovidio e di Manilio sia nel sg. monumentum di Avieno, memoriae riconducibili entrambe alle definizioni scoliastiche della Corona, μνημόσυνον e μνήμη; vd. infra, punti 5, 6 e 8. 3. Poesia e scienza nella Corona virgiliana Al rilievo dato da Cicerone al singolare splendore della Corona farà eco Verg. georg. 1, 222 Gnosiaque ardentis decedat stella Coronae943 “e tramonti la stella cretese dell’ardente Corona”944 dove la luminosità della Corona sta espressa dall’attributo ardentis che, frequentemente riferito al bagliore dei corpi celesti945 a partire da Enn. ann. 348 Sk. hinc nox processit stellis ardentibus aptus946, qui aggiunge anche un richiamo al vincolo amoroso tra Arianna e Bacco947. Del verso virgiliano è stata rilevata la derivazione da Catull. 64, 172 Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes,

943 Sulla variante grafica Gnosia / Cnosia, qui e altrove, vd. quanto osservato a proposito di Ov. fast. 3, 460 Gnosida da Bömer 1957, pp. 126 s.

944 Contro la comune traduzione di stella “costellazione”, vd. infra.

945 Vd. TLL II, 483, 18-41, s.v. ardeo.

946 Jackson 2006, pp. 256 s., rileva che l’espressione stellis ardentibus apta varia stellis fulgentibus aptum di Ann. 27 e 145 Sk., con sostituzione di fulgens, «verbo che rimanda alla luce “bianca”», con ardens, verbo che risulta «in qualche modo legato, per la natura ignea…delle stelle, ad un’immagine di luce “colorata”; parimenti allora l’ardens virgiliano, detto della Corona, indicherà una luminosità ignea e nel complesso “colorata”, per la quale cf. la Corona di Catull. 66, 59 sidere…vario e di Manil. 1, 320 luce…varia (sui due luoghi, vd. infra, n. 71); ma vd. pure Manil. 5, 262 varios…flores, dove l’aggettivo è trasferito dalla Corona, menzionata poco prima al v. 253, ai fiori, in riferimento ai quali esso rifletterebbe il motivo della ποικιλία della corona di fiori; in proposito, Hübner 2010, II, p. 146; sul legame tra corona floreale e Corona stellare, cf. Ov. fast. 5, 345 s. Bacchus amat flores, Baccho placuisse coronam / ex Ariadnaeo sidere nosse potes, ibid.

947 Erren 2003, p. 139, «Epitheton für den deutlich helleren Stern, aber auch der heißen Liebe wegen, vgl. E. 2,1»; in proposito, rinvierei pure a Catull. 64, 197 (sc. Ariadna) cogor inops, ardens, amenti caeca furore (ma vd. anche v. 253 [sc. Iacchus] te quaerens, Ariadna, tuoque incensus amore) e a Colum. 10, 52 expectetur hiems, dum Bacchi Gnosius ardor, inedita metafora della Corona di Arianna.

199 sul piano sia formale (iniziale Gnosia) sia metrico (esametro aureo con disposizione parallela delle coppie aggettivo-sostantivo)948. Rimane poco valorizzato, invece, il precedente ciceroniano, Arat. fr. 13, hic illa eximio posita est fulgore Corona949 con il quale il verso virgiliano condivide, in rapporto al medesimo referente, la struttura aurea, che passa però dall’iniziale forma ciceroniana, con disposizione chiastica degli aggettivi e dei sostantivi, alla nuova forma con disposizione parallela950, peraltro già presente in Catull. 64, 172. Il raffronto del verso virgiliano con questi due precedenti mostra ora come Virgilio li abbia avuti presenti entrambi e di Cicerone abbia riproposto l’esametro aureo nella sua nuova trattazione di Arianna sub specie sideris, di Catullo l’evoluta disposizione parallela dell’esametro aureo riferito alla stessa Minoide sub specie personae loquentis. Il Mantovano vivifica inoltre la fusione delle due memorie, quella ciceroniana e quella catulliana, con l’acclarato artificio dell’enallage: Gnosiaque ardentis…stella Coronae nel senso di Gnosiaeque ardens…stella Coronae951. La reale concordanza ardens…stella trova riscontro nel sopra citato precedente enniano, ann. 348 Sk. stellis ardentibus, dal quale peraltro è stata già rilevata la dipendenza della Corona virgiliana952. Quanto alla lettura di stella nel significato proprio di “stella” e non di “costellazione”953, essa viene ora corroborata da Hipparch. 2, 6, 2 πρῶτος μὲν ἀστὴρ δύνει ὁ λαμπρότατος τῶν ἐν τῷ Στεφάνῷ, il quale

948 Thomas 1988, p. 106, il quale registra la ripresa del verso catulliano pure in Aen. 6, 657 s. si litora tantum / numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae; più diffusamente, in merito, Barbaud 2005, pp. 97 s.

949 Al verso ciceroniano rinvia soltanto Erren 2003, p. 139, ma limitatamente alla collocazione di Corona a fine verso.

950 In linea con la predilizione dell’Arpinate per i versi a struttura concentrica, in Cicerone poeta non si registrerebbero occorrenze di verso aureo “genuino”, con disposizione in parallelo delle due coppie, degli aggettivi e dei sostantivi, cioè secondo lo schema abVAB (le lettere minuscole indicano gli aggettivi, quelle maiuscole i sostantivi, mentre V sta per il verbo in posizione centrale nel verso); la disposizione in parallelo sarà dunque inaugurata da Lucrezio e poi ripetutamente adottata da Virgilio; per maggiori dettagli, Conrad 1965, pp. 234-241.

951 Mynors 1990, p. 52; Erren 2003, p. 138.

952 Ferraro 1984, p. 302.

953 Montanari Caldini 1979, p. 162, osserva come stella sia sempre riferito ad un astro isolato e mai ad una costellazione, citando proprio il verso virgiliano, «ove si tratta della stella principale e non dell’intera costellazione della Corona»; così pure Mynors 1990, p. 52, il quale a supporto cita Manil. 1, 320-322 stella vincitur una / circulus, in media radiat quae maxima fronte / candidaque ardenti distinguit lumina flamma (la sottolineatura è mia), e Erren 2003, p. 139.

200 calcolava il tramonto della Corona a partire appunto dal tramonto della sua stella principale (stella α o Gemma), la più luminosa di tutte, λαμπρότατος; analogamente Columella, indicando la levata della Corona, riferisce prima il sorgere della sua stella principale, la più luminosa (11, 2, 73 s. octavo id. Octobris Coronae clara stella exoritur), e poi quello dell’intera costellazione, tertio et pridie idus Octobris Corona tota mane exoritur.954 Ne consegue che il senso “proprio” del verso virgiliano - “e tramonti l’ardente stella della Corona cretese” - divenga intellegibile previo disvelamento del senso imposto dall’enallage, senso “improprio” in quanto privo dello sfondo scientifico necessario alla puntuale esegesi del luogo955. Con la concordanza per enallage (Gnosiaque ardentis…stella Coronae) Virgilio ripropone il parallelismo catulliano (Gnosia Cecropiae…litora puppes), mentre con la concordanza logica (Gnosiaeque ardens…stella Coronae) egli restituisce il chiasmo ciceroniano (illa eximio…fulgore Corona). Ciò che rimane fermo in tutti e tre gli autori è l’adozione dell’esametro aureo in riferimento ad Arianna, stellare in Cicerone e Virgilio, mitica in Catullo. E dato che l’esametro aureo svolge una funzione speciale all’interno del contesto,956 nel caso specifico esso diventa segno d’intento emulativo, prestandosi così a spiegare l’anomala collocazione dell’esametro aureo virgiliano, uno dei pochissimi nelle Georgiche che non chiuda un’epicope testuale957. Su questa saldatura del precedente ciceroniano con quello catulliano ad opera di Virgilio convergono anche la scelta e la posizione del verbo. Il trisillabico decedat richiama infatti da un lato il ciceroniano posita est, a sua volta trisillabico per sinalefe; dall’altro il catulliano tetigissent, parimenti collocato tra cesura pentemimera e incisione dopo il quarto piede.

4. La Corona ovidiana delle Metamorfosi e i suoi modelli: Eratostene, Lucrezio e Catullo

954 Haebler 1901, il quale inoltre pone a raffronto Ptol. Alm. 7, 5, 6 ὁ λαμπρὸς ὁ ἐν τῷ Στεφάνῳ (sc. ἀστήρ), dove la descrizione della Corona boreale inizia col riferimento alla sua stella α. Quanto al numero di stelle della Corona, si registra disaccordo nelle fonti; Boll - Gundel 1965, coll. 892 s.

955 Sul distinguo tra senso “proprio” e senso “improprio” in seno all’enallage, Conte 2002, p. 19 (per l’importanza dell’enallage nell’opera virgiliana, specialmente nell’Eneide, vd. l’intero cap. I, Anatomia di uno stile: l’enallage e il nuovo sublime, pp. 5-63); invece, sul concetto di “disvelamento necessario della parola rifratta”, ovvero della parola poetica sostanziata dai tropi o dall’allusione, Bonanno 1990, pp. 26 e 32.

956 Wilkinson 1963, p. 216.

957 Registra l’inusuale collocazione Thomas 1988, p. 106.

201

A celebrare la Corona, dopo Virgilio, sarà Ovidio, met. 8, 176-182

desertae et multa querenti amplexus et opem Liber tulit, utque perenni sidere clara foret, sumptam de fronte coronam immisit caelo; tenues volat illa per auras dumque volat gemmae nitidos vertuntur in ignes consistuntque loco, specie remanente coronae, qui medius Nixique genu est Anguemque tenentis958

“all’abbandonata, che molto si lamentava, Bacco offrì amore ed aiuto e, affinché fosse luminosa con perenne costellazione / affinché fosse famosa per mezzo di una costellazione perenne, le tolse dalla fronte la corona e la lanciò in cielo; quella vola per l’aria leggera e mentre vola le sue gemme si trasformano in fulgide stelle e, conservando la forma di corona, si collocano nel mezzo tra l’Inginocchiato e il Serpentario”959 La lettura di clara (v. 178) nel senso metaforico di “famosa” è supportata dal contiguo nesso perenni sidere, che rimarca la perennità dell’astro960. A ciò si sommi l’esatta corrispondenza dell’ovidiano Liber…ut…clara foret…coronam immisit caelo a Eratosth. Cat. 5 Διόνυσος…(τὸν στέφανον) αὐτὸν εἰς τὰ ἄστρα ἔθηκεν…βουλόμενος ἐπιφανῆ γενέσθαι, corrispondenza talmente palmare da rendere da questo momento il testimone ovidiano, tra tutti i cantori latini della Corona, il più autorevole sostegno a favore dell’emendamento ἐπιφανῆ di Fowler961 in luogo del tràdito ἐπιφανής, stampato dagli editori962 ma non coerente

958 Riporto il testo secondo l’edizione di Tarrant 2004.

959 Mia traduzione, la quale tiene conto del significato sia letterale sia metaforico di clara, rispettivamente “luminosa” e “famosa”; i traduttori, generalmente, optano invece per l’uno o per l’altro; vd. Kenney 2011, p. 91, «perché splendesse con perenne costellazione» (trad. G. Chiarini) e Rosati - Faranda Villa - Corti 1997, p. 461, «per renderla famosa, immortalandola con una costellazione» (trad. Faranda Villa).

960 Cf. Bömer 1977, p. 65.

961 EGM I, p. 82, «ἐπιφανῆ scripsi post Schol. (Q) Arat., school. German. (coronam) cogitans praeclaram facere qua primum nova nupta coronate est: -νὴς [Eratosth.], sim. Arat. Lat.; -νεὶς Schol. Arat.»; II, p. 652, «the emendation ἐπιφανῆ seems both easy (the corruption arose by assimilation to the case of the nearest noun) and necessary (Dyonysos’ own glory is not the point here; what he wants is for the crown to be on show for everyone to see); the reading is, moreover, supported by the Latin versions and by Arat. Phain. 72». Sarebbe stato preferibile specificare i testimoni latini, cioè Ov. met. 8, 178 clara…coronam; Manil. 5, 253 clara…monumenta Coronae; Germ. 71 clara…corona.

202 con la tradizione. Curiosamente, peraltro, il tràdito ἐπιφανής (sc. Διόνυσος) rinvia direttamente all’ἀγαυός (sc. Διόνυσος) di Arat. 71, banalizzazione manoscritta (vd. supra, punto 1) da cui questa dei codd. eratostenici, del tutto affine, potrebbe dipendere.

Sul versante latino si viene invece ad aggiungere il riscontro di Lucr. 1, 117-119

Ennius ut noster cecinit qui primus amoeno detulit ex Helicone perenni fronde coronam, per gentis Italas hominum quae clara clueret

“come cantò il nostro Ennio il quale per primo portò giù dall’ameno Elicona una corona di fronda perenne che brillasse di chiara fama tra le genti italiche”

dove clara corona viene a significare la fama radiosa del Rudino, celebrato da Lucrezio come poetica gloria nazionale, Ennius…noster. Va da sé che il lucreziano perenni fronde, posto a sottolineare la perennità della poesia enniana963, si candidi qui come palmare precedente dell’ovidiano perenni sidere, mentre la relativa impropria con valore finale quae clara clueret (v. 119) sollecita un raffronto diretto con Ov. met. 8, 177 s. ut…/…clara foret, dove, oltre alla ripetizione dell’ attributo clara, risalta la subordinata finale ut…foret, illuminata dal precedente lucreziano quae…clueret.964

962 Da ultimi Pàmias - Zucker 2013.

963 Parker 1993, p. 120, «on one hand, the immediate sense of the expression is that of foliage which lasts from one season to another, that is throughout the , but on the other hand the context clearly indicates the idea of eternity»; in quest’ultima accezione, l’aggettivo ricorrerà poi ad esprimere la gloria imperitura garantita dall’opera letteraria; oltre al celebre monumentum aere perennius di Hor. carm. 3,30,1, vd. pure Catull. 1,8-10 e Verg. Aen. 9,78 (ivi, p. 122), ma quest’accezione traluce già in Lucr. 1, 118 s. perenni fronde coronam /…quae clara clueret, in virtù del suo richiamo ad Enn. ann. 12 s. Sk. latos populos res atque poemata nostra / clara> cluebunt; entrambi i luoghi saranno poi allusi da Lucr. 1, 927 ss., dove il poeta rivendica a sé la corona poetica, simbolo di fama, in virtù della sua inedita materia didascalica in esametri; in proposito, Zwierlein 1982, p. 94 n. 42, studio nel quale viene persuasivamente difeso l’enniano cluebunt in luogo del tràdito cluebant; in particolare, si segnala il rinvio a Plaut. Pseud. 590 s. magna me facinora decet ecficere, / quae post mihi clara et diu clueant (ivi, p. 96; la sottolineatura è mia): esso, oltre a supportare l’enniano cluebunt, è direttamente raffrontabile con Lucr. 1, 119 quae clara clueret, raffronto registrato poi da Flores 2002, p. 26.

964 Il raffronto è ulteriormente avvalorato dal lucreziano clueo, talora adoperato proprio come equivalente di sum; Bailey 1947, II, p. 619; in rapporto all’ovidiano ut…foret, cf. pure sch. Od. 11, 322, p. 506, 13-15 Dindorf κατολοφυρομένης δὲ τῆς Ἀριάδνης ἡ Ἀφροδίτη ἐπιφανεῖσα θαρρεῖν αὐτῇ παραινεῖ· Διονύσου γὰρ ἔσεσθαι γυναῖκα καὶ εὐκλεῆ γενέσθαι.

203 A questo nuovo parallelo tra Ovidio e Lucrezio viene ad aggiungersi anche quello tra Ovidio e Catullo, 66, 59-61965

sidere uti vario ne solum in lumine caeli ex Ariadneis aurea temporibus fixa corona foret, sed nos quoque fulgeremus966 “affinché non soltanto l’aurea corona (staccata) dalle tempie di Arianna fosse infissa nella luce del cielo con una costellazione di varia gradazione di luce, ma anche noi risplendessimo”.

Soggetto parlante è la Chioma di Berenice, la quale, assurta ora tra gli astri, celebra di sé la nuova condizione celeste, rivaleggiando in luminosità proprio con la Corona di Arianna. Sottolinea il tono trionfalistico del nuovo astro la clausola fulgeremus, che, oltre a solennizzare con il suo lento e pesante ritmo spondaico la novità astrale, non potrà che rinviare al ciceroniano fulgore della Corona, esaltando il confronto agonistico tra la luminosità della Corona stessa e quella della Chioma, della quale corre l’obbligo di ricordare l’iniziale fulgentem (v. 9) richiamato da questo fulgeremus. Il raffronto tra Ovidio e Catullo è basato principalmente sulla presenza in entrambi della proposizione finale, cioè della subordinata che il Veronese mutua dall’originale callimacheo, fr. 110, 59 Pf. ὄφρα δὲ] = fr. 213, 59 Massimilla ὄφρα κε], ma che per la Corona figurava già, con costrutto omerico, in Arato, vv. 71 s. ἔθηκε /…ἔμεναι. Proprio da Arato muoverebbe la scelta callimachea di una nuova proposizione finale, introdotta dal ricostruito ὄφρα di caratura omerica967 e preceduta tre versi prima da θῆκεν (v. 56), lo stesso aoristo, ora priva di aumento, di Arat. 71 ἔθηκε. Il modello omerico-arateo della finale callimachea sarà poi valorizzato da Catullo nella sua finale con foret, arcaismo che compensa il costrutto omerico e che richiama semanticamente sia Arat. 71 ἔμεναι sia Eratosth. Cat. 5 γενέσθαι. In Catullo e in Ovidio vanno sommate alla presenza della finale altre corrispondenze: la ripetizione di foret e la sua identica collocazione prima della cesura pentemimera, fixa corona foret ~ sidere clara foret; il riecheggiamento del catulliano uti calato nel mezzo del nesso

965 Sulla scorta di Massimilla 2010, p. 489, il quale raffronta Ov. met. 8, 177 ut con Callim. fr. 110, 59 Pf. (= 213, 59 Massimilla) ὄφρα.

966 Si riporta il v. 59 con l’emendamento del tràdito hi dii ven ibi in sidere uti, proposto da Marinone 1997 (b), pp. 70 e 166-169, emendamento prossimo al sidere ibi avanzato dal Vossius sulla scorta di Manil. 1, 319 s. claro volat orbe Corona / luce micans varia, al fine di supportare la concordanza sidere…vario (ivi, p. 169); a questo raffronto dà ora sostegno anche Ov. met. 8, 177 s. utque perenni / sidere.

967 LSJ, s.v. ὄφρα, A.

204 sidere…vario con l’anastrofe ovidiana utque; il parallelismo tra il catulliano ex Ariadneis…temporibus /…corona e l’ovidiano sumptam de fronte coronam. In questo parallelismo sarebbe altresì da notare la sostituzione del catulliano temporibus, indicante per sineddoche la fronte, con l’ovidiano fronte, il quale, collocato in clausola con coronam, rinvia alla clausola di Lucr. 1, 118 fronde coronam, variata da Ovidio con efficace paronomasia a distanza, fronte ~ fronde. Con questa figura fonica il Sulmonese varia l’allitterazione, figura parimenti fonica presente in Lucrezio, 1, 118 s. coronam /…clara clueret, e in Catullo, 66, 61 fixa…foret…fulgeremus. La combinazione ovidiana di Lucrezio con Catullo non mancherà di farsi sorprendere anche dietro il perenni sidere, riconducibile all’incrocio tra Lucr. 1, 118 perenni fronde e Catull. 66, 59 sidere…vario, parimenti in ablativo. Stessa operazione dietro l’aggettivo clara, che, collocato subito dopo perenni sidere, si presta al significato metaforico di “famoso” oltre che a quello letterale di “luminoso”968, suggellando dunque in perenni sidere la memoria sia della luminosa corona catulliana (sidere…vario) sia della sempreverde corona lucreziana (perenni fronde). Tutte e tre le corone risultano così intrecciate tra loro dal nesso ablativale, che ne determina la qualità precipua: la perennità in Lucrezio e la luminosità in Catullo, qui sommate l’una all’altra da Ovidio969. La polisemia dell’ovidiano clara970, “luminosa” e “famosa”, restituisce così alla poetica descrizione della Corona la duplice nota della sua fama e della sua luminosità, attestata nell’iniziale Cic. Arat. fr. 13 hic illa eximio posita est fulgore Corona tramite lo scolio ad Arato. Nella trama del dettato ovidiano, impreziosita da ricercate tessere d’autore, non si mancherà di rilevare ulteriore memoria dell’esametro ciceroniano. In particolare, i vv. 179 s. illa…/…nitidos…ignes, dove illa passa da aggettivo (Cicerone) a pronome (Ovidio), mentre nitidos…ignes varia l’eximio…fulgore ciceroniano con una nota coloristica particolarmente

968 Ovidio riutilizzerà l’aggettivo in epist. 18, 153 Andromedan alius spectet claramque Coronam, ma col solo significato di “luminosa”; sullo splendore della Corona, anche epist. 6, 117 s. Bacchi coniunx redimita corona / praeradiat stellis signa minora suis e trist. 5, 3, 41 s. sic micet aeternum vicinaque sidera vincat / coniugis in caelo Cressa Coronae tuae.

969 Le tre corone condividono anche la specificazione del loro movimento, discensionale in Lucrezio, (dall’Elicona sulla terra), ascensionale in Catullo e Ovidio (dalla fronte di Arianna al cielo).

970 Già ravvisabile in Cic. Arat. frr. 14 quem claro perhibent Ophiucum nomine Grai e 16, 5 stella micans radiis, Arcturus nomine claro, dove la polisemia agirebbe su tre diversi livelli (mitico, astronomico e linguistico), indicando delle due costellazioni la fama, la luminosità e il nome parlante; Pellacani 2013, pp. 83 e 93.

205 intensa, segnatamente ignea e verosimilmente influenzata da Verg. georg. 1, 222 ardentis971. Come già l’ardentis virgiliano rinviava sia al bagliore fiammeggiante della Corona sia al fuoco della passione tra Bacco e Arianna, così l’ignes ovidiano si presta a riflettere la sovrapposizione dei due piani, quello astronomico e quello erotico972; in tale direzione muove la rispondenza tra fast. 3, 502-504, quod flammas nobis fassus es ipse tuas. nec, quod non uris, mirum facis: ortus in igne diceris, et patria raptus ab igne manu973 dove l’amore ardente di Bacco e Arianna è correlato alla nascita del dio dal fuoco del fulmine di Giove, e 515 dicta facit, gemmasque novem transformat in ignes, dove Bacco adempie la promessa di trasformare la sua sposa in astro, con una metamorfosi che si pone quasi come una ri-nascita dell’eroina, almeno a giudicare dalla ripetizione quasi identica in clausola, v. 503 in igne ~ v. 515 in ignes.

5. La Corona ovidiana dei Fasti. Intertestualità e intratestualità974 Della Corona celebrata nel terzo libro dei Fasti sono possibili ora considerazioni nuove sui vv. 511-516

“Tu mihi iuncta toro mihi iuncta vocabula sumes, nam tibi mutatae Libera nomen erit, sintque tuae tecum faciam monimenta coronae, Volcanus Veneri quam dedit, illa tibi.” dicta facit, gemmasque novem trasformat in ignes : aurea per stellas nunc micat illa novem975

971 Si tenga tuttavia presente che già il ciceroniano fulgor prevede come referenti proprî i corpi celesti e il fuoco; vd. TLL VI.1, 1515, 25-50; 1516, 20-33, s.v. fulgor; emblematico, in tal senso, Lucr. 5, 610- 613 forsitan et rosea sol alte lampade lucens / possideat multum caecis fervoribus ignem / circum se, nullo qui sit fulgore notatus.

972 Questa sovrapposizione contraddistinguerebbe l’intero episodio della Corona nel terzo libro dei Fasti, episodio che rappresenterebbe una sorta di epillio in risposta al carme 64 di Catullo; in proposito, Gee 2000, p. 200.

973 Riporto il testo dell’edizione di Halton – Wormell - Courtney 19974.

974 Nell’Arianna ovidiana questo meccanismo allusivo è stato approfondito e ben illustrato da Landolfi 2000; in particolare, cap. III. Le molte Arianne di Ovidio. (Intertestualità e intratestualità in Her. 10; Ars. 1, 525-564; Met. 8, 172-182; Fast. 3, 459-515), pp. 83-122.

206

“tu, unita a me dal letto nuziale, prenderai il mio nome e continuerai ad essere unita a me; ti chiamerai infatti Libera dopo che ti sarai trasformata, e io farò sì che rimanga con te il ricordo della tua corona, che Vulcano donò a Venere e quella a te. Egli compie quanto detto, e trasforma le nove gemme in fuochi celesti: l’aurea corona brilla ora di nove stelle”.976 Oltre alla ripetizione di illa e di ignes (vv. 515 s.), in ordine inverso rispetto a met. 8, 179 s., viene recuperato anche l’aurea (v. 516) di Catull. 66, 60 ex Ariadneis aurea temporibus, anticipato dal principio del secondo emistichio al principio del verso, pentametro come in Catullo. Alla rispondenza sia interna (nelle Metamorfosi) sia esterna (nella Chioma di Catullo) si aggiunge qui la novità di monimenta in riferimento alla corona, v. 513; questa novità preluderebbe alla trasformazione celeste della medesima (vv. 515 s.), in considerazione di una precedente occorrenza di monimenta con riferimento a tre costellazioni; fast. 2, 265 s. (sc. Phoebus) dixit, et, antiqui monimenta perennia facti, / Anguis, Avis, Crater sidera iuncta micant. Sarà interessante notare, inoltre, come ignes e illa di fast. 3, 515 s. brillino sia del rinvio intratestuale a met. 8, 179 s. illa…/…ignes sia del rinvio intertestuale a Cic. Arat. fr. 13 illa eximio…fulgore Corona, con variazione della componente luminosa presumibilmente tramite Verg. georg. 1, 222 ardentis…Coronae. Analogamente, il monimenta coronae di fast. 3, 513 rinvia al monimenta perennia di fast. 2, 265, nesso nel quale risalta, oltre al richiamo intertestuale all’oraziano monumentum aere perennius (carm. 3, 30, 1) con evidente ambizione amplificante977, l’attributo perennia, che ricorderà la corona perenni sidere di met. 8, 177 s.978. Il legame del nuovo monimenta col precedente di fast. 2, 265 è inoltre segnalato dalla riformulazione degli estremi dell’esametro e dalla ripetizione di mico; rispettivamente, fast. 2, 265 dixit…facti ~ 3, 515 dicta facit e 2, 266 micant ~ 3, 516 micat.

Complementare, infine, al duplice livello di lettura del vocabolario ovidiano si mostra il valore anfibologico di micat (v. 516), utile ad esprimere da un lato il brillio delle stelle - cf.

975 Per l’edizione di riferimento, vd. n. 79.

976 Cfr. ars 1, 556-558 pone metum, Bacchi, Cnosias, uxor eris. / munus habe caelum, caelo spectabere sidus: / saepe reget dubiam Cressa Corona ratem, dove Ovidio unificherebbe la tradizione dell’assunzione in cielo di Arianna (attestata pure in Prop. 3, 17, 7 s.), con la tradizione, più diffusa, della trasformazione della sua corona nuziale in costellazione; Pianezzola 1991, pp. 251 s.

977 La celebre σφραγίς oraziana è inoltre chiaramente allusa e rielaborata nel finale delle Metamorfosi, 15, 871-877; Bömer 1986, pp. 488-491.

978 Cf. Bömer 1977, p. 65.

207 Cic. Arat. frr. 16, 4 e 20, 2 stella micans, in principio di verso;979 Lucr. 5, 1205 stellis…micantibus;980 Ov. met. 7, 100 stellas…micantes e 15, 850 stella micat; fast. 3, 458 stellis…micat -,981 dall’altro il luccichio delle gemme; p. es., Verg. Aen. 10, 134 qualis gemma micat fulvum quae dividit aurum e Sil. 8, 467 Arsacidum ut fulvum micat ignea gemma monili, con cui cf. Ov. fast. 3, 515 gemmas…trasformat in ignes.

6. La Corona in Manilio. Uno specimen di Mosaiktechnik a. Il pl. monumenta con il quale Ovidio esalta la celebre Corona si ripete con Manil. 1, 319- 323

at parte ex alia claro volat orbe Corona

979 La ripetizione del medesimo attacco esametrico si associa alla ripetizione dell’enjambement col precedente verso dalla clausola quasi identica, fr. 16, 3 s. fixa videtur / stella micans ~ fr. 20, 1 s. adfixa videtur / stella micans; la somiglianza tra le due clausole ciceroniane da un lato riprodurrebbe quella delle corrispondenti clausole aratee, v. 95 ἑλίσσεται ἀμφαδὸν ἀστήρ ~ v. 137 εἱλίσσεται ἀστήρ; dall’altro, sarebbe «marker formale per un’affinità di contenuto», utile a sottolineare che i rispettivi referenti, Arturo e l’Annunciatrice della vendemmia, sono entrambi «stelle particolarmente note e impiegate nella calendarizzazione agricola»; Pellacani 2013, pp. 92 e 102. Aggiungerei che l’affinità formale rispecchierebbe pure il legame etimologico dell’Annunciatrice della vendemmia ad Arturo, legame testimoniato da sch. Arat. 137, p. 142, 14-16 M. τοῦτον (ἀστέρα) οἱ μὲν Προτρυγητῆρα καλοῦσιν ὅτι προανατέλλει τοῦ Ἀρκτούρου, ἐπειδὴ σημαίνει ἡ ἀνατολὴ αὐτὴν τὴν ὥραν τῆς τρύγης “chiamano questa stella Annunciatrice della vendemmia perché sorge prima di Arturo, la cui levata indica la stagione della vendemmia”. Si consideri poi la prossimità di entrambe le stelle alla Vergine (Arturo si trova sotto la cintura di Boote, costellazione che sovrasta la Vergine, mentre l’Annunciatrice della vendemmia è collocata al di sopra delle spalle di questa) e il fatto che proprio sulla Vergine si incentrino i frr. 16, 5 s. e 19: l’affinità formale tra frr. 16, 3 s. e 20, 1 s. incornicia allora la menzione della Vergine sottolineando per Arturo e per l’Annunciatrice il duplice ruolo di “estremità” astronomiche e testuali della Vergine stessa; questa funzione di cornice è supportata dal testo di Arato, nel quale il primo e l’ultimo verso sulla Vergine sono parimenti legati dalla loro corrispondenza in clausola, v. 96 s. ἀμφοτέροισι δὲ ποσσὶν ὕπο σκέπτοιο Βοώτεω / Παρθένον ~ v. 136 Παρθένος ἐγγὺς ἐοῦσα πολυσκέπτοιο Βοώτεω.

980 Ciappi 1999 corrobora la lettura di stellis micantibus aethera fixum proposta da Ernout (enallage per aethera in quo stellae micantes fixae sunt), correlando l’uso di fixus e composti per le stelle alla teoria di Anassimene secondo la quale le stelle stavano infisse nella volta celeste “come chiodi”.

981 Qui la iunctura precede proprio la menzione della Corona, vv. 459 s. protinus aspicies venienti nocte Coronam / Cnosida: Theseo crimine facta dea est, e altera l’usuale concordanza del verbo con stella (cf. pure Catull. 61, 207 siderumque micantium e 64, 206 micantia sidera) al pari di fast. 3, 516 per stellas…micat illa; su mico in àmbito astronomico, di uso prevalentemente poetico, Le Boeuffle 1987, p. 183, s.v. micans.

208 luce micans varia; nam stella vincitur una circulus, in media radiat quae maxima fronte candidaque ardenti d i s t i n g u i t lumina flamma.

Gnosia desertae f u l g e n t monumenta puellae982 “ma dall’altra parte vola con luminosa orbita la Corona sfavillante di luce non uniforme; la sua orbita è infatti dominata da un’unica stella, che più di tutte raggia in mezzo alla fronte e distingue le splendenti luci con la sua fiamma ardente. Rifulgono le memorie cretesi della fanciulla abbandonata” il quale realizza una dottissima descrizione della Corona con abile incastro di tessere tratte da Cicerone, Catullo, Virgilio e Ovidio983.

Si noterà come il v. 319 at parte ex alia claro volat orbe Corona riformuli Cic. Arat. 367 s. at parte ex alia claris cum lucibus enat / Orion, umeris et lato pectore fulgens, del quale viene ripetuto il primo emistichio, séguito poi nel secondo dalla modifica di claris in claro. Nel verso finale, Gnosia desertae fulgent monumenta puellae, Manilio completerà l’iniziale tessera ciceroniana (at parte ex alia) con fulgent, che richiama degli stessi Aratea ciceroniani sia v. 368 fulgens sia fr. 13 fulgore, relativo quest’ultimo proprio alla Corona984.

Manil. 1, 319 at parte ex alia claro volat orbe Corona non mancherà di rinviare pure a Catull. 64, 252 at parte ex alia florens volitabat Iacchus, riferito al volo di Bacco in cerca dell’amata Arianna. Del sintagma catulliano florens volitabat, Manilio ripete l’associazione di participio e indicativo ma in ordine inverso, volat…/…micans, e sostituisce al frequentativo volitabat il semplice volat, già adoperato da Ovidio per il movimento celeste della Corona, met. 8, 179 s. tenues volat illa per auras / dumque volat985. Allo stesso modo micans, variando il catulliano florens, rievoca il luccichìo della Corona ovidiana, fast. 3, 516 aurea per stellas nunc micat illa novem. L’ablativo luce…varia (v. 320) sarà invece da raffrontare con Catull. 66, 59

982 Riporto il testo secondo l’edizione di Feraboli – Flores - Scarcia 1996, I.

983 Su questa sorta di Mosaiktechnik in Manilio, Lühr 1969, passim.

984 Il rinvio di Manil. 1, 319 a Cic. Arat. 367 s., cioè a due versi relativi ad Orione e non alla Corona, parrebbe giustificato dalla parziale affinità formale tra Arat. 367 at parte ex alia claris cum lucibus enat e 354 partem etiam supera, atque alia de parte repulsa est, riferito, questo, alla Corona. Manilio, dunque, avrebbe selezionato qui la lectio della sua Corona non solo dai versi ciceroniani relativi alla Corona stessa, Arat. 353 s., bensì anche da quelli relativi ad Orione, Arat. 367 s., amalgamandoli insieme in considerazione della loro affinità formale nel modello. Si aggiunga poi il richiamo di Manil. 1, 322 distinguit a Cic. Arat. 353 dimidiam retinet stellis distincta Corona (Liuzzi 1988, p. 135), utile a suffragare l’ascendenza ciceroniana del maniliano fulgent (v. 323), di cui sopra.

985 Salemme 1983, p. 86 n. 19.

209 sidere…vario, così come l’aggettivo claro (v. 319) con Ov. met. 8, 178 clara, di cui Manilio ripeterà il valore polisemico di “luminosa” e di “famosa” in una successiva e concisa descrizione della Corona (5, 253); vd. infra, 6b.

Quanto ai vv. 322 s.

candidaque ardenti distinguit lumina flamma. Gnosia desertae fulgent monumenta puellae essi ripropongono l’esametro aureo a struttura parallela di Verg. georg. 1, 222 Gnosiaque ardentis decedat stella Coronae con lo sdoppiamento dell’iniziale Gnosiaque nei due attributi, candidaque e Gnosia, e la modifica del virgiliano ardentis con ardenti, parimenti concordato con il sostantivo posto a fine verso (flamma). Il nuovo nesso ardenti…flamma non manca inoltre di echeggiare l’ovidiano ignes (met. 8, 180 e fast. 3, 515), in clausola come flamma e utile a variare, come detto sopra, il ciceroniano eximio…fulgore, verosimilmente sulla scorta del virgiliano ardentis. Quanto al participio desertae – benché la sua scelta appaia obbligata dalla sorte della puella minoica – si percepisce memoria sia di Ov. met. 8, 176 litore destituit. desertae et multa querenti, sia del suo modello catulliano, 64, 133 perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?986: dall’ovidiano desertae è qui mutuata la veste formale, dal catulliano deserto la funzione aggettivale e la collocazione in seconda sede di esametro aureo. Manilio contaminerebbe così l’Arianna di Ovidio e la sua Corona con l’Arianna del carme 64 di Catullo, testo non di rado da lui riformulato o rievocato in rapporto proprio ad un referente ovidiano987 e qui alluso, in

986 Previa nuova interposizione del perfetto tra litore e participio, in luogo dell’interposizione catulliana del perfetto tra aggettivo e litore; la variazione ovidiana continua nello scambio dell’ordine sostantivo + participio rispetto al nesso catulliano aggettivo + sostantivo (litore…desertae ~ deserto…litore) e nel riferimento del participio non al lido, come per l’analogo aggettivo catulliano, bensì alla fanciulla abbandonata, sempre sulla scorta di Catull. 64, 57 desertam in sola miseram se cernat harena; in rapporto poi a Catull. 64, 133 vd. anche Ov. fast. 3, 473 dicebam, memini, “periure et perfide Theseu!” (valide osservazioni in Conte 1974, p. 39) e 479 quid me desertis morituram, Liber, harenis, dove il Sulmonese riformula in riferimento a Bacco l’abbandono di Arianna sulla spiaggia deserta da parte del falso e spergiuro Teseo catulliano, fondendo insieme la clausola del sostantivo e la collocazione metrica dell’aggettivo rispettivamente da Catull. 64, 57 e 133.

987 Biondi 1981, p. 112.

210 trasparenza, secondo il meccanismo di “window reference”,988 che nel caso specifico porta a riunificare il modello ovidiano col suo ipotesto catulliano989. Ovidio e Catullo vengono inoltre rifusi da Manilio in un esametro aureo che nell’attacco Gnosia desertae richiama ben due esametri aurei, Verg. georg. 1, 222 Gnosiaque ardentis decedat stella Coronae e Catull. 64, 133 perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?. Come già Virgilio nel suo esametro aureo aveva sapientemente assemblato la tessera ciceroniana de Corona con quella catulliana de Ariadna, così ora Manilio in un verso aureo di doppia memoria, virgiliana e catulliana, accorda il precedente ovidiano de Corona col suo ipotesto catulliano de Ariadna. b. Di Manilio pare infine non trascurabile il breve cenno alla Corona verso la fine dell’opera, 5, 253 clara Ariadnaeae quondam monumenta Coronae990 dove ritorna il pl. monumenta già introdotto in riferimento alla corona da Ovidio (fast. 3, 513) nel solco degli scoliastici μνημόσυνον991 e μνήμη992 e ora presumibilmente ripetuto in dipendenza proprio dal Sulmonese993, dipendenza supportata dai numerosi paralleli tra questi e Manilio fin qui esaminati.

In particolare, nel verso maniliano tradisce memoria ovidiana l’attributo clara, congetturato dallo Scaligero in luogo del tràdito ma inattendibile cara994 e già adoperato in riferimento alla Corona da Manilio, 1, 319 claro…orbe. La concentrazione di memorie allusive nella

988 Thomas 1986, p. 188, «it consists of the very close adaptation of a model, noticeably interrupted in order to allow reference back to the source of that model: the intermediate model thus serves as a sort of window onto the ultimate source, whose version is otherwise not visible. In the process the immediate, or chief, model is in some fashion “corrected”».

989 Questo particolare tipo di allusione mette in guardia dal considerare in Manilio le memorie catulliane, del carme 64 in particolare, delle «semplici reminiscenze di tipo uditivo», come invece conclude Biondi 1981, p. 113.

990 Riporto il testo secondo l’edizione di Feraboli – Flores - Scarcia 1996, II.

991 Sch. Arat. 71, p. 106, 9 s. M. (τὸν στέφανον) κατηστέρισε μνημόσυνον τῆς ἐπὶ Ἀριάδνῃ συμφορᾶς.

992 Sch. Arat. 71, p. 106, 13 s. M. (τὸ δῶρον) κατηστερισθῆναι δὲ ἐπὶ μνήμῃ τῆς Διονύσου φιλίας.

993 Cf. Salemme 1983, pp. 85 s.

994 Stampato dal solo Wageningen 1915; sulla frequente corruttela di clarus in carus nei codd., vd. TLL III, 1271, 23 s., s.v. clarus.

211 precedente descrizione maniliana della Corona (1, 319-323) porta a leggere in questo clara…monumenta Coronae da un lato la riformulazione della clausola ovidiana, fast. 3, 513 monimenta coronae; dall’altro, in virtù del succitato legame tra fast. 2, 265 monimenta perennia e met. 8, 177 s. perenni / sidere clara, il recupero della polisemia del clara ovidiano995, così da indicare come “luminosi” e “famosi” al tempo stesso i monumenta Coronae, della Corona un tempo appartenuta come corona nuziale ad Arianna;996 cf. Ov. fast. 3, 513 monimenta coronae.

7. La tecnica musiva nella Corona germaniciana

Il polisemico clara di Manilio, di ascendenza ovidiana, si ripresenta in Germanico997, vv. 70- 72

tum fessi supter costas atque ardua terga clara Ariadnaeo sacratast igne corona, hunc illi Bacchus thalami memor addit honorem998 “poi sotto i fianchi e le alte spalle dello spossato (sc. dell’Engonasi) la luminosa corona / la famosa corona fu consacrata nella costellazione di Arianna: quest’onore le aggiunge Bacco, memore del talamo”999 dove clara, in virtù della propria riconosciuta polisemia, si espone alla duplice traduzione di “luminosa” e di “famosa”.1000 Si tratta comunque, in ambedue i casi, della corona ancora

995 Cf., inoltre, Ov. met. 8, 180 dumque volat gemmae nitidos vertuntur in ignes e Manil. 5, 254 ss. et mollis tribuent artes. hinc dona puellae / namque nitent, illinc oriens est ipsa puella. / ille colet nitidis gemmantem floribus hortum (gemmantem ~ Ov. fast. 3, 515 gemmas); Hübner 2010, II, p. 145.

996 Quondam si presta bene a saldare il riferimento alla Corona celeste con quello alla corona di Arianna, mitico ornamento della fanciulla cui l’avverbio rinvia esprimendo la dimensione extratemporale del mito, quel “c’era una volta” delle favole; analogamente, Manil. 5, 540 quondam, dove l’avverbio raccorda la breve menzione della costellazione di Andromeda (vv. 538 s.) all’excursus mitico sulla sua liberazione ad opera di Perseo; Landolfi 1993, p. 175.

997 Per quanto riguarda il rapporto cronologico e letterario tra Manilio e Germanico, vd. Abry 1993, con agile ma ben documentata sintesi della questione dell’anteriorità di Manilio rispetto a Germanico; in particolare, pp. 180 n. 2 e 182 n. 6.

998 Riporto il testo secondo l’edizione di Breysig 1867.

999 Per addit = auget in luogo di addit = afficit, Maurach 1978, p. 53, «Ariadne besäße dann ohnehin schon honor, die Verstirnung hätte ihn aber gemehrt»; cf. Voit 1984, p. 143; a questa osservazione si aggiunga ora il raffronto con Hor. carm. 2, 19, 13 s. beatae coniugis / additum stellis honorem, in riferimento al catasterismo della corona di Arianna.

212 dono nuziale della quale si celebra qui la trasformazione in Ariadneus…ignis,1001 cioè nella costellazione di Arianna nota come Corona e collocata alle spalle dell’Engonasi1002. Di conseguenza, tra le due qualificazioni, “luminosa” e “famosa”, solo la seconda sembrerebbe corretta, in virtù della celebrità del mito, mentre la prima era stata fin qui riferita soltanto alla corona già trasformata in astro, cioè alla Corona celeste1003. S’incrina dunque la polisemia di clara, per quanto pure corroborata adesso da Ovidio e da Manilio? Nient’affatto. La duplice qualificazione si mantiene con l’aggiunta di una lettura in senso figurato del v. 71, dove cogliere la presenza di un’enallage, vale a dire della stessa figura registrata in Verg. georg. 1, 222 Gnosiaque ardentis decedat stella Coronae. Pertanto, fuori di enallage, Germ. 71 clara Ariadnaeo sacratast igne corona acquista il senso logico di claro Ariadnaea sacratast igne corona, e dunque: 1) “la corona di Arianna venne immortalata nella luminosa costellazione”; 2) “la corona di Arianna venne immortalata nella famosa costellazione”1004.

Preme notare, a questo punto, come il v. 71 di Germanico, clara Ariadnaeo sacratast igne corona, raccordi in sé tutti i precedenti poetici sulla Corona: di Cic. Arat. fr. 13 hic illa eximio posita est fulgore Corona esso ripropone la struttura dell’esametro aureo a disposizione chiastica e la forma verbale trisillabica (al ciceroniano posita est, trisillabico per sinalefe, corrisponde ora sacratast, trisillabico per aferesi); di Verg. georg. 1, 222 Gnosiaque ardentis

1000 Voit 1984, p. 144, il quale coglie però un valore strumentale nell’ablativo Ariadnaeo…igne: «die durch das Liebesfeuer der Ariadne berühmte Krone» e «die…durch die Liebe der Ariadne hellglänzende…Krone».

1001 Vd. sch. Germ. 71, pp. 61, 17-62, 1 Breysig haec corona dicitur esse Ariadnes. quam Liber astris intulisse.

1002 Per questa ragione si riporta l’ancora valido testo di Breysig 1867; al contrario, chi al v. 71 stampa Corona, come Le Boeuffle 1975 e Gain 1976, lascia intendere che la costellazione della Corona sia stata immortalata nella costellazione di Arianna, nome diverso della costellazione medesima; è evidente che la tautologia escluda categoricamente la forma Corona.

1003 La corona non ancora trasformata in astro è anche detta “luminosa”, ma solo in quelle versioni del mito che la celebrano come oggetto così fulgido in virtù della sua fattura in oro e gemme da aiutare Teseo ad uscire dall’oscurità del labirinto; così Hyg. astr. 2, 5, 1 (corona) dicitur etiam a Vulcano facta ex auro et Indicis gemmis, per quas Theseus existimatur de tenebris labyrinthi ad lucem venisse, quod aurum et gemmae in obscuro fulgorem luminis efficiebant e sch. Germ.71, p. 62, 6-7 Breysig eodem dono (sc. corona) dicitur Thesea ex labyrintho liberasse. tali fulgore fuit. Queste versioni si allineano a quella attribuita ad Epimenide, secondo la quale Arianna avrebbe tradito Dioniso per Teseo e avrebbe aiutato l’eroe ateniese ad uscire dal labirinto con la corona precedentemente avuta come dono di nozze col dio; cf. Santoni 2009, pp. 72 s. e 170 n. 42.

1004 Verso fin qui problematico, se non oscuro; basti pensare ai fraintendimenti di Maurach 1978, p. 52, e al totale silenzio precedentemente osservato a riguardo da Gain 1976.

213 decedat stella Coronae riprende l’interposizione della trisillabica forma verbale tra cesura pentemimera e incisione dopo il quarto piede, nonché la figura dell’enallage, come osservato poc’anzi; di Ov. met. 8, 178 clara la polisemia dell’aggettivo nel duplice significato di “luminoso” e di “famoso”, verosimilmente tramite Manil. 5, 253 clara Ariadnaeae quondam monumenta Coronae, del quale Germanico riecheggia manifestamente sia l’attacco nel suo incipitario clara Ariadnaeo sia gli estremi dell’esametro, clara…corona ~ clara…Coronae. Quest’ultimo raffronto dà poi un ulteriore sostegno al germaniciano corona in luogo del Corona di alcuni editori. Di fatto, Manil. 5, 253 clara… monumenta Coronae racchiude i termini chiave che occupavano il primo e l’ultimo verso della sua precedente menzione della Corona (1, 319 claro orbe Corona e 323 fulgent monumenta puellae) e che lì erano riformulati sulla scorta di Ovidio, met. 8, 177 clara…coronam e fast. 3, 513 monimenta coronae, con innovativo passaggio del referente da corona a Corona. Germanico ora si appropria dell’innovazione maniliana e la inverte, trasformando il suo clara…Coronae nel proprio clara… corona. Si ritorna così al referente ovidiano, cioè alla corona nuziale, ma con espressione maniliana, ancora più evidente alla luce della concordanza logica sottesa all’enallage germaniciana: claro…igne ~ clara…monumenta, Ariadnaea…corona ~ Ariadnaeae…Coronae.

Di allusiva memoria ovidiana parla invece igne, evocativo della clausola ignes di met. 8, 180 e fast. 3, 515, ma ora anticipato in quinta sede esametrica per lasciare la clausola a Corona, ad essa regolarmente riservata a partire dal verso ciceroniano1005. Anche la concordanza Ariadnaeo…igne1006 si avvantaggia di un precedente ovidiano, fast. 5, 346 ex Ariadnaeo sidere nosse potes, il quale a sua volta ricompone Catull. 66, 59 s. sidere uti vario ne solum in lumine caeli / ex Ariadneis aurea temporibus, ripetendo la collocazione di ex e dell’aggettivo prima della principale cesura del pentametro.

Di provenienza ovidiana parla pure thalami (v. 72), in conseguenza del legame tra gli ovidiani epist. 10, 58 perfide…lectule e fast. 3, 511 tu mihi iuncta toro mihi iuncta vocabula sumes, dove il talamo si trasforma da testimone del tradimento di Teseo1007 a testimone del vincolo

1005 Cf. TLL IV, 977, 58-61, s.v. corona, e Pellacani 2013, p. 81.

1006 Sulla valenza siderale di ignis, TLL VII. 1, 290, 47-62, s.v.; Le Boeuffle 1977, p. 41, e 1987, p. 153, s.v.

1007 Landolfi 2000, p. 90 n. 24, nota il legame tra perfide…lectule e l’epiteto perfidus, distintivo del Teseo catulliano.

214 nuziale tra Bacco e Arianna, suggellato dall’assunzione dell’eroina in cielo1008. Il letto dunque, riabilitato in fast. 3, 511 al suo ruolo di “teste d’amore”1009 e simbolo del legame erotico prima, celeste poi tra Bacco e Arianna, viene ora alluso nella sua funzione testimoniale dal thalami germaniciano1010, sottolineata dall’interposizione del genitivo nel nesso Bacchus…memor. Se il nuovo letto recupera dunque la più recente versione ovidiana del letto dei due amanti, memor si presta a rievocare, in chiave intertestuale, l’adempimento della promessa del cielo fatta in precedenza da Bacco (cf. Ov. ars 1, 557 munus habe caelum, caelo spectabere sidus e fast. 3, 505 illa ego sum cui tu solitus promittere caelum) e qui onorata con la trasformazione della corona di Arianna in costellazione.

Al parallelo ovidiano (fast. 5, 346) di Germ. 71 Ariadnaeo…igne si aggiungono le numerose attestazioni per la concordanza Ariadnaea…corona sottesa all’anzidetta enallage; da Verg. georg. 1, 222 Gnosia…Coronae (enallage per Gnosiae…Coronae) a Manil. 5, 21 atque Ariadnaeae caelestia dona Coronae e 253 clara Ariadnaeae quondam monumenta Coronae, nell’identica collocazione metrica di Germ. 71 clara Ariadnaeo sacratast igne Corona; da Stat. silv. 1, 6, 88 vincens Gnosiacae facem Coronae ad Avien. Arat. 247 Ariadnaeae…Coronae e 1080 s. Minoae clara Coronae / serta1011.

La memoria allusiva si estende anche a Germ. 72 hunc illi Bacchus thalami memor addit honorem, con attacco evocativo di Cic. Arat. fr. 13 hic illa eximio posita est fulgore Corona. All’iniziale avverbio di luogo ciceroniano Germanico sostituisce l’aggettivo dimostrativo hunc che, concordato con honorem a fine verso, produce un’allitterazione anulare dell’aspirata (hunc…honorem), mentre honorem1012 ripete il termine già adoperato per la Corona da Orazio, carm. 2, 19, 13 s. beatae coniugis additum / stellis honorem.1013 All’aggettivo dimostrativo illa di Cicerone, concordato con Corona a fine verso, Germanico sostituisce il pronome dimostrativo illi, che, nel suo riferimento a coronae, richiama e varia

1008 Sulla mutata funzione del letto nei due luoghi ovidiani, ivi, p. 117.

1009 Su questo τόπος, ivi, p. 89.

1010 Sulla valenza erotica di thalamus nei catasterismi germaniciani, Possanza 2004, p. 213 n. 50.

1011 Cf. Germ. 590 excipit Oceanus Minoae serta Coronae e Sen. Herc. f. 19 mundus puellae serta Gnosiacae gerit ~ Manil. 1, 323 Gnosia desertae fulgent monumenta puellae.

1012 Sul valore di honos in contesti di catasterismo, Bartalucci 1988, pp. 366 s.

1013 Romano 1991, p. 713, registra la ripetizione dell’oraziano honorem in Germ. 72 e in Avien. Arat. 198.

215 l’illa…Corona dell’Arpinate. Infine, memor echeggia il pl. monumenta di Ovidio e di Manilio derivato in qualche modo, evidentemente, dallo scolio arateo, in stretto rapporto con il quale sarà perciò da leggere la variazione apportata da Germanico; in particolare, sch. Arat. 71, p. 106, 13 s. M. ἐπὶ μνήμῃ τῆς Διονύσου φιλίας ~ Germ. 72 Bacchus thalami memor, dove memor richiamerà inoltre per contrasto il Teseo immemor di Catull. 64, 58; 123; 135 e 248. Dunque immemor, uno dei termini chiave del carme catulliano,1014 viene risemantizzato nell’antonimo memor e il passaggio del referente, da Teseo a Bacco, si presta a riaccendere nella memoria del lettore l’alterità e al contempo la sovrapposizione dei due amanti di Arianna in Ov. fast. 3, 473 s. dicebam, memini, «periure et perfide Theseu!» / ille abiit, eadem crimina Bacchus habet, dove la fanciulla trasferisce al dio le accuse di traditore e di spergiuro da lei precedentemente mosse all’eroe nei versi di Catullo1015.

8. La Corona di Avieno, una sintesi d’autore

Non si presenta meno raffinato l’incastro di tessere d’autore nella prima e più estesa menzione della Corona in Avieno, Arat. 196-198

aspice ceu rutilis vibret lux Gnosia flammis. Haec quondam Bacchi monumentum fulget amoris, haec Ariadnaei capitis testatur honorem1016 “vedi come vibra di fiamme ardenti l’astro cretese. Esso rifulge come memoria di quel che fu l’amore di Bacco, esso testimonia l’ornamento del capo di Arianna”

Al v. 196 Avieno adopera una variante di esametro aureo che tuttavia conserva, come in Cicerone e in Germanico, la disposizione chiastica delle coppie degli aggettivi e dei sostantivi (rutilis…flammis, lux Gnosia)1017. Il successivo v. 197 varia invece con haec l’iniziale hunc di

1014 Gamberale 2002, p. 26.

1015 Ivi, pp. 31 ss., dove si rileva che l’Arianna ovidiana si identifica non solo con l’archetipica Arianna catulliana, ma anche con le diverse Arianne ovidiane, in particolare con quella di ars 1, 525- 564.

1016 Riporto il testo secondo l’edizione di Soubiran 1981.

1017 Il nesso rutilis…flammis rinvia ai numerosi precedenti che avevano accentuato con notazione ignea il fulgore della Corona, cioè Verg. georg. 1, 222 ardentis; Ov. met. 8, 180 e fast. 3, 515 ignes;

216 Germ. 72 hunc illi Bacchus thalami memor addit honorem, riecheggiato poi anche dall’anaforico haec del v. 198, chiuso da honorem come in Germ. 72. Sempre al v. 197, quondam ripete l’avverbio di Manil. 5, 253, mentre Bacchi monumentum…amoris richiama Germ. 72 Bacchus thalami memor. Di séguito, il genitivo Bacchi…amoris ripete il genitivo di schol. Arat. 71, p. 106, 13 s. M. τῆς Διονύσου φιλίας, mentre monumentum varia il memor di Germanico sulla scorta del pl. monumenta di Ovidio e di Manilio, passato qui al sg. con piena rispondenza al sg. delle due glosse aratee, μνημόσυνον e μνήμη1018.

Infine, fulget (v. 197) rinvierà a Manil. 1, 323 fulgent, a sua volta di segno ciceroniano, mentre Ariadnaei capitis (v. 198) rimonterà per sineddoche a Catull. 66, 60 Ariadneis…temporibus, così come testatur ripete in pari collocazione metrica Prop. 3, 17, 7 te quoque enim non esse rudem testatur in astris, dove Bacco trasforma Arianna, e non la sua corona nuziale, in astro1019. La precisa ripresa del verbo properziano veicola però la presa di distanza di Avieno dalla versione dell’Assisiate, versione nettamente minoritaria nella tradizione su questo catasterismo1020. Il divario a livello contenutistico è testimoniato da honorem, che richiama sia Hor. carm. 2, 19, 13 s. beatae coniugis (sc. Ariadnae) / additum stellis honorem sia Germ. 72 hunc illi (sc. coronae) Bacchus thalami memor addit honorem, con riferimento in entrambi i casi alla trasformazione della corona di Arianna, e non della fanciulla medesima, in astro. L’affinità contenutistica con Orazio e con Germanico non manca poi di ulteriore rilievo sul piano formale: Avieno riprende infatti del primo l’articolazione del genitivo con l’accusativo honorem (beatae coniugis /… honorem ~ Ariadnaei capitis…honorem), del secondo la collocazione di honorem in clausola. In più, Avieno mutua da Orazio honorem nel significato di “ornamento”,1021 contro la consueta accezione di

Germ. 71 igne; Stat. silv. 1, 6, 88 facem; invece Gnosia richiama Verg. georg. 1, 222 Gnosia…stella; Ov. fast. 3, 459 s. Coronam / Gnosida e Manil. 1, 323 Gnosia…monumenta.

1018 Sul ricorso di Avieno agli scolî aratei, Winterfeld 1896; Ihlemann 1909, pp. 45 e 49; Vigevani 1947; la dipendenza dagli scolî è manifesta anche nei vv. 199-203, dove Avieno riferisce la posizione della Corona divergendo da Arato; Soubiran 1981, p. 189 n. 8.

1019 Così, in maniera convincente, Fedeli 1985, p. 520.

1020 Vd. n. 82.

1021 TLL VI.3, 2929, 45 s. e 54 s., s.v. honos; cf. Soubiran 1981, p. 102, «elle représente la parure don’t s’ornait la tête d’Ariane».

217 “onore”, “privilegio” che il sostantivo mantiene in Germanico1022, dove il rinvio al Venosino è invece affidato al verbo; addit ~ oraziano additum.

La perizia qui dimostrata nella ricomposizione di speciali tessere d’autore non manca però di esaltarsi in una prova di originalità, che si profila come un capovolgimento di prospettiva rispetto ai precedenti di Orazio e di Germanico: alla corona di entrambi, che ottiene il privilegio di diventare ornamento celeste, Avieno sostituisce la Corona che simboleggia in cielo l’ornamento del capo di Arianna, testimoniandone il catasterismo.

Conclusioni

Il ciceroniano eximio…fulgore (Arat. fr. 13), riconducibile alla lettura dell’arateo ἀγαυόν (v. 71) data dallo scolio ad l. (ἀγαυὸν…τουτέστι λαμπρόν), inaugura nella poesia latina l’iperbole dello straordinario splendore della Corona di Arianna, che nella realtà invece si compone di stelle poco brillanti1023. Questa iperbole trova séguito in una terminologia amplificante a sua volta (ardeo, ignis, flamma, oltre a fulgeo), così come la sua correlazione col celebre mito di Arianna1024 e della relativa costellazione (illa…Corona) trova efficace compendio nel polisemico clara, “luminosa” e “famosa”, inaugurato da Ovidio; il quale alla novità di clara associa, per la Corona stessa, quella del pl. monumenta, anch’esso riconducibile in qualche modo agli scolî aratei e dunque collocabile nel solco dell’operazione ciceroniana. L’Arpinate diventa perciò il primo punto di riferimento per i poeti latini successivi, da Virgilio ad Avieno, i quali, oltre alle ripetute memorie ciceroniane, ne presentano altre dai predecessori intermedi. Nei loro versi, intessuti di richiami allusivi, risaltano scelte lessicali, retoriche e metriche che danno l’impressione di crescere le une sulle altre; per intenderci, dall’esametro aureo di Cicerone si sale all’esametro aureo e all’enallage di Virgilio; dall’esametro aureo e dall’enallage di Virgilio si sale all’esametro aureo, all’enallage e al polisemico clara di Germanico, precedentemente introdotto da Ovidio. Queste scelte da un lato conferiscono uno spessore di senso sempre più complesso e scandagliabile tanto più a fondo quanto più si riesce a dissodare la stratificata memoria

1022 Cf. Possanza 2004, p. 211 n. 25.

1023 Leuthold 1942, p. 22.

1024 Cf. Soubiran 1972, p. 199 n. 6.

218 poetica;1025 dall’altro, esse danno la cifra di una tecnica poetica improntata sia all’abilità di padroneggiare tutti i precedenti sul tema sia alla rielaborazione di questi precedenti in forme nuove, al contempo imitative e originali nel proprio assetto ricombinato1026.

Nello specifico, Virgilio (georg. 1, 222) attinge da Cicerone sia per il contenuto (fulgore della Corona) sia per la metrica (esametro aureo), ma innova in quello e in questa, da una parte riferendosi soltanto alla stella principale e più luminosa della Corona, per indicarne il tramonto; dall’altra, ricorrendo ad una forma di esametro aureo più evoluta rispetto a quella ciceroniana, sulla scorta di Catullo, c. 64, 172. La dipendenza virgiliana dal carme catulliano però va oltre il raffronto metrico, in quanto Virgilio, sommando apporti da questo carme al precedente ciceroniano sulla Corona, inaugura la figurazione di un’Arianna “duplice”, sub specie sideris e sub specie puellae elegiacae, ripetutamente ripresa e ampliata più tardi da Ovidio. A questa innovazione si aggiunge infine, nella Corona virgiliana, la novità dell’enallage.

Ovidio, dal canto suo, compendia nel polisemico clara (met. 8, 178) il binomio ciceroniano della fama e della luminosità della Corona, illa eximio…fulgore Corona. Egli però non si limita a questa sintetica scelta allusiva, ma aggiunge prestigio alla propria Corona alludendo sia alla corona poetica di Ennio celebrata da Lucrezio (1, 117-119) sia alla Corona di Arianna celebrata da Catullo, c. 66, 59-61. Il Sulmonese mostra così di avere assimilato anche la lezione di Virgilio, sostituendone il duplice riferimento intertestuale - la Corona di Cicerone e l’Arianna di Catullo - con uno nuovo, la corona di Lucrezio e la Corona di Catullo. L’operazione ovidiana si mostra perciò del tutto simile a quella virgiliana, ma diversa al tempo stesso, dunque nuova: alla Corona virgiliana, che tiene conto dell’inscindibilità dell’astro di Arianna dal mito di Arianna, come prova la duplice allusione a Cicerone e a Catullo, subentra la Corona ovidiana, che invece intreccia la fama della corona poetica (Lucrezio) sia con la fama della costellazione, celebrata a Roma a partire da Cicerone, sia con la luminosità della Corona (Catullo).

Successivamente, Manilio esalta l’originalità della propria Corona (1, 319-323) attraverso un abile incastro di tessere autoriali. In Ringkomposition il primo e l’ultimo verso della sua

1025 Già Löfstedt 1949, p. 150, aveva precisato come, in rapporto a formulazioni imitative ed allusive, l’interpretazione fosse «a question, not only of clarity, but also of shades of meaning»; in proposito, e non solo, vd. la sistematica messa a punto di Conte - Barchiesi 1989.

1026 Cf. Conte 2014; in particolare, cap. I, Rubare la clava ad Ercole, pp. 11-62.

219 Corona mostrano chiaro il debito nei confronti dell’Arpinate, mentre nei versi intermedi (vv. 320-322) da un lato emerge chiara la memoria lessicale di Catullo e di Ovidio, rifusi per alludere alla funzione archetipica avuta dall’Arianna catulliana sull’Arianna di Ovidio e sulla sua Corona; dall’altro risalta la memoria metrica di Virgilio, il cui esametro aureo (georg. 1, 222) viene come sdoppiato in due nuovi esametri aurei (vv. 322 s.), che però conservano ugualmente la funzione di segnalare l’unificazione di due distinti modelli: Cicerone e Catullo in Virgilio, Catullo e Ovidio in Manilio.

Altrettanto composita è la descrizione della Corona in Germanico, dove l’apice della raffinatezza espressiva è raggiunto al v. 71, clara Ariadneo sacratast igne corona. L’interprete che si accosti al verso senza conoscere il precedente percorso tematico si troverà ad esitare tra due traduzioni: 1) “la famosa corona fu immortalata nella costellazione di Arianna”; 2) “la luminosa corona fu immortalata nella costellazione di Arianna”. Sarebbe questo il primo e più immediato livello di lettura, che ha senso alla sola condizione che non si cada nell’equivoco tautologico in cui cadono gli editori che stampano Corona. L’interprete meglio informato saprà invece che la corona in oggetto, ricevuta da Arianna come dono nuziale, è “famosa” in virtù del mito di Bacco e Arianna, ma non “luminosa”, attributo, questo, che le pertiene solo in una tradizione differente, quella che la vede oggetto salvifico di Teseo in uscita dal labirinto. Per quanto corretto, anche questo secondo livello di lettura non va molto oltre la superficie del testo. Aiuta a scendere in profondità la polisemia di clara, per la quale Germanico si avvantaggia di un doppio precedente, Ov. met. 8, 178 e Manil. 5, 253. Questo polisemico clara ripresenta però il limite di qualificare come “luminosa”, oltre che come “famosa”, la corona non ancora trasformata in astro. La polisemia dell’attributo, allora, si salva solo in virtù dell’enallage, figura con la quale Germanico aggiunge nella propria Corona lo speciale strumento retorico della Corona virgiliana. Dal confronto di Germanico con Manilio, autore a lui prossimo, risulta quindi che entrambi si avvalgono della perizia tecnica del Mantovano, ma in maniera diversa: Manilio ripropone il raffinato esametro aureo virgiliano a struttura parallela e lo innova sdoppiandolo, mentre Germanico sostituisce all’imitazione metrica di Virgilio quella retorica, riformulando quell’enallage di georg. 1, 222 che nessuno aveva più riproposto per la Corona. Nell’inedita imitazione si riassume dunque l’originalità di Germanico.

Chiude il cerchio Avieno, il quale, oltre a dar prova di aver saputo abilmente riformulare i precedenti, aderisce più di tutti i predecessori alla lezione degli scolî aratei, che in maniera

220 anulare vengono quindi ad assumere un ruolo centrale nella prima e nell’ultima versione latina in versi dei Phaenomena, quella di Cicerone e appunto quella di Avieno.

In conclusione, la memoria poetica si configura come il meccanismo principe tramite il quale il poeta antico dimostra di possedere i due requisiti fondamentali richiesti dalla sua ars: in primo luogo, la piena conoscenza della tradizione, conoscenza dimostrabile e valutabile attraverso le sue scelte tematiche, lessicali, metriche, retoriche; in secondo luogo, la capacità di innovare la tradizione con l’impiego di soluzioni che trovino nel patrimonio poetico precedente la propria genesi e insieme il germe della propria originalità. Il meccanismo della memoria poetica giunge così ad aumentare le proprie potenzialità all’interno di uno stesso filone tematico, nel quale il comune oggetto del canto porta il repertorio espressivo ad una stratificazione tale che ogni soluzione adottata dai singoli poeti, nella sua duplice componente di dottrina e di originalità, stenti non di rado a chiarirsi senza la luce di un ragionato raffronto con quelle che la precedono. Infine, i predecessori risultano “riscritti” dalle memorie che essi stessi generano, le quali, come puntualizza ora Conte1027, «li modificano e ne rideterminano la rilevanza entro il corpus della tradizione».

ABSTRACT

Cicero’s translation of Aratus’ Phaenomena introduces “brightness” of the constellation named Ariadne’s Crown as its distinguishing feature, influenced by Aratean scholion; cf. Cic. Arat. fr. 13 eximio…fulgore Corona with Arat. 71 s. Στέφανος… ἀγαυὸν…/ σῆμα and sch. ad l. ἀγαυὸν…τουτέστι λαμπρόν. This feature of “brightness” is amplified by Verg. georg. 1, 222 ardentis, which also alludes to Bacchus’ and Ariadne’s “burning” passion. The myth of their love story includes Ariadne’s crown, wedding gift that Bacchus put in the sky in order to make it “visible”, that is “bright” and “famous” at the same time; cf. Eratosth. Cat. 5 (στέφανον) ἐπιφανῆ and Ov. met. 8, 178 (corona) clara, polysemous adjective repeated both by Manil. 5, 253 clara monumenta Coronae and by Germ. 71 clara corona. The double feature of Ariadne’s Crown, “bright” and “famous”, is, moreover, parallel to two meanings of Arat. 72 σῆμα, “constellation” and “memorial”, explained by Aratean scholia as μνημόσυνον and μνήμη. From here the Latin definition of Ariadne’s crown / Crown as monumentum: Ov. fast. 3, 513 monimenta coronae; Manil. 1, 323 monumenta puellae (sc. Corona); 5, 253 monumenta Coronae; Avien. Arat. 197 monumentum...amoris (sc. Corona). Finally, no Latin poet which celebrates Ariadne’s Crown prescinds from previous authors of same theme. Each of them show us a deeper and deeper stratification of “poetic memory”, through which every poet reveals his own knowledge of literary tradition and his own originality, that springs from a new formulation of old elements, inherited by tradition itself.

KEYWORDS: Ariadne’s Crown, fame, brightness.

1027 Conte 2014, p. 76.

221 Nel “segno” di Omero. Arat. 72; Ap. Rh. 3, 1002; Nonn. D. 33, 374 *

Giunto al cospetto di Medea, all’interno del tempio di Ecate, Giasone prova a vincere il ritegno della maga e a conquistarne la fiducia, invocandola quindi di aiutarlo ad impadronirsi del vello d’oro. In cambio di questo aiuto l’eroe promette di conservare per lei immensa gratitudine e le prospetta grandi onori e fama in terra di Grecia. La captatio benevolentiae di Giasone culmina col racconto dell’impresa di Teseo, l’eroe che superò la prova del labirinto in virtù dell’aiuto di una fanciulla, Arianna, discendente dal Sole al pari di Medea e abbandonata da Teseo a Nasso, così come Medea sarà abbandonata da Giasone a Corinto1028. Giasone omette però i dettagli del mito che preludono al tragico destino che accomunerà Medea ad Arianna1029, insistendo invece sull’argomento della gratitudine per l’aiuto che gli sarà dato. Già l’aiuto prestato da Arianna a Teseo ottenne, secondo Giasone, la riconoscenza degli dèi, i quali trasformarono la corona della Minoide nella costellazione della Corona, detta perciò Corona di Arianna. Allo stesso modo Medea si sarebbe dovuta attendere, prestando il proprio aiuto, la riconoscenza dei Celesti; Ap. Rh. 3, 1001-1006

τὴν δὲ καὶ αὐτοὶ

ἀθάνατοι φίλαντο, μέσῳ δέ οἱ αἰθέρι τέκμωρ

ἀστερόεις στέφανος, τόν τε κλείουσ’ Ἀριάδνης,

πάννυχος οὐρανίοις ἐνελίσσεται εἰδώλοισιν.

Ὣς καὶ σοὶ θεόθεν χάρις ἔσσεται, εἴ κε σαώσεις

τόσσον ἀριστήων ἀνδρῶν στόλον 1030

L’autorevolezza che l’exemplum mitico1031 assume nella strategia della persuasione messa in atto dall’eroe non manca di risaltare anche sul piano linguistico attraverso un dettato denso di

*Contributo di prossima pubblicazione.

1028 In parallelo, vd. le analogie tra Giasone e Teseo tracciate da Hunter 1988, pp. 449 s.; cf. Green 1997, pp. 279 s.

1029 Oltre a discendere entrambe dal Sole, ad aver aiutato ciascuna un eroe greco per poi essere da lui abbandonata, le due fanciulle condividono sia l’abbandono della patria sia l’uccisione di consanguinei; Fusillo 1985, pp. 69-71.

1030 Riporto il testo dell’edizione Vian - Delage 1980.

222 omerismi, a cominciare da φίλαντο, aoristo privo di aumento secondo l’uso omerico1032, ma inserito da Giasone in un’abile personalizzazione della testimonianza omerica su Arianna. L’espressione ἀθάνατοι φίλαντο (v. 1002) diventa infatti volutamente ambigua, in quanto con essa l’eroe omette opportunamente la versione omerica (Od. 11, 322 ss.) secondo la quale Arianna fu uccisa da Artemide sull’isola di Dia. Giasone, invece, dà ad intendere che il catasterismo della corona di Arianna sia avvenuto ad opera degli dèi e come premio alla Minoide per l’aiuto prestato a Teseo, non ad opera di Dioniso, il quale amò la fanciulla, rimasta abbandonata proprio da Teseo a Nasso, e ne trasformò in astro la corona nuziale, come dalla versione di Arat. 71-731033; versione, questa, richiamata anche dallo scolio apolloniano ad l.1034 e alla quale Apollonio non solo si ispira1035, ma allude pure1036. La manipolazione del catasterismo di Arianna per bocca di Giasone, manipolazione che altera la versione aratea, tradisce infatti sul piano stilistico una dipendenza diretta dal poeta di Soli: sia in Arato sia in Apollonio il nome “Corona” è seguito da una relativa i cui estremi sono τόν…Ἀριάδνης (Arat. 71 s. Στέφανος, τὸν ἀγαυὸν ἔθηκε / σῆμ’ ἔμεναι Διόνυσος ἀποιχομένης Ἀριάδνης ~ Ap. Rh. 3, 1003 στέφανος, τόν τε κλείουσ’ Ἀριάδνης) e in entrambi il movimento della Corona, sebbene rapportato alla sola costellazione dell’Engonasi da Arato e, in maniera amplificante, alle costellazioni celesti da Apollonio1037, viene esplicitato con

1031 Sull’exemplum di Arianna vd. Paduano 1972, pp. 183-186, e García Gual 2008, il quale rileva come il ricorso all’exemplum a scopo di persuasione trovi due importanti precedenti nel mito di Meleagro (Hom. Il. 9, 529-599) e in quello di Atteone (Eur. Bac. 337-341), dove i destinatari dell’exemplum ignorano al pari di Medea il finale tragico del mito raccontato dai loro interlocutori. Questa ignoranza, resa verosimile nel caso di Medea dalla condizione di straniera, conferisce all’exemplum un’ironia amara ben chiara al lettore, il quale invece conosce il finale del mito in questione.

1032 Cf. Gillies 1928, p. 102.

1033 Cf. Ardizzoni 1958, p. 214; Vian 1961, p. 124; Hunter 1989, p. 209; Rostropowicz 1995, pp. 270 s.

1034 Pp. 244, 25-245, 1 e 11 Wendel διὰ τὴν θησέως σωτηρίαν στέφανος αὐτῆς (sc. Ἀριάδνης) κατηστερίσθη. ὧν οὐδέτερον ἀληθές…ὅτι δὲ ὁ στέφανος ὑπὸ Διονύσου κατηστέρικται, Ἄρατός φησιν (Phaen. 71 sq.).

1035 Vian 1961, p. 124.

1036 Altri esempi di allusioni apolloniane ad Arato, per lo più congiunte con ricorso ad Omero, in Giangrande 1967, pp. 91 s., e Matteo 2002, pp. 155-158.

1037 Cf. Korenjak 1997, pp. 20 n. 6, «Ironischerweise verweist Apollonios in 1002-1004 durch Anklänge in Wortwahl und Syntax ausgerechnet auf diese Stelle (sc. Arat. 71-73): στέφανος - ἐνελίσσεται - εἰδώλοισιν; cf. στέφανος - ὑποστρέφεται - εἰδώλοιο, Ἀριάδνης jeweils am Zeilenende,

223 mantenimento del termine “costellazione” a fine verso, Arat. 73 εἰδώλοιο ~ Ap. Rh. 3, 1004 εἰδώλοισιν1038. Alla doppia analogia non si può invece sommare il comune ricorso ad un composto verbale1039, Arat. 73 ὑποστρέφεται ~ Ap. Rh. 3, 1004 ἐνελίσσεται, e ciò in considerazione dell’opportuno emendamento del tràdito ὑποστρέφεται arateo in ὕπο στρέφεται1040. A questa diversificazione apolloniana da Arato si aggiunge pure la variazione del sg. arateo εἰδώλοιο nel pl. apolloniano εἰδώλοισιν, ma sempre nel solco di Arato, v. 383 καθαροῖς ἐναρηρότες εἰδώλοισι. Qui, in rapporto ad Ap. Rh. 3, 1004 οὐρανίοις ἐνελίσσεται εἰδώλοισιν, risalta lo stesso ordo1041, nonché ἐναρηρότες, pentasillabico composto con ἐν utile per H. Fränkel1042 ad avallare l’emendamento di Merkel del tràdito οὐρανίοισιν ἐλίσσεται apolloniano in οὐρανίοις ἐνελίσσεται1043; emendamento supportato anche da Callim. fr. 110, 61 Pf. φάεσ]ι̣ν εν πολέεσσιν1044, dove il restaurato prefisso verbale di Apollonio troverebbe esito nella preposizione callimachea.

mit τὸν eingeleiteter Relativsatz». Sulla finalità dell’imprecisione astronomica apolloniana rispetto ad Arato, cf. n. 1048.

1038 Dal pl. apolloniano dipenderà Ov. epist. 10, 95 simulacra, dove il termine conserverebbe il significato di “costellazione” in riferimento al catasterismo della corona di Arianna e, parallelamente, all’apoteosi dell’eroina, con una contaminazione delle due versioni mitiche suggerita dal parallelo intertestuale tra Ov. epist. 10, 95 timeo e ars 1, 554 pone metum; Battistella 2006. Un ulteriore riscontro di richiamo ovidiano ad Apollonio sarebbe nelle parole pronunciate da Medea, met. 7, 61 dis cara ferar et vertice sidera tangam, parole sia allusive all’amore degli dei per Arianna e alla loro trasformazione della sua corona in costellazione sia ironiche, in virtù dell’associazione di Medea con Arianna astutamente operata da Giasone, Ap. Rh. 3, 1001 ss.; Kenney 2001, pp. 276 s.

1039 Diversamente da Korenjak 1997, pp. 20 n. 6, il quale raffronta l’ ἐνελίσσεται di Apollonio con lo ὑποστρέφεται di Arato non avendo forse potuto valutare per ragioni cronologiche la bontà dell’emendamento ὕπο στρέφεται ad opera di Kidd 1997.

1040 Kidd 1997, p. 78, sulla scorta di Hipparch. 1, 2, 7 τὸν δὲ Στέφανον ὁ μὲν Εὔδοξός φησιν ὑπὸ τὸν νῶτον τοῦ ἐν γούνασι κεῖσθαι e in valutazione del fatto che «the prefix here does not qualify the verb, as it does in 512, 593, or in the normal sense of “turn back”, “return”; the Crown does not “revolve beneath” (LSJ) the kneeling figure’s back; ὕπο gives its relative position, στρέφεται its circular movement, and the two pieces of information are quite distinct»; ivi, pp. 205 s. Cf. pure Cic. nat. deor. 2, 108 haec (sc. Corona)…a tergo (sc. Engonasi) e Germ. 70 (corona) tum fessi supter costas atque ardua terga.

1041 Il verso arateo è registrato sia da Gillies 1928, p. 102, sia da Vian 1961, p. 124, ma limitatamente alla ripetizione apollononiana di εἴδωλα nell’accezione specifica di “costellazione”.

1042 Fränkel 1961, p. 152.

1043 Merkel 1853, p. 184, sulla scorta di Nic. Alex 287 ὀλίγῳ δ’ ἐνελίσσεται ὅλκῳ. 1044 Fränkel 1961, p. 152, e 1968, p. 412. L’espressione è pronunciata dalla Chioma di Berenice, che rivendica il suo diritto di essere annoverata “tra molte luci”, come già la Corona appunto. Simile

224

Le corrispondenze tra Apollonio e Arato si estenderanno all’interpretazione apolloniana di Arat. 71 s. ἀγαυὸν…σῆμα, la cui spiegazione richiede però, preliminarmente, una più completa rassegna degli omerismi presenti nei versi del Rodio. A φίλαντο, aoristo senza aumento alla maniera omerica, di cui sopra, si aggiungono l’omerico pronome οἱ e l’hapax ἀστερόεις, omerico epithehon ornans del cielo, passato poi per traslato ad indicare oggetti fulgidi come gli astri1045. A seguire, prima la denominazione della corona di Arianna, τόν τε κλείουσ’ Ἀριάδνης, palese reminiscenza di Hom. Od. 1, 338 τά τε κλείουσιν ἀοιδοί1046, peraltro parimenti collocata nel secondo emistichio; poi l’omerico aggettivo πάννυχος1047, hapax (diversamente da παννύχιος: 2, 308; 4, 7; 69; 1304; 1634) che esagera la reale visibilità della Corona in quanto la finalità qui non è la precisione astronomica, bensì la persuasione di Medea1048; persuasione che passa attraverso la solennità dell’exemplum, raggiunta con gli omerismi e con gli hapax – oltre al congetturale ἐνελίσσεται, ἀστερόεις e πάννυχος –, l’ultimo dei quali verrà poi ulteriormente amplificato da Nonno, D. 8, 99 (Στέφος) σύνδρομον Ἠελίοιο, συνέμπορον Ἠριγενείης e 25, 146 (Στέφανον) σύνδρομον Ἠελίοιο, συναντέλλοντα Σελήνῃ, dove la Corona diventa visibile ininterrottamente, di giorno e di notte.

espressione gode del raffronto con Apollonio e con Catull. 66, 59 in lumine caeli (cf. Luck 1966, p. 286), rendendo dunque preferibile l’integrazione stampata da Pfeiffer a quella di Massimilla 2010, p. 148, fr. 213, 61 εἰς ἅπ]α̣ν εν πολέεσσιν.

1045 Ebeling 1885, s.v. ἀστερόεις, secondo il quale il traslato sarebbe attestato in Il. 16, 134 s. Θώρηκα…/…ἀστερόεντα e 18, 369 s. δόμον…/… ἀστερόεντα, in riferimento, rispettivamente, alla corazza di Achille, fatalmente indossata da Patroclo, e alla dimora di Efesto. Nel primo caso, tuttavia, l’interpretazione scoliastica dell’aggettivo oscilla tra “raffigurante le stelle” e “luminoso” (ibid.), laddove il primo significato sarebbe corroborato sia dall’analogia con lo scudo di Achille, raffigurante i corpi celesti appunto, sia da Nonn. 25, 352 ἀστερόεσσαν…ἀσπίδα, dove lo scudo in oggetto, forgiato da Efesto come quello di Achille, raffigura a sua volta gli astri; in proposito, Hardie 1985, pp. 12 s.; nel caso della dimora di Efesto, invece, sarebbe più ragionevole propendere per il significato traslato di “luminoso”: questa dimora, in quanto anche fucina del dio, si presta più a brillare delle faville del maglio piuttosto che ad essere «“mit sternförmigen Verzierungen versehen”», come invece intende Handschur 1970, p. 59; contra, sch. ad l., p. 506, 23 Erbse ἀστερόεντα : λαμπρόν.

1046 Gillies 1928, p. 102.

1047 Ibid.

1048 Da qui la scelta di μέσῳ…αἰθέρι (v. 1002) e πάννυχος (v. 1004), che enfatizzano la visibilità della corona per dare lustro al premio accordato ad Arianna (sul solo πάννυχος, cf. Hunter 1989, p. 209) e per indurre Medea ad attendersi un premio altrettanto grandioso, due finalità che sfuggono a Vian - Delage 1980, p. 140.

225 Alla luce di questa concentrazione di omerismi vale la pena fermare l’attenzione su τέκμωρ (v. 1002), voce configurabile come “segno” linguistico della dipendenza di Apollonio tanto da Omero quanto da Arato. Si tratta della variante accolta nelle edizioni più recenti1049 in luogo di τέκμαρ,1050 ma senza spiegazione alcuna. Benché non sia sfuggito che τέκμωρ è forma attestata esclusivamente in Omero, la sua natura di omerismo non basta a provarne qui l’autenticità1051. Più persuasiva risulterà la constatazione che τέκμωρ, in quanto omerismo, si inserisce perfettamente in una sequenza versificatoria tutta intessuta di omerismi, vv. 1002 ss. φίλαντο…οἱ…/ ἀστερόεις…τόν τε κλείουσ’ Ἀριάδνης / πάννυχος. Si aggiunga inoltre che in Omero τέκμωρ figura di regola a fine verso1052, come qui in Apollonio (vd. pure 3, 493 e 4, 1335); il che è ancor più rilevante in considerazione del fatto che la variante τέκμαρ, invece, nel Rodio non occupa mai la sede finale del verso: 1, 499; 2, 412; 4, 483. La variante τέκμωρ allora, a lungo scartata sulla scorta di Ap. Rh. 1, 499 ἠδ’ ὡς ἔμπεδον αἰὲν ἐν αἰθέρι τέκμαρ ἔχουσιν1053 - da qui, per analogia, Ap. Rh. 3, 1002 ἀθάνατοι φίλαντο, μέσῳ δέ οἱ αἰθέρι τέκμαρ1054 -, si rende preferibile per due ragioni: 1. in quanto omerismo complementare alle contigue tessere omeriche; 2. in quanto collocato a fine verso, sede privilegiata per τέκμωρ già da Omero e da Apollonio mai riservata alla sua variante τέκμαρ.

La superiorità di τέκμωρ rispetto a τέκμαρ pare suffragata, inoltre, dai versi aratei sulla Corona di Arianna, vv. 71-73

αὐτοῦ κἀκεῖνος Στέφανος, τὸν ἀγαυὸν ἔθηκε σῆμ’ ἔμεναι Διόνυσος ἀποιχομένης Ἀριάδνης, νώτῳ ὕπο στρέφεται κεκμηότος εἰδώλοιο

1049 Vian - Delage 1980, p. 92, e Pompella 2006, p. 101; precedentemente, Wellauer 1828, p. 187, e Fränkel 1961, p. 152.

1050 Merkel 1853, p. 184; Mooney 1912, p. 278; Gillies 1928, p. 102; Ardizzoni 1958, p. 74; Vian 1961, p. 124; Pompella 1970, p. 74; Hunter 1989, p. 81.

1051 Diversamente, Wellauer 1828, p. 186, «τέκμαρ vulg. τέκμωρ Guelph. Vrat., quod ex usu Homerico recepi. Librarii formam sibi notiorem reposuerunt».

1052 Il. 7, 30; 9, 48; 418; 685; 13, 20; Od. 4, 373 e 466; eccezionalmente ad inizio verso in Il. 1, 526.

1053 Cf. Gillies 1928, p. 102, e Ardizzoni 1958, p. 214.

1054 Cf. Campbell 1983, p. 74.

226 dove la Corona funge da σῆμα di Arianna defunta, ovvero da “segno” nel duplice significato di “monumento funebre” e di “costellazione”1055. Entrambi i significati trovano attestazione in Omero, dove in particolare σῆμα “costellazione” sottolinea la “facoltà predittiva” dell’astro, in riferimento alla sua funzione di fornire segnali agli uomini; così Il. 22, 30 (Κύων Ὠρίωνος) λαμπρότατος μὲν ὅ γ’ἐστί, κακὸν δέ τε σῆμα τέτυκται (e s., καί τε φέρει πολλὸν πυρετὸν δειλοῖσι βροτοῖσιν)1056, la cui clausola sarà ripetuta in h. Hom. 33, 13 (Σελήνη) τέκμωρ δὲ βροτοῖς καὶ σῆμα τέτυκται. Nel luogo innodico si ripete, nella fattispecie per Selene, il valore di “segno” per gli uomini in riferimento ad un astro, “segno” espresso dalla dittologia sinonimica τέκμωρ…καὶ σῆμα. Ne discende che la sostituzione apolloniana dell’arateo σῆμα con τέκμωρ sarebbe avvenuta nel “segno” di Omero, dal quale risulta legittimata l’interscambiabilità dei due termini1057. La co-occorrenza di τέκμωρ e di σῆμα nell’inno non manca di presentare una seconda rilevanza. Dell’arateo ἀγαυὸν… σῆμα risalta infatti il riferimento dell’aggettivo ad un essere inanimato, precedentemente attestato soltanto in h. Hom. 18, 442 δῶρον ἀγαυόν e Pind. Pae. 9, 36 ἀγαυόν …θρόον. In particolare, nell’inno spicca il referente “dono”, utile a far rilucere dietro il ri-uso arateo dell’aggettivo riferito alla Corona il precedente status della Corona stessa, appunto quello di dono, di dono nuziale per Arianna. Non sarà casuale, allora, che all’arateo ἀγαυὸν…σῆμα, valorizzato dal precedente innodico, Apollonio sostituisca l’omerico τέκμωρ, che in àmbito astronomico risulta equivalente di σῆμα in un precedente a sua volta innodico. In sintesi, la sostituzione dell’arateo σῆμα con l’apolloniano τέκμωρ, supportata dall’accezione astronomica di “segno” presentata da entrambi i termini in un inno omerico, risulta significativa alla luce di ἀγαυόν, cioè dell’attributo arateo di σῆμα che, nel suo riferimento ad un essere inanimato, trova un pregnante precedente proprio in un inno omerico. L’operazione apolloniana si configurerà perciò come una dotta scelta di compenso, per così dire. In pratica, il precedente innodico dell’attributo arateo (ἀγαυόν), in virtù del suo raro riferimento de re, difficilmente poteva sfuggire ad un poeta-filologo come il Rodio, il quale vi avrà alluso sostituendo il suo sostantivo di riferimento (σῆμα) con un sinonimo (τέκμωρ), abilitato in quanto tale proprio da un altro inno omerico. Alla luce di questa corrispondenza tra l’arateo σῆμα e l’apolloniano τέκμωρ, di marca omerica entrambi, torna utile riconsiderare l’emendamento ἀστερόεν proposto da H. Fraenkel in luogo

1055 Kidd 1997, p. 205, e Poochigian 2010, p. 47.

1056 Radici Colace 2002, p. 109.

1057 Sulla sinonimia dei due termini, vd. pure Eur. Hec. 1273 Κυνὸς ταλαίνης σῆμα, ναυτίλοις τέκμαρ, dove però figura τέκμαρ e non l’omerico τέκμωρ; registra il luogo euripideo Gillies 1928, p. 102.

227 del tràdito Ap. Rh. 3, 1003 ἀστερόεις; emendamento però motivato con la breve osservazione che «stilistisch besser als ἀστερόεις wäre –ρόεν; die maskuline Endung könnte durch Angleichung an das Folgende Wort in den Text geraten sein».1058 In primo luogo, gioverà ricordare che l'arateo ἀγαυόν è inteso dallo scolio ad l. nel senso di “fulgido” (sch. Arat. 71, p.107, 10 Martin ἀγαυὸν…τουτέστι λαμπρόν), senso che ἀστερόεν restituirebbe appieno, in considerazione del valore di “fornito di stelle” e, dunque, del valore di “fulgido” che l’aggettivo ha in Arato in riferimento a costellazioni, quali l’Eridano1059 e i Pesci1060. In secondo luogo, la superiorità stilistica di ἀστερόεν rispetto al tràdito ἀστερόεις, appena adombrata da Fraenkel, acquista ora spessore anzitutto in base alla constatazione che i vv. 1001 s., 1003 s. e 1005-1007 sono tutti legati da enjambement (argomento e silentio di Fränkel?). Interviene poi il raffronto con Arat. 71 s. ἀγαυὸν…/ σῆμα, del quale Ap. Rh. 3, 1002 s. τέκμωρ / ἀστερόεν riprodurrà l’enjambement (cf. pure Arat. 71 e 73 Στέφανος…/… ὕπο στρέφεται ~ Ap. Rh. 3, 1003 s. στέφανος…/…ἐνελίσσεται), previa sostituzione dell’ordine arateo aggettivo+sostantivo col nuovo ordine sostantivo+aggettivo. Si aggiunga pure che la variazione dell’ordo apolloniano si presta a recare un’ulteriore traccia omerica. Non sfuggirà, infatti, che in Omero τέκμωρ, di regola a fine verso come qui in Apollonio, occorre ripetutamente in enjambement col verso successivo (Il. 7, 30; 9, 48; 418; 685; Od. 4, 373; 466), così come l’aggettivo ἀστερόεις, ove non sia epitheton ornans del cielo, figura in enjambement col sostantivo del verso precedente, Il. 16, 134 s. e 18, 369 s. L’emendamento di Fraenkel è stato tuttavia cassato come «peu vraisemblable» da Vian, sulla scorta di Nonn. D. 47, 451 ἀστερόεν…στέφος,1061 raffronto ritenuto funzionale dall’editore francese al mantenimento di Ap. Rh. 3, 1003 ἀστερόεις στέφανος1062; ma a torto, come si evincerà qui di séguito, a partire proprio da Nonn. D. 47, 451 s. ἀλλά σοι ἀστερόεν τελέσω στέφος, ὥς κεν ἀκούσῇς εὐνέτις αἰγλήεσσα φιλοστεφάνου Διονύσου

1058 Fränkel 1968, pp. 411 s.

1059 V. 358 Ποταμοῦ…ἀστερόεντος ~ Nonn. 2, 327 ἀστερόεντος…Ἠριδανοῖο.

1060 V. 548 Ἰχθύες ἀστερόεντες ~ Nonn. 6, 244; 23, 302; 38, 369.

1061 Vian - Delage 1980, p. 93 n. 1.

1062 Analogamente, Accorinti 20082, p. 558, coglie in Nonn. 47, 451 ἀστερόεν…στέφος una probabile eco di Ap. Rh. 3, 1003 ἀστερόεις στέφανος.

228 dove Dioniso consola Arianna abbandonata da Teseo e la chiede in sposa, promettendo di farle una corona di stelle. Il catasterismo della Corona è qui però solo preannunciato ed appare rilevante che come catasterismo non ancora compiuto esso era stato ricordato già nel finale del trentatreesimo canto, parimenti in contesto consolatorio. Alla vergine Calcomede, pronta a gettarsi in mare pur di sfuggire al bramoso Morreo, compare Teti, che la distoglie dal proposito suicida promettendole che il serpente, custode della sua verginità, sarà catasterizzato da Dioniso e da questi collocato accanto alla Corona di Arianna, non appena essa sarà trasformata in costellazione; D. 33, 373 s. ἐγγὺς ἑοῦ Στεφάνοιο φεραυγέος, εὗτε τελέσσῃ ἀστερόεν μέγα σῆμα Κυδωναίης Ἀριάδνης.

Qui è per la prima volta preannunciato il catasterismo della Corona, che viene qualificata come ἀστερόεν…σῆμα di Arianna. L’attributo ἀστερόεν e il sostantivo σῆμα vengono a formare una iunctura nuova, nella quale risalta una doppia matrice: quella apolloniana dell’attributo, quella aratea del sostantivo1063. Tale iunctura non manca di richiamarsi pure ad Omero, già modello stilistico della Corona sia di Arato sia di Apollonio. Si noterà infatti l’aggiunta di μέγα e l’occorrenza di μέγα σῆμα in Od. 23, 188 in riferimento al talamo di Ulisse e Penelope, così definito in quanto la particolare fattura, nota soltanto ai due coniugi, viene riferita dall’eroe a Penelope come prova decisiva del proprio ritorno ad Itaca. Sia in Omero sia in Nonno, dunque, i rispettivi referenti, il talamo e la Corona, si pongono come irrefutabili testimoni d’amore, dell’amore di Ulisse e Penelope da un lato, di Arianna e Bacco dall’altro. Nel luogo odissiaco risalta pure la clausola σῆμα τέτυκται, cioè la stessa clausola di h. Hom. 33, 13, luogo sopra citato per la co-occorrenza di τέκμωρ e di σῆμα, utile a spiegare la sostituzione dell’arateo σῆμα con l’apolloniano τέκμωρ. Proprio in relazione al σῆμα di Arato e al τέκμωρ di Apollonio, il μέγα σῆμα di Nonno viene infine a rinviare ad Hom. Il. 1, 525 s., dove il nutus di Zeus è detto μέγιστον / τέκμωρ di quanto è promesso dal dio e che mai rimane incompiuto, v. 527 ἀτελεύτητον: attributo da correlare con Nonn. 33, 373 τελέσσῃ, che forse non a caso è anche congiuntivo omerico. Questa qualificazione della Corona di Arianna come ἀστερόεν…σῆμα si presta a spiegare il successivo ἀστερόεν…στέφος (47, 451) come una soluzione di compendio: il neutro στέφος

1063 La ripresa dell’aggettivo apolloniano in riferimento alla Corona si viene ad inserire in un più sistematico influsso strutturale, tematico e verbale del terzo libro delle Argonautiche sull’epillio nonniano di Morreo e Calcomede, con particolare riguardo alla sezione testuale compresa tra 33, 21 e 34, 102; in proposito, Montenz 2004. La ripetizione del σῆμα arateo è invece sostanziata da precisi riferimenti ad Arato e ai relativi scolî in Nonn. 48, 969-973, per i quali vd. infra.

229 da un lato presuppone il neutro di 33, 374 ἀστερόεν…σῆμα (sc. Στέφανος); dall’altro, visto il contesto delle nozze tra Arianna e Bacco, στέφος, rispetto al maschile στέφανος, è congruo con altre due occorrenze del neutro in riferimento alla corona nuziale di Arianna; 8, 98 στέφος…ἐπιχθονίης Ἀριάδνης, corona della quale il demone dell’Invidia presagisce la futura trasformazione in astro definendola ἀστερόφοιτον; 47, 326 γάμιον στέφος, corona che Arianna vede nel sogno in cui va in sposa a Teseo. In definitiva, il neutro στέφος di Nonn. D. 47, 451 risulta corrispondente al neutro σῆμα di 33, 374 e, in quanto precedentemente riferito alla corona nuziale di Arianna, è qui perfettamente integrato nel contesto delle nozze di Bacco e Arianna. Di conseguenza, risulta inficiato il sostegno di Nonn. 47, 451 ἀστερόεν…στέφος a favore del mantenimento del tràdito Ap. Rh. 3, 1003 ἀστερόεις (sc. στέφανος); per converso, Nonn. 33, 374 ἀστερόεν…σῆμα, da presupporre a monte di 47, 451 ἀστερόεν…στέφος, rende l’emendamento ἀστερόεν (sc. τέκμωρ) di Fraenkel tutt’altro che inverosimile; anzi preferibile, in considerazione pure dei suoi pregi stilistici di cui sopra. Il ritorno al σῆμα arateo di Nonn. D. 33, 374, dopo il τέκμωρ apolloniano, sarà infine da annoverare tra le numerose corrispondenze con Arato e con i relativi scolî nell’episodio della realizzazione del catasterismo della Corona nel finale delle Dionisiache; 48, 969-973

οὐδὲ Κυδωναίων ἐπελήσατο Βάκχος ἐρώτων, ἀλλὰ καὶ ὀλλυμένης προτέρης ἐμνήσατο νύμφης. καὶ Στέφανον περίκυκλον ἀποιχομένης Ἀριάδνης μάρτυν ἑῆς φιλότητος ἀνεστήριξεν Ὀλύμπῳ, ἄγγελον οὐ λήγοντα φιλοστεφάνων ὑμεναίων.

Il v. 971 ripete esattamente la clausola di Arat. 72 ἀποιχομένης Ἀριάδνης (diversamente, D. 8, 98 e 47, 706 ἐπιχθονίης Ἀριάδνης), ripetizione che trova motivo nel compimento del catasterismo, in precedenza solo preannunciato. Quanto ad ἐμνήσατο (v. 970), esso rinvierà da un lato all’accusa di dimenticanza mossa da Arianna a Dioniso, 48, 533 ἀμνήμων Διόνυσε τεῶν προτέρων ὑμεναίων (ἀμνήμων… προτέρων ~ προτέρης ἐμνήσατο); dall’altro, alla definizione della Corona quale μνημόσυνον e μνήμῃ negli scolî aratei1064, rispetto ai quali però la costellazione testimonia qui l’amore di Arianna, non quello di Dioniso; sch. Arat. 71, p. 106, 13 s. M. καταστερισθῆναι…ἐπὶ μνήμῃ τῆς Διονύσου φιλίας, con aggiunta spiegazione di Διονύσου quale genitivo soggettivo, sch. Arat. 73, p. 108, 21 s. σημεῖον…τοῦ πρὸς αὐτὴν

1064 Sch. Arat. 71, p. 106, 9 e 13 Martin.

230 ἔρωτος ~ v. 972 μάρτυν ἑῆς φιλότητος. La corrispondenza di Nonno con lo scolio risalta pure nel ricorso ad un composto di στερίζω (sch. Arat. 71, p. 106, 9 M. κατηστέρισε ~ v. 972 ἀνεστήριξεν), previo mutamento del prefisso, funzionale a selezionare ἀνεστήριξεν quale hapax rispetto al verbo semplice e ad altri suoi composti. Poiché il catasterismo della Corona riveste qui un forte valore simbolico – la sua attuazione da parte di Dioniso, in considerazione del fatto che i catasterismi erano stati finora prerogativa del solo Zeus, fa sì che lo stesso Dioniso ottenga così il diritto di entrare nel pantheon dei Celesti accanto al padre –1065 l’hapax acquista ora il valore aggiunto di dare lustro alla legittimazione della divinità di Dioniso. L’acquisizione da parte di Dioniso della prerogativa di Zeus di compiere catasterismi non mancherà poi di ricordare l’associazione che gli scolî aratei fanno tra l’ἔθηκε di Dioniso (Arat. 71) e l’ἐστήριξε di Zeus (Arat. 10); sch. Arat. 73, p. 109, 1-4 M. (Ἄρατος) προειπὼν γὰρ περὶ τοῦ Διός (10)·”αὐτὸς τάδε σήματ’ ἐν οὐρανῷ ἐστήριξε”, νῦν τὸν Διόνυσον λέγει τὸν Στέφανον ἀναθεῖναι τῷ οὐρανῷ. Alla correlazione tra l’ἐστήριξε di Zeus e l’ἔθηκε di Dioniso si aggiunge qui la sostituzione dell’arateo ἔθηκε con lo scoliastico ἀναθεῖναι. L’ἀνεστήριξεν di Nonno contamina dunque il verbo semplice di Arato, funzionale a corrobare l’equiparazione scoliastica di Dioniso a Zeus, con il prefisso del composto scoliastico, cui segue la sostituzione di τῷ οὐρανῷ con l’affine Ὀλύμπῳ, sch. Arat. 73, p. 109, 3 s. M. ἀναθεῖναι τῷ οὐρανῷ ~ Nonn. D. 48, 972 ἀνεστήριξεν Ὀλύμπῳ. Quanto poi a μάρτυν (v. 972), il suo valore di «signe attestant…un sentiment»1066 rinvierà al segno di Arat. 71 σῆμα.

In conclusione, la Corona di Arianna risulta essere il s e g n o evidente di un doppio legame, del legame erotico tra Bacco e Arianna da un lato; del legame intertestuale tra Arato, Apollonio e Nonno dall’altro. La principale convergenza fra i tre autori consiste proprio nella presentazione della Corona come “segno” (Arat. 72 e Nonn. D. 33, 374 σῆμα; Ap. Rh. 3, 1002 τέκμωρ) e in tutti e tre i casi ciò avviene nel segno, occorre dire, di Omero. Il σῆμα arateo somma infatti i due significati di “monumento funerario” e di “costellazione” che il sostantivo palesa in Omero. Ad esso Apollonio sostituisce τέκμωρ, variante grafica omerica da preferire a τέκμαρ in considerazione della concentrazione di omerismi che caratterizza i vv. 1002-1004 e avvalorata quale equivalente di σῆμα in àmbito astronomico da h. Hom. 33, 13. Con Nonn. 33, 374 si ritorna poi al σῆμα di Arato, la dipendenza dal quale è particolarmente evidente nel finale dell’opera (48, 969-973), dove Dioniso porta a

1065 Shorrock 2001, pp. 203 s.

1066 Vian 1997, p. 151.

231 compimento il catasterismo della Corona, in precedenza solo preannunciato. Nel luogo nonniano risaltano inoltre i due attributi di σῆμα: da un lato μέγα, il cui rinvio ad Od. 23, 188 μέγα σῆμα rimarca la funzione di “teste d’amore” comune al talamo di Ulisse e di Penelope e alla Corona di Arianna e rinnova al contempo l’operazione già aratea ed apolloniana di impreziosire la figurazione della Corona con omerismi; dall’altro ἀστερόεν, utile ora a riabilitare l’emendamento di Ap. Rh. 3, 1003 ἀστερόεις (sc. στέφανος) in ἀστερόεν (sc. τέκμωρ, in enjambement) avanzato da H. Fränkel. Questo emendamento, oltre che da Nonno, prende valore dalla constatazione che le parole di Giasone, profferite nei vv. 1001-1007, sono divisibili in due microsezioni – l’exemplum mitico, vv. 1001-1004, e la sua attualizzazione in riferimento a Medea, vv. 1005-1007 –, caratterizzata ciascuna dalla concatenazione dei versi in enjambement (ad eccezione dei vv. 1004 s., che distinguono la prima microsezione dalla seconda). Di conseguenza, l’enjambement dei vv. 1002 s. τέκμωρ / ἀστερόεν, restituito dall’emendamento di Fränkel, si integra perfettamente nella struttura retorica del passo e viene inoltre a riformulare l’enjambement di Arat. 71 s. ἀγαυὸν…/ σῆμα. Il “segno” della Corona, dunque, reca chiari segni linguistici della dipendenza di Apollonio e di Nonno da Arato, del quale i due ripropongono pure l’ascendenza omerica delle risoluzioni espressive adottate per la Corona. Questi segni linguistici, “fondativi” nell’àmbito dell’analisi intertestuale1067, si rivelano tali in rapporto congiunto alla critica testuale, avvalorando nella fattispecie un emendamento che risulta ora illuminato da riscontro interno ed esterno al dettato apolloniano e la cui adozione implica, infine, la seguente traduzione dei vv. 1001- 1004: “l’amarono perfino gli immortali e nel bel mezzo dell’etere la Corona che chiamano di Arianna, segno stellato di lei, ruota tutta la notte tra i corpi celesti”.

1067 Cf. Conte 2014, pp. 105 s.

232 ZUSAMMENFASSUNG

Das Fehlen eines Kommentars zu Ciceros Aratea und neuer Studien über die dichterische Sprache Ciceros ist der Grund dafür, dass wir unsere Arbeit in zwei Teile (Kommentar und drei Vertiefungen) gegliedert haben. Diese Zweiteilung soll zeigen, wie man von den im Kommentar gesammelten Daten zu Vertiefungen kommen kann, die die Besonderheiten und den Einfluss der indirekten Überlieferung Fragmente von Ciceros Aratea auf die nachfolgende lateinische Dichtung illustrieren.

Im Folgenden fassen wir zuerst die wichtigsten Erkenntnisse zu den einzelnen Fragmenten zusammen, dann die Ergebnisse der Vertiefungen.

Das erste Fragment führt am Amfang des Werkes die traditionelle Musen ein, die Arat erst später (V. 17) nennt. Die Bedeutung des ciceronischen Musarum pendelt zwischen dem konkreten “Musen” und dem figürlichen “Gesang”. Die zweite Bedeutung scheint uns wahrscheinlicher, weil das folgende Wort, primordia, in der archaischen Dichtung die Bedeutung “Anfang”, nicht “Ursprung” hat.

Eine ähnliche Ambivalenz finden wir im zweiten Fragment, wo in dem Paar tempestas…vetustas die Bedeutung von tempestas bisher nicht geklärt werden konnte. Gegen die Synonymie von tempestas = vetustas als “Zeit” wird im Kommentar anhand einer Analyse des Paares sowohl in Ciceros Prosa als auch in der nachfolgenden lateinischen Dichtung für die Bedeutung von tempestas als “Unwetter” argumentiert. Das Fragment besitzt auch eine akkurate rhetorische Struktur, deren Feierlichkeit dem Inhalt entspricht. Cicero bestätigt hier die Ewigkeit der Welt (s. unsere Argumente für quem = mundum) und diese Erweiterung (im Vergleich zu Arat) liefert auch die Begründung für den feierlichen Ton des Fragmentes.

Auch das dritte Fragment ist stilistisch genau gearbeitet (Allitterationen und noctesque diesque als episches Syndeton). Ziel ist es, die schnelle und ewige Bewegung der Sterne auszudrücken und die hier realisierte Variante eines “goldenen Verses” zu markieren. Gegen trahuntur als Verbesserung des überlieferten feruntur stehen der Parallelismus labor – fero in der Dichtung Ciceros und des Lukrez sowie die Wiederholung von feruntur in Bezug auf die Fixsterne.

Das vierte handelt von den zwei Himmelspolen. Ihre äußerste Position ist durch die Rahmensperrung extremus…vertex ausgedrückt, während das Zahlwort duplex auf die Achse

233 (duplici…cardine) übertragen ist. Im Folgenden wird erklärt, warum der südliche Pol unsichtbar ist.

Das fünfte spiegelt Ciceros Stolz darauf wider, den lateinischen astronomischen Wortschatz zu beherrschen. Hier betreffen Septem…Triones nur die sieben Sterne der Großen Bären, nicht die beiden Bärinnen. Weil das folgende Fragment (Hsg. Soubiran) zuerst den Kleinen Bär und dann den Großen Bär auf griechisch nennt (bzw. Kynosura und Helike), scheint die umgekehrte Reihenfolge der beiden Fragmente überzeugender (Hsg. Ewbank), wie sie auch in Cic. nat. deor. 2, 105 zitiert sind.

Im siebenten wird gesagt, wie die beiden Bärinnen den Seefahrern zur Orientierung dienen, genauer: Kynosura den Phönikiern und Helike den Griechen. Besse als die Entsprechung cursu interiore – brevi…orbe ist cursu…brevi – interiore…orbe (vgl. Manil. 1, 299 angusto Cynosura brevis torquetur in orbe : Cic. (Cynosura) cursu…brevi ~ Manil. Cynosura brevis; Cic. interiore… orbe ~ Manil. angusto…in orbe; Cic. convertitur ~ Manil. torquetur). Man füge hinzu Hor. sat. 2, 6, 26 f. bruma nivalem / interiore diem gyro trahit; Cic. cursu…brevi – interiore…orbe ~ Hor. nivalem…diem – interiore gyro, wo interior als Attribut zu gyrus als

Synonym zu orbis (“”) wiederholt ist. Vgl. außerdem Cic. brevi mit Hor. bruma < brevissima dies und der Erklärung der Scholiasten trahit = brevem facit.

Im achten wird der Drache beschrieben, der sich zwischen den Bärinnen windet. Wegen der Analogie des himmlischen Tieres mit einem Fluss (rapido cum gurgite, d. h. tortuoso cursu) ist die Variante retorquens der Variante revolvens vorzuziehen. Den schon überzeugenden Argumenten dafür (die Sperrung torvus – retorquens spielt auf die etymologische Verbindung torvus – torqueo an; in die phonische Struktur fügt sich retorquens besser ein als revolvens) lassen sich zwei neue loci similes hinzufügen (Stat. Theb. 5, 520 f. ~ Verg. georg. 3, 433 f. und Claud. got. 65 f.). Gegen die Verbesserung flexo (sc. corpore) aus dem überlieferten flexos (sc. sinus) vgl. jetzt Prop. 4, 6, 35; Ov. met. 9, 64 und 15, 689; Manil. 1, 692 und 5, 14.

Die Beschreibung des Drachen fährt im neunten Fragment fort. Der Vergleich mit Arat zeigt, dass Cicero das Original erweitert und die Leuchtkraft der Augen des Drachen hervorhebt. Die Allitteration fervida lumina flagrant scheint Acc. trag. 443 R.3 (sc. aper) frigit saetas rubore ex oculis fulgens flammeo umzuformulieren, wo ähnlich vom Wildschwein gesagt wird, dass es aus den Augen ein brennendes Leuchten ausstrahle. Die ciceronianische Allitteration ist wiederum später von Vergil aufgenommen und umformuliert worden, bei dem (Aen. 7, 397 f. und 9, 72) sie die Wildheit durch die Augen ausdrückt.

234 Das zehnte Fragment behandelt das schnell vorübergehende Verschwinden des Drachenhauptes unten dem Horizont. Cicero distanziert sich von Arat und zeigt eine Abhängigkeit von den Scholien, die die verwendete Erklärung zum Attalos zuschreiben. Das überlieferte admiscetur ist ebenfalls in einem Scholion belegt, so dass die gennante Abhängigkeit weiter wahrscheinlich gemacht warden kann.

Das elfte handelt von dem “Knienden”, der von der Last seiner Mühen in die Knie gesunken ist. Ciceros Übersetzung pathetisiert die Darstellung dieses Sternbildes, indem sie seine Müdigkeit und seinen Gram herausgreift. Das nächste Fragment greift die etymologische Verbindung zwischen dem Namen des Sternbildes und seiner Haltung auf den Knien auf.

Im dreizehnten finden wir den Kranz Ariadnes, den Dionysos als leuchtendes Symbol für Ariadne an den Himmel warf. Cicero verstärkt das Element der Leuchtkraft, worin er wieder dem betreffenden Scholion folgt.

Es folgt der Schlangenträger, für den Cicero mit claro…nomine darauf verweist, dass seine Bezeichnung sich als sprechender Name eignet. Weil clarus normalerweise für die Leuchtkraft benutzt ist, hebt dieses Attribut auch auf diese Eigentümlichkeit des Sternbildes ab. Folgend wird beschrieben, wie der Schlangenträger von der Schlange gefesselt ist und mit beiden Füßen auf dem Skorpion steht. Ciceros Wörter spiegeln nicht nur die Verflechtung der beiden Sternbilder, sondern auch ihren gegenseitigen Kampf wider.

Im sechszehnten folgt der Bärenhüter, den man auch den “Wagenlenker” nennt, wenn man die Bärinnen als Wagen auffasst. Die doppelten Benennungen sind auch im ordo verborum widergespielt. Hier finden wir nochmals nomine claro, das, wie für den Schlangenträger, die Eigenschaft des Names Arcturus als eines sprechenden, den Ruhm und die Leuchtkraft dieses Sternes betont. Im V. 5 ist porro fertur vorzuziehen, während splendenti corpore eine Anfügung Ciceros für die Jungfrau ist.

Dann folgen drei Fragmente (17-19), die auf nur fünf Verse der Digression Arats über Dike (96-136) zurückgeben, welche selbst wiederum auf Hesiods Weltaltermythos (Op. 106-201) anspielt. Im siebzehnten führt Cicero den Begriff der Frugalität ein, die die goldene Rasse spontan wählt. Ziel dieser Neuerung ist es wahrscheinlich, ein moralisches Beispiel einzuführen. Dann verdrängt Cicero mit seiner eisernen Rasse Arats eherne Rasse, und das hat auf der einen Seit die poetologische Funktion, Hesiods eiserne Rasse anklingen zu lassen; auf der anderen Seit die politische Funktion, die zeitgenössischen Kämpfen abzurufen, insofern schon Hesiod mit dem Hinweis auf die eiserne Rasse seine gegeneinander kämpfenden

235 Zeitgenossen ermahnt hatte. Diese bestimmte Funktion erklärt auch, warum Cicero Arats μάχαιρα, was nur die Gewalt auf der Straße bezeichnet, mit ensis, der Kriegswaffe schlechthin, übersetzt. In Bezug auf den ersten Fleischverbrauch pathetisiert Cicero durch Nennung des jungen Tieres (iuvencum) die Tötung der Pflugochse. Wegen solcher Untaten fliegt Dike zum Himmel, wo sie zum Sternbild der Jungfrau wird. Über ihren Schultern leuchtet Vindemiatrix (Fr. 20).

Das einundzwanzigste Fragment handelt von dem dritten Stern neben dem Großen Bär. Das Zahlwort tertia ist vom Scholion abhängig, ebenso die Spezifizierung sub cauda. Folgend ist der Große Bär der Anhaltspunkt für die Lokalisierung von Zwillingen, Krebs und Löwe. Besonders erweitert Cicero die Leuchtkraft des Löwen (tremulam quatiens e corpore flammam), wahrscheinlich in Bezug auf den Stern Regulus, der als besonders heller Stern vom Scholion gennant wird.

Mit Etesischen (Fr. 23), der Seefahrt feindlichen Winden, wird eine Schiffbruchsszene eingeleitet (Fr. 24). Diese Szene ist eine Erweiterung Ciceros, was die Zuordnung des Fragmentes problematisch gemacht hat. Weil später sowohl Germanicus als auch Avienus die gleiche Erweiterung nach dem Fragment über die Böcklein aufweisen, ist die beste Lösung die von Buescu vorgeschlagene, der dieses Fragment eben hinter das Fragment über die Böcklein setzt.

Im fünfundzwanzigsten Fragment finden wir die Beschreibung des Fuhrmannes. Die Geneigtheit seines Körpers ist von Cicero im Sinne von “sich vorbeugen” spezifiziert. Diese Präzisierung scheint ebenfalls vom Scholion abhängig zu sein. Aus dem Scholion kommt auch der Singular caput gegen Arats Plural κάρηνα. Hier zeigt das Attribut clarus wiederum die doppelte Bedeutung von “leuchtend” und “berühmt”. Es wird nämlich für die Ziege benutzt, die als Nährmutter von Zeus mythologisch berühmt war. Dem folgend erkennt man den Unterschied zwischen der leuchtenden Ziege und den nur dunkel schimmernden Böcklein (Fr. 26).

Die Rahmensperrung corniger…Taurus verdeutlicht sowohl den Anklang an den Vers über den Stier als auch Ciceros Anfügung corpore valido, die die hauptsächliche Qualität des Tieres aüßert (Fr. 27). Auf dem Haupt des Stieres befinden sich die Hyaden, deren etymologische Verbindung mit dem Regen von Cicero, Vergilius und Ovid akzeptiert wird (Fr. 28). Dann folgen drei Fragmente (Frr. 29-31) über Kepheus und seine Familie. Ciceros Erwähnung der duster schimmernden Kassiopeia zeigt, dass er der Interpretation des

236 Hipparchos folgt. In der Darstellung Andromedas, die dem Blick ihrer Mutter entgeht, sollte ein Einfluss der Ikonographie auf Ciceros Übersetzung zu greifen sein. Hier ist die Verbesserung von Plasberg aspectu dem überlieferten aspectum vorzuziehen, weil das Verb aufugiens intransitiv ist. Es folgt Pegasus, das Pferd, das mit Perseus, Andromedas Erretter, verbunden ist. Cicero vermerkt dessen mythologischen Ruhm (Equus ille) und dessen (wie mehrfach schon gesehen im Vergleich zu Arat hinzugefügte) Leuchtkraft (fulgore micanti). Eine Erweiterung Ciceros findet man im V. 4, wo aeternum…nodum vielleicht auf die Ketten Andromedas anspielt. So bleibt sie auch im Himmel verknüpft.

Schließlich folgt die Beschreibung des Widders, dessen contorta cornua ein weiterer Zusatz Ciceros sind (Fr. 33).

Zusammenfassend finden wir in der Übersetzung Ciceros zwei wiederkehrende Tendenzen: 1. Die Pathetisierung, die von Anfang an die lateinische Dichtung charakterisiert und hier wahrscheinlich darauf gerichtet ist, Arats statische Beschreibungen zu animieren (vgl. Quint. inst. 10, 1, 55 Arati materia motu caret)1068; 2. Die häufigen Erweiterungen zur Lechtkraft, die die astronomische Realien manchmal verfälschen. Die beiden Tendenzen zweigen oft aus den Scholien ab. In diesem Sinne bezeugt die Übersetzung Ciceros eine tiefe Verbindung zwischen Dichtung und philologischer Exegese, die zum Teil vom Stoff notwendig gemacht wird und zum Teil typisch für die lateinische Dichtung ist. Cicero lässt sich somit klar als hellenistischer Dichter erkennen.

Unsere Absicht, die im Kommentar gesammelten Daten für ein Studium über den Einfluss der Aratea Ciceros auf die Entwicklung der dichterischen Sprache zu benutzen, hat dazu geführt, dass der gelieferte Kommentar länger ist als Kommentare normalerweise sind. Aber nur aufgrund der großräumigen Probeentnahme von loci similes konnten wir die angeschlossenen Vertiefungen realisieren, die einen ersten Beweis für die Wichtigkeit der Aratea Ciceros geben.

In der ersten Vertiefung, La coppia tempestas-vetustas da Cicerone a Seneca e le sue metamorfosi nella poesia augustea, wird zuerst die Bedeutung “Unwetter” für tempestas erklärt; dann wird illustriert, wie tempestas “Unwetter” und vetustas “Zeit” zwei zusammen wiederkehrende destruktive Ursachen sein können. Zur Überprüfung der Bedeutung “Unwetter” wird Ciceros Prosa analysiert, wo tempestas und vetustas ebenfalls zusammen auftreten. Eine besonders wichtige Rolle spielt Cic. leg. 1, 2, wo das Paar ein Symbol der

1068 Vgl. Buescu 1966, S. 35, und Soubiran 1979, S. 169 f.

237 Dichtung, d. h. die Marianische Eiche, nicht vernichten kann. Von hier aus kommt man zu zwei dichterischen Interpretationen des Paares tempestas-vetustas. Verg. georg. 2, 290-295 geht auf Cicero zurück und benutzt hiemes, flabra und imbres als Interpretatio der ciceronianischen tempestas, multi nepotes und multa virum saecula als Interpretatio der ciceronianischen vetustas. Vergils Anspielung auf Cicero wird von dem Aspekt der Baumartigkeit des Referenten abgesichert: Ciceros Eiche wird von einer Steineiche verdrängt. Aber Ciceros Eiche ist vor allem ein poetisches Emblem, das die Ewigkeit der Dichtung symbolisiert. Deswegen benutzt Horaz, carm. 3, 30, 1-5 gerade für das Symbol seiner Dichtung (monumentum) eine neue Interpretation des Paares tempestas-vetustas, die gleichzeitig an Vergils Interpretationen erinnert. Hier findet man iimber edax und Aquilo impotens statt tempestas; innumerabilis annorum series und fuga temporum statt vetustas. Dann liest man in Verg. Aen. 12, 684-686 auf der einen Seit vento und imber statt tempestas; auf der anderen Seit gerade vetustas. Erst Sen. dial. 11, 18, 2 kehrt zum Paar tempestas- vetustas zurück. Hier ist das Paar nach Cic. leg. 1, 2 wieder in Prosa benutzt, Seneca zeugt aber auch, dass er die von Ciceros Prosastelle ausgehende Entwichlung dieses Paares in der Dichtung sehr gut kennt. Wir finden nämlich in Seneca tempestas-vetustas für ein neues monumentum, das wie in Horaz die Dichtung symbolisiert.

In der zweiten Vertiefung wird analysiert, wie Ariadnes Kranz nach Ciceros Übersetzung ein wiederkehrendes dichterisches Motiv wird, das mit Ariadnes elegischen Figur eng verbunden ist. Ganz wichtig scheint die erste Darstellung dieses Kranz in Ciceros Aratea (Fr. 13), wo er im Vergleich zu Arat und in Abhängigkeit vom Arateischen Scholion die Leuchtkraft des Sternes hervorhebt (eximio…fulgore). Diese mit Ariadnes und ihres Kranzes mythologischen Rühm verbundene Qualität führt zum Attribut clara, das von Ovid (met. 8, 178) an sowohl in Germanicus (V. 71) als auch in Manilius (5, 253) die doppelte Bedeutung “leuchtend” und “berühmt” erhält. Wie schon Cicero vom Arateischen Scholion abhängig ist, zeigen die gleiche Abhängigkeit auch Ovid, Manilius, Germanicus und Avienus. Ovid und Manilius schreiben Ariadnes Kranz als monumenta um, dabei sehr wahrscheinlich der scholiastischen Erklärung von Arat. 72 σῆμα mit μνημόσυνον und μνήμη folgend. Germanicus modifiziert durch sein Bacchus…memor, während Avienus durch sein monumentum den scholiastischen Singular wieder aufnimmt. Neben dem Wortfeld “Erinnerung”, das für den Referent “Ariadnes Kranz” thematisch geeignet ist, spielt die dichterische Erinnerung eine wichtige Rolle, das heißt die memoria verborum, die hier als meisterhafte Hinweistechnik erscheint. So wird nicht nur gemäß dem alexandrinischen Prinzip von Dichter als Philologhen Nachahmung mit Auslegung gepaart, sondern es zeugt jede dichterische Darstellung des Kranzes der

238 Ariadne von genauer Kennerschaft der vorherigeren Darstellungen und ihrer Überwindung durch lexikalische, rhetorische und metrische Elemente, die von der literarischen Tradition geerbt und gleichzeitig im Vergleich zur Tradition neu sind. So kommt man zum Beispiel von Ciceros goldenem Vers bis zu Vergils Variante, der die Enallage rhetorisch hinzugefügt ist. Später verbindet Germanicus Ciceros goldenen Vers mit Ovids ambivalentem clara und einer neuen Enallage, die auf Vergil anspielt.

In der dritten und letzten Vertiefung wird die griechische dichterische Darstellungen des Kranzes der Ariadne analysiert. Nach Arats σῆμα benutzt Apollonius in Bezug auf den Kranz τέκμωρ. Die astronomische Synonymie der zwei Wörter wird von einem der so genannten Homerischen Hymnen abgesichert. Das scheint interessant, weil das arateisches Attribut zu σῆμα in seiner Nutzung de re gerade in einem anderen Homerischen Hymnus einen wichtigen Zeuge findet. Das arateisches σῆμα ἀγαυόν wird von Apollonius vollständig umformuliert und aufgenommen, wenn wir Fränkels Verbesserung ἀστερόεν (sc. τέκμωρ) statt des überlieferten ἀστερόεις (sc. στέφανος) akzeptieren. Diese Verbesserung wird hier durch eine dopple Feststellung gestützt: 1. τέκμωρ / ἀστερόεν (Ap. Rh. 3, 1002 f.) integriert mit enjambement die rhetorische Struktur der Verse 1001-1006, die eine Reihe von enjambement enthalten; 2. Apollonius’ enjambement τέκμωρ / ἀστερόεν reproduziert Arats enjambement σῆμα…/ ἀγαυόν (V. 71 f.). Außerdem zeigen beide Verfasser, dass sie lexikalisch von Homer abhängig sind. Zur Überprüfung dieser Abhängigkeit stellt Nonn. D. 33, 374 den Kranz der Ariadne als ἀστερόεν μέγα σῆμα dar. Mit diesen Wörtern spielt er sowohl auf Homer, den schon Arat und Apollonius aufgegriffen hatten, als auch auf Arat (σῆμα) und Apollonius (ἀστερόεν) an. Die Wahl von σῆμα und τέκμωρ als “signum” in Bezug auf Ariadnes Kranz zeigt sich damit auch als “Zeichen” der Abhängigkeit des Arat, des Apollonius und des Nonnus von Homer.

239 BIBLIOGRAFIA

Abry 1993: Josèphe-Henriette Abry, Manilius et Germanicus, une énigme historique et littéraire, “REL” 71, pp. 179-202.

Abry 2007: J.-H. Abry, Manilius and Aratus: two Stoic poets on stars, «Leeds International Classical Studies» 6, pp. 1-18.

Albrecht 2003: M. von Albrecht, Cicero’s Style. A Synopsis, Leiden-Boston, Brill. Accorinti 20082: D. Accorinti, Nonno di Panopoli. Le Dionisiache, IV, Canti XL-XLVIII, Lavis, BUR.

Amerio 1981-1982: M. L. Amerio, L’elogio di Arato composto da Leonida di Taranto (A.P. 9, 25) e la tradizione platonico-pitagorica della Magna Grecia in età ellenistica, “InvLuc” 3-4, pp. 111-160. Ardizzoni 1958: A. Ardizzoni, Apollonio Rodio. Le Argonautiche, Libro III, testo, traduzione e commentario, Bari, Adriatica Editrice. Arens 1950: J. C. Arens, -Fer and –ger. Their extraordinary Preponderance amoung Compounds in Roman Poetry, “Mnemosyne” 3, pp. 241-262. Armstrong 2006: R. Armstrong, Cretan Women. Pasiphae, Ariadne, and Phaedra in Latin Poetry, Oxford, University Press.

Arweiler 1999: A. Arweiler, Die Imitation antiker und spätantiker Literatur in der Dichtung “De spiritalis historiae gestis” des Alcimus Avitus. Mit einem Kommentar zu Avit. carm. 4,429-540 und 5,526-703, Berlin-New York, De Gruyter. Atzert 1908: C. Atzert, De Cicerone interprete Graecorum, Gottingae, Officina Academica Huthiana (diss.).

Aujac 1984: G. Aujac, Arato, in EV, I, pp. 266-268. Aujac 1996: G. Aujac, Sphère céleste et constellations chez Eudoxe, Aratos, Hipparque, Ptolémée, in B. Bakhouche – A. Moreau – J.-C. Turpin (a c. di), Les astres. Actes du Colloque international de Montpellier (23-25 Mars 1995), I, Les astres et les mythes. La description du ciel, Montpellier 1996, Imprimerie de l’Université Paul-Valéry, pp. 209- 226.

Austin 1964: R. G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Secundus with a Commentary, Oxford, Clarendon Press. Ax 19332: W. Ax, M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, fasc. 45 De natura deorum, Stutgardiae, Teubner (rist. 1980).

Axelson 1945: B. Axelson, Unpoetische Wörter. Ein Beitrag zur Kenntnis der Lateinischen Dichtersprache, Lund, Ohlssons. Baehrens 1879: E. Baehrens, Poetae Latini minors, Lipsiae, Teubner.

240 Bagordo 2000: A. Bagordo, Das Epigramm des Leonidas von Tarent auf Arat (Anth. Pal. IX 25 = 101 Gow/Page), “WJA” 24, pp. 79-88. Bailey 1947: C. Bailey, Titi Lucreti Cari De rerum natura libri sex, edited with prolegomena, critical apparatus, translation and commentary, I-III, Oxford, Clarendon Press. Bakhouche 1997: B. Bakhouche, La peinture des constellations dans la littérature aratéenne latine. Le problème de la droite et de la gauche, “AC” 66, pp. 145-168.

Barbaud 2005: Th. Barbaud, La mémoire des poètes: souvenirs catulliens chez Virgile et Ovide, “REL” 83, pp. 92-104.

Barchiesi 1981: A. Barchiesi, Letture e trasformazioni di un mito arateo (Cic. Arat. XVII Tr.; Verg. georg. 2, 473 sg.), “MD” 6, pp. 181-187.

Barchiesi 1989: A. Barchiesi, Virgilio. Georgiche, testo, traduzione e note, Milano 1989, Mondadori (rist. 2009).

Barigazzi 1989: A. Barigazzi, De Cicer. Arat. fr. XVI. 5 Soubiran, “Prometheus” 15, p. 79. Bartalucci 1981: A. Bartalucci, Una proposta di sistemazione del frg. II degli Aratea ciceroniani, “SCO” 31,pp. 155 -162. Bartalucci 1988: A. Bartalucci, Il lessico dei catasterismi nel De astronomia di Igino e nei testi omologhi, “SCO” 38, pp. 353-372.

Battistella 2006: C. Battistella, Le “costellazioni di Arianna” (Ov. Her. 10, 95 e Apoll. Rhod. 3, 997-1004), “MD” 57, pp. 217-222.

Belardi 1950: W. Belardi, Septemtrio, “Maia” 3, pp. 57-58. Bellandi 1988: F. Bellandi, Sul frammento XVI. 5-6 (Soub.) degli Aratea di Cicerone, “Prometheus” 14, pp. 231-243. Bellandi 2000 (a): F. Bellandi, Arato, Cicerone e il «mito della Vergine», “Paideia” 55, pp. 37-73. Bellandi 2000 (b): F. Bellandi, Noterella Aratea (su Phaen. 98-101 e relative traduzioni latine), “MD” 45, pp. 105-118. Bellandi 2004: F. Bellandi, La forgiatura della spada e l’uccisione dei buoi da lavoro in Arato (e Aratea latini) e in Virgilio, “Paideia” 59, pp. 25-37. Bellandi – Berti – Ciappi 2001: F. Bellandi – E. Berti – M. Ciappi, Iustissima Virgo. Il mito della Vergine in Germanico e in Avieno. (Saggio di commento a Germanico Arati Phaen. 96-139 e Avieno Arati Phaen. 273-352), Pisa, Giardini. Bing 1993: P. Bing, Aratus and his audiences, “MD” 31, pp. 99-109.

Biondi 1981: G. G. Biondi, Catullo in Manilio? (Nota a Catullo 64, 14), “Orpheus” 2, pp. 105-113.

241 Bishop 2011: C. B. Bishop, Greek Scholarship and Interpretation in the Works of Cicero, Pennsylvania 2011 (tesi di dottorato consultabile on line all’indirizzo http://search.proquest.com/docview/878683253).

Blänsdorf 20114: J. Blänsdorf, Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et lyricorum praeter Enni Annales et Ciceronis Germanique Aratea, Berlin-New York, De Gruyter. Blume – Haffner – Metzger 2012: D. Blume – M. Haffner – W. Metzger, Sternbilder des Mittelalters. Der gemalte Himmel zwischen Wissenschaft und Phantasie, Berlin, Akademie Verlag GmbH.

Bocciolini Palagi 2007: L. Bocciolini Palagi, La trottola di Dioniso. Motivi dionisiaci nel VII libro dell’Eneide, Bologna, Pàtron. Boccuto 1985: G. Boccuto, I segni premonitori del tempo in Virgilio e in Arato, “A&R” 30, pp. 9-16

Bömer 1957: F. Bömer, Interpretationen zu den Fasti des Ovid, “Gymnasium” 64, pp. 112- 135.

Bömer 1969: F. Bömer, P. Ovidius Naso. Metamorphosen. Kommentar, I, Buch I-III, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag. Bömer 1976: F. Bömer, P. Ovidius Naso. Metamorphosen Kommentar, III, Buch VI-VII, Heidelberg 1976. Bömer 1977: F. Bömer, P. Ovidius Naso. Metamorphosen. Kommentar, IV, Buch VIII-IX, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag.

Bömer 1986: F. Bömer, P. Ovidius Naso. Metamorphosen. Kommentar, VII, Buch XIV-XV, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag.

Boll - Gundel 1965: F. Boll - W. Gundel, Sternbilder, Sternglaube und Sternsymbolik bei Griechen und Römern, in W. H. Roscher, Ausführliches Lexicon der griechischen und römischen Mythologie, VI, Hildesheim, Olms, coll. 867-1071.

Bona 1988: G. Bona, Pindaro. I Peani, testo, traduzione, scoli e commento, Cuneo, Saste.

Bonanno 1990: M. G. Bonanno, L’allusione necessaria. Ricerche intertestuali sulla poesia greca e latina, Roma, Edizioni dell’Ateneo.

Breysig 1867: A. Breysig, Germanici Caesaris Aratea cum scholiis, Berolini, sumptibus et formis Georgii Reimeri.

Briggs jr. 1981-1982: W. W. Briggs jr., Lines repeated from the Georgics in the Aeneid, “CJ” 77, pp. 130-147. Brush 1971: P. C. Brush, Cicero’s Poetry, Yale University (diss.).

Bruwaene 1973: M. van den Bruwaene, Influence d’Aratus et de Rhodes sur l’oeuvre philosophique de Cicéron, in ANRW, I, Berlin-New York, De Gruyter, pp. 428-437.

242 Bruwaene 1978: M. van den Bruwaene, Cicéron. De Natura Deorum, II, Bruxelles, Collection Latomus.

Büchner 1939: K. Büchner, M. Tullius Cicero (Fragmente), in RE, VII A 1, Stuttgart, J. B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, coll. 1236-1274. Buescu 1966: V. Buescu, Cicéron, Les Aratea, texte établi, traduit et commenté avec un avant-propos de A. Ernout, Hildesheim, Olms. Butterfield 2008: D. J. Butterfield, The Poetic Treatment of atque from Catullus to Juvenal, “Mnemosyne” 68, pp. 386-413. Calderón Dorda 1990: E. Calderón Dorda, Traducciones latinas perdidas de los Fenomenos de Arato, “Myrtia” 5, pp. 23-45.

Calderón Dorda 2005: E. Calderón Dorda, Arato y la raza de bronce (Phaen. 131-132): una interpretaciόn, “QUCC” 107, pp. 143-151. Caldini Montanari 1979: R. Caldini Montanari, La terminologia latina dei corpi celesti, “A&R” 14, pp. 156-171. Caldini Montanari 1981: R. Caldini Montanari, Esegesi e fortuna di Virgilio, Georg. 1, 335- 337, “SIFC” 53, pp. 152-169.

Caldini Montanari 1993: R. Caldini Montanari, Illusione e realtà nel cielo dei poeti, “Prometheus” 19, pp. 183-210. Caldini Montanari 2000: R. Caldini Montanari, Torvu’ Draco…retorquens sese. A proposito di Cic., Arat., VIII 2-3, “A&R” 45, pp. 152-159. Caldini Montanari 2006: R. Caldini Montanari, Le stelle dell’Orsa maggiore (Septem Triones) negli Aratea di Cicerone, in C. Santini – L. Zurli – L. Canali (a c. di), Concentus ex dissonis. Scritti in onore di Aldo Setaioli, I, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 123-136. Caldini Montanari 2010: R. Caldini Montanari, L’inno proemiale di Germanico ad Augusto, “Paideia” 65, pp. 9-48.

Campbell 1983: M. Campbell, Studies in the Third Book of Apollonius Rhodius’Argonautica, Hildesheim, Olms.

Canali 1990: L. Canali, Tito Lucrezio Caro. La natura delle cose, Milano, BUR (rist. 1996). Càssola 1975: F. Càssola, Inni omerici, Milano, Arnoldo Mondadori Editore.

Castelletti 2015: C. Castelletti, Nel solco di Arato: lasciare il segno scrivendo con le stelle. Esempi da Apollonio, Virgilio e Valerio Flacco; contributo in corso di pubblicazione negli Atti della Seconda giornata di studio del gruppo di ricerca sui Manoscritti astronomici illustrati (Pisa, 30-31. 10. 2013), ma registrato on line all’indirizzo https:// www.youtube.com/watch?v=1eh3ecx9ZRY.

Castorina 1953: E. Castorina, Le tre fasi poetiche di Cicerone, “SicGymn” 6, pp. 137-165.

243 Cavarzere 1996: A. Cavarzere, Sul limitare. Il «motto» e la poesia di Orazio, Bologna, Pàtron.

Caviglia 1979: F. Caviglia, L. Anneo Seneca, Il furore di Ercole, introduzione, testo, traduzione e note, Roma, Edizioni dell’Ateneo. Caviglia 1990: F. Caviglia, trux, in EV, V, pp. 306-307. Ceccarelli 1985: L. Ceccarelli, Un particolare tipo di allitterazione nell’opera poetica di Cicerone, “Aternus” 4, pp. 57-89.

Ceccarelli 1986: L. Ceccarelli, L’allitterazione a vocale interposta variabile in Virgilio, L’Aquila-Roma, Japadre.

Chausserie-Laprée 1976: J.-P- Chausserie-Laprée, Structures phoniques dominantes dans les «Aratea» de Cicéron, in Mélanges offerts à Jacques Heurgon, I, L’Italie préromaine et la Rome républicaine, Rome, École Française de Rome, pp. 133-146.

Christensen 1908: H. Christensen, Que – que bei den römischen Hexametrikern, “ALL” 15, pp. 165-211. Ciappi 1999: M. Ciappi, Super stellisque micantibus aethera fixum. Per l’interpretazione di un verso di Lucrezio (V 1205), “Maia 51”, pp. 33- 40. Ciappi 2003: M. Ciappi, Nota al frg. 1 Blänsdorf (=1 Courtney, 3 Lenz) dei Phaenomena di Ovidio, “RhM” 146, pp. 365-371.

Cicu 1979: L. Cicu, I «Phaenomena» di Ovidio, “Sandalion” 2, pp. 117-128.

Citti 1965: V. Citti, Lettura di Arato, “Vichiana” 2, pp. 146-170.

Clausen – Goodyear – Kenney – Richmond 1966: W. V. Clausen - F. R. D. Goodyear – E. J. Kenney – J. A. Richmond, Appendix Vergiliana, Oxonii, e Typographeo Clarendoniano. Clausen 1986: W. Clausen, Cicero and the New Poetry, “HSPh” 90, pp. 159-170. Conrad 1965: C. Conrad, Traditional Patterns of Word-Order in Latin Epic from Ennius to Vergil, “HSCPh” 69, pp. 195-258. Conte 1974: G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino, Einaudi.

Conte 1994: G. B. Conte, Latin Literature. A History, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press. Conte 2002: G. B. Conte, Virgilio: l’epica del sentimento, Torino, Giulio Einaudi Editore.

Conte 2014: G. B. Conte, Dell’imitazione. Furto e originalità, Pisa, Edizioni della Normale. Conte – Barchiesi 1989: G. B. Conte – A. Barchiesi, Imitazione e arte allusiva. Modi e funzioni dell’intertestualità, in G. Cavallo – P. Fedeli – A. Giardina, Lo spazio letterario di Roma antica, I, La produzione del testo, Roma, Salerno Editrice, pp. 81-114. Courtney 2003: E. Courtney, The Fragmentary Latin Poets, Oxford, Clarendon Press.

244 Cucchiarelli 1994: A. Cucchiarelli, Sogno e prologo letterario tra alessandrinismo, precedenti enniani e dottrina epicurea: la polemica a distanza di Lucrezio (I 102-45; IV 907-1036), “Maia” 46, pp. 149-180. Cucchiarelli 2012: A. Cucchiarelli, Publio Virgilio Marone. Le Bucoliche, introduzione e commento di A. Cucchiarelli, traduzione di A. Traina, Roma, Carocci.

Cugusi 1994: P. Cugusi, Tra traduzione e imitazione. Il caso di Cicerone e Catullo, “RPL” 17, pp. 25-60.

Cupaiuolo 1984: F. Cupaiuolo, Avverbio, in EV, I, 1984, pp. 437-440. Curtius 191016: G. Curtius, Grammatica della lingua greca, Torino, Loescher Editore.

Cusset 1999: Ch. Cusset, La Muse dans la Bibliothèque. Réécriture et intertextualité dans la poésie alexandrine, Paris, CNRS Éditions.

Cusset 2011: Ch. Cusset, Aratos et le stöicisme, “Aitia” 1, 2011 (consultabile on line all’indirizzo http://aitia.revues.org/131). D’Alessio 20074: G. B. D’Alessio, Callimaco, I, Inni, Epigrammi, Ecale; II, Aitia, Giambi e altri frammenti; introduzione, traduzione e note, Ariccia, Punto Web. Degl’Innocenti Pierini 1980: R. Degl’Innocenti Pierini, Echi delle elegie ovidiane dall’esilio nelle Consolationes ad Helviam e ad Polybium di Seneca, “SIFC” 52, pp. 109-143. Dehon 2000: P. J. Dehon, Quintus Cicéron et Lucrèce, “MH” 57, pp. 265-269. Dehon 2003: P.-J. Dehon, Aratos et ses traducteurs latins: de la simple transposition à l’adaptation inventive, “RBPhH” 81, pp. 93-115

De Jonge 1951: Th. J. De Jonge, Publii Ovidii Nasonis Tristium Liber IV commentario exegetico instructus, Groningen, De Waal. De Meo 1983: C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Bologna, Pàtron. De Nonno 1977: M. De Nonno, Le citazioni di Prisciano da autori latini nella testimonianza del Vat. Lat. 3313, “RFIC” 105, pp. 385-402. De Nonno 1990: M. De Nonno, Monitum de Cic. Arat. frg. XVI 5 Soub. (=Prisc. Inst. GL. II 247, 18), “Prometheus” 16, p. 180.

Dewar 1991: M. Dewar, Statius. Thebaid IX, edited with an English Translation and Commentary, Oxford, Clarendon Press.

Dickey 2007: E. Dickey, Ancient Greek Scholarship. A Guide to Finding, Reading, and Understanding Scholia, Commentaries, Lexica, and Grammatical Treatises, from Their Beginnings to the Byzantine Period, Oxford, University Press.

Dicks 1964: D. R. Dicks, The Concepts of Greek Astronomy, “BICS” 11, pp. 43-53.

Dyck 2004: A. R. Dyck, A Commentary on Cicero, De legibus, Ann Arbor, University of Michigan Press.

245 Domenicucci 2002: P. Domenicucci, Il lessico astronomico di Plaut. Amph. 271-276, “QGLC” 14, pp. 65-70.

Domenicucci 2013: P. Domenicucci, Il cielo di Lucano, Pisa, ETS.

Drumann – Groebe 1919: W. Drumann – P. Groebe, Geschichte Roms in seinem Übergange von der republikanischen zur monarchischen Verfassung, V, Leipzig, Bornträger.

Ebeling 1885: H. Ebeling, Lexicon Homericum, Lipsiae, Teubner.

EGM: R. L. Fowler, Early Greek Mythography, I, Text and Introduction, Oxford 2000, University Press; II, Commentary, Oxford 2013, University Press.

Ernout 1958: Ernout, Les enclitiques -que et -ve, “RPh” 32, pp. 189-197. Ernout 1962: A. Ernout, Latin Graecus, Graius, Graecia, “RPh” 36, pp. 209-216. Erren 1967: M. Erren, Die Phaenomena des Aratos von Soloi. Untersuchungen zum Sach- und Sinnverständnis, Wiesbaden, Franz Steiner Verlag GMBH. Erren 1971: M. Erren, Aratos Phainomena. Sternbilder und Wetterzeichen, München, Heimeran Verlag.

Erren 2003: M. Erren, P. Vergilius Maro. Georgica, II, Kommentar, Heidelberg, Universitätsverlag Winter.

Esposito 2007: P. Esposito, I segnali della tempesta nella riscrittura lucanea (Phars. 5, 540- 550), in L. Landolfi – P. Monella (a c. di), Doctus Lucanus. Aspetti dell’erudizione nella Pharsalia di Lucano, Bologna, Pàtron, pp. 83-110.

Ewbank 1933: W. W. Ewbank, The Poems of Cicero, London, Bristol Classical Press (rist. 1997). Fakas 2001: Ch. Fakas, Der hellenistische Hesiod. Arats Phainomena und die Tradition der antiken Lehrepik, Wiesbaden, Ludwig Reichert Verlag.

Fantuzzi 1980: M. Fantuzzi, Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα. Arat. Phaen. 1 e Theocr. XVII 1, “MD” 5, pp. 163-172. Fantuzzi – Hunter 2002: M. Fantuzzi – R. Hunter, Muse e modelli. La poesia ellenistica da Alessandro Magno ad Augusto, Roma, Editori Laterza.

Farnell 1932: L. R. Farnell, Critical Commentary to the Works of Pindar, London, Macmillan & Co. (rist. 1961).

Fedeli 1982: P. Fedeli, M. Tulli Ciceronis In M. Antonium orationes Philippicae XIV, Leipzig, Teubner.

Fedeli 1984: P. Fedeli, Sexti Properti Elegiarum Libri IV, Stuttgart, Teubner.

Fedeli 1985: P. Fedeli, Properzio. Il Libro Terzo delle Elegie, introduzione, testo e commento, Bari, Adriatica Editrice.

246 Fedeli 1994: P. Fedeli, Q. Orazio Flacco. Le opere, II, Le Satire, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato. Fedeli 2005: P. Fedeli, Properzio. Elegie Libro II, introduzione, testo e commento, Cambridge, Francis Cairns. Feraboli – Flores - Scarcia 1996: S. Feraboli - E. Flores - R. Scarcia, Manilio. Il poema degli astri (Astronomica), I, Libri I-II; II, Libri III-V; testo critico a cura di E. Flores, traduzione di R. Scarcia, commento a cura di S. Feraboli e R. Scarcia, Milano, Arnoldo Mondadori Editore.

Ferrari 1989: F. Ferrari, Teognide, Elegie, introduzione, traduzione e note, Milano, BUR. Ferrari 1940: W. Ferrari, Cicerone e Arato, “SIFC” 17, pp. 77-95 (con aggiunta nota in calce di G. Pasquali, pp. 95-96)

Ferrarino 1939: P. Ferrarino, Quaedam in libro «De legibus» I, 1 quid sonent quaeruntur, “Convivium” 11, pp. 459-462. Ferrarino 1986: P. Ferrarino, Scritti scelti, Firenze, Leo S. Olschki Editore.

Ferraro 1984: V. Ferraro, ardor, in EV, I, pp. 302-303.

Fisher 1982: R. S. Fisher, Conon and the Poet: a Solution to Eclogue, III, 40-42, “Latomus” 41, pp. 803-814.

Fitch 1987: J. G. Fitch, Seneca’s Hercules furens. A Critical Text with Introduction and Commentary, Ithaca 1987, Cornell University Press. Flores 2002: E. Flores, Commentario al libro I, in E. Flores – G. Jackson – M. Paladini – M. Salvatore – D. Tomasco, Quinto Ennio. Annali (Libri I-VIII), II, Napoli 2002, Liguori Editore.

Flores 2004: E. Flores, Titus Lucretius Carus. De rerum natura, edizione critica con introduzione e versione, II, Napoli, Bibliopolis. Forcellini 1940: E. Forcellini, Lexicon totius Latinitatis, I-IV, Patavii, Typis Seminarii.

Fordyce 1977: C. J. Fordyce, P. Vergili Maronis Aeneidos Libri VII-VIII, with a Commentary, Oxford, John D. Christie.

Fränkel 1951: E. Fränkel, rec. di M. Chouet, Les Lettres de Salluste a César, Paris, Les Belles Lettres, in “JRS” 41, pp. 192-194.

Fränkel 1957: E. Fränkel, Horace, Oxford, Clarendon Press.

Fränkel 1960: E. Fraenkel, Elementi plautini in Plauto, Firenze, La Nuova Italia. Fränkel 1961: H. Fraenkel, Apollonii Rhodii Argonautica, recognovit brevique adnotatione critica instruxit, Oxonii, e typographeo Clarendoniano.

Fränkel 1968: H. Fränkel, Noten zu den Argonautika des Apollonius, München, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung

247 Frazer 1929: J. G. Frazer, Publii Ovidii Nasonis Fastorum Libri Sex, edited with a Translation and Commentary, III, Commentary on Books III and IV, London, Macmillan & Co. Frisk 1960: H. Frisk, Griechisches etymologisches Wörterbuch, I: Α-Κο, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag.

Frøvig 1936: D. A. Frøvig, Das Aratoszitat der Areopagrede des Paulus, “SO” 15/16, pp. 44- 56

Fusillo 1985: M. Fusillo, Il tempo delle Argonautiche. Un’analisi del racconto in Apollonio Rodio, Roma, Edizioni dell’Ateneo.

Gärtner 2007: Th. Gärtner, Zur Deutung des kallimacheischen Epigramms über die Phainomena des Arat, “AC” 76, pp. 157-162. Gain 1976: D. B. Gain, The Aratus ascrived to Germanicus Caesar, edited with an Introduction, Translation and Commentary, London, The Athlone Press.

Gallavotti 19512: C. Gallavotti, Lira ellenica. Antologia di poeti greci, Milano-Messina 19512, Principato.

Gallego Real 2004: D. Ángel Gallego Real, El hipotexto hesiódico en los Phaenomena de Arato, Amsterdam, Hakkert. Galli 1958: F. Galli, M. Tullio Cicerone. Brutus, introduzione e commento, Milano, Signorelli Editore.

Gamberale 1971: L. Gamberale, L’acredula di Cicerone: una variante d’autore?, “SIFC” 43, pp. 246-257 Gamberale 1973: L. Gamberale, Tradizione indiretta di Cicerone in Cicerone: le opera poetiche, “Ciceroniana” 1, Atti del I Colloquium Tullianum (Roma-Arpino, 30 settembre-2 ottobre 1972), Roma, pp. 105-115 Gamberale 2002: L. Gamberale, Ovidio, Fast. 3, 469sgg. Variazioni per voce sola su un tema di Catullo, “RFIC” 130, pp. 21-39. Ganiban 2008: R. T. Ganiban, Vergil Aeneid Book 2, Newburyport MA, Focus Publishing.

García Gual 2008: C. García Gual, El astuto Jasón, la bárbara Medea y la sombra mítica de Ariadna, in D. Auger, J. Peigney (a c. di), Phileuripidès. Mélanges offerts à François Jouan, Nanterre, Presses Universitaires de Paris 10, pp. 209-217.

Gatz 1967: B. Gatz, Weltalter, goldene Zeit und sinnverwandte Vorstellungen, Hildesheim, Olms. Gee 2000: E. Gee, Ovid, Aratus and Augustus. Astronomy in Ovid’s Fasti, Cambridge, University Press. Gee 2001: E. Gee, Cicero’s Astronomy, “CQ” 51, pp. 520-536.

Gee 2007: E. Gee, Quintus Cicero’s Astronomy?, “CQ” 57, pp. 565-585. Gee 2013 (a): E. Gee, Aratus and the Astronomical Tradition, Oxford, University Press.

248 Gee 2013 (b): E. Gee, Cicero’s poetry, in C. Steel (a c. di), The Cambridge Companion to Cicero, Cambridge, University Press, pp. 88-106.

Gelzer 1969: M. Gelzer, Cicero: ein biographischer Versuch, Wiesbaden, Franz Steiner Verlag GMBH.

Geymonat 20082: M. Geymonat, P. Vergili Maronis opera, Roma, Edizioni di storia e letteratura.

Giangrande 1967: G. Giangrande, «Arte allusiva» and Alexandrian Epic Poetry, “CQ” 17, pp. 85-97.

Giannini 1995: P. Giannini, Commento alla Pitica sesta, in B. Gentili (a c. di), Pindaro. Le Pitiche, introduzione, testo critico e traduzione di B. Gentili; commento a c. di P. Angeli Bernardini, E. Cingano, B. Gentili e P. Giannini, Milano, Mondadori.

Gibson 2003: K. Gibson, Ovid. Ars amatoria Book 3 edited with Introduction and Commentary, Cambridge, University Press.

Gillies 1928: M. M. Gillies, The Argonautica of Apollonius Rhodius, Book III, edited with Introduction and Commentary, Cambridge, University Press.

Goetz 1918: M. Goetz, De scholiastis Graecis poetarum Romanorum auctoribus quaestiones selectae, Ienae, G. Nevenhahn (diss.). Grandolini 2004: S. Grandolini, Proemio ed esordio nei Phaenomena di Arato, “GIF” 61, pp. 43-51

Green 1997: P. Green, The Argonautika, translated, with Introduction, Commentary and Glossary, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press.

Grimal 1974 (=1986): P. Grimal, Elementa, primordia, principia dans le poème de Lucrèce, in Mélanges de philosophie, de littérature et d’histoire ancienne offerts à P. Boyancé, Rome, pp. 357-366; riedito in Id., Rome. La littérature et l’histoire, I, Rome 1986, pp. 203- 211. Groningen 1966: B. A. van Groningen, Theognis. Le premier livre édité avec un commentaire, Amsterdam, Hakkert. Gualandri 1965: I. Gualandri, Le componenti dello stile tragico in Ennio, “SCO” 14, pp. 100- 119. Guendel 1907: M. Guendel, De Ciceronis poetae arte capita tria, Lipsiae 1907 (diss.). Gundel 1907: G. Gundel, De stellarum appellatione et religione Romana, Gissae. Gundel 1939: W. Gundel, Ophis, in RE, XVIII. 1, coll. 650-654. Hadas-Lebel 2012: J. Hadas-Lebel, Enquête sur le nom latin des Grecs et de la Grèce, “RPh” 86, pp. 53-75.

Haebler 1901: A. Haebler, Corona, in RE, IV. 2, col. 1643.

249 Halton – Wormell - Courtney 19974: E. H. Halton - D. E. W. Wormell - E. Courtney, Ovidius. Fasti, Lipsiae-Stutgardiae, Teubner.

Handschur 1970: E. Handschur, Die Farb- und Glanzwörter bei homer und Hesiod, in den homerischen Hymnen und den Fragmenten des epichen Kyklos, Wien, Notring.

Harder 2012: A. Harder, Callimachus. Aetia, Introduction, Text, Translation, and Commentary, Volume 2. Commentary, Oxford, University Press. Hardie 1985: P. Hardie, Imago mundi: cosmological and ideological aspects of the shield of Achilles, “JHS” 105, pp. 11-31.

Hardie 1994: P. Hardie, Virgil. Aeneid Book IX, Cambridge, University Press. Harrison 1991: S. J. Harrison, Vergil Aeneid 10 with Introduction, Translation, and Commentary, Oxford, University Press. Haslam 1992: M. Haslam, Aratus Diosemeiai 46ff., Vergil Georgics 1.424ff, “HSCPh” 94, pp. 199-204.

Heusch 1954: H. Heusch, Das Archaische in der Sprache Catulls, Bonn, Hanstein.

Heyworth-Morwood 2011: S. J. Heyworth – J. H. W. Morwood, A Commentary on Propertius Book 3, Oxford, University Press.

Hinds 1998: S. Hinds, Allusion and intertext. Dynamics of Appropriation in Roman Poetry, Cambridge, University Press.

Honigmann 1950: E. Honigmann, The Arabic translation of Aratus’ Phaenomena, “Isis” 41, pp. 30-1.

Horsfall 2000: N. Horsfall, Virgilil, Aeneid 7. A Commentary, Leiden, Brill. Hübner 2005: W. Hübner, Die Rezeption der Phainomena Arats in der lateinischen Literatur, in Marietta Horster – Christiane Reitz (Hg.), Wissensvermittlung in dichterischer Gestalt, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, pp. 133-154.

Hübner 2010: W. Hübner, Manilius. Astronomica, Buch V, I, Einführung, Text und Übersetzung; II, Kommentar, Berlin-New York, De Gruyter.

Hunter 1988: R. L. Hunter, “Short on Heroics”: Jason in the Argonautica, “CQ” 38, pp. 436- 453.

Hunter 1989: R. L. Hunter, Apollonius of Rhodes. Argonautica, Book III, Cambridge, University Press.

Hunter 1995: R. Hunter, Written in the Stars. Poetry and Philosophy in the Phaenomena of Aratus, “Arachnion” 2, 1995, pp. 1-34 (consultabile on line all’indirizzo http://www.cisi.unito.it/arachne/num2/hunter.html). Hurka 2006: F. Hurka, Ein Akrostichon in Ciceros Aratea, “WJA” 30, pp. 87-91.

250 Hurka 2010: F. Hurka, Arat und Aratea, in Der neue Pauly, Suppl. 7, Die Rezeption der antiken Literatur, Stuttgart-Weimar, Verlag J. B. Metzler, coll. 69-76. Hutchinson 1988: G. O. Hutchinson, Hellenistic poetry, Oxford, Clarendon Press.

Ihlemann 1909: C. Ihlemann, De Rufi Festi Avieni in vertendis Arateis arte et ratione, Gottingae, Officina academica Dieterichiana (diss.).

Iodice Di Martino 1990: M. G. Iodice Di Martino, torvus, EV, V, pp. 221-222. Jackson 2002: J. Jackson, Commentario al libro VI, in E. Flores – P. Esposito - G. Jackson – M. Paladini – M. Salvatore – D. Tomasco (edd.), Quinto Ennio. Annali (Libri I-VIII), II, Napoli, Liguori. Jackson 2006: G. Jackson, Commentario al libro X, in E. Flores - P. Esposito - G. Jackson - M. Paladini - M. Salvatore - D. Tomasco (edd.), Quinto Ennio. Annali (Libri IX-XVIII), IV, Napoli, Liguori.

Jackson 2013: J. Jackson, Commento a Lucrezio. De rerum natura, Libro V 1-280, Pisa-Roma, Fabrizio Serra.

Jones 2003: A. Jones, The Stoics and the Astronomical Sciences, in B. Inwood, The Cambridge Companion to the Stoics, Cambridge, University Press, pp. 328-344. Jonin 1974: M.-R. Jonin, Cicéron et les Aratea, “A. F. L. Nice” 21, pp. 247-258.

Katz 2008: J. T. Katz, Vergil Translates Aratus : Phaenomena 1-2 and Georgics 1. 1-2, “MD” 60, pp. 105-123.

Katz 2009: J. T. Katz, Wordplay, in S. W. Jamison – H. Craig Melchert – B. Vine, Proceedings of the 20th Annual UCLA Indo-European Conference (Los Angeles, October 31 – November 1, 2008), Bremen, Hempen Verlag. Kauffmann 1888: G. Kauffmann, De Hygini memoria scholiis in Ciceronis Aratum Harleianis servata, Vratislaviae 1888. Kenney 2001: E. J. Kenney, “Est deus in nobis…”: Medea meets her Maker, in Th. D. Papanghelis – A. Rengakos (a c. di), A Companion to Apollonius Rhodius, Leiden, Brill, pp. 261-283. Kenney 2011: E. J. Kenney (a c. di), Ovidio. Metamorfosi, IV, Libri VII-IX, Milano, Arnoldo Mondadori Editore.

Kenter 1972: L. P. Kenter, M. Tullius Cicero, De legibus. A Commentary on Book I, Amsterdam, Hakkert. Kidd 1961: D. Kidd, The Fame of Aratus, “AUMLA” 15, pp. 5-18. Kidd 1997: D. Kidd, Aratus Phaenomena, edited with Introduction, Translation and Commentary, Cambridge, University Press. Kiessling – Heinze 19307: A. Kiessling – R. Heinze, Q. Horatius Flaccus. Oden und Epoden, Berlin, Weidmann.

251 Kiessling-Heinze 196810: A. Kiessling – R. Heinze, Q. Oratius Flaccus. Satiren, Dublin, Weidmann (rist. 1977). Kissel 1990: W. Kissel, Aules Persius Flaccus Satiren, herausgegeben, übersetzt und kommentiert, Heidelberg, Winter. Klimek-Winter 1993: R. Klimek-Winter, Andromedatragödien: Sophokles, Euripides, Livius Andronikos, Ennius, Accius, Text, Einleitung und Kommentar, Stuttgart, Teubner. Klotz 1864: R. Klotz, M. Tullii Ciceronis scripta quae manserunt omnia, IV.2, Lipsiae, Teubner. Knox 2011: P. E. Knox, Cicero as a hellenistic poet, “CQ” 61, pp. 192-204.

Korenjak 1997: M. Korenjak, Τηλεκλείτη Ἀριάδνη: Exemplum mit Folgen. Zu einem mythologischen Beispiel bei Apollonios Rhodios, “WS” 110, pp. 19-25.

Kroll 1924: W. Kroll, Studien zum Verständnis der römischen Literatur, Stuttgart, J. B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung.

Kubiak 1979: D. P. Kubiak, Cicero, Catullus, and the Art of Neoteric Translation, Cambridge Massachusetts, (diss.). Kubiak 1981: D. P. Kubiak, The Orion Episode of Cicero’s “Aratea”, “CJ” 77, pp. 12-22.

Kubiak 1994: D. P. Kubiak, Aratean Influence in the “De consulate suo” of Cicero, “Philologus” 138, pp. 52-66.

Kühner – Stegmann 1966: R. Kühner – C. Stegmann, Ausführliche Grammatik der lateiniscen Sprache, II. 2, Hannover, Hahn. Kumaniechi 1972: K. Kumaniecki, Cicerone e la crisi della repubblica romana, Roma, Centro Studi Ciceroniani.

Kurth 1994: Th. Kurth, Senecas Trostschrift an Polybius, Dialog 11. Ein Kommentar, Stuttgart – Leipzig, Teubner.

Landolfi 1986: L. Landolfi, Il modello e l’evocazione. Una «presenza» aratea in Cicerone e Virgilio, “Vichiana” 15, pp. 25-40.

Landolfi 1993: Landolfi, Andromeda: intreccio di modelli e punti di vista in Manilio, “GIF” 45, pp. 171-194

Landolfi 1996: L. Landolfi, Il volo di Dike (da Arato a Giovenale), Bologna, Pàtron. Landolfi 2000: L. Landolfi, Scribentis imago. Eroine ovidiane e lamento epistolare, Bologna, Pàtron.

Laurand 19393: L. Laurand, Cicéron, Paris, Les Belles Lettres.

Lausberg 1969: H. Lausberg, Elementi di retorica, introduzione all’edizione italiana e traduzione di L. Ritter Santini, Milano, Il Mulino.

252 Le Boeuffle 1975: A. Le Boeuffle, Germanicus. Les Phénomènes d’Aratos, texte établi et traduit, Paris, Les Belles Lettres.

Le Boeuffle 1977: A. Le Boeuffle, Les noms latins d’astres et de constellations, Paris, Les Belles Lettres.

Le Boeuffle 1987: A. Le Boeuffle, Astronomie, astrologie. Lexique latin, Paris, Picard. Le Boeuffle 1996: A. Le Boeuffle, Autour du Dragon. Astronomie et mythologie, in Béatrice Bakhouche – A. Moreau – J. C. Turpin (a c. di), Les astres. Actes du Colloque International de Montpellier (23-25 Mars 1995), I, Les astres et les mythes. La description du ciel, Montpellier, Presses de l’Université Paul Valéry, pp. 53-68 Le Bourdellès 1985: H. Le Bourdellès, L’Aratus Latinus. Étude sur la culture et la langue latines dans le Nord de la France au VIIIe siècle, Lille, Presses de l’Université de Lille III.

Lefkowitz 2001: M. B. Lefkowitz, Myth and History in the Biography of Apollonius, in Th. D. Papanghelis – A. Rengakos (a c. di), A Companion to Apollonius Rhodius, Leiden, Brill, pp. 51-72.

Leo 1912: F. Leo, Plautinische Forshungen zur Kritik und Geschichte der Komödie, Berlin, Weidmann. Leo 1914: F. Leo, Die römische Poesie in der sullanischen Zeit, “Hermes” 49, pp. 161-195.

Leumann – Hofmann – Szantyr 1965: M. Leumann – J. B. Hogmann – A. Szantyr, Lateinische Grammatik, II. 2. 2, München, C. H. Beck.

Leuthold 1942: W. Leuthold, Der Übersetzung der Phaenomena durch Cicero und Germanicus, Zürich, A.-G. Gebr. Leemann & Co. (diss.).

Lewis 1986: A.-M. Lewis, Rearrangement of Motiv in Latin Translation:the Emergence of a Roman Phaenomena, in C. Deroux (edited by), Studies in Latin Literature and Roman History, IV, Bruxelles, Collection Latomus, pp. 210-233. Lewis 1992: A.-M. Lewis, The Popularity of the Phaenomena of Aratus: a Reevaluation, in C. Deroux (edited by), Studies in Latin Literature and Roman History, VI, Bruxelles, Collection Latomus, pp. 94-118. Liberman 1997: G. Liberman, Valerius Flaccus. Argonautiques, Chants I-IV, Paris, Les Belles Lettres. Lindner 1996: Th. Lindner, Lateinische Komposita. Ein Glossar vornehmlich zum Wortschatz der Dichtersprache, Innsbruck, IBS. Liuzzi 1983: D. Liuzzi, M. Manilio. Astronomica, Libri I e II, Lecce, Milella.

Liuzzi 1988: D. Liuzzi, Echi degli Aratea di Cicerone negli Astronomica di Manilio, “Rudiae” 1, pp. 117-159. Liuzzi 1990: D. Liuzzi, M. Manilio, Astronomica, Libro primo, Lecce, Milella. Liuzzi 1994: D. Liuzzi, M. Manilio. Astronomica, Libro IV, Galatina, Congedo Editore.

253 Löfstedt 1949: E. Löfstedt, Reminiscence and Imitation. Some Problems in Latin Literature, “Eranos” 47, pp. 148-164. Luck 1966: G. Luck, Notes on Catullus, “Latomus” 25, pp. 278-286.

Luck 1976: G. Luck, Aratea, “AJPh” 97, pp. 213-234.

Ludwig 1965: W. Ludwig, Aratos, in RE, Suppl. X, Stuttgart, A. Druckenmüller, coll. 26-39. Lühr 1969: F.-F. Lühr, Ratio und Fatum. Dichtung und Lehre bei Manilius, Frankfurt am Main 1969 (diss.).

Luiselli 1964: B. Luiselli, Sulla composizione degli Aratea ciceroniani, “RCCM” 6, pp. 156- 163.

Lyne 1978: R. O. A. M. Lyne, Ciris. A poem attributed to Vergil, edited with an Introduction and Commentary, Cambridge, University Press. Maas 1973: P. Maas, Kleine Schriften, München, C. H. Beck. Maass 1892: E. Maass, Aratea. Philologische Untersuchungen, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung. Maass 1893: E. Maass, Arati Phaenomena, recensuit et fontium testimoniorumque notis prolegomenis indicibus instruxit, Berolini, Weidmann.

Maass 1898: E. Maass, Commentariorum in Aratum Reliquiae, Berlin, Weidmann.

Maggiulli 1977: G. Maggiulli, L’aesculus e la quercus in Virgilio, in Atti del convegno virgiliano sul bimillenario delle Georgiche (Napoli, 17-19 dicembre 1975), Napoli, Istituto Universitario Orientale, pp. 421-429.

Magnaldi 2008: G. Magnaldi, Le Filippiche di Cicerone, edizione critica, Alessandria, Edizioni dell’Orso.

Malcovati 1943: E. Malcovati, Cicerone e la poesia, Pavia, Tipografia del libro.

Maltby 1991: R. Maltby, A Lexicon of Ancient Latin Etymologies, Leeds, Cairns. Maltby 2002: R. Maltby, Tibullus: Elegies. Text, Introduction and Commentary, Cambridge, University Press. Manitius 1894: C. Manitius, Hipparchi in Arati et Eudoxi Phaenomena Commentariorum Libri Tres, Lipsiae, Teubner.

Manuwald 2007: G. Manuwald, Cicero, Philippics 3-9, I, Introduction, Text, Translation, References and Indexes; II, Commentary, Berlin, De Gruyter.

Marinone 1997 (a): N. Marinone, Cronologia ciceroniana, Roma, Centro di Studi Ciceroniani. Marinone 1997 (b): N. Marinone, Berenice da Callimaco a Catullo, testo critico, traduzione e commento; nuova edizione ristrutturata, ampliata e aggiornata, Bologna, Pàtron.

254 Marouzeau 19906: J. Marouzeau, Térence, II, Heautontimoroumenos – Phormion, Paris, Les Belles Lettres. Martin 1956 (a): J. Martin, Histoire du Texte des Phénomènes d’Aratos, Paris, Klincksieck.

Martin 1956 (b): J. Martin, Arati Phaenomena, introduction, texte critique, commentaire et traduction, Firenze, La Nuova Italia.

Martin 1974: J. Martin, Scholia in Aratum vetera, Stutgardiae, Teubner.

Martin 19982: J. Martin, Aratos Phénomènes, I-II, texte établi, traduit et commenté, Paris, Les Belles Lettres.

Massimilla 2010: G. Massimilla, Callimaco. Aitia. Libro terzo e quarto, introduzione, testo critico, traduzione e commento, Pisa-Roma, Fabrizio Serra. Mastandrea 1986: P. Mastandrea, Due restauri ciceroniani, “Prometheus” 12, pp. 239-244. Mastrorosa 2002: I. Mastrorosa, Le fonti astronomiche: un profilo, in I. Mastrorosa – A. Zumbo (a c. di), direzione e coordinamento di C. Santini, Letteratura scientifica e tecnica di Grecia e Roma, Roma, Carocci, pp. 168-181.

Matteo 2002: R. Matteo, Note apolloniane, “ARF” 4, pp. 155-165.

Maurach 1977: G. Maurach, Aratos und Germanicus über den Schlangenträger, “Gymnasium” 84, pp. 339-348 Maurach 1978: G. Maurach, Germanicus und sein Arat. Eine vergleichende Auslegung von V. 1-327 der Phaenomena, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag.

Mayor 1883: J. B. Mayor, M. Tullii Ciceronis De natura deorum libri tres, with Introduction and Commentary, II, Cambridge, University Press. Mazzoli 1970: G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Milano, Ceschina. Merkel 1853: R. Merkel, Apollonii Argonautica, emendavit apparatum criticum et prolegomena adiecit, Lipsiae, Teubner.

Merrill 1921: W. A. Merrill, Lucretius and Cicero’s Verse, “UCPPh” 5, pp. 143-154.

Merrill 1924: W. A. Merrill, The Metrical Technique of Lucretius and Cicero, “UCPPh” 7, pp. 293-306. Mette 1961: H. J. Mette, “Genus tenue” und “mensa tenuis” bei Horaz, “MH” 18, pp. 136- 139.

Miller 1983: J. F. Miller, Propertius 3.2 and Horace, “TAPhA” 113, pp. 289-299.

Montenz 2004: N. Montenz, Nonno di Panopoli e Apollonio Rodio: tecniche di riuso e parodia nei canti 33-34 dei «Dionysiaca», “Acme” 57, pp. 93-119.

Mooney 1912: G. W. Mooney, The Argonautica of Apollonius Rhodius, edited with Introduction and Commentary, Dublin, University Press.

255 Morford 1967: P. O. Morford, Ancient and Modern in Cicero’s Poetry, “CPh” 62, pp. 112- 116. Morisi 1999: L. Morisi, Gaio Valerio Catullo. Attis (carmen LXIII), Bologna, Pàtron. Munro 1886-1891: H. A. J. Munro, T. Lucreti Cari De rerum natura Libri sex, with Notes and a Translation, I-III, Cambridge, University Press. Murgatroyd 1980: P. Murgatroyd, Tibullus I. A Commentary on the First Book of the Elegies of Albius Tibullus, Bristol, Bristol Classical Press. Murphy 1958: P. R. Murphy, Archaism and Colloquialism in the Use of a Latin Negative Pattern, “AJPh” 79, pp. 44-51. Myers 1994: K. S. Myers, Ovid’s Causes. Cosmogony and Aetiology in the Metamorphoses, Ann Arbor 1994, University of Michigan Press.

Mynors 1990: R. A. B. Mynors, Virgil. Georgics, edited with a Commentary, Oxford, Clarendon Press. Negri 2000: M. Negri, Stelle spaventose o stelle luminose? Una nota su δεινός in Arato, “Athenaeum” 88, pp. 277-280. Némethy 1905: G. Némethy, Albii Tibulli Carmina. Accedunt Sulpiciae Elegidia. Edidit, adnotationes exegeticis et criticis instruxit, Budapestini, sumptibus Academiae Litterarum Hungaricae. Nikitinski 2002: H. Nikitinski, A. Persius Flaccus Saturae commentario atque indice rerum notabilium instruxit, München, Saur.

Nisbet-Rudd 2004: R. G. M. Nisbet – N. Rudd, A Commentary on Horace: Odes Book III, Oxford, University Press.

Norden 19263: E. Norden, P. Vergilius Maro. Aeneis Buch VI, Leipzig, Teubner. Nuzzo 2003: G. Nuzzo, Gaio Valerio Catullo. Epithalamium Thetidis et Pelei (c. LXIV), Palermo, Palumbo. O’ Hara 1992: J. J. O’Hara, Naming the Stars at Georgics 1.137-138 and Fasti 5.163-82, “AJPh” 113, pp. 47-61. Opelt 1976: I. Opelt, In Gottes Namen beginnen, “RomBarb” 1, pp. 181-193.

Paduano 1972: G. Paduano, Studi su Apollonio Rodio, Roma, Edizioni dell’Ateneo.

Pàmias - Zucker 2013: J. Pàmias i Massana - A. Zucker, Ératosthène de Cyrène. Catastérismes, édition critique par J. Pàmias i Massana, traduction par A. Zucker, introduction et notes par J. Pàmias i Massana et A. Zucker, Paris, Les Belles Lettres.

Panichi 1969: E. Panichi, Gli Aratea e i Phaenomena, Milano – Roma – Napoli– Città di Castello, Dante Alighieri.

Paratore 1946: E. Paratore, Virgilio. Le georgiche, Libri I-II, Verona 1946, Mondadori.

256 Parker 1993: G. Parker, Intimations of immortality: a study of perennis, “Acta classica” 36, pp. 119-127. Pasquali 1911 (=1986): G. Pasquali, Das Proömium des Arat, in ΧΑΡΙΤΕΣ. Friedrich Leo zum sechzigsten Geburtstag, Berlin, pp. 113-122; riedito in F. Bornmann – G. Pascucci – S. Timpanaro (a c. di), Giorgio Pasquali. Scritti filologici, I, Firenze 1986, pp. 130-138.

Pasquali 1920: G. Pasquali, Orazio lirico, Firenze, Le Monnier (rist. xerografica con introduzione, indici ed appendice di aggiornamento bibliografico a c. di A. La Penna, Firenze1964, Le Monnier).

Pearce 1966: T. E. V. Pearce, The Enclosing Word Order in the Latin Hexameter, “CQ” 16, pp. 140-171 e 298-320.

Pease 1917: A. S. Pease, There were two versions of Cicero’s Prognostica?, “CPh” 12, pp. 302-304.

Pease 1955: A. S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum libri III, I, Liber primus, Cambridge MA, Harvard University Press.

Pease 1958: A. S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum libri III, II, Libri secundus et tertius, Cambridge MA, Harvard University Press. Peck 1897: T. Peck, Cicero’s Hexameters, “TAPhA” 28, pp. 60-74. Pellacani 2013: D. Pellacani, Gli Aratea di Cicerone. Per un commento al proemio (frr. 1-2) e alla mappa delle costellazioni, Padova 2013 (tesi di dottorato disponibile on line all’indirizzo http://paduaresearch.cab.unipd.it/6062). Pellacani 2014 (a): D. Pellacani, Virgilio, ecl. 3,60: ambiguità sintattica e arte allusiva, “Paideia” 69, pp. 457-466. Pellacani 2014 (b): D. Pellacani, «Shunning her mother’s sight». A Note on Cicero, Aratea, fr. 31 Soubiran, “S&T” 12, pp. 19-28 + Tavole.

Pellacani 2015: D. Pellacani, La descrizione dell’Ofiuco negli Aratea di Cicerone; contributo in corso di stampa negli Atti della Seconda Giornata di Studi sui manoscritti astronomici illustrati, Poesia delle stelle. Tra antichità e medioevo (Pisa, 30-31.10.2013) e registrato on line su https://www.youtube.com/watch?v=extoYezr3QM.

Pendergraft 1986: M. L. B. Pendergraft, Aratean Echoes in Theocritus, “QUCC” 53, pp. 47- 54.

Pendergraft 1995: M. L. B. Pendergraft, Euphony and Etymology: Aratus’ Phaenomena, “SyllClass” 6, pp. 43-67. Perrelli 2002: R. Perrelli, Commento a Tibullo: Elegie, Libro I, Soveria Mannelli, Rubbettino. Pianezzola 1965: E. Pianezzola, Gli aggettivi verbali in –bundus, Firenze, Sansoni. Pianezzola 1991: E. Pianezzola, Commento al libro primo, in E. Pianezzola (a c. di), Ovidio. L’arte di amare, commento di G. Baldo - L. Cristante – E. Pianezzola, Milano 1991, Arnoldo Mondadori Editore.

257 Pini 1958: F. Pini, Subter nella letteratura latina dalle origini a Plinio il Giovane, “Maia” 10, pp. 72-80.

Pinto 2010: P. M. Pinto, Monumenti d’autore e storie di testi (Isocrate, Ennio, Orazio), “Philologus” 154, pp. 25-39.

Pöschl 1967 (19912): V. Pöschl, Die Horazode Exegi monumentum (c. 3, 30), “GIF” 20, pp. 261-272 (=Horazische Lyrik, Heidelberg, Winter, pp. 246-262).

Pompella 1970: G. Pompella, Apollonio Rodio. Le Argonautiche, Libri III-IV, testo, traduzione e note, Casoria, Istituto Editoriale del Mezzogiorno.

Pompella 2006: G. Pompella, Apollonii Rhodii Argonautica, Hildesheim, Olms.

Pontani 2001: F. Pontani, The Tooth of Time. A Poetic Metaphor from Simonides to Shakespeare – and beyond, “C&M” 52, pp. 5-36.

Poochigian 2010: A. Poochigian, Aratus. Phaenomena, translated, with an introduction and notes, Baltimore 2010, The Johns Hopkins University Press.

Possanza 2004: D. M. Possanza, Translating the Heavens. Aratus, Germanicus, and the Poetics of Latin Translation, New York, Peter Lang Publishing.

Prato 1964: C. Prato, Gli epigrammi attribuiti a L. Anneo Seneca. Introduzione, testo critico, traduzione, commento, indice delle parole, Roma, Edizioni dell’Ateneo. Putnam 1973: M. C. J. Putnam, Tibullus: A Commentary, Norman, University of Oklahoma Press. Radici Colace 2002: P. Radici Colace, Astrologia, in I. Mastrorosa – A. Zumbo (a c. di) – C. Santini (direzione e coordinamento di), Letteratura scientifica e tecnica di Grecia e Roma, Roma, Carocci, pp. 82-110. Reale 1974: G. Reale, Aristotele. Trattato sul cosmo per Alessandro, traduzione con testo greco a fronte, introduzione, commento e indici, Napoli, Loffredo. Reeve 1983: M. D. Reeve, Aratea, in L. D. Reynolds (a c. di), Texts and Transmission. A Survey of the Latin Classics, Oxford, Clarendon Press.

Rehm 1905: A. Rehm, Engonasin, in RE, V.2, Stuttgart, coll. 2563-2565.

Reynolds 1977: L. D. Reynolds, L. Annei Senecae Dialogorum Libri Duodecim, Oxonii 1977, e typographeo Clarendoniano.

Richmond 1965: J. A. Richmond, A note on the Elision of final ĕ in certain Particles used by Latin Poets, “Glotta” 43, pp. 78-103. Richmond 1972: J. A. Richmond, Atque and neque again, “Glotta” 50, pp. 86-97.

Romano 1991: E. Romano, Q. Orazio Flacco. Le opere, I. 2, Le odi, il carme secolare, gli epodi. Commento, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato.

258 Ronconi 1937 (=1968): A. Ronconi, Arato interprete di Omero, “SIFC” 14, pp. 167-202 e 237-259 (=Filologia e linguistica, Roma, Edizioni dell’Ateneo, pp. 45-107).

Rosati 1979: G. Rosati, L’esistenza letteraria. Ovidio e l’autocoscienza della poesia, “MD” 2, pp. 101-136.

Rosati - Faranda Villa – Corti 1997: G. Rosati – G. Faranda Villa – R. Corti, Publio Ovidio Nasone, Le metamorfosi, Milano, Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche (rist. 2008).

Rostropowicz 1995: J. Rostropowicz, Etoiles et mythes stellaires dans la poésie alexandrine, “EOS” 83, pp. 265-272.

Rudd-Wiedemann 1987: N. Rudd - TH. Wiedemann, Cicero, De Legibus I, edited with Introduction & Commentary, Bristae, Bristol Classical Press. Sale 1966: W. Sale, The Popularity of Aratus, “CJ” 61, pp. 160-164.

Salemme 1983: C. Salemme, Introduzione agli “Astronomica” di Manilio, Napoli, Società Editrice Napoletana. Salvatore 1984: A. Salvatore, Echi degli Aratea nella Ciris, in “Ciceroniana”. Atti del V Colloquium Tullianum (Roma – Arpino, 2 – 4 ottobre 1982), Roma, pp. 237-241 Salvatore 1997: A. Salvatore, Culex, in A. Salvatore – A. De Vivo – L. Nicastri – I. Polara, Appendix Vergiliana, Romae, typis Officinae poligraphicae. Santini 1990: C. Santini, Il proemio degli Arati Phaenomena di Germanico, in C. Santini – N. Scivoletto (a c. di), Prefazioni, prologhi, proemi di opere tecnico-scientifiche latine, I, Roma, Herder, pp. 17-28. Santini 2002: C. Santini, Astronomia. La storia della disciplina, in I. Mastrorosa – A. Zumbo (a c. di), direzione e coordinamento di C. Santini, Letteratura scientifica e tecnica di Grecia e Roma, Roma, Carocci, pp. 141-167.

Santoni 2009: A. Santoni, Eratostene. Epitome dei Catasterismi. Origine delle costellazioni e disposizione delle stelle, Pisa, Edizioni ETS.

Santoni 2013: A. Santoni, Il Pegaso di Arato Phaen. 205-224. Tra Esiodo e il cielo, “SIFC” 106, pp. 149-166. Sauvage 1975: A. Sauvage, Le serpent dans la poésie latine, “RPh” 49, pp. 241-254. Scherer 1953: A. Scherer, Gestirnnamen bei den indogermanischen Völkern, Heidelberg, Winter. Schierl 2006: P. Schierl, Die Tragödien des Pacuvius. Ein Kommentar zu den Fragmenten mit Einleitung, Text und Übersetzung, Berlin, De Gruyter. Schiesaro 1996: A. Schiesaro, Aratus’Myth of Dike, “MD” 37, pp. 9-26. Schwabl 1972: H. Schwabl, Zur Mimesis bei Arat. Prooimion und Parthenos, in “Antidosis”. Festschrift für Walther Kraus zum 70. Geburtstag, Wien, Böhlaus, pp. 336-356.

259 Scivoletto 1956: N. Scivoletto, Auli Persi Flacci Saturae, testo critico e commento, Firenze, La Nuova Italia. Sedley 2003: D. Sedley, The School, from Zeno to Arius Didymus, in B. Inwood, The Cambridge Companion to the Stoics, Cambridge, University Press, pp. 7-32. Seelentag 2012: S. Seelentag, Der pseudovergilische Culex, Text-Übersetzung-Kommentar, Stuttgart, Steiner.

Shackleton Bailey 1986: D. R. Shackleton Bailey, Cicero Philippics, edited and translated, Chapel Hill-London 1986, The University of North Carolina.

Shackleton Bailey 1994: D. R. Shackleton Bailey, Homoteleuton in Latin Dactylic Verse, Stuttgart, Teubner.

Shackleton Bailey 20014: D. R. Shackleton Bailey, Q. Horatius Flaccus. Opera, München- Leipzig 20014, Saur.

Shorrock 2001: R. Shorrock, The challenge of epic. Allusive engagement in the Dionisyaca of Nonnus, Leiden, Brill.

Siebengartner 2012: A. Siebengartner, Stoically Seeing and Being Seen in Cicero’s Aratea, in J. Glucker – Ch. Burnett, Greek into Latin from Antiquity until the Nineteenth Century, London-Turin, The Warburg Institute-Nino Aragno Editore, pp. 97-115.

Skoda 1991: F. Skoda, Les adjectives grecs en –σος traduisant des particularités ou des defaults physiques: un micro-système lexical, “REG” 104, pp. 367-393. Skutsch 1985: O. Skutsch, The Annals of Q. Ennius, Oxford, Clarendon Press. Soubiran 1954: J. Soubiran, L’hexamètre de Cicéron: fréquence et répartition des mots en function de leur type prosodique, “Pallas” 2, pp. 108-124. Soubiran 1955: J. Soubiran, L’hexamètre de Cicéron: le groupe des deux derniers pieds, “Pallas” 3, pp. 41-59. Soubiran 1969 (a): J. Soubiran, Vitruve. De l’architecture, Livre IX, texte établi, traduit et commenté, Paris, Les Belles Lettres.

Soubiran 1969 (b): J. Soubiran, Les hexameters spondaïques à quadrisyllabe final, “GIF” 21, pp. 329-349. Soubiran 1972: J. Soubiran, Cicéron. Aratea, fragments poétiques, texte établi et traduit, Paris, Les Belles Lettres (rist. 2002). Soubiran 1979: J. Soubiran, L’astronomie a Rome, in L’astronomie dans l’antiquité classique. Actes du Colloque tenu à l’Université de Toulouse-Le Mirail (21-23 octobre 1977), Paris, Les Belles Lettres.

Soubiran 1981: J. Soubiran, Aviénus. Les Phénomènes d’Aratos, Paris, Les Belles Lettres. Spaltenstein 2002: F. Spaltenstein, Commentaire des Argonautica de Valérius Flaccus (livres 1 et 2), Bruxelles, Collection Latomus.

260 Steinmetz 1966: P. Steinmetz, Germanicus, der römische Arat, “Hermes” 94, pp. 450-482. Stewart 2008: S. Stewart, Emending Aratus’Insomnia: Callimachus Epigr. 27, “Mnemosyne” 61, pp. 586-600. Stok 1990: F. Stok, L’alternativa dei «Fasti», “GIF” 42, pp. 177-198.

Syndikus 20013: H. P. Syndikud, Die Lyrik des Horaz. Eine Interpretation der Oden, II, Drittes und viertes Buch, Darmstadt 20013, WBG.

Tarrant 2004: R. J. Tarrant, P. Ovidi Nasonis Metamorphoses, recognovit brevique adnotatione critica instruxit, Oxonii, e typographeo Clarendoniano.

Tarrant 2012: R. Tarrant, Virgil Aeneid Book XII, Cambridge, Clarendon Press. Taub 2010: L. Taub, Translating the Phaenomena across genre, language and culture, in A. Imhausen – T. Pommerening (a c. di), Writings of Early Scholars in the Ancient Near Est, Egypt, Rome, and Greece. Translating Ancient Scientific Texts, Berlin-New York, De Gruyter, pp. 119-137.

Thomas 1986: R. F. Thomas, Virgil’s Georgics and the Art of Reference, “HSPh” 90, pp. 171- 198.

Thomas 1988: R. F. Thomas, Virgil Georgics I: Books I-II, Cambridge, University Press. Timpanaro 1996: S. Timpanaro, La volta celeste e il cielo stellato in Ennio, “SCO” 46, pp. 29-59. Töchterle 1994: K. Töchterle, Lucius Annaeus Seneca. Oedipus. Kommentar mit Einleitung, Text und Übersetzung, Heidelberg, Winter. Tomasco 2002: D. Tomasco, Commentario al Libro VII, in E. Flores – P. Esposito - G. Jackson – M. Paladini – M. Salvatore – D. Tomasco (edd.), Quinto Ennio. Annali (Libri I- VIII), II, Napoli, Liguori. Tordeur 1974: P. Tordeur, Elision de mots pyrrhiques et tribraques dans l’hexamètre latin, “Latomus” 33, pp. 353-369. Townend 1965: G. B. Townend, The Poems, in T. A. Dorey (a c. di), Cicero, London, Routledge, pp. 109-134.

Traglia 1950: A. Traglia, La lingua di Cicerone poeta, Bari, Adriatica Editrice. Traglia 1955: A. Traglia, Sopra alcune consonanze fra il c. 66 di Catullo e gli Aratea di Cicerone, in Studi in onore di Gino Funaioli, Roma, Signorelli, pp. 434-438. Traglia 1963: A. Traglia, Reminiscenze empedoclee nei «Fenomeni» di Arato, in Miscellanea di studi alessandrini in memoria di Augusto Rostagni, Torino, Bottega d’Erasmo, pp. 382- 393. Traglia 19632: A. Traglia, M. Tulli Ciceronis Poetica Fragmenta, Milano, Mondadori. Traglia 19713: A. Traglia, I frammenti poetici, Milano, Mondadori.

261 Traglia 1992: A. Traglia, Sul frammento astronomico di Quinto Tullio Cicerone, in «Humanitas» classica e «sapientia» cristiana. Scritti offerti a Roberto Iacoangeli, Roma, LAS, pp. 65-72. Traina 1956 (=1970): A. Traina, Variazioni omeriche in Arato, “Maia” 8, pp. 39-48 (=Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma, Edizioni dell’Ateneo, pp. 205-220).

Traina 1959 (=1970): A. Traina, Per l’interpretazione di un verso ciceroniano (26 Mor.), “Ciceroniana” 1, 1959, pp. 78-82 (=Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma, Edizioni dell’Ateneo, pp. 91-99).

Traina 1961: A. Traina, Commento alle traduzioni poetiche di Cicerone, in Atti del I Congresso internazionale di Studi Ciceroniani, II, Roma 1961, Centro di Studi Ciceroniani, pp. 141-159.

Traina 1969 (=19912): A. Traina, Laboranti similis. Per la storia di un omerismo virgiliano, “Maia” 21, pp. 71-78; rist. rielaborato in Id., Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici II serie, Bologna, Pàtron, pp. 91-103. Traina 19862: A. Traina, Nota aratea, in Id., Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, I serie, Bologna, Pàtron, pp. 159- 162.

Traina 1988: A. Traina, Introduzione a Orazio lirico. La poesia della saggezza, in Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici. Quinta serie, Bologna, Pàtron.

Traina 1989: A. Traina, Le traduzioni, in G. Cavallo – P- Fedeli – A. Giardina (a c. di), Lo spazio letterario di Roma antica, II, La circolazione del testo, Roma, Salerno Editrice, pp. 93-123. Trencsényi-Waldapfel 1961: I. Trencsényi-Waldapfel, De Cicerone poetarum Graecorum interprete, in Atti del I Congresso Internazionale di Studi Ciceroniani, II, Roma, Centro Studi Ciceroniani, pp. 161-174.

Vian 1961: F. Vian, Apollonios de Rhodes. Argonautiques, Chant III, edition, introduction et commentaire, Paris 1961, Presses Universitaires de France.

Vian – Delage 1980: F. Vian, Apollonios de Rhodes. Argonautiques, Chant III, texte établi et commenté par F. Vian et traduit par É. Delage, Paris, Les Belles Lettres.

Vian 1997: F. Vian, Μάρτυς chez Nonnos de Panopolis: étude de sémantique et de chronologie, “REG” 110, pp. 143-160.

Vigevani 1947: A. Vigevani, Ricerche intorno agli “Aratea” del poeta Avieno e alle loro fonti, “ASNP” 16, pp. 49-72.

Vischer 1965: R. Vischer, Das einfache Leben. Wort- und motivgeschichtliche Untersuchungen zu einem Wertbegriff der antiken Litteratur, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht. Voit 1984: L. Voit, Arat und Germanicus über Lyra, Engonasin und Kranz, “WJA” 10, pp. 135-144.

262 Vretska 1979: H.-K. Vretska, Marcus Tullius Cicero. Pro Archia. Ein Zeugnis für den Kampf des Geistes um seine Anerkennung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft.

Wageningen 1915: I. van Wageningen, M. Manilii Astronomica, Lipsiae, Teubner.

Walde – Hofmann 1938: A. Walde – J. B. Hofmann, Lateinisches étymologisches Wörterbuch, I, Heidelberg, Winter. Weinhold 1912: H. Weinhold, Die Astronomie in der antiken Schule, München, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung.

Wellauer 1828: A. Wellauer, Apollonii Rhodii Argonautica, I, Lipsiae, Teubner.

Wilamowitz-Moellendorf 1922: U. von Wilamowitz – Moellendorf, Pindaros, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung.

Wilkinson 1963: L. P. Wilkinson, Golden latin Artistry, Cambridge, University Press. Wills 1996: J. Wills, Repetition in Latin Poetry. Figures of Allusion, Oxford, Clarendon Press. Winterfeld 1896: P. von Winterfeld, Beiträge zur Quellen- und Textkritik der Wetterzeichen Aviens, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung.

Witte 1914: K. Witte, Der Hexameter des Ennius, “RhM” 69, pp. 205-232.

Woodmann 1974: T. Woodmann, Exegi monumentum. Horace, Odes 3.30, in T. Woodmann – D. West, Quality and Pleasure in Latin Poetry, Cambridge, University Press.

Wreschniok 1907: R. Wreschniok, De Cicerone Lucretioque Ennii imitatoribus, Vratislavae (diss.). Zanardi 1932: M. Zanardi, Genitivi in –ai ed in –ae in Lucrezio, “SIFC” 10, pp. 147-160. Ziegler 19793: K. Ziegler, M. Tulli Ciceronis De legibus, Freiburg-Würzburg19793, Ploetz. Zinn 1941: E. Zinn, Die Praeposition apud in der hexametrischen Poesie, “Philologus” 94, pp. 285-302. Zwierlein 1982: O. Zwierlein, Der Ruhm der Dichtung bei Ennius und seinen Nachfolgern, “Hermes” 110, pp. 85-102.

Zwierlein 1986: O. Zwierlein, Kritischer Kommentar zu den Tragödien Senecas, Stuttgart, Steiner.

263