Giro D'italia 1909: Prima Tappa Di Una Corsa Lunga Un Secolo

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Giro D'italia 1909: Prima Tappa Di Una Corsa Lunga Un Secolo Caro navigatore, appassionato di ciclismo o semplice curioso, l’Unione Ciclistica Scat di Forlì ti regala la lettura di alcune pillole del maestoso romanzo dello sport del pedale….. Sono gli scritti del ricercatore e storico Maurizio Ricci, curatore del sito, in parte raccolti nei libri che ha pubblicato, ed in parte in via di pubblicazione. In un altro link di queste nostre pagine, i più bravi lettori, mettendosi in competizione, troveranno attraverso appositi quiz, la possibilità di ricevere i lavori di Ricci, presso le rispettive abitazioni. Il nostro viaggio sulla Storia del Ciclismo, che non avrà confini di zona, nazione e specialità, non poteva che partire da quella data, il 1909, che fu genesi del secolare solco del Giro d’Italia. Un’edizione epica che vi raccontiamo…. Giro d’Italia 1909: prima tappa di una corsa lunga un secolo. ….Una terra lunga e sottile come un dito della mano d’Europa obliquo, gibboso e generoso pittore di fascinosi sguardi d’orizzonte dove il mare s’unisce ai monti donando agli occhi un’anfora di sogni. Un itinerario che dalla geografia muove l’intensità dei linguaggi i colori dei costumi i sapori ed i venti delle usanze nel guscio di una cultura che rivive ed accarezza la storia Un paese, l’Italia che rende all’immaginario la sua rocciosa spina dorsale dove gli abiti sono i segni del tempo percorso da uomini umili e veri nella verità d’una medesima fatica. E quel motore umano che spinge nel brusio d’affannosi respiri un mezzo onesto ed uguale portatore del distinguo dell’unicità dipinge ogni anno l’affresco d’un tema che non ha genesi e fine. Così, ogni segmento diviene solco che si libra nel raccolto delle menti come il persistente messaggio fuso da quei pedalatori nella grandiosità delle emozioni su un intreccio d’ermeneutiche. Il Giro d’Italia è sempre stato questo, se lo dimentichiamo è perché il mefitico invaso della fretta ha inciso sui nostri emisferi per lasciarci il ghiaccio di quella latta che non può essere il nostro avvenire… (Morris – 12 febbraio 2008) Le origini Scavando sull’alba del movimento ciclistico non solo in Italia, emerge da subito un dato che ha svolto una funzione trainante per tutto il pedale: l’impiantistica. Lo sviluppo del velocipede, poi di- venuto bicicletta, prima ancora che riprove su strada (a cui si fa troppo spesso unico riferimento), propose soprattutto pista, ovvero luoghi protetti, ove era più facile trasportare l’attenzione del pub- blico ed i conseguenti processi simpatetici ed imitativi. Non si trattava di velodromi come li conce- piamo in senso moderno, ma di “tondini” allora in terra battuta ricavati immediatamente con lo- giche che tenevano conto della forza centrifuga e con conseguenti curve rialzate. Certo, le pendenze formavano angoli irrisori rispetto a quelli dei veri e propri velodromi, ma erano comunque suf- ficienti per raccogliere gli scopi minimi della loro costituzione. Diverse città, le loro rudimentali piste le ricavavano all’interno dei giardini pubblici, o come alternativa ai costituendi ippodromi, ed a ben vedere, alcuni poli, poi confermatisi lungo la storia del ciclismo, ebbero proprio nell’esistenza di questi impianti, un progenitore peculiare. Dunque, se alle prove di resistenza su strada, si deve e si vuole riferire, errando, la fondazione di questo sport, alla pista, va comunque consegnato, per mera onestà, il merito dello sviluppo nei ter- mini tecnici del mezzo bicicletta e la sua popolarità. I primi grandi campioni, quelli che richia- mavano le folle e finivano come riferimenti delle locandine del tempo, erano i corridori dei tondini. O meglio, si trattava di atleti che alternavano alla pista la strada, vincendo su ambedue le specialità, fino a scegliere definitivamente le corse sugli anelli, in quanto prodighe di guadagni impensabili fra le polverose arterie dell’epoca. La stessa industria guardava quei corridori come l’anello necessario per giungere al pubblico. In taluni paesi, soprattutto nel nord America e più in generale negli stati di lingua inglese, la pista ha mantenuto il proprio dominio nel senso più radicale per decenni, al punto di apparire come l’unico versante del ciclismo. Quando si sfogliano le pagine della storia ciclistica più lontana, addirittura quella pionieristica, il lettore trova riferimenti sul numero dei partecipanti e persino sul pubblico, mentre raramente si imbatte su analoghi riporti, relativamente alle partecipazioni e ai coinvolgimenti attorno ai “ton- dini”. In parte, tutto ciò è dovuto alla minore esigenza di proposta da parte degli estensori di molti paesi, via via legata al sempre minore interesse dell’osservatorio verso il ciclismo dei velodromi, ed in parte per la considerazione, vecchia un secolo e un quarto, che attorno a quegli anelli, fossero scontate le presenze di migliaia di persone e di decine e decine di partecipanti atleti. Un “peccato originale” su cui gli storici di questo sport non hanno mai posto rimedio, forse anche perché il terreno di ricerca si apriva su campi diversi dal riporto sportivo. In altre parole, il pedale dei tondini rappresentava una festa, un riferimento pari agli spettacoli circensi, all’ippica o a quei tornei di lotta fra animali, che costituivano un’antropologia essenziale e determinante, nell’unire la crescita socia- le, con l’ancor sottile tempo libero e il vedere da vicino i segni di un’industria crescente, capace di proporre alternativa al cavallo e alle carrozze. Lì, su quegli anelli in terra battuta, s’erano eretti degli autentici monumenti per il nuovo mezzo, delle icone diremmo oggi, funamboli potenti e virtuosi i cui nomi risuonavano sulle folle. I vari Pontecchi, Pasini, Nuvolari, Tommaselli, Momo, Singrossi, Bixio e, soprattutto, Buni, erano i grandi pionieri che cementavano gli echi dei primissimi alfieri del biciclo, erano il ciclismo di chi si poneva, in qualche modo, al contatto con la bicicletta. La strada, fino ai primi anni del ‘900, aveva fatto poco per muovere fantasie e travolgenti passioni, anche se non erano mancate le iniziative coraggio- se, sulle ali della prima corsa di velocipedi, la Firenze-Pis- toia risalente al 1870 (nella foto gli organizzatori) , come ad esempio la Milano-Torino nel 1876, o le corse che nasce- vano qua e là in tutto il Paese. Ben presto nacquero i campio- nati su strada, che allora si chiamavano “di resistenza”, su percorsi mai superiori ai 150 chilometri, mentre Lombardia, Piemonte, Liguria,Veneto, Emilia e Lazio, erano le regioni più impegnate in direzione di quel mezzo assai meno complesso ed ingombrante rispetto al velocipede. Le gare però, avevano ben poca ufficialità, i controlli erano scarsi ed erano ammessi tutti, senza distinzione di classe e di specialità: stradisti, velocisti, mezzofondisti, dilettanti e professionisti. Già, quei profes- sionisti che dai tondini si muovevano sulle strade, perché sicuri di emergere e di percepire quattrini. Era dunque un ciclismo che cercava affannosamente il suo orizzonte su strada, ma che non riusciva ancora a vedere, davanti a sé, quali sviluppi avrebbe potuto avere, aldilà dei consolidatissimi ton- dini. L’evento svolta si determinò nel 1905, quando l’Unione Sportiva Milanese, bandì una “Corsa Na- zionale” di 340 chilometri e “La Gazzetta dello Sport”, affiancò l’iniziativa che ebbe un successo clamoroso, per l’entusiasmo che suscitò e la partecipazione fattiva dei corridori. Soprattutto, il gior- nale si rese conto che il nuovo clima, andava sostenuto con iniziative adeguate, capaci di allargare il fronte degli interessi che la pista, fino a quel momento variabile pressoché unica, aveva mosso at- torno al sempre più popolare mezzo bicicletta. In questo contesto, gli appoggi e la presenza della testata, se ben diretti, avrebbero potuto rappresentare anche una crescita notevole in fatto di vendita di copie. Non si trattava solo di fare pubblicità ad una bicicletta che iniziava a vendersi da sola. Il capo redattore della Gazzetta, Tullo Morgagni, a dispetto di un portamento da “professoressino” di filosofia e di un fisico ben lontano dall’imponenza, iniziò a dare gambe ad una delle tante voci del suo sangue romagnolo, imponendo al giornale quella che poi si rivelerà una terapia d’urto fon- damentale per i successi organizzativi della testata. Iniziarono così ad uscire supplementi sul ciclis- mo, ed il giornale si pose di fronte alla disciplina con costanza e completezza, aprendosi alla strada con le stesse intensità della pista. Nacquero così familiarità ed amicizie fra i giornalisti e l’ambiente del pedale, sia sul versante di chi usava il mezzo in chiave agonistica e sia su chi lo costruiva. Pro- prio ad una di queste, come si vedrà più avanti, si deve l’inizio del fortunato e secolare rapporto fra la testata ed il ciclismo. La nuova ventata redazionale della Gazzetta dello Sport era tale, da rendere ovvio e per tanti aspetti scontato, un intervento diretto del giornale nell’organizzazione delle gare. Nel 1905, pochi mesi dopo la citata “Corsa Nazionale”, il 12 novembre, il giornale sportivo mila- nese firmò interamente la prima edizione del Giro di Lombardia. La gara registrò un più che dis- creto successo, che cementò la fama del vincitore Giovanni Gerbi, il “Diavolo Rosso”, già allora il corridore su strada più popolare, ed in particolare, l’azione della Gazzetta fu determinante nel man- tenere alte quelle attenzioni e quelle attese che portarono poi, cinque anni dopo, quella corsa ad un traguardo straordinario per l’epoca pionieristica del ciclismo: nel 1909 ben 101 corridori riusciranno a concluderla. Due anni dopo la nascita del Giro di Lombardia, il 14 aprile 1907, la testata, alzò il sipario alla pri- ma edizione della Milano Sanremo. I tempi marcavano veramente una consistente evoluzione, in- fatti, quella che diverrà la “Classicissima di primavera”, registrò subito un gran bel successo. Intanto oltralpe, il Tour de France, forte del suo lustro di storia, si consolidava e raccoglieva adesio- ni sempre più europee, ed in Italia, qualcuno, aveva capito che era arrivato il momento di proporre una corsa sulla medesima falsariga.
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