La Sera Andavamo in Via Veneto
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Scalfari_01_1-386 2-04-2009 12:37 Pagina 5 i. La sera andavamo in via Veneto La sera andavamo in via Veneto, al caffè Rosati, che aveva soppiantato fin dall’immediato dopoguerra la terza saletta di Aragno. Le deviazioni da questo itinerario erano poche e di raggio assai limitato: talvolta ci si avventurava, fino da Carpano, che era a una cinquantina di metri più in su; oppure, passando da- vanti alla libreria Rossetti, si arrivava ai tavolini del Golden Gate sotto alle mura pinciane. Alcuni eccentrici attraversava- no addirittura la strada spingendosi fino allo Strega, da dove presto tornavano riferendo d’imprevisti incontri e di pessimi gelati. La cerchia dei «devoti» serali era stretta: attorno a Mario Pannunzio e a Franco Libonati – una coppia a suo modo irripe- tibile per la solidità dei legami «a contrasto» che li unirono dal 1940 fino alla morte di Mario nel 1968 – l’altra coppia che te- neva il campo era quella di Sandro De Feo con Ercole Patti. Spesso veniva Moravia. Più di rado Elsa Morante. Qualche gio- vane faceva da coro: Giovanni Russo, Paolo Pavolini, Renato Giordano, Chinchino Compagna. Ma da Rosati la compagnia s’allargava. Tra le dieci e le un- dici arrivavano Brancati, Attilio Riccio, Flaiano, Piero Accol- ti, Gian Gaspare Napolitano, Gorresio, Gino Visentini, Vin- cenzo Tallarico. Poche le mogli accolte nel gruppo e pochissime ammesse al diritto di parola. Se ne vendicavano bonariamente, giudicandoci da qualche tavolo di distanza. Verso la mezzanotte, scortato dal meno brutto dei due fra- telli Lupis e da Italo De Feo, che avevamo sopranominato «il Scalfari_01_1-386 2-04-2009 12:37 Pagina 6 6 i. i nomi, i luoghi, i libri teschio sul gagliardetto», faceva il suo ingresso Saragat, che però si sedeva a parte. Con lui s’intrecciavano messaggi e si ostenta- va da parte nostra un esuberante quanto assolutamente non sen- tito rispetto. L’opinione prevalente era che fosse politicamen- te fatuo, culturalmente inesistente, Goethe a parte. Per di più circondato da un personale politico che fin d’allora avevamo battezzato «la banda del buco» e che mettevamo all’ultimo po- sto come qualità morale, perfino dopo il Msi. Dopo mezzanotte, specie nelle tiepide sere estive, arrivava l’ultima ondata che risaliva da piazza del Popolo: Maccari, Ame- rigo Bartoli, Alfredo Mezio. Qualche volta Roberto Rossellini. Qualche volta Carlo Laurenzi. Stoppa. Anna Proclemer. La Rossi Drago. Passate le due, quando già i camerieri sbandati dal sonno ave- vano da un pezzo ritirato i vassoi e chiuso i battenti, Sandro De Feo dichiarava provocatoriamente che, visto che l’indomani do- veva alzarsi tardi, era venuta l’ora d’andare a letto, e la compa- gnia si scioglieva, in attesa che il rito si ripetesse il giorno do- po con identiche modalità di luoghi, discorsi e persone. Pannunzio diceva: com’è bello ogni tanto partire da Roma per poterci ritornare. Flaiano diceva: siamo un gruppo di uomi- ni indecisi a tutto. Gian Gaspare, silenzioso, fantasticava del- la sua «Mariposa». E Moravia, a chi ogni tanto lo prendeva in trappola raccontandogli enormi invenzioni e fatti mai accadu- ti, sbuffava: spirito di patata. Questo era il cerchio esterno del gruppo, giornalisti, scritto- ri, artisti. Vitelloni con un pizzico di snob. Molto misogini. Mol- to voyeurs. Molto indolenti. Alquanto sciroccosi. Testardamen- te sedentari, eccetto Moravia e compreso invece Gian Gaspa- re, che pure aveva viaggiato per mezzo mondo, ma sembrava non si fosse mai mosso da quella strada e da quei caffè. Correva l’anno Cinquanta. L’Italia era ancora profondamen- te contadina e papalina. Il partito comunista rumoreggiava ai bor- di delle istituzioni. «Il Mondo» era stato fondato da un anno e vendeva quindicimila copie. Non ne avrebbe mai vendute molto di più, ma la navicella dei liberals italiani aveva preso il mare. Scalfari_01_1-386 2-04-2009 12:37 Pagina 7 la sera andavamo in via veneto 7 Le stanze del «Mondo» erano in via Campo Marzio, al pia- no nobile di un antico palazzo, con le alte finestre sulla piaz- za del Parlamento e su via dei Prefetti. Un’anticamera presi- diata dal fido Nestori, uno stanzone metà del quale occupato dalla redazione, composta dalla Bice, da Nina Ruffini, da Me- zio, da Giulia Massari e da Flaiano in veste di capo redatto- re. L’altra metà era riservata agli amici, che vi tenevano sa- lotto dalle sei di sera alle nove. Un grande divano di pelle sdru- citissima era il pulpito riservato a Panfilo Gentile e a Mario Ferrara, che tagliavano ogni giorno a fette la Democrazia cri- stiana e il sanfedismo italiano. In un angolo, dietro un tavolo ingombro di carte, Ernesto Rossi col suo pizzo da moschettie- re ancora quasi nero, scriveva del tutto ignaro di quanto gli av- veniva intorno. Dietro una porta con mezzi vetri e tendine verdi c’era la stan- za del direttore, con alti soffitti, una grande scrivania e il ritrat- to di Cavour alla parete. La redazione si animava solo il pomeriggio, dalle quattro in poi. Pannunzio la mattina lavorava in casa, in via Lucrezio Ca- ro, dalle parti dei Prati. Leggeva i giornali e gli articoli dei col- laboratori. I libri li leggeva la notte e non li abbandonava che all’alba. Telefonava, ed erano telefonate lunghissime, politiche, più di rado letterarie. Dall’altro capo del filo gli interlocutori abituali erano Carandini, Leone Cattani, La Malfa, Libonati. Poi, il pomeriggio, impaginava il giornale e titolava gli articoli. Una volta la settimana si chiudeva per un’ora nella sua stanza con Gorresio e Forcella per concordare il «Taccuino», il noc- ciolo politico del giornale, che uscì invariabilmente a pagina 2 per diciott’anni. Altro tempo passava con Panfilo a discutere gli argomenti della rubrica che Gentile firmava «Averroé», e altro tempo ancora con Vittorio De Caprariis, che amava mol- to e del cui rigore intellettuale aveva grande ammirazione. Con Ernesto invece, grande affetto ma poche parole: lui i suoi argomenti se li sceglieva da solo, aveva zona franca sul «Mondo», polemiche roventi di piglio radicale, sia in politica Scalfari_01_1-386 2-04-2009 12:37 Pagina 8 8 i. i nomi, i luoghi, i libri che in economia, sulle orme di De Viti De Marco, dell’Einaudi di «Critica sociale», di Rosselli e di Salvemini. Ma, a suo modo, era proprio il sodalizio con Ernesto ad aver creato quel miracolo giornalistico che fu «Il Mondo» e che in- fatti si appannò e infine si spense quando il sodalizio si ruppe nel 1962. Dopo l’esperienza del «Risorgimento liberale» e del partito dal quale la sinistra di Carandini era uscita nel ’47, Pannunzio aveva capito che doveva innestare sul tronco crociano della sua tradizione il filone azionista di «Giustizia e Libertà». Di qui l’incontro con Ernesto e, per suo tramite, con Salvemini. Filone crociano e filone salveminiano – s’è detto e ripetuto tante volte negli anni successivi da tutti quelli che hanno rievo- cato quelle vicende – sono stati gli ingredienti costitutivi del- l’operazione politica e culturale della quale Mario Pannunzio fu il gestore e «Il Mondo» il prodotto giornalistico. Ma così si di- ce il fatto e non le cause che lo produssero. Ed è invece quelle cause che ora conviene analizzare, perché fu proprio da lì, da quell’innesto apparentemente casuale e destinato a far vivere un settimanale di battaglia politica, che prese le mosse un pro- cesso che in qualche modo – con ampie trasformazioni – è tut- tora in svolgimento, avendo mutato lungo la strada parecchi dei suoi connotati originari ma avendone mantenuti alcuni che con- sentono oggi di tentarne una storia unitaria lungo il filo dei do- cumenti e della memoria. Mario Pannunzio proveniva, assieme ad Arrigo Benedetti, da un’esperienza giornalistica assai singolare, dove quel tanto di professione che era possibile nell’Italia d’allora (fine degli an- ni Trenta) s’intrecciava con elementi di gusto, di grafica, di co- stume, facendone un tutto non scindibile. Era l’esperienza fat- ta ad «Omnibus» con Leo Longanesi, personaggio assai discu- tibile politicamente, ma certamente personaggio-chiave come caposcuola d’un nuovo giornalismo. La storia dei liberals del «Mondo», paradossalmente, non può esser neppure racconta- Scalfari_01_1-386 2-04-2009 12:37 Pagina 9 la sera andavamo in via veneto 9 ta se non si parte da Longanesi, sloganista del fascismo e contem- poraneamente dell’antifascismo prima e durante gli anni di guer- ra e, successivamente, fondatore del «Borghese» e intellettuale organico, direbbero al Pci, della destra ribalda e qualunquista. Mi sono domandato varie volte per quale motivo Longanesi sia stato un personaggio importante in questa storia che in un certo senso è una storia di famiglia, spesso tramandata per via orale più che decifrabile sui documenti e sulle opere. La risposta che posso dare è questa: in quei grigi anni Tren- ta, quando tutto sembrava spento sotto la coltre del confor- mismo ufficiale e dell’Accademia, Longanesi inventò la fron- da. Fece, nell’Italia dei Littoriali, un’operazione in qualche modo simile a quella fatta dall’abate Scarron a Parigi duran- te la fronda dei principi all’epoca della reggenza del cardinale Mazzarino. L’abate Scarron era sopratutto un uomo di spirito; idee po- litiche, per quanto se ne sa, nessuna, salvo quella del contradi- re e del brillare contradicendo. Del resto, tutte le fronde si so- migliano. Quella dell’abate Scarron fu la prima e inaugurò una tradizione che sarebbe durata a lungo nella storia politica euro- pea, e cioè: l’alleanza tra lo snobismo e l’opposizione. Il fatto è meno paradossale di quanto appaia a prima vista. Lo snobismo in realtà altro non è che la rottura del conformi- smo ufficiale; è un’opposizione di gusto che nasce dall’interno dell’establishment in nome dell’eleganza e dello spirito: un at- teggiamento elitario che afferma i diritti dell’élite contro l’u- niformità imposta dal potere centrale.