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copertina.15_Laporte_copertina.15 05/11/19 13.02 Pagina 1

Federico Nicolao

T Uno scrittore sconosciuto, appena identificato r

Guarda il lume e considera la sua bellezza. a sotto il nome di Roger Laporte pag. 3 s

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Batti l’occhio e riguardalo: a

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ciò che di lui tu vedi, prima non era; n SUPPLEMENTO NON PERIODICO A “QUADERNI DI POESIA” Roger Laporte

z Tra spa renze e ciò che di lui era, più non è. e Ricordo di Reims pag. 23 René Char Leonardo Da Vinci Elisa Bricco Une migration - Prefazione pag. 39 René Char Roger Laporte Thierry Guichard Una migrazione pag. 41 Roger Laporte Roger Laporte Federico Nicolao An die Musik pag. 61 Bernard Noël Roger Laporte Working room pag. 63 Roger Laporte «Vivere più musicalmente» Van Gogh pag. 69 Roger Laporte Luminosità di René Char pag. 71 Roger Laporte Vincent e Van Gogh pag. 79 Roger Laporte Kafka e l’esigenza di scrivere pag. 97 Thierry Guichard Diciotto anni di silenzio Intervista a Roger Laporte pag. 113 Roger Laporte A che punto è la notte? pag. 125 Roger Laporte La leggenda della vedetta pag. 127 Roger Laporte Foglio volante pag. 129 Roger Laporte Passo falso pag. 131 Roger Laporte Risposta a un’inchiesta pag. 133 Elisa Bricco Appunti a margine della traduzione pag. 137 Federico Nicolao Bibliografia critica pag. 141 20 E. P RAMPOLINI Danzatrice n. 52, matita e carbone su carta cm. 42,8 x 34 20 15 /02 15/02 Edizioni San Marco dei Giustiniani in Genova Via Cairoli 5/2 sc. D - 16124 Genova Tel. e Fax +390102474747 Tras parenze

Supplemento non periodico a «Quaderni di poesia» a cura di Giorgio Devoto

Edizioni San Marco dei Giustiniani in Genova Il presente numero monografico di Trasparenze dedicato a Roger Laporte è stato curato da Federico Nicolao che ha anche tradotto i testi “Lettera ver - ticale XXXIII ” di Bernard Noël e, di Roger Laporte, “Kafka e l’esigenza di scrivere”, “A che punto è la notte” e “La leggenda della vedetta”. I restan - ti saggi sono stati invece tradotti da Elisa Bricco che qui vogliamo, con Federico Nicolao, ringraziare per la disponibilità e collaborazione. Federico Nicolao

Uno scrittore sconosciuto, appena identificato sotto il nome di Roger Laporte

« On sait que mon idéal se résumait en deux formules voisines: “Habiter chez Vermeer”, “Vivre plus musicalement” » ROGER LAPORTE , Cahier Posthume 1

utti conoscono le pagine della Prigioniera di Marcel Proust, in Tcui Bergotte muore. Si tratta, per finezza di dettaglio, di un momento di grazia, in cui la scrittura ha permesso di dar letteral - mente vita alla morte: a una morte così ben descritta che, al pari di altre, rimane – molti commentatori concordano – tra i passi più alti della letteratura. Il ritornare di un motivo infinito, la possibilità per la parola di acce - dere al ripetersi, senza fine, dell’avventura umana, permette a quelle pagine di restare. Esse accompagnano Bergotte sino ad innamorarsi di qualcosa di infinitamente piccolo ed essenziale davanti alla celebre Vista di Delft del pittore olandese Vermeer, e poi a morire.

“ Il était mort. Mort à jamais? Qui peut le dire? ”2

Tutti conoscono la morte di Bergotte nella Prigioniera . Lo scrittore, venuto ad ammirare “l e petit pan de mur jaune ”3, spera fino all’ultimo di poter confondere la propria morte con una semplice indigestione. Pochi lettori ricordano forse le parole esatte del narratore che seguo - no di pochissime righe questa morte. Vanno rilette perché possono costituire la migliore introduzione possibile all’opera di Roger Lapor - te. Riassumono infatti quanto c’è di più misterioso e di grande nella sua avventura letteraria e scorciano il progetto che – non so se consa - pevolmente o meno (non l’ho mai capito, pur avendolo conosciuto) – Roger Laporte ha realizzato nella seconda metà del XX secolo, diven - tando uno degli autori più preziosi della letteratura contemporanea.

Federico Nicolao 3 “Il n’y a aucune raison dans nos conditions de vie sur cette terre pour que nous nous croyions obligés à faire le bien, à être délicats, même à être polis, ni pour l’arti - ste athée à ce qu’il se croie obligé de recommencer vingt fois un morceau dont l’ad - miration qu’il excitera importera peu à son corps mangé par les vers, comme le pan de mur jaune que peignit avec tant de science et de raffinement un artiste à jamais inconnu, à peine identifié sous le nom de Ver Meer .” 4

Mi piacerebbe soffermarmi giusto su queste ultime parole, soste - nendo che non possono essere frutto del caso, ripromettendomi di tornare in un’altra occasione sul progetto di analizzare l’episodio del - la morte di Bergotte, che tante volte è stato già esaminato e la cui ana - lisi richiederebbe ben altro spazio 5. Questo perché se oggi si riuniscono per la prima volta in italiano in un’antologia alcune opere di Roger Laporte, grazie all’editore San Marco dei Giustiniani, alla traduzione di Elisa Bricco, e all’aiuto di Jacuqline Laporte, è per rendere omaggio a uno scrittore che non può che essere designato come il narratore della Ricerca del tempo perduto designava, in una maniera così moderna, Vermeer di Delft: un autore “à jamais inconnu, à peine identifié sous son nom ”6.

La cosa non dispiacerebbe di sicuro a Roger Laporte. Conoscevo un po’ i suoi gusti, in letteratura e in arte, e coltivo volentieri l’illusione d’intravvedere la natura dell’amore che destinava al pittore Vermeer di Delft e al silenzio senza tempo – all’evidenza e al segreto – che per - vade quasi tutti i suoi quadri, anche i suoi quadri “minori”.

Ora alle spalle di questa brevissima definizione del pittore Vermeer di Delft, assolutamente non appariscente, eppure folgorante da parte di Marcel Proust, che mi propongo di utilizzare per spiegare il pro - getto letterario di Laporte, vi è una genesi del tutto singolare, cosa che rende tra l’altro ancora più affascinante una sua lettura in chiave laportiana. Proust sceglie di designare Vermeer come un pittore “ à jamais incon - nu ”7; utilizza quest’espressione precisamente quando i suoi quadri sono ormai stati scoperti. È un gesto letterario di grande invenzione, e fermezza; prossimo tra l’altro ai punti più alti della pittura di Vermeer, poiché con nulla crea un capovolgimento impercettibile del reale, la cui portata è infinita. Torneremo altrove sul rapporto che esiste in una certa tradizione tra la letteratura e la visione, e sull’uso che entrambe riservano al variare

4 Federico Nicolao infinito e nascosto del dettaglio. Restiamo invece a quanto l’episodio della morte di Bergotte ci può rivelare sull’opera di Roger Laporte.

Proust è venuto a conoscenza dell’esistenza di una mostra sulla pit - tura olandese attraverso le cronache dell’amico, scrittore e critico d’arte, Jean-Louis Vaudoyer che sono apparse sul giornale L’Opinion a partire dal mese d’aprile del 1921 8. Gli scrive così tra il 18 e il 21 Maggio di quello stesso anno per farsi accompagnare al Jeu de Pau - me e vi si reca con lui malgrado sia malato e stanco. L’episodio gli offrirà poco dopo l’occasione per quello che si ricorda come uno dei passaggi più conosciuti della Ricerca del tempo perduto : appunto la morte di Bergotte.

Quanto alla formula che è importante analizzare, non sufficiente - mente percepita sino a oggi in tutta la sua forza, si tratta precisamen - te di un calco fatto a partire da una delle prime cronache di Jean-Louis Vaudoyer: quella apparsa sull’ Opinion del 30 aprile 1921. Laddove questi scriveva: “ Au milieu du siècle dernier Vermeer de Delft était exactement non point un méconnu, mais un inconnu ”9, Proust opta per una variazione infinitesimale che implica precisamente una visio - ne dell’arte rivoluzionaria, che coincide con quella che Roger Lapor - te porterà sul finire del XX secolo ai suoi limiti estremi. Perturbando il senso delle parole dell’amico Vaudoyer, Proust parla di “ un artiste à jamais inconnu, à peine identifié sous le nom de Ver Meer ”10 . Rivelando, nel momento in cui la scoperta della grandezza di Ver - meer è oramai storicamente visibile, che resta per sempre una parte inconoscibile nella sua come in ogni arte, e rendendo appena identi - ficabile con il nome che ce ne rimane l’autore della celebre Vue de Delft , Marcel Proust – questa è la nostra ipotesi – schizza probabil - mente per i posteri in poche righe il destino della letteratura, dell’ar - te e a suo modo per così dire incanta la storia di ogni possibile inter - pretazione ulteriore.

Si attribuisce a Roger Laporte nel XX secolo l’invenzione di un genere il cui nome non deve trarre in inganno: la biografia. Nulla a che vedere con il genere omonimo che ci racconta le gesta di alcuni uomini. Nella sua sobrietà la biografia di cui Laporte si fa alfiere è un genere che fa segno verso qualcosa di sconosciuto e appunto appena identificabile con un nome.

Federico Nicolao 5 Philippe Lacoue-Labarthe riprendendo alcune formulazioni dello stesso Laporte, nella prefazione della Lettre à personne , ha forse defi - nito meglio di qualsiasi altro lettore il genere biografico inaugurato da Roger Laporte : « Il faut prendre “biographie” au sens le plus strict: écriture de la vie. La vie, non pas une certaine vie, mais la vraie vie, l’“expérience majeure”, n’arrive qu’avec – et comme – l’écriture, c’est-à-dire le fait d’écrire. Ecrire, c’est vivre, parce qu’il existe une vie qui “n’est ni antérieure, ni extérieure à l’écriture.” »11

Nella concezione di Roger Laporte – che riprende per altro spunti di autori che l’hanno preceduto (Rilke, Kafka e Baudelaire hanno lasciato delle definizioni mirabili della biografia che gli aprono senza dubbio la via) – la biografia, senza più raccontare gli episodi ordina - ri della vita di un uomo preciso, diventa qualcosa di assolutamente unico: un’esperienza in cui l’autore si spoglia di sé. Così di colpo inte - ressa solo la vita della scrittura: il rapporto tra l’io impersonale che scrive e la pagina. Il fatto di vivere scrivendo e di fare della scrittura la sola vita assu - me una centralità che prima era stata soltanto teorizzata, senza che ve ne fosse alcuna diretta conseguenza pratica (Proust, Flaubert, Valéry non possono che figurare in un elenco che comprenda almeno alcuni degli antesignani di chi scriverà:

« La biographie Ecrire. L’exigence d’écrire. Répondre à cette exigence ouvre à une aventure autrement inaccessible. * * * Parler de la Biographie, écrire sur…, constituer une théorie, ce n’est pas pratiquer la biographie. Pour qu’il y ait biographie, il faut qu’il y ait un acte, une histoire se faisant, une approche ou du moins une tentati - ve d’approche. * * * Cette aventure est l’épreuve d’une douleur vers laquelle il convient d’aller. Chemin difficile qui n’exclut pas la fête. * * *

6 Federico Nicolao On peut parler de la biographie sans qu’il y ait biographie; on peut pratiquer la biographie sans qu’il y ait discours sur la biographie. »12

Ricordo con grande precisione che Roger Laporte ha vissuto, il che nel suo caso equivale dunque a dire ha scritto, con lo scrupolo che la sua vita d’uomo scomparisse poco a poco, e che l’opera restasse, e diventasse “appena identificabile” con il suo nome. “La Biographie consiste, non à décrire la vie ordinaire, mais à vivre, c’est- à-dire à soutenir une épreuve dont nécessairement on se défend .” 13 Di che vita, di che passione parliamo avvicinandoci alla scrittura intesa come l’intende Roger Laporte ? Sin nel minimo dettaglio Roger Laporte ha voluto per sé l’anoni - mato, quasi che l’opera sorgendo indipendentemente dall’esperienza ordinaria di tutti i giorni e rispondendo a una necessità, a un bisogno, potesse vivere di vita propria. Perché ?

Solo lo scrivere in cui la vita si dà senza bordi può affrontare l’in - stancabile ricerca della parola, della frase, del paragrafo, della sequenza giusta, sino ad arrivare appunto al “libro giusto” per Roger Laporte: Moriendo .

« Le mot juste conduit, celui qui ne l’est pas séduit »14 (Kafka): è in que - st’ottica di esattezza, è in questa logica difficile e lontana da ogni com - promesso che si è sviluppato il grande tentativo di Laporte.

In questo senso scrivere – attività quanto mai mortale, ammettia - molo: sconosciuta, appena identificabile con un nome – smaschera il fondo umano del vivere e del morire, apre all’autore il senso impos - sibile del suo fare.

« Je voudrais en finir le plus vite possible, du moins avant que la « bio - graphie » ne dégénère en triste bavardage autobiographique. »15 , scriveva Roger Laporte quasi al termine di Moriendo , l’ultimo dei volumi che fanno parte di quella che lui chiama Biografia, e solo alcuni mesi dopo, consapevole di aver posto fine alla Biografia, incominciando un quaderno che oggi è pubblicato con il titolo di Lettre à personne , com - mentava: « Ecrire ces lignes, ou écrire un texte critique , ce n’est pas écri - re, écrire au sens majeur de ce terme (ce qui pour moi se résume en un seul mot:“biographie”.) »16

Federico Nicolao 7 Quale impercettibile ma decisivo distacco separa la biografia dal corpo dell’opera laportiana e fa sì, tra l’altro, che sia discutibile il fat - to che si sia deciso di capovolgere la percezione che Roger Laporte stesso aveva della sua opera, introducendo il pubblico italiano al pen - siero dell’autore di Une vie piuttosto che attraverso la biografia, attra - verso la parte della produzione per la quale lo scrittore avvertiva se non un rifiuto un fastidio crescente ?

Agli occhi di Roger Laporte biografo, tra la scrittura intesa come “vera vita” e la scrittura che subisce in maniera più forte le interfe - renze dell’esistenza quotidiana esiste una barriera insormontabile. Roger Laporte riconosceva come riusciti addirittura due soli libri: Sui - te e Moriendo , e talvolta persino il solo Moriendo ; ricordo infatti con precisione, che in ogni incontro, alla fine la scelta cadeva solo su Moriendo , tuttavia si compiaceva con discrezione e sorrideva con aria quasi di scusarsi davanti a chi gli faceva notare la riuscita di alcuni suoi testi che non facevano parte della biografia, testi nei quali – su questo tutti i suoi lettori concordano – ebbe il dono di saper far vive - re nel modo più alto la letteratura. Ci concentriamo quindi per il momento sulla differenza che Roger Laporte istituì con la certezza dell’arbitrarietà tra vera vita e vita ordinaria; tra scrivere e scrivere 17 . Anche in questo Roger Laporte, lo vedremo presto, riconosce un debito a Marcel Proust e quest’ultimo a sua volta – cosa sulla quale spesso si sorvola – si inchina a Vermeer… Riprenderemo dunque da Proust tra breve: la cosa ci aiuterà a capire …

Ammetterò in anticipo, però, che questo primo grande impegno editoriale che ha portato, dopo che alcuni testi erano apparsi singo - larmente in rivista, alla contemporanea pubblicazione di quest’anto - logia, del saggio che Laporte ha dedicato alle sculture di Giacometti e di Lettre à personne , nasce, con la precisa intenzione di aprire una via, su richiesta di Giorgio Devoto e con la complicità di Jacqueline Laporte; unicamente per offrire ai lettori italiani un ritratto dell’au - tore, attraverso i testi più rari, e un accesso al lato più umano dello scrivere.

Impiegare, nel caso di tutto il corpus che Laporte ha lasciato, il ter - mine vita è stata dunque la sfida cui mi è stato chiesto di partecipare, e che ho accettato, pur sentendo in cuor mio come vera la differenza

8 Federico Nicolao che Laporte poneva tra i diversi registri della sua scrittura. Leggere quindi qui Laporte, attraverso i suoi splendidi scritti minori, ma avendo ben ferma in mente la differenza che poneva tra biografia e scrittura ordinaria, significa in qualche modo cercare di sentire risuo - nare un’idea della scrittura in cui l’autore segue il silenzio come la luce marina il cavo dell’onda : “ Mourir, écrire: tels sont les deux termes, toujours les deux memes termes, qu’il convient de mettre en rapport ”18 (da Kafka o l’esigenza di scrivere ). Lo straordinario libro intitolato Moriendo , e Suite che per le loro dif - ficoltà di traduzione non sono ancora stati trasposti in italiano 19 , tut - ti scritti inseriti nel volume che ha per titolo Une vie , apparsi nel 1990, raccolti dall’editore Paul Otchakowsky Laurens insieme a molti libri precedenti col sottotitolo, scelto da Laporte e avvallato da Blanchot, di Biografia, sono di un autore “per sempre sconosciuto, appena iden - tificabile sotto il nome di Roger Laporte”. Per capirlo occorre passare, per l’appunto, per gli Studi dedicati agli autori amati che hanno scan - dito la sua vita, per i taccuini, i quaderni, i manifesti, le cronache, i fogli, per i testi degli esordi, che suscitano l’ammirazione dei più grandi, per tutti quelli che chiamiamo libri o testi minori, nel solo sen - so in cui oggi è ancora possibile dire di una certa scrittura, che amia - mo, che è minore , dopo che Giorgio Caproni ha contestato il modo in cui venivano detti minori alcuni dei grandi poeti italiani, rivendican - do per esempio questa parola per Sbarbaro sotto tutt’altra luce 20 ; e dopo che Deleuze e Guattari nel loro splendido saggio su Kafka 21 hanno parlato e rivelato per sempre l’esigenza d’“ un savoir créer un devenir-mineur ”22 della letteratura.

Gli scritti di Roger Laporte, che incominciano a essere tradotti in molte lingue e dei quali si propone da oggi un’ampia scelta introdut - tiva in italiano (la prima), in questo loro esser minori sono “vivi”.

“ ... à jamais? Qui peut le dire! ”23

È un fatto che viviamo tempi confusi, nei quali il ritmo dolce dei libri è nascosto, colpevolmente, spesso a noi stessi. Abbandoniamo i libri come il dolore e la vita che essi comportano e ci mimano moren - do (“la biografia è anche thanatografia“). In questo senso Roger Laporte biografo, come hanno notato tutti i suoi commentatori, rap - presenta qualcosa di raro nel mondo di oggi e pone – pur non essen -

Federico Nicolao 9 do il solo – il problema di che cosa sia oggi offrire il cuore; la sua ope - ra, letta da un pugno di lettori, risponde a un’attesa cieca, alla sfida di chi crede nell’ostinazione, nella forza, nell’ateismo con cui si ricomin - cia infinitamente per un’ingiunzione del tutto umana a scrivere – nel caso di Laporte (e di Proust) –, a dipingere – nella situazione di Ver - meer –, ad abbandonarsi a un’arte per sempre sconosciuta che si iden - tifica appena con l’appartenenza a un nome, o con la sua vita ordina - ria. Credo allora che, proprio in questo senso, vada letta la variazione che Proust decise per le righe dell’amico Vaudoyer.

Leggere oggi Roger Laporte attraverso un’antologia di suoi scritti aiuta a dimostrare che anche se la sua non è che l’opera di un artista à jamais inconnu , che identifichiamo appena con il nome di Roger Laporte, essa fa segno: verso un modo di «vivere morendo» che resta da scrivere.

Introdotto ammirevolmente da una lettera di Bernard Noël in que - sto volume il lettore trova così innanzitutto gli esordi preziosi di Roger Laporte scrittore, Ricordo di Reims e Una migrazione (preceduta dalla bellissima lettera di René Char), la cui prima pubblicazione fu in entrambi i casi italiana: nella straordinaria rivista della principessa Caetani, Botteghe Oscure che si stampava in un’epoca d’oro della cul - tura in Italia a Roma. Familiarizzatosi con una lingua scabra, essen - ziale, classica e al tempo stesso raffinatissima, da fine stilista, chi leg - ge irrompe così nell’universo di Roger Laporte attraverso tre improv - visi che ne delineano la posizione unica e costituiscono altrettante chiavi d’ingresso nell’opera: An die Musik che racconta l’istante scate - nante in cui nacque la biografia, Working room che introduce alle lun - ghissime ore di lavoro e glossa sul rapporto tra studium e scrittura e Vivre plus musicalement (da un’intenzione di Vincent van Gogh) che chiarisce subito la passione per la musica, il tema che guida in ogni istante l’avventura spirituale di Roger Laporte scrittore. Il lettore incontra a questo punto il controcanto cui Laporte sotto - mise la sua vena d’autore attraverso due saggi decisivi dedicati ad alcuni dei suoi alleati sostanziali: René Char e Vincent van Gogh nel - la sezione Studi , esempi di una pratica critica che accompagnò l’auto - re di Moriendo per tutta la vita. Testimonianza ulteriore di questo nutrirsi della scrittura nella scrittura e attraverso la lettura dei mae - stri è la prima pubblicazione italiana di un testo fondamentale nel

10 Federico Nicolao corpus laportiano: Kafka e l’esigenza di scrivere , silenzioso omaggio all’amico , il grande lettore di Kafka nella tradizio - ne francese. Uno scritto, questo, preparato per lunghissimo tempo (come testimoniano le tante note contenute nei quaderni ancora ine - diti in italiano) e pubblicato solo tra 1990 e 1991. Si tratta di uno degli esiti ultimi e più alti della vena critica in cui vivere e scrivere si sono per così dire confusi con vivere e scrivere . È stato lo stesso Roger Laporte a paragonarlo per importanza ai suoi saggi su Alberto Gia - cometti (in libreria insieme a quest’antologia e a Lettre à personne per i tipi dell’editore genovese San Marco dei Giustiniani), su Bram Van Velde (di prossima uscita insieme al libro Rencontres avec Bram van Velde di Charles Juliet sempre per i tipi dello stesso editore) e su Mozart (uno scritto disponibile in Italiano in dittico con uno scritto, Mi lagnerò tacendo , di Mario Nicolao sul silenzio nell’opera di Rossini nel numero 1 della rivista Chorus Una costellazione ) . L’antologia approda così all’ultima conversazione con Roger Laporte, una sorta di confessione, in cui l’autore si apre svelando i passaggi fondamentali del proprio percorso, come forse non era mai accaduto, a Thierry Guichard, il noto critico francese. Un rarissimo Roger Laporte poeta si rivela nell’ultima sezione del - l’antologia, una sezione che conclude, così in un certo senso attraver - so un’eccezione, il primo tentativo di lanciare un’esplorazione quan - to più possibile vasta dell’universo dell’autore di Une vie . Il lettore trova a quel punto la più considerevole e completa bibliografia esi - stente oggi su Roger Laporte, che è tutt’ora inedita, nell’istante in cui il libro va in stampa, in Francia, e incontra a quel punto come docu - menti perché l’abbandono dell’opera non sia troppo brusco alcuni fogli, alcune righe, alcuni passi d’occasione.

Il fatto che oggi non si possa raggiungere la contezza che verranno stabilite delle attendibili storie della letteratura, visto che già in sede redazionale nelle grandi case editrici i libri vengono scelti dagli uffici marketing e non più dagli autori, il fatto che nulla ci dia la garanzia che in avvenire nell’educazione europea scrittori come Roger Lapor - te faranno parte dei programmi, non toglie in nulla il dovere che si ha di studiarli.

Roger Laporte è l’inventore e il solo esponente 24 della biografia, un genere letterario che cambia e che prende con lui l’aspetto di qualco -

Federico Nicolao 11 sa di unico. La sua traiettoria insolita suggerisce un rimedio a quanto ci circonda per la decisione, la delicatezza, la “politesse” del suo par - tito preso per il libro, per la scrittura, per la vita. Si potrebbe però dire che c’è nel suo scrivere, come chiunque può accorgersi avventuran - dosi anche soltanto un secondo nella lettura, una nobile intempesti - vità che la sua opera manterrà penso a questo punto per sempre.

La coincidenza assoluta nella quale, condotti da parole giuste, vive - re e morire risplendono nella sua opera, letta oggi, è possibile solo a partire dalla distinzione tra vera vita ed esistenza quotidiana cui Roger Laporte accordava la massima importanza. Curiosamente e dolorosamente la morte dell’autore ha reso per molti più vivo il ricordo e il carattere prezioso dell’uomo. Adesso che lo scrittore, il biografo, e l’amico non ci sono più, bisognerà ribadire con forza il potere di quella distanza anonima fattasi altresì prossimi - tà assoluta con la cosa che l’autore di Une vie aveva saputo svelare nella e attraverso la letteratura. Roger Laporte teneva ad essa prima che a ogni altra cosa.

Proprio a questo proposito un filo invisibile tessuto da una lettura , capace di osare, potrebbe agevolmente tentare di legare i nomi di Roger Laporte, di Marcel Proust e di Vermeer de Delft. Basterà, per convincersene, leggere ancora alcune righe tratte da La recherche du temps perdu , ma questa volta da Le temps retrouvé , perché si capisca ancora meglio perché rendere omaggio a Roger Laporte paragonan - dolo a Vermeer trovi tutto il suo senso.

Se la scrittura infatti, intesa come Roger Laporte l’intendeva, prose - gue – come prosegue il sogno di vivere chez Vermeer – è in ragione del - la sua unicità anonima, o appena identificabile con il suo nome, che conduce tutt’ora a scrivere dei libri. « Écrire m’a retiré le droit d’affirmer: “Ma souffrance est à moi”, ou plu - tôt écrire m’a écarté, mais ne m’a pas radicalement séparé de “moi- même” 25 » si legge all’inizio di Moriendo , un libro magistrale e ultimo che si identifica appena sotto il nome di Roger Laporte.

Non credo personalmente di condividere il sentimento, che Roger riceveva da Proust, di una superiorità della scrittura sulla vita, nutro piuttosto l’illusione di un’equivalenza assoluta, ma per rendere

12 Federico Nicolao omaggio a questa maniera di sentire che era sua, penso che ci sarà d’una notevole utilità leggere un passaggio di Proust che chiarisce quale importanza e quale urgenza ci sia nel progetto di riprendere dal profondo l’avventura letteraria di Roger Laporte, proprio oggi che una tale operazione può sembrare così intempestiva.

« La grandeur de l’art véritable c’est de retrouver, de ressaisir, de nous faire con - naître cette réalité loin de laquelle nous vivons, de laquelle nous nous écartons de plus en plus au fur et à mesure que prend plus d’épaisseur et d’imperméabilité la connais - sance conventionnelle que nous lui substituons, cette réalité que nous risquerions fort de mourir sans avoir connue, et qui est tout simplement notre vie. La vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie par conséquent réellement vécue, c’est la lit - térature; cette vie qui, en un sens, habite en chaque instant chez tous les hommes aus - si bien que chez l’artiste. …. Notre vie, et aussi la vie des autres …. Grâce à l’art, au lieu de voir un seul monde, le nôtre, nous le voyons se multiplier, et, autant qu’il y a d’artistes originaux, autant nous avons de mondes à notre dispo - sition, plus différents les uns des autres que ceux qui roulent dans l’infini …et, bien des siècles après qu’est éteint le foyer dont il émanait, qu’il s’appelât Rembrandt ou Ver Meer, nous envoient encore leur rayon spécial.

Ce travail de l’artiste, de chercher à apercevoir sous de la matière, sous de l’expé - rience, sous des mots quelque chose de différent, c’est exactement le travail inverse de celui que, à chaque minute, quand nous vivons détourné de nous-même, l’amour-pro - pre, la passion, l’intelligence, et l’habitude aussi accomplissent en nous, quand elles amassent au-dessus de nos impressions vraies, pour nous les cacher entièrement, les nomenclatures, les buts pratiques que nous appelons faussement la vie. En somme, cet art si compliqué est justement le seul art vivant. Seul il exprime pour les autres et nous fait voir à nous-même notre propre vie, cette vie qui ne peut pas s’»observer», dont les apparences qu’on observe ont besoin d’être traduites et souvent lues à rebours et péniblement déchiffrées. Ce travail qu’avaient fait notre amour-propre, notre pas - sion, notre esprit d’imitation, notre intelligence abstraite, nos habitudes, c’est ce tra - vail que l’art défera, c’est la marche en sens contraire, le retour aux profondeurs où ce qui a existé réellement gît inconnu de nous, qu’il nous fera suivre. »26

Mi piace immaginare che un disegno preciso si articolasse nella scelta di definire Vermeer un pittore “à jamais inconnu”, per sempre sconosciuto, e in questo senso riprendo la formula per offrirla a Roger Laporte, l’amico e lo scrittore del quale amavo il partito preso, senza alcuna concessione possibile, per la scrittura e per la vita.

Federico Nicolao 13 Riscrivere, après-coup , in onore di Roger Laporte la storia della pic - cola variazione che Proust decise di far subire a una frase del testo del suo amico Vaudoyer, era anche rendere omaggio all’idea altissima che Roger Laporte aveva, nel suo vivere scrivendo, dell’amicizia. Di fronte alla delicatezza, alla “politesse” dell’amico, alla decisione, all’esempio dello scrittore, di fronte soprattutto a un’opera eccezio - nale che non si chiama senza conseguenze “Une vie” , vorrei dire: per chiunque ami l’arte e le lettere, non esiste dimissione possibile da quel che Roger Laporte ha tentato di fare.

Note

1 “È risaputo che il mio ideale si riassumeva in due formule tra di loro vicine: “Abitare da Ver - meer”, “Vivere in modo più musicale”” 2 “Era morto. Morto per sempre? Chi lo può dire? ” 3 “Il piccolo lembo di muro giallo ” 4 “Non v’è nessuna ragione nelle nostre condizioni di vita su questa terra perché ci si creda obbli - gati a fare il bene, a esser delicati, a essere gentili, né v’è ragione per l’artista ateo di credersi obbligato a ricominciare venti volte un pezzo che susciterà un’ammirazione di cui importerà ben poco al suo corpo mangiato dai vermi, come il lembo di muro giallo che dipinse con tanta scien - za e raffinatezza un artista per sempre sconosciuto, appena identificato sotto il nome di Ver Meer.” 5 Quando ve ne sarà l’occasione sarà imprescindibile per altro ampliare l’orizzonte del - l’interpretazione della morte di Bergotte e investire tutte le occorrenze Veermeriane nel corpo proustiano ( a partire dall’irrompere misterioso per esempio della Vista di Delft in Du Côté de Guermantes , sino ai carteggi e ai più minuti aneddoti in cui si racconta del fascino esercitato da Vermeer su Proust persino in punto di morte), seguendo così una vastissima tradizione e bibliografia già esistente. 6 “Per sempre sconosciuto, appena identificabile sotto il suo nome .” 7 “Per sempre sconosciuto ” 8 Il lettore può oggi trovare questi testi (datati 30 aprile, 7 e 14 maggio 1921), riprodotti nella loro integralità in appendice al bellissimo e documentatissimo libro di Daniel Arrasse L’ambition de Vermeer , Adam Biro, Parigi 2001. Questo saggio del resto si vor - rebbe in qualche modo umilmente debitore nei confronti dello scritto di Daniel Arras - se e in particolar modo di una nota (la numero nove del capitolo primo) ove si legge : « Il prestigio della Ricerca turba l’approccio odierno alla pittura di Vermeer. Citando Proust si dimentica troppo facilmente sino a che punto la pittura di Vermeer occupi, nel romanzo, una posizione tattica. » È rinnovando, nel modo più discreto possibile, que - st’ingiunzione che, conoscendo l’amore di Laporte per Vermeer e per Proust, tento di parlare di Laporte attraverso di essi e di confermare la verità intravvista da Daniel Arrasse.

14 Federico Nicolao 9 “Verso la metà del secolo scorso Vermeer di Delft per esattezza non era affatto un misconosciu - to , ma uno sconosciuto. ” 10 “Un artista per sempre sconosciuto, appena identificato sotto il nome di Ver Meer. ” Attentis - simo nella sua ottica a decostruire il mito di Vermeer pittore misconosciuto e ignoto, Daniel Arrasse non fa accenno al cambiamento ai nostri occhi in qualche modo decisi - vo introdotto da Proust nella sua rilettura delle pagine di Vaudoyer. Occorre però qui che il lettore di nuovo si riferisca innanzitutto con la massima attenzione al preziosis - simo lavoro di Arrasse e prima di lui di Montias sul pittore di Delft per non incorrere nell’errore di credere alla figura erronea di un Vermeer sconosciuto.In parallelo mi sarà per altro così data la possibilità di rinviare alla bibliografia per far osservare sino a che punto l’opera di Roger Laporte sia un imprescindibile punto di riferimento nascosto per alcuni degli autori più importanti della contemporaneità (Barthes, Blanchot, Derri - da, Foucault, Lacoue-Labarthe, Levinas, Nancy) e quale grave errore si alimenti inco - raggiando l’idea di un Roger Laporte prigioniero di una banalizzazione dell’idea blan - chottiana della comunità di lettori, tanto diversi sono stati i suoi complici in un’epoca straordinaria della letteratura (basterà aggiungere alla lista imprecisa di chi ha amato la scrittura di Roger Laporte e ne ha tratto ispirazione autori tanto diversi da non for - mare in alcun modo una comunità: poeti come Mathieu Bénézet, Bernard Noel, Clau - de Royet Journoud, Alain Veinstein, artisti come Lars Fredriksson e Simon Hantai, gre - cisti come Clémence Ramnoux, storici della letteratura come Geneviève Bollème, per - sino scrittori di grido come Philippe Sollers, o giovani romanzieri come Frédéric Yves Jeannet… Occorrerà quindi intendersi – e bene – sul senso in cui Roger Laporte resta per noi à jamais inconnu, à peine identifiable sous son nom . 11 « Bisogna prendere “biografia” in senso strettissimo: scrittura della vita. La vita, non una cer - ta vita, ma la vera vita, l’”esperienza maggiore” non capita che con – e come – la scrittura, cioè il fatto di scrivere. Scrivere, è vivere, perché esiste una vita che “non è né anteriore, né esterio - re alla scrittura.” » 12 « La Biografia Scrivere. L’esigenza di scrivere. Rispondere a quest’esigenza apre a un’avventura altrimenti inaccessibile. * Parlare della Biografia, scriveere su…, costituire una teoria, non è praticare la biografia. Perché ci sia biografia, bisogna che ci sia un atto, una storia che si fa, un approccio o almeno un tentativo di approccio. * Quest’avventura è la prova di un dolore verso il quale conviene andare. Cammino difficile che non esclude la festa. * Si può parlare della biografia senza che vi sia biografia; si può praticare la biografia senza che vi sia discorso sulla biografia. » 13 «La biografia consiste, non nel descrivere la vita ordinaria, ma nel vivere, cioè nel sostenere una prova dalla quale necessariamente ci si protegge. »

Federico Nicolao 15 14 « La parola giusta conduce, quella che non lo è seduce .» 15 « Vorrei finire il prima possibile, se non altro prima che la “biografia” degeneri in triste chiac - chera autobiografica .» 16 « Scrivere queste righe, o scrivere un testo critico non è scrivere , scrivere nel senso maggiore di questo termine (il che per me si riassume in una sola parola: “biografia”) » 17 Non potremo però lasciare passare sotto silenzio la domanda che Maurice Blanchot lasciava per sempre aperta in un articolo che festeggiava il 6 Marzo 1986 l’uscita in volume di Une vie: “ Roger Laporte va… loin, et d’une manière paradoxale, puisqu’il suppo - se (là est l’épreuve) que sa vie ne commence qu’avec l’écriture, de sorte que celle-ci ne saurait être antérieure ni extérieure à écrire.Certes, les difficultés sont alors innombrables. Comment celui qui d’une certaine façon n’existe pas peut-il être atteint par la passion, la folie, ou simple - ment le souci, ou même l’ennui et le dégoût d’écrire? Et, ce qui n’est pas moins problématique, qu’est-ce que écrire? Comment celui qui n’existe pas peut-il se convaincrequ’il écrit, et qu’il écrit d’une manière telle que la machine d’écriture qui se fabriquerait en quelque sorte sans lui pourrait fonctionner en lui laissant l’humble droit d’être une pièce de cette fabrique, tout de même un “Je”, mais un Je qui désécrit en même temps qu’il écrit? » “Roger Laporte va […] lontano, e in maniera paradossale, poiché suppone (lì sta la prova) che la sua vita non inizi che con la scrittura, in modo che questa non saprebbe essere né anteriore né esteriore allo scrivere. Certo le difficoltà sono allora innumerevoli. Come può colui che in un certo modo non esiste essere raggiunto dalla passione, dalla follia, o semplicemente dalla proc - cupazione, o persino dalla noia e dal disgusto di scrivere? Come colui che non esiste può con - vincersi che scrive e che scrive in un modo tale che la macchina da scrittura che si fabbricherebbe in qualche modo senza di lui potrebbe funzionare lasciandogli l’umile diritto di essere una par - te di questa fabbrica , comunque un “Io”, ma un Io che disiscrive nello stesso tempo in cui scri - ve?” 18 “Morire, scrivere: sono questi i due termini, sempre gli stessi due termini che conviene mettere in relazione ” 19 Una traduzione è ad oggi in corso, ma richiede anni di lavoro. 20 Pensando a Sbarbaro e a certi suoi (frettolosi) collocatori Dubbio a posteriori: i veri grandi poeti sono i “poeti minori”? 21 Gilles Deleuze Félix Guattari Kafka Pour une littérature mineure , Les éditions de minuit 1975 22 “Saper creare un divenire minore della letteratura ” 23 “Per sempre? Chi lo può dire? ” 24 « A jamais ? qui peut le dire ! » “Per sempre? Chi lo può dire? ” 25 Moriendo p. 18 26 “La grandezza dell’arte vera è di ritrovare, di recuperare, di farci conoscere la realtà lontano dalla quale viviamo, dalla quale ci allontaniamo sempre più man mano che assume maggior spessore e impermeabilità la conoscenza convenziona - le che le sostituiamo, quella realtà che rischieremmo davvero di morire senza aver conosciuto, e che è molto semplicemente la nostra vita. La vera vita, la vita final - mente scoperta e chiarita, la sola vita di conseguenza realmente vissuta, è la lette -

16 Federico Nicolao ratura; questa vita che, in un senso, abita in ogni istante presso tutti gli uomini quanto presso l’artista. … La nostra vita e anche la vita degli altri … Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicar - si, e quanti più sono gli artisti originali, tanti più sono i mondi a nostra disposi - zione, ancor più diversi gli uni dagli altri di quegli astri che roteano nell’infinito…, e, molti secoli dopo che si è spento il focolaio dal quale emanavano – che si chia - mino Rembrandt o Ver Meer – ci inviano ancora il loro raggio particolare.

Questo lavoro dell’artista, volto a cercare di scorgere sotto una certa materia, sot - to una certa esperienza, sotto certe parole qualcosa di differente, questo lavoro è esattamente l’opposto di quello che ad ogni istante, quando viviamo distolti da noi stessi, svolgono in noi l’amor proprio, la passione, l’intelligenza e anche l’abitudi - ne, quando accumulano sopra le nostre impressioni vere, per nascondercele inte - ramente, le nomenclature, gli scopi pratici che, per errore, chiamiamo la vita. Insomma, quest’arte così complessa è davvero la sola arte viva. Solo essa esprime per gli altri e fa vedere a noi stessi la nostra propria vita, questa vita che non si può “osservare”, le cui apparenze, che osserviamo, hanno bisogno d’essere tradotte e spesso lette a rovescio e con difficoltà decifrate. Il lavoro compiuto dal nostro amor proprio, dalla nostra passione, dal nostro spirito d’imitazione, dalla nostra intelli - genza astratta, dalle nostre abitudini; quel lavoro l’arte lo disferà e ci condurrà in senso contrario, ci farà tornare indietro ai profondi abissi nei quali ciò che è esisti - to realmente giace sconosciuto.”

Federico Nicolao 17

Bernard Noël

Lettera Verticale XXXIII

Roger, questa camera d’ascolto in cui il pensiero diventa presenza conserviamola dietro al viso non ha bisogno di nessun altra realtà se non della relazione

l’accordo non è necessario apprezzare basta forse anche condividere la piaga si ha la speranza di una sovraesistenza ma raschiare ripetere raccogliere ruminare travaglia a sufficienza il tempo mortale ne svia persino un po’ la freccia

il mondo tuttavia rimane intatto tanto vale che vi si veda l’estraneo

le toccò vegliare e senza dubbio aspettare sempre ci sono delle attese così attive la loro energia fa un movimento la venuta pare vicina e il suo esser furtivo vale promessa

Bernard Noël 19 una perpetua caccia e poi la nostra vita diventa l’ignoto e l’introvabile preda

ecco la barriera mentale mai la si oltrepasserà né verrà bisogna solo volere che questa x sia lo scopo senza fine

dall’interminabile viene la scrittura si accorda con la vita e la mangia

farsi parte dell’enigma non ci sarà epilogo nemmeno accettazione

senza potersi riposare incessante la prova dell’avvicinamento il vento il fuoco il tremare e nessun avvento definitivo non abbiamo che la morte per tagliar corto a questo serio compito togliere contemporaneamente problema e soluzione

proseguire è legato alla sorte o all’irriducibile un grido almeno la farebbe finita nulla di tale nulla se non un lento strappo una sorta di impaziente pazienza o un accanimento a confrontare infimo e infinito

fervore freddo brivido presentimento una memoria fuori dall’attesa ingoia l’istante propizio un cammino si perde nello stesso e che fifa così di colpo

se si potesse trovare un’altra vita nella propria vita

20 Bernard Noël forse il vero il vergine il vivibile potrebbero venir da sé quella che fu la sua impresa non si può mantenere ma lei è riuscito a mantenerla portando all’estremo quel che affanna dall’origine ci abbiamo guadagnato un’esigenza mon potendo seguire

occorre che l’amicizia si commuova un cuore un corpo lei ne fa gran fuoco nella sua mano un alimento in più per la prova e tanto peggio per il resto

è un’infelicità antica anteriore dimenticata che riaffiora nell’esercizio del biografo scarnifica la frase cava l’occhio teorico imprevedibile nel suo effetto crea l’aleatorio e questa nudità interna il dal vivo che spezza la scatola nervosa e neuronizza il verbo

se l’inenunciabile potesse enunciarsi uno scrittore non avrebbe più nulla da fare ha bisogno di vivere in quest’incongruità proprio disperando di captare infine il riflesso capriccioso

ma scostarsi dallo scopo man mano che apre e disegna la sua strada rassomiglia molto poco al mondo attuale c’è dunque in voi una riserva d’avvenire e questa cosa inconsolabile legata in un fine silenzio oramai a controtempo offerta

una vita

Bernard Noël 21

Roger Laporte Ricordo di Reims

«E ciò che vidi: il Sacro, sia la mia parola .» HÖLDERLIN

«…non parlare, non nascondere, ma fai segno .» ERACLITO

a necessità di presentarmi a un concorso, la primavera molto Lpiovosa che m’impediva di andare alla Mortefontaine che ave - vo scelto come scusa, la voglia, infine, di riposarmi un poco prima di affrontare l’ultima difficoltà del romanzo, rinviarono ancora il momento di scrivere l’ultimo capitolo. Tuttavia, il segreto rimorso del lavoro non intrapreso, la possibilità, nel momento in cui il tempo si fosse messo al bello, di andare in un’ora di strada alla Mortefontaine, mi vietavano il riposo e mi trattenevano addirittura dall’accedere alla sua soglia: il senso della fatica. Quando il tempo si mise infine al bello, e potevo così andare alla Mortefontaine, l’impossibilità di riposarmi e il rifiuto di lavorare si fecero più vivi. Allora decisi bruscamente di partire per un viaggio e, dopo alcune ore di strada, quando era decisamente troppo tardi per fare dietro front, mi sentii infine al sicuro da ogni necessità di lavora - re e cominciai a gustare una tranquillità, certo acquisita al prezzo del - la vigliaccheria di andar via da Parigi, ma per lo meno sicura e di cui era meglio approfittare, perché lontano dalla Mortefontaine ormai ogni rimorso diventava superfluo. Ma come, talvolta, a partire dal - l’indomani della partenza il tempo, di nuovo coperto, compromette il seguito del viaggio, così anche, senza avermi avvertito almeno con qualche presagio che il rinvio, che del resto non mi era mai stato accordato, sarebbe stato scorciato, il dovere di lavorare che avevo cre - duto di lasciare prigioniero di Parigi e di ritrovare soltanto al ritorno dal viaggio, ridiventava imperiosamente presente a partire dalla sera

Roger Laporte 23 della partenza. Questa è la disavventura che mi è accaduta a Reims, dove siamo arrivati sul finire di un pomeriggio di giugno. Quando, venendo dalla «Montagna», sbucammo da un’ultima cre - sta, scoprimmo all’improvviso davanti a noi e leggermente sulla nostra destra, la città di Reims che si stende lontano nella pianura. Durante tutta la giornata, passando dall’Ile-de-France, eravamo stati accolti e liberati dalla sua luce, di una purezza così viva, così nuova, così radiosa che in un primo tempo fa quasi venir meno come l’ac - cesso alla vita vera. Tuttavia, discreta e piena di humour , fa esclamare: «Che aria pura!», anche se, come il Dio d’Israele, non la si vede mai faccia a faccia. Eppure non dissimulata, ma tutta offerta, e la parte esterna, profusione abbagliante del giorno come il corpo glorioso del - la terra dopo la morte del sole in pieno mezzodì, scopre, senza sba - vature, ogni albero della foresta, ogni roccia della montagna, tutta la terra infine, nel riposo sicuro di una tale pienezza che intorno a una quercia, vista sullo sfondo del cielo blu, vuota e bianca la luce dell’I - le-de-France si scosta con tenerezza e rispetto. Ma, quando all’improvviso abbiamo scorto Reims, la luce si faceva placida e iniziava a proteggere la città con una nebbia di un leggero grigio-blu, inquietante e dolce come il sonno che danno, si dice, le fate. Vicino all’orizzonte, le ultime linee delle case, di terra cotta cre - misi, saporita come una caramella ripiena al lampone, che più in là diventava lilla, per nobilitarsi ancora più lontano di un viola vescovi - le, si offrivano al sole che tramontava per il compimento di una suprema cottura. Così Reims riservava al viaggiatore un’accoglienza ricca di forza serena, ma riposante, e il cui riserbo testimoniava sol - tanto la preoccupazione di non importunare e invitava a una vita pro - vinciale, senza distrazioni, ma senza noia, perché l’occupazione più gradevole sarebbe o di passeggiare lentamente e in silenzio, o di con - sacrarsi a un lavoro lungo come la creazione di un romanzo. Al cen - tro della città, offrendosi a noi di tre quarti, di un nero che, troppo antico, era diventato grigio freddo, s’innalzava una chiesa dalle torri stranamente poco elevate al di sopra della navata, ben modesta per appartenere all’arte gotica, a tal punto che trattenni un grido di gioia e di riconoscenza nel vederla, ma no, nessun’altra chiesa all’orizzon - te, due torri simili, era proprio lei ed esclamai: «La cattedrale!». Attra - versammo rapidamente la città e scendemmo dalla moto solo una volta arrivati sul sagrato di Notre-Dame di Reims.

24 Roger Laporte Quando, dopo una lunga separazione, si rivede la persona amata, l’impazienza vorrebbe sfogarsi in grida di gioia, ma ci si sente dap - prima imbarazzati come davanti a una sconosciuta e tutte le notizie che si volevano chiedere o dare ci sembrano a un tratto svanite nel disinteresse. Così, vedendo infine la cattedrale, non provai subito la grande ammirazione che speravo. Forse, non sentivo in me nessun rifiuto, nessuna rottura definitiva tra le mie speranze e la realtà, simi - le a quella che avrei provato un po’ più tardi a Amiens dove, ben lun - gi dalle alte gioie attente e lente, profumanti di miele che descrive Ruskin, non trovai, senza parlare di una «Vergine dorata», nera di fuliggine e insudiciata dagli escrementi di piccione, che una cattedra - le dalle alte torri ma senza slancio, dalla facciata nera senza essere vecchia, le cui decorazioni lussureggianti si propongono solo di deco - rare, si aggiungono alla pietra o la fustellano e così la lasciano intatta, la condannano alla noia uniforme del cemento armato e condannano se stesse alla tristezza del pezzo inamovibile di un fuoco d’artificio sbagliato. In un primo tempo a Reims non riuscii a far coincidere la realtà con le mie aspettative. Preferendo l’arte romanica alla gotica, avevo però una segreta predilezione ingiustificata per Notre-Dame di Reims, dettata forse dalla simpatia che si prova per un essere marti - rizzato, diventato più caro perché si è rischiato di perderlo e si sa che è ancora fragile e minacciato. La predilezione veniva soprattutto dal - l’aristocratica sonorità blu-cielo del nome di Reims, viva e sicura come un’esclamazione di gioia, decisiva come l’attacco di un violino nel concerto in sol di Mozart. Scendendo dalla moto, non fu nessun dettaglio preciso, ma la cattedrale nella sua totalità, che mi infastidì: era là, cosa tra le cose, misconosciuta come un uomo celebre nella fol - la, senza segno eclatante che la distinguesse dalla statua di Giovanna d’Arco che s’innalza davanti al Palazzo di Giustizia, sdegnosa o sde - gnata, non si sa, come se un pittore avesse dimenticato di aureolarsi per farsi riconoscere tra i profani che lo circondano. I passanti non le prestano più attenzione che al Palazzo di Giustizia a sinistra o al negozio delle cartoline e souvenirs a destra. Percorsi in lungo la cat - tedrale e tentai di riconoscere le statue dei portali. Non se ne vedeva che la parte alta, perché i lavori di consolidamento erano terminati e una palizzata impediva di avvicinarsi al portale nord e a quello cen - trale. Riconobbi però molte statue, come quelle della Visitazione o dell’Annunciazione, così celebri, incontrate sovente nei libri, dai

Roger Laporte 25 manuali scolastici in poi, che si credono senza luogo definito, intro - vabili come il Santo Graal, e si è stupiti di vederle pietrificate in un unico esemplare che appartiene a una determinata cattedrale. Sicuro della loro esistenza, fuggii subito la ripetizione stucchevole della cele - brità, non gettai loro che un colpo d’occhio e mi diressi verso il por - tale sud. Non ne conoscevo le statue, a giusto titolo poco celebri, per - ché il loro collo, se immenso evoca irresistibilmente una favola di La Fontaine, se voluminoso e molto corto le fa sembrare con le gambe corte. Inoltre, mentre nel portale centrale lo scultore aveva idealizza - to le forme umane per renderle degne d’esprimere il divino, qui, al contrario, aveva avvicinato il divino all’umano per il realismo del viso, ma non era riuscito a dare a un certo precursore di Cristo se non la rudezza tracagnotta di un garzone di macellaio sgraziato, conciato per di più con un vestito da donna. La bruttezza delle statue avrebbe potuto trasformare in delusione il disagio che avevo provato veden - do la cattedrale, ma sentivo che i due sentimenti erano senza legame. Attraversai la via per considerare obiettivamente e veder meglio Notre-Dame di Reims. Il disagio, dal quale ero stato distratto dall’e - same dei portali, quando vidi la cattedrale nel suo insieme si fece ancora più forte che al mio arrivo. Senza difesa ma inviolabile, a por - tata di mano ma intoccabile, offerta allo sguardo ma vista a fatica, così mi apparve la cattedrale, come se, arrivato dinanzi al Tempio, fossi dovuto restare sulla soglia della Terra Promessa. Tuttavia il sole calava all’orizzonte e feci rapidamente qualche foto della cattedrale. Feci in fretta perché era giunta l’ora di andare alla ricerca di un hotel visto che eravamo capitati a Reims durante la fie - ra. Grazie alla diligenza di Hélène, abbiamo trovato una camera dove abbiamo appena posato la borsa prima di tornare alla cattedrale e, questa volta, ci siamo decisi a entrare. Come una persona nata nobile dimostra la sua grandezza con la sola incavatura accennata delle spalle, così, grazie alla volta, la cui incurvatura si accentua con una semplicità appena sdegnosa, la nava - ta della cattedrale, per di più abbastanza stretta, ci confuse per l’al - tezza che non avevamo sospettato da fuori. Ancora sorpresi, lenta - mente raggiungemmo il coro, e arrivati a livello dell’altare mi voltai. Attraverso la volta ombreggiata, d’incanto il mio sguardo fu condot - to al Rosone ovest il cui rosso, felice come l’esaltazione di una nota grave di blues, incantato di un oro maturo e ghiotto di girasole, si

26 Roger Laporte schiudeva con una lentezza ieratica da lanterna cinese, in una pace distante perché semplice come quella di Eraclito l’Oscuro vicino al forno per la cottura. Allora, ad un tratto, dandomi una gioia lucida e incisiva, come uno slancio verso l’immutabile mattino, preziosa e inattesa come la grazia accordata al poeta di vedere la vita stessa come mutata dall’arte, la cattedrale stessa, che all’inizio mi era resta - ta così ostinatamente estranea, mi fece entrare nella vera vita, nella folgorazione stabile di un eterno ritorno. Gioia degna di essere descritta, ma senza rapporto con le altre gioie della vita, se non con quella, sacra, di far l’amore con la donna amata, comparabile soltanto alle altre gioie dell’arte, dispera il poeta quando, trasformato in filosofo, vuole attingerla nella sua sorgente di luce come dal di fuori e prima del suo manifestarsi. Se il filosofo si chiede perché lo splendore rosso della vetrata gli procura tale gioia, subito il rosso si riduce a un colore, la vetrata a vetro e la gioia, anche se non ribelle ma estranea all’analisi, gli diventa incomprensibile, lo deride perché sembra nascondersi dietro al Rosone, al di là della Cattedrale. Ma il poeta insegna al filosofo che è vano cercare la sorgente della luce, poiché essa è la sua propria sorgente, non esiste che per illuminarsi ed è il rosso stesso, ma uscito dai limbi, eretto all’onnipotenza di una vetrata, luce nera come la splendente musica sorda di un paese muto. Eppure dovemmo strapparci alla visione in cui all’improvviso la vita, gloriosamente semplice come quella di un paradiso terrestre ritrovato, aveva preso un senso ed era degna di essere vissuta, per ritornare alla vita quotidiana, noiosa e anonima come una camera d’albergo. Quindi, lentamente, tornammo per la navata laterale nord, uscimmo dalla cattedrale e andammo alla ricerca di un ristorante. Dopo cena, siamo ritornati alla cattedrale, e ci siamo seduti su una panchina di un giardino che si apre davanti al Palazzo di Giustizia. La cattedrale. Che calma! Grave e serena come un contadino, la sera, dopo la mietitura. Che calma! Forte, larga e dolce come una pre - ghiera che chiude le palpebre. Abolito l’orrore della noia, riposo sen - za cattiva coscienza, come il conforto, gialla come il canto del miele, dato dalla spalla della donna amata. Un operaio in bicicletta attraver - sa il sagrato. Gira a destra, prende la via che corre lungo la cattedra - le, poi gira a sinistra senza neanche averle dato un’occhiata. Mi sento ferito come da uno sgarbo. Su un’altra panchina del giardino, due persone sono sedute. Attente e un po’ tristi, come i pellegrini fedeli di

Roger Laporte 27 un paradiso ingiustamente dimenticato, anche loro, in silenzio, guar - dano la cattedrale. Vorrei credere che non siano viaggiatori ma abi - tanti di Reims che vengono qui ogni sera. Com’è possibile? Centomi - la abitanti a Reims e solo quattro persone qui! Silenzio crocifiggente di un dio disperato. Eppure! Tale comunione potrebbe avere un sen - so. Ah! che un giorno il poeta non sia più condannato allo sfavillio sterile della sua gioia che, troppo forte perché incomunicata, lo minaccia di follia. Indifferente all’indifferenza. Pazienza, forte e di umore selvaggio, come lo sguardo che avrebbe potuto avere Edipo se si fosse girato dopo aver creduto di trionfare sulla Sfinge. «Massa di calma e di visibile riservatezza»: il verso di Valéry canta e canta anco - ra nella memoria. Massa di calma e di visibile riservatezza. Come un genio tutto preso di sé, che vede nel bisogno di amicizia solo una ten - tazione e l’indice di un dubbio su se stesso, la cattedrale si fa dimen - tica e quasi altera. Si raccoglie in sé e si ritira nella sua notte, nera e viva come il sonno, immobile, irritante e ricca come il silenzio di Monsieur Teste. Vorrei così tanto che mi accogliesse nel segreto della sua notte inesorabile, ma alla fine amata, non ostile, ma necessaria e triste come la partenza di un amico. Dietro a me grida di bambini. Mi volto. Giocano. Uno di loro, il “sindaco”*, conta. Gli altri corrono alla ricerca di un nascondiglio lon - tano. Però, due di loro, vicini alla casa, avanzano di soppiatto, riden - do sotto i baffi, scostano con prudenza i rami bassi di un tasso, s’infi - lano all’interno poi lasciano i rami. L’albero ha ripreso l’aspetto abi - tuale. Mai, bambino, ho conosciuto un nascondiglio così perfetto. Quello, ahimè! deve essere sventato dopo molto tempo. Forse ci si nascondono ancora, solo per compiere un rito, per onorare il bambi - no che trionfò il giorno in cui ebbe per primo l’idea di nascondersi in uno dei tassi del giardino. Il “sindaco” ha finito di contare. Si allonta - na un po’ dalla casa, lo sguardo passa sul tasso senza fermarsi e scru - ta i recessi del Palazzo di Giustizia dove, in effetti, sono nascosti dei bambini. Il tasso è ad appena cinque metri dalla casa, provocante e ingenuo come uno struzzo, ma il “sindaco” non vede ciò che vede, ridicolo e un po’ inquietante come una vecchia signora che cerca dap - pertutto gli occhiali che ha già sul naso. I due bambini nascosti soffo - cano dalle risa. Però gli altri hanno lasciato i recessi del Palazzo di Giustizia e con passo distaccato da passeggiatore ozioso, avanzano

* Traduzione letterale di “maire”.

28 Roger Laporte verso la casa. Fanno con calma, si fermano come se si fossero improv - visamente immersi in una fantasticheria. Adesso i bambini avanzano da tutti i lati e il “sindaco” non sa dove correre. Gioca molto male e ben presto sono ritornati tutti tranne i due bambini nascosti nel tasso. Allora, non potendo più contenere le risa, precedono l’inevitabile e, come se abbandonare il nascondiglio avesse gettato qualche dubbio sulla sua eccellenza e anche avesse significato un tradimento, disde - gnano di correre alla “casa”, e all’improvviso un ramo del tasso è scosso dalle risa. Subito, il “sindaco”, mezzo piegato come per nascondersi, si avvicina al tasso in una manovra aggirante eroica quanto quella di una grande manovra, i due bambini sono presto fat - ti prigionieri. E il gioco ricomincia. Il gioco m’interessa, ma mi vergogno un po’ come di un colpo di tosse durante l’esecuzione di una sinfonia. Sono inquieto come se i bambini irrispettosi e turbolenti, innocenti ma brutali stessero per svegliare la cattedrale assopita. Penso a una lettera di T.E. Lawrence in cui è scritto: «Dinanzi alla cattedrale di Wells oggi c’era una bam - bina in grembiule bianco che giocava a palla; la bambina era del tut - to incosciente della presenza della cattedrale (presa dal piacere del - l’erba tenera), ma dalla distanza in cui ero, sembrava così piccola che si sarebbe detto che era una margherita agitata ai piedi della torre; certo sapevo che era d’essenza animale; e nel mio odio di tutto ciò che è animale ho cominciato a confrontarla con la cattedrale: e ho consta - tato che avrei distrutto l’edificio per salvarla.» Mi giro, guardo la cat - tedrale. In una lentezza raggiante e splendida d’effimero, continua ad avvicinarsi alla notte ornando la pietra di un sorriso buono come il crepuscolo sognante su un viso di donna che ritorna da una festa. A un tratto le grida dei bambini non mi disturbano più e la vergogna mi sembra ridicola come l’incomprensione, e fittizia come il dilemma posto da Lawrence, perché sento che la pace della cattedrale sicura, nobile, posata e viola come il canto del violoncello è trasportata, viva e vergine, nella gloria delle grida dei fanciulli, trionfante come il for - te canto rosso della tromba. Ora inizia a scendere la notte, cessano i giochi dei bambini, le due persone sedute sulla panchina del giardino si alzano e se ne vanno lentamente. Solo la cattedrale resta là. Ipnotica, dura e felina, come la promessa di un pugno chiuso proprio prima di aprirsi… Come acca - de che si serbi rancore a una donna che si è fatta amare troppo in fret -

Roger Laporte 29 ta e di cui si cercano i difetti per preservarsi dal suo amore, così mi ostino a guardare le statue del portale sud, e ancor più la sfilata dei Re, lassù, proprio sotto le torri. Hanno veramente paura di passare inosservati e fanno smorfie come maschere da carnevale. Niente da fare: quei difetti non fanno presa sulla totalità della cattedrale. Chec - ché se ne dica l’amore non è cieco, ma la sua virtù magica è di ren - derci indifferenti ai difetti che, di solito, ci sono insopportabili, addi - rittura anche di farceli amare come qualità, per di più rare e amma - lianti come un enigma, e così di legarci ancora di più. Adesso che non rifiuto più il mio amore, guardo di nuovo questa parte della facciata che ho fotografato quella sera arrivando. Guardo dunque il contrafforte e il portale di sinistra. Sono troppo lontano per distinguere i dettagli, del resto molto rovinati, della loro ghimberga e anche se sapessi che cosa rappresentano, non avanzerei affatto nella conoscenza del mio amore. Alla base del contrafforte, senza decorazione, non smorto ma rigoroso come una geometria, eppure di una sicurezza carnosa e contadina. La pietra si assopisce in un giallo opaco, ma da cui sgorga un grigio robusto e uniforme. Più in alto s’incivilisce alla ghimberga nell’allegro e chiaro disordine del - le sculture, rispettose, attente e raffinate come dei caratteri cinesi. Sul - la ghimberga del portale si discerne un calvario, ma la pietra della croce è mezzo rovinata e il petto e la testa del Cristo interamente distrutti. Eppure, in questa stessa assenza, ossessiva come il silenzio bianco di una pagina del Coup de dés , solo la verità del calvario allora è compiuta; le sculture sono vinte ma scoprono il segreto della loro potenza portando la terra al riposo della sua notte implacabile, sere - namente triste come lo sfavillio della Morte nella musica di Mozart. Però, a livello del Rosone, ancora illuminato dal crepuscolo, la pietra s’incanta di un giallo calmo e saggio come un vecchio avorio che, più in alto, alla base delle torri, lussureggiante, tropicale e cristallino come il profumo dell’ananas, si ravviva di un rosa bello come la feli - cità, giovane, sicuro, feerico e vero come l’ultima parte di Du côté de chez Swann , per assurgere, infine, in cima alle torri, nietzscheiano come un grido d’aquila, perduto, intero, affilato e imperiale come il Dovere di scrivere. E fu allora che…

Impossibile. Impossibile. Del resto, è ora. Rinunciamo alla finzione narrativa. Non sono a Reims il 6 giugno, ma ad Algeri, il 19 dicembre 1951.

30 Roger Laporte Più volte durante la narrazione, all’inizio nominare si è dimostrato impossibile: in particolare nominare la luce dell’Ile-de-France, del rosone Ovest, e della cattedrale, la sera, dopo cena. Allora sono stato tentato di lasciare Reims per Algeri, di passare dalla descrizione alla descrizione della descrizione. Non ho ceduto alla tentazione, ma a malincuore, perché non nominavo l’essenziale: il fatto stesso di nomi - nare. In effetti, questa tentazione mi ha richiamato alla vera via del romanzo, scoperta, infine, in Vert comme …: la genesi si manifesta sol - tanto quando diventa genesi della genesi. Per questa ragione, per quanto sia riuscito, fino a oggi, questo capitolo è però incompleto. Tuttavia, avrei ceduto alla tentazione non senza danni. In effetti, a partire dalla descrizione della luce dell’Ile-de-France, passare dal nominare di primo grado a quello di secondo grado, per tornare a quello di primo grado e eseguire lo stesso ciclo per ogni descrizione avrebbe, forse, reso la narrazione stessa incoerente. Inoltre, scrivendo Vert comme… avevo intravisto la possibilità di un nominare di terzo grado sul nominare del nominare che può (e deve?) anche essere nominato. Allora mi ero arbitrariamente limitato a un secondo grado ma mi ero ripromesso di impegnarmi totalmente in questa direzione quando l’occasione si fosse ripresentata. Però, se mi ci fossi impegna - to a partire dalla descrizione della luce dell’Ile-de-France, a che punto sarei adesso? Forse allo stesso punto perché avrei camminato all’in - dietro fino all’infinito, a scapito della descrizione vera e propria. È la ragione per cui ho differito la tentazione fino al momento in cui la nar - razione del viaggio a Reims fosse stata quasi terminata. Inoltre, per tornare alla vera via del romanzo, mi è sembrato logico aspettare la descrizione più difficile ma più adeguata alla genesi della genesi: quel - la del dovere o del desiderio di scrivere. Adesso sono arrivato a que - sta descrizione. In Vert comme… il nominare di secondo grado è stato messo in atto soltanto dopo, ma, in quel caso, il lavoro è simile a quel - lo di un nominare di primo grado, e perciò non presenta difficoltà par - ticolari. Fino ad ora il romanzo ha mostrato la necessità di questa divi - sione: sarebbe impossibile descrivere un motivo e descriverne al tem - po stesso la descrizione. Eppure, ora, tenterò di descrivere sul vivo, al cuore stesso del lavoro, ciò che ho provato il 6 giugno a Reims, e la descrizione della descrizione, che avrei fatto ad Algeri il 19 dicembre. È allora che… Sì, è allora che il dovere di scrivere, che avevo cre - duto di lasciare prigioniero di Parigi, si fece d’un tratto imperiosa -

Roger Laporte 31 mente presente. No. Preferirei ancora terminare il mio romanzo con «È allora che…» piuttosto che accontentarmi di quella frase. Prima ancora del motivo, già una difficoltà. Precisare il sentimento che susciterebbe la lettura del mio romanzo se lo terminassi con dei pun - tini di sospensione. Fine di una sonata prima dell’accordo perfetto. Come un racconto di Kafka. Non bastano né un paragone né un’immagine. Bisogna ancora giustificarli, ovvero nominarli. Aggettivi? Quali? Incompiuto? Debole. Incompiuto? Incompiuto? Esasperante. Quest’aggettivo non è adatto, lo so. Perché mi assilla come se dimenticassi quanto la mente è innan - zi tutto e a lungo sciocca. Movimento che rifluisce su se stesso… Su se stesso. Riflusso del mare. Il nostro viaggio a Etretat. Oppure no: pene - trato dal crescendo della frase, il lettore ne auspica il coronamento. Non crede ai suoi occhi. Rilegge e rilegge ancora: è allora che… è allo - ra che … Fa un appello, un Sesamo incandescente capace di far appa - rire, ad un tratto, il seguito della frase, invisibile, ma sicuramente scrit - ta – con l’inchiostro simpatico –. Che parola! Che significa?… No. Nel disordine della creazione, apriamoci una strada diritta. Se possibile! Il lettore rilegge ancora: è allora che… è allora che… Con meno forza, come una preghiera. Per far tacere lo stupore. Stanca di non essere esaudita. Quei puntini di sospensione terminano veramente il libro. Unire in una frase tutti i paragoni. Sentimento provato in occasione della morte inattesa di un caro. Non si può, non si vuole ammetterlo. Si ripete solo: «Non è possibile. Non è possibile.» Rileggiamo quanto ho appena scritto. Il riflusso del mare, certo, ma quale riflusso? Marea d’equinozio trattenuta improvvisamente. Esita. Si vorrebbe credere che esiti, ma no è il riflusso irrimediabile. Disagio. Imbroglio. Ingiustizia. Stupidi - tà. Stupido come la conquista sicura di una donna mancata stupida - mente all’ultimo momento. Allora scriviamo:

Preferirei ancora terminare il mio romanzo con: è allora che… piuttosto che essere soddisfatto di questa frase. Puntini di sospensione ingiusti e dis - sonanti come, prima dell’alto mare, il riflusso stupido e irrimediabile di una marea d’equinozio, incomprensibile, non si sa, e per questo, molle ver - tigine di una notte ritrosa e indecisa come il senso dell’uomo di Kafka.

È chiaro? Voglio dire corretto grammaticalmente. Quale nome qua - lifica incomprensibile? Riflusso a causa dell’ortografia, ma frase

32 Roger Laporte ambigua per chi non la leggesse e l’ascoltasse. «Molle vertigine…» Sgradevole rottura di costruzione. Correggiamo.

…Puntini di sospensione ingiusti e dissonanti come, prima dell’alto mare, il riflusso irrimediabile e stupido di una marea d’equinozio. Ci si interroga, si crede di capire, ci si rifiuta di capire, ci si aspettava una risposta, per quanto dura potesse essere, ma anche il suo profilo si can - cella, non si sa più quale fosse la domanda, neanche se ce ne fosse una, una lenta vertigine fa girare la testa di una ottusa e molle ritrosaggine come il senso dell’uomo di Kafka.

Rileggo la frase. Socchiudo gli occhi. Lentamente, lentamente, la faccio risuonare in me, con l’attenzione di un violinista che accorda il suo strumento. Quasi soddisfatto. Quasi. Questa frase non è la sola possibile. Forse inadeguata. Inadeguata. Non suona falso, ma non è il tono giusto. Onnipotenza del linguaggio. Cammina col suo passo. Potenza autonoma ma vuota. Quando non dice che se stessa, non dice più niente: Hugo. «Il linguaggio, il più pericoloso dei beni .» A pro - posito dei puntini di sospensione parlare di Kafka! No e no. Mortifi - cato per questa svista. Ma ciò che è scritto è scritto. In più, come casti - go, devo comunque correggere la mia frase e anche dire in primo luo - go la sua non-verità. «Classico è lo scrittore che porta un critico in sé e l’associa intimamente ai propri lavori.» Ipocrita e vanitosa consola - zione. Da prendere a schiaffi. E tutto ciò nutre ancora, fino alla nau - sea e alla collera, l’escrescenza impudica e idiota. Imprecò, ma un po’ tardi… Il senso del mio romanzo non è la disperazione, ma l’amore. Quale amore? Se il romanzo finisse con: è allora che… il suo signifi - cato rimarrebbe incompiuto ma non in maniera fondamentale come in Kafka. Il lettore si sentirebbe piuttosto ingiustamente frustrato da una gioia possibile. Ricominciamo.

…Puntini di sospensione dissonanti come, prima dell’alto mare, il riflusso irrimediabile di una marea d’equinozio, stupidi e ingiusti come se, in seguito ad un incidente materiale occorso al piano, l’esecuzione di una sonata di Mozart, ascoltata per la prima volta fosse dovuta restare definitivamente incompiuta.

Questa frase sembra andare bene. Eppure? Se il romanzo terminas - se con: è allora che… il lettore non saprebbe se, solo, il caso lo priva del seguito. Terminiamo un po’ prima questa stupida disavventura. A

Roger Laporte 33 che pro immaginare quello che il lettore non si dovrà immaginare? Scrivendo l’inizio di questo capitolo, ero arrivato a rimpiangere tanta riuscita e tanta felicità. Mi auguravo che il lettore intravedesse a qua - le prezzo sono ottenuti e mantenuti. La mia speranza è appagata e anche di più. Istante di ebetudine: unico riposo possibile. Niente di più affaticante che scrivere la genesi della genesi: non posso mai abbandonare me stesso perché, in principio, tutto quanto è pensato deve essere scritto. Per questa ragione è importante non dire tutto troppo presto e attendere il soggetto scelto. Andiamo, ancora uno sforzo. Finiamola.

Preferirei terminare il mio romanzo con: è allora che… piuttosto che essere soddisfatto di questa frase. Puntini di sospensione dissonanti e incredibili come, prima dell’alto mare, il riflusso pur irrimediabile di una marea d’equinozio, stupidi e ingiusti e svianti come l’incompiu - tezza della sonata di un compositore sconosciuto. È ancora vivo? Solo la sua morte ci priva della fine della sonata? È stato incapace di scri - verla? Non è che un partito preso sarcastico e sciocco come una sfida senza ragione? Non si saprà mai.

È allora che… Impossibile. Impossibile. Non ancora possibile. Impossibile anche «fare attenzione». Nella casa qualcuno inchioda una tavola . La mia mano, là, davanti a me. Tiene, tengo una sigaretta che si consuma a poco a poco. Li guardo con uno stupore maniacale e cir - cospetto da appena nato. Nella via grida di bambini. Il vento. Una tenda si pavoneggia come una donna incinta oscena . Sono seduto nella mia pol - trona. A Parigi, Augustin Meaulnes è seduto sulla sua panchina. Aspetta che si apra la finestra chiusa per sempre. Ancora colpi di mar - tello . La mia penna, il foglio di carta, il sottomano. Fogli: a che cosa potevano servire questi arnesi antidiluviani? L’archeologo li esamina ancora, li soppesa, li rigira, li lascia cadere. Sulla piazza del paese, in una tribù dell’Africa, una Cadillac . Algeri, 26 dicembre. La qualità stessa di questo inizio di capitolo mi dispera. Non l’ha scritto qualcun altro e non io? Penso a Reims, alla cattedrale. Il mio amico è morto deportato. Ho dimenticato l’amicizia. Un numero in una statistica. Colpo di martello. Pigolii d’uccello . Ne soffro, come per una sorta di pesante magnetizzazione direttamente nel cervello. Proust nella sua

34 Roger Laporte camera di sughero. Sono vissuto. Prestare attenzione a me stesso, insomma per essere. Penso a Reims, alla cattedrale, all’istante in cui vidi le torri come in movimento. Certo, è stupido parlare d’ispirazio - ne, semplice epifenomeno di un’armonia fisiologica. Eppure? Un pre - te, in ginocchio, davanti all’altare. S’annoia. Non ha neanche voglia di pregare. Incurante della grazia. Sempre quei colpi di martello . Non diva - ghiamo. Devo ad ogni costo farmi sordo a questo mondo. L’uomo. Nella mano, un arnese. Bestie selvatiche. Scomparso l’ar - nese, ma la mano è magnificata. L’uomo si leva. Il combattimento del - lo stesso contro lo stesso diventa possibile. L’archeologo ha compreso la funzione degli attrezzi. Non penso più a Reims, sono a Reims. Vedo le torri slanciarsi in alto. L’ultima disavventura mi ha reso prudente. Nondimeno, se potessi dire che cosa significa : «Sono a Reims», si comincerebbe, forse, a capire l’essenza della memoria. A Loches, in una segreta del Martelet, all’improvviso, un raggio di sole. Il prigio - niero è sempre nella sua segreta. Per lo meno vede il sole. Sono a Reims, vedo le torri slanciarsi in alto. A Loches, Ludovico il Moro copre di pitture i muri della sua prigione. La mia disavventura aveva intaccato un po’ la fiducia in me stesso. L’essenza dell’ispirazione sta nel non comandarsi. Per l’orgoglio di essere uomo quale castigo peggiore dell’impotenza. Sovente, temo che questo romanzo mi sfugga, che si cristallizzi a un tratto, glorioso e morto come la storia. Piuttosto morire a 37 anni che… Ecco. Dietro di me. Devo dire, non, modifico, ma ho modificato l’esposizione del - le immagini, non scopro ma ho scoperto una tecnica che dona all’im - magine più splendore rispettando di più il suo mistero. Tutto assor - bito da una gioia acerba come una rivincita, ho appena letto a Hélène ciò che ho scritto. Mi chiede come sia giunto a questa nuova tecnica. Incurante, rispondo vagamente. Mi accorgo, ora, della mia indiffe - renza a chiarire subito la genesi della scoperta. Non mi preoccupo delle cattive scuse. Eppure m’interrogo. Beaufret dice del Cogito , che, ben lungi dall’essere la necessaria chiave di volta di ogni filosofia pre e post cartesiana, testimonia piuttosto espressamente l’oblio dell’es - sere iniziato a partire da Platone. A Etretat, mi preoccupavo della nebbia. Una signora mi ha detto: «Bisogna aspettare dieci o dodici ore». Edwin Fischer suona il con - certo in mi bemolle di Beethoven. Ultime misure dell’andante, delica - te, diafane, trattenute, precarie e irreali. Il tema distratto, si sfilaccia.

Roger Laporte 35 Sguardo, che non guarda. Pure, frenesia lenta e disimmetrica come il presentimento di un’immagine e, all’improvviso scoppia il finale, pri - mavera avida di vita come il sole quando il mare si sveglia. Ora, rina - sco a me. Ma vago, gratuito, e alla fine nullo come un puro possibile. Giurò ma un po’ presto… Vedo le torri slanciarsi in alto. Come far vedere ciò che ho visto? Come dire l’impossibile? Come può una massa di pietra simulare all’improvviso il movimento? Inoltre, in quel preciso istante, il dove - re di scrivere s’impossessò di me. Se riesco a nominare quel «come», i miei due sentimenti non saranno più giustapposti ma il loro legame avrà senso. Un cacciatore segue il volo di uno stormo di pernici. Sul grilletto, il dito denso come tutto il corpo. Imminenza ebbra. Nebbia. E pensa: «Che il mio fucile diventi la mia calamita!» Parafulmine in fregola di fulmine. Mi voglio, tutt’intero, ricordo. Perché mai non ne sono padrone? Perché mai non sono a Reims, proprio prima dell’e - vento? Disperazione di un fisico che non potrebbe mai ripetere un’e - sperienza cruciale. Ma, inutile. Non ne saprei di più, o, almeno, non potrei dirne di più. Un istante, il cuore viene meno. La crisi è passata ma la fatica mi ha rigettato in questo mondo. Alzo gli occhi dalla scrivania. Guardo Hélène. Sorriso ma precario come un’effimera senza coraggio. Atten - ta, scruta il mio viso, teme di leggervi il segno del destino. Implora già la grazia di un rinvio. Sorrido a Hélène. Penso a una frase della sua lettera: «Sorridere, ma come se abbandonato dai luoghi, venisse presso a una donna per cercare la luce. Ah! annientarmi per darti la vita.» Nuovo sorriso di Hélène ma breve. Mi stupisco e mi preoccu - po. Ho l’impressione che non guardi me o forse un me ancora scono - sciuto a me stesso. A ogni costo, bisogna concludere felicemente oggi. Vedo le torri slanciarsi in alto. In Olanda, sboccia un tulipano, il cui profumo sottile rende sciocco e grossolano quello di tutti gli altri fio - ri. Il boomerang ritorna nell’istante stesso in cui parte. palàntropo ¶rmonàh . Come esprimere un’idea così «illogica»: un avvenire che diventa passato senza mai essere presente eppure è la Presenza stes - sa. Tempo che passa e non scorre. Rifiuto tutto questo linguaggio filo - sofico. Fatica pesante come la disperazione. Contavo di finire di lavo - rare alle otto e trenta e non ho ancora scoperto l’essenziale. Adesso la T.S.F.* funziona. Per un momento l’ascolto passeggiando in lungo e in

* Télégraphie Sans Fil , in questo caso è usato nell’accezione caduta in disuso di radio.

36 Roger Laporte largo. Penso al sole di mezzanotte, a quell’istante nullo e vero come un punto matematico, dove il sole rinasce nell’istante stesso in cui muore. Ritorno a sperare e mi risiedo alla scrivania. Il paragone con il sole di mezzanotte è giusto ma insufficiente. Ah! se Breton non avesse già detto: «esponente-fisso». Linguaggio insidiosamente pove - ro, vischioso, tenace e inafferrabile. Penso alle due immagini scoper - te per dare un nome al mio sentimento quando vidi il Rosone Ovest. Ripete incessantemente le stesse immagini: «musica inaudi - ta…folgorazione stabile.. folgorazione stabile…». Bovide! Ah! Perché mai non ho finito di descrivere quel viaggio a Reims. Decido all’im - provviso di sopprimere una delle due immagini. Spogliare il secon - dario. A malincuore. «Cucina» della letteratura. Penso alla «Genesi di una poesia» testo di E.A. Poe, al quale mi riferivo continuamente all’i - nizio di questo romanzo e di cui pure non ho mai parlato: «…Con - templare i laboriosi e indecisi embrioni del pensiero, la vera decisio - ne presa all’ultimo momento, l’idea intravista così spesso come un lampo e rifiutando così a lungo di lasciarsi vedere in piena luce… la scelta prudente, le dolorose cancellature e le interpolazioni, in una parola gli ingranaggi e le catene, i trucchi per il cambiamento di sce - na…» Pazienza, la mia decisione è presa. Algeri, 3 luglio. Ma no. Finta rassegnazione. Devo dare il nome al movimento delle torri, la loro altezza improvvisa e provocante, poiché in quell’istante risentii il dovere di scrivere. Come mi fu rivelata la cat - tedrale in tutta la sua pienezza e al tempo stesso simile a un mistero da scoprire ancora una volta? Come dire? Cerco e cerco ancora un’im - magine. Invano. O piuttosto, sento in me una Parola, potente ma lon - tana e prigioniera eppure sul punto di divincolarsi. Sempre niente. Cocente e vana sofferenza. Cocente. COCENTE. Presto, verifichiamo nel Littré. Benvenuta ambiguità! Dolore cocente, lo spuntar del giorno; il già, il non ancora, ma sul punto di. Devo esprimere il doppio volto, ma la verità unica della parola cocente. Insoddisfatto ma già… «Vive - re a perdifiato», dice Breton. A perdifiato. Peccato che Breton… A per - difiato. A per… Penso al titolo del romanzo. Finalmente. ED È ALLORA CHE ho visto l’invisibile. Immobili le torri ….., arre - trano sulla navata, si ripiegano su se stesse, si stendono, s’inabissano in un’agonia densa come la morte e resurrezione del sole di mezza - notte dove l’ebbrezza lustrale di un tenue e soffocante biancore, la musica inaudita dell’organo dello spuntar del giorno, il Caos che

Roger Laporte 37 risulta alla tonante raccolta della pietra, erge le torri nel loro luogo stabile, magnifica lo slancio della cattedrale, svela, ma in un’esulta - zione muta, la sua onni Presenza: a perdita d’occhio, cocente deside - rio solare di un ancora disumano Vello d’oro. Divenuto folle, non si sa, pazzo di gioia, abbagliato, il poeta grida: «IL SILENZIO PARLA. IL SILENZIO PARLA. IL SILENZIO PARLA .» Il silenzio parla. Il silenzio parla, e così, a Reims, tutto a un tratto, fui condotto alla soglia del sacro. Ma la parola inaudita del dio deve anco - ra diventare linguaggio ed è perciò che il poeta intirizzisce di una gra - zia mattutina, arida e dispotica finché egli acconsente a trasmutarla in gioia, compiendo il solo DOVERE : quello di scrivere, di nominare l’in - nominato, l’essere, l’immobile folgorazione eterna del Tempo. Ma, volontariamente imprevidente, non ho con me il benché mini - mo taccuino su cui scrivere. La notte è quasi scesa ed è troppo tardi per comprare un taccuino in una cartoleria. Del resto, questa sera avrò ben poco tempo per scrivere e, domani, dobbiamo proseguire il viaggio, poi ritornare a Parigi dove dovrei preparare l’orale del con - corso al quale mi sono presentato. In più, all’hotel, una trentina di compiti mi aspettano. Un amico me li ha affidati e la correzione è mol - to urgente. Per di più, ho deciso di descrivere la Mortefontaine per paragonare il romanzo alla pittura, ma soprattutto perché mi sono recentemente accorto che questo romanzo è, su di un punto, misera - mente tradizionalista: è umanista; ben lungi dalla pittura di Cézanne, ma, come quella che non mi piace, brulica d’uomini. Quanto spazio dato allo sguardo! La natura è quasi assente. È ora, non di promuo - vere un’arte anti-umanista, ma di ritrovare la Terra non-umana. Ed è così che mi sono «tacitato» con tutte quelle buone ragioni per, ancora una volta, rifiutarmi alla nuova vita che mi era offerta. Dissi soltanto a Hélène: «Non avrei mai creduto che le torri di Notre Dame di Reims fossero così alte.» Allora, abbiamo lasciato il sagrato della cattedrale. Lentamente siamo scesi per rue Libergier. Parecchie volte, ci siamo voltati per vederLa ancora. Prima di prendere rue Clovis, un’ultima volta, la guardai. Ancora tutta reale, ma semplice, fine e come sigillata da una leggera ironia distratta, di un nero unito, spen - to, frusto e prezioso come quello di una statua egizia, la cattedrale mi fece dono di un’ insopportabile dolcezza divisa da lacrime. L’indomani, passando da Pierrefonds e Compiègne, abbiamo fatto ritorno a Parigi.

38 Roger Laporte René Char

Une migration - Prefazione

Lunedì, agosto 1958

Mio caro Roger Laporte Une Migration . È il nostro Paese, quell’altopiano di ogni tempo cui aderiamo e che nessun tempo ancora, eccetto il nostro, aveva potuto nominare e descrivere (descrivere, no: dispiegare con tutta la sua veri - tà avvolgente). Lei c’è dentro. Penso che ora non debba far altro che spingere in modo circolare attorno a sé i suoi rampini e le sue sonde. Ah! che prezzo, che prezzo è reclamato per questo sapere increato. Ma anche quale tavola si apparecchia improvvisamente, coperta di Costellazioni, a portata del nostro cuore sfatto eppure trionfante. Sono felice che abbia inscritto il nome di Blanchot sulla soglia della sua opera e molto toccato dalla mia frase scelta da lei, benedizione dell’uccello migratore all’esistenza del suo Paese, al paesaggio della Rivelazione. Un suggerimento: il sottotitolo Leggenda è di troppo, credo. Indebo - lisce l’insieme, diluisce l’appetito, previene inutilmente. Il mio pensiero affettuoso, complimenti, auguri.

René Char

René Char 39

Roger Laporte Una migrazione

A Maurice Blanchot Morire, è divenire, ma in nessun luogo, vivente? RENÉ CHAR

itornato a casa, cominciai subito a preparare un nuovo viaggio. R Dopo un anno, non ero ancora pronto e avevo preso l’abitudi - ne di stare su un divano basso dove pensavo ai modi per non viag - giare mai più. Mi ammalai e, il viso rivolto verso il muro, restavo allungato nella penombra di un’umida sonnolenza. Per precauzione, anche di giorno, feci tener le imposte chiuse. Avevo appena preso questa misura quando sentii svegliarsi il pri - mo soffio di vento. Senza che aumentasse, le imposte iniziarono a sbattere. Resistetti. Qualche giorno dopo, sentii il mormorante va e vieni di una brezza, infima questa volta. Le imposte si misero ancora a sbattere, dovetti alzarmi e, con vergogna, trattenerle con tutta la for - za. La lotta non durò che un istante, ma le imposte si erano screpola - te, e solo le lacrime mi avevano impedito di vedere. Però, mi ramma - ricava talmente il non aver risposto che mi venne voglia di dare un’occhiata attraverso la fessura di un’imposta. Troppo tardi: non avrei visto che un giorno già appassito. Non mi restava che coricarmi ancora. La breve prova aveva esaurito le mie ultime forze. Sapevo che a resistere ancora una volta sarei diventato pazzo o addirittura sarei morto. Così mi decisi a rispondere al primo appello. Una volta proclamato l’Avvento, le ore trascorsero in una tale cal - ma che mi domandai se il tempo favorevole non fosse passato. In un momento in cui guardai distrattamente dalla parte della finestra, mi accorsi che imposte e finestra si erano aperti senza far rumore. Ero già alzato e mi sporgevo fuori. Era mattino molto presto, e con lo sguar -

Roger Laporte 41 do presto risalii il triste spazio della brina. Era solo quello? Più lonta - no non distinguevo nulla, né giorno né notte, ma cosa c’era dunque? Non vedevo niente, eppure non potevo distogliere lo sguardo dal luo - go in cui la brina non si era neanche ancora formata. Sono dovuto sta - re in agguato. Ero già stanato e proprio allora… SI. Ho detto Sì. Ho deciso di fare il grande viaggio e all’improvviso, oh felicità! ho abitato la luce irradiante che stava… Nel mio cuore il suo chiarore si è sfilacciato, scia, fumo di Venezia. Avevo visto passare una cometa. Ahimè! Non avevo avuto il tempo di esprimere un desiderio.

Stavo per partire quando ho sentito la voce di una bambina. Dice - va: «Qual è il tuo nome?» La deferenza di quella voce dolce e virgi - nale mi ha fatto trasalire. Dopo alcuni istanti, ho riso. Ho ringraziato così la bambina. Il nome del Paese , qual era dunque? Il suo luogo? E da dove dove - vo passare? E dov’ero? Benché la notte non fosse affatto buia, non vedevo niente. Eppure da dove veniva il mio malessere? Ho avuto il mal di mare. Stavo imbarcandomi? Beccheggiavo: non ero già più attraccato! La nave si è messa a rollare. La barra era diventata ubria - ca? La nave arava sull’ancora evanescente ma tenace. Sotto i miei pas - si tutto si sottraeva: forse stavo su una vecchia barca tutta marcia d’u - midità e già inabissata fino al ponte. Non sono naufragato, ma allora dove sono stato spinto? Ho sentito un odore di mare. Ero in un por - to. Stavo per imbarcarmi! Ero partito male, un passo falso mi aveva forse sviato in una palude? Il porto è sprofondato. Non toccavo più il fondo, ma il mio solo desiderio: andarmene al più presto da quel luo - go insicuro dove non trovavo i punti fermi, non stava per realizzarsi: mi sentivo tutto in partenza! Ero in un porto? Su un battello? Tutto è sprofondato, ma ho visto una nerezza marina costellata di fuochi fatui. Mi sono lanciato da cento mille porti – ah! che io possa saltare verso l’unica barca in verde mare aperto –, ho saltellato follemente sui miei trampoli delle sette leghe e mi sono accasciato lontano da Aigue s-Mortes la Veuve .

Mi sono rialzato e ho guardato intorno a me. Ero in una landa. I pie - di non riposavano di piatto, sulla franca terra, ma sulla lunga cima bassa di una foresta di salici nani, flora elementare, l’unica di quella palude quasi asciutta. Nessuna rovina, nessuna traccia lasciava pen -

42 Roger Laporte sare che un uomo fosse mai vissuto su quella terra lontana. Mai una gallinella d’acqua sarebbe venuta a strapazzarmi con la sua salubre ala, perché nessun animale, neanche il più piccolo roditore viveva in quei luoghi diseredati. In quella terra incolta e vergine era inutile cer - care un sentiero. Eppure non avevo bisogno di recarmi al Paese ! Il suo luogo, allora qual era? Da dove dovevo passare? E qual era il suo nome? Non mi era stata fornita nessuna indicazione, non la minima informazione: come potevo recarmi al Paese ? Mi sono allungato a terra e ho posato l’orecchio contro il suolo. Nes - sun mormorio. Non ho sentito il passo della bambina. Eppure, se tro - vassi il suo posto, non troverei forse il posto del Paese ? Alla terra ho affidato il mio messaggio: «Qual è il mio nome?» Non ho neanche sentito l’eco della mia voce. Allora, in piedi, ho urlato: «Qual è il tuo nome? Qual è il tuo nome?» Non mi ha risposto neanche una risata. Non avevo sentito niente, continuavo a non vedere niente, ma quan - to avrebbero voluto stringere le mie mani! Pacatamente dovevo innan - zitutto palpare ogni angolo dello spazio, avrei trovato la freccia del suo polso e allora sarei balzato proprio al cuore del Paese . Ho chiuso gli occhi e, le braccia conserte, ho girato lentamente su me stesso, gio - cavo a mosca cieca: ho percorso tutte le piste, ma l’avversario, sempre, si nascondeva. Ah! perché non sono attaccato da un’orda di cavalli sel - vaggi e lo specchio del mio pugno non si abbatte. Ho voluto lanciarmi verso tutti gli orizzonti, ho creduto di sentirmi grondare sul viso una pioggia di sangue nero, banderuola flessibile e decentrata ho ancora piroettato a scatti e danzato un balletto sgraziato, poi, Don Chisciotte, mi sono accasciato tra le mani contuse di neve molle. Mi sono rialzato. Come avevo sofferto! Non avevo voluto lanciarmi troppo presto? Non dovevo prima esplorare quella contrada? Sono partito. La marcia era sgradevole e lenta, perché il suolo era vischio - so e quasi mobile. Ero lontano dalla palude come avevo creduto? Ho scorto una fila di giunchi sottili. L’ho seguita e ho camminato con pas - so migliore, perché correva lungo un canaletto che andava lontano. Per augurarmi buona fortuna, ho intrecciato una croce di salice e l’ho posta sull’acqua. Ho seguito il canaletto e ho camminato con tale faci - lità che ho perso subito di vista la croce di salice. Il canaletto è diven - tato un fiume e si è ancora allargato: andava verso il mare! Avrei tro - vato un porto! A lungo ho continuato ad avanzare. Il mio cammino ha virato a sinistra, il fiume è diventato così largo che l’altra riva è scom -

Roger Laporte 43 parsa. Era già il mare? Ho rivisto l’altra riva e con una sola falcata ho attraversato il canaletto. Avevo fatto il giro di un lago! Ho atteso a lungo. La croce di salice non mi ha raggiunto. Le acque dormivano. Il soffio di vento impercettibile mi aveva tratto in ingan - no? Non si dice forse che i fiumi talvolta nascono da grandi laghi, e poco tempo prima anch’io avevo trovato un fiume alla punta estrema del suo corso? Durante la mia assenza, si era aperta una strada e ave - va corso fino al mare! Ho seguito il canaletto. La terra malleabile por - tava ancora l’impronta dei miei passi. Per gioco, sono avanzato posando i passi in quelli di prima. Il gioco è diventato impossibile: durante la mia assenza, lo scarto tra i passi era aumentato. Ero già passato da là, ma calpestavo un terreno vergine. Le orme sono scom - parse. Ho seguito a lungo il fiume. Il paesaggio era così monotono che non ero sicuro di averlo già visto e forse avevo oltrepassato il punto di partenza. Ho scorto la croce di salice. Mi sono fermato. A poco a poco mi ha distanziato: scendevo proprio lungo il corso del fiume! Sono avanzato sino all’altezza della mia compagna di viaggio dalla quale non volevo più separarmi. Il gioco. Quanti anni fa? Se mi aves - sero detto che un giorno mi sarebbe servito così bene saper intreccia - re cestini! Così mi sono costruito una barchetta di giunco. Con una balsa non si può attraversare persino l’Ocean o! Dal fiume, avevo riti - rato la croce di salice e sul mio battellino l’ho posta come polena. Ho pagaiato con le mani. A lungo. L’acqua bianca non era affatto fredda. All’improvviso ho rischiato di scivolare nel fiume. Ho creduto di aver urtato la riva e di essermi impantanato. Ho dovuto arrendermi all’e - videnza: il fiume terminava lì. Non l’avevo incantato. Semplicemen - te, sperduto in un punto della landa dove non ero mai passato, ero seduto in una barchetta lunga poco meno del braccio morto del fiume di fango bluastro dove mi ero incagliato. Nessun sentiero conduceva fuori da quella contrada: il finto fiume, semplice canale, andava solo da un mare chiuso a un altro mare morto. Mi sono girato. Solo l’infi - ma sporgenza di un filare di salici testimoniava il fiume scomparso. Quando mi ero trovato nella palude, avevo creduto all’incidente presto dimenticato di una falsa partenza, ma continuavo a non essere al Paese , neanche in riva al mare, solo in una palude interna dalla qua - le non ero riuscito a uscire né dandomi la mano, né seguendo il fiu - me, perché mi aveva trasportato ancora più all’interno. Mi ero anche allontanato? Dov’ero dunque? Lontano? Vicino? Ai confini? Al centro

44 Roger Laporte della contrada? E dov’era il Paese ? Come potevo saperlo! Io, il famo - so viaggiatore, mi ero completamente perso. Non mi restava che una sola risorsa: camminare dritto davanti a me. Sarei uscito dalla landa, e allora il vero viaggio sarebbe potuto cominciare. A caso ho preso una direzione, ma ho deciso, anche se avessi dovu - to camminare per più di un giorno, di non riposare che una volta usci - to dalla landa. Ho camminato per alcuni giorni, ma a mia sorpresa, camminavo sempre in una pianura di salici. La perseveranza: ecco la grazia! Così ho continuato a camminare. Sempre nella stessa direzio - ne. Ho camminato. Ho camminato, ho camminato, ho camminato e camminavo sempre nella pianura di salici. La perseveranza è buona, ma la testardaggine? Nuova sfortuna, avevo forse preso la peggiore direzione: quella che portava senza fine all’interno della landa più arida ad ogni passo? Eppure forse sarebbe bastato fare ben pochi pas - si, e qualche impercettibile cambiamento mi avrebbe avvertito del limitare di un sentiero. Ho camminato e ho continuato a camminare su una terra sterile. Mi sono fermato, ho camminato ancora. E mi sono fermato. Ho rispeso il cammino. Non ho dato neanche un’occhiata indietro. Ho camminato. Ho camminato molto. Ho camminato ancora. Ho continuato a camminare molto più a lungo che all’andata, ma la terra era sempre così arida. Ho continuato la transumanza nella noia della landa acre: non consentirei mai a diventare un pellegrino insolvibile! Le gambe camminavano, le gambe camminavano, ma ero sempre ugualmente lontano dalla palude interna. Ho cambiato direzione e ho di nuovo cambiato direzione, ma peregrinavo sempre in una landa, e forse percorrevo uno spazio ridicolmente piccolo. Ho battuto la cam - pagna. Ambulabat in horto... ambulabat in horto . All’ablativo, perché non c’è cambiamento di luogo. Perché non c’è cambiamento di luogo. Allucinazione dovuta alla fatica? Ho avuto l’impressione di aver sem - pre vissuto, sempre camminato in quella zona morta. Che cosa ci facevo qui? Che cosa cercavo? Che cosa cercavo allora? E che cosa aveva voluto dire la bambina quando mi aveva chiesto «Qual è il tuo nome?» Non ne sapevo più niente! Ero venuto per farmi affibbiare un soprannome derisorio: il Folle? Come un bambino, mi sono messo a piangere. Cosa-in-sospeso, nessuno sarebbe dunque venuto a recla - marmi? Ah! se soltanto fosse sopraggiunto un passante per prender - mi e portarmi nelle sue braccia generose e onnipotenti e in un batter

Roger Laporte 45 d’occhio depositarmi molto lontano da qui. Qui, non c’era nessuno. Nessuno doveva essere passato né sarebbe mai passato per questa contrada inospitale dove non volevo più vivere. Non volevo neanche sedermi lì, neanche per un solo istante, eppure non potevo uscirne! Ero partito per recarmi al Paese , ma non potevo allontanarmi da quella landa, come ero arrivato a quel punto? Era un castigo perché una volta, prima di decidermi a intraprendere il grande viaggio, ave - vo detto No così sovente? Ero stato scacciato dal Paese , e il passo fal - so iniziale mi aveva portato all’amnesia, reso incapace di riconoscere la strada? Ero stato condannato a essere relegato? Non avevo dovuto neanche partire, solo dire Sì, e anche, per un attimo, ero stato tra - sportato dalla cometa: quindi non ero stato deportato, eppure, senza essere stato scacciato dal Paese , vivevo in stato di deportazione. Non avevo mai vissuto al Paese , conoscevo solo l’esilio ed è il motivo per cui ho invidiato la sorte di chi è messo al bando, perché almeno può ricordarsi della patria. Non sapevo niente del Paese , non sapevo nean - che come cercarlo, ma avevo detto Sì: così non potevo consentire né ad attardarmi, né soprattutto a perdermi per strada. Avevo ricevuto l’invito e non era stato disdetto, non potevo dunque credere che avrei conosciuto solo l’esilio, ma, poiché dovevo recarmi al Paese , sicura - mente c’era una via d’uscita. Perché allora non potevo uscire da quel - la landa? Era senza strada, non mi aveva riportato al porto, ma non mi trat - teneva: non avevo mai urtato bastioni insormontabili e avevo sempre camminato liberamente senza incontrare il minimo ostacolo. La lan - da, non potevo neanche accusarla! Non aveva mai fatto niente né per me né contro di me: era neutrale. Era una fortuna? Avevo creduto a lungo di transitare tra i bastioni di Aigues-Mortes e il mare, ma non vi ero ritornato, e forse dovevo soltanto peregrinare tra la Torre di Costanza e i bastioni. Transitavo nello spazio tra i due, ma se, perso nello spessore della circonferenza, non avessi mai dovuto incontrare né bastioni né prigione, se avessi soltanto dovuto errare tra le rovine del futuro cantiere di Aigues-Mortes la Veuve-Blanche , ero ancora e sempre nello spazio della prigione, no man’s land in cui potevo anda - re dove mi pareva, ma che importava: era al Paese che volevo andare, e così non ero affatto libero. Non ero mai stato prigioniero, ero sem - pre stato fuori, questa no man’s land era neutrale, ma lo era sempre: si stendeva indefinitamente davanti al mio cammino, sarei stato sempre

46 Roger Laporte fuori e così non avrei mai potuto attaccarla: era impossibile uscirne con effrazione. La neutralità era la mia perdita, perché senza doverla combattere, trionfava su di me. Da quando ero entrato nella terra abbandonata, mai avevo potuto battermi! Se avessi potuto, anche solo per una volta, avrei potuto avvalermi di tutti i preparativi del viaggio e sarei arrivato al Paese da tempo. Dal momento che la stessa neutralità di questa no man’s land mi era nemica, era necessario battersi, ragion per cui mi sarei costrui - to una formidabile Città-Forte. Ci avrei lavorato per secoli, con migliaia di schiavi avrei trasportato giganteschi blocchi di granito e avrei alzato una fortezza inespugnabile senza porte né finestre. Quan - do fosse stata così grande da estendersi più in là dell’orizzonte, sarei scivolato all’indietro attraverso la stretta fessura predisposta per il caso, e avvicinandomi al cuore della cittadella, avrei chiuso man mano dietro di me ogni via d’uscita: sarebbe stato impossibile evade - re dalla Torre di Costanza! Quando anche la cella reale fosse stata tut - ta chiusa, sarei stato così incastrato in quella semisfera compatta che le gambe sarebbero state completamente immobili, e quando il petto nudo avesse incontrato il nero metallo, allora, allora sarei stato infine prigioniero, avrei potuto battermi e, con una spallata, Lazzaro, avrei trionfato della tomba! E ho continuato a camminare nella landa, impastando nel palmo della mano la palla molle di argilla e di salice flessibile che avevo raccolto poco prima. Ah! se solo la landa fosse sta - ta ghiacciata dall’aridità conquistatrice di un duro vento.

Ho continuato a camminare, ma, per la prima volta dopo la parten - za, con estrema lentezza, perché ero stato sconfitto. Non c’era stata nessuna battaglia eppure ero appena stato completamente spezzato nel vivo. Una volta la conquista delle cime più alte m’inorgogliva, adesso non provavo più nessun gusto per la violenza, mi faceva orro - re, e non mi sarei mai più abbandonato a lei. A occhi aperti, avevo sol - tanto sognato la Torre di Costanza eppure non avevo commesso un atto reprensibile? Verso chi allora mi ero reso colpevole? Ho camminato con timore, a testa bassa e attento ai miei passi. Che cos’era quello che vedevo? Mi sono piegato: la landa era lanuginosa di fiori. Erano appena sbocciati? Fissando sempre lo sguardo all’oriz - zonte, avevo forse trascurato di vederli? Erano tutti della stessa spe - cie che non conoscevo, vicina forse alla salvia. Com’erano particolari! Schiusi forse, ma in gemme dure. Eppure mi sarebbe piaciuto incon -

Roger Laporte 47 trare la bambina per offrirgliene un mazzo. Ho trattenuto la mano maldestra, come bisognava raccogliere quei fiori? Se avessi trovato l’unico gesto adeguato, non sarei forse arrivato al Paese ? Una seconda volta ho trattenuto la mano già meno pronta. Se avessi raccolto i fio - ri, la loro bellezza sarebbe forse appassita al contatto con la mia mano sterile e, in un attimo, avrei forse ucciso tutto l’incanto della pianura di fiori viola! Mi sono tirato su e, trattenendo il fiato, non mi sono sen - tito ridicolo nell’allontanarmi in punta di piedi. Non avevo raccolto neanche un fiore. Perché quel pudore? Quale timore mi aveva trattenuto? Se avessi colto un solo fiore – che impazienza –, avrei avuto la sensazione di commettere un delitto: sarei stato colpevole, perché su quella terra la violenza era vietata. Non si sarebbe mai potuto commetterla. Non era valida per recarmi al Paese . Non si poteva impadronirsene con la for - za. Mi ero sentito completamente perduto, smarrito in un viaggio supplementare, ma adesso ne avevo la certezza: sin dall’inizio avevo cominciato il vero viaggio ed ero anche andato avanti, poiché la sco - perta: la violenza senza il potere, non avrei mai potuto farla al di fuo - ri di quella contrada. Senza strada, era la Strada. Avevo giocato a vin - ciperdi! Com’ero stato empio abbandonandomi alla violenza! Eppure non ero stato castigato, non ero stato schiacciato e neanche sfiorato dalla minima ferita e, se ero stato straziato fino a all’estinzione completa della violenza, ero stato educato lentamente da un maestro. Anche se avessi potuto, non avrei voluto ritornare a casa, perché, da quando vivevo in quei luoghi reputati malsani, avevo acquisito una nuova salute: ero dimagrito, mi sentivo molto più giovane, e non avevo nes - suna voglia di ritornare in un clima più temperato per prendere una qualunque moglie e figli. Com’era lontano ieri! Da quanto tempo ave - vo cominciato il viaggio? Non potevo saperlo: la luce era così serena che anche all’orizzonte non si ricopriva della brina di nessun soffio, sempre così uguale che il mio corpo non poteva curvarla e non le ave - va tagliato la stretta ombra del suo marmo. Emigrando al Paese , ma vivendo nel luogo in cui il sole non era ancora mai sorto, come avrei potuto orientarmi! Il giorno era senza ora: nessuna direzione indica - va il Paese . Da quando ero entrato nella contrada, che cosa avevo imparato a poco a poco? Quale scoperta capitale stavo per fare que - sta volta? C’era ben il Paese , ma era impossibile trovarne la direzione

48 Roger Laporte perché era assurdo cercarla. Il Paese non era ciò che avevo sempre cre - duto, ma quello che non mi avevano mai detto: la Città. Il Paese non era la Gerusalemme dell’eterno riposo, ed è per questo che non avevo potuto prenderla d’assalto. Come potevo raggiunger - la, e anche, cosa significava: recarsi al Paese ? Da quel momento dove - vo lanciarmi in nuove imprese? Fare anche solo il progetto, non era forse ricadere nella violenza inutile e perversa? Quanto ci vuole per cambiare! Il maestro mi aveva pazientemente educato, ma non ero ancora maturo abbastanza, non avevo vissuto abbastanza in esilio per essere capace di recarmi al Paese . Forse dovevo fidarmi della Strada: non era il maestro e neppure l’amico. Così ho continuato a girovaga - re nella pianura viola. Che altro potevo fare! Non avevo fretta. Avevo tutto il tempo! Ero in vacanza! Avevo solo bisogno di riposare e aspet - tare. Così, con rispetto, mi sono sdraiato lentamente tra i fiori. Ho chiuso gli occhi e infine mi sono rilassato e abbandonato all’odorosa morbidezza della terra viola. Che viaggio straordinario! Perché dunque ero così felice? Così dol - ce e così sicura, era proprio sulla terra che posavo il capo? Ero quin - di…? Non ho aperto gli occhi. Ero sempre accanto alla bambina? Dov’ero trasportato? All’improvviso ho abitato la luce che andava… Stavo per sorvolare la pianura felice della bambina?… Ah! che continui il viaggio, che ne veda il termine. Mi ero alzato, per qualche passo avevo corso, mi sono fermato: solo una striscia livi - da segnava ancora, attraverso il mio nero cuore, la scia della cometa che avevo visto di nuovo veloce come il lampo. Perché non mi aveva portato via? Allora sarei dovuto rimanere da solo! Ho passeggiato di nuovo nella pianura di fiori, ma che cos’era allora che mi infastidiva e che mi aveva sempre impedito di abbozzare dei veri balzi di gioia? Che cosa mi mancava fino a diventare una vera oppressione? La lan - da era in primavera, ma non udivo i suoi canti familiari. Perché allo - ra gli uccelli non erano arrivati? In assenza della bambina e degli uccelli, come avrei potuto mai essere felice! Mi rimanevano i fiori. Amorosamente ho voluto ancora contemplarli. Durante il mio sonno si erano punteggiati di nero. Ho voluto precipitarmi, raggiungere la corsa della primavera, sbucare con lei sulla pianura gloriosa di fiori sbocciati. Vedevo ancora fiori? In lontananza ho creduto di indovina - re la sciarpa grigio-nebbia di seta impalpabile cosparsa di fiori viola e mobili. Tutti i fuochi fatui sono scomparsi. Avevo avuto tutto il tem -

Roger Laporte 49 po per esprimere un desiderio e avevo taciuto. Povero me! Avevo dimenticato di camminare e così i fiori erano appassiti. Quale improvvisa pigrizia mi aveva colto? Mi ero addor - mentato in quella terra d’esilio! Avevo dimenticato il Paese e io stesso mi ero talmente perso di vista che ora sentivo solo il richiamo della cometa: da molto tempo sarei dovuto arrivare al Paese . Com’ero in ritardo! Che cosa mi era accaduto? Mi ero lasciato sedurre dai fiori troppo belli di quella terra che avevo creduto amica, e preso dalla gioia avevo finito per credere che la pianura di fiori viola fosse il Pae - se . Povero me! Proprio nel momento in cui avevo creduto di giocare a vinciperdi, avevo giocato a perdivinci. Che crudeltà!

Mi sono guardato attorno. Nessuno poteva nascondersi in quella contrada senza nessuna asperità del terreno, però, mi sono sentito a disagio, sono rabbrividito e a un tratto, al vedere la terra ingrata, mi sono sentito così angosciato che avevo un solo desiderio: fuggire al più presto da quel luogo antico che di colpo mi era diventato meno familiare del primo giorno, a tal punto che non lo riconoscevo più. Ho scrutato ancora la terra: non era segnata de nessun sentiero, comple - tamente integra, senza neanche la linea dell’orizzonte. Perché allora, senza essere stato spostato nel sonno, senza aver seguito la cometa, ero di colpo così sperso che avevo la sensazione di essere già in un tempo ulteriore e di partire in viaggio verso una nuova terra ? La lan - da era ora senza fiori e priva di ogni pianta, e sono rabbrividito anco - ra. Che cos’era successo? Prematuri, i fiori viola venivano da una fal - sa primavera, semplice raddolcimento della temperatura di Dicem - bre, ma, dopo quest’autunno che non smetteva di morire, la landa era stata spogliata di ogni vegetazione dall’inverno infine arrivato. Non volevo restare più a lungo in quella terra desolata, ma, prima di camminare, dovevo trovare il mezzo per raggiungere il Paese . Che cosa avevo imparato? La violenza era inutile, nessuna direzione indi - cava il Paese , perché non era una Città. Belle scoperte in verità! Per arrivare effettivamente al Paese , non mi erano di nessun soccorso. Solo il disappunto mi aveva fatto rabbrividire ancora? Ho fatto alcu - ni passi e sono scivolato: il suolo non era più fangoso, ma a tratti luc - cicava una lamina di ghiaccio. Come ho rimpianto di non essermi potuto esporre ai primi rigori invernali! Tagliente, aveva regnato così in fretta che non mi aveva dato il tempo di svernare: ero costretto a camminare senza posa, e il mio cervello intorpidito non era più capa -

50 Roger Laporte ce di riflettere. Invece di approfittare della breve sosta della primave - ra prematura, avevo girovagato e sdraiandomi avevo schiacciato i fio - ri! Per colpa di quale maleficio mi ero accontentato di scoperte nega - tive? Non avevo ancora trovato il modo per recarmi al Paese , non sapevo neanche come cercarlo eppure avevo una certezza: questa ter - ra era inabitabile, non potevo rimanerci più a lungo, neanche seder - mici foss’anche per un attimo. Ho camminato quindi, ma non sono uscito dall’inverno. Il freddo che mi denudava è aumentato ancora. Ho camminato, ma il bruciore dell’inverno è diventato così intenso che il fiato ha cominciato a gelare. Sognavo il tepore balsamico degli alisei viola quando il viso si è rivestito di una maschera di ghiaccio. Non potevo restare più su quella terra fredda, ma non potevo con - tinuare a camminare ed ero come cinto dall’inverno. Dovevo sverna - re ad ogni costo. Una volta la mia violenza mi aveva protetto da que - sto luogo senza tepori, ma l’aveva annientata, adesso ero esposto alla certezza arcigna del suo freddo, ma nella pianura rasa e scoperta, era impossibile proteggersi. Ho tentato di farmi un riparo, ma le unghie non sono riuscite neanche a scalfire il marmo della terra intatta per sempre. Ah! se solo avesse nevicato. Allora ho deciso di dormire nel gelo: mi sarei raggomitolato stretto, il mio calore avrebbe vegliato sul sonno, e così avrei conosciuto il tempo di riposo della cattiva stagio - ne. La notte era bianca, e non ho potuto dormire. Come sarebbe potu - to tramontare il giorno, quando il sole non era ancora sorto! Poc’anzi avevo voluto uscire dalla contrada e non avevo potuto, ora che avevo voluto svernare, il luogo senza pietà, il tempo così cattivo, me l’avevano impedito. Se non potevo allontanarmene, perché non era almeno ospitale! Perché allora, se non potevo andarmene, mi teneva sempre sveglio? A che pro riaprire incessantemente la piaga! Le gambe camminavano, le gambe camminavano, ma calcavano sem - pre lo spazio invernale che m’infliggeva ad ogni passo una tortura indicibile. Avevo creduto la terra neutrale, l’avevo anche presa per amica, quando l’avevo qualificata come nemica mi ero avvicinato appena alla verità, ora avevo scoperto la sua vera identità: il Boia. La sofferenza era tanto grande che stavo quasi per raggiungere il polo magnetico dell’inverno dove sarei morto tra le fiamme ghiacce? Spauracchio per nessun passero, finto albero nero contorto dal fred - do, il cuore non si sarebbe crepato per il freddo? Tutto il mio calore è morto, ma non ho fatto la benché minima sosta, perché la spada di

Roger Laporte 51 ghiaccio, lungi dall’uccidermi, mi ha colto sul vivo e mi ha forzato a correre sui grandi spazi nudi dell’inverno. Ero giusto? Questo luogo era proprio il boia? Non mi aveva ucciso, non mi aveva incatenato, al contrario ad ogni istante mi forzava ad andarmene e faceva anche di tutto per allontanarmi dal supplizio dell’inverno. Ancora una volta ero stato ingiusto: solo questo luogo mi faceva camminare. Non mi aveva ingannato: era la Strada. Rude amico in verità: inospitale, mi scacciava fuori. Forse non dovevo recarmi al Paese ! Perché inospitale, era mio amico. Quando la rassegnazione mi prendeva ed ero tentato di stabilirmi lontano dal Paese , mi costringeva a continuare la strada a tal punto che non potevo conoscere lo scoraggiamento neanche per un istante, e poteva anche essere amico migliore: a ogni passo, oh, pri - vilegio! mi dava speranza. Tra poco avrei fatto il primo passo? Ero partito in viaggio da molto tempo, così cominciai ad essere riservato nella gioia: ogni trovata, pur felice, era anche stata una perdita per me, lo sapevo bene. Quale dis - grazia mi sarebbe accaduta? Questo luogo non era la strada? Ho sal - tato e sono ricaduto. Sono stato espulso dalla folgore del freddo e sono ricaduto ancora. Non diventerò mai più leggero dell’aria? Sono stato desiderio di uccello e sono ricaduto ancora una volta. L’inverno mi scacciava fuori, ma fuori trovavo ancora lui. Quando iniziavo a dubitare, a credere che si faceva gioco di me e voleva imprigionarmi, mi aveva già rigettato fuori. Il ciclo sarebbe stato infinito! Inospitale, mi scacciava fuori, perché non mi scacciava al di fuori? Mi forzava a partire, ma quanto al mio unico pensiero: uscire da quella terra, per - ché rimaneva neutrale? Perché assisteva impassibile al vano tentativo di colui che, mai prigioniero, non riusciva a evadere? Mi dava spe - ranza, perché mi dava solo quella? Non mi voleva, ero fedele al suo desiderio con tutto il cuore, perché allora, se era mio amico, non mi soccorreva? Eppure si offriva a me in tutta la nudità impressionante del suo spazio liscio. Che cosa mi aveva nascosto la vegetazione? Che mi insegnava dunque la sua franchezza? La sua disgrazia? Non nascondeva né offriva nessuna risorsa: il luogo non era che povertà. Come avrebbe potuto aiutarmi se anche a lui mancava il Paese ! Mi apriva il cammino e mi dava la speranza, tutt’intero non era che cam - mino e speranza, in favore della sua povertà non avrei potuto mai più avere altra preoccupazione che il Paese – com’era diventata semplice la vita! – ma non poteva venirmi in aiuto, farmi accedere all’aspetta -

52 Roger Laporte tiva, perché era soltanto la strada e soltanto la speranza. Dolce e sel - vaggia era questa povera terra! Il viaggio era necessario, ma non ero ancora uscito da quella terra inumana: non avevo potuto adattarmici, lungi dal sentirmi a casa, mi era diventata ogni giorno più estranea fino a farsi intollerabile, nes - suno poteva viverci ed era un mistero l’aver potuto sopravvivere lì fino ad ora, ma il rinvio non era sul punto di terminare? L’inverno non voleva uccidermi, ma il suo rigore non poteva declinare, così, ben presto, non avrei più potuto portare il soprannome del tempo dell’e - silio, poiché, Migratore-in-sospeso, incapace di obbedire all’amiche - vole ma imperiosa necessità, ero sul punto di morire! Eppure come non sperare ancora di veder sorgere proprio in tempo, o anche per la gioia del mio estremo sguardo, i migratori della prima primavera. Ho scrutato il cielo e non ho visto che un vuoto di ghiaccio. Un’ultima volta mi sono slanciato incontro agli uccelli, ma ha fatto così freddo che la luce è gelata. Allora ho cantato. Com’era bianca la mia voce! Il mio cuore s’era stellato.

Non sono arrivato al Paese , non sono più ricaduto sulla terra fred - da, quindi dov’ero? Alla fine ero stato espulso, ma dov’ero stato con - dotto? Non c’era più né palude, né landa, né terra viola, né terra fred - da, ma semplicemente una luce senza ombra pur sempre evanescen - te: una falsa luce. La luce intorbidita era così sfavillante che affaticava gli occhi, così povera che la vedevo faticosamente. Le mie mani hanno voluto gio - care con i pallidi fiocchi di luce. Non l’hanno neanche sfiorata. La luce nevosa, di cui sentivo il fresco quasi sulla pelle, si teneva fuori dalla mia portata? Io stesso non ero in quella falsa luce? Non avevo più la sensazione di abitare il mio corpo; quando la luce era stata polveriz - zata sotto l’ascia del gelo, ero stato separato da me stesso? Semplice - mente non sentivo più le gambe perché non riposavo più su una ter - ra ferma. Ero andato a fondo, ero caduto fuori dalla landa, ma lonta - no dal Paese , mi ero smarrito nello spazio tra loro, e, senza peso, for - se cadevo orizzontalmente e andavo, piccolo fiocco di neve nera, lun - go la bruma chiara e senza pericolo. Non ero forse ancora il padrone di una barchetta! Nella nebbia, invece di navigare alla stima, l’avrei fatta precipitare sul primo ostacolo, sarei naufragato, avrei rimesso piede a terra, e il mio duro tallone avrebbe fatto suonare l’inverno della terra di cristallo. Non c’era più l’inverno, e vedevo soltanto il

Roger Laporte 53 debole alone di un lontano chiarore notturno. Ero anche in movi - mento lungo la nebbia di luce che non cadeva mai? Qualcosa si muo - veva, ma non era la luce che tremava? Dov’ero dunque? Ero al di qua del Paese , ma non ero sicuro di essere almeno al di là della landa e for - se ero stato spinto in una zona infossata, dalla parte della terra degli uomini che non avevo ancora raggiunto. Io che viaggiavo da così tan - to tempo, adesso mi trovavo più in qua della landa e non ero che una piccola pozza nera di bruma stagnante? Al di là? Al di qua? Come saperlo! E in che sorta di luogo mi trovavo? Non potevo identificarlo: non mi vedevo più, non sapevo neppure più chi ero. Ho pensato con nostalgia all’epoca in cui mi domandavo soltanto in che punto ero situato, adesso ignoravo anche la natura del luogo dove ero stato respinto. Non avevo mai saputo dov’era il Paese , avevo sempre igno - rato il mio nome, ma almeno misuravo la disgrazia e potevo dire: peregrino in una landa. Dovevo perdere l’abitudine, poiché adesso ero completamente privo anche di queste misere assicurazioni: una landa! un ebreo errante! La falsa luce mi ingannava, mi lasciava sen - za certezze e mi condannava a una disgrazia senza nome. Come potevo sapere dov’ero: non vedevo che una mezza luce, e così debole che non arrivava fino al luogo, un fosso forse, dov’ero caduto in fallo. Anche se la bambina fosse passata e mi avesse guar - dato negli occhi, non avrebbe potuto vedermi, neanche la mia ombra, perché dovevo essere stato messo da parte, respinto in un luogo sco - modo contemporaneamente a lato e al di sopra del giorno, a meno che non fossi stato gettato di sbieco o anche a testa in giù in una fos - sa poco profonda anche se senza fondo, perché vedevo solamente, e obliquamente, la foglia diafana del controluce. Senza dubbio ero usci - to dalla terra in cui avevo vissuto a lungo, ma, poiché non ero arriva - to al Paese, non potevo rallegrarmene, e, al contrario, una disgrazia senza precedenti mi era capitata: avevo perso la Strada, ero stato allontanato dalle vie della migrazione, ero stato condannato all’esilio del controluce. Ero sempre stato esiliato dal paese, ma adesso ero stato espulso dal - la Strada, dove almeno ero vissuto, e così sopportavo un esilio dop - pio. Congedato ero stato piazzato in un enclave neutrale? Lasciato dal mio amico, abbandonato fuori, avevo ricevuto però, derisione del viaggiatore, il diritto al riposo in un luogo senza luce? Poiché la Stra - da mi era stata vietata, ero stato condotto, se non in una Città-rifugio,

54 Roger Laporte per lo meno in un luogo sicuro dove avevo trovato la mia parte, pove - ra parte da cui non potevo vedere che quella cattiva luce? Me l’a - vrebbero tolta? Sarei stato condotto in un luogo ancora più in dispar - te, al punto cieco, dove questa volta sarei completamente sprofonda - to nella mia ombra? Non potevo temerlo: quella luce insicura intra - luccicherebbe sempre, se no, viaggiatore incapace di recarsi al paese, non avrei subito più il castigo dell’esilio; la frustrazione del giorno. Non potevo sperarlo: anche molto in disparte rispetto alla luce sarei sempre stato intirizzito dal suo nevischio. Ero stato condannato a vivere in esilio a perpetuità, ma, ben lungi da prendere gusto a una vita calma, sarei sempre stato il miserabile punto nero di una retina con la palpebra macchiettata di lampi accecanti, perché sarà sempre Brumaio.

Sono scivolato dal punto nero, il giorno è diventato più anemico, sono stato ancora respinto più lontano, ho oltrepassato il punto cieco e allora non ho più visto che il vapore chiaro del mio respiro. Nell’e - silio del controluce non mi era stata assegnata nessuna residenza, ma al contrario il soggiorno, come quello dell’inverno, mi era stato vieta - to. Rinunciando a torturarmi, mi avevano condotto questa volta ver - so un luogo di riposo? Nessuna sentinella mi aveva proibito l’accesso a un luogo così povero anche di luce che nessuno potrebbe viverci, e mai potrebbero condurmi in un luogo ancora più malsano, eppure, in questo stesso istante, provavo una tale angoscia che sicuramente sconfinavo in una zona proibita. Così, non ero condannato a vivere, ma l’avevo dimenticato a non vivere più in esilio. Non ero stato scac - ciato dal Paese, prima del viaggio non avevo commesso nessun erro - re, ma in quello stesso momento mi abbandonavo all’infrazione di vivere in un esilio seppur proibito. Quando avevo detto Sì, la pro - messa del mio essere futuro mi era stata fatta, ma ero stato incapace di rispondere a quell’ingiunzione, mi ero accontentato di un’esisten - za illegittima perché senza viso, ero soprattutto colpevole di cercare vanamente me stesso in un luogo in cui non potevo trovarmi e dove però avevo creduto di ricevere almeno un soprannome: il Folle. Non avevo il diritto di passare per un sedentario ed ero colpevole di aver dimenticato l’ordine che pure, anche all’inizio del viaggio, eseguivo in ritardo: essere al Paese . Per fortuna il mio amico non mi aveva con - gedato, non mi aveva relegato lontano dalle vie della migrazione – come la Strada avrebbe potuto allontanarsi da sé! –, ma mi aveva fat -

Roger Laporte 55 to uscire dall’inverno, mi aveva esiliato dall’esilio, mi espelleva dalla zona vietata, e così la Strada, la mia amica, cominciava a lavarmi dal - l’errore, perché mi avviava all’esodo dell’innocenza. Non ero di qui, non potevo abitarvi, ed è perché al Paese , dove non vissi mai, migra - vo per ricevere la purezza del mio nome: quello della Terra natale. Allora ritroverò la bambina e questa volta la vedrò, perché potrò dar - le il mio nome. Il mio fidanzamento era celebrato, il nome proprio mi era dato, poiché, privilegio dei privilegi, speranza della speranza, su questo fondo di Paese leggevo il negativo della mia presenza futura: il Fidanzato. Subito dietro di me la fidanzata doveva accompagnarmi nell’esodo, però non poteva vedere me, ma soltanto la bruma morente del mio fantasma, perché ero stato appena scacciato fuori di nuovo. Stava per raggiungermi, però in questo nuovo luogo non avrebbe più potuto raccogliere la mia traccia, ma solo leggere le vestigia del mio passag - gio: la frustata che mi aveva scacciato fuori. Ho bruciato la tappa suc - cessiva con un passo così leggero che la mia promessa avrebbe potu - to vedervi solo l’ombra incavata della mia linea di fuga. Poiché ero diventato del tutto invisibile, dov’ero? Non ero mai stato prigioniero, non ero più a terra, né sulla banchina, né all’ormeggio, dov’ero, allo - ra dov’ero? Ero di nuovo in partenza, ma sarei restato al porto per essere ricondotto ancora una volta nel porto interno o anche nella palude interna? La Strada non mi dava il diritto di tornare indietro, quando la mia compaesana sarebbe arrivata alla rada, ne sarei già partito, perché lei mi era vietata, e prima di arrivare al paese, meteo - ra, avrei appena avuto il tempo di striare con il filo d’oro della mia corsa lo spazio libero del verde mare aperto. La fortezza, la landa, la palude, il porto, la nave, il mare stesso, li ho lasciati dietro di me. Appena arrivato qui, ero già altrove, poi altrove, poi ancora altrove, e sempre altrove, ma allora quando sarei arrivato al Paese ? Ero stato scacciato dal luogo in cui mi trovavo per un altro luogo dal quale vengo scacciato e anche il luogo in cui sto arrivando mi scaccerà, ma perché allora non entravo nel Paese ? Non ero con - dannato alla deportazione, al contrario mi ero solo permesso di sog - giornare in patria, recarmi al Paese era necessario, perché allora non potevo uscire da quell’esilio dove mi sarebbe stato sempre proibito e impossibile vivere? La Legge di esodo non restava lettera morta, ad ogni istante l’ordine di espulsione era applicato: ero sempre scacciato

56 Roger Laporte fuori e soltanto in esilio, perché la Legge non riusciva ad essere ese - guita? Qual era dunque lo spazio che mi era vietato per intero, ma nel quale continuavo a vivere? Dov’ero dunque? Non ero più a terra, ma, poiché non ero ancora al paese, non ero sempre e soltanto nello spazio in mezzo a loro, tra lo spazio del por - to? Era la bassa marea? Il mare stava sempre ritirato e lontano? Ero su una nave incapace di partire o anche destinato a navigare sempre all’interno del porto? Ero in partenza, ero cacciato lontano dal porto, ogni nave, anche in mare aperto, mi era vietata, ma, siccome non arri - vavo al Paese , non ero forse ancora e soltanto all’interno del porto, su una nave attraccata, e forse non ancora imbarcato? Com’era possibile allo stesso tempo? Tutta la terra e tutto il mare erano stati invasi da una Città-galleggiante. Ero incatenato su uno dei due pontili? Non ero prigioniero di nes - suna guerra, al contrario dall’inizio del viaggio il Paese mi aspettava, ad ogni istante ero brutalmente slegato ed emergevo così velocemen - te dal pontile che non potevano prendermi da nessuna parte né vedermi, neanche la bambina. Anche il pontile dove arriverò tra cen - tomila secoli mi caccerà, ma la sua Legge d’espulsione, come quella di ogni pontile futuro, la conoscevo già, la pena non poteva più esse - re aggravata perché si ripeteva uguale indefinitamente, mi veniva incontro e mi sommergeva, così ero come ammesso dalla Città-gal - leggiante? Non ero nato nella Città-galleggiante, non avrei mai conosciuto la felicità di soggiornarvi, non potevo neanche esservi ammesso a tito - lo di Straniero-in-sospeso, perché non ero ancora cittadino di un Paese residente all’estero, la patria futura mi reclamava, ed è il moti - vo per cui la città straniera, ma alleata al Paese , non poteva abroga - re la Legge d’espulsione, poiché non avevo ancora compiuto la migrazione prenuziale della mia nascita. La Legge non derogava mai dal suo rigore, non poteva ammettere, anche per una sola sera, che piantassi la tenda su un pontile, ma, se aveva tutta la forza per scacciarmi, siccome non mi dava che la speranza ed era impotente per farmi arrivare al Paese , come un nomade ebbro di digiuno sarei stato sballottato senza riposo da pontile a pontile, e così, malgrado la sua Legge, la Città-galleggiante non sarebbe stata obbligata a sop - portare nel suo spazio vietato e ripugnante il Vagabondo scacciato di luogo in luogo?

Roger Laporte 57 La Legge non poteva accordarmi nessuna parte, neanche una con - danna a un esodo perpetuo, eppure de facto mi tollerava, com’era pos - sibile? Perché dunque il divieto della Città-galleggiante, per il quale ero condannato a non vivere, non riusciva ad essere tolto? Ero scac - ciato fuori dal pontile, ma il prossimo luogo dove stavo per arrivare non sarebbe stato il Paese , soltanto un pontile, anche’esso vietato, ma, se la Città-galleggiante avesse invaso tutto il mare e tutta la terra al di là di tutti gli orizzonti anche futuri, lo spazio della mia fuga sarebbe stato sempre meno grande dell’immensità di questa pianura rasa e traballante, avrei ripetuto indefinitamente il primo passo. E così, dal momento che la Legge fosse applicata, mi avrebbe consentito ancora una parte, dopo l’ultima, al di là della povertà, parte impura che non mi sarebbe stata regalata, di cui io non avrei voluto impadronirmi, ma che comunque avrei usurpato: quella del falso nome che non avevo il diritto di portare, ma che continuavo e avrei continuato ad assumere: Soggiorno Vietato. Per entrare nell’innocenza, sarebbe bastato adem - piere alla Legge, ma ne ero incapace, lei stessa non deteneva alcun potere per abilitarmi a entrare nel Paese . Ed è il motivo per cui ero e sarei stato escluso da ogni luogo, sempre assente ma ancora presente nella Città-galleggiante, suo malgrado, mio malgrado, avrei intratte - nuto con l’esilio un rapporto vietato. Ad ogni attimo sottraevo il mio nome falso, ma la Legge di proscri - zione è stata applicata con tale celerità che sono diventato come assente da me stesso: allora, la solitudine era talmente intollerabile, che ho desiderato follemente d’incontrare me stesso, di gettarmi ai miei piedi supplicando: «Portami via da qui! Portami via da qui!» Non ho potuto trovarmi, non ho neanche potuto dirmi: «Bruci», eppure era me stesso che cercavo. Allora ho riso e non ho smesso di ridere: giocavo e perdevo al fazzoletto. Però, se la bambina, che non aveva potuto seguirmi ed era partita alla mia ricerca, avesse preceduto la mia corsa e si fosse trovata in un luogo futuro, anche il più vicino, stavo per ritrovarla. E così, in que - sto mondo dove non ne avevo diritto, stavo per presentarmi davanti alla mia Fidanzata, e, prima del Paese , vederla per la prima volta ma in un rapporto criminale? Non potevo tornare indietro, non ero più qui, la Legge mi ha vietato anche l’accesso a ogni luogo futuro e mi ha respinto in anticipo da lì, allora io…

58 Roger Laporte È scomparso.

Sei scomparso, ma sei arrivato al Paese ? Avevamo finito per credere che saresti restato per sempre con noi: ti ave - vamo chiamato il Camminatore, parlando di te credevamo di riferire la nostra storia, ma, prima che sapessimo leggere i molteplici segni premonitori della tua partenza, sei scappato. Non potevi essere felice tra noi, ma adesso che te ne sei andato, non dovremmo rallegrarci? Senza saperlo, contavamo forse di seguirti e sbucare con te nella gloria delle tue nozze? L’amarezza di non esse - re stati invitati è tutta la nostra tristezza? Il Paese non è la Città, e neanche tu conosci la gloria di Gerusalemme, ma ci basterebbe essere sicuri che hai ritrovato la bambina e che adesso vivi una tua esistenza perché la gioia fosse con noi. Sei scomparso, ma hai raggiunto la Terra natale? Non sei più in questo luogo che non era la tua patria, che non ti ha con - dannato a morte perché non era l’amico del Paese, cometa iperbolica non ritornerai tra noi, è la nostra unica certezza, ma ti bastava lasciarci per rag - giungere la Terra natale? Vivi con la bambina nel luogo in cui nasce la rosa bianca? Solitario, ma vivo, stai immobile proprio dietro lo spazio? Sei mor - to, ma per lo meno arrivando al Paese ? Primo e ultimo sguardo, dovevi morire per vedere infine la bambina in un unico istante? Chi può dirlo! Sei scomparso. Anche se è per colpa nostra che ti sei smarrito nello spazio della morte, non potremo salvarti. Adesso non possiamo più niente per te. Il tuo Nome? Quello della bambina? Quello del Paese ? Non potremo mai conoscerlo. Non possiamo più parlare di te. La tua Leggenda è finita. Il Segreto è diventato ora assoluto. Sei scomparso! Non potremo mai consolarci della tua partenza: saremo sempre preoccupati per te. Alziamo gli occhi, guardiamo laggiù, cerchiamo la tua traccia, ma non vediamo che lo spazio libero. Piangeremo? La tua pas - sione solitaria e allegra ci ha dato l’esempio del coraggio, e come potremmo vederti adesso che sei vestito d’innocenza! Di quali lacrime s’inumidisce tut - to il nostro viso? Che cosa ci impedisce dunque di chiudere le palpebre? Però abbiamo avuto il tempo per veder nevicare la rugiada notturna e bianca. Allora abbiamo espresso un desiderio.

Roger Laporte 59

Roger Laporte An die Musik

Un ricordo Di quell'epoca già antica, vecchia di quasi un quarto di secolo, ho pochi ricordi: allora scrivevo, ma più tardi ho distrutto quasi tutto. Incancellabile rimane il segno di un certo evento doppio dal quale non mi sono mai rimesso, del quale forse non avrei mai parlato se il caso, l'amicizia, non avessero deciso altrimenti.

Due flashes sono concatenati. Ritorno a casa; sono appena andato in moto, molto veloce; sono fuggito in vano; capisco che ormai non potrò più allontanarmi dal mio tavolo di lavoro. A lungo sono rimasto in piedi, immobile, con - templando la sedia vuota, guardando, non senza paura, una sempli - ce tavola come un luogo che non mi sarebbe mai diventato familiare. Un po' più tardi ho cantato. Non più del lettore, sento la melodia perduta, l'aria senza parole dimenticata quasi subito, ma ricordo net - tamente che mai, prima, avevo cantato così, evento che non si ripetè più. Forse un musicologo avrebbe potuto denunciare l'indigenza di tale melodia, del ritornello senza strofa, di quell'aria quasi monotona, ma il canto sconosciuto sconvolgeva tanto me quanto i due testimoni della scena. Non ero l'autore di quella musica, e perciò posso dirlo sen - za precauzioni: il canto andava al di là della bellezza. Non cantavo troppo forte, eppure a squarciagola, senza riserva con tutto il cuore e anche con una generosità senza limite. Un istante - ma anche il tempo ha vacillato - persi il senso della mia identità, poi ritornai in "me". Da quel lontano giorno, in forma di stella doppia, si può datare l'at - to di nascita del "biografo".

Roger Laporte 61

Roger Laporte Working room

iacché la vita non è né anteriore, né esteriore alla scrittura, Gnella quale è possibile abbandonarsi a un’avventura estre - ma senza uscire da casa, restando – tante ore, tanti anni! – seduto a una scrivania, non è normale che la mia scrivania, il mio working room (detesto la parola studio) abbiano acquisito tanta importanza? Alcu - ni, sembra, possono scrivere seduti al tavolino di un bar; altri scelgo - no luoghi del tutto anonimi: una camera d’albergo, di seconda cate - goria, all’estero, mentre per quanto mi riguarda, non avrei mai potu - to, non ho potuto lavorare altrove che a casa, a casa mia. Per reazione alla estrema bruttezza, quella in particolare della mia camera, per cui ho molto sofferto da adolescente – ancora adesso la bruttezza di un luogo, di una persona, suscita in me un’intolleranza da cui non so difendermi – ho «consacrato un culto alla bellezz a». Sono circa qua - rant’anni che sogno di «abitare a casa di Vermeer di Delf t», che ho per motto la massima di Van Gogh: «Vivere più musicalmente». La stanza dove lavoro – in primavera lì la luce è molto bella – è a immagine di quel mondo calmo, trasparente e armonioso di cui ho bisogno non solo come uomo, ma di certo anche come scrittore. Que - sto luogo, all’opposto di una cella di eremita, è la stanza di un appar - tamento dove non ho mai vissuto da solo. In ogni momento posso andare nella stanza dove si trovano la libreria e i dischi, dove ho pas - sato ore e ore a leggere, ad ascoltare musica, soggiorno dove ogni pomeriggio, prima che mi rinchiuda per lavorare, si compie la «ceri - monia de tè». Scrivere è inseparabile da una solitudine che niente può

Roger Laporte 63 intaccare, ma forse non avrei potuto portare felicemente a termine il mio compito senza la presenza di colei che, da trent’anni, è letteral - mente la mia compagna. Un solo fiore, posto da una mano affettuosa sulla mia scrivania, come rendergli giustizia? Chi dirà il potere di una rosa nei momenti di sconforto?

Penso alla casa gialla, al falansterio che Vincent così generoso, così ingenuo, voleva fondare nel Midi. Si sa che cosa ne fu della Casa del Sole, ma si può sognare: ai muri – e fu la realtà – la serie dei Girasoli che Van Gogh dipinse precisamente per accogliere Gauguin. Per poco che ci abbandoniamo a immaginare l’alloggio modesto attraverso i quadri: «La sedia», «La poltrona», «La camera da letto», « Il ramo di mandorlo in fiore», arriviamo a pensare che quella casa avrebbe potu - to portare la firma di Vincent. L’atelier di Alberto Giacometti, 46 rue Hippolyte Maindron, con i quattro muri coperti da scarabocchi, da graffiti, da pitture era un Giacometti. Lo spazio interno della catte - drale di Bourges, poiché dà al respiro il ritmo giusto; la casa dove avrei voluto abitare: quella di Ampère, diventata museo, a Poley - mieux-au-Mont-d’Or, non lontano da Lione; la regione dove mi sareb - be piaciuto vivere: la Toscana, da qualche parte tra Siena e San Gimi - gnano; il Georges de Latour che preferisco: «La morte di San Giusep - pe» al museo di Nantes: questi sono i luoghi, gli spazi, le opere che avrei potuto proporre all’obiettivo di François Lagarde, ma questi emblemi del mondo di cui ho nostalgia non hanno nessun rapporto con il mio lavoro, con il suo universo inospitale, il solo attraverso il quale ho dovuto molto lentamente e difficilmente, aprire una strada. Non ho sempre avuto coscienza di questa dissomiglianza: tutta una parte di Une vie , quella intitolata Une voix de fin silence , è una proie - zione dei miei desideri, un segno delle mie preferenze personali, e niente altro. L’universo inumano di cui, in quanto «biografo», ho fat - to la prova, non assomiglia in nulla al mondo fatato dove mi sarebbe piaciuto vivere: come non soffrire di questa irriducibile differenza! Ritornando dall’Italia, ancora incantato, dichiaravo a chi voleva capirmi: «Ho trovato il Paradiso terrestre», ma dovevo aggiungere subito: «Se avessi abitato in Toscana, forse avrei conosciuto la sempli - ce, l’incomparabile felicità del vivere, ma non avrei scritto niente». Avrei dovuto cercare un luogo di lavoro che assomigliasse a quella «derrata mentale» di cui ero alla ricerca? Avrei dovuto riprendere per me il disegno che Kafka espone a Felice per tenerla in disparte, in

64 Roger Laporte ogni modo per metterla alla prova? «Ho pensato spesso, scrive nella lettera del 15 gennaio 1913, che il miglior modo di vivere per me sarebbe di istallarmi con una lampada e tutto l’occorrente per scrive - re al centro di una vasta cantina isolata». Il progetto può essere giu - dicato sia toccante, che bislacco e grottesco, ma, senza arrivare a una «soluzione» così estrema, senza essere capace di assumere ciò che pure sono portato a dire: «È all’abbazia di Fontenay, a quella di Tho - ronet, o in qualche monastero zen che sarei dovuto vivere», resta vero che la formula «Abitare a casa di Vermeer», se mi soddisfa come uomo, non ha mai corrisposto del tutto al mio ideale «estetico», per il fatto che nel pittore di Delft la bellezza non può essere separata, se non dal lusso, almeno da una ricchezza che m’infastidisce. In archi - tettura non pongo niente sopra l’arte cistercense precisamente perché l’austerità, il rigore, la densità, in una parola la necessità sono esem - plari. La stanza bianca dove lavoro è quasi nuda, senza libri, eccetto il Lit - tré, il Robert, il Grévisse 1. Sul tavolo, esattamente davanti a me, una sezione longitudinale di un argonauta fossile (ahimè incidentato) e, a lato, un radiometro: tanti emblemi, non di un mondo desiderabile, utopico, ma di quel cammino a forma di spirale di cui ci parla Eracli - to nel frammento 60: «La via verso l’alto e quella verso il basso, sono una sola e stessa cosa». Ai muri della mia stanza di lavoro, quattro Lars Fredrikson: non avrei, credo, sopportato nessun altro compagno di strada. Come non potrei essere toccato dal silenzio di un lavoro dall’ineguagliabile discrezione: un’opera di Lars Fredrikson – ne sono stato testimone – può letteralmente passare inosservata. Se si parla di arte minimale si fa però un controsenso, paragonabile a quello di cui fu vittima Ni-Tsan, il più famoso pittore cinese, accusato dai suoi con - temporanei «di risparmiare l’inchiostro come se fosse stato oro». Quelle rare linee nere, i tratti impressi sul dritto e sul rovescio della carta Canson, i colori, impiegati con «parsimonia», sono al tempo stesso necessari e sufficienti per far vibrare lo spazio molto legger - mente, uno spazio prossimo, di cui solo i margini sono intaccati, immenso bianco, intatto, per sempre sovrano. Se un solo punto ha orientato tutta la mia ricerca, un luogo sempre in disparte da ogni rivelazione e anche da ogni rappresentazione, sarebbe assurdo cercarne un equivalente fotografico. Dunque è sor - prendente, addirittura paradossale, che questo mondo possa far pen -

Roger Laporte 65 sare all’altro mondo, eppure in pagine scritte nel 1959, pubblicate nel 1979 con il titolo Son lieu (alla fine di Souvenir de Reims et autres récits ), ho messo esplicitamente in rapporto “Il” 2 di La Veille con il paesaggio che si scopre al colle de la Pierre Plantée, sulla nazionale 88 tra Men - de e Le Puy. Quasi trent’anni dopo, posso forse ricordarmi la prima impressione, interrogarla di nuovo e così avere la possibilità di saper - ne un po’ di più? Capisco o credo di capire l’antica impressione che adesso tradurrò nel modo seguente: se volessi vivere nei suoi parag - gi, se cogliessi questa fortuna, dovrei abitare quella terra selvaggia, troppo rude forse per il bambino che ogni uomo nasconde, bambino che prima di tutto desidera la propria sicurezza, intimità, dolcezza di una home . Soprattutto se la si vede nel momento voluto: col cielo gri - gio, alla fine del giorno, quando il verde, già scuro, dei pini diventa quasi nero, questa terra risveglia una sensazione di Unheimlichkeit . Riprendo questo termine trito perché qui è perfetto, il concetto del vocabolario freudiano che si rende abitualmente in francese con «inquietante estraneità», ma che all’occorrenza è preferibile tradurre letteralmente con «inospitale». Infatti, non è un caso se non mi sono allontanato dalla nazionale, se non ho mai preso la provinciale 6 che, attraversando il Causse de Montbel, mi avrebbe permesso di «entra - re nel paesaggio». A Siena, o nel Val de Loire, sarebbe bello vivere mil - le anni, mentre le Causse risveglia l’angoscia, il desiderio di partire al più presto, non senza rimpianto, o piuttosto senza rimorso perché si voltano le spalle a quel mondo a cui si sostiene di consacrare la vita. Perché quel paesaggio senza grazia, non dico senza bellezza, è il suo «luogo»? Paragone non è ragione, ma, come Heathcliff – «deserto di ginestre e di basalto» scrive Emily Brontë – assomiglia e quasi s’iden - tifica alla landa sulla quale da ogni lato si aprono le Cime tempesto - se, così Causse de Montbel assomiglia non poco al senza viso, allo sconosciuto che non ha mai abitato questa terra – non è il suo luogo – che se ne è sempre già ritirato, ma lasciando una traccia: la solitudine che non si può incontrare, la ruvida prossimità del lontanissimo. Ho fatto spesso la strada tra Millau e Montpellier. Arrivato a Le Caylar, lascio la maggior parte delle volte la nazionale 9 per prende - re la provinciale poco frequentata. A meno di un chilometro da Saint Pierre-de-la-Fage, sulla sinistra della strada, un certo paesaggio: ogni volta che passo di là, rallento, il tempo di «ammirare», ma non ho mai saputo, non so ancora perché quel luogo mi tocca, certo leggermente,

66 Roger Laporte ma in modo del tutto specifico: in quanto scrittore. Prima di provare, nonostante tutto, a dirne un po’ di più, potrei aspettare di tornare sui luoghi, o almeno di aver visto la fotografia che deve farne François Lagarde, fotografia che forse raggiungerà il suo scopo di rivelatore, ma preferisco inventare, a rischio di verificare poi se l’immaginazio - ne sarà stata, o no, vagabonda. Il paesaggio è largo, molto profondo, appena chiuso all’orizzonte da colline solo accennate. La vista è sgombra, ma se si tagliasse tra le terre cosparse di rocce basse, caoti - che, per raggiungere l’altro bordo di questa leggera conca, sarebbero necessarie delle ore. Attraverso i terreni incolti, il cammino sarebbe faticoso, solitario, perché sarebbe del tutto improbabile l’incontro di anima viva, eppure non sarei stato attirato, addirittura affascinato da questo paesaggio se non avessi creduto di vedere o sperato di trova - re laggiù, in lontananza, in una sorta di incavo o ripiegamento del paesaggio su se stesso, una casa, addirittura un gruppo indistinto di case. Deliro? Forse, ma in una certa maniera importa poco: solo la cer - tezza, l’impossibile certezza che non c’è niente, mi avrebbe tolto il coraggio e in primo luogo il desiderio di mettermi in cammino, poi di proseguire anche quando il sentiero si sarebbe fatto sempre meno praticabile. Sogno con la penna in mano? Ho visto realmente, in lon - tananza, qualche segreto segno di vita? Non so. Non pregiudico la risposta, ma preferirei che il paesaggio mantenesse il suo segreto, che le Causse du Lazarc, anche scrutato con il teleobiettivo, mostrasse a perdita d’occhio il deserto, l’immensità del deserto.

Note

1 Si tratta degli strumenti di lavoro dello scrittore: i dizionari Littré e Robert e Le bon usa - ge , la grammatica di Grévisse. [N.d.T] 2 Pronome personale soggetto che designa la terza persona singolare “egli”. L’autore spiega il significato specifico che questo pronome assume nella sua opera nell’intervi - sta a Thierry Guichard a p. 116.

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Roger Laporte «Vivere più musicalmente» Van Gogh

i sa che il Giappone è stato violentemente occidentalizzato, Samericanizzato; ma si sa forse che la città di Tokio è talmente inquinata che gli abitanti sono talvolta costretti a entrare in delle spe - cie di rifugi, che assomigliano a cabine telefoniche, e a mettersi sul viso una maschera che permette loro di ricevere alcune ventate d’ossigeno? – Passare da una via di Tokio o di Osaka a una stanza del tè, racco - gliersi a Kyôto accanto a Ryôan-Ji, vestire, calata la sera, un kimono, permette al giapponese non solo di mantenere viva una tradizione millenaria, ma di ritrovare se stesso come uomo. Noialtri europei non possiamo passeggiare lentamente nel giardino di un monastero zen, ma abbiamo la risorsa di mettere sul piatto un disco di Mozart. Allora un altro mondo esiste, e grazie a quel mondo fatto di finezza, di dol - cezza, d’eleganza, di bellezza, di purezza, ritroviamo il respiro. – È un mondo irreale? Forse, ma perché quest’impressione persistente: la musica di Mozart, anche tragica, ci porta la felicità e la vita.

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Roger Laporte Luminosità di René Char

arebbero necessari la pazienza, il discernimento di un geologo per parlare con una certa precisione dell’opera di René Char. S 1 Bisognerebbe seguire le gallerie aperte da chi ha «un mestiere di pun - ta 2» per stabilire una mappa che indicasse i diversi strati del terreno, soprattutto per ricostituire l’architettura dell’opera e i suoi vari livelli. Procedendo con una scorciatoia semplicistica, sorvolando per ora sul duro lavoro di avvicinamento, andremo direttamente al filone centra - le, il luogo in cui si opera la trasmutazione del vile piombo in oro. Che cosa ne è di quel centro? Direttamente non si può dirne niente: il centro è come uno scoglio, uno scandalo per ogni scrittore, poiché è nel momento stesso in cui parlare avrebbe in apparenza tutto il senso, che diventa impossibile parlare. Eppure, ciò che mette in scacco il lin - guaggio risveglia il desiderio di scrivere, suscita la ricerca di un altro linguaggio, linguaggio che deve nascere, nuovo modo di pensare, e potrebbe darsi che, come lascia intendere Jean Beaufret 3, si trovi nel - l’opera di Char un pensiero più mattutino della filosofia, una risposta al richiamo che non smette di mandarci Heidegger. Di solito la cono - scenza è una spiegazione per cui sottoponiamo l’oggetto alla nostra umana misura: per prendere coscienza di questo fatto, è dal punto di vista della scienza e della tecnica moderne che bisogna far suonare le seguenti espressioni insidiosamente edulcorate nella violenza del loro senso: capire , afferrare . La spiegazione, che ostenti le ragioni d’essere della cosa, è possibile, apparentemente possibile, nel campo gestito dalla scienza e dalla tecnica, ma operare un sequestro , prodezza da uffi -

Roger Laporte 71 ciale giudiziario, è del tutto impossibile nei riguardi di ciò che è il nostro Bene, solo se acconsentiamo a non possederlo: voler afferrare, «brama comica», «augurio ghiacciato», è richiudere la mano, non su un tesoro, ma su alcune tracce effimere di sabbia polverizzata. L’og - getto della scienza è il conoscibile, quello della poesia, che non è un oggetto, è l’ignoto. Il centro è «il lampo», «mezzodì», ma il centro del centro rimane oscuro: è una mezzanotte assoluta che non propenderà mai verso nessuna alba. Ogni tentativo di definire il centro, di cono - scere l’ignoto è destinato al fallimento sin dal principio, ma lo stesso fallimento insegna, poiché ci mostra che al termine della strada siamo in rapporto con qualcosa di non assimilabile e dunque non misurabi - le, ma che ci dà la nostra misura. Il poeta non potrà mai rivelare nes - suna prova di ciò che trova, ma è contraddittorio domandargli di ren - der conto dell’ignoto mentre, nell’istante del lampo, ha «metà del cor - po, la cima del fiato nell’ignoto». Eppure la cima è riconosciuta come cima, ed è per questo che il poeta può dire a ragione che il «fascino impossibile» è «il grado più alto del comprensibile». L’impossibile resta impossibile, l’ignoto ignoto, perché il poeta non entra nella Terra promessa: si tiene sulla soglia, ma la distanza non è più che la traspa - renza necessaria allo sguardo nel momento in cui «la città serena, la città impenetrat a4 gli sta dinanzi». Perché amiamo tanto la poesia di René Char? Perché nel mondo contemporaneo è assolutamente senza eguali? Perché indica il «luogo» cercato da Rimbaud, luogo di cui non si può dire nulla, perché non esiste, eppure «resteremo avvinti, a dispetto dei dubbi e degli interdetti, a questa illusione trapunta di gaiezza e di lacrime». Si tratta solo di un’illusione, almeno per uno sguardo scientifico che conosce soltanto ciò che misura e afferra, eppu - re, rispetto alla vita ordinaria che conduciamo, rispetto alla realtà conosciuta dalla scienza, l’«illusione» è l’unico Reale: «La poesia è a un tempo parola e provocazione silenziosa, disperata del nostro essere- esigente per l’avvento di una realtà che non avrà mai rivali. Immarce - scibile questa… Tal’è la Bellezza, la Bellezza alturiera.» Non si può raggiungere il centro come centro, non si può parlarne direttamente, ma si può girarvi intorno: cerchiamo perciò di dare qual - che precisazione e di fare con Char le distinzioni necessarie a proposi - to della «vita inesprimibile, la sola in fin dei conti alla quale accetti di unirti». M. Blanchot ha fortemente e giustamente sottolineato che l’i - gnoto, in Char come in Eraclito, si esprimeva al neutro 5. È orientan -

72 Roger Laporte doci su questa osservazione, le cui conseguenze iniziano appena ad essere esplorate, che commenteremo questo testo di Char: «L’intelli - genza con l’Angelo, nostra primordiale preoccupazione. (Angelo, ciò che, all’interno dell’uomo, sta in disparte dal compromesso religioso, la parola del silenzio più alto, il significato che non si valuta. Accorda - tore di polmoni che dora i grappoli vitaminizzati dell’impossibile.)» L’uomo, nel momento del lampo, è così radicalmente trascendente rispetto al suo io usuale (quello che la psicologia e il romanzo tradi - zionale passano il tempo a descrivere instancabilmente!), che si può a ragione parlare dell’«angelo», ma quel celeste è venuto qui giù, è l’uo - mo stesso, «la vita futura all’interno dell’uomo riqualificato», perché «la vitalità del poeta non è una vitalità dell’aldilà, ma una punta di diamante attuale di presenze trascendenti e di temporali pellegrini». In Char, come nei greci, come in Camus, il greco che fu tra noi, il terrestre e il celeste non devono essere separati. Tutt’al più gli uomini, come gli Ateniesi incontrati da San Paolo, elevano un altare al «dio sconosciu - to», ma contrariamente all’Aeropagita, non si riconoscono il potere d’i - dentificarlo, al contrario considerano che parlare di un Dio è dire più di quanto si sappia e perciò parlare falso. Se si potesse dire: l’ignoto è Dio, l’ignoto sarebbe tradito, e qui non ci sembra illegittimo accostare René Char a che scriveva: «Se dicessi decisamente: «Ho visto Dio», ciò che vedo cambierebbe. Invece dell’ignoto inconce - pibile – davanti a me selvaggiamente libero, mi lascia davanti a lui sel - vaggio e libero – ci sarebbe un oggetto morto e la cosa del teologo, a cui l’ignoto sarebbe asservito.» La condizione umana è tragica: non forse perché «il segreto del nostro destino in stracci non ci è divulgato» (Lautréamont), ma perché il lampo, più fugace della rosa, non dura neanche lo spazio di un mat - tino e soprattutto è ben lungi dal rinascere a ogni alba. Forse, doman - darsi perché la vita è fatta in modo che i momenti in cui s’illumina sono brevi e rari sarebbe ricadere ancora una volta nella curiosità ille - gittima, nell’avidità dominatrice? L’uomo non è responsabile della fre - quenza del lampo? Si può discuterne, ma è più prudente capire ciò che ci dice Char rifiutandosi di mettere in questione l’ignoto, di chieder - gliene conto. Anche qui Char è vicino ai Greci, perché accetta, con dolore forse, ma non può essere altrimenti, la fugacità del lampo, come il Destino stesso impartito all’uomo. La notte precede il lampo, la not - te segue il lampo, e questa parte della notte è così importante che «La

Roger Laporte 73 Torre d’allarme non è che una tolleranza interessata della notte». La notte sarebbe infatti meno scura se non ci fosse «mezzodì» solo nello spazio di un lampo, ma si può anche dire che il lampo sarebbe meno eccezionale, meno miracoloso, e perciò non sarebbe più lui stesso, se il giorno durasse più di un istante, e forse è perché: «Un’intimità troppo persistente con l’astro, le comodità sono mortali». Poiché non possiamo in ogni istante «ritoccare lo stesso ferro per assicurarsi del suo ritorno guaritore», quale deve essere il nostro giu - sto rapporto con «la grande Passante senza pegno»? Non si tratta mai di afferrare il lampo, di esclamare «oh tempo sospendi il volo», ma bisogna andare nello stesso senso del lampo, ovvero «Partecipare allo slancio. Non al festino, suo epilogo». Il rapporto di Maurice Blanchot o di Georges Bataille con l’ignoto è, ci sembra, una passione senza feli - cità, ma in Char, al contrario, si tratta di un amore, perché in lui non solo l’ignoto non è sempre neutro, ma altri termini sostituiscono quel - lo di ignoto: «l’Amica», «la Bellezza», la «Donna». Non si può amare «l’Amica che non resta», privandola della libertà, per questa ragione (ma che coraggio, che amore ci vuole per questo!): «Non le tratterrò la bocca per impedirle di schiudersi sul blu dell’aria e la sete di partire. Voglio essere per lei la libertà e il vento della vita.» Bisogna sapere che il lampo è «un bruscolo di carbone» presto spen - to, che «la Festa, è il cielo di un blu bellicoso e nello stesso secondo il tempo precipita in temporale»; bisogna scoprire «sotto la parola che dispiega» «la parola che revoca», perché «lo sciame, il lampo, l’ anate - ma6» sono i «tre obliqui della stessa cima»; bisogna dare il «congedo al vento», non «trattenere nessuno, se non l’angolo fondente di un Incon - tro»; bisogna anche, e forse soprattutto, anteriormente al lampo, situarsi al di là del lampo e così assumere la «conquista e conserva - zione indefinita della conquista davanti a noi che mormora il nostro naufragio, svia la nostra delusione». Abbordiamo qui una dimensione dell’opera di Char, la cui importanza ci sembra maggiore, e di conse - guenza è difficile parlarne. Proviamo, a nostro rischio e pericolo, scu - sandoci con l’opera di Char degli errori che commetteremo, a parlare della dimensione temporale più importante di quella spaziale. Il lampo, è il momento in cui il tempo gira o piuttosto si rigira: «Quando la nave affonda, le sue vele si salvano dentro di noi. S’arma - no sul nostro sangue. La loro nuova impazienza si concentra per altri ostinati viaggi.» Siamo tentati d’interpretare questa svolta come un

74 Roger Laporte ritorno all’anteriore, e si tratta proprio di un anteriore ma che, lungi dall’essere dietro di noi, già vissuto, è piuttosto sempre davanti a noi, più lontano che il più remoto futuro. Come si parla di un futuro ante - riore, così, per parlare correttamente della poesia di Char, bisogna par - lare di un futuro ulteriore, solo tempo che suscita «la speranza del grande lontano informulato», dove si situa il nostro «sangue lontano», «il vivo insperato», e dove i poeti precedono «il paese del loro avveni - re che non conteneva ancora che la freccia della loro bocca il cui canto era appena nato». Il lampo non è forse tanto un presente che un rap - porto con il futuro che rimane futuro: «È l’ora in cui le finestre scap - pano dalle case per illuminarsi in capo al mondo dove spunterà il nostro mondo». Ritroviamo qui la parola di Char che non ci si stanca di meditare : «Il mio è un mestiere di punta». Punta come si dice pun - ta di una spada; la punta è anche l’estremità della galleria dove lavo - ra il minatore più avanti, ma la punta è forse soprattutto l’inizio del giorno. Il poeta, per essere l’«imperatore prenatale preoccupato solo di raccogliere l’azzurro», deve tenersi sempre in contatto con la sorgente, ma, Char lo dice espressamente, «a valle sono le sorgenti»: nel momento in cui l’«a valle» diventasse un qui – ed è l’istante del lam - po – l’«a valle» ritornerebbe verso un futuro ancora più ulteriore e nel - lo stesso istante il poeta ridiventerebbe il novizio, l’appena nato. Solo il grande lontano tiene in piedi e fa avanzare il poeta, l’uomo che, per essere, non deve smettere di camminare: «Se si ferma e si raccoglie, guai a lui! Ferito nel vivo, vola subito in cenere, arciere ripreso dalla bellezza.» Se Char discerne con cura «l’angelo» del «compromesso religioso», è perché: «l’assoluto termine di rifugio è sempre sbarrato dai rami del progresso, qualunque sia il grado di anemia del suo magi - co clima.» Riassumendo, diremo così: il centro (beninteso la parola è inesatta: è uguale a X ed è soltanto destinata a fungere da riferimento) è una cima, ma è assolutamente impossibile istallarvisi, perché fonda - mentalmente «l’aquila è al futuro», per questa ragione in una delle for - mule la cui perfezione del colpire è ammirevole, Char può scrivere: «Pochi stati sovrani mi appaiono come un punto culminante. La mia strada è, credo, un bastone esploso.»

L’uomo è tentato di abitare il lampo, poiché è «il cuore dell’eterno», eppure deve girare con la ruota del tempo, ma anche aiutare il suo movimento ed è per questo che deve «sciupare» «in anticipo» ogni conquista: solo a questa condizione, per citare una parola famosa di

Roger Laporte 75 Char, «la poesia è l’amore attuato del desiderio rimasto desiderio». Se i frammenti sono la giusta e necessaria espressione dell’esperienza di Char, non è solo perché il lampo è breve e intermittente, perché «il filo - ne è sezionato in molteplici punti», ma è soprattutto perché il ritiro del lampo può compiersi come una violenta rottura che polverizza la poe - sia: allora non è più il passaggio da mezzodì all’alba, ma il ritorno alla notte, al dolore che precede il giorno ed è, ci sembra, in questo senso che deve essere compreso il titolo dell’ultima raccolta pubblicata di Char: «Ritorno sopramonte ». Le poesie più perfette di Char, quelle che per lo meno sono, per noi, le più commoventi, le più belle, sono quelle che descrivono l’istante mortale in cui il vuoto della notte succede brutalmente alla pienezza del Mezzodì. È sempre la stessa immagine che ritorna con la stessa incisività, per descrivere la stessa morte: «Le sue dita toccarono l’altra riva / Ma il cielo oscillò / così veloce / che l’aquila sulla montagna / ebbe la testa mozzata». Bisognerebbe citare qui per intero la poesia di Rempart de brindilles intitolata l’Inoffensiv o, ma, per mancanza di spa - zio, daremo almeno il passaggio che ci sta a cuore: «Invero ho pianto una sola volta. Il sole scomparendo aveva reciso il tuo volto. La tua testa era rotolata nella fossa col cielo e io più non credevo al domani.» Se c’è una notte oscura per il mistico, è una notte non meno selvaggia per il poeta che per di più non crede nel lampo, perché non esiste, mentre il mistico crede in Dio (è vero allora assente del tutto). La not - te è inevitabile e accettata, perché «il poeta non può rimanere a lungo nella stratosfera del Verbo. Deve arrotolarsi in lacrime nuove», ma la notte non sarebbe la stessa se non fosse «il seguito di vicoli ciechi sen - za nutrimento dove tende a perdersi il viso amato». Perché la nostra sensibilità provi per un istante l’impatto di questa notte, immaginia - mo il Prigioniero di G. de La Tour prima dell’apparizione dell’angelo. Forse sarebbe interessante meditare anche sulla dimensione mitica presa a ragione da Rimbaud: supponiamo che Rimbaud, all’età di diciannove anni e mezzo, invece di scegliere curiosamente la morte lenta del suicidio psicologico, si fosse fisicamente tirato una pallottola in testa, penseremmo a lui, l’opera sarebbe la stessa, nello stesso modo? Certamente no, perché solo la vita di Rimbaud prova il carat - tere definitivo di un silenzio dal quale ogni scrittore si sente minaccia - to. Ci permettiamo qui di rinviare il lettore all’unico testo fondato mai scritto a proposito del silenzio di Rimbaud, il testo di Char che si può

76 Roger Laporte trovare a pagina 97 della nuova edizione, pubblicata di recente, di Recherche de la base et du somme t7. Quale deve essere il comportamento del poeta quando è «spalanca - to come un vulcano e freddoloso come lui nei momenti spenti? » Che cosa è meglio fare quando «tutto langue, pazienta, si dondola e sof - fre»? Attendere, solo attendere in quest’ora, quella del Prigioniero di G. de La Tour prima della visita dell’«angelo», dove «non è lo stoma - co che reclama la zuppa ben calda, è il cuore». Solo una lunga pazien - za verrà a capo dell’esilio, perché, leggiamo in Ritorno sopramonte : «Porteranno fronde gli ostinati a limare la notte nodosa che precede e segue il baleno.» Ci sembra che nelle opere più recenti di René Char ci sia una sonorità nuova: adesso, forse per la prima volta al mondo, è data la parola al dolore senza voce della notte, ed è così che possiamo leggere nello stesso Ritorno sopramonte (poesie che il lettore troverà nel - l’opera recentemente pubblicata con il titolo Comune presenz a8) : «Chi il pozzo ha scavato traendone l’acqua su / rischia nella coppa delle mani il suo cuore.» Sì, possiamo dirlo per lui, Char ha soddisfatto il «dovere di un principe» compiendo «arte che sia generata dal dolore e conduca al dolore». Perché il dolore? Perché la solitudine della notte? Perché la poesia sia «mistero che intronizzi», perché il poeta sia il «grande Cominciatore», bisogna prima accettare «l’oscurità prenatale» la sola che rende possibi - le questo «limitare della conoscenza» di cui Char dice che solo lei è «commovente». Sono numerose le poesie di Char che descrivono la fine della notte: che si voglia ben rileggere Il bosco d’Epte , poesia che si può considerare perfetta, sicuramente una delle più compiute di tutta l’ope - ra di Char a tal punto che è impossibile aggiungere o sopprimere una sola parola. Che si voglia ben rileggere anche, e forse soprattutto, Lette - ra amorosa , bianca poesia dell’assenza; ma può essere che la parola più sconvolgente sulla fine dello svernamento, la si trovi in La biblioteca è in fiamme : «Come giunse a me la scrittura? Come una lanugine d’uccello sul vetro della mia finestra, d’inverno.» È un peccato che non esista in francese una parola che corrisponda al tedesco Vorfrühling (che tradur - remmo pesantemente con: primavera anteriore), perché quel tempo, che non è più del tutto l’inverno e che non è ancora la primavera dichia - rata, è forse il momento preferito da Char, poiché «ciò che i vostri inver - ni ci chiedono, è preludere per voi al sapore: un sapore uguale a quello che canta sotto la sua rotondità alata la civiltà del frutto».

Roger Laporte 77 La «civiltà» di Char è anteriore anche a quella del fiore, perché biso - gna prestare «alla gemma, lasciandole l’avvenire, tutto lo splendore del fiore profondo», ma perché quell’istante tra cane e lupo è privile - giato? Prima di tutto perché solo in lui si compie l’«esaltante» eraclitea «alleanza dei contrari», notte «in cui si cesella la rugiada del mattino». La povertà ma anche il privilegio del lampo viene dal fatto che la sua ora: mezzodì, non cade mai a mezzodì, ma avviene sempre poco pri - ma, ed è perché il lampo possiede lo splendore del giorno e la profon - dità della notte allo stesso tempo. È infatti con «la piramide del Canto nell’istante in cui si rivela» che il poeta ottiene «l’assoluto inestingui - bile, il ramo del primo sole: il fuoco non visto, non scomponibile». Il mezzodì della poesia, è l’istante in cui l’alba futura apparirà, e, in quanto lettori, siamo in diritto di sostituire al personaggio mezzo fia - besco, mezzo reale di Char: il «trasparente» «Odino la roccia», Char stesso allora che ci dice: «Quello che vi affascina qua e là nel mio ver - so, è l’avvenire, oscurità che scivola prima dell’aurora, mentre la not - te è già al passato.»

Note

1 In Anne sérénité orispés , Parigi, Gallimard 1950, «Pléiade» 1983, Char stesso scrive: «Dans le tissu du poème doit se retrouver un nombre égal de tunnels dérobés...», p. 760. 2 Gran parte delle citazioni da opere di René Char sono tratte da: René Char, Poesia e pro - sa , trad. di G. Caproni, Milano, Feltrinelli, 1962 e da René Char, Ritorno sopramonte e altre poesie , trad. di V. Sereni, Milano, Mondadori, 1974 [N.d.T.]. 3 L’Arc , n° 22, sorprendente numero consacrato esclusivamente a René Char. 4 Nostra sottolineatura. 5 Cfr. n° di L’Arc già citato. 6 Nostra sottolineatura. 7 Gallimard, 1965, p. 140. 8 Gallimard, 1964, p. 330.

78 Roger Laporte Roger Laporte Vincent e Van Gogh *

«Van Gogh…un cervello soffre sotto il fuoco di un astro». PAUL KLEE , Diario , p. 222.

« n pazzo di genio è nella nostra cultura un’immagine affa - Uscinante, che sconcerta, appassiona, irrita la mente… Il genio malato è geniale perché pazzo, o pazzo benché geniale? …L’ope - ra è la sua salvezza, o al contrario ciò che prima o poi la malattia ucci - derà?» (Op. cit., pp. 171-172). Con queste righe Marthe Robert apre il suo studio su Van Gogh: « Il genio e il suo doppio.» Entriamo nel gio - co accettando in via provvisoria la maniera in cui è posto il problema. Supporremo che il lettore conosca se non tutta la storia della pazzia di Van Gogh, almeno gli episodi più salienti: dal momento in cui, a Arles, scoppia la tragedia, il 24 dicembre 1888, fino a quello in cui, dicianno - ve mesi più tardi, il 27 luglio 1890, a Auvers-sur-Oise, Van Gogh si tira un colpo di fucile nel petto. Arrivare direttamente alla lettura di Marthe Robert, significa dovere dapprima ricapitolare le interpretazioni più conosciute che hanno trat - tato di «questa strana malattia» (di Van Gogh che) ha ricevuto molti nomi nel tempo – epilessia, pazzia maniaco-depressiva, alcolismo, paralisi generale, schizofrenia» (ibid., p. 178), senza che nessuna dia - gnosi potesse essere considerata definitiva. Marthe Robert mostra bene che le tesi più frequenti: quella, francese, dell’epilessia, e quella, anglo - sassone, sostenuta in particolare da Jaspers, della schizofrenia, cozzano l’una e l’altra contro delle obiezioni cui non si può rispondere. «Dalla parte dell’epilessia… c’è il carattere parossistico delle crisi, l’amne - sia…il ruolo scatenante giocato ogni volta dall’alcool» (id., p. 180), ma, contro questa diagnosi, c’è «l’assenza di vere crisi». «In favore della

Roger Laporte 79 schizofrenia… (ci sono) le allucinazioni, gli impulsi suicidi o omicidi» (id., p. 180), ma manca il sintomo maggiore: l’autismo. Non vi è soprat - tutto quel segnale considerato da Jaspers, ma rifiutato da Marthe Robert: un’evoluzione della pittura che sfocerebbe in una dissoluzione delle forme. Non pretendiamo che le settanta tele eseguite durante i settanta giorni del periodo di Auvers siano tutte dello stesso livello (ritorneremo su questo), ma è sufficiente vedere l’ultima tela: l’indi - menticabile Campo di grano con corvi , per sottoscrivere con riconoscen - za i propositi di Marthe Robert: «Nessuno vorrà porli altrove che lad - dove la pittura raggiunge una delle vette, là dove si dà se stessa come ordine e come pegno della più alta salute.» (Id., p. 181.) Continuiamo a seguire Marthe Robert, ma per arrivare alla sua inter - pretazione, alla quale lei per prima dà la qualifica di psicanalisi perché eseguita in funzione de «la continuità profonda della vita psichica e (del)la forza delle sue energie nascoste (id., p. 183).» In quanto «tecnica appropriata alla decifrazione dell’inconscio», la psicanalisi si propor - rebbe, non di dire l’ultima parola, ma (non è la stessa cosa?) la prima «che detiene un potere decisivo» poiché le esperienze effettive della vita infantile regolerebbero per sempre «il gioco terribile degli istinti, i desideri, il credo, e anche la creazione più ispirata» (id., p. 184). Marthe Robert sottolinea dapprima che Van Gogh, che firma le proprie tele «Vincent», designa così «il bambino che lui è rimasto ai propri occhi», bambino che provvidenzialmente trova un padre in Théo suo fratello minore «di cui diventa effettivamente il bambino perché accetta dalle sue mani tutto ciò di cui ha bisogno per vivere: le cure, la protezione, l’amore, il denaro» (id., p. 185). In questo rapporto col padre, ruolo che Gauguin in particolare si divertirà a recitare, la psicanalisi vede «la prova di un’omosessualità latente, dunque inconscia, generatrice di un intenso senso di colpa, inconscio anch’esso e tanto più minaccioso per l’equilibrio della psi - che» (id., p. 185). Non ci si stupirà che Marthe Robert, partendo da que - st’ipotesi, parli di «opposizione talmente netta tra la sedia del pittore, umile, bassa, passiva in qualche modo, e la larga poltrona di Gauguin che, col suo piccolo candeliere in piedi, evoca la potenza virile dell’as - sente e la sua sovranità» (id., p. 187); si sarà ancora almeno stupiti dal fatto che Marthe Robert veda nel celebre episodio de «l’orecchio moz - zo» il simbolo – la sineddoche – di una castrazione, castigo con cui Van Gogh si sarebbe punito per aver minacciato Gauguin con un rasoio, suo «padre» adorato e odiato. Marthe Robert osserva ancora che nella pit -

80 Roger Laporte tura di Van Gogh il sole non è mai soltanto il sole, ma un’antica divini - tà, la figura di Cristo, anch’essa inseparabile dal padre reale: «Quando Van Gogh copia la Resurrezione di Lazzaro di Rembrandt… conserva tut - ti i personaggi dell’originale, salvo il Cristo, che sostituisce con un immenso sole» (id., p. 18 71). Infanzia non superata, omosessualità latente, il terzo punto, molto originale, dell’interpretazione che ritracciamo, concerne il suicidio di Van Gogh, e qui Marthe Robert si basa su un lavoro inedito del dottor Bela Grunberg intitolato Le suicide du mélancolique . Contrariamente all’interpretazione corrente, il suicidio di Van Gogh non sarebbe la con - seguenza inevitabile della sua miseria, della sua solitudine, della sua pazzia, «ma paradossalmente il trionfo del narcisismo infinito, eterno, assoluto sull’io corporale limitato dalla natura e irrevocabilmente sot - tomesso al tempo» (id., p. 191). Sarebbe quindi dall’esterno, pensa il dottor Grunberg, che il suicidio ci apparirebbe come «uno scivolamen - to subdolo e miserabile verso l’autodistruzione poiché al contrario il suicidio (del melanconico) (sarebbe) sempre rivestito di un certo splen - dore interiore» (id., p. 194). Marthe Robert definisce «smisurato» (id., p. 190) il narcisismo di Van Gogh che in effetti si è preso per trentatre vol - te come modello e, a nostro avviso, gli autoritratti sono generalmente molto superiori agli altri ritratti. Il narcisismo di Van Gogh sarebbe quindi non solo «l’istanza originale che dà alla psiche dell’individuo il suo primo contenuto e il suo primo movimento», ma, almeno nel melanconico, regolerebbe tutto l’ultimo atto: il suicidio, grazie al quale in un sol colpo sarebbero negate o rinnegate tutte le ferite, frustrazioni, fallimenti, disgrazie, che mettono in pericolo di morte il narcisismo stesso, quell’ «esperienza di unione assoluta e di eternità da cui deri - vano tutti i miti del paradiso perduto» (id., p. 191). A nostra conoscen - za, s’ignora quanto tempo separi esattamente il Campo di grano con cor - vi dal colpo di revolver che Van Gogh si spara un po’ sotto il cuore (ne morirà trentasei ore dopo): il quadro è stato eseguito la vigilia oppure il giorno stesso, cioè il mattino della fatale domenica del 27 luglio? Non lo sappiamo, ma, anche se Marthe Robert non lo dice espressamente, speriamo di non essere infedeli al suo pensiero presentando la seguen - te ipotesi: lungi dall’opporre Campo di grano con corvi e suicidio, biso - gnerebbe comprendere il secondo atto come il perfezionamento del pri - mo: Van Gogh, conoscendo la periodicità delle proprie crisi, avrebbe in anticipo trovato del tutto insopportabile il ritorno probabilmente vici - no della follia e così avrebbe scelto la morte proprio dopo aver rag -

Roger Laporte 81 giunto il culmine della sua pittura. Poiché non può separarsi dalla paz - zia conservando per sempre solo il genio, poiché il genio dimostra qualcosa a se stesso 3 ed è provato solo per il tempo che occorre per compiere un «capolavoro», Vincent sceglie di uccidere Van Gogh il paz - zo, ma allora Narciso stesso è diventato matto perché questo attentato contro l’altro, il doppio, il cattivo, è la castrazione suprema con cui diventa complice della sua condanna a morte. Non neghiamo l’interesse di questa psicanalisi condotta da Marthe Robert anche se – lo vedremo – siamo spinti a contestare la maniera con cui è trattato il problema genio-pazzia, ma dobbiamo prima osservare che altri interpreti, che fanno riferimento alla psicanalisi, presentano gli stessi fatti sotto tutt’altra luce, o prendono in considerazione altri fatti. Contrariamente a Marthe Robert, che fa dell’infanzia di Vincent una sorta di atemporale governante di tutta la storia di Van Gogh, Charles Mauron, in uno studio cortissimo che meriterebbe di essere conosciuto di più (cfr. L’Arc , n° 8, autunno 1959), è molto più attento alla vita di Van Gogh, a ciò che si può trattare con disprezzo come cronachistico, poiché al contrario si possono portare alla luce profonde concomitan - ze, inconsce al soggetto, tra alcuni avvenimenti che lo toccano grave - mente e alcuni episodi importanti della pazzia: esempio particolar - mente probante, la prima crisi, quella del 24 dicembre 1888, accade il giorno stesso del fidanzamento di Théo. «Sembra, scrive Charles Mau - ron, che si possa far coincidere più o meno il fidanzamento, l’immi - nenza del matrimonio, il matrimonio stesso, l’annuncio del bambino, l’imminenza della nascita e la nascita stessa con degli accessi della malattia» (op. cit., p. 9). Non possiamo seguire qui, nei dettagli, tutta l’argomentazione di Charles Mauron, ma possiamo riassumere la sua teoria. Non ci sono Vincent e Théo Van Gogh, ma Vincent-Théo Van Gogh: dalla conservazione di questa simbiosi dipende l’equilibrio psi - chico dei due fratelli, la vita di Vincent e quella di Théo. Non dimenti - chiamo che dopo la morte di Vincent, Théo, disperato, divenne pazzo, fu rinchiuso e morì meno di sei mesi dopo, il 21 gennaio 1891, ma Théo ignora fino a che punto la propria vita dipenda da quella di Vincent, e a che punto quella di Vincent dipenda dalla sua. Che cosa può esserci di più normale che sposarsi e dopo essersi sposati di avere un bambi - no? Théo Van Gogh non aveva certo l’intenzione di non aiutare più il fratello, ma Vincent, «bambino» inquieto e ingiusto, non lo sa, o per lo meno il suo inconscio non lo sente così, ed è per questo che a ogni allen - tamento della simbiosi corrisponderebbe una crisi di Van Gogh.

82 Roger Laporte Seguendo Charles Mauron, il suicidio di Van Gogh deve essere inter - pretato come segue: alla nascita del nipote, Vincent si sente di troppo e forse s’identifica a qualche figlio illegittimo cui pertanto non rimane che scomparire. Di fronte a questo doppio tragico destino: quello dei fratelli Van Gogh, davanti a un tale disconoscimento del carattere vita - le del loro legame, si rimpiange e ci si sorprende a sognare: riprenden - do una delle ipotesi di Marthe Robert, si arriva, senza ironia, a rim - piangere che Théo e Vincent Van Gogh non abbiano effettivamente for - mato una coppia di omosessuali, per di più incestuosi, in tale maniera che la loro simbiosi si sarebbe pienamente compiuta. Così la doppia pazzia sarebbe stata evitata? Sì, se si accoglie la tesi di Charles Mauron, ma ci permetteremo di dubitarne, per lo meno per quanto riguarda Vincent, nella misura stessa in cui riteniamo sospetta ogni spiegazione della pazzia che conta solo sull’aspetto biografico, che si tratti della preistoria dell’infanzia o della storia della vita di uomo.

* * * Prima di discutere la tesi di Marthe Robert, conviene, ci sembra, interrogare Van Gogh sulle disgrazie di Van Gogh, studiare come ha vissuto il suo dramma e affrontato i particolari sconcertanti di un male tra tutti difficile da interpretare. La prima crisi giunge il 24 dicembre 1888 e segna con una grande cesura la vita e, di conseguenza, la corri - spondenza di Van Gogh. Questa prima crisi, molto corta, è giudicata benigna: il 1 gennaio 1889, Van Gogh scrive a Théo e il 7 ritorna al suo atelier dove ricomincia a dipingere: chi non conosce i due famosi auto - ritratti del gennaio 1889: L’uomo con la pipa e, secondo noi, molto più impressionante ancora, L’uomo con l’orecchio mozzo. Van Gogh può dun - que scrivere a buon diritto, da metà gennaio, all’amico Köning: «Il mio equilibrio come pittore non è perduto affatto» ( C. , p. 293). Il caso Van Gogh non è quindi per nulla comparabile per esempio a quello di Maurice Ravel: quest’ultimo, afasico del tipo Wenicke, non aveva più l’uso del linguaggio musicale, né la facoltà di suonare (anche le proprie opere) né quella di creare, possibilità che al contrario Van Gogh non perse mai se non provvisoriamente, ma come, senza freme - re, parlare di un provvisorio che ritorna periodicamente, s’insedia per settimane, talvolta per mesi! La crisi di Natale, in effetti, non fu la sola: ogni tre mesi circa, altre crisi, più o meno lunghe, sopraggiunsero. Van Gogh evoca con orrore le sue «terribili angosce» ( C. , p. 236), ma mai la pazzia s’insediò stabilmente: al contrario, ad ogni ritiro della malattia

Roger Laporte 83 Van Gogh scopre, probabilmente con gioia e non senza stupore, che «con la malattia mentale che ho… mi dico che non è un impedimento per esercitare lo stato di pittore come se nulla fosse» ( C. , p. 378). Nella misura in cui il vero pazzo lo sarebbe continuativamente, Van Gogh, le cui crisi, anche le più atroci, non durano indefinitamente, può a buon diritto dichiarare: «Per quanto possa giudicare, non sono propriamen - te pazzo» ( C. , p. 310). Van Gogh si giudica tanto meno pazzo che tra le crisi il suo pensiero resta chiaro, l’estrema lucidità delle lettere lo testimonia, e il suo potere creativo non è intaccato, ne testimoniano i quadri. Specificità della schi - zofrenia o particolarità della malattia di Van Gogh, non lo sappiamo, ma ormai una dura legge separa in due la vita di Van Gogh in cui i periodi di demenza si alternano a quelli di lucidità, questa crudele luci - dità per la quale egli non nasconde a se stesso la pazzia quando scrive nel maggio 1889: «Se mi butto in pieno nel lavoro, va bene, ma resto sempre tocco» ( C. , p. 336). «Lotto con tutta l’energia per padroneggiare il mio lavoro, dicendomi che, se vinco, sarà il migliore parafulmine per la malattia» ( C. , p. 374). Il lavoro sarebbe dunque non solo il migliore riparo contro la pazzia, ma sarebbe dal lavoro stesso, solo dal lavoro, e non dalla medicina, che Van Gogh si aspetterebbe la guarigione: «Lan - ciarmi là dentro con tutta l’energia, potrebbe essere eventualmente il miglior rimedio… mi sarò guarito lavorando» ( C. , p. 368; cfr. pp. 302, 305, 323, 373, 374, 375). Anche quando Van Gogh si rassegnerà, provvi - soriamente, prima di suicidarsi, a questa pazzia che non sarà riuscito a vincere con il solo potere del lavoro, sarà ancora da quel lavoro che attenderà, se non la grazia, almeno qualche soccorso, ed è così che scri - ve nel gennaio 1889: «L’anno scorso la crisi è tornata in epoche diverse, ma anche allora era precisamente lavorando che lo stato normale ritor - nava a poco a poco… il lavoro mi fa ancora mantenere un po’ di pre - senza di spirito e rende possibile che io ne esca un giorno» ( C. , p. 424). Nella misura in cui il lavoro non è soltanto al riparo dalla pazzia, ma un riparo contro la pazzia, non bisogna allontanarsi dalla pittura, ma al contrario lavorare di più: «Aro come un vero posseduto, ho un sordo furore di lavoro più che mai. E credo che questo contribuirà a guarirmi» (C. , p. 373; lettera del settembre 1889). Bisogna fare tanto più veloce - mente che il futuro non è sicuro, che la dura legge d’alternanza può far bruscamente precipitare Van Gogh nella notte: «Non sono un pazzo propriamente detto, perché il mio pensiero è assolutamente normale e chiaro nel frattempo e anche più di prima. Ma nelle crisi è pur terribile

84 Roger Laporte e allora perdo cognizione di tutto. Ma questo mi spinge al lavoro e alla serietà, come un carbonaio sempre in pericolo si sbriga in quello che fa» (C. , p. 397). Il lavoro di Vincent diventa così più profondo, tenace, immenso : «La mia triste malattia mi fa lavorare con un sordo furore – molto lentamente –, ma dal mattino alla sera senza tregua e – lavorare a lungo e lentamente – lì sta probabilmente il segreto» ( C. , p. 373). Scartare per sempre lo spettro della pazzia, questa immensa, questa folle speranza che il pittore ha messo nel suo lavoro era giustificata? Leggiamo questa lettera dell’agosto 1889: «Durante molti giorni sono stato assolutamente perso , come a Arles… è abominevole . Questa nuova crisi mi ha preso nei campi mentre stavo dipingendo in una giornata ventosa» ( C. , p. 366). Stessa speranza, stessa delusione nel dicembre 1889: «Avevo lavorato con una calma perfetta a delle tele che vedrai presto, e di colpo, senza nessuna ragione, lo smarrimento mi ha preso ancora» ( C. , p. 421). Contrariamente alla speranza di vincere la pazzia con il lavoro, di non essere più il giocattolo di un orribile combatti - mento tra ragione e irragionevolezza, la scissione rimane: ci sono due mondi, uno diurno, l’altro notturno, così poco sopportabile al ritorno che Van Gogh scrive nell’aprile 1890: «Ecco che dispero quasi o del tut - to di me… il lavoro andava bene, l’ultima tela dei rami in fiore – vedrai, era forse quello che avevo fatto con più pazienza e meglio, dipinta con calma e maggior sicurezza di tocco. E l’indomani conciato come un bruto. È difficile capire certe cose» ( C. , p. 444). La «schizo» non rende Van Gogh «astratto», non lo tiene soltanto lontano dal mondo, ma pas - sa tra Vincent e Van Gogh; fende, fa scoppiare l’unità di Vincent-Van Gogh, la fende, addirittura la spezza in due frammenti, separati e pur tuttavia inseparabili, poiché Vincent, il pittore geniale, è per sempre incatenato a Van Gogh il pazzo, fino al momento in cui sarà messo un termine a questa insopportabile doppia vita.

* * * Vincent dipinge quando e solo quando non è pazzo: il demente Van Gogh, che si rotola nel carbone e rischia di avvelenarsi ingoiando tubi di colore, non ha nessun rapporto, se non tragico e grottesco, con il pit - tore. Non c’è né comune misura, né rapporto tra il pittore e il pazzo: «Laddove c’è opera , scrive e sottolinea Michel Foucault, non c’è follia. » Il pazzo stesso non può essere allo stesso tempo l’autore dell’opera e il soggetto del quadro, ed è il motivo per cui, anche il geniale Vincent, nel momento di una crisi, che precisamente lo priva di genio e di ragione,

Roger Laporte 85 non può fare il ritratto di Van Gogh il pazzo. Vincent non scrive nel novembre 1889: «Alcuni dei miei quadri portano il segno che è un malato che li dipinge»? ( C. , p. 412). Accade certo che l’opera di Vincent sia una testimonianza su Van Gogh il pazzo: è il caso dei due autori - tratti del settembre 1889, in particolare di quello conservato al museo di Oslo. Il viso, pietoso, è ancora sconvolto, lo sguardo ebete, eppure, allo stesso tempo, la crisi è già passata almeno nella misura in cui, sfug - gendo per la prima volta dal caos, la mano di Vincent è capace di fare questo autoritratto. Alcuni considerano questo quadro trascurabile, ma non sarebbe cosa piuttosto insostenibile? La mano di Vincent non ha ancora ritrovato tutta la sua sicurezza, ma precisamente nessun altro autoritratto è più tragico nella misura in cui lo sfalsamento – irriduci - bile – tra Vincent e Van Gogh qui è infimo: è vero che lo sfondo del qua - dro è affrettato, negletto, ma quei tratti di pittura, quasi informi, non dicono proprio la disgrazia di Vincent Van Gogh? L’opera, in quanto opera, in maniera certo discontinua, resta al ripa - ro dalla follia: fondandosi su quell’esperienza in un tempo diurno pro - pizio alla creazione, Vincent sperava di guarire Van Gogh dalla pazzia con il proprio lavoro, ma, nella misura in cui questa speranza è vana, bisogna constatare che: «È fin troppo vero che un mucchio di pittori diventano pazzi, è una vita che rende, a dir poco, molto astratti» ( C. , p. 336). Vincent non constata soltanto che «la pittura rende astratti, distan - ti» ( C. , p. 419), ma suppone o sospetta che il lavoro pittorico conduca alla pazzia: «Con un continuo lavoro di testa, il pensiero di un artista prende qualcosa di esagerato e di eccentrico» ( C. , p.442). Questo sospetto non sposta forse la maniera in cui s’interroga Marthe Robert? «Il genio malato è geniale perché pazzo o pazzo perché geniale?». Così s’interroga Marthe Robert all’inizio del suo studio, domanda a cui risponde: Van Gogh non è stato geniale perché pazzo, ma era pazzo benché geniale. Certamente, ma questa maniera di porre il problema non scarta la possibile relazione? Quest’interpretazione non può essere esclusa nella misura per lo meno in cui è quella di Van Gogh stesso poi - ché nella sua ultima lettera, quella che è stata trovata su di lui alla mor - te, il 29 luglio 1890, si può leggere questa frase quasi terminale: «Ebbe - ne, il mio lavoro, ci rischio la vita e la ragione vi è sprofondata a metà» (C. , p. 492). Non diciamo che il punto di vista di Vincent su Van Gogh sia il più giusto possibile, ma, come un operaio che si ferisce sul lavoro deve essere interrogato su quel lavoro, sulle condizioni del suo lavoro, così non bisogna anche, e anche prima di tutto, interrogare il pittore sui

86 Roger Laporte pericoli del suo lavoro? Non bisognerebbe contentarsi di dire: c’è e non c’è una parte salvata dalla pazzia poiché la pazzia è ciò che separa Vin - cent il lucido da Van Gogh il pazzo, ma bisognerebbe anche chiedersi se la chiarezza stessa non nasconda altre notti più segrete e più perico - lose. Poniamo così, a proposito di Van Gogh, la domanda che Montai - gne si pone a proposito di Tasso: non è la «chiarezza che lo ha acceca - to»? Non è la sua «rara attitudine agli esercizi dell’anima che lo ha reso senza esercizio e senz’anima»? («Pléiade», p. 473). Certo si può, come il dottor Henry Gastaut 3, credere che ai nostri giorni si potrebbe scoprire con un elettro-encefalogramma, in Van Gogh, un focolaio epilettogeno legato a una lesione cerebrale; si può pensare che, curato il focolaio, le crisi di Van Gogh sarebbero scompar - se e insieme il tragico di una pittura che fa eco all’angoscia e alla paz - zia. Questa buona notizia, ahimè tardiva, ci impedisce ogni facile iro - nia, ma domandiamo invece che si prenda in considerazione l’ipotesi contraria: anche con un cervello intatto, un’infanzia senza traumi, una vita felice, l’artista, con il solo lavoro d’artista, può diventare pazzo o almeno sentirsi minacciato dalla pazzia. Chiediamo che si voglia ben considerare questa ipotesi non solo perché è quella di Van Gogh, il pun - to di vista «fraterno» di Vincent su Van Gogh, ma perché si sa – si sa? – il caso di Van Gogh non è il solo: non dimentichiamoci di Nerval, Höl - derlin, Nietzsche, Artaud e di alcuni altri. Non si tratta tanto di pittura quanto di «creazione artistica» in quanto tale. Lo dice bene la lettera di Mallarmé del 7 gennaio 1869 a Henry Cazalis: «Ho sentito i sintomi molto inquietanti causati dal solo atto dello scrivere .» Andremo così fino a reclamare un’altra comprensione della questione senza parlare di quel rispetto di cui il dottor Jacques Lacan deplora la mancanza quan - do scrive: «Se l’opera di Pinel ci ha, grazie a Dio, reso più umani con i pazzi comuni, bisogna riconoscere che non ha aumentato il nostro rispetto per la pazzia dei rischi supremi» ( Ecrits , p. 176). Pochi artisti hanno parlato del loro compito così sovente come Van Gogh, prendendo come punto di riferimento – e non è solo per umiltà – il lavoro dell’operaio o del contadino: «Ai miei occhi, mi reputo net - tamente inferiore ai contadini. In fondo, io aro le mie tele come loro i campi» ( C. , p. 401), ma l’artista non è inferiore al contadino per quanto riguarda la difficoltà del lavoro: «Durante la mietitura il mio lavoro non è stato più comodo di quello dei contadini che mietono» ( C. , p. 131). Per caratterizzare la difficoltà propria del lavoro pittorico, citiamo numero - si passaggi della stessa lettera del giugno 1888 osservando che il termi -

Roger Laporte 87 ne di calcolo ritorna più volte sotto la penna di Vincent: «Sappi che sono in pieno calcolo complicato, da cui risultano veloci una dopo l’al - tra tele fatte velocemente, ma calcolate lungamente in anticipo … Lavo - ro e calcolo secco e dove si ha la mente estremamente tesa, come un attore sulla scena in un ruolo difficile, in cui si debba pensare a mille cose allo stesso tempo in una sola mezz’ora.» Quanto all’esecuzione di questo «lavoro mentale per equilibrare i sei colori essenziali, rosso-blu- giallo-arancio-lilla-verde», si può applicare a Van Gogh ciò che lui stes - so dice di Monticelli (diventò anch’egli pazzo): «Monticelli colorista logico, capace di condurre i calcoli più ramificati e suddivisi relativi alle gamme dei toni che equilibrava, certo con questo lavoro, sovraffatica - va il suo cervello» ( C. , p. 130). Lasciamo ai moralisti il compito di deplorare che Van Gogh, alla fine del lavoro, abbia cercato di calmare «la fornace della concezione» «bevendo un bicchiere o fumando mol - to», «unica cosa che calma e distrae» ( C. , p. 130). Si può certo far osser - vare che Van Gogh beveva anche, e naturalmente più che ragionevol - mente, durante il lavoro. Effettivamente, ma chi oserà rispondere alla risposta di Van Gogh: «M. Rey dice che invece di mangiare abbastanza e regolarmente, mi sono sostenuto soprattutto con il caffè e l’alcol. Ammetto tutto ciò, ma resterà vero che per raggiungere l’alta nota gial - la che ho raggiunto quest’estate, è stato necessario alzare un poco il gomito. Che alla fine l’artista è un uomo al lavoro, e che non è il primo curioso venuto che può vincerlo in definitiva» ( C. , p. 312). La pazzia di Van Gogh, scotto di un immenso «lavoro mentale», aggravata, diranno alcuni, dall’alcolismo, sarebbe dunque analoga a quella di certi mate - matici o giocatori di scacchi? Quest’ipotesi sarà inverosimile solamen - te per coloro che ignorano – non è affatto colpa loro – ciò che ci si limi - ta a chiamare «creazione artistica», quel «lavoro e calcolo secco in cui la mente è estremamente tesa», lavoro, diceva un giorno Aimé Maeght, molto più difficile ad esempio dell’andare sulla luna. «Lavoro mentale per equilibrare i sei colori essenziali», l’opera di Van Gogh non smette di ricordarci che l’equilibrio non è affatto una dolce e scialba armonia: lungi dall’eguagliare gli elementi opposti, conviene organizzare, lasciare che si organizzi il combattimento delle forze anta - goniste, portare il loro confronto a una pienezza che non sarebbe la stessa se la coesione dell’opera non fosse sempre minacciata dalla dis - rupzione di elementi contrari, riuniti a forza da una maestria mai sovrana, ma conquistata, difficilmente, senza sicurezza, su un caos, mai allontanato, che forse prende la rivincita sull’artista da quando, termi -

88 Roger Laporte nato il quadro, avrà cessato di operare e dunque di battersi. «È ovun - que un’antitesi dei verdi e dei rossi più diversi» ( C. , p. 190; lettera del - l’8 settembre 1888): così si esprime Van Gogh a proposito del suo qua - dro Il caffè di notte , ma si tratta soltanto di far affrontare o equilibrare in un combattimento formale i verdi e i rossi? Non vi è forse un altro anta - gonismo, oppure lo stesso antagonismo che si offre e si nasconde da un altro lato? La maestria, necessaria alla creazione, non è sempre minac - ciata, addirittura non si minaccia essa stessa con il contenuto dell’ope - ra? Leggiamo, da questa angolatura, il celeberrimo passaggio della seconda lettera a Théo dell’8 settembre 1888: «Nel mio quadro Caffè di notte , ho cercato di esprimere che il caffè è un luogo in cui ci si può rovi - nare, diventare pazzi, commettere crimini. In fondo ho cercato con i contrasti di rosa tenero e di rosso sangue e di feccia di vino, di dolce verde Luigi XV, che contrasta con i verdi gialli e i verdi blu duri, il tut - to in un’atmosfera di fornace infernale, di pallido zolfo che esprime la potenza delle tenebre di un “assommoir” 4» ( C. , pp. 192-193). Nelle sue lettere, Van Gogh commenta sempre ciò che ha voluto dire e così privilegia l’espressione, l’espressività addirittura: « Ho cercato di esprimere con il rosso e il verde le terribili passioni umane», scrive ancora a proposito di Caffè di notte (C. , p. 190), ma, nei suoi quadri, Van Gogh non separa affatto il significato dal significante 5, perché vuole ottenere ciò che nel suo linguaggio, chiama stile o arte: «Quando la cosa rappresentata in quanto stile è assolutamente d’accordo e una con la maniera di rappresentarla, non è questo che fa la levatura di un’opera d’arte?» ( C. , p. 348). Se potessimo vedere con tranquillità un Van Gogh, come il Caffè di notte , non solo il nostro sguardo non coinciderebbe con quello di Van Gogh, ma la nostra indifferenza direbbe il suo scacco a Vincent, lui che voleva, con lo stile, «esprimere come la potenza delle tenebre di un “assommoir”». C’è stile a tal punto che il referente: il caffè di notte, è per noi inseparabile dal quadro Caffè di notte , lui stesso significato e significante insieme, ma se è così e se questo Caffè è «un luogo dove si può diventare pazzi», questo contenuto è necessariamente portato dal significante stesso che non saprebbe quindi essere un rifugio né per il pittore, né per noi. Sottoscriviamo dunque il commento di Jean Paris: «In Caffè di notte , la vista a perpendicolo della sala suggerisce che l’arti - sta s’immagini su una scala, che occupa un quinto fuoco, nel luogo geo - metrico degli altri quattro, e le vertigini, verticali questa volta, vengo - no da un’impressione di caduta imminente, abbozzata dall’accelera -

Roger Laporte 89 zione del pavimento verso l’avanti, di tutto lo spazio verso un baratro che lo deforma, lo ghermisce, e si scava ai nostri piedi» (op. cit, p. 156). Se la confusione lo portasse via, non ci sarebbe l’opera: quando accade raramente, a volte, che la mano di Vincent sia quella, smarrita, di Van Gogh, ne risulta un quadro mediocre (secondo noi La piana di Auvers , quadro fatto verso il 24 giugno 1890): opera e genio disertano insieme la tela; se ogni pericolo fosse scartato grazie alla secca maestria di un artista olimpico, vanamente trionferebbe solo l’accademismo, ma al contrario l’arte è giusta se «l’equilibrio» è sempre vicino al punto di rot - tura, se l’ordine non trionfa sul suo contrario, ma lo esalta, per dirla breve se l’opera stessa celebra pericolosamente l’amore sempre vicino, sempre impossibile, del principio apollineo e del principio dionisiaco. Van Gogh si mette a una prova molto dura per l’intensità, molti diranno l’eccesso, del suo lavoro; molte lettere ne testimoniano: «Non posso far altro che battere il ferro finché è caldo… ho una febbre di lavoro continua» ( C. , p. 42), o ancora: «Funziono come una locomotiva da pittura» ( C. , p. 194), «su di giri» ( C. , p. 231). Non bisogna trascurare tali testi nella misura stessa in cui Van Gogh impiega, per designare il suo stato all’uscita dal lavoro, il termine astratto con il quale caratteriz - za anche il suo stato di pazzo. Che si voglia prestare bene attenzione, a questo proposito, a queste due lettere che accostiamo: l’una, la prima, si situa prima della pazzia perché datata giugno 1888: «Quando ritor - no da una seduta così, ti assicuro che ho il cervello così affaticato che se quel lavoro si rinnova spesso, come è stato il caso per questa mietitura, divento assolutamente astratto e incapace di un mucchio di cose ordi - narie» ( C. , p. 130). La seconda lettera si situa dopo la prima crisi: «Il lavoro mi assorbe talmente che credo che resterò sempre astratto e mal - destro nell’arrangiarmi per il resto della mia vita» ( C. , p. 339). Alcuni mesi dopo, nel dicembre 1889, Van Gogh scrive ancora: « È certo che la pittura rende distratti, assenti… il lavoro prosegue bene, ma natural - mente i miei pensieri, sempre fissi sui colori e il disegno, girano in giro in un cerchio assai piccolo» ( C. , p. 419). L’intenso «monoideismo» di un’attenzione assorbita dal solo lavoro pittorico genera forse una sorta di Maelström al contrario, celeste e non più marino, che trascinerebbe l’artista fuori dal mondo, lontano da sé, e susciterebbe quella separa - zione, o almeno quell’assenza alla quale si dà anche il nome di schizo - frenia? In una lettera del 3 febbraio 1889 si può leggere quest’affermazione: «Il lavoro mi distrae o piuttosto mi tiene regolato, allora non me ne pri -

90 Roger Laporte vo», si scopre un po’ più in là questo passaggio, tutto sommato cono - sciuto: «Che vuoi, ho dei momenti in cui sono suonato dall’entusiasmo o la pazzia o la profezia come un oracolo greco sul suo trespolo» ( C. , pp. 302-303). Osserviamo in primo luogo che Van Gogh mette il suo lavoro al riparo da ogni interpretazione riduttiva: è pazzo nella misura in cui è allo stesso tempo profeta o ispirato dagli dèi, ma in cambio, segnala il pericolo proprio del lavoro pittorico, Van Gogh non separa l’entusiasmo o il dono oracolare dalla pazzia. In una lettera anteriore alla prima crisi, scritta il 29 luglio 1888, esattamente due anni prima della sua morte, si può leggere: «Non solo i miei quadri, ma soprattut - to io in questi ultimi tempi ero diventato stravolto come Hugues van der Goes nel quadro di Emile Wauters», eppure in quella stessa lettera si può leggere qualche pagina più in là: «Più divento dissipato, malato, mezzo rotto 6, più anch’io divento artista creatore, in questo grande rinascimento dell’arte di cui parlavamo» ( C. , p. 147). Alcuni vedranno un conflitto, prova di una contraddizione, addirittura della pazzia di Van Gogh, tra l’entusiasmo profetico e il «lavoro e calcolo secco» di cui abbiamo parlato in precedenza, ma non si potrebbe pensare al contra - rio che la maestria conduca all’entusiasmo, il calcolo secco al dono ora - colare, il «sordo furore» a quel che Rimbaud chiama la «terribile celeri - tà della perfezione delle forme»? Leggiamo questa lettera, anteriore alla prima grande crisi poiché datata settembre 1888: «Ho una lucidità ter - ribile a momenti… e allora non mi sento più e il quadro viene a me come in sogno» ( C. , p. 129). Non ci si può stupire che Vincent abbia scritto un po’ più tardi, nell’ottobre 1888: «Proprio dopo il lavoro duro, e più è duro, più mi sento la zucca vuota» ( C. , p. 253). Si ha la sensa - zione che il pittore esca spesso spossato – presto il corpo si vendicherà – da un lavoro che deve padroneggiare, ma che lo conduce, l’assorbe a un punto che non immaginiamo, che lo porta via, ma dove, e bisogna banalmente dire « anywhere out of the world »?

* * * Si può pensare che Vincent non fosse meno pazzo di Van Gogh o che per lo meno si sia doppiamente sbagliato: credendo che il suo lavoro lo avrebbe salvato dalla pazzia, credendo che il suo lavoro lo avrebbe por - tato alla pazzia; si può anche prendere sul serio un’affermazione come: «Non è più facile, ne sono convinto, fare un buon quadro che trovare un diamante o una perla, richiede fatica e si rischia la vita» ( C. , p. 219). Ci siamo quindi interrogati sul pericolo del lavoro pittorico, quale

Roger Laporte 91 almeno lo pratica Vincent; abbiamo studiato quell’intensità, quell’e - strema complessità di un «lavoro e calcolo secco» che assorbe lo spiri - to, provoca l’entusiasmo e allontana dal mondo; abbiamo anche stu - diato l’affrontarsi dei contrari, formali e simbolici, dai quali l’artista, lungi dal regnare al di sopra della massa, è, al contrario, sollecitato dal - le forze stesse sulle quali non esercita che una padronanza parziale e del tutto provvisoria. Vincent scrive dall’ottobre 1888: «Spesso non so quello che faccio, lavorando quasi come un sonnambulo» ( C. , p. 254). «Lucidità terribile», eppure è quella di un «sonnambulo», di chi talvol - ta è un demente, che si sentirà sempre «astratto e maldestro», perlo - meno nella vita d’uomo. Come può quel lavoro assorbire Van Gogh al punto, almeno crede lui, di renderlo pazzo? Qual è quel lavoro? Verso dove o verso che cosa ci porta? «Il disegno, il colore giusto, non è forse l’essenziale che bisogna cer - care, perché il riflesso della realtà nello specchio, se fosse possibile fis - sarlo con colore e tutto, non sarebbe assolutamente un quadro» ( C. , p. 100): il realismo è condannato perché solo il quadro come quadro deve essere cercato, e non è solo per amore della natura che Van Gogh scri - verà molto più tardi, alcuni mesi prima della morte: «Mi è così cara la verità, il cercare di farlo vero anche, credo dunque, credo di preferire ancora essere un calzolaio che essere musicista coi colori» ( C. , p. 437). Non crediamo a un impossibile ritorno al realismo poiché, nel periodo di Auvers, Van Gogh non sarà meno «musicista coi colori» che duran - te quello di Saint-Rémy, ma, aspettandosi da quella maniera di dipin - gere più ombrosa una “terapeutica” contro la malattia, Van Gogh indi - ca, almeno indirettamente, il pericolo di ciò che Hölderlin chiama «l’entusiasmo eccentric o ». La lettera appena citata continua infatti così: «In ogni caso, cercare di restare veri è forse un rimedio per com - battere la malattia che continua a preoccuparmi sempre». Eppure un movimento contrario anima Van Gogh quando fa le copie di Delacroix o di Millet poiché, lungi dal volersi stretto imitatore, si lascia andare a interpretare liberamente come si fa in musica: « Io soprattutto siccome adesso sono malato, cerco di fare qualcosa per consolarmi, per il mio piacere... allora il mio pennello va tra le dita come farebbe l’archetto sul violino e assolutamente per farmi piacere» ( C. , p. 386). Di quello stesso piacere, a un livello più profondo, testimonia una lettera di poco poste - riore, datata anche settembre 1889: «Gli ulivi sono molto caratteristici, e lotto per prenderli… Ma molto difficile. Molto difficile. Ma mi va e mi attira lavorare in pieno nell’oro e nell’argento. E un giorno forse ne farò

92 Roger Laporte un’impressione personale come i girasoli per i gialli» ( C. , p. 392). Que - sta attrazione per l’oro e l’argento si comprende meglio considerando che Van Gogh ha sempre sofferto la povertà e ancor più perché si sen - tiva responsabile di quella di Théo: «Sei stato sempre povero per nutrir - mi, ma io renderò il denaro o renderò l’anima» ( C. , p. 299). «Lavorare in pieno nell’oro e nell’argento», dipingere dunque campi di grano e ulivi, non sarebbe che una banale e comprensibile compen - sazione della miseria di Van Gogh: è certamente così, ma crediamo che Van Gogh, anche ricco, avrebbe avuto lo stesso culto per il grano dora - to, i girasoli, il sole. Fare uno studio sull’oro e l’argento nella pittura di Van Gogh, questa questione non meriterebbe almeno uno studio psica - nalitico nella misura in cui, ci dicono, l’artista, a differenza del nevroti - co, non acconsente alla scomparsa del principio di piacere e così costruisce una realtà diversa dall’ordinaria che rifiuta? L’opera d’arte procurerebbe un’intensa soddisfazione, benché simbolica, al desiderio inconscio di essere felici, ma, se così fosse, o piuttosto se fosse soltanto così, di nuovo non si capirebbe più che una tale ricerca sia non solo dif - ficile, ma pericolosa. Leggiamo piuttosto ciò che Vincent, pur a propo - sito dei Girasoli , scrive appena un mese dopo la sua prima crisi: «Per essere scaldato a sufficienza per fondere quegli ori e quei toni di fiori, il primo venuto non ce la fa, ci vuole l’energia e l’attenzione di un indi - viduo intero» ( C. , p. 296). Energia e attenzione di tutto l’individuo sono richieste per effettuare un lavoro di cui il primo venuto è incapace, di cui il pittore stesso non è sempre capace, perché «bisogna essere scal - dati a sufficienza per fondere quegli ori e quei toni di fiori»: chiamere - mo alchimia formale o simbolica quell’operazione che trasforma la natura nell’oro del quadro, perché, scrive Antonin Artaud: «(bisogna) ricordare da quale sordida semplicità di oggetti, di persone, di mate - riali, di elementi, Van Gogh ha tratto quelle specie di canti d’organo, quei fuochi d’artificio, quella «grande opera» di una sempiterna e intempestiva trasmutazione» (op. cit., p. 25). Dipingere una natura «pronta a spiccare il volo» (ibid., p. 51), «osare il peccato dell’altro» (id., p. 62), immaginarsi che una tale operazione sia senza rischio, è come credere che Nietzsche sarebbe potuto essere il padre tranquillo della filosofia! Si può certo «esistere senza preoccuparsi di essere» (id., p. 58), ma si può anche «preoccuparsi di entrare nel contatto naturale delle forze che compongono la realtà» (id., p. 57): se ci si dedica a «l’opera - zione teatrale di fare dell’oro», bisogna anche accettare «l’immensità dei conflitti che provoca» in ragione del «numero prodigioso di forze

Roger Laporte 93 che getta l’una contro l’altra», e soprattutto non bisogna temere «di pagare la vita al prezzo che si deve pagare»: tale è l’avvertimento che Artaud ci dà in Il teatro e il suo doppi o* ( Œuvres complètes , t. IV, p. 62 e 146). La pietra filosofale opera: vediamo «quei soli viola girare su maci - ne di grano d’oro puro» (op. cit., p. 25) e, meglio ancora, assistiamo a quella trasmutazione, perché in Van Gogh «ogni paesaggio vero è come in potenza nel crogiolo in cui sta ricominciandosi» (ibid., p. 57). La metamorfosi è sempre già stata, ma allo stesso tempo è alla vigilia del compimento, eterno ritorno di una creazione incessante, imminente, senza la quale l’alchimia non avrebbe più potuto operare: «Non è più il mondo dell’astrale, scrive Artaud, è quello della creazione diretta che è ripreso così oltre la coscienza e il cervello» (id., p. 36). Se è così, se la tra - smutazione non è ancora avvenuta, si capisce che Artaud possa parla - re di un «lento incubo genesico elucidato a poco a poco. / Senza incu - bo e senza effetto. / Ma la sofferenza del prenatale c’è» (id., p. 47). Que - sta sofferenza non sarebbe quella del «temibile parto» che già evoca la poesia di Parmenide? Per designare la sua distanza dal mondo, la sua «pazzia», Van Gogh impiega costantemente il termine «astratto»: non è un caso se applica quello stesso termine alla sua pittura: «Per sbrogliare il carattere inter - no del vero suolo di Provenza, bisogna lavorare duro, e allora diventa naturalmente un po’ astratto, perché si tratta di dare al sole e al cielo azzurro la sua forza e il suo splendore, alle terre arse – e spesso melan - coniche – il loro fine aroma di timo» ( C. , p. 394). Quando vediamo un Van Gogh, non facciamo nessuna fatica a riconoscere il sole, il cielo azzurro, la terra arsa di Provenza: la natura non è perduta, ma, astrat - ta, magnificata, diventa quella che malgrado il nostro desiderio non vedremo mai con i nostri occhi di uomini, perché chi mai può ripren - dere a suo conto la parola di Rimbaud: «Vissi scintilla d’oro della luce natura»! Questa natura archetipica, di ieri e di domani, trasformata, che un alchimista sta trasformando, non è forse l’equivalente pittorico di una vita cambiata, di un mondo trasformato? Non lo crediamo, ma, se nulla cambia, lo scarto tra la vita presente e l’irreale età dell’oro non rischia forse di diventare insopportabile? Per Artaud, «una mostra di quadri di Van Gogh è sempre una data nella storia, non nella storia del - le cose dipinte, ma nella storia storica e basta» (id., p. 24) perché atto pittorico, alchemico, storico e politico sono un’unica cosa. Quando c’è, come nel 1947, una mostra Van Gogh, è già «la realtà mitica stessa che si sta incorporando» (id., p. 29), ma non ci si può accontentare del mito,

94 Roger Laporte perché l’atto pittorico autentico, vale a dire alchemico, dovrebbe trasci - nare con sé la rivoluzione: «Non è, scrive Artaud, un certo conformi - smo dei costumi che la pittura di Van Gogh attacca, ma quello stesso delle istituzioni» (id., p. 11). Non riconoscere la portata politica della pittura di Van Gogh, sarebbe disconoscere Van Gogh, rigettarlo, ren - derlo pazzo prima di farne «il suicidato della società», «perché un alie - nato è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare a cui ha impedito di emettere insopportabili verità» (id., p. 15). Van Gogh scriveva dal luglio del 1888: « I nuovi pittori soli, poveri, trattari come pazzi e che in seguito a questo trattamento lo sono diven - tati realmente almeno per quanto riguarda la loro vita sociale» ( C. , p. 147). Leggiamo anche le righe profetiche dell’ottobre 1888: «Dei pittori muoiono o diventano pazzi per la disperazione o paralizzati nella loro produzione perché nessuno li ama personalmente» ( C. , p. 229). Artaud scrive persino: «Anche la natura… non può più, dopo il passaggio di Van Gogh sulla terra, mantenere la stessa gravitazione» (id., p. 11), ma chi, quando era in vita, salvo il solo Théo, è stato toccato dalla pittura di Van Gogh? Nessuno, e il bell’articolo di Albert Aurier arriverà trop - po tardi. L’ignobile disprezzo al quale fu condannata la pittura di Vin - cent andò ben oltre la solitudine dell’uomo. Tutti sanno che, in vita, Van Gogh non vendette che un solo quadro, ma si sa che si andò a ricerca - re il Ritratto del dottor Rey nel granaio, dov’era stato relegato, perché poteva essere utile per tappare la crepa di un pollaio… fino al momen - to in cui recuperarono il quadro perché, cosa incredibile, si poteva ven - dere a buon prezzo 7! A leggere la corrispondenza di Van Gogh secon - do l’ordine cronologico, si ha la sensazione di uno sconforto, di una solitudine che aumentano, perché, probabilmente a torto, Vincent si sentì abbandonato anche dal fedelissimo Théo. Delle sue tre grandi tele che dipinge al ritorno dell’ultimo viaggio a Parigi, Vincent scrive nel luglio del 1890: «Sono immense distese di grano sotto cieli agitati, e non mi sono sforzato per cercare di esprimere la tristezza, l’estrema solitu - dine» ( C. , p. 487). La solitudine è diventata il soggetto del quadro, e così, come un insostenibile paradosso, forse mortale, la comunicazione ha per oggetto contraddittorio la non-comunicazione. Esprimere la solitudine non basta a esorcizzarla, ma al contrario la raddoppia, per - ché al grido risponde, non risponde, solo il silenzio. La lettera di Vin - cent che abbiamo appena citato era preceduta da queste parole: «Ritor - nato qui, mi sono rimesso al lavoro, eppure il pennello mi cadeva qua - si dalle mani». Vincent e la pittura si separano: se Vincent avesse persi -

Roger Laporte 95 stito, il suo «genio», anch’esso, non l’avrebbe forse abbandonato come si può temere vedendo alcuni quadri dell’ultimo periodo? Si sarebbe parlato di «quadri della pazzia» nel senso in cui si parla delle «poesie della pazzia» di Hölderlin? Non lo sapremo mai. Un’ultima opera – perché non la figura stessa della Grande opera? –: il Campo di grano con corvi , poi il suicidio. Ci si deve ancora stupire?

Note

* Questo studio, apparso nel numero 273 della rivista Critique , si riferisce in particolare alle seguenti opere: Antonin Artaud, Van Gogh, le suicidé de la société (Parigi, K. ed., 1947, 71p.); Van Gogh, Correspondance complète , tomo III (Gallimard-Grasset, 1960, 535p.) e Van Gogh: études , di C. Bourniquel, P. Cabanne, G. Charensol, R. Cogniat, Fr. Duret- Robert, Jean Paris, Marthe Robert, Y. Tallandier (Hachette, 1968, 280 p., coll. «Génie et Réalités»). 1 Lo studio di Marthe Robert è qui confermato e sfumato dal notevole saggio di Jean Paris, Le Soleil de Van Gogh . Nella costruzione di un paesaggio, l’occhio del pittore è sempre sul livello del sole: il figlio, lungi dall’essere sottomesso al padre, lo tratta così da pari a pari (ibid., p.156). Jean Paris fa anche notare che il narcisismo di Van Gogh sul quale insiste Mathe Robert, lo conduce nell’autoritratto del 1877 a prendere il posto del padre-sole. 2 Gioco di parole non riproducibile : « le génie se prouve et s’éprouve ». (N.d.T.) 3 La maladie de Van Gogh à la lumière des nouvelles conceptions sur l’épilepsie psycho-motrice. 4 Cabaret in cui gli avventori si stordiscono d’alcol. Titolo di un celebre romanzo di Emi - le Zola cui Van Gogh fa probabilmente riferimento quando descrive l’atmosfera di tale luogo. (N.d.T.) 5 Cfr. la terminologia saussuriana in cui il « signifié » è il contenuto di conoscenza che vie - ne veicolato da un segno e il « signifiant » è l’aspetto percepibile del segno. (N.d.T.) 6 «Cruche cassée » gioco di parole che si appoggia sul detto « bête comme une cruche », «stu - pido da morire», cui Van Gogh aggiunge l’aggettivo legato al suo stato di prostrazione fisica. (N.d.T.) 7 Che il lettore voglia richiamarsi alla raccolta in cui si trovano l’articolo di Marthe Robert e quello di Jean Paris, già citati, per leggere l’eccellente studio di François Duret- Robert intitolato « Destin de ses tableaux » (op. cit., p. 217-243).

96 Roger Laporte Roger Laporte Kafka e l’esigenza di scrivere

A Maurice Blanchot In honorem

La vita di Kafka è stata un combattimento oscuro, protetto dall’oscurità, ma ne vediamo chiaramente i quattro aspetti rappresentati dai rapporti con il padre, con la letteratura, con il mondo femminile, e queste tre forme di lotta si ritraducono più profondamente per dar forma al combattimento spirituale. M. B LANCHOT

on sono null’altro che letteratura»: questa frase potrebbe «Nessere di Flaubert, di Proust, di alcuni altri, ma solo Kaf - ka, con un tono che si potrebbe trovare perentorio, ha affermato con tale nettezza la sua vocazione per la letteratura. Questa formula chia - ve si trova, è risaputo, nel Diario di Kafka, in data 21 agosto 1913, ma proprio il suo Diario , la sua ricca corrispondenza, non sono forse il commento a questa formula? Come conviene leggere questo Diario e queste lettere che occupano due dei quattro volumi delle Opere com - plete di Kafka nella “Pléiade”? Servirsene per raccontare la vita diffi - cile di un uomo contemporaneamente ordinario ed eccezionale; ridurre questa passione per la letteratura a un tratto psicologico, tra altri, di un personaggio complesso, significherebbe disprezzare la let - teratura, dimenticare questo punto essenziale : tutto, anche e soprat - tutto i “difetti” di Kafka, si giustifica o meglio si spiega, se si è dispo - sti ad ammettere che non ha un’«inclinazione» per la letteratura – «Non un’inclinazione, Felice! Non un’inclinazione, ma io stesso in maniera assoluta» – , ma che è letteratura. Piuttosto che cercare nella vita di un uomo la chiave della sua opera, non è preferibile trovare nell’opera-da-fare la spiegazione della vita dell’uomo, delle sue diffi - coltà, dei suoi conflitti, troppo spesso insolubili? Il Diario , le lettere a Brod, a Felice, a Milena, a tanti altri, costitui - scono di fatto un autoritratto, certamente involontario, dello scrittore,

Roger Laporte 97 tracciato da lui stesso: o perlomeno è questa la griglia di lettura che propongo, esattamente aggiungendo che ci si può domandare se que - sto ritratto di Kafka fatto da Kafka stesso sia fedele, oppure, nella misura in cui non sfugge a una certa messa in scena, non dia luogo a una sorta di idealizzazione, per lo meno nel senso in cui Freud parla di un «Ideale dell’Io». «Sono un essere taciturno, asociale, egoista, ipocondriaco e real - mente sofferente», scrive Kafka, il 28 Agosto 1913, al suo amico Carl Bauer; ma perché è così? È davvero così? Lo è sempre stato? Si può anche supporre che Kafka non sarebbe stato questa sorta di misan - tropo, almeno ai propri occhi, se non fosse stato «letteratura»; si può in ogni caso credere a Kafka quando afferma nella sua lettera a Felice del 24 Agosto 1913 che «la letteratura determina e sollecita finanche le più piccole espressioni della sua esistenza». La brutta di una lette - ra al padre di Felice, che Kafka redige nel suo diario conferma e preci - sa questo singolare autoritratto: «Sono un essere taciturno, asociale, insoddisfatto, senza poter qualificare questo carattere come una dis - grazia per me, poiché non è che il riflesso del mio fine.» In questa stessa lettera, un poco oltre, dopo aver confessato che nella sua fami - glia, «tra gli esseri migliori e che più lo amano» si sente «più stranie - ro di uno straniero», Kafka aggiunge con una sorta di violenza, con tono provocatorio, così provocatorio che la lettera al Padre, al padre di Felice, non è stata spedita: «Tutto quel che non è letteratura mi annoia e lo odio.» Kafka, anche se fu un gran lettore, in particolar modo dell’autore de L’Educazione sentimentale , è in realtà incapace di seguire una lettura, neppure quella fatta dal suo caro amico Max Brod: Kafka annota infatti nel suo Diario in data 3 Gennaio 1912: «Non ho potuto interes - sarmi, domenica, alla lettura che Max ha fatto del suo saggio filosofi - co.» Non immaginiamo affatto che Kafka lo deplori o si senta colpe - vole, poiché nella stessa pagina Kafka spiega che la sua «concentra - zione a profitto della letteratura» ha avuto per benefico effetto quello di sviarlo da tutto ciò che lo portava verso «le gioie del sesso, del bere, del magiare, della riflessione filosofica, e in primo luogo della musi - ca». In un’immagine sorprendente Kafka riassume quanto ha appena detto: «Sono dimagrito da tutti questi lati». In una lettera a Felice del 1914 Kafka scrive: «Divento sempre più incapace di pensare, d’osservare, di parlare, di prendere parte alla

98 Roger Laporte vita degli altri, mi pietrifico.» Ma è realmente successo così? Kafka era sensibile quanto pretende ? Siccome aveva bisogno di solitudine per lavorare, Kafka teneva i suoi amici a distanza e accettava così poco d’essere disturbato che arrivò al punto di dire: «Per scrivere ho biso - gno d’essere al margine, non “come un eremita”, non sarebbe suffi - ciente, ma come un morto.» Una lettera di Kafka a Robert Klopstock, l’amico del cuore degli ultimi anni, è molto commovente per il suo partito preso d’assoluta sincerità. Questa lettera del marzo 1923, che citerò a lungo, mostra al tempo stesso che Kafka si consacra intera - mente alla letteratura, e tuttavia ama Klopstock, dal quale spera di ottenere comprensione, ovvero il rispetto per il suo lavoro di scritto - re: «Quest’attività letteraria, nel modo più crudele (di una crudeltà inaudita, non sto a parlarne) per ogni essere che mi circonda , è la cosa che mi interessa di più al mondo… non ha nulla a che vedere con il valore di quello che scrivo… questo valore lo conosco più che esatta - mente, ma conosco altrettanto bene il valore che ha per me. Ed è que - sto il motivo per cui, tremando di paura davanti al minimo cambia - mento, mi tengo stretto il mio lavoro e non soltanto il mio lavoro, ma la solitudine che ne fa parte. E se ieri, per esempio, le ho detto di non venire domenica sera, ma solamente lunedì o se, allorché per due vol - te mi ha domandato “dunque non questa sera”, e avrei potuto rispon - derle, almeno la seconda volta, le ho invece detto:”Si riposi dunque un po’”, era una menzogna integrale, perché non pensavo che alla mia solitudine». Si può supporre che Kafka abbia sofferto a causa di questa menzogna che intacca la sua amicizia pura per Klopstock, ma, se condanna implicitamente il suo modo di procedere, nemmeno per un istante ha dei rimpianti per la decisione.

La concentrazione di Kafka a profitto della sola letteratura è esem - plare, ma sarebbe stata permanente solo se Kafka avesse potuto dis - porre liberamente del suo tempo. Ritorniamo in effetti alla pagina del Diario che citavamo più in alto, una pagina scritta il 3 gennaio 1912, e leggiamone la conclusione: «Poiché non ho più nulla da sacrificare, non mi resta che scacciare il mio lavoro d’ufficio per incominciare la mia vera vita nella quale il mio volto potrà infine invecchiare natu - ralmente con i progressi della mia opera.» La conclusione del XIX secolo, l’inizio del XX, vedono la fine delle grandi fortune, di conseguenza di quegli scrittori privilegiati che, per vivere, non hanno avuto bisogno di esercitare un mestiere: che si pen -

Roger Laporte 99 si a Raymond Roussel, ad André Gide, a Marcel Proust, ma Mallarmé era un piccolo professore d’inglese disturbato dal rumore degli allie - vi e Valéry dovette lavorare come burocrate sino all’età della pensio - ne: è capitato all’autore di Monsieur Teste di credere che se avesse avu - to più tempo libero avrebbe scritto non dei Quaderni frammentari, ma un’opera. Kafka fece i suoi studi di diritto e lavorò, a mezza giornata, in una compagnia di assicurazioni per gli incidenti sul lavoro. Ah! Quell’ufficio: quale lettore, che ami Kafka – si può non amare Kafka! – non ha sofferto con lui per le ore che dovette passare in un ufficio in cui certo esercitava un mestiere socialmente utile, mestiere che non detestava certo come tale, e che compiva con brio, forse con zelo, ma che non lasciava praticamente né tempo né forza allo scrittore. «Che io semplicemente sia del tutto perduto, scrive Kafka nel suo Diario in data 18 dicembre 1910, fintanto che non sarò libero dall’ufficio, è qualcosa per me di strettamente evidente». Potrei moltiplicare le cita - zioni nella misura in cui l’ufficio «questo luogo di terrore», scrive Kaf - ka a Felice, è il leitmotiv di una sofferenza che attraversa il Diario e la corrispondenza, una squilibrante sofferenza. Se Kafka è letteratura, tutto quel che si oppone alla sua vocazione non solo lo rende infelice, ma provoca in lui una sorta di panico, nella misura in cui l’esigenza di scrivere entra in conflitto, un conflitto che non può essere risolto, con le costrizioni della vita d’uomo: «Sono stritolato tra l’ufficio e la letteratura», scrive Kafka nel 1913, e dal 1911 scriveva: «L’ufficio… sei ore al giorno. – E lì per me un’esigenza terribile per la quale non c’è altra via d’uscita che la follia.» Nessuno, senza ammalarsi, può sop - portare indefinitamente una situazione troppo dura: l’«esito» non sarà però la follia, ma la tubercolosi che permetterà all’impiegato del - le Assicurazioni operaie per gli incidenti per il regno di Boemia di domandare un congedo per malattia che gli sarà accordato e rinno - vato, congedo che libera, ma a che prezzo, lo scrittore Kafka delle costrizioni di un lavoro «servile». La tubercolosi si dichiarerà nel 1917: nell’attesa Kafka tenta di orga - nizzare la sua vita, di programmare il proprio tempo in modo da per - mettere la coabitazione tra l’uomo e lo scrittore. Ecco come espone a Felice il proprio impiego del tempo il 1° Novembre 1912: «Dalle 8 alle 14: ufficio; pranzo dalle 15 alle 15 e 30; dalle 15 e 30 alle 19 e 30 riposo a letto (sono solo tentativi di riposo) ; 10 minuti di ginnastica… poi una passeggiata con Max… poi cena in

100 Roger Laporte famiglia; verso le 22 e 30, 23 e 30, sessione di lavoro che dura a secon - da delle mie forze, della voglia e della fortuna sino all’1, le 2, le 3, per - sino, come mi è capitato una volta, alle 6 del mattino. In seguito ten - tativi di prendere sonno, cioè di ottenere l’impossibile, poiché non si può dormire quando si pensa completamente al proprio lavoro. In questo modo la notte si compone di due parti: una sveglio e l’altra senza sonno.» Si sa che Kafka, che certo confessa d’essere ipocon - driaco, non ha smesso di lamentarsi delle sue insonnie, dei suoi mal di testa provocati precisamente dalle sue insonnie, ma con gli orari che faceva, le ore insufficienti dedicate al sonno, come avrebbe potu - to andare diversamente! Visto che Kafka usciva dall’ufficio all’inizio del pomeriggio, non avrebbe potuto organizzare diversamente la sua giornata? Non avrebbe potuto scrivere dalle 16 alle 22? Senza dubbio, ma l’impiego del tempo di Kafka è per Kafka l’impiego del tempo meno cattivo possibile. – Mallarmé, Proust, Kafka, senza stare a par - lare d’altri, sono ipersensibili ai rumori: in “Conflitto” che apre Varia - zioni su un soggetto , Mallarmé scrive: «Sono il malato dei rumori e mi meraviglio che quasi tutti provino più ripugnanza per i cattivi odori che per un grido.» A differenza di Proust Kafka, ahilui, non aveva denaro sufficiente per far insonorizzare la sua stanza di lavoro. Nel 1915 Kafka annota nel suo Diario questo passo: «Torture causatemi dal mio alloggio. Infinite. Oggi il rumore mi impedisce di dormire, di lavorare, di fare qualsiasi cosa.» «Non ho potuto lavorare di notte», aggiunge, ma precisamente, per tutto il tempo in cui ha abitato pres - so la sua famiglia, Kafka doveva aspettare, prima di mettersi al lavo - ro; che i genitori e le sorelle fossero a letto, che la casa diventasse silenziosa, verso le 22 o anche solo le 23 e 30, e che allora, sino all’al - ba, regnasse quel silenzio senza il quale è praticamente impossibile rispondere all’esigenza di scrivere. – Personalmente quando, per caso, in un caffè parigino, dalle parti di Saint Germain des Prés, scorgo qualcuno che sta scrivendo, lo osservo come una bestia rara e mi chiedo se si tratti davvero di uno scrittore ! Conclusione: Kafka ha davvero il miglior impiego del tempo che sia possibile, ma si sa che il migliore dei mondi non è perfetto, tanto ci manca. Non ci meravigliamo quindi del fatto che Kafka consegni al suo Diario questa annotazione amara: «Se non avessi avuto dei così violenti mal di testa, avrei sicuramente potuto lavorare.»

Roger Laporte 101 Quanto è precaria, dolorosa questa coabitazione tra l’uomo e lo scrittore? Quando l’ufficio e il rumore si alleano contro il suo lavoro, Kafka cade in una «disperazione totale». Non meravigliamoci del fat - to che Kafka si avvicini al punto di rottura quando le mattine sono occupate dall’ufficio e il pomeriggio dallo stabilimento, il pomeriggio unico momento in cui possa recuperare dalle notti bianche. Come si è lasciato trascinare Kafka a dover sorvegliare lo stabilimento di fami - glia? Non ci sorprende la risposta che troviamo in questa pagina del Diario datata 1911: «Il tormento che mi causa lo stabilimento. Perché mi sono lasciato fregare quando mi hanno imposto l’obbligo di lavo - rarci tutti i pomeriggi…? Mi ci trovo costretto dai rimproveri di mio padre.» Nel 1915, il 19 gennaio, queste righe: «Non potrò scrivere nul - la fintanto che sarò obbligato ad andare allo stabilimento». Più il tem - po passa, più la situazione si fa insopportabile per Kafka i cui genito - ri per di più avrebbero voluto che lavorasse al negozio nei giorni in cui non andava allo stabilimento. «I genitori – scrive Max Brod a Feli - ce Bauer – volevano che Franz lavorasse il pomeriggio in negozio. A quel punto Franz prese la ferma risoluzione di suicidarsi e mi scrisse persino una lettera d’addio.» Brod ebbe paura, scrisse alla madre di Kafka che intervenne sul marito e ottenne che Franz disponesse libe - ramente dei suoi pomeriggi.

* * * La formula « Non sono nient’altro che letteratura » sarebbe stata vera se Kafka non fosse stato anche, come ognuno di noi, un uomo comune. In una pagina del suo Diario , datata 1913, Kafka annota :«Il desiderio sessuale mi incalza, mi tortura giorno e notte ; per soddi - sfarlo avrei bisogno di sorpassare la mia paura, il mio pudore, anche e soprattutto la mia tristezza. » Leggiamo un altro passaggio del Dia - rio , datato questa volta 1916 : « Solo turbamenti provocati dalle don - ne a dispetto dei miei mal di testa, dell’insonnia, dei capelli che ingri - giscono e della mia disperazione. Faccio un rapido calcolo : ce ne sono stati almeno 6 da quest’estate. Non posso resistere .» Le prostitute che Kafka frequentava, gli amori passeggeri avrebbero forse soddisfatto il desiderio sessuale, ma qui si tratta di tutt’altra cosa. « Devo sposarmi o no? » : era questa la domanda lancinante che Kafka non ha smesso di porsi. – Marthe Robert ci riferisce questo midrash tratto da un cor - so di Lévinas : «Come fare per studiare la Thora in piena verità?» Alla domanda un maestro del Talmud rispondeva senza indugio: «Innazi -

102 Roger Laporte tutto sposarsi». Non arriverò sino al punto di trasporre questo midrash facendo come se Kafka alla domanda « Come soddisfare l’e - sigenza di scrivere? » avesse risposto a se stesso: « Innanzitutto spo - sarmi », e tuttavia in una pagina del suo Diario del 1914, Kafka osser - va : «Nel quadro della mia vita attuale il mio lavoro è distrutto dal celibato.» Se Kafka si fosse sposato le sue relazioni con la famiglia sarebbero di colpo migliorate, il che sarebbe stato un completo bene - ficio per lo scrittore : agli occhi di Herman Kafka, il padre onnipoten - te, Franz sarebbe diventato un uomo comune, di conseguenza nor - male, del quale avrebbe forse tollerato l’ubbia singolare: scrivere. « Non c’è nessuno qui che possa capirmi in tutto, annota Kafka nel suo Diario nel 1913. Avere vicino a sé qualcuno capace di questa com - prensione, forse una donna, significherebbe essere sostenuto da tutti i lati, avere Dio.» È comprensibile questo desiderio nostalgico: come tale non va incontro all’esigenza di scrivere, ma la contraria, ossia la contraddice, poiché Kafka sa che «la scrittura, l’esigenza di scrivere», è inseparabile dalla solitudine. Kafka non conosceva, gioco forza, la corrispondenza di Rilke con un giovane poeta, ma a colpo sicuro avrebbe controfirmato questa lettera di Rilke datata 23 dicembre 1903: «Una sola cosa è necessaria : la solitudine. La grande solitudine interiore.» Quanto a questa questione del matrimonio, che lo tortura - va, Kafka è l’esitazione fatta persona. Per tentare di vederci chiaro, in effetti per ritardare la decisione, Kafka stabilisce un bilancio di quel che parla a favore e di quel che parla contro il matrimonio. A favore – cito : «Sono incapace di sopportare da solo gli assalti della vita» ; con - tro – cito sempre : «Paura di legarmi. Allora non sarei mai più solo.» Non intendo sviluppare troppo a lungo questo capitolo che si potrebbe intitolare «Kafka e le donne». I fatti sono noti, e sono stati spesso commentati; nella mia comunicazione del 7 marzo ho insistito io stesso su questo insormontabile conflitto tra le esigenze della scrit - tura e gli obblighi di un uomo sposato, ma ho bisogno di fare un cer - to numero di osservazioni. Prima osservazione . – Il matrimonio, o piuttosto la sola idea di matri - monio, funziona come una trappola dalla quale Kafka non vuole né può uscire come mostra questa formula: «Non mi sento capace di vivere senza Felice, ma non sarei nemmeno capace di vivere con lei.» Talvolta i progetti di matrimonio arrivano sino a un fidanzamento del tutto ufficiale, tal’altra al contrario il fidanzamento viene rotto, e

Roger Laporte 103 l’idea stessa di matrimonio viene rifiutata sino al momento in cui un movimento impietoso del bilanciere conduce Kafka nel senso oppo - sto, e così via, di seguito, all’infinito. Questa via insopportabile sia per lui sia per la sfortunata Felice durerà per cinque anni. Avvicinarsi – allontanarsi dal matrimonio, l’oscillazione non smette mai, ma si può cambiare partner: a Felice succede un’altra fidanzata, Julie Wohryzek. – Si sa che Kafka rifiutava la psicanalisi, non come teoria, ma come terapia. Tuttavia: sapeva sino a che punto forniva ai discepoli di Freud un materiale di prima scelta per lo studio della compulsione di ripetizione o arte di rifare le stesse sciocchezze, di ricominciare all’in - finito le stesse follie? Seconda osservazione . – Tra non sposarsi e sposarsi Kafka cerca un terzo termine, una soluzione di compromesso, una forma di matri - monio in grado di non contrariare il lavoro dello scrittore. All’inizio della loro relazione Kafka non sente Felice come una nemica del suo lavoro, giacché arriva al punto di scrivere: «Sino a che punto siate intimamente legata alla mia letteratura è quel che ho constatato ulti - mamente con stupefazione.» Non dimentichiamo in effetti che la pri - ma lettera di Kafka a Felice è datata 20 settembre 1912, e che quest’a - more nascente, lungi dal contrariare la scrittura l’ha forse facilitata, poiché due giorni più tardi, nella famosa notte tra il 22 e il 23 settem - bre Kafka scrive di getto Il Verdetto . Sarebbe stato forse tutto diverso se a Felice, che non è Milena, fosse piaciuto il lavoro di Kafka, ma non è stato così, altrimenti Kafka non avrebbe potuto dire a Felice: «Fin - ché amerai il mio lavoro controvoglia, non avrai assolutamente nulla sul quale poterti appoggiare.» Non meravigliamoci del fatto che in una delle ultime lettere a Felice, Kafka sia giunto a dirle con una dura franchezza: «Avevo il dovere di vegliare sul mio lavoro che solo mi dà il diritto di vivere, e la tua paura mi faceva temere che ci fosse lì per il mio lavoro il peggiore dei pericoli […] eri il più grande nemico del mio lavoro.» Terza osservazione . – Ritorniamo un momento su questo spazio miti - co, questa cantina solitaria, silenziosa, della quale Kafka desiderava fare il suo luogo di lavoro. Sappiamo che una moglie avrebbe avuto come dovere e come unico diritto quello di portargli i pasti. Indovi - niamo facilmente come Felice abbia potuto reagire di fronte a un simi - le progetto, ed è proprio per questo che Kafka tenta di addolcire l’im - magine troppo austera. «Questa cantina ti apparterrebbe» scrive a

104 Roger Laporte Felice, riconoscendo completamente che si sarebbe trattato di «una triste proprietà». Nel suo Diario Kafka evoca, si capisce perfettamen - te perché, la capanna nella foresta in cui Gustave Mahler si chiudeva per comporre, evoca quelle ore di solitudine che non impedivano a Mahler d’avere una vita coniugale. La condizione d’uomo sposato sarebbe diventata accettabile per Kafka se avesse avuto la fortuna di incontrare una donna altrettanto silenziosa e discreta che la compa - gna di Thomas Bernhardt la quale, si dice, passeggiasse per ore e ore mentre suo marito, chiuso in una stanza d’albergo, passava le sue giornate a scrivere? Non credo. Monsieur Teste è un personaggio d’in - venzione, ma poco importa qui: so soltanto che mai la donna di Kaf - ka avrebbe potuto, come fa invece Emilie Teste, scrivere a un amico: «Dopo tanti inumani mostruosi silenzi, ricade su di me come se fossi la terra stessa. Si risveglia in me, si ritrova in me, che felicità!» Di que - sta felicità qualsiasi donna di Kafka sarebbe stata privata, ogni com - pagna di Kafka nella maggior parte dei casi è stata frustrata. Tra esse - re e non essere sposato, Kafka trova una soluzione di compromesso così singolare: un matrimonio bianco, che l’altra non può evidente - mente accettare, e Kafka lo sa bene, come dimostra questa pagina del Diario scritta nel 1913: «Il coito considerato come castigo della felicità di vivere insieme. Vivere nel più grande ascetismo possibile… è per me l’unica possibilità di sopportare il matrimonio. Ma lei?» «Il vero oggetto della mia paura, scrive a Felice in quello stesso 1913, – non si può dire né sentire nulla di peggiore – è che non potrò mai posseder - ti. Avevo quindi davvero ragione a volermi separare da te già sei mesi fa.» Anche con Milena, che fu senza dubbio la sua amante, ma forse una sola volta, sarebbe successo lo stesso. Milena ne era cosciente, e del resto questo è il motivo per cui non ha risposto all’attesa di Kaf - ka, come riconosce in una lettera a Max Brod: «Non ero in grado di abbandonare mio marito e forse ero troppo donna per avere la forza di sottomettermi a quella vita della quale sapevo che avrebbe signifi - cato per tutta la vita una rigorosissima ascesi». In una delle ultime lettere a Felice, Kafka scrive: «Ci sono sempre due esseri che pulsano in me. Uno è quasi come lo volevi avere…, ma l’altro non pensa che al suo lavoro: non immaginerebbe inizialmente la morte del proprio migliore amico che come un ostacolo al lavoro.» Senza dubbio l’esigenza di scrivere è in Kafka così integra che deve scartare tutto quel che rappresenterebbe un ostacolo, persino il

Roger Laporte 105 miglior amico, persino quella Felice alla quale dice con sincerità: «Ti amo sino allo stremo delle forze», ma sarò chiaro: il comportamento di Kafka nei confronti delle donne è sovradeterminato. Bisogna pur ammettere che la preoccupazione legittima di proteggere il lavoro, di difenderlo da ogni intrusione, è altresì un pretesto comodo di cui si serve, senza dubbio inconsciamente, per allontanare ogni donna che ama, ma con la quale non saprebbe praticare quel che chiama con dis - prezzo e disgusto «il coito». Marthe Robert ha ragione di dire che ogni donna amata, posta da Kafka altrettanto in alto che la madre, è colpita dal tabù dell’incesto. Come si chiama una donna che dà sicu - rezza, discreta, silenziosa, devota, che ama senza domandare nulla in cambio, capace in una sola parola di vegliare sulla cantina? Una madre, Kafka chiama Milena nello stesso modo in cui Jean-Jacques chiama Madame de Warens con la più tenera delle parole: «Mamma.» Che il comportamento di Kafka con le donne sia sovradeterminato lo riconosciamo, lo affermiamo, ma ci occorre aggiungere un’ ultima osservazione : la vita amorosa di Kafka, i suoi ripetuti fidanzamenti, l’hanno molto occupato, lo hanno preoccupato, hanno consumato le sue forze e accaparrato una parte considerevole del suo tempo. Quan - te ore passate a scrivere delle lettere d’“amore”? Quelle scritte alla sola Felice nel novembre 1912 occupano 84 pagine nell’edizione della “Pléiade” e quelle di dicembre ben 90! Se Kafka realmente non fosse stato nient’altro che letteratura, se fosse stato ontologicamente scrit - tore, avrebbe dovuto non solo essere scapolo, ma una sorta di mona - co laico. Kafka è anche un uomo qualunque con i suoi desideri e i suoi bisogni, ed è il motivo per cui la formula: «Non sono nient’altro che letteratura» deve essere tradotta in un’altra: «Una sola esigenza: scri - vere» o ancora «Scrivere, bisogna». La formula «Non sono nient’altro che letteratura» non enuncia quindi un giudizio di realtà, ma è del - l’ordine di un ottativo, di un dover essere, cioé precisamente di un’e - sigenza.

* * * «L’esistenza dello scrittore dipende davvero dal suo tavolo da lavo - ro, non gli è infatti mai permesso di allontanarsene ; se vuole sfuggi - re alla follia, deve per forza aggrapparvisi coi denti» : si sarà ricono - sciuto un passaggio dell’importantissima lettera di Kafka a Brod in data 5 Luglio 1922. Chi si sviasse dalla scrittura si svierebbe di colpo anche dalla vita, o, per lo meno, rischierebbe la ragione: «Uno scritto -

106 Roger Laporte re che non scrive, dice ancora Kafka, è un non senso», soprattutto, aggiungerò, se questo scrittore «è letteratura», ma come può questo stesso Kafka, soltanto due giorni dopo la memorabile notte dal 22 al 23 settembre 1912 – quella in cui dalle 10 di sera alle 6 del mattino scrisse d’un sol tratto Il verdetto – annotare nel suo Diario : «Mi sono fatto violenza per non scrivere. Mi sono rigirato a lungo nel letto. Nel - la testa congestionata il sangue passava inutilmente. Quante cose malsane!»? Non crediamo che questa sia la sola pagina a mettere in scena uno scrittore che scrive il suo Diario al posto di scrivere. « Mi stanco in una maniera insensata, scrive Kafka il 25 dicembre 1915, sarei ubriaco di felicità se potessi scrivere, e non scrivo. Non posso più sbarazzarmi dei miei mal di testa. Mi sono veramente distrutto.» Come interpretare questo comportamento di uno scrittore che «è letteratura», ma che rischia la follia non scrivendo? Questa condotta è sovradeterminata: diverse spiegazioni sono in effetti simultanea - mente valide. C’è una ragione che conosciamo già : la vita dell’uomo Kafka, le costrizioni che subisce, turbano talmente lo scrittore Kafka che attribuisce i difetti della sua opera alle condizioni nelle quali fu scritta. «Grande ripugnanza nei confronti della Metamorfosi , annota nel suo Diario in data 19 gennaio 1914. Fine illeggibile. Imperfetta quasi sino in fondo. Il risultato sarebbe stato ben migliore se non fos - si stato disturbato in quel momento dal viaggio d’affari». Non conte - stiamo a Kafka il privilegio di vedere come illeggibile la fine della Metamorfosi e crediamogli sulla parola: questa fine sarebbe stata ancor migliore se non fosse stato interrotto nel suo lavoro. Si può scrivere Il Verdetto in una sola notte, ma quante notti e quanti giorni occorrono per scrivere Il Castello o Il Processo , queste opere che non sono rimaste interrotte per caso? Le condizioni di vita di Kafka lo condannano a scrivere testi molto corti, il che ci vale dei racconti ammirevoli e bre - vissimi come Il Ponte, Il Canto delle Sirene , oppure Il Cacciatore Grac - chus . Se Kafka, secondo la sua stessa testimonianza, non « crea qual - cosa di valido che nei momenti di esaltazione», se, dice ancora, «è solo così che si può scrivere, con un’apertura totale dell’anima e del corpo», è lucidamente portato a fare questa constatazione: «Capito una volta di più, annota nel suo Diario , in data 8 dicembre 1914, che quel che è scritto a tratti e non di fila nel corso di una gran parte del - la notte (cioé della notte intera) è mediocre e che sono condannato a questa mediocrità dalle mie condizioni di vita.» Se le condizioni sono

Roger Laporte 107 troppo sfavorevoli, Kafka decide di non scrivere piuttosto che di scri - vere male. Max Brod l’aveva capito alla perfezione, come mostrano queste righe di una lettera che indirizza a Felix Bauer. «Franz è capa - ce di non scrivere una sola riga per mesi piuttosto che di accontentarsi di un testo passabile». Certamente le costrizioni subite da Kafka lo squilibrano in maniera duratura e sono all’origine dei suoi mali tanto psichici che somatici: è dunque a buon diritto che Kafka si dice «roso dagli sforzi che gli costa la repressione delle proprie forze vive.» Compiangiamo Kafka: deploriamo le inammissibili condizioni di vita concesse allo scrittore, ma non siamo ingenui. Che succede infat - ti quando Kafka prende delle vacanze? Ecco cosa annota nel suo Dia - rio il 7 ottobre 1914: «Ho preso una settimana di vacanza per far avan - zare il mio romanzo…per il momento non ci sono riuscito. Ho scritto poco e con mollezza […] Questi tre giorni già mi autorizzerebbero allora a concludere che non sono degno di vivere senza un impiego d’ufficio?» È esatto, come Kafka scrive nel suo Diario il 4 gennaio 1914, che «se non può proseguire le storie per tutta la notte, esse sfug - gono e si perdono nel vago», ed è del resto il motivo per cui degli abbozzi di poche righe occupano un posto importante nell’opera di Kafka, ma non è meno vero che nel momento in cui le condizioni sono favorevoli, non scrive o scrive poco. «Con che cosa scuserei il fatto, annota nel suo Diario nel 1910, che non ho scritto ancora nulla? Con nulla. E ancor meno, visto che il mio stato d’animo non è dei peggio - ri.» Come capire il fatto che nel momento in cui avrebbe potuto scri - vere Kafka abbia così spesso perso il suo tempo, che non abbia dun - que scritto, ma abbia preso una via di ripiego nella scrittura scriven - do delle lettere d’“amore”, tenendo un Diario , la peggiore soluzione di compromesso tra scrivere e non scrivere? Perché Kafka si è più di una volta distolto dal suo tavolo da lavoro, sfiorado così la follia, con - sumando le sue forze, che sapeva insufficienti, impedendosi di scri - vere, praticando di conseguenza quel che Freud chiama il contro- investimento? Questa pagina del Diario , in data 21 giugno 1923, è al riguardo particolarmente rivelatrice: «Il mondo prodigioso che ho nella testa. Ma come liberarmi e liberarlo senza straziarmi. E piutto - sto mille volte essere straziato che trattenerlo in me», ma, precisa - mente perché scrivere è pericoloso, Kafka redige questa nota al posto di scrivere. Potrebbe essere dunque che l’ufficio, lo stabilimento, le donne siano anche dei pretesti di cui Kafka si serve per proteggersi

108 Roger Laporte dalla scrittura, dalla sua violenza che percepisce molto presto, perché queste righe portano la data del 1910: «Non lascerò la fatica impa - dronirsi di me. Salterò in pieno nella mia novella, quand’anche dovessi saltando rompermi la faccia». Kafka scrive sempre nel suo Diario : «Quest’inseguimento prende un cammino che esce dall’uma - no… Dove mi condurrà? Può – ed è l’ipotesi che si impone con mag - gior forza – condurmi alla follia, non si può dire nulla di più al riguar - do, l’inseguimento si fa attraverso di me e mi strazia.» Dura e singo - lare condizione quella dello scrittore: la follia tiene d’occhio sia colui che non scrive che colui che scrive. Perché dunque quest’insegui - mento è tanto pericoloso? Quale inseguimento? Quello della verità, di una verità di cui Hölderlin, che Kafka leggeva, sapeva che non la si può affrontare direttamente. Non si saprebbe mai dar troppa impor - tanza a questa pagina di un Quaderno di Kafka che non soltanto spie - ga il suo comportamento, ma che si indirizza a ognuno di noi: «L’ar - te vola intorno alla verità, ma con la volontà ben ferma di non bru - ciarsi. Il suo talento consiste nel trovare nel vuoto oscuro un luogo in cui, senza che si sia potuto saperlo prima, i raggi luminosi possano essere potentemente intercettati.» Dallo stesso Quaderno leggiamo quest’altro passaggio altrettanto importante: «La nostra arte è d’esse - re accecati dalla verità; sola è vera la luce sul lato grottesco che indie - treggia, nient’altro.» Maurice Blanchot ha quindi ragione d’affermare: «Quel che Kafka ci dà è una sorta di combattimento della letteratura con la letteratura», ma va aggiunto immediatamente che tutto in Kaf - ka converge verso il «combattimento spirituale», combattere così dif - ficile, così enigmaticamente pericoloso che inevitabilmente si gioca d’astuzia, ci si indebolisce, ci si perde, combattimento che esige da noi un’ostinazione simile a quella di K. l’agrimensore, nella sua ricerca del Castello. La formula «Non sono nient’altro che letteratura» implica, va da sé – va talmente da sé che l’abbiamo apposta passata sotto silenzio – una fiducia nella letteratura che Blanchot qualifica come «eccezionale». Kafka avrebbe detto a Janouch: «La poesia non è mai che una spedi - zione alla ricerca della verità», spedizione che potrebbe essere porta - ta a buon termine, poiché «la parola giusta conduce, mentre quella che non lo è seduce». – «Scrivere come forma della preghiera», «La lettteratura avrebbe potuto facilmente sfociare in una nuova dottrina segreta, in una nuova Cabala»: di queste formule di Kafka non can -

Roger Laporte 109 celliamo l’aspetto religioso, ma tratteniamo soprattutto che il rappor - to con Dio, un dio assente o anche morto, non passa per la preghiera propriamente detta, ma precisamente per la letteratura. – Questa tota - le fiducia nella letteratura ha attraversato tutta la vita di Kafka, la sua troppo corta vita ? Detto altrimenti – è la stessa questione – Kafka avrebbe mantenuto nel 1922 la formula impiegata nel 1913: «Non sono nient’altro che letteratura»? Non si può rispondere affermativa - mente, perché, come scrive Blanchot, «Tra il giovane che diceva: “Non sono nient’altro che letteratura” e l’uomo maturo che, dieci anni più tardi, mette la letteratura sullo stesso piano dei suoi piccoli tentativi di giardinaggio, rimane il fatto che la differenza interiore è grande, anche se esteriormente la forza scrivente rimane la stessa», forza che permette in effetti a Kafka di scrivere Il Castello , opera che lasciò, è pur vero, incompiuta. A Janouch che lo interroga sul suo lavoro di scrittore, Kafka risponde: «Oltre alla falegnameria, ho già fatto del giardinaggio e lavorato in una fattoria…ho sognato di parti - re come agricoltore o come artigiano in Palestina.» Quando Kafka pensa d’installarsi in Palestina come operaio rilegatore, pare che ogni progetto letterario sia abbandonato. Per lunghi mesi, a diverse ripre - se, periodi sui quali siamo male informati, Kafka non soltanto non scrive, ma rinuncia a scrivere: di conseguenza a “se stesso”. Claude David ha, credo, ragione nello stimare che il momento in cui Kafka è più lontano dalla letteratura sia quello che corrisponde al suo legame amoroso con la seconda fidanzata: Julie Wohryzek. Claude David osserva infatti che l’alloggio in cui Kafka si proponeva di vivere con quella che sarebbe potuta diventare sua moglie, era così piccolo che avrebbe dovuto smettere di scrivere. Che cos’è successo allora a Kafka? Come interpretare questo pas - saggio a vuoto, questa sorta di abdicazione, certo provvisoria, poiché, negli ultimi mesi della vita, Kafka scriverà i testi che personalmente mi toccano maggiormente: Josephine la cantatrice , e soprattutto La tana che scrive a Berlino, forse come Il Verdetto in una sola notte. Due spie - gazioni, non contraddittorie, possono essere avanzate. Chi investe troppo in un’impresa, qualunque essa sia, se ne aspetta necessaria - mente un profitto. Se il sovrainvestimento è considerevole e il benefi - cio inesistente, o almeno considerato tale, come potrebbe non risul - tarne per l’investitore un crollo psicologico? Nel 1917 che giudizio porta su America e sul Processo ? Lo sappiamo grazie a una lettera di

110 Roger Laporte Kafka a Brod scritta alla fine del mese di dicembre: «Caro Max, ecco i miei manoscritti per tua moglie, non li mostrare a nessuno. Non vi aggiungo i romanzi. Perché stare a rivangare questi vani tentativi? Unicamente perché non li ho bruciati sino a questo momento ? […] che senso ha conservare dei lavori di questo tipo che “anche” artisti - camente sono falliti.» Quest’autodeprezzamento persisterà sino alla fine: non dimentichiamo in effetti che se fosse stato un amico fedele, uno scrupoloso esecutore testamentario, Brod, afferma Samuel Bec - kett, avrebbe dovuto bruciare i manoscritti, in particolare Il Castello , che Kafka non aveva avuto il coraggio di distruggere. Se fossimo ana - listi ci interrogheremmo sull’origine di questa eccessiva svalutazione di Kafka da parte dello stesso Kafka e senza dubbio porteremmo la diagnosi di fessura del narcisismo primario, non amor di sé, senza il quale Kafka mai si sarebbe identificato così spesso con un cane. Accontentiamoci d’osservare che lo scacco di Kafka – quel che consi - dera in tutta sincerità come uno scacco – l’ha condotto a ridurre prov - visoriamente il suo investimento nella letteratura, poi a reinvestire la sua energia disponibile in altri campi: giardinaggio, falegnameria, studio dell’ebraico, interesse per il sionismo, eccetera. Resta da sapere se a dispetto del suo «scacco» personale, Kafka con - serva la stessa fede nella letteratura. La risposta non è né semplice né facile: Kafka scriverà sino alla fine, e sul letto incomincia agonizzan - te a correggere le bozze di uno degli ultimi testi; se Kafka parla a Milena della sua paura di scrivere, della sua apprensione quando l’in - seguimento si fa attraverso di lui e lo strazia, aggiunge altrettanto presto questa frase capitale: «la mia vita, la mia esistenza sono fatte di questa minaccia sotterranea», ma sembra proprio che nel 1922, nel momento in cui scrive la celebre lettera a Brod del 5 luglio, Kafka sia d’accordo in anticipo con G. Bataille che intitolerà una delle sue ope - re La Letteratura e il male . Benchè questa lettera a Brod sia ben nota, non possiamo non ricordarne almeno il passaggio più importante: «Che ne è dello stato letterario stesso…? È un salario al servizio del diavolo. Questa discesa verso le potenze oscure, lo scatenamento di spiriti legati naturalmente, questi amplessi [ étreintes ] loschi: forse c’è un’altra forma di letteratura, io non conosco che quella.» Non una volta, ma parecchie volte, Kafka evoca questi spiriti, questi fantasmi che, «con la lingua di fuori» assediano il tavolo dove lavora, persino quando scrive una lettera o una pagina del suo Diario . Che pensare di

Roger Laporte 111 questi fantasmi, di questi spiriti diabolici mai evocati prima del 1922? Come interpretare quel che personalmente prendo per un credere sin - cero, ma non per una verità? Mi permetto di dirlo. So per eseperien - za che cosa ne è della “thanatografia”, ma non ho mai avuto il senti - mento che delle potenze malefiche, distruggendo la scrittura, mi riducessero poco a poco al silenzio. Si ha l’impressione che, sul tardi, Kafka, lo scrittore Kafka, si sentisse perseguitato: lascio ad altri, più appropriati di me, la responsabilità d’interpretare questo tipo di fobia. Quanto a me, mi accontenterò di ammirare Kafka che continua la sua opera quando aveva il sentimento, confida a Max Brod, «di scrivere sopra a un buco d’ombra, dal quale le potenze oscurre esco - no a loro piacimento a distruggere la sua vita».

È possibile che in certi momenti Kafka abbia relativizzato la lettera - tura, che abbia talvolta sognato una vita in cui non sarebbe stato scrit - tore, ma non si trattava solo di un’astuzia per tenere a distanza le potenze sotterranee che minacciavano le sue forze vive? Kafka non è diventato operaio agricolo; non è partito per la Palestina; non è affon - dato nella follia; non ha certo rinunciato a una vita amorosa: ha cono - sciuto, sembra, delle ore felici con la sua ultima e tenera compagna: Dora Dymant, ma non si è sposato, non ha avuto figli (salvo, ed è dubbio, una volta, ma completamente a sua insaputa). In fin dei con - ti, a dispetto dell’ufficio, dello stabilimento, di suo padre, delle don - ne, della malattia, Kafka è riuscito a tenere a bada quel che avrebbe definitivamente contrariato la sua «unica vocazione»: la letteratura, vocazione che ha portato a termine fin in fondo, cioé sino all’incontro che, propriamente parlando, non ha mai avuto luogo, sino alla rottu - ra silenziosa provocata in La tana dal “Ssss!” dello “strano animale”, ed è il motivo per cui possiamo affermare che se un giorno l’esigenza di scrivere ha coinciso, quasi coinciso, con uno scrittore, questi ha nome Franz Kafka. 1990

112 Roger Laporte Thierry Guichard Diciotto anni di silenzio Intervista a Roger Laporte

«Tutto ciò che ho fatto in vita mia, (…) letto, amato, ascoltato, pensato, lo è stato in vista di un’opera, al tempo stesso prevista e imprevista, l’ho fatta, si chiama Moriendo .» Ritorno su una vita di scrittura chiusa dal 1982.

apita spesso che uno scrittore la cui opera è strettamente legata alla Cvita, che sia direttamente autobiografica o meno, sia restio a evoca - re la propria esistenza e preferisca le domande sulla scrittura e l’opera. Con Roger Laporte, inventore del genere Biografia, succede l’esatto contrario. Poiché la Biografia è il racconto della vita tale quale esiste solo durante la scrittura, evocare la sua opera rinvia immancabilmente al libro. La chiac - chiera, la spiegazione sono impossibili a meno di snaturare considerevol - mente questa «vera vita». Nella canicola soffocante degli ultimi giorni di agosto che un ventilatore elettrico tenta di attenuare, lo scrittore si presta al gioco delle domande con un’attenzione che supera di lungo la cortesia. Sedu - to su di una semplice sedia, nell’appartamento modesto che abita con la moglie Jacqueline, Roger Laporte ci riceverà a più riprese sempre con la stes - sa delicatezza umanistica. Talvolta, la conversazione risveglia l’immenso sconforto di un uomo di scrittura che non può più scrivere: il dolore è perce - pibile. Altre volte, è un lampo gioioso, furbo, che attraversa il suo sguardo: qualcosa come una grazia.

Roger Laporte, come è stato costituito Une vie che raccoglie i nove testi della Biografia ? Sono sempre stato ostinato. Dopo aver scritto un libro, me ne vergo - gnavo quando usciva in libreria. Quindi dovevo ricominciare e riparti - re da zero. Gli unici due testi che non ho respinto, sono gli ultimi due della Biografia: Suite e Moriendo . Quando P.O.L. mi ha proposto di riunire tutto in un solo volume, ho esitato a lungo perché dentro ci sono

Thierry Guichard 113 intere parti dalle quali mi sento completamente estraneo. Ho chiesto consiglio a Blanchot che mi ha detto che, quando si ha la fortuna di ave - re un editore che vuole ripubblicare tutto, non si può rifiutare. Per il titolo, non trovavo niente. Volevo restare sul tema della musi - ca: dopo Fugue, Suite, Moriendo . Un amico aveva proposto Lezione del - le tenebre , ma era riduttivo considerare solo le tenebre, e soprattutto non era una lezione. E poi è Jacqueline che ha trovato. Eravamo a Parigi, nel métro . Ero depresso per il libro e lei ha esclamato « ma insomma Roger, è tutta la tua vit a!» Colpisce che il libro tracci una specie di cerchio… È esatto. Ma è piuttosto una spirale. Non è forse una crisi religiosa che ha fatto scoccare la scintilla della scrit - tura dell’opera? Rispondo forse, ma in realtà, non lo so. Ho smesso di credere dopo una polemica con il mio amico Bernard Picard circa il capitolo LIII del libro di Isaia. Per vederci più chiaro avrei dovuto imparare l’ebraico. Da nessuna parte trovavo l’elemen - to determinante, capace di strapparmi una decisione. Pertanto sono diventato non credente, poi ateo. Per me l’ateismo è una credenza ma non una certezza. Penso che la morte metta un punto finale a tutto, ma non ne sono sicuro. Al misticismo di La Veille e di Une voix de fin silence segue Fugue che sembra lasciar più spazio alla teoria della scrittura con un desiderio di deter - minarne le leggi. È lì che ho perso la strada: con Fugue . È successo che in quel momento eravamo negli anni ‘68-’70 e sono stato di certo segnato dal - le mode con termini come «procedimento di produzion e». C’è una cosa che trovo particolarmente abominevole oggi: quando scrivevo che bisogna sostituire il termine « Biografia » con « scriptografia ». Lo rimpiange? Sì, in ogni modo ho passato otto anni della mia vita a scrivere quel - le cose. Ma quelle cose conducono comunque a Moriendo , no? Non credo. Penso che si potesse sopprimere quel passaggio ( Fugue, Supplément, Fugue 3 , n.d.r.). D’altronde sono quelle parti che mi han - no fatto esitare quando P.O.L. ha voluto pubblicare Une vie .

114 Thierry Guichard Per procedere nella sua scrittura radicale, ha impiegato una strategia? La strategia consiste nell’evitare nella vita quotidiana tutto quello che è dell’ordine del divertimento in senso pascaliano. Non si posso - no vivere certe cose ( Roger Laporte fa un gesto che indica la futilità de quelle « certe cose », n.d.r. ) e scrivere Une voix de fin silence . Ho avuto e ho ancora una passione per l’arte cistercense. L’architet - tura cistercense è funzionale: tutto porta a creare le migliori condizio - ni per la preghiera. Voleva quindi che la sua vita fosse come una cattedrale cistercense? Sarebbe stato bello … In ciò che dice dell’ascolto, dell’attesa in Une voix de fin silence , si pen - sa a certi scrittori come Charles Duits che assumevano sostanze particolari per scrivere. O alle pratiche dell’ipnosi utilizzate per scoprire un universo sconosciuto. È stato tentato da quelle pratiche? No veramente no. Non mi sono mai drogato. Bevo caffè come tutti. C’è dunque un’esperienza vissuta per cui è importante l’attesa e l’ascolto e poi c’è la trascrizione di quell’esperienza. Qual è la parte più importante dell’opera: essere in grado di vivere l’esperienza, o poterla riferire? Bella domanda! Doveva esserci una sorta di movimento dialettico (sorrisi ). Ha voluto sin dall’inizio orientare la scrittura verso un’opera astratta? Sì. La fascetta di La Veille diceva « In vista di un’arte astratta ». L’ope - ra esiste per e attraverso se stessa e non è rappresentativa. L’idea è che il reale non sia questo, quello che si definisce in quanto tale. Ho dav - vero pochi lettori, ma se sono così colpiti è perché il reale è mostrato come se non fosse tale. Il mio lavoro consiste solo nell’occuparmi del - la frase. Scrivo sempre più lentamente. Si scrive la prima frase e quan - do si pensa che sia finita, si fa la seconda e ci si rende conto che la pri - ma non va più e si rifà e si rifà in seguito la seconda. E quando una prima sequenza è completata, si fa la seconda e ci si rende conto che la prima non va, ecc.. Ma rifacendo la sequenza avanzo. Lei parla del dovere dello scrittore… Sì è un dovere per lo scrittore. Derrida era molto sensibile al fatto che dicessi «dovere» e non «desiderio»… ... dovere di mostrare che il reale non è quello che si crede. Dovere di avan -

Thierry Guichard 115 zare nelle gallerie che scava. Ma è anche sacrificio, no? Questo lavoro, dolo - roso, che effettua, lei ci permette di non effettuarlo. Non c’è forse in ciò una dimensione che si riferisce a Cristo? Assumo la parte che si riferisce a Cristo. Non l’ho voluta ma l’assu - mo. La “de-figurazione”, nel testo, è la figura che si riferisce a Cristo. Vi è dunque un rapporto tra la fede e ciò che scrive? Nessun padre gesuita mi ha mai scritto a questo proposito. Non ho ricevuto nessuna lettera di religiosi. È la prova che non li ha toccati. La scrittura e la fede sono legate nelle prime sequenze e tutto è can - cellato man mano che si avanza. E poi il nome di Dio non appare mai nell’opera. Non c’è su questo soggetto nessuna affermazione, soltan - to delle forme interrogative. Anche quando si arriva a Moriendo ? Sì, credo. Se non è in quella famosa ultima frase: « Ma cos’è dunque questa dolcezza, questa terribile dolcezza? » Ma tutto resta profondamen - te segreto… Eppure alcuni scrivono per rivelarsi a se stessi? Come in un’analisi… Sì in quel caso certamente, ma non è interessante. La scrittura deve confrontarsi con il limite. È una strada che bisogna perseguire. Non ho la certezza che ci sia una destinazione in fondo ad essa ma non ho neanche la certezza inversa: che non ci sia nulla. Moriendo conclude la Biografia e quindi l’opera. Allora è la scrittura che la respinge? L’enigma è perché questa necessità di scrivere si sia ritirata. Sono andato dove dovevo andare. ( Roger Laporte dice, in una frase sbilenca che riassume meglio il suo pensiero: « sono andato proprio là dove perché io dovevo andare») Vuole dire che era predestinato a questo? Sì. Ero predestinato ad andare là. La Biografia comincia con questa frase: «“ Il” 1 è scomparso. » Ci si inter - roga su cosa preceda questa frase. Cosa c’era, nella brutta copia, prima? Niente. Non c’era niente. Comincia direttamente così. Questa frase riprende se non l’ultima, una delle ultime frasi di Une Migration . Era involontario, ma in seguito ho iniziato ogni libro con l’ultima frase del precedente.

116 Thierry Guichard Ma quel « Il » è molto ambiguo. Segna la presenza di qualche cosa di sco - nosciuto, ma allo stesso tempo, nella frase, ne annuncia la scomparsa. Sicco - me si trova all’inizio della frase e sempre in corsivo, fa pensare necessaria - mente a Dio, no? L’ «il » appare in corsivo perché nella nostra lingua non c’è il neutro. Non è né maschile né femminile, né Dio. Blanchot mi ha detto che avrei dovuto mettere quel primo «il » minuscolo facendolo precedere da puntini di sospensione per evitare il riferimento a Dio. Ma biso - gnava che La Veille avesse un inizio assoluto il che esclude i puntini di sospensione. Eraclito scrive: « La strada verso l’alto e la strada verso il basso è la stes - sa ». Effettivamente, la Biografia fa una spirale: La Veille comincia con la scomparsa di «il », Moriendo si chiude nel momento in cui « il » appa - re. Il momento in cui « il » scompare, non l’ho saputo. Quello, quello appartiene al suo segreto. In La Veille (p. 16 di Une vie ) scrive: «Mi ero chiesto: “Perché esser gli legato è scrivere?”, ma come avrei potuto o potrei mai fare qualcos’altro se “il” si manifesta soltanto se si fa opera!» e più avanti: «se non ci fosse ope - ra, “ il” resterebbe sconosciuto». Ciò implica una forte responsabilità per lo scrittore o l’artista: ha il dove - re di scrivere e allo stesso tempo ha il dovere di comporre un’opera solo se questa permette che «il » si manifesti? È quello che significa «Biografia». Se non c’è scrittura, non c’è Bio - grafia. A mio avviso, un autore che scrive un romanzo non fa un’o - pera. Ciò che verrebbe meno in maniera più marcata al dovere di scri - vere non è di non scrivere, ma di fare una rappresentazione più o meno romanzata. La scrittura per me ha senso solo in ciò che chiamo Biografia. Niente della mia vita umana mi ha fatto avvicinare ciò che avvicino con la scrittura. Né l’amore, né altro. Lei parla e ritorna spesso all’idea che scrivere metta in pericolo. Di quale pericolo parla? Il pericolo è di confondersi, di diventare pazzi, di buttarsi dalla finestra. Come certi giorni in cui al liceo facevo lezione senza vedere niente, fluttuavo… Ma che cos’è la follia che teme? Quella di Artaud, di Hölderlin? Artaud, Hölderlin, ma anche Nerval, sono esempi affascinanti per - ché l’unica prova della serietà della loro avventura è che si sono rotti la faccia.

Thierry Guichard 117 Non è nel momento in cui si scrive che si teme la follia, è lo stato in cui ci si ritrova dopo aver scritto in otto ore qualche pagina impor - tante. C’è un prezzo da pagare e questo prezzo è considerevole. «Perché la scrittura è legata a qualcosa di non-umano e di pauroso (…)?» scrive (p. 36 di Une vie ). Si può constatare che lei passa da un’esperienza singolare, la sua, a un’estrapolazione che tocca tutto il genere umano. Parte dalla sua esperienza di scrittura per arrivare a un «non-umano». Si fa delle rappresentazioni degli uomini? L’«io» effettivamente diventa il rappresentante dell’uomo. È legato alla nudità. Bisogna leggere Beckett, Giorni felici . È il linguaggio che permette di accedere alla parte comune dell’uomo. La Biografia è andare all’origine della lingua. È « fare un passo al di là » secondo l’e - spressione di Blanchot. Lei evoca in Une voix de fin silence la necessità del raccoglimento prima di mettersi a scrivere. Ma non è la scrittura stessa che conduce al raccogli - mento in quanto obbliga a separarsi dal mondo esterno? Non dà così il pri - mato al sacro, al religioso? Perché ci sia scrittura, bisogna che ci sia raccoglimento. Il raccogli - mento è anche concentrazione ma c’è effettivamente qualcosa di reli - gioso nel raccoglimento. Non preparo il testo con una scrittura preliminare. Non c’è schema, niente brutta. È direttamente il testo. Non c’è pre-testo. Vale a dire che il testo è abitato? Quando ci si arriva, sì. Ma vi è qualcosa d’insormontabile su cui bisogna ritornare: non viviamo nello stesso tempo. Una sequenza che il lettore legge in cin - que minuti, io ho bisogno di alcuni mesi per scriverla. ( Roger Laporte va a cercare alcune schede su cui ha tenuto la contabilità della scrittura, n.d.r. ) Vede: la quinta sequenza di Moriendo è stata scritta dal 4 set - tembre al 6 dicembre: numero di giorni di lavoro: 52, numero di pagi - ne scritte: 386, righe che rimangono nel testo definitivo: 133. Morien - do rappresenta 2167 pagine di brutta per, nell’edizione di Une vie , fare esattamente 49 pagine… ( Ripone le schede ) Une voix de fin silence è una citazione del Primo Libro dei re tradotto da Lévinas. Quindi non posso dire che non ci sia una dimensione reli - giosa. In Variations sur des carnets scrive nel 1957 : «Bisogna arrivare a far sì

118 Thierry Guichard che l’opera faccia ricorso all’uomo tutto intero». Si riallaccia al desiderio di scomparire nella scrittura? No, fa parte delle mie vecchie idee. L’illusione che la scrittura pos - sa trasformare l’uomo rendendolo migliore. Arrivare all’uomo nuo - vo. All’epoca ero molto interessato dall’alchimia. Nello stesso tempo, in questa idea c’è forse un’influenza di Nietzsche. Pourquoi? che segue la pubblicazione di Une voix de fin silence è dedi - cato «A tutti i miei amici ebrei». Qual è il significato di questa dedica? L’ho scritto all’epoca della rottura con Beaufret ( nell’autunno 1967 alcuni scrittori tra cui Blanchot, Derrida, Char, Déguy e Laporte si appre - stano a rendere omaggio a Jean Beaufret il più heideggeriano dei filosofi fran - cesi. Ma, scioccato da uno scherzo antisemita, Roger Laporte comunica il proprio turbamento a Derrida che decide di ritirare il suo testo. L’affare Beaufret durerà fino alla primavera 1968 [cfr. Maurice Blanchot, parte - naire invisible di Christophe Bident, Champ Vallon, 1998], n.d.r. ). Molti dedicatari dei miei libri sono ebrei. Attribuisco molta importanza alle dediche. Sono sempre stato impressionato dalla religione ebraica. Dall’incontro con Bernard Picard, quando ho visto il suo coraggio durante l’Occupazione. Ho assistito a alcune cerimonie religiose ed ero impressionato dal fatto che il culto e la vita privata non sono sepa - rati, che si armonizzano. Vi è una parte di senso di colpa legato all’olocausto e particolarmente a quanto è accaduto a Lione durante la Seconda Guerra mondiale? Tutti devono sentirsi responsabili. «Se, un giorno, avessi la certezza che tutta la mia opera non è che un solilo - quio, nascosto sotto un falso dialogo (…) immediatamente, e per sempre, smet - terei di scrivere» ( Pourquoi? , p. 183 di Une vie ). Non le è mai venuto il dub - bio, visto che precisamente ha consacrato tutta la sua opera a scrivere intorno a un evento di cui soltanto non si è sicuri che è accaduto, che esiste, che accadrà? La parola « evento », non l’ho più utilizzata in seguito perché è trop - po forte. Anche in Moriendo , si ripropone il problema: la mia opera poggia forse su un’illusione, ma non ho neanche questa certezza, dunque sono obbligato a continuare. Se avessi avuto la certezza che ciò che facevo era una scommessa stupida, avrei smesso di scrivere. «Ci sarà sempre gioco tra il vissuto e il linguaggio» scrive più avanti. Per - tanto come proseguire la sua ricerca verso l’origine se il linguaggio è inade - guato?

Thierry Guichard 119 Ho voglia di dare la risposta di Louis-René des Forêts: « in mancan - za di meglio ». È vero che la musica ad esempio è più discreta. Ma mi piacerebbe che qualcuno leggendomi provasse le stesse sensazioni che provo ascoltando la musica. Quando si ascolta Mozart, Bach, Bee - thoven, si ha l’impressione che tutto sia lì ma in letteratura ho sempre avuto la sensazione che mancasse un libro. Lei torna sul problema della lingua in Supplément ammettendo: «Ho sognato di scrivere un’opera in cui forma, contenuto e referente fossero stati non soltanto inseparabili ma confusi per sempre». Non è forse un sogno da demiurgo? È un sogno da scrittore e da demiurgo. È un sogno un po’ folle che non presento come realizzabile. Ascoltare quella frase suona strano. Non sono capace di definire ciò che ho compiuto ma evidentemente non è di quell’ordine. Tuttavia per avvicinarsi il più possibile all’« evento », utilizza un lessico in cui si trovano poche parole che rinviano a cose concrete, a oggetti ad esempio. Le parole concrete non vengono, non vengono mai. Quel che conta è che ci sia musicalità del testo, della frase. Il ritmo della frase e il rit - mo del pensiero sono lo stesso. Una frase è buona con una certa pun - teggiatura e non con un’altra. La punteggiatura ha un ruolo fonda - mentale. Un punto e virgola e due punti, non sono la stessa cosa… Perché quest’opera, il cui dovere è che si viva scrivendola, aveva bisogno di essere pubblicata? Avrei certamente sofferto molto crudelmente; mi avrebbe demolito a tal punto che non so se avrei continuato a scrivere se non avessi tro - vato un editore. Se non avessi avuto un ritorno. Si ha voglia di essere accolti da coloro che noi stessi ammiriamo. Ho avuto questa fortuna. Dunque oggi è pubblicato Variations sur des carnets . Come è stata ela - borata l’edizione di queste note? Ho incaricato Jacqueline di questo lavoro perché…( con il tono della confidenza divertita, n.d.r. ) mi scoccia un po’, non mi piace rileggere quei taccuini. Lei mi ha sottoposto le sue scelte e abbiamo ripreso ogni testo uno a uno. La prima edizione dei taccuini nel 1979 è legata a una richiesta di Paul Otchakovsky-Laurens quando dirigeva la sua collana da Hachette. È lui che un giorno mi ha chiesto se avessi dei taccuini da mostrargli. La cosa gli interessava. Rispetto alla versione pubblicata nel 1979, alcune pagine sono state

120 Thierry Guichard soppresse ma altre sono state aggiunte. Non volevo che fossero pub - blicati i resoconti di conversazioni avute con persone ancora in vita. Da lì, rispetto all’edizione del ‘79, ecco l’aggiunta di pagine che con - cernono i miei incontri con Beaufret e con Char che poi sono morti. In questa nuova edizione, per le medesime ragioni, non ho voluto che fossero menzionati gli incontri con Blanchot; ci vorrà una terza edizione. I taccuini iniziano veramente nella data che indica (13 aprile 1947) e si concludono il 25 settembre 1971? Sì, ho mantenuto per l’edizione la data di inizio e quella della fine. Ma l’inizio e molto più lungo. Abbiamo soppresso molte pagine dei primi anni. Gérard Fabre ( l’Amministratore Delegato di Cadex, n.d.r. ) desiderava pubblicare assolutamente i taccuini; ho solo preteso una cosa: che fos - sero in Garamond corpo 12… In 25 anni di scrittura, i taccuini hanno visto cambiare il loro ruolo? All’i - nizio erano il luogo in cui la scrittura futura si elaborava? No. Non sono brutte copie. E anche questi taccuini non hanno brut - te copie. Sono scritti direttamente. Non è un diario che relaziona avvenimenti, sono note, pensieri che mi venivano. Come dei saggi. Era per fissare un po’ le cose. Perché smette di riempire le pagine dei taccuini nel 1971 quando la sua Biografia non è ancora terminata, e sarà completata nel 1982? È a causa del pericolo « del cammino di ronda » come dice Blanchot. Non volevo che mi accadesse quanto è accaduto a Joubert che ha tra - scorso la vita a scrivere note sul libro assoluto che avrebbe voluto scri - vere e che non ha mai scritto. Il cammino di ronda è quando si fa incessantemente il giro dell’opera che si vuole compiere ma che, alla fine, non si fa mai. Ho sempre voluto guardarmi da questa pratica filosofica in cui non si scrive. Ho fatto, dopo il 1971, solo un taccuino che s’intitola Lettera a nes - suno (Plon, 1989) che Alain Veinstein ha cortesemente pubblicato. Perché allora, compiuta l’opera, non ha ripreso i taccuini dopo il 1982? Non li ho ripresi perché avevo fatto quello che dovevo fare con la Biografia. Quindi non dovevo più ritornare a interrogare la scrittura. Il resto non mi interessava assolutamente. C’è una categoria di perso - ne che preferiscono i Carnets a tutto quello che ho scritto. Il che mi

Thierry Guichard 121 lascia a bocca aperta. La Biografia è comunque un’altra cosa rispetto ai Carnets . Quelle note, sono state scritte in funzione di un futuro lettore? Per lascia - re una traccia nella posterità? Per niente. Non ho mai pensato a un lettore. Comunque non era destinato alla pubblicazione. Solo Jacqueline leggeva quei taccuini. È vero che i quaderni funzionano un po’ come i custodi del ricordo 2 ma formano anche una lenta maturazione verso la scrittura. C’è qui una contraddizione con quanto scrive (p. 198 di Variations… ): «Mi sono fatto questa domanda: un lettore, un lettore «esperto», potrebbe provare leggendo Une voix de fin silence una sensazione paragonabile a quella che ho provato io scrivendolo, o a quella che ho provato ascoltando il largo del concerto in fa minore di Bach suonato da Edwin Fischer?» Lei si pone eccome il problema della ricezione del suo testo da parte del lettore… È molto doloroso dirsi che la musica è capace di trasmettere il momento della creazione. Non so se ho saputo trovare la lingua che sarebbe stata necessaria per scoprire quella comunicazione dell’indi - cibile. Penso che l’ultima frase di Moriendo tocchi molto i lettori… Ogni volta che lei evoca il lettore nella sua opera gli associa il termine di «sagace» o «esperto». Vale a dire che pensa che un lettore lambda non possa leggerla? Sì. Richiude il libro. Una volta un lettore mi ha detto di aver butta - to il mio libro per terra. Sfortunatamente sono uno scrittore elitista. Ma aborro la mondanità elitaria delle persone danarose… Non è la stessa cosa. Che cosa ci vuol fare? Ma capita comunque che ci siano delle persone molto giovani che mi leggono. Lei ha consacrato numerosi studi a autori, artisti, filosofi. A proposito di Kierkegaard (in Etudes , P.O.L) la cui opera «è scavata da un’assenza, gira attorno a un centro vuoto» evoca «la chiave» che il pensatore si sarebbe por - tato nella tomba e che avrebbe rivelato il segreto della sua opera. Anche lei evoca il segreto legato alla Biografia. Ma gli studi, come i taccuini non ci danno qualche indizio sul suo segreto? È probabile. Ho avuto spesso discussioni con amici molto vicini, come Lacoue-Labarthe, Derrida ai quali dicevo che avevo perso tem - po a fare quegli studi. Ma, come loro mi facevano notare, nessun altro avrebbe potuto fare quei saggi. Non ho mai ricondotto a me gli scrit -

122 Thierry Guichard tori di cui parlo. Ma mi sono familiari e penso di poter dire su di loro qualcos’altro rispetto a quanto è stato già detto. In una nota sul testo dedicato a Blanchot che apre Etudes lei scrive: «non avrei progredito nella lettura di Blanchot se non avessi scritto». La scrittura è la maniera migliore per conoscere l’altro? È una forma d’amore? Ah sì! È perché facciamo un’esperienza che l’esperienza altrui diventa più familiare. Significa proprio permettere una conoscenza più intima. Credo ad esempio che l’universitario (l’universitario clas - sico, come ne ho conosciuti tanti) sia incapace di leggermi. Si è colpiti dalla somiglianza del personaggio del romanzo di Blanchot, Le dernier homme con quello che si percepisce nelle ultime pagine di Morien - do . Come se le vostre due esperienze di scrittura, vicine, si congiungessero in questa misteriosa figura… Non ci ho mai pensato direttamente scrivendo. Ma a un certo momento mi sono reso conto che erano le pagine in cui sono più vici - no a Blanchot. Quando è uscito Une vie , Blanchot ha scritto un’intera pagina sul mio libro in Libération (del 6 marzo 1986, data di uscita di Une vie , n.d.r. ). È un articolo notevole. Ora, nel momento in cui Blanchot potrebbe dire un po’ di più, sul rapporto che lei evoca, scrive a pro - posito di Moriendo : «mi rifiuto di commentare queste pagine estre - me…». Peccato. Lei inizia il testo su Derrida con questa formula: «Se si è scrittori e dun - que convinti che il libro una volta scritto escluda la presenza dell’autore». Come può dirlo? Ma sì, il libro esiste da solo! Non ha più bisogno dell’autore. Credo, davvero, che il libro lo escluda. Mi è capitato di fare delle letture pub - bliche di Moriendo , ma a volte queste letture sono fatte da un attore. In quel caso non assisto, perché mi sentirei indiscreto. L’autore di un libro è sempre già morto. I testi di prova, quelli ripresi in Etudes o La Loi de l’alternance non sono i più autobiografici? È vero per La Loi de l’alternance , in cui evoco quei periodi d’intensa attività di creazione che, in Mozart, Van Gogh e Rilke precedono i più oscuri periodi di abbattimento. Se non lo avessi vissuto dall’interno, non avrei compreso ciò che è accaduto agli altri. Sì, in questo senso, è autobiografico. Non me lo nascondo. Gli studi che ho fatto sono stati su persone che ho letto molto.

Thierry Guichard 123 Letti al punto da imparare la loro lingua madre? Lei dice che: «leggere Höl - derlin nel testo originale è una ragione sufficiente per imparare il tedesco»? Non ho imparato il tedesco per leggere Hölderlin. Avevo imparato quella lingua durante gli studi. È stato necessario solo perfezionare un poco la pratica. Appena esce una nuova traduzione di Hölderlin, la leggo con il testo originale, un dizionario e altre traduzioni, per verificare. Parlo il tedesco molto male, ma lo leggo. Per Hölderlin e anche per Heidegger. Lei parla del desiderio di cambiare casa per andare a vivere vicino a un museo dove sarebbero esposte le opere di Giacometti. Non sarebbe forse un capriccio da esteta? No, per niente. Penso soprattutto alle sculture di Giacometti che preferisco alle sue pitture. Ho vissuto come una reale sventura il fat - to di non essermi potuto recare a Parigi, per mancanza di denaro, per l’ultima grande mostra di Giacometti. Lei evoca il libro impossibile che voleva scrivere Joubert, quello che sogna - va anche Mallarmé, libro assoluto mai scritto. Resta oggi un libro impossi - bile per Roger Laporte? Ho voglia di dire di no, ovviamente. Anche se l’ignoto non è diven - tato noto, anche se Une vie non è il blocco di marmo intatto. Ma que - sto, questa risposta appartiene agli altri. È il loro segreto… E il suo segreto, vuole che perduri? In ogni caso resterà segreto. ( Con un sorriso furbo, Roger Laporte aggiunge: ) Resterà segreto per me.

Note

1 Cfr. nota 2 a p. 67. 2 Letteralmente «Gardien de la mémoire» che deriva dalla locuzione «garder la mémoi - re» ovvero ricordare.

124 Thierry Guichard Roger Laporte A che punto è la notte?

Chi interroga o si interroga? A chi ci si rivolge? Come soddisfare questa sollecitazione dolce e grave della quale ho subito così presto l’attrazione?

Non cercherò la risposta : non interrogherò la domanda, ma la ripeterò, la lascerò dirsi di nuovo sino al momento in cui la sentirò.

Questa frase interrogativa con che tono è pronunciata? Né con inquietudine, impazienza, né con freddezza. La notte immobile sarebbe turbata se la voce, appena un mormorio, non fosse profondamente placida.

Prima del dodicesimo rintocco di mezzanotte , la guardia che monta avrà rilevato la guardia che lascia. Quella che viene porrà la rituale domanda a quella che se ne va.

Il primo rintocco di mezzanotte ancora non ha suonato, Ma già l’unica sentinella, colui che veglia solitario il cui orecchio è sempre in agguato, crede di sentire l’eco molteplice, infinito, della perpetua parola di passo.

Roger Laporte 125

Roger Laporte La leggenda della vedetta*

u quest’elevato altopiano disabitato, dalla vegetazione rada, Sdal cielo vuoto, il giorno incomincia il suo declino. Fa freddo. Il mio passo è così leggero che non può essere percepito neppure da un’orecchio in agguato, ma ho preferito fermarmi a buona distanza da un uomo immobile, quasi immobile. Lo vedo di schiena. Non si è girato; non si girerà: nulla può distrarlo. Veglia.

Scruta il lontano, ma chi potrebbe avventurarsi su questa terra sel - vaggia, lontano da qualsiasi via di migrazione? Anche coloro che per - dono la strada e sono completamente sperduti deviano da questa contrada che senza dubbio nessun uomo ha mai calpestato. Scruta senza riposo l’orizzonte vuoto. Singolare sentinella che nes - suno verrà a rilevare, aumenta la solitudine.

Nulla si muove. Il giorno non finisce di cadere, ma non è eterna - mente sul suo declinare? Vedo un paesaggio, o un quadro che rappresenta una landa desola - ta in cui la notte tarda a venire, un quadro che avrebbe per titolo La Leggenda della Vedetta?

Veglia sui confini inviolati; sorveglia l’orizzonte estremo, e tuttavia non aspetta nessuno: né amico, né nemico, né qualche sconosciuto. Non mi aspetta: come potrei non sentirmi un intruso! È tempo che ritorni sui miei passi, ma non mi son ritirato da tanto ? Da sempre?

Roger Laporte 127 Non sarò stato che il personaggio di un sogno, l’incubo della vedet - ta, che logora di tante veglie, si è per un istante assopita. Si risveglia urlando. La solitudine non è rotta, poiché solo un’ eco fragile gli rin - via il suo grido: “Altolà, chi vive ? ”

Nota

* Commissionato nel 1990 dalla F.D.C.A. di Val di Marne nel quadro dell’operazione “Gli occhi fertili – Suite Paul Eluard” – il manoscritto originale della Leggenda della Vedetta è scritto con inchiostro di china su carta Fabriano ( 76 x 56 ). Su un foglio Fabriano dello stesso formato un’opera di Chaterine Viollet, ad olio e carboncino accompagna questo manoscritto. La prima pubblicazione italiana invece è avvenuta in Grados , numero 62 della rivista Anterem (Verona 2001) diretta da Flavio Ermini che qui si desidera ringra - ziare.

128 Roger Laporte Roger Laporte Foglio volante

A Anne-Marie Albiach, a Claude Royet-Journoud

«Bisogna essere risolutamente moderni. Tenere il passo guadagnato». RIMBAUD

o accettato la regola del gioco: scrivere una pagina sola! Il Hvolume così ridotto, radicalmente appiattito, smaschera una tentazione a cui cederò: scrivere un programma, un manifesto, o un testamento.

1°) Anche se citassimo i nomi degli artisti, poco numerosi, che han - no fatto parte del loro tempo, ma che sono in primo luogo nostri con - temporanei, addirittura nostri precursori; anche se, inavvertitamente, sistemassimo i nostri libri nella Biblioteca, se li inserissimo, sotto la rubrica SCRITTURA , nel repertorio delle scuole letterarie, i nostri testi non farebbero parte della letteratura. Come marcare questa diffe- renza?

2°) Intendiamo operare non soltanto una trasformazione analoga a quella della pittura astratta rispetto alla figurativa, ma attendiamo una mutazione, provocheremo l’emergenza di un nuovo elemento : scrivere , così vitale che Kafka, nella lettera del 5-7-22, confidava a Max Brod: «L’esistenza dello scrittore dipende veramente dal suo tavolo da lavoro; infatti non gli è mai consentito allontanarsene».

3°) Si deve invertire il rapporto vivere-scrivere: Rousseau raddop - pia la propria vita redigendo le sue Confessioni mentre la vita di uomo, la vita sociale addirittura, deve raddoppiare, amplificarsi, o almeno accogliere questa scrittura da cui sarà «cambiata» (il che sarebbe impossibile se scrivere non mettesse in scena una vita altra) .

Roger Laporte 129 4°) Chi scrive appartiene a quel mondo diverso perché esplorando - ne le dimensioni molteplici e instabili è alla ricerca anche di sé, ma resta smarrito, introvabile. Però, questa terra inospitale non potrebbe essere la patria selvaggia di un nomade?

5°) A coloro che fossero tentati di rispondere: SÌ alla sollecitazione di questa pagina, assicuriamo una vita, malgrado tutto, così esaltante , che non avranno mai nessuna vera nostalgia della vita ordinaria: pro - mettiamo loro del lavoro, lavoro così smisurato che si muore prima di averlo realmente iniziato; prediciamo loro la gloria segreta di una passione inutile, una vita crudele al punto da prosciugare ogni lacri - ma, l’usura estrema, interminabile, di tutte le loro forze, una povertà che mai si smentirà, perché ciò che si tenta di sottrarre, di dissimula - re, è disseminato senza posa dal vento della strada.

Bisogna aggiungerlo? Se questo compito potesse essere compiuto da una persona sola, questa pagina non sarebbe stata scritta.

130 Roger Laporte Roger Laporte Passo falso

i sono preso spesso per il capitano Hatteras, eroe di Jules MVerne, al punto da credere che la sua tragica fine, o piutto - sto la sua interminabile sopravvivenza, potesse essere anche la mia: mi vedo già internato, smarrito, ma camminando invariabilmente verso il Nord! Determinare dove si trova il polo artico; giungere fino a quel punto che, all’esclusione di ogni altro, sveglia il desiderio, domina tutta la vita; poter dire un giorno: qui e ora ho colpito il ber - saglio: tale è stata l’unica preoccupazione del mio modello, il capita - no Hatteras.

Ho sempre lavorato circondandomi di simboli, così che per anni ho scritto davanti a una bussola. Non una qualunque bussola tascabile come ne possedevo quand’ero bambino – che dispiacere il giorno che l’ho perduta! – ma una vera bussola di marina. «Se sono vigile, il mio tragitto rettilineo sarà puro da ogni passo falso»: ecco ciò che facevo finta di credere possibile, e così nascondevo a me stesso che ero, non un viaggiatore, ma uno scrittore, che lo spazio letterario non compor - ta né segnali, né sentieri, nessuna stella veglia su quella contrada astratta e nuda.

«Trasformare ciò che è cammino senza meta nella certezza della meta senza cammino»: questa formula di Blanchot l’ho interrogata con passione, l’ho girata e rigirata come se avesse detenuto la chiave del mio problema. Se reperissi una via, raggiungerei la meta, ma, per tut - to il tempo che non ho determinato la mia meta, come potrei trovare la strada? Ci si immagini un podista che non smette d’inciampare al di

Roger Laporte 131 qua della linea di partenza! Questa potrebbe essere la comica condi - zione dello scrittore, in ogni caso era la mia: lungi dal potermi lancia - re, ero ridotto a uno scalpiccio senza fine in uno spazio né chiuso né aperto, e sempre mi chiedevo: «Ma allora che cosa cerco?»

Trentacinque anni dopo, ho trovato la risposta a questa domanda elementare? Mi guarderei dall’affermarlo. Talvolta ho creduto di tro - vare la via e la meta, ma, appena terminato il libro, lo rinnegavo: lun - gi dallo scrivere un nuovo libro basandomi sul lavoro anteriore, sono dovuto ripartire da zero ogni volta. Andare di fallimento in fallimen - to non toglie la maledizione dal lavoro poiché non mi è vietato spe - rare che un giorno farò un vero primo passo, ma, alla lunga, quando viene la sera, tutta la mia opera non rischia forse di ridursi a una suc - cessione di passi falsi, e di conseguenza a una somma nulla? È pro - babile, ma così non avrei forse riscritto a modo mio Il Capitano Hatte - ras ?

L’eroe di Jules Verne non può raggiungere la sua meta, perché il polo coincide con il cratere di un vulcano da cui esce il fuoco del cen - tro della Terra, ma ha almeno la soddisfazione di aver determinato con esattezza il polo geografico. Se avesse cercato il polo vero, quello indicato dalla bussola, il polo magnetico, non avrebbe mai potuto dire: «Ho colpito il bersaglio», perché il polo non smette di spostarsi molto lentamente.

Seguire le tracce del polo magnetico, registrarne il cammino, tenta - re di spiegarlo: è l’oggetto di una scienza particolare. E se scrivere, rispondere all’esigenza di scrivere, consistesse a mettersi indefinita - mente in viaggio verso un luogo unico, ma la cui assisa si è rotta, un luogo instabile che si può avvicinare, soltanto avvicinare, perché ogni sentiero si perde o s’interrompe? Se è così, la scrittura più rigorosa sarà sempre tremula, la marcia più ferma un concatenamento d’ine - vitabili passi falsi, e il seguito delle opere, lungi da potere essere sub - limato in un unico LIBRO, non sarà mai che un insieme incompiuto di frammenti disgiunti per sempre.

Ma allora questa frammentazione è la scrittura di che cosa, la scrit - tura bianca? 1984.

132 Roger Laporte Roger Laporte Risposta a un’inchiesta

Ostinato rigore Leonardo da Vinci citato da Paul Valéry.

ì, certamente, ho imparato a scrivere: che si compari Souvenir de SReims , scritto verso gli anni ‘50, e Moriendo scritto trent’anni dopo! Ho dovuto imparare a scrivere, eppure non mi sono mai pen - sato come scrittore. Un giorno qualcuno mi domandò: «Quando affi - ni il tuo stile?» Un po’ brutalmente, risposi: «Mai». Nondimeno sono forse completamente d’accordo con Nietzsche quando dichiara: «non si lavora mai sullo stile, ma sempre sulle idee»? Bisogna ribattere al filosofo Nietzsche: se siamo scrittori , non possiamo formare-trovare il pensiero se non affinando, non lo stile, ma la lingua. Ho citato spesso la formula di Kafka che costituisce il mio «credo», ma non esito a scriverla ancora una volta: «La parola esatta conduce, quella che non lo è seduce». Lo stile, il cosiddetto grande stile, è sem - pre un ornamento, un accessorio inutile, mentre la ricerca della paro - la esatta (della frase, del paragrafo, della sequenza esatti) è sempre stata per me, o piuttosto è diventata per me una necessità vitale: o, a forza di pazienza, di rigore, si giunge a aprirsi, a trovare una strada, e si avanza, foss’anche di un solo passo, oppure ci si perde. Mi sono sempre sentito agli antipodi di chi trasforma il linguaggio in derisio - ne, di chi parla senza fine sull’impossibilità di parlare, perché credo, o meglio so per esperienza che il linguaggio esatto conduce, ma che l’esattezza esige un duro e molto lungo apprendistato.

Se affermo: «Sì, ho dovuto imparare a scrivere», si è subito in dirit - to di chiedermi: «Quale fu il suo maestro?», o almeno: «Come ha imparato a scrivere?»

Roger Laporte 133 Non ho mai dimenticato un’osservazione di René Char (cito senza esattezza un consiglio che ho ricevuto trentacinque anni fa): una poe - sia, per essere un buon conduttore , per lasciar passare l’energia, il can - to, «il furore e il mistero», dev’essere pura nel senso in cui lo si dice di un metallo. O la parola, la frase, il paragrafo sono necessari, dato che senza di essi il testo non esisterebbe, oppure non lo sono, e in que - sto caso, inutili, «impuri», devono essere eliminati senza rimpianto. Dunque, sono stato alla Scuola del rigore, scuola particolarmente severa per un giovane scrittore, perché egli tende sempre, in maniera ben comprensibile, a voler conservare una formula venuta bene, una frase felice di cui è fiero, forse a ragione. Chi, troppo compiacente con se stesso, conserva ciò che avrebbe dovuto scartare, è perduto. Forse produrrà un libro in cui farà ammirare il suo talento, ma quel libro non avrebbe in ugual misura potuto o dovuto essere scritto. Se, secondo la formula di Gide, a giusto titolo si definisce il classi - cismo con «l’arte della litote», dirò che la lingua francese più classica, anche quella di scrittori moderni come Bataille e Blanchot, è stata il mio modello.

Una lingua classica dunque, ma quale lingua? Baudelaire è il mio maestro, non l’autore dei Fiori del male , ma il prefatore di Spleen di Parigi , che si riferisce per nome a Aloysius Bertrand, quando scrive questa frase che mi è servita come guida, addirittura, per parlare come Baudelaire stesso, come «faro»: «Chi tra noi che non ha, nei suoi giorni ambiziosi, sognato il miracolo di una prosa poetica, musicale senza ritmo e senza rima, così duttile e così risentita da adeguarsi ai movimenti lirici dell’anima, agli ondulamenti della fantasticheria, ai soprassalti della coscienza?» 1 Una lingua musicale quindi, ma per - ché? Ho tentato di rispondere altrove a questa domanda 2, ma qui devo solo ridire che la mia lingua non sarebbe ciò che è, ciò che è un po’ diventata, se non avessi ascoltato innumerevoli volte i quartetti di Mozart, di Beethoven o di Schubert. Quale è stato il mio maestro? Il quartetto di Budapest.

Ho imparato a scrivere seguendo un consiglio di Char, riprenden - do da Baudelaire l’ideale di una prosa «musicale», consacrando più tempo alla musica da camera che alla lettura, ma anche, e forse innanzitutto, ho imparato a scrivere grazie a un partito preso di osti - nazione.

134 Roger Laporte Quando, la mente all’erta, si rilegge una frase, il paragrafo appena scritto, si sente immediatamente se il testo è giusto o meno. Nel caso in cui il testo provochi un sentimento di malessere, non si sa quale sia la causa di questa insoddisfazione, si ha la coscienza che «non va», ma, siccome non si capisce perché, non si può trovare un rimedio al male. Lunghi tentennamenti, molteplici rimaneggiamenti, rifacimenti gene - rali intervengono, ma il risultato è a lungo mediocre. Man mano che sono passati gli anni, ho scritto sempre più lentamente opere sempre più brev i; ho dovuto moltiplicare talmente le brutte che forse posso contendere a Flaubert la palma poco gloriosa della non-facilità. Se ho fatto progressi, se ho imparato a scrivere, senza mai diventare un maestro beninteso, è perché sono diventato sempre più esigente, per - ché ho preso la decisione – cui sono stato sempre meno infedele – di non cedere mai , ossia di non passare mai al secondo paragrafo finché il primo non mi avesse soddisfatto. Forse solo uno scrittore «profes - sionista» mi capirà, mi approverà, se affermo che talvolta l’esattezza di una frase dipende dallo spostamento di una sola parola, dal tempo di un verbo, o è una questione di punteggiatura. Prima di giungere a quel ritmo da cui dipende tutto, succede che si resti per ore, giorni interi a leggere, a rileggere un testo senza poter cambiarvi nulla, un testo pietrificato nella sua insufficienza. Allora lo scoraggiamento, la disperazione addirittura sono in agguato, eppure bisogna ed è suffi - ciente tenere duro.

Se un giovane scrittore legge queste righe, affido alla sua memoria questo aforisma di René Char che ebbe per me valore di viatico: «Pro - ve che rendete aberrante la ricompensa». 1989.

Note

1 La traduzione della citazione è tratta da Charles Baudelaire, Opere , a cura di Giuseppe Montesano, Mondadori «I Meridiani», 1998, pp. 385-386. [N.d.T.] 2 Mi permetto di indicare al lettore la mia opera Ecrire la musique , pubblicata da Passage , nel 1986.

Roger Laporte 135

Elisa Bricco

Appunti a margine della traduzione

eniamo anzitutto a ringraziare il curatore di questa antologia: TFederico Nicolao ci ha permesso di leggere un autore a noi poco noto e di penetrare nella poetica e soprattutto nella scrittura di que - st’ultimo. La scelta dei testi infatti e la loro posizione strategica all’in - terno del volume ci ha consentito di procedere per gradi all’interno del - l’eclettico universo laportiano e di coglierne la varietà e l’evoluzione nonché le svariate «maniere»: lo scrittore, il critico e l’uomo. Al tempo stesso il lavoro di traduzione ha completato il nostro pur parziale per - corso nell’opera laportiana, aprendoci alla conoscenza delle peculiarità della scrittura. L’intento dell’antologia è stato appunto di mostrare le diverse forme della produzione di Laporte, lo scrittore prima maniera con Souvenir de Reims , testo di creazione letteraria in cui la scrittura è legata al fenome - nico, ancorata alla realtà contingente di una visita turistica, di un incon - tro fondatore con un’opera architettonica e alle reazioni, alle sollecita - zioni psichiche ed estetiche che tale incontro provoca nell’osservatore. Qui il movimento della scrittura è chiaro, essa si mette in moto e l’au - tore medita e rende espliciti i passaggi dell’atto creativo: agli slanci appassionati in cui la parola fluisce semplicemente s’intercalano i momenti di esitazione inquieta, l’incertezza segue il ripiegamento su di sé e sulla propria attività creativa. Però, qui la riflessione sulla parola scritta e colta nel suo divenire è troppo esplicita, un passo avanti verso quella che potremmo definire la seconda maniera laportiana, ovvero la «biografia» si compie con Une Migration : racconto, o meglio récit , in cui tutti i punti di riferimento spazio-temporali sono mutati e vanno a costituire un universo nuovo, inedito, che ha la propria ragione d’esse -

Elisa Bricco 137 re proprio nella scrittura; inoltre sono scomparsi i riferimenti metanar - rativi e la messa in scena della scrittura nel suo divenire, insieme alla problematica ricerca della parola diventano testo, materia letteraria, soggetto e oggetto della “quête”. Il carattere onirico di questo scritto affascina e sorprende il lettore-traduttore alle prese con una materia mobile, simbolica e altamente metaforica: se in Souvenir de Reims si potevano appena cogliere i legami intertestuali con la riflessione sulla scrittura e sul suo ruolo, che si svolgevano negli anni Cinquanta, in Une Migration il legame con il pensiero blanchottiano è evidente, e il libro è dedicato proprio a Maurice Blanchot. Ma abbiamo deciso di lasciare al lettore la libertà di scoprire i riman - di, le possibili connessioni e l’intertestualità insita nei testi qui presen - tati, perché pensiamo che, in quanto traduttori, non sia nostro compito suggerirglieli: a lungo ci siamo chiesti se non era forse il caso di spie - gare e rendere esplicite alcune nostre scoperte all’interno del testo, ma saremmo incorsi in quella «traduzione tecnica» tanto declamata, quan - to mai praticata veramente, da Franco Fortini 1. Abbiamo optato per la pratica che consideriamo più consona al traduttore, ovvero quella di tentare di riprodurre il testo con le sue caratteristiche stilistiche e lessi - cali intrinseche, proprietà che lo rendono unico. In linea teorica possia - mo considerarci a metà strada tra coloro che Jean-René Ladmiral defi - nisce come «sourciers» e «ciblistes» 2, che nella traduzione tentano, gli uni di mantenere le caratteristiche stilistiche del testo, gli altri di «rester fidèle(s) à l’esprit du texte». In effetti pensiamo che una traduzione sia un’amalgama di fedeltà e infedeltà: di adattamento culturale e di rispetto del significato profondo quale si evidenzia al traduttore, non - ché della parola del testo originale. Siamo altresì d’accordo con Bernard Simeone che considera «la traduction comme acte d’écriture» e dun - que, in quanto (ri)scrittore, il traduttore non deve preoccuparsi della ricezione del testo, non deve renderlo «comprensibile» perché «une compréhension présuppose un éclaircissement et une simplification du texte» 3: il testo tradotto deve dunque mantenere le oscurità dell’origi - nale e permettere al lettore di affrontare le difficoltà della lettura e d’in - terpretarle liberamente. Quest’operazione è in definitiva quella descrit - ta da Friedmar Apel che mette l’accento sulla necessità di una «rico - struzione dell’effetto [di una certa opera] sul lettore» nella pratica tra - duttiva 4. Il lettore potrà trarre le conclusioni e le debite riflessioni dalla lettura dei testi di Roger Laporte, segnaliamo unicamente la grande varietà e insieme la sorprendente compattezza dei testi dell’antologia.

138 Elisa Bricco I saggi su Char e Van Gogh mostrano un altro aspetto importante della scrittura laportiana, il ripiegamento analitico e critico su autori e artisti la cui opera e sensibilità è particolarmente congeniale all’autore. In questi testi critici viene messa in luce la profonda adesione estetica e umana e la curiosità dello scrittore per l’opera letta e studiata, il tenta - tivo di scoprirne le leggi nascoste e intime, ma non solo, è rilevante soprattutto la sua grande capacità di sintesi, di determinare il punto focale che permette di penetrare nella poetica e nell’estetica altrui. Gli studi riprendono in una certa qual misura le caratteristiche stilistiche e lessicali degli altri testi qui riprodotti: l’argomentazione critica come il racconto si svolgono in ampi periodi, la sintassi è complessa e articola - ta: ogni tipologia di proposizione, causale, comparativa, concessiva, congiuntiva, finale è presente e le congiunzioni che le introducono sono incessantemente variate fornendo al complesso un’estrema coesione. Tale composizione dei testi, che a nostro parere non è aliena dall’ammirazione che Laporte nutriva per Marcel Proust, è sicuramen - te il tratto stilistico preponderante nell’antologia, e ci sembra che un passaggio di Souvenir de Reims illustri magistralmente l’attività di scrit - tura di Laporte, che lo conduce appunto a una tale composizione:

Je relis ma phrase. Je ferme à demi les yeux. Lentement, lentement, je la fais sonner en moi, avec l’attention d’un violoniste qui accorde son instrument. A peu près sati - sfait. A peu près. Cette phrase n’est pas la seule possible. Peut-être inadéquate. Inadé - quate. Elle ne sonne pas faux, mais ce n’est pas le ton. Toute puissance du langage. Il marche de sa marche. Puissance autonome mais vide. (p. 33)

Lo scrittore rilegge, ripete la frase scritta mentalmente, si paragona a un musicista, si sente pago del suo lavoro, tuttavia una punta d’insod - disfazione lo attanaglia e lo conduce a rimettere in discussione il suo operato. Immaginiamo agevolmente Laporte chiuso nella sua working room , alle prese con quel linguaggio che sembra onnipotente, ma non è nulla senza l’apporto umano, solo uno strumento scordato. Lo scritto - re leviga il suo testo, lo lucida e lo raffina per renderlo perfetto, o qua - si, perché comunque l’insoddisfazione è il motore primo nella ricerca della perfezione, ideale irragiungibile. In Réponse à une enquête , Lapor - te illustra chiaramente quel che è per lui lo stile: non un orpello che orna la lingua, ma la lingua divenuta strumento perfetto, un diapason. Nei testi le frasi si dispiegano lentamente e hanno una struttura rami - ficata: frequenti incisi ne interrompono il flusso, sembra quasi che l’au - tore sia spinto dal desiderio di dire tutto, di non dimenticare alcun par -

Elisa Bricco 139 ticolare, di sviscerare a fondo gli argomenti che tratta e di raccontare totalmente le suggestioni che lo stimolano a scrivere. L’impiego sapien - te di avverbi e congiunzioni gli permette di mettere in evidenza i pas - saggi dei suoi ragionamenti e di conferire ai testi una forma dotta, soprattutto quando si tratta di forme che appartengono a un registro letterario o quanto meno forbito quali ad esempio à tout le moins e dès lors . Inoltre, negli studi critici la volontà di condurre un’argomentazio - ne convincente conduce Laporte a dimostrare le proprie tesi con il sup - porto di un grande numero di esempi tratti sia dalle opere degli auto - ri, che dalla letteratura critica già edita su di loro, ne risultano scritti ben documentati e molto approfonditi in cui il ragionamento si snoda lentamente, e il lettore è accompagnato in un viaggio all’interno dell’o - pera dell’artista, e nella sua profonda interpretazione. Anche gli Impromptus ci calano nella pratica, nel lavoro dello scritto - re, con il suo desiderio d’illustrare gli aspetti e le problematiche della «biografia», un’attività essenzialmente intellettuale. Laporte tenta di mostrare le coincidenze e le aderenze tra la sua pratica di scrittura-vita e le altre arti, con la musica soprattutto, come si vede in An die Musik , in cui la creazione è identica a un’esperienza musicale, e anche come è spiegato in Vivre plus musicalement dove la musica diventa un motivo di evasione e di allontanamento dal contingente quotidiano. Infine l’in - tervista di Thierry Guichard è fondamentale per riuscire a confrontare la scrittura con la vita: sollecitato dalle domande Laporte ci trasmette il suo pensiero, le sue idee, le sue intime convinzioni, ci lascia entrare nel suo universo e ci fornisce alcune chiavi per intendere i testi. Questa ideale antologia personale ha il merito di far assaporare al let - tore la varietà e la complessità dell’opera di Roger Laporte e ci augu - riamo che questo sia un piccolo passo per una più grande attenzione del pubblico e dell’editoria italiana per un autore e per un’opera di grande valore.

Note

1 F. Fortini, «Traduzione e rifacimento», in La Traduzione. Saggi e studi , Trieste, Lint, 1973, pp. 123-139. 2 J.-R. Ladmiral, «Sourciers et ciblistes», Revue d’Esthétique , 12, 1986, pp. 33-41. 3 B. Simeone, «En métamorphose», Le Polygraphe , automne 2000. 4 Cfr. E. Mattioli, «La traduzione letteraria» Testo a fronte , 1, 1989, pp. 7-22.

140 Elisa Bricco Federico Nicolao

Bibliografia critica

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QUADERNI

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142 Bibliografia opera collettanea, Fayard, coll. Digraphe, Flammarion, Parigi 1973. «La genèse d’un roman » (inchiesta sul romanzo), in Nouvelles Littéraires n° 2423, Parigi 1974. «Freud et la question de l’Art », in Europe n° 539, Parigi 1974. «Une peinture lamentable» (Charles Juliet, Bram Van Velde), in Critique n° 326, Parigi 1974. «La déesse blanche» (A. Ehrenzweig), in Critique n° 333, Parigi 1975. «Présentation» (Presentazione de L’Introduction de la pelle di Alain Veinstein e Lars Fredrikson, Orange Export Ltd., Malakoff 1975. «Au-delà de l’horror vacui», in Nouvelle Revue de Psychanalise n° 11, Parigi 1975. «L’homme nu », in Celui qui ne peut se servir des mots (Omaggio a Bram Van Velde), Fata Morgana, Montpellier 1975. Quinze variations sur un thème biographique , Flammarion, coll. Textes, Parigi 1975. Precedenti pubblicazioni : «Clarté de René Char », in Critique n° 217, Parigi 1965. «Le Oui, le Non, le Neu - tre » (Maurice Blanchot), in Critique n° 229, numero speciale di omaggio a Mau - rice Blanchot, Parigi 1966. «Kafka : le dehors et le dedans », in Critique n° 240, Parigi 1967. «Angelus Silesius et la théologie négative », prefazione di L’errant chérubinique , d’Angelus Silesius, traduzione di Roger Munier, Planète, Parigi 1970. «Qui est autrui?» (Emmanuel Lévinas), in La Quinzaine littéraire n° 1, Pari - gi 1973. «Naissance de la littérature » (Marcel Proust), in La Nouvelle Revue Fran - çaise n° 175, Gallimard, Parigi 1967. «Hölderlin ou le combat poétique », in Criti - que n° 259, Parigi 1968, (ripreso in Europe n° 851, Parigi 2000.) «Antonin Artaud ou la pensée au supplice », in Le nouveau Commerce cahier 12, Parigi 1968. «Vin - cent et Van Gogh », in Critique n° 273, Parigi 1970. «Bio-Graphie » (Philippe Sol - lers), in Critique n° 281, Parigi 1970. «L’empire des signifiants » (Roland Barthes), in Critique n° 302, Parigi 1972. «Don Giovanni : un homme sans nom » (Wolfgang Amadeus Mozart), in Obliques n° 4, Nyons 1973. «Nietzsche : la métaphore et / ou le concept », in Critique n° 313, Parigi 1973. «Transmuter la vie Changer le monde » (Antonin Artaud), in Les cahiers du chemin n° 19, Gallimard, Parigi 1973. «Nietzsche philosophie d’hier, philosophie de demain », in Digraphe n° 18 –19, Parigi 1979. «Un passant considérable » in Aujourd’hui Rimbaud , Archives des Lettres modernes n° 160, Minard, Parigi 1976. «White Night » (Pierre Madaule), in Sub Stance n° 14, University of Wisconsin, Madison Winsconsin 1976. «Nuit blanche » (Pierre Madaule), in Critique n° 358, Parigi 1977. «L’impossible répétition » (William Faulkner), in La Quinzaine Littéraire n° 270, Parigi 1978.

Bibliografia 143 «Désenchantement » in Misère de la littérature , opera collettanea, Christian Bour - gois, coll. Première Livraison, Parigi 1978. François Martin l’excès, le manque . Fotografie di Wilfried Rouff. Cheval d’attaque, Parigi 1980. «Frang e» in Edgar Poe Fragments des Marginalia traduits et commentés par Paul Valéry . Litografia di Bram Van Velde. Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1980. «Nietzsche ou la philosophie à coup de marteau » in Les philosophes de Platon à Sar - tre , Hachette, Parigi 1985 . «Lettre à Y. L.» in Mathieu Bénézet , UBACS n° 10, Ubacs, Rennes 1986 Ecrire la musique . Guache di Lars Fredrikson. A Passage, Bordeaux 1986. «Il était une fois », in Michel Potage , La tour des cardinaux, L’Isle sur la Sorgue 1989. Etudes , P. O. L., Parigi 1991. Precedenti pubblicazioni: Maurice Blanchot . L’ancien l’effroyablement ancien, Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1987. «Tout doit s’effacer, tout s’effacera », in Lignes n° 11, Parigi 1990. Lectures de Paul Celan , Ulysse fin de siècle, Digione 1987. «Un fanal bleu nuit », in Impressions du sud n° 12, Aix en Provence 1987. «S’entendre parler », in Revue de Philosophie numero di omaggio a Jacques Derri - da, Parigi 1990. «De la musique avant toute chose », in C ahier , Le temps qu’il fait, Cognac 1990. «Cela ne s’atteint pas », in Argile ( IX – X ), Parigi Inverno – Primavera 1976. Hölderlin Une douleur éperdue , Actuels, coll. Morari, Roches de Clermont 1986. Prima pubblicazione: Comp’Act, Seyssel 1984. Kafka et l’exigen - ce d’écrire . Incisioni d’Axel Cassel. Ed. Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1991. «Kierkegaard écrivain », in Cahiers de philosophie n° 8-9, Parigi 1989. «Il n’est pas de Présent, non – un présent n’existe pas », in Contretemps n° 1, Parigi 1991. Mozart 1790 , Portail, Parigi 1983. «Novalis contre Novalis », in Monologue n° 1, Ivry sur Seine 1987. «Phrase », in Ecrire la musique , cit. «Ecrire sous son nom », in Action Poétique n° 87, Val de Marne 1982. Gladiator , Fata Morgana, coll. Explo - rations, Saint Clément de Rivière 1980. Cette petite chose qui fascine , Fata Morga - na, Saint Clément de Rivière 1980, 1985. «Vers l’absence de livre », in Revue des Sciences Humaines n° 221, Lille 1991. «Un enfant sans raison » (prefazione a Le petit Chose di Alphonse Daudet), P. O. L., Parigi 1991. «Postface » (postfazione a Le chef d’œuvre inconnu di Honoré de Balzac), Climats, Montpellier 1991. «Heidegger, Beaufret et le politique. Témoignage et réflexions sur une longue occultation », in Landemains (rivista di studi comparati) n° 65, Marburg 1992. «L’interruption – L’interminable », in Lignes Robert Antelme n° 21, Hazan, Parigi 1994.

144 Bibliografia «Butor avant Butor » (Testimonianza orale trascritta da Bernard Derrieu), in Le chat messager n° 9-10, Montpellier 1994. Marcel Proust le narrateur et l’écrivain , Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1994. «Un sourire mozartien» , Ralentir Travaux n° 7, Parigi 1997. «Parler de la photo », in Double Miroir , Fotografie di Richard Bruston, La chambre noire, Montpellier 1996. «Sur Patrick Laupin », in D’un regard l’autre de Patrick Laupin, Agence Rhône Alpes pour le Livre et la Documentation, Grenoble 1997. La loi de l’alternance (Mozart, Van Gogh, Rilke) , Fourbis, Tours 1997. A l’extrême pointe (Proust, Bataille, Blanchot) , P.O. L., Parigi 1998. Precedenti pubblicazioni: A l’extrême pointe (Bataille et Blanchot) . Disegni d’Axel Cassel. Fata Morgana, Saint Clément de Rivière, 1994. Prima pubblicazione «Un cri de coq en plein silence » in La Part de l’ Œil n° 10, dossier: Bataille et les arts plastiques, Bruxelles 1994 «Présentation » in Revue des Sciences Humaines (Numero speciale Maurice Blanchot. Testi riuniti da Roger Laporte) n° 253 , Lille 1999. Le neutre chez Bertholin , Ecole Régionale des Beaux Arts de Rouen, Rouen 2001.

CONVERSAZIONI

«Entretien » con Jean Ristat, in Lettres Françaises n° 1453, Parigi 1972. Ripreso da Jean Ristat in Qui sont les contemporains , Gallimard, Parigi 1975. «Roger Laporte et Serge Velay » in Autour de Roger Laporte , Opera collettanea, Ter - riers, Nîmes 1980. «Roger Laporte au bord du silence », con Jacques Derrida, Libération, Parigi gio - vedì 22 dicembre 1983. «Roger Laporte un entretien », con Jean-Marc Adolphe e Denis Taffanel, Canal , nuova serie n° 2, Montpellier 1986. «Entretien avec Roger Laporte », raccolto e annotato da Frédéric-Yves Jeannet, Digraphe n° 57, Mercure de France 1991. «Entretien avec Roger Laporte », con Roland Hélié, Skimao, Bernard Teulon- Nouaulles, Le chat messager n° 11 , Editions CMS, Montpellier 1995. «Breve Incontro ». Conversazione con Federico Nicolao, in Eutropia n° 1, Quodli - bet, Macerata 2001.

Bibliografia 145 EPISTOLARI

«Lettre à Y. L. » in Mathieu Bénézet , UBACS n° 10, Ubacs, Rennes 1986. «Lettre à Claude Royet Journoud », in fig.1 , Parigi 1989. «Correspondance avec Sylviane Agacinski », in Digraphe n° 51, Mercure de France, Parigi 1991. Lettres au Biographe de Cid Corman, cit. 1997. «Letter to Claude Royet Journoud », in Writing on writing from France . Translated by Norma Cole. Crosscut Universe, Berkeley 2000.

MISCELLANEE E TESTI VARI

Tournoyer . Citazioni Scelte da René Bonargent. Indifférences, Châteauroux 1983. Precedenti pubblicazioni: Suite – biographie , Hachette, coll. POL, Parigi 1979. Quelques petits riens , Ulysse fin de siècle, Digione 1990. Precedenti pubblicazioni: Souvenir , in Première Livraison n° 2, Parigi 1975 – 1976. Feuille volante , Le collet de Buffle, Parigi 1986. Precedenti pubblicazioni: In Lettres Françaises n° 1453, Parigi 1972. Prima pubblicazione in Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch n° 8, Peter Hoy, Oxford 1972. Faux Pas , in Corps 12 , Opera collettanea, Precedenti pubblicazioni: in Canal , nuova serie n° 2, Montpellier 1986. Réponse à une enquête , in Les lettres françaises , supplemento a Digraphe n° 50; 19 rue Basse , in Lieux d’écrits , Opera collettanea; Portrait chinois , in In Plano n° 36, Marzo 1986; Le jeu de la vérité , France Culture; A découvert , in Faire Part n° 12- 13; Théâtre I , France Culture ; Théâtre II , in Avant Guerre n° 2, Saint-Etienne 1981.; Où en est la nuit , Lambert 1989; La légende du guetteur , FDAC Val de Marne 1991. Ripreso in Po&sie n° 75, Belin, Parigi 1996. «Préface », (Prefazione a Lettres au Biographe di Cid Corman), In’ hui n° 48 p. 79, Le Cri et Jacques Darras, Parigi Bruxelles 1997.

RADIO

Serie Les grands entretiens de France-Culture . Trasmissione di Philippe Lacoue- Labarthe e Jean-Luc Nancy, con la partecipazione di Roland Barthes e Jacques Derrida. Diffusione su France Culture dal 26 al 30 maggio 1975. Mozart 1790 . Trasmissione musicale di Roger Laporte (regia di M. Bernard). Diffu - sione su France Culture dal 27 al 31 ottobre 1975.

146 Bibliografia Poésie Ininterrompue . Trasmissione di Mathieu Bénézet. Lettura di «Souvenir » . Dif - fusione su France Culture dal 27 settembre al 3 ottobre 1976. Poésie Ininterrompue. Trasmissione di Claude Royet Journoud (regia di O. d’Hor - rer). Intervista con Mathieu Bénézet. Diffusione su France Culture dal 20 al 27 febbraio 1977. Un livre, des voix . Trasmissione di Pierre Sipriat con la partecipazione d’Alain Vein - stein. (Prix France Culture, letture di «Souvenir de Reims », «Carnets », «Suite »). Diffusione su France Culture : 30 maggio 1979. Nuits Magnétiques Amour de la Musique . Sei trasmissioni di Roger Laporte. Diffu - sione su France Culture : 25 gennaio ; 8 febbraio ; 22 febbraio ; 7 marzo ; 21 mar - zo, 4 aprile 1980. Le bon plaisir de…Roger Laporte. Trasmissione di Jean Daive su France Culture, 19 ottobre 1991. Les nuits de France Culture . Omaggio a Martin Heidegger per i suoi 75 anni. Diffu - sione su France Culture, 6 giugno 1997. Surpris par la nuit… Trasmissione di Alain Veinstein. Diffusione su France Culture, 16 ottobre 2000. n.b. In occasione dell’uscita di ognuno dei suoi libri a partire circa dal 1975, sempre su France Culture, Roger Laporte veniva regolarmente invitato da Alain Veinstein. La lista delle trasmissioni che segue è sfortunatamente solo parziale e provvisoria, ce ne scusiamo con l’autore e coi lettori di Roger Laporte.

Du jour au lendemain . Trasmissione di Alain Veinstein. Diffusioni su France Cultu - re : 1 marzo 1995, 4 marzo 1995, 25 agosto 1995, 26 agosto 1995, 9 maggio 1998, 18 agosto 1998, 27 luglio 1999. Les nuits de France Culture . Una vita, un’opera: Sonata. Diffusione su France Cul - ture, 4 agosto 1998 (ridiffusione 13 gennaio 1999)

VIDEO

Océaniques. Trasmissione di P.A. Boutang. Diffusione sulla Sept, 9 luglio 1989. Un siècle d’écrivains Maurice Blanchot . Un documentario realizzato da Hugo San - tiago 1998. Je n’entends plus chanter la nuit . Un film di Christine Baudillon. Una produzione Hors-œil 2001.

Bibliografia 147 TESTI CRITICI SCELTI SULL’OPERA DI ROGER LAPORTE

Claude Mauriac, Roger Laporte et le désir d’écrire , Le Figaro, 26 giugno 1963. Maurice Blanchot, Traces , NRF n° 129, Parigi settembre 1963 . Ripreso in L’Amitié , Gallimard, Parigi 1971. Michel Foucault, Guetter le jour qui vient , NRF n° 130, Parigi ottobre 1963. Ripreso in Dits et écrits , Gallimard, Parigi 2000. Clémence Ramnoux, La veille , Revue de Métaphysique et de Morale , Parigi aprile-giu - gno 1964. Philippe Sollers, Le fond des livres , La Quinzaine littéraire, 1 luglio 1966. Emmanuel Lévinas, Roger Laporte. Une voix de fin silence , NRF n° 168, Parigi dicem - bre 1966. Ripreso in Noms propres , Fata Morgana, Saint Clément de Rivière 1976. Clémence Ramnoux, Accompagnement pour «une voix de fin silence », Critique n° 235, Parigi dicembre 1966. Henry Raynal, Roger Laporte ou l’écriture angélique , Courrier de centre international d’études poétiques n° 64, Bruxelles febbraio 1968. Bernard Pingaud, Un malheur sans nom , La Quinzaine Littéraire n° 45, Parigi feb - braio 1968. Danielle Sallenave, Le violoniste exaspérant , Les Temps modernes n° 268, Parigi ottobre 1968. Catherine Clément, Histoire d’un sourire , Critique 276, Parigi maggio 1970. Ripreso in Miroirs du sujet, 10/18 n° 1004, Parigi 1975. Denis Hollier, La fugitive , La Quinzaine littéraire, agosto 1971. Jean-Noël Vuarnet, La marionette et ses fils , Critique n° 300, Parigi maggio 1972. Gérard Genette, Figures III , Le Seuil, coll. Poétique, Parigi 1972. Catherine Clément, Le shamanisme de l’écriture , Sud n° 10, 1973. Ripreso in Miroirs du sujet, 10/18 n° 1004, Parigi 1975. Patrice Loraux, Introduction indirecte , Sud n° 10, 1973. Yvonne Damon, L’écriture peut-elle s’ériger en biographie?, Sud n° 10, 1973. Jean Frémon, Lire Maurice Blanchot , La Quinzaine Littéraire n° 166, Parigi giugno 1973. Claude Bonnefoy, Etranges biographies , Nouvelles littéraire n° 166, Parigi giugno 1973. Paul Otchakovsky-Laurens, Ecrire un livre , La Quinzaine littéraire, Parigi gennaio 1974. Charles Bouazis, Rets , Critique n° 323, Parigi aprile 1974. Claude Mauriac, Le voyage aux frontières , Figaro, 12 aprile 1975.

148 Bibliografia Steve Ungar, Waiting for Blanchot , Diacritics, **** 1975. Claude Bonnefoy, Fugue III , Nouvelles littéraires n° 2519, Parigi febbraio 1976. Jacques Sojcher, Lettre-Biographie in La démarche poétique, 10/18, n° 1102, Parigi 1976. Mathieu Bénézet, Le roman de la langue , 10/18 n° 1179, Parigi 1977. Jean-Luc Nancy, L es raisons d’écrire , in Misère de la littérature , opera collettanea, Christian Bourgois, coll. Première livraison, Parigi 1977. Philippe Lacoue-Labarthe, 4 ème de couverture de Suite , Hachette, coll. POL, Pari - gi 1979. Claude Royet-Journoud, Lettre de Symi . Illustrazioni di François Martin. Fata Mor - gana, Saint Clément de Rivière 1980. Maurice Blanchot, Une vie , Libération, Parigi, 6 marzo 1982. Jacques Derrida, Roger Laporte au bord du silence , Libération, Parigi giovedì 22 dicembre 1983. Mathieu Bénézet, Roger Laporte , la gloire secrète d’une passion inutile , Roman n° 16, Parigi 1986. François Dominique, Objets non identifiables de Roger Laporte , Canal, nuova serie n° 2, Montpellier 1986. Gérard Genette, Seuils , Seuil, coll. «Poétique », Parigi 1987. Frédéric-Yves Jeannet, Roger Laporte à l’épreuve du silence , Digraphe n° 46, Mercure de France, Parigi 1988. Gilles Jallet, L’écriture de la chose (Roger Laporte Une vie) , Critique n° 499, Parigi 1988. Patrick Kéchichian, La petite musique de l’autarcie , Le Monde, 11 gennaio 1991. Andrew Benjamin, The redemption of value : Laporte, writing as abkurzung , in Art, Mimesis and the Avant-Garde , Routledge, Londra 1991. Jean Michel Raynaud, De la célébration du transi . Poursuites d’un biographe avec l’œu - vre de Roger Laporte , Revue des Sciences Humaines n° 224, Lille 1991. Didier Cahen, Les vies de Roger Laporte , Critique n° 557, Parigi 1993. Ripreso con il titolo di «Ecrire. Les desseins de l’œuvre » in Qui a peur de la littérature , éditions Kimé, Parigi 2001. Xavier Prevost, La Tentation du silence , NRF n° 509, Parigi 1995. Jean-Pierre Salgas, Roman français contemporain , L’espace culturel sito del ministe - ro degli affari esteri francese 1996. Renaud Camus, Discours de Plaran , P.O.L., Parigi 1997. Patrick Laupin, Sur Roger Laporte , in D’un regard l’autre , Agence Rhône Alpes pour le Livre et la Documentation, Grenoble 1997.

Bibliografia 149 Cid Corman, Lettres au Biographe , cit. 1997. Federico Nicolao, Su Roger Laporte , Trasparenze n° 1, San Marco dei Giustiniani, Genova 1998. Federico Nicolao, L’eccezione della prosa , Trasparenze n° 9, San Marco dei Giusti - niani, Genova 2000. Jean Frémon, Cher Roger Laporte , in La vraie nature des ombres , P. O. L., Parigi 2000. Bernard Noël, Lettres verticales , Edition Unes, 2000. Ian Maclachlan, The Orphic text , Oxford, 2000. Didier Cahen, Qui a peur de la littérature , Editions Kimé, Parigi 2001. Frédérique Arroyas, A l’écoute de Fugue de Roger Laporte , Presse de l’Université de Montréal 2001.

DOSSIERS E RIVISTE

Digraphe, Parigi 197 Roger Laporte, Souvenir . – Roger Laporte, Carnets . – Roger Laporte, Une œuvre mort-née . – Roger Laporte, Mozart 1790 . – Roger Laporte, Nietzsche . – Mathieu Bénézet, Roger Laporte, Jean Ristat, Entretien . – Maurice Blanchot, Ne te retour - ne pas . – Jacques Derrida, Ce qui reste à force de musique . – Roland Barthes, Phi - lippe Lacoue-Labarthe, Jean-Luc Nancy, Entretiens . – Bibliographie . Autour de Roger Laporte , Terriers, Centre National de Lettres 1980 Roger Laporte, Jean Laude, Claude Minière, Serge Velay, Testi e intervista.

Le chat messager n° 11 , Editions CMS, Montpellier 1995. François Lagarde, 2 fotografie – Roland Hélié, Skimao, Bernard Teulon-Nouaul - les, Intervista con Roger Laporte . – Michel Butor, Déchant . – Jean-Luc Nancy, Roger Laporte : la page . – Maurice Blanchot, La poursuite tempérée éperdue . – Claude Royet-Journoud, Dessin Collage . – Esther Tellerman, A Roger Laporte . – Frédéric- Yves Jeannet, «L’aventure d’une déchirure inconnue » Migration et déchirure dans «une vie » de Roger Laporte . – Hervé Piekarski, Pour Roger Laporte . – Bernard Tou - lon Nouailles, Naples, la Villa d’este et le Vésuve . – Skimao, Une Métamorphose . – Pascal Possoz, L’oxymore de Roger Laporte : l’auto-Blanchot analyse . – Francis Cohen, Je te continue ma lecture . – Bruno Roy, Deux lettres . – André-Pierre Arnal, Une cantillation aérienne . – Jean-Marie de Crozals, L’un vide . – Mathieu Bénézet, Notes de lecture . – Bibliografia Le Matricule des Anges n° 32, Montpellier 2001. Thierry Guichard, L’épreuve par neuf – Thierry Guichard, Dix huit ans de silence (intervista). – Thierry Guichard, Comme un sésame . – Roger Laporte, Mémoire . – Fotografie d’Olivier Roller.

150 Bibliografia TRADUZIONI IN LINGUE STRANIERE

LINGUA SPAGNOLA Bram Van Velde o esa peque?a cosa que fascina , Asphodex, Las Palmas de Gran Cana - ria 1984. Moriendo . Prefacio por Cid Corman. Asphodex, Las Palmas de Gran Canaria 1984.

LINGUA ITALIANA «Un fanale blu notte », Trasparenze n° 1, San Marco dei Giustiniani, Genova 1998. «A che punto è la notte ». Traduzione di Federico Nicolao. In Trasparenze n° 9, San Marco dei Giustiniani, Genova 2000. «La leggenda della vedetta », in Poesia europea contemporanea . Antologia di scrittu - re a cura di Flavio Ermini e Agostino Contò, Edizioni Anterem, Verona 2001. «Breve Incontro ». Conversazione con Federico Nicolao, in Eutropia n° 1, Quodli - bet, Macerata 2001. «Biografia » in Chorus Una costellazione n° 1, 2002. «Mozart 1790 » in Chorus Una costellazione n° 1, 2002. Lettera a nessuno , a cura di Elisa Bricco. Prefazione di Philippe Lacoue-Labarthe. Postfazione di Maurice Blanchot. San Marco dei Giustiniani, Genova 2002.

LINGUA SVEDESE «Ur Quinze variations », in OEI n° 4-5, Goteborg 2000/2001.

LINGUA INGLESE «Loose Sheet ». Translated by Peter Hoy. In Modern Poetry in Translation , Anthony Rudolf, Londra 1973. «White Night » (Pierre Madaule). Translated by Marshall Olds. In Sub Stance n° 14, University of Wisconsin, Madison Winsconsin 1976. «Moriendo ». Traduced by Cid Corman. In Origin V series n° 2,Utano Ukyo-ku, Kyoto 1983. «Readings of Paul Celan ». Translated by Norma Cole. In Translating tradition. Paul Celan in France , Acts 8/9 , Benjamin Hollander, Berkeley San Francisco 1988. «Letter to Claude Royet Journoud », in Writing on writing from France . Translated by Norma Cole. Crosscut Universe, Berkeley 2000. «Loose Leaf », in Writing on writing from France . Translated by Norma Cole. Cros - scut Universe, Berkeley 2000.

Bibliografia 151

novità settembre 2002

YVES BONNEFOY Il teatro dei bambini

Otto brevi poèmes en prose sospesi tra memoria, affabulazione e ricreazione onirica dove l’autore percorre nuove vie per braccare ancora una volta dappresso la realtà e la sua percezione

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NUMERO 7, pagg. 102, € 8 Daniela Aimale Graziosi, Illusione di meraviglia e dissolvenza di immagini come suggestione teatrale Elisa Bricco, « ...ces bouts d’existence incorruptibles». Giorgio Caproni e la poesia di René Char Carlo Caruso, Il libertino e il santo • Francesca D’Alessandro, Sereni e Milano Renato Iannacchino, La città che guarda, la città da guardare Luigi Lollini, Fortini e l’«intelletto delle erbe» • Paolo Repetto, Scelsi, la metafisica del suono Franco Renzo Pesenti, Monumenti genovesi: S. Rocco, i Viale e Marcello Sparzo

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Franco Renzo Pesenti, Marcello Sparzo nel Seicento tra Genova e Urbino Elio Pecora, Nota su uno scritto inedito sull’arte di Sandro Penna Sandro Penna, Uno scritto inedito sull’arte Andrea Pellegrini, I prologhi di Cardarelli e il fantasma di Arthur Rimbaud Rodolfo Di Biasio, A quasi cinquant’anni da Ascolta la Ciociaria Elisa Bricco, André Frenaud. Un itinerario attraverso i titoli Marcello Ciccuto, Renato Fucini tra i pittori macchiaioli Sinan Gud zˇevi c´, “Cuius regio eius lingua”. Sulla guerra linguistica serbocroata

NUMERO 11 , pagg. 136, € 16 dedicato interamente ad Alfonso Gatto

con contributi di Giorgio Calcagno, Marcello Ciccuto, Emanuele Contu, Stefano Giovannuzzi, Giuseppe Lupo, Giorgio Luti, Morando Morandini, Gianni Mura, Silvio Ramat, Luigi Surdich, Raf Vallone , e alcuni scritti di Alfonso Gatto NUMERO 12 , pagg. 104, € 10

Alessandro Natta, Gramsci educatore Elisa Bricco, Frénaud e il ruolo civile del poeta André Frénaud, Il poeta e la terra degli uomini Adele Dei, Palazzeschi fra i due Incendiari: anedottica e poesia di un futurista sui generis Gianroberto Scarcia, Trentasei quartine di Gennadij Ajgi Massimo Seriacopi, Osservazioni sulla “lonza” di Dante Paolo Cairoli, Matrici comuni all’astrattismo neoplastico di Piet Mondrian e all’astrattismo concreto di Goffredo Petrassi Antonio Gelsomino, Da “La battaglia di Algeri” a “Queimada” Gillo Pontecorvo e il cinema “Terzomondista” Cesare Viazzi, Emilio Salgari: Genova, e la nascita del Corsaro Nero Renzo Morchio, La storia della misura del tempo è solo una pagina di storia della tecnologia?

NUMERO 13 , pagg. 116, € 10

Adonis, Il mondo arabo, l’Europa occidentale e le comuni radici culturali Paolo Zoboli, La casa sul mare: sull’escatologia dei primi Ossi Dörthe Wilken, Penna fotografo o l’epifania dell’attimo Enrico Elli, “In nessuna terra mi posso accasare”. Tra Otto e Novecento: il poeta ‘senza fissa dimora’ Alberto Carli, Ritratto di Carlotta. I fratelli Boito e altri scapigliati Marina Vaccarini Gallarani, Federico Mompellio musicologo-musicista Matti Auvinen, L’ugnetto. Uno studio storico sulla diversità nella forma e nell’applicazione

NUMERO 14 , pagg. 80, € 8 dedicato interamente a Sandro Penna

Sandro Penna, Dal Diario del 1930 Una cuccia nel mondo, Penna nei ricordi di Enzo Siciliano Penna, il “Don Chisciotte” e Giuliano De Marsanich Paolo Febbraro, Una giornata con Penna Elio Pecora, L’ultima giornata con Sandro Penna Bruno Corà, Nella casa-magazzino di Penna per un inventario Ippolito Pizzetti, Sandro Penna e l’immediatezza Paolo Lagazzi, Penna e l’Oriente Daniela Marcheschi, Leggendo Penna. Alcune considerazioni sulla poesia Il vegetale Giuseppe Leonelli, Letture penniane Roberto Deidier, L’ultima poesia

Edizioni San Marco dei Giustiniani Via Cairoli 5/2 sc. D - 16124 Genova Tel. e Fax +39 01 02474747 e-mail [email protected] Fotocomposizione: Type Stampa: marpeg servizi ottobre 2002 Federico Nicolao Uno scrittore sconosciuto, appena identificato sotto il nome di Roger Laporte pag. 3 Bernard Noël Lettera Verticale XXXIII pag. 19 Roger Laporte Ricordo di Reims pag. 23 René Char Une migration - Prefazione pag. 39 Roger Laporte Una migrazione pag. 41 Roger Laporte An die Musik pag. 61 Roger Laporte Working room pag. 63 Roger Laporte «Vivere più musicalmente» Van Gogh pag. 69 Roger Laporte Luminosità di René Char pag. 71 Roger Laporte Vincent e Van Gogh pag. 79 Roger Laporte Kafka e l’esigenza di scrivere pag. 97 Thierry Guichard Diciotto anni di silenzio Intervista a Roger Laporte pag. 113 Roger Laporte A che punto è la notte? pag. 125 Roger Laporte La leggenda della vedetta pag. 127 Roger Laporte Foglio volante pag. 129 Roger Laporte Passo falso pag. 131 Roger Laporte Risposta a un’inchiesta pag. 133 Elisa Bricco Appunti a margine della traduzione pag. 137 Federico Nicolao Bibliografia critica pag. 141

Via Cairoli 5/2 sc. D - 16124 Genova Tel. e Fax +390102474747 copertina.15_Laporte_copertina.15 05/11/19 13.02 Pagina 1

Federico Nicolao

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Guarda il lume e considera la sua bellezza. a sotto il nome di Roger Laporte pag. 3 s

p Bernard Noël

Batti l’occhio e riguardalo: a

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ciò che di lui tu vedi, prima non era; n SUPPLEMENTO NON PERIODICO A “QUADERNI DI POESIA” Roger Laporte

z Tra spa renze e ciò che di lui era, più non è. e Ricordo di Reims pag. 23 René Char Leonardo Da Vinci Elisa Bricco Une migration - Prefazione pag. 39 René Char Roger Laporte Thierry Guichard Una migrazione pag. 41 Roger Laporte Roger Laporte Federico Nicolao An die Musik pag. 61 Bernard Noël Roger Laporte Working room pag. 63 Roger Laporte «Vivere più musicalmente» Van Gogh pag. 69 Roger Laporte Luminosità di René Char pag. 71 Roger Laporte Vincent e Van Gogh pag. 79 Roger Laporte Kafka e l’esigenza di scrivere pag. 97 Thierry Guichard Diciotto anni di silenzio Intervista a Roger Laporte pag. 113 Roger Laporte A che punto è la notte? pag. 125 Roger Laporte La leggenda della vedetta pag. 127 Roger Laporte Foglio volante pag. 129 Roger Laporte Passo falso pag. 131 Roger Laporte Risposta a un’inchiesta pag. 133 Elisa Bricco Appunti a margine della traduzione pag. 137 Federico Nicolao Bibliografia critica pag. 141 20 E. P RAMPOLINI Danzatrice n. 52, matita e carbone su carta cm. 42,8 x 34 20 15 /02 15/02 Edizioni San Marco dei Giustiniani in Genova Via Cairoli 5/2 sc. D - 16124 Genova Tel. e Fax +390102474747