La Fine Della Cultura. Saggio Su Un Secolo in Crisi D'identit

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La Fine Della Cultura. Saggio Su Un Secolo in Crisi D'identit Ladri di Biblioteche Qual è il destino della nostra cultura ora che il mondo in cui è nata non esiste più? Eric Hobsbawm ha dedicato ampio spazio ai mutamenti, profondi e irreversibili, che hanno costellato la storia sociale e culturale del Novecento. Questi saggi, in gran parte inediti e qui per la prima volta raccolti in volume, tracciano la storia tutt’altro che lineare della nostra cultura per metterne in luce le tortuosità, le involuzioni, ed esplorarne le prospettive. Lo fanno spaziando da quel poderoso carico di credenze e valori che è stata la civiltà borghese mitteleuropea al mito americano del cowboy, da Paul Klee a Vivienne Westwood, no alla straordinaria ondata di produzione creativa degli ultimi anni. Materiali, idee, storie personali e collettive che del secolo breve, ma interminato, echeggiano tutta la complessità, le interferenze, gli attriti. Eric Hobsbawm (1917-2012), storico britannico di formazione marxista, ha profondamente inuenzato la storiograa del e sul Novecento. Tra i suoi libri: Il secolo breve, L’Età degli imperi, Gente non comune, La ne dello Stato, Come cambiare il mondo. Eric Hobsbawm La ne della cultura Saggio su un secolo in crisi di identità Proprietà letteraria riservata © 2013 Eric Hobsbawm © 2013 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-64345-7 Titolo originale dell’opera: Fractured Times Prima edizione digitale 2013 da edizione marzo 2013 Traduzione di Leonardo Clausi, Daniele Didero e Andrea Zucchetti I capitoli 11, 12 (scritto nel 2011-12), 17 e 22 sono inediti. In copertina: Flavio Biagi, Barbacani, 2007, tecnica ad acrilico su carta, www.aviobiagi.it www.rizzoli.eu Art Director: Francesca Leoneschi Graphic designer: Andrea Cavallini / the World of DOT La ne della cultura Prefazione E stiamo qui come su una piana oscura percorsa da allarmi confusi di lotta e di fuga, dove eserciti ignari si scontrano nella notte. Matthew Arnold, La spiaggia di Dover Questo è un libro su quello che è accaduto all’arte e alla cultura della società borghese dopo che quella società se n’è andata con la generazione post 1914, per non tornare mai più. E in particolare su un aspetto dell’enorme cambiamento globale che l’umanità ha vissuto a partire dal Medioevo, terminato all’improvviso negli anni Cinquanta del Novecento per l’80 per cento del pianeta – negli anni Sessanta per tutti gli altri –, quando le regole e le convenzioni che avevano governato le relazioni umane si erano logorate visibilmente. Di conseguenza, è anche un libro su un’epoca della storia che ha perso l’orientamento e che, nei primi anni del nuovo millennio, guarda avanti, con più ansiosa perplessità di quanto io ricordi nella mia lunga vita, senza una guida e una bussola, a un futuro inconoscibile. Come storico, avendo di quando in quando riettuto e scritto in merito al curioso intreccio tra arte e realtà sociale, verso la ne del secolo scorso mi è capitato di essere invitato a parlare di questi argomenti (con scetticismo) dagli organizzatori dell’annuale Festival di Salisburgo, un importante retaggio del Mondo di ieri di Stefan Zweig, al cui nome era strettamente associato. Questi interventi costituiscono il punto di partenza del presente lavoro, scritto dunque tra il 1964 e il 2012. Oltre la metà del suo contenuto non è mai stato pubblicato prima. Il libro si apre con un’incredula fanfara sui manifesti del XX secolo. I capitoli 2-5 sono riessioni realistiche sulla situazione delle arti all’inizio del nuovo millennio, che non si possono comprendere se non rituandosi nel mondo perduto di ieri. I capitoli 6-12 sono dedicati a questo mondo, essenzialmente plasmato nell’Europa dell’Ottocento, che creò non soltanto il canone fondamentale di «classici», in special modo nei campi della musica, dell’opera lirica, del balletto e del teatro, ma in molti Paesi anche il linguaggio fondamentale della letteratura moderna. Gli esempi che ho fornito sono tratti perlopiù dalla regione da cui è derivato il mio background culturale – mitteleuropea dal punto di vista geograco, tedesca da quello linguistico –, senza però tralasciare la cruciale «estate di San Martino» o «belle époque» di quella stessa cultura nei decenni precedenti il 1914. Poche pagine sono oggi più familiari della profetica descrizione di Karl Marx sulle conseguenze economiche e sociali dell’industrializzazione capitalistica occidentale. Tuttavia, poiché nel XIX secolo il capitalismo europeo impose il suo dominio su un pianeta che avrebbe trasformato attraverso la conquista, la superiorità tecnologica e una globalizzazione della sua economia, esso portò con sé anche un poderoso e prestigioso carico di credenze e valori che naturalmente riteneva superiori agli altri. Li potremmo raggruppare sotto il nome di «civiltà borghese europea», che però non si riprese mai dalla Prima guerra mondiale. Le arti e le scienze ebbero un ruolo centrale per questa baldanzosa visione del mondo, quanto la ducia nel progresso e nell’istruzione, e furono di fatto il nucleo spirituale che sostituì la religione tradizionale. Io sono nato e cresciuto in questa «civiltà borghese», simboleggiata in maniera spettacolare dal grande anello di edici pubblici eretti nella metà del XIX secolo attorno al vecchio centro medievale e imperiale di Vienna: la Borsa, l’Università, il Burgtheater, il monumentale Municipio, il Parlamento in stile neoclassico, gli imponenti Musei di Storia dell’arte e di Storia naturale, posti l’uno di fronte all’altro, e ovviamente il cuore di ogni città borghese dell’Ottocento che si rispetti, il Teatro dell’Opera. Questi erano i luoghi dove la «gente colta» si prostrava davanti agli altari della cultura e delle arti. Venne aggiunta solo una chiesa ottocentesca sullo sfondo, come tardiva concessione al legame tra la Chiesa e l’imperatore. Per quanto nuova, questa scena culturale aveva profonde radici nelle vecchie culture principesche, reali ed ecclesiastiche anteriori alla Rivoluzione francese, cioè nel mondo del potere e dell’estrema ricchezza, i mecenati per eccellenza delle «arti elevate» e delle grandi esposizioni. Questa realtà culturale sopravvive ancora in misura signicativa proprio grazie all’associazione tra prestigio tradizionale e potere nanziario, come dimostrato dalle esposizioni pubbliche, ma senza più la protezione dell’aura dell’alto lignaggio o dell’autorità spirituale socialmente accettati. Questa è forse una delle ragioni per cui ha resistito al relativo declino dell’Europa, restando l’espressione essenziale, ovunque nel mondo, di una cultura che combina potere e prodigalità nelle spese con alto prestigio sociale. In tale misura, le arti elevate, al pari dello champagne, rimangono eurocentriche benché in un pianeta globalizzato. Questa sezione del libro si conclude con alcune considerazioni sull’eredità che questo periodo ha lasciato e sui problemi che si trova di fronte. Come poteva il XX secolo arontare il crollo della società borghese tradizionale e dei valori che la tenevano assieme? Questo è l’argomento degli otto capitoli che compongono la terza parte dell’opera, una serie di reazioni intellettuali e «contro-intellettuali» alla ne di un’éra. Tra gli altri temi, viene preso in considerazione l’impatto delle scienze del Novecento su una civiltà che, sebbene votata al progresso, non era in grado di comprenderle e ne era sconvolta; inoltre, la singolare dialettica della religione pubblica in un’epoca di secolarizzazione accelerata e di arti che avevano smarrito le prospettive tradizionali, ma non riuscivano a trovarne di nuove, né attraverso la ricerca «modernista» o «d’avanguardia» del progresso, in competizione con la tecnologia, né attraverso un’alleanza con il potere, né, inne, mediante una disillusa e risentita sottomissione al mercato. Che cosa è andato storto per la civiltà borghese? Benché fondata su modalità di produzione tese a distruggere e trasformare tutto, le sue eettive attività, le istituzioni, i sistemi politici e di valori erano concepiti da e per una minoranza, seppure una minoranza che poteva e voleva espandersi. Era (e rimane tutt’oggi) meritocratica, in altre parole né egualitaria né democratica. Fino alla ne del XIX secolo, le la della «borghesia» o comunque della classe medio-alta contavano ben pochi appartenenti. Nel 1875, anche nella ben acculturata Germania, erano soltanto circa centomila i ragazzi che frequentavano il ginnasio (la scuola secondaria superiore), e pochissimi di questi arrivavano all’esame nale, l’Abitur. Non più di sedicimila studiavano all’università. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Germania, Francia e Gran Bretagna, tre delle nazioni più grandi, sviluppate e scolarizzate, con un totale di 150 milioni di abitanti, contavano non più di 150.000 studenti universitari, vale a dire l’uno per mille della loro popolazione complessiva. La straordinaria espansione dell’istruzione secondaria e, soprattutto, universitaria dopo il 1945 ha moltiplicato il numero delle persone colte, cioè con un’adeguata preparazione sui vari ambiti della cultura novecentesca insegnati nelle scuole, ma non necessariamente il numero di quelle a loro agio con essi. È ovvio che il pericolo per questo sistema sarebbe derivato dalla grande maggioranza degli individui al di fuori di queste élite. Attendevano con ansia una società progressista, ma al tempo stesso egualitaria e democratica, senza o dopo il capitalismo, come i socialisti, che però adottavano molti dei valori della «modernità» borghese e in tal senso non orivano alcuna alternativa specica. Anzi, dal punto di vista culturale, l’obiettivo del militante socialdemocratico «politicamente consapevole»
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