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ECL_2013_158×222.indd 1 7/27/2013 10:33:44 AM International Editorial and Advisory Board:

William Becket Soule (Columbus) Orazio Condorelli (Catania) John Faris (Washington) George Gallaro (Pittsburgh) Pablo Gefaell (Roma) Paolo Gherri (Roma) Janusz Kowal (Roma) Michael Kuchera (Roma) Lorenzo Lorusso (Bari) Helmuth Pree (München) Luigi Sabbarese (Roma)  Cyril Vasiľ (Città del Vaticano)

Editor: Péter Szabó

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St Athanasius Greek-Catholic Theological Institute Nyíregyháza, 2013

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HU ISSN 2064-0412

ECL is published twice a year by the St Athanasius Greek-Catholic Theological Institute Responsible Editor: Tamás Véghseő (Rector) Postal address: 4400 Nyíregyháza, Hungary Bethlen G. u. 13-19. e-mail: [email protected] tel.: +36/42/597-600

Address for manuscripts and correspondence: Péter Szabó Szentkirályi u. 6. 3/40. 1088 Budapest, Hungary tel.: +36 30 498-3705 e-mail: [email protected]

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DTP Operator: Katalin Balogh

The views expressed are the responsability of the contributors

Eastern Canon Law is indexed in the Ephemerides Theologicae Lovanienses

ECL_2013_158×222.indd 4 7/27/2013 10:33:46 AM Contents

Editorial Foreword...... 9

Studies  Cyril Vasiľ s.j. Ivan Žužek s.j. (1924–2004) e il suo contributo scientifico alla canonistica orientale...... 13

Péter Szabó La natura giuridica della licenza per il cambiamento di Chiesa sui iuris e la sua incidenza sulla prassi canonica...... 63

Zoltán Rihmer Remarks on the Latin of the Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium. . 113

Jobe Abbass François Galtier s.j. (1893–1962): His Early Contribution to the Comparative Study of the Codes...... 157

Lorenzo Lorusso o.p. Diritti e doveri e dei diaconi nelle legislazioni particolari delle Chiese sui iuris...... 191

Hristo P. Berov Stefan Zankow and some of his Works in the Field of Canon Law . . . .213

Luigi Sabbarese La “cattolica diversità” della Chiesa nella cura pastorale tra i migranti. . .225

Pablo Gefaell Rapporti tra orientali cattolici ed ortodossi nel CCEO ...... 249

Actualities John Kochuthundil The Code of Particular Canons of the Syro-Malankara Codification and Juridical Significance...... 277

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 SER. Mons. Cyril Vasiľ: Secretary of the Congregation for the Eastern Churches (Vatican City)

Péter Szabó: Pázmány Péter Catholic University (Budapest) / St Athanas Institute (Nyíregyháza)

Zoltán Rihmer: formerly at the Department of Roman Law of Eötvös Loránd University and Pázmány Péter Catholic University (Budapest)

Jobe Abbass: St Paul University (Ottawa)

Lorenzo Lorusso: Pontifical Oriental Institute () / Theological Faculty (Bari)

Hristo P. Berov: Universität Potsdam

Luigi Sabbarese: Pontifical Urbanian University (Rome)

Pablo Gefaell: Pontifical University of the Holy Cross (Rome)

John Kochuthundil: St Mary’s Malankara Seminary (Trivandrum)

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Nearly a decade and a half ago “Folia canonica: Review of Eastern and Western Canon Law” was launched, first and foremost, with the particular intention of promoting the study and research of the East- ern branch of canon law, as indicated in the subtitle. It also published an annual bibliography of the same branch which gained recognition and wider use. For various reasons, the scope of the Journal has shifted from this original aim. Finally, in the autumn of 2012, a decision was made that the publication would appear under a new title: “Folia theologica et canonica”. This development necessitates the launching of a new periodical with the goal of continuing to serve as a forum for Eastern canon law studies. It is our intention, God willing, that this review, the “Eastern Canon Law”, will appear semi-annualy in the future. In addition to publishing studies in Eastern canon law, it will continue to provide the annual bibliography, as it seems increasingly important to keep track of developments in this area, due to the constant growing num- ber of publications. It is hoped that this periodical may continue to rely on the co- operation and support of a community of enthusiastic and commit- ted academics who are united not only by ties of personal friendships and common interests, but also by participation in a series of an- nual conferences in Eastern canon law held over the past decade. This initiative could not even be considered without the certainty of such professional support and interest. It is hoped that this new publica- tion may loyally serve and further the development of Eastern canon law and thus the situation of the Eastern Churches.

ECL_2013_158×222.indd 9 7/27/2013 10:33:46 AM Finally, at the end of this introductory message, I would like to cite the same words with which “Folia canonica” was launched: “Sincere thanks to all Cooperators who have helped us to realize this publica- tion. We also hope that in the future our review may count on the contribution of those canon lawyers who consider important the de- velopment of the study of Eastern Canon Law, as well as the profound mutual investigation of Eastern and Western canon law system”.

— Editor —

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 Cyril Vasiľ s.j.

Sommario: Introduzione; 1. Cenni biografici; 2. P. Ivan Žužek, un gesuita orien- tale; 3. Il Pontificio Istituto Orientale e la Sede Apostolica: la missione di una vita; 4. Il lavoro nascosto e il lavoro pubblico: lo spirito di servizio ecclesiale di Žužek; 5. Il contributo di Žužek alla scienza canonistica: le tematiche e le pubblicazioni principali: 5.1 Il diritto slavo; 5.2 Ecclesiologia. La giurisdizione dei vescovi ortodossi dopo il Concilio Vaticano II; 5.3 “Ecclesialità” delle Chiese orientali cattoliche; 5.4 “Sacri” canoni; 6. L’impegno di Žužek per la Facoltà di diritto canonico orientale; 7. Qualche annotazione circa “una più stretta collaborazione tra la nostra Facoltà di diritto canonico e quella della Gregoriana”; 8. Maestro e amico; Bibliografia di Ivan Žužek, s.j.

Introduzione Il diritto canonico, come ogni altra scienza umana, ha la sua storia e i suoi protagonisti. La storia del diritto si sviluppa attraverso un pa- ziente lavoro di ricerca, attraverso il lavoro didattico e pedagogico, at- traverso gli importanti eventi ecclesiali con le rispettive ripercussioni sui concetti giuridici che poi portano alle nuove legislazioni, alle nuo- ve codificazioni. Per quanto riguarda i canonisti, di solito il loro nome si collega con l’uno o l’altro tipo di attività: quella di ricerca,quella pe- dagogica e di pubblicazioni, o con il loro coinvolgimento nei processi

* Giornata di studio: La Facoltà di Diritto canonico orientale del Pontificio Isti- tuto Orientale (1971–2011). Riflessioni sui primi quarant’anni di attività scien- tifica e suo influsso sulla scienza del diritto canonico orientale, 12 dicembre 2011, PIO, Roma.

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legislativi. Alcune persone, però, nella loro vita hanno avuto l’occa- sione storica di dimostrare la propria capacità e versatilità non solo in uno, ma in più o addirittura in tutti i campi summenzionati. P. Ivan Žužek s.j. è una di quelle persone a cui è stata data questa possibilità e che si è dimostrata all’altezza del compito che la Prov- videnza le ha posto dinnanzi. Seguendo la vocazione religiosa nella Compagnia di Gesù non ha mai pensato alla carriera accademica e tantomeno al lavoro in campo canonistico. Chiamato però a questo tipo di servizio, non si è tirato indietro e sorridendo diceva che, per non sentire il peso della fatica, prendeva il diritto canonico come un “bel gioco”. Guardando la sua vita, da suoi contemporanei, studenti o colleghi, ma anche oggi a distanza di anni, possiamo dire che non solo è stato coinvolto in un “grande gioco” su tutti questi campi, non solo ne è stato un eccellente protagonista, ma che – utilizzando il ger- go sportivo – era un vero playmaker.1

1 La guardia o playmaker (in inglese point guard) è uno dei ruoli standard della pallacanestro. È chiamato anche ruolo 1. Normalmente si tratta del giocatore con il miglior trattamento di palla. Essenzialmente, il playmaker ha il compito di guidare l’attacco della squadra, portando avanti il pallone e controllando- lo, assicurandosi di far partire l’attacco e lo schema al momento giusto. Gli schemi vengono usualmente “chiamati” dal playmaker indicandoli con le dita della mano, in una serie di gesti precedentemente concordati con i compagni di squadra. Le caratteristiche principali occorrenti a questo tipo di giocatore sono il trattamento di palla, la visione del gioco, il passaggio, la velocità e un buon tiro. Anche la capacità di penetrare la difesa avversaria e giungere al tiro da sotto canestro o dalle immediate vicinanze è ritenuta una caratteristica ap- prezzabile nel ruolo del playmaker. I playmaker sono spesso valutati più con gli assist che con i punti segnati. Nonostante questo, un buon giocatore di questo ruolo deve avere anche una buona capacità nel tiro dalla lunga distanza.

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ECL_2013_158×222.indd 14 7/27/2013 10:33:48 AM Ivan Žužek s.j. (1924–2004), il canonista orientale

1. Cenni biografici I limiti di questo contributo non permettono di fare un’ampia bio- grafia di Ivan Žužek, perciò ci limitiamo ai dati anagrafici essenziali e all’indicazione di alcuni importanti ruoli che egli ha ricoperto nel corso della fruttuosaf vita accademica e religiosa. Ivan Žužek nasce il 2 settembre 1924 a Ljubljana, attuale capitale dei Slovenia (incorporata all’epoca nel Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, denominato dal 1929 Regno di Jugoslavija), come quin- to di quindici figli (i primi due muoiono poco dopo la nascita). Viene battezzato tre giorni più tardi nella parrocchia di S. Pietro, nel 1930 riceve la prima comunione a Marijanišče, dove frequenta la scuola elementare presso le suore. Nel 1933 viene cresimato nel duomo di Ljubljana. Frequenta il ginnasio classico a Ljubljana, finendo la matu- rità solo il 14 settembre 1944, in pieno conflitto mondiale e durante la guerra civile che sconquassa la Slovenia negli anni 1943–1945. L’esperienza crudele della guerra lo porta nelle file deidomobran - ci, con i quali condivide le battaglie, la duplice cattura e la tragica sconfitta. Arrendendosi insieme ai suoi commilitoni all’esercito bri- tannico, contro tutte le convenzioni internazionali e le leggi di guerra, viene riconsegnato ai partigiani titini e mandato in questo modo ad una morte sicura. Dalle torture e dall’esecuzione sommaria, dalla fa- migerata foibizzazione, toccata a quasi tutti suoi commilitoni, si salva grazie ad una rocambolesca fuga dal treno che lo trasportava verso la morte. Dopo un passaggio attraverso il campo profughi in Austria riesce a ricongiungersi con altri membri della propria famiglia nei campi di profughi in Italia. Mentre altri famigliari intraprendono la strada dell’emigrazione verso l’Argentina, Ivan Žužek, insieme con il fratello Nicola, rimane in Italia. Infatti qui si concretizza finalmente la sua vocazione religiosa maturata in pieno conflitto militare. Il 31 ottobre 1945 entra nel noviziato della Compagnia di Gesù a Lonigo, nella provincia di Vicenza. Il 1° novembre 1947 emette i primi voti a Gallarate, dove nei giorni 29–31 maggio 1950 riceve anche la

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tonsura e gli ordini minori dalle mani del vescovo Joachim Muccin. Dal 1949 nasce in lui il desiderio di consacrarsi come gesuita all’apo- stolato di Russia. L’assistente P. Prešeren accoglie questo suo desiderio e il 21 novembre 1949 gli comunica la sua decisione: Žužek dovrà imparare la lingua russa e tutto quello che riguarda il mondo russo, per poter svolgere fruttuosamente in futuro il suo apostolato. Così, dal 1950, comincia a studiare il russo e a lavorare regolarmente con la diaspora russa, principalmente con i giovani russi al collegio “Foyer Saint Georges” a Meudon presso Parigi. In un certo modo Žužek di- venta “russo” davvero. Il 12 luglio 1954 gli viene concesso il “transitus ad ritum byzantino-slavicum” e di conseguenza, il 24 dicembre 1954, il vescovo russo Alessandro Evreinoff gli conferisce gli ordini minori, il subdiaconato e diaconato. Lo stesso vescovo, sempre nella chiesa di S. Antonio del Collegio Russicum, il 9 aprile 1955 lo ordina sacerdote. Da quell’anno anche nei suoi scritti privati, come nel suo diario, co- mincia a scrivere in russo, abitudine che cambia dopo cinque anni. Il rito bizantino-russo diventa la sua forma di spiritualità e di preghiera fino alla morte. La sua formazione religiosa si conclude con la profes- sione dei quattro voti il 2 febbraio 1963 nella chiesa del Gesù a Roma.

2. P. Ivan Žužek, un gesuita orientale A questo punto sembra utile una piccola digressione per specificare ulteriormente un argomento che tocca la vita di Žužek: la sua appar- tenenza al rito bizantino, come parte della missione della Compagnia di Gesù verso il mondo orientale. Come abbiamo accennato nella breve nota biografica, a partire dal 1950 Žužek comincia a studiare il russo e il mondo russo. Questo suo impegno collima con l’attività della Compagnia di Gesù in questo periodo. Dopo la guerra, il nuovo Preposito generale, Giovanni Janssens, affronta in maniera completa la questione dell’apostolato orientale della Compagnia di Gesù. Venticinque anni dopo l’inizio dell’operato della missione orien- tale in Polonia, e in vista del lavoro dei padri orientali in varie case e

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missioni orientali a Roma, nei Balcani e in Medio ed Estremo Orien- te, con la lettera del 25 dicembre 1950 il Preposito generale riassume i risultati dell’operato dei gesuiti orientali e ne traccia il nuovo quadro istituzionale. Questo documento costituisce la carta di fondazione formale del Ramo orientale della Compagnia di Gesù. Emanata nel giorno della Natività del Signore, oltre che un atto formale di nascita di una nuova struttura amministrativa della Compagnia, la lettera di P. Janssens costituisce una specie di Magna charta dell’idea di aposto- lato orientale della Compagnia. Fra l’altro vediamo che essa affronta la questione delle discussioni “sine fine” sull’opportunità della creazio- ne del specifico ramo orientale della Compagnia. La questione è stata a lungo discussa nell’ambito della Compagnia stessa, ma finalmente si è arrivati alla conclusione – in obbedienza anche alle indicazioni della Santa Sede – che il ramo orientale ha la sua giustificazione e prospettiva: “Si inter nos quis dubitaverit de opportunitate rami Orien- talis in Societate, voluntas atque pienissima approbatio Sanctae Sedis rem dirimit.”2 L’identificazione della Chiesa cattolica con la Chiesa latina e della Compagnia con il rito latino rivelano, secondo Janssens, una ristrettezza mentale. Per fortuna, latius patet Cor Christi quam ut angustis limitibus nostrae mentis nostrique cordis terminetur. La lunga lettera di P. Janssens è veramente molto bella e merite- rebbe uno studio approfondito: è piena di spirito profetico e di vero slancio apostolico degno dei figli di sant’Ignazio. Alla lettera segue un altro documento di carattere giuridico: Ordinatio pro ramo Orientali Societatis Iesu.3

2 Acta Romana Societatis Iesu anni 1950, Romae 1951, 887. 3 In questo documento viene specificato che appartengono al ramo orientale tut- ti coloro che sono nati in qualche Chiesa orientale o che hanno adottato il rito orientale. Il documento auspica l’apertura del noviziato per il ramo orientale, ammettendo che nel frattempo si compia la formazione dei novizi orientali nei noviziati delle singole province, che però devono dare ai novizi la possibilità di partecipare alla vita liturgica e di acquisire la formazione spirituale corri-

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Tutte le persone appartenenti al Ramo orientale sono messe sotto la giurisdizione diretta del Generale, che la esercita attraverso il suo Delegato. Notiamo con interesse che la Compagnia organizza il suo apostolato orientale, specialmente slavo, in un periodo della storia, in cui pratica- mente tutte le Chiese orientali cattoliche di rito bizantino-slavo si tro- vano oltre la cortina di ferro, soppresse e perseguitate. L’idea di andare a svolgere il lavoro missionario in Unione Sovietica è ormai preclusa e ad un osservatore oggettivo potrebbe sembrare del tutto assurdo e ingenuo prepararsi per una missione che sembra non avere nessuna speranza. Proprio per questa ragione è da ammirare il coraggio e la fede di una generazione di gesuiti che con slancio, con amore, con sacrificio si sono offerti a tale missione. Non potendo andare in Russia per il lavoro mis- sionario, i membri del ramo orientale cominciano a lavorare con i Russi in diaspora. Specialmente nei tempi post-bellici, cresce fra l’emigrazio- ne russa il bisogno di un aiuto materiale e spirituale, le case di forma- zione per i giovani, ecc. Alcuni gesuiti si dedicano con grande fervore al lavoro nei centri religiosi e culturali russi, da Parigi al New York, altri aprono parrocchie russe cattoliche, da Buenos Aires a San Francisco. Quelli che si dedicano agli studi orientali di lì a poco diventeranno veri maestri e autorità scientifiche nel loro campo di studio: lo conferma la storia del Pontificio Istituto Orientale, piena di nomi che lo hanno reso noto nel mondo accademico, come la storia personale di Žužek.

spondenti al loro rito. Per la formazione filosofico-teologica si richiede, oltre al consueto iter gesuitico, una speciale preparazione nella lingua e storia russe, e nella teologia ortodossa. Durante la terza pronazione si richiede che la forma- zione ascetica e della vita religiosa sia condotta sui testi dei Padri greci, e che si facciano esercitazioni nella prassi liturgica orientale. Gli studi superiori degli orientali devono essere svolti in materie orientali, specialmente al Pontificio Istituto Orientale. Padre Janssens entra anche nei dettagli della vita di pre- ghiera dei gesuiti orientali, stabilendo le norme sulla durata delle liturgie, della preghiera personale dell’ufficio sacerdotale, delle funzioni nelle chiese aperte al pubblico ecc.; cf. Acta Romana (nt 2.), 897–901.

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Esula dai limiti di una breve conferenza elencare i lavori svolti da decine di gesuiti che hanno vissuto la loro vita al servizio di quel- le Chiese orientali, che erano perseguitate e soppresse nei loro paesi d’origine, sconosciute e sottovalutate nel mondo occidentale. Qualcu- no potrebbe obiettare che questi gesuiti erano romantici illusi e fal- liti, dato che non sono riusciti a convertire al cattolicesimo il mondo orientale. Forse, ma d’altra parte è un fatto incontestabile che, se nella storia della Chiesa e nell’atteggiamento della Chiesa maggioritaria, cioè quella latina, è cambiato l’atteggiamento verso l’Oriente cristia- no, è senz’altro merito anche di questi “coraggiosi sognatori” che si sono fatti avvocati di una causa che sembrava persa in partenza. La Compagnia di Gesù, con la Sua obbedienza al Santo Padre e attra- verso l’incoraggiamento di una missione affidatale dalla Chiesa, ha dimostrato in quell’epoca il sentire cum Ecclesia davvero ignaziano. Nel 1957 sono già ottantuno i gesuiti di rito bizantino-slavo che assieme a gesuiti di altri riti orientali fanno parte del ramo orientale che contava in tutto 196 gesuiti. Žužek è uno di essi. Se oggi alla Compagnia di Gesù mancano le vocazioni religiose in genere, e per il lavoro nel modo orientale in particolare, c’è da chiedersi “perché”, quale è oggi il nostro sentire cum Ecclesia se non suscitiamo più quell’entusiasmo che porta al desidero di consacrare la vita ad una missione difficile ma affascinante.

3. Il Pontificio Istituto Orientale e la Sede Apostolica: la missione di una vita Žužek arriva al Pontificio Istituto Orientale il 25 settembre 1957 e vi rimane per quarantasette anni, fino alla sua morte nel 2004. Dopo il primo anno al PIO, nel quale ottiene un baccalaureato nelle Scienze ecclesiastiche orientali, comincia subito ad insegnare il russo, corso di lingua che terrà fino al 1973. Nel 1958 comincia gli studi di diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana: ottiene la licenza nel 1961 e difende la tesi dottorato il 23 giugno 1962. Dal successivo anno

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accademico comincia ad insegnare Diritto al PIO, il 29 giugno 1964 diventa professore straordinario e il 2 dicembre 1967 professore ordi- nario. Nel 1967 diventa Rettore del PIO: dopo la nomina del 22 ago- sto 1967 entra in carica il 21 settembre successivo e vi rimane per sei anni, fino al settembre 1973. Già dal 10 giugno 1972 comincia lavorare nella Pontificia Commissione per la Revisione del Codice di Diritto Canonico Orientale (PCCICOR), prima come Pro-Segretario e dal 22 ottobre 1977 come Segretario, fino al 31 gennaio 1991, quando passa all’ufficio di Sottosegretario del Pontificio Consiglio per l’Interpreta- zione dei Testi Legislativi, dove rimane fino alla fine di giugno 1995 e, come Consultore, dal 31 agosto 1995 fino alla morte. Non è l’unico in- carico di Consultore dei Dicasteri romani: infatti, già dal 1968 al 1973 aveva svolto l’incarico di Consultore del Segretariato per l’Unità dei Cristiani, e dal 1973 fino alla morte è Consultore della Congregazione per le Chiese Orientali. Oltre al lavoro nelle istituzioni vaticane, soprattutto nella PCCI- COR, sono numerose le sue attività di carattere accademico e scien- tifico. Appena diventato Rettore del PIO, comincia ad organizzare la “Societé de Droit des Eglises Orientales”. Per due anni dirige la Segreteria provvisoria, fino alla formale istituzione della Società che avviene al PIO il 29 settembre 1969 e di cui diventa il fondatore; fino al 1991 è membro del “Board” di questa Società. Fra le altre parteci- pazioni accademiche va menzionata la sua partecipazione all’Acca- demia Teologica Slovena, fin dalla sua istituzione nel 1978; è inoltre membro attivo della “Societas Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo” e, dal 1993, Life Member della “Canon Law Society of Australia and New Zeeland”. Durante il periodo del suo lavoro in Vaticano Žužek lascia tutti gli incarichi ufficiali al PIO, ma nel 1998, nonostante il superamento del limite di età (70 anni), accetta la richiesta di svolgere un ulteriore servizio: dal 18 maggio 1998 fino al 16 marzo 2000 svolge l’incarico del Pro-Decano della Facoltà di Diritto Canonico Orientale. In que- sta Facoltà continua il suo insegnamento fino alla vigilia della sua

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morte. Žužek è stato trovato morto nella Base Nazionale degli Scouts d’Europa a Soriano nel Cimino, provincia di Viterbo, dove si recava spesso per il riposo nel fine settimana. Il ritrovamento è avvenuto il 2 febbraio, ma nel documento ufficiale medico-legale la data di morte è fissata al 31 gennaio 2004 ed è da considerarsi formalmente tale in tutti gli atti. Soltanto pochi giorni prima Žužek aveva concluso il suo ultimo corso accademico sulla storia della Codificazione orientale.

4. Il lavoro nascosto e il lavoro pubblico: lo spirito di servizio ecclesiale di Žužek Data la lunga carriera accademica e il lavoro ramificato in vari campi del Diritto,non è facile indicare quale sia stato il più importan- te contributo canonistico di Žužek. Di solito il criterio di valutazione più semplice è lo sguardo sulla bibliografia di un autore. Quella di Žužek, a confronto con molti altri autori, non è tanto lunga come uno potrebbe aspettarsi. I motivi sono principalmente due. Žužek ha dedicato gli anni più attivi della sua vita interamente al lavoro della Codificazione, come Segretario del PCCICOR. Testimo- nianza di questo suo impegno sono trentuno fascicoli di Nuntia da lui redatti e in maggior parte anche scritti. Il testimone più eloquente del suo lavoro è in fondo l’attuale Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, promulgato da Giovanni Paolo II il 18 ottobre 1990. Quan- to lavoro di ricerca, di organizzazione e di coordinamento si nasconda dietro questo suo incarico, lo possiamo solo immaginare. In questo caso si tratta del lavoro sommerso, che era svolto nel nascondimento e nell’anonimato a supporto del lavoro collettivo della Commissione Pontificia. Tutte le vicissitudini del suo lavoro da Segretario, le proce- dure, le opinioni, lo sviluppo delle idee che portavano ai cambiamenti legislativi, tutto questo veniva registrato nel suo diario che scriveva re- golarmente e minuziosamente in questi anni. Purtroppo non avremo mai la possibilità di conoscere le sue fatiche da Segretario da questo

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diario, perché lo stesso Žužek, finita l’opera legislativa e promulgato il Codice, decise di distruggerlo. In parole semplici, all’invito di Paolo VI, e poi di Giovanni Pa- olo II, Žužek è diventato il motore e lo spiritus movens dello storico lavoro legislativo della preparazione di un codice che fosse in grado di riassumere ed equilibrare la ricchezza disciplinare e legislativa di cin- que tradizioni orientali divise in ventidue Chiese con i loro rispettivi diritti particolari, armonizzando tutto questo con i principi legislativi comuni della Chiesa universale, con la tradizione dell’Oriente cristia- no e con il magistero del Concilio Vaticano II. Questo lavoro gli ha occupato i diciotto anni più attivi della vita. Infatti, quando nell’ot- tobre 1990 si è arrivati alla pubblicazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, in questo modo, per la prima volta nella storia della Chiesa, l’Oriente cristiano ha ottenuto un unico Codice promulgato dal Romano Pontefice. Questo lavoro era di una complessità inim- maginabile per chiunque non fosse consapevole di tutte le insidie di questo sforzo legislativo. Žužek una volta mi disse: “Mi hanno inca- ricato di questo lavoro perché ci voleva proprio uno con la testa dura, uno che non molla mai, finché non porta l’incarico in porto.” Infatti, Žužek ha svolto il lavoro scientifico, organizzativo e amministrativo con il modo a lui proprio, con un passo da montanaro instancabile – il famoso “passo Ivan” –, ma anche con una capacità di arrampicata libera, con una presa sicura sulla roccia, con un equilibrio sul sentiero strettissimo di una cresta rocciosa. Portava avanti il suo lavoro sui canoni del codice con la stessa tenacia con la quale tagliava le frasche e la sterpaglia nel terreno scouts a Soriano, creando i sentieri e le piaz- zole, scoprendo le strutture rocciose che nella sua fantasia prendevano nomi e nascondevano storie. Ci voleva tanta tenacia e scienza, ma an- che una buona dose di diplomazia, per mettere in sintonia il Romano Pontefice, la Curia Romana, i Patriarchi orientali, diverse scuole giu- ridiche orientali ed occidentali, tenendo al contempo presenti tutti gli aspetti ecumenici dei rapporti con il mondo ortodosso, per far nascere un completo testo legislativo del nuovo Codice. Quando le difficol-

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tà sembravano insormontabili, Žužek – mi confidò – aveva un’arma segreta che si è dimostrata sempre vincente: chiedeva alle coccinelle, cioè le ragazzine da otto a undici anni del gruppo scouts da lui spiri- tualmente guidato, le preghiere “per una intenzione di padre Ivan.” Un’ “Ave Maria” delle coccinelle: questa era l’arma segreta di padre Ivan per superare le resistenze umane e gli scogli legislativi del suo la- voro in Vaticano. Quando il Codice fu finalmente pubblicato, Žužek portò una delle prime cinque copie, la sua copia personale, firmata dal Papa Giovanni Paolo II, al santuario mariano di Brezje nella sua nativa Slovenia, nello stesso santuario dove era definitivamente ma- turata la sua decisione di diventare gesuita. Come egli stesso svelò in occasione del 50° anniversario della vita religiosa, la sua vocazione era nata infatti davanti al plotone di esecuzione dei partigiani titini, non per la paura di perdere la vita, bensì come risultato della chiara consa- pevolezza che il male del mondo, specialmente quel tipo di male che aveva davanti gli occhi, non basta combatterlo impugnando il fucile, ma che si tratta di una lotta contro il Principe delle tenebre che può essere combattuto e vinto “da figli della luce” con le armi spirituali. Talvolta, dalle persone che conoscevano Žužek, anche dai confra- telli in comunità,si sentiva dire che aveva una devozione e spiritualità semplici, anzi “da sempliciotto”: “C’è Dio, Creatore del cielo e della terra, che ha mandato il suo Figlio, eterno Verbo, il quale si è fatto uomo in Gesù Cristo nostro Salvatore. Gesù ha fondato e guida la Chiesa, e in terra lo rappresenta il Papa. E io amo Gesù, obbedisco alla legge di Dio e alle direttive del Papa, cercando di fare del mio meglio.” Sì, un atteggiamento davvero semplice, non so se dei sempliciotti, ma sicuramente quello dei santi. Chi conosceva Žužek un po’ me- glio sapeva che non era per niente un sempliciotto, semmai era una persona “semplice” in senso evangelico, anzi, sicuramente era una persona che ha preso sul serio le parole del vangelo “Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe” (Mt 10, 16). Questo atteggiamento ha dimostrato Žužek in tutta la sua vita, accademica e

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personale. Come dice san Giovanni Crisostomo: “Dio non ordina di essere solamente semplici o solamente prudenti, ma unisce queste due qualità, in modo che diventino virtù. Esige la prudenza del serpente, perché tu non riceva delle ferite mortali, e la semplicità della colomba, perché non ti vendichi di chi ti ingiuria e non allontani con la ven- detta coloro che ti tendono insidie. A nulla giova la prudenza senza la semplicità.” Žužek ha capito nella sua vita questo insegnamento del grande Padre orientale: finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto del pastore. Anche per lui è come se Cristo avesse detto: Non turbatevi per il fatto che, mandandovi tra i lupi, io vi ordino di essere come agnelli e colombe. Avrei potuto dirvi il contrario e risparmiarvi ogni sofferenza, impedirvi di essere esposti come agnelli ai lupi e rendervi più forti dei leoni. Ma è necessario che avvenga così, poiché questo vi rende più gloriosi e manifesta la mia potenza.4 Il secondo motivo per il quale la sua bibliografia non è eccessi- vamente lunga è il fatto che Žužek visceralmente odiava scrivere le cose “ovvie” o già conosciute. Non era un autore di opere didattiche o divulgative: non perché disprezzasse questo utilissimo impegno per la scienza canonistica, ma perché preferiva lascarlo agli altri e concen- trarsi invece ad una ricerca che portasse alle nuove scoperte, agli ap- procci innovativi verso il problema studiato, offrendo le risposte alle domande urgenti e complesse. Anche di questi suoi studi conosciamo direttamente solo una piccola parte; gran parte del suo lavoro si trova nei suoi voti per vari dicasteri romani, coperti ancora dal Segreto Pon- tificio. Sono sicuro che una volta aperti gli archivi vaticani, dei vari Dicasteri o dei personaggi di spicco della Curia romana e desecretati i voti di Žužek, i ricercatori futuri arricchiranno la sua bibliografia

4 Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo, 33, 1.2, in Patrologia Graeca 57, coll. 389–390.

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esponenzialmente al confronto delle sue opere pubblicate, permetten- do in questo modo di completare il quadro delle sue opere e del suo contributo alla canonistica orientale. Per questa ragione considero il presente contributo solo un mode- sto primo abbozzo – possibile oggi – ma che sicuramente in futuro dovrà essere sviluppato e approfondito maggiormente sulla base delle informazioni per il momento non disponibili. Inoltre, non è nostra intenzione fare una rassegna completa della bibliografia di Žužek; vogliamo piuttosto presentare alcuni suoi contributi che, a nostro pa- rere, sono da ritenere più significativi, in quanto hanno dato una svol- ta decisiva alla discussione di qualche problema, oppure addirittura hanno dato la risposta definitiva, concludendo il dibattito in merito.

5. Il contributo di Žužek alla scienza canonistica: le tematiche e le pubblicazioni principali 5.1 Il diritto slavo Come abbiamo visto nella nota biografica, l’approccio di Žužek verso la vita accademica comincia con l’insegnamento della lingua russa. Il mondo russo è al centro della sua attenzione anche agli inizi dello studio del diritto.

Kormčaja Kniga: Studies on the Chief Code of Russian Canon Law, Roma 1964 (Orientalia Christiana Analecta 168), xii+328 pp.

Il suo lavoro dottorale viene dedicato al principale codice canonis­ tico del mondo bizantino-slavo, la cosiddetta Kormčajakniga. Questa collezione di leggi ecclesiastiche si fonda su collezioni greche (Syn- tagma di Giovanni Scolastico, Nomocanone di 14 titoli e Nomocano- ne di Fozio) alle quali in alcune edizioni vengono aggiunte le opere giuridiche di origine slava come Zakon sudnyj ljudem dei SS. Ciril- lo e Metodio o Trebnik di Pietro Moghila e commenti dei canoni-

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sti greci. Il nome Kormčajakniga viene utilizzato in Russia a partire dal XIII secolo. La tradizione manoscritta conosce diverse famiglie di Kormčaja. Tutti i gruppi di manoscritti, insieme con le antiche edizioni a stampa, sono stati oggetto di studio e classificazione in quest’opera principale di Žužek. In seguito egli passa allo studio del rapporto di Kormčaja con Pravda Russkaja, cioè con il più antico mo- numento di diritto civile presso i Russi, con gli Statuti dei Principi di Kiev, con le istruzioni e le lettere canoniche dei metropoliti e dei vescovi, e infine con i sinodi della Chiesa russa dal 1274 fino al 1667. Del tutto innovativa è la parte III del suo studio dedicata all’utilizzo della Kormčaja nel periodo 1700-1919 a partire dall’edizione stampata dal patriarca Nikon nel 1653. Žužek studia il rapporto fra Kormčaja e i Duchovnyj Reglament (Statuti spirituali o ecclesiali) di Pietro I, come anche l’utilizzo della Kormčaja nella pratica giuridica del Santo Sino- do e dei tribunali ecclesiastici fino al 1839, cioè fino alla pubblicazione di una nuova collezione canonica russa, cosiddetta Kniga pravil. Lo studio di Žužek è stato il primo lavoro complessivo sulla Kormčaja kniga e finora non è stato superato. Dopo la sua pubblica- zione, nel 1964, è stato accettato con entusiasmo dagli studiosi, so- prattutto del mondo ortodosso, che hanno inserito quest’opera fra i testi di base nei loro programmi di studio di diritto canonico.5 A tale riguardo è molto interessante leggere le pagine – che abbiamo ritrova- to conservate da Žužek nella prima edizione della sua Kormčaja kniga – dello scambio epistolare fra i due luminari della scienza storico- canonistica russa, il prof. Troickij e il prof. Ščapov.

5 Per le recensioni cf. Byzantinische Zeitschrift 59 (1966) 163–167 (Rudolf Müller); Annali di Storia del Diritto, Rassegna internazionale 10–11 (1966–1967) 580–586 (Antonio D’Emilia); St Vladimir’s Seminary Quarterly 12/1 (1968) 48–50 (Paul Lazor); Roczniki teologiczno kanoniczne 24 (1977), zeszyt 5, 153–156 (Edmund Przekop); Theological Studies 26 (1965) 356–357 (Felix F. Cardegna s.j.). Cf. an- che Ja. N. Ščapov, Vizantijskoje i južnoslavjanskoe pravovoje nasledije na Rusi v XI–XIII vv, Moskva 1978, 32, 35, 84, 154, 193, 194, 197.

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“The Determining Structure of the SlavicSyntagma of the Fifty Titles”, in Orientalia Christiana Periodica 33 (1967) 139–160.

Lo studio delle fonti del diritto canonico presso i popoli slavi ha portato Žužek ad occuparsi anche del più antico monumento giuridi- co, comunemente chiamato nomocanone di Metodio, menzionato nella Vita di Metodio redatta subito dopo la morte di questo apostolo degli Slavi.6 Che cosa si intende nel suddetto testo per nomocanone? In quel tempo (IX sec.) esistevano varie collezioni canoniche in lingua greca che portavano il nome di nomocanone.7 L’autorità di quest’ultimo no- mocanone andava crescendo e proprio durante questo periodo viene riformato ed aggiornato. Di fatto due di queste collezioni (Synagoge di 50 titoli di Giovanni Scolastico e Syntagma di 14 titoli) furono ben

6 “Compiuta l’opera, rese grazie e lode a Dio che gli aveva concesso una gra- zia tanto grande e un rapido successo. Offrendo poi con il suo clero la santa oblazione mistica, fece memoria di S. Demetrio. Infatti già prima con il Filo- sofo aveva tradotto soltanto il Salterio e il Vangelo con l’Apostolo e passi scelti dall’ufficio ecclesiastico. Quindi tradusse anche il nomocanone, cioè la regola della legge e libri dei Padri.” 7 Cf. Wilibald Plöchl, Storia del diritto canonico, Milano 1953, I, 289. Per nomo- canone si intende una raccolta di leggi statali in materie ecclesiastiche (nomos) e di diritto canonico (kanon). Nel mondo ecclesiastico bizantino i più usati erano da una parte il Nomocanone basato sulla Synagoge di 50 titoli di Giovanni Scolastico, combinata con la Collezione degli 87 capitoli delle leggi civili (VI sec.), e dall’altra il Nomocanone di 14 titoli basato su una successiva collezione canonica di un anonimo, Syntagma di 14 titoli (VII sec.), combinata con la Collectio tripartita delle leggi civili. La Synagoge di 50 titoli, di Giovanni Scolastico, è stata composta verso l’anno 550 e comprende 85 “canoni degli apostoli”, i canoni dei dieci sinodi (ecumeni- ci e locali) e i canoni tratti dalla II e III lettera di S. Basilio. Dopo l’anno 565 Giovanni Scolastico compose anche la Collezione degli 87 capitoli, attingendola dalle Novelle giustinianee. Il Nomocanone di 14 titoli fu composto dal dotto giurista Enanthiofanes pro- babilmente verso il 629. Questo Nomocanone divenne la base della raccolta dei canoni attribuita al patriarca Fozio I.

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presto tradotte anche in paleoslavo; infatti le più antiche trascrizioni e traduzioni sono tuttora conservate sul territorio russo, proprio in alcune varianti dei manoscritti di Kormčaja kniga. Ma qual è stata la traduzione operata da Metodio e menzionata nella sua Vita?

Primo, fondamentale risultato delle ricerche di diversi studiosi è il loro accordo sul fatto che s. Metodio sia autore della traduzione slava della Synagoge di 50 titoli di Giovanni Scolastico. S. Metodio ha tra- dotto in paleoslavo la collezione delle leggi ecclesiastiche8, priva delle leggi civili. Così è più giusto affermare che egli abbia tradotto non un nomocanone, ma abbia preso come punto di partenza la Synagoge di 50 titoli di Giovanni Scolastico per quanto riguarda i contenuti. Anzi, ri- cordiamo la collezione composta nella prima parte da titoli con breve descrizione della materia (o anche elenco dei rispettivi canoni) e nella seconda parte il testo intero dei canoni, che il famoso slavista russo Beneševič9 ha proposto di chiamare Syntagma, perché questo ordine è tipico per il Syntagma di 14 titoli. Questo ordine vale anche per la traduzione fatta da Metodio, la quale, partendo dalla Synagoge di 50 titoli di Giovanni Scolastico, usa la medesima struttura del Syntagma di 14 titoli. Dei diversi autori che studiano l’opera di s. Metodio, solo Žužek utilizza di conseguenza questa terminologia più appropriata. Il segno caratteristico più marcato del Syntagma di Metodio è la brevità del testo rispetto al suo modello greco. Mentre gli altri autori, prima di Žužek, semplicemente constatavano il minore numero dei canoni, Žužek, comparando il testo greco, nota che la Syntagma di s. Metodio omette ben 142 canoni dalla Synagoge di Giovanni Scolasti- co, quindi il 37,5 % dei canoni. Andando più avanti, scopre che sono stati omessi soprattutto i canoni con testo lungo,cosicché il testo del

8 Le leggi sono indicate non secondo un ordine cronologico, ma secondo un elenco dei titoli che è posto al suo inizio. 9 Cf. V. N. Beneševič, Joannis Scholastici Synagoga L titulorum ceteraque eiusdem opera iuridica, München 1937.

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Syntagma di Metodio corrisponde difatti solo al 50% dello spazio del testo greco. Su quale principio era regolata la scelta fatta da Metodio ? Quali canoni erano omessi e per quale ragione ? L’omissione era subordinata a qualche principio ideologico ? Queste le domande prin- cipali di cui si occupavano negli anni ‘60 del XX secolo vari autori trattando del lavoro canonistico di s. Metodio. Le soluzioni proposte si dividevano principalmente in due gruppi. Lo slavista ceco Josef Vašica nota che Metodio crea un “epitomè”, un estratto dalla collezione di Giovanni Scolastico. Nella tradizione dei vari manoscritti greci il numero dei canoni non veniva mai cambiato, piuttosto variava il loro ordine. Vašica spiega questa notevole diversità, sottolineando lo stato giuridico di Metodio; infatti la giurisdizione e la potestà ricevute direttamente dal Papa gli avevano dato questa au- torità, come arcivescovo della Pannonia e Moravia indipendenti dalle strutture e dai limiti del patriarcato di Costantinopoli. Secondo Vašica, le scelte di Metodio sono molto ragionevoli ed equilibrate; qualora la stessa norma sia promulgata in vari canoni, egli ne sceglie uno solo, mentre omette i canoni la cui materia non era applicabile in Moravia. Diversamente spiega le abbreviazioni Troickij10 secondo un princi- pio “anti-imperialistico”, vale a dire che secondo Troickij s. Metodio esclude i canoni che sembrano favorire le pretese giuridico-ecclesia- stiche di due grandi patriarcati, quello costantinopolitano e quello romano. Proprio per questa ragione, dunque, Metodio aveva scelto la collezione di Giovanni Scolastico e non quella del Syntagma di XIV titoli a quel tempo più diffusa, mentre la precedente doveva essere più imparziale.11

10 S. Troickij, “Apostol slavjanstva sv. Mefodij kak kanonist”, in Žurnal Mosko- vskoj Patriarchii 3 (1958) 38–51. 11 Per la sua teoria sull’antipapalismo di Metodio, Troickij si basa sulle seguenti particolarità del testo di Metodio: – Metodio nella prefazione nomina papa Onorio e la condanna promulgata nei suoi riguardi dal VI concilio ecumenico;

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Žužek trova queste spiegazioni artificiali e subordinate ad un’idea preconcetta di Troickij sull’antipapalismo di Metodio; l’apriorismo dello studioso influenza anche interpretazioni di fatti facilmente spie- gabili. Secondo Žužek il motivo determinante per spiegare la strut- tura del Syntagma di Metodio è riconducibile alla volontà metodia- na di comporre un breve manuale di diritto canonico e non già il preparare un’edizione della collezione canonica. Di conseguenza egli scelse i canoni che riflettevano più chiaramente il contenuto elencato nei titoli, e ha omesso tutti quelli ritenuti inutili, ridondanti, lunghi, confusi, arcaici o semplicemente inapplicabili alla chiesa di Moravia. S. Metodio, pur abbreviando la collezione greca, riesce a conservare lo spirito della legislazione e i punti essenziali della disciplina ecclesiasti- ca. Nella sua conclusione finale Žužek infatti sottolinea che il lavoro fatto da Metodio è frutto di una propria scelta critica e di un’ottima conoscenza della materia. Le conclusioni di Žužek sono considerate corrette anche dagli altri autori che si occupano di questa materia. Confrontandosi con argo- mentazioni di Žužek, lo stesso Troickij, nella sua lettera del 21 luglio 1967, gli scrive: “La ringrazio molto per la sua coscienziosa e del tut- to corretta critica del mio articolo su san Metodio come canonista”, non aggiungendo obiezioni rilevanti contro le conclusioni di Žužek. Possiamo considerare anche questo piccolo dettaglio come un segna- le di riconoscimento da parte di un autorevole scienziato ortodosso.

– ha incluso 34 canoni di s. Basilio ai quali Roma non dava valore vincolante; – ha incluso 29 canoni degli Apostoli non riconosciuti a Roma come legge eccle- siastica; – ha usato il titolo di patriarca per il vescovo di Costantinopoli, mentre proprio in quel tempo papa Nicola I nella sua lettera Responsa ad Bulgaros non lo usa; – ha tradotto il 3° canone del II concilio ecumenico nel senso che la Sede costan- tinopolitana ha gli stessi diritti “con” la Sede Romana; – ha interpretato correttamente il 34° canone degli Apostoli che – secondo Troi- ckij – fu utilizzato abusivamente da parte degli “imperialisti ecclesiastici” orientali ed occidentali.

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Infatti, dopo l’articolo di Žužek l’argomento sulle motivazioni delle abbreviazioni del Syntagma di s. Metodio non è stato più riaperto e l’interpretazione di Žužek è stata comunemente accettata come defi- nitiva. Con la sua tesi dottorale e il successivo studio sul Syntagma di s. Metodio Žužek si è guadagnato un posto in tutte le bibliografie che riguardano le fonti di diritto canonico slavo antico. Purtroppo, a causa di impegni di diverso tipo, quelli accademici e quelli presso la Santa Sede, il nostro autore non ha continuato con le sue pubblicazio- ni su questo argomento, per il quale si è dimostrato particolarmente adatto, anche se è rimasto sempre attento a questo campo di ricerca. La sua ottima conoscenza delle fonti antiche del diritto slavo, molto apprezzate nel mondo ortodosso in quanto basate sui sacri canoni del primo millennio, gli è stata successivamente molto utile nel processo di codificazione canonica.

5.2 Ecclesiologia. La giurisdizione dei vescovi ortodossi dopo il Concilio Vaticano II L’interesse per il mondo ortodosso caratterizza un altro importante studio di Žužek, quello che riguarda la vexata quaestio dell’ecclesio- logia pre-ecumenica, cioè la domanda sulla giurisdizione dei vescovi ortodossi. Nei nove secoli che precedono il Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica praticamente sosteneva che la gerarchia separata era da considerarsi illegittima. Infatti si partiva dal presupposto che tutti gli ortodossi erano in cattiva fede e quindi colpiti – a causa dello sci- sma – dalla scomunica maggiore. I vescovi ortodossi perciò venivano considerati sospesi a divinis in quanto consacrati a loro volta da per- sone scismatiche scomunicate. Le nomine episcopali per determinate sedi erano invalide in quanto fatte da persone incapaci di porre gli atti giuridici ed eseguite nei confronti di altre persone inabili. Al massimo si concedeva agli ortodossi una iurisdictio suppleta per il foro interno, riconoscendo il loro governo de facto, ma certo non de iure. Anche i

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patriarcati ortodossi sono stati considerati de iure non esistenti, e le comunità ortodosse non erano considerate vere Chiese. Il riconosci- mento della validità dell’ordinazione episcopale presso gli ortodossi si avvaleva della distinzione tra la potestà di ordine e quella di giurisdi- zione, che “immediate a Romano Pontifice in episcopis descendit”. Nell’epoca post-conciliare Žužek comincia ad interessarsi since- ramente delle conseguenze canoniche ed ecumeniche del magistero conciliare riguardante le Chiese orientali. A partire dal primo studio

“Animadversiones quaedam in decretum de Ecclesiis orientalibus catholicis Concilii Vaticani II”, in Periodica de re morali, canonica, liturgica 55 (1966) 266-288,

e in un altro articolo

“La giurisdizione dei vescovi ortodossi dopo il Concilio Vaticano II”, in La Civiltà Cattolica 122 (1971) 551-562,

apparso in La Civiltà Cattolica, e perciò dopo l’approvazione del- la Segreteria di Stato, Žužek, partendo dai testi e dal contesto dei documenti del Vaticano II, riesce definitivamente ad invertire l’ar- gomentazione canonica e le sue conseguenze ecclesiologiche riguar- do alla giurisdizione dei vescovi ortodossi. In primo luogo fa valere la considerazione conciliare che gli ortodossi di oggi sono in buona fede e non hanno colpa personale per la divisione della Chiesa. Non si può perciò applicare a loro una praesumptio iuris sulla scomu- nica, o circa la sospensione per infamia iuris o l’irregolarità ex de- licto. Successivamente, partendo dalla dichiarazione di Ecclesiarum Orientalium 5 circa il diritto e dovere delle Chiese orientali di reg- gersi secondo le proprie discipline particolari, Žužek spiega che nelle Chiese ortodosse ancora oggi la missio canonica si conferisce secondo gli antichi canoni orientali mai revocati. Gli ortodossi infatti non sono da considerarsi come quelli “fuori chiesa”, ma in una certa co-

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munione, anche se imperfetta, con la Chiesa cattolica. Richiaman- dosi alle allocuzioni di Paolo VI che chiamava le Chiese ortodosse come venerabili Chiese in una comunione quasi totale, anche se non ancora perfetta, Žužek condivide sinceramente l’anelito ecumenico postconciliare e ne trae conseguenze ecclesiologiche e canoniche. Inoltre, partendo da Lumen Gentium 21 argomenta che riconoscen- do ai vescovi ortodossi il munus sanctificandinon si può negare loro la validità anche degli altri due munera, quello di insegnare e quello di governare. Il testo conciliare, che dice che questi uffici non pos- sono essere esercitati se non nella comunione gerarchica con il capo e con le membra del collegio episcopale, è interpretato da Žužek nella maniera seguente: se per la validità di atti connessi con l’ufficio di santificazione è sufficiente la determinazione del compito che de facto detiene un vescovo ortodosso, perché ciò non sarebbe suffi- ciente anche per la validità degli atti derivanti dai munera docendi et gubernandi ? Žužek conclude: tutti gli atti giurisdizionali dei ve- scovi ortodossi sono da considerare come compiuti in comunione gerarchica con la Chiesa cattolica e quindi giuridicamente validi e leciti, eccetto quelli che fossero contrari alla Scrittura, alla dottrina cattolica e alla legge naturale. Oggi troviamo queste argomentazioni di Žužek ovvie e general- mente accettate, ma all’epoca segnavano una svolta nell’ecclesiologia cattolica.

5.3 “Ecclesialità” delle Chiese orientali cattoliche Il contributo di Žužek alla percezione della “ecclesialità” delle Chiese orientali non si limita al mondo ortodosso. Anche i cattoli- ci orientali sono stati oggetto del suo studio. Nel mondo abituato a trattare gli orientali come appartenenti ad un rito, Žužek propugna fortemente il concetto di appartenenza ad una determinata Chiesa orientale: è il concetto che porta all’attuale terminologia codiciale che parla delle Chiese sui iuris.

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Quando nel 1975 apparve il suo articolo:

“Che cosa è una Chiesa, un rito orientale?”, in Seminarium 27/2 (1975) 263–277,

l’ecclesiologia e la terminologia ecclesiologica delle Chiese orientali stavano entrando in una nuova, importante fase. Non intendiamo ripetere qui la dettagliata analisi dello sviluppo terminologico e teo- logico riportata da Žužek. Basta ricordare che praticamente fino alla promulgazione del CCEO, avvenuta il 1° ottobre 1990, ritus rimaneva un termine di vasta ampiezza semantica il cui preciso significato do- veva essere stabilito dall’esame del contesto in cui si trovava. Già prima del concilio di Firenze gli autori riscontrano nei docu- menti pontifici più di trenta significati diritus . Nei testi del concilio di Firenze ritus è spesso sostituito con alcuni sinonimi come mos, con- suetudo, e con l’espressione natio utilizzata per indicare una Chiesa orientale.12 Una certa polivalenza terminologica possiamo riscontrarla nella le- gislazione orientale pre-conciliare e nei testi del Vaticano II, per esem- pio nel Decreto Orientalium Ecclesiarum (OE).

– Nei canoni di Postquam Apostolicis Litteris e Cleri Sanctitati la parola ritus viene utilizzata sia per indicare il modo di vivere la fede sotto tutti gli aspetti – liturgia, disciplina ecclesiastica, patrimonio spirituale – sia per indicare determinate comunità ecclesiastiche rico- nosciute come persone giuridiche, cioè concrete Chiese orientali che si caratterizzano attraverso la loro appartenenza ad un determinato rito liturgico.

12 Cf. Ivan Žužek, “Che cosa è una Chiesa, un rito orientale?”, in Seminarium 27/2 (1975) 263.

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– La Commissione preparatoria per il Decreto Orientalium Ec- clesiarum intendeva applicare il termine ritus “sensu stricto … ad res liturgicas”. 13 – Ritus – secondo OE 3 – è il modo di vivere la fede sotto tutti gli aspetti: liturgia, disciplina ecclesiastica, patrimonio spirituale. – Ritus – secondo OE 2 – indica la Chiesa particolare orientale cui una persona appartiene. Il temine “Chiesa particolare” va qui inteso non nel senso di Christus Dominus 2, dove viene così intitolata la dio- cesi, ma nel senso di Lumen Gentium 23, dove viene così indicato un gruppo di diocesi, cioè una Chiesa orientale. Dopo secoli di identificazione del termine Ecclesia con ritus, nel 1975 Žužek – pur sostenendo che i due termini possono essere equi- valenti – precisa che dal Concilio Vaticano II si tende ad usare l’e- spressione “Chiese orientali” al posto di “Riti Orientali” e che esiste una forte tendenza all’eliminazione del secondo termine (ritus) per riservarlo ad altri usi più rispondenti al significato originale latino: mos, consuetudo, caeremonia liturgica.14

Ancora prima della promulgazione del CCEO Žužek si è adope- rato, in seno alla PCCICOR e in genere in tutto l’ambiente vaticano, alla propagazione dell’ecclesialità dei cattolici orientali. Lo testimonia un altro suo contributo importante, pubblicato in occasione del 25° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II: “Le Ecclesiae sui iuris nella revisione del Diritto Canonico”, in Vaticano II: Bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), Assisi 1987, 869-882. Žužek parte dall’affermazione che l’equivalenza dei terminiritus ed Ecclesia particularis, che si ritrova nel decreto Orientalium Ecclesiarum, deve portare ad una profonda e nuova riflessione su queste nozioni.

13 Ibid., 271 (citando da William Basset, The Determination of Rite,Roma 1967, 12). 14 Ibid., 273.

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Infatti il processo di codificazione dei due codici – sia quello latino che quello orientale – è stato un momento propizio per tale riflessione. Data l’impossibilita di trovare l’accordo sull’introduzione del termine ecclesia singularis per l’indicazione di una diocesi/eparchia, lasciando il termine ecclesia particularis per l’indicazione di una Chiesa orienta- le, si arriva infine al nuovo termine ecclesia ritualis sui iuris, utilizzato nel CIC (1983), ed ecclesia sui iuris, che diventa il termine ufficiale del CCEO, per indicare tutti i tipi della struttura ecclesiale orientale: le Chiese patriarcali, le Chiese arcivescovili maggiori, le Chiese metro- politane e infine altre Chiesesui iuris. Dopo aver presentato ampiamente alcune tematiche che ci sembra- vano più importanti o interessanti, vogliamo almeno brevemente ri- cordare almeno alcune questioni che ha toccato Žužek nei suoi scritti e nel suo insegnamento. Fra queste emerge, per esempio, il problema spinoso del principio della “territorialità” delle Chiese orientali cattoliche, a riguardo del quale Žužek ha dato un chiaro quadro canonico nel suo fondamen- tale articolo:

“Canons concerning the Authority of Patriarchs over Faithful of their own Rite who Live Outside the Limits of Patriarchal Territo- ry”, in Nuntia 6 (1978), 3–33.

Infatti, il “principio di territorialità”, mantenuto con fermezza da tutti i Concili ecumenici, compreso il Concilio Vaticano II15, era ben presente sia a Paolo VI sia a Giovani Paolo II quando vollero che fosse elaborato il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium. Questo mostrarono di aver perfettamente capito i membri della Commissione che preparò il Codice, tra i quali primeggiavano i sei Patriarchi orien- tali, quando nella loro Assemblea Plenaria del novembre 1988 desistet-

15 Cf. OE 7.

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tero, dopo un richiamo del Santo Padre, da una mozione firmata da quindici membri, nella quale si mirava ad ottenere l’estensione della giurisdizione patriarcale a tutto il mondo. Giovanni Paolo II aveva infatti chiesto che gli fosse presentato un progetto di Codice in tutto conforme sia alle tradizioni orientali sia alle decisioni conciliari, tra le quali anche quelle del Concilio Vaticano II, che non aveva accolto la richiesta di estendere tale giurisdizione fuori dei confini legittima- mente stabiliti della Chiesa patriarcale. Infatti era evidente a tutti che il progetto del Codice che stava sul tavolo dell’Assemblea, frutto di quasi vent’anni di assiduo lavoro, compiuto con la collaborazione di tutto l’Episcopato orientale, era conforme, anche sul tema della terri- torialità, alle tradizioni orientali e alle decisioni conciliari. In quella stessa occasione, tuttavia, il Papa aggiunse che, per le Chiese aventi fedeli fuori del proprio territorio, sarebbe stato lieto di “considerare, a Codice promulgato, le proposte elaborate nei Sinodi con chiaro riferimento alle norme del Codice, che si ritenesse op- portuno specificare con unoius speciale e ad tempus”16. Il pontefice riaffermò questa disponibilità anche in occasione della promulgazio- ne del Codice, quando presentò al Sinodo dei Vescovi il nuovo testo giuridico17. La soluzione codiciale circa l’autorità dei patriarchi limitata al ter- ritorio delle rispettive Chiese, come prevedeva Žužek, non ha sod- disfatto tutti in Oriente, ma nessuno è riuscito finora a sovvertire l’argomentazione storico-canonistica di Žužek che ha portato alla formulazione dei rispettivi canoni. Le voci critiche verso il CCEO toccano soprattutto questo punto, fieramente difeso invece da Žužek. Purtroppo, all’ombra della polemica sul territorio, spesso si scordano tante piccole e grandi conquiste pro-orientali che il lavoro di Žužek ha portato in seno alla Commissione preparatoria del Codice orienta-

16 Cf. Nuntia 29 (1989) 27. 17 Cf n. 12: AAS 83 (1991) 492.

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le. Menzioniamone almeno alcune: – omissione delle pene latae sententiae nel CCEO; – possibilità di avere tre gradi di giudizio nelle Chiese patriarcali e la non necessità di rivolgersi alla Rota Romana; – abbandono della concessione del pallio ai patriarchi e il cambio della disciplina circa la conferma pontificia per i patriarchi e per i vescovi eletti dai sinodi delle Chiese patriarcali ed arcivescovili, ecc.; e la lista – ben nota ai cultori del diritto canonico orientale – po- trebbe continuare.

Un altro contributo di Žužek apprezzato da tutti gli studiosi è, senza dubbio, il suo

Index analyticus Codicis Canonum Ecclesiarum Orientalium, Roma 1992 (Kanonika 2), 375 pp.

che è uno strumento prezioso, anzi imprescindibile, per il lavoro con il Codice Orientale. Per comporlo ci voleva la lucidità e la tenacia proprio “da Žužek”. Un altro lavoro – stavolta non firmato da lui, ma chiaramente il risultato del suo impegno – è la revisione e riedizione delle fonti del CCEO nell’edizione del CCEO arricchita delle fonti (1995). L’utilità dell’esistenza di un Codice specifico per le Chiese orientali era un punto su cui Žužek era convinto. A questo argomento ha de- dicato, oltre ad un libretto preparato a modo di dispense scolastiche, anche due articoli riguardanti la storia della codificazione orientale:

“L’idée de Gasparri d’un Codex Ecclesiae Universae comme point de départ de la codification canonique orientale”, in Trasversalités, Re- vue de l’Institut Catholique de Paris 58 (Avril-Juin 1996) 215–244 ;

“La Lex Ecclesiae fundamentalis et les deux Codes”, in L’année ca- nonique 40 (1998) 19–48.

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Žužek non tralascia nessuna occasione per mettere in luce quanto il CCEO cerchi di essere fedele alle tradizioni orientali, anche laddove deve entrare in conflitto con la prassi latina diffusasi in Oriente. A sostegno di questa tesi è il suo contributo:

“La professio fideie il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, in Ius Canonicum in Oriente et Occidente, Festschrift für Carl Gerold Fürst zum 70. Geburtstag (Adnotationes in ius canonicum 25), Frankfurt am Main 2003, 643–662.

In esso, dopo una breve introduzione nella quale spiega la ragione della differenza fra il can. 833 del CIC (1983) e il CCEO in cui non ap- pare un canone rispettivo, afferma giustamente che questa differenza non è una lacuna, bensì una decisione voluta che rispecchia la tradi- zione orientale. Nel primo millennio si è sviluppata la prassi canonica secondo la quale “i chierici non giurano”. Questa posizione, alla fine del primo millennio, comincia a subire una divergenza fra l’Oriente e Occidente. L’Oriente rimane fedele al vecchio principio, mente in Occidente comincia penetrare anche in ambiente ecclesiastico l’abitu- dine civile di iuramentum fidelitatis, ispirata alle consuetudini feudali e vassalliche. Žužek, nel presentare la posizione degli Orientali, non si limita ad una sola tradizione ecclesiastica, ma oltre le fonti bizantine allarga la sua ricerca alle fonti siriache e armene. Per il secondo millennio si sofferma sulla situazione creatasi al con- cilio di Lione, dove le richieste latine di iuramentum trovavano una opposizione degli Orientali. L’autore si rammarica della insistenza dei papi su questo argomento, dato che queste richieste andavano contro la coscienza degli Orientali, coscienza formatasi su una prassi quasi millenaria. In seguito passa all’esame della prassi circa il iuramentum nelle singole chiese orientali cattoliche, costatando l’introduzione del giuramento in epoca post-tridentina o addirittura solo nel XIX secolo. In conclusione Žužek afferma che la disciplina riguardante la pro- fessione di fede da emettersi per poter ottenere ed esercitare un uf-

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ficio ecclesiastico non apparteneva mai allo ius comune delle Chiese orientali cattoliche e conclude lo studio con un esempio della storia della chiesa ortodossa russa, dove da una parte è stato introdotto il giuramento da Pietro Grande nella sua riforma ecclesiastica, ma d’al- tra parte sul foro processuale si è rimasti fedeli alla prassi del primo millennio secondo la quale “i chierici non giurano”. Anche questo studio di P. Žužek, dedicato al suo fedele amico e collaboratore, prof. Carl Gerold Fürst, presenta una grande erudi- zione e conoscenza delle fonti canoniche sia antiche che nuove delle Chiese orientali sia ortodosse che cattoliche. L’argomento dell’artico- lo mira alla giusta difesa dell’indipendenza disciplinare delle Chiese orientali sancita anche dall’attuale CCEO. In questo contesto l’artico- lo è di grande interesse scientifico, con una positiva apertura verso la dimensione ecumenica della legislazione canonica attuale.

5.4 “Sacri” canoni Per un canonista, lo studio dei primi e comuni concili della Chiesa indivisa e specialmente della loro normativa canonica è un’occasione per ammirare la saggezza e lungimiranza dei Padri della Chiesa che hanno posto le solide fondamenta per un tessuto normativo che vige nella Chiesa fino ad oggi. Al tempo stesso tale studio porta inevita- bilmente alla domanda sulla immutabilità di tali prescrizioni, sulla necessità delle modifiche pratiche e sulla possibilità di aggiornamento di tale normativa. Dal punto di vista terminologico, storico e canonico Žužek si è oc- cupato del problema del rapporto fra la sacralità dei canoni e dell’idea della loro eventuale immutabilità in uno dei suoi ultimi contributi scientifici, pubblicato postumo, nell’articolo

“Sacralità e dimensione umana dei canones”, in Congregazione per le Chiese Orientali, Ius Ecclesiarum vehiculum ca ritatis. Atti del simposio internazionale per il decennale dell’entrata in vigore

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del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, Città del Vaticano 19–23 novembre 2001, Silvio Agrestini – Danilo Ceccarelli Morolli (a cura di), Città del Vaticano 2004, 53–116

La sacralità e l’intoccabilità dei canoni posti allo stesso livello dei dogmi conciliari diventa uno dei luoghi comuni canonistici in Orien- te. Già Balsamone, nel suo commento al nomocanone, asserisce che i canoni sono accettati come Sacra Scrittura.18 Formalmente è stato assunto questo atteggiamento nei confronti dei sacri canoni da par- te del sinodo di Costantinopoli del 12 aprile 1718, durante il quale i quattro patriarchi presenti hanno dichiarato di accettare le defini- zioni e i canoni degli antichi sinodi proprio come gli stessi santi van- geli.19 Questa posizione è stata assunta nella nota dichiarazione della principale raccolta canonica in uso delle Chiese ortodosse Pedalion. Nell’edizione del 1908, a p. 9, si equiparano i canoni contenuti nel Pedalion alla Sacra Scrittura: “Questo libro è sacra Scrittura dopo le sacre Scritture, Testamento dopo il vecchio e il Nuovo Testamento. Esso è le seconde parole ispirate da Dio dopo le prime parole ispirate da Dio. Esso è gli eterni limiti, che hanno fissato i nostri padri ed è le leggi che permangono per l’eternità.”

Di fronte a tali dichiarazioni risolute e apparentemente inappella- bili, un canonista orientale si pone alcune domande:

– Se i canoni sono sacri allo stesso modo del testo del Vangelo o dei dogmi conciliari, chi può osare fare la scelta fra i canoni da conservare e quelli da abbandonare? – È possibile parlare di sviluppo del diritto canonico?

18 Cf. Patrologia Graeca 104, col.. 982. 19 Mansi 37, 434.

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Tale approccio blocca però ogni sviluppo positivo di diritto ca- nonico nelle Chiese orientali. Continuando ad insistere sull’eterno vigore dei sacri canoni,20 assimilando i Sacri canoni alla Sacra Scrittu- ra e asserendo la loro immutabilità, l’Oriente ortodosso oggi si trova in un impasse ecclesiologico e canonistico. L’impossibilità o la reale incapacità di convocare un nuovo concilio ecumenico, riconosciuto dalle Chiese ortodosse, impedisce di discutere tale argomento a livel- lo conciliare. L’approccio pratico-pastorale verso i canoni disciplinari dei primi concili comporta due rischi: l’insistenza rigida sulla loro dettagliata osservanza che talvolta comporta insormontabili difficoltà pratiche, oppure un uso larghissimo di economia, lasciata a criteri spesso arbitrari e non unificati. Come andrebbe valutato in questo contesto il fatto di una elabora- zione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali ? Il CCEO, anche se attinge abbondantemente dai testi dei canoni dei concili, ne è una nuova elaborazione e per questo talvolta potrebbe essere considerato da alcuni come estraneo al genuino spirito orientale che considera in- vece i canoni come immutabili, senza la prospettiva di una loro nuova elaborazione. Žužek ha preso come una sfida il problema posto in questi termini, accingendosi a dimostrare la possibilità della nuova legislazione eccle- siale non solo a partire dalla considerazione pratica del fatto ecclesiale di una suprema autorità legislativa che nella Chiesa cattolica viene ri- conosciuta al Romano Pontefice, ma partendo dalle stesse fonti orien- tali, riconoscute anche dai non cattolici. Infatti, riguardo agli epiteti “divini, sacri e santi” che si attribui- scono in Oriente ai canoni dei concili, Žužek osserva che tali termini non sono stati in uso nella terminologia ecclesiastica dei primi quat- tro secoli. Nei testi conciliari dei primi concili, si definiscono come

20 Così D. Mouratides definisce il Pedalion nel suo libro, dal titolo omonimo, pubblicato nel 1972.

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“santi” piuttosto gli stessi sinodi (cf. Nicea cc 8, 11, 14, 15, 17, 20), ma i canoni – a parte qualche rara eccezione (c. 3 di Efeso, c. 28 di Calce- donia) – non sono qualificati da alcun aggettivo. La definizione dei canoni dei concili come sacri o divini comincia ad apparire a partire dal concilio Trullano del 691 (ἱερός) e nel concilio di Nicea del 787 (θεϊος). Ma da dove viene tale equiparazione? Le po- sizioni di quegli autori ortodossi che tendono a sublimare la sacralità dei canoni al livello di Sacra Scrittura non sembra che possano ba- sarsi su alcuna fonte, né ecclesiastica, né civile, appartenente ai primi secoli della Chiesa. La novella 131 di Giustiniano certamente non è una tale fonte. Žužek fa un’attenta analisi delle fonti per scoprire che l’idea della identificazione o l’equiparazione fra i dogmi conciliari e i canoni trova l’appoggio per la prima volta nel Syntagma dei XIV titoli dell’883, chiamato anche il Nomocanone di Fozio, a causa dell’errata interpretazione del testo della novella 131 di Giustiniano, preso non dal testo originale, ma dall’Epitome composta alla fine del VI secolo (572) da Atanasio, scolastico di Emesa in Siria.21 Il Nomocanone di Fo- zio ottenne nel 920 vis pro tota Ecclesia e come tale si diffuse in tutto l’Oriente, identificandosi più tardi con l’Oriente ortodosso. Nella sua conferenza in occasione del 10° anniversario dell’entra- ta in vigore del CCEO, Žužek ha volutamente affrontato lo spinoso problema del livello di sacralità dei canoni, arrivando alla conclusione ben documentata che l’equiparazione fra canoni e dogmi è il risul- tato di un errore di trascrizione e interpretazione della novella 131 di Giustiniano che, nonostante la correzione del testo nei commentatori come Balsamone, ha portato gran parte dei canonisti ortodossi alle conclusioni errate circa l’immutabilità dei canoni.

21 “Sacralità e dimensione umana dei canones”, in Congregazione per le Chiese Orientali, Ius Ecclesiarum vehiculum ca ritatis. Atti del simposio internazionale per il decennale dell’entrata in vigore del Codex Canonum Ecclesiarum Orien- talium, Città del Vaticano 19–23 novembre 2001, Silvio Agrestini – Danilo Ceccarelli Morolli (a cura di), Città del Vaticano 2004, 77.

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In questo contesto desidero ricordare che oggi gli scienziati orto- dossi più illuminati non condividono l’assimilazione dei sacri canoni alla Sacra Scrittura. Anch’essi vedono la necessità di una nuova codi- ficazione basata sui sacri canoni e comune a tutte le Chiese ortodosse. Parlando di una tale futura codificazione orientale non si può non menzionare la tesi dottorale dell’attuale patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, pubblicata nel 1970 a Salonicco con il titolo “Circa la codificazione dei sacri canoni e delle prescrizioni canoniche della Chiesa ortodossa”. Il direttore di questa tesi fu Ivan Žužek, che più tardi sarebbe stato il “motore” del processo della codificazione orien- tale canonica conclusasi con la pubblicazione del Codice dei canoni delle Chiese orientali nel 1990. Credo che questi due personaggi an- che oggi, come in passato, si troverebbero d’accordo sulla necessità di una pratica revisione e riedizione delle norme disciplinari basate sui canoni dei primi concili. La codificazione di diritto canonico comune alle Chiese orientali comporterebbe modifiche di alcuni canoni, chia- rificazioni dei testi dubbi, la concordanza di quelli divergenti e oppo- sti, l’abrogazione delle norme obsolete e anche la creazione di nuovi canoni necessari per l’aggiornamento della disciplina ecclesiastica alle situazioni della vita moderna. Infatti, per tutte le Chiese orientali cattoliche è stato recentemente pubblicato il CCEO che si può considerare una rielaborazione dei canoni, basata sulla fedeltà ai canoni dei concili, includendo però fra questi non solo i primi sette concili, ma anche i concili del II millen- nio, con uno speciale riguardo allo spirito pastorale, ecumenico ed ecclesiologico del concilio Vaticano II. Una simile elaborazione canonica nel mondo ortodosso è più che auspicabile e ogni sforzo in questa direzione può essere salutato con grande gioia. Si può essere convinti che una seria e scientifica elabora- zione e aggiornamento delle norme canoniche per il terzo millennio porterebbe tutte le Chiese ad un maggiore avvicinamento. Il ricono- scimento delle comuni radici, l’ammissione delle comuni difficoltà della vita ecclesiale nel mondo secolarizzato possono portare tutte le

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Chiese ortodosse e la Chiesa cattolica verso una comune ricerca nel segno della maggiore unità della Chiesa. Uno dei più grandi canonisti orientali del XX secolo, padre Ivan Žužek, oggi sicuramente intercede per questa intenzione davanti al nostro Padre Celeste, insieme con il promulgatore del primo codice orientale cattolico, il papa Giovanni Paolo II. Il patriarca Bartolomeo ha oggi tutta l’autorità morale per portare avanti nel mondo ortodosso il lavoro canonistico che è riuscito fare il suo maestro accademico Ivan Žužek. Non resta altro che augurarsi che tale processo cominci al più presto e porti risultati utili a tutta la Chiesa.

6. L’impegno di Žužek per la Facoltà di diritto canonico orientale L’odierna giornata di studio è dedicata al 40° della fondazione del- la Facoltà di diritto canonico orientale al PIO. Senza fare un’analisi dettagliata su come si è arrivati alla sua fondazione, possiamo solo ricordare che all’epoca il Rettore del PIO era proprio Ivan Žužek. Per vedere chiaramente il suo contributo alla fondazione della Facoltà basterebbe andare a spulciare nell’archivio del Rettorato. L’affetto di Žužek per la Facoltà di diritto si è dimostrata nel corso degli anni con una fedele attività di insegnamento, nonostante egli avesse motivi validi per chiedere e ottenere la dispensa. In questa ricorrenza desidero invece rievocare un fatto meno co- nosciuto della storia della nostra Facoltà. Alla metà degli anni ‘90 la Facoltà si è trovata in una seria crisi per lo scarso numero di professori stabili. All’epoca cominciava girare in vari ambienti amministrativi ed accademici l’idea di una più stretta collaborazione con la Facoltà di diritto canonico della Pontificia Università Gregoriana. La collabo- razione è certamente una cosa lodevole; diventa invece problematica quando porta all’atrofizzazione di un’istituzione e alla sua morte lenta ma ineluttabile.

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Žužek ha intravisto questo pericolo ed ha reagito con un ampio scritto indirizzato alle autorità accademiche, in difesa della Facoltà. Per conoscere il suo animo riguardo a questo problema vale la pena citare alcuni brani che esprimono il suo pensiero.

7. Qualche annotazione circa “una più stretta collaborazione tra la nostra Facoltà di diritto canonico e quella della Gregoriana” Scrive Žužek: « Non saprei come giustificare la “intromissione di un emeritus” in una questione circa la quale non fu chiesto il suo parere, come è la “Proposta Pratica” della collaborazione con la PUG nel 1996/1997. La giustificazione, tuttavia, c’è. Si tratta di un “vecchio lupo” che non può non ululare vedendo barcollare il baluardo, costruito con enorme sforzo a salvaguardia e promozione di uno stupendo ed im- menso patrimonio che, grazie ad un concilio ecumenico e alla tenace volontà dei papi, è stato tratto all’ultimo momento dal pelago della latinizzazione nel quale da secoli annegava. Il baluardo, poi, è l’unico nel mondo. Tutto ciò che tende a indebolirlo fa sanguinare il cuore, e non solo del “vecchio lupo” – muoia pure! L’Oriente cristiano intero ne è la vittima. La “varietas” (rilevata per la prima volta da Leone XIII) che adorna la Chiesa universale, è messa, di nuovo, in pericolo. Ogni “diminutio capitis” della Facoltà del Diritto Canonico del PIO è dannosa non solo alla Chiesa, ma anche alla cultura generale, mentre tutto ciò che la rafforza è un servizio ad entrambe. Mi scuso, ma non posso non fare un vero appello – anche a rischio di non aver alcun ascolto – a tutti i responsabili di essa, di promuovere il rafforza- mento di questa facoltà ad ogni livello. Vasto e vario è il patrimonio disciplinare delle Chiese orientali, cattoliche ed ortodosse, non meno degno di essere oggetto di appassionata ricerca e studio di quello della Chiesa latina. Come si fa a promuovere gli studi sugli immensi tesori di questo patrimonio che le singole Chiese orientali hanno accumu- lato lungo gli stessi due millenni, se non pensando ad altre Facoltà

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di Diritto Canonico nell’Oriente ? E certamente sarebbe assurdo in- debolire anche quella che è oggi ancora l’unica, ma che comunque dovrebbe rimanere “papale”, centrale, e la più solida, anche in futuro. Prego molto cortesemente di prendere in seria considerazione che la via indicata nella suddetta “Proposta” può dare l’impressione di un tale indebolimento, di una tale “diminutio capitis”, di un miscono- scimento della grandezza del patrimonio disciplinare orientale, di una strada che porterà fra poco ad una rinnovata e profonda latinizzazione dell’Oriente cristiano, di una disistima delle varie culture delle singole Chiese orientali in favore di quella cultura che (benché la stimi tanto essendovi immerso dalla nascita), imposta sull’Oriente cristiano, ne fu sempre nel profondo dei cuori rigettata. Certamente ciò non è stato inteso da nessuno e le intenzioni della “Proposta” sono le migliori. Tuttavia, la strada scelta non risolve i pro- blemi indicati e inizia “in china” verso, a mio avviso, un vero abisso. Nessuna “più stretta collaborazione” con qualche Facoltà di Di- ritto Canonico Latino, sia pure del “Consortium”, salvaguarderà la cultura, la scienza, i valori primari che la Facoltà di Diritto Cano- nico nel PIO è chiamata ad infondere nei suoi alunni, ma solo una ancora maggiore autonomia, restaurazione e potenziamento del suo, ora tanto ridotto, corpo insegnante di grandi specialisti dell’Oriente cristiano. Mi scuso se rivelo che negli ultimi anni ho avuto varie esperienze che mi danno – come ritengo, benché vorrei sbagliarmi in questo – solida base a pensare che inizia a fare capolino una specie di resistenza ad un unico “Corpus Iuris Canonici” nel quale il CCEO avrebbe pari dignità con il CIC e la Pastor Bonus, secondo le chiare indicazioni pa- pali. Il mio discorso sull’ “Incidenza del CCEO nella storia moderna della Chiesa” ha scosso alcuni, mentre da altri non è stato accettato se non a parole. Questi saranno facilmente tentati di ridimensiona- re “l’incidenza” e possibilmente eliminarla: del CCEO, meno se ne parli, meglio è. Che succederà con l’indebolimento della istituzione che ha il merito di aver dato, al livello accademico, grande contributo

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al CCEO, e che il Papa stesso ha ringraziato: “Quod ad Consultores attinet, peculiariter iis gratias persolvo, qui sunt Collegii Professo- rum Facultatis iuris Canonici apud Pontificium Institutum Orien- tale, quod etiam ut tale perutile suum tulit auxilium” (Discorso 25 ott. 1990 n. 7) ? Lunga è ancora la strada perché il CCEO si consolidi e con esso l’idea di un unico “Corpus iuris canonici” o, comunque, che sia applicato alla vita reale della Chiesa. Su questa strada la nostra facoltà ha, certamente anche per il desiderio del Papa, molto da dire. Non mi si dica a proposito che intere sezioni dei canoni sono quasi ad verbum le stesse, nel CIC e nel CCEO, soprattutto nel De proces- sibus che volutamente, come si sa dai “principia revisionis” proposti dalla nostra Facoltà, si volevano uguali per tutta la Chiesa da prepa- rarsi in una “Commissione mista” di latini e orientali (Nuntia 26, p. 11, X, 1). Di tale Commissione non se ne fece niente e le strade seguite furono due. Non posso dilungarmi qui su queste “strade”, annoto solo alcune cose (di altre scrive Abbas, o appartengono ad innumerevoli emendamenti redazionali: pochi canoni sono ad verbum dal CIC), tra quelle che i nostri studenti De processibus debbono conoscere bene, ma che se vanno alla PUG non conosceranno. Alla fine chiedo come si fa parlare di una “più stretta collaborazio- ne con la PUG” se non si fa altro che inviare i nostri studenti ai corsi della PUG ? Se inviassimo i nostri studenti al Laterano, parleremo di una “collaborazione” ? Io non ci vedo altra “collaborazione” se non la non necessità di pagare la quota di iscrizione! Perché si possa evitare di andare “alla deriva” il prossimo anno e perché si acquisti un po’ di spazio e di tempo per poter riprendere “il fiato” e poi imboccare la strada giusta, pregherei di tener presente che il “vecchio lupo”, se gli è chiesto di riprendere il corso “De pro- cessibus”, risponderà con un “Yauu”, che nel linguaggio della giungla corrisponde ad un “Eccomi”. »

Dopo questo suo intervento, che rivela tutto il suo amore per la Facoltà e per l’Oriente cristiano al quale la Facoltà deve servire, le au-

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torità accademiche si convinsero che valeva la pena investire nella ri- cerca di nuovo personale docente. Žužek stesso si mise a disposizione per guidare transitoriamente la Facoltà. In due anni da Pro-Decano è riuscito ad acquisire due nuovi gesuiti per lo studio del diritto orien- tale, ha ricomposto i posti vacanti nel corpo docente con altri validi collaboratori laici e religiosi, e con la preparazione del Simposio in oc- casione del 10° anniversario del CCEO ha rilanciato il prestigio della Facoltà a livello internazionale. Certamente ciò non è poco da parte di una persona che avrebbe potuto godersi il meritato riposo dopo una vita di lavoro e sacrifici.

8. Maestro e amico In conclusione, mi sia permesso di fare una considerazione di ca- rattere personale. Come ricordo Žužek? Chi era per me? Žužek si è trovato per tutta la vita a combattere dalla parte dei “pic- coli”: mi ha confidato una volta che questo è stato illeitmotiv della sua vita. “Durante la guerra stavo con quelli che dal punto di vista militare erano pochi, quasi insignificanti e dai ‘grandi’ di questo mondo sono stati destinati a perdere; nella mia vita di sacerdote ho scelto di appar- tenere al rito orientale, il rito minoritario, da molti sconosciuto o sotto- valutato; in tutta la mia attività accademica mi sono battuto in favore delle Chiese orientali, piccole, povere, considerate talvolta anche nella Chiesa cattolica di ‘serie B’; nel lavoro con gli scouts mi sono trovato a lavorare con la FSE in un momento in cui eravamo pochi, deboli e ostracizzati anche nel mondo scoutistico, e dentro la FSE mi sono consacrato a lavorare con le coccinelle, perché nessuno degli assistenti riteneva interessante occuparsi di piccole bambine.” Padre Žužek ha preso sul serio le parole di Cristo: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’a- vete fatto a me” (Mt 25, 40). I più piccoli sono stati sempre al centro dell’attenzione di padre Ivan. Per confermare questa sua visione mi vie- ne in mente un altro episodio. Nel 2002 si è tenuta in Vaticano una

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particolare riunione che si tiene soltanto con scadenza di diversi anni: la cosiddetta Plenaria della Congregazione per le Chiese Orientali. Le sedute si sono tenute al Palazzo Apostolico, nella cosiddetta sala Bolo- gna, a due passi dagli appartamenti pontifici. A questa riunione solenne e importante parteciparono tutti i sei patriarchi cattolici orientali, ven- tidue cardinali di tutto il mondo, il Segretario di Stato card. Sodano insieme con il card. Ratzinger, e la riunione era guidata dal patriarca Moussa Daoud, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Insieme con Žužek siamo stati gli unici due non cardinali e non vescovi chiamati a partecipare in quanto consultori della Congregazione; infat- ti si trattava di una decisione molto delicata e importante per le Chiese orientali. Le riunioni si protraevano durante tutto il giorno. Dopo i nostri interventi, verso le sei di sera continuava ancora la discussione dei cardinali e patriarchi. Žužek guardò l’orologio e mi disse: “Abbiamo già detto quello che dovevamo dire, adesso tocca a loro decidere, noi possiamo anche andare dagli scouts.” Fece segno al cardinale Prefetto dicendo: “Scusate, se non c’è altro che possiamo fare, noi dovremmo andare via, perché io e padre Cirillo abbiamo un altro impegno im- portante”. Tranquillo raccolse le sue carte nella sua indistruttibile borsa di cuoio, fece un gentile inchino ai cardinali e ai patriarchi e insieme uscimmo. Una volta fuori gli dissi: “Padre Ivan, non è che questi si offendono se li lasciamo così, nel bel mezzo del lavoro?” La sua risposta fu semplice: “Guarda, Cirillo, quello che dovevamo fare l’abbiamo già fatto. Se ci assentiamo adesso dalla riunione, in fondo non si sentirà la nostra assenza, le loro Eminenze, le loro Beatitudini e le loro Eccellen- ze continueranno a lavorare senza di noi; ma se mancheremo stasera alla riunione settimanale degli scout, i ragazzi perderanno una parte del programma spirituale previsto. Io vado dalle coccinelle, tu vai dagli esploratori: se alla fine della riunione direte un’Ave Maria, potremo dire alla fine della giornata che ‘era cosa ben fatta’.” Questo è, per me, padre Žužek. L’uomo con cui sono andato a pranzare con il Papa per discutere un importante progetto giuridico e con cui ho cucinato sul fornello a gas

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le nostre indimenticabili minestre cinesi in mezzo ai boschi dell’Ap- pennino; l’uomo che con la stessa disinvoltura si muoveva nei palazzi vaticani e nelle tende di un campo esploratori; l’uomo che con la stessa scienza e interesse commentava i canoni del primo millennio e spiega- va ai ragazzi come osservare la natura per scoprire i folletti; l’uomo che ho visto, in una discussione accademica con un Patriarca parecchio arrabbiato, opporsi e tenere testa con la stessa risolutezza con la quale l’ho visto una volta nel cuore della notte scacciare una banda di gio- vinastri ubriachi e molesti dalle tende delle scolte impaurite; l’uomo che ho visto tuffarsi con la faccia minacciosa in un branco di “bulli di quartiere” per prendere per il collo uno di loro che aveva lanciato una bestemmia contro la Madonna, perché padre Žužek non permetteva che nessuno offendesse sua Madre; lui, per il quale essere gesuita e cioè membro della “Compagnia di Gesù” era la carica più prestigiosa alla quale non ha voluto rinunciare neanche in vista di eventuali cariche più visibili, l’uomo fiero di essere al diretto servizio del Papa, e perciò sempre pronto a mettersi al servizio del prossimo, specialmente il più piccolo, l’uomo che amava la Chiesa perché amava Cristo. Nel giorno del suo funerale la chiesa di Sant’Antonio del Pontificio Collegio Russicum era gremita. Due gruppi di persone si distingueva- no, ognuno nelle proprie uniformi: cardinali, arcivescovi e alti prelati, guardando i ragazzi e gli scouts, si chiedevano: chi sono, cosa fanno al funerale di P. Žužek, l’uomo del Vaticano, canonista, scienziato ? E gli scouts guardavano l’assemblea dei prelati e si chiedevano a loro volta: che ci fanno tutti questi uomini in rosso al funerale del nostro padre Ivan, assistente scout, uno di noi ?! Ognuno di questi due gruppi conosceva un aspetto della vita di padre Žužek. Durante undici anni, forse come pochi altri, ho avuto il privilegio di conoscere entrambi i lati dell’unica medaglia della vita di padre Ivan, entrambi aspetti che pur sembrando tanto distinti e lontani facevano parte integrante del suo essere uomo, sacerdote, scienziato, religioso-gesuita. Per questo privilegio e per questa esperienza sono grato al Signore.

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Bibliografia di Ivan Žužek, s.j. (aggiornata al mese di marzo 2003)

1958 “Kodifikacija cerkvenega prava za Vzhodno Cerkev”, inKraljestvo božje, 1958, 101–104 [Trieste].

1964 “The Effect of the Administrative Recourse in the Latin and Oriental Codes”, in Orientalia Christiana Periodica 30 (1964) 223–247. “Trials before a Single Judge in the Eastern Canon Law”, in Orientalia Christiana Periodica 30 (1964) 510–525. Kormčaja Kniga: Studies on the Chief Code of Russian Canon Law, Roma 1964 (Orientalia Christiana Analecta 168), xii+328 pp. Principali recensioni: Byzantinische Zeitschrift 59 (1966) 163–167 (Rudolf Müller); Annali di Storia del Diritto, Rassegna internazionale 10–11 (1966– 1967) 580–586 (Antonio D’Emilia); St. Vladimir’s Seminary Quarterly, 12/1 (1968) 48–50 (Paul Lazor); Roczniki teologiczno kanoniczne 24 (1977) zeszyt 5, 153–156 (Edmund Przekop); Theological Studies 26 (1965) 356–357 (Felix F. Cardegna S.J.). Cf. anche Ja. N. Ščapov, Vizantijskoje i južnoslavjanskoe pravovoje nasledije na Rusi v XI–XIII vv, Moskva 1978, 32, 35, 84, 154, 193, 194, 197; “Škofov nagovor novomašniku v ruskih cerkvenih zakonikih”, in Kraljestvo božje 1964–1965, 59–66 [Trieste].

1965 “Oriental Canon Law: Survey of Recent Developments”, in Concilium, vol. 8, num. 1, October 1965, 67–78.

1966 “Nekaj opomb k Odloku o katoliških vzhodnih Cerkvah”, in Kraljestvo božje 1966, 51–58 [Trieste].

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“Animadversiones quaedam in decretum de Ecclesiis orientalibus ca- tholicis Concilii Vaticani II”, in Periodica de re morali, canonica, liturgica 55 (1966) 266–288. “Religious Freedom in the Christian East”, in Concilium, vol. 8, num. 1, October 1966, 70–81 [anche in Zur Geschichte der Toleranz und Religion- sfreiheit, Darmstadt 1977, 308–330, “Teilaspekte des Religionsfreiheit im christlichen Osten”].

1967 “The Determining Structure of the Slavic Syntagma of the Fifty Titles”, in Orientalia Christiana Periodica 33 (1967) 139–160 (cf. “San Metodio – Canonista”, infra). “Opinions on the Future Structure of Oriental Canon Law”, in Conci- lium, vol. 8, num. 3, October 1967, 65–75.

1968 “Some Aspects of the Sacramental Canon Law of the Christian East”, in Concilium, vol. 8, num. 4, October 1968, 75–85. Discorso inaugurale al Congresso (27–30 dic. 1967) “I patriarcati orien- tali nel primo millennio”, Roma 1968 (Orientalia Christiana Analecta 181), 2–11.

1969 “A Code for the Orthodox Churches”, in Concilium, vol. 8, num. 5, October 1969, 74–79.

1970 “The Oriental Canon Law Society”, inThe Jurist 30 (1970) 216–218.

1971 “Hat die katholische Kirche die Jurisdiktion der orthodoxen Bishöfe nach dem zweiten Vatikanischen Konzil anerkannt oder nicht?”, in Öster- reichisches Archiv für Kirchenrecht 22/2 (1971) 109–128.

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“La giurisdizione dei vescovi ortodossi dopo il Concilio Vaticano II”, in La civiltà cattolica 122 (1971) 551–562 [apparso anche in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 15–28]. “Dopo il Vaticano II la Chiesa Cattolica ha riconosciuto la giurisdizione dei vescovi ortodossi?”, in Unitas 26 (1971) 255–270.

1973 “The Ancient Oriental Sources of Canon Law and the Modern Legi- slation for Oriental Catholics”, in Kanon: Jahrbuch der Gesellschaft für das Recht der Ostkirchen, I, Wien 1973, 147–159.

1974 “Introduction to Symposium Syriacum P.I.O. 1972”, Roma 1974 (Orien- talia Christiana Analecta 197), 9–12.

1975 “Che cosa è una Chiesa, un rito Orientale?” in Seminarium (Sacra Con- gregatio pro Istitutione Catholica), Anno XXVII – Nova Series, Anno XV, N. 2 (Aprili-Junio 1975) 263–277. “Les textes non publiès du Code de Droit Canon Oriental”, in Nuntia 1, 21–31. “De Patriarchis et Archiepiscopis maioribus”, in Nuntia 2, 31–51. “I compiti del Coetus Secundus” [testi iniziali “De normis generali- bus”], in Nuntia 2, 53–73.

“Compiti del Coetus III e IV” [testi iniziali “de magisterio ecclesiasti- co”], in Nuntia 3, 70–92.

1976 “Notula de poenis latae sententiae in iure orientali”, in Monitor ecclesia- sticus 80 (1976) 3–4.

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“Testi iniziali per la revisione dei canoni De Baptismo, Chrismate et Echaristia”, in Nuntia 4, 41–71. “Testi iniziali per il Coetus IX De delictis et poenis”, in Nuntia 4, 97–127.

1977 “The Oriental Canon Law Society is Born”, in Ex aequo et bono: Willi- bald M. Plöchl zum 70. Geburtstag, Innsbruck 1977, 375–383. “Canons concerning the Authority of Patriarchs over Faithful of their own Rite who Live Outside the Limits of Patriarchal Territory”, in Nuntia 6, 3–33 [anche in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 19–69].

1978 “Informatio de statu laborum Pontificiae Commissionis Codici Iuris Canonici Orientalis Recognoscendo”, in Periodica de re morali, canonica, liturgica 67 (1978) 765–772. “Testi iniziali per la revisione dei canoni De Paenitentia et Unctione in- firmorum”, in Nuntia 6, 66–79. “Canons De Synodo Ecclesiae patriarchalis et De conventu patriarchali”, in Nuntia 7, 21–46. “Testi iniziali per la revisione dei canoni De Sacramento Ordinis, De Locis et Temporibus Sacris, De Cultu Divino”, in Nuntia 7, 64–104. “Testi iniziali per la revisione dei canoni De beneficiis ecclesiaticis e De processibus administrativis”, in Nuntia 8, 85–100. “Canons De Episcopis”, in Nuntia 9, 2–61. “Testi iniziali De Causis beatificationis et canonizationis”, in Nuntia 9, 90–106.

1981 “The Authority of Patriarchs outside the Patriarchal Territory”, in Vidyajyoti, Journal of Theological Reflection, April 1981, Delhi, 155–170 (ab- breviato dal “Canons concerning the Authority…, vedi sopra).

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“Contribution” (IVe Congrès international de Droit Canonique, Fri- bourg-Suisse, 6–11. X. 1980), in Les Droit Fondamentaux du Chrétien dans l’Eglise et dans la Société, Fribourg (Suisse) 1981, 739–743.

1983 “L’economie dans les travaux de la Commission Pontifical pour la Revi- sion du Code de Droit Canonique Oriental”, in Kanon: Jahrbuch der Gesell- schaft für das Recht der Ostkirchen, VI, Wien 1983, 66–83 [anche in Under- standing the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 70–93].

1987 “Le Ecclesiae sui iuris nella revisione del Diritto Canonico”, in Vaticano II: Bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962–1987), Assisi 1987, 869– 882 [in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 94–109].

1988 “San Metodio - Canonista” (“notula”), in Christianity among the Slavs the Heritage of Sanits Cyril and Methodius, Roma 1988 (Orientalia Christia- na Analecta 231), 395.

1990 “Presentazione del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, in Moni- tor ecclesiasticus 95 (1990) 591–612 [anche in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 110–135]. “Alcune note circa la struttura delle Chiese Orientali”, in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 136–148 (dall’anno 1990, cf. “The Patriarchal Structure…”, infra).

1991 “The Patriarchal Structure According to the Oriental Code”, in The Code of Canons of the Oriental Churches, Roma 1991, 40–58 (versione ingle- se, non controllata, di “Alcune note…”, cf. supra).

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1992 “Particular Law in the Code of Canons of the Eastern Churches”, in The Code of Canons of the Eastern Churches: a Study and Interpretation. Essays in honour of Joseph Card. Parecattil, Alwaye 1992, 39–56 (edizione inglese di “Qualche nota…” cf. supra). Modifiche dello “Schema Codicis Iuris Canonici Orientalis” al testo defi- nitivo del “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, Roma 1992 (Ponti- ficium Institutum Orientalium Studiorum, Facultas Iuris Canonici), 1–161 (edizione limitata). “Riflessioni circa la Costituzione Apostolica Sacri Canones (18 ottobre 1990)”, in Apollinaris 65 (1992) 53–64 [anche in Understanding the Eastern Code (Kanonika 8) Roma 1997, 149–160]. Index analyticus Codicis Canonum Ecclesiarum Orientalium, Roma 1992 (Kanonika 2), 375 pagine (cf. infra “Aggiunte all’indice analitico…”). Recensioni: Orientalia Christiana Periodica 58 (1992) 591–593 (George Ne- dungatt); Apollinaris 65 (1992) 769–770 (Onorato Bucci); Settimana, Bolo- gna, 28 febbraio 1993, 15 (Bruno Testacci: cf. Enchiridion Vaticanum 12, “se- conda numerazione”, p. 7); Monitor Ecclesiaticus, vol. CXVII, series XXVII (jul.-dec. III–IV, 1992), 555–556 (Zenon Grocholewski); Ho Theológos, Nova serie, Anno XI, 1993, Numero 1, 154–155 (Domenico Mugavero); Ephemerides iuris canonici 48 (1992) 438 (D. Ceccarelli Morolli); Revue de Droit Canonique 45 (1995) 166–167, n. 4 (René Metz); The Jurist 54 (1994) 755–756 (Victor J. Pospishil).

Il libro è tradotto: – in ucraino: nel volume Analityčnyj pokažčyk Kodeksu shidnih Cerkov, Rim-Lviv, 1994/95, 301; – in croato: come “Stvarno kazalo (priredio Stanislav Kos)”, 863–1096 della traduzione croata del CCEO, Zakonik kanona istočnih Crkava s izvo- rima, Zagreb 1996; – in inglese: come “Index” in Code of Canons of the Eastern Churches, Latin-English Edition. New English Translation, ed. Canon Law Society of America, Washington DC 2001, 539–728;

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1993 “Omissione di alcune sezioni di canoni dal Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, in Apollinaris 66 (1993) 439–449 [testo inglese “revised” in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 193–202; anche in Canon Law Society of Australia and New Zeeland, 27th Annual Confe- rence Proceedings “From East to West”, Melbourne, November, 22–26, 1993, 114–123].

1994 “Aggiunte all’indice analitico del Codex Canonum Ecclesiarum Orienta- lium”, in Orientalia Christiana Periodica 60 (1994) 635–639. “Incidenza del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium nella storia moderna della Chiesa universale”, in Ius in vita et in missione Ecclesiae, Acta symposii internationalis iuris canonici occurrente X anniversario promulgatio- nis Codicis Iuris Canonici, diebus 19–24 aprilis 1993 in Civitate Vaticana cele- brati, Città del Vaticano 1994, 679–735 [in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 266–327]. “Common Canons and Ecclesial Experience in the Eastern Catholic Churches”, V Incontro fra Canoni d’Oriente e d’Occidente; Atti del Congresso internazionale, a cura di R. Coppola, Bari 1994, vol. 1, 21–56 [in Catholic Eastern Churches: Heritage and Identity, ed. P. Pallath, Mar Thoma Yogam, Roma 1994, 87–123; in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kano- nika 8), 203–238].

“Bipartizione o tripartizione dei Christifideles nel CIC e nel CCEO”, in Apollinaris 67 (1994) 63–88 [in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 328–353]. “Un Codice per una varietas Ecclesiarum”, in Studi sul Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, CXXVIII, a cura di S. Gherro, Padova 1994, 1–31 [in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 238–265; cf. supra “One Code for…” che è il testo inglese di questo studio].

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“One Code for a varietas Ecclesiarum”, in “From East to West…”, 27th Annual Conference Proceedings, Canon Law Society of Australia and New Zealand, Melbourne, November 22–26, 1993, 48–79 (il testo inglese del “Un codice per una varietas Ecclesiarum”, cf. supra).

1995 “Qualche nota circa lo ius particulare nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, in Il Diritto Canonico Orientale nell’ordinamento ecclesiale (Studi giuridici XXXIV), Città del Vaticano 1995, 34–38 [in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 354–366]. “Authentic Interpretations”, in Canon Law Society of America Proceedings of the Fifty-Seventh Annual Convention, Montréal, Québec, October 16–19, 1995, 34–90 [in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 367–428]. “L’idée de Gasparri d’un Codex Ecclesiae Universae comme point de départ de la codification canonique orientale”, inTrasversalités, Revue de l’Institut Catholique de Paris 58 (Avril-Juin 1996), 215–244; L’année canoni- que 38 (1995–1996) 53–74 [in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 429–458].

1996 “Winners – Loosers: ABSIT” (Intervention on “Functioning of Synods in Oriental Churches”: 15 January 1996, in Acts of the Synod of Bishops of the Syro-Malabar Church held in the Vatican from 8 to 16 January 1996, edited by Fr. Jose Porunnedom, Kochi 1996, 59–60.

1997 “Origins of the Canons, Coincidences with CIC and Omissions in Titles I and II of CCEO”, in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kano- nika 8), 161–202 [anche in “From East to West…”, 27th Annual Conference Proceedings, Canon Law Society of Australia and New Zealand, Melbourne, November 22–26, 1993, 80–123].

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“The Authority and Jurisdiction in the Oriental Catholic Tradition”, in Understanding the Eastern Code, Roma 1997 (Kanonika 8), 459–479. “The Practice of Authority and Jurisdiction in the Oriental Catholic Tradition”, in Pro Oriente, Booklet No 9, Vienna 1998, Jurisdiction-Fourth Study Seminar, July 1996, 101–114, con il relativo dibattito alle pp. 115–122 (le “mie risposte sono riprodotte senza il mio controllo”); per il testo cf. supra in “The Authority and Jurisdiction…” “Foreword” al libro J. Abbas Two Codes in Comparison, Rim 1997 , 11–13. Understanding the Eastern Code, Rim 1997 (Kanonika 8), 480 pp. Recensione: Orientalia Christiana Periodica 64 (1998), vol 1, 207–209 (Zenon Grocholewski)

1998 “La Lex Ecclesiae fundamentalis et les deux Codes”, in L’année canonique 40 (1998) 19–48

2002 “Der Beitrag von Carl Gerold Fürst zur Revision des CICO”, in Folia Canonica 5 (2002) 211–230. “Foreword” al libro A Guide to the Eastern Code (Kanonika 10), Roma 2002, 32–37. “Studio storico giuridico sui titoli del patriarca dei Greco-Melkiti” in Orientalia Cristiana Periodica 68 (2002) 175–203.

2003 “La professio fidei e il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, in Ius Canonicum in Oriente et Occidente, Festschrift für Carl Gerold Fürst zum 70. Geburtstag (Adnotationes in ius canonicum, 25), Frankfurt am Main 2003, 643–662

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Recensioni in Orientalia Christiana Periodica: 28 (1962) 454: The Penguin Book of Russian Verse, ed. by D. Obolensky, 1966; 30 (1964) 549–550: (Taras) Ševčenko, 1814–1861: a Symposium (1962); 31 (1965) 455–458: Panagiotakos P. I., Systema tou ekklesiastikou dikaiou kata en Elladi ishyn autou (1962); 32 (1966) 573–575: Pospishil V., Der Patriarch in der serbisch – orthodoxen Kirche (1966); 32 (1966) 560, Mahfoud P., Joseph Simon Assemani et la celebration du concile libanais maronite de 1736 (1965); 37 (1971) 513: Feidas V. J., Proypothesis diamorfoseos tou thesmou tes pentarchias ton pa- triarchon (1969); 63 (1997) 212–214: А. Коваль – И. Юркович‚ Латинско- русский словарь терминов и выражений Кодекса Канонического Права (Vocabularium latinum et russicum verborum ac locutionum Codicis iuris canonici), ed. «Истина и Жызнь», Mosca 1995, 283 pp.

Avvertenza: Come Segretario della Pontificia Commissione per la Revisione del Co- dice di Diritto Canonico Orientale, negli anni 1972–1991, compone molti studi riguardanti la legislazione ecclesiastica, che rimangono negli Archivi e che saranno accessibili al tempo stabilito dal regolamento vaticano. Redige inoltre, e in gran parte compone, il bollettino ufficiale della Commissione Nuntia, che al cessare della Commissione ha 31 fascicoli ciascuno di cir- ca 100 pagine. Anche le ampie relazioni circa il lavoro della Commissione pubblicate nelle edizioni annuali dell’Attività della Santa Sede sono state composte nella Segretaria della medesima Commissione.

varia Elementi di grammatica della lingua russa, Roma 1971, 82 pagine “Odgovori na vprašanja” [circa il “curriculum vitae”], Zbornik svobodne Slovenije 1969, Buenos Aires, 131–135. “Okno na kršťanski Vzhod (rapporto dal viaggio)”, Družina, verski list, Ljubljana, leto XVIII, N. 19, p. 6; N. 20, 3.

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Péter Szabó

Laddove vi siano ineguali solo l’applicazione asimmetrica delle norme può garantire l’uguaglianza sostenziale

Sommario: Introduzione; 0. Contesto della problematica; 1. L’«ascrizione» ad una Chiesa sui iuris; 2. Cambiamento dell’ascrizione per via di un’autorizzazione con- cessa dalla Sede Apostolica; 2.1 Il valore giuridico dell’intervento superiore: con- dizione di validità o solo della liceità? 2.2 Le «causae canonicae» del passaggio ad una altra Chiesa sui iuris; 2.3 La natura dell’intervento («licentia»/«consensus»), e quindi la convenienza del «transitus ritus»; 2.3.1 La concessione del «transitus ritus» è un puro atto di «grazia»(?); 2.3.2 Il cristofedele ha un diritto soggettivo preesistente alla concessione del «transitus ritus» (?); 2.3.3 Qualche ceno della prassi attuale della Sede Apostolica; 2.3.4 La rivalorizzazione delle “Traditiones”: punto orientativo per la prassi ?; 2.3.5 Prospettive possibili del rinnovamento del regime circa la concessione del «transitus ritus»; 2.4 Le condizioni normative della «li- centia» per il cambiamento dell’ascrizione sui iuris; 2.5 Osservazioni giustificative; 3. Il ruolo dei Vescovi locali nell’applicazione del «regime della licenza»; Conclu- sione.

Introduzione Nel presente studio cercherò di condurre un approfondimento del- la vera natura dell’espressione «licentia» del can. 112, § 1, 1° CIC’83, o, co­munque, di una sua possibile rilettura alla luce dei tempi attuali, se- * Una versione leggermente rielaborata di questo studio è destinato a far parte del volume: Clarissimo professori doctori Carolo Giraldo Fürst: in memoriam Carl Gerold Fürst, Andreas Weiss (Hrsg.), Freiburg/Bg. 2013 (in corso di stampa).

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gnati dall’esodo e dall’«etnofuga» dei cristiani del Medio-Oriente. Più in precisione, mi propongo di esaminare la questione del possibile svi- luppo di una nuova prassi, radicata nella flessiblità di questo termine e richiesta dalle esigenze oggettive di alcune Chiese orientali sui iuris.

0. Contesto della problematica Le peculiarità dei «riti» orientali, almeno dall’epoca di Leone XIII, sono state considerate come elementi di vero arricchimento anche per la stessa Chiesa universa. Di più, da alcuni brani del Concilio Vatica­ no II sembra di doversi desumere addirittura un ruolo imprescindibile delle «Traditiones orientales» –nuclei essenziali di questi riti da loro derivati– nel tramandare il contenuto del «depositum fidei»,1 o più precisamente, come mi pare, nel trasmettere l’integrità della nostra conoscenza, acquistata grazie a questo tesoro durante la storia bimil- lennaria della Chiesa di Cristo. In pieno contrasto con questa funzione elementare, la situazio- ne sociologica delle Chiese orientali –o per lo meno di quelle del Me­dio-Oriente, patria di tutte le Tradizioni orientali tranne quel- la co­stantinopolitana2– è diventata al giorno d’oggi così fragile e preoccupante,3 da compromettere anche questo ruolo «complemen-

1 Vedi: UR 15d, 17b, OE 1, OE 6; ed anche: «Su quali titoli si fonda l’apprezza- mento proclamato [nell’OE 1] verso gli orientali? Sulla loro ‘veneranda antichi- tà’, poiché… sono depositari storiche della tradizione apostolica che… costituisce una parte del deposito della Rivelazione, patrimonio comune a tutta la Chiesa», in Ignacio Ortiz de Urbina, Breve commentario [al decr. Orientalium Ec- clesiarum], in Aa. Vv., Ufficio pastorale dei vescovi e Chiese orientali cattoliche (Magistero Conciliare 12), Torino 1967, 503 (il corsivo è mio). 2 Cf. CCEO can. 28, § 2. 3 Cf. p.e. Andrea Pacini, Christian Communities in the Arab Middle East. The Challenge of the Future, Oxford 1998; Fulvio Scaglione, I cristiani e il Medio Oriente. La grande fuga, Cinisello Balsamo [Mi.] 2008; The Catholic Church in the Contemporary Middle East. Studies for the Synod for the Middle East,

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tare-indicatore» appena riferito, e cioè la trasmissione quanto più in- tegrale e comple­ta della conoscenza della Chiesa sulla Rivelazione. Questo vuol dire che la presenza delle «Traditiones orientales» nella Chiesa non è semplicemente un fatto positivo (cf. «decoro»), bensì addirittura un dato essenziale, sia dal punto di vista della perpetua- zione di una più profonda comprensione del «depositum fidei»,4 sia, di consegunza, da quello di una maggior vitalità della Chiesa stessa che consegue da questo miglior­ apprendimento (cf. la metafora dei «due polmoni»).5 ­Alla luce di questo contrasto vistoso tra la suindicata eminente fun­ zione «paradotica» o trasmissiva (di valore universale) delle Tradizioni orientali, giocata nei confronti del deposito della fede, da un lato, e l’erosione accelerata causata, tra l’altro, dalla migrazione di massa di non poche comunità che ne sono portatrici, dall’altro, sorge eviden­ temente la domanda se il diritto canonico vigente sia in grado di fare qualcosa per migliorare le speranze e le prospettive di sopravvivenza anche delle già ridotte Chiese orientali. Una risposta positiva a tale domanda garantirebbe la permanenza di questa ricchezza di sfuma-

Anthony O’Mahony – John Flannery (eds.), London 2010; e anche i bre- vi scritti aggiornatissimi di Anthony O’Mahony sull’attuale situazione del- la Chiesa copta: Id., “Coptic Desert Blooms”, in The Tablet, 18/25 December 2010, 18–19; Id., “A Vital Presence”, in The Tablet, 5 February 2011, 6–7 e 12; Id., “After Shenouda: Challenges for the Copts”, in The Tablet, 7 April 2012, 8–9; mentre sulla situazione dei cristiani in Siria: Id., “Middle East Melting Pot [Political Instability in Syria]”, in The Tablet, 14 May 2011, 4–5; Id., “Dan- ger at the Crossroads [Faith Groups in Syria]”, in The Tablet, 18 June 2011, 4–5; Id., “From Arab Spring to Winter [Syria’s Future at Stake]”, in The Tablet, 3 December 2011, 4–5; Id., “Faultline Threat”, inThe Tablet, 30 June 2012, 11–12. 4 Cf. Péter Szabó, L’ascrizione dei fedeli orientali alle Chiese sui iuris. Lettura del- lo ius vigens nella diaspora, in Cristiani orientali e pasori latini, a cura di Pablo Gefaell (Monografie giuridiche 42), Milano 2012, 158–163, 161. 5 Cf. Basilio Petrà, “Church with ‘Two Lungs’: Adventures of a Metaphor”, in Ephrem’s Theological Journal 6 (2002) 111–127.

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ture della «Parādosis», neutralizzando quelle previsioni cassandriche6 che oggi purtroppo sembrano sempre più in procinto di realizzarsi. In un nostro recente studio abbiamo cercato di analizzare quei casi della normativa sull’appartenenza ecclesio-rituale che sembrano richiedere un intervento legislativo, sia esso di carattere modificatorio da rilasciare dalla Suprema autorità, oppure integrativo, fattibile an­ che dalle autorità inferiori.7 Non si può però dubitare del fatto che, nel futuro delle Chiese orientali, so­prattutto per quanto riguarda le prospettive di sopravvi- venza delle loro comunità disperse nella diaspora all’interno del vasto mondo dell’Occidente, oltre alla relativa legisla­zione sull’appartenenza ecclesio-rituale, giocherà un ruolo importantissimo anche la dimen­ sione applicativa di queste norme. C’è chi pensa che la legislazione vigente in questa materia, normativa quasi del tutto simmetrica sia a livello latino-orientale che vice-versa, sia una prova dell’«eguaglianza orientale». Guardando però ai fatti, quest’opinione non sembra cor­ rispondere a verità, per lo meno se prendiamo in considerazione le conseguenze statistiche (nei territori della diaspora già in sè molto negative) dell’insieme di questa legislazione, da un lato, e la massiva emigrazione, ormai definitivamente inarrestabile, dall’altro. Nei con­ fronti delle comunità cristiane lacerate del Medio Oriente –oltre alla necessità di una legislazione asimmetrica sulla membership «sui iuris» a favore delle numericamente sempre più ridotte Chiese orientali8–

6 Cf. «The attrition in numbers of these Catholic and non-Catholic Churches has progressed so far that total disappearance is not precluded. How embar- rassed shall Catholics feel when they will be called by history to account for the negligent treatment of these remnants of apostolic tradition!», in Victor Pospishil, Eastern Catholic Church Law, Brooklyn [N. Y.] 1993, 90. 7 Szabó, L’ascrizione (nt. 4), 151–232. 8 Questa possibilità, del resto, per alcuni casi concreti è esplicitamente previ- sta (ancorché tuttora non effetuata) anche dal Codice orientale stesso; vedi: CCEO can. 29, § 1, can. 30; cf. anche: Szabó, L’ascrizione (nt. 4), 174–179, 186.

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oggi ormai pure la dimensione applicativa di queste norme dovrebbe essere informata e determinata dalla suindicata regola di ferro: «Lad- dove vi siano ineguali solo norme asimmetriche di supporto e/o solo l’applicazione asimmetrica delle norme può garan­tire l’uguaglianza sostanziale». Visto che tra la consistenza sociologica della Chiesa latina e quella di molte Chiese orientali sui iuris c’è una differenza enorme, mentre l’ugua­glianza tra le Chiese non dovrebbe rimanere una dichiarazio- ne pu­ramente formalistica –direi vuota in quanto non fondata nella realtà quotidiana–, sembra doveroso di rifletteresu come si potreb- bero applicare le norme del diritto vigente a favore delle Chiese in via di sparizione. Infatti, a causa della situazione geopolitica attuale di Iraq e Siria, la sorte di alcune Tradizioni (già ridottissime) –prima di tutto quella assiro-caldea (o «siro-orientale») e poi quella sira (o «siro-occidentale»)– dipenderà ormai quasi completamente dalla buo- na volontà delle Chiese autoctone (di solito latine) del territorio in cui i loro fedeli emigreranno.9 In altri termini, la sopravvivenza di alcune Chiese e riti orientali dipenderà in misura decisiva dalla capacità della disciplina cattolica di rinnovar­si in questo settore, secondo le esigenze della nostra peculiare epoca dell’«etnofuga» orientale. La scelta terminologica adoperata, oggetto del presente studio (can. 112: «licentia»), sembra suggerire –e come vedremo anche richie­ dere– di dover concedere oggi il passaggio dei fedeli latini ad una Chiesa sui uris in modo relativamente facile. Credo che la possibilità di avvalersi di questa potenzialità, intrinseca alla suindicata scelta ter­ minologica, potrebbe notevolmente aiutare il rinforzo delle Chiese

9 Circa alcune nuove forme di convivenza e di cooperazione ipotizzabile in cir- costanze peculiari della diaspora vedi i seguenti studi: Péter Szabó, “Le Chiese sui iuris in diaspora: le tradizioni orientali e le posisbili modalità della loro «implantatio» in Occidente”, in Ius missionale 2 (2008) 169–194; Id., “Le uni- versità nel CCEO. Le facoltà ecclesiastiche nell’opera della trasmissione delle tradizioni orientali: ruolo e prospettive”, in Folia canonica 9 (2006) 257–266.

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sui iruis, gruppi destinatari di questi transiti. Questa lettura del can. 112 certamente suppone che il vescovo della Chiesa latina «a qua» nel pas­saggio in questione non veda tanto l’aspetto della perdità statisti- ca della sua comunità, bensì piuttosto quello dell’arrichimento della Chiesa universa tramite il supporto umano realizzato per mezzo del «transitus ritus» da lui concesso. So che la prassi attuale di solito non corrisponde a questa aspetta­ tiva; anzi, il presente discorso per molti lettori sembrerà utopistico.10 La detta aspettativa però, salvo errori, dal punto di vista della sua mèta non è certamen­te incogruente. Infatti, non è difficile rendersi conto che la progressiva omogenizzazione rituale della compagine ecclesiale –un pericolo reale dovuto all’accelerato processo di globalizzazione– sta comportando delle gravi perdite nella nostra comprensione della ricchezza della fede cristiana. La sopravvivenza della «pluri-ritualità» delle diverse Tradi­zioni ecclesiastiche, invece, funziona da vera ap- portatrice di ricchezza anche da questo punto di vista. Perciò, se si vuole fare il possibile per perpetuare nella Chiesa cattolica anche le sfumature complementari di ottica orientale (o di ottiche orientali) della nostra conoscenza sul «depositum fidei», allora, vista la radicale decomposizione sociologica di alcune Chiese sui iuris, bisognerà tro- vare nuovi mezzi giuridici di supporto rispetto al passato. La possibi- lità, trattata in seguito, di una nuova prassi, ricavabile dalla «licentia» (CIC’83, can. 112, § 1, 1°), portrebbe ben collocarsi su questa strada.

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10 In realtà ciò che si rende conto, prima di tutto, del patrimonio disciplinare di una Chiesa orientale cattolica è l’ammissione, secondo il proprio diritto particolare sui iuris, del clero uxorato, e questa diversità –talvolta tuttora con- siderata come una possibile minaccia al futuro della legge sul celibato lati- no– certamente non rende facile prestare attenzione anche a tali altri aspetti delle «Traditiones orientales», in cui sarebbe invece possible realizzare un vero intercambio reciproco.

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Non c’è dubbio che sulla base dell’interpretazione che verrà in segui- to data al termine «licentia», sia identificabile una chiara intenzione (ed anzi intenzionalità) che a prima vista potrebbe essere ritenuta appassio- natamente –se non faziosamente– filo-orientale. Senz’altro, il significa- to (la natura) del termine «licentia», nella dottrina, è lungi dall’essere univoco, e per dimostrare questo basta rievocare il Codice orientale che –in contrasto al CIC’83– la qualifica come «grazia» (CCEO can. 1510, § 2). Ciononostante, secondo la miglior canonistica di oggi, almeno nell’ambito latino, dietro la licenza vi è una facoltà o un diritto sogget- tivo che di per sè appartiene all’autorizzando. Ora, se la sopravvivenza di tutte le «Traditiones» sia un interesse pubblico della Chiesa, come sembra, allora il transitus ritus dalla Chiesa latina ad una Chiese orien- tali sui iuris in difficoltà non appare più come un fenomeno negativo da arrestare, e nell’agevolarlo –ovviamente solo nei casi fondati secondo la praxis curiae della Congregazione orientale– non sarà inadatto appro- fittare anche dalle possibilità ricavabili da questa nuova e approfondita comprensione del termine «licentia» (CIC can. 112).

1. L’«ascrizione» ad una Chiesa sui iuris L’ascrizione ecclesio-rituale, come sappiamo, può sorgere da tre diversi atti: dal battesimo, dall’entrare nella piena comunione e dal cambiamento dell’at­tuale ascrizione sui iuris cattolica. In seguito trat- teremo solo quest’ultima, e più precisamente solo quella fattispecie in cui si richiede una singolare autoriz­za­zione («licentia»/«consensus») per tale ascrizione.11

11 Dalla ricca letteratura sul tema del «transitus ritus» vedasi Johannes H. Dau- send, Das interrituelle Recht im Codex Iuris Canonici. Die Bedeutung des Ge- setzbuches für die orientalische Kirche (Görres-Gesellschaft, Veröffentlichungen der Sektion für Rechts- und Sozialwissenschaft 79), Paderborn 1939; Gomma- rus Michiels, Principia generalia de personis in Ecclesia, Parisiis-Tornaci-Romae 21955, 303–342; Sofron Mudryj, De transitu a ritu byzantino-ucraino ad ritum

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2. Cambiamento dell’ascrizione per via di un’autorizzazione concessa dalla Sede Apostolica Una delle modalità dell’ascrizione –prevista per fedeli cattolici che in­ten­dono cambiare la propria appartenenza ecclesio-rituale– dunque è il «passag­gio» ad un’altra Chiesa sui iuris. Questo atto, di per sé eccezionale, di solito ri­chie­de un’autorizzazione singolare.12 In certe situazioni determinate però, come sappiamo, è la legge stessa ad of- frire al fedele la necessaria facoltà che lo abilita a cambiare la propria l’appartenenza in questione.13

latinum, Romae 1973; Marius Rizzi, “Transitus ritus (a iure seu privilegiatus et ex indulto)”, in Dictionarium morale et canonicum, Petrus Palazzini, Romae 1966, IV, 541–547 [in seguito: DMC]; Münsterischer Kommentar zum «Codex iuris canonici», Klaus Lüdicke (Hrsg.), Essen 1985-, 112/1–12 [Helmuth Pree: 24. Erg.-Lfg., November 1995]; Carl G. Fürst, Das Sakrament der Taufe. Der «Sta- tus» der getauften Gläubigen in der Kirche im Lichte des CIC und des CCEO, in Ius et iustitia. Acta VI. Symposii Iuris Canonici anni 1996, Spišská Kapitula 1997, 101–125; Astrid Kaptijn, “L’inscription à l’Église de droit propre”, in Année ca- nonique 40 (1998) 49–70; Péter Szabó, “Sajátjogú egyháztagság a hatályos jog szerint (CIC 111–112. és CCEO 29-38. kk.)”, in Kánonjog 1 (1999) 33–68; e dopo la chiusura del presente studio: Miroslav K. Adam, “Ascrizione a una Chiesa sui iuris e passaggio da una Chiesa sui iuris a un’altra nella normativa vigente”, in Ius Ecclesiae 23 (2011), 689–702; Andriy Tanasiychuk, “Il fedele cristiano e il suo stato canonico nella propria Chiesa sui iuris. Questione dell’ascrizione e del passaggio ecclesiatico”, in Ephemerides iuris canonici 52 (2011) 321–344. 12 Questo passaggio è un transito totale e di per sé definitivo, e come tale va di- stinto dalla «conformatio» provvisoria ad un altro rito. Per questo’ultimo istitu- to giuridico vedasi Johannes Pozzi, “Conformatio ad alium ritum”, in DMC, I, Romae 1964, 887–888; Rizzi, “Transitus” (nt. 11), 546–547; cf. Dimitrios Sa- lachas – Krzysztof Nitkiewicz, Rapporti interecclesiali tra cattolici orientali e latini. Sussidio canonico-pastorale, Roma 2007, 14–15; Michiels, Principia (nt. 11), 301–302; ed ancora Federico Marti, I Rutheni negli Stati Uniti. Santa Sede e mobilità umana tra Ottocento e Novecento (Monografie giuridiche 36), Milano 2009, 167–172, 168. 13 Can. 112, § 1, 2°–3° CIC, cc. 33–34 CCEO; cf. Szabó, L’ascrizione (nt. 4), 207- 217.

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L’autorizzazione, o permesso («venia») in questione tradizional- mente va sup­plicata dalla Congregazione per le Chiese orientali, ma oggi essa può spesso essere ottenuta anche dai vescovi locali interessa- ti, e –come vedremo– sono state sollevate questioni interessanti anche circa il valore di tale atto. Infatti, come regola tradizionale, nessuno può passare ad un’altra Chiesa sui iuris senza la «licenza» o il «consenso» della Sede Aposto- lica.14 In seguito ad una recente modificazione dellanorma iuris que- sto consenso invece è pre­sumibile, e cioè non occorre rivolgersi alla Sede Apostolica, se: (a) nel territorio del fedele interessato ambedue le Chiese sui iuris coinvolte (dalla quale ed alla quale viene richiesto il passaggio) hanno una propria Chiesa particolare; e (b) i rispettivi Ve- scovi eparchiali danno il loro consenso per iscritto.15 Questa sem­pli­ ficazione del procedimento si rivela particolarmente felice, in quanto sono ap­punto i Vescovi locali a possedere le informazioni necessarie per una decisione ponderata. Affinché operi la su indicata presunzio- ne, è necessaria la presenza di una Eparchia propria di ambedue le

14 Can. 112, § 1 CIC, can. 32, § 1 CCEO (si vedano le nt. 17 e 18, infra); cf. anche Marco Brogi, “Licenza presunta della Santa Sede per il cambiamento di Chie- sa sui iuris”, in Revista española de derecho canónico 50 (1993) 661–668; Javier Canosa, “La presunzione della licenza di cui al can. 112, § 1, 1° del Codice di diritto canonico”, in Ius Ecclesiae 5 (1993) 613–631. (La facoltà in questione per un breve periodo [1928–1940] fu habitualiter concessa ai legati apostolici, competenza più tardi rinnovata in forma più stretta e solo per alcuni Paesi; cf. Rizzi, Transitus (nt. 11), 545; John D. Faris, “Inter-Ritual Matters in the Revi- sed Code of Canon Law”, in Studia Canonica 27 [1983] 248). 15 Can. 32, § 2 CCEO: Si vero agitur de christifideli Eparchiae alicuius Ecclesiae sui iuris, qui transire petit ad aliam Ecclesiam sui iuris, quae in eodem territorio propriam Eparchiam habet, hic consensus Sedis Apostolicae praesumitur, dum- modo Episcopi eparchiales utriusque Eparchiae ad transitum scripto consentiant. (Giova notare che una autorizzazione analoga –sebbene più ristretta– dei Ve- scovi orientali fu concessa anche nel 1838; cf. Michiels, Principia [nt. 11], 324, e Rizzi, “Transitus” [nt. 11], 544–545).

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Chiese sui iuris interessate.16 Infine tale consenso è necessario anche per il passaggio tra due Chiese sui iuris della medesima Tradizione. Questa modalità di cambiamento dell’ascrizione tramite un’auto- rizzazione amministrativa, sia nel passato che oggi ha suscitato alcune serie domande. Cerco di darne qui una breve sintesi.

2.1 Il valore giuridico dell’intervento superiore: condizione di validità o solo della liceità? Dovuto alla terminologia ambigua sia del vecchio sia del nuovo CIC (cf. «venia», «licentia»17) prima della promulgazione delle rela- tive norme orientali18 nella lettura ripetutamente emersero pareri che consideravano questo intervento della Sede Apostolica come una con- dizione solo «ad liceitatem».19 Sebbene l’ef­fetto d’insieme di alcuni

16 Di conseguenza nel caso di un fedele affidato ad un Vescovo di un altra Chiesa sui iuris (cf. cc. 916, § 5 e 38 CCEO), situazione tuttora assai frequente nella diaspora, solo la Sede Apostolica è competente a concedere il relativo consen- so. (Non è del tutto chiaro se per «medesimo territorio» si intendi solo due tali eparchie delle quali almeno una piccola parte di fatto si sovrapone [così Primetshofer], oppure se sia sufficiente –come p.e. John D. Faris vuole– anche l’appartenenza di queste unità alla stessa Conferenza episcopale, ovvero alla stessa regione culturale senza la suindicata sovraposizione geografica; cf. Bruno Primetshofer, “Interrituelles Verkehrsrecht im CCEO”, in Archiv für katho- lisches Kirchenrecht 160 [1991] 346–366, 354; John D. Faris, The Eastern Catholic Churches. Constitution and Gover­nance according to the Code of Canons of the Eastern Churches, New York 1992, 181.) 17 Can. 98, § 3 CIC/1917: Nemini licet sine venia Apostolicae Sedis ad alium ritum transire, aut, post legitimum transitum ad pristinum reverti. / can. 112, § 1 CIC: Post receptum baptismum, alii Ecclesiae rituali sui iuris adscribuntur: 1º qui li- centiam ab Apostolica Sede obtinuerit… 18 Can. 8, § 1 CS Nemo potest sine licentia Sedis Apostolicae ad alium ritum valide transire… / can. 32, § 1 CCEO: Nemo potest sine consensu Sedis Apostolicae ad aliam Ecclesiam sui iuris valide transire. 19 Federico Santamaría Peña, Comentarios al Código Canónico, I, Madrid 1920, 131; Matthaeus Conte a Coronata, Institutiones iuris canonici ad usum utriu-

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principi codificati20 poteva in certa misura giusti­fi­care una tale inter- pretazione, nondimeno ha prevalso la tesi per cui la «venia», in con­ formità alle precedenti fonti e praxis Curiae, anche nel CIC/1917, can. 98, § 3 si riferisce ad una condizione di validità del passaggio rituale.21 Alla luce di ques­ta incertezza dottrinale iniziale è assai sorprendente che il testo del CIC di nuovo sia rimasto laconico. Infatti, neanche il can. 112, § 1, 1° del CIC’83 stabilisce in modo esplicito l’effetto invali- dante dell’eventuale mancanza dell’intervento del­la autorità compe- tente.22 Questo fatto, per lo meno osservando strettamente i rela­ ­tivi principi d’interpretazione, sembrerebbe tuttora comportare un’incer- tezza non di poco conto. Infatti, il termine «licentia» in sé indica una condizione solo «ad liceitatem», e questa interpretazione viene ri- confermata anche dal principio della validità degli atti contra legem.23 Per la maggioranza dei canonisti questa incertezza è stata superata

sque cleri et scholarum, tom. I, Taurini 21939, 156; El Código de Derecho Canóni- co, I, Tra­ducido y comentado por Blanco Nájera, Francisco, Cadiz 1942, 81; cf. le nt. 17, 20, supra, e la nt. 23, infra. 20 Si vedano cc. 11, 18 e 19 CIC/1917; cf. Conte a Coronata, Institutiones (nt. 19), 156: «Cum clausola irritans hoc can. 98, § 3 desideretur, transitus de uno ad alium ritum contra ius factus, validus esse videtur et validos effectus iuridice sortiri…» 21 Cf. p.e. Michiels, Principia (nt. 11), p. 329, e la bibliografia ivi citata; Acacius Coussa, Epitome praelectionum de iure ecclesiastico orientali, I, Cryptoferra- tae 21948, 31; Dinus Staffa, “De transitu orientalis ad ritum latinum propter baptismum in eodem ritu susceptum in casu necessitatis”, in Ephemerides iuris canonici 1 (1945) 175–180, 180. 22 Vedasi la nt. 17, supra. 23 Can. 10 CIC: Irritantes aut inhabilitantes eae tantum leges habendae sunt, quibus actum esse nullum aut inhabilem esse personam expresse statuitur; cf. anche la nt. 20, supra. (Alla luce di questi fatti non c’è da meravigliarsi che alcuni com- mentatori del CIC di nuovo abbiano interpretato la licenza di cui al can. 112 CIC come condizione «ad licei­tatem»; cosí p.e. Code of Canon Law Annotated, Ernest Caparros – Michel Thériault – Jean Thorn [eds.], Montréal 1993, 132 [commento di Amadeo de Fuenmayor]; cf. anche la nt. 27, infra.)

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dall’entrata in vigore del can. 32, § 1 CCEO, in cui è esplicitamente detto che l’intervento della’autorità competente è una condizione di validità del passaggio. La norma orientale a questo punto così funzio- nerebbe come una interpretazione autentica implicita della normativa latina ambigua.24 Quest’ultimo è un argomento convincente. Infatti, esso di per sé è com­pa­tibile con il paradigma della correlazione tra i due Codici,25 per lo meno se sup­poniamo che tra i significati precisi dei due termini («licenza» e «consensus») non vi sia una differenza originale, voluta dal Legislatore stesso.26 Eppure mi pare ci siano ragioni considerevoli che sembrano provare l’utilità di un inter­vento autoritativo in questo argomento, visto che la chiarificazione interpretativa apportata dal Codice orientale non è stata accettata da tutti.27

24 Cosí p.e. Primetshofer, “Interrituelles” (nt. 16), 353; Carl G. Fürst, Inter­ dipen­­denza del diritto canonico latino ed orientale. Alcune osservazioni circa il diritto canonico della Chiesa cattolica, in Il diritto canonico orientale nell’ordina- mento ecclesiale (Studi giuridici 34), a cura di Kuryakose Bharanikulangara, Città del Vaticano 1995, 29. 25 Cf. can. 1 del CIC’83 / can. 1 del CCEO. 26 Péter Erdő, “Questioni interrituali (interecclesiali) del diritto dei sacramenti (battesimo e cresima)”, in Periodica de re canonica 84 (1995) 315–353, 320: «… l’interprete del CIC deve tener presente l’intero CCEO promulgato dal mede- simo Pontefice … L’interpretazione però non signi­fica modifica, e quindi non può costituire una soluzione nei casi di eventuale contrad­dizione o discrepanza tra i due Codici»; vedi anche Franciscus J. Urrutia, “Canones praeliminares Codicis (CIC). Comparatio cum canonibus praeliminaribus Codicis canonum ecclesiarum orientalium (CCEO)”, in Periodica de re morali canonica et liturgi- ca 81 (1992) 151–177, 155, 158. 27 Cf. «It seems, prima facie, that Latins can transfer illicitly but validly to an Ea- stern Catholic Church without the licentia of the , but that consensus of the Holy See is required ad validitatem in the case of Eastern Catholics who wish to transfer to another Eastern Catholic Church or to the »; Michel Thériault, “Canonical Questions Brought about by the Presence of Eastern Catholics in Latin Areas in the Light of the Codex Canonum Ecclesia- rium Orienta­ lium­ ”, in Ius Ecclesiae 3 (1991) 201–232, 212; cf. anche la nt. 23, supra.

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2.2 Le «causae canonicae» del passaggio ad una altra Chiesa sui iuris L’appartenenza ecclesio-rituale (ovvero l’ascrizione a una Chiesa sui iuris) è un fattore giuridico di interesse pubblico. Per questa ragio- ne la sua determina­zio­ne e modificazione –tranne alcuni casi specifi- ci– sono sotratte all’«arbitrio» dell’individo.28 Sempre secondo la dot- trina classica si tratta di una «gratia» con­cessa per rescritto della Sede Apostolica. Questo atto, per sua natura simile alla dis­pensa, è una «aliqua relaxatio legis» che vulnera la legge, contraria all’in­tenzione della Chiesa, e come tale richiede una causa giusta e sufficientemente grave.29 Nella dottrina a questo riguardo si parla anche delle «cause canoni- che», e cioè cause che «iure scripto vel non scripto seu stylo Curiae ut legitimae admit­ tuntur».­ 30 La «causa eminens» è il ritorno al rito degli avi.31 (Credo che per sua natura rientrerebbe in tale categoria anche un fedele ortodosso fattosi latino che vorrebbe passare alla Chiesa sui iuris corrispondente alla sua Chiesa ortodossa di origine. Lo stesso si potrebbe dire se fossero stati i suoi genitori, o antenati ortodossi a convertirsi nella Chiesa latina.) La letteratura raramente riporta quelle che sono le cause desumi- bili dallo «stylus» della Congregazione orientale, e neanche le liste accessibili sono del tutto identiche.32 Nel valutare le ragioni esposte

28 Cf. Mudryj, De transitu (nt. 11), 118, 128. 29 Ibid., 132. 30 Ibid. 31 Cf. can. 8, § 2 del m.p. Cleri sanctitati. 32 Secondo Rizzi, “Transitus” (nt. 11), 545–546 poi divenuto sottosegretario della Con­gregazione per le Chiese Orientali, le cause canoniche sono sopratutto le seguenti: «… a) moralis impossibilitas e causa permanenti (ex. gr. distantia ad quinque milia) sequendi proprium ritum, vel permanens impossibilitas proprio ritu utendi; b) adoptio prolis ritus diversi; c) si proles, patre orbata vel patre de- relicta, a matre diversi ritus educatur; d) conversio petentis ad religiosam vitam occasione vel influxu alieni ritus; e) incardinatio vel in Seminarium cooptatio in

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del richiedente possono essere alquanto indicative anche le cause che sono (state) considerate come insuffi­cien­ti per il cambiamento dell’a- scrizione ecclesio-rituale.33 La «canonicità» delle cause in questione, come abbiamo visto, si ricollega alla loro reperibilità nella praxis curiae. Non sembra però

servitium diœcesis diversi ritus.» Un altro autore (Mudryj, De transitu [nt. 11], 132–134) identifica quattro cause canoniche fonda­mentali con diverse fattispecie ulteriori: «… 1) grave incomodum vel moralis impossibilitas; 2. favor fidei; 3. bonum familiae; 4. Ordines … 2° In favorem fidei causae canonicae transitus secundum praxim Curiae numerari possunt: a) oratoris conversio vel reditus ad fidem iuxta ritum; recens uxoris conversio ad fidem catholicam; c) spes -va lida vel futura adducendi ad fidem catholicam virum acatholicum, iuxta ritum alium ac nativum; d) si orator ad christianae pietatis officia rediit, iuxta ritum a proprio diversum …; 3° In bonum familiae autem causae canonicae transitus considerantur: a) christianae pietatis ac domesticae pacis tuitio in singularibus adiuctis; b) adoptio prolis diversi ritus; c) mater, viro orbata, prolem proprio ritu educare postulans vel post mortem viri oratrix, ritus viri ignara, ad suum ritum filios transire postulans vel, quando orator, patre amisso, ritu matris velit edu- cari … 4° Ad ordines promvendum: a) si quis sacerdotio initiari exoptat in ritu diœceseos, in cuius servitium desiderat transire, vel se instituitur in seminario ritus alieni, pro fidelibus ipsius ritus; b) si desideratur incardinatio inter clerum diœceseos ritus diversi, pro fidelibus ipsius ritus.» (Cf. ancora AugustineMen - donça, Interecclesial Legislation [for Student’s use only], Ottawa 1991 [manoscrit- to], 53–54; Faris, Eastern Catholic Churches [nt. 16], 169–170; Victor Pospishil, Code of Oriental Canon Law. The Law on Persons, Ford City 1960, 36–37.) 33 Mudryj, De transitu (nt. 11), 134–135 con le relative spiegazioni: «Quaenam vero causae canonicae in stylo Curiae Romanae ut tales non considerantur? Praecipuas nume­rare possumus: a) sponsa alieni ritus …; b) ignorantia proprii ritus …; c) cognitio ritus ad quem …; d) frequentatio scholae diversi ritus …; e) receptio sacramentorum in ritu alieno …; f) bonum animarum generice sumptum…». Queste ragioni come singolari non sono sufficenti, ma nel caso in cui se ne accumulassero più di una, insieme possono risultarsi sufficienti. Non possono invece essere considerate ragioni come «la salvezza delle anime in generale», «la pace della mente e della coscienza», le mancanze nelle strutture organizzative, ed il puro desiderio al transito senza essere appoggiata da una qualsiasi ragione; cf. Mendonça, Interecclesial (nt. 32), 54.

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che le cause appena elencate costituiscano una lista tassativa. Si tratta piuttosto degli elenchi che ri­portano solo le categorie più frequente- mente applicate nella prassi curiale.34 In­fine si deve notare che negli ultimi anni la Congregazione per le Chiese orien­tali sembra essere orientata a non ritenere più alcune delle cause tradizionali co­me ra- gioni sufficienti per il passaggio. Così ci sono forti cambiamenti per esem­pio nel caso dell’«ordine»,35 in quello della dimora e/o dell’attività in un’am­biente di rito diverso,36 e, se non sbaglio, anche la categoria

34 Cf. Pospishil, Code (nt. 32), 36: «The application for transfer to another Rite must be supported by valid reasons. Every true cause will be accepted. Rea- sons usually accepted are…»; ed anche Rizzi, “Transitus” (nt. 11), 545: «Cete- rae prae­cipuae causae, e praxi S. Congregationis Orientalis recognitae, sunt praesertim: … a) moralis impossibilitas [ecc.]…»; cf. nt. 32, supra; ed ancora Hamletus Cicognani, Commentarium ad librum primum Codicis Iuris Ca- nonici, Romae 1939, 315: «Extra causas canonicas numerare possumus ‘causa rationales’ quae lege non statuuntur sed aequali consideratione haben­dae sunt ob circumstantias speciales vel loca particularia»; cf. Mudryj, De transitu (nt. 11), 132. 35 Cf. Salachas–Nitkiewicz, Raporti (nt. 12), 128: «Bisogna dunque distinguere l’appar­tenenza di un candidato agli ordini a una Chiesa sui iuris dalla sua ascri- zione (incar­di­nazione) a una eparchia o diocesi… Pertanto occorre notare che il chierico orientale suddito ad un Ordinario latino, rimane sempre ascritto alla propria Chiesa sui iuris»; cf. Mendonça, Interecclesial (nt. 32), 54; in confronto vedasi «incardinatio vel in Seminarium cooptatio in servitium diœcesis diversi ritus»; cf. nt. 32, supra. 36 Cosí p.e., un chierico destinato al servizio di un’altra Chiesa sui iuris, se caso mai volesse cambiare per questa ragione la sua incardinazione, secondo la prassi attuale della Sede Apostolica anche in quest’ultima ipotesi rimarreb- be membro della sua Chiesa sui iuris. Invece del cambiamento dell’ascrizione ecclesio-rituale gli viene concessa solo la facoltà dell’«adattamento» al rito della Chiesa in cui serve, o per lo meno l’indulto del «biri­tualismo»; Salachas– Nitkiewicz, Raporti (nt. 12), 106–109. Simili soluzioni sono state adottate per i religiosi che intendono ad entrare in un’Istituto di un’altra Chiesa sui iuris; cf. Marco Brogi, “Rito”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, Guerrino Pelliccia – Giancarlo Rocca (a cura di), Roma 1983, 1846–1849; Salachas– Nitkiewicz, Raporti (nt. 12), 14–15 e 173.

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dell’«impossibilità» come causa sufficiente viene riconosciuta in modo più cauto e raro del passato.37 Dato che la prassi della Congregazione inevitabilmente costituirà un orien­ta­mento anche per le decisione locali (cf. can. 32, § 2 CCEO), casi che, visto il moltiplicarsi delle Chiese particolari sovraposte,38 sa- ranno sempre più frequenti, sembrerebbe particolarmente utile la re- dazione ufficiale di un elenco aggiornato, o addirittura di uno studio

37 Una delle cause canoniche tradizionali è il «grave incommodum», e nella ma- nualistica la distanza geografica ne costituiva un esempio. Sebbene la distanza come causa dell’in­comodità è ovviamente relativa (in quanto dipende, tra l’al- tro, dalla grandezza della famiglia, dalla salute dell’interessato, dall’accessibi- lità dei mezzi pubblici, ecc.), vi era un accordo tra gli autori che la «distantia quinque milium passuum et ultra a templo propriae parrochiae» fosse suffi- ciente per il verificarsi del «grave incommodum» necessario per il passaggio ad un altro rito, più comodo; cf. Mudryj, De transitu (nt. 11), 133; Rizzi, “Transi- tus” (nt. 11), 545; Mendonça, Interecclesial (nt. 32), 54. Oggi invece la prassi è molto più restrittiva. Così, ad esempio, la petizione recente di una donna –per- sona convertita dalla Chiesa armeno-aspostolica a quella armeno-cattolica– di poter passare alla Chiesa latina è stata negata dalla Congregazione, nonostante il fatto che la più vicina chiesa armeno-cattolica si trova a più di 200 miglia; vedasi le nt. 64, 65, infra. Nel passato, come detto in precedenza, la semplice mancanza delle proprie strutture organizzative di per sé era tradizionalmente considerata come ragione insufficiente per concedere il passaggio (cf. nt. 33,su - pra). Tuttavia, se da questa mancanza sorgeva un’incomodità, all’assenza della chiesa costituiva causa sufficiente per la concessione dell’indulto. La risposta appena riferita della Congregazione sembra testimoniare, invece, una saliente rivalutazione della rilevanza della distanza geografica come ragione sufficiente per dare l’autorizzazione al passaggio.) 38 Cf. Péter Szabó, Stato attuale e prospettive della convivenza delle Chiese catto- liche «sui iuris», in Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo – Società per il Diritto delle Chiese Orientali, Territo- rialità e personalità nel diritto canonico e eccle­siastico. Il diritto canonico di fronte al Terzo Millenio. Atti del Congresso Internazionale Budapest 2–7 settembre 2001, Péter Erdő – Péter Szabó (a cura di), Budapest 2002, 242–246; Gianpa- olo Rigotti, “Le comunità cattoliche orientali in diaspora nel Nord­ame­rica”, in S.I.C.O. [Servizio Informazioni per le Chiese Orientali] 63 (2008) 346–373.

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dettagliato, circa le «causae canonicae» attualmente in uso.39 Nel corso di tale aggiornamento sarebbe opportuno (se non pro- prio indis­pen­sabile) chiarire se la concessione del cambiamento dell’a- scrizione ecclesio-rituale anche nel futuro dovrà essere considerata come un «indulto», una «gra­zia» inteso nel senso stretto della dottri-

39 Un tale documento darebbe così indicazioni pratiche anche su come concre- tamente attuare la protezione delle comunità orientali della diaspora, compito la cui importanza è stata diverse volte riconfermata negli ultimi tempi; cf. p.e. “Compito della Congregazione è pertanto di esprimere la sollecitudine della Chiesa universale per tali Chiese in modo che tutti «possano conoscere in pie- nezza questo tesoro e sentire così, insieme con il Papa, la passione perché sia restituita alla Chiesa e al mondo la piena manifestazione della cattolicità della Chiesa, espressa non da una sola tradizione, né tanto meno da una comunità contro l’altra»”… “La contingenza storica pone queste Chiese in condizione di dover contare sul sostegno, sull’affetto e sulla cura particolare della Santa Sede, così come delle Chiese particolari di rito latino”… “L’agenda dei lavori della vostra Plenaria è un segno dell’impegno con cui siete chiamati a delineare l’attività futura del Dicastero. Vi sarò grato se privilegerete particolarmente il settore della cura pastorale dei fedeli orientali in diaspora. A questo riguardo è necessario che tutti, latini e orientali, colgano le delicate implicazioni di una situazione che costituisce una vera sfida sia per la sopravvivenza dell’Oriente cristiano, sia per il ripensamento in generale dei propri programmi pastorali”, [Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II] ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per le Chiese orientali, 1 ottobre 1998, nn. 3, 4, 6, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXI, 2, 1998, Città del Vaticano [2000], 610–611; “Il ruolo particolare delle Chiese Orientali cattoliche corrisponde a quello rimasto vuo- to per la mancanza di comunione completa con le Chiese ortodosse … La vo- stra collaborazione con il Papa e tra di voi potrà mostrare alle Chiese ortodosse che la tradizione della «sinergia» tra Roma e i Patriarcati si è mantenuta … Nello stesso spirito è egualmente importante che le Chiese d’Oriente, soggette in questi tempi ad un considerevole flusso migratorio, conservino il posto d’o- nore che loro spetta nei propri paesi e nella «sinergia» con la Chiesa di Roma, come anche nei territori dove i loro fedeli fissano la loro dimora”, [Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II] ai Patriarchi delle Chiese orientali cattoliche, 29 settembre 1998, n. 5; in Insegnamenti, op. ult. cit., 591–592, cf. ancora: la nt. 71, infra.

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na classica, con tutte le sue conseguenze giuridiche che ne seguono. Questo interrogativo ci porta ad una domanda teo­retica non meno interessante e complessa della problematica suesposta circa il valore giuridico della licenza.

2.3 La natura dell’intervento («licentia»/«consensus»), e quindi la convenienza del «transitus ritus» Il cambiamento dell’ascrizione rituale viene considerato, da secoli, come una cosa «odiosa» e sgradita, e quindi per quanto sia possibile da evitare.40 Oggi invece –oltre la presenza di quest’ottica tradiziona- le41– sembra affacciarsi una nuova visione che classifica questo cam-

40 Cf. «vulnera la legge …» (nt. 29, supra), ed anche Franciscus X. Wernz – Petrus Vidal, Ius canonicum, II. De personis, Romae 21928, 22–23: «Mutatio seu transitus ab uno ritu ad alium est rigorose prohibitus nec fieri potest sine speciali venia Apostolicae Sedis…»; Neophytos Edelby – Ignace Dick, Les Églises orientales catholiques. Decret «Orientalium Ecclesiarum» (Unam sanctam 76), Paris 1970, 227–228: «Le passage à un autre Rite … est une exception. Comme telle, elle doit être limitée aux cas strictement prévus par la loi et ne pas subir d’interprétation extensive»; Michiels, Principia (nt. 11), 319, 323: «Ad praxim dispensationum quod attinet, Sedes Apostolica nonnisi rarissime permittit transitum a ritu latino ad orientalem … Ad praxim dispensationum quod attinet, Sedes Apostolica nonnisi raro permisit transitum a ritu orientali ad latinum, etsi sane facilius quam vice versa.» (Le eccezioni a questa regola furono le norme e la prassi inspirate dalla mens della «ritus praestantia»; cf. Benedictus XIV, enc. Allatae sunt [de ritibus orientalibus servandis], 26. VII. 1755, in Enchiridion delle Encicliche 1, 640/642, n. 20: «Cum Latinus Ritus is sit, quo utitur Sancta Romana Ecclesia, quae Mater est et Magistra aliarum Ec- clesiarum, reliquis omnibus Ritibus praeferri debet»; cf. anche Id., const. Etsi pastoralis, 26. V. 1742, in Codicis iuris canonici fontes, Petrus Gasparri [ed.], I, Romae 1947, 734–755, § 2, XIII; VIII–XIV; § 8, VII–XI; cf. ancora Michiels, Principia [nt. 11], 302, 317, 323). 41 Cf. Lorenzo Lorusso, “Il rispetto dei riti orientali nell’evangelizzazione delle genti. Attualità dell’enciclica Allatae sunt di Benedetto XIV”, in Ius missionale 1 (2007) 77–117, 104: «Il passaggio di un orientale alla Chiesa latina non dovreb- be essere concesso che raramente per evitare la dissoluzione delle Chiese orien-

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biamento come qualcosa che di per sé farebbe parte della sfera giuri- dica del cristofedele. Questo dilemma sulla natura della concessione del «transitus ritus», lungi dall’essere un interrogativo pura­men­te te- oretico, è di massima importanza pratica, in quanto offre ai Vescovi lo­cali un orientamento primario e fondamentale sulla convenienza del fenomeno del cambiamento dell’ascrizione, e quindi sull’atteg- giamento da seguire nei con­fronti delle relative petizioni.42 In breve, ci si chiede se il fenomeno del «transi­tus ritus» sia da frenare oppure, fatto salvo un previo controllo della presenza delle condizioni prefis- sate, da favorire.

2.3.1 La concessione del «transitus ritus» è un puro atto di «grazia»(?) La concessione del passaggio ad un altro rito tradizionalmente viene qualifi­ca­to come «indulto».43 Tuttavia, per motivo dell’impreci- sione giuridica del con­cetto, ovvero della sua larghezza dal punto di vista del valore semantico,44 nella presente indagine pare opportuno

tali. Il passaggio di un latino ad una Chiesa orientale dovrebbe essere concesso raramente per evitare ogni eventuale intenzione dolosa da parte dell’interessa- to…»; cf. però l’opinione contraria, come mi pare, di Marco Brogi, citata alla nt. 67, infra. 42 Can. 32, § 2 CCEO; cf. la nt. 95, infra. 43 Rizzi, “Transitus” (nt. 11), 545. 44 Alphonsus van Hove, “De privilegiis et indultis, ad can. 4 Cod. J. C.”, in Jus pontificium IX (1929) 290: «Indultum alii intelligunt quamdam exemptio- nem a lege, seu privilegium negativum, alii concessionem quae non est facta in perpetuum. Ut videtur, vox non habet sensum iuridicum determinatum. Hic sumitur sensu omnino lato de omni concessione facta a Sede Apostolica, de beneficio, gratia, favore, dispensatione, rescripto, etc.»; cf. JoannesŘezáč , De potestate dispensandi episcoporum orientalium ad normam mp. Episcopalis pote- statis, Roma 1968, 12: «Indultum, est ‘quasi-privilegium’, differendo a privilegio eo, quod non est per se perpetuum; hinc est facultas et gratia ad tempus con- cessa, praeter vel contra ius, ex indulgentia legislatoris: ideo cum facultate plus minusve confunditur». Cf. ancora John Huels, “Privilege, Faculty, Indult, Derogation: Diverse Uses and Disputed Questions”, in The Jurist 63 (2003)

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prescinderne. Infatti dal punto di vista del nos­tro dilemma attuale appare essere questo un termine inutile in quanto –invece di chiarir- la– appunto offusca la vera natura dell’atto in questione.45 Nell’intento di identificare la natura del «transitus ritus» l’altro termine tra­di­zio­nalmente utilizzato è la «gratia». Quest’atto superiore a volte viene assimi­lato anche alla dispensa, in quanto si tratta, come abbiamo già visto, di una «ali­qua relaxatio legis», e di conseguenza la normativa sulla concessione della dis­pensa sarebbe applicabile anche alla «venia transitus ritus».46 La grazia è «una concessione dell’autorità non esigibile secondo la giustizia, che ampia la sfera giuridica del beneficiario senza che sia richiesto un sacrificio da parte sua. Dà pertanto origine a una situa- zione giuridica soggettiva fa­vo­re­vo­le e gratuita».47 (Le stesse caratte-

213–252, 243: «An indult is a generic term for a favor for a person, physical or juridic, or an exceptional faculty. The word ‘indult’ is an alternative term for other concepts in canon law. It lacks its own unique juridic identity. It may be some kind of favor, be it a dispensation, privilege, permission, or other favor, especially when the precise nature of the favor is unknown by the person reque- sting or granting it… The faculty is exceptional because it grants a power or an authorization for something that is contra ius…» (il corsivo è mio). 45 Huels, Privilege (nt. 44), 243–244: «In all of these uses, the indult functions as a substitute term for other concepts whose meaning and applicability are clear in the law. Thus, the term ‘indult’ is really unnecessary juridically and, indeed, is unhelpful in the long run because it obfuscates the real nature of act in question. However, it has a benefit for ecclesiastical practice, since its use avoids the need for an analysis of the actual nature of a favorable act, which analysis would be difficult for those authorities who lack detailed knowledge of the general norms of canon law.» (Giova notare che la formulazione dello stesso CIC’1917 non era del tutto chiaro, in quanto l’espressione «venia» [cf. la nt. 17, supra], da una parte significa favore, grazia, indulgenza, mentre dall’altra facoltà e permesso; cf. Nomen. Il nuovissimo Campanini Carboni Latino Italia- no – Italiano Latino [Milano 2002], 1763–1764.) 46 Mudryj, De transitu (nt. 11), 132. 47 Jorge Miras – Javier Canosa – Eduardo Baura, Compendio di diritto canonico amministrativo, Roma 2007, 415.

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ristice essenziali sono proprie anche della dis­pen­sa, la quale in realità è una forma concreta della concessione di una grazia.) La valutazio- ne della convenienza nel concedere (o meno) il «transitus ritus», in quanto atto di grazia –qualcosa che «non è dovuto ad aequalitatem, ma per con­venienza o liberalità»48– per sua natura rientra nella sfera discrezionale dell’au­torità competente. La natura graziosa di tale atto comporta che il suo otteni­mento, in fin dei conti, non sarebbe di per sé dovuto anche qualora fossero ris­con­trate cause sufficienti. Infatti, oltre alla giusta causa, la concessione in questo tipo di atti è sempre subordinata alla valutazione discrezionale della sua oppor­tu­nità.49 La «gratia», almeno nella sua concezione «pura», non è esigibile: infatti se la negazione della richiesta potesse far venir meno la giustizia, non si tratte­reb­be più di una vera e propria grazia, ma piuttosto di un diritto.50 Salvo forse rarissime eccezioni, questa piena gratuita è propria anche della dispensa. Sebbene la dottrina distingua tra «dispensatio debita» e «dispensatio ius­ta seu permissa», neanche nella prima ipo- tesi si potrebbe configurare uno «ius strictum illam exigendi».51 Nel caso della dispensa «normale» (quella «iusta seu permissa») la piena

48 Eduardo Labandeíra, Trattato di diritto amministrativo canonico (Trattati di diritto 2), Milano 1994, 325. 49 Cf. Miras – Canosa – Baura, Compendio (nt. 47), 277 ss., 415. 50 Ibid., 278. 51 Alphonsus van Hove, De privilegiis, de dispensationibus (Commentarium Lo- vaniense in Codicem iuris canonici I/5), Mechliniae-Romae 1939, 427: «Di- spensationes debitae sunt quas Superior sine peccato denegare non potest, vel quia dispensatio praecepto ipsius iuris vel Superioris iniungitur concedenda, vel quia apud Superiorem oritur obligatio conscientiae eam impertiendi prop- ter aliquam specialem circumstantiam … Notio dispensationis debitae obscu- ritate non vacat et non semper eodem sensu est intellecta … Denegata dispen- satione debita, ius strictum subdito non est illam exigendi, nec actio iudiciaria conceditur, sed tantum recursus ad Superiorem dispensantis, nisi agatur de dispensatione praecepto imposita.»

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discrezionalità e quindi la non esigibilità della grazie ri­chies­ta, per la dottrina classica è scontata.52 Il paradigma della «dispensatio» invece –diversamente dalla grazia che per sua natura può essere sia praeter sia contra ius– mette evi- dentemente in rilievo anche la chiara straordinarietà e eccezionalità dell’atto. In questa ipotesi la con­ces­sione del transitus, appunto per l’assomiglianza della dispensa, sarebbe un atto contro un divieto le- gislativo. In quanto la legge di per sé è ragionevole, tale atto rimane sempre una eccezione. Anzi, si tratta di un atto che, come abbiamo visto, in verità crea il relativo diritto soggetivo, e proprio per questa ragione è inesigibile in quanto nella sfera del richiedente non c’è un diritto preesistente da invocare. In sintesi l’inquadramento della concessione del «transitus ritus» nel para­digma della dispensa ha due conseguenze fondamentali. In questa ipotesi tale atto, da una parte, richiede sempre una causa giu-

52 van Hove, De privilegiis (nt. 51), 429: «Dispensatio iusta seu permissa illa est quae habet causam sufficientem, vi cuius permittitur dispensatio, adeo ut -Su periori integrum sit illam dare vel non: agitur de vera gratia et ideo libera. Si subdito prodest dispensatio, bono communi et sanctitati legis prodest eius de- negatio. Pensatis omnibus, Superior pro suo prudenti arbitrio gratiam dispen- sationis concedet vel denegabit»; cf. Miras – Canosa – Baura, Compendio (nt. 47), 308–309: «L’esistenza di una causa giusta e razionale per la dispensa non significa che tale provvedimento sia dovuta in termini di giustizia, cioè che il richiedente abbia il diritto ad ottenerlo. La concessione della dispensa… è un atto prudenziale di governo e non di amminisatrazione della giustizia. In altri termini, non mira al soddisfacimento di un diritto previo, ma ne crea uno nuovo… Si potrebbe parlare di diritto alla dispensa, per ragioni di giustizia distributiva (uguaglianza di trattamento), e di diritto al buon governo, quando vige la prassi di concedere in determinati circostanze tale provvedimento, seb- bene le pecularietà di questi casi singolari rendano molto difficile che si diano essattamente le medesime situazoni, specilamente nell’ambito canonico, in cui si deve cercare il bene spirituale di ogni fedele, per modo che fattori apparente- mente insignificanti possono rilevarsi invece decisivi nel momento di giudicare l’opportunità di concedere una dispensa»; vedasi anche la nt. 50, supra.

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sta e proporzionalmente grave alle ragioni che stanno alla base della legge che di per sé vieta il passaggio; mentre, dall’altra, neanche in presenza di tali ragioni è scontato l’esito favo­re­vole al richiedente, in quanto trattandosi in definitiva di una grazia –non essen­doci ap- punto un diritto preesistente– la discrezionalità dell’autorità rima- ne piena ed integra anche nel dover prendere in considerazione gli eventuali inter­essi pubblici contrari.53 (Le situazioni in cui potrebbe sorgersi un vero diritto alla dispensa sono veramente rarissime,54 e, come abbiamo visto, neanche in questi casi si dà la loro esigibilità formale). Sebbene la discrezionalità non possa sboccare nell’arbitrarietà, l’in- teresse pubblico non di rado richiede il sacrificio parziale (anzi a volte anche totale) dei leciti interessi privati dei singoli fedeli,55 e questo a fortiori è vero nel caso delle richieste di interessi che non nascono da dei diritti preesistenti. Qui ci troviamo di fronte ad un delicato equilibrio tra discrezionalità ed equità. Certamente anche le decisioni graziose, oltre ad essere legittime, devono risualtrsi anche adeguate ai relativi casi concreti, e cioè per quanto sia possibile devono armoniz-

53 Cf. le nt. 52 e 55; ed ancora Comentario exegético al Código de derecho canóni- co, Ángel Marzoa – Jorge Miras – Rafael Rodríguez-Ocaña (dir.), vol. I, Pamplona 32002, 696 [Eduardo Baura]: «Algún autor entiende incluso que toda dispensa está fundada en un interés público y, por esto, la autoridad eclesiástica tendría, no sólo el poder, sino también la obligación de concederla cuando concurran los requisitos necesarios. Sea como fuere, la dispensa beneficiará en primer lugar al dispensado en el caso particular, pero, si existe una causa justa y racional, no llevará consigo ningún daño a la comunidad, sino que ésta se verá indirectamente enriquecida por el bien de uno o varios de sus miembros.» 54 Sono situazioni tali in cui cessa la stessa ratio legis, ma in questi casi in verità siamo di fronte alla situazione dell’epicheia («la non obbligatorietà della legge a motivo del venir meno della sua ratio in un caso particolare»), pur sia vero che anche la dispensa formale possa risultare necessario; cf. Miras – Canosa – Baura, Compendio (nt. 47), 308–309 e 292; ed anche la nt. 51, supra. 55 Miras – Canosa – Baura, Compendio (nt. 47), 78; cf. van Hove, De privile- giis (nt. 51), 415–416.

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zare, nel modo migliore, i diversi interessi pubblici e privati, poiché l’equità costituisce un limite intrinseco dell’amministrazione della grazia.56 Tuttavia, per quanto con­veniente, la dispensa rimane un atto tale di per sé odioso e quindi ecce­zio­nale, in quanto vulnera la «nor- malità» espressa in forma legislativa. Riassumendo, nel paradigma della dispensa il cambiamento dell’a- scrizione ecclesio-rituale è una cosa di per sé sconveniente, e di con- seguenza l’autorità competente dovrebbe in linea generale limitarne la concessione. Sebbene l’equità come limite intrinseco della stessa discrezionalità possa in certo qual modo orientarla verso l’adeguatezza concreta delle decisioni, trattandosi di un atto di grazia, la dis­pen­sa non è esigibile. Negli ultimi tempi si incontra però anche un altro modo di con- cepire l’as­cri­zione ecclesio-rituale del tutto diverso da quella tradizio- nale appena descritta.

2.3.2 Il cristofedele ha un diritto soggettivo preesistente alla concessione del «transitus ritus» (?) In seguito alla formalizzazione dei diritti dei cristofedeli, si co- mincia a par­lare di sfere di giustizia anche in alcuni tali campi quali prima erano considerati territori della grazia.57 Così alla luce della

56 Miras – Canosa – Baura, Compendio (nt. 47), 79: «Al riguardo, interviene la equità, come limite interno –contenuto, cioè, nello stesso concetto– dell’attivi- tà discrezionale.» 57 Nel CIC’83, tra l’altro dovuta alla sua classificazione tra gli atti amministrativi singolari, anche il fenomeno della grazia, istituzione tradizionalmente a sé, comincia ad avere una configurazione più circoscritta. Infatti, mentre per suo concetto stesso rimarrà una cosa di per sé non esigibile, nella realtà sembra che si incontrerà sempre meno con la sua figura in forma pura. Così oggi una parte della dottrina, quasi partendo dalla concezione clas­sica della grazia, an- che in questo contesto mette in rilievo il diritto dei cristofedeli al medesimo trattamento nelle situazioni uguali, e quindi il loro diritto di esigere garanzie di oggettività, e di trasparenza nella concessione delle grazie; Miras – Canosa

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natura specifica della licenza,58 il can. 112, § 1, 1° CIC sembrerebbe

– Baura, Compendio (nt. 47), 280; vedasi però: Ibid., 309; cf. nt. 52, supra. In linea di questo nuovo corrente si propone l’interrogativo se dal nuovo inqua- dramento delle grazie sotto la figura degli atti amministrativi singolari non si debba dedurre che il regime dei cc. 57 e 1732–1739 sia esteso anche sugli atti di grazia amministrativa; cf. Codice di diritto canonico, Juan I. Arrieta (dir.), Roma 2004, 106–107 [Javier Otaduy]. 58 Arthurus Vermeersch – Josephus Creusen, Epitome iuris canonici, I, Mechli- nae-Romae 51933, 164–165: «… dispensatio est ‘legis, in casu speciali, relaxatio’ … itaque differt … a licentia, quae est facultas facta secundum legem; conditio, qua posita, actus ex ipsa lege permittitur. Non est ergo, sicut dispensatio, contra legem, vel vulnus legis…» (il corsivo è mio). Cf. la licenza è «la concessione della facoltà di esercitare una situazione giuridica attiva di cui si è già titolari, ma il cui uso resta soggetto a determinate limitazioni in riferimento al bene pubbli- co», Miras – Canosa – Baura, Compendio (nt. 47), 417, 274-275; e vedi an- cora: «[dispensatio] differt a licentia; haec enim est simplex facultas secundum legem, cujus effectus non est ut tollatur obligatio legis absolute imposita, sed ut legitime poni vel respective omitti possit actus a lege con­ditio­nate tantum, idest, independenter a beneplacito Superioris seu nisi accedat legitimae auctori- tatis consensus, prohibitus vel respective praescriptus»; Gommarus Michiels, Normae generales iuris canonici. Commentarius libri I Codicis iuris canonici, II, Parisiis-Tornaci-Romae 21949, 681 (cf. anche Marti, Rutheni [nt. 12], 212–213). «Sunt multae leges vel statuta, quae non prohibent aliquid fieri simpliciter, sed ne fiant sine tali facultate, tali modo concessa; tunc ergo dare facultatem non est dispensare, sed servare et exequi le­gem», Franciscus Suarez, Tracta­tus de legibus ac Deo legislatore, VI, Antverpiae 1613, c. 10, n. 14. Non sempre facile per l’interprete, anche a motivo l’imprecisione terminologi- ca di cui a volte pecca il legislatore, stabilire se una regolamentazione giuridica posta dall’autorità ecclesiastica su di un dato fenomeno dia vita o meno ad un regime di licenza. È stato questo il caso dei primi interventi della Sede Aposto- lica volti a disciplinare l’afflusso in Occidente, in particolare negli Stati Uniti, di clero orientale a cavallo tra Ottocento e Novecento. Come evidenziato in un recente studio già citato, vi è stata una stratificazione di successivi interventi normativi che ha modificato gradualmente in senso restrittivo il regime giuri- dico dell’immigrazione nei territori d’oltre oceano del clero orientale. Nono- stante le notevoli rigidità e limiti normativi ai trasferimenti in Occidente, che porterebbe a prima vista a qualificarlo come regime di divieto salvo dispensa,

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suggerire che il cambiamento dell’ascrizione ec­cle­sio-rituale non sia più considerata un atto contra legem, bensí un atto secun­dum legem, è quindi come tale non odioso. Infatti, la licenza, secondo il suo si­ gni­ficato preciso è una autorizzazione che rende possibile l’esercizio di una facoltà­ che compete al soggetto per diritto.59 Di conseguenza con la messa in vigo­ ­re di questo regime giuridico, potrebbe sembra- re a prima vista che l’autorità ec­cle­siastica competente non intenda più «frenare» il fenomeno del passaggio ri­tu­ale ma solo canalizzarlo tramite un controllo previo. Cosí il transito ad una Chie­sa sui iuris orientale, nella prospettiva del CIC’83, non dovrebbe più essere con­ siderato come una qualcosa contrario all’ordine canonico e dunque tendenzialmente da evi­ta­re. Come mette in rilievo Javier Canosa: «La dottrina ha configurato questi prov­vedimenti [autorizzatori] come atti che rimuovono dei limiti all’esercizio dei di­rit­ti o dei poteri che già appartengono all’autorizzando…»60 Essi dunque com­por­tano «la concessione a favore di un soggetto della facoltà di esercitare un di­ ritto che già si trova nel suo patrimonio giuridico», e quindi «la diffe- renza fonda­mentale [tra la licenza e la grazia] risiede nella consistenza giuridica del diritto del richiedente: il diritto alla licenza ha come fondamento un vero diritto sog­get­tivo… di cui in certi casi viene limitato l’esercizio in vista del bene comune… invece non esiste il di- ritto alla grazia come tale, intesa questo in senso stretto, ma soltanto un diritto a chiedere la grazia».61

in realtà il regime giuridico relativo all’immigrazione di clero orientale in Oc- cidente è di licenza; cf. Marti, Rutheni (nt. 12), 210–214, 443–446, 480–484, 518–528. 59 Labandeíra, Trattato (nt. 48), 325. 60 Javier Canosa, “La concessione di grazie attraverso i rescritti”, in Ius Eccle- siae 6 (1994) 237–257, 246–247; e quindi si tratta di una «situazione soggettiva preliminare di aspet­tativa leggittima» seppure essa si trasformerà in un diritto soggettivo solo dopo esser ef­fe­tuato il relativo atto autorizzante»; idem. 61 Canosa, “Presunzione” (nt. 14), 623–624.

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In breve, i punti essenziali del regime della «licentia» (o dell’auto- rizzazione) sono i seguenti:62 (1) esso riguarda una attività [non vieta- ta, ma] semplicemente subordinata alla verifica di certe condizioni, quest’ultime possibilmente prefis­sate sul livello legisaltivo; (2) come tale rientra nella «normalità» permettendo l’esercizio «ad normam iu- ris» di un diritto soggettivo preesistente [e non invece l’eccezione ad una proibizione legislativa]; (3) nella forma pura di questa figura ca- nonica quindi non si può parlare di una discrezionalità propriamente detta, in quanto in questo caso l’amministrazione viene deputata «alla mera verifica della sussistenza in concreto di quei presupposti». La rilevanza della distinzione tra la dispensa come atto creativo di un diritto soggetivo e l’autorizzazone (licenza) si esplicita tra l’altro che in quest’ultima figura esiste «un obbligo nel soggetto pubblico ed un diritto nel singolo rispettivamente a dare ed a ricevere la cosi­det­ta ‘dispensa’ [si intende licenza], mentre per la dispensa vera e propria il richie­den­te non può vantare nulla se non forse un interesse legittimo.» Nonostante questo limpido significato sovraesposto della «licen- za», devo no­ta­re di non aver finora trovato prove sicure che nella scelta terminologica in questione il Legislatore sarebbe stato motivato pro- prio da questa sfumatura pe­cu­liare dell’espressione.63

62 Questa sintesi delle caratteristiche della licenza è stato mutuato dal Alfredo Corpaci, art. “Dispense”, in Digesto delle discipline pubblicis­ti­che, Rodolfo Sacco et al., Torino 1990, 289. 63 Gli eventuali argomenti a favore, oltre alle discussioni pubblicate circa il can. 112 CIC, potrebbero essere riperibili dall’archivio della PCCICR. Salvo errori, dalla prima (dis­cussioni pubblicate) non si può ricavare una tale intenzione. (Per un indice delle relative notizie in Communicationes vedasi Münsterischer Kommentar (nt. 11), 111/1 [Helmuth Pree]. E ci sono anche altri argomenti che sembrano indebolire la suindicata ipotesi che dall’uso dell’espressione «licenza» vuol concludere che il «transitus ritus» farebbe già oggi parte dell’autonomia privata del cristofedele (latino). Infatti, sembra che la stessa espressione («li- centia») sia passata dal diritto orientale allo schema latino, nel cui contesto (orientale) invece era sempre chiaro che si tratta di una condizione di validità;

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2.3.3 Qualche ceno della prassi attuale della Sede Apostolica Una decisione resa pubblica della Congregazione per le Chiese orientali offre interessanti orientamenti riguardo allamens del mede- simo dicastero circa la convenienza del cambiamento dell’ascrizione, o più precisamente circa quella di un fedele orientale cattolico. Nel 1995 il dicastero ha rilasciato una risposta negativa alla peti- zione di una donna di origine armeno-apostolica convertita alla Chie- sa armeno-cattolica, di poter passare, in un secondo momento, alla Chiesa latina. Malgrado le serie ra­gioni dell’interessato,64 la Congre- gazione non ha consentito al passaggio, dicen­do che si deve mantene- re la continuità con le proprie origini, sopratutto quando si tratta di Chiese «etniche», e non si deve dare agli ortodossi l’impressione che

cf. Communicationes 12 (1980) 74: «In linea di mas­sima si può ammettere il can. 8, § 1 della Commissione orientale, e cioè: ‘Can. 8, § 1: Nemo pot­est sine licentia Sedis Apostolicae ad aliam Ecclesiam particularem transire’.» (È inte- ressante da notare però, che la clausola invalidante non è stata ripresa dal testo orientale; cf. le nt. 17 e 18, supra). 64 Elementi del votum del Vescovo «ad quem», in Canon Law Society of Ame- rica, Roman Replies and CLSA Advisory Opinions, Kevin W. Vann – James I. Donlon (eds.), Washington D.C. 1995, 28–29: «Since there is no Armenian Catholic Church north of …, which is over 200 miles away, I have no way to participate in the life of an armenian catholic parish. I feel strongly attracted to the Latin Church which has served me well over the last 12 years. It has provided me support during physical illness, as well as fulfilling my emotio- nal and spiritual needs…» (argomenti dalla petizione). «As explained in her petition, she finds that the great distance separating her from any parish of the Armenian Catholic Exarchate of the United States and Canada makes it a spiritual hardship for her to retain and practice her own rite … Whereas the petitioner has never practiced as a member of the Armenian Catholic Church, in light of the great distance and isolation of the petitioner from a church of the Armenian Catholic Church, and her strong desire to be a member of the Latin Church where she first experienced her desire to become a Catholic, I judge it is to her spiritual advantage to be allowed to transfer churches» (parere del Vescovo ad quem).

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divenire cattolici equivalga al perdere la propria identità nazionale e religiosa. La risposta mette con ciò in rilievo che non è l’individuo in- teressato a scegliere la propria appartenenza rituale, bensì è la Chiesa che lo «genera» in Cristo, inse­rendolo in una Tradizione. Alla luce di questa comprensione il «transitus ritus» è (o potrebbe sembrare essere) una cosa molto grave, e quindi incompatibile con una coerente visio- ne ecclesiologica, eccetto il caso di una assoluta necessità.65 Questo documento, sebbene faccia riferimento al can. 35 CCEO, in verità è un testimone della praxis curiae circa il passaggio tra due Chiesa sui iuris cat­to­liche. Alla luce dell’argomentazione appena citata si pottrebbe concludere che il cambiamento dell’ascrizione sia tuttora una cosa sconveniente in generale. In­fatti, nella risposta neanche tale

65 «… The difficulties of the applicant are well understood, in the light of the scar- ce structures of the Armenian Catholic Church in the United State of America. Never­theless, canon 35 of the Code of Canons of the Eastern Church[es], which Your Excellency cites, demonstrates that the Church desires, except for grave motives, that the one who comes into communion with the Catholic Church from one of the Eastern Orthodox Churches maintain continuity with the proper origin, above all when it is a matter of ethnic Chur­ches, weather because belonging to a people in the East often involves a specific way of perceiving the religious dimension that is very connected to the cultural fact, there often rea- lized in the same person; or weather because one does not wish to give the im- pression to non-catholic brethren that to be catholic automatically signifies the loss of their proper national and religious identity. Finally, it is not the person who chooses the which Church to belong to: it is the Church which generates through Christ the person, inserting [that person] into a characteristic history of its own proper connotation and tradition received as a gift. A passage of Church, therefore, as the cited canon well understands, is a thing in itself very grave, and in itself little coherent with a correct ecclesiological vision, except in case of absolute necessity. Mrs. Smith, therefore, would certainly be able to continue with her participation in the life of the local Latin [Rite] community, nevertheless ascribed to the Armenian Catholic Church, which she will make contact with when possible and from which she will request the necessary help to complete her personal formation, according to the spirit of that Church…» (argomenti della risposta negativa della Congregazione), in op. ult. cit., 30.

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causa canonica tradizionale come la grave inco­modità­ (cf. «over 200 miles away» in confronto al «distantia ad quinque milia»66) viene giu- dicato sufficiente per concedere il passaggio. Non dobbiamo però scor­ da­re che la risposta in questione riguarda un membro di una piccola Chiesa o­rien­tale cattolica. Ci si potrebbe chiedere se dalla su citata risposta si possa dedurre che anche il passaggio da una Chiesa grande (sopratutto da quella latina) sia un feno­meno egualmente grave e scon- veiente. Credo che da un’osservazione di Marco Bro­gi, in quel periodo sottosegretario della Congregazione Orientale, sembra po­tersi ricavare una convinzione contraria.67 Allora, sebbene solo in for­ma implicita, ma anche quest’ultima affermazione sembri suggerire la possibilità di una prassi asimmetrica nel cambiamento dell’appartenenza ecclesio- rituale, a favore delle Chiese orinetali ad quem. (Quest’orientamen- to che afferma una maggior libertà dei fedeli latini a passare ad una Chiesa sui iuris [orientale], del resto, sembra essere in pieno accordo con quello suesposto per la quale l’autode­ ­ter­minazione della propria ascrizione ecclesio-rituale è un diritto soggettivo dell’interessato). Di più, è facile constatare, ripercorrendo gli argomenti della men- zionata let­tera della Congregazione, che essi non paiono aver rilevan- za a fondare l’ipotesi inversa, e cioè, a rifiutare lalicentia (can. 112, § 1, 1° CIC) nei confronti di un richiedente latino. Infatti, nel suo caso (1) non esiste quella «connotazione cultu­rale-etnico-religiosa» da mantenere, che è propria di alcune comunità dell’Orien­te, (2) né ci sono particolari interessi ecumenici che richiedono la non ammis­sio­ ne del passaggio. Senz’altro anche la Tradizione latina ricevuta tra-

66 Cf. le nt. 64 e 32, supra. 67 Brogi, “Licenza” (nt. 14), 668: «Con questa semplificazione della procedura [cf. can. 32, § 2 CCEO e il rescriptum ex audentia] la Santa Sede viene incontro a coloro che chiedono di lasciare la Chiesa latina dichiarandosi attratti da una tradizione orientale, ma non intende certo a facilitare il cambiamento di Chie- sa sui iuris.» (Salvo errori, questa frase linguisticamente regge solo se in essa per Chiese «sui iuris» si intendono le sole Chiese orientali cattoliche.)

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mite l’inseri­men­to nella Chiesa è un vero dono, e quindi come tale è da osservare con fe­deltà. In questo caso però non mi sembra che il «transitus ritus» dovrebbe essersi veramente qualificato «una cosa in sé molto grave…, e come tale poco coerente con una corretta visio- ne ecclesiologica, eccetto il caso di una necessità asso­lu­ta». Infatti, la stabile ripartizione rituale dei fedeli è una novità del Quattro­cen­ to,68 è perciò sicuramente non entra nel mondo dello ius divinum. Di conseguen­za, la restrizione o liberalizzazione della relativa normativa, in fin dei conti, di­pen­de dal Legislatore supremo. Nella nostra epoca dell’equivalorizzazione delle “Traditiones”, a mio avviso, le importan- ti affermazioni della lettera su accen­nata, salvo errori, difficilmente possono aver altro motivo che la premura della Sede Apostolica nel venir incontro ai bisogni delle Tradizioni orientali in diffi­coltà. Infine giova notare che dallo schema originale del can. 32, § 2 CCEO duran­te la codificazione è stata eliminata la clausola che ri- chiedeva espressamente una causa grave perché i Vescovi possano consentire il passaggio.69 Senza voler at­tri­buire una rilevanza esagera- ta a questa modifica, sembra poter dirsi con si­cu­rezza che, trattandosi di una questione di natura meramente ecclesiastica, è (o dovrebbe essere) la contingenza della situazione e delle priorità attuali a deter­ minare quale sia la normativa e la prassi ottimale in questo campo.

68 Come sappiamo, la prima norma generale sull’appartenenza rituale risale al 1448, anno in cui papa Niccolò V proibì ai fedeli latini insediati nella Grecia di passare al rito greco come pure di mischiare i due riti; cf. William W. Bassett, The Determination of Rite (Analecta Gregoriana 157), Rome 1967, 35; ed ancora Szabó, L’ascrizione (nt. 4), 154–156. 69 La clausola è stata eliminata, senza una spiegazione apposita, durante la denua recognitio dello Schema canonum de constitutione hierarchica Ecclesiarum orien- talium: «… § 2 Attamen licentia Sedis Apostolicae praesumitur si Hierarchae Ecclesiarum a qua et ad quam transitus fit, gravi de causa, scripto consentiant» (in Nuntia 22 [1986] 27); «Attamen … haec licentia Sedis Apostolicae pra- esumitur, dummodo Episcopi eparchiales utriusque eparchiae ad transitum scripto consentiunt» (ibid., 28).

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2.3.4 La rivalorizzazione delle “Traditiones”: punto orientativo per la prassi? Se tutta la questione dell’appartenenza ecclesio-rituale rientra nell’ambito dello «ius mere ecclesiasticum», saranno allora le priorità attuali della Suprema autorità a determinare il contenuto delle relative norme. Credo che sia stata questa l’unica ragione che all’epoca della prae- stantia ri­tus latini giustificava, fino ad un certo punto, le asimmetrie sia normative che ap­plicative volte a facilitare il passaggio al rito ri- tenuto preeminente. A mio avviso oggi, per coincidenza di due fat- tori –per l’effetto d’insieme della risco­perta del fondamentale ruolo indicatore delle Tradizioni da una parte, e dell’ac­celerata dissoluzione di alcune Chiese orientali, portatrici di questi patrimoni unici, dall’al- tra– è di nuovo necessario tornare ad una normaproduzione e prassi asimmetrica, questa volta a favore di queste Chiese indebolite per cir- costanza storiche. Si potrebbe obiettare che tale ipotesi praticamente coinciderebbe alla perturbazione, o addirittura al sconvolgimento ra- dicale, di un sistema ormai plu­ri­secolare, garante della tranquilità dei rapporti interrituali. Tuttavia, il paradosso appena rievocato, tra la svolta quasi coper- nicana ri­guar­do alla valutazione del ruolo delle Tradizioni orientali nella missione della Chiesa, da una parte, e la decomposizione demo- grafico-sociologica di alcune di loro, dall’altra,70 a mio avviso, sembra

70 Le difficoltà in questione sorgono non solo dai dati demografici e statistici a volte ormai veramente bassi e decrescenti (cf. Szabó, L’ascrizione [nt. 4], 178). In una misura considerevale ci influisce anche il fatto che l’immigrazione –di- versamente da quelle del passato, avvenute di solito in blocco e dentro il mondo del Medio-Oriente– oggigiorno è più individuale e indirizzata sempre di più verso all’Occidente, tanto che in questo senso alcuni parlano ormai addirittura di un «ruolo negativo della Diaspora»; cosí: “Iraqi Christians between Fear and Hope. A Presentation by Father Emanuel Youkhana”, in ContaCOr [Eichstätt] 2007/1, 39.

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proprio esigere un profondo ripensamento nella prassi circa il cam- biamento dell’appartenenza ecclesio-rituale, e sopratutto per quanto riguarda la facilitazione del passaggio dalla Chie­sa latina. Salvo er­rori, chiunque non condivida questa impostazione della proble­matica, e quindi la necessità di un effettivo cambiamento del sistema attuale a favore delle comu­nità orientali indebolite sia sul livello legislativo sia su quello dell’ap­pli­cazione della legge, non può comunque sot- trarsi dal ris­pon­de­re a due domande tra loro strettamente collegate: (1) se il ruolo delle Tradizioni orientali sia insostituibile o meno; e, se la ris­posta al primo interrogativo è affermativa,71 (2) quale sarebbe il

71 Salvo errori, alla luce delle qui riferite affermazioni non sembra essere facile ad ar- rivare ad una risposta negativa su questo interrogativo: infatti, l’ultima assise ecu- menica insegna che le Tradizioni orientali costituiscono «parte del patrimonio divinamente rivelato e indiviso della Chiesa universale…», e questo patrimonio «appartiene alla piena cattolicità ed apostolicità della Chiesa» (cf. OE 1, UR 17b); e vedasi anche «… perché sia restituita alla Chiesa e al mondo la piena manifesta- zione della cattolicità della Chiesa, espressa non da una sola tradizione, né tanto meno da una comunità contro l’altra; e perché anche a noi tutti sia concesso di gustare in pieno quel patrimonio divinamente rivelato e indiviso della Chiesa universale che si conserva e cresce nella vita delle Chiese d’Oriente come in quel- le d’Occidente … Ascoltiamo insieme l’invocazione degli uomini che vogliono udire intera la Parola di Dio. Le parole dell’Occidente hanno bisogno delle parole dell’Oriente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue inesauribili ricchezze» (Orientale lumen 1 e 2). Come risulta da una recente affermazione della Sua Santita Benedetto XVI, questo apprezzamento è proprio anche dell’attuale pontificato; cf. «La stima che l’Assise conciliare ha riservato alle vostre Chiese nel decreto Orientalium Ecclesiarum, e che il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II ha ribadito sopratutto nell’esor­ta­zione apostolica Orientale lumen, è da me pienamente condivisa, insieme all’auspicio che le Chiese orientali cattoliche ‘fioriscano’ per assolvere ‘con rinnovato vigore apostolico la missione a loro affi- data … di promuovere l’unità di tutti i cristiani, specialmente orientali, secondo il decreto sull’ecumenismo (OE 1)», [Discorso del Santo Padre Benedetto XVI], ai Patriarchi e agli Arcivescovi maggiori orientali, nel 2010 un’Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente, 19 settembre 2009, in Insegnamenti di Be- nedetto XVI, V, 2, 2009, Città del Vaticano, 2010, 224; cf. ancora: la nt. 39, supra.

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regime giuridico che potrebbe assicurare in modo migliore (di quello qui proposto) il rallentamento della dissoluzione delle piccole Chiese orientali.

2.3.5 Prospettive possibili del rinnovamento del regime circa la concessione del «transitus ritus» Sul livello applicativo sembrano esserci due soluzioni che, a mio avviso, potrebbero in qualche misura migliorare le prospettive delle Chiese orientali. a. Introduzione di una nuova «causa canonica»(?) Alla luce del suaccenato valore universale del funzionamento indicatore dei riti, ci si poterebbe sollevare se, pian piano, non si dovesse ormai annoverare anche «l’incremento delle Co­mu­nità orientali (ridotte)» tra le cause canoniche, sempre a patto, ovviamente, che nel caso concreto il pas- saggio non comprometta gli interessi (quelli veri) della Chiesa a qua. Un tale passo sarebbe senz’altro un segno evidente dell’at­ten­zione ver- so le difficoltà attuali delle comunità in crisi, e inoltre potrebbef­f o rire anche un piccolo chanche di ricompensare delle loro perdite dovute al fenomeno dell’«etnofuga» nei confronti delle Chiese maggiori, sopra- tutto di quel­la latina che, dal punto di vista statistico, costituisce ben 98–99% del numero complessivo di tutti i cattolici.72 Anzi, alla luce

72 Nel voler prevenire le preoccupazioni che potrebbero sorgere a sentire questa proposta, senz’altro innovativa ed a prima vista unilaterale, credo che siano ne- cessarie due osser­vazioni. (1) Alla luce della proporzione tra il numero comples- sivo della Chiesa latina e quello di tutte le Chiese orientali cattoliche insieme (1,2 miliardo di contro ai circa 14–16 milioni: e cioè quasi 98,75% rispetto al 1,25%) neanche l’introduzione della nuova causa canonica appena menziona- ta comporterebbe il pericolo di un reale sbilanciamento sociologico a sfavore della prima. (2) Inoltre, non è da dimenticare che una causa cano­nica, come è ovvio, non garantisce di per sé nemmeno un passaggio in più, ma ne apre solo la possibilità. I processi sociologici saranno invece anche in questa ipotesi determi­nati, per cosí dire, dalla «gravitazione» di una Chiesa. E alla luce delle proporzioni nume­ri­che appena riferite non ci può essere dubbio né circa la

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della caratteristica più im­por­tante del regime tradizionale (cf. la con- cessione del «transitus ritus» come un atto di grazia non esigibile) ci si potrebbe domandare se questo sistema –pro­prio perché formalmente ammette la possibilità di un rifiuto da parte del Ves­covo a quo anche quando non vi sia alcuna ragione oggettiva a negare la con­cessione del transito– non potrebbe (o dovrebbe) essere opportunamente sos­ tituito da un altro? b. Cambiamento del regime(?) Alla luce infatti delle tendenze in questo studio esposte, a mio avviso il regime della «licentia», oppor- tunamente adattato alle esigenze­ concrete, sarebbe in grado ad assi- curare (o quanto meno favorire) l’auspicata rifioritura delle Chiese orientali cattoliche. Come abbiamo già visto, nella diaspora l’attuale sistema di ascrizione rituale non è oggettivamente in gra­do di garanti- re l’equilibrio sociologico tra le Chiese latina ed orientali. Nel sis­tema della licenza, invece, la concessione del passaggio –come abbiamo vis­to– sarebbe obbligatoria,73 al ricorrere delle condizioni preventi- vamente stabilite dal Legislatore, e come tale sottratto a valutazioni discrezionali. Giova peraltro no­ta­re che tale ricalibratura della legis­ lazione sarebbe in piena armonia con l’orientamento generale volto a riconoscere e a salvaguardare il più possibile la sfera dell’autonomia del cristofedele laddove non contrasti con l’interesse pubblico.

direzione di questa gravitazione né circa la sua forza effettiva. Di conseguenza, alla prova dei fatti, l’introduzione della «corroborazione di una Chiesa sui iuris indebolita» come causa canonica della conces­sione del «transitus ritus» si rive- lerebbe essere più che altro un segno autentico della solidarietà, visto che anche questo sistema potrebbe al più assi­cu­rare solo una minima ricompensazione delle perdite numeriche di queste comunità. Verosimilmente sono pocchissime le regioni –forse l’Ucraina dell’Ovest («Galizia»), e la costa orientale dell’India del Sud («»)– in cui la suddetta «gravitazione socio-culturale» sarà a fa- vore degli orientali cattolici. 73 Cf. le nt. 62, 57, 61, supra.

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2.4 Le condizioni normative della «licentia» per il cambiamento dell’ascrizione sui iuris In quanto il funzionamento di qualsiasi sistema è determinato in larga mi­sura dalla retta elaborazione delle sue particolarità, ne conse- gue che il successo di un eventuale auspicato passaggio ad un regime di licenza dipenderà considerevolmente dalla corretta individuazione legislativa dei requisiti per l’ottenimento della li­cen­za. Alla luce dei principi espressi nelle più volte ricordate dichiariazioni ufficiali circa l’importanza della viva presenza delle Tradizioni orientali nella Chie- sa cattolica pare non azzardato suggerire i seguenti principi guida di una possibile futura legislazione: (1) Le richieste circa il transito dei cristofedeli latini ad una Chie- sa orientale cattolica, considerata l’auspicio più volte solennemente dichiarato di far rifiorire le Chiese orientali indebolite, dovrebbero essere in linea generale quasi sempre consentite. Soltanto due parreb- bero essere i casi in cui, si richiederebbe una par­ti­colare attenzione: a) quando si dia una situazione di fragilità oggettiva della Chiesa latina, ossia quando il richiedente vive in una zona in cui è la Chiesa latina ad essere una «piccola minoranza» nei confronti della Chiesa orien- tale ad quem.74 (b) quando è verosimile che il richiedente latino stia

74 A questo punto giustamente potrebbe sorgere la questioni pratica di quanto dev’essere una comunità esigua per poter contare ad una tale «discriminazione positiva», per usare questa espressione malgrado le sue connotazioni a volte peggiorative. Sembra che la ris­posta a questa domanda richieda la riflessione di un’altra previa. Infatti se la sopravvi­venza di una data Tradizione serve solo per garantire di avere in qualche angolo del mondo un deposito vivo e com- patto di una specifica comprensione culturale della rive­lazione, patrimonio rappresentato e vissuto da una Chiesa specifica, allora non sembra darsi un argomento per privilegiare le minoranze latine, in quanto sul livello globale questa Chiesa è fortissima. Se invece, come ne sono ben convinto, la presenza indicatrice di una certa Tradizione serve per generare l’arricchimento recipro- co anche sul livello locale (cf. Szabó, “Le Chiese” [nt. 9], 169), allora non vi è dubbio che le minoranze esigue sono da proteggere anche sul livello regionale,

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richiedendo il pas­saggio di rito per ottenere l’ordinazione sacerdotale da coniugato, il che come è noto può avvenire solo con un permesso della Congregazione orientale che rara­mente viene concesso in circo- stanti eccezionali.75 (2) La petizione di un richiedente orientale, per legge, dovrebbe essere sem­pre subordinata alla situazione sia globale sia locale della Chiesa a qua. In parti­colare la normativa dovrebbe contenere una espressa clausola in cui si affer­ma che la situazione sociologicamente instabile di una Chiesa orientale cattolica esonera ipso facto dall’ob- bligo di concedere la relativa autorizzazione. In questa ipotesi quin- di, pur rimanendo nel sistema della licenza, l’autorità competente, proprio per disposizione positiva della legge apposita, riacquisterebbe la piena discrezionalità nel decidere sull’opportunità del passaggio.

e indipen­dentemente dal numero complessivo della Chiesa interessata. Infat- ti, il recentemente riscoperto mutuo ruolo indicatore delle Tradizioni sembra proiettare come quasi ideale una Chiesa localmente mosaica-multicolorita o «caleidoscopica», in quanto in essa la cattolicità ottiene una nuova dimensione di autorealizzazione e di autoespressione per via del reciproco arricchimento scaturito dalle occasioni di intercambio della convivenza simbiotica (cf. ibid., 178–180). Nella linea di questa logica, proprio perché tramite la presenza quan- to più multicolore della ricchezza rituale è la stessa cattolicità realizzata ad un dato luogo si arricchisce, quanto più sono le Tradizioni vissute in una Chiesa locale tanto meglio è. Di conseguenza, si potrebbe stabilire che, proprio per proteggere questa «pluri-ritualità», anche una comunità latina entrerebbe in un sistema protettivo analogo a quello della licenza, se la sua percentuale nella regione in questione non supererebbe un certo tot (5% o 10%?) della Chiesa orientale cattolica maggioritaria. (Certamente questo sistema prenderebbe di mira non la frammentazione di una Chiesa autoctona, bensì solo la soprav- vivenza, o implantazione, di una Tradizione nell’ambiente di una Chiesa di assoluta maggioranza. Comunque, mentre la gravitazione sociologica in queste zone sarebbe di solito a favore della rispettiva Chiesa orientale, le tendenze ed i volumi dei processi rimarrebbero sotto monitoraggio, e quindi sottoposti ad eventuali modifiche se questi indicatori proverebbero un rilevante sbilancia- mento nelle relative proporzioni.) 75 Cf. Salachas – Nitkiewicz, Raporti (nt. 11), 138.

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Anzi, in riferimento a certe Chiese concrete la stessa legge potrebbe espressamente escludere il tran­sito dei suoi fedeli ad altre Chiese sui iuris, o comunque, riservare alla Congre­ga­zione orientale la compe- tenza a decidere in merito. Riguardo agli orientali si potrebbero quin- di distinguere i seguenti casi. (a) Se si tratta di una Chiesa sui iuris ancora abbastanza soli- da, e/o la cui Tra­dizione sia vissuta anche da una Chiesa ortodossa parallela numericamente rilevante, nei territori autoctoni le richieste potrebbero essere decise in con­formità al sistema previsto dal can. 32, § 2 CCEO (cf. infra). (b) Nel caso delle Chiese, o meglio delle Tradizioni, in via di estinzione, la deci­sione sul passaggio verso una qualsiasi altra Chiesa sui iuris andrebbe riser­vata alla Sede Apostolica. Questa regola unila- terale si applicherebbe sia nei territori autoctoni sia nella diaspora.76 (c) Alla luce delle sproporzioni relative e della tendenza etnofuga da una parte, e dell’appena riferita massima opportunità del reciproco arrichimento che si può ottenere dalla compresenza di diverse Tra- dizioni nel medesimo luogo dall’al­tra, nella diaspora la riserva alla Sede Apostolica dovrebbe applicarsi a tutte le richieste di transito alla Chiesa latina, a prescindere da conside­ra­zioni riguardanti lo stato di salute della Chiesa orientale a qua.

76 Per l’applicazione di questa norma speciale è necessario definire quando si può dire che una Chiesa (o Tradizione) sia in pericolo. La legge in questione po- trebbe dare anche un elenco tassativo delle Chiese sui iuris che si trovano in si- tuazione tale. Se si volesse invece di darne una descrizione generale si potrebbe dire, ut minimum, che una Tra­di­zione è sicuramente in via di estinzione se non abbia più, nella zona di origine, una comunità compatta e stabile di almeno 100.000 fedeli, fornite dalle apposite strutture istituzionali indispensabili per coltivare e tramandare il proprio patrimonio rituale. Una Tradizione potrebbe invece dirsi di trovarsi in estrema instabilità nel caso in cui gli stessi indicatori negativi si riscontrassero anche nelle Chiese ortodosse parallele della mede­sima Tradizione.

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Nelle ultime due situazioni –(b) passaggio da una Chiesa in estre- ma insta­bilità a qualsiasi altra; e (c) qualunque passaggio alla Chiesa latina nella dias­pora– la tendenza dovrebbe essere quella di arrestare i passaggi, o comun­que diminuirli quanto più possibile. Questo policy sembra essere richiesto dal ruolo indicatore e quindi dal reciproco ar- ricchimento di cui sopra, e del resto segni di un orientamento simile, si rinvengono già nell’attuale prassi della Con­gre­ga­zione.77 (3) Questa legge dovrebbe inoltre affermare il superamento della regola non scritta secondo cui, per quanto attiene la cifra complessiva dei passaggi da una Chiesa sui iuris alla Chiesa latina e vice-versa, si deve tendere il più possibile all’equilibrio. Infatti le perdite reali di una Chiesa sui iuris, per l’effetto com­ples­so delle suelencate ragioni, sono quasi sempre molto più alte delle cifre ufficiali dei passaggi autorizza- ti, e perciò l’auspicata politica asimmetrica ri­gu­ar­do ai passaggi, ossia tendenzialmente negativa verso i passaggi alla Chiesa latina, mentre tendenzialmente affermativa verso i passaggi dalla Chiesa latina ad una Chiesa sui iuris orientale, in definitiva non significherebbe altro che dar luogo ad un reale riequilibrio della situazione. (4) La legge in questione potrebbe contenere anche opportune indicazione circa la procedura amministrativa da seguire in caso di ricorso con il diniego della licenza non sorretto da ragioni oggettive. (5) Infine, in questo contesto si dovrebbe ulteriormente riformare e adattare alle esigenze oggettive della nosta epoca la normativa penale relativa al divieto di induzione al cambio di rito.78 Questa normati-

77 Infatti, mentre nella diaspora era da sempre più facile ottenere l’indulto del transito, gli argomenti della sovracitata risposta della Congregazione orientale, almeno nel caso di un membro di una Chiesa «etnica», oggi sembrano quasi escluderlo; cf. la nt. 65 (ed anche la nt. 67), supra. 78 CCEO can. 31: Nemo quemvis christifidelem ad transitum ad aliam Ecclesiam sui iuris ullo modo inducere praesumat. / CCEO can. 1465: Qui officium, mini- sterium vel aliud munus in Ecclesia exercens, cuicumque Ecclesiae sui iuris, etiam Ecclesiae latinae, ascriptus est, quemvis christifide­lem contra can. 31 ad transitum

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va, che nella storia ha avuto non pochi varianti di diverso accento e severità,79 presuppone un contesto di equili­brio tra le diverse Chiese sui iuris, situazione che nel caso di alcune Chiese orientali sem­pli­ cemente non c’è più. All luce del ridimensionamento sovratrattato degli interessi della Chiesa universa e quelle locali circa la fioritura delle Tradizioni orientali, oggi questa legge non sembra essere suffi- cientemente adatta alla realtà sociologica e alle esigenze attuali. Salvo errori, la normativa in verità conserva il suo vero senso solo laddove si tenti di convincere un fedele di una Chiesa esigua a passare ad una Chiesa numericamente molto più grande, ed in questo caso sembra che anche il «proselitismo passivo»80 abbia una rilevanza penale. Vice­ versa si deve ritenere che nel caso in cui si cerchi di contribuire, in fondo per via di una «martyría» autentica, al consolidamento di una Chiesa colpita di una es­tre­ma instabilità, alla luce del ruolo che anche le Tradizioni indebolite dovreb­bero adempire nella Chiesa, entro i li- miti delle giuste esigenze dell’ordine pub­blico, stimolare un fedele (in- teressato spontaneamente alla ricchezza e ai bi­so­gni delle medesime) ad abbracciarle fino in fondo ascrivendosi giuridicamente alla relativa Chiesa orientale, oggetivamente non sembra stare in contrapo­si­zio­ne ai veri interessi della Chiesa universa e dunque non dovrebbe costiuire un fatto penal­mente rile­vante.81

ad aliam Ecclesiam sui iuris quomodocumque inducere praesumpsit, congrua poe- na puniatur. 79 Vedasi: Michiels, Principia (nt. 11), 313–324; Rizzi, “Transitus” (nt. 11), 538– 539. 80 Cf. Pospishil, Code (nt. 32), 32: «Proselitysm can be active, ie., direct indu- cement, and passive, ie., not resisting to the misguided persuasions of some Catholics who desire to change their Rite without the reasons approved by the Church.» 81 Certamente un compito non facile della legge in questione sarebbe quello di dare orien­tamenti chiari per poter identificare, nei casi concreti, il confine sot- tile tra testimonianza autentica e proselitismo; per quest’ultimo vedasi anche Ivan Žužek, Religious Freedom in the Christian East, in Concilium 2 (1966) 8,

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2.5 Osservazioni giustificative Dato che la suesposta proposta di una eventuale introduzione del «regime della licenza» è senz’altro in contrasto con una visione e una prassi plurisecolari, pare utile richiamare e completare le sue motiva- zioni sinora addotte. (1) In prospettiva storica anche la Chiesa cattolica ha una rilevan- te respon­sabilità nella perpetuazione delle Tradizioni orientali. Nella nostra epoca un’e­ven­tuale inerzia o negligenza al riguardo potrebbe comportare degli effetti ne­ga­tivi difficilmente risanabili nel futuro.82 Anche se questa proposta può apparire co­me una ingerenza indebita della dottrina nel campo della politica giuridica, sen­to il dovere di farlo specie alla luce dei gravi problemi di funzionamento dell’attuale normativa e prassi. Se si vuole che la previsione appena citata non si verifichi, sembrano essere indispensabili immediate ed essenziali riforme nel re­gi­me tradizionale dell’ascrizione ecclesio-rituale. Infatti, alla prova dei fatti, nella diaspora l’attuale regolamento della detta ascrizione semplicemente non è in grado di aiutare, e tantomeno fa- vorire, la sopravvivenza delle minoranze ori­en­tali. Anzi, a causa di alcune modifiche normative, lo ius vigens accelera an­cora di più il loro assorbimento nella Chiesa latina.83 E questo fatto oggigiorno –all’e-

72–73. (Negli USA sembra che sia tuttora una pratica diffusa di ammettere i giovani di rito orientale nelle scuole cattoliche [quasi sempre] latine, solo a condizione del loro passaggio alla Chiesa latina; cf. John Kimes, Viewing the USCCB through the Lens of CCEO c. 322 and other Inter-Ecclesial Realities in the United States of America, in Strutture sovraepiscopali nelle Chiese orientali, Luigi Sabbarese [a cura di], Città del Vaticano 2011, 262 ss. No vi è dubbio che tale pratica rappresenta un proselitismo inammissibile in quanto cerca trarre profitto proprio dalla situazione di difficoltà degli orientali privi delle proprie scuole). 82 Cf. le nt. 2 e 80, supra, e vedi anche le dati statistiche in Szabó, L’ascrizione (nt. 4), 55; e Id., “Le Chiese” (nt. 9), nelle sue nt. 2, 3, 48, 58. 83 I protagonisti della codificazione orientale erano ben consapevoli dell’effetto negativo prodotto dalla forte riaffermazione dell’autonomia privata; cf.Nuntia

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poca della «fuga» ed «etnofuga»– almeno nel caso di due Tradizioni comincia ad avere delle conseguenze ormai irreversibili. Non è a caso quindi che il Legis­latore, avendo presente la situazione della diaspora, abbia sollecitato l’introdu­zione dei provvedimenti concreti volti ad ovviare a queste tendenze negative.84 Credo che il successo di questo tentativo –e cioè, l’impegno e la capacità di tra­durre in un sistema effettivo le dichiarazioni circa l’apprezzamento delle Tra­di­zioni orien- tali– possa influire in modo decisivo anche sulla coerenza e quindi sulla credibilità ecumenica della Chiesa cattolica!

22 (1986) 26; cf. anche Marco Brogi, “I cattolici orientali nel Codex iuris ca- nonici”, in Antonianum 58 (1983) 218–243, 225; ed ancora Faris, “Inter-Ritual” (nt. 14), 244: «… This canon [CIC‘83 c. 111, § 1] could possibly be the first sign of the demise of the Eastern Catholic Churches establishes outside the Eastern regions. Many Eastern Catho­lic faith­ful –especially the newly-immigrated– live under the false assumption that the only trully ‘American’ Church is the Latin Church. If there are no juridical guidelines which would assist these faithful in understanding their obligation toward the Churches of their fore- fathers, these same Churches will die through attrition. In view of the various new Eastern Rite eparchies and exarchates which have been established in the United States, the sollicitude of Rome is apparent. However, as stated pre- viously, all might be in vain if the new legislation is not supportive of these new entities.» (In alcuni aspetti lo ius vigens è proprio lungi dal produrre un tale effetto «supportivo», come ci prova per esempio il seguente commentario sul can. 111, § 1 CIC: «… if both parents belong to the Latin rite, so too does the child. If only one parent belongs to the Latin rite, so too does the child, provided that both parents agree… The first paragraph of the canon presents a restrictive norm. Suppose we find a Latin father and an Eastern mother. If both parents agree, can the child be baptized in the Eastern rite? The canon does not permit this. If they both agree, it must be in the Latin church», in New Commentary on the Code of Canon Law. Comissioned by the CLSA, John P. Beal – James A. Coriden – Thomas J.Green [eds.], New York 2000, 151. A mio avviso non c’è dubbio che si tratta di una interpretazione errata, tuttavia è da ammettere che l’infelice formulazione del suddetto canone latino non lo esclude ab ovo; cf. anche Szabó, L’ascrizione [nt. 4], 169.) 84 Cf. la nt. 39, supra.

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(2) Il consolidamento delle Chiese orientali, interesse pubblico della Chiesa universa stessa come abbiamo visto, richiede un’opera- zione complessa, di cui la riforma dell’intero regime (legislativo ed applicativo) sull’ascrizione ecclesio-rituale è solo un elemento,85 sia pur indispensabile. Come ci insegna la storia re­cente, nel caso di usan- ze secolari, qualsiasi cambiamento richiede dichiarazioni e norme di chiarissimo orientamento e di sufficiente imperatività.86 A mio avvi­so la ragione per cui il regime della licenza è più adatto a fare passi verso

85 Elementi non meno importanti di questa operazione dovranno essere la risensibi­liz­zazione dei fedeli latini verso i valori rappresentati dalle Tradizioni orientali (cf. Szabó, “Le Chiese” [nt. 9], 178 ss.), e non di meno –una sfida ancora più ardua– l’«autori­sen­si­bi­lizzazione» degli stessi orientali verso la rivi- talizzazione delle forme autentiche del proprio tesoro rituale. (Di quest’ultimo sono mezzi indispensabili, tra l’altro, anche le minime strutture accademiche, la cui realizzazione nel caso di qualche Tradizione affievolita sembra richiedere ormai inevitabilmente un’attiva collaborazione di alcune facoltà ecclesiastiche latine; cf. Szabó, “Le università” [nt. 9], 257–266, 264–266.) 86 Come risulta da un’osservazione autorevole, la mancanza delle sufficientemente chiare ed esplicite dichiarazioni circa il superamento dell’idea e del policy della «praestantia ritus latini» ha approdato ad una lunga sopravvivenza de facto di simili atteggiamenti: «… perché cambino le convinzioni e le mentalità profon- damente radicate in nove secoli di vita della Chiesa, occorre ben altro che un ‘tacito’ [e tale fu: infatti la ‘praestantia ritus latini’ non venne esplicitamente sconfessata] abbandono dell’assioma che il ‘ritus latinus om­nibus praestat’, e una sostanziale congruenza del Codice latino con il principio della ‘aequalis dignitas’ di tutti i ‘Riti’. Infatti, gli orientali cattolici, quasi in nessuna parte del mondo si sentivano trattati da ‘aequales’ da parte dei latini e, spesso, la ‘varietas rituum’ non fu considerata nei termini di Leone XIII come una cosa buona: nel fondo dei cuori dominavano ancora sia il principio della ‘praestantia ritus latini’ che l’auspicio di una completa uniformità rituale di tutti i cattolici»; Ivan Žužek, Incidenza del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium nella storia moderna della Chiesa universale, in Pontificium Consilium de Legum Textibus Interpretandis, Ius in vita et in missione Ecclesiae. Acta simposii internationalis iuris canonici occurrente X anniversario promulgationis Co- dicis Iuris Canonici, diebus 19–24 aprilis 1993 in Civitate Vaticana celebrati, Città del Vaticano 1994, 675–735, 698.

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l’au­spi­cata rifioritura delle comunità orientali, sta proprio nel fatto che esso dimi­nuisce lo spazio della discrezionalità. Nel sistema attuale invece, soprattutto nel­la diaspora, rimane un margine considerevole a taciti atteggiamenti simili a quelli contenuti nella citazione di Žužek appena descritti, che attraverso una volontaria passività o inerzia, cer- cano, in modo latente, di favorire la rapida assimilazione delle Chiese orientali. Col regime della licenza si ovvierebbe, tra l’altro, alla ri­lut­ tanza –a volte veramente immotivata, alla luce della complessità dei fattori rievocati in questo percorso– di alcuni vescovi latini a concede- re ai propri fedeli il passaggio a una Chiesa orientale, fatto questo che avrebbe il positivo effetto di aiutare l’incremento delle Chiesasui iuris che versa in una condizione di grave esiguità numerica. Non vi è dubbio, d’altra parte, che una eventuale modificazione in tal senso della norma iuris e della sua applicazione, potrebbe risultare vantaggiosa sotto un duplice aspetto. In primo luogo, il riconoscimen- to di un diritto (condizionato) al­la licenza, e quindi al cambiamento dell’ascrizione offrirebbe una maggior au­to­nomia ai fedeli interessati delle grandi Chiese sui iuris (soprattutto di quella latina) di sceglie- re la via di un’altra Tradizione come loro preferito «modus vivendi» nella fede.87 Una più fles­sibile prassi a questo proposito, in secondo luogo, potrebbe aprire qualche modesto cammino inverso rispetto all’attuale «senso unico» del sovrariferito fe­nomeno dell’etnofuga, a favore dell’incremento delle Chiese di dimensioni scar­se. Quest’ulti- mo offrirebbe un servizio, generoso e altruistico, alle comunità ri­dot­te, in quanto permetterebbe di reintegrare una parte delle loro perdite in termini di fedeli,88 mentre il loro consolidamente condurrebbe, nel fra- tempo, alla realizzazione della summenzionata «immagine multiritua- le» («caleidoscopica») della Chiesa cat­to­li­ca in quel luogo concreto.89

87 Circa alcune problematiche a questo riguardo vedasi Szabó, “Le Chiese” (nt. 9), 182 s. 88 Cf. ibid., 180 ss. 89 Cf. le nt. 74, supra, (e 93, infra).

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(3) Senz’altro l’attuabilità di una tale trasformazione del regime (si intende: l’adozione del «sistema della licenza»), e sopratutto la ricezio- ne delle asim­me­trie normative ed applicative che ne dovrebbero fare parte, all’inizio potrebbe ri­sultare non facile. Oltre alla sopravvivenza residuale della mentalità della «prae­stantia», le difficoltà si radicano in larga misura nel fatto che le differenziazioni ri­tu­ali spesso coincidono con divisioni nazionali. In quanto i rapporti tra le na­zioni non di rado sono connotati da forte tendenze di rivalità, se non addirittura di con- flittualità, questo fa sentire i suoi effetti anche nelle relative relazioni in­ter­ecclesio-rituali. È da sottolineare, però, che –diversamente dai rapporti politi­co-nazionali in cui tale rivalità, entro certi limiti, è un fenomeno assai normale– una simile conflittualità nei rapporti rituali conduce ad un vero «assurdo eccle­sio­logico»! Infatti, i rapporti inte- recclesiali (inclusi ov­vi­a­men­te anche quelli tra Chiese sui iuris) devo- no sempre rispecchiare e realizzare quella profonda realtà della «mu- tua interioritas» che è l’essenza dell’essere Chiesa.90 Quest’attenzione, del resto –oltre ad essere un gesto altruistico– rap­pre­senta e realizza un in­ter­es­se della Chiesa universale, e, di conseguenza, pure di quello di tutti i suoi mem­bri.91 Ma questo non è facile da realizzare, perché presuppone una com­pren­sione della Chiesa come realtà «universa»,92 e quindi una sensibilità verso certi suoi bisogni che potrebbero a pri-

90 Circa il senso ed i limiti della «natura teologica» dell’Ecclesia sui iuris, vedasi Petér Szabó, “Opinioni sulla natura delle Chiese «sui iuris» nella canonistica odierna”, in Folia Theologica 7 (1996) 235–247; Pablo Gefaell, Le Chiese sui iuris «Ecclesiofania» o no?, in Le Chiese sui iuris. Criteri di individuazione e de- limitazione. Atti del Con­vegno di Studio svolto a Košice, 6–7. III. 2004, Luís Okulik (a cura di), Venezia 2005, 7–26. 91 Cf. le nt. 39, 71, supra. 92 L’espressione della Chiesa «universa», come è risaputo, si riferisce non solo alla sua estensione geografica planetarea, bensí anche (e prima di tutto) alla sua «Cattolicità» (nel senso della «pienezza contenutistica») di cui realtà, come ab- biamo visto, in certo senso sono elementi integranti anche le Tradizioni orien- tali; cf. la nt. 71, supra.

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ma vista sembrare confliggenti con gli in­teressi propri di una Chiesa locale. In fin dei conti si tratta dell’abbandono della logica rivalizzante a favore di quella del reciproco aiuto e solidarietà.93 Questo passo, malgrado la reciproca ritrosia radicata nell’espe­rien­za storica, è pos- sibile (solo e appunto) in nome della summenzionata diversa logica dell’essere della Chiesa che, se essa vuol avvalersi di tutte le possibili manifestazioni della pro­pria cattolicità, evidentemente deve dominare anche il suo agire.94

93 Cerco di dare, con qualche timore, un esempio concreto. Un segno di questa logica ecclesiologicamente più corretta sarebbe, se, per esempio, nell’Ucraina dell’Ovest (Galizia), entro certi limiti ragionevoli, fosse applicato il regime della licenza a favore delle minoranze di rito latino, fedeli prevalentemente polacchi. Certo l’introduzione di una tale prassi suppone una rinnovata consapevolezza che tramite essa, in fin dei conti, si contribuisce anche all’auto-arricchimento, proprio perché la sopravvivenza dell’immagine pluri-rituale della Chiesa in un dato luogo conduce ad una miglior realizzazione e sperimentabilità della «cattolicità». In quanto l’appartenenza cattolica nei secoli passati è diventa- ta un forte elemento identificativo di questa regione, tale prassi –nonostante eventuali contrarie convinzioni, frutto delle reciproche esperienze storiche del- le nazioni limitrofe– non dovrebbe essere considerata come incompatibile con la propria identità o con gli interessi propri dei greco-cattolici ucraini. La stessa attitudine, radicata in questa «universa» visione ecclesiologica e nel relativo sistema giuridico, garantirebbe un’identica prassi favorevole nei confronti delle minoranze ucraine della diaspora, Polonia inclusa, in quanto in quelle zone la stessa logica (la preferenza degli interessi della cattolicità espressa nella multi- ritualità) esige la protezione delle minoranze orientali. Così, a ben guardare, gli effetti di questo sistema sarebbero a vantaggio, addirittura a due livelli, di tutti gli interessati: aiuterebbero le minoranze (polachi della Galizia e ucraini della diaspora, per rimanere all’esempio appena riferito), mentre anche le Chie- se maggioritarie, ucraina e latina, si arrichirebbero grazie alla sopravvivenza dell’immagine multi-rituale del proprio territorio autoctono; cf. le nt. 71, 74. 94 Infatti, nell’indifferentismo circa le sorti delle Tradizioni orientali, o, più in generale, delle minoranze rituali, si può identificare un certo compiacimento autarchico, mentalità a mio avviso radicalmente incompatibile alla vera visione cattolica. Questo autosufficentismo, spesso è collegabile anche al nazionali- smo moderno, fenomeno di cui, oltre alle Chiese orientali, neanche comunità

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3. Il ruolo dei Vescovi locali nell’applicazione del «regime della licenza» Come sappiamo, nel caso speciale della coincidenza territoriale di due Epar­chie (o Esarcati) interessate, e cioè nella presenza di una Eparchia che ap­par­tiene alla Chiesa sui iuris «a qua» e di un’altra che fa parte di quella «ad quem», in forza del can. 32, § 2 CCEO, per l’au- torizzazione al passaggio è suffi­ciente il consenso scritto di entrambi i Vescovi eparchiali (o diocesano).95 La reintroduzione di questa «innovazione» normativa mette in pieno rilievo che il Legislatore stesso è ben conscio del fatto che la decisione sulla con­ces­sio­ne dell’autorizzazione al cambiamento dell’a-

locali della Chiesa latina sono rimaste intatte. Per questa ragione un’ulteriore moderata «auto-deetnizzazione» delle Chiese sui iuris sicuramente sarebbe a vanttaggio della capacità della Chiesa di poter meglio esprimere e vivere la sua cattolicità sul livello locale; cf. Szabó, Stato (nt. 38), 233–234; ed ancora: Gal 3, 26–29. 95 Can. 32, § 2 CCEO: Si vero agitur de christifideli Eparchiae alicuius Ecclesiae sui iuris, qui transire petit ad aliam Ecclesiam sui iuris, quae in eodem territorio pro- priam Epar­chiam habet, hic consensus Sedis Apostolicae praesumitur, dummodo Episcopi eparchia­les utriusque Eparchiae ad transitum scripto consentiant. Secretaria Status, Rescriptum ex Audentia Ss.mi, 26. XI. 1992, in AAS 85 (1993) 81: «Ad normam can. 112, § 1, 1° Codicis iuris canonici, quisque vetatur post susceptum baptismum alii ascribi Ecclesiae rituali sui iuris, nisi licentia ei facta ab Apostolica Sede. Hac de re, probato iudicio Pontificii Consilii de Legum Textibus Interpretandis, Summus Pontifex Ioannes Paulus II statuit eiusmodi licentiam praesumi posse, quoties transitum ad aliam Ecclesiam ri- tualem sui iuris sibi petierit christifidelis Ecclesiae Latinae, quae Eparchiam suam intra eosdem fines habet, dummodo Episcopi dioecesani utriusque dioe- cesis in id secum ipsi scripto consentiant.» Questo sistema in verità è la versione semplificata di quello introdotto da Gio- vanni XXIIImo, nel 1962, per gli Stati Uniti, Canada e India. Infatti, in questi tre Paesi i legati sono stati di nuovo autorizzati a concedere l’indulto del «tran- situs ritus», a patto che entrambi i Vescovi interessati ne erano a favore; cf. Rizzi, “Transitus” (nt. 11), 545. (Sulle diverse problematiche interodinamentali, da queste fonti sollevate vedi Szabó, L’ascri­zio­ne [nt. 4], 202–203).

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scrizione ecclesio-rituale esige l’esat­ta conoscenza delle circostanze concrete. Senza dubbio anche la surriferita proposta circa una più fles- sibile e generosa applicazione di tali autorizzazioni da parte dei Vesco- vi latini (possibilità, come abbiamo visto, inerente alla figura ca­no­nica della «licenza»96) richiederebbe una loro cooperazione attiva e altru- ista, sopratutto nei confronti delle comunità orientali della diaspora. Credo che di tale «sol­lecitudine» nel cooperare alla sopravvivenza del- le Comunità orientali esigue, sarebbe senz’altro una concretizzazione eccellente l’introduzione di una prassi che si avvalesse delle possibili potenzialità tecniche insite nel sovradescritto «regime di licenza».97

Conclusione La corretta regolamentazione del cambiamento dell’appartenenza ecclesio-rituale è un argomento allo stesso tempo cruciale e delicato. 1. Le prescrizioni del regime dell’ascrizione ecclesio-rituale98 fan- no parte, senza eccezione, del mondo dello ius mere ecclesiasticum, e di conseguenza ri­en­trano nella piena competenza nomopoietica ed applicativa del Legislatore supremo. Costui, quindi, alla luce dei cam- biamenti storici e riconsiderando i valo­ri che tale legislazione deve proteggere, può –in qualsiasi momento opportuno– liberamente so- stituire o aggiornare le relative norme ecclesiastiche. 2. La figura canonica della «licenza» (CIC’83, can. 112, § 1, 1°) per sua natura sembra permettere –anzi, considerata in sè, dal punto di vista dei fedeli latini interessati sembrerebbe pro­prio richiedere con forza–

96 Can. 112, § 1, 1° CIC’83. 97 Come è ovvio senza dirlo, una tale policy dovrebbe rimanere sempre entro i limiti delle esigenze e degli interessi veri ed oggettivi, della propria diocesi. Quest’oggettività consisterebbe nel tener sempre presente anche quegli argo- menti che, nel contesto concreto, sono a favore dell’incremento, per via della concessione della «licentia» in questione, di una data comunità orientale. 98 Cann. 111-112 CIC, cann. 29–36 CCEO.

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una pratica più flessibile nel concedere il loro passaggio ad una Chiesa sui iuris orientale. Non c’è dubbio che nel decidere sull’autorizzazione al cambiamento dell’ascrizione ecclesio-rituale, anche gli in­teressi della Chiesa «a qua» devono essere opportunamente rispettati. Salvo errori, non di meno sembra però essere vero che tali interessi sono complessi e a volte possono consistere anche in elementi tra loro tendenzialmente conflittuali. (Cf. la conservazione dell’ascrizione originale di un fedele di una Chiesa grande vs. la concessione del suo passaggio ad una Chie- sa sui iuris esigua, ma indicatore insostituibile dal punto di vista di una più sfumata e multidimensionale conoscenza del depositum fidei.99) 3. Una visione d’insieme della recente prassi amministrativa (stylus curi­ae) della Congregazione per le Chiese orientali100 sembra riconfer- mare la chiara ed onesta intenzione della medesima di diminuire la manifesta contraddizione che si verifica tra la funzione indicatrice (di valore universale) delle Tradizioni orientali, da una parte, e la mas- siccia erosione di parecchie Chiese sui iuris che ne sono portatrici, dall’altra. Come interrogativo conclusivo di questo percorso, dunque, ci si potrebbe chiedere se, alla luce dell’impasse appena rievocato, i tem- pi non fossero ormai sufficientemente maturi per la formalizzazione di una nuova «causa canonica» del passaggio ad un’altra Chiesa sui iuris,101 definibile in concreto: «l’interesse pub­blico di proteggere la so- pravvivenza [dell’insostituibile funzione indicatrice] delle Chiese sui iuris orientali diasporiche nell’ottica della custodia e della promozione della provvidenziale varietà che costituisce e manifesta la piena ‘cat- tolicità’ della Chiesa».102

99 Cf. p.e. OE 1, 5; UR 15e, 17b ecc.; ed anche la nt. 71, supra. 100 Cf. le nt. 35, 36, supra. 101 Cf. 2.3.5, supra. 102 Salvo errori, un tale passo sarebbe una integrazione organica del riorientamen- to avvenuto nella progressiva rivalutazione delle «cause canoniche» tradizionali a cui abbiamo fatto riferimento più sopra.

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Zoltán Rihmer

Summary: Introduction: the linguistic study of the sources of canon law; 1. The linguistic study of the Latin of the CCEO; 1.1 The place of the CCEO in the 20th century codification of canon law; 1.1.1 The modern law codes of the Catholic Church; 1.1.2 The “textual tradition” of the CCEO in the process of codification; 1.2 The types of the sources of the CCEO; 1.3 The existing literature on the Latin of the CCEO; 2. The principles followed during the coordination of the text of the CCEO; 2.1 Principles of general language; 2.1.1 Description of the principles. 2.1.2 Evaluation of the principles; 2.2 Principles of special language; 2.2.1 Description of the principles. 2.2.2 Evaluation of the principles; 3. The realisation of the coordinating principles: some features of the Latin of the CCEO; 3.1 Features of general language; 3.1.1 Orthography; 3.1.2 Vocabu- lary and morphology; 3.1.3 Syntax; 3.2 Features of special lan­guage; 3.2.1 Correction of certain technical terms of the Latin law; 3.2.2 Use of technical terms proper to Eastern law; 3.2.3 Standardisation of technical terms as set phrases; 3.2.4 Elimination of stylistic varieties; General conclusions [1 to 5].

Introduction: the linguistic study of the sources of canon law The language of the canonical sources of the Western Church from Late An­tiquity up to the 20th century has almost exclusively been Latin. However, this Latin differs from the language of literary

* Latin Philologist, Legal Historian, Linguist, formerly at the Department of Ro- man Law of Eötvös Loránd University and Pázmány Péter Catholic University (Budapest). [This treatise is the English translation of an expanded written version of my Hungarian lecture given at the János Bollók Memorial Conference (6–9 November 2003, Eötvös Collegium, Budapest). I should like to acknowledge here the generous and friendly assistance of Péter Card. Erdő and Prof. Péter Szabó (Budapest) in making accessible to me a part of the literature, as well as to thank warmly Prof. Adam Makkai (Chicago) for the revision of my translation.] Eastern Canon Law 1 (2012) 1–2, 113–156. | 113

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sources in several respects. At the time of its formation, c a n o n i - c a l L a t i n, as an integral part of the particular lan­guage variety of the Christians, can be seen as a g r o u p l a n g u a g e (socio­lect), containing a great number of elements of Vulgar Latin, but it is also a technical or special language (“functiolect”),1 differing again – as does the language of Roman law – from the Latinity of ancient literary works. Though its feature as a group language disappeared due to the Christianisation of the Ro­man Empire, ecclesiastical legal language remained separated from general lan­guage as well as from the special language of secular law. Since the sources of canon law are produced by the authority, i.e. by the legislative power, of the Church, their language is, from the Middle Ages onwards, to be studied as a sub­system of the official use of Latin within the Church. The general and systematic study of Ecclesiastical or Church Latin (Kirchen­latein, latino ecclesiastico / della Chiesa etc.) as an independent variety of the Latin language has not yet been undertaken. Scholarly attention so far has rather focused on three categories related to it, namely the (group) language of the Christians (“Christian Latin”), the language of the Bible translations (“Biblical Latin”) and the lan- guage of liturgical texts (“Liturgical Latin”).2 Out of these it is only

1 The study of special languages as a branch of applied linguistics has seen an enormous de­velopment in the last 50 years. For a short introduction, see Th. Roelcke, Fachsprachen (Grundla­gen der Germanistik 37), Berlin 1999; for a comprehensive view of the state of contemporary studies, see the mo- numental work of Lothar Hoffmann – Hartwig Kalverkämper – Herbert E. Wiegand (Hrsgg./eds.), Fachsprachen. Ein internationales Handbuch zur Fachsprachenforschung und Terminologiewissen­schaft / Languages for special pur- poses. An international handbook of special language and termino­logy research (Handbücher zur Sprach- und Kommunikationswissenschaft 14), I–II, Ber- lin–New York 1998–1999. 2 This is well borne out by the chapters of the latest general work on the subject as well as by their proportions: Enrico dal Covolo – Manlio Sodi (cur.), Il la- tino e i cristiani. Un bilancio all’inizio del terzo millennio (Monumenta, studia,

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the last one which, as the practice of the sanctifying office of the Church, falls within the narrower limits of the concept “official eccle- siastical use of lan­guage”, which comprises besides liturgy the much less studied areas of the use of Latin in the functions of teaching, governance and communication. Within these four areas Canonical Latin is especially peculiar to texts produced in the activi­ties of the office of governance, namely in l e g i s l a t i o n, in p u b l i c a dmi ­ n i s t r a t i o n and in the a d m i n i s t r a t i o n o f j u s t i c e. These three func­tions of the exercising of Church power differ from one another only from a juri­dical point of view, as their texts use basically the same Latin legal special lan­guage. All this constitutes the broader framework in which the Latin of the Co­dex canonum Ecclesiarum ori- entalium (= CCEO) is to be studied. On the other hand, the area at the intersection of general Latin, legal special Latin and official Church Latin has undergone several historical chan ­g e s. The differences between Ancient, Medieval and Modern Latin, manifested in the discrepancies of the elements making up the linguistic system (phonology, morphology, syntax) as well as in those of vocabulary and style, are apparent in Canoni- cal Latin too. In order, therefore, to study the sources of canon law from a linguistic point of view, apart from canonical works contain- ing statements on special language, it is also necessary to make a very extensive use of linguistic specialised literature. The existing l i t e r a t u r e on official Church Latin, including Canonical La­tin, is rather poor, and the topic has not even received its own bibliographical treatment.3 The language of secular (especially

instrumenta liturgica 17), Città del Vaticano 2002. An overall linguistic study of Ecclesiastical Latin has not been undertaken up to the present day (the work of Richard J. O’Brien, A descriptive grammar of ecclesiastical Latin, based on modern structural analysis [Georgetown University Latin series], Chicago 1965, contrary to its misleading title, is a description of Classical Latin). 3 Cf. John Gilchrist, Canon law, Medieval Latin. An introduction and biblio-

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Roman) law has lately been stu­died more intensively, but such inves- tigations usually remain within the time li­mits of Antiquity.4 Fortu- nately, however, there is a good deal of literature on Medieval Latin, furnishing several observations valid for legal sources as well.5 The research of the so-called Neolatin (humanistic and later Latin) started quite recently, so its results can at present be utilised only to a lesser degree.6

graphical guide, ed. by Frank A. C. Mantello – Arthur G. Rigg, Washing- ton, D.C. 1996, 253: “Otherwise there is no developed body of literature on the language of canon law.” The only monographic work, intended by its title to be a comprehensive one, Emilio Springhetti, Latinitas fontium iuris canonici (Pontificium Institu­tum Altioris Latinitatis: Bibliotheca «Veterum sapientia» A 7), Romae 1968, is of rather uneven pro­portions and content, and is even hea- vily outdated in its linguistic approach; among recent ones, Hans-Jürgen Be- cker, Die Bedeutung der lateinischen Sprache für die Verfassung und das Recht der römischen Kirche, Sprache – Recht – Geschichte. Rechtshistorisches Kollo- quium 5.–9. Juni 1990 Christian-Al­brechts-Universität zu Kiel, hrsg. von Jörn Eckert – Hans Hattenhauer (Motive – Texte – Materialien 58), Heidel- berg 1991, 25–36 offers an interesting collection of historical and sociolinguistic reflections, while Stephan Haering, “Lateinische Sprache und kanonisches Recht”, in Seminarium 43 (2003) 237–256, after discussing some fundamental questions, is chiefly devoted to the teaching of Latin in the Catholic Church. 4 A good overview of special language studies with bibliography is given by Ce- sidio de Meo, Lingue tecniche del latino (Testi e manuali per l’insegnamento del latino 16), Bologna 19832, 67–131. For different approaches of legal Latin, see e.g. Sandro Schipani (cur.), Atti del Convegno Internazionale «Il latino del diritto» (Perugia 8–10 ottobre 1992), Roma 1994; Orazio Bianco – Sebastiano Tafaro (cur.), Il linguaggio dei giuristi romani. Atti del Convegno internazionale di studi, Lecce, 5–6 dicembre 1994 (Numero speciale di «Studi di filologia e let- teratura» 5 [1999]), Galatina 2000. 5 The most recent comprehensive work in this field is Peter Stotz, Handbuch zur lateinischen Spra­che des Mittelalters (Handbuch der Altertumswissenschaft II 5), I–V, München 1996–2004. 6 For an overview, see Jozef IJsewijn – Dirk Sacré, Companion to Neo-Latin studies, I–II, Leuven 1990–19982, II 377–422.

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1. The linguistic study ot the Latin of the CCEO 1.1 The place of the CCEO in the 20th century codification of canon law 1.1.1 The modern law codes of the Catholic Church The CCEO is the last in a series of law codes which the Catholic Church issued in order to codify universal canon law. The result of the first codification, the Code of the Latin Church, calledCodex iuris canonici (= CIC), was promul­gated in 1917, and was replaced in 1983 by a code of the same name, but of a significantly different con- tent.7 In accord with the tradition of Western canon law, the language of both Codes is Latin. The Code produced for the Eastern Churches, the so-called Codex iuris canonici orientalis (= CICO), never took effect in its entirety, since only a part of it was promulgated, between 1949 and 1957, by Pius XII in four motu proprios, with the text of the canons incor­porated in these, without any independent and uniform title, but, similarly to the CIC, in Latin8 (later, as the first step of the revision of the CICO, the unpromul­gated texts were also published, lacking, of course, every normative force9). This partial codification was superseded in 1990 by a uniform code, the CCEO,10 in which the

7 For a more detailed description with further literature, see Péter Erdő, Die Quellen des Kirchen­rechts. Eine geschichtliche Einführung (Adnotationes in ius canonicum 23), Frankfurt a. M.–Berlin–Bern 2002, 151–158. 8 For a short account of the codification process and its result, see Erdő, Die Quellen des Kir­chenrechts (nt. 7), 158–159; for more details, see e.g. [Acace Coussa], Codificazione canonica orienta­le, Oriente cattolico. Cenni storici e statistiche, Città del Vaticano 1962, 35–61. 9 For an overview, see the article by Ivan Žužek in the official organ of the Eastern codifying Commission: “Les textes non publiés du «Code de droit canon orien- tal»”, in Nuntia 1 (1975) 23–31. A list of the accessibility of the texts published in fascicles 2–4 and 6–9 of the Nuntia is given in 9 (1979) 91 and 26 (1988) 84–87. 10 For a short account of the codification process and its result, seeErdő , Die Quellen des Kirchenrechts (nt. 7), 159–160; for more details, see e.g. John D. Far- ris, The Eastern Catholic Churches: Constitution and Governance, New York 1992, 67–106. Eastern Canon Law | 117

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use of Latin, similarly to the earlier examples, was retained.11 The ex- act sources of the various provisions of these four Codes, manifested in the textual correspondences and discrepancies of the canons per- taining to the same subjects, can be most easily determined from the special editions published and annotated by the respective Pontifical Commissions that produced them.12 Besides the two CICs, the CICO and the CCEO, there is a fifth legal work drafted in the second part of the 20th century, which, however, was not promul­gated at all. The project of a universal fun- damental law valid for all members of the Catholic Church, called Lex Ecclesiae fundamentalis (= LEF), was commis­sioned by Pope Paul VI and was being prepared parallel to the revision of the CIC and the CICO.13 The text of the LEF, after Pope John Paul II forebore from

11 The use of Latin as the language of codification in the framework of the we- stern tradition of Church discipline was self-evident, while it provoked some opposition during the codification of Eas­tern canon law on both occasions. The sociolinguistic question of language selection, to our regret, falls outside the limited scope of the present study; on the CCEO, see Péter Erdő, “War die Kodifikation des katholischen Ostkirchenrechts eine Latinisierung?”, inFolia theologica 11 (2000) 45–54, here 52. 12 CIC of 1917: Codex iuris canonici Pii X Pontificis Maximi iussu digestus, Benedic- ti Papae XV auctoritate promulgatus, praefatione, fontium annotatione et indice analytico-alphabetico ab E.mo Petro Card. Gasparri auctus, Typis Polyglottis Vaticanis 1974 (the annotations of sources and the index are in fact the work of the Hungarian canonist Jusztinián Serédi). – Out of the matierial of the CICO, the texts of Pius XII’s four motu proprios with annotations of sources appeared sep­arately in 1957 published by the Vatican Polyglott Press. – CIC of 1983: Pontificia Commissio «Co­dici iuris canonici» Authentice Interpretando, Codex iuris canonici auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus, fontium anno- tatione et indice analytico-alphabetico auctus, Città del Vaticano 1989. – CCEO: Pontificium Consilium de Legum Textibus Interpretandis,Codex canonum Ecclesiarum orientalium auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus, fontium annotatione auctus, Città del Vaticano 1995. 13 The text of the LEF was between 1967 and 1981 subjected to no less than 8 revisions. Out of these, the last schema which was officially printed isSchema

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promulgating it, was partly incorporated into the new Codes by the two codify­ing Commissions.14

1.1.2 The “textual tradition” of the CCEO in the process of codification The complete “textual tradition” of the CCEO, i.e. the way of de- velopment which the texts serving as basis for each provisions under- went in course of the 20th century codification process of canon law, is show in the following figure:

Legis Ecclesiae fundamentalis. Textus emendatus cum relatione de ipso Schemate deque emendationibus receptis, Typis Polyglottis Vatica­nis 1971. For its lingui- stic analysis with detailed terminological indices, see Franco Giusberti, La «Lex Ecclesiae fundamentalis»: un’analisi del suo linguaggio teologico, in rapporto a quello della «Lumen gentium», Legge e Vangelo. Discussioni su una legge fondmentale per la Chiesa (Testi e ricerche di scienze religiose 8), Brescia 1972, 341–481. 14 For a comparative analysis of LEF canons occurring in the CIC and the CCEO, see Ivan Žu­žek, “La «Lex Ecclesiae fundamentalis» et les deux codes”, in L’année canonique 40 (1998) 19–48.

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As can be seen in the figure, the textual relations of the CCEO to the other Codes or projects mentioned above is much more compli- cated than suggested at first by the fact of the revision of the CICO. The material of the CCEO is not only de­rived directly from the CICO produced originally for the Eastern Churches and from the LEF intended for the Universal Church, but also comes from the Latin CIC of 1983, just as its forerunner, the CICO has its textual ba- sis not only in the ancient and more recent sources of Eastern catholic canon law (indicated on the figure by small ellipses and dotted lines), but contains substantial parts literally borrowed from the 1917 Latin Code which served as its main example. In a study of the Latin of the CCEO, one should thus always consider the whole pro­cess of codification, for in various passages of its most recent work there is a de­tectable, sometimes even combined, impact of the different Codes produced at the earlier stages. The gigantic work of the textual comparison of the 1546 canons of the CCEO with those of the other three Codes has recently been done by canonical scholar­ship.15 Based on these findings, the relation- ship of the text of the new Eastern ca­nons to those of the two CICs and of the CICO can be described in five possible ways. Thus the equivalent of a given CCEO canon can be found either (1) in all of the other Codes (the most probable common source in such cases is the CIC of 1917); or (2) only in the 1917 CIC (for this hypothetical case there is no ex­ample, as the canons of 1917 are always transmitted to the CCEO through one of the intermediate Codes); or (3) only in the CICO (this is the direct source, the in­direct ones being those former particular or universal laws from which it is de­rived); or (4) only in the CIC of 1983 (mostly new legislation, analogous to that of the Latin

15 Carl G. Fürst, Canones-Synopse zum “Codex iuris canonici” und “Codex ca- nonum Ecclesia­rum orientalium”, Freiburg i. Br.–Basel–Wien 1992; Joachim Budin – Gerd Ludwig, Synopsis “Corporis iu­ris canonici”. Vergleichender Nor- menregister der vier Gesetzbücher des katholischen Rechts, Re­gensburg 2001.

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Church required by the II Vatican Council); or (5) in none of the other Codes (new passages written by the codificators of the CCEO especially for the Eastern Catholic Churches). It is to be noted that the edition indicating the sources of the CCEO, similarly to that of the CICO, omits all references to the CIC (case (4) in the above list) in spite of the abundant material cor- respondence, avoiding, as it were, to give the impression as if Latin law could be a formal source of Eastern law.16 On the other hand, it often lists a number of references, pertaining especially to the Eas­tern Churches, which, besides their identical content as to legal regulation, did not in fact serve as a textual source for the wording of the actual passages.17 In studying the Latin of the CCEO, we should, therefore, make a conceptual dis­tinction between formal (juridical) sources and material (textual) sources. As the annotated editions contain only the former ones, if the two categories do not co­incide, the latter ones can- not but be determined, in every single instance, by a de­tailed philo- logical analysis.

16 Cf. Erdő, War die Kodifikation des katholischen Ostkirchenrechts eine Latini- sierung? (nt. 11), 49. In spite of this tendentious behaviour on part of the le- gislator, it is generally agreed in the literature that a not negligible part of the two Eastern Codes was taken from the respective CICs in identical or improved formulation. For all this, on the CICO see Alexander Szentirmai, “The legal language of the new canon law of the Oriental Churches”, in The Jurist 22 (1962) 39–70, especially 41; on the CCEO see George Nedungatt, Ancient Law in CCEO. The Interpretation of Canon 2 CCEO, in Ius cano­nicum in Oriente et Occidente. Festschrift für Carl G. Fürst zum 70. Geburtstag, hrsg. von Hartmut Zapp – Andreas Weiss – Stefan Korta (Adnotationes in ius canonicum 25), Frankfurt a. M.–Berlin–Bern 2003, 87–115, here 97. 110–111. 17 The matierial of the sacred canons, asNedungatt , Ancient Law in CCEO (nt. 16), 106 asserts, is in no single instance adopted by the CCEO in original textual form.

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1.2 The types of the sources of the CCEO The sources of the whole material of the CCEO can be divided into three groups: former (1) Eastern and (2) Latin Church discipline as well as (3) the modern teaching and discipline of the Universal Church. As we have seen, works belonging to group (2) are formally not regarded by the legislator to be the source of Eastern canon law, but should nevertheless be taken into consideration from a material point of view. (1) The distribution of the texts making up the t r a d i t i o n o f E a s t e r n c a t h o l i c C h u r c h d i s c i p l i n e with respect to their language of produc­tion is as follows: (a) canonical collections (Antiquity): first in Greek, then trans­lated into different national languages;18 (b) the sources of Roman law received in canon law (An- tiquity): primarily in L a t i n; (c) particular legislation of the Eastern Catholic Churches (Antiquity, Middle Ages and the Modern Era): chiefly in the respective national languages; (d) documents issued for Eastern catholics by the Apostolic See (Antiquity, Middle Ages and the Modern Era): in L a t i n; and (e) Eastern canon law as codified in the CICO (Modern Era): in L a t i n. (2) The tradition of Latin Church discipline ex- erted a ma­terial influence, both direct and indirect, on the text of the CCEO only through the material of codified law, i.e. the L a t i n text of the Codes of 1917 and 1983. (3) The modern universal teaching and discipline of the Church is contained (a) in the documents of the II Vatican Council published in L a t i n as well as (b) in the pronouncements of the Apostolic See issued also mainly in L a t i n. It can be seen even from this short typology how heterogeneous a material of sources it was that the two Pontifical Commissions codi-

18 This source material, according to the calculations of Sunny Th. Kokkarava- layil, is the basis of 53.14% of the new Eastern canons (cc. 822); see Nedun- gatt, Ancient Law in CCEO (nt. 16), 107. 122 | Eastern Canon Law

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fying Eastern canon law had to elaborate into a single code, in which they were assisted by the fact that the overwhelming majority of these texts was either originally composed in Latin or was available in Latin translation as well.

1.3 The existing literature on the Latin of the CCEO The scarce literature on the Latin of canonical sources is devoted in great part to the works of the 20th century codification process, and especially to the two Latin Codes. Among l e x i c o g r a p h i c t o o l s to the CCEO there exist only an index19 and a short Latin– Arabic glossary.20 Since there is no special diction­ary to the 1983 CIC either,21 Rudolf Köstler’s classical lexicon, comprising all the vo- cabulary of the 1917 CIC, remains indispensable.22 Of s t u d i e s o n t h e l a n g u a g e o f t h e C C E O there is but one: a short article giving only a list of the textual differences of canons on marriage law of the two present Codes (CIC cc. 1055–1165 and CCEO cc. 776–866) following the order of grammar, but with no treatment of the aspects of official language use and with­out a synchronic and diachronic lin- guistic analysis.23 As in the case of diction­aries, the comprehensive linguistic and terminological investigation of the text of the CIC and

19 Ivan Žužek, Index analyticus «Codicis canonum Ecclesiarum orientalium» (Ka- nonika 2), Roma 1992. 20 Vincentio Mistrih, “Lexique latin–arabe, arabe–latin du droit canon des Églises orientales catho­liques avec présentation des travaux de la commision chargée de la traduction”, in Studia orientalia christiana collectanea 38 (1997) 5–144. 21 There are, on the other hand, two indices to the vocabulary of this Code: Xaverius Ochoa, Index verborum ac locutionum «Codicis iuris canonici», Roma 19842; Hartmut Zapp, Codex iuris canonici. Lemmata. Stichwortverzeichnis, Freiburg i. Br. 1986. 22 Rudolf Köstler, Wörterbuch zum “Codex iuris canonici”, München 1927–1929. 23 Jesús Bogarín Díaz, “El latín del CCEO (Resultados de una comparación con el CIC)”, in Ius cano­nicum 42 (2002) 161–193.

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the CCEO has not yet been undertaken by anyone, so the almost se­ ven decades old monograph by Klaus Mörsdorf on the legal special language of the 1917 CIC is still fundamental in this respect.24 Besides these, there are finally certain publications on canon law which in- clude some relevant obiter dic­ta on the Latinity of the CCEO as well.25 As an investigation of the Latin of the CCEO that would cover the complete source material of its canons and would consider its all linguistic substrates could only be achieved in a monograph greatly surpassing even that of Mörsdorf­ , in the following we confine our- selves to the description and critical evalu­ation of the main linguistic features of the Code, arising from the objectives spe­cifically set out during the work of codification.

2. The principles followed during the coordination of the text of the CCEO For the revision of the Eastern Code, Pope Paul VI established in 1972 a new Pontifical Commission Pontificia( Commissio «Codici iuris canonici orientalis» Recognoscendo), among the leaders of which it was its pro-secretary (from 1977 on secretary), P. Ivan Žužek SI, a Slovenian born professor of the Pontifical Oriental Institute, who had the greatest influence on the effective work. The first schemas of the new Code were prepared by the 9 study groups of the Commis­sion according to the guidelines adopted in March 1974. These guidelines formu­late in the first place the fundamental requirements of content

24 Klaus Mörsdorf, Die Rechtssprache des “Codex iuris canonici”. Eine kritische Untersuchung (Veröffentlichungen der Görres-Gesellschaft zur Pflege der Wis- senschaft im katholischen Deutsch­land, Sektion für Rechts- und Staaswissen- schaften 74), Paderborn 1937 (= 1967). 25 E.g. Pablo Gefaell, “La presentazione del Codice orientale”, in Ius Ecclesiae 3 (1991) 344–355, here 352–353 (a general description); George Nedungatt, “The Teaching Function of the Church in Oriental Canon Law”, in Studia canonica 23 (1989) 39–60, here 59–60.

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regarding the na­ture and the individual parts of the Code, but remain silent on the formal (and, thus, linguistic) aspects of the drafting.26 The study groups formed according to topics produced 8 schemas in total, which, on the basis of the opinions received, were subjected to a re-examination (denua recognitio). It was only afterwards that the standardisation of the indivi­dual schemas, i.e. the coordination, harmonisation of the text of the entire Code, could take place. To this end, the presidency of the Commission created in 1984 a study group of seven persons, called C o e t u s d e C o o r d i n a t i o n e, which worked almost uninterruptedly until 1988.27 The two most influential members of this Coordinating Group were the Slovenian (pro-)sec- retary of the codifying Commission, Ivan Žužek, and the Austri- an born jurist Carl Gerold Fürst, professor at the University of Freiburg in Germany and consultor to the codifying Commission.28

26 For their text, see “Principi direttivi per la revisione del «Codice di diritto orientale»”, in Nuntia 3 (1976) 3–10. 27 On the work of the Coetus de Coordinatione the first overview is by Jobe Abbass, Coordinating the new Eastern Code, in Ius canonicum in Oriente et Occidente (nt. 16), 19–36; see also Ivan Žužek, “Der Beitrag von Carl Gerold Fürst zur Revision des «Codex iuris canonici orientalis». Festrede, gahalten anläßlich der Überreichung der Festschrift zu seinem 70. Geburtstag, Uni- versität Freiburg, 7. Februar 2003”, in Folia canonica 5 (2002) 211–230, here 222–227. There is something of a contradiction between the data ofAbbass , 204 and Žužek, 224: according to the former, the study group was composed of the vice-president of the Commission and 5 consultors, including the secre­ tary (6 persons altogether), while the latter speaks of 3 consultors and 2 further experts, besides the vice-president and the secretary (7 persons altogether). 28 ThatFürst and the Universtiy of Freiburg had a lion’s share in shaping the final text of theCCEO is well attested by the special acknowledgment with which Pope John Paul II singled them out on the occasion of the promulgation of the Code, see his Address Memori animo, 25 October 1990, AAS 83 (1991) 486–493, here 490. Of the cooperation between Fürst and Žužek a detailed account is given in the latter’s paper mentioned in nt. 27. The work of coordina- tion in 1988 was carried out only by them and the vice-president (the so-called

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The work performed by the Coetus de Coordinatione is shortly, but aptly summarised in the Preface to the promulgated Code: “This group was to see to the internal cohesion and unity of the Code, to reconcile discrepancies and ambi­guities, to ensure, as far as possible, that juridical terms had a univocal meaning, to remove elements that were repetitious or less appropriate, to provide consis­tency in spelling and punctuation.”29 These objectives show the central place of linguis- tic shaping in this phase of the codification process. This sort of work was coordinated first of all byFürst , who was assisted, as an expert in Latin, by Norbert Kilwing, lecturer of Hebrew, Greek and Latin at the Theological Fa­culty of the University of Freiburg.30 German influence was so strong that the presidency of the Commission de- cided to entrust the typesetting of the 1986 version of the text (Schema

Coetus Minor), see Žužek, 226; Abbass, Coordi­nating the new Eastern Code (nt. 27), 22. 29 CCEO, Praefatio, AAS 82 (1990) 1059: “Huius coetus fuit Codicis internam cohaerentiam et unitatem curare, discrepantias atque ambiguitates evitare, ter- minos iuridicos quatenus fieri poterat ad univocam significationem reducere, repetita minusque congrua tollere atque orthographiae necnon interpunctionis constanti usui providere.” The above English translation is fromCode of canons of the Eastern Churches. Latin–English edition. Translation prepared under the auspices of the Canon Law Society of America, Washington, D.C. 1992, xxxiii. Cf. also Abbass, Coordinating the new Eastern Code (nt. 27), 21–22; Žužek, “Der Beitrag von C. G. Fürst” (nt. 27), 223–225 (with the text of the letter inviting Fürst into the group). 30 Žužek, “Der Beitrag von C. G. Fürst” (nt. 27), 226–227. As a matter of fact, there is no discer­nible trace of Kilwing’s theoretical achievements in the field of either general linguistics or the stu­dies of Latin language and literature (I have been unable to find any publication by him in the last 50 volumes of L’anné philologique), so it can hardly be contested that his professional reco- gnition is dwarfed by the authority which Fürst had already enjoyed among the scholars of canon law. The fact that his opinions, unaccounted for in his own publications, exerted nonetheless a decisive influ­ence on the shaping of the Latin of the CCEO is rather explained by his close personal relations with Fürst. 126 | Eastern Canon Law

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«Codicis iuris canonici orientalis») to a press in Freiburg, whereas its printing took place in Italy (in Grottaferrata).31 The Coordinating Group summarised the p r i n c i p l e s of lin- guistic stan­dardisation and provided some explanations for it in a separate document,32 to which later two alphabetical lists were added containing the general and special vocabulary to be standardised.33 The work was greatly facilitated by computer­ised data processing, used for the first time in the history of the codifications of canon law.34

2.1 Principles of general language 2.1.1 Description of the principles (1) As to o r t h o g r a p h y, the Coordinating Group adopted the following rules. (a) The spelling of Latin words is to conform to the practice of the The­saurus linguae Latinae (= ThLL);35 the changes most- ly affect the assimilation of prefixes (this can be well studied in the -al phabetical lists36). (b) The use of ca­pitals is to conform basically to the practice of the CIC, so the names of all higher Church offices down to the syncellus and of the special corporate organs of Eastern law, if

31 Žužek, “Der Beitrag von C. G. Fürst” (nt. 28), 225. 32 “Criteri e traccia di lavoro del «Coetus de coordinatione»”, in Nuntia 21 (1985) 66–79. Its first draft was written by Fürst, see Žužek, “Der Beitrag von C. G. Fürst” (nt. 28), 225. 33 “Elenco alfabetico delle modifiche ortografiche e terminologiche (aprile 1984 – giugno 1986)”, in Nuntia 27 (1988) 13–20; “Elenco alfabetico delle prese di posizione più significative riguardanti la terminologia giuridica”, in Nuntia 27 (1988) 28–36. 34 Abbass, Coordinating the new Eastern Code (nt. 27), 36; cf. Nuntia 21 (1985) 85. 35 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 70. 36 First of all in case of the prefix ad, see “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 77; “Elenco alfabeti­co delle modifiche ortografiche e terminologiche” (nt. 33), 13.

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entitled to issue laws or administrative decrees, is to be capita­lised.37 (c) In punctuation, as there is no internationally agreed practice in this regard, the system used in Central Europe is to be followed (its rules are even briefly summarised).38 (d) Though not mentioned in the principles, typographic elevations (typographische Auszeichnungen) also belong here, first of all quotat­ion marks and italics, the use of which is to be avoided.39 (2) While the principles are equally silent on the standardisation of v o ­c a b u l a r y and m o r p h o l o g y, the two word lists show a clear tendency of replacing late antique and medieval forms of Canonical Latin with their Classical Latin counterparts.40 (3) In the domain of s y n t a x, special attention is given to the uniform and consistent use of moods. According to this, indicative is to be used instead of subjunctive in relative and conditional clauses (i.e. after qui, si and nisi)41 as well as in temporal clauses introduced by the conjunctions antequam, quatenus and quoties.42 Not mentioned in the principles, though belonging to syntax, is the standardisation and classicisation of the use of government and conjunctions.

2.1.2 Evaluation of the principles G e n e r a l l y. The formulation of the principles is a great step forward with respect to the methodology of earlier codifications; their content and structure, however, is not yet complete and refined enough: they state their objectives of general and special language

37 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 69–70. 38 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 68–69. 39 “Elenco alfabetico delle modifiche ortografiche e terminologiche” (nt. 33), 15. 20. 40 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 77–79 (list of words); “Elenco alfabetico delle modifiche ortografiche e terminologiche” (nt. 33), 13–20; “Elenco alfabeti- co delle prese di posizione” (nt. 33) 28–36. 41 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 70–72. 42 Žužek, “Der Beitrag von C. G. Fürst” (nt. 27), 227.

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miscellaneously, and several important aspects appear only implicitly in the lists of changes. In spite of thorough grounding for special language use, there is, unfortunately, a lacking awareness of general lan­guage (linguistics), e.g. the members of the Coordinating Group do not state as a matter of principle which historically existing variety of the Latin language they intend to adopt. From their silence it can be inferred that they basically adhere to Canonical Latin, while the imposition of the phonetic norm laid down in the ThLL and of the morphologic norm codified in modern descriptive grammars points to the direction of such classicising tendencies which are not in full accord with the linguistic traditions of the Latin of canon law.43 This conflict, regret­tably, remains unaddressed in the principles. S p e c i f i c a l l y. The standardisation of orthography and punc- tuation is an extremely welcome achievement, serving indeed as an excellent example for a long overdue reform of other fields of official ecclesiastical Latinity as well. Al­though the classical norm adopted as a basis for orthography44 may appear a little unfamiliar to some

43 The parallel life of these two traditions within ecclesiastical practice has been problematic and full of tensions since the Renaissance, see Zoltán Rihmer, Klasszicizmus és purizmus a XX. század köze­pének egyházi latin nyelvében [Clas- sicism and purism in the Ecclesiastical Latin of the mid-20th cen­tury] (paper read at the a 6th Hungarian Conference on the Studies of Antiquity, 27–29 May 2004, Faculty of Philosophy, ELTE University, Budapest], in course of publication). 44 The assimilative spelling of Latin compounds was chiefly propagated in anti- quity by the gram­marians, while everyday practice, as attested by epigraphic and manuscript evidence, seems to depart from these, cf. Stotz, Handbuch (nt. 5), III 328–329 (§ 285). In texts written in Late Antiquity con­sistent dissi- milation is an almost general phenomenon, which is gradually reversed during the Middle Ages when, under vernacular influence, assimilation takes the lead (for antecedents in Vulgar Latin, see Veikko Väänänen, Introducción al latín vulgar [Biblioteca universitaria Gredos, I: Manuales 4], Madrid 19883, 118–120 [nt. 113]). In the official ecclesiastical use of Latin there is some sort of a lingui- stic norm, slowly developing from the age of the Renaissance, concerning the

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people, yet it would have been hardly possible to find a more suit- able common denominator in the past history of Latin. On the other hand, as it is a modern linguistic model that provided a basis for the standardisation of punctuation, its adoption should have been per- haps more thoroughly justified. In our judgement, however, this solu- tion, i.e. the rejection of a punctuation based on rhetoric (peculiar to the Romance languages) and the introduction of a punc­tuation based on syntax (equally followed in German and in Hungarian) is in a particularly fortunate agreement with the very structure of the Latin language, as demonstrated by longer textual witnesses surviving from the Classical Age.45 The elimination of typographical elevations is a regrettable regression in this process, perhaps traceable to the demand for extreme (sometimes even mistaken) classicisation. The changes in morphology are likewise fortunate, if the objective was to bring Canonical Latin closer to the classical norm most wide-spread and taught in contemporary schools. In selecting variants of vocabulary special lan­guages admit of relatively less freedom, so the elimination of such discrepancies can only be beneficial to a law code. Syntactical changes are in a great part due to a similar standardisation made on

distribution of assimilated and dissimilated prefixes, which is equally reflected in the text of the two CICs and the CICO as well as of the other documents of the Apostolic See. It is this practice that the CCEO re­nounces, returning to the consistent adherence to the rules of assimilation prescribed in the ancient (clas- sical) grammars. See also Bogarín Díaz, “El latín del CCEO” (nt. 23), 191. 45 E.g. the laws in epigraphic form, the Res gestae Divi Augusti or the Laudatio Murdiae and Thuriae, see Rudolf W. Müller, Rhetorische und syntaktische In- terpunktion. Untersuchungen zur Pau­senbezeichnung im antiken Latein (Diss.), Tübingen 1964; E. Otha Wingo, Latin punctuation in the Classical Age (Ianua linguarum, Series practica 133), The Hague–Paris 1972 (Bogarín Díaz, El la­ tín del CCEO [nt. 23], 192 is incorrect in denying the existence of punctuation in ancient Rome). On later developments, see Malcolm B. Parkes, Pause and effect. An introduction to the history of punctuat­ion in the West, Berkeley–Los Angeles 1993.

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the basis of existing choices and thus unob­jectionable from a linguis- tic point of view, whereas another part of them re­present a serious interference in the system of Latin grammar. The modification of the rules of subjunctive use is, in our opinion, the most important as well as the most problematic feature of the Latin of the CCEO, which will, therefore, be studied more carefully below, in section V 3 a.

2.2 Principles of special language 2.2.1 Description of the principles Since Canonical Latin has no orthography and grammar of its own, i.e. in which it would differ from other varieties of literary Latin,46 the principles of special language governing the Latin of the CCEO apply only to the content and use of v o c a b u l a r y. (1) The first aspect of the special language standardisation of the Eastern Code is the c o r r e c t i o n o f c e r t a i n t e c h n i - c a l t e r m s o f t h e L a t i n l a w. This means that certain terms of the Latin law do not figure at all (because of the Eastern nature of the Code), while others are replaced by dif­ferent words with the same meaning (stylistics), and others are employed accord­ing to their meaning in a consistent and uniform way (terminology).47 (2) The principles of content governing the codification result in the r e ­t e n t i o n o f e x i s t i n g, or, in case of necessity, the i n t r o - duction of new technical terms proper to East-

46 Canonical Latin has, of course, its own peculiar orthographic and grammati- cal features (cf. be­low, nt. 95), but these always come from a certain historical period of the Latin language, or even from a particular register of it. On the other hand, the overwhelming majority of its vocabulary is of inner formation, i.e. created separately and independently from general everyday language. 47 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 72–77 (with detailed discussions on ter- minology); “Elenco alfabetico delle modifiche ortografiche e terminologiche” (nt. 33), 13–20 (only a list); “Elenco alfabeti­co delle prese di posizione” (nt. 33) 28–36 (with short reasoning at occasions).

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e r n l a w. This fell primari­ly within the competence of the individual study groups. (3) It was, on the other hand, the specific task of the Coordinating Group to standardise the actual forms in which the old and new tech- nical terms are to be used, i.e. to d e t e r m i n e l i n g u i s t i c a l l y s e t p h r a s e s for the tech­nical terms consisting of more than one word.48 (4) Not belonging closely to standardisation of special language, yet to be mentioned here is the uniform use of those synonyms of general language which cannot be regarded as lexical variants, i.e. the elimination of stylistic variants.49

2.2.2 Evaluation of the principles There is but one critical observation that can be raised regarding the above principles: namely that their explicit formulation, except for the standardisation of terminology, is lacking, so that they can only be inferred mainly from the ma­terial included in the lists of changes. As far as their content is concerned, the principles meet perfectly the demands of modern techniques of legislative draft­ing, or even those of legal special language itself.50 The role played here by the members of the Coordinating Group, familiar (also) with secular law, is not only extremely fortunate, but is d e f i n i t e l y e x e m p l a r y for the codified Latin law and, what is more, f o r t h e e n t i r e u n i v e r- sal legislation of the Catholic Church.51

48 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 72. 49 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 77–79 (list of words); “Elenco alfabetico delle modifiche or­tografiche e terminologiche” (nt. 33), 13–20; “Elenco alfabe- tico delle prese di posizione” (nt. 33) 28–36. 50 For a similar approach in Antiquity, see Quintilian’s remark (Institutio oratoria 5, 14, 34): iu­ris consulti, quorum summus circa verborum proprietatem labor est… 51 Fürst and his colleagues not only understood what codification as a means of legal technique meant, but took all the steps logically following from this,

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3. The realisation of the coordinating principles: some features of the Latin of the CCEO The Coordinating Group carried out the above principles in the text of the schema of the Code with great consistency and effective- ness, so that the Latin of the CCEO is fundamentally uniform in observing the classical linguistic norm. In what follows, therefore, while providing illustration for the main changes, we shall point out especially those features which represent either a departure from the principles or make us aware of the problems of their realisation.

3.1 Features of general language 3.1.1 Orthography a) C l a s s i c a l o r t h o g r a p h y is generally adhered to through- out the Code, only in a few instances can the opposite be observed. E.g. ae instead of oe is found in the following words: coelum (c. 373) and coelestis (c. 410; c. 481; the CIC has coelum, but caelestis), whereas the classical form is present in caelebs (c. 253, § 1; c. 374) and in caeliba- tus (c. 373; cc. 396–397; the CIC has caelibatus­ 4 times and coelibatus once). Though theoe spelling of some words origi­nally containing ae is a characteristic of Canonical Latin traceable back to late antique antecedents,52 this phenomenon unique in the CCEO is better ex-

down to the lowest level of special lan­guage standardisation. For a short ex- position of the problem, see Zoltán Rihmer, “A szentszéki dokumen­tumok műfajainak tipológiája és terminológiája (I. rész)” [Typology and terminology of the document genres of the Apostolic See (Part I)], in Kánonjog 6 (2004) 27–74, here 3644. For historical and theo­retical aspects, see also Péter Szabó, A CCEO mint a keleti egyházak első „Kódexe” (?). Megjegyzések néhány keleti kol- lekció jogtechnikai arculatához [The CCEO as the First “Code” of the Eastern Churches (?). Remarks on the Legal Technical Aspect of some Eastern Collec- tions], Dum spiro, doceo. Ünnepi kiadvány Huszti V. 85. születésnapjára, szerk. Béla Szabó – Pál Sáry (Ünnepi tanulmányok 6), Miskolc 2000, 293–311. 52 Cf. Stotz, Handbuch (nt. 5), III 85 (§ 62).

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plained by the (false) Greek etymology of the word coelum53 and its consequently (yet only supposedly) more Eastern flavour. b) P u n c t u a t i o n, in spite of its principles strictly based on syn- tax, here and there appears to be inappropriate, or even misleading. (1) Sometimes there is a c o m m a m i s s i n g: (a) at clause bound- aries, e.g. c. 150, § 2; c. 585, § 4; (b) before conjunctions and inten- sifying particles, e.g. necnon (passim); praesertim (c. 140; c. 617; c. 905); immo (c. 830, § 3); tamen (c. 828, c. 1); and (c) in the participle constructions “ablativus absolutus” (c. 348, § 2) and “participium co- niunctum” (c. 904, § 2).54 Examples under (a) and (b) can probably be explained by the influence of punctuation practices of some mo­dern languages, the reasons, however, for cases under (c) are the violation or, on the contrary, too rigid application of an essentially sound prin- ciple.55 (2) The use of u n n e c e s s a r y c o m m a s is evidently the result of the lack of due linguistic reflectedness, e.g. Episcopi, quem prae ceteris dignum et idoneum coram Domino censent, eligant (c. 183, § 1). Here a comma would only be meaningful if the object eum (expanded by the clause) were also present be­fore it, but now it impedes the

53 Alois Walde – Johann B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch (In- dogermanische Bibliothek,­ II: Wörterbücher), I–II, Heidelberg 19654, I 131, s.v. 2. caelum. 54 For further examples, see Bogarín Díaz, “El latín del CCEO” (nt. 23), 167– 168. 55 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 69: “l’ablativo assoluto e il participio con- giuntivo (da evi­tarsi se possibile) si devono separare con delle virgole solo se contengono più di due parole.” Indeed, constructions with non-finite verbs are as equal elements of clauses as are other parts of speech con­structed otherwise, and are, therefore, justly lacking commas on both sides (Bogarín Díaz, “El latín del CCEO” [nt. 23], 192 is incorrect in excluding here the influence of mo- dern languages), yet occa­sionally they may well appear in contexts in which, in order to avoid misunderstanding, it is absolutely necessary to set them off with commas regardless of their length.

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continuous reading of the sentence, creating the awkward impression as if the relative pronoun quem referred to Episcopi. The cause of this problem is that in Latin, contrary to several modern languages, it is much freely possible to omit a referring particle from the main clause, the bear­ing of which on punctuation was, however, not studied by the editors of the CCEO, who instead applied mechanically the main rule known to them from their mother tongue. Another example: sive, quatenus manifestat personalitatem illius, sive, quatenus fons est iurium patrimonialium (c. 666, § 1). The use of commas before the two quatenus-clauses makes them appear as embedded subordinate­ clauses, impeding thus to realise that it is precisely these clauses that the double conjunction sive – sive refers to. The problem here, again, is the insensi­tivity to the linguistic phenomena upon which punc- tuation is based; for conjunct­tions and particles must stand without commas not only when they refer to words and phrases (e.g. sive/ etiam_ Episcopus eparchialis), but also when they express syntactic re- lations between entire clauses (e.g. sive_ quod pater fecit, sive_ quod filius, but cf. sive_ id, quod pater fecit, sive_ id, quod filius).

3.1.2 Vocabulary and morphology a) In n e o l o g i s m s one can e.g. observe the modification of the CIC substrates:­ praevidentia socialis (CIC c. 231, § 2; c. 1274, § 2)  praecaventia so­cialis (CCEO c. 192, § 5; c. 390, § 2; c. 409, § 2; c. 1021, § 2; c. 1410). Com­pletely new words not found in the CIC were probably coined by the codifying study groups; they can be either of Greek origin, as e.g. irenismus (c. 905),56 or of inner formation, e.g. ultimatim (c. 178).57

56 The extensive use of the ending -ismus was general in Medieval Latin, see Stotz, Handbuch (nt. 5), II 306–307 (§ 58.1–4). 57 For ancient and medieval examples, see Stotz, Handbuch (nt. 5), II 376 (§ 99.3).

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b) The forms of certain p r o n o u n s and n u m e r a l s differ from the clas­sical norm. The marked dissimilative tendency attested in the changes iis  eis, iisdem  eisdem and ii  ei (passim) is a peculiar- ity of Preclassical Latin.58 The singular use of the pronounsinguli , as e.g. in singulum scrutinium (c. 107, § 1; c. 166, § 1), is similarly non- classical.59 c) In the d e c l e n s i o n there are also a few non-classical forms. The geni­tive of words of Greek origin is likewise formed in a Greek manner, e.g. haereseos­ (c. 762, § 1, n. 2; cf. CIC c. 1041, n. 2), exegeseos (c. 350, § 2), catecheseos (c. 617; c. 625).60 The genitive plural of the word ius, instead of the classical form iurum known from the sources of ancient Roman law, is the form iurium generally established in canon law (both in the CIC and in the CCEO).61 d) Co n j u g a t i o n, on the other hand, is especially characterised by the eli­mination of non-classical (archaic and later) forms. Such phenomenon is e.g. the change of the 2nd imperative to the indica-

58 Instead of ei and eis common in Old Latin, the most frequent forms in Classi- cal Latin are those with the i-, see Raphael Kühner – Friedrich Holzweissig, Ausführliche Grammatik der lateinischen Sprache. I: Elementar-, Formen- und Wortlehre, Hannover 19142, 590–591 (§ 133, 2); Manu Leumann, Lateini­sche Grammatik. I: Lateinische Laut- und Formenlehre (Handbuch der Alter- tumswissenschaft II 2, 1), München 1977[6], 467 (§ 371, α–β). 59 According to Kühner–Holzweissig, Elementar-, Formen- und Wortlehre (nt. 58), 645 (§ 150, 4), singulus occurs only in pre- and postclassical texts. Here the two Latin Codes adhere to the classical norm (for the 1917 CIC, see Köstler, Wörterbuch zum CIC [nt. 22], 330 b). 60 In Classical Latin such words normally end in -is, see Leumann, Lateinische Laut- und For­menlehre (nt. 58), 458 (§ 365, 3). The Greek ending -eos, appearing primarily in the prose of the im­perial age (cf. Kühner–Holzweissig, Elementar-, Formen- und Wortlehre [nt. 58], 363 [§ 79, 3]), becomes quite frequent in Medieval Latin, see Stotz, Handbuch (nt. 5), III 90 (§ 40.6). In the two CICs the genitive of the words haeresis and catechesis in every case adheres to the classical norm. 61 This phenomenon has also a medieval origin, seeStotz , Handbuch (nt. 5), III 86 (§ 38.3).

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tive: esto  est (e.g. c. 361, § 2; cf. CIC c. 262).62 The perfect of the aux- iliary in compound passive forms is always replaced by the imperfect (often with a concomitant change to the indicative): fuerit statuta  est statuta (e.g. c. 1489, § 1; cf. CIC c. 8, § 1).63

3.1.3 Syntax a) Less important or less general problems are the following (1) Incorrect usage of e n c l i t i c p a r t i c l e s: magistrorum in sua q u i s ­q u e scientia vere peritorum (c. 340, § 1), where the word quisque should also have been inflected (in this case put in the genitive). There is an error of word or­der in the clause ius recipiendi spectat q u o q u e ad parochum (c. 898, § 3), for the enclitic particle quoque, at least in Classical Latin, is always to follow the word it refers to64 (thus the cor- rect order is: ad parochum quoque spectat). In Modern Latin, however, it is the enclitic nature that prevails, so what authors only care about is that quoque should be placed after the first item of a (pre­dicative or attributive) construction.65

62 The 2nd (or “future”) imperative is one of the characteristics of the Latin of the laws of im­perial Rome, see de Meo, Lingue tecniche del latino (nt. 4), 102–103. 63 The regular use of the perfect ofesse in such passive forms is a medieval practice traceable to Late Antiquity, cf. Stotz, Handbuch (nt. 5), III 328–329 (§ 64). For the same in Vulgar Latin, see Väänänen, Introducción (nt. 44), 226—228 (n. 298). 64 Johann B. Hofmann – Anton Szantyr, Lateinische Grammatik. II: Lateini- sche Syntax und Stilistik. Mit dem allgemeinen Teil der lateinischen Grammatik (Handbuch der Altertumswissenschaft II 2, 2), München 1965, 485 (§ 258); Raphael Kühner – Carl Stegmann, Ausführliche Grammatik der lateinischen Sprache. II: Satzlehre, hrsg. von Andreas Thierfelder, I–II, Hannover 19765, II 53–54 (§ 159, 3, Anm. 3) and 637. 65 Cf. Johann Ph. Krebs – Joseph H. Schmalz, Antibarbarus der lateinischen Sprache. Nebst einem kurzen Abriß der Geschichte der lateinischen Sprache und Vorbemerkungen über reine Latinität, I–II, Basel 1886–18886, II 426. The phe- nomenon occurs passim in the 1917 CIC (e.g. already in c. 1: Ecclesiae quoque

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(2) Incorrect g o v e r n m e n t is found in the following construc- tions: alum­ni cultura generali callentes (c. 347; correctly: c. 289, § 2): callere nor­mally governs the accusative;66 catholicitas i n m e l i o - rem lucem ponatur (c. 604): in such cases Classical Latin uses the ablative after in;67 scrutatores assumi possunt i n t e r p r e s b y t e r o s e t diaconos (c. 71, § 1): as it is about the election of the tellers out of, not in(to), a group of people, the correct government of assumi is ab / ex / de + ablative.68 (3) Incorrect is the m o o d in the following consecutive clause: monasterium Patriarchiae subiectum est ita, ut ipse solus eadem iura et obligationes h a b e t ac Episcopus eparchialis (c. 486, § 2). In such cases subjunctive is to be used even according to the Commission’s principles.69 b) Among the syntactic phenomena of the CCEO there are, how- ever, some more serious problems. (1) Nouns denoting abstract concepts and functioning as agents are put in Classical Latin in the pure ablative,70 whereas the Code, following a m e d i ­e v a l tradition, often uses “a b l a t i v u s a u c - t o r i s ” together with the preposition a(b), e.g. a iure collatus (c. 224, § 3); a traditione statutus (c. 708).

orientalis disciplina), whereas in the 1983 CIC the word quoque is used mainly in adherence to the classical norm. 66 Cf. ThLL III, 1906/12, 16637–69, s.v. calleo II B. For the type callere in + abla- tive, some post­classical examples are given by Krebs–Schmalz, Antibarbarus (nt. 65), I 227. α 67 Cf. ThLL VII 2, 2, 1970/79, 190975–77, s.v. lux Caput I, I A 1 b .

68 Cf. ThLL II, 1900/06, 93246–50, s.v. adsumere II, where the accusative is found exclusively with complements answering to the question ‘to where?’. 69 Cf. “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 72: “nelle frasi […] consecutive si con- tinua usare il congiuntivo secondo le regole della sintassi latina.” 70 Cf. “Elenco alfabetico delle modifiche ortografiche e terminologiche” (nt. 33), 17: “iure, tt [= termine tecnico – Z.R.] (sostituisce «a iure», «in iure» e equiva- lenti).”

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(2) On the other hand, a somewhat doctrinaire c l a s s i c i s i n g tendency is reflected in the r e i n t e r p r e t a t i o n o f t h e d o u b l e c o n j u n c t i o n s peculiar to the language of canon law: ita ut  ita, ut (39 instances), or ita [verb], ut  [verb] ita, ut (4 instances). Here we cannot speak of modernisation, because the moving of the referring particle of the main clause (ita) to the sub­ordinate clause as well as its (semantic and/or morphologic) adhesion to the con­junction already present there (ut) is found in several modern languages (e.g. Eng. so that, Germ. so daß, Hung. úgyhogy). (3) An extremely striking phenomenon is the m o v i n g o f e n - c l i t i c c o n j u n c t i o n s from the second place of the clause to the end of the first noun phrase, e.g. celebratio verbi Dei v e r o opportune foveatur (c. 607), or nulla auctoritas inferior a u t e m nova impedimen- ta dirimentia statuere potest (c. 792).71 These changes are not aimed at a direct modification of Latin con­junction use, but occur as secondary consequences of some principles of special language (for details see below, section V 3 b). (4) The most general grammatical feature of the Latin of the CCEO is the use of the i n d i c a t i v e instead of the subjunctive in conditional and temporal clauses, based on the principle described above (under (3) in section III 1 a). Typical examples for this m o d - e r n i s i n g t e n d e n c y are as follows: si ca­sus ferat  fert; nisi aliter iure caveatur  cavetur; qui consulto omiserit  omisit.72 For an in- dividual example: Infans […], qui in eo versatur vitae discri­mine, ut prudenter praevideatur moriturus, antequam usum rationis a t t i n g i t, licite baptizatur (c. 681, § 4).73

71 Cf. “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 70. 72 As estimated in “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 71, there are altogether more than 3000 oc­currences. 73 In this case the above modification, motivated by the principles, cannot even be deemed mo­dernisation, since attingere expresses an irreal condition even from a modern point of view: it is hardly probable for the infant to reach the

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3.2 Features of special language 3.2.1 Correction of certain technical terms of the Latin law (1) The omission of the characteristically Latin juridical institutes of the CIC (e.g. poenae latae sententiae) cannot be interpreted in the framework of linguis­tic tendencies. (2) On the other hand, the substitution of the terms of the Latin law with other ones reveals some underlying linguistic intentions. Changes like depositio  testimonium, honorarium  remuneratio, co- niugium  matrimonium restore c l a s s i c a l technical terms, where- as the change tabularium  archivum re­flects m o d e r n i s a t i o n in special language. A n e w E a s t e r n t e r m i ­n o l o g y becomes apparent in changes of the type fidelis  christifidelis and in­cardinatio  ascriptio, while the correction matrimonium contrahere  matri­ monium celebrare explicitates an a n c i e n t E a s t e r n c o n c e p t, more of a theological-liturgical than of a legal nature.74 (3) Since in the principles as well as in the literature on the CCEO great em­phasis is laid on the consistent and uniform use of the already extant terminology of the Latin law (e.g. officium, or sodalis / mem- brum), we can dispense with its analysis here.

3.2.2 Use of technical terms proper to Eastern law (1) Retention of ea rlier terms of the Eastern tradition. Instead of con­cepts of Latin constitutional law the CCEO uses their East- ern counterparts, e.g. dioecesis – eparchia; Ordinarius – Hierarcha;

use of reason, if he is surely to die before it. In such cases even modern langua- ges would use conditional, e.g. Hungarian (mielőtt eljutna ‘before he would reach’) or French (avant que + subjonctif). The rendering of attingit with the indicative in the Ger­man or English translation of the CCEO can rather be attributed to the slavish adherence to the mood system of the Latin original than to the rules of grammar proper to these languages. 74 Cf. Bogarín Díaz, “El latín del CCEO” (nt. 23), 190.

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Vicarius episcopalis – Syncellus; vicarius foraneus – protopresbyter.75 In place of Latin liturgical expressions of medieval origin the Eastern Code preserves the vocabulary of ancient patristic language: missa(e sacrificium) – Divina Liturgia; divinum officium – laudes­vinae di . (2) Examples for n e w t e r m s introduced without antecedents are found mainly in the field of constituional law and of the law of the religious: Conventus Hierarcharum plurium Ecclesiarum sui iuris (the sedes materiae is c. 322); Societas vitae communis ad instar religiosorum (the sedes materiae is cc. 554–562).

3.2.3 Standardisation of technical terms as set phrases The use of technical terms consisting of more than one word is determined in the Latin canonical tradition rather by stylistic consid- erations. Putting these aside, the CCEO uses every such term with the same word order, in which a t ­tributes normally follow the word they belong to,76 and can precede it only in some

75 For the different notional content of the elements of the pairs Episcopus – Epi- scopus eparchia­lis, or Hierarcha – Hierarcha loci, see Abbass, Coordinating the new Eastern Code (nt. 27), 26–28. 76 According to Kühner–Stegmann, Satzlehre (nt. 64), II 605–611 (§ 246, 7–9), the basic rule in Classical Latin, traceable to Indoeuropean word order, is the preceding of adjectival and numeral attributes, which admits of several excep- tions. Demonstrative pronouns and possessive attri­butes formed of nouns normally precede, possessive pronouns follow the head of the phrase. In the language of ancient Roman law, on the other hand, there is an interesting duality: in the expres­sions inherited from archaic official language, i.e. from the texts of the sources of law of the republi­can period, the attribute always follows its noun (e.g. praetor peregrinus, opus novum, dolus malus), while in the language of jurists and, later on, of imperial constitutions we frequently find the opposite order (e.g. ad exhibendum actio, in integrum restitutio, bona fi- des), see Wilhelm Kalb, Das Juristenlatein. Versuch einer Charakteristik auf Grundlage der Digesten, Nürnberg 18882 (= Aalen 1984), 46–47 and Wegweiser in die römische Rechtssprache für Absolventen des Humanistischen Gymnasiums mit Übersetzungsbeispielen aus dem Gebiete des römischen Rechts, Leipzig 1912

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exceptional, previously defined cases. To illustrate this with an ex- ample from constitutional law: auctoritas competens ecclesiastica and auctoritas superior, but at the meeting of the two types: superior auc- toritas administrativa. The longest set phrase of a technical term is from marriage law: forma celebrationis matrimonii iure praescripta (c. 796, § 1; c. 810, § 1, n. 3; c. 827; cc. 834–835; c. 845, § 1; c. 846, § 3; c. 847; c. 848, § 1; c. 852; c. 859, § 2; c. 1372, §§ 1–2).

3.2.4 Elimination of stylistic variants (1) In order to strengthen the juridical nature of the Code, the Co- ordinating Group replaced those words of a group of synonyms which it felt to be stylistically marked with their unmarked, neutral counterparts among particles (e.g. haud / non  non; insimul / simul  simul), verbs (e.g. nequit / non potest  non potest;77 (ne)fas est / (non) licet  (non) licet), as well as nouns (e.g. proles / liberi / filii  filii) and pronouns (e.g. ipsemet / ipse  ipse). (2) Prepositions and types of government used paral- lel to, or instead of, different classical forms in the special language of (canon) law from Late Antiquity onwards were abandoned or con- fined to their classical use by the editors of the CCEO, e.g.in quan- tum / quatenus  quatenus; iuxta / secundum  secundum; quoad / circa  circa; or dispensare super / in / ab + ablative  dispensare ab + ablative.78

(= Aalen 1984), 9–11. Bogarín Díaz, “El latín del CCEO” (nt. 23), 191 also re- fers to the fact that the order “noun – attri­bute” became common only in Late Latin; see Väänänen, Introducción (nt. 44), 262 (n. 356). 77 According to Bogarín Díaz, “El latín del CCEO” (nt. 23), 190, the “periphra- stic” non possum is a more modern, whereas the contracted nequeo is a more archaic form, but this can hardly be proved. It is better, therefore, to use the current categories “stylistically unmarked” and “marked”. 78 The preposition super with the meaning of de is not quite typical of Classical Latin; into legal language it was introduced by Q. Cervidius Scaevola, see

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General conclusions 1. In the linguistic coordination of the text of the CCEO one can detect ba­sically t h r e e d i f f e r e n t t e n d e n c i e s, which run par- allel or complemen­tary to one another. a) S t a n d a r d i s a t i o n or, rather, f o r m a l i s a t i o n (pursuing mainly classical linguistic ideals). This process, on the one hand, is a logical result of the adoption of codification as a means of legal tech- nique and a natural consequence of the use of modern legal special language; while, on the other hand, it is averse to historical attitude, thrusting into the background the principle of being based on the sources (Quellenmäßigkeit). Since these two concepts cannot be main­ tained at the same time, the Church is bound to decide which one is to be pre­ferred. This decision had been taken irrevocably in the beginning of the 20th cen­tury by Pope Pius X, and was carried out in the hitherto most perfect way in the end of the same century by the editors of the CCEO.79 b) S i m p l i f i c a t i o n (pursuing classical linguistic ideals in both grammar and style). This process was necessitated by the inherent principles of modern legal special language, which do not pay regard to linguistic richness or aesthetic quality. Again, it is two contrary concepts that oppose each other here; and the role played by legisla- tion in modern societies requires the absolute priority of the former one.80

Wilhelm Kalb, Roms Juristen, nach ihrer Spra­che dargestellt, Leipzig 1890, 105. In Canonical Latin it occurs frequently from the earliest times (for the 1917 CIC, see Köstler, Wörterbuch zum CIC [nt. 22], 343 a, s.v. super II b), and is not entirely removed from the CCEO either (cf. c. 183, § 3; c. 1203; c. 1214; c. 1233, § 2; c. 1318, § 3). 79 Cf. what is written above, in nt. 51, as well as the literature cited therein. 80 Cf. Gefaell, “La presentazione del Codice orientale” (nt. 25), 352–353: “il ruolo della lingua ufficiale di promulgazione del codice doveva servire ad uno scopo strumentale, sempre al servizio dei principi rettori della funzione legislativa.

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c) M o d e r n i s a t i o n (pursuing contemporary, not Latin, lin- guistic ideals). Similarly to the previous ones, this process also works against another aspect: at the expense of the grammatical system of Latin (or, if you like, the spirit of the Latin language). Indeed this system underwent, during the long history of Latin, several trans- formations and changes, but the core of its rules, firmly established in the Classical Age and slightly expanded in the Middle Ages, has remained more or less intact. Therefore, any unnecessary or excessive interference to that is considerably disquieting. 2. The coordination of the CCEO has brought about, from a l i n g u i s t i c p o i n t o f v i e w, the following o u t s t a n d i n g achievements: a) In general language, the most warmly welcome phenomena are the uni­form p u n c t u a t i o n based on syntactical principles, which departs positively from the less consistent, rhetorical punctuation of the Latin documents produced in the Roman Curia, as well as the due and adequate n e o l o g i s m s, sur­mounting the obstacles gener- ated by classicistic (sometimes even puristic) lexi­cological preferences which dominated curial usage for one and a half centuries. b) In special language, particularly valuable characteristics of the CCEO are its nearly perfect c o n c e p t u a l p r e c i s i o n a n d c o n s i s t e n c y as well as the presentation of m i l l e n n i a l j u - ridical institutes in a mo­dern, refined form. 3. The above linguistic study has, however, pointed out s o m e d i s q u i e t ­i n g p h e n o m e n a of standardisation as well. Setting aside minor problems, e.g. rigidity in applying the rules of punctua- tion or changes occasionally contrary to the principles, we should

Tali principi sostanziali non andavano, di conseguenza, sacrificati a favore del- la semplice bellezza dello strumento. […] In definitiva, si volle subordinare gli aspetti puramente stilistici, di eleganza e varietà linguistica, agli scopi pretta- mente giuridici e legislativi­ che spettavano alla commissione.” A little more reserved is Bogarín Díaz, “El latín del CCEO” (nt. 23), 193.

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like here to deal in more detail with the e x c e s ­sive interfer- ence to the grammar of Ancient (Classical) Latin cho- sen as a basis for standardisation. The same was also noticed by the members of the codifying Commission, when, regarding the Latinity of the last schema, they expressed grievances at the elimination of the subjunctive and at the mis­placement of enclitic conjunctions. The special study group established to assess the reflections81 refused these criticisms with the statement: “Regarding the Latin [of the schema], an attempt has been made to use a grammatically correct as well as a juridically uniform, clear and simple style which is readily acces- sible even to those whose language is very distant from the syntactic structure of Latin.”82 In light of this reply it is worth examining the two most striking linguistic modi­fications which affect not simply spelling, vocabulary or style,83 but the very grammatical structure of the Latin language. We are fully aware that what fol­lows is bound to arise objections on the part of those whose work is going to be examined, yet we are convinced that a linguistic analysis of linguistic pheno­mena cannot be simply discarded by appealing to the “spirit” of codification.

81 The “Coetus de Expensione Observationum”, which held its sessions in Sep- tember 1987 and January 1988, was composed of the vice-president, the secre- tary and 7 consultors of the a codifying Commission, including also Carl G. Fürst, see Žužek, “Der Beitrag von C. G. Fürst” (nt. 27), 228. 82 “Le osservazioni dei membri della Commissione allo «Schema Codicis iuris ca- nonici orienta­lis» e le risposte del «Coetus de expensione observationum»”, in Nuntia 28 (1989) 11: “Circa la lingua latina si è cercato di usare uno stile gram- maticalmente corretto e giuridicamente uniforme, chiaro, semplice e di facile accesso anche a coloro la cui lingua è molto distante dalla struttura sintattica di quella latina.” 83 For different approaches of the concept of style in Latin, see the fundamental work of Wolfram Ax, Probleme des Sprachstils als Gegenstand der lateinischen Philologie (Beiträge zur Altertumswissen­schaft 1), Hildesheim 1976.

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a) The elimination of the s u b j u n c t i v e from certain claus- es is founded on three main reasons. The first reason seems to be a g r a m m a t i c a l one. The Coordinating Group (= Fürst)84 as- serts that Latin conditional clauses fall into three types as contain- ing (1) real, (2) potential and (3) irreal conditions, which correspond respectively to the indicative, to the simple present and present per­fect of the subjunctive as well as to the imperfect and pluperfect of the subjunc­tive. According to Fürst, type (3) is completely alien to the language of law, while type (2) is less fitting for the juridical nature of the future Eastern Code, so there is only one type left, that of real cir- cumstances, for which the “rules of Latin syntax” prescribe the use of the indicative.85 It is, however, to be admitted that this clear-cut sys- tem in its chemically pure form exists only in school gram­mars.86 By “real” and “potential” the Romans meant something slightly different from what is in the minds of speakers of modern languages:87 they

84 Though, according to Žužek, “Der Beitrag von C. G. Fürst” (nt. 28), 226, this proposal came from Kilwing, it was soon totally adopted by Fürst. As it was the latter who drafted the document “Criteri e traccia di lavoro” (see above, nt. 32), in criticising the views and opinions contained in it – in a slight contrast to codification techniques – I shall refer to him explicitly by name. 85 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 71–72. 86 Cf. e.g. Leonard R. Palmer, The Latin language, London 1954, 331: “Plautus’ usage fluctuates even in one and the same sentence (e.g. compellarem, ni me- tuam), and even classical usage is not so con­sistent as the school grammars sug- gest […].” For more details, see the complicated system described by Kühner– Stegmann, Satzlehre (nt. 64), II 387–410 (§ 212–215) with its several deviations and exceptions (especially § 215, 3). 87 Cf. the acute observation of the doyen of Hungarian classical philology, Prof. István Bor­zsák, in his book on the spirit of Latin (A latin nyelv szelleme [Par- thenon-tanulmányok 3], Budapest 1942, 38): “How often Latin uses the subjun- ctive, where we feel to deal with a simple declaration of fact!” Conditionals are dealt with in a rather extensive literature of both modern linguistics (syntax) and philosophy (logic), which adopts several other approaches besides, or instead of, the categories “real”, “potential” and “irreal” of traditional (Latin) grammars.

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found it en­tirely natural for legal texts to be in the conditional, and for these conditionals to be in the subjunctive.88 In his mother tongue or, rather, within its legal special language Fürst draws a different line between “real” and “potential”, and wants this to be consistently reflected in the Latin text of a code edited by him.89 But to justify this he appeals in vain to modern linguistics, in which grammatical rules are not postulated a priori, but deduced a posteriori from the existing phe­nomena of a studied language (and not of another). The second reason, which is in fact behind the false grammatical justification (although contrary to it), is the need of l i n g u i s t i c

For an overview, see e.g. V. Prod­lesskaya, Conditional Constructions, Language typology and language universals. An international handbook / Sprachtypologie und sprachliche Universalien. Ein internationales Handbuch / La typolo­gie des langues et les universaux linguistiques. Manuel international, ed. by / hrsg. von / éd. par Martin Haspelmath – Ekkehard König – Wulf Oesterreicher – Wolfgang Raible (Handbücher zur Sprach- und Kommunika­tionswissenschaft 20), I–II, Berlin–New York 2001, [II] 998–1110 and William G. Lycan, Real Condi­tionals, Oxford 2001, both with detailed bibliography. For English, see also Barbara Dancyger, Conditio­nals and Prediction. Time, Knowledge and Causa- tion in Conditional Constructions (Cambridge studies in linguistics 87), Cam- bridge 1998, especially 31. 37. 88 Kalb, Wegweiser in die römische Rechtssprache (nt. 76), 70–71 and Spezialgram- matik zur selbständigen Erlernung der römischen Sprache für lateinlose Jünger des Rechts. Mit Übersetzungs­beispielen aus dem Gebiete des römischen Rechts, Leipzig 1910, 276, where it is emphasised that such subjunctives are to be translated into German with the indicative. 89 Cf. “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 71: “conveniva privilegiare, compatibil- mente con le re­gole e le esigenze della sintassi latina, il modo indicativo, cioè il modo della realtà, in quanto in un codice è opportuno che siano suscettibili di considerazione soprattutto fatti e circostanze che real­mente si verificano. […] con la decisione di privilegiare il modo indicativo si conferirebbe una maggiore conretezza alla norma canonica del futuro codice per le Chiese orientali e si creereb­be una più stretta aderenza ed intima consonanza del suo linguaggio giuridico con lo spirito e la lettera delle legislazioni moderne [emphasis added – Z.R.].”

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m o d e r n i s a t i o n: “the study group, […] in the hope of rendering the legal texts of the Code really per­spicuous and adapted to the mod- ern world, has decided that conditionals introduced­ by ‘si’, ‘nisi’ etc. are to be considered as referring to real facts and con­sequently, save a few exceptions, to be in the indicative.”90 In spite of the above ref- erences to Latin grammar, this quotation makes it undoubtful that Fürst created a new rule, in which he was motivated by factors lying outside the domain of the Latin language. The third reason, the already seen principle of b e t t e r i n t e l - l i g i b i l i t y, provides some explanation for the introduction of an ex- tralinguistic factor.91 For the correct interpretation of the traditional subjunctives in certain clauses has ne­ver caused serious troubles either in earlier sources of canon law or in the texts of the two Latin Codes – perhaps because scholars of canon law may also be fa­miliar with Latin, the number one language of this law. In order to assume that in the case of scholars of Eastern canon law – “whose language is very distant from the syntactic structure of Latin” – the same does not hold, there should have been extensive research done on the use of moods in clauses of languages currently in use in the Eastern Catho- lic Churches, an investigation that definitely did not take place. The Central European members of the Coordinating Group simply pre­ sumed that their Eastern colleagues would not be able to interpret correctly such subjunctives, and thus decided to adjust to them the Latin language itself. They only forgot to ask those who were con- cerned, with the result that the Latin of the CCEO reflects more of

90 “Criteri e traccia di lavoro” (nt. 32), 72. 91 The intelligibility of legislative texts is a much treated issue in recent literature on legislative drafting and legal language. For an overview of the fundamental que- stions, see e.g. the contributions of Ulrike Hass-Zumkehr, Barbara Wieners- Horst, Werner Hauck and Ulrich Karpen: Podiumsdiskussion: Kann man Ge- setze verständlich machen?, Sprache und Recht, hrsg. von Ulrike Hass-Zumkehr (Institut für Deutsche Sprache: Jahrbuch 2001), Berlin–New York 2002, 366–392.

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the mood system of Fürst’s and Kilwing’s mother tongue than that of any of the languages of the East. So the aims and their theore­tical justifications seem to be quite far away from the ways and outcome of their realisation – and all this, regrettably, at the expense of the Eastern Churches. For a code intended to be Eastern in its content exhibits now, by its most peculiar and general linguistic feature, to all its readers familiar with Latin a noticeably northern (e.g. German) character, explicitly alien to the common Mediterranean (e.g. Latin) way of thinking. b) A similarly German-like extremism is sensible in the d o g - ma of “in­separability of components of technical t e r m s ”, which ex­cludes the possibility of inserting conjunctions. It is interesting to see how this syntactic rule newly introduced into Lat- in reflects, again, the structure of the German language, which does not allow for certain conjunctions also occurring in other than front position (e.g. aber, jedoch) to be inserted in the middle of phrases.92 In the reasoning of the Coordinating Group (namely that the unity of the terms should be preserved) there is, again, a pseudo-problem: for those familiar with Latin the identification of compound tech- nical terms as such is not problematic, even if there is a conjunc-

92 According to this rule, the adversative conjunctions in German (and in Hun- garian) correspond­ing to Latin autem, vero and tamen come not after the first word of the clause, but after the first com­plete phrase, and can thus be placed even at the end of the entire clause, which is absolutely contrary to the rules of Latin syntax (see e.g. Duden IV. Grammatik der deutschen Gegenwartssprache, Mann­heim–Leipzig–Wien–Zürich 19986, 830 [n. 1413]; on word order in Ger- man sentences in general, cf. ibid. 817–829). Although there are conjunctions in Classical Latin taking an obligatory second place, while occurring someti- mes in the first place as well (e.g.igitur ), yet later varieties of Latin are rather characterised by the opposite process, i.e. by the moving to the second place of conjunctions that used to take the first place (e.g.etenim , namque). Examples for conjunctions being moved to the third or fourth place in a clause are extre- mely rare in Latin prose.

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tion splitting the words of the phrase; while those lacking (sufficient) knowledge of Latin are equally not helped in identifying the phrase as a technical term by the moving of the conjunction to its end. It happened in innumerable occasions during the history of Latin that a con­junction was inserted into a compound technical term,93 yet this never lead to the evanescence of its technical character, neither did it serve as an obstacle to the comprehension of its precise meaning among those familiar with Latin. One is reminded here of the well- known maxim of the republican jurist Q. Mucius Scaevola (D. 32, 24 i.f.): Ius civile vigilantibus scriptum est. Conjunction use or, more specifically, the a c t u a l p o s i t i o n o f c o n ­j u n c t i o n s i n a s e n t e n c e is, similarly to the use of moods, an integral part of the grammatical rules of a language. Sen- tences generated in breach of these rules are linguistically ungram- matical, i.e. they are not considered well-formed utterances (in tech- nical literature this is indicated by an * asterisk pre­ceding the text). It is therefore highly questionable whether a transformation of word order that would generate ungrammatical sentences in every modern lan­guage can, in a Latin legal text, be regarded as unobjectionable only on grounds that the competence of lacking native speakers is being supplied by the authority of the ecclesiastical legislator. The canonical principle of supplet Ecclesia is hardly valid in grammar. 4. On the basis of what has been said we can conclude that the text of the CCEO is the r e s u l t o f c o n s c i o u s a n d b a s i c a l l y

93 Some antique and medieval examples, this time only from legal Latin: rem vero publi­cam nostri maiores certe melioribus temperaverunt et institutis et legi- bus (Cicero Tusc. 1, 1, 2); mancipi vero res sunt etc. (Gaius Inst. 2, 22); in operis autem novi nuntiatione pos­sessorem adversarium facimus (Ulpianus Ad ed. 22 in D. 39, 1, 1, 6); Tonsura vero clerici de manu abbatis suscipi potest (Gratianus in D. 69 pr.); Semestre autem tempus non a tempore vacationis praebendarum etc. (Innocent III in X. 3, 8, 5).

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successful language planning.94 However, the disquieting phenomena draw our at­tention to the fact that such language plan- ning is not adequately ref­lected from a scholarly p o i n t o f v i e w. This contradiction was felt by the members of the codifying Commission when they raised some objec­tions on the Latin of the schema. But there remains the question how the reason­ ing for the rejection of their criticism, i.e. the aim of making the Latin language “structurally more accessible” to those who are less familiar with it, may be qua­lified from a theoretical (linguistic) and a practical (juridical) point of view. a) From the position of l i n g u i s t i c s c i e n c e it is at once ap- parent that the reply quoted above contains a severe contradiction, since the syntactic struc­ture (“struttura sintattica”) of a language forms such an inherent part of its lin­guistic system that is cannot be bona fide modified without serious consequen­ces, especially when adapted to the needs of speakers of other languages having a different linguistic system. Such modifications exceed the limits of selecting between the stylistic variants offered in a linguistic system (“usare uno stile”), and affect the linguistic system as such. Those propound- ing the above view con­fuse two different domains of the linguistic system, not realising that their modifications, considered stylistic, al- ready point to the formation of a new variety of the Latin language different from every other one that has so far existed.95

94 For the concept, see the earlier monograph by Valter Tauli, Introduction to a Theory of Language Planning (Acta Universitatis Upsalensis, Studia philolo- giae Scandinavicae Upsaliensia 6), Uppsala 1968; for a more recent account, see Florian Coulmas, Sprache und Staat. Studien zur Sprachplanung (Sammlung Göschen 2501), Berlin–New York 1985. Developed in the works of scholars such as Einar Haugen or Joshua A. Fishman, language planning by now has established itself as an auto­nomous branch of sociolinguistics having its own periodicals, e.g. Current issues in lan­guage plan­ning (from 2000, also available online from the website of the publisher Multilingual Matters). 95 With regard to this, it is justly pointed out by Nedungatt, The Teaching Func-

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b) L e g a l s c i e n c e is a basically conservative one, changing its language and its concepts only in the utmost necessity, especially when keeping up with the development of the real world. Such a great progress was, in the beginning of the 20th century, the codification of canon law, which brought about a formal repeal of a great deal of for- mer legislation. A radical material break with the past, however, was never intended by the Church, which explicitly enacted that codified law was to be assessed in the light of former canonical tradition.96 But this is only possible if there is a minimal continuity, in both general and special language, between what is ancient and modern, ensuring thus the applicability of the interpreting texts to the interpreted ones. The replacing of the subjunctive with the indicative was, e.g., totally unmotivated, except by the model of certain contemporary languag- es, whereas this modification represents a significant ­parturede from the traditions of Canonical Latin, still preserved in the CIC of 1983. This was clearly understood byŽužek , who initially opposed the change, until he was persuaded by the arguments advanced by Fürst and Kilwing.97 Yet the tradition thus broken is not proper only to

tion of the Church in Oriental Canon Law (nt. 25), 59 that the language of the new (schema of the) Eastern Code is a curious “Eastern Latin”, which has not only its own punctuation and orthography, but also its own grammar. It fol- lows, then, that the members of the Coordinating Group failed, at least in this respect, to meet the requirement addressed to them upon their appointment, namely that the Code should be unobjectionable from the point of view of its Latinity (“ineccepibile […] dal punto di vista […] della lingua latina”, as quoted by Žužek, “Der Beitrag von C. G. Fürst” [nt. 27], 2235). 96 Cf. 1917 CIC c. 6, n. 2–3; 1983 CIC c. 6, § 2; CCEO c. 2. 97 Cf. Žužek, “Der Beitrag von C. G. Fürst” (nt. 27), 227: “Für diese Änderung mußte man auch mich überzeugen. Tatsächlich hatte ich in dieser Sache einen „harten Kopf“, vor allem weil es mir bei allen Schwierigkeiten beim stacheli- gen Weg des orientalischen Codex nicht der Mühe wert schien, noch weitere Schwierigkeiten dadurch zu schaffen, daß man sich von der tradi­tionellen Sprache der Kanonisten und des Neo-CIC der lateinischen Kirche entfernte [emphasis added – Z.R.].”

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Canonical Latin, but reaches back as far as the very first period of Ro- man law. For in republican laws, just as in edicts of the magistrates, in imperial constitutions and in writings of the jurists, one can find a fairly established use of the same “coniunctivus potentialis” in con- ditional clauses.98 The German-speaking editors of the CCEO thus seem to have deprived the linguistic form of the Code of something they were striving to preserve as much as possible in its content: a tradition of a particular legal special language continuously present in the Latin of the law for two and a half thousand years.99 5. The impressive volume of theCodex canonum Ecclesiarum ori- entalium is not only the latest law code of the Catholic Church, but also the most lengthy work of contemporary Neolatin literature, so its study should be duly concerned with linguistic aspects besides the juridical ones. Present day scholars of canon law and Latin linguis- tics still owe us a modern special lexicon to both the gene­ral and the special language of the CIC and the CCEO as well as a monographic

98 The origins and the development of the mood system of Latin conditional claus- es is a rather complicated issue. A reasonable account of potential subjunctives as occurring in legal texts is lack­ing even in such comprehensive works as e.g. Hermann Menge, Lehrbuch der lateinischen Syntax und Se­mantik, völlig neu bearb. von Thorsten Burkard – Markus Schauer, Darmstadt 2000. Earlier stages are ad­dressed in two recent studies (see Heinrich Hettrich, Lateinis- che Konditionalsätze in sprachvergleichen­der Sicht, Latein und Indogermanisch. Akten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft, Salzburg, 23.–26. September 1986, hrsg. von Oswald Panagl – ThomasKrisch [Innsbrucker Be- iträge zur Sprachwissenschaft 64], Innsbruck 1992, 263–284, especially 274–278 and Gualtiero Calboli, Zu den la­teinischen Bedingungssätzen, Akten des VIII. internationalen Kolloquiums zur lateinischen Linguis­tik, hrsg. von Alfred Bammersberger – Friedrich Heberlein, Heidelberg 1996, 282–295, especially 290–294), while postclassical and later usage, infiltrating into both secular and canon law, remains unexplored. 99 This tradition is emphasised nowadays, e.g. byHaering , “Lateinische Sprache und kanoni­sches Recht” (nt. 3), 244, as one of the advantages of Latin as the special language of canon law.

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treatment of the terminology of the two Codes. Within the limited scope of this study, we have attempted to provide such efforts with a theoretical, scholarly grounding. In conclusion, we should like to add a general observation to the spe­cific findings described above, one which implies that for the linguistic short­comings of the codi- fication it is not the codifiers who are to be blamed in the first place – for the Catholic Church has always lacked, and is apparently lack- ing even now, a consciously formed, official language strat­egy or language policy,100 the need of which, however, is self-evident in a community comprising more than a sixth of the population of the earth. According to an anecdote of medieval origin, King Sigismund of Luxemburg in the Council of Constance once used the word schisma in the masculine gender. When the cardinal bishop of Piacenza re- minded him of his grammatical error, Sigismund replied: Ego sum rex Romanus et supra grammaticos. The car­dinal did not acquiesce in it, and retorted: Nec Caesar (in other version: Caesar non) supra grammaticos.101

100 For a recent account of the concept, see Klaus Bochmann, Theorie und Meth- oden der Sprach­politik und ihre Analyse, in Sprachpolitik in der Romania. Zur Geschichte sprachpolitischen Denkens und Handelns von der Französischen Revo- lution bis zur Gegenwart, hrsg. von Klaus Bochmann, Berlin–New York 1993, 3–58. The sudy of language policy is a multicoloured branch of sociolinguis- tics interwoven with other topics such as language standardisation, authority in language or linguistic pu­rism. On its contemporary state in Europe, see Ingeborg Ohnheiser – Manfred Kienpointer – Helmut Kalb (Hrsgg.), Sprachen in Europa. Sprachsituation und Sprachpolitik in europäischen Ländern (Innsbrucker Bei­träge zu Kulturwissenschaft 52), Innsbruck 1999. Particularly instructive from an ecclesiastical point of view are the works dealing with in- ternational organisations or the European Union, see e.g. Florian Coulmas (ed.), A Language Policy for the European Community. Prospects and Quandaries, Berlin–New York 1991. On the role of Latin in this respect, see Fritz Sturm, “Lingua Latina fundamentum et salus Europae” [the text itself is in German], in The European Legal Forum 2 (2002) 313–320. 101 The oldest source of the story, the life of Sigismund by Iohannes Cuspinianus

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1400 years earlier the legally trained Roman gram­marian M. Pompo- nius Marcellus102 refused, with an even greater self-conscious­ness, the arguments advanced by the famous jurist Ateius Capito in defence of a grammatical error of the emperor Tiberius: “Capito lies; for you, Cae- sar, can confer citizenship upon men, but not upon a word.”103 Legisla- tors and other jurists of the past thus appear to have had a prompt will-

(De Caesari­bus atque imperatoribus Romanis opus insigne, s.l. [Argentorati] 1540, dci = Basileae s.a. [1561], 497), has the following version: “Passim autem id de eo scribitur, cum in Concilio Constantiensi, lap­su forte linguae, alioqui diser- tus ac facundus multarumque linguarum peritus, a grammaticae regulis deer- rasset scismaque masculino, non neutro genere, ut grammatici docent, protu- lisset, esse tum a Pla­centino correptum Cardinale. Cui mox ex tempore dixit: «Placentine, Placentine, si omnibus placeres, minime nobis places, qui minoris nos auctoritatis quam Priscianum grammaticum, quem offendisse me asseris, existimas.»” The words Ego sum rex Romanus et supra grammaticos missing from this account were, according to Kurt Böttcher – Karl H. Berger – Kurt Krolop – Christa Zimmermann, Geflü­gelte Worte. Zitate, Sentenzen und Be- griffe in ihrem geschichtlichen Zusammenhang, Leipzig 19854, 170 (n. 1037/1038), put in the mouth of Sigismund by Wolfgang Menzel (Geschichte der Deut­ schen, 1837, chapter 325). For that particular part of the anecdote which became a common saying, i.e. Nec Caesar supra grammaticos, I was unable to identify any specific textual source. 102 The form Marcellus found in all manuscripts and earlier editions is now amend- ed to Porcellus by Robert A. Kaster in C. Suetonius Tranquillus, De gram- maticis et rhetoribus. Edited with a translation, introduction, and commenatary by R. A. K., Oxford 1995, 24 (for a short reasoning, see 222 [ad 22, 1]). In lack of sufficient external evidence, however, the original form cannot be recover­ed any more, and even Kaster admits that “the slip may be Suet.’s rather than the later scribe’s”. 103 Suetonius, De grammaticis 22, 2 (ed. Kaster [nt. 102], 26): Hic idem, cum ex oratione Tiberi verbum reprehendisset, affirmante Ateio Capitone et esse illud Latinum, et, si non esset, futurum certe iam inde: «Mentitur» inquit «Capito; tu enim, Caesar, civitatem dare potes hominibus, verbo non potes.» The same ac- count of the story is given by the Greek historian Cassius Dio in his Historia Romana 57, 17, 1–3. For a commentary, see Kaster, 226–227 (cf. also xxxvi and xlv–xlvi).

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ingness of asserting themselves as superior to the laws of the language. But language, just as law, has its own guardians,104 who at times do not tolerate this, and even dare to say: Nec Princeps supra grammaticos. If the Catholic Church agreed to undertake a conscious and schol- arly reflec­tion upon the use of Latin, her own official tongue, contra- dictions would probab­ly cease between the law of the legislator and the law of the language, and the latter could much better serve the former and its perennial end: the salvation of souls.

104 Cf. Robert A. Kaster, Guardians of Language: The Grammarian and Society in Late Antiquity (The transformation of the classical heritage 11), Berkeley– Los Angeles–London 1988. The ancient tradition of prescriptive approach once dominating the field of language studies is now generally considered to be outside the boundaries of modern linguistics. Yet questions of correctness and usage can and should be addressed even within the scope of a modern (scien- tific?) paradigm (e.g. as socio­linguistic or cultural issues), and thus the above examples of Placentinus and Marcellus, though taken from earlier ages, are still valid in assessing typical phenomena of contemporary practice as well.

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ECL_2013_158×222.indd 156 7/27/2013 10:34:34 AM François Galtier s.j. (1893–1962): His Early Contribution to the Comparative Study of the Codes

Jobe Abbass o.f.m.conv.

sumnmary: Introduction; 0. Father Francisque Galtier, s.j. (1893–1962): A Bio- graphical Sketch; 1. The Influence of Roman Law on the Procedural Norms of the Church; 1.1 General Forum: Respondent’s Domicile (1917 CIC c. 1561; SN c. 24); 1.2 Arbitration (1917 CIC c. 1929; SN c. 98 §1); 1.3 Duration of a Trial ( 1917 CIC c. 1620; SN c. 135); 1.4 Actions and Exceptions (1917 CIC c. 1667; SN c. 184); 1.5 Peremp- tory Citations (1917 CIC c. 1714; SN c. 236); 2. How SN Developed and Improved upon the Procedural Norms of the Church; 2.1 Criminal Delicts (1917 CIC c. 1933 §1; SN c. 1 §3); 2.2 The Forum of the Contract (1917CIC c. 1565 §1; SN c. 28 §1); 2.3 Those Excluded from Judging in Further Instance (1917CIC c. 1571; SN c. 35); 2.4 Power Exercised by Judges (1917 CIC c. 1574 §1; SN c. 41 §1); 2.5 Who Directs the Process? (1917 CIC c. 1577 §2; SN c. 50 §1); 2.6 Promoter of Justice & Defender of the Bond (1917 CIC c. 1586; SN cc. 57–62; 2.7 General Rule regarding Interventions (SN c. 64); 2.8 When the Process/Instance Begins (1917 CIC cc. 1725, 5°/1732; SN cc. 247, 5°/254); 2.9 Supplying for the Negligence of the Parties (1917 CIC c. 1619; SN c. 134); 2.10 Cases Excepted from General Trial Rules (1917 CIC c. 1990; SN c. 498); Conclu- sion.

Introduction After Pope John Paul II had promulgated both the 1983 Codex Iuris Canonici (CIC) and the 1990 Codex Canonum Ecclesiarum Ori- entalium (CCEO), he repeatedly urged a comparative study of both Codes, which His Holiness regarded as parts of “one Corpus Iuris Canonici” in the universal Church.1 This call effectively represented a

1 The initial call for comparative studies was made by John Paul II when he pre- sented the new Eastern Code to the twenty-eighth General Congregation of the

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new challenge for canonical researchers since relatively little had been done in this area and, moreover, the Eastern Catholic Churches did not have a complete, common Code until 1990. Nevertheless, these Eastern Churches had had a Code, albeit incomplete, that was com- prised of four motu proprios which Pope Pius XII had promulgated from 1949–1957.2 Two parts of this Eastern legislation, Crebrae allatae (CA) and Sollicitudinem nostram (SN), which governed marriage and procedure respectively, had in fact been thoroughly compared to the Latin Church’s 1917 CIC. In two very valuable volumes, Father Fran- cisque Galtier s.j., conducted such comparative studies which, even in the context of similar studies today, can still be recommended for their painstaking detail and outstanding precision.3 A moral theologian, Father Galtier served the Church in Leba- non from 1941–1962. A recognized expert in many fields, he was best known as a leading authority and scholar of Eastern canon law, which he taught at the Jesuits’ Université Saint-Joseph, Beirut. Soon after the promulgation of both CA and SN, Galtier worked tirelessly to produce commentaries that not only translated the Latin texts but, also, provided an exact comparison with the parallel provisions of the 1917 CIC.4 His precise comparison of the corresponding norms is

Synod of Bishops on October 25, 1990 [see (AAS) 83 (1991) 491. The pope repeated his call while addressing the international symposium held at the Vatican (April 19–24, 1993) to celebrate the tenth anniversary of the promulgation of the Latin Code [see Communicationes 25 (1993) 13–14. 2 The four motu proprios are:Crebrae allatae, 22. II. 1949, in AAS 41 (1949) 89–119; Sollicitudinem nostram, 6. I. 1950, in AAS 42 (1950) 5–120; Postquam apostolicis (PA), 9. II. 1952, in AAS 44 (1952) 65–150; and Cleri sanctitati (CS), 2. VI. 1957, in AAS 49 (1957) 433–603. 3 François Galtier, Le mariage: discipline orientale et discipline occidentale (La Réforme du 2 Mai 1949), Beirut 1950; Idem, Code oriental de procédure ecclésia- stique, Beirut 1951. 4 In his preface to Galtier’s volume on marriage, Ignace Ziadé, Maronite Arch- bishop of Aleppo, wrote: “To comment on this important (marriage) legisla-

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immediately evident in the first volume on marriage. Regarding the wording of the Eastern and Latin canons, he writes:

To allow for the comparison of the parallel texts of the Eastern Code and the Western Code, the bold characters indicate in the canons the parts proper to the Eastern Code; the passages in parentheses and in italics indicate the parts proper to the Latin Code. To have the Eastern text, it is therefore necessary to omit in the text of the canons the words in parentheses. To have the Latin text, omit the passages in bold letters and do not consider the parentheses. The underlined words indicate different expressions used by the Eastern Code, but of the same canonical significance.5

One can only imagine the meticulous attention that was required, then, to produce such a systematic comparison of the Eastern and Latin canons on marriage. To take only one example from the com- parative commentary, Galtier presents the parallel norms (SN c. 85; 1917 CIC c. 1094) governing the canonical form of marriage as fol- lows:

§1. Only those marriages are valid which are contracted in a sacred rite before the pastor or the local Hierarch or before a priest who has received from one

tion, no comprehensive work has been published to date. That called for a special competence and a very special love for our dear East. It was your great heart and your noble spirit, it was especially your patience regarding the dif- ficulties of Eastern law that incited you to undertake such a mission. To this end, you had to take the necessary time away from your rest and sleep, since all the hours of your day are taken in teaching, your ministry and the numerous consultations that come to you unceasingly from ecclesiastical tribunals and the various curias.” See Galtier, Mariage (nt. 3), XXI. Galtier’s biographical sketch, which follows, also discloses that he suffered from chronic insomnia caused by serious wounds he suffered in World War I. Note: Unless otherwise indicated, foreign language translations are the writer’s. 5 Galtier, Mariage (nt. 3), 10.

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of them the power to assist at it (delegated by one of them), and before at least two witnesses according to the prescripts of the canons that follow, and saving the exceptions formulated in canons 86, 90 (CIC. 1098, 1099). §2. To meet the requirements of §1, a rite is regarded as sacred by the in- tervention of a priest who assists and blesses.6

Even before reading Galtier’s commentary, then, it is already clear that a sacred rite is characteristic of the Eastern marriage legislation, that the wording of the Codes to describe delegation differs, and that the different Eastern expression, local hierarch, can be equated with the Latin counterpart (local ordinary). Despite the obvious merits of such a systematic approach, and perhaps because of its sheer complex- ity, Galtier did not adopt such a methodology in his 1951 comparative commentary on the procedural norms of the Catholic Church. There, he simply indicates, by an asterisk, each “canon of the Western Code whose wording differs from that of the Eastern Code.”7 It is Galtier’s commentary on Eastern procedural norms, Code ori- ental de procédure ecclésiastique, that becomes the focus of this paper.8

6 Ibid., 220. The French text reads: “§1 – Sont seuls valides les mariages qui sont contractés dans un rite sacré devant le curé ou le Hiérarque du lieu ou devant un prêtre qui a reçu de l’un d’entre eux le pouvoir d’y assister (délégué par l’un d’entre eux), et devant au moins deux témoins selon les prescriptions des canons qui suivent, et sauf les exceptions formulées aux canons 86, 90 (CIC. 1098, 1099). §2 – Un rite est réputé sacré, pour répondre aux exigences du §1, par l’intervention d’un prêtre qui assiste et bénisse.” 7 Galtier, Code oriental (nt. 3), XXII. While the comparison is generally excel- lent in this regard and although the question of equating the parallel norms may often be debated, on occasion it would seem that certain 1917 CIC canons should have been denoted by an asterisk and others not. For example, 1917 CIC cc. 207*, 1619* and 1644* differ from SN cc. 11, 134 and 159, respectively while 1917 CIC cc. 1680 and 1992 are essentially the same as SN cc. 200 and 500. 8 Just as Galtier’s commentary describes Crebrae allatae as COM (Code orien- tal du mariage), it refers to Sollicitudinem nostram as COP (Code oriental de Procédure).

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Among the many reasons cited in his introduction for undertaking such a study, one practical and urgent consideration involved bringing the Latin texts within the reach and understanding of Francophone lay people, as well as clerics, who were called to apply the new East- ern procedural code. Since Lebanon’s Personal Statutes recognize the competence of ecclesiastical tribunals and the legislation governing them, Galtier’s annotated translation of Sollicitudinem nostram would undoubtedly facilitate the work of all tribunal officials and personnel. More than an annotated translation, however, Galtier’s commen- tary comparing the Eastern and Latin procedural norms was moti- vated by the same scientific objectives that generally underlie similar studies in comparative law even today. One aim was, by comparatively studying the norms and their sources, to acquire a more comprehen- sive knowledge of the procedural laws of the Church. In this regard, Galtier indicates that the lists of sources for the SN and 1917 CIC can- ons are often quite different: the former citing Roman law and East- ern synods, the latter indicating the various Decretals and the Decree of Gratian. However, he maintains that the lists of sources, far from being mutually exclusive, actually complement each other. On the one hand, Latin norms were undoubtedly influenced by Roman law; on the other, the Eastern canons, while similar to the 1917 CIC norms, were simply not borrowed from the Latin Church. Galtier states:

In reality, the two lists (of sources) complete each other: to trace the history of an institution or of a disposition, it is necessary to put together the information given in the two lists. Moreover, most of the Eastern sources are not absent from the sources of the Western Code… As for the texts of Roman-Byzantine law, we cannot forget that, at first, the Church lived under Roman law and that its own law fed on it in the East as well as the West; that a number of its (Roman law’s) dispositions served as models for it (the Church’s law), or were adopted, modified according to the requirements of the goal being pursued, the progress of doctrine or the needs of the time… We can say, limiting ourselves to procedure, that the Eastern Church is not receiving a law that is foreign to herself; much less can one speak of borrow- ing from Western law. She is recovering that law, inherited from Roman law,

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which had been received from the Byzantine emperors or borrowed from their work, a law which was made for her, adapted and perfected according to the data of experience, the needs of the time and the progress of doctrine, thanks to the work of canonists and jurists throughout the world…9

A second objective of Galtier’s commentary was to illustrate, by com- paring the SN procedural norms to those contained in the 1917 CIC, that the 1949 Eastern reform had often improved upon the parallel norms contained in the 1917 Latin Code. Over the intervening thirty years, these reforms were occasioned not only by the decisions of the Roman See but, also, by the practice of ecclesiastical tribunals and the diligent work of canonists throughout the Catholic world. Galtier writes:

These modifications regarding detail are explained by the discussions to which the wording of CIC canons gave rise; the responses of the interpretation Com- mission, the decisions of the Congregations have been used. The more pro- found changes are undoubtedly explained by the influence of two kinds of sources which the codifiers did not point to but which are easily recognized. Since 1918, thanks to the practice of nearly 1,500 ecclesiastical tribunals, thanks to the work of canonists commenting upon the text of the Code, a wealth of documentation has been gathered, a number of points have been defined and desires expressed. One can already foresee what would constitute a project for partial reform, the wording of canons modified or completed, and new provi- sions. It was normal that our (Eastern) Code take advantage of this work. One could equally consider models provided by numerous judicial reforms carried out during the course of the last 30 years, the progress of doctrine resulting from the efforts of jurists, notably German, French and Italian.10

9 Galtier, Code oriental (nt. 3), XII–XIV. 10 Ibid., XVI–XVII. In the same passage, Galtier argues that Vatican’s 1946 Code de procédure civil (CPC) was the source for the SN canons on arbitration (CPC artt. 596–619; SN cc. 98–122) and trial before a single judge (CPC artt. 125 et seq., SN cc. 453–467). Since these canons generally had no counterparts in 1917 CIC, they are not treated in this comparative study. However, as Appendix II indicates, SN cc. 120 and 453–467 would become sources for 1983 CIC cc. 1716 and 1656–1668, respectively.

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In a single paper regarding Galtier’s Code oriental de procédure ecclésiastique, it is indeed difficult to enumerate all the benefits it brought to the application of procedural law and canon law in gen- eral. For many reasons, Galtier’s commentary represented an early contribution to the comparative study of the Latin and Eastern Cath- olic Churches’ legislation. Long before tables of corresponding canons were published in translations of the 1983 CIC and the 1990 CCEO, Galtier had included one that compared the procedural norms in SN (COP) and the 1917 CIC.11 Then, by identifying a common Roman source behind the parallel Eastern and Latin canons, Galtier properly situated Sollicitudinem nostram in the historical line of the Church’s development of procedural rules rather than viewing it as a kind of borrowed adaptation of Latin rules. As Galtier’s comparative work also illustrates, Sollicitudinem nostram often improved upon the prior Latin text. In fact, the procedural canons in the1983 CIC would even- tually cite SN norms as a source in ninety-five instances.12 After a brief biographical sketch of Francisque Galtier, this pa- per will proceed to study two questions. Part I will outline parallel procedural norms in which Galtier identified a common source in Roman-Byzantine law. Part II will examine several cases in which SN canons clarified or reformed the previous Latin norms whether by way of some indication from the Holy See or the learned works and commentaries of canonists and jurists alike.

11 The Table of Corresponding Canons COP/CIC)( , found on page 551 of Galtier’s commentary, is reproduced here as Appendix I. 12 TheSN norms cited as sources to 1983 CIC canons are listed in Appendix II to this paper. As opposed to the ninety-five timesSN is listed among the fontes for the 1983 CIC canons, the other parts of the Eastern Code (1949–1957) are rarely cited. For example, CA c. 83; PA c. 303 §1, 1° and CS c. 11 §1 are cited as sources to 1983 CIC cc. 1102 §1; 111 §2 and 112 §1, respectively.

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0. Father Francisque Galtier, s.j. (1893–1962): A Biographical Sketch13 Born in Lyon (France). Student at the Petit Séminaire, he goes on for his philosophy to the Collège de la rue Sainte-Hélène. Jesuit in 1910, he is joined in the Company by his brothers, Fathers Joseph (1897–1969) and Jean-Marie (1905–1960), of the Province of Lyon. Called to bear arms at the end of his juniorate; twice very seriously injured, he returns to the front as soon as possible. A priest in 1925, he is designated in 1926 to be part of a small team that was to open a small Catholic seminary at Odessa, U.S.S.R. The project having failed to develop, he does a biennium at the Gregorian (University) in moral theology (1927–1929) under the direction of Father Arthur Vermeersch (Province of South Belgium, 1858–1936) to whom he is soon tied by mutual esteem and affection. Professor of moral theology at the Scolasticat de Lyon Fourvière (1929–1941) and at the Catholic faculties of Lyon. Sent to Beirut (1941– 1962), he fully adapts to his new surroundings and quickly becomes a master in Eastern canon law, closely following the codification, which they were working on in Rome, and publishing on the first two parts that came out, “marriage” and “procedure”, works which very quickly acquired great authority. Also, episcopal chanceries, officials and law- yers incessantly called upon his services. Always ready to be of service and incapable of doing anything half-way, he welcomed all those, and they were many, who came to call upon his competencies, which widely surpassed his specialty: history, sociology, politics, applied sci- ences, literature, art… Other (or the same) seminarians, lay people, Jesuits, trusted his spiritual direction and, on the day after his death, an article by the first (Lebanese) President, Choucri Cardahi, in Le Jour gave moving witness to his faithful and understanding love. To

13 Taken from: Henri Jalabert, Jésuites au Proche-Orient: Notices biographiques, Beirut 1987, 289–290.

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assure such a labour, in addition to his teaching, required long, sleep- less nights, caused by a chronic insomnia that resulted from his war wounds. Beginning in the early 1950’s, a skin disease no longer left him any respite. Thanks to his fierce desire and aided by strong medicines, he was able to continue during those years to lead his life of community and teaching, while saying to the Brother male nurse who wanted to keep him from it: “I will feel responsible for all the mistakes regard- ing canonical morals that might later be made by future priests whose formation has been entrusted to me… As long as I am not relieved of it, even dying, I will have to go to class.” Shaken by attacks that were true agonies, covered in sores… his mood was never affected by it. A final attack took him on March 8, 1962.

1. The Influence of Roman Law on the Procedural Norms of the Church In his introduction to the comparative commentary on ecclesiasti- cal procedure,14 Galtier maintains that the relevant sources to both the 1917 CIC and SN complement each other and that, while the Lat- in canons may not cite Roman law sources, the latter often influenced the formulation of Latin as well as Eastern canons. He readily agreed with the axiom that, at first, the entire “Church lives under Roman law” (Ecclesia vivit lege romana). Although Galtier evidently does not intend an exhaustive treatment of the question, his commentary does illustrate the influence Roman law had on the development of proce- dural norms both in the East and the West. This part briefly outlines five such examples.

14 See note 9, above.

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1.1 General Forum: Respondent’s Domicile (1917 CIC c. 1561; SN c. 24) Like 1917 CIC canon 1561, SN canon 24 states: “By reason of domi- cile or quasi-domicile, one can be summoned before the local Hier- arch (Ordinary).” While the underlying principle, that the petitioner follow the respondent, is the same, the Latin sources only refer as far back as Gratian’s Decree.15 The Eastern sources, which point to Jus- tinian’s Digest and Code, expressed the identical rule and undoubt- edly influenced Gratian’s collection.16 The Roman law sources state:

A wife should lay claim to her dowry in the place where her husband had his home, not where the dowry agreement was drawn up; for it is not the sort of contract in which the place where the dowry agreement was made has also to be considered rather than the man to whose home the wife herself was due to go under the conditions of the marriage. (D. 5, 1, 65)17

Assets are to be sold in the place where a person should make his defense, that is, where he has his domicile. (D. 42, 5, 1 and 2)18

You ask that the order prescribed by law shall be transposed, and that the plaintiff shall not follow the residence of the defendant, but the defendant that of the plaintiff, for wherever the defendant has his domicile, or had it at the time the contract was made, there alone he must be sued, even though he afterwards may have changed it. (C. 3, 13, 2)19

15 Sources to 1917 CIC c. 1561 §1 – C. 14, C. III, q. 6; c. 1, C. IX, q. 2; c. 1, 17, 19, 20, X, de foro competenti, II, 2; c., X, de parochiis et alienis parochianis, III, 29; c. 11, de rescriptis, I, 3, in VI°; Conc. Trident., sess. VII, de ref., c. 14; Benedictus XIV, const. “Ad militantis”, 30 mart. 1742, §41; S.C. Ep. Et Reg., Lycien., 13 aug. 1613. 16 Sources to SN c. 24 – Syn. Libanen. Maronitarum, a. 1736, pars III, cap. V, 12 – D. 5, 1, 65; 42, 5, 1 et 2; C. 3, 13, 2; 12, 1, 13. 17 Translations for Justinian’s Digest are by Alan Watson in Theodor Mommsen – Paul Krueger (eds.), The Digest of Justinian, Philadelphia 1985. For this tran- slation, see vol. I, 172. 18 Mommsen, Digest (nt. 17), vol. IV, 549. 19 Translations for Justinian’s Code are taken from: Corpus Iuris Civilis: The Civil

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We raise women to the rank of their husbands, render them noble by birth, de- termine the jurisdiction to which they shall be subject, and change the places of their domicile. Moreover, if they should subsequently marry men of inferior position, they shall be deprived of their former dignity and shall follow the condition of their last husbands. (C. 12, 1, 13)20

More fundamentally, however, Galtier argues that the very con- cept of domicile, common to both the Latin and Eastern norms, is based upon Roman law. Book X, title 39, number 7 of Justinian’s Code states:

…There is no doubt that individuals have their domicile where they have placed their household goods and the greater part of their property and fortunes, and no one shall depart from thence unless something requires him to do so, and whenever he does leave the place, he is considered to be on a journey, and when he returns, to have completed it.21

1.2 Arbitration (1917 CIC c. 1929; SN c. 98 §1) Regarding the arbitration of contentious matters, 1917 CIC canon 1929 refers both to arbitrators who reach an amicable settlement based upon equity and justice as well as to arbiters who decide a controversy according to the rules of law.22 While describing arbitration in the lat- ter sense, SN canon 98 §1 omits the concept of amicable settlement.23 The parallel norms state:

1917 CIC canon 1929 – In order to avoid judicial contention, the parties can also enter into an agreement by which the controversy is committed to one or

Law, Samuel Parsons Scott (transl.), New York 1973. For this translation, see vol. VI, 278. 20 Scott, Civil Law (nt. 19), vol. VII, 241. 21 Scott, Civil Law (nt. 19), vol. VII, 136. 22 No sources are given for 1917 CIC c. 1929. 23 Sources to SN c. 98 §1 – Syn. Carthaginem., a. 419, can. 121, 122, 123. – D. 4, 8, 1; C. 2, 55 (56), De receptis.

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several judges who would, according to the norms of law, determine the mat- ter, or [who would] treat and resolve the matter according to goodness and equity; these former are known as arbiters, [and the latter] are known by the name of arbitrators.24

SN canon 98 §1 – Those who have a controversy between them can agree in writing to entrust the care of resolving it to arbiters.

According to the 1917 CIC,25 Latin arbiters are to observe the norms established by the civil law of the place where the dispute is to be resolved. However, in accord with SN canon 107 §1, Eastern arbiters are generally to follow the rules of ecclesiastical procedure.26 Galtier underlines this contrast to illustrate that the Eastern legisla- tion had not simply borrowed from the 1917 CIC but, rather, had re- covered rules for arbitration that were based upon established Roman law principles. Galtier states:

Hence, our (Eastern) Code applies the principle of the Digest: arbitration has been brought to resemble the judgment (D. 4, 8, 1).27 Canon law had received the Roman-Byzantine legislation on this point. Before the (1917) Code of can- on law, the arbiter had to observe ecclesiastical judicial procedure. The CIC re-

24 Translations for the 1917 CIC canons are taken from: Edward N. Peters (ed.), The 1917 Pio-Benedictine Code of Canon Law, San Francisco 2001. 25 1917 CIC c. 1930 states: “The prescriptions of canons 1926 and 1927 are to be observed in compromise by arbitration.” In turn, 1917 CIC c. 1926 states: “In a settlement there are to be observed the norms established by the civil law in the place in which the settlement is undertaken, unless by divine or ecclesiastical law there is some opposition, and with due regard for the prescriptions of the canons that follow.” 26 SN c. 107 §1 states: “Unless the parties decide otherwise, the arbiters are free to choose their manner of proceeding; it should be simple and expeditious, while observing natural equity and following the laws of procedure.” 27 Book 4, title 8, number 1 of Justinian’s Digest states: “Arbitration resembles an action at law and is intended to end litigation.” See Mommsen, Digest (nt. 17), vol. I, 149.

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placed it by the observance of civil legislation. Our Code adopts the provision of the former law, and, in the canons (on arbitration) that follow, a number of them correspond to those which previous canon law had adopted.28

1.3 Duration of a Trial ( 1917 CIC c. 1620; SN c. 135) Like 1917 CIC canon 1620,29 SN canon 135 establishes similar rules with respect to the length of ecclesiastical proceedings.30 The parallel Latin and Eastern norms state:

1917 CIC canon 1620 – Judges and tribunals are to take care that as soon as possible, with due regard for justice, all cases are terminated, and that in first instance they not be protracted beyond two years, and in second instance not beyond one year.

SN canon 135 – Judges and tribunals are take care that, with due regard for justice, all cases are to be finished as soon as possible; in the first instance, they are not to be prolonged more than two years, and on appeal not more than one year.

The similarity in the Eastern norm was not due to a simple bor- rowing of the Latin rule. Galtier notes that the Code of Justinian, while fixing a two-year maximum for criminal trials, had also set a three-year time limit for completing all civil cases.31 Parenthetic refer-

28 Galtier, Code oriental (nt. 3), 108. 29 Sources to 1917 CIC c. 1620 – C. 2, X, de sententia et re iudicata, II, 27; c. 5, 57, 69, X, de appellationibus, recusationibus et relationibus, II, 28; c. 3, de appella- tionibus, II, 12, in Clem.; c. 2, de verborum significatione, V, 11, in Clem.; Conc. Trident, sess. XXIV, de ref., c. 20; sess. XXV, de ref., c. 10; S.C.C., Faventina, mense oct. 1585; Conchen., mense dec. 1587; Umbriaticen., 26 apr. 1659; Albin- ganen., 28 nov. 1693. 30 Sources to SN c. 135 – Syn. Alexandrin. Coptorum, a. 1898, sect. III, cap. VI, tit. V, art. X, 1. – C. 3, 1, 12 pr.; 3, 1, 13 pr. et 1; 3, 1, 13, 8a; 9, 44, 3. 31 Galtier, Code oriental (nt. 3), 143–144.

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ence is then made to the following Roman law sources:32

A hearing should absolutely be refused to a person who divides a case which should be determined without it, and, as a privilege, desires to try before sever- al judges what can be decided by one and the same magistrate. (C. 3, 1, 12 pr)33

In order to prevent litigation from becoming almost perpetual and exceeding the term of human life (as Our law has already limited criminal cases to two years, and pecuniary actions more frequently occur, and are known sometimes to give rise to criminal proceedings), it seems to Us to be advisable to prom- ulgate the present law, for the purpose of regulating such matters throughout the entire earth, so that it may not be subject to limitation by either space or time. (C. 3, 1, 13 pr) 34

32 Although Galtier does not list C. 3, 1, 13, 1 among the Roman law references, it is one of the sources to SN c. 135. Specifically regarding the three-year time limit in civil cases, it states: “Therefore, We decree that all suits which are brought for the recovery of any sum of money whatsoever, or with reference to civil conditions, the rights of cities or of private individuals; the possession, ownership, or hypothecation of property, servitudes; or any other questions on account of which litigation occurs between men; with the sole exception of such cases as involve the rights of the Treasury, or the discharge of official du- ties, shall not, after issue has been joined, be deferred longer than the term of three years. All judges, either in this Fair City or in the provinces, whether they are invested with inferior or superior jurisdiction, or discharge the functions of magistrates, or have been appointed by Us, or by Our nobles, shall not be permitted to protract cases for a longer time than the term of three years, for no one is not aware that this provision is superior to any judicial authority, and should the parties themselves not acquiesce, no one can be found who will be bold enough to postpone a case against the consent of the judge.” See Scott, Civil Law (nt. 19), vol. VI, 260–261. (The numbering in Scott appears as C. 3, 1, 11, 1.) 33 Scott, Civil Law (nt. 19), vol. VI, 260. (The numbering in Scott appears as C. 3, 1, 10 pr.) 34 Scott, Civil Law (nt. 19), vol. VI, 260. (The numbering in Scott appears as C. 3, 1, 11 pr.)

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All these things take place when one judge hears the case from the beginning; but if, during the course of three years, judgment has been delayed, either by the death of the judge, or by some other unavoidable accident, and one year or more remains during which it can be decided, another judge shall be appointed for that purpose. If, however, less than a year remain, then all the time lacking shall be added, in order that the newly appointed judge may not only hear, but determine the case within the full period of a year. (C. 3, 1, 13, 8a)35

We decree that criminal cases shall, by all means, be terminated within two years from the time when issue was joined, nor shall this period be extended under any pretext… (C. 9, 44, 3)36

1.4 Actions and Exceptions (1917 CIC c. 1667; SN c. 184) Similar to 1917 CIC canon 1667,37 SN canon 184 establishes: “Every right is protected not only by an action, unless provisions expressly provide otherwise, but also by an exception that is always available and, by its nature, is perpetual.” As the sources to SN canon 184 indicate,38 the same rules were also present in Roman-Byzantine law, that would later shape the development of Catholic canon law. Gal- tier cites two of these sources,39 one of which is particularly helpful.40 Book 44, title 4, number 5.6 of Justinian’s Digest states:

35 Scott, Civil Law (nt. 19), vol. VI, 263. (The numbering in Scott appears as C. 3, 1, 11, 8a). 36 Scott, Civil Law (nt. 19), vol. VII, 73. 37 Sources to 1917 CIC c. 1667 – S.C. Ep. Et Reg., Lubinen, 8 mart. 1898 – Vide etiam can. 1698, §2. 38 Sources to SN c. 184 – Instit. 4, 14 pr. 1 et 2; D. 44, 1, 20; 44, 4, 5.6; 50, 16, 178, 2; 50, 17, 156. 39 Galtier, Code oriental (nt. 3), 198–199. 40 Galtier also cites the Institutes 4. 6, which does not figure, however, among the sources to SN c. 184. Institiutes 4. 6 states: “Again, we sometimes bring suit merely to recover property; sometimes only to recover the penalty; and sometimes to recover both.” See Scott, Civil Law (nt. 19), vol. I, 184.

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Although an action for fraud is extinguished within a fixed period, the defense need not also be pleaded within the same period; for the latter is permanently competent, since a plaintiff, indeed, has it within his power as to when he will make use of his right, while he against whom an action is brought has not it within his power as to when he may be sued.41

1.5 Peremptory Citations (1917 CIC c. 1714; SN c. 236) Like 1917 CIC canon 1714,42 SN canon 236 establishes the peremp- tory nature of procedural citations.43 It states: “Every citation is per- emptory; and it need not be repeated except in the case of c. 369 (1917 CIC c. 1845 §2).”44 Noting that peremptory citations had the same legal force in Roman law, Galtier parenthetically cites the Eastern norm’s two sources: D. 42, 1, 53 and C. 7, 43, 8. They state:

The contumacy of those who do not obey the person with jurisdiction is pun- ished by the loss of their suit. 1. A person is contumacious who, when three edicts are issued or one in lieu of three, which is called peremptory, and he has been summoned in writing, does not deign to enter an appearance. 2. The penalty for contumacy does not fall on those in ill health or who plead pressing and important business. 3. People are not deemed contumacious unless they refuse to comply when they should do so, that is, when they fall within the jurisdiction of him who they refuse to obey. (D. 42, 1, 53)45

41 Mommsen, Digest (nt. 17), vol. IV, 636. 42 Sources to 1917 CIC c. 1714 – C. 24, X, de officio et potestate iudicis delegati, I, 29; c. 2, X, de dilationibus, II, 8; c. 6, X, de dolo et contumacia, II, 14; c. un., de foro competenti, II, 2, in Clem.; Regulae servandae in iudiciis apud S. R. Rotae Tribunal, 4 aug. 1910; § 26, 28; Regulae servandae in iudiciis apud Suprem. Signaturae Ap. Tribunal, 6 mart., 1912, art. 19. 43 Sources to SN c. 236 – D. 42, 1, 53; C. 7, 43, 8. 44 SN c. 369 (1917 CIC c. 1845 §2) concerns the contumacious respondent whom a judge may then threaten with ecclesiastical penalties after the citation has been repeated. 45 Mommsen, Digest (nt. 17), vol. IV, 542.

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It is in conformity with law that the Governor of the Province, after having observed all the legal formalities and notified the adverse party three times by means of letters, or once for all by a peremptory edict to appear as is required, if the latter perseveres in his obstinacy, to hear the allegations of the party present, or take care that his successor shall do so. Wherefore, if the other party has been summoned three times and still stubbornly refuses to appear, it will not be un- reasonable for the judge to either compel him to do so, or transfer possession of the property in dispute to you, and make your adversary the plaintiff, or, having heard your defense, render his decision as the law may require. ( C. 7, 43, 8)46

Commenting that only peremptory citations have been retained in procedural law, Galtier concludes: “As soon as it is established that a valid citation has reached its addressee, it need not be renewed. The law only imposes a new citation when the judge wishes to break the contumacy of a respondent with the threat of penalties; the penalties can only be inflicted when it has been established that the contu- macious respondent has defied the second citation and the threat it contained.”47

2. How SN Developed and Improved upon the Procedural Norms of the Church Within the context of the development of the Church’s procedural norms from the Roman-Byzantine era through the medieval canoni- cal collections such as Gratian’s Decree, the 1917 Pio-Benedictine legislation for the Latin Church certainly represented an important milestone. In addition, as Galtier indicates in his introduction,48 the promulgation over thirty years later of a procedural code for the East- ern Churches was significant in that modifications made by SN could bring further clarity and precision to parallel procedural norms. These

46 Scott, Civil Law (nt. 19), vol. VI, 184–185. 47 Galtier, Code oriental (nt. 3), 249. 48 See note 10, above.

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changes were either occasioned by interpretational doubts raised by canonists, authentically defined by the Holy See or simply suggested by later draftsmen for a more succinct formulation of the procedural canons. This section lists ten cases in which Galtier argues thatSN improves upon the 1917 CIC in terms of the Church’s procedural code.

2.1 Criminal Delicts (1917 CIC c. 1933 §1; SN c. 1 §3) With reference to criminal trials, 1917 CIC canon 1933 §1 states: “Delicts that fall under criminal trials are public delicts.” According to 1917 CIC canon 2197, a delict is public “if it is already divulged, or has been committed in circumstances in which one can prudently foresee that it can or ought to be easily known.” As a result, most Latin commentators seemed to agree that the criminal trial could proceed if the delict were public or known and not whether or not the crime could be proven in the external forum. The Jesuit canonist, P. Vidal, was of the opinion that a criminal case had to be proven in the external forum. In his commentary on SN canon 1 §3, Galtier states that the Eastern norm effectively addresses this question. He explains:

Because CIC canon 1933 simply refers to “public delicts”, commentators have together adopted the first interpretation of the word “public” as given by the definition of delict in c. 2197: the fact in known. However, P. Vidal declares that it is a question of a delict that can be proven in the external forum. Our (Eastern) Code agrees with him. In fact, when it is a question of inflicting penalties, (which can be done without the intervention of the judicial appara- tus), as soon as it is a question of remedying a scandal, one considers only the divulgence; the penalty will not reveal the mistake already known or on the point of being made known. In procedure, however, one cannot pursue a case if it is foreseen that the juridical proof cannot be established.49

SN canon 1 §3, then, establishes: “Delicts that fall under criminal tri- als are delicts which can be legitimately proven in the external forum.”

49 Galtier, Code oriental (nt. 3), 4–5.

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2.2 The Forum of the Contract (1917 CIC c. 1565 §1; SN c. 28 §1) Among the many competing titles for assuming judicial compe- tence at trials, the place where a contract has been concluded is a title that is common to the East and the West. In this regard, 1917 CIC canon 1565 §1 establishes: “By reason of contract, a party can be con- vened in the court of the Ordinary of the place wherein the contract was entered or where it is to be fulfilled.” After the promulgation of the 1917 Latin norm, a doubt arose regarding whether or not the same title applied if, at the time of being cited to appear before the tribunal of the place where the contract was signed or was to be executed, the respondent had left the territory. According to the prior Latin prac- tice, the title would not apply in such a case. By a decision, dated July 14, 1922, the Pontificia Commissio ad Codicis Canones Authentice Inter- pretandos (Interpretation Commission) authentically interpreted 1917 CIC canon 1565 §1 in the same sense.50 Both these factors undoubtedly motivated draftsmen to add the clause “unless the party has left the territory” to the parallel Eastern norm. Galtier states: “The respond- ent can only be summoned to appear at the place of the contract if, at the time of the citation, he has not left the territory of the tribunal’s jurisdiction. This clause, in accordance with the old Latin law and the response of the CIC Interpretation Commission, was introduced into the text of our (Eastern) canon.”51 SN canon 28 §1, then, states: “By reason of the contract, the party can be summoned to appear before the Hierarch of the place where the contract was concluded or is to be executed, unless the party has left the territory, with due regard for §2.”52

50 See AAS 14 (1922) 529. 51 Galtier, Code oriental (nt. 3), 44. 52 SN c. 28 §2 (like 1917 CIC c. 1565 §2) foresees that, in the contract, the parties can specifically agree to settle eventual disputes in the place of the contract even if they are subsequently absent.

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2.3 Those Excluded from Judging in Further Instance (1917 CIC c. 1571; SN c. 35) To guarantee impartiality throughout the trial process, a judge who has tried a case in one instance cannot adjudicate the same case in an- other instance. To that end, 1917 CIC canon 1571 provides: “Whoever acts in a case in one grade of judgment cannot judge the same case in another grade.” There were Latin commentators, however, who ar- gued that, given the role of assessors as true advisers to the judge, the same prohibition should be extended to them as well.53 Galtier writes: “According to Lega-Bartoccetti, what is not allowed should be ex- tended to the assessor: who performs the function of judge or assessor at one degree of a trial cannot perform one of those two functions at another degree.” Given these things, Galtier continues: “That is what our (Eastern) code specifies.”54 Indeed, SN canon 35 states: “Whoever acts in a case or deals with it in one grade cannot judge the same case in another grade or perform the functions of assessor.”

2.4 Power Exercised by Judges (1917 CIC c. 1574 §1; SN c. 41 §1) Within the context of defining the type of power Latin judges ex- ercise, 1917 CIC canon 1574 §1 establishes: “In each diocese, presbyters of proven life and expert in canon law, even from outside the diocese, though not more than twelve, are to be chosen, so that they can take part in the judicial power delegated by the bishop in adjudicating cases; these are known by the name of synodal judge or pro-synodal , if they were constituted outside the Synod.” Since tribunal judges nor- mally have ordinary power, the clause in the Latin norm describing

53 Commenting on the role of assessors (SN c. 45; 1917 CIC c. 1575), Galtier states: “They take part in the trial as true assistants to the judge, they study the case, recognize documents, and give the judge advice on the conduct of the case, the sentence to enter.” See Galtier, Code oriental (nt. 3), 64. 54 Galtier, Code oriental (nt. 3), 53.

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their judicial power to be delegated proved to be rather awkward for its lack of precision. Galtier argues that the clause was omitted in the later Eastern norm to clarify the matter. He states:

Eparchial judges constitute the tribunal which has ordinary power. The COP omits in §1 the terms which in the CIC have embarrassed commentators: “so that by reason of the power delegated by the bishop”, they take part in the judgment. Roberti notes that the function of the judge presents all the required characteristics to involve ordinary jurisdiction. This ordinary jurisdiction can only be exercised when the judge is designated as a member of the collegial tribunal or as a sole judge, or when a judicial act is entrusted to him by the tribunal.55

Therefore,SN canon 41 §1 prescribes: “In each eparchy, presbyters of upright reputation and competent in canon law, belonging even to another eparchy, are to be appointed to take part in the adjudication of trials; they are called eparchial judges.”

2.5 Who Directs the Process? (1917 CIC c. 1577 §2; SN c. 50 §1) With respect to carrying out procedural acts within the context of collegial tribunals, the 1917 CIC and SN fundamentally differed in certain respects. One aspect concerned precisely which judge was to perform these procedural acts. As a general rule, 1917 CIC canon 1577 §2 states: “It is for the same officialis or vice-officialis to preside over and direct the process and to decide those things that are nec- essary for the administration of justice in the case.” That this norm remained somewhat ambiguous and open to various interpretations, Galtier writes:

The generality of this affirmation (in CIC c. 1577 §2), P. Vidal notes, seems to give the officialis a right to decide and place procedural acts as long as the final decision is not involved or it is a question of the sentence. If the officialis,

55 Galtier, Code oriental (nt. 3), 62.

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himself, does not preside over the tribunal, does the president have the same power? And how are the rights of the one who directs the process and the rights of the tribunal to be defined? To resolve the difficulty, authors underline the importance of the procedural acts, the instructions given to the Latin Church regarding marriage cases and which attribute to one or the other the right to act or to decide. They compose lists of what falls to the college as such, and what can be done by the president alone; they distinguish the role of the offi- cialis insofar as he is the head official, insofar as he is president of the tribunal, insofar as he is acting as a sole judge. It must be recognized that these proposed lists do not coincide, as P. Torquebiau notes regarding those of P. Vidal and Roberti. A number of the acts they attribute to the college are normally placed by the president.56

Galtier immediately adds: “The draftsmen of our Code could not ignore the problem and the difficulty.” Like the Latin norms, the East- ern canons would stipulate that the tribunal is presided over by the judicial vicar or his substitute (1917 CIC c. 1577 §2; SN c. 48 §2) and that the president designate one of the judges as ponens (1917 CIC c. 1584 §1; SN c. 49 §1). However, according to the Eastern law, it would be the ponens who would be responsible for directing the process. Unique to the Eastern legislation, SN canon 50 §1 states: “Theponens directs the process and decides what is necessary for the administra- tion of justice in the case in question.”57

56 Galtier, Code oriental (nt. 3), 67–68. 57 SN c. 50 is a source to CCEO c. 1085 §2, which now states: “Other procedural acts are to be carried out by the ponens, unless the college has reserved cer- tain acts to itself. Such reservation, however, is not for validity.” While many CCEO norms more closely resemble CIC canons which attribute judicial acts and decisions to the president of the tribunal, CCEO c. 1085 §2 continues to be a significant point of difference between the two procedural codes. For more detail, see J. Abbass, Two Codes in Comparison, Rome 1997, 225–226.

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2.6 Promoter of Justice & Defender of the Bond (1917 CIC c. 1586; SN cc. 57–62) In a single canon describing the role of the promoter of justice and the defender of the bond, 1917 CIC canon 1586 states: “There shall be constituted in a diocese a promoter of justice and a defender of the bond; the former acts in cases, whether contentious in which the pub- lic good, in the judgment of the Ordinary, can be called into ques- tion, or in criminal cases; the latter acts in cases in which the bond of sacred ordination or matrimony is concerned.” On September 1, 1934, the Holy See published the Normae S. Romanae Rotae Tribunalis (Rotal norms), which established many norms (artt. 24–37) detailing the role and responsibilities of both the promoter of justice and the defender of the bond.58 Upon comparison, it was clear to Galtier that the Eastern draftsmen not only relied upon the Rotal norms to develop and further define the functions of the promoter of justice and defender of the bond but, also, that the East- ern legislation even copied from them literally. He states:

The CIC defines their role in a common canon (1586); the Eastern Code first dedicates 5 canons (57–61) to the promoter of justice, whose functions it speci- fies, then one canon (62) to the defender of the bond, before treating the ex- ercise of the two offices in cc. 63–68. Thus, the Eastern Code agrees with the rules of Tribunal of the Rota, and its canons reproduce their wording.59

That some of the Eastern canons repeated the Rotal norms does seem evident especially when the parallel rules regarding the promoter of justice are examined. The relevantSN canons are given below with the corresponding Rotal norms in the footnotes for comparison.60

58 See AAS 26 (1934) 456–458. 59 Galtier, Code oriental (nt. 3), 76–77. 60 While the corresponding norms are substantially identical, the relevant deci- sion regarding the public good made by the Hierarch in SN cc. 59 §1 and 61

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SN canon 58 – §1. In criminal cases, the promoter of justice performs the role of the accuser, with a view to assuring the just punishment of delinquents. §2. Although it is for him, ex officio, to advance and sustain the accusation, he must nevertheless abstain if he considers the accusation without any founda- tion.61

SN canon 59 – §1. In contentious cases, it is for the Hierarch to judge if the public good is involved or not, unless the intervention of the promoter of justice must be said to be evidently necessary, given the nature of the case, as in the cases that concern an impediment to contract a marriage, the separation of spouses, a pious foundation in what affects its existence, the right of foundation or of patronage, with a view to safeguarding the freedom of the Church, etc. §2. If the promoter of justice has intervened in preceding instances, his inter- vention is presumed necessary.62

SN canon 60 – §1. In contentious cases, the promoter of justice assures the pro- tection of the public good. Besides, to the extent possible and with due regard for the truth, he is to defend in a case the rights of marriage, pious foundations, of the Church that arise from it. §2. If the case involves several grounds, only certain of which concern the pub- lic good, the promoter of justice is only to deal with the latter.63

is, at the level of the Roman Rota, made by the ponens in artt. 27 §1 and 29 §1, respectively. 61 Art. 25 of the Rotal norms stated: “ §1. In causis criminalibus Promotor iusti- tiae gerit partes accusatoris, intendens ut delinquentes iuste puniatur. §2. Licet vero eius sit accusare et sustinere ex officio accusationem, id tamen praestare non debet, si censeat accusationem prorsus fundamento destitui.” [AAS 26 (1934) 456–457] 62 Art. 27 of the Rotal norms stated: “§1. In causis contentiosis Ponentis est ferre iudicium de eo utrum bonum publicum in discrimen vocari possit necne, nisi interventus Promotoris iustitiae ex natura rei evidenter necessarius dicendus sit, ut in causis impedimenti ad matrimonium contrahendum, separationis in- ter coniuges, piae fundationis quoad eius exsistentiam, iurispatronatus propter libertatem Ecclesiae tuendam, etc. §2. Si in praecedentibus instantiis interve- nerit Promotor iustitiae, huius interventus praesumitur necessarius.” [AAS 26 (1934) 457] 63 Art. 28 of the Rotal norms stated: “§1. Promotor iustitiae in causis contentiosis

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SN canon 61 – In contentious cases, to defend the public good, other persons, particularly moral persons, can be admitted by the Hierarch, besides the pro- moter of justice and after having heard the latter.64

2.7 General Rule regarding Interventions (SN c. 64) Besides recovering Eastern norms based upon Roman-Byzantine law, SN would improve upon the 1917 CIC not only by adopting new rules, like the Rotal norms, promulgated by the Holy See but, also, by formulating clear norms to simplify tribunal procedure. One such example, SN canon 64, that was unique to the Eastern legislation, gen- erally identifies those cases in which a request or hearing of the parties also means hearing the promoter of justice and the defender of the bond or their request, if they intervened in the trial. SN canon 64 states:

Unless it is otherwise specified: 1° every time that the law prescribes that the judge hear the parties or one of them, the promoter of justice and the defender of the bond are also to be heard if they intervene in the process; 2° every time that the request of a party is required so that the judge can make a decision, the request of the promoter of justice or the defender of the bond who intervene in the process have the same effectiveness.

Regarding SN canon 64, Galtier states: “This canon introduces two clear and simplifying principles.”65 Indeed, throughout the commen- tary, Galtier indicates many Eastern norms where, given the general

bonum publicum tuetur. Itaque, quoad fieri potest, salva rei veritate, defendit e re nata iura matrimonii, piarum fundationum, Ecclesiae. §2. Si causa plura capita complectatur, quorum nonnisi quaedam ad bonum publicum spectant, de iis tantum Promotor iustitiae curabit.” [AAS 26 (1934) 457] 64 Art. 29 §1 of the Rotal norms stated: “In causis contentiosis, ad tuendum bo- num publicum, praeter Promotorem iustitiae, admitti possunt a Ponente, eo- dem Promotore audito, aliae personae praesertim morales.” [AAS 26 (1934) 457] 65 Galtier, Code oriental (nt. 3), 81–82.

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rule in SN canon 64, the request or hearing of the promoter of justice and defender of the bond is not mentioned, whereas the parallel 1917 CIC canons further specify their involvement if they intervened in the trial. The relevant comparison is made regardingSN canon 309 (1917 CIC c. 1786); SN canon 353 (1917 CIC c. 1830 §3); SN canon 365 (1917 CIC c. 1841); SN canon 368 (1917 CIC c. 1844 §1); and SN canon 380 (1917 CIC c. 1856 §2).66 The efficacy SNof canon 64 to simplify and clar- ify procedural norms must have proven evident since it became CCEO canon 1098 and, moreover, is cited as the sole source to CIC canon 1434.

2.8 When the Process/Instance Begins (1917 CIC cc. 1725, 5°/1732; SN cc. 247, 5°/254) Between the beginning of the process and the commencement of the instance, the 1917 CIC made a distinction. On the one hand, among the many effects of the citation, canon 1725, 5° stated: “When citation has been legitimately done or the parties have come freely before the judge, the litigation gets underway; and therefore immediately the principle applies: while litigation is pending nothing is to be innovated.” On the other hand, canon 1732 indicated that “the instance begins with the joinder of issues (contestatio litis).” Galtier notes that Latin commenta- tors strained to reconcile these two statements. He states:

The 1917 Code attributes these effects to the citation and declares that, with it, the “process began to be pending” (c. 1725, 5°). In canon 1837, it recalls that the process begins with the citation. However, in c. 1732, it affirms that the instance begins with the joinder of issues. It was necessary to reconcile these statements. The commentators wonder how the process, begun with the citation, only really began the joinder of issues.67

66 See Galtier, Code oriental (nt. 3), 310; 340; 351 (refers mistakenly to CIC 1801); 354, and 366. 67 Galtier, Code oriental (nt. 3), 256–257.

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Galtier effectively argues that the Eastern draftsmen, aware of this difficulty, resolved it by holding to a single principle: the process as well as the instance begin with the notification of the citation. Indeed, SN canon 247, 5°, like 1917 CIC canon 1725, 5°, states: “When the cita- tion has been legitimately made or the parties have freely appeared, the process begins to be pending; and immediately the principle ap- plies: the process pending, there are to be no innovations.” Then,SN canon 254, the counterpart to 1917 CIC canon 1732, was formulated to state that “the instance begins with the citation” and not with the joinder of the issues, as the prior Latin canon had stated.

2.9 Supplying for the Negligence of the Parties (1917 CIC c. 1619; SN c. 134) To assure a judge’s impartiality between the parties, the general rule in the Latin Church was that the judge did not supply for the negligence of the parties in private cases but that he could and must do so in cases affecting the public good or the salvation of souls. 1917 CIC canon 1619 states:

§1. If a petitioner is able to offer evidence for himself, [but] he does not offer it, or if a respondent does not oppose [the petitioner with] those exceptions for which he is eligible, the judge shall not supply them. §2. But if it concerns the public good or the salvation of souls, he can and must provide them.

However, in defining an ecclesiastical judge’s role, the crucial search for the truth may well require the judge to intervene and ad- duce evidence in either private or public cases in order to avoid a denial of justice. Galtier notes the Eastern judge’s role to supply for the negligence of the parties, both in private and public cases, where the parties’ ignorance or omission to produce evidence could lead to

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an unjust sentence.68 Certainly a norm more consonant with the role of an ecclesiastical tribunal to pursue the truth, SN canon 134 states:

§1. Unless there is a different disposition of the law, if the petitioner does not adduce in his case the proofs that he could have produced, or if the respondent does not oppose the exceptions of which he can dispose, the judge must not supply for it, unless the negligence or bad faith of the parties, being evident, it is necessary to avoid an unjust sentence. §2. But if the public good or the salvation of souls is in play, he can and must supply.

2.10 Cases Excepted from General Trial Rules (1917 CIC c. 1990; SN c. 498) As seen earlier,69 the 1950 Eastern procedural rules also incorpo- rated decisions of the Holy See’s Interpretation Commission regard- ing parallel norms in the 1917 Latin Code. In relation to the special marriage process in cases of evident nullity, 1917 CIC canon 1990 had established a rather administrative procedure. It stated:

When from a certain and authentic document that is susceptible to no con- tradiction or exception there can be proven the existence of an impediment of disparity of cult, orders, solemn vow of chastity, prior bond, consanguinity, affinity, or spiritual relationship, and it is also apparent with equal certitude that no dispensation was granted from the impediment(s), in these cases, omit- ting the heretofore recited formalities, the Ordinary, having cited the parties, can declare the nullity of the marriage, with, however, the intervention of the defender of the bond.

Although the norm excepted these special marriage cases from general trial rules, questions arose regarding the nature of this proce-

68 Galtier, Code oriental (nt. 3), 141–142. Galtier notes the same difference between the codes in SN c. 281 §3 (1917 CIC c. 1759 §3) where the judge can again supply for the negligence of the parties by calling witnesses to avoid a denial of justice in private or public cases. See ibid, 292. 69 See note 50, above. 184 | Eastern Canon Law

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dure and the degree of proof needed. The Interpretation Commission responded on two occasions to define the process as judicial rather than administrative and to require the existence of an impediment as well as the absence of a dispensation be proven with the same certain- ty.70 Noting these difference between the Latin and Eastern norms, Galtier states:

The COP adds to the parallel text of CIC: A. – that the Hierarch declare the nullity with a sentence; B. – that the absence of a dispensation must be established in the same man- ner as the existence of the impediment or by equivalent means; these specific details respond to the decisions of the Interpretation Commission… The 1943 response declares that the decision is of a judicial order, not administrative, and it draws the consequences from that.71

Having incorporated these elements, SN canon 498 consequently prescribes:

When from a certain and authentic document that is susceptible to no con- tradiction or exception there can be proven the existence of an impediment of disparity of cult, orders, vow of chastity by major profession, bond, consan- guinity, affinity, or spiritual relationship, and it is also apparent with equal certitude, by virtue of a certain and authentic document or by another legitimate means, that no dispensation was granted from the impediments, the local Hi- erarch, omitting the previously listed formalities, can, after hearing the parties and with the intervention of the defender of the bond, declare the nullity of the marriage with a sentence. (Emphasis added)

Conclusion The aim of this paper has been to highlight the significant contribu- tion of Francisque Galtier s.j., as a professor and scholar of canon law es-

70 See: AAS 23 (June 16, 1931) 353–354 and AAS (December 6, 1943) 94. 71 Galtier, Code oriental (nt. 3), 487.

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pecially during the time of his mission in Lebanon from 1941 until 1962. Of the two commentaries Galtier produced regarding marriage and procedural law, this study examined the latter and found it outstand- ing in many respects. Long before comparative studies of Eastern and Latin canon law were undertaken or even contemplated, Galtier had conducted a painstaking, comparative analysis of the procedural norms of the Catholic Church. As a true forerunner in the field of comparative canon law studies, his exemplary method and analytical precision can well serve as an inspiration for canon law scholars and students today. This inspiration refers not only to the impetus that one might derive from the dedication that obviously characterized Galtier’s work but, also, the insight that his comparative commentary provided in two re- spects that are examined in the two parts of this study. Just as Galtier maintained that SN had not simply borrowed the procedural canons in 1917 CIC but, rather, had recovered its Roman-Byzantine sources which, in fact, were often common to the Latin norms, the same can be argued when the current procedural rules in CIC and CCEO are compared. In the examples Galtier noted, part I illustrated the ties of the Church’s procedural laws to Roman law, ties that are no less valid today. That is whyCCEO cannot simply be regarded as a copy of CIC but, rather, as a Code in line with the continuous development of the procedural norms of the Catholic Church. Part II outlined many ways in which Galtier noted that SN had de- veloped and improved upon the procedural canons promulgated over thirty years earlier in 1917 CIC. If such changes were effected during the elaboration of the 1950 Eastern legislation, then it is also most prob- able, at least respecting procedural norms, that CCEO may well have developed or improved upon the procedural norms in CIC. Given these questions for future canonical research, Father Galtier will be pleased that his tireless devotion to canon law will not only have formed his many students but, also, inspired future generations as well.

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Appendix I

Canons of COP whose Wording Differs from that of (1917) CIC

COP CIC COP CIC COP CIC COP CIC 1 1552 129 1614 283 1761 426 1899 3 1554 134 1619 305 1782 429 1902 4 1555 136 1621 309 1786 430 1903 5 199 140 1625 312 1789 431 1904 7 201 151 1636 316 1793 432 1905 9 205 155 1640 318 1795 435 1908 16 1557 156 1641 319 1796 436 1909 21 1558 157 1642 323 1800 443 1916 23 1560 159 1644 329 1806 447 1919 24 1561 163 1648 347 1824 448 1920 26 1563 166 1651 350 1827 451 1923 29 1565 167 1652 353 1830 470 1962 35 1566 168 1653 354 --- 471 1963 37 1572 173 1658 365 1841 478 1971 40 1573 174 1659 368 1844 479 1972 41 1574 183 1666 373 1849 482 1975 44 388 196 1676 380 1856 486 1979 46 1576 200 1680 381 1857 487 1980 48 1577 204 1684 387 1863 489 1982 49 1584 208 1688 388 1864 491 1984 51 1578 210 1690 390 1866 496 1988 56 1585 211 1691 391 1867 497 1989 57 1586 212 1692 404 1880 498 1990 62 1586 222 1702 412 1886 499 1991 76 1596 249 1727 413 1887 501 1993 79 1599 251 1729 416 1890 508 1935 93 1607 254 1732 417 1891 511 1938 98 1929 258 1736 420 1894 522 1948 103 1931 259 1737 421 1895 529 1959 125 1610 264 1742 422 --- 575 1923§3 127 1612 266 1744 423 1896 128 1613 281 1759 424 1897

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Canons proper to COP without an Equivalent in (1917) CIC

CC CC CC CC CC 17 90 122 465 553 18 91 177 466 554 19 100 178 467 555 20 102 192 494 556 36 103 194 531 557 38 104 226 532 558 39 105 227 533 559 47 106 301 534 560 50 107 406 535 561 58 108 408 536 562 59 109 444 540 563 60 110 541 564 61 111 542 565 64 112 543 566 71 113 544 567 72 114 545 568 73 115 546 569 74 116 5446 570 85 117 548 571 86 118 549 572 87 119 550 573 88 120 551 574 89 121 552 576

453 454 455 456 457 458 459 460 461 462 463 464

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Appendix II

1. SN Norms that are Cited among the Sources to 1983 CIC Canons

SN ‘83 CIC SN ‘83 CIC SN ‘83 CIC 64 1434 434 §1 1647 §1 468 1671 94, 98 1713 434 §2 1647 §2 469 1672 96, 107 1714 435–439 1649 470, 471 1698 §1 96, 99 1715 441–444 1649 470, 472 1673 120 1716 445 §1 1650 §1 471, 492 1681 134 §1 1452 §2 445 §2,1° 1650 §2 473 1676 177 1484 §2 445 §2,2° 1650 §3 474 1700 192 1499 446 1651 475 1701 §1 207 1646 §3 447 1652 476, 477 1678 §1 226 1501 448 §1 1653 §1 478 1674 404, 9° 1636 448 §2 1653 §2 479 1675 409 1633 448 §3 1653 §3 480 1697 410 §1 1634 §1 449 §1 1654 §1 482 1679 410 §2 1634 §2 449 §2 1654 §2 483–489 1680 412 1635 450 §1 1655 §1 492 1703 413 §1 1637 §1 450 §2 1655 §2 492 1705 §1 413 §3 1637 §4 450 §3 1655 §2 493 1682 §1 414 1637 §2 453–467 1656 494 1683 415 §2 1638 453 1657 495 1684 §1 416 1634 §3 454 1663 §2 496 1685 417 §1 1639 §1 456 1658 498 1686 417 §1 1640 457 1659 499 1687 429 1641 458 1660 500 1688 430 1643 459 1661 §1 501 §1 1709 §1 430 1644 §1 460 1661 §2 501 §2 1710 431 §1 1642 §1 461 1663 §1 502 1708 431 §2 1642 §2 462 1667 503 1710 432 §1 1645 §1 464 1665 504 1711 432 §2 1645 §2 464 1666 505 1709 §2 433 1646 §1 466 1668 §3 506 1712 433 1646 §2 467 1668 §1 536 1723 §1 467 1668 §2 553, 570 1725

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2. SN Norms Cited Alone as Sources to 1983 CIC Canons

SN 1983 CIC 64 1434 120 1716 177 1484 §2 192 1499 226 1501 453–467 1656–1668 536 1723 §1 553, 570 1725

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ECL_2013_158×222.indd 190 7/27/2013 10:34:46 AM Diritti e doveri e dei diaconi nelle legislazioni particolari delle Chiese sui iuris

Lorenzo Lorusso o.p.

Sommario: Introduzione; 1. Diritti particolari delle Chiese sui iuris; 2. Le Chiese patriarcali ed arcivescovili maggiori; 3. Le eparchie e i Vescovi, 4. I chierici; 5. Il magistero ecclesiastico; 6. Il culto divino e specialmente i sacramenti; 7. La CEI e il diaconato permanente; Conclusione.

Introduzione Questa ricerca è limitata al diritto particolare della Chiesa sui iuris, perciò non tratterò del diritto più particolare delle eparchie. Né tanto meno considererò i diritti e i doveri dei chierici in genere, così come sono contenuti nei cann. 367–393 del CCEO. Concluderò col diritto particolare della Chiesa in Italia, Conferenza Episcopale Italiana, che potrà essere di aiuto per quelle Chiese sui iuris che non hanno una normativa sui diaconi.

1. Diritti particolari delle Chiese sui iuris Le Chiese orientali hanno capacità legislativa propria come af- ferma il Concilio Vaticano II: “Le Chiese d’Oriente come quelle di Occidente, hanno il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari, poiché si raccomandano per veneranda antichi- tà, si accordano meglio con i costumi dei loro fedeli e sono più adatte a provvedere al bene delle loro anime” (OE 5). Tuttavia, ciò implica necessariamente che tale disciplina sia auto-conferita? Brogi ritiene che l’autonomia delle Chiese sui iuris implica sempre la capacità di au-

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toregolarsi1. Per Gefaell, invece, non implica ciò, perché essa potrebbe procedere dall’autorità superiore alla Chiesa sui iuris o richiedere la sua approvazione2. Inoltre, è da tenere presente il principio di sussidiarietà nell’attività legislativa, principio incluso tra i principi direttivi della codificazio- ne3. Nelle Chiese orientali, grazie alla loro struttura tradizionale in seno all’unica Chiesa di Cristo, il principio di sussidiarietà era in una certa misura osservato, sia pure senza un richiamo esplicito, attraverso i secoli. Il nuovo Codice si limita alla codificazione della disciplina comune a tutte le Chiese orientali, lasciando ai loro vari organismi la facoltà di regolare con un diritto particolare le altre materie, non riservate alla Sede Apostolica. Questo principio ha determinato una delle principali caratteristiche del Codice, quella cioè di lasciare largo spazio allo ius particulare delle singole Chiese sui iuris, sia con espliciti rimandi a tale diritto, sia, e ciò va sottolineato in modo particolare perché risultante solo in un meticoloso confronto con lo ius preceden- te, con numerose omissioni di norme finora vigenti o contenute in quelle parti del Codice orientale che all’inizio dei lavori della Com- missione erano già ultimate, ma non ancora promulgate e la revisio- ne delle quali, a pari di quelle già pubblicate, rientrava nel compito fissato alla Commissione dal Santo Padre nella sua stessa istituzione. Le Chiese patriarcali e arcivescovili maggiori hanno capacità legi- slativa generale, non tassativa, perché il CCEO non pone alcun limite

1 Cfr. Marco Brogi, “Le Chiese sui iuris nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, in Kuryakose Bharanikulangara (a cura di), Il Diritto canoni- co orientale nell’ordinamento ecclesiale (Studi Giuridici 34), Città del Vaticano 1995, 65. 2 Cfr. Pablo Gefaell, “La capacità legislativa delle Chiese orientali in attuazione del CCEO”, in Pontificio Consiglio per i Testi legislativi (a cura di),Il Codice delle Chiese Orientali, la storia, le legislazioni particolari, le prospettive ecumeni- che, Città del Vaticano 2011, 139–140. 3 Cfr. Nuntia 3 (1976), 6, n. 2.

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alle materie su cui il Sinodo dei Vescovi possa stabilire leggi, purché sia rispettata la gerarchia delle norme4. In queste Chiese non si ha bi- sogno di approvazione delle leggi da parte della Sede Apostolica, ma occorre soltanto informare il Romano Pontefice inviandogli gli atti relativi, salvo il diritto comune non disponga diversamente5. Le Chiese metropolitane sui iuris hanno capacità legislativa gene- rale, non tassativa, perché il CCEO non pone alcun limite alle mate- rie su cui il Consiglio dei Gerarchi possa stabilire leggi, però non pos- sono essere validamente promulgate prima di un’informazione scritta dalla Sede Apostolica che attesti la ricevuta degli atti del Consiglio dei Gerarchi, salvo il diritto comune non disponga diversamente6. Le altre Chiese sui iuris non hanno capacità legislativa generale, perché secondo il can. 176 CCEO: “Se il diritto comune rimanda qualcosa al diritto particolare o alla superiore autorità amministra- tiva della Chiesa sui iuris, l’autorità competente in queste Chiese è il Gerarca che vi presiede a norma del diritto, col consenso della Sede Apostolica, a meno che non sia espressamente stabilito diversamente”. Da qui l’urgenza di procedere alla compilazione o aggiornamento del proprio diritto particolare, come affermava il Supremo Legisla- tore: “È nostra intenzione che quanti hanno potestà legislativa nelle singole Chiese sui iuris vi provvedano al più presto con norme par-

4 CCEO, can. 110, § 1: Compete esclusivamente al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale emanare leggi per l’intera Chiesa patriarcale, che hanno vigore a norma del can. 150, §§ 2 e 3. 5 CCEO, can. 111, § 3: Gli atti relativi alle leggi e alle decisioni siano inviati al più presto al Romano Pontefice; determinati atti o anche tutti siano comunicati agli altri Patriarchi delle Chiese orientali a giudizio dello stesso Sinodo. 6 CCEO, can. 167, § 2: Il Metropolita informi al più presto la Sede Apostolica sulle leggi e sulle norme emanate dal Consiglio dei Gerarchi; le leggi e le norme non possono essere promulgate validamente prima che il Metropolita abbia avuto un’informazione scritta dalla Sede Apostolica che attesti la ricevuta degli atti del Consiglio; il Metropolita informi la Sede Apostolica anche su tutte le altre cose fatte nel Consiglio dei Gerarchi.

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ticolari, tenendo presente le tradizioni del proprio rito, come pure le disposizioni del concilio ecumenico”7. A che punto siamo con la promulgazione del diritto particolare nelle diverse Chiese sui iuris? Prima di tutto cosa si intende per diritto particolare di una Chie- sa sui iuris? Nella legislazione precedente, contenuta nel can. 317 del Postquam Apostolicis Litteris, si affermava: “Nomine ius particularis, nisi aliud ex legis textu contextuque aut ex natura rei con- stet, veniunt etiam statuta peculiaria seu peculiares constitutiones le- gitime approbatae quibus persona moralis regitur”8. Nella legislazione vigente: “Col nome invece di diritto particolare s’intendono tutte le leggi, le legittime consuetudini, gli statuti e le altre norme del diritto che non sono comuni né alla Chiesa universale né a tutte le Chiese orientali” (can. 1493, § 2 CCEO). “Altre differenziazioni, proprie della dottrina canonistica occidentale il gruppo di studio non le ritiene ne- cessarie né utili, anzi piuttosto controproducenti, per la comprensione delle norme del CICO da parte degli orientali. D’altra parte nien- te impedisce le Chiese che lo vogliono, di usare nelle traduzioni del CICO, salvo il senso giuridico esatto dei singoli canoni, le espressioni che più convengono al loro patrimonio disciplinare”9. Il diritto particolare della Chiesa Melkita è stato promulgato il 5 maggio 1995, per tre anni ad experimentum, in lingua araba sulla rivi- sta Al – Maçarrat, n. 816, année LXXXI (mai–juin 1995), pp. 321–384. Il periodo ad experimentum è stato successivamente prolungato. Il te- sto è stato rivisto nel 2003 ed esteso nel 2006 all’eparchia di Newton (U.S.A.). Presso la Congregazione per le Chiese Orientali si conservano

7 Ioannes Paulus II, cost. ap. Sacri canones, § 13, in Enchiridion Vaticanum 12/518. 8 Pius XII, m.p. Postquam Apostolicis Litteris, 9 febbraio 1952: AAS 44 (1952) 65–150. 9 Nuntia 18 (1984) 77.

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ambedue i testi10. Nel 2009 vi è stato un supplemento legislativo che contiene: lo Statuto del Sinodo dei Vescovi; lo Statuto del Sinodo permanente; lo Statuto del Tribunale patriarcale; la Rinuncia del Ve- scovo eparchiale11. Il diritto particolare della Chiesa Maronita è stato promulgato il 4 giugno 1996, sulla rivista Porte-parole du Patriarcat Maronite, n. 15, numéro spécial (1996), con 105 articoli12. Presso la Congregazione per le Chiese Orientali si conserva un testo preparato dalla Commissione Episcopale Canonica risalente a maggio 199313. Il diritto particolare della Chiesa Sira è stato promulgato l’8 mag- gio 1999 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 2000 per tre anni14. Presso la Congregazione per le Chiese Orientali è presente un testo del 199515. Sulla rivista del Patriarcato, Al – Majalleh Al – Batriarkieh è stato pubblicato il testo in arabo che riporta la data del 1999 (n. 3, settem- bre). Il testo è stato tradotto in italiano da un mio studente. Il diritto particolare della Chiesa Copta è stato promulgato nell’anno 2003; a questa promulgazione segue una seconda nel 2007 con alcune modifiche16. In aggiunta al diritto particolare della Chie- sa Copta, troviamo le norme relative a: il Sinodo dei Vescovi; l’As- semblea patriarcale; il Consiglio pastorale eparchiale; il Consiglio

10 Per gentile concessione della Congregazione per le Chiese Orientali, protocollo 25 marzo 2011. 11 Cfr. Charles Abou Saada, “Il caso della Chiesa Melkita Cattolica”, in Il Codice (nt. 2), 247. 12 Così Mina in ibidem; cfr. Jobe Abbass, “Updating the Particular Law of the Maronite Church”, in Il Codice (nt. 2), 176. 13 Per gentile concessione della Congregazione per le Chiese Orientali, protocollo 25 ottobre 1995. 14 Così Mina in ibidem. 15 Per gentile concessione della Congregazione per le Chiese Orientali, protocollo 9 febbraio 1996. 16 Cfr. Antonios Aziz Mina, “Sviluppo del diritto particolare della Chiesa Copta Cattolica”, in Il Codice (nt. 2), 161.

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pastorale parrocchiale; il Seminario; il Sostentamento dei sacerdoti; la Cassa di previdenza sociale dei sacerdoti; i Tribunali; l’Archivio; l’Amministrazione dei beni temporali. Presso la Congregazione per le Chiese Orientali non ho trovato né il primo né il secondo dei testi promulgati. Il testo del 2003 è stato tradotto in italiano da Yoannis Lahzi Gaid e da me rivisto nella forma italiana nel 2006. Nella tesi di dottorato di Gaid non vi è il testo, ma vi sono ampi riferimenti ad esso17. La Chiesa Armena ha preparato un diritto particolare, non ancora pubblicato, composto da 153 canoni chiamati articoli18. Il diritto particolare della Chiesa Malabarese è stato promulgato nel 2003 e pubblicato sulla rivista Synodal News19. Esso è composto da due sezioni: le Norme complementari al CCEO; gli Statuti dei vari organismi della Chiesa Malabarese20. Nel 2009 sono stati revisionati alcuni articoli. Il diritto particolare della Chiesa Ucraina è stato promulgato nel 2007 ed è entrato in vigore il 14 gennaio 200821. Purtroppo non mi è stato possibile reperire il testo. Il diritto particolare della Chiesa Malankarese è stato promulgato il 10 marzo 2012 ed è entrato in vigore il 27 maggio 2012. Dopo il de- creto di promulgazione, la prefazione e le abbreviazioni, abbiamo 611 canoni; inoltre, esso è corredato dagli Statuti del Sinodo dei Vescovi (90 articoli), del Sinodo permanente (25 articoli), dell’Assemblea della

17 Cfr. Yoannis Lahzi Gaid, Gli Atti del Sinodo Copto Alessandrino del 1898 da ieri ad oggi, Diss. PIO, Roma 2007, 238–260. 18 Cfr. Krikor Chahinian, “Il diritto particolare della Chiesa armena cattolica”, in Il Codice (nt. 2), 222. 19 Synodal News vol. 11, n. 1 (May 2003). 20 Cfr. Sunny Thomas Kokkaravalayil, “Syro-Malabar Particular Law: an Adequate Response to CCEO’s Call?”, in Il Codice (nt. 2), 229. 21 Cfr. Teodor Taras Martynyuk, “Problemi e prospettive della codificazione del diritto particolare della Chiesa Greco-Cattolica Ucraina”, in Il Codice (nt. 2), 252.

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Chiesa Malankarese (37 articoli), del Tribunale Superiore (35 articoli), del Tribunale Arciepiscopale Maggiore (48 articoli)22. La Chiesa Romena ha legiferato su alcune materie ed ha promulga- to diversi statuti: il Tribunale ordinario, i Seminari maggiori, il Con- siglio presbiterale, il Collegio dei consultori eparchiali, il Sinodo dei Vescovi, la Curia Arcivescovile Maggiore, il Calendario, il Digiuno e l’Astinenza, i Paramenti sacri23. Il diritto particolare della Chiesa Rutena è stato promulgato e pub- blicato nel 1999 e mi è stato inviato dal Metropolita. L’Esarca di Grecia ha istituito un’apposita commissione codifica- trice ed ha emanato un’istruzione pastorale circa l’amministrazione dell’iniziazione cristiana ed alcune questioni matrimoniali24. Nella Chiesa Bulgara non si è ancora potuto dare avvio all’elabora- zione di un proprio diritto particolare sui iuris. Si è invece iniziato un lavoro codificatorio nel seno della Conferenza Episcopale Interrituale Bulgara25. Nella Chiesa Slovacca abbiamo solo lo statuto del Consiglio dei Gerarchi26. Nella Chiesa Italo-Albanese l’8 settembre 2010 sono stati promul- gati gli Orientamenti Pastorali e le Norme Canoniche del II Sinodo Intereparchiale di Grottaferrata27.

22 The Syro-Malankara Catholic Major Archiepiscopal Church, The Code of Particular Canons of the Syro-Malankara Catholic Church, Trivandrum 2012. 23 Cfr. Maria Ionella Cristescu, “Chiesa Arcivescovile Maggiore sui iuris greco- cattolica Romena. Ius particulare Ecclesiae sui iuris”, , in Il Codice (nt. 2), 293–294. 24 Cfr. Péter Szabó, “L’attività legislativa sui iuris delle Chiese minori di tradizio- ne bizantina”, in Il Codice (nt. 2), 323. 25 Idem. 26 Ibidem, 324. 27 Cfr. II Sinodo Intereparchiale. Eparchie di Lungro e di Piana degli Albanesi e Mo- nastero Esarchico di S. M. di Grottaferrata. Comunione e annuncio dell’evangelo. Orientamenti Pastorali e Norme Canoniche, Castrovillari 2010.

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2. Le Chiese patriarcali ed arcivescovili maggiori Il CCEO stabilisce che per l’elezione del Patriarca, gli scrutatori e l’attuario, a norma del diritto particolare, possono essere assunti anche tra i presbiteri e i diaconi28. Il diritto particolare potrebbe dunque stabilire come scrutatori o attuari del Sinodo elettivo uno o più diaconi; oppure potrebbe stabi- lire che ciò spetta a colui che presiede il Sinodo. Nella Chiesa Copta è possibile scegliere gli scrutatori e l’attuario solo tra i presbiteri (art. 3), mentre nella Chiesa Sira solo tra i Vescovi (art. 6); nella Chiesa Melkita solo tra i Vescovi e nella Chiesa Maroni- ta, alla vigilia della elezione del Patriarca, i Vescovi presenti eleggono un presbitero come segretario e due Vescovi come scrutatori (art. 4). Nella Chiesa Ucraina il compito di attuario spetta al Segretario del Sinodo; gli scrutatori, invece, sono i Vescovi più giovani per ordina- zione episcopale (can. 5). Il diritto particolare della Chiesa Malabarese parla di chierici in genere. Il CCEO stabilisce che il Patriarca può affidare determinati affari che riguardano l’intera Chiesa patriarcale a qualunque chierico, ma il diritto particolare potrebbe richiedere il consenso del suo Gerarca29. Il diritto particolare potrebbe dunque stabilire la richiesta del con- senso del proprio Vescovo eparchiale o del Superiore maggiore per affidare un determinato affare a un diacono da parte del Patriarca. È quanto avviene nella Chiesa Copta, il cui diritto particolare aggiunge

28 CCEO, can. 71, § 1: Gli scrutatori e l’attuario possono essere assunti a norma del diritto particolare anche tra i presbiteri e i diaconi. 29 CCEO, can. 89, § 2: Il Patriarca può affidare il compito di trattare gli affa- ri che riguardano l’intera Chiesa patriarcale a qualunque chierico, dopo aver consultato il suo Vescovo eparchiale o, se si tratta di un membro di un istituto religioso o di una società di vita comune a guisa dei religiosi, il suo Superiore maggiore, a meno che il diritto particolare della Chiesa patriarcale non richie- da il loro consenso; durante questo incarico può anche sottoporre immediata- mente a sé questo chierico.

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che durante questo incarico il Patriarca può anche sottoporre imme- diatamente a sé questo chierico (art. 8). La stessa cosa avviene nella Chiesa Melkita. Nella Chiesa Malankarese si richiede il parere del Vescovo eparchiale e il consenso del Superiore maggiore (can. 40, 6°). Per il CCEO, l’economo della Chiesa patriarcale può essere anche un diacono30 e deve essere nominato a tempo determinato dal diritto particolare31. Qui è da tenere presente anche il can. 89, § 2 CCEO. Anche il cancelliere patriarcale e l’archivista può essere un diaco- no32, sempre tenendo presente il can. 89, § 2 CCEO. I diritti particolari esaminati delle diverse Chiese sui iuris patriar- cali ed arcivescovili maggiori, pur facendo riferimento all’economo patriarcale, al cancelliere patriarcale e all’archivista, non dicono nulla sullo status canonico della persona. Per la Chiesa Malankarese, circa il cancelliere arcivescovile maggiore, si dice che può essere presbitero o diacono; esso è ex officio il segretario del Sinodo dei Vescovi. Stranamente, tra coloro che partecipano all’Assemblea patriarcale non vi sono i diaconi (cfr. can. 143 CCEO) e nessun diritto particolare delle Chiese patriarcali e arcivescovili maggiori ne fa menzione.

30 CCEO, can. 122, § 1: Per l’amministrazione dei beni della Chiesa patriarcale, il Patriarca col consenso del Sinodo permanente nomini l’economo patriarcale, distinto dall’economo dell’eparchia del Patriarca, che sia un fedele cristiano esperto in economia e che si distingua per onestà, escludendo però, per la va- lidità, chiunque è congiunto col Patriarca per consanguineità o affinità fino al quarto grado compreso. 31 CCEO, can. 122, § 2: L’economo patriarcale è nominato per un tempo deter- minato dal diritto particolare; durante l’incarico non può essere rimosso dal Patriarca se non col consenso del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale oppure, se vi è pericolo nell’attesa, del Sinodo permanente. 32 CCEO, can. 123, § 1: Nella curia patriarcale venga nominato dal Patriarca un presbitero o un diacono al di sopra di ogni sospetto che presieda come cancel- liere patriarcale alla cancelleria patriarcale e all’archivio della curia patriarcale, aiutato se è il caso, da un vice-gerente nominato dal Patriarca.

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3. Le eparchie e i Vescovi Per l’Assemblea eparchiale, il CCEO prevede la partecipazione di alcuni diaconi eletti a norma del diritto particolare33. Nella Chiesa Copta essi sono scelti dal Vescovo eparchiale (art. 24, 2°); stessa cosa nella Chiesa Sira (art. 22). Nella Chiesa Melkita i diaconi sono eletti secondo le norme stabilite dal Vescovo eparchiale. Nella Chiesa Maronita vi sarà un solo diacono permanente, nominato dal Vescovo eparchiale, quando nell’eparchia ve sono più di tre (art. 17, § 3). Nella Chiesa Malankarese essi sono scelti dal Vescovo epar- chiale. Nella Chiesa Rutena essi non devono superare di un terzo il numero dei presbiteri e sono eletti dagli stessi diaconi dell’eparchia. Nella Chiesa Italo-albanese tutti i diaconi dell’eparchia partecipano all’Assemblea eparchiale (art. 465). Anche per la curia eparchiale è possibile avere come cancelliere o notaio un diacono34. Questo è detto espressamente solo nel diritto particolare della Chiesa Melkita e in quello della Chiesa Rutena.

4. I chierici Per i diaconi permanenti il CCEO stabilisce che la formazione deve durare almeno un triennio35. Per la perdita dello stato clerica- le, sappiamo che nelle Chiese patriarcali e nelle Chiese arcivescovili

33 CCEO, can. 238, § 1, 8°: All’assemblea eparchiale devono essere convocati e devono recarsi: alcuni diaconi eletti a norma del diritto particolare. 34 CCEO, can. 252, § 1: Nella curia eparchiale sia costituito il cancelliere, che sia presbitero o diacono, il cui principale dovere, a meno che non sia stabilito diversamente dal diritto particolare, consiste nel curare che siano redatti e sbri- gati gli atti di curia e che siano conservati nell’archivio della curia eparchiale. 35 CCEO, can. 354: La formazione propria da impartire ai diaconi non destinati al sacerdozio sia adattata, ispirandosi alle norme sopra riferite, in modo tale che il curricolo degli studi duri almeno per un triennio, tenendo conto delle tradi- zioni della propria Chiesa sui iuris sulla diaconia della liturgia, della parola e della carità.

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maggiori è concessa anche dal Patriarca e dall’Arcivescovo maggiore per coloro che non sono tenuti al celibato oppure, se vi sono tenuti, che non chiedono la dispensa da questo obbligo36. Il diritto particolare della Chiesa Malabarese ha una parte dedica- ta al Diaconato Permanente con trentadue articoli, come pure quello della Chiesa Malankarese con ventuno canoni.

5. Il magistero ecclesiastico Il CCEO dà facoltà ai diaconi di predicare là dove sono legittima- mente inviati o invitati, ma il diritto particolare può stabilire diver- samente37. Nella Chiesa Sira i diaconi hanno la facoltà di predicare, a discre- zione del Vescovo eparchiale (art. 61). Nella Chiesa Melkita i diaconi hanno la stessa facoltà dei presbiteri. Nella Chiesa Malankarese essi possono predicare se sono invitati o inviati, a meno che in un caso speciale il Vescovo eparchiale lo proibisce (can. 446). Nella Chiesa Italo-albanese i diaconi possono predicare se sono inviati o invitati (art. 505). Il CCEO riserva al sacerdote l’omelia, salvo il diritto particolare che potrebbe estenderla anche al diacono38. Nella Chiesa Copta si stabilisce che spetta al Vescovo eparchiale permettere al diacono di tenere l’omelia (art. 66); nella Chiesa Sira, il

36 CCEO, can. 397: Il Patriarca, col consenso del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale o, se vi è pericolo nell’attesa, del Sinodo permanente, può concedere la perdita dello stato clericale ai chierici che hanno domicilio o quasi-domicilio entro i confini del territorio della propria Chiesa patriarcale, i quali non sono obbligati al celibato oppure, se vi sono tenuti, che non chiedono la dispensa da questo obbligo; in tutti gli altri casi la cosa venga deferita alla Sede Apostolica. 37 CCEO, can. 610, § 3: Hanno la stessa facoltà di predicare anche i diaconi, a meno che il diritto particolare non stabilisca diversamente. 38 CCEO, can. 614, § 4: L’omelia è riservata al sacerdote, oppure, a norma del diritto particolare, anche al diacono.

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diacono tiene l’omelia in caso di necessità con il permesso del Vescovo eparchiale (art. 62); nella Chiesa Melkita quando è necessario, col per- messo del presbitero o del Vescovo eparchiale; nella Chiesa Maronita, il permesso è dato dal parroco (art. 62); nella Chiesa Ucraina occorre il consenso del Vescovo (can. 76). Il diritto particolare della Chiesa Malabarese dice che il diacono può tenere l’omelia; nella Chiesa Italo-albanese occorre la licenza del Gerarca del luogo (art. 506). Nella Chiesa Rutena invece è stabilito espressamente e direttamente dal diritto particolare.

6. Il culto divino e specialmente i sacramenti Conosciamo benissimo che il CCEO annovera il diacono tra i mi- nistri straordinari del battesimo39, mentre prevede che possa essere ministro della distribuzione della Divina Eucarestia, se lo dispone il diritto particolare della Chiesa sui iuris40. Nella Chiesa Copta l’Eucaristia è distribuita anche dal diacono dopo aver ottenuto l’assenso del presbitero (art. 79). Nella Chiesa Sira lo fa anche il diacono in caso di necessità e con il consenso del Vesco- vo eparchiale (art. 70). Nella Chiesa Melkita avviene col permesso del presbitero. Nella Chiesa Maronita il diacono distribuisce l’Eucaristia quando è autorizzato dal Vescovo eparchiale (art. 73). Nella Chiesa Ucraina distribuisce anche il diacono (can. 91), come pure nella Chie- sa Malabarese. Nella Chiesa Malankarese è data facoltà al diacono,

39 CCEO, can. 677, § 2: In caso però di necessità può lecitamente amministrare il battesimo il diacono o, quando questi è assente o impedito, un altro chierico, o un membro di un istituto di vita consacrata o qualsiasi altro fedele cristiano; il padre o la madre, invece, se non è disponibile un altro che conosca il modo di battezzare. 40 CCEO, can. 709, § 1: Distribuisce la Divina Eucaristia il sacerdote oppure, se così dispone il diritto particolare della propria Chiesa sui iuris, anche il diaco- no.

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tuttavia col permesso del celebrante (can. 489). Nella Chiesa Rutena lo può fare in caso di necessità. Nel diritto particolare della Chiesa Italo-albanese è prevista la di- stribuzione dell’Eucaristia da parte del diacono, previa licenza del Ve- scovo eparchiale, per i casi in cui si prevede una grande affluenza di fedeli o per quelle comunità di fedeli in cui non è possibile assicurare la celebrazione della Divina Liturgia per carenza di presbiteri; inoltre, dove la necessità lo richiede, il Vescovo eparchiale può autorizzare i diaconi a portare i Santi Doni eucaristici agli infermi (art. 520, §§ 1–2). Il diritto particolare della Chiesa Italo-albanese legifera anche sull’assistenza del diacono al matrimonio: “Il diacono latino, secon- do il can. 1108, § 1 del CIC, può essere delegato ad assistere ad un Matrimonio, mentre un diacono orientale non può essere delegato a benedire un Matrimonio secondo il can. 828 CCEO. Nel caso di un Matrimonio tra un/a fedele orientale con un/a fedele latina, se viene celebrato nella Chiesa latina, il parroco latino non potrà delegare un diacono latino né orientale a celebrare il Sacramento” (art. 564). Il CCEO stabilisce che l’età prescritta per il diaconato è di ventitre anni compiuti41. Il CCEO stabilisce inoltre che il candidato al diaco- nato sarà ordinato solo dopo aver superato il quarto anno del curricolo filosofico-teologico, salvo disposizioni diverse da parte del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale o del Consiglio dei Gerarchi42; invece il candidato al diaconato permanente dopo la formazione triennale43.

41 CCEO, can. 759, § 1: L’età prescritta per il diaconato è di ventitre anni compiu- ti, per il presbiterato è di ventiquattro anni compiuti, fermo restando il diritto particolare della propria Chiesa sui iuris che esiga un’età più avanzata. 42 CCEO, can. 760, § 1: Ordinare un diacono è lecito solo dopo che sia stato felicemente superato il quarto anno del curricolo di studi filosofico-teologici, a meno che il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale o il Consiglio dei Gerarchi abbia stabilito diversamente. 43 CCEO, can. 760, § 2: Se invece si tratta di un candidato non destinato al sa-

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Il diritto particolare della Chiesa Rutena stabilisce che si potrà essere ordinati diaconi dopo il terzo anno del curricolo filosofico- teologico. Nella Chiesa Copta perché uno possa essere ordinato diacono le- citamente si richiede che abbia ricevuto gli ordini minori che sono il lettorato e l’accolitato (art. 82). Gli interstiri richiesti per ricevere gli ordini sacri secondo il diritto particolare della Chiesa Copta sono: un mese fra il lettorato e il suddiaconato (accolitato); un mese fra il suddiaconato e il diaconato; tre mesi fra il diaconato e il sacerdozio. È riservata al Vescovo eparchiale la dispensa da questi interstizi, solo per motivo grave (art. 83). Per ammettere lecitamente agli ordini sacri una persona sposata, il Vescovo eparchiale terrà presenti le seguen- ti disposizioni: il candidato si distingua per prudenza e fede; abbia compiuto gli studi previsti; abbia almeno quarant’anni di età; abbia almeno cinque anni di matrimonio; abbia il consenso scritto della moglie (art. 84). Nella Chiesa Maronita, si è ordinati diaconi al termine dell’ulti- mo anno di teologia, dopo sei mesi dagli ordini minori, mentre tra il diaconato e il presbiterato vi è un intervallo di un anno (artt. 76–77). L’età canonica per il diaconato è di ventitre anni compiuti (art. 79). Il diacono rimasto vedovo non potrà accedere a nuove nozze, altrimenti perderà lo stato clericale. Colui che ha ricevuto gli ordini minori potrà accedere alle nozze, ma sarà ordinato diacono dopo almeno tre anni di matrimonio e deve avere almeno ventotto anni di età compiuti (art. 78). Nella Chiesa Melkita l’età prescritta per il diaconato è di ventitre anni compiuti. Nella Chiesa Sira si ha la stessa età, mentre il periodo tra il diaconato e il presbiterato non deve essere inferiore ai sei mesi;

cerdozio, è lecito ordinarlo diacono soltanto dopo che sia stato felicemente su- perato il terzo anno di studi di cui al can. 354; se però in seguito eventualmente fosse ammesso al presbiterato, egli deve prima completare opportunamente gli studi teologici.

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inoltre, si stabilisce che il coniugato sarà ammesso al diaconato, pur- ché non sia sposato con una vedova o che non si sia risposato dopo la vedovanza e non prima di cinque anni di matrimonio. Nella Chiesa Ucraina, si può essere istituiti lettore e suddiacono nello stesso giorno; tra l’ordinazione suddiaconale e quella diaconale deve esservi un intervallo di un giorno; tra l’ordinazione diaconale e quella sacerdotale di un anno, a meno che il Vescovo eparchiale nel caso singolo non stabilisca diversamente (can. 98). I candidati sposati possono essere ordinati dopo aver trascorso un anno di vita matri- moniale esemplare, a meno che nel caso singolo il Vescovo eparchiale decida diversamente (can. 99). Nella Chiesa Malabarese, tra il diaconato e il presbiterato vi è un lasso di tempo di almeno sei mesi. Tra i requisiti richiesti per il dia- conato permanente, vi è l’età di trent’anni e il celibato per chi non è sposato o vedovo, mentre per lo sposato si richiede anche il consenso della moglie. Nella Chiesa Malankarese, tra il diaconato e il presbiterato vi è un interstizio di un anno.

7. La CEI e il diaconato permanente Il Consiglio di Presidenza della CEI affronta il tema del diaconato permanente nel comunicato finale del 23 febbraio 1967: “È stato pure presentato al Consiglio il lavoro delle commissioni e dei comitati epi- scopali per la regolare approvazione e i mandati esecutivi. Particolare rilievo hanno assunto: […] La proposta di uno studio approfondi- to sulla restaurazione del diaconato come servizio permanente della Chiesa anche in Italia”44. La Conferenza di tutti i Vescovi riprende l’argomento nell’aprile 1969, dopo che la Segreteria della CEI aveva inviato a tutti i Vescovi

44 ECEI 1/874.

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uno studio sul diaconato, in vista della discussione da farsi in aula. La stessa assemblea decise che si inoltrasse alla Santa Sede la richiesta per il ripristino del diaconato permanente in Italia. Il tema viene ri- preso nell’assemblea di novembre 1970 che approva sia il ripristino del diaconato permanente “per giovani celibi e per uomini di età matura anche coniugati”45, sia un documento sugli aspetti teologici e pastorali del diaconato. Trasmesso alla Congregazione per la Disciplina dei Sa- cramenti, il documento rielaborato in base alle osservazioni del dica- stero, venne pubblicato l’8 dicembre 1971 con il titolo La restaurazione del diaconato permanente in Italia46. Il 1° giugno 1993 verrà pubblicato il nuovo fondamentale documento I diaconi permanenti della Chiesa in Italia. Orientamenti e norme47. La CEI ha continuato ad interessarsi del diaconato permanente in diversi altri documenti: I ministeri nella Chiesa (15 settembre 1973)48, Evangelizzazione e ministeri (15 agosto 1977)49, La formazione dei pre- sbiteri nella Chiesa italiana (15 maggio 1980)50, Vocazioni nella Chiesa italiana (26 maggio 1985)51. Dopo l’entrata in vigore del CIC 1983, abbiamo nuovi interventi della CEI sul diaconato permanente. Abbiamo una delibera entrata in vigore il 23 gennaio 1984: “I diaconi permanenti sono tenuti all’obbli- go quotidiano della celebrazione di lodi, vespro e compieta (cfr. CIC can. 276, § 2, 3°)”52. Inoltre, abbiamo una delibera entrata in vigore il 18 maggio 1985: “Ferme restando le norme del can. 236 del Codice di diritto canonico, in Italia si seguano la normativa e gli orientamenti

45 Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana 15/1971, 275. 46 Cfr. ECEI 1/3955–4007. 47 Cfr. ECEI 5/1835–1896. 48 Cfr. ECEI 2/546–600. 49 Cfr. ECEI 2/2745–2873. 50 Cfr. ECEI 3/190–413. 51 Cfr. ECEI 3/2435–2516. 52 Delibera 1: ECEI 3/1589.

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pastorali del documento: La restaurazione del diaconato permanente in Italia (CEI, 8.12.1971), provvedendo che i candidati abbiano prima ricevuto ed esercitato i ministeri stabili di lettore e di accolito a norma del m. p. Ad pascendum del 15 agosto 1972, II”53. La riflessione sistematica della CEI sul diaconato permanente ven- ne ripresa nel 1989 e portò al nuovo documento dal titolo I diaconi permanenti nella Chiesa in Italia. Orientamenti e norme che, dopo la recognitio della Santa Sede, entrò in vigore il 1° luglio 199354. Dopo questa data abbiamo ancora due documenti, ma da parte della Con- gregazione per il Clero: la Ratio fundamentalis institutionis diacono- rum permanentium e il Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti (22 febbraio 1998). Riporto alcune disposizioni di Orientamenti e norme che mi sem- brano più attinenti al nostro tema55. Tra i requisiti viene chiesta “la disponibilità di tempo adeguata all’esercizio del ministero”. Questo è quanto mai opportuno poiché i diaconi, in genere, conservano la loro attività lavorativa o professionale e, se coniugati, debbono provvede- re alla vita matrimoniale e familiare. Pertanto, l’art. 18 stabilisce che “occorre valutare l’attività lavorativa o professionale degli aspiranti per accertarne la pratica conciliabilità sia con gli impegni di formazione sia con l’effettivo esercizio del ministero. Nei casi difficili, che esigo- no scelte rilevanti, la decisione ultima sulle condizioni da richiedere spetta al vescovo”56. Secondo Orientamenti e norme, va esclusa l’ordinazione diaconale per progetti di singoli gruppi, poiché l’unica destinazione è “il servizio della Chiesa, secondo il piano pastorale della diocesi” (art. 13).

53 Delibera 32: ECEI 3/2287. 54 Cfr. ECEI 5/1835–1896. 55 Cfr. Agostino Montan, “La formazione e il ministero del diacono permanente nei documenti del magistero dal concilio Vaticano II ad oggi”, in Apollinaris 71 (1998) 521–544. 56 ECEI 5/1857.

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Per il diacono celibe si richiede che il “celibato sia una scelta posi- tiva per il Regno, assunta con chiarezza di motivazioni e collocata in una personalità matura e armoniosa” (art. 16a). Per i coniugati, si richiede il consenso della moglie, ma si esige anche “una esperienza della vita matrimoniale che dimostri e assicuri la stabilità della vita familiare” (art. 16b). L’età minima per accedere al diaconato è ventuno per i celibi e trentuno per gli sposati, mentre l’età massima non deve essere oltre i sessanta (art. 17). Viene inoltre stabilito che è necessario verificare che gli aspiranti siano liberi da irregolarità e impedimenti (art. 19) e che “si assumano tra i candidati solo quei soggetti per i quali il discernimen- to sia già stato compiuto con esito positivo, e la scelta per l’ordinazione sia ritenuta definitiva” (art. 20)57. La durata della formazione deve essere almeno di tre anni, oltre il periodo propedeutico, sia per i giovani sia per i più maturi (art. 24). Per i giovani, l’art. 24 propone: “I candidati giovani espletino l’intero itinerario formativo o almeno parte di esso in una esperienza di vita comunitaria, in una sede idonea e conveniente, secondo le modali- tà determinate dal vescovo diocesano (cf. c. 236, 1°). Si favoriscano iniziative in comune tra diocesi vicine, o promosse dalla Conferenza episcopale regionale”58. Per i candidati di età più matura il documento si limita a fissare il periodo della formazione, cioè almeno tre anni oltre il periodo pro- pedeutico (art. 24). Per la scuola viene stabilito che il candidato abbia a conseguire un titolo riconosciuto o dalla Conferenza dei Vescovi o rilasciato dalle Facoltà di Teologia. Per la formazione spirituale, vi sono molte indicazioni, ma due meritano di essere ricordate: l’esortazione fatta ai candidati sposati a “camminare verso una sempre più intensa armonia tra il ministero

57 ECEI 5/1859. 58 ECEI 5/1863.

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diaconale e il ministero coniugale e familiare, così da viverli ambedue gioiosamente e totalmente”; l’invito ad “assicurare una particolare at- tenzione anche alle spose dei candidati, affinché crescano nella con- sapevolezza della vocazione del marito e del proprio compito accanto a lui” (art. 27). Per la formazione teologica vengono date le seguenti disposizioni: i candidati devono essere in possesso, ordinariamente, di un diploma di scuola secondaria, che abiliti agli studi universitari (art. 30); si richie- de, alla base, una adeguata preparazione culturale di scienze umane e filosofiche (art. 31a); è in ogni caso necessario l’insegnamento della sacra scrittura, della teologia fondamentale, dogmatica e morale, della storia della Chiesa, del diritto canonico, della liturgia, della teologia spirituale e pastorale e della dottrina sociale della Chiesa (art. 31b); il piano degli studi deve avvalersi, sin dove è possibile, degli Istituti di scienze religiose o comunque di un numero di ore analogo a quello di questi istituti (art. 32a); anche gli eventuali corsi personalizzati di studi, da attuarsi sotto la responsabilità del Vescovo, debbono con- cludersi con un esame almeno per i corsi delle discipline teologiche e pastorali (art. 32bc). Il documento Orientamenti e norme esorta i Vescovi a far sì che non abbiano ad essere affidati ai diaconi permanenti “compiti sola- mente marginali o estemporanei, o semplici funzioni di supplenza”, ed aggiunge che la presenza dei diaconi deve “risultare inserita orga- nicamente nella pastorale di comunione e di corresponsabilità della Chiesa particolare” (art. 39)59. Sempre in Orientamenti e norme si parla di un “mandato” con cui il Vescovo affida uno specifico compito ministeriale ai singoli diaconi permanenti (art. 44). Abbiamo quattro possibili ambiti di esercizio del ministero diaconale: la parrocchia, con affidamento di un compi- to specifico nella cura pastorale; un gruppo di parrocchie senza pre-

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sbitero residente o affidate in solidum a un gruppo di presbiteri, per la cura di quegli ambiti che sono propri del ministero diaconale; le strutture diocesane, gli organismi o commissioni diocesane, i vicaria- ti, le zone pastorali, i quartieri; l’animazione pastorale di fasce di età, di ambienti, di settori (art. 44).

Conclusione Nell’esporre «gli effetti del Sacramento dell’Ordine», la prima edi- zione del Catechismo della Chiesa Cattolica affermava che:«Per ordi- nationem recipitur capacitas agendi tamquam Christi legatus, Capitis Ecclesiae, in eius triplici munere sacerdotis, prophetae et regis» (secondo periodo del n. 1581). Successivamente, però, per evitare di estendere al grado del Diaconato la facoltà di «agere in persona Christi Capitis», che è riservata soltanto ai Vescovi ed ai Presbiteri, la Congregazione per la Dottrina della Fede ritenne necessario modificare, nell’edizione tipi- ca, la redazione di questo n. 1581 nel modo seguente: «Ab eo (= Christo) Episcopi et presbiteri missionem et facultatem agendi in persona Christi Capitis accipiunt, diaconi vero vim populo Dei serviendi in ‘diaconia’ liturgiae, verbi et caritatis». Il 9 ottobre 1998, il Servo di Dio Giovanni Paolo II approvò questa modifica e dispose che ad essa si adeguassero anche i canoni del Codice di Diritto Canonico. Ciò è avvenuto con il Motu proprio «Omnium in mentem»: il sacramento non conferisce la facoltà di agire nella persona di Cristo Capo, ma chi riceve l’Ordine Sacro è destinato a servire il popolo di Dio per un nuovo e peculiare titolo. Il ministro costituito nell’Ordine dell’Episcopato o del Presbi- terato riceve la missione e la facoltà di agire in persona di Cristo Capo, mentre i Diaconi ricevono l’abilitazione a servire il Popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della Parola e della Carità60.

60 Cfr. Benedetto XVI, m.p. Omnium in mentem, 26. X. 2009, in Communicatio- nes 41 (2009) 260–262 (latino), 263–265 (italiano).

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Non è stato necessario, invece, introdurre alcuna modifica nei cor- relativi canoni 323 §1; 325 e 743 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali perché in tali norme non è adoperata l’espressione «agere in persona Christi Capitis». Si sono invece esaminati i diversi diritti par- ticolari delle differenti Chiesesui iuris per mettere in evidenza i diritti e i doveri dei diaconi. In teoria, nell’Oriente cristiano, la funzione diaconale non ha ces- sato di conservarsi sino ai nostri giorni. Ma è bene constatare che nella pratica delle diverse Chiese, il ministero liturgico è quasi il solo che ha conservato e sviluppato i suoi tratti caratteristici; il ministero caritativo, originariamente funzione specifica del diaconato e fonda- mento del ministero liturgico, si è trovato poco a poco trasferito più abitualmente ai presbiteri. Attualmente, come avviene in Occidente dal Vaticano II, si manifesta nell’Oriente cristiano l’auspicio di ve- dere il diacono ritrovare il posto che fu il suo durante i quattro pri- mi secoli. Così mons. Stéphanos di Nazianzo: «È certamente il come dell’Ortodossia di unire sul piano ministeriale la liturgia e il mondo, a partire dall’istante dove constatiamo, attraverso l’esperienza eccle- siale originale, che il diacono assume l’aspetto sociale della diaconia globale del vescovo, legando strettamente la funzione liturgica alla funzione caritativa, situando il servizio degli uomini in una prospet- tiva sacramentale»61.

61 Stephanos [Charalambidis], Ministères et charismes dans l’Eglise orthodoxe, Paris 1988, 81.

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Hristo P. Berov

Summary: 1. Common remarks on Zankow’s biography; 2. Stefan Zankow as a canonist; Conclusion remarks.

In principle it is very hard to summon a comprehensive account of Stefan Zankow in a brief essay. The main difficulties are that his archive is still not officially opened and not structurally organized and also because of the lack of a sufficient amount of interest among Bulgarian theologians which has led to he and his work not being researched deeply enough1. At the same time, it should be underlined (of course without underestimating the work of Prof. Radko Popto- dorov as his successor) that Stefan Zankow remains the most success-

* This essay is gratefully dedicated to the 85th birthday of Professor Protopres- byter Dr. Radko Poptodorov – the direct successor of Professor Protopresbyter Stefan Zankow as a lecturer of canon and ecclesiastical law at the Faculty of Theology at the Sofia University. 1 As far as I know there is only one published doctoral dissertation dealing with Zankow’s academic contribution on his ecclesiology till now: G. Alexiev, Ste- fan Zankows Lehre über die Kirche. Eine kritische, genetisch-systematische Untersuchung. (Auszug), Rom, 1965; another one revealing his ecumenical strivings is in preparation by Archimandrite Victor (Vihren St. Mutafov) under the planned title “Stefan Zankov come pioniere del Movimento ecumenico” at the Pontificio Istituto Orientale in Rome. There are also several references, essays or Lexica-articles which can certainly not fully reveal his work in the field of canon law.

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ful Bulgarian canonist of his time, and the first2 Bulgarian lecturer of canon law at the Faculty of Theology at Sofia University3. For many different reasons, Zankow is to a certain extent more popular in the German-speaking societies than he is in his own country.

At the end of 2008 an international conference4 was held in his honour, organized at the Sofia University, probably also hoping that a proper and larger recognition of his work on canon law would be achieved even if the clergy of the Bulgarian Orthodox Church (BOC) do not actually co-operate with the few theologians who teach canon law (they can be counted on one hand) on such important issues as the modification of the Church-Constitution (on the so called VI. Council held in three sessions at the Rila-Monastery 2008).

This brief article can only provide some of the outlines of Zankow’s contribution to the academic development of canon law in Bulgaria.

2 At the Faculty of law of the Sofia University the discipline Canon law (eccle- siastical law) was taught by Professors Marco Balabanov and Stefan Bobchev. During the time of communism, canon law in Bulgaria was taught only in the Faculty of Theology. 3 The university in Sofia was founded on 1 October 1888, 10 years after the Lib- eration of Bulgaria, to serve as Bulgaria’s primary institution of higher educa- tion. Initially, it had 4 regular and 3 additional lecturers and 49 students. It was firstly founded as a higher pedagogical course. At the very beginning it had three faculties: a Faculty of History and Philology (since 1888), a Faculty of Mathematics and Physics (since 1889) and a Faculty of Law (since 1892). The Faculty of Theology was established in 1923. 4 See the program of the international conference on: http://www.uni-sofia. bg/index.php/bul/fakulteti/bogoslovski_fakultet2/novini/mezhdunarodna_ nauchna_konferenciya_v_pamet_na_akademik_prof_protopr_d_r_stefan_ cankov.

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1. Common remarks on Zankow’s biography Stefan Zankow5 was born on 66 July 1881 in Gorna Oriahovitza (North Bulgaria). His father, Stancho Zankow was a hand worker originally from Gabrovo (North Bulgaria) and his mother, Kina Zankowa from Veliko Tarnovo (medieval Bulgarian capital) was known for being strictly religious. Stefan Zankow must have had at least one brother, whose daughter, Zanka Zankowa, is actually a well- known lawyer and remarkable professor of family law in Bulgaria. There is hardly any further public information about his parents. By the way we also know that Stefan Zankow took his mother once on his travels to Jerusalem, for which she was very grateful to her son. She was appreciative that he also devoted one of his works7 to her and at the same time to the Metropolitan Simeon (Popnikolov) of Varna (1840-1937). This archbishop played a big role in the personal and the academic life of Zankow as a professor.

5 About his biography, see: in English: G. A. Maloney, A History of Orthodox Theology since 1453, Belmont, USA, 1976, pp. 238; in German: H.-L. Henriod, Stefan Zankow. Ein Vorkämpfer der Ökumene in der orthodoxen Welt, in Ökume- nische Profile, G. Gloede (Hrsg.), Stuttgart 1963, 318–324; G. Alexiev, Stefan Zankow, in Bulgarisches Jahrbuch 1 (1968) 334–360; H.-D. Döpmann, Kirche in Bulgarien von den Anfängen bis zur Gegenwart, München 2006, 64; Idem, Zankow, Stefan, in Lexikon für Theologie und Kirche, W. Kasper (Hrsg.), Band 10, Freiburg/Br. 2001, 1383; Idem, Zankow, Stefan, in Religion in Geschichte und Gegenwart: Handwörterbuch für Theologie und Religionswissenschaft (4. Au- flage), Band 2, Tübingen 1999, 52. 6 In his self-written short CV included at the end of his dissertation states the birthday of 6. (19.) of July: compare St. Zankow, Die Grundlagen der Verfas- sung der bulgarischen orthodoxen Kirche, Diss.-Druckerei Gebr. Leemann & Co., Zürich 1918, 157. Some authors claimed his birthday was the 4. of July: compare the upper. 7 See the introduction of: Ст. Цанков, Българската православна църква отъ освобождението до настояще време; в: Годишник на Софийския университет, Богословски факултет (=ГСУ, БФ), т.XVI, 6, 1938/39.

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Stefan Zankow spent his childhood in Dobrich (northeast Bul- garia – eparchy of Varna). After he graduated from primary school (1888-1895),8 in accordance with the wishes of his mother and with the reference of Metropolitan Simeon, Stefan Zankow enrolled in the Orthodox seminary of Samokov (near Sofia). He graduated with honours (1895-1899) and then he continued his higher education at the Faculty of Theology at the University of Czernowitz9 (1900-1904), at this time in Austria, where he obtained his first Doctorate degree (Dr. theol) in 190510. Stefan Zankow married Dominica G. Hanicki in 1905 in Chernovitz11; the family was childless. The positions Stefan Zankow took in the Bulgarian Orthodox Church were various: 1905-1908 vice secretary of the cabinet of the Holy Synod in Sofia; after his consecration by the Metropolitan Simeon of Varna as a deacon in January 1908 and as a priest Mai of the same year, he was very active in the both Metropolies of Varna and Sofia; 1908-1911 General vicar in Varna, in 1911 he was elected to the Chief of Synod commission for the spiritual enlightenment. Stefan Zankow’s second academic degree was awarded by the Uni- versity of Zurich (1915-1918) where he defended a second doctorate12 on 29.05.1918 with his work in German: “Die Grundlagen der Verfas- sung der bulgarischen orthodoxen Kirche”13. Zankow mentions that

8 Zankow, Die Grundlagen (nt. 6), 157. 9 At that time Czernovwitz was a part of the Austro-Hungarian Empire and education was conducted in German. 10 It happened on 13 of July 1905. Nevertheless there is almost no information about his studies there. Probably this period of his life can be researched better, if the archive of Zankow at the Faculty of Theology would be opened. 11 The marriage was celebrated in the Cathedral of Czernowitz by the Metropo- litan Vladimir, see the notice of Zankow in a book, where he mentioned it: http://www.dveri.bg/content/view/7728/29/. 12 There is short information in the archives of the University of Zurich about the studies of Zankow in Zurich, see: http://www.matrikel.uzh.ch/pages/791.htm. 13 Jґverz. 1917/18 Nr. 401.

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his studies in Zurich were based on the election of the Holy Synod of the Bulgarian Orthodox Church as a chancellor for ecclesiastical law in 1913, which led him to the University of Zurich in 1915. At the same time in Bulgaria the preparation for the establishment of the Faculty of Theology in Sofia was ongoing. Zankow passed the exams for lec- turers and was elected as one of the first14 professors at the Faculty of Theology in Sofia. Stefan Zankow began his career as ordinarius for Ecclesiastical law in 1923. He also took an active part in the peace movements in Europe as regional-secretary of the “World Alliance for Promoting International Friendship through the Churches”, and later as a member of the re- search committee of the “World Alliance for International Friendship through Religion”15. For 20 years, Zankow was the official interpreter of the ecclesiology of his Church and its representative at ecumenical congresses and conferences16. He also lectured on Orthodox theology at foreign universities, such as Berlin, Basel, Zürich, and Geneva, and published his lectures, which were soon translated into many lan- guages. For his achievements and in connection with the preparation of the World Conference of Churches (1937), he received Dr. honoris causa from Oxford University. Moreover, he held the Dr.h.c.-degrees from universities and institutes in Athens, Berlin, Budapest and So- fia17. After World War II, Zankow tried to find a modus Vivendi18 in order to save what could be saved from the brutal atheistic policy of the communist regime in Bulgaria.

14 His first lecture was: “The Law and the Church” and was held on 16.11.1923 at Sofia University. See:Ст. Цанков, Правото и църквата, ГСУ-БФ, т. V, 1923/24, С., 1924, 65–106. 15 See Alexiev, Stefan Zankow (nt. 5) 360. 16 Ibid. 17 Ibid. 18 Ibid

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Stefan Zankow passed away on 20 March 1965 in Sofia. At his funeral ceremony the Bulgarian Patriarch Cyril (1900-1970) gave a speech in which he stressed that the name of Zankow is equal to theological erudition and objective attention to the canonical bases and factors in the Christian Church19.

2. Stefan Zankow as a canonist The whole academic contribution of Stefan Zankow includes about one hundred or even some more written works20 – books, es- says, articles and conference reports. From all these works, there are some of the best Bulgarian contributions to the academic field of can- on law, which are used by students and researchers. Interestingly, we can see from this list that Zankow’s works are almost 35% written in German and published abroad, which could explain why to a certain extent some of his ideas did not reach the modern Bulgarian clergy. I was once again very surprised to read a statement by a Bulgarian theologian, who pointed out that Zankow’s most popular book in Bulgaria is about modern Bulgarian church history21. The question of his distinguished and concrete theological contribution therefore still is open. On the other hand, Zankow is, without a doubt, still mostly well known thanks to his foreign publications in German speaking forums, especially among people working on eastern theology and canon law. Recently, a study was published concerning the ecclesio-

19 In a short summary: He was highly estimated for his academic achievements and his practical organisation work by the Bulgarian Orthodox Church and for his solid interpretation of the orthodox faith by experts all over the world. See Alexiev, Stefan Zankow (nt. 5) 357–360. 20 A very good and at the same time almost complete (because of the not struc- tured archive) list of Zankow’s bibliography can be found in the application of: G. Alexiev, Stefan Zankows Lehre über die Kirche (Auszug), Rom, 1965, 61–65. 21 See: http://www.dveri.bg/content/view/7688/29/.

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logical doctrines of Stefan Zankow in which the author did not con- sider ecclesiastical law. The same could be seen also in Bulgaria, where also some journalists commented that the most popular publication of Zankow (with respect to the conference given in his honor) was his History of the BOC, his “bestseller”.

It therefore seems to me that the academic contribution of Stefan Zankow could be split according to thematic issues into two subsec- tions: the first one for instance should include his work on canon and ecclesiastical law in general, while the second one should incorporate the rest of his written researches with an accent on ecclesiology. It is hereby also appropriate to mention that ecumenical thoughts have “stamped” themselves on both parts of his academic works, even if his ecumenism is much more intensively represented in his studies that do not directly address canon law.

It is impossible to reveal and to discuss all works of Zankow here. Therefore, I shall rather try to concentrate on mentioning only a few of his most important contributions to ecclesiastical law which made Zankow a significant Bulgarian canonist. As a first of his whole con- tribution are two volumes in Bulgarian, translated, composed and ed- ited by Stefan Zankow, Ivan Stefanov and Pencho Stanev, “The rules of the Holy Orthodox Church with their interpretations.” They22 were printed in 1912 (including a new Bulgarian translation and interpre- tation by Zonaras, Aristin, Balsamon, the Nomokanon and Bishop Nicodemus Milas of the canons of the Apostles and the canons of the I – IV ecumenical Councils) and 191323 (including a new Bulgar- ian translation and interpretation by Zonaras, Aristin, Balsamon, the

22 Ст. Цанковъ – Ив. Стевановъ – П. Цаневъ, Правилата на св. Правос­ лавна църква с тълкуванията имъ, томъ I, С. 1912. 23 Ст. Цанковъ (nt. 22).

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Nomokanon and Bishop Nicodemus Milas of the VI – VII ecumeni- cal and some of the local Councils). The third volume could not be published in the following year probably because of financial diffi- culties caused by the Balkan Wars and the interest of the BOC to concentrate on its evangelizing work of the “new” lands where24 there lived also Bulgarian Muslims. As far as there is any information about the manuscript of the third volume, it is hardly readable because of the bleached ink. So that there are only few parts that could be used nowadays to set the manuscript in print.

The theoretical and practical significance of this first modern -Bul garian written work on the canonical sources and their interpretation in the new history of the BOC is even nowadays enormous. There is still no other Bulgarian collection of the interpretation of the rules of the Orthodox Church. A small book25 with only the translated texts of the canons of the Holy Orthodox Church was once issued in 1936 and then reprinted26 in 2004. Zankow’s edition in the two of three volumes is until now the fullest Bulgarian publication concerning the sources and their interpretations of Orthodox canon law. I have no further information that someone is working at the moment on a new Bulgarian edition of such a collection. As a result, the work of Zankow remains an irreplaceable instrument for each academic or practical research on canon law issues in his mother tongue.

24 These were the territories of the Phodope Mountains towards the Aegean Sea, re-conquered by the Bulgarian army in the First Balkan War from the Turkish Empire. 25 Правила на Светата Православна църква. Събрал и превел Протоиерей Иван Стефанов. Издание на Съюза на свещеническите братства в България, София, 1936 г. 26 Правила на Светата Православна църква. Света гора, Атон, 2004.

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The second very important academic contribution of Stefan Zankow to the field of Orthodox canon law is his German doctor- al dissertation from Zurich University issued in two volumes: “Die Verfassung der Bulgarischen Orthodoxen Kirche”, 1918, and “Die Verwaltung der Bulgarischen Orthodoxen Kirche”, 1920. These two parts of one work represent a detailed approach to the problems of the Church constitution of the Exarchate in Bulgaria from 1870 and its changes from 1895 for the territories where it functioned: In the newly established Bulgarian state - 1878 and also under the church jurisdic- tion out of its state borders. Both volumes are much better known abroad than in Bulgaria and represent in a certain way the classics for foreign research work among theologians and canonists of the BOC. Some of the Bulgarian specialists who state that some sections of both parts are used in the latest publications of Zankow had the idea of translating the books. This could not be organized for many reasons, but perhaps also to a certain extent because of the tendencies towards a counter-ecumenical course of the biggest part of the actual Orthodox clergy in Bulgaria.

Another very important academic work of Zankow is his con- tribution to the dialogue between the national Orthodox churches for the organization of an ecumenical council. The most important pan-Orthodox congress in Athens in 1936 also had Zankow’s vision about the relations between the state and the church and between the churches themselves and therefore also the difficulties of plan- ning and holding one such council27. Zankow was the official rep- resentative of the Holy Synod of the BOC to this very important

27 See for instance St. Zankow, Die prinzipiellen Schwierigkeiten der Abhaltung eines ökumenischen Konzils; in H. Alivisatos, Procès – verbaux du Premier Con- grès de Théologie Orthodoxe à Athènes, 29 novembre – 6 décembre 1936 (Print out of the protocols of the First Congress of Orthodox Theologie), Athens 1939, 269–271.

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event, although the BOC was considered being schismatic on behalf of Phyletismus since the local Council of Constantinople in 1872 till 1945.

As was already mentioned, Stefan Zakow was the ordinary Profes- sor and lecturer for canon law and ecclesiastical law at the Faculty of Theology, Sofia University from 1923 on, for almost more than 40 years until shortly before his death. This was another very important aspect of his contribution to canon and ecclesiastical law. Almost two generations of Bulgarian theologians and clergymen listened to his ideas and respected his opinions, which were also important for the decisions of the Holy Synod. Some parts of his lectures and most of his researches in Bulgarian were published in the University Yearbook of the Theological Faculty in Sofia, where more than one thousand pages are to be found.

Beside the works of Zankow on canon law, there were some very important academic contributions to Orthodox ecclesiology. It may be said that he was one of the best known Orthodox theologians for his time who became a guest lecturer in several universities in Ger- man speaking countries. Here there are two important publications in German28, which are also translated into many other languages and are to a certain extent still in use.

Like most canonists of the twentieth century, it was also the duty of Zankow to be actively involved in drawing up some of the code- changes. His first practical work on this issue was his membership in

28 St. Zankow, Die Orthodoxe Kirche des Ostens in öumenischer Sicht. Gastvor- träe gehalten an den Universitäten von Zürich, Bern, Basel und Genf, Zürich, Zwingli-Verl. 1946; St. Zankow, Das orthodoxe Christentum des Ostens; Sein Wesen u. s. gegenwürtige Gestalt. Gastvortrüge, Berlin: Furche-Verl., 1928.

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the Commission29 for the estimation of the Exarchates’s constitution, which functioned in 1920. The following constitution of the BOC (after World War II) was also influenced by the ideas of Zankow. It could not be promulgated without communist corrections, so that in the end the communist party changed what it wanted and penetrated the church autonomy as never before, enforcing the text without the agreement of the Holy Synod30.

Having in mind the difficulties of the oppressed political changes in Bulgaria after World War II, there was surely not enough “place” for the church in the so called socialist society. It was obvious that the communist regime could not allow the further development of can- onistic research as a part of theology at all. So there was no chance for the adequate recognition of any theologian, which was also the situa- tion with Zankow. Of course, there has to be a mention of Professor protopresbyter Radko Poptodorov, as the following ordinary lecturer of canon and ecclesiastical law, who published (not without difficul- ties) a study on the ecclesiology, ecumenism and irinism of Zankow31 after a period longer than a decade after the death of his teacher. After the political changes of 1989, there were also few Bulgarian articles on

29 See the protocols of this commission in the volume: Протоколи на духовната комисия за преглеждане екзархийския уставъ и всички действуващи днесъ въ ведомството на българската православна църква църковни наредби, С., Държавна печатница, 1920. 30 See Д. Николчев, За устава на Българската православна църква: необходимата реформа, сп. Християнство и култура, 2003, кн. 2, 72–85. 31 Р. Поптодоров, Еклезиологията, икуменизмът и иринизмът на проф. протопр. д-р и академик Стефан Цанков, Годишник на Духовната Академия (=ГДА) т. 25, С. 1981.

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Zankow32 and on the works33 addressing his contributions. There has also been an interest in discussing Zankow’s ecclesiology in the last years.34

Conclusion remarks As we can see, Zankow was the first canonist at the Bulgarian Fac- ulty of Theology in Sofia. Some of his works are still the only ones to be used in church theory and praxis. Zankow was engaged not only with the BOC inside Bulgaria, but had also a very successful career with important events in other Orthodox and non-Orthodox church- es, leaving some of his works abroad as a guideline towards his home country. He remains not only one of the most successful canonists in Bulgaria but also one of the best Bulgarian theologians.

In order to conclude this short and schematic presentation of Zankow as a canonist, I would repeat only a few words said by Pa- triarch Cyril at the funeral ceremony of Zankow, which I consider characteristic of his life and work: “He was highly esteemed for his academic achievements and his practical organisational work by the Bulgarian Orthodox Church and for his solid interpretation of the Orthodox faith by experts all over the world”35.

32 For instance Р. Поптодоров, Приносът на адад. Проф. д-р Стефан Цанков в разрешаването на църковно-правни проблеми от местен, общоправославен и общоцърковен мащаб, сп. Богословска мисъл, 2005, кн. 1–2, с.7–27. 33 Хр. Беров, Една „непознатата” диссертация от Рим, Църковен вестник, бр. 11/2007 г. 34 See E. Farruggia, Gibt es einen Kirchenbegriff bei den Orthodoxen? Zum Bei- trag Stefan Zankows, in Was der Glaube in Bewegung bringt (Festschrift Karl Neufeld) Herder-Verlag, 2004, 180. 35 See footnote 19 in this text.

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Luigi Sabbarese

Sommario: Introduzione; 1. Il fondamento ecclesiologico di una Chiesa “differen- te”; 2. I migranti nelle Chiese particolari: appello alla “cattolica diversità”; 3. Nella pastorale dei migranti anzitutto le persone, cioè i migranti stessi; 4. Le strutture intese come luoghi di unità e di cattolicità; 5. I migranti hanno uno statuto eccle- siale?; 6. I tratti organizzativi di una pastorale specifica per i migranti; 7. Il primato dei migranti e dei pastori al loro servizio; 8. La “cattolica diversità” intraecclesiale: il caso della cura pastorale degli orientali in diaspora.

Introduzione Forestieri, girovaghi, migranti, esuli, profughi, nomadi, naviganti costituiscono nel Codice latino e in quello orientale specifiche catego- rie di fedeli, ai quali il Legislatore attribuisce una peculiare attenzio- ne, volta soprattutto a garantire una adeguata cura pastorale. Infatti, tenendo conto che si trovano in una situazione di mobilità, che non permette loro di ricevere una ordinaria cura pastorale, deve essere loro assicurata quella cura che sarebbe stata comunque garantita se aves- sero mantenuto il proprio domicilio, e quindi il riferimento a quelle strutture territoriali di cui la Chiesa dispone per la cura dei suoi fedeli. Per quanti, invece, si muovono, è necessario approntare strutture pa- storali non solo su base territoriale ma anche su base personale. Non si vuole qui certo ripercorrere l’intera normativa ecclesiastica,1

1 Cosa che ho già fatto in una mia monografia, cui mi permetto di rimandare: Luigi Sabbarese, Girovaghi, migranti, forestieri e naviganti nella legislazione ecclesiastica, Città del Vaticano 2006. Eastern Canon Law 1 (2012) 1–2, 225–248. | 225

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specie quella del Codice di diritto canonico per la Chiesa latina2 e del Codice dei canoni delle Chiese orientali;3 tuttavia, sulla scorta del dettato conciliare4 circa la cura pastorale dei migranti e di quanti sono ad essi assimilati, vorrei approfondire il significato e la rilevanza della “cattolica diversità” ecclesiale che emerge, tra gli altri ambiti, proprio nell’attenzione che la Chiesa ha posto nella cura pastorale dei migran- ti e che ha tradotto in linguaggio normativo.

2 Per lo studio del Codice latino nella prospettiva della pastorale dei migranti, rimando a Velasio De Paolis, Codice di Diritto Canonico, in Graziano Bat- tistella (a cura di), Migrazioni. Dizionario socio-pastorale, Cinisello Balsamo [Mi] 2010, 166–175. 3 Per la pastorale dei migranti cattolici orientali nel contesto del Codice orienta- le, vedi Lorenzo Lorusso, Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, in Ibidem, 160–165. 4 Tra tutti si veda specialmente CD 18: «Si abbia un particolare interessamento per quei fedeli che, a motivo della loro condizione di vita, non possono godere a sufficienza della comune ordinaria cura pastorale dei parroci o ne sono privi del tutto; come sono moltissimi emigrati, gli esuli, i profughi, i marittimi, gli addetti ai trasporti aerei, i nomadi, e altre simili categorie di uomini. Si pro- muovano metodi pastorali adatti per sostenere la vita spirituale dei turisti. Le Conferenze episcopali e specialmente quelle nazionali dedichino premurosa at- tenzione ai più urgenti problemi riguardanti le predette categorie di persone e con opportuni mezzi e direttive, in concordia di intenti e di sforzi, provvedano adeguatamente alla loro assistenza religiosa, tenendo presenti in primo luogo le disposizioni date o da darsi dalla Sede Apostolica, adattate convenientemente alle situazioni dei tempi, dei luoghi e delle persone». Per uno studio approfon- dito dell’iter di redazione di CD 18 e del magistero conciliare in relazione alla pastorale dei migranti, rimando a Velasio De Paolis, La pastorale dei migranti nei documenti conciliari, in Id., Chiesa e migrazioni, scritti raccolti da Luigi Sabbarese, Città del Vaticano 2005, 39–59; più in breve Id., Concilio Vaticano II, in Battistella, Migrazioni (nt. 2), 176–182; Miguel Angel Ortiz, La “espe- cial solicitud por algunos grupos de fieles”. El n. 18 del decreto “Christus dominus” y la pastoral de la movilidad humana, in Péter Erdő – Péter Szabó (a cura di), Territorialità e personalità nel diritto canonico ed ecclesiastico. Il diritto canonico di fronte al terzo millennio, Budapest 2002, 137–155.

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A garanzia della cura pastorale per i migranti e a tutela del loro lo statuto giuridico è rilevante l’organizzazione su base personale; que- sta trova ampia attuazione sia nell’ambito delle previsioni codiciali (si pensi alle circoscrizioni parrocchiali personali5 in favore dei migranti di una determinata lingua, nazione o rito), sia di quelle extracodiciali (ad esempio gli Ordinariati latini per fedeli orientali in diaspora6). Ma più che alle strutture, mi preme mettere in evidenzia il criterio personale che giustifica, nel contesto ecclesiologico dellacatholica va- rietas, l’organizzazione della pastorale specifica che si rende visibile nelle strutture. Un’utile rassegna bibliografica ha rilevato che «la disciplina teo- logica che più di ogni altra ha affrontato in modo sistematico il fe- nomeno migratorio è il diritto canonico. I saggi di questa disciplina teologica forniscono le interpretazioni e le indicazioni più puntuali. Essi analizzano i documenti del Magistero, mettendo in evidenza la pluralità di metodi pastorali proposti. Di fatto i nuovi Codici di Di- ritto Canonico, sotto la spinta del Concilio Vaticano II, danno uno spazio ragguardevole al fenomeno della mobilità».7 In verità, la canonistica si è cimentata sull’argomento della cura pa- storale dei migranti e lo ha fatto seguendo diverse prospettive di ricerca.

5 Cf. Velasio De Paolis, Parrocchia personale, in Battistella, Migrazioni (nt. 2), 783–789; Joseph M. Bonnemain, Parroquia personal, in Instituto Martín de Azpilcueta, Facultad de Derecho Canónico Universidad de Navarra, Diccionario General de Derecho Canónico, obra dirigida y coordi- nada por Javier Otaduy – Antonio Viana – Joaquín Sedano, Pamplona 2012, vol. V, 926–929. 6 Cf. Astrid Kaptijn, Gli Ordinariati per i fedeli cattolici orientali privi di gerar- chia propria, in Gefaell Cristiani orientali (nt. 6), 233–267; Antonio Viana, Ordinariato para fieles de ritos orientales, in Diccionario General (nt. 5), vol. V, 812–814. 7 Graziano Tassello – Luisa Deponti – Felicina Proserpio (a cura di), Mi- grazioni e scienze teologiche. Rassegna bibliografica (1980–2007), Basilea 2009, 19–20.

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La prospettiva magisteriale ha evidenziato l’interesse del Magistero ecclesiale e specialmente pontificio8 che ha individuato il progresso, il metodo e le strutture che i vari documenti ecclesiastici, o almeno i principali, hanno indicato nell’organizzazione della pastorale per i migranti, senza perdere di vista il quadro ecclesiologico e quindi nor- mativo di riferimento. La prospettiva strutturale han privilegiato l’assetto organizzativo e quindi normativo formalizzato (e non formalizzato, come ad esempio il diritto dei migranti ad una pastorale specifica sempre affermato dal Magistero ma non entrato in nessun canone specifico) nel Codice di Diritto Canonico (1983) per la Chiesa latina e nel Codice dei Canoni delle Chiese orientali (1990) e attualizzato nell’Istruzione Erga mi- grantes caritas Christi (2004).9

8 Per una visione completa sull’evoluzione del Magistero pontificio verso i mi- granti è assai utile l’ottimo studio di Lorenzo Prencipe, I Papi e le migrazioni, in Battistella, Migrazioni (nt. 2), 746–783. 9 «[…] l’Istruzione poi dedica uno spazio considerevole alle strutture e pratiche pastorali che devono funzionare per un’efficace cura pastorale dei migranti. Ci si rende conto ancora una volta che queste considerazioni non sono meramente funzionali o pragmatiche, ma incarnano una teologia e spiritualità di comu- nione, intesa specialmente come unità nella pluralità, che è espressione della cattolicità»: Robert Schreiter, Cattolicità, in Battistella, Migrazioni (nt. 2), 106–107. Un ampio e motivato commento, anche sulla problematicità di tale documento, è offerto da VelasioDe Paolis, L’Istruzione Erga migrantes caritas Christi. Aspetti canonici, in Graziano Battistella (a cura di), La missione viene a noi. In margine all’Istruzione Erga migrantes caritas Christi, Città del Vatica- no 2005, 111–138; Velasio De Paolis, Il Codice di Diritto Canonico e l’Istruzione Erga migrantes caritas Christi, in Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, La sollecitudine della Chiesa verso i migranti, Città del Vaticano 2005, 68–86. Sulle novità e i limiti della sezione normativa dell’Istruzione, rinvio al mio L’«Ordinamento giuridico-pastorale» dell’Istruzio- ne Erga migrantes, in Battistella (a cura di), La missione, op. cit., 139–169. Per una lettura dell’Istruzione in prospettiva orientale è utile il contributo di Cyril Vasiľ, Alcune considerazioni sull’Istruzione EMCC dal punto di vista del diritto delle Chiese Orientali Cattoliche, in La sollecitudine della Chiesa, op. cit. 87–107.

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Infine, la prospettiva contenutistica ha offerto una lettura tema- tica che pone in evidenza l’origine, i cambiamenti e l’attuale assetto organizzativo che la Chiesa ha raggiunto nella pastorale specifica per i migranti, mediati specialmente attraverso lo spirito che anima il di- ritto ecclesiale dopo il Vaticano II, cioè il suo inserimento nel mistero della Chiesa. Nell’intento di voler arricchire le piste di ricerca già sperimentate,10 come ho già accennato, intendo qui soffermarmi maggiormente sulle persone per la costruzione di una Chiesa differente; accennerò co- munque alle strutture ma ponendomi nella prospettiva delle persone e insistendo sul principio di personalità che, specialmente nella codi- ficazione latina,11 è stato assunto accanto a quello della territorialità nell’assetto organizzativo ecclesiale.

1. Il fondamento ecclesiologico di una Chiesa “differente” Volendo porre l’accento sulle persone dei migranti, i quali costi- tuiscono il “differente” ecclesiale, sembra opportuno privilegiare e, quindi, percorrere la pista della ecclesialità. Riguardo all’organizzazione della cura pastorale dei migranti, la prospettiva ecclesiologica raccomanda di pensare che sia il Codice di Diritto Canonico sia quello dei Canoni delle Chiese Orientali si pos- sono adeguatamente comprendere all’interno di una corretta visione di Chiesa. Pertanto è necessario procedere, come dal suo aspetto fon-

10 Raccolte nel mio saggio “L’organizzazione della Chiesa nella cura pastorale per i migranti” [Graziano Tassello (a cura di), Migrazioni e teologia. Sviluppi recenti], in Studi emigrazione 47 (2010) 409–443. 11 Nel CCEO si può dire che tale principio è insito connaturalmente al dettato normativo, in quanto il Codice orientale è strutturato sul ritus che costituisce una delle condizioni principali in base alla quale è organizzata la condizione canonica della persona fisica nella Chiesa e viene modulato il suo statuto giuri- dico.

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tale, dalla considerazione dei migranti e della cura pastorale specifica ad essi dovuta, in quanto fedeli inseriti in una Chiesa particolare, dove essi costituiscono un valido richiamo alla cattolicità della Chiesa. Non vi è pastorale, né struttura organizzativa che possa avere senso pieno se non a partire dalla visione di Chiesa cui ci si vuole riferire. Sulla scorta di una simile convinzione, il primo aspetto da cui non si può prescindere concerne propriamente i fondamenti e presuppo- sti ecclesiologici che giustificano l’organizzazione della Chiesa nella cura pastorale dei migranti.12 Si pensi, ad esempio, agli studi di De Paolis, che, quasi sempre, come tema dominante, ha qualificato gli aspetti canonici della mobilità umana in un contesto e in una visione di Chiesa. Tra i molti, qui indico uno tra i suoi più recenti contri- buti, nel quale, tra l’altro si legge: «Nella forma della pastorale dei migranti praticata dalla Chiesa si riflette la nuova comprensione che la Chiesa ha di se stessa, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto ec- clesiologico. La Chiesa particolare è chiamata ad aprirsi ulteriormente alla cattolicità. Infatti la nuova posizione ecclesiologica evidenziata dai documenti del concilio Vaticano II non poteva non influenzare profondamente anche la riflessione e la prassi della Chiesa sulla cura pastorale dei migranti».13 Costantemente, la letteratura canonistica si è sforzata di “tema- tizzare” la cura pastorale dei migranti sempre facendo riferimento ai

12 Per l’approfondimento di questa prospettiva, mi permetto di rinviare a quanto ho già scritto altrove: “La cura pastorale per i migranti: alla ricerca di presup- posti e fondamenti”, in Euntes Docete 58 (2005) 269–284; Per una pastorale dei migranti. Presupposti e fondamenti, in Luigi Sabbarese – James J. Conn (a cura di), in Iustitia in caritate. Miscellanea in onore di Velasio De Paolis, Città del Vaticano 2005, 333–354; Fondamenti e modelli di pastorale multietnica: una nuova frontiera dell’evangelizzazione nella Chiesa in Italia, in A a.Vv., Il plura- lismo religioso e culturale della società italiana. Interrogativi ai consacrati, Roma 2008, 58–72. 13 Velasio De Paolis, “La cura pastorale dei migranti nella Chiesa. Una rassegna dei principali documenti”, in Quaderni di diritto ecclesiale 21 (2008) 11–28.

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fondamenti teologici ed ecclesiologici.14 Si tratta qui di considerare la dimensione cattolica della Chiesa e la reciproca immanenza tra Chiesa universale e Chiesa particolare, alla luce delle quali poter cogliere il contributo specifico e proprio delle migrazioni. L’effetto visibile della comunione, che la Chiesa particolare vive con e per i migranti, si ha nelle strutture pastorali specifiche, ma, prima e oltre le strutture, bisogna insistere sul fondamento che deve guidare l’azione della Chiesa particolare verso i migranti; tale fonda- mento si rinviene nella communio che deve trasparire anche nei criteri della territorialità e della personalità, criteri che regolano il costituirsi delle strutture pastorali per i migranti e per le varie forme di mobilità umana. Ogni azione pastorale, come quella per i migranti, si colloca nell’ambito dell’ecclesialità e della missionarietà. Anche la pastora- le per i migranti ha la sua scaturigine nel mistero della Chiesa; tale pastorale, proprio per la peculiare condizione di sradicamento e di rischio di disgregazione cui i migranti, che ne sono i destinatari, sono sottoposti, ha bisogno di riferirsi al suo naturale collante che è la co- munione. Nell’organizzazione specifica che la contraddistingue, tale

14 In tal senso, oltre a De Paolis, si è orientato anche Jean Beyer, Fondamento ecclesiale della pastorale dell’emigrazione, in Direzione Generale dei Mis- sionari Scalabriniani (a cura di), Per una pastorale dei migranti. Contributi in occasione del 75° della morte di mons. G.B. Scalabrini, Roma 1980, 128–148, e in Jean Beyer – Marcello Semeraro (a cura di), Migrazioni. Studi inter- disciplinari, vol. II, Roma 1985, 9–34; più di recente anche altri Autori, che si sono interessati all’organizzazione della pastorale dei migranti, non hanno omesso di enfatizzare, giustamente, premesse o presupposti ecclesiologici dei diritti dei fedeli migranti; si veda, ad esempio Eduardo Baura, “Movimientos migratorios y derechos de los fieles en la Iglesia”, Ius Canonicum 43 (2003), 51–86 oppure Renato Coronelli, “La cura pastorale dei migranti nella Chiesa particolare”, in Quaderni di diritto ecclesiale 21 (2008) 29–59.

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pastorale si adatta, è provvisoria, e perciò si rinnova,15 ma non può farlo se non all’interno della comunione, partendo da essa e mirando ad essa. Le Chiese particolari possono diventare, per loro stessa natura, i luoghi dove i migranti sperimentano la profonda unità dell’essere ec- clesiale, dove la loro identità culturale viene salvaguardata e accompa- gnata da un modo di esprimere la propria fede, anche se con elementi etnico-linguistici, religiosi e devozionali, che necessariamente si di- versificheranno da quelli propri delle Chiese particolari di arrivo. Gli elementi culturali fanno parte dell’economia della creazione e, come tali, vanno salvaguardati nella loro esistenza e identità e, dove è neces- sario, vanno evangelizzati. Ciò vale anche per i migranti, di fronte ai quali la missione della Chiesa si esplica nel compito, ad essa esclusivo, di evangelizzare gli uomini, attraverso l’evangelizzazione della loro cultura.

2. I migranti nelle Chiese particolari: appello alla “cattolica diversità” La presenza dei migranti nella Chiesa particolare costituisce un valido appello e un richiamo continuo a riconoscersi sempre più come strumento che ha bisogno di arricchirsi di diversità per vivere auten- ticamente l’universalità: «L’universalità infatti va concepita non come uniformità ma piuttosto come unione, communio tra i diversi, nel ri- spetto delle peculiarità di tutti e nella ricerca del bene di ognuno».16 La Chiesa è per sua natura una e cattolica. Ogni Chiesa particolare è cattolica, in quanto realizza l’unica Chiesa di Cristo, per cui i mi- granti nella pratica della loro fede non solo non si sentono stranieri in nessun paese dove vive e opera la Chiesa di Cristo che celebra l’Euca-

15 Cf. Velasio De Paolis, “La Chiesa e le migrazioni nei secoli XIX e XX”, in Ius Canonicum 43 (2003), 32–36. 16 Vasiľ, Alcune considerazioni (nt. 9), 89.

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restia, fonte di unità, ma sensibilizzano la Chiesa particolare ad aprirsi verso l’universale e a sperimentare in maniera più visibile la cattolicità nella particolarità. La migrazione umana, in quanto oggetto della cura pastorale della Chiesa, investe la questione del rinnovamento stesso della vita ecclesia- le; non è solo una questione di relazione tra Chiese particolari, di par- tenza e di arrivo, ma è fondamentalmente un problema ecclesiologico.17 Sotto questo profilo, la migrazione si presenta come un «problema che nasce per effetto di una delle discontinuità sicuramente più rimar- chevoli che con la sua stessa presenza il migrante immette nella conti- nuità della Chiesa particolare»;18 infatti ogni fedele ha un background culturale che è strettamente legato al proprio sentire e vivere la fede e i sacramenti, a livello comunitario e personale. Si pone, quindi, per la Chiesa particolare, la necessità dell’integrazione pastorale e liturgi- ca del migrante, salvaguardandone tutta l’originalità ed evitando la tentazione che questa discontinuità venga assimilata nel continuum dell’ecclesialità particolare.19 La nota della cattolicità della Chiesa non impedisce le diversifica- zioni e le caratterizzazioni culturali particolari: «L’identità culturale di una minoranza come quella dei protagonisti delle migrazioni (come del resto anche della eventuale maggioranza indigena) deve essere sal- vata ad ogni costo».20

17 Cf. Jean Beyer, Fondamento ecclesiale della pastorale dell’emigrazione, in Jean Beyer – Marcello Semeraro, (a cura di), Migrazioni. Studi interdisciplinari, Vol. II, op. cit., 9. 18 Piero Antonio Bonnet, Comunione ecclesiale, migranti e diritti fondamentali, in Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineran- ti (a cura di), Migrazioni e diritto ecclesiale. La pastorale della mobilità umana nel nuovo Codice di Diritto Canonico, Padova 1992, 35. 19 Cf. Ibidem, 36. 20 Eugenio Corecco, Chiesa locale e partecipazione nelle migrazioni, in La Chiesa di fronte al problema delle migrazioni. Raccolta di scritti ecclesiologici di Eugenio Corecco, Supplemento redazionale di “Servizio Migranti” 5 (1995), X.

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3. Nella pastorale dei migranti anzitutto le persone, cioè i migranti stessi La Chiesa è comunione ed ha la sua scaturigine, il suo modello e la sua meta nella comunione trinitaria. La partecipazione e la valoriz- zazione delle migrazioni all’interno della Chiesa particolare devono essere intese alla luce della communio: questa meglio aiuta a com- prendere la vera natura della Chiesa, mentre è rischioso il concetto di assimilazione, inteso solo come omologazione delle diverse espressioni di fede rispetto a quella locale; e anche quando queste si valorizzano, si deve evitare anzitutto il rischio «di operare una salvaguardia del diverso ecclesiale».21 È la communio che va salvaguardata. Il problema centrale non è difendere un’espressione culturale, ma costruire la cattolicità del- la Chiesa nelle Chiese particolari. La costruzione della cattolicità in quanto tale deve caratterizzare ogni Chiesa, anche a prescindere dal fenomeno migratorio. I migranti costituiscono, anzitutto, un “problema” ecclesiale, che pone la domanda e la difficoltà di come far vivere a fedeli fuori del loro contesto culturale la propria fede senza appiattimenti o rinnega- menti delle loro peculiarità. Per cui, da un punto di vista pastorale, la mobilità si configura come «un problema di vita cristiana»,22 che va salvaguardata e difesa.

4. Le strutture intese come luoghi di unità e di cattolicità La pastorale dei migranti è una pastorale della Chiesa e di ogni Chiesa particolare; e la corresponsabilità verso lo sviluppo universa- le della Chiesa particolare è di tutti, migranti e autoctoni: si tratta

21 Bonnet, Comunione ecclesiale (nt. 18), 37. 22 L’espressione è di Beyer, Fondamento (nt. 14), 138; e Beyer –Semeraro, Mi- grazioni (nt. 14), 19.

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di «educare i cristiani ad essere Chiesa dappertutto – non solo nella propria comunità d’origine – e a creare dei luoghi di unità ecclesiale all’interno della Chiesa locale stessa. Anche la pastorale delle “migra- zioni” deve avere come obiettivo finale quello dell’unità dei cristiani».23 Alla luce di questo obiettivo si devono valutare la legislazione ca- nonica e le relative modalità in cui è stato declinato normativamente sia lo statuto canonico dei fedeli migranti sia la ricezione di strutture specifiche per la loro cura pastorale. Nonostante l’assenza, o almeno la non formalizzazione, di un diritto dei migranti ad una pastorale specifica, certamente il CIC/83 e il CCEO hanno recepito in buona parte le istanze ecclesiologiche del Vat. II e le strutture specifiche, or- mai collaudate, per rispondere alla cura pastorale dei migranti. Il Codice latino, tentativo di tradurre in linguaggio canonisti- co l’ecclesiologia conciliare, va esaminato esattamente alla luce dello spirito nuovo che lo anima. Proprio l’analisi dei testi conciliari circa la pastorale dei migranti ha mostrato che la Chiesa ha una pastorale specifica per i migranti, che tale pastorale ha una propria ragion d’essere, che è affidata a tutto il popolo di Dio, con ruoli specifici spettanti ai sacerdoti, ai religiosi e ai laici e che necessita di strutture adeguate.24 Nonostante questa lunga e collaudata tradizione, che nella Chiesa ha sempre riservato un peculiare trattamento pastorale ai migranti, tra i diritti fondamentali dei fedeli non viene enunciato quello del migrante ad avere una cura pastorale nel rispetto della propria cultura e lingua,25 anche nel CIC/83, è, tuttavia, possibile rintracciare gli ele-

23 Eugenio Corecco, Considerazione teologica sul tema “emigrazione e cultura”, in La Chiesa di fronte al problema delle migrazioni. Raccolta di scritti ecclesiologici di Eugenio Corecco, op. cit., L. 24 Cf. Velasio De Paolis, La pastorale dei migranti nelle direttive della Chiesa: percorsi di comunione interculturale, in A a.Vv., Comunione e disciplina ecclesiale, Città del Vaticano 1991, 195–225. 25 Su tale assenza ha insistito più volte Piero Antonio Bonnet, “Il diritto-dove-

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menti che, sia pure in modo implicito, contengono di fatto l’enuncia- zione di tale diritto e dovere.26

5. I migranti hanno uno statuto ecclesiale? Preso atto che i testi codiciali non hanno elaborato una formaliz- zazione esplicita del diritto dei migranti ad una pastorale specifica,27 e partendo dalla lettura di alcuni tra i doveri e i diritti che integrano lo statuto che i Codici presentano circa i fedeli in genere, è possibile rintracciare e recepire aspetti specifici atti a configurare uno statuto dei doveri e diritti dei fedeli migranti. Sulla base della pari dignità e comune condizione dei fedeli nella Chiesa, si riconoscono i diritti fondamentali dei fedeli circa gli aiuti spirituali della Chiesa: i migranti, alla pari degli altri fedeli e più di essi, hanno diritto a ricevere i beni spirituali, a esercitare il culto di- vino secondo il proprio rito, a ricevere l’educazione cristiana secondo la propria lingua e cultura e quindi ad avere una pastorale specifica.28 La situazione del migrante coinvolge una necessità fondamenta- le e legittima del fedele poiché chiama in causa direttamente il suo rapporto con Dio. Il fedele migrante ha «il diritto-dovere di attingere Dio, e quindi di salvarsi, senza rinnegare né rinunciare alla propria

re del fedele migrante”, in On the Move 39 (1983) 99–100. L’Autore è tornato sull’argomento anche in I diritti-doveri fondamentali del fedele non formalizzati nella positività canonica umana, in A a.Vv., I diritti fondamentali del fedele. A venti anni dalla promulgazione del Codice, Città del Vaticano 2004, 143–155. 26 Cf. Jean Beyer, “Le nouveau Code de Droit Canonique et la pastorale de la mobilité », in On the Move 39 (1983) 3–28. 27 Cf. Eduardo Baura, Emigrante, in Diccionario General (nt. 5), vol. III, 589– 592; Piero Antonio Bonnet, Diritti dei migranti nella Chiesa, in Battistella, Migrazioni (nt. 2), 390–396. 28 Cf. Josemaria Ferrandis Sanchis, “La pastorale dovuta ai migranti ed agli iti- neranti (aspetti giuridici fondamentali)”, in Fidelium Jura 3 (1993) 460–467; mi permetto di rinviare anche al mio Girovaghi, migranti (nt. 1), 71–82.

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identità di christifidelis sia individuale che comunitario»,29 e per far questo ha bisogno che il diritto ecclesiale gli assicuri tutte le condizio- ni che possano consentirgli di sviluppare coerentemente, nel peculiare contesto comunitario nel quale è inserito, il proprio diverso modo di esprimere e di incarnare l’unità che è insuperabilmente comune a tutti nel Popolo di Dio, pur se, in rapporto alla continuità della “portio populi Dei” nella quale vive, si incarna quale discontinuità.30 La fondamentale uguaglianza di tutti i fedeli e il diritto di ognuno di vivere nella Chiesa secondo la propria condizione postulano per il migrante il riconoscimento della propria e specifica condizione di diversità, che si manifesta nel diritto-dovere all’accoglienza da parte della Chiesa particolare; tale attuazione è un’esigenza ineludibile e ra- dicale per una Chiesa che nasce, si modella e cresce in rapporto a una comunione. Sul modello di tale relazione comunionale, si profila il diritto-dovere a un inserimento e a una partecipazione ecclesiale non discriminanti, per cui far parte di una Chiesa particolare, che ha in sé la dimensione universale e cattolica non esige altro titolo se non il battesimo. Per il migrante diventa necessario, per rendere sempre più completo e visibile l’inserimento della sua particolare diversità nella continuità della Chiesa particolare, godere del diritto-dovere a una cura pastorale specifica.31

29 Cf. Bonnet, “Il diritto-dovere” (nt. 25), 99. 30 Id., Comunione ecclesiale (nt. 18), 48. 31 Cf. Ibidem, 49–51. Per le strutture di pastorale specifica per i migranti, si posso- no vedere gli studi di Antonio Viana, “La sede apostólica y la organización de la asistencia pastoral a los emigrantes”, in Ius Canonicum 43 (2003) 87–121; José San José Prisco, “Los emigrantes en la Iglesia particular”, in Ius Canonicum 43 (2003) 135–165; mi permetto di rinviare anche al mio “Missio ad migrantes: missione della Chiesa. Lineamenti di organizzazione della pastorale della mo- bilità umana”, in Euntes Docete 57 (2004) 39–65.

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6. I tratti organizzativi di una pastorale specifica per i migranti32 La pastorale per i migranti,33 proprio perché specifica, «è per la sua stessa natura straordinaria e provvisoria, appunto perché specifi- ca e dovuta al fatto che quella ordinaria è insufficiente o manca del tutto».34 La pastorale ordinaria con cui la Chiesa provvede a tutti i suoi fedeli è quella offerta nella comunità parrocchiale attraverso il parroco. La pastorale verso i migranti non può e non deve essere alter- nativa o autonoma rispetto a quella che si ha nei confronti dei parroc- chiani, da parte del parroco, responsabile di tutti i fedeli che vivono nel territorio della parrocchia. Inoltre essa non deve neppure limitarsi al «minimum indispensabile, “sufficiente” ed uguale per tutti […], bensì provvedere abbondantemente e adeguatamente ai bisogni spiri- tuali, tenendo sempre presente sia il fine a cui tali mezzi sono indiriz- zati e per cui sono stati istituiti da Cristo, sia le peculiari e specifiche circostanze di vita delle persone».35 L’appartenenza simultanea del migrante alla Chiesa particolare e alla comunità etnica al suo interno comporta da parte della Chiesa «la necessità di piegare le strutture al servizio delle anime, in particolare significa rispetto per il migrante e per il suo inserimento, sia pure gra- duale, nella comunità parrocchiale territoriale […]».36 Di conseguen-

32 «[…] se trata de aquella actividad institucional de la Iglesia, jerárquicamente estructurada y organizada, que en orden a la consecución de su misión – la sal- vación de todas las almas – toma en consideración algunos factores específicos y especiales de las personas, de los que se derivan peculiares necesidades que exigen una atención pastroal especial; es decir, una pastoral que en cuanto a sus contenidos, métodos, cualidades, etc., se diferencia, en un sentido relevante, de la actividad pastoral común y ordinaria»: Josemaría Sanchis, Pastoral especia- lizada, in Diccionario General (nt. 5), vol. V, 951. 33 Cf. Graziano Tassello, Pastorale dei migranti, in Battistella, Migrazioni (nt. 2), 794–806. 34 De Paolis, La pastorale dei migranti (nt. 24), 202. 35 Sanchis, “La pastorale” (nt. 28), 465. 36 De Paolis, La pastorale dei migranti (nt. 24), 202.

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za le strutture che si adeguano ad una pastorale specifica migratoria non sono altro che l’espressione di quella materna sollecitudine che la Chiesa mostra nei confronti dei fedeli, in modo che «non facciano sentire il migrante straniero alla Chiesa particolare nella quale si trova a vivere».37 La pastorale per i migranti dunque, non diversamente dalla pasto- rale ordinaria, ha proprie istituzioni e strutture. Come già indicato dalla Costituzione Exsul familia (1 agosto 1952) e dalla Lettera alle Conferenze episcopali sul tema “Chiesa e mobilità umana” (26 mag- gio 1978), i migranti devono beneficiare di una cura pastorale suffi- ciente e comunque non minore di quella di cui godono gli altri fedeli nella vita della Chiesa. Per corrispondere appieno a tale cura la Chiesa ha elaborato strutture di pastorale per i migranti a diversi livelli: uni- versale, sovradiocesano, diocesano e parrocchiale. Proprio parlando delle strutture si percepisce che l’attenzione della Chiesa si dirige sempre verso le persone, verso i migranti, anzitutto, senza però dimenticare i pastori e tra questi i missionari d’emigrazio- ne. A nessuno sfugge l’importanza che assume l’assistenza pastorale e spirituale degli stessi sacerdoti che seguono i migranti e che esercitano il ministero in una diocesi che, sotto molti aspetti, è ad essi estranea, e non hanno un presbiterio e una comunità nella quale essi si trovino in una situazione di normalità. La legislazione della Chiesa sottopone tali sacerdoti, che continuano a rimanere incardinati alla diocesi di origine, alla giurisdizione del Vescovo presso il quale svolgono il loro ministero pastorale, sia per l’esercizio pastorale sia per la vita perso- nale. Nell’ambito della Chiesa particolare, e all’interno di questa a livel- lo parrocchiale e di strutture vicine alla parrocchia, si possono indi- viduare tre aspetti: il primo investe la responsabilità del Vescovo e dei pastori in genere di essere solleciti verso chi, come il migrante, non

37 Bonnet, Comunione ecclesiale (nt. 18), 39.

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può usufruire della cura pastorale ordinaria, proprio perché si trova a vivere fuori dal proprio domicilio canonico38 e pertanto, in ragione del territorio in cui si trova acquista un particolare legame con quel territorio, in base al quale si stabilisce chi è il suo Ordinario del luogo e chi è il suo parroco; il secondo aspetto si interessa del principio tra- dizionale in base al quale la Chiesa ha sempre organizzato la propria pastorale: il territorio appunto; il criterio territoriale, tuttavia, quando si tratta di pastorale per i migranti perde la sua naturale assolutezza, viene sottoposto a riesame e apre la strada al principio di personalità che viene così canonizzato; quest’ultimo costituisce il terzo profilo sotto il quale analizzare il livello organizzativo della pastorale per i migranti nella Chiesa particolare.39

7. Il primato dei migranti e dei pastori al loro servizio Tale primato emerge anzitutto nell’affermazione della sollecitudine dei Pastori per chi è privo di cura pastorale ordinaria; e sia il Codice latino sia quello orientale, quando espongono la responsabilità pasto- rale dei Vescovi e dei pastori di anime in genere divengono puntuali e precisi40. Ma il primato della persona emerge anche nella descrizione

38 Cf. Francesco Coccopalmerio, La pastorale dei fedeli che si trovano fuori del loro domicilio, in Migrazioni e diritto ecclesiale (nt 18), 193–200. 39 Per questi aspetti rimando al mio Girovaghi, migranti (nt. 1), nel capitolo circa i criteri per costituire una Chiesa particolare, 91–99. 40 Per uno sviluppo postcodiciale, con cenni alla diaspora orientale, si veda Mi- quel Delgado Galindo, “La cura pastorale del Vescovo verso i migranti” nella esortazione apostolica post-sinodale Pastores Gregis, in Elie Raad (a cura di), Système juridique canonique et rapports entre les ordonnancements juridiques, Beyrouth 2008, 613–627; Antonio Viana, Estructuras personales y colegiales de gobierno (Con referencia especial al problema de la movilidad humana y de la diáspora de los catolicos orientales), in Ibidem, 219–246 [pubblicato anche in Folia Canonica 7 (2004), 24–48]. Per uno studio specifico rimando a Astrid Kaptijn, Diaspora, in Diccionario General (nt. 5), vol. III, 295–299.

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del concetto pastorale di migrante, come si legge nell’Istruzione Nemo est, art. 15: «Orbene tutti costoro, pur costituendo categorie umane non poco diverse tra loro, hanno in comune condizioni di vita del tutto partico- lari, che differiscono molto da quelle a cui erano assuefatti in patria, al punto da non poter far capo, per l’aiuto spirituale, al parroco del luogo. Per questo la Chiesa si preoccupa con materna sollecitudine di prestare ad essi un’opportuna assistenza pastorale. È precisamente da questo punto di vista pastorale, di cui ora si tratta, che nel concetto di migranti sono compresi tutti coloro che, per qualunque motivo si trovano a dimorare fuori della patria o della propria comunità etnica e per vere necessità hanno bisogno di un’assistenza particolare». Riflessi diretti ed immediati anche nel campo della pastorale per i migranti ha sicuramente avuto il riesame del principio di territorialità nell’organizzazione della Chiesa. Il Vat. II, tenendo presente la nuova realtà ecclesiale, aveva parlato della parrocchia e della diocesi come porzione o di gruppi del popolo di Dio, liberando il discorso dall’ele- mento territoriale, oggi non più, da solo, adeguato ad esprimere una realtà pastorale diversa, data l’estrema mobilità della popolazione da una parte e particolari esigenze pastorali dall’altra.41 La questione del principio di territorialità fu considerata tanto importante che di essa si occupò fin dall’inizio la stessa Commissione per la revisione del Co- dice per la Chiesa latina e tra i dieci principi direttivi per la revisione dello stesso Codice, proprio in riferimento alla riforma della diocesi e della parrocchia, fu inserito il principio n. 8, dal titolo Ordinamento territoriale nella Chiesa.

41 «Quello che si è voluto rivedere è […] l’esclusività del criterio territoriale, non la sua persistenza»: Angela Maria Punzi Nicolò, Funzione e limiti del principio di territorialità, in Javier Canosa (a cura di), I principi di revisione del Codice di Diritto Canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano 2000, 554–555.

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Anche se il territorio rimane ancora il criterio più diffuso nell’ordi- namento giuridico della vita della Chiesa, esso viene ridimensionato di molto e soprattutto subordinato alle esigenze pastorali. Rimane come principio ordinario, ma non più costitutivo; in ogni caso non è un principio esclusivo, in quanto si possono ammettere altri criteri, dove l’utilità lo consiglia. Frutto di tale riesame è la canonizzazione del principio di perso- nalità.42 Si tratta di un principio innovativo, se si considera che già il Concilio Lateranense IV (1215), che pure aveva indicato la necessità di costituire pastori per i diversi riti o lingue dei fedeli, diceva anche che unico tuttavia doveva essere il Vescovo nel territorio, per non correre il pericolo di creare un monstrum con due teste, sullo stesso territo- rio.43 Il problema è senza dubbio delicato e va pensato con grande ponderazione. Ma già il Concilio vi aveva fatto cenno, per quanto riguarda la soluzione pastorale del problema della mobilità umana.44

42 Sul tema si possono vedere gli importanti contributi di Giuseppe Dall a Tor- re, Le strutture personali e le finalità pastorali, in Canosa I principi (nt. 41), 561–589 e di Jorge Miras, Organización territorial y personal: fundamentos de la coordinación de los Pastores, in Ibidem, 625–666; Valentín Gomez-Iglesias C., El octavo principio directivo para la reforma del Codex Iuris Canonici: el iter de su formulación, in Erdő – Szabó, Territorialità (nt. 4), 169–193; Antonio Via- na, Personalidad [principio de], in Diccionario General (nt. 5), vol. VI, 198–203. 43 Corpus Iuris Canonici, Editio lipsiensis secunda post Aemilius Ludouici Richteri curas ad librorum manu scriptorum et editioni romanae fidem re- cognouit et adnotatione critica instruxit Aemilius Friedberg, Pars secunda, Decretalium Collectiones, Lipsiae 1881 (ristampa: Graz 1959), col. 192: «Prohi- bemus autem omnino, ne una eademque civica dioecesis diversos pontifices habeat, tanquam unum corpus diversa capita, quasi monstrum». Sull’impor- tanza di questo principio rimando al saggio di Orazio Condorelli, Unum corpus diversa capita. Modelli di organizzazione e cura pastorale per una “varietas Ecclesiarum”, Roma 2002. 44 Cf. Hervé-Marie Legrand, “One Bishop per City. Tension around the Expres- sion of the Catholicity of the Local Church since Vatican II”, in The Jurist 52 (1992) 369–400.

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L’organizzazione della cura pastorale su base personale trova am- pia attuazione nell’ambito delle circoscrizioni parrocchiali e di altre simili o all’interno di esse.45 Esempio tipico di parrocchia personale è quella costituita in favore dei migranti di una determinata lingua o nazione,46 ma non mancano parrocchie per i fedeli orientali costituite in diocesi latine e per i fedeli latini in eparchie orientali. Le parrocchie personali per i migranti sono caratteristiche, tra l’altro, per la possi- bilità che i migranti hanno di scegliere liberamente di appartenere alla parrocchia territoriale nella quale vivono oppure alla parrocchia personale. Il criterio personale diventa principio di appartenenza ad una par- rocchia, insieme al domicilio o al quasi-domicilio, in modo che chi appartiene ad una parrocchia personale appartiene contemporanea- mente anche alla parrocchia territoriale; pertanto il parroco territo- riale ha potestà cumulativa con il parroco personale sui fedeli della parrocchia personale, a meno che non risulti diversamente dal decreto di erezione emanato dalla competente autorità. La potestà cumulativa non si estende però anche al parroco personale, in modo che questi la

45 Cf. Jean Claude Perisset, Migrazioni e vita parrocchiale, in Migrazioni e diritto ecclesiale (nt 18), 55–65. Sulle strutture specifiche e affini alla parrocchia è utile il contributo di Eduardo Baura, La cura pastorale extraparrocchiale, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), La parrocchia, Milano 2005, 245–281. Sui modelli tradizionali e nuovi della pastorale per i migranti rinvio al mio Fondamenti e modelli (nt. 12), 74–94. Circa i modelli nuovi in- dicati dall’Istruzione EMCC non sempre vi è chiarezza e distinzione tra le diverse strutture proposte; in tal senso già Galindo, “La cura pastorale” (nt. 40), 617, nota 6. 46 Oltre ai contributi già indicati nella nota 5, rimando anche agli studi meno recenti di Giangiacomo Sarzi Sartori, “La parrocchia personale nell’attuale disciplina della Chiesa”, in Quaderni di diritto ecclesiale 2 (1989) 165–173; Char- les Scicluna, “La parrocchia personale e la missione con cura di anime affidate ai religiosi”, in Informationes SCRIS 15 (1989) 258–277; Aleksander Sobczak, “Las parroquias para los emigrantes en el derecho canónico latino”, in Ius Ca- nonicum 34 (1994) 227–278.

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detiene esclusivamente sui fedeli della parrocchia personale. Rimane chiaro anche che la parrocchia personale è eretta in base ad un cri- terio territoriale complementare, vale a dire che tale parrocchia viene comunque costituita per fedeli che vivono all’interno di un territorio.

8. La “cattolica diversità” intraecclesiale: il caso della cura pastorale degli orientali in diaspora A partire dalla promulgazione del CCEO, con la crescente migra- zione di fedeli orientali dall’Asia e dal Medio Oriente, dall’Europa centrale e orientale verso i paesi occidentali, è riemersa con maggiore vivacità l’attenzione per una specifica cura pastorale dei fedeli migran- ti orientali; per essi la storia passata e recente, all’interno della Chie- sa, ha aperto un ambito che già altrove ho definito «diaspora nella diaspora».47 Si tratta di una esperienza che ha portato alla ribalta nella Chiesa stessa uno scenario che ha creato la categoria, per così dire, della legittima “cattolica diversità” intraecclesiale. Ci si chiede, allo- ra, quali strutture pastorali adeguate si possano approntare per quei cattolici orientali che migrano e si stabiliscono in territori latini, dove manca il proprio parroco oppure dove non è costituita una gerarchia orientale propria? Le domande implicano la risoluzione di questioni, antiche e nuo- ve, concernenti molteplici aspetti: anzitutto l’esistenza, all’interno dell’unica Chiesa cattolica, di una legitima varietas, comprendente le Chiese orientali e non solo la Chiesa latina, e quindi le problemati- che circa l’ascrizione ad una Chiesa sui iuris con l’eventuale passag- gio ad un’altra Chiesa sui iuris; la cura pastorale di fedeli orienta- li affidati ad un Vescovo o ad un parroco latino48, in mancanza del

47 Dimitrios Salachas – Luigi Sabbarese, Chierici e ministero sacro nel Codice latino e orientale. Prospettive interecclesiali, Città del Vaticano, 2004, 371. 48 Cf. Massimo Mingardi, “La cura pastorale dei fedeli orientali nelle circoscri- zioni latine”, in Quaderni di diritto ecclesiale 21 (2008) 60–78.

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Gerarca o del parroco proprio;49 la costituzione di eparchie orientali in territori latini; l’amministrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana50 e degli altri sacramenti a fedeli orientali da parte di mi- nistri latini;51 problematiche concernenti il matrimonio interecclesia- le e/o interconfessionale;52 aspetti che riguardano la vita consacrata nell’ammissione e/o nel passaggio da un istituto latino a uno orientale e viceversa;53 e, ultimamente, in toni più accentuati, la condizione e l’esercizio del ministero di presbiteri orientali uxorati dimoranti in territori latini.54

49 Cf. Luis Okulik, Configurazione canonica delle Chiese orientali senza gerarchia, in Id. (a cura di), Le Chiese sui iuris. Criteri di individuazione e delimitazione, Venezia 2005, 209–228. 50 Cf. Luis Okulik, L’iniziazione cristiana dei fedeli di rito orientale nei territori della Chiesa latina, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), Iniziazione cristiana: confermazione ed Eucaristia, Milano 2009, 235–254. 51 Tra gli altri, indico qui i contributi di Péter Erdő, “Questioni interrituali del diritto dei sacramenti (battesimo e cresima)”, in Periodica 84 (1995), 315–353; l’Autore ha proposto una versione aggiornata in Id., “Questioni interrituali (interecclesiali) del diritto dei sacramenti (battesimo e cresima)”, in Folia Ca- nonica 1 (1998), 9–35; Id., “Problemi interrituali (interecclesiali) nell’ammini- strazione del sacramento della penitenza”, in Periodica 90 (2001) 437–453; Id., “Disciplina penitenziale interrituale (interecclesiale) nella Chiesa cattolica”, in Folia Canonica 3 (2000) 43–52. 52 Sulle svariate combinazioni che si determinano a motivo della mobilità umana in ambito matrimoniale è assai illuminante il volume monografico di Joseph Prader, La legislazione matrimoniale latina e orientale. Problemi interecclesiali, interconfessionali e interreligiosi, Roma 1992. 53 Cf. Lorenzo Lorusso, Case religiose di rito diverso: problematiche e norme cano- niche, in Okulik, Le Chiese sui iuris (nt. 49), 131–161. 54 Per una trattazione più ampia circa la compresenza sul medesimo territorio di presbiteri celibatari e presbiteri orientali sposati, vedi il mio contributo Presbi- teri orientali uxorati ed esercizio del ministero in diaspora, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), Il sacramento dell’ordine, Milano 2011, 211–235.

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I migranti orientali cattolici sono tenuti all’obbligo di osservare dovunque il proprio rito, inteso come patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, secondo la definizione data dal can. 28§1 del CCEO; e bisogna avere la possibilità effettiva di adempiere quest’ob- bligo.55 La gerarchia latina locale ha l’obbligo di garantire l’osservanza del proprio rito dei migranti cattolici orientali e il contatto con la ge- rarchia orientale propria di questi fedeli, specie con il Patriarca e il Vescovo eparchiale. Per garantire adeguatamente lo stato giuridico dei migranti cat- tolici orientali che hanno il domicilio o il quasi-domicilio in territori dove manca il proprio parroco oppure nei luoghi dove non è costituita una gerarchia orientale propria, e per assicurare la cura pastorale dei fedeli migranti di un’altra Chiesa sui iuris, è assai raccomandabile che si favorisca una specifica azione pastorale da parte di sacerdoti del me- desimo rito, quando ciò è possibile, o da parte di altri ministri sacri, osservando sempre l’unità cattolica nella diversità delle tradizioni e dei riti propri. La sfida della interecclesialità, sia tra cattolici latini e orientali, sia tra cattolici e acattolici, ortodossi e protestanti, si sperimenta mag- giormente nel ministero sacro; esso costituisce un osservatorio pri- vilegiato per mettere in luce sia le problematiche legate alla relazione tra CIC e CCEO sia le prospettive da assumere per la risoluzione di questioni che investono non solo l’ambito giuridico, ma anche quello dottrinale e pastorale. Ambiti privilegiati di interecclesialità sono soprattutto quelli ine- renti alla celebrazione e all’amministrazione dei sacramenti, ma anche altri che riguardano l’ascrizione ad una Chiesa sui iuris, l’incardina- zione, l’escardinazione e l’esercizio del ministero sacro in una Chiesa

55 Rinvio qui a Lorenzo Lorusso, Gli orientali cattolici e i pastori latini. Proble- matiche e norme canoniche, Roma 2003.

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diversa da quella di origine, la licenza di “biritualismo”, di “cambia- mento del rito”, l’ammissione di fedeli e la formazione di seminaristi orientali in Istituti religiosi latini e viceversa, la collaborazione tra gerarchia latina e orientale in vari ambiti della vita ecclesiale.56 Una questione solo accennata in dottrina riguarda i chierici orien- tali uxorati e il loro ministero per i fedeli orientali in diaspora.57 Già prima della promulgazione del CCEO, in pratica dalla fine del XIX secolo, era invalsa la prassi di inviare in diaspora anche sacerdoti orientali uxorati; tale prassi fu però bloccata dagli interventi sopra ci- tati; per cui si ritenne di rinviare la trattazione della questione a dopo la promulgazione del CCEO. Oggi, a Codice orientale promulgato, la dottrina si interroga ancora se i tre decreti proibitivi siano ancora in vigore oppure sono stati aboliti. Il divieto per la diaspora fu introdotto, dietro richiesta dell’episco- pato latino, preoccupato che l’ammissione di fedeli coniugati al pre- sbiterato potesse suscitare la admiratio fidelium ed avrebbe influenzato negativamente il clero latino, per antica tradizione celibatario.

56 Di questi aspetti mi sono occupato ampiamente nel già citato lavoro Salachas – Sabbarese, Chierici (nt. 47), 193–375. 57 Per gli interventi in proposito, si veda Lorenzo Lorusso, “Estensione della potestà patriarcale e sinodale in diaspora: designazione dei Vescovi, erezione di circoscrizioni ecclesiastiche, clero uxorato”, in Angelicum 83 (2006) 863–864, poi pubblicato anche in Luis Okulik (a cura di), Nuove terre e nuove Chiese. Le comunità di fedeli orientali in diaspora, Venezia 2008, 118–120. Un cenno sulla non concessione delle dispense a sacerdoti orientali uxorati per l’esercizio del ministero in America si trova anche in Pablo Gefaell, Impegno della Con- gregazione per le Chiese orientali a favore delle comunità orientali in diaspora, in Ibidem, 145; e in Maria Ionela Cristescu, L’incidenza dello ius particulare nelle Chiese della diaspora, in Ibidem, 213. Per interventi più specifici e recenti rinvio al mio contributo Presbiteri orientali uxorati (nt. 54), 211–235 e agli studi di Federico Marti, “La legislazione vigente sulla presenza di clero cattolico orientale nei territori dell’occidente”, in Ius Ecclesiae 23 (2011) 605–626, e di Dimitrios Salachas, I ministri sacri orientali nelle circoscrizioni latine, in Ge- faell, Cristiani orientali (nt. 6), 135–141.

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La prospettiva di una revisione della questione, che avrebbe potuto prevedere un’abrogazione delle norme speciali della Sede Apostolica, ancora in vigore, è stata bloccata in partenza, atteso che di recente è stato reiterato il divieto di inviare in diaspora sacerdoti orientali uxorati, sia nei territori in cui esiste già una gerarchia orientale, sia nei territori in cui non esiste una gerarchia orientale e i fedeli orientali sono sotto la potestà dell’Ordinario latino.

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ECL_2013_158×222.indd 248 7/27/2013 10:35:05 AM Rapporti tra orientali cattolici ed ortodossi nel CCEO*

Pablo Gefaell

Sommario: 1. La capacità giuridico-canonica delle Chiese ortodosse; 2. Rapporti tra cattolici ed ortodossi nell’ambito del diritto matrimoniale; 3. Rapporti nell’am- bito del battesimo; 4. Sugli ortodossi che vogliono convenire all’unità cattolica; 5. Norme sulla communicatio in sacris nell’Eucaristia, Penitenza e Unzione dei malati; 5.1 Necessità di consultare la gerarchia ortodossa prima di stabilire norme particolari sulla condivisione sacramentale; 5.2 Perché la Chiesa cattolica permette la condivisione di alcuni sacramenti con gli ortodossi?; 5.3 Condizioni per poter condividere l’Eucaristia; 5.4 I cattolici che si accostano all’Eucaristia ortodossa; 5.5 Altre indicazioni sull’Eucaristia in ambito ecumenico.

In questo articolo vorrei presentare sommariamente le norme del Codice dei Canoni delle Chiese orientali che riguardano i rapporti tra cattolici e ortodossi. Mi rivolgo ad un pubblico prevalentemente orientale-cattolico, in un paese –Romania– a stragrande maggioranza ortodossa. Perciò, l’argomento ha bisogno di un approccio diverso a quello in cui sono abituato ad operare. Infatti, mi dedico soprattutto a promuovere la conoscenza del Diritto canonico orientale in paesi a maggioranza cattolica e latina, e finora i miei studi sull’argomento hanno considerato prevalentemente gli immigrati ortodossi che in pa- esi a maggioranza latina, come Spagna e Italia, si rivolgono ai pastori cattolici per mancanza di sacerdoti della propria Chiesa ortodossa. In risposta a tali richieste, qualche anno fa la Conferenza episcopale spagnola ha pubblicato un documento sui servizi pastorali offerti agli ortodossi1 e poco dopo quella italiana ha approntato il suo proprio

* Conferenza tenuta al congresso «Codex Canonum Orientalium 1990–2010:

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“Vademecum”2 per dare criteri di azione in questi casi. Penso che in Romania, specialmente la Chiesa Arcivescovile Mag- giore Romena potrebbe redigere anche qualche documento per chia- rire i rapporti con la Chiesa ortodossa romena, tenendo conto che le necessità pastorali sono molto diverse da quelle dei documenti citati e considerando anche le peculiari circostanze dei rapporti ecumenici in questo paese. Come ben sapete, il Concilio Vaticano II ha voluto sottolineare che le Chiese orientali cattoliche hanno un ruolo ecumenico molto rilevante, specialmente riguardo le Chiese ortodosse (OE 24). Pre- ghiamo perché la Chiesa Greco-cattolica Rumena Unita con Roma sappia diventare sempre di più “ponte” d’unione con la Chiesa orto- dossa Rumena. Siete consapevoli che non è compito facile, e ritengo che per una buona riuscita sia necessario che nei rapporti ecumenici si proclamino lealmente le proprie convinzioni di fede, si viva fedel- mente la propria disciplina e si sappia spiegare bene i suoi fondamenti. Infatti, tutti i documenti magisteriali e disciplinari emanati dalla Sede Apostolica sui rapporti tra cattolici ed ortodossi intendono dare

Receptare și aplicabilitate în Bisericile sui iuris», Sediul Curiei Arhiepiscopie Majore – Blaj [Romania], 29–31 ottobre 2010. 1 Conferenza episcopale spagnola, “Servicios pastorales a orientales no católicos”. Orientaciones, approvato nella LXXXVI Assemblea Plenaria della stessa Conferenza episcopale (27–31 marzo 2006), in Boletín Oficial de la Con- ferencia Episcopal Española, anno XX, nº 76 (30 giugno 2006) 51–55 [d’ora in poi: CEE, Orientaciones]. Cf., anche, Pablo Gefaell, “Nota ai documenti della Conferenza Episcopale Spagnola «Orientaciones para la atención pastoral de los católicos orientales en España (17–21 de noviembre de 2003)» e «Servicios pastorales a orientales no católicos. Orientaciones (27–31 de marzo de 2006)»”, in Ius Ecclesiae 18 (2006) 861–876. 2 Conferenza Episcopale Italiana – Ufficio nazionale per l’ecumeni- smo e il dialogo interreligioso & Ufficio nazionale per i problemi giuridici, Vademecum per la cura pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali non cattolici, 23 febbraio 2010, in www.chiesacattolica.it [d’ora in poi: CEI, Vademecum].

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criteri per garantire che l’attività ecumenica sia svolta in armonia con l’unità di fede e di disciplina che unisce i cattolici fra di loro, evitando confusione dottrinale ed abusi che porterebbero all’indifferentismo ecclesiologico o all’indebito proselitismo (cf. DE 1993, nn. 6 e 23). Il fatto di sostenere con lealtà le proprie convinzioni intende evitare so- luzioni soltanto apparenti che alla fine non porterebbero a dei risultati né fermi né solidi (cf. Ut unum sint, n. 79). «Nel corpo di Cristo, il quale è “via, verità e vita”, chi potrebbe ritenere legittima una riconci- liazione attuata a prezzo della verità?» (ibid., n. 18).3 A proposito del termine “proselitismo”, vorrei fare un chiarimento che mi sembra necessario. Molti anni fa, uno studente greco-cattolico romeno, dopo aver constatato che il magistero condannava il prose- litismo (cf. Ad Gentes n. 13; Dignitatis humanae n. 4; DE 1993 n. 23), mi chiese imbarazzato se per caso egli non poteva né desiderare né fare alcunché per promuovere la piena unità con il Santo Padre. Io gli fece notare che, come diceva Giovanni Paolo II, quei testi magi- steriali parlano semplicemente del «rifiuto di ogni formaindebita di proselitismo, evitando in modo assoluto nell’azione pastorale qualsiasi tentazione di violenza e qualsiasi forma di pressione».4 Tale condanna, quindi, non significa che i cattolici non possano e debbano proclama- re, con carità ma con chiarezza, la loro fede nella volontà di Cristo riguardo la necessaria unità con il Romano Pontefice, successore di Pietro. Così lo ribadisce la Congregazione per la Dottrina della Fede: «Con i cristiani non cattolici, il cattolico deve entrare in un dialogo rispettoso della carità e della verità: un dialogo che non è soltanto uno scambio di idee ma di doni, affinché si possa offrire loro la pienezza

3 Cf. Pablo Gefaell, “L’ecclesiologia eucaristica e il primato del vescovo di Roma”, in Aa.Vv. Escritos en honor de Javier Hervada, in Ius Canonicum [volu- men especial año 1999], 247–264 [qui, 248]. 4 Giovanni Paolo II, lett. Mentre si intensificano [a tutti i Vescovi d’Europa sui rapporti tra cattolici orientali e gli ortodossi nell’Europa dell’Est], 31. V. 1991, n. 5, in AAS 84 (1992) 163–168.

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dei mezzi di salvezza (…). In questo caso non si tratta di proselitismo, nel senso negativo attribuito a questo termine. (…) tale iniziativa non priva del diritto né esime dalla responsabilità di annunciare in pie- nezza la fede cattolica agli altri cristiani, che liberamente accettano di accoglierla (…). La testimonianza alla verità non intende imporre alcunché con la forza, né con un’azione coercitiva né con artifici con- trari al Vangelo».5 Infatti, già la dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae aveva affermato che «le comunità religiose hanno il diritto di non essere impedite di insegnare e di testimoniare pubblicamente la propria fede a voce e per iscritto» (Dignitatis Humanae n. 4). All’inizio dei lavori della nuova codificazione orientale furono stabiliti alcuni principi ispiratori per guidare la Commissione lungo tutto il processo redazionale. Uno di questi principi affermava che «il futuro codice dichiarerà di valere solo per coloro che appartengono legittimamente ad una Chiesa Orientale Cattolica»,6 e così è stato raccolto nel primo canone del CCEO. Alcuni autori hanno detto che non era necessario dirlo, perché ovvio; tuttavia è sembrato opportuno esplicitarlo per lasciar chiaro che non esiste la minima pretesa di ap- plicare il codice agli ortodossi. Comunque, ci sono non pochi canoni che stabiliscono criteri per i rapporti con gli ortodossi. Benché il Santo Padre Giovanni Paolo II abbia affermato che tutte le norme del codice orientale favoriscono l’unità dei cristiani,7 non tratteremo qui dell’attività ecumenica in senso stretto (dialogo, pre-

5 Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota Doctrinalis de qui- busdam rationibus evangelizationis, 3. XII. 2007, n. 12, in AAS 100 (2008) 489– 504 (traduzione italiana in www.vatican.va). 6 PCCICOR, “Principi direttivi per la revisione del codice di Diritto canonico orientale – Carattere ecumenico del CICO”, n. 1, in Nuntia 3 (1976) 5. 7 “Non vi è norma del codice che non favorisca il cammino dell’unità tra tutti i cristiani e vi sono chiare norme per le Chiese orientali cattoliche su come pro- muovere questa unità”, Giovanni Paolo II, Discorso al Sinodo dei Vescovi nella presentazione del “Codice dei Canoni delle Chiese orientali”, 25. X. 1990, n. 13, in L’Osservatore Romano 27 ottobre 1990, 4–5.

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ghiere ed attività comuni, ecc.), di cui tratta il titolo XVIII del CCEO (cc. 902-908). Neppure mi soffermerò troppo sulle norme riguardanti i battezzati acattolici che convengono alla piena comunione con la Chiesa cattolica (CCEO tit. XVII, cc. 896-901).8 Analizzeremo invece le conseguenze di alcuni punti normativi in cui sono implicati gli ortodossi: in primo luogo vedremo brevemente alcune norme che ci faranno riflettere sulla capacità giuridica delle Chiese ortodosse; poi parleremo di alcune possibilità ecumeniche in ambito matrimoniale; seguirà una breve esposizione delle norme sul battesimo riguardanti i rapporti con gli ortodossi; più avanti tratte- remo un po’ delle norme sull’accoglienza degli fedeli ortodossi che convengono all’unità cattolica; e finalmente lo studio si centrerà sulla communicatio in sacris e le sue basi teologiche.

1. La capacità giuridico-canonica delle Chiese ortodosse9

Le norme contenute nel CCEO cc. 780 § 2 e 781 (raccolte anche negli artt. 2 e 4 della Dignitas Connubii) pongono la questione di fino a che punto la Chiesa cattolica riconosce la capacità dei vescovi ortodossi di fare leggi. A mio parere, non si tratta di una semplice “canonizzazione” di norme non canoniche, bensì del riconoscimento della loro canonicità.10 A mio avviso, conseguenza di questo riconosci- mento è il decreto della Segnatura Apostolica del 3 gennaio del 2007, con cui si stabilisce che un fedele ortodosso sposato solo civilmente

8 Cf. Pablo Gefaell, L’ammissione alla piena comunione di quanti provengono da altre confessioni, in Aa.Vv. Iniziazione cristiana: profili generali (Quaderni della Mendola 16), Milano 2008, 155–172. 9 Cf. Pablo Gefaell, “El Derecho oriental desde la promulgación del CIC y del CCEO”, in Ius canonicum 49 (2009) 37–65. 10 Cf. Pablo Gefaell, Basi ecclesiologiche della giurisdizione delle Chiese ortodosse sui matrimoni misti, en J. Carreras (a cura di), La giurisdizione della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia, Roma 1998, 127–148.

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contro le leggi ortodosse, che poi desideri sposare una parte cattolica, non ha bisogno di introdurre una causa giudiziale di nullità matri- moniale ma basta l’investigazione prematrimoniale svolta dal parroco o dal Gerarca per dichiararlo libero di sposare, perché il matrimonio celebrato senza benedizione del proprio sacerdote ortodosso si ritiene inesistente.11 In stretto collegamento con ciò che abbiamo appena detto, bi- sogna domandarsi sulla capacità dell’autorità ortodossa di fare sen- tenze giudiziali riconosciute dalla Chiesa cattolica. Sappiamo che il 20 ottobre 2006 la Segnatura Apostolica dichiarò che le sentenze di “annullamento” del matrimonio precedente emesse dalla Chiesa orto- dossa rumena non erano riconosciute valide al fine di ammettere una parte ortodossa al matrimonio misto in Chiesa cattolica.12 Tuttavia, tale dichiarazione non pretende basarsi sull’incapacità ortodossa per fare sentenze, bensì sul fatto che quelle specifiche sentenze sono in realtà di divorzio, cosa che la Chiesa cattolica ritiene contraria al dirit- to divino. Quindi, se eventualmente l’autorità ortodossa facesse una autentica sentenza di dichiarazione di nullità del matrimonio (cosa purtroppo poco probabile) non vedo perché la Chiesa cattolica non potrebbe accettarla.13

11 Segnatura Apostolica, Decreto del 3 gennaio 2007, P.N. 38964/06 VT, pub- blicato con relativo commento di Gian-Paolo Montini, “La procedura di in- vestigazione prematrimoniale è idonea alla comprovazione dello stato libero di fedeli ortodossi che hanno tentato il matrimonio civile”, in Periodica de re canonica 97 (2008) 47–98. 12 Cf. Segnatura Apostolica, Dichiarazione del 20 ottobre 2006, P.N. 37577/05 VAR, in Communicationes 39 (2007) 66–67. 13 Cf. Pablo Gefaell, “La giurisdizione delle Chiese ortodosse per giudicare sulla validità del matrimonio dei loro fedeli”, in Ius Ecclesiae 19 (2007) 773–791.

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2. Rapporti tra cattolici ed ortodossi nell’ambito del diritto matrimoniale

Ovviamente i matrimoni misti sono il terreno di più frequenti rap- porti vitali e giuridici tra i fedeli ortodossi e cattolici, la cui disciplina –suppongo– è ormai ben conosciuta da voi, perciò non mi soffermerò troppo su di essa. Soltanto vorrei citare una indicazione del Direttorio ecumenico del 1993: «L’obbligo, imposto da alcune Chiese [ortodosse] (…), di osservare la forma del matrimonio loro propria non costituisce una causa di automatica dispensa dalla forma canonica cattolica. Le situazioni particolari di questo tipo devono essere oggetto di dialogo tra le Chiese, almeno a livello locale» (DE 1993, n. 155). Non posso ora trattare di tutti i dettagli sui matrimoni misti, ritengo che una buona esposizione della normativa si trova nel Vademecum della CEI, ai nn. 14, 32-42 e 44–47.

Tuttavia, i matrimoni misti non sono gli unici casi in cui si danno i rapporti tra queste Chiese nell’ambito del diritto matrimoniale. Ve- diamo qualche altro esempio.

La possibilità che –in caso di mancanza di rispettivo sacerdote competente– il matrimonio di due ortodossi sia benedetto da un sa- cerdote cattolico (CCEO can. 833) e, viceversa, che il matrimonio di due cattolici celebrato in forma straordinaria possa essere benedetto da un sacerdote ortodosso (CCEO can. 832 § 2) è una eventualità poco frequente in un paese come la Romania, ma non in altri luoghi. Tale possibilità fa interrogarci sul senso di tale benedizione. Perso- nalmente penso che questa benedizione non significa che il sacerdote “celebri” quel matrimonio, perché egli non è competente per la forma canonica:14 né il sacerdote cattolico è competente per il matrimonio

14 Il Vademecum della CEI è della stessa opinione. Infatti, al n. 43 afferma: «Que-

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di due ortodossi15 né il sacerdote ortodosso per il matrimonio di due cattolici.16 Si tratta piuttosto di una benedizione annessa ad un ma- trimonio già celebrato validamente con forma straordinaria. Tutta- via, non possiamo negare che per gli orientali quest’affermazione sia difficile da capire, perché il semplice fatto che il sacerdote benedica i coniugi si confonde facilmente con la celebrazione stessa del matrimo- nio, giacché nella disciplina orientale la benedizione è parte essenziale della celebrazione del sacramento del matrimonio.

3. Rapporti nell’ambito del battesimo

Non considererò qui l’ormai nota normativa sui padrini, ecc., ben- sì soltanto alcuni pochi punti che mi sono sembrati specialmente in- teressanti. Può sorprendere un po’ la possibilità prevista dal CCEO che un figlio di genitori ortodossi possa essere battezzato da un sacerdo- te orientale cattolico, ma rimanendo ascritto alla Chiesa ortodossa (CCEO can. 681 § 5). Oltre che in pericolo di morte, questo può accadere soltanto a richiesta spontanea dei genitori e in mancanza di sacerdoti ortodossi, cosa poco probabile in un paese come la Roma- nia. Può invece capitare più spesso in paesi a maggioranza cattolica e, perciò, i citati documenti delle Conferenze episcopali spagnola ed

sta benedizione differisce dalla forma canonica. La Chiesa cattolica rispetta, in tale ambito, la giurisdizione dell’autorità della Chiesa orientale non cattolica cui appartengono i nubendi. Pertanto, per poter conferire la benedizione è necessa- rio che tale Chiesa riconosca la validità di quel matrimonio. Spetta alla Chiesa non cattolica provvedere che esso sia registrato e ottenga gli effetti civili». 15 Nessuno degli sposi appartiene alla Chiesa del sacerdote, come invece è richie- sto dai codici: cf. CIC can. 1109 e CCEO can. 829 § 1. 16 Il sacerdote ortodosso non è né Gerarca né parroco del luogo cattolico, né può essere validamente delegato, come invece richiedono i codici: CCEO can. 828 § 1 e CIC can. 1108 § 1.

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italiana hanno completato la norma del canone orientale stabilendo che «in questo caso, il battesimo non deve essere registrato nel registro dei battesimi della parrocchia cattolica, bensì in un apposito registro diocesano, consegnando il relativo certificato ai genitori».17 Il CIC non prevede tale possibilità per i sacerdoti latini, anzi, secondo il CIC can. 868 § 1 il ministro del battesimo deve avere la fondata speranza che il bambino sarà educato nella religione cattolica, senza eccezioni, cosa che impedisce applicare la norma orientale ai ministri latini. Come dicevo, non so se qualche volta i sacerdoti orientali cattolici in Romania abbiano ricevuto tali richieste da parte di fedeli ortodossi, lo dubito molto. Sapete bene che invece il caso contrario è capitato frequentemente durante il tempo in cui la Chiesa greco-cattolica è stata soppressa dal regime comunista, vale a dire: molti genitori greco- cattolici –per mancanza di propri sacerdoti– chiedevano il battesimo dei loro figli ai sacerdoti ortodossi, desiderando però che essi fossero cattolici, anche se in pratica rimanevano registrati come ortodossi.18 Per questi casi, le Conferenze episcopali spagnola e italiana hanno sta- bilito che: «il figlio di genitori cattolici o l’adulto che, desiderando es- sere cattolico, ha invece ricevuto il battesimo in una Chiesa orientale non cattolica per causa di estrema necessità può rettificare la propria situazione tramite registrazione nel libro dei battesimi della parroc- chia cattolica».19 Esiste una prassi della Congregazione per le Chiese orientali che suscita degli interrogativi: infatti, secondo la Congregazione, il figlio di un matrimonio misto va ritenuto sempre cattolico, anche quando sia stato battezzato nella Chiesa del genitore ortodosso. Personalmente

17 CEI, Vademecum, n. 10; Cf. CEE, Orientaciones, n. 7. 18 Bisogna dire che per i genitori cattolici il CCEO non prevede la possibilità di chiedere il battesimo ad un ministro non cattolico, ma se mancasse il sacerdote proprio, il battesimo può essere conferito da altri fedeli cristiani, anzi dagli stessi genitori (CCEO can. 677 § 2). 19 CEI, Vademecum, n. 59; Cf. CEE, Orientaciones, n. 26.

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penso che tale direttiva si basa su un’interpretazione del CCEO can. 29 § 1 che non tiene conto del cambio di contesto operato dal CCEO can. 814 (=CIC can. 1125): secondo questo canone, nei matrimoni mi- sti la parte cattolica deve promettere “fare tutto il possibile” affinché i figli siano battezzati ed educati nella Chiesa cattolica, riconoscendo così implicitamente che in qualche caso può capitare che, malgrado aver fatto tutto il possibile, il figlio non sia stato ascritto alla Chiesa cattolica.20 Comunque, finora la suddetta prassi della Congregazione continua in vigore.

4. Sugli ortodossi che vogliono convenire all’unità cattolica

I documenti delle Conferenze episcopali che abbiamo citato pre- vedono che il fedele ortodosso che spontaneamente desidera diventare cattolico deve fare richiesta scritta al Vescovo diocesano, che valuterà le rette disposizioni del candidato.21 Tuttavia nella disciplina orientale si permette che anche sia il parroco ad accogliere i laici, a meno che il diritto particolare abbia stabilito diversamente (CCEO can. 898 § 3); quindi in una Chiesa orientale non ritengo che il Vescovo debba intervenire per l’accoglienza di laici.

20 Cf. Dimitri Salachas, Lo status giuridico del figlio minorenne nei matrimoni misti tra cattolici ed ortodossi. Un problema ecclesiologico, giuridico ed ecume- nico, in Ius canonicum in Oriente et in Occidente. Festschrift für Carl Gerold Fürst zum 70. Geburtstag, Hrsgg. von Hartmut Zapp – Andreas Weiss – Ste- fan Korta (Adnotationes in ius canonicum 25) Freiburg/Bg. 2003, 743–758; Reinhild Alhlers, Rituszugehörigkeit und Rituswechsel nach CIC und CCEO, in ibid., 423–432; Astrid Kaptijn, “Le satut juridique des enfants mineurs nés des mariages mixtes catholiques-orthodoxes”, in L’année canonique 46 (2004) 259–268; Pablo Gefaell, “Matrimonio misto ed ascrizione ecclesiastica dei propri figli: una questione riaperta? Riflessioni su alcune considerazioni recen- ti”, in Folia Canonica 12 (2009) 153–166. 21 Cf. CEI, Vademecum, n. 49; CEE, Orientaciones, n. 23.

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Un altro caso d’incorporazione alla Chiesa cattolica è quello pre- visto in una risposta privata del 2002, in cui la Congregazione per le Chiese orientali ha indicato che l’ortodosso minore di 14 anni adot- tato da genitori latini diventa automaticamente cattolico e latino.22 Mi sembra ragionevole che i figli minorenni seguano la Chiesa dei genitori, e in linea di massima l’adozione stabilisce un vincolo filiale. Comunque, in alcuni casi bisognerebbe valutare altre circostanze per vedere se sia ragionevole che l’adottato perda il patrimonio rituale di nascita (p. es. nel caso di un ragazzo ormai quasi quattordicenne e con adozione non piena). Il CCEO can. 35 ha provocato molte discussioni. Questa norma stabilisce a quale Chiesa sui iuris debba ascriversi un non cattolico che conviene alla piena comunione cattolica. Come non ha una clausola d’invalidità (cf. CCEO can. 1495 – CIC can. 10) alcuni considerano che questo canone riguarda soltanto la liceità dell’ascrizione (vale a dire, ritengono valida l’ascrizione anche se non fosse fatta nella Chiesa corrispondente a quella di origine). Invece altri23 sostengono che, non trattandosi di un “atto” giuridico bensì di un “fatto” giuridico, l’a- scrizione è automatica alla Chiesa cattolica parallela a quella di prove- nienza ed ogni altra ascrizione sarebbe invalida (a meno che si ricorra alla Sede Apostolica). L’argomento merita una risposta autorevole.

22 Congregazione per le Chiese Orientali, Ukranian Orthodox Infant Ascri- bed to Rite of Adoptive Parents, in Stephen F. Pedone – James I. Donlon (eds.), Roman Replies and CLSA Advisory Opinions (2003), Washington D.C. 2003, 23–24. 23 John D. Faris, “A Canonical Examination of the Acquisition, Consequences and Loss of Membership in a Church – A Catholic Perspective”, in Folia Ca- nonica 4 (2001) 135–153:148; Victor J. Pospishil, Eastern Catholic Church Law, Staten Island [N.Y.] 21996, 125; Francis Marini, “Ipso iure Adscription to a Catholic Church sui iuris of Baptized Converts”, in Pedone – Donlon (eds.), Roman Replies (nt. 22), 114–116 [qui, 115].

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5. Norme sulla communicatio in sacris nell’Eucaristia, Penitenza e Unzione dei malati

Passiamo ora ad un punto nevralgico: la condivisione dei sacra- menti dell’Eucaristia, Penitenza e unzione dei malati. Mi soffermerò soprattutto sull’Eucaristia per il suo speciale significato ecclesiologi- co.24

5.1. Necessità di consultare la gerarchia ortodossa prima di stabilire norme particolari sulla condivisione sacramentale25 Secondo il CCEO can. 671 § 5 (=CIC can. 844 § 5) prima di sta- bilire norme particolari sulla condivisione sacramentale occorre con- sultare la gerarchia ortodossa del luogo. Nel Direttorio ecumenico del 199326 la convenienza di tali norme è prevista espressamente nel caso di cristiani appartenenti a Chiese non orientali e Comunità ecclesiali separate (cf. DE 1993, n. 130), ma riguardo alle varie Chiese ortodosse ciò non è stato detto in modo chiaro ed espresso.27 Se né il Sinodo dei vescovi né l’autorità locale emanano criteri direttivi per questi casi,

24 Cf. Pablo Gefaell, “L’Eucaristia e la cura pastorale degli ortodossi”, in The Holy Eucharist in the Eastern Canon Law. Acts of the Bratislava symposium, 14–17 April 2009, edited by Georges Ruyssen (Kanonika 16), Roma 2010, 189– 201. 25 Cf. Pablo Gefaell, “Il nuovo Direttorio ecumenico e la «Communicatio in sacris»”, in Ius Ecclesiae 6 (1994) 259–279 [qui, 269–271]. 26 Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Di- rettorio per l’applicazione dei principi e norme sull’ecumenismo «La recherche de l’unité», in AAS 85 (1993) 1039–1119; versione italiana in Enchiridion Vatica- num, vol. 13, nn. 2169–2507, 1092 ss. [d’ora in poi: DE 1993]. 27 In genere, «sono raccomandate consultazioni tra le autorità cattoliche com- petenti e quelle delle altre Comunioni» (n. 106), ma per le relazioni con gli ortodossi non si menziona la convenienza di norme a livello locale o nazionale (Cf. n. 123), benché – naturalmente – da questo non si può concludere che sia vietato farle.

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sarà ben difficile giudicare ogni caso particolare, perché, come il DE 1993 ricorda, «un cattolico che desidera legittimamente ricevere la co- munione presso i cristiani orientali deve, nella misura del possibile, rispettare la disciplina orientale [ortodossa] e, se questa Chiesa riserva la comunione sacramentale ai propri fedeli escludendo tutti gli altri, deve astenersi dal prendervi parte» (n. 124) e, anche, quando un mi- nistro cattolico amministra questi sacramenti ai membri delle Chiese ortodosse, egli deve prestare la dovuta considerazione alla disciplina di tali Chiese per i suoi propri fedeli (cf. n. 125). Sarebbe difficile -ri spettare queste disposizioni senza che dalla competente autorità siano stabiliti criteri appropriati al luogo e alle diverse situazioni. Comunque, occorre far notare che il CIC e il CCEO esigono sol- tanto «consultare» l’autorità ortodossa, e non più il «risultato affer- mativo» di tale consultazione, come chiedeva il vecchio Direttorio.28

5.2. Perché la Chiesa cattolica permette la condivisione di alcuni sacramenti con gli ortodossi? Questo è un punto molto importante e delicato. Occorre infatti saper spiegare le ragioni della normativa cattolica, giacché le Chiese ortodosse sono contrarie alla communicatio in sacris e non capiscono perché noi la permettiamo. Inoltre, gli abusi di alcuni si scostano dal- la reale norma canonica e rendono più difficile che cattolici ed orto- dossi possiamo conoscerci a vicenda.

28 Segretariato per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Direttorio ecumenico, II. «Spiritus Domini», in AAS 62 (1970) 705–724, n. 42 [d’ora in poi: DE 1967–70]. Infatti, nei lavori di redazione del canone 844 del codice latino del 1983 fu deciso che: «loco “ favorabilem exitum consultationis” dicatur: “consultationem” quia activitas legislativa interna Ecclesiae vinculari non potest consensui partis non catholicae, sine eventuali praeiudicio pastoralium neces- sitatum (Duo Patres). Atque nimis et sine necessitate restringit potestatem Ec- clesiae et serias in praxi gignit difficultates (Tres Patres)»,Communicationes ( 15 [1983] 176).

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La stretta relazione tra comunione ecclesiale e comunione sacra- mentale, esige che il principio generale per la condivisione dei sacra- menti sia che «i ministri cattolici amministrano lecitamente i sacra- menti ai soli fedeli cattolici, i quali parimenti li ricevono lecitamente dai ministri cattolici».29 Infatti, mentre non si ristabiliscano comple- tamente i legami visibili della comunione ecclesiale è impossibile una generale intercomunione con chi non sia in piena unità con la Chiesa cattolica,30 perché, come ricorda Benedetto XVI, «il rispetto che dob- biamo al sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo ci impedisce di farne un semplice “mezzo” da usarsi indiscriminatamente per rag- giungere questa stessa unità (cf. UUS n. 8). L’Eucaristia, infatti, non manifesta solo la nostra personale comunione con Gesù Cristo, ma implica anche la piena communio con la Chiesa. Questo è, pertanto, il motivo per cui con dolore, ma non senza speranza, chiediamo ai cri- stiani non cattolici di comprendere e rispettare la nostra convinzione che si rifà alla Bibbia e alla Tradizione. Noi riteniamo che la Comu- nione eucaristica e la comunione ecclesiale si appartengano così inti- mamente da rendere generalmente impossibile accedere all’una senza godere dell’altra, da parte di cristiani non cattolici».31 Gli ortodossi coincidono con i cattolici in questa regola generale:32 anzi, per gli ortodossi è assolutamente proibita la condivisione sacra-

29 CIC can. 844 § 1; CCEO can. 671 § 1. 30 Giovanni Paolo II, litt. enc. Ecclesia de Eucharistia, 17. IV. 2003, in AAS 95 (2003) 433–475, n. 45. 31 Benedetto XVI, es. ap. Sacramentum caritatis, 22. II. 20,07, in AAS 99 (2007) 105–180, n. 56. 32 «Gli ortodossi hanno sempre rifiutato il termine e il concetto di intercomu- nione… affermando che o esiste “comunione” nell’unica Chiesa o non esiste alcuna comunione. Questa posizione è condivisa anche dalla Chiesa cattolica romana… sebbene si distinguano fra loro su ciò che essi ritengono necessario per quell’unità, di cui la comunione eucaristica è l’espressione sacramentale» (Geoffrey Wainwright, Intercomunione, in Aa.Vv., Dizionario del movimento ecumenico, Nicholas Lossky [et al.], Bologna 1994, 626).

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mentale con chi non sia in comunione ecclesiale con la Chiesa orto- dossa.33 Infatti, anche per gli ortodossi, la condivisione dei sacramenti non è un mezzo per la realizzazione dell’unità bensì per rafforzare e alimentare l’unità34 e, inoltre, gli ortodossi seguono rigidamente il principio dell’aut-aut. Dicono: o sei in comunione con noi oppure non lo sei e, quindi, non puoi ricevere i nostri sacramenti. Invece, sappiamo bene che in alcuni casi la Chiesa cattolica per- mette la condivisione sacramentale dell’Eucaristia, della penitenza e dell’unzione degli infermi a cristiani che non sono in piena comunio- ne con la Chiesa cattolica. Per spiegare tale prassi, occorre aver presen- te che l’ammissione a questi tre sacramenti concerne soltanto quei cri- stiani che manifestino una fede pienamente conforme a quella della Chiesa cattolica circa questi sacramenti e ne abbiano un grave bisogno spirituale per l’eterna salvezza: «In questo caso, infatti, l’obiettivo è di

33 Così scrive un autore ortodosso: «Come la dimensione liturgica è l’espressione della fede, la partecipazione alla comunione sacramentale non può essere reale e veramente costruttrice di unità se non è il risultato della comunità dogmati- ca. In altre parole, la comunione liturgica è il coronamento della comunione di fede, l’elemento visibile dell’unità profonda. Altrimenti abbiamo a che fare non con un gesto di unità, ma con un gesto di sincretismo. Questo è il senso dei canoni dei Sinodi Ecumenici e locali che proibiscono l’intercomunione con gli scismatici e/o eretici»: Radu Preda, La Communicatio in sacris, in Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi (ed.), Il Codice delle Chiese Orientali. La storia, le legislazioni particolari, le prospettive ecumeniche, Atti del Convegno di Studio tenutosi nel XX anniversario della promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese orientali, Sala S. Pio X, Roma 8–9 ottobre 2010, Città del Vaticano 2011, 383–392 [qui 391–392]. 34 Cf. Viktor I. Papež, Diritto canonico ed ecumenismo, in Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi, Ius in vita et in missione Eccle- siae, Città del Vaticano 1994, 1190–1193 [qui 1197]; ed anche, Georg A. Galitis, “Le problème de l’intercommunion sacramentelle avec les non-Orthodoxes d’un point de vue Orthodoxe”, in Istina 14 (1969) 206; Ion Bria, “Intercommu- nion et unité”, in Istina 14 (1969) 221; Emilianos Timiadis, “Intercommunion: possibilités et limites”, in Parole et Pain 8 (1971) 47–74.

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provvedere a un grave bisogno spirituale per l’eterna salvezza di singo- li fedeli».35 Quindi, se in linea di massima la situazione ecclesiale di un cristiano non-cattolico non è da ritenersi colpevole (cioè, non ha colpa personale di essere nato fuori dalla Chiesa cattolica) e se, inoltre, egli ha vera fede nel sacramento nonché vero bisogno spirituale di rice- verlo, sarà possibile che abbia anche la retta intenzione e le necessarie disposizioni per parteciparne fruttuosamente. Vale a dire: ricevendo il sacramento egli è capace di riceverne la grazia santificante e quella specificamente sacramentale. Perciò la Chiesa cattolica ritiene che può venire incontro a questo bisogno amministrando tali sacramenti.36 Quindi, l’unica giustificazione teologica che ha permesso alla Chiesa cattolica di consentire l’ammissione di un non-cattolico a questi sacramenti è la sua necessità di ottenere la grazia che soltanto essi possono offrire. Ma, com’è possibile tutto ciò senza danneggiare l’unità della Chiesa? Soprattutto in ambito eucaristico: com’è com- patibile questo con la piena professione di fede propria di coloro che prendono parte alla celebrazione eucaristica? L’unità di fede costitui- sce la base della previa unità ecclesiale che diventerà unità consumata nel mistero eucaristico. Quest’unità di fede abbraccia tutte le dottrine di fede, e non soltanto alcune di esse. La situazione sarebbe difficile da spiegare se il criterio fosse ammettere un non-cattolico all’Euca- ristia quando egli confessasse esplicitamente la fede nell’Eucaristia, ma non tutte le altre dottrine della fede cattolica. Infatti, come mai si può dare il sacramento della “comunione” a chi non è in comunione piena? La risposta è articolata: oltre ad affermare che esistono “gradi di comunione” e che gli ortodossi sono in comunione “quasi piena”, la Chiesa cattolica ritiene che la loro perfetta professione di fede eucari-

35 Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 45. 36 Per un approfondimento cf. Georges Ruyssen, Eucharistie et œcuménisme : évo- lution de la normativité universelle et comparaison avec certaines normes particu- lières, canons 844/CIC et 671/CCEO, Paris 2008, 57–83.

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stica –che è in pieno accordo col magistero cattolico al riguardo– por- ta con sé l’implicita accettazione dell’intero insegnamento di Cristo (che noi affermiamo sussistere nella Chiesa cattolica). Fede completa ma implicita che diventerebbe esplicita se questo fedele cristiano, as- sistito dalla grazia divina, scavasse più profondamente nelle impli- cazioni dottrinali del mistero eucaristico.37 Infatti, come ha detto la Congregazione per la Dottrina della Fede, nel caso degli ortodossi «la loro valida celebrazione eucaristica richiama oggettivamente la co- munione con Pietro» (cf. CDF, Communionis notio n. 14),38 anche se soggettivamente non l’abbiano raggiunto. Vediamo ora le condizioni stabilite per condividere l’Eucaristia con gli ortodossi.

5.3. Condizioni per poter condividere l’Eucaristia Le condizioni previste dai codici affinché sia legittimo per un -mi nistro cattolico amministrare il sacramento dell’Eucaristia ai fedeli ortodossi sembrerebbero troppo ampie, vale a dire: la richiesta spon- tanea del sacramento e la buona disposizione personale.39 Sembrano

37 Cf. Pedro Rodríguez, Iglesia y ecumenismo, Madrid 1979, 364–392; Pablo Ge- faell, “Principi dottrinali per la normativa sulla communicatio in sacris”, in Ius Ecclesiae 8 (1996) 509–528 [qui, 522–523]. Una spiegazione similare, anche se non identica, è fornita da Coccopalmerio: cf. Francesco Coccopalmerio, “La «communicatio in sacris» comme probleme de communion ecclesiale”, in L’Année Canonique 25 (1981) 229. 38 Perché «ogni legittima celebrazione eucaristica del Popolo di Dio richiede la struttura costitutiva della Chiesa quale corpo sacerdotale strutturato organica- mente, e pertanto il vincolo comunionale della Chiesa locale con il suo vesco- vo, e di questi con i suoi fratelli nell’episcopato e il suo Capo, quale Collegio che del corpo apostolico è continuazione» Editoriale, “La Chiesa come Co- munione. A un anno dalla pubblicazione della Lettera «Communionis notio» della Congregazione per la Dottrina della Fede”, in L’Osservatore Romano, 23 giugno 1993, 1 e 4. 39 «I ministri cattolici amministrano lecitamente i sacramenti della penitenza,

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troppo ampie perché queste, infatti, sono anche le condizioni affinché un cattolico chieda tale sacramento ad un ministro cattolico.40 Perciò, tenendo conto soltanto il testo del codice, alcuni potrebbero pensare erroneamente che agli ortodossi si concede una piena e libera ammis- sione a questo sacramento, cosa che è falsa.41 Infatti, occorre aggiungere altre condizioni, che non sono state in- dicate esplicitamente nei codici, ma che sono tuttora in vigore: Infatti, in primo luogo, è noto che i codici non accennano al re- quisito della “grave necessità spirituale” quale requisito perché gli or- todossi possano chiedere il sacramento dell’Eucaristia ad un mini- stro cattolico. Anzi, il Segretariato per la Promozione dell’Unità dei Cristiani (SPUC) nella sua istruzione del 1972 indicava solo il «vero bisogno spirituale».42 Tuttavia, il Catechismo della Chiesa cattolica n.

dell’Eucaristia e dell’unzione degli infermi ai fedeli cristiani delle Chiese orien- tali che non hanno piena comunione con la Chiesa cattolica, se lo chiedono spontaneamente e sono ben disposti» (CCEO can. 671 § 3 e CIC can. 844 § 3). 40 Cf. CCEO can. 671 § 1 e CIC can. 844 § 1. 41 Sarebbe un errore considerare questa condivisione sacramentale con gli orto- dossi come se fosse una libera intercomunione (cf. Francesco Coccopalmerio, Communicatio in sacris iuxta novum Codicem, in Aa.Vv. Portare Cristo all’Uo- mo, II [Studia Urbaniana, 23], Roma 1985, 215). Giovanni Paolo II ricordava, infatti, che l’intercomunione tra cristiani divisi non è la risposta alla chiamata di Cristo alla perfetta unità (Giovanni Paolo II, Allocuzione del 5 ottobre 1979, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2, 640; cf. Idem, Allocuzione del 6 mar- zo 1987, in ibid. X, 1, 513). Inoltre, cf. ciò che ho scritto sull’intercomunione in Pablo Gefaell, Sharing in Sacramental Life: doctrinal Principles and Normati- ves in the New Ecumenical Directory, in Antoine Al-Ahmar – Antoine Kalifé – Dominique Le Tourneau (eds.), Acta Symposii internationalis circa Codicem Canonum Ecclesiarum Orientalium, Kaslik (Libano) 24–29 aprile 1995, Kaslik 1996, 315–367 [qui, 377–341]. 42 Cf. Secretariato per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Instructio de peculiaribus casibus admittendi alios christianos ad communionem eucharisti- cam in Ecclesia catholica, 1. VI. 1972, n. 4, in AAS 64 (1972) 518–525 (versione italiana in Enchiridion Vaticanum, Bologna 1982, vol. 4, nn. 1626–1640).

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1401 e l’enciclica Ecclesia de Eucharistia n. 45 parlano esplicitamente di «grave necessità spirituale». Sarebbe buono che il diritto particolare stabilisca chi deve giudicare questa “grave necessità”. In secondo luogo, sapete che la normativa in vigore43 non accenna al requisito dell’“impossibilità di accedere al proprio ministro” (orto- dosso). Quindi, in teoria, sarebbe permesso che un membro di una Chiesa ortodossa riceva il sacramento dell’Eucaristia (e la penitenza e l’unzione dei malati) da un ministro cattolico anche quando questo fedele ortodosso avrebbe potuto facilmente accedere ad un sacerdote ortodosso. Tuttavia, se il fedele ortodosso non accedesse al proprio ministro, potendolo fare senza grave incomodo e, ciononostante, il ministro cattolico lo ammettesse ai sacramenti, il fedele potrebbe pensare erroneamente che non fa differenza essere cattolico od orto- dosso, oppure potrebbe capitare che la gerarchia ortodossa giudichi l’atteggiamento del ministro cattolico come un tentativo di indebito proselitismo. Perciò, bisognerà giudicare caso per caso se il fedele or- todosso sia effettivamente “ben disposto”, cosa che presuppone l’e- sclusione di atteggiamenti polemici o sincretisti44 e che ci sia giusta causa per avvicinarsi al ministro cattolico. La giusta causa può esse- re «l’impossibilità» di accedere al ministro proprio e, se prendiamo in considerazione quello che si stabilisce per i cattolici, questa non è soltanto impossibilità «fisica» ma anche «morale» (Cf. DE 1993 n. 123),45 la quale può essere causata da svariate situazioni personali, che

43 CCEO can. 671 § 3 CCEO; CIC can. 844 § 3; DE 1993 n. 125. 44 «Anche in tali casi bisogna prestare attenzione alla disciplina delle Chiese orientali per i loro fedeli ed evitare ogni proselitismo, anche solo apparente» (DE 1993 n. 125). 45 Infatti, se il CCEO can. 681 § 5 ammette l’impossibilità morale di accedere al pro­prio ministro ortodosso come causa legittima perché i genitori ortodossi chiedano il battesimo del figlio ad un ministro cattolico, mi sembra che pa­ri­ men­te tale impossibilità morale si possa applicare anche per chiedere l’Eucari- stia.

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devono essere valutate prudenzialmente. Durante i lavori della codi- ficazione orientale, un organo di consultazione propose che la norma prevista per gli ortodossi che chiedono i sacramenti a un sacerdote cattolico (can. 671 § 3 CCEO) fosse identica a quella che disciplina il caso dei cattolici che si rivolgono al sacerdote ortodosso (§ 2). Tut- tavia, la proposta non è stata accettata dalla Commissione.46 Avendo in considerazione che la gerarchia ortodossa di solito si oppone a che i loro fedeli ricevano la comunione eucaristica dai ministri cattolici, mi sembra ragionevole esigere come minimo che il fedele ortodosso abbia l’impossibilità (almeno morale) di accedere al proprio ministro: questa condizione potrebbe agevolare una intesa con la gerarchia or- todossa per la cura pastorale dei loro fedeli laddove non ci siano sa- cerdoti ortodossi. È grandemente improbabile che un vescovo (o sacerdote) abbia vero “bisogno” di ricevere l’Eucaristia da un ministro di un’altra Chiesa, oppure che non possa accedere al ministro proprio, perché egli stesso può celebrare personalmente la Divina Liturgia e quindi ricevere l’Eu- caristia. Perciò, mi pare ovvio che dare la comunione eucaristica ad un sacerdote ortodosso abbia un significato molto diverso da ammi- nistrarla ad un semplice fedele ortodosso. Sarebbe quasi equiparabile a concelebrare con quel sacerdote, cosa che è assolutamente vietata come vedremo più avanti. In terzo luogo, la lecita ammissione di cristiani non cattolici (quin- di si includono gli ortodossi) all’Eucaristia può avvenire solo in casi singoli, in circostanze speciali ed eccezionali. Infatti, anche se questo non si dice nei codici, è stato esplicitamente detto nell’enciclica Eccle- sia de Eucharistia, che parla dell’«amministrazione dell’Eucaristia, in circostanze speciali, a singole persone appartenenti a Chiese o Comunità

46 Dimitri Salachas, “La comunione nel culto liturgico e nella vita sacramentale tra la Chiesa Cattolica e le altre Chiese e Comunità Ecclesiali”, in Angelicum 66 (1989) 414.

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ecclesiali non in piena comunione con la Chiesa cattolica» (n. 45); e nell’esortazione apostolica postsinodale di Benedetto XVI Sacramen- tum caritatis si ricorda che «in vista dell’eterna salvezza, vi è la possibi- lità dell’ammissione di singoli cristiani non cattolici all’Eucaristia (…). Ciò suppone però il verificarsi di determinate ed eccezionali situazioni connotate da precise condizioni» (n. 56). Una di queste circostanze speciali potrebbe essere il matrimonio misto con una parte ortodossa che, con il permesso del Gerarca del luogo, sia celebrato dentro la Divina Liturgia: in questo caso ambedue gli sposi potrebbero ricevere la comunione eucaristica se lo chiedono spontaneamente e sono ben disposti.47 Comunque, durante la vita co- niugale dei matrimoni misti la condivisione dell’Eucaristia non può essere che eccezionale e, in ogni caso, vanno osservate le disposizioni generali sopra indicate.48 In quarto luogo, è evidente che il requisito di essere “ben disposti” per poter ricevere l’Eucaristia include una situazione matrimoniale oggettivamente regolare (secondo il diritto divino),49 perciò ritengo che i fedeli ortodossi divorziati e risposati non possano essere ammessi alla comunione eucaristica nella Chiesa cattolica, malgrado che nella loro Chiesa ciò sia permesso.

47 Il DE 1993 n. 159, seguendo il vecchio rituale del matrimonio nella Chiesa lati- na, per la celebrazione del matrimonio misto dentro della Messa esigeva il per- messo del “Vescovo diocesano” ma ora il nuovo rito del matrimonio (sempre nella Chiesa latina) richiede il permesso dell’Ordinario del luogo (cf. Nuovo rito del matrimonio 2004, Premesse Generali, n. 36). Ovviamente, come ricorda il DE 1993 n. 159, per ammettere la parte ortodossa alla comunione eucaristica durante la celebrazione del matrimonio misto restano in vigore i requisiti gene- rali, tenendo in conto che il proprio matrimonio sembra una causa ragionevole perché si ammetta l’eccezione. 48 Cf. DE 1993, n. 160. 49 Cf. Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 29.

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5.4. I cattolici che si accostano all’Eucaristia ortodossa Perché un cattolico possa accedere legittimamente ai ministri or- todossi per ricevere l’Eucaristia è necessario che ci sia almeno una vera utilità spirituale, che sia fisica o moralmente impossibile accedere al proprio ministro cattolico, e che sia evitato il pericolo di errore o indifferentismo.50 Il CCEO can. 671 § 2 e il CIC can. 844 § 2 offrono ai cattolici la possibilità di ricevere, sotto certe condizioni, il sacramento dell’Eu- caristia, la penitenza e l’unzione dei malati da ministri non cattolici, senza distinguere esplicitamente tra i ministri ortodossi e i ministri di altre confessioni cristiane dell’Occidente. Si sentiva il bisogno di inse- rire questa distinzione, così come era stato previsto per il caso dei non cattolici che chiedono questi sacramenti a un ministro cattolico,51 per- ché la Chiesa cattolica dà per scontato la validità di questi sacramenti nelle Chiese ortodosse, non invece nelle altre confessioni cristiane. Il Direttorio ecumenico del 1993 ha opportunamente messo in pratica tale distinzione nei nn. 123 e 132. Quantunque la normativa cattolica permetta che, in caso di im- possibilità di accedere al proprio ministro, i cattolici possano chiede- re l’Eucaristia ai ministri ortodossi, va tenuto conto che –come voi ben sapete– di regola le Chiese ortodosse non ammettono i cattolici all’Eucaristia in nessun caso. In tali circostanze il cattolico dovrà ri- spettare la disciplina ortodossa e astenersi dal chiedere la comunione da loro.52 Inoltre, se non è impossibile accedere ad un ministro catto- lico, difficilmente sarà lecito per un fedele cattolico chiedere l’Eucari- stia agli ortodossi.

50 CIC can. 844 § 2 – CCEO can. 671 § 2. 51 Can. 671 §§ 3 e 4 CCEO; can. 844 §§ 3 e 4 CIC. Cf. Salachas, “La comunione” (nt. 46), 408 e 412; Idem, L’iniziazione cristiana nei Codici orientali e latino. Battesimo, Cresima, Eucaristia nel CCEO e nel CIC, Roma-Bologna 1992, 28. 52 DE 1993, nn. 122 e 124.

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5.5. Altre indicazioni sull’Eucaristia in ambito ecumenico È risaputo che i fedeli cattolici possono essere presenti nella cele- brazione eucaristica presso una chiesa ortodossa e, se invitati da loro, proclamare letture; come pure un fedele ortodosso può, pari modo, essere invitato a fare lo stesso in una celebrazione cattolica.53 Ciò non pone troppi problemi se si tratta di laici. Altra cosa sarebbe invece l’intervento “liturgico” di un ministro sacro in una celebrazione eu- caristica anche se non si tratti strettamente di concelebrare, come ve- dremo in seguito. Infatti, sebbene in certi casi sia permesso dare la comunione euca- ristica agli ortodossi per venire incontro ad un loro grave bisogno spi- rituale, occorre ribadire tuttavia che la concelebrazione dell’Eucaristia tra sacerdoti cattolici ed ortodossi è assolutamente vietata,54 perché in nessun caso esiste il bisogno di concelebrare, e l’unica finalità della concelebrazione è manifestare la piena comunione ecclesiastica tra i ministri, cosa che non si verificherà finché tra le nostre Chiese non sia ristabilita l’ardentemente desiderata integrità dei vincoli di comunio- ne nella professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico. «Siffatta concelebrazione non sarebbe un mezzo valido, e potrebbe anzi rivelarsi un ostacolo al raggiungimento della piena comunione, at- tenuando il senso della distanza dal traguardo e introducendo o aval- lando ambiguità sull’una o sull’altra verità di fede».55 Comunque, in una celebrazione liturgica cattolica, «i ministri delle altre Chiese e Comunità ecclesiali possono avere il posto e gli onori liturgici che convengono al loro rango e al loro ruolo». Reci- procamente, «i membri del clero cattolico invitati alla celebrazione di un’altra Chiesa o Comunità ecclesiale possono, se ciò è gradito a co-

53 Cf. DE 1993, n. 126. 54 CIC can. 908; CCEO can. 702; DE 1993, n. 104. 55 Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 44, cf. Benedetto XVI, Sacra- mentum caritatis, n. 56.

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loro che li accolgono, indossare l’abito e le insegne della loro funzione ecclesiastica».56 Tuttavia, occorrerà evitare che ciò appaia come se fosse una concelebrazione57 e, in questo senso –anche se non è strettamente una “concelebrazione”– mi sembrerebbe certamente inadeguato che un diacono (oppure un chierico minore) svolga il suo ruolo liturgico durante la celebrazione eucaristica di una Chiesa non in piena comu- nione con quella a cui egli appartiene: è vero che tale diacono potreb- be essere invitato a realizzare qualche servizio puntuale (proclamare letture, ecc.),58 ma non il suo ruolo liturgico completo. Altro aspetto da avere presente è che il DE 1993 n. 12159 stabilisce la proibizione di citare nell’anafora eucaristica altri nomi se non quelli delle persone –vive o defunte– che siano in piena comunione con la Chiesa cattolica. Questo implica per il ministro cattolico la proibizione di includere nella preghiera eucaristica il ricordo di defunti non cat- tolici, pregare secondo le intenzioni di Chiese non cattoliche nonché nominare le autorità ortodosse in segno di comunione (come invece deve nominare il proprio Vescovo, il Patriarca e il Romano Pontefice), e neppure inserire santi ortodossi non riconosciuti dalla Chiesa cattolica. Tuttavia, alcune preghiere si possono fare in altri momenti liturgici. Sulla partecipazione alla Divina Liturgia domenicale in una Chie- sa ortodossa il direttorio ecumenico del 1967-70 n. 4760 accettava tale

56 DE 1993, n. 119. 57 Cf. CEI, Vademecum, n. 65. 58 Cf. DE 1993, n. 126. 59 «Preghiere pubbliche per altri cristiani, vivi o defunti, per i bisogni e secondo le intenzioni delle altre Chiese e comunità ecclesiali e dei loro capi spirituali, pos- sono essere offerte durante le litanie e altre invocazioni di un servizio liturgico, ma non nel corso dell’anafora eucaristica. L’antica tradizione cristiana liturgica ed ecclesiologica non permette di citare nell’anafora eucaristica se non i nomi delle persone che sono in piena comunione con la Chiesa che celebra quella Eucaristia» (DE 1993, n. 121). 60 «Il fedele cattolico, che occasionalmente, per le cause di cui più avanti, al n. 50, assiste alla messa presso i fratelli orientali separati nei giorni di domenica o di

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partecipazione per soddisfare il precetto domenicale, ma il CIC 1983 can. 1248 § 1 ha cambiato tale norma, perché ritiene soddisfatto il precetto domenicale se si partecipa alla Messa “ubicumque celebratur ritu catholico”. Quindi, in forza della clausola sul “rito cattolico” della Messa, di domenica ai latini non basta assistere ad una Divina Litur- gia ortodossa (a parte dei casi di vera impossibilità che, comunque, dispensano dall’obbligo di partecipare a Messa). Nel CCEO can. 881, invece, si omette la clausola “ubicumque celebratur ritu catholico”, e quindi per gli orientali cattolici forse si potrebbe ritenere ancora vali- da l’indicazione del DE 1967-70 n. 47, vale a dire, accettare che si pos- sa adempiere il precetto domenicale con la partecipazione alla Divina Liturgia ortodossa. Ad ogni modo, in questi casi per poter ricevere l’Eucaristia dal ministro ortodosso sarà necessario che si verifichino tutte le circostanze richieste dal diritto. In un paese come la Romania è quasi impossibile che una comu- nità ortodossa manchi di proprio tempio o cimitero, ma ciò accade in paesi come Italia e Spagna, in cui gli ortodossi si rivolgono spesso al vescovo cattolico chiedendo, per esempio, di usare una chiesa cat- tolica.61 A questo riguardo, mi sembra interessante far notare che le conferenze episcopali spagnola ed italiana hanno deciso che prima di concedere alcunché il vescovo «terrà conto della situazione del dialogo ecumenico con la Chiesa [ortodossa] in questione e sulla devoluzione degli edifici di culto alle comunità orientali cattoliche nel paese di ori- gine, secondo il criterio ecumenico della reciprocità».62 Ciò fa diretto

precetto, non è più obbligato ad ascoltare la messa di tale precetto in una Chie- sa cattolica. Anzi è opportuno che i cattolici, nei suddetti giorni, se impediti ad ascoltare la messa nella propria Chiesa, assistano, per quanto possibile, alla liturgia dei fratelli separati» (DE 1967–70, n. 47). 61 Cf. CCEO can. 670 § 2; DE 1993, n. 137–138; Erga migrantes, n. 56. 62 CEI, Vademecum, n. 67. La conferenza episcopale spagnola indica specifica- mente l’Ucraina e la Romania: «Cuando la comunidad oriental no católica depende de Ucrania o Rumanía, el Obispo diocesano debe tener en cuenta

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riferimento alle circostanze della Romania, che speriamo migliorino sempre di più. Dopo tanti anni dal Concilio Vaticano II ci troviamo ancora sol- tanto agli albori della disciplina del “diritto canonico dell’ecumeni- smo”. Ritengo che in luoghi come il paese citato tale disciplina ca- nonica è specialmente necessaria, affinché i rapporti tra cattolici ed ortodossi proceda, per binari certi e rispettosi della verità, verso l’ago- gnata destinazione dell’unità, desiderando «ardentemente il giorno in cui potremo celebrare insieme con tutti i credenti in Cristo la divina Eucaristia ed esprimere così visibilmente la pienezza dell’unità che Cristo ha voluto per i suoi discepoli».63

las informaciones sobre las relaciones ecuménicas existentes y la devolución de templos a la Iglesia greco-católica del país de que se trate, de acuerdo con el criterio ecuménico de la reciprocidad» CEE, Orientaciones, n. 33. 63 Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 56.

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John Kochuthundil

Summary: Introduction; 1. Brief History of the Syro-Malankara Catholic Church; 2. Promulgation of the Particular Law; 3. Brief Description of the Codification Process; 4. Guidelines of the Codification; 5. Structure and Content of the Codi- fication; 6. An Appraisal; Conclusion.

Introduction The Post-Vatican years have been particularly significant for the various efforts made at different levels to renew the life of the Church, especially in terms of its God-given mission. Regarding the Eastern Catholic Churches, one of their immediate concerns was the need for the codification of a Common Code to coordinate and regulate their life and ministry. Thus, after a long period of formal preparation, through the Pontifical Commission for the Revision of Code of East- ern Canon Law, a common Code of Canons of the Eastern Churches was promulgated on 18 October 1990. From that stage onwards the Eastern Catholic Churches were expected to enter into a new phase of their growth as autonomous churches (ecclesia sui iuris) in all respects. It is the duty of each sui iuris Church to codify the particular laws. In formulating such laws, one should keep in mind that they should be ad normam iuris, always in accordance with the common Code and not contrary to it.

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The Second Vatican Council’s decree on Eastern Catholic Church- es (Orientaliun Ecclesiarum) solemnly declared that the Eastern Churches have the full right and obligation to govern themselves, each in accordance with its own special discipline, seeing that these are all recommended by venerable antiquity and are better suited to the customs of their faithful and to the good of souls (no. 5). Along with the venerable antiquity, the particular historical situation in which the faithful of these churches live and the diversity of juridical disciplines necessitate the provision of particular legislation.

CCEO 1493 §2 states that “in the designation ‘particular law’ are all laws, customs, statutes and other norms of law which are neither common to the universal Church nor to all the eastern Churches”. CCEO has left sufficient room for particular laws. Further, in view of particular laws, even some of the areas where juridical norms existed in the previous legislation are omitted or suppressed in the CCEO. The Syro-Malankara Catholic Church, therefore, as an autonomous Church in the Catholic communion is to be governed by this new Code and also according to the legal provisions contained therein.

Based on the aforementioned grounds, the Syro-Malankara Cath- olic Church identified its own existing laws, customs, and practices in order to coordinate its life and activities in its various eparchies, exar- chates and in the entire Catholic communion. The Code of Particular Canons of the Syro-Malankara Catholic Church is the result of this ecclesial vision and mission.

1. Brief History of the Syro-Malankara Catholic Church The Syro-Malankara Catholic Major Archiepiscopal Church is a Church sui iuris in the Catholic communion, originating in India. It traces its Apostolic origin back to St. Thomas, the apostle of Jesus Christ, in the first century itself. In the sixteenth century, this Apostol-

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ic Church came into direct contact with the Western Church through the Portuguese missionaries. The Portuguese extended the Padroado agreement in their evangelization programme over India and wanted to bring the Indian Church of St. Thomas Christians under this juris- diction. The Church in India which was rooted in the socio-cultural environment and which enjoyed autonomy in internal administration in communion with the Universal Church resisted this intervention of the Portuguese. Thus, an unfortunate division emerged among the St. Thomas Christians. From the time of the division of this an- cient Christian community, with the Coonan Cross Oath in 1653, the group that took an independent stand was specifically known as the Malankara Church, which is at present divided into several ecclesial communities. The Syro-Malankara Catholic Church is one of the Ma- lankara ecclesial communities, which regained Catholic communion on 20 September 1930 under the historic leadership of the Servant of God Archbishop Geevarghese Mar Ivanios, the pioneer of Re-union movement. Therefore, the Syro-Malankara Catholic Church has its own ecclesial identity and Apostolic status vested with its own God- given right and obligation to fulfill the mission of the Church of Jesus Christ in this world in communion with the entire Catholic Church.

2. Promulgation of the Particular Law On 10 March 2012 the Code of Particular Canons of the Syro-Ma- lankara Catholic Church (CPCSMCC) was promulgated by His Be- atitude Moran Mor Baselios Cleemis, Major Archbishop-Catholicos of the Church (was also elevated to the College of Cardinals by Pope Benedict XVI in 2012). The Code obtained the force of law, after the vacatio legis, on the day of Pentecost, 27 May 2012. It is the first time in the history of this Apostolic Church that it has been governed by a complete code of its own and this has marked another important ep- och in the history of this Church. The following is a humble attempt to note down briefly about the codification process of CPCSMCC.

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3. Brief Description of the Codification Process From the time of the promulgation of the CCEO, there were at- tempts to codify the particular laws of this Church. However, the ele- vation of this Church to the status of a Major Archiepiscopal Church was a catalyst to intensify the process. The formal proposal of the codification of the particular laws was made at the last meeting of the Council of Hierarchs of the Syro-Ma- lankara Catholic Metropolitan Church held at Tiruvalla from 29 to 31 March 2005. As a first step, a committee of 83 members representing priests, religious and laity, was constituted. His Beatitude Moran Mor Cyril Baselios, being the Chairman of the Codification Committee, nominated the following members as its officials: Most Rev. Thomas Mar Koorilos as the Vice Chairman, Rev. Dr. John Kochuthundil as the General Convenor, and Rev. Sr. Dr. Ardra SIC as the Office Sec- retary. Further, the Codification Committee consisting of 83 persons was divided into seven groups headed by a Convenor and each group was entrusted with specific topics related to the provisions of the CCEO. The groups were also instructed to prepare a draft on their respective topics. Each group submitted its findings on 12 November 2005 and that constituted the elementary draft of CPCSMCC. The Holy Episcopal Synod then appointed a group of experts comprised of 33 members in order to evaluate the elementary draft. This group of experts submitted its evaluations and studies to the General Con- venor and based on this, the second draft was prepared and submitted to the Holy Episcopal Synod on 7 March 2006. All through the codification, at various stages, fourteen drafts were prepared. Each draft was improved and redrafted at every stage. On 20 October 2009, the final and complete text of the Code of the Particular Canons of the Syro-Malankara Catholic Church, the fruit of a steadfast and scholarly collaboration, was submitted to the Ninth Ordinary Holy Episcopal Synod of the Syro-Malankara Catholic Church for the final approval. On 21 October 2009, the

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Synod Fathers went through the entire draft thoroughly in three ses- sions. The Holy Episcopal Synod in its session on 23 October 2009, solemnly approved the text. The Synod then requested its President, His Beatitude Moran Mor Baselios Cleemis, the Major Archbishop- Catholicos, to initiate the necessary steps to send the acts and deci- sions to the Holy Father as per CCEO c.111 § 3 and to promulgate it as per CCEO c. 112 § 1. The Acts regarding the Code were sent to the Roman Pontiff and received an overwhelming acceptance of the Holy See. It was stated, “After careful examination of the document submitted by Your Be- atitude in the name of the Episcopal Synod, this Congregation is pleased to grant the recognitio for the Code of Particular Canons of the Syro-Malankara Catholic Church” (Congregatio Pro Ecclesiis Ori- entalibus, Letter Prot. No. 217/2010).

4. Guidelines of the Codification In the codification of the Particular laws of the Syro-Malankara Catholic Church, the members of the drafting committee were guid- ed in the formulation of canons by the necessity of going into the primary sources.

Orientations: At the outset, the members of the drafting committee were asked to prepare a Code of particular laws for the Church in accordance with the norms and provisions of CCEO. Further, the codification committee was instructed that the ca- nonical formulation should resemble the juridical status and identity of the Syro-Malankara Catholic Church in the Catholic communion. They were also asked to prepare a Code with sufficient knowledge and clarity to guide the proper internal governance of the Syro-Ma- lankara Major Archiepiscopal Church, with its own Apostolic tradi- tion, ethos, customs and disciplinary systems.

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Likewise, as envisaged the Vatican II council, the Code was to make use of the principle of subsidiarity and so as to leave ample space for more particular laws for the proper governance of the eparchies in this Church.

Go into the Sources: The Syro-Malankara Catholic Church has at its disposal tradi- tions, existing laws, and directories, and legitimate customs, which govern the day-to-day life of this Church. Therefore, it is essential, that the process of codification includes a restructuring, a renewal of the existing laws in the light of the ancient traditions of this Church, the provisions of the CCEO and their aggiornomento in the light of the contemporary realities. Hence, the members of the codification were asked to find and make use of all available juridical and other sources from the Syro-Malankara Catholic Church for this codifica- tion; for instance: 1. The traditions and patrimony of the ancient Apostolic Church in India. 2. The liturgical and canonical disciplines of the Antiochene Church. 3. The traditions of the undivided Malankara Church and the divided Churches. 4. Legitimate laws and norms hitherto issued by the Hierarchs of the Syro-Malankara Catholic Church and its legitimate cus- toms. 5. The common canonical legislation for the Oriental Catholic Churches, and the decrees effecting the communion of the Malankara Church with the universal Church. 6. Exigencies of ecclesial life in our modern times.

Thus, CPCSMCC canon 3 clearly states, “The canons of this Code are formulated in accordance with the provisions for particular laws given in the CCEO. They also contain the ancient laws of the St.

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Thomas Christians in India, and the disciplinary patrimony of the Syro-Malankara Catholic Church. The canons of this Code are to be assessed chiefly by the aforementioned laws”.

7. Structure and Content of the Codification It was also decided that this particular codification shall, for the sake of easy study and comparison, follow the division of the Code into titles, and wherever possible, use the same titles in the codifica- tion of the Canons. Following, the oriental ancient canonical tradi- tion, and taking into consideration the “particularity” of the laws, the collection of particular laws is given the name “Code of Particular Canons Code of Particular Canons of the Syro-Malankara Catholic Church” (CPCSMMCC). The promulgated text of the CPCSMCC consists of the Decree of Promulgation, the Recognitio from the Holy See, Preamble, Preface, Abbreviations, Outline of the CPCSMCC, Statutes, End notes and Glossary. The Decree of promulgation, in addition to the canonical require- ment of promulgation, gives us the ecclesiological and theological vi- sion of law in the CPCSMCC referring to its varied sources. In the Recognitio from the Holy See it is stated that “Therefore, let it hereby be made known that, after careful examination of the docu- ment submitted by Your Beatitude in the name of the Episcopal Syn- od, this Congregation is pleased to grant the recognitio for the Code of Particular Canons of the Syro-Malankara Catholic Church. Such provision signifies a vital principle; namely, the unique richness of the Syro-Malankara tradition does not exist in isolation. Rather, …, each individual Eastern Church contributes to ‘the heritage of the whole church of Christ’ (n. 5). …Especially since the Reunion movement and the remarkable ministry of the Servant of God Archbishop Gee- varghese Mar Ivanios and his successors, the Syro-Malankara Church has become renowned for an accelerated growth, derived from its ea-

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gerness to promote both truth and unit.” (Congregatio Pro Ecclesiis Orientalibus, Letter Prot. No. 217/2010). The Preamble gives a brief historical narration of this Church and the Preface traces a brief history of the codification process. The CPCSMCC could be broadly divided into two parts: (1). the particular canons that serve the life of the Church, and (2). the stat- utes that regulate the statutory canonical bodies of the Church. The first part of the Code has been formulated under 16 titles consisting of 611 canons. The preliminary canons give a profound understanding of the source of law in the CPCSMCC. The major titles in the CPCSMCC are the following: The Syro- Malankara Catholic Church (cc 9-16); the Hierarchical Constitution of the Syro-Malankara Catholic Church (cc 17-70); Eparchies and Bishops (cc 71-123); Parishes, Parish Priests and Parochial Vicars (cc 124-233);Clerics (cc 234-332); Lay Persons (cc 333-346); Religious in the Syro-Malankara Catholic Church (cc 347-392); Associations of the Christian Faithful (cc 393-414); Evangelization (cc 415-425); Baptised Non-Catholics Coming into Full Communion with the Catholic Church (426-432); Ecumenism and Inter-religious Dialogue (cc 433- 442); the Ecclesiastical Magisterium (cc 443-462); Divine Worship, Especially the Sacraments (cc 463 -558); Sacramentals, Holy Places, Sacred Times, Veneration of Saints, Oath (cc 559-576); Ecclesiastical Office and Administrative Decrees (cc 577-579); and: Acquisition and Administration of Temporal Goods (cc 580-611). The end notes refer to the immediate sources of the canon. How- ever, one should not regard it as an exhaustive source reference. Such an outcome would entail further scientific research. At end the Code there are five Statutes namely: Statutes of the Holy Synod of the Syro-Malankara Church; Statutes of the Perma- nent Synod of the Syro-Malankara Catholic Church; Statutes of the Malankara Catholic Church Assembly;: Statutes of the Superior Tri- bunal ; and Statutes of the Major Archiepiscopal Tribunal

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8. An Appraisal The content of the Code is juridical and pastoral in its nature. However, it is codified inserting a profound foundation on theol- ogy and patrimony of the Syro-Malankara Catholic Church. While the code in every aspect brings out the disciplinary patrimony of the Church, side by side, it also brings out the theological, spiritual, litur- gical and cultural patrimony of this Church. This is authentic magis- terial teaching, either directly or indirectly, on the above mentioned dimensions of the Syro-Malankara Catholic Church. With the promulgation of this Code, the Syro-Malankara Catho- lic Church actualizes its quality of being a sui iuris Church as seen in CCEO c 27. It is a Church in its own right, as it is a Church of its own law; because, what stands out in this notion of a sui iuris Church is the element of law that is constitutive of a sui iuris Church. With the promulgation of this Code, the solemn declaration of the Second Vatican Council “that the churches of the East like those of the West have the right and duty to govern themselves according to their own special disciplines” (OE 5) is actualized. With the promulgation of this Code, the vision of the CCEO that “the new Code should limit itself to the codification of the discipline common to all the Oriental Churches, leaving to the competent au- thorities of these Churches the power to regulate by particular law all other matters not reserved to the Holy See” [Nuntia 3 (1976)21] is also actualized. Thus, with a promulgation of the Code, “the laws, legitimate customs, statutes and other norms of law, which are nei- ther common to the entire Church or to all the Eastern Churches” (CCEO c 1493 §2) but belong to the disciplinary heritage of the Syro- Malankara Catholic Church, are identified, codified and up-dated. In the recognitio granted by the Roman Pontiff for the Code of Par- ticular Canons of the Syro-Malankara Catholic Church” (Congregatio Pro Ecclesiis Orientalibus, Letter Prot. No. 217/2010), it was stated that the Code contributes to “the heritage of the whole Church of Christ”.

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Conclusion The CPCSMCC is the diligent outcome of consistent research and study. Fourteen drafts were prepared and thoroughly studied and im- proved over a span of six years. The commitment of the varied spec- trum of the People of God of the Syro-Malankara Catholic Church and its well-wishers in the codification ensured a participatory nature of the codification. The Holy See very clearly acknowledged this in the recognitio by stating that “the resulting compilation of canonical directives is the product of concerted study, extensive research, tre- mendous effort and laborious review. I am grateful to the entire team for the fine spirit of collaboration throughout the various phases of the project.” With the promulgation of this Code the Syro-Malanka- ra Major Archiepiscopal Church has a complete code of particular laws of its own and that will help the church to have proper and uni- fied internal governance in its Catholic communion.

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ECL_2013_158×222.indd 286 7/27/2013 10:35:17 AM Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi (a cura di), Il Codice delle Chiese orientali, la storia, le legislazioni particolari, le prospettive ecumeniche. Atti del Convegno di studio tenutosi nel XX anniversario della promulgazione del Codice dei canoni delle Chiese orientali, Sala San Pio X, Roma 8–9 ottobre 2010, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, 486 pp. (isbn 978-88-209-8610-0) www.libreriaeditricevaticana.com € 25.00

The Holy Eucharist in the Eastern Canon Law.Acts of the Bratislava Symposium, 14-17 April 2009, edited by G. Ruyssen (Kanonika 16), Pontificio Istituto Orientale, Roma 2010, 263 pp. isbn( 978-88-7210- 368-5)

Strutture sovraepiscopali nelle Chiese orientali, L. Sabbarese (a cura di), Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2011, 303 pp. (isbn 978-88-401-4037-7) { = Pontificia Università Urbaniana – Pontificio Istituto Orientale, Strutture so- vraepiscopali nelle Chiese orientali. Riflessione teoretica e prassi: bilancio dell’epoca del CCEO, Convegno di Studi, 17–18 aprile 2010} www.urbaniana.edu/uup € 26.00

ECL_2013_158×222.indd 287 7/27/2013 10:35:18 AM P. Erdő, Storia delle fonti del diritto canonico, Marcianum Press, Ve- nezia 2008, 191 pp. (isbn 978-88-89736-23-4) € 19.00

Carlo Fantappiè, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, il Mulino, Bologna 2011, 369 pp. (isbn 978-88-15-23285-4) www.mulino.it € 28.00

Cristiani orientali e pastori latini, a cura di P. Gefaell (Monografie giu- ridiche 42), Giuffrè Editore, Milano 2012, 499 pp. isbn( 88-14-17372-9) { = Pontificia Università della Santa Croce, Facoltà di Diritto Canonico, XIV Convegno di Studi, Roma, 15–16 aprile 2010} www.giuffre.it € 50.00

Autonomy in the Eastern Churhes, in Kanon [Jarbuch der Gesellschaft für das Recht der Ostkirchen], vol. XXI, Edition Roman Kovar, Hen- nef 2010, x+321 pp. (isbn 978-3-86577-131-5) {= Society for the Law of the Eastern Churches – Marcianum: School of Canon Law, Forms of Autonomy in the Eastern Churches, Conference, Venezia 21–26 September 2009}

The History of Byzantine and Eastern Canon Law to 1500,W. Hart- mann – K. Pennington (eds.), Catholic University of America Press, Washington [D.C.] 2012, xvi+356 pp. (isbn 978-0-8132-1679-9) $ 59.90

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