Università Ca’ Foscari Venezia

Corso di Laurea magistrale in Lingue e Civiltà dell’Asia e dell’Africa Mediterranea

Tesi di Laurea

L’uniforme scolastica femminile in Giappone tra conformismo e trasgressione

Relatrice Ch. Prof.ssa Maria Roberta Novielli

Correlatrice Ch. Prof.ssa Paola Scrolavezza

Laureanda Chiara Silini Matricola 826608

Anno Accademico 2013 / 2014

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要旨

制服は全体の世界社会の中で大切な役割がある。制服はいろいろな点から魅力的 な服装である。社会の中で、多くの場合では、服を着るのは制服を着るという意

味になる。そのために制服をわかるのは社会をわかるのと同じだと考えられる。

社会の中で2つの形態がある。一つは公式見解であり、二つは非公式見解である 。公式見解によれば制服は命令、規律、コントロールなどを示唆する。反対に、

非公式見解によれば、制服はファッション、エロ世界などを示唆する。

日本の女子学生制服はその二つの傾向の一番いい例である考えられる。学生制服 は学校制度のシンボルとして、フォーマルな服装である。しかし、大衆文化的に なると、新しい意味を持つようになることがよく見られる。このようにして、女 子学生制服はかわいいカルチャー、サブカルチャー、エロ世界などにも使えるよ うになった。それはなぜか。この卒業論文はその問題に答えを見つけることを目

的としている。

アイディアは大学の2年生のときに出た。そのときはファッションの世界に夢中 になった。熱心な気持ちから、独学者で服に関する勉強をはじめた。習ったこと を実際に使いたいと思っていたので、どのように卒業論文にも入れられるか考え 始めた。考えれば考えるほど、突然新しいアイディアがひらめいた。制服だった 。日本にはたくさんの制服があり、日本の社会にとって制服は大切な役割がある 。制服はファッションの研究の問題だけではなく、主に社会学の問題である。5 年生でノヴィエッリ先生とはじめて相談した。そのときには、先生からアドバイ スを頂いた。制服のアイディアはよいが、もっと具体的なテーマを選ぶ必要があ ると言われた。その時に、明治時代の日本における洋服の採用に関する本を先生 に勧められた。本では学生制服の採用についてもよく説明があった。その時まで

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私は学生制服を理解する必要ないと考えていた。しかし、私の期待に反して、女 子学生制服が卒業論文のテーマになった。去年の2月から5月までインターシッ プをするために東京に旅行した。そのときには、国立国会図書館で資料を探した 。何を探すか知らなかったので、研究は思っていたより少し難しかった。それに もかかわらず、イタリアに帰るまでに見つけた資料がたくさんあった。なので、

イタリアに帰った後で卒業論文を書いた。

卒業論文を書くために使った文献すべて東京の国立国会図書館とインターネット で集めた書類である。大衆文化の具体的な例として、マルチメディアも(映画、

マンガなど)使った。

最後的に卒業論文のファイルは6章になり、いろいろな点から日本の女性学生制

服を論じている。

第1章では、制服の概念を論じる。様々な制服を使いの観点から分類した後、一

般的な学生制服に関して説明する。

第2章では明治時代の洋服の採用について書いた。明治維新の社会的変革の中で 、まず官公史、軍人、学生の順で新しい制服が定められた。しかし、女子学生制 服が普及するまでに40年の月日を費やした。それまで、女子制服の形動は複雑

に変化した。

第3章ではまず学生の制服に対するイメージと自分概念の関連性について説明す

る。また、大人の学生と若者のイメージに関しても説明する。

第4・5・6章に女子学生制服に非公式見解を論じる。

第4章ではかわいいカルチャーの関係について書いた。かわいさの概念からはじ め、女子学生制服とどのような関係があるかを説明する。60年代に青年期のカ テゴリーが始まった。その当時、女子の中でかわいさのモダンな概念が生きてお り、かわいいカルチャーの始まりだった。男性は同じ概念を持ち、かわいいカル

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チャーに新しくエロチックな意味をつけた。女子学生制服もそのファンタジーの

部分になった。

第5章では日本の若者のサブカルチャーの学生制服の使い方について書いた。制 服は公式な服装である。しかし、同じ制服はサブカルチャーから採用されると、 意味が変わり、「セミユニフォーム」ということになる。日本の女子学生制服で はスケバンとコギャルのケースは重要な例である。とくに、コギャルの歴史と社 会に与えた影響の大切から始め、女子学生制服はどのような役割があったのかを

論じる。

最後に、第6章ではエロチック世界で女子学生制服の問題を論じる。とくに、か つとり雑誌から現代のマンガとアニメまでの具体的な例を挙げ、なぜ女子学生制

服がエロチックなシンボルになったか説明する。

この卒業論文をはじめたときに、私が期待に脳をふくらませた。結果はおよそ予 想していたことと違っていない。できる限り革新的な卒業論文を書きたかった。 書き方のプロセルは思ったほど難解である。少しの文献あったが、勉強したこと と一緒につけるのは難しかった。書くときにも時々疑問を抱いたが、最後まで懸 命に書きつづけた。結果に満足できる。この卒業論文は私の興味とパーソナリテ

ィーを示している。

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SOMMARIO

要旨 3

CAPITOLO 1 9

LE UNIFORMI E LA LORO FUNZIONE NELLA SOCIETÀ 9

LE UNIFORMI 9 LE UNIFORMI SCOLASTICHE 17

CAPITOLO 2 22

BREVE STORIA DEL COSTUME E DELLE DIVISE SCOLASTICHE IN GIAPPONE 22

L’INTRODUZIONE DEL VESTITO MILITARE E SCOLASTICO 22 L’EVOLUZIONE DEL VESTITO OCCIDENTALE FEMMINILE IN GIAPPONE 24 L’INTRODUZIONE DELLE DIVISE SCOLASTICHE E LE UNIFORMI FEMMINILI 28 LE UNIFORMI OGGI 36

CAPITOLO 3 39

L’UNIFORME, IL SÉ E GLI ALTRI. 39

LA RAPPRESENTAZIONE DEL SÉ TRAMITE L’UNIFORME. 39 LE OPINIONI DEGLI STUDENTI SULLE DIVISE 43 LA PERCEZIONE DELLO STUDENTE DA PARTE DELL’ADULTO 46 LA VISIONE DEI GIOVANI 46 L’IMMAGINE DELLO STUDENTE IN UNIFORME 49

CAPITOLO 4 52

SUPER 52

IL KAWAII 52 L’UNIFORME SCOLASTICA FEMMINILE E IL KAWAII 56

CAPITOLO 5 63

CATTIVE RAGAZZE IN UNIFORME: LA MODIFICA DELLE DIVISE COME MEZZO DI RIBELLIONE 63

LE SUKEBAN 63 LE KOGYARU 65 ORIGINI E DEFINIZIONI 65 LE KOGYARU E GLI SCANDALI SESSUALI DEGLI ANNI NOVANTA 69

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IL RUOLO DELLE KOGYARU COME TRENDSETTERS 71 L’UNIFORME KOGYARU 73

CAPITOLO 6 77

SESSUALITÀ E TRASGRESSIONE: IL GIAPPONE E IL FETISH DELLA STUDENTESSA IN UNIFORME 77

I KASUTORI E L’ORIGINE DELLE TEMATICHE 78 LA NASCITA E LO SVILUPPO DEL LOLITA COMPLEX 79 IL CASO DI SAILOR MOON 87 DUE RAPPRESENTAZIONI OPPOSTE DI ENJO KŌSAI 90 PERCHÉ L’UNIFORME SCOLASTICA? 95

CONCLUSIONI 98

GLOSSARIO 102

BIGLIOGRAFIA 104

RIFERIMENTI IMMAGINI 107

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CAPITOLO 1

LE UNIFORMI E LA LORO FUNZIONE NELLA SOCIETÀ

LE UNIFORMI

Le uniformi sono una delle espressioni più complesse della nostra società. Nel suo romanzo “Sartus Resartus” del 1831 il filosofo scozzese Thomas Carlyle scrive: “Ciò che mi colpisce di più è come la società sia basata sul vestirsi (Carlyle 1831). L’abbigliare è oggigiorno un fatto del tutto personale, uno strumento attraverso cui testimoniamo agli altri il modo in cui vogliamo essere percepiti. Tuttavia, quando i vestiti diventano obbligatori e soggetti a norme, essi assumono un ruolo sociale. E’ il caso delle uniformi che rappresentano un simbolo di status o di stigmatizzazione, e necessitano di essere prese sul serio, perché hanno rilevanti implicazioni sociali: suggeriscono proibizione e virtù, specializzazioni, affidabilità, coraggio e obbedienza, pulizia e igiene (Fussell 2002).

Nel libro “La realtà come costruzione sociale”, Berger e Luckmann teorizzano una concezione della realtà come frutto di un processo dialettico continuo tra uomo e società, quest’ultima intesa come prodotto creato dall’uomo (Berger 1966). Gli autori partono dal presupposto di un uomo essenzialmente abitudinario, le cui attività sono caratterizzate dalla consuetudine e dalla necessita di ordine, direzione e stabilità. La routinizzazione della vita comporta degli importanti vantaggi: limita le scelte, riduce la possibilità di errore e consente di non dover ridiscutere ogni decisione. Ripetere costantemente le stesse azioni porta progressivamente alla nascita di “modi di agire”, cioè di azioni standardizzate nel contesto di specifiche situazioni. In un ambito sociale, queste costituiscono la base di ciò che Berger e Luckmann definiscono come

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istituzione, termine che definisce qualunque società o corpo sociale normalizzato in cui azioni condivise da più persone vengono tipizzate, cioè ridotte ad un modello, un carattere accessibile a tutti i membri della società. L’istituzione è un potere perché astrae i singoli dai loro comportamenti soggettivi e li indirizza verso uno schema di condotta comune. Questi corpi sociali tendono perdurare nel tempo, a patto che siano in grado di rinnovarsi rispetto ai cambiamenti storici e sociali, perché nascono come prodotto della evoluzione stessa della società che li ha prodotti. Si suppone che le istituzioni esistano da molto tempo in tutte le società: chi nasce all’interno di una società percepisce l’istituzione come una realtà oggettiva, reale, che precede la sua esistenza e segue la sua morte. Essa ha un potere coercitivo, che si manifesta da una parte tramite la sua stessa autorità, dall’altra attraverso i suoi meccanismi di controllo. L’istituzione, segnalando norme di condotta idonee a specifiche situazioni, svolge anche una funzione educativa. A seconda dell’importanza, diffusione e complessità di certi comportamenti, una particolare comunità, può sentire la necessità di riaffermarli tramite dei simboli, la cui presenza è tutt’intorno a noi. La divisa è uno dei simboli per eccellenza delle istituzioni. E’ un abito uguale per tutte le persone che svolgono una particolare funzione sociale, ne è un simbolo e ne rafforza quindi il potere e l’autorità.

Le uniformi nascono dalle più generali pratiche vestimentarie delle prime società, prime fra tutte le leggi suntuarie, che furono create con lo scopo di reprimere gli eccessi e decodificare i codici di abbigliamento (Craik 2005). A mano a mano che le leggi suntuarie hanno modificato i modi di vestire nei diversi strati della popolazione, si sono differenziati diversi tipi di abbigliamento, e ciò ha fornito la base razionale all’introduzione delle divise nella società. La divisa ha una funzione fondamentale di identificazione: ogni istituzione, infatti, è integrata nella vita individuale attraverso la creazione di un ruolo. L’assegnazione del ruolo sociale ad un individuo fa sì che il mondo

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acquisisca per lui un valore reale, perché vi si identifica “nella veste” di partecipante (Craik 2005). Le funzioni dell’uomo nella società rappresentano l’ordine istituzionale e la sua sopravvivenza. L’uniforme svolge anche una seconda funzione fondamentale, che è quella della conformazione: tutti coloro che indossano una divisa possono identificarsi tra di loro come appartenenti alla stessa istituzione, mantenere la propria identità e controllarla e plasmarla sulla base delle esigenze del proprio ruolo (Berger 1966). L’indossare la divisa prevede l’apprendimento di “tecniche corporee” specifiche (Craik 2005). Con tale l’espressione si definisce in generale tutto ciò che il corpo umano può fare e apprendere per fare fronte a disparate situazioni. Mauss inaugurò lo studio delle tecniche del corpo nel 1936, ed estese il concetto all’insieme di tecniche che diverse società e tradizioni hanno messo in atto nel corso del tempo per addestrare in corpo umano a modi di agire, gesti e consuetudini propri della loro cultura (Mauss 1973). Indossare la divisa comporta anche l’apprendimento di codici specifici: le regole riguardanti le divise sono spesso rigide e minuziose, e la loro trasgressione comporta una punizione. E’ evidente che le divise sono il modo migliore per riaffermare l’autorità dell’istituzione scuola, di giustificarne le norme e di imprimere un significato alle azioni imposte agli attori sociali. L’uso diventa quindi un fatto naturale, e la trasgressione stessa prevede la coscienza delle norme (Iku 1980).

Possiamo distinguere cinque categorie principali di divise distinte in base alle loro funzioni:

1. Divise per la distinzione delle classi sociali. Rientrano in questa categoria anche tutte quelle restrizioni e leggi adottate nel corso dei secoli e in diverse culture per la distinzione - e talvolta discriminazione - di specifiche classi sociali, quindi anche le leggi suntuarie1. Queste, pur

1 Le leggi suntuarie sono leggi volte alla limitazione delle spese del lusso, che emersero in diverse civiltà in tutto il mondo, dall’antichità fino ad oggi.

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non mirando all’omologazione completa, hanno portato a delle limitazioni all’uso di certi capi a specifiche classi sociali ed hanno imposto codici di abbigliamento che si avvicinano a delle divise vere e proprie. Ad esempio, con l’introduzione della cultura cinese in Giappone, avvenuta gradualmente nel periodo Yayoi (IV-III sec. a.C., III-IV sec. d.C.), furono introdotti copricapi di colori diversi a seconda dei funzionari: blu, rosso, giallo, bianco e nero indicavano il loro grado. Esistevano poi vestiti formali per funzionari, uomini e donne, vestiti da giorno e da cerimonia. Per gli uomini il vestito quotidiano rimaneva simile a quello formale, con l’aggiunta un cappello nero (tokin), una sottoveste gialla e un laccio attorno alla coscia (yōdai). Le calze bianche e le scarpe di pelle venivano sostituite nella vita quotidiana da sandali (tabi) di paglia. Non rimangono testimonianze dell’abbigliamento dei funzionari femminili, ma si pensa che fosse molto simile (Iku 1980). Un altro esempio di leggi suntuarie sono quelle introdotte a partire dal 1617, anno in cui venne riorganizzato il sistema feudale mibun, che prevedeva la distinzione tra daimyō (proprietari terrieri o grandi vassalli) e samurai (militari), contadini, artigiani e mercanti . Per la limitazione del potere dei chōnin, la classe dei mercanti, il cui potere era aumentato segnando la caduta dei samurai, vennero emanate diverse leggi suntuarie. I chōnin vedevano negli abiti uno strumento per ridefinire la propria posizione sociale, diventando arbitri delle mode e del gusto. In particolare, la seta divenne simbolo dei chōnin in ascesa economica. Le leggi suntuarie cercavano di delimitare, almeno da un punto di vista esteriore, le differenze tra le diverse classi mibun, ma ebbero scarso successo perché i chōnin si assunsero solo uno stile dimesso (iki), ma senza rinunciare all’uso di tessuti pregiati (Ikegami 2005). Le uniformi per la distinzione delle classi sociali si intrecciano spesso nei significati alle uniformi stigmatizzanti (vedi punto cinque).

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2. Divise per la vita religiosa, l’amministrazione pubblica e l’istruzione. Queste divise non hanno alcuna relazione con lo status sociale, ma acquistano un valore importante nella identificazione di un ruolo. Per esempio il kesa (in sanscrito kasaya), tipica divisa monastica nel Buddhismo, si ispira in origine nella sua forma al vestito indossato dal Buddha Shakyamuni: un semplice pezzo di stoffa color ocra che lascia scoperta la spalla destra, molto simile alla toga romana. Nella corrente Sōtō Zen2 questa tunica viene stretta con una corda o una fune in vita. Il colore dalla kesa varia a seconda del grado e delle funzioni del monaco (Wijayaratna 1990). Il novizio indossa il colore nero, come simbolo della caducità del mondo terreno e della possibilità di poter uscire dalla condizione di illusione e incertezza del Samsara3. Una volta ordinati i monaci indossano una veste gialla, che simboleggia la veste indossata da Buddha e dai primi buddhisti. Il colore viola è riservato ai religiosi più importanti e deriva probabilmente dalla tradizione imperiale di donare tessuti viola, un colore molto prezioso, come segno di riconoscimento, Nel Sōtō Zen giapponese il viola corrisponde al grado di “maestro” (sensei). Esso esprime la speranza di accumulare buone azioni nel mondo terreno utili in punto di morte a garanzia di rinascita nella Terra Pura. Il maestro principale indossa invece una kesa rossa, mentre vesti di altri colori come l’oro possono essere usate in occasioni speciali. Altro simbolo importante insieme al kesa è la tonsura, simbolo dell’entrata nel noviziato prima e nell’ordine poi (Wijayaratna 1990).

3. Uniformi lavorative. La loro origine può essere considerata antica tanto

2 Il Sōtō-shū è una delle due maggiori scuole giapponesi del Buddhismo Zen, fondata dal monaco Dōgen nel 1227. 3 Nel Buddhismo il Samsāra è il ciclo di reincarnazioni al quale tutti gli esseri senzienti sono sottoposti fino al raggiungimento dell’Illuminazione e il raggiungimento del Nirvana.

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quanto la nascita delle professioni stesse e deriva dalla necessità di capire a chi rivolgersi per la risoluzione di un problema specifico. In ogni società quando si produce di più di quanto si consuma, si crea un surplus economico: il surplus è la base per lo sviluppo della società, perché consente ad alcune persone di distaccarsi dal lavoro di campi per dedicarsi ad altri mestieri. La nascita della distinzione dei ruoli, e lo sviluppo di questi ruoli in professioni, si evolve quindi di pari passo con la nascita di un sistema economico più avanzato (Berger, Luckmann 1966). Lo sviluppo di nuove specializzazioni si sviluppa parallelamente alla necessità si saperle distinguere, quindi nascono le uniformi lavorative. Un caso interessante in Giappone è quello dei lavoratori dei trasporti pubblici, la cui divisa può essere definita come “quasi- militarizzata”, cioè ispirata alle divise militari, ma costruita in modo da non incutere troppa soggezione e dare un’apparenza più rilassata alla persona che la indossa (McVeigh 2000). I lavoratori che la portano svolgono compiti legati alla sicurezza, che vanno ad aggiungersi a quelli di ufficio e di personale ferroviario, e posizionano questa categoria in una posizione speciale all’interno del sistema di classi socio-economiche. Un’altra particolarità della divisa dei lavoratori dei trasporti pubblici consiste nella coesistenza di elementi mutuati dalle divise dei colletti bianchi (lavoratori intellettuali) ed elementi delle divise tipiche dei colletti blu (lavoratori manuali): infatti, pur indossando un completo con la cravatta e la camicia bianca, vestono occasionalmente una maglietta blu sotto la tenuta che si adopera in lavori più manuali. L’evoluzione di alcune di queste divise evidenzia queste caratteristiche contrastanti. Ad esempio, le uniformi della odierna Tokyo Metro4, l’azienda che controlla le principali reti di trasporto della metropolitana della capitale, adotta la sua prima uniforme con la sua nascita nel 1941, quando ancora il nome della

4 Fondata nel 1941, la Tokyo Metro è la principale compagnia che gestisce la metropolitana di Tōkyō.

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compagnia era Tokyo Rapid Transit Autority, ispirandola alla divisa Itarian buru (blu italiano), un completo blu con dettagli dorati. Nel periodo 1950-1972, alla divisa viene aggiunta una cravatta, molti dettagli oro scompaiono, ma appaiono i bottoni oro con una “S” incisa sopra. Tra il 1972 e il 1984 l’uniforme diventa grigia con una cravatta color vermiglio con l’intento di fornire un’immagine più vivace della metropolitana. Dal 1991 la divisa ritorna blu, per cambiare al color oliva in tempi più recenti ed i tessuti si fanno più morbidi per agevolare i movimenti (McVeigh 2000). E’ quindi difficile definire i lavoratori dei trasporti pubblici entro una categoria particolare, che sia polizia, colletti bianchi o blu: la compresenza di diversi ruoli si ritrova nella divisa, e quest’ultima influenza la percezione del lavoro da parte dei dipendenti stessi, le cui mansioni includono lo spingere le persone dentro le carrozze in orari di punta, vigilare sulla sicurezza, aiutare le persone a sbrigare faccende legate a biglietti e abbonamenti. Le diverse forme del lavoro cambiano quindi la percezione che i lavoratori hanno del proprio ruolo. Se infatti il significato apparente della divisa lavorativa è il riconoscimento, questa in realtà diventa rappresentazione della funzione e rende il corpo stesso un’estensione dell’uniforme: indossare i panni del mestiere rende più vicini al lavoro che si svolge (Craik 2005). Così è comune osservare in metropolitana a Tokyo giovani salary man5 vestiti di tutto punto con completo gessato blu, scarpe e borsa tirate a lucido. Ci si chiede il perché di tutta quella cura, ma la risposta è semplice: i giovani, sentendo la pressione di dover dimostrare la propria bravura in ufficio si nascondono dietro questa divisa, che consente loro di darsi un’apparenza di “bravi impiegati”. Questo concetto può essere esteso in maniera più estesa a tutte le uniformi.

4. Divise sportive. Sono dei sottoinsiemi del più generale abbigliamento sportivo,

5 Salary man è un termine che indica in Giappone il lavoratore dipendente di sesso maschile nel settore terziario.

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cioè degli abiti indossati al fine di praticare un’attività sportiva, distinti dallo sportswear, cioè i vestiti casual e di moda che prendono ispirazione dall’abbigliamento sportivo. Le divise sportive derivano dalla fusione di elementi appartenenti all’abbigliamento specializzato e alle divise , e si sono sviluppate come uniformi solo nel tempo (Craik 2005). Un parallelo può essere tracciato con le tenute da caccia (Galloni 2000): nel Medioevo i nobili incominciarono a praticare la caccia come passatempo, distinguendosi dalle classi sociali meno abbienti che la praticavano per il sostentamento. La trasformazione della caccia in attività ricreativa fece sì che gli oggetti usati, come ad esempio le armi, sviluppassero elementi personalizzati (ad esempio elementi di design quali impugnature particolari o materiali specifici), affermatisi prima come mode e poi standardizzati in vere e proprie tenuta da caccia. Lo sviluppo dell’abbigliamento sportivo è stato anche influenzato dall’evoluzione nel tempo di principi di ordine morale in particolare per quanto riguarda il corpo femminile (Craik 2005). Se per gli uomini gli ideali di mascolinità hanno facilmente seguito l’evoluzione del costume (e quindi anche dell’abbigliamento sportivo), nel caso delle donne la paura di una perdita di moralità dei costumi ha sempre generato discussioni che si sono frapposte ai cambiamenti. Il tema più controverso ha riguardato i cosiddetti “indumenti biforcati”, cioè tutti i vestiti che mettevano in risalto gli organi sessuali femminili, come pantaloni, pantaloncini, calzamaglie, eccetera (Craik 2005). Le divise sportive hanno per contro fortemente influenzato la storia del costume, in particolare a partire dagli Anni Sessanta, quando la nascita della moda giovanile ha determinato uno stravolgimento nei codici vestimentari, con l’introduzione di materiali ed elementi ispirati all’abbigliamento sportivo, militare a dalle tenute lavorative, come ad esempio il jeans (Craik 2005).

5. Uniformi stigmatizzanti. Vi fanno parte tutte quelle uniformi che, al contrario delle altre, attribuiscono un significato negativo a chi le indossa.

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E’ il caso ad esempio delle uniformi usate durante il periodo Edo per distinguere i burakumin6 (Caroli 2004). In un feudo vicino all’odierna regione di Okayama, ad esempio, i diversi feudatari cercarono di instillare nei contadini un senso di superiorità forte rispetto ai burakumin, ai quali venne imposto l’uso del kimono “shibuzome” o del simile “aizome” (cioè color sabbia o blu), venne proibito l’uso dell’ombrello e dei sandali geta. Erano anche obbligati a togliersi le calzature e di inchinarsi di fronte ai contadini in segno di rispetto (Ooms 1996). L’obiettivo di queste restrizioni era quello di limitare le resistenze dei burakumin al potere feudale dopo l’arrivo del Capitano Perry nel 1853. In particolare, si cercò di convogliare l’insofferenza dei contadini per le gravi imposizioni fiscali verso un dissenso per i burakumin (Ooms 1996). Le uniformi stigmatizzanti sono spesso legate alle leggi suntuarie.

A queste cinque classi di uniformi dalle prescrizioni formali, cioè normalizzate secondo regole precise, si devono inoltre aggiungere le semi-uniformi e le uniformi informali (Craik 2005) Fanno parte della prima categoria i tipi di abbigliamento che pur non imponendo uno schema normalizzato di vestiario, sono ritenuti come appropriati in determinati contesti, ad esempio il vestirsi ordinati sul posto di lavoro, o non indossare abiti troppo corti a scuola. Le uniformi informali indicano, invece, quei capi di vestiario le cui combinazioni si propongono di creare individualità e costruire un’identità “esclusiva” che però di fatto si adegua ad una moda (ad esempio “vestirsi punk”).

LE UNIFORMI SCOLASTICHE

Le uniformi scolastiche derivano tutte da due modelli di vestiario: l’abito talare,

6 I burakumin sono un gruppo sociale giapponese. Sono spesso discriminati per via dei loro mestieri, come macellare le carni o conciare le pelli, che vengono considerati impuri dalla religione.

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che ha ispirato per esempio i “grembiuli” italiani, e le divise militari, come nel caso delle divise in uso nelle scuole giapponesi (Craik 2005).

Le prime divise scolastiche fecero la loro prima comparsa nelle scuole di beneficenza dell’Inghilterra del sedicesimo secolo, e furono regolate dalle famose Poor Laws del 1597 e 1601 (Craik 2005). Queste istituzioni, finanziate direttamente dalla parrocchie e ben lontane nei metodi di insegnamento dalle nostre scuole, fornivano agli studenti delle divise per questioni di risparmio economico e per renderli facilmente riconoscibili. Con l’avvento dell’industrializzazione, le scuole di carità vennero prese a modello anche per altre strutture educative, ma questa decisione non giovò alla scuola anglosassone, che peggiorò progressivamente di qualità, diventando in alcuni casi così pericolosa da spingere i genitori delle famiglie più abbienti a educare i figli a casa fino all’ingresso in università. Per rimediare all’anarchia che regnava in queste strutture e alle condizioni miserabili degli edifici, molte scuole decisero dunque di adottare delle uniformi, per dare un tono di maggiore serietà e disciplina (Craik 2005). Non si trattava però solo di una misura superficiale: venne ammodernato il sistema educativo e supervisionati maggiormente i comportamenti e i giochi, talvolta organizzandoli in sport formali. La divisa diventa elemento di distinzione per le scuole di prestigio, come per esempio Eton nel Berkshire, vicino Winsdor, o la Rugby School nel Warwickshire, dove venne inventato nel 1823 il gioco del rugby. Fu in particolare la divisa di Eton che si diffuse maggiormente nell’immaginario collettivo come simbolo delle scuole di prestigio. Anche le scuole militari furono molto importanti per lo sviluppo delle uniformi scolastiche, perché rivisitarono molte delle loro divise per adulti, come per esempio il completo da marinaio con la cravatta, che ritroveremo successivamente nelle divise femminili in Giappone (Slade 2009). Tutte queste scuole nascevano come scuole maschili, in cui le uniformi erano simboli degli obiettivi di addestramento alla mascolinità e dei ruoli sociali da raggiungere: vivere in una certa scuola significava accettarne le regole, gli addestramenti e le aspirazioni da adulti. L’obiettivo di queste scuole era dunque quello di formare maschi forti in grado di assumere posizioni di controllo nella società. Non era lo

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stesso per le ragazze, la cui educazione all’interno delle scuole era spesso in contraddizione con le prospettive della vita adulta. Judith Okey, nell’ottavo capitolo del suo libro “Own and other culture”, intitolato Privileged, schooled and finished: boarding education7 for girls, descrive il tipo di educazione proposto in una boarding school femminile negli anni Cinquanta (Okely 1993). Non vi era apparente differenza rispetto all’educazione svolta in scuole maschili: le materie insegnate erano uguali, si praticavano attività sportive ma cambiava la relazione fra gli insegnamenti appresi ed il ruolo sociale. Nel caso delle ragazze, il modello della donna ideale negli anni Cinquanta era principalmente quello dell’“angelo del focolare”, cioè della donna come moglie e madre devota alla propria famiglia, la cui massima aspirazione consisteva nel matrimonio e nell’annullamento di se stesse per dare spazio a marito e figli. Ciò che veniva insegnato era quindi l’acquisizione di caratteristiche che rendessero questo ideale di donna possibile: autocontrollo, devozione, abnegazione. Non cambiavano gli concetti, ma i contesti in cui venivano applicati. Ai fini dell’abbigliamento, è molto importante notare che l’espressione di questo modello di femminilità non era permessa all’interno delle mura scolastiche, un luogo di formazione dove uno degli obiettivi fondamentali era celare la femminilità delle ragazze per conservarne l’ideale di purezza e castità fino al matrimonio. Quest’idea, sostiene l’autrice, si esprime particolarmente nelle divise che correggevano e nascondevano il corpo femminile imponendo posture e squadrando le forme grazie all’inserimento di elementi presi in prestito dal guardaroba maschile. Ben diverse queste divise dagli abiti anni Cinquanta, larghi, vaporosi, limitanti nei movimenti, ma che mostrano bene le linee del corpo femminile. Sembra quasi che si voglia celare la natura femminile per poi rilasciarla tutta di un colpo, ma sempre e solo per gli occhi degli altri. Ovviamente le cose sono cambiate molto da allora: le ragazze sono parificate ai ragazzi non solo negli insegnamenti, ma anche nelle ambizioni a cui possono

7 La boarding education indica l’istruzione all’interno delle cosiddette “boarding schools”, cioè quelle scuole private dove gli studenti vivono e studiano durante il corso dell’anno.

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aspirare nelle loro vite e carriere. C’è tuttavia un elemento fondamentale che riguarda l’idea di celare il corpo femminile che è ancora presente nella nostra cultura e che costituisce uno degli elementi fondamentali da prendere in considerazione quando si analizza il fetish dell’uniforme, di cui si tratterà nei prossimi capitoli. Se infatti l’asessuazione del corpo femminile nasce dalla volontà di celare per un senso di morale e pudore, si trasforma in un elemento erotico facendo leva sul desiderio umano di volere ciò che non può avere e di immaginarlo per come sarebbe (Barthes, 1971). Asessuare il corpo permette non di distruggerlo, ma di sviarlo dal suo comune significato, nella consapevolezza che si tratta di un artificio, di un truccare qualcosa che non può essere totalmente eliminato e che pertanto esiste (Barthes 1971). Tradizionalmente la divisa scolastica femminile in Giappone è sempre stata ispirata allo stile marinaio dei bambini, a sua volta derivato dalla divise militari della marina dell’Impero Britannico (Craik 2005). La prima persona che usò questa divisa per i propri bambini fu la regina Vittoria nel 1846: da allora si diffuse presso i bambini delle classi sociali più abbienti, come simbolo del legame della famiglia alla politica, quando ancora il Regno Unito era un impero e quindi la Marina Imperiale Britannica una delle istituzioni più rispettate al mondo (Craik 2005). Dall’Inghilterra la divisa si diffuse in tutta Europa: in “Morte a Venezia” di Thomas Mann, per esempio, il giovane polacco Tadzio, che nella storia ha dieci anni, indossa un completo da marinaretto (Mann 1912). Fu forse anche per via di questa strana associazione con i vestiti dei bambini che la divisa divenne un simbolo del feticismo. L’ossessione per le divise femminili, la carica erotica che posseggono nascondendo il corpo femminile e la loro contrapposizione con il mondo infantile le rendono molto appetibili perché rispecchiano appieno il culto giapponese del kawaii, cioè di tutto ciò che è carino, grazioso e necessita di attenzione e protezione da parte degli altri (Kinsella 1995). Secondo Brian McVeigh, nel suo libro “Wearing Ideology” (McVeigh 2000), il kawaii può essere inteso come una

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forma di resistenza culturale rispetto al ruolo della donna e dell’uomo nella società; esso è presente quotidianamente nell’estetica giapponese, dove il maschio dominante si contrappone a un’ideale di donna “non umana, ma di ninfa” (Nabokov 1955).

Note

"http://www.rugbyschool.net/history." Barthes, R. 1971. "Nascondere la donna." Pp. 111-13 in Sade, Fourier, Loyola

Torino: Einaudi. Berger, P; Luckmann, T. 1966. La realtà come costruzione sociale. Bologna: Il Mulino. Carlyle, T. 1831. Sartus Resartus. Macerata: liberilibri. Caroli, R. 2004. Storia del Giappone. Bari: Laterza. Craik, J. 2005. Il fascino dell'uniforme. Roma: Armando. Fussell, P. 2002. Uniforms. New York: Houghton Mifflin Company. Galloni, P. 2000. Storia e cultura della caccia. Dalla preistoria a oggi. Bari: Laterza. Ikegami, Eiko. 2005. "Bonds of Civility-Aesthetic Networks and the Political Origins of Japanese Culture." edited by Cambridge University Press. New York. Iku, Tanno. 1980. Pp 140-43 in Sōgōfukushoku-shijitem. Kinsella, S. 1995. "Cuties in Japan." in Women, Media and Consumption in Japan. Honolulu: Curzon & Hawaii University Press. Mann, T. 1912. La Morte a Venezia. Milano: Rizzoli. Mauss, M. 1973. "Techiques of the Body." Economy and Society 2(1):70-87. McVeigh, B. 2000. Wearing Ideology. New York: Berg. Nabokov. 1955. Lolita. Milano: Adelphi. Okely, J. 1993. "Privileged, Schooled and Finished: Boarding Education for Girls." in Own or Other Culture, edited by Routledge. New York: Jstor. Ooms, H. 1996. "Tokugawa Village Practice." edited by University of California Press. Berkeley. Slade, T. 2009. "Japanese Fashion: A Cultural History." New York: Berg. Wijayaratna, Mohan. 1990. " Buddhist Monastic Life: According to the Texts of the Theravada Tradition." Pp. 32-55. Cambridge: Cambridge University Press.

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CAPITOLO 2

BREVE STORIA DEL COSTUME E DELLE DIVISE SCOLASTICHE IN GIAPPONE

L’INTRODUZIONE DEL VESTITO MILITARE E SCOLASTICO

A seguito degli accordi di Kanagawa nel 1854 il Giappone tornò ad aprirsi dopo due secoli. Nel giro di pochi anni, di fronte alla crescente opposizione di un forte movimento favorevole alla modernizzazione, il governo Tokugawa, espressione dell’antica concezione feudale, cedette il potere all’imperatore Mutsuhito che fu incoronato nel 1868. Il periodo di grandi innovazioni che seguì prende il nome di “rivoluzione Meiji”. Tuttavia, se da un lato il Giappone perseguì l’internazionalizzazione definita in termini di sviluppo tecnologico e di espansione nei mercati mondiali, dall’altra parte rimase forte il desiderio di difendere le tradizioni. Questa ambivalenza è visibile in particolar modo se si analizza l’evoluzione del vestiario in questo periodo (Slade 2009). Risale a quegli anni l’introduzione del vestito occidentale che avvenne soprattutto per necessità politica e per scopi lavorativi e militari e fu quindi una scelta ben lungi dall’essere culturale. L’internazionalizzazione del paese necessitava l’omologazione ai paesi delle cui tecnologie il Giappone aveva bisogno. Il kimono, che con la sua forma destrutturava il corpo, appianando le differenze tra uomini e donne, e che rendeva i Giapponesi buffi agli occhi stranieri fu sostituito dalle uniformi militari che, con la loro vestibilità, permettevano l’esaltazione del fisico maschile, delle spalle e della massa muscolare.

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Nel 1860 venne imposta alla marina giapponese la divisa della marina imperiale britannica mentre all’esercito fu assegnato il modello di uniforme dell’esercito francese (Slade 2009). La scelta dell’abito francese non fu casuale. Secondo James Laver8 (Laver 1948), il successo di una certa uniforme in battaglia ne segna la sua diffusione tra gli eserciti e nel 1868 le forze armate francesi erano le più forti d’Europa. Quando Napoleone III venne esiliato in Inghilterra, a seguito della sconfitta di Sedan, il Giappone adottò il modello di uniforme prussiano (Slade 2009). Già nel 1858 il clan Fukui9 aveva commissionato una traduzione di un libro che aveva come argomento l’aspetto delle divise dell’esercito monarchico olandese (Slade 2009). Lo scopo era lo studio del loro aspetto estetico e del modo in cui avrebbe potuto essere riprodotto in Giappone. Anche al governo giapponese di epoca Meiji non interessava tanto lo studio delle tecniche belliche occidentali e il modo di poterle eventualmente reinventare, quanto l’imitazione dell’aspetto esteriore dell’esercito. La divisa doveva trasmettere timore e autorevolezza, e l’adozione delle uniformi occidentali fu l’emblema di un nuovo concetto di stato consolidato anche attraverso l’apparenza.

Nella società civile l’introduzione del vestito maschile in Giappone andò di pari passi con l’apertura verso il mondo esterno: il vestito occidentale, inizialmente legato solo al modo militare, fu oggetto ben presto amore e curiosità per ciò che era considerato “esotico”. Fondamentale fu la costruzione del Rokumeikan 10 (Carlotto 2012), voluto dal ministro degli esteri Inoue Kaoru tra il 1884 e il 1889, uno spazio in cui l’élite urbana giapponese avrebbe potuto confrontarsi con esperti e dignitari stranieri, con lo scopo di favorire il confronto tra culture ed usanze nuove. Tutto richiamava l’Occidente: dalla struttura dell’edificio a due

8 James Laver (1899-1975) è stato un autore, critico d’arte, storico e curatore di musei presso il Victoria and Albert Museum. E’ anche noto per essere uno dei pionieri della storia del costume. 9 Il feudo Fukui, controllato dall’omonimo clan, è stato un territorio presente in Giappone nel periodo Edo. I feudi, in giapponese han, venivano gestiti da dei capi chiamati daimyo che giuravano fedeltà allo shogun. 10Il Rokumeikan era un grosso complesso a due piani costruito a Tokyo, che divenne simbolo controverso della occidentalizzazione giapponese.

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piani progettato dall’architetto inglese, Josiah Conder11, al cibo francese, alle sigarette inglesi, alla birra tedesca e i cocktail americani, tutto questo al fine di dimostrare al mondo esterno il progresso di civilizzazione e di internazionalizzazione raggiunto dal Giappone (Slade 2009). Nel periodo in cui il Rokumeikan fu in funzione, la concezione del corpo maschile venne completamente rinnovata, lasciando spazio ai vestiti occidentali, che, con la parallela acquisizione di adeguate tecniche sartoriali, vennero plasmati sui corpi degli uomini Meiji.

L’EVOLUZIONE DEL VESTITO OCCIDENTALE FEMMINILE IN GIAPPONE

Una delle costanti più importanti nella storia della moda è la discrepanza tra la velocità di sviluppo delle innovazioni nel vestiario maschile e in quello femminile: se le nuove concezioni di mascolinità attraverso i secoli vanno di pari passo con l’espansione di nuove mode, alle donne non è concessa la stessa fortuna (Craik 2005) L’abbigliamento femminile ha sempre storie più controverse, legate alla rivelazione del corpo, alla FIGURA 1: IMMAGINE DI MŌGA

11 Josiah Conder (1852-1920) è stato un architetto inglese che lavorò come consulente straniero durante il periodo Meiji.

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sessualità, al ruolo sociale. In una nuova società in cui lo slogan imposto dallo stato diventava "wakon yōsai”, cioè “tecnologia occidentale, spirito giapponese” (Caroli 2004), se la parte del lavoro era affidata alla popolazione maschile, era evidente che alle donne sarebbe spettato il compito di custodi delle tradizioni. In questo periodo si contrapposero due figure femminili antitetiche: da una parte la mōga, cioè “modern girl”(Figura 1), che rappresentava la fascinazione per le mode occidentali e il tentativo di emancipazione sessuale, dall’altra la donna tradizionale, in kimono, rappresentata come “buona moglie, madre saggia” (ryō sai kenbo), che avrebbe vegliato sulla casa e lottato per la difesa degli ideali tradizionali (Slade 2009) Una motivazione usata a detrimento dell’abbigliamento occidentale tra le donne fu che le Giapponesi, minute e poco formose, non avrebbero potuto indossare, senza sembrare goffe, i vestiti occidentali di fine Ottocento che erano molto ampi. In effetti i vestiti occidentali erano poco adatti alle usanze delle donne Meiji, nondimeno questo argomento fu anche usato per impedire alle donne un ruolo attivo nei cambiamenti del periodo. La fine dell’Ottocento in Giappone segnò quindi una stagnazione nell’adozione del vestito femminile occidentale che durerà fino al primo periodo Taishō (1879- 1826).

L’1 settembre 1923 il Giappone fu scosso da un grande terremoto, il “Grande terremoto del Kantō”, che contò circa centomila morti e tre milioni trecento mila feriti. Il disastro distrusse la maggior parte delle città di Tōkyō e Yokohama, e milioni di persone persero tutti i loro averi, compresi gli oggetti personali, che furono rimpiazzati con beni di provenienza straniera. I vestiti furono i maggiormente importati: la scarsa reperibilità dei materiali per i kimono e l’idea che potessero intralciare i movimenti tra le macerie convinse molte donne alla parziale sostituzione dell’abito tradizionale con quello occidentale (Slade 2009). Questo rappresentò il primo passaggio verso il mutamento del costume. Ciò che

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fino ad allora era stata una prerogativa di un gruppo ristretto di donne, incominciò ad incuriosire molte altre.

Il 16 dicembre 1932, a ridosso del Natale, il quarto piano dedicato ai giocattoli dei grandi magazzini Shirokiya, palazzo costruito dopo il terremoto di dieci anni prima, si incendiò. Delle quattordici vittime accertate, tutte donne, tredici morirono cadendo durante le operazioni di salvataggio poiché, nel tentativo di rimanere aggrappate con alle corde dei pompieri una sola mano per potere con l’altra tenere giù la gonna, persero l’equilibrio e precipitarono (Seidensticker 1990). La vicenda scosse molto il Giappone, ed ebbe molta eco sui giornali dell’epoca. Prima di questa tragedia non esisteva per le donne giapponesi la biancheria intima per come veniva intesa in Occidente: sotto il kimono era indossato solo il koshimaki, una sorta di gonnellino che copriva le cosce, ma lasciava parzialmente scoperte le parti intime. L’idea che qualcuno avesse potuto mettere in pericolo la propria vita pur di conservare il proprio pudore è piuttosto improbabile, e si pensa quindi che sia una leggenda metropolitana sviluppatasi a posteriori. Si crede, tuttavia, che fu proprio questa tragedia a metter in moto i cambiamenti che sarebbero avvenuti da lì a poco nel costume. L’incendio non fu una causa, quanto piuttosto un simbolo del mutamento. Già a partire dal periodo successivo al Grande terremoto del Kantō, la pubblicità suggeriva alle donne giapponesi di adottare biancheria occidentale, ma queste ancora sembravano restie all’idea. Uno dei veri snodi della questione fu l’introduzione dei monpe, i pantaloni da lavoro usati specialmente nelle campagne, sotto i quali il koshimaki non poteva essere indossato, e che venne quindi in parte sostituito da i zurōsu (dall’inglese drawers), culottes a gamba molto larga (Slade 2009). Dopo l’incendio queste pubblicità aumentarono, e negli anni Trenta l’uso della biancheria divenne una delle bandiere dal femminismo giapponese, e si diffuse rapidamente tra la popolazione. L’adozione della biancheria intima fu il primo grande passo verso la diffusione del vestito occidentale tra le Giapponesi. Ad

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esso vanno aggiunti i cambiamenti della popolazione in conseguenza del progresso economico. La struttura fisica dei giapponesi stava cambiando: nel 1900 la statura media per un uomo sui vent’anni era di centosessanta centimetri, per una donna di centoquarantotto, mentre nel 1940 era diventata di centosessantacinque e centocinquantatré.12 Anche la moda occidentale femminile si era evoluta: la rivoluzione portata avanti negli anni venti da Coco Chanel aveva trasformato il guardaroba femminile rendendolo pratico e più consono ad una vita attiva. Le industrie laniere si erano sviluppate tecnologicamente e questo aveva permesso una diminuzione del costo della lana, e l’assunzione di donne nelle fabbriche. I tessuti occidentali incominciarono a circolare in Giappone e furono impiegati nella creazione di vestiti in cui ancora venivano usati abiti tradizionali, come per esempio nelle campagne.

Lo sport, sia come attività ricreativa, che come abbigliamento sportivo, fu un’altra delle principali ragioni di cambiamento nella sartoria femminile nel periodo Taishō e nella cultura delle mōga (Slade 2009). In particolare si diffusero il tennis, il ciclismo e il nuoto. In un servizio dell’ ”Istituto Luce” trasmesso in Italia il 22 dicembre 1937 intitolato “L’emancipazione della donna giapponese” si dice: “La musume del Novecento, se ama tuttora rivestire in pittoreschi kimono fioriti, e ripararsi all’ombra civettuola del parasole di carta, è anche praticamente amante di tutti gli sport, con la spiccata preferenza per gli esercizi ritmici collettivi all’aria aperta, e il nuoto” (B1221 1937). Anche se questo servizio risale già al periodo Shōwa (1926- 1989) in pieno nazionalismo, possiamo chiaramente evincere dai fotogrammi che durante attività sportive venivano indossati esclusivamente vestiti occidentali. Il governo di quel periodo vedeva nella mōga il futuro della nazione, un’immagine che non si discosta per nulla da quella descritta nel servizio sopracitato: una donna fisicamente attiva e atletica, ma legata all’immagine canonica della tradizione, cioè gentile, sorridente genuina e poco impegnata intellettualmente. Il

12 AA.VV. 1987. "Japanese Ministry of Education: School Health Statistics." Tokyo: Japan Statistical Association.

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nazionalismo aveva cancellato lo spirito di emancipazione e indipendenze delle prime mōga.

L’INTRODUZIONE DELLE DIVISE SCOLASTICHE E LE UNIFORMI FEMMINILI

Dopo l’introduzione delle vesti militari, l’uniforme entrò a far parte del guardaroba studentesco giapponese. L’educazione Meiji era stata concepita dal Codice del sistema scolastico (Gakusei) del 1872 secondo valori di stampo liberale, che avevano lo scopo di far esaltare le qualità individuali dei singoli studenti (Carlotto 2012). Vi era una grande influenza occidentale, e molti stranieri vennero chiamati a formare una nuova generazione di educatori. Già nel 1879 la Scuola nobiliare (Gakushuin) aveva introdotto una divisa simile a quella degli ufficiali di marina, ma prima che le uniformi venissero introdotte anche nelle altre scuole si sarebbe dovuto aspettare il 1884, quando Arinori Mori13, ministro dell’istruzione giapponese tra il 1885 e il 1889, inserì le esercitazioni fisiche nei programmi didattici. La scelta di Mori fu quella di concepire l‘educazione in termini di una maggiore utilità per lo stato, ispirandosi nel suo modello a Herbert Spencer 14 , cioè all’idea dell’insegnamento come percorso in cui il bambino accompagna alla crescita fisica l’acquisizione dei valori del vivere civile. Lo scopo ideale dell’educazione è di coltivare e migliorare quelle facoltà insite nell’uomo stesso e acquisite in seguito alla trasmissione ereditaria, cioè l’intelletto, la morale e la fisicità. Attraverso il processo di istruzione, il regime Meiji avrebbe dunque dovuto estendere la propria azione “civilizzatrice”, l’educazione dei giovani come “sudditi di potenza”(Carlotto 2012), guardando così all’avvenire del paese. Le esercitazioni militari erano un passo fondamentale per la formazione di questi ragazzi, perché attraverso le attività psicofisiche non

13 Arinori Mori (1847-1889) fu un diplomatico, ministro di gabinetto e educatore giapponese. 14 Herbert Spencer (1820-1903), filosofo britannico.

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solo si formava la disciplina individuale, ma anche la coesione di gruppo. Era evidente che per queste attività una divisa in stile occidentale era molto più pratica di vestiti tradizionali come haori15 e hakama16. La divisa scelta da Arinori Mori fu praticamente uguale a quella dell’esercito prussiano, e fu adottata uguale su tutti i territori del Giappone, tranne per alcuni dettagli, come lo stile dei bottoni (Slade 2009).

L’evoluzione della divisa scolastica femminile in Giappone presenta uno schema di sviluppo del tutto simile a quello dell’introduzione dell’abbigliamento occidentale nella moda femminile. Oscillante tra tradizione e occidentalizzazione, le furono necessari quarant’anni perché si evolvesse fino a diventare il sēra fuku (letteralmente “vestito da marinaio”) (Slade 2009) (Figura 2). In una prima fase il Ministero dell’Educazione cercò di omologare le divise femminili a quelle maschili. Nel 1872 la Tōkyō Jogakko adottò per le sue allieve un modello maschile di uniforme, costituito da un kimono indossato con un paio

15 Accessorio per kimono maschile, soprabito che aggiunge formalità alla veste. Di lunghezza variabile, può arrivare alla coscia o al ginocchio. 16 Vedi sotto

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FIGURA 2: EVOLUZIONE DELLA DIVISA SCOLASTICA

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di hakama (Cambridge 2011). Questo tipo di pantalone, destinato fino ad allora esclusivamente agli uomini, fu considerato tuttavia poco consono per le ragazze.

Si decise quindi di crearne un nuovo modello per le donne che prese il nome di onna-bakama. Questo stile d’abbigliamento venne soprannominato bassuru sutairu (dall’inglese bustle style, cioè che richiama il panier, la struttura sottostante i vestiti occidentali del Settecento- Ottocento ). Nel 1905, il pedagogista Inoguchi Akuri propose, dopo un tour negli Stati Uniti e in Europa, una forma ibrida di divisa sportiva per le ragazze, con la parte superiore ispirata allo stile della marina britannica e gli hakama (Usui 2014). Questa tenuta fu il punto di passaggio verso il sēra fuku. Nel 1921, il collegio femminile di Fukuoka fu il primo campus ad adottare questa divisa: la direttrice del collegio intuì che sarebbe stata molto più semplice da indossare del classico kimono . Tuttavia la maggior parte delle scuole del periodo Meiji non adottò mai delle vere e proprie uniformi scolastiche, e in quel periodo nelle scuole femminili restò una certa varietà di colori e di modelli.

Nel periodo Taishō, dopo il terremoto del Kantō del 1923, il costo della stoffa dei kimono impose la necessità di adottare per tutte le scuole femminili divise in stile occidentale Ne furono concepite due versioni: una con vestito blu, lungo fino alle ginocchia, collo simile a quello dei kimono ma maniche ispirate alle vesti della marina ed un’altra composta da un completo di due pezzi con giacca e janpa sukāto (gonna-pantalone), indossato con un berretto e un foulard rosso al collo (Iku 1980). Il periodo della Seconda Guerra Mondiale, caratterizzato politicamente in Giappone da un regime autoritario e nazionalista, è invece caratterizzato da una giacca in stile marinaro a cui venne abbinato il monpe, un pantalone da lavoro (Cambridge 2011). Una delle ragione della sua adozione fu che dal 1943 al 1945 gli studenti delle scuole superiori e delle università furono costretti a prestare lavoro nelle campagne e nelle fabbriche di armamenti, per la necessità di mantenere una produzione costante in periodo di guerra. La stoffa

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cambiò e fu adottato il kasuri, cioè il cotone usato nelle fabbriche dei kimono. Alla fine della guerra, il sēra fuku nella versione total black, fu adottato di norma per tutte le scuole medie e superiori. Se il prerequisito fondamentale per l’educazione durante il nazionalismo era quello di instillare un senso di forte orgoglio nazionale nei giovani, per indottrinarli secondo il principio di difesa del kokutai, cioè del “sistema nazionale”, ora che l’imperatore aveva perso il suo ruolo di divinità e che gli Alleati avevano smantellato le forze militari giapponesi, anche i valori su cui la scuola si basava cambiarono completamente. Il Giappone del dopoguerra è identificato come gakureki shakai, cioè una società meritocratica basata sul ruolo dell’educazione. Negli anni Cinquanta figure di ragazzi nelle loro uniformi tirate a lucido incominciarono a pervadere nelle pubblicità dedicate alle famiglie e in televisione, portando un po’ di sogno americano e rimanendo impresse nell’immaginario collettivo. E’ quasi certamente databile a questo periodo la nascita per la prima volta di un’immagine della ragazza in uniforme come oggetto sessuale (Kinsella 2002). Si trattava, in queste prime forme, di romanzi erotici o pornografici dove appaiono ragazzine che si sbottonano la camicetta. Negli anni Sessanta queste figure ancora abbastanza caste di ragazze in uniforme lasciano spazio ad una visione più complessa legata al tema dell’erotico-grottesco (in giapponese ero-guro). Nascono le prime storie dove studentesse vengono sedotte o violentate da mostri, cattivi maestri o parenti più anziani. Questo genere di tematiche è ancora oggi quello prevalente nell’industria d’animazione pornografica giapponese (hentai). Gli anni Sessanta furono però anche caratterizzati dai primi movimenti di ribellione contro le uniformi e dall’omologazione che rappresentavano. Le sukeban, cioè le bande femminili che nacquero a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, furono in quel periodo l’emblema delle cattive ragazze (Evers and Macias 2007): alle gonne lunghe delle uniformi venne contrapposta una versione ridotta della camicetta, che lasciava scoperta parte della pancia. Si trattava per lo più di ragazze sbandate, che erravano per la città combattendo in faide tra diversi

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gruppi, ma col tempo vennero identificate come icone di mode e riferimento per i successivi fenomeni di deviazione studentesca, espressi anche attraverso la reinterpretazione della divisa. Negli anni Ottanta l’uniforme si evolse da simbolo dell’istituzione scolastica a vero e proprio business. Nacque il modello con blazer, che spopolò a Tokyo nella versione blu o caramello, e le gonne incominciarono ad accorciarsi. Dopo il 1990 si ebbe un aumento esponenziale dello stile delle uniformi scolastiche: il sēra fuku rimase prerogativa delle scuole storiche, mentre quelle di nuova fondazione adottarono divise più allettanti (Mitamura 2008). Per le giovani uno dei parametri di scelta dell’istituto da frequentare fu anche la ricercatezza e la bellezza delle uniformi proposte. L’interesse per le uniformi raggiunse il suo apice, anche grazie alla pubblicazione di lavori come Tokyo Joshiko Seifuku Raikai (Manuale sulle uniformi scolastiche femminili a Tokyo) di Mori Nobuyuki (Mori 1985), che documenta per la prima volta la varietà di stili nell’area di Tokyo. Negli anni Novanta le gonne si accorciarono. Si trattò il più delle volte di trasgressioni che andavano contro i regolamenti scolastici, e che indusse alcune scuole a rivedere le proprie regole. Nel 1997 fece ad esempio eco nei giornali il caso della prefettura di Chiba, dove in quattro scuole si accordò come “lunghezza ragionevole” per la gonna la misura di cinque centimetri sopra il ginocchio (Cherry 1992). Altra moda, che si

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sviluppò nelle zone di Tokyo e Osaka verso il 1994 per poi espandersi in tutto il

Giappone, fu quella di indossare le calze allentate (Figura 3), che tenute in posizione tramite colle speciali, diventarono un particolare studiato di falsa trascuratezza nella divisa (Fazio 1998). Le uniformi si trasformarono in oggetti di design, e alcune scuole decisero di affidare la loro creazione a stilisti giapponesi, sempre più consapevoli del fatto che non avrebbero potuto opporsi al cambiamento dei tempi, e che questo rinnovamento avrebbe potuto far rifiorire un interesse anche da parte FIGURA 2: CALZE ALLENTATE

degli studenti per un simbolo che ormai sembrava essere privo significato . Nel frattempo il sēra fuku era stata ampiamente rimpiazzato dal modello di divisa con giacca e gonna. Nel 1993 l’attenzione dei media nazionali si focalizzò su un nuovo fenomeno dell’industria sessuale: questo commercio era basato su i burusera, i pantaloncini scuri indossati dalle ragazze durante le lezioni di educazione fisica, che incominciarono ad essere venduti in alcuni sexy shop (Kinsella 2002). Le ragazzine vendevano le loro uniformi, i pantaloncini da ginnastica e la propria biancheria con un campione della propria saliva in cambio di denaro facile. Ben presto l’interesse per questo portò alla luce un grande scandalo in cui si rilevò un grande giro di prostituzione minorile (si parlava del quattro percento di studentesse liceali coinvolte), che rimase poi noto con il nome edulcorato di enjo kōsai (letteralmente “incontrarsi per un aiuto” o

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“appuntamento sovvenzionato”), cioè un incontro, in cambio di denaro e regali, tra una ragazza molto giovane, in genere una studentessa preadolescente o adolescente, e un uomo più vecchio, tendenzialmente sopra i trent’anni, senza che necessariamente vi sia una performance sessuale . Il fattore più sconvolgente fu che per la maggior parte dei casi il fenomeno coinvolse, diversamente dal fenomeno delle sukeban negli anni Settanta, ragazze provenienti da famiglie benestanti, che quindi che non avrebbero avuto bisogno di denaro. Per i media la parola enjo kōsai divenne un termine chiave, e l’interesse per le studentesse e le loro deviazioni si fece sempre più intenso, fino ad essere definito “boom delle liceali” (Evers and Macias 2007). L’immagine distorta che venne offerta dai media fu quella di ragazze senza scrupoli, che desideravano fare soldi facilmente, disposte a tale scopo addirittura a vendere il proprio corpo. In particolare, fu la nascente sottocultura kogyaru ad essere associata ad un’immagine di gioventù bruciata. Portavano gonne molto corte, calze allentate sui polpacci, si abbronzavano e si tingevano i capelli contro tutti i canoni della bellezza tradizionale giapponese.

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LE UNIFORMI OGGI

Con l’ingresso nel nuovo millennio le uniformi femminili hanno nuovamente cambiato il proprio aspetto. Mori Nobuyuki, nel suo libro Joshi kōseifuku zukan: Shukotenban Kanagawa Chiba Saitama (Manuale di uniformi liceali femminili: edizione dell’area metropolitana di Kanagawa, Chiba e Saitama) del 2010 (Mori 2010), esamina attentamente le caratteristiche delle divise nelle città di Kanagawa, Chiba e Saitama, dividendole in sei stili principali: blazer, sēra fuku, bolero, vestito, gonna pantalone, giacca colorata. Il blazer è adottato dal 70% delle scuole: l’opzione più fortunata, quella con gonna e cravatta, è anche secondo gli studenti la scelta più apprezzata, per via del suo design pratico e bello da vedere. Il sēra fuku comprende l’11% complessivo, mentre bolero e vestito sono modelli rari, secondo l’autore destinate a scomparire nel giro di poco tempo. La gonna pantalone è solo presente in due scuole nella zona di Kanagawa, e rappresenta quindi una piccola parte delle uniformi. Nella maggior parte delle scuole missionarie cristiane il modello delle divise non ha subito modifiche, se non eventualmente nel colore delle giacche. Le divise colorate rappresentano il 15% complessivo. Più della metà delle strutture hanno cambiato modello dell’uniforme nei precedenti dieci anni, ma secondo l’autore è improbabile che le scuole la cui veste è rimasta invariata fino ad ora decidano di dare una svolta. Due sono i fattori interessanti da notare. Il primo è che più di design “grazioso”, le nuove preferenze sembrano virare verso una concezione di abito funzionale. In particolare ci si rivolge al blazer, preferito nella versione più ampia e che è anche il modello preferito dagli stilisti famosi a cui talune di queste uniformi vengono commissionate: delle centoquarantasette scuole recensite da Mori, trentuno posseggono una divisa prodotta da un designer. Secondariamente,

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la moda delle calze abbassate e allentate sul polpaccio sembra essere passata, il trend sembra essere di nuovo quello di una divisa essenziale, in cui la calza diventa il punto di bilanciamento in tutta la divisa (Mori 2010). Ciò che invece si ferma complesso è l’accorciamento delle gonne, che è passato dal massimo di cinque centimetri sopra il ginocchio ai venticinque che viene registrato a Mito, nel distretto di Ibaragi e al venti dell’area di Tokyo. Sfortunatamente il fenomeno dell’enjo kōsai è persistente e sembra che si sia espanso a tutta l’Asia, tanto che l’ECPAT (End Child Prostitution, Child Pornography and Trafficking of Children for Sexual Purposes)17 ha espresso la sua enorme preoccupazione per la situazione attraverso un suo rapporto, intitolato “Blaming Children for their own exploitation: the situation in East Asia”, indicando che in Giappone il problema potrebbe riguardare il 13% degli studenti delle scuole medie (McCoy 2004).

Note:

1987. "Japanese Ministry of Education: School Health Statistics." Tokyo: Japan Statistical Association. B1221, Giornale Luce. 1937. "L'emancipazione della donna giapponese." Cambridge, N. 2011. "Cherry-Picking Sartorial Identities in Cherry-Blossom Land: Uniforms and Uniformity in Japan." Journal of Design History 24(2):pp 171-86. Carlotto, F. 2012. "Vestirsi d'Occidente." Venezia: Edizioni Ca' Foscari. Caroli, R. 2004. Storia del Giappone. Bari: Laterza. Cherry, K. 1992. "Chiba school OK short skirts in concession to fashion trend." Daily Yomiuri. Craik, J. 2005. Il fascino dell'uniforme. Roma: Armando. Evers, Izumi, and Patrick Macias. 2007. Japanese Schoolgirl Inferno: Tokyo Teen Fashion Subculture Handbook. San Francisco: Chronicle Books. Fazio, G. 1998. "Females told to keep their loose socks under pleasure dome." Daily Yomiuri. Iku, Tanno. 1980. Pp. pp 140-43 in Sōgōfukushoku-shijitem. Kinsella, S. 2002. "What's Behind the Fetishism of Japanese School Uniforms?

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17 L’ECPAT nasce nel 1991 in Tailandia per affrontare i problemi della prostituzione e della pornografia infantile, e del traffico di bambini. Oggi opera in più di cinquanta paesi, tra cui l’Italia dal 1994.

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Laver, J. 1948. British Military Uniforms. London: Penguin Books. McCoy, A. 2004. "Blaming Children for their own exploitation: the situation in East Asia." ECPAT 7th report on the Implementation of the Agenda for Action Against the Commercial Sexual Exploitation of Children

Mitamura, F. 2008. Kosupure: naze nihonjin seifuku ha suki na no ka? Tokyo: Shōtensha. Mori, N. 1985. Tōkyō joshi kō seifuku zukan. Tokyo: Yudashi-sha. —. 2010. Joshikō seifuku zukan, shutokenban: Kanagawa, Chiba, Saitama. Tokyo: Kuritsu-sha. Seidensticker, E. 1990. Tokyo Rising: The City since the Great Earthquake. New York: Knopf. Slade, T. 2009. "Japanese Fashion: A Cultural History." New York: Berg. Usui, K. 2014. Marketing and Consumption in Japan. Londra: Routledge.

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CAPITOLO 3

L’UNIFORME, IL SÉ E GLI ALTRI.

LA RAPPRESENTAZIONE DEL SÉ TRAMITE L’UNIFORME.

Si chiama “enclothed cognition” la percezione della natura di una persona attraverso gli abiti che indossa (Blakeslee 2012). Se uno studente porta l’uniforme, verrà riconosciuto come coerente con il suo ruolo e lui stesso farà il possibile per soddisfare questa percezione. Ovviamente come si suol dire “l’abito non fa il monaco”, cioè l’apparenza non può modificare le vere capacità di una persona, ma senza dubbio un determinato modo di vestirsi può persuadere a cambiare l’immagine che si ha dell’altro e di se stessi. E’ già stato detto come le uniformi scolastiche in passato abbiano subito un certo periodo di crisi, in conseguenza del quale da una parte si è vista la nascita di comportamenti devianti legati alla modificazione e distorsione del loro significato formale, dall’altra le scuole hanno in certi casi cercato di portare avanti un processo di rinnovamento delle proprie divise per riconquistare autorità di fronte agli studenti. In fondo, se l’uniforme è un simbolo dell’autorità scolastica, cioè ne rafforza il potere e i principi, quando il simbolo perde potenza è la stessa istituzione a perdere potere. In quella perdita di comando si insinua il comportamento deviante.

A monte della questione, tuttavia, esiste un problema di natura psicologica che non è stato ancora affrontato, cioè la percezione che hanno gli studenti hanno dell’uniforme che indossano e della concezione del sé in divisa. Non si tratta solamente di capire le opinioni riguardo le uniformi, ma di capire se indossandole l’idea del sé cambia in positivo o in negativo e, quindi, di

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decodificare quali concetti sono associati alle uniformi. Questo può permetterci di spiegare se e quando la percezione di un simbolo può modificare l’autorità di un’istituzione ed influire sulla presenza di comportamenti devianti. Un interessante sondaggio circa la percezione del sé attraverso l’uniforme è stato effettuato nel 1992 per la Facoltà di Educazione dell’Università di Iwate (Ikeda, Amaki and Oki 1992). Ad un campione di 1317 studenti (644 maschi, 673 femmine) sono state proposte trenta coppie di aggettivi di significato opposto (ad esempio curato-trascurato). Per ognuna si esse si potevano scegliere sette gradi di giudizio che esprimevano la prossimità o distanza rispetto ad uno degli aggettivi della coppia: “molto” (ijō ni), “abbastanza” (kanari), “un po’” (yaya), “nessuno dei due” (dochira demo nai), “un po’”, “abbastanza” e “molto”. Le coppie consentivano la descrizione di quattro temi centrali: il sé ideale, il sé reale, i vestiti personali, le divise scolastiche.

Per ognuno dei trenta aggettivi è stata tracciata una media delle risposte. Gli aggettivi scelti maggiormente dalle ragazze nella descrizione del sé ideale erano: “innovativa” (shinpoteki), “calorosa” (atatakai), “snella” (hossori shita), “sofisticata” (senren sareta), “con un bello stile” (sutairu ga ii), “attiva” (katsudōteki), “chic” (shareta), “pulita” (seiketsuna). Quando però si confrontavano i risultati con quelli del sé reale i risultati erano talvolta opposti, ad esempio “rotondetta” (fukkura shita) viene contrapposto a “snello”, e “con un brutto stile” (sutairu ga warui) contro lo stile chic e sofisticato del sé ideale. Se ne deduce che le ragazze avevano un giudizio molto duro di sé. Ancora più interessanti erano i risultati quando questi due fattori venivano integrati con relativi allo stile personale ed alle divise scolastiche. Non casualmente, infatti, quando le studentesse dovevano descrivere i propri vestiti personali, gli aggettivi scelti erano interamente in una posizione intermedia tra la percezione del sé reale e quello ideale, a dimostrazione del fatto che la scelta di determinati abiti stabiliva il personaggio che desideriamo essere nel sé ideale. La divisa, al contrario, si posizionava nella maggior parte dei casi

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nella parte del grafico degli aggettivi negativi, tra il “nessuno dei due” e il “così- così”, talvolta intrecciandosi o superando sia in negativo che in positivo la percezione del sé reale, ma mai raggiungendo il sé ideale o i vestiti personali. Tra gli aggettivi più negativi sulle uniformi si riscontravano “banale” (heibonna), “seriosa” (katai), “non affascinante” (miryokuteki denai), “convezionale” (kata ni hamatta). Emerge inoltre dalla ricerca che le studentesse avevano coscienza vivida del fatto che esiste una correlazione significativa tra giovinezza e immagine reale del sé, ciò si riflette sulle aspettative della società riguardo alla uniforme che indossano. Esiste cioè una volontà di costruire il sé per come la società vorrebbe che venisse visto e non per come si vorrebbe che fosse.

Secondo questa ricerca, in sostanza, la divisa scolastica in Giappone non soddisfa coloro che la indossano perché non descrive un punto di compromesso tra il sé ideale e quello reale, ed esiste solo per soddisfare le aspettative sociali che la circondano.

Se l’incarnazione del sé espressa dall’autorità non è soddisfacente, è evidente che si cercheranno nuovi modelli di espressione che esuleranno dalla rappresentazione ufficiale e regolamentata. Il tentativo di creare un’immagine non ufficiale delle cose che ci circondano esiste fin dai primi tempi dello sviluppo culturale. Bakhtin, nella sua introduzione al libro “L’opera di Rabelais e la cultura popolare” (Bakthin 1984), ipotizza che nelle società presociali e pre-culturali (cioè quelle che Berger e Luckmann definirebbero pre-istituzionalizzate (Berger 1966)) non esistesse una demarcazione definita tra ciò che è ufficiale e ciò che non lo è: l’aspetto comico e carnevalesco della società è tutt’uno con la società ufficiale. Solo con la consolidazione dei concetti di stato e struttura sociale, cioè con la creazione delle istituzioni, questi aspetti vengono trasferiti ad un livello non ufficiale, diventando espressione di una coscienza del folklore cioè delle manifestazioni culturali di un gruppo di persone (Bakthin 1984). La cultura popolare, poi, crea un nuovo modo di comunicare che modifica il modo vecchio

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di osservare le cose. Ovvero ciò che è ufficiale torna talvolta ad unirsi con ciò che non lo è, pur seguendo strade diverse di evoluzione. Tra gli studenti giapponesi è avvenuta una cosa del tutto simile: ad una “uniformità” è stata contrapposta una “non-uniformità”, che non significa necessariamente una resistenza diretta e organizzata all’autorità per destabilizzarne il potere e sradicarne i suoi simboli, ma che è semplicemente un’alienazione indiretta e non organizzata che si distacca dall’istituzione. McVeigh parla di “ideologia anti-ufficiale”, quindi non di una “negazione di cultura” o di una controcultura, ma solo di una reinterpretazione dei suoi significati (McVeigh 2000). Questa ha diverse rappresentazioni visibili, di cui due sono particolarmente significative perché direttamente connesse alla modificazione della divisa scolastica: la prima è la sovversione, cioè il completo rovesciamento dell’autorità ufficiale. E’ il caso di tutte le trasgressioni che violano il codice di comportamento scolastico. Si tratta di modificazioni radicali alle uniformi, come quelle delle sukeban negli anni Settanta o le estremizzazioni del kawaii delle moderne kogyaru. La seconda espressione di ideologia anti-ufficiale è quella della conversione, cioè della reinterpretazione della stessa divisa scolastica (McVeigh 2000). Questa strategia riguarda tutte le mode che si sono formate e di cui ho discusso nel capitolo due, come ad esempio l’accorciamento della gonna.

Tradizionalmente gli studenti sono distinti attraverso i loro vestiti come diversi dagli adulti, e questa è stata la rappresentazione che molte studentesse davano di se stesse fino a qualche anno fa, ma tra alcune di esse troviamo un cambio nel significato stesso di uniforme, una nuova visione di sé in cui è proprio l’uniforme a renderle belle e carine, e dove kawaii diventa il veicolo verso una migliore rappresentazione del sé (jibun-rashisa) (McVeigh 2000). Questo tipo di resistenza è di fatto la più efficace, perché non si tratta di uno stravolgimento della divisa, quanto piuttosto di una reinterpretazione attenta, dove lo studente conosce i limiti che vengono imposti e impara a raggirarli. In questi casi, è difficile che la

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istituzione reprima il comportamento che quindi inevitabilmente poco alla volta viene inglobato nelle regole stabilite dalla scuola. Ritengo quindi che la nascita e lo sviluppo di fenomeni devianti riguardanti le uniformi si sviluppi originariamente dalla percezione negativa e poco attraente che fino a qualche tempo fa veniva assegnata alle divise scolastiche, specialmente quelle femminili. Il desiderio di trovare una diversa rappresentazione di sé, che fosse più attraente e vicina ad un’ideale da raggiungere ha spinto gruppi di giovani ad esprimersi in maniera alternativa reinventando la propria divisa scolastica, perché simbolo della scuola come istituzione e quindi target facile per esprimere una protesta indiretta, o, come è stata anche definita, una “ideologia anti-ufficiale”. Questo in certi casi ha portato alla nascita di comportamenti devianti, mentre in altri si è riusciti a formare uno spazio di espressione pacifica e alternativa ribaltando gli elementi delle divise che non erano considerati più in linea con la propria espressione del sé. Ciò che definisce il sé ideale, tuttavia, non è qualcosa che si basa unicamente sul giudizio personale del singolo, ma è anzi per la maggior parte un desiderio di raggiungere degli standard che sono imposti dalla società. Ironicamente, quindi, la presentazione di sé che molte studentesse decidono adottare è in realtà soggetta da altri genere di imposizioni esterne, legate ad esempio al gruppo di appartenenza o alla mode che la società stessa crea e impone.

LE OPINIONI DEGLI STUDENTI SULLE DIVISE

Brain McVeigh, nel suo libro “Wearing Ideology”, raggruppa una serie di concetti che vengono associati dagli studenti alle divise scolastiche (McVeigh 2000). Un primo aspetto riguarda la capacità dell’uniforme di creare ordine e controllo sociale, ma anche di permettere integrazione e solidarietà tra gli studenti. In una ricerca del 1994 sull’attitudine degli studenti nei confronti delle uniformi,

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la ricercatrice Manami Fukumura ha analizzato quelli che secondo gli studenti sono gli aspetti positivi delle divise (Fukumura 1994). Degli ottanta studenti intervistati, il 95% sosteneva che indossare l’uniforme li rendeva orgogliosi di appartenere ad una scuola e di potersi riconoscere tra di loro. Secondariamente, apprezzavano il fatto che li rappresentasse appieno come studenti (gakuseirashii), e che appianasse le differenze e creasse unità tra gli studenti. Secondo i dati di questa ricerca, le motivazioni che spingevano gli alunni ad amare le divise erano gli stessi che avevano spinto gli educatori ad introdurne l’uso. L’avversione degli studenti sembrava essere minima, e anche quando l’Autrice ne evidenziava gli aspetti negativi, le argomentazioni date dagli studenti sembravano essere più di carattere pratico che di vera e propria repulsione all’idea di indossarla.

Un secondo aspetto evidenziato da McVeigh, questa volta negativo, associato da alcuni studenti alle uniformi scolastiche è la soppressione dell’individualità (McVeigh 2000). Molti studenti percepivano nella propria uniforme una “faccia istituzionale”, associata poi a sua volta al concetto di identità nazionale e dalla sensazione di essere costantemente osservati e monitorati. Indossare l’uniforme scolastica pone l’individuo sotto un riflettore dove non solo è considerato come uno studente, ma come un rappresentante della scuola, le sue azioni si riflettono pertanto sulla reputazione dell’istituzione stessa. Si ha la consapevolezza di essere sotto controllo della scuola. La stessa storia delle uniformi, poi, le rende indelebilmente associate ad un contesto ben più ampio, che richiama l’amor patrio e la storia del popolo giapponese (McVeigh 2000).

Per una minore percentuale di studenti, infine, la divisa rappresentava un modo non per appianare, ma addirittura per acuire le differenze sociali (McVeigh 2000). Il discorso era particolarmente sentito quando si affrontava la questione del costo. Infatti, nonostante una delle motivazioni usate per convincere della utilità delle uniformi era che queste sono economicamente convenienti, a conti fatti un’uniforme nuova (con differenze tra stagioni e modelli di uniforme) costava tra

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i ventimila e i trentatremila yen. Alcuni genitori in effetti sostenevano che le divise non erano affatto convenienti, soprattutto se diventava necessario comprarle in negozi specializzati.

Riassumendo, le opinioni dagli studenti sulle uniformi si dividono sulla base del punto di vista da cui vengono osservate. Se interpellati direttamente, gli studenti non si sbilanciano nell’esprimere le proprie opinioni, e la tendenza generale è quella di soddisfazione o non contrarietà riguardo il loro uso e impiego. Tuttavia, quando si approfondisce la questione si scopre che la percezione del sé attraverso le uniformi non è del tutto positiva, e che di conseguenza anche le stesse opinioni degli studenti possono essere diverse rispetto a quelle precedentemente elaborate. Sicuramente le uniformi hanno degli aspetti positivi, che vengono sottolineati dagli stessi studenti, perché permettono di ridurre le differenze tra le persone di una stessa scuola, creando coesione nel gruppo. Tuttavia, come la storia recente ha dimostrato, il tentativo di imporre un modello di vestito che non convince coloro che lo indossano ha indebolito l’uniforme, facendole perdere significato come simbolo dell’istituzione scolastica. Questo ha portato a forme di ribellione che da una parte hanno destrutturato le divise dando loro significati nuovi, dall’altra le hanno reinterpretate apportando modifiche che le ammodernano rendendole fruibili anche ai giorni nostri senza perdere il loro valore simbolico.

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LA PERCEZIONE DELLO STUDENTE DA PARTE DELL’ADULTO

LA VISIONE DEI GIOVANI

Il 20 marzo 1995, appena un mese dopo il devastante terremoto di Kobe18, un gruppo di terroristi appartenenti alla setta religiosa Aum Shinrikyo19 rilasciarono alcuni sacchetti di gas sarin su quattro treni della metropolitana di Tokyo verso la stazione di Kasumigaseki, sede di alcuni dei principali ministeri. Il Giappone si trovò atterrito di fronte ad un attentato che non aveva saputo prevedere ne spiegarsi. Un gran numero di osservatori si chiese che cosa fosse stato sbagliato fino a quel momento nella società giapponese per spingere così tante persone a credere ad un delirante ciarlatano come Asahara Shoko, il leader della setta. Molti dei membri della Aum Shinrikyo erano persone giovani. Questo particolare non sfuggì all’opinione pubblica, e nel tentativo di trovare una spiegazione all’accaduto la risposta apparve chiara: il problema erano i giovani, e la società che li aveva creati (Leheny 2006). La rappresentazione della cosiddetta “generazione Aum” come un gruppo distinto di giovani fuori controllo interessò per un lungo periodo i dibattiti sulla società, e sui cambiamenti che sembrava necessario dovere effettuare (Leheny 2006). Ovviamente non si può dire che fu questa tragedia a creare o concludere il dibattito sulla gioventù giapponese, ma sicuramente essa servì come punto di svolta e di direzione sulle opinioni che già stava prendendo il Giappone.

18 Il Grande terremoto di Kobe è stato un violento terremoto di magnitudo 7.3 che colpì il Giappone, e in particolare la città di Kobe il 17 gennaio 1995. Fece 6.434 morti e circa 300.000 sfollati. 19 Setta religiosa nata in Giappone, e rimasta poi indelebilmente associata alla stage nella metropolitana di Tokyo. Nel 1995 contava circa 9.000 membri in Giappone e 40.000 nel resto del mondo.

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Già a partire dalla fine degli anni Ottanta era evidente che la popolazione giapponese si trovasse in calo demografico: molti giovani si sposavano e figliavano sempre più tardi, e questo venne percepito come un grave problema sociale. Si parlò di “single parassiti” (parasaito shinguru), che preferivano vivere con i propri genitori piuttosto che crescere prendersi le proprie responsabilità. In particolare il discorso si concentrò sulle donne, che furono accusate di non attendere al loro dovere sociale, cioè quello di diventare “buone mogli e sagge madri”. Insieme alla questione dei parasaito shinguru, due altre parole incominciarono a circolare nei discorsi sulle nuove generazioni: furitaa e hikikomori . La parole furitaa è l’unione di due parole di origine straniera, “free” (dall’inglese “libero”) e “arbeiter” (dal tedesco “lavoratore”), e indica tutte quelle persone, generalmente giovani, che vivono di lavoretti part-time. La nascita di questa nuova categoria di lavoratori non fu di per sé dannosa per l’economia giapponese, ma divenne oggetto di discussione perché rispecchiava un cambio radicale con la concezione tradizionale di lavoro. L’ideale di esistenza per l’uomo nella società giapponese definisce una vita stabile nel lavoro e nella famiglia, quindi il furitaa, con il suo vivere di espedienti, venne reso un problema perché rappresentazione di un modo di vivere che si scontra con il modello tradizionale. Hikikomori, invece, è un termine usato per riferirsi a tutti coloro che scelgono di ritirarsi dalla vita sociale, spesso ricercando negli estremi di isolamento e confinamento. Si tratta di un fenomeno molto complesso, quasi sempre ascrivibile a diverse cause, come il bullismo scolastico o l’incapacità di diventare adulti e inserirsi nel mondo sociale, e che colpisce nella maggior parte dei casi i giovani fino ai trent’anni. Gli hikikomori rappresentano ancora oggi un problema grave della società giapponese, spesso associati al fenomeno dei parasaitu shinguru (Leheny 2006).

Contemporaneamente, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni del nuovo millennio, il Giappone venne bombardato da una serie di notizie che trattavano

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di omicidi commessi da giovani ragazzi. Quando nel maggio del 1995 il Giappone firmò la ratificazione dei diritti del bambino scritta dalle Nazioni Unite, il Ministero della Difesa e l’Agenzia della Polizia Nazionale proposero dei sostanziali cambiamenti alla legge, riportando la loro preoccupazione per i crimini giovanili (Leheny 2006). Ad infiammare ancora di più la situazione nel 1997 a Kobe, un ragazzo di quattordici anni venne arrestato per l’omicidio di un suo coetaneo e per degli attacchi a quattro ragazze del posto, uno dei quali avevano portato alla morte di una delle giovani. La vicenda, che rimase alla cronaca come “Il caso di Sekakiban Seito”, pseudonimo con cui si firmò l’omicida, fu un caso isolato, ma al tempo i media incominciarono a trasmettere molte notizie di giovani criminali e del loro consumo di droghe stimolanti(Leheny 2006). Le ragazze ebbero in particolare un ruolo importante nella descrizione di questo fenomeno. In particolare il tema principale si concentrò sul crescente fenomeno di prostituzione giovanile enjo kōsai, e specialmente su coloro che ne erano ritenute le responsabili principali: le kogyaru (Leheny 2006). Con il loro stile estremamente distinguibile, queste ragazze divennero simbolo del materialismo e della corruttibilità della loro generazione. Ovviamente nessuno le accusò mai di avere compiuto crimini come quello dell’omicidio di Kobe, ma vennero principalmente additate come l’archetipo di una generazione ossessionata dalla moda e dalla superficialità.

Nel Giappone degli anni Novanta, i giovani diventarono loro malgrado il simbolo di un’ansia generale che colpì il paese. Nel film di Fukasaku Kenji “Battle Royale”(Fukasaku 2000), si descrive un futuro prossimo in cui la delinquenza giovanile è un problema così forte che il governo acconsente al passaggio di una legge che permette di mandare annualmente ragazzi di una classe della scuola media su un’isola deserta, dove questi dovranno uccidersi fino all’ultimo tra di loro nell’arco di tre giorni. Quando la pellicola venne fatto uscire nel 2000 nelle sale, l’allora ministro dell’educazione cercò di bloccarne la proiezioni, e dopo

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diverse polemiche il film venne proibito ai minori di quindici anni: molti politici si scagliarono contro il regista, dichiarando che istigava alla violenza giovanile (Watts 2000). Lui respinse le accuse svelando che, al contrario, era l’immagine del Giappone impaurito dagli omicidi commessi da adolescenti che aveva ispirato il film stesso.

Molti dei problemi che riguardano i giovani giapponesi sembrano essere in effetti delle forzature create da una paura condivisa per il futuro del paese, ma è evidente che queste preoccupazioni non possano essere stata create dal nulla. In Giappone certamente esiste una parte di giovani che ha notevoli difficoltà, come gli hikikomori, che è in conflitto con il vecchio modo di concepire la società, come i furitaa. Tuttavia, indipendentemente dalla gravità delle azioni che sono o meno attribuite i giovani, un’idea comune pervade tra gli adulti: le nuove generazioni non sono in grado di portare avanti quel lavoro che ha portato alla formazione del Giappone come potenza economica. Il modello perseguito fino ad si trova in un momento di crisi, e le vecchie generazioni, che lo hanno creato e sostenuto, temono che i loro sforzi per rendere la società migliore possano svanire. Il miracoloso progresso compiuto dalla fine della guerra ha richiesto l’abnegazione totale al lavoro e alla fatica di intere generazioni di persone, che hanno in questo modo creato un ordine sociale stabile e duraturo. Esiste dunque in Giappone un forte gap generazionale, che ha portato ad un allarmismo, in parte giustificato, in parte fortemente esagerato, che vede i giovani irresponsabili e potenzialmente in grado di mettere a rischio se stessi e la nazione.

L’IMMAGINE DELLO STUDENTE IN UNIFORME

Parallelamente alla preoccupazione sulla scarsa moralità delle giovani generazioni, gli adulti hanno molte aspettative sui giovani e queste incominciano

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con la scolarizzazione. Come già accennato, lo studente in uniforme percepisce il giudizio degli altri e le aspettative riposte su di sé, quello che è stato definito come “gakusei-rashisa”, l’agire coerentemente con il proprio ruolo di studente (McVeigh 2000). La vita scolastica impone allo studente di presentarsi nel modo migliore e questo include anche l’uso di un abbigliamento corretto: il gruppo diventa un palcoscenico dove tutti interpretano un ruolo. Questo ruolo, tuttavia, deve essere mantenuto anche verso la società esterna; in quanto rappresentanti di un’istituzione, i ragazzi sono obbligati a conservare un atteggiamento che è consono alla reputazione della e contravvenirvi significa mettere sotto una cattiva luce anche l’istituzione stessa. Le scuole possono essere molto sensibili riguardo al modo in cui vogliono essere percepite: Una scuola pubblica nel 1996 ritirò dei poster durante il festival studentesco perché ritraevano una ragazza con i capelli tinti castani e lo smalto blu, dicendo che questo avrebbe danneggiato l’immagine della scuola (Isobe and Eguchi 1996).

La maggior parte degli adulti sono favorevoli all’uso delle uniformi scolastiche. In un sondaggio condotto su un sito a 1255 persone sopra i vent’anni l’89,6% delle persone erano favorevoli all’uso dell’uniforme . Le motivazioni principali erano le stesse espresse fino ad ora: le divise sono pratiche perché fanno sì che non si debba decidere ogni giorno cosa indossare, sono economiche e “appaiono coerenti con il ruolo di studente” (gakusei rashiku mieru). Ancora una volta, quindi, il giudizio viene posto sul fatto che indossare un’uniforme è fondamentale nel definire lo studente stesso. Tuttavia, le motivazioni che spingono gli adulti ad accettare e apprezzare l’uso dell’uniforme nelle giovani generazioni sono molto più complesse di quelle eminentemente pratiche e spaziano in diversi ambiti, dalla psicologia, ad esempio le reminiscenze e i ricordi, all’ambito sociale come la necessità di conservare un ordine sociale. Sfortunatamente la letteratura in questo senso è molto limitata, perché ci si è sempre concentrati sulla prospettiva dello studente che è il diretto interessato nel

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problema delle uniformi. Una cosa però è certa: la divisa studentesca, e in particolare quella femminile, segna la rappresentazione tipica dei giovani d’oggi, rimanendo un elemento consolidato nell’immaginario collettivo giapponese. A questo concetto fondamentale, va contrapposto un atteggiamento sempre più consolidato di timore per i giovani, che vengono visti come una generazione persa e senza speranze. Probabilmente la storia ci dirà il contrario, ma nel tempo presente questo dato costituisce un elemento base per la comprensione non solo dell’adolescente, ma anche delle forme di ribellione che gli appartengono.

Note

Bakthin, M. 1984. "Introduction to Rebelais and His World." in Rebelais and His World. Bloomington: Indiana University Press. Berger, P; Luckmann, T. 1966. La realtà come costruzione sociale. Bologna: Il Mulino. Blakeslee, S. 2012. "Mind Games: Sometimes a White Coat Isn’t Just a White Coat." New York Times. Fukasaku, K. 2000. "Batoru Rowaiaru." Giappone. Fukumura, M. 1994. "Kōkōsei no seifuku ni tai suru ishiki to gakkōkyōiku to no kanrensei ni tsuite." Pp. 123-30: Oita Prefectural College of Art and Culture. Ikeda, Y., K. Amaki, and Y. Oki. 1992. "Seifuku ni kan suru kenkyū: kōkōsei no seifuku ni tai suru imēji to jikogainen no kanrensei." Pp. 97-105 in Iwate daigaku kyōikugakubu kenkyū nenpō. Isobe, Y., and C. Eguchi. 1996. "Gakkō seifuku ni kansuru kenkyū- dai IV hō: seifuku yō nunoji oyobi fuzokuhin no shōji seino." Journal of the Faculty of Education Saga University 43(2):83-94. Leheny, D. 2006. Think Global, Fear Local. New York: Cornell University Press. McVeigh, B. 2000. Wearing Ideology. New York: Berg. Watts, J. 2000. "Gory film fuels Japanese fear over youth violence." in The Observer.

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CAPITOLO 4

SUPER KAWAII

IL KAWAII

Una delle parole chiave della cultura contemporanea giapponese è kawaii. La parola appare per la prima volta nei dizionari del periodo Taishō fino al 1945 come kawayushi, che sarà cambiato in kawayui fino al 1970 : entrambe le versioni hanno lo stesso significato, cioè “imbarazzato” o “timido”; altre traduzioni secondarie possono essere “patetico”, “vulnerabile”, “grazioso” e “piccolo”. A partire dagli anni Settanta, la parola diventa kawaii e assume il suo significato odierno: il Daijirin, un importante dizionario giapponese (1989), scrive: “è qualcosa o qualcuno che è giovane o piccolo e che fa sì che uno voglia prendersene cura” e in particolare: “qualcosa che è bello, affascinante”, “qualcosa che è bambinesco e che fa sorridere”, “qualcosa di piccolo che fa sorridere”. In un suo significato secondario, la parola è associata ad altri termini, come kawaigaru, “amare” e kawaisō, aggettivo che descrive qualcosa che provoca compassione. Probabilmente, tuttavia, il concetto

FIGURA 3: RAPPRESENTAZIONE KAWAII IN STILE MANGA DI UNA STUDENTESSA 52

principale legato alla parola kawaii è quello di miniaturizzazione: il rimpicciolimento costituisce la base della proiezione di un oggetto comune verso un oggetto “grazioso”(Figura 4). Un noto chirurgo plastico giapponese, Katsuya Takasu, riassume in uno dei suoi libri i tre principi fondamentali affinché qualcuno o qualcosa possa essere considerato come kawaii (Takasu 1988): il primo è quello di possedere dei tratti bambineschi, come una fronte ampia o gli occhi grandi. Questo richiama immediatamente alla mente le immagini dei manga, e in particolare la rappresentazione delle donne. La seconda caratteristica consiste nell’abilità di saper scatenare un istinto protettivo negli altri. Il terzo principio è la volontà di essere apprezzati. Ciò corrisponde, secondo Takasu, all’accondiscendenza di mostrarsi deboli. Alcune delle associazioni che vengono fatte con la parola includono “sunaoni” (l’obbedienza) e “enryogachi” (riservatezza), termini che sono tradizionalmente considerati in Giappone come qualità ideali in particolare nelle giovani donne. In effetti il consumo di beni kawaii, che è presente in ogni dove in Giappone, appartiene ad una sfera che è principalmente femminile e generalmente giovanile. Non sono rare tuttavia le incursioni nel mondo adulto, dove i significati della parola vengono rivisitati in maniera trasversale, come ad esempio nel sexy kawaii. Secondo McVeigh (McVeigh 2000), la rappresentazione delle donne con caratteristiche fanciullesche indica un tentativo simbolico da parte degli uomini di porle in una posizione di controllo: questo in particolare sarebbe visibile nella rappresentazione femminile nelle pubblicità, nei manga e nella pornografia, dove l’idea di attrazione sessuale è associata a giovinezza, innocenza e ingenuità.

La diffusione del kawaii è avvenuta attraverso la congiunzione di tre fenomeni sociali: la creazione del gruppo sociale degli adolescenti, e in particolare il cambio di ruolo delle ragazze da ryōsai kenbo (buona moglie, saggia madre) a donna emancipata, la categorizzazione delle donne attraverso i simboli del kawaii; l’associazione delle ragazze con il consumismo (Madge 1997).

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Negli anni Sessanta, le nuove condizioni economiche del Giappone hanno spinto molte donne a trascorrere sempre più tempo a casa, creando una nuova categoria di casalinghe che non vivono più in famiglie allargate, ma in famiglie nucleari ridotte, cosa che consente loro di avere maggiore tempo a disposizione. Le donne giapponesi si sentono libere dall’idea di dovere lavorare a tempo pieno o durante tutta la loro vita e investono più tempo nei loro ruoli di madre e moglie. Questo ha portato ad una nuova visione delle donne nella società, dove il lavoro e la vita familiare come moglie e madre non sono conciliate (Madge 1997). I valori che vengono associati alla donna e in particolare alla casalinga si differenziano notevolmente da quelli che assegnati agli uomini. In questo particolare contesto, si inserisce il ruolo culturale del kawaii. E’ in questo periodo che l’aggettivo inizia ad essere utilizzato parlando di persone e di vestiti, o altri piccoli oggetti che vengono pubblicizzati nelle riviste per ragazze. I romanzi o fumetti cambiano tematiche: non più la famiglia e le responsabilità, ma l’amicizia e l’amore romantico. Anche la comunicazione scritta tra amici cambia, non più formale come un tempo, ma spensierata e diretta nell’espressione delle emozioni. Il termine incomincia a essere usato anche per indicare obbedienza e innocenza sessuale, testimoniando un netto contrasto rispetto al passato (Madge 1997). I giovani, e in particolare le ragazze, che nelle epoche precedenti passavano senza tappe intermedie da età bambina e età adulta, ora appartengono ad una nuova categoria sociale, gli adolescenti. Per le ragazze il kawaii incomincia a rappresentare una via di fuga dai ruoli tradizionalmente assegnati, perché le trattengono in una posizione che non è più bambina, ma neppure adulta (Madge 1997).

Negli anni Ottanta, quest’idea si radica diventando quella da molti è stata definita come “kawaii karuchā”, cioè “cultura kawaii”(Madge 1997). Non si tratta più di liberarsi dal ruolo imposto dalla tradizione, quanto dal concetto stesso di età adulta. Nel suo articolo “Cuties in Japan” Kinsella spiega come in Giappone

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l’età adulta sia spesso vista come un periodo duro, esclusivamente associato all’espletamento del dovere sociale (sekinin) (Kinsella 1995). La giovinezza, al contrario, viene esaltata come il vero periodo felice della propria vita, diventando estremamente popolare. I beni di consumo kawaii la venerano, perché creano uno spazio di una libertà, diventando luoghi di rifugio dai numerosi obblighi sociali. Questa cultura, in sostanza, è connessa ad una doppia logica di “avere e essere”. Il possesso di oggetti kawaii significa non solo avere qualcosa che suscita in noi istinti genitoriali e di protezione, ma corrisponde anche al desiderio di essere quello che si compra, cioè di regredire all’età della giovinezza e di fuggire dalla vita adulta (Madge 1997).

Per quanto la kawaii karuchā coinvolga principalmente solo donne, anche gli uomini non disdegnano di parteciparvi. Il loro apporto, tuttavia, non deriva dalla costruzione di un mondo proprio, ma dalla trasformazione del significato delle immagini create dalle donne (Madge 1997). Una delle posizioni più evidenti del kawaii nella cultura maschile è quella dell’industria sessuale. Studi sulla pornografia maschile segnano un brusco cambiamento di preferenze sui tipi femminili nel periodo prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale (Madge 1997). Se prima era l’immagine di una donna materna che veniva preferita, nel periodo successivo alla fine del conflitto sono le ragazze giovani che attirano maggiormente l’attenzione. Contemporaneamente a questo cambio di preferenze, abbiamo anche un cambio di visione della figura della moglie: se prima della guerra veniva rappresentata come docile e sottomessa, dopo la fine del conflitto prevale l’immagine di una donna forte e indipendente. E’ probabile che questo cambiamento sia dovuto all’acquisizione di potere economico da parte del genere femminile. Il tentativo di fuggire da una figura di donna emancipata, ha portato alcuni uomini giapponesi a indirizzare i propri desideri su qualcosa che fosse dominabile. La ragazza giovane è perfetta per questo ruolo, perché non ancora donna ma sufficientemente matura da non essere bambina.

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Miyamoto Masao, un famoso psichiatra, dichiara che molti uomini giapponesi si sentono intimiditi dalle donne adulte, sentimento che invece svanisce con ragazze più giovani (Ripley and Whiteman 2014). E’ un fattore psicologico tanto quanto di attrazione sessuale. Le donne giapponesi si sono emancipate, hanno trovato un modo per lavorare, viaggiare, leggere e fare classi serali, mentre la maggior parte degli uomini rimangono schiavi del proprio lavoro. Per trovare conforto e rilassamento, allora, trovano rifugio nelle uniche donne con le quali ancora riescono a confrontarsi mantenendo una posizione di controllo, le adolescenti.

L’UNIFORME SCOLASTICA FEMMINILE E IL KAWAII

Fino ad oggi la discussione sulla “cultura kawaii” si è specialmente incentrata sulla creazione del

FIGURA 4: LE KAWAII TAISHI, DA SINISTRA FUJIOKA SHIZUKA, KIMURA YU E marchio a essa legata, AOKI MISAKO ma poco invece nell’ambito, già brevemente accennato, della femminilità oggettivata.

Nel 2009 fece polemica la scelta da parte del Ministero degli Esteri giapponese di eleggere tre giovani donne a “ambasciatrici del kawaii” (kawaii taishi) (Figura 5), con il compito specifico di pubblicizzare il “Cool Japan” nel mondo (Ellwood 2010). Con questa espressione si indica quella parte della cultura giapponese contemporanea nata a partire da manga e anime, e quindi anche legata alla cultura kawaii, diventata negli ultimi decenni il maggiore fulcro di interesse sul

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Giappone a livello mondiale. Ognuna delle ragazze avrebbe rappresentato una delle tre più importanti sfaccettature di questo fenomeno: la ragazza in uniforme scolastica, la lolita20 e la ragazza in stile Harajuku21. La scelta di queste tre giovani e belle modelle per la rappresentazione ufficiale della cultura giapponese all’estero parve strana. In particolare, si criticò l’apparente ingenuità del governo nel capire che più che rilasciare un’immagine positiva del Giappone avrebbe perpetuato dei modelli stereotipati presenti nell’immaginario collettivo, specialmente in quello erotico (Ellwood 2010). Ad alcuni sembrò addirittura che la scelta fosse stava fatta di proposito, come una promozione manipolata per suscitare quella sensazione. Monji Kenjirō, allora Direttore Generale del Dipartimento di Diplomazia Pubblica al Ministero degli Esteri, e Sakurai Takamatsu, anche lui impiegato presso il ministero e considerato il vero fautore dell’iniziativa, risposero che le ragazze erano solo un tramite per sfruttare la cultura giapponese all’estero (Sakurai 2009). Erano state scelte attentamente non solo per il loro aspetto, ma principalmente per le loro abilità di intrattenitrici: Kimura Yu come ragazza di Harayuku, Aoki Misako come lolita, e Fujioka Shizuka come liceale in uniforme. Fujioka, in particolare, era un’attrice e modella part-time che lavorava per la CONOMi, azienda specializzata nella produzione di finte divise scolastiche. Già in diverse occasioni aveva interpretato il ruolo di studentessa in alcune produzioni televisive (Madge 1997).

La CONOMi cavalca l’onda del successo dal 2002, quando ebbe inizio un boom di richieste di uniformi false. Queste uniformi, chiamate anche nanchatte seifuku (letteralmente “uniformi per gioco”, cioè uniformi false), sono state spesso oggetto di critiche perché considerate in parte responsabili della diffusione del problema legato alla feticizzazione delle uniformi (Madge 1997). Già a partire dagli anni Novanta incominciarono a diffondersi i cosiddetti “burusera shoppu”

20 Stile ispirato alla bambole vittoriane 21 Stile che mischia vestiti tradizionali giapponesi a capi moderni firmati. Prende il nome dall’omonimo quartiere di Tōkyō, fucina della maggior parte delle mode giovanili della capitale.

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(cioè “negozi di pantaloncini”), che rivendevano a uomini divise scolastiche e intimo usati dalle ragazze (Suzuki and Best 2003): questi negozi furono proibiti solo dopo l’approvazione di una legge nel 2004 (Leheny 2006), quando l’opposizione contro queste attività commerciali si fece forte. I precedenti, dunque, testimoniano concretamente che esiste un problema legato alla feticizzazione delle uniformi. Alcuni studiosi sostengono che il cosiddetto “Cool Japan” faccia parte di una forma di creazione di un mito, dove la donna è naturalizzata come oggetto di controllo e desiderio (McVeigh 2000). Nonostante si volesse fornire l’immagine del Giappone come di una società libera, dove le persone possono agire e vestirsi liberamente, questa rappresentazione si omologa a quel genere di fantasie che vedono ancora la donna come essere semplice e docile, accondiscendente alle aspettative maschili. Molti concordano nel pensare che il governo giapponese abbia dato in pasto alla società l’immagine di una donna “consumabile”. Questi tre tipi di donna, e in particolare la studentessa, risultano attraenti perché rappresentano un ideale di femminilità perduta. La scelta fatta dal Ministero degli Esteri, nonostante sia nata con obiettivi diversi, racconta certamente di desideri, fantasie e identità esclusivamente maschili. Penso che, senza nulla togliere alla simpatia che la cultura kawaii possa suscitare in coloro che la osservano, sia anche necessario pensare anche a quelli che sono i suoi significati nascosti.

Mio Bryce, esperta di cultura giapponese presso l’università di Macquarie a Sidney, sostiene che il vero problema di questa feticizzazione della donna è proprio il kawaii (Ripley and Whiteman 2014). I personaggi rappresentati in anime e manga sono spesso ragazze giovani e vulnerabili. Il problema si trova tanto nei soggetti quando nei ruoli interpretati che trasmettono un messaggio sbagliato sulle donne. La parola shōjo, che significa letteralmente “ragazzina” nasce nei primi anni del Novecento per indicare una categoria di ragazze in età puberale e pre-matrimoniale potenzialmente cattive e distruttive . A partire dagli

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anni Settanta, tuttavia, questa immagine muta, diventando positiva e legata ad un nuova categoria di consumatrici, cioè le adolescenti. Negli anni Novanta nel pieno della recessione economica giapponese, la categoria delle shōjo venne associata alla crescente cultura kawaii. Come si può notare, ad esempio in alcuni manga del periodo (Kinsella 2002), le donne incominciarono a essere rappresentate in maniera sempre più infantilizzata. Contemporaneamente, i manga destinati ad un pubblico maschile, iniziarono a ritrarre ragazze con i visi da bambine e seni abbondanti. La parola kawaii coinvolge i diversi aspetti che ci si aspetta che una donna possieda tradizionalmente. La perdita parziale di questi valori dopo la fine della seconda guerra mondiale avrebbe portato ad una “infantilizzazione” della cultura del dopoguerra e alla creazione di una visione distorta di genere.

Tutte queste considerazioni, tuttavia, spiegherebbero solo l’interesse degli adulti in donne giovani, ma non l’enfasi per l’uniforme scolastica. Nei primi due capitoli ho spiegato come l’uniforme in stile marinaio nasca come vestito per bambini nell’élite vittoriana, dopo che la regina Vittoria la adottò per i suoi figli. Successivamente venne introdotta in alcuni stati, ad esempio Corea e Giappone, come uniforme scolastica femminile. Come già spiegato, questa scelta non è stata casuale e corrispondeva alla volontà di intrappolare le donne ad uno stato prepuberale e asessuato. È facile capire allora come la divisa non sia solo associata ad un’idea di potere, ma specialmente di sottomissione, contenimento e disciplinamento della mente.

Jennifer Craik, nel suo libro “Il fascino dell’uniforme” (Craik 2005), scrive come probabilmente sia stato questo collegamento tra neutralizzazione della femminilità e mondo dell’infanzia che ha portato ad una associazione tra sessualità e divise scolastiche femminili. Nel suo articolo “Nascondere la Donna”, contenuto nel libro “Sade Fourier Loyola”, il sociologo Roland Barthes scrive (Barthes 1971): “La Donna è maltrattata, impacchettata, attorcigliata, incappucciata, la

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si camuffa in modo da cancellare ogni traccia delle sue attrattive anteriori”. E poi: “con il suo ordine di occultazione il libertino contraddice l’immoralismo corrente, prende in contropiede la pornografia dei collegiali che fa del denudamento della donna la più suprema audacia”, facendo sì che “la Donna continui a rappresentare uno spazio paradigmatico, dotato di due luoghi, di cui il libertino, da linguista rispettoso dei segni, marcherà uno e neutralizzerà l’altro”.

Nell’ossessione giapponese per tutto ciò che è “grazioso” esiste una sotterranea associazione tra i significati espliciti delle uniformi e le loro possibili associazioni con la sessualità, gli eccessi, la violenza e il masochismo. L’originale carattere di castità delle uniformi le associa ad un senso di gerarchia che permette il loro inserimento nelle cultura popolare come indicatore di altre caratteristiche: la parte nascosta del corpo.

L’uniforme scolastica diventa famosa in Giappone negli anni Novanta con le kogyaru (Evers and Macias 2007), in particolare per la loro associazione con il fenomeno dell’enjo kōsai, in cui proprio l’uniforme scolastica è oggetto dei discorsi sulla vita sessuale femminile. L’introduzione negli anni Settanta e Ottanta del concetto di kawaii ha portato ad un allontanamento radicale dagli ideali di bellezza tradizionale. Si tratta di una trasformazione di cui le ragazze furono consapevoli: il boom dell’aerobica negli anni Ottanta portò alla nascita di una maggiore consapevolezza del proprio corpo da parte delle donne, tanto che viene coniata l’espressione bodīkon , dall’inglese “body conscious girl” (Miller 2004). Questo cancellò il vecchio ideale di donna giunonica , verso un modello di fisico atletico e asciutto: la ragazza innocente e asessuata venne trasformata in una donna sexy e sfacciata. Questa nuova consapevolezza si manifestò anche attraverso i vestiti, tra cui troviamo le uniformi scolastiche. Non a caso è proprio negli anni Ottanta che ritroviamo le grandi trasformazioni nei modelli e nuove mode, come la nascita dello stile blazer, l’accorciamento delle gonne e le calza allentate. In questo momento l’estetica kawaii rimase un elemento di protesta

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contro i canoni tradizionali di donna e bellezza. Durante questo periodo lo scoppio di scandali come i burusera shoppu, l’enjo kōsai e il coinvolgimento di giovani ragazze nell’industria pornografica portava ad una nuova ossessione per l’immagine delle ragazze nelle scuole superiori che ha dominato la cultura popolare del Giappone, fagocitando la crescente cultura , carica di un’evidente manifestazione e provocazione sessuale e la cui estetica, che abusa dell’uso di elementi kawaii, è diventata un elemento di protesta contro i modelli tradizionali .

Due decenni dopo, tuttavia, le cose sembrano cambiate: il kawaii è stato reinventato come mezzo per la globalizzazione del Giappone, diventando spesso stereotipo di femminilità e giovinezza.

Note:

1989. "Daijirin ". Tokyo: Sanseidō. Barthes, R. 1971. "Nascondere la donna." Pp. 111-13 in Sade, Fourier, Loyola Torino: Einaudi. Craik, J. 2005. Il fascino dell'uniforme. Roma: Armando. Ellwood, M. 2010. "Japan's Ambassadors of Cute." in The Financial Times. Evers, Izumi, and Patrick Macias. 2007. Japanese Schoolgirl Inferno: Tokyo Teen Fashion Subculture Handbook. San Francisco: Chronicle Books. Kinsella, S. 1995. "Cuties in Japan." in Women, Media and Consumption in Japan. Honolulu: Curzon & Hawaii University Press. —. 2002. "What's Behind the Fetishism of Japanese School Uniforms?" Pp. 215-36 in Fashion Theory. UK. Leheny, D. 2006. Think Global, Fear Local. New York: Cornell University Press. Madge, L. 1997. "Capitalizing on "Cuteness": The Aesthetics of Social Relations in a New Postwar Japanese Order." Japanstudien (9):155-74. McVeigh, B. 2000. Wearing Ideology. New York: Berg. Miller, L. 2004. "Those Naughty Teenage Girls: Japanese , Slang, and Media Assessments." Journal of Linguistic Anthropology 14(2):225-47. Ripley, W., and H. Whiteman. 2014. "Sexually explicit Japan Manga evades new laws on child pornography." CNN. Sakurai, Takamatsu. 2009. Sekai kawaii kakumei. Tōkyō: HP Kenkyūsha.

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Suzuki, T., and J. Best. 2003. "The Emergence of Trendsetters for Fashions and Fads: Kogaru in 1990s Japan." The Sociological Quarterly 44(1):61-79. Takasu, K. 1988. Kawaii onna no narukokoro ni jikigaku: mesumeru ga toguiionna e no 5 hōkasu. Tokyo: Shōdensha.

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CAPITOLO 5

CATTIVE RAGAZZE IN UNIFORME: LA MODIFICA DELLE DIVISE COME MEZZO DI RIBELLIONE

Laddove esista un’ideologia socialmente condivisa vi saranno anche ideologie non ufficiali che cercheranno di affiancarsi ad essa (Bakthin 1984). L’esempio lampante è quello della trasgressione diretta delle regole che presuppone sempre una precisa conoscenza delle stesse (Craik 2005). In quanto simbolo delle istituzioni, le divise sono un mezzo perfetto per esprimere la propria ribellione perché rappresentano in maniera concreta la contravvenzione a qualcosa di socialmente condiviso.

In questo capitolo presenterò i due esempi più famosi di trasgressione nelle uniformi scolastiche femminili in Giappone. Si tratta delle gang criminali delle sukeban e della sottocultura kogyaru.

LE SUKEBAN

Le sukeban sono considerate le prime gang femminili comparse in Giappone verso la metà degli anni Sessanta (Evers and Macias 2007). Il loro nome è la crasi di due termini: “suke”, ragazza, e “banchō”, “capo”. In origine il termine si riferiva solo ai capi delle bande, ma con il tempo il suo significato è stato esteso all’intero gruppo (Evers and Macias 2007). Lo stile sukeban, ormai considerato fuori moda, influenzò molto a suo tempo l’immagine successiva della “cattiva

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ragazza”. Con il loro stile di vita estremo le sukeban furono all’origine di altri fenomeni di devianza successivamente comparsi in Giappone.

Il look delle sukeban ricostruiva la tipica divisa giapponese sēra fuku in chiave trasgressiva (Evers and Macias 2007) (Figura 6). La parte superiore era accorciata fino alla vita, spesso decorata il giorno del diploma sul retro e sulle maniche con diversi disegni, FIGURA 5: UNIFORME SUKEBAN ad esempio le rose, e con scritte. La gonna lunga era, come le scarpe, fedele al modello ufficiale di uniforme. Pur volendo apparire più adulte della loro età, vestire in maniera provocante e truccarsi pesantemente non era ben visto nel gruppo. Questo look castigato era una reazione al permissivismo acquisito dalle donne durante la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta.

La nascita delle sukeban è collegata all’insorgenza nello stesso periodo di bande simili tra gli studenti maschi. Giovani, che si sarebbero successivamente uniti alla yakuza, la mafia giapponese, incominciarono a riunirsi in bande, chiamate “banchō”, impegnate in guerre territoriali. Raggiunti potere e status sociale, furono ben presto imitati dalla ragazze. Il picco della delinquenza femminile si ebbe con l’emergere di gruppo noto come le “K-ko the Razor”, formatosi a Tokyo. Con all’attivo cinquanta membri, rimasero famose per l’uso delle lamette durante

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i combattimenti fra bande. Arrotolata nella stoffa e nascosta in mezzo al seno, l’arma era schioccata violentemente sul volto delle avversarie.

In quanto organizzazioni criminali gerarchicamente organizzate, le sukeban possedevano regole molto rigide, la cui contravvenzione portava anche a pene corporali, come lo spegnimento di sigarette sul corpo. Nei casi considerati più gravi, come tradire o insultare il proprio capo, era previsto anche il linciaggio con modi propri a ogni gang,. Stranamente, una delle cause più comuni di linciaggio era l’essere stata colta a tradire il proprio fidanzato (naturalmente un membro di qualche banchō). Nonostante i loro crimini, le sukeban si sono sempre considerate dall’altro profilo morale. Il fenomeno delle sukeban rimase confinato a ragazze appartenenti a classi sociali poco abbienti, che trovarono nelle gang un modello di vita. Considerate dai più dei gruppi di giovani delinquenti destinate ad una rapida estinzione, con il passaggio all’età adulta scomparirono effettivamente in un decennio e furono riassorbite nel tessuto sociale. Nonostante ciò il loro nome è rimasto impresso chiaramente nella memoria giapponese, identificando un periodo di forti tensioni sociali.

LE KOGYARU

ORIGINI E DEFINIZIONI

La nascita della sottocultura kogyaru è stata lenta e inaspettata, e non è possibile definire una data certa di inizio (Marx 2009). La parola “gal” (o gyaru, dall’inglese “girl”) venne usata per la prima volta nel 1972, come nome di una sottomarca dei jeans Wrangler22. Nel 1979 il cantante Sawada Kenji usò il termine nella canzone “Oh, gal!”. Inizialmente il termine indicava una categoria di donne superficiali e

22 Nota marca di jeans, nata nel 1943

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amanti della vita notturna. Verso gli anni Ottanta questo modello di ragazza divenne il target di giornali come “Gal’s Life” o “Popteen”, che essendo indirizzati ad adolescenti, furono bollati dalla Dieta giapponese come immorali e diseducativi. Successivamente, il boom dell’aerobica e delle bodīkon gyaru portò ad un nuovo modo di percepire il proprio corpo e le vecchie gal, ormai cresciute, lasciarono spazio alle nuove generazioni, che vennero chiamate kogyaru (spesso abbreviato a kogal in inglese), là dove “ko” corrisponde a “bambino”, “piccolo”. Le “baby-gals” erano spesso ragazze di scuole private esclusive, vestivano in maniera appariscente accompagnate dai loro fidanzati scapestrati, i chimaa. Membri di gang maschili, scomparirono effettivamente in un decennio erano famosi per le loro feste e scorribande, ma dopo essere stati duramente repressi per una serie di gravi incidenti compiuti tra il 1991 e il 1992, scomparvero presto dalla circolazione. Non le loro fidanzate che, rimaste fino a quel momento nell’ombra, segnarono, nel bene e nel male, tutta la società giapponese fino alla fine del decennio. L’estetica di queste ragazze soprannominate paragyaru, “donne del paradiso”, trasse inizialmente ispirazione dal guardaroba surfistico californiano, appropriandosi di alcune marche, come Alba Rosa23 (Marx 2012). Tuttavia, non furono questi gli abiti per cui sono ricordate, ma piuttosto le loro divise scolastiche. Secondo Suzuki Tadashi e Joel Best, nel loro articolo “The Emergence of Trendsetters for Fashions and Fads: Kogaru in 1990s Japan”, esistono due fattori importanti che favorirono l’emergere della cultura kogyaru: il primo fu il calo della popolazione giovanile, che da un picco di 6,1 milioni del 1990, si abbassò a 5,5 nel 1993, comportando una riduzione della competizione per l’accesso nelle università tanto che nel 1999 il numero delle ragazze ammesse all’università aumentò del 48,1%. La minore pressione scolastica permise a molte giovani di potersi concedere più tempo libero, facilitando così l’insorgere di nuove mode. Il

23 Brand di vestiti nato nel 1975, noto specialmente per i vestiti a motivi floreali e dai colori fluorescenti. E’ diventata la marca più famosa tra le kogyaru durante il loro picco, tra il 1998 e il 2001.

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secondo fattore fu direttamente collegato alla recessione economica che colpì il Giappone nello stesso periodo. Lo scoppio della cosiddetta “bolla economica”24 portò a un indebolimento del potere d'acquisto e favorì la nascita di beni di consumo a basso costo, come quelli venduti nei “100 yen shop”. Questo genere di oggetti rappresentavano il target di consumi cui le kogyaru (principalmente adolescenti e quindi senza un grande potere di acquisto) erano interessate (Suzuki and Best 2003). Mentre le sukeban avevano cercato di atteggiarsi da adulte, le kogyaru andarono in una direzione opposta, ostentando fino al ridicolo la loro giovinezza, cercando di apparire le più dolci e innocenti possibili. A questo scopo divennero consumatrici ossessive della cultura kawaii, comprando accessori e oggetti che servissero ad accentuare questi tratti (Evers and Macias 2007).

Come già scritto nel Capitolo 2, negli anni Ottanta l’uniforme scolastica femminile aveva subito dei radicali cambiamenti in conseguenza dei quali si assistette alla quasi totale scomparsa del modello sēra fuku, rimpiazzato dell’uniforme blazer. Le kogyaru presero elementi stilistici delle uniformi e li trasposero all’interno della

FIGURA 6: L'UNIFORME KOGYARU

24 La “bolla speculativa giapponese” scoppiò tra il 1986 e il 1981, interessando specialmente il mercato azionario e quello immobiliare giapponese. In conseguenza dello scoppio della bolla il Giappone ha passato due decenni di rallentamento del tasso di crescita annuo, passato dal 4.1% degli anni Ottanta a poco più dell’1% di fine anni Novanta e primi Duemila.

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propria moda (Figura 7). Le gonne furono visibilmente accorciate e le calze furono allentate sui polpacci. I maglioni diventarono oversize, comprendo quasi totalmente la lunghezza della gonna. Le kogyaru amavano molto anche gli oggetti di lusso, come le sciarpe Burberry o le borse Louis Vuitton. Vennero talvolta ripresi anche elementi provenienti da completi di scuole prestigiose. I capelli erano tinti o scoloriti, e il trucco, portato su una pelle abbronzata artificialmente, era scuro e pesante (Evers and Macias 2007). Questo nuovo look spinse le ragazze ad indossare le uniformi anche al di fuori dell’ambito scolastico (Marx 2012). Fu allora che cominciarono ad attirare l’attenzione dei media, divenendo la personificazione di un’ansia generale verso le giovani generazioni (Leheny 2006).

I primi ad interessarsi della kogyaru furono le riviste maschili. Nel 1993 il magazine “Spa” scrisse un articolo intitolato “La tentazione delle kogyaru”. L’infatuazione maschile per queste ragazze crebbe man mano che le notizie sulla vita sessuale delle nuove teenager incominciarono ad emergere su media nazionali e internazionali (Marx 2012). Tra il 1995 e il 1998, in conseguenza di alcuni scandali sessuali, l’uniforme scolastica divenne una visione costante nelle televisioni giapponesi. Le ragazze, riprese con i volti oscurati e le voci camuffate, telecamera puntata su gonne e gambe, incominciarono a essere inseguite ovunque. La richiesta tipica che veniva fatta loro era quella di mostrare il contenuto della borsa. Scrupolosamente sezionata e analizzata, questo oggetto divenne la prova lampante di uno stile di vita degenerato. Le ragazze in tenuta kogyaru, in particolare, vennero descritte come prostitute e delinquenti, esposte a insulti e ammiccamenti da parte di persone sconosciute (2009; Kinsella 2002). Racconta una ex kogal in un’intervista: “Arrivavano certi vecchi che chiedevano: - quanto vuoi per fare sesso?- Alcuni accennavano, altri semplicemente chiedevano senza alcun preambolo.(…) Sono quei cavolo di media – danno l’impressione alle persone che stiamo architettando chissà cosa” (2009). E’ tuttavia difficile distinguere le kogyaru dalla loro rappresentazione mediatica, perché furono esse stesse promotrici nella

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creazione della loro immagine. La fascinazione per la sottocultura kogyaru ha portato alla formazione nella società giapponese di opinioni contrastanti: se da una parte furono trattate come stupide, volgari e impertinenti, diventando capri espiatori per fenomeni più complessi, dall’altra furono idolatrate, e la loro immagine, abusata dai mezzi di comunicazione, divenne il focus di lunghe discussioni e segnò l’estetica giapponese per un intero decennio (Miller 2004).

Il boom delle ragazze in uniforme il cui stile e vestiario venivano rappresentati in nuove ed effimere riviste, come “Egg”, “Cawaii!”, “Heart Candy” e “Street Jam”, ed il dibattito circa la loro dubbia moralità ebbero però l’effetto di avvicinare sempre più la loro immagine al mondo delle kogal. Alimentata da lettori sia nel pubblico maschile che in quello femminile, la rappresentazione della studentessa trasgressiva e dell’oggetto sessuale cominciarono a mescolarsi. L’immagine dalle ragazze kogyaru del resto non era del tutto dissimile dalle figure che per molto tempo avevano circolato nella pornografia maschile (Kinsella 2002). Alcune riviste specializzate, tra cui “Heart Candy” e “Street Jam”, erano peraltro pubblicate da Eichi e Bauhaus, due case editrici specializzate nella produzione di giornali pornografici focalizzati sulle uniformi scolastiche e sul Lolita complex (Kinsella 2013).

LE KOGYARU E GLI SCANDALI SESSUALI DEGLI ANNI NOVANTA

Si ritiene erroneamente che gli uomini, per natura, siano soggetti a maggiori esigenze sessuali delle donne cui , al contrario, è spesso attribuita una posizione di passività e autocontrollo. Se pagare qualcuno per fare sesso è moralmente accettabile per un uomo, la donna che si prostituisce è invece doppiamente censurabile per non aver rispettato gli standard di moralità ed il ruolo sociale che le sono tradizionalmente assegnati. Questa logica venne applicata anche nel

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Giappone degli anni Novanta nei confronti delle ragazze in uniforme con una discussione focalizzata sulla loro moralità piuttosto che sul rischio sfruttamento da parte di uomini più anziani (McCoy 2004).

I fenomeni di prostituzione di giovani ragazze portate alla luce dei media del periodo furono diversi. Innanzitutto, come già accennato prima (vedi p. 29), i burusera, dove avveniva la vendita di uniformi e biancheria con scopi sessuali. I terekura, cioè “club telefonici”, nati nel 1985, consistevano invece in un sistema di messaggeria telefonica che permetteva l’incontro tra sconosciuti a pagamento. Serviva soprattutto agli uomini per trovare partner, e contava nel 1990 duemiladuecento negozi. Si disse che il 30% delle ragazze tra i dodici e i diciotto anni avesse usato il servizio, anche se pare anche che la maggior parte di loro lo avesse provato per scherzo, senza mai incontrare di persona alcun uomo. Ciononostante fu sicuramente uno strumento facilitatore nella diffusione di altri fenomeni. Vi erano infine i date club, club per appuntamenti, che rendevano legali gli incontri con minorenni incassando solo i soldi per l’entrata nel locale, senza pagare direttamente le ragazze (Suzuki and Best 2003).

Tuttavia il più noto di tutti i fenomeni rimase sicuramente l’enjo kōsai. Il sociologo Miyadai Shinji sostiene che il termine sia nato per la prima volta negli anni Ottanta per indicare donne che attraverso i terecura trovavano partner occasionali. Il termine fu poi successivamente adottato per indicare teenager che lavoravano nei date club e per riferirsi ad un incontro senza rapporto sessuale, mentre solo a partire dal 1994 incomincia a essere usato con il significato che ancora oggi gli è attribuito (Kinsella 2013). Nel 1984 in Giappone fu esercitata una forte repressione del mercato dell’industria sessuale, in particolare delle attività esercitate in case di appuntamento o locali consimili. Da allora il mercato si è spostato verso attività meno rischiose, come l’industria dei video per adulti o modelli di nudo. L’industria del sesso in Giappone è molto sviluppata, e la

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possibilità di accedere a lavori parti time e di sicuro guadagno indica che una piccola percentuale di adolescenti vi abbia potuto partecipare (Kinsella 2013).

Enjo kōsai fu un fenomeno con ampi risvolti mediatici, ma ciò non arginò il problema piuttosto lo fece acuire anche se non se ne conosce l’esatta dimensione. Nel 1995 il numero di minorenni arrestate per essersi prostituite fu di 5481, il 38% in più del 1993. Un numero elevato, ma comunque molto inferiore ad alcuni dati dei giornali, sui quali vennero riportate cifre del 4 o 6% delle minorenni. Il fenomeno sollevò ampio dibattito tra chi parlava di “emancipazione” e chi di “degenerazione” delle nuove generazioni (Kinsella 2013). L’aspetto ironico della vicenda fu che probabilmente le kogyaru non furono mai coinvolte direttamente nel problema. Secondo Akaeda Tsuneo, medico che per molto tempo si è occupato di offrire consultazioni gratuite alle ragazze di Tokyo, queste erano troppo orgogliose per potervi essere coinvolte. Le vittime della rete furono per lo più ragazze che agivano singolarmente. Ma le kogal, con il modo appariscente di vestire e di atteggiarsi, divennero il capro espiatorio della situazione (Marx 2012).

IL RUOLO DELLE KOGYARU COME TRENDSETTERS

Anche se bollate con il marchio delle “cattive ragazze”, le kogal furono un elemento chiave nella cultura della gioventù giapponese degli anni Novanta e costituirono delle trendsetters cruciali nella diffusione delle mode di quel periodo (Suzuki and Best 2003). Con il loro stile crearono un vero e proprio brand che permise loro di segnare mode e modelli di consumo. La kogal, infatti, è da considerarsi a tutti gli effetti un “tipo sociale”, con specifiche caratteristiche di età, sesso, stile e consumi (Suzuki and Best 2003).

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Due esempi commerciali famosi riconducibili alla cultura kogal sono il Tamagotchi e Hello Kitty. Il Tamagotchi fu inizialmente distribuito in Giappone in sole mille esemplari dalla Bandai come test di mercato prima del suo debutto previsto nel Novembre 1996. Divenne popolare prima tra le kogal, e da lì si diffuse a livello mondiale tanto che Bandai vendette trecentocinquantamila unità in solo due mesi, e tredici milioni nel 1998 nel solo Giappone. Allo stesso modo Hello Kitty era uno dei prodotti meno venduti della Sanrio, ma nel 1997, quando le kogal la fecero propria, ebbe un vero e proprio boom (Suzuki and Best 2003).

Le kogal ebbero un ruolo importante non solo nell’imporre modelli di giocattoli, ma anche nella diffusione delle nuove tecnologie. Prima ancora dell’introduzione del telefono cellulare, si interessarono a tutti quei mezzi che permettevano la comunicazione a distanza, come i cercapersone e i sistemi di comunicazione PHS. Il loro interesse per la telefonia mobile portò alla diffusione dei telefoni cellulari in Giappone (Suzuki and Best 2003)

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L’UNIFORME KOGYARU

Lo stile kogal non è traducibile direttamente, perché mescola tra loro elementi diversi e contrastanti. Innanzitutto il kawaii, che è continuamente citato non solo negli accessori, ma anche nell’atteggiamento delle ragazze. Esistono poi diversi elementi di “imbruttimento”: ben lungi dal canone di bellezza tradizionale giapponese, il look kogal è piuttosto da interpretare come un insieme di citazioni del passato, che si combinano con l’estetica definita “mukokuseki”, cioè di “globalismo senza stato”. Lo stile delle kogal ha cioè un’esplicita mancanza di elementi nazionali, anzi le caratteristiche etniche e razziali giapponesi vengono parzialmente cancellate e rimpiazzate da nuovi modelli. Le kogal non fanno riferimento a modelli domestici, quanto piuttosto stranieri nella creazione della loro estetica. L’ibridazione temporale e razziale disturba le nozioni popolari di identità nazionale, a rappresenta un punto di rottura rispetto ai concetti purità e omogeneità del paese (Miller 2004). La cultura giapponese in realtà non è del tutto estranea a questa perdita di identità nazionale. Il Cool Japan, e la maggior parte dei prodotti di riferimento, hanno alla loro base il mukokuseki: nei manga e negli anime i personaggi sono spesso disegnati sulla base di un modello bellezza caucasica, portando talvolta ad una rappresentazione falsificata e virtuale del Giappone stesso (Miller 2004). E’ ad esempio noto che l’adozione degli occhi grandi nei personaggi fu un omaggio del maestro Tezuka Osamu ai personaggi creati da Walt Disney. La presenza di elementi mukokuseki non significa quindi la perdita della identità giapponese, quando piuttosto una sua rielaborazione verso modelli globalizzati (Miller 2004). Così, quando penso ai manga, o alla kogyaru, non si immagina l’Occidente, ma il Giappone.

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LA TRASGRESSIONE NELLE DIVISE SUKEBAN E KOGAL

L’uso che viene fatto dei vestiti determina sempre un’immagine e diventa, quindi, una modalità dell’espressione del sé. Questo è particolarmente vero nella uniforme, dove il riconoscersi uguale a tanti altri permette la creazione di un codice estetico condiviso. Quando un gruppo di persone crea una sottocultura, i codici di comportamento diventano sempre più coesivi man mano che questi si radicano nella società. Le sottoculture creano semi-uniformi che sono rigidi codici di comportamento da rispettare come garanzia della loro resistenza e dell’opposizione alla cultura tradizionale (Craik 2005). La stessa cosa è avvenuta per le sukeban e le kogyaru, ma con modalità ancora più elaborate, perché le semi- uniformi che hanno adottato nascono da una contravvenzione ad una uniforme ufficiale. Esistono diversi aspetti da considerare nell’analisi delle uniformi sukeban e kogyaru. Il primo riguarda il significato che il vestire ha sulla rappresentazione di sé rispetto al resto del mondo. Come già ricordato (pp. 36-37), l’appropriazione, cioè l’adozione di stili, vestiti o oggetti estranei rispetto alle attese sociali, e la sovversione, cioè la modifica dell’uniforme come contravvenzione alle regole, sono secondo Brian McVeigh due delle forme di resistenza alle istituzioni (McVeigh 2000). Le kogyaru e le sukeban hanno iniziato a modificare le proprie uniformi semplicemente sovvertendo le regole imposte dall’istituzione scolastica. Tuttavia, con il crescere della loro influenza in Giappone, alimentata dall’attenzione dei media, la loro divisa è diventata poco per volta un atto di appropriazione. La divisa, modificata nel suo significato, da simbolo di disciplina e autorità, è stata trasformata in un oggetto di culto molto distante dalla sua accezione originale. Quando una trasgressione passa i limiti dell’accettazione sociale, da una parte viene derisa e resa repellente, dall’altra è in grado di suscitare una forte attrazione (McVeigh 2000).

La sovversione dei codici canonici dell’uniforme ha diverse motivazioni, che sono state più o meno accentuate dalle due sottoculture. Nelle sukeban l’obiettivo principale è stata la radicalizzazione del significato dell’ornamento, come

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dichiarata ostilità alle autorità. Non vi è però in origine alcuna carica sessuale, che, al contrario, è totalmente annullata. Nelle kogal, invece, l’obiettivo è stata la sfida diretta alle autorità, ma piuttosto il rovesciamento dei significati attraverso l’inserimento di elementi grotteschi. Come sostiene Bachtin: “il principio fondamentale del realismo grottesco è la degradazione, cioè l’abbassamento di tutto ciò che era alto e spirituale, ideale e astratto; è un trasferimento a livello materiale, alla sfera del cielo e del corpo nella loro indissolubile unità”. Se l’obiettivo principale delle uniformi nel periodo Meiji era stato l’esaltazione dello stato e della potenza, le kogal ne “ridussero” l’immagine a quella di un oggetto che parlava di consumi e di trasgressione. Il grottesco fu inserito dalle kogal attraverso la loro sovversione dei modelli di bellezza tradizionale, nella decolorazione dei capelli e nell’inscurire la pelle da una parte, e dall’altra dall’esasperazione della cultura kawaii, che è invece specchio dell’ideale di donna. Le semi-uniformi hanno molti punti in comune con i costumi (Craik 2005). Spesso nel teatro, più che i personaggi in sé, sono i vestiti che creano la storia. I personaggi sono identificati per quello che indossano, e tutto il resto risulta secondario. I costumi hanno inoltre il compito di attrarre l’attenzione su qualcosa di inusuale, trasformando vestiti ordinari in vestiti straordinari (Hollander 1993). Allo stesso modo le sukeban e le kogyaru forse non sarebbero mai state ricordate se avessero indossato l’uniforme in maniera convenzionale. La reinterpretazione delle uniformi scolastiche come semi-uniformi ha portato alla conversione dei significati per cui erano state originariamente predisposte. Nel caso delle sukeban, tuttavia, la loro natura trasgressiva non ha determinato la creazione di una nuova sensibilità nello stile e nella moda, generando un look ormai considerato vecchio e datato. Lo stile kogyaru, invece, fu facilmente assimilato dalle giovani, tanto che alla fine degli anni Novanta tutte avevano fatto proprie alcune delle sue caratteristiche (Evers and Macias 2007).

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Note: 2009. "KOGAL interview." Bakthin, M. 1984. "introduction to Rebelais and His World." in Rebelais and His World. Bloomington: Indiana University Press. Craik, J. 2005. Il fascino dell'uniforme. Roma: Armando. Evers, Izumi, and Patrick Macias. 2007. Japanese Schoolgirl Inferno: Tokyo Teen Fashion Subculture Handbook. San Francisco: Chronicle Books. Hollander, A. 1993. "Costume." in Seeing Through Clothes Los Angeles University of California Press Kinsella, S. 2002. "What's Behind the Fetishism of Japanese School Uniforms? ." Pp. 215-36 in Fashion Theory. UK. —. 2013. Schoolgirls, Money and Rebellion in Japan. Londra: Nissan Institute/Routledge Japanese Studies. Leheny, D. 2006. Think Global, Fear Local. New York: Cornell University Press. Marx, D. 2009. "Yasumasa Yonehara." —. 2012. "The History of the Gyaru." McCoy, A. 2004. "Blaming Children for their own exploitation: the situation in East Asia." ECPAT 7th report on the Implementation of the Agenda for Action Against the Commercial Sexual Exploitation of Children McVeigh, B. 2000. Wearing Ideology. New York: Berg. Miller, L. 2004. "Those Naughty Teenage Girls: Japanese Kogals, Slang, and Media Assessments." Journal of Linguistic Anthropology 14(2):225-47. Suzuki, T., and J. Best. 2003. "The Emergence of Trendsetters for Fashions and Fads: Kogaru in 1990s Japan." The Sociological Quarterly 44(1):61-79.

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CAPITOLO 6

SESSUALITÀ E TRASGRESSIONE: IL GIAPPONE E IL FETISH DELLA STUDENTESSA IN UNIFORME

Il sociologo Miyadai Shinji identifica l’azione di due fenomeni fondamentali e contrapposti nella rappresentazione della studentessa in uniforme. Un principio pubblico per cui le studentesse sono considerate troppo giovani per essere sessualmente attive ed un principio privato per cui invece sono rappresentate come sessualmente attive (Hamm 2012).

Uno dei libri maggiormente usati dagli studiosi per analizzare l’origine del feticismo per l’uniforme scolastica in Giappone è “Storia della sessualità, Volume 1” di Michel Foucault. Dei numerosi concetti esposti nel saggio, quattro in particolare sono fondamentali per la discussione di questo fenomeno.

1. I concetti di genere nelle diverse società non sono fissi, ma vengano continuamente rinegoziati. 2. Il mondo è basato su una serie di dinamiche di potere. Esso non viene imposta in maniera diretta da oppressore a oppresso, ma passando sempre per delle forme di resistenza. 3. La sessualità è qualcosa che dipende da valori culturali imposti dalla società o che noi imponiamo ad essa. 4. La sessualità è soggetta a dinamiche di potere.

Foucault pensa inoltre che l’esercizio del potere spinga a creare sessualità in campi dove prima non esisteva.

Questo significa che le tendenze e le preferenze sessuali non sono fenomeni già insiti nella società, ma sono creati tramite una rinegoziazione dei concetti di genere, l’esercizio del potere e la conseguenza resistenza ad esso.

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Questi concetti possono essere applicati anche al progressivo interessamento nelle fantasie erotiche giapponesi dell’immagine della studentessa in uniforme. Come verrà analizzato in questo capitolo, questo scenario affonda le sue origini nelle nozioni di potere, resistenza, genere e sessualità espresse da Foucault nel suo libro.(Hamm 2012)

I KASUTORI E L’ORIGINE DELLE TEMATICHE

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, il Giappone fu invaso da immagini di giovani ragazzi in uniforme (Kinsella 2002). Questo interesse per le divise portò ad una simmetrica rappresentazione nella pornografia maschile dell’epoca (Kinsella 2002). Le riviste pornografiche dell’epoca, note come kasutori 25 , incominciarono ad sviluppare alcune tematiche

FIGURA 7: "HONTŌ NI YARU KI?" ("HAI DAVVERO VOGLIA DI definite come “hentai sengoku” FARLO?") DI HARUWAKA NAMIO, TRATTO DA “KITAN KURABU”, PRIMI ANNI CINQUANTA (desideri perversi), fantasie specialmente legate all’erotico grottesco (ero-guro) tra cui fu molto popolare il tema dell’omosessualità

25 La cosidetta “cultura kasutori” (cioè “di basso profilo”, “pulp”) si sviluppò in Giappone nell’immediato dopoguerra, e fu fortemente caratterizzata da forme di intrattenimento sessualmente orientate e da un fiorire di letteratura pulp. Le kasutori zasshi, cioè appunto le riviste pornografiche, apparirono quindi come sviluppo naturale dello stesso clima popolare. Il kasutori è in origine un distillato di sakè di bassa qualità, il termine indica quindi la “indecenza” degli argomenti presenti in questa sottocultura. 78

femminile. Negli anni Cinquanta i kasutori erano noti per la fitta letteratura di amori lesbici. Queste storie erano spacciate come esperienze vissute dalle stesse lettrici, ma si trattava più probabilmente di racconti scritti da uomini per un pubblico maschile; molte di queste storie vedevano coinvolte studentesse. Nel numero della rivista Fūzoku kagaku (letteralmente: “Scienza dei costumi sessuali”) del Settembre 1954 è ad esempio riportata una conversazione tra un tutor e una sua alunna. Nel corso della conversazione la giovane confessa di aver intrapreso una relazione con un membro del corpo docenti, una donna. “Sono scioccato”, rispondeva il tutor: “ Intendi dire che la persona per cui spasimi è del tuo stesso sesso? In altre parole, stai forse dicendo che è un problema di Lesbo?”.

I racconti non erano però l’unica rappresentazione delle studentesse in uniformi: è ad esempio noto che il kasutori “Kitan Kurabu”(“Il club delle perversioni”) pubblicò molte immagini che ritraevano studentesse in uniforme (Figura 8). Le tematiche maggiori erano quelle legate al sadomasochismo.

Questo genere di immagini aumentarono negli anni Sessanta, quando alcuni temi, come l’omosessualità e il travestitismo maschile, lasciarono spazio a fantasie di un pubblico di lettori a maggioranza eterosessuale. Il tema delle pratiche sadomasochistiche e dell’amore saffico ebbero maggiore spazio in queste pagine, intesi ancora di più come pornografia sulle donne e per gli uomini (McLelland 2004).

LA NASCITA E LO SVILUPPO DEL LOLITA COMPLEX

Nel 1969 l’uscita del libro intitolato “Sun Warmed Nudes” in Giappone (De Dienes and Lange 1965), segnò l’inizio di un nuovo fenomeno: il Lolita Complex, o Lolicon (Galbraith 2011). Con questa espressione si fa riferimento all’attrazione di adulti per ragazze in età puberale o prepuberale. Il nome deriva dal titolo dell’omonimo romanzo dello scrittore americano Russell Trainer, tradotto in

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Giappone nel 1966 (Trainer 1966). Il nome del libro si rifaceva a sua volta al romanzo del 1955 di Vladimir Nabokov, “Lolita”.

Nudi di giovani ragazze incominciarono ad apparire nei media giapponesi. La possibilità di semplificare l’anatomia dei genitali rese i manga i luoghi ideali per raggirare le severe leggi sull’oscenità giapponese, che dal 1947 proibivano di mostrare genitali nei film, perché considerati come produzione di materiale osceno contraria al pubblico decoro (Galbraith 2011).

Il mangaka Azuma Hideo è considerato da molti il padre del Lolicon. Il suo lavoro Cybele (Hideo 1979), dove tra i diversi personaggi rappresentati troviamo anche diverse ragazze in uniforme, fu il primo esempio del genere, e ancora oggi è considerato una pietra miliare. Questo manga fu il primo a cui venne riferito direttamente il termine Lolita Complex. Diversamente dalle truculente rappresentazioni del passato, in questo fumetto l’erotismo veniva addolcito da una vena ironica, rendendo il lavoro molto all’avanguardia per l’epoca. Vi si può percepire un atteggiamento condiviso all’epoca di resistenza e parodia ai lavori delle generazioni precedenti. Si trattava di un genere di pornografia non realistica, ma era proprio questa caratteristica a renderla allettante. Azuma mostrò per la prima volta dei personaggi kawaii in stile Osamu Tezuka, che avevano però dei rapporti sessuali (Galbraith 2011).

FIGURA 8: RAPPRESENTAZIONE DI STUDENTESSA IN UN NUMERO DI “WHITE CYBELE” DI AZUMA HIDEO

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Nel 1979 Miyazaki Hayao firmò la regia per il film “Lupin III: Il Castello di Cagliostro” (Miyazaki 1979). Nella storia il ladro Lupin si imbatte in una giovane ragazza, Clarissa, futura sposa del Conte di Cagliostro (Figura 10). Il personaggio femminile era ben distante dalle rappresentazioni classiche del modello “Lolita Complex”, nonostante ciò fu fra quelli che maggiormente influenzarono il genere, segnandone un punto di passaggio. Questo film non fu l’unico di Miyazaki che generò questo genere di reazioni. Lo stesso avvenne per Nausicaä, protagonista del manga “Nausicaä della Valle del vento” (Miyazaki 1984), e per Sheeta nel lungometraggio di animazione “Laputa – Castello nel cielo” (Miyazaki 1986) del 1986 (Galbraith 2011). FIGURA 9: CLARISSA DI CAGLIOSTRO Nel 1981 e 1982 due riviste specializzate, “Lemon People” (1982- 1998) e “Manga Burikko”(1982-.), diventarono FIGURA 10: RAGAZZA IN UNIFORME DA UN NUMERO DI "LEMON PEOPLE" le prime pubblicazioni erotiche specializzate nel genere Lolicon. In breve quelle che fino ad allora erano state parodie di personaggi storici, si trasformarono in figure reali. La maggior parte di queste erano ovviamente ragazze in uniforme scolastica (Figura 11). Riporta ad esempio Patrick Galbraith nel suo articolo “Lolicon: the reality of Virtual Child Pornography in Japan” che nel numero di Novembre 1983 di Manga Burikko, il servizio “Le uniformi sono giuste: collezione di illustrazioni

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di divise scolastiche” presenta un grande spazio dedicato interamente a soli personaggi in uniforme. (Galbraith 2011).

Oltre alle riviste pornografiche, furono i videogiochi i maggiori veicoli per questa trasformazione. I bishōjo games (letteralmente “videogiochi con ragazze belle”) ne sono l’esempio più lampante. Si trattava di una serie di videogiochi creati per un target maschile in cui l’obiettivo del giocatore consisteva nel conquistare delle giovani e belle ragazze. La maggior parte di questi giochi avevano un’ambientazione scolastica, e vedevano quindi rappresentate molte ragazze in uniforme (Galbraith 2009). “Lolita Syndrome” (1983) fu il primo di questi giochi (Figura 12). Pubblicato nel 1983 dalla Enix, aveva come scopo principale il salvataggio di alcune giovani ragazze, stese su di un tavolo, da una morte violenta. In altri livelli lo scopo del gioco era quello di lanciare coltelli contro la ragazza stessa per denudarla; la nudità era la ricompensa per essere riuscito nell’impresa (Ashcraft and Ueda 2010).

FIGURA 11: SCREENSHOT TRATTA DA "LOLITA SYNDROME"

Nel 1985 l’azienda Jast, che si occupava di programmazione informatica, elaborò un videogioco intitolato “Il pomeriggio degli angeli” (Tenshitachi no gogo) (1985), uno dei precursori dei moderni giochi di simulazione di appuntamenti. Lo scopo era quello di guadagnarsi la fiducia di una ragazza popolare della squadra di

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tennis di un liceo. Più stretto era il rapporto costruito, maggiori le concessioni che la ragazza avrebbe dato, incluso ovviamente il sesso. Il gioco non fu percepito in maniera positiva dall’opinione pubblica, ma riuscì a sottrarsi dalle critiche perché lo stile fumettistico dei personaggi giustificò gli argomenti trattati, rendendoli non reali perché effettuati da personaggi non realistici (Figura 13) (Ashcraft and Ueda 2010).

FIGURA 12: SCREENSHOT TRATTA DA "TENSHITACHI NO GOGO"

La nascita di questi videogiochi segnò un passaggio importante: la rappresentazione femminile stava nuovamente cambiando. Un sondaggio pubblicato da Manga Burikko nel 1983 sui target di età e sesso della rivista mostrò che il pubblico del genere Lolita Complex stava lentamente mutando. Infatti, nonostante rimanesse un pubblico a maggioranza maschile (80%), l’età dei lettori si era stabilizzata tra i 15 e i 26 anni. Con la diminuzione dell’età media dei lettori, il significato che veniva dato a quelle immagini stava progressivamente modificandosi: non più solo donne giovani per un pubblico di uomini vecchi, ma la rappresentazione di qualcosa vicino anche al pubblico più giovane. Questo periodo coincise con il mutamento del concetto di kawaii nella cultura 83

giapponese. Non più solo un concetto puramente femminile, ma un termine di cui anche la popolazione maschile si appropria. Era nata una nuova categoria, quella degli (Galbraith 2011).

Questo termine era nato negli anni Settanta nel momento in cui sottoculture come anime e manga entravano a fare parte della cultura giapponese, per identificare i primi appassionati del genere. Oggi il termine identifica sempre la stessa categoria le stesse persone ed è stato esportato anche in altri paesi, ma mentre in Occidente ha un’accezione per lo più positiva, in Giappone è si associa spesso all’idea di persone incapaci di relazionarsi con il mondo esterno che vivono in un proprio mondo fantastico.

Nel suo articolo “La sessualità dell’otaku” (Saitō 2007), lo psicologo Saitō Tamaki, spiega le ragioni che portarono questa generazione ad una nuova rappresentazione femminile. Il concetto chiave per comprendere questo sviluppo è “moe” un termine che indica una rappresentazione enfatica di personaggi di fantasia. Moe deriva dal verbo omofono “moeru”, che scritto con caratteri diversi può significare rispettivamente “sbocciare” e “bruciare”. I personaggi moe sono in genere ragazze molti giovani, dall’aspetto infantile, sospese tra caratteri Lolicon e tratti legati alle bishojō. Il termine si riferisce spesso direttamente ai personaggi, ma il significato è talvolta esteso alle situazioni in cui essi sono coinvolti. Secondo Saitō, i personaggi femminili rappresentati secondo stile moe sono figure “isterizzate”. In psicologia, l’isterizzazione femminile è un triplice processo tramite il quale la donna è analizzata come un corpo privo di sessualità propria. Ciò corrisponde esteriormente ad un corpo sessualmente non sviluppato, interiormente ad una figura di donna ingenua, sottomessa e infantile. Secondo lo studioso Azuma Hiroki (Azuma 2001), esso rappresenta un’idea conservatrice di amore, perché l’uomo è visto come un protettore della donna. Nell’otaku la rappresentazione moe suscita infatti più affetto ed impulso di protezione che un vero e proprio impulso sessuale. Moe, tuttavia, possiede contemporaneamente una natura innocente e una perversa (Saitō 2007), i suoi personaggi sono

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ambigui, perché seppur estremamente infantili sono anche fortemente eroticizzati (Galbraith 2009).

Le storie “moe” non hanno mai una trama elaborata ed i momenti positivi sono costantemente rappresentati come dei simulacri, cioè delle visioni di un archetipo, ovvero il moe stesso perché l’enfasi viene attribuita non agli elementi concreti, quali la trama, ma piuttosto a elementi ideali, i sentimenti e le reazioni dei personaggi (Galbraith 2009).

I videogiochi sono l’esempio più lampante di questa trasformazione: nello sviluppo del gioco, infatti, l’influenza del giocatore è sulle reazioni emotive dei personaggi che diventano il fulcro della stessa storia. I personaggi femminili sono proiettati in una relazione di possesso con il giocatore, che prima instaura con loro un amore esclusivo, puro e innocente, che poi evolve in una relazione perversa. Si consolida quello che potremmo definire come un “database” emozionale, cioè la creazione di una serie di situazioni predefinite in cui

FIGURA 13: AYANAMI REI DA "NEON GENESIS personaggio viene stimolato a diventare e EVANGELION" agire secondo un’ottica moe (Galbraith 2009).

Il concetto di moe, sebbene già presente nei primi manga, si identifica formalmente per la prima volta nel personaggio di Rei Ayanami (Figura 14), della serie animata fantascientifica “Neon Genesis Evangelion” (Anno 1995). La storia è ambientata nel 21° secolo, in un mondo decadente e ormai stravolto da cambiamenti climatici. La popolazione umana è stata dimezzata. Una città, chiamata Tokyo-3, viene attaccata da una serie di esseri chiamati “Angeli”. Tre ragazzi quattordicenni, Ikari Shinji, Asuka Longley e Ayanami Rei, sono chiamati a salvare la città dagli attacchi con l’ausilio di grandi unità biomeccaniche

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chiamate Evangelion. Il personaggio di Rei fu quello che rimase maggiormente impresso nell’immaginario collettivo (Ashcraft and Ueda 2010). Riservata e con pochi amici, sempre fedele ai suoi compagni e alla sua missione, è molto distante rispetto all’immagine moderna di moe, ma ne presenta alcuni elementi chiave. L’età adolescenziale ne è sicuramente il primo. Secondariamente il modo in cui viene rappresentata: quando non indossa la sua tenuta da combattimento, Rei è sempre in uniforme scolastica. Questo segna una dicotomia tra sua natura pura e innocente nella vita “normale” e il suo ruolo di protettrice della Terra. Una dualità tipica di tutti i personaggi del genere a cui questo anime appartiene, il mecha (letteralmente “meccanico”). Infine, nella sua prima apparizione nel primo episodio della serie Rei è mostrata ferita. Questa sua vulnerabilità la rese il modello perfetto per il moe, perché suscitò un naturale istinto di protezione per un personaggio che veniva rappresentato come più debole rispetto agli altri. (Wu 2013)

FIGURA 14: AYANAMI REI NEL PRIMO EPISODIO DELLA SERIE

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Il successo di Rei fu da traino ad un’esplosione di vendita di gadget, e alla creazione di una serie di dōjinshi, cioè storie (spesso dal contenuto erotico) create dai fan stessi. Venne perfino creato un gioco intitolato “Neon Genesis Evangelion: Progetto di Soccorso Ayanami”( Shin Seiki Evangelion: Ayanami Ikusei Keikaku) (2001), dal contenuto del tutto simile ai bishōjo games, in cui l’obiettivo del giocatore era quello di curare Rei e di instaurare con lei una relazione sentimentale (Wu 2013)

IL CASO DI SAILOR MOON

Negli anni Novanta la rappresentazione del genere si espanse sempre di più e si fece più accurata. Tra le diverse rappresentazioni di moe, esistono anche molti esempi che presentarono come protagoniste scolare in divisa, e che attraverso un pubblico sia maschile che femminile svilupparono la rappresentazione fetish dell’uniforme. Se Ayanami Rei fu il primo esempio di moe, il vero sviluppo si ebbe con la nascita di un nuovo format dell’animazione: l sentō bishōjo, cioè le “eroine combattenti”.

L’esempio più lampante è sicuramente “Sēra Mun” (Satō 1992) di Takeuchi Naoto, pubblicato nel 1992, e meglio noto in Italia come “Sailor Moon” (Figura 16) (Kinsella 2002). Nate negli anni Sessanta, le “sentō bishōjo” erano inizialmente personaggi legati al genere mecha , come la stessa Ayanami Rei. (Allison and Cross 2006), ma le supereroine di Sailor Moon erano un format diverso, originale e innovativo. Il target fu spostato sulle bambine. Fino a quel momento solo gli anime dedicati ad un pubblico maschile avevano avuto come tema i combattimenti, mentre quelli femminili erano stati sempre indirizzati su generi più comico-romantici. Questo portò alla creazione un nuovo sottogenere, dove ragazze combattevano per un pubblico di ragazze (Allison and Cross 2006). Non solo, i poteri delle protagoniste non venivano acquisiti con l’aggiunta di elementi esterni al corpo, come parti meccaniche, ma attraverso una trasformazione

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somatica che rendeva i loro fisici sessuali e iperfemminilizzati. (Allison and Cross 2006).

La storia si concentra principalmente attorno alle vicende di cinque ragazze quattordicenni, che vengono chiamate a combattere a difesa della Terra. Ognuna di esse riceve dei poteri speciali ed è collegata ad un pianeta del sistema solare. Le ragazze indossano sempre le loro divise scolastiche. Rappresentate secondo un modello precedente all’ammodernamento delle divise nel sistema scolastico, queste uniformi FIGURA 15: SAILOR MOON erano ben poco attraenti, ma con la trasformazione dei personaggi diventavano uniformi favolose. L’insistenza posta all’abbigliamento non fu per niente casuale. L’obiettivo principale della Bandai, la casa produttrice dello show, era realizzare un “fashion action”, cioè di una serie che combinasse l’uso di bei costumi a scene di azione e combattimenti (Allison and Cross 2006).

Sailor Moon divenne un’icona sexy, riproponendo il problema, tipico del Lolita Complex, dell’infantilizzazione delle donne e della loro rappresentazione come oggetti sessuali. E’ molto significativo il fatto che non solo Sailor Moon indossi un’uniforme, ma che la stessa dia il nome allo show. Come già analizzato precedentemente, il sēra fuku era uno dei modelli più diffusi di divisa scolastica, e per questo era anche il costume maggiormente usato nell’eroticizzazione delle giovani ragazze. L’uso in Sailor Moon dell’uniforme scolastica può essere visto, pertanto, come una stimolazione di due desideri: da una parte l’identificazione delle bambine con la ragazza adolescente, dall’altra quella feticistica delle

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uniformi come oggetto sessuale, che è da riferirsi principalmente ad un pubblico maschile (Allison and Cross 2006).

Le protagoniste avevano un passato in un mondo diverso. Usagi (Bunny nella traduzione italiana) era una principessa, legata da lungo tempo a un uomo, con il quale ha una figlia, ma nel mondo umano è una ragazzina quattordicenne, pigra e svogliata. La sua doppia vita può essere interpretata come la scoperta di un modo ideale per esprimere le proprie capacità, infatti, quando Usagi si trasforma in Sailor Moon diventa la leader del gruppo e la più forte di tutte le eroine. Ma la doppia vita delle protagoniste può essere anche interpretata come la realizzazione di un sogno, dove si può crescere e diventare adulti pur mantenendo una parte di sé nell’età infantile. Questo è rappresentato anche dalla trasformazione fisica in “Sailor Moon” che non solo permette l’acquisizione di poteri magici, ma esprime anche l’idea della bellezza nella crescita del proprio corpo (Allison and Cross 2006).

L’acquisizione di doti sovrannaturali tramite modificazioni e trasformazioni dei corpo non era inusuale negli anime fantastici del periodo, specialmente al genere mecha, ma con delle differenze tra i cartoni animati di target maschile e femminile. Nelle produzioni per il pubblico maschile lo scopo del ricevere i poteri era sempre quello di proteggere la Terra, difenderla dagli aggressori fino ad arrivare a sacrificare se stessi. Si tratta in genere di personaggi giovani, dall’animo puro, che solo attraverso l’uso di un esoscheletro meccanico acquisiscono quei caratteri di superiorità necessari per la distruzione degli avversari. Le loro azioni, anche se crudeli, sono comunque sempre giustificate, perché necessarie al fine di combattere i nemici. Un’interpretazione comune che è stata data a questi anime mecha, è che essi rappresentino una metafora del Giappone post-bellico, che dopo essere stato sconfitto, ricerca un riscatto non reale in cui questa nazione riesce a proteggere il proprio paese dagli orrori subiti. Nelle produzioni per un pubblico femminile, invece, a questo obiettivo è sempre affiancato quello della ricerca e protezione di “oggetti magici”, come i “Cristalli dell’Arcobaleno” nella prima serie di Sailor Moon. Non si può dire con certezza cosa questi oggetti rappresentino. La critica letteraria Minako Saitō ipotizza che 89

essi possano rappresentare un simbolo per la purezza e la verginità delle ragazze (Saitō 1998).

Il personaggio della serie che diede maggiore risalto al tema della sessualizzazione delle ragazze fu quello di Hotaru Tomoe (in italiano Ottavia Tomoe), alias Sailor Saturno (Figura 17). La sua FIGURA 16: HOTARU TOMOE, ALIAS SAILOR SATURN natura ambigua, metà umana e metà meccanica, ha giocato molto nella formazione di questo ruolo: l’essere un personaggio dalle molte sfaccettature, spesso non completamente positive, e il suo aspetto infantile hanno sicuramente contribuito alla espansione dei personaggi moe e del fenomeno del Lolita Complex (Galbraith 2009).

DUE RAPPRESENTAZIONI OPPOSTE DI ENJO KŌSAI

A partire dagli anni Settanta gli adolescenti, in particolare ragazze, hanno acquisito un sempre maggiore valore sul mercato dei consumi. Come già spiegato nel capitolo 4, questo boom fu particolarmente forte negli anni Novanta, quando venne associato ad fenomeni negativi come l’enjo kōsai. Le ragazze, in particolare le kogal, furono oggetto di discussione su tutti i media nazionali.

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Il fenomeno delle kogal e dell’enjo kōsai sono stati rappresentati in diversi manga. Tra gli esempi più famosi sono due lavori di natura diametralmente opposta: uno shōjo, cioè un manga per giovani ragazze, e un seinen, cioè un manga

FIGURA 17: "GALS!", DA SINISTRA MIYU, RAN E AYA per maschi adulti. “Gals!” (Fujii 1999) fu prodotto in dieci volumi tra il 1999, picco del fenomeno delle kogal e degli scandali sessuali fra le adolescenti, e il 2003 (Figura 18). Pur essendo uno shōjo, il lavoro è la chiara testimonianza di come esista un’influenza reciproca tra l’immagine femminile reale e quella proposta dai media. La storia è concentrata attorno alle vicende di tre ragazze. Ran, la protagonista, ha sedici anni e viene da una famiglia di poliziotti. È rappresentata come il tipico “maschiaccio”, che ad un aspetto provocante e appariscente, contrappone un carattere attaccabrighe e scontroso. Non è raro vederla in lotta con ragazze o insultare uomini che la scambiano per una ragazza dell’enjo kōsai. Nonostante i suoi difetti, Ran rappresenta per le lettrici un ideale a cui aspirare, di controllo e conoscenza del proprio corpo. Miyu è rappresentata come la più dolce del trio. Infine Aya, il secondo personaggio più importante, è immaginata come la più intelligente del gruppo, ma è in realtà l’unico personaggio che nella storia pratica enjo kōsai. L’idea che una ragazza brava e diligente possa essere coinvolta in comportamenti pericolosi, fa di Aya il tramite perfetto per insegnare alle lettrici quanto sia grave per una “brava ragazza” parteciparvi. Da questo punto di vista “Gal’s!” racconta in maniera molto efficace la pericolosità dell’enjo kōsai e come sia importante avere rispetto del proprio corpo. Tuttavia secondo Sarah Hamm, autrice di una tesi intitolata “The Japanese Schoolgirl Figure: Renegotiation of Power through Societal

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Construction, Masking a Crisis of Masculinity”, la stessa storia possiede delle limitazioni. Innanzitutto, nonostante vi sia una condanna della prostituzione per avere denaro facile, le ragazze sono sempre alla ricerca di nuovi modi per fare soldi. L’immagine che viene data delle kogal e dei giovani rimane sempre quindi quella di una generazione devota al consumismo e all’etica del possesso. Secondariamente, le ragazze sono costantemente ammiccate da uomini e ragazzi per il loro aspetto. Il fatto di essere kogal è quindi ancora una volta ridotto all’idea della provocazione sessuale che viene suscitata. I comportamenti ribelli spesso adottati dalle protagoniste le pongono in una posizione di resistenza rispetto alla società. Hamm, utilizzando le teorie sulla resistenza di Foucault, interpreta questa resistenza come una reazione ad un potere superiore, che ancora una volta sarebbe rappresentato dall’uomo adulto. Ciò porrebbe nuovamente la figura della ragazza, e nel caso specifico della studentessa, in una posizione subordinata rispetto al maschio (Hamm 2012).

Il secondo esempio di manga è il seinen “Deep Love” (Yoshi and Yoshii 2004) che nasce come riadattamento nell’omonimo kētai shosetsu (romanzo per telefono cellulare) del 2001, scritto da un autore virtuale noto con il nome di “Yoshi” (Figura 19). Il successo di questo romanzo ha portato alla nascita di un film, una serie televisiva e un manga. La storia narra delle strazianti vicende di una ragazza diciassettenne che entrata nel giro dell’ enjo kōsai ne sperimenta le conseguenze drammatiche, tra le quali droghe, violenza e anoressia. La ragazza, che sia nel romanzo che nel manga narra in prima persona le vicende, incontra un ragazzo malato al quale decide di pagare le medicine per le cure, cercando di dare un senso alla sua vita. La vicenda si conclude in modo tragico con la morte della protagonista per AIDS. La storia non lascia spazio a equivoci: enjo kōsai è rappresentato come un’esperienza del tutto negativa, che lascia le persone che l’hanno praticata sole e svuotate. I toni cupi lo rendono decisamente diverso rispetto al sopraccitato “Gals!”, ma possiamo rintracciare alcuni elementi comuni. Innanzitutto la visione negativa dell’enjo kōsai. Inoltre ancora una volta la ragazza è mostrata in una posizione di resistenza contro un potere maschile. Ad esempio, laddove si possono vedere dei personaggi maschili, questi sono sempre

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posizionati in una posizione di potere rispetto ad Ayu. L’immagine di ragazza che viene perpetrata rimane quindi sempre quella di una ragazza come oggetto sessuale (Hamm 2012)

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FIGURA 18: SCANERIZZAZIONE DA "DEEP LOVE", VOLUME 7 PAGINA 13.

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PERCHÉ L’UNIFORME SCOLASTICA?

Di tutte le divise scolastiche, quella giapponese è la più feticizzata. L’introduzione delle divise scolastiche nel periodo Meiji fu la dimostrazione della modernizzazione del paese, ma questa era solo la rappresentazione data dalle istituzioni. A livello popolare, invece, disciplina, autorità, ordine e purezza vennero trasferiti non alla divisa, ma a ciò che ricopriva, il corpo degli studenti, ed in particolare quello delle ragazze (Galbraith 2009). L’uniforme scolastica venne così feticizzata. In quanto simbolo delle istituzioni, le uniformi servono a determinare il potere che un’istituzione esercita sulle persone che ve ne fanno parte. Ciò fa si che il loro significato possa essere facilmente distorto ad una dimensione legata alla disciplina e alla punizione sessuale, tipica delle dinamiche sadomasochistiche. (Craik 2005)

La divisa ispirata alla marina fu particolarmente efficace in questa trasposizione. Prima uniforme per bambini, poi per donne, il sēra fuku richiama innocenza e controllo. Deve anche parte del suo successo all’amore dei Giapponesi per tutto ciò che bambinesco. La combinazione dei colori blu e bianco definisce un design sobrio, e le maniche larghe conferiscono alla divisa un’aria leziosa. L’arte giapponese di saper reinterpretare concetti e oggetti provenienti dall’esterno in qualcosa di nazionale, ha reso una divisa militare importata dall’esterno il simbolo delle studentesse di un’intera nazione (Mitamura 2008). Ma la stessa cultura kawaii, reinterpretata da una parte della popolazione maschile, ha trasformato quest’abito in un oggetto che da privo di implicazioni sessuali, venne reinterpretato in maniera sessuale (Madge 1997).

L’uniforme è oggetto feticizzato dello stato di innocenza del personaggio, ed è quindi un modo per definire un target specifico (Galbraith 2009). Un fattore fondamentale all’interno di questa ossessione è quello della reminiscenza. Non è scontato dire che se esiste un archetipo della ragazza in uniforme, questo si possa formare nel periodo dell’adolescenza. Il ricordo della giovinezza ha un effetto in parte distensivo, che richiama ad un periodo di leggerezza e di mancanza di

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pressioni legate alla vita adulta. Spesso non è la pedofilia ciò che spinge a consumare fantasie sulle ragazze in uniformi, quanto l’illusione di un’innocenza passata (Goad 2013). Secondo una testimonianza raccolta da Patrick Galbraith, la scelta dell’uniforme rappresenta un tentativo di ricreare tempi perduti della giovinezza carichi di speranze e possibilità, ma anche il potere di immaginare relazioni disimpegnate senza che vi siano pressioni sociali. Non si tratta dunque di personaggi che vivono nel mondo reale, ma bensì di scappatoie dalla maturità. L’uniforme, da questo punto di vista, non sarebbe altro se non una delle tante accezioni del fenomeno del Lolita Complex (Galbraith 2009).

L’ultimo elemento da considerare nella feticizzazione dell’uniforme è l’attrazione derivante dalla limitazione dell’individualità di chi la indossa. L’uniforme fa si che chi la indossa diventi da “soggetto” un “oggetto” uguale a tutti gli altri. Quest’idea si collega a sua volta ad una dimensione di fantasia in cui la studentessa diventa subordinata e controllata (Goad 2013)

Note

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CONCLUSIONI

L’obiettivo di questa tesi è stato quello di analizzare le uniformi scolastiche femminili in Giappone evidenziando la contrapposizione, presente naturalmente in tutte le società, tra cultura ufficiale e non ufficiale. Forme normalizzate di uso della divisa scolastica si sono incontrate con usi non ufficiali della stessa veste, provocando intrecci che nella loro complessità coinvolgono molti aspetti della realtà sociale giapponese. Due sono i casi su cui mi sono soffermata: il primo è l’uso da parte degli studenti dell’uniforme come mezzo di ribellione dalla società e dal sistema scolastico, e il secondo è il collegamento tra divisa scolastica femminile e il mondo dell’erotismo.

Nel primo caso sono partita da considerazioni generali sulla società e sul ruolo che le divise scolastiche hanno in essa. Ho potuto osservare come esse non siano altro che un simbolo del potere dell’istituzione scolastica. Ogni corpo sociale normalizzato necessita di simboli per rafforzare la propria autorità su i suoi membri. Affinché questi segni siano efficaci è tuttavia necessario che vengano accolti e apprezzati. Le uniformi scolastiche femminili, introdotte in Giappone nel periodo Meiji, subiscono un forte calo di popolarità a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, in conseguenza del quale gli studenti incominciarono a trasgredire le norme che regolavano nelle diverse scuole il loro uso. Emblema di questa trasgressione sono le ragazze kogyaru, sottocultura nata a metà degli anni Novanta e che adotta la divisa come propria semi-uniforme. Alimentato da un clima di ansia generale nei confronti dei giovani, il Giappone, che era stato appena scosso da una serie di eventi catastrofici, trova difficile accettare all’inizio questo desiderio di rinnovo dei modelli dell’uniforme da parte delle studentesse, ma si trova costretto a cedere il passo alla modernizzazione, permettendo così all’istituzione scolastica di riappropriarsi della propria autorità di fronte agli studenti. Questo cambiamento permette alle uniformi non solo di diventare nuovamente popolari tra le studentesse, ma anche di trasformarsi in uno dei simboli del Giappone contemporaneo.

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Questo primo incontro tra cultura ufficiale e non ufficiale mi ha permesso di capire che nonostante l’enfasi che viene messa sulla differenza delle due tendenze della società, sia spesso paradossalmente vero come solo l’introduzione di elementi non-ufficiali nella società normalizzata permetta l’evoluzione del pensiero della cultura ufficiale.

Il secondo aspetto analizzato riguarda come un indumento nato con scopi esclusivamente formali possa diventare un feticcio nell’erotismo e nella pornografia. Nel caso giapponese dell’uniforme scolastica femminile, la mia analisi parte indagando le origini della cultura kawaii, nata negli anni Sessanta parallelamente allo sviluppo della categoria degli adolescenti. Questo nuovo immaginario, di appannaggio femminile, viene ripreso da parte della popolazione maschile, che ne modifica i significati traducendoli nel contesto erotico. Il nuovo oggetto di interesse è la giovane studentessa, che così sessualizzata, diventa il fulcro di fantasie che si spostano verso donne sempre più giovani. In particolare è l’uniforme scolastica, con la sua natura ambigua sospesa tra età infantile ed età adulta, a diventare strumento perfetto in questo contesto. I riscontri di questo interesse possono essere rintracciati sia nel materiale erotico-pornografico che si è sviluppato dagli anni Cinquanta a oggi, sia nei fenomeni ben più gravi legati alla prostituzione minorile che sono dilagati in Giappone negli anni Novanta.

Sono giunta alla conclusione che è la stessa natura dell’uniforme scolastica a renderla così facilmente un feticcio per il mondo erotico. Nella produzione erotica sulle divise esiste una oscillazione tra i significati espliciti delle uniformi, come ordine e controllo, e le loro potenzialità e associazioni con la sessualità, con gli eccessi sfrenati, la violenza e il masochismo. La giovane età delle studentesse le rende quindi facilmente parte di fantasie dove l’uomo ha una posizione di potere e controllo.

Molti studiosi si sono occupati delle uniforme scolastiche in Giappone, ma non hanno quasi mai affrontato il tema del loro uso nella cultura non ufficiale. D’altro canto, molti si sono soffermati sul tema della rappresentazione delle studentesse

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nei diversi media, nella dualità tra cultura ufficiale e non ufficiale, ma senza però mai trattare in maniera specifica le uniformi scolastiche. Per questo motivo non è stato facile riuscire a stendere la tesi correlando razionalmente i diversi tasselli delle fonti prese in considerazione. Quindi, nonostante mi ritenga soddisfatta del lavoro svolto, perché in linea con l’obiettivo che mi ero prefissata, riconosco che in questa tesi ci si possa talvolta trovare di fronte ad un rischio di divagazione rispetto all’argomento. Si consideri, tuttavia, che nessuna parte è stata inserita senza che avesse un scopo preciso e necessario ad avvalorare le mie idee.

Penso che questa tesi sia un buon punto di compromesso tra i miei interessi personali e le esigenze che necessariamente impone il mio corso di studi, cioè trattare un argomento legato al Giappone e alla cultura giapponese. Penso anche di aver scelto un tema che, viste anche le sue innumerevoli sfaccettature, ha suscitato una certa eco nel mondo accademico. Spero inoltre che l’argomento trattato possa essere un asso nella manica per la mia futura esperienza lavorativa, che intendo proseguire nel mondo della moda o degli studi di costume.

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GLOSSARIO

Banchō 番長

Bassuru sutairu バッスルスタイル

Bishōjo games 美少女ゲーム

Bodikon gyaru ボティコンギャール

Burusera ブルセーラ

Chimaa チーマー

Enjo kōsai 援助交際

Furitaa フリター

Gakureki shakai 学歴社会

Hakama 袴

Haori 羽織

Hentai ヘンタイ

Hikikomori 引きこもり

Janpa sukāto ジャンパスカート

Kasuri 絣

Kasutori zasshi カストリ雑誌

Kawaigaru 可愛がる

Kawaii karuchā かわいいカルチャー

Kawaii 可愛い、かわいい

Kawaisō かわいそう

Kogyaru コギャル

Kokutai 国体

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Koshimaki 腰巻

Lolicon ロリコン

Mecha メチャ

Moe 萌え

Moga モガ

Monpe もんぺ

Nanchatte seifuku なんちゃって制服

Onna-bakama 女袴

Otaku オタク、おたく

Paragyaru パラギャール

Parasaito shinguru パラサイトシングル

Ryōsai kenbo 良妻賢母

Sentō bishōjo 戦闘美少女

Sēra fuku セーラ服

Shōjo 少女

Sukeban スケバン、スケ番

Wakon yōsai 和魂洋才

Zurōsu ズロース

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BIGLIOGRAFIA

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RIFERIMENTI IMMAGINI

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