Perché Matteo Renzi È Il Più Odiato D’Italia

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Perché Matteo Renzi È Il Più Odiato D’Italia Perché Matteo Renzi è il più odiato d’Italia Volerelaluna.it 30/01/2018 di: Emiliano Fittipaldi Aveva promesso la rivoluzione. E invece hanno prevalso i vecchi metodi: raccomandazioni, conflitti d’interesse, rapporti con i poteri forti. Così l’ex golden boy affonda nei sondaggi. Insieme al Pd. Diagnosi di una parabola Quando Matteo Renzi ha mostrato alle telecamere di Matrix l’estratto conto da 15.859 euro per dimostrare che non si è arricchito durante il premierato, alcuni suoi collaboratori si sono messi le mani davanti agli occhi. «Non sono un traffichino», ha aggiunto il segretario del Pd sventolando i fogli. «Se vuoi fare soldi vai nelle banche d’affari, non fai politica». L’excusatio non petita ha mostrato con chiarezza, a poco più di un mese dalle elezioni del 4 marzo, qual è il timore maggiore di Renzi: quello di essere ormai percepito da una fetta crescente dell’opinione pubblica come un “traffichino” appunto, il capo di una banda intenta, più che a governare il Paese, a curare i propri interessi e quelli degli amici degli amici. E così, nonostante le precisazioni e i distinguo, se negli ultimi rilevamenti il partito è precipitato intorno a un terrificante 22 per cento (ben sotto la quota della non-vittoria che nel 2013 costò a Pier Luigi Bersani la poltrona al Nazareno), anche il consenso personale di Renzi è sceso a un misero 23 per cento. E il sondaggista Nicola Piepoli sostiene che oltre due terzi degli italiani non lo vogliono vedere neanche dipinto. Matteo è diventato in pochi mesi il leader politico meno amato d’Italia, dietro pure a Salvini e a Di Maio, più odiato persino del pregiudicato e redivivo Silvio Berlusconi. Dato ancor più significativo se confrontato con quello del premier Paolo Gentiloni che, pur a capo di un governo identico a quello di Renzi, oggi gode dall’alto di un gradimento del 100 per cento più alto rispetto a quello del suo segretario. Risalire la china non sarà facile. Perché le promesse e gli elenchi delle cose fatte (che pure non sono poche) non sembrano scalfire il convincimento negativo dell’elettorato. Nell’ultimo mese la “questione renziana” è sbucata fuori un giorno sì e un giorno anche. Prima con l’audizione dell’ex amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni dello scorso 20 dicembre su Banca Etruria. Poi per colpa di un’imbarazzante mail al banchiere da parte dell’amico fraterno di Matteo Marco Carrai. Infine con la pubblicazione di un’intercettazione di Carlo De Benedetti (presidente onorario del Gruppo Gedi, di cui L’Espresso fa parte), in cui Renzi sembrava agevolare gli investimenti – la procura di Roma ha già chiesto l’archiviazione – di un editore di primissimo piano. «I renziani sono supini alle lobby e all’establishment», cantano in coro le opposizioni e gli antipatizzanti sui social. L’ansia, al Nazareno, è aumentata a dismisura dopo l’analisi approfondita degli ultimi trend sui collegi uninominali: il Pd rischia di venire massacrato al Nord dalla destra e al Sud dai grillini. Solo Toscana ed Emilia (e il listino proporzionale bloccato) garantiranno un posto al sole nel prossimo Parlamento. Nella guerra civile per le candidature tra correnti nel Pd, per il segretario piazzare i suoi non è stato affatto un’operazione semplice: fino all’ultimo Luca Lotti e altri fedelissimi (come Giuliano Da Empoli, l’economista Tommaso Nannicini, il tesoriere Francesco Bonifazi, i parlamentari Ernesto Carbone e Gennaro Migliore) hanno ballato tra un collegio sicuro e i listini bloccati. E soprattutto il destino di una big come Maria Elena Boschi, la preferita di Matteo, è stato a lungo incerto. La vicenda Etruria l’ha costretta a girovagare tra la Toscana, Ercolano (che è un collegio amico) e l’Alto Adige. «Il problema», sospirano dal Pd, «è che non la vuole nessuno. Con lei in lista si perdono un sacco di voti».Cos’è dunque successo al giovin rottamatore che meno di quattro anni fa portava il Pd a superare il 40 per cento alle europee e da meno di un anno trionfatore delle primarie? Come mai i successi indiscutibili sui diritti civili e la ripresa economica certificata dall’Istat e dall’Ocse non hanno fatto breccia nell’opinione pubblica, nemmeno tra chi ha sempre votato centrosinistra? Com’è possibile che persino il decreto sui sacchetti biodegradabili a pagamento abbia generato tonnellate di indignazione popolare contro il segretario dem, costretto a difendersi per giorni dalla fake news secondo cui la decisione sarebbe stata presa «per favorire una produttrice di bioplastiche cugina di Renzi»? L’origine dello scontento anti-Matteo ha radici profonde. E poggia sulla sfilza di errori imputabili alla sua leadership. Che ha deluso non solo Sergio Marchionne, ma anche tanti altri supporter stanchi dello spread crescente tra le parole e i fatti. L’ex sindaco fiorentino aveva conquistato prima il Pd e poi i palazzi romani con la promessa di una rivoluzione radicale, di una rottamazione non solo degli anziani leader del partito ma anche dei vecchi metodi della politica italiana. «Metteremo sulle poltrone di comando i più bravi in modo da far ripartire il paese. L’Italia con me sarà un posto dove trovi lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno!», s’impegnò Renzi nel 2012. E poi: «La meritocrazia è l’unica medicina per la politica, per l’impresa, per la ricerca, per la pubblica amministrazione. Gli amici degli amici se ne faranno una ragione», proclamò nel 2014, appena scippata la poltrona ad Enrico Letta. Ma, evidenze alla mano, il toscano il rinnovamento non l’ha mai davvero realizzato. Al contrario. Invece di basarsi sul merito ha selezionato la nuova classe dirigente del partito e della sua amministrazione con i soliti metodi. Fondati sulla cooptazione, sulle relazioni personali e amicali, sulle spartizioni partitocratiche e la mediazione – ça va sans dire – con gli immarcescibili potentati. Appena arrivato al vertice, Renzi ha in primis occupato molte poltrone con leopoldini, fiorentini e vecchi sodali. La lista è lunghissima, possiamo solo riassumerla: l’amico tributarista Ernesto Ruffini è diventato prima ad di Equitalia e poi, qualche mese fa, numero uno dell’Agenzia delle Entrate. Marco Seracini, commercialista di Matteo, già revisore del comune di Rignano e presidente del collegio sindacale della Leopolda, è stato preso nel collegio sindacale dell’Eni. Lapo Pistelli è stato mandato alla vicepresidenza del colosso energetico mentre era viceministro degli Esteri. Il coordinatore della campagna delle primarie del 2012, l’ingegnere elettrotecnico Roberto Reggi, piazzato inizialmente come sottosegretario all’Istruzione, è stato poi deviato all’agenzia del Demanio, dove non si occupa né di scuola né di elettronica, ma di patrimonio immobiliare. Ma il suo stipendio è lievitato a 240 mila euro l’anno. Anche nei palazzi romani la strategia è stata identica: invece del merito, Renzi ha prediletto il rapporto personale. Giovanni Palumbo, ad esempio, è stato assunto nella segreteria tecnica. Seguiva Renzi dai tempi della Provincia di Firenze, quando era stato chiamato dal suo capo senza avere i titoli necessari (cioè una laurea). Anche Antonella Manzione è stata prelevata, a 207 mila euro l’anno, dal gruppo dei compagni toscani: ex capo dei vigili urbani di Firenze, autrice del romanzo “Martina va alla guerra” e seminarista sul tema “Disturbo della quiete pubblica”, Matteo ha voluto lei, e solo lei, nel delicatissimo ruolo di capo del dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio. Non c’era nessun altro in grado di affrontare decreti e provvedimenti di legge? Pare di no. Prima di andar via da Palazzo Chigi nel dicembre 2016, Renzi le ha fatto l’ultimo regalo, nominandola consigliere di Stato. Un paracadute che Maria Elena Boschi ha offerto anche al suo collaboratore (indubbiamente preparato, ma sconfitto con lei nella battaglia referendaria), il segretario generale di Palazzo Chigi Paolo Aquilanti. Una nomina prestigiosa e remunerativa che, secondo accuse recenti del M5S, potrebbe ora ottenere anche un’altra strettissima collaboratrice di Boschi, il dirigente del dipartimento per le Riforme Carla Ciuffetti. Delle polemiche politiche il capo del Pd se n’è sempre infischiato. Spiegando che “così fan tutti”, e che lui sceglieva «sempre tra i più bravi». Il leader però ha sottovalutato l’impatto mediatico di promozioni discutibili, come quella del suo spin doctor personale Guelfo Guelfi a membro del cda Rai. O come quella di Gabriele Beni, produttore di scarpe e soprattutto finanziatore della fondazione renziana Open con 45 mila euro, diventato vicepresidente di Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare controllato dal ministro piddino Maurizio Martina. Ma ad aver causato i danni politici e d’immagine più gravi sono state proprio le mosse dei membri di Open, cuore del potere renziano. Dove siedono Boschi, Lotti e Carrai. Oltre al presidente, Alberto Bianchi, avvocato personale e consigliere di Renzi. Tutti originari della Toscana: tra Laterina, Empoli, Pistoia e Rignano sull’Arno. Tutti coinvolti in scandali politici e giudiziari. Tutti, nonostante tutto, ancora oggi tenacemente difesi da Matteo. Boschi, anche se non è mai stata indagata, è colei che ha creato maggior imbarazzo al partito e contribuito in modo determinante al buco nero nel consenso. Per gli osservatori le sue responsabilità sono due. Da un lato la disastrosa sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016 (il ministro per le Riforme, architetta del riordino costituzionale bocciato dagli italiani, invece di uscire di scena come aveva giurato è stata addirittura promossa nel nuovo governo Gentiloni). Dall’altro, Boschi e Renzi pagano il comportamento della ministra durante la crisi di Banca Etruria. E le ultime settimane, a causa delle clamorose audizioni alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche voluta dallo stesso Pd, sono state fatali. Gli italiani già sapevano che il padre della Boschi era indagato e che quando era vicepresidente dell’istituto usava frequentare massoni e faccendieri come Flavio Carboni per chiedere consigli e pareri.
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