I COLIBRÌ IL TEMPO STORICO a cura di Pier Luigi Vercesi

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 1 10/05/21 14:51 La mappa alle pp. 414-415 è di Raffaella Suttora

© 2021 Neri Pozza Editore, Vicenza isbn 978-88-545-2163-6

Il nostro indirizzo internet è: www.neripozza.it

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 2 10/05/21 14:51 DANIELA CAVINI STORIA DI UN’ALTRA FIRENZE

Viaggio controcorrente in venticinque tappe

NERI POZZA EDITORE

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 3 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 4 10/05/21 14:51 Sommario

9 Introduzione

17 Le gualchiere di Remole

33 L’Oratorio di San Sebastiano dei Bini

49 e San Carlo dei Lombardi

65 Il Museo dell’Istituto degli Innocenti

77 Il Cenacolo di Sant’Apollonia

91 Palazzo Rucellai

105 Il Cenacolo del Fuligno

123 Il Chiostro dello Scalzo

135 I luoghi della Santissima Annunziata

151 Il Cenacolo di

163 Cappelle Medicee: la Sacrestia Nuova

179 L’Orto botanico

191 Poggio Imperiale

211 Casa Vasari

223 Il parco e la di Pratolino

235 Il corridoio segreto del Museo Archeologico

247 La Biblioteca Magliabechiana degli

261 L’Osservatorio Ximeniano

275 Il Museo di Storia Naturale

297 L’Archivio di Stato

317 Piazza della Repubblica: la demolizione del centro storico

331 La Fondazione Scienza e Tecnica

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 5 10/05/21 14:51 347 Palazzo Grifoni Budini Gattai

363 Casa Martelli

385 Villa Salviati

407 Ringraziamenti 409 Nota bibliografica 414 Mappa della città

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 6 10/05/21 14:51 Agli abitanti di via San Zanobi

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 7 10/05/21 14:51 We shall not cease from exploration and the end of all our exploring will be to arrive where we started, and know the place for the first time. T.S. Eliot, Four Quartets, Little Gidding, 1942

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 8 10/05/21 14:51 Introduzione Introduzione Trattenendo il respiro Trattenendo il respiro

Fu quando il pianeta spense il motore, e foreste e oceani tornaro- no a respirare. Era un tempo tragico e bizzarro, da mondo capo- volto. Da respiro sospeso. Fu allora, nel non-luogo della segrega- zione universale, che i pensieri presero forma. Ci voleva silenzio per scaricare la zavorra. Ci voleva una qua- rantena dello spirito che ripulisse il quotidiano vivere dal via vai degli incontri e regalasse un tempo fermo, improvvisamente pro- fondo. Un tempo in cui poter scavare, in cui smettere di espan- dersi sull’orizzonte del possibile, sui molteplici fronti dell’esisten- za quotidiana, per ritrovare un’antica dimensione dell’essere. Quel­la che scende dentro. Un giorno – complice una visita medica – mi avventurai “fuo- ri”. Proprio fuori, lontano dal raggio di 200 metri della sopravvi- venza quotidiana, quello che consentiva a me e alla mia squadra di figli di fare la spesa, buttare la spazzatura, sgranchire le ginoc- chia. Inforcai la bici, e mi avventurai per le solite strade, le piaz- ze di sempre, via xxvii Aprile, via Ricasoli, San Lorenzo, piazza Duomo... Il tracciato turistico per eccellenza. Erano luoghi che conoscevo bene, eppure mi caddero addosso come se non li avessi visti mai. Era sempre lei, la mia città, immobile come il non-tempo in cui era immersa. Improvvisamente vuota. Niente più mandrie di auricolari, niente più code come ten- tacoli attraverso l’esausto centro cittadino. A decine di migliaia erano spariti, abbandonando la preda. Il rombo multilingue del- le strade si era dissolto. Era rimasto il silenzio, rotto dai gridi di rondine. La Cattedrale si stagliava su un sagrato deserto: a vederla apparire, bianca come un iceberg e fissa sotto un sole pulito, fer- mava il respiro. Era lei il nostro “polmone verde”, di noi sparuti abitanti del centro. Venivamo qui a spiarla quando si poteva, fa- cendo lo slalom tra la folla in perpetua transumanza, per farci

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cogliere da una sempre nuova meraviglia. Per inalare – insieme all’incanto – anche una boccata di secolare quanto immotivato orgoglio. Bella Firenze. Giravo per le strade deserte. Persiane chiuse. Niente banchi o grida di mercati, nessun strusciare di trolley, nessuna fila davanti a pelletterie cinesi, chincaglierie veneziane o polpette americane. Tutte saracinesche abbassate. Persino l’uomo più bello e fotogra- fato del mondo, il gigante-totem dell’Accademia, trascorreva la quarantena in rigoroso isolamento. Le folle avevano abbandonato anche lui, il . Tutto intorno palazzi tranquilli, indifferenti al vuoto. Gira- vo per i vicoli, pedalando nel tessuto continuo di chiese, piazze, strade intrecciate dal tempo: luoghi belli perché nati per essere di tutti, e adesso inesorabilmente di nessuno. Facevo lo slalom fra facciate bugnate e statue libere di respirare: ne avevano vista di storia, nulla più le stupiva. Ma nessun assedio, nessuna carestia, bombardamento o guerra civile potevano paragonarsi a quel vuo- to irreale e silente. Inimmaginabile. Certo, la vita rintanata scorreva ancora, svelata da un filo di panni, o da pochi cartelli ormai scoloriti dell’«andrà tutto bene» in cui credevano solo i bambini mentre li facevano. E ormai più neppure loro. Era una vita residua, in tempi normali persa nella ressa, strapazzata dall’imperativo turistico, consumata da piani re- golatori a senso unico. Una cittadinanza ridotta a resistenza den- tro al “parco giochi” urbano. Eppure, c’era. Spuntava schiva dietro le persiane. La sentivi pulsare nelle tv accese, negli aspirapolvere in funzione. Spazzando via il turismo, la pandemia faceva affiorare la vita rimasta, le restituiva consisten- za. Là dove non pensavi potesse ancora esserci qualcuno, scoprivi timidi segnali di quotidianità. E avevi voglia di chiamarli, di sco- prire chi fossero, e come avessero potuto resistere, quei reduci, fiorentini sopravvissuti alla grande fuga verso l’hinterland, tutto balconi e giardinetti, magari con l’angolo barbecue. Ci voleva un avversario invisibile e letale per farli affiorare, restituendo loro la casa comune. Ma era una casa deserta: quello spazio pubblico, privo di cittadini, suonava a vuoto come il palcoscenico di un gi- gantesco teatro abbandonato. Ormai persa in un girovagare incantato e un po’ irresponsa- bile, arrivai in piazza San Marco. Mi fermai proprio lì, davanti a questa facciata né bella né brutta, messa a protezione di uno fra

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i meno conosciuti tesori urbani. Lì, dove solo dieci anni prima, Firenze l’avevo vista davvero. Per la prima volta. E allora, passo indietro. Perché puoi nascere e vivere in un posto per anni, senza ve- derlo mai. Anche – o forse a maggior ragione – se si chiama Firen- ze. Non la vedevo quando mi pigiavo nell’autobus per arrivare al liceo, in piazza della Vittoria; o quando sfrecciavo in bicicletta per raggiungere Scienze Politiche, in via Laura. E neppure quando cantavo nel coro del Duomo, proprio sotto la cupola di Brunelle- schi. Vivevo così, senza mai alzare lo sguardo. Quello era il tempo del “prima”, degli anni giovani in cui le cose sembrano un diritto, e gli occhi corrono, smaniosi di esperienza, ignari e compiaciuti. Anni egocentrici. La ragione per cui folle sempre crescenti si accalcassero fra i monumenti cittadini mi era lontana, indifferente: c’era ben altro da pensare, da realizzare. Ero tesa come la corda di un arco verso il futuro. Non capivo che cosa facesse di me ciò che ero, e non percepivo l’impronta indelebile che quel contesto mi avrebbe la- sciato addosso. Davo per scontato quanto mi circondava perché c’ero cresciuta dentro. Quanti lo fanno. Non sentivo alcun attac- camento per quei musei, quelle piazze, le chiese di cui nessuno mi aveva mai parlato. Come tutti, ero stata agli Uffizi, ma non ne trovavo traccia nella memoria. Quanto alla storia dell’arte, sui banchi non ero riuscita a intercettarne l’essenza, e pur vivendo in uno scrigno ignoravo storie e significati di un patrimonio che non mi apparteneva. La vita era così, costruita a colpi di sfide personali che mi spingevano verso un altrove di ben altri orizzonti. Antici- pavo di un ventennio l’attuale esodo di massa dei millennials: ma io ero una boomer degli anni Sessanta, nata controcorrente. Lasciai la città senza voltarmi, senza sentirne mai la mancanza. Andavo incontro a un mondo che avevo troppo aspettato, incollata alla finestra di una camera di periferia con vista ristretta. Seguivo il mio demone. Ci pensò la vita, a sfamarmi. Il tempo scorreva, e mi portava verso paesi ed esperienze sempre più lontani, più estremi. Passai dalle fosse comuni nei giardini della Bosnia alle mine dell’esodo kosovaro; dai campi profughi infuocati nel deserto algerino alle case mitragliate della Cecenia; dalle bombe israeliane sul Libano alle tendopoli di Damasco aperte ai profughi iracheni, prima che quello stesso, stupendo popolo siriano finisse sbriciolato dagli ar-

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mamenti sauditi o turchi, disperso nei mari o ingoiato dai campi di concentramento europei. Non immaginavo quanto quello che stavo vivendo potesse scavarmi in profondità; né quanto la rete di significati in cui ero cresciuta mi si fosse edificata dentro, come antivirus naturale destinato a proteggermi. Passarono vent’anni. Venne il tempo del “dopo”: tornai a Firenze con due gemelli neonati, un figlio bambino, nessun la- voro. Era l’ennesimo testa-coda della mia vita. Chiudevo la porta su popoli di cui avevo raccontato le rovine e che avevo imparato a conoscere, sulle guerre combattute per loro, da loro, o contro di loro; sugli accampamenti che ne raccoglievano l’agonia. Chiu- devo un capitolo pieno di incontri, di compensi da fame e ricchi contratti, di uomini ignobili e grandi storie d’amore. Sapevo ciò che lasciavo, ed era una scelta consapevole. Ma ignoravo che cosa mi aspettasse. Ignoravo soprattutto l’incredibile serie di coinci- denze che mi avrebbe portata quel giorno a San Marco, a solleva- re lo sguardo su una facciata né brutta né bella. Era l’aprile del 2010, ero rientrata in Italia da pochi mesi, e mi chiamarono a Pisa per tenere un corso alla Scuola Superio- re Sant’Anna, con cui collaboravo sporadicamente: stavolta però, l’offerta era per un’intera settimana. Un’occasione da non perde- re, ma come fare per i bambini? Avevo la fortuna di poter mobi- litare una nonna, anche se a 400 chilometri di distanza; dunque, lasciai la prole in buone mani e preparai la valigia. Sì, tutto som- mato ero pronta. Contenta di una nuova opportunità professiona- le, che mi poteva aprire uno spiraglio di futuro... Ma la vita è ciò che accade quando sei intenta a preparare tutt’altro. È quello contro cui vai a sbattere mentre sei girata di schiena. È il messaggio che a metà giornata ti atterra per sbaglio nel cellulare, facendoti saltare l’esistenza. Successe dunque che un vulcano islandese scegliesse proprio quei giorni per eruttare: le sue ceneri coprirono i cieli d’Europa, atterrando gli aerei e paralizzando l’intero traffico internazionale. Poiché i partecipanti al corso venivano un po’ da tutto il mon- do, l’evento fu annullato. Niente più lavoro. Tornavo a casa dalla stazione dei treni, di umor nero, quando sbattei letteralmente il naso su un volantino incollato alla porta di una tabaccheria di via Nazionale: la «Settimana della Cultura» offriva – proprio in quei giorni – mostre, convegni, visite guidate e musei gratis. Ero senza lavoro, senza i gemelli da accudire, un’intera settimana pri-

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va di impegni dilatava davanti a me un tempo tutto mio di cui non ricordavo il sapore. E che quasi mi sgomentava: che farne? Fu così, grazie all’improbabile azione congiunta di una nonna, di un vulcano e un tabaccaio, che incontrai per la prima volta la città in cui ero nata e cresciuta. E fu assolutamente per caso che mi trovai davanti al convento di San Marco, il posto più vicino a casa; ma anche quello che avevo sfiorato tutti i giorni, per cinque anni, andando all’università. Senza mai metterci piede. Senza sentire il bisogno di alzare lo sguardo. Entrai.

Tornare a casa

Forse fu la potenza dell’Annunciazione di Beato Angelico, in cima a quella scala. O forse la storia della campana frustata ed esiliata perché suonava per il partito del profeta dei “piagnoni”, il monaco rivoluzionario Savonarola, inneggiato e poi mandato al rogo dai fiorentini. Oppure furono i codici miniati a foglia d’oro, ancora oggi gioielli di quella che fu la prima biblioteca d’Europa. O magari il racconto di come , e Pico della Mirandola litigavano e discutevano su quegli stessi tavoli di legno massiccio, traducendo testi greci e latini, e dando vita a un sodalizio culturale in cui appariva per la prima volta un certo tipo di uomo europeo. Di certo mi colpì come Cosimo il Vecchio, ritratto lassù nelle nicchie del porticato centrale, avesse affidato all’architetto la ristrutturazione del convento per met- terci i fedeli domenicani, dopo averne ingiustamente cacciato i legittimi e incorruttibili monaci silvestrini. Un fatto di raccoman- dazioni, di potere. Una storia di oggi. Ogni pietra del convento custodiva una storia. Ogni dipinto, ogni manufatto porgeva un segreto a chiunque facesse lo sforzo di avvicinarsi. E lo porgeva con una generosità da lasciare sbalorditi. Saltai il pranzo. Così, per una settimana. Iniziato in un momento, quello che successe dopo non ha più smesso d’accadere. Il demone che teneva i fili della mia vita andava in un’altra direzione. Potevo solo seguirlo. Ogni volta scoprivo qualcosa di diverso. Di urgente. Non riu­ scivo a dare un senso né uno scopo a questa ricerca smaniosa, all’inseguire momenti liberi nei miei tempi concitati, per entrare e uscire da cenacoli e cappelle, percorrendo le stesse piazze, le strade di sempre, che pure diventavano altro attorno a me. Mi

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ritrovai a leggere libri fino a notte fonda, per poi tornare a vi- sitare, ubriaca di nozioni, a porgere l’orecchio per afferrare un racconto, ad appiccicarmi di straforo a questo o all’altro gruppo di stranieri in visita guidata, in un vorticoso valzer di opere, lingue e frammenti destinati ad atterrare su un terreno primordiale che non poteva essere più fertile. Non mi perdevo una conferenza, registravo tutto, riascoltavo. Era una fame insaziabile. Mi sentivo inesorabilmente impreparata, un’avida curiosa, conscia del pro- prio analfabetismo. Ma ben decisa a oltrepassarlo. Cominciai dai luoghi piccoli, forse nell’illusione di esercitar- mi all’incontro coi “grandi”. Poi mi resi conto che l’impatto coi ca- polavori assoluti certo stordiva, ma la hit parade dei monumenti cit- tadini mi attirava meno dei tanti luoghi “altri”, quelli minori, senza fila all’ingresso, quelli tenuti aperti poche ore al giorno, o pochi giorni al mese, talvolta dai volontari. Unendo tutti i punti del ter- ritorio, inglobando i singoli capolavori nella più vasta pluralità dei luoghi, emergeva l’antica polis costruita dagli avi; e in filigrana mi appariva una civiltà operosa e fiera, capace di trasformare l’antico borgo manifatturiero in capitale mondiale di magnificenza. Un macrocosmo prezioso disegnato dallo sforzo di intere generazioni, più che dal genio di qualche architetto solitario. In questa eredità impetuosa come un fiume in piena, trovavo il mio spazio, il mio posto. Da passiva spettatrice diventavo attrice consapevole. Scoprivo così che il piccolo e il grande alla fine si guardano, che sono parte dello stesso tessuto: di un patrimonio stratificato dal tempo e impreziosito dall’arte, costruito pezzo per pezzo, stra- da per strada. I pezzi unici accanto alle copie delle maestranze, in bottega. Tutti frutto di uno stesso sudore che s’impastava nei mattoni, nelle tele, e attraversava i secoli. Mi addentravo in una città secondaria, quasi accessoria, riscoprendo le singole parti che compongono il tutto. Rendendomi conto di quale impresa corale sia la costruzione e il mantenimento di uno spazio urbano attra- verso i secoli. Ero impreparata, e al tempo stesso pronta. Ancora sorrido del giorno in cui mi trovai a chiedere ai negozianti di via Cavour dove mai fosse questa chiesa di Santa Reparata di cui stavo leg- gendo: ricordo gli sguardi stupiti, le spallucce. Nessuno sapeva. Solo Wikipedia svelò rapidamente l’arcano, lì, in strada. La méta si trovava davanti al mio naso, sotto la cattedrale di Santa Maria del Fiore, di cui era progenitrice...

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Certo, ero impreparata. Ma il mio sguardo era pronto. Uno sguardo nuovo, incontaminato. Quello dello “straniero” che scopre per la prima volta cose che dovrebbero essergli familiari, e che invece ignora. C’era uno stupore, una tensione aggiunti- va. La propensione a farsi sorprendere. Era anche uno sguardo maturato da anni di macerie, ustionato dal dramma di popola- zioni incolpevoli dei disastri che si abbattevano su di loro. Era uno sguardo avido di riparazione, smaniava per lenire le ferite lasciategli dall’opera devastante della bestia umana. Allora non lo sapevo, oggi sì: testimone per anni del peggio, tendevo natu- ralmente al meglio per guarire. Dopo l’efferatezza cercavo l’hu- manitas, e la trovavo incarnata nel lascito di artisti, filosofi, co- struttori e imprenditori-mecenati sui cui sforzi si era imbastito il fenomenale retaggio squadernato sotto ai miei occhi. Un’azione potente, universale. I cui frutti erano destinati a rimanere, conti- nuando a riscattare nei secoli l’insita barbarie vincolata alla mia specie, quella umana. Così, finalmente, diventai cittadina. Per cultura, visto che non ero riuscita a esserlo per nascita. Alzare lo sguardo, scoprire le origini, imparare a collegare i significati nella loro complessità: se questo aveva a che fare col mio essere persona, con il ripristino dell’umanità logorata, il passo successivo era riconoscere il valore di questa scoperta in termini di relazioni. Accettare che le pie- tre su cui fioriva il Rinascimento mi restituissero un senso, che questa conoscenza mi facesse star bene, significava partecipare al loro destino, unirmi agli sforzi delle generazioni precedenti per tutelarle. Erano anche mie, quelle pietre, perché il conoscerle mi identificava come discendente di un’eredità collettiva, parte di una comunità di destino. Dopo aver scoperto l’urbs, la città delle pietre, diventavo cittadina di una città di uomini. Pensavo a tutto questo il giorno in cui mi trovai davanti a San Marco sospesa nella pandemia globale. Mi vennero in mente i tanti siti incrociati negli anni del ritorno, e il loro potere rige- nerante sulla mia vita. Non ero più io ad attraversarli di corsa spostandomi dall’uno all’altro, ma loro ad accompagnarmi nel cammino. Li conoscevo, dunque mi appartenevano. Ne diven- tavo erede, dunque mi sentivo in diritto di tramandarli. Erano collezioni storiche inesplorate, archivi millenari per lo più sco- nosciuti, oratori preziosi tenuti in vita dalla testardaggine di preti ribelli, antiche scuole custodi della storia della scienza, parchi

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botanici unici al mondo... Nel tempo della reclusione, se non potevo visitarli, potevo almeno rievocarli. Trasformando ogni in- contro in una storia.

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Le gualchiere di Remole L’opificio con l’Arno dentro

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 17 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 18 10/05/21 14:51 È lavoro estratto dal fiume: sono lane pesanti, caldi tessuti, mantelli im- permeabili pensati per le spalle di re e ricchi mercanti. Nascono qui, nelle gualchiere di Remole, il più importante opificio medievale d’Europa. Ed è qui che comincia questo racconto, in periferia. Lontano dalle quattro strade incrociate su cui ruota il mondo a Firenze. Un borgo di torri mer- late eretto sulla riva sinistra dell’Arno, pochi chilometri a monte della cit- tà. Qui si producono stoffe insensibili al gelo delle Fiandre, alla pioggia dell’Hampshire: panni preziosi contesi dai mercati di tutto l’Occidente. È un’industria mossa dall’acqua, che sfrutta la forza del fiume per pestare la lana, impastarla d’urina e argilla, e convertirla in tessuto pregiato. Un miracolo economico costruito sulle braccia di chi quei mantelli non potrà mai permetterseli. Un miracolo germogliato sulle sponde di un fiume capriccioso, in un sito che sfida guerre civili, incendi, alluvioni, persino le bombe naziste, e tuttavia resiste. Per arrivare fino a noi, sfregiato ma in piedi. Eppure mai tanto in pericolo come oggi.

Di quando il “popolo grasso” prende il volo...

Cento anni fecondi e irripetibili: lo chiamano “secolo d’oro” e si estende a cavallo del Trecento, quando in riva all’Arno si innesca un circolo virtuoso di espansione economica senza cui è impossi- bile immaginare il Rinascimento e tutto ciò che segue. Per inizia- re il racconto di “un’altra Firenze”, è questa la società da narrare. Sono cento anni – fra il 1250 e il 1350 – in cui i fiorentini si inurbano in massa, passando da trentamila a centomila. Anni in cui il Comune rottama i lasciti del feudalesimo, solleticando le libertà del mercato. In città, i nobili guelfi e ghibellini continuano a massacrarsi a vicenda, scapitozzando le case alte e murate in cui custodiscono famiglie e consorterie. Ci sono oltre cento torri in città, alcune arrivano fino a 60 metri. Ma sono edifici del passa-

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to, arroganti isole nate a immagine dei castelli lasciati a guardia dei latifondi medievali. Accolgono gli aristocratici, i proprietari terrieri inurbati in tempi lontani. Nei borghi, fuori dalla cerchia difensiva delle mura, artigiani e mercanti vivono – per ora – in basse costruzioni di legno e terra. A cavallo del secolo, questa ne- oborghesia prende il volo, per entrare di prepotenza in città. Fa- cendosi ricca. Ed eccoli alla riscossa, “popolani” contro “magnati”. I primi sono imprenditori grandi e piccoli, commercianti e artigiani; i secondi nobili latifondisti, sempre pronti a farsi la guerra, divi- si fra guelfi e ghibellini. A fine Duecento il termine “ghibellini” quasi scompare, inghiottito da una serie di battaglie perse, e da un potere imperiale messo all’angolo. Essere ghibellino diventa uno stigma. Ma divisioni e faziosità rimangono: piuttosto che ras- segnarsi all’esclusione, i magnati si convertono in massa al guel- fismo (portandolo fatalmente alla scissione fra bianchi e neri). Firenze è guelfa, papale fino al midollo, e ancor di più quando i grandi mercanti divenuti banchieri capiscono che prestar soldi al Vaticano è un gigantesco affare, e ci si tuffano. Forti di un succes- so economico che gonfia le tasche e moltiplica gli associati, i po- polani fiorentini partono all’assalto del governo della città contro gli aristocratici. E vincono la partita. È il 1293 quando una storica riforma – gli Ordinamenti di Giu- stizia di Giano della Bella – decide che solo chi lavora potrà essere scelto per dirigere la Repubblica. Secondo la nuova legge, solamen- te gli iscritti alle organizzazioni dei mestieri – o corporazioni – han- no la possibilità di essere eletti priori (oggi si direbbe “ministri”). Da questo momento in poi, i candidati a qualsiasi carica po- litica dovranno essere sorteggiati da un elenco di titolari di una delle tante attività economiche cittadine, dai notai ai legnaioli, dai mercanti ai macellai. È la vittoria della borghesia, quella da poco inurbata, che compra e vende, produce e certifica. Soprattutto quella “grassa”, artefice di immense fortune con il commercio e la trasformazione dei tessuti. È lei – riunita in Arti maggiori – a insidiare il predominio dei nobili cittadini di antica schiatta, ca- valieri che non hanno bisogno di lavorare per vivere, e passano il tempo a farsi la guerra o a cacciare, caracollando su destrieri bene ammaestrati. Per scalzarli di sella, la classe dei mercanti-banchieri non esita ad allearsi ai calzolai, agli albergatori, ai vinattieri: sono i “padroncini”, piccoli lavoratori autonomi tutelati dalle Arti mi-

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nori. Due gruppi sociali che poco hanno in comune, salvo il fatto di vivere del proprio lavoro e di farsi chiamare “popolo”. Magari aggiungendo un “grasso” per indicare quelli che tutto sommato mangiano di più. Insieme, Arti maggiori e minori riescono a ta- gliare fuori i magnati dal dominio politico. Insieme riusciranno più tardi anche a debellare la sfida di un proletariato urbano a caccia di sopravvivenza più che di rappresentanza: una manodo- pera salariata artefice del sogno di rompere l’innaturale alleanza fra grande capitale e piccolo commercio, e di arrivare a godere di una piccola fetta di torta tutta per sé. Sbagliandosi alla grande. Rimane il fatto che il secolo d’oro fiorentino è fondato tanto sul lavoro delle Arti quanto su quello degli operai dell’industria tessile, che battono panni per sedici ore al giorno, indegni persi- no di essere chiamati “popolo”: una sorta di “sotto-popolo” senza diritti, quasi senza storia. Ma i denti delle gualchiere affacciate sull’Arno pestano lana dall’alba al tramonto, e avanti fino all’alba successiva: è anche il sudore dei proletari a edificare la potenza economica gigliata, proiettando la città ai vertici del mercato in- ternazionale.

...e una moneta d’oro conquista il mondo

Firenze è ricca e fiera. Ha il doppio degli abitanti di Londra e un prodotto interno lordo pari a quello d’Inghilterra. È la Wall Street del Medioevo. Il fiorino d’oro si impone su tutte le piazze, in regime di quasi monopolio. Coniato nel 1252 in 3,45 gram- mi esatti, il denaro fiorentino conquista credibilità e mercati, da Londra a Bruges, da Costantinopoli a Gerusalemme. La moneta è vegliata su un lato dall’immagine del san Giovanni «che non vole inganni», ed è garantita da un severissimo sistema di tutela, per cui ai contraffattori vengono tagliate le mani. Tale è il credito della valuta che gli olandesi – da intenditori quali già sono – non l’abbandoneranno più, continuando a usare fiorini per cinque- cento anni, fino all’ingresso nell’euro. La nascente finanza va alla grande: solo a Firenze operano decine di compagnie bancarie, accanto a Frescobaldi e Acciaiuoli, Bonaccorsi e Antellesi, agiscono i più famosi Bardi e Peruzzi, ca- paci di imbastire un sistema di filiali senza eguali in Europa, dove con lettere di credito, cambiali e depositi in conto corrente si ar-

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riva a sovvenzionare le guerre dei re. La Guerra dei cent’anni tra Francia e Inghilterra, per esempio, durerebbe molto meno senza i finanziamentimade in . Ed ecco i ricchi mercanti – che al principio non sollevano il naso dai libri dei conti – darsi all’acquisto di comodi palazzi urbani pieni di luce, nobilitarsi con simboli e agiatezze, ambire all’arte. E poi finire per vivere a imitazione di quegli stessi aristocratici di- sprezzati a parole, confondendosi con una nobiltà tanto esecrata quanto appetibile: con cui vale persino la pena unirsi in matrimo- nio. Un racconto lungo secoli, fatto di tumulti e congiure, che si conclude con l’ascesa al trono ducale di una ricca famiglia di com- mercianti inurbati dal Mugello, capaci di imbavagliare vecchie ari- stocrazie e antiche istituzioni, ma sempre strizzando l’occhio alle masse. Anzi, al “popolo”. I Medici: perfetta sintesi della parabola di una stirpe di imprenditori che non si dà pace finché non ottiene una corona, e si fa nobile... Ma questa è un’altra storia.

Di come i ricchi borghesi lanciano arte e letteratura nella Storia...

Intanto, se l’italiano è la lingua europea degli affari, il secolo d’oro fiorentino è molto più di un prolungato attacco di euforia commercial-finanziaria. Dante, Petrarca e Boccaccio narrano in volgare perdizioni e salvezza di un’umanità che trova finalmente le parole per raccontarsi. La vita irrompe anche nell’arte figurati- va. E mentre Giotto usa i colori per destare l’uomo, anche le sue Madonne si umanizzano, mostrando camicie dalle pieghe traspa- renti e Bambini curiosi intenti ad accarezzare il seno della Madre. Sono gli anni di Arnolfo di Cambio, l’architetto artefice della forma immortale della città, tutt’oggi preda ambitissima dei selfie da piazzale . Nel giro di un quinquennio, proprio a cavallo del Trecento, l’urbanista abbraccia con l’ultima cerchia di mura quello che è l’attuale centro storico, inglobando i bor- ghi smodatamente cresciuti. E poi getta le basi di , traccia le fondamenta della nuova Cattedrale, e le regala una fac- ciata di angeli, santi e un severissimo Bonifacio viii che getterebbe Dante nello sconforto se potesse vederlo, proprio lì, davanti al suo bel San Giovanni, il Battistero cui Andrea Pisano appone le prime porte di bronzo fuso dorato, tanto belle da far gridare al miracolo.

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...e di come la Chiesa li appoggi nell’impresa di conquistare Firenze

Anni d’oro anche per la cristianità: non c’è Gesù delle prime co- munità che possa reggere il confronto con il Cristo della dottrina codificata, non c’è eresia che possa tenere il passo con la Chiesa. Proprio per rispondere alla sfida del rinnovamento lanciata da ca- tari e patarini, nuove famiglie religiose si impiantano nella cintura suburbana dei borghi cittadini. Nascono gli ordini sacri pronti a raccogliere il bisogno di identità dei mercanti alla conquista della civitas. Ed ecco i domenicani a Santa Maria delle Vigne (poi ), i francescani a Santa Croce, i serviti alla Santissi- ma Annunziata, gli agostiniani a Santo Spirito. Fermento religioso e politico si incontrano, si sostengono. Anni d’oro per la Repubblica fiorentina che, animata dall’a- scesa della nuova classe borghese e dal suo ingresso al potere, in- nalza la novella Cattedrale con i proventi delle imposte comunali, da quelle sui testamenti a quelle sui contratti notarili. Il Duomo diventa simbolo del comune impegno civile, dell’incontro fra pa- trimonio e città, fra vecchie pietre e nuovo popolo (naturalmente “grasso”). Cento anni di uno sviluppo impetuoso, a tutto tondo, di sacro e profano, di pubblico e privato, di architetture e ope- re d’arte, di tecnologia e bilanci economici. Firenze si è messa a correre e non si ferma più. Sempre con le ruote in Arno, a batter panni.

Quell’alluvione che caccia dalla città gli imprenditori della lana

Non è certo se l’arte della lavorazione delle pezze nasca in cit- tà, oppure ci arrivi da fuori. Di sicuro nel 1251 un ordine laicale lombardo ottiene dal vescovo di Firenze l’Oratorio di Santa Lu- cia in riva all’Arno. Sono gli umiliati e, in cambio dell’impegno a costruire la chiesa di Ognissanti, si assicurano la possibilità di sfruttare l’acqua del fiume. È un ordine votato alla povertà e al lavoro, indossa vesti semplici, di lana grezza. È un ordine pionie- re, usa l’acqua per azionare macchine con cui pestare i tessuti. Il prodotto finale è un panno di mezza lana e alta qualità, talmente tipico da crearsi un marchio: panni humiliati, una griffe di successo

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che spinge alla moltiplicazione di mulini e gualchiere a bagno in Arno. Nel secolo d’oro qualsiasi buona novità accende il merca- to, e i preziosi panni vanno a ruba. L’attività claustro-industriale non è più sufficiente, nuovi imprenditori si agganciano albusiness . Una via è aperta. Ma la pioggia del 1333 butta all’aria il futuro. Il 4 novembre alle otto di sera, la più disastrosa alluvione di sempre si abbatte sulla città: l’Arno rompe gli argini a Santa Croce, le acque si ri- versano sul centro, buttando giù anche la colonna di San Zano- bi in piazza Duomo. Tre ponti su quattro vengono spazzati via, il collegamento fra le due rive è interrotto. Anche subisce danni ingenti, mentre sparisce fra le acque l’antica statua di Marte che una diffusa credenza dotava di poteri astrologici. Così racconta il più grande cronista dell’epoca, Giovanni Villani: «Gli antichi diceano­ e lasciarono in iscritto che quando la statua di Marte cadesse o fosse mossa, la città di Firenze avrebbe gran pericolo o mutazione. E non sanza cagion fu detto, che per ispe- rienza s’è provato». Il disastro è tale da guadagnarsi eterna fama nei libri di sto- ria. Fra gli accusati, anche le grandi zattere per la lavorazione dei panni agganciate alle sponde del fiume, che contribuiscono a im- pedire il regolare flusso delle acque. La decisione del Comune è irremovibile: i ponti saranno ricostruiti, ma nessuna nuova gual- chiera o mulino potranno essere eretti «per 400 braccia a valle del Ponte alla Carraia e per 2.000 a monte del Ponte di Rubaconte [il Ponte alle Grazie]». Una scelta controversa, che non manca di sollevare proteste. Ma i pragmatici fiorentini si consolano presto: niente più notti insonni, rotte dal martellare dei magli in acqua; niente più aria ammorbata dai quintali d’urina rovesciata come emolliente sulla lana. La gualcatura è bandita dal centro, e così sia. Chi tratta i panni in Arno dovrà spostarsi più in là.

Di come panni informi trasformati in tessuti pregiati creano valore aggiunto

Ecco entrare in scena gli Albizi, ricchi mercanti di lana in cer- ca di supremazia all’interno dell’Arte cittadina. Questi popolani grassi che si atteggiano a magnati, da qualche anno hanno adoc- chiato un buon terreno, compreso fra Rovezzano e Pontassieve.

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Proprio in quel punto – dove fin dalla preistoria si affaccia la transumanza delle bestie – l’Arno si stringe, facilita il guado; e un’ansa ne rallenta la corsa, agevolando il governo dell’acqua. Grazie ai capitali della potente famiglia, in pochi anni prende vita un vero e proprio distretto industriale. Sulla riva sinistra le gualchiere di Remole, sulla destra quelle di Quintole, del Girone e di Rovezzano. Si tratta di un bacino produttivo d’avanguardia, completa- mente meccanizzato. A Remole il complesso comprende l’opifi- cio, la pescaia, e il canale che le collega, una gora in cui scorre l’acqua deviata dal fiume. Per funzionare in modo ottimale il mac- chinario dovrebbe essere alimentato da un flusso costante, cosa che il carattere torrentizio dell’Arno non permette. In questo modo invece, grazie al getto continuo dell’acqua incanalata nella gora, la battitura della lana non conosce arresto: è un’industria mossa dall’acqua, è l’acqua a spingere i cilindri, i magli, le aste che comprimono i tessuti all’interno delle vasche. La produttivi- tà dell’opificio è ottimale, gli stranieri restano a bocca aperta di fronte a una tecnologia così avanzata. Gli affari volano. Ad alimentarli sono soprattutto le lane inglesi e spagnole che i mercanti dell’Arte di Calimala si procurano in un viavai freneti- co di spedizioni dall’estero. Le pezze vengono marchiate, confe- zionate, caricate sui muli e avviate verso Firenze, in un viaggio per terra e per mare che può durare anche mesi. Una volta in città, inizia un ciclo produttivo destinato ad affinarsi nel tempo: sbarca- te dai muli, le lane sono lavate, sciacquate, asciugate su graticci di vimini, pettinate, filate e ammorbidite dai cardatori. Qui entrano in scena le donne per la tessitura, spesso nel chiuso delle proprie case. A questo punto è la volta della battitura dei gualchierai: le pezze escono compatte, impermeabili, pronte per la tintura. E il ciclo si chiude. Trasformate in stoffe colorate, le tele arrivano in bottega per la vendita, oppure prendono la via del ritorno, spesso verso gli stessi mercati da cui erano partite. Convertendo panni informi in tessuti pregiati, Firenze crea valore aggiunto e reputa- zione economica. È qui che nasce la fama della manifattura fio- rentina: la stessa che ancor oggi nutre il pil cittadino con l’export di pelli e tessuti, ceramiche e scarpe.

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Quando i ricchi borghesi si salvano passando dall’alta moda al prêt-à-porter...

Ma il secolo d’oro si chiude brutalmente. Dopo il duro colpo dell’alluvione, una serie di eventi funesti arresta le lancette dei tassi di sviluppo esponenziali. Prima il crac dei Bardi e dei Pe- ruzzi, cui il re d’Inghilterra Edoardo iii si rifiuta di restituire la somma di un milione di fiorini: è la prima grande bancarotta della storia, un tonfo finanziario che, insieme alle due illustri famiglie, trascina con sé i patrimoni di altri trecento cittadini. Un vero colpo per tutta la città. A dissanguare le casse comunali si aggiungono le spese militari per la (fallita) conquista di Lucca. Infine, nel 1348 la peste nera invade l’Europa, spazzando via un terzo della popolazione. A Firenze i centomila abitanti si riduco- no presto a quarantamila, gli stessi di Londra all’epoca. È una battuta d’arresto in ogni settore, sembra la fine del miracolo. E invece... Invece l’economia rallenta ma non si ferma. A partire pro- prio dal tessile. Anche le gualchiere di Remole, collegate alle ri- sorse idriche della zona ma vicine al centro città e ai suoi servizi, fanno da propulsore alla ripresa. In qualche decennio l’attività si rianima: agli inizi del Quattrocento la valle dell’Arno accoglie uno dei settori manifatturieri più vitali del mondo occidentale. Produzione e commercio recuperano vigore. Se il fatturato di lus- so trecentesco si ridimensiona, è per fare spazio al panno di “gar- bo” fiorentino, un tessuto di media qualità, nutrito da lane del centro Italia. È un po’ come il passaggio dai mantelli dei principi alle cappe dei mercanti: dall’alta moda al prêt-à-porter. E il fattura- to aumenta, il lavoro tratto dal fiume genera ricchezza crescente. L’opificio del Valdarno è uno snodo vitale del processo produttivo su cui la città costruisce prima la ripresa, e poi la grandezza. Una fucina che attraversa i secoli. Alla fine del Quattrocento, i trecen- to laboratori cittadini immettono sul mercato circa centomila pez- ze l’anno: Firenze è l’indiscussa capitale mondiale dell’industria tessile. E le gualchiere di Remole sono un prezioso tassello del puzzle.

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...mentre gli operai si consumano immersi negli acidi

Il processo continua anche quando gli Albizi cadono in disgrazia, nel 1434. Rinaldo degli Albizi, il grande nemico di Cosimo il Vec- chio, è l’ultimo ostacolo che si frappone fra i Medici e la conquista del potere. Ma non ha la forza di togliere di mezzo l’astro nascen- te della casata mugellana, lo spinge in esilio e pensa di aver risolto il problema: un errore che il giovane Medici rientrato in città gli farà pagar caro. Agli Albizi, eliminati dalla scena politica, rimane la gestione del business dei panni fino ai primi del Cinquecento, quando l’in- dustria è rilevata direttamente dall’Arte della Lana. A differenza di altre corporazioni, quella della Lana non è un’associazione egualitaria di maestri, ma ha una struttura saldamente gerarchi- ca: in cima i lanaioli, associati ai mercanti-imprenditori; sotto i titolari delle botteghe, i gualchierai, i tintori; in fondo alla pira- mide i lavoranti, i battilana, i pettinatori, il proletariato senza di- ritti, sempre a caccia di uno spazio in mezzo al “popolo minuto”. A Remole, di generazione in generazione, gli operai si consuma- no, immersi in un frastuono assordante, circondati da un odo- re nauseabondo, assediati dagli acidi e dalle malattie. Muoiono di polmonite senza potersi permettere il tepore dei panni che producono. Pagati pochissimo finché la manodopera abbonda, dopo la peste i salariati diventano più preziosi, e i compensi si innalzano. Ma non durerà a lungo. Per contenere l’aumento del costo del lavoro il cottimo rimpiazza il lavoro stabile, l’antico le- game fra operai e botteghe si spezza. Si chiama “profitto” ed è governato dalle solite leggi. La produzione è tenuta a galla da un mercato del lavoro sempre più flessibile, sempre più precario; mentre tonnellate di lane battute continuano a uscire dalle va- sche, riempiendo le tasche dei lanaioli.

Della concorrenza di nuovi mercati e la crisi nera delle manifatture

Nelle mani della Corporazione della Lana, le gualchiere di Re- mole rimangono per altri duecentocinquant’anni, attraversando i tumulti della storia cittadina, incuranti di assedi e congiure, prin-

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cipi e granduchi, Controriforma e Inquisizione, fra alti e bassi, ma sempre avanti a martellare, lì, agganciate a quell’ansa del fiu- me, al flusso d’acqua che non si ferma mai. Ma dopo la scoperta dell’America, la potente Arte – come le consorelle – perde potere. Le nuove rotte commerciali mettono in crisi il sistema corpora- tivo, che si trova a gestire la concorrenza di produzioni fino ad allora sconosciute, con conseguente perdita di mercati. Anche i capitali scarseggiano. All’incapacità di progredire nell’evoluzione tecnologica si risponde riducendo il prezzo del lavoro. Le mani- fatture segnano crisi nera. Agli inizi del Seicento la produzione laniera si contrae, toc- cando il 70% in meno rispetto al secolo precedente. La disoccupa- zione sfiora vette mai viste. Una parte degli operai riesce a riciclar- si nell’industria serica, l’unica a tenersi in piedi. Un’altra è tolta di mezzo dalle epidemie di tifo ancora forti in città. Il Seicento è un secolo d’ombre per tutti, e solo grazie all’azione delle compagnie di misericordia le fasce più deboli riescono a sfamarsi. Remole accusa il colpo, ma l’attività prosegue, gestita caparbiamente da un’Arte ormai abbarbicata a se stessa, che va avanti fino al mo- mento in cui Pietro Leopoldo d’Asburgo diventa granduca. È il 1765: e tutto cambia.

Così l’Illuminismo fa piazza pulita delle corporazioni medievali

In venticinque anni, travolto dalla locomotiva illuminista, il Re- gno del giovane sovrano tocca i livelli più alti del riformismo euro- peo. Svecchiare, semplificare, abolire privilegi: l’elenco dei buoni propositi granducali si fa pochi sostenitori e molti nemici in una società di consorterie consolidate sotto il cupolone come quella toscana. Ma i tempi sono maturi. Fra la liberalizzazione dei com- merci e l’abolizione della pena di morte, tra la riforma agraria e quella della giustizia, il granduca decide di non voler più sentir parlare di corporazioni, e avvia la soppressione delle Arti di origi- ne medievale. Pietro Leopoldo e la sua cerchia sono convinti che il sistema corporativo nato nel Duecento ingabbi il tessuto economico in un groviglio di giurisdizioni perennemente in conflitto, e senza altra giustificazione ormai se non la difesa del proprio parassitismo.

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Così le varie magistrature sono abolite, e le competenze sui diver- si mestieri vengono riunite nella nuova “Camera di Commercio, Arti e Manifatture di Firenze”, cui è assegnato anche il ricco patri- monio della disciolta Arte della Lana. Gualchiere incluse. Tutto cambia a Remole in questo passaggio fra Sette e Ot- tocento, e non sono solo i princìpi rivoluzionari francesi e i co- dici napoleonici a scompigliare l’opificio del Valdarno, insieme all’Europa tutta. Avanza la Rivoluzione industriale, figlia anch’es- sa dell’età dei lumi. Con l’arrivo del motore a scoppio la mecca- nica idraulica è relegata in soffitta. Niente più acqua del fiume per battere i panni. Il prestigio dell’opificio è perduto, insieme alla funzione originaria. Le gualchiere riciclate diventano mulini.

Quell’impianto industriale medievale, unico al mondo, che non si arrende

Nel 1918 il complesso passa nelle mani del Comune di Firenze, cui ancora oggi appartiene: l’idea sarebbe quella di riconvertirlo per la produzione di energia elettrica, però il piano non avanza, e all’antico opificio restano solo lavorazioni residuali, fra cui un colorificio con molitura della calce. Ma la manifattura non cede, l’Arno continua a scorrere e i mulini non smettono di far girare le grandi macine di pietra alberese. Bisogna aspettare il 1944 perché la struttura subisca il primo vero tracollo. Dopo aver perlustrato la zona, i tedeschi di stan- za a Firenze decidono di attraversare proprio l’antico borgo per guadare l’Arno. Se in tempi remoti da qui transitavano le greggi, a maggior ragione la ristretta ansa del fiume offre l’attracco idea­ le ai mezzi nazisti in ritirata verso la Linea gotica. Peccato che i blindati siano troppo larghi per le leggendarie porte del borgo, che vengono fatte saltare per accedere al fiume, senza troppe ma- novre né ripensamenti: erano ancora le stesse dalla fondazione, così come le mura. Avevano superato intatte secoli di inondazioni, terremoti, guerre civili. Nonostante lo sfregio, il corpo di fabbrica resta in piedi e non smette di operare, di creare lavoro estratto dal fiume. Arriva così il 4 novembre 1966: l’alluvione – l’ennesima – distrugge il porto e spazza via il traghetto che ancora garantiva il collegamen- to fra le due rive. Firenze è schiacciata dal fango, ma anche questo

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non basta ad arrestare la vita delle gualchiere. Il borgo non cede: quattro mulini rimangono in funzione fino al 1984, straordinario caso di impianto industriale tardomedievale che, superando le sfi- de del tempo, arriva in attività fino ai giorni nostri. Sito unico al mondo perché conserva visibili i resti di settecento anni di pratica della manifattura europea. Per questo le gualchiere di Remole sono inserite oggi nell’e- lenco dei beni storico-artistici e architettonici tutelati dalla legge: dichiarati patrimonio nazionale, i mulini e le torri merlate, i 3.000 metri quadri di borgo e i 40.000 di parco sono parti di una strut- tura che abbraccia natura, storia, idee in un unico involucro e ce la consegna, costringendoci a specchiarci nel suo riflesso millena- rio. Una struttura adagiata sulla sponda del fiume, ancora capace di essere racconto di se stessa. C’è l’antica pescaia sempre in funzione, diga protesa a trat- tenere le acque per imbrigliarle; c’è la casetta del vecchio custode abbarbicata sulla cateratta a regolare il flusso del volubile fiume grazie a una serie di “saracinesche” in grado di alzarsi e abbassarsi. C’è la gora che qui si connette, canale artificiale parallelo all’Ar- no, vena alimentata da un flusso domato ma mai fermo. È un mec- canismo debole eppure integro, tale da generare forza idraulica, e spingerla sotto quello stesso corpo di fabbrica dove un tempo azionava pale, macine, magli, e dove oggi invece scivola silenziosa senza incontrare ostacoli, quasi un rigagnolo fra le radici del pos- sente edificio. Un congegno ancora attivo, dopo secoli di Storia. Che straordinario parco tematico potrebbe essere. E invece...

E di come oggi solo un cantore solitario resti a guardia del mito

Invece il sito – uno dei maggiori esempi di archeologia preindu- striale d’Europa – è oggi in gran parte fatiscente, e a malapena visitabile. Patrimonio violato, ingabbiato da transenne capaci for- se di proteggere i corpi, ma non le coscienze. Dimostrazione tan- gibile della miopia di un sistema sprofondato a far cassa. Oggi la lungimiranza del passato è soffocata dall’erba, mentre il tempo accarezza le pietre in un abbraccio implacabile. In mezzo ai resti di quello che è stato un passato grandioso, si fa fatica a percepire l’antico splendore, a meno di non chiamarsi Piero Gensini, scul-

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tore che da trent’anni scolpisce il vento e racconta l’acqua in un piccolo studio affacciato sulla piazzetta, proprio davanti a una del- le torri. È rimasto solo lui: il guardiano delle gualchiere. L’ultimo che resiste, abbarbicato alle pietre. È lui che le cura, le protegge, le racconta. A lui, aedo solitario, il compito di tenerle in vita. Che succederà quando anche Piero un giorno dovrà arrendersi al tem- po che scorre, come quel fiume di cui è custode? È arrivato qui per caso, quando ancora il borgo viveva con la sua bottega di alimentari, il ciabattino, qualche nucleo fami- liare, una scuola elementare, una famiglia di contadini a gesti- re il traghetto per passare da una parte all’altra del fiume. Poi, pian piano, se ne sono andati tutti; anche i Del Soldato, che erano gualchierai fin dal Medioevo, hanno gettato la spugna e cercato altrove un modo più semplice per andare avanti. Ma lo scultore rimane, a lottare con l’umidità, a riparare tetti, e muri. Come cose che sente proprie, che lo accompagnano. Potrebbe permettersi altrove una vita più comoda, più confortevole. Invece resta qui, e per far questo paga addirittura l’affitto al Comune. Con lui ri- mane la sua arte, traghettatrice di storie, capace di raccogliere il mormorio della pescaia, i sussulti delle cateratte, lo scalpiccio sulle torri merlate, ancora visibili, vicine. Vive. Gensini, cantore libero e cocciuto, innalza pannelli, traccia sentieri nel parco, tiene pulite le rive del fiume. E sogna. Sogna come solo un artista sa fare, immagina un parco fluviale con piste ciclabili dove i bambini possano tornare a giocare, vede un museo della manifattura tessile, laboratori didattici, un borgo animato dalle botteghe e dalle scuole di artisti. Questo rigoroso artigiano della materia, capace di captare i legami fra le cose, dice che ciò che saremo domani si decide oggi. E che a Remole il vissuto uma- no trasuda dalle pietre: le mura delle gualchiere parlano, bisogna solo riuscire ad ascoltarle. Lui vede in filigrana attraverso il tempo, e si rivolge a noi, comunità anestetizzata, per svegliarci, per educarci. Per aprirci gli occhi e farci riappropriare di un patrimonio di cui abbiamo perso le chiavi. Una ricchezza che ci è stata consegnata, e che spetta a noi, eredi analfabeti, traghettare nel futuro. Ed ecco che se uno riesce a porgere l’orecchio, da questa meraviglia agoniz- zante risuonano i fasti del secolo d’oro, le storie degli umiliati e le ordinanze degli Albizi, le riforme di Pietro Leopoldo e il fragore delle alluvioni: i lamenti di un popolo tutto che, con i

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piedi a mollo nell’Arno e l’olfatto distrutto da tonnellate d’uri- na, coprì le spalle di re e di mercanti con i primi impermeabili della Storia.

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L’Oratorio di San Sebastiano dei Bini Lo Spedaluzzo dei tesori pellegrini

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 33 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 34 10/05/21 14:51 Da “spedale” per i pellegrini del Medioevo a museo di quartiere del Due- mila: la parabola degli ottocento anni di vita di San Sebastiano dei Bini – perla rinascimentale affacciata su via Romana – è racchiusa fra queste due identità. Nel mezzo c’è di tutto, la cappella di famiglia e la pelletteria, passando per la sala da musica. Vero e proprio archetipo delle metamorfosi forgiate dalla Storia nelle pietre cittadine, l’ex oratorio dove morivano i leb- brosi è oggi sede di preziose opere d’arte, che in questo quartiere erano nate e che qui sono state riportate dopo il travaglio dei secoli. Opere pellegrine, anche loro. Un piccolo museo come santuario di memoria civica: tessuto vivo riconquistato alla città, dopo decenni di oblio.

Innocenzo iii, una supremazia ribadita con la spada. E la carota

Tutte le strade partono da Roma. Per arrivare allo “spedaluz- zo dei tesori” fiorentino, bisogna rifarsi allo Spedale di Santo Spirito in Saxia di cui è figlio, la struttura ospedaliera più an- tica d’Europa, fortissimamente voluta a Roma da papa Inno- cenzo iii. È lui il pontefice della crociata contro le eresie, il primatista dell’Inquisizione. Ma anche l’artefice di una politica dell’accoglienza tesa a rianimare un cattolicesimo ansimante sotto l’assedio eretico. Siamo a cavallo fra il 1100 e il 1200. L’ambizioso cardinale Lotario, conte di Segni, ha trentasette anni e un’idea chiara in testa: ripristinare l’autorità papale. Salendo sul soglio pontificio, Lotario-Innocenzo sceglie un’omelia da un passo di Geremia che vale un programma di governo: «Vedi, io ti costituisco oggi sui popoli e sui regni, per sradicare e distruggere, per rovinare ed abbattere, per edificare e piantare». In effetti il Papato è in crisi profonda: gli eserciti crociati sconfitti si leccano le ferite, Gerusa-

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lemme è stretta nel «giogo degli infedeli», i movimenti ereticali guadagnano terreno. Il lavoro da fare non è poco. Il pontefice impugna la spada e comincia a organizza- re la quarta crociata, che invece di mirare alla liberazione di Gerusalemme finisce con l’arrestarsi nel brutale saccheggio di Costantinopoli. È il 1204 e il sacco dei latini ai danni dei greci – fratelli nella fede, eredi dello stesso Impero Romano – rima- ne una delle più grandi vergogne nella storia delle crociate. Ma Innocenzo iii incassa il successo “politico” di aver sottomesso i bizantini, e si volge verso i movimenti catari, che stanno metten- do in discussione la struttura ecclesiastica, invocano una chie- sa dedicata alla missione spirituale, povera e non contaminata da interessi temporali. Anche Firenze è una delle città sensibili all’eresia, memorabili le predicazioni del domenicano Pietro da Verona, strenuo difensore dell’osservanza cattolica (figlio di ere- tici, passa la vita a bruciare eretici: un caso da manuale, direbbe Freud). Memorabili anche gli scontri cruenti avvenuti in città fra ortodossi guelfi ed eretici ghibellini: la lotta diventa politica, il Papato non può più tergiversare inviando predicatori. Nasce la guerra santa contro il nucleo ribelle asserragliato in Provenza, ed è una strage. Nel 1209 la supremazia del dogma cattolico è ribadita col sangue. Ma la spada non basta: bisogna riavvicinare il clero al popolo. Sul carisma dei predicatori Francesco e Domenico, Innocenzo iii costruisce i relativi ordini monastici. E se “accogliere” è la nuo- va parola d’ordine, il passo successivo è la moltiplicazione delle strutture di ricezione dove «si ristorano gli affamati, si vestono i poveri, si amministra il necessario agli infermi e agli indigenti». Sono parole di Lotario che, prima ancora di diventare papa, sco- pre una “casa” di Santo Spirito fondata in Francia da frate Guido di Montpellier, ex cavaliere templare che ha gettato la spada per indossare il saio e dedicarsi all’accoglienza ospitaliera. Una volta salito al soglio di Pietro, Innocenzo iii chiama Guido in Italia e gli dà carta bianca per l’istituzione di una rete di «Case di Santo Spirito». La prima sorge a Roma, si chiama Santo Spirito in Saxia: è l’inizio di un boom immobiliare, e non solo.

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Dai pellegrini ai malati: di come la carità diventa rete sanitaria

Nel giro di qualche decennio gli spedali di Santo Spirito si mol- tiplicano: a fine Duecento se ne contano oltre un centinaio solo in Italia. Gli ospitalieri sono a capo della fondazione che gestisce le diverse strutture e impone un regolamento comune. Fra gli istituti anche lo spedaluzzo di via Romana, non grande ma molto affollato, posto proprio sull’asse che taglia Firenze in due da nord (via San Gallo) a sud, verso Roma. È questo il cammino percorso ogni anno da migliaia di viandanti, in marcia su San Pietro, il pie- distallo della cristianità custode delle spoglie dell’apostolo con le chiavi del Regno. La filiale fiorentina sorge nel 1290, grazie al lascito testamen- tario di Folco Portinari «per dare ricetto a tutti i poveri e pel- legrini che vi capitano, donando anche quanto faceva loro biso- gno». Solo due anni prima il padre della famosa Beatrice cantata da Dante ha fondato Santa Maria Nuova, la massima istituzione ospitaliera fiorentina, ancor oggi in attività. Portinari crede fer- mamente nello Spedale come prodotto imprenditoriale, sulla cui forza economica e prestigio sociale imbastisce la reputazione di famiglia. Quando si tratta di fare testamento, il banchiere decide di legare il proprio nome alla potente comunità degli ospitalieri, e lascia i fondi sufficienti per l’intervento in via Romana. Non sap- piamo nulla di questi lavori, però sulla facciata del vano ricavato a spitale rimane lo stemma simbolo di Santo Spirito in Saxia: una croce di Lorena a due bracci trasversali, incorniciata fra due ro- sette. Ancora oggi visibile, l’insegna in pietra è tutto ciò che resta del tempo di pellegrini e cavalieri, di Innocenzo iii e Pietro da Verona. Un emblema minuto scorticato dai secoli, eppure tenace testimone di un monumentale passato. Completati i lavori, lo spedaluzzo si apre all’accoglienza. La sua parabola è simile a quella di altri istituti medievali: nato come spazio di ospitalità per i pellegrini che brulicano sulla Francige- na, sull’onda degli ideali di carità cristiana messi in pista contro le eresie si trasforma in luogo aperto a vecchi e orfani, finendo per ospitare una folla di malati in cerca di pane, ma anche della reden- zione religiosa propedeutica a quella fisica. Ciò che sorge sui pa- gliericci destinati ai viandanti e poi aperti ai derelitti è una sorta di rete sanitaria ante litteram, con tutte le opportunità che può offrire.

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Nuove comunità religiose nascono per dedicarsi all’acco- glienza: l’ordine di San Giovanni di Gerusalemme e il San Giaco- mo di Altopascio, il Fatebenefratelli e gli antoniani. Col tempo, gli ospizi crescono d’importanza e diventano addirittura perno di organizzazione territoriale, arrivando a controllare e mantenere la viabilità di ponti e strade. Ma si fanno soprattutto attori del sistema economico-produttivo e, grazie a lasciti e donazioni, ge- stiscono proprietà fondiarie, capitali mobili, svolgono funzioni di monti di deposito e prestito. Si sviluppa una sorta di vero e pro- prio business dell’accoglienza. Ai primi del Trecento – in pieno secolo d’oro – a Firenze ci sono ben trenta istituzioni in grado di equipaggiare la città di «mille letta» (Giovanni Villani). Considerato che i letti accolgono almeno due (e fino a quattro) infermi, e che la popolazione è di 100.000 abitanti circa, la città dispone di un posto letto ogni cinquanta abitanti. Un tasso molto elevato per i tempi, anche se la qualità lascia piuttosto a desiderare: nello spedaluzzo tutti i servi- zi, inclusi i più malsani, si svolgono nella stessa sala, che accoglie ogni tipo di degenti, i malati comuni accanto agli infettivi, i morti o moribondi accanto ai convalescenti. Tutti adagiati su sacconi di paglia. Gli interventi “chirurgici” si fanno nelle “infermerie”. Dal punto di vista igienico-sanitario è un disastro.

...e di quando la malattia smette di essere punizione divina

Ci vuole la pandemia del 1348 – con le sue stragi di innocenti – per trasformare profondamente mentalità e metodi, separando il concetto di carità da quello di cura, e mutando i vecchi ospizi in strutture “moderne”. È infatti con la peste nera che la malattia perde la sua valenza simbolica, il significato “sacrale” di punizione divina. Fino a quel momento è pensiero comune che l’infermità arrivi perché l’uomo ha peccato, e da qui l’afflusso di pellegrini (malati) verso i grandi santuari: per recuperare la salute del corpo bisogna cominciare da quella dello spirito. Smettere di peccare. Ecco perché la sosta nell’antico Spedale diventa quasi un percorso di catechesi. Le immagini sacre, le opere d’arte sparse in ogni sala portano messaggi di evangelizzazione, aiutano i pazienti a ripristi- nare il rapporto con l’Altissimo. Facilitandone così la guarigione.

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Il problema è che in queste strutture circola carità, non sape- re medico. Solo il Quattrocento arriva a dichiarare che la salute del corpo e quella dell’anima non sono la stessa cosa, e comunque esigono due tipi di specialisti diversi, il medico e il prete. Solo nel Rinascimento le cure sanitarie superano il concetto di prestazione caritatevole per concentrarsi sulla rimozione della malattia. Una svolta radicale. Ma non la sola a investire in pieno lo spedaluzzo di via Romana, la cui storia si prepara al testa-coda.

Di come un banchiere possa essere «più utile di una scopa»

Entrano in scena i Bini, importante casata di mercanti, inurbata dal contado a fine Duecento. Bernardo, fedele alleato dei Medici, capisce che la corte papale è un trampolino d’oro e fa di tutto per tuffarsi su Roma. Grazie al cognato, riesce a ingraziarsi Giulia Farnese, compagna del cardinale Rodrigo Borgia, prossimo papa Alessandro vi. Alla bella Giulia il Bini si affretta a procurare le più svariate mercanzie, soddisfacendone tutte le richieste. Tanto da divenirle indispensabile: «Se non la servissi io – scrive in una lettera al cognato – sarei in disghratia, che ò chominciato a esser di chasa più che ’lla granata». Bernardo ha trovato la pista giusta: dopo essere entrato a servizio del papa Borgia, diventa poi tesoriere di Giulio ii. Se è vero che la Chiesa condanna l’usura, la corte pontificia – mag- gior entità economica internazionale – ha bisogno di molti quattrini per funzionare, con tributi percepiti in tutta Europa e spese colossali a ogni cambio di pontificato. È Bini ad ammi- nistrare i fondi per la costruzione della basilica di San Pietro in Vaticano: capitali sollecitati anche in Germania con le famose indulgenze, e dunque all’origine delle proteste che contribui- ranno a scatenare la Riforma luterana. Ma il vero salto di qualità per il banchiere arriva con l’elezione al soglio di Leone x, cioè Giovanni figlio di Lorenzo il Magnifico: Bernardo mette com- mercio e arte del cambio a disposizione del concittadino dive- nuto pontefice, e viene nominato banchiere di Curia incaricato delle spese private. Al papa, il banchiere anticipa consistenti risorse. Finanzia l’e- sercito e la guerra per la conquista di Urbino; paga i capitani di

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ventura come Giovanni dalle Bande Nere e Gentile Baglioni, al servizio della casata Medici; fa da carta di credito per gli zelanti membri della famiglia, da Lorenzo (da Urbino, appunto) a Ippo- lito, passando per Alfonsina. Anche Raffaello, Leonardo e Miche- langelo figurano al suo libro paga: nel 1548, quasi novantenne, Bernardo rilascia a Buonarroti una ricevuta sulle somme che gli aveva versato tanti anni prima, agli inizi «della tragedia della se- poltura di papa Giulio ii», monumentale opera mai completata che grava come un incubo su tutta la vita dell’artista. Lo stesso vale per la facciata di San Lorenzo, che frutta a Michelangelo un anticipo di 500 ducati d’oro sborsati da Bini. E c’è ancora la firma del banchiere sui pagamenti per gli arazzi fiamminghi ordinati dal papa su disegno di Raffaello. E in cambio? Per il clan Bini – in tutto otto tra figli e fratelli – Bernardo ottiene importanti cariche e privilegi, ma soprattutto la gestione del “datario”, da cui dipendono tutti i benefici ecclesia- stici. Addirittura a un certo punto gli viene consegnata in pegno una parte del tesoro pontificio: smeraldi, zaffiri, rubini, «una sa- liera con quattro ruote e certe gioie in cima», tre mitre, il triregno di Sisto iv e quello di Giulio ii tempestato di diamanti. Il valore complessivo di quanto Bini si ritrova in casa a Firenze è di oltre 200.000 ducati, e il suo rifiuto di riconsegnare il tesoro al papa successivo a Leone x (cioè Adriano vi), metterà la Repubblica fiorentina ai ferri corti, sull’orlo del conflitto con Roma. Che na- turalmente avrà indietro i triregni.

Una casa (più oratorio) costruiti sui debiti papali

È chiaro, insomma, che nei primi due decenni del Cinquecento Bini è uno dei più potenti banchieri dello Stato della Chiesa. Nel 1521 il papa gli è debitore di 360.000 ducati d’oro. E adesso, con- solidato il successo economico, subentra la necessità di mostrarlo ai concittadini. Da borghese divenuto membro eminente dell’o- ligarchia, l’ex mercante deve costruirsi un palazzo che ostenti la raggiunta fortuna. I Bini possiedono una serie di case in via Ro- mana, altre ne comprano. Come i Rucellai qualche anno prima in via della Vigna nuova, così Bernardo decide di accorpare le varie proprietà e dare vita a una dimora possente quanto le proprie ambizioni. Nasce la «magnifichissima chasa», residenza così pre-

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stigiosa che Pietro Leopoldo non esiterà a insediarvi il Museo di Storia Naturale, poi Museo della Specola. Quando oggi visitiamo cere anatomiche e marsupiali di Ta- smania in via Romana, ci aggiriamo nei locali innalzati grazie ai crediti recuperati dal banchiere fiorentino per gli affitti delle ville papali o gli affreschi nelle stanze pontificie. Ma il palazzo, ai Bini, non basta. La famiglia rinuncia al patronato di una cappella in Santo Spirito – come invece fanno gli altri membri del ceto oli- garchico del quartiere – perché da tempo ha messo gli occhi sul- lo Spedale di fronte a casa, proprio quello realizzato con i fondi Portinari. Nel 1509 Tommaso – figlio di Bernardo – chiede ufficialmen- te il privilegio di poterlo trasformare in cappella privata. Una pe- tizione insolita, ma d’altronde è tutta la vita che Bini compiace le stravaganze dei vip romani; a lui, che è il suo uomo di fiducia, il pontefice non può rifiutare nulla. I padroni della struttura inve- ce tentennano. Ma a fronte della cospicua donazione proposta, il capitolo romano degli ospitalieri trova l’accordo e accetta di con- cedere non la proprietà dell’ex spedaluzzo, bensì l’uso. Per i Bini è sufficiente, la stirpe esulta: avranno la cappella tanto sognata e proprio dall’altra parte della strada. La dedica è a san Sebastiano, soccorritore dei malati di peste, così da richiamare l’antica fun- zione ospitaliera. A questo punto entra in scena Baccio d’Agnolo: a lui si ri- volge Bernardo per trasformare l’antico e malconcio edificio che ha ospitato migliaia di malati nel monumento celebrativo della famiglia. Baccio è l’archistar del momento, tanto osannato quanto criticato per le inusuali finestre del Palazzo Bartolini Salimbeni in via Tornabuoni, troppo “romane” per i delicati occhi rinasci- mentali fiorentini. Con lospedaluzzo Bernardo non vuole scherzi: niente stramberie, si va sul classico.

«Questa cappella è così bella che mi ci faccio seppellire»

Dopo un inizio come legnaiolo, Bartolomeo Baglioni detto Baccio d’Agnolo si è creato una reputazione da specialista di ornamenti. È davvero bravo, e in un attimo si ritrova architetto di grido della Repubblica fiorentina. Lo chiamano per ville e palazzi, diventa

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capomastro dell’Opera di Santa Maria del Fiore e insieme a Pier Soderini rifà praticamente Palazzo Vecchio; suo è il campanile di , e suo anche lo spicchio di ballatoio intorno alla cupola del Duomo che Michelangelo bolla come «gabbia di grilli», decretando la fine dell’iniziativa. Però la fetta di cornice è sempre lì, seducente nella sua amputazione: testimone viva di quel rapporto col popolo che tutte le pietre del patrimonio si por- tano addosso. In via Romana, Baccio d’Agnolo si mette al lavoro. La sua facciata è sobria, incentrata sul portale di legno dove spicca lo stemma dei Bini. Ma è all’interno che l’architetto si esprime al meglio. All’ex ricovero spedaliero Baccio aggiunge un’abside di piccole dimensioni, a pianta quadrata, con due gradini che l’accompagnano nella discesa verso la navata. Archi, pilastri, cornici, tutto è profilato in pietra serena: un piccolo gioiello ri- nascimentale, carico di richiami a Santo Spirito. Brunelleschi e Alberti non sono passati invano. Bernardo Bini è soddisfatto del risultato: quella cupola può ben vegliare sul sepolcro destinato ad accoglierlo. E, per impreziosire la cappella, comincia a investire in capo- lavori, rivolgendosi al meglio degli artisti su piazza. Compra una Madonna col Bambino della bottega di Lorenzo Ghiberti. Acquista due tavole con San Giovanni Evangelista e Santa Maria Maddalena, opera di Filippino Lippi, da posizionare intorno a un tabernacolo di San Sebastiano, dove inserisce una statua in terracotta dipinta opera di Leonardo del Tasso. Chiama un altro Bartolomeo, quello da Montelupo, che intaglia un Crocifisso ligneo quasi incorporeo: nessuna carne è contaminata dal dolore, nessuna drammaticità è mostrata nel supplizio del Cristo morente, il cui spirito è già congiunto al Padre. Ma per l’opera più importante il banchiere torna a chiedere il contributo di Baccio d’Agnolo. Gli chiede di realizzare una grande intelaiatura che raccolga più dipinti, una cornice a tutta parete, come una pala d’altare, da sistemare pro- prio sotto l’abside, in posizione di assoluta preminenza. A questa struttura – detta “ancona” – il banchiere vuole affidare il prestigio della famiglia nei secoli.

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Di quando Maria con il figlio vengono rapiti. E ritrovati al mercato

Nasce il famoso trittico di legno a foglia d’oro, ornato degli stessi elementi araldici dei Bini, quelle rosette a cinque petali e quei monti a sei colli che si ritrovano nell’abside. Nessun dubbio, i due lavori – la cappella e l’ancona – vengono al mondo nello stesso periodo, e per opera della stessa mano. Fatte per essere inserite l’una nell’altra. Racchiuse nell’intelaiatura del trittico, varie tavole. Al centro spicca un’opera del tardo Trecento, il capolavoro di Rossello di Jacopo Franchi: una malinconica Madonna dell’Umiltà, seduta per terra su un cuscino, ritratta col bimbo che le tira il velo, donna pensosa fra le donne. Ai lati, in chiaro omaggio a se stesso e al padre Pietro, il committente Bernardo fa mettere San Bernardo e San Pietro, realizzati da Pier Francesco Foschi, allievo di Andrea del Sarto. In predella, tanto per ribadire il concetto, ecco di nuovo San Pietro e San Bernardo, stavolta opere del Maestro di Serumido. Un fascio di lavori ed epoche diverse, che la pala riesce a uniformare. Una moltitudine di stili e soggetti che la preziosa intelaiatura ac- corda, valorizzando di ognuno le specificità. La gigantesca corni- ce è sicuramente il pezzo di maggior rilievo dell’oratorio. Ma, un giorno del Novecento, la pala si ritrova con un buco al cuore: Maria e il Bambino sono spariti. La tavola dell’Umiltà è trafugata tra il 1918 e il 1922. Il furto è scoperto solo dieci anni più tardi, durante un restauro. Le indagini appurano che il colpe- vole è il segretario del parroco di San Felice in Piazza, reo di aver sostituito la Vergine con una copia. Orfana dell’immagine originale, e piuttosto che rimanere in esposizione mutilata, l’ancona si eclissa rifugiandosi nella chiesa di San Felice. Intanto la tavola è inghiottita dal mercato dell’arte, da cui emerge raramente, salvo poi sprofondare di nuovo nelle casseforti dei collezionisti. Viene segnalata per la prima volta a una mostra a New York nel 1948, poi a Verona. La svolta arriva nel 1971 alla vii Biennale dell’Antiquariato di Milano: il giovane funzionario Antonio Paolucci identifica nello stand di un espo- sitore la Maria e il Bimbo spariti quarant’anni prima, e dà l’al- larme. Sequestrata e restaurata, la Madonna non più contumace riprende l’antico posto all’interno del tabernacolo, fra Bernardo

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e Pietro. La pala riunita trova una sistemazione agli Uffizi, e la sto- ria sembra finire lì. A nessuno sembra il momento di ricollocarla nello spazio originario, in quell’Oratorio dei Bini che nel tempo ne vede davvero di tutti i colori.

Dai “bacchettoni” ai conciatori: quella girandola di passaggi di mano

Se i primi trecento anni di vita di San Sebastiano scivolano via fra ospedale e oratorio, a partire dalla fine del Cinquecento il piccolo tempio entra in fibrillazione, sprofondando in un giro di passaggi di mano che ne stravolgono funzioni e identità. Quando i Bini cadono in disgrazia e cessano di avere il pa- tronato, la cappella torna in mano agli ospitalieri, salvo poi acco- gliere una serie di congregazioni fiorite sull’onda della Controri- forma per rinvigorire la fede del gregge cattolico, stavolta sotto assedio protestante. La prima è quella della Dottrina Cristiana, passata alla storia come la “Compagnia dei Vanchetoni” per il modo di procedere cheto, silenzioso, dei suoi membri. In realtà li chiamano anche “bacchettoni” per la propensione all’uso di certe bacchette come strumenti di mortificazione corporale. Sono laici votati a una ri- gida catechesi, aprono scuole di evangelizzazione, si dedicano a opere di beneficenza, in un’azione a metà fra misticismo e apo- stolato. L’attività-simbolo è la “cena dei cento poverelli”, da svol- gersi l’ultima domenica di Carnevale con i cento più bisognosi del quartiere, rasati e rivestiti: ed è proprio in via Romana che la con- fraternita getta le fondamenta della propria attività, in attesa che sia completata la sede ufficiale di via Palazzuolo. Il che avviene ra- pidamente, grazie anche all’appoggio e ai finanziamenti medicei. Per una congregazione che se ne va, un’altra ne arriva. Ecco la compagnia di Santa Maria Imprunetana, così chiamata perché ogni prima domenica del mese i fedeli vanno in pellegrinaggio all’Impruneta per venerare la miracolosa immagine della Madon- na. Quella stessa che da secoli viene portata dentro le mura cittadi- ne e invocata a protezione della città in caso di guerre, pestilenze o carestie. Insieme agli imprunetani, le porte si aprono per l’ordi- ne di San Filippo Neri, germogliato anch’esso per infondere nuo- va linfa al cattolicesimo fiaccato dalla rivoluzione luterana. Con

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Ignazio di Loyola, il fiorentino Filippo Neri è l’altro grande pro- tagonista della rinascita cattolica, anche se con metodi opposti. Da una parte i gesuiti, la disciplina dell’obbedienza e dello studio, l’ordine militaresco. Dall’altra il santo della gioia, il “papà” degli oratori per ragazzi, la congregazione senza voti o giuramenti. In tempi in cui la pedagogia è autoritaria e spesso manesca, Filippo si rivolge ai suoi ragazzi con tenerezza e allegria, introducendo il canto fra le letture del Vangelo. Il fiorentino non lascia ai posteri trattati di spiritualità, solo il suo esempio da seguire. Ma anche i padri filippini sono solo di passaggio in via Roma- na, in attesa della residenza definitiva, presto trovata a San Firen- ze. Nuovo giro di giostra per l’Oratorio dei Bini, che spolvera gli arredi e apre le porte ai monaci della Certosa. È il 1744 e i padri certosini si trovano alle prese con le tracce lasciate dai ragazzi di San Filippo. Si dedicano dunque a rimettere in sesto l’oratorio per farne un vero luogo di preghiera, costruiscono una lanterna nella cupola, aggiungono un organo. Ma non fanno in tempo a completare i lavori e già suona la campana delle soppressioni: pri- ma la leopoldina, poi la napoleonica. Da quel momento, l’antico oratorio vive periodi sempre più lunghi di degrado, alternati a brevi tentativi di recupero. Ma la dispersione delle opere continua. Mentre formalmente la com- pagnia degli imprunetani resta a San Sebastiano, nei fatti l’ab- bandono e la decadenza investono l’edificio. Negli anni le pitture vengono scialbate, si stacca un pezzo di soffitto, l’altare è smon- tato, le opere d’arte traslocate nella chiesa di San Felice, oppure consegnate ai depositi della Sovrintendenza. Ma il peggio è dietro l’angolo. Dal 1950 l’antica cappella si converte in cinema parroc- chiale, poi passa a sala prove per i musicisti del Teatro Comunale, e nel 1969 finisce addirittura in comodato a un laboratorio artigia- no per la lavorazione della pelle. Gli spazi interni sono capovolti, nuovi tramezzi si alzano per accogliere i macchinari. L’identità dello spazio si dissolve, umiliata dall’incapacità di dialogo con un passato complesso, stravolta da nuovi imperativi economici. Per- duta nell’incomprensione della funzione educativa e civile che il patrimonio gioca nella vita della comunità. Dell’antico oratorio rimangono solo i muri, testimoni muti del fluire di un tempo che parla una lingua sconosciuta. È il 1996 quando arriva don Gianfranco Rolfi, priore della chiesa di San Felice. Il sacerdote si ritrova a che fare con l’invec-

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chiamento del quartiere, la fuga dal centro delle famiglie, l’ab- bandono delle strade. Lo svuotamento di significato indotto dalla non appartenenza, dalla standardizzazione. Decide di dare un se- gnale: è tempo di costruire un territorio che abbia il coraggio del recupero comunitario. È tempo per il quartiere di riprendersi un pezzo di memoria, ricercando i nessi. Concentrandosi sull’appro- priazione civica del tessuto urbano a opera dei residenti, piuttosto che sul luna park di qualità destinato al turismo pronta-cassa.

Di quando un prete battagliero si mette in testa di far risorgere il passato

Sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, il com- battivo sacerdote – autore, peraltro, di discusse iniziative in altri ambiti parrocchiali – si lancia nell’impresa di rimettere in piedi l’antica cappella, per di più ripopolandola delle opere originarie. Don Rolfi lo sa: il microcosmo di via Romana è portatore dell’in- tero cammino del mondo. A quelle mura, sollevate da non si sa chi, sono aggrappate le radici più profonde del quartiere; in ot- tocento anni hanno visto i crociati all’attacco e la scomparsa dei catari, le cure agli appestati e le sepolture dei banchieri, le cene dei poveri e le preghiere dei ragazzi di strada. Sono mura larghe, messaggere di significato. Diventano memoria capace di produrre cittadinanza attiva, perché trasformano lo spettatore in protagoni- sta. Il museo immaginato dal sacerdote è luogo in cui collezione e società si identificano. In cui la comunità può ritrovarsi e accoglie- re le domande essenziali della lezione degli antichi; in cui l’Arte acquista un significato diverso perché trasmessa come possesso di ciascuno a coloro che verranno. Così don Rolfi si dà da fare per scoprire che fine abbiano fatto le opere che adornavano la cappella, disperse dal tempo e dall’incuria umana. È una ricerca fortunata: il gigantesco naufra- gio della Storia non le ha spazzate via. Ma per prima cosa bisogna recuperare gli spazi, affrancandoli dai tramezzi carichi di attrez- zature e pellame. Ecco che un pesante soppalco di ferro viene smantellato, l’ambiente liberato. E una volta restaurata, l’antica cappella riapre le braccia alle opere di un tempo, che vengono richiamate da depositi o musei in cui non riuscivano a esprimere alcun senso.

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Tornano, le opere pellegrine. Torna la statua di San Sebastia- no di Leonardo del Tasso, ricollocata nell’antico tabernacolo, fra san Giovanni e Maria Maddalena, e sovrastata dall’Angelo reg- gighirlande di Giovanni Bilivert. Torna il Crocifisso di Baccio da Montelupo, quello capace di non soffrire, di quasi non morire, per solo risorgere. Accanto a lui, ecco un altro splendido Cristo in croce stavolta piegato dal dolore, di scuola donatelliana, un po’ “contadino” come quelli del maestro quattrocentesco. E torna an- che l’ancona di Baccio d’Agnolo, staccata dagli Uffizi completa di Madonna dell’Umiltà, per riprendere il posto che le spetta. Quello per cui era stata pensata. Dopo secoli di polvere e dispersioni, l’antica cappella ricom- pare nell’impianto architettonico originario e si offre al quartiere come museo del territorio, da custodire e condividere. Un luogo per ricucire la vita quotidiana con la tradizione, ma anche pronto ad aprirsi all’innovazione, a sperimentare insolite iniziative locali, come Corri la Vita, annuale camminata di solidarietà che apre le porte di siti inesplorati alla fame di conoscenza di migliaia di fio- rentini. Bernardo Bini potrebbe essere soddisfatto. Il suo oratorio è stato ricomposto, e oggi accoglie i capolavori da lui stesso com- missionati, accanto ad altri, figli di un contesto che il quartiere sa ricostruire, riconoscere. Oggi da via Romana partono gli echi di un pellegrinaggio nel passato che arriva fino alle crociate, e che ci invita a una paziente ma feconda coltivazione della conoscenza: basta aprire gli occhi, e ascoltare.

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Orsanmichele e San Carlo dei Lombardi Due chiese sorelle dal destino segnato

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 49 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 50 10/05/21 14:51 Non molti la guardano, e pochissimi la vedono, nascosta com’è nell’andi- rivieni di via dei Calzaiuoli. San Carlo dei Lombardi, aspetto massiccio, facciata a capanna, gotico spoglio in arenaria: una chiesa dal destino se- gnato, da sempre in competizione con la sorella maggiore che le si erge pro- prio davanti, giusto dall’altro lato della strada, bella come nessun’altra, Orsanmichele. Due costruzioni legate da un filo indissolubile, che comin- cia a dipanarsi nel 1349, l’anno di nascita di San Carlo e di rinascita di Orsanmichele. Due edifici che condividono gli stessi architetti, si adornano degli stessi artisti, portano persino gli stessi nomi: entrambi dedicati a san Michele, il santo guerriero protettore dei longobardi; ed entrambi legati a sant’Anna, madre della Vergine. Due chiese sorelle, dunque, innalzate a qualche metro di distanza dagli stessi finanziatori. Ma perché? E perché il fato le tratta in modo così diverso?

Addio oratorio, nasce un mercato del grano

Unica e splendida la fortuna della maggiore, il monumento più “fiorentino” di Firenze. Una storia vecchissima, che guarda indie- tro fino alvii secolo. Narra di un piccolo monastero femminile, sostituito nell’895 da un oratorio di monaci benedettini, circon- dato da orti ben curati e chiamato San Michele ad hortum. È una probabile dedica al grande protettore del popolo longobardo, il vincitore di Satana: san Michele, la cui spada può ben essere abbracciata anche dalla bellicosa stirpe germanica, convertita al cattolicesimo dalla regina Teodolinda. Una piccola chiesa bene- dettina, dunque, intitolata al più potente fra gli arcangeli, e posi- zionata proprio nel cuore della città. Col tempo, il nome scivola da Orto di San Michele a Orsanmichele. Ma a Firenze l’equilibrio fra il cibo dell’anima e quello del corpo è sempre in bilico. Nella prima metà del Duecento – men-

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tre si scaldano i motori del “secolo d’oro” – la Repubblica decide che le chiese sono fin troppe. Per sostenere il balzo economico, è più utile spianare quel crocevia e convertirlo in mercato all’aper- to. Addio oratorio. Nel 1240 l’edificio sacro è abbattuto e la zona si apre al commercio del bene più prezioso, causa di guerra e condizione di pace, merce di scambio e dono degli dei, metafora di nutrimento divino e pegno di consenso sociale: il grano. Il punto è davvero ideale, praticamente all’intersezione fra i due assi stradali antichi, il cardo e il decumano. Una piazza na- turale con vocazione a luogo di incontro, di assemblea pubblica. I cronisti tramandano che proprio qui, in violazione della norma che vietava le esecuzioni dentro le mura, cadano gli Uberti tra- scinati fuori dalle case e decapitati in un rito cruento di pubblica vendetta: sangue ghibellino sulla terra dove si vendono e compra- no i grani. È il 1258, sono i popolani guelfi di Firenze a scendere in armi contro la schiatta avversaria, che due anni dopo rispon- derà con la nemesi di Montaperti. Ma i ghibellini hanno vita bre- ve, soprattutto con l’uscita di scena degli imperatori svevi. I feroci anni Sessanta lasciano il posto a un fine secolo di tregua politica e prosperità: gli affari per il Comune di Firenze decollano. E la Repubblica, impregnata del vento del rinnovamento, può focaliz- zarsi sulla progettazione architettonica dell’interesse pubblico. «E in questi tempi si fece per lo Comune di Firenze la loggia sopra la piazza di Orto San Michele ove si vende il grano, e lastricossi e ammattonossi intorno, la quale allora fu molto ricca, e bella opera e utile» (Giovanni Villani). Una loggia coperta, dunque, per pro- teggere grani e granaglie. A opera di Arnolfo di Cambio. È lui il vero artefice della Firenze eterna. A lui deve la vita il progetto urbanistico trecentesco che mira alla creazione di spazi pubblici per favorire la sosta, di piazze e mercati per incoraggiare i contatti sociali e gli scambi: una scelta di importanza decisiva per il modello di città in cui tutt’oggi abbiamo il privilegio di vivere. Il tetto di Arnolfo va dunque a coprire lo strategico slargo del grano, a metà strada fra i due astri architettonici nascenti, la nuova Catte- drale e il Palazzo dei Priori, custodi del cuore religioso e di quello politico di Firenze. Il pane si trova esattamente alla stessa distanza dall’uno e dall’altro: forse perché uomini meglio nutriti si assogget- tano più volentieri sia al governo del cielo che a quello della terra. E magari per assolversi dal peccato di aver abbattuto l’ora- torio per farne un mercato, o pensando forse a un’intercessio-

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ne divina sempre necessaria al progresso terreno, le figure di san Michele e della Vergine Maria vengono affrescate su due pilastri della nuova costruzione. Delle due, è sicuramente quella della Nostra Donna ad assicurarsi più seguito. Infatti dell’immagine dell’arcangelo non si sente più parlare.

Quella Vergine sul pilastro per tutelare i commerci

Dopo il ritratto miracoloso della Vergine custodito alla Santissima Annunziata, la colonna della loggia di via dei Calzaiuoli si aggiun- ge dunque alla mappa dei simboli del culto mariano a Firenze. Da sempre la città del fiore si rivolge a Maria come avvocata del popolo cristiano: una devozione che si concretizza in luoghi, riti solenni e date simboliche. Per esempio, il calendario civile fiorentino è scandito dall’Annunciazione e incarnazione di Gesù, il 25 marzo, considerato il primo giorno dell’anno. Quando il do- menicano Pietro da Verona sbarca in città per combattere l’eresia catara, chiede ai cittadini di affiggere davanti alle case una piccola immagine in legno o pietra della Vergine: fatto che darà origine a centinaia di tabernacoli ancora oggi sparsi ai crocicchi cittadini. E ancora, la prima pietra di Santa Maria del Fiore, cattedrale dedi- cata alla Madonna, è collocata l’8 settembre (1296), giorno in cui se ne celebra il compleanno. Insomma, il cuore di Firenze batte forte per la Vergine madre. Non c’è da stupirsi se la venerazione popolare spinge rapi- damente in alto le quotazioni della Madonna del pilastro di Or- sanmichele, la cui fama cresce, nutrita dalla speranza di aver ab- bastanza grano per il pane. Ma certo incide anche l’entità dello sviluppo, che sta spingendo in alto i bilanci fiorentini. Per ammi- nistrare la piccola fortuna assicurata dalle cospicue donazioni dei fedeli, nasce la Compagnia dei Laudesi, laici che si ritrovano tutte le sere a cantare le lodi all’immagine sacra. Davanti alla Nostra Donna che «sana infermi, rizza attratti e isgombra imperversati in grande quantità» si tengono giuramenti pubblici e privati. A lei si rivolgono clienti e venditori, operai e mercanti, per ricevere grazia. Per fame di miracoli, che puntualmente arrivano.

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Dopo i disastri del Trecento, il mercato risorge. E con lui l’immagine sacra

Ma agli inizi del Trecento un grave incendio divora il centro citta- dino. «E arse tutto il midollo, e tuorlo, e cari luoghi della città di Firenze, e furono in quantità, fra palagi, e torri, e case più di mille- settecento. Il danno d’arnesi, tesauri e mercantie fu infinito». La città di legno va a fuoco. Le fiamme passano da una casa all’altra, alimentate dalla promiscuità fra balle di lana e candele di sego nei fondachi dei lanaioli. L’incendio distrugge il portico del grano, portandosi via anche la venerata immagine. Ed è solo l’inizio. Le fiamme del rogo non sono ancora spente, e arriva la tre- menda alluvione del 1333; il fango del fiume è stato appena ripu- lito e sopraggiunge il crac finanziario di Bardi e Peruzzi, gettando nel panico Comune e concittadini. Il “secolo d’oro” sembra esau- rire la spinta propulsiva in una infinita serie di calamità. Maria diventa scudo contro l’ira divina, il popolo torna a invocarla, a richiedere la sua intercessione per le sciagure che gli si stanno riversando addosso. Da questo momento in poi non ci sarà care- stia o siccità, inondazione o contagio che non veda la Madonna dell’Impruneta – altra immagine sacra particolarmente cara alla cit- tà – scarrozzata per le strade del centro da fiorentini in cerca di protezione e conforto. A Orsanmichele bisogna correre ai ripari. La Repubblica non può permettersi esitazioni, il mercato del grano deve risorgere, ed è necessaria una nuova immagine cui appellarsi. Il Comune gira la richiesta di una Madonna delle Grazie a Bernardo Daddi, pittore mugellano allievo di Giotto, molto apprezzato dalla ricca borghe- sia cittadina in piena ascesa. L’artista si mette all’opera, stavolta su tavola. Ne viene fuori una dolce signora immersa nell’oro e circondata di angeli. Ha lo sguardo pensoso, sembra quasi che il Bambino cerchi di consolarla con una carezza. La figura – col- locata al posto del pilastro bruciato – incontra subito il favore dei fiorentini, che colgono l’empatia di quella Madre raffinata e assorta. La devozione popolare ritrova la sua paladina, una nuova Vergine del grano. Le offerte riprendono ed è anche grazie alla generosità delle donazioni che si possono completare i lavori per la ristrutturazione della loggia. Nel 1347 il rinnovato portico è operativo, con tanto di immagine sacra nuovamente al suo posto.

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La Signoria aveva affidato il compito della ristrutturazione all’Arte di Por Santa Maria, con la consegna di concepire un gra- naio «di forme quanto avesse creduto magnificenti». Il risultato degli sforzi dei tre progettisti – Neri di Fioravante, Benci di Cione e Simone Talenti – è in linea con le migliori aspettative. Perché il messaggio deve essere chiaro al mondo: Firenze non si piega alle sciagure, si rimbocca le maniche e va avanti. Sempre con un occhio alla Vergine, e l’altro ai mercati.

La liberazione dal tiranno e la peste del 1348: nasce Sant’Anna

Ma al peggio non c’è fine. Proprio quando la città sembra essersi rialzata, arriva il colpo più duro. Niente di ciò che fino ad allo- ra era accaduto, è paragonabile a quanto si scatena a partire dal 1348. Veicolata dalle pulci dei ratti, ospitata a bordo di navi, cullata nelle carovane che attraversano la via della seta, la peste nera ar- riva in Europa, estendendosi dalla Mongolia al Kirghizistan, dalla Turchia all’Italia, dall’Inghilterra alla Russia. È la peggiore cata- strofe mai sperimentata sul continente: venti milioni di persone scompaiano in mezzo ai tormenti. È un’infezione fulminante, si calcola che sei malati su dieci muoiano in pochi giorni, condan- nati alla solitudine per paura del contagio. «Un fratello l’altro ab- bandonava – scrive Boccaccio nell’introduzione al Decamerone – e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è quasi non credibile), li padri e le madri, i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano». L’epidemia piega anche Firenze, la popolazione è ridotta a un terzo. Sono anni di preghiere più che di commerci, l’esordien- te Madonna delle Grazie di Daddi non poteva ricevere battesimo più intenso. Molte le guarigioni prodigiose che le vengono accre- ditate, di nuovo il pendolo si sposta. I mercati possono attende- re, quel che ci vuole adesso è rivolgere lo sguardo verso il cielo e chieder grazia. Agli stessi tre architetti che avevano rimesso in piedi la loggia di Orsanmichele, nel 1349 viene commissionata una cappella proprio al di là della strada, sempre su un terreno del vecchio Oratorio di San Michele in Orto. La tirano su a tempo

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di record. Non ci si domanda neppure a chi consacrarla: è una chiesa per sant’Anna, rievoca la recente cacciata da Firenze del dispotico Gualtieri di Brienne, duca d’Atene, avvenuta per sol- levazione popolare proprio nel giorno dedicato alla madre della Vergine, il 26 luglio. Il racconto di questa sollevazione pubblica contro un gover- nante tiranno ha assunto nella Storia caratteri mitologici. L’evento già all’epoca fa scrivere al cronista Villani: «S’ordinò per lo Comu- ne, che la festa di Santa Anna si guardasse come Pasqua sempre in Firenze». Il duca è un nobile francese legato agli Angioini (che ad Atene non ha mai messo piede). Chiamato come podestà a di- rigere gli intricati affari della Repubblica perché straniero e non legato a interessi di parte, riesce in pochi mesi a scontentare tutti, proprio rifiutandosi di schierarsi con qualcuno. Errore fatale a Firenze. Non abroga gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella (1293), che avevano dato il potere alle Arti di grandi e pic- coli imprenditori, e dunque si aliena la nobiltà magnatizia; cerca di aumentare il potere delle Arti minute e così facendo spaventa i popolani grassi; prende per la prima volta nella storia provvedi- menti favorevoli al sottoproletariato urbano, ma poi ne riempie le carceri. Insomma, «Firenze non si muove se tutta non si duo- le» dice un proverbio. E Gualtieri riesce nell’impresa da pochi in verità mai conseguita: riunire la città in un’unica rimostranza corale. Un vero furor di popolo. A dieci mesi esatti dalla nomina, il duca di Brienne deve fuggire dalla porta posteriore di Palazzo Vecchio per evitare il linciaggio. Nel giorno di Sant’Anna del 1343 la libertas comunale è ristabilita, evento che i vincitori continuano a celebrare nel tempo, non senza una certa retorica. Evento che spinge la madre della Vergine nel pantheon dei santi più amati dai fiorentini, patrona di un potere comunale che sa difendere se stesso dall’arroganza dei forestieri. E, adesso, anche madre titola- re di una chiesa tutta sua. A questo punto, dopo la rapida edificazione della cappella, la situazione in via Calzaiuoli sembra assestata. Da una parte il rinnovato mercato del grano, dove Andrea di Cione detto l’Orca- gna, come atto d’omaggio dei superstiti della pestilenza, comin- cia a innalzare un prezioso tabernacolo a cornice dell’immagine dipinta da Daddi (che nel frattempo è morto di peste). Dall’altra, in omaggio alla riconquistata libertà – e anche grazie alle offerte intercettate dalla Madonna di Orsanmichele durante la pande-

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mia – prende vita la nuova chiesa di Sant’Anna. È una semplice struttura a navata unica, con soffitto a capriate di legno, come una basilica paleocristiana. Qui lo stesso Orcagna realizza un severo Crocifisso ligneo ancor oggi visibile. Stessi architetti e stessi artisti per due costruzioni dirimpettaie: una nuova chiesa e un vecchio mercato con annesso tabernacolo sacro. L’equilibrio sembra rag- giunto. Poteva durare?

Dietrofront: l’orto di San Michele torna chiesa

Passano gli anni, la peste si allontana, e il rimbalzo seguìto al crol- lo economico spinge in alto la lavorazione dei tessuti, il bisogno di manodopera. Lievitano scambi e profitti, e con essi la devozione all’immagine mariana per lo scampato pericolo. Certo all’interno del mercato del grano la crisi ha moltiplica- to i fedeli a scapito dei consumatori. La fama dell’immagine sacra è tale che crescenti folle di devoti rendono poco agevole il com- mercio. Inoltre, se il gioiello gotico di Orcagna protegge il dipinto miracoloso, adesso c’è il problema di come difendere il prezioso tabernacolo dal via vai degli acquisti, dallo scarico delle merci. Insomma, visto che in ogni modo la vendita si trova a cedere il pas- so alla preghiera, i pratici mercanti fiorentini si dicono pronti a finanziare un gesto di concreto ringraziamento alla Nostra Donna per la protezione offerta durante la pandemia. Decidono dunque di riportare la loggia alle antiche funzioni religiose. Sono tempi di rapidi giudizi e ancor più rapide attuazioni. I lavori cominciano dalle arcate perimetrali, che vengono tampo- nate pur mantenendo la struttura a “trifore”. Poi si aggiungono le vetrate. In breve si rifà una chiesa che prenda il posto del mercato che aveva scalzato l’oratorio. Sarà un tempio senza campanile e senza croce, un paralle- lepipedo a forma di deposito, in memoria dell’antica funzione mercantile. E poco importa se il tabernacolo occupa la campata destra, e per l’altare rimane solo lo spazio a sinistra, completa- mente decentrato. Ma... e il grano? Magnifico il pragmatismo fiorentino. I mercanti non rinne- gano la necessità di un magazzino nel cuore di Firenze: la fine del mercato non significa che il frumento cambi posto. Sarà solo spostato ai piani superiori, previsti già nel progetto originario del-

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la loggia mercantile, e finalmente costruiti. Una chiesa sotto, un granaio sopra. Per accudire anima e corpo, nutrire sacro e profa- no. Ancora le due facce della stessa medaglia, come quel fiorino d’oro che affigge il giglio da una parte, san Giovanni dall’altra. Se prima le due funzioni erano divise da una strada, adesso vengono riunite nello stesso edificio.

Così sant’Anna attraversa la strada e si ricongiunge alla figlia

A questo punto la storia delle due chiese sorelle diverge brusca- mente. La loggia torna luogo di fede, con apposite buche scavate nei pilastri per far calare il frumento dall’alto e rifornire mercanti e fornai tra un vespro e una compieta. Accanto al capolavoro di Orcagna dedicato a Maria si fa spazio un altare per sant’Anna, il cui culto trasloca qui armi e bagagli. La madre a fianco della figlia, invece che al di là della strada: una sorta di ricongiungimento familiare. Straordinaria la coniugazione simbolica di questa scelta della Repubblica: un luogo civile ritorna territorio liturgico, ma rivendica anche il titolo di protettore della “libertà” comunale. Il ceto mer- cantile, sgominato il pericolo magnatizio ma anche quello tirannico di Gualtieri, si propone come difensore e custode dell’autonomia civile. La Firenze guelfa – nera e papalina – non poteva declinare più chiaramente il proprio credo. Una sola chiesa dice tutto. Dall’altra parte di via Calzaiuoli, al tempio privo d’immagini votive vengono sfilati il nome e il patronato, e riassegnato l’appel- lativo rimasto vacante tanto tempo prima: non sarà più Sant’Anna, ma San Michele, in ricordo del preesistente San Michele in Orto buttato giù per far posto alle granaglie (e adesso ricostruito). Un titolo di seconda mano, terribilmente simile al nome della primi- genia chiesa dirimpettaia. E ancora una volta è lo stesso architetto che aveva chiuso la nobile loggia, Simone Talenti, a completare la facciata del tempio minore, con pietre estratte dalle cave di Bobo- li. Triste destino per un edificio il cui branding è stato scippato, e che si ritrova a “competere” con l’ex mercato per le stesse funzioni religiose. E non solo: fondata su una solida radice mercantile, l’ex Loggia del grano tornata chiesa diventa tempio prediletto delle Arti. Un patrocinio destinato a dilatarne la fortuna nel tempo.

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Ed ecco Orsanmichele, la regina delle Arti

È il 1404. La Repubblica autorizza la richiesta di affidare un pi- lastro esterno di Orsanmichele alle corporazioni più importanti perché lo decorino con le statue dei santi patroni. Le Arti hanno un tempo massimo di dieci anni per concludere i lavori: ma l’ulti- ma statua – il San Luca di – arriverà addirittura nel 1602. Una competizione lunga duecento anni tra le forze all’o- rigine del miracolo politico-economico fiorentino. Per lasciare un’impronta nei secoli. Le corporazioni fiorentine godono (per ora) ottima salute. Firenze è «la repubblica più repubblicana che il mondo abbia mai visto», con migliaia di cittadini in grado di accedere a rotazione a un ufficio di governo. Il papa a Roma, i Visconti a Milano, l’oli- garchia veneziana continuano a impedire ciò che a Firenze riesce benissimo fino al consolidarsi del dominio mediceo: l’affermazio- ne di un potere mercantile e borghese. «Firenze fu il centro di una così grande cultura perché fu la sede delle maggiori libertà che erano allora possibili» scrive sempre il nostro Villani. Dunque libertà di produrre, di scambiare: libertà in nome del grande svi- luppo economico e commerciale di cui le Arti sono promotrici. In questo contesto si colloca il codice simbolico della decorazione di Orsanmichele, monumento all’operosa prosperità dei mercanti fiorentini: glorificando i santi patroni, le statue non devono man- care di celebrare le terrene virtù di chi quelle opere finanzia. Quattordici gli spazi a disposizione, ventuno le Arti citta- dine, di cui sette maggiori (gli imprenditori, o popolo grasso), quattordici minori (gli artigiani, il popolo minuto). Ma come assegnare le cappelle? È un sistema di graduatorie multiple quel- lo che sottende l’elaborazione delle nicchie esterne: più presti- giosa la corporazione, più importante il patrono scelto per rap- presentarla, più celebre l’artista chiamato per l’incarico, e più preziosi i materiali coinvolti. Ma fra tutte le gerarchie, quella del denaro è la risolutiva: per mancanza di fondi nel 1419 i poveri Fornai devono rinunciare all’edicola per l’amato san Lorenzo, fra i più venerati a Firenze, e spostare il protettore all’interno della chiesa. Nella loro lunetta la ricca Arte del Cambio isserà un San Matteo di bronzo, chiedendo il lavoro a Lorenzo Ghiberti, il re delle fusioni, cui anni più tardi si rivolge anche l’Arte della Lana per ottenere Santo Stefano.

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Al lavoro nei numerosi cantieri cittadini d’inizio secolo, i grandi scultori sono sempre gli stessi, e non è facile aggiudicarseli; anche questo spiega lo sforamento dei tempi previsti per comple- tare le opere commissionate. In più, c’è voglia di magnificenza, urgenza di innovazione: il materiale del momento è il bronzo, assai più costoso e complicato del marmo, ma pochissimi sanno usarlo. Fra loro, appunto, Ghiberti. La prima a rivolgersi a lui è la potente Calimala, l’Arte più antica, cui è affidata l’Opera del Bat- tistero e che si compiace della protezione del patrono cittadino. La comunità dei mercanti di Calimala è disposta a ben pagare per un San Giovanni Battista di quasi tre metri, in bronzo: una fusione mai tentata prima. Ghiberti esita. Certo l’onore è grande, ma una cosa è fondere formelle per la porta nord del Battistero, opera in cui è al momento impegnato. Un’altra è realizzare un monu- mento così imponente a cera persa, e a maggior ragione quando nel contratto c’è scritto che se l’artefice dovesse sbagliare dovrà rifondere la corporazione di tasca propria. La cera persa è una tecnica complessa, prevede passaggi da modelli di argilla a calchi in gesso, travasi da stampi di cera a sa- gome riempite di bronzo fuso. Dopo molte esitazioni lo scultore accetta. Ma, per non correre rischi, decide di fondere la statua in quattro pezzi e poi assemblarli. Ecco il perché delle sproporzioni del San Giovanni, di quel capo maestoso, le spalle gracili: siamo nel 1415, e la prospettiva è ancora tutta nella testa di Masaccio. O forse no. Ronza anche in quella di un certo , ingaggiato dai Corazzai e Spadai, che chiedono la statua del patrono-guerriero san Giorgio. L’Arte è minore, il marmo è quello di sempre. Ep- pure l’artista tira fuori una figura straordinaria: il viso pensoso si è liberato dell’aureola, le gambe ancorate a terra trasmettono al busto una tensione palpabile. Il santo è pronto a sferrare il colpo nella battaglia contro il drago, emana un’energia fiera e raccolta: lo stesso vigore che Michelangelo riuscirà a trasfondere nel Davi- de, fotografato prima che lanci la fionda contro Golia. Belli questi nuovi santi, esponenti del “sopramondo celeste” che troneggia sul mondo terreno della vicenda municipale. Se Reparata, Zanobi, Miniato sono i nobili custodi della civitas an- tiqua della seconda cerchia di mura (tanto rimpianta da Dante), il tempo è maturo per un nuovo pantheon, che celebri l’operosa virtù di nuove classi sociali.

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Ed ecco le grandi mani scolpite nel marmo da un Brunelle- schi giovane a San Pietro, il pescatore di anime scelto dalla Cor- porazione dei Beccai nelle cui file militano anche i pescivendoli. Il Tribunale di Mercanzia chiede a Verrocchio un San Tommaso incredulo, pronto a mettere la famosa mano nel costato del Signo- re. L’Arte vuole due figure in bronzo: sono passati sessant’anni dai tempi del San Giovanni di Ghiberti, la tecnica si è affinata, niente più timori per Verrocchio che se la cava benissimo con una gittata unica. Ma l’artista forse non prende bene le misure: a Cri- sto manca la parte posteriore, certo “risparmiata” perché la statua è destinata a un tabernacolo. Ma San Tommaso non riesce proprio a entrare nella nicchia e lo devono posizionare un po’ fuori e un po’ dentro, con un piede appoggiato a una colonna. Uno sforzo senz’altro comune ad altri artisti, alle prese con la grandiosità delle ambizioni e la realtà delle dimensioni delle nic- chie. Vasari racconta di come Donatello in persona corra in aiuto a un Nanni di Banco disperato perché dei Quattro santi coronati da lui prodotti su commissione dei Maestri di Pietra e Legname, solo tre riescono a stare nell’edicola. «Se tu mi paghi una cena con i miei giovani di bottega – dice Donato nelle parole di Vasari – te la sistemo io». Così lo scultore «scantonò a quelle statue a chi le spalle et a chi le braccia talmente, che facendo luogo l’una all’al- tra, le accostò insieme, facendo apparire una mano sopra le spalle di una di loro. E le commesse così unite, che co’ ’l savio giudizio suo ricoperse lo errore di Nanni [...] e chi non sa la cosa, non si accorge di quello errore». A sentire Vasari, il povero Nanni fu ben felice di pagare la cena a Donatello e a tutta la sua squadra. Poi si è scoperto che le statue teoricamente “ravvicinate”, sono in realtà scolpite in un blocco di marmo unico: e dunque? Ennesimo depistaggio di quel mattacchione dell’architetto del regime mediceo? Vera o falsa che sia, questa storia evoca comunque lo straordinario contesto – narrato attraverso la lente vasariana – in cui fiorisce il cantiere dei tabernacoli di Orsanmichele nel decennio fra il 1410 e il 1420 e oltre. Nata per ostentare il prestigio delle corporazioni, questa fucina diventa manifattura d’arte ai massimi livelli. Gli artisti più grandi sono all’opera, in continua competizione, spalla a spalla, dando vita a un ciclo scultoreo che non ha eguali: un compendio di quanto di meglio l’arte monumentale sappia produrre, sunto del passaggio fra gotico e umanesimo. Con il San Giorgio di Dona-

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tello che si pianta al centro di tutte le cose, inaugurando il Rina- scimento dall’alto del pilastro di un ex granaio.

E San Michele? Si consola con la Controriforma diventando San Carlo

E mentre la fulgida Orsanmichele si converte nella celeberrima chiesa delle Arti, dall’altra parte della strada la sobria San Miche- le si rassegna a una vita nell’ombra. Neppure indirettamente ha potuto godere degli ardori dei commerci di granaglie; non ha be- neficiato di rilievi marmorei o inserti cromatici preziosi; soprat- tutto non è mai stata animata dalla devozione per una Madonna miracolosa, e adesso le hanno pure tolto il patronato della libertà repubblicana. Però è vero che certi artisti continuano a operare su entram- bi i fronti, regalando ora all’uno ora all’altro dei due edifici quan- to hanno di meglio. È il caso del pittore Niccolò di Pietro Gerini, prolifico seguace di una tarda scuola giottesca, autore degli af- freschi dell’Ospedale di Santa Maria Nuova. È lui a disegnare le vetrate di Orsanmichele, raccontando attraverso i vetri, tagliati e fusi nel colore, i miracoli del sacrestano annegato, della badessa peccatrice o della donna morente. Ed è sempre lui, passando la mano a Ghiberti in Orsanmichele, a trasferire macine e pennelli al di là della strada, dove realizza quello che viene considerato il suo capolavoro: il Compianto su Cristo morto di San Michele. È questa una dolente composizione del corpo di Gesù a ope- ra di Maria, Nicodemo, le pie donne. Un racconto affollato di personaggi, vesti, particolari preziosi, che dopo una vita trascorsa agli Uffizi è oggi ricollocato nella sua sede originale, proprio so- pra l’altare. Per secoli si era accettata l’idea di Vasari, secondo il quale il dipinto era destinato a Orsanmichele. Ma gli studi di un recente restauro lo smentiscono: la tavola ha uno spessore ridotto, come se dovesse fondersi nel muro, e nella parte bassa presenta una cornice che probabilmente continuava in parete, innestandosi in una serie di affreschi. Inoltre la tonalità generale del dipinto tende all’opacità, la stessa che le decorazioni affrescate in cui la tela era impiantata avrebbero sviluppato nel tempo. Oggi non si hanno dubbi, il Compianto non è di Orsanmichele, è stato fatto

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per San Michele. Il probabile frainteso nasce sul nome che ac- comuna all’epoca gli edifici: e forse anche su questa scomoda omonimia si gioca il destino della sorella negletta, in perpetua crisi identitaria. Messo in soffitta anche l’arcangelo guerriero, nel 1616 l’ex Sant’Anna, ex San Michele cambia per la terza volta appellativo e si converte in San Carlo dei Lombardi. Il nuovo santo innalzato sugli altari è ancora una volta simbolo del divenire dei tempi, del fluttuare di orizzonti e interessi. Siamo nel Seicento, il Granduca- to mediceo si avvia inesorabilmente al declino. Ai fattori di regres- so a livello europeo – guerre di religione, pestilenza, carestie – si aggiungono quelli interni: manifatture in crisi, mercati schiacciati dalla concorrenza inglese o olandese, crollo demografico. Le cas- se dello Stato toscano peggiorano a tal punto che in certi mercati contadini si torna addirittura al baratto. In compenso l’Inquisizio- ne va alla grande, Giordano Bruno è finito al rogo e Galileo sarà condannato alla reclusione forzata dal Sant’Uffizio. È in questo clima da indice di libri proibiti, che Cosimo ii de Medici concede la chiesa di San Michele a una compagnia di de- voti a Carlo Borromeo, ascetico cardinale e anima della Controri- forma cattolica, appena canonizzato dal papa. Finalmente titolare di un destino proprio, la novella chiesa di San Carlo sembra pa- radossalmente vivere il momento dorato tanto atteso: la rivincita sulla Storia che ha ormai spento le luci del Rinascimento. E mentre la confraternita della “nazione lombarda” s’insedia in via Calzaiuoli, il Ducato toscano cade lentamente nella stagna- zione, per di più abbandonato da governanti inetti nelle mani di un clero arrogante e vessatorio. Il delicato Compianto di Gerini, non più in linea con i tempi, viene epurato dall’altare. Al suo po- sto troneggia un gigantesco ritratto della Gloria di san Carlo Borro- meo realizzato in un lampo da Matteo Rosselli, ispirato interprete dei canoni controriformisti in campo pittorico, codificati proprio dal defunto cardinale. L’arte è al servizio della Chiesa di Roma, strumento di fedeltà alla tradizione cattolica. Il suo compito? Di- dascalico: deve essere sobria e conforme alle verità delle Scrittu- re. Deve educare, commuovendo i fedeli che cercano nei beati lo specchio di se stessi. Via dunque tutto ciò che è incerto, profano, lascivo. Basta scene idilliache o ammiccanti, meglio le torture dei santi. Basta colori accesi, son più efficaci le atmosfere drammati- che, tetre. Per mettere in scena il grande spettacolo della fede,

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la cabina di regia vuole il buio squarciato dalla luce. Il Barocco è ormai dietro l’angolo. La novella San Carlo dei Lombardi è luogo ideale per i nuo- vi dettami: il teatrale Borromeo di Rosselli splende in un tripudio di attributi, tanto da offuscare persino il Padreterno, poco sopra. Mentre le lunette intorno all’altare descrivono in toni vibranti la vita del potente arcivescovo di Milano, protagonista indiscusso del gran finale del Concilio di Trento. È noto l’impegno del cardinale per i poveri e i malati, la sua opera moralizzatrice sui costumi del clero, la severa applicazione della riforma tridentina nella diocesi ambrosiana. Meno noto forse l’uso di tortura e roghi che Borro- meo – in linea con i tempi – autorizza per reprimere i luterani svizzeri. Il suo fare rigoroso gli crea non pochi nemici. È oggetto di dura contestazione da parte di varie congregazioni religiose, tra cui i frati minori osservanti e i canonici di Santa Maria della Scala. Ma sono gli umiliati a scendere in campo con propositi più risoluti, proprio loro, quei monaci lombardi scesi in Toscana per battere le lane in Arno alla metà del Duecento. Quando un frate spara un colpo di archibugio alle spalle del cardinale raccolto in preghiera, gli attentatori arrestati vengono messi a morte, l’ordi- ne soppresso e gli umiliati devono abbandonare la chiesa che ave- vano costruito, Ognissanti. Borromeo si salva, morirà pochi anni dopo di malattia. An- che San Carlo dei Lombardi si salva, oggi è la sede dell’Arciconfra- ternita di Parte Guelfa. Ma il tempo ha fatto giustizia, rifiutando l’arte come strumento ideologico piuttosto che monumento alle libertà dell’immaginazione. Mettendo al bando l’arte validata da un Sant’Uffizio qualsiasi. Oggi ilCompianto di Gerini, restaurato con i fondi raccolti da un quotidiano giapponese (sigh), riprende il proprio posto sull’altare maggiore. Il Borromeo di Rosselli finisce all’angolo, in una parete laterale sopra la porta. Oggi in via dei Calzaiuoli – quando riesce ad alzare lo sguardo da vetrine e cel- lulari – una folla frettolosa accarezza la chiesa che ha inventato il Rinascimento, piuttosto che quella che ha ospitato l’Inquisizione. D’altronde il destino delle due costruzioni era segnato: sant’Anna non aveva alcuna chance contro una figlia miracolosa. Non nella Firenze delle Arti.

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Il Museo dell’Istituto degli Innocenti La salvezza attraverso una grata di ferro

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 65 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 66 10/05/21 14:51 Chi abbandona un neonato lo fa di notte, quando è più facile scivolare nel buio e trovare la forza di travasare la sorte di un bambino dalle braccia della madre a quelle del fato. In seicento anni, oltre mezzo milione di trovatelli è lasciato sulla finestra ferrata dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, dove i piccoli sono accolti, alloggiati, cresciuti. Indirizzati verso una vita propria, a patto che riescano a sopravvivere al periodo più letale, quello dello svezza- mento. Lo straordinario archivio dell’Istituto raccoglie seicento anni di storie – una per ogni “esposto” – corredate dalle medaglie, le monete, i nastrini con cui i bambini potevano essere reclamati dai genitori. Oggi anche un museo racconta la vita di questa “fabbrica dell’accoglienza” ininterrottamente im- pegnata da seicento anni nella missione originaria di servizio all’infanzia.

Monete e medaglie lasciate tra le fasce come segni di riconoscimento

È il 30 giugno 1875, sono le dieci di sera e nel giro di mezz’ora due corpicini avvolti in fasce vengono deposti sulla finestra ferrata dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, la prima istituzione laica e pubblica nel mondo a occuparsi in modo esclusivo di assistenza all’infanzia. Mani anonime spingono i piccoli attraverso la grata di ferro, chiamata “presepe” per addolcire l’approdo in brefotrofio. Due statue raffiguranti la Madonna e san Giuseppe – posizionate inter- namente accanto alla grata – accolgono l’arrivo dei piccoli Gesù senza presente, affidati alla carità collettiva per avere un futuro. Le maglie della finestra sono strette, costruite ad arte per far pas- sare solo i neonati. Dietro quella grata, chi abbandona spera ci sia un porto sicuro, una nutrice, del latte. Una vita purchessia. Accanto alla ferrata, un campanello. È sufficiente suonarlo e non c’è più ritorno: chi ha deposto il fardello si può dileguare nel

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buio da cui proviene, mentre la sorvegliante avverte la balia di tur- no. I gittatelli sono sollevati dal “presepe” e sistemati in un giaciglio di prima accoglienza. Ciascuno riceve un posto nel registro Balie e Bambini e un nome a capriccio di chi lo accoglie: i due piccoli arrivati nella notte del 30 giugno vengono battezzati Laudata e Ul- timo. Due nomi che hanno un posto importante, e torneranno in questa storia. Fra le fasce affiorano i relitti di una vita appena anda- ta in frantumi: un bigliettino con poche righe stentate, una mezza medaglia, una moneta tagliata a metà. Sono i “segni”, corredo di un passato breve e tormentato. Uniche tracce che potrebbero un giorno riportare un genitore in ginocchio davanti al trovatello, e che finiscono archiviate in una cassapanca dell’Istituto. Ognuno dei bimbi avrà presto una balia e sarà mandato in campagna a «re- spirare aria buona». Se sopravvive, sarà affidato a una famiglia di contadini, forse un giorno sarà reclamato dai genitori, più proba- bilmente tornerà in Istituto. I maschi finiranno a zappare la terra o ad alimentare le botteghe fiorentine di mano d’opera specializza- ta. Le femmine sono destinate a cucire o tessere per lo Spedale, le più fortunate a riciclarsi in domestiche di famiglie facoltose. Ogni passaggio dell’esistenza dei nocentini è annotato nei registri. Un affresco multiforme creato dai piccoli grandi eventi di ogni parabola umana, inclusa la morte. In seicento anni, circa 500.000 bambini consegnano la propria storia – oltre alla propria vita – all’Istituto degli Innocenti di Firenze, ricovero per «creature nate da donna che non consente di essere nominata». Oggi tredicimila fascicoli accuratamente conservati ci nar- rano dell’arco di tempo che va dal xv al xx secolo, delle politi- che e delle leggi, dei pregiudizi e delle carestie, delle epidemie e dei fatti d’arme. Un archivio senza precedenti, portale di acces- so all’umano possibile radiografato in migliaia di files. Attraverso quel mondo di storie, la memoria dell’Istituto diventa quella della città, dell’infanzia tutta.

Povertà, lacerazioni, solitudine: dietro i bimbi, le storie di donne “non in regola”

Frutto della grande stagione umanistica fiorentina, l’Istituto è fondato nella prima metà del Quattrocento, quando abbandono e infanticidio sono una vera piaga sociale. La struttura è fin dall’ini-

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zio un ente laico e pubblico, sostenuto da donazioni private. Sono l’Arte della Seta e la Repubblica fiorentina a mettersi d’accordo per la costruzione di un ospizio dedicato esclusivamente ai trova- telli: ma l’idea può concretizzarsi solo quando un lascito di mille fiorini arriva a tale scopo nei forzieri della potente corporazione. Ne è autore Francesco Datini, mercante e banchiere pratese di modeste origini, divenuto artefice di una straordinaria fortuna stimata all’epoca della morte in 100.000 fiorini d’oro. «Nel nome di Dio e del guadagno» è la sua formula di vita, e quando questo self-made man si trova senza eredi cui lasciare immobili e azien- de, non gli resta che rivolgersi a Dio. Magari anche per facilitare l’intercessione celeste, visto che il peccato d’usura è ancora con- siderato mortale. Così tutti i beni di Datini finiscono in beneficen- za, ed è una vera fortuna per molti fanciulli abbandonati, inclusi quelli di Firenze. Il progetto per la costruzione dell’immobile è affidato dall’Arte della Seta al principe degli urbanisti, Filippo Brunelle- schi, che inizia i lavori nel 1419 inaugurando il Rinascimento in architettura. La fabbrica va avanti nel tempo, anche perché Bru- nelleschi deve fare la spola fra più cantieri, non ultimo quello della cupola del Duomo. Finalmente il 5 febbraio 1445 la prima bimba “innocente” atterra sulla ferrata: si chiama Agata Smeralda dal nome della santa patrona del giorno, e sappiamo dalla sua scheda che cambierà tre balie. Figli della colpa o (soprattutto) della miseria, i neonati con- tinuano a essere accolti, nei secoli, a un ritmo quasi costante. Sono in maggioranza femmine, come le madri che le partorisco- no. Scartabellando i fascicoli delle creature, si intravedono storie di indigenza estrema, di solitudine, di lacerazioni. Di donne co- munque “non in regola”, cui la morale dominante – e poi la leg- ge – non consentono di riconoscere i figli. Per loro e i loro bimbi, il brefotrofio è l’unica soluzione. Nasce il mercato del latte, l’o- ro bianco da cui dipendono vita e fortuna di intere famiglie. Di donne che allattano al posto di altre donne. Casate benestanti in cerca di nutrici da una parte, madri povere o illegittime dall’altra, contribuiscono ad alimentare la fiorente attività e con essa anche l’abbandono dei bambini. Le famiglie aristocratiche – e più tardi borghesi – accettano come balie solo madri senza figli: non di rado una donna è costretta a lasciare la propria creatura all’Istituto­ per poter entrare a servizio come nutrice. Quel bambino sarà allevato

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da un altro seno, un’altra madre sarà pagata per tenerlo in vita. E così via, nel circolo senza fine dell’allattamento mercenario.

Dove gli “innocenti” vengono affidati a contadine pagate per allattarli

Se nei primi secoli lo Spedale si rivolge esclusivamente a nutrici interne, presto ci si rende conto che epidemie e carestie si com- battono meglio da altre trincee. Nasce il baliatico esterno, gli “innocenti” sono affidati a contadine pagate per allattarli in cam- pagna. Una volta svezzati, i bimbi passano a famiglie di tenuta- ri, anch’essi salariati per accoglierli. Una carità assoldata a scopo economico, che non sempre genera lieto fine. I registri racconta- no di ripetuti cambi di famiglia, di denunce anonime, restituen- doci l’immagine di un’infanzia spesso oltraggiata. Come nel caso di Paolo Z., affidato a una famiglia di Lamporecchio già tenutaria di altri due bimbi. Dopo quasi due anni il direttore dell’Istituto riceve dal sindaco una lettera in cui lo si informa che: «[...] tutti e tre i gittatelli non sono tenuti bene, per via dello stato di eccezio- nale miserabilità dei tenutari». I bambini vengono allora ripresi dallo Spedale. Paolo è consegnato a una famiglia di Scarperia, ma quattro anni dopo una nuova lettera anonima accusa la tenutaria Annina: «[...] lo tiene sporco, lo bastona continuamente, lo mette a letto senza mangiare [...] tanto che il bambino si sente piangere fuori nei campi, da lontano, cosa che fa gran pena». Ancora una volta Paolo torna agli Innocenti. Solo la terza famiglia riuscirà ad accoglierlo con umanità, e a farne un uomo.

L’impennata di abbandoni “patriottici”

Non è il caso di Paolo, ma molti gittatelli vengono poi ricercati dai genitori, spesso coppie sposate che si presentano provviste dell’al- tra metà di monete, nastrini, biglietti lasciati sui corpi dei figli pri- ma di spingerli tra i ferri del “presepe”. Accumulati a migliaia nel tempo, questi segni raccontano il passare delle epoche, marcano gli eventi. Narrano lo strazio dell’abbandono insieme al contesto in cui nasce. Per esempio, con l’Unità nazionale si ha un’impen- nata di oggetti e nomi inneggianti al Risorgimento, come nel caso

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di un bimbo lasciato il 6 marzo 1861 con la metà di una meda- glietta e un biglietto in cui si avverte che «è un maschio di nome Vittorio, Garibaldi e Camillo, ed è battezzato!». Nessuna traccia del patriottismo dei genitori rimane però in chi lo accoglie: Vitto- rio Garibaldi è rinominato Democrito, e affidato a una nutrice di Uzzano che riceve un salario di 9 lire al mese per nutrirlo. Il 19 marzo, proprio all’indomani della nascita ufficiale del Regno d’Italia, arriva in Istituto una neonata con un biglietto: «fi- glia d’Italia». Ma anche per lei non c’è nessun battesimo patrio, diventa Faustina ed è mandata a balia prima a Lamporecchio, poi a Figline. Il 13 settembre atterra nel “presepe” una bimba battezzata Raffaella e inviata in campagna a Reggello. Poche settimane dopo il padre, maggiore dell’Esercito Meridionale che ha combattuto per l’Unità d’Italia sotto Giuseppe Garibaldi, scrive all’ospedale spiegando le ragioni dell’abbandono: «perdurante la lontananza da Firenze e per circostanze critiche nelle quali trovavasi la mo- glie Giuditta, questa fu necessitata di far depositare in cotesto Pio Stabilimento una Creatura da lei partorita nell’Ospedale di que- sta città di Firenze [...] battezzata col nome Italia Maria». Scrive inoltre che «ama ardentemente di riprendere la sua figlia, colla quale, ed insieme colla madre, vivrà lieto e contento». Il 5 ottobre, dopo aver passato il test dei “segni” lasciati sulla neonata, i genitori si riprendono Italia Maria. Storia a lieto fine anche per Garibal- di-Democrito: sempre nel registro di Balie e Bambini si legge che a maggio dell’anno successivo viene reclamato dai genitori, e torna a vivere con loro a Empoli. Meno fortunata invece la «figlia d’Italia», Faustina: a dicembre viene rimandata in Istituto perché sospetta di una malattia contagiosa, forse sifilide. E muore in dieci giorni.

La fine dell’anonimato: dal 1875 per lasciare un bambino ci vuole la firma

Le malattie falcidiano i bimbi “esposti”, ma non ne rallentano l’approdo sulla ferrata, che resta costante nel tempo. Ogni anno per secoli, circa cinquecento bambini arrivano al “presepe”, una sorta di tasso fisiologico su cui l’Istituto prende il ritmo. Ma, a partire dalla seconda metà del Settecento, gli abbandoni si inten- sificano, raggiungendo quota mille ai primi dell’Ottocento, per poi impennarsi improvvisamente e superare i duemila ricoveri nel

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1850. Una media di quasi sei bambini al giorno, con punte anche più elevate. Tali da costringere a vorticosi salti di fantasia nell’at- tribuzione dei nomi, come si evince dal registro del 1° gennaio 1855, quando – dopo la morte per convulsioni e senza battesimo della prima gittatella – i bambini accolti in mattinata vengono chia- mati Secondo Dell’Anno, Prudenza Dell’Enno, Pazienza Dell’In- no, Pietro Dell’Onno e Perpetua Dell’Unno... Perché? Cosa spinge migliaia di genitori a disfarsi così dei propri figli? I progressi della medicina e della scienza, l’avanzare dell’industrializzazione, l’euforia del momento storico, l’aumento dei matrimoni, tutto contribuisce al forte incremento demografico. Ma nell’Italia risorgimentale si continua a morire di fame. L’effet- to è un drammatico aumento degli abbandoni e una conseguente pressione sull’Istituto, schiacciato dal sovraffollamento, dalle spese sempre crescenti, dall’insufficienza di nutrici che neppure ripetuti aumenti di paga riescono a scovare. I decessi si impennano. E la so- luzione è drastica: se devono venire a morire in Istituto, tanto vale che i bimbi provino a vivere con i genitori naturali, dal momento che gli esposti sono almeno per metà figli legittimi. Così le autorità di governo dell’Istituto prendono una storica decisione: dopo quattrocentocinquant’anni di attività, la finestra ferrata viene chiusa, e rimpiazzata da un vero sportello di con- segna. È la fine dell’abbandono anonimo, del meccanismo che portava coppie sposate a privarsi dei figli per miseria, salvo poi andarli a cercare non appena le cose miglioravano un po’, o più spesso non appena i bambini superavano la fase dello svezzamen- to, quella più critica soprattutto per le famiglie povere. Un mecca- nismo che aveva nutrito l’abbandono di neonati nei secoli. Nella notte del 30 giugno 1875 Laudata Chiusuri e Ultimo Lasciati sono i due bambini che chiudono per sempre la serie de- gli abbandoni anonimi, quelli deposti nel “presepe”. Sfogliando le pagine dei registri, si scopre che vengono battezzati e mandati a balia in campagna, Laudata a Londa, Ultimo a Fucecchio. En- trambi saranno poi cercati dai genitori subito dopo il periodo dell’allattamento. Ma qui i loro destini divergono: Laudata so- pravvive e viene ripresa. Ultimo invece muore, prima ancora che il padre venga a chiederne notizie. A partire dal 1° luglio 1875 i neonati sono accettati agli Innocenti solo se nati da madri nubili o in caso di gravi problemi familiari. I bambini devono essere con- segnati da qualcuno che ci metta la faccia, e la firma. Niente più

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“segni”, niente più corredo di mezze monete o medagliette. Il pic- colo Primo Riformi, trovatello arrivato al ricovero nella mattina di quella giornata di luglio, non ha nulla con sé, se non la propria storia di illegittimo raccontata dalla levatrice Carlotta Bucci, che lo accompagna all’Istituto e lo dichiara «nato da donna non unita in matrimonio». La “ruota” è chiusa.

Dove si decide (finalmente) di pagare le madri al posto delle nutrici

E infatti cinque anni dopo la fine della ferrata, il numero deigit - tatelli è praticamente dimezzato. La mortalità dei lattanti accolti all’Istituto scende – per la prima volta nella sua storia – sotto il 20%. Ma è solo sul finire del secolo, facendosi strada contro pre- giudizi e tabù, che comincia ad affermarsi l’unico vero rimedio contro abbandoni e decessi: la possibilità che le madri riconosca- no il proprio figlio e lo allattino. Lo mostra bene la storia di Elena, arrivata il 21 dicembre 1900. L’Istituto decide di affidarla alla madre, concedendo come aiuto a quest’ultima quanto per secoli era stato dato alla balia: un sostegno economico per l’allattamento della figlia. Madre e bam- bina si ritirano in un paesino della Romagna Toscana, di cui la donna è originaria. La loro presenza detta scandalo, al punto che il parroco del luogo si sente in dovere di scrivere al direttore degli Innocenti: «Da qualche tempo una giovane è tornata portando con sé una creatura avuta da cotesto ospedale, e che dice essere sua. Quale scandalo derivi lo lascio alla Sua considerazione. Tutto il paese è indignato, e a me muove continuamente lamenti o di far prendere la creatura alla suddetta giovane, o di farla allon- tanare». Risposta del direttore: «La creatura tenuta a balia dalla Giovanna non è un’esposta affidatale per allattamento, ma sua figlia naturale, legalmente riconosciuta. Dietro queste spiegazioni credo che la Signoria Vostra non vedrà più motivo di scandalo: nessuna migliore carità può essere usata verso i poveri esposti, che il procurar loro fin dai primi giorni le carezze materne». Sarà l’irrompere della Prima guerra mondiale a fare piazza pulita delle nutrici interne ed esterne, spingendo i pregiudizi giù in trincea. Nel novembre 1917 una circolare ministeriale raccomanda ai bre- fotrofi di favorire quanto più possibile l’allattamento materno,

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«per modo che le madri abbiano ad allattare e tenere con loro i figli illegittimi». Una misura d’emergenza presa sotto la spinta della guerra, tale però da innescare il processo di riorganizzazio- ne dell’assistenza all’infanzia abbandonata in Italia.

Quella fabbrica dell’accoglienza che intreccia storia e arte

Testimonianze e messaggi, lettere e segni: da qualche anno un’im- ponente opera di restauro del Museo degli Innocenti ha riporta- to in vita queste storie, valorizzando il legame fra le centinaia di migliaia di documenti d’archivio e i capolavori acquisiti nei secoli dal «pulcherrimum haedificium» brunelleschiano. Come tutte le istituzioni cittadine, infatti, anche l’Istituto commissiona e accumula nel tempo un ingente patrimonio di opere d’arte, acquistate o ricevute in lascito per adornare i locali, o per il culto. Purtroppo nel 1853 il tutto finisce in vendita sul mercato privato: si salvano solo gli oggetti di fama ormai conso- lidata, che a partire dal 1890 vengono messi in mostra nell’anti- co refettorio delle donne. La collezione “superstite” comprende un’ottantina di pezzi, tra cui capolavori di Luca e Andrea della Robbia, , Domenico Ghirlandaio, Piero di Cosi- mo. Tantissime le Madonne con Bambino in omaggio alla missione dell’Istituto. Fra tutte, spicca l’imponente Adorazione dei Magi di Ghirlan- daio, commissionata nel 1485 proprio per l’altare della chiesa, e che da questo edificio non si è mai mossa. Nella tavola la Repub- blica fiorentina e l’Arte della Seta sono celebrate dai reciproci santi posizionati ai lati dei Magi: san Giovanni Battista e san Gio- vanni Evangelista, quest’ultimo nell’atto di presentare a Maria un fanciullino ferito, altro richiamo ai piccoli ospiti dell’Istituto. Una strage degli innocenti ritratta in lontananza è l’ulteriore riferi- mento biblico al mandato dello Spedale, che si estrinseca pratica- mente in tutte le opere, incluse le due statue di Giuseppe e Maria una volta custodi dell’approdo dei piccoli esposti nel “presepe”. Tanti i capolavori artistici di un’istituzione che per oltre cento anni accoglie il pubblico senza troppo mostrare le mansioni in cui è affaccendata, affidandone piuttosto l’evocazione all’estro di pittori e scultori.

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Ma nel 2016, dopo anni di lavori, l’approccio cambia: il filo conduttore attraverso la rinnovata struttura museale diventa il racconto di come qui si viveva e si moriva, addirittura con foto e voci degli ultimi gittatelli. Oggi nel Museo degli Innocenti le opere d’arte si declinano insieme alle vicende del mezzo milione di bimbi che di qui sono passati, lottando per sopravvivere. Nel- le sale sparse su tre piani, elementi d’arte, architettura e storia dell’infanzia si fondono, intrecciandosi alla storia del territorio. Così la cultura si fa patrimonio comune, operazione tanto più fertile in un luogo come questo, dove ininterrottamente da sei secoli le stanze continuano a essere a servizio dell’infanzia, e dove ancor oggi i bambini dei nidi comunali scorrazzano a frotte sotto le armoniose arcate del Brunelleschi, mentre madri in difficoltà o minori in attesa di affido trovano alloggio nelle case di ricezione. Una fabbrica dell’accoglienza che non ha eguali nel mondo. Un opificio della memoria anche per chi è alla ricerca delle proprie origini. Accanto a storici e studiosi, tra i più assidui frequentatori dell’Archivio sono infatti coloro che vogliono sapere, che inse- guono notizie sui genitori biologici. Che domandano di poter tor- nare là dove tutto ebbe inizio, per dare pace alla memoria. Spesso si tratta di gente molto anziana, vicina alla fine della vita e ansiosa di riconciliarsi col passato; ma anche di figli e nipoti in cerca di una conferma, un’identità. Quasi mai le carte contengono una risposta al quesito più impellente: che nome aveva la donna che abbandonò? Chi era? Ma se si conosce la data esatta in cui l’ex gittatello è arrivato agli Innocenti, i registri dello Spedale possono molto raccontare. E soprattutto aiutare a capire in quale contesto, spinta da quali forze quella «donna che non consente di essere nominata» si trovò a dover affrontare il dramma smisurato e soli- tario dell’abbandono di un figlio.

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Il Cenacolo di Sant’Apollonia E Andreino inventò l’Ultima cena

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 77 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 78 10/05/21 14:51 Proprio lui, il «micidiale e traditore» che Vasari disprezza. L’ex pastorello sceso dalle falde del Falterona per impugnare la tavolozza. Lui, così bravo da guadagnarsi a soli sedici anni la commissione dei “ritratti d’infamia” sui muri del . Eppure è lui, Andrea del Castagno, a ribaltare la decorazione trecentesca nei refettori dei maggiori conventi, scalzando l’Ul- tima cena dalla predella e sbattendola in primo piano, a parete intera. Bollato a vita come “pittore maledetto”, è invece Andrea del Castagno a inventare l’Ultima cena rinascimentale per cui ancora oggi Firenze è famosa: Ghirlandaio e Perugino imboccano una strada spalancata.

Di come una principessa russa s’impunta e scopre un capolavoro

È un colpo di mano a firma Andrea del Castagno. Si svolge nel convento benedettino delle monache di Sant’Apollonia, comu- nità che raccoglie il fior fiore delle famiglie illustri fiorentine. Uno spazio di clausura così assoluto che fino al 1808 – epoca di soppressioni napoleoniche – del lavoro del pittore non giunge notizia. Nessuno ne ha mai parlato, non è citato nelle fonti, anche se è certo, gli artisti dell’epoca sbirciano e sanno. Bisogna spingersi fino all’arrivo a Firenze di Marija Nikolaevna di Russia, nel 1864, per strappare il monumentale dipinto all’oblio della Storia: la no- bildonna è nientemeno che figlia prediletta dello zar Nicola i e so- rella del successore Alessandro ii. Quando si trasferisce a Firenze ha quarantacinque anni, sei figli avuti dal primo marito, due dal secondo, un carattere di ferro e una smisurata passione per l’arte, tanto che in Russia è stata a lungo presidentessa dell’Accademia delle Arti, e a San Pietroburgo Palazzo Mariinskij è stato costruito e battezzato in suo onore. Da sempre la gran principessa custodi-

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sce una collezione di tesori, e la città del giglio è il posto ideale per alimentarla. Accompagnata dal pittore Karl Lephard, la nobildonna va in giro senza badare a spese, bussando a musei, antiquari, collezioni private. Nel 1864 Firenze è tutta affaccendata a darsi l’aspetto di capitale d’Italia: la corona del Regno arriverà fra poco, c’è da fare posto alla macchina burocratica, accogliere politici e funzionari, spazzare via la polvere medievale e indossare la veste di una città moderna. Sono anni duri per il patrimonio fiorentino, che nessu- na legge nazionale tutela ancora, e che molti appetiti particolari aggrediscono per facile tornaconto. Sono anni in cui i depositi si riempiono di opere espropriate con le soppressioni, facilmente smerciabili da intermediatori e funzionari senza scrupoli. Marija ha sentito sussurrare meraviglie di un certo dipinto sconosciuto, a parete piena: una meravigliosa Ultima cena sui muri dell’ex refettorio delle benedettine, appena requisito come depo- sito militare dal neonato Regno d’Italia. La principessa si appella a tutte le conoscenze di cui dispone in città senza riuscire a entra- re nel prezioso magazzino. Ma il Ministero della Difesa, che ha si- curamente altri problemi da risolvere in questo momento, non ha fatto i conti col carattere (e il cognome) della signora: imbestialita dal diniego, Marija comincia a subissare di lettere tutta Torino, capitale – ancora per poco – della novella Italia unita. Alla fine il governo prende coscienza di alloggiare uno straordinario affresco del Rinascimento in una rimessa militare chiusa al pubblico. La storia è a lieto fine: la principessa ottiene la visita che cercava, il Ministero della Pubblica Istruzione preme perché lo spazio sia tolto all’esercito e aperto al mondo, e finalmente nel 1891 l’ex refettorio è trasformato in museo. Mentre si fanno i la- vori, sul muro proprio sopra l’Ultima cena affiorano tre enormi scene di Crocifissione, Deposizione e Resurrezione, scialbate forse per- ché molto sciupate rispetto al sottostante convivio. Inizialmente si pensa a Paolo Uccello, ma dopo il recupero della parte superiore, l’attribuzione è sicura: è Andrea del Castagno. Fra sotto e sopra l’insieme è grandioso, abbastanza per dedicare la piccola galleria a quel pittore poco conosciuto e ancor meno amato, di cui la pa- rete di Sant’Apollonia racconta tutta la carica innovativa. È così che in questo spazio vengono raccolte molte delle poche opere di Andreino: la sua (s)fortuna critica è rivista, si comincia a studiar- lo seriamente. Oggi, come San Marco sta al Beato Angelico, così

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Sant’Apollonia sta ad Andrea del Castagno. Un artista condanna- to all’oblio, anche per colpa del più clamoroso degli errori.

Quel «dipintore di ritratti d’infamia»...

Ragazzo precoce, dopo un’infanzia tra gli aspri pascoli sulle pen- dici del Falterona, a metà strada tra Firenze e Forlì, Andrea scen- de in città portandosi dietro il luogo di nascita nel nome: Casta- gno. Racconta di come il bambino, rimasto orfano di padre, sia affidato a uno zio che lo mette a badare pecore. In un giorno di pioggia, Andrea si imbatte in un maldestro «dipintore di contado» alle prese con un tabernacolo: lui, che non aveva mai visto una tavolozza, ne è folgorato. «E gli venne subito un deside- rio grandissimo et una voglia sì spasimata di quell’arte, che senza mettere tempo in mezzo, cominciò per le mure e su per le pietre co’ carboni o con la punta del coltello, a sgraffiare et a disegnare animali e figure, sì fattamente che e’ moveva non piccola maravi- glia in chi le vedeva». La fama del ragazzo prodigio corre di bocca in bocca fra pasto- ri e gentiluomini del posto, guadagnandogli l’ingresso in una bot- tega fiorentina per imparare l’arte, come si faceva al tempo. Nulla si sa della sua formazione, anche se a giudicare dalle prime opere (la Crocifissione di Santa Maria Nuova) come dalle ultime (il San Girolamo della Santissima Annunziata) Masaccio sembra un punto di riferimento irrinunciabile. E magari anche quel Donatello che scolpendo un crocifisso «mette in croce un contadino», per dirla sempre con Vasari. Molti sono i contadini, nelle pitture che ver- ranno. Alcuni seduti proprio a tavola con Cristo, a Sant’Apollonia. È bravo, il giovane Andrea. Tanto da convincere Cosimo de Medici a regalargli una chance – o una maledizione. È il granduca in persona a commissionargli i ritratti d’infamia per gli avversari politici banditi dalla città, quegli Albizi e Peruzzi che avevano tra- mato per eliminarlo, e che sono stati spazzati via al suo trionfale rientro, nel 1434. C’è chi dice che la data di incarico al pittore sia successiva e relativa alla vittoria di Anghiari sui milanesi (1440). Ma se c’è incertezza sull’evento, non ce n’è sul fatto della com- missione ufficiale da parte della Signoria medicea al giovane ar- tista: le sue figure dovranno mostrare al popolo la pena riservata ai ribelli.

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È questa una consuetudine non solo fiorentina: l’immagine di chi si è reso colpevole di particolari reati – dal tradimento all’o- micidio, dalla bancarotta al falso – viene dipinta sui muri degli edifici pubblici, o sulle porte di accesso alla città, in modo da mol- tiplicarne l’efficacia. Una sorta di “pena virtuale” che annuncia quella reale, e che regala a chi ne è colpito anche l’oltraggio dei passanti. Così il giovane Andrea, genio del disegno, ritrae i fuggi- tivi con tutta l’energia di cui è capace, appiccati per un piede o per la gola. Nei quadri segnaletici affrescati sulla facciata del Bargel- lo, la futura fine dei traditori è chiarissima. E il dramma irrompe nella pittura dell’artista, per non lasciarla più. Le sue figure sono piene di energia, drammatiche: quasi caricaturali. È talmente bra- vo, che il suo nome comincia a circolare. Diventa “Andreino degli impiccati”, titolo velenoso destinato a restargli appiccicato per la vita. E oltre.

...che si fa pittore della luce insieme a Piero della Francesca

Ma a prescindere da quel nome odioso, Andrea è davvero bravo. Tanto che nel 1439 è chiamato a lavorare nella chiesa di Sant’Egi- dio, come apprendista di Domenico Veneziano insieme all’esor- diente Piero della Francesca. Devono realizzare le Storie della Vergine, oggi purtroppo per- dute. Domenico è un vero maestro, pittore veneto appassionato di luce, con un corredo di colori estraneo alla tradizione fiorenti- na. Nel giro di pochi anni si impone sulla scena, le sue Madonne conquistano la città. E proprio qui, nel cantiere di Sant’Egidio, sotto la sua guida nasce una corrente artistica incentrata sulle va- riazioni della luce, studiata in funzione prospettica. Veneziano è convinto che il colore di un soggetto e la sua immagine nello spa- zio dipendano dalla quantità di luce ricevuta. E se lui è il primo a mettere su tela questa teoria, l’allievo Piero della Francesca ne sarà il più magistrale degli interpreti. E Andrea? Dal maestro impara molte cose: non solo è lui a terminare le Storie della Vergine dopo la partenza di Domenico, ma quando affronta il Cenacolo di Sant’Apollonia ricerca gli stessi effetti ap- presi a Sant’Egidio, lavora sui chiaroscuri, mette in scena una pro- spettiva alimentata non solo da linee e figure, ma anche dall’illu-

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minazione naturale che due finestre (vere) riversano sull’affresco. Se il disegno rimane il suo forte, la luce si affaccia nelle pieghe delle vesti dei discepoli, come nei paesaggi collinari del piano alto. È il 1447, e Firenze non è mai stata così bella. Il Rinascimento ha ormai spiegato le vele.

Nel Quattrocento fiorentino l’arte diventa progetto di sviluppo

Se il capostipite dei Medici, lo schivo e prudentissimo Giovanni de Bicci, è il vero fondatore della potenza economica della fami- glia, è l’erede Cosimo de Medici a consolidarla, conquistando il potere politico. Fedele al consiglio paterno, il nuovo leader adotta inizialmente un profilo dimesso, preferisce farsi ritrarre in sella a un mulo piuttosto che a un cavallo, e quando deve metter su casa in via Larga (oggi via Cavour), straccia un ambizioso progetto brunelleschiano per ripiegare sul solido bugnato di Michelozzo. Tuttavia Cosimo non esita a buttarsi nella mischia: per tutela- re la famiglia e la fortuna accumulata, il rampollo capisce presto che deve sporcarsi le mani e mirare al governo. Ha anche un asso nella manica: sa accarezzare il popolo, cosa che la vecchia oligar- chia non è mai riuscita a fare. Accortisi del crescente prestigio dell’erede della ricchissima stirpe Medici, gli ottimati fiorentini guidati da Rinaldo degli Albizi sferrano il colpo per liberarsene, e lo imprigionano. Ma non hanno il coraggio di ucciderlo, e lo cac- ciano dalla città: errore fatale. Cosimo e i suoi non lo ripeteranno. Il ritorno del mercante-banchiere dall’esilio segna un mo- mento decisivo, il passaggio al “governo forte”: se le libere istitu- zioni significano lotte e rivalità, anche il “popolo” non ha dubbi, ben venga la Signoria. È Cosimo a inaugurare una sorta di gover- no occulto, i “magnifici” primi cento anni di potere mediceo, in cui le antiche istituzioni repubblicane restano in piedi, ma sono pilotate dall’interno attraverso il controllo delle estrazioni alle ca- riche pubbliche. Cento anni in cui finanza e cultura si intreccia- no, producendo un miracolo. Imprenditori-mecenati, i Medici finanziano architetti, con- trattano scultori, ingaggiano pittori, poeti, filosofi: avidi di promo- zione di un’immagine che gli avversari vogliono rozza e spregiudi- cata, i nuovi signori di Firenze si mettono d’impegno a nobilitarsi,

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e lo faranno in tutti i modi possibili, anche grazie a un’accurata politica matrimoniale. Nato come propaganda politica, sorretto da immensi profitti finanziari, spinto dal senso di colpa per qual- che peccatuccio di usura, il sussidio alle arti inaugurato da Cosi- mo finisce per diventare un vero e proprio modello di società; un progetto di sviluppo. Firenze è già pioniera del domani. Il dogmatismo medievale è in frantumi, dalla Cappella Brancacci Adamo ed Eva di Masaccio gridano al mondo il dolore di scoprirsi uomini. E Donatello for- gia in bronzo un David quasi femmineo, il più misterioso fra gli emblemi dell’intero Quattrocento italiano. Cosimo e i suoi innal- zano palazzi, ristrutturano quartieri. Sotto la neonata e titanica cupola di Brunelleschi, nel 1439, il pater patriae raduna le chiese d’Oriente e Occidente, sfiorando la riunificazione e riportando in Europa il pensiero filosofico greco gelosamente custodito a Co- stantinopoli: nella villa di Cosimo a Careggi si installa l’Accademia Neoplatonica guidata da Marsilio Ficino. Ed è da Palazzo Medici in via Larga che il magico corteo di Benozzo Gozzoli – affrescato sui muri della cappella di famiglia – narra ancor oggi la gloria del Concilio di Firenze nel mondo. L’uomo rinasce, e mentre quadri, pulpiti e nuove porte di bronzo in Battistero continuano a glori- ficare il Padre Celeste, non mancano di celebrare le virtù terrene dei suoi potenti figli. È in questo clima, in questo ambiente che Andrea del Castagno riceve la commissione per il Cenacolo di Sant’Apollonia.

Di come Andrea soppianta la Crocifissione con una tavolata di popolani

È il 1447, e il dipintore di morituri fa miracoli. Il suo affresco prende ancora tutta la parete in verticale, come nel Trecento, ma le scene sono quattro, una grande sotto, tre piccole sopra: quattro “quadri” fusi in una composizione unitaria. Ma la vera rivoluzio- ne avviene quando bisogna assegnare le storie: ecco che Andrea ribalta l’impostazione trecentesca, sradicando la Crocifissione da se- coli di supremazia iconologica, e relegandola da zona principale a zona alta, in mezzo alle scene di Resurrezione e Deposizione. Poi il pittore cede il piano nobile a un’animata tavolata di Gesù con i discepoli, inquadrata in prospettiva perfetta.

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La scena che normalmente finiva in predella, stavolta si pre- senta a tutta parete, ad altezza d’occhio. Cosa mai vista fino ad allora, o meglio, solamente abbozzata da Taddeo Gaddi in Santa Croce, ma senza il coraggio di scalzare la supremazia del Crocifis- so. Qui, invece, la messa a fuoco del regista si concentra su mae- stro e discepoli intenti a discutere intorno a un frugale banchetto: soggetto certo più appropriato per un convito religioso, ma all’e- poca è un vero capovolgimento di valori. Non è più il sangue del Figlio a riversarsi sul pasto delle monache, bensì la sua offerta di perenne alleanza. Un po’ come quando Cristo aveva abbandona- to il trono di giudice in cui il Medioevo profondo lo aveva sedu- to – per esempio nel Battistero fiorentino – per incarnarsi nella dolorosa umanità di un uomo crocifisso. È un cammino a senso unico, da cui non si torna indietro: oggi spostata ai piani alti, la Crocifissione scomparirà del tutto alla fermata successiva, quella di Ghirlandaio. L’accusa di aver messo in croce Dio lascia il posto al patto di riconciliazione con gli uomini. Partito dall’alto – dunque dal racconto di quel Cristo cro- cifisso, deposto e risorto in mezzo alle colline – quando arriva a dipingere l’Ultima cena il pittore cambia scenario e la racchiude in una “scatola”. Tutto qui è prospettiva, a cominciare dal pavimen- to, dalle tegole del tetto, o dal soffitto a quadri bianchi e neri che abbracciano il perimetro dell’affresco. Seduti come sul proscenio di un teatro, gli apostoli si appoggiano a una spalliera di mar- mi colorati, sovrastati da una decorazione di trentatré occhielli e mezzo, tanti quanti gli anni di Cristo al momento della morte. La scena è doppiamente illuminata, dalle due finestre disegnate nell’affresco, e dalla luce naturale proveniente da vere finestre, sulla strada. Attorno al tavolo, Gesù e gli apostoli: tutti tranne un Giuda luciferino e solitario, senza aureola, relegato su uno sga- bello dall’altra parte. Sulla parete del refettorio è immortalato un vero scorcio di vita, una cena di amici, popolani dai profili acri, le rughe profonde. Simili ai contadini che potrebbe scolpire Do- natello. «Uno fra voi mi tradirà»: l’annuncio cade sul tavolo, met- tendolo in moto. Pietro si gira verso Gesù con una domanda negli occhi, Giacomo si afferra a un bicchiere cercando una risposta, Tommaso appoggia il volto a una mano, e certo non crede a ciò che sente... un traditore? Ogni discepolo ha una reazione propria, composta. Ogni coppia di mani racconta un’incredulità diversa. Certo, Andrea se la cava bene col disegno, ma sa anche addolcire i

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colori, giocare con la luce. Basta guardare le grinze della tovaglia, sul tavolo. O alzare lo sguardo.

Quei tre affreschi sciupati, scialbati e poi “strappati” rivelando l’anima

Se è infatti sulla Cena che l’occhio batte istintivamente, il seguito della storia si arrampica in parete. Al piano di sopra il martirio di Cristo si posiziona al centro; a sinistra la Resurrezione, che do- vrebbe logicamente seguire la Deposizione, e invece la precede, in ordine cronologico inverso, per accaparrarsi un miglior angolo di luce dalle finestre. Perché è qui che l’accento deve battere, su questa figura drappeggiata, che si solleva solenne dal sepolcro con lo stendardo in mano, in mezzo a soldati assopiti. Terribilmente si- mile alla ben più illustre Resurrezione dell’ex compagno Piero della Francesca sui muri del Palazzo Comunale di Sansepolcro, ma a lei precedente: fra i due pittori di luce, è il vituperato Andreino degli impiccati l’innovatore, e il celeberrimo Piero il “copione”. Purtroppo le finestre – oltre alla luce – riversano secoli di pioggia, vento, escursioni termiche sul Signore crocifisso, deposto e risorto. Le immagini sbiadiscono, e alla fine vengono scialbate. La parte alta della pittura di Andrea sparisce, definitivamente ri- mossa dalla narrazione. Gli storici dell’arte di Vittorio Emanuele, che per primi en- trano nel magazzino su pressioni di Marija Nikolaevna, si trovano di fronte a un Cenacolo orfano del racconto primigenio: vedono solo gli apostoli a tavola. Per quel convivio così monumentale subito pensano a Pao­ lo Uccello, un vero maniaco della prospettiva. Poi però lo studio dell’opera si affina, il nome di Andrea diventa più ricorrente. Quando affiorano anche gli affreschi superiori non ci sono più dubbi: è proprio del Castagno. Ma le condizioni delle pitture sono pessime. A metà del Novecento, in un supremo tentativo di restau- ro, Resurrezione, Crocifissione e Deposizione vengono strappate dalla parete, lasciando affiorare i disegni originali, le sinopie, anime rossastre fatte di mano propria dall’artista, vere e proprie guide alla composizione dell’opera, capaci di molto raccontare sulla tecnica lavorativa della bottega di Andrea del Castagno, a metà strada fra passato e futuro. Si scopre così che il pittore traccia

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la Crocifissione direttamente sul muro, con minuzia di particolari, come si faceva nel Medioevo; per la Resurrezione invece si serve di un metodo “moderno”, riportando il disegno da un cartone con la tecnica dello spolvero. Nulla si sa dell’Ultima cena, che non è stata “strappata” e dun- que conserva nell’intimo il segreto della propria realizzazione: ma gli ultimi, recenti studi fanno giustizia di secoli di indifferenza ver- so un’opera che solo tardivamente è vista e apprezzata per quello che è, un magnifico insieme di spazio, colore, luce, in cui l’ordine di Brunelleschi e la prospettiva di Alberti si fondono nella «più completa visione della realtà rinascimentale».

Andrea, uno sciagurato assassino? La tremenda accusa di Vasari

Fino a poco tempo fa, la lettura di Andrea del Castagno avviene per lo più attraverso la lente (negativa) lasciata da Giorgio Vasari, che scrive cento anni circa dopo i fatti. Per qualche strana ragio- ne, il grande artista e storiografo toscano si accanisce contro l’ex ragazzo prodigio, in gran parte determinandone l’avversa fortuna nei secoli successivi. Nelle Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori Vasari lo esalta come disegnatore e creatore di prospettive, ma non gli piacciono per niente i suoi colori: «facendo le sue opere alquan- to crudette et aspre, diminuì gran parte della bontà e grazia di quelle» dice l’aretino. E ancora: «se la natura avesse dato genti- lezza nel colorire, come ella gli diede invenzione e disegno, egli sarebbe veramente stato tenuto maraviglioso». Ora, come si sa, la parola di Vasari è legge. Ma se è legittimo criticare un artista – a maggior ragione quando si hanno tutti i titoli per farlo – quel che risulta incomprensibile è il racconto della vita del pittore fioren- tino, conclusa con la più infamante delle accuse. Secondo Vasari, lo «sciaurato Andrea» mal sopporta la popolarità del maestro e collega Domenico Veneziano che, sbarcato a Firenze da forestie- ro, riscuote subito un caloroso successo: l’invidia alberga nello «spirto crudele in tutto, e diabolico» del più giovane discepolo. Il racconto continua sostenendo che l’iniziale amicizia fra i due si trasforma in finta e apparente cordialità da parte del pittore toscano: «e così continuando questa, da un lato vera e dall’altro

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finta, amicizia, ogni notte si trovavano insieme a far buon tempo e serenate a loro inamorate». Il motivo della pantomima? Carpire i segreti dell’arte del maestro. «Domenico, amando Andrea da do- vero, gli insegnò il modo di colorire a olio che ancora in Toscana non si sapeva». A sentire il grande Vasari, una volta ottenuto ciò che voleva, Andrea del Castagno decide di assassinare Veneziano per essere l’unico depositario del prezioso segreto. E poiché conosce le sue abitudini, lo aspetta dietro l’angolo di casa, armato di piombi con cui gli fracassa prima lo stomaco, poi il cranio. Non contento, si finge disperato per la sua perdita: «Corso dove erano gl’altri in- torno a Domenico non si poteva consolare, né restar di dir: “Oimè fratel mio, oimè fratel mio”». E solo sul finire della vita, il pittore di Castagno decide di rivelare il suo misfatto: «e se Andrea, ve- nendo a morte, non l’avesse nella confessione manifestato, non si saprebbe anco». Insomma, dovizie di particolari per un’accusa disonorevole, che ha un solo, piccolo problema: è assolutamente falsa. Non c’è nessun omicidio, Domenico Veneziano muore nel suo letto, quattro anni dopo Andrea del Castagno, che viene inve- ce ucciso dalla peste il 19 agosto 1457. Lo confermano i certificati di morte dei due pittori: l’abbaglio di Vasari è fragoroso. Non solo. Non c’è alcuna introduzione della pittura a olio, tutte le opere conosciute di Veneziano sono a tempera; l’unico segreto ampiamente condiviso nel cantiere di Sant’Egidio è quello sugli studi della luce. Certo, Andrea è un uomo collerico, magari si lascia andare a qualche zuffa di troppo: d’altronde essere un pastorello orfano è un’eredità scomoda da portare. E certo il suo linguaggio così rea- lista, lo stile spigoloso e sanguigno non giovano a una reputazione bollata in partenza come «dipintore di impiccati». Ma la leggenda del “pittore maledetto”, alimentata con dovizia di particolari da Vasari, lascia per sempre un’ombra scura su di lui e sulla sua arte. Perché l’aretino senta la necessità di distruggere Andrea del Castagno umanamente e professionalmente, non si sa. Forse con- fonde i personaggi, forse l’equivoco si basa su date e omonimie; di certo, indaffarato com’è a far di tutto, dipingere e progettare, affrescare cupole e redigere tomi, l’architetto non si dà la pena di verificare troppo ciò che scrive, incurante degli effetti che le sue parole possano avere nei secoli successivi sugli artisti oggetto

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dei suoi studi. C’è addirittura un ultimo granchio da aggiungere alla lista. Sempre secondo “Giorgino”, Andrea del Castagno di- venta Andrea degli impiccati dopo la congiura dei Pazzi del 1478, quando Lorenzo il Magnifico gli chiederebbe di ritrarre sui muri di Palazzo Vecchio gli assassini del fratello. Peccato che nel 1478 Andrea sia morto da ormai ventun anni; e che l’artista retribuito a tale scopo sia un certo Sandro Botticelli. Qualche anno più tardi, inoltre, un altro grande verrà chia- mato a sporcarsi le mani con i “ritratti d’infamia”: siamo nel 1529 durante l’assedio di Firenze da parte delle truppe imperiali, e ad Andrea del Sarto è affidato il compito di raffigurare i tre capitani che hanno tradito la Repubblica di Firenze passando al nemico. Il pittore li ritrae su due palazzi pubblici, appesi per un piede. Insomma, la morale della storia è che anche due star come Sandro Botticelli o Andrea del Sarto si ritrovano a dipingere ap- piccati all’inizio o alla fine di una luminosa carriera. Non è in fon- do una cosa così disonorevole, ed è molto ben pagata. Il fatto cer- to è che entrambi sono più furbi di Andrea del Castagno: perché i soldi li prendono, ma fanno sapere che è un altro a fare il lavoro.

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Palazzo Rucellai «D’otto case n’ò fatto una»

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 91 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 92 10/05/21 14:51 È il 1450, e il ricco mercante Giovanni Rucellai chiama l’architetto Leon Battista Alberti perché s’ingegni a tirar fuori un palazzo da una sfilza di caseggiati medievali. E Alberti lo fa: tappa buchi, sfonda muri, trasforma otto appartamenti irregolari in una dimora patrizia. È il Renzo Piano del Rinascimento, e mette l’architettura di Roma antica al servizio delle ambi- zioni della borghesia fiorentina, inventandosi la facciata perfetta, destina- ta a restare negli annali. «D’otto case – scriverà Giovanni nel diario – n’ò fatto una». Storia di una grande famiglia, arricchitasi tingendo panni di rosso grazie a un’erba annaffiata di oricella. Di un grande architetto, nato illegittimo e arrivato al successo dopo una battaglia contro i parenti durata tutta la vita. E del matrimonio del secolo.

Quell’oricella preziosa per tingere i panni di rosso

Impiantati nel popolo di San Pancrazio, i Rucellai sono “popolo grasso”, stirpe imprenditoriale e, come per molti altri in città, la fortuna della casata è legata all’industria dei panni di lana. Ma le pezze Rucellai hanno qualcosa di speciale: sono le uniche di color porpora. La leggenda della ricchezza familiare ha origine nel xiii se- colo, quando l’avo Alamanno, di ritorno da un viaggio in Oriente, scopre le proprietà coloranti dell’urina. Si dice che il cavaliere, fermatosi per assolvere a certe funzioni fisiologiche contro una pietra coperta da un’erba selvatica, rimanga di stucco nel vedere il colore della pianta volgere al rosso scuro una volta annaffiata d’oricella. Tornato a Firenze, Alamanno s’ingegna di studiare il fenomeno, e scopre che l’ammoniaca contenuta nell’urina può effettivamente sciogliere l’erba tingendo i panni di un intenso co- lore viola. Importata a Firenze e utilizzata in modo massiccio per le tinture, la pianta sconosciuta viene battezzata oricella: il mondo

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impazzisce per quei tessuti color porpora, i commerci volano. Dal- la preziosa erba, e dalla sua lavorazione, la casata acquista cogno- me e ricchezza. Quando le irrobustite ambizioni familiari richie- dono una nobilitazione del patronimico, gli Oricellari cedono il posto ai più “gentilizi” Rucellai.

Arte ed edilizia: il piano perfetto per risorgere dalla disgrazia politica

Ai primi del Quattrocento la dinastia è in piena ascesa: Giovanni Rucellai, mercante, banchiere, uomo politico e di grande cultura umanistica, guarda con sospetto il successo di Cosimo de Medici. Oltretutto, Giovanni ha sposato la figlia di Palla Strozzi, il grande banchiere che insieme a Rinaldo degli Albizi capeggia la fazione antimedicea: quando si arriva alla resa dei conti, nel 1433, anche Rucellai si schiera contro Cosimo e vota per il suo esilio. A dif- ferenza del suocero però, dopo il rientro del Medici, Giovanni non subisce ritorsioni dirette: niente confino, niente sequestro di beni. Ma il suo nome cade in disgrazia. Per quasi trent’anni è eliminato dalle borse da cui ogni due mesi vengono estratti i prescelti ai tre maggiori uffici della Repubblica (gonfaloniere di Giustizia, priori, Collegi consultivi). In pratica, Giovanni è messo al bando dalla vita politica attiva. «Non accetto, ma sospetto allo Stato fui per anni 27», scrive Rucellai nello Zibaldone, il diario compilato nell’arco di una vita. Un quaderno di memorie, definito da lui stesso «un’insalata di più erbe», che copre la vita del mercante, raccogliendo ricordi personali, consigli per i figli, citazioni da Aristotele e sant’Agosti- no, notizie su eventi vissuti in prima persona, proverbi, aneddoti. Cinquecento pagine di informazioni dettagliate che attraversano i secoli e giungono fino a noi grazie a un misterioso collezioni- sta di opere e grande ammiratore del Rinascimento, che acquista il manoscritto a Firenze e se lo porta in Inghilterra. Nel 1922, durante una pubblica asta svolta a Londra, i Rucellai riescono a rientrare miracolosamente in possesso dell’antologia di famiglia: se così non fosse, lo Zibaldone – edito integralmente pochi anni fa dall’Archivio dell’Opera del Duomo – avrebbe potuto sparire per sempre in qualche cassaforte, seppellendo con sé il raro contenu- to. Invece il manoscritto riappare.

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Dalle pagine di questa preziosa fonte storica si apprende che Giovanni lavora per anni al riavvicinamento alla casata medicea. L’operazione riesce solo nel 1461, quando il mercante stipula un contratto di nozze per Bernardo, il figlio dodicenne, con la sorella di Lorenzo il Magnifico e nipote di Cosimo il Vecchio, Nannina dei Medici. Da quel momento in poi – riconquistato il favore dei signori di Firenze – il nome di Giovanni sarà nuovamente immes- so nelle borse per l’estrazione alle maggiori cariche della Repub- blica, e infatti negli anni successivi verrà sorteggiato come priore e poi come gonfaloniere di Giustizia. Ma prima, nei precedenti trent’anni, la sua è una lunghissima emarginazione politica, che per non sprofondare nell’oblio lo co- stringe a fare uso dell’intero vocabolario a disposizione del ricco borghese rinascimentale, fatto di mecenatismo artistico e commit- tenze immobiliari. Sono le opere d’arte commissionate e gli edifici costruiti a favorire il recupero di prestigio sociale: su arte ed edili- zia si basa il piano politico messo a punto da Rucellai per rimanere dentro al mondo che conta. Grazie ai proventi dei panni color porpora, il vecchio commerciante è abilissimo a pilotare la vela della famiglia attraverso le turbolente acque della Signoria medi- cea, rimanendo a una ossequiosa distanza, ma sempre pronto a co- gliere l’occasione per tornare in sella. Eccolo, dunque, alle prese con la sua prima impresa architettonica: convertire la casa paterna in cui abita in una residenza all’altezza delle crescenti ambizioni. Negli stessi anni in cui Cosimo de Medici chiama Michelozzo per il palazzo di via Larga, Giovanni Rucellai si rivolge a Leon Battista Alberti perché faccia un miracolo in via della Vigna nuova. Entra in scena la figura guida dell’architettura rinascimentale.

Battista Alberti, da figlio illegittimo a scrivano del papa

L’artista-intellettuale più famoso del Quattrocento nasce figlio illegittimo di padre esiliato: una partenza tutta in salita per il pic- colo Battista, la cui famiglia paga duramente l’errore di schierarsi con i rivoltosi Ciompi, i proletari addetti alla cardatura della lana. Gli Alberti sono una ricca casata di mercanti fiorentini, inur- bata dal Valdarno nel xiii secolo. Guelfi neri, fedeli sostenitori della Repubblica, nel 1378 voltano in qualche modo la schiena

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al proprio gruppo sociale per abbracciare le richieste della ple- be. Migliaia sono a Firenze i salariati condannati alla fame e alla precarietà dal popolo grasso alla guida delle Arti maggiori, so- prattutto quella della Lana. Il tumulto dei Ciompi passa alla storia come la prima insurrezione economico-sociale del proletariato, quello privo di cittadinanza e diritti politici. Quello che padroni e padroncini di fabbriche e botteghe rifiutano di assumere, pagan- dolo alla giornata con monete di rame in perpetua svalutazione. È la plebe indebitata a vita per campare, che si trascina attraverso i secoli senza lasciare traccia. Benedetto Alberti, nonno di Battista, è in prima linea per far pressione sulla Signoria affinché accolga le istanze degli ope- rai che chiedono di potersi aggregare in almeno tre corporazioni (Tintori, Farsettai, Ciompi) e dunque accedere alle cariche pub- bliche come tutti gli altri membri “produttivi” della società, gli iscritti alle Arti maggiori e alle minori. Fra i primi in Europa, i pro- letari fiorentini rivendicano il diritto di godere di uno spicchio del benessere generato dal proprio sudore, su cui si è costruita la fortuna di Firenze. Ma una svolta di tipo democratico è deci- samente fuori questione: nella città più industrializzata d’Italia, l’oligarchia borghese tentenna ma non cede. Quando il popolo grasso riprende il controllo e la sommossa finisce nel sangue, la ritorsione su chi aveva appoggiato i ribelli è senza pietà: Benedet- to e famiglia sono banditi dalla Repubblica. Per quarant’anni gli Alberti si spargono in Europa. Alcuni scelgono Genova, dove da tempo hanno impiantato un’attività commerciale, e dove Lorenzo – figlio di Benedetto – mette al mondo due maschi con una nobile vedova locale, Bianca Fieschi. Ma lo fa fuori dalle nozze, evento comune all’epoca, ma non privo di conseguenze. La donna muore di peste solo due anni dopo la nascita del piccolo Battista, e Lorenzo sceglie di darsi una nuova compagna, stavolta in matrimonio: il lignaggio irregolare peserà come un’ombra molesta su tutta la vita di Alberti, che evita nei suoi scritti ogni accenno alla madre. Proprio come altri grandi della storia, l’umanista più poliedrico del suo tempo è marcato nell’intimo dall’illegittimità, e forse proprio per questo spinto a una sorta di rivincita sulla vita. Malinconico e diffidente, Batti- sta si trasformerà in “Leon” solo più avanti nel tempo, quando la battaglia furiosa della giovinezza contro parenti e destino potrà dirsi vinta. Senza mai, tuttavia, dargli soddisfazione: troppo tardi

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arriverà quel riconoscimento, agognato tutta la vita, per poterne godere. All’inizio il ragazzo studia fra Padova e Venezia, dove la fami- glia si è trasferita per sfuggire alla peste. Le sue eccezionali doti lo spingono a zigzagare fra latino e lettere, greco e diritto, senza escludere pittura, scultura, architettura, e persino le scienze fisi- co-matematiche. La sua fame di conoscenza è insaziabile, non c’è campo del sapere in cui non eccella. A diciassette anni è a Bologna e sembra pronto a intascare una rapida laurea in Diritto canonico, quando l’improvvisa morte del padre lo getta in pasto ai contrasti familiari per l’eredità, oltre che nell’insicurezza economica. L’avversione dei parenti ai suoi studi, e il rifiuto di continuare a finanziarli, rallentano la corsa del giovane Alberti, tuttavia non l’arrestano. Impiega però sette anni a conquistare il diploma, e non c’è da stupirsi se la carriera ecclesiastica gli sembri a questo punto un’assicurazione sul futu- ro. A maggior ragione se è così bravo a maneggiare la penna, da guadagnarsi nientemeno che l’accesso alla cancelleria pontificia. Eccolo dunque, “abbreviatore apostolico” a Roma, in prati- ca redattore di bolle, note e decreti papali: una sorta di scrivano ad altissimo livello, cui il papa concede un beneficio ecclesiasti- co tale da metterlo per sempre al riparo da ansie economiche. È il legame con la corte vaticana a permettergli di dedicarsi agli studi, trasformandolo nel vero apripista di . È il prestigioso ambiente della Curia di Eugenio iv, a riportarlo a Firenze, per respirare a pieni polmoni i fumi dell’officina uma- nistica di Brunelleschi e Donatello, di Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini. Sono i favolosi anni Trenta del Quattrocento, quelli della costruzione della cupola, delle porte bronzee del Battistero, del Concilio ecumenico fra Oriente e Occidente. Sono gli anni in cui Cosimo de Medici mette le mani sulla città senza far rumore. E Alberti è lì, a immaginare la Firenze del futuro.

Di come Battista – diventato Leone – si trasformi nel Renzo Piano del Rinascimento

Diventato “Leone”, Battista spazia nei rami del sapere: dai roman- zi satirici ai trattati filosofici in latino, dai quattroLibri sulla fami- glia alle Rime composte in volgare. Alle opere letterarie dei primi

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anni si aggiungono i capolavori successivi, i trattati sulla pittura, la scultura e l’architettura. Qui si mescola di tutto, il suo amore per la classicità, la ricerca applicata alla conoscenza empirica della na- tura, la teoria dell’armonia matematica, per cui la bellezza è frutto di un rapporto proporzionato fra il tutto e le sue parti. Alberti è un teorizzatore, ossessionato dall’urgenza di creare regole per guidare gli artisti verso la rielaborazione e il supera- mento dell’arte antica. I classici sono modelli cui si deve «mettere innanzi nuove cose trovate da noi, per vedere se gli si può acqui- star pari o maggior lodi di loro» (De re aedificatoria, i, 9). È Alberti a nobilitare pittori e scultori, elevandoli da artigiani a “intellettua- li” che calcolano, studiano, nutrono la mano con l’ingegno. Ma la palma d’oro del sapere universale va alla figura dell’architetto: «È lui che cementa le comunità umane costruendone le sedi – scrive Eugenio Garin sintetizzando il pensiero dell’umanista – che ne orienta gli edifici secondo l’astrologia, che ne scandisce il tempo con gli orologi, che struttura le istituzioni nei palazzi e nei tem- pli, che regola le acque e apre le strade, che difende dai nemici e vince le guerre senza sangue». L’architettura come la migliore delle arti, perché al servizio dell’Uomo a tutto tondo. L’Uomo Vitruviano. Ed è proprio a questo punto della carriera, mentre è alle prese con la redazione della sua opera più famosa, il De re ae- dificatoria, che al Renzo Piano del Rinascimento arriva la chiamata di Giovanni Rucellai. C’è un palazzo da rifare: ma si annuncia un’operazione complicata.

Una facciata unica per cucire insieme otto vecchie case e farne un palazzo

Il momento è d’oro, innalzare pietre significa dare lustro alla famiglia, bella forma alla città. Quando si tratta di investire, gli imprenditori del momento guardano al futuro, decisi a lasciare tracce che superino il tempo. Ma Giovanni Rucellai non ha i mez- zi finanziari di Cosimo dei Medici. Anche se il vento degli affari soffia forte sulla vela della casata – il logo disegnato da Leon Bat- tista come branding per l’amico banchiere – i Rucellai non si pos- sono permettere di abbattere l’intero quartiere e rifondarlo. Si rivolgono dunque all’architetto perché si immerga nell’angusto sobborgo medievale di San Pancrazio, e ne tiri fuori una reggia.

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Alberti deve rimaneggiare otto appartamenti per crearne uno. Deve cucire insieme architetture preesistenti, tappare buchi, aprire varchi. Deve unire ciò che c’è, facendolo nuovo. Ecco per- ché chi visita oggi la residenza Rucellai si perde in un reticolato di corridoi, di stanze asimmetriche: sono invenzioni geometriche, geniali soluzioni figurative al dilemma di muoversi in uno spazio stretto e irregolare per sfruttarne ogni centimetro. Leon Battista scrive e lavora, teorizza e sperimenta. Il palazzo diventa l’illustra- zione del manuale che sta elaborando, il suo banco di prova. Per rafforzare un pavimento sospeso nel vuoto, il trattato prevede l’in- serimento di catene incrociate. Nel 1996, durante l’ultimo restau- ro dell’impiantito, quelle che affiorano fra la meraviglia dei pre- senti sono proprio catene incrociate. E ancora. Per consentire alla servitù di lavorare senza intralciare i padroni, Alberti raccomanda l’uso di scale a chiocciola: nella dimora Rucellai se ne trovano do- vunque, celate cerniere di collegamento fra piano nobile, cucine e piani alti, tali da permettere ai domestici un via vai discreto e silenzioso. Ma il vero colpo di genio è la facciata. Se l’interno della re- sidenza è un mosaico di pezzi imbastiti, la parete esteriore deve assolutamente dare l’illusione di una costruzione organica. Ed ecco che, in una nobile operazione di maquillage, Battista Alberti avvolge di pietre l’ossatura, usando pilastri e archi per impilare gli ordini dorico, ionico e corinzio proprio come chiedeva Vitruvio, e come si vede nel Colosseo. Ma lo fa con la grazia e l’eleganza dei tempi nuovi, cucendo insieme i tre piani secondo la lezione di Brunelleschi. È l’antica Roma rivisitata in chiave prospettica, alleggerita e semplificata per servire le ambizioni della nuova bor- ghesia rinascimentale fiorentina. E poiché di miraggio si tratta, l’altezza dei tre ordini dimi- nuisce verso l’alto, così da creare un effetto di maestosità e gran- dezza. Attenzione però, quel lieve bugnato al piano terra non può sporgere più di tanto, e non per non violare il regolamento edili- zio sull’invasione del suolo pubblico, quanto per non far ombra ai Medici, che in questo momento di bugnato vanno giù pesante, fasciando di rustiche pietre aggettanti quasi metà della facciata di via Larga. Come se quegli spigoli da castello medievale, normal- mente riservati agli edifici pubblici, proclamassero ai passanti – e al mondo – la possenza di una dinastia che non teme assedi, ben piantata com’è sulla rampa di lancio della Storia. Ma Giovanni Ru-

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cellai non ci pensa proprio a mettersi in competizione con i nuovi signori di Firenze: il suo obiettivo è farsi notare e riconquistarne la fiducia. Dunque, il suo bugnato sarà basso,stiacciato . Intanto i lavori al palazzo procedono bene, al punto che Gio- vanni decide di espandersi. Inizialmente il suo piano prevede una facciata divisa in cinque “assi”, con un gran portone al centro, all’altezza del terzo, cioè perfettamente a metà. Nel frattempo, è riuscito ad acquistare altri caseggiati, può aumentare i volumi, allargarsi sulla destra: si lancia così in un ambizioso progetto di ben tre assi supplementari, e prevede non più uno, ma due por- tali d’ingresso. Peccato che la sua volontà si scontri con quella di un vicino più tenace di lui, assolutamente deciso a non cedere la propria casa per farla diventare il terzo asse aggiuntivo. Alla fine, Rucellai deve rassegnarsi: non può arrivare là dove aveva previsto, deve lasciare la facciata asimmetrica, monca di una fetta, sulla de- stra, con le pietre che terminano in un ringhioso dentellato, quasi a voler mordere i mattoni dell’ostinato vicino.

Di come i Rucellai perdano tutto nella rivolta che porta all’ultima Repubblica

Oggi la facciata è tutto ciò che rimane del palazzo disegnato da Alberti nel 1450, con il leone-stemma di famiglia a rampare sul bugnato, e la vela di Giovanni spiegata fra i capitelli. Oggi inse- gne, loghi e blasoni scolpiti sono tutto ciò che possiamo “leggere” in via della Vigna nuova per interpretare gli eventi. Paradossalmente l’interno è stato ridotto a un guscio vuoto, spogliato di affreschi, tappeti, manoscritti e di tutto ciò che consi- deriamo “arte minore”, ma che una volta incarnava la magnificen- za della casata. I danni più gravi sono legati alla rivolta del 1527, quando gli antimedicei – in seguito al sacco di Roma da parte di Carlo v – riprendono il controllo della città, e assaltano il palazzo dandosi a incendi e ruberie. Gli oggetti più antichi sono distrutti o trafugati: è il prezzo che i Rucellai devono pagare per la loro amicizia con i Medici, ai quali sono sempre rimasti fedeli dopo le iniziali incertezze di Giovanni. L’insurrezione del 1527 è l’ultimo sussulto della Repubblica fiorentina, giunta alla terza e ultima tappa. Dopo neppure due anni, provata da un assedio di nove mesi, Firenze cade: le truppe

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imperiali e papali, stavolta unite, rimettono i Medici al potere. I Rucellai respirano. Al rientro della famiglia, un nuovo pavimento in cotto e mar- mo – tutt’ora in uso – rimpiazza le antiche assi bruciate, segnando il cambio d’epoca, e regime. Oggi la dimora offre ai visitatori la sua ultima veste interna, tardobarocca e neoclassica, con preten- ziosi busti di imperatori romani al posto degli arazzi medievali. Così è nella sala da Ballo, “rimodernata” nel 1752 per il matrimo- nio di un Rucellai con una Pazzi (proprio quelli della congiura). Lo stesso vale per la sala degli Stucchi, le cui pareti proclamano l’aggiornamento delle parentele nobili della casata, dai Martelli ai Giugni, fino ai Borbone di Napoli: nessuna traccia delle unio- ni con Strozzi o Medici, ormai inghiottite dal tempo. Ovunque, enormi specchi di fine Settecento placano l’ansia di mettersi alla pari con Versailles. Ma c’è una sala ancora capace di emozionare, quella delle Muse, il cui unico affresco racconta l’apoteosi del mecenatismo Rucellai. È un soffitto decorato con lahit parade dei capolavori di famiglia, immortalati in pieno rococò dal pittore Giandomenico Ferretti. Sedute sulle nuvole dell’empireo, quattro muse si riposa- no prima di salire al tempio della Fama: ispiratrici e protettrici del pensiero umano, le divinità tengono fra le mani quanto di meglio i Rucellai hanno trasmesso al mondo. Fra le braccia della musa della Pittura si intravede la Madonna Rucellai di Duccio da Boninsegna, oggi conservata agli Uffizi accanto ai capolavori di Giotto e Cima- bue. Calliope, musa della Poesia, stringe le due tragedie scritte da Giovanni, il nipote letterato del Giovanni mercante, e una raccolta di versi, Le api, che addirittura Leopardi considerava un’opera ec- cellente tanto da inserirla in una propria antologia. InfineUrania , musa della Geometria, impugna squadra e martello, mentre due putti srotolano la rubrica delle meraviglie realizzate da Alberti per la casata. Di queste, il palazzo è solo il primo della lista.

I capolavori di Alberti, da Santa Maria Novella al tempietto di San Pancrazio

Fra il 1450 al 1470, è grazie ai panni color porpora dell’amico mercante che il Vitruvio fiorentino riesce a realizzare la propria visione del Rinascimento. In vent’anni di committenze Rucellai,

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Alberti regala a Firenze un vero catalogo di opere, tutte ricava- te nella zona di San Pancrazio: l’attuale facciata di Santa Maria Novella, il tempietto del Santo Sepolcro, la loggia antistante al palazzo stesso, prima negozio poi sede della banca di famiglia. È un intero quartiere a prendere forma. Praticamente in tutti i casi – e sembra quasi una condanna – l’architetto deve rimaneggiare e portare a fine opere iniziate da altri. Ma non si può dire che Giovanni Rucellai non ci abbia preso gusto: per esempio quando decide di realizzare la propria tomba nella chiesa di famiglia di San Pancrazio – oggi Museo Marino Ma- rini – prendendo a modello nientemeno che il sepolcro di Cristo a Gerusalemme. È vero che non è il primo, e non sarà l’ultimo a farsi seppellire a guisa di Nostro Signore: ma lui spedisce addirit- tura un emissario sul posto, che riporti della sepoltura un disegno preciso, così da imitarlo. Insomma, per uno che aveva rischiato l’esilio e la confisca dei beni, le cose alla fine sono andate davvero alla grande. Certo ha giocato a favore anche quel matrimonio, celebrato nella loggia sorta di fronte al palazzo «per honore della nostra famiglia, per adoperarla per le letitie e per le tristitie» (Zibaldo- ne). Anche qui Alberti deve fare un piccolo prodigio: lo spazio è poco, bisogna lavorare sulle macerie di un nucleo di case medie- vali comprate e abbattute per “liberare” la residenza dei signori, e darle aria. Giorgio Vasari scriverà che Alberti nella loggia sbaglia i calcoli, e che forse le tre arcate non sono perfettamente simme- triche. D’altronde, neppure il palazzo lo è. La verità è che a Vasari Leon Battista non piace, lo considera un teorico puro, un sogna- tore. Ma il nostro “letterato dell’architettura” sa tirare fuori il me- glio dal peggio, regalando alla città un altro miracolo di eleganza.

Quando l’aggancio coi Medici si realizza nel matrimonio del secolo

Proprio sotto quegli archi, nel 1466, l’aggancio con i Medici si perfeziona, Giovanni esce dall’ostracismo e realizza il sogno di una vita: festeggia le nozze del figlio Bernardo con Nannina de Medici, nipote di Cosimo e sorella del Magnifico. Il matrimonio tanto agognato è celebrato proprio nella piazza davanti a casa, fra palazzo e loggiato. Sul frontone della loggia, Alberti intaglia nella

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pietra l’annuncio dell’alleanza: alla vela-branding di Giovanni, si aggiunge l’anello a due piume simbolo di Piero, padre della spo- sa. Rucellai-Medici, una grande coalizione politica che resisterà a congiure, guerre, assedi. È lo stesso Giovanni a raccontarci con paterna compiacenza tutti i particolari di queste storiche nozze. È il giugno 1466: la piazza è stata chiusa e coperta da un pal- coscenico di legno alto un metro, addobbato di arazzi. È da qui che lo spettacolo del sodalizio deve essere messo in scena. Giovan- ni ha ordinato «il più bello e più gentile parato che si sia mai fatto a festa di nozze»: ed ecco che un cielo di panni turchini intrecciati a ghirlande, rose, festoni e scudi delle due famiglie si stende sopra il palco per difenderlo dal sole. Gli invitati? Pochi, rigorosamente selezionati «Furono alle dette nozze donne 50 bene parate e ric- camente vestite – si legge nello Zibaldone – e similmente giovani 50 da fare festa, benissimo vestiti». Lassù, a un metro da terra, la compagnia in bella mostra danza e mangia, appoggiata a una ta- vola coperta d’argenti. A servirli, cinquanta fra cuochi e sguatteri. Perché quando si tratta di desinare e cena, i Rucellai sono generosi: dopo il primo turno, anche le amicizie secondarie possono acco- modarsi. «Alle prime tavole contando le donne e fanciulle casalin- ghe e pifferi e trombetti, mangiava 170 persone. E alle seconde, e terze, e quarte tavole, mangiava gente assai, per modo che fu tal pasto che vi mangiò persone 500». La sposa, «donna novella», è scortata da via Larga alla nuo- va magione da quattro cavalieri: porta con sé una dote di 2.500 fiorini, duemila in moneta e 500 in doni. All’arrivo, riceve gli omaggi Rucellai che superano di gran lunga il valore della dote: «non meno di venti anella e sei dallo sposo, due quando la tolse, due dello sposalizio, due nella mattina che si donano le anella». Cospicuo l’elenco dei regali che Giovanni ha preparato per mo- strare d’essere degno della schiatta medicea: «Alla donna novel- la si fecero vestimenti ricchi; uno di velluto bianco ricamato di perle, seta e oro, con maniche aperte foderato di lattizi di valuta di fiorini; e uno di zetani vellutato alto e basso di perle molto ricco di pelo, foderato le maniche d’ermellini. Ebbe una cotta di domaschino bianco, brocato d’oron fiorito, con un paio di ma- niche di perle di valuta di fiorini [...] e un’altra cotta di seta con maniche di broccato d’oro chermisi. Ancora ebbe una collana ricca con diamanti rubini e perle di valuta di fiorini 1200 – e una brochetta di spalla con uno grande balascio e perle che costò

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fiorini 1000 – e uno vezzo al collo di perle grosse con uno grosso diamante punta per pendente, di valuta che solo il diamante co- stò ducati 200 [...]». Lassù, a un metro da terra, racchiusa simbolicamente fra pa- lazzo e loggia, la bella compagnia Rucellai celebra l’approdo di decenni di sforzi. Chissà se messer Alberti è lì a festeggiare con loro. Si sa che due anni più tardi, quando è ormai prossimo alla morte, all’umanista sarà concesso – in via de Benci – il possesso di una porzione della casa del nonno Benedetto, quello che si era schierato con i Ciompi, famosissimo in città per aver pagato con l’esilio il suo appoggio alla plebe fiorentina. Finalmente Leon Battista ottiene il riconoscimento ufficiale della discendenza dal celebre antenato: l’architetto può tornare a casa sua, da padrone. Una battaglia contro i parenti durata tutta la vita, la cui vitto- ria arriva troppo tardi per lui che, poco prima della fine, annota su un foglio un pensiero simile a un rimpianto: «A Firenze sonci come forestiere; raro ci venni, poco ci dimorai». Non è vero, ma a lui sembra così. Ha creato l’architettura del Rinascimento, e non se ne è neppure accorto.

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Il Cenacolo del Fuligno Non è Raffaello? Allora sono guai

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 105 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 106 10/05/21 14:51 Nel refettorio l’annuncio cade quietamente: «Uno di voi mi tradirà». È Perugino a narrare l’istituzione dell’eucarestia sulle pareti del Fuligno, ma per anni si crede alla paternità del suo più illustre discepolo, il Sanzio da Urbino. Storia di un cenacolo frutto della spiritualità ispirata da Girola- mo Savonarola, l’eretico profeta morto sul rogo. Storia di un monastero in cui vengono rinchiuse le fanciulle della Firenze bene, finché non arriva la Rivoluzione francese a rimpiazzarle con quelle del proletariato urbano. Una volta attribuito a Raffaello, l’affresco riaffiorato diventa fenomeno di massa, per poi sprofondare nell’oblio quando si accerta che è “solo” figlio del «divin pittore». Una crisi di identità che lo porta a diventare ricovero per mummie, buccheri, arte barocca e opere alluvionate. Fino al riscatto finale.

Di quando Perugino mette a tavola undici impassibili discepoli buoni e uno cattivo

Sono passati cinquant’anni da quando Andrea del Castagno ha ritratto gli apostoli in Sant’Apollonia, sloggiando la Crocifissione ai piani alti. Il tema dell’Ultima cena “a tutto campo” piace talmente alle autorità ecclesiastiche che a Ghirlandaio ne chiedono ben tre: una alla Badia di Passignano (1476), un’altra a Ognissanti (1480) e l’ultima a San Marco (1486). E poiché in bottega non si butta via nulla, sembra che per risparmiare tempo e denaro gli ultimi cartoni passino da un cantiere all’altro. Siamo a fine secolo, nel 1495: il mondo ha appena girato pagina. A Milano, Leonardo da Vinci decide di lasciare il proprio segno nella tradizione dei cenacoli fiorentini. Ribaltandola. Sui muri di Santa Maria delle Grazie, l’annuncio del tradimento di Gesù innesca per la prima volta reazioni di sconcerto e rabbia fra i discepoli. La sfida del maestro fiorentino è far emergere i moti dell’anima nell’arte, rappresentare le passioni. Per lui una figura

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che non mostri «affezione e fervore» è da considerarsi due volte morta. «Sia variato l’arie de’ visi secondo li accidenti dell’uomo – scrive Leonardo nel Trattato sulla pittura – in fatica, in riposo, in ira, in pianto, in gridare e timore, e cose simili». Il sentire insom- ma deve riflettersi sul volto, nella persona tutta. Nello stesso momento, a Firenze, Perugino mette in scena una visione assolutamente opposta. Niente drammaticità, nessun pathos. Nel refettorio dell’ex convento del Fuligno i convitati non si agitano, come se assorbissero uno sgomento che non vogliono mostrare. «Uno di voi mi tradirà». Tommaso si versa da bere, Bar- tolomeo si concentra sulle vivande. Simone e Taddeo continuano a conversare, forse chiedendosi chi sia mai lo spergiuro che porta in sé l’inganno. Gesù sembra già assente. Nessuna commozione: il dramma nel Cenacolo è annunciato, ma la reazione del gruppo composta. Impercettibile. Sono uomini “ideali”, quasi impassibi- li, nulla hanno dei marcati profili, della carnalità di Andrea del Castagno. Solo Giuda, inchiodato ancora una volta da solo al di là del tavolo, lancia allo spettatore un’occhiata che trafigge, men- tre con la mano sinistra impugna il prezzo del tradimento. La destra sfiora la tovaglia. E quel suo sguardo senza fine sospende il tempo. È al Vangelo di San Luca che si rifà il pittore quando gli apostoli chiedono a Gesù chi sia il traditore: «È colui che poggia con me la mano sul tavolo». La scena è lineare, proprio come il pae­saggio in cui è accolta, un portico contenuto da dolci colline degradanti, cassa di risonanza dei sentimenti dei commensali. In alto, appare per la prima volta l’Orazione nell’orto del Getsemani: già Ghirlandaio aveva tolto di mezzo la Crocifissione, Perugino in- troduce la preghiera di quest’uomo nell’oliveto, offerto in sacri- ficio nella sua insopportabile solitudine. Le terziarie francescane – committenti dell’opera nei locali del Fuligno – sono soddisfatte. L’artista ha ben risposto alla loro domanda di spiritualità, di com- postezza. Di rigore morale. Altro che la rabbia dei discepoli messi a tavola da Leonardo: il clima artistico fra Milano e Firenze non potrebbe essere più di- verso. Ma al Nord, di si è solo sentito parlare.

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Quel predicatore che pesta i piedi al papa e finisce sul rogo

Siamo alla fine del Quattrocento, e la nuova pagina aperta nel libro del mondo si annuncia complicata. Nel 1492 Cristoforo Colombo è approdato in America, inaugurando l’epocale spo- stamento di piste commerciali che schiudono nuovi mercati e incoronano nuove potenze coloniali. A Firenze, un fulmine cade sulla lanterna del Duomo e la fa precipitare: fosco presagio. Lo- renzo il Magnifico se ne va, chiudendo il bagaglio dell’uomo al centro di tutte le cose. Muore Pico della Mirandola, che dopo aver teorizzato i fasti dell’Accademia Neoplatonica, si è ritrovato a cercare nella fede la quiete dell’anima. Muore Poliziano, ed è la fine del Giardino di San Marco. Entrambi avvelenati, mistero mai chiarito e presto accantonato per far posto a nuove sventure. Nel 1494 l’Ita­lia è invasa dal francese Carlo viii, su richiamo dello sciagurato duca di Milano, Ludovico Sforza. Il precario equilibrio fra staterelli è rotto, gli stranieri si accorgono che possono affon- dare la lama nel burro italico senza fatica, e tornarsene a casa a mani piene. I tesori della penisola razziati durante questa spedi- zione fanno tutt’oggi bella mostra nelle teche d’Oltralpe. Piero de Medici non fa neppure i bagagli e si ritrova in fuga davanti ai francesi. A Firenze si afferma la Repubblica di Girolamo Savonarola, frate profeta, oratore incendiario, che a colpi di minacce apoca- littiche riempie le chiese e fustiga i costumi. Erigendosi nel vuo- to di potere creato dalla scomparsa di Lorenzo e dalla cacciata da Firenze del figlio Piero, il domenicano richiama i fiorentini al rigore di vita, alla fede sincera. Con il furore di un mistico me- dievale, arriva a colpire il papa Alessandro Borgia, che certo fra tutti dà il peggior esempio. Dure le sue parole contro il degrado morale della Curia romana: «Sono li vostri peccati che profetano contra di voi – scrive – noi conduciamo li uomini alla semplicità e le donne ad onesto vivere, voi li conducete a lussuria e a pompa e a superbia, ché avete guasto il mondo e avete corrotto li uomini nella libidine, le donne alla disonestà, li fanciulli avete condotto alle sodomie e alle impudicizie e fattoli diventare come meretri- ci». Accuse pesanti. E Borgia non è uno che lascia perdere. Accu- sato d’eresia, il frate ferrarese sarà impiccato e bruciato in piazza, le ceneri sparse in Arno per impedirne qualsiasi ossequio.

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Ma il suo lascito impregna il fine secolo con una crisi di co- scienza anticipatrice della Riforma luterana. Certo vi sono anche i falò di opere d’arte ispirati dalle parole del “profeta”, che non riesce a evitare la radicalizzazione in senso puritano dei suoi so- stenitori, dei quali sa toccare il cuore con un eloquio visionario. A Savonarola non interessa l’arte di per sé, solo ciò che rappresenta, la sua funzione didascalica. Ovvio che ce l’abbia con gli umanisti: per lui l’opera d’arte ha diritto d’esistere solo se ispirata religio- samente. Sculture e pitture sono la Bibbia dei poveri, devono te- stimoniare verità, aderenza alle scritture. È l’ora di finirla con le opere lascive, equivoche, dilettevoli. Sembra il copia-incolla di ciò che dirà la Controriforma sessant’anni dopo, per riportare all’ovi- le il gregge cristiano, contendendolo ai riformati. Così in pochissimo tempo il clima cittadino si capovolge. Inquieti orfani della Signoria medicea, i fiorentini si dirottano sulla Repubblica savonaroliana, e lì si aggrappano. Non è più tempo per i circoli filosofici o le elucubrazioni mitologiche del- la corte di Lorenzo il Magnifico & Co. Tutte le vecchie certezze sono infrante, bruciano nei falò delle vanità. Ecco come Giorgio Vasari racconta un incendio organizzato durante l’ultimo gior- no di Carnevale: «[...] si condusse a quel luogo tante pitture e sculture ignude molte di mano di Maestri eccellenti, e parimen- te libri, liuti e canzonieri che fu danno grandissimo, ma partico- lare della pittura, dove Baccio portò tutto lo studio de’ disegni che egli aveva fatto degli ignudi, e lo imitò anche Lorenzo di Credi e molti altri, che avevon nome di piagnoni [...]». Cosimo Rosselli e Ridolfo del Ghirlandaio, Fra Bartolo- meo e Lorenzo di Credi, Andrea della Robbia e Piero di Cosi- mo: tantissimi gli artisti “convertiti”, magari pronti a rinnegare gli errori di gioventù. Persino Botticelli si cosparge il capo di cenere per aver ritratto le nudità della Venere. Sarà lui stesso a dare alle fiamme alcuni quadri «profani e licenziosi», per poi raccogliersi in un’arte devota. Una vera fortuna che Primavera e Venere siano al sicuro nella , in mano ai Medici Popolani, i cugini più giovani del Magnifico. Ma il clima è or- mai un altro: bruciando sui roghi la giocosità dell’Umanesimo, gli artisti di fine secolo si ripiegano su loro stessi, cercano rigo- re, spiritualità. E dunque addio distrazioni superflue, leggen- de e allegorie. Addio Mercurio, Apollo, Dafne, satiri burloni e mostruosi centauri. Niente più Grazie che danzano in veli

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trasparenti. Da ora in poi l’Arte sarà essenziale e intensamente religiosa. Pura.

Il Fuligno, convento “delle contesse” nato per riabilitare gli Alberti

Ecco perché le francescane del Fuligno sono contente: la nuova Ultima cena va proprio bene, non ha toni eccessivi, è una com- posizione intima che invita alla contemplazione. Proprio ciò che cercavano quando hanno deciso di cancellare il precedente con- vivio affrescato da Neri di Bicci, all’opera nel convento insieme al padre nella prima metà del Quattrocento. Un buon pittore, Neri, anche se di secondo piano. Uno che usa colori accesi, che propone pale ricche d’oro e scarse di prospettiva e modernità: un artista ancora fortemente immerso nel gotico trecentesco. Per il gusto raffinato delle monache, quello stile un po’naïf stride con l’eleganza e il rigore richiesti dai tempi nuovi. Ecco perché hanno scelto Perugino per scialbare il lavoro di Neri, commissionando una nuova Ultima cena dopo neppure quarant’anni. Tanto, i soldi per rifare tutto non mancano. Il “convento delle contesse” è noto per ospitare le nobili fi- glie dell’alta società fiorentina, un tratto acquisito fin dalle origi- ni, nel 1419, quando Ginevra de Bardi, discendente della celebre famiglia di mercanti ridotti sul lastrico dal re d’Inghilterra, ac- quista questo romitorio, che da oltre cento anni fa da ricovero a viandanti e diseredati. La sua idea è di trasformarlo in un grande convento per fanciulle bene. Ginevra è vedova di Albertaccio de- gli Alberti, figlio di quel Benedetto esiliato da Firenze per l’appog- gio dato ai Ciompi: in pratica, zio del celebre Leon Battista. Con l’intento di riabilitare il buon nome della famiglia e preparare il terreno per un suo rientro in città, Ginevra compra l’immobile, lo ristruttura, e per gestirlo va a pescare nientemeno che in Umbria, nella comunità delle monache della Beata Angelina di Foligno (e da qui il nome passato alla storia dell’istituto). Due nobili conso- relle sono invitate a trasferirsi a Firenze per amministrare il mo- nastero: sono passati dieci anni dall’inizio dei lavori, e il convento di Sant’Onofrio, detto “di Fuligno”, viene consacrato nel 1429.

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Di quando Eleonora, amante e poi moglie in disgrazia, viene sepolta al Fuligno

L’uso di ospitare le figlie del ceto nobiliare non è esclusivo di que- sto monastero, al contrario: ma è certo che la fama del livello alto- locato del “convento delle contesse” si consolida all’interno della cerchia fiorentina. Le doti ingenti versate alle consorelle dalle ricche famiglie che qui rinchiudono le proprie figlie permettono di fare molti lavori, ampliare le sale, realizzare un grande dormitorio e un re- fettorio: e naturalmente di abbellire il tutto di opere d’arte, alla maniera del momento. Nomi importanti lasciano il segno nella chiesa e in tutta la struttura, da Allori a Passignano. Moltissime le nobildonne che passano di qui: dame della corte granducale, o di famiglie vicine, vedove, nane, ragazze “in attesa” (delle nozze o di qualcos’altro), novizie in preparazione per i voti. Spesso, vere e proprie recluse. Un caso fra tutti, quello di Eleonora degli Albizi. La «bellissima ma di bassa fortuna» discendente del più gran- de oppositore di Cosimo il Vecchio, finisce per diventare la favo- rita di Cosimo “il giovane”, ovvero il granduca Cosimo i, il quale è marito e poi vedovo di un’altra e più patrizia Eleonora, quella di Toledo. Ma quella con la seconda Eleonora è un’unione assai controversa, ostacolata con tutte le forze dai discendenti legittimi di lui, Francesco in testa. Nonché da una certa “stanchezza” che l’anziano regnante accusa nei confronti della giovane compagna. Dopo aver messo al mondo il figlio Giovanni, riconosciuto dal duca, Eleonora è tolta di mezzo e condannata a sposare un certo Carlo Panciatichi, graziato a tale scopo da una condanna a morte per tradimento e pagato 10.000 scudi per adempiere al compito. Ma le disgrazie della fanciulla non sono finite: dopo aver partorito altri tre figli al legittimo marito, finisce ripudiata da quest’ultimo e costretta a trascorrere il resto di una lunghissima vita nel mona- stero di Fuligno. A onor di cronaca, identica fine farà Camilla Martelli, secon- da amante di Cosimo i, poi legittimata in matrimonio morgana- tico, ma non per questo più fortunata. Non appena il granduca chiude gli occhi, anche Camilla viene rinchiusa a vita in un altro monastero, quello delle Murate (e infine in quello di Santa Moni- ca). Stessa sorte, conventi diversi. Si capisce meglio l’importanza – e un certo tipo d’uso – di queste strutture: vere e proprie prigio-

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ni in cui scompaiono gli scandali, si risolvono i guai. Si mettono per sempre a tacere donne che avrebbero qualcosa da dire, se interpellate. Per cinquantasei anni Eleonora degli Albizi cena in silenzio, lontana dai figli, guardando l’affresco di Perugino. Sono 20.440 serate in cui la nobildonna ha modo di riflettere sull’eucarestia offerta da quella parete come promessa di futuro riscatto, rispet- to alle miserie del suo triste presente. Dopo di lei, generazioni di monache si susseguono. Per secoli il convivio affrescato da Pe- rugino sui muri del convento accompagna i pasti delle terziarie francescane. Finché un giorno di fine Settecento, innestata sulle baionette napoleoniche, la Rivoluzione francese entra in città, con bandiere, decreti e appetiti di vario tipo.

Di quando arriva la Rivoluzione e dona il convento alle fanciulle povere

Tutti gli istituti ecclesiastici vengono soppressi, l’abito religioso proibito. Un vero terremoto si abbatte sulle suore, costrette a la- sciare il convento di Fuligno. Non si sa bene a che punto della storia, o per quali motivi: ma nel frattempo l’affresco è stato scial- bato, gli apostoli coperti. Ai funzionari francesi in visita nell’ex re- fettorio delle monache, strati di calce sciolta in acqua nascondono la Cena. Però il complesso è bello, di grande valore. Che farne? Gli edifici espropriati sono spesso dati in pasto al mercato privato, con il dichiarato scopo di risanare le finanze pubbliche. In questo caso invece, il nuovo governo decide di adibire la struttura all’i- struzione di fanciulle povere o abbandonate. La vocazione all’ac- coglienza femminile delle antiche mura è preservata. Nasce l’Educatorio del Fuligno, la cui mensa – sede del pre- zioso dipinto – viene separata e considerata un edificio a sé stante, forse nell’ottica di poterla alienare, ricavandone qualche soldo. A questo punto i destini di Cenacolo e convento divergono defini- tivamente: una “frattura” che non sarà più composta. Quando i francesi partono per Parigi, centinaia di opere d’arte fiorentine hanno ormai preso la via del Louvre, per mai più ritornare. Il tesoro del Fuligno tuttavia è sempre lì, nascosto sotto l’intonaco. Una volta rimesso in sella, il granduca di Toscana lascia l’E- ducatorio alle fanciulle, ma permette che la grande sala dell’ex

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refettorio cominci a passare di mano in mano, nella girandola di destinazioni d’uso tipica di buona parte del nostro patrimonio mi- nore. L’ambiente è prima acquisito dallo Scrittoio delle Reali Fab- briche, poi ceduto a privati come rimessa. Secondo gli atti notarili – e sotto gli occhi degli apostoli celati dalla calce – lo stanzone diventa laboratorio per la lavorazione della seta, poi si trasforma in officina per la verniciatura delle carrozze. Un cammino di degrado che si arresta nel luglio del 1843, quando il dipinto ne ha abbastanza della clandestinità e un tas- sello torna a far capolino, bucando gli strati di un intonaco sotto cui la storia l’aveva sepolto per secoli, ma anche preservato. La scoperta getta Firenze nello scompiglio totale.

Quella scoperta clamorosa: è affiorato un Raffaello nel garage!

I critici dell’epoca sono entusiasti e (quasi) unanimi: è Raffaello. C’è la semplicità, lo stile dolce degli anni giovanili del maestro. Qualcuno pensa di leggere una sua firma in un angolo, con la data. C’è chi fa risalire a Sanzio anche due disegni preparatori degli apostoli. Probabilmente è il contesto storico a spingere in questa direzione: solo pochi anni prima si è svolta al Pantheon la ricognizione delle ossa del grande pittore, cerimonia che rappre- senta il momento di massimo culto dell’artista, e di generale esal- tazione del suo ruolo nella storia dell’arte italiana. Come sottrarsi all’autorevolezza del mito? Anche il racconto del tradimento di via Faenza cade nella Raffaellomania ottocentesca. Una volta attribuito all’urbinate, il Cenacolo diventa feno- meno di massa: tutti lo studiano, lo riproducono. Mentre comin- ciano a circolare innumerevoli riproduzioni dell’affresco, il Fu- ligno entra nell’orbita delle mete culturali più ambite, a partire dal grand tour. L’animazione in via Faenza è grande. Siamo in un angolo appartato del centro, sull’asse che conduce fuori città, ver- so l’antica porta, una volta mèta di pellegrini e viandanti, ma col tempo defilatasi dalla frenesia quotidiana. Adesso l’eccitazione si propaga in ogni direzione del quartiere. Il clamore per la scoper- ta è tale che nel dicembre del 1847 il granduca di Toscana Leo- poldo ii – colui che l’aveva venduta ai privati – è costretto a fare marcia indietro e (ri)comprare l’aula monumentale, facendo la

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fortuna del proprietario dell’officina. D’altronde, quando si trova un Raffaello­ bisogna essere pronti a spendere. «Firenze rivide il bel Cenacolo di Foligno, lungo tempo ignorato – scrive il gran- duca nelle sue memorie – sublime concetto espresso da pennello di maestro e attribuito a Raffaello. Antonio Montalvi ne consigliò al governo l’acquisto, e fu compro per lire 10.000. Coll’amico lo considerai, e dissi a lui d’aver fatto bene». E per sottolineare meglio l’eccezionale circostanza, un busto di Sanzio è collocato nel Cenacolo, proprio davanti all’affresco. Poi la sala viene affidata alle Regie Gallerie, diventando Museo. Addio seta e carrozze, tutto sembra procedere bene per l’Ultima cena ritrovata, e finalmente celebrata come merita. Finché... qual- cuno non comincia ad avanzare dei dubbi. Per primo è lo storico dell’arte tedesco August Schmarsow, tra i fondatori del Kunsthis- torisches Institut, l’Istituto di Storia dell’Arte di Firenze finanziato con fondi tedeschi. Siamo a fine Ottocento, il professore si con- vince che qualcosa non torna, che Raffaello non c’entra. Studia, cerca prove. Le trova. Alla fine, la comunità scientifica è costretta a cambiare rot- ta con voto unanime: l’elegante equilibrio dispiegato nel Fuligno non è opera di Sanzio, bensì del suo maestro. Il divin pittore.

E invece è Perugino: «Il meglio maestro d’Italia»

Dire che si tratti di delusione è poco: la rivelazione viene subìta come un vero e proprio declassamento. «È solo un Perugino». In verità le francescane avevano assoldato il meglio su piazza, il pittore più noto e influente del momento. E nella Firenze di fine Quattrocento, quel nome era proprio Pietro di Cristoforo Van- nucci, detto il Perugino. «Il meglio maestro d’Italia» (Agostino Chigi). Il più importante innovatore della pittura fiorentina pri- ma della maniera di Michelangelo, secondo Vasari. Un astro che splende per circa vent’anni prima di tramontare, e proprio per gli stessi motivi che ne fanno il più fulgido rappresentante di questa cerniera temporale fra i due secoli. Pietro nasce a Perugia. Solita attitudine precoce, molto stu- dio, qualche lavoretto con un artigiano locale. Ma è a Firenze che si forma, fra il 1468 e il 1472, operando nella prodigiosa fucina di giovani talenti che è la bottega di Verrocchio. Qui cresce insieme

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a Leonardo da Vinci e Domenico Ghirlandaio, a Filippino Lippi e Sandro Botticelli. È la terza generazione del Rinascimento, e pre- para meraviglie nella Firenze di Lorenzo il Magnifico. Concluso l’apprendistato, il giovane si iscrive alla Compagnia di San Luca, ma comprende presto che in città c’è troppa concorrenza, meglio cercare le prime commissioni altrove, per esempio a casa, in Um- bria. Già dai primi lavori i punti di forza del pittore si impongono: l’uso morbido e sfumato del colore, la composizione ampia, le figure pacate, quasi malinconiche. È un’esecuzione pittorica nuo- va, il successo arriva in fretta. Il papa lo chiama a Roma. È il 1479, Sisto iv sta mettendo insieme una squadra cui affidare nientemeno che la decorazione della quasi ultimata Cappella Sistina, e il primo a essere convocato è proprio Perugino. Poco dopo, per dare una mano a quel pon- tefice che ha appena tramato per ucciderlo (la congiura dei Pazzi è del 1478), il Magnifico manda inspiegabilmente da Firenze il nucleo dei migliori artisti cittadini. Ecco dunque al lavoro riuniti i vecchi compagni di bottega, Botticelli, Ghirlandaio, Perugino. C’è anche Cosimo Rosselli. Pietro fa arrivare da Perugia il Pintu- ricchio. È il gotha della pittura del tardo Quattrocento, un grup- po formidabile, unito dalla comune formazione, coeso nell’utiliz- zo di un unico linguaggio per fare emergere un’opera omogenea. Per far sì che le figure abbiano le stesse dimensioni i pittori usano infatti la stessa scala di proporzioni, ma anche gli stessi colori, la struttura paesaggistica, persino le stesse rifiniture in oro, tese a far splendere i bagliori delle candele. Un’opera nel complesso straordinaria, in cui Vannucci ha il posto d’onore. È il primo a cominciare, gli viene assegnata la parete di fondo, quella più in vista, proprio dietro l’altare: tre riquadri di assoluta preminenza, tant’e che nello spazio centrale si fa ritrarre lo stesso pontefice, inginocchiato davanti a Maria Assunta. Beffardo il destino del pittore destinato a scialbare Neri de Bicci nel Fuligno. Il suo capolavoro nella Sistina finirà a sua volta scialbato, e per motivi certo meno nobili, anche se dalla mano più nobile di tutte, quella di Michelangelo. Cinquant’anni più tar- di, infatti, il Giudizio universale del genio di Caprese cancella per sempre le pitture di Perugino dalla Sistina. I disegni iniziali del Giudizio – fatti quando ancora è a Firenze – testimoniano come Michelangelo non intenda affatto intaccare il lavoro preesistente, piuttosto girargli intorno. Ci deve rimanere piuttosto male quan-

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do gli comunicano che Clemente vii – il papa che ha commissio- nato il lavoro – ha inspiegabilmente già fatto abbattere l’affresco con l’immagine del predecessore. E il motivo? In pochi propendono per l’ipotesi di un aumento dello spa- zio a disposizione delle nuove pitture di Buonarroti. Sembra as- sai più probabile una sorta di regolamento di conti postumo fra pontefici: la “vendetta” personale di Clemente vii contro Sisto iv, colpevole di aver appoggiato la congiura dei Pazzi contro i Medi- ci. Nel vergognoso attentato, compiuto nel Duomo di Firenze il giorno di Pasqua del 1478, Lorenzo il Magnifico si salva a stento, ma non suo fratello Giuliano, trafitto dai pugnali dei congiurati. Giuliano è padre di Giulio, che sarà cresciuto dallo zio Lorenzo come un figlio: per diventare il futuro papa Clementevii , appun- to. Il quale ha senz’altro un buon motivo per cancellare per sem- pre dalla prestigiosa cappella l’immagine del responsabile della cospirazione in cui è stato ucciso il padre.

Trionfo e caduta di un artista sublime. Che non sa rinnovarsi

Sia come sia, gli affreschi superstiti di Perugino nella Sistina sono tre, sufficienti a far capire come stia crescendo la sua arte. Dopo l’impresa romana, le porte di Firenze si spalancano. È ancora il Magnifico a chiamarlo, per programmi decorati- vi sempre più ambiziosi, a volte purtroppo perduti, come quello della villa di Spedaletto a Volterra. Ma le commissioni germo- gliano da ogni parte, in un vero crescendo. Pietro installa la sua terza bottega (la più prolifica) in Sant’Egidio a Firenze, ma con- tinua a gravitare anche su Roma e Perugia. Una triangolazione che costringe il pittore a darsi molto da fare, mentre consente al suo stile di diffondersi in Europa, creando, per la prima volta dopo Giotto, un linguaggio artistico comune, nonché una bella reputazione internazionale. Vasari non ama Perugino (e come potrebbe, non essendo fiorentino e neppure toscano?), ma deve ammettere: «Nessuno di tanti discepoli paragonò mai la diligen- za di Pietro, né la grazia che ebbe nel colorire in quella sua ma- niera, la quale tanto piacque al suo tempo, che vennero molti di Francia, di Spagna, d’Alemagna e d’altre provincie, per imparar- la. E dell’opere sue si fece come si è detto mercanzia da molti,

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che le mandarono in diversi luoghi, inanzi che venisse la maniera di Michelagnolo». In fondo, la morte di Lorenzo e gli eventi degli anni Novanta chiudono il capitolo rinascimentale mettendone in crisi tutte le certezze. Ma l’arte peruginesca non ha nulla da superare, non deve adattarsi ai nuovi dettami, li incarna da sempre e in qualche misura li precede: è già “naturalmente” interprete del linguaggio savonaroliano. Le francescane chiamano Pietro Vannucci al Fu- ligno perché è il migliore a esprimere il nuovo sentire. E perché piace. Piacciono quegli «uomini e donne che avevano perso le loro caratteristiche terrene e assunto quell’aria angelica et molto dolce – scrive un informatore del duca di Milano nel 1494 – e di cui tutti allora sentivano il bisogno». Così nascono gli apostoli di via Faenza, raffigurazioni ideali più che umane incarnazioni. Ispi- ratori di una pace che tutti invocano, dopo le razzie francesi e i roghi savonaroliani. Sarà gloria poco duratura: l’ennesimo e repentino cambio di gusti travolge il lavoro di Perugino. Famosa la reazione criti- ca dei fiorentini allaPala della Santissima Annunziata, iniziata da Filippino Lippi e terminata da Vannucci dopo la morte dell’a- mico pittore, nel 1507. A chi lo rimprovera di essere noioso, di strutturare le composizioni più o meno sempre allo stesso modo, l’artista risponde amaro (ancora nelle parole di Vasari): «Io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi e che vi sono infinitamente piaciute: se ora vi dispiacciono e non le lodate più, che ne posso io?». Sono passati solo dieci anni dal Fuligno, ma tutto è cambiato. La qualità pittorica non basta più. Con il Quattrocento e i roghi alle spalle, la Repubblica di Pier Soderini si è lanciata in una prova d’orgoglio: nasce il David di Michelangelo, inno di marmo alla libertà da ogni tirannia. La fionda del ragazzo non ha paura del futuro, lo guarda dritto in faccia. È tempo di affiggere le antiche glorie militari sulle pareti del Maggior Consiglio, chiamando a fronteggiarsi i due giganti del tempo nuovo, Leonardo e Miche- langelo. In un tale momento, come può Perugino usare e riusare gli stessi cartoni, sia pure per tenere dietro alle molteplici com- missioni delle botteghe? Firenze mormora per quei temi e soggetti sempre uguali che escono dalla bottega del maestro. Pietro capisce di avere a che fare con un pubblico più esigente, cresciuto, bisognoso di varietà

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e innovazioni. Capisce anche di non riuscire a rinnovarsi. Maestro di tecnica e di colore, ma privo di grande inventiva, il pittore sa che il suo tempo è segnato, e dunque decide di tagliare di netto. Probabilmente la scelta più drammatica della sua vita. La Pala dell’Annunziata è l’ultimo lavoro fiorentino: dopo le critiche Pietro Vannucci abbandona la Toscana e torna in Um- bria, dove continua a lavorare per altri vent’anni. È stato il più grande interprete italiano della crisi di fine secolo, e non le è so- pravvissuto. Senza di lui, non ci sarebbe nessun Raffaello. Lascia una Firenze pronta a raccogliere le sfide che i nuovi giganti stan- no già seminando.

E il Cenacolo? Da museo di mummie egizie a ricovero per opere alluvionate

Al Cenacolo del Fuligno il tonfo della delusione è duro da assor- bire: se non è un Raffaello, ma “solo” un Perugino, non vale la pena darsi troppo da fare per ricercare un’identità annacquata dalla Storia. Ed è un colpo che dura anni. Lo dimostra il cospi- cuo cambio d’uso cui l’ex refettorio continua a essere sottoposto, proprio come era accaduto prima della scoperta dell’affresco. Sta- volta, anche sotto gli attoniti occhi dei discepoli congregati per condividere pane e vino. Dopo aver alloggiato la seta e le carrozze, nel 1855 il Cenaco- lo diventa Museo Egizio: accanto all’affresco del divin pittore si col- locano vasi e papiri, rilievi e stele funerarie, accompagnati da una grande tela di Giuseppe Angelelli che ritrae i protagonisti di una famosa spedizione sul Nilo del 1828. Per sintonizzare gli ambienti rinascimentali con le nuove collezioni, soffitti e pareti del Fuligno vengono addirittura decorati in stile egizio: il tutto sarà poi scialba- to al momento del trasferimento del museo, ma da qualche parte ancor oggi affiorano i sacerdoti o i tori in calce monocroma rea- lizzati per tenere compagnia alle mummie. Anni dopo, ai reperti egiziani si aggiungono i gioielli, i buccheri e i capolavori in bronzo degli etruschi: l’esposizione si snoda anche in alcune stanze prese in affitto dall’Educatorio, ma presto appare chiaro che è una scelta non lungimirante, anche per mancanza di spazi. Così, a fine Otto- cento, urne, papiri e vasi traslocano in blocco verso il Palazzo della Crocetta, che diventa Museo Archeologico.

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Lasciato libero lo spazio dai sarcofagi, arrivano i dipinti di scuola toscana del Seicento (Collezione Feroni), che tornano agli Uffizi giusto in tempo per fare posto alle opere d’arte colpite dal fango dell’inondazione del 1966. È la notte fra il 3 e il 4 novembre: dopo settantadue ore di pioggia ininterrotta, il fiume rompe gli argini. La Biblioteca Na- zionale, l’Archivio di Stato agli Uffizi, il , le biblioteche di facoltà, le chiese, i conventi, e praticamente più di mezza città finiscono sott’acqua. Circa un milione di libri, migliaia di opere d’arte, diciotto chilometri di documenti sono distrutti o danneggiati dalla piena, che riversa su Firenze settanta milioni di metri cubi d’acqua. Quando l’inondazione lascia la presa, fra auto accatastate, melma e tronchi, i volontari estraggono di tutto, dipinti e manoscritti, stampe e arredi sacri, libri e manufatti di ogni tipo, che vengono via via prelevati e portati ad asciugare in ricoveri di fortuna. Anche il Cenacolo di Fuligno è selezionato per offrire riparo all’arte ferita. Stipato fino all’inverosimile di castelli metallici, l’ex refetto- rio, ex garage, ex museo archeologico si apre adesso alla cultu- ra alluvionata, che giace per anni sulle impalcature in attesa di restauro. Passa il tempo, e se le opere d’arte risanate vengono progressivamente restituite alla collettività, negli spazi resi nuova- mente disponibili si fanno largo gli affreschi staccati delle pareti dell’Educatorio in attesa di cure. Insomma, mummie e buccheri, arte barocca, opere alluvionate in cerca di asciugatura e affreschi strappati bisognosi di risanamento: parlare di crisi d’identità per il Cenacolo sembra poco.

Un’oasi di pace dove si celebrano i perugineschi

Finalmente, nel 2005, una grande mostra riunisce nel Fuligno le opere di molti che accanto a Perugino si legano alla stagione di fine Quattrocento, da Lorenzo di Credi a Ridolfo del Ghirlan- daio; oppure di quelli che subiscono la sua profonda influenza, come Gerino da o Giovanni di Pietro detto “lo Spagna”. Gli uni seguaci di Savonarola, gli altri semplicemente artigiani di una pittura di armonia e rigore, allievi sulla scia del maestro. Dopo la mostra, alcuni dei lavori restano nel Cenacolo, per fare scorta all’opera madre, quell’Ultima cena che tutti li abbraccia. Si

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decide di coltivare questa vocazione: di restituire alla comunità un bene comune. Oggi l’ex refettorio è una nicchia preziosa in cui l’ultimo Ri- nascimento ancora si respira nella testimonianza della magica dol- cezza dei perugineschi umbri e toscani, uniti in questo luogo di quiete al riparo dal caos cittadino. Oggi, finalmente emancipato dall’insostenibile peso della delusione, il Cenacolo del Fuligno ha (ri)trovato la propria dignità e ripreso il posto dovuto nell’Olim- po della pittura, come omaggio al divin pittore e come spazio de- stinato al racconto della diffusione del peruginismo in tutta Italia. Uno spazio di conoscenza aperto al mondo, a cominciare dagli abitanti del quartiere, che volentieri si fermano a gettare un’oc- chiata mentre vanno a far spesa, o che qui si radunano, anche per assistere a concerti o discutere di libri. Un contesto ristrutturato in cui non si tutelano solo pietre antiche o tele pregiate: si stimo- lano residenti attivi, attratti dalla cultura, si costruiscono­ cittadini partecipi, in formazione permanente. Curioso il destino del primo lavoro del maestro all’indomani della partenza da Firenze. Con l’animo in tempesta e il deside- rio di mostrare al mondo il proprio intramontabile valore, Pietro Vannucci realizza per il Duomo di Perugia il famoso Sposalizio della Vergine; proprio quello che l’allievo Raffaello gli copierà pari pari, ottenendo un successo planetario. Ebbene, razziato dai napoleo­ nici durante il primo sacco d’Italia, il dipinto di Perugino è an- cora in Francia, nonostante il Comune di Perugia ne richieda la restituzione da circa ottant’anni, cioè da quando ha saputo che si trova nel Musée des Beaux-Arts di Caen. Il maestro piace mol- tissimo ai francesi: anche i lavori dello Spagna, il discepolo che più gli somiglia, finiscono per la maggior parte nelle teche del Louvre, dove sono conservati tutt’oggi. Forse è una fortuna che il Cenacolo del Fuligno sia scialbato all’arrivo di Bonaparte: così come aveva previsto di portarsi via la Colonna Traiana, magari il generale sarebbe riuscito a prendersi anche lui.

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Il Chiostro dello Scalzo Come un film in bianco e nero, al contrario

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 123 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 124 10/05/21 14:51 È un film in bianco e nero, regia Andrea del Sarto. La storia di Giovanni, giovane infiammato di ideali, vittima di un complotto che gli costa la vita. Proiettato sulle pareti del Chiostro dello Scalzo – e destinato a parlare a ge- nerazioni di fiorentini analfabeti – è il racconto di nascita, vita e morte di san Giovanni Battista. Dodici scene scandite da quattro ritratti di donne: Carità, Giustizia, Speranza, Fede. Una narrazione a matita, senza co- lori, che attraversa intatta cinque secoli. Il Chiostro serviva da accesso alla chiesa della Confraternita dei disciplinati: la chiesa non c’è più, il portico sì. Sono quei morbidi disegni in chiaroscuro a difendere lo scrigno che li raccoglie, a proteggerlo e traghettarlo intatto attraverso vendite, conflitti, ricostruzioni. Pittore eccellentissimo, secondo Vasari quest’Andrea «senza errori» ha un unico problema: troppo modesto nelle ambizioni a causa di una donna. Una storia in bilico fra amore e arte. A cavallo di un secolo in bilico fra il Rinascimento e la sua metamorfosi.

Quella straordinaria, giovane Repubblica in cerca d’arte per consolidarsi

È il 1502: cacciati i Medici, chiuso il capitolo Savonarola, la gio- vane Repubblica fiorentina ha un brivido d’orgoglio, e di paura insieme. Da che parte andare? Il momento è cruciale. L’intellighenzia politica e intellettuale si stringe come a un salvagente a Pier Soderini, nominandolo gonfaloniere a vita: è lui il prescelto per ricucire le ferite. Soderini piace a tutti, è uomo equilibrato, celebrato dai letterati, riesce persino a gua- dagnarsi la fiducia dei piagnoni, i numerosi seguaci ancora attivi di Savonarola, le cui idee non sono bruciate sul rogo. Il gon- faloniere viene incaricato di una mission impossible: guidare lo Stato fuori dalla recessione economica, mantenere buoni rap- porti con i francesi (e continuare a pagarli perché lascino in

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pace Firenze), reinventare l’immagine della città repubblicana. Attraverso l’arte. Nascono le grandi commissioni pubbliche per la Cattedrale e il Palazzo del Consiglio, opere destinate a celebrare la svolta politica dei fiorentini e la loro fierezza. Nasce il gigante bianco di Michelangelo, quel David nel fiore degli anni, concentrato e altero, colto nell’attimo prima di scagliare la pietra. È «l’uomo più bello del mondo», pronto a sbarrare il passo alla tirannia. Non c’è statua che meglio incarni la sfida del popolo fiorentino, ma anche quella dell’uomo del Rinascimento; entrambi decisi a prendere in mano il sasso e lanciarlo, determinando il proprio fato. Creato per il Duomo, il David è troppo simbolico per non essere posizionato all’ingresso del Palazzo pubblico, orgoglio del- la città. E proprio per la sala nuova del Gran Consiglio, Soderi- ni promuove un progetto fatto di commissioni prestigiose, pur- troppo votate al fallimento: profetiche immagini della sorte della Repubblica che vorrebbero celebrare. Prima fra tutte la grande Pala di Sant’Anna. Il lavoro è affidato a Fra Bartolomeo, anima della Scuola di San Marco e seguace di Savonarola, ma i lavori procedono a rilento, il ritorno dei Medici li blocca, e il dipinto resterà nel convento, testimone incompiuto di una celebrazione solo annunciata. Ma il fiore all’occhiello del progetto di rinascita devono es- sere le due grandi battaglie vittoriose, non della Firenze medicea, bensì della Firenze guelfa, quella che sconfigge i pisani a Casci- na e i milanesi ad Anghiari. Due immensi muri della nuova sala sono assegnati a Michelangelo e a Leonardo perché ritraggano a proprio gusto un momento dello scontro. Ci si attendono meravi- glie, sappiamo come andrà a finire: Anghiari si scioglie sul muro davanti agli occhi costernati di da Vinci; Buonarroti non arriva nemmeno a toccarlo, il suo muro, e Cascina vittoriosa rimane pri- gioniera dei disegni preparatori. Ma mentre i due pittori lavorano ai cartoni, gli occhi del mondo si volgono ammirati verso il pic- colo, pugnace Stato fiorentino, che si è liberato da molti gioghi e guarda al futuro con fiducia, o almeno così vuol far credere. Rivestendo i luoghi pubblici di arte. Sono gli anni in cui sopra le porte del Battistero arrivano i gruppi scultorei di Sansovino e di Giovan Francesco Rustici (in bottega con Leonardo). Anni in cui Baccio d’Agnolo ridisegna le stanze del Palazzo del Consiglio, e crea i portali della sala nuo-

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va. Sono gli anni in cui Leonardo e Michelangelo si aggirano in città, sfidandosi e influenzando chiunque abbia un pennello in mano nella “scuola del mondo”. Anche il giovane Raffaello sbar- ca a Firenze, in cerca di committenze. Sono neppure dieci anni, eppure straordinari: gettano le fondamenta della maniera grande cinquecentesca. Niente sarà più come prima dopo la partenza dei tre giganti, che avviene quasi simultaneamente. Lasciando gli altri orfani ed eredi: si chiamano Pontormo, Rosso, Franciabigio. Ma, primo fra tutti, Andrea del Sarto.

Di Andrea, pittore di talento ma poco ambizioso, che serve gli ultimi fra gli ultimi

L’origine è nel nome (del padre): Andrea è figlio di Agnolo di Francesco, di professione sarto. A sette anni il bambino viene mandato a imparare l’arte presso un orafo, e la tradizione vuole che un ignoto pittore, convinto delle sue straordinarie doti, lo introduca a bottega da Piero di Cosimo. Sa disegnare Andrea, il suo è un dono. Ma sa anche di dover studiare, imparare. Insieme a tutti gli altri della sua generazione si affolla nella sala del Papa di Santa Maria Novella, copiando i cartoni delle due battaglie, Anghiari e Cascina. È qui che incontra Franciabigio: diventano amici, decidono di aprire bottega insieme e realizzare opere “in compagnia”. È bravo, Andrea, ha un tratto sicuro ma sa sfumare dolcemente. Chiede compensi modesti, sembra non dar peso al denaro, non brucia del fuoco dell’ambizione: «Serviva più volen- tieri le persone basse, che quelle a chi s’aveva avere rispetto» dice di lui con un certo disprezzo Vasari, che più tardi sarà suo garzone a bottega, e che ha evidentemente una concezione opposta della vita. Andrea invece non perde occasione di mostrarsi generoso, con famiglia e amici «a’ sui di continuo sovenendo nelle miserie». Lavora senza attendere l’occasione della vita. Che invece arriva, per mano della Compagnia di San Gio- vanni Battista, di cui è volontario; una delle tante congregazioni medievali nate a Firenze per incrementare il culto ed esercitare la carità. La Compagnia si occupa degli ultimi fra gli ultimi, cura gli appestati, e accompagna i condannati a morte nel viaggio verso il boia. Per farlo i confratelli devono negare il proprio volto dietro a un cappuccio; talvolta si fustigano col cilicio, o camminano a pie-

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di nudi. Sono scalzi. Dopo aver vagato fra San Jacopo in Campo Corbolini e San Giovannino dei Cavalieri, hanno finalmente una sede propria, nella zona nord di via Larga (via Cavour). Adesso cercano un pittore per affrescare il nuovo chiostro della chiesa, un piccolo spazio coperto da un tettuccio di canneto spiovente, con quattro colonnini e una panca di pietra tutto intorno. Non hanno soldi da investire in pitture: chiedono dunque ad Andrea – uno di loro, e artista alle prime armi – un lavoro semplice, in chiaroscuro. Niente colori, né oro, né blu d’oltremare. Del Sarto accetta, per pochi soldi. Sarà lui a tracciare sotto il portico dei disciplinati il cammino di Giovanni, figlio di genitori troppo anziani, che se ne va nel de- serto a forgiarsi l’anima, per poi tornare ad annunciare l’avvento del Regno messianico e finire con la testa nel piatto teso da Sa- lomè all’incredulo Erode: questa la storia stesa sui muri di quello che diventa il “Chiostro dello Scalzo”.

La storia di Giovanni, un montaggio a singhiozzi che dura tutta la vita

Un lavoro destinato ad accompagnare Andrea del Sarto per tutta la vita, a cui il pittore tornerà sempre per poi ripartire, quasi non si azzardasse a terminarlo ma neppure a staccarsene. Un’opera che illustra la sua crescita personale nell’arco di vent’anni, insie- me a quella della pittura fiorentina tutta del primo Cinquecento: si parte rinascimentali, si arriva manieristi. È il 1509: per narrare la parabola di Giovanni il Battista – pri- ma vera opera con cui debba confrontarsi – Andrea non segue la narrazione cronologica, non prende il via dalla nascita per risali- re verso il violento epilogo della vita del predicatore. Il suo è un montaggio digitale; uno slalom a singhiozzi nella storia. Quando comincia a dipingere, del Sarto rinuncia a quella che a tutti gli effetti dovrebbe considerarsi la prima scena, cioè l’annuncio a Zaccaria dell’inattesa paternità. Sceglie invece il quadro numero sei del piano dei lavori: il battesimo di Cristo da parte di Giovanni. Perché? Non si sa con certezza. La risposta potrebbe nascondersi nella fede profonda di Andrea e dei fratelli della Compagnia dello Scal- zo, perché per i cristiani la vera nascita è il battesimo. Gesù, che è

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senza peccato, deve farsi battezzare per santificare il sacramento; deve dare inizio alla nuova legge con l’esempio. E a Giovanni, che vorrebbe impedirglielo e che gli dice: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?», Cristo risponde di lasciar perdere, per ora, e di «adempiere ogni giustizia»: le cose devono andare così. È questa la scena scelta da Andrea per rom- pere il ghiaccio: i tratti di Giovanni sono dolci, composti, i due cugini si fronteggiano, l’uno inginocchiato di fronte all’altro nella solennità dell’atto destinato a cambiare per sempre le reciproche vite. Una scena molto bella, anche se irrimediabilmente “vecchia” quando paragonata a ciò che le sta attorno. Ma a questo punto, invece di mettere mano al seguito della storia, il pittore abbando- na il lavoro. Colpa dei padri della Santissima Annunziata, i quali – veri- ficata sul campo la sua capacità – lo strappano allo Scalzo per offrirgli una committenza più prestigiosa e meglio retribuita: il Chiostrino dei voti. Per quattro anni Andrea non si fa vedere nel portico dei disciplinati. Poi, nel 1513, rieccolo a dipingere una delle quattro dame del racconto, la Carità, donna intenta a scen- dere le scale mentre abbraccia un grappolo di figli, madre tri- dimensionale, che nel venirci incontro sembra cantare un amo- re ludico, contagioso, accogliente come il suo ventre prolifico. Magnifica, questaCarità . Ma poi via, Andrea scompare di nuovo. Ancora un anno per altre committenze, dagli apparati decorativi per il carnevale fiorentino alle decorazioni nella villa medicea di Poggio a Caiano; dalla Natività della Vergine sui muri dell’An- nunziata, alla Madonna delle Arpie. E poi rieccolo, quasi a tempo perso. Disegna la Giustizia, scesa dal suo piedistallo, la spada con la punta appoggiata a terra; la dama sembra indicare la direzione della narrazione, vuole suggerire il verso in cui leggere la storia di quel giovane ribelle che, dopo aver battezzato Cristo, predica alle folle, poi battezza anche loro. Da ora in poi le scene saranno sempre più concitate, le figure più ricche di movimento. Affiora Michelangelo, la sua carnalità, i panneggi, la tensione psicologica. I quadri si susseguono, Andrea pare finalmente aver preso il via col lavoro quando, nel 1517, il colpo di scena.

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L’improvvisa partenza per la Francia: subentra Franciabigio

Approdato alla Cattura del Battista da parte dei soldati romani, un del Sarto ormai pittore famoso molla tutto e lascia Firenze per rispondere alla chiamata di quel talent scout che è Francesco i re di Francia. Per lui sembrano ormai assicurati un posto a corte e un destino pieno di gloria. Andrea può dirsi: «Ce l’ho fatta». Ma che fare col chiostro? A otto anni dalla prima pennellata, la conclusione dell’ope- ra è ben lontana. Il governatore della Confraternita è inquieto: uno che parte per la Francia, e per di più chiamato dal re, non si rivedrà tanto presto. Bisogna trovare un sostituto. La scelta cade sull’amico, Franciabigio, l’autore dell’Ultima cena al convento del- la Calza. I due hanno lavorato insieme, influenzandosi a vicenda. I confratelli sperano che la differenza non si noti troppo. Il manda- to è dunque conferito al socio di del Sarto; il quale però, conscio dei propri limiti, non se la sente di mettere mano ai quadri più importanti e cerca rifugio nell’Infanzia di Giovannino, ancora tutta da dipingere. L’idea è forse quella di prendere confidenza col lavoro, cimentandosi in scene “minori”: la Benedizione di Giovanni che parte per il deserto, e L’incontro con Cristo. In effetti, la mano non è la stessa, e si vede. Ma chi scommette che sarà Franciabigio a finire il film si sbaglia: dopo poco più di un anno d’assenza, del Sarto ritorna. E reclama il lavoro.

Di quando il pittore abbandona il re e dice addio alla gloria. Per amore

C’è una donna alla base della scelta più controversa che il grande artista si è trovato ad affrontare: si chiama Lucrezia, e quando lui la conosce è la moglie di un cappellaio. È anche la più bella donna di via San Gallo. Rimasta vedova, sono in molti a coltivare qualche speranza, ma lei sceglie Andrea, e lui ne è così innamora- to da farne l’unica modella della sua vita: praticamente non riesce a dipingere una donna che non sia Lucrezia. Il matrimonio è avvenuto da soli tre mesi, quando France- sco i chiama il pittore a Parigi. Del Sarto esita, ma sa che è un’oc- casione che non tornerà, e dunque parte. In Francia ha successo,

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si destreggia fra le committenze di corte, i ritratti del Delfino e altre opere (di cui rimane soltanto una Carità al Louvre). Ma le cose a Firenze non vanno, Lucrezia scrive che si sente sola, lo pre- ga di rientrare. Andrea va in crisi, si alternano attacchi di nostalgia e inquietudine. Alla fine raggiunge un accordo con il re: tornerà a casa a prendere la consorte, e porterà indietro opere antiche e moderne per cui riceve anche del denaro da Francesco i. Ma, una volta a Firenze, il pittore non trova più la strada per Parigi. Forse il suo carattere è così, poco ambizioso; forse gli basta la vita nella città in cui è nato, e il lavoro non manca. Si costruisce una casa, fra via Capponi e via Giusti (tutt’oggi visitabi- le, sede degli uffici del Kunsthistorisches Institut). Certo la sua è una scelta controcorrente, una decisione di rinuncia alla carriera addirittura inconcepibile per uno come Vasari, che infatti stigma- tizza l’artista: «Trascurò sé e i suoi prossimi per lo appetito di una donna che lo tenne sempre povero e basso». Secondo la malevola aneddotica dell’aretino, Lucrezia affliggerà per sempre la vita del pittore con le sue pretese. «Ricordatosi alcuna volta delle cose di Francia, sospirava grandemente; e s’egli avessi pensato di potere avere perdono de ’l fallo commesso, non è dubbio ch’egli vi sa- rebbe con ogni suo sforzo ritornato». Viene da pensare che forse donna Lucrezia non trattasse troppo bene il garzoncello Vasari. Sia come sia, in un mondo in cui le donne hanno pochissimi diritti, del Sarto nomina Lucrezia erede universale, «in memoria della carità e dell’amore». È un rapporto così forte fra loro che, quando fa testamento, lui le lascia la dote (intatta), tutti i vestiti, e un anello nel caso lei si voglia risposare dopo la sua morte. Per Lucrezia, Andrea abbandona la corte di Francia, dicendo addio alla gloria: e si rimette al lavoro nello Scalzo «per quattro morti di fame». È il 1522: tempo di affrontare la danza di Salomè e l’inevita- bile martirio di Giovanni, la fine del ciclo pittorico. Ma non della Speranza.

Una storia fra Fede (moglie) e Speranza (figlia)

La sentenza è stata eseguita, la vendetta di Erodiade compiuta: i muscoli della schiena del soldato romano che ha appena deca- pitato Giovanni sono ancora tesi, l’uomo solleva la testa tagliata

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sotto lo sguardo inorridito delle ancelle. Anche Erode è corruc- ciato, sembra che stia per alzarsi e andarsene: tutti intorno sono sgomenti. Hanno assistito all’impensabile. L’ambasciatore si dice che sarà dura convivere con gli effetti di questa violenza, destinata a scaldare gli animi delle folle. Il dramma delle due scene è palpabile: col passare degli anni lo stile di Andrea è maturato, le emozioni diventano forti, i quadri si popolano di figure piene di muscoli e vita, il contrasto fra luci e ombre fa vibrare l’aria. A questo punto, accanto alla testa recisa del profeta, i disci- plinati fanno ritrarre al pittore la terza donna, la Speranza. Con questa scelta i confratelli sembrano dire al mondo: la storia finisce così, col sacrificio di Giovanni e il suo capo sul piatto offerto a Erode, ma noi vi diciamo invece che il finale è un altro, non c’è motivo di disperare. Per questo messaggio di fiducia del Sarto si affida alle fattezze della figlia, prendendola come modella; accan- to a lei – al di là della porta – ritrae la quarta donna, la Fede, con le sembianze di Lucrezia. Disegnata per ultima, la Fede è posiziona- ta invece all’inizio della lettura cronologica, prima che Giovanni venga al mondo e compia il proprio destino. Ed è così che da allora in poi il ciclo sarà letto, con la Speranza-figlia a chiudere la narrazione, e la Fede-moglie ad aprirla: perché senza la fede questa diventa una storia qualsiasi. E non lo è.

E, per finire, Andrea s’inventa un inizio in cui Maria ha gli occhi della peste

Dopo aver creato la fine, adesso il pittore-senza-errori deve di- pingere l’inizio della storia, deve inventarsi una Visitazione in cui Maria incontri Elisabetta e tutto cominci ad accadere. È il 1524, e proprio a questo punto scoppia la peste in città. Del Sarto sta ri- traendo la Vergine: ne viene fuori l’immagine di una donna dalle occhiaie scavate, il volto distrutto, colpita dall’imminenza della spaventosa epidemia più che dalla consapevolezza di un futuro di dolore. Mai come in questo quadro la cronaca entra nell’arte, travolgendola. Di fronte alla virulenza del contagio, Andrea deve decidersi ad abbandonare il lavoro per l’ultima volta: prende mo- glie e figlia e scappa in Mugello, lasciando la scena incompiuta. Quando rientra non può più cancellarla o rifarla, e non può ri-

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toccarla a secco. Così il quadro rimane incompleto, abbozzato, quasi sciupato. In quelle linee drammatiche tracciate nei giorni della peste, il grembo fertile di Maria sfiora la cugina Elisabetta, e Giovanni sussulta nel suo ventre maturo. «Benedetta sei tu fra tutte le donne». Le due madri si abbracciano, i bimbi nasceranno a soli sei mesi di distanza. Siamo arrivati al 1526, e una fine controcorrente è sicura- mente quella che termina dal principio. Nell’ultima scena Andrea affida la nascita del Battista al calore di un’elegante camera da let- to fiorentina. La leggenda vuole che l’anziano Zaccaria rimanga muto per punizione, dopo aver dubitato delle parole dell’angelo che gli annuncia l’arrivo di un figlio alla sua età. Non potendo parlare, deve così scrivere il nome che vuole dare al bambino per farlo battezzare. Nell’immagine ritratta da del Sarto, il padre, se- duto, ha in mano una tavoletta su cui si accinge a vergare la pa- rola «Giovanni». Ma è la serva sulla porta ad attirare lo sguardo: sorride, curiosa, ancora incredula per quanto ha visto accadere, una donna così anziana mettere al mondo un bimbo. In quel sor- riso malizioso c’è l’ultimo colpo di pennello di un uomo beffar- do col potere, modesto nelle ambizioni. Un grande artista vissuto contromano, come il suo film più bello, quello in bianco e nero. Montato al contrario.

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I luoghi della Santissima Annunziata Dal Chiostrino dove morì il Rinascimento alla cappella che accoglie chi lo uccise

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 135 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 136 10/05/21 14:51 Sono i quattro ragazzacci della pittura fiorentina, e tutti insieme uccidono il Rinascimento. Data: fra il 1511 e il 1517. Scena del delitto: il Chio- strino dei voti, portico di accesso alla chiesa più frequentata della città, la Santissima Annunziata. È qui che quattro giovani pittori vedono il futuro e gli vanno incontro, riversando sui muri tutta l’inquietudine di cui sono capaci. Sotterrando Botticelli per rincorrere Michelangelo. Istigatori del delitto (involontari): i padri serviti dell’Annunziata, committenti di un ciclo di affreschi in onore della Vergine affidato a perfetti sconosciuti, poco più che ragazzi. Gli stessi ragazzacci, divenuti grandi del Manierismo fiorentino, saranno poi sepolti qui, nella cappella del patrono dei pittori, san Luca. È questo – e molto altro – l’Annunziata: il santuario mariano più caro al cuore di Firenze, la basilica eretta nel bosco di Cafaggio, per otto secoli al centro della vita cittadina. Un convento forte, indipendente dal potere: quando nel 1378 aderisce alla rivolta dei Ciompi, subisce la scomu- nica del papa. Una chiesa viva ancor oggi, aperta a tutti. Instancabile nel suo rifiuto di diventare museo.

Di come un dipinto miracoloso apre una nuova strada e accresce il pil

Sono sette i fiorentini che, nel 1233, guidati da Alessio Falconieri in rotta con la ricca famiglia di mercanti, si installano nel bosco di Cafaggio, zona Nord della città, in un oratorio abbandonato fondato da Matilde di Canossa. Si danno il nome di “Compagnia di Maria Addolorata” e, per fuggire le lotte civili che stanno di- laniando Firenze, decidono di ritirarsi sul monte Asinario (oggi Montesenario) dove vivono da eremiti in grotte naturali. I “sette santi” scelgono una vita di penitenza e povertà a servizio di Dio, del prossimo, e della «gloriosa domina nostra». Leggenda vuole che una fanciulla, incontrando per strada due penitenti, li apo-

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strofi come: «i servi di Maria». È questo che diventano. Portando la propria storia in quel nome. Il 25 marzo 1250, Venerdì santo, giorno dell’Annunciazio- ne e Capodanno fiorentino, è posta la prima pietra per l’edifi- cazione di una chiesa: sorge Santa Maria di Cafaggio, bandiera dell’ortodossia cattolica e di una Firenze guelfa che continua l’affrancamento dai feudatari, dal partito ghibellino, dall’eresia catara. Il convento, schierato apertamente col primo popolo, si tro- va in piena campagna, vicino alla Porta di Balla da dove passa il traffico diretto ai tiratoi per la lavorazione della lana. I lavori per la sua costruzione procedono veloci, tanto che in un paio d’anni le strutture sono in piedi. Fatti i muri, si comincia a pen- sare agli affreschi. Leggenda vuole che i servi di Maria chiedano l’Annunciazione al pittore Bartolomeo, il quale – nonostante i vari tentativi – non riesce proprio a ritrarre degnamente il volto della Vergine. Una mattina al risveglio, con sua grande sorpresa, l’arti- sta scopre il dipinto completato: si pensa a un intervento divino, si grida al miracolo. Santa Maria di Cafaggio diventa la Santissima Annunziata. È questa la storia all’origine di una venerazione così profon- da da spingere il Comune a stanziare i fondi per la costruzione di una strada che unisca il complesso alla Cattedrale. È il 1255, nasce via dei Servi. Da questo momento la chiesa è ingrandita da lasciti e donazioni di ricchi mercanti, che fondano nel convento il sepolcreto familiare, rendendo più stretti i legami fra i serviti e la vita laica fiorentina. La parte guelfa sceglie proprio l’Annunziata come sede del suo archivio segreto, collocandolo in sacrestia, in un armadio riservatissimo. Siamo in pieno secolo d’oro, tempo di feroci conflitti civili, di torri scapitozzate, con la ricca borghesia all’attacco dei privilegi aristocratici. Ma anche tempo di grande espansione economica, con un neonato fiorino d’oro alla conquista dei mercati d’Euro- pa. Legando il Duomo a questa zona periferica, la nuova strada la apre ai commerci, ne incrementa i traffici. La città del fiore si stringe attorno a Maria-mediatrice e al suo ritratto miracolo- so, portandosi dietro una fetta di pil. Fra qualche anno, anche la Madonna del pilastro del mercato del grano, a Orsanmichele, attirerà folle di devoti; ma in questo momento la venerazione po- polare ha un unico polo. Il culto per l’Annunziata si diffonde, in- sieme alla fama dei miracoli realizzati. E si moltiplicano le offerte

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di doni votivi, in richiesta di benefici sperati o in ringraziamento per quelli ricevuti.

Gambe, teste, piedi di miracolati: un manto di doni riveste le pareti

È qui, nelle immediate vicinanze del santuario, che prende slan- cio l’artigianato devozionale: fioriscono le botteghe per le statue di legno, gli oggetti in gesso, i manufatti in bronzo e argento. Ma i voti più antichi sono realizzati in cera, e raffigurano il miracolato, o la parte del corpo risanata. Ci sono addirittura botteghe specia- lizzate, le figure sono grandi al naturale, abbigliate con cappelli, abiti e armature, o addirittura issate su cavalli, anch’essi fatti in cera su strutture di legno. È un modo per ringraziare (Nostra Si- gnora) e ingraziarsi (il popolo): sempre più spesso uomini illustri approfittano dei voti per offrirsi alla “devozione” delle folle. Lorenzo il Magnifico, per esempio, dopo essere scampato alla congiura dei Pazzi, offre all’Annunziata un suo ritratto in cera, vestito col lucco: un’immagine che viene fatta a pezzi dai fiorentini durante l’assedio del 1529, insieme a quelle del fratello Giuliano e del figlio-papa Leone x. Ma quando Cosimo i prende il potere, le figure distrutte saranno nuovamente modellate da Gio- vanni Angelo Montorsoli, il frate artista amico di Michelangelo, che ritroveremo più avanti in questa storia. Se l’afflusso devozionale è costante nel tempo, già a inizio del Seicento le cere cadono in disuso, soprattutto quando comin- ciano ad atterrare in testa ai fedeli, consumate dai tarli e dalla scarsa manutenzione. La decisione di ripulire tutto arriva dopo poco. Ciò che rimane invece è l’uso di tavolette dipinte o lamine d’argento, che per secoli raffigurano mani, teste, piedi dei mira- colati: le botteghe si specializzano a tal punto da proporre insegne a forma di arti umani. Fra guerre ed epidemie, crisi economiche e vicende private, la domanda d’intercessione alla Nostra Donna è come un fiume in piena e non si arresta, facendo dell’Annunziata una chiesa rive- stita da un manto di doni. Una pratica così diffusa che le offerte arrivano a coprire tutte le pareti libere, compresi i pilastri di divi- sione fra le cappelle. Nel 1631 l’inventario di Matteo Nigetti conta ben 20.000 ex voto in argento fra braccia, gambe, occhi e altri ma-

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nufatti. Di fronte all’inesorabile carenza di spazi, a un certo punto la decisione è presa: i muri del santuario devono essere sgombrati, gli ex voto fusi per investire in arredi sacri, e i più preziosi messi al sicuro nell’armadio degli argenti. Ma c’è un luogo dove i fe- deli seguitano ad affollarsi fin dalle origini, lasciando oggetti per grazia ricevuta. È il cortile di accesso all’Annunziata, chiamato da sempre il Chiostrino dei voti.

Il chiostro, una decorazione a singhiozzo per un piano editoriale confuso

È il 1447, Rinascimento pieno: duecento anni son passati dalla fondazione dell’Annunziata, e all’architetto Michelozzo arriva l’incarico di dare una sistemata alla chiesa. Lui è l’uomo di fidu- cia di Cosimo il Vecchio, ha da poco finito i lavori a San Marco e ha iniziato la costruzione di Palazzo Medici, in via Larga. Rien- trato dall’esilio, il pater patriae ha preso la città in mano e, quasi a farsi perdonare l’autorità acquisita, favorisce varie costruzioni pubbliche, ponendosi come garante della prosperità comune. Lo stile moderato di Cosimo si specchia nel linguaggio architettonico semplice, quasi severo di Michelozzo, cui viene affidata l’architet- tura del quartiere mediceo. Inclusa la Santissima Annunziata. Il Chiostrino dei voti è il biglietto da visita dei padri servi- ti, centro nevralgico della vita pubblica e religiosa della città: da due secoli non c’è luogo più affollato. Michelozzo disegna uno spazio perfettamente armonico, nel più puro stile rinascimentale. Quando arriva al porticato, s’infila nel solco della continuità con l’armonia tracciata da Brunelleschi per la loggia degli Innocenti. Costruiti gli spazi, bisogna affrescarli: quale sarà il piano editoria- le? Dato il ruolo del santuario, forse un ciclo per la Nostra Donna. In ogni caso, con una bella Adorazione dei pastori si cade sempre in piedi. Nel 1460 i serviti selezionano un pittore per decorare la pri- ma lunetta, e la scelta cade su Alesso Baldovinetti, allievo di Do- menico Veneziano, attivo con lui (e con Piero della Francesca e Andrea del Castagno) nella chiesa di Sant’Egidio. Distrutto nel Settecento, il ciclo di Sant’Egidio doveva essere qualcosa di davve- ro straordinario, troppe fonti lo indicano come un luogo di scuo- la. Alesso ne è un degno erede, anche se la sua fama non raggiun-

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gerà mai quella dei grandi. I serviti gli propongono comunque 20 fiorini per affrescare l’Adorazione: Baldovinetti accetta, si mette al lavoro, ma a secco, non a buon fresco, lasciando un dipinto che non sostiene l’urto del tempo. E tuttavia è bello, immerso in un ampio paesaggio descritto in ogni particolare, ricco di prospet- tiva, con un san Giuseppe insolitamente nobile e pensoso. Una dipintura per cui anche Vasari ha parole di elogio, e che tuttavia non basta a garantire un futuro a Baldovinetti. Una volta terminato l’affresco, la decorazione del chiostro si arresta bruscamente. Forse mancano i finanziamenti, o forse ci sono contrasti interni al convento. Quello che è certo è che per quindici anni, Sacra Famiglia e pastori in adorazione vengono lasciati soli nel portico. Quando poi si decide di ripartire, c’è un ripensamento sul piano dei lavori: niente più storie della Vergine, nel 1475 si chiede a Cosimo Rosselli di continuare la decorazio- ne mettendo in scena la vita di Filippo Benizi, il santo generale dell’ordine dei serviti. Rosselli deve affrescare la Vocazione e vesti- zione del santo: lo fa rappresentando la chiamata divina ricevuta da Filippo, quando un giorno prega davanti all’altare e la Vergine gli appare seduta su un carro trainato da un leone e un agnello. Secondo l’interpretazione dei serviti, il carro raffigura l’ordi- ne, e gli animali sono i simboli di forza e mansuetudine, le virtù principali di un servo. La leggenda vuole che, dopo la rivelazio- ne, Filippo decida di unirsi alla congregazione. Così lo raffigura Rosselli, intento a vestire l’abito religioso. L’affresco si conclude con soddisfazione di tutti, il pittore si ritrae persino in uno dei sei medaglioni nella cornice, in mezzo ad altri personaggi del tempo. Tutti sembrano contenti. Ma, poi, è il vuoto.

L’incertezza politica, il terremoto artistico: il fine secolo in cui tutto cambia

Per altri trentacinque anni nulla più si muove: su dodici lunette, solo due hanno una storia da offrire, e rimangono lì, in equilibrio su un Rinascimento lasciato solo a osservare il tempo che scorre. Sono passati cinquant’anni dall’inizio dei lavori, e migliaia di fio- rentini continuano a sfilare davanti alle nude pareti delle dieci scene ancora da dipingere.

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È un passaggio di secolo tormentato, si sa, segnato dalla morte del Magnifico e dall’invasione francese, dai roghi di Savonarola e dallo smarrimento della Repubblica fiorentina. All’incertezza politica corrisponde un terremoto artistico: accanto alla bottega di Perugino e alla scuola di Fra Bartolomeo a San Marco, c’è un Michelangelo che rientra a Firenze per scagliare il suo David nella storia, e un Leonardo alle prese col cartone di Sant’Anna proprio nel Chiostrino dei voti, per cui «donne, uomini, vecchi e bambini fecero una processione di due giorni per andarlo a vedere» (Gior- gio Vasari). È un momento straordinario e fecondo per gli artisti fio- rentini, che continuano a studiare Giotto in Santa Croce o a co- piare Masaccio alla Brancacci. Ma adesso possono anche passare da Santa Maria Novella a riprodurre i cartoni delle battaglie di Cascina e Anghiari dei due “giganti” fiorentini; per poi fermarsi in bottega da Baccio d’Agnolo, al Canto dei Bischeri, a far due chiacchiere, e magari dare un’occhiata a certe stampe nordiche in circolazione, di uno che si chiama Alberto Duro. «Tutti pas- sano di qua – scrive sempre Vasari –, facendo bellissimi discorsi e dispute d’importanza». Insomma, nel primo decennio del se- colo l’arte a Firenze è viva e fertile come non mai. Ma quando i serviti decidono che la Repubblica è ormai assestata, ed è tempo di rilanciare i lavori nel Chiostrino, i grandi non ci sono più. Michelangelo, Leonardo, Raffaello: tutti abbandonano la città nello stesso periodo, lasciando sole e smarrite le nuove leve. E ora che si fa?

Quel talentuoso sconosciuto su cui vale la pena scommettere

È il 1509, e i padri fanno una scelta coraggiosa. Non cercano il grande artista del momento, quel Fra Bartolomeo impegnato poco lontano a San Marco. Mettono invece gli occhi su Andrea del Sarto, ventitré anni, un perfetto sconosciuto alle prese con due bellissime figure di Cristo e san Giovanni, nel Chiostro dello Scalzo, poco lontano. Leggenda vuole che fra Mariano del Canto alle Macine, il sagrestano che sta al banco delle candele, riesca a convincere Andrea «che dolce e buon uomo era» a lavorare gratis: «Con la vetrina sulla città che ti offriamo, vorresti anche essere pa-

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gato?». Del Sarto molla (temporaneamente) lo Scalzo, si rimboc- ca le maniche e si mette a disposizione. Il suo compito: terminare le Storie di san Filippo Benizi iniziate da Rosselli. A tempo di record, l’oscuro talentuoso finisce il lavoro. Cin- que quadri in soli due anni, dal primo miracolo di san Filippo alla sua morte. Andrea del Sarto non è ancora qualcuno, si dicono i frati, ma certo potrebbe diventarlo. Le ultime tre scene sono impostate “all’antica”, avvolte nella tipica architettura classica. Ma nelle prime due – soprattutto nel Risanamento del lebbroso – appare qualcosa di inatteso, un paesaggio fantasioso, quasi scheletrico, senza pace o riposo per i protagonisti, che trasmettono la stessa inquietudine dei rami spazzati dal vento. L’equilibrio della tradi- zione rinascimentale comincia a mescolarsi a suggestioni nuove, i protagonisti si muovono con crescente disinvoltura. Però il lavoro è finito, Andrea è pronto a tornare allo Scalzo, raccoglie tavolozze e colori, e va a salutare. Ottiene un compenso davvero minimo, 10 ducati per ogni scena. Ma il bello deve ancora venire. Invece di ringraziare e congedarlo, i padri rilanciano, gli of- frono di continuare la decorazione. C’è ancora metà del chiostro da dipingere. La vicenda da (finir di) raccontare sarà la prima, quella iniziata con i pastori in visita a una puerpera che ha appena partorito il re dei re. Ecco, le lunette vuote accoglieranno la storia di Maria. L’offerta travolge il giovane pittore: il lavoro su san Filippo era certo rilevante, ma la responsabilità di un ciclo pittorico sulla Vergine è un’altra cosa. Ci pensa su, e alla fine accetta, a una con- dizione: lavorerà se può avere con sé la propria squadra, il socio e i due garzoni. Farà con loro le cinque scene che mancano, nar- rando nascita, matrimonio e ascesa al cielo della Madre di tutte le madri. A questo punto i serviti si confrontano con un bel dilemma. Devono affidare il ciclo più illustre, dedicato allagloriosa domina nostra, nello spazio d’onore della chiesa più frequentata di Firen- ze, a due ragazzetti di bottega guidati da due sconosciuti poco più che ventenni. Ci vuole un atto di fede. Ma fra Mariano e gli altri non si tirano indietro, e scommettono sul futuro. Anche perché spenderanno molto meno.

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Di come i “quattro dell’Apocalisse” rovesciano la tradizione e diventano grandi

Così dal 1511 al 1517 il debuttante Andrea del Sarto, il giovane Franciabigio, i sedicenni Pontormo e Rosso Fiorentino operano una vera rivoluzione nel Chiostrino dei voti della Santissima An- nunziata. I quattro lavorano gomito a gomito, rivaleggiando e imparan- do l’uno dall’altro. Ognuno sperimenta, ognuno cerca una strada. Del Sarto poi corregge tutti. Sono artisti originali, inquieti, indivi- dualisti fino all’esasperazione. Sembrano i quattro dell’Apocalisse. In pochi anni di lavoro, e in cinque lunette, la tecnica artistica si capovolge, le espressioni si accendono, i corpi si riempiono, avvolti in panneggi dai colori rari, disseminati fino a riempire ogni angolo della scena. Qualcosa di forte è successo: la bottega quattrocen- tesca si è esaurita, addio paesaggi minuziosi o celestiali profili, è tempo di una «maniera gagliarda e di grandezza» (Giorgio Vasari). A un certo punto, in una pausa dei lavori – interrotti dal rien­tro dei Medici in città e dallo sconvolgimento politico che ne consegue – i quattro pittori vanno a Roma, vedono i marmi del Laocoonte e della Venere, ne ammirano le bocche dischiuse, le teste piegate, la gestualità; sbirciano i corpi sul soffitto della Sistina di Michelangelo; studiano l’impostazione della Scuola d’Atene di Raf- faello. Tornati a casa, spargono sui muri del chiostro figure piene di movimento e respiro («il moto et il fiato», per dirla con Leo- nardo). La maniera moderna di Buonarroti e di da Vinci diventa la “maniera fiorentina”: ognuno dei quattro pittori la interpreta a modo proprio, ma tutti concorrono a scardinare la tradizione. È la Scuola dell’Annunziata a dare il colpo di grazia al Rinascimen- to, contrapponendosi e superando la vicina Scuola di San Marco, ancora fedele agli echi di Savonarola. Prendiamo del Sarto, per esempio: rispetto alle Storie di san Filippo è già cambiato. I suoi Magi, avvolti in abiti sontuosi, avan- zano passeggiando come principi in viaggio d’affari. Non fanno corona al bambinello, che neppure c’è. Niente Sacra Famiglia, né asino e bue. È vero che stanno andando probabilmente da Erode, ma una cosa così non s’era mai vista. Stupisce lo sfarzo e lo splen- dore dei panneggi, inclusi quelli dei tre fiorentini sulla destra, fra cui si riconosce Jacopo Sansovino (grande amico di Andrea) gira- to a guardare negli occhi lo spettatore. Accanto a lui, l’autoritrat-

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to del pittore, col dito puntato verso chi osserva, quasi a dire «Vedi di cosa sono capace?». E ancora: quando deve impaginare la Na- tività della Vergine Del Sarto si rifà certo alla Cappella Tornabuoni di Ghirlandaio, ambientando il lavoro nella solita camera da letto dell’alta borghesia fiorentina. Ma qui le donne affaccendate intor- no alla puerpera indossano vesti splendide dai colori rari: madre e figlia neonata, relegate negli angoli opposti del dipinto, sono solo comparse in una scena tutta incentrata sulla sfilata di moda delle madonne fiorentine, atteggiate ognuna in una posa diversa. Pa- role di elogio arrivano anche da Vasari: «Tutte queste figure [...] paiono di carne [...] e l’altre cose più tosto naturali che dipinte». Se Andrea conserva un linguaggio soave, Franciabigio nello Sposalizio di Maria tira fuori i tratti marcati, forti. Sembra l’evolu- zione cinquecentesca di Masaccio, soprattutto nella figura dell’a- spirante respinto, che alza il pugno con fare rabbioso. Un altro candidato rifiutato, seduto per terra, in un impeto d’ira spezza col piede la tradizionale mazza non fiorita: anche questo, mai visto prima. La quinta architettonica è tradizionale, ma i personaggi vi si distribuiscono in ogni angolo, uomini e donne, ognuno af- faccendato in qualcosa. Si sa che il focoso Franciabigio prenderà la Madonna a martellate cancellandole la testa, si dice sia irritato perché i padri serviti hanno sbirciato la pittura prima della fine, contravvenendo a un accordo preso. All’Annunziata i volti di Ma- ria sono un soggetto delicato. Nessun artista vuol rimediare al fat- to. L’opera rimane così, per sempre mutilata. E così ci guarda oggi. E Rosso? L’apprendista si fa carico dell’Assunzione di Maria e la sviluppa su due fasce: nella superiore la Vergine sale in cielo, e la cosa è abbastanza normale. In basso, invece, gli apostoli riman- gono a guardare a testa in su, eleganti come senatori romani. I volti sono contratti: stupore, dolore, mille sentimenti agitano que- sti uomini disposti in cerchio, stretti gli uni agli altri, con le vesti ampie dai colori accesi, lo sguardo all’empireo. C’è un mantello che addirittura deborda oltre i limiti del quadro: lo chiamano il- lusionismo pittorico, come ad annullare la distanza con la realtà. Ma è Pontormo il più eclettico del gruppo, l’allievo fedele di del Sarto, un selvaggio e bizzarro che vive in una casupola in cui entra dalla finestra per poi tirar dentro la scala. Diventerà un per- fezionista, sempre scontento di sé, a fare, disfare e rileccare. Per ora è il vero ragazzo prodigio della pittura italiana, la sua opera di

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debutto è la scena più ammirata del ciclo: la Visitazione. L’incontro fra Maria ed Elisabetta, in effetti, è impostato in modo tradizio- nale, ma la sorpresa è la scena in sé, l’abbondanza di personaggi caldi e vibranti, i movimenti, i colori. Una pittura in cui «donne e putti, giovani e vecchi sono fatti tanto morbidamente, e con tanta unione di colorito, che è cosa meravigliosa»: e qui, non si può che dar ragione a Vasari. La Visitazione è il capolavoro che lancia Jaco- po Carucci detto Pontormo nel regno dei grandi. Ed è proprio qui che il pittore chiede di terminare il viaggio. «Seppellitemi là, ai piedi di Maria che abbraccia Elisabetta»: è il 1° gennaio 1557, il corpo dell’artista viene deposto in una fossa proprio sotto l’af- fresco più caro. Ci rimarrà cinque anni, prima di essere spostato nello scrigno costruito per ospitare il riposo eterno dei ragazzacci divenuti grandi.

E di come (il corpo di) Pontormo inaugura la Cappella di San Luca

È il 24 maggio del 1562, festa della Santissima Trinità. Le spoglie di Pontormo sono esumate dal Chiostrino dei voti e calate a qualche decina di metri di distanza, inaugurando la cripta della Cappella di San Luca, protettore dei pittori. Nessuno più dell’ex ragazzo prodigio poteva meritare questo onore. La cerimonia avviene alla presenza di una cinquantina fra scultori, pittori e architettori. È un padre servita, Giovannangelo Montorsoli, a fare dell’ex capitolo dell’Annunziata – trasformato in Cappella – la tappa finale nel cammino degli artisti che non hanno potuto pagarsi un ultimo riposo magari più prestigioso. In realtà, la traslazione del corpo di Pontormo è anche l’atto di rifondazione dell’antica Compagnia di San Luca, società di mu- tuo soccorso creata nel Medioevo per tutelare i pittori e l’attività delle loro botteghe. Quando nasce, nella Firenze trecentesca, cen- tinaia sono gli iscritti alla confraternita. È questo un periodo in cui gli artisti sono ancora “artigiani”, privi di una rappresentanza propria, poco tutelati, costretti ad arruolarsi nelle varie Arti secon- do gli statuti medievali. I pittori si iscrivono a quella dei Medici e Speziali, a causa della macinatura e preparazione dei colori; gli scultori all’Arte dei Maestri di Pietra e Legnami, per l’attività di lavorazione dei marmi. I pittori fanno, mediamente, vita grama. A

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parte qualche eccezione, non guadagnano molto, non hanno una sede fissa in cui ritrovarsi, e passano dalle stanze dell’Ospedale di Santa Maria Nuova a quelle di Santa Maria Novella. In questo mi- grare, la Compagnia perde partecipazione e vigore. E quando or- mai sembra destinata all’estinzione, trova nuova linfa appunto per volontà del frate scultore, il Montorsoli, allievo di Michelangelo. Il padre servita offre alla Compagnia una sede stabile: l’anti- ca sala capitolare della Santissima Annunziata, che fa restaurare a proprie spese. Qui intende farsi seppellire anche lui, insieme a «tutti gl’uomini dell’arte del disegno, pittori, scultori e architet- tori che non avessono proprio luogo dove essere sotterrati». La Compagnia di San Luca trova dunque rifugio nell’omonima cap- pella, che dopo l’inumazione di Pontormo diviene la Cappella dei pittori. Un luogo dove ritrovarsi e darsi forza, discutere nuove tec- niche, scambiarsi notizie su committenti e lavori. Ma anche luogo dove riposare in eterno, tutti insieme, in un ideale collegamento spirituale col mondo sovrastante. L’evento è un’occasione che fa riflettere Cosimo i, duca di Firenze, e il suo corifeo, Giorgio Vasari. Non si sa chi dei due esat- tamente partorisca l’idea, ma si sa chi la porta avanti con forza. Ed è proprio “Giorgino”.

Tutte le Arti figlie del Disegno: nasce l’Accademia per la formazione degli artisti

Dare una sede stabile agli artisti è solo il primo passo: il momento è maturo per fondare un’istituzione che li svincoli dalle limitazio- ni delle rispettive Arti. Ci vuole un ente che offra riconoscimento e dignità, che assicuri la trasmissione dell’eccellenza, fornisca for- mazione. Un ente di tutela, e – perché no – di indirizzo. Cosimo non si lascia certo pregare, tanto che Vasari scrive: «lo trovò tan- to disposto ad aiutare e favorire questa impresa, quanto più non avrebbe saputo desiderare». Con il supporto del duca, arriva la sua supervisione: la produzione artistica è un tassello fondamen- tale nella costruzione politica di un Regno, e nessuno lo sa meglio dei fiorentini. L’avallo del principe diventa così essenziale per un’arte che risponda alle finalità dello Stato, e (anche) ai dettami del Concilio di Trento. E si sa che l’agognato titolo di granduca arriverà sulla testa di Cosimo certo grazie al papa più che all’impe-

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ratore. Dunque i buoni rapporti con la Chiesa continuano a esse- re un punto imprescindibile della politica del Ducato di Toscana. Ecco spiegata la rapida nascita – pochi mesi dopo l’inuma- zione di Pontormo – dell’Accademia delle Arti del Disegno, in cui la neorisorta Compagnia di San Luca viene immediatamen- te inglobata. È la più antica Accademia di Belle Arti del mondo, ci insegnerà persino Galileo. Si trova a capo lo stesso Cosimo de Medici, e a titolo del tutto onorifico anche quel Michelangelo da trent’anni rifugiato a Roma, e assolutamente non desideroso di rivedere la patria (infatti ci tornerà solo da morto). La sede rima- ne comunque nella Cappella dei pittori, dove gli artisti si metto- no all’opera per una rinnovata decorazione all’altezza del nuovo statuto. È Vincenzo Borghini, intellettuale di corte, a suggerire il programma iconografico. Tre sono le arti principali – pittura, architettura e scultura – tutte egualmente figlie del disegno, e da qui spiegato il nome dell’Accademia. Ma quale fra le tre è la più importante? La rispo- sta è semplice: tre sono le arti, nessuna primeggia. Come nella Tri- nità. Ed ecco sopra l’altare principale una tela a opera di Alessan- dro Allori dove Padre, Figlio e Spirito Santo sono sorretti da tre putti. Alla sinistra del dipinto, in una sorta di croce immaginaria, Vasari riserva a se stesso la celebrazione della pittura, immortalan- do san Luca nell’atto di affrescare la Madonna. A destra è Santi di Tito a dipingere L’allegoria dell’architettura, ritraendo il saggio Salo- mone intento a costruire il tempio. La terza arte è richiamata dai colossi che si affacciano dalle nicchie: sono le statue di tre santi e profeti, un terzetto in ogni angolo. Uno terribilmente somigliante al granduca. Al centro di tutto, una lastra di marmo riveste l’acces- so al pozzetto, custode dell’eterno riposo dei pittori. Insomma, la rifatta cappella è basata sulle terne, nel nome della Trinità e delle arti. E nella celebrazione del Regno mediceo. Non è così che la vediamo oggi. Ai tempi di Napoleone, il pigro vescovo di Nancy pensa bene di murare una porta e aprirne un’altra, così da accedere in cappella direttamente dal proprio appartamento. Un profeta è rimosso, l’altare trasferito. Ma anche così, con i significati iconologici capovolti, la Cappella dei pittori rimane il simbolo di un’epoca. Tanto che anche Rodolfo Siviero, salvatore di buona parte del nostro patrimonio dalle brame nazi- ste, in punto di morte chiede di essere sepolto in cripta, proprio lì insieme a loro, ai maestri della pittura fiorentina. È il 1983 e il

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mitico 007 dell’arte italiana è l’ultimo a venir tumulato accanto a Montorsoli e a Pontormo, a Franciabigio e a Cellini, a Sansovino e agli altri. Nella stessa chiesa dove erano nati all’arte, a pochi metri di distanza dai capolavori che li resero famosi, gli ex ragazzacci dive- nuti grandi del Manierismo trovano l’ultimo riposo. Sono calati in nicchie lungo le pareti, alla maniera dei monaci di certi antichi monasteri. Nel 1966 l’Arno traditore si infiltra nella volta sotter- ranea, scompigliando tutti i resti mortali. Impossibile oggi sapere chi è chi. Ma, alla fine, non ha grande importanza, sono comun- que lì riuniti, come una volta. Come l’antica squadra di adolescen- ti lasciati soli davanti a una parete a ribaltare il passato. All’appello manca solo Andrea del Sarto, gettato in una fossa comune. La sua è una fine drammatica. Merita una storia a parte.

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Il Cenacolo di San Salvi Quel Giuda che ferma la mano del nemico

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 151 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 152 10/05/21 14:51 Ultimo capolavoro del pittore, ultimo atto della sua vita: «Uno di voi mi tradirà». Sulle pareti di San Salvi, va in scena l’ Ultima cena secondo Andrea del Sarto. È il momento dell’annuncio: sbalorditi dalla notizia, gli apostoli si scrutano l’un l’altro. Gesù passa un pezzo di pane a Giuda, chiedendogli di sbrigarsi a portare a termine la missione che il destino gli ha riservato. E il discepolo protesta stupito: «Non sono io, non è possibile che sia io». L’Iscariota non ha nulla del colpevole: siede alla destra del Cristo, bello come Apollo. Una scena così forte che persino le soldataglie di Carlo v a caccia di bottino e di scempi non osano toccarla. È il 1530. Durante l’assedio che segna la fine della Repubblica fiorentina, i soldati della coalizione imperial-papalina fanno terra bruciata di tutto ciò che trovano, ma indietreggiano davanti all’affresco: «Una delle più belle di- pinture dell’Universo».

Tutti vogliono Andrea, adesso anche i vallombrosani

Dopo i disciplinati e i serviti, sono i monaci vallombrosani a chie- dere al figlio di Agnolo il Sarto un lavoro a tutta parete. Vogliono un’Ultima cena nel refettorio della chiesa di San Michele in San Salvi, una delle più importanti pievi antiche, fuori dalle mura della città. È il 1511, e le congregazioni cittadine sembrano contendersi questa giovane promessa della pittura fiorentina: Andrea ha co- minciato il ciclo di san Giovanni Battista al Chiostro dello Scalzo, per poi abbandonarlo e mettere mano alle storie di san Filippo Benizi sui muri dei padri serviti all’Annunziata. È un giovane mo- desto, ma pieno di talento, poco glamour. Sembra non dar peso al denaro. Però non si perita di mettere in fila le ordinazioni, e dunque pur avendo due lavori avviati, accetta di cominciarne un terzo: pratica comune fra gli artisti.

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Come richiesto, prima di attaccare con i discepoli seduti a tavola Andrea si dedica all’arco che incornicia la scena del convi- vio: ma deve presto interrompersi, le beghe dei monaci hanno il sopravvento. I vallombrosani sono una comunità di benedettini fondata da Giovanni Gualberto poco dopo l’anno Mille. Oltre alla casa madre a Vallombrosa, i frati amministrano conventi e chiese, tra cui appunto quella di San Salvi, spesso in contrasto con la “di- rezione”. Perché, se è vero che da sempre i monaci combattono corruzione e simonia, quando si è trattato di Savonarola, la comu- nità si è spaccata. Adesso a Vallombrosa si trovano alla guida un abate generale particolarmente volitivo, Biagio Milanesi, che rie- sce nell’impresa di entrare in contrasto sia con i Medici che con la Repubblica, cosa non difficile con i tempi che corrono. Ecco perché le decorazioni appena iniziate a San Salvi vengono sospe- se: nell’arco centrale del refettorio destinato a ospitare il dipinto, Andrea ha solo il tempo di affrescare quattro medaglioni e una Trinità trifronte. Il simbolo era stato raccomandato da Savonarola, e non a caso la Controriforma provvederà a cancellarlo, pratica- mente ovunque. Tutt’ora visibile, la Trinità di San Salvi è uno dei rari esempi di iconografia tricefala sopravvissuta alle epurazioni del Concilio di Trento: un omaggio alla forza e al persistere del pensiero savonaroliano in città. Non si sa se Milanesi sia d’accor- do o meno sull’inserimento della contestata immagine nell’arco celebrativo di San Salvi, anche perché in questo momento ha pro- blemi più urgenti da affrontare. Prima finisce incarcerato dalla Repubblica per evasione fiscale, poi condannato da Leone x per falsificazione. La lotta che oppone la congregazione dei vallom- brosani al Papato spinge i monaci alla chiusura del cantiere.

In sessantaquattro giorni di lavoro esce fuori un Giuda alla Jesus Christ Superstar

Devono passare ben quindici anni prima che del Sarto rimetta mano all’opera. Sembra una costante della sua vita, tornare sem- pre indietro per poter andare avanti. Nel 1526 Milanesi è in esilio a Gaeta, Vallombrosa saldamente nelle mani del papa, e Andrea ha appena concluso il ciclo dello Scalzo, un cantiere che era rima- sto aperto per quasi vent’anni: potrebbe essere il momento giusto

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per terminare San Michele a San Salvi. Stavolta prende le cose di petto: per completare l’Ultima cena impiegherà sessantaquattro giornate esatte di lavoro. Nei quindici inverni in cui è rimasto lontano, molte cose sono cambiate per lui. È maturato, diventando il pittore dell’e- quilibrio, della mediazione fra la sobrietà dei perugineschi e le bizzarrie dei compagni di “maniera”. Ha affinato il chiaroscuro, le tinte cangianti, le figure «semplici, pure, bene intese, senza errori e in tutti i conti di somma perfezione» (Giorgio Vasari). Quando si tratta di mettere in scena l’ultimo incontro fra discepoli e mae- stro, il pittore ha molti esempi intorno a sé fra cui scegliere. Decide invece di ispirarsi a qualcosa che probabilmente non ha mai visto, sentendone solo meraviglie: il Cenacolo di Leonar- do, a Milano. Da lui prende il dramma che soffia sul tavolo, lo sbigottimento che scende sugli apostoli. Non è più tempo per le figure quiete, distaccate, quasi trasfigurate di Perugino. Qui l’an- nuncio cade come una bomba, gettando lo scompiglio sulla tavo- la. Con una differenza: se a Milano i discepoli si sbracciano, qui rimangono seduti al proprio posto; se là le pose sono esasperate, qui sono soltanto ricercate. Del Sarto si ispira al Vangelo di Giovanni, e raffigura Cristo solo, al centro della scena, mentre lo stupore travolge il gruppo: alla sua sinistra, il prediletto Giovanni si protende verso di lui, qua- si chiedendo «Chi è quest’uomo destinato all’inganno?». Gesù gli stringe una mano con affetto: «È colui per il quale intingerò un boccone, e glielo darò». E lui, il predestinato, stenta a crederci. Contrariamente al passato – ma seguendo Leonardo – Giuda non è seduto da solo dall’altra parte del tavolo. Non ha una borsa di denari che ne marchi l’infamia, non c’è un gatto che ne sot- tintenda la natura infida. A differenza di Andrea del Castagno, di Ghirlandaio, di Perugino e di tutti gli altri, Andrea e i monaci di Vallombrosa collocano accanto a Cristo il discepolo destinato al tradimento, smarrito come gli altri, il volto incredulo, la mano sul petto quasi a dire: davvero sono io? Neppure lui riesce a crederci. È inevitabile: guardando il Giuda di Andrea del Sarto viene in mente Jesus Christ Superstar. L’Iscariota affrescato cinquecento anni fa alla destra di Gesù – a parte il colore della pelle – è l’in- credibile Carl Anderson nel film, il braccio destro di Cristo, l’uo- mo assetato di libertà in continuo dialogo col Maestro: «Siamo un pae­se occupato, dimentichi come siamo sottomessi? La folla mi

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fa paura, stiamo diventando troppo rumorosi, e ci annienteranno se andiamo oltre!». Giuda è l’uomo che pone domande, che si ar- rabbia: «Tu hai cominciato a essere più importante delle cose che dici!»; Giuda è il tormentato apostolo che contesta fino alla fine il proprio ruolo nel disegno divino: «Non sono venuto qui solo per una mia decisione, ma perché dovevo farlo. Ma non dite che sono dannato per sempre!». Il Giuda di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice – messo in pellicola da Norman Jewison – termina la più grande storia mai raccontata attaccato a una croce luminosa in discesa dal cielo su un anfiteatro: sarebbe piaciuto, ad Andrea. Il suo Giuda è uno così, appassionato, risoluto, incapace di ras- segnarsi al ruolo che la Storia gli chiede. Non più il personaggio sgraziato e oscuro che la tradizione pittorica imponeva per il tra- ditore, bensì un protagonista luminoso, dai lineamenti regolari, il ciuffo ribelle. Nessuno ha visto mai un Giuda così bello. L’effetto è tale che i fiorentini restano stregati. Quando – dopo nemmeno due anni – tutti gli edifici esterni alle mura sono demoliti per non offrire ripari all’esercito imperia- le che assedia la città, i cittadini mandati a distruggere San Salvi si fermano davanti al Cenacolo. Il primo a non avere il coraggio di abbattere quel Giuda arrabbiato con Gesù è il popolo di Firenze. Ma poi, arrivano i soldati.

È il 1527 e Roma va a fuoco: Firenze si libera dei Medici per l’ultima volta

L’affresco di Andrea non si è ancora asciugato, quando il mondo del pittore si capovolge, insieme a quello di tutta la città. Nel 1527 le truppe dell’imperatore Carlo v entrano a Roma, mettendola a ferro e fuoco: il papa mediceo Clemente vii si salva a stento, e solo grazie al sacrificio di decine di guardie svizzere. «Abbiamo preso d’assalto la città – scrive Sebastian Scherthlin, lanzichenecco che partecipa al sacco – gli uccisi furono più di seimila, saccheggiata l’intera città, nelle chiese e dentro la terra prendemmo tutto ciò che trovammo». Gli ultimi a depredare sel- vaggiamente la Città Eterna erano stati i visigoti di Alarico. I fio- rentini approfittano della debolezza di Roma, e per l’ultima volta insorgono, cacciando i Medici da Firenze. Le nuove leve Ippolito e Alessandro, insieme al cardinale Passerini, devono andarsene.

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Riecheggiano quasi le parole di Savonarola, che aveva previsto il castigo divino del ferro e del fuoco per la fine della casata. E come era accaduto ai tempi del frate domenicano, la Repubblica proclama Gesù Cristo “re di Firenze”. Ma al di là dei proclami e dell’euforia, la situazione è grave. Il governo non se la sente di capovolgere la tradizionale linea filofrancese in politica estera, non cerca l’alleanza con l’impera- tore. Il moderato gonfaloniere Niccolò Capponi lascia il posto all’arrabbiato Francesco Carducci, contrario a qualsiasi tratta- tiva con i Medici, asperrimo nemico dell’oligarchia nobiliare e dell’imperatore. Naturalmente accade l’impensabile, cioè gli ex nemici trovano un accordo in tempi record: Clemente vii si im- pegna a incoronare Carlo v in cambio del suo appoggio per la riconquista della città. E se si aggiunge che proprio in quel mo- mento Francia e Impero siglano una (temporanea) pace, il guaio è completo: Firenze è sola. Con una guerra in vista.

La difesa si prepara, i “guastatori” distruggono tutto ma non San Salvi

Sono tre anni esaltanti e terribili: dal maggio 1527 all’agosto 1530 – tanto dura l’ultima Repubblica – i fiorentini vengono travolti da fervore patriottico e impegno civile. Non sanno nulla di assedi, non ne hanno mai subito uno: ma si preparano alla difesa della libertà lavorando giorno e notte. Tornano le antiche istituzioni repubblicane. I nove conservatori di Ordinanza e Milizia comin- ciano ad arruolare migliaia di mercenari, mentre organizzano per la prima volta un vero esercito di cittadini, come era stato ideato pochi anni prima da Niccolò Machiavelli. Firenze è divisa in com- pagnie, tutti devono partecipare alla difesa: le botteghe vengo- no chiuse, gli uomini arruolati, i ragazzi preparano le munizioni. Ogni soldato di Cristo ha un compito da assolvere, uno spicchio di territorio da proteggere. Bisogna rinforzare anche le mura. L’ampia cinta trecentesca andava benissimo per le balestre, ma che succederà di fronte alle nuove artiglierie? Michelangelo è assoldato come governatore alle Fortificazioni, si butta a inventare tenaglie, a creare bastioni bassi e spessi per difendere le porte della cerchia muraria. Anche la col- lina di San Miniato viene irrobustita. Ma i tempi sono stretti, i co-

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sti altissimi: si finirà per imbottire i campanili di materassi. Firenze rigurgita di armi e di bandiere, alla milizia cittadina si aggiungono i diecimila soldati al comando dell’ambiguo Malatesta Baglioni, disoccupato da quando gli imperiali gli hanno sottratto la guida di Perugia. Le buste paga per i mercenari sono un’emorragia con- tinua di denaro, ma i fiorentini volentieri pagano, stremandosi. Squadre di guastatori vengono mandate in giro a distruggere tutte le strutture esterne alle mura perché non possano servire da appoggio alle truppe che stanno arrivando. Cadono abitazioni, vil- le, monasteri, vengono rasi al suolo il convento di San Gallo, quel- lo di San Giusto alle Mura, quello di San Benedetto al Mugnone. Quando arrivano a San Michele a San Salvi, i cittadini-demo- litori si fermano. «Per la sua sublime qualità – scrive Benedetto Varchi – fu risparmiato dai guastatori inviati dalla Repubblica per distruggere gli edifici fuor delle mura». La bellezza gioca strani scherzi. Davanti alla pittura di Andrea, i fiorentini non osano abbandonarsi alla distruzione, non osano cancellare di propria mano la meraviglia che li interpella da quel muro. «A un tratto tutti quanti – racconta Varchi – quasi fossero cadute le braccia e la lingua, si fermarono e tacquero, e pieni d’inusitato stupore non vollero andare più oltre colla rovina». Molti dei guastatori non avevano neppure ancora visto il dipinto; e non lo toccano, lasciando decidere la sua sorte agli invasori. Così la neonata Ul- tima cena, rimasta assolutamente sola fuor dalle mura, si prepara ad affrontare le soldatesche di Carlo v che nel frattempo si sono accampate a sud dell’Arno. Fra truppe tedesche, spagnole e ro- mane, l’esercito assalitore arriva a trentamila uomini, al comando del principe d’Orange. I fiorentini hanno diecimila mercenari, e la milizia cittadina. Comincia l’assedio.

Dieci mesi di resistenza disperata e valorosa

Sono dieci mesi di resistenza strenua, mesi di bombardamenti, di assalti alle fortificazioni: gli imperiali pensavano di farsi una passeggiata, si trovano di fronte un’opposizione furibonda. Sono dieci mesi di scaramucce notturne che i fiorentini compiono per scompigliare le fila dei nemici, uscendo a cavallo con indosso

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camicie bianche per riconoscersi nel buio, mentre fanno strage negli accampamenti sorpresi nel sonno. Bartolomeo Cavalcanti, sostenitore della Repubblica, quando arringa i concittadini per incitarli a resistere, arriva persino a nominare l’indipendenza del- la penisola: «Difendasi la gloria del nome italiano da barbare e inimicissime nazioni». Non è un caso se il Risorgimento a cac- cia di precedenti patriottici eleverà l’assedio di Firenze a simbolo dell’opposizione “italiana” allo straniero. Nel gennaio del 1530, grazie all’apporto di forze fresche, l’e- sercito imperiale chiude il cerchio intorno alla città: non ci sono testimoni dell’arrivo delle truppe a San Salvi, eppure il dipinto di del Sarto esce indenne dall’occupazione. Neppure uno sfregio, un graffio. Niente. Così come avevano fatto i guastatori, anche i soldati si fanno indietro. Il resto del patrimonio cittadino, lasciato in balia dei ne- mici, non subirà la stessa sorte. Per esempio, gli assalitori si ac- caniscono contro il marmo funebre di san Giovanni Gualberto, realizzato da Benedetto da Rovezzano proprio a pochi passi di distanza dal Cenacolo. Il lavoro viene selvaggiamente deturpato dalle truppe, che spazzano via teste, braccia e mani dalle figure. Oggi, entrambe le opere sono esposte nelle stanze di San Salvi, la scultura e l’affresco, quella sfigurata e quella intatta. La pri- ma, che ha patito lo sfregio della guerra, e l’altra che è riuscita a fermarlo. Due capolavori un tempo connessi dal contesto, divisi nella sorte, e oggi nuovamente uniti in quella rete di significati chiamata museo. Capace di prenderci per mano, e riportarci in- dietro, a quei dieci mesi di battaglie, di valore e impegno della Repubblica assediata. Dopo che a gennaio l’accerchiamento è concluso, le strade per i rifornimenti non sono più accessibili e i «poveri e liberi» fiorentini cominciano ad aver fame. Eppure rimangono compatti, e con lo spirito che li caratterizza, il 17 febbraio si fanno beffa del nemico giocando in Santa Croce la partita dell’assedio, il match di calcio storico più famoso della storia di Firenze. Il morale è alto, per ora. Ma cominciano le prime diserzioni. Tre capitani della famiglia Orsini scompaiono, per unirsi agli imperiali. Un’infamia che val bene un ritratto.

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Assediati e affamati, gli artisti della Repubblica continuano a lavorare

A immortalare le effigie dei traditori appesi per un piede a due palazzi pubblici ci vuole un maestro: bisogna ben illustrare la sorte che toccherà ai disertori se la Repubblica li acchiappa. Ed ecco di nuovo in pista Andrea del Sarto, i cui disegni preparato- ri mostrano la dovizia di particolari con cui l’artista si dedica al compito, facendosi addirittura modellare dei manichini, che poi finiscono impalati sui bastioni di San Miniato, in faccia al nemico. Il pittore però non vuole commettere lo stesso errore di Andrea del Castagno, il secolo precedente; non vuole associare il proprio nome alle pitture infamanti e rimanerne marchiato. Sparge così la voce che il lavoro sia opera del suo allievo, Bernardo del Buda. Di Andreino degli impiccati ne basta già uno. Resta in città, Andrea, insieme a Michelangelo, Pontormo e altri (ma non Rosso Fiorentino, che scappa ad ). Sono gli artisti della Repubblica, per tutto il tempo continuano a lavorare sotto le bombarde, esaltati ed affamati come gli altri. Del Sarto esegue La Sacra Famiglia Medici, commissionata da Ottaviano, lon- tano cugino del Magnifico, rimasto a Firenze come sorvegliato speciale della Repubblica. Quando Andrea va a portargli il quadro completato, gli uomini che piantonano a vista il prigioniero impe- discono la consegna del dipinto. La cronaca narra che il Medici dica al pittore di non preoccuparsi, che venda o regali la pittura, avendo comunque assolto al compito. «Per voi l’ho dipinto, vostro è – risponde del Sarto – lo conserverò finché non potrò darvelo». Intanto anche Pontormo è alle prese con i Diecimila martiri, dipinto a olio realizzato per le monache dello Spedale degli Inno- centi. Nel quadro la legione tebana è crocifissa dall’imperatore per essersi rifiutata di sterminare una città cristiana: chissà se il pittore è sfiorato dal pensiero che il martirio dei diecimila potreb- be essere la fine della storia che sta vivendo, insieme ai concitta- dini... Perché le cose a Firenze non si mettono bene per niente. Al contrario. Malatesta Baglioni tentenna, sembra mancare di iniziativa. Non approfitta dei momenti favorevoli, per esempio quando il comandante in capo degli aggressori, il principe d’Orange, lascia l’assedio portandosi via parte delle truppe. Piuttosto che condur- re alla vittoria la città, l’obiettivo del capitano al soldo dei fioren-

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tini sembra quello di mantenersi buono il papa, magari per recu- perare Perugia. Firenze ha un solo, vero sul campo, Francesco Ferrucci, le cui scorribande nel comprensorio sono la spina nel fianco dell’esercito nemico. Quando il 3 agosto, a Gavi- nana, Ferrucci è circondato e vilmente ucciso, le speranze degli assediati evaporano. A questo punto solo se capitola la città può risparmiarsi l’inevitabile saccheggio: bisogna accettare le condi- zioni dei vincitori. Non c’è nessuna battaglia finale, nessuna ulti- ma uscita, anche perché Firenze con la speranza ha perso l’unità. Forte è la voce di chi è stanco, chi ha fame e chiede un accordo con i Medici. Così Malatesta consegna i fiorentini a Clementevii . E dopo un mese intasca l’assegno: è di nuovo il signore di Perugia.

La capitolazione e la peste: la fine del sogno, la fine di Andrea

Svegliarsi da un bel sogno è difficile, soprattutto se ci si ritrova sudditi. E appestati. Mai veramente scomparsa dalle strade, con la ripresa di commerci e relazioni l’epidemia torna a infierire sulla città, dove nel frattempo è in atto la rappresaglia dei vincitori. Ristabilitisi in via Larga, i Medici hanno conti in sospeso da regolare con i ribelli: cadono le teste dell’ex gonfaloniere Fran- cesco Carducci, di Bernardo Castiglione; moltissimi finiscono in fondo alle torri, centocinquanta sono mandati al confino per mai più ritornare. Michelangelo, ricercato numero uno, si dà alla fuga e scompare. Sarà graziato solo per meriti artistici. E mentre cado- no le istituzioni della Repubblica e il brutale Alessandro de Medici viene fatto primo duca di Firenze; mentre il cammino umanistico disegnato da Coluccio Salutati e Leonardo Bruni si esaurisce con lo sbriciolarsi della libertà e delle virtù civiche di cui era imbasti- ta l’antica “città Stato”, c’è una cosa che Andrea del Sarto sente di dover fare subito: bussare alla porta di Ottaviano de Medici e, come promesso, consegnargli il quadro della Sacra Famiglia Medici. Lasciandolo di stucco. È un gentiluomo Andrea, lo è sempre stato. Ancora non sa che quel quadro è l’ultimo: nel giro di poche settimane il pittore si ammala di peste. Quando si rende conto che niente può sal- varlo, si fa murare vivo nella sua casa di via Capponi. Non vuole infettare nessuno, così saluta la famiglia e si rinchiude ad aspetta-

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re la morte. Dalla porta sbarrata, in presenza di alcuni vicini che garantiscono per lui riconoscendone la voce, sussurra al notaio una postilla al testamento redatto tempo addietro: poiché non ha avuto figli propri, vuole aumentare la parte di eredità destinata a Maria, la figlia dell’adorata moglie Lucrezia. Quest’ultima viene lasciata libera di risposarsi, con la dote intatta e la benedizione del marito. Finisce così, Andrea del Sarto. Il corpo è gettato in una fos- sa comune che raccoglie le vittime della pestilenza. Era il pittore «senza errore». Quello capace di imitare «insino le macchie del sudicio, come era il vero». Ha rifiutato le lusinghe dei re, gli onori di corte, le insidie del denaro. Era il leader della beat generation che ha preso a botte il Rinascimento. Ha lasciato «una delle più belle dipinture dell’Universo». Così potente da fermare la mano della guerra.

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Cappelle Medicee: la Sacrestia Nuova Dal covo segreto di Michelangelo al corpo del duca nascosto col padre

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 163 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 164 10/05/21 14:51 Dove si nasconde il traditore Michelangelo, il ricercato numero uno dal regime mediceo appena tornato al potere? Gli straordinari disegni trovati nel 1975 in un sotterraneo delle Cappelle Medicee, in San Lorenzo, pon- gono domande cui non è finora stata data una risposta ufficiale. Quella che segue è una possibile ricostruzione: aiutato dal priore, per sfuggire l’ira del papa, Buonarroti si rifugia in un magazzino proprio sotto la Sacrestia Nuova, nelle Cappelle. Verrà poi perdonato per meriti artistici, con l’ingiunzione di tornare al lavoro per celebrare quella famiglia che l’ha allevato, e che lui vuole abbattere. Così nascono i marmi funebri dei giovani principi Medici, il Giorno e la Notte, il Crepuscolo e l’Auro- ra. Sotto questi ultimi, destinati alla tomba di Lorenzo duca d’Urbino, si nascondono i resti mortali di un altro duca, Alessandro: l’uomo per il cui Regno la Repubblica è caduta, il principe messo al potere dal papa, di cui è il probabile figlio. Accoltellato e calato nella tomba di un altro con indosso gli stessi abiti del delitto, Alessandro è sepolto senza funerali, e senza nem- meno una lapide che ne riporti il nome. Perché Firenze, questo duca, vuole scordare di averlo avuto.

Michelangelo contro i Medici

È il 12 agosto 1530 e qualcuno a Firenze vuole Michelangelo morto. L’ordine viene da papa Clemente vii, quel Giulio de Medici che insieme all’artista giocava, da bambino. Grazie alle truppe di Carlo v, il pontefice ha appena riconquistato la città. L’insurrezio- ne è fallita. Una Firenze stremata dalla fame, dalla peste e dall’as- sedio, si (ri)consegna ai Medici, gli antichi signori di sempre. Che stavolta non avranno pietà. In cima alla lista dei ricercati, il traditore Buonarroti. Da tem- po l’artista ha estratto il David dalla pietra e popolato di sibille e profeti la volta della Sistina. Quando Firenze insorge, nel 1527,

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Michelangelo è alle prese con i sepolcri medicei in San Lorenzo, commissionati proprio da quel Giulio de Medici prima cardinale, adesso papa. Fra lo stupore dei concittadini, Buonarroti ripone di slancio le statue sbozzate per la gloria degli ultimi rampolli della dinastia – Lorenzo d’Urbino e Giuliano di Nemours, scomparsi nel fiore degli anni – e abbraccia con ardore la causa repubblicana. Sa di mettere in gioco la vita, eppure si schiera contro quella fami- glia che lo ha allevato e fatto studiare, da ragazzo, e per la quale stava lavorando ancora il giorno prima della rivolta. Ma la febbre patriottica lo contagia: il suo spirito è intimamente repubblicano, anela libertà. E poi, chi guida oggi la casata non ha più nulla a che spartire con le virtù di chi lo ha cresciuto, Lorenzo il Magnifico. Accetta così l’incarico di fortificare la città, e adattare le vec- chie mura alla potenza delle nuove armi da fuoco. Ecco l’architet- to Buonarroti rinforzare bastioni e campanili, scapitozzare torri. Elevare tramezzi. Sono mesi infernali, alle bombarde e alla fame si aggiunge adesso anche la peste: l’adorato fratello Buonarroto si spegne di contagio fra le braccia dell’artista. Michelangelo è sconvolto, l’euforia diventa angoscia. Si sente in trappola, diserta, fugge a Venezia. Poi ci ripensa e torna, richiamato dai compagni, dal senso di colpa, dal timore di essere dichiarato traditore anche dalla Re- pubblica, e perdere tutto. Torna, anche se si comincia a capire che questa Comune fiorentina ha troppo osato. Torna per ricon- segnarsi a un assedio senza più speranza: quando Firenze cade, il 12 agosto, Michelangelo sa che la scommessa persa potrebbe costargli cara. Nelle rispettive opere Vasari, Condivi e Benedetto Varchi sono tutti d’accordo: Michelangelo ha bisogno di nascon- dersi, di aspettare che le vendette si compiano e il bagno di san- gue si plachi. Deve sparire. E farlo in fretta.

Nascondersi per salvarsi la vita: nella chiesa del nemico

Gli viene in aiuto l’insospettabile priore di San Lorenzo, Giovan- ni Battista Figiovanni, noto sostenitore dei Medici, uno con cui l’artista non si era neppure troppo bene inteso, in passato. «Io lo canpai dalla morte – scrive il sacerdote nelle sue Ricordanze – et salva ’li la roba».

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Il priore mette a disposizione di Buonarroti un posto dove difficilmente lo cercheranno: proprio la chiesa dei Medici, il San Lorenzo a pochi passi dal palazzo di famiglia. Quel luogo dove l’artista scolpiva le sepolture dei cadetti allo scoppio dell’insur- rezione. C’è un sotterraneo, proprio sotto la Sacrestia Nuova, chiuso da una botola. Lì lo scultore si rintana, un loculo di dieci metri per due, le finestrelle sbarrate, sulla sinistra. Sembra di esse- re sottoterra, invece le finestre si affacciano proprio sulla piazza, ma dalla strada nessuno sembra notarle (anche oggi). In questo tunnel illuminato a candele di sego, il maestro aspetta che il de- stino si compia, che sia vita o sia morte. Anche se è comunque già sconfitta. Nei lunghi giorni tutti uguali, il recluso si aggrappa ai muri della cantina come ai fogli di un album da disegno, e con un tiz- zone carbonizzato comincia a prendere appunti. Il sotterraneo di- venta così palcoscenico di una sorta di seduta psicoterapica, in cui passato e futuro si confondono, e i ricordi si mutano in progetti. Dall’animo dolente del fuggiasco sgorga un fiume di segni: studi di piedi, profili di donna, figure sdraiate, rotazioni di corpi, braccia, gambe. I tratti sono rapidi, i tocchi nervosi. Sono curve che accolgono idee, intuizioni interrotte che poi riprendono il largo. Michelangelo sembra provare sul muro le grandi figure che un giorno, se mai dovesse uscirne, scolpirà. E sono figure che si muovono. Si muovono. La testa inclinata di un uomo dagli occhi vuoti e vibranti... le gambe di un principe assiso... un gigante dal braccio alzato pronto a sfuggire alla pietra che lo trattiene... un vecchio scarmigliato dalle spalle ricurve, vegliato da un angelo nella disfatta... un misterioso profilo di donna. In poche settima- ne il cunicolo si popola di murales, compagni di una prigionia spezzata solo dalle rapide apparizioni del giovane scolaro Antonio Mini, l’unico autorizzato a fare visita al maestro, a portargli i pasti. Anche lui, ogni tanto, acchiappa un tizzone e disegna qualcosa. Per poi svignarsela nelle strade cittadine bagnate a sangue. Ma il potere, si sa, valuta gli uomini per quel che possono fruttargli. Sbollita l’ira, Clemente vii si ricorda che Michelangelo è pur sempre il più grande artista vivente, e gli è indispensabile per gli ambiziosi progetti di celebrazione familiare. «Papa Cle- mente fe’ fare diligenza di trovarlo – scrive Vasari – con ordine che non se li dicesse niente, anzi, che se gli tornassi le solite provi- sioni, purché egli attendessi all’opera di San Lorenzo». Il cerchio

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si chiude. Dopo averli voluti morti, e aver fatto di tutto perché lo fossero, Michelangelo torna a essere pagato per celebrare la gran- dezza dei Medici. Inchiodato più che mai a quel futuro servile cui aveva voluto sottrarsi. Sono passati due mesi, lo scultore riprende l’antico lavoro per le tombe della famiglia, nelle Cappelle di San Lorenzo; non senza aver prima fatto eliminare, giù nel sotterraneo, le tracce che potrebbero mettere nei guai il buon priore che l’ha nascosto. Così i disegni finiscono sotto uno strato di intonaco, una scialbatura destinata a cancellarli, e che invece li proteggerà, per riconsegnar- li alla Storia.

La saga di una scoperta incredibile: è Michelangelo oppure no?

È il novembre 1975 e a Firenze si sta cercando un’uscita di sicu- rezza per le Cappelle Medicee. Un vecchio dipendente ricorda di aver visto, nel lavamani sinistro della Sacrestia Nuova, la botola di accesso a un sotterraneo utilizzato un tempo come deposito di carbone per le stufette dei custodi. Gli armadi ammassati sopra la botola vengono rimossi. La porta si solleva. Dieci scalini più sotto si apre un loculo pieno di muffe fi- lamentose, annerito dalla carbonella e dal fango secco, eredità dell’alluvione del 1966. Comincia la rimozione dei detriti, mentre un restauratore si accinge agli usuali saggi di pulitura delle pareti. Da queste parti, non sai mai cosa potrebbe saltar fuori da sotto un’imbiancatura. Il 15 novembre, di buon’ora, il direttore del museo, Paolo Dal Poggetto, riceve la notizia: il bisturi avanza, due strati di intonaco cedono dolcemente, su un terzo strato più an- tico stanno affiorando superbi disegni di gambe. Ma di che cos’è l’inizio? Di «uno dei più importanti ritrovamenti artistici del xx secolo» (Frederick Hartt)? Oppure della scoperta «degli scaraboc- chi di un vivace gruppo di artisti dal talento limitato» (Caroline Elam)? In realtà, il rinvenimento è soprattutto l’inizio di una saga non solo italiana: la contesa a distanza fra più tifoserie, capace di paralizzare la gestione della scoperta e di tornare a seppellire per oltre trent’anni la realtà del sotterraneo. Difficile comprendere come mai ci sia chi nega la paternità michelangiolesca senza nep-

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pure sentire la curiosità di scendere di persona nello scantinato (Ulrich Middeldorf, James Beck). Oppure chi si esprima – come l’autorevole Charles de Tolnay – quando la pulitura delle pare- ti è da poco iniziata, e affiora solo qualche disegno a malapena leggibile. O, ancora, come mai illustri studiosi che pur hanno ben visto, si richiudano in un fragoroso silenzio: cosa ancora più inesplicabile se si tratta dei sovrintendenti di Firenze dell’epoca, gli “allenatori” del team di cui Dal Poggetto fa parte. Insomma, mentre laggiù nel sotterraneo un intero mondo torna lentamen- te alla luce e il direttore delle Cappelle non riesce a contenere l’entusiasmo, l’impressione è che la squadra non sia esattamente dalla sua parte. Il tutto senza una reale valutazione tecnica dei disegni murali: è come se le parti si schierassero non in rapporto all’opera ritrovata, ma in base a chi dice cosa. Le logiche interne alla corporazione sembrano, ahimè, prevalere. D’altronde, siamo a Firenze.

Quelle gambe, quelle braccia alzate sono di Buonarroti: ecco perché

Intanto Dal Poggetto si esprime, eccome. La sua attribuzione – magari ottimistica, ma certo non l’autopromozione di un mer- cante – è argomentata con gli strumenti della storia dell’arte, lo studio del contesto, i confronti, l’analisi dei disegni autografi: per lui, la maggior parte dei disegni della “stanza segreta” è opera di un Michelangelo fuggiasco e solitario, con qualche tratto più in- genuo vergato dal garzone Antonio Mini. La tragica testa barbuta sulla parete destra è il ritratto a me- moria del Laocoonte (che Michelangelo aveva studiato dal vivo), studio preparatorio per il San Cosma destinato alle tombe della Sacrestia Nuova, e lasciato realizzare poi all’allievo Montorsoli; le gambe di un principe assiso sono quelle del giovane duca di Ne- mours, statua che sarà presto terminata al piano superiore; il gi- gante dal braccio alzato pronto a sfuggire alla pietra degli scalini, ci dà l’idea di cosa sarebbe stato il Cristo risorto previsto nella lunet- ta sopra la tomba dei due fratelli Lorenzo e Giuliano, i Magnifici, se l’artista l’avesse mai realizzato. Dal Poggetto produce un testo appassionato, confutato da chi sostiene che la grandezza e la tecnica dei tratteggi non per-

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La stanza segreta sotto le Cappelle Medicee di San Lorenzo. Si pensa che Michelangelo si sia qui nascosto per sfuggire all’ira dei Medici dopo la fine dell’assedio di Firenze del 1530 Varie figure, tra cui un uomo avvolto da una coperta. Potrebbe essere un autoritratto

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Il ritratto a memoria del Laocoonte, che Michelangelo aveva studiato dal vivo: potrebbe essere una sorta di studio preparatorio per la statua del San Cosma che l’artista voleva fare per le tombe della Sacrestia Nuova, e poi invece lasciata realizzare dall’allievo Montorsoli

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Le gambe di un principe seduto (a sinistra): potrebbero essere quelle del giovane duca di Nemours, la cui statua sarà presto terminata da Michelangelo al piano superiore La parete di fondo del cunicolo, con varie figure e un viso di donna (si pensa alla Leda). Fotografie di Daniela Cavini

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metta confronti con i disegni cartacei del Buonarroti, di ben più piccola taglia. O da chi proclama che manchino le prove del na- scondiglio dell’artista proprio in quella stanzetta. Argomenti ri- spettabili, ma insufficienti a mantenere acceso l’interesse. Se non è Michelangelo, chi è? Chi in quel momento storico poteva schiz- zare su un muro tanto fascino? Intanto solo agli studiosi è permesso scendere la ripida scala che conduce al sotterraneo: per motivi di sicurezza, il pubblico è – e rimane tutt’oggi – tenuto alla larga dallo scantinato e dal suo prezioso contenuto. L’ipotesi di staccare i disegni e trasferirli altrove viene presto (e per fortuna) respinta. Senza perizie com- missionate, lontano dalle lusinghe del mercato, il dibattito critico della comunità scientifica sembra esaurirsi. Il tempo di far uscire l’unica pubblicazione in commercio sull’argomento e Dal Pog- getto viene magistralmente trasferito nelle Marche. Sono passati neppure quattro anni. Della scoperta e del suo autore si perdono le tracce. Fino a oggi.

Gli autografi sul muro, ritratto di un cantiere del Cinquecento

Oggi la tecnologia regala a questo album di schizzi unico al mon- do l’immortalità virtuale. Da qualche anno è possibile navigare sulle pareti del cunicolo grazie a un itinerario multimediale realiz- zato dalla Soprintendenza del Polo Museale Fiorentino, dedicato ai capolavori di Buonarroti sparsi per la città. Che includono a questo punto anche i famigerati murales, finalmente accessibili. Curioso notare come il ripescaggio dei graffiti avvenga proprio quando sono ormai usciti di scena tutti gli antichi oppositori. Ma ancora di più colpisce come la potenza dei miti – incluso quello della “stanza segreta” – offuschi talvolta il senso delle cose. Nel 1975 infatti, a poca distanza dal sotterraneo, vengono a galla nell’abside della Sacrestia Nuova anche i disegni di archi- tettura: si tratta di due grandi finestre, le cornici, le edicole che Michelangelo traccia sulle pareti per mostrare a falegnami e scal- pellini come debbano preparare il legno e la pietra per la Libreria Laurenziana, lì accanto. Siamo nel 1525, i disegni sono sicuramente di Buonarroti, e su questo per una volta sono proprio tutti d’accordo. Non solo: trac-

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ciate a carboncino, sfidano il tempo parole autografe lasciate dal maestro come indicazioni agli allievi («pilastro»; «basa»; «la soglia di fuora» scritto misteriosamente all’incontrario, «aroufidailgo- sal»); ci sono operai che calcolano sul muro i blocchi di marmo o le giornate lavorate; e ancora, ecco la richiesta di uno scolaro («vieni a vedere») o la firma di un funzionario («marco di dome//nicho meljnj»). Schizzi, segni, appuntature di matita. Da quest’ammasso di linee e di progetti, dalla varietà dei disegni, dalla densità dei pen- timenti esce vivida la bottega di Michelangelo al lavoro. Siamo accanto ai sepolcri dei principi Medici: in tempi norma- li migliaia di persone sfilano quotidianamente di fronte alle statue del Giorno o della Notte. Non ci sono problemi di sicurezza, e nep- pure di attribuzione. Eppure fino a oggi pochissimi hanno alzato il naso. Nessuno capisce o forse neppure vede il senso di quanto lasciato sul muro cinquecento anni fa, e oggi protetto da un vetro, senza neppure un cartellino – altro che touch screen – a spiegare che si è di fronte al ritratto di vita di un cantiere del Cinquecento, pro- babilmente senza paragoni al mondo. Quei muri spogli sembrano indegni di qualunque interesse, che invece si appunta sui marmi. Custodi inconsapevoli di un altro segreto centenario.

Un duca in più nel tumulo, sepolto insieme al “padre”

Basta girarsi di spalle rispetto all’abside, ed eccole lì, le tombe dei principi che Michelangelo lascia per unirsi alla rivoluzione, e a cui ritorna tre anni dopo. Sconfitto. È la Sacrestia Nuova delle Cappelle Medicee. Qui il Magnifico Lorenzo riposa insieme al fratello Giuliano (quello stroncato dalla congiura dei Pazzi), insieme al figlio Giu- liano (duca di Nemours), e al nipote Lorenzo (duca d’Urbino), figlio del figlio Piero. Quattro corpi per un sepolcro di famiglia: due Lorenzi e due Giuliani; due “Magnifici” e due “duchi”. Ma c’è anche – non segnalato – un Alessandro. Un terzo duca. Il primo di Firenze, quello messo al potere dal papa proprio alla fine dell’as- sedio della città, e ucciso sette anni dopo da un altro Medici, cugi- no e “compagno di merende”, Lorenzino. Una lapide in latino, posta nell’abside proprio dietro l’alta- re, indica chiaramente che le spoglie di Alessandro i de Medici

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riposano insieme alle ossa del padre, Lorenzo d’Urbino, sotto le statue del Crepuscolo e dell’Aurora. E un libro lo conferma, le Illacrimate sepolture di Donatella Lippi. L’anatomopatologa ha lungamente curiosato negli archivi per tirare fuori la storia delle riesumazioni dei Medici, e a pagina 89 racconta – con le parole di un testimone dell’epoca – della prima apertura della tomba. È il 1° marzo 1875: «Due erano i cadaveri, uno volto con la testa verso l’attuale altare, credesi esser quello del Duca Alessandro, l’altro, cioè il Duca Lorenzo, volto verso la Porta d’ingresso [...] ambedue erano avvolti in frammen- ti delle antiche loro vesti [...] Lorenzo con tunichetta nera, l’altro coperto di camicia di tela bianca trapunta ad ago, ambedue con calze». È un’esumazione per niente delicata – quella dei resti di pa- dre e figlio – di cui si parla molto in città. Anche perché, nell’oc- casione, i corpi dei due duchi vengono praticamente saccheggiati. Lo confessa in prima persona Alessandro Foresi, il “chirurgo anti- quario” con ambizioni letterarie che presiede i lavori. «E intanto tolsi dal teschio d’Alessandro una bella ciocca di capelli, e la misi con molta diligenza nel mio portafogli; quindi m’impadronii di quattro denti incisivi superiori, cavandone due a ciascun teschio; e da ultimo staccai un polsino dalla camicia d’Alessandro e me lo misi in tasca. Alcuni m’imitarono [...] Porrò termine a questa narrazione rivolgendomi alla rettitudine dei valenti pittori Conti e Vinea, e dello spiritoso Yorick, affinché vogliano, come feci io, depositare nel Museo Nazionale quel poco che posseggono, tolto agli avanzi dei principi [...]. È soprattutto importante il colletto della camicia d’Alessandro, posseduto da Yorick, perché sembra macchiato del sangue, che uscì dalla gola del primo duca di Firen- ze quando fu scannato». Effettivamente gli spensierati esumatori consegnano gli «avanzi dei principi» al Museo Nazionale del Bargello. Ma deve esserci un errore di datazione, perché viene fuori una falsa tradi- zione dei reperti, da allora in poi riferiti a Lorenzo de Medici e al fratello Giuliano, anch’esso scomparso di morte violenta, ses- sant’anni prima. Ma denti e capelli non sono del Magnifico, e il brandello insanguinato non appartiene al bel Giuliano, ucciso dai Pazzi nella congiura di Pasqua del 1478. Sono i resti del duca Alessandro e del padre Lorenzo, sepolti insieme sotto lo stesso marmo, quello scolpito da Michelangelo. Quello ricoperto di sta-

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tue che – più che celebrare il trionfo della famiglia – non si stan- cano di ammonire il mondo sulla vacuità della vita e del tempo che passa.

Un principe cancellato dalla Storia

Eppure nella Sacrestia Nuova, del corpo del duca Alessandro i non c’è testimonianza. Nulla è scritto davanti alla tomba che ne accoglie i resti mortali, il nome indicato è quello del solo Lorenzo duca di Urbino. Nessuna notizia della sepoltura di Alessandro, neppure nei libri di storia, o nelle guide turistiche. È ovvio, Firen- ze non lo amava: ma era pur sempre il primo duca Medici, l’ulti- mo discendente del ramo principale della grande casata. Perché dunque non onorarlo? Perché privarlo di una sepoltura propria, e sistemarlo in fretta e furia nella tomba del padre, con ancora indosso gli abiti insanguinati con cui è stato trucidato in camera da letto da Lorenzino? La risposta come sempre è nella Storia. Alessandro è il figlio illegittimo che Lorenzo avrebbe avuto da Simonetta da Collevec- chio, la serva mulatta della madre. In realtà, sembra più probabile che questa paternità di copertura serva a nascondere l’imbaraz- zante scappatella di un uomo di chiesa e di grandi piaceri terreni, il cardinale Giulio de Medici, papa Clemente vii. Le prove? Molti indizi, fra cui la fulminante carriera del giovane Medici e il suo ruolo di favorito papale ai danni del predestinato cugino Ippolito, figlio di Giuliano di Nemours. Quando la repubblica cade, nell’agosto del 1530, è Alessan- dro a diventare a vent’anni il nuovo padrone di Firenze. Un titolo comprato in moneta sonante dal pontefice e conferito con diplo- ma dall’imperatore, di cui il neo duca sposa la figlia Margherita: il sogno che papa Clemente aveva coltivato per lui fin dall’infan- zia. È ancora Clemente vii a togliere di mezzo Ippolito, designato invece da Leone x come futuro capo della famiglia. Ambizioso, bello, colto, Magnifico per tutta l’adolescenza, Ippolito è “inspie- gabilmente” indirizzato verso la carriera ecclesiastica dallo zio, e spinto come nunzio verso le destinazioni più lontane. Più volte cerca di “scappellarsi”, e non nasconde di mirare a sostituire il cugino alla guida della città. Quando gli esuli fiorentini lo invia- no come ambasciatore dall’imperatore per denunciare gli abusi

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di Alessandro, Ippolito acchiappa una provvidenziale “malaria” lungo il cammino, e a Vienna non arriva. Viene sepolto a Roma. L’avvelenatore confessa, è Giovanni Andrea de Franceschi. Conse- gnato alle magistrature fiorentine, è presto rimesso in libertà. È il 1535, la strada del duca di Firenze è libera. Anche se per soli due anni, tanti quanti ancora ne restano al suo Regno. Durante il quale il colpo più odioso è certo la liquidazione delle orgogliose istituzioni repubblicane, vecchie di secoli: le pro- messe fatte in sede di capitolazione non vengono naturalmente mantenute. Ma Alessandro nuovo duca pretende anche la conse- gna di tutte le armi possedute dai privati cittadini. Si dota – primo fra i Medici – di una scorta personale di lanzichenecchi, il cui sco- po prioritario sembra quello di spaventare a morte i concittadini. Per alloggiare i soldati tedeschi costruisce la , con mastio e garitte rivolti verso la città, non solo come rifugio in caso di rivolta, ma anche per sparare direttamente sulla folla. Fa persino coniare una nuova moneta di taglio diverso dal celebre fiorino, con la propria immagine raffigurata. Proprio come face- vano gli imperatori romani. Davvero troppo per una città come Firenze, cresciuta a Repubblica e Signorie “leggere”, refrattaria agli uomini soli al comando. Quando Lorenzino – divenuto Lorenzaccio – uccide il cugi- no dopo averlo adescato con la lusinga di un appuntamento ga- lante, sono in pochi a rammaricarsi per l’uomo. Ma la scomparsa del duca pone qualche problema. È il 1537, e il clima politico è ancora decisamente instabile. La famiglia Medici è da poco reinsediata al governo, i meccani- smi di potere sono fluidi. Alessandro è odiato dai concittadini, ed è riuscito nell’impresa di esiliare persino gli antirepubblicani, unendo contro di sé tutte le grandi famiglie, dagli Strozzi ai Salvia- ti, dai Rucellai ai Ridolfi. La notizia dell’omicidio potrebbe dare voce agli scontenti, al popolo ancora affamato; potrebbe incorag- giare un’insurrezione e travolgere il Regno appena ristabilito. Gli oligarchi filomedicei hanno poco tempo per decidere. Alla fine, preferiscono far sparire in fretta e furia il corpo del duca accoltellato, privandolo anche delle esequie, per correre nelle campagne del Mugello a cercare il successore. Lui è il giovanis- simo Cosimo, figlio di Maria Salviati e di Giovanni dalle Bande Nere, un Medici del ramo Popolano. Quando viene presentato alla città, nessuna spiegazione è veramente offerta ai fiorentini.

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Morto il duca, viva il duca. Ma se gli oligarchi pensavano di mano- vrare facilmente il “cugino di campagna”, si sbagliano di grosso. Questa però, è un’altra storia. Alessandro viene infilato nella tomba fatta da Michelangelo per il “padre”, in Sacrestia Nuova, e lì dimenticato. Una damnatio memoriae che allunga i tentacoli sino ai giorni nostri. Ancor oggi, nel Pantheon di famiglia, neppure un cartellino ricorda il viaggio terreno del giovane principe detto “il Moro” per il colore della pelle. Alessandro ha una statua nel salone dei Cinquecento, a Pa- lazzo Vecchio, ma non un sepolcro su cui onorarne la pur discu- tibile memoria. Firenze non lo vuole proprio piangere: il primo duca è il sovrano che la città desidera scordare di avere avuto.

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L’Orto botanico Un giardino che non si arrende mai

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 179 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 180 10/05/21 14:51 Da cinquecento anni è sempre lì, allo stesso posto: da quando Cosimo i duca di Firenze lo fonda per aggiungere un elemento al progetto di prospe- rità del suo Regno. Da quel momento, il Giardino dei Semplici condivide con i fiorentini guerre e alluvioni, gelate e trombe d’aria: la buona e soprat- tutto la cattiva sorte. Con la devastante tromba d’aria del settembre 2014, la città si è accorta di averlo perso: e solo allora si è ricordata di amarlo. Riportandolo a nuova vita.

Dai cavoli delle suore alle piante medicinali del duca

Dicembre 1545. Alle suore domenicane del Chiostro del Maglio arriva una richiesta bizzarra: il duca Cosimo i domanda di affittare il loro orto. In effetti quel vulcano d’un principe non smette di concepire nuove idee, e poi le consorelle potrebbero ritrovarsi senza verdure nel piatto. Ma come si fa a dire di no? Il signore di Firenze sembra oltretutto avere un piano preciso in testa: con- vertirà quel quadrilatero di cavoli e cipolle in un orto di piante curative a uso degli studenti di medicina. Certo, le proprietà terapeutiche delle piante sono note dai tempi di Teofrasto, nel 300 a.C. Al monastero di San Gallo in Sviz- zera si è cominciato a crescere piante officinali quando c’era Carlo Magno o quasi. E nello Spedale di Santa Maria Nuova le erbe sono coltivate e classificate già alla fine del Trecento. Ma il progetto del duca è diverso, va oltre: vuole un parco ideato e realizzato come “scuola medica”. Si chiamerà hortus simplicium (“giardino dei medi- camenti semplici”, in latino medievale), e sarà un luogo pubblico dove «si coltivino le piante native di climi e paesi differentissimi, affinché i giovini Studenti, le possano in breve spazio di luogo, con facilità e prestezza, imparare a riconoscere» (Luca Ghini, 1543).

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In effetti, neppure questa idea è davvero nuova. Da due anni l’Università di Pisa ha inaugurato un proprio orto, il primo al mon- do, e Padova ha fatto lo stesso solo quattro mesi prima di Firenze. Sono anni intensi, di grande trasformazione anche per quel che riguarda la medicina, ormai saldamente scardinata dall’approccio medievale. Le aule universitarie però traboccano ancora di teoria: i testi greci o latini di medicina simplex fanno scuola, ma quale sia l’aspetto di queste piante, difficile dirlo. Succede spesso che un giovane medico si confonda, indicando un’erba sbagliata o ad- dirittura tossica. Per preparare composti e medicine c’è dunque bisogno di pratica, di passare dal commento all’osservazione dal vero. L’Orto botanico del Maglio nasce come risposta alla neces- sità degli studenti di toccare, esaminare, studiare: di sorpassare la semplice lectura per arrivare alla ostensio simplicium. Se la concezione di malattia come punizione divina è supe- rata, i medici – non più sacerdoti – sono in verità ancora molto “filosofi”. Prescrivono ricette la cui preparazione è riservata agli speziali, che però sono esclusi dalla diagnosi: insomma, dottori e farmacisti, seppur riuniti in un’Arte, non si parlano. Quanto alle materie prime con cui confezionare medicinali e composti, il mondo vegetale continua a essere la miniera da cui pescare, a parte lo sporadico ricorso al veleno di scorpioni e vipere es- siccate. E naturalmente a un po’ di minerali, per chi se li può permettere. Purtroppo, credenze e superstizioni sono dure a morire: Lorenzo il Magnifico si spegne per una probabile ulcera perforante dopo aver ingerito una dose di smeraldi e lapislazzuli tritati... Ma gli speziali non ci stanno a prendersi tutte le colpe: come preparare i farmaci prescritti dai medici, con quali misu- re? In che dosi? Il Ricettario fiorentino, primo codice farmaceutico del mon- do, viene compilato dal Collegio dei Medici su invito dei consoli dell’Arte proprio a Firenze già nel 1499. Obiettivo: arginare “ma- ghi” e ciarlatani. Nasce sì per porre fine agli errori degli spezia- li, ma anche per tutelarli mettendo i dottori davanti alle proprie responsabilità. Il Ricettario vuole dunque evitare la diffusione di terapie non suffragate dalle «evidenze». Indica tutte le regole per la preparazione di medicinali sia semplici che composti «quando saranno ordinati da e medici»; aggiunge l’elenco delle possibili ricette; stabilisce persino la lista dei pesi e delle misure utilizzabili nella preparazione. Cosimo pensa sia uno strumento geniale. Lo

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fa aggiornare, ristampare, ci mette sopra il sigillo ducale e lo ren- de obbligatorio. Pene severissime per chi non si adegua.

Cosimo, l’uomo solo al comando

Ricettario e hortus simplicium non sono che tasselli di un’opera gigantesca: il riassetto dello Stato, la rifondazione del Regno su basi moderne, efficienti. E soprattutto centralizzate. D’altronde il duca di Firenze sa bene che i concittadini non hanno mai amato la concentrazione del potere in un solo uomo, dimostrando di sopportare il «lieto giogo» solo di fronte a innegabili vantaggi. Ed ecco le basi su cui Cosimo appoggia i successivi duecento anni di Regno mediceo: conquista militare, crescita economica, uso dell’arte a fini di governo.Panem et circenses, in fondo, anche se stavolta il pane non cade dal soglio imperiale, bensì è frutto di lungimiranti politiche del lavoro. E del solito sudore della fronte. Spietato coi nemici, il «domatore di tutte le chimere» punta a uno Stato autonomo, capace di reggersi innanzitutto sul piano bellico. Le antiche nemiche di Firenze cadono una a una (persino l’irriducibile Siena), per lasciare il posto a un progetto regionale di cui Pisa e Livorno divengono l’avamposto sul mare. Nasce la fortezza di Portoferraio, la flotta è riorganizzata, la costa fortifica- ta, il Tirreno protetto dalle scorrerie dei pirati. Cosimo si assicura il controllo sulla produzione delle miniere: si scavano i giacimenti di ematite all’isola d’Elba, quelli argentiferi a Campiglia Maritti- ma. Nuove forme di estrazione e organizzazione mineraria molti- plicano i posti di lavoro. I “semimetalli” servono alle manifatture tessili e conciarie: un giro d’affari tale da attrarre minatori persino da fuori regione. Famosi i progetti ducali di bonifica di territori, finalmente solcati da acque e arterie stradali regolamentate. E quando nuovi appezzamenti di terra vengono messi a coltura, anche la produ- zione agricola aumenta. Insomma, i cittadini – pur privati della secolare rappresentanza politica – non trovano pretesti per la- mentarsi. Tanto più che a rallegrarli ci pensano gli spettacoli, le rappresentazioni teatrali, l’apertura di ville e giardini per il «pas- seggio del popolo». Le grandi committenze architettoniche. Ne- gli anni in cui nascono gli Uffizi e l’Accademia delle Arti del Dise- gno, Vasari – corifeo culturale del governo – lavora agli affreschi

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celebrativi della politica ducale nel salone dei Cinquecento. Men- tre nella sala del Mappamondo viene accolto il più antico ciclo cartografico italiano sulla rappresentazione del “Nuovo Mondo”.

Un laboratorio di scienze a palazzo: la Fonderia medicea

E proprio quando si insedia nell’antico palazzo simbolo del gover- no comunale – collocando moglie e una nidiata di figli al secondo piano, dove un tempo abitavano i priori – il duca si prende una stanza per lo studio delle scienze. Perché non c’è alcun dubbio, il padre condottiero ha lascia- to in lui poche tracce. Cosimo è più a suo agio con la penna che con la spada, sempre avido di risposte ai fenomeni naturali, di nuove conoscenze geografiche, di suggestioni alchemiche. Quella stanza nel Palazzo (presto “Vecchio”) diventa la Fonderia medi- cea, laboratorio di ricerca dove i processi di distillazione cattu- rano l’attenzione del sovrano, appassionato di antidoti ai veleni con cui i fiorentini stanno imparando a dilettarsi per risolvere i problemi familiari. Il figlio ed erede Francesco sposta più tardi l’officina nel Ca- sino di San Marco, dove indaga la produzione di porcellana. Ma questo intreccio fra distillazioni e cristalli, ampolle e fossili, veleni appena inventati e piante mai viste prima, dà l’idea dell’efferve- scenza dei tempi a livello scientifico, e del dinamismo della reggia fiorentina. Anche l’hortus simplicium è un ingranaggio nel disegno ducale di sviluppo del polo sanitario della città, incentrato sul po- tenziamento degli spedali, il perfezionamento della produzione di farmaci, la formazione di professionisti in grado di risponde- re alle nuove sfide. «Vogliamo che i medici siano medici, e non ciabattini» scrive il duca in una lettera d’encomio all’iniziativa di Santa Maria Nuova che, per permettere di scendere in corsia a chi viene da fuori città, sottopone gli aspiranti dottori a un corso di perfezionamento di tre anni, con tanto di esame finale. Non è più tempo di magie: (anche) nel Giardino dei Semplici di Cosimo i la scienza medica si è messa in cammino.

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Le aiuole diventano banchi scolastici, frazionate come in paradiso

Siamo nella zona nord di Firenze, non lontano dalla torre del Ma- glio e dal nuovo acquedotto: è ancora a firma di Cosimo la prima rete di rifornimento idrico della città, opera di grande innovazio- ne, che forse non aumenta granché la disponibilità d’acqua per i fiorentini, ma incide senz’altro sulla magnificenza delle fontane. E proprio la presenza di risorse idriche determina la scelta del sito per il nuovo Orto botanico, alla cui ideazione il duca chiama l’architetto del momento, Niccolò di Raffaello dei Pericoli, detto il Tribolo. Il ragazzo che a scuola «era un diavolo che sempre tribolava e travagliava gli altri» (Vasari) si è conquistato fama di architet- tore progettando gli spazi verdi delle ville medicee di Castello, della Petraia, di Poggio a Caiano (e Boboli seguirà fra poco). Per i due ettari del Giardino dei Semplici, il Tribolo parte come sempre dall’hortus simbolo del paradiso, microcosmo chiuso e delimita- to, sempre in fiore. Un “dentro” di equilibrio e bellezza separato dal macrocosmo che sta “fuori”, regno del divenire umano, della sua finitezza e disordine. La forma quadrata riflette i quattro an- goli dell’universo. Al centro una grande vasca ottagonale, fonte di sapienza, accoglie una piccola isola della stessa forma, su cui svetta la fontana, punto di arrivo dell’acqua del Mugnone. Otto lati non a caso: l’ottagono è simbolo di resurrezione, evoca la vita eterna raggiunta immergendo il neofita nelle fonti battesimali. Il numero otto è anche il numero dell’equilibrio cosmico, delle quattro direzioni cardinali unite alle quattro intermedie. E otto sono i viali che frazionano il quadrato del giardino: ai principali – quattro come i fiumi del paradiso – si aggiungono quelli in par- tenza dagli angoli dell’orto, tracciandone le diagonali. Insomma, una scuola di piante disegnata come un inno alla resurrezione, in piena continuità con la tradizione del fonte battesimale cittadino, il Battistero. Anche se l’Orto fiorentino non arriva mai a rivaleggiare con Pisa (la cui università lo stesso Cosimo ha voluto privilegiare ri- spetto a Firenze), si riempie comunque di piante rare: i «gelso- mini pellegrini», gli «aranci della China», l’«hibiscus syriacus», l’«agave americana» fanno la gioia di Francesco i, successore di Cosimo. Ma se il nuovo granduca segue la strada tracciata dal pa-

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dre per passione personale, le cose cambiano con i prìncipi suc- cessivi, da Ferdinando in poi: l’interesse decresce, i governanti talvolta dimenticano di nominare i nuovi prefetti (direttori), la- sciando semplici giardinieri a prendersi cura delle aiuole. A volte non fanno neanche quello, e molte piante scompaiono. C’è chi ci mette del suo, come il cardinale Giovan Carlo dei Medici, che sceglie l’Orto botanico per organizzare feste notturne e concerti all’aperto. Le funzioni didattiche progressivamente si riducono, gli studenti diminuiscono, anche per mancanza d’aggiornamen- to dei “testi scolastici”. Alla fine del Seicento la struttura sembra avviata alla rovina. E proprio in questo momento arriva un per- sonaggio d’eccezione. È Pier Antonio Micheli, il fondatore della Società Botanica Fiorentina, poi Italiana: la prima in Europa.

La dignità delle piante nel lavoro del super botanico

Scienziato appassionato, infaticabile raccoglitore di piante, è pro- prio a Pisa che Micheli muove i primi passi, come professore e vicedirettore dell’hortus simplicium. Quando nel 1716 decide di fondare la prima Società Botanica, Firenze si affretta a offrirgli ospitalità, promuovendolo responsabile del Giardino dei Sem- plici, che il ricercatore manterrà e amplierà grazie a molteplici viaggi. È lui il primo a studiare le piante per quello che sono, e non per gli usi che se ne possono fare in medicina, veterinaria o cosmetica. È Micheli a staccare definitivamente la botanica dalla professione medica, facendone disciplina a sé stante, con dignità di scienza propria. Il Giardino dei Semplici rifiorisce. In vent’anni di attività, lo scienziato allestisce un vastissimo archivio di dati, osservazioni ed esperimenti, in cui figurano ben 19.000 piante. Le sue analisi spaziano dalla micologia alla biodiversità agricola: nei manoscritti sono identificate ben 90 specie di fichi, 37 di noci, 232 di peri, 187 di viti, oltre a 100 varietà di agrumi... centinaia e centinaia di tipi diversi di piante fruttifere, oggi in gran parte scomparsi. Grazie all’azione di Micheli, l’Orto fiorentino diventa centro di studio di fama internazionale: è il momento di maggior presti- gio per le aiuole volute come banchi scolastici da Cosimo i. Esce l’opera più celebre del botanico, la Nova plantarum genera, dove lo studioso contribuisce a fare luce sulla riproduzione delle pian-

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te prive di organi visibili: è il primo a dimostrare che i funghi si riproducono a mezzo di spore. Ma poi non c’è più tempo di far niente. Pier Antonio Micheli muore di una pleurite presa durante un viaggio di ricerca, lasciando incompiute gran parte delle ope- re. È il 1737, proprio l’anno in cui scompare anche Gian Gastone de Medici, principe con cui la casata di mercanti nata in Mugello chiude trecento anni di regno. Sia Firenze che l’hortus simplicium rimangono orfani nello stesso momento: con il rischio di svendita al miglior offerente.

Con l’Accademia dei Georgofili subentra la cultura dei terreni

Per Firenze è Vienna a offrire di più, e i dadi della storia rotolano verso l’Impero. Dopo il salvifico passaggio dell’ultima discenden- te dei Medici, Anna Maria Luisa – capace di preservare il futuro della città legando a essa tutte le opere di famiglia – si apre il re- gno della dinastia straniera, gli Asburgo-Lorena. Per il Giardino, invece, il pericolo di trasformarsi in parco giochi è scongiurato dall’intervento della neonata Accademia dei Georgofili, che però elimina la botanica, facendone un Orto agra- rio sperimentale. Quando l’istituzione lo prende in mano, l’hortus simplicium è ancora molto attivo nel campo della fitoterapia: ma un po’ per rispondere gli obiettivi di ricerca in campo agricolo dei Geor- gofili, un po’ in omaggio al nuovo corso della “politica del fare” di Pietro Leopoldo (simile in questo al vecchio duca Cosimo), la cultura dei terreni subentra a quella delle piante. O per lo meno ci prova. La Società Botanica lascia così le chiavi ai Geor­ gofili e «alle loro pratiche utili all’avanzamento dell’agricoltu- ra». D’altronde è il momento storico a chiederlo. La crisi della mezzadria impone all’agricoltura toscana di evolversi. Esculapio deve fare posto a Cerere, che reclama una radicale revisione de- gli spazi: il disegno di Tribolo è cancellato, l’Orto agrario viene diviso in sedici «spartimenti». Ma se gli alberi ad alto fusto sono sacrificati in nome del riformismo leopoldino, le piante offici- nali rimangono, pur confinate in certi settori. E gli studenti di medicina di Santa Maria Nuova continuano a far lezione come prima. Sebbene correlate, le due anime di Botanica e Agraria

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non riescono a convivere a lungo. Da una parte il Giardino dei Semplici esiste nei fatti, se non nel nome, forte di una reputazio- ne vecchia di secoli. Dall’altra, ingabbiato in una perenne crisi d’identità, l’Orto agrario sperimentale languisce. Nel 1847, in una sorta di controrivoluzione, i Georgofili lasciano, per cercare spazi più consoni, più grandi, più ricchi d’acqua, più lontani dal “pubblico passaggio”. Più “campi”, insomma. E quello che nei fatti non aveva mai smesso di essere un istituto botanico, lo ridi- venta, ritrovando il proprio nome. Parentesi chiusa, con qualche albero in meno e un po’ di storia in più. Che così procede, fra alti e bassi, con un Giardino sempre in bilico, aggrappato alla testardaggine di qualche direttore più lungimirante, o qualche giardiniere più appassionato. Ma sempre e comunque ignorato dalla massa dei cittadini, finché si arriva al Novecento. Quando le cose si complicano. Al passaggio del secondo fronte mondiale il Giardino è con- vertito in cimitero: per anni centinaia di fiorentini trovano l’e- stremo riposo fra piante esotiche o medicinali, come dimostrano le foto storiche testimoni della triste riesumazione delle salme, nel 1955. Arriva poi l’alluvione del 1966, che lo sfiora, ma gli ri- sparmia il bitume. Non manca la grande gelata, quella del 1985, che lo ferisce duramente, ma non lo uccide. Città e giardino vivo- no gli stessi drammi, curano le stesse cicatrici. Resistono a tutto. Finché è la volta del ciclone. È il settembre 2014 e i plurisecolari “semplici” affrontano l’evento più catastrofico in cinquecento anni di vita.

Poi arriva un tornado tropicale. E spazza via tutto

È una cosa mai vista prima a Firenze: una tromba d’aria. Parte da piazza San Marco, s’infila su per via La Pira, e quando arriva all’altezza dell’Orto, taglia in tralice, buttando giù tutto quello che trova. Piante secolari di centinaia di chili vengono alzate di peso e scaraventate a terra, oppure troncate a metà come fuscelli. Quando i soccorsi arrivano, lo spettacolo è devastante: tetti sco- perchiati, serre distrutte. Metà del patrimonio arboreo è perduta, oltre un milione di euro i danni solo alle piante. Quei dieci minuti di vento vorticoso, grandine e pioggia hanno raso al suolo cinque- cento anni di vita: per il Giardino sembra la conclusione di un

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cammino pluricentenario di successi, cadute, sconfitte, riprese. Un tifone ha fatto quello che neppure la guerra aveva osato fare. E invece – come solo talvolta succede – nella fine è l’inizio. Nel momento in cui l’Orto viene annientato, la città lo riscopre. Tutti si rimboccano le maniche: gli enti pubblici non esitano a fare la propria parte (il giardino è una sezione del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze), mentre una gara di solida- rietà si innesca fra i cittadini, felici di contribuire alla rinascita dell’antica struttura. Che si lecca le ferite facendo la conta delle piante monumentali sopravvissute solo perché posizionate in una zona meno centrale del perimetro: ce l’ha fatta il Taxus Baccata, la più vecchia, una conifera piantata nel 1720 dallo stesso Miche- li; vivono ancora una quercia da sughero del 1810 e due enormi Zelkowe (Caucaso e Giappone) sempre dei primi dell’Ottocento. Il resto non c’è più. Dover ripartire da zero ha i suoi vantaggi. L’Orto viene ri- pensato, e con un occhio anche all’estetica si apre ad accogliere cinquecento piante a fiore, cosa mai successa in passato. Le col- lezioni storiche sono ripopolate, a cominciare dalle carnivore e dalle piante giapponesi, mentre palme e ortensie gareggiano con le felci. Anche stavolta il Giardino si alza in piedi. Fedele alla missio- ne di sempre: la didattica, l’insegnamento, la ricerca. Oggi l’ è un centro di cultura a tutto tondo. Dai bam- bini degli asili nidi agli universitari, gli studenti di ogni ordine e grado imparano fra le sue braccia come si muove la vita nel mondo vegetale. Oggi gli scienziati continuano a inseguire nelle piante una soluzione ai mali del vivere, estraendo antiossidanti dalla pianta del Goji, o producendo taxolo (usato contro il tumo- re al seno) dal Taxus. Sulle palme si è da poco realizzata un’intesa fra l’Università di Firenze e un centro specializzato di Sanremo: obiettivo, scoprire specie resistenti al punteruolo rosso, l’insetto killer che ha già devastato i lungomare italiani dalla Liguria in giù, spogliando piazze e strade delle loro spettinate acconciature e cambiando completamente il paesaggio. E ancora, l’Orto bota- nico continua a essere asilo per piante a rischio di estinzione. Pochi anni fa, accanto a un mulino abbandonato, è stata ca- sualmente ritrovata la piccola Iris Fiorentina, millenaria matrice del simbolo cittadino. La davano per scomparsa, invece è viva, e ades- so al riparo fra le antiche mura disegnate da Cosimo i per portare

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Firenze nel futuro. Quanto possa durare il viaggio, difficile dir- lo. Cinquant’anni fa, quando l’inverno era inverno, solo la metà delle palme portate in via La Pira sopravviveva all’acclimatazione. Oggi non ne muore nessuna. D’altronde, se un tornado tropicale può colpire Santa Maria del Fiore, il cambiamento climatico è de- cisamente passato dalle parole ai fatti.

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Poggio Imperiale Una villa modellata dai sogni

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 191 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 192 10/05/21 14:51 È la prima scuola europea per fanciulle di rango; si è conquistata la prote- zione del mondo come patrimonio dell’Umanità. Ma è e rimarrà la “villa delle principesse”, capriccio creativo nelle mani di un drappello di nobil- donne che a turno la modellano, la farciscono, ne fanno un cenacolo per intellettuali o uno scrigno d’arte. Oppure vi si rifugiano per sfuggire a un matrimonio finito. Un luogo accarezzato da regnanti di ogni tempo, ma anche palco da cui uno Stato moderno abolisce per la prima volta al mon- do la pena di morte. Dimora in cui il primo re d’Italia Vittorio Emanuele rischia di morire in culla per un incendio. Una scatola di sogni, cui ogni epoca aggiunge un pezzo, in un vortice di storie, vite, grandi illusioni.

Un atto d’imperio

È la casa del cugino, ma quando si tratta del potere i Medici non conoscono parentele: con un atto d’imperio bello e buono, Cosi- mo i s’impossessa di Villa Baroncelli, splendida dimora signorile situata sulla collina di Arcetri, all’esterno delle antiche mura della città. L’abitazione appartiene ad Alessandro Salviati, figlio di Pie- ro: parenti stretti dei Medici, visto che Piero è fratello maggiore di Maria, la madre del duca. Ma i tempi della Repubblica non sono così lontani, a Firen- ze c’è ancora (ci sarà sempre) chi pensa che quella famiglia stia usurpando un potere non suo. Alessandro Salviati è un nostalgico delle antiche istituzioni, non nasconde di guardare con sospetto a quel cugino ormai stabilmente a capo di Firenze, senza alcun contrappeso, o controllo. E Cosimo non può tollerare nessuna ombra intorno a sé: sempre spietato con oppositori e dissidenti, deve dare un segnale forte, a maggior ragione se si tratta di un familiare. E poi, quella villa è davvero appetitosa, in una posizione magnifica, proprio a ridosso di Boboli. Così il duca risparmia la

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vita di Alessandro ma sottrae alla famiglia dello zio quell’edificio a corte fortificata, con cinta muraria, torri, fattorie. E lo regala alla figlia prediletta, Isabella. È il 1565, e per Villa Baroncelli inizia la stagione medicea.

Isabella: il circolo culturale della principessa assassinata

La figlia amatissima del duca di Toscana è la prima di una lunga serie di nobildonne a battezzare la villa del Poggio come predi- letta. Isabella è la più colta, estroversa, appassionata fra le prin- cipesse medicee: nessuna – neppure quelle che regneranno in Francia – riuscirà a eguagliarne il carattere brillante, l’energia, gli interessi. A cinque anni Isabella già studia greco, a nove compone versi latini «più lunghi di una bibbia». A undici viene promessa in sposa a Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano, per rinsaldare con un terzo anello l’antico vincolo fra le due famiglie. Dopo Lo- renzo il Magnifico e Clarice, dopo il loro figlio Piero e Alfonsina, con Paolo Giordano per l’ultima volta i Medici si legano al poten- te clan romano degli Orsini. Sarà un pessimo affare per la dinastia del Magnifico, ma soprattutto per lei, Isabella. È un matrimonio combinato male: lui è un gran giocatore, i cronisti lo descrivono cinico, rozzo, affogato di debiti, pieno di donne e di costose passioni. Lei invece è sensibile e vivace, scrive poesie. Non può funzionare, e dopo neppure un anno dalle nozze Cosimo interviene per chiedere a Orsini di mettere la testa a po- sto: «Voi siete una nave nel mare agitata dai venti – scrive il duca in una delle numerose lettere – andate di qua e di là senza alcun governo, o timone, e il mio timore è che possiate incappare in qualche scoglio e mandare tutto a pezzi [...]. Ora che capisco che state andando alla rovina, son forzato a dire il vero». Ma Orsini non ci sente, continua a spendere senza ritegno, a circondarsi di loschi personaggi, e per meglio vivere i propri vizi torna a Roma. Isabella tentenna, dovrebbe seguire il marito, invece resta a Firenze. In famiglia è molto vicina a Giovanni, fratello minore e suo punto di riferimento: ma il ragazzo muore a diciannove anni, nel 1562, a poca distanza dall’altro fratello Garcia, e seguito dalla madre Eleonora. Una triplice tragedia, uno choc per Cosimo e per tutta la casata. La giovane rimane l’unica donna di casa, le

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vengono affidati i fratelli più piccoli, e alla sua spalla vigorosa si appoggia il vecchio duca, che aveva già perso le figlie Bia e Maria, e che le si attacca visceralmente. Cosimo fa in modo che Isabella non debba allontanarsi da Firenze, le assegna una rendita, e le dona Villa Baroncelli perché l’addobbi e la ristrutturi a suo pia- cere. Così, mentre il marito Paolo Giordano resta a Roma – da dove continua a dilapidare il patrimonio mediceo – la principes- sa decide di trasformare quella corte fortificata in una residenza regale, e la riorganizza, decorandola di pitture e arredi preziosi, arricchendola di statue e quadri. Di questa stagione rimangono un Adone morente e un gruppo con Bacco e un satiro, commissionati a Vincenzo de’ Rossi e ospitati oggi al Bargello e nel Giardino di Boboli. Ci resta anche una Venere di marmo, opera di Vincenzo Danti, conservata a Casa Buonarro- ti. Ma, soprattutto, perdura la consapevolezza di come da questi salotti la degna erede di Lorenzo il Magnifico animi l’ultimo gran- de circolo culturale mediceo, che in piena Controriforma si nutre di autori proibiti, da Boccaccio ad Ariosto, passando per Erasmo da Rotterdam. Isabella protegge la cultura, finanzia gli artisti. At- torno a lei si muove il mondo degli intellettuali cittadini. Qui, nelle stanze del Poggio, si fa teatro, si studia Aristotele e la sua poe­tica, si parla degli amori di Orlando per Angelica, si va a cerca- re il senno sulla Luna. Nel momento in cui ancor più di sempre il dogma cattolico filtra il pensiero, a Villa Baroncelli prende forma un mondo mitologico-fantastico al centro del quale c’è l’uomo in tutte le esaltanti capacità che l’immaginazione può schiudergli. Isabella gira per le strade in un cocchio tirato da quattro ca- valli bianchi, sempre pieno di amici. La sua fame di vita non le impedisce di dedicarsi anche ai figli: ne partorisce tre, una muo- re molto piccola, le restano Eleonora e Virginio. Fa amicizia con , amante ufficiale del fratello Francesco, reso duca dall’abdicazione di Cosimo. Ma non riesce proprio a inten- dersi con il neoregnante. La sua compagna di svaghi prediletta è la cugina e cognata Leonora da Toledo, nobildonna spagnola nipote di sua madre, della quale porta il nome ed è il ritratto vivente. A Leonora, spo- sata al fratello Pietro, Isabella scrive lunghe lettere chiamandola «magnifica sorella mia»: le due giovani sono molto unite, vivo- no lunghi periodi insieme a Villa Baroncelli, riempiendo i vuoti creati dall’incuria dei rispettivi coniugi. Leonora ama riamata un

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giovane cavaliere di Santo Stefano, Bernardino Antinori, mentre Isabella predilige fra tutti l’uomo che il marito le ha messo alle costole proprio per sorvegliarla, Troilo Orsini. D’altronde, se il marito la tradisce ormai apertamente (lei si chiama Vittoria Ac- coramboni), se il fratello Francesco presenta a corte l’amante, se anche Pietro è mille volte infedele a Leonora, e lo stesso padre Cosimo coltiva amori senili poco decorosi, perché non può lei lasciarsi andare, e amare il colto e gentile Troilo? Si sente forte, Isabella, si crede nel diritto. Ma il suo sentimento di onnipotenza ha fragili basi. Finché vive il vecchio granduca, questa figlia volitiva e intra- prendente è al riparo. Ma quando Cosimo muore nel 1574, Fran- cesco, finalmente al comando dopo anni di umiliante e contrastata gavetta, decide di rimettere a posto le cose. Il nuovo sovrano è un uomo complicato, pieno di risentimento per il difficile rapporto col padre, la cui approvazione ha invano cercato per tutta la vita. Così, nonostante la sorella gli abbia fatto sponda per accogliere Bianca Cappello a corte, Francesco la ringrazia togliendole subito lo “stipendio” garantito da Cosimo, ed eliminando la rendita che il nonno aveva lasciato ai nipotini. La stessa Villa Baroncelli è a ri- schio, ma poiché è intestata a lei, risulta – per ora – intoccabile. Isa- bella si oppone fermamente al fratello, rivendica i diritti dei figli, ma invano: anche questo giocherà nel suo destino. Al tempo stesso Paolo Giordano Orsini è pressato dall’Accoramboni, e forse co- mincia a pensare che sbarazzarsi della moglie potrebbe convenir- gli, ci vorrebbe però un buon motivo. Che non tarda ad arrivare. È Orazio Pucci a fornirlo, organizzando una congiura contro i fratelli Medici insieme a un Machiavelli, un Ridolfi, un Fresco- baldi e un Martelli. La cospirazione – in cui i nomi di Isabella e Leonora restano impigliati – viene scoperta, e la vendetta è tre- menda: venti congiurati finiscono «appiccati per la gola», i loro beni confiscati. Leonora è travolta dalla rappresaglia del marito. È lei la prima a morire, strangolata a Cafaggiolo. «La notte del 10 lu- glio 1576 morse la signora Leonora di casa Toledo, era di anni 21, bella, graziosa, leggiadra. Aveva due occhi in testa che di bellezza pareggiavano le stelle. Dissesi universalmente per ognuno che fu ammazzata». La giovane spagnola viene strozzata dal marito con un asciugamano: sembra che lotti disperatamente, e che riesca a mordere Pietro a una mano, tanto che lui per settimane dovrà an- darsene in giro fasciato. La salma di Leonora è portata a Firenze e

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tumulata in fretta in San Lorenzo. Francesco mette il sigillo sul de- litto, scrivendo di suo pugno a Filippo ii re di Spagna: «Don Pietro nostro fratello l’ha levata di vita egli stesso, per il tradimento che gli faceva coi suoi portamenti indegni di Gentildonna». E così sia. Dopo la fine di Leonora, Isabella sente il cerchio stringersi, forse vorrebbe chiedere aiuto e protezione a Caterina de Medici, regina di Francia; ma è troppo tardi. Solo sei giorni dopo l’assassi- nio della cugina, anche Isabella viene uccisa, strangolata con una corda nella villa medicea di Cerreto Guidi. Ha tutta l’aria di un omicidio pianificato a tavolino, con l’as- senso del fratello. «La signora Isabella seppellissi in San Lorenzo, la quale parse a chi la vide un mostro, tanto era nera e brutta. Dissesi che era stata avvelenata, ammazzata come la sua predetta parente». Lo straziato marito annuncia alle corti europee che la giovane moglie è morta per un malore mentre si stava lavando i capelli. Ma rassicura tutti: «Ha avuto il tempo di chiedere perdo- no per i propri peccati». Francesco – in una sordida ostentazione di potere – espone il cadavere della sorella pubblicamente: «La salma è tutta nera dal mezzo in su, e dal mezzo in giù bianchissi- ma». Dalla descrizione del corpo, qualcuno avanza l’ipotesi che Isabella non sia stata solo asfissiata, ma anche avvelenata. La perla di Cosimo i non doveva uscire viva da Cerreto Guidi. Scompare così la principessa coraggiosa, la donna che aveva cercato di vivere una vita affrancata dalla tutela del marito, ma aveva potuto farlo solo finché un altro uomo glielo aveva conces- so. L’ambasciatore fiorentino a Vienna scrive al granduca Medici che nessuno là riesce a credere che delle due cugine «una è morta di gocciola, l’altra del solito mal caduco». Un anno dopo, anche Troilo viene ucciso a Parigi su preciso mandato di Francesco. È il killer in persona a inviare una lettera al segretario del granduca, reclamando il compenso: «Quando io mi mossi d’Italia per Parigi, acciò che S.A. havessi l’intento suo, cioè che il signor Troilo Orsini morisse [...] richiedo oggi per me una provvisione perpetua [...] per remunerazione di quanto fatto». Riceverà 300 scudi. Paradossalmente l’amata Villa Baroncelli viene passata pro- prio a lui, a Paolo Giordano Orsini, che vi si trasferisce armi, ba- gagli e amanti. Salvo poi scrivere subito a Francesco lamentando i debiti, e chiedendo soccorso. Bianca si prende la biancheria di Isabella, e i figli. Nella vil- la sul Poggio le cortigiane rimpiazzano gli intellettuali. Gli Orsi-

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ni si installano così radicalmente che quando i Medici vorranno tornare in possesso della dimora, dovranno ricomprarla: succede nel 1622, per 25.000 ducati. L’acquirente è la neogranduchessa, moglie di Cosimo ii, venuta dall’Austria per rimettere in gioco Vienna là dove Parigi pensava di signoreggiare. Ed è con lei, con Maria Maddalena, che il Poggio diventa “Imperiale”.

Maria Maddalena: la sede del governo ombra della duchessa moglie

Sorella e nipote di imperatori, la giovane Asburgo entra a Firenze da straniera, e tale rimane, un po’ come tutte le spose “importa- te”, un po’ per il carattere – dicono – non proprio gioviale. Maria Maddalena si installa a . Robusta, di buona forchetta, amante della caccia, si porta da Vienna una corte personale e una contraddizione: cresciuta nel fervore controriformista, quando si tratta dei figli sceglie precettori cosmopoliti e di grande spessore come . Il suo matrimonio con Cosimo (ii) tutto sommato è felice, non si conoscono contrasti. Lei partorisce cinque maschi e tre fem- mine in tempi rapidissimi, lui – molto debole di salute – dopo la nascita del secondo figlio la affianca alle decisioni di governo. Di ciò quasi si rammarica la granduchessa madre, Cristina, che scrive all’ambasciatore toscano a Madrid: «Noi non havemmo dal nostro marito il governo della Casa se non dopo haver partorito quattro figlioli, et nelle Consulte non intervenimmo se non quando have- vamo tutti li maschi». Insomma, avere figli (maschi) garantisce la sopravvivenza del casato, e dà diritto alla madre a un posto nel governo, che prepari la donna a un’eventuale reggenza. Ecco il destino di queste prin- cipesse, escluse come figlie dall’eredità del trono, ma destinate a raggiungerlo come madri o mogli alla scomparsa del legittimo titolare, in attesa che le nuove leve si facciano strada. È quanto succede in Toscana praticamente per tutto il Seicento, con conse- guenze anche nefaste quando le “reggenti” diventano due. Maria Maddalena è scelta come moglie di Cosimo dal gran- duca Ferdinando i, che attraverso di lei guarda a Vienna e all’Im- pero asburgico per bilanciare l’influenza francese portata a Fi- renze dalla moglie, la granduchessa Cristina di Lorena. Quando

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Ferdinando scompare, seguito dal figlio, sono praticamente le due principesse a regnare su Firenze. In questo dualismo tinto di rivalità fra Francia e Impero, la città si trova impelagata. Sono due mondi diversi, due modi di vedere le cose, due entità che si fronteggiano chiedendo supporto militare o impegno politico. Due donne che si contendono l’influenza nell’educazione di figli e nipoti, destinati a loro volta a sedere sul trono. Quando nel 1621 Cosimo (ii) muore, la moglie Maria Mad- dalena è nominata tutrice del primogenito ed erede Ferdinan- do (ii), e affiancata dalla suocera Cristina. Si forma un consiglio di reggenza di sei persone, perennemente diviso in due fazioni guidate delle rispettive granduchesse. È forse per questo che Ma- ria Maddalena decide di lasciare Pitti e trasferirsi al Poggio: ha bisogno di un luogo tutto per sé da cui “regnare”. Un luogo po- litico, per lei che è granduchessa, vedova di granduca, madre del successore al trono, e sorella dell’imperatore. Ma con una suocera decisa a non mollare. Lungi da essere il malinconico ritiro di una vedova, Villa Ba- roncelli diventa Villa Imperiale di nome e di fatto. Alle stanze in cui Isabella leggeva Ariosto, la reggente chiede la legittimazione del proprio governo; ne fa le stanze del potere. E per rispecchiare tali intenti, quando la tenuta passa nelle sue mani – e in quelle dell’architetto Giulio Parigi – la trasformazione è radicale: il cor- po della villa raddoppia, la facciata è completamente ristrutturata, si aggiungono nuovi terreni, poderi, boschi. Dall’Archivio di Stato di Firenze conosciamo le entrate e le uscite di denaro per la vendi- ta di prodotti agricoli, la gestione del bestiame, la manutenzione delle case coloniche della “bandita” di Poggio Imperiale. Sotto Maria Maddalena i terreni si estendono fino alla Por- ta di San Pier Gattolini (attuale Porta Romana), costeggiano via Senese (antica via Romana), e arrivano al Giardino di Boboli. Sono sedici poderi con vigneti, oliveti e agrumi, dotati di un vero impianto idrico alimentato da cinque sorgenti. È la Fattoria del Poggio Imperiale, riserva di prodotti agricoli, ma anche vera e propria estensione della corte medicea, terreno di caccia e pesca, cavalcate e spettacoli teatrali. Giulio Parigi coglie in pieno l’essen- za della trasformazione: una balaustra ornata di statue abbraccia il piazzale davanti alla villa, e si slancia in un maestoso viale fino a Porta Romana. Quanto a magnificenza, il palazzo non è da meno di Pitti.

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Ma è nel progetto iconografico per le decorazioni degli in- terni che le intenzioni di Maria Maddalena si fanno più chiare. Al piano terra, nelle sale destinate agli incontri pubblici, c’è la glorificazione della casata asburgica: i muri raccontano le gesta dell’antenato Rodolfo i, degli imperatori Massimiliano i e Car- lo v, e del fratello, Ferdinando ii. È l’esaltazione delle origini del- la reggente, la ratifica del suo ruolo politico in Toscana. Ma per riaffermare la legittimità del potere femminile, bisogna attingere a esempi autorevoli dal passato. In un’altra sala, a dare manforte alla granduchessa arrivano le eroine bibliche – Giuditta e Susan- na, Ester e Rebecca – e in camera da letto ecco le martiri cristiane, Cecilia, Barbara, Agnese. Tutte donne straordinarie, esempi di va- lori simbolici, di fede certa e vita irreprensibile. Ed ecco la sala delle udienze, dove si ricevono gli ospiti in compagnia di regine e imperatrici, da Galla Placidia a Caterina d’Alessandria, da Matilde di Canossa a Isabella di Castiglia. Anco- ra una volta tutte donne, superbe protagoniste del proprio tem- po, esperte nella gestione dello Stato, paladine di fede cristiana. Mai viste tante rappresentanti femminili offrire lezioni di vita e di governo tutte insieme, in un unico luogo. Un vero manifesto fem- minista ante litteram, da cui Maria Maddalena trae forza politica, incoraggiamento, avallo. Un ciclo pittorico destinato a celebra- re l’alter ego figurativo della granduchessa, il cui operato in realtà lascia dei dubbi, anche se come sempre la Storia – scritta al ma- schile – non è mai indulgente con le donne che osano esprimere ambizioni di governo. Si sa per certo che nel periodo della reggenza aumentano in modo esponenziale gli enti religiosi e i rappresentanti del clero, con relativi appannaggi. Impressionante la quantità di reliquie di cui Maria Maddalena fa incetta. Crescono anche le spese di rappresentanza, insieme al disinteresse della famiglia granducale verso le attività mercantili e imprenditoriali, le stesse che aveva- no fatto la grandezza di Firenze e della casata Medici. Rivelatore dell’etica di vita della granduchessa, il memorandum inviato nel 1629 al figlio Mattias, in procinto di insediarsi come governatore di Siena: dovrà evitare di giocare a carte «per non rischiare di perdere»; essere assiduo nelle cerimonie religiose, «soprattutto a quelle con più affluenza di pubblico»; e accompagnarsi esclusiva- mente con «persone che risplendano per la nobiltà del sangue». E per il resto, tanti auguri a Siena.

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Vittoria: il rifugio della principessa tradita

Insieme a Maria Maddalena cresce Vittoria Della Rovere, una bim- betta a lei affidata perché promessa sposa di suo figlio Ferdinando. L’impegno è preso quando la piccola ha diciotto mesi circa, Ferdinando tredici anni. Le nozze saranno celebrate undici anni più tardi, ed è sicuramente uno dei matrimoni peggio riusciti del- la lunga storia medicea. Tanto da costringere Vittoria a scappare da Palazzo Pitti per rifugiarsi al Poggio Imperiale. Nelle stanze in cui Isabella ospitava poeti e Maria Maddalena riceveva ambascia- tori, si fa adesso posto una principessa triste in preda allo sconfor- to: la sua storia non ha molto a cui aggrapparsi, scritta da altri, da lei a malapena vissuta. La madre di Vittoria è Claudia dei Medici, figlia di Ferdinan- do i e Cristina di Lorena, dunque sorella di Cosimo ii. Mandata a Urbino a sposare Federico Ubaldo Della Rovere, Claudia rima- ne presto vedova, con in braccio l’unica erede femmina. Poiché donna, la bambina non ha alcun diritto sul Ducato, oggetto di pericolose attenzioni da parte del papa. Una volta morto il duca, madre e figlia fanno velocemente ritorno a Firenze, mettendosi sotto l’ala protettrice dei parenti Medici. A questo punto le reggenti di Toscana sfoderano una pensata politica: se Vittoria sposa il cugino Ferdinando, potrà legittima- mente rivendicare il titolo e il Regno di Urbino, e tutto il potere mediceo sarà dietro di lei per farne valere la richiesta. Potrebbe trattarsi di una bella estensione di territorio (e influenza) per la corte toscana. Claudia accetta la proposta in nome della figlia, che naturalmente non viene consultata, e non perché abbia solo un anno. Poi lascia la bambina nelle mani della zia (Maria Mad- dalena) e della nonna (Cristina di Lorena), e se ne va in Tirolo a cominciare una nuova vita. Ma le trame medicee non vanno a buon fine. Nulla può Fi- renze contro le ambizioni del Papato, il Regno torna fra i territori della Chiesa, niente Ducato per Vittoria, ricompensata con i beni personali del nonno, le statue e i mobili, i bronzi e i gioielli. Ci vo- gliono settanta carri per trasportare in città il prezioso tesoro un tempo esposto nella reggia di Urbino, a cominciare dai quadri di Piero della Francesca, Bronzino, Raffaello e Tiziano. Il tutto con- fluisce nelle collezioni medicee: la Galleria Palatina non sarebbe oggi ciò che è senza l’eredità Della Rovere. Ma deve sembrare

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una magra consolazione a una bimba abbandonata dalla madre a corte, che cresce immersa nel bigottismo più ottuso, fra preghiere e litanie, in un clima di veleni e rivalità fra le granduchesse affi- datarie. «Dos in candore», la mia dote consiste nel candore: questo è il motto con cui Vittoria si presenta all’appuntamento con le noz- ze medicee. La rivendicazione di una purezza spirituale grande- mente proclamata, ma poco praticata nella Toscana dell’epoca. Dopo la nascita dell’erede Cosimo (iii), l’unione con Ferdinando vacilla, in modo improvviso, quasi brutale: si dice a causa di una infedeltà che ha colpito Vittoria nel profondo. Entrando un gior- no senza preavviso nelle stanze del granduca, la granduchessa lo sorprende in atteggiamento intimo con un paggio di corte, Bruto della Molara, romano. Un giovane che per molti anni mantiene il posto di favorito di Ferdinando. Per una creatura cresciuta a pane e laudi, è uno choc. Vittoria interrompe i rapporti col marito, la- scia improvvisamente Palazzo Pitti e si rifugia a Poggio Imperia- le. Al suo arrivo, la sala delle udienze cambia posto, collocandosi nell’odierno refettorio, là dove oggi centinaia di convittrici dell’E- ducandato pasteggiano ignare delle suppliche che un tempo qui cercavano ascolto. Dell’ultima discendente dei duchi d’Urbino, al Poggio si ricordano le statue, i dipinti, gli stupefacenti lampadari con cui arricchisce il salone delle feste. Nella villa trova (momentaneo) alloggio la preziosa collezione in arrivo dalle Marche. Per farle posto, un nuovo corpo di fabbrica viene ad aggiungersi alla strut- tura originaria, come se dedicarsi alle ristrutturazioni e al rinnovo degli spazi potesse in qualche modo lenire l’orgoglio ferito della sovrana. Di Vittoria Della Rovere si ricordano lo sfoggio di eleganza, la passione per la musica. L’aumento di peso per la depressione: sembra che a un certo punto superi i cento chili. A diciotto anni di distanza dal primo, ha un altro figlio, Francesco Maria: è forse un riavvicinamento al granduca, ma ci pensa un ictus a definire le cose, lasciando ancora una volta la corona scoperta e il trono in mano all’ennesima reggenza doppia, nutrita dai contrasti fra la granduchessa madre – Vittoria – e la granduchessa moglie – Mar- gherita Luisa d’Orleans – con in mezzo un altro giovane erede, Cosimo iii. In un incessante ballo della Storia impegnata a mette- re di fronte due sovrane aspiranti a un podio inaccessibile.

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Finirà malissimo, con Margherita in fuga da figli, marito, corte e città, rintanata a consumarsi in un lugubre convento di Parigi per quarantasei anni. Finirà malissimo anche per i Medici, estinti nell’affannoso (e inutile) tentativo di darsi una discendenza. Ai pri- mi del Quattrocento, all’inizio di una parabola di potere lunga tre- cento anni, non alzavano la testa dai libri contabili tanto era l’im- pegno verso il futuro. Tre secoli dopo l’ultimo sovrano non riesce neppure a trascinare il corpo piegato dalla sifilide fuori dal letto. Metafora di un governo sempre più chiuso in se stesso, egoista, miope. La disfatta finale della reputazione della stirpe è scongiurata solo dalla lungimiranza di una donna, Anna Maria Luisa. Priva di figli, e interdetta al trono perché femmina, l’ultima dei Medici contratta con gli Asburgo-Lorena il Patto di famiglia: chiede e ot- tiene che, alla sua morte, tutti i tesori della famiglia – i quadri e le statue, le collezioni di gioielli, pietre preziose e miniature – ri- mangano alla città. È lei a salvare la Firenze che oggi conosciamo. È Anna Maria Luisa, dalle sale del Poggio Imperiale, a consegnare ai nuovi sovrani le chiavi di un tesoro che potranno usare, ma non disperdere.

Pietro Leopoldo: l’appartamento in Cina del granduca

Il Settecento spalanca così le porte agli Asburgo-Lorena. Secolo fecondo, quello dei lumi, anche in campo musicale. È in un salon- cino accanto al salone delle feste – nella Villa Imperiale – che il 2 aprile 1770, il quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart tiene il suo primo e unico concerto a Firenze: suona un clavicembalo divenuto inestimabile, e conservato gelosamente, inutile sperare di vederlo. Ed è sempre qui, in un appartamento al piano terra, che il granduca Pietro Leopoldo rivoluziona il sistema fiscale del Regno, abolisce le corporazioni medievali, abbozza il primo pro- getto di costituzione (mai approvato). Ma, soprattutto, da queste mura il diritto penale fa un balzo in avanti, consegnando alla firma di Leopoldo, e alla Storia, l’abolizione della tortura e della pena di morte. Pietro Leopoldo è sceso in Toscana nel 1765, insieme alla moglie, Maria Luisa di Borbone. Come luogo di residenza hanno

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subito scelto la Villa del Poggio: il maniero di famiglia tanto ama- to dalle granduchesse medicee è sicuramente più vicino al fasto cui la coppia regale è abituata. E mentre Maria Luisa si impegna a rifare cortili interni e scuderie, Pietro Leopoldo si dedica alla Cina. Come molte altre corti europee, anche i Lorena si sono fatti travolgere dal gusto per l’esotismo. Da Marco Polo in poi il paese di Kublai Khan è vivo nei racconti e nelle fantasie dell’Occidente, memorabili ambascerie diffondono meraviglie sulle architetture, i giardini, i temi decorativi, mentre olandesi e inglesi si contendo- no i mari attraverso le Compagnie delle Indie. Ma solo alla fine del Seicento Pechino apre il porto di Canton alla residenza per gli stranieri. A questo punto, la voglia di collezionare i paraventi, i mobili laccati o i parati di carta diventa una vera e propria mania. Sono i funzionari della Compagnia a farsi tramite degli ordini, che poi ritirano al passaggio successivo e rivendono in patria. Na- sce così anche la Cina illustrata sui muri del Poggio Imperiale: è Pietro Leopoldo in persona a commissionare le carte da parati che dopo due anni arrivano a Livorno per essere consegnate al tappezziere. È il 1783, e un vero e proprio quartiere cinese pren- de vita nell’ala sinistra della villa. Sulle pareti del piano nobile le donne ritratte su carta ozia- no sotto i portici, i bambini si rincorrono in cortile, gli artigiani impastano vasi di porcellana, mentre gli impiegati si affrettano a tornare a casa dove li attende la moglie col ventaglio in mano. È un quartiere ideale, adagiato lungo un corso d’acqua, popolato di case, giardini fioriti e uccelli rari. Si tratta di un villaggio del Settecento e della comoda esistenza che vi si dipana, ivi incluso il racconto dei cicli produttivi di riso e seta, tè e porcellana. Sono quattro stanze e centoquarantanove dipinti in cui i cinesi narrano se stessi alle prese con la vita quotidiana. O meglio, con l’imma- gine che ne hanno gli occidentali, e che i cittadini dell’Impero ben volentieri si adattano a proiettare. Questa bucolica esistenza è raccontata su rotoli di carta eseguiti in laboratorio, sotto la su- pervisione di un pittore. La misura è standard, e il montaggio dif- ficile: è vero che ci sono le istruzioni, ma i tappezzieri occidentali digiuni d’iconografia cinese talvolta accostano fogli non contigui, soprattutto quando si tratta dei cicli produttivi di tè o seta. Sui muri della Villa Imperiale la sequenza non è ben eseguita, ma nessuno sa esattamente in quale tratto. Il risultato comunque è in- dubbio: da quelle pareti ci guarda un ideale mondo meraviglioso.

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Non si tratta solo dell’antica ammirazione per arte e manu- fatti. Attraverso la traduzione dei missionari gesuiti, le opere di Confucio nutrono la visione di un paradiso di saggezza e libertà, un mondo semplice dove i filosofi siedono a corte con gli impera- tori, e dove sovrani e cittadini indossano abiti della stessa fattura. Anche Voltaire condivide l’entusiasmo, ritenendo l’organizzazio- ne dell’Impero «la migliore che il mondo abbia mai visto». Come stupirsi dunque dell’atmosfera rarefatta, dei mandarini in panto- fole che si affacciano da radure boscose sulla vita del granduca nelle stanze del Poggio? È la fotografia di un regno immaginario e perfetto ad animare Leopoldo di Lorena. Deciso a lasciare anche lui – come le nobildonne medicee prima di lui – il proprio sogno dentro questa scatola imperiale che tutti li contiene.

Vittorio Emanuele: quel re bambino (quasi) bruciato vivo nella culla

Con l’Ottocento, nuovo giro di valzer e nuove dame al Poggio, portate stavolta dall’uragano napoleonico che, innestato sulle baio­nette degli eserciti, si avvita in fase finale proprio su una coro- na da imperatore. La prima a sbarcare è la regina d’Etruria Maria Luisa di Borbone, seguita a ruota da Elisa Baciocchi, sorella di Bonaparte. Ed è un nuovo tour di cambiamenti, un susseguirsi di ritocchi, un rinnovarsi di facciate, e di cappelle. A ogni principes- sa un architetto. La sala Bianca – il salone delle feste – non è mai stata più splendente. Ma la vicenda davvero intrigante che i muri della villa po- trebbero narrare è quella che coinvolge il giovanissimo Vittorio Emanuele, futuro re d’Italia. Andato a fuoco nella culla e salvato dal sacrificio della balia. Per raccontarla, però, bisogna fare un passo indietro e parlare del padre Carlo Alberto, non un Savoia qualsiasi, bensì un Carignano, famiglia più francese che italiana, e in odore di simpatie giacobine. Poiché il ramo principale si sta estinguendo per mancanza di eredi, Vittorio Emanuele (i) sceglie come successore proprio Carlo Alberto, sperando che alla discendenza ci pensi lui. E infatti al principe nasce il primo figlio, il piccolo Vittorio Emanuele (ii). La madre è Maria Teresa di Lorena, quintogenita del granduca di Toscana. Ecco perché la coppia si trova nella villa del nonno, in quelle stanze dove Isa-

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bella de Medici faceva poesia, Maria Maddalena riceveva sudditi, Vittoria suonava il pianoforte e Pietro Leopoldo redigeva leggi illuminate. I fatti, secondo il rapporto del caporale dei pompieri Minut- ti, sono semplici. È il 16 settembre 1822. «La sera del sedici stante verso le undici e mezzo, la Baglia di Sua Altezza Imperiale e Reale, il Principe di Carignano, essendo nel suo appartamento, e volen- do con il lume ammazzare le zanzare, gli prese fuoco lo zanzarie- re; ed il vestito che aveva ancora indosso, volendo salvare il Bam- bino che era in letto, accese ancora il medesimo. Alle grida della medesima accorsero delle Cameriste, e altre persone di servizio, e spensero il fuoco, essendo rimasto nel letto mezzo materasso, e la Baglia si dice che stia in pericolo di vita, stante di essersi bruciata sotto. Che è quanto». Insomma, la balia – Teresa Zanotti Racca – si preoccupa di scacciare le zanzare; la zanzariera che protegge la culla prende fuoco, la ragazza si getta fra le fiamme e riesce a salvare il bambino. Ma paga l’atto eroico con la vita. Il problema è che fin dai primi giorni nasce una voce secon- do cui anche il principino sarebbe morto per le ustioni, e Carlo Alberto – essendo quel figlio la condizione necessaria alla succes- sione al trono Savoia – lo avrebbe sostituito con un bimbo della stessa età, figlio di un macellaio fiorentino dei dintorni. La storia non è mai presa in considerazione dalle autorità. Non ci sarà nes- suna inchiesta, o indagine. Anche l’unico libro scritto sull’argo- mento – Un fiorentino sul trono d’Italia di Otello Pagliai – risulta introvabile da sempre. Però la vicenda solleva domande tutt’oggi irrisolte. Per prima cosa, la versione dei fatti. Come ha potuto il bambino uscire praticamente illeso da un materasso bruciato a metà, che costa la vita alla nutrice? Le lettere di Carlo Alberto scritte in quei giorni, non raccontano di preoccupazioni partico- lari: vi si legge di un bimbo che sta guarendo velocemente, e di una signora Zanotti che non sembra in pericolo di vita. Salvo poi morire il 6 ottobre. E ancora. Crescendo, Vittorio Emanuele presenta caratte- ristiche assolutamente diverse da Carlo Alberto, e inedite nella storia di casa Savoia. Il padre è alto, biondo, elegante, un carat- tere taciturno e incerto (il re Tentenna). Il figlio è tozzo, bruno, tarchiato, refrattario agli studi, estroverso e dai modi decisi (il re Galantuomo). Fisicamente e mentalmente sembra un altro dna. Lo storico inglese Denis Mack Smith scrive che non solo Vittorio

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Emanuele non assomiglia al padre, ma che «Carlo Alberto lo trat- ta con poco affetto per tutta la vita, mostrando una palese predi- lezione per il duca di Genova, suo secondogenito». Ci sono poi le parole della madre, Maria Teresa, che rivolgendosi al padre Fer- nando granduca di Toscana afferma: «Non so veramente da dove sia uscito codesto figliolo. Non rassomiglia a nessuno di noi, e si direbbe venuto per farci disperare tutti quanti». Potrebbero in verità anche essere frasi che molte madri si trovano a pronunciare nella vita. Ma assumono una luce diversa se coniugate a un fatto sconcertante: a sostenere che il re non sia figlio di Carlo Alberto è addirittura un suo primo ministro, un uomo politico serio, e molto devoto alla dinastia, Massimo d’A- zeglio. È lui a rivelare all’amico fraterno ed editore Gaspero Bar- bera quelle che sarebbero le vere origini del futuro re d’Italia, e fa anche il nome di Gaetano Tiburzi, il macellaio che si sarebbe inspiegabilmente arricchito dopo la vicenda, arrivando ad aprire improvvisamente un nuovo negozio. Insomma, il mistero rimane. È certo che il primo re d’Italia manifesta per tutta la vita un sin- cero terrore per il fuoco. E nel 1860 – arrivato a Firenze dopo il plebiscito che annette la Toscana al Regno di Sardegna – Vittorio Emanuele torna alla Villa Imperiale per scoprire una lapide nella stanza in cui le fiamme gli hanno lambito la vita, ricordandosi della giovane balia che per lui si è sacrificata.

Edda Ciano: la donna indomabile

Ed eccoci al 1864. Il re Galantuomo ha ormai saldamente la co- rona in testa, l’unione d’Italia – bene o male – è fatta, i pezzi che mancano arriveranno, è solo questione di tempo. In attesa di Roma, la capitale si prepara a lasciare Torino e scendere al centro, più vicina al cuore del paese. La prescelta è Firenze, che per indossare il nuovo incarico esce dalle mura, si ingrandisce, si adorna. In città c’è un disperato bisogno di spazi. Il governo ha adocchiato uno splendido palazzo in via della Scala, vicino a Santa Maria Novella, luogo perfetto per installare il Ministero dei Lavori Pubblici. Ma dove sistemare le attuali occupanti, le fanciulle dell’Educandato della Santissi- ma Annunziata? È un istituto prestigioso, da quarant’anni attivo nell’educazione delle figlie delle principali famiglie italiane.

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A qualcuno viene in mente la Villa del Poggio Imperiale, ab- bandonata dai granduchi al momento dell’annessione al Regno, un po’ polverosa, ma in ottimo stato. Certo, a prima vista non sembra il posto giusto: un ambiente regale e immenso, una teoria di trecento e più stanze, di saloni ricchi di stucchi, opere d’arte, mobili preziosi. In più mancano aule, servizi, lavanderie, dormi- tori, c’è da rifare l’illuminazione, mettere il riscaldamento... No- nostante tutto, si decide di procedere. I lavori sono imponenti, eseguiti in fretta e furia, non senza le polemiche di chi considera meno dispendioso sistemare direttamente il Ministero nella Villa del Poggio, e punta il dito sull’aggravio per le finanze pubbliche del duplice trasloco. Alla fine però il ritorno in termini di imma- gine è evidente: la Villa Imperiale è uno straordinario biglietto da visita per chi aspira a educazione, arte e cultura nella neocapitale. Così le nunziatine diventano poggioline. Il Regno d’Italia cede la villa in gestione perpetua al Collegio della Santissima Annunziata, e da allora, l’ex dimora medicea col- tiva l’aspirazione a educare le nuove donne d’Europa. Nelle sale dei quartieri granducali, schiere di signorine bene si preparano a un futuro da madri di famiglia: imparano a essere «operose e modeste» – come si legge nei documenti dell’epoca – ad accudire alla casa, al giardino, al guardaroba. Ma si dedicano anche a uno studio «disciplinato e severo», perché l’Italia «ha bisogno di menti quadrate e caratteri forti». Il primo dopoguerra e gli sconvolgi- menti socioeconomici che seguono ribaltano le aspettative. Alle fanciulle della buona società non si chiede più (solo) di saper ricamare o suonare il pianoforte, ma di costruirsi una professione, prepararsi ai concorsi, imparare a insegnare. Nell’Educandato en- tra il latino, nasce un Istituto Magistrale, seguito dal Liceo Classi- co. Le generazioni di collegiali si susseguono: qui studiano Maria José del Belgio, poi ultima regina d’Italia, ed Edda Mussolini, ma anche – più recentemente – Dacia Maraini e Ilaria Occhini. Storia singolare quella dell’indomita figlia del capo del governo, Edda, costretta dal padre a iscriversi all’Educandato nel 1925. Fi- gura iperbolica nel trionfo e nella catastrofe, la primogenita del dittatore ha dodici anni quando il padre prende il potere, venti quando va sposa a Galeazzo Ciano, trentaquattro quando rima- ne vedova dopo che il marito è fucilato per volere del führer e con l’acquiescenza del duce, ridotto ormai a semplice gregario di Hitler. Una vita vissuta d’anticipo, quella di Edda, donna dal ca-

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rattere volitivo, dagli innamoramenti precoci, le scelte controver- se: guida la macchina senza patente, mette i pantaloni e il bikini quando ancora nessuno osa farlo. «A quattordici anni fumai la prima sigaretta – dice in un’intervista – ero bravissima anche a correre, a saltare, in tutti gli attrezzi come la fune, la pertica». Una sorta di maschiaccio, cui gli studi liceali al Parini di Milano vanno stretti. Dopo un disonorevole otto in condotta, Mussolini ormai capo del governo decide di intervenire e domare la figlia ribelle, confinandola nell’Educandato per signorine di Poggio Imperiale. Qui Edda vive una vita a parte. Chiusa in sé, schiva nelle amicizie, non nomina mai quel padre potente, non si vanta né mette in mostra. Fosse per lei, forse scomparirebbe. Bravissima in matematica, adora fare ginnastica, ma so- prattutto leggere, lo fa in ogni momento, lo farebbe anche a ri­crea­zione, ma non glielo permettono. L’aneddotica del Col- legio narra che un giorno Mussolini si presenti senza preavviso e fuori orario, chiedendo di poter dare un’occhiata alla Villa. Dopo averlo fatto aspettare, l’algida Maria Patrizi, direttrice non allineata, lo accoglie con fredda deferenza, apre la finestra che dà sul giardino e afferma: «L’ambiente è questo». Niente di più. Il duce capisce, non insiste: ma non tornerà più a chiedere di entrare, limitandosi ad aspettare la figlia fuori in macchina. Cer- to la rigida disciplina dell’Educandato non si addice né al padre né alla ragazza, che dopo un anno ottiene di essere trasferita. «Sono riuscito a sottomettere l’Italia – sembra dica Mussolini – ma non riuscirò mai a sottomettere mia figlia». Per non perdere la faccia, la spedirà prima in Africa, poi in India, a fare pratica del mondo. A lei come alle altre poggioline, la direttrice conti- nua a mandare i giornali della scuola, gli inviti per le feste, per i raduni. Ma non ottiene risposta. Anche Edda scompare, anche questa storia si richiude sui protagonisti, scivolando via, come le altre. Chissà se le convittrici di oggi – aggirandosi fra mensa e dor- mitori – riescono a sentire una qualche connessione con ciò che le circonda. Chissà se pensano mai a quanta vita è passata in que- sta scatola di sogni, ai desideri strangolati di Isabella, le ambizioni di Maria Maddalena, le sigarette proibite di Edda, chissà se riesco- no a immaginare i singhiozzi di Vittoria o le urla frenetiche del piccolo Vittorio Emanuele. Chissà se guardando i lampadari del salone delle feste, gli affreschi di eroine e regine, o i mandarini

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cinesi alle prese col tè, li collocano nel tempo e nello spazio, li riconoscono, se ne sentono custodi. Sono frammenti di una storia grande, che comprende anche loro.

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Casa Vasari Quel testamento sui muri del salotto

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 211 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 212 10/05/21 14:51 Non ha avuto figli (legittimi), ma un messaggio da lasciare al mondo: «Ho superato la natura con la mia arte, non ho ascoltato i tanti invidiosi che mi assediavano lungo il cammino. Ho fatto quello che sapevo fare: non vi resta che farvene una ragione». Eccolo, il testamento di Giorgio Vasari. Dipinto sui muri di casa. Un paio d’anni prima di morire, l’orgoglioso artista si dedica ad affrescare le stanze di casa sua, in borgo Santa Croce, con un lascito spirituale. La strenua difesa della propria opera.

L’architetto che si crede pittore e invece è critico d’arte

Tracciare la biografia di un biografo intimorisce: l’unica soluzione è farsi “sorprendere”. E c’è una cosa che sorprende nella vita di Giorgio Vasari, anzi due. La prima è che questo elegante e altero uomo di corte – capo assoluto di tutti i cantieri artistici di Cosi- mo i – in un momento della vita l’ha vista davvero brutta, ha fatto la fame. La seconda è la crisi d’identità in cui “Giorgino d’Arezzo” si dibatte per tutta la vita: si crede pittore (lo è, ma modesto); è inve- ce un ottimo architetto (e se lo dice Michelangelo, ci si può crede- re); ma diventa famoso come critico d’arte (le sue Vite offrono la prima vera storia della pittura italiana, fonte di canoni qualitativi tutt’ora in circolazione). C’è un terzo punto, anche questo a suo modo sorprendente. Vasari non nasce corifeo di regime, come si è portati a credere dalla monumentale opera a servizio di Cosimo i. Non si lega da giovane alla dinastia medicea, facendone il cardine di ogni attivi- tà. Al contrario. La sua affermazione sulla scena artistica fiorenti- na è lenta, difficile. Ha un percorso a singhiozzi, fatto di perdite, di viaggi e depressioni, di isolamenti e rifiuti. Uno slalom forsen-

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nato, guidato da una strenua ambizione, per non farsi sfuggire la “prossima” opportunità. Che sempre arriva.

Quando il padre muore e le porte si chiudono

Ancora teenager, una vocazione precoce ben sostenuta dalla fami- glia, Giorgino sbarca a Firenze dove trascorre anni felici: lavora a bottega da del Sarto, incrocia Pontormo e Rosso Fiorentino, im- para da Baccio Bandinelli. La “maniera” gli entra nel sangue. Sono gli anni della parentesi medicea all’interno del ciclo dell’ultima Repubblica. La casata è rientrata a palazzo nel 1512, ma nonostante la benedizione su via Larga di papa Leone x (alias Giovanni de Medici), entrambe le nuove leve sui cui la famiglia aveva scommesso scompaiono in pochi anni per brutti mali. Nien- te più gloria terrena per Giuliano di Nemours e Lorenzo duca d’Urbino: i giovani principi possono solo guadagnarsi l’immor- talità per mano di Michelangelo, che comincia a scolpire i due sepolcri in Sacrestia Nuova. Intanto gli occhi della dinastia, sempre a caccia del prossi- mo leader, si volgono verso i rampolli rimasti, gli entrambi illegitti- mi Alessandro e Ippolito. Sono proprio loro a diventare amici di Giorgio Vasari, fortunosamente introdotto nel giro mediceo dal cardinale Silvio Passerini, tutore dei ragazzi. Insomma, per il gio- vanissimo aretino in apprendistato a Firenze le cose vanno bene, l’incrocio magico di ambizione, fortuna e talento sembra funzio- nare. Fino a un doloroso evento che cambia tutto: la morte del padre. Il tracollo finanziario. La fine dei sogni. È il 1527, e mentre i lanzichenecchi di Carlo v travolgono Roma e i fiorentini cacciano i Medici per l’ultima volta, il sedi- cenne Vasari rientra in tutta fretta ad Arezzo per farsi carico di madre e fratelli bambini. La vita è girata in un attimo, chiuden- do tutte quelle belle porte. Sono anni bui, di miseria. Il padre era un piccolo imprenditore tessile, ma il primogenito non ha nessuna competenza per riprendere gli affari di famiglia. Altre cose vanno storte, la situazione economica della famiglia pre- cipita. Giorgio cerca di darsi da fare come sa, riempiendo di immagini sacre tutto l’aretino. Risale la china con accanimento: la fame è un grandissimo incentivo alla tenacia. Studia di not- te, lavorare non lo spaventa: «Istudio, diligentia et amorevole

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fatica» sono le prime parole che userà per descriversi, nell’au- tobiografia. Ogni tanto passa da Firenze, oppure da Roma. Sa che è lì che bisogna cercare per incontrare il futuro. Ed è infatti a Roma che ritrova l’antico amico, il cardinale Ippolito de Medici: una volta leader designato alla guida della famiglia dallo zio papa Leone x, adesso invece scalzato dal mediocre cugino Alessandro, neoduca di Firenze dopo la definitiva caduta della Repubblica.

Una corte sanguinaria e instabile, meglio la fuga

Vasari entra a servizio dello scalpitante Ippolito, che è stato forza- to alla carriera religiosa dall’altro zio papa, Clemente vii (proba- bile padre di Alessandro). Il cardinale non ha alcuna propensione per l’abito: colto, ambizioso, sembra nato per strappare la corona dalla testa del cugino. Oltretutto, proprio come nella tradizione di famiglia, il giovane Medici alimenta attorno a sé una corte di artisti e intellettuali, cui Giorgino volentieri si aggancia. Obiettivo: arrivare in fretta a Firenze, e mettersi a disposizione di Alessan- dro, di cui riesce a organizzare addirittura la cerimonia di matri- monio con Margherita d’Asburgo, figlia dell’imperatore. Per necessità e disposizione d’animo, Vasari sarà sempre alla ricerca del “principe” che gli offra un futuro. Ma la vita non gli sorride neppure questa volta, e il pittore è travolto dal gorgo nero del regolamento di conti interno alla dinastia medicea. Nel giro di due anni lo scomodo Ippolito è tolto di mezzo dal veleno, e l’effe- rato Alessandro dal pugnale di un terzo cugino. Ce n’è abbastanza per disgustare anche il più irriducibile dei cortigiani: furioso e depresso, Vasari abbandona la città, la corte, le sue committenze e i tutti i suoi intrighi. Prima cerca rifugio fra i monaci di Camaldoli. Poi decide di superare la battuta d’arresto mettendosi in viaggio. Da Bologna a Napoli, da Monteoliveto a Rimini, da Arezzo a Roma, una soli- da rete di amicizie gli consente di portare avanti la carriera, fra monasteri e città, mentre un nuovo progetto matura in lui: rac- cogliere materiale sulle vite dei «più eccellenti pittori, scultori e architettori» sparsi per l’Italia, per realizzare non una “galleria” di uomini illustri, bensì il racconto critico di tre secoli di arti visive.

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«[...] Con somma fatica mia, e spesa e disagio, nel cercare minutamente dieci anni tutta la Italia per i costumi, sepolcri et opere di quegli artefici de’ quali ho descritto le Vite, e con tanta difficultà che più volte me ne sarei tolto giù per disperazione, se i fedeli e veri soccorsi de’ buoni amici, a’ quali mi chiamo e chia- merò sempre più che obbligato, non mi avessero fatto buono ani- mo e confortatomi a tirare avanti gagliardamente, con tutti quelli amorevoli aiuti, che per loro si poteva». Dieci anni di viaggi e decorazioni, affreschi e dipinti su tavo- la, con il quaderno degli appunti che continua a crescere. Quando sente il momento di fermarsi, Giorgio sceglie Roma, dove stringe un sodalizio con l’antico maestro Michelangelo, meritandosi la dedica di uno dei suoi sonetti più belli: Giunto è già ’l corso della vita mia. Roma è una città ricca di circoli intellettuali, di corti private piccole e grandi. Sempre alla ricerca di un committente regale, Vasari si mette a servizio del duca Alessandro Farnese, nel cui ce- nacolo si allena da architetto, trovando anche l’ispirazione per passare dal pennello alla penna. Nascono le Vite, inaspettatamen- te dedicate a Cosimo dei Medici e pubblicate da un editore fioren- tino. Che sia un tentativo di far ritorno in riva all’Arno?

Di come finalmente Giorgio diventa architetto di corte

Sono passati sedici anni. Sedici anni da quando ha sbattuto la por- ta in faccia alla corte medicea e alle sue macchinazioni. Sedici anni in cui, lottando controcorrente, l’uomo è diventato l’artista che sognava di essere, e Cosimo il principe che Giorgio aspettava. I due si piacciono, si intendono. Saldo al comando di un Regno pacificato, il Medici ha grandi idee per conferire dignità ducale alla città. Ha solo bisogno di due uomini per realizzarle, il primo che identifichi i simboli, i miti, le allegorie per celebrare il nuovo corso; e l’altro che sappia dare un corpo a un’idea, convertendo le storie in opere. Per le due posi- zioni, Vasari ha pronti due curricula vitae, il proprio naturalmente, e quello di Vincenzo Borghini, erudito sacerdote fiorentino, co- nosciuto ad Arezzo. Banco di prova dell’intesa a tre: i cantieri del vecchio Palaz- zo della Signoria. C’è da progettare e decorare l’enorme sala dei

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Cinquecento, affrescando anche gli appartamenti dove il sovrano si è installato con moglie e figli. Ovviamente il tema è: “Come mostrare al mondo i vantaggi di un Regno potente, ricco e saggia- mente governato”. Lo svolgimento dei due consulenti non delude le aspettative ducali. La sala costruita per celebrare la Repubbli- ca fiorentina diventa il salone dell’apoteosi di Cosimo “Augusto redivivo”, incoronato su quel soffitto che aveva visto Savonarola arringare i fiorentini nel nome di Cristo Re (era di sette metri più basso, ma insomma, è quello). Il restyling va a buon fine. Il duca ha trovato gli uomini giusti cui affidare la consacrazione del potere. Borghini diventa icono- logo ufficiale, nonché priore dello Spedale degli Innocenti; la sua amicizia con Vasari si colora di rivalità, condannati come sono a competere agli occhi di Cosimo. All’aretino è assegnata la casa che chiede da mesi, un bel palazzo in borgo Santa Croce, confiscato dai Medici all’avversa- rio politico Niccolò Spinelli. Quello della casa è un chiodo fisso di Vasari, forse una reazione all’indigenza sperimentata dopo la scomparsa paterna. Fin dai primi tempi a Firenze, l’artista chiede a Cosimo un’abitazione, un posto tranquillo da dove poter me- glio servire le ambizioni del padrone. Inizialmente il duca nic- chia, vuole metterlo alla prova, essere sicuro di potersi servire del suo talento. Ma Vasari non gli dà pace, torna alla carica. E i lavori a Palazzo della Signoria sigillano un sodalizio destinato a durare. Così il duca cede, concedendo all’aretino l’ex dimora Spinelli, prima in comodato, poi di proprietà. Adesso l’artista può dirsi davvero arrivato. Questa bella dimo- ra a tre piani – con tanto di atelier per apprendisti e aiutanti – è il segno tangibile del successo. Nella Firenze del secondo Cinque- cento, pochi nobili possono permettersi un alloggio altrettanto signorile. Da borgo Santa Croce, il maestro-imprenditore può raggiun- gere in fretta i molteplici cantieri cittadini aperti negli anni: la fabbrica degli Uffizi (dove un intero quartiere è buttato giù per far posto alla nuova sede delle Magistrature); la Cappella di San Luca (dove si scatena la disputa fra le arti, e dove alloggia la neo­ nata Accademia del Disegno); le ristrutturazioni e gli altari in San- ta Croce e Santa Maria Novella (aggiunti in omaggio ai dettami della Controriforma); il Corridoio realizzato a tempo di record che porta il suo nome (e che Cosimo chiede per festeggiare il

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matrimonio del figlio, ma in realtà lo vuole per spostarsi da casa a ufficio senza mettere piede in strada); l’affresco sulla cupola del Duomo (è l’ultima opera, solo uno spicchio sarà a mano vasaria- na). E ancora le tele, i dipinti, la seconda versione delle Vite... Casa Vasari è una fucina. Sotto la regia dell’architetto, pittore, scenografo di corte Firen- ze assume il volto della capitale che è. E che ancora oggi viviamo.

Del pittore Zeusi alle prese con le donne di Crotone

Finalmente e felicemente cortigiano, Vasari spende la seconda parte dell’esistenza a lavorare per la gloria dei Medici, concorren- do a costruire quell’immagine di prosperità e progresso decisiva per il Regno toscano. Nel 1572, insieme all’amico-rivale di una vita, Vincenzo Bor- ghini, Giorgio decide che è il momento di affrescare casa. La sua. Insolita questa scelta: ci vive dentro da vent’anni, perché solo adesso? Forse perché anche per lui è momento di bilanci. Ha sessant’anni, forse è stanco di continuare a raccontare le storie degli altri. Sente la vita fuggire, vuole combattere la voracità del tempo con qualcosa che lo riguardi direttamente. Vuole lasciare ai posteri due paroline su di sé. Un’eredità redatta nel codice che meglio conosce, che gli è più congeniale. Così chiede a Borghini di mettere a punto un programma iconografico pari a quelli che per tutta la vita gli sono stati commissionati. In pratica, vuole per- mettersi ciò che il mondo lo ha sempre pagato per fare. I due scelgono Plinio e la sua Naturalis Historia. Obiettivo: esaltare le virtù dell’artista trionfante sulla natura e sull’invidia. Inutile dire che il maestro si sente l’ideale discendente dei due pittori dell’antichità le cui storie – scelte da Borghini – adesso lui si mette a ritrarre. Eccoci dunque nel salone Grande, dove si narra l’episodio più celebre della vita di Zeusi, il migliore pit- tore della Magna Grecia. Per arricchire il tempio di Giunone, racconta Plinio che i cittadini di Crotone fanno venire Zeusi, af- finché dipinga la dea con le fattezze della più bella fra le donne. L’artista chiede quindi come modelle le fanciulle più avvenenti della città; ne sceglie cinque e di ognuna dipinge la parte più pregevole – la mano, il volto, il seno – creando così la bellezza perfetta.

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Sul muro di casa, di fronte al caminetto, Vasari immortala a destra l’arrivo delle ragazze accompagnate dalla nutrice. A sini- stra, in mezzo alle modelle che si spogliano e rivestono, dipinge se stesso come Zeusi al lavoro, intento a scegliere quanto ognuna ha di meglio per comporre la figura ideale. Il messaggio è chiaro: in natura non esiste la bellezza perfetta, solo l’arte può ricostruirla, plasmandola. È un po’ la teoria di Platone, ripresa dalla speculazione rina- scimentale: solo l’artista può fissare il proprio sguardo interiore su un prototipo, un’idea di bellezza che manca alla natura, e che lui invece custodisce in profondo, nello spirito. «La maniera ven- ne poi la più bella da l’avere messo in uso il frequente ritrarre le cose più belle – scrive Vasari nelle Vite – e da quel più bello, o mani o teste o corpi o gambe, agiugnerle insieme, e fare una figura di tutte quelle bellezze che più si poteva, e metterla in uso in ogni opera per tutte le figure, che per questo se dice ella essere bella maniera». In definitiva, la bella maniera nasce quando ogni figura è il risultato della miglior mano, della miglior testa, della miglior gamba possibile; dunque, quando si aggiunge qualcosa che in na- tura non c’è. Sulle pareti del salotto, come Zeusi, Giorgio Vasari celebra se stesso e la propria vittoria sulla materia. In basso a destra nel dipinto, accompagnata dalla nutrice, il pittore raffigura la moglie Niccolosa Bacci, il viso abbassato, quasi vergognosa della prova che è chiamata a sostenere. Davvero singo- lare la storia di questa sposa bambina, andata a nozze a soli undici anni con l’artista trentottenne. Riservatissimo sulla propria vita personale – non altrettanto per quello che riguarda i colleghi – si sa che Vasari corteggia a lungo la sorella maggiore di Niccolosa, Maddalena. Molte fonti indicano che ha con lei addirittura due gemelli, Anton Francesco e Alessandra, nati nel maggio del 1541 e non riconosciuti. Poi però Giorgio finisce per sposare la sorella di Maddalena, e figlia minore della ricca famiglia aretina, scelta caldeggiata addirittura da un cardinale futuro papa (Giulio iii). La coppia rimarrà senza figli. A Firenze Niccolosa viene poco, pre- ferendo vivere nella casa di Arezzo, vicino alla famiglia. Qui in borgo Santa Croce, a gestire tutto è la governante, Isabella Mori: sembra che anche lei dia due figli al maestro, poi affidati allo Spe- dale degli Innocenti. Ma, su questo, il gossip supera le fonti. Ri- mane il fatto che è Niccolosa a essere ritratta in fila per Zeusi sui

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muri della dimora fiorentina. E sarà lei a essere sepolta insieme a Giorgio, nella Pieve di Santa Maria, ad Arezzo.

Del pittore Apelle che mette a tacere il ciabattino criticone

Se la natura è imperfetta ed è l’arte a renderla perfetta, nel se- condo racconto il messaggio lanciato da Vasari al mondo si fa più diretto e personale. Sul muro a destra entrando nel salone, l’artista ritrae la storia del pittore Apelle, che – sempre nel racconto di Plinio – era solito nascondersi in bottega per avere un riscontro diretto e senza filtri sulle sue opere, ascoltando i commenti della gente. Una volta un calzolaio, di fronte al ritratto di una dea, fa notare un errore nella scarpa della divinità. Quella notte stessa Apelle prende la tavo- lozza e corregge il dipinto. La mattina dopo il calzolaio torna, e, orgoglioso della propria influenza sull’artista e del cambiamento indotto nel quadro, si mette a criticare una gamba. A quel punto l’irato pittore salta fuori dal nascondiglio ed esclama: «Ciabattino, non andare oltre la scarpa!». Sulla parete Vasari – novello Apelle – si raffigura nascosto dietro a un quadro, nel momento in cui il ciabattino punta il dito contro un dettaglio a suo parere “sbagliato” nel dipinto. Ovvio il riferimento alle tante critiche che accompagnano la trionfale carriera dell’artista. E chiara la risposta: state al vostro posto, o invidiosi, e occupatevi di ciò che vi compete. Accetto critiche, ma solo da chi è competente per farle. «Molte persone sbeffando e schernendo altrui – scrive Vasari sempre nelle Vite – si pascono di uno ingiusto diletto, che il più delle volte viene loro in danno». Brutta malattia, l’invidia. A maggior ragione in un ambien- te ristretto e poroso come quello artistico. Famose, per esempio, le invettive di Benvenuto Cellini contro la coppia di ferro Vasari- Borghini, che lo scultore vede saldamente in controllo dell’Acca- demia del Disegno: «Mi noia sol de’ Nocenti ’l Priore, / e l’empio botol suo crudel Giorgetto: / par che sol questi Iddio abbia elet- to / per far nel mondo d’ogni sorte errore». Ridotto a «crudel Giorgetto» ed «empio botolo», Vasari è per Cellini solo uno stru- mento nelle mani del priore degli Innocenti. Borghini ricambia chiamandolo «Quel porco di Benvenuto». Quanto a «Giorgetto»,

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si vendica infilando Cellini nelleVite solo all’ultimo tuffo, in un capitolo collettivo e senza alcuna descrizione delle opere. Prati- camente lo fa scomparire, ed è una condanna non da poco se si guarda al futuro. Gente astiosa, questi artisti. D’altronde sono in tanti ad accusare il pittore prediletto del duca di essere troppo ripetitivo, di schivare il pathos. Di non fare gli sforzi necessari a ricercare una qualche originalità. Ma come chiedere a Giorgio Vasari di essere un Michelangelo Buonarroti? Illuminante la scelta di Apelle come simbolo nel ciclo decorativo che è il testamento dell’aretino. Si dice che, per tenersi in eserci- zio, il ritrattista preferito di Alessandro Magno non lasci passare neppure un giorno senza tirare una linea. E l’operosità di Vasari non è forse simbolo di una pratica incessante, continuamente ali- mentata da un nuovo dipinto, una nuova opera, per non perdere la mano? E ancora: Apelle disprezza il perfezionismo. «L’eccesso di diligenza nuoce» dice. Ecco la risposta a chi accusa Giorgio Vasari di essere troppo veloce nell’esecuzione, di non «metterci più tempo». Di tagliar sempre corto per correre da un’altra parte. L’eccesso di diligenza nuoce – risponde lui – bisogna saper arre- stare il lavoro, togliere le mani da una tavola. Lasciarla andare. Questo elegante interprete di cicli decorativi è quello che è: grande (e primo) storico dell’arte, architetto raffinato, incompa- rabile esecutore della mitizzazione di un regno. Ma anche uomo di corte desideroso di compiacere i committenti, come lui stesso scrive nell’autobiografia con cui si accomiata dalla vita: «Avendo fatto quello che ho saputo, accettatelo volentieri; e da me non vogliate quel ch’io non so e non posso, appagandovi del buono animo mio, che è e sarà sempre di giovare e piacere altrui». Giorgio Vasari, artefice e cassa di risonanza degli splendori del Granducato, muore nel 1574, poco dopo aver concluso il ci- clo pittorico della sua casa. Cosimo i dei Medici se ne è andato da appena due mesi, e lui lo segue. D’altronde, il duca di Firenze era il principe che Giorgio aspettava da tutta la vita. Un po’ come cent’anni prima aveva fatto Donatello, accompagnando nella morte un altro Cosimo, quello Vecchio, per farsi seppellire ac- canto a lui nei sotterranei di San Lorenzo. Artisti legati ai propri signori e committenti. Per tutta la vita. Al di là della vita.

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Il parco e la villa di Pratolino C’era un messaggio segreto nel giardino fatto esplodere

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 223 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 224 10/05/21 14:51 Non rimane niente, neppure le fondamenta. Nel 1828 il sogno di France- sco i viene fatto saltare in aria per realizzare un prato all’inglese: la Villa di Pratolino, unica fra le molte tenute della casata Medici, è cancellata dalla Storia. Ma chi dà l’ordine? E perché proprio l’incredibile dimora e il suo parco delle meraviglie – una sorta di Expo medicea – vengono abban- donati al logoramento del tempo? Il mistero avvolge ancora oggi il luogo più caro al granduca malinconico, quel figlio di Cosimo i che spendeva la vita in laboratorio. Principe oppresso dagli obblighi di corte, capace di grande amore e di grande crudeltà.

Un principe schiacciato dalla forza del padre

Questa è la storia di un principe triste, e del suo tempio. Un prin- cipe schiacciato dagli obblighi di corte, ma anche dal carattere e dalla volontà del padre, che non lo stima. Il dramma di France- sco i de Medici è tutto qui. Primo dei cinque figli maschi del duca Cosimo e di Eleonora di Toledo, fin da bambino Francesco ha la tendenza ad appartarsi, allo «star pensativo e melanconico». Fa quel che deve fare come principe ereditario, studia il latino, va a cavallo, viaggia. La sua passione per «l’anticaglia» e le cose naturali aggiunge un tocco d’originalità a questo erede al trono di Toscana. Che però già a vent’anni è in rotta di collisione col padre, a proposito dell’esa- me delle suppliche di grazia: Cosimo gliele ha assegnate perso- nalmente perché faccia pratica di governo, ma lui le gira al volo agli assistenti. Si diffonde la notizia che per favorire l’intercessione del principe ci si debba rivolgere ai suoi collaboratori, portafoglio alla mano. Il duca è fuori di sé: scrive al figlio che «dando voce in capitolo ai servitori, te la sei levata», e che per governare devi

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attenerti «al modo che tiene e ha sempre tenuto tuo padre». E si riprende la delega alle grazie. La china della disistima paterna è la più difficile da risali- re. Così sarà sempre, in un crescendo di mugugni di biasimo e scatti di insofferenza. Francesco non è Cosimo, non ha la sua for- za, la sua capacità. Il suo carisma. Per di più il padre lo giudica immaturo, poco prudente, facilmente influenzabile da servitori mal selezionati. Se poi si aggiunge che il fratello minore Ferdinan- do sembra l’incarnazione del modello ideale di erede al trono, e deve invece essere avviato alla carriera ecclesiastica perché di duchi se ne alleva solo uno per volta, il quadro è completo. Fran- cesco sorvegliato speciale si piega alle responsabilità di governo per cui è nato, ma solo esteriormente. Sposa la donna che il padre gli sceglie, procrea discendenti, assume la guida del Regno, vive insomma alla luce del sole ciò che gli si chiede: ma è un’esistenza sotto tutela, non risolta. Il granduca di Toscana sarà costretto a confinare fra studioli e alambicchi – dove può essere se stesso, al riparo da ogni giudizio – i veri interessi, le passioni scientifiche. Anche l’amore, un ciclone che sbatte contro la sua vita di principe distratto e introverso. Mettendola in orbita.

Nozze, governo, spese pubbliche: tutto è conflitto

Nel 1564, logorato da un comando tutto accentrato nelle sue mani, malandato di salute, schiantato dalla perdita simultanea di moglie e due figli (e questa è un’altra storia), il duca Cosimo i affida a Francesco il disbrigo degli affari correnti. Forse sperando che l’esperienza quotidiana lo trasformi nel principe che non è. Il neopromosso non fa in tempo a sedersi al tavolo, ed ecco la nobil- donna veneziana Bianca Cappello affacciarsi sul suo destino, per mai più uscirne. Non è una infatuazione, si vede subito. «Non sta bene l’andar voi solo per Fiorenza di notte», scrive crucciato Co- simo a Francesco, specie perché sta diventando «un abito», «una continuatione». Una mania che fa spettegolare la città. Il pulpito da cui viene la predica non è molto credibile, visto che Cosimo – una volta perduta Eleonora – non si è certo ritenuto in fatto di donne. Il figlio naturalmente non diventa né più accor- to né più riservato, e continua ad amare Bianca giorno e notte. Il duca spera che rinsavisca con il matrimonio: è il 1565, la prescelta

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è la supertitolata Giovanna d’Asburgo, figlia e sorella di impera- tori (Ferdinando i e Massimiliano ii). È il premio di trent’anni di sforzi, la conferma del ruolo conseguito da Cosimo per Firenze a livello internazionale. Francesco non si sogna neppure di opporsi. Per queste nozze docg, oltre a scavare un corridoio immortale, Giorgio Vasari prepara un apparato decorativo che non s’era mai visto: anche il cortile di Palazzo Vecchio ne esce rifatto, per fortu- na nostra. Comunque, promozione e matrimonio non portano effettivi cambiamenti nella situazione. Negli affari correnti il neoreggen- te non sembra brillare per ingegno, che invece abbonda quando si trasforma in scienziato. I suoi primi passi sono nella Fonderia Medicea, poi passa allo Studiolo, che infine trasferisce nel Casino di San Marco. Francesco è un uomo che coltiva in sé altri progetti rispetto a quelli che il suo ruolo gli impone: studia alchimia, si applica alla produzione di oggetti di ceramica, cerca ricette per la porcellana, la fusione del cristallo di rocca, la lavorazione del vetro, della maiolica e del porfido. Inventa mirabolanti fuochi ar- tificiali, manipola pietre preziose ed è felice quando ne inventa di false che sembrano vere. Se il figlio ha la testa e il cuore altrove, il padre continua di fatto a tenere in mano il governo dello Stato. Cosa che irrita profondamente il giovane duca. Il quale si ferma ogni tanto dal- la moglie per ossequiare gli obblighi nuziali; continua ad amare Bianca notte e giorno; compra i primi poderi per fare spazio a un parco, fuori città, affidando a Buontalenti l’incarico di edifi- care la villa destinata a diventare il suo rifugio personale. Le sue spese sono da sempre una preoccupazione per il vecchio leone Medici. Se per «onoratamente [...] comparir» bisogna spendere – riconosce Cosimo – il principe non deve in ogni caso esagerare: «aggravar li popoli non è la sicurtà delli stati», «pelare» i sudditi non suscita, in questi, «amore». Il giudizio del padre su Francesco non migliora: è «tardo ed irresoluto», impacciato «nelle proposte e risposte», concentrato solo sulle proprie cose. Cresce il conflit- to, anche perché stavolta è il figlio a rimproverare a Cosimo la decisione di riprendere moglie, al che il vecchio duca risponde barricandosi sempre più. In una situazione di reciproca ostilità, la corte si spacca tra i fedeli dell’uno e i fedeli dell’altro. Finché con la morte del primo arriva la “liberazione” del secondo, che mettendosi la corona sul capo può finalmente diventare se stesso.

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Quel nuovo granduca con la testa altrove

Per prima cosa, la fatica dell’amministrare viene divisa fra vari se- gretari, talvolta buoni, talvolta miserabili. Morto lo Stato-persona (Cosimo), Firenze impara a conoscere lo Stato-apparato. Final- mente libero dall’obbligo di dover-decidere-tutto-sempre – come faceva il padre – il nuovo granduca può dedicarsi a ciò che ama di più. Rinnova Palazzo Pitti, completa gli Uffizi, istituisce l’Acca- demia della Crusca, promuove il primo teatro stabile della città, nel Palazzo della Dogana dietro gli Uffizi (la “Baldracca”). Acco- glie anche la prima missione diplomatica giapponese mai vista in Europa. Ma continua a spendere la maggior parte del tempo nel Casino di San Marco dove ha trasferito il laboratorio di Palazzo Vecchio, e dove ora si dà liberamente a rimuginare invenzioni. Governa da qui, da queste stanze piene di alambicchi dove riceve collaboratori e segretari, fornendo le linee di massima sull’am- ministrazione del Regno. Poi passa da casa (Palazzo Pitti), dove continua a procreare figlie femmine. Senza scordarsi di amare Bianca, in un palazzo costruito allo scopo, poco lontano. Ma il potere tira fuori il lato spietato delle cose, nonché degli uomini. La maldestra congiura di Orazio Pucci finisce fra torture e impiccagioni, e l’onda lunga del bagno di sangue porta con sé anche la condanna della cognata Eleonora e della sorella Isabella, figlia prediletta del vecchio Cosimo. Francesco non avrebbe mai osato farlo finché il padre era in vita: ma adesso dà il via libera ai rispettivi mariti delle due principesse, forse perché congiurate, forse perché adultere. O forse solo perché donne troppo ingom- branti, che mirano all’autonomia. E devono lasciare il posto. C’è un’altra donna che lascia il posto, incinta dell’ottavo figlio, fra atroci sofferenze: Giovanna d’Asburgo. Una morte accidentale – la granduchessa scivola e cade alla Santissima Annunziata – ma anche provvidenziale per il granduca, che meno di due mesi dopo porta all’altare la compagna della vita. È il 1578. Cosa piuttosto insolita, Francesco continua ad amare Bianca. Anche da moglie.

Il parco delle meraviglie: l’Expo medicea

Saranno solo nove anni: tanti ne corrono fra quel matrimonio e la morte di Francesco e Bianca, fulminati da una strana malaria

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a poche ore di distanza l’uno dall’altra. Un po’ come era succes- so alla duchessa Eleonora e ai due figli: c’è sempre una febbre malarica da additare per una morte ambigua. Ma per ora, in que- sti nove anni, Francesco è al comando. È lui a fondare «fin dalla prima pietra» quello che è a giudizio universale «il più bello tra i luoghi medicei», superiore persino ai pur «bellissimi» Poggio e Castello. È lui a dare una struttura immobiliare alle passioni che lo nutrono, e che diventano «teatro di delizie e magnificenza» in una brulla collina solitaria, lungo la strada verso Bologna, a 15 chilometri dalla città. Francesco comincia strappando alla montagna un pezzo di terra arido. «Pare che il Principe abbia di proposito scelto una posizione poco amena, sterile e montuosa, e anche senza fonte, per il merito di andarla a cercare cinque miglia più in là» scrive da Pratolino il filosofo francese Michel de Montaigne (1581). Eppu- re l’acqua è l’elemento cardine di tutta la costruzione, il principio su cui si basa il movimento di ogni macchina, di ogni automa. Circondata da un grande parco alberato, anche la villa si innalza su un sistema di grotte artificiali, ognuna impreziosita da pietre dure e marmi pregiati, ognuna sede d’un diverso gioco d’acqua, affidato a macchine antropomorfe che suscitano «maraviglia et estasi». Viali di fontane di madreperla si alternano a labirinti di al- beri rari, il tutto arricchito da vasche, statue, mosaici, in un gioco di elementi naturali e artificiali che lascia senza fiato. La riprodu- zione di uomini e animali, tronchi e foglie «ha saputo così bene imitare la natura, da fare la più sorprendente illusione» (France- sco Fontani). Una costruzione simile non ha paragoni a Firenze, in Italia. Nel mondo conosciuto. Accanto al drago scolpito da Giovan Battista Foggini, è tutt’o- ra visibile il Giove di Baccio Bandinelli. Anche le stalattiti artificiali della grotta di Cupido sono in parte sopravvissute. Ma è il “gigante dell’Appennino” a dare ancora oggi un’idea del livello di sofistica- ta ingegneria raggiunto da questo teatro naturale. Giambologna intaglia nella roccia un dio della montagna alto 10 metri, edificando all’interno della testa del colosso un ca- mino il cui fumo fuoriesce dalle narici della statua. La mano del gigante schiaccia il capo di un mostro, dalla cui bocca zampilla l’acqua di un torrente sotterraneo. Nell’immenso corpo dell’Ap- pennino si fanno spazio tre ordini di grotte, tutte ornate di pitture e marmi. Un mondo umano ricavato e impreziosito all’interno di

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una gigantesca roccia antropomorfa, capace di mettere a sedere fino a sette persone solo nella testa. È l’unico simbolo scampato al naufragio della Storia in grado di testimoniare l’assoluta meravi- glia di questo parco fiabesco. Un colosso solitario che ancora oggi affascina chi ha la pazienza di raggiungerlo. Quella di Pratolino non è davvero la solita villa suburbana, simbolo di potenza granducale, luogo di svago e ozi estivi per fa- miglia e amici. È la trasposizione in grande delle meraviglie dello Studiolo. È in questa riserva naturale, in cui l’arte si mescola alla scienza, che Francesco realizza l’esposizione più sofisticata della tecnica dell’epoca: una sorta di Expo medicea che lascia senza pa- rola anche i rappresentanti dei paesi stranieri chiamati a visitarla. Una concessione principesca al puro lusso, che alla fine arriverà a costare il doppio di quanto speso per gli Uffizi. Con buona pace del defunto Cosimo, e dei fiorentini.

Quando le mine dei granatieri fanno saltare tutto

Artefice di questo parco delle meraviglie – costruito per celebrare la propria ricerca interiore e goduto insieme a Bianca – France- sco si risparmia la pena di vederlo andare in malora. La coppia granducale esce di scena a Poggio a Caiano, nell’ottobre del 1587, in modo improvviso. I due si spengono a poche ore di distanza l’uno dall’altra, senza sapere l’uno dell’altra, dopo undici giorni di agonia seguiti a una cena in compagnia del fratello e cognato Ferdinando de Medici. In attesa che tossicologi e anatomopatologi si mettano d’ac- cordo, il cardinale rimane l’indiziato numero uno (il cui prodest?) della scomparsa, che deposita sul suo capo l’agognato titolo ducale. Ferdinando è pronto, voglioso da sempre di assumere il ruo- lo per cui il fratello non è portato. Non ha mai nascosto di ritene- re che il buon nome dei Medici, il lavoro del padre, Firenze tutta possano essere rovinati dalla condotta di Francesco, il granduca filosofo. Nutre per la nuova granduchessa un’avversione furente, ne cancellerà qualsiasi traccia di esistenza, a cominciare dal cor- po. Insomma, sotto il suo controllo, la dinastia, la corte, il gover- no, la città, tutto cambia rotta. Anche Pratolino. Non più accudita, l’acqua – generatrice e distruttrice – porta all’otturazione delle tubature, al declino della villa che si reggeva

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sulle grotte sotterranee. Lo spregio con cui viene abbandonata dai nuovi reggitori della città la dice lunga sugli avversari di Francesco. Anche i regnanti successivi non sembrano amarla particolarmen- te: forse è troppo intrisa dello spirito di quella coppia stravagante e innamorata. Solo nel tardo Seicento l’inquieto Ferdinando dei Medici, per molti aspetti simile all’avo, prende a cuore la villa e ne comincia il restauro. Ma la sua prematura scomparsa gli impedisce di terminare l’opera, oltre che di diventare granduca. Quando arrivano i Lorena, le cose non migliorano. Figli del pragmatismo illuminista, i nuovi governanti decidono che la struttura è troppo costosa per essere conservata come si deve, e la lasciano perdere. Alcune statue vengono trasferite a Boboli, altre spariscono. Il parco è trasformato in riserva di caccia. Forse è proprio la caccia il motivo per cui nel 1819 Ferdinan- do iii d’Asburgo-Lorena decide di annettere all’antico giardino boschi e campi di varie fattorie circostanti. E per far questo «al sistema dei parchi inglesi» chiama un boemo, l’ingegnere Joseph Fritsch. Come vadano davvero le cose, nel 1822, non è chiaro. Non è chiaro come si possa decidere di fare esplodere un pezzo di pa- trimonio cittadino solo perché in «cattive condizioni». Sembra che la proposta di eliminare la villa sia proprio del buon ingegnere, quello venuto apposta dalla Boemia. Il quale promette al granduca di costruirgli un palazzo più bello di quello che aveva fabbricato Buontalenti al Medici. L’Asburgo ha tante cose per la testa, le boni- fiche, il ritorno alle leggi leopoldine dopo la tempesta napoleoni- ca. Per far saltare in aria le poderose fondamenta del Cinquecento intervengono addirittura i suoi granatieri, armati di mine. E i fiorentini? Sono a conoscenza del progetto, eccome. In una lettera del 3 ottobre 1822, vien domandato dal soprinten- dente Sergardi all’agente Bertini «se la direzione dei lavori [del parco] ha preso una determinazione circa lo scarico dell’antico palazzo che si demolisce»; al che Bertini risponde (11 dello stesso mese) che «il luogo dello scarico non è stato ancora determinato, ma che certamente i vecchi materiali non si scaricheranno mai nel parco». Superficialità, ignoranza, incuria. Convenienza. Nessuno a Firenze muove un dito. Le pietre di cui era fatto il sogno di Fran- cesco, ridotte in pezzi, rimangono a lungo accatastate davanti al fantasma della facciata di mezzogiorno, prima di essere scaricate. Nel parco, ovviamente, dentro alle grotte.

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Della rovina del resto della struttura, nessuno è innocente. «Sciupate, sparite tante pitture preziose, come tante decorazioni splendide di stucchi e d’oro; i prodigiosi apparecchi che all’ac- qua facevano operare le rappresentazioni sorprendenti, più non furono che inservibili pezzi di metallo; ridotte in frantumi tante superbe statue, fatte per lo più dai nostri celebri maestri, e gettate a riempire le stesse vasche che avevano servito di ricetto all’ac- que da loro cadenti; capi d’opera sottratti, di cui si chiederebbe inutilmente l’attuale domicilio: tanti tesori d’arte, erano diventati proprietà privata del Granduca» (Cesare da Prato, 1886). Del palazzo di Bianca e Francesco rimane solo l’antica pagge- ria, oggi Villa Demidoff dal nome degli acquirenti che strappano la proprietà ai Lorena. Ma che arrivano troppo tardi per impedire il misfatto. La «delizia del granduca» non esiste più.

Un percorso di crescita per dominare le emozioni e vincere la materia

«La bellezza e la ricchezza di questo luogo non si possono rap- presentare con la scrittura» scriveva Michel de Montaigne nel suo Journal de voyage en Italie. Eppure tutto ciò che sappiamo sul parco delle meraviglie proviene dai diari, dalle lettere, dai libri redatti dai visitatori ammirati fin dal Cinquecento. In uno di questi – opera di Francesco de’ Vieri, filosofo e alchimista di corte – si esprime l’idea che la disposizione di viali e piante, la costruzione di grotte e statue non siano la semplice ricerca della magnificenza, bensì rispondano a un preciso disegno del granduca. Il quale, quando dà le sue disposizioni a Buontalen- ti, fa un po’ quello che Borghini faceva con Vasari, cioè consegna un progetto simbolico da tradurre in architetture. De’ Vieri sa di cosa parla, perché accanto a Francesco ha vissuto e lavorato. Secondo lui, il messaggio alchemico incarnato nella villa è quello di un cammino di crescita spirituale. La disposizione del parco indica la strada da percorrere per liberarsi dalla schiavitù della materia, senza ricorrere a Dio. È “manifesto” di un insegnamento che da sempre scorre sotterraneo, segreto, e che in tempi di Con- troriforma e Inquisizione rischia ancora di più. A Pratolino il viaggio che l’essere umano deve compiere per diventare uomo va da nord a sud, dal buio alla luce. Tutta la co-

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struzione si basa su un elemento chiave, generatore di vita: l’ac- qua. A nord, la statua di Giove incarna l’opera del Creatore: da qui partono le acque raccolte faticosamente dalle dodici sorgenti di monte Senario, e incanalate in una sapiente architettura di con- dotti, vasche e fontane. Ai piedi di Giove si stende un labirinto di piante, simbolo delle difficoltà della vita in cui si smarrisce l’uma- nità; al centro del labirinto c’era una volta un enorme monolite emblema di sapienza, oggi spezzato in due concrezioni spugnose. Dopo aver utilizzato la sapienza per fronteggiare le insidie del mondo e per uscire dal labirinto, l’essere umano in cerca di se stesso si incammina sul Parco degli antichi, arrivando al colosso dell’Appennino. Qui, scolpita nella pietra del gigante, è la storia dell’uomo che per prendere coscienza di sé deve risalire tre ordini di grotte: comincia dalla più bassa e buia, quella sotterranea, in cui è an- cora prigioniero l’“io” demoniaco; arriva alla centrale, bianca e decorata di madreperla, che rappresenta il grado intermedio di coscienza raggiunta; e finalmente raggiunge la sommità, la testa del colosso, dove una fonte ottagonale di fiori di corallo rosso accoglie l’uomo trasformato. Facile rimando al fonte battesimale, che consacra la nuova vita di chi ha completato l’ascesa. A questo punto l’uomo, divenuto gigante, schiaccia con la mano la testa del mostro, simbolo delle passioni ormai domate. È il mito della caverna di Platone fattosi pietra. Il cammino tracciato da Dante, ma senza l’intervento divino. Una volta attraversato il Parco degli uomini rari e degli dei gentili, si arriva alla villa, quella che oggi possiamo solo immagi- nare. Al suo interno Francesco i fa costruire un percorso simile a quello scavato dentro al colosso, un passaggio fantastico attraverso nove grotte artificiali, che culmina nella «sala del nettare divino», dove un massimo di otto persone può banchettare a un tavolo sostenuto da otto angeli. Ma non è finita. Uscito dall’Appennino, purificato dal passaggio nella villa, l’uomo ha ora davanti a sé tre strade per raggiungere la meta: può andare dritto sul viale degli zampilli, in una passeggiata di 150 metri sotto trionfanti spruzzi d’acqua. Oppure può indirizzarsi verso destra, sul sentiero fatto di amore e misericordia, attraversando la grotta di Cupido. Infine può decidere di andare a sinistra, spingendosi sul percorso di ri- gore e giustizia indicato da Giunone e Cerere (gruppo scultoreo oggi fortunatamente conservato al Bargello).

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Quale che sia la via prescelta, Amore e Giustizia conducono entrambi al sud, alle fine del viaggio, davanti alle statue (perdute) di un bimbo che fa pipì e di una donna che lava i panni, «donna più forte di un macigno – scrive de’ Vieri – più grande del nor- male». Che significa? Nel linguaggio ermetico, il simbolo della lavandaia è monito alla donna: lavare e strizzare i panni non è un inno alle virtù domestiche, bensì l’esortazione a dominare la parte emotiva femminile, a farsi forte, vincendo i passaggi lunari che scandiscono l’esistenza muliebre. L’uomo invece, alla fine di un giusto cammino di crescita, deve tornare a essere bambino, puro e libero da ogni condizionamento. Soprattutto da quello del potere. È questo il messaggio che Francesco e Bianca consegnano alla società del Cinquecento: una donna che si fa grande, forte; un uomo che si fa piccolo, ironico. È un inno allo sviluppo dell’“io” fuori dalla materia, al perfezionamento di un sé lontano da Dio. Un canto all’uomo riformato dalla propria fatica interiore. Idea troppo controcorrente per andare lontano, e infatti sepolta da inconsapevoli carnefici sotto tonnellate di polvere. In attesa di tor- nare ad affiorare, da qualche altra parte. Alla prossima occasione.

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Il corridoio segreto del Museo Archeologico La battaglia per la libertà di una principessa imperfetta

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 235 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 236 10/05/21 14:51 C’è un Vasariano, ma c’è anche un Mediceo: sorvola le tombe etrusche del Museo Archeologico, ma pochi lo sanno. Due corridoi per due architetti: Gior- gio Vasari buca case e palazzi (e una chiesa), il meno celebre Giulio Parigi attraversa un giardino (e una chiesa); Vasari impiega cinque mesi a fare un chilometro, Parigi ce ne mette sei per 125 metri. Eppure, entrambi realizzano un passaggio sopraelevato, che salta da una strada all’altra grazie a una serie di “ponti”. Senza mai posarsi a terra. Ma se Vasari vuole proteggere i duchi di Firenze da possibili attentati, Parigi deve permettere a una fanciulla claudicante di muoversi fra casa, chiesa e convento senza mai essere vista. In pratica, deve costruire un quartiere “aereo” per celare agli sguardi del mondo le membra di Maria Maddalena dei Medici, principessa imperfetta. Oggi, dopo una clausura di oltre cinquant’anni, il corridoio “minore” è stato ria- perto. E le nicchie ospitano un’eccezionale mostra di gemme antiche.

«In convento no, voglio un palazzo»

È il 1619, e un’idea si fa largo nella mente del granduca Cosimo ii per la sorella, bimba «nata malcomposta nelle membra», che fino ai vent’anni è vissuta a palazzo, ma che ora bisogna sistemare. Di nozze non si può parlare per questa ottava figlia di Ferdi- nando i e Cristina di Lorena, nata con problemi fisici, forse una grave forma di rachitismo. Maria Maddalena si oppone al conven- to, soluzione certo più semplice e meno dispendiosa per la fami- glia regnante. Ma se è imperfetta nelle membra, la principessa lavora benissimo col cervello: non ci sta a essere sepolta in un mo- nastero, a vivere l’esistenza da reclusa. È uno spirito forte, Maria Maddalena, ha uno stuolo di fratelli e sorelle perfettamente sani davanti a sé, ha imparato presto cosa vuol dire lottare per essere vista. Ama troppo la vita, che non è stata generosa con lei. In una corte è nata, in una corte vuole morire.

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Riesce a negoziare col fratello un compromesso accettabile, grazie al sostegno della madre Cristina. Accetta di integrarsi al monastero della Crocetta di via Laura da esterna, senza prende- re i voti, senza vestire l’abito: invece di una cella monacale avrà una dimora tutta per sé, indipendente. Da cui raggiungere le consorelle per le attività comuni, e poi ritirarsi nei propri spazi. «Comandò allora il Sereniss. Cosimo Secondo [...] che allato alla muraglia di quel sacro luogo, fosse alzata una bellissima fabbrica, dove la Signora Principessa sua Sorella potesse con il decoro a lei convenuto, mentre si dipartiva dalle pompe del mondo, diportar- si a suo talento tra i pensieri del Cielo». Nasce il Palazzo della Crocetta, separato solo da una strada da quel convento da cui prende il nome. Una residenza di lusso, dove la principessa malformata – che non ha tutto questo desi- derio di dipartirsi dalle pompe del mondo – potrà ricevere visite, fare musica e teatro. Intrattenersi con la madre, vedova da anni, che con lei è cresciuta, e che non sopporta l’idea di separarsene. È forte il rapporto fra Maria Maddalena e la granduchessa, che il 25 maggio del 1621 scrive all’altra figlia Caterina: «Hiersera io messi in Monasterio la Principessa Maria Maddalena, et così io mi ritrovo hoggi in questa casa senz’alcun figliuolo appresso di nove che ne ho havuto». Poche settimane prima, la sovrana ha voluto anche accompagnare la ragazza a Pisa e Livorno, «per far vedere quelle città, et il Mare alla Sig.ra Principessa Maria Maddalena innanzi ch’ell’entri in Monasterio». I lavori per realizzare la dimora riuniscono vari lotti fondia- ri. Il Vasari di turno si chiama Giulio Parigi. A lui il compito di innalzare l’ennesima residenza ducale a partire da un villino di caccia acquistato a suo tempo da Lorenzo il Magnifico. Al corpo di fabbrica, Parigi aggancia due ponti (o “archi”) sopra via Laura: uno per permettere alla reale vergine di passare dal palazzo al monastero senza mettere piede in strada; un altro per offrire il cammino inverso a suore e cameriere. Rimane il problema della messa. La chiesa più vicina è la San- tissima Annunziata, sono neppure duecento metri, ma il dilemma è lo stesso: bisogna evitare alla principessa il disagio di esporsi agli sguardi della gente mentre arranca per le vie cittadine. Si pensa a un camminamento sopraelevato, che stavolta colleghi il palazzo al santuario. Non ci sono case da buttar giù o da bucare, solo campi e giardini da attraversare. Il granduca dà l’assenso. Ancora a Pari-

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gi il compito di trasportare Maria Maddalena da via della Pergola a via Capponi senza farle toccar terra. Nasce un passaggio sopraelevato che conduce la principessa direttamente in basilica. È il secondo corridoio “segreto” a firma Medici.

Di come un tubo in terracotta spia la voce del popolo

La dinastia regnante ama i percorsi aerei, e il primo motivo è la sicurezza. Finiti i tempi in cui Cosimo il Vecchio o Lorenzo il Magnifico giravano in strada come cittadini qualsiasi, stringendo mani in un perpetuo tour elettorale. Non che le congiure non ci fossero anche prima, ma di sicu- ro la corona ha moltiplicato i grattacapi. Già Alessandro il primo duca ha mostrato l’importanza di guardarsi le spalle con una buo- na scorta, che a lui non è servita (ma non era prevista in camera da letto). Passeggiare in strada moltiplica le tentazioni dei malin- tenzionati. È Cosimo i a pensare che un bel corridoio rialzato, con finestre piccole e strette, renda senz’altro più sereno il cammino fra casa e lavoro. È vero che quando commissiona l’opera a Va- sari il duca parla della celebrazione del matrimonio tra il figlio ed erede Francesco e Giovanna d’Austria. Ma sembra piuttosto questo il pretesto con cui vendere l’operazione ai fiorentini. Per realizzare il camminamento, infatti, Cosimo deve abbattere un bel numero di immobili: inutile dire che l’idea raccoglie in città una certa resistenza, messa a tacere da cospicui indennizzi. Celebre l’opposizione dei Mannelli. Tenendo testa ai desideri del duca, la potente famiglia di stirpe ghibellina rifiuta il passaggio, e co- stringe l’architetto all’unica contorsione architettonica in pietra serena di tutto il percorso. La torre dei Mannelli è ancora lì, solida e altera, circondata dal corridoio Vasariano come da un abbraccio incapace di soffocarla. Ma che la paura di attentati sia un potente incentivo ai lavori per il collegamento tra Uffizi e Palazzo Pitti, è dimostrato dall’o- pera cui Cosimo si ispira, il “passetto papale” fra Vaticano e Castel Sant’Angelo. Proprio grazie a questo percorso segreto, il secondo papa Medici, Clemente vii, riesce a sfuggire all’esercito di Carlo v durante il sacco di Roma del 1527. Firenze – anzi, i suoi regnan-

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ti – adora questo tipo di “passetti”: è grazie a una scala nascosta, realizzata fra camera da letto e via della Ninna, che Gualtieri di Brienne duca d’Atene salva la testa mentre i fiorentini assaltano Palazzo Vecchio. Tuttavia le funzioni dei corridoi segreti sono molteplici, al- cune più segrete di altre. Per esempio, sapere ciò che il popolo dice quando pensa di non essere ascoltato. Come nel Vasariano, anche nel camminamento di Maria Maddalena sono state trovate calate di tubi in terracotta aperti verso il fondo per raccogliere le voci sottostanti. Diciamola meglio: per origliare. Chi sta sopra sente benissimo ciò che la gente dice sotto, mentre cammina in strada o in giardino, lasciando andare i pensieri senza soppesare le parole. Quello che i Medici mettono a punto è un (apparentemen- te) innocuo sistema di raccolta della vox populi, un meccanismo per tastare il polso all’opinione pubblica. Una sorta di Grande Fratello primitivo.

Quel quartiere aereo a disposizione della vergine imperfetta

Nel caso di Maria Maddalena niente fughe rocambolesche in vista o pericolo di attentati. La protezione che la principessa cerca è quella dagli sguardi malevoli dei concittadini. L’obiettivo per lei è arrivare al santuario mariano, in cui sbuca grazie a un terzo “pon- te” gettato su via Capponi. L’affaccio è proprio sopra la cappella della Madonna miracolosa, quella che la tradizione vuole dipinta da un angelo nel 1250, anno di fondazione di Santa Maria di Ca- faggio che diventa così la Santissima Annunziata. Dal suo coretto la principessa può assistere alle funzioni senza essere vista. Come in un palco a teatro, ma protetta da una grata. In realtà, avere una porta esterna che dà direttamente ac- cesso alla basilica – seppur a vari metri di altezza – non è esente da qualche rischio. Infatti l’arcivescovo di Firenze inizialmente non vuol saperne, neppure davanti alla richiesta del granduca. Poi ovviamente si piega, e assai a malincuore dà il permesso per la costruzione del camminamento che perfora le mura della chiesa. A una condizione: stabilisce che la clausura parta fin dagli appar- tamenti di Maria Maddalena. In pratica, solo la principessa e il

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suo ristretto gruppo di dame potranno utilizzare il corridoio, sof- fermandosi in preghiera davanti alle stazioni della Via Crucis che lo addobbano. Solo loro potranno raggiungere il santuario per affacciarsi alla grata sopra l’immagine sacra. Ancor oggi le stesse sedie, gli stessi cuscini di velluto su cui la giovane pregava fanno la guardia a questa fetta di storia cittadina. Una volta uscite dal coretto, dama e ancelle possono decidere di non tornare a palazzo, e di svoltare a destra, dirigendosi verso lo Spedale degli Innocenti, istituto di accoglienza all’infanzia ab- bandonata posto sotto la giurisdizione della nobildonna Medici. Stavolta non devono attraversare nessun “ponte”: il buco su via Colonna sarà aperto più tardi, ai tempi dei grandi lavori di Poggi in vista di Firenze capitale. Insomma, per venire incontro alle esigenze di Maria Madda- lena, l’intero quartiere viene ristrutturato su via “aerea”. Attraver- so un complicato sistema di scalini, scale e corridoi, la principessa malformata può percorrere chilometri ogni giorno, lontano da sguardi indiscreti.

Musica o teatro, quel palazzo è sintesi fra corte e convento

L’obiettivo è raggiunto: vivere una vita il più possibile normale. Unire terra e cielo per il tempo che le è dato, in una clausura assolutamente sui generis. Innanzitutto, la ragazza non si sepa- ra dalla madre, che continua a farle visita, e anzi, ogni tanto se la porta pure fuori, a vedere quel mare che le piace tanto. Nel 1626 Cristina scrive: «venni a Firenze per cavare la Principessa del monasterio et menarla a vedere quella città di [Pisa] et Livorno, come seguirà domani piacendo a Iddio». Dispensata dal velo, la suora laica si dedica alla preghiera, ma si intrattiene volentieri an- che con musica e teatro, come del resto accade in certi monasteri quando ospitano fanciulle di rango. Negli anni del soggiorno di Maria Maddalena, il Palazzo della Crocetta diventa sintesi mirabi- le fra corte e convento. Con il consenso e anzi l’appoggio della famiglia, la principes- sa si fa promotrice di spettacoli di ogni sorta: a palazzo si esibisco- no i migliori artisti del tempo, i musicisti e i poeti che lavorano regolarmente per la corte.

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Si sa che nel 1625 viene allestito il testo Il martirio di santa Ca- terina, scritto da Jacopo Cicognini e dedicato espressamente alla principessa imperfetta: l’opera è musicata da Francesca Caccini, compositrice e clavicembalista attiva a corte, la cui allieva Emilia Grazi viene in seguito chiamata da Maria Maddalena per esegui- re alcune canzoni spirituali scritte da Michelangelo Buonarroti il Giovane. E ancora, si sa di un altro lavoro di Cicognini andato in scena alla Crocetta, Le vittorie di santa Tecla. Insomma, pur vivendo “segregata”, la giovane non si annoia. Accanto alla madre, le fa visita la sorella Claudia, rientrata in famiglia perché rimasta vedova e madre di una bimbetta di pochi anni, Vittoria Della Rovere. Per un certo periodo, arriva anche la cognata, Maria Maddalena (anche lei) ma d’Austria. Dal palazzo costruito per recluderla – o piuttosto per concederle una vita – la principessa assiste ai diverbi, ai conflitti. Al tramonto del Regno.

Cristina, sovrana che non molla mai. Come la figlia

La piccola principessa malformata ha solo nove anni quando il padre, Ferdinando i, muore. È l’ultimo dei grandi amministratori cittadini. Rimpiazzando Francesco, l’ex cardinale fatto granduca a tempo di record, go- verna come aveva promesso: all’opposto del fratello. Riprende in mano l’apparato burocratico e fiscale, riorganizza il sistema giu- diziario, incoraggia il commercio in ogni modo, anche facendo deviare l’Arno in un naviglio che incrementa i rapporti fra Pisa e Firenze. Continua la tradizione paterna di bonifiche e progetti d’irrigazione, ma è anche attento all’arte. Commissiona a Giambo- logna la statua di Cosimo ancor oggi al centro di piazza Signoria. A Buontalenti chiede il secondo forte cittadino, stavolta in alto, e lo chiama “”, ideale ultima tappa del corridoio Vasa- riano: è il rifugio per l’eventuale fuga di famiglia che da Palazzo Pitti non riuscirebbe mai ad arrivare di là d’Arno, alla Fortezza da Basso. Curioso destino, quello di Firenze: ha due fortificazioni difensive, entrambe puntate contro la città. Entrambe medicee. Ferdinando aggiunge Artimino al sistema delle ville, e si dedica alla loro (perpetua) ristrutturazione, lasciando scrupolo- samente indietro il complesso di Pratolino che forse troppo gli ricorda quel bizzarro fratello.

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Il granduca è votato allo Stato anima e corpo, non ha altre passioni. È proprio un’ape regina circondata dal suo sciame: ine- quivocabile il messaggio che il regnante lancia ai fiorentini con la seconda statua commissionata a Giambologna, e posizionata lì, in asse col Duomo, nella piazza più frequentata di Firenze. Dove il principe a cavallo troneggia su un basamento decorato da un centinaio di api: il popolo laborioso, fedele, ben governato. E na- turalmente sottomesso. Quando si tratta di scegliere la sposa, il granduca inverte i precedenti cinquant’anni di politica estera medicea e si sposta verso la Francia, raccogliendo le raccomandazioni della regina Caterina de Medici, ultima discendente diretta dell’antico ramo di Cafaggio. Ne sposa la nipote, Cristina di Lorena: scelta felice, generatrice di nove figli, armonia domestica e stabilità per il Re- gno. Curiosamente, per la moglie del figlio e principe ereditario, Ferdinando ritorna verso l’asse imperiale, dirigendosi su Maria Maddalena d’Austria. Si direbbe un colpo al cerchio e uno alla botte, nel gioco delle coalizioni internazionali: sintomo dei conti- nui sforzi per garantirsi un’indipendenza incessantemente messa in pericolo dagli appetiti dei grandi Stati. Che per fortuna si man- tengono in equilibrio, duellando. È il 1609: il granduca scompare troppo presto. Il figlio Cosi- mo ii è un ragazzo appena maritato e in cattiva salute; la moglie Cristina una ex sovrana affranta ma decisa a prendere in mano la situazione; la nuora Maria Maddalena una neogranduchessa senza esperienza, schiacciata dalla suocera. Ci sono tutti gli ele- menti per un futuro burrascoso, e infatti è questa la storia che la principessa imperfetta vede andare in scena nel suo teatro della Crocetta. Un matriarcato dilaniato nel conflitto fra la madre e la cognata, fra le due anime della corte, quella francese e quella asburgica. Prima per l’influenza sul giovane granduca, poi – dopo la sua prematura scomparsa – nella reggenza congiunta del suc- cessore, il piccolo Ferdinando, in un rimando di nomi che la dice lunga sull’affiatamento della coppia primigenia, la cui discenden- za non è che pallida riproduzione: Cosimo e Ferdinando i “pri- mi”, gli originali; Cosimo e Ferdinando “i secondi”, le copie. Dalle stanze del suo quartiere aereo, Maria Maddalena vede la madre spuntarla su tutti: la vede sopravvivere al padre, assume- re la reggenza del Regno al posto del fratello e poi sopravvivergli; assumere la coreggenza del nipote e sopravvivere anche alla ma-

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dre del bambino. Il Regno di Cristina di Lorena si estende per oltre cinquant’anni, più di quello di Elisabetta i in Inghilterra. Si sa del lusso di cui la sovrana ama circondarsi, il cui riflesso arriva fino alla Crocetta, permettendo alla figlia quella vita cui non vo- leva rinunciare. Maria Maddalena se ne va nel 1633 per una malattia improv- visa, forse un attacco di vaiolo: muore solo tre anni prima della madre, il cui sostegno non le è mai venuto meno, in un rapporto di continua complicità. Quando la principessa malformata nel fisico ma dal carattere così forte chiude gli occhi, Cristina è già stata (finalmente) messa da parte da Ferdinando ii, l’ex nipotino ormai cresciuto. È tempo di mollare la presa. È la madre a occuparsi dei funerali della figlia, che viene sepolta in quel convento raggiunto dal “ponte” di Parigi e frequentato per tutta la vita, da esterna. Così come voleva, Maria Maddalena è nata in una corte, e in una corte è morta. Scompar- sa lei, l’arcivescovo di Firenze si affretta a far abbattere il passag- gio soprelevato su via Capponi, quello che conduce direttamente all’interno della Santissima Annunziata. Troppo forte è l’antica paura che i Medici possano avanzare pretese sulla chiesa.

Di come un tesoro trova posto in corridoio

Dopo la sua morte, nulla succede al camminamento di Maria Maddalena. Nel senso che non trova particolari collocazioni o impieghi. Come se quel passaggio, cucito addosso ai bisogni di una fanciulla malcomposta nelle membra, non potesse in alcun modo sopravviverle. D’altronde è un corridoio stretto, quasi anonimo. Adesso che non arriva neppure più alla chiesa, serve a poco. Sono duecentocinquant’anni di passaggi storici che non offrono ruoli, di cambiamenti politici e sociali che non lasciano traccia. Leopoldo di Toscana riesce a convincere il vescovo di Fi- renze a ricostruire il tratto finale abbattuto per timore, il “ponte” verso il santuario mariano. Per il resto, nessun sostanziale cambia- mento, nemmeno negli anni in cui la città diventa capitale d’Italia e il palazzo sede della regia Corte dei Conti. Bisogna arrivare al 1883, quando Palazzo della Crocetta è scelto come domicilio per il neonato­ Regio Museo Archeologico.

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È qui che le collezioni fiorentine sulle civiltà e culture umane trovano aggregazione e rifugio. Qui, dove già erano riuniti sarco- fagi e steli dell’antico Egitto, arrivano i pezzi etruschi e romani dal Cenacolo del Fuligno, e si aggiungono le raccolte medicee e lorenesi dagli Uffizi. Il materiale è tantissimo. Per accogliere i nuovi reperti ci vuole spazio. Nasce una terrazza, sostenuta da colonne e addossata al cor- ridoio di Maria Maddalena, le cui arcate vengono chiuse, dando così vita a tante piccole sale al piano terra, dove trova posto la se- zione topografica della civiltà etrusca. Non si fa in tempo a coprire il tutto con una loggia, e già arriva l’alluvione. Nel 1966 una marea di acqua e fango spazza via le stanze e il loro contenuto. Dalla devastazione nasce un’idea per ripensa- re gli spazi: inglobare l’ex museo topografico e il corridoio della principessa in una struttura unica. Un solo tetto sopra le due co- struzioni, lasciando a ciascuna la propria identità. Questa volta an- che l’antico camminamento – che di tetti adesso ne ha addirittura due – diventa titolare di un tesoro proprio. Oggi, i 125 metri su cui arrancava una principessa volitiva ospitano la collezione medicea di gemme antiche: sono i sigilli babilonesi, i cammei greci e romani, gli anelli etruschi acquistati nel tempo da quei collezionisti incalliti fatti famiglia che erano i Medici, da Lorenzo il Magnifico a Cosimo i, da Gian Gastone all’elettrice Palatina. Il museo possiede 2.300 pezzi circa, la più grande collezione al mondo: ne espone “solo” 432, gemme rac- chiuse in cornici d’oro, smalti e pietre preziose. Fra le tante, il cammeo romano di Ifigenia in Tauride, di età imperiale, montato in oro probabilmente da Benvenuto Cellini, e collezionato dal cardinale Leopoldo dei Medici. La tragedia di Euripide da cui è tratto il mito narra di una fanciulla salvata all’ul- timo momento dal sacrificio agli dei, che il padre Agamennone vuole fare per propiziarsi la spedizione contro Troia. Anche Ifige- nia – proprio come Maddalena – non si arrende alla volontà della sorte, combatte per difendere il proprio diritto alla vita. «Il saggio sa cogliere l’occasione propizia», scrive Euripide. Tutto è sempre appeso a un filo: ma finché qualcuno lo taglia, meglio lasciarsi dondolare.

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La Biblioteca Magliabechiana degli Uffizi Da teatrino di comici a tempio del sapere

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 247 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 248 10/05/21 14:51 Libri, libri, libri. «Specialmente pe li poveri. Voglio che si formi una pubbli- ca libreria, soprattutto per chi non ha modo di comprare e studiare». Vuole così il “segretario d’Europa”, l’erudito Antonio Magliabechi, quando in punto di morte, nel 1714, dona a Firenze la storia del sapere accumulata in una vita. Il bibliotecario dei Medici vuole che un tesoro privato diventi bene pubblico: sono trentamila volumi fra stampe e manoscritti, ammas- sati in ogni angolo di casa sua. E sono un bel problema per gli esecutori testamentari: dove metterli? Qualcuno si ricorda dell’antico teatrino di Baldracca, lì, dietro gli Uffizi, dove il lascito magliabechiano trova casa: su quegli scaffali prende forma quella che duecento anni più tardi diventa la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. E che, al momento del trasloco in piazza Cavalleggeri, lascia il posto alla Biblioteca degli Uffizi. Due tem- pli del sapere per uno stesso stanzone di comici.

Del furore di aver libri e ammucchiarli

Non l’avrebbe mai immaginato: da figlio di “cuoiaio” a motore della cultura europea, segretario perpetuo dell’Accademia Fio- rentina, membro dell’Arcadia. Questo è Antonio Magliabechi. Eppure anche la sua è una partenza tutta in salita. È il 1640 e Antonio rimane orfano di padre: ha sette anni. Comincia presto a studiare il latino, ma deve interrompere e pro- vare a costruirsi un futuro da artigiano, lavorando come garzo- ne dai gioiellieri Guidi & Comparini. La madre capisce in fretta che le pietre preziose non sono il futuro di Antonio: ha un gran cervello, quel ragazzo, e una memoria prodigiosa. Le sue doti la convincono a fare di tutto per sostenerlo: niente più bottega, si riprende col latino, il greco, l’ebraico. La fortuna arriva grazie all’incontro con Michele Ermi- ni, bibliotecario dei Medici. È lui a farlo conoscere al cardina-

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le Leopoldo,­ la mente scientifica della famiglia, nonché grande collezionista di libri rari, dipinti, statue. Ed è il sodalizio con il principe a dare una direzione alla passione che arde nel cuore di Antonio Magliabechi. Non ha una vera formazione accademica, non scriverà mai neppure un saggio. Ma «il furore di aver libri e di ammucchiarli» lo consuma, la memoria portentosa e il sapere enciclopedico fanno il resto. Dopo la scomparsa di Leopoldo, l’erudito resta accanto al fratello Ferdinando ii, e poi a Cosimo iii: diventa nei fatti il biblio- tecario dei granduchi di Toscana. Mai qualifica fu più azzeccata. I libri sono la sua vita. Li acquista, li scambia, li riceve in dono. Per comprarli è disposto a risparmiare su tutto. Presto comincia ad accatastarli nella sua casa di via della Scala, e non c’è scaffala- tura, non c’è biblioteca che li contenga tutti. Nella sua «povera Libreriuola» si accumuleranno 25.000 volumi e 2.873 manoscritti, che «l’uno sopra l’altro ammassati in tutte le sue stanze, e dispersi, e talora lacerati, si stavano». E, tuttavia, «in quelle masse» Antonio sa bene «dove ogni Libricciuolo si trovi, anche se per cavarlo di dov’è, ben spesso vi bisogna non piccola fatica». I libri sono l’u- nica ricchezza dell’erudito, che li mette per terra o sulle scale, in cucina e in camera da letto. Quando qualcuno gli chiede un dato, o un’informazione, Antonio può indicare «non che è il Libro, ma la pagina, la colonna, il verso». Insomma, oltre a possederli, li leg- ge pure. Anzi, li studia. Ricercatori di ogni tipo si rivolgono a lui per mille motivi: informazioni sugli argomenti più disparati, aggiornamenti sulle pubblicazioni, consigli su che cosa comprare, su come condur- re certe ricerche, su come pubblicare e a chi rivolgersi. Se c’è qualcuno in grado di sapere chi ha scritto cosa, questo è Antonio Magliabechi. E probabilmente ha anche il libro sull’argomento. Immensa la mole dell’epistolario magliabechiano, una raccolta di carteggi con scienziati, filosofi, intellettuali di ogni paese euro- peo, da Leibniz a Vico, da Michel Germain a Johann Graevius, da Francesco Redi ad Apostolo Zeno. La modesta dimora all’incro- cio fra via de’ Canacci e via della Scala diventa punto di riferimen- to di tutto ciò che si pubblica a cavallo fra Seicento e Settecento non solo in Italia, anche in buona parte dell’Europa. Lo studioso non si sposerà mai, né avrà figli. Niente perso- nale di servizio. Le vesti sono trasandate, consuma pasti frugali da solo, e la leggenda vuole che usi una sardella come segnalibro

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mentre, seduto sulla seggiola di casa, legge, legge, legge vorace- mente. Non scrive né pubblica niente: il suo unico intento è far circolare i saperi, stimolare la produzione e la diffusione di cono- scenza. Lo criticano i cattolici quando appoggia l’uscita di qual- che testo ritenuto “non ortodosso”. Fanno lo stesso gli scienziati quando si adopera per dare alle stampe certi volumi in cui sem- bra che Galileo non sia mai esistito. Lui si diverte nell’assumere posizioni controverse: nell’«offrire per le cattedre più rispettabili personaggi sospetti», nel far circolare «sotto venerabili tonache libri proibitissimi». Un giorno gli arriva una biografia denigrato- ria su di lui, in latino, pubblicata in forma anonima: a cui rispon- de mettendo insieme un volume di lettere elogiative. Senza farsi sconvolgere più di tanto dalle polemiche, i Medici apprezzano l’immensa competenza dell’erudito, e gli affidano la Palatina, la Laurenziana, e anche un appartamento. Che lui rifiuta. È il 1707: il principe Ferdinando, erede al trono in mano al padre Cosimo iii, insiste perché il vecchio dotto cambi stile di vita, lasci la casa di via della Scala e si trasferisca a Palazzo Vecchio, dove può anche trovar migliore collocazione alla biblioteca. An- tonio ci pensa parecchio, poi accetta e comincia il trasloco. Dopo quattro mesi, fa marcia indietro. Non si ritrova, la nuova sistema- zione non lo convince. Forse le stanze sono troppo grandi, forse vivere a palazzo non fa per lui, gli mancano le vecchie abitudini, i percorsi scavati fra i volumi, l’odore della carta. Così torna sulla sua seggiola in via della Scala, lasciando al granduca i libri che aveva già trasferito. Controcorrente, moderno, illuminato: prima ancora di Anna Maria Luisa de Medici – che legherà a Firenze il tesoro della fami- glia – Antonio Magliabechi lancia al mondo la visione di un patri- monio culturale “bene comune”, risorsa sostanziale per la crescita delle comunità, per lo sviluppo dei luoghi. Quando fa testamento, lascia la sua immensa collezione a Firenze, a un’unica condizione: che se ne faccia una biblioteca aperta a tutti. «In primo luogo, desiderando [...] promuovere gli studi, le virtù e le scienze, e con quelle la pietà e il bene universale della sua amatissima patria; perciò intende e vuole, che di tutti i suoi libri, che esistono, tanto nella casa di sua solita abitazione, quanto di quelli che si trovano nelle due stanze di Palazzo Vecchio [...] se ne formi una pubblica libreria a beneficio universale della città, e specialmente per li poveri, sacerdoti e secolari, che non

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hanno il modo di comprar libri e potere studiare». Qualche dub- bio sul reale interesse dei sovrani alla sua collezione, Magliabechi lo deve avere, perché inserisce una postilla al testamento: se la cit- tà di Firenze rifiutasse la donazione, l’intero patrimonio passerà ai domenicani di Santa Maria Novella. Coloro, fra l’altro, che lo stanno assistendo negli ultimi mesi di vita. Il lascito getta nel pani- co Cosimo iii e tutta la corte: bellissimi quei libri, ai domenicani no, li prendiamo certamente noi. Ma dove metterli?

La vita di tutti i giorni sbattuta sul palco: è il teatro

Giusto dietro agli Uffizi c’è il teatro di Baldracca: uno stanzone al primo piano del Palazzo della Dogana nuova, vicino allo scalo fluviale sull’Arno. Si chiama così in ricordo di una celebre osteria, e del malfamato quartiere che le girava attorno, fatto di bordelli e case popolari. Una zona rasa al suolo centocinquanta anni prima per lasciar posto agli Uffizi, edificio imponente in cui, oltre agli uffici amministrativi, trovano posto anche i magazzini del porto fluviale per lo scarico delle merci (a piano terra) e lo “stanzone delle commedie” per il svago del popolo (al piano superiore). Pa- nem et circenses, non si sbaglia mai. La Baldracca è a tutti gli effetti il primo teatro stabile ita- liano, a edificarlo nel 1560 è Francesco de Medici, per mano di Buonta­lenti. Nasce un modello di sala destinato a superare i seco- li: una grande stanza spoglia con pavimento degradante, a forma di u; un palcoscenico; e una serie di palchi laterali muniti di grate per offrire ospitalità a chi desidera vedere senza essere visto. Fra questi, anche i granduchi, che arrivano direttamente dagli Uffizi grazie a un passaggio riservato. Neppure loro vogliono perdersi gli spettacoli frizzanti, l’arguzia, le piccole indecenze dei primi professionisti della comicità. Sul palco di Baldracca vanno in scena gli spettacoli della Commedia dell’arte. Niente battute scritte, solo ruoli “tipici”: il ricco gabbato, il dottore faccendiere, gli innamorati, il servo scioc- co. Eredi di giullari e saltimbanchi medievali, dopo aver messo in un cassetto le commedie erudite del Rinascimento, i comici portano sul palco la vita di tutti i giorni, le gelosie, i sospiri. Gli spettacoli sono improvvisati, ma sempre sulla base di canovacci: far ridere è diventato un mestiere.

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A Firenze fra Cinque e Seicento la Baldracca vive il suo mo- mento di gloria. Nel 1589 la compagnia dei “Comici Gelosi” è chiamata dai Medici a festeggiare il matrimonio di Ferdinando e Cristina di Lorena. Gli attori interpretano la Pazzia di Isabella, incassando un successo tale da spingerli poi verso Spagna, Ger- mania, Inghilterra. La Commedia dell’arte diventa Commedia all’italiana. In città il pubblico si appassiona agli spettacoli a tal punto che un editto granducale deve proibire il lancio di oggetti in scena. Battute sarcastiche e fischi vanno bene, ferire gli atto- ri non si può. Ogni sera fino a quattrocento persone si mettono in fila: sono artigiani e bottegai, quel popolo finora escluso dagli spettacoli eruditi portati in scena per i principi, e che ora può per- mettersi di pagare il biglietto d’ingresso per assistere alle vicende del servo sempre affamato e senza soldi che inventa una truffa ai danni dell’avido padrone. O della giovane innamorata, travestita da uomo, il cui fratello gemello perduto da piccolo riappare, ge- nerando equivoci a non finire. Lo stanzone sopra i magazzini fluviali arriva all’apice della fama, poi nel Seicento lentamente si svuota. Non tanto per il bi- gottismo dell’epoca (che c’è), né perché cambino i gusti del pub- blico (che in effetti evolvono), quanto per la concorrenza sferrata dai neonati Cocomero e Pergola, e dalle rispettive tifoserie, l’Ac- cademia degli Infocati e quella degli Immobili. Impossibile non rimanere travolti dal derby. E il teatro di Buontalenti pian piano esce di scena. Quel palcoscenico che aveva ospitato le smorfie, i duelli d’amore, le truffe dei furbi servitori ai danni dello sciocco marchese resta vuoto e silenzioso. Che farne?

Di come un principe illuminato risolve il problema in punto di morte

A questo punto abbiamo da una parte un teatro dismesso in attesa di una nuova opportunità; e dall’altra migliaia di libri in cerca di una collocazione. Magliabechi infatti muore nel 1714 e per anni la sua eredità giace nell’incuria, vegliata solo dalla promessa che i domenicani non avranno i volumi, patrimonio della città tutta. D’altronde altri e più gravi problemi incombono sul Regno: il pericolo di bancarotta, la morte del principe ereditario, la man- canza di un successore. Per impedire che la Toscana sia fatta og-

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getto di mercanzia fra le grandi potenze europee, Cosimo iii si affanna anche a far scappellare e sposare l’anziano fratello Fran- cesco Maria, con la speranza che generi l’agognato erede alterna- tivo. E invece niente. Alla morte del granduca, la corona passa al terzogenito, Gian Gastone. È questo un altro principe triste, abbandonato dalla madre a quattro anni, cresciuto da un padre freddo che ha occhi solo per il primogenito, disprezzato dal fratello. Un principe sensibi- le, mite, interessato all’arte e alla cultura. Omosessuale. Costretto a sposare una capricciosa principessa boema che odia la città, e a trasferirsi con lei in un villaggio in mezzo alle montagne, da cui cercherà costantemente di evadere. La sua parabola finisce in un abisso di alcol e scorribande notturne. Anche quando risul- ta chiaro che non ci sono alternative e che il trono è destinato lui, Gian Gastone non viene associato al governo dal padre, e continua a dedicarsi alla lettura, alla collezione di antichità, ai postriboli. E tuttavia, una volta diventato granduca, quest’uomo stupi- sce. Per prima cosa ridimensiona il ruolo della Chiesa cui il padre aveva dato in mano la Toscana, eliminando il sistema di spionag- gio ecclesiastico e tagliando le pensioni ai convertiti al cattolice- simo. Poi si dedica alle riforme: alleggerisce il sistema tributario che Cosimo iii aveva spremuto per sostenere le spese di corte, e riduce le tasse, soprattutto quella sul grano. Investe massicciamen- te nell’Università di Pisa, istituendo le cattedre di chimica e alge- bra. Abolisce in pratica la pena di morte, rifiutando di applicarla. Insomma, se la sua dissoluta vita privata alimenta una malevola storiografia, nei quattordici anni di governo Gian Gastone è inve- ce un uomo illuminato, in qualche modo precursore delle grandi trasformazioni introdotte più tardi dai Lorena. È lui a sbloccare lo stallo in cui l’inerzia paterna ha lasciato la questione dell’eredità magliabechiana. E lo fa proprio sul filo del rasoio, quando ormai le sue precarie condizioni di salute si stan- no velocemente deteriorando. Accade durante una visita al teatro di Baldracca. Al granduca sembra il posto perfetto per risolvere l’insoluto problema di tutti quei libri da sistemare, così decide: lo stanzone dei comici diventerà biblioteca. È il 25 dicembre 1736, proprio il giorno di Natale. A pochi mesi dalla morte, con un atto formale e di propria iniziativa, Gian Gastone de Medici firma la nascita della prima biblioteca pubblica fiorentina.

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Per assicurarne l’incremento, il sovrano stabilisce che vi deb- ba essere depositata una copia di ciascuna opera stampata a Firen- ze (più tardi l’obbligo è esteso a tutta la Toscana). Poi affida allo scienziato Antonio Cocchi l’inventario della raccolta, di cui solo il vecchio Magliabechi conosceva fino a quel momento i segreti: nel nuovo catalogo trovano collocazione i trentamila volumi originali, più gli altri che nel frattempo si sono aggiunti grazie a nuovi lasci- ti e donazioni. Infine il granduca sceglie Giovan Battista Foggini per i lavori, con un’unica raccomandazione: procedere «con poca spesa», perché le casse granducali sono davvero all’asciutto. Così l’architetto si mette all’opera. Per prima cosa apre due finestre, appoggiando sulla più grande uno scalone doppio, come una quinta teatrale. Poi fodera le altissime pareti di una scaffalatura di legno, tagliata a metà da un corridoio che corre lungo tutto il perimetro. La nuova biblioteca è una meraviglia, ma il granduca non la vedrà. Stremato da vizi, malinconia e ma- lattia, l’ultimo dei Medici muore nel luglio del 1737, lasciando la sorella Anna Maria Luisa sola a Palazzo Pitti, a far gli onori di casa al principe Craon, reggente dei nuovi regnanti. I lavori appena cominciati proseguono sotto gli Asburgo-Lorena: e final- mente, dieci anni dopo, il tempio del riso è pronto per diventare quello dell’erudizione. Come ricorda un’iscrizione su un carti- glio in sala lettura «Perché, o Firenze, non potresti esser detta bramosa di studi e cultrice di lettere, tu per lungo tempo teatro di commedia e dedito al riso e ora trasformato con miglior desti- no a pubblico domicilio di Erudizione e di Poesia?». Certo, quel «miglior destino» la dice lunga sull’approccio all’antico uso del locale: Sapienza scaccia Lascivia, sembrano sottolineare i Lorena. Gian Gastone forse non l’avrebbe vista così, ma tant’è: non sono i Medici a inaugurare il sogno del fedele segretario. Il merito dell’apertura al pubblico della Magliabechiana viene incassato dai nuovi padroni della Toscana.

Le stampe di qua, i manoscritti di là, e un appartamento al granduca

C’è voluto del tempo, ma il bibliotecario aveva visto lontano, nel suo desiderio di una «pubblica libreria a beneficio universale del- la città». Per quasi duecento anni l’ex teatro diventa luogo di ri-

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trovo per accademici fiorentini e studiosi italiani e stranieri, che vi si riuniscono per leggere, trascrivere e copiare: anche Alfieri, Leopardi, Foscolo passano di qui. Mentre il patrimonio librario cresce. La prima spinta poderosa la dà il solito Pietro Leopoldo, pressato dalla necessità di razionalizzare. È lui a far confluire in Magliabechiana i libri che ormai ingombrano Palazzo Pitti: pro- prio quella biblioteca Palatina (cioè “di palazzo”) che aveva dato un lavoro a Magliabechi. A Pitti si trovano i volumi accumulati dalle ultime generazioni dei Medici, per esigenze di corte o per stimoli propri, come nel caso del cardinale Leopoldo, o del prin- cipe Ferdinando. Tutti i lasciti medicei si immettono qui, come affluenti di un unico grande fiume, in cui si gettano anche le col- lezioni dei Lorena. Addirittura il primo dei nuovi regnanti, Fran- cesco Stefano, pur non abitando praticamente mai a Firenze, fa trasportare da Vienna la propria raccolta personale, nel desiderio di contribuire al patrimonio cittadino. Una volta salito al trono, il figlio Pietro Leopoldo decide che così non si può andare avanti. È tempo di mettere ordine, anche perché è lui che deve andare ad abitare nelle stanze occupate dai libri. Così la biblioteca Mediceo Palatina viene convogliata nei lo- cali dell’ex Baldracca. Un’operazione urgente, come testimoniato da una lettera del direttore del Dipartimento delle finanze, Ange- lo Tavanti, al bibliotecario della Magliabechiana, in cui si invita a evacuare «con tutta la sollecitudine possibile la stanza del Palazzo dei Pitti». Naturalmente con poca spesa. Così i «libri regi» finiscono in cinque ambienti del complesso ex teatrale, velocemente riadattati all’uso; mentre i doppioni van- no all’Università di Pisa o direttamente sul mercato, con il timbro md (magliabechiani doppi). In totale, 11.942 opere a stampa in- tegrano il fondo magliabechiano, cui si aggiungono anche quelle della Laurenziana. Alla quale – in una sorta di triangolo – ven- gono affidati tutti i manoscritti, sia i palatini che i magliabechia- ni. Insomma, il disegno del nuovo granduca sembra chiaro: alla Laurenziana tutti i manoscritti, alla Magliabechiana tutti i libri stampati. A me un appartamento a Pitti.

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Napoleone, le soppressioni, le donazioni: da trentamila a tre milioni di copie

All’instancabile Pietro Leopoldo la palma anche per l’ennesimo guizzo creativo: una collezione di libri espressamente dedicata all’immenso patrimonio artistico cittadino. Ecco l’origine della biblioteca della Galleria delle Statue, come all’epoca si chiamano gli Uffizi. Una raccolta incentrata sui capolavori collezionati dai Medici, primi fra tutti quelli conservati in Tribuna. La biblioteca di un museo, installata accanto ai tesori di cui parla, e dunque anche lei in una sala della Galleria, in quel complesso creato per essere sede di uffici amministrativi, che si sta trasformando in vero incubatore culturale. Intanto poco lontano, l’ex teatrino dei comici continua a crescere, facendo posto a sempre nuovi arrivi. Agli acquisti gran- ducali si aggiungono i lasciti privati, ma soprattutto le varie col- lezioni degli ordini religiosi aboliti. Si tratta delle soppressioni leopoldine, ma anche delle napoleoniche, e di quelle dello Stato italiano. Uno sforzo lungo un secolo, teso a ridurre l’ingerenza della Chiesa nella vita dello Stato, e dunque vero movimento tel- lurico per la rete di compagnie, monasteri, corporazioni ecclesia- stiche annullate. I libri degli enti disciolti vengono destinati a uso pubblico. Ecco che, a partire dalle raccolte dei gesuiti, l’immenso patrimonio conventuale in arrivo in Magliabechiana si fa sempre più consistente. Napoleone istituisce addirittura una Commissio- ne incaricata di timbrare con un’aquila bianca su fondo nero i libri più preziosi, poi ripartiti fra i vari fondi, a cominciare dal «Fondo conventi soppressi». Sono migliaia e migliaia i volumi che lasciano gli antichi scaffali riservati a monaci e sacerdoti, per tro- var posto sui nuovi, aperti equamente a tutti i membri della comu- nità. È l’onda lunga degli ideali rivoluzionari seminati dagli eser- citi napoleonici. Nella prima metà dell’Ottocento la pressione per l’apertura degli archivi, per l’accesso alle fonti, per la diffusione degli strumenti di conoscenza, si intensifica, coinvolgendo anche il patrimonio ecclesiastico. Orgoglio della città, la Magliabechiana cresce di taglia e di re- putazione. Nel 1861, Francesco De Sanctis, ministro della Pubbli- ca Istruzione del neonato stato italiano, la promuove a Biblioteca Nazionale. Per diritto di stampa, una copia di tutto ciò che viene pubblicato in Italia deve essere inviata qui. Magliabechi sarebbe

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sbalordito e fiero: erano trentamila all’origine, adesso superano i tre milioni di copie. Veramente troppi, anche per un corpo di fab- brica che non ha smesso di ingrandirsi per accoglierli. È tempo di creare qualcosa di apposito, di dare una nuova veste edilizia allo straordinario capitale culturale stratificato dai secoli. Un palazzo in cui ogni segmento del sapere abbia lo spazio che merita. Ci vorranno vent’anni, una guerra, un regime. Ma nel 1935 l’operazione è conclusa, tutti i volumi traslocano dall’ex teatro di Baldracca all’attuale sede di piazza Cavalleggeri, fra Santa Croce e l’Arno. Collocazione che si rivela tristemente errata durante l’al- luvione del 1966: sono (anche) i libri di Antonio Magliabechi a finire coperti di fango, proiettando nel mondo l’immagine di una Firenze ferita al cuore.

Quel disegno a memoria degli Uffizi da parte del custode esiliato

Quando la Magliabechiana prende la via dei Lungarni, gli scaffali dell’ex teatro rimangono vuoti per anni. Dopo il riso dei comici e il bisbigliare degli accademici, il silenzio. Difficile trovare un nuovo inquilino. Tanto che bisogna arrivare fino alle soglie del Duemila per- ché un locatario altrettanto illustre faccia il proprio ingresso at- traverso la porta di via della Ninna. È la Biblioteca degli Uffizi, la “scatola nera” del collezionismo mediceo e lorenese. Il deposito più antico della storia dell’arte cittadina. Il cerchio si chiude: due templi del sapere accolti nello stesso stanzone di comici. Voluta dalla lungimiranza di Pietro Leopoldo, specializzata nel settore storico-artistico, la Biblioteca era ed è rimasta fonte di informazioni preziose per studiosi di ogni categoria. Questo labirinto di carta accoglie oggi un patrimonio di ottantamila do- cumenti di ogni tipo: accanto ai preziosi incunaboli e alle cinque- centine, ci sono i carteggi degli artisti (da Vasari ai macchiaioli), i cataloghi di mostre e musei, le biografie, le guide. Tanti i pezzi unici, una storia dell’architettura di Vitruvio del 1535, una rarissi- ma prima edizione delle Vite di Vasari. Trecento anni di inventari della Tribuna. Mille i reperti e le testimonianze che prendono vita sulle antiche mensole disegnate da Foggini, e che ci fanno affac- ciare sulla storia – dell’arte e non solo – nel suo fluire quotidiano.

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Vale la pena spendere del tempo e tuffarsi in questo patrimonio, curiosare fra volumi, cataloghi, disegni. Far riemergere le storie. Ecco il diario personale di Neri di Bicci, quel «dipintore fio- rentino» all’opera nel convento del Fuligno, la cui Ultima cena è scialbata dal Perugino per lasciarci la propria. Compagno d’arte di Botticelli, terzo e ultimo di una dinastia di pittori, Neri affida ai posteri le Ricordanze autografe: vent’anni di vita – fra il 1453 e il 1475 – annotati minuziosamente, ricchi di fatti, commenti, elen- chi di commissioni ricevute e opere dipinte, di grandi eventi come la caduta dell’Impero Romano d’Oriente a opera dei turchi, o di piccoli fatti quotidiani, come l’affitto di un appartamento in San Frediano, o l’acquisto di panno fiorentino per un mantello. Uno spaccato della società fiorentina di metà Quattrocento, in cui Co- simo il Vecchio scompare, e sorge l’astro di Lorenzo il Magnifico. Un salto in avanti, un altro volume eccezionale, che apre la finestra sulla seconda metà del Settecento, grazie agli appunti di viaggio di Luigi Lanzi. L’ex gesuita, grande etruscologo, disoccu- pato dopo lo scioglimento della compagnia, riceve dal granduca l’incarico di viceantiquario reale. Con l’intento di redigere una Storia pittorica d’Italia, si mette a viaggiare attraverso le regioni, appuntando in dieci quaderni ciò che vede in chiese e conventi, case patrizie o dell’alta borghesia. Si tratta di una moltitudine di quadri disseminati nei luoghi in cui sono nati. Lo storico dell’arte prende nota di tutto, fa praticamente il ritratto alle “scuole pitto- riche regionali”, dalla fiorentina alla senese, dalla napoletana alla romana. Un intero mondo che sta per essere investito dal ciclone napoleonico. Con le espropriazioni e le soppressioni, molto di ciò che Lanzi aveva annotato sparisce, o cambia posto. Ma grazie ai suoi appunti, non tutto è perduto: ancora oggi la Storia pittorica del gesuita permette di sapere “dove” si trovava “cosa”. Il che ren- de possibili verifiche o rettifiche importanti, che consentono di collocare a Brera – o più spesso a Parigi – opere sparite dai luoghi d’origine, e ritenute disperse per secoli. È il 1783, e molto prima di camere oscure e dagherrotipi, i taccuini di Luigi Lanzi sono la “fotografia” del patrimonio pittorico italiano. E a proposito di fissare le immagini su supporti sensibili, ecco un oggetto assolutamente straordinario, un catalogo a firma Giu- seppe Bianchi: un nome comune per una storia unica. Bianchi appartiene a una dinastia di custodi degli Uffizi, que- gli eruditi, numismatici o antiquari, che si dedicano personalmen-

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te alla manutenzione quotidiana delle opere. È una carica che si trasmette sostanzialmente di padre in figlio, e la famiglia Bian- chi è arrivata alla quinta generazione. Siamo nel 1768. Giuseppe – erede della carica – è «ministro» del granduca e maestro di pie- tre dure. Una posizione molto appetibile, ma non disponibile sul mercato. Quando, nella notte del 12 agosto, scoppia un incendio in Galleria, il custode viene accusato di negligenza. Il processo – su cui cadono non poche ombre – fa emergere accuse a suo carico per frode e danni al patrimonio. La condanna è la morte. Ma, considerata l’assoluta dedizione sempre dimostrata al lavoro, e la buona reputazione di cui gode, il granduca commuta la pena all’esilio perpetuo. Allontanato da Firenze, da quella Galleria che era tutta la sua vita e nella quale gli viene proibito di rimettere piede, dopo sei mesi d’esilio Giuseppe Bianchi elabora un eccezionale documen- to intriso di nostalgia e dedizione: è il disegno a memoria degli Uffizi. La riproduzione sistematica di tutto quanto vi è contenuto. «Spero di ottenere perdono – scrive Giuseppe nel frontespizio del catalogo – se si troverà qualche piccola posposizione in tale fatica, fatta tutta di immaginazione, senza libri, disegni o scritti, dopo sei mesi che sono da tali cose lontano». Chiede venia, l’ex custo- de esiliato, per qualche piccola, eventuale imprecisione. Che non c’è. Se Antonio Magliabechi aveva memorizzato migliaia di libri, Giuseppe Bianchi è capace di disegnare gli Uffizi riproducendone correttamente l’intero contenuto, sala per sala, statua per statua. Tutti i quadri, i frammenti, persino le iscrizioni. Tutto consegnato alla memoria e tutto riportato fedelmente su carta. Una straordi- naria dichiarazione d’amore. Un grido d’innocenza.

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L’Osservatorio Ximeniano «Provando e riprovando» nasce il motore a scoppio

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 261 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 262 10/05/21 14:51 Uno scienziato morto misteriosamente, un’invenzione “scippata”: ecco la storia di come il primo motore a scoppio – inventato a Firenze – fu attri- buito a un tedesco. Mentre il vero artefice della scoperta, padre Eugenio Barsanti, si spegneva con strani sintomi in Belgio, dopo aver tentato di far partire la produzione industriale del prototipo italiano. È anche questo lo Ximeniano, antico laboratorio astronomico culla del pensiero scientifico, fiorentino e non solo. Qui nasce la prima rete meteorologica del mondo. Qui viene ideato il primo motore a combustione interna della Storia. Fon- dato dal gesuita e astronomo Leonardo Ximenes, passato nelle mani dei padri scolopi dopo lo scioglimento della Compagnia di Gesù, l’Osservato- rio è museo e stazione scientifica, tutt’ora in funzione nelle stesse stanze in cui fu fondato.

Una cupola verde per sciogliere i dubbi sull’Universo

La si vede bene solo dall’alto: è una piccola cupola verde, nulla a che vedere con la maestà della sorella brunelleschiana, o la regali- tà di quella dei Principi. Però è lì, acquattata fra i tetti, a marcare il territorio mentre scioglie i dubbi sull’universo. Monumento a un pensiero scientifico che sfiora l’oblio nella città dell’arte. E che invece esiste, e viene da lontano. E segna tappe importanti nel cammino dell’uomo sulla via della ragione. La piccola cupola verde tesa a scrutare il cielo è sorretta da muri che hanno fatto la storia della scienza, che hanno visto na- scere la sismografia, il motore a scoppio, la raccolta dati meteoro­ logica più antica del mondo. Sono le stanze dell’Osservatorio Ximeniano, tempio dell’osservazione empirica costruito dalla disciplina gesuita. Propulsore del dialogo tra fede e scienza nella sua versione più feconda. Da oltre duecento anni, questa stazione

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scientifica prende il polso alla città, misurando quotidianamente la temperatura in centro storico. Ma la sua storia va molto più in- dietro, e comincia proprio con l’arrivo della Compagnia di Gesù alla corte di Cosimo i de Medici. È il 1557.

Scienza e fede: due visioni opposte, che pure dialogano

Missionari, esploratori, soldati di Cristo e del papa, in pista contro l’eresia. Come la minaccia catara aveva fatto da propellente alla nascita di francescani e domenicani, così quella luterana lancia i gesuiti, confraternita religiosa fondata da un ex soldato basco, Ignacio de Loyola. Un ordine nutrito dalla disciplina militaresca del fondatore, che sul rigore imposta la marcia. Dopo gli eccessi del papa Borgia, le armature di Giulio ii e l’arte di Leone x, i prin- cipi di virtù, spiritualità e studio, predicati e messi in atto dalla compagnia, fanno breccia in una società stanca dei fasti corrotti della Chiesa rinascimentale. Convertire ed educare: in perenne movimento da un paese all’altro, coltivando un pensiero aperto verso il mondo, i sacer- doti abbracciano con slancio la missione formativa, che li porta a un coinvolgimento con la cultura laica mai visto prima in una congregazione religiosa. «Datemi un bambino nei primi sette anni di vita e io vi mostrerò l’uomo» recita un celebre motto della Compagnia. Se lo scopo primario resta la diffusione della fede, la formazione integrale della persona entra a pieno titolo nel cur- riculum, anzi ne diventa il perno. Ecco perché tra fratelli laici o preti professi si contano schiere di astronomi e poeti, matematici e architetti, antropologi o botanici. Non solo i gesuiti si fanno ponte fra fede e cultura, ma le loro aule sembrano fra le poche in grado di traghettare il pensiero scientifico del Cinquecento attra- verso le acque burrascose della Controriforma. È la fede che parla con la scienza, l’una immersa nella necessità del dogma, l’altra nel bisogno di prove. Eppure in un dialogo continuo. Ma a una condizione: che la scienza non esca dal recinto delle “ipotesi”, che non si metta in testa di ribadire verità. Un sacrificio tutto sommato accettabile, se si considera l’enor- me vantaggio di poter proseguire nella ricerca. Così la convivenza fra due formazioni mentali in sostanziale opposizione prosegue,

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producendo risultati sorprendenti anche perché sostenuti dai fi- nanziamenti delle classi abbienti, i cui rampolli vengono educati negli istituti fondati dalla Compagnia. Nascono i “collegi dei nobi- li”, scuole gesuitiche preuniversitarie aperte ai ragazzi dai dieci ai vent’anni, che in un clima di assoluto rigore studiano grammatica e filosofia, fisica e matematica, e naturalmente teologia. Anche se negli anni l’attività speculativa relativa a essenza e attributi divini sembra cedere il passo. C’è anche chi dice che questo “lassismo teologico” sia poi alla base dell’eliminazione dell’ordine.

Quella rete di stazioni meteo sui tetti dei collegi d’Europa

Nelle scuole gesuite l’insegnamento è gratuito, non ci sono rette da pagare: ma le donazioni dei genitori tengono in vita attività e formazione. A Firenze, Cosimo i assegna alla Compagnia la ma- landata chiesetta di San Giovannino, in via Martelli, a metà stra- da fra la Cattedrale e Palazzo Medici. E dà all’architetto del mo- mento, , il compito di rimetterla in piedi e i fondi per farlo. I lavori non potrebbero continuare a lungo senza l’intervento della moglie di Ammannati, Laura Battiferri, erede di un cospicuo lascito paterno. La donazione viene investita nell’ampliamento della chiesa, nella costruzione di un convento e di un collegio. Se sia un’offerta a favore del marito o dei gesuiti, poco importa: rimane il fatto che nei primi decenni di vita della Compagnia qualsiasi supporto è benvenuto per assicurarne la so- pravvivenza. Un’aspettativa che in effetti va al di là delle più rosee previ- sioni. In poco tempo l’ordine cresce in modo esponenziale, disse- minando collegi in tutta Europa. E proprio dai tetti degli istituti si avvia quello che a tutti gli effetti è il primo servizio meteorologico del mondo. Nel 1654 il cappellano di corte padre Luigi Antinori – col supporto del granduca Ferdinando ii de Medici – mette in piedi dal San Giovannino la rete medicea, un network di stazioni meteo situate proprio all’interno dei “collegi dei nobili”. La rete racco- glie dati a intervalli regolari da Cutigliano, Vallombrosa, Bologna, Parma, Milano, Innsbruck, Parigi, Londra e Varsavia: nulla di si- mile è mai stato fatto prima. Se l’uomo da sempre scruta il cielo

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misurando pioggia, freddo e neve per navigare o coltivare, fino a questo momento non c’è stato nessuno sforzo sistematico di rac- colta e archiviazione di elementi utili a un’analisi, tanto più su un territorio così esteso. Adesso, invece – in ciascun osservatorio del- la rete – temperatura e pressione, direzione del vento e stato del cielo vengono annotati in appositi registri. Un bel passo in avanti sul cammino della meteorologia. D’altronde, non è un caso che l’idea parta proprio dal col- legio di via Martelli. Qui, infatti, gli studenti usano da anni ter- mometri e barometri inventati dai discepoli di Galileo Galilei per continuarne l’apostolato scientifico. Sono i meravigliosi scienziati dell’Accademia del Cimento.

Provando e riprovando, la scienza vola

Piccolo passo indietro: vent’anni prima, ai tempi del processo a Galileo, ormai anche dentro la Chiesa molti danno per scontata la maggiore attendibilità della tesi eliocentrica. Lo stesso papa Gre- gorio xiii ha già riformato il calendario basandosi proprio su quel Sole agganciato al centro dell’universo, che scalza il primato della Terra dal Regno dei cieli. Dunque, il vero motivo del contendere è un altro. Gli accusatori, col cardinale Bellarmino in testa, chie- dono a Galileo di «parlare ipoteticamente e per supposizione»: di abiurare insomma alla certezza scientifica che le sue osservazioni empiriche gli danno. Cosa che – inizialmente – lo scienziato si rifiuta di fare. Già Copernico, cento anni prima, aveva affermato che il Sole è inchiodato in mezzo a tutto il resto. Ma lui se l’era cavata meglio, facendo scrivere da un astuto ecclesiastico una prefazione al suo unico libro, in cui si legge: «Non è affatto necessario che queste ipotesi siano vere, e neppure che siano verosimili: piuttosto, è suf- ficiente una sola cosa: che diano luogo a calcoli che concordano con le osservazioni». Insomma, un esperimento può al massimo verificare un’ipotesi, ma il suo risultato non è inevitabilmente la verità. Una sorta di acrobazia cerebrale che consente alla Chiesa di accogliere come mera ipotesi la rotazione terrestre intorno a un Sole fermo, grazie allo “scudo” offerto dal famoso versetto bi- blico: «E il Sole si fermò e la Luna rimase al suo posto» (Giosuè 10,12-13).

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La fine della storia è nota: Galileo ritratta, salva la pelle e vie- ne rinchiuso a . Sembra una sconfitta. Ma il metodo sperimentale con cui lo scienziato aveva scrutato il mondo è im- mediatamente abbracciato da un piccolo drappello di accademici, decisi a continuare la verifica empirica delle ipotesi per scoprire le leggi che governano la realtà. È addirittura il granduca Ferdi- nando ii a mettere a disposizione degli studiosi una stanza di Pa- lazzo Pitti, accanto alla Biblioteca Palatina. Alloggiati e sfamati dai Medici per studiare e sperimentare, gli eredi di Galileo fondano l’Accademia del Cimento, una congrega di liberi cervelli senza leg- gi, costituzioni, apparati. Un sodalizio legato da un programma e da un metodo di lavoro inequivocabili: «Provando e riprovando». Nell’arco di dieci anni, dalle sedute informali e le chiacchie- rate quotidiane registrate in appositi diari, nascono il termometro ad alcol, il barometro di Evangelista Torricelli, l’igrometro a con- densazione, il pluviometro descritto da Benedetto Castelli. E poi ci sono gli appunti e le osservazioni di Francesco Redi, Vincenzo Viviani, Carlo Dati e Niccolò Stenone. Gli interessi sono infiniti, dalla pressione dell’aria alle proprietà del calore, dalla propaga- zione di suono e luce all’astrofisica. Tutto è materia di studio, tut- to diventa sapere espresso in forma di leggi matematiche. Non c’è campo della scienza che alle osservazioni del Cimento non sia debitore. E non è un caso che i rampolli fiorentini, alloggiati a San Giovannino, utilizzino gli strumenti ideati dall’Accademia per portare avanti gli studi e le attività della rete meteorologica. Grazie alla combinazione di mecenatismo mediceo e disciplina gesuita, il collegio di via Martelli abbraccia con crescente entu- siasmo quella formazione scientifica che attraverso il Cimento ha imparato un metodo, ricevuto un indirizzo. Quando – cento anni più tardi – arriva padre Leonardo Xi- menes, le lenti vengono spostate dagli igrometri, e puntate verso il cielo. È il momento del balzo astronomico.

Di Leonardo Ximenes, il letterato che ama l’ingegneria idraulica

Nato a Trapani da genitori spagnoli, il gesuita Leonardo Ximenes arriva al collegio di San Giovannino di Firenze per completare gli studi in campo letterario. Ma – forse a causa del clima particolare

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respirato nelle stanze dell’istituto – verso i trent’anni si rende con- to che la sua vera vocazione non ha nulla a che fare con le lettere. Ximenes è attratto da due cose molto diverse fra loro. L’astrono- mia, per avvicinare l’uomo a Dio tramite lo studio dei cieli. E l’in- gegneria idraulica, per migliorare la vita sulla terra, strappandola alle insidie delle acque. Il cammino scientifico è tracciato. In tutte le ore lasciate libere dall’insegnamento delle lettere, Leonardo si mette a studiare le leggi che governano i corpi celesti, e i fenome- ni relativi al moto e all’equilibrio dell’acqua. Allo studio seguono le pubblicazioni: in breve diventa lo scienziato di spicco dei gesui­ ti. È già un uomo maturo quando ottiene la cattedra di Geogra- fia. Da lì in poi è un susseguirsi di riconoscimenti e incarichi, fra cui il più importante è “matematico del granduca”, destinato a sovrintendere a tutte le opere pubbliche della Toscana. Ancora oggi il territorio regionale è costellato dai lasciti xi- meniani: per esempio la Pistoiese, strada costata all’epoca due milioni di lire e particolarmente apprezzata perché consente di bypassare lo Stato Pontificio – e i suoi pedaggi – per arrivare a Mo- dena. Innumerevoli anche le operazioni di risanamento lanciate dal matematico nella piana di Lucca o in quella pisana. Anche il borgo di Castiglion della Pescaia, il padule di Bientina o lo scalo commerciale di Grosseto devono a lui la propria forma odierna. Il gesuita è convinto che bonificare sia molto più che togliere un po’ d’acqua o aggiungere un po’ di terra: territorio, popolazio- ne, attività produttive e apparato idrico sono per lui un tutt’uno, da affrontare con interventi organici, fatti di sostegno economico come di riforme giuridiche, a partire dal riassetto amministrativo della pesca. E anche di costruzione di mulini, e ponti, come quelli sui torrenti Lima e Sestaione, o come la “Casa Rossa”, innalzata a Castiglion della Pescaia per controllare il flusso delle acque di un naviglio (e oggi sede di uno splendido museo multimediale). Insomma, Ximenes è proprio l’uomo di cui Pietro Leopoldo ha bisogno. Anche se in un’occasione il granduca sconfessa pubblica- mente il matematico di corte. Si tratta del celebre confronto di Montepulciano tra Leonardo Ximenes e Tommaso Perelli, tenuto davanti al sovrano il 22 ottobre 1769 sui possibili metodi di ri- mozione delle acque stagnanti in Valdichiana. Ximenes si fa por- tavoce della visione “radicale”: bisogna prosciugare, scavare una fitta rete di fossi e canali e far scaricare l’acqua. Perelli sostiene

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il metodo opposto: bisogna colmare, portare terra e riempire le zone paludose. Il granduca ci pensa su, poi sceglie la strada più conosciuta ed economica, quella per colmata. E si sbaglia. Sarà la tecnica indicata dal gesuita a risolvere i problemi della Valdichia- na, ma deve passare un altro secolo e la scienza fare qualche passo in più. Nella direzione indicata dallo sguardo di Ximenes, così curioso, sempre proiettato nel futuro. Rivolto alle stelle.

...ma puntando le lenti verso il cielo scopre l’inclinazione dell’asse terrestre

La vera grande passione del matematico è – e rimane sempre – l’astronomia. Fin dai primi tempi al San Giovannino ha scelto la soffitta del convento come rifugio da cui scrutare il cielo. Appena la fama e i fondi glielo permettono, costruisce un vero osservato- rio astronomico (o specola), da cui studia il cammino dei pianeti, l’influenza della Luna sulle maree, i satelliti di Giove. Arriva a de- terminare latitudine e longitudine di Firenze. Ma è soprattutto il Sole ad affascinarlo, e per trent’anni Ximenes lo osserva, dai tetti del convento ma anche dalla meridiana della Cattedrale, costrin- gendosi a un appuntamento annuale sotto la cupola di Brunelle- schi per procedere alle misurazioni dello gnomone costruito nel Quattrocento dall’astronomo Paolo dal Pozzo Toscanelli. Lo gnomone è uno strumento che permette di misurare la posizione del Sole e i suoi spostamenti: può essere un palo, una colonna, qualsiasi cosa produca un’ombra a terra. Nel Duomo di Firenze è semplicemente una tavoletta di bronzo con un foro, ap- plicata lassù, a una finestra del tamburo della cupola, a 90 metri d’altezza. Sul pavimento della Cattedrale, una linea meridiana graduata e un marmo circolare con le dimensioni del Sole al sol- stizio d’estate misurano gli spostamenti della luce filtrata attraver- so il foro, 90 metri più in alto. In pratica, scendendo attraverso la cupola, i raggi formano a terra un’immagine del Sole che va a sovrapporsi gradualmente al cerchio in marmo sul pavimento. Il che fa dello gnomone di Firenze il misuratore di ombre solari più grande al mondo. Il tutto quando non ci sono nuvole in cielo a velare l’operazione, ovvio. Nato nel 1475 – ai tempi di Lorenzo il Magnifico – lo stru- mento viene usato nel presupposto che ogni anno, nei giorni

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del solstizio, il Sole torni nello stesso punto indicato dal cerchio. Obiettivo: scoprire se la cupola non stia per caso cedendo, timore assai presente nei primi decenni di vita della prodigiosa costruzio- ne. Ma dopo trent’anni, visto che la volta brunelleschiana regge (e quello che sembra non tenere è invece la Repubblica fiorentina), la famosa misurazione cede il passo a più pressanti occupazioni, e lo strumento cade in disuso. Fino all’arrivo di Leonardo Ximenes. Il quale per prima cosa ricalibra lo gnomone, nel frattempo quasi otturato. Poi ricomincia a prendere le misure, ogni anno, per trent’anni, dal 1756 fino alla morte. Confrontando i dati con gli ultimi che aveva a disposizione, Ximenes si rende conto che no, il Sole non torna nella stessa posizione. E dunque? È quello che si chiama l’obliquità dell’eclittica, l’angolo di intersezione fra il piano dell’orbita della terra e il piano dell’equatore. Un angolo che rappresenta l’inclinazione dell’asse terrestre, misura prezio- sa all’origine delle stagioni, che già gli antichi greci conoscono e studiano. Grazie allo gnomone e alla meridiana, Ximenes riesce a cal- colare la variazione di quest’angolo, scoprendo valori vicinissimi a quelli noti oggi. Una scoperta prestigiosa, che spinge l’Accade- mia scientifica russa a chiedere al matematico di trasferirsi a San Pietroburgo per sviluppare le sue teorie. Cosa che lui non prende nemmeno in considerazione, continuando la ricerca, l’insegna- mento, la pubblicazione di articoli e libri. Tutto rigorosamente dalle stanze di via Martelli. Nel 1773 una notizia deflagra nella sua vita: la Compagnia di Gesù è soppressa, ordine del papa. Per i gesuiti è la fine. Troppo influenti? Troppo superbi? Troppo a favore degli indigeni contro la colonizzazione europea? O portatori di troppi interessi eco- nomici? La manovra è comunque politica. I governi europei si affrettano a incamerare i beni dell’ordine, con l’eccezione della Russia, la cui zarina Caterina non promulga l’editto papale, of- frendo ospitalità alla diaspora. Ma i gesuiti non possono accettare, a meno di non incorrere nel peccato mortale di disobbedienza. Qualcuno lo fa. Molti optano per la dispersione, le deportazioni, gli accorpamenti. A Firenze, i sacerdoti in partenza lasciano San Giovannino nelle mani degli scolopi. Ma per Ximenes si decide al- trimenti: il suo prestigio è tale che gli viene concesso di restare nei locali in cui ha studiato tutta la vita. Nessuno tocca la sua specola, dove lo scienziato continua le osservazioni, fino al giorno della

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morte. Quando un colpo apoplettico lo spegne, nel 1786, i padri scolopi decidono di non sopprimere la memoria di quel grandio- so matematico orfano di un ordine religioso. Così gli viene intito- lato l’ultimo piano di quel convento in cui il pensiero scientifico ha ricevuto una spinta decisiva. È il battesimo dell’Osservatorio Ximeniano.

Inghirami, la sua carta geometrica vale un cratere lunare

Riconoscente agli scolopi per l’ospitalità ricevuta, il gesuita lascia loro in eredità la biblioteca e tutti gli strumenti astronomici, i telescopi, gli astrolabi, i sestanti. Ma lo scrigno dello Ximeniano contiene oggi altri cimeli, ognuno portatore di un pezzo di storia dell’istituto. Fa bella mostra il cannocchiale per misurazioni trigonome- triche con cui padre Giovanni Inghirami realizza nel 1830 la pri- ma Carta geometrica della Toscana: un lavoro così importante che quando l’Accademia delle Scienze di Berlino intraprende la pri- ma costruzione di un atlante astronomico, assegna al sacerdote italiano una porzione della mappa del cielo, e lui la fa così bene che gli astronomi tedeschi gli dedicano una valle della Luna e un cratere, ancor oggi denominato cratere Inghirami. C’è poi il gigantesco telescopio newtoniano, incastonato sotto la cupola verde dell’Osservatorio e realizzato per il terzo Congres- so degli Scienziati Italiani del 1841, a Firenze. A riprova dell’ambi- zione cittadina a scrollarsi di dosso il Rinascimento per (ri)posizio- narsi sulla piattaforma di lancio del progresso scientifico. Ma la storia più incredibile è quella del motore Barsan- ti-Matteucci. Quei pistoni, quelle valvole incarnano il sogno dell’uomo del futuro, generato proprio nelle stanze dell’ex col- legio di San Giovannino. È il primo motore a combustione in- terna della storia, si lascia tutto dietro, il carbone, il vapore. Più maneggevole, più sicuro, facile da avviare, è il primo passo verso l’automobile. Un progetto tutto fiorentino, nato nei locali dell’Osservato- rio Ximeniano dove il sacerdote Eugenio Barsanti vive e insegna fisica e idraulica. Accanto a lui Felice Matteucci, ingegnere mec- canico. Il primo è figlio di un’umile famiglia, gracile di salute,

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uno sperimentatore geniale, tormentato fin da giovane dall’idea di ricavare forza dallo scoppio di una miscela. L’altro è figlio di un ricco diplomatico, marito di una nobile spagnola, non ha fatto nulla di veramente speciale nella vita fino a quando non incon- tra padre Eugenio. Da allora, i due combattono insieme per quel progetto comune: sfruttare lo scoppio di una miscela gassosa per ottenere movimento, producendo un’energia che faccia muovere navi, fabbriche, officine. Veicoli a quattro ruote? Non ancora, per quelli bisogna aspettare un po’. Si cerca piuttosto una risposta ai crescenti bisogni energetici delle industrie, i primi esperimenti si fanno su motori alti anche due metri. E all’inizio – come spesso succede nella scienza – le cose non funzionano.

Il primo motore a scoppio, storia di un’invenzione scippata

Il primo motore a idrogeno brevettato da Barsanti e Matteucci crea molti problemi, la spinta dello scoppio è troppo forte, dif- ficile da governare. Provando e riprovando, i due sostituiscono all’idrogeno una miscela di metano e aria, e sfruttano il moto di ritorno del pistone, grazie al raffreddamento del gas. Adesso sì, ci siamo. Il prototipo viene realizzato nei laboratori della Pignone, al tempo Fonderie Bernini. È il 1853: il brevetto è subito deposi- tato all’Accademia dei Georgofili, e poi in Inghilterra, Francia, Austria, Prussia. Ma questa è un’Italia preunitaria, ancora priva della forza di uno Stato centrale capace di tutelare le scoperte a livello interna- zionale. È priva anche di un’industria meccanica di precisione, ed è costretta a guardare oltre frontiera per la realizzazione delle proprie idee. Dunque, i brevetti sono depositati, ma l’invenzione non è riconosciuta. E nessuna azienda si fa avanti per la produzio- ne. Dopo molti sforzi, Barsanti e Matteucci decidono di cercare all’estero. Si rivolgono alla John Cockerill, società belga specia- lizzata in propulsori a vapore per ferrovie e navi, chiedendo la costruzione di un motore da quattro cavalli. I dirigenti della ditta in realtà sono un po’ increduli rispetto alla nuova invenzione. Ac- cettano di produrla, a condizione che qualcuno porti a Seraing, in Belgio, il prototipo smontato, lo rimonti e lo faccia funzionare. Cosa che padre Eugenio fa.

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La scoperta italiana è una vera rivoluzione. Nelle lettere in- viate all’Osservatorio dallo stesso sacerdote – e conservate oggi in archivio – si legge della reazione sbalordita di fronte al funzio- namento della macchina: operai e dirigenti rimangono sempli- cemente a bocca aperta. La produzione comincia. Ma, dopo un mese, il padre del motore a scoppio si ammala e muore, proprio lì, a Seraing. È il 1864, la diagnosi è tifo petecchiale. I telegram- mi, che il fratello di Barsanti invia all’Osservatorio durante la ma- lattia, evidenziano in realtà strani sintomi: così strani che, dopo averne preso atto, un medico fiorentino avanza l’ipotesi di veleno. Sarà la solita ossessione complottistica, o forse un caso. Ma solo pochi mesi dopo la morte di padre Eugenio, l’ex commesso viaggiatore tedesco Nikolaus August Otto, privo di titoli di studio, fonda una ditta a Coblenza, e produce il suo primo modello di motore a combustione interna, sulla base di disegni stranamente simili a quelli dei due italiani. Intanto a Firenze, senza la guida di Barsanti, la società costituita per promuovere l’invenzione falli- sce: Felice Matteucci cade in depressione, abbandona la ricerca, torna a fare l’ingegnere idraulico. Nel 1876, quando la scoperta del motore a scoppio viene ufficialmente attribuita a Nikolaus Au- gust Otto, Matteucci ne rivendica con forza la paternità, afferman- do che lui e Barsanti hanno depositato un brevetto ai Georgofili e negli uffici di mezza Europa ben ventitré anni prima. Ma non c’è niente da fare, il Bel Paese perde la partita. La cosa buffa è che se si va al Deutsches Museum di Monaco di Baviera – il più grande museo al mondo di scienza e tecnologia – una riproduzione della macchina a grandezza naturale è oggi esposta con la seguente tar- ghetta: «Modello del primo motore a scoppio della Storia, ideato e costruito da Eugenio Barsanti e Felice Matteucci». Cos’altro aggiungere dopo una storia così? Che è il progresso a mettere in pensione le osservazioni astronomiche dello Xime- niano. Nella seconda metà dell’Ottocento – mentre gli scolopi ce- dono parte dell’edificio al Ginnasio Regio, poi Liceo “Galileo” – in piazza Duomo arrivano i lampioni a gas e i tram a cavallo: troppe vibrazioni, troppa luce diffusa, l’osservazione del cielo è cacciata dal centro fiorentino e spostata ad Arcetri. Il telescopio gigante ri- mane lì, agganciato alla cupola verde, ancor oggi visibile a tutta la città. Muto testimone dello splendore di un tempo, monumento a questo tempio eretto dalla fede per la scienza. Allo Ximeniano restano in attività la stazione di rete sismica e quella meteorolo-

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gica, quest’ultima in attività da duecento anni. È la più antica del mondo. Qui, il 26 luglio 1983, si registra il caldo più torrido degli ultimi due secoli in centro storico a Firenze: 41,6 gradi. Ma il fatto più preoccupante rimane l’aumento di un grado della temperatura rilevato in soli cinquant’anni: un’accelerazione senza precedenti, convalidata dai dati a disposizione di quella che è la più antica stazione meteorologica del mondo. L’Osservatorio non può che confermare, i termometri si stanno scaldando. La piccola cupola verde affacciata sui tetti di San Lorenzo non scio- glie più dubbi sull’universo: ha abbastanza problemi da evidenzia- re quaggiù, sulla terra.

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Il Museo di Storia Naturale Tutta la natura in un sol luogo

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 275 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 276 10/05/21 14:51 È il primo museo scientifico d’Europa, e anche il primo ad aprire le porte al pubblico, in Palazzo Torrigiani: «il popolo di città e il contado possono es- sere introdotti purché pulitamente vestiti». Nasce nel 1775 per il volere del granduca Pietro Leopoldo, e coltiva l’ambizione di un sapere enciclopedico. Vuole mostrare tutto a tutti: i fossili della terra e le stelle nel cielo, le pian- te e gli animali, e soprattutto lui, l’uomo. Lo fa con le cere anatomiche, costruite calcando fino a duecento cadaveri per tirar fuori un solo pezzo. Ma lo fa anche con armi e oggetti musicali, monili e armature. Negli anni le collezioni si allargano, il Reale Museo di Fisica e Storia Naturale non basta più: si devono cercare nuovi spazi. Oggi i reperti sono dieci milioni, suddivisi nelle varie sedi cittadine. Si va dai tesori dell’ultimo viaggio di James Cook ai mammut del Valdarno; dall’ominide di Baccinello vecchio di sette milioni di anni alle migliaia di crani umani conservati a Palazzo Nonfinito. «Niente di ciò che appartiene all’Uomo ci è estraneo – scrive Paolo Mantegazza, il fiorentino fondatore dell’Antropologia – accanto al cranio c’è il pensiero, accanto all’utero, Saffo. E accanto al muscolo del cuore, il cuore del muscolo».

Quando il diletto del principe diventa la cultura del terzo stato

Tutta la natura raccolta in un sol luogo. È il primo museo scienti- fico d’Europa, voluto per abbracciare l’intero sapere naturalistico del Settecento: i frutti del creato insieme a quelli dell’ingegno umano. Un inventario enciclopedico, «ordinato secondo le leg- gi immutabili ed eterne fissate fra gli esseri». Una raccolta utile a esplorare la terra (con la mineralogia), scrutare il cielo (con l’astronomia), e analizzare gli abitanti del pianeta, e dunque stu- diare gli animali (con la zoologia), classificare le piante (con la botanica) e raccontare l’uomo (con l’anatomia comparata e i ma-

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nufatti esotici). Nasce a Firenze nel 1775, ed è il primo museo europeo ad aprire le porte al pubblico. Anche questa, una novità assoluta. Il suo nucleo più antico è il Giardino dei Semplici, l’Orto botanico voluto nel 1545 da Cosimo i dei Medici per studiare le piante medicinali. Torna il nome dei Medici, come sempre quan- do si parla di collezioni. Sono loro i primi a raccogliere le me- raviglie del mondo, in tutti i settori. Cominciano con le piante, e continuano con gemme preziose, monete, cammei antichi. E naturalmente gli oggetti esotici. A partire dalla metà del Cinquecento, vascelli carichi di pian- te sconosciute e manufatti stravaganti approdano sulle coste euro- pee dal Sud America. Il mito dell’Eldorado nutre il collezionismo dei potenti, l’esibizione di oggetti rari diventa svago ricercato nel- le corti, e i regnanti fiorentini non fanno eccezione. Appartengo- no ai Medici il mantello di penne dei sacerdoti del dio Sole prove- niente dal Brasile, o i propulsori di frecce aztechi, tesori raccolti nella Tribuna degli Uffizi, dove la famiglia raduna le meraviglie della natura e della mano dell’uomo artefice, quadri e statue, cristal- li e porcellane. Un tesoro legato a Firenze dal testamento di Anna Maria Luisa de Medici. Un patrimonio di mirabilia che a un certo punto non è più sufficiente accumulare. Ci vuole la visione illuminata del granduca Pietro Leopoldo di Lorena per il passo successivo: addio collezionismo individuale, addio esclusivo diletto del principe. È tempo di schiudere le por- te della cultura, aprirsi alla ricerca, e al mondo. Siamo in pieno Illuminismo, il progetto del granduca è straordinariamente inno- vativo, e si basa sull’unità del sapere. Leopoldo vuole passare dalla pura raccolta dei reperti allo studio delle “produzioni naturali”, poi alla didattica, e infine all’applicazione pratica della ricerca, in una sorta di circolo virtuoso di conoscenza. Ma il regnante va oltre, decide di aprire le collezioni al pubblico: solo innalzando il livello di istruzione dei sudditi il suo Regno potrà perseguire la modernità. Così il 21 febbraio 1775 nasce il Reale Museo di Fisica e Sto- ria Naturale. Sono trentacinque sale ricavate nelle antiche case dei Bini divenute Palazzo Torrigiani, in via Romana. Qui conflui­ scono i tesori per lo più conservati agli Uffizi, dalle collezioni me- dicee agli strumenti di Galileo Galilei; dalle raccolte di Niccolò Stenone alla sfera armillare di Antonio Santucci; dagli strumenti

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nautici di Robert Dudley agli erbari di Pier Antonio Micheli. Tutti i regni sono inclusi, dal vegetale all’animale. «Questo nascente museo abbraccia non solamente tutta la natura nella sua più grande estensione – scrive il direttore Felice Fontana – ma ancora tutto ciò che di più bello, di più utile e in- gegnoso hanno saputo gli uomini ritrovare o immaginare di gran- de». Nella partita per la direzione dell’istituto, il trentino Fontana prevale sul candidato fiorentino, il botanico Giovanni Targioni Tozzetti, il migliore naturalista in città, chiamato dieci anni prima dai Lorena a riordinare le collezioni degli Uffizi. Targioni Tozzetti aveva prodotto un catalogo con 3.450 reperti fra fossili, piante e animali, e lo concludeva auspicando la costituzione di un mu- seo «da far godere al pubblico». Ma, al momento di scegliere un direttore per quell’istituzione che lo scienziato aveva per primo immaginato, Pietro Leopoldo gli preferisce Fontana: forse per la (presunta) capacità di dare vita a una struttura moderna, di repe- rire gli strumenti per i laboratori, e gestire quella che si annuncia a tutti gli effetti come una macchina molto complessa.

Un sapere senza intermediari: tutti possono conoscere tutto

Totale l’appoggio del granduca al direttore, a cominciare dalla filosofia di base: se obiettivo della scienza è il miglioramento delle condizioni di vita dei popoli, le collezioni non sono solo materiale da esposizione, o didattico. I risultati degli studi devono «essere utili all’avanzamento delle scienze», «alla comodità dell’uomo». E non solo. Gli oggetti esposti – scrive Fontana – saranno forniti di spie- gazioni in modo tale da «essere resi parlanti da per loro»: lo sco- po è che ciascun visitatore possa «conoscere tutto da solo, senza professore». È la lezione di Diderot e degli enciclopedisti francesi: tutti possono accedere al sapere senza intermediari, vedendo con i propri occhi le conquiste della scienza e della tecnica. È l’Illumi- nismo che si incarna, passando dalla teoria alla pratica. Così, per la prima volta in Europa «il popolo di città e il contado possono essere introdotti, purché pulitamente vestiti» all’interno di una struttura museale. Due sono i turni, alle 8 e alle 10, per gruppi di venticinque persone al massimo. Nel biglietto

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d’ingresso si avverte che «passati 4 o 5 minuti dopo l’ora prefis- sa, l’accesso non sarà più possibile». Ed entra, il popolo. Solo in un anno arrivano 7.000 visitatori, e tre su dieci sono donne: un dato straordinario, considerati i tempi. Non solo: a fronte dei 278 nobili e 630 chierici, fanno impressione i 5.891 appartenenti al terzo stato, l’84% dei visitatori. È uno degli scopi del granduca: aprire la scienza alla forza borghese del suo Regno, interessarla, istruirla. Una vera e propria funzione pedagogica, necessaria alla sua visione riformista. In poco tempo il museo diventa un’istituzione scientifica ri- conosciuta a livello internazionale. In dieci anni i visitatori salgo- no a quota 20.000. Fontana affronta di petto e risolve i problemi più diversi, per esempio la necessità di macchinari per dimostra- re le leggi della meccanica galileiana nel Gabinetto di Fisica: là dove non arriva con gli acquisti, disegna egli stesso gli strumenti necessari, e non avendo la manodopera specializzata, è lui a for- mare una nuova generazione di meccanici in grado di costruire le macchine. Una zona del museo è dedicata ai microscopi, una alle am- polle di chimica, un’altra agli strumenti antichi, inclusi quelli dell’Accademia del Cimento. Imponente la raccolta dei prodotti naturalistici, dai minerali ai fossili, dalle piante ai fiori. E poi c’è l’uomo, quello al centro di tutte le cose, ma anche anello nella catena degli esseri viventi. L’uomo come materia viva analizzata, decifrata. Sezionata.

Quei corpi riprodotti in cera, orrendi e straordinari

Il settore delle anatomie in cera è la vera meraviglia del museo: è Felice Fontana a istituirlo, è lui ad assumere il modellatore che fa miracoli, Clemente Susini. Muscoli e organi interni, occhi e orec- chi, naso e cuore, tutto è studiato e riprodotto con una fedeltà sorprendente. Ancora oggi gli scienziati si chiedono come sia sta- to possibile realizzare qualcosa di così anatomicamente perfetto. I corpi provengono da Santa Maria Nuova e, poiché non esistono celle frigorifere o altro, c’è un continuo bisogno di ma- teriale nuovo. Per realizzare una sola statua ci vogliono anche duecento salme: lo “spazzino” ufficiale è incaricato di trasportarle avanti e indietro, in apposite ceste. Curiosa la supplica di Giacinto

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Guidetti, che nel 1792 chiede al granduca «un cappello incerato, un cappotto e un paio di stivali, acciò che nell’andare a prendere i cadaveri allo Spedale e a riportarli, mi possa difendere dall’acqua e dal freddo». Una volta arrivato nei locali di via Romana, il “pezzo” da ri- produrre è preparato dai dissettori anatomici. Nasce il calco in gesso, sagomato direttamente sulle ossa quando si tratta di una zona scheletrica, oppure su una copia in creta quando si lavora sulle parti molli. Il calco è poi riempito di cera fusa, mescolata a olio, trementina e coloranti triturati (fra cui la polvere d’oro!) per ottenere la consistenza e il colore voluti. Da uno stesso cal- co si possono estrarre molte copie; solo così si spiega la capacità dell’officina fiorentina di provvedere alle richieste che la inonda- no da scuole mediche e università di tutta Europa. Da Vienna, per esempio, l’imperatore chiede 1.200 pezzi, che gli costano 30.000 fiorini e vengono consegnati a dorso di mulo nel 1786. Persino Napoleo­ne è così affascinato dalla manifattura fiorentina da or- dinare quaranta casse di cere: per un disguido burocratico il ma- teriale destinato a Parigi si ferma a Montpellier, dove è bloccato dai capovolgimenti della Storia, e dove rimane, tutt’oggi visitabile. Una volta aperto il calco, la cera è ripulita e completata con organi, vasi sanguigni e nervi, realizzati separatamente su lastre di marmo e applicati sul pezzo base. Se si tratta di una statua, le varie parti vengono assemblate su un’armatura in ferro. Tocco finale, una spennellata di vernice, e il lavoro è concluso. Ogni preparato è un trattato tridimensionale di anatomia a uso di studenti e curiosi. Ma è anche un’opera d’arte, in cui la scienza sembra quasi offrire un pretesto alla magnificenza dell’e- secuzione. Firenze conserva oggi 513 urne originali, per un totale di 1.400 modelli. Il più famoso è probabilmente la Venere, splen- dida, dolente rappresentazione femminile, l’unica scomponibile, sezionata nelle sue parti più intime, raccontata persino nella gra- vidanza: la cera giace sdraiata su un lenzuolo di seta in una teca di legno, le labbra lucide, gli occhi lontani. È costruita a “strati”: gli organi le possono essere sottratti fino ad arrivare all’utero, al cui interno è rannicchiato un piccolo feto. Ma la cera che continua a impressionare di più è quella dello Spellato, anche lui reclinato nella sua teca, appoggiato su un go- mito in posa michelangiolesca, incartato in un reticolo di vasi, gli occhi sbarrati verso il cielo in una muta espressione di domanda.

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Così vivo da far rabbrividire. Straordinario e orrendo nel suo do- lore. «Nauseante», lo definisce Herman Melville, quello diMoby Dick. «Me ne sono andata con una sensazione di repulsione che non mi ha più abbandonata», scrive la contessa Marguerite Bles- sington dopo una visita alle cere, «Non è opportuno che si abbia- no sotto gli occhi i disgustosi dettagli dell’anatomia animale, in tutte le loro spaventose e laide verità e nudità». Opposti i pareri di molti altri, intellettuali, artisti, semplici cittadini. «L’anatomia plastica è stata portata avanti a Firenze da lungo tempo – scrive Goethe – ma da nessuna parte si può intra- prendere con altrettanto successo come là, dove per natura sono pienamente attivi scienza, arte, gusto e tecnica». «Nulla di più ac- concio, di più preciso, di più istruttivo – gli fa eco dopo una visita al museo – osservo con la curiosità dell’incompetente muscoli e nervi rappresentati con estrema chiarezza».

Viva i progetti scientifici per l’utilità pubblica: i parafulmini

Se le cere sono la grande attrattiva del museo, a migliaia i visitatori accorrono richiamati da quello che è il suo vero punto di forza: osservare tutto il mondo naturale sotto uno stesso tetto. Dopo aver sfiorato la terra e i suoi abitanti, lo sguardo si vol- ge infatti verso il cielo: l’ultima tappa del percorso museale pre- vede l’ascesa sul torrino della Specola, l’osservatorio astronomico puntato verso le stelle. Ma qui i lavori vanno a rilento, soprattutto a causa di una diatriba che oppone Fontana al giovane Giovanni Fabbroni. Quest’ultimo è convinto che il centro città non sia un luogo adatto per osservare il cosmo, e vorrebbe spostare l’osser- vatorio in collina. Il direttore si oppone fermamente: le collezioni devono rimanere unite, egualmente fruibili nella loro fisicità, per poter “parlare” al pubblico. Per essere immediatamente compren- sibili, nel proprio messaggio universale. Vince il direttore Fonta- na, e pur con molti anni di ritardo, il torrino viene finalmente inaugurato. Intanto la raccolta museale continua a crescere in modo uni- tario: nel tempo si arriverà a oltre dieci milioni di reperti. Accan- to agli scheletri fossili di grandi mammiferi ci sono le raccolte di farfalle, i cristalli di tormalina, le spettacolari maschere mao-

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ri, i gioielli etnici dei popoli nativi, gli erbari cinquecenteschi. In campo biologico i campioni si rovinano in fretta: ecco spiegata la fervida attività di produzione di fiori, frutti e piante di cera, che si affiancano alle preziose statue di Susini. Palazzo Torrigiani diventa una delle principali attrattive di Firenze, tappa obbligata del grand tour. Intanto vari progetti maturano «per l’utilità pubblica», da quello sui parafulmini alla raccolta dati meteorologici per misura- re la salubrità (oggi si direbbe l’inquinamento) dell’aria. Fontana ipotizza di istituire un’accademia che innalzi la valenza scientifica delle collezioni, ma il granduca rifiuta di finanziare l’ennesima istituzione, vuole che ci si concentri sul museo e sul suo funziona- mento. L’accademia sparisce dai programmi – se non dai pensie- ri – ma qualcosa si è incrinato con Fontana che certo, accettando l’incarico di direttore, ambiva al ruolo di grande scienziato, e non si aspettava di finire a fare il sommo burocrate. Il crescente carico di lavoro amministrativo infatti lo esaspe- ra, frustrando le sue ambizioni di ricerca. La tensione si risolve con l’ascesa di Fabbroni, l’allievo che scalza il maestro, prenden- do in mano l’istituzione. Con lui e con i nuovi tempi la tradizione illuminista sbiadisce, gli aspetti tecnici, le considerazioni pratiche prendono il sopravvento. La prima Rivoluzione industriale si è messa in moto, ed è un treno che nessuno vuole perdere. Mentre in Inghilterra le macchine tessili e metallurgiche divorano il va- pore, il continente è travolto dal ciclone napoleonico. Un batter d’occhi e già ci si sveglia nell’Ottocento.

Quando gli scienziati italiani parlano di rivoluzione in pausa caffè

Passata la parentesi francese, i Lorena riprendono le redini della Toscana. A Ferdinando iii tocca il trono, mentre il figlio Leopol- do, gracile di salute, è tenuto lontano dagli affari di governo, e la- sciato libero di dedicarsi a ciò che gli piace: una predilezione per la scienza i cui frutti si raccolgono una volta divenuto granduca. Il giovane principe ha una vera passione per Galileo Galilei: è lui ad andare a caccia delle lettere dello scienziato, nell’Archivio Mediceo o sul mercato antiquario. È lui a mettere insieme gli stru- menti, i manoscritti, gli atti originari e il diario dell’Accademia

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del Cimento. Obiettivo: creare una Tribuna all’interno del Museo Regio, una sorta di tempio laico, in omaggio al grande scienziato «che sia dedicato a quel grande filosofo, genio sublime – scrive Leopoldo nelle memorie – che vedeva avanti il tempo suo, gloria di Toscana». Un vero monumento in cui «raccolti i suoi strumen- ti, la sua immagine stava nel mezzo, e intorno effigiati i figli della scienza, i grandi suoi discepoli, e nelle pareti dipinte e scolpite, le esperienze di questi nell’Accademia del Cimento [...]». Un tribu- to a Galileo, certo. Ma anche alla grandezza della Toscana, al suo ruolo-faro nella scienza, nella cultura, nelle arti. E non a caso la Tribuna viene inaugurata nel 1841, in occa- sione della Riunione degli Scienziati Italiani, a Firenze. È la terza volta che la comunità scientifica si raduna, e ancora una volta è la Toscana ad aprire le porte. È stato proprio Leopoldo a dare ospitalità al primo congresso, due anni prima a Pisa, attirandosi le pesanti critiche dell’Austria e di altri Stati italiani. Ma per il gran- duca, da vero mecenate, è un’occasione irripetibile. Può dare una spinta al progresso scientifico, riaffermare il ruolo della Toscana. Posizionarsi come nume tutelare degli scienziati. In realtà, non è un mistero che in pausa caffè l’unità nazio- nale della scienza scivoli verso quella della patria. Nelle sessioni si parla di fisica o matematica, fuori dai lavori il tono si fa più politico, e più prepotente l’esigenza di riforme. La nona (e ulti- ma) riunione, a Venezia, si conclude con l’irruzione della polizia austriaca e la fine dei lavori: è il 1848, il clima è di fervido patriot- tismo, la polveriera risorgimentale sta per esplodere. Ma nel 1841 Firenze è un altro mondo. Sono oltre ottocento gli scienziati che dopo la messa in Santa Croce, e la cerimonia d’a- pertura nel salone dei Cinquecento, raggiungono il Regio Museo per l’inaugurazione della Tribuna. Gli esimi invitati scorrono nel- le due grandi sale, coperte l’una da una cupola di vetro, l’altra da una volta a crociera; sfilano davanti ai due cannocchiali di Galileo e alla lente con cui furono scoperti i satelliti di Giove, al compasso di proporzione e alla calamita armata. Contemplano persino il dito dello scienziato, conservato in un’urna di vetro. Una bella medaglia è coniata per l’occasione. Per Leopoldo ii è un trionfo, per Firenze pure. Ma la sala dei cimeli galileiani non ha vita facile. A fine seco- lo, quando le collezioni vengono smembrate, si pensa addirittura di trasferirla in toto a San Marco, insieme alla chimica e alla geo-

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logia. Le centomila lire necessarie all’operazione di smontaggio e ricomposizione sono già messe a bilancio. Poi, per fortuna, qual- cuno ci ripensa. Non sarà così negli anni Trenta del Novecento, quando can- nocchiali e astrolabi, igrometri e telescopi (e persino il dito di Ga- lileo) prendono la via dell’Istituto di Storia della Scienza, attuale . Sgombrata degli strumenti, privata della funzione espositiva, la Tribuna rimane sola. Vuota. È il punto di arrivo di un processo forse inevitabile, ma non per questo meno doloroso.

Addio progetto unitario: entra il sapere specialistico, le collezioni si separano

Fontana diceva che la forza del museo era nella sua unità: le colle- zioni dovevano restare insieme perché altrimenti avrebbero perso il valore connesso alla funzione educativa e didattica. Ma i tempi cambiano e così le convinzioni. Col nuovo Regno d’Italia, l’istruzione specialistica fa il suo ingresso a Palazzo Torrigiani. Il museo diventa Istituto di Studi Superiori di Perfezionamento: le cattedre si moltiplicano, e così le collezioni, che seguono l’evolversi delle discipline e vengono organizzate in gabinetti, diretti dai relativi professori. È la fine del Museo di Storia Naturale così come era stato concepito e organiz- zato. Ed è la nascita dell’Università. Una volta svanito il collante filosofico dell’universalismo set- tecentesco, la fame di spazi prende il sopravvento. I primi a lascia- re via Romana sono «gli utensili delle nazioni barbare», destinati a essere incorporati nel nuovo museo di Antropologia ed Etnologia appena fondato da Paolo Mantegazza in via Gino Capponi (e nel Novecento trasferito a Palazzo Nonfinito, in via del Proconsolo). È il 1869. Dopo poco, anche l’osservatorio astronomico prende la via di Arcetri. Ci ha messo un po’ di tempo, ma la logica di Fab- broni alla fine ha prevalso. Solo le cere anatomiche e la zoologia restano alla Specola. Le piante si spostano al Giardino dei Semplici, la sezione botanica in via La Pira. E le collezioni di geologia e paleontologia si trasferi- scono nel complesso di piazza San Marco, da dove continuano a raccontare la storia della vita sulla Terra.

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Paleontologia: quei mammut ritrovati nelle vigne del Valdarno

Un mammut in giardino? Accade a Pietro, contadino del Valdar- no, che un giorno deve smettere di vangare perché le zolle rigur- gitano due zanne. È il 1953. Pietro chiede aiuto, la notizia si dif- fonde. Arrivano i geologi, guidati da un giovane Augusto Azzaroli, lo scienziato cui si deve l’attuale allestimento del Museo di Paleon­ tologia. Ciò che emerge dalla fossa di San Giovanni Valdarno è stupefacente: un mammut completo, alto 4 metri, adagiato su un fianco. Morto un milione di anni fa, probabilmente di vecchiaia. Il mastodonte del Pleistocene è senza peli perché vive in un clima caldo, le sue zanne sono lunghe, il buco centrale lasciato dalla proboscide somiglia un po’ all’occhio dei Ciclopi (e spiega forse qualcosa sul mito di Polifemo...). Coperto dagli strati del tempo, risparmiato dai terremoti, custodito dalle glaciazioni, que- sto precursore dell’elefante è affidato alle mani della Storia. Che lo consegnano intatto alla vanga dello sbalordito contadino. Oggi Pietro – il mammut – troneggia al centro della galleria dei vertebrati della sezione Geologia e Paleontologia del Museo di Storia Naturale. È questa una vera miniera di informazioni sulla storia della scienza, un tesoro di reperti le cui origini affondano addirittura nello studiolo di Francesco i de Medici, a Palazzo Vec- chio. Si forma in questa piccola sala segreta – dove il granduca accumula materiali curiosi e meraviglie della natura – il nucleo di quanto esposto oggi in via La Pira. Qui si trovano i primi oggetti, poi trasferiti a Palazzo Pitti su ordine del nuovo granduca Fer- dinando i, fratello di Francesco. Reperti da qui traslocati a Pisa, prestigiosa sede universitaria, e nella maggior parte riportati a Fi- renze da Niccolò Stenone, il vero padre delle moderne scienze della terra. La collezione si amplia a ogni passaggio, salvo lasciare qualche pezzo a Pisa. Chi ci racconta questo andirivieni è il medico fiorentino Gio- vanni Targioni Tozzetti, autore del famoso catalogo del 1763 sulla cui base si apre il Regio Museo di Pietro Leopoldo. Dove si legge di «un teschio di morto ricoperto di una crosta di pietre con un ramo di corallo rosso accresciutosi nel vertice»: è la testa umana pietrificata con un rametto di corallo sopra, ancor oggi conservata a Pisa, ma presente nell’inventario con cui Ferdinando allontana- va gli oggetti rari del fratello. Insomma, un reperto collezionato

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da Francesco, finito a Pisa e lì rimasto. Una storia complessa, ep- pure fondamentale per capire come nascono le collezioni scien- tifiche di cui gode Firenze. Una storia che ruota attorno a due nomi chiave del pensiero scientifico italiano. Il primo è Stenone, il vero padre della geologia. È lui a dimostrare – a metà del Sei- cento – che i fossili non nascono dentro le rocce, ma hanno origi- ne organica, sono documenti lasciati dalla natura a testimonianza della storia della Terra. Il secondo è Targioni Tozzetti, colui che ne raccoglie l’eredità, studiando l’estinzione delle specie. È lui a dire che i mammut vivevano qui e si sono estinti, non sono stati portati dall’Africa, magari da Annibale quando combatteva con- tro i romani: una teoria che piaceva tanto al vecchio Stenone. Tanti, i resti di mammut in Toscana. In via La Pira, accanto a Pietro, c’è Linda, altro enorme esemplare, recuperato nel 1973 da don Sante Felici, il parroco archeologo dell’Abbazia di Farne- ta. Linda è una femmina, un Mammuthus meridionalis, una sorta di precursore dell’elefante. Vive nel clima caldo che si registra in Toscana circa un milione di anni fa. Nello scavo in cui è adagiata affiorano anche un paio di corna, decisamente non sue: ma non si riesce a ritrovarne il cranio, una zanna, e parte degli arti. Chi si occupa di scavi paleontologici lo sa, è rarissimo imbat- tersi in esemplari integri. Negli anni Sessanta i lavori per la costru- zione della rete viaria del paese – dall’a1 alla Siena-Bettolle – fan- no affiorare tutto ciò che il tempo ha occultato non in profondità, dai fossili del Pliocene ai vasi etruschi. Ma ruspe e scavatrici non si fanno troppi scrupoli mentre rivoltano le zolle. Ecco spiegate le fratture, gli “sbriciolamenti”: la terra restituisce tesori frantu- mati. Don Sante decide che le vestigia emergenti dalle viscere del pianeta sono importanti almeno quanto le anime affidate alla sua cura. Così appronta un antiquarium nella cripta della parrocchia, dove raccoglie di tutto: sarà addirittura nominato ispettore ono- rario dalla Sovrintendenza. Va spesso in giro, il sacerdote archeo­ logo, a portare la comunione, confortare gli anziani. Quando si sparge la voce della sua azione di tutela in favore del patrimonio, sono gli stessi parrocchiani a consegnargli i reperti ritrovati colti- vando gli orti, spianando i giardini dell’aretino. Ed è nella cripta dell’Abbazia che trova rifugio la gigantesca Linda prima di pren- dere la via di Firenze. Ma che ci fanno in Toscana tutti questi mammut? Ne abbia- mo tantissimi, vivono nei periodi glaciali, scompaiono lentamen-

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te perché le loro dimensioni richiedono un enorme fabbisogno energetico, ma le glaciazioni riducono lo spazio vitale, facendo diminuire il cibo. Così le popolazioni di mammut si restringono, fino a dissolversi. Anche la caccia dà un contributo letale: le va- riazioni climatiche spingono l’Homo sapiens a muoversi, e via via che si espande, l’area occupata dall’elefante antico si contrae. Oggi sappiamo che la storia paleontologica della regione è un po’ come la storia della Terra, con il suo susseguirsi di periodi glaciali e interglaciali, con le pieghe montuose prima inabissate e poi emerse, con i ghiacci che si estendono e poi si ritirano. E le conchiglie che affiorano in piena campagna. Di questa (pre)istoria vecchia di milioni di anni, è oggi cu- stode il Museo di via La Pira, capace di illustrare il lungo viaggio della vita sul pianeta, partendo dagli invertebrati del Paleozoico, passando per anfibi, rettili e dinosauri. Fino al Cenozoico, quan- do Sardegna e Toscana formano una specie di immensa isola, cir- condata da acquitrini, popolata da coccodrilli e tartarughe. Con loro vive una scimmia antropomorfa, alta più di un metro, già eretta sulle gambe, e già capace di contrapporre il pollice all’indi- ce, prendendo gli oggetti con le mani. È uno di questi esemplari che sprofonda un giorno nella melma di una palude, nel grosseta- no. E lì rimane, per sette milioni di anni. sette milioni. Fino al 2 agosto 1958. Quando un pezzo di carbone estratto a fatica da 200 metri di profondità lo restituisce alla luce del sole. E al clamore del mondo.

Sandrone, l’ominide affiorato in miniera l’ultimo giorno utile

Baccinello è un antico borgo minerario, a circa 20 chilometri da Grosseto. Johannes Hürzeler, dell’Università di Basilea, è un paleon­tologo svizzero con il pallino dell’oreopiteco, la “scimmia con i denti a profilo collinoso”. Studiando una mandibola ritrova- ta a metà Ottocento proprio in provincia di Grosseto, si è convin- to da anni che non si tratti solo di una scimmia vissuta circa dieci milioni di anni fa, bensì di un ominide. Per l’esattezza, del più antico progenitore dell’uomo. Ma l’intera comunità scientifica la pensa altrimenti: i veri antenati di Adamo sono più “recenti”, ci si può spingere al mas-

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simo a un milione di anni. La teoria di Hürzeler sembra assurda. Lo scienziato ha dunque bisogno di prove, possibilmente di uno scheletro intero. È il 1954 quando riceve la segnalazione che vari frammenti interessanti affiorano da una miniera di lignite a Bac- cinello, in Toscana. Proprio da dove proviene la mandibola che gli ha tolto il sonno. Decide quindi di andare a dare un’occhiata. Una volta sul posto, dopo qualche intervista ai minatori e l’analisi di ciò che esce quotidianamente dalle viscere della ter- ra, si convince che se c’è al mondo una possibilità di trovare un oreo­piteco, ebbene, si trova a Baccinello. La falda di carbone fos- sile sprofonda obliquamente fino a 200 metri sotto terra: il luogo idea­le per conservare senza traumi un fondo paludoso trasforma- tosi in stato minerale attraverso le ere geologiche. Ma proprio quando Hürzeler comincia gli scavi, la miniera chiude: siamo in piena crisi mineraria, troppo alti i costi, pochi i profitti, la società di gestione è irremovibile. Sembra la fine delle ricerche, il professore rientra in Svizzera a testa bassa. Un paio d’anni più tardi, una cooperativa di minatori ripren- de lo sfruttamento della cava. Appena informato, lo scienziato de- cide di giocare il tutto per tutto: si trasferisce in Italia, affitta una casa a Baccinello, e da lì persegue testardamente le ricerche in miniera, con l’appoggio della direzione. I fondi che riesce a rag- granellare fra Basilea e New York sono boccate d’ossigeno per le precarie entrate della cooperativa. Ma in due anni e cinque cam- pagne di studi, Hürzeler arriva solo a raccogliere un centinaio di frammenti di una dozzina di esemplari di oreopitechi. Ridotti in briciole. D’altronde, gli operai estraggono carbone, non cercano fossili: un’operazione perseguita a colpi di martelli pneumatici ed esplosivo, e non con il cucchiaio. È la notte del 2 agosto 1958. Ormai il tempo è scaduto, le va- ligie sono pronte. L’indomani mattina Hürzeler parte, costretto a dichiarare la fine delle ricerche per mancanza di fondi. E proprio quella notte succede l’impensabile. Come nelle favole, o nei miti. Là dove ci si appiglia quando si pensa a qualcosa di superiore che ci governa. Due operai a inizio turno, Enzo Boccalini e Azelio Giustarini, stanno perforando le pareti in cui collocare le cariche per la soli- ta detonazione. All’improvviso, sollecitata dalle scosse, una falda viene giù dalla volta, lasciando scoperto qualcosa proprio sopra le teste dei due minatori. È lui, «l’uomo del professore». Incastrato

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nella lignite da milioni di anni. Intero. Quando Hürzeler arriva trafelato al cunicolo del livello 15 – a 210 metri sotto terra – le labbra gli tremano: in quel blocco di carbone è incastonato lo scheletro che sta cercando da tutta la vita. La scoperta produce immenso clamore, sembra riscrivere la storia stessa del genere umano. «Abbiamo dieci milioni di anni», titolano i giornali. Su Baccinello si accende l’interesse internazio- nale, planano luminari della scienza e giornalisti da tutti i conti- nenti. Dopo due giorni il delicato recupero è compiuto: il blocco di lignite è sezionato, staccato dalla parete, portato in superficie. Imballato in un involucro di ovatta, rete e gesso, l’ominide è in- viato a Basilea per le indagini, per poi rientrare in Italia ed essere accolto e custodito nelle teche del Museo di Paleontologia di Fi- renze, dove tutt’ora si trova. Intanto la miniera chiude definitivamente. L’inarrestabile crisi si è intensificata in un solo anno, e questo proprio mentre i riflettori del mondo si accendevano sulle preziose gallerie. Il crol- lo del mercato della lignite, unito all’impiego sempre maggiore di olii combustibili (invece del carbone), fa sballare tutti i conti. Nonostante la strenua opposizione dei minatori – che per dieci giorni si barricano nei cunicoli – il 1° aprile 1959 la cooperativa sospende le attività. Duecento operai restano senza lavoro. E le porte si chiudono sui tesori di una preistoria riaffiorata, seppel- lendoli. Stavolta per sempre. Oggi sappiamo che Hürzeler probabilmente si sbagliava. Sandrone – così lo hanno chiamato i minatori – non appartiene alla linea evolutiva dell’uomo. È invece un suo lontanissimo cugi- no, una scimmia antropomorfa apparsa in Italia nove milioni di anni fa ed estinta dopo tre, prima della comparsa in Africa degli australopiteci, tutt’oggi considerati i nostri progenitori. Ma pro- prio come loro, il ben più vecchio ominide di Baccinello sa tenere oggetti in mano, cammina in posizione eretta: per questo tanto più straordinario. Come è stato possibile? Perché questa scimmia toscana si è alzata in piedi, per prima fra i primati? Perché ha cominciato a unire pollice e indice, sviluppando una presa sul mondo capace di dargli un indubbio vantaggio nella lotta per la sopravvivenza? In via La Pira, le ricerche continuano.

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Non si disprezzi un pelo, dell’uomo prendiamo tutto!

Facendosi domande: così progredisce la scienza. E dunque, cos’è l’uomo? «La bestia meno studiata finora dai naturalisti». Lo dice a metà Ottocento un neurologo darwiniano, secondo il quale è tempo di indagare l’essere umano «sia sotto il rapporto della costituzione fisica che intellettuale». Esiste una scienza per cui «accanto al cranio c’è il pensiero, accanto all’utero, Saffo. E accanto al muscolo del cuore, il cuore del muscolo». È il 1870. A Firenze capitale (ormai agli sgoccioli) d’Italia, quel neurologo di- venta deputato del Regno, e dagli scranni di Palazzo Vecchio im- pone una dimensione scientifica allo studio dell’uomo in tutte le forme. Si chiama Paolo Mantegazza, ed è un po’ come se l’antro- pologia la inventasse lui: ne fonda a Firenze la prima cattedra uni- versitaria, il Museo Nazionale e anche la Società Italiana. Comu- ne lo scopo delle tre istituzioni: raccogliere, analizzare, dibattere le testimonianze della diversità antropica sulla terra. Dai capelli ai mocassini. «Non si disprezzi un pelo, non si dimentichi nulla. – scrive – Pigliamo tutte le prospettive di questo Dio umano». Pavese di origine, sulle barricate contro gli austriaci a sedici anni durante le Cinque giornate di Milano, Mantegazza si laurea in tempi record e poi si trasferisce in America del Sud, dove eserci- ta nei posti più sperduti, studiando il modo di vivere delle popola- zioni indigene. Rientrato in Italia, la carriera è fulminante. Ottiene la cattedra di Patologia generale all’Università di Pavia, diventa de- putato del Regno d’Italia a poco più di trent’anni, e più tardi se- natore. Ma lo studio dell’uomo rimane al centro del suo pensiero. Poligamo di molte scienze, Mantegazza è un visionario che rigetta tradizioni religiose e teorie filosofiche, arrivando a definire i teologi come «speculatori dell’umana imbecillità», «avvolti dalla buccia tarlata del dogmatismo». Convinto assertore delle teorie darwiniane sull’evoluzione del mondo, lo studioso è un vero rom- pighiaccio in una società ancora intrinsecamente tradizionalista. Per esempio, propugna l’uso terapeutico della coca per la cura delle malattie mentali. E ipotizza la fecondazione artificiale e l’i- bernazione in campo medico, pensando addirittura a una banca dello sperma (con ghiaccio) per i soldati in partenza per la guerra. Per lui, l’antropologia è «storia naturale dell’uomo» indaga- to «come si vede e come si tocca». Dunque vuole un museo come

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prova della grande catena evolutiva, ma che comprenda tutto, da- gli scheletri ai costumi dei popoli; dalla caviglia alla cavigliera. In effetti si spinge un po’ in là, arrivando a inglobare nel suo studio anche la psiche, e a ideare un «museo psicologico» dove «gusti, vizi, superstizioni ed eroismi» trovino il proprio spazio: dove stru- menti di tortura medievali raccontino la crudeltà, e protesi genita- li in legno mostrino il piacere. Insomma, l’esposizione concepita da Mantegazza – in cui confluiscono le collezioni smembrate del Museo di Storia Naturale di Pietro Leopoldo – presenta il grande romanzo della vita umana a tutto tondo. Partendo dal cranio, de- finito «una buccia ossea». Nient’altro che un astuccio. Con buona pace dei craniologi razziali.

L’anatomia: che senso ha catalogare i popoli in base a volume e peso del cervello?

Quando lo scienziato intraprende la costruzione del museo, ha fra le mani migliaia di testimonianze etnologiche, armi e oggetti musicali, monili e armature: ma nessun reperto anatomico. I primi elementi li tira fuori dagli armadi di casa propria, sono due crani dell’isola di Tenerife. A questi se ne uniscono negli anni molti altri, in una sorta di frenesia accumulatoria alimentata da acquisti, donazioni, spedizioni all’estero. Ai crani etruschi, o addirittura neolitici, si aggiungono quelli dell’Indonesia o della Nuova Guinea, della Terra del Fuoco o del Perù. Senza scordare gli arrivi dall’Ospedale di Santa Maria Nuova. In poco tempo le collezioni si gonfiano, tanto che ai primi del Novecento compren- dono 3.400 crani e 171 scheletri, inclusi i 64 provenienti dal Ci- mitero Comunale di Siracusa. Bisogna poi contare le mummie e i cervelli, le maschere facciali di Lidio Cipriani e i calchi in gesso (inclusi i ventitré crani della famiglia Medici, da Cosimo il Vec- chio in poi, che saranno modellati all’apertura delle tombe nel 1945). È l’Homo sapiens documentato in tutte le possibili forme, in una collezione osteologica impressionante. Ma perché questo archivio anatomico, questo interesse maniacale per gli scheletri? La spinta è molto ottocentesca, tesa a documentare l’am- piezza della diversità, della variabilità all’interno di un popolo. Al tempo stesso, Mantegazza combatte ogni forma di “riduzionismo craniologico”: «Se tu prendi il cranio per criterio di classificazione

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– scrive – rischi di metter vicino popoli diversissimi, e di separare i fratelli». Non è un dibattito da poco, e non tutti sono concordi, al contrario. Ma la posizione dello scienziato è chiarissima. Infatti seleziona duecento crani dalla collezione – oggi custoditi ai piani alti di Palazzo Nonfinito, in via del Proconsolo –, definisce le dieci misure più significative, li mescola, poi invita una commissione di scienziati a disporli, dal più «sviluppato» al meno. Il risultato è un monito per tutti: fra i primi classificati ci sono un polinesiano e un italiano, fra gli ultimi alcuni australiani e alcuni italiani. E i fiorentini? Si sparpagliano lungo tutta la scala, dai primi agli ulti- mi posti. Insomma, le misure osteologiche non possono caratterizzare una popolazione, perché non esistono popoli omogenei al pro- prio interno: le variazioni degli individui sono infinite. «Si passa dagli uni agli altri per gradazioni intermedie leggerissime ed in- numerevoli. – scrive Mantegazza – Non c’è nessuna superiorità, siamo tutti frammisti». Non solo. Qualunque tentativo di dedurre dalla forma del cranio aspetti intellettuali o morali degli uomini è inconcepibile. Il che è esattamente quanto va predicando in quegli anni lo scienziato Cesare Lombroso, secondo cui l’inclinazione al crimine è una pa- tologia ereditaria, iscritta nelle caratteristiche anatomiche degli individui. Per Lombroso, se uno è destinato al crimine ce l’ha praticamente scritto in faccia. L’influenza dello scienziato è forte, tanto che ancor oggi nelle collezioni di via del Proconsolo sono in mostra il cranio «dell’omicida», quello del «capo-brigante», o del «celebre fisico Nobili». Ma i criminali per nascita non esistono, e parlare di anatomia delle facoltà intellettuali per Mantegazza è un’aberrazione. Così nel 1883 espelle Lombroso dalla Società Italiana di Antropologia, di cui è presidente. «L’uomo normale è un tipo oscillante e variabilissimo», scrive l’antropologo, «e al suo interno compaiono tutti i caratteri che si vorrebbero patologici o eccezionali». Ma il concetto di “craniologia razziale” contro cui lo scien- ziato si batte tutta la vita, rimane. E anzi, fa progressi. Negli anni Trenta del Novecento l’antropologia si compromette col regime, dando origine all’oscura parentesi coloniale. Ed ecco le trecento- cinquanta maschere facciali realizzate su pigmei e zulu viventi dal nuovo direttore del museo, Lidio Cipriani, che compie innumere- voli spedizioni in Africa, da cui riporta anche migliaia di scatti foto-

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grafici tutt’oggi nell’archivio del museo. Nel 1938 ilManifesto della razza – di cui Cipriani è firmatario – chiama gli scienziati a dimo- strare la superiorità culturale e biologica della razza italiana. Nelle sue spedizioni, il direttore indaga da tempo su peso e volume del cervello dei popoli africani, teorizzando l’innata «inferiorità men- tale del negro», che è solo in grado di «imitare» ciò che il bianco è stato capace di «creare». L’Africa è «un immenso deposito di risorse naturali», scrive Cipriani, e il negro non sembra capace «di mettere in efficienza i tesori eccezionali della sua terra d’origine». Poco importa che proprio dall’Africa l’Homo sapiens si sia in- camminato duecentomila anni fa verso l’Europa, attraversando lo stretto di Bering e l’America, fino a scendere nelle regioni andi- ne. Scrive Mantegazza «Nessuna razza è pura, siamo tutti meticci». Ci siamo mescolati fin dall’inizio.

L’etnologia: «Niente di ciò che appartiene all’Uomo ci è estraneo»

Il risultato lo vediamo nel racconto delle culture materiali. Se l’in- dagine anatomica ha mostrato l’evoluzione dell’Homo sapiens, e affermato che la razza è un mito, adesso compito dell’antropo- logia è mostrare i frutti dell’ingegno, le diverse capacità creative. Celebrare i prodotti dell’industria dei popoli come riflesso delle loro qualità intellettuali. «Studiamo il cranio e i capelli, così come i costumi dei popoli: niente di ciò che appartiene all’Uomo ci è estraneo». Un pensiero non proprio originale, ne parlavano già gli antichi latini, Terenzio in testa: ma qui si va oltre la filosofia, e si abbraccia tutto, qualsiasi manufatto possa essere prodotto dalla mano dell’uomo. Le collezioni etnologiche di via del Proconsolo sono le più antiche e spaziano fra i cinque continenti, in un accavallarsi di mondi in transito, una pluralità di funzioni, un trionfo di forme e di colori. Costruite sul nucleo di oggetti esotici di proprietà medi- cea, le raccolte sono per lo più frutto di escursioni private intorno al mondo. I viaggiatori spaziano dal Borneo alla Terra del Fuoco, dall’Eritrea al Giappone, dalla Papua Nuova Guinea alla Lappo- nia. Sono pittori o zoologi, botanici o scrittori, tutti comunque esploratori di universi da cui raccolgono manufatti capaci di espri- mere un periodo storico, incarnare la capacità manuale e il senso

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estetico dell’artigiano, rivelare le credenze religiose o il modo di pensare di un intero popolo. Tutto questo si mostra oggi al piano nobile di Palazzo Nonfinito. Sono abiti e armi, monili e vasellami. Ci sono gli oggetti che il re del Siam regala a Galileo Chini per avergli decorato la reggia a Bangkok; gli utensili che i discendenti di Alessandro Magno, gli isolati kafiri, consegnano nelle mani di Paolo Graziosi, in Hin- dukush; le vesti tradizionali e i gioielli che Fosco Maraini, padre di Dacia, porta a casa dai villaggi Ainu, in Giappone. E c’è la collezio- ne Cook: le maschere, le clave da guerra, i pettini di legno arrivati a Londra solo pochi mesi dopo la morte in mezzo all’Oceano del grande comandante della marina britannica. Nel 1779.

A Firenze i reperti del viaggio in cui James Cook perde la vita

James Cook è uno dei più famosi esploratori del mondo, il primo ad arrivare in Australia. Per tre volte circumnaviga il globo, perlu- strando in particolare l’Oceano Pacifico, scoprendo e mappando coste inesplorate. Tre viaggi di enorme portata scientifica, che la- sciano reperti, dati, informazioni in migliaia di pagine di diari e giornali di bordo, nonché innumerevoli carte nautiche. Per ben tre volte Cook si avventura oltre il circolo polare an- tartico, ricavando l’informazione che quella grande terra gelata non è collegata con alcuna isola. Durante l’ultima spedizione, la terza, Cook si spinge a nord, è il primo a sbarcare alle isole Hawaii (da lui chiamate Sandwich), esplora e traccia tutta la costa del Nord America, determinando l’estensione dell’Alaska. Ma non riesce ad attraversare lo stretto di Bering ed è costretto a fare mar- cia indietro verso le Hawaii. Qui viene ricevuto dagli indigeni come se fosse un dio. Ma forse per stanchezza, o per la frustrazione di quell’imprevisto ri- torno, il comandante gestisce male un banale incidente, il furto di una scialuppa, che si conclude con un violento litigio con la popolazione locale. E accade l’inconcepibile: accolto solo poche ore prima con gesti di adorazione, James Cook muore, trafitto alle spalle da una coltellata, e finito da numerosi colpi sferrati dagli indigeni in gruppo, quasi secondo le mosse di un rituale. Solo una parte delle spoglie del comandante viene restituita al­

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l’equipaggio, che la seppellisce in mare come tradizione. Di James Cook nulla torna in patria, se non il mito. E tornano gli oggetti dell’ultimo viaggio, raccolti in parte sull’isola di Vancouver e in parte fra gli inuit dell’Alaska. Una volta sbarcati, i preziosi reperti sono consegnati a Joseph Banks, direttore dell’Accademia Nazionale Inglese delle Scienze. Il caso vuole che proprio in quel periodo siano a Londra Felice Fontana e Giovanni Fabbroni, inviati da Pietro Leopoldo con una borsa piena di denari a caccia di strumenti e reperti per arricchire il neonato Museo Regio di Firenze. L’amicizia fra Banks e Fabbro- ni fa il resto: la raccolta James Cook finisce a Firenze, dove è oggi esposta. «Gli effetti prodotti dai rapporti con gli indigeni – scrive il grande esploratore inglese nel diario del secondo viaggio – sono che invece di sforzarci di civilizzarli e riformarne la natura selvag- gia, noi ne corrompiamo i costumi [...] e introduciamo fra loro dei bisogni e forse delle malattie che mai prima d’ora essi conob- bero». Cook non poteva sapere di essere maledettamente nel giu- sto: come per tanti altri popoli nativi, l’incontro col colonialismo è fatale agli hawaiani. Nessuna razza è pura, neanche nelle sperdute isole del Paci- fico, dove oggi i discendenti di chi bollì il corpo del comandante per purificarne i resti, coccola i turisti conAloha e danze di pace. Oggi su quelle isole, trentanove abitanti su cento sono di origine asiatica (giapponese o cinese); ventisette sono europei (tedeschi, portoghesi, inglesi, italiani); ventuno sono multiracial americani; 8 ispanici (messicani e portoricani). Solo cinque su cento discen- dono dagli antichi polinesiani. Ci siamo mescolati fin dall’inizio, siamo frutto di transumanze, invasioni, migrazioni. Da duecento- mila anni il nostro sangue si mescola, la nostra pelle si impasta di mille tonalità. Fette di dna ci accomunano a ignoti cugini dall’al- tra parte del globo. Come diceva Mantegazza, siamo tutti frammi- sti: vecchi e nuovi “suprematisti” dovranno farsene una ragione.

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L’Archivio di Stato Il cuore di Firenze è lungo 80 chilometri

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 297 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 298 10/05/21 14:51 Toscana, civiltà mercantile e giuridica: in nessun altro territorio italiano c’è una tale abbondanza di atti notarili, e non a caso l’Archivio di Stato di Firenze è il più frequentato di tutta la penisola. Tappa obbligata per qualsiasi ricerca sul Rinascimento (e non solo), il cuore della memoria sto- rica cittadina conserva centinaia di migliaia di documenti originali, dai privilegi di Federico Barbarossa alle dichiarazioni dei redditi dei Medici, al Codice leopoldino con cui la Toscana, per prima al mondo, abolisce la pena di morte. Breve storia del Regno attraverso le sue carte.

Da arma segreta dell’amministrazione a cuore della memoria cittadina

Viviamo – vivevamo? – nella civiltà della scrittura. Sono le carte a custodire il divenire umano. Sono le lettere, gli atti, i contratti: si chiamano fonti, attraversano i secoli fra impalcature e scaffa- li. Sono in crescita continua. Poi un giorno qualcuno le trova, le spolvera, ne interpreta i significati. La Toscana di “atti” se ne intende, la sua è una società di mercanti e produttori, che di scrittura nutre se stessa e i propri affari. La terra di Dante e Boccaccio è anche quella di Arti e cor- porazioni: è questo mare di carta a farne una civiltà giuridica, ed ecco perché in nessun’altra zona d’Italia c’è una tale abbondanza di documenti. «Sempre, quando fai fare alcuna carta, abbi un tuo libro – scrive il mercante pratese Paolo al figlio a metà del Trecen- to – e scrivivi suso il dì che si fa, e il notaio che la fa, e testimoni, e ’l perché e con cui la fai. Que, se tu o ’tuoi figlioli n’avessero bisogno, se la ritrovino [...]. E tiellati nella cassa tua compiuta». Proprio intuendo l’importanza di questa mole di contratti e do- cumenti, Cosimo i di Toscana decide di sottrarla all’arbitrio indi- viduale, e di farne uno strumento amministrativo. È il 1569, e il

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granduca chiede a tutti i notai del Regno di depositare i rogiti in un unico “registro di Stato”. Nasce l’archivio notarile, catalogo unico al mondo, fonte giuridica, ma anche storica. Reticolato a difesa della civiltà umana e custode delle sue modifiche. È il pri- mo nucleo di quello che oggi è l’Archivio di Stato fiorentino, il più frequentato d’Italia, con diciottomila presenze annue in sala studi. Un labirinto di 80 chilometri di documenti, che incarna il cuore della memoria della città.

Sette chilometri di documenti sott’acqua

Viene fondato nella prima metà dell’Ottocento, quando è lo stu- dio della storia a farsi largo. Fino a quel momento gli archivi sono segreti. Da Cosimo i in poi ogni amministrazione si è tenuta stret- te le carte, “arsenale” della propria autorità. Ma gli ideali della Rivoluzione francese, sbandierati dalle baionette napoleoniche, ribaltano il mondo. È un terremoto culturale dall’onda lunga, inarrestabile. Gli intellettuali di tutta Europa cominciano a fare pressione chiedendo l’apertura delle fonti, l’accesso ai documen- ti, alle scritture. Lo sguardo sul passato cambia, e Leopoldo ii di Lorena – continuando il cammino sulle orme illuminate del nonno – non si tira indietro quando si tratta di progresso della Toscana. Così, nel 1852, gli Uffizi si aprono per ospitare tutti i depositi dell’am- ministrazione sparsi per la città. Si tratta degli archivi finanziari, giudiziari, politici, che raccolgono gli atti di Firenze fin dalle ori- gini del Comune repubblicano, dal xii secolo in poi. Nasce l’Ar- chivio Centrale di Stato, quale all’epoca è il Regno toscano. Ma come orientarsi, quale criterio applicare per fare ordine in questa moltitudine di carte? Il primo direttore, Francesco Bonaini, fa una scelta cruciale per l’archivistica italiana: organizza i materiali in base all’origine e alla storia dell’ente che li ha prodotti, la famiglia o la magistra- tura, il convento o l’istituto. Inutile insomma cercare notizie su un singolo argomento: per esplorare l’Arno, bisognerà consultare le filze di tutti i soggetti che del volubile fiume si sono occupati nel tempo, dai capitani di parte guelfa in poi. Si chiama “metodo sto- rico”, si basa sulla cronologia, assicura il legame col contesto, ed è ancora oggi alla base della gestione degli archivi del Bel Paese.

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In più, fa bene alla ricerca. Forte di una riconosciuta identità cul- turale, l’Archivio storico fiorentino continua a crescere, nutrito dalle buste che arrivano con l’Unità d’Italia, la soppressione dei conventi, l’ampliamento degli uffici. Vengono via via inglobati i documenti della Prefettura, degli uffici giudiziari, il Catasto tosca- no e lo Stato civile. Archivio creatura viva. Oggi sono oltre seicento i fondi accumulati a mediare fra passato e presente, i registri delle grandi famiglie, le carte degli enti, le accademie, gli istituti. Quando nel 1978 la legge abolisce i manicomi, arriva anche il fondo di San Salvi, in coda alla docu- mentazione medievale iniziata col carcere delle Stinche. Ma fiore all’occhiello dell’istituzione fiorentina è senz’altro l’archivio me- diceo, ereditato dai Lorena: passaggio obbligato per chiunque al mondo voglia affacciarsi sulla parola “Rinascimento”. I documenti sono così numerosi che la mancanza di spazio comincia a creare problemi. Il colpo di grazia lo dà l’alluvione del 1966. Quando l’Arno impazzisce, gli Uffizi sono i primi a soccom- bere, e sette chilometri di fascicoli finiscono sott’acqua. È tempo per una nuova sede, che nasce vicina al centro (ma non abbastanza lontana dall’Arno!), su quella cinta muraria spianata per far posto al sogno di Firenze capitale. Dopo anni di incertezze e lavori, finalmente nel 1989 le casse con la memoria cittadina migrano verso la nuova ospitalità offerta dalla sede in viale della Giovine Italia. E oggi sono lì, punto di riferimento per i ricercatori di tutto il mondo.

Quei privilegi di Barbarossa: Firenze è libera

Oggi, scaffali lunghi mezzo chilometro ciascuno accolgono atti che partono dal 726 d.C. – la più antica è una straordinaria per- gamena longobarda – e arrivano fino ai giorni nostri. La storia di Firenze passa attraverso le carte dell’Archivio, ospitate in versione originale nelle teche del prestigioso edificio. Innumerevoli le col- locazioni in cui il materiale è ripartito. Nel fondo Diplomatico – istituito dal granduca Pietro Leo- poldo – sono raccolte 144.000 pergamene arrotolate, documenti rarissimi molto antichi, tra cui i diplomi imperiali rilasciati a Fi- renze da Federico Barbarossa. Si tratta in pratica di leggi con cui l’imperatore cede diritti e territori al libero Comune. Lungo è il

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contrasto che nel xii secolo oppone la città all’Impero, ma alla fine Federico – in cambio di sottomissione – è costretto a ricono- scere a Firenze il diritto di darsi delle leggi, di organizzare il pro- prio governo e amministrare le terre contese. Una sorta di carta bianca che, dopo l’occupazione di Figline ed Empoli, permette ai fiorentini di continuare l’espansione nel contado, assicurandosi la via per la Romagna (con le vittorie in Mugello), il governo nel basso Valdarno (strategico per il controllo del fiume e l’accesso al mar Tirreno), e l’autorità in Valdelsa (essenziale per dominare la Francigena). Il contado è domato, l’annientamento di Semifonte, verso Siena, è il punto di arrivo di una politica “estera” iniziata con la distruzione di Fiesole e tesa a egemonizzare il territorio limitrofo, spezzando la resistenza di chiunque si opponga. Tutto con la benedizione imperiale. Ma non certo con quella papale.

Quando Bonifacio viii manovra contro Dante

Ecco infatti nelle teche dell’Archivio le bolle di papa Bonifa- cio viii, con il sigillo plumbeo ancora pendente. Il pontefice è l’ultimo strenuo fautore della supremazia della Chiesa sui re- gni della terra. Dopo aver indetto il primo Giubileo della storia – nell’anno 1300 – Bonifacio si mostra ai pellegrini con le insegne imperiali, esclamando: «Io sono Cesare, io sono l’Imperatore». Proprio come Innocenzo iii cent’anni prima, Bonifacio viii pensa che il potere spirituale domini su quello temporale, e che entram- be le spade spettino al papa, il quale può concederne una all’im- peratore, purché agisca in suo nome. Numerose le bolle emanate durante il controverso pontifica- to, fra cui quella in cui minaccia di scomunicare i laici che impon- gano tasse agli ecclesiastici senza il consenso della Curia romana. Peccato che in un secolo le cose siano cambiate parecchio: non molti sovrani sono ancora disponibili a sottomettersi. Bonifacio si muove per una teocrazia che ormai va contro la Storia, ma che non gli impedisce di ingerire pesantemente nella politica fioren- tina. È lui l’artefice della manovra per la presa di potere dei guelfi neri in città, causa della condanna a morte, dell’esilio e della di- struzione delle case di Dante Alighieri, nel 1302. Da qui, la danna- zione eterna da parte del poeta, che inserisce il papa direttamente all’inferno. Fra i simoniaci.

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Le “dichiarazioni dei redditi” del 1427: la ricchezza di Firenze ai raggi x

Uscendo dal «Diplomatico», un passaggio sui fondi del principato mediceo porta alla luce le dichiarazioni dei redditi del 1427. Anni intensi, quelli della prima metà del Quattrocento: soffocate le ri- chieste operaie del tumulto dei Ciompi, gli equilibri tradizionali hanno ripreso il sopravvento, la grassa borghesia torna al control- lo dei meccanismi di governo. Sono gli anni in cui l’Umanesimo sfocia nel Rinascimento, il concorso pubblico per la porta nord del Battistero premia Ghi- berti, la Firenze delle Arti innalza i tabernacoli di Orsanmichele, mentre Masaccio caccia Adamo ed Eva dal paradiso della Cappel- la Brancacci. Intanto, sono partiti anche i lavori per la cupola del Duomo, quel cantiere che la città aveva dimenticato, e forse non osava più sognare. Da tempo il governo sta pensando a un sistema di tassazio- ne minuziosa, che recuperi risorse là dove si trovano: ma l’op- posizione dei possidenti ne ha sempre impedito l’introduzione. La guerra contro Milano però dissangua le casse comunali. Si calcola che la Repubblica fiorentina spenda fino a tre milioni e mezzo di fiorini per combattere i Visconti. In città il popolo minuto non arriva a nutrirsi, mentre il Comune ha bisogno di risorse per sostenere le milizie mercenarie. È tempo di far pagare i benestanti. Anche se questo vuol dire che accanto ai cavalieri e ai “grandi”, anche il popolo grasso dovrà aprire la borsa. Nasce il nuovo Catasto fiorentino, un sistema di prelievo proporzionale alla ricchezza: ogni cittadino deve fare una dichiarazione auto- grafa, indicando nome, mestiere, quartiere e gonfalone di resi- denza, composizione del nucleo familiare, età dei componenti della famiglia, beni immobili e mobili. È questa la vera novità. Da adesso in poi, il patrimonio familiare soggetto a tassazione deve includere il denaro liquido, i crediti, i titoli di debito pubblico, il valore di mercato delle merci, i guadagni ottenuti da attività com- merciali. E poi non possono mancare gli schiavi, i buoi, i cavalli, gli armenti. In una parola, tutto. Una (auto)dichiarazione dei redditi in piena regola, con tanto di verifica finale degli ufficiali del Catasto, e confisca dei beni che risultino occultati. Sulla cifra globale vengono ammesse le detrazioni, le bocche da sfamare in famiglia, i canoni, i debiti, le pigioni. E, sull’ammontare netto,

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si applica una tassa progressiva, 3% fino a un reddito di cento fiorini, 5% per i patrimoni più alti. Giovanni di Bicci, capostipite del clan Medici, non è molto favorevole, né alla guerra contro i milanesi, né alla nuova tassa sui patrimoni: sa che potrebbe esserne colpito duramente. Ma sa anche che i fiorentini – soprattutto i piccoli artigiani, alleati di governo dei grandi mercanti – sono ormai decisi a introdurre la riforma. E poiché da sempre il decano della famiglia si muove con grande attenzione agli umori “popolari”, limita l’opposizione al chiuso dei consigli, mentre in pubblico spende parole di elo- gio per la nuova legge. Nel 1427 il provvedimento è approvato: Firenze passa la propria ricchezza ai raggi x, mettendo in atto un esperimento di equità fiscale senza paragoni nel mondo. Naturalmente, se la plebe è entusiasta, i facoltosi mercanti lo sono molto meno. La prosperità fiorentina si è costruita sulla mercatura, la riforma rischia di provocare la fuga di denaro e in- vestimenti verso l’estero. Cosa che puntualmente accade, e infatti il meccanismo delle false dichiarazioni inquina la successiva con- sultazione fiscale: da cui si capisce che il nostro è un problema davvero atavico. Ma indietro non si torna. Se i ricchi piangono a causa del catasto, il popolo minuto degli artigiani ci ha preso gusto, e chiede la retroattività della legge: chi in passato non ha pagato secondo il nuovo sistema, dovrà farlo adesso. Questo è dav- vero troppo, gli animi si scaldano, la tensione monta. È ancora Giovanni di Bicci a trovare le parole del compromesso: «Se le gra- vezze per l’addietro erano state ingiuste, ringraziate Dio poiché si è ritrovato il modo a farle giuste; sia questo modo pace del popolo e non motivo di divisione alla città». Una mediazione che alla fine prevale, anche se a farne le spese è il contado. Il nuovo sistema fiscale viene esteso al di fuori della cerchia urbana, tutti gli abi- tanti del dominio di Firenze dovranno sottostarvi. San Gimignano protesta, Volterra si rifiuta. Ci vorrà l’esercito per far applicare la legge.

Ed ecco i risultati: i ricchi a Firenze sono sempre gli stessi

È tempo di bilanci. Dall’analisi delle 10.171 dichiarazioni dei red- diti del 1427 – ancora oggi consultabili in archivio – si scopre che

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3.000 famiglie vengono subito esonerate dal pagamento perché nullatenenti. La classifica della prosperità cittadina vede al primo posto Palla Strozzi (162.000 fiorini dichiarati), seguito da Fran- cesco Tornabuoni (109.000), e da Giovanni de Bicci de Medici, terzo con 91.000 fiorini. I mercanti mugellani divenuti banchieri e destinati alla corona ducale, affermano di possedere due opifici, una villa a Careggi, un’altra fortificata al Trebbio, una a Cafaggio- lo, vasti appezzamenti di terreno coltivabile e un banco con va- rie filiali (quella romana, stando alla dichiarazione, è in perdita). Una raccolta dati davvero impressionante, non solo capace di dire molto su chi eravamo, ma – se opportunamente interrogata – an- che di rivelare chi siamo. Pochi anni fa la Banca d’Italia ha prodotto uno studio sui risultati digitalizzati del censimento fiscale del 1427, paragonati alle dichiarazioni dei redditi del 2011. Ebbene, le sorprendenti conclusioni rivelano che le famiglie fiorentine più ricche di al- lora sono praticamente le stesse di oggi. Nonostante le rivoluzio- ni industriali, le guerre, i “miracoli” economici ecc., in seicento anni e venticinque generazioni le cose in riva all’Arno non sono cambiate granché. Non c’è stata “elasticità intergenerazionale”. Secondo i ricercatori, a un certo cognome corrisponde nel tempo un tipo di lavoro e una ricchezza stabile. Se il mio avo era mercan- te di sete, io sono divenuto avvocato o notaio ma, in un modo o nell’altro, la ricchezza si è mantenuta invariata all’interno del mio gruppo familiare, grazie a meccanismi di protezione e difesa per cui la “persistenza” vince, la “mobilità” perde. Con buona pace di ascensori sociali, eguaglianza delle opportunità, moderne regole economiche e via discorrendo. Complessivamente, la riforma del 1427 porta nelle casse cit- tadine 25.500 fiorini d’oro, presto destinati a un nuovo conflitto disgraziato, la guerra contro Lucca. Ma Giovanni de Bicci non vi assisterà: muore due anni dopo, lasciando nelle mani del figlio Cosimo un patrimonio liquido di 180.000 fiorini, su cui la casata costruirà la propria fortuna politica. Dilapidandolo. Il capostipite viene sepolto in San Lorenzo, all’interno di quella sacrestia (“vecchia”) commissionata a Brunelleschi, che Donatello decorerà proprio per volere di Cosimo. Del patriarca scrive più tardi Machiavelli: «Non domandò mai onori, ed ebbegli tutti; morì ricchissimo di tesoro, ma più di buona fama e di bene- volenza».

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Un albero genealogico conferma: i principi si sono uccisi a vicenda

Archivio, fabbrica di Storia in movimento. Scatola di memorie se- dimentate, dove chi si è perduto può riannodare i fili di una sto- ria sepolta, di un diritto negato. Nuovo salto nel tempo, ed ecco tra le filze apparire a sorpresa un albero genealogico dei Medici, compilato nel 1712 su commissione di un principe della famiglia, un erede al trono di Toscana. Qui, il racconto che molti studiosi bollano come fantasia popolare – relegato nell’angolo della pro- paganda antimedicea – trova invece inedite conferme. In un ramo dell’albero si legge chiaramente che il principe Giovanni viene ferito a morte dal fratello Garcia durante una battuta di caccia, nel 1562. E che è il padre Cosimo in persona, travolto dall’ira, a colpire il figlio omicida con uno stiletto, ferendolo a morte. Sul contesto del dramma familiare che investe i Medici e la Toscana tutta le fonti sono unanimi. A ottobre il duca Cosimo, i tre figli minori e la moglie Eleonora partono per la Maremma. Obiettivo: visitare i lavori di bonifica. Ma su cosa accada durante il fatidico viaggio, le voci contrastano fin da subito. È comunque accertato che il diciannovenne cardinale Gio- vanni, figlio prediletto del granduca, muore il 21 novembre a Li- vorno, e il 25 viene solennemente sepolto a Firenze nella cappella di famiglia in San Lorenzo. Nessuno può vedere il cadavere, che, contrariamente all’usanza «non è esposto alla pubblica vista, ma serrato in cassa». Pochi giorni dopo, il 12 dicembre, a Pisa, muo- re anche Garcia, principe quindicenne prediletto della grandu- chessa, il cui corpo viene riportato a Firenze durante la notte, e inumato «senza pompa alcuna». Scelta inspiegabile trattandosi del figlio di un granduca. Due principi, due corpi tumulati sen- za che nessuno possa guardarli in faccia per l’ultimo saluto. Sei giorni più tardi, è la volta della sfortunata madre dei due ragazzi, Eleonora: anche la bella principessa di Toledo, l’amore grande dell’iracondo duca, chiude gli occhi per sempre. Erano partiti in cinque, tornano a palazzo in due, Cosimo e il piccolo Ferdinan- do. Una triplice sventura da cui il granduca non si riprenderà più, arrivando due anni più tardi a lasciare il Regno nelle mani del figlio maggiore, e a ritirarsi a vita privata. Ma che cosa è davvero successo in quei giorni? Cosa ha stroncato due ragazzi nel fiore degli anni?

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Si fa strada il racconto di un duplice omicidio scatenato da un banale litigio tra fratelli. Il motivo sarebbe la disputa su quale cane abbia fiutato per primo la pista di una lepre stanata durante una caccia. Ma la versione ufficiale sostenuta dalla famiglia – e poi per secoli dagli studiosi – dismette questa “storiella messa in giro dai nemici di Cosimo” e parla prima di influenza, poi di malaria. Con tanto di recenti analisi mediche sui reperti ossei, che confer- mano la presenza del parassita.

Mariani, archivista al di sopra di ogni sospetto

A gettare nuova luce sulla vicenda arriva oggi l’albero genealo- gico dei Medici, documento gelosamente custodito nell’Archivio di Stato di Firenze. Un registro ufficiale, stilato dall’archivista di corte, Lorenzo Maria Mariani, e pubblicato per volere del gran principe Ferdinando dei Medici, figlio di Cosimo iii ed erede al trono, desideroso di celebrare pubblicamente l’elenco degli ante- nati di famiglia. Mariani è un sacerdote, illustre antiquario, nonché custode per venticinque anni dell’archivio dell’altezza reale di Toscana. È lui il responsabile del Priorista cioè il catalogo destinato a identi- ficare chi erano i cittadini che avevano governato la Repubblica fiorentina rivestendo la carica pubblica di priore o gonfaloniere, e le cui famiglie potevano dunque vantare titolo nobiliare. In prati- ca, per tutta la vita il dotto Mariani si affina nell’arte di leggere le antiche grafie, vagliare e riordinare i documenti delle casate, veri- ficare le notizie reperite, sforzandosi di ridurre al minimo i margi- ni d’errore. A lui si rivolgono i nobili in cerca di un “certificato”. Come archivista regio, pagato 5 ducati al mese dal granduca, lo studioso ha il potere di firmare copie e attestazioni. E chi meglio di lui può compilare il più delicato fra gli alberi genealogici, quel- lo della famiglia regnante? Quando il granduca chiede, l’erudito esegue, con lo scrupolo di sempre. Eccola dunque, la Genealogia della nobile famiglia Medici, an- cora avvolta nella pelle originaria. Per redigerla, Mariani attinge sia alla parte segreta delle carte della stirpe granducale, sia ai do- cumenti pubblici e ai carteggi politici. È un registro autentico, di grande valore, il principe Ferdinando lo conserva in biblioteca, considerandolo la versione ufficiale della propria discendenza.

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Un libro prezioso che, insieme a tutti gli altri documenti del fondo mediceo, passa da Palazzo Pitti agli Uffizi, dove entra a far parte dell’Archivio di Stato nel 1852, poi scampa all’alluvione, e infine arriva in viale Giovine Italia, sede attuale dell’Archivio. In- somma, Mariani è un archivista esperto e attendibile; il registro è una fonte autentica e preservata nei secoli. Ma allora perché i Me- dici alle prese con la storia di famiglia, dovrebbero dare credito alle “fandonie” frutto della malevolenza degli antichi oppositori? Perché attribuire la scomparsa dei principi a un duplice omicidio, smentendo così la versione della malattia che la corte al completo – a cominciare da Cosimo – avvalora fin dall’inizio?

Il racconto di Cosimo nelle lettere a Francesco: i tuoi fratelli muoiono

Il giorno stesso della scomparsa di Giovanni, il duca scrive al figlio maggiore Francesco, ospite della corte di Spagna, annunciando- gli che il fratello, colto da febbre maligna a Rosignano, è morto. Cosimo scende in una serie quasi sconcertante di particola- ri, parla del numero dei salassi, arriva a indicare la quantità di sangue estratta. Aggiunge che quelle febbri imperversano, e che anche gli altri due fratelli ne sono toccati, seppure in forma più lieve. Poi tace fino al 18 dicembre, quando una seconda lettera, nuovamente imbevuta di dettagli sul decorso della malattia, arriva a Francesco annunciando la morte dell’altro fratello Garcia (avve- nuta sei giorni prima), e quella della madre (il giorno stesso). Le due lettere, ritrovate anch’esse in Archivio, sono ritenute le “pro- ve inoppugnabili” della veridicità della narrazione ufficiale del dramma. Trattandosi del maggior “indiziato” – incidentalmente anche capo del Regno – l’alibi fornito di propria mano dal gran- duca non sembra oggi così inoppugnabile. Ma ciò che è più strano, è l’assoluto discredito raccolto nel tempo dalla versione del fratricidio, che pure si sparge subito in modo rapido fra il popolo, attraversa tutte le corti italiane, giunge al Concilio di Trento, dove l’ambasciatore di Cosimo, Giovanni Strozzi, mette in guardia il duca: «ci sono state lettere per molti, ed è un mormorio così comune [...] che giudico mio debito scri- vergliene». Ma la cortina ufficiale di silenzio opposta e imposta dai Medici funziona. E la storiografia che si afferma nei secoli, la

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versione che praticamente tutti gli storici privilegiano e riportano – citandosi l’un l’altro – è quella che non si fa sfiorare dal dubbio, e bolla il racconto come “frottola” degli esiliati. Troppo efferato per essere vero. A partire dagli anni Venti del Novecento, uno fra i più grandi esperti di questioni medicee, il medico, letterato e politico Gaeta- no Pieraccini, abbandona l’ipotesi di febbre influenzale per for- mulare la diagnosi di malaria perniciosa. Anche Pieraccini si basa su interpretazione dei sintomi ricavati dalle fonti letterarie. E dire che lui, quei corpi, li prende addirittura in mano. Nel 1947, Pie- raccini (e Giuseppe Genna) aprono i sepolcri di Giovanni, Garcia, Eleonora e Cosimo dei Medici. Recuperano gli abiti, ma buttano via tutto ciò che non è materiale osseo, perché non hanno le cono- scenze tecniche necessarie all’analisi di tessuti, capelli, tendini. Nel 2006 le salme dei principi vengono esumate per la seconda volta, e nuove indagini con strumenti appropriati rivelano antigeni della malaria nelle ossa. Viene dimostrato che i ragazzi erano venuti in contatto con il parassita, il plasmodium calciparum, ma questo pote- va essere accaduto precedentemente nella loro vita: dunque anche la comunità scientifica non arriva a mettere la parola fine. E mentre l’avallo degli storici è di là da venire, ai giornalisti non rimane che continuare a frugare. Può così capitare di imbat- tersi nella lettera dell’ambasciatore estense alla corte di Toscana, Alessandro Fiaschi. Che il 19 aprile del 1558 – cioè ben quattro anni prima del fatale viaggio in Maremma – informa i duchi di Ferrara dell’inaudito attacco portato a colpi di coltello dal prin- cipino Garcia contro il principe Giovanni. «La fortuna volse che Garcia lo colse nella gamba sinistra nella polpa ed entrò dentro [...], il che fece uscirli gran quantità di sangue».

Anna Maria Luisa: avrebbe regnato se fosse stata uomo?

Archivio, specchio di un contesto storico, prodotto di una visione del mondo aperta sul futuro. Un altro salto in avanti, ed eccoci al Patto di famiglia, lo straordinario contratto con cui Anna Maria Lui- sa de Medici, l’ultima della dinastia, vincola a Firenze il patrimonio degli avi. È lei che, non potendo succedere ai fratelli alla guida del Regno, e neppure restituire il Ducato a una Repubblica cittadina,

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contratta con i nuovi sovrani un singolare accordo giuridico desti- nato a (ri)mettere il tesoro mediceo nelle mani della città. Anna Maria Luisa nasce bella e di animo forte. La madre – Margherita Luisa d’Orleans – non avrebbe mai dovuto lasciare la Francia: detesta l’uomo che le hanno dato in sorte, Cosimo iii, sembra indifferente ai figli che le maturano in grembo, non sop- porta la “misera” città che la rinchiude. Tenta di resistere, poi decide di tornare a segregarsi in un convento parigino, abbando- nando tutto e tutti. Sarà la nonna, Vittoria Della Rovere, a cresce- re la nipote, una ragazzina intelligente e vivace, che cavalca, ama la musica e conosce il latino. Lunghe le trattative per maritarla, il valzer delle alleanze si volge verso l’Austria, è l’imperatore in persona a fare il nome di Giovanni Guglielmo di Sassonia, elet- tore palatino del Reno, fratello dell’imperatrice. Giovanni non è bello, ma è uomo di cultura, e soprattutto sprizza una sorridente serenità capace di regalare alla ragazza la pace mai conosciuta. È il 1691. Nelle lettere da Düsseldorf, lei si dichiara la «sposa più contenta del mondo». È vero che ha nostalgia di casa: «Sono stata a Colonia – scrive – ma a voler che queste città paressero bel- le, bisognerebbe non essere nata a Firenze». Eppure nei palazzi tedeschi, assediati dal ghiaccio, trova la liberazione dalle trame di corte, la depressione del padre, i pianti della nonna, gli scandali dei fratelli, e la minaccia sempre presente dell’estinzione della dinastia. «Qui si sta con molta quiete e unione, e sempre cresce l’affetto dell’Elettore verso di me». Anna Maria Luisa e Giovan- ni sono una coppia affiatata, molti anni scorrono quieti a corte, fra musica e gite in slitta, caccia e balli. Unica ombra: la sterilità. L’elettrice prova di tutto, ma niente da fare, né lei né i fratelli giù a Firenze riescono a generare un erede. La stirpe è condannata. Ed ecco la principessa tornare a casa. È il 1716, l’elettore palatino muore per un problema di cuore, la principessa decide di ripren- dere il posto accanto al padre, che ha già perso il figlio maggiore Leopoldo, e il fratello, lo zio a lei tanto caro. Così Anna Maria Luisa riabbraccia Firenze. Per qualche anno tenta di legare il patriziato fiorentino alla famiglia, e diviene regolatrice del Consiglio. Un ruolo politico, il suo, forse l’ultimo tentativo di legittimare nei fatti la propria candidatura alla gui- da del Regno. Il granduca la tiene vicino negli affari di governo, sembra sperare che possa essere lei a rimpiazzarlo, e non il figlio cadetto di cui non ha alcuna stima, Gian Gastone.

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Ma niente da fare, nessun sovrano europeo ha mai preso se- riamente l’ipotesi che a regnare possa essere la figlia del grandu- ca. Quando Cosimo muore, il terzogenito Gian Gastone sale su un trono spacciato. I rapporti tra fratello e sorella non sono mai stati troppo calorosi, lui è amareggiato per quel legame – a lui sempre negato – che unisce Anna Maria Luisa al padre. Una dinamica psicologica non troppo dissimile dal “triangolo” Cosimo i-France- sco-Isabella. Inoltre il neo granduca rimprovera alla sorella di aver combinato il matrimonio infelice in cui è stato rinchiuso, quello con una principessa boema, di lei cognata. Fratello e sorella fi- niscono per vivere lontani, e mentre lei se ne sta relegata a Villa La Quiete, le guerre in continente decidono il destino del Regno toscano. Alla fine è il vento austriaco a prevalere sullo spagnolo, e i fiorentini tornano a essere sudditi del Sacro Romano Impero. Lo Stato di Toscana andrà agli Asburgo-Lorena. Intanto le condizioni di salute di Gian Gastone peggiorano rapidamente. Nelle sue ultime settimane di vita, la sorella mette da parte l’orgoglio e lo assiste nella malattia, tirandolo fuori dal letto, lavandolo e costringendolo a nutrirsi. Quando lui se ne va – è il luglio 1737 – lei rimane davvero sola, a guardare le insegne medicee scendere dalla porta di Palazzo Vecchio per far salire quelle di Francesco Stefano. Da ora in poi gli ordini vengono da Vienna.

Un capolavoro giuridico pensato, scritto, negoziato dall’ultima dei Medici

Rientrata a Pitti, la stanca signora si stringe in un’ala del palazzo, combattendo contro un tumore al petto, che tiene nascosto. E mentre amici e consiglieri si inchinano davanti al nuovo signore di Firenze, rappresentato dal principe di Craon, l’elettrice trova la forza di inventarsi l’atto destinato a lasciarla nella Storia: il Patto di famiglia, convenzione giuridica nata nella testa di questa principessa degna erede degli avi, secondo cui gli Asburgo-Lore- na potranno disporre del tesoro mediceo, ma non allontanarlo dalla città. Proprietari-conservatori dunque, di quadri e statue, cammei e libri, antichità etrusche ed egiziane, reliquari e arazzi. Ma senza la possibilità di portare al di fuori delle mura fiorentine la fortuna accumulata dalla casata Medici.

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Anna Maria Luisa vuole fortissimamente questo accordo. È memore della dispersione dei tesori di Urbino, arrivati in città in- sieme a Vittoria Della Rovere. Ed è al corrente delle prime ruberie dei nuovi padroni, che non ancora arrivati hanno già cominciato a saccheggiare l’armeria e i gioielli di famiglia. Dunque è decisa a fare tutto quanto in suo potere per impedire la disgregazione dei tesori medicei. Partorisce così un vero capolavoro giuridico, lo scrive, lo ne- gozia a Vienna in prima persona. Lo porta in fondo contro ogni difficoltà diplomatica, patteggiando con una controparte conscia di non aver nulla da guadagnare, piuttosto il contrario. E può far- lo solo perché in fondo è sempre l’elettrice palatina, principessa austriaca, membro della famiglia reale. Parla la lingua, conosce i costumi, ha familiarità con la corte viennese dove si muove con di- sinvoltura. Il Patto di famiglia è un successo diplomatico e politico tutto personale della sorella dell’ultimo granduca.

Quel Patto di famiglia che ci rende cittadini

Straordinarie e modernissime le motivazioni dell’impianto stori- co-giuridico sostenuto nella convenzione. Nulla sarà allontanato di ciò che serve «per conservare l’ornamento dello Stato, l’uti- lità del Pubblico e per attirare la curiosità dei Forastieri», dove ornamento non va inteso come abbellimento decorativo, bensì come l’ornatum latino, l’insieme degli elementi identificativi della civitas, il foro, il teatro, lo stadio, le opere d’arte ecc. Siamo agli inizi del Settecento, e concetti come “pubblico”, “privato”, “na- zione”, “Stato”, non esistono chiaramente, sono destinati a farsi largo solo più tardi, trasportati dalla Rivoluzione francese, espli- citati dal Codice civile napoleonico. Ma la visione dell’elettrice palatina, in qualche modo, sembra guardare in faccia il futuro. E, per far questo, ricorre agli unici strumenti a sua disposizione, quelli che conosce, quelli del passato: i concetti latini del vecchio codice giustinianeo, l’ornatum, la civitas. Nel contratto che Anna Maria Luisa firma con i Lorena, il patrimonio artistico mediceo non è più solo l’oggetto di proprietà di una famiglia passato a un’altra con qualche condizione; diven- ta invece elemento identitario della collettività, addirittura dello Stato. È un bene di utilità pubblica. È uno strumento per attrarre

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interesse nei confronti del territorio. Quello delineato dalla figlia di Cosimo iii, insomma, si direbbe un vero e proprio programma politico: gli Asburgo-Lorena non possono privare Firenze di ciò che la identifica, ciò che le appartiene come collettività, ciò che ne può (anche) favorire lo sviluppo economico. E dunque, oggi, non si tratta solo di custodire e far fruttare la Venere di Botticelli o Il Giorno e La Notte di Michelangelo, le Gallerie degli Uffizi o il Palazzo Reale. Già nel pensiero di chi ce l’ha consegnato, il patri- monio culturale è simbolo del legame politico di appartenenza dei fiorentini allacivitas . È ciò che li rende cittadini di Firenze. Anna Maria Luisa muore nel 1743, dopo aver passato gli ulti- mi anni a redigere un dettagliatissimo elenco dei beni protetti dal Patto, inseriti in testamento. Una volontà espressa in modo giuri- dicamente così chiaro da essere chiamata in causa ancora oggi in tribunale per ottenere la restituzione di opere d’arte illegalmente uscite da Firenze. Con il regalo che l’ultima dei Medici fa alla città, il libro di famiglia si chiude. L’antico ingegno dei patriar- chi più lungimiranti si è sciolto nel bigottismo vacuo delle ultime generazioni. Ma il guizzo della figlia di Cosimo iii pareggia – in qualche misura – i conti. Quarant’anni prima di Pietro Leopoldo, è Anna Maria Luisa de Medici a mettere il bene comune al centro dell’azione politica.

Un granduca all’attacco di privilegi e corporazioni

Archivio, strumento di vigilanza sul potere; termometro dei rap- porti fra governo e territorio. Non si può parlare dell’Archivio di Stato di Firenze senza citare proprio lui, Pietro Leopoldo, l’uomo che rivolta la Toscana come un calzino, codificando tutto il possi- bile. Talvolta anche l’impossibile. E non si può raccontare la storia dei documenti che segnano il divenire del Regno senza citare il Codice leopoldino di riforma penale, il cui atto originale è con- servato proprio in Archivio. Attivo a Firenze dal 1765 al 1790, il granduca e la sua clas- se dirigente si nutrono delle nuove teorie fisiocratiche, secondo cui solo un principe-sovrano può guidare i sudditi verso il bene, attraverso un sistema di poche, chiare leggi tali da regolare l’e- conomia e i rapporti fra gli uomini. Celebre uno scritto di Fran- cois Quesnay, il teorico della nuova dottrina, che ben riassume

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il concetto di “dispotismo legale”: «“Che cosa fareste se foste il Re?” “Niente” “E chi governerebbe?” “Le Leggi”». Per liberare gli Stati dai lacci del passato e accompagnarli nella modernità, solo un despota illuminato può dunque dare certezza al diritto e alla sua interpretazione, eliminando le antiche controversie. Su que- sta base – e non senza forti resistenze – Pietro Leopoldo comincia a sradicare monopoli e privilegi, in uno sforzo riformatore tipico di tutti i sovrani illuministi. Addio dunque all’antico sistema corporativo fatto di giuri- sdizioni separate. Niente più statuti e tribunali delle Arti, addio a magistrature anacronistiche, tipo i Capitani di parte guelfa: sono le corti ordinarie a occuparsi delle violazioni di legge, anche in materia commerciale. Con la riforma amministrativa nascono i Comuni, primo esempio di autonomia locale, con Consigli comu- nali e gonfalonieri (sindaci) a redigere i bilanci, gestire i beni, occuparsi di strade e ospedali. Addio anche alle gabelle sul grano: il granduca avvia la li- beralizzazione del commercio dei cereali, che porta la Toscana al completo liberismo frumentario. Addio a (qualche) latifondo: la riforma agraria cede in affitto migliaia di ettari con asta pub- blica, creando una nuova classe di piccoli e medi imprenditori agricoli, capaci di aumentare la produzione, vero chiodo fisso dei fisiocratici. Pietro Leopoldo porta avanti un’attenta politica del territorio, bonifica i terreni paludosi – o almeno ci prova – crea infrastrutture. Nasce la Toscana moderna. Nei rapporti con la Chiesa il granduca riafferma l’autonomia dello Stato e il distacco dalla Curia romana: addio al Tribunale dell’Inquisizione, a quello della Nunziatura, ai privilegi eccle- siastici. Ma è a livello giuridico che il Regno fa un vero balzo in avanti. Dieci anni prima della Rivoluzione francese, e otto prima della Costituzione americana, dal tavolo del granduca al Poggio Imperiale esce un progetto di Carta fondamentale che sancisce i diritti individuali dei cittadini, proclama la separazione dei po- teri, riforma l’ordinamento giudiziario. Sarà lo scoppio della Ri- voluzione francese a impedire il varo della Costituzione toscana, ma non quello del nuovo Codice di diritto penale, che nel 1786 – marcando un primato planetario – porta all’abolizione ufficiale della pena di morte.

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Addio pena di morte. Soppressa davvero solo nel 1994

La prassi della condanna capitale è atavica, universalmente prati- cata, e poche voci si sono spese nel tempo contro la sua applicazio- ne. Fino al 1764, quando comincia a circolare un piccolo saggio, nato quasi per sfida a casa del giurista milanese Cesare Beccaria su suggerimento dell’amico Pietro Verri. S’intitola Dei delitti e delle pene, è stampato a Livorno per evitare problemi con la censura, propone l’abolizione di tortura e pena di morte. Il successo è im- mediato, lo scandalo anche, tanto che il pamphlet viene incluso nell’Indice dei libri proibiti. Ma nonostante le violente reazioni dei conservatori, in poco tempo l’opera diventa il testo più diffu- so dell’Illuminismo italiano. Pietro Leopoldo ne fa una sorta di guida ideale, e dopo vent’anni di studio da parte di esperti e col- laboratori, arriva alla fatidica data del 30 novembre 1786, quando promulga il più vibrante monumento di civiltà penale europea. Da questo giorno in Toscana sono abolite la pena di morte, le pene corporali (marchiatura a fuoco, mutilazioni), la confisca dei beni, la morte civile, i reati di lesa maestà. Tutti retaggi giuridici medievali, spazzati via dalla consapevolezza che la giustizia non può essere vendicativa, che la spettacolarizzazione delle punizioni non ha alcuna funzione deterrente, e che, invece di castigare i corpi, ha più senso cercare di influenzare i comportamenti. «Ab- biamo veduto con orrore con quanta facilità nella passata Legi- slazione era decretata la pena di Morte per Delitti anco non gravi – scrive il granduca stesso nell’introduzione alla legge – ed avendo considerato che l’oggetto della Pena deve essere la soddisfazio- ne al privato ed al pubblico danno, la correzione del Reo, figlio anche esso della Società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi [...]; avendo considerato che tale efficacia, e moderazione insieme, si ottiene più che con la Pena di Morte, con la Pena dei Lavori Pubblici, i quali servono di un esempio conti- nuato, e non di un momentaneo terrore, e tolgono la possibilità di commettere nuovi Delitti, e non la possibile speranza di veder tornare alla Società un Cittadino utile e corretto;[...] siamo venuti nella determinazione di abolire con la presente Legge per sempre la Pena di Morte». Ma Leopoldo va oltre. Secondo il nuovo diritto penale processuale, non solo è vie- tata la tortura giudiziaria per ottenere una confessione, ma gli

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imputati hanno diritto a un difensore, e quest’ultimo deve poter parlare con l’assistito, interrogare i testimoni e avere copia degli atti. Una vera conquista, la tutela del cittadino di fronte all’arbi- trio dello Stato in sede processuale. Neanche Cesare Beccaria era giunto a tanto... Dopo l’emanazione del Codice, Firenze appicca un gigantesco falò di fronte al Palazzo del Bargello, dando alle fiamme patiboli e strumenti di tortura. Beccaria aveva scritto: «Se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità»: grazie a Pietro Leopoldo, l’illu- minista milanese può dire di aver vissuto abbastanza da vedere il suo sogno realizzato in almeno uno Stato europeo. Ma il cammino verso la civiltà iniziato in Toscana è solo agli albori. Abolita nel Regno d’Italia nel 1889, la condanna capitale rimane tuttavia in funzione attraverso il Codice penale militare, e viene applicata in modo massiccio durante le guerre mondiali e il fascismo. La sua soppressione definitiva è terribilmente recente: solo nel 1994 il paese di Cesare Beccaria riesce a chiudere quello che «non è un atto di giustizia, bensì una guerra di una nazione con un cittadino». Oggi, secondo l’ultimo rapporto del Censis (dicembre 2020), quarantatré italiani su cento sono favorevoli alla reintroduzione della pena di morte: erano venticinque solo dieci anni fa. Un tas- so quasi raddoppiato in un decennio. Eppure è ormai scientifica- mente provato: le esecuzioni non sono un deterrente al crimine, e i dati attuali sui delitti – in continuo calo – non giustificano questa nostalgia. Ma il brodo in cui siamo immersi quotidianamente ci cucina a fuoco lento fra insicurezze, disuguaglianze, risentimenti. Resistere a vecchie vulnerabilità e nuove paure sembra una sfida crescente. La bestia umana è sempre in agguato.

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Piazza della Repubblica: la demolizione del centro storico Quando Firenze perse la capitale, fece default e si demolì l’anima

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 317 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 318 10/05/21 14:51 Un sogno durato (solo) sei anni. Una capitale a termine, con scadenza de- cisamente anticipata rispetto alle attese. Nel 1871 re e Parlamento chiudono bottega per trasferirsi a Roma, e a Firenze rimangono palazzi vuoti e strade in costruzione. Le imprese vanno in tilt. Per completare i lavori, il Comune si fa strangolare dalle banche. Travolta dai debiti, la città fallisce. Si chiude con una mela avvelenata la favola bella di Firenze capitale. In sordina come era arrivato, Vittorio Emanuele se ne va. Rimasti senza torta e con i cantieri in mano, i fiorentini rumoreggiano e danno sfogo alla frustrazione dalle pagine dei giornali cittadini: a che cosa è servito tutto quel fantasticare su Parigi e Vienna, quell’affannarsi grandioso per modernizzare la città? Il capro espia- torio diventa Giuseppe Poggi, architetto responsabile dei lavori, accusato di «aver speso troppo». Cade anche il sindaco Ubaldino Peruzzi. E il peggio non si fa attendere. La demolizione del centro storico ripiana – sì – bilanci e portafogli degli speculatori, ma ferisce a morte l’anima della città. Sulle ceneri fredde di Firenze capitale, si consuma il sacco della Firenze medievale.

Nelle mani di Napoleone (iii)

Perché proprio lei? Perché se si deve lasciare Torino – ma non si può ancora andare a Roma – si finisce per scegliere Firenze come nuova capitale? Per la sua storia, per la posizione geografica, a ca- vallo fra Nord e Sud. Per il prestigio culturale e scientifico: doven- do traslocare, l’opzione cade sulla città che ha appena accolto la prima Esposizione Nazionale dello Stato unitario. E anche perché il re è cresciuto lì da bambino, a casa del granduca il nonno, in quella villa al Poggio Imperiale dove ha rischiato di morire brucia- to in culla. Insomma, se non può essere Roma, Firenze ha tutte le carte in regola come capitale di riserva. Ma per capire come si giunga al trapianto del cuore della neo- nata nazione, serve il documento segreto conservato nell’Archivio

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di Stato di Firenze. Si tratta della Convenzione di settembre fra Ita- lia e Francia, firmata nel 1864 da un governo dominato da ministri toscani. Un accordo per cui i francesi accettano di ritirare le truppe di presidio a Roma in difesa del papa, in cambio di un impegno da parte dell’Italia a non invadere lo Stato Pontificio. In una clausola a parte, gli italiani acconsentono a spostare la capitale da Torino a Fi- renze, rinunciando così implicitamente a Roma. Mazzini si oppone violentemente a questa scelta. Senza esito. «Mi sembra per questa città una gran sventura, una tazza di veleno» si lascia sfuggire Rica- soli. A guardar bene, il barone non ha tutti i torti. Ancora una volta il destino della penisola si gioca a Parigi. Finché Napoleone iii protegge il papa – con un occhio al soste- gno dei cattolici – per Cavour e soci è arduo piantare la bandiera nazionale sul Campidoglio. Ma quando la Guerra franco prus- siana del 1870 volge al peggio – dopo le bastonate ricevute da Bismarck e la perdita di Alsazia e di Lorena – i francesi hanno altro cui pensare. Scomparso il difensore di Pio ix, la breccia di Porta Pia di- venta quello che in effetti fu: (quasi) un’escursione. Presa Roma, la corona di capitale passerà in un lampo alla legittima e pluri- secolare pretendente. Ma, nel settembre del 1864, tutto questo sembra pura fantascienza. E Firenze si imbarca in un gigantesco piano di trasformazione.

Il re sbarca di notte: si fa sul serio

Ignara del futuro, la città è decisamente impreparata al presente. Da secoli calibrata sui 120.000 abitanti – poco più dei concittadini di Boccaccio – la neocapitale accoglie la promozione con l’abitua- le diffidenza. Nessuna esultanza, anzi, questa investitura transito- ria sembra addirittura fastidiosa, ancorché foriera di opportunità. E poi, come scrive Indro Montanelli, «la città è visceralmente le- gata alla sua Toscanina granducale, e dunque refrattaria ad ambi- zioni da megalopoli». La struttura urbanistica in effetti è ancora quella disegnata da Arnolfo di Cambio, un nocciolo duro intorno all’Arno che solo Cosimo i con Vasari ha osato intaccare: strade anguste, antiche mura medievali, spazi verdi destinati a nutrire la popolazione du- rante gli assedi. In pochi mesi la città di Dante si deve smontare

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l’ossatura. Ci sono da sistemare non solo la Corte e l’apparato burocratico, ma anche trentamila fra impiegati e militari piemon- tesi, con rispettive famiglie. Un trauma senza precedenti per gli indolenti custodi del Rinascimento, che affidano all’architetto Giuseppe Poggi il compito di tirar fuori un progetto e metterlo in atto in fretta e furia. Un piano di prestito pubblico da 30 milioni di lire, per una rivoluzione urbanistica con l’orologio alle costole. In città, l’umore oscilla. «Firenze è stata scelta, volente o no subirà un’immensa trasformazione – scrive “La Nazione” il 5 gen- naio 1865 – [...] noi toscani e fiorentini, ch’è tutt’uno, siamo un po’ troppo amanti del quieto vivere, e anco del beato far poco. Il nostro paese ci ha dato sempre quanto bastava ai nostri bisogni, la proprietà equamente divisa faceva sì che non fossimo né poveri né ricchi, con poco si era sicuri di vivere comodamente, e questa aurea mediocrità, tanto celebrata in passato dagli stranieri, ad- dormentò quell’istinto d’operosità proprio di quelli che han da lottare sempre col pericolo del domani [...]. Ora però, è mestieri cangiar metro». Il quieto vivere è rotto, bisogna rimboccarsi le maniche. Il se- gno tangibile che si fa sul serio è l’arrivo di Vittorio Emanuele ii. Il 3 febbraio 1865, praticamente di notte, il treno con a bordo il re Galantuomo entra in stazione. Un atto che è stato annunciato laconicamente la mattina stessa, con una nota in «Gazzetta Uf- ficiale»: «Sua Maestà è partito da Torino per Firenze». Anche i giornali sono presi in contropiede: «La Nazione» dà la notizia solo il giorno dopo, in un taglio basso di pagina 2. In effetti sembra quasi una fuga. Torino è scesa in piazza per difendere il diritto a restare capitale, ci sono stati morti e feriti. Il sovrano ha preferito non indugiare, e mettere la città – e tutto il paese – di fronte al fatto compiuto. In ogni caso la nuova reggia è pronta da sempre. Palazzo Pit- ti ha albergato prima la corte medicea, poi gli Asburgo-Lorena. Adesso arrivano i damaschi rossi e i nuovi arredi sabaudi, e con essi balli principeschi, gran galà, visite di Stato. Ma in fondo il re «per grazia di Dio e volontà della nazione» ha gusti semplici, sce- glie quattordici stanze a piano terra e un’uscita secondaria da cui (chiunque) può entrare e uscire senza troppo scompiglio per le guardie. È vedovo dal 1855, ama la caccia, il biliardo, i cavalli – e infatti fa costruire le nuove scuderie reali, verso Porta Romana – ma soprattutto le donne. Anzi, una donna. A pochi chilometri

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da Firenze, a , viene sistemata Rosa Vercellana, la “bella Rosina”, sua compagna ufficiale da quasi vent’anni, madre di due suoi figli e infine anche moglie – ma mai regina. Va spes- so a trovarla, da lei si fa cucinare piatti piemontesi. Aspettando Roma. Mentre a Firenze il grande piano di lavori pubblici è ormai lanciato.

Palazzi e conventi requisiti per i Ministeri, ma i torinesi storcono il naso

Per prima cosa l’architetto Poggi cerca di sfruttare l’esistente, pe- scando nell’abbondanza di palazzi e conventi. All’uso dei primi non ci sono alternative: così gli Uffizi aprono le porte al Senato, mentre il salone dei Cinquecento si attrezza per accogliere la Ca- mera dei deputati, da dove Ricasoli annuncerà la guerra contro l’Austria nel 1866. Si tratta di grandi traslochi di cose e persone, bisognosi di pesanti lavori di adattamento. Nella fretta, scompare da Palazzo Vecchio il Tesoretto di Cosimo i, sacrificato per far po- sto a una scala. Addio anche al teatro granducale di Buontalenti, tolto di mezzo agli Uffizi per accomodare i senatori. Tutto som- mato, poteva andar peggio. Il Ministero degli Interni si sistema a , quello della Giustizia a Palazzo Portinari Salviati, mentre il Ministero dei Lavori Pubblici si installa nell’E- ducandato della Santissima Annunziata, annesso al convento di Santa Maria Novella. Sui conventi invece si scatena – e poteva mancare? – la prote- sta. Dopo le chiusure imposte dal granduca Leopoldo e le cancel- lazioni dell’era napoleonica, la Restaurazione ha riaperto le porte di molti monasteri. Di fronte alla nuova ondata di requisizioni, i fedeli inveiscono, i papisti alzano la voce. Ma non c’è niente da fare: ciò che non hanno potuto rivoluzioni e riforme, lo fa la fame di spazi della neo capitale. Così il Ministero della Guerra si prende Santa Caterina, l’Istruzione si fa largo nel convento di San Firenze, la Corte di Cassazione s’installa in Santa Maria Novella e la Marina si adatta nei locali dei padri delle Missioni. Bene o male, in tempi assolutamente eccezionali, la macchina di governo viene assorbita. Il vezzoso capoluogo del Rinascimento si gonfia di burocrati piemontesi, che portano le mezzemaniche nere per non logorare i gomiti alle giacche. A Torino si intendevano nel

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bel dialetto piemontese, con i fiorentini son costretti a parlare italiano. O forse no. Le cose fra i due gruppi non sempre funzio- nano, il tipico disincanto degli ospitanti si scontra con l’asciutta alterigia degli ospiti. Tanto che Gaspero Barbera, editore torinese e fiorentino d’adozione da venticinque anni, a un certo punto sente il dovere di scrivere una lettera a «L’Opinione», quotidia- no filocavouriano traslocato da Torino a Firenze col governo. Per bacchettare i concittadini. «Non vi sentite avvampare di sdegno – si rivolge al diretto- re, Giacomo Dina, il 20 luglio 1865 – ad udire molti dei nostri compae­sani, palesemente, ad alta voce, in luoghi pubblici, dire un monte di male dei costumi, della lingua, di questo mite e perciò civile popolo fiorentino? [...] Non provate dolore a vedere con quanta insipienza e malizia grossolana i giornali della nostra Tori- no accolgono lettere da Firenze in cui si dicono cose da far sbelli- care dalle risa chi conosce da vicino il vero, se questi fossero tempi da ridere? [...] I nostri compaesani si dolgono di non trovare qui i costumi loro, né i loro agi, né gli svaghi loro, e neppure il dialetto. Voi udirete le alte rampogne di taluni dei nostri. Ma non tanto spesso udirete le querimonie sommesse dei fiorentini [...]. Prego voi e i miei compaesani, che si smetta di bistrattare questa città e questo popolo, il quale ha doti in sé pregevoli, e talune non comu- ni fra noi». Per cercare di comporre la “frattura”, il seicentesimo compleanno di Dante è festeggiato in gran pompa da torinesi e fiorentini insieme, uniti in sotto la gigantesca statua di Alighieri. Intanto in città si moltiplicano i salotti culturali, arrivano am- basciatori e giornalisti. «Adesso Firenze è alquanto più rumorosa e variopinta, la folla nelle strade è enorme – scrive Fëdor Dostoevskij nel dicembre del 1868, ricordando una visita fatta anni prima – molta gente è affluita alla capitale, la vita è parecchio più cara».

L’addio alle mura medievali: servono case per trentamila persone

Svuotare e riempire edifici storici sembra comunque il problema minore: dove alloggiare le decine di migliaia di nuovi arrivi? La città murata deve aprirsi, schiudere il nucleo medievale, creare nuovi spazi.

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Su modello delle grandi capitali europee, il Comune decide di buttar giù le vecchie mura e inglobare i territori circostanti. Una specie di cataclisma rinnovatore si abbatte sulla Firenze che fu. L’antica cerchia cade in tempi record, al suon delle mine della Florence Land & Public Works Company (società di capitale bri- tannico). Il magico perimetro è sostituito da grandi viali alberati, cerniera fra la città storica dove si lavora, e quella nuova dove si va a vivere. Nascono gli insediamenti di Barbano, della Mattonaia e del Maglio, fra piazza Beccaria, Porta San Gallo e piazza Indipen- denza, legati dai viali come boulevards parigini. Ma le poderose mura di Arnolfo vanno giù non senza contra- sti, e qualcuno comincia timidamente a chiedersi se davvero c’era bisogno di polverizzare il passato per far posto al futuro. In verità la classe media fiorentina sembra piuttosto eccitata di «fare entra- re aria» – come titolano i giornali – e adeguarsi al modo di vive- re di Londra, Vienna, Parigi. Molti ne approfittano per imbastire affari colossali, comprando orti e rivendendo terreni edificabili. Anche la società anglofiorentina che ha abbattuto le mura mette le mani su una duplice striscia di terreni, al di qua e al di là della cerchia scomparsa. Ma se per molti è rigenerazione, per altri (pochi) è un sui- cidio. Sono per lo più gli stranieri residenti, inglesi e americani in primo luogo: una folta colonia di artisti e intellettuali inna- morati del microcosmo fiorentino, dell’armonia secolare di que- sta conca perfetta, delle sue architetture, dell’arte, dei paesaggi. Loro proprio non capiscono come il mito illusorio del progresso derivante dal nuovo ruolo cui la città è chiamata, possa portar- la a questa cancellazione di visuali, prospettive, proporzioni. «Si può dire senza esagerazione – scrive Ugo Pesci – che ogni venti- quattro ore scompare qualcosa di vecchio e appare qualcosa di nuovo». Da Londra il poeta Robert Browning scrive all’amica Isa Blagden che non gli sarà più possibile venire a Firenze per gli stravolgimenti che vi si stanno verificando. È il nome di Giuseppe Poggi che passa alla storia per la di- struzione/rinnovamento: dopo Arnolfo di Cambio e Giorgio Va- sari è senz’altro l’architetto che più influenza il volto della città. In realtà l’urbanista obbedisce a una richiesta precisa delle autorità di governo, anzi, sarà proprio lui a salvare almeno le vec- chie porte, oggi pioli solitari persi dentro anonimi spiazzi. Poggi ha un’idea precisa della Firenze del futuro, vuole proiettare nel

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Novecento una capitale moderna, a misura dell’alta borghesia che deve amministrarla, e dello Stato che rappresenta. I nuovi quartieri borghesi disegnati nel piano regolatore – destinato a sopravvivere per oltre cinquant’anni – sono animati da strade ampie, punteggiate di grandi piazze verdi. L’architetto realizza il viale dei colli, percorso inerpicato sulle colline, culminante con . Il nuovo tracciato sposta verso sud il limite cittadino, cingendo orti, case coloniche e ville di lusso in un sinuoso abbraccio. Qualche struttura troppo d’ingombro viene sacrificata, come quella dei Padri dell’Oratorio – vicino a San Salvatore – perché impedisce parte della veduta: d’altronde, è proprio quella terrazza-belvedere a diventare icona nel mondo, l’affaccio ideale su una “città con vista”. Giuseppe Poggi non si ferma, mette mano a fognature e acquedotti, riordina le sponde dell’Arno, ipotizza grandiosi bagni pubblici, e anche una nuova stazione ferroviaria. Purtroppo, non ci saranno né il tempo né i soldi per realizzarla.

Porta Pia apre la strada per Roma e la «gran sventura» per Firenze

Mentre il vertiginoso incremento nell’edilizia svolge una funzio- ne di traino per la città e la sua economia, migliaia di fiorentini vengono sfrattati per far posto al futuro: l’improvvisa fame di case aumenta. Per calmierare la penuria di alloggi a buon mercato, spuntano ricoveri in ferro e legno, presi d’assalto dai ceti popolari (e non solo). Intanto – come Dostoevskij aveva ben notato – affit- ti e generi alimentari schizzano alle stelle. A complicare le cose per la popolazione ci si mette la tassa sul macinato, imposta dal governo per rimpinguare le casse svuotate dalla Terza guerra d’in- dipendenza. Ma questo è ancora niente. Dopo aver arrestato Garibaldi un paio di volte mentre racco- glieva volontari per marciare su Roma, il governo italiano si rende conto improvvisamente che la svolta per l’Italia potrebbe essere assai più vicina del previsto. È la sconfitta della Francia a opera di Bismarck a servire l’opportunità su un piatto d’argento: l’Impero del nuovo Napoleone cade, a Parigi torna la Repubblica, niente più francesi a difendere il soglio di Pietro. La strada per Roma è aperta.

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Con il guizzo di Porta Pia l’unificazione nazionale è (quasi) completa: è il punto di arrivo di un progetto millenario che quasi non riesce a credere di avercela fatta. Ma per Firenze è una par- tenza spudoratamente anticipata rispetto alle attese e ai colossali investimenti fatti. Somiglia alla «gran sventura» di cui parlava Ri- casoli. Il 28 giugno 1871 la Camera dei deputati tiene l’ultima se- duta nel salone dei Cinquecento, esprimendo «lode e gratitudine alla patriottica Firenze a cui il Parlamento manda affettuosi saluti nell’atto di separarsene». Le valigie sono pronte, il re stringe le mani al sindaco Ubaldino Peruzzi, monta sul treno per Napoli e tanti saluti a tutti. La folla applaude. Sono passati solo sei anni da quando era arrivato. Così i fiorentini «si lasciarono scapitalizzare battendo le mani, con una disinvoltura e un buon garbo che fu il miglior elogio del loro senno» (Ugo Pesci). A questo punto, il ciclo speculativo e finanziario innestato su espropriazioni e lavori pubblici, finisce per travolgere l’(ormai ex) capitale. Così come erano venute, trentamila persone se ne vanno. L’improvviso esodo verso Roma lascia immobili invenduti, case e negozi sfitti, cantieri a metà, ditte fallite, attività dismesse. La disoccupazione s’impenna. Per chiudere i lavori ormai avvia- ti, Firenze s’indebita pesantemente. A poco serve che il demanio offra Palazzo Vecchio in dono alla città per risarcirla dello sfor- zo fatto. Non ci sarà nessun aiuto da uno Stato ingrato, né qual- che dilazione misericordiosa nei pagamenti. A un certo punto le banche chiedono il conto. È il 16 giugno 1878: il regio delegato Felice Reichlin dichiara la bancarotta cittadina. La fuga della ca- pitale ha lasciato uno strascico di 90 milioni di perdite, e firmato il fallimento del bilancio fiorentino. Molti piccoli risparmiatori finiscono sul lastrico, la «benemerita della nazione per liberalità e patriottismo» s’accascia. Con buona pace dell’adagio popolare «Torino piange quando il prence parte, e Roma esulta quando il prence arriva. Firenze culla della poesia e dell’arte, se ne infischia quando arriva e quando parte». L’architetto Poggi e il sindaco Ubaldino Peruzzi sono travolti dalle polemiche, e anche da un’in- chiesta parlamentare che li scioglierà da qualsiasi responsabilità, pur imputando loro di aver compiuto “spese pazze”. La crisi eco- nomica si trascina per anni. Nel 1892, quattro fiorentini su dieci sono riconosciuti ufficialmente poveri.

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Crisi, disoccupazione, povertà: qui ci vuole un boom edilizio...

La partenza della capitale ha precipitato Firenze in recessione. E cosa c’è di meglio di un nuovo boom edilizio per risollevare destino (e casse) comunali? Nato dove i romani avevano collocato il foro, il Mercato Vec- chio di Firenze è il centro geografico della città, da secoli cuore pulsante dell’economia del quotidiano. Un’occhiata alla topono- mastica la dice lunga su cosa impegna i fiorentini da queste parti: piazza dell’Olio, delle Cipolle, del Vino, della Paglia, delle Uova, delle Noci, via dei Pellicciai, delle Ceste, degli Agli, dei Rigattieri, loggia dei Tavernai... Già nel 1373 il banditore della Repubblica fiorentina, Antonio Pucci, ne canta il carattere unico e irripetibi- le: «Non fu giammai così nobil giardino/ come a quel tempo, egli è Mercato Vecchio/ che l’occhio e il gusto pasce al Fiorentino!». Nell’alto Medioevo questa zona è uno dei luoghi più impor- tanti della città, sede di torri feudali, di chiese antichissime, come Santa Maria in Campidoglio e Sant’Andrea, entrambe precedenti all’anno Mille. Un dedalo di antiche piazze e logge mercantili, case nobiliari, botteghe, e sedi delle Arti, fino al Campidoglio ro- mano. C’è persino il ghetto ebraico. Col passare del tempo, la chiassosa confusione che caratterizza l’area allontana le famiglie più antiche e nobili. Le loro dimore vengono trasformate in mo- deste abitazioni, dove trovano riparo famiglie sempre più povere. Ecco perché per la media e alta borghesia ottocentesca il vecchio mercato è un insalubre nucleo medievale, fatto di strade piccole, popolate dai ceti più umili e da sbandati. Il piano Poggi già prevedeva lo spostamento del Mercato Vec- chio in una nuova struttura in San Lorenzo, ma il trasloco della capitale ha bloccato il progetto. All’inizio degli anni Ottanta si riparte. Un’aggressiva campagna stampa dà voce alla tesi degli “igienisti” secondo cui è tempo di far entrare il sole nei vicoli fio- rentini. «Siete voi andato mai in quegli antri, in quelle tane, per que’ sotterranei – scrive ne l881 il giornalista Giulio Piccini alias “Jarro” su “La Nazione” – dove la notte le pareti formicolano d’in- setti, dove il soffitto è così basso, che è impossibile a un uomo di giusta statura entrare lì senza incurvarsi, e dove su putridi giacigli si scambiano gli amplessi di ladri e di baldracche, lordure umane, sgorgate in questi orrendi sterquilinii, dopo aver corso, trabalzato,

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per le fogne del vizio?». Nello stesso anno il Comune forma una commissione per indagare le condizioni di vita degli abitanti del mercato e del ghetto. Ineluttabile il progetto di ristrutturazione di tutta la zona. Nel 1885 il piano viene approvato, il Comune inizia un ri- sanamento destinato a non fermarsi alle miserabili baracche del mercato. Partono gli espropri, in qualche mese milleottocento fa- miglie sono evacuate. A opporsi alle demolizioni sono in pochi. Anzi, pochissimi. C’è la Società per la protezione dei monumenti antichi, che parla di «suicidio del Comune di Firenze». Ci sono i soliti inglesi che, dopo aver visto abbattere le mura, non riescono a credere al colpo al cuore che Firenze sta per infliggersi. Davanti alla sistematica, indiscriminata opera di abbattimento, è la comu- nità anglofona a ricordare ai fiorentini che stanno sbriciolando qualcosa di molto più prezioso di un impasto di terra e pietra: si stanno facendo a pezzi l’anima. «Una delle città più ricche di testi- monianze del passato, qual è Firenze – si legge in una gazzetta in lingua inglese – viene smantellata volutamente, in maniera capric- ciosa, pezzo dopo pezzo, ridotta in uno stato di insensata, brutale desolazione. Per la gente d’oggi la perdita si rivela irreparabile, per il futuro sarà incommensurabile».

Lo sventramento del centro si mangia l’anima di Firenze

Ma è davvero solo un’esigenza di salute pubblica e decoro quella che porta a spianare senza esitazioni il millenario cuore della cit- tà? I lavori iniziano nel 1888, con la demolizione della parte nord della piazza, tra la colonna dell’Abbondanza e l’attuale Caffè Gilli. Una volta eliminati i miseri edifici, riaffiora la piazza cinquecen- tesca con la di Vasari. Anche Piero Bargellini scriverà che ci si sarebbe dovuti fermare lì. E invece... I grandi interessi economici dietro al progetto fremono per continuare. Lo scempio avanza, mangiandosi una bella fetta di città fra piazza degli Strozzi, via Vecchietti, via dei Pecori. La realtà è che l’“affare del centro” fa gola a politici e speculatori. Lo sven- tramento è un’occasione per i privati di rimettersi in gioco, per le imprese di tornare a lavorare. L’immobiliare è sempre una buona carta da giocare per rinvigorire un’economia esanime.

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I picconi si abbattono su 50.000 metri quadri di storia. Quan- do il turbine di calcinacci e polvere evapora, sono scomparse 20 fra piazze e piazzette, 18 vicoli, 341 case e 451 botteghe. Fra gli edifici di rilevanza storica perduti, le torri dei Caponsacchi, degli Amieri, il vecchio Monte di pietà dei Pilli; spariscono le case anti- camente abitate dai Medici, dagli Strozzi, dai Sassetti; scompaiono per sempre anche le sedi delle Arti di Medici Speziali, Alberga- tori, Rigattieri, Oliandoli e Pizzicagnoli; inghiottite nella polvere le chiese di San Tommaso e di Sant’Andrea, di Santa Maria in Campidoglio e di San Miniato, di Santa Cecilia, di San Pier Buon- consiglio, San Leo e San Ruffillo. Anche il riaffiorato Tempio di Giove e gli antichi resti dei pa- lazzi romani sono demoliti. Un insieme unico al mondo di strade e vicoli medievali, che poteva essere ventilato, risanato, provvisto di fogne. Invece viene semplicemente raso al suolo. Che cosa sopravvive? , la Torre dei Foresi, la Loggia del Porcellino e Palazzo Orlandini. Anche la Loggia del Pesce di Vasari viene traslocata e ricostruita in piazza dei Ciompi, mentre il tabernacolo trecentesco di Santa Maria delle Trombe trova nuova collocazione all’angolo del Palazzo dell’Arte della Lana. Salvata anche la colonna dell’Abbondanza, anticamente in- nalzata all’incrocio fra cardo e decumano romani, e poi ingloba- ta dagli edifici del Mercato Vecchio. La colonna viene “liberata”, smontata e messa via. Sarà rimontata nel 1956, con un anello di ferro in alto cui attaccare la campana, quella che indicava l’aper- tura e chiusura del mercato, e un secondo anello più in basso, cui venivano incatenati i commercianti disonesti esposti alla pubblica gogna. Sorge così piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Re- pubblica), contornata da strade larghe e rettilinee per favorire il transito delle carrozze. Salotto della borghesia fiorentina, bru- licante di grandi palazzi, uffici di rappresentanza. Sul tutto cam- peggia un arco trionfale, con immancabile epigrafe a futura me- moria: «L’antico centro della città, da secolare squallore, a vita nuova restituito». Di diverso parere il famoso pittore macchiaiolo Telemaco Signorini. A chi gli chiede durante i lavori se abbia gli occhi lacri- mosi per quelle «porcherie» che vanno giù, risponde: «No, pian- go sulle porcherie che vengon su». La città degli uomini frantuma la città delle pietre, le esigenze di cassa polverizzano l’organismo

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vivente affidato dalla Storia a indegni eredi. Ciò che siamo oggi comincia lì: un centro svuotato di cittadinanza, per far posto al mercato del denaro. Firenze, amante del quieto vivere, ha perso la capitale, ma si consola presto: seduta fra nuovi caffè e hotel di lusso, può tornare a coltivare l’«aurea mediocrità» e aspettare. Il mondo verrà comunque a visitarla.

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La Fondazione Scienza e Tecnica Una camera delle meraviglie sfida la Rivoluzione industriale

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 331 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 332 10/05/21 14:51 Benvenuti in pieno Ottocento, l’età dell’oro della scienza. Basta bussare alla porta di via Giusti, ed è come ritrovarsi lì, nel laboratorio didattico dell’Istituto Tecnico Toscano: davanti alla più grande raccolta italiana di strumenti di fisica e meccanica ottocenteschi. Qui una volta si affollavano gli studenti, in una scuola di eccellenza voluta da Canapone – il grandu- ca Leopoldo ii – per sostenere la Rivoluzione industriale di casa nostra. Su queste macchine si formavano generazioni di periti e tecnici, prima che la Grande guerra ingoiasse i loro sogni. Migliaia di strumenti lentamente di- venuti obsoleti, poi smontati, abbandonati, e persino coperti di fango con l’alluvione del 1966. Una paziente opera di recupero li ha restituiti alla comunità: negli stessi locali, nelle stesse teche di fine Ottocento dove erano stati esposti e manipolati dagli studenti. E dove oggi si trovano i fiori di gesso Brendel, gli animaletti di vetro più veri del vero Blaschka. E anche la conchiglia più grande del Mediterraneo la cui seta vestiva re Salomone e la regina Ecuba.

Quel Politecnico sull’onda degli ideali francesi

È il primo Politecnico d’Italia, nasce a Firenze nel 1857, battendo sul tempo Torino (1859) e Milano (1863): una scuola d’avanguar- dia in cui la scienza si lega alla tecnica. In cui insegnamento e ricerca si nutrono l’uno dell’altra. Lo esportano i francesi ai primi dell’Ottocento, insieme a codici, baionette e ideali rivoluzionari. Per un po’ si chiama Conservatorio d’arte e di mestieri e, proprio come l’omologo parigino, raccoglie strumenti per formare i futu- ri dipendenti della nascente industria. L’idea è semplice, frutto di una razionalità riformatrice che vede il rapporto fra scienza, tecnologia e attività produttiva muta- re radicalmente la società. Nuove fonti energetiche, nuovi mac- chinari permettono di produrre di più in meno tempo; comu-

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nicazioni e trasporti si trasformano, facilitando «il comodo viver nostro». Le vecchie manifatture diventano industrie: lo sviluppo si mette a correre e non si fermerà più. Ma per preparare al meglio gli operatori di questa rivoluzione insegnare non basta, occorre coniugare teoria ed esperienza diret- ta, dottrina e prova empirica. In fondo, è la tradizione pratico-spe- rimentale della scienza toscana: Galileo non è passato invano.

Tutto grazie a Canapone, il granduca tollerante

Certo, sono anni infiammati da profonde rivendicazioni politiche. Anni in cui improvvisi scoppi rivoluzionari e pesanti contraccolpi reazionari scuotono l’Europa. In Italia chiamiamo questi anni Ri- sorgimento, una cavalcata a singhiozzi nella Storia per incorpo- rare segmenti di territorio nazionale unificandoli sotto la corona sabauda. Un processo il cui inizio si fa rimontare alla chiusura della parentesi napoleonica. A Firenze, i restaurati governanti lorenesi mantengono una linea di tolleranza e liberalità verso i sudditi, e di indipendenza dalla casa madre austriaca. Soprattutto il giovane Leopoldo ii, nipote del più famoso Pietro (Leopoldo anche lui), si impegna in una serie di riforme, continua le bonifiche in Maremma e il frazionamento del latifondo, amplia le reti stradale e ferroviaria, sopporta persino la satira: tutte azioni che gli valgono la simpatia dei fiorentini. Il “buon governo” di Canapone – così bonariamente sopran- nominato per la capigliatura biondastra – favorisce il rafforzamen- to degli eredi della parte guelfa, gli antichi mercanti e banchieri fattisi imprenditori, commercianti, industriali. Soprattutto dopo i moti del 1820-21, l’aria a Firenze appare più mite che in qualsia­ si altro Stato italiano, tanto da spingere molti esponenti della cultura perseguitati in patria a rifugiarsi in quella che diventa la capitale civile di un’Italia opposta a Metternich. Fra loro, anche e , Niccolò Tommaseo e Guglielmo Pepe. In questa Firenze, il Gabinetto Vieusseux offre luogo di discussione e crescita. All’ambasciatore austriaco che si lamenta perché «in Toscana la censura non fa il suo dovere», il granduca ribatte: «Ma il suo dovere è quello di non farlo». Nel febbraio del 1848, addirittura prima di Carlo Alberto, Leopoldo ii

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concede ai toscani la Costituzione; poi invia un contingente di truppe regolari a combattere contro gli austriaci insieme ai pie- montesi. L’entusiasmo in Toscana è alle stelle. Quando però gli atteggiamenti espansionistici del Regno di Sardegna diventano chiari, il granduca ha paura, e inverte bru- scamente la rotta, riavvicinandosi a Vienna. Ma, fino a quel mo- mento, la condotta “illuminata” del governo e i personali interessi scientifici del regnante hanno permesso l’impensabile. Nonostan- te le minacce dell’Austria, Leopoldo ii ha autorizzato a Pisa e a Firenze i primi Congressi degli Scienziati Italiani con studiosi di tutta Italia; il granduca ha istituito la Scuola Normale di Pisa per formare i professori delle scuole secondarie; ha fondato l’Archi- vio Centrale di Stato, concedendo per la prima volta l’accesso ai documenti dell’amministrazione. Insomma, è grazie all’appoggio del Lorena se le convulsioni storico-politiche non hanno soffo- cato l’inventiva toscana. Permettendo a Firenze di assumere un ruolo chiave nell’avanzata del pensiero scientifico.

Quando la scienza ha fame, la Toscana risponde

Non solo Risorgimento: sono anni in cui il sapere cresce espo- nenzialmente, interrogato dalla chimica, scandagliato dalla fisica. Sospinto dall’energia elettrica. «Presto vedremo introdotto un sistema di studio ben diverso da quello di prima – scrive nel 1835 Antonio Targioni Tozzetti, direttore del Giardino dei Semplici e membro dell’Accademia dei Georgofili – un sistema maggiormente diretto all’utilità delle arti diverse, alle quali è appoggiato il comodo del viver nostro; ve- dremo un numero ben grande di vantaggiose scoperte, nate non dal caso, ma prodotte dalle giuste conseguenze del raziocinio». E quel momento arriva. Nel gennaio del 1850, il granduca Leopol- do ii trasforma l’antico Conservatorio in Scuole tecniche delle arti e manifatture: l’obiettivo è appunto formare le generazioni di periti e ingegneri necessari a sostenere lo sviluppo industriale e agricolo della Toscana. A guidare l’operazione viene scelto un matematico di Pisa, Filippo Corridi, che come primo atto rinomi- na le “scuole”, elevandole al rango di Istituto Tecnico Toscano. Scrive il neo direttore mettendo mano all’opera: «La scuola di chimica è rimasta con pochi fornimenti di laboratorio, l’altra

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di meccanica con pochi modelli di macchine, che per mancate cure di custodimento vennero quasi affatto distrutti». E poi ag- giungerà: «Quest’osso venuto nelle mie mani, potei nullameno rivestire di carne». La scienza ha fame. Per rivestire l’osso ci vogliono strumenti e macchinari. Corridi si rimbocca le maniche, convince il Comu- ne di Firenze e l’Accademia dei Georgofili a sostenerlo, insieme organizzano la prima Esposizione toscana di prodotti e attrezza- ture industriali; è il novembre 1850, l’evento ha un tale successo che lo studioso è incaricato di organizzare la squadra italiana alla prima grande Esposizione Universale di Londra, l’anno successi- vo. Qui, il direttore riesce ad acquistare o farsi donare nuovi di- spositivi e apparecchi, che riporta in patria. Da quel momento, ogni convegno di scienziati, ogni esposizione dentro o fuori i con- fini nazionali diventa occasione per stabilire contatti, imbastire scambi. Ma soprattutto, per incrementare le collezioni fiorentine. L’Istituto Tecnico trova casa nell’antico convento delle Cava- lieresse di Malta, in via San Gallo, dove si fa spazio anche un Mu- seo tecnologico, dimora di attrezzature e macchinari a vantaggio di studenti, manifattori, commercianti. Negli anni, si accumulano turbine e torni, macchine tessili e a vapore, barometri e dinamo, ricevitori telegrafici e grafofoni... L’ultimo passo è l’assegnazione di sei cattedre: Geometria descrittiva e disegno, Fisica tecnologi- ca, Meccanica sperimentale, Chimica applicata, Storia naturale, Metallurgia. È il 1857 quando le lezioni vengono inaugurate uf- ficialmente, ancora sotto il governo Asburgo-Lorena. L’Istituto Tecnico Toscano è una realtà.

Firenze oltre il Rinascimento: un centro europeo in nome della scienza

Se la fama di capitale intellettuale d’Italia è conosciuta, meno nota è la reputazione della città di Dante in campo naturalistico e sperimentale. Da fine Settecento fino praticamente al 1870, Firen- ze è uno dei principali centri europei di produzione scientifica, con ambizioni pari a Parigi o Londra. Una storia che viene da lontano, si alimenta delle lezioni di Galileo Galilei e di scienziati come Niccolò Stenone, passa attra- verso l’indefessa attività empirica dell’Accademia del Cimento,

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prosegue grazie alla sensibilità di Pietro Leopoldo per la “scienza utile”. L’abbiamo già incontrato, il granduca illuminista: è lui a fon- dare nel 1775 il Regio Museo di Fisica e Storia Naturale, la prima istituzione museale dell’Occidente a raccogliere un sapere univer- sale e a condividerlo col terzo stato. Non solo il regnante libera la Toscana dalle anacronistiche pastoie corporative medioevali; non solo rivoluziona il suo ordinamento giuridico. Sotto la guida di questo principe visionario, il Regno fa un vero balzo in avanti sulla via del progresso scientifico. Insomma, fra la seconda metà del Settecento e la prima dell’Ottocento si moltiplicano i sodalizi accademici, le iniziative, gli attori destinati a lasciare un segno nella penisola e oltreconfi- ne. Accanto alla vecchia e prestigiosa Crusca, e alla più recente Colombaria, si aggiunge l’Accademia dei Georgofili, la più anti- ca al mondo a occuparsi di agricoltura, ambiente e alimenti, da sempre improntata alla lotta «contro le tenebre dell’ignoranza». Dell’Osservatorio Ximeniano si è già detto, con il suo straordina- rio contributo alle scienze cartografiche, a quelle astronomiche. Nel 1841 il granduca Leopoldo – nipote del Pietro Leopoldo di cui sopra – istituisce il Ministero della Sanità, mentre su progetto del presidente dei Georgofili, Cosimo Ridolfi, si attiva la prima Scuola Agraria. E ancora, nel 1848 vengono inaugurate la linea ferroviaria Firenze-Livorno e la Firenze-Prato-Pistoia: entrambe su impulso del giovane Leopoldo, che si vedrà “intestare” anche una stazione, oggi trasformata in una celebre sede congressuale, la “Leopolda”. Ed è nuovamente lo Ximeniano a distinguersi nel 1853 con l’invenzione del primo motore a scoppio della storia. Peccato che la scoperta – pur registrata dagli artefici Barsanti e Matteucci – non sia riconosciuta a livello internazionale: il fervore scientifico che arde nel Regno preunitario non gode ancora di nessuna tutela nazionale e non riesce a farsi valere oltre confine. Dove invece si prende atto della nascita tutta fiorentina del pri- mo Museo Universitario Antropologico d’Europa, su iniziativa del darwiniano Paolo Mantegazza. È proprio in questo clima di esuberanza scientifica, di rincor- sa del futuro sotto la regia illuminata dei Lorena, che si inserisce la creazione dell’Istituto Tecnico Toscano, luogo di eccellenza per la didattica e la sperimentazione. Testimonianza dell’ambizione cittadina a non cibarsi di solo Rinascimento. Un primato desti-

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nato a non durare: dopo il trasferimento della capitale a Roma, Firenze si ritrova a difendere l’esistente, appagata e indebitata. Sazia di futuro. Ma è stato un bel sogno.

Sui banchi dell’Istituto il motore per la Rivoluzione industriale toscana

Abbasso la teoria, viva la pratica. Fin dall’inizio appare chiaro che l’Istituto Tecnico Toscano vuole superare il puro approccio acca- demico, rivolgendo l’insegnamento alle “arti”, cioè alle lavorazioni e ai processi produttivi: qualcosa di profondamente ancorato alle operose radici cittadine, qualcosa che ci riporta indietro, ai panni battuti in Arno dalle macchine, alle filiere di cardatura e torcitura su cui s’innalza e prospera la potenza economica fiorentina. Il lavoro sugli strumenti e i macchinari recuperati da Corridi arricchisce e forgia il passaggio formativo in via San Gallo: per chi bussa alla porta dell’Istituto, l’avvenire professionale è assicurato. A centinaia gli studenti si iscrivono a quello che è a tutti gli effetti il primo Politecnico italiano. Sui banchi dell’Istituto la Rivoluzione industriale toscana trova il proprio motore. Qui nascono gli ingegneri destinati a po- tenziare i vari settori dell’industria manifatturiera, i tecnici capaci di ottimizzare lo sviluppo agricolo. Non si tratta solo di conoscere processi chimici o fisici: per diventare falegnami, ceramisti o agri- mensori gli alunni devono impadronirsi dei dettagli dei percorsi lavorativi, padroneggiare la struttura di piante e metalli, erbari e legnami. Devono imparare a distinguere i vari tipi di filati a secon- da dei diversi stadi di lavorazione. Un sapere unitario, manipolato e interiorizzato. Di cui oggi abbiamo perso nozione. La scuola si dota di un cantiere meccanico che provvede alle necessità interne: dall’ottica all’acustica, dalla cinematica alle tele- comunicazioni, molti sono i prototipi realizzati in officina, dove i professori insegnano e fanno ricerca insieme agli studenti. Nel 1867 l’Istituto si presenta all’Esposizione Universale di Pa- rigi con due modelli di macchinari realizzati “in casa”, oggi esposti nella raccolta museale. Corridi rientra sempre da queste trasferte all’estero con nuovi esemplari, in un proficuo travaso di stimoli e competenze. È un vanto proporre le proprie eccellenze, e carpire quelle altrui. Negli anni Firenze accresce gli investimenti, la coro-

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na di capitale spinge ancora più in alto le ambizioni: sotto la gui- da di Silvestro Gherardi, l’Istituto continua a crescere, moltiplica le cattedre, aumenta gli acquisti di apparecchi. L’Italia però non riesce a produrre strumentazioni scientifiche di alta qualità; per rimanere al passo con i tempi, la dirigenza dell’Istituto si rivolge ai migliori costruttori europei, prima ai francesi, poi ai tedeschi, e porta a casa il top della produzione industriale dell’epoca. Nel 1891 gli spazi non bastano più. Il Comune di Firenze espropria i terreni del convento della Crocetta: proprio quell’e- dificio che un tempo Maria Maddalena dei Medici, la principes- sa imperfetta nelle membra, raggiungeva grazie a un passaggio sopraelevato dal palazzo in cui era stata confinata. Le collezioni sono trasferite nella nuova sede, e continuano a crescere, pratica- mente fino alla Prima guerra mondiale. Migliaia di oggetti giunti quasi intatti fino a noi, cosa rarissima, visto che normalmente rac- colte simili sono disperse o subiscono gravi perdite. Pochi i pez- zi eccezionali: il loro valore sta piuttosto nell’essere un insieme unico, organico, costituito per uno scopo. Capace di raccontare l’evoluzione di un particolare momento storico.

Dalle macchine per liquefare il gas ai fiori in cartapesta Brendel

Aggirarsi per le sale del Gabinetto di Fisica e Meccanica in via Giu- sti vuol dire fare un salto indietro nel tempo: oggetti, scaffalatu- re, arredi sono quelli originali. Anche l’atmosfera è decisamente ottocentesca. Qui si accumulano i veri “utensili” della scienza, gli strumenti usati come macchine per pensare, per mettere alla pro- va teorie, per dimostrare leggi che governano fenomeni. Ci sono i primi telegrafi scriventi, le macchine per liquefare il gas o quelle che producono ghiaccio secco. C’è l’apparecchio che determina a quanto corrisponda una caloria in termini di cavalli vapore. Ecco i primi tubi a raggi x, quelli ancora non schermati: nel 1895 ci vogliono 45 minuti per fare la radiografia del torace. Ecco i tubi a vuoto, dove si osservano le progressive trasformazioni della scarica elettrica. Sembra quasi di vederli, gli allievi chini a imparare come si trasmette il movimento, come si fanno funzio- nare telai e turbine: saranno loro a prendere in mano un’indu- stria alimentata a colpi di dinamo e macchine a vapore.

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Ma la vera meraviglia è entrare nelle collezioni di Scienze Na- turali, ricche di ogni sorta di campioni. Svettano i centottanta mo- delli di fiori prodotti dall’Antica Manifattura di Robert e Reinhold Brendel. Fondata nel 1865 a Breslavia, in Polonia, l’azienda realiz- za modelli anatomici di fiori e frutti: se i materiali viventi sono poco reperibili e si rovinano subito, questi rigorosi esemplari perfetta- mente simili al vero ricevono un’accoglienza così calorosa da spin- gere Robert a trasferirsi a Berlino nel 1875, e fare le cose in grande. La manifattura si amplia, i modelli vengono venduti a univer- sità e istituti superiori di mezza Europa, anche per corrisponden- za. Perfettamente simili alla flora originale, i fiori sono montati su una base di legno, (ri)prodotti in gesso o cartapesta, e poi di- pinti, cerati, laccati: il risultato è sbalorditivo. Ma non basta. Per capire struttura e funzionamento del mondo vegetale, i manufatti si smontano e aprono fin nelle più piccole parti interne. È chia- ro che il loro destino è essere manipolati, scomposti, osservati. Il catalogo Brendel arriva a comprendere trecento esemplari che vengono premiati in ogni parte del globo, da Mosca a Parigi, da Chicago a Santiago del Cile. È il momento di massimo splendore: Robert se ne va contento, si spegne nel 1898, prima che il peggio cominci. A fine anni Trenta del Novecento nella favola bella dei Brendel appare l’orco cattivo: la famiglia è di origine ebraiche, e il clima a Berlino si sta facendo pesante. Reinhold decide di tornare in Polonia. Ma partire non basta. Con l’approvazione delle leggi razziali, l’attività familiare deve chiudere. Non riaprirà mai più. Oggi non si sa quanti esemplari di fiori Brendel siano frui- bili nei musei di tutto il mondo. Sono pezzi preziosi che hanno scavalcato il tempo, ma per continuare a vivere richiedono cura, manutenzione. In via Giusti ce ne sono quasi duecento, splendi- di nella loro verosimiglianza. Sorprendenti capolavori artistici su cui si formano intere generazioni di botanici. Ma l’intreccio fra senso estetico e finalità didattiche trova altri esempi nelle teche fiorentine.

I modelli Blaschka, gli animaletti di vetro più veri del vero

Fra tutti, emergono le collezioni di invertebrati marini della fa- miglia Blaschka, forse le migliori sculture in vetro mai realizzate

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dalla mano dell’uomo. A Firenze è esposta la più consistente rac- colta italiana, centotredici modellini riprodotti con totale rigore scientifico, indistinguibili dagli esemplari viventi. Sono coralli, meduse, lumache, anemoni, servono da “testi di studio” per gli al- lievi dell’Istituto. In effetti, conservare creature marine è un cruc- cio per gli enti di ricerca: una volta messi nell’alcol gli esemplari perdono colore ed elasticità, arrivano a disfarsi. L’apprendimento si fa solo su disegni e stampe, o – quando ci saranno – fotografie. Fino all’arrivo dei modelli Blaschka. Leopold Blaschka è un vetraio boemo bloccato da un guasto alla nave in mezzo al mare durante un viaggio negli Stati Uniti, nel 1853: per due settimane l’artigiano inganna il tempo studiando e riproducendo su carta alcune creature marine che si affacciano alla sua vista. È affascinato dai piccoli corpi, dalle loro trasparen- ze, dai movimenti sinuosi. Rientrato a Dresda, torna a dedicarsi alla produzione di at- trezzature di laboratorio, ma non riesce a scordare gli animaletti luminescenti incontrati in mezzo all’Oceano. Inizia così, quasi per gioco, a realizzarne dei modellini in vetro. Un passatempo che – di bocca in bocca – intercetta l’attenzione del direttore del Mu- seo di Storia Naturale di Dresda. Il quale commissiona al vetraio dodici modelli di anemoni di mare, a colori e di diverse dimensio- ni. Il gioco è fatto. Leopold lascia l’attività familiare, e insieme al figlio Rudolf si dedica alla produzione e alla vendita di creature marine in ve- tro, da proporre a centri di ricerca, musei, università. Presto si aggiungono anche fiori e piante. La qualità e la precisione dei manufatti è assolutamente stupefacente: arrivano i contratti con il Museo della Scienza di Boston, con l’Università di Harvard. E poi Strasburgo, Londra, Dublino, Ginevra. Tutti fanno a gara per accaparrarsi le piccole sculture di vetro, l’abilità dei Blaschka diventa leggendaria. I due artisti lavorano da soli, fanno tutto a mano utilizzando una mistura di colla, vetro colorato e vetro tra- sparente, talvolta rinforzata da fil di ferro. Un soffietto azionato a pedale alimenta la fiamma che fonde il vetro, poi pizzicato, tira- to, tagliato da strumenti diversi. Della colorazione si occupa solo Rudolf. «Molte persone credono che io e mio figlio possediamo qualche segreta attrezzatura tale da farci realizzare velocemente il vetro in queste forme – scrive Leopold a un’amica – ma non è così. Abbiamo tatto. Mio figlio ne ha più di quanto ne abbia io,

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perché è mio figlio, e il tatto aumenta di generazione in genera- zione». Quando il padre muore, Rudolf continua a lavorare da solo. Arrivato a ottant’anni, annuncia il ritiro senza lasciare eredi: la straordinaria manifattura scompare, anche lei ingoiata dall’abisso in cui sprofonda l’Europa col Secondo conflitto mondiale. Il se- greto dei Blaschka – ammesso che ci sia – non sarà mai svelato: in tutto, si calcola che abbiano prodotto circa quattromila modelli fra creature marine e piante. Oggi che il sapere si muove su altri binari, si è scoperto che le proporzioni degli esemplari sono as- solutamente fedeli alla realtà. Una maestria stupefacente, capace di coniugare scienza, arte e artigianato raggiungendo vette altis- sime. Ma i Brendel e i Blaschka non sono i soli a produrre piccoli capolavori.

Dai poster di cera agli abiti di re Salomone

Fra gli italiani spiccano le “tele cerate” di Egisto Tortori, origina- rie dell’Officina di Ceroplastica della Specola. Ultimo dei grandi ceraioli, a quindici anni Tortori è già apprendista al Regio Museo di Scienze Naturali, sotto la guida di Luigi Calamai. Qui è attiva da tempo un’Officina di riproduzione di corpi umani in cera, so- prattutto a scopi didattici. Grazie a Calamai, Egisto diventa un artista-artigiano di altissi- mo livello, tanto che alla morte del maestro gli subentra come re- sponsabile del laboratorio, poi autore di nuovi modelli, fra cui le famose tele cerate. Sono queste veri e propri stendardi di canapa, intinti in una pellicola di cera nera e dipinti con pigmenti oleosi dai colori vividi, stesi a pennello. Magnifici “quadri”, che una volta trasferiti dal Museo all’Istituto vengono destinati ad animarne le pareti e le lezioni. Raffigurano fiori e fossili, corpi e vulcani: un compendio di storia della scienza, dalla paleontologia alla geolo- gia, dall’anatomia umana alla geografia fisica. Uncorpus unico nel suo genere, fatto di “poster d’autore” in cui i soggetti sono ingran- diti nei minimi dettagli per la curiosità degli studenti. E ancora, ecco uscire dalla scatola delle meraviglie di via Giu- sti la storia della seta del mare, il bisso: quel tessuto riservato a re, imperatori o grandi sacerdoti. Si tratta di una preziosissima fibra tessile ottenuta dai filamenti dallaPinna Nobilis, gigantesca

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conchiglia attaccata ai fondali incontaminati del Mediterraneo. Simile a una madreperla, il più grande mollusco bivalve dei nostri mari deve il nome al modo di spuntare dalla sabbia, proprio come una pinna: i filamenti che la ancorano al fondo sono l’introvabile fibra tanto ricercata dai pescatori di tutti i tempi. Tessuti insieme, i fili producono una leggera seta di color bronzo se in penombra, oro se illuminata, o invisibile in controluce, che può essere solo lavorata a mano. La letteratura ama la leggenda di questi straordinari filamen- ti: di bisso sono gli abiti di re Salomone e della regina Ecuba, e anche il mitico vello d’oro cercato da Giasone. Nelle Metamorfosi di Apuleio, dal pregiato filo nasce il tessuto «colore cangiante [...] dal bianco splendente al giallo del fiore di croco» della tunica di Iside, la dea che esce sfolgorante dal mare. Già nell’Ottocento, i manufatti in bisso sono così rari da essere mostrati alle Esposi- zioni Universali di Londra e Parigi. Firenze possiede un paio di guanti – alla Specola – e una conchiglia, in via Giusti. Dichiara- ta praticamente estinta nel 1992, la Pinna Nobilis è protetta dalla legge: la tradizione vuole che il suo prezioso frutto non si possa né comprare né vendere, solo donare. Ma le leggende, si sa, non impediscono lo scempio dei fondali.

Un Museo che torna a vivere per produrre cultura

Questo e molto altro è il patrimonio che gli anni continuano ad accumulare nei locali dell’Istituto. Ci pensa la Prima guerra mon- diale a interrompere un processo di crescita destinato a non ri- prendere più con lo stesso vigore. Travolta dall’accelerazione scientifica del Novecento, sem- pre meno utilizzata per le finalità per cui era stata costruita, la do- tazione dell’Istituto subisce un deterioramento progressivo. Sulla spinta della riforma Gentile – e sull’impulso agli studi classici che promuove – anche l’immagine degli istituti tecnici si appanna. La capacità di richiamo sulle nuove generazioni si affievolisce. Il materiale scientifico è sempre più inutilizzato, e l’obsolescenza aumenta in modo esponenziale al trascorrere del tempo. Spesso la manutenzione scarseggia, per poi arrestarsi insieme all’uso del- le attrezzature. Molti strumenti finiscono negli scantinati, altri si coprono di polvere. Nel 1966 l’alluvione raggiunge “solo” mezzo

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metro nel Gabinetto di Fisica, ma allaga completamente le canti- ne: tutto il contenuto è sommerso. Il destino delle straordinarie collezioni sembra segnato. A partire dagli anni Settanta, invece, sull’onda della nasci- ta delle Regioni e del conseguente trasferimento di funzioni e competenze, qualcosa cambia: comincia a farsi spazio l’idea di un’amministrazione dei beni culturali decentrata, e di una loro “rinascita”. Sono anni in cui i musei locali toscani non godono buona salute: la maggior parte è chiusa o impraticabile, ridotta a deposito, ufficio, o tenuta in stato di profonda subalternità rispet- to ai più illustri istituti statali. Tuttavia, in quegli stessi anni, inizia a farsi largo il nuovo concetto di museo come “strumento cultura- le”; non più magazzino colmo di reperti, ma soggetto dinamico, attivo, capace di produrre cultura. È questa crescente sensibilità delle istituzioni a sfociare in una nuova legge regionale: nel 1980 i musei locali sono ricono- sciuti come elementi chiave per lo sviluppo del territorio, inti- mamente connessi alla vita dei luoghi di cui narrano storia, arte, ricchezza naturale. Protagonisti di un’attività di arricchimento e crescita delle comunità in cui sono inseriti. Nascono i “sistemi mu- seali”, in cui i singoli istituti, soprattutto i più piccoli, si uniscono per operare al meglio, garantire i servizi. È un nuovo clima, una consapevolezza diversa. Una forza che spinge alla ricognizione del patrimonio accumulato nei locali di via Giusti: il valore di quanto affiora è impressionante. Grazie ai fondi finalmente disponibili, inizia un paziente lavoro di riconoscimento e restauro. Circa metà dei macchinari è in uno stato discreto, ha solo bisogno di una bella pulita e di qualche piccolo intervento di ri- parazione. Ma l’altra metà richiede restauri complessi, oppure è gravemente danneggiata. Molti apparecchi sono stati smembrati, separati dagli accessori, dispersi nei mezzanini. Quelli che erano in cantina nel 1966 sono ancora rivestiti di una patina di fango. Sotto la guida di Paolo Brenni, tutti vengono smontati, ripuliti, restaurati e rimontati. Per mettere insieme i vari pezzi si utilizza- no anche viti, fili elettrici e pulegge di una volta: erano ancora nei cassetti dell’Officina di meccanica, da un centinaio di anni. Tornano a galla addirittura alcuni strumenti che già nell’inven- tario dei primi del Novecento – quando la collezione tocca la massima espansione – erano classificati come «eliminati», o «ir- reperibili»...

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Il patrimonio è salvo: la maggior parte delle macchine fun- ziona come un tempo. Un’ala dell’antico edificio è riadattata per accogliere gli arredi originali, gli armadi, le teche, che si riempio- no di apparecchiature. È un intero laboratorio a riacquistare la vita. Nel 1987, su iniziativa di Regione, Provincia e Comune, si crea la Fondazione Scienza e Tecnica. Obiettivo: preservare e valo- rizzare gli oltre cinquantamila oggetti e macchinari contenuti nel- le sale dell’ex Istituto Tecnico. Nasce il Museo della Fondazione, la più grande raccolta in Italia – e fra le più complete d’Europa – di apparecchi per lo studio e la didattica della fisica ottocentesca. Strumenti che oggi sono lì, allo stesso indirizzo, dentro gli stessi armadi del 1891. Frammenti muti se presi individualmente, ma ineguagliabile patrimonio storico nella loro coralità. Racconto civico e sociale di un’epoca ubriaca di speranza, in cui s’incarna il «comodo viver loro» dei nostri trisnonni. Camera delle meravi- glie, Wunderkammer custodita come monumento all’Ottocento. E al suo inno alla scienza.

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Palazzo Grifoni Budini Gattai La cittadella del sapere: il Kunst

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 347 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 348 10/05/21 14:51 Una stazione di ricerca fra le più avanzate al mondo, tutta dedicata all’ar- te italiana; un capitale di 300.000 libri e 620.000 fotografie, in continua crescita, trasferito nel 1944 in una miniera di sale tedesca e recuperato in nome della scienza. Storia del Kunst, e del palazzo che ne ospita la Fotote- ca, edificato dal segretario personale di Cosimo i nel Cinquecento e rifatto negli anni dell’Unità d’Italia. Quando due imprenditori edili – i costrut- tori della ferrovia Faentina – decidono di seppellire nei muri portanti di casa i binari del treno al posto delle travi: magari per risparmiare sui costi della ristrutturazione. O forse per darsi il coraggio di cambiare vita.

Max Planck: fondi e controllo pubblico, ma autonomia scientifica

Anche la storia dell’arte ha il suo Parnaso. Si trova nel cuore di Fi- renze, il nome è quasi impronunciabile per noi italiani, Kunsthis- torisches Institut in Florenz (o Kunst): è un centro di ricerca fra i più avanzati al mondo, da oltre cento anni in prima linea quando si tratta di salvaguardare il patrimonio artistico italiano. Se la Cappella degli Scrovegni a Padova imbarca acqua, il Kunst organizza una giornata di studi ai massimi livelli per indivi- duare possibili soluzioni al problema. Se l’Abruzzo trema polveriz- zando chiese e fontane, il Kunst è il primo a mettere tutti intorno a un tavolo per un confronto sul da farsi. Appartiene alla Max Planck, società tedesca a finanziamento e controllo pubblico, ma autonoma quanto a indirizzi di studio. Una sorta di rete di istituti scientifici – famosissima perché vanta più premi Nobel di qualsiasi altra istituzione al mondo – i cui membri sono tutti localizzati in Germania, con due nobili eccezioni: Roma e Firenze, stazioni di ricerca dedicate all’arte, e impiantate là dove si trova la “materia prima”.

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Nella comunità accademica mondiale non c’è chi non co- nosca la cittadella fiorentina del sapere, in cui da oltre un seco- lo i ricercatori si ritrovano, si confrontano. Un luogo per lo più sconosciuto a Firenze, e tuttavia custode di un capitale di oltre 300.000 libri e 620.000 fotografie, alimentato metodicamente da nuovi acquisti. Uno spazio di studio e tutela della memoria, attivo per l’ampliamento di conoscenza e la quotidiana difesa dell’arte italiana. Si trova fra via Giusti (la Biblioteca) e Palazzo Grifoni Budini Gattai in via dei Servi (la Fototeca). Ed è da quest’ultimo palazzo che comincia la nostra storia.

Quella dimora rinascimentale con un capricorno in fronte

L’interno è una preziosa scatola Belle Époque, imballata in un ele- gante involucro tardorinascimentale: già il nome – Palazzo Gri- foni Budini Gattai – evoca le contorsioni storiche, i passaggi di mano. Ma è nel corpo di fabbrica che si nasconde il racconto del tempo, in quel capricorno appollaiato sull’ingresso, o nelle rotaie infilate nei muri al posto delle travi. Sono le pietre che devono essere interpretate, per risalire la corrente del fiume della Storia. Siamo a metà del Cinquecento: Ugolino Grifoni – origina- rio di San Miniato – è un religioso agostiniano che ha speso la giovinezza a Roma per apprendere i segreti della Curia papale, e che tornando a Firenze li rivende, diventando l’uomo di fiducia di Cosimo i dei Medici. Il duca ha grandi progetti per i figli: se il primogenito è destinato al trono, c’è sempre un secondogenito da indirizzare verso la porpora cardinalizia, e poi chissà... Per questo, niente è più utile di un “segretario particolare” che sap- pia muoversi a occhi chiusi nella complicata etichetta della corte romana. Ugolino affianca entrambi i ragazzi: prima il giovane cardi- nale Giovanni de Medici, poi – dopo la prematura scomparsa del ragazzo – il fratello Ferdinando. Il suo compito è aiutare i porpo- rati della casata a ottenere i migliori benefici, scortarli nei mean- dri della mondanità, schivare i colpi degli avversari, consigliarli nelle scelte, e soprattutto riferire al padre loro che sta a Firenze. Da capace amministratore qual è, per i propri servizi Grifoni ottie- ne (anche) la direzione dello strategico Ospedale di San Jacopo

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d’Altopascio, a Lucca. Diventa persino segretario di Maria Salvia- ti, madre del duca, che lo ritiene servitore devoto, anche se ben attento ai propri interessi, tanto da affibbiargli il nomignolo di “ser Ramazzotto”. Insomma, funzionario di corte, imprenditore, Ugolino Grifoni è una figura di spicco della casata regnante, cui dedica quarant’anni di vita. Nel 1563 il segretario particolare chiama Bartolomeo Am- mannati per un incarico speciale: sullo slargo della Santissima Annunziata, deve buttar giù una serie di case e tirar su un palazzo che obbedisca alla Firenze ideale progettata dal duca Cosimo. La zona è ancora periferica, ma è già evidente la potenzialità della basilica mariana per lo sviluppo della città. Due sono i lati già completi della piazza, la cui costruzione è iniziata ben centocinquant’anni prima. Un’armonia conquista- ta a tappe, attraverso i secoli: prima il porticato degli Innocenti, per mano dell’antesignano Brunelleschi, nel 1421; poi la Loggia dei Servi di Maria, proprio di fronte allo Spedale, innalzata su progetto di Antonio da Sangallo e Baccio d’Agnolo e terminata nel 1525. Un insieme perfettamente proporzionato, come se chi veniva dopo avesse cura di inserirsi in un cammino tracciato, per mantenerne l’equilibrio. Adesso manca il terzo lato, da sigillare con un palazzo d’angolo che cristallizzi il volto urbano della piaz- za più bella di Firenze. A gloria dei Grifoni ma anche – e soprat- tutto – dei loro datori di lavoro. Il progetto è discusso dapprima con Giuliano, figlio di Baccio d’Agnolo. Ma la scomparsa dell’architetto lascia campo libero ad Ammannati, che prende in mano le redini del cantiere. Abbatte così le antiche case dei Ricci – proprio dove era nata santa Cate- rina – tira su muri, porte, architravi: il nuovo palazzo nasce a due piani, il terzo sarà aggiunto agli inizi del Settecento. Ma la sua particolarità sta nella facciata: l’unico posto di tutta Firenze – in- sieme alla sala degli Elementi di Palazzo Vecchio – dove entrambi gli emblemi del duca Cosimo i si trovino ancor oggi riuniti. Sopra l’ingresso, Ammannati posiziona un Capricorno, sim- bolo zodiacale scelto dal granduca per rappresentarsi, e sparso generosamente in città. In verità, il signore di Firenze è nato il 12 giugno sotto il segno dei Gemelli, ma poiché di gennaio è stato incoronato, si dice che prediliga il mitico animale con corpo di capra e coda di pesce per consacrare la propria “seconda nascita”. I più maligni sostengono invece che il duca opti per il Capricor-

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no in quanto simbolo prediletto dell’imperatore Augusto (nato Bilancia!), intendendo forse propiziarsi un’augusta prospettiva di Regno. Sia come sia, accanto al cornuto animale tanto apprezzato dai potenti, Ammannati colloca in facciata anche la seconda im- presa del primo granduca Medici, la vela con tartaruga: quel festi- na lente – affrettati lentamente – elevata a simbolo di una politica fatta di prudenza miscelata all’azione. Emblema non a caso scelto anche da Ugolino per metterlo in parete: perché sia chiaro a tutti da che parte soffia il vento che spinge la vela dei Grifoni. Gli anni passano, i salotti si alternano. Nel 1800 alla stirpe del Grifo succedono i Riccardi, poi i Mannelli (quelli della torre che costringe alla curva il corridoio degli Uffizi), infine gli Antinori. Finché arrivano Leopoldo Gattai e il genero Francesco Budini: due imprenditori privi di cognomi altisonanti, decisi a conquista- re la dimora dei sogni grazie ai profitti generati nel nuovo Regno d’Italia.

Le rotaie dei treni infilate nei muri al posto delle travi

Budini e Gattai sono i titolari di una ditta di costruzioni impegna- ta a piene mani nell’edificazione di Firenze (e poi Roma) capitale d’Italia. L’antico palazzo è in vendita per 280.000 lire, ma in passa- to la ditta ha servito bene gli Antinori, e alla fine il prezzo si abbas- sa a 180.000. I soldi non sono comunque un problema per i due imprenditori, nel cui palmarès figurano il Lungarno Torrigiani, il porto di Livorno e soprattutto la rete ferroviaria Firenze-Vaglia- Fae­nza, orgoglio di famiglia. Una vera impresa, quella della Faentina, scavata nella monta- gna per lo più a picconate. «L’opera più difficile e scabrosa è stata la galleria di Pratolino – scrive la «Rivista Generale delle Ferrovie» il 6 aprile 1890, festeggiando l’inaugurazione della linea – acque sotterranee in copia, gas incendiabili, terreni di argille scagliose divoravano armature e legname. Per fortuna non ci furono vitti- me. [...] La lunghezza totale del tratto costruito dalla ditta Budini Gattai è di metri 21.118, ed è costata denari molti, ansie, pensie- ri. Però gli ostacoli frapposti dalla natura sono stati domati, e la scienza dell’ingegnere esce vittoriosa dalla lotta sostenuta».

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Una volta terminata la ciclopica fatica, non sorprende la de- cisione degli imprenditori di finirla con le ferrovie e di appendere le rotaie al fatidico chiodo. Quello che sorprende invece i tecni- ci addetti all’ultima ristrutturazione, è scoprire rotaie al posto di travi nei muri portanti del palazzo. Sono gli attrezzi del mestiere, simbolicamente sepolti là dove Budini e Gattai vogliono comin- ciare una nuova vita: è il 1890, i due impresari chiudono la ditta di costruzioni per passare all’acquisto di terre e fattorie, e alla (ri) fondazione della residenza di famiglia. Non più industriali, adesso latifondisti: mossa contraria alla Storia, forse, ma in sintonia con le ambizioni dinastiche, che dopo una serie di prestigiosi matri- moni, vedono il nuovo emblema dei Budini Gattai ergersi accanto allo stemma dei Ricci e dei Grifoni, ai piedi di un maestoso sca- lone a due rampe venuto a rimpiazzare le stanze rinascimentali. È il 1892: il meglio delle maestranze fiorentine è ingaggiato in un’operazione dall’altissimo valore artistico. Ai pittori Augusto Burchi, Galileo Chini e Giulio Bargellini è assegnato il program- ma iconografico del quartiere nobile, il ciclo delle Arti, e quello delle Virtù. Siamo in piena Belle Époque, periodo sazio di fiducia e ottimismo con il mondo intento a danzare il can-can e ubriacarsi di Art Nouveau. Su un pregiatissimo pavimento in cotto laccato a imitare la tecnica degli intarsi marmorei, trovano posto contadini felici in una campagna fiorente: novella Arcadia ignara del Tita- nic dietro l’angolo.

Un pugno di studiosi innamorati dell’arte italiana riuniti in salotto

E proprio mentre i Budini Gattai sono impegnati nelle decorazio- ni del palazzo, a poche centinaia di metri di distanza, il professore di Lipsia Heinrich Brockhaus – membro di una grande famiglia di banchieri ed editori – mette il salotto di casa a disposizione di un pugno di amici sedotti dall’arte italiana. È il 1897, e Piero della Francesca sembra più attuale a Berlino che a Roma. La colonia tedesca è forte e ha solide radici a Firenze: sono pittori, artisti, intellettuali venuti in città per vivere l’arte da vicino. Oggi l’approccio è molto più “globale”, ma all’epoca il patrimonio di Raffaello, Caravaggio e soci è veramente il centro dell’interesse della comunità scientifica internazionale. Mai conquistati dall’Im-

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pero romano, artefici di uno sviluppo culturale autoctono, i tede- schi hanno una vera passione per l’arte classica e rinascimentale, sono i primi a istituire cattedre universitarie di Storia dell’arte: a fine secolo ne ospitano già una ventina. In Italia abbondano le opere, ma non i mezzi per studiarle. Nel paese di Michelangelo manca ancora l’idea della specializzazione, della tecnica moderna applicata allo studio del bello. Da qui il proposito di creare una “stazione di ricerca” sull’arte italiana, e di metterla a disposizione della comunità internazionale. E quale posto migliore di Firenze – con il suo patrimonio, gli archivi, le biblioteche storiche come la Magliabechiana – per installare un centro dotato di letteratura specialistica e laboratorio fotografico? Il Kunst nasce così, non certo per la promozione della cul- tura tedesca. Fin dalle origini, l’Istituto vede nell’arte italiana un bene dell’umanità da studiare e valorizzare. L’idea ha successo, presto il salotto Brockhaus (in viale Principessa Margherita), vie- ne lasciato per un appartamento più grande. Nel 1912 il centro studi si trasferisce a Palazzo Guadagni, in piazza Santo Spirito. Cresce il plauso e l’interesse per questa iniziativa prestigiosa, che ha un solo problema: le risorse umane e finanziarie provengono esclusivamente dal governo tedesco. Se in tempo di pace tutto fila liscio, le cose possono cambiare in un attimo quando le politiche nazionali di Roma e Berlino si trovino a confliggere. Cosa che puntualmente accade nel Novecento: per due volte la comunità di studiosi di Palazzo Guadagni si trova ad affrontare le lacerazioni della guerra. Che per due volte la travolgono.

Per schivare la Prima guerra mondiale foto e libri finiscono agli Uffizi

Il Primo conflitto mondiale sembra cogliere l’Europa di sorpresa: come se le cose precipitassero senza sapere bene perché. Piutto- sto “ondivaga” la posizione del governo italiano: quando l’Austria attacca la Serbia, Roma resta neutrale in ossequio all’alleanza di- fensiva stretta anni prima con Germania e Impero austrounga- rico. Ma un anno dopo ci ripensa e dichiara guerra all’Austria, unendosi a Francia, Inghilterra e Russia. Ci metterà ancora un anno a schierarsi contro la Germania: la notifica dello stato di guerra è dell’agosto 1916, e questo dopo aver firmato una serie di

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documenti segreti con Berlino. Insomma, le mosse italiane fanno saltare ogni precedente accordo, anche sulla reciproca protezio- ne di sudditi e proprietà. Lo scontro è frontale. Il primo passo di Roma è l’espropriazione dei beni e l’espulsione di tutti i cittadini tedeschi dal territorio nazionale. Il Kunst rimane nel limbo: rim- patriato il personale, il patrimonio di foto e libri è traslocato in un magazzino degli Uffizi, e lì lasciato fino alla fine del conflitto. Nel dopoguerra si pone la grande questione: cosa fare del­ l’Isti­tuto? Espropriarlo? Assegnargli uno statuto speciale, che ne tuteli la condizione internazionale? Dopo anni di trattative, si de- cide per la restituzione alla Germania. Decisivo l’intervento di Giovanni Poggi, direttore degli Uffizi e primo soprintendente ai Monumenti per le province di Firenze, Lucca, Massa, Livorno, Arezzo e Pisa. Un uomo straordinario, alla cui dedizione e competenza il patrimonio toscano deve molto, e lo si vedrà soprattutto in occasione del Secondo conflitto. È lui che – per l’alto senso di responsabilità – il 13 dicembre 1913 con- segna ai carabinieri di Firenze la Gioconda di Leonardo. Consegna anche l’emigrato italiano autore del furto, Vincenzo Peruggia, che quando viene arrestato sta proponendo a Poggi il prezioso dipinto. L’uomo è riuscito a trafugare la Gioconda dal Louvre, con l’intento di restituirla per sempre al patrimonio nazionale. Ma il sovrintendente sa che Firenze non può recuperare così la Monna Lisa, uscita dalla città in mano a Leonardo. E dunque avvisa le forze dell’ordine, affidando loro il celeberrimo dipinto perché lo riportino “a casa”. A Parigi. È sempre Poggi a esprimersi con forza in favore della resti- tuzione ai tedeschi della cittadella del sapere: lavorano in modo egregio – dice – la struttura funziona bene, per il beneficio di tut- ti. Bisogna dunque continuare a farla gestire da chi lo sa fare. Un pensiero progressista, non basato sull’aprioristica difesa di inte- ressi nazionali, ma che non manca di suscitare polemiche: c’è chi non si fida, e preferirebbe tenere fuori la Germania. Lo studioso fiorentino, invece, si fa portavoce di una linea in sintonia con i valori espressi dai fondatori dell’Istituto, per cui l’arte italiana è patrimonio dell’umanità tutta, e il Kunst ne è dichiarato custode super partes. Così, grazie all’appoggio di Poggi, prevale la continuazione col passato. Nel 1923 l’istituto riapre, prima nei locali degli Uffizi, poi a Palazzo Guadagni. A due condizioni: che tutti gli studiosi

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possano continuare ad accedere alla struttura, come accadeva in passato. E che nessun libro o fotografia possa essere portato fuori dal territorio nazionale.

Hitler, maniaco d’arte, all’inizio i quadri li paga in contanti

Se la tutela dell’arte si fa problematica durante la Grande guerra, è ancora nulla rispetto a quanto accade durante il Secondo con- flitto mondiale. Intanto, di fronte alla prospettiva dello scontro, l’Italia si affanna a mettere al riparo il patrimonio: interi musei vengono svuotati e partono per la campagna, quadri e statue sono costretti a interminabili viaggi su strade accidentate e camion sco- perti per raggiungere ville e fortezze sparse sul territorio dove si pensa siano al sicuro dai bombardamenti. Molti i funzionari italia- ni artefici del salvataggio di migliaia di pezzi, da Pasquale Rotondi a Emilio Lavagnino, allo stesso Giovanni Poggi. Ma Göring e Hitler sono maniaci di tesori d’arte: il führer, artista mancato, aspira alla costruzione di un super museo a Linz, e per far questo rastrella migliaia di opere in tutta Europa, all’ini- zio portandosele a casa, poi nascondendole nella miniera salina di Bad Aussee in Austria. Per compiacere i potenti alleati, è Mussoli- ni in persona ad autorizzare l’esportazione illegale di pezzi prezio- si come il Discobolo Lancellotti, che parte nel 1938, o come il Ritratto di gentiluomo di Hans Memling, che lascia la Collezione Corsini e se ne va nel 1941. Inizialmente, comunque, gli acquirenti pagano. Un prezzo di favore, certo. Ma in contanti.

Dopo l’armistizio iniziano le requisizioni: foto e libri trafugati

Tutto cambia dopo l’8 settembre 1943, quando l’armistizio con gli Alleati viene annunciato da Badoglio: per le truppe tricolore è il caos, ma quelle tedesche sanno bene dove andare. A questo punto le mire nazionalsocialiste infiltrano il Kunst. Nasce il Kunstschutz o “ufficio di protezione dell’Arte”, prima in- stallato a Roma, poi trasferito a Firenze, infine a Milano con la Repubblica di Salò. Si tratta di un reparto della Wehrmacht di-

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retto dal colonnello Alexander Langsdorff, il cui scopo formale è proteggere il patrimonio artistico dai danni dell’avanzata an- gloamericana. In pratica, è da alcune stanze di questo ufficio che partono gli ordini di requisizione delle opere. Famosa a Firenze l’azione di contrasto dell’ex agente segreto Rodolfo Siviero, che da un villino sui Lungarni – divenuta base operativa delle brigate partigiane dell’arte – spia i tedeschi e rac- coglie notizie per ostacolare le requisizioni del Kunstschutz. La banda Siviero compie imprese spettacolari: ritira e mette al sicuro le vetrate del Duomo di Arezzo; batte sul tempo gli sbirri di Her- mann Göring incaricati del prelievo di un’Annunciazione di Beato Angelico; mette in salvo tutti i quadri di De Chirico dalla villa di Fiesole, usando uno stratagemma mentre il pittore e la moglie ebrea riescono a fuggire. Il conflitto s’intensifica, dal gennaio 1944 le porte di Palazzo Guadagni vengono chiuse. Niente più pubblico, l’attività di ricer- ca è sospesa. Il Kunst è ormai saldamente in mano al regime, e in una pazza danza di guerra, la sua dirigenza alterna la reale attività di protezione ai monumenti italiani con il supporto al trafuga- mento delle opere d’arte dirette poi in Germania. Fra casse che arrivano e casse che partono, l’ufficio è molto impegnato anche nella propaganda antialleata: non sono i tedeschi a bombarda- re Montecassino o Milano, e le foto delle distruzioni americane – quelle vere, e talvolta anche quelle un po’ presunte – vengono massicciamente fatte circolare per vincere la battaglia dell’indi- gnazione pubblica. Intanto, mentre gli americani risalgono lentamente la peni- sola, la dirigenza nazista decide che è giunto il momento di ritirar- si oltreconfine ed evacuare il patrimonio del Kunst. In violazione al trattato del 1923, tutti i libri e le foto di Palazzo Guadagni ven- gono trasferiti da Firenze a una miniera salina in Germania. Que- sto proprio mentre Giovanni Poggi si adopera come interlocutore del Kunstschutz, affrontando con calma autorevole le rimostranze di Langsdorff contro le manovre della banda Siviero, oppure ri- cevendo le preziose notizie che un coraggioso informatore riesce a far trapelare per il futuro recupero delle opere. Tutta la verità non la sapremo mai: impossibile conoscere le ragioni personali di molti funzionari, gli eroi nascosti, la sincera preoccupazione per il destino dei capolavori artistici, magari unita alla (dis)obbedienza al regime, a rischio della vita. Ciò che sappiamo è che buona par-

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te dell’arte italiana prende la via del Nord. E che poi finalmente – come in tutte le cose – anche per il secondo massacro planetario arriva la parola fine. Le armi tacciono. Nel maggio del 1945, a liberazione avvenuta, inizia la partita per il recupero del patrimo- nio nazionale.

Ritrovate in Alto Adige, le opere tornano a casa

Migliaia di pezzi sono stati sottratti in tutta Italia e trasferiti segre- tamente a Campo Tures, in Alto Adige. Le opere si trovano ancora in territorio nazionale, dunque senza troppe storie gli Alleati le restituiscono alle legittime autorità. L’arrivo a Firenze del treno che riporta a casa il San Giorgio di Donatello e il Bacco di Michelan- gelo è salutato da una folla esultante e fiera. Più difficile riportare al di qua delle Alpi quanto ritrovato in Germania: sono migliaia i pezzi che si stanno accumulando al Cen- tral Collecting Point di Monaco, punto di arrivo dei tesori razziati in tutta Europa. Producendo le prove dei furti avvenuti dopo l’ar- mistizio, l’Italia riesce a negoziare la restituzione dei pezzi trafuga- ti dopo l’8 settembre. Rientra così il tesoro di Napoli, dai dipinti di Capodimonte ai capolavori dell’Archeologico, opere che erano state prima evacuate a Montecassino e poi trasportate in Vatica- no all’avvicinarsi del fronte. Casualmente, lungo la strada, tre dei quindici camion avevano preso la via di Carinhall, parcheggiando a casa Göring giusto in tempo per il compleanno del gerarca, nel gennaio del 1944. Nella torta con le candeline erano così finite la Danae di Tiziano e la Madonna del Divino Amore di Raffaello, l’Apol­ lo di Pompei e l’Hermes di Lisippo. Tutto questo la delegazione italiana, guidata da Siviero, recupera a Monaco, riuscendo a far valere i diritti dell’Italia come paese occupato, al pari di Olanda o Polonia. Questo benché a causa delle sue responsabilità l’Italia rientri fra gli sconfitti, e non fra le vittime della guerra.

Tornano anche i libri del Kunst: al lavoro in nome della scienza

Ma il vero capolavoro diplomatico è il rientro dei pezzi che i gerarchi nazisti hanno acquistato con regolare contratto prima

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dell’8 settembre, quando Roma è ancora alleata di Berlino. Sivie- ro riesce a dimostrare che le esportazioni sono avvenute in seguito a pressioni politiche, e in violazione delle leggi vigenti. All’Italia vengono così restituiti anche i quadri di Tintoretto e di Rubens, il Discobolo Lancellotti e il Gentiluomo di Memling. E i libri e le foto d’arte del Kunst? Quando iniziano le trattative, Berlino si dichiara pronta a riportare tutto a Firenze, ma chiede che la proprietà rimanga te- desca. Una proposta che innesca il risentimento tricolore. C’è chi ricorda la Prima guerra mondiale, e la violazione di quel trattato. C’è chi non riesce a superare le sofferenze subite durante il con- flitto, anche se l’Italia tende a dimenticare di essere stata alleata coi tedeschi fino al 1943. Dopo una lunga transazione, a una Germania sconfitta e sfi- nita viene lasciato il diritto di continuare a lavorare in nome della scienza. Chi chiedeva l’esproprio delle collezioni a favore del Bel Paese non riesce a imporsi. Una scelta ancora una volta impopo- lare, e ancora una volta coraggiosa. Una scelta controcorrente so- stenuta dal solito Poggi, e più tardi da altri come Benedetto Croce. Prevale il gesto politico in nome del superiore interesse scien- tifico e del mutato clima internazionale. Sono gli anni dell’accor- do Adenauer-De Gasperi (1953), siamo alla vigilia dei Trattati di Roma: una flebile Europa sta nascendo. È tempo di unire le for- ze, di mettere via le recriminazioni, di lavorare su ciò che unisce piuttosto che il contrario. Come gesto di buona volontà – e di presa di distanza dal passato – la Repubblica Federale dispone che tutti i capolavori ancora trattenuti al Collecting Point di Mo- naco rientrino nelle rispettive patrie. Quanto alle collezioni del Kunsthistorisches Institut, rimangono di proprietà dello Stato te- desco, a condizione che non siano rimosse dal territorio italiano. Dove ritornano.

Il palazzo col Capricorno si apre alla storia dell’arte

Intanto i Budini Gattai sono sempre lì, nel palazzo fra via dei Servi e piazza Santissima Annunziata: hanno attraversate le tempeste del Novecento nella dimora col Capricorno in fronte e le rotaie nei muri. Non hanno venduto, non sono partiti. Anche se certo, mantenere un edificio storico mentre il mondo va in frantumi – e

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per ben due volte – non è cosa semplice. Ma la famiglia ha tenuto duro. Tuttavia i tempi sono cambiati: decorazioni e arredi appar- tengono al passato, nell’Italia del secondo dopoguerra tutte quel- le stanze hanno sempre più bisogno di un utilizzo che contribui- sca alle spese. Nel 1970 è il primo governo regionale della Toscana a trovare ospitalità là dove ser Ramazzotto consigliava cardinali e gestiva ospedali: ma gli ammennicoli di una moderna ammini- strazione non sono l’ideale per i preziosi fregi e gli stucchi della magione. Le truppe dell’apparato pubblico devono cercare spazi più consoni da calpestare che non un cotto laccato ottocentesco. È proprio quel prezioso pavimento che i funzionari del Kunst s’ingegnano a proteggere, quando nel 2009 vengono in visita e si mettono a trattare con la Soprintendenza di Firenze per affittare l’antico edificio lasciato libero dagli uffici regionali. Dopo anni di chiusura – e una volta ripristinati gli ambienti – è il Kunsthistori- sches Institut in Florenz a portare nuova vita fra le sale vuote del piano nobile di palazzo. Per farlo, s’inventa un doppio pavimen- to flottante steso a difesa dell’antico impiantito, capace al tempo stesso di ancorare a terra e distribuire il carico di pesanti scaffala- ture, senza danneggiare le pareti. Sono 620.000 le foto dell’archi- vio del Kunst, ma nel muro non c’è neanche un chiodo. Neppure Ammannati avrebbe saputo fare tanto. Da questo momento, la storia fotografica dell’arte italiana si accomoda nella sua nuova sede.

Una consultazione a “scaffale aperto” per favorire gli studiosi

Oggi, in Palazzo Grifoni Budini Gattai, migliaia di scatti si incon- trano e vengono comparati per costruire ricerca. Nel laborato- rio di “specchi con la memoria” chiamato Archivio fotografico, le istantanee narrano non solo le vicissitudini attraversate nel tempo da opere e monumenti, ma diventano esse stesse documentazione viva. Inciso sul corpo, ai margini dei cartoncini o sul retro, le foto portano il racconto dell’evoluzione tecnologica, la radiografia delle diverse metodologie utilizzate per lo sviluppo, i tratti biogra- fici di proprietari o soggetti raffigurati. I mille dettagli che fanno di ogni scatto un pezzo unico.

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È sbagliato pensare che le fototeche siano ormai luoghi su- perati dalla tecnologia, che in rete si trovi tutto. Piuttosto il con- trario: la digitalizzazione eseguita secondo criteri scientifici è un processo lungo e dispendioso, e solo il 10% delle 620.000 foto del Kunst è già consultabile in formato digitale. Il resto rimane a disposizione nelle sale dell’Istituto. Per chi cerca i libri invece, bastano pochi passi e si arriva in via Giusti, nelle stanze che videro crescere i fratelli Rosselli. Fra i volumi rari – spesso introvabili sul mercato – i testi originali delle Vite di Vasari, gli scritti del Futurismo, e addirittura la prima guida turistica mai stampata al mondo. È un libro di Francesco Bocchi del 1591, s’intitola La bellezza di Fiorenza, e può essere considerato a tutti gli effetti il primo ritratto di una città come opera d’arte, offerto ai viaggiatori senza motivazioni religiose o di altro tipo. Per la pri- ma volta nella storia si invitano le persone a visitare semplicemente un luogo di bellezza: s’inventa il modo moderno di illustrare una città. Libri d’arte dunque, tutti accessibili nella (inconsueta) moda- lità dello “scaffale aperto”: gli studiosi li esaminano direttamente e liberamente, senza rimanere intrappolati nei lacci delle richieste ai bibliotecari, o delle modalità e orari di restituzione. È naturale che tutto questo favorisca la ricerca, l’approfondimento, lo scambio. Tutt’oggi, le stanze di lavoro in cui ricercatori e borsisti si rac- colgono incarnano quell’ideale di incontro cosmopolita auspicato dai padri fondatori. Come previsto dalla Max Planck, il Kunst por- ta avanti anche un preciso programma di ricerca sull’arte italiana, ispirato a temi contemporanei come l’ecologia o l’antropocene, e incentrato su reti di scambio internazionali, che coinvolgono arti- sti e committenti, ma anche studiosi, discipline e sistemi museali. Insomma, la fitta rete di contatti, la qualità dei progetti, le borse di studio distribuite, ma anche la libertà di discussione e confronto respirate, fanno di queste sale un luogo unico, resti- tuito alla comunità scientifica vincendo i particolarismi naziona- listici. Un luogo in cui si indaga la storia dell’arte come forse in nessun altro posto d’Europa. Le guerre sono riuscite a sospende- re questo flusso, ma non ad arrestarlo. «L’Istituto – afferma Aby Warburg nel 1923, dopo lo strappo della Prima guerra mondiale – non è uno strumento di possesso, bensì uno strumento musicale: chiunque ne sia capace lo può suonare, soltanto deve aver cura, nell’ininterrotta sinfonia degli addii che è la vita, di lasciarlo in eredità al suo successore nelle condizioni migliori».

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Casa Martelli Quattro romanzi sul soffitto

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 363 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 364 10/05/21 14:51 Una casa per rendere giustizia a un nome. Un museo per riportare in vita il prestigio di una storica famiglia fiorentina trascurata dal tempo. Un’operazione di restituzione di un ruolo fondamentale svolto da una casata senza la quale la storia dei Medici e di Firenze non sarebbe la stes- sa. Questo è Casa Martelli: un palazzo appartato fra i vicoli del centro, scrigno di memoria, ricco di beni e storie intessute nella trama stessa di cui è fatta la città. Bene comune recuperato alla tutela dello Stato, dopo i trafugamenti e le vendite iniziate proprio a opera dalla famiglia Martelli, a fine Ottocento.

1998: quella memoria saccheggiata

Armadi e cassetti sono vuoti, non c’è neppure un asciugamano, un abito. Per terra, una serie di quadri, oggetti di vario tipo. Alle pareti, l’ombra nel muro lasciata da dipinti scomparsi. Sparite an- che le cristallerie e gran parte delle ceramiche. Di tutti gli antichi arredi del palazzo – tramandati di generazione in generazione – rimangono solo le ceste del cane, foderate di seta del Settecento. Difficile capire la desolazione della scena, lo smarrimento dei funzionari statali guidati da Monica Bietti quando entrano a Casa Martelli per la prima volta. È il 1998. Lo Stato ha da poco avuto in dono lo storico edificio dal Seminario Maggiore di Fi- renze, l’ente cui Francesca Martelli l’aveva lasciato in eredità. Nei dodici anni in cui è rimasto nelle mani della Curia arcivescovile, questo scrigno nascosto nei vicoli del centro è stato svilito, svuota- to. Spogliato della propria identità. L’ultima erede della celebre casata muore nel 1986: nel testa- mento devolve alla Chiesa il palazzo di via Zannetti, e tutte le ope- re in esso contenute. Nel lascito la Martelli chiede espressamente che il complesso sia aperto al pubblico secondo le modalità decise

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dall’arcivescovo, ma «almeno una volta la settimana». Una fiducia mal riposta. Per dodici anni nelle sale dell’antica magione nobi- liare entra solo qualche potenziale compratore in visita di ricogni- zione. Si sparge voce di quadri già trasferiti illecitamente ad altre sedi, e nel 1989, in uno sforzo di tutela, la collezione Martelli è no- tificata e dichiarata indivisibile dal palazzo. È un atto pubblico che riconosce formalmente l’importanza dei quadri, e che cerca di impedirne la dispersione. Nello stesso tempo, la Soprintendenza fiorentina invita la Curia «a provveder miglior custodia e control- lo del patrimonio artistico Martelli». Appello che cade nel vuoto. Quando una Veduta di Venezia di Hendrik van Lint – prove- niente dalla raccolta – viene identificata e recuperata a Londra mentre sta per essere battuta all’asta da Christie’s, le indagini si mettono in moto e arrivano a un brutto pasticcio: Paolo Piovanel- li, fratello dell’allora arcivescovo, viene accusato di appropriazio- ne indebita e illecita esportazione. All’insaputa del fratello, l’uo- mo ha prelevato dall’immobile dipinti e medaglie, libri e sculture, vendendoli sul mercato antiquario. Piovanelli alla fine patteggia la condanna a un anno e mez- zo di reclusione per furto. È il 1996: cominciata oltre cento anni prima a opera della stessa famiglia, l’emorragia dei beni Martelli finalmente si arresta. Il sigillo pubblico cala a proteggere ciò che rimane dell’antico patrimonio. Le opere sono salve. Ma la vicenda non si chiude qui.

Risolvere il “nodo” Bardini per sciogliere il caso Martelli

Stefano Bardini è un famoso collezionista, il principe degli an- tiquari fiorentini, che morendo decide di lasciare al Comune di Firenze la gestione del proprio immenso patrimonio fatto di ville, palazzi e opere di inestimabile valore. Sono gli anni Venti del Novecento, la politica è in tumulto. Le autorità fiorentine hanno divergenti priorità rispetto all’ammi- nistrazione del tesoro ricevuto, tanto da far arrabbiare il figlio di Bardini, Ugo. Il quale, morto nel 1965 senza successori, lascia un testamento più vendicativo che originale: nomina erede lo Stato svizzero, in seconda battuta il Vaticano, e solo in terza lo Stato italiano, con l’obbligo – in caso di accettazione dell’eredità – di

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destinare l’ingente somma ricavata dalla vendita dei beni all’ac- quisto di una o due opere di eccezionale importanza per i musei di Firenze. Ma i beni Bardini non si possono vendere perché tute- lati: dunque, si valuta l’eredità per un importo di circa 35 miliardi di lire. È questa la cifra da investire in opere se si vuole accedere all’eredità. A questo punto Svizzera e Vaticano si fanno da parte. Ma senza l’acquisto di due opere di tale valore – come richiesto nel testamento – la donazione non può diventare proprietà dello Stato. Come uscire da questo ginepraio? Per trent’anni nulla si muove. Finché nel 1995, grazie al go- verno di Lamberto Dini, e al ministro dei Beni Culturali Antonio Paolucci, Roma stanzia i fondi per acquisire due capolavori, e di- stricare il pasticcio dell’eredità. Non è un caso che in quel perio- do torni in ballo Casa Martelli. Quando si tratta di selezionare sul mercato i pezzi da mettere al sicuro nei musei di Firenze, l’opzio- ne della commissione incaricata della scelta cade su due tavole di Antonello da Messina, e sull’arme (lo stemma) in pietra realizzata da Donatello per i Martelli, custodita all’interno del palazzo. Si innesca a questo punto una curiosa partita di giro: se lo Stato com- pra il prezioso blasone, avrà in “dono” dall’Arcivescovato tutta la dimora e il suo contenuto. In pratica, la soluzione del “nodo” Bar- dini permette di risolvere anche il caso Martelli, sottraendo­ la ma- gione nobiliare alla disinvolta gestione della Curia per restituirla­ alla comunità. C’è chi sottolinea come l’operazione rappresenti la massima convenienza per lo Stato: comprando l’(importante) emblema, la collettività recupera anche un palazzo, e centinaia di pezzi unici, fra quadri e oggetti, mettendone in salvo la storia. C’è chi contro- batte che – poiché si tratta della Chiesa e non di un poco affidabile intermediario o affarista – lo Stato avrebbe potuto semplicemente pretendere una migliore gestione del complesso, senza dover fare un acquisto così oneroso. Magari devolvendo quei fondi all’acqui- sizione di un’opera più a rischio. Comunque la si pensi, l’affare si conclude. L’ultima raccolta nobiliare rimasta a Firenze senza manomissioni viene recuperata, insieme alla sua preziosa “scatola”. Ecco come si arriva a quei fun- zionari che nel 1998, col cuore stretto, si affacciano per la prima volta in anni su sale vuote, armadi razziati. Che fare adesso? Prima dell’acquisizione si era pensato alla dimora dei Mar- telli come possibile sede del Museo del Costume, dove abiti e ac-

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cessori avrebbero raccontato l’evolversi della moda nel tempo. Ma dopo un’occhiata all’inventario dei beni, ci si rende conto che queste pareti possono restituire una narrazione ben più significa- tiva: la propria. Comincia così una paziente opera di ricerca documentaria e ripristino di ambienti e oggetti. Fra i vari interventi, ricompa- re sotto un controsoffitto la vecchia storia del matrimonio di un Alessandro Martelli, celebrato in tutta fretta a metà Ottocento per cancellare la vergogna delle “false nozze” del fratello mag- giore Marco, erede (poi diseredato) della famiglia. Uno scandalo che spacca Firenze in due. Ci si rende anche conto che – accan- to all’affresco recuperato – sui soffitti della casa sono stati ritratti ben altri tre eventi chiave della vita della stirpe: quelle volte sono una sorta di esibizione di diplomi, ostentano momenti cruciali di orgoglio dinastico, esibito dal padrone di casa Niccolò Martelli, padre di Alessandro e Marco. Attraverso quei soffitti affrescati af- fiorano i personaggi e le storie di una grande dinastia fiorentina. Che vale la pena di raccontare dall’inizio.

Nel Quattrocento le radici di un’alleanza di ferro con i Medici

Originari della Val di Sieve, i Martelli si stabiliscono in via degli Spadai, a due passi dal Duomo. Sono vicini di casa dei Medici, ma inizialmente apprendono la mercatura al banco dei loro avversari, gli Albizi, ricchi mercanti di lana, capi di parte guelfa alla guida di una ristretta oligarchia repubblicana. A cavallo fra il Tre e il Quattrocento, Maso e Rinaldo degli Albizi coagulano attorno a sé un gruppo di “popolani grassi” per assicurare a Firenze stabilità politica e scongiurare il pericolo di nuovi tumulti: la rivoluzione dei Ciompi è ancora troppo viva nel ricordo. Certo le interminabili guerre contro Milano dissangua- no la città, e incrinano la posizione degli oligarchi. Cosimo dei Medici è anche lui un “popolano grasso”, ma gioca da outsider, mantiene un profilo basso nelle magistrature, ha una potente rete di legami economici in città e fuori, e a differenza di Rinaldo gode del favore del “popolo minuto”, degli artigiani, dei piccoli commercianti. Di quelle Arti minori alleate nella coalizione di governo, che il popolo grasso generalmente disprezza. Quando

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lo scontro per il dominio politico fra le due casate si fa più aspro, Niccolò Martelli – ribaltando la linea tradizionalmente seguita dalla famiglia – decide di lasciare gli Albizi e buttarsi dalla parte dei Medici. Una scommessa al buio che segna la fortuna della sua casata. A Niccolò si deve l’inizio dell’ascesa dei Martelli ai ranghi principali della società fiorentina, come banchieri e mercanti di lane, sete, armature e pellame. Ma saranno i suoi dieci figli a con- tinuarla ai vertici della politica, stringendo un patto di ferro con la nuova dirigenza medicea. Tutto si gioca in un anno, il famoso 1434, quando la cerchia degli Albizi, non avendo l’audacia di sopprimerlo, condanna Co- simo al confino. Mentre il Medici continua a tessere la tela da Venezia, a Firenze i suoi nemici non riescono a impedire il sorteg- gio di un nuovo governo di priori a lui più favorevole. Il tentativo degli Albizi di forzare la situazione fallisce. L’ex esiliato, tornato in patria, non sbaglia un colpo: si fa benedire dal papa, fa brucia- re e rifare le liste degli eleggibili alle cariche cittadine, dispone un’epurazione incomparabilmente più severa di quella che era toccata a lui. Rinaldo & soci non rivedranno più Firenze. La sche- datura sistematica dell’opposizione e il discredito politico a vita diventano una tecnica di governo del futuro pater patriae e della sua discendenza. E i Martelli? Non sbagliano un colpo neanche loro. La consorteria che forgiano con i Medici comincia qui, nella volata tirata al campione Cosimo da bravi gregari. Aiutandolo a tagliare per primo la linea del traguardo. È Ugolino, figlio maggiore ed erede di Niccolò, a subire l’as- salto degli antimedicei al momento della partenza di Cosimo; è lui a vigilare sui beni dell’esiliato, continuando in suo nome le regalie che tanta parte hanno nella costruzione di consenso po- polare intorno al giovane Medici. Al rientro dell’alleato, Ugolino viene fatto priore, e fino alla morte ricopre tutte le cariche pos- sibili, non solo nelle istituzioni interne, ma anche come vicario del Mugello, capitano di Pistoia, Pisa e Arezzo. Con lui i Martelli assurgono alla dignità di veri e propri uomini di Stato. E ancora: è suo fratello Antonio, secondogenito di Niccolò, a essere scelto per andare a Venezia e comunicare a Cosimo la vit- toria della sua parte politica, chiedendogli di rientrare a Firenze da vincitore. Antonio spenderà il resto della vita a lavorare per il banco dei Medici, a Venezia.

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Ed ecco Roberto, il quartogenito: è direttore del banco dei Medici a Basilea, dove qualche anno più tardi si radunano i dele- gati del Concilio ecumenico fra le Chiese d’Oriente e Occidente. È questa una circostanza straordinaria, sul tavolo c’è la ricomposi- zione dello scisma fra le due Chiese, ma anche la richiesta d’aiuto che l’imperatore di Costantinopoli Giovanni Paleologo viene a fare al papa per fronteggiare l’invasione turca sulle coste orien- tali. Ma la peste spinge i delegati via da Basilea, in direzione di Ferrara. Quando Roberto Martelli gli fa capire di cosa si tratta, dicendosi disponibile a finanziare l’operazione, Cosimo de Medi- ci afferra l’occasione al volo: bisogna fare di tutto per dirottare il Concilio su Firenze. Il capo della holding medicea si rende conto dell’importanza di un evento simile per consacrare la città a li- vello internazionale, e consolidare la propria immagine. Il neo signore di Firenze dispone persino di una cupola da inaugurare con il massimo della magnificenza, visto che Brunelleschi ha da poco terminato i lavori per completare quella che sembrava a tutti gli effetti una missione impossibile. È il 1439. Il Concilio è un trionfo, anche se la proclamata riunificazione avviene solo sulla carta, e una volta tornati a casa, di fronte all’opposizione del popolo, i patriarchi ci ripensano. Ma l’operazione politica riesce alla grande: i settecento delegati bizantini che inondano le strade di costumi, e colori, e codici, sono l’Impero romano d’Oriente che torna in Occidente, lascian- do un impatto profondo sull’arte e la cultura italiana. Sono loro ad avviare la riscoperta del mondo greco, a traghettare Omero e Aristotele, a ispirare la filosofia neoplatonica, a stimolare gli studi umanistici. Sono loro a spingere il Rinascimento all’incarnazione.

Il primo soffitto: quei gigli d’oro donati dai francesi

Durante quel Concilio che ha immaginato e finanziato, Roberto Martelli ottiene il titolo di conte palatino direttamente dalle mani dell’imperatore. Il mondo è convinto che i soldi vengano da Co- simo, invece è Roberto ad aprire la borsa per trasportare e man- tenere in città pontefice e delegati. Un impegno economico così gravoso da richiedere un atto notarile: tutti i Martelli in solido go- dranno delle eventuali rendite dell’operazione, ma devono essere anche pronti a sostenersi in caso di difficoltà. Il merito del Con-

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cilio andrà a Cosimo, e così sia: c’è chi nasce per brillare di luce propria, e chi capisce che va bene anche sfruttare quella riflessa. Non solo Roberto Martelli continua a lavorare per il banco dei Medici, ma nel 1439 diventa direttore della filiale di Roma a servizio del papa, nonché depositario della Camera apostolica. Più tardi, nel 1454, è nominato ambasciatore fiorentino presso papa Niccolò v. Una nuova casa in via degli Spadai si aggiunge accanto a quella del fratello maggiore Ugolino. Insomma, facen- do due calcoli, quel Concilio non è stato poi così caro. E a proposito di ambasciatori, anche il settimo fratello, Do- menico, riceve lo stesso titolo come uomo di punta nella lotta contro i turchi. Non solo: giurista, noto diplomatico, gonfalo- niere di giustizia, Domenico Martelli ottiene da Giovanni d’An- giò, duca di Calabria, il privilegio di porre sei gigli d’oro nello stemma di famiglia. Un evento che, nell’Ottocento, l’orgoglioso Niccolò Martelli non mancherà di celebrare sul soffitto di casa, nella prima sala del piano nobile.

Martelli e Medici: un patto immortalato nell’arte

In breve, la consorteria che si annoda nel 1434 fra Martelli e Medi- ci è un patto d’acciaio, mai scalfito negli anni. Addirittura, perpe- tuato nell’arte. Sono i Martelli ad attorniare Cosimo e Piero nella Cavalcata dei Magi che Benozzo Gozzoli ritrae sui muri di Palazzo Medici di via Larga, in uno storico selfie dalle strade di Firenze, dove proprio durante il Concilio sfilano i delegati bizantini. Solo alla famiglia Martelli è concessa una cappella in San Lorenzo, accanto alla dove riposa Giovanni de Bicci, capostipite dei signori di Firenze, insieme alla moglie e ai nipoti. Questo perché sono i Martelli a finanziare – insieme ai Medici – la nuova basilica di San Lorenzo, chiesa parrocchiale di entrambe le famiglie. Ed è Roberto Martelli a contattare Filippo Lippi per quell’Annunciazione cangiante ancor oggi esibita nella cappella di famiglia: una delle rarissime opere mai mosse dal posto per cui sono state create. Prosperi all’ombra del potere mediceo, i Martelli ne condivi- dono le dinamiche, ne sostengono le scelte. Talvolta addirittura le anticipano. Mecenati ben prima del Magnifico, sono loro a indica- re la via del sostegno ai giovani artisti. Come quando si prendono in casa Donatello.

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Quel fanciullo prodigio allevato dai Martelli

Donato di Niccolò di Betto Bardi nasce di umili origini. Ha un padre operaio che passa la vita a districare la lana e protestare perché non ce la fa a mantenere la famiglia. Condannato a morte (e poi perdonato) per ribellione e attività sediziosa, Niccolò è un uomo forte, irascibile. Ha un figlio mingherlino, dalle maniere cortesi: decisamente il suo contrario. Un ragazzo così garbato da guadagnarsi presto un vezzeggiativo: Donatello. Dopo l’esperienza paterna, il giovane si tiene lontano più che può dalla lana e dalla politica, cerca un mestiere come orafo. Ci sa fare con le mani, ha ingegno, costanza nello studio. È l’incontro con Roberto Martelli a cambiargli la vita: «Fu allevato Donatello da fanciullezza in casa di Ruberto Martelli – scrive Vasari – e per le buone qualità e per lo studio della virtù sua, non solo meritò d’essere amato da lui, ma ancora da tutta quella nobile famiglia». Adesso Donato è in bottega con Ghiberti, lavora ai modelli di cera per fondere la porta nord del Battistero. Conosce Brunelle- schi, ne diventa amico (ma solo fino a quando la sua decorazione della Sacrestia Vecchia non fa infuriare il grande architetto), deci- de di andare con lui a Roma in un viaggio cruciale per entrambi. Sono i primissimi anni del Quattrocento, i due artisti si immergono nei resti antichi, li studiano, li copiano, si aggirano per l’antica ca- pitale dell’Impero alla ricerca di «pezzi di capitelli, colonne, corni- ci e basamenti di edifici». Quando si dice che Brunelleschi e Dona- tello sono i “padri” del Rinascimento, questa esperienza appare in tutta la sua potenza formativa. Celebre l’aneddoto sulla sfida che i due artisti si lanciano per la scultura di un crocifisso di legno: Do- natello è fiero del proprio lavoro, e lo mostra all’amico, che invece lo critica accusandolo di «aver messo in croce un contadino». Forse è proprio in questa dolorosa carnalità la forza dell’arte di Donato.

Il secondo soffitto: unSan Giovanni in pegno di riconoscenza

Una volta rientrato a Firenze da Roma, le commissioni per il gio- vane artista si moltiplicano. La scultura è l’arte sua, e il soffitto ottocentesco della seconda sala di Casa Martelli, non poteva non essere dedicata a quel ragazzo di bottega con i disegni sotto il

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braccio, accolto in famiglia per diventare il più grande scultore di Firenze (fino all’arrivo di Michelangelo). La volta è quella del- la seconda sala della quadreria, al piano nobile. Ritrae Roberto Martelli abbigliato di panno rosso in visita alla bottega del pupillo – ormai uomo fatto e artista di successo – che mostra le opere eseguite. Prima fra tutti, la scultura del San Giovanni Battista gio- vinetto, un ragazzino vestito di pelli, smarrito in mezzo al deserto, con uno stupore attonito negli occhi, le labbra socchiuse in una domanda irrisolta. Opera straordinaria, secondo Vasari «donata liberalissimamente» dallo scultore ai Martelli «in fede della servi- tù e dell’amore che a tal famiglia portava». E aggiunge un parti- colare: della preziosa statua fu fatto un fidecommesso, secondo il quale «né impegnare né vendere né donare si potesse, senza gran pregiudizio, per testimonio e fede delle carezze usate da loro a Donato, e da esso a loro in riconoscimento de la virtù sua, la quale per la protezzione e per il comodo avuto da loro, aveva imparata». Insomma, il San Giovanni Martelli non è solo un lavoro di ec- cezionale valore artistico. È anche il pegno dell’affetto e della ri- conoscenza che legano Donatello alla famiglia, l’imperituro atte- stato di un imperativo “morale”. Consci di ciò, e per timore che gli eredi possano un giorno separarsene, i Martelli vincolano i propri successori alla conservazione del bene. Avevano visto giusto: ma nessun fidecommesso riuscirà a impedire lo scempio futuro. Il San Giovanni giovinetto non è comunque da solo ad affac- ciarsi dal soffitto della dimora: gli fanno compagnia altri capola- vori, fra cui il David di braccia tre (Vasari), e un altro busto di San Giovannino. Nella prima metà dell’Ottocento – quando Niccolò Martelli commissiona le volte del palazzo – tutte e tre le opere si trovano ancora fra le mura di via Zannetti, orgoglioso possesso di famiglia: legittimo dunque affrescarli lassù in alto, quasi a presi- diare le umane vicende della stirpe. Ma la produzione di Donatello è copiosa, e in fondo l’artista si è costruito grazie a «protezzione e comodo» ricevuti dai Martel- li. Che dunque nel cielo del secondo salotto rivendicano un posto per altre meraviglie realizzate dal grande scultore, per i putti delle cantorie del Duomo, e anche per la statua simbolo del Rinasci- mento, il santo guerriero dallo sguardo teso, quel nobile San Gior- gio saldamente ancorato nella nicchia di Orsanmichele, pronto a lanciarsi nel futuro. Frutto anche lui del genio di quel fanciullo prodigio raccolto e incoraggiato quando non era nessuno.

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Donatello e Cosimo, il sodalizio di una vita

Grazie ai Martelli, Donatello incontra i Medici, e stabilisce con Cosimo un sodalizio che durerà tutta la vita. I due si capiscono, si intendono: il figlio del cardatore e il signore di Firenze, lega- ti da un vincolo che va al di là della stima professionale, delle committenze. Innumerevoli gli incarichi medicei, a cominciare dal femmineo David di bronzo esposto per decenni nel cortile di Palazzo Medici, o da quella Giuditta intenta al secondo colpo che stacca la testa di Oloferne, oggi in Palazzo Vecchio. E poi, ancora, i due pulpiti di San Lorenzo, opere tarde, intrise di un senso di commiato: il testamento spirituale e artistico del grande scultore, che se ne andrà a breve distanza dal mecenate. Cosimo muore nel 1464, lasciando all’amico un podere a Ca- faggiolo, la cui rendita lo metta al riparo dai problemi economici. Donato non ha dimestichezza col denaro, trascura da sempre le questioni finanziarie, è generoso: dicono addirittura che in bottega abbia una cesta colma di monete da cui gli assistenti attingono libe- ramente. Ma di una casa in campagna non sa cosa farsene, la gestio- ne del bene gli toglie il sonno, dunque torna da Piero de Medici e gliela rende: l’erede alla guida della casata rimpiazza il podere con un vitalizio settimanale, il che non impedisce all’artista di morire in povertà, con un debito di 34 fiorini d’affitto. È il 1466: i denari non hanno mai interessato Donato di Niccolò di Betto Bardi, che chiede di essere sepolto nei sotterranei di San Lorenzo, vicino al pilastro in cui giace il corpo di Cosimo, a fondamento della chiesa, della famiglia. Di Firenze tutta. Per non allontanarsi da lui neanche nell’aldilà. È Paolo Uccello a farne l’epitaffio: «Renduto ha vita ai marmi, affetto et atto: che più, se non parlar, può dar natura?».

Il terzo soffitto: Camilla Martelli, sposa regale murata viva

Da Donatello a Camilla: una terza storia nelle sale della quadre- ria di Casa Martelli, ancora il potente Niccolò alle prese con le glorie di famiglia da esaltare sui muri. Dopo aver tanto parlato di Medici, non poteva mancare la volta dedicata a Camilla, consorte del granduca Cosimo i. Peccato non sia una storia a lieto fine. Almeno per lei.

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Camilla Martelli è una bella giovane educata in convento. Da oltre cento anni la sua famiglia è alleata della dinastia regnante: ma siamo adesso nel Cinquecento inoltrato, i Medici si sono fatti duchi, i rapporti non sono più quelli di una volta. Addio consor- teria. Oltretutto, il ramo Martelli da cui discende la signora non è neppure il principale, anzi, fa parte di quelli che creano problemi finanziari al resto della stirpe. Da qualche anno Cosimo ha perso l’adorata moglie, madre della discendenza legittima, la duchessa Eleonora. Si è già ritirato dal governo, lasciando il Regno nelle mani del primogenito France- sco. Quando gli viene presentata Camilla, lei ha vent’anni, lui qua- rantotto e sta perdendo interesse per la prima favorita, Eleonora degli Albizi; che a quel punto viene sposata a forza ed esce di scena. Dalla relazione con la Martelli nasce subito una bimba, Virgi- nia. Ma se la famiglia di lei si compiace della potente unione, non si può dire altrettanto per i figli del duca, che la osteggiano con tutte le forze, come già avevano fatto con la Albizi. Cosimo non sembra dolersi più di tanto, continua a vedere Camilla e – nono- stante il ritiro a vita privata – a trattare col papa per ottenere il titolo di granduca. Sembra sia proprio Pio v a consigliargli «calda- mente» di interrompere il concubinaggio, oppure di regolarizza- re l’unione con il matrimonio. Si arriva così alla sospirata corona granducale e alle nozze morganatiche. Niente titoli per la giovane Martelli, niente beni, nessun diritto di successione. Eppure, il ma- trimonio spaventa a morte la discendenza legittima. La reazione dei figli esplode duramente, inclusa quella di Giovanna d’Austria, la nobile nuora, figlia dell’imperatore, mo- glie dell’erede Francesco. Quel matrimonio è un’indecenza. Co- simo è costretto a tirar fuori le unghie. «Io desidero esser lasciato vivere da quelli di casa, che di que’ di fora n’ò fatto il callo – scrive il vecchio duca al figlio – io non dò fastidio né fuora né in casa a nessuno». «Con voi credo che non harò brighe, se vorrete il giusto. Con vostra moglie fuggirò l’occasione, se sarete savio». Ma senso dinastico e opportunità politica prevalgono. Un amareg- giato Cosimo è costretto a difendersi anche dagli attacchi della nuora. «Sua Maestà dice che non ero forse in cervello – scrive il granduca a Giovanna – quanto alla parte del haver preso moglie. A questo dico che, quando bisognerà, mostrerò che sono in cer- vello, e l’o presa per quietar la coscienza mia, e di questo n’o’ solo a render conto a nostro signore Dio». «Non sarò il primo princi-

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pe che à preso una sua vassalla, non sarò manco l’ultimo [...]. È gentildonna, et è mia moglie, e con la gratia di dio, così sarà. Non cerco brighe, ma non mi fuggirò, perché son resoluto». Non cercando brighe, il duca e Camilla si ritirano nella villa di Castello, o al Poggio, o a Pisa. Fanno una vita semplice, con poco personale di servizio. Ma presto la salute di Cosimo declina, mentre Camilla comincia a dare i primi segni di insofferenza: forse si era immaginata altra cosa sposando un granduca. Francesco li fa spiare, per poi redigere un atto notarile in cui afferma che non ratificherà eventuali provvedimenti a favore della Martelli, o di sua figlia (e di lui sorellastra) Virginia. Quando un attacco apoplettico semiparalizza Cosimo, la coppia rientra a Palazzo Pitti. Dove il vec- chio leone muore nell’aprile del 1574. Camilla Martelli ha venti- nove anni e da quel momento la sua vita diventa un lungo incubo. Poche ore dopo il funerale, il nuovo granduca la fa rinchiu- dere con tutte le donne di servizio nel monastero delle Murate. Dopo quattro anni di clausura stretta e di proteste, viene spostata a Santa Monica. Trascorrerà così il suo tempo, in assoluta segre- gazione. Esce una sola volta, quattordici anni dopo, per il matri- monio di Virginia. Un paio di giorni di luce, di festa. Tornata al monastero, le porte si richiudono su di lei. La vedova del gran- duca comincia a dare segni di squilibrio, tanto da venire esorciz- zata come indemoniata. Ma Francesco è irremovibile: finché lui è in vita, lei è murata. Le cose migliorano leggermente quando al comando passa il fratello Ferdinando, che per qualche mese autorizza la matrigna a trasferirsi in una villa di campagna. Lì Ca- milla può uscire all’aria aperta, fare passeggiate, ricevere i paren- ti: riacquista peso e colorito. Ma improvvisamente viene di nuovo rinchiusa a Santa Monica. Sembra che abbia confidato a qualcuno il desiderio di risposarsi, e ciò basta a condannarla per sempre. Caduta nuovamente in depressione, preda di disturbi nervosi, la non-granduchessa di Toscana, seconda moglie di Cosimo i, muo- re l’anno successivo. È il 1590, ha quarantacinque anni. Sul soffitto di via Zannetti, Camilla è raffigurata in uno stu- pendo abito da sposa, il giorno del matrimonio, mentre Cosimo la conduce verso Palazzo Pitti in mezzo a una folla di sudditi festanti. È fra i pochi ritratti che di lei si conoscano: la damnatio memoriae dei Medici colpisce sempre a puntino. Ed è la foto di un evento mai accaduto: in realtà le nozze sono celebrate in forma stretta- mente privata, alla presenza dei soli genitori di lei. Nessuna festa,

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nessun corteo per quella povera sposa impazzita. Immolata per interessi dinastici.

Un palazzo cucito a pezzi nei secoli

Tre storie per tre soffitti. Ma dopo il racconto delle volte otto- centesche, e prima di affrontare il mistero dell’ultimo dipinto riaffiorato solo recentemente, vale la pena ricordare come Casa Martelli sia un’eredità stratificata dai secoli, a partire dal Cinque- cento. Come spesso accade in centro, il palazzo non è frutto di un progetto architettonico, bensì il risultato dell’accorpamento di varie unità, cucite insieme in modo irregolare, seguendo le linee delle strade o dei muri di confine. Un agglomerato privo di quella «nobiltà di palazzo, che per la sua vastità potrebbe meritare». È Ilarione di Bartolomeo Martelli nel 1524 a lasciare via degli Spadai – dove continua a risiedere parte della famiglia – per tra- sferirsi un po’ di lato rispetto al Duomo, dietro alla basilica di San Lorenzo. Sceglie un immobile con cortile in via della Forca (oggi via Zannetti): è il nucleo originale dell’attuale dimora. Ilarione aggiunge due stanze sul vicolo, spingendosi fino a toccare il muro di confine con la chiesa. Da allora in poi, attraverso matrimoni ed eredità, la casa si ingrandisce, si allunga, si allarga, cambia forma. Ormai è Casa Grande. Bisogna arrivare al matrimonio fra due cugini, nel 1627, per avere le prime vere trasformazioni in dimora nobiliare. Succede quando il senatore Marco modifica il complesso, lo espande, lo innalza, arrivando a litigare con il capitolo di San Lorenzo che si vede spuntare i Martelli persino sopra il muro di confine. Una vicinanza scomoda e invadente, quella dell’antica famiglia. Che i canonici tentano di arginare in ogni modo, togliendo per ritor- sione il diritto di passaggio dalla porticina di collegamento fra i chiostri della chiesa e la proprietà. Una contesa che si conclude solo cento anni dopo, quando un Martelli diventa priore di San Lorenzo e poi arcivescovo: e la porta viene riaperta. Questo varco, tutt’oggi esistente, permette di andare dalla casa alla basilica in pochi passi. C’è chi pensa che addirittura Michelangelo potrebbe averne approfittato per entrare e uscire da San Lorenzo, mentre tentava di sfuggire all’ira dei Medici nascondendosi in un sotter- raneo dopo l’assedio del 1530.

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Intanto il senatore Marco si rassegna a fare a meno della scorciatoia, però capisce che nella direzione di San Lorenzo non è il caso di spingersi oltre. Decide così che per fronteggiare il cre- scente bisogno di spazi – per esempio per le carrozze – bisogna allargarsi di lato, sul Canto alla Paglia: zona che verrà riservata ai servizi, alle stalle e alle rimesse. Quando si sposa il figlio Nic- colò, Marco fa costruire il grande salone monumentale d’accesso. Le nozze sono sempre un momento cruciale, in cui si decidono espansioni o rinnovamenti. Ma il senatore è una fucina di idee: innanzitutto, si mette in testa di realizzare una «camera de’ qua- dri», riservata alla collezione di dipinti pregiati che la famiglia sta accumulando. È con lui, dunque, che nasce la celebre quadreria. Ed è ancora lui a decidere che all’interno della casata, da allora in poi, tutti i primogeniti si chiameranno alternativamente Niccolò o Marco: una trovata che rende praticamente impossibile distin- guere chi fa cosa nei successivi duecento anni.

La quadreria, orgoglio di famiglia

È dunque un altro Niccolò che – un secolo dopo e sempre in oc- casione di un matrimonio – accorpa le ultime due case (dei Ron- dinelli), riorganizza gli appartamenti, uniforma la facciata, decora sontuosamente il tutto, facendosi aiutare da una schiera di artisti e artigiani. È il 1738, la struttura di Casa Martelli diventa definitiva. Ma gli interni sono destinati a cambiare ancora, perché ogni nuova generazione lascia un segno, aggiunge un “salottino della sposa”, decora un “giardino d’inverno”, realizza un “salotto da ba- gno dipinto a bosco”, in un trionfo di decorazioni trompe-l’œil. Ne- gli anni la dimora viene a più riprese restaurata, i saloni adornati con mobili e tappezzerie, la collezione arricchita di capolavori (in parte) ancora presenti. Viaggiatori, esperti d’arte, artisti, musicisti fanno tappa ob- bligata in via della Forca. Passano De Sade e Mozart, i Romanoff e i Demidoff: è un fluire d’opere d’arte che ampliano la raccolta. Molti i pezzi arrivati in eredità, come i paesaggi del Settecento ro- mano dell’abate Domenico Martelli, vissuto a Roma. A lui si deve l’incremento più cospicuo di quadri, statue, incisioni, libri, me- daglie: grazie al suo lascito in favore della famiglia, la quadreria acquista un nuovo ruolo nell’ambito culturale fiorentino. Altre

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opere pervengono in pagamento di prestiti elargiti o crediti non riscossi: famoso il caso del marchese di El Carpio, viceré di Napoli, collezionista spagnolo andato in rovina per amore del gioco. Nel testamento dispone che i suoi 1.800 quadri vadano in pagamento dei debiti contratti, e poiché i Martelli figurano fra i creditori, trentuno dipinti di artisti veneti e spagnoli approdano ad arricchi- re la collezione di palazzo. La Gallega ritenuta di Diego Velázquez è fra loro. Di anno in anno, la quadreria cresce. Ci sono Caravag- gio, Orazio Gentileschi, Luca Giordano. Nel 1820, colto da un insopprimibile attacco celebrativo, l’ennesimo Niccolò decide di scialbare la volta delle prime tre sale e sostituire le allegorie settecentesche di Cerere, Bacco e Amorini, con scene di trionfo della famiglia: ecco come nascono Domenico che ottiene i gigli d’oro dal duca di Calabria, Roberto che riceve i capolavori di Donatello, Camilla che sposa il duca Cosimo i. In real­tà, Niccolò Martelli commissiona anche un quarto affresco. Ma qui non c’è nessun trionfo da celebrare: piuttosto uno scanda- lo da mettere a tacere.

Il quarto soffitto: Teresa ripudiata dopo nove anni di matrimonio e tre figli

Nel 2008, smontando un controsoffitto durante i lavori di ristrut- turazione, affiora il dipintoAmore che domina il mondo: è la risposta che il padrone di casa Niccolò Martelli dà alla scoperta delle cla- morose nozze segrete del primogenito. Si tratta del “falso” matri- monio fra il nobile Marco, erede della casata a metà Ottocento, e la bella Teresa Ristori, disconosciuta dopo nove anni di unione e tre figli. Una storia d’amore finita davanti ai giudici. Una causa complicatissima, durata anni nei tribunali civili ed ecclesiastici di Pisa, Firenze e Roma, che vede in ballo addirittura la Suprema Corte di Cassazione. L’intreccio è classico. Il nobile Marco ama Teresa, priva di titoli nobiliari. Lui la corteggia. La donna aspetta un figlio. Marco de- cide di sposarla tramite un intermediario e col nome di Pasquale Resi: una falsa identità per non dover affrontare l’ira paterna. Le fa costruire una villa, dove nascono tre figli. Dopo nove anni di matrimonio, la relazione viene scoperta e denunciata. Terribile l’ira dell’orgoglioso Niccolò, potente uomo politico nella Firen-

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ze granducale, che oltretutto sta celebrando le eccellenze fami- liari sui soffitti di tutto il palazzo. Inizialmente Marco resiste alle pressioni del padre, ma quando la posizione del genitore si fa più aggressiva, e reale è la minaccia di tagliare i cordoni della borsa, il figlio cede: disconosce le nozze e rivendica la libertà di sposare un’altra donna, secondo i dettami paterni. A Teresa si chiede di rinunciare ai propri diritti maritali. La ragazza si trova così costretta ad andare in tribunale, innescan- do il famoso processo i cui atti sono conservati nella Raccolta Se- bregondi dell’Archivio di Stato di Firenze. La controversia divide l’opinione pubblica fiorentina come mai prima di allora. Scrive Gianfranco Gambassini: «Una tale contrapposizione interessava tutti, creando in tutti gli ambienti un’accesa discussione fra uomo e donna, genitori e figli, diritti e doveri, popolo e nobiltà, Autorità Ecclesiastica e Autorità Civile e così via. Ognuno si immedesima- va nella controversia a seconda della sua posizione e il dibattito divampava dalle aule dei Tribunali ai mercati, dai Circoli religiosi agli studi legali, fra le mura domestiche, fra marito e moglie, dai padroni alla servitù, nei caffè, nei “foyers” dei teatri, nelle botte- ghe, fino ad arrivare in periferia, dalle Parrocchie ai campi». Un interesse fuori dal comune, acceso anche dall’insolito atteggiamento di Teresa Ristori. Nell’archivio Vincenzo Salvagno- li – noto avvocato fiorentino, difensore della donna – si trovano nove lettere da lei scritte fra il 1841 e il 1851. Dai documenti si capiscono i timori, le paure, e l’evoluzione del suo pensiero ri- spetto ai fatti. Ovvio che i Martelli vadano all’attacco, offrendo un generoso assegno perché la madre lasci i figli alla stirpe e si tolga di mezzo. Teresa tentenna, prende in considerazione la soluzione proposta per il bene dei bambini, che potrebbero crescere all’in- terno della potente casata, godendo di benefici e appoggi. Poi ci ripensa. Malgrado il frastuono che le sta intorno, trova in sé una linea di condotta, e anche di impatto mediatico: non ci sono van- taggi economici tali da sostituire il suo ruolo, i figli hanno bisogno di lei, che ha onestamente amato e sposato loro padre di fronte a Dio. Il suo onore è più forte dei beni materiali. A questo patto Te- resa si tiene, rivendicando il vincolo matrimoniale con Pasquale/ Marco, invocando il suo dovere di «Madre» e il suo impegno nella «Religione». L’assegno dei Martelli è rifiutato. L’opinione pubblica non se l’aspettava, è presa in contropie- de. Si comincia a parlare di “intrighi” dei signori. Quando il non-

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no promuove un’azione legale per la tutela dei tre bambini come figli di padre ignoto, Marco Martelli trova il coraggio di opporsi, e riconosce i figli davanti al notaio. Intanto il tribunale ecclesiastico dà ragione a Teresa: secondo la Curia il matrimonio è valido. A questo punto Niccolò Martelli disereda Marco, e si consola con il secondogenito Alessandro, facendolo sposare a Marianna Velluti Zati, duchessa di San Clemente. Per accogliere la coppia, due stan- ze della galleria del palazzo vengono unificate in un salone, sul cui soffitto Nicola Cianfanelli ritraeAmore che domina il mondo, accom- pagnandolo con le allegorie di Temperanza e Unione legale: è la rispo- sta che Niccolò-padre dà allo scandalo, affidando al secondogenito il compito di assicurare una discendenza legittima, fedele ai valori tradizionali della casata, riaffermati persino nei soffitti di casa. Nel corso del Novecento la sala sarà più volte modificata, e forse non a caso – cambiando i tempi – l’affresco viene nascosto da un controsoffitto. L’opera rimane comunque il simbolo di una storia che segna un’epoca. Dopo il processo Martelli-Ristori, ciò che non si può più nascondere è la nuova consapevolezza della figura femminile, dei diritti della donna. Dopo Teresa, niente sarà più come prima.

La crisi economica e l’emorragia di opere d’arte

A partire dalla metà dell’Ottocento, le cose per i Martelli cambia- no. Così come si era costruita, la tela si disfa, poco a poco. Con l’Unità d’Italia e le sue leggi, la fortuna della famiglia si sfarina. Il nuovo Regno ha un grosso deficit di cassa, dovuto alle Guerre d’indipendenza, alla costruzione dello Stato unitario, agli investimenti per le infrastrutture. Per pareggiare il bilancio non basta l’odiata tassa sul macinato: il governo vara la prima imposta sulla “ricchezza mobile”, cioè sui redditi da lavoro e sulla rendita, e aumenta la tassa sui terreni. Sacrifici cui la classe fondiaria non è avvezza. Ma sono soprattutto le nuove leggi del sistema bancario unificato a non rendere più possibile l’“agile” gestione del credito cui i banchieri erano abituati. Per i Martelli è sempre più difficile prestare soldi: le difficoltà finanziarie si intensificano, i debiti si moltiplicano. Devono iniziare a vendere i beni. Cominciano dagli immobili, con la cessione delle case più antiche, quelle di Niccolò e Roberto, sull’omonima via Martelli, inglobate nelle Scuole Pie

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Fiorentine. Vengono poi cedute altre proprietà su via Cerretani: le scuderie, le rimesse, le case date in affitto. Rimane il nucleo centrale, il “palazzo d’abitazione”, con la quadreria. Da cui inizia l’emorragia di opere d’arte. Siamo agli inizi del Novecento, i discendenti dell’epoca si sentono costretti a rinnegare la promessa, a rompere l’antico vin- colo che li aveva legati a Donatello. Parte il San Giovanni Battista giovinetto: ed è una fortuna che lo Stato italiano intervenga recu- perando sul mercato un’opera pronta a finire oltreoceano, e che invece oggi si offre all’ammirazione del mondo da un piedistallo del Bargello. Ma l’acquisto è frutto di un accordo: i Martelli cedo- no all’Italia la preziosa scultura a un prezzo di favore, 400.000 lire. In cambio sono autorizzati a esportare a un prezzo di mercato (un milione e 300.000 lire) altri pezzi della collezione di famiglia, il non finitoDavid di braccia tre e un busto di San Giovannino. Le due opere prendono la via dell’America e approdano dopo anni alla National Gallery of Art di Washington, che tutt’ora le accoglie. Sono le stesse che Donatello mostra a Roberto Martelli lassù, sul soffitto della seconda sala di casa, dove si trova anche il famoso grifone d’oro, dipinto in un angolo: lo stemma acquistato dallo Stato per la soluzione del “nodo Bardini”. Partono, le opere che la famiglia aveva accumulato nei secoli. C’era un Caravaggio, c’era Orazio Gentileschi: di loro si perdono le tracce. Un dipinto del Cigoli riappare alla National Gallery di Londra. Il resto rimane, più o meno conservato da chi tiene le redini della casata. Nel 1945 sono tre le sorelle superstiti, vestali di un fuoco che si sta spegnendo. La maggiore, Paola, dopo un matri- monio annullato dalla Sacra Rota, entra in clausura a Civitella San Paolo, vicino a Roma. Secondo l’accordo con le sorelle, trasporta un terzo dei quadri con sé in convento. La Gallega di Velázquez se ne va con lei. Nel 1986, il ramo principale dei Martelli si estingue. Come per i Medici, anche qui una donna sola porta sulle spalle il compito di chiudere i conti con la storia, e definire il dare e l’ave- re della casata. Un peso immenso. Anna Maria Luisa de Medici si appoggia alla civitas e sceglie lo Stato. Francesca Martelli si appog- gia alla fede, e sceglie la Chiesa. Due opzioni diverse. Due destini che finiscono comunque per incrociarsi. Oggi Casa Martelli è un museo statale, un bene senza scopo di lucro, aperto al pubblico, al servizio della società e del suo svi-

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luppo. Un lavoro minuzioso ne ha ricreato l’impianto originario, ripristinando pavimenti, pareti, antiche volte. Per l’illuminazione si scelgono lampade ottocentesche. Fra salotti e quadreria, resta- no – in bella mostra – i pannelli nuziali di Beccafumi e le tele di Luca Giordano, la Congiura di Catilina di Salvator Rosa e l’Adora- zione del Bambin Gesù di Piero di Cosimo. Il prezioso stemma di Donatello, adesso al Bargello, è rimpiazzato da una copia in cima a quello scalone dove i Martelli l’avevano voluto e tenuto, anche attraverso la crisi finanziaria. C’è un dipinto – non particolarmente famoso – su cui cade l’attenzione. Mostra una famiglia a tavola, proprio in una stanza della quadreria, intenta a farsi servire cioccolata. Ci sono il capo- famiglia e il figlio, con accanto le rispettive mogli, e l’abate. C’è il cameriere che serve la preziosa bevanda, i bambini alle prese col cane, l’antiquario in un angolo intento a sorseggiare, e due visita- tori in ammirazione del tesoro di famiglia, il San Giovanni Battista di Donatello. Raffigurati nel dipinto – quadri nel quadro – la Con- giura di Catilina e la Gallega di Velázquez. È il ritratto di un pome- riggio di ordinaria golosità nella vita di una casata nobile di fine Settecento: una cioccolata sorbita al tavolo del salotto, gesto bana- le. Eppure è un romanzo dentro a un quadro. Sono un Niccolò e un Marco Martelli che ci guardano fieramente da quel muro per dire: abbiamo attraversato la Storia e siamo qui. È un’autocita- zione. In nessun altro posto quel dipinto potrebbe raccontare di più, se non qui, dove è nato. Tela tessuta su una “foto” che sfida il tempo, esposta nel luogo in cui questo tempo è stato arrestato, per continuare a parlare. Simbolo di uno spazio ricostituito attor- no a un bagaglio di memoria, recuperato alla civitas. A tutti noi.

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Villa Salviati Una roccaforte nata per difendere che si plasma nei secoli per accogliere

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 385 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 386 10/05/21 14:51 Le sue sale ospitano papa Leone x e Giuseppe Garibaldi, Paolina Bona- parte e Massimo d’Azeglio. Sono stanze date alle fiamme da folle rabbiose, teatro della terribile vendetta di una duchessa gelosa, alloggio per capola- vori in fuga dai bombardamenti alleati e dalle razzie naziste. Oggi quei luoghi conservano gli archivi storici dell’Unione Europea, rivoluzionario progetto di unità nella diversità. Lontano dal centro come era iniziato, questo viaggio attraverso i luoghi di un’altra Firenze si conclude a Villa Salviati, inesplorato serbatoio d’arte, storia e cultura, che segna la vita fiorentina fin dagli albori. Archetipo del bene uscito dal circuito economico ed entrato a pieno titolo in quello morale e civile della città.

Da fortezza medievale a villa rinascimentale

Banchieri-imprenditori, anche loro. Il xiii secolo è da poco inizia- to, quando i Salviati scendono da Fiesole per inurbarsi a Firenze. Come molti altri, vendono panni di lana e prestano soldi, sfruttan- do le fortune del “secolo d’oro”. Il miracolo economico fiorentino è anche il loro, e per difenderlo – per mantenere il potere nelle mani di chi è iscritto a un’Arte e lavora – si fanno politici. Alle cariche pubbliche si coniuga un’attenta strategia di alleanze ma- trimoniali, e la famiglia decolla, dando nel tempo alla Repubblica fiorentina ben sessantatré priori e ventuno gonfalonieri. Una sto- ria già vista. È il 1469: muore Piero de Medici, signore di Firenze. Il po- tere passa nelle mani del giovane erede, e futuro Magnifico, Lo- renzo. Proprio nello stesso anno, Alemanno Salviati acquista per 1.800 fiorini d’oro il Castello del Ponte alla Badia, una solida roc- caforte medievale edificata sulla collina di Fiesole e sulle sponde del Mugnone. Sembra una costruzione inespugnabile, con le sue torri, il mastio, i cammini di ronda. Ma i tempi sono cambiati, in

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pieno Rinascimento Firenze non ha più bisogno di circondarsi di un sistema difensivo. Quella stessa collina è adesso luogo perfetto per una residenza suburbana, vicina alla città ma circondata di fertili campi e folta vegetazione, dotata d’acqua e ben esposta al sole. Insomma, una bella casa di campagna. Alemanno acquista il castello e i terreni già ricchi di vigneti, olivi e frutteti. Sono anni di grande vitalità per le finanze Salviati, che in un quinquennio installano tre banchi, a Pisa, Firenze e Bruges. Certo, una rete non paragonabile a quella medicea, ma i fiorini non mancano, e adesso anche Alemanno & figli possono vantarsi di appartenere alla grande mercanzia. Il capostipite vive in centro, in via del Palagio, ed è proprietario di un pezzo di terre- no in borgo Pinti, dove allena una passione speciale per le piante esotiche. È lui il primo a introdurre in Toscana la coltivazione del gelsomino, il Jasminun grandiflorum di Catalogna, i cui fiori con- feriscono una speciale fragranza al tabacco da naso. Ed è sempre Alemanno a dedicarsi alla dolce coltivazione di un «moscatello grosso» venuto dalla Grecia, chiamato «uva di ser Alemanno» e poi «salamanna», proprio in suo onore. Ma adesso che ha fatto fortuna, l’impegno più pressante di Salviati è convertire quella roccaforte in luogo di piacere, trasformando un massiccio edificio turrito in una villa al passo col Rinascimento. Iniziano i lavori, l’incarico è affidato alla bottega di Micheloz- zo, l’architetto di fiducia del vecchio Cosimo. Ma se è Alemanno a iniziare l’opera, sarà suo nipote Jacopo Salviati a completarla: è lui a rilevare la prestigiosa residenza alla morte dello zio, e a trasformarla in un palazzo principesco. È il 1490, e Firenze vive inconscia il suo ultimo intervallo di pace.

Di Jacopo Salviati, il banchiere che fa fortuna fra gli intrighi della Storia

Da quattro anni Jacopo fa ufficialmente parte della famiglia Me- dici: ha sposato Lucrezia, figlia maggiore di Lorenzo il Magnifico. Un matrimonio importante, un colpo di fortuna insperato. Mol- tissimi erano i pretendenti per questa bella e volitiva adolescente, ma il Magnifico ha altro per la testa. Troppo recente è ancora la congiura dei Pazzi (1478), troppo vivide le tracce dal suo dramma- tico epilogo. Lorenzo non ha fretta di trovare a Roma un nuovo

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alleato, cerca piuttosto di rinforzare la posizione della famiglia in città, vuole un accordo che consolidi l’equilibrio raggiunto e scongiuri nuovi colpi di mano dell’oligarchia. Pensa dunque a Ja- copo, nipote di Alemanno e parente di quell’arcivescovo di Pisa, Francesco Salviati, che ha preso parte alla congiura pagandone il prezzo con la vita. È un gesto di riconciliazione, di magnanimità. La pubblica smentita di una rottura fra le due casate. L’ennesimo guizzo diplomatico del Magnifico. Così Lucrezia e Jacopo si uniscono: è il 1486, l’alleanza con il potente suocero amplia le attività del genero, che riesce a vincere l’appalto per le gabelle di Romagna e si posiziona fra i banchieri più importanti a servizio del papa. Intanto i lavori in villa proce- dono. Per onorare gli autorevoli parenti, Jacopo costella di riferi- menti medicei il fregio a graffiti del cortile della dimora: attorno agli stemmi congiunti delle due casate sparge le imprese araldi- che dei signori di Firenze, l’anello diamantato con tre piume di struzzo, il falcone con gli artigli. C’è anche il motto jamais autre, «mai [avrò] un altro [padrone]», evidente dichiarazione di lealtà verso la consorteria di cui adesso è parte. Ma la morte di Lorenzo piomba sulla città come la sfera d’oro del Duomo colpita da un fulmine: l’8 aprile 1492 ogni equilibrio preesistente è spazzato via, poco dopo le truppe francesi calano sulla penisola, i Medici sono costretti alla fuga. Jacopo e Lucrezia restano a Firenze, a barcamenarsi ciascuno a proprio modo con gli eventi. Quando il fratello Piero è cacciato, Lucrezia non smette di agire per favorire il suo ritorno, tanto da essere arrestata e torturata. Ma nessuno osa metterla a morte, anche perché il marito è un soste- nitore del nuovo governo, collabora attivamente col gonfaloniere Pier Soderini, fa da ambasciatore per la rinata Repubblica. Salvo poi schierarsi in prima fila quando i Medici rientrano,­ nel 1512. E ad- dirittura prendersi in casa il piccolo Ludovico, figlio di Giovanni de Medici il Popolano: ragazzino difficile, ma portatore di una promes- sa che metterà al sicuro la dinastia per i successivi duecento anni. Tutto questo – gli intrighi, le trame, i colpi di scena della Storia – passa attraverso Villa Salviati, che Jacopo fa decorare e scolpire. E che ospita le sontuose celebrazioni per il primo papa di famiglia, quel Giovanni de Medici divenuto Leone x, la cui in- coronazione costa al cognato banchiere 19.000 ducati. Ben ricom- pensati con il titolo di tesoriere di Romagna e delle saline papali: profitto medio annuo 15.000 ducati.

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Restare a galla nella Firenze di inizio Cinquecento può essere proficuo, ma non è facile, tanto più quando ci si incrocia con la casata medicea, la più potente e spietata in città. Ma Salviati oscil- la, mettendo in atto uno strategico slalom tra le forze in campo. Significativa la lettera scritta al fratello da Francesco Vettori, amico di Machiavelli, diplomatico e ambasciatore della Repubblica fio- rentina a Roma: «Voglio che impari da Iacopo Salviati el quale, come si truova in luogo dove sieno amici de’ Medici, monstra tutte le azioni sua dal 1494 in qua essere sute per riceverli in casa, et tutto quello ha operato comenta e tira a questo fine; quando è con quelli che sa che sono inimici de’ Medici e che piaceva loro il viver passato, monstra aver voluto sempre tener fermo quel governo e mai avere avuta altra intenzione». Un piede in due staffe insomma: ma i nodi vengono al pet- tine per la scelta del nuovo capoclan. I Medici rientrati in città devono individuare un leader, ma Jacopo è in dissidio con la parte della famiglia che sostiene Alfonsina Orsini, vedova di Piero de Medici – primogenito del Magnifico – e madre di quel Lorenzo (presto duca di Urbino) che la donna spinge ostinatamente come il più autorevole pretendente al ruolo. Del giovane e arrogante rampollo, Salviati ha però pessima opinione, non gli sembra all’al- tezza del compito di governare Firenze. Ma inizialmente – come sua abitudine – non si scopre. Vista dall’esterno, l’alleanza fra Me- dici e Salviati sembra più solida che mai. Nel 1515 Leone x arriva in visita alla sorella di ritorno da Bologna, dove ha incontrato il re di Francia. La stanza nella quale alloggia viene subito ribattezzata “la Camera del papa”, e così è chiamata oggi. Nello stesso anno, l’unione fra le due stirpi è raf- forzata da un nuovo matrimonio. Mentre grandi artisti lavorano a «dipinture» e bassorilievi nelle sale interne della dimora, una cappella privata viene innalzata per celebrare le nozze della gio- vane Maria – figlia di Jacopo e Lucrezia – con il cugino Ludovico de Medici, quel bimbo allevato in famiglia, rinominato Giovanni dopo la morte del padre. Maria è la settima di undici figli, ha dieci anni quando il ra- gazzo piomba nella loro casa e nella sua vita: l’amore per lui è istintivo e totale. Giovanni è il lontano cugino cresciuto come un fratello, l’irrequieto orfano di Caterina Sforza, signora di Forlì, e Giovanni de Medici il Popolano, del ramo cadetto dei signori di Firenze. Prima di morire, è proprio la madre Caterina ad affidarlo

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ai Salviati, che lo crescono come un figlio, e che per anni prepara- no il matrimonio con Maria. Lui è un ragazzo irruento e poi un grande condottiero, di- venta Giovanni dalle Bande Nere per aver annerito gli stendardi del- la compagnia al suo comando in segno di lutto dopo la morte di Leone x, il papa che si era impegnato a proteggere. Quella con Maria non è un’unione felice, ma porta un frutto di nome Cosi- mo, capace di ricongiungere nello stesso sangue i due rami della famiglia: quello principale di Cafaggiolo e quello cadetto dei Po- polani. Cosimo è l’erede destinato a generare un Regno potente e duraturo, ancorché sulle ceneri della Repubblica. Però questo accadrà più tardi: per ora, le turbolenze sono appena all’inizio. Nel 1516 muore “provvidenzialmente” Giuliano de Medici, duca di Nemours, ultimo figlio di Lorenzo il Magnifico. Come vole- va Alfonsina, la strada è spianata per il figlio Lorenzo: non fidandosi di lui, Jacopo e Lucrezia rompono gli indugi, e decidono di lasciare Firenze. Anche perché è Roma il vero teatro politico, il luogo in cui bisogna essere per meglio difendere gli interessi familiari. E se la morte di Leone x assesta un colpo tremendo alle finanze di Salviati – creditore del Vaticano di circa 80.000 ducati – il banchiere non va- cilla, al contrario, è addirittura capace di sostenere l’elezione di un secondo pontefice mediceo, Clemente vii. A colpi di lettere crediti- zie, Jacopo dà fondo a tutto ciò che possiede per mettere lo scranno di Pietro al sicuro nelle mani di un altro papa di famiglia. E, una volta ottenuto lo scopo, Salviati può riacquistare credito e influenza. È un rapporto di convenienza, certo. Ma anche frutto della necessità di preservare le sorti d’una stirpe cui il marito di Lucre- zia è ormai irrimediabilmente legato. Quando infatti nel 1527 i lanzichenecchi di Carlo v mettono a ferro e fuoco la città eterna, Jacopo si stringe al santo padre, con cui riesce a fuggire attraverso Castel Sant’Angelo. Ma quello che non riesce a fare è salvare la villa di Firenze, assaltata e saccheggiata dagli antimedicei durante l’assedio che vede l’esercito imperiale aiutare il pontefice a ripor- tare i Medici sul trono cittadino. Se Francesco Vettori anni prima poteva diffidare delle reali intenzioni di Salviati, gli uomini dell’ultima Repubblica fiorenti- na non hanno alcun dubbio: Jacopo è legato a filo doppio con coloro che stanno seppellendo per sempre le antiche istituzioni repubblicane. E la sua villa principesca è data alle fiamme senza ripensamenti.

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La testa della bella Caterina servita al duca di San Giuliano

Come quelle degli uomini, anche le ferite delle case si rimargina- no. Ma non sempre guariscono. In questo caso, tocca al figlio e al nipote di Jacopo Salviati – ancora un Alemanno e uno Jacopo – occuparsi delle cicatrici di famiglia, sanando le tracce dell’aggres- sione al palazzo. I due si mettono al lavoro: riparano, ristrutturano, e già che ci sono ingrandiscono la proprietà. E mentre famosi artisti decora- no soffitti e pareti, le maestranze realizzano una sala grande, una scala a chiocciola, una fila di edifici esterni per delimitare il lato nord. Non potevano mancare i giardini: padre e figlio riorganizza- no terrazze e aree verdi, e tagliano lo spazio in due con un colon- nato, lasciando da una parte il prato per cerimonie e banchetti, dall’altra i terreni agricoli con vigne, grano e olivi. Solo più tardi compare un giardino all’italiana, con tanto di statue e fontana centrale. Addio funzione agricola, addio affari, niente più nego- tium: nel Seicento il pollaio diventa una grotta ricca di rocce e sta- lattiti, la stalla si modifica in serra decorata con stucchi e mosaici. La trasformazione è completa: da mercanti-banchieri rinasci- mentali, i Salviati si sono mutati in proprietari terrieri e dignitari di corte, solidi alleati del governo granducale. Per la famiglia è una fase di stabilità e splendore, anche se non può dirsi altrettan- to per la città. È il trionfo dell’otium, una parabola discendente che tanto racconta della crisi socioeconomica in cui sprofonda Fi- renze. Un immobilismo (anche) dello spirito, in cui l’antica ope- rosità si dissolve. Risale a questo periodo un delitto cruento, la cui ultima scena va in onda ancora una volta nelle stanze della villa. Il giorno di Capodanno del 1634 “riaffiora” il corpo – o una sua parte – di Caterina Canacci, giovane amante di Jacopo Salviati, duca di San Giuliano. Del delitto è accusato Bartolomeo Canacci, figliastro della ragazza, che è arrestato e decapitato al Bargello. Questa la cronaca, presto infarcita di vulgate popolari esaltate dal romanticismo ottocentesco. Ecco come, nel 1844, l’almanacco Il fiorentino istruito nelle cose della sua patria – edito da Fabbrini – narra il delitto. Lui è un duca «affabile ed avvenente, unito in matrimonio con Veronica Cybo dei Principi di Massa, donna tanto risoluta ed altiera, quanto ge- losa e sdegnosa». E siccome «le qualità personali di questa sua

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moglie non furono mai capaci ad occupare lo spirito e le passioni di lui, concepì ardente passione per una giovine sposa per nome Caterina Brogi, maritata a Giustino Canacci settuagenario, ed a cui restava un figlio già adulto di primo letto». Quando la duches- sa scopre la relazione – si legge nel testo – prima affronta Caterina sul sagrato di San Pier Maggiore facendole una gran scenata; poi pensa di eliminare la rivale col veleno; infine decide di convincere il figliastro della Canacci, «molto irritato contro la matrigna», a farsi strumento della vendetta. Addirittura tre sicari vengono as- soldati per dargli man forte. Il 31 dicembre 1633, la povera Cate- rina è trucidata insieme alla serva nella sua casa di via dei Pilastri. Ma la vendetta della spaventosa Veronica è ancora più terribile: prima di farne gettare il corpo in Arno, fa staccare la testa alla “rivale”, e il mattino successivo la fa consegnare al marito nelle sue stanze di Villa Salviati, dentro una cesta di biancheria, coperta da un delicato velo. «Levatosi il Duca e accostandosi alquanto al baci- le vide il tremendo spettacolo; trasalì a quella vista e poco mancò che non cadesse per terra». La fine della storia è nota: il giovane e rabbioso Bartolomeo finisce decapitato sulla porta del Bargello, anche se sembra che la confessione sia estorta con la tortura. I sicari spariscono nel nulla. E donna Veronica? «Conseguì la tramata vendetta, ma non l’in- tento che ella si era proposto, poiché per quanti fossero i preghi e maneggi, non la volle il duca Salviati mai più vedere». Insomma, dal Fiorentino istruito si capisce che la duchessa sperava di ricon- quistare il marito porgendogli la testa dell’amante. È questa la versione della storia universalmente diffusa, tanto da guadagnare a Veronica Cybo-Malaspina il titolo ufficiale di «omicida e nobile italiana». Ed è questa la trama oggetto di un profluvio di romanzi d’appendice, libretti d’opera e trasposizioni teatrali. In verità, tutto ciò che la duchessa di San Giuliano ottiene è di essere velocemente rinchiusa nella villa di San Cerbone, poi di- ventata l’Ospedale Serristori di Figline Valdarno (dove ancor oggi una targa la ricorda). Veronica Cybo-Malaspina muore nel 1691, e viene sepolta nel Duomo di Massa. Strana scelta per un’assassina, feroce mandante di un delitto così efferato; ancor più strana se si pensa che la Cybo era considerata donna pia e molto religiosa, e la sua tomba diventa per qualche tempo luogo di preghiera. Ancor oggi, all’Ospedale Serristori si narra del fantasma di una dama vestita di bianco, che si aggira per i corridoi dissolvendosi

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nel nulla dopo essere stata avvistata da pazienti o personale sanita- rio. Un fantasma pentito forse, ma che non trova pace. Disperato per quello che ha fatto. O che non ha fatto.

Da Napoleone al tenore patriota che non si esibì mai in Italia

Nel 1794 muore l’ultimo discendente maschio di casa Salviati, e la villa resta nelle mani di Anna Maria, moglie di Marcantonio Bor- ghese, principe Aldobrandini. È lei l’ultima dei Salviati: ancora una volta è una donna a tirare il sipario su una delle più importan- ti stirpi cittadine. Sono gli anni napoleonici, i francesi occupano lo Stato Pontificio, Roma è strappata al dominio temporale del papa e nel 1798 viene proclamata la Repubblica Romana, “sorel- la” della Prima Repubblica francese. Nonostante i titoli nobiliari, Marcantonio e i due figli aderiscono alla causa rivoluzionaria, lui viene addirittura nominato senatore da Napoleone. Villa Salviati diventa “Villa Borghese”, e inizia la breve stagione dei simboli im- periali. Ma sono tempi che vanno veloci, le rivoluzioni si aprono e chiudono in fretta. E i tumulti che da Parigi contagiano il resto dell’Europa non fanno eccezione. Ormai avanti con l’età, Mar- cantonio chiude gli occhi subito dopo la fine della Repubblica Romana, anche se non fa in tempo a vedere il matrimonio del pri- mogenito Camillo addirittura con l’irrequieta Paolina Bonaparte, sorella dell’imperatore. Dopo l’incoronazione di Napoleone la coppia si trasferisce a Torino: è scarso l’interesse per i beni Salvia- ti, lasciati in mano al secondogenito di Marcantonio, Francesco, e da lui passati ai tre figli. Ma questa parte del patrimonio familiare, così lontana da Roma e dalle traiettorie del potere, non lega a sé i Borghese. La famiglia si sbarazza di tutto senza rimpianti: nel 1844 Villa Salviati è ceduta «a cancello chiuso» per 300.000 lire. Il prezzo include tutto: la tenuta, gli arredi, i mobili, le opere d’arte. L’intera storia di una delle più prestigiose casate fiorentine è pas- sata di mano in un colpo. Il compratore è un inglese, un certo Arturo Vansittart, ma è un acquisto passeggero, perché l’immobile è subito rivenduto al te- nore Giovanni Matteo De Candia, uno dei più famosi cantanti d’o- pera dell’Ottocento: l’artista patriota che non si esibì mai in Italia.

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Giovanni nasce a Cagliari, in una famiglia dell’aristocrazia del Regno di Sardegna. È figlio di un alto ufficiale dell’esercito savoiardo, trasferito a Torino quando il bambino ha sei anni. Se- guendo la tradizione familiare, il piccolo De Candia viene iscritto all’Accademia reale, dove a dodici anni è compagno di studi di Camillo Benso di Cavour e Alfonso della Marmora: Il ragazzo ha di fronte a sé una gloriosa carriera militare, ma le sue simpatie vanno agli ideali repubblicani e alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Lo scontro col padre è durissimo, anche perché quest’ul- timo non sopporta più i continui debiti del figlio, e le richieste di aiuto per ripianarli. Da qui la decisione di mollare tutto: il giovane abbandona la famiglia, Torino, la divisa dei Cacciatori di Sarde- gna, e si rifugia a Parigi, dove vivacchia dando lezioni di scherma ed equitazione. È l’incontro con Cristina Trivulzio di Belgiojoso a dare una svolta alla vita del bel disertore squattrinato. L’aristocratica milanese gli apre le porte del suo famoso sa- lotto, mettendolo in contatto con l’ambiente liberale della città. Molti gli esuli italiani radunati intorno a questa ardente patriota, nel cui palazzo si parla di politica, si cercano notizie e finanzia- menti per la causa, ma capita anche di incontrare Liszt e Chopin, George Sand e Alexandre Dumas. Spinto dagli amici, Giovanni si esibisce per la prima volta: è un dilettante, non ha mai studia- to canto ma ha una bella voce da tenore, calca la scena con una padronanza assoluta, come fosse nato sul palco. Convinto del suo talento naturale, il compositore tedesco Giacomo Meyerbeer lo spinge a entrare in conservatorio, e nel 1838 lo convince a esordi- re a teatro con Robert le diable. Passare da nobile ufficiale regio a cantante d’opera non è una scelta semplice, neppure per un rivoluzionario in miseria. Così Giovanni Matteo De Candia diventa Mario, nome d’arte scel- to per non disonorare (ulteriormente) la famiglia. E il successo arriva davvero. Gli applausi e le prime recensioni dei giornali pa- rigini danno il via a una carriera stupefacente, che lo porta sui maggiori palcoscenici europei, da Londra a Madrid a San Pietro- burgo, e poi anche in America, un po’ ovunque, sempre assieme alla celebre soprano Giulia Grisi, divenuta sua compagna nell’arte e madre delle sue tre figlie nella vita. Mario si afferma velocemen- te in campo internazionale, adorato dal pubblico e apprezzato dalla critica. Guadagna cifre favolose e così nel 1848 acquista Villa Salviati, a Firenze, dove si stabilisce insieme alla famiglia.

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Canta, Mario, ma non dimentica l’impegno politico. Fino al 1852 è in fitta corrispondenza con Mazzini, Garibaldi e altri patrioti, e grazie alla notevole libertà di movimento dovuta agli impegni di lavoro, svolge insieme a Giulia un’importante opera di collegamento fra i vari elementi dell’emigrazione democratica in Francia, Inghilterra, Italia. La coppia sostiene la causa nazionale anche mettendo a disposizione le varie residenze, quella di Pari- gi per Daniele Manin quando è in esilio, quella di Londra come quartier generale per Mazzini e il suo staff. Lo scrive Cecilia De Candia, figlia del tenore, ricordando in un libro «una scena stori- ca e commovente» prima della spedizione dei Mille, proprio nella casa londinese dei genitori, che sono tra i finanziatori dell’epica missione: «Fu là che i garibaldini d’Inghilterra s’incontrarono coi loro compagni italiani. Diverse centinaia di camicie rosse erano adunate sul prato e sotto i bellissimi alberi del giardino. Furono tenuti discorsi pieni di entusiasmo e cantati parecchi inni patriot- tici diretti da Mario e dalla Grisi, con tutto il vigore delle loro voci magnifiche». Come a Londra e Parigi, così a Firenze si ritrovano nel salot- to di Villa Salviati molti protagonisti del Risorgimento, gli artisti e i politici, fra cui Massimo d’Azeglio e Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, intraprendente nobildonna italiana che il cugino Camillo Cavour manda in missione a Parigi presso Napoleone iii, per perorare «con qualsiasi mezzo» l’alleanza franco-piemontese. Nel 1866 arriva in villa persino Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due mondi è accolto da un tripudio di gente festante, contadini e servitù, tutti a sventolare bandiere italiane e a cantare inni. Ma il generale non si trattiene: sta salendo al Nord, in Veneto, dove c’è ancora un pezzo d’Italia da liberare. Arriverà fino a Trento, ma lo faranno tornare indietro: «Obbedisco» si legge nelle cronache che certificano l’unità nazionale. Garibaldi lascia agli austriaci i territori già conquistati alla Bezzecca. In fondo va così, si chiama politica. Anche Mario negli anni si è distaccato dal programma mazziniano, finendo per accettare il ruolo egemone del Piemonte di Cavour nel processo dell’unificazione. Lontani i proclami della Giovine Italia repubblicana, che predicava l’educazione e l’insur- rezione per bande, e che lo aveva portato allo scontro col padre. Tempi remoti, inutile rimpiangerli. Anche perché – in un modo o nell’altro – l’Italia è fatta. Monarchica, conservatrice, clientelare. Ma unita.

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Nel 1873, a conclusione di una lunga tournée negli Stati Uni- ti e poco dopo la morte di Giulia, Mario De Candia si ritira defini- tivamente dalle scene, vende Villa Salviati e si trasferisce a Roma, neocapitale di quella patria per cui ha tanto lottato. Ma cedere il costoso immobile fiorentino, così carico di memorie felici, non è sufficiente a impedirgli di scivolare nell’indigenza: maneggiare denaro non è mai stato fra i punti di forza dell’ex tenore, che per sopravvivere sembra sia costretto a fare il suggeritore in un tea- tro, poi l’usciere in un museo. È il 1883. Idolatrato dal pubblico inglese e francese, stimato negli ambienti culturali europei, ami- co di Alessandro Manzoni e Honoré de Balzac, Giovanni Matteo De Candia si spegne a Roma in quasi povertà. È sconosciuto al pubblico italiano, perché in una lettera alla madre – proprio agli inizi della carriera – aveva giurato che non si sarebbe mai esibito in patria per non farla vergognare. E ha mantenuto la promessa.

In mano ai Turri, banchieri-imprenditori affamati di successo

1901, cambio di secolo: la ruota della storia di Villa Salviati fa an- cora un giro, atterrando nelle mani della famiglia Turri e aprendo uno squarcio sulla fame imprenditoriale di fine Ottocento. I Turri sono di origine trentina, il padre Giulio si trasferisce a Firenze verso la metà del secolo, portando con sé i figli bambini, Ci- priano e Ferdinando. Giulio è console dell’Impero austroungarico, ma si intende anche di commercio e fa una rapida carriera in so- cietà con Carlo Schmitz. Nel 1869 nasce la Schmitz & Turri, banca d’affari privata legata al banco Fenzi, fra i più importanti istituti di credito del Regno d’Italia. I Fenzi coltivano molteplici interessi, dal campo metallurgico a quello tessile e minerario, e la Schmitz & Tur- ri impara velocemente. Sono gli anni di Firenze capitale, gonfi di finanziamenti e opportunità. Sono gli anni delboom delle ferrovie, strumento principe per mutare la struttura economica del paese, incrementare i commerci, debellare l’arretratezza. E sono anche gli anni in cui si acquista a poco e si rivende a molto: si chiamano speculazioni e arricchiscono i più spregiudicati, attivi in ogni setto- re, dall’immobiliare al finanziario. È la vicinanza economico-poli- tica con i maggior esponenti della borghesia toscana, a proiettare­ rapidamente i Turri ai vertici dell’imprenditoria nazionale.

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La Schimtz & Turri ha nel portafoglio azioni e obbligazioni di banche e ferrovie, ma anche di fonderie e industrie del ferro. Quando deve investire nel manifatturiero, la società si volge verso la produzione metallurgica della montagna pistoiese: a Limestre il primogenito Cipriano fonda una fabbrica per la lavorazione del rame, mentre a Mammiano una ferriera riconvertita dai Turri di- venta in pochi anni la quarta azienda italiana, con importazioni di rame grezzo dal Cile e dalla Spagna e con quasi trecento operai ai torni. Per curare gli interessi dell’impresa, Ferdinando si stabi- lisce a Limestre, Cipriano sceglie di rimanere in centro, si fa una casa in via Tornabuoni a Firenze, si sposa con Elisa Magrini e nel 1878 nasce Luigi Giulio. Intanto ai profitti della lavorazione del rame si aggiungono quelli dell’attività estrattiva nelle colline metallifere intorno a Mas- sa Marittima. I Turri sono portatori di modalità innovative nella fusione del rame come nell’utilizzo dell’energia elettrica. Il punto cruciale è però l’audacia degli impieghi finanziari, in un contesto in cui l’attività imprenditoriale ha bisogno di nuovi capitali, che invece scarseggiano. È ancora una fase in cui – soprattutto in To- scana – mercato dei beni e mercato finanziario si confondono, essendo nelle mani delle stesse persone: quei mercanti-banchieri i cui istituti producono gli stessi strumenti monetari poi utilizza- ti a sostegno delle proprie iniziative imprenditoriali. È una sorta di corto circuito. Purtroppo nella seconda metà dell’Ottocento il mercato finanziario comincia a impegnarsi nella moltiplicazione di titoli azionari – dalle miniere alle ferrovie – più per scopi spe- culativi che per effettiva resa a lungo termine degli investimenti. La rapida fluttuazione può consentire grossi guadagni, ma anche ingenti perdite. «Con il loro modo di fare impresa – scrive Simone Fagioli, lo studioso che dei Turri ritrova e indaga l’archivio familiare – traghettano queste zone da modelli obsoleti alla spregiudicatez- za capitalistica del xx secolo». E tuttavia, da pionieri quali sono, anche i Turri vengono travolti dal sistema che hanno contribuito a creare, finendo per pagarne il prezzo con la vendita forzata del- le imprese. Nel 1899, di fronte alla prospettiva del fallimento, la famiglia cede gli impianti di Limestre e Mammiano per 600.000 lire alla Società Metallurgica Italiana (smi), azienda al primo po- sto assoluto per la lavorazione del rame. I maggiori azionisti del gruppo sono gli Orlando, che da quel momento diventano pro-

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tagonisti dello sviluppo della montagna pistoiese, creando anche lo stabilimento industriale di Campo Tizzoro, fra i più importanti d’Italia per la produzione di cartucce. La famiglia Turri rimane proprietaria di ventitré poderi nella valle del Limestre, venduti sempre agli Orlando quaranta anni più tardi per 1.300.000 lire. Nel 1900, anche a causa del colpo subito con la perdita del- le imprese di famiglia, il capostipite Giulio muore. L’anno suc- cessivo, grazie ai proventi incassati, il figlio Cipriano e il nipote Luigi Giulio acquistano Villa Salviati, dove si trasferiscono e dove qualche anno più tardi anche Cipriano si spegne. È nella storica dimora che il giovane erede Turri trascorre la giovinezza, laurean­ dosi a Firenze in Scienze sociali. È qui che nascono i suoi due figli – Cipriano Junior ed Edward Henry – avuti con Mary Everett, pri- mogenita del magnate statunitense del vetro Edward H. Everett, conosciuta mentre si sta specializzando in legge alla George Wash- ington University. È un colpo di fulmine, i due si sposano sul lago di Ginevra, nella residenza europea degli Everett. Nonostante una vita spesa fra Svizzera e Stati Uniti, Mary e Luigi Giulio tornano spesso a Villa Salviati: i figli, invece, vengono presto indirizzati all’estero per gli studi, anche perché sono gli anni del regime e in Italia tira aria di mobilitazione. E infatti è a questo punto della storia che irrompe la Seconda guerra mondiale.

Quel rifugio di capolavori e uomini in fuga dalla guerra

«Imballare ed evacuare le opere d’arte»: sono le parole d’ordine delle Sovrintendenze di tutta Italia allo scoppio delle ostilità. I piani sono pronti da tempo, e a partire dal giugno del 1940 il paese si getta in una concitata opera di salvataggio dei tesori di chiese e musei. A Firenze l’operazione è coordinata dal sovrin- tendente Giovanni Poggi. Le direttive sono semplici: ciò che non può essere rimosso va protetto sul posto, e dunque dalla al David di Michelangelo, dalle statue di Orsanmiche- le agli affreschi delle chiese, tutto è accuratamente tamponato, murato, coperto di sacchi di sabbia e sostenuto da impalcature di legname. Ciò che invece può essere trasportato finisce impacchettato e allontanato dalle principali vie di comunicazione e dai centri abi-

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tati, in particolare se industriali, ferroviari o di interesse bellico. Ma il patrimonio toscano è immenso, impossibile traslocare intere collezioni. Certi musei – tipo gli Uffizi – vanno smembrati e portati via a pezzi: che cosa salvare per primo? Si decide di procedere per gerarchie di valore, iniziando da ciò che è più prezioso. E si finisce con un’affannosa operazione tesa a preservare tutto il possibile. Poggi lavora freneticamente insieme ai funzionari, fra cui Ce­sare Fasola e Ugo Procacci. È una gigantesca operazione cui partecipano dipendenti della Sovrintendenza a tutti i livelli, uo- mini di cultura, partigiani e parroci; tutti disposti a mettere a re- pentaglio la propria vita per proteggere il patrimonio dalla razzia o dalla distruzione. Poggi e gli altri riescono ad allontanare da Firenze centosettantaquattro convogli con a bordo oltre quattro- mila opere, imbarcate su camion e costrette a pericolosi viaggi su strade accidentate. Accumulati in gran parte a Poggio a Caiano nell’ottobre del 1942, dipinti e sculture sono poi divisi in gruppi più piccoli, e diretti verso ville e castelli del contado, dove si pensa siano mag- giormente al sicuro sia dai bombardamenti alleati che dalle razzie naziste. Nello sforzo di aumentare le possibilità di salvezza, altri siti vengono selezionati, e alla fine il patrimonio fiorentino risulta disseminato fra il monastero di Camaldoli e l’Oratorio di Sant’O- nofrio a Dicomano, fra la Villa Bocci-Soci a Bibbiena e il castello dei conti Guidi a Poppi, fra il palazzo dei Vicari di Scarperia e le ville della Val di Pesa (Montegufoni, Montagnana, Poppiano e Oliveto). Nell’eventualità d’un attacco aereo i luoghi prescelti per accogliere il patrimonio devono essere costruzioni massicce, prive per quanto possibile di umidità, provviste d’acqua in caso di incendio, e non troppo lontane da un centro abitato per impedire l’isolamento che favorirebbe i malintenzionati. Sembra l’identikit di Villa Salviati. E infatti anche la dimora dei Turri viene selezionata per rice- vere e proteggere 889 dipinti: si tratta delle immagini della “Serie gioviana” e degli autoritratti del corridoio Vasariano, due collezio- ni storiche di straordinaria importanza. Nella prima si raccolgono i duplicati delle “figurine” di Paolo Giovio, le centinaia di ritratti di letterati, condottieri, pittori, che il celebre umanista accumula nella sua villa sul lago di Como, e che Cosimo i de Medici fa lette- ralmente copiare per decorare Palazzo Vecchio. È una spettacola- re ricostruzione dell’ingegno umano, una sfilata di santi, poeti e

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navigatori, destinata a inserirsi nell’omaggio al creato che il duca di Firenze realizza nella sala dei Mappamondi, dove fa rappresen- tare le terre emerse, le costellazioni, la flora e fauna, i busti dei regnanti e – appunto – i ritratti degli “uomini illustri” del pianeta. Nei camion in arrivo a Villa Salviati c’è anche la più nota e prestigiosa collezione al mondo di autoritratti, quella esposta per molti anni nel corridoio Vasariano. Iniziata dal cardinale Leo­ poldo de Medici a metà del Seicento, la raccolta vanta nel 1944 circa settecento pezzi principali, fra cui i lavori di Rembrandt e Rubens, van Dyck e Velázquez, Tintoretto e Raffaello, Bernini e Luca Giordano. C’è anche l’autoritratto di Andrea del Sarto, fra i più antichi. Sono pittori che a partire da fine Quattrocento non si collocano più ai margini dei dipinti, che non occhieggiano allo spettatore nascosti lateralmente tra la folla, ma che scoprono il coraggio di volgere lo sguardo su se stessi, ritraendosi a mezzo busto. Da soli. Pronti a offrirsi al pubblico, ad affermare la propria dignità e a chiedere quel riconoscimento sociale ormai impossi- bile da negare. Sono artisti i cui autoritratti si trovano a cercare rifugio die- tro i possenti muri di Villa Salviati, ma che non sono soli: con l’avanzata del fronte si moltiplicano gli sfollati: a un certo punto arrivano quattrocento persone, che vengono sistemate alla meglio un po’ ovunque, nei cortili, nelle stanze, nei giardini del palazzo. Uno straordinario assembramento di esseri umani e di opere d’ar- te, pronte a vegliare le une sugli altri, unite in un unico destino di resistenza alla brutalità. Il comando tedesco in allarme non si fida della folla, e invia una pattuglia di soldati a tenere d’occhio i civili. Ma siamo già all’agosto del 1944, gli inglesi sono i primi ad affacciarsi al cancello della villa, liberando tutti, uomini e opere. Ritratti e autoritratti rientrano a casa, indenni. Non sarà così per migliaia di capolavori nascosti nelle altre dimore toscane, traspor- tati in Alto Adige dai nazisti in ritirata. Alcuni mai rintracciati. Da questo momento in poi, Villa Salviati sparisce dalle crona- che. Dopo la fine delle ostilità, solo pochissime persone riescono a entrare nei locali dell’immobile, trasformandolo in una delle residenze più riservate e impenetrabili delle colline fiorentine. Si sa che nel 1950 è visitata da Giulio Lensi Orlandi, l’ingegnere cui è affidata anche la ricostruzione della Loggia del Pesce di Vasari, in piazza dei Ciompi: alla prestigiosa dimora è dedicato un capito- lo del suo libro Le ville di Firenze di qua d’Arno. Ma questo avviene

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quando è ancora viva la dolce Mary Everett Turri, che proprio qui si spegne, nel 1961. Da allora in poi, una sorta di alone di mistero circonda la famiglia e la sua casa. Nemmeno Sir Harold Acton – nobile, letterato e figura di prestigio internazionale – rie­ sce ad accedere all’immobile, nel 1973, mentre è a Firenze per scrivere il suo Ville toscane. Ciò che si sa è che iniziano le trattative con i discendenti Turri per recuperare alla comunità questo pez- zo di patrimonio. L’operazione riesce nel 2000, quando il gover- no italiano acquista villa e giardini per ospitarvi gli archivi storici dell’Unione Europea. Ed è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a inaugurare nel 2009 questo prezioso serbatoio della nostra memoria comune.

Arrivano gli archivi, cuore della memoria europea

È un pezzo di Europa, e oggi è custodito a Villa Salviati. È la storia di chi siamo. Di quei confini abbattuti, quei diritti espugnati, della libera circolazione di popoli e beni ancorati alla stessa moneta. È la storia di un vero progetto rivoluzionario: fondere nemici storici per via politica, circoscrivere i nazionalismi, preservare democra- zia, pace e progresso grazie a un superiore interesse collettivo. Affidando quote crescenti di potere statale a un governo sovrana- zionale. Ma questo serbatoio di informazioni ci mette un po’ a venire alla luce: per oltre vent’anni l’idea di riunire i documenti della neonata Comunità Europea non si fa strada, le fonti rimangono segrete, e inizialmente ogni istituzione custodisce le proprie. Negli anni Settanta – quando la mole degli scritti aumenta – la comunità scientifica comincia a mostrare sempre più interesse allo studio della costruzione europea, e la pressione sulle istituzioni comuni- tarie aumenta. La spinta finale arriva dall’integrazione degli ingle- si – proprio loro – e dalla loro richiesta di trasparenza. Nel 1983 nasce l’Archivio storico: ma a quale paese, a quale città affidarlo? Grazie all’influenza di Giorgio La Pira, qualche anno prima Firenze è stata scelta come sede dell’Istituto Universitario Euro- peo: qui si fanno studi avanzati di scienze sociali, qui esiste un dottorato di Scienze politiche europee e Diritto comunitario. Di- venta naturale che il materiale con cui portare avanti quegli studi sia trasferito proprio a Firenze.

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Così, da Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo, approdano a Villa Salviati gli atti interni prodotti dalle origini da Commissione, Consiglio, Parlamento e ora anche Corte di Giustizia. Oggi – nelle stanze che hanno vissuto gli assalti antimedicei e le cospirazioni risorgimentali – si trovano sette chilometri di documenti, mezzo milione di faldoni, quarantamila foto, lettere, video e audio files. Una riserva pregiata per chiunque voglia studiare il processo di costruzione dell’Europa attraverso le radiografie della vita interna delle istituzioni. Uno schedario vivo, in continua crescita, aperto gratuitamente a tutti, con ottocento sessioni di ricerca all’anno in sala lettura e migliaia di fiorentini in visita nella giornata delle Porte Aperte, il giorno della festa dell’Europa, il 9 maggio. Tutti gli atti vengono conservati in moderne strutture per evitarne il deterioramento. Piccolo problema: ci vuole meno di un secolo per polverizzare un documento moderno. Gli scritti del Medioevo vivranno per sempre, ma la carta odierna è di scarsa qualità, e già oggi gli atti prodotti negli anni Quaranta sono quasi illeggibili. L’unica garanzia di sopravvivenza delle informazioni è legata al digitale, e così anche Villa Salviati sta affidando il proprio tesoro alla ciambella di salvataggio elettronica, pur conservando fino alla disintegrazione i documenti materiali esistenti. Ed eccoci dunque, nei sotterranei della Villa, in quella che era l’antica limonaia, testimone della trepidazione del duca di San Giuliano, dei propositi rivoluzionari di Mario De Candia, de- gli affanni della famiglia Turri. Qui ci sono i documenti origina- li. Qui è custodita la prima stampa (clandestina) del Manifesto di Ventotene, che racconta l’avvio di un progetto unitario ideato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni mentre ancora sono prigionieri del governo fascista, nel 1943. Accanto, c’è la copia privata di Alcide De Gasperi del trat- tato di Parigi, che narra la fine della Seconda guerra mondiale: lo statista è capodelegazione per l’Italia, e la vetrina protegge la preziosa bozza di pace, con appunti di sua mano. E ancora, ecco le carte preparatorie e le prime minute dei trattati; ecco l’Atto Unico del presidente Delors (il francese amato in Europa e inviso in Francia), ma anche le frecciatine scritte da Giulio Andreotti su Margaret Thatcher. I documenti vengono resi pubblici solo dopo trent’anni: è questo il tempo ritenuto giusto per uscire dalla cro- naca ed entrare nella Storia. Trent’anni perché i faldoni lascino il luogo di origine, e il magma narrante l’integrazione europea

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affiori in superficie, facendosi raccogliere a Villa Salviati in cor- ridoi carichi di armadi che custodiscono i retroscena, i progetti realizzati, le ambizioni naufragate. Tracciata nelle carte c’è una storia che tutti ci contiene, tutti ci riguarda, una storia refrattaria a ogni prospettiva semplificatri- ce: il progetto europeo di unità nella diversità. Parte dagli Stati Uniti d’Europa immaginati a Ventotene, pas- sa alla graduale abdicazione di sovranità degli Stati per condivide- re carbone e acciaio, ma si blocca davanti alla domanda se sia giu- sto riarmare il popolo tedesco dopo la Seconda guerra mondiale, integrandolo in un esercito europeo di difesa comune. Approvato dai Governi, il piano di una Comunità Europea di Difesa viene bocciato in prima istanza dal Parlamento francese, favorevole a mantenere il controllo di ogni Stato sul proprio esercito. Forze armate e governo sovranazionale dovevano essere le due facce di uno stesso progetto, ma le cose vanno in un’altra direzione: tolta di mezzo la difesa comune, anche la spinta verso l’integrazione politica si smarrisce. È difficile per gli Stati – e lo si vede ancor oggi – spogliarsi di quote crescenti di competenze, di potere. Eppure l’edificazione europea continua, ancorché abbarbicata all’impalcatura economica: una scelta miope di cui continuiamo a pagare il conto, e non soltanto in politica estera. L’Europa è fragile, talvolta si inceppa. Anche perché la con- ciliazione delle diversità costa tempo e fatica. Dopo aver aperto le frontiere interne, questo territorio poroso diventa l’Europa dei popoli, dei diritti, delle minoranze. Delle regioni. Eppure, in aperta contraddizione con una storia di metamorfosi millenarie, oggi i veri artefici del contorsionismo europeo – gli Stati mem- bri – sembrano sordi al grido di chi chiede di entrare a rischio del- la vita: migranti che vedono in un sistema condiviso di tutela delle persone la ciambella contro gli abusi del potere, l’infamia delle guerre (telecomandate), l’inedia delle economie saccheggiate o lo sconquasso ambientale. Più coraggio ci vorrebbe verso coloro che – rivendicando proprio i valori fondanti il disegno europeo – non smettono di bussare al ponte levatoio della fortezza. Al cui in- terno, nel frattempo, lo sforzo di mediazione continua. L’Unione rimane a tutt’oggi il progetto politico più avanzato, pur se incom- piuto. L’argine più profondo contro il nazionalismo suicida che ha avvelenato il Novecento, e che non sembra voler tramontare, piuttosto il contrario.

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 404 10/05/21 14:51 VILLA SALVIATI 405

Ma i faldoni di Villa Salviati raccontano molto di più. C’è anche l’Europa culturale, una e molteplice, aperta e plurale, po- licentrica, che resiste alle barriere di ventiquattro lingue diverse, che guarda a Platone e a Leonardo da Vinci, a Isaac Newton e a Erasmo da Rotterdam. Un’Europa che ha rinunciato a essere il centro del mondo, ed è conscia di quanto la molteplicità di radici abbia portato conflitti ma anche scambi, generato dialogo insie- me a opposizione, barbarie ma anche una civiltà feconda, in cui Shakespeare si ispira alle novelle di Boccaccio, e Goethe modella il suo Faust su quello di Christopher Marlowe (e poi lo fa sedurre da Elena di Troia). Che straordinario crogiolo, quello europeo, capace di mettere in discussione credenze, valori, modelli cultu- rali, pur fra contrasti profondi. E poi c’è l’Europa dei diritti, nella cui costruzione la Corte di Giustizia basata in Lussemburgo gioca un ruolo importante, an- che se certo non è l’unica. Nel 2015 per la prima volta è stato aper- to al pubblico il suo archivio, e Villa Salviati si è ritrovata invasa da ricercatori che finalmente potevano studiare la giurisprudenza europea. Oggi sono centinaia gli esperti di tutte le nazioni in visita sui colli fiorentini, per capire come siamo arrivati a un sistema giuridico in cui anche i cittadini possono denunciare gli Stati (o le istituzioni comunitarie), se ritengono che le proprie prerogative siano state violate o non garantite. Un sistema collettivo di tutela degli individui senza pari al mondo, in cui i diritti non sono con- cessi bensì riconosciuti, e la loro protezione va oltre il potere dei singoli Stati sovrani. È questa la storia dell’Europa, dell’imperfetta Europa di oggi: costruita nei millenni, conquistata nel secolo scorso, con- servata a Villa Salviati, sui colli fiorentini. Là dove si intrecciano schegge di ogni epoca, e un castello medievale si fa trasformare dagli ideali della Rivoluzione francese, dalle spinte risorgimentali, dalla resistenza all’aggressione nazista. Là dove una roccaforte, nata per difendere, si plasma nei secoli per accogliere. Finendo per incarnare la riscoperta dell’humanitas e l’apertura sui popoli, che del Rinascimento – come della costruzione europea – riman- gono la più grande lezione.

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 405 10/05/21 14:51 cavini_firenze_6maggioDEF.indd 406 10/05/21 14:51 Ringraziamenti

Per prima cosa, la mia gratitudine a Tomaso Montanari: sono stati i suoi libri a offrire un camino al mio vulcano. Un grazie col punto esclamativo a Paolo Ermini, già direttore del «Corriere Fiorentino», che ha avuto fiducia nelle mie storie di patrimonio. Lorella Romagnoli, caporedattrice cultura: lavorare con te spinge a dare sempre il meglio. La mia infinita riconoscenza a Monica Bietti, storica dell’arte, che mi ha incoraggiato e sostenuto fin dalla nostra prima intervista, diventando un’amica. Questo testo le deve molto. Per il supporto ricevuto vorrei menzionare Costanza Caraffa, Donatella Lippi, Mariangela Molinari e Lorenzo Rook. Vorrei dire a Eugenio Giani che non mi sono persa neppure una delle sue chiac- chierate su La storia di Firenze, e a Elena Capretti che il corso Le due Repubbliche è riuscito a portarmi nella Firenze in bilico fra Quattro e Cinquecento. Un ringraziamento per il tempo che hanno speso rispondendo alle mie infinite domande (nei ruoli qui indicati): Cristina Acidini, storica dell’arte, presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno; Paola Angelini, divulgatrice; Stefano Baldassarri, direttore dell’Inter- national Studies Institute (isi); Monica Bietti, responsabile delle Cap- pelle Medicee, di Casa Martelli e del complesso Laurenziano; Fran- cesca Bigoni, operatrice e studiosa a Palazzo Nonfinito; Benedetta Bonfigli, storica dell’arte; Elena Capretti, storica dell’arte, studiosa di arte fiorentina del Quattro e Cinquecento; Costanza Caraffa, di- rettrice della fototeca del Kunsthistorisches Institut, Firenze; Carlotta Cianferoni, funzionaria della Sovrintendenza; Elisabetta Cioppi cura- trice del Museo di Scienze Naturali, sezione Geologia e Paleontolo- gia; Claudio Di Benedetto, coordinatore della Divisione, Collezioni e Servizi delle Gallerie degli Uffizi; Stefano Dominici, curatore del Museo di Scienze Naturali, sezione Geologia e Paleontologia; Piero Gensini, artista; Mario Iozzo, direttore del Museo Archeologico; Do-

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 407 10/05/21 14:51 408 RINGRAZIAMENTI

natella Lippi, presidente della Fondazione Scienza e Tecnica; Paolo Luzzi, responsabile del Giardino dei Semplici; Renzo Macii, Osser- vatorio Ximeniano; Francesco Martelli, vicedirettore dell’Archivio di Stato di Firenze; Cristina Gnoni Mavarelli, direttrice del Cenacolo di San Salvi; Marco Mozzo, direttore del Cenacolo del Fuligno; Elisabet- ta Nardinocchi, direttrice del Museo Horne; Antonio Natali, storico dell’arte, già direttore degli Uffizi di Firenze; Beniamino Peruzzi Ca- stellani, Phd Transnational Governance, Scuola Normale Superiore di Pisa; Gioselia Pisano, addetta stampa Educandato Santissima An- nunziata; Giovanni Pratesi, direttore del Museo di Storia Naturale; Rosanna Caterina Proto Pisani, storica dell’arte, già direttrice del Museo di Palazzo Davanzati, del Chiostro dello Scalzo, del Cenacolo di Sant’Apollonia e del Cenacolo del Fuligno; Costanza Riva, ricerca- trice; don Gianfranco Rolfi, parroco di San Felice; Dieter Schlenker, direttore degli Archivi storici di Villa Salviati; Salvatore Settis, storico dell’arte, già direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa. Infine, grazie per i tuo consigli a te Dani Banchi, amica di una vita. E a te, Lorenzo Guadagnucci, che ancora non sei stanco di ve- gliare sui miei pensieri.

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 408 10/05/21 14:51 Nota bibliografica

Giorgio Vasari, Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Giunti, 1568 Michel de Montaigne, Journal de voyage en Italie, Paris, Le Jay, 1774 Luigi Lanzi, Storia pittorica della Italia dell’Abate Luigi Lanzi antiquario della R. corte di Toscana. Tomo primo, ove si descrivono le scuole della Italia inferiore, la fiorentina, la senese, la romana e la napolitana, Ve- nezia, Remondini, 1796 Il fiorentino istruito nelle cose della sua patria. Calendario per l’anno bisestile 1844, Firenze, Fabbrini, 1844 Caesarius di Heisterbach, Dialogus miraculorum, ed. J. Stange, Colonia 1851 Cesare da Prato, Firenze ai Demidoff: Pratolino e S. Donato, Firenze, Tipo- grafia della Pia Casa di Patronato, 1887 Guido Carocci, Firenze scomparsa, Firenze, Galletti e Cocci, 1897 George Frederick Young, I Medici. Luci e ombre della dinastia medicea sullo sfondo di quattro secoli di storia fiorentina, Milano, Adriano Sa- lani Editore, 1934 Gaetano Pieraccini, La stirpe dei Medici di Cafaggiolo, Firenze, Vallec- chi, 1947 Piero Bargellini, La splendida storia di Firenze, Firenze, Vallecchi, 1964 Elena Dini, Cento anni di vita al Poggio Imperiale 1865-1965, Siena, Ga- spero Barbera Editore, 1965 Eugenio M. Casalini, La SS. Annunziata di Firenze. Studi e documenti sulla chiesa e il convento, Firenze, osm, 1971 Robert Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze, Sansoni, 1972-1973, 8 voll. Giovanni Fanelli, Firenze architettura e città, Firenze, Vallecchi, 1973 Osanna Fantozzi Micali, Piero Roselli, Le soppressioni dei conventi a Fi- renze. Fiuso e trasformazioni dal sec. XVIII in poi, Firenze, lef, 1980 Marcello Vannucci, I Medici, una famiglia al potere, Roma, Newton Compton, 1989

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 409 10/05/21 14:51 410 NOTA BIBLIOGRAFICA

Francesca Petrucci, Santissima Annunziata, Roma, Fratelli Palombi Editori, 1992 La tradizione fiorentina dei cenacoli, a cura di Cristina Acidini Luchinat e Rosanna Caterina Proto Pisani, Firenze, Cassa di Risparmio di Firenze, 1997 Ovidio Guaita, Le ville di Firenze, Roma, Newton & Compton Editori, 1996 Anna Benvenuti, Il sovramondo delle Arti fiorentine. Tra i santi delle Corpo- razioni, in Arti fiorentine, la grande storia dell’artigianato, i. Il Medio- evo, Firenze, 1998, pp. 103-128 Paolo Nanni, I Targioni Tozzetti e l’orto agrario sperimentale dei Georgofili, in «Rivista di Storia dell’Agricoltura», a. xlvi, n. 2, dicembre 2006 Bruno Nardini, Michelangelo. Biografia di un genio, Firenze, Giunti, 2000 Oratorio di San Sebastiano detto dei Bini. Progetto per un museo parrocchiale nell’Oltrarno, a cura di Monica Pedone, Firenze, Centro Di, 2002 Totaro Giuseppina, Antonio Magliabechi e i libri, in Bibliothecae selectae, da Cusano a Leopardi, Firenze, Olschki, 1993 Filippo Tuena, La passione dell’error mio. Il carteggio di Michelangelo. Let- tere scelte 1532-1564, Roma, Fazi Editore, 2002 L’arte nelle chiese di Firenze, a cura di Antonio Paolucci, Firenze, Scala - Cinisello Balsamo, Silvana editoriale, 2003 Firenze città spedaliera. L’assistenza sul territorio fiorentino, a cura di D. Tombaccini, D. Lippi, F. Lelli, C. Rossi, Firenze, Firenze Univer- sity press, 2004 Antonio Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta, Bari-Roma, Later- za, 2005 La principessa saggia. L’eredità di Anna Maria Luisa de’ Medici, elettrice palatina, a cura di Stefano Casciu, catalogo della mostra (Firen- ze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, 22 dicembre 2006 - 15 aprile 2007), Livorno, Sillabe, 2006 Tim Parks, La fortuna dei Medici. Finanza, teologia e arte nella Firenze del Quattrocento, Milano, Mondadori, 2006 Cristina Borgioli, Emanuele Pellegrini, Analisi della politica della Re- gione Toscana in materia di sistemi museali, http://sistemimuseali. sns.it/ 2006 Donatella Lippi, Illacrimate sepolture. Curiosità e ricerca scientifica nel- la storia delle riesumazioni dei medici, Firenze, Firenze University Press, 2006

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 410 10/05/21 14:51 NOTA BIBLIOGRAFICA 411

Il Fondo Turri. industria ed imprenditoria sulla Montagna Pistoiese nella se- conda metà dell’Ottocento, a cura di Simone Fagioli, Pistoia, Etruria Editrice, 2007 Le stanze della scienza. Le collezioni dell’Istituto Tecnico Toscano a Firenze, a cura di Anna Giatti, Stefania Lotti, Firenze, Artigraf, 2006 Mario Cicerone, Angiolino Lorini, Baccinello, il borgo minerario dell’O- minide. Storia, memoria e cronaca, Grosseto, Edizioni Effegi, 2008 Francesca Fantappiè, Accademie teatrali fiorentine nel quartiere di Santa Croce tra Sei e Settecento: tra attori dilettanti, gioco d’azzardo e primi tentativi impresariali, in «Annali di Storia di Firenze», iii, 2008 Rosanna Caterina Protopisani, Il Cenacolo di “Fuligno” a Firenze, Livor- no, Sillabe, 2009 Il Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze. Vol. i, Le collezioni della Specola, a cura di Giuli Barsanti, Guido Chelazzi, Firenze, Firenze University Press, 2009 Attilio Brilli, Il viaggio della capitale: Torino, Firenze e Roma dopo l’unità d’Italia, Torino, utet, 2010 Luciano Di Fazio, Paolo Luzzi, La collezione dei “Semplici” nell’Orto agra- rio di Firenze del xix secolo, in «Museologia Scientifica» n.s., 4 (1-2), 2010 Ville e giardini nei dintorni di Firenze, da Fiesole ad Artimino. Guida alla visita, a cura di Stefano Casciu, Mariachiara Pozzana, Firenze, Edizioni Polistampa, 2010 Figli d’Italia (1861-1911). Gli Innocenti e la nascita di un progetto nazionale per l’infanzia, a cura di Stefano Filipponi, Eleonora Mazzocchi, Lucia Sandri, catalogo della mostra (Firenze, Museo degli In- nocenti, 3 dicembre 2011 - 3 giugno 2012), Firenze, Alinari 24 Ore, 2011 Giovanna Cellai, Paolo Luzzi, Giovanni Targioni Tozzetti, custode del “Giardino dei Semplici”: una mente illuminata tra tradizione e in- novazione, Atti della pubblica adunanza in occasione del terzo centenario della nascita di Giovanni Targioni Tozzetti (Firen- ze, Accademia dei Georgofili, 27 novembre 2012), in «Atti dei Geor­gofili», 2012 Paolo Dal Poggetto, Michelangelo. La “stanza segreta”. I disegni murali nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo, Firenze, Giunti, 2012 Gianfranco Gambassini, Teresa. La forza della fragilità femminile, Trieste, Italo Svevo, 2012 Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane, Roma, Minimum Fax, 2013

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 411 10/05/21 14:51 412 NOTA BIBLIOGRAFICA

Costanza Riva, Pratolino. Il sogno alchemico di Francesco i de’ Medici. Miti, simboli e allegorie, Livorno, Sillabe, 2013 Il Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze. Vol. v, Le collezioni antropologiche ed etnologiche, a cura di Jacopo Moggi Cec- chi e Roscoe Stanyon, Firenze, Firenze University Press, 2014 Emanuela Ferretti, Cosimo i, la magnificenza dell’acqua e la celebrazione del potere: la nuova capitale dello Stato territoriale fra architettura, città e infrastrutture, in «Annali di storia di Firenze», vol. 9, 2014 Tomaso Montanari, Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, Roma, Minimum Fax, 2014 Il restauro del dipinto di Niccolò di Pietro Gerini. Deposizione e Resurrezione di Gesù Cristo, a cura di Maria Sframeli, Firenze, Polistampa, 2015 Museo di Casa Martelli. Guida, a cura di Monica Bietti e Maurizio Zec- chini, Firenze, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, 2015 Alessia Cecconi, Resistere per l’arte. Guerra e patrimonio artistico in Tosca- na, Firenze, Edizioni Medicea Firenze, 2015 Firenze capitale 1865-2015. I doni e le collezioni del re, a cura di Simo- nella Condemi, catalogo della mostra (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, 19 novembre 2015 - 3 aprile 2016), Livorno, Sillabe, 2015 Umberto Dorini, I Medici. Storia di una famiglia, Bologna, Odoya, 2015 Alessio Caporali, Bernardo Bini, un banchiere fiorentino alla corte di Leo- ne x: architettura e commissioni artistiche fra Roma e Firenze nel primo Cinquecento, tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2017 Vittorio Parlato, Pietro Leopoldo: un principe riformatore, in «Studi Urbi- nati di Scienze giuridiche, politiche ed economiche», vol. 67, n. 3-4, 2016 Giovanna Da Molin, Per una storia dell’infanzia abbandonata in età mo- derna: i messaggi dell’abbandono, in «Itinerari di ricerca storica», xxx, n. 2, 2016 Firenze prima di Arnolfo: retroterra di grandezza, a cura di Timothy Ver- don, Atti del ciclo di conferenze (Firenze, 14 gennaio 2014 - 24 marzo 2015), Firenze, Mandragora, 2016 Angela Manganaro, A Firenze la ricchezza in mano alle stesse famiglie da sei secoli, in «Il Sole 24 ore», 20 maggio 2016 Alessandro Fani, I fantasmi del fiume: le gualchiere di Remole, spettacolo di archeologia narrante, Estate fiorentina, Firenze, Cooperativa Archeologia, 2017

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 412 10/05/21 14:51 NOTA BIBLIOGRAFICA 413

Arte e fotografie negli archivi di Giorgio Castelfranco e Rodolfo Siviero, a cura di Elisabetta Accorsi, catalogo della mostra (Firenze, Museo Casa Siviero, 21 gennaio - 28 febbraio 2017), Firenze, Giunta Regionale Toscana, 2017 Monica Bietti, Filippo Lippi, i Martelli e l’Annunciazione per la basilica di San Lorenzo a Firenze, in Intorno all’Annunciazione Martelli di Filippo Lippi. Riflessioni dopo il restauro, Atti della giornata di studi (Firen- ze, Museo di Casa Martelli, 26 maggio 2017), Firenze, Mandra- gora, 2018 Laura Mesotten, Villa Salviati, Firenze, European University Institute, 2019 Giulia Sestili, Le Ville di Anton Francesco Doni: tra letteratura e pratica ar- tistica, in «bta - Bollettino telematico dell’Arte», 4 giugno 2019, n. 869 Luigi Antaloni, Scienza versus religione, in «Rivista Missioni Consolata», 1 marzo 2020

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 413 10/05/21 14:51 414 MAPPA DELLA CITTÀ SANTA V.

F o r t e z z a da Basso VIALE SPARTACO ZZI ALE STRO VI PIAZZA V I AZANOBI X X V I I A P R I L E VIA GUELFA. VIA FAENZAINDIPENDENZA 5 7 VIA S PIAZZA MERCATO PIAZZA V I A D della E L L A 11 S C A L A STAZIONE PIAZZA VIA CAVOUR V. 18 MADONNA ZANNETTI O s p e d a l e Santa Maria GO SAN .GO 24 B LORENZO o VI r Nuova A e P PIAZZA t A s L i A . t ZZ S MARIA NOVELLA t OLO . a PIAZZA B

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DEI CALZAIUOLI DEI l

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P VIGNA V.della PIAZZA V. PORTA ROSSASIGNORIAdella B i ORG l O g SS. e BORGO S A i PO d . STO LI z FREDIANO a i r

e f l l 17 DE’ U . a NERI

G

V P. VECCHIOA rCASTELLANI VIA D n o PIAZZA ELLA VIA S. SPIRITO CO DEI PIAZZA STA S. BAR VIA DE’ SERRAGNI DE’ VIA G i a r d i n o GI DI 2 dei ORGIO 13 PITTI di Boboli V. ROMANA19 1. Le gualchiere di Remole 2. L’Oratorio di San Sebastiano dei Bini 3. San Carlo dei Lombardi 4. Il Museo dell’Istituto degli Innocenti 5. Il Cenacolo di Sant’Apollonia 6. Palazzo Rucellai 7. Il Cenacolo del Fuligno 8. Il Chiostro dello Scalzo 9. I luoghi della Santissima Annunziata 10. Il Cenacolo di San Salvi 11. Cappelle Medicee: la Sacrestia Nuova 12. L’Orto botanico 13. La villa di Poggio Imperiale

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 414 10/05/21 14:51 I ST TI AR I GL DE MAPPA DELLA CITTÀ A 415 VI Misericordia V I A L E M A T T E O T T I 15 25 Antica cerchia muraria abbattuta nel 1870 durante il “Risanamento” 8 V I A M I C H E L I

VIA CAVOUR 12 G i a r d i n o PIAZZA della SAN MARCO V I AGhe rard Gesca I UPIAZZALE S E P P E G I U S T I V.BATT 9 DONATELLO ISTI V.LAURA 22 V PIAZZA IA SS.ANNUNZIATA 4 G 16 RA 23 RVI V.DEG MS SE LI ALFANI PIAZZA CI DEI O s p e d a l e D’AZEGLIO A V. BORGO PINTI AI V.BUFALINISanta Maria V.D ON Nuova EI TT PILASTRIMA 10 . DELLA PERGOLA A V V LL IA DELL’ORIU E OLO D BORGO DEGLI ALBIZIBORGO LA V.CROCE PIAZZA DE’ PEPI DE’ BECCARIA VIA DE’ PANDOLFINI V. V.D.VIGNAVECCHIAV I A G H I B E L L I N A BORGO D PIAZZA E’GRECISANTA CROCE TALIA 20 V.S.GIUSEPPE I VIADE’NERIB.GO S.CROCE V.DE’ M 14 ALCONTENTIIOVINE G L U N G A R N O D E L L E G R ALE Z I E V V. IA DEI BA A r n o RD GRAZIE . ALLE P o a I P r t San Niccolò V i l l a 1 e Giardino Bardini

14. Casa Vasari 15.1 Il parco e la villa di Pratolino 15.1 Il corridoio segreto del Museo Archeologico 17.1 La Biblioteca Magliabechiana degli Uffizi 18.1 L’Osservatorio Ximeniano 19.1 Il Museo di Storia Naturale 20.1 L’Archivio di Stato 21.1 Piazza della Repubblica (la demolizione del centro storico) 22.1 La Fondazione Scienza e Tecnica 23.1 Palazzo Grifoni Budini Gattai 24.1 Casa Martelli 25.1 Villa Salviati - - - Antica cerchia muraria abbattuta nel 1870 durante il “Risanamento”

cavini_firenze_6maggioDEF.indd 415 10/05/21 14:51 Stampato per conto di Neri Pozza Editore da Grafica veneta / Trebaseleghe (Padova) nel mese di maggio 2021

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