STORIA PITTORICA DELLA ITALIA

DAL RISORGIMENTO DELLE BELLE ARTI FIN PRESSO AL FINE DEL XVIII SECOLO

DELL’ABATE LUIGI LANZI ANTIQUARIO I. E. R. IN FIRENZE

EDIZIONE TERZA CORRETTA ED ACCRESCIUTA DALL’AUTORE

TOMO QUINTO OVE SI DESCRIVONO LE SCUOLE BOLOGNESE E FERRARESE, E QUELLA DI GENOVA E DEL PIEMONTE

BASSANO PRESSO GIUSEPPE REMONDINI E FIGLI M. DCCC. IX

[1] DELLA STORIA PITTORICA DELLA ITALIA SUPERIORE

LIBRO TERZO

SCUOLA BOLOGNESE

Abbiam osservato nel decorso di questa opera che la gloria del dipingere, non altrimenti che quella delle lettere e delle armi, è ita di luogo in luogo; e ovunque si è ferma ha perfezionata qualche parte della pittura meno intesa da' precedenti artefici o meno curata. Quando il secolo sestodecimo declinava all'occaso non vi era oggimai in natura o genere di bellezza, o aspetto di essa, che non fosse stato da qualche professor grande vagheggiato e ritratto; talché il dipintore, voless'egli o non volesse, mentre era imitatore della natura, dovea esserlo a un tempo de' miglior maestri, e il trovar nuovi stili dovea essere un temperare in questo o in quell'altro modo gli antichi. Adunque la sola via della imitazione era aperta per distinguersi all'umano ingegno; non sembrando poter disegnar figure più maestrevolmente di un Bonarruoti o di un Vinci, o di [2] aggraziarle meglio di Raffaello, o di colorirle più al vivo di Tiziano, o di muoverle più spiritosamente che il Tintoretto, o di ornarle più riccamente che Paolo, o di presentarle all'occhio in qualunque distanza e prospetto con più arte, con più rotondità, con più incantatrice forza di quel che già facesse il Coreggio. Questa via della imitazione batteva allora ogni scuola; ma veramente con poco metodo. Ognuna era pressoché serva del suo capo, né in altro sapea segnalarsi che in quella parte in ch'egli avea vinto tutti. Ma il segnalarsi in quella parte non era, presso que' settari, se non copiar le figure stesse riducendole a maniera più capricciosa e più spedita; o se non altro, adattandole fuor di luogo. I raffaelleschi in ogni quadro eccedevano nell'ideale, nella notomia i michelangioleschi; l'importuna vivacità e lo scorto importuno ricompariva in ogni più posata istoria de' Veneti e de' Lombardi. Vi furono alquanti, come abbiam notato in ogni luogo, che da' comuni pregiudizi, e quasi da una caligine che occupava l'Italia, ergessero il capo e studiassero ne' maestri di paesi diversi per corre il più bel fiore da ognuno: sopra tutti i Campi in Cremona dieder di questo metodo assai buoni esempi. Ma questi, disuguali fra loro di dottrina e di genio, divisi in più scuole, dissociati da privati interessi, usati a guidar gli allievi per la via sola ch'essi premevano, e oltre a ciò rinchiusi sempre fra' confini della provincia loro natia, non insegnarono alla Italia, o non propagarono almeno il metodo d'una vera e lodevole imitazione. Quest'onore era riserbato a , il cui fato fu det[3]to essere l'insegnare, come il governare fu detto essere il fato di Roma; e fu opera non di un'accademia, ma di una casa. La famiglia de' Caracci ricca in ingegni, unanime ne' voleri, volta a indagare i segreti piuttosto che gli stipendi della pittura, trovò la via dell'imitare; e questa divolgò prima per la vicina Romagna, indi la comunicò al rimanente d'Italia, che in breve tempo dall'un mare all'altro quasi da per tutto ne fu ripiena. La somma della loro dottrina fu che il pittore dividesse, per così dire, i suoi sguardi fra la natura e l'arte; e or questa, or quella vicendevolmente riguardasse; e secondo il natio talento e la propria sua disposizione, da questa e da quella scegliesse il meglio. Così quella scuola che fu ultima in fiorire, divenne prima in ammaestrare, e dopo avere appreso da tutte insegnò a tutte; e quella che non avea fino a quel tempo avuta forma o carattere da distinguersi fra le altre, produsse di poi tante quasi nuove maniere quanti erano i Caracci e gli allievi loro. Anela l'animo e la penna di giun