MOVIMENTO D’AZIONE «GIUSTIZIA E LIBERTÀ» di

GIOVANNI FERRO

LA PARABOLA DEL MOVIMENTO «GIUSTIZIA E LIBERTÀ»

Per i giovani destinati a vivere nella seconda Repubblica, potrebbe forse giovare la conoscenza di quella che fu la gloriosa parabola del Movimento «Giustizia e Libertà», concepito nell’intento di sostituire quei partiti popolari che avevano dimostrato, nei confronti del fascismo, tutta la loro inettitudine. Allo scopo di garantire un’area illimitata al Movimento, i promotori: , Fausto Nitti, Emilio Lusso  da poco a Parigi, dopo la loro rocambolesca fuga dall’isola di Lipari nel mese di luglio 1929  cui si erano uniti , Alberto Tarchiani, Gioacchino Dolci e Alberto Cianca  decisero di porre come condizione per l’adesione, la rinuncia al partito di provenienza, nella convinzione che tutte le vecchie formazioni politiche dovevano essere considerate superate. Il binomio «Giustizia Libertà» doveva diventare il denominatore comune di tutta l’attività antifascista, in grado di polarizzare tutto lo schieramento democratico, liberale e socialriformista esistente. Il rigorismo ideologico, seguito fino allora, per contraddistinguere le rispettive posizioni politiche, era stato la causa dell’attaccamento fanatico al proprio partito e, conseguentemente, dell’indebolimento del Fronte antifascista nel suo complesso. Avendo partecipato attivamente alla prima fase del Movimento in oggetto riferirò  qui di seguito  quella che fu la mia modesta esperienza di giovanissimo studente di scuole medie nella città di , capoluogo del Polesine, culla del Socialismo democratico. Terra di braccianti e di contadini che avevano ricevuto i primi elementi di civile convivenza dalla predicazione di due apostoli del Socialismo Italiano: Nicola Badaloni e . La pubblica amministrazione era stata affidata, per scelta democratica, ai 56 Sindaci socialisti della Provincia, istruiti con scrupolo religioso a redigere bilanci rigorosi e a scegliere le opere pubbliche giudicate necessarie a soddisfare i bisogni della collettività. Una fitta rete di Istituzioni popolari: cooperative di consumo e di produzione, Camere del Lavoro e Leghe contadine, Università popolari, affiancavano il Comune nell’opera di progressivo miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della Comunità agricola e cittadina. Questa situazione di avanzato incivilimento non cessò repentinamente con la repressione violenta esercitata dallo fascista, né con l’applicazione delle leggi eccezionali del 6 novembre 1926. Nella città e in tutti i Comuni agricoli si erano formati nel corso degli anni i partiti politici: quello socialista, quello popolare, quello repubblicano e un considerevole gruppo anarchico. Con la soppressione dei partiti, i rapporti politici si convertirono in rapporti amichevoli. Luoghi abituali d’incontro diventarono i caffè, le trattorie, le case private, secondo un rituale cospirativo adeguato ai vari ambienti, allo scopo di difendersi dall’organizzazione spionistica che faceva capo rispettivamente alla Polizia, alla Milizia e al Fascio locale. Ero allora un giovinetto di 16 anni che frequentava la scuola media. Mio professore d’italiano era l’ex Sindaco socialista di Rovigo, Antonio Zanella. Trascorrevo le vacanze estive in parte presso un parente popolare del Basso Polesine e in parte presso un altro parente capolega socialista di Bagnolo di Po, nell’alto Polesine, che raggiungevo in bicicletta passando per dov’è sepolto Giacomo Matteotti, il cui cimitero era costantemente sorvegliato da poliziotti travestiti da muratori al fine di poter individuare i visitatori che venivano numerosi a rendere omaggio al Martire dell’ideale socialista. Nei primi giorni dell’anno 1930, il giovane ingegnere di Porto Tolle, ma residente a Rovigo, Mario Zoppellari, già segretario di Giacomo Matteotti, animatore del movimento di

1 opposizione al fascismo in tutta la provincia, ricevette la visita dell’amico e compagno di Ciniselli, dottor Giuseppe Germani, emigrato politico a Vienna. Questi aveva dovuto espatriare per sottrarsi alle persecuzioni fasciste cui era stato sottoposto per aver portato a spalla la bara del grande amico assassinato. Io fui incaricato di trasmettere al suo recapito di Vienna una serie di indirizzi di persone politicamente raccomandabili dei vari Comuni della provincia. A seguito di ciò presero a circolare, in tutte le località del Polesine le prime copie di un giornaletto clandestino, confezionato con una sottile carta di riso, dal titolo suggestivo: «Giustizia e Libertà», che sulla testata riportava un invito rivolto a tutti gli italiani: «Insorgere per risorgere». La diffusione di questo foglio aprì i cuori alla speranza di una prossima caduta del regime fascista e alimentò prepotentemente lo spirito di lotta che non si era mai assopito. Nei caffè, nelle trattorie, quel giornale passava di mano in mano. Nelle campagne, le stalle intiepidite dalla presenza degli animali, erano i luoghi abituali di ritrovo serale per letture, recite e conversazioni. L’intraprendenza della nostra guida spirituale era senza limiti. Facendoci schermo della gagliardia, simpaticamente seguita dalla popolazione, furono organizzate manifestazioni di propaganda antifascista nei vari paesi sotto l’egida di bellissimi «Carri di Tespi» che offrivano spettacoli teatrali in dialetto col deliberato proposito di mettere alla berlina gli arricchiti di guerra e i nuovi gerarchi, provocando esplosioni di ilarità. Podestà, segretari del Fascio, i capi della Milizia fascista, erano i bersagli più ricercati dell’umorismo che generava innumerevoli barzellette corrosive, tarlo roditore d’ogni regime dittatoriale. I collegamenti fra i vari centri della Provincia e il servizio informazioni erano svolti in modo impareggiabile dagli studenti che si recavano alla mattina nelle Università vicine di Padova e Bologna, rientrando alla sera con le notizie del giorno. In occasione della festa delle Matricole del 1929 era presente a Padova il segretario nazionale del P.N.F., Augusto Turati, nella speranza di ottenere una manifestazione di omaggio da parte degli studenti. All’ora del mezzogiorno la cittadinanza che gremiva le strade, seguiva incuriosita lo svolgimento d’un lungo corteo funebre di studenti in abito di circostanza, desiderosa di conoscere il nome del povero defunto. Lo stesso segretario del P.N.F. manifestò, in modo accorato, la sua partecipazione al lutto studentesco. Dopo una lunga fase di «suspense» gli studenti esplosero a gran voce: «È il funerale della Libertà!»  L’11 febbraio 1929 era stato stipulato il Trattato del Laterano con il quale il Governo fascista riconosceva lo Stato del Vaticano cui offriva una cospicua assistenza finanziaria e garantiva al clero l’insegnamento religioso nelle scuole. La parte più progressiva del clero, gli stessi ex Popolari e i militanti della F.U.C.I. (Federazione Universitari Cattolici Italiani) manifestarono la loro opposizione a tale accordo che legittimava la dittatura fascista in antitesi col sentimento popolare. Tutto ciò fece sì che quando arrivarono, tramite posta, le prime copie del giornale clandestino «Giustizia e Libertà», queste trovarono gli animi di tutti gli antifascisti, «popolari» compresi, pronti ad accoglierlo con entusiasmo, perché interpretava il sentimento comune. Il 24 marzo furono operati decine di arresti di antifascisti a seguito della denuncia alla polizia dell’inevitabile Giuda per i soliti 30 denari. Alla vigilia della mia partenza per l’isola di Lipari, dov’ero stato destinato per trascorrere i 5 anni di confino politico assegnatimi, l’ispettore dell’OVRA, certo D’Andrea, mi sottopose ad un ultimo interrogatorio. Al momento del commiato si rivolse a me con aria bonaria, da vecchio nonno ad un nipote scapestrato dicendomi : «Se posso darle un consiglio, non aderisca mai al partito comunista perché  mentre noi consideriamo i democratici, i liberali, i repubblicani e i socialisti dei nemici di Governo, i comunisti li riteniamo nemici dello «Stato» e pertanto li combattiamo senza pietà». Quando arrivai nel carcere di transito di Ancona vidi affluire dalle più diverse località del Nord centinaia di antifascisti d’ogni colore politico, in prevalenza comunisti, perché i

2 democratici e i socialisti erano stati rilasciati o al massimo «ammoniti» per le ragioni espostemi dall’ispettore dell’O.V.R.A. citato più sopra. Potei tuttavia constatare dalle informazioni raccolte dagli arrestati provenienti da Trieste, Gorizia, Venezia, , Bologna e dalla Romagna, che il Movimento «Giustizia e Libertà» aveva già assunto proporzioni di massa. Seppi in seguito che il dottor Giuseppe Germani, avendo risieduto diverso tempo a Trieste, aveva adottato per quella località la stessa tecnica distributiva seguita nel Polesine e ciò spiegava l’estensione del Movimento all’intera regione delle Tre Venezie. Dopo un soggiorno di 10 giorni nel malfamato Ucciardone, gremito da mafiosi arrestati dal Prefetto Mori, potei proseguire per il castello di Milazzo, ultima tappa carceraria prima di poter raggiungere l’isola di Lipari. Feci qui conoscenza con il socialista riformista di Molinella, Paolo Fabbri. Egli scontava la pena di tre anni di reclusione per aver favorito la fuga di Rosselli, Nitti e Lussu. Era una meravigliosa figura di contadino socialista, già braccio destro del leggendario Sindaco di Molinella, all’epoca confinato nell’isola di Ustica. Raggiunta Lipari fui informato della nuova spettacolare impresa «Giustizia e Libertà»: il volo effettuato sulla piazza di Milano di Giovanni Bassanesi e Gioacchino Dolci, lo stesso che l’anno prima era venuto col motoscafo a liberare Rosselli, Nitti e Lussu. Una pioggia di manifesti inneggianti al movimento «Giustizia e Libertà» e sollecitanti gli italiani a «Insorgere per risorgere!» arrivarono dal cielo nell’ora di mezzogiorno dell’11 luglio 1930. Io in quel giorno soggiornavo nel carcere di Palermo. Nella Milano di quell’estate, la centrale operativa del Movimento «Giustizia e Libertà» diffondeva un opuscolo: «Consigli sulla tattica», redatto da Riccardo Bauer e da Ernesto Rossi. Esso conteneva il progetto di una serie di esplosioni contro le Intendenze di Finanza delle principali città da realizzare nella ricorrenza del 28 ottobre. Alla preparazione degli ordigni esplosivi si dedicava l’ingegnere chimico Umberto Ceva. Il Giuda di turno determinò l’arresto simultaneo di tutto lo Stato maggiore di «Giustizia e Libertà» il 30 ottobre 1930. Nella notte del 24 dicembre Umberto Ceva si suicidò nel carcere di Regina Coeli per timore di compromettere dei compagni. Nel marzo 1931 furono prosciolti per non provata corresponsabilità: Parri, Damiani e Gentili. Il 29 maggio 1931 il Tribunale Speciale presieduto dal gen. Tringali Casanova emetteva la seguente sentenza: Riccardo Bauer e Ernesto Rossi, 20 anni di reclusione, Vincenzo Calace di Bari, residente a Milano e Bernardino Roberto, 10 anni di reclusione, Francesco Fancello, Cesare Pintus del gruppo sardo, 10 anni di reclusione, il sergente aviatore Giordano Viezzoli, 6 anni. Tutta la stampa internazionale solidarizzò con gli eroici combattenti della libertà suscitando entusiasmi e propositi di imitarne le gesta. Un giovane professore belga, di parte socialista, Leon Moulin, decise di venire in Italia per cimentarsi a fianco dei militanti antifascisti italiani. Manifestò i suoi propositi a Giovanni Bassanesi che viveva in Belgio e questo gli procurò un baule a doppio fondo con materiale propagandistico. Cospiratore dilettante, in un ambiente a lui sconosciuto, fu presto arrestato coinvolgendo nel suo arresto gli esponenti del movimento «Giustizia e Libertà» che erano sfuggiti alla grande retata, che aveva portato in carcere lo Stato maggiore del movimento, alcuni mesi prima. Le nuove vittime furono l’avv. Vittorio Albasini Scrosati e lo studente Bruno Maffi che furono condannati dal Tribunale Speciale a 2 anni di reclusione. Un ampio resoconto di quel processo fu pubblicato dal Bollettino «Italia» redatto da a Parigi in virtù del fatto che, essendo imputato uno straniero, venne autorizzata la presenza della stampa estera. Verso la fine del 1931 Parri, assolto dal Tribunale Speciale, fu assegnato nuovamente al confino di polizia a Lipari, da dove era partito due anni prima. Malgrado fossi entrato da qualche mese nelle file del partito comunista, attratto soprattutto dalla sua organizzazione,

3 giudicata più idonea a dirigere la lotta per l’abbattimento della dittatura fascista, accolsi con entusiasmo il suo invito a frequentare la sua casa per trarne suggerimenti e consigli per approfondire la mia preparazione politica e culturale. Già militante del Movimento «Giustizia e Libertà» mi trovavo di fronte ad uno dei suoi più prestigiosi esponenti. Mi riceveva la gentile signora Ester, mentre il professore era intento a potare le rose nel giardino. Il fascino esercitato su di me, ancor giovanetto, per la sua personalità fu tale ch’egli rimase per sempre la mia stella polare. Con rammarico lo vidi ripartire nella primavera del 1932, destinato a Vallo di Lucania. L’amnistia concessa per il Decennale gli consentì di far ritorno a Milano dove, per intercessione del prof. Giorgio Mortara, suo collega nello Stato Maggiore dell’esercito durante la guerra ’15-’18, avrebbe assunto l’incarico di Capo dell’Ufficio Studi della Società Edison. Potrà sembrare incredibile, ma le isole di confino politico costituivano le più complete centrali d’informazione esistenti dell’attività antifascista che si svolgeva in Italia sotto la dittatura. I confinati politici provenivano da tutte le zone del Paese portando con sé i vari capitoli della vita nazionale. La corrispondenza con i familiari, e le loro visite saltuarie, consentivano l’aggiornamento periodico delle notizie omesse dalla stampa ufficiale. Essi ci informavano sul fascino esercitato sulla gente da alcune luminose personalità. I pugliesi ci illustravano ammirati la splendida figure del grande letterato Tommaso Fiore; i napoletani quella del filosofo di fama internazionale, , il quale suggeriva ai giovani di dedicarsi allo studio, pur dimenticando di sollecitarli all’azione. Anche l’illustre meridionalista avellinese, Guido Dorso era indicato fra i Maestri da seguire. In occasione del primo decennale della Marcia su Roma il Governo promulgò un decreto di amnistia, come atto di forza e di sereno dominio. Molti confinati furono liberati e l’isola di Lipari cessò di essere adibita a località di confino. Coloro che non furono considerati meritevoli del provvedimento di generosità  ed io ero fra questi  furono concentrati nelle isole di Ponza e di Ventotene. La prima delle due divenne la mia nuova residenza coatta. Nei primi mesi del 1933 potei assistere all’arrivo a Ponza di tre illustri esponenti del Movimento «Giustizia e Libertà». Dopo un periodo di confino nelle isole di Lampedusa e di Ustica e 5 anni di prigione trascorsi nel penitenziario di Alessandria, in compagnia di Riccardo Bauer, Armando Gavagnin e Tito Zaniboni, era destinato a Ponza Cencio Baldazzi, il leggendario Capopopolo romano, già comandante degli «». Max Salvadori, che Gaetano Salvemini aveva incaricato di organizzare il Movimento «Giustizia e Libertà» nell’Italia meridionale, dovendo lasciare Ginevra dove viveva col padre esiliato, per rientrare in Italia allo scopo dichiarato di adempiere il servizio militare. Il dottor Giuseppe Germani, lo stesso cui avevo spedito gli indirizzi polesani al suo recapito di Vienna. Egli aveva fatto ritorno in Italia per organizzare l’espatrio della famiglia Matteotti. Arrestato, per una missione secondaria, era stato coinvolto nel processo intentato dal Tribunale Speciale al terrorista Bovone di Genova, per giustificare di fronte all’opinione pubblica la condanna di 10 anni di reclusione, insostenibile se fosse stata dichiarata la vera causa del suo arresto. Ai primi di marzo del 1933 fui liberato per poter adempiere il servizio militare di leva. Nell’ottobre del 1934, dopo sei mesi di compagnia di disciplina fui esonerato. Emigrai a Milano dove mi era stato offerto un lavoro come operaio meccanico presso lo stabilimento Philips-Radio. Presi gli opportuni contatti con l’organizzazione clandestina del partito comunista e, rispettando le dovute precauzioni, mi recai a far visita a che mi accolse con l’abituale cordialità. Lo ritrovai animato dallo stesso spirito combattivo del nostro primo incontro all’isola di Lipari e, con la sua olimpica serenità, concordammo un piano di attività antifascista secondo il comune spirito unitario. La lettura della sua

4 recensione sul «Carlo Pisacane» di mi consentì di verificare l’evoluzione subita dal suo pensiero politico che lo avrebbe indotto in seguito a concepire la Resistenza come «guerra di popolo». Io disponevo dei contatti col mondo operaio ed egli mi presentò invece a molti dirigenti degli Uffici Studi delle grandi aziende, tutti di orientamento democratico, liberale e socialista. Si trattava di Libero Lenti, della Snia Viscosa, del prof. Ferdinando Di Fenizio della Montecatini, di Ugo La Malfa della Banca Commerciale Italiana, di Roberto Tremelloni e di Virgilio Dagnino della Motta, nonché del comune amico socialista triestino Ermanno Bartellini ch’era stato con noi a Lipari e finirà i suoi giorni nel campo di Dachau. Ma la presentazione più importante fu quella di Rodolfo Morandi il quale aveva abbandonato «Giustizia e Libertà», dopo uno scambio di lettere polemiche con Carlo Rosselli, allo scopo di rivitalizzare il partito socialista italiano con la collaborazione di Lucio Luzzatto, di Lelio Basso, di Virgilio Dagnino ed altri. Il 15 agosto 1935 l’Internazionale Comunista prese la clamorosa decisione di effettuare la famosa svolta tattica che doveva dar vita ai Fronti Popolari, ciò che comportava la collaborazione dei comunisti con i socialisti, considerati fino allora «social fascisti», e con tutti i democratici antifascisti e antinazisti. Il pericolo di guerra, che avanzava sempre più in modo minaccioso, aveva determinato la conversione politica dei comunisti. La nuova situazione internazionale consentì a me, a Parri e a Morandi di realizzare a Milano un vero e proprio Fronte Popolare rappresentato dall’organizzazione operaia nelle fabbriche, negli uffici, nelle redazioni dei giornali e delle riviste fra cui la semi ufficiale «Relazioni Internazionali». «Giustizia e Libertà» riprese il suo ruolo promotore e ripeté le gesta della sua prima fase eroica. Fu in questi giorni di intensa attività politica antifascista che feci la conoscenza con un certo dottor Giovanni Valillo, farmacista, di origine molisana, un po’ anarcoide. Egli svolgeva in modo autonomo la sua attività. Redigeva con la sua macchina da scrivere un giornaletto: «La pietra focaia» che distribuiva personalmente recandosi in bicicletta davanti agli stabilimenti nell’ora di entrata degli operai. Un giorno questo mi confidò che si sarebbe recato a Parigi per ragioni professionali. Conversando con Parri, in uno dei nostri incontri settimanali lo informai di questa eventualità. Per quanto io fossi assai perplesso per i rischi di una sua utilizzazione, egli insistette d’incaricarlo di portare a Carlo Rosselli i saluti di Chiaffredo Pautasso, il suo nome di battaglia. Al suo ritorno portò una lettera di Rosselli cucita in una scarpa. Quando la Direzione del P.C.I. fu informata del mio gesto amichevole mi fece comunicare il suo biasimo per aver io reso un servizio ad un «nemico di classe». Immunizzato dal settarismo comunista dalla mia provenienza democratica, lo sopportavo nella convinzione comune con Parri che per abbattere la dittatura fascista tutte le forze disponibili erano necessarie. Il 18 luglio 1936 le forze reazionarie spagnole insorsero contro il legittimo governo di Fronte Popolare. Carlo Rosselli ebbe l’intuizione politica di promuovere la partecipazione militare dell’antifascismo italiano e, con Angeloni, costituì la prima formazione partigiana in difesa della Repubblica spagnola coniando il motto: «Oggi in Spagna, domani in Italia» che anticipò la Resistenza italiana. L’opinione pubblica italiana fu galvanizzata dalla guerra civile spagnola. Per frenarla, la polizia fece ricorso agli arresti di massa. La predilezione fu riservata ai pregiudicati politici, perciò il 4 agosto 1936 io fui arrestato e inviato all’isola di Ventotene, dove mi adoperai per far prevalere lo spirito unitario di tutte le forze antifasciste, secondo l’esperienza milanese. L’organizzazione clandestina dell’isola costituì un organo direttivo formato da Giovanni Roveda per i comunisti, da Marcello Dugnani per i socialisti, da Cencio Baldazzi per «Giustizia e Libertà».

5 Il 9 giugno 1937 Carlo e Nello Rosselli furono barbaramente assassinati in una località termale dove Carlo stava curandosi la flebite contratta combattendo in Spagna. Aveva commemorato qualche giorno prima ch’era morto a Roma. Nel 1938 fui trasferito in Calabria dove l'amico Ugo La Malfa mi faceva pervenire le pubblicazioni dell’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana e Parri, tramite mia sorella, mi ragguagliava sulla situazione politica in continua evoluzione. Per completare il panorama geopolitico del Movimento «Giustizia e Libertà» debbo ricordare ai lettori di queste brevi note che dopo gli arresti di Milano del 1930 la «leadership» del Movimento fu di fatto assunta dagli esponenti torinesi. Fra i primi attivisti penso debbono essere ricordati: Mario Andreis e Aldo Garosci, i quali avevano la pubblicazione clandestina della rivista: «Voci d’officina». All’atto dei primi arresti, mentre Andreis fu imprigionato e condannato dal Tribunale Speciale, Aldo Garosci riuscì ad espatriare e a raggiungere Carlo Rosselli a Parigi. A seguito della delazione di un noto scrittore seguirono, succedendosi nel tempo, le cadute di meravigliose personalità che rispondevano ai nomi gloriosi di Barbara Allason, Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Michele e Renzo Giua, Luigi Scala, Massimo Mila, Augusto Monti, Carlo Mussa Vivaldi, Vindice Cavallera, Carlo Levi, medico, artista, scrittore che eternò la sua località di confine con la celebre opera: «Cristo si è fermato a Eboli» che rese di grande attualità l’irrisolta «questione meridionale». Il 4 agosto 1940 feci ritorno a Milano per fine pena. Durante il viaggio di ritorno registrai la nuova temperatura politica ascoltando le conversazioni dei borsari neri che salivano e scendevano dal treno prima e dopo Napoli. Riferendosi ai bombardamenti Alleati che si succedevano senza tregua, uno di questi personaggi, nel suo inconfondibile dialetto napoletano, esclamo: «Ah! don Gennaro! Dicillo a Churcillo che ’o fetente, sta a Roma, no’ a Napule!». A Milano per ragioni cospirative, preferivo incontrare Ugo La Malfa confondendomi fra la gente che affluiva agli sportelli della Banca Commerciale di piazza della Scala. Frequentavo la sede della rivista «Relazioni Internazionali» dove potevo incontrare diversi militanti di «Giustizia e Libertà»: Silvio Pozzani, Enrico Serra, Tommaso Carini, Giovanni Lovisetti, Enrico Bonomi e altri che non ricordo. Ma la personalità cui mi indirizzò Parri e che mi rimase più impressa fu quella di Massenzio Masia, un tecnico finanziario di grande valore. Egli morirà eroicamente nella sua Bologna, arrestato dai tedeschi, al comando della formazione partigiana «Giustizia e Libertà». Nel 1941 fui richiamato alle armi e assegnato al 57° reggimento di fanteria di Forlì. Considerato indesiderabile dall’ufficialità per i miei trascorsi politici, fui presto esonerato dal servizio. Tornai così a Milano dopo l’attacco dell’armata nazista all’U.R.S.S. La nuova «entente cordiale» favorì la collaborazione antifascista che si era interrotta dopo il Patto tedesco-sovietico del 1939. Nel maggio 1942 fu costituito a Milano il Partito d’Azione in cui confluirono tutti i militanti del Movimento «Giustizia e Libertà». Ferruccio Parri era assente giustificato perché arrestato e deferito al Tribunale Speciale con un gruppo di studenti dell’Università di Pavia: Luciano Bolis, Guido Bersellini, Gilberto Rossa. Parri fu prosciolto per non provata corresponsabilità e poté così dedicarsi all’organizzazione del neo-movimento dei Comitati di Liberazione Nazionale prima e poi della Resistenza armata. «Giustizia e Libertà», dopo il 25 luglio 1943, riprese di fatto la sua autonomia e si dedicò alla costituzione delle formazioni partigiane.

6 Il primo nucleo si diede convegno il 12 settembre 1943 alla Madonna del Colletto sopra Cuneo. Fra i primi promotori credo debbano essere ricordati: Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Nuto Revelli, Faustino Dalmazzo, Benedetto Dalmastro, Ettore Rosa ed altri. La direttiva da seguire era quella lanciata da Duccio Galimberti dal suo studio di Cuneo, in risposta al discorso del gen. Pietro Badoglio che chiudeva con le tragiche parola: «… la guerra continua!» «La guerra continua  egli affermò  fino alla cacciata dell’ultimo tedesco dal suolo della Patria!». I nuovi militanti di «Giustizia e Libertà» della seconda Repubblica devono impegnarsi a proseguire la lotta fino al giorno in cui «l’ultimo ladro di Stato» sia stato assicurato alla Giustizia!

7 ELENCO INCOMPLETO DI MILITANTI DEL MOVIMENTO «GIUSTIZIA E LIBERTÀ»

1) Giorgio Agosti 36) Leone Ginzburg 2) Barbara Allason 37) Michele Giua 3) Mario Andreis 38) Renzo Giua 4) Mario Angeloni 39) Ugo La Malfa 5) Franco Antonicelli 40) Carlo Levi 6) Vincenzo «Cencio» Baldazzi 41) Riccardo Lombardi 7) Giovanni Bassanesi 42) 8) Riccardo Bauer 43) Joyce Lussu Salvadori 9) Roberto Bernardino 44) Massenzio Masia 10) Camillo Berneri 45) Raffaele Mattioli 11) Dante Livio Bianco 46) Massimo Mila 12) Luciano Bolis 47) Augusto Monti 13) Mario Boneschi 48) Fausto Nitti 14) Andrea Caffi 49) Adriano Olivetti 15) Vincenzo Calace 50) Ferruccio Parri 16) Piero Calamandrei 51) Ada Prospero Gobetti 17) Guido Calogero 52) Carlo Rosselli 18) Umberto Calosso 53) Nello Rosselli 19) Aldo Capitini 54) Ernesto Rossi 20) Vindice Cavallera 55) Manlio Rossi Doria 21) Umberto Ceva 56) Max Salvadori 22) Nicola Chiaramonte 57) Gaetano Salvemini 23) Alberto Cianca 58) Luigi Scala 24) Eugenio Colorni 59) Pasquale Schiano 25) 60) Fernando Schiavetti 26) Gioacchino Dolci 61) Altiero Spinelli 27) Francesco Fancello 62) Alberto Tarchiani 28) Vittorio Foa 63) Adolfo Tino 29) Giaele Franchini Angeloni 64) Nello Traquandi 30) Alessandro Galante Garrone 65) Silvio Trentin 31) Tancredi Galimberti Duccio 66) Leo Valiani 32) Aldo Garosci 67) Franco Venturi 33) Armando Gavagnin 68) Giordano Viezzoli 34) Dino Gentili 69) Bruno Zevi 35) Dino Giacobbe

8 GIORGIO AGOSTI

Nato a Torino il 17 ottobre 1910, frequentò il Liceo Massimo D’Azeglio avendo per compagni di classe Leone Ginzburg e Norberto Bobbio. Cugino di Aldo Garosci fu da questi associato alle prime manifestazioni del Movimento «Giustizia e Libertà». Evitò l’arresto in quanto all’epoca si trovava alla scuola Allievi ufficiali di Moncalieri. Entrò nella Magistratura conservando permanentemente i suoi legami politici col Movimento. Nel 1942 fu tra i promotori del Partito d’Azione. Partecipò fin dall’inizio alla Resistenza armata con Mario Rollier e Arnaldo Banfi espugnando, come prima azione, la caserma della G.A.F. di Torre Pellice. Il 14 marzo 1944 fu nominato Commissario politico regionale del Piemonte a fianco di Duccio Galimberti e poi di Livio Bianco. Liberata Torino fu nominato Questore della città.(

BARBARA ALLASON

Nata a Pecetto (Torino) il 12 ottobre 1877. Libera Docente di Letteratura tedesca all’Università di Torino. Legata di amicizia con e con sua moglie Ada Prospero. Licenziata dall’insegnamento per una lettera a Benedetto Croce nel 1929 di approvazione al suo discorso in Senato contro i Patti Lateranensi. Tra il 1930 e il 1934 la sua casa divenne luogo abituale d’incontro fra intellettuali antifascisti. Arrestata nel 1934 con Leone Ginzburg ed altri dirigenti del Movimento «Giustizia e Libertà». Scrisse le sue «Memorie di un’antifascista». Morì a Torino il 20 agosto 1968.

MARIO ANDREIS

Nato a Saluzzo il 4 maggio 1907. Con Fernando De Rosa e Aldo Garosci partecipò alle prime manifestazioni studentesche antifasciste nel 1927. Nel 1930 con Aldo Garosci e Luigi Scala organizzò il primo gruppo torinese di «Giustizia e Libertà» pubblicando il foglio clandestino «Voci d’officina». Arrestato nel 1931 fu condannato dal Tribunale Speciale a 8 anni di reclusione. Sfuggirono all’arresto A. Garosci e C. Levi. Ritornato in libertà il 25 luglio 1943 partecipò alla Resistenza organizzando le formazioni partigiane «G.L.». Rappresentò il Partito d’Azione nel C.L.N. del Piemonte. Dopo la Liberazione fu Vice Presidente dell’A.N.P.I..(

MARIO ANGELONI

Nato a Perugia il 15 settembre 1896. Figlio dell’avv. Publio Angeloni, noto esponente mazziniano, secondo le tradizioni democratiche e risorgimentali della famiglia. Avvocato, ufficiale di cavalleria, partecipò come volontario alla guerra ’15-’18, decorato di medaglie d’argento al valor militare. A Cesena  dove era stato destinato ciò che era rimasto del XX Reggimento cavalleggeri  Angeloni conobbe Giaele Franchini, figlia del Sindaco repubblicano della città, che divenne la sua impareggiabile compagna. Nel mese di

(Morì a Torino il 20 maggio 1992. (Morì a Roma, 11 giugno 1985.

9 novembre del 1926 fu arrestato e inviato al confino di Lipari in compagnia di Emilio Lussu, Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Riccardo Bauer, Fausto Nitti, Alfredo Morea, Guido Picelli. Trasferito a Ustica vi trovò Romita, Giuseppe Massarenti, Edgardo Lami Starnuti, Sigfrido Ciccotti, socialisti, Amedeo Bordiga, Giuseppe Berti, Antonio Gramsci, comunisti, Mario Razzini, Gioacchino Dolci, Giuseppe Bruno, Cencio Baldazzi, repubblicani. Per una delle macchinazioni della polizia fu rinchiuso nel carcere di Palermo e deferito al Tribunale Speciale per ricostruzione di partito. Prosciolto fu trasferito all’isola di Ponza da dove poté rientrare a Cesena per amnistia. Ripresa l’attività politica antifascista, per evitare un nuovo arresto, espatriò con l’aiuto di Gigino Battisti. In Francia partecipò attivamente al Movimento «Giustizia e Libertà» e fu nominato Presidente della LIDU. Dopo l’insurrezione del gen. Francesco Franco contro il Governo di Fronte Popolare decise con Rosselli di promuovere la formazione della prima colonna di combattenti italiani per la libertà di quel paese seguendo il motto: «Oggi in Spagna, domani in Italia». Angeloni fu il Comandante militare, Rosselli il Commissario politico e Camillo Bernieri quale rappresentante degli anarchici accorsi in gran numero a combattere per la libertà. Umberto Colosso era il corrispondente di guerra ed è alla sua penna che dobbiamo la ricostruzione di questa pagina stupenda dell’eroismo degli italiani antifascisti personificato da Angeloni. Soltanto dopo 40 giorni dal pronunciamento franchista i volontari italiani erano accorsi a Barcellona dai luoghi di emigrazione più diversi, dalla Francia, dal Belgio, dalla Svizzera, dall’Algeria, dall’Italia stessa, in treno, in bicicletta, a piedi, si erano incolonnati per l’Aragona. Sotto Huesca, sul monte Pelato, Mario Angeloni, il 17 agosto 1936 cadde trafitto da un proiettile al Comando della Colonna italiana.

FRANCO ANTONICELLI

Nato a Voghera il 15 novembre 1902. Laureato in lettere e filosofia all’Università di Torino. Arrestato nel 1935 col gruppo «Giustizia e Libertà» con Vittorio Foa, Michele Giua, Augusto Monti. Fu inviato al confino ad Agropoli. Fu nuovamente arrestato il 6 novembre 1943 e a Regina Coeli incontrò il vecchio amico Leone Ginzburg e Carlo Muscetta. Nel febbraio ’44 è trasferito nel carcere di Castelfranco Emilia dal quale uscirà il 18 aprile ’44. Rientrato a Torino fu nominato rappresentante del partito Liberale nel C.L.N. piemontese. Nel 1946 confluì nel Partito d’Azione. Critico, saggista, poeta ha pubblicato opere storiche e letterarie. Come indipendente di sinistra nel 1968 fu eletto senatore.(

(Morì a Torino, 6 novembre 1974.

10 VINCENZO «CENCIO» BALDAZZI

«CENCIO» Un Capo-Popolo Romano da «Pietre»  aprile-maggio 1981  pagina 26

Plutarco ci trasmise, le vite esemplari dei grandi uomini dell’antichità e la lettura di queste formò il carattere di molte generazioni. Tempo è venuto che i giovani italiani d’oggi sappiano e conoscano il lungo martirologio, sopportato con dignità e fierezza, dai fondatori della nostra Repubblica. Uno di questi risponde al nome di Vincenzo Baldazzi che raggiunse la maggior notorietà sotto il diminutivo confidenziale di «Cencio». Forse la presentazione più efficace, formulata in uno stile tacitiano, è quella contenuta nella motivazione della proposta per la concessione della Medaglia d’oro al valor militare stesa da Emilio Lusso. Essa suona così: «Ardente patriota, volontario ed invalido di guerra per le gravi ferite subite al Comando della XVI Squadra lanciabombe sull’altipiano della Bainsizza durante la prima guerra mondiale, l’8 settembre 1943  benché logorato dai vent’anni trascorsi in carcere e al confine, a seguito delle condanne erogategli dal Tribunale Speciale per la sua tenace e fiera opposizione al fascismo, accorre, soldato fra i soldati, apostolo fra la popolazione, alle porte di Roma a difendere la Patria, la libertà e il suo popolo che ama sopra ogni cosa. Messosi alla testa dei primi gruppi armati, trascina soldati e civili a contrastare i1 passo al nemico che avanza preponderante in mezzi e in forze suscitando gli animi alle speranze di fare di Porta San Paolo il Piave di Roma. Vista minacciata la linea di difesa approntata, falciata da una postazione di mitragliatrici nemiche, il “Lanciabombe” dell’Altopiano della Bainsizza si avventa da solo sulla postazione nemica riducendola al silenzio con lancio di bombe a mano e raffiche di mitra. Con i pochi rimasti passando da un rione all’altro - segnatamente a San Giovanni, Santa Maria Maggiore, Madonna del Riposo, combatte senza un attimo di tregua esponendosi continuamente in colpi di mano che immobilizzano il nemico causandogli gravi perdite, fino a quando il numero ed i mezzi non hanno ragione dei valori. Le dolorose giornate che seguono 1’occupazione lo trovano infaticabile nel1’organizzare le prime formazioni partigiane di Roma e del Lazio per la crociata contro l’invasore: per la sua fede e virtù, i pochi animosi del1’8 settembre diventano brigate organizzate che non danno un attimo di tregua al nemico impedendogli la realizzazione dei suoi tristi disegni. Comandante militare delle formazioni G.L. e membro del C.L.N. è sempre alla testa dei suoi uomini nell’esecuzione dei più rischiosi ed arditi atti di sabotaggio e di guerriglia. Appreso che il Comando tedesco si trasferisce da Frascati al Soratte compie personalmente un atto di sabotaggio contro una colonna tedesca, che insieme ai suoi uomini attacca a colpi di bombe a mano e raffiche di mitra provocando al nemico gravissimi danni. Appreso che i rinforzi vengono fatti affluire dal nemico sul fronte di Cassino, nei pressi di Velletri rinnova le gesta immobilizzando per lungo tempo la colonna causandole gravi perdite. Il Maresciallo Kesserling pone una taglia sul capo del Baldazzi il quale, pur braccato dalle S.S. continua imperterrito la sua missione. Baldazzi, avuta notizia che i guastatori tedeschi hanno minato il ponte che collega una cittadina del Lazio, per farlo saltare dopo il passaggio delle truppe in ritirata, causando anche la distruzione della cittadina, insieme ad un suo gregario, successivamente caduto e decorato di Medaglia d’oro, superati dopo molte difficoltà i posti di blocco e sfuggito ad un accanito rastrellamento elimina la sentinelle poste a guardia riuscendo a sminare i pozzetti, salvando da sicura distruzione la cittadina e la vita degli ignari abitanti. Cento e cento altre missioni Baldazzi compie quasi animato da questa forza, un

11 coraggio ed una fede sovraumana, episodi che hanno reso la sua figura tra le più leggendarie della Resistenza italiana, esempio purissimo di dedizione al dovere verso la Patria». Nato a Genzano di Roma il 25 ottobre 1898 da Tomaso Baldazzi e Maria Annunciata Onofri visse sempre in mezzo al popolo romano partecipando fin dall’età di 14 anni ai Circoli giovanili repubblicani. Fece parte della squadra detta dei «piccioncini» dal nome di Luigi Piccioni un noto agitatore repubblicano. Nel 1914 subì il suo primo arresto perché sorpreso nel tentativo di raggiungere con altri giovani repubblicani la Francia per arruolarsi nella Legione Garibaldi sulle Ardenne. Nel 1917 parte volontario per il fronte italiano e, sull’Altipiano della Bainsizza alla testa della XVI Squadra di lanciabombe da lui comandata, viene gravemente ferito tanto da venir dichiarato, non ancora ventenne, «invalido di guerra». Nel 1921, quando già le organizzazioni operaie cominciavano ad essere bersagliate dal fascismo trionfante, crea assieme a Secondari, Stagnetti e Paolinelli il Movimento degli «Arditi del Popolo» e ne diviene il Comandante. In coincidenza con il congresso del Partito Nazionale Fascista che si svolge all’Augusteo, i lavoratori proclamarono uno sciopero di protesta. Scoppiarono diversi conflitti con morti e feriti d’ambo le parti. In un colloquio col Segretario del Ministero degli Interni «Cencio» dichiarò che lo sciopero sarebbe cessato soltanto con la partenza di tutti i fascisti dalla Capitale. Farinacci, per reazione, emanò ai suoi sicari l’ordine di sopprimere Baldazzi, Stagnetti e Paolinelli prima della chiusura del Congresso. Nel 1922 viene processato per «costituzione di bande armate contro i poteri dello Stato», processo celebrato malgrado la contumacia dell’imputato che è difeso dal grande repubblicano Conti. Quasi contemporaneamente subisce un altro processo perché ritenuto responsabile del ferimento dell’Addetto militare dell’Ambasciata inglese in occasione dei conflitti di strada ingaggiati durante la difesa di Viterbo dagli attacchi fascisti. Ne conseguirono aspre minacce da parte del Ministro degli Interni On. Casertano, affinché fosse posto fine alle azioni antifasciste. «Cencio» gli rispose che queste sarebbero cessate solo il giorno in cui i fascisti avessero lasciato Viterbo. A Civitavecchia gli «Arditi del Popolo», comandati da Cencio con Salerni, Di Fazi, Gargiulo, Benedetti, respinsero le squadre fasciste guidate da Italo Balbo e Perrone procurando loro gravi perdite. Il P.R.I. decide di nominarlo Comandante delle Avanguardie Repubblicane con Pacciardi, Cerquetti e Rossetti. Nel 1924 partecipa con Pacciardi, Bonazzelli e Rossetti alla fondazione de «L’Italia Libera». Nel corso d’un comizio di protesta indetto alla Casa del Popolo, durante il quale i fascisti aggredirono l’On. e il gen. Roberto Bencivenga, da solo affrontò lo stato maggiore fascista e schiaffeggiò il Comandante la Corte di Roma, Mario Candeloro. Ad ogni avvenimento di rilievo egli viene arrestato e trattenuto in prigione per un certo periodo. Così avvenne per l’attentato di Mussolini, prima della signorina inglese Gibson poi dell’on. Tito Zaniboni deputato socialista. Con l’emanazione delle leggi eccezionali viene nuovamente arrestato, questa volta per essere assegnato al confino di polizia all’isola di Lampedusa. Da questa è poi trasferito a quella di Ustica in compagnia del grande socialista riformista di Molinella, Giuseppe Massarenti e ciò in seguito ad incidenti insorti fra i militi fascisti e i confinati politici. Giunto ad Ustica, presentatosi alla visita medica per l’aggravamento delle sue ferite di guerra, il medico si rese conto che sarebbe stato urgente un intervento operatorio ch’egli però non era in grado di effettuare. Ne propose pertanto il ricovero in un ospedale romano. Questa eventualità consentiva agli esponenti dell’antifascismo qui convenuti, d’intervenire presso la Confederazione Generale del Lavoro al fine d’indurre il Presidente di questa, on. Lodovico D’Aragona dal por fine al suo

12 atteggiamento capitolardo verso il fascismo. Nella casa dell’on. Fabrizio Maffi si diedero convegno Massarenti, Romita, Bordiga, Tucci, Angeloni per incaricare «Cencio», in partenza per Roma, d’informare D’Aragona del loro giudizio negativo sull’atteggiamento assunto. Tre giorni dopo quella riunione e quella decisione, Antonio Gramsci, pure confinato a Ustica, partirà per il carcere di Milano, presto seguito da Maffi, dove avrà l’istruttoria del «processone» intentato dal Tribunale Speciale alla Direzione del Partito Comunista Italiano. Eludendo la rigorosa sorveglianza cui veniva sottoposto, «Cencio» riesce ad incontrarsi con Errico Malatesta e a prendere accordi con Paolinelli ed Eluisi per organizzare la fuga dell’anarchico Lucetti nel giorno del processo intentatogli dal Tribunale speciale per aver attentato a Mussolini. Per realizzare l’ambizioso progetto «Cencio» si mette in contatto con la sorella di Lucetti. La polizia messa al corrente del progetto in atto, arresta «Cencio» e lo denuncia al Tribunale Speciale che lo condanna a 5 anni di reclusione. Trascorrerà la pena, parte nel reclusorio di Alghero e parte nell’ergastolo di Alessandria dove avrà per compagno di cella l’on. Tito Zaniboni. Nel 1932, scontata la pena viene destinato al confino di polizia nell’isola di Ponza. Qui nel vecchio edificio dove i Borboni custodivano nel secolo scorso i rifiuti della società che Carlo Pisacane utilizzò per la sua sfortunata spedizione di Sapri, erano riuniti i confinati politici sotto l’animosa vigilanza della milizia fascista. Ad attenuare il senso di reclusione che provocava quella convivenza coatta esisteva la possibilità di disporre di camere private per trascorrervi le ore del giorno. Ciò consentiva la scelta di compagnie gradite per cui la popolazione confinaria si ripartiva secondo un criterio di affinità politica ed umana. Malgrado l’ancor giovane età «Cencio» era stimato e venerato come un gran Patriarca nello schieramento politico che comprendeva: repubblicani, anarchici, socialisti e liberalradicali. Al suo fianco, nelle ore dedicate al passaggio, apparivano alternativamente l’anarchico Capuana, proveniente dalle lontane Americhe, Max Salvadori grande tessitore del Movimento «Giustizia e Libertà», Dante Giannotti repubblicano romano, l’avv. Panzini repubblicano di Milano, il dott. Giuseppe Germani di Trieste, un seguace di Matteotti. È qui alfine, in quest’isola, che Cencio incontrerà Elena, la compagna dolce e gentile della sua vita. Nel 1934 dopo la morte del fratello, si trova relegato sotto stretta sorveglianza a Fregene. Nel 1936 il clima politico interno, superato il periodo euforico della conquista abissina, si fa più incandescente a causa dello scoppio della guerra civile spagnola. Il territorio nazionale deve essere ripulito dai possibili catalizzatori del malcontento popolare cosicché «Cencio» è nuovamente arrestato ed inviato al confine, questa volta all’isola di Ventotene. Ci ritrovammo qui, cavalli di ritorno, e seguendo gli orientamenti politici prevalenti nei vari paesi d’Europa, promuovemmo insieme il Fronte Popolare fra i confinati. All’isola, con le nuove reclute dell’antifascismo, affluivano vecchi confinati e vecchi galeotti. Si rinnovavano così vecchie amicizie. Notoriamente le prigioni e le isole di confino erano state trasformate di fatto in Università rivoluzionarie per la formazione dei quadri per la società di domani e in centri di smistamento di informazioni e di collegamento con tutte le regioni d’Italia, il comunista romano Pompilio Molinari frequentatore di luoghi di pena considera «Cencio» un eccellente «compagno di strada». Si ritroveranno infatti accanto l’uno all’altro nelle prime imprese della resistenza romana. Entrambi applicheranno la tecnica dei chiodi a quattro punte di cui cospargeranno le strade percorse dalle formazioni motorizzate tedesche. Quando arrivò a Ventotene il noto comunista torinese Giovanni Roveda, reduce da una lunga prigionia comminatagli dal Tribunale Speciale insieme a Gramsci e Terracini, «Cencio»  grande esperto nell’arte culinaria  organizzò un pranzo in un camerone del castello a base

13 di spaghetti all’olio, aglio e peperoncino, nell’intento di mascherare agli occhi della polizia una discussione politica rivolta a consolidare l’intesa politica fra tutte le forze della sinistra presenti nell’isola. Tutti i convitati furono arrestati e deferiti al Tribunale Speciale per costituzione del Fronte Popolare Antifascista. Dopo alcuni mesi di soggiorno nel carcere napoletano di Poggioreale furono prosciolti e rimandati all’isola di Ventotene. Non passò molto tempo che Cencio fu nuovamente arrestato e processato per aver percosso un agente provocatore istigato dal Direttore della Colonia, Guarino. Destinati all’isola di Ventotene i grandi reclusi del Movimento «Giustizia. e Libertà»: Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Francesco Fancello, Vincenzo Calace  nel timore di possibili iniziative auto liberatorie – «Cencio» viene deliberatamente trasferito alle isole Tremiti nel mare Adriatico dove rimane fino al 25 luglio 1943. Con l’aiuto dei compagni romani riesce a raggiungere fortunosamente la costa del Gargano e da qui arrivare a Roma dove l’attendono i suoi popolani. Il suo arrivo risveglia l’entusiasmo generale per la lotta troppo a lunga interrotta e nei rioni popolari di Trastevere, S. Lorenzo, Trionfale, lo accolgono con la fede di un tempo. Nel breve periodo badogliano egli si dedica alla fondazione del Partito d’Azione e alla costituzione delle prime formazioni partigiane. Lo scoppio dell’armistizio lo trova preparato ad affrontare i nuovi compiti dell’ora. L’occupazione di Roma da parte delle armate tedesche richiede uno schieramento unitario delle forze antifasciste. «Cencio», il capo-popolo romano più prestigioso è considerato il Comandante naturale. A lui si affiancano gli esponenti dei diversi gruppi politici: Bruno Buozzi, Luigi Longo, Pietro Secchia, Ugo La Malfa, Edoardo Volterra, Emilio Lussu, Francesco Fancello e molti altri. Conoscitore del terreno e degli uomini sembra avere il dono dell’ubiquità. È presente in ogni quartiere dove distribuisce le armi raccolte nelle caserme. Lo vedono a S. Paolo, al Testaccio a fianco dei soldati e dei volontari del tenente Persichetti, simbolo dell’unione fra esercito e popolo, accorre a San Giovanni e combatte sino a S. Maria Maggiore, di là con un pugno di animosi resiste a Madonna del Riposo sino a sera, quando ormai la città è caduta in mano agli oppressori. Ormai non rimane che predisporre una Resistenza di lungo periodo e a questo scopo si incontra con Siglienti, Lussu, Fancello e La Malfa per gettare le basi della potente organizzazione militare del Partito d’Azione che guiderà con Riccardo Bauer fino alla Liberazione di Roma. Un’altra delle sue gesta memorabili fu quella per il recupero delle armi lanciate dagli Alleati nei pressi del Lago d’Artignano. Malgrado la sua notorietà, che lo rendeva facilmente riconoscibile, affrontò una marcia in bicicletta di 40 km. Dopo due tentativi di lancio falliti e relative vane ricerche, cui partecipò Ugo La Malfa, accompagnato dal prof. Edoardo Volterra, che diverrà Rettore dell’Università di Bologna, riesce a scoprire la località dove è avvenuto il lancio e nella notte trasporta a Roma il prezioso materiale. Esso servirà ad organizzare azioni di minamento ed ad effettuare numerosi sabotaggi realizzando il programma d’azione predisposto dalla sua formazione. Egli si reca ripetutamente in diverse località dei Castelli, insidiando il Comando tedesco di Frascati, scampando miracolosamente ad un micidiale bombardamento e molestandolo in occasione del trasferimento di questo a Soratte. Un bollettino del Maresciallo Kesserling è costretto a citare, onorandole, queste azioni partigiane anche per promettere un premio a coloro che avessero voluto concorrere alla scoperta degli attentatori tra i quali veniva segnalato l’onnipresente Comandante «Cencio». Di lui parleranno in seguito tutti gli storici ed i pubblicisti della storia contemporanea: Max Salvadori, F. Nitti, E. Lussu, Tamaro, Gavagnin, E. Rossi, Leo Valiani, riviste e giornali. Ma, forse, è a lui più caro sapersi ricordato dai suoi vecchi popolani di Trastevere, Testaccio, San Lorenzo e degli altri rioni romani, sempre ultimi a capitolare e primi ad insorgere. Per essi

14 egli era il loro Capo designato in ogni battaglia che si doveva combattere per la libertà e per l’onore della città di Roma e di tutto il popolo italiano. Dopo la liberazione viene nominato dal Partito d’Azione Consultore Nazionale e successivamente Commissario Nazionale dell’E.N.A.L.. Dallo scioglimento del Partito d’Azione egli è un militante attivo del Partito Socialista Italiano.(

GIOVANNI BASSANESI

Nato nel 1908 in un Comune della Lombardia si trasferì ad Aosta in qualità d’insegnante. Emigrato a Parigi entrò nella Lega dei diritti dell’Uomo divenendo Presidente di una sezione. Aderì al Movimento «Giustizia e Libertà» fin dalla sua costituzione proponendosi audaci iniziative che realizzò nel 1930 dopo aver conseguito il brevetto di pilota. L’11 luglio 1930, in compagnia del non meno audace Gioacchino Dolci, partì con un aereo da turismo da una località del Ticino riuscendo a riversare dal cielo, sulla piazza del Duomo di Milano all’ora di mezzogiorno, un carico di manifesti di «Giustizia e Libertà» che portano l’invito rivolto a tutti gli italiani: «Insorgere, per risorgere!». Ritornato a Mendrisio, da dove era partito, riprese il volo per la Francia ma urtò contro una montagna e si salvò sotto le macerie. Il processo contro di lui per aver violato le leggi svizzere vide schierato in sua difesa i maggiori esponenti dell’antifascismo italiano in esilio, da Carlo Rosselli a Filippo Turati. Fu condannato a lieve pena dopodiché emigrò in Belgio dove perseverò nella sua attività antifascista. Mori nel 1948.

RICCARDO BAUER: una figura che onora la democrazia

In tempi di immoralità dilagante, in cui è diffusa la sensazione che sia stato definitivamente smarrito il piacere dell’onestà e il senso del dovere civile, non si può lasciar sfuggire l’ormai rara occasione che si presenta di poter additare alle giovani generazioni taluni aspetti della vita vissuta e sofferta di un italiano che con tutta naturalezza ha raggiunto il suo ottantesimo compleanno trovandosi in stato di servizio attivo verso la democrazia. Infatti Riccardo Bauer è tuttora il presidente della «Lega Italiana dei diritti dell’uomo» e vicepresidente della «Fondazione Moneta» che si dedica alla «Pace e alla Giustizia internazionale». Etica e politica sono stati moventi ideali di tutta la sua esistenza dedicata per lo sviluppo armonioso e civile dell’intera umanità secondo i sacri principi della libertà individuale e della giustizia sociale emersi per via rivoluzionaria da quel mondo feudale che si reggeva sul diritto divino e che tuttora oscura l’orizzonte politico-morale di tanta parte dell’umanità. Riccardo Bauer è nato a Milano il 6 gennaio 1896 da un cittadino cecoslovacco e da una cittadina italiana di nome Cairoli. Nella convinzione che l’impero austroungarico costituisse un ostacolo al libero sviluppo delle nazionalità: italiana, cecoslovacca, ungherese e jugoslava, rinunciò alla cittadinanza austriaca e si arruolò volontario nell’esercito italiano per poter partecipare alla prima guerra mondiale contro quella forza di oppressione di popoli anelanti alla libertà.

(Morì a Roma, 23 maggio 1982.

15 Malgrado esistessero disposizioni legislative che consentivano la italianizzazione del cognome per evitare le conseguenze dei maltrattamenti riservati ai prigionieri di guerra di origine austro-ungarica, preferì mantenere inalterato il suo cognome. Durante la ritirata di Caporetto riuscì a portare il suo reparto al di qua del Piave e tale azione gli valse un encomio solenne del Comando della IV Armata. Fu ferito più volte e sul monte Tomba fu raccolto ferito fra i cadaveri. Riconosciuto ancora vivo fu trasferito all’ospedale di Spoleto da dove, per quanto in stato di convalescenza, ottenne di poter partecipare all’ultima offensiva del ’18. Decorato di medaglia di bronzo, gli fu confiscata dal Tribunale Speciale a seguito della condanna che questo gli inflisse per aver organizzato e diretto il movimento di «Giustizia e Libertà». La Repubblica Italiana non ha ancora provveduto alla sua restituzione! Laureatosi all’Università Bocconi in scienze economiche nel 1919 invece di dedicarsi a una carriera professionale si diede all’attività politica partecipando a tutte le manifestazioni antifasciste, ma rifiutando di entrare in qualsiasi associazione combattentistica in quanto riteneva che l’aver partecipato alla guerra per l’unità nazionale doveva essere considerate l’adempimento di un dovere civile ciò che non doveva comportare alcun particolare riconoscimento. Le affinità ideali con Piero Gobetti e con la sua «Rivoluzione Liberale» lo orientarono verso l’organizzazione in ogni località di tutte le minoranze attive che avrebbero potuto costituire i centri nervosi del movimento democratico disorientato dalla violenza fascista. A questo fine fondò a Milano, con la collaborazione di Ferruccio Parri, Filippo Sacchi ed altri giovani intellettuali, la battagliera rivista: «Il Caffè» che aveva nella città una brillante tradizione illuministica. Collaborò con Parri, Rosselli e Pertini all’espatrio di Filippo Turati. Fu assegnato di conseguenza per due anni al confino di polizia all’isola di Ustica e di Lipari dove si trovò in compagnia di tutti i maggiori esponenti dell’antifascismo italiano. Dopo la fuga da Lipari di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti, che fecero di Parigi il quartiere generale del movimento «Giustizia e Libertà», con Ernesto Rossi, Umberto Ceva, Zari e Parri si dedicò all’organizzazione del movimento sul territorio nazionale riuscendo ad attivizzare le energie disponibili per la diffusione della stampa clandestina e per prendere tutte quelle iniziative atte al sabotaggio delle istituzioni fasciste rivolte ad orientare la vita pubblica italiana in senso nazionalista e guerrafondaio. A causa del tradimento di un presunto amico tutto il Centro interno del movimento fu arrestato e Riccardo Bauer con Ernesto Rossi fu processato e condannato dal Tribunale Speciale a 22 anni di reclusione. Umberto Ceva, dottore in chimica ed, esperto in esplosivi, per sottrarsi alle torture  nel timore di non riuscire a mantenere la necessaria fermezza durante gli interminabili interrogatori  si suicidò. Quel processo, che fece tanto clamore e risvegliò tutta l’opinione pubblica italiana e internazionale, rappresentò anche una sorgente di ottimismo per tutti coloro che popolavano le carceri e le isole di deportazione in quanto testimoniava la esistenza di italiani ancora dotati di dignità e di fierezza disposti a sfidare il governo tirannico che ormai da un decennio opprimeva l’intera nazione. Riccardo Bauer aveva indirizzato una lettera al Presidente del Tribunale Speciale, che lo aveva condannato, per contestargli il diritto di giudicarlo, in quanto il giudizio sul suo operato sarebbe spettato soltanto al popolo italiano cui si onorava di appartenere. «Le case d’Italia sono fatte per noi» si diceva scherzosamente tra noi, e furono diverse infatti le carceri italiane che accolsero e ospitarono a lungo questa grande personalità, così ricca di umanità, di tolleranza e di modestia! Ridotta la pena carceraria per effetto delle diverse

16 amnistie che si susseguirono fu alfine trasferito all’isola di Ponza e poi sullo scoglio di Ventotene dove lo colse il 25 luglio 1943. Dopo l’8 settembre ebbe l’incarico di riorganizzare il Partito d’Azione in Toscana, quindi trasferito a Roma, con il compito di coordinare le forze militari della Resistenza avendo al suo fianco una figura altrettanto popolare, Cencio Baldazzi, già comandante del Movimento degli «Arditi del Popolo» nel primo dopoguerra, che aveva egli pure trascorso il ventennio fascista fra case di pena e isole di confino. Costituitosi il primo Governo Bonomi si rifiutò di farne parte. Non era il genere di «compromessi» che riteneva di poter sopportare, non considerandolo educativo e proficuo al prestigio della futura democrazia italiana. Fu membro autorevole del Comitato esecutivo del Partito d’Azione dal 1943 al 1946. Fece parte della Consulta Nazionale, ma nel 1947  seguendo l’esempio tanto studiato ma mai seguito d’un antico romano, Cincinnato  si ritirò dalla vita politica attiva per dedicarsi alla istituzione più congeniale al suo spirito di educatore: «la Società Umanitaria»!(

CAMILLO LUIGI BERNERI

Nato a Lodi il 20 maggio 1897. Nel 1916 risiedette a Reggio Emilia seguendo gli insegnamenti di Camillo Prampolini. Si convertì in seguito alla concezione anarchica. Nel 1917 fu richiamato alle armi e al fronte fu ferito, malgrado il suo dichiarato pacifismo. Si laureò a Firenze in Storia della pedagogia, allievo di Gaetano Salvemini. Insegnò filosofia nei Licei di Montepulciano, Cortona e Camerino. Militante anarchico con Errico Malatesta e Luigi Fabbri, si aggregò al gruppo del «Non mollare». Nel 1926 espatriò in Francia. A Bruxelles fu coinvolto da una spia dell’O.V.R.A., certo Menapace in un falso complotto. Nel 1936 si recò in Spagna per combattere in difesa della Repubblica a fianco dei suoi compagni anarchici nella formazione «Giustizia e Libertà» guidata da Mario Angeloni e da Carlo Rosselli. Il 5 maggio 1937 fu ucciso dalla polizia segreta staliniana.

DANTE LIVIO BIANCO

Nato a Cannes (Francia) il 19 maggio 1909, morto a Punta Saint Robert (Cuneo, Val di Gesso) il 12 luglio 1953. Studente universitario a Torino partecipò con Piero Gobetti all’attività politica e culturale antifascista assieme a Fernando De Rosa, Aldo Garosci, Mario Andreis e Massimo Mila. Nelle file del Movimento «Giustizia e Libertà» trascorse indenne la parabola del regime fascista esercitando la professione di avvocato. Nel 1942 fu tra i fondatori del Partito d’Azione e dopo l’8 settembre ’43, con un nucleo ristretto di compagni organizzò a Madonna del Colletto, in val di Gesso, il 10 settembre ’43 la prima banda partigiana di «Giustizia e Libertà». Divenne membro del Comando del gruppo «Italia Libera» con Tancredi Galimberti. Nel 1944 fu nominato Commissario politico della Divisione Alpina «Giustizia e Libertà» cuneese. Nel febbraio 1945 assunse il Comando delle formazioni «Giustizia e Libertà» di

(Morì a Milano il 15 ottobre 1982.

17 tutto il Piemonte e in tale veste entrò nel Comando Militare Piemontese del C.L.N.A.I.. Fu decorato di due medaglie d’argento al valor militare. Fu successivamente uno dei dirigenti più stimati del Partito d’Azione. Piero Calamandrei dettò per suo imperituro ricordo una meravigliosa epigrafe scolpita sulla lapide apposta sul punto in cui precipitò dalla montagna.

LUCIANO BOLIS

Nato a Milano il 17 aprile 1918, professore di lettere e filosofia dopo aver frequentato gli studi musicali al Conservatorio G.Verdi. Nel 1942 fu arrestato e condannato dal Tribunale Speciale per attività antifascista svolta come militante del Movimento «Giustizia e Libertà». Suoi compagni di cordata erano: Ferruccio Parri, Guido Bersellini, Gilberto Rossa. Dopo l’8 settembre 1943 si rifugiò in Svizzera dove si dedicò con Ernesto Rossi, Fernando Schiavetti, Altiero Spinelli al Movimento Federalista Europeo. Richiamato in Italia fu nominato segretario regionale ligure del Partito d’Azione. Arrestato nel febbraio del 1945 a Genova fu ferocemente torturato per cui tentò il suicidio tagliandosi le vene dei polsi e la carotide. Nel suo «Il mio granello di sabbia» narrò la sua triste esperienza. Fu decorato di medaglia d’argento al valor militare. Nel ’46 fu Vice Segretario del Partito d’Azione e nel 1948 Vice Segretario di Altiero Spinelli del MFE. Nel 1960 si trasferì a Parigi quale segretario internazionale del Congresso del popolo europeo. Dal ’71 al ’78 divenne insegnante del Centro di alti studi europeo dell’Università di Strasburgo. È morto a Roma nel febbraio 1993.

La Voce Repubblicana del 2 giugno 1992

UNA DEDIZIONE SENZA LIMITI NELLO SPIRITO DELLA RESISTENZA

LUCIANO BOLIS, classe 1918, ha dedicato la sua vita all’ideale federalista. Già alto funzionario del Consiglio d’Europa, presiede la Federazione italiana delle Case d’Europa ed è il vicepresidente del Mfe. Antifascista e partigiano, aderì al Pd’A dalla fondazione. Arrestato e torturato, tentò di togliersi la vita per non tradire i compagni, portandone a lungo e sino ad oggi le conseguenze. L’eroico episodio è stato da lui stesso raccontato nell’einaudiano Il mio granello di sabbia. Con il consueto entusiasmo, ci ha rilasciato la seguente intervista che rievoca la sua militanza azionista, anche dopo la scissione e la diaspora.

In quale ambiente e con quali contatti maturò la sua opposizione al regime fascista? Negli anni trenta, anche per ragioni d’età, ero un giovane fascista come tutti. Nel 1938 a vent’anni cominciai ad impressionarmi per la ferocia delle persecuzioni razziali contro gli ebrei. Così maturò piuttosto «dilettantisticamente» il mio antifascismo. All’inizio della guerra, ero ormai un fermo oppositore del regime: a metà del 1941 fui arrestato per la prima volta e subii l’anno successivo il processo dinanzi al Tribunale Speciale. Vivendo a Milano, il primo antifascista che mi fu maestro, a parte le discussioni fra i miei coetanei, fu un repubblicano storico, il professor Achille Magni, che dopo la guerra si ritrasse dalla politica per la sua natura modesta. Conobbi dei comunisti, che meritano grande rispetto morale, ma che intellettualmente si limitavano a ripetere la propaganda ideologica del loro partito. Sul

18 piano dell’azione, però, anticipando la strategia del Cln, condividevo il loro spirito d’iniziativa e ne auspicavo la collaborazione. Purtroppo fu proprio un comunista del nostro gruppo ad essere arrestato e a fare i nostri nomi. Nella retata fu coinvolto anche Parri, con cui pure non avevo avuto alcun rapporto diretto. Parri lo conobbi solo in prigione; ricordo il suo alterco col presidente del Tribunale Speciale, un maggiore della milizia fascista che lui aveva incontrato nello Stato Maggiore del generale Diaz. Fu tuttavia assolto per insufficienza di prove, si disse per volontà del Duce. Contatti diretti li avevo invece avuti con Ugo La Malfa, che incontravo alla Banca Commerciale. Nel suo ufficio ho conosciuto Riccardo Lombardi. Più che discussioni ideologiche, parlavamo di problemi pratici, anche per il poco tempo a disposizione. In carcere, strinsi amicizia con Vittorio Foa, che però era assai vicino ai comunisti.

Dopo il 25 luglio quale fu la sua esperienza? Uscii di prigione il 27 agosto 1943 e mi rifugiai in Svizzera. Frequentai Ferdinando Schiavetti che mi veniva a visitare nel campo di concentramento vicino a Zurigo, dove ero profugo insieme ad Umberto Terracini. Talora mi recavo da lui con un permesso speciale. Fu proprio Schiavetti, grazie alla generosità di alcuni fuoriusciti benestanti, a permettermi di uscire dal campo e vivere liberamente. Lavoravamo assieme come rappresentanti del Partito d’Azione nella Svizzera tedesca.

Come si era sviluppata la sua formazione politica? Il primo a parlarmi di Carlo Rosselli e del suo pensiero fu Schiavetti, che non mancò di aggiungermi le sue critiche, sia personali, sia politiche. Non a caso egli era entrato in «Giustizia e Libertà» per l’insistenza di Lussu, solo dopo l’assassinio di Rosselli. Mi diede tuttavia da leggere nell’edizione francese il Socialismo liberale, la cui lettura fu per me una rivelazione, pur non essendo stata, dunque, alle origini, del mio antifascismo. Quel libro impresse una tendenza socialista alla mia formazione. Avevo letto il Manifesto di Marx e l’autobiografia di Trotsky, ma erano stati incontri occasionali. Io mi sentivo allora un liberale, in senso progressista. Il mio principale punto di riferimento ideologico era Croce. Mi ricordo un breve scambio d’idee in carcere con il giellista Scala (che poi sarebbe morto poco tempo dopo essere tornato da Mauthausen), il quale considerava superato il mio sentirmi crociano. Ma la mia era soprattutto un’orgogliosa adesione filosofica. In seguito lessi anche Gobetti, ma riconosco in Rosselli la svolta della mia formazione. Allora concepii il «dovere della politica».

Quale fu il suo ruolo durante la Resistenza? Dalla Svizzera ardevo dal desiderio di rientrare in Italia a combattere nella Resistenza. Lo feci sapere al coordinamento di Lugano, dove c’erano Tino e Damiani per il P.d’A. Mi dissero d’attendere l’occasione in cui ci sarebbe stato bisogno di me. Disgraziatamente, questa si presentò per la creazione di dolorosi vuoti dovuti agli arresti di Masia a Bologna e di Lanfranco a Genova. Parri mi chiamò a Milano ed io scelsi di andare in Liguria, dove trovai una situazione difficile e disgregata. Fortunatamente, Lanfranco non aveva parlato e lo pagò con la vita. Da allora sono diventato un po’ genovese. Il mio lavoro politico era nella città, mentre svolgevo compiti soltanto di smistamento nei confronti delle formazioni partigiane della montagna. Facevo la spola con Milano, una volta Lombardi mi affidò un pacco di milioni prelevato da una banca che fece vivere per oltre un mese le formazioni liguri.

19 Cascai per la seconda volta nella rete dei fascisti, perché mi fidai di uno di loro che diceva di voler passare dalla nostra parte. Un capo comunista avrebbe avuto più prudenza. Noi ci esponevamo per eccesso di passione.

Come proseguì, dopo 11 25 aprile, la sua attività nel Partito d’Azione? La mia tormentata vicenda non mi ha consentito di assaporare la gioia della Liberazione né di dare il mio contributo in quella fase, quando la Resistenza fu al potere. Parri fu Presidente del Consiglio, ma prevalse la scelta del «continuiamo» rispetto al passato regime, ad opera di tutti i partiti tradizionali. Debbo eccettuare il P.R.I., per il solo fatto che, commettendo a mio avviso comunque un errore, era rimasto fuori dal C.L.N. in nome della pregiudiziale antimonarchica. Gli unici veri rivoluzionari eravamo noi azionisti. E lo si vide alla Costituente, quando proponemmo l’abolizione dei Prefetti, la repubblica presidenziale, il federalismo europeo, il regionalismo. Propugnavamo un «cambiamento forte» rispetto all’Italia fascista e prefascista. Io ho sempre fatto politica con lo spirito della resistenza, il che comportava un eccesso di idealismo. La nostra dedizione era però senza limiti. Il nostro disinteresse era assolutamente qualche cosa che oggi potrebbe meravigliare se lo si volesse raccontare nei dettagli. Giunsi a Roma nel novembre del ’45. Rividi tutti gli amici, ma poi tornai a Genova. Dovevo ancora rimettermi pienamente. La mia situazione fisica non era normale mancavo totalmente di voce. Per oltre un anno, questa fu una barriera psicologica nella mia vita di relazione. Temevo allora di diventare il «Delcroix dell’antifascismo», un martire buono per le commemorazioni. Di tanti che erano morti io ero l’unico eroe superstite. Ma io volevo essere come tutti gli altri, e lo vivevo come un complesso. Invece per la stranezza di quei tempi ed in particolare del Partito d’Azione, con il Congresso di Roma del febbraio 1946, mi ritrovai gettato nella mischia della politica.

Fu il congresso della scissione dell’ala lamalfiana. All’inizio dei lavori Parri tenne un discorso commemorativo dei martiri della resistenza: io fui l’unico vivente ad essere citato ma con il solo nome proprio. Usavamo fare così per lo scrupolo di non farci propaganda, neanche coloro i quali sedevano al mio fianco seppero che l’oratore si stava riferendo a me. Perciò, io restai addoloratissimo del colpo di testa di Parri, nel lasciare il Congresso e quindi il partito. Lo capii perché si trattava di un uomo sfinito, che aveva sofferto non solo dell’urto con De Gasperi, ma anche all’interno del P.d’A., il cui esecutivo lo rimproverava di inefficienza. In lui prevaleva l’umanità e questo è un grande limite per la politica. Bisogna essere disumani, e noi lo eravamo stati durante la resistenza. Se penso alle cose che ho fatto allora, giudicare con facilità della vita e della morte di qualcuno, uccidere comunque gli avversari, punire severamente non solo il tradimento ma anche la minima indisciplina. D’altra parte, se avessimo fatto prevalere il garantismo non avremmo vinto la guerra partigiana e la Liberazione sarebbe stata opera soltanto degli alleati. Perciò eravamo stati costretti a trasformare noi stessi, con una forte tensione psichica e interiore. Avevamo ucciso la nostra umanità. Persino il Presidente Scalfaro, ha ricordato di aver dovuto chiedere al Pubblico ministero alcune condanne a morte. Il nostro dovere allora era quello. Lo era stato anche per Parri, però da Presidente del Consiglio, egli si atteggiò più a «padre buono» degli italiani, un Pertini quarant’anni prima, quando il paese non lo permetteva.

Lei continuò, tuttavia, a militare del P.d’A.? La mattina dopo che Parri aveva abbandonato il Congresso, molto presto mi recai a casa sua. Mi disse affettuosamente che l’avrei potuto considerate come il mio «papà», nonostante

20 che io fossi andato a dirgli che non ero sulle sue posizioni. I lavori proseguirono e fu eletto segretario del partito Schiavetti. Lussu si rese conto che non poteva stravincere e disse che avrebbe fatto l’«isolano». Raccomandò l’elezione di Schiavetti a De Martino e Codignola che avevano in mano la maggioranza. Nella lista della direzione, inizialmente, il mio nome non era compreso. Fui inserito direttamente da Schiavetti, anche se avevo solo ventisette anni, dopo il rifiuto di Oronzo Reale. Così mi trovai a fianco del nuovo segretario, diventandone il braccio destro, soprattutto dal punto di vista organizzativo. Anche Schiavetti, insieme alla moglie, mi considerava come un figlio. Le elezioni per l’Assemblea Costituente furono un fiasco e la nostra segreteria dovette rassegnare le dimissioni. Fu una grande delusione, la lotta antifascista e la Resistenza ci avevano fatto sperare di poter soppiantare il vecchio Partito socialista. Purtroppo, c’era il Nord e c’era il Sud. Eleggemmo tuttavia sette deputati nella lista nazionale, per la quale io avevo suggerito due giuristi del prestigio di Piero Calamandrei e di Mario Bracci. Certo se non ci fosse stata la scissione, mi è rimasta l’intima convinzione, che il risultato elettorale complessivo sarebbe stato di gran lunga migliore.

Inizia la diaspora. Come si schiero in quella fase? Io e Schiavetti puntavamo all’unificazione socialista, avendo naturalmente contro lo stesso P.S.I. nonché Togliatti. La Malfa aveva puntato su una forza di democrazia laica, al di fuori dello schieramento di sinistra. Gli uomini erano però tutti nel P.d’A. e lo si è visto con la diaspora: gli azionisti sono tutti arrivati ai vertici dei partiti in cui erano confluiti. Nel 1947, prevalse la fusione con il P.S.I., ma votata da soli due terzi. Io votai contro, insieme a Codignola: volevamo conservare la nostra indipendenza. Le trattative erano state addirittura deprimenti. La gente era così scombussolata