Musica, Cinema, Etnomusicologia
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L’editore, nell’ambito delle leggi internazionali sul copyright, è a disposizione degli aventi diritto che non è stato possibile rintracciare. ILARIO MEANDRI LA FABBRICA DEI SOGNI Un’introduzione etnomusicologica al mainstream musicale hollywoodiano © edizioni kaplan 2012 Via Saluzzo, 42 bis - 10125 Torino Tel. e fax 011-7495609 [email protected] www.edizionikaplan.com ISBN 978-88-89908-65-5 k a p l a n In copertina: Jerry Goldsmith nel 1977, con l’Oscar per la colonna sonora de Il presagio (The Omen, 1976) a Vixia Indice L’autore ringrazia Febo Guizzi e Luisa Zanoncelli per la preziosa collaborazione. Desidera inoltre esprimere la propria riconoscenza a Federico Savina, Mariapaz Sanchez Sanchez e Dario Meandri. Introduzione di Febo Guizzi 9 Il megafono delle passioni: musica, cinema, etnomusicologia Capitolo 1 23 Un gioco di specchi Capitolo 2 44 Formazione, carriere, network Capitolo 3 95 Il rapporto con i filmmaker Capitolo 4 115 Prassi: dal processo compositivo alla recording session Capitolo 5 193 Per un’antropologia del processo creativo: la sincronizzazione musica e immagine Capitolo 6 214 Sulla nascita di un cliché Testi citati 237 Introduzione Il megafono delle passioni: musica, cinema, etnomusicologia di Febo Guizzi È possibile fare oggi un’etnografia di grandi complessi produttivi dell’industria cul- turale, di estesi apparati – egemoni a livello planetario – che progettano, elaborano e diffondono interi sistemi comunicativi ed espressivi capaci di coinvolgere masse enormi di destinatari sparse ovunque nel mondo? Può essere praticata una ricerca etnomusico- logica che si ponga l’obiettivo di comprendere i meccanismi compositivi, le forme e le formule musicali, il senso e l’efficacia emotiva trasversali di una realtà così smisurata e “distante” quale è quella della musica (anzi, dell’intero apparato dei suoni) per il cinema mainstream di Hollywood, in quanto centro produttivo mondiale di questa potentissi- ma industria culturale? È legittima un’attenzione rivolta alla creazione e alla distribuzio- ne (ma quindi alla ricezione) di un imponente magazzino di prodotti culturali che non si limiti a compierne l’inventario o l’analisi tecnica, ma che ambisca alla sua compren- sione in chiave antropologico-culturale? Si può dunque indagare sulla portata di cui esso è capace nel contribuire a determinare l’immaginario degli uomini nel mondo contem- poraneo, a plasmare la loro sensibilità, a fornire strumenti più o meno consapevoli della loro costruzione interpretativa del mondo, del loro “ascolto” delle relazioni sociali, della narrazione delle vicende personali e sociali veicolate dalla musica? Negli anni ’40 del XX secolo, nel periodo segnato dal secondo conflitto mondiale, in America prese piede una nuova via nella ricerca antropologico-culturale, che di fatto ap- parve come l’altra faccia della medaglia del metodo della ricerca sul campo condotta attra- verso la prassi dell’osservazione partecipante, messo a punto non molto tempo prima ma già allora divenuto predominante. Questa nuova via fu definita “antropologia a distanza”, o meglio, “studio a distanza della cultura”, come recita il titolo di una significativa sintesi metodologica curata da Margaret Mead e da Rhoda Métraux1 a ridosso della guerra. A sua volta essa aveva alle spalle una serie di circostanze storiche segnate da radicali divisioni politiche, nei casi più drammatici da veri e propri conflitti (“caldi” o “freddi”) e costituì il caso forse più clamoroso di una tendenza all’impegno diretto nella realtà da parte degli antropologi, di quelli almeno che sentirono il bisogno di misurarsi in una prospettiva de- finita con l’etichetta di “antropologia applicata”. Anche se la genesi di questa tendenza è piuttosto complessa, un ruolo determinante al suo interno fu svolto dalla percezione della gravità delle grandi contraddizioni politiche e sociali e della conseguente urgenza etica di schierarsi in favore di sforzi collettivi o di interventi pubblici istituzionali, chiaramente dettati da scelte politiche2. 9 La chiave decisiva che impone e contemporaneamente legittima la disamina non di- correrli al loro interno. In altre e più semplici parole, il mondo produttivo hollywoo- rettamente partecipativa dei fenomeni culturali fu indicata da Mead nell’inaccessibilità diano, il suo assetto economico-industriale e la sua densa concentrazione di soggetti e delle culture con cui la ricerca voglia misurarsi, in termini spaziali o temporali3. La deci- di ruoli creativi, in particolare quelli addetti alla sonorizzazione dei film, costituiscono sa opzione anticonformista di questo approccio allo ricerca antropologica suscitò diverse una versione non bellicosa – ma non per questo meno impermeabile – dei mondi inac- reazioni critiche. La parte più consistente si rivolse, più che versus la separatezza del ricer- cessibili al ricercatore che imposero nel corso del XX secolo l’adozione dello “studio cul- catore dal suo oggetto di indagine, contro l’obiettivo stesso di prendere come oggetto di turale a distanza”. Il ricercatore è una sorta di “persona non grata”, se non di nemico in studio le “cultural regularities in the characters of individuals”; la diffidenza di allora per senso proprio: oltre a essere un corpuscolo incompatibile con i grandi ingranaggi della queste prospettive, che oggi si è trasformata in disagio, se non in aperto rigetto, riguarda macchina degli studios, egli non garantisce un atteggiamento allineato, “embedded”, ma sia l’aspetto della generalizzazione allargato a “popoli” o “nazioni”, sia il concetto stesso di invece minaccia di leggere quel mondo per svelarne aspetti che l’apparato non è interes- “carattere” con cui si intendeva compendiare l’insieme dei modi attraverso cui i motivi e le sato a mettere in evidenza. Le Major che investono una smisurata potenza economica e predisposizioni ricavabili dai comportamenti «are elicited and maintained in the majority culturale nella costruzione dei più grandi apparati neo-mitopoietici – e dunque anche of the new members who are added to the society by birth, so that a society continues its fortemente ideologici – della nostra epoca non possono prestarsi alla decostruzione dei culture longer than a single generation»4. Questa generalizzazione “per nascita”, che acce- loro interessi egemonici; così come i soggetti più rappresentativi dell’idiosincratico ruolo de alla definizione di “carattere nazionale”, si mostra ancora più difficile da accettare nel artistico-musicale su cui questo mondo mostra di fondarsi, quello dei compositori, sono momento in cui si riferisce a entità collettive non avvicinabili da chi compie la ricerca. In troppo impegnati a rappresentare se stessi nelle vesti neo-romantiche dei detentori del realtà la via metodologica intrapresa e difesa da Mead fu applicata anche al mondo cultu- genio musicale “assoluto” per prestarsi al confronto con chi voglia mettere in mostra il rale e “nazionale” a lei più vicino, quello statunitense, nel suo studio che possiamo consi- loro reale modus operandi. Anche se, in modo che solo superficialmente può essere giu- derare come il complemento simmetrico all’impegno conoscitivo dedicato al “nemico”: si dicato paradossale, lo stesso assetto sostanziale di processo produttivo, con i peculiari trattava cioè dell’indagine rivolta a radicare nelle fondamenta culturali del carattere nazio- processi lavorativi in cui si articola, impone e richiede un ferreo apparato ordinamentale nale la tenuta morale del popolo americano di fronte allo sforzo bellico5. costantemente riversato in normativa sia sul piano della precettistica operativa, sia su Questa parte del discorso rischia di portarci lontano dai problemi posti all’inizio quello della manualistica didattica, sanzionate dal successo artistico e commerciale: e e che mi preme affrontare; mi basta perciò rilevare che le pratiche dell’“etnografia di perciò il velo ideologico copre solo superficialmente quella sostanza che si rivela analiz- una nazione” e dello studio a distanza delle culture hanno segnato un periodo ricco e zabile e interpretabile a partire dalle procedure stesse della sua codifica. tormentato delle scienze umane, caratterizzato dall’assunzione di responsabilità politi- che dirette da parte degli antropologi. Il che non mi pare per nulla disdicevole, anzi6. Abbandonato il privilegio accordato alle delimitazioni territoriali e ai macro-oggetti Il problema è semmai quello del limite del lavoro interpretativo, che rischia di cedere a (etnomusicologi addetti alla non-western music, o alla “musiche di tradizione orale” o prospettive metafisiche, se arriva a forzare la sostenibilità stessa dell’osservazione scien- simili) alla luce dell’assetto post-coloniale del mondo e della raffinata revisione dell’ora- tifica, commisurandola con oggetti inafferrabili, più che per la loro “distanza”, per la lità come categoria univoca ed essenzialista, revisione già a suo tempo avviata con auto- loro vastità, per la composita frammentazione interna e, last but not least, per i rischi di revolezza da parte di “padri fondatori” dell’etnomusicologia8, essa include dunque nei soggettivismo proiettivo dall’esterno, dal lato di chi indaga, e di commistione della co- suoi impegni scientifici e nelle sue prospettive centrali anche studi come questa ricerca scienza culturale con il dato dell’appartenenza biologica, o anche solo di cittadinanza, condotta con rigore e chiarezza da Ilario Meandri. La quale, più che riagganciarsi alla alla “nation”, dal lato dei soggetti indagati7. generalissima affermazione di John Blacking «all music