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Gemma Townley Le piccole bugie del cuore Traduzione di Laura Melosi Ai miei genitori, con amore.

Titolo originale: Little White Lies Copyright © 2005 by Gemma Townley All rights reserved

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale.

http://narrativa.giunti.it

© 2014 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia Prima edizione: marzo 2014

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Vorrei farvi una domanda. Una domanda teorica, abbiate pa- zienza. Aprireste mai la posta di un’altra persona? No? Certo che no, lo sapevo. Okay, supponiamo però che sia una molto speciale. Una lettera dall’aria intrigante dentro una busta di carta color crema con l’indirizzo scritto a mano e nessun mittente sopra. E supponiamo che la lettera sia arrivata a voi. Per una specie di errore. E che voi non abbiate proprio modo di inoltrarla alla destinataria. Ancora nessuna tentazione? Perfetto. Be’, diciamo anche che la persona a cui la lettera è indirizzata è socia di uno dei club più esclusivi di Londra e ha una vita sociale fantastica. Voi invece siete molto annoiate perché vi siete appena trasferite in una nuova città e la vostra vita sociale non è esattamente spumeggiante. E supponete di dover vedere quella lettera un giorno dopo l’altro, appoggiata sulla mensola del vostro camino. Immaginate, se volete, che a casa vostra continuino ad ar- rivare decine di lettere indirizzate a questa persona e che voi decidiate di mettergliele da parte, anche se è poco probabile che venga mai a richiedervele. E diciamo anche che la vera destinataria delle lettere ha la-

5 sciato l’appartamento in cui vivete da oltre un mese e riceve comunque più telefonate di voi. Ancora nessuna tentazione? Neanche minima? No? No, certo che no. Nemmeno io.

Buuum, buuum. Ah, ah, già. Il soffitto vibra tutto, il che significa che Alistair, il tizio che vive sopra di me, sta dando un’altra festa. È un’ora che cerco di leggere La fiera della vanità – il libro preferito di mia ma- dre – ma tutte le volte che arrivo alla fine di un paragrafo mi rendo conto di non aver capito niente e devo tornare indietro e ricominciare da capo. Ed è un peccato perché è un libro fanta- stico e voglio sapere cosa succederà. Finora la scaltra e perfida arrampicatrice sociale Becky Sharp manipola tutti quelli che ha attorno, e ogni cosa sembra incentrata sui soldi e la virtù: più un personaggio ne possiede, meglio sta, anche se i soldi senza la virtù sono preferibili alla virtù senza i soldi. È affascinante, ma non posso fare a meno di pensare che ho una bella fortuna a in un’epoca più illuminata. Provo di nuovo a leggere, ma è inutile: Becky Sharp non rie- sce a catturare la mia attenzione visto che in testa mi rimbomba un ritmo hip-hop. Forse è meglio passare a una rivista. Cercando di ignorare la musica a tutto volume e le risate che arrivano dall’appartamento di sopra, prendo una copia di Elle e mi imbatto in un articolo sullo space clearing. “Svuota il guardaroba e sarai un’altra persona!” suggerisce. Questa sì che è un’idea. Sarebbe un modo costruttivo di passare un’oretta. Anche se non era proprio così che mi sarei aspettata di tra- scorrere il sabato sera a Londra quando ho deciso di trasfe- rirmi qui. In preda all’euforia, ho dato le dimissioni il mese scorso dicendo al mio capo che mi sarei stabilita in città e che

6 lui non poteva fare niente per convincermi a cambiare idea. È stato bellissimo entrare nel suo ufficio con un sorrisetto che mi spuntava sulle labbra. Mi aspettavo quasi una standing ovation e una colonna sonora in sottofondo, o magari che saltasse fuori Richard Gere e mi portasse via travolgendomi di baci. Sapete, non sono il tipo che pianta baracca e burattini così, su due piedi. Sono sempre stata una brava ragazza, semplice e prevedibile. Nessuno se lo aspettava – e io meno che mai. Ma la vita ha un modo strano di buttare tutto all’aria, no? Le cose non andavano benissimo a Bath, dove lavoravo e vivevo con il mio fidanzato, e quando ho accennato a mia madre che pensavo di trasferirmi a Londra, lei era così contenta che non ho più potuto tirarmi indietro. Anche se ero impaurita da morire. Ma come dice mia madre, la vita è una sola, per cui devi afferrare al volo ogni occasione. Anche se questo ha significato lasciare gli amici, la famiglia, il lavoro… E poi mia madre ci teneva tantissimo, un tentativo dovevo pur farlo. Fin da quando era bambina sognava di trasferirsi a Londra e vivere “nell’alta società”, per dirla con parole sue. Ma non l’ha mai fatto: si è sposata, ha avuto dei figli e in un battibaleno si è lasciata sfug- gire l’occasione. E dato che papà detesta stare lontano dai prati verdi, alla mamma non capita neanche molto spesso di visitare Londra. Capisco mio padre, però: le grandi città possono essere luoghi spaventosi. Comunque il fatto è che adesso a Londra ci vivo io. E non posso stare qui seduta ad ascoltare musica che arriva da una festa a cui non sono stata invitata. Devo fare qualcosa. Mia madre sarebbe così delusa se sapesse che ho passato un mese intero chiusa in casa ogni sera. Devo almeno provarci, e farle assaporare un pizzico di vita londinese. È stato bello abbandonare l’impiego alla Shannon, l’agenzia

7 pubblicitaria dove lavoravo, sapendo che non avrei più passato il venerdì sera al pub a spettegolare sul nuovo direttore, che chiamava tutti “dolcezza” con quel suo tono di voce estrema- mente irritante e condiscendente. Che non avrei più dovuto indossare la minigonna tutte le volte che avevamo una pre- sentazione. Che non avrei più avuto bisogno di domandar- mi se un insoddisfacente lavoro a Bath fosse il massimo a cui potevo aspirare. No, stavo prendendo in mano le redini della mia vita. Stavo lasciando la campagna del Somerset con la sua atmosfera super rilassata ma in realtà piuttosto meschina. Ed ero al settimo cielo. Forse avrei dovuto sistemare qualche dettaglio pratico in più prima di trasferirmi, ma mi sono fatta trascinare un po’ dall’en- tusiasmo e dall’idea romantica di arrivare in una grande città con una valigia sola. Ero l’eroina della mia piccola storia. Non volevo accontentarmi e accettare la triste realtà. E avevo inten- zione di dimostrare a mia madre che potevo farcela – sono la sua unica figlia, per cui sta a me renderla orgogliosa. Certo, bisogna dire che non ho un gran lavoro al momento – sempre meglio di niente, anche se non è quello che mi aspettavo. Lavorare in un negozio però non è male. E ho comprato anche il Guardian per cercare occasioni di lavoro nel campo della pubblicità. O almeno ne avevo intenzione. Devo solo risolvere il problema della vocina dentro di me che continua a ricordarmi che in realtà non mi è mai interessato molto lavorare nella pubblicità. Mi concentro sull’articolo. A quanto pare gli armadi sono una finestra sull’anima. Se la vostra anima non è come nuova, scrive l’autore, come potete aspettarvi che lo sia la vostra vita? Mmm. Spero non sia vero. Il mio guardaroba è in condizioni tremende. È piccolo, angusto e pieno di orribili grucce di filo di ferro.

8 Andando in bagno, mi passa per la testa che buttare via tutto e cominciare da capo non sarebbe una cattiva idea. Potrei davve- ro svuotare la casa: nuova vita, nuovo guardaroba. E dopo aver riorganizzato tutto, magari anche la mia esistenza comincerà ad andare nel verso giusto. Anche se… fisso il guardaroba domandandomi da dove cominciare. Dopo tutto non è esattamente un’ideona. Non ho soldi per dei vestiti nuovi, e che senso ha buttare via tutto se non puoi andare subito a fare shopping per comprare meravigliosi abiti che miracolosamente riducono il girovita e fanno sembrare le gambe più lunghe? Dopo qualche secondo di esitazione torno sul divano. Non è una cosa urgente, e poi adesso non è il momento migliore per passare in rassegna il mio armadio. È sabato sera, per l’amor del cielo. Dovrei fare qualcosa di divertente.

Buuum buuum, ah ah ah, ah ah ah, sì, yeah. Mollo la rivista. La musica è esageratamente alta e non c’è modo di concentrarsi. Magari dovrei cucinare. Potrei provare una nuova ricetta o qualcosa del genere – dico sempre che non ho tempo per cucinare come si deve, e adesso è l’occasione giusta. Detto questo, la mia cucina non è certo il posto più adatto per cucinare. La chiamo cucina, ma in realtà si tratta di un pic- colo spazio attaccato al salotto, dotato di lavandino, frigorifero e fornelli. Poi c’è un tavolo a cavallo fra i due ambienti e… be’, è tutto qui in effetti. Non c’è posto per una credenza, e ho dovuto sistemare le scatole di cereali sugli scaffali della libreria perché non c’era altro spazio dove metterle. È così che succede a Londra. Vedi l’annuncio di un apparta- mento nella vetrina di un’agenzia immobiliare (“Appartamento

9 alla moda in Ladbroke Grove, una camera da letto, perfetto per le feste”), e credi di aver trovato una casa tipo quella di Monica in Friends. E poi vai a vederlo e il “perfetto per le feste” in real­ tà si traduce in “la cucina è nel salotto, per cui è tutto molto a portata di mano”. Potrei sistemare un po’ meglio la casa: è un tantino spoglia, lo so. Ma il fatto è che non ho niente con cui abbellirla. Sono arrivata da Bath in treno trascinando con fatica i vestiti, figu- riamoci cose tipo foto o libri. E poi non volevo portarmi dietro tutto il mio bagaglio – in senso fisico e metaforico. Trasferirsi in una nuova città significa cominciare una nuova vita e tenere con me i ricordi di Bath avrebbe vanificato tutto. I miei vecchi mobili sono solo vecchi mobili, per l’appunto. Fanno parte della mia vecchia vita con Pete. Pete è il mio ragazzo. O meglio, ex ra- gazzo. È uno dei motivi per cui mi sono trasferita. Come ho già accennato: non voglio accontentarmi e accettare la triste realtà. Eppure non ci sono scuse per non rendere la casa più vissuta, più personale, dopo tutto è già un mese che vivo qui. Il guaio è che non riesco mai a decidere cosa significhi uno stile “perso- nale”. Opto per uno stile moderno ed essenziale con i divani in pelle e i tappeti a pelo lungo? Pete avrebbe venduto sua nonna (o me, a essere sincera) per un appartamento moderno e luminoso con tanto di divano in pelle, enorme televisore con schermo al plasma e un’immensa doccia dalla cabina di vetro. A un certo punto abbiamo anche aperto un conto in comune con l’idea di comprare casa. Ma non abbiamo mai risparmiato granché: c’erano sempre cose più importanti, tipo l’abbonamento allo stadio (per lui) e le scarpe (per me). Forse nessuno di noi due voleva davvero comprare casa. Non seriamente. Stavo dicendo, c’è lo stile moderno, ma non sono sicura che mi rispecchi. E poi c’è lo shabby chic che in ogni caso, siamo

10 realisti, è più adatto al mio budget. Da quando mi sono tra- sferita, tutti i risparmi che avevo raggranellato sono scemati rapidamente. Il vintage funzionerebbe senz’altro in questo ap- partamento. E inoltre è un bel po’ di tempo che non vivo da sola e mi piacerebbe creare un ambiente esageratamente femmini- le, visto che ora posso. Non c’è una Playstation da sistemare da qualche parte, né nessuno che sostenga ostinatamente che i motivi a fiori fanno tanto vecchietta. Mi potrei creare un bel nido, tutto per me. Ma sono davvero così femminile? Non ne sono del tutto convinta. Non indosso mai niente di rosa e non mi è mai im- portato nulla dei maglioncini di cashmere quando ero al liceo. Ero più un maschiaccio, un disastro totale. A dire il vero, ho ca- pito cosa significasse prendersi cura di sé solo durante il primo semestre all’università. È talmente semplice che non so perché non ci fossi arrivata prima: se passi un’ora a sistemarti i capelli e a metterti un po’ di trucco, i ragazzi ti notano di più. Sempli- fica la vita anche ridere alle loro battute invece di prenderli in giro: questo l’ho imparato nel secondo semestre. Che scema! Quando sono tornata a casa sapevo tutti i trucchi del mestiere. Ed è stato allora che Pete finalmente si è accorto di me. Per la prima volta in assoluto è venuto a parlarmi come si parla a una ragazza piuttosto che a “uno dei suoi amici”. Praticamente ero sempre stata innamorata di lui (be’, da quando avevo più o me- no tredici anni), ma lui mi aveva sempre considerato un’amica.­ E sin dal principio per attirare la sua attenzione sarebbe bastato mettermi un po’ di rossetto e agitare la chioma di capelli lucidi. L’ avrei considerata una scocciatura incredibile se non fossi stata strafelice di essere finalmente notata da Pete. Ovviamente l’altra opzione per arredare la casa è lo stile etnico-indiano: tavoli di teak, tappeti rosso scuro dalle fantasie

11 orientali e bastoncini di incenso. Ma ancora una volta, si tratta di decidersi e mettersi in azione. C’è un negozio in Portobello Road che vende un sacco di tavolini e tappeti che non costano troppo. Immagino che prima o poi prenderò una decisione. Ma fino ad allora dovrò farmi bastare quello che ho. Mi guardo intorno in cerca di ispirazione. Ci sono due libri sul bracciolo del divano. Il mio stereo, che ha visto momenti migliori, è per terra circondato da cd e cassette. Uno specchio lasciato dal proprietario se ne sta appeso sconsolato sul muro, riflettendo la parete vuota con tanto di vernice scrostata e bu- chi a indicare dove dovrebbero stare i quadri. Poi c’è una pila di lettere ammucchiata sopra il camino, ma nessuna è per me. Quando ho preso in affitto la casa per sei mesi, il proprietario mi ha chiesto di conservare tutta la posta di Cressida, l’inquilina precedente, “nel caso torni”. Il che è stato un tantino sconcertan- te, a dire il vero. È come se non fosse il mio appartamento, come se io dovessi semplicemente prendermene cura per la persona che ci viveva prima. Ma la cosa peggiore è che lei riceve molta più posta di me. Magari mi servirebbero delle foto appese al muro. Un telo da mettere sul divano. Poi potrei togliere la moquette e sabbiare il pavimento o magari comprare un enorme tappeto per creare un ambiente accogliente… Non so proprio come la gente riesca a prendere con tanta disinvoltura decisioni su faccende importanti come l’arreda- mento. È come se avessero la certezza che c’è un solo modo per fare le cose, ovvero il loro. Prendiamo i miei genitori. Mio padre ama la musica classica e non sopporta i bar o i pub pieni di confusione. Gli piace andare in vacanza solo se può guidare perché ha paura dell’aereo. Gli piace il cibo inglese tradiziona-

12 le e legge biografie invece che romanzi. Alla mamma, d’altro canto, piacciono il cibo italiano, i ristoranti eleganti, i mobili e i tessuti in stile country, le vacanze in Europa e i film con Michael Caine. Capisco subito i loro gusti perché sono così netti, così decisi. La mamma dice sempre: «So cosa mi piace e mi piace quello che so» ed è vero. Io però vorrei chiederle: «Come? Come fai a capirlo? Come puoi esserne così sicura?». Vedete, anche a me piace il cibo italiano, ma apprezzo pure quello cinese, giapponese, inglese e francese. Sono stata vege- tariana e vegana, ma ho seguito perfino una dieta proteica (con tante ma proprio tante bistecche). Mi piacciono le commedie romantiche con Meg Ryan, ma amo anche i film francesi e i thriller. Mi piace andare in giro per locali, ma anche starmene in casa. Mi piacciono i pranzetti intimi a due, ma anche le feste scalmanate. A volte mi vesto da capo a piedi di colori neutri come beige e cammello, altre invece sono variopinta come un arcobaleno. E non so mai cosa preferisco. E poi c’è Pete. Insomma, pensavo mi piacesse. Pensavo di amarlo. Ma non ne sono mai stata sicura. O forse non sono mai stata sicura che lui amasse me? Be’, in ogni caso torniamo alla cucina. Vediamo… Apro lo sportello del frigo. Due uova, un po’ di sedano (molto disintos- sicante a quanto pare, vorrei solo non avesse quel saporaccio) e del pane. È tutto quello che ho? Apro lo scomparto del freezer e vedo la pizza che ho comprato da Fresh’n’Wild l’altro giorno. E subito mi vengono in mente ottimi motivi per non “cucinare un piatto elaborato”: tanto per cominciare cucinare è una perdita di tempo; in più non ho niente di buono in frigo; infine non ne ho proprio voglia… Dio, è assurdo. Sono a casa di sabato sera. Non sarà un dram- ma, giusto? E allora perché sono così nervosa? E perché mi

13 viene un nodo allo stomaco sentendo la musica di Alistair? Insomma, è vero che il volume è alto, ma siamo a Notting Hill. La gente organizza feste, no? Che c’è di male? C’è una vocina dentro di me che continua a dirmi che è colpa mia se sono da sola di sabato sera. Che se mia madre fosse qui adesso (e, ovvio, con vent’anni di meno) avrebbe partecipato attivamente alla festa invece di subirla. Che non ce la farò mai a sfondare a Londra e appena finiti i soldi tornerò a casa con la coda fra le gambe.

Ah ah, buuum buuum, ah ah, sì, yeah. Io e Alistair ci salutiamo di tanto in tanto. Ma la cosa finisce lì… anche questo non è del tutto vero: sono io quella che lo saluta sempre e lui contraccambia con una specie di sorriso. Alistair però è molto sexy, anche se non è il mio tipo: tanto per cominciare è troppo trendy. Indossa un paio di occhiali neri alla Buddy Holly e una specie di completo di jeans scuro. Credo sia un designer o un artista perché si porta sempre dietro un portfo- lio. È così londinese! Un tipo simile non si vedrebbe mai a Bath. Probabilmente dovrei smetterla di farmi intimidire da ciò che è tipicamente londinese. Gli altri qui non la fanno tanto lunga e non si entusiasmano per una banalità come la metro- politana. Immagino che prima o poi mi ci abituerò anch’io, ma dovete capire che sono cresciuta in un paesino con mia madre che ogni notte mi raccontava storie sulle luci sfolgoranti, il pe- ricolo e l’eccitazione della grande città. Arrivata all’adolescenza ero convinta che la vita cominciasse e finisse a Londra e che essere bloccata nella campagna inglese fosse la cosa peggiore che potesse mai capitarmi. Appartenere a una piccola comunità ha i suoi pregi. Ma riuscite a immaginare di vivere in un posto dove tutti sanno quale libro stai leggendo, dove la vicina si con-

14 gratula con te il giorno delle tue prime mestruazioni, dove tutti quelli che vivono nella tua stessa strada sanno il voto che hai preso a ogni singolo esame all’università? Credetemi, è soffo- cante. Quando sono cresciuta mi sono trasferita a Bath, la città più vicina. Ma non è certo un posto entusiasmante. È piena di turisti e tutti la definiscono “carina”. Be’, sono stufa della roba carina. Voglio roba tosta, esilarante, scatenata. Ma anche Bath è una città molto piccola, soprattutto quando è appena finita una storia. E in modo particolare se la ragione per cui è finita è che lui ti tradiva, e non puoi più entrare in un bar o in un ristorante senza guardarti intorno con aria furtiva temendo di trovarlo lì con un’altra. Mi metto a scorrere i miei cd e i vecchi nastri: c’è tutto, da Stan Getz agli White Stripes. Mmm. Björk… è un po’ che non l’ascolto… ma forse è troppo coinvolgente. Gli Air…? No, trop- po melodiosi. È questo il guaio con gli album secondo me: devi limitarti a uno specifico stato d’animo. So che è da sfigati, ma amo le compilation, anche se non lo ammetterei mai. Apprezzo la varietà, e poi così non devo decidere se ascoltare un artista o un altro. Con le dita mi soffermo su una vecchia compilation che ho registrato all’università e la tiro fuori. Ho passato una vita a preparare cassette per le mie amiche: era il mio sistema di comunicazione prediletto. La giusta miscela di canzoni può esprimere, più di qualsiasi frase, concetti del tipo “Starai molto meglio senza di lui” o “Sei un’amica fantastica e mi dispiace di aver rovinato la tua maglia preferita”. Questa è una compilation tipica dell’epoca: un paio di pezzi strappalacrime come Unbreak My Heart, alcuni brani dei Breeders e di PJ Harvey che coglieva- no perfettamente la mia angoscia adolescenziale, qualche pezzo da ballare e una canzone rétro di una band sconosciuta che non c’entra nulla con le altre e che avevo inserito solo per dimostrare

15 quanto ero figa. I cd utilizzano una tecnologia fantastica, ma il rovescio della medaglia è che nessuno passa più tanto tempo a registrare compilation sulle cassette. Scaricare le canzoni in una manciata di secondi non è lo stesso che registrarle manualmente, ascoltando ogni singolo pezzo e premendo il tasto “pause” giusto in tempo alla fine di ogni brano. Magari i nastri non sono così male dopo tutto, anche se lo stereo se li mangia regolarmente. Contenta di aver preso una decisione alla svelta, metto su la cassetta e mi distendo sul divano decisa a rilassarmi e a sfruttare al meglio la serata. È solo un contrattempo, mi dico. Quanto è che abito a Londra? Un mese. Poco più di quattro settimane. Non posso aspettarmi di avere già una vita sociale. Per queste cose ci vuole tempo. Ho vissuto in un paesino per ventisei anni per cui non c’è da meravigliarsi se non rimanevo mai una sera in casa. Mi ritrovo a pensare con nostalgia all’appartamentino in cui vivevo con Pete a Bath, al camino scoppiettante che mi teneva al caldo quando lui era fuori a fare qualunque cosa stesse facendo (o meglio a farsi qualunque donna si stesse facendo). Ma poi, mi dico, non ero davvero felice. Avevo gli amici e la mia famiglia accanto, ma ero sempre sola. E certo, ero invitata a tutte le feste, ma c’era sempre la stessa gente che parlava sempre delle stesse cose. Tutti conoscevano tutti – a dire il vero, tutti erano stati con tutti. Non c’era mai niente di entusiasmante, di coinvolgente e non esistevo come Natalie ma solo come “Nat & Pete”. Non po- tevo essere anonima né ricostruirmi un’identità. Mentre qui… be’, sicuramente qui non ho nessun problema di anonimato. E se il piatto della bilancia pende un po’ troppo, sono sicura che alla fine si riequilibrerà. Alzo un po’ il volume dello stereo. C’è un pezzo degli Indians adesso: Life Ain’t a Bed of Roses. La vita non è un letto di rose. “Non ditelo a me” penso sconsolata. Ma guardiamo il lato positivo. Mi sono trasferita. Non vivo più a

16 Bath, città di Jane Austen, di antiche rovine, di acque termali dal sapore strano e di campi sconfinati. Non sono più Natalie di Bath, sono Natalie di Notting Hill. Squilla il telefono e salto giù dal divano per rispondere. C’è solo una manciata di persone che potrebbe chiamarmi. Mia ma- dre, ma le ho parlato ieri sera e lei di solito non telefona mai per due giorni di fila; Chloe, la mia migliore amica, ma anche questo è poco probabile, sarà fuori da qualche parte, oppure… Pete. Ci siamo sentiti più o meno una volta alla settimana da quando mi sono trasferita e le nostre telefonate sono sempre identiche. Par- tiamo dicendo che ce la caviamo alla grande e siamo felicissimi, quindi parliamo di lavoro, delle nostre famiglie – di qualsiasi argomento neutro ci venga in mente – e poi lui tutte le volte dice: «Non ho ancora capito perché te ne sei andata. Torna qui, no? Ci divertivamo». E io rispondo qualcosa tipo: «No, eri tu a divertirti e la maggior parte delle volte non con me». Allora lui comincia a darmi della paranoica, io mi metto sulla difensiva e lo accuso di essere andato a letto con altre donne, e in men che non si dica cominciamo a litigare come abbiamo fatto per quasi tre anni. Dopo un po’ finisco in lacrime. La storia con Pete l’ho superata, davvero, solo che mi agito pensando al tempo che ho perso con lui. Convinta che provasse i miei stessi sentimenti. «Pronto?» rispondo speranzosa. Litighiamo, sì, ma non si- gnifica che non abbia voglia di sentirlo. «Pronto? Parlo con Cressida Langton?» chiede una donna con voce frizzante. Mi sento sprofondare. Okay, l’altra possibilità era che la telefonata non fosse per me, cosa piuttosto scocciante dato che sono l’unica a vivere qui. Adesso vorrei aver cambiato numero di telefono. Non l’ho fatto perché costa quaranta ster- line e quando sono arrivata pensavo non fosse un problema

17 mantenere quello vecchio. Se solo Cressida non ricevesse più telefonate di me. Eppure è meglio così: se fosse stato Pete, magari avrei ammesso di sentirmi giù di morale. Sarebbe stata una catastrofe. «No» dico cercando di non far trapelare la delusione dal mio tono di voce. «Se n’è andata un mese fa.» «Oh. Ha per caso un numero dove posso rintracciarla?» «No, mi dispiace» dico per la decima volta questa settima- na. Cressida non ha pensato di dare il suo nuovo numero di telefono agli amici? «Be’, è un peccato» continua la donna molto irritata. «Chia- mo dal Nobu. Cressida ha prenotato un tavolo per stasera e vorrei sapere se tenerglielo o meno.» «Nobu?» È semplicemente il ristorante più caro di tutta Lon- dra. Cressida doveva andare lì stasera? Wow! All’improvviso ha acquistato molti punti ai miei occhi. «Sì» dice la donna. «Bene» commento dopo un attimo di silenzio. Non riesco a credere di essere al telefono con il Nobu. «Be’, mi dispiace di non poterla aiutare.» «No, be’, allora non importa.» E con questo riattacca.

Aha aha, aha aha. Buuum, sì, yeah. Rimango a fissare il telefono per qualche secondo cercando di immaginare una cena al Nobu. Cressida probabilmente è una londinese superglamour. Glamour e ricca. Chissà con chi doveva andarci. Poso lo sguardo sulla pila di inviti per lei. All’improvviso mi sembrano molto più interessanti. Mi domando che tipo di lettere riceva una persona che va a cena al Nobu.

18 Mi avvicino lentamente e prendo le buste. Sembrano piut- tosto banali. Ma ce n’è una grande e marrone che ha un’aria intrigante e una piccola color crema con l’indirizzo scritto a mano. Poi c’è un catalogo in un involucro di plastica trasparen- te. Lascio il resto delle lettere lì dove sono e torno sul divano portandomi dietro le due buste dall’aria intrigante e il catalogo. Suppongo di poter aprire il catalogo. Insomma, è semplice pubblicità, no? Non conterrà niente di personale. Mentre sto per aprirlo, mi fermo vergognandomi per il mo- do ridicolo in cui mi comporto. Non riesco a credere di essere arrivata al punto di dover aprire la pubblicità destinata a un’altra persona per divertirmi. Ma, visto come sono caduta in basso, posso anche aprire la sua corrispondenza: se devo essere patetica, meglio esserlo fino in fondo. Guardandomi intorno con aria furtiva, preoccupata che qualcuno mi veda, tiro via l’involucro trasparente. Lo so che è solo un opuscolo, ma dà comunque una sensazione strana aprire la posta di un’altra persona. Metto a tacere i miei dubbi e mi concentro sul catalogo. Sempre che lo si possa chiamare così. È troppo bello per una definizione tanto banale. Non ho mai visto un catalogo di ven- dite per corrispondenza come questo! Tanto per cominciare, la carta su cui è stampato è magnifica ed è pieno di cose incre- dibili, tutte esageratamente costose: lampade in pietra e lunghi abiti di velluto e altri oggetti di cui nessuno ha bisogno, ma che sono talmente belli che probabilmente accendereste una seconda ipoteca sulla casa per comprarli. Sempre che ne abbiate una, ovvio. Mi sa che lo conservo per la mamma: è il tipo di cosa che le piace. Immagino il mio salotto pieno di bellissimi oggetti. Cressi-

19 da faceva acquisti su questo catalogo? Quando abitava qua, il salotto era pieno di teli e cuscini sfarzosi? Scommetto di sì. E probabilmente teneva anche le candele accese. Socchiudo gli occhi e immagino tende di velluto spesso alla finestra, cuscini di pelle e un copridivano di eco-pelliccia. Okay, non appena ho un po’ di soldi vado a fare shopping. Metto giù il catalogo e fisso le altre lettere. Adesso che ho stuzzicato l’appetito, mi viene voglia di sbirciare ancora un po’ nella vita di Cressida. Non sarei in queste condizioni se avessi il mio personale mucchietto di lettere da aprire, ma non ne ho neanche una. Ho ricevuto un estratto conto stamattina (non è mai una bella cosa da vedere all’inizio del fine settimana) e una cartolina dai miei genitori due settimane fa: ed è tutto. Ma non scrive più nessuno? Evidentemente sì, solo che scrivono a Cressida, non a me. Dopo qualche minuto di incertezza prendo la grande busta marrone con l’intenzione di rimetterla fra le altre, ma segreta- mente cerco un indizio che mi dica che si tratta di pubblicità e che quindi sono autorizzata ad aprirla. E invece rimango scioc- cata. C’è un piccolo timbro sull’angolo a sinistra che dice: “Soho House”. Come ho fatto a non vederlo prima? Non è possibile sia una lettera della Soho House! Il club privato dove vanno tutti quelli che contano! Il locale che ha aperto una nuova sede a New York, in cui hanno subito girato una scena di Sex and the City! Non ditemi che Cressida è socia!!! Il cuore comincia a battere più forte. È un club esclusivo e alla moda, il non plus ultra dell’alta società. All’improvviso Londra non mi sembra più tanto impenetrabile. Ho una lettera della Soho House. Errata corrige. Cressida ha una lettera della Soho House. Ma lei non c’è, giusto? E io non ho la minima idea di dove si trovi. Per quanto ne so potrebbe essersi trasferita in

20 Australia e non credo le interessi una manciata di lettere finita qui, vi pare? Tasto per bene la busta: non c’è granché dentro. Al massimo un po’ di fogli di carta. E la metto di nuovo giù. È insoppor- tabile. Non posso guardare la posta di un’altra persona. Ma dài, si tratta della Soho House! Quando mi capiterà un’altra occasione simile? Mi concentro sulla seconda lettera che ha l’aria altrettanto intrigante. È una busta spessa color crema, e la grafia è vergata in modo elegante con una vera e propria penna stilografica.

Cressida Langton, appartamento 3, 127 Ladbroke Grove, Notting Hill, Londra.

Suona bene, no? Adesso è il mio indirizzo. Abito qui. Vadano a quel paese Pete e la festa al piano di sopra: non ho bisogno di nessuno di loro. Mi domando che aspetto abbia Cressida. È bella, probabil- mente. Non riesco a immaginare una persona brutta che fre- quenti la Soho House. Mi alzo per guardarmi allo specchio, ten- go la testa alta e raddrizzo la schiena, immaginandomi di essere lei. «Cava, hai un’avia divina» dico al mio riflesso facendo finta di essere Catherine Zeta-Jones o giù di lì. Okay, forse l’accento è un po’ troppo aristocratico, sembro più la regina che Liz Hurley, ma ci posso lavorare sopra. «Faccio un salto per un drink alla Soho House» dico a un immaginario Pete. «Oh, Alistair, mi dispiace, non posso trattenermi molto: sto andando al Nobu.» Mentre parlo le mani sono irresistibilmente attratte dalle lettere, per cui le prendo e mi sventolo, a completare il qua- dretto. Non ci sarebbe niente di male se dessi una sbirciatina minuscola, giusto? Voglio dire, nessuno verrà mai a saperlo, vi

21 pare? Sono sicura che Cressida non verrà mai a chiedermele, per cui se do un’occhiata non cambia nulla. Però potrebbe tornare, no? E a quel punto cosa farei? Non sarebbe bello con- segnargliele già aperte, vero? Maledizione, quelle lettere sono irresistibili. Per una sorta di riflesso condizionato, tiro via la mano come se mi fossi bruciata i polpastrelli. «Natalie Raglan, che diavolo stai pensando di fare?» mi dico sottovoce, imponendomi di abbandonare questo sogno a occhi aperti su Cressida Langton. C’è mancato poco. Sorrido allo specchio mentre ascolto Tempted by the Fruit of Another. Tentata dal frutto di un altro? Non sono sicura che gli Squeeze intendessero proprio questo mentre scrivevano il brano, anche se le parole sono piuttosto calzanti. Resisterò alla tentazione. Queste lettere sono di un’altra persona, e io non sono il tipo da aprirle. Punto.

Accendo la tv, ma prima di cominciare a fare zapping, il tele- fono squilla di nuovo. «Sono salva!» grido andando a rispondere. «Natalie?» chiede una voce familiare. «Sembra che ti manchi il fiato.» «Chloe! Sì, be’, sono arrivata di corsa dall’altra parte dell’ap- partamento, o meglio, mi sono tuffata dall’altra parte del di- vano.» Io e Chloe abbiamo vissuto l’una accanto all’altra fin dall’età di cinque anni e, finché non sono venuta a Londra, abbiamo fatto praticamente tutto insieme. Mio fratello James è morto quando io avevo sei anni, e i miei genitori ci hanno messo molto a superare la cosa, per cui per un paio d’anni ho passato più tempo a casa di Chloe che a casa mia. Eravamo inseparabili:

22 andavamo insieme dappertutto, leggevamo gli stessi libri, ve- devamo gli stessi film… Dio, addirittura abbiamo dato il nostro primo bacio la stessa sera. Non ci siamo baciate fra noi, ovvia- mente, abbiamo baciato dei ragazzi. È successo con James e Steve, due compagni di liceo, e avevamo tutte e due quattordici anni. Abbiamo anche insistito per non stare a più di tre metri di distanza l’una dall’altra nel caso qualcosa andasse storto, e alla fine ci siamo messe a ridere così tanto che James e Steve sono entrati in paranoia e se ne sono andati via convinti di avere a che fare con due idiote. È stato un gran sollievo a dire il vero: James baciava malissimo, e io ero preoccupata che Pete mi scoprisse. Non avrebbe fatto molta differenza: in quella fase Pete non mi aveva ancora chiesto di uscire, ma all’epoca avevo l’idea di conservarmi per lui. Io e Chloe, come stavo dicendo, abbiamo condiviso tutto: il liceo, l’università e perfino il lavoro. Siamo entrate all’agen- zia Shannon di Bath lo stesso giorno. Dopo l’università io ho cominciato a cercare lavoro a tappeto, non sapevo cosa vole- vo diventare per cui ho fatto domanda praticamente ovunque, mentre Chloe era pronta a stare con le mani in mano per un po’, in attesa di capire cosa fare della sua vita. Io però l’ho convinta a mandare insieme a me il cv a qualche azienda, e così abbia- mo avuto tutte e due il posto alla Shannon. Di fatto Chloe si è dimostrata una pubblicitaria nata, mentre io nel profondo non ho mai avuto la sensazione che fosse quella la mia vocazione. Ma se non avessi deciso di licenziarmi e trasferirmi a Londra, lavoreremmo ancora l’una a fianco dell’altra. A essere sincera, però, da quando sono a Londra ho evitato le chiamate di Chloe. Non è che non mi vada di parlarle, ov- viamente, è solo che vorrei avere qualcosa in più da raccontare. È la mia migliore amica, dopo tutto. L’ ultima cosa che voglio

23 è confessarle che me ne sto da sola tutte le sere in casa. Voglio fare colpo su di lei raccontandole fantastiche storie sulla mia meravigliosa vita sociale: le giornate piene di glamour e le serate all’insegna del piacere. E poi non posso dirle la verità, perché finirebbe per raccontarlo a mia madre. Non sopporto l’idea che il sogno londinese di mia madre vada in frantumi per la seconda volta nella sua vita. «Be’, almeno sei in casa!» dice Chloe con quel tono di voce allegro che ben conosco. «Non ero sicura che fosse il momento migliore per chiamare.» Rimango un attimo in silenzio. Vorrei dire a Chloe che mi sento sola, che ho paura di essermi buttata nell’acqua alta senza ricordarmi di come si fa a nuotare. Chloe è sempre stata la per- sona a cui ho raccontato tutti i miei problemi (credetemi, ne ho avuti tanti). Ci piaceva tanto passare il sabato sera a guardare vecchi film e a parlare della nostra (di solito disastrosa) vita sentimentale, e so che si aspetta che mi confidi con lei come sempre. Ma per qualche motivo non ci riesco. Mentre Chloe mi racconta quello che le è successo durante la settimana, io penso a come rimase sorpresa quando decisi di andare fino in fondo al mio progetto e di trasferirmi a Londra. In effetti ne rimasi sorpresa anche io. L’ avevo detto solo per fare colpo su Pete una sera che era tornato a casa a mezzanotte senza darmi nessuna spiegazione. Allora gli dissi che ero stufa di tutto, che lo lasciavo e mi trasferivo a Londra. E quando lui mi rispose di smetterla di fare la melodrammatica, ci andai giù duro e mi rifiutati di ammettere che non avevo mai progettato di trasferirmi sul serio. Quando poi venne a saperlo mia madre… be’, ne fu così contenta che non ebbi il coraggio di dirle che non ero sicura di volerlo fare. È andata così: ho solo bisogno di

24 trovare un modo per rendere la mia vita più glamour di quanto lo sia al momento. Gli occhi sono nuovamente attratti dalle lettere. Potrei sem- pre dire qualche piccola bugia, no? Insomma, rendere la situa- zione più frizzante. Voglio dire, non è che Chloe sia qui per verificare. Non lo saprà mai. Distolgo lo sguardo. Dio, Natalie, mi rimprovero. Stai dav- vero pensando di nascondere la verità alla tua migliore amica? Solo perché non vuoi che tutti credano che sei una fallita? «Natalie? Stai bene?» sussurra Chloe al telefono. Non ho detto niente negli ultimi minuti, e sinceramente non è da me. Di solito parliamo tutte e due così tanto che è difficile capirci. «Senti, se le cose non funzionano come dovrebbero, puoi dir- melo, lo sai. Non c’è da vergognarsi ad ammettere che avevi torto a…» Divento rossa. Ammettere che avevo torto? Non credo pro- prio. Se l’alternativa è deludere mia madre e sentire Pete che canta vittoria, preferisco inventarmi di sana pianta una nuova vita che riconoscere che sono da sola per il quarto sabato di fila. Ma Chloe non si rende conto di dove sono? Sono a Not- ting Hill. Vivo al 127 di Ladbroke Grove. Ovvio che le cose funzionino. Poso di nuovo lo sguardo sulle lettere. «Sto bene?» mi sento dire con un tono di voce un tantino strozzato. «Dio, non potrei stare meglio!» Scioccata per quello che mi è appena uscito di bocca, arros- sisco di nuovo. «Davvero? È che tua madre mi ha detto che le sei sembrata un po’ giù quando ti ha sentita… che magari era più dura di quanto ti aspettassi. Insomma, è una città enorme, Londra…» Mia madre? Oh, Dio, era tanto ovvio? Ero sicura di aver finto

25 alla perfezione, dicendole esattamente quello che voleva sentirsi dire. Evidentemente devo esercitarmi per essere più convincen- te. E quale momento potrebbe essere migliore di questo? Traggo un profondo respiro. «Enorme e favolosa!» rispondo a Chloe cercando di sorridere. «In effetti, hai avuto fortuna a trovarmi a quest’ora. Stavo per uscire.» Parlando mi faccio piccola, anche se cerco di convincermi che vada tutto bene. Mi sento un po’ vuota, ma in fondo che importa? «Oh, sono così contenta» dice Chloe sollevata, e io provo un forte senso di colpa. Lei si preoccupa sul serio, mentre io invento ridicole storie sulla mia fantastica vita sociale. «E dove vai di bello?» «Dove vado?» Cerco disperatamente di pensare a un po- sto. Poi mi viene in mente. O meglio, il mio sguardo è attratto dall’angolo sinistro di una delle lettere di Cressida. «Oh, alla Soho House, in effetti» rispondo prima di riuscire a trattenermi, e poi sussulto. Non riesco a credere di averlo detto. «Nooo!» esclama Chloe. «Dio, Natalie… è il club più in di tutta Londra. Con chi vai?» Con chi vado? Accidenti… con chi cavolo potrei andare alla Soho House? «Con…» comincio a dire, e poi mi fermo. È ridicolo. Devo dire a Chloe la verità. Dillo e basta: Non ci vado mica. L’ ho solo inventato. Ma non ce la faccio. «Con un po’… di gente» continuo con una certa titubanza. «Con un po’ di gente? Dio, vorrei conoscere la gente che va alla Soho House. Allora com’è? Londra, intendo.» Com’è? E come faccio a saperlo? avrei voglia di risponderle. Da quando sono arrivata sono stata in casa praticamente tutte le sere. La vista dalla mia finestra è meravigliosa e nel tragitto da qui al lavoro e viceversa passo dal mercatino di Portobello

26 con tutti quei fantastici bar e ristoranti, dove io non ho mai messo piede. Ma non glielo dico. Sospiro, incrocio le dita e le racconto dei fantastici bar di Portobello Road davanti a cui passo regolar- mente, e ricorro alla mia fantasia per descriverle gli interni. Le parlo di tutte le meravigliose bancarelle di vestiti dove comprare scarpe vintage e magliette carinissime a cinque sterline, della zona spagnola in fondo alla strada nel punto in cui Portobello si congiunge a Golborne Road dove trovi l’olio di oliva e le crostate alla crema più buone del mondo. «E poi c’è Tom’s, un bar-gastronomia che è il locale migliore per la colazione, e il Beach Blanket Babylon, dove fanno i cock­ tail più gustosi in assoluto» proseguo con entusiasmo, senza accennare al fatto che ho racimolato tutte queste informazioni dalla rivista Heat e non per esperienza diretta. Mentre parlo penso che è così che dovrebbe essere Londra. Che probabil- mente lo è per gente come Cressida. Che spero lo diventi prima o poi anche per me. «È fantastico» concludo alla fine della descrizione di questa mitica città dove può succedere di tutto e dove non mi è ancora successo niente. «È davvero fantastico.» «Strepitoso» sospira Chloe. «Sono così contenta. Proprio l’altro giorno Pete diceva che secondo lui fra un mese torni a Bath, il che dimostra che non ne sa proprio nulla. E adesso vai alla Soho House. Rimarranno tutti impressionati.» Cosa ha detto Pete? Dio, com’è arrogante quell’uomo. Be’, glielo faccio vedere io. Riuscirò a sfondare. Malgrado il senso di colpa che mi scorre nelle vene, sono determinata a convincere tutti che mi sto divertendo un mondo. Ho detto delle piccole bugie, lo so. Magari bugie non proprio piccole. Ma presto tutti crederanno che ho una vita favolosa, e questo mi fa stare bene,

27 anche se so perfettamente che non è la verità. E poi perché non dovrei andare alla Soho House? Cressida ci andava e viveva nel mio stesso appartamento. Tutto è possibile. «Allora,» dico, cambiando discorso prima di farmi trascinare troppo «cosa mi racconti di te, cosa fai stasera?» «Be’, vanno tutti da George, quindi li raggiungerò poco pri- ma della chiusura. E poi Rebecca Williams dà una festa, per cui probabilmente dopo finiremo lì.» «Fantastico… ottimo» riesco a dire, cercando di sembrare entusiasta. Rebecca Williams è una di quelle tipe un tantino passivo-aggressive con le unghie e i capelli sempre perfetti. È sempre stata una delle principali sospettate quando Pete faceva tardi la sera. «E del negozio cosa mi dici?» «Del negozio?» A casa non ho detto a nessuno che lavoro in un negozio. Insomma, lavoravo nella pubblicità. Ed ero candi- data a una promozione. Non ho la minima voglia di ammettere che adesso devo piegare e ripiegare maglioni tutto il giorno, anche se lavoro in uno dei negozi più glamour di Notting Hill. Per cui ho glissato e ho raccontato a tutti che ho un lavoro simile al precedente senza scendere nei dettagli. Insomma, lavoro nella moda, no? E alla Shannon avevo dei clienti nel mondo della moda. Per cui è più o meno la stessa cosa, giusto? «Dài, il negozietto che volevi aprire… Non dirmi… che hai cambiato idea. Non sarebbe la prima volta…» Chloe ridacchia. All’improvviso mi torna in mente la serata che abbiamo passato insieme a bere il giorno prima che mi trasferissi a Londra. Le avevo confessato che la mia vera ambi- zione nella vita era aprire un negozietto pieno di belle cose. A dire il vero, quando gliel’ho detto, pensavo a un negozio con saponette, profumi e magari qualche capo di abbigliamento,

28 ma dopo aver visto il catalogo di Cressida, le mie aspirazioni si sono notevolmente ingigantite. «No, non ho cambiato idea» rispondo indignata. Chloe mi prende sempre in giro perché non mi decido mai. Ma non è vero. Non sulle cose importanti, in ogni caso. E poi non sempre. «Per cui lo apri?» chiede Chloe con interesse. «Sì, esatto. Sto proprio per aprire il mio negozietto. Ho la vaga sensazione che non sarà così semplice» le rispondo sospi- rando. «Mi sa che andrebbe classificato come “sogno” piuttosto che come “ambizione”, se capisci cosa voglio dire. Non ne hai parlato con nessuno, vero?» «Certo che no» ribatte Chloe. «Insomma, io ho detto che la mia ambizione era soffiare una campagna pubblicitaria a Char- les Saatchi, per cui non credo proprio di poter fare il grillo par- lante, ti pare? Allora, con tutte le tue stranezze glamour in quel di Londra, nessuna novità sul fronte amoroso?» Rimango un attimo in silenzio. Insomma, la risposta sareb- be no. No, nessuna novità. Perché allora mi fermo a pensare e non lo dico subito ad alta voce? Perché l’idea che Chloe vada alla festa con Pete e dica a tutti che sono ancora single è così difficile da gestire? «Natalie?» chiede Chloe con curiosità visto che rimango zitta per qualche secondo. «Ci sono novità, vero? Oh, mio Dio, hai un ragazzo!» È così entusiasta. Sarebbe tanto sbagliato farle pensare che esco con qualcuno? Che cavolo! Cosa mi sta succedendo? Ovvio che sarebbe sbagliato. E anche incredibilmente triste. Ho smesso di inven- tarmi i fidanzati a quindici anni, e in ogni caso Chloe non ha mai creduto all’esistenza di nessuno di loro. La mia bocca però sembra dotata di vita propria.

29 «Ehm… be’, forse» rispondo con una certa ritrosia. Vorrei riuscire a vedermi, perché lo sguardo indignato sul mio viso mi farebbe smettere all’istante di raccontare balle. Mi dirigo allo specchio per guardarmi in cagnesco. In effetti, ho un’aria piuttosto spaventosa. «Lo sapevo!» strilla Chloe. «Chi è? Come si chiama?» Cavolo. Come si chiama. Visto? mi dico arrabbiata. Visto cosa succede? E adesso cosa fai? Mi guardo attorno disperata in cerca di ispirazione. Per qualche motivo non credo che le lettere di Cressida mi possano aiutare in questo caso. Sposto lo sguardo sul soffitto. «Alistair» rispondo con un filo di voce. «Vive… ehm, vive al piano di sopra.» Okay, bene, per cui stiamo tornando alla realtà. Lo ammetto, magari è un tantino esagerato dire che io e lui andiamo a letto insieme, ma almeno vive al piano di sopra. Conterà pur qualcosa, no? «Il tuo vicino?» esclama Chloe. «Natalie, sei tremenda!» «Non hai idea di quanto» commento con voce cupa. La cosa peggiore è che dire a Chloe che ho un ragazzo mi fa sentire bene. È come con gli specchi nei camerini dei negozi: ti fanno sembrare di due taglie più magra di quanto tu sia in realtà. Sai che non è vero, ma te la godi lo stesso. «Che figata!» continua Chloe in tono nostalgico. «Allora quando mi inviti da te?» «Cosa? Qui?» All’improvviso mi assale la paura. Chloe non può venire qui. Scoprirà che ho, be’, addolcito un tantino la realtà. «Non vuoi che venga a trovarti per un paio di giorni?» chiede Chloe sulla difensiva. «Certo. Oh, Dio, mi piacerebbe tantissimo. Perché non fac- ciamo fra qualche settimana? Vado…» cerco di trovare una scu-

30 sa «vado via con Alistair il prossimo weekend e quello dopo lavoro» mi sento dire. «Ma ti chiamo, okay?» «Vai già via con lui per il fine settimana?» chiede Chloe. «Wow! Non ha degli amici papabili?» Cerco di ricordare se ho visto Alistair insieme a qualche bell’uomo, poi mi ricordo che non ha la minima importanza perché Alistair è poco più di un ragazzo immaginario, per cui che abbia o meno degli amici papabili in realtà è una questione piuttosto aleatoria. «Sono sicura che riesco a scovarne uno per te» le prometto. «Fantastico! Be’, fammi sapere quando e mi catapulto a Lon- dra.» «Okay. Passa una bella serata.» «Anche tu… Ciao!» Riattacco e rimango seduta immobile per un attimo. Mi sen- to stranamente euforica. Anche se la mia situazione è tutt’altro che elettrizzante:

Numero uno: ho un lavoro piuttosto schifoso, in realtà. Numero due: non ho amici. Numero tre: è sabato sera e sono in casa a guardare la tv. Numero quattro: ho appena mentito alla mia migliore amica e la cosa mi fa stare bene.

Magari è vero quello che si dice: conta l’apparenza. Quella che è cominciata come una piccola bugia per non far preoccupare mia madre si è trasformata in una vita inventata di sana pianta con tanto di ragazzo incluso. E la cosa peggiore è che mi sento benissimo. Chloe è convinta che io vada alla Soho House, e che ci vada con Alistair. Ciò significa che la mamma toccherà il cielo con un dito, e Pete… be’, spero che sia tutto fuorché

31 felice. Magari capirà che sono perfettamente in grado di vivere la mia vita senza di lui. Adesso devo solo trovare un modo per passare dall’apparenza alla realtà. Cercando di non pensare troppo a quello che ho appena fatto, accendo la tv e vengo travolta da un’ondata di piacere quando vedo Hugh Grant che offre a Julia Roberts albicocche e miele. Su Channel 4 c’è Notting Hill. Sento un moto di orgoglio guardando Hugh Grant che cammina in Portobello Road… la mia nuova casa! Adoro questo film. L’ ho visto con Chloe quan- do è uscito, ed è stato allora che ho deciso di trasferirmi in Lad­ broke Grove. L’ ho detto a tutti, e tutti mi rispondevano: «Sì, sì» senza crederci realmente. E adesso invece sono qui. Ah! Metto rapidamente in forno la pizza e mi servo un bicchiere di vino.

Rimango a fissare i titoli di coda. La bottiglia di vino è vuota, e l’euforia è passata. Piango sempre nel punto in cui il tizio con la moglie in carrozzina si rifiuta di lasciarla da sola quando tutto il gruppo di amici si dà all’inseguimento di Julia Roberts. Di solito però non mi commuovo così tanto. Il film è finito da una decina di minuti e io ho ancora voglia di piangere. Il fatto è che sono tutti incredibilmente in gamba in questo film. Insomma, Hugh Grant incontra Julia Roberts semplicemente perché lei entra nel suo negozio. E in più ha un gruppo di amici molto unito. Forse sono stata stupida a pensare di poter ricominciare. Senz’altro non mi era mai passato per la testa che mi sarei sentita sola in una città così grande. Dopo aver rimuginato un po’, mi alzo per prendere un bic- chiere d’acqua. Vedendo il mio riflesso allo specchio, per poco non mi metto di nuovo a piangere. Ho un’aria tremenda, il truc- co colato su tutto il viso e il fermaglio di strass comprato oggi a Portobello pende sconsolato da un ciuffo di capelli.

32 Ma ovviamente è il vino rosso che parla, o meglio, che pian- ge. Sto bene, davvero. Devo solo andare a letto. Comincio a rimettere a posto, raccolgo la scatola vuota della pizza, poi faccio un giro per casa e butto via tutti i rifiuti che trovo. Devo ammettere che non mi fa un bell’effetto: takeaway, bottiglie di vino vuote, vecchie riviste tipo Heat e Hello! Voglio liberarmi di tutte queste schifezze e riorganizzarmi la vita, pen- so decisa. Voglio fare quello che dice l’articolo: ripulire la mia vita e creare una nuova Natalie. E questo prevede anche buttare via le lettere di Cressida: vada pure al diavolo il padrone di casa! Ci vivo io qui adesso, non capisco perché dovrei riempire l’appartamento con le sue lettere. E magari cambio anche il numero di telefono. Ma invece di afferrare le lettere, mi fermo un attimo. Posso senz’altro buttarle via. Ma se Cressida tornasse? E se il padrone di casa passasse a prenderle? Rimango a guardarle un po’ cercando di capire se tenerle sia indice di forza o di debolezza. In fondo al cuore mi domando se il motivo per cui non voglio buttarle dipenda dalla voglia irrefrenabile che ho di sapere cosa c’è dentro. Ma è ridicolo. Figuriamoci se le apro. Sono stata già abba- stanza perfida stasera a dire a Chloe che ho una vita sociale super glamour quando l’unica cosa che faccio è starmene in casa a mangiare la pizza. Figuriamoci se apro la posta di un’altra persona. Però potrei darle all’agente immobiliare. Lui forse potreb- be spedirle a Cressida, ovunque lei si trovi adesso. Ma forse le butterebbe via e basta: insomma, perché dovrebbe importargli se Cressida riceve o meno le sue lettere? Prendo la busta di carta spessa color crema con l’indirizzo scritto a mano e la metto controluce, senza riuscire a racimola-

33 re nessun’altra informazione. Ti comporti così solo perché sei annoiata, mi dico. Sarà senz’altro una lettera barbosa che non contiene niente di interessante. E in ogni caso, aprire la posta di un’altra persona è semplicemente sbagliato. Come rubare. O spiare qualcuno. E forse è anche illegale. A meno che… a meno che aprendola non riesca a scoprire chi gliel’ha spedita, per poi restituirgliela con un biglietto di spiegazioni. Gli uffici postali a volte aprono le lettere per ri- spedirle al mittente, no? Potrei farlo io al posto loro. Gli farei risparmiare tempo, no? No. Idea stupida. Non volendo cedere alla tentazione, mi metto di nuovo a guardare la busta della Soho House. Okay questa sembra più una cosa burocratica. Non è che arrivi da un amico, un ospeda- le, una banca, né niente del genere. Non è personale. Chi sto prendendo in giro? Ovvio che è personale. C’è il nome di Cressida sopra. Ma se non la apro non saprò mai cosa contiene. Mia ma- dre ha sognato tutta la vita di essere una donna tipo Cressida, invitata alle feste più belle. Non si sa mai, se la apro magari scopro come faccio a diventare uguale a lei… e se Cressida non si preoccupa di far sapere che si è trasferita, non è mica colpa mia, giusto? Rapidamente, prima che la mia coscienza abbia la meglio su di me, apro la lettera. Poi la metto di nuovo giù. Cosa mi sta succedendo? Come mai mi interessa tanto cosa c’è dentro? Arriva dalla Soho House, e allora? Anche se, visto che ormai l’ho aperta, immagino di poterla anche guardare. Il danno è fatto. Giusto? Lentamente afferro con le dita il contenuto della busta e lo

34 tiro fuori. Cercando di convincermi che è una cosa assoluta- mente innocua, giro i fogli e mi trovo davanti il programma della Soho House e una lettera indirizzata a Cressida da parte di un certo Podge che la invita alla visione privata di un film la prossima settimana e a una cena speciale organizzata la setti- mana successiva in onore di un regista di cui non ho mai sentito parlare. Ecco cosa fanno alla Soho House. Rimango a fissare la lettera alcuni minuti, cercando di imma- ginare come sarebbe vivere la sua vita e ricevere realmente una lettera come questa. Essere una socia della Soho House, essere una che conta in mezzo a tutta la gente che conta. Lancio di nuovo un’occhiata al programma immaginandomi di essere lei. Mmm, un film, magari ci vado. Non sono sicura della cena… Poi noto un riquadro che pubblicizza una festa in uno degli avamposti della Soho House in campagna, la Babington House. È dove la gente fashion va per il fine settimana. Anche se non è la campagna che conosco io. Le camere sono tutte dotate di bagno ed enormi impianti stereo, e la stalla in realtà è un centro benessere dove puoi sottoporti ai più moderni trattamenti di bellezza. Fisso l’altra lettera. Adesso sono incuriosita e ho una voglia matta di aprirla. Ma non lo farò. Non sono ricca né famosa come Cressida, ma sono una persona onesta. O quasi. Mi domando se Alistair la conosceva. Scommetto che l’avrebbe invitata alla festa: la differenza è che lei probabilmente sarebbe stata troppo impegnata per andare. Ma non importa. Adesso qui ci vivo io. E mi divertirò moltissimo anche senza essere socia di un esclusivo club privato. Attacco il programma della Soho House alla bacheca e metto il catalogo sul tavolino da caffè: in qualche modo questi due oggetti illuminano la casa e mi fanno sentire più sofisticata.

35 Poi, delusa da me stessa, li prendo di nuovo tutti e due e li infilo in un cassetto. Vorrei assomigliare più a mia madre: era così bella e sofisticata da giovane. Ho visto alcune foto in cui indossa dei miniabiti anni ’60 e sembra una modella. Scommet- to che se si fosse trasferita a Londra da giovane avrebbe finito per lavorare per Vogue o qualcosa del genere. Io invece sono come papà: vado sul sicuro e mi piace stare con le persone che conosco bene. A una festa la mamma svolazza tranquillamente da una persona all’altra e finisce per conoscere tutti, mentre io cerco sempre il mio gruppo di amici e rimango con loro. Ma dovrò cambiare, se voglio che le cose funzionino qui. Tanto per cominciare non ho un gruppo di amici con cui uscire, il che significa che dovrò stringere i denti e farmene di nuovi, per quanto questa prospettiva mi faccia paura. Non sarò una fallita. Nel frattempo non ha senso cercare di essere Cressida e do- mandarmi se comprare o meno una nuova coperta di cashmere e a quali proiezioni private andare con i miei amici vip, perché io non sono lei. In ogni caso è mezzanotte passata, sono stanca e vado a letto. Mentre mi alzo per andare in camera, mi fermo un attimo e prendo la seconda lettera. Senza chiedermi quali siano le mie reali intenzioni, la porto in camera e l’appoggio sul comodino. Non che voglia aprirla. Neanche per sogno.

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