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Gian Franco Gianotti

Omero: chi era(n) costoro?

2.

8. Aristotele su Odissea e Iliade.

Aristot. Poetica 1451a-b oJ d∆ ”Omhroç w{çper kai; ta; a[lla diafevrei kai; tou't∆ e[oiken kalw'ç ijdei'n, h[toi dia; tevcnhn h] dia; fuvçin: ∆Oduvççeian ga;r poiw'n oujk ejpoivhçen a{panta o{ça aujtw'/ çunevbh, oi|on plhgh'nai me;n ejn tw'/ Parnaççw'/, manh'nai de; proçpoihvçaçqai ejn tw'/ ajgermw'/, w|n oujde;n qatevrou genomevnou ajnagkai'on h\n h] eijko;ç qavteron genevçqai, ajlla; peri; mivan pra'xin oi{an levgomen th;n ∆Oduvççeian çunevçthçen, oJmoivwç de; kai; th;n ∆Iliavda. crh; ou\n, kaqavper kai; ejn tai'ç a[llaiç mimhtikai'ç hJ miva mivmhçiç eJnovç ejçtin, ou{tw kai; to;n mu'qon, ejpei; pravxewç mivmhçivç ejçti, mia'ç te ei\nai kai; tauvthç o{lhç, kai; ta; mevrh çuneçtavnai tw'n pragmavtwn ou{twç w{çte metatiqemevnou tino;ç mevrouç h] ajfairoumevnou diafevreçqai kai; kinei'çqai to; o{lon: o} ga;r proço;n h] mh; proço;n mhde;n poiei' ejpivdhlon, oujde;n movrion tou' o{lou ejçtivn. Fanero;n de; ejk tw'n eijrhmevnwn kai; o{ti ouj to; ta; genovmena levgein, tou'to poihtou' e[rgon ejçtivn, ajll∆ oi|a a]n gevnoito kai; ta; dunata; kata; to; eijko;ç h] to; ajnagkai'on.

«8. 1. Il racconto è uno non già, come credono alcuni, quando tratti di un’unica persona, perché a una sola persona accadono molti, anzi infiniti fatti, da alcuni dei quali non risulta nessuna unità; allo stesso modo, di un’unica persona molte sono anche le azioni che compie da cui non nasce un’azione unitaria. Perciò sembra [20] che sbaglino quanti tra i poeti hanno composto un’Eracleide o una Teseide e altri poemi del genere perché credono che, siccome uno era Eracle, ne consegua che anche il racconto sia unitario. 2. Omero invece, come anche nel resto si distingue, anche in questo pare aver visto bene, in virtù o di arte o di natura: infatti, nel comporre l’Odissea, [25] non rappresentò tutti i fatti accaduti a Odisseo, per esempio che fu ferito sul Parnaso e che si finse pazzo in occasion dell’adunata dei Greci, fatti per cui il verificarsi dell’uno non comportava per necessità o verosimiglianza il verificarsi dell’altro. Costruì invece l’Odissea attorno a un’azione unitaria, come diciamo noi, e alla stessa stregua anche l’Iliade. [30] 3. Pertanto, come anche nelle altre arti imitative l’imitazione una è di un oggetto, unico, così è necessario che anche il racconto, poiché è imitazione di un’azione, lo sia di un’azione unitaria e per di più intera; occorre altresì che le parti dei fatti siano connesse assieme in modo tale che, se qualcuna venga trasposta o soppressa, l’intero ne risulti sconnesso e alterato, poiché ciò che, aggiunto o assente, non produce nulla di evidente, [35] non è per niente parte dell’intero. 9. 1. Da quanto si è detto è chiaro altresì che compito proprio del poeta è di dire non gli avvenimenti davvero accaduti, ma quali potrebbero accadere e cioè quelli che sono possibili secondo verosimiglianza o necessità».

8a. Odissea. Conoscenza e riconoscimento.

ἀλήθεια: etimologicamente il prefisso alfa, con funzione privativa, precede la radice lath- che significa dimenticare / restare latente. Alétheia indica quindi qualcosa che non è più nascosto, che non è stato dimenticato.

1 Platone, Fedone 76a (parla Socrate): «Si è dimostrato, che, percependo noi una data cosa con la vista o l'udito o con qualche altro organo di senso, ci si presenta alla mente un'altra cosa, che avevamo dimenticato, ma che ha una relazione con la prima, che può assomigliarle o meno. Da qui, una delle due: o siamo nati con la conoscenza, ripeto, delle realtà in sé e continuiamo ad averla per tutta la vita, oppure, quelli che noi diciamo che imparano dopo non fanno altro che ricordarsi e, in tal caso, la sapienza altro non è che reminiscenza (hJ mavqhçiç ajnavmnhçiç)».

Aristotele, Poetica 11, 1-2: «La peripezia, come si è detto, è il cambiamento dei fatti nel loro contrario e questo, come stiamo dicendo, secondo il verosimile e il necessario, come per esempio nell’Edipo il messo, che veniva con l’intenzione di rallegrare Edipo e liberarlo dal terrore nei riguardi della madre, rivelandogli chi era, ottiene l’effetto contrario. E nel Linceo, mentre il protagonista è condotto a morire e Danao lo segue per ucciderlo, in forza dello svolgimento dei fatti accade che Danao muoia e Linceo si salvi. 2. D’altro canto, il riconoscimento, come significa anche la parola stessa, è il cambiamento dall’ignoranza alla conoscenza - oppure in direzione dell’amicizia o dell’inimicizia - di persone definite rispetto alla condizione di fortuna o di sfortuna; il riconoscimento più bello poi è quando si compie insieme alla peripezia, quale è per esempio quello che avviene nella tragedia di Edipo (“Eçti de; peripevteia me;n hJ eijç to; ejnantivon tw'n prattomevnwn metabolh; kaqavper ei[rhtai, kai; tou'to de; w{çper levgomen kata; to; eijko;ç h] ajnagkai'on, oi|on ejn tw'/ Oijdivpodi ejlqw;n wJç eujfranw'n to;n Oijdivpoun kai; ajpallavxwn tou' pro;ç th;n mhtevra fovbou, dhlwvçaç o}ç h\n, toujnantivon ejpoivhçen: kai; ejn tw'/ Lugkei' oJ me;n ajgovmenoç wJç ajpoqanouvmenoç, oJ de; Danao;ç ajkolouqw'n wJç ajpoktenw'n, to;n me;n çunevbh ejk tw'n pepragmevnwn ajpoqanei'n, to;n de; çwqh'nai. 2. ajnagnwvriçiç dev, w{çper kai; tou[noma çhmaivnei, ejx ajgnoivaç eijç gnw'çin metabolhv, h] eijç filivan h] eijç e[cqran, tw'n pro;ç eujtucivan h] duçtucivan wJriçmevnwn: kallivçth de; ajnagnwvriçiç, o{tan a{ma peripeteiva/ gevnhtai, oi|on e[cei hJ ejn tw'/ Oijdivpodi)».

Aristotele, Poetica 24, 1459b 3 SGG. «Di tutto questo Omero si è valso sia per primo sia in modo conveniente. E infatti dei suoi poemi ciascuno in ciascuno dei due modi è costituito, l’Iliade semplice e fondata su fatti patetici, l’Odissea invece complessa (c’è infatti dappertutto riconoscimento) e fondata sui caratteri. E inoltre ambedue sorpassano tutte le altre opere per l’elocuzione e per il pensiero» (oi|ç a{paçin ”Omhroç kevcrhtai kai; prw'toç kai; iJkanw'ç. kai; ga;r tw'n poihmavtwn eJkavteron çunevçthken hJ me;n ∆Ilia;ç aJplou'n kai; paqhtikovn, hJ de; ∆Oduvççeia peplegmevnon (ajnagnwvriçiç ga;r diovlou) kai; hjqikhv: pro;ç de; touvtoiç levxei kai; dianoiva/ pavnta uJperbevblhken).

IL TESTO GIOCATO SULL’AGNIZIONE, SCRITTA E RISCRITTA, È L’ODISSEA: ODISSEO SI FA RICONOSCERE DAI FEACI PERCHÉ PIANGE AL CANTO DI DEMODOCO, A ITACA SI FA RICONOSCERE DA TELEMACO, È RICONOSCIUTO DAL CANE ARGO, DALLA NUTRICE EURICLEA, DAL PORCARO EUMEO E DAL CAPRAIO FILEZIO; RICONOSCE LO SPOSO DA «SEGNI SICURI RIVELATI DA ODISSEO» SULLE PECULIARITÀ DEL TALAMO; INFINE LAERTE RICONOSCE IL FIGLIO DAI NOMI DEGLI ALBERI DEL FRUTTETO, «SEGNI SICURI RIVELATI DA ODISSEO».

2 Od. 1, 1-5 e 10

“Andra moi e[nnepe, Mou'ça, poluvtropon, o}ç mavla polla; / plavgcqh, ejpei; Troivhç iJero;n ptoliveqron e[perçe: / pollw'n d∆ ajnqrwvpwn i[den a[çtea kai; novon e[gnw, / polla; d∆ o{ g∆ ejn povntw/ pavqen a[lgea o}n kata; qumovn, / ajrnuvmenoç h{n te yuch;n kai; novçton eJtaivrwn. / … / tw'n aJmovqen ge, qeav, quvgater Diovç, eijpe; kai; hJmi'n.

Tutti i commentatori segnalano che, a dispetto del proemio, che riassume l’esperienza militare e odeporica dell’uomo poluvtropoç senza nominarlo, i primi quattro libri sono segnati dall’assenza di Odisseo, evocato in vetta all’Olimpo e rimpianto oppure esecrato in terra, da familiari e Pretendenti di Penelope. I primi quattro libri sono un canto su Telemaco: la Telemachia narra come il figlio di un padre troppo a lungo assente impara a conoscere le vicende del proprio genitore e, nello stesso tempo, a conoscere il mondo; narra, in buona sostanza, la storia dell’istruzione di un figlio, mediata dai racconti dei compagni d’arme del padre come sintesi rapida dei vent’anni trascorsi lontano da Itaca da Odisseo, che solo nel V libro fa la sua comparsa diretta, per assumere la piena titolarità della propria storia e portarla a termine in compagnia di un figlio degno di stargli accanto.

Od. 1, 284-286. Atena, che ha assunto l’identità di Mente (antico sodale di Odisseo), consiglia a Telemaco un viaggio per avere notizie del padre: «per prima cosa va a Pilo e interroga Nestore glorioso. / Da pilo recati poi a dal biondo Menelao: / è stato l’ultimo, tra gli Achei dalla bronzea corazza, a fare ritorno» (prw'ta me;n ejç Puvlon ejlqe; kai; ei[reo Nevçtora di'on, / kei'qen de; Çpavrthnde para; xanqo;n Menevlaon: / o}ç ga;r deuvtatoç h\lqen ∆Acaiw'n calkocitwvnwn). Un antico scholion al v. 284 osserva: «Il pretesto per il viaggio di Telemaco è cercare notizie del padre; ma per Atena, che glielo suggerisce, l’obiettivo è l’istruzione. Il figlio non sarebbe divenuto degno del padre se non ne avesse sentito raccontare le gesta dai suoi compagni; è dlle storie che ha sentito su di lui che impara come comportarsi con suo padre».

Od. 1, 410 e 420 Telemaco risponde a Eurimaco sull’identità di Mente (che è subito sparito, non si è fatto riconoscere: oi|on ajnai?xaç a[far oi[cetai, oujd∆ uJpevmeine / gnwvmenai), ma in veste di Mente ha riconosciuto la dea Atena (w}ç favto Thlevmacoç, freçi; d∆ ajqanavthn qeo;n e[gnw).

Od. 2, 85 sgg. Nel corso dell’assembea degli Itacesi convocata da Telemaco, Antinoo risponde con durezza alla denuncia delle colpe dei Pretendenti da parte del figlio di Odisseo: çoi; d∆ ou[ ti mnhçth'reç ∆Acaiw'n ai[tioiv eijçin, / ajlla; fivlh mhvthr, h{ toi peri; kevrdea oi\den. I vv. 96 sgg. sono ripetuti in 19, 137 sgg.: argomento è l’inganno della tela di Penelope. Elogio di Penelope (ta; fronevouç∆ ajna; qumovn, a{ oiJ peri; dw'ken ∆Aqhvnh, / e[rga t∆ ejpivçtaçqai perikalleva kai; frevnaç ejçqla;ç / kevrdeav q∆, oi|∆ ou[ pwv tin∆ ajkouvomen oujde; palaiw'n, / tavwn ai} pavroç h\çan eju>plokami'deç ∆Acaiaiv), ma critica dell’espediente adottato per differire le nozze.

Od. 2, 143 sgg. La minaccia di Telemaco (ejgw; de; qeou;ç ejpibwvçomai aije;n ejovntaç, ai[ kev poqi Zeu;ç dw'/çi palivntita e[rga genevçqai: / nhvpoinoiv ken e[peita dovmwn e[ntoçqen o[loiçqe), confermata dal volo delle due aquile inviate da e interpretata dall’indovino Aliterse come presagio di sciagura per i Pretendenti (ta; de; dh; nu'n pavnta telei'tai). Minacce di Eurimaco ad Aliterse e a Telemaco, che rivela il suo progetto di recarsi a Sparta e a Pilo per chiedere notizie del padre. Un battibecco tra Mentore e Leocrito chiude l’assemblea.

Od. 2, 260 sgg: Telemaco, solo sulla riva del mare, invoca Atena, che gli appare accanto in forma di Mentore. Atena-Mentore riconosce che a Telemaco non manca la mh'tiç ∆Oduççh'oç (v. 279); lo esorta a compiere il viaggio senza badare alle intenzioni dei Proci, che ignorano quanto sia ormai prossimo il destino di morte (v. 283: oujdev ti i[çaçin qavnaton kai; kh'ra mevlainan). Scambio di battute aspre con Antinoo e insolenze dei Proci. Euriclea e i preparativi della partenza.

3 Od. 2, 388 sgg. Al tramonto (duvçetov t∆ hjevlioç çkiovwntov te pa'çai ajguiaiv) Atena versa sui Proci il dolce sonno (v. 395: mnhçthvreççin ejpi; gluku;n u{pnon e[ceue); Telemaco si imbatca e salpa verso il Peloponneso.

Od. 3, 1 sgg. Telemaco sbarca a Pilo; Atena-Mentore lo indirizza subito dal vecchio Nestore, che siede a banchetto, in onore di Posidone. Pisistrato, figlio di Nestore, accoglie gli ospiti, li invita a libare a Posidone, prima Atena-Mentore e poi Telemaco. La preghiera di Atena: gloria a Nestore e felice ritorno per Telemaco (così pregava, ed era lei a portare tutto a compimento (v. 62: w}ç a[r∆ e[peit∆ hjra'to kai; aujth; pavnta teleuvta).

Od. 3, 67 sgg. Si svolge, il banchetto, senza menzione della presenza di un cantore. Quando furono sazio di cibo e bevanda (aujta;r ejpei; povçioç kai; ejdhtuvoç ejx e[ron e{nto), inizia a parlare il cavalier Gerenio Nestore (con gli epiteti iliadici: muvqwn h\rce Gerhvnioç iJppovta Nevçtwr), che chiede l’identità degli ospiti. Telemaco si presenta e dice le ragioni del viaggio: chiedere notizie del padre. Nestore riconosce in Telemaco la stessa abilità oratoria del padre: çevbaç m∆ e[cei eijçorovwnta. / h\ toi ga;r mu'qoiv ge ejoikovteç, oujdev ke faivhç / a[ndra newvteron w|de ejoikovta muqhvçaçqai (vv. 123-125).

Od. 3, 130 sgg. Nestore narra la fine della Guerra di Troia e i ritorni degli eroi greci, ciscuno per proprio conto. La narrazione procede fino a sera; Atena-Mentore scompare, confermando così la protezione divina per il viaggio di Telemaco: Su richiesta del figlio di Odisseo (v. 248 sgg.) Nestore narra del ritorno di Menelao e di Agamennone, la fine di quest’ultimo a Micene e la vendetta di Oreste. Nestore, in sostanza, recita una piccola post-Iliade e una parte cospicua dei Nostoi: non c’è bisogno dell’aedo quando sopravvive un reduce di guerra che può farsi histor dei fatti. Atena- Mentore scompare, confermando così la protezione divina per il viaggio di Telemaco.

Od. 3, 313 sgg. Nestore invita Telemaco a recarsi da Menelao. Nuovo banchetto e preparativi del viaggio a Sparta, in compagnia di Pisistrato, figlio di Nestore. Il viaggio dura un giorno: a sera si giunge a Sparta (v. 487 = v. 497: duvçetov t∆ hjevlioç çkiovwntov te pa'çai ajguiaiv).

Od. 4, 1 sgg. Giunti a Sparta, Telemaco e Pisistrato trovano Menelao a banchetto, per le nozze della figlia (v. 14: h} ei\doç e[ce cruçh'ç ∆Afrodivthç) con Neottolemo, figlio di Achille, e del figlio Megapente con una Spartana di illustri natali. Splendori della reggia di Menelao e della Sparta pre-dorica. Della Sparta dorica così dirà Tucidide (1, 10): «... se la città degli Spartani restasse deserta e rimanessero i templi e le fondamenta degli edifici, penso che dopo molto tempo sorgerebbe nei posteri un'incredulità forte che la potenza spartana fosse adeguata alla sua fama; eppure occupano i due quinti del Peloponneso, detengono l'egemonia su di esso e su numerosi alleati esterni: tuttavia raccogliendosi la città intorno ad un unico nucleo privo di templi e costruzioni sontuose, con la sua caratteristica struttura in villaggi sparsi, secondo l'antico costume greco, parrebbe una mediocre potenza. Se gli Ateniesi invece subissero la stessa sorte, la loro importanza, a dedurla dai resti visibili della città, si supporrebbe, credo, doppia di quella reale».

Od. 4, 17-19. Al banchetto nuziale è presente il cantore divino che canta e suona la cetra, mentre due danzatori danno inizio alle danze (meta; dev çfin ejmevlpeto qei'oç ajoido;ç / formivzwn: doiw; de; kubiçthth're kat∆ aujtou;ç / molph'ç ejxavrconteç ejdivneuon kata; mevççouç). Nei banchetti successivi, tuttavia, del cantore non si fa più menzione: di episodi della Guerra di Troia e del ritorno narrano Menelao ed Elena (entrambi descritti con gli epiteti iliadici).

Od. 4, 65 sgg. Menelao offre agli ospiti, ancora ignoti, parte delle carni di bue che spettano al re: w}ç favto, kaiv çfin nw'ta boo;ç para; pivona qh'ken / o[pt∆ ejn cerçi;n eJlwvn, tav rJav oiJ gevra pavrqeçan aujtw'/ (allusione a un’usanza della Sparta storica: la doppia razione concessa al re?). Sazi

4 di cibo e bevande (aujta;r ejpei; povçioç kai; ejdhtuvoç ejx e[ron e{nto), Menelao ricorda l’amicizia con Odisseo e Telemaco piange. Entra Elena, bella come Artemide sall’aura conocchia (vv. 121- 122: ejk d∆ ÔElevnh qalavmoio quwvdeoç uJyorovfoio / h[luqen ∆Artevmidi cruçhlakavtw/ eji>kui'a), che sottolinea la somiglanza tra Telemaco e Odisseo (vv. 141-143: ouj gavr pwv tinav fhmi ejoikovta w|de ijdevçqai / ou[t∆ a[ndr∆ ou[te gunai'ka, çevbaç m∆ e[cei eijçorovwçan, / wJç o{d∆ ∆Oduççh'oç megalhvtoroç ui|i e[oike). Menelao nota la simiglianza e Pisistrato conferma l’identità di Telemaco e la propria. Menelao rinnova il ricordo di Odisseo e il progetto di trasferire il regno itacense nel Peloponneso, suscitando in tutti desiderio di pianto (vv. 183-188: w}ç favto, toi'çi de; pa'çin uJf∆ i{meron w\rçe govoio. / klai'e me;n ∆Argeivh ÔElevnh, Dio;ç ejkgegaui'a, / klai'e de; Thlevmacovç te kai; ∆Atrei?dhç Menevlaoç, / oujd∆ a[ra Nevçtoroç uiJo;ç ajdakruvtw e[cen o[ççe: / mnhvçato ga;r kata; qumo;n ajmuvmonoç ∆Antilovcoio, / tovn rJ∆ ∆Hou'ç e[kteine faeinh'ç ajglao;ç uiJovç). Pisistrato e il ricordo del fratello Antiloco, ucciso da Sarpedone. Menelao afferma che è facile riconoscere il figlio di un uomo cui Zeus ha concesso fortuna nelle nozze e nei figli (vv. 207-208: rJei'a d∆ ajrivgnwtoç govnoç ajnevroç, w|/ te Kronivwn / o[lbon ejpiklwvçh/ gamevontiv te geinomevnw/ te).

Od. 4, 219 sgg. A cena Elena versa il nepente egizio nel vino; cessano le lacrime ed Elena può narrare l’impresa di Odisseo mendico a Troia: lei sola lo riconobbe (v. 250: ejgw; dev min oi[h ajnevgnwn toi'on ejovnta), ma non lo tradì, perché da tempo voleva tornare col primo marito (v. 260 sgg.). In realtà, Elena non sembrs davvero pentita, almeno a giudicare dall’episodio successivo, narrato da Menelao: durante l’ultima notte di Troia, quando già gli eroi greci erano stipati nel Cavallo di Legno, Elena volle metterli alla prova e imitò le voci delle consorti: nessuno si tradì grazie agli ordini di Odisseo e alla bocca chiusa del povero Anticlo (vv. 276-289).

Od. 4, 306 sgg. Il giorno successivo (h\moç d∆ hjrigevneia favnh rJododavktuloç ∆Hwvç), finalmente, Menelao chiede a Telemaco le ragioni del viaggio; Telemaco risponde di essere mosso dalla speranza di avere notizie del padre ed espone la triste condizione della reggia paterna. Menela racconta che durante il ritorno (ancora il nostos) fu trattenuto dagli dèi avversi in Egitto e riuscì, con l’aiuto di Eidothea, a catturarne il padre, l’onnisciente Proteo ovvero il Vecchio del Mare, mentre riposa in mezzo al suo gregge di foche. Dopo aver cercato invano di sfuggire, mediante continue metamorfosi, a Menelao, Proteo spiega come l’Atride può riconquistare il favore divino (con ecatombi alle foci del Nilo, diipetevoç potamoi'o u{dwr) e narra la sorte di molti compagni di guerra, dalla morte in patria di Agamennone al soggiorno forzato di Odisseo nell’isola di Calipso (vv. 558-559: oJ d∆ ouj duvnatai h}n patrivda gai'an iJkevçqai: / ouj gavr oiJ pavra nh'eç ejphvretmoi kai; eJtai'roi).

Od. 4, 587 sgg. Menelao conclude il racconto promettendo doni e invitando Telemaco a testare almeno 12 giorni. Telemaco esprime il piacere dell’ascolto, come si fa con un cantore (vv. 595-598: kai; gavr k∆ eijç ejniauto;n ejgw; para; çoiv g∆ ajnecoivmhn / h{menoç, oujdev kev m∆ oi[kou e{loi povqoç oujde; tokhvwn: / aijnw'ç ga;r muvqoiçin e[peççiv te çoi'çin ajkouvwn / tevrpoma), ma vuole prendere in fretta la via del ritorno. Mentre a Sparta si prepara il banchetto d’addio (v. 620 sgg.), a Itaca i Proci prendono atto del viaggio di Telemaco e preparano l’agguato, per ucciderlo al ritorno. Anche Penelope viene informata dell’assenza di Telemaco: è infelice, ma si addomenta e in sogno le appare l’ei[dwlon della sorella Iphthime (inviato da Atena), che la rassicura sulla sorte del figlio, ma non sul ritorno dello sposo. Particolare: l’ei[dwlon entra ed esce dalla stanza passando attraverso il chiavistello (vv. 802 = 838).

Od. 5, 1 sgg. Nuovo consiglio degli dèi. Zeus invia da Calipso con l’ordine di lasciar partire Odisseo. Odisseo nell’isola di Calipso. (Od. 5, 81-84: oujd∆ a[r∆ ∆Oduççh'a megalhvtora e[ndon e[tetmen, / ajll∆ o{ g∆ ejp∆ ajkth'ç klai'e kaqhvmenoç, e[nqa pavroç per, / davkruçi kai; çtonach'/çi kai; a[lgeçi qumo;n ejrevcqwn / povnton ejp∆ ajtruvgeton derkevçketo davkrua leivbwn. «Hermes non trovò nella grotta il valoroso Odisseo: seduto in riva al mare, là dov’era sempre, 5 piangeva, straziando il suo cuore con gemiti e lacrime, e piangendo guardava il mare infinito» (trad. di Maria Grazia Ciani. Od. 5, 83-84 = 157-158). Calipso acconsente; preparazione della zattera e nuovo viaggio per mare, fino al naufragio sulle coste dell’isola dei Feaci.

Od. 5, 444 scampato alla tempesta e giunto a nuoto all’isola dei Feaci, Odisseo trova riparo “alla foce di un fiume dalle acque bellissime” (potamoi'o kata; çtovma kallirovoio), che Odisseo sa riconoscere dalla corrente e sa pregare (e[gnw de; prorevonta kai; eu[xato o}n kata; qumovn).

Od. 6, 149 sgg. e 160-161- Tra la prima (gounou'maiv çe, a[naçça: qeovç nuv tiç h\ brotovç ejççi… / … / eij dev tivç ejççi brotw'n, oi} ejpi; cqoni; naietavouçi) e la seconda ammissione delle bellezza di (ouj gavr pw toiou'ton i[don broto;n ojfqalmoi'çin, / ou[t∆ a[ndr∆ ou[te gunai'ka) trova spazio il triplice makarismòs di parenti e futuro sposo: (tri;ç mavkareç me;n çoiv ge path;r kai; povtnia mhvthr, / tri;ç mavkareç de; kaçivgnhtoi: mavla pouv çfiçi qumo;ç / aije;n eju>froçuvnh/çin ijaivnetai ei{neka çei'o, / leuççovntwn toiovnde qavloç coro;n eijçoicneu'çan. / kei'noç d∆ au\ peri; kh'ri makavrtatoç e[xocon a[llwn, / o{ç kev ç∆ ejevdnoiçi brivçaç oi\kovnd∆ ajgavghtai). Cfr. Od. 5, 306-308 il makarismòs dei Danai caduti a Troia da parte di Odisseo durante la tempesta (tri;ç mavkareç Danaoi; kai; tetravkiç, oi} tovt∆ o[lonto / Troivh/ ejn eujreivh/, cavrin ∆Atrei?dh/çi fevronteç. / wJç dh; ejgwv g∆ o[felon qanevein … ) e la nota ripresa vergiliana di Eneide 1, 94-96: O terque quaterque beati, / quis ante ora patrum Troiae sub moenibus altis / contigit oppetere!

Od. 7, 234-235 riconosce le vesti che Nausicaa ha dato a Odisseo (e[gnw ga;r fa'rovç te citw'nav te ei{mat∆ ijdou'ça / kalav).

Od. 8, 521-531. Al termine del canto di Demodoco Odisseo piange, come sposa che ha perso il marito in guerra e viene trascinata in schiavitù: tau't∆ a[r∆ ajoido;ç a[eide periklutovç: aujta;r ∆Oduççeu;ç / thvketo, davkru d∆ e[deuen uJpo; blefavroiçi pareiavç. / wJç de; gunh; klaivh/çi fivlon povçin ajmfipeçou'ça, / o{ç te eJh'ç provçqen povlioç law'n te pevçh/çin, / a[çtei> kai; tekeveççin ajmuvnwn nhlee;ç h\mar: / hJ me;n to;n qnhv/çkonta kai; ajçpaivronta ijdou'ça / ajmf∆ aujtw'/ cumevnh livga kwkuvei: oiJ dev t∆ o[piçqe / kovptonteç douvreççi metavfrenon hjde; kai; w[mouç / ei[reron eijçanavgouçi, povnon t∆ ejcevmen kai; oji>zuvn: / th'ç d∆ ejleeinotavtw/ a[cei> fqinuvqouçi pareiaiv: / w}ç ∆Oduçeu;ç ejleeino;n uJp∆ ojfruvçi davkruon ei\ben («Queste gesta cantava il cantore famoso; e Odisseo / si logorava e il pianto gli bagnava le guance sotto le ciglia. / Come una donna, gettatasi su di lui, piange il caro sposo / che davanti alla sua città e alle schiere cadde / per allontanare dalla patria e dal figlio il giorno funesto: / ed ella, che l'ha visto morire e annaspare, / gettatasi su di lui geme acutamente; e quelli {i nemici} da dietro / colpendole con le aste la schiena e le spalle / la trascinano via come schiava, ad avere fatica e miseria, / e le si consumano le guance per la straziante pena; / così Odisseo un pianto straziante spargeva sotto le ciglia). Si noti tuttavia che il pianto delle vedove e dei bambini compare, poprio per bocca di Odisseo al termine del diverbio con Tersite, in Il. 2, 289-290 per stimatizzare il comportamento dei guerrieri pronti ad abbandonare la guerra e a tornarsene a casa: « Come bimbi piccini o donne rimaste vedove / piangono tra loro per tornare a casa» (w{ç te ga;r h] pai'deç nearoi; ch'raiv te gunai'keç / ajllhvloiçin ojduvrontai oi\kon de; neveçqai).

6 Od. 9, 1-28: primo riconoscimento alla corte dei Feaci. Itaca piena di sole.

To;n d∆ ajpameibovmenoç proçevfh poluvmhtiç ∆Oduççeuvç: / ∆Alkivnoe krei'on, pavntwn ajrideivkete law'n, / h\ toi me;n tovde kalo;n ajkouevmen ejçti;n ajoidou' / toiou'd∆, oi|oç o{d∆ ejçtiv, qeoi'ç∆ ejnalivgkioç aujdhvn. / ouj ga;r ejgwv gev tiv fhmi tevloç carievçteron ei\nai / h] o{t∆ eju>froçuvnh me;n e[ch/ kavta dh'mon a{panta, / daitumovneç d∆ ajna; dwvmat∆ ajkouavzwntai ajoidou' h{menoi eJxeivhç, para; de; plhvqwçi travpezai / çivtou kai; kreiw'n, mevqu d∆ ejk krhth'roç ajfuvççwn / oijnocovoç forevh/çi kai; ejgceivh/ depaveççi: / tou'tov tiv moi kavlliçton ejni; freçi;n ei[detai ei\nai. / çoi; d∆ ejma; khvdea qumo;ç ejpetravpeto çtonoventa / ei[reçq∆, o[fr∆ e[ti ma'llon ojdurovmenoç çtenacivzw. / tiv prw'tovn toi e[peita, tiv d∆ uJçtavtion katalevxw… / khvde∆ ejpeiv moi polla; dovçan qeoi; Oujranivwneç. / nu'n d∆ o[noma prw'ton muqhvçomai, o[fra kai; uJmei'ç / ei[det∆, ejgw; d∆ a]n e[peita fugw;n u{po nhlee;ç h\mar / uJmi'n xei'noç e[w kai; ajpovproqi dwvmata naivwn. / ei[m∆ ∆Oduçeu;ç Laertiavdhç, o}ç pa'çi dovloiçin / ajnqrwvpoiçi mevlw, kaiv meu klevoç oujrano;n i{kei. / naietavw d∆ ∆Iqavkhn eujdeivelon: ejn d∆ o[roç aujth'/, / Nhvriton eijnoçivfullon, ajriprepevç: ajmfi; de; nh'çoi / pollai; naietavouçi mavla çcedo;n ajllhvlh/çi, / Doulivciovn te Çavmh te kai; uJlhveçça Zavkunqoç. / aujth; de; cqamalh; panupertavth eijn aJli; kei'tai / pro;ç zovfon, aiJ dev t∆ a[neuqe pro;ç hjw' t∆ hjevliovn te, / trhcei'∆, ajll∆ ajgaqh; kourotrovfoç: ou[ ti ejgwv ge / h|ç gaivhç duvnamai glukerwvteron a[llo ijdevçqai. Alcinoo Rege, che ai mortali tutti / Di grandezza, e di gloria innanzi vai, / Bello è l’udir, gli replicava Ulisse, / Cantor, come Demodoco, di cui / Pari a quella d’un Dio suona la voce: / Né spettacol più grato havvi, che quando / Tutta una gente si dissolve in gioja, / Quando alla mensa, che il cantor rallegra, / Molti siedono in ordine, e le lanci / Colme di cibo son, di vino l’urne, / Donde coppier nell’auree tazze il versi, / E ai convitati assisi il porga in giro. / Ma tu la storia de’ miei guai domandi, / Perch’io rinnovi, ed inacerbi il duolo. / Qual pria dirò, qual poi, qual nell’estremo / Racconto serberò delle sventure, / Che gravi, e molte m’inviaro i Numi? / Prima il mio nome; acciò, se vita un giorno / Mi si concede riposata e ferma, / Dell’ospitalità ci unisca il nodo, / Benché quinci lontan sorga il mio tetto. / Ulisse, il figlio di Laerte, io sono, / Per tutti accorgimenti al Mondo in pregio, / E già noto per fama in sino agli astri. / Abito la serena Itaca (eujdeivelon, piena di sole), dove / Lo scuotifronde Nerito si leva / Superbo in vista, ed a cui giaccion molte / Non lontane tra loro isole intorno, / Dulichio, Same, e la di selve bruna / Zacinto. All’orto, e al mezzogiorno queste, / Itaca al polo si rivolge, e meno / Dal continente fugge: aspra di scogli, / Ma di gagliarda gioventù nutrice. / Deh qual giammai l’uom può della natia / Sua contrada veder cosa più dolce? (trad. di Ippolito Pindemonte).

Falso riconoscimento: Od. 9, 366-367 (Ou\tiç ejmoiv g∆ o[noma: Ou\tin dev me kiklhvçkouçi / mhvthr hjde; path;r hjd∆ a[lloi pavnteç eJtai'roi); rivelazione in 9, 502-505 (Kuvklwy, ai[ kevn tivç çe kataqnhtw'n ajnqrwvpwn / ojfqalmou' ei[rhtai ajeikelivhn ajlawtuvn, / favçqai ∆Oduççh'a ptolipovrqion ejxalaw'çai, / uiJo;n Laevrtew, ∆Iqavkh/ e[ni oijkiv∆ e[conta = v. 531): Odisseo / Nessuno per Polifemo.

Od. 10, 28-133: da Eolo alla vista di Itaca (ejnnh'mar me;n oJmw'ç plevomen nuvktaç te kai; h\mar, / th'/ dekavth/ d∆ h[dh ajnefaivneto patri;ç a[roura, / kai; dh; purpolevontaç ejleuvççomen ejggu;ç ejovntaç), ritorno a Eolo, dai Lestrigoni a Eea, isola di (Kivrkh eju>plovkamoç).

Od. 10, 325-331 tivç povqen eijç ajndrw'n… povqi toi povliç hjde; tokh'eç… / qau'mav m∆ e[cei, wJç ou[ ti piw;n tavde favrmak∆ ejqevlcqhç. / oujde; ga;r oujdev tiç a[lloç ajnh;r tavde favrmak∆ ajnevtlh, / o{ç ke pivh/ kai; prw'ton ajmeivyetai e{rkoç ojdovntwn: / çoi; dev tiç ejn çthvqeççin 7 ajkhvlhtoç novoç ejçtivn. / h\ çuv g∆ ∆Oduççeuvç ejççi poluvtropoç, o{n tev moi aijei; / favçken ejleuvçeçqai cruçovrrapiç ∆Argei>fovnthç, / ejk Troivhç ajniovnta qoh'/ çu;n nhi÷ melaivnh/. (Odisseo è riconosciuto da Circe, presso cui resta un anno).

Od. 10, 397 tornati uomini da porci che erano, i compagni riconoscono Odisseo (e[gnwçan dev me kei'noi, e[fun t∆ ejn cerçi;n e{kaçtoç).

Od. 11, 91-94 Prima Nekyia. ejme; d∆ e[gnw kai; proçeveipe: / ædiogene;ç Laertiavdh, polumhvcan∆ ∆Oduççeu', / tivpt∆ au\t∆, w\ duvçthne, lipw;n favoç hjelivoio / h[luqeç, o[fra i[dh/ nevkuaç kai; ajterpeva cw'ron… (Tiresia, indovino, riconosce subito Odisseo).

Od. 11, 119-137 (Tiresia a Odisseo) = 23, 268-284 (Odisseo a Penelope). La seconda profezia di Tiresia, residuo di un’altra Odissea, di un ulteriore viaggio di Odisseo? aujtaŸr ejphŸn mnhsth~~ra" ejniŸ megavroisi teoi~~si / kteivnh/" hjeŸ dovlw/ h] ajmfadoŸn ojxevi> calkw~~/, / e[rcesqai dhŸ e[peita, labwŸn eujh~~re" ejretmovn, / eij" o{ ke touŸ" ajfivkhai oi} ouj i[sasi qavlassan / ajnevre", oujdeŸ q∆ a{lessi memigmevnon ei\dar e[dousin: / oujd∆ a[ra toiŸ i[sasi neva" foinikoparh/vou", / oujd∆ eujhvre∆ ejretmav, tav te pteraŸ nhusiŸ pevlontai. / sh~~ma dev toi ejrevw mavl∆ ajrifradev", oujdev se lhvsei: / oJppovte ken dhv toi xumblhvmeno" a[llo" / oJdivth" fhvh/ ajqhrhloigoŸn e[cein ajnaŸ faidivmw/ w[mw/, / kaiŸ tovte dhŸ gaivh/ phvxa" eujh~~re" ejretmovn, / rJevxa" iJeraŸ kalaŸ Poseidavwni a[nakti, / ajrneioŸn tau~~rovn te suw~n t∆ ejpibhvtora kavpron, / oi[kad∆ ajposteivcein e[rdein q∆ iJeraŸ" eJkatovmba" / ajqanavtoisi qeoi~~si, toiŸ oujranoŸn eujruŸn e[cousi, / pa~~si mavl∆ eJxeivh": qavnato" dev toi ejx aJloŸ" aujtw~~/ / ajblhcroŸ" mavla toi~o" ejleuvsetai, o{" kev se pevfnh/ / ghvra/ u{po liparw~~/ ajrhmevnon: ajmfiŸ deŸ laoiŸ / o[lbioi e[ssontai: taŸ dev toi nhmerteva ei[rw. («Ma quando, nella tua casa, avrai ucciso i Pretendenti, con l’inganno o affrontandogli con le armi taglienti, prendi allora il remo e rimettiti in viaggio fino a che giungeri presso genti che non conoscono il mare, da uomini che non mangiano cibi conditi col sale, che non conoscono navi dalle prore dipinte di rosso, né gli agili remi che sono ali alle navi. Ti indicherò un chiaro segno, che non potrà sfuggirti: quando un altro viandante, incontrandoti, ti dirà che sulla spalla porti un ventilàbro, pianta allora in terra il tuo agile remo, offri al dio Posidone sacrifici perfetti – un montone, un toro, un verro che monta le scrofe – e fa ritorno a casa: qui offri sacre ecatombi agli dèi immortali che possiedono il cielo infinito, a tutti, senza escludere alcuno. La morte verrà per te lontano dal mare (o dal mare?), ti coglierà nella vecchiaia ricca di beni, e sarà dolce. Avrai intorno a te popoli felici. Questa è la verità che ti dico»1. - trad. di Maria Grazia Ciani, con ritocchi).

Od. 11, 152 sgg. aujta;r ejgw;n aujtou' mevnon e[mpedon, o[fr∆ ejpi; mhvthr / h[luqe kai; piven ai|ma kelainefevç: aujtivka d∆ e[gnw / kaiv m∆ ojlofuromevnh e[pea pteroventa proçhuvda: / ætevknon ejmovn, pw'ç h\lqeç uJpo; zovfon hjeroventa / zwo;ç ejwvn… calepo;n de; tavde zwoi'çin oJra'çqai. ( beve il sangue della vittima e riconosce il figlio).

1 Vd. Giovanni Cerri, L’Odissea epicorica di Itaca, «Mediterraneo antico» 5, 2002 (ma 2003), 149-184. 8 Od. 11, 363 sgg. w\ ∆Oduçeu', to; me;n ou[ tiv ç∆ eji?çkomen eijçorovwnteç / hjperoph'av t∆ e[men kai; ejpivklopon, oi|av te pollou;ç / bovçkei gai'a mevlaina poluçperevaç ajnqrwvpouç / yeuvdeav t∆ ajrtuvnontaç, o{qen kev tiç oujde; i[doito: / çoi; d∆ e[pi me;n morfh; ejpevwn, e[ni de; frevneç ejçqlaiv, / mu'qon d∆ wJç o{t∆ ajoido;ç ejpiçtamevnwç katevlexaç, / pavntwn ∆Argeivwn çevo t∆ aujtou' khvdea lugrav. / ajll∆ a[ge moi tovde eijpe; kai; ajtrekevwç katavlexon, / ei[ tinaç ajntiqevwn eJtavrwn i[deç, oi{ toi a{m∆ aujtw'/ / “Ilion eijç a{m∆ e{ponto kai; aujtou' povtmon ejpevçpon. / nu;x d∆ h{de mavla makrhv, ajqevçfatoç, oujdev pw w{rh / eu{dein ejn megavrw/: çu; dev moi levge qevçkela e[rga. / kaiv ken ejç hjw' di'an ajnaçcoivmhn, o{te moi çu; / tlaivhç ejn megavrw/ ta; ça; khvdea muqhvçaçqai (Alcinoo elogia Odisseo come narratore, anzi come un aedo, e chiede se tra i morti Odisseo ha visto qualcuno degli Achei che parteciparono alla guerra troiana).

Od. 11, 390 = 615 Agamennone riconosce Odisseo (e[gnw d∆ ai\y∆ ejme; kei'noç, ejpei; i[den ojfqalmoi'çi). Lo stesso verso vale per Eracle.

Od. 11, 390 e 405 (Agamennone riconosce Odisseo), 471 (così Achille: e[gnw de; yuchv me podwvkeoç Aijakivdao), 618 (e così Eracle); tutti e tre iniziano il discorso con identica apostrofe: diogene;ç Laertiavdh, polumhvcan∆ ∆Oduççeu'.

Od. 12, 184-185 deu'r∆ a[g∆ ijwvn, poluvain∆ ∆Oduçeu', mevga ku'doç ∆Acaiw'n, / nh'a katavçthçon, i{na nwi>tevrhn o[p∆ ajkouvçh/ç (le Sirene conoscono Odisseo).

Od. 13, 1-2 ’Wç e[faq∆, oiJ d∆ a[ra pavnteç ajkh;n ejgevnonto çiwph'/, / khlhqmw'/ d∆ e[çconto kata; mevgara çkioventa (fine degli Apologhi).

Od. 13, 187 sgg. oujdev min e[gnw, / h[dh dh;n ajpewvn: peri; ga;r qeo;ç hjevra ceu'e / Palla;ç ∆Aqhnaivh, kouvrh Diovç, o[fra min aujto;n / a[gnwçton teuvxeien e{kaçtav te muqhvçaito, / mhv min pri;n a[locoç gnoivh ajçtoiv te fivloi te, / pri;n pa'çan mnhçth'raç uJperbaçivhn ajpotei'çai (Odisseo non riconosce Itaca; Atena interviene per renderlo irriconoscibile, prima del compimento della vendetta).

Od. 13, 219-220 oJ d∆ ojduvreto patrivda gai'an / eJrpuvzwn para; qi'na polufloivçboio qalavççhç (Odisseo si trascina sulla riva del mare e piange la patria, che non ha riconosciuto).

Od. 13, 237 sgg. nhvpiovç eijç, w\ xei'n∆, h] thlovqen eijlhvlouqaç, / eij dh; thvnde te gai'an ajneivreai. oujdev ti livhn / ou{tw nwvnumovç ejçtin: i[çaçi dev min mavla polloiv, / hjme;n o{çoi naivouçi pro;ç hjw' t∆ hjevliovn te, / hjd∆ o{ççoi metovpiçqe poti; zovfon hjeroventa. / h\ toi me;n trhcei'a kai; oujc iJpphvlatovç ejçtin / oujde; livhn luprhv, ajta;r oujd∆ eujrei'a tevtuktai. / ejn me;n gavr oiJ çi'toç ajqevçfatoç, ejn dev te oi\noç / givnetai: aijei; d∆ o[mbroç e[cei teqalui'av t∆ ejevrçh. / aijgivbotoç d∆ ajgaqh; kai; bouvbotoç: e[çti me;n u{lh / pantoivh, ejn d∆ ajrdmoi;

9 ejphetanoi; parevaçi. / tw' toi, xei'n∆, ∆Iqavkhç ge kai; ejç Troivhn o[nom∆ i{kei, / thvn per thlou' façi;n ∆Acaii?doç e[mmenai ai[hç (Atena descrive Itaca).

Od. 13, 292-299 Atena, in forma di bellissima donna si fa riconoscre (oujde; çuv g∆ e[gnwç / Pallavd∆ ∆Aqhnaivhn, kouvrhn Diovç) da Odisseo.

Od. 13, 312-313: ajrgalevon çe, qeav, gnw'nai brotw'/ ajntiavçanti / kai; mavl∆ ejpiçtamevnw/: çe; ga;r aujth;n panti; eji?çkeiç (Odisseo ad Atena).

Od. 13, 96 sgg. (Fovrkunoç dev tivç ejçti limhvn, aJlivoio gevrontoç … aujta;r ejpi; krato;ç limevnoç tanuvfulloç ejlaivh, / ajgcovqi d∆ aujth'ç a[ntron ejphvraton hjeroeidevç, / iJro;n Numfavwn, ai} Nhi>avdeç kalevontai … ) = 344 sgg. (ajll∆ a[ge toi deivxw ∆Iqavkhç e{doç, o[fra pepoivqh/ç: / Fovrkunoç me;n o{d∆ ejçti; limhvn, aJlivoio gevrontoç / h{de d∆ ejpi; krato;ç limevnoç tanuvfulloç ejlaivh: / ajgcovqi d∆ aujth'ç a[ntron ejphvraton hjeroeidevç, / iJro;n Numfavwn, ai} Nhi>avdeç kalevontai)2: la descrizione del luogo in cui è sbarcato Odisseo è ripetuta da Atena, che ha dissolto la nebbia.

Od. 13, 397 ajll∆ a[ge ç∆ a[gnwçton teuvxw pavnteççi brotoiçi (Atena rende Odisseo irriconoscibile, simile a un mendico). Il canto 13 si chiude con la trasformazione di Odisseo in vecchio mendicante e la partenza di Atena alla volta di Sparta (v. 412: e[lqw Çpavrthn ejç kalliguvnaika) sulle tracce di Telemaco.

Od. 14, 29 sgg.Odisseo e i cani di Eumeo (ejxapivnhç d∆ ∆Oduçh'a i[don kuvneç uJlakovmwroi. / oiJ me;n keklhvgonteç ejpevdramon: aujta;r ∆Oduççeu;ç / e{zeto kerdoçuvnh/, çkh'ptron dev oiJ e[kpeçe ceirovç).

Od. 14, 48: Eumeo, divino guardiano di porci (di'oç uJforbovç). Nel 2018 13 versi del XIV libro (incontro tra il porcaro Eumeo e Odisseo sbarcato a Itaca sotto mentite spoglie) sono stati ritrovati su tavoletta d’argilla nei pressi di Olimpia. Il reperto sarebbe d’età romana, prima del III sec. d.C.

Od. 14, 85 sgg. i malvagi e la vendetta divina, secondo Eumeo: kai; me;n duçmeneveç kai; ajnavrçioi, oi{ t∆ ejpi; gaivhç / ajllotrivhç bw'çin kaiv çfin Zeu;ç lhi?da dwvh/, / plhçavmenoi dev te nh'aç e[ban oi\kovnde neveçqai,

2 Gli ultimi due versi non compaiono in qualche papiro e in alcuni codici; per questo motivo sono atetizzati da alcuni edd. Moderni. 10 Od. 14, 117 eijpev moi, ai[ kev poqi gnwvw toiou'ton ejovnta (Odisseo chiede a Eumeo chi sia l’antico padrone, ‘morto a Troia’, per vedere se per caso conosca un uomo degno della descrizione del servo).

Od. 14, 133-136 e 144-147 tou' d∆ h[dh mevllouçi kuvneç taceveç t∆ oijwnoi; / rJino;n ajp∆ ojçteovfin ejruvçai, yuch; de; levloipen: / h] tovn g∆ ejn povntw/ favgon ijcquveç, ojçteva d∆ aujtou' / kei'tai ejp∆ hjpeivrou yamavqw/ eijlumevna pollh'/. … ajllav m∆ ∆Oduççh'oç povqoç ai[nutai oijcomevnoio. / to;n me;n ejgwvn, w\ xei'ne, kai; ouj pareovnt∆ ojnomavzein / aijdevomai: peri; gavr m∆ ejfivlei kai; khvdeto qumw'/: / ajllav min hjqei'on kalevw kai; novçfin ejovnta (per Eumeo Odisseo è morto, ma grande è la nostalgia nei confronti del padrone scomparso).

Od. 14, 187 e 199 sgg. : alla domana di Eumeo sull’identità dell’ospite (tivç povqen eijç ajndrw'n… povqi toi povliç hjde; tokh'eç)3 Odisseo si presenta come guerriero e marinaio di Creta (ejk me;n Krhtavwn gevnoç eu[comai eujreiavwn / ajnevroç ajfneioi'o pavi>ç… ajllav moi aijei; nh'eç ejphvretmoi fivlai h\çan / kai; povlemoi kai; a[konteç eju?xeçtoi kai; oji>çtoiv, / lugrav, tav t∆ a[lloiçivn ge katarrighla; pevlontai. / aujta;r ejmoi; ta; fivl∆ e[çke, tav pou qeo;ç ejn freçi; qh'ken: / a[lloç gavr t∆ a[lloiçin ajnh;r ejpitevrpetai e[rgoiç ).

Od. 14, 443 sgg. Eumeo all’ospite voluto dagli dèi (e[çqie, daimovnie xeivnwn, kai; tevrpeo toi'çde, / oi|a pavreçti: qeo;ç de; to; me;n dwvçei, to; d∆ ejavçei, / o{tti ken w|/ qumw'/ ejqevlh/: duvnatai ga;r a{panta). Formulazione più intensa di quanto detto da Elena in Od. 4, 236-237: ajta;r qeo;ç a[llote a[llw/ / Zeu;ç ajgaqovn te kakovn te didoi': duvnatai ga;r a{panta. Cfr. Giobbe 1, 21: il Signore dà, il Signore toglie: sia benedetto il nome del Signore).

Od. 14, 462 parla Odisseo e narra ai porcari una sua ‘falsa’ spedizione notturna a Troia, capeggiata da Odisseo e Menelao. La cessione del mantello.

Od. 15, 1-300 ritorno di Telemaco da Sparta.

Od. 15, 301 sgg. Odisseo mette ancora una volta alla prova la fedeltà di Eumeo (15, 337-339 = 14, 515-517: aujta;r ejph;n e[lqh/çin ∆Oduççh'oç fivloç uiJovç, / kei'novç çe clai'navn te citw'nav te ei{mata e{ççei, / pevmyei d∆, o{pph/ çe kradivh qumovç te keleuvei)4.

Od. 15, 325 sgg. Per Eumeo l’ospite deve restare nella sua casupola e attendere il ritorno di Telemaco: Odisseo chiede notizie di Anticlea e Laerte. Eumeo narra la propria origine libera: Telemaco sbarca, assicura il soggiorno di Teoclimeno, e si dirige alla volta di Eumeo.

Od. 15, 532 profezia di Teoclimeno (e[gnwn gavr min ejçavnta ijdw;n oijwno;n ejovnta).

3 14, 187 = 15, 264 Teoclimeno si presenta a Telemaco con la domanda formulare (tivç povqen eijç ajndrw'n… povqi toi povliç hjde; tokh'eç…): Telemaco lo porta con sé a Itaca. 4 Od. 14, 515-517 mancano in alcuni codd. e sono atetizzati da Aristarco. 11

Od. 16, 8-10 Telemaco si avvicina; allo scodinzolare dei cani Odisseo dice a Eumeo che certo sta per giungere una persona nota (Eu[mai∆, h\ mavla tivç toi ejleuvçetai ejnqavd∆ eJtai'roç / h] kai; gnwvrimoç a[lloç, ejpei; kuvneç oujc uJlavouçin, / ajlla; periççaivnouçi: podw'n d∆ uJpo; dou'pon ajkouvw). Incontro affettuoso con Eumeo scambio di battute con l’ospite, ancora ignoto.

Od. 16, 75-77 = Od. 14, 515-517 = Od. 21, 339-402 Telemaco promette allo straniero vesti e armi: e{ççw min clai'navn te citw'nav te, ei{mata kalav, / dwvçw d∆ ojxu;n a[konta, kunw'n ajlkth'ra kai; ajndrw'n, / kai; xivfoç a[mfhkeç: dwvçw d∆ uJpo; poççi; pevdila, / pevmyw d∆ o{pph/ min kradivh qumovç te keleuvei. I vv., già in parte presenti in Od. 14, 515-517 (Eumeo promette che Telemaco darà allo straniero versi e armi, sono ripetuti in Od. 21, 339-402: Telemaco promette vesti e armi al falso mendico, se riuscirà a tendere l’arco di Odisseo.

Od. 16, 136 Eumeo si dice d’accordo con Telemaco, che lo manda ad avvisare Penelope del ritorno del figlio (ginwvçkw, fronevw: tav ge dh; noevonti keleuveiç). Od. 16, 155-158 e sgg.: Parte Eumeo e sopraggiunge Atena, in forma di donna bellissima (oujd∆ a[r∆ ∆Aqhvnhn / lh'qen ajpo; çtaqmoi'o kiw;n Eu[maioç uJforbovç, / ajll∆ h{ ge çcedo;n h\lqe: devmaç d∆ h[i>kto gunaiki; / kalh'/ te megavlh/ te kai; ajglaa; e[rga ijduivh/): v. 158 = 13, 289 (Atena) = 15, 418 (madre fenicia di Eumeo). Atena è visibile soltanto a Odisseo (∆Oduçh'i> fanei'ça) e ai cani, non a Telemaco (oujd∆ a[ra Thlevmacoç i[den ajntivon oujd∆ ejnovhçen, < / ouj gavr pwç pavnteççi qeoi; faivnontai ejnargei'ç, < / ajll∆ ∆Oduçeuvç te kuvneç te i[don, kaiv rJ∆ oujc uJlavonto, / knuzhqmw'/ d∆ eJtevrwçe dia; çtaqmoi'o fovbhqen).

Od. 16, 159 sgg. Atena traforma Odisseo in uomo di bell’aspetto e di bell’abbigliamento, ordinandogli di palesarsi al figlio.

Od. 16, 187 sgg. Odisseo si palesa (ou[ tivç toi qeovç eijmi: tiv m∆ ajqanavtoiçin eji?çkeiç… / ajlla; path;r teovç eijmi, tou' ei{neka çu; çtenacivzwn / pavçceiç a[lgea pollav, bivaç uJpodevgmenoç ajndrw'n); incredulità del figlio (ouj çuv g∆ ∆Oduççeuvç ejççi path;r ejmovç) a causa della trasformazione del padre. Ma agli dèi tutto è possibile (rJhi?dion de; qeoi'çi, toi; oujrano;n eujru;n e[couçin, / hjme;n kudh'nai qnhto;n broto;n hjde; kakw'çai); Telemaco si convince, padre e figlio passano la notte tra pianti e racconti reciproci.

Od. 16, 215-219. Similitudine famosa, conseguenza del riconoscimeto. ajmfotevroiçi de; toi'çin uJf∆ i{meroç w\rto govoio: / klai'on de; ligevwç, aJdinwvteron h[ t∆ oijwnoiv, / fh'nai h] aijgupioi; gamywvnuceç, oi|çiv te tevkna / ajgrovtai ejxeivlonto pavroç petehna; genevçqai: / w}ç a[ra toiv g∆ ejleeino;n uJp∆ ojfruvçi davkruon ei\bon («A entrambi nacque dentro desiderio di pianto:

12 / piangevano con grida acute, più intensamente che uccelli, / aquile marine o avvoltoi dagli artigli ricurvi, ai quali i piccoli / i cacciatori hanno portato via, prima che mettessero le penne; / così quelli pietoso pianto versavano sotto le ciglia»).

Od. 16, 247 sgg. catalogo dei Proci: 52 di Dulichio (con 6 servi); 24 di Same; 20 di Zacinto; 12 di Itaca (con l’araldo Medonte, il divino cantore e due servi).

Od. 16, 267 sgg. il piano di Odisseo contro i Proci; le raccomandazioni al figlio (v. 281 = v. 299: a[llo dev toi ejrevw, çu; d∆ ejni; freçi; bavlleo çh'/çin); Odisseo potrà conoscere l’animo di Telemaco (vv. 309-310: w\ pavter, h\ toi ejmo;n qumo;n kai; e[peitav g∆, oji?w, / gnwvçeai); le preoccupazioni dei Proci circa il ritorno do Telemaco; andata e ritorno di Eumeo; Odisseo è di nuovo un vecchio cencioso. Vv. 480-481: aujta;r ejpei; povçioç kai; ejdhtuvoç ejx e[ron e{nto, / koivtou te mnhvçanto kai; u{pnou dw'ron e{lonto.

Od. 17, 57 = 19, 29 = 22, 398 = 21, 386 w}ç a[r∆ ejfwvnhçen, th'/ d∆ a[pteroç e[pleto mu'qoç. Telemaco a Penelope (trad Ciani: “Così disse, e lei comprese al volo”; trad. Paduano: “Così disse, e lei non rispose parola”).

Od. 17, 157 parla l’indovino Teoclimeno, che sa quel che Menelao non conosce chiaramente (h\ toi o{ g∆ ouj çavfa oi\den, ejmei'o de; çuvnqeo mu'qon).

Od. 17, 167 sgg. i Proci a banchetto; Odisseo ed Eumeo in cammino verso la reggia (Odisseo ginwvçkw, fronevw: tav ge dh; noevonti keleuveiç: v. 193 = 16, 136, detto da Eumeo = 17, 281, detto da Odisseo a Eumeo); incontro con Melanzio, che li insulta (nu'n me;n dh; mavla pavgcu kako;ç kako;n hJghlavzei, / wJç aijei; to;n oJmoi'on a[gei qeo;ç wJç to;n oJmoi'on).

Od. 17, 260 sgg. i Proci a banchetto e il canto di Femio.

Od. 17, 264 e 273 Odisseo facilmente riconosce la reggia (ÆEu[mai∆, h\ mavla dh; tavde dwvmata kavl∆ ∆Oduçh'oç: / rJei'a d∆ ajrivgnwt∆ ejçti; kai; ejn polloi'çin ijdevçqai) ed Eumeo conferma (rJei'∆ e[gnwç, ejpei; oujde; tav t∆ a[lla pevr ejçç∆ ajnohvmwn).

Od. 17, 291 sgg. Il cane Argo: kuvwn kefalhvn te kai; ou[ata keivmenoç e[çcen, / “Argoç, ∆Oduççh'oç talaçivfronoç, o{n rJav pot∆ aujto;ç / qrevye mevn, oujd∆ ajpovnhto, pavroç d∆ eijç “Ilion iJrh;n / w[/ceto. ... tovte g∆, wJç ejnovhçen ∆Oduççeva ejggu;ç ejovnta, / oujrh'/ mevn rJ∆ o{ g∆ e[çhne kai; ou[ata kavbbalen a[mfw, / a[ççon d∆ oujkevt∆ e[peita dunhvçato oi|o a[naktoç / ejlqevmen: aujta;r oJ novçfin ijdw;n ajpomovrxato davkru, / rJei'a laqw;n Eu[maion ... “Argon d∆ au\ kata; moi'r∆ e[laben mevlanoç qanavtoio, / aujtivk∆ ijdovnt∆ ∆Oduçh'a ejeikoçtw'/ ejniautw'/ (vv. 325-326).

13

Od. 17, 332 sgg. nuovo banchetto dei Proci; il vecchio mendico elemosina il cibo; Antinoo lo colpisce con lo sgabello; Penelope invita il mendico, che detta le modalità dell’incontro; il commento di Penelope: oujk a[frwn oJ xei'noç oji?etai, w{ç per a]n ei[h (v. 586).

Od. 17, 578 sgg. Eumeo anticipa a Penelope l’effetto della parlata del falso mendicante: wJç d∆ o{t∆ ajoido;n ajnh;r potidevrketai, o{ç te qew'n e]x / ajeivdh/ dedaw;ç e[pe∆ iJmeroventa brotoi'çi, / tou' d∆ a[moton memavaçin ajkouevmen, oJppovt∆ ajeivdh/: / w}ç ejme; kei'noç e[qelge parhvmenoç ejn megavroiçi («... come quando si guarda un aedo, che dagli dèi ha appreso l’arte di cantare storie mirabili per i mortali, e quando canta si vorrebbe ascoltarlo per sempre; così lui mi incantava nella mia casa»).

Od. 18, 30-31 zw'çai nu'n, i{na pavnteç ejpignwvwçi kai; oi{de / marnamevnouç (Iro a Odisseo: Raccogli le vesti alla cintura, perché tutti costori ci vedano mentre lottiamo – trad. M.G. Ciani).

Od. 18, 58-59 w}ç e[faq∆, oiJ d∆ a[ra pavnteç ejpwvmnuon, wJç ejkevleuen. / ªaujta;r ejpeiv rJ∆ o[moçavn te teleuvthçavn te to;n o{rkonº (versi ripetuti: Od. 12, 303-304; 15, 437-438 In part. il v. 59, che ripete Il. 14, 280 e Od. 2, 378 manca in Eustazio e talora è espunto dagli edd.).

Od. 18, 85 = 18, 116 = 21, 308 eijç “Eceton baçilh'a, brotw'n dhlhvmona pavntwn (il crudele re Echeto, cui verrà mandato lo sconfitto Iro).

Od. 18, 136-137 toi'oç ga;r novoç ejçti;n ejpicqonivwn ajnqrwvpwn, / oi|on ejp∆ h\mar a[gh/çi path;r ajndrw'n te qew'n te (uomini effimeri, parole di Odisseo ad Anfinomo).

Od. 18, 228-229 aujta;r ejgw; qumw'/ noevw kai; oi\da e{kaçta, / ejçqlav te kai; ta; cevreia (parole di Telemaco a Penelope).

Od. 18, 243 sgg. Penelope a Eurimaco. Atena e il maquillage di Penelope. Insolenti parole di Melanto a Odisseo. Eurimaco lancia uno sgabello a Odisseo. Tutti a dormire.

Od. 19, 13 = 16, 294 Le armi vanno nascoste, perché “il ferro attira l’uomo (aujto;ç ga;r ejfevlketai a[ndra çivdhroç).

Od. 19, 29 sg. (= 17, 57 = 22, 398 = 21, 398) Telemaco ed Euriclea: Od. 17, 57 = 19, 29 = 22, 398 = 21, 386 sg. w}ç a[r∆ ejfwvnhçen, th'/ d∆ a[pteroç e[pleto mu'qoç. / klhvi>çen de; quvraç megavrwn eju÷ naietaovntwn (trad Ciani: “Così disse, e lei comprese al volo. Chiuse le porte delle stanze ben fatte”; trad. Paduano: “Così disse, e lei non rispose parola: chiuse le porte della splendida sala”).

Od. 19, 34 pavroiqe de; Palla;ç ∆Aqhvnh / cruvçeon luvcnon e[couça favoç perikalle;ç ejpoivei (la luce bellissima di Atena).

14

Od. 19, 44-45 ajlla; çu; me;n katavlexai, ejgw; d∆ uJpoleivyomai aujtou', / o[fra k∆ e[ti dmw/a;ç kai; mhtevra çh;n ejreqivzw (Odisseo resta nella sala, per mettere alla prova le ancelle e la madre di Telemaco).

Od. 19, 65 sgg. Nuovi insulti di Melanto a Odisseo e rimbrotti di Penelope.

Od. 19, 105 (= Od. 1, 170; 10, 325; 14, 187; 24, 298) sgg. tivç povqen eijç ajndrw'n… povqi toi povliç hjde; tokh'eç… (così inizia l’incontro tra Penelope e il mendico, che risponde: mhdev moi ejxereveine gevnoç kai; patrivda gai'an. … mavla d∆ eijmi; poluvçtonoç.

Od. 19, 137 sgg. La tela di Penelope (ejgw; de; dovlouç tolupeuvw). Gioachino Chiarini: «parallelamente alle peripezie dell'eroe lungo il tortuoso ritorno, anche Penelope compie un "suo viaggio": viaggio della mente che si nutre di sogni e speranze ma reso visibile, nel suo "immobile andare", dal ritmico farsi e disfarsi della grande tela. E così l' dell'instancabile tessitrice, mentre riproduce al femminile, nel chiuso delle stanze, l'oscillante procedere dei passi dell'eroe nel mondo esterno, anche rappresenta "l'arte del poeta, del tessitore della grande tela istoriata dell'Odissea, la sua abilità nel far convergere i ritmi dei destini individuali in un unico punto, a partire dal quale essi si rivelano non più destini diversi, ma aspetti diversi di un unico destino».

Od. 19, 164 sgg. Odisseo si ripropone come uomo di Creta che ha ospitato Odisseo in viaggio verso Troia. Vv. 203-204: i[çke yeuvdea polla; levgwn ejtuvmoiçin oJmoi'a: / th'ç d∆ a[r∆ ajkououvçhç rJeve davkrua, thvketo de; crwvç.

Od. 19, 215 sgg. Tocca ora a Penelope mettere alla prova il mendico e chiedere di descrivere gli abiti di Odisseo (nu'n me;n dhv çeu xei'nev g∆ oji?w peirhvçeçqai, / eij ejteo;n dh; kei'qi çu;n ajntiqevoiç∆ eJtavroiçi / xeivniçaç ejn megavroiçin ejmo;n povçin, wJç ajgoreuveiç. / eijpev moi, oJppoi'∆ a[çça peri; croi÷ ei{mata e{çto, / aujtovç q∆ oi|oç e[hn, kai; eJtaivrouç, oi{ oiJ e{ponto). Alla risposta positiva del mendico-Odisseo Penelope rinnova il pianto riconoscendo come sicuri i segni di cui parlava il mendico (vv. 249-250: w}ç favto, th'/ d∆ e[ti ma'llon uJf∆ i{meron w\rçe govoio / çhvmat∆ ajnagnouvçh/, tav oiJ e[mpeda pevfrad∆ ∆Oduççeuvç).

Od. 19, 261 sgg. Facile profezia di Odisseo sul proprio ritorno. Penelope non crede, ma ha tempo per alcune massime sulla brevià della vita umana (v. 328: a[nqrwpoi de; minunqavdioi televqouçin - Paduano: “Gli uomini vivono solo un attimo”).

Od. 19, 346-348 Solo a una vecchia ancella fedele, vittima delle stesse sofferenze da lui patite, Odisseo permetterà di lavargli i piedi: eij mhv tiç grhu'ç ejçti palaihv, kedna; ijdui'a, / h{ tiç dh; tevtlhke tovça freçi;n o{çça t∆ ejgwv per: / th'/ d∆ oujk a]n fqonevoimi podw'n a{yaçqai ejmei'o.

Od. 19, 358-360 la saggia Penelope dà ordine alla saggia Euriclea: ajll∆ a[ge nu'n ajnçta'ça, perivfrwn Eujruvkleia, / nivyon çoi'o a[naktoç oJmhvlika: kaiv pou ∆Oduççeu;ç / h[dh toiovçd∆ ejçti; povdaç toiovçde te cei'raç: / ai\ya ga;r ejn kakovthti brotoi; kataghravçkouçin.

Od. 19, 379-381: Euriclea osserva una certa somiglianza tra il mendico e Odisseo (polloi; dh; xei'noi talapeivrioi ejnqavd∆ i{konto, / ajll∆ ou[ pwv tinav fhmi ejoikovta w|de ijdevçqai / wJç çu; devmaç fwnhvn te povdaç t∆ ∆Oduçh'i> e[oikaç).

15 Od. 19, 383-385 con una punta d’ironia (involontaria?) Odisseo-mendico ammette la somiglianza (w\ grhu', ou{tw façi;n o{çoi i[don ojfqalmoi'çin / hJmevaç ajmfotevrouç, mavla eijkevlw ajllhvloii>n / e[mmenai, wJç çuv per aujth; ejpifronevouç∆ ajgoreuveiç).

Od. 19, 392-393 nivze d∆ a[r∆ a[ççon ijou'ça a[nacq∆ eJovn: aujtivka d∆ e[gnw / oujlhvn, thvn potev min çu'ç h[laçe leukw'/ ojdovnti. Euriclea riconosce la ferita inferta da un cinghiale durante una battuta di caccia col nonno Autolico (responsabile del nome di Odisseo: polloi'çin ga;r ejgwv ge ojduççavmenoç tovd∆ iJkavnw … tw'/ d∆ ∆Oduçeu;ç o[nom∆ e[çtw ejpwvnumon). La battuta di caccia è descritta ai vv. 393-466 (stessi versi a inizio e fine della digressione, secondo il procedimento della Ringkomposition: w{ç min qhreuvont∆ e[laçen çu'ç leukw'/ ojdovnti / Parnhçovnd∆ ejlqovnta çu;n uiJavçin Aujtoluvkoio).

Od. 19, 467 sgg. Euriclea riconosce la ferita, lascia andare il piede; la gamba ricade nel bacile di bronzo che risuona e si piega di lato, versando a terra l’acqua: (oujlh;n) th;n grhu÷ç ceivreççi kataprhnevççi labou'ça / gnw' rJ∆ ejpimaççamevnh, povda de; proevhke fevreçqai: / ejn de; levbhti pevçe knhvmh, kanavchçe de; calkovç, / a]y d∆ eJtevrwç∆ ejklivqh: to; d∆ ejpi; cqono;ç ejxevcuq∆ u{dwr.

Od. 19, 474-475 Euriclea: h\ mavl∆ ∆Oduççeuvç ejççi, fivlon tevkoç: oujdev ç∆ ejgwv ge / pri;n e[gnwn, pri;n pavnta a[nakt∆ ejmo;n ajmfafavaçqai.

Od. 19, 482 sgg. Odisseo impone, con minacce (v. 492: tevknon ejmovn, poi'ovn çe e[poç fuvgen e{rkoç ojdovntwn), il silenzio a Euriclea, che ripete il pediluvio e promette di indicare le ancelle infedeli (v. 495: a[llo dev toi ejrevw, çu; d∆ ejni; freçi; bavlleo çh'/çin). Odisseo sostiene di saper riconoscere le infedeli (v. 501: eu\ nu kai; aujto;ç ejgw; fravçomai kai; ei[çom∆ eJkavçthn). Il sogno di Penelope (le oche uccise dall’aquila) e l’interpretazione: Odisseo sta tornando ed è prossima la morte dei Proci (vv. 557-558: mnhçth'rçi de; faivnet∆ o[leqroç / pa'çi mavl∆, oujdev kev tiç qavnaton kai; kh'raç ajluvxei). Incredulità di Penelope (vv. 560-563: xei'n∆, h\ toi me;n o[neiroi ajmhvcanoi ajkritovmuqoi / givnont∆, oujdev ti pavnta teleivetai ajnqrwvpoiçi. / doiai; gavr te puvlai ajmenhnw'n eijçi;n ojneivrwn: / aiJ me;n ga;r keraveççi teteuvcatai, aiJ d∆ ejlevfanti) e trattazione dei sogni, veridici o falsi. Con dolore Penelope predice la propria partenza come sposa altrui (v. 570: a[llo dev toi ejrevw, çu; d∆ ejni; freçi; bavlleo çh'/çin) e propone la gara dell’arco; Odisseo confuta la profezia e approva la gara.

Od. 20, 6 sgg. le ancelle infedeli si uniscono ai Proci; ira e sdegno di Odisseo (vv. 18-24: tevtlaqi dhv, kradivh: kai; kuvnteron a[llo pot∆ e[tlhç, / h[mati tw'/, o{te moi mevnoç a[çcetoç h[çqie Kuvklwy / ijfqivmouç eJtavrouç: çu; d∆ ejtovlmaç, o[fra çe mh'tiç / ejxavgag∆ ejx a[ntroio oji>ovmenon qaneveçqai. / w}ç e[fat∆, ejn çthvqeççi kaqaptovmenoç fivlon h\tor: / tw'/ de; mavl∆ ejn peivçh/ kradivh mevne tetlhui'a / nwlemevwç: ajta;r aujto;ç eJlivççeto e[nqa kai; e[nqa). Odisseo si rivolta sul giaciglio, come un uomo volta e rivolta una grassa e sanguigna salciccia sulla fiamma, impaziente che sia cotta. Atena garantisce il suo appoggio e finalmente Odisseo riesce a dormire.

Od. 20, 57 sgg. Si sveglia Penelope e prega Artemide, ricordando il caso delle tre figlie di Pandàreo, amico di Tantalo e responsabile del furto sacrilego del cane d’oro guardiano di un tempio di Zeus. Per volere del re degli dèi (vv. 75-76: oJ gavr t∆ eju÷ oi\den a{panta, / moi'ravn t∆ ajmmorivhn te kataqnhtw'n ajnqrwvpwn) le tre fanciulle furono rapite dalle Arpie e consegnate alle Erinni, che le resero schiave di Persefone nell’Ade.

Od. 20, 91 sgg. All’alba Odisseo sente Penelope piangere e teme che la sposa ormai sappia che egli è vicino (vv. 93-94: dovkhçe dev oiJ kata; qumo;n / h[dh ginwvçkouça pareçtavmenai kefalh'fi). Preghiera di Odisseo a Zeus, che invia un tuono come segno favorevole (ejbrovnthçen); come tale (çh'ma a[nakti ... tevraç nuv tew/ tovde faivneiç) lo interpreta un’ancella fedele che macina il 16 grano presso la reggia e prega che per l’ultima volta l Proci possano prendere il pasto nella dimora di Odisseo (vv. 116-117: mnhçth'reç puvmatovn te kai; u{çtaton h[mati tw'/de / ejn megavroiç∆ ∆Oduçh'oç eJloivato dai't∆ ejrateinhvn).

Od. 20, 121 sgg. Euriclea dà ordini alle ancelle; Telemaco in armi si reca all’assemblea degli Achei dai begli schinieri (v. 146: met∆ eju>knhvmidaç ∆Acaiouvç). Ritorna dai campi Eumeo e nuovamente Melanzio insulta Odisseo, mentre Filezio rivolge al falso mendico parole gentili: piange l’antico padrone, perché all sua vista si ricorda di Odisseo lontano o morto (vv. 204-207: i[dion, wJç ejnovhça, dedavkruntai dev moi o[ççe / mnhçamevnw/ ∆Oduçh'oç, ejpei; kai; kei'non oji?w / toiavde laivfe∆ e[conta kat∆ ajnqrwvpouç ajlavlhçqai, / ei[ pou e[ti zwvei kai; oJra'/ favoç hjelivoio).

Od. 20, 240 sgg. Pareri discordi nell’assemblea dei Proci, che abbandonano l’idea di uccidere Telemaco: Preparativi del banchetto: Ctesippo insulta il falso mendico (con lancio di zampa di bue, boo;ç povda di v. 299). Rimbrotto di Telemaco, ormai in grado di discernere il bene e il male (vv. 309-310: h[dh ga;r noevw kai; oi\da e{kaçta, / ejçqlav te kai; ta; cevreia: pavroç d∆ e[ti nhvpioç h\a). Scambio di battute tra Agelao e Telemaco sulle nozze di Penelope: riso inestinguibile e pianto dei Proci (vv. 345-349: w}ç favto Thlevmacoç: mnhçth'rçi de; Palla;ç ∆Aqhvnh / a[çbeçton gevlw w\rçe, parevplagxen de; novhma. / oiJ d∆ h[dh gnaqmoi'çi gelwvwn ajllotrivoiçin, / aiJmofovrukta de; dh; kreva h[çqion: o[ççe d∆ a[ra çfevwn / dakruovfin pivmplanto, govon d∆ wji?eto qumovç).

Od. 20, 350-357 Parla Teoclimeno: toi'çi de; kai; meteveipe Qeokluvmenoç qeoeidhvç: / a\ deiloiv, tiv kako;n tovde pavçcete… nukti; me;n uJmevwn / eijluvatai kefalaiv te provçwpav te nevrqe te gou'na, / oijmwgh; de; devdhe, dedavkruntai de; pareiaiv, / ai{mati d∆ ejrravdatai toi'coi kalaiv te meçovdmai: / eijdwvlwn de; plevon provquron, pleivh de; kai; aujlhv, / iJemevnwn “Erebovçde uJpo; zovfon: hjevlioç de; / oujranou' ejxapovlwle, kakh; d∆ ejpidevdromen ajcluvç - Così disse loro Teoclimeno pari agli dèi: «Infelici, che male vi prende? La notte avvolge / le vostre teste e i volti, e le ginocchia; / il lamento avvampa, lacrimano le vostre guance, / i muri e i begli architravi grondano sangue, / il portico è pieno di spettri, ne è pieno il cortile, / corrono a precipizio nell’Erebo scuro; il sole è sparito / dal cielo e si è diffusa una nebbia funesta». Così disse e tutti risero di lui. (trad. di Guido Paduano). Si prepara il banchetto, l’ultimo per i Pretendenti.

Od. 21, 1 sgg. Penelope prepara la gara dell’arco (tovxon), dono a Odisseo da parte di Ifito, arciere famoso, figlio di Eurito signore di Ecalia.

Od. 21, 38-41 Odisseo non porta con sé l’arco in guerra (Ifito oiJtovxon e[dwke. to; d∆ ou[ pote di'oç ∆Oduççeu;ç / ejrcovmenoç povlemovnde melainavwn ejpi; nhw'n / hJ/rei't∆, ajll∆ aujtou' mnh'ma xeivnoio fivloio / kevçket∆ ejni; megavroiçi, fovrei dev min h|ç ejpi; gaivhç).

Od. 21, 55 sgg. Penelope piange, co l’arco sulle ginocchia, poi scende nella sala e propone la gara, con le proprie nozze come premio (vv. 74-79: qhvçw ga;r mevga tovxon ∆Oduççh'oç qeivoio: / o}ç dev ke rJhi?tat∆ ejntanuvçh/ bio;n ejn palavmh/çi / kai; dioi>çteuvçh/ pelevkewn duokaivdeka pavntwn, / tw'/ ken a{m∆ eJçpoivmhn, noçfiççamevnh tovde dw'ma / kourivdion, mavla kalovn, ejnivpleion biovtoio, / tou' pote memnhvçeçqai oji?omai e[n per ojneivrw/).

Od. 21, 80-83 piangono anche Eumeo e Filezio alla vista dell’arco del re. Così Antinoo li rimbrotta, con un presentimento negativo: nhvpioi ajgroiw'tai, ejfhmevria fronevonteç, / a\ deilwv, tiv nu davkru kateivbeton hjde; gunaiki; / qumo;n ejni; çthvqeççin ojrivneton… h|/ te kai; a[llwç / kei'tai ejn a[lgeçi qumovç, ejpei; fivlon w[leç∆ ajkoivthn. / ajll∆ ajkevwn daivnuçqe kaqhvmenoi, hje; quvraze klaiveton ejxelqovnte kat∆ aujtovqi tovxa lipovnte, / mnhçthvreççin a[eqlon ajavaton: ouj ga;r oji?w / rJhi>divwç tovde tovxon eju?xoon ejntanuveçqai. / ouj gavr tiç mevta toi'oç ajnh;r ejn

17 toivçdeçi pa'çin, / oi|oç ∆Oduççeu;ç e[çken: ejgw; dev min aujto;ç o[pwpa, / kai; ga;r mnhvmwn eijmiv, pavi>ç d∆ e[ti nhvpioç h\a (vv. 85-95).

Od. 21, 100 sgg. Telemaco tesse ironicamente l’elogio della madre come sposa (v. 105 sgg.: aujta;r ejgw; gelovw kai; tevrpomai a[froni qumw'/. / ajll∆ a[gete, mnhçth'reç, ejpei; tovde faivnet∆ a[eqlon, / oi{h nu'n oujk e[çti gunh; kat∆ ∆Acaii?da gai'an, / ou[te Puvlou iJerh'ç ou[t∆ “Argeoç ou[te Mukhvnhç, / ou[t∆ aujth'ç ∆Iqavkhç ou[t∆ hjpeivroio melaivnhç: / kai; d∆ aujtoi; tovde i[çte: tiv me crh; mhtevroç ai[nou)5 e tenta per primo a tendere l’arco, senza riuscirvi.

Od. 21, 140 Su proposta di Antinoo, tentano la prova i Pretendenti, cominciando da destra, da dove si inizia a versare il vino (o[rnuçq∆ eJxeivhç ejpidevxia pavnteç eJtai'roi, / ajrxavmenoi tou' cwvrou, o{qen tev per oijnocoeuvei). L’ordine della prova è lo stesso del simposio (simposio di morte): inizia l’indovino Leode figlio di Oinopo, seduto per ultimo presso il cratere del vino (para; krhth'ra de; kalo;n). Leode fallisce ma profetizza morte per molti (vv. 153 sgg.: pollou;ç ga;r tovde tovxon ajriçth'aç kekadhvçei / qumou' kai; yuch'ç, ejpei; h\ polu; fevrterovn ejçti / teqnavmen h] zwvontaç aJmartei'n, ou| q∆ e{nek∆ aijei; / ejnqavd∆ oJmilevomen, potidevgmenoi h[mata pavnta).

Od. 21, 166 sgg. Rimprovero di Antinoo, che ordina a Melanzio di scaldare e ungere l’arco. I Proci tuttavia non riescono a tendere l’arco; restano ancora Antinoo ed Eurimaco.

Od. 21, 207 sgg. Fuori della reggia Odisseo si rivela a Eumeo e a Filezio: e[ndon me;n dh; o{d∆ aujto;ç ejgwv, kaka; polla; moghvçaç, / h[luqon eijkoçtw'/ e[tei> ejç patrivda gai'an. / ginwvçkw d∆ wJç çfw'i>n ejeldomevnoiçin iJkavnw / oi[oiçi dmwvwn: tw'n d∆ a[llwn ou[ teu a[kouça / eujxamevnou ejme; au\tiç uJpovtropon oi[kad∆ iJkevçqai. ... eij d∆ a[ge dh; kai; çh'ma ajrifrade;ç a[llo ti deivxw, / o[fra m∆ eju÷ gnw'ton piçtwqh'tovn t∆ ejni; qumw'/, / oujlhvn, thvn potev me çu'ç h[laçe leukw'/ ojdovnti / Parnhçovnd∆ ejlqovnta çu;n uiJavçin Aujtoluvkoio. Gli ultimi due versi (= 19, 393-394) sono talora atetizzati da alcuni edd.

Od. 21, 221 sgg. Odisseo scopre la ferita; i servi la riconoscono: w}ç eijpw;n rJavkea megavlhç ajpoevrgaqen oujlh'ç. / tw; d∆ ejpei; eijçidevthn eu\ t∆ ejfravççanto e{kaçta, / klai'on a[r∆ ajmf∆ ∆Oduçh'i> dai?froni cei're balovnte / kai; kuvneon ajgapazovmenoi kefalhvn te kai; w[mouç: / w}ç d∆ au[twç ∆Oduçeu;ç kefala;ç kai; cei'raç e[kuççe.

Od. 21, 245 sgg. Interno della reggia: gara rinviata al giorno successivo. Preparativi per la festa sacra ad . Richiesta di provare l’arco da parte del falso mendico (vv. 281-284: ajll∆ a[g∆ ejmoi; dovte tovxon eju?xoon, o[fra meq∆ uJmi'n / ceirw'n kai; çqevneoç peirhvçomai, h[ moi e[t∆ ejçti;n / i[ç, oi{h pavroç e[çken ejni; gnamptoi'çi mevleççin, / h\ h[dh moi o[leççen a[lh t∆ ajkomiçtivh te). Minacce da parte di Antinoo, in part. di deportare il falso mendico siul continente, dal re Echeto, flagello di uomini (çe nhi÷ melaivnh/ / eijç “Eceton baçilh'a, brotw'n dhlhvmona pavntwn, / pevmyomen - vv. 308 = Od. 18, 85 e 116). Interventi di Penelope e di Telemaco a favore del falso mendico.

Od. 21, 339-342 = Od. 16, 75-77 = Od. 14, 515-517: e{ççw min clai'navn te citw'nav te, ei{mata kalav, / dwvçw d∆ ojxu;n a[konta, kunw'n ajlkth'ra kai; ajndrw'n, / kai; xivfoç a[mfhkeç: dwvçw d∆ uJpo; poççi; pevdila, / pevmyw d∆ o{pph/ min kradivh qumovç te keleuvei.

5 Il v. 109 (ou[t∆ aujth'ç ∆Iqavkhç ou[t∆ hjpeivroio melaivnhç) ripete in ordine inverso il secondo emistichio di Od. 14, 97 e il primo di 14, 98 (ajndrw'n hJrwvwn, ou[t∆ hjpeivroio melaivnhç / ou[t∆ aujth'ç ∆Iqavkhç: oujde; xuneeivkoçi fwtw'n). Assente in alcuni codd., è talora sospettato di interpolazione. 18 I vv., già in parte presenti in Od. 14, 515-517 (Eumeo promette che Telemaco darà allo straniero versi e armi, sono ripetuti in Od. 16, 75-77 (Telemaco promette allo straniero vesti e armi); in Od. 21, 339-402: Telemaco promette vesti e armi al falso mendico, se riuscirà a tendere l’arco di Odisseo.

Od. 21, 350-358 = Od. 1, 356-364 con la variante isometrica tovxon di 21, 352 in luogo di mu'qoç di 1, 358. ajll∆ eijç oi\kon ijou'ça ta; ç∆ aujth'ç e[rga kovmize, / iJçtovn t∆ hjlakavthn te, kai; ajmfipovloiçi kevleue / e[rgon ejpoivceçqai: tovxon d∆ a[ndreççi melhvçei / pa'çi, mavliçta d∆ ejmoiv: tou' ga;r kravtoç e[çt∆ ejni; oi[kw/.Æ / hJ me;n qambhvçaça pavlin oi\kovnde bebhvkei: / paido;ç ga;r mu'qon pepnumevnon e[nqeto qumw'/. / ejç d∆ uJperw'/∆ ajnaba'ça çu;n ajmfipovloiçi gunaixi; / klai'en e[peit∆ ∆Oduçh'a, fivlon povçin, o[fra oiJ u{pnon / hJdu;n ejpi; blefavroiçi bavle glaukw'piç ∆Aqhvnh.

Od. 21, 385-386 Richiesta a Euriclea di chiudere le porte: w}ç a[r∆ ejfwvnhçen, th'/ d∆ a[pteroç e[pleto mu'qoç, / klhvi>çen de; quvraç megavrwn eju÷ naietaovntwn (= Od. 17, 57 = 19, 29-30 = 22, 398-399).

Od. 21, 404 sgg. Odisseo tende l’arco e prova la corda, che emette suono bellissimo, simile a voce di rondine (vv. 410-411: dexiterh'/ d∆ a[ra ceiri; labw;n peirhvçato neurh'ç: / hJ d∆ uJpo; kalo;n a[eiçe, celidovni eijkevlh aujdhvn). Tuono di Zeus. La freccia attraversa le 12 scuri. Odisseo a Telemaco: prepariamo l’ultimo banchetto ai Pretendenti.

Od. 21, 431-434: cenno di Odisseo e Telemaco si schiera vicino al padre, pronto alla battaglia.

Od. 22, 5 ou|toç me;n dh; a[eqloç ajavatoç ejktetevleçtai (Odisseo: la gara funesta è finita).

Od. 22, 8 sgg. Odisseo trafigge Antinoo; urla dei Proci, che non capiscono d’esser giunti ai confini di morte (vv. 32-33: to; de; nhvpioi oujk ejnovhçan, / wJç dhv çfin kai; pa'çin ojlevqrou peivrat∆ ejfh'pto). Cfr. v. 42: nu'n u{min kai; pa'çin ojlevqrou peivrat∆ ejfh'ptai.

Od. 22, 35-42 Odisseo si rivela ai Proci (w\ kuvneç, ou[ m∆ e[t∆ ejfavçkeq∆ uJpovtropon oi[kade nei'çqai / dhvmou a[po Trwvwn, o{ti moi katekeivrete oi\kon / dmw/h'/çivn te gunaixi; pareunavzeçqe biaivwç / aujtou' te zwvontoç uJpemnavaçqe gunai'ka, / ou[te qeou;ç deivçanteç, oi} oujrano;n eujru;n e[couçin, / ou[te tin∆ ajnqrwvpwn nevmeçin katovpiçqen e[çeçqai. / nu'n u{min kai; pa'çin ojlevqrou peivrat∆ ejfh'ptai).

Od. 22, 45-88 Parla Eurimaco; chede dapprima tregua, incolpando il morto Antinoo d’aver promosso l’insolenza dei Proci; poi invita i compagni a lottare, ma è trafitto in pieno petto da una freccia di Odisseo: la nebbia gli scese sugli occhi (v. 88: kat∆ ojfqalmw'n d∆ e[cut∆ ajcluvç).

Od. 22, 89 sgg: Telemaco trafigge con la lancia Anfinomo e poi porta scudo, spada e aste al padre. Agelao chiede a Melanzio di portare le armi ai Proci, ma è catturato da Eumeo e Filezio, che lo lasciano, legato alla fune mortale, dentro la stanza.

Od. 22, 200 sgg. Riprende la descrizione dello scontro: quattro contro tutti (vv. 203-204: mevnoç pneivonteç ejfevçtaçan, oiJ me;n ejp∆ oujdou' / tevççareç, oiJ d∆ e[ntoçqe dovmwn poleveç te kai; ejçqloiv), ma accanto a Odisseo (dai?frona poikilomhvthn - formula con doppio epiteto, sempre in accusativo: Od. 3, 163; 7, 168; 22, 115; 22, 202; 22, 281) compare e si schiera Atena, in veste di Mentore, vale a dire è l'itacese a cui Ulisse, in partenza per Troia, ha affidato il piccolo Telemaco

19 (cfr. Od. 2, 225, 243, 253268, 401; 3, 22, 240; 4, 624, 655; 17, 68; 22, 206, 208, 213, 235, 249; 24, 446, 456, 503, 548).

Od. 22, 212 sgg. Damastore minaccia Mentore-Atena, che incita Odisseo, ma non concede piena vittoria, perché vuol mettere alla prova la forza del padre e del figlio (vv. 237-238: ajll∆ e[t∆ a[ra çqevneovç te kai; ajlkh'ç peirhvtizen / hjme;n ∆Oduççh'oç hjd∆ uiJou' kudalivmoio); prende pertanto posto sulla trave maestra del megaron simile a una rondine (v. 240: celidovni eijkevlh a[nthn).

Od. 22, 241 sgg. restano ancora in vita Agelao Eurinomo, Anfimedonte, Ctesippo, Demottolemo, Euriade, Elato, Pisandro e Polibo; Agelao esorta i superstiti allo scontro: Fallito il lancio delle aste da parte dei proci grazie all’intervento di Atena, Odisseo uccide Demottolemo, Telemaco uccide Euriade, Eumeo uccide Elato e Filezio uccide Pisandro.

Od. 22, 272 sgg. Nuovo assalto dei Proci superstiti: Anfimedonte colpisce di striscio al polso Telemaco; Ctesippo sfiora la spalla di Eumeo. Odisseo uccide Euridamante e Agelao, Telemaco Anfimedonte e Leocrito, Eumeo Polibo, Filezio Ctesippo, rinfacciandogli la zampa di bue lanciata contro Odisseo-mendico in 20, 299 (vv. 290-291: tou'tov toi ajnti; podo;ç xeinhvi>on, o{n pot∆ e[dwkaç / ajntiqevw/ ∆Oduçh'i> dovmon kavt∆ ajlhteuvonti).

Od. 22, 297-298 e sgg. Atena solleva l’egida, che annienta i mortali; si sconvolgono le menti dei Proci (∆Aqhnaivh fqiçivmbroton aijgivd∆ ajnevçcen / uJyovqen ejx ojrofh'ç: tw'n de; frevneç ejptoivhqen). Così Odisseo e compagni continuano la strage: i Proci si sbandano come vacche punte dai tafani e assalite da avvoltoi. Odisseo decapita l’indovino Leode, che invano chiede di aver salva la vita.

Od. 22, 330 sgg. Odisseo risparmia la vita, su intercessione di Telemaco, all’aedo Femio e all’araldo Medonte. Dice Femio (vv. 347-349): aujtodivdaktoç d∆ eijmiv, qeo;ç dev moi ejn freçi;n oi[maç / pantoivaç ejnevfuçen: e[oika dev toi paraeivdein / w{ç te qew'/: tw' mhv me lilaiveo deirotomh'çai («Da me solo ho imparato: a me un dio nel cuore vie / molteplici impiantò: e credo che davanti a te io canterei / come davanti a un dio; dunque non volermi trucidare! » - Così F. Ferrari).

Od. 22, 383 sgg. tou;ç de; i[den mavla pavntaç ejn ai{mati kai; konivh/çi / peptew'taç pollouvç, w{ç t∆ ijcquvaç, ou{ç q∆ aJlih'eç / koi'lon ejç aijgialo;n polih'ç e[ktoçqe qalavççhç / diktuvw/ ejxevruçan poluwpw'/: … w}ç tovt∆ a[ra mnhçth'reç ejp∆ ajllhvloiçi kevcunto. I Proci son tutti morti, come pesci tratti a riva che rimpiangono le onde del mare e muoiono sotto i raggi del sole.

Od. 22, 391 sgg. Vien fatta entrare Euriclea, cui si dà un ordine prontamente eseguito (v. 398: w}ç a[r∆ ejfwvnhçen, th'/ d∆ a[pteroç e[pleto mu'qoç): non svegliare ancora Penelope e indicare le 12 ancelle infedeli. Esse portano i corpi dei Pretendenti nel portico e poi vengono impiccate. Maschalismòs di Melanzio (vv. 474-477).

Od. 22, 480 sgg. Purificazione della sala, della casa e del cortile. Le ancelle fedeli si accalcano attorno a Odisseo, che le riconosceva a una a una (v. 501: givnwçke d∆ a[ra freçi; pavçaç).

Od. 23, 1 sgg. Euriclea sveglia Penelope: h\lq∆ ∆Oduçeu;ç kai; oi\kon iJkavnetai, ojyev per ejlqwvn (v. 7, ripetuto al v. 27: h\lq∆ ∆Oduçeu;ç kai; oi\kon iJkavnetai, wJç ajgoreuvw). Incredulità di Penelope, che non ha mai dormito così bene da quando Odisseo partì per la malfamata Troia (vv. 18-19: ejx ou| ∆Oduççeu;ç / w[/cet∆ ejpoyovmenoç Kakoi?lion oujk ojnomaçthvn): Dell’arrivo – dice Euriclea – era a conoscenza Telemaco , ma saggiamente tenne nascosti i disegni per padre: Thlevmacoç d∆ a[ra min pavlai h[/deen e[ndon ejovnta, / ajlla; çaofroçuvnh/çi nohvmata patro;ç e[keuqen (vv. 29-

20 30), al fine di portar a termine la vendetta sui Proci. Euriclea non ha visto la strage ma ha udito i lamenti dei moribondi (vv. 40-41: oujk i[don, ouj puqovmhn, ajlla; çtovnon oi\on a[kouça / kteinomevnwn), infine ha visto Odisseo in mezzo alla sala, coperto di sangue come un leone (vv. 47- 486: ijdou'çav ke qumo;n ijavnqhç / ªai{mati kai; luvqrw/ pepalagmevnon w{ç te levontaº; cfr. 22, 441 sgg.: Euriclea eu|ren e[peit∆ ∆Oduçh'a meta; ktamevnoiçi nevkuççin / ai{mati kai; luvqrw/ pepalagmevnon w{ç te levonta, / o{ç rJav te bebrwkw;ç boo;ç e[rcetai ajgrauvloio: / pa'n d∆ a[ra oiJ çth'qovç te parhvi>av t∆ ajmfotevrwqen / aiJmatoventa pevlei, deino;ç d∆ eijç w\pa ijdevçqai: / w}ç ∆Oduçeu;ç pepavlakto povdaç kai; cei'raç u{perqen).

Od. 23, 58 sgg. Penelope obietta che non uomo, per giunta solo, può aver ucciso i Proci, ma che la strage è opera di un dio vendicatore, perché ∆Oduççeu;ç / w[leçe thlou' novçton ∆Acaii?doç, w[ d∆ aujtovç (vv. 67-68). Euriclea rimprovera la diffidenza incredula di Penelope e riporta come segno sicuro la cicatrice del cinghiale: tevknon ejmovn, poi'ovn çe e[poç fuvgen e{rkoç ojdovntwn (v. 70); qumo;ç dev toi aije;n a[piçtoç (v. 72); ajll∆ a[ge toi kai; çh'ma ajrifrade;ç a[llo ti ei[pw, / oujlhvn, thvn potev min çu'ç h[laçe leukw'/ ojdovnti: / th;n ajponivzouça fraçavmhn, e[qelon de; çoi; aujth'/ / eijpevmen: ajllav me kei'noç eJlw;n ejpi; mavçtaka cerçi;n / oujk ei[a eijpei'n polukerdeivh/çi novoio (vv. 73-77).

Od. 23, 80 sgg. Replica di Penelope: non è facile comprendere, anche per chi è saggio come Euriclea, i disegni degli dèi (vv. 81-82: mai'a fivlh, calepovn çe qew'n aijeigenetavwn / dhvnea ei[ruçqai, mavla per poluvi>drin ejou'çan); tuttavia decide di scendere nel megaron, per vedere i Proci morti e colui che li ha uccisi (vv. 83-84: ajll∆ e[mphç i[omen meta; pai'd∆ ejmovn, o[fra i[dwmai / a[ndraç mnhçth'raç teqnhovtaç, hjd∆ o}ç e[pefnen), incerta però (polla; dev oiJ kh'r / w{rmain∆) se abbracciare lo sposo o parlargli da lontano. Si siede di fronte a Odisseo: e{zet∆ e[peit∆ ∆Oduçh'oç ejnantivon, ejn puro;ç aujgh'/, / toivcou tou' eJtevrou (v. 89-90).

Od. 23, 90 sgg. oJ d∆ a[ra pro;ç kivona makrh;n / h|çto kavtw oJrovwn, potidevgmenoç ei[ tiv min ei[poi / ijfqivmh paravkoitiç, ejpei; i[den ojfqalmoi'çin. / hJ d∆ a[new dh;n h|çto, tavfoç dev oiJ h\tor i{kanen: / o[yei d∆ a[llote mevn min ejnwpadivwç ejçivdeçken, / a[llote d∆ ajgnwvçaçke kaka; croi÷ ei{mat∆ e[conta. Odisseo sedeva appoggiato a un’alta colonna, con gli occhi bassi, in attesa che la nobile sposa gli parlasse, dopo averlo veduto; ma lei a lungo taceva, col cuore sbigottito: ora guardandolo in viso credeva di riconoscerlo, ora le sembrava uno sconosciuto, così coperto di cenci.

Od. 23, 96 sgg. Rimprovero di Telemaco alla madre non-madre7: mh'ter ejmhv, duvçmhter, ajphneva qumo;n e[couça (v. 97) … çoi; d∆ aijei; kradivh çterewtevrh ejçti; livqoi (v. 103). I vv. 100-103 (ouj mevn k∆ a[llh g∆ w|de gunh; tetlhovti qumw'/ / ajndro;ç ajpoçtaivh, o{ç oiJ kaka; polla; moghvçaç / e[lqoi ejeikoçtw'/ e[tei> ejç patrivda gai'an) sono ripetuti da Odisseo, vv. 168-170. Risponde Penelope: se davvero è Odiseo, potremo riconoscerci nel modo migliore, perché ci sono dei segni che solo noi conosciamo: eij d∆ ejteo;n dh; / e[çt∆ ∆Oduçeu;ç kai; oi\kon iJkavnetai, h\ mavla nw'i> / gnwçovmeq∆ ajllhvlw kai; lwvi>on: e[çti ga;r h{min / çhvmaq∆, a} dh; kai; nw'i> kekrummevna i[dmen ajp∆ a[llwn (vv. 107-110).

Od. 23, 111 sgg. Sorride il paziente divino Odisseo e a Telemaco rivolge parole alate: Lascia che tua madre mi metta alla prova: tra poco mi riconoscerà di certo (vv. 111-114: w}ç favto, meivdhçen de; poluvtlaç di'oç ∆Oduççeuvç, / ai\ya de; Thlevmacon e[pea pteroventa proçhuvda: /

6 Già in Il. 6, 268 (Ettore parla di sé, reduce dalla battaglia, alla madre Ecuba, che lo invita a bere) e in Od. 22, 402, il verso è omesso in gran parte della tradizione e talora è atetizzato dagli edd. 7 Vd. Il. 3, 39 e 13, 769: prima Ettore apostrofa Paride con lo stesso procedimento (Duvçpari ei\doç a[riçte gunaimane;ç hjperopeuta;), poi tocca a Elena (Duvçpari ei\doç a[riçte gunaimane;ç hjperopeuta;). 21 ÆThlevmac∆, h\ toi mhtevr∆ ejni; megavroiçin e[açon / peiravzein ejmevqen: tavca de; fravçetai kai; a[reion).

Od. 23, 115 sgg. Per Odisseo è necessario evitare la vendetta dei parenti dei Proci. Telemaco chiede che sia il padre a pensare in che modo evitare tale minaccia, dato che a giudizio di tutti Odisseo ha la mente migliore e nessun mortale potrebbe rivaleggiare con lui (vv. 124-126: çh;n ga;r ajrivçthn / mh'tin ejp∆ ajnqrwvpouç favç∆ e[mmenai, oujdev kev tivç toi / a[lloç ajnh;r ejrivçeie kataqnhtw'n ajnqrwvpwn). Come prima mossa Odisseo consiglia di fingere che la reggia sia sede di una finta festa di nozze. Abluzioni per tutti e canto di Femio. Rilavato dalla dispensiera Eurinome, grazie alle cure di Atena Odisseo esce dalla vasca simile a dio immortale (v. 163 : ejk d∆ ajçamivnqou bh' devmaç ajqanavtoiçin oJmoi'oç). I vv. precedenti, 157-162, sull’intervento di Atena ripetono analoghe situazioni e sono talora atetizzati.

Od. 23, 165 sgg. Sedutosi nuovamente di fronte alla sposa (ajntivon h|ç ajlovcou), Odisseo cambia tono, rimprovera la durezza di cuore di Penelope facendo proprie le parole di Telemaco (vv. 100- 103, ouj mevn k∆ a[llh g∆ w|de gunh; tetlhovti qumw'/ / ajndro;ç ajpoçtaivh, o{ç oiJ kaka; polla; moghvçaç / e[lqoi ejeikoçtw'/ e[tei> ejç patrivda gai'an = vv. 168-170) e chiede che gli venga preparato il letto fuori dalla stanza nuziale, per dormire da solo. Penelope afferma di saper bene com’era Odisseo quando partì per Troia (vv. 175-176: mavla d∆ eu\ oi\d∆ oi|oç e[hçqa / ejx ∆Iqavkhç ejpi; nho;ç ijw;n dolichrevtmoio) e dice a Euriclea di preparare il letto di Odisseo fuori dal talamo (v. 178: ejkto;ç eju>çtaqevoç qalavmou, tovn rJ∆ aujto;ç ejpoivei). Così parla, per mettere alla prova lo sposo (v. 181: w}ç a[r∆ e[fh povçioç peirwmevnh).

Od. 23, 183 sgg. Reazione di Odisseo, che spiega come non sia possibile spostare il letto nuziale, perché costruito dallo stesso Odisseo sulla base del tronco d’ulivo che cresceva entro il perimetro della reggia (vv. 190-194: qavmnoç e[fu tanuvfulloç ejlaivhç e{rkeoç ejntovç, / ajkmhno;ç qalevqwn: pavcetoç d∆ h\n hju?te kivwn. / tw'/ d∆ ejgw; ajmfibalw;n qavlamon devmon, o[fr∆ ejtevleçça, / puknh'/çin liqavdeççi, kai; eu\ kaquvperqen e[reya, / kollhta;ç d∆ ejpevqhka quvraç, pukinw'ç ajraruiva). Questo è il segno sicuro esposto da Odisseo: ou{tw toi tovde çh'ma pifauvçkoma (v. 202). A Penelope si sciolsero ginocchia e cuore riconoscendo i segni sicuri menzionati da Odisseo: w}ç favto, th'ç d∆ aujtou' luvto gouvnata kai; fivlon h\tor, / çhvmat∆ ajnagnouvçh/, tav oiJ e[mpeda pevfrad∆ ∆Oduççeuvç (vv. 204-205).

Od. 23, 206 sgg. In pianto Penelope riconosce e abbraccia lo sposo: fa in tempo a osservare che neppure Elena si sarebbe unita a uno straniero, se un dio non l’avesse costretta: (v. 222: th;n d∆ h\ toi rJevxai qeo;ç w[roren e[rgon ajeikevç - spunto pregorgiano mirante all’innocenza di Elena), prima di dirsi convinta grazie alla descrizione del letto (vv. 225-226 e v. 230: nu'n d∆, ejpei; h[dh çhvmat∆ ajrifradeva katevlexaç / eujnh'ç hJmetevrhç … peivqeiç dhv meu qumovn, ajphneva per mavl∆ ejovnta).

Od. 23, 231 sgg. Pianto di Penelope (come il naufrago che vede la terraferma) e notte prolungata da Atena (v. 242) per permettere gli amplessi tra gli sposi e i racconti delle sofferenze di Penelope e delle peripezie di Odisseo: una nyx macrà, insomma, modello di quella tra Zeus e Alcmena?

Od. 23, 268-284 = 11, 119-137 (Tiresia a Odisseo). Innanzi tutto, Odisseo narra a Penelope la parte finale della profezia di Tiresia, residuo di un’altra Odissea, di un ulteriore, di un ultimo viaggio di Odisseo?8

8 Vd. G. Cerri, L’Odissea epicorica di Itaca, «Mediterraneo antico» 5, 2002 (ma 2003), 149-184 22

Od. 23, 310 sgg. Piccola Odissea o mini-apologhi: Odisseo narra le sue avventure, dalla vittoria sui Ciconi alla terra dei Feaci.

Od. 23, 344 sgg. Quando Atena valuta che l’eroe sia sazio d’amore e di sonno, fa finalmente sorgere l’Aurora, perché porti agli umani la luce del giorno (vv. 347-348: aujtivk∆ ajp∆ ∆Wkeanou' cruçovqronon hjrigevneian / w\rçen, i{n∆ ajnqrwvpoiçi fovwç fevroi). In attesa che la notizia della fine dei Proci susciti il desiderio di vendetta dei congiunti, Odisseo, con Telemaco, Eumeo e Filezio, si dirige verso i campi, al podere di Laerte (ojyovmenoç patevr∆ ejçqlovn). h[dh me;n favoç h\en ejpi; cqovna, tou;ç d∆ a[r∆ ∆Aqhvnh / nukti; katakruvyaça qow'ç ejxh'ge povlhoç (vv. 371- 372).

Od. 24, 1 sgg. Intermezzo all’Ade, dove giungono le anime dei Proci guidate da Hermes psicopompo e incontrano gli eroi greci protagonisti della Guerra di Troia: seconda nekyia e piccola post-Iliade. Nel prato di afodeli, dove stanno le anime, fantasmi dei morti (vv. 13-14: ai\ya d∆ i{konto kat∆ ajçfodelo;n leimw'na, / e[nqa te naivouçi yucaiv, ei[dwla kamovntwn) incontrano le anime di Achille, Patroclo e Agamennone. Parla per primo Achille: per Agamennone sarebbe stato meglio morire sotto le mura di Troia, invece di trovare la morte al ritorno a casa, per mano di Clitennestra ed Egisto (24-34).

Od. 24, 35 sgg. Discorso di Agamennone, di colui che ha provocato, con l’appropriazione di Briseide, l’ira di Achille e la morte di molti Achei: makarismòs di Achille, morto a Troia lontano da Argo (vv. 36-37: o[lbie Phlevoç uiJev, qeoi'ç∆ ejpieivkel∆ ∆Acilleu', / o}ç qavneç ejn Troivh/ eJka;ç); i funerali di Achille, il canto funebre delle Muse (vv. 60-63: Mou'çai d∆ ejnneva pa'çai ajmeibovmenai ojpi; kalh'/ / qrhvneon: e[nqa ken ou[ tin∆ ajdavkrutovn g∆ ejnovhçaç / ∆Argeivwn: toi'on ga;r uJpwvrore Mou'ça livgeia), un’anfora d’oro ha raccolto le bianche ossa di Achille e Patroclo (vv. 73-77: dw'ke de; mhvthr / cruvçeon ajmfiforh'a: … ejn tw'/ toi kei'tai leuvk∆ ojçteva, faivdim∆ ∆Acilleu', / mivgda de; Patrovkloio Menoitiavdao qanovntoç - si ricorda che in Il. 23, 83-84 e 91 Patroclo implora Achille di far unire in una sola urna le loro ceneri, quando anche il Pelide sarà morto); gloria perenne di Achille di fronte alla miserabile morte riservatagli da Zeus sotto i colpi di Egisto e della sposa funesta (vv. 96-97: ejn novçtw/ gavr moi Zeu;ç mhvçato lugro;n o[leqron / Aijgivçqou uJpo; cerçi; kai; oujlomevnhç ajlovcoio). Per il racconto della morte di Achille bisogna aspettare Quinto Smirneo, Postomeriche 3, 1-1859.

Od. 24, 98 sgg. Giungono le anime dei Proci; Agammenone riconosce l’antico ospite Anfimedonte e gli chiede, in nome dell’ospitalità, la causa della morte di tanti nobili giovani (vv. 102-104: e[gnw

9 I primi 185 vv. del III libro dei Posthomerica trattano della morte di Achille. Il libro si apre con i funerali di Antiloco, figlio di Nestore (3, 1 - 9). B enché Achille abbia già vendicato la morte del compagno, uccidendo Memnone (2, 388-546), la sua ira (cholos) perdura e lo spinge ad assalire e fare nuovamente strage di Troiani (3, 10-25). Quando sembra che il Pelide stia per conquistare la città, Apollo interviene scendendo dall’Olimpo per fermare Achille (3, 26-36). Il dio gli grida di fermarsi, ma il Pelide rifiuta e minaccia a sua volta Apollo, ricominciando la strage (3,37- 55). Di fronte alla hybris dell’eroe, Apollo lo colpisce con un dardo al tallone (3, 56-66). Achille sfida chi l’ha ferito ad affrontarlo corpo a corpo, ma poi comprende che è stato Apollo e si ricorda della profezia della madre (Iliade 21, 277-228), secondo cui egli sarebe morto sotto le mura di Troia, colpito dai dardi del dio (3, 67-82). Apollo torna sull’Olimpo, dove gli dèi sono in subbuglio per ciò che è avvenuto; Era lo rimprovera con dure parole per aver colpito a morte Achille (3, 83- 138), che intanto riprende a combattere. Dopo aver ucciso ancora molti nemici, egli cade infine a terra morto (3, 138- 185). 23 de; yuch; ∆Agamevmnonoç ∆Atrei?dao / pai'da fivlon Melanh'oç, ajgakluto;n ∆Amfimevdonta: / xei'noç gavr oiJ e[hn ∆Iqavkh/ e[ni oijkiva naivwn).

Od. 24, 120 sgg. Risponde Anfimedonte, ricordando la corte dei Pretendenti alla sposa dell’eroe senza ritorno, l’inganno della tela di Penelope, il ritorno di Ulisse (dai Proci non riconosciuto: oujdev tiç hJmeivwn duvnato gnw'nai to;n ejovnta / ejxapivnhç profanevnt∆, vv. 159-160), la strage e i corpi insepolti.

Od. 24, 191 sgg. Replica di Agamennone: makarismòs di Odisseo (v. 192: o[lbie Laevrtao pavi>, polumhvcan∆ ∆Oduççeu'), che ha sposato donna di grande virtù la cui fama non morirà mai (vv. 196- 198: tw' oiJ klevoç ou[ pot∆ ojlei'tai / h|ç ajreth'ç, teuvxouçi d∆ ejpicqonivoiçin ajoidh;n / ajqavnatoi cariveççan ejcevfroni Phnelopeivh/). Alla gloria di Penelope, sposa fedele, Agamennone contrappone il disonore di Clitennestra, sposa funesta, oggetto di canto odioso tra gli uomini e di cattiva fama per le donne, anche se oneste.

Od. 24, 203 (= 24, 98: w}ç oiJ me;n toiau'ta pro;ç ajllhvlouç ajgovreuon) sgg. Mentre così i morti parlano nell’Ade, Odisseo e compagni giungono al campo di Laerte (vv. 205-206: tavca d∆ ajgro;n i{konto / kalo;n Laevrtao tetugmevnon). Telemaco e i servi entrano nella dimora per preparare per il pasto il maiale migliore (çuw'n iJereuvçate o{ç tiç a[riçtoç); intanto Odisseo vuole mettere alla prova il padre e vedere se Laerte lo riconosce (vv. 216-218: aujta;r ejgw; patro;ç peirhvçomai hJmetevroio, / ai[ kev m∆ ejpignwvh/ kai; fravççetai ojfqalmoi'çin, / h\ev ken ajgnoih'/çi polu;n crovnon ajmfi;ç ejovnta). Giunto nel frutteto, Odisseo vede il padre male in arnese, si ferma sotto un pero e piange, incerto se abbraccirlo o metterlo prima alla prova (vv. 235-238: mermhvrixe d∆ e[peita kata; frevna kai; kata; qumo;n / kuvççai kai; perifu'nai eJo;n patevr∆ hjde; e{kaçta / eijpei'n, wJç e[lqoi kai; i{koit∆ ejç patrivda gai'an, / h\ prw't∆ ejxerevoito e{kaçtav te peirhvçaito). Meglio metterlo alla prova: kevrdion … diapeirhqh'nai.

Od. 24, 244 sgg. Discorso di Odisseo: il padre è talmente mal vestito che gli sembra un servo; riassume il ruolo di finto straniero per chiedere se davvero si trova a Itaca e se il padrone del vecchio è quell’Odisseo, che egli ha avuto un tempo come ospite (vv. 266-267: a[ndra pot∆ ejxeivniçça fivlh/ ejn patrivdi gaivh/ / hJmevterovnd∆ ejlqovnta). Ancora una volta un finto racconto …

Od. 24, 280 sgg. Il vecchio conferma il nome dell’isola e la propria identità di padre di Odisseo; chiede a sua volta l’identità dell’interlocutore: tivç povqen eijç ajndrw'n… povqi toi povliç hjde; tokh'eç… (v. 298 = 10, 325 = 14, 187 e 199 = 15, 264). Odisseo continua la finzione: sono Eperito, figlio del re Afidante da Alibante (= Metaponto, secondo gli scholia); son passati 5 anni da quando ho ospitato Odisseo …

Od. 24, 315 sgg. Di fronte al dolore che avvolge il padre come nuvola nera (w}ç favto, to;n d∆ a[ceoç nefevlh ejkavluye mevlaina), Odisseo si palesa: «Padre mio, quello di cui domandi sono io, che dopo vent’anni son giunto alla terra dei padri» (vv. 321-322: kei'noç me;n dh; o{d∆ aujto;ç ejgwv, pavter, o}n çu; metalla'/ç, / h[luqon eijkoçtw'/ e[tei> ejç patrivda gai'an). Il padre – manco a dirlo! – chiede una prova sicura: çh'mav tiv moi nu'n eijpe; ajrifradevç, o[fra pepoivqw (v. 329).

Od. 24, 330 sgg. Odisseo fornisce duplice prova: la cicatrice del cinghiale che già conosciamo, l’elenco degli alberi piantati nel frutteto (tredici peri, dieci meli, quaranta fichi, cinquanta filari di viti). La seconda prova è decisiva: w}ç favto, tou' d∆ aujtou' luvto gouvnata kai; fivlon h\tor, / çhvmat∆ ajnagnovntoç, tav oiJ e[mpeda pevfrad∆ ∆Oduççeuvç (vv. 345-346 = 23, 205-206, la medesima reazione di Penelope). Tornati a casa, questa volta il maquillage divino spetta a Laerte, ucito dal bagno più bello e più alto di prima; Odisseo chiama in causa i numi per ogni operazione del genere: w}ç oiJ me;n toiau'ta pro;ç ajllhvlouç ajgovreuon (v. 383 = 24, 98 e 203). Torna a casa il

24 servo Dolio coi figli: ricoscono Odisseo (vv. 391-392: oiJ d∆ wJç ou\n ∆Oduçh'a i[don fravççantov te qumw'/, / e[çtan ejni; megavroiçi teqhpovteç) e siedono tutti a banchetto.

Od. 24, 412 sgg. Ultimo cambio di scena: mentre essi sono a tavola, corre per la città la fama, messaggera veloce, che racconta l’orribile morte dei Pretendenti (vv. 412-414: w}ç oiJ me;n peri; dei'pnon ejni; megavroiçi pevnonto: / o[çça d∆ a[r∆ a[ggeloç w\ka kata; ptovlin w[/ceto pavnth/ / mnhçthvrwn çtugero;n qavnaton kai; kh'r∆ ejnevpouça).

Od. 24, 415 sgg. Sepoltura dei Pretendenti; assemblea degli Itacesi e invito alla rivolta da parte di Eupìte, padre di Antinoo. Parla l’araldo Medonte, risparmiato da Odisseo: l’eroe non ha compiuto la strage senza il volere dei numi, coe testimonia la presenza di un dio (Atena-Mentore) nelle fasi concitate dell’uccisione (vv. 443-446: ouj ga;r ∆Oduççeu;ç / ajqanavtwn ajevkhti qew'n tavde mhvçato e[rga: / aujto;ç ejgw;n ei\don qeo;n a[mbroton, o{ç rJ∆ ∆Oduçh'i> / ejgguvqen eJçthvkei kai; Mevntori pavnta ejwv/ke). Invito alla cautela da parte dell’indovino Aliterse, ma la maggioranza degli Itacesi è pronta alla rivolta.

Od. 24, 472 sgg. Intermezzo sull’Olimpo: su sollecitazione di Atena, Zeus programma la reastaurazione, il ritorno all’equilibrio socio-politico rotta dall’insolenza dei Pretendenti: ejpei; dh; mnhçth'raç ejteivçato di'oç ∆Oduççeuvç, / o{rkia piçta; tamovnteç oJ me;n baçileuevtw aijeiv, / hJmei'ç d∆ au\ paivdwn te kaçignhvtwn te fovnoio / e[klhçin qevwmen: toi; d∆ ajllhvlouç fileovntwn / wJç to; pavroç, plou'toç de; kai; eijrhvnh a{liç e[çtw (vv. 482-486). Atena scende dall’Olimpo a Itaca.

Od. 24, 489 sgg. Terminato il pasto e visto che gli Itacesi sono ormai vicini, Odisseo si arma e con lui si armano Telemaco, Eumeo, Filezio, i sei figli di Dolio, Dolio stesso e Laerte (v. 499: gli ultimi due costretti a combattere anche se canuti - kai; polioiv per ejovnteç, ajnagkai'oi polemiçtaiv). Accanto a loro si schiera Atena, simile a Mentore nell’aspetto e nella voce: indubbia garanzia di successo per Odisseo, che riconosce la dea a prima vista e si rallegra (v. 504: th;n me;n ijdw;n ghvqhçe poluvtlaç di'oç ∆Oduççeuvç). Gioia di Laerte: Laevrthç d∆ ejcavrh kai; mu'qon e[eipe: / Ætivç nuv moi hJmevrh h{de, qeoi; fivloi… h\ mavla caivrw: / uiJovç q∆ uiJwnovç t∆ ajreth'ç pevri dh'rin e[couçi (vv. 513-515).

Od. 24, 516-548. Piccola aristìa di Laerte: con la benedizione di Atena, vibra e scaglia la lancia dalla lunga ombra (v. 522: ai\ya mavl∆ ajmpepalw;n proi?ei dolicovçkion e[gcoç – è lo stesso verso usato nel libro 22 dell’Iliade per i colpi di lancia che si scambiano Achille ed Ettore nel duello finale)10 e uccide Eupìte; Odisseo e Telemaco si scagliano sulle prime file dei rivoltosi e li avrebbero uccisi tutti, se l’urlo di Atena non avesse intimato di cessare dai combattimenti: i[çceçqe ptolevmou, ∆Iqakhvçioi, ajrgalevoio, / w{ç ken ajnaimwtiv ge diakrinqh'te tavciçta (vv. 531-532). Rivoltosi in fuga e urlo pauroso di Odisseo che si lancia all’inseguimento, come aquila altovolante: çmerdalevon d∆ ejbovhçe poluvtlaç di'oç ∆Oduççeuvç, / oi[mhçen de; ajlei;ç w{ç t∆ aijeto;ç uJyipethveiç (vv. 537-538). Odisseo è fermato dal fulmine di Zeus e viene invitato a non sfidare la collera di Zeus: parola di Atena, che sempre in veste di Mentore (come è necessario agli déi per operare nel mondo degli uomini) stabilisce i patti tra i contendenti: w}ç favt∆ ∆Aqhnaivh, oJ d∆ ejpeivqeto, cai're de; qumw'/. / o{rkia d∆ au\ katovpiçqe met∆ ajmfotevroiçin e[qhke / Palla;ç

10 Formula presente in Od. 19, 438; 22, 95; 24, 519. Nell’Iliade la lancia dalla lunga ombra è quella di Alessandro e quella di Menelao nel reciproco duello (3, 346 e 356), è quella di Fegeo contro (5, 15), quella di Pandaro figlio di Licàone (5, 280), di Aiace Telamonio che uccide Anfio (5, 610), ancora di Menelao (6, 44), di Diomede (6, 126), di Aiace Telamonio e quella di Ettore (7, 213; 240 e 249), di (11, 349), di Diomede (11, 349), di Idomeneo che uccide Enomao (13, 509), di Patroclo (16, 891), di Enea e di Achille (20, 262 e 273), di Achille che uccide Asteropèo (21, 139), di Achille contro Ettore (22, 273), di Ettore contro Achille (22, 289), di Sarpedone come premio dei giochi funebri in onore di Patroclo (23, 798), ancora di Achille come premio (23, 886). 25 ∆Aqhnaivh, kouvrh Dio;ç aijgiovcoio, / Mevntori eijdomevnh hjme;n devmaç hjde; kai; aujdhvn (vv. 545- 548). Il v. 545 ripete Iliade 22, 224. Il v. 548 ripete 2, 401 (Atena-Mentore consiglia Telemaco); 22, 206 (Atena-Mentore appare a fianco di Odisseo all’inizio dello scontro con i Pretendenti); 24, 503 (Atena-Mentore si schiera con Odisseo alle avvisaglie della rivolta).

Il poema di Ulisse appare come grandiosa e drammatica enciclopedia del sapere che organizza e classifica i dati muovendo dall'esterno, dalla geografia del mondo conosciuto o immaginato, verso l'interno dell'uomo, verso la più riposta topografia degli affetti e dei sentimenti. Così il ritorno a Itaca, mentre assicura il lieto fine alla storia e riporta ordine nel caos, si rivela metafora della ricerca di sé attraverso l'esperienza dell'altro e dell'altrove, modello narrativo di "introspezione rovesciata" che pone la coscienza del singolo come traguardo della conoscenza del mondo.

9. «Come le foglie …»11

Iliade, 6, 145-150 (Glauco, figlio di Ippoloco, e Diomede, figlio di Tideo).

To;n d∆ au\q∆ ÔIppolovcoio proçhuvda faivdimoç uiJovç: / Tudei?dh megavqume tiv h] geneh;n ejreeivneiç… / oi{h per fuvllwn geneh; toivh de; kai; ajndrw'n. / fuvlla ta; mevn t∆ a[nemoç camavdiç cevei, a[lla dev q∆ u{lh / thleqovwça fuvei, e[aroç d∆ ejpigivgnetai w{rh: / w}ç ajndrw'n geneh; h} me;n fuvei h} d∆ ajpolhvgei.

«A lui replicava il luminoso figlio di Ippoloco: / “Magnanimo figlio di Tideo, perché vuoi sapere la mia stirpe?12 / Come la stirpe delle foglie, così è la stirpe degli uomini. / Le foglie, le une il vento riversa a terra, ma altre / fa germogliare la selva in fiore quando primavera ritorna. / Così è la stirpe degli uomini: una nasce, un’altra svanisce”».

Iliade 21, 461-466 (Apollo a Posidone).

To;n d∆ au\te proçeveipen a[nax eJkavergoç ∆Apovllwn: / ejnnoçivgai∆ oujk a[n me çaovfrona muqhvçaio / e[mmenai, eij dh; çoiv ge brotw'n e{neka ptolemivxw / deilw'n, oi} fuvlloiçin ejoikovteç a[llote mevn te / zaflegeveç televqouçin ajrouvrhç karpo;n e[donteç, / a[llote de; fqinuvqouçin ajkhvrioi.

11 Vd. V. Tandoi, “Come le foglie”, in E. Flores (a cura di), La critica testuale greco-latina oggi. Metodi e problemi, Ed. dell’Ateneo, Roma 1981, 241-267; M. Fantuzzi, Caducità dell’uomo ed eternità della natura: variazioni di un motivo letterario, «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», n.s. 26, 1987, 101-110; S. Fornaro, Glauco e Diomede, Osanna, Venosa 1992; D. Sider, As is the Generation of Leaves in , Simonides, Horace, and Stobaios, «Arethusa» 29,1996, 263-282 (= D. Boedeker, D. Sider (a cura di), The New Simonides: Contexts of Praise and Desire, Oxford Univ. Press, New York-Oxford 2001, 272-278); D. Susanetti, Foglie caduche e fragili genealogie, «Prometheus» 25, 1999, 97-116. 12 Cfr. Il. 21, 153 sgg,: Asteropeo sfida Achille, che prima del scontro chiede nome e stirpe dell’avversario: «Magnanimo figlio di Peleo, perché mi chiedi la stirpe (Phlei?dh megavqume tiv h\ geneh;n ejreeivneiç)? Vengo dalla Peonia fertile ... La mia stirpe discende dall'Assio che ampio fluisce, l'Assio dalla corrente più bella del mondo. Costui generò Pelegone, dalla lancia gloriosa, e da Pelegone dicono che io sia nato. Ma ora combattiamo, nobile Achille».

26 «A sua volta a lui rispose Apollo signore dell’arco: / “Scuotitore della terra, tu certo non mi diresti persona / avveduta, se volessi combattere contro di te per misere creature / mortali, che simili a foglie ora fioriscono bramose / di vita, mangiando il frutto del campo, / ora sfiniti languono esangui”».

Odissea 9, 48-52: numerosi come i fiori e le foglie in primavera, i vicini dei Ciconi assaltano i compagni di Odisseo. oi{ çfin geivtoneç h\çan, a{ma plevoneç kai; ajreivouç, / h[peiron naivonteç, ejpiçtavmenoi me;n ajf∆ i{ppwn / ajndravçi mavrnaçqai kai; o{qi crh; pezo;n ejovnta. / h\lqon e[peiq∆, o{ça fuvlla kai; a[nqea givnetai w{rh/, / hjevrioi

(i Ciconi chiesero aiuto) a quanti erano loro vicini, numerosi e forti che abitavano sulla terraferma, abili nel combattere coi carri e pure a piedi in caso di bisogno. Giunsero all’alba, numerosi come foglie e fiori a primavera …

Secondo Clemente Alessandrino (II sec. d.C.), Omero qui «rielabora» (μεταγράφει) i versi del leggendario poeta Museo (B 5 DK; Clem. Strom. 6.738):

• Ὡς δ᾽αὔτως καὶ φύλλα φύει ζείδωρος ἄρουρα, • ἄλλα μὲν ἐν μελίησι ἀποφθίνει, ἄλλα δὲ φύει, • ὣς δὲ καὶ ἀνθρώπων γενεὴ καὶ φῦλον ἐλίσσει.

(«Come genera foglie il campo fecondo / – alcune muoiono sui frassini, altre nascono – / così compie il suo corso la stirpe e la tribù degli uomini»).

Mimnermo di Colofone (VII sec. a.C.), fr. 2 Gentili-Prato

ἡµεῖς δ' οἷά τε φύλλα φύει πολυάνθεµος ὥρη / ἔαρος, ὅτ' αἶψ' αὐγῆι<σ'> αὔξεται ἠελίου, / τοῖσ' ἴκελοι πήχυιον ἐπὶ χρόνον ἄνθεσιν ἥβης / τερπόµεθα, πρὸς θεῶν εἰδότες οὔτε κακόν / οὔτ' ἀγαθόν ̇ Κῆρες δὲ παρεστήκασι µέλαιναι, / ἡ µὲν ἔχουσα τέλος γήραος ἀργαλέου, / ἡ δ' ἑτέρη θανάτοιο ̇ µίνυνθα δὲ γίγνεται ἥβης / καρπός, ὅσον τ' ἐπὶ γῆν κίδναται ἠέλιος. / αὐτὰρ ἐπὴν δὴ τοῦτο τέλος παραµείψεται ὥρης, / αὐτίκα δὲ τεθνάναι βέλτιον ἢ βίοτος.

«Al modo delle foglie che nel tempo fiorito della primavera nascono / e ai raggi del sole rapide crescono, / noi simili a quelle per un attimo abbiamo diletto del fiore dell'età / ignorando il bene e il male per dono / dei Celesti. Ma le nere dee ci stanno sempre al fianco, / l'una con il segno della grave vecchiaia e l'altra della morte. / Fulmineo precipita il frutto di giovinezza, come la luce d'un giorno sulla terra. / E quando il suo tempo è dileguato / è meglio la morte che la vita» (trad. di Salvatore Quasimodo).

Simonide di Ceo, fr. 19, 1-2 West oi{h per fuvllwn geneh; toivh de; kai; ajndrw'n

(«Una frase, la più bella, disse l’uomo di Chio (sc. Omero): / “Quale la stirpe delle foglie, tale anche quella degli uomini”. / pochi mortali, tuttavia, avendola udita, / l’hanno serbata nel petto: ché sempre è presente in ogni uomo / una speranza, viva soprattutto nel cuore dei giovani: / finché ciascun mortale possiede l’amabile fiore della giovinezza, / leggero il suo animo, si volge a mille

27 programmi senza fine; / non ha cura della vecchiaia o della morte, / né, quando è sano, si preoccupa della malattia. / Stolti, quanti si comportano così! Non sannoche breve per i mortali è il tempo della giovinezza / – e della vita! Tu invece, che l’hai capito, vicino come sei alla fine della vita, / abbi cura di godere nell’animo dei tuoi beni»).

Aristofane, Uccelli 685-689.

ἄγε δὴ φύσιν ἄνδρες ἀµαυρόβιοι, φύλλων γενεᾶι προσόµοιοι, / ὀλιγοδρανέες, πλάσµατα πηλοῦ, σκιοειδέα φῦλ᾽ἀµενηνά, / ἀπτῆνες ἐφηµέριοι ταλαοὶ βροτοί, ἀνέρες εἰκελόνειροι, / προσέχετε τὸν νοῦν τοῖς ἀθανάτοις ἡµῖν τοῖς αἰὲν ἐοῦσιν, / τοῖς αἰθερίοις, τοῖσιν ἀγήρωις, τοῖς ἄφθιτα µηδοµένοισιν …

Coro degli uccelli: «Uomini nati nel buio della vostra vita, simili alla stirpe caduca delle foglie, esseri fragili, impasto di fango, vane figure senz’ombra, senza la gioia delle ali, fugaci come il giorno, infelici mortali, uomini della razza dei sogni, date ascolto a noi immortali e sempre viventi, creature del cielo, ignari di vecchiezza, esperti di pensieri indistruttibili» (trad. di Dario Del Corno; preambolo della cosmogonia).

Virgilio, Eneide 6, 305-312 (le anime dei trapassati) huc omnis turba ad ripas effusa ruebat, / matres atque viri defunctaque corpora vita / magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae, / impositique rogis iuvenes ante ora parentum: / quam multa in silvis autumni frigore primo / lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto / quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus / trans pontum fugat et terris immittit apricis.

Orazio, Arte poetica 60-63

Ut silvae foliis pronos mutantur in annos, / prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas, / et iuvenum ritu florent modo nata vigentque. / Debemur mortis nos nostraque.

«Come le selve mutano le foglie al volger d’ogni anno / e a cadere sono quelle nate per prime, cosí muore la stagione / delle antiche parole, e hanno fioritura e vigore le ultime nate / alla stregua delle giovani vite. Noi e ciò che è nostro siamo destinati alla morte».

Marco Aurelio 10, 34

34 Se uno ha sentito il morso dei veri principî gli basta anche il minimo cenno, la frase che tutti conoscono, per ricordare di essere estraneo al dolore e alla paura. Per esempio foglie, alcune il vento ne sparge per terra... così la stirpe degli uomini... E foglioline sono anche i tuoi figli, foglioline anche questi che con un'espressione tanto convinta acclamano e glorificano o, al contrario, maledicono, o nell'intimo criticano e dileggiano; e foglioline, ugualmente, quelli a cui sarà affidata la nostra fama postuma. Tutti questi esseri, infatti, nascono nella stagione di primavera... poi il vento li abbatte; e poi al loro posto la selva ne genera altri. Un'esistenza breve è la comune condizione di ogni cosa; tu invece eviti e insegui ogni cosa come fosse destinata a durare in eterno. Ancora un poco, e chiuderai gli occhi; e sùbito un altro piangerà l’uomo che ti ha seppellito.

Dante, 3, 112 sgg.

Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie, / similemente il mal seme d’Adamo / gittansi di quel lito ad una ad una, / per cenni

28 come augel per suo richiamo.

William Shakespeare, Sonetto 12

«Quando conto i rintocchi che dicono l’ora, / E vedo il giorno radioso caduto in orrida notte; / Quando contemplo delle viole ormai vizze, / O riccioli bruni tutti sbiancati d’argento: / Quando spogli rivedo quegli alberi immensi / Che al gregge un tempo furon schermo alla calura, / E il verde dell’estate, ormai cinto in covoni / Portato sulla bara, irto di bianco e ispido pelo; / Io penso allora al destino della tua bellezza, / Ché tu pure ne andrai tra i rifiuti del tempo, / Poi che le cose più dolci e belle tradiscono se stesse, / E muoiono a misura che altre ne sbocciano intorno: / E niente potrà far difesa contro la falce del Tempo, / Fuor da una prole, che lo sfidi quand’ei venga a rapirti» (trad. di A.Rossi, in Shakespeare, Sonetti, a cura di G.Melchiori, Einaudi, Torino 1965).

Giacomo Leopardi Frammento 41 dei Canti umama cosa picciol tempo dura, / e certissimo detto / disse il veglio di Chio,/conforme ebber natura/ le foglie e l'uman seme.

Giuseppe Giacosa, Come le foglie (1900)

Ungaretti: Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie (Soldati, 1918)

Malika Ayane, Come le foglie (autore Giuliano Sangiorgi, 2010)

È piovuto il caldo, ha squarciato il cielo, dicono sia colpa di un'estate come non mai. Piove e intanto penso, ha quest'acqua un senso, parla di un rumore prima del silenzio e poi…

È un inverno che va via da noi, allora come spieghi questa maledetta nostalgia di tremare come foglie e poi di cadere al tappeto?

D'estate muoio un po', aspetto che ritorni l'illusione di un'estate che non so quando arriva e quando parte, se riparte.

È arrivato il tempo di lasciare spazio a chi dice che di spazio e tempo non ne ho dato mai. Seguo il sesto senso della pioggia il vento che mi porti dritta, dritta a te che freddo sentirai.

È un inverno che è già via da noi, allora come spieghi

29 questa maledetta nostalgia di tremare come foglie e poi di cadere al tappeto?

D'estate muoio un po', aspetto che ritorni l'illusione di un'estate che non so quando arriva e quando parte, se riparte.

È un inverno che è già via da noi, allora come spieghi questa maledetta nostalgia di tremare come foglie e poi di cadere al tappeto?

D'estate muoio un po', aspetto che ritorni l'illusione di un'estate che non so quando arriva e quando parte, se riparte.

È arrivato il tempo di lasciare spazio a chi dice che di tempo e spazio non ne ho dato mai.

Esseri effimeri

Il composto è già presente nei poemi omerici, per indicare il breve volgere di quanto non dura oltre un giorno. «Stupidi contadini dai pensieri che non superano l’arco d’una giornata (nhvpioi ajgroiw'tai, ejfhmevria fronevonteç)!»: così, in Odissea 21, 85, Antinoo apostrofa Eumeo e i servi fedeli che piangono mentre portano le scuri e l’arco di Odisseo per la prova finale. L’idea è già espressa in Od. 18, 136-137, là dove Odisseo si rivolge ad Anfinomo: toi'oç ga;r novoç ejçti;n ejpicqonivwn ajnqrwvpwn, / oi|on ejp∆ h\mar a[gh/çi path;r ajndrw'n te qew'n te «Così è la mente degli uomini che vivono sulla terra, / come il giorno che manda il padre degli uomini e degli dèi». wjkuvmoroç: Il. 1, 47 1; A vita breve mi sei destinato, figlio (Il. 18, 95: Teti ad Achille); cfr. Il. 18, 458.

δύσµορος: Il. 22, 60 (Priamo a Ettore) e 22, 481 (Andromaca denuncia la propria sventura e la sventura del padre Eetione: duvçmoroç aijnovmoron).

Xanto, cavallo di Achille, al figlio di Peleo: «ti è vicino giorno di morte » (Il. 19, 409-414: ajllav toi ejgguvqen h\mar ojlevqrion: oujdev toi hJmei'ç / ai[tioi, ajlla; qeovç te mevgaç kai; Moi'ra krataihv. / oujde; ga;r hJmetevrh/ braduth'tiv te nwcelivh/ te / Trw'eç ajp∆ w[moiin Patrovklou teuvce∆ e{lonto: / ajlla; qew'n w[riçtoç, o}n hju?komoç tevke Lhtwv, / e[ktan∆ ejni; promavcoiçi kai; ”Ektori ku'doç e[dwke).

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APPENDICI

1. Questione omerica.

Si tratta del dibattito sorto tra filologi e storici della lingua greca arcaica circa l'attendibilità della composizione dell'Iliade e dell'Odissea da parte di Omero e sull'esistenza stessa del poeta . Il dibattito ha origini antiche, perché già in età classica si discuteva sulla paternità dell'Odissea di Omero. Negli ultimi secoli del Medioevo, e nei primi del Rinascimento, vi sarà uno sviluppo di tale dibattito, ma si potrà parlare davvero di questione omerica solo con Wolf e con la suddivisione degli studiosi in unitari e analitici (i primi riconoscono Omero come autore di almeno uno dei poemi o entrambi; i secondi disconoscono completamente la paternità omerica dei poemi). Essa è motivata, anzitutto, dall'interesse per la figura del poeta Omero, di cui gli antichi non dubitavano ma, allo stesso tempo, di cui avevano notizie insicure e che era al centro di vere e proprie rivendicazioni contraddittorie (per esempio sul luogo di nascita); soprattutto, però, trae origine dai dubbi testuali suscitati dagli stessi poemi omerici: in essi, infatti, si riscontrano incongruenze (per esempio l'uso del duale nel libro IX dell'Iliade, quando i membri dell'ambasceria sono in realtà tre), contraddizioni (per esempio Pilemene, condottiero dei Paflagoni, che muore in Iliade 5, 576 ma ritorna in 13, 658), frequenti ripetizioni di espressioni e interi blocchi di versi. Gli autori antichi informano che una fissazione per iscritto dei due poemi era avvenuta già al tempo di Pisistrato, ad Atene nel VI secolo a.C.: si trattò di una sorta di edizione nazionale che finì per prevalere su quelle dovute a singole comunità cittadine, che già da tempo circolavano in tutta la Grecia affiancate da quelle nate a cura di privati. La suddivisione dei poemi in 24 canti, contrassegnati da lettere maiuscole per l'Iliade e da minuscole per l'Odissea, è di età alessandrina. Proprio a partire dalla redazione pisistratea e dalla composizione orale dei due poemi, nasce e si sviluppa la questione omerica. Inoltre, a seguito di studi, si è scoperto che tra la scrittura dell'Iliade e dell'Odissea passarono alcuni secoli. Si pensa dunque che Omero possa aver scritto solo uno dei

41 due poemi. I grammatici alessandrini Chi propende per un'origine antica fa risalire la questione omerica al III secolo a.C., in epoca ellenistica, quando due grammatici alessandrini, Xenone ed Ellanico, basandosi su discrepanze di contenuto fra Iliade e Odissea, giunsero a pensare che fossero stati scritti da due persone diverse, meritandosi così l'appellativo di χωρίζοντες (chorizontes), ovvero separatori. Le loro idee, che non arrivavano quindi alla decostruzione dei poemi, furono aspramente contrastate qualche secolo dopo da Aristarco di Samotracia insieme a Zenodoto di Efeso e Aristofane di Bisanzio. Questi, dall'alto della sua autorità di direttore della Biblioteca di Alessandria, con lo scritto Contro il paradosso di Xenone, liquidò le tesi come eresie. Le diversità fra i due poemi, però, permasero e furono spesso giustificate con motivazioni fantasiose ed ingenue; ad esempio l'anonimo autore del Sul sublime, attribuisce l'Iliade ad un Omero più giovane e l'Odissea ad una fase matura e senile della vita del poeta, giustificando questa affermazione con la diversità caratteriale dei protagonisti dei due poemi: da un lato l'irruente e iroso Achille e dall'altra il saggio ed accorto Odisseo. D'Aubignac e Vico Nel 1664 François Hédelin, abate d'Aubignac, legge in pubblico un suo scritto dal titolo Conjectures accadémiques ou dissertation sur l'Iliade. La dissertazione, che fu pubblicata postuma soltanto nel 1715, nasce dall'esigenza di difendere la qualità letteraria del poema dalla sottovalutazione e dal disprezzo allora diffusi in Francia. D'Aubignac crede che Omero non sia esistito e che l'Iliade sia una incoerente mescolanza di vari canti (petites tragédies) composti in età diverse; il valore letterario non andrebbe quindi valutato con riferimento all'opera complessiva ma ricercato in relazione alle singole parti. D'Aubignac non conosce il greco, e ha avuto, con i poemi omerici, solo rapporti mediati da traduzioni latine (in particolare quelle di Jean de Sponde, Johannes Spondanus, 1557-1585): basterebbe questo a indebolire le sue argomentazioni. Egli sostiene inoltre che, dato che al tempo di Omero la scrittura non esisteva, l'Iliade, a motivo della sua lunghezza, non avrebbe potuto essere tramandata oralmente. Tuttavia d'Aubignac basa la sua intera tesi su una visione assolutamente antistorica (come del resto fecero altri dopo di lui). Il giudizio di Giambattista Vico anticipa teorie riprese in seguito dai Romantici, affermando che la poesia omerica non possa essere opera di un solo autore, ma sia opera di tutto il popolo greco, il canto del popolo greco fanciullo nel suo Tempo Favoloso. Dopo aggiunte da parte di intere generazioni di cantori popolari, che si celavano sotto il nome di Omero, sarebbero nati i poemi omerici. Entrambi quindi, pur avendo visioni diverse della creazione dei poemi, sostengono l'inesistenza di Omero. Wolf. L'incomprensione del razionalismo dominante di Vico, da parte dei contemporanei, rese scarsamente popolare il pensiero del filosofo, e quindi le sue ipotesi sui poemi omerici. La stessa cosa non accadde per le posizioni di D'Aubignac, che coinvolgono l’opera del filologo tedesco Friedrich August Wolf (1759 – 1824), Prolegomena ad Homerum, apparsa nel 1795 e considerata ancor oggi la prima trattazione del poema a livello scientifico. L'opera, che vuole essere un'introduzione ad un'edizione critica dei due poemi, è per circa metà costituita da un'approfondita omerologia antica, mentre nella seconda metà si affronta più direttamente la questione; la tesi dell'abate francese (l'inesistenza della scrittura e la cucitura di piccole rapsodie) è accompagnata da citazioni e testimonianze, che dànno originalità all'opera laddove invece essa, senza ammetterlo esplicitamente, è sostanzialmente debitrice all'opera non solo di D'Aubignac, ma anche di Thomas Blackwell (1701-1757; An Enquiry into the Life and Writings of Homer, 1735, trad. parziali in e in Francia) e di Robert Wood (1717-1771; An Essay on the Original Genius of Homer, London 1769). Le quotazioni dell'opera wolfiana, dopo un'iniziale freddezza, cominciarono a salire fino a far proclamare Wolf padre della questione omerica. La fortuna del filologo tedesco fu anche legata a un evento letterario che aveva avuto un'influenza particolare sulla cultura contemporanea: l'anno successivo alla pubblicazione dello scritto di Wolf

42 muore il poeta scozzese James MacPherson (1738-1796), autore dei Canti di Ossian, una raccolta di poemetti che egli diceva esser stati tramandati per via orale da Ossian, un bardo (il corrispondente celtico dell'aedo greco) vissuto molti secoli prima (III secolo d.C.). MacPherson affermava di aver raccolto quei canti dalla viva voce dei contadini e pastori della sua terra: in realtà l'opera è un abile falso letterario, che ricrea l'atmosfera delle saghe celtiche, ma che è quasi integralmente dovuta alla mano dello scrittore moderno. Tale opera sembra offrire una decisa conferma della tesi di Wolf, equiparando Omero a Ossian e colui che riportò in forma scritta i due poemi all'epoca di Pisistrato a MacPherson. Tuttavia, va riconosciuto a Wolf il merito di aver sviluppato tesi e spunti offertigli dai suoi predecessori e di aver indicato ai suoi successori una strada analitica. Da lui deriva un'intera corrente di filologi che porta ad una vera e propria vivisezione dei due poemi con l'intento di individuare qualsiasi elemento che possa avvalorare la tesi anti-unitaria. Inoltre decollano due strade diverse di pensiero che faranno da base agli studi omerici dell’'800 e '900: gli unitari (studiosi che attribuiscono ad Omero almeno uno dei due canti, generalmente l'Iliade, se non entrambi) e gli analitici (che disconoscono Omero come padre dei due poemi). La critica analitica. Si delineano, all'interno della critica analitica, due teorie, una di un nucleo a cui si legano altri canti, l'altra di canti autonomi uniti insieme. Secondo la teoria del nucleo primitivo inaugurata da Johann Gottfried Jakob Hermann (1772-1848), in origine ci sarebbero stati due canti, sull'ira di Achille e sul ritorno di Odisseo, poco per volta ampliati da intere generazioni di rapsodi. Erich Bethe (1863-1940; Homer, Dichtung und Sage, Teubner, Leipzig 1914) e Paul Mazon (Homère, Iliade. Introduction, Les Belles Lettres, Paris) sostengono che questo primo nucleo dovesse contenere almeno quattordici libri: l'ira di Achille, la cacciata dei Greci da Troia, l'uccisione di Ettore e la celebrazione di un eroe (i canti XIX, XX, XXI, XXII sono incentrati su quella di Achille). Secondo la teoria dei canti sparsi introdotta da Karl Lachmann (1793-1851; Betrachtungen über Ilias, Berlin 1847) e dal suo discepolo Johann Wilhelm Adolf Kirchhoff (1826-1908; Die Homerische Odyssee, 1859), vi erano canti autonomi o poemetti minori, che formarono un agglomerato di canti che, per mano di un ulteriore poeta, sarebbero stati cuciti nei due poemi epici attuali. Vi è poi il tentativo di conciliare le teorie analitiche e quelle unitarie, da parte di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931), con il suo scritto del 1916 Die Ilias und Homer. Egli accetta le teorie di Lachmann e Kirchhoff, ma afferma che, attorno all'VIII secolo, in ambiente ionico, un poeta (forse di nome Omero) attingendo alla tradizione rapsodica della sua terra avrebbe fuso i Kleinepen (primi nuclei) in un Grossepos (grande poema epico). A questo lavoro si sarebbero aggiunti poi nuovi canti; in questo modo si prova l'esistenza di Omero e della sua opera, al di là delle aggiunte e del materiale già esistente. Parry: la teoria oralistica. La questione omerica conosce un'importante svolta con le teorie di Milman Parry (1902-1935); pubblicati negli anni Trenta del Novecento, i suoi lavori sono raccolti a cura del figlio: Adam Parry (a cura di), The Making of Homeric Verse: The Collected Papers of Milman Parry, Oxford Univ. Press, Oxford 1971. Secondo Milman Parry i poemi omerici sono nati all’interno di una cultura orale, ossia in una società che non conosceva – o non praticava diffusamente - la scrittura. Egli esamina le cosiddette "formule", ossia gruppi di due o più parole (talvolta svariati versi) che si ripetono in numerosi punti dei poemi omerici, immutati o con minime variazioni per adeguarsi al racconto e alla metrica. Tali formule sono spesso legate a temi anch'essi ricorrenti (la battaglia, il consiglio, lo scudo dell'eroe e altri) e spesso prevedibili. In questo modo Parry e i successivi studiosi arrivano a dimostrare che le parti dei poemi omerici non legate a formule erano in realtà molto poche. Secondo tali studiosi, le formule sono legate alla cultura dell'oralità, poiché facilitano ai rapsodi la memorizzazione di lunghi poemi. I rapsodi, infatti, non imparavano i poemi a memoria, ma erano in grado di ripeterli, ogni volta con poche variazioni, appunto cucendo insieme la varie formule. Questo sistema formulare non poteva

43 essere il risultato della composizione (puramente orale) da parte di un singolo autore, ma si era via via formato col passare dei secoli e con il contributo di un numero indefinito di anonimi rapsodi. Secondo la teoria di Parry insomma i poemi omerici sono il prodotto della cultura di tutto un popolo e non avrebbero dunque un autore preciso. Questo modo di poetare favorirebbe quindi la ripetizione di formule precostituite, ossia gli stereotipi. L'idea che opere poetiche di eccelso valore fossero essenzialmente costituite da stereotipi risulta sorprendente e poco credibile a molti studiosi, ma Parry spiega che in una cultura orale, che non mette nulla per iscritto, le nozioni devono essere costantemente ripetute per evitare che vadano perse, e questo porta quindi allo stereotipo, al continuo ribadire concetti e parole già espressi.

2. Elena in Egitto. Erodoto 2, 53 e 112-120.

53. 2. Ritengo che Esiodo e Omero mi abbiano preceduto in età di quattrocento anni, e non di più. Sono essi ad aver composto per i Greci una teogonia, dando agli dèi epiteti, dividendo onori e competenze, indicando le loro forme …

112. 1. A Ferone succedette nel regno, raccontavano, un uomo di Menfi, il cui nome greco è Proteo; a Menfi esiste un suo santuario molto bello e ottimamente arredato, situato a sud del tempio di Efesto. 2. Intorno al santuario abitano dei Fenici di Tiro; e tutta insieme questa località è denominata Accampamento dei Tiri. Nel recinto sacro di Proteo sorge un tempio detto di Afrodite Straniera: io credo che sia un tempio di Elena figlia di Tindaro, sia perché ho udito raccontare che Elena soggiornò presso Proteo, sia perché lo chiamano di Afrodite Straniera; e in nessuno dei templi a lei dedicati, per tanti che siano, Afrodite viene detta "Straniera".

113. 1. Interrogati da me in proposito, i sacerdoti mi raccontarono, su Elena, che le cose erano andate così: dopo aver rapito Elena da Sparta, Alessandro fece vela verso il proprio paese; però, giunto nel Mare Egeo, i venti contrari lo spinsero fino al Mare d'Egitto; di qui (i venti non cessavano) arrivò in Egitto e precisamente alla foce di quel ramo del Nilo oggi chiamato Canopico e alle Tarichee (Salatoi). 2. C'era sulla spiaggia, e c'è ancora, un tempio di Eracle: chi vi si rifugia, di chiunque sia servo, se si fa imprimere le sante stigmate consacrandosi al dio, non può più essere toccato; tale regola si è conservata identica dalle origini fino ai giorni nostri. 3. Insomma alcuni servi infidi di Alessandro, venuti a sapere della norma in vigore nel tempio, sedutisi come supplici del dio denunciarono Alessandro: con l'intenzione di rovinarlo raccontarono tutta la storia di Elena e il torto commesso ai danni di Menelao. Pronunciarono le loro accuse di fronte ai sacerdoti e di fronte al guardiano del ramo Canopico, che si chiamava Thonis. 114. 1. Thonis udì le accuse e subito, con la massima sollecitudine, inviò a Menfi un messaggio indirizzato a Proteo, che diceva così: 2. "È giunto uno straniero, teucro di stirpe, autore in Grecia di una azione nefanda: ha sedotto la moglie del suo ospite e ora è qui, con lei, e con ingenti ricchezze, trascinato nel tuo paese dalla forza dei venti. Dobbiamo lasciarlo andare impunito, oppure requisirgli quanto si è portato dietro fino a qui?". 3. Proteo inviò una risposta di questo tenore: "Quell'uomo, chiunque sia, che ha agito da empio nei confronti del suo ospite, prendetelo e portatelo davanti a me. Voglio proprio sapere che cosa mai potrà dire". 115. 1. Appresa la risposta, Thonis cattura Alessandro e gli sequestra le navi, quindi lo conduce a Menfi insieme a Elena, ai tesori e anche ai supplici. 2. Quando ebbe tutti di fronte a sé, Proteo chiese ad Alessandro chi fosse e da dove venisse via mare; quello gli elencò la stirpe, disse il nome della patria e raccontò la rotta seguita dalle sue navi. 3. Poi il re gli chiese dove avesse preso Elena e, poiché Alessandro divagava nel discorso e non diceva la verità, i servi che si erano fatti supplici lo accusarono rivelando tutta la storia del misfatto. 4. Per ultimo parlò Proteo: "Quanto a me, - disse

44 - se non considerassi fondamentale il fatto di non uccidere nessuno degli stranieri che arrivano nel mio paese trascinati dai venti, sarei io, per il Greco, a prendere vendetta su di te. Tu, il peggiore degli uomini, dopo aver ricevuto i doni dell’ospitalità hai compiuto l’azione più empia, vale a dire accostarsi alla moglie dell'ospite! E questo ancora non ti è bastato: l'hai istigata alla fuga e te la sei portata via, l'hai rapita. 5. Ma neppure questo ti è bastato: arrivi da noi dopo aver saccheggiato la casa dell’ospite. 6. Ordunque, poiché mi guardo bene dall'uccidere uno straniero, non per questo ti permetterò di condurre via la donna e le ricchezze: le terrò in custodia per l'ospite greco, fino a quando non venga di persona e intenda riprenderle. Quanto a te e ai tuoi compagni di navigazione, ordino che entro tre giorni cambiate porto e vi trasferiate altrove, altrimenti sarete trattati come nemici". 116. 1. Così dunque i sacerdoti raccontano l'arrivo di Elena presso Proteo; a mio parere questa versione era nota anche a Omero, ma poiché non era idonea al canto epico quanto l’altra da lui accolta, la trascurò, 2. pur mostrando di esserne a conoscenza. E’ chiaro da come nell'Iliade Omero racconta del girovagare di Alessandro (e in nessun altro punto si è mai smentito): di come fu portato dai venti, avendo con sé Elena, vagando di qua e di là e di come giunse a Sidone, in Fenicia; ne parla nelle gesta di Diomede. 3. Dicono i versi:

«Dove erano i pepli tutti ricamati, opera di donne / di Sidone, che lo stesso Alessandro simile a un dio / portò da Sidone, navigando sul vasto mare, / nel viaggio in cui ricondusse Elena dal nobile padre»13.

4. Ma ne rammenta anche in questi versi dell’Odissea:

«Tali rimedi efficaci possedeva la figlia di Zeus, / benigni, che a lei Polidamna diede, la sposa di Thonis, / l’egizia. La terra che dona le biade produce moltissimi farmaci / lì: molti mischiati, benigni, molti funesti»14.

5. E dice ancora Menelao a Telemaco:

«Pur desiderando tornare, gli dèi mi trattenevano ancora / in Egitto, perché non feci loro ecatombi perfette»15.

6. In questi versi è chiaro che Omero è a conoscenza del viaggio in Egitto di Alessandro: infatti la Siria è contigua all'Egitto e i Fenici, a cui appartiene Sidone, vivono nella Siria. 117. 1. Sempre in base a questi versi e a questa indicazione di luogo è chiaro altresì, con evidenza ancora maggiore, che i Canti Cipri non sono di Omero, ma di qualche altro poeta; infatti nei Canti Ciprii si dice che Alessandro giunse a Ilio con Elena, proveniente da Sparta, nello spazio di tre giorni, grazie al vento favorevole e al mare calmo; invece nell'Iliade si parla di un lungo girovagare insieme con lei. E qui si chiuda il discorso su Omero e sui Canti Ciprii. 118. 1. Domandai ai sacerdoti se ciò che i Greci raccontano delle vicende di Ilio è falso o no, ed essi mi risposero citando quanto, a sentir loro, avevano appreso da Menelao in persona: 2. dopo il ratto di Elena, dissero, un grande esercito greco aveva raggiunto la terra dei Teucri, in aiuto di Menelao; una volta sbarcato e accampato l'esercito, furono mandati a Ilio dei messaggeri, tra i quali lo stesso

13 Iliade, 6, 289-292 (e[nq∆ e[çavn oiJ pevploi pampoivkila e[rga gunaikw'n / Çidonivwn, ta;ç aujto;ç ∆Alevxandroç qeoeidh;ç / h[gage Çidonivhqen ejpiplw;ç eujreva povnton, / th;n oJdo;n h}n ÔElevnhn per ajnhvgagen eujpatevreian). 14 Odissea, 4, 227-230 (toi'a Dio;ç qugavthr e[ce favrmaka mhtioventa, / ejçqlav, tav oiJ Poluvdamna povren, Qw'noç paravkoitiç, / Aijguptivh, th'/ plei'çta fevrei zeivdwroç a[roura / favrmaka, polla; me;n ejçqla; memigmevna, polla; de; lugrav). 15 Odissea, 4, 351-352 (Aijguvptw/ m∆ e[ti deu'ro qeoi; memaw'ta neveçqai / e[çcon, ejpei; ou[ çfin e[rexa telhevççaç eJkatovmbaç). 45 Menelao; 3. essi entrarono nelle mura della città, reclamarono la restituzione di Elena e delle ricchezze che Alessandro aveva sottratto e si era portato via, e chiesero soddisfazione per i torti subiti. Ma i Troiani risposero allora come avrebbero sempre risposto anche in seguito, giurando e non giurando che Elena e i tesori non si trovavano lì bensì in Egitto; e non era giusto, dicevano, che dovessero rendere conto loro di quanto era in mano di Proteo, il re egiziano. 4. I Greci, convinti di essere presi in giro, strinsero d'assedio la città, finché non la conquistarono; quando poi, espugnate le mura, non trovarono traccia di Elena e continuarono a sentirsi ripetere lo stesso discorso, allora ci credettero, e i Greci inviarono presso Proteo Menelao in persona. 119. 1. Menelao giunse in Egitto, risalì il fiume fino a Menfi, dove spiegò esattamente quanto era accaduto: allora ricevette grandi doni ospitali e poté riprendersi Elena, sana e salva, nonché tutte le sue ricchezze. 2. Però Menelao, pur avendo ottenuto ciò si comportò da uomo ingiusto nei confronti degli Egiziani: le avverse condizioni del tempo gli impedivano di partire, mentre era già pronto a salpare; dato che il ritardo si protraeva, tramò una azione esecranda: 3. prese due bambini, figli di gente del luogo, e li usò come vittime per un sacrificio; in seguito, quando si scoprì che aveva commesso tale delitto, fuggì con le sue navi in direzione della Libia, odiato e inseguito. Dove poi si sia diretto gli Egiziani non erano in grado di dirlo; di una parte dei fatti ammettevano di avere informazioni indirette, ma di quanto era successo nel loro paese vantavano una sicura conoscenza. 120. 1. Questo mi narrarono i sacerdoti egiziani; quanto a me sono d'accordo sulle notizie relative a Elena, sulla base di alcune considerazioni: se Elena si fosse trovata a Ilio l'avrebbero certamente riconsegnata ai Greci con o senza il consenso di Alessandro. 2. Senza dubbio Priamo e gli altri suoi parenti non sarebbero stati così dementi da voler rischiare la propria esistenza e quella dei loro figli nonché la sopravvivenza dell'intera città, solo perché Alessandro potesse starsene con Elena. 3. E anche ammesso che nei primi tempi la pensassero così, dopo che negli scontri con i Greci erano caduti molti Troiani e non c'era battaglia in cui non morissero almeno due o tre figli dello stesso Priamo, o magari anche di più, a basarsi sul racconto dei poemi epici, io voglio credere che, in circostanze del genere, anche se fosse stato lui in persona a vivere con Elena, Priamo l'avrebbe restituita pur di liberarsi di tutte le sventure che lo affliggevano. 4. Né il regno era destinato a passare nelle mani di Alessandro; se Priamo era vecchio non toccava lo stesso a lui governare il paese: dopo la morte di Priamo il successore designato era Ettore, più anziano e più valoroso di Paride: e a lui non si addiceva certo rimettersi alle decisioni del fratello, che era nel torto; e tanto più quando, a causa sua, grandissime disgrazie stavano cadendo su di lui personalmente e su tutti gli altri Troiani. 5. In realtà essi non erano in condizione di restituire Elena e i Greci non credevano ai Troiani, benché dicessero la verità; anche perché, e questa è una mia interpretazione, così il dio aveva disposto le cose: che perendo tutti miseramente dimostrassero al mondo come a colpe grandi rispondano grandi castighi da parte degli dèi. Questa almeno è la mia opinione.

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