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Deborah Puccio

Penetrazione e distribuzione di elementi friulani nel Carnevale resiano

Introduzione

Questo articolo nasce da una ricerca in Val Resia che ha avuto come esito una tesi di laurea sul Carnevale resiano (Puccio 1992). Definito quest'ultimo come rito slavo della fertilità e della fecondità, era interessante individuarne gli elementi comuni con i carnevali friulani, intendendo come tali quelli che hanno luogo all'interno dei confini politici del Friuli-Venezia Giulia; un'area questa dove sono confluite e si sono incontrate tre culture diverse: quella latina, quella slava e quella germanica. Per motivi di spazio, in questa sede solo una parte dei rituali di Carne­ vale verrà presa in considerazione: quella iniziale dei mascheramenti invernali e delle maschere primaverili. Il materiale raccolto in Val Resia tramite l'utilizzazione di fonti orali, è stato confrontato con quello raccolto da Andreina Ciceri (1967; 1972; 1978 in collaborazione con Olivia Pellis), Gaetano Perusini (1966) e Mario Toller (1964). Elementi simili tra gli usi presenti altrove nel Friuli e quelli resiani possono riferirsi o a luoghi che, come la Val Resia, presentano un contesto cultu­ rale slavo essendo abitati da una popolazione slovena, e altrove sloveno-friulana o sloveno-tedesco-friulana, o a luoghi di cultura latina. Quello che si vuole individuare è la penetrazione di elementi esogeni, cioè non slavi, in Val Resia e la loro distri­ buzione all'interno dello spazio resiano.

Note storico-geografiche

La Val Resia si stende nell'estrema parte nord-orientale del Friuli per una lunghezza di circa 22 km. I monti che la circondano quasi interamente, segnano ad est il confine italo-sloveno e si aprono ad ovest nella regione friulana, dove il fiume Resia va a sboccare e dove la strada provinciale che attraversa la valle incontra il paese di . Il territorio resiano consta di più frazioni e borgate. Le frazioni principali sono: San Giorgio, la prima che s'incontra entrando nella valle; Prato, il centro amministrativo e religioso ave hanno sede il Comune e la Pieve di Resia; Gniva, il paese meno popoloso; Oseacco, quello più popoloso e Stolvizza, la più remota delle frazioni della valle. Attigua alla Val Resia e facente parte del suo stesso territorio è la piccola valle 80 Deborah Puccio di Uccea, comunicante con la Slovenia attraverso il fiume omonimo, che sfocia nell'Isonzo; la strada che la solca conduce a Zaga. -Questa valletta fu in passato una zona piuttosto isolata rispetto alle altre frazioni resiane: solo nel 1985 fu sistemata l'arteria che oggi la collega alla Val Resia (Madotto, 1985, 135). Lischiazze, Gost, Coritis ed Uccea sorsero inizialmente come alpeggi estivi per le popolazioni delle frazioni di Gniva ed Oseacco; col tempo una parte di esse vi si insediò stabilmente. Attualmente alcune di queste borgate sono divenute anch'esse frazioni, emancipandosi dalla località d'origine; è il caso di Uccea, alpeggio di Oseacco e di Lischiazze, alpeggio di Gniva. Gost, tuttora dipendente da Gniva, è ormai quasi spopolata, mentre lo è completamente Coritis, che dipendeva invece da Oseacco e che, dopo i danni ingenti arrecati dai terremoti del '76, è stata abbandonata dalla sua popolazione. La Val Resia ospita, probabilmente dai primi decenni del secolo VII, una popolazione di origine slava. A quel tempo il Patriarcato di si estendeva a nord nella bassa valle dello Zeglia fino a Villaco e ad est dalla parte settentrionale di Postumia fino allo spartiacque tra l'Isonzo e la Sava (Grafenauer 1978, 20). Secondo l'ipotesi che sostiene la data di insediamento più antica, slavi meridionali cominciarono a penetrare nel Friuli allo schiudersi dell'anno 600 d. c. l Nel 610 avevano già occupato Cividale (Grafenauer 1978, 15) e prima del 625-631 la valle dello Slizza e del Fella (Grafenauer 1978, 16). Fu in questi anni che avvenne anche la colonizzazione slava della Val Resia; ma mentre nelle zone prima menzio­ nate gli slavi finirono per convivere con popolazioni tedesche o latine, della nostra valle pare siano stati i primi e poi i soli abitanti (Grafenauer 1978,16), coloro che ne marcarono l'identità etnica, linguistica e culturale. La popolazione slava stanziata in Val Resia crebbe isolata rispetto all'esterno dai monti che la cingevano. Nel 1084-1086 il territorio resiano fu donato dal conte di Kacelin, cui apparteneva, al Patriarca di Aquileia (Grafenauer 1978,20). Nel 1118-1119 il patriarca Federico Svatobar, secondo. le volontà del Conte, fece edificare l'abbazia di Moggio, (Grafenauer 1978,20) sotto la cui giurisdizione cadrà anche Resia. La donazione di Kacelin istituzionalizzò la cristianizzazione delle popolazioni locali, presumibilmente pagane, suscitando l'incontro tra la cultura slava e quella latina. Ma il curato che, dipendente da Moggio, assisteva la comuni­ tà resiana nelle sue necessità spirituali, solo dal principio del XVII sec. prenderà a risiedere stabilmente nella valle (Fontana MS, XVII), rendendo d'ora in poi più incisiva la sua presenza in loeo come veicolo di trasmissione della cultura cristiana. Nel 1783 la parrocchia di Resia, assurta al rango di pieve (Fontana MS, XVII!), prese a dipendere direttamente dalla sede arcivescovile di , sciogliendo definitivamente i legami con l'abbazia di Moggio.

1 In quell'anno scriveva papa Gregorio: "Sclavorum gens per Histriae aditum, iam ad Italiam intrare coeperunt» (Grafenauer 1978,15). Penetrazione e distribuzione di elementi/riulani nel Carnevale resiano 81

Se la Val Resia fu piuttosto isolata rispetto all'esterno, al suo interno lo furono reciprocamente le sue frazioni, amministrate separatamente (Maticetov 1978) e 2 rappresentate dai rispettivi vassalli • Solo nel 1805 i quattro comuni indipendenti di San Giorgio, Gniva, Oseacco e Stolvizza si unirono nell'unico comune di Prato (Madotto 1985, 51). Lo sviluppo autonomo delle frazioni resiane si riflesse in uno spiccato spirito di campanile ed in marcate differenze linguistiche e culturali. Furono le prime ad indurre Baudouin de Courtenay ad elaborare la teoria (ormai superata)3 dell'insediamento diversificato di tribù slave sul territorio della Val 4 Resia . In quanto facente parte del Friuli, la Val Resia fu annessa allo stato italiano nel 1866. Dopo il primo conflitto mondiale l'emigrazione, che già nel secolo precedente aveva allontanato tanti resiani dalla valle, assunse proporzioni senza precedenti, coinvolgendo questa volta anche le donne. Durante il periodo fascista la Val Resia fu più decisamente inserita nel contesto italiano attraverso una tenace politica di scolarizzazione snazionalizzante. A partire dal secondo dopoguerra la creazione della Jugoslavia e l'irrigidirsi delle frontiere tra l'Italia e il neonato stato socialista bloccarono i percorsi balcanici di tanti emigranti resiani, costretti a ripiegare nel basso Friuli e nell'Italia centro-settentrionale. Il miglioramento della rete viaria di collegamento con il Friuli rendeva ora più facile la comunicazione con l'Italia. I mass-media, che gradualmente penetrarono nelle case dei resiani, vi portarono modelli di vita assolutamente nuovi e generalizzarono la conoscenza della lingua italiana. I terremoti del '76 ruppero ulteriormente l'isolamento della valle: le opere di ricostruzione videro uomini e mezzi italiani affiancarsi alle forze locali; esodi e sfollamenti intanto portavano i valligiani fuori da Resia, da dove alcuni di loro non erano mai usciti. La Val Resia politicamente gravitò sul territorio italiano (essendo dipendente in ordine di tempo dall'abbazia di Moggio, dall'arcivescovado di Udine, dalla repubblica di Venezia ed infine dallo stato italiano), ma linguisticamente e cultu­ ralmente essa fa parte del continuum slavo, come appendice dell'ambito sloveno. I primi slavi che la colonizzarono al principio del VII sec. vi portarono le proprie esperienze di vita e di lavoro. Vi radicarono una mentalità sostanzialmente diversa da quella latino-cristiana. Introdussero antichi rituali slavi all'interno dei quali

2 Nel 1336 i vassalli <<.Jacobus de Resia» (San Giorgio), «Hauriens de Stulviza», <<.Joannes gener Mauruz de Oseacho», «Michael de Gniva» prestarono separatamente solenne giuramento di fedeltà ed assistenza all'abate Ghilberto di Moggio (Loschi 1898,9). J Si vedano Hamp 1988 e Ramovs 1928. < <<1 resiani ci presentano la continuazione storica della fusione di diverse tribù slave [... J. Questi slavi dovevano provenire da diverse tribù con diversi dialetti, giacché ancora oggi questo piccolo popolo di poco più di 4500 abitanti, ci presenta notevoli diversità dialettali, cosicché dobbiamo distinguere quattro dialetti resiani relativamente differenti» (Baudouin de Courtenay 1899,7-8). 82 Deborah Puccio sono gradualmente penetrati elementi latini desunti dalla cultura friulana. Tale penetrazione è in parte dipendente dalla vicinanza delle diverse frazioni resiane allo sbocco della valle nel Friuli e negli ultimi decenni è stata più incisiva che in passato, in corrispondenza alla recente maggior apertura della Val Resia ai contat­ ti con l'Italia. A questo proposito il Carnevale, antico rito della fertilità della terra e della fecondità femminile, è esemplificativo: colto in una forma quanto più possibile arcaica5 esso rivela una matrice inequivocabilmente slava, ma nelle sue elaborazio­ ni più recenti6 presenta alcuni tratti esogeni di derivazione friulana.

Maschere d'inverno: i babacilkukaci

In quasi tutte le frazioni della Val Resia, come in molte località friulane (Ciceri 1967, passim; Toller 1964, 17), le maschere comparivano già il giorno dell'Epifa­ nia e, a partire da questa data, compivano deambulazioni protreptiche per le vie dei rispettivi paesi - circoscrivere uno spazio con il passo significava infatti difenderlo dalle potenze del male e dagli influssi negativi che esse potrebbero avere sui raccolti (Ciceri 1974,500), facevano tappa nelle dimore dei frazionati, ove compi­ vano danze silenziose alle quali veniva attribuito un potere magico - poiché battere la terra con i piedi è un'antica pratica di espulsione periodica del male, suscitando per ciò stesso la riconoscenza dei padroni di casa. Questi ultimi offrivano ai questuanti vino, caffè o doni in natura con i quali essi avrebbero preparato un banchetto propiziatorio, per il significato augurale da sempre attribuito al cibo, specie se consumato in compagnia. Le maschere resiane il cui comportamento è appena stato descritto, apparten­ gono al tipo delle maschere d'inverno slave (Kuret 1984 e 1989, 12); ad esse sono assai simili le maschere friulane, che come quelle visitano le case del paese, dove ricevono offerte e doni (Ciceri 1967, passim.), si esprimono a gesti (Ciceri 1967, 41), danzano in ambienti pubblici e privati (Toller 1964,17). Ma mentre i travesti­ menti carnevaleschi friulani hanno perso da tempo ogni loro carattere tradizionale (Ciceri 1967, 23), essendo piuttosto casuali e legati all'iniziativa personale del momento, nelle maschere resiane ogni elemento aveva una sua ragion d'essere ed un significato simbolico.

5 L'indagine da me condotta sul Carnevale resiano aveva come obiettivo il rintracciare nella memo­ ria popolare degli scenari quanto più possibile arcaici del rito. È stato possibile attingere a testimonianze antecedenti la seconda guerra mondiale mediante l'utilizzazione di una classe omo­ genea di informatori i cui ricordi di giovinezza risalissero a tale periodo. Era importante non superare il '45, poiché i mutamenti socio-economici incorsi furono fattori deterioranti rispetto alle tradizioni locali. 6 Oggi il Carnevale viene festeggiato, in forma parziale rispetto al passato, nella sola frazione di San Giorgio. Penetrazione e distribuzione di elementi friulani nel Carnevale resiano 83

Come quelle friulane, le maschere resiane rappresentano i mortF, che durante la stagione invernale - tempo oscuro in cui la terra è percorsa da presenze demonia­ che - ritornano tra i vivi per propiziare la fertilità del suolo, grazie ai poteri di cui sono depositarie. Il loro nome a questo proposito è significativo: le maschere d'inverno della Val Resia si chiamano babaci (da baba "nonna, vecchia"), simil­ mente a quelle ricorrenti maschere slave dette babe o didi (rispettivamente "non­ ne", "nonni"), che rappresentano un vecchio o una vecchia in figura di capostipiti (Gasparini 1966,36-37). Che le maschere siano apportatrici di abbondanza è credenza condivisa anche dai vicini friulani (Perusini 1966, 9): i morti, nella cosmologia popolare, abitavano le profondità della terra, luogo in cui avvengono i processi produttivi della germi­ nazione del seme e della sua trasformazione in pianta (Toschi 1955, 167); le maschere, proprio in quanto pervase dagli spiriti dei trapassati, erano in grado di controllare i cicli naturali. Le maschere resiane hanno conservato nel loro abbigliamento quei tratti di lai­ dezza e deformità che convengono a delle creature manistico-demoniache e quei caratteri del vecchio, del malato, del deteriorato, che si addicono ai morti colti nel loro passaggio estremo. Le loro vesti sono oscure, lugubri, stracciaté; la forma dei loro corpi si nasconde dietro a gobbe, ventri grossi a dismisura, imbottiture in paglia o foglie secche; essi zoppicano o si appoggiano faticosamente a dei bastoni. Tra i loro scopi i mascherati, riuniti in associazioni segrete, chiuse, rigidamente maschili, giovanili e generalmente celibatarie, avevano anche quello di ristabilire l'equilibrio sociale tra i sessi (Gasparini 1966, 35), controbilanciando associazioni femminili che invece erano pubbliche ed aperte a tutti (Gasparini 1973, 438). Manifestazioni di una violenza vera o simulata contro le donne, e in special modo contro quelle nubili (Gasparini 1966, 38-40), sono da considerare come tentativi di tenere a freno la loro invadenza. Le stesse molestie sessuali, perpetuate dalle maschere ai danni delle ragazze, non sarebbero altro che un'affermazione della supremazia maschile (Ciceri 1967, 38). Coperte dall'anonimato della maschera le donne cominciarono ad infiltrarsi nelle confraternite maschili dei mascherati, segno questo di una rottura del princi­ pio tradizionale del mascheramento come privilegio concesso ai soli uomini (Kuret 1966, 80). Nel caso in cui la presenza delle ragazze venisse scoperta in seno alla compagnia maschile, i membri di quest'ultima erano autorizzati a punire severa­ mente coloro che avevano infranto la tradizione superando i limiti concessi allo status femminile. Interdetti alla partecipazione muliebre ai mascheramenti sono presenti sia in

7 Il Toschi fa derivare il termine maschera da masca, con il significato di «morto avvolto in una rete per ostacolare il suo ritorno sulla terra» (Toschi 1955, 169). 8 I cenci fanno parte del repertorio iconografico dei morti (Toschi 1955,216). 84 Deborah Puccio

Val Resia, sia in alcune località del Friuli: a Canebola, situata nelle Valli del Natisone (dove si trovano popolazioni di lingua slovena) una ragazza trovata in una compagnia di mascherati verrebbe immancabilmente punita dagli uomini del paese (Ciceri 1967, 87). Il timore più o meno cosciente delle ragazze resiane che partecipano alle mascherate, si desume dal fatto che esse, se vengono scoperte dal resto della compagnia, fuggono dal luogo dei festeggiamenti e non vi ritornano se non prive di travestimento. Il velo, che è uno degli accessori-chiave delle masche­ re invernali resiane, oltre a rendere possibile il contatto con il mondo degli spiriti ­ che solo la rinuncia formale e temporanea alla propria identità permette - consen­ te di occultare eventuali ed illecite presenze femminili. Lo stesso silenzio, rigoro­ samente osservato dai mascherati nel tempo delle loro apparizioni invernali, o la contraffazione della voce alla quale essi ricorrono per non farsi riconoscere, po­ trebbero avere la medesima motivazione - oltre a suggerire dietro le maschere l'aleggiare di esseri soprannaturali, l'immagine taciturna e misteriosa della morte e dei morti. L'anonimato della maschera è uno dei suoi tratti più universali ed arcaici, naturalmente riscontrabile anche tra le maschere friulane (Ciceri 1967, 14), che mettono in atto le medesime strategie di contraffazione: a , la cui popolazio­ ne parla un dialetto tedesco, le maschere non parlano né cantano per non farsi riconoscere (Ciceri 1967,54). Svelare l'identità di un mascherato è sempre un atto sgradevole (Perusini 1966, 79-80) poiché vanifica i benefici che la maschera in quanto tale può apportare alla collettività e disarma colui che solo grazie al trave­ stimento nella forma di un essere ultramondano può fare ciò che altrimenti non gli sarebbe permesso (Gasparini 1973,35). In Val Resia la maschera sembra avere una doppia funzione: coprire l'identità del mascherato e nascondere la sua natura sessuale. Gli antichi interdetti alla presenza femminile tra i mascherati sono rimasti in Friuli sotto forma di scherzo. Le maschere friulane e sloveno-friulane infliggono punizioni alle ragazze; a Clabuzzaro (valli del Natisone) nel corteo dei mascherati qualcuno era munito di pinze di legno e di tenaglie allungabili, che servivano ad acchiappare per le gambe le giovani malcapitate (Ciceri 1967,72). Ma in questo caso quello che viene punito non è una presenza illecita, ma la femminilità infeconda della ragazza ancora nubile. Si tratta di una forma di augurio, o piuttosto di incitamento al matrimonio ed alla- procreazione, che risulta chiara quando la vio­ lenza inflitta dalla maschera consiste nel battere la ragazza con una calza piena di cenere, così come avveniva ad esempio a Rodda (località vicina a quella di Clabuz­ zaro) (Ciceri 1967, 72) o cospargerla semplicemente di questo elemento, come accadeva in Val Resia. La cenere, che è il simbolo cristiano della morte e della caducità della vita (pulvis es et in pulverem reverteris) , tra i pagani simboleggiava le capacità di rinnovarsi della materia, grazie a quelle qualità di buon rigeneratore delle potenzialità fruttifere della terra che già gli antichi le riconoscevano. In un continuum uomo-natura proprio della mentalità primitiva e popolare, sporcare Penetrazione e distribuzione di elementi/riulani nel Carnevale resiano 85 con la cenere è un augurio di fecondità più che un gesto oltraggioso, accolto pertanto con gioia piuttosto che con disappunto. Esso rientra nel contesto di quegli scherzi di Carnevale che, se fanno precipitare verso il "basso", la dissoluzione della materia di cui la polvere è metafora, nello stesso tempo rinnovano, perché è proprio dal ventre della terra che una nuova nascita, una nuova vita avranno origine (Bachtin 1979,27). Stessa funzione ha l'usanza resiana, riscontrata nella frazione di Oseacco, di deporre un "sardellone" davanti alla porta della ragazza. Questo pesce fa spesso parte del corredo iconografico della Quaresima personificata (Ciceri 1967, 102), in quanto rappresenta il "mangiar magro", la privazione come principio contrario all'abbondanza. A Imponzo (Carnia) tale cibo veniva consumato il giorno delle Ceneri (Ciceri 1967, 41). Nel paese friulano di Sequals le famiglie che rifiutavano di fare delle offerte ai mascherati ne trovavano uno inchiodato sulla porta di casa, in segno, questa volta, di malaugurio per coloro che non avevano saputo accatti­ varseli con doni ed ospitalità. Lo stesso gesto, rivolto ad una ragazza, ha un signifi­ cato canzonatorio: quello che nel linguaggio della natura è improduttività, in quello dell'uomo è sterilità. La giovane, in questo caso, verrà umiliata nella sua femminilità, ma anche stimolata a rivendicarla maritandosi e figliando, ed è proprio questo l'effetto che si vuoI ottenere. Tra le altre usanze friulane con il medesimo scopo, è quella di (i cui abitanti sono in parte friulani, in parte sloveni, in parte tedeschi), di distribuire a tutte le ragazze che nell'anno in corso non hanno trovato marito, una rondella del miglior tronco che gli alberi della zona hanno prodotto, che viene trascinato in paese da un bue e sezionato secondo il numero delle nubili (Ciceri 1967, 60). L'albero, secondo antiche credenze manistico-ani­ mistiche, è anch'esso abitato dallo spirito dell'antenato (Gasparini 1973,499-509) che, nel periodo fatidico del ricominciamento dei cicli inaugurato dal Carnevale, richiama le nuove generazioni ai doveri della continuità della specie. Tra le altre forme di ritorsione dei mascherati verso padroni di casa poco generosi, c'era quella di portare in piazza nelle ore notturne tutto quello che le famiglie avevano incautamente lasciato fuori dalle loro dimore: legna, panche, seggiole, scale esterne ecc.). La mattina dopo i proprietari avrebbero recuperato i propri oggetti, in un'estenuante ricerca che si protraeva tra le risate dei responsa­ bili. Nessuno osava rimproverare le maschere, si riconosceva loro il diritto di infierire contro quelli che non li avevano debitamente onorati. Tale scherzo avveniva nel comune friulano di , paese confinante con la Val Resia situato nell'alta valle del Torre (dove viene parlato un dialetto sloveno), il terzo sabato del mese di gennaio; a San Giorgio di Resia avviene tuttora in quello che precede la seconda domenica della Quaresima; in altri luoghi del Friuli avviene il primo gennaio. Se le maschere rappresentavano i morti, e più specificamente quelle resiane i familiari morti (babaci), i tafferugli tra le compagnie mascherate potrebbero essere interpretati come lotte tra diversi gruppi di famiglie, ognuna delle quali abitava un quartiere o villaggio. Il forte campanilismo che ancora contraddistingue i paesi 86 Deborah Fuccio della Val Resia si riflesse, oltre che nella frequentazione di luoghi di culto differen­ ti e nella celebrazione di feste proprie, nella costituzione di associazioni (femminili e maschili) separate per zona. La funzione di rappresentanza del proprio quartiere o villaggio di cui i mascherati si sentivano investiti, conferiva loro sentimenti di orgoglio e di fierezza, che potevano esser motivo di sfida tra le compagnie in maschera, nonché di risse anche sanguinose. Lo stato di tensione latente tra i frazionati delle diverse località resiane, durante alcune festività sfociava in contrasti aperti, tollerati dalla comunità in quanto circoscritti a particolari occasioni. Le risse tra mascherati non sono un fenomeno tipico della Val Resia: l'abuso di alcool, l'euforia generale e quel rovesciamento dei valori etici, sociali e politici comunemente accettati di cui il Carnevale è apportatore, non potevano non origi­ nare quei disordini che le autorità cercarono costantemente di arginare. In Friuli i cittadini che desideravano mascherarsi dovevano richiedere il permesso al Comune (Ciceri 1967,24) e rilasciare le proprie generalità (Ciceri 1967,25). L'effervescente clima carnevalesco unito all'impunità dei mascherati, la cui identità restava scono­ sciuta, occasionò disordini tali da indurre le forze dell'ordine a richiedere la pre­ senza di un uomo riconoscibile al seguito delle maschere, che potesse garantire per loro pur senza svelarne i nomi. Tale personaggio che accompagnava i gruppi mascherati della Val Resia, lo si trova anche tra quelli friulani (Savorgnano del Torre) (Ciceri 1967, 86). Ma in Val Resia pare che gli scontri tra le maschere avessero ragioni culturali e sociali più profonde, assecondate dallo sviluppo storico delle diverse frazioni resiane e delle loro borgate. Tra queste ultime e le rispettive località d'origine, durante il periodo carnevalesco si rinsaldavano gli antichi legami: i mascherati, come rappresentanti dei familiari morti-babaci, visitavano non solo le case della propria frazione ma anche quelle della località con la quale sentivano di condividere un antenato comune. Le maschere d'inverno, in tutte le frazioni della Val Resia dette babaci, in quel­ la di Stolvizza si chiamano Kukaci, apparentandosi alle maschere bulgare e mace­ doni chiamate kukeri o kuki (Kuret 1966, 83): "ragazzi vestiti di indumenti strani e ridicoli, con facce mascherate, che vanno in giro durante la Sirnica (prima setti­ mana della Quaresima ortodossa), fanno giochi tradizionali, scherzi" (Romanski 1955, 667). Geograficamente Stolvizza è la più lontana delle frazioni resiane; l'isolamento della sua posizione si riflette nella particolarità delle sue maschere che, pur presentando notevoli affinità con quelle delle altre località della valle, hanno rispetto ad esse nomi diversi, simili a quelli di maschere slave appartenenti ad aree lontane dalla Val Resia e perciò arcaici. Nella Valle di Uccea le tradizioni carnevalesche hanno conosciuto uno sviluppo anomalo: in questo alpeggio oseacchese, insediamento stabile dal 1500 (Madotto 1985, 134), frazione indipendente dal 1931 (ibidem), alcune delle usanze di Car­ nevale praticate nella frazione di Oseacco sono andate perdute nel corso del tempo, altre si sono sviluppate in maniera molto più significativa rispetto alla località d'origine. Tra le prime, le sortite invernali dei babaci, che ad Uccea non Penetrazione e distribuzione di elementi/riulani nel Carnevale resiallo 87 comparivano che il Giovedì Grasso, aggiungendo ai tradizionali compiti di propi­ ziazione della fertilità del suolo, quello dell'educazione dei fanciulli tramite l'inti­ midazione suscitata dalla maschera. Questa nuova funzione, non assolta dai babaci delle altre frazioni resiane, avvicina le maschere d'inverno di Uccea alle maschere alpine dei territori di lingua tedesca (Gasparini 1966, 35). Gniva condivise con le borgate di Lischiazze e di Gost le sue usanze di Carne­ vale. Quest'ultima località, per la sua maggiore lontananza rispetto al paese di origine, gradualmente sviluppò forme tradizionali autonome. I mascherati di Gost potevano unirsi tutt'al più con i vicini di Lischiazze, ma non si spingevano, come forse un tempo, fino a Gniva; segno che ormai i vincoli originari andavano allen­ tandosi. Sintomi di un deterioramento della tradizione si avvertono nella disconti­ nuità delle visite dei babaci, che non si sentono più investiti di un dovere indero­ gabile, pena il deperimento della collettività e la scarsità dei prodotti del suo lavoro. D'altra parte l'accoglienza fatta alle maschere non è sempre quella che si dovrebbe riservare a coloro che portano prosperità ed abbondanza. Frequenti dovettero essere gli scambi tra Gniva e la vicinissima frazione di Oseacco, come mostrano le notevoli somiglianze tra le usanze carnevalesche delle due zone. Ma nella seconda, in maggior misura che nella prima, si sono in buona parte persi i tratti più arcaici. Le maschere d'inverno ad esempio, che per il loro legame con il regno dei morti e per il loro aspetto terrificante avrebbero dovuto incutere terrore, qui sono diventate spauracchi ridicoli, funzionali al solo diverti­ mento della gente. Le compagnie di mascherati ospitano alloro interno non solo donne (della cui presenza gli altri babaci sono a conoscenza senza che ciò determi­ ni l'immediata esclusione delle stesse e la loro eventuale punizione), ma persino donne sposate. Se pensiamo ai poteri rigeneratori delle potenzialità fruttifere della natura attribuite ai soli celibi, in virtù della loro inesausta forza riproduttiva e del loro vigore giovanile, la presenza di spose all'interno dei gruppi di babaci ci appa­ rirà come una grave deroga alla tradizione ed al suo significato originario. San Giorgio infine, per la sua posizione nel territorio resiano, è senz'altro la 9 frazione la cui cultura è stata più esposta agli influssi esterni • Quelle visite alle di­ more dei compaesani che nelle altre frazioni i babaci eseguono durante le sere d'inverno, qui le fanno i coscritti, kusvkritavi (coloro cioè che nell'anno in corso hanno varcato la soglia dei vent'anni), accompagnati dai suonatori ma privi di maschera o di ogni altra forma di travestimento. Molti i punti in comune tra babaci e kuskri'tavi: in entrambi i casi siamo di fronte ad associazioni giovanili, maschili, i cui membri si sentono stretti da vincoli di fratellanza e che segnano il passaggio dall'età dell'adolescenza a quella della virilità prolifica (Ciceri 1968-71). È significativo il fatto che in questa frazione così prossima al Friuli, un'istituzione

9 A San Giorgio anche la conoscenza del friulano è più diffusa che nel1e altre frazioni (Steenwijk 1992, 16). 88 Deborah Puccio giovanile friulana si sia sostituita alle maschere slave nello svolgere funzioni di primaria importanza per la collettività. Per la verità uomini mascherati erano già comparsi a San Giorgio il giorno dell'Epifania, come i koledari slavi, così chiamati perché anch'essi apparivano in gennaio, tempo delle antiche kalendae (Gasparini 1973, 438; Kuret 1986). Dopo aver compiuto una questua per le case del paese i mascherati preparavano con quanto raccolto (farina, noci, mele...) una sorta di focaccia che mangiavano insieme, il bujadnik: siamo di fronte ancora una volta all'agape fraterna delle maschere.

Maschere di primavera: le maskire

Allo schiudersi del periodo carnevalesco propriamente detto i babaci escono dalla ristretta intimità familiare e guadagnano l'universalità della piazza, accompagnati dalla musica di violini e violoncelli. Se prima i loro gesti e le loro danze erano avvolti da un silenzio quasi letale, ora le maschere d'inverno hanno rotto l'immo­ bilità della morte. Contemporaneamente all'ingresso del rumore in un mondo intorpidito dal lungo letargo invernale, comincia la metamorfosi delle maschere d'inverno in maschere di primavera: i babaci di un tempo, durante la settimana di Carnevale, si trasformeranno in maskire, aggiungendo ad ogni nuovo giorno un nuovo accessorio al proprio abbigliamento, come segno del cambiamento in atto; trasformando gradualmente il loro lugubre corredo, che aveva in sé gli elementi simbolici dell'inverno, del vecchio, del passato - dunque in termini naturalistici quelli del ciclo vitale ormai concluso e da rinnovare -, in un abito gioioso, chiaro, pieno di colori e di luce, nuovo, come metafora della primavera e dell'annata agraria che sta per cominciare. Le vesti indossate a Resia durante il periodo carnevalesco sono simili, nei loro tratti formali e nella loro essenza semantica, a quelle utilizzate dalle popolazioni slave (ma anche da quelle finniche e germaniche) per eseguire alcuni lavori cam­ pestri (Gasparini 1973,534). Abiti bianchi, puliti, nuovi venivano adoperati per inaugurare un nuovo ciclo agrario, per il significato augurale da sempre attribuito a questo colore. Gli accessori variopinti delle maschere di Carnevale resiane (na­ stri e fazzoletti appuntati alla veste, fiori di carta fissati ad enormi cappelli), sembrano richiamare mimeticamente la natura ai suoi compiti produttivi; mentre i campanellini che chi indossa la maskira tiene tra le mani e fa risuonare ridestano, allo schiudersi della primavera, tutti gli esseri di un universo che rinasce. Se travestirsi da babac era un privilegio inizialmente concesso ai soli uomini, vestire la maskira era una prerogativa femminile, che veniva acquisita dalla ragazza negli anni della sua gioventù. L'abito bianco indossato dalla giovane ad un certo momento della sua vita, segnala il suo ingresso in un nuova fase della sua esistenza: quella della femminilità feconda. Il candore della veste dunque non solo è augura­ le rispetto al nuovo ciclo della natura che va ad aprirsi con l'ingresso della prima­ vera - nel contesto di quel rito della fertilità che è il Carnevale -, ma anche rispetto Penetrazione e distribuzione di elementi/riulani nel Camevale resiano 89 al ciclo vitale che la donna schiude entrando nell'età della riproduzione. I fiori posti sul cappello della mafkira sono le manifestazioni tangibili del rigoglio della natura, al cui rinnovamento la donna è chiamata a fare la sua parte garantendo la continuità della specie; ma simboleggiano anche della sua capacità riproduttiva, agendo da richiamo nei confronti del maschio. L'ambiguità era un altro tratto fondamentale delle maschere invernali resiane: esse apparivano coperte nel viso, contraffatte nella forma del proprio corpo da vesti ampie o imbottite, che sono indifferentemente maschili o femminili. Le ma­ schere friulane ripetono una tre le più antiche forme di mascheramento: lo scambio simmetrico uomo-che-veste-da-donna, donna-che-veste-da-uomo (Ciceri 1967, 23; Toller 1964, 18); quelle della Val Resia fanno diversamente, lo scambio avrebbe infatti rivelato l'identità sessuale del mascherato come il contrario di quanto appa­ riva dalla sua maschera. L'ambiguità viene raggiunta con l'episodica rottura di tale simmetria e si esplicita anche nel nome resiano delle maschere d'inverno: babaci, nominativo plurale di babae, un diminutivo composto dal formante maschile - ae e dalla radice bab - del sostantivo femminile baba. L'ambiguità sessuale dei babaci era sintomatica di una sterilità improduttiva, della confusione dei sessi come del primordiale caos degli elementi dove ancora il maschile ed il femminile non hanno subito quella scissione nei due poli che permetterà, con la loro unione distinta, la generazione di tutti gli esseri. In quel rito della fecondità che abbiamo detto essere il Carnevale, tale stato dev'essere superato. La metamorfosi dei babaci nella mafkira e nel mafkaron, il suo analogo maschile, originerà degli esseri sessualmen­ te definiti, pertanto pronti alla procreazione, partecipi della natura che in primavera SI ngenera. Il matrimonio, come cerimonia che ratifica il diritto della coppia alla copula, o il fidanzamento come sua premessa, diventano parte integrante del rito carnevalesco. In tutto il Friuli il Carnevale è tempo di matrimoni e proprio per questo il corteo degli sposi spesso era mascherato (Ciceri 1967, 35). Gli approcci tra giovani cominciavano già qualche settimana prima: ad (Carnia), alla vigilia dell'Epifania, durante le ore serali i giovani non sposati si recavano in visita nelle case dove c'erano ragazze nubili, portando con sé strumenti musicali (Ciceri 1967, 50). È quello che facevano i sangiorgini la sera della festività epifanica, ma questi ultimi erano mascherati. Rituali di fidanzamento erano presenti in tutte le frazioni della Val Resia come momento centrale dei festeggiamenti carnevaleschi. Essi prendevano forma nella danza, che vedeva lo schierarsi in file frontali di mafkire e mafkaronavi. Non pri­ ma però di aver dichiarato la propria natura sessuale attraverso la rinuncia all'ulti­ mo vestigio dell' originaria ambiguità: il velo, che copriva il volto della ma.(kira e che la ragazza scosterà una volta scelta dal suo cavaliere. Il formarsi delle coppie avrebbe garantito il rinnovamento generazionale, men­ tre le danze che i fidanzati eseguivano avrebbero risvegliato le forze della rigenera­ zione sotterranea, nell'ambito di un rapporto osmotico tra l'uomo e la natura. Il fatto che il ricambio generazionale sia uno degli obiettivi del rito del Carnevale, 90 Deborah Puccio viene simbolizzato da quella maschera o apparato carnevalesco (diffuso sia in Friuli che in Slovenia) detto "mulino della giovinezza", ove viene introdotta una coppia di anziani e dal quale scaturisce una coppia di ventenni (Ciceri 1967, 58; Kuret 1989,37). Le maschere di primavera resiane sono particolari nel contesto tradizionale friulano per la loro esclusività femminile (Ciceri 1967, 23), che si contrappone al principio generale del mascheramento come prerogativa di cui i soli uomini pote­ vano beneficiare (Toschi 1955, 79-80). Abiti bianchi, cappelli infiorati e nastri colorati sono indossati anche da alcune maschere friulane (Ciceri 1967, 14). A Tramonti di Mezzo (Friuli occidentale), il martedì le giovani fidanzate erano in bianco con nastri multicolori (Ciceri 1967, 123). Ma questi elementi compaiono anche nel costume delle lelje di Gorjani (Slovenia, nei dintorni di Djakovo), ma­ schere che, in tempo primaverile, percorrevano le vie del proprio paese intonando canti di incitamento alle nozze (Gasparini 1973,355-358). Nell'opposizione manicheistica tra maschere "belle" e "brutte" (presente in Friuli ed in Slovenia come in tutta l'Europa), le ma.(kire rientrano tra le maschere belle, mentre i babaci sono identificabili in quelle brutte (Ciceri 1967, 14). A Ca­ nebola troviamo una opposizione simile tra "maschere belle", dall'aspetto di spose (indossate comunque da uomini), vestite con abiti bianchi come le maskire e "maschere brutte" (Ciceri 1967, 87), vestite di stracci come i babaci. Sono queste ultime a scuotere grossi campanacci, annunciando così il proprio arrivo (Ciceri 1967,87), come i campanellini agitati dalle mani delle danzatrici vestite in maj~kira avevano annunciato quello della primavera. A Masarolis (valli del Natisone), il dualismo positivo-negativo si riflette nelle maschere di Te-Cosnast, che ha il volto nero e Te-Crisnast (ta Koinast e ta Kriinast in Kuret 1989, 71), che veste di bianco e porta un copricapo formato da un'intelaiatura di legno rivestita da una cascata di striscioline di carta multicolore. La metamorfosi dei babaci in maskire qui assu­ me la forma drammatica della lotta tra Te-Cosnast e Te-Crisnast, che si conclude naturalmente con la vittoria del secondo, colui che porta i segni e i colori della vita e del rinnovamento, a scapito del primo, quello che aveva l'aspetto tenebroso della morte (Ciceri & Pellis 1978,29-31). I blumari del paese di Montefosca(valli del Natisone), hanno in comune con le maschere primaverili resiane il bianco augurale della veste, i fazzoletti colorati ad abbellire il cappello di paglia tutto rivestito di nastri e di strisce di carta multicolore, i campanacci che i mascherati scuotono perché l'annata sia propizia. Ma i blumari, più vicini a questo ai babaci che alle ma.(kire, sono giovani di sesso maschile, nell'età della coscrizione e celibi. Le ragazze di Montefosca non si mascherano, ma si limitano ad aiutare i ragazzi nella vestizione (Ciceri 1972, 16-19). Assai simili alle maschere resiane sono anche quelle del paese di San Leonardo (valli del Natisone): esse rappresentano una coppia di "sposi" vestita di bianco, nella quale l'uomo presenta un nastro colorato appunto a tracolla, ripetendo la posizione del nastro del maskaron, mentre la don­ na porta un cappello larghissimo con nastri che scendono fino alla schiena (Ciceri 1967,70), simile a quello della maskire della valle di Uccea. Penetrazione e dl~,trihuzione di elemellti/riulani /lel Carnevale resiano 91

Le frazioni resiane che hanno preservato più a lungo e che hanno sviluppato nella maniera più ricca e più completa la tradizione delle mékire, sono quelle di Oseacco e di Uccea. Quest'ultima, che derivò le sue usanze di Carnevale dalla località d'origine, perse nel tempo molte delle componenti del rito carnevalesco resiano (abbiamo visto per esempio come le maschere fossero assenti lungo tutto il periodo invernale), ed imperniò i suoi festeggiamenti su quei rituali di fidanza­ mento che hanno come protagonisti la nzaj~kira ed il mékar071. L'isolamento in cui le tradizioni carnevalesche della Valle di Uccea dovettero svilupparsi, si riflette in alcune loro anomalie rispetto al contesto tradizionale resiano. Il copricapo della maskira di Uccea era di fattura differente rispetto a quello fabbricato nelle altre frazioni della Val Resia: ricoperto di fiori solo nella sua parte superiore esso era più basso di quello resiano e portava, fissati tutt'intorno, dei nastri colorati che scendevano sul volto di colei che lo indossava fino a coprirlo quasi interamente. I nastri avevano qui la medesima funzione che, altrove nella valle, aveva quel velo celante il viso della ragazza vestita in ma.fkira. Per mékaronavi gli abitanti di Uccea intendevano i fidanzati delle maskire; co­ loro che da quelle avevano ricevuto il dono segreto dei nastri dei loro abiti per applicarli al proprio cappello e che, con campanacci e campanellini legati alla cintura, giravano per il paese nel giorno detto del pu vase ("dappertutto per il pae­ se"), svolgendo quegli stessi compiti che nelle altre frazioni resiane sono delegati ai babaci: questua e banchetto propiziatorio. Come a Provesano (basso Friuli) esisteva un Carnaval de li/eminis ed un Carnaval de i omis (Ciceri 1967, 115), come a San Giorgio di Nogaro (basso Friuli) c'era il Carneval pizzul o des /eminis ed il Carnaval grant o dei Ol'nis (Ciceri 1967, 102) e ad (Carnia) uomini e donne partecipavano al Carnevale separatamente (Ciceri 1967, 54), ad Uccea il lunedì ballavano solo le donne mentre il giorno dopo esse erano escluse dalle deambulazioni propiziatorie per il paese e dall'agape fraterna dei mascheroni. Ma ad Uccea la partecipazione separata al rito carnevalesco potrebbe tradurre un aspetto molto tipico della società resiana, come di quella slava: il bipolarismo uomo-donna. Esso si riflette in fatti sociali, giuridici e culturali quali la gestione separata dei beni familiari, la trasmissione ereditaria in linea paterna e materna, la frequentazione di luoghi pubblici ognuno per conto proprio (Puccio 1992, 22), la danza in file contrapposte di danzatori e danzatrici10. Durante il periodo carnevalesco i giovani della borgata di Coritis convergeva­ no nella frazione di Oseacco, la località di dipendenza nella quale si cercavano di rinsaldare, tramite il matrimonio, gli antichi rapporti familiari. Dati statistici mo­ strano la preferenza dei frazionati a sposare membri delle rispettive "appendici antropiche" (Rotta 1987a, 85).

IO La danza resiana vede il contrapporsi di due file: danzatori e danzatrici avanzano gli uni contro gli altri e, attraversandosi sema tocGlrsi e senza guardarsi (l'uomo volge le spalle alla donna), vanno a prendere posto nella fila di fronte. Qui i ballerini compiono due o più giri su se stessi, battono il piede per terra ed avanzano di nuovo nella direzione contraria, per poi riprendere daccapo. Una danza simile si esegue a Pristina (Serbia meridionale) (Gasparini 1973,672). 92 Deborah Puccio

Pare che la frazione di Oseacco fosse quella in cui la tradizione delle maskire rimase più a lungo. È qui che ritroviamo nella sua forma più completa la versione maschile della ma.'fkira: il maskaron. Il giovane indossava una maschera assai simile a quella della donna, ma che a ben guardare non ne era che un adattamento. Lo dimostra il carattere parziale e menomato dell'abito maschile rispetto a quello femminile: cappello più piccolo, una sola gonna (là dove la ragazza ne indossava invece tre o quattro), minor attenzione al principio essenziale e significativo del­ l'utilizzazione di vesti bianche e nuove per la festa. Per di più era la ragazza stessa ad occuparsi della vestizione di quello che nel ballo sarebbe diventato il suo partner, a fornirgli indumenti ed accessori. La derivazione del maskaron dalla mékira si riflette anche nel rapporto etimologico tra le due parole, essendo mékaron un accrescitivo derivato da ma.rkira. Gniva e le sue appendici antropiche ripetono i termini della tradizione oseac­ chese delle maskire nella loro essenza e significato; ma qui non compare il maskaron: l'uomo, il ragazzo, sono vestiti"da sposo" o coi "vestiti della festa". Gli abitanti di Gost, benché avessero sviluppato forme proprie del rito carnevalesco, confluivano assieme ai vicini di Lischiazze nella comune località di dipendenza, dove avveniva­ no gli approcci tra giovani e quegli scambi di promesse che poi si sarebbero realizzate nel matrimonio. Anche a San Giorgio furono praticati fino a poco tempo fa simili rituali di fidanzamento che nelle altre frazioni resiane e come ad Oseacco sono presenti sia la mas:kira che il mas'karon. A Stolvizza invece l'abito del ma.r"karon non presenta né i caratteri tradizionali del bello, né quelli del nuovo o del festivo. Pare che questa maschera maschile piuttosto tarda non sia penetrata nella più remota delle frazioni della Val Resia, come non era penetrata a Gniva e nelle sue appendici antropiche. Presente invece in entrambi l'originale femminile. Nelle frazioni di Oseacco e di San Giorgio, dove la tradizione delle mas~kire fu più pervicace, poiché un rito quando viene praticato necessariamente si evolve ed assume i segni della modernità, sono comparsi anche i mas~karonavi, come forme degenerate delle maschere bianche (te bile mékire).

Comiderazioni/inali

Le tradizionali maschere d'inverno e di primavera oggi sono del tutto scom­ parse. I babaci non girano più per le case nelle fredde sere d'inverno, non ballano più nelle strade o sulle piazze come un tempo. Solo qualche personaggio masche­ rato compare nelle osterie durante la sola settimana che va dal Giovedì Grasso al mercoledì delle Ceneri. Ristretti dunque gli spazi, accorciati i tempi, ma soprattut­ to diminuita la partecipazione corale al Carnevale e alle sue pratiche rituali. Se i resiani una volta ballavano giorno e notte sostituendosi, sfiniti, gli uni con gli altri, mentre ora si accingono alla danza con maggior moderazione, non era perché Penetrazione e distribuzione di elementi/riulani nel CiII'nevale re.liano 93 fossero più vivaci in passato che adesso, ma perché credenze di antica memoria facevano loro sentire il ballo come un dovere, in quanto, calpestando la terra, esso avrebbe risvegliato la vegetazione. Le danze, oggi confinate nelle osterie, hanno perso ogni loro valore propiziatorio per la fertilità della terra, non più percossa dai benefici passi dei ballerini. Le belle maschere bianche, te fipe bile mm:kire, con i loro nastri svolazzanti e colorati annunciavano l'arrivo della primavera, il ritorno della luce e del colore sulla scena del mondo che l'inverno aveva avvolto nell'oscu­ rità; i loro enormi cappelli fioriti propiziavano il rigoglio della vegetazione; i campanellini che le ragazze tenevano Era le mani e scuotevano danzando, risveglia­ vano la natura dal suo torpore invernale; il bianco delle loro vesti era il colore che più si addiceva ad inaugurare con purezza un nuovo ciclo vitale. Se questi significati si sono perduti, è inutile sfoggiare una maschera ormai obsoleta, meglio tenerla nell'armadio come un caro ricordo o come un pezzo d'antiquariato. Così la tradi­ zione è degenerata in/olklore e te lipe bile maskire sono diventate la gioia del turi­ sta venuto ad assistere ad un'esibizione del Gruppo Folkloristico "Val Resia". La colpa del destrutturarsi della tradizione non è da addebitarsi ai resiani, ma allo scetticismo dei nostri tempi, che non attribuisce più alcun valore reale a pratiche un tempo volte alla fertilità della terra e alla prosperità dei gruppi associati. Le ragioni fondanti dei rituali carnevaleschi, quelle che li hanno fatti essere tali per secoli (perché la ripetitività del rito era garanzia della sua stessa efficacia), si sono dileguate. Pertanto le maschere, private dei propri contenuti, si sono gra­ dualmente impoverite nella loro forma, hanno perso di anno in anno ele.menti divenuti sempre meno significativi, fino all'esaurimento totale della tradizione, ormai rinvenibile solamente nella memoria dei suoi antichi esecutori.

Riassunto Il Carnevale in Val Resia, com'era nei primi deeenni di questo secolo secondo testimol1lclI1ze orali; è stato descritto nei suoi due momenti: delle detllnbulazioni notturne dei babaci, le maschere d'inverno e dei cerimoniali di fidanzamento delle maskire, le maschere di primavera. Il comportamento e gli aspetti formali dci babaci e delle maskire sono jtati messi tl confronto con tlndoghi costumi friulani. Ne è risultata una distribuzione ineguale di elementi friulani, di recente penetrazione dipende tlnche dalla distama di queste ultime rispetto allo sbocco delltl valle nel Friuli. Si è riscontrata inoltre una maggiore affinità delle usanze ctlrnevalesche resitlne a quelle presenti in aree friultl1ze tlbitate da altre popolazioni slave o slavo-germaniche.

Summary The Carnival in thc valley of Resia, as it occurred in the first decades of this century bascd on oral statements, is described in its two phases: the nightly walks of bàbaci, thc winter masks and the cere­ monials of cngagement of ma'Skire, the spring masks. The behaviour and the formai aspccts of the bàbaci and of thc maskire are compared with similar customs of Friuli. It resulted in an unequal distribution of thc Friulan elements, recently introduced in the valley. These elements arc different\y distributed in the villages depending also on their 10catiol1 in the valley. A major similarity of the Resian customs with the ones present in the Friulan areas populated with other Slavic or German-Slavic inhabitants is also highlighted. 94 Deborah Puccio

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