Liitalia Di Carzano

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Liitalia Di Carzano 1 2 Fabio Mentasti L’Italia Di Carzano Earth’s tales COLLANA DI LETTERATURA DI APPROFONDIMENTO www.innovari.it/scudo.htm www.shortstoriesmag.splinder.com 3 Vorrei dedicare queste pagine alla mia meravigliosa moglie Flavia, al mio carissi- mo nonno Mario, reduce di Etiopia, Jugoslavia e Sicilia, che mi ha permesso di legge- re il libro su Carzano di Pettorelli Lalatta da cui ho tratto l’idea per questo lavoro, e al maggiore Ramorino e ai suoi bersaglieri del LXXII/20°, caduti nell’operazione Carza- no. “Perché il nome di Carzano ha dato vita per due mesi al mio sogno più bello. Desidero riviverlo nella nostra bella terra, in mezzo ai miei soldati che sono tutti qui a ricordare a me e a quanti verranno dopo di me, che il sognare e l’osare per la Patria è sempre bello. Anche se il sogno resta tale e l’osare non è servito a nulla .” [Cesare Pettorelli Lalatta] 4 Premessa La prima guerra mondiale, la cosiddetta ‘grande guerra’ fu un conflitto per la prima volta combattuto in tutto il mondo, dalle savane dell’Africa ai fiumi di fango del fronte occidentale, dai deserti della palestina alle nevi perenni del fron- te alpino. Il fronte italiano si aprì il 24 maggio 1915, con vigorose offensive italiane sull’Isonzo, e un cauto avanzamento in Trentino. Nel giugno del 1916 venne lanciata la ‘spedizione punitiva’ austriaca contro l’ex alleato italiano, per costringerlo alla pace, ma l’offensiva venne fermata ap- pena prima di irrompere nella pianura veneta dall’altopiano dei Sette Comuni e prendere alle spalle il grosso del Regio Esercito Italiano. Lo sbilanciamento austroungarico fornì agli italiani un’ottima occasione: ma- novrando per linee interne, il Regio Esercito riuscì ad avere una superiorità note- vole sul carso goriziano e a conquistare, il 9 agosto 1916, il primo importante o- biettivo: la città di Gorizia. La durissima guerra continuò fino agli eventi di nostro interesse, nel settembre 1917, in un sanguinoso nulla di fatto. 5 6 Prologo Cappelletta di Spera, Carzano Valsugana, 17 settembre 1927 La lettera di Finzi annunciava l’appuntamento per mezzogiorno. Le celebrazioni ufficiali sarebbero sta- te solo l’indomani, ma i quattro vollero vedersi, in quel luogo simbolico, senza la pomposità delle cerimonie ufficiali. Ci sarebbero stati abbastanza discorsi, e abbastanza fanfare, il giorno dopo. Gli operai avevano già finito di montare il palco imbandierato del tricolore italiano, con al centro lo stemma di Casa Savoia, ed erano tornati alla loro trattoria preferita, a Borgo, a farsi un bicchiere di vino e un lauto pasto di mezzogiorno. Non c’era altro che disturbasse la vista, nulla di estraneo al paesaggio mon- tano della Valsugana. Anche la Cappelletta, ricostruita dopo la Grande Guerra, era armonizzata allo sfondo bucolico circostante. Come dieci anni prima, i due combattenti dell’ImperialRegio Esercito AustroUngarico attraversarono il torrente Maso sul ponticello del V/1° Fanteria Bosniaco. Nello stesso momento arrivarono due uomini dalla direzione di Spera, dove nel settembre 1917 erano schierati i fanti Italiani della brigata Trapani, reduci dalla battaglia della Bainsizza, sul fronte isontino. Il generale Cesare Pettorelli Lalatta alzò lo sguardo, vide le figure imponenti del Sergente Mleinek e del suo comandante e sorrise, agitando un braccio a mo’ di saluto. Pettorelli Lalatta era di origine trentina. Dovette, perciò, durante la Grande Guerra, usare uno pseudoni- mo, per evitare l’impiccagione che aspettava chi, suddito austriaco, combattesse contro la Duplice Monar- chia. L’incarico di Pettorelli Lalatta come ufficiale superiore, era di capo dell’Ufficio Informazioni della Prima Armata Italiana. Fu lui l’organizzatore della ‘Sorpresa di Carzano’, facendosi chiamare Cesare Finzi. A differenza del primo incontro con Mleinek e Pivko, Finzi, stavolta, non era solo. Lo accompagnava un ometto piccolo ed anziano, ma che si reggeva comunque impettito, mostrando che il vecchio fuoco della sua volontà era ben lungi dall’essere morente. «Pivko, Mleinek! Amici miei! Benvenuti!» Fu il saluto di Finzi. «Salve, salve maggiore ‘Inzif’» rispose pronto il Professor Ljudevik Pivko, stringendogli la mano. Tutti e quattro gli uomini erano in abiti civili, poco appariscenti. L’unica cosa che spiccava erano i fez rossi e rigidi, alla moda turca, che due di loro tenevano sottobrac- cio, con la mano sinistra vicina al corpo. Il professor Pivko, sloveno di Maribor, rimase veramente sorpreso quando riconobbe il compagno di Fin- zi. Questi, stringendogli la mano, lo guardò dritto negli occhi, con un lampo divertito, e scherzò: «Si ricorda di me, professor Pivko?» «Certo, Eccellenza! Come non potrei? Congratulazioni per la Sua nomina a Maresciallo D’Italia!» «Grazie, professore. Non ho ancora avuto occasione, in questi anni, di visitare il campo di battaglia. Vor- rebbero lei e Mleinek essere così gentili da farmi da guida, così come faceste col generale Pettorelli Lalatta dieci anni fa?» «Generale? Complimenti! Senz’altro, Eccellenza,» risposero i due slavi all’unisono. Anche l’accento du- ro di Mleinek, grazie ad anni di pratica, si sentiva a malapena. Riprese la parola Pivko, colui che comandava dieci anni prima il V/1° Bosniaco. «È una volta di più mio piacere e privilegio obbedire ai Suoi ordini!» I due uomini si rimisero in testa con cura il loro vecchio fez d’ordinanza. Pivko ordinò, quindi: «Mleinek, faccia strada a Sua Eccellenza Cadorna!» «Signorsì, signor Tenente!» Rispose l’ex sergente Mleinek. Non appena i quattro si incamminarono verso il borgo di Carzano, Pettorelli Lalatta si rivolse al Genera- lissimo cominciando a raccontare: «Sa, Eccellenza? La notte prima dell’azione ero già sul posto. Appena calata la luna, con pochi ardimen- tosi, fucile a tracolla e un fiasco per mano, abbiamo portato a Pivko la grappa drogata con l’oppio per narco- tizzare i soldati del suo battaglione estranei al complotto. «Che patema, quella notte! Ogni rumore, ogni ombra poteva essere indizio di agguato. Il percorso sem- brava non finire mai ...» 7 Parte 1: Carzano 8 I - Un’occasione da sfruttare Linee italiane di Quota 546, Strigno Valsugana. Notte del 12 luglio 1917. Un’ombra si muoveva in silenzio, nella terra di nessuno. Scivolando tra un cratere e un pezzo di muro diroccato, immobiliz- zandosi spesso per evitare il fascio dei riflettori che frugavano tra le linee, finalmente la figura trovò un varco nel filo spinato ita- liano e vi si infilò. Il sottotenente Montalbano Rosario, da Cefalù aveva appena lasciato il proprio alloggio. Stava per uscire in silenzio dalle pro- prie trincee per andare ad ispezionare i posti di vedetta avanzati, quando una grossa mano lo immobilizzò, tappandogli anche la bocca. Il graduato raccomandò l’anima al suo santo protettore, aspettandosi il letale tocco dell’acciaio sul suo collo nudo. Venne invece un sussurro, in cattivo italiano: «No temere, Taliano. Io ezzere parlamentario. Fete? Io qui pantiera pianka e mezzaccio da consegnare. Tu portare me, in grosse Eile a crozzo kommando, preco.» Al che si staccò da Rosario e si mise in attitudine di rispetto militare, con la mano al fez a mò di saluto. Si trattava di un omone massiccio, sulla trentina, con i gradi da sergente sulla divisa dell’esercito austroungarico. Dal fez che caratterizzava le truppe bosniache al servizio della Duplice Monarchia spuntava un ciuffo di capelli biondi. I suo lineamenti deno- tavano origini slave, e avevano una connotazione serena, come se il suo essere arrivato, non invitato, fino al comando avamposti della prima linea nemica fosse per lui la cosa più naturale del mondo. Appena liberato, Rosario estrasse la pistola e dette l’allarme: «Capoposto, presto!» L’austriaco venne subito circondato dal capoposto e da alcuni soldati subito accorsi. La sorpresa era stata grande, e andava ancora smaltita. Soprattutto da Rosario, alle sue prime esperienze di guerra. Come aveva fatto un austriaco a varcare inosservato la linea dei reticolati, delle vedette e arrivare, ospite inatteso, nientemeno che alla baracchetta del comando avamposti? I soldati accorsi stavano cercando di capire chi era costui: «Certo è una spia!» mormorò un fante. «No, un disertore,» sussurrò un altro. «Non vedi, è disarmato.» Intervenne il giovane sottotenente Montalbano: «Silenzio! Qualcuno di voi sa il tedesco?» «Nossignore. Tutti sappiamo le quattro parole più comuni, ‘Mani in alto’ e così via. Ma niente di più.» «Va bene, ci provo io.» Le poche reminiscenze di tedesco, scolastiche, di Montalbano non portarono a nulla. Il Ceco continuava a ripetere: «Grosse Eile, grosso comando, io parlamentario». I rifiuti a cedere il per lui preziosissimo plico furono, da parte di Mleinek, gentili ma assolutamente fermi. Montalbano stava per chiamare il proprio capitano, per provare a sbolognare quella patata bollente verso l’alto, gerarchica- mente parlando, quando venne preceduto dallo squillo del telefono da campo. Il tenentino chiese quindi istruzioni al suo comando di compagnia. «È giunto in linea un graduato austriaco. Ha con sè un plico, e non fa che ripetere: ‘Io essere parlamentario’. Cosa debbo far- ne?» A quel punto, Rosario sentì altre voci attraverso la linea telefonica, e lo sbattere di tacchi di chi si mette sull’attenti: «Buonasera, signor Maggiore. Ho il sottotenente Montalbano, della mia compagnia, in linea. Mi sta informando che è arrivato in linea un austriaco con un messaggio. Costui si qualifica come parlamentare. Montalbano chiedeva istruzioni.» «Bene, capitano, me lo passi.» «Ecco a Lei, signor Maggiore.» «Tenente Montalbano? Qui parla il Maggiore Costa, suo comandante di battaglione.» «Comandi, signor Maggiore.» «Che tipo è l’austriaco?» «È un bel ragazzo, molto rispettoso. Ha un viso sincero.» «È solo?» «Sissignore.» «E riguardo a questo plico? Se l’è fatto consegnare?» «Ho tentato di prenderlo, ma ha opposto resistenza. Pare debba consegnarlo solo ad un comando superiore.» «Va bene. Lo faccia accompagnare qui al comando di settore. Ma,» si affrettò ad aggiungere il Maggiore Costa, «occhio alle sorprese, mi raccomando! Non si sa mai...» «Comandi signor Maggiore.
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