Come I Samurai Divennero Robots, E Viceversa Di Fabrizio Modina

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Come I Samurai Divennero Robots, E Viceversa Di Fabrizio Modina Come i samurai divennero Robots, e viceversa di Fabrizio Modina L’editto isolazionista del 1635 conosciuto come “Sakoku”, che portò il Giappone ad una pressochè totale chiusura verso il resto del mondo per circa due secoli, condusse il paese, come unica direzione possibile, alla crescita di una identità culturale davvero originale, totalmente indipendente da influenze esterne. Lo shogunato Tokugawa, al governo dal 1603 al 1868, plasmò pertanto l’immaginario visivo ed ideologico dell’arcipelago, consegnando ai posteri un solido substrato iconico da esportare in seguito all’apertura delle porte verso i paesi stranieri. L’impatto sociale e culturale tra il blocco occidentale e la nazione del Sol Levante a metà dell’800 non fu troppo lontano dall’incontro tra civiltà aliene: di fatto ben pochi punti in comune erano riscontrabili tra le pesanti armature dei cavalieri medioevali e le decorative bardature dei samurai, tra i massicci fili di lama delle spade occidentali e le curvilinee katana, tra i deliri baroccheggianti dell’architettura europea e la purezza minimalistica del periodo Edo, tra i tocchi materici della pittura ad olio e la leggerezza della calligrafia. Soltanto un'irrefrenabile spinta verso il futuro e verso il progresso tecnologico sembrava allora legare le due culture: tuttavia, si trattava in realtà di un percorso che proseguiva su due vie parallele che probabilmente non hanno avuto modo di incontrarsi ancora oggi, tale è rapida l’evoluzione digitale e meccanica del Giappone, soprattutto se confrontata con quella europea. Questo tratto in comune si evince dal grande interesse che riscontrarono, ad Est e Ovest e già in epoche precedenti, le bambole meccaniche o automata, creazioni in legno e metallo, spesso abbigliate con vestiti in tessuto, in grado di compiere semplici o complessi movimenti, tramite intricati e delicatissimi meccanismi a molle e ingrannaggi, molto simili a quelli degli orologi. Già nel 1796 il volume Karakuri Zui (“Macchinari Illustrati”) esponeva i progetti per costruire una bambola in grado di servire il te (chahakobi ningyō), poi ricostruita negli anni '60 del Novecento utilizzando questi scritti e perfettamente funzionante. Gli esempi più sofististicati di queste macchine sospese tra arte e tecnologia vennero prodotti da Hisashige Tanaka agli inizi dell’800 e sono ancora oggi ammirati come oggetti virtualmente irriproducibili. I tristi eventi che conclusero la Seconda Guerra Mondiale costrinsero i nipponici a meditare sui risvolti nefasti che la tecnologia poteva portare, se utilizzata nel modo sbagliato o se condotta esasperatamente contro natura. Fu il primo cartone animato (da qui in poi denominati “anime”, contrazione della parola inglese “animation”) prodotto per la televisione di Stato nel 1963 Tetsuwan Atom (v. n. ...) a fare pace con la meccanica e a mostrare ancora una volta il lato positivo della scienza, ispirandosi apertamente alle karakuri automata tanto care alla tradizione. Creato da Osamu Tezuka (1928-1989), il più acclamato autore di manga, i fumetti giapponesi, Atom è un 1 robot bambino in grado di volare e dotato di super forza, costruito da uno scienziato per sostituire il figlio morto in un incidente stradale. Esportato in tutto il mondo con il nome di “Astroboy”, il roseo automa con i capelli a punta, divenne, ed è tutt’ora, una delle creature immaginarie più amate del pianeta, ambasciatore di messaggi semplici e positivi, simbolo di quell’equilibrio tra scienza ed ecologia fondato sull’etica. Nello stesso anno Mitsuteru Yokoyama (1934-2004) inventò Tetsujin 28 Go (v. n. ...) il precursore di tutti robots giganti: le sue forme semplici e naïf e la ripetitività della trama non inficiarono sul successo annunciato di questa creatura di metallo (il suo nome vuole appunto dire “uomo di ferro numero 28”), guidata a distanza da un bambino tramite un telecomando e lanciato alla difesa del Giappone sotto gli attacchi di scienziati pazzi, mostri meccanici, mafia locale e criminalità varia. Così come Tezuka ammise di essere stato influenzato da Pinocchio per Atom, Yokoyama utilizzò la leggenda del Golem di Praga per immaginare le storie di Tetsujin 28, rendendo evidente la curiosità e l’interesse degli artisti nipponici per le opere occidentali. Ma fu la fervida immaginazione di Go Nagai, nel 1972 a gettare in un unico calderone i sogni ed i timori dei giapponesi per poi estrarne un unico paladino della patria, chiaramente ispirato ai valori degli antichi samurai ma al tempo stesso visivamente influenzato dai cavalieri occidentali: Mazinger Z (v. nn. ...). Costruito con l’indistruttibile “Lega Z”, Mazinger dalla sua base alle pendici del sacro monte Fuji difende il paese dal megalomane Doctor Hell utilizzando armi spettacolari che influenzarono il sense of wonder di una intera generazione, primi tra tutti i suoi famosi “Rocket Punch”, i pugni a razzo. La vera novità della serie si doveva però ricercare nel rapporto tra l’uomo e la macchina: per la prima volta il robot veniva pilotato dall’interno, come un sofisticato veicolo antropomorfo, mosso da leve, pulsanti, pedali e cloche. E’ dunque il tocco umano a dare il soffio di vita all’automa, di per sé privo di valori, morale o scopo, quindi totalmente assoggettato alle decisioni di chi vorrà utilizzarlo per fare del bene o del male. Il cerchio si chiudeva in maniera evidente, ricordando i bombardamenti del 1945 con le distruzioni alle città arrecate dai mostri meccanici del Doctor Hell, esorcizzando lo spettro della bomba atomica nelle fragorose esplosioni dei vinti per mano di Mazinger Z, il fautore del grande riscatto. La popolarità di Mazinger Z influì enormemente sulla cultura popolare nipponica dell’inizio dei ’70, disperatamente alla ricerca di un emblema forte e incorruttibile, che riportasse, anche se solo in maniera immaginaria, il Paese al centro del mondo, roccaforte di un know-how tecnologico irraggiungibile dagli stranieri (gaijin) e depositario di valori inossidabili volti al sacrificio e alla lotta nell’interesse della comunità. Mazinger Z, determinò anche un passo in avanti dell’ingegneria produttiva del giocattolo; infatti la Popy, depositaria dei diritti, inventò per questo personaggio un nuovo format: un robot interamente realizzato in zama, una lega metallica economica e resistente, con pugni sparanti tramite meccanismo a molla. Era nato il primo Chogōkin (“Super Lega”), che spazzò via dal mercato gli ormai obsoleti giocattoli in latta e vinile. Se con il chogōkin la Popy aveva interpretato al meglio le forme metalliche di Mazinger, ma non certo la stazza, riuscì in questo con il secondo tentativo, i Jumbo Machinder, robots in plastica antiurto alti circa 60 cm e dal design essenziale ed imponente, attualmente rarissimi e per questo tra i più desiderati dai collezionisti. Il terzo capitolo dell’immancabile saga di Mazinger, UFO Robot Grendizer (v. n. ...) datato 1975 fu il primo anime a tema robotico ad approdare in Europa, con la trasmissione prima in Francia e poi in Italia nel 1978 rititolato Atlas UFO Robot. Come un fulmine a ciel sereno, Grendizer (Goldrake nella versione italiana) ebbe lo stesso effetto esplosivo sul pubblico del suo predecessore in terra natìa (che giunse nel nostro paese due anni dopo), sconvolgendo l’audience con i suoi colori saturi, l’ipercineticità dell’azione, la drammaticità del plot ed il fascino esotico dei protagonisti. In un attimo i cartoni animati di Hanna & Barbera e Walt Disney apparvero stanchi, ingenui ed un po’ fasulli. Dopo quasi quattro decenni, si parla ancora di una “Goldrake generation” che si emancipò 2 dalla precedente esattamente come questa aveva utilizzato i Beatles per creare una propria identità. Alabarde spaziali contro il Sgt. Pepper. Per almeno un decennio fu chiaro all’industria dell’intrattenimento nipponica che il filone giusto da seguire era quello degli ormai proclamati “Super Robots” e oltre alla storica Toei Doga, anche gli altri studi di animazione come Nippon Animation, Tokyo Movie Shinsha, Tatsunoko Pro. e la neonata Nippon Sunrise si dedicarono al tema, supportati dai produttori di giocattoli che diventarono i main sponsors delle serie. Nonostante ciò, in una diversificazione di mercato praticamente a 360° ed in un contesto autoriale particolarmente prolifico, continuarono a coesistere e prosperare molti altri generi come quello sportivo (capeggiato dal lottatore Tiger Mask, v. n. ..) e le soap opere drammatico/sentimentali per il pubblico femminile. Non è infatti da meno l’iperbole tematica che ruota intorno alla donna dei manga e anime, slegata già dagli anni ’70 dal ruolo passivo imposto dai cliché americani per farsi strada in settori disparati che vanno dalla fantascienza, alla commedia, all’erotismo sempre rimanendo figure chiave nel contesto della narrazione. Ne sono un esempio le creature esili ed evanescenti che solcano lo spazio infinito dell’universo di Leiji Matsumoto (1938-), artista malinconico e sofisticato: la viaggiatrice Maetel di Ginga Tetsudo 999 (“Galaxy Express”, v. n. ...), l’indomita piratessa Emeraldas (v. n. ..), l’ufficiale Yuki Mori (v. n. ..) e la regina Starsha (v. n. ..), madonna celestiale dalla quale dipende il destino stesso della Terra nell’epopea di Uchū Senkan Yamato. Se in Chōjiku Yōsai Macross – Ai oboete imasuka (v. n. ..) è la canzone della pop star Lynn Minmay a decidere le sorti di una guerra intergalattica, nel mitologico Saint Seiya (v. n. ..) di Masami Kurumada (1953-), Saori Kido ascende addirittura al rango di divinità, reincarnandosi nella dea Athena (v. n. ..). Nasce in questi anni anche il genere “majokko” popolato di lolite ammicanti dai poteri magici come Creamy Mami (v. n. ..) e che troverà la sua sublimazione negli anni ’90 in Sailor Moon (v. n. ..). Ci pensarono autori come il pluridecorato Go Nagai (1945-) e Monkey Punch a ribaltare sul lato sexy e spregiudicato alcune figure femminili che della geisha accondiscendente hanno ben poco a che fare, creando il primo Cutie Honey (v. n. ..) androide mozzafiato che rimane completamente nuda quando muta in altre versioni di se stessa, ed il secondo, Fujiko Mine (v. n. ..), amante e antagonista dalle curve pericolose del ladro gentiluomo Lupin III.
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