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COLLANA “NUOVE PROPOSTE”

LUIGI DE ROSA

L’Intreccio

Copyright  2009 Seneca Edizioni.

Design copertina  2009 Ana Edelmira Flavia Lobo Bernal

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Seneca Edizioni Ufficio diritto d’autore Strada del Drosso, 22 10135 Torino Telefono 011.3273958 Telefax 011.37131194

Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti od esistenti, è da considerarsi puramente casuale.

ISBN: 978-88-6122-160-4

Collana Nuove Proposte

Stampato in Italia http://www.senecaedizioni.

A Flavia Ana Edelmira.

INDICE

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* Cara Flavia, vi prego di perdonarmi per le volte che vi ho assillato con domande sulla vostra , sui modi di vita nelle vostre città e sui motivi che hanno tessuto l’attuale stato di fatti in un luogo dove la favola si fa reale e la mente si dilata, esaltata dai colori incantevoli delle terre, dai fiumi accattivanti e pescosi, dalle misteriose foreste, dalla sua gente ispano-americana, ironica e di buona volontà. Ho pre- so, senza rimorsi, degli spunti da episodi accaduti a voi e alle vostre famiglie, li ho lievitati e artefatti, assommati e contratti, e alla fine essi si sono fusi in modo naturale con la trama della novella. Noterete, durante la lettura, che si tratta di pura fantasia e che nessuno dei miei personaggi esiste nella vita reale. Vi occorrerà di riconoscere tipi dell’immaginario collettivo colombiano, o comparse secondarie, idea- lizzati nel folclore, necessari per raggiungere il culmine dell’intreccio. I nomi dei fiumi, degli animali, delle piante, dei luoghi, delle tribù, li appresi con voi. Spero che passeremo insieme altre belle giornate nel- la pianura orientale colombiana, habitat naturale delle mandrie di bianchi zebù; o sulla costa caraibica, nel regno del carnevale e delle ricche piratesche reliquie. Il desiderio di rimanere con voi, più che dagli impegni della vita, costituiscono l’ostacolo alla felicità. L’amore, si sa, è da temere più che tutti i naufragi del mondo messi assieme. Vostro L. d. R.

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Bella mattinata su . L’ago del barometro è fisso e l’umidità normale. Splende il Sole. Luccica il mare. Una bianca nuvola, alta quanto un fungo atomico, si allarga sopra l’orizzonte. Nell’aria equa- toriale, intorno al porto, volano nere rondini di mare e gabbiani di scogliera. Le possenti gru dei moli, simili a cigni di metallo, stanno ultimando di caricare un mercantile battente bandiera colombiana, con equipaggio misto, con una maggioranza di latini. Il Karolina par- tirà tra due giorni. È giunto a Panama dal Giappone, dopo avere fatto per metà il giro del mondo e una breve sosta a Honolulu. La sua prossima destinazione sarà , in Colombia. Ling Lang, il telegrafista cinese con l’aria depressa, smette di fissa- re attraverso l’oblò la frenetica banchina. Il capitano Jean Paul Carrera gli ha ordinato di restare accanto alla radio. Il cinese sarà anche l’ultimo a scendere a terra per andare all’unica notte di baldoria pro- grammata dagli altri uomini dell’equipaggio. Una stanca noia riempie i suoi occhi di lucertola. L’acqua salata dell’ultima lunga navigazione gli ha lessato lo spirito. Si rimprovera di non aver comprato sulla rotta del ritorno, a Singapore, polvere di drago: adesso gli esalterebbe l’animo. Con un tac del lucente tagliaunghie, Ling Lang spezza dal delicato mignolo una scheggia di unghia: una minima falce di Luna. Un ticchettio lo scuote. Sta arrivando un messaggio in codice morse. La radio, a bordo, è un elemento necessario: è l’udito. Afferra una matita. Traccia i segnali sonori.”Ti ta ta - ta ti”. Ossia: punto, linea, linea, pausa, linea, punto. Una sfilza. Vocali e consonanti. Non ne perde una. L’orientale - età indecifrabile sotto la grossa cuffia che tie- ne sulle orecchie a sventola - ha un udito allenato e instancabile. Gli emisferi del suo cervello sono addomesticati dal magnetismo che rimbalza nel piccolo regno dove, al posto di alambicchi e beccucci, vi sono fusibili e apparecchi hertziani. Scrive in chiaro la sequela sonora, quasi affannata, di toni lunghi e corti. La mano di Ling Lang va sicu- ra: non c’è equivoco quando dall’etere, a cavallo di un’invisibile onda

lunga, portante, giungono vocali e consonanti. Magicamente, compo- ne il messaggio per Jean Paul. Lo spagnolo non è la sua lingua, però lo scrive e lo mastica facendosi capire. Poco male: se parlasse in cine- se di Hong Kong, nessuno lo capirebbe. Finita la trasmissione, si alza, esce dalla sala radio e varca un portello tondo per salire in alto, un ponte più sopra, fino alla plancia, dove starà Jean Paul. A bordo nessuno conosce il colore dei denti di Ling Lang: non ri- de mai. Non lo fece neppure la volta che nella dogana di Aruba, durante una sosta del Karolina, lo confusero con un delegato di una commissione cinese per gli scambi commerciali. Ling Lang, allora, ebbe un attimo di ossequioso fastidio. Nell’imbarazzante situazione, accettò l’equivoco: aveva nascosto, nella base scampanata dei panta- loni, due bottiglie di liquore da contrabbandare. - Per lei comandante - annuncia consegnando al giovane Carrera il celere messaggio reso leggibile. - Riservato. - Jean Paul fissa con gli sguardi azzurri il minuscolo viso impenetra- bile. Inutile indagarvi. Ling Lang ha un passaporto ammuffito, colmo di strani segni e visti. Persino i suoi boxer bianchi (l’ha detto il mozzo addetto alla lavanderia) hanno un timbro cinese sulla parte anteriore sinistra: un’ideografia di buona sorte. Prendendo il foglio, il capitano gli pone, con voce calda, la domanda solita: - Buone notizie o cattive, Lang? - - Dipende. L’armatore si fa vivo per rompere scatole. Ma oggi no. Nessuna lamentela. Forse buone prospettive. - Sbottona la giacca blu sulle cui maniche sono ricuciti i galloni di capitano, tre strisce sormontate da un occhiello. Se l’armatore vorrà una risposta, la detterà subito. Le rapide comunicazioni di servizio avvengono via telegrafo: ne resta traccia e ciò zittisce tutti in caso di contrasti.”La nave affonda, ma la carta resta”. Legge il messaggio. Il cinese prepara un mozzicone di matita. Pronto a scrivere la ri- sposta. Interpreta l’espressione del capitano. Con arguzia ha scoperto che la sua faccia non sa tacere le emozioni: se il messaggio che sta leggendo contiene veleno, corrugherà le sopracciglia; se porta gioia, la

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bocca si allargherà, simile a quella di un drago del capodanno in Hong Kong. Il viso di Jean Paul s’illumina. Le labbra si distendono. - Lang invia questo: grazie per avere accettato le mie dimissioni. All’arrivo a Barranquilla consegnerò il Karolina al nuovo capitano, signor Krapfen. Vi prego appoggiare il premio di liquidazione presso l’agente navale Rodrigo Navarro, con sede a Puerto Colombia… Lang, aggiungi i saluti e mandalo prima possibile. - - Faccio miei auguri, signore. - - Discrezione, Lang. Almeno fin quando non saremo in vista della costa colombiana. - - Silenzioso come tomba di porcellana antica. - Jean Paul sbarcherà entro pochi giorni. Ha seguito l’ombra del Karolina per alcuni anni. Presto, giungendo in prossimità delle ban- chine fluviali di Barranquilla vedrà prima la città, poi lo sbocco del Rio Grande della Maddalena, un fiume profondo, un’allucinazione d’acqua, e infine, sulle sponde ricoperte dalla vegetazione, il quartiere dei neri di Las Flores: un manto di casupole spontanee che ha circon- dato senza forma il porto fluviale. L’oceano gli piaceva fin da ragazzo, ma la necessità di mettere ordine nei registri dell’animo l’ha sollecitato a riprendere terra. Ha una piantagione da avviare, comprata a un’asta. La vita è una rappresentazione troppo importante, che conduce al cambio di pelle in modo costruttivo. Il telegrafista esce dalla plancia. Nel percorso di ritorno alla sala radio incontra il nostromo (detestabile) che lo blocca con la punta di uno spazzolino da denti. L’empio lo spinge sotto la scaletta a pioli che scende dall’alto. - Altre scocciature, Lang? - domanda l’uomo masticando tabacco nero di Kingston. - Racconta tutto al tuo nostromo. - - Non so - risponde il cinese valutando una via di fuga. - Se vieni dalla plancia, allora sono seccature - lo pungola l’altro con lo spazzolino dal lato della scapola sinistra. - Non posso parlare - e Lang sguscia da un lato. - Non vuoi rispondermi. Vero, cinesino? - insiste il bruto infilando lo spazzolino nella tasca posteriore dei jeans.

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- Il dovere mi vieta di esprimermi - afferma il cinese schivando con mezza piroetta il braccio steso dall’altro per afferrarlo al collo. - Chi ti dà il rum per il contrabbando? Io, no? E tu fai il prezioso. - - La notizia è riservata a persone per bene - dice Lang saltando di mezzo metro per afferrare le alette di un baglio che scorre per traver- so sul soffitto e per tutta la larghezza della nave, da un fianco all’altro. - Spara - dice il nostromo intuendo la mossa e tuffandosi ad affer- rare i piedi del telegrafista prima che questi sparisca nell’aria. - Il comandante sbarca - cede Ling Lang. - A Puerto Colombia la- scerà il Karolina. - Il nostromo sbarra gli occhi viperini. - No. Possibile che si sia già stancato di noi? - - Non so - ripete Lang liberandosi dalla presa con una pedata. - Chi lo sostituisce? - - Tedesco. Krap, o cosa simile. - Il nostromo si pulisce la lingua col palmo della mano callosa. - Dove l’hanno pescato? - - Non so. Capitano Callela lascia la nave. - - Carrera, Lang. Quando ti si scioglierà la lingua? - Il nostromo gira sui tacchi e va al quadrato, laddove si riunisce l’equipaggio nei momenti liberi dalle pratiche di bordo. La novità non gli piace. Un nuovo capitano è un’incognita e prima di capire se la sua maniera di navigare è sicura, in genere, ci vogliono mesi. Bisogna co- noscersi a fondo per affrontare i mesi di mare. I malintesi rendono dura la navigazione e ci vuole poco a provocare una lite. - Carrera se ne va - annuncia laconico mentre abbassa il volume del televisore. I marittimi presenti gli prestano attenzione. - Ci mandano un tedesco - informa lanciando uno sputo fuori dal finestrino ovale. - Non ci capiremo. - - Parlerà spagnolo - azzarda uno.

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- Chi lo sa… Giuro che se non parla chiaro, se non lo capirò, lo fi- lerò in mare. - Si rivolge ai presenti quasi gridando: - Chi scende a terra? È o non è l’ultimo giorno a Panama? - Alcuni si alzano pigri dai tavoli, per seguirlo in città. I marinai del Karolina non hanno interesse alle visite guidate. A Panama, durante le ultime ore di sosta, sono perseguitati dalla man- canza di tempo sufficiente a scuotergli l’anima sonnolenta come gli oggetti sbattuti a bordo qua e là dai colpi di mare. Ormai a conoscen- za dello sbarco del capitano, si tassano, assecondando il parere del nostromo, emanante una zoppicante umanità che li fa sentire uomini di carne rossa, non in salamoia. Racimolano duecento dollari. - Fate conto sia un dazio per sdoganare - li avvisa il brutto ceffo. Decidono di comprare per Jean Paul Carrera, - tutti d’accordo - un dono che renderà l’addio più roseo. Ciò non è loro imposto dalle ma- niere navali, pratiche davvero crude, che di buon tono non hanno nulla. Sul Karolina striscia una latente eloquenza, un’insolenza della coscienza, che suggerisce a quegli uomini che il loro capitano ha meri- tato una precisa stima: con lui non hanno speronato scogli, non sono incappati in subdoli tifoni, o nelle onde alte trenta metri o di più, che compaiono d’improvviso e cadono sulla nave, pesanti cento tonnella- te. Del nuovo comandante tedesco che s’imbarcherà al loro arrivo a Barranquilla, non sanno nulla e sono sospettosi. Lo giudicheranno alla prima tempesta. Ogni marinaio, vecchio o giovane, in punto asse- gnatogli dal destino, ha il suo ciclone. La sera, nella zona del vecchio mercato pubblico, in un locale tappezzato con foto sbiadite di dive americane, saturo di fumo, la ciurma trova un’allegria stramba, estorta con la complicità di un gruppo musicale locale che suona rumba, senza lasciare dietro merengue, cumbia e anche qualche bolero per gli innamora- ti. L’ombra delle traversate solca i volti non meno che le anime. Vinta la stanchezza, i marinai più svelti vanno in cordata con mulatte locali, (distratte e disponibili ad accettare carezze, al pari delle gatte domesti- che) e si aiutano con ardente acqua di canna, per resistere alla voglia di saltare loro addosso. È duro non cadere con la prima donnetta che strizza l’occhio marcato di trucco.

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La scelta del dono si forgia alla quarta bottiglia, tra una cumbia e un sigaro di contrabbando, meraviglie che ossigenano i marittimi. Per il capitano vogliono comprare una chitarra, più piccola di quelle classi- che: la cassa poco appariscente, a forma di un otto ristretto, di legno scelto e, particolare di rilievo, le corde, in tutto, quattro. Un cuatro, appunto. Docile, adatto al carattere riservato del capitano e alla sua mano sinistra, al cui anulare, per una fatale concordanza, manca una falange. “Chissà dove la perse.” La domanda si perde sul collo di una nuova bottiglia di liquore. Il nostromo elogia il manipolo perché, no- nostante l’alcol, mostra un tatto cremoso, cacciato per forza. - Siete degni diavoli - sputa con l’alito marcio, - figli di cocotte. Un vostro regalo il capitano Carrera non se lo sogna. Domani, nel distac- co, ve ne accorgerete. - Una mulatta accetta l’incarico di forzare uno dei musici di colore affinché venda la sua chitarrina. La donna, ridendo nella penombra che la fa sembrare bella (ha denti di cristallo e bocca di sirena) ripete la parola cuatro, mimando, con le braccia color caffè , l’abbraccio dello strumento. Conclude la trattativa con il chitarrista. Fa rinascere nei bruschi marinai pensieri che la navigazione ha assopito al punto che i fogli delle riviste porno, circolanti a bordo, sono ridotti a carta per pulire vetri e specchi o per assorbire umidità dagli armadietti. Consegna al nostromo la chitarrina e il rozzo si eccita. Estrae un pet- tine sdentato dai jeans e lo usa per lisciare i capelli. La camicia aperta mostra il vello del torace e, sotto, il tatuaggio di una tetta rotonda. - Bella mora, il capitano ha quattro dita perché il quinto l’ha butta- to in mare. Nessuno sa quando lo perse. Il cuatro va bene. Brava. Chiedimi tutto… Cosa? La testa del Carrera su un piatto? Non è mica San Giovanni. Non parli sul serio. - L’astinenza fa brutti scherzi. Il nostromo straluna. La afferra. - Viva la mola - echeggia Ling Lang, telegrafista mezzo brillo. - La mora, Lang. Mora - lo corregge il nostromo, acido. Bevono l’ultimo goccio con foga: i denti mordono i bicchieri. In- fine, urtano spiacevolmente il limite del locale che con il passare della notte perde luce e geometria serrandoli in un cerchio che li rotola

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verso l’alba. Pagano alle mulatte le svelte prestazioni amorose, appli- cate a guisa d’inutili impacchi sul loro spirito: godere da dannati è il peggior modo per ammazzare senza gioia l’amore. Gli resta un vi- schio amaro in bocca e le anime ogni volta meno dilatate, per la paura della sifilide o del castrante AIDS. Alle tre del mattino, dopo una me- ritata terrena sazietà, il gruppo rientra portando a bordo il cuatro accordato e, sui volti, tracce ovali di rossetto. Il Karolina ha salpato, macchine a mezza forza, sulla rotta calcola- ta da Panama per Barranquilla fluviale, a nord della Colombia. Qualcuno è deluso dal Sole nascente che compare in una padella di sangue da sotto l’orizzonte. L’equipaggio ha la buona coscienza, pri- ma di cozzare i giornalieri malumori navali, di consegnare al capitano il regalo nell’opportuna cornice: acqua salata e occhi tristi. - Mi avete commosso. - Jean Paul prova un breve guasto allo sto- maco. - Quattro dita contro un cuatro di quattro corde. Almeno, sapete contare. - Li punzecchia provocatorio con un sorriso, fissando i gabbiani che inseguono la scia del Karolina. Mostra l’anulare vedovo di una falange. - La persi di notte, durante un rimorchio - aggiunge appagando la loro infantile curiosità. - È tutto registrato nel fascicolo del Caso 416, al dipartimento navale. Non fidatevi dei cavi troppo tesi. Possono spezzarsi e rompere ciò che incontrano. L’equipaggio (sobrio per quella volta) sfodera il silenzio catramoso che accompagna le situazioni insolite: ad esempio l’affondamento irrevocabile, in viaggio per l’inferno, magari senza neppure la consola- toria idea di essere ricordati delle vedove condannate a rinnovare la verginità. Quando accade una fatalità, esse lottano per l’assicurazione, che l’armatore - se lo porti il tetano - avrà stipulato, in loro favore, per un colpo della malasorte. Esse ignorano che i dispersi nel pelago divengono particelle di oceano luminescente. Esse mangeranno, se la pensione ritardasse, baccalà, meno caro della carne, anche se più sala- to. Arriva a Barranquilla da Lisbona, una volta ogni mese, pressato in fusti di plastica. Bacalau e si cucina con le patate dopo avergli tolto il sale con copiosi bagni di acqua. Conserva un sapore forte. - Ho avuto l’onore di lavorare con voi - li ringrazia Jean Paul.

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Vita di bordo... raschiata, amara, imprevedibile. Vita bagnata dalle onde, dove certi giorni il commovente linguaggio di un fatto, aggiun- to a un gesto necessario - restare ore intere accanto a un pistone per raffreddargli la testa con un getto d’acqua fino all’arrivo in porto - crea un’insolita massa umana in cui, a premere anime, n’esce uno strano umore che è assieme felicità e dolore, voglia di scappare, pro- posito balzano di mettere via tanti soldi per impressionare una donna consegnandole, al ritorno, un diamante, un pegno d’amore, una prova d’essere riusciti nella lotta della vita. Jean Paul li sprona: - Vi lascio con la nave. Godetevela e cercate di non tradire le per- sone che vi aspettano. Adesso al lavoro. - Il capitano non sa se ricorderà le facce barbute, le bocche pronte a brontolare o a vomitare per il mare mosso. Certo, una volta a casa, scarterà ogni ipotesi di ritorno all’oceano. S’imporrà la terraferma, (un tram, una bolletta telefonica, un affitto da pagare), e gli autentici falsi che ingannano un uomo non abituato al traffico, allo smog, alla folla. - Buona fortuna a te Lang. Meno male che ti avevo detto di non spargere notizie riservate - dice incontrando il cinese in coperta. - Il nostromo è rude. Ha voluto la mia onorevole confessione. Buon anno a lei e una lunga vita con tanto amore - osa l’orientale. - Che anno sarà per i cinesi? - - Sotto il segno della scimmia. Molta fortuna. - Jean Paul discende al quadrato riservato all’equipaggio e chiede a un mozzo, un artista, di tatuargli sul braccio un timone difeso da un serpentello, simbolo perpetuante, sulle navi umanizzate, la fratellanza navale di là dal colore della pelle e delle convinzioni religiose. L’unica materia che il serpente acquatico non mette d’accordo è la politica. Si evita di parlarne, potrebbe scapparci una coltellata. Si discute di don- ne, di denaro, di truffe, di sogni. Questi ultimi in pochi li attueranno: si dissolvono appena ripartiti per l’oceano, più rapidi del fumo grigio e appestante che esce dalla ciminiera. - Fallo che sembri vivo - gli ordina. - Capitano, sembrerà pronto a schizzare in avanti. -

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Il Karolina è sostenuto da potenti motori diesel. Le eliche danno uno spintone che mette la nave a fendere acqua. Va a tutta forza. Un maestoso baffo bianco si alza dinanzi alla prua. La scia bianca dietro la poppa si traccia retta e frizzante. Il golfo del Darien è una sinfonia di tinte lucide, dal pastello all’acquaforte. Una mattina appare la costa colombiana. Jean Paul chiede a Ling Lang di prendere contatto l’ente dei piloti portuali di Barranquilla fluviale, per essere guidato alle banchine del Rio Maddalena. Al con- trario, i piloti informano che all’arrivo la nave sarà rimorchiata alla vecchia banchina marittima di Puerto Colombia. A Jean Paul la proposta non piace. Il molo è proteso verso l’oceano, esposto al vento. Gli spiegano che la foce del fiume Madda- lena presenta banchi di sabbia pericolosi. Difficile entrarvi. Barranquilla fluviale, per adesso, non è utilizzabile. Il capitano ascolta perplesso e batte le palpebre. Riflette. “Sono appena arrivato in patria e già m’incontro con il tipico disordine tropicale.” Se la sua coscienza comunica con la mente, il suo sguardo si fa più profondo e il colore azzurro degli occhi diviene intenso. Gli uomini maturi formano idee logiche, correggono le distorsioni. “Andate al Diavolo!” L’ente aggiunge che gli addetti alle draghe lavorano a singhiozzo, a dispetto dello sbocciare dei banchi sabbiosi che, aiutati dal vento, il noioso Vendaval, si gonfiano e fanno crescere brulli isolotti. Si cala una scaletta. Il motoscafo dell’ente portuale si appoggia alla fiancata destra della nave che ha ridotto la velocità: il pilota anziano sale fino alla plancia per assumerne la guida. - Benvenuto - lo accoglie Jean Paul. - Benvenuto lei, dopo tanto - augura l’altro offrendogli il giornale locale. - Ecco il Diario del Promontorio. Lo legga mentre conduco il Karolina all’approdo. C’è sciopero e le operazioni di sbarco saranno più lunghe, con poca gente. Il capitano lascia che si affidi il timone all’esperienza del pilota. Si appoggia nella luce abbagliante che entra dai vetri. Il suo sguardo cade sui titoli della prima pagina che pare trasparente. “El Diario, 22 dicembre. Un articolo di Rafael Santiago.

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Il sangue colombiano evapora sotto il Sole mentre si perde il sen- so della pietà di accompagnare al cimitero gli assassinati. La nostra posizione geografica, ubicata entro la zona torrida, e le variazioni al- timetriche, la scarsa oscillazione termica insistente sul territorio, l’alternanza ciclica di pioggia e secco, la composizione e la struttura fisica del suolo, fanno crescere rigogliosa la . Pianta sacra in pas- sato, oggi suscita cupida curiosità nel presente. Era usata dai discendenti degli dei, i capi della stirpe. Neve. Preferisco immaginarlo con questo sinonimo, il prodotto della pianta della coca. Gli antichi codici precolombiani dicono dell’intrinseca sacralità della pianta il cui contatto con ordinari sudditi non era permesso, essendo destinata alle divinità. Alle nostre latitudini la temperatura è alta, pertanto la vera neve non si è mai veduta. Quella chimica sì. L’unico riflesso è la non- curanza che si accompagna allo scioglimento della volontà, una qualità, questa, che sotto l’agire della droga svanisce come la brina gelata che gocciola dai tetti. L’effetto della neve crea assurdi caleido- scopi. In essi, passato, presente, futuro diventano l’illusione di una morte senza epoca. Mi rende triste la durezza del mondo che giudica le nostre città. I mali del mondo non si aggiustano da soli. Non esiste nessuna forza esterna al pianeta, lunare, che ci sostenga nello spazio e ci renda innocenti. La richiesta mondiale di neve è responsabile della situazione che stiamo vivendo. La coca non cade dal cielo. Esige ucci- sioni. La coca non si pianterà mai in modo libero nelle piantagioni: essa non arricchirebbe. Le false illusioni smuovono le lacrime tardive e inutili, comuni a quelli che rimpiangono persone perdute, dimenti- cate o non considerate. L’uscita dal gorgo, per noi colombiani, sarà dura e improbabile. Che cosa accadrà nel caldo regno della neve bian- ca se molti rifiuteranno di guardare?” Jean Paul richiude il giornale. La vibrazione del Karolina lo avver- te che l’elica trasversale è entrata in funzione. Un rimescolio spumoso si forma mentre la fiancata accosta la consunta banchina marittima di Puerto Colombia e batte i respingenti di gomma appesi alle bitte di ferro. Il tremito dello scafo cessa. Le cime di prora e di poppa si ten- dono verso il molo. La nave è ormeggiata.

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- Comandante, le restituisco il Karolina - dice il pilota levando le mani dalle leve dei motori. Poi, con un sorriso carnoso, aggiunge: - Anche questa volta non abbiamo rotto nulla contro il fondale. - - Certo, sarebbe da dragare l’ingresso del fiume Maddalena, per creare l’accesso alle banchine fluviali - dice Jean Paul. - Questo vec- chio porto è scomodo per il vento. - - Verranno a rimorchiarvi, in pochi giorni, per Barranquilla fluvia- le. L’ente portuale ha dato assicurazioni. Quanto durerà lo sciopero? Non sarà eterno - suppone il mulatto facendo scintillare gli occhietti, senza addurre giustificazioni. - La draga Bolivar è capace di raspare un continente di sabbia. Non se la prenda. Vedrà le feste degli abitan- ti. Vi assaliranno con cento regali. - - Presenterò una segnalazione al dipartimento navale. Forse da- ranno un’accelerata ai lavori di scavo. Non crede? - - Chi, quelli? Staranno preparandosi per i bagordi di fine anno. - - Mi sa dire quale ufficiale si trova a capo del demanio? - - Un moro presuntuoso col naso piatto. Nelsen. - Al sentire quel nome, il capitano prova una sensazione sgradevole, quasi il gusto muffoso che si prova passando con un sorso di vino stantio. Quando era militare, visse, con quel tipo, una brutta esperien- za: un’inchiesta che ha preferito scordare. Non ha, oggi, rancori. - Moro o verde fa lo stesso - dice Jean Paul creando delle pieghe intorno agli occhi. - Invierò delle note di biasimo. - - All’ente c’è la sua foto appesa al muro. Ne mandano una dal di- partimento ogni volta che cambia il gran capo e la sua squadra. Mi pare che sia ammiraglio. A me piace di più il calendario pubblicitario del caffè. Vedesse le scene. Che figliole! - esclama scendendo dalla nave. - Vorrei vederle in carne e ossa mentre mi offrono il caffè. - Gli abitanti della località portuale, in maggioranza neri, da molto non vedono ormeggiare navi innanzi a Puerto Colombia che, ridotti gli introiti, si deteriora sotto gli assalti dell’oceano e dell’incuria. Era meta preferita dei bastimenti provenienti dall’Europa. All’epoca dello schiavismo, giungevano dall’Africa gli schiavi per essere venduti ai padroni delle piantagioni o delle miniere di sale o di smeraldi. La gen-

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te, oggi, culla promesse di un recupero dello storico approdo per fini turistici: gli anni trascorrono senza che nulla di nuovo accada. Le nere di Las Flores preparano tutto l’anno gli abiti per la sfilata del carnevale, nel tentativo di dimenticare le necessità giornaliere. Il giovedì grasso andranno a ballare cumbia lungo l’Avenida 44, parallela al mare. I mariti, di solito, pescano nell’oceano, scordandosi di loro. Se non hanno la barca, lanciano esplosivo e poi vanno in acqua per raccogliere quello che risale a galla, pesci grandi e piccoli. I ragazzini si tuffano nelle onde che rotolano lungo le spiagge, ai lati dello sboc- co del fiume, ignorando i richiami dei genitori ed evitando la precarietà delle scuole, sapendo che un giorno seguirà al successivo ed anche a loro toccherà trovarsi una barca onesta e andare nel golfo, allontanando a colpi di remi i cormorani del promontorio che si avvi- cinano alla rete per pasteggiare senza fatica. Quel mattino la comparsa inaspettata del Karolina, con le elevate sovrastrutture, scuote la fantasia dei residenti che cominciano a radu- narsi nella piazzetta antistante al tarlato casotto della storica umida dogana, che ha le porte sigillate da anni. Le donne hanno qualcosa da vendere ai marinai e questi hanno voglia di comprare frutta fresca e acqua di cocco. Cercano di riprendere le vitamine perse. La nave è attraccata, perpendicolare alla spiaggia ed esposta alle voglie del vento. Jean Paul ha l’impressione che la città, le case, le strade, oscillino. “Un fenomeno mentale, dovuto alla lunga naviga- zione.” Verifica che le cime, passate al collo delle solide bitte di ferro, restino tese. Richiama in plancia Ling Lang e gli detta: - Telegramma all’armatore: obbligato dalla presenza di banchi sabbiosi alla foce del Rio Maddalena, per la manovra di ormeggio ho richiesto la presenza a bordo del pilota portuale. Non ho voluto ri- schiare di toccare il fondale. Richiedo autorizzazione per il pagamento della tariffa al cambio odierno del dollaro. - - A quanto sta oggi, Lang? - - La radio ha detto duemila, al cambio ufficiale, capitano - fa nota- re il cinese. - Il cambio nero in città paga di più. -

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- Grazie Lang. Facciamo guadagnare il Banco della Repubblica. Non si dica che evadiamo le tasse. - L’attenzione di Jean Paul si sposta su ormeggi, passerelle, camion che si avvicinano. Cominciano le operazioni di scarico, le pulizie, le disinfestazioni, i sondaggi. Un modo di lavorare, quello portuale, dif- ferente da quello della navigazione e non per questo meno difficile e rischioso. Esce dalla plancia per scendere all’angusto corridoio di co- pertino, stretto e poco illuminato, dove si allineano le cabine. Entra nella sua: uno spazio rassicurante, in quel ferro galleggiante, solitario e instabile. Gli elementi d’arredo sono ridotti all’indispensabile: il letti- no ordinato con la copertura azzurra, il cuscino, uno specchio, il lavabo di acciaio lucente, l’armadietto con affiancato lo scrittoio, la cornice d’ottone dell’oblò, un buco magico, attraverso cui i suoi occhi hanno trovato le certezze delle rosee albe marine o le incognite di un cielo mosso da nubi elettriche. Lo accompagnava, durante il riposo, il rumore di fondo spillato dalla sala macchine, molti metri più in basso. In quel momento, dal vetro tondo, passa la luce riflessa dal molo pul- lulante di gente. I motori sono spenti. Ode le voci esterne, i toni dei venditori e dei facchini. La nuova realtà gli provoca una scossa che sale dal profondo del petto, mettendogli un brivido. Per il suo sbarco ha preparato il sacco da marina gonfio del ridot- to guardaroba di ogni uomo di mare: qualche vestito leggero, camice e magliette, biancheria intima, dei libri. Tra alcune settimane comince- rà il nuovo anno, quello della scimmia e, secondo Ling Lang, sarà allietato dall’amore. Vorrebbe che questo sentimento decidesse il suo futuro. Rivuole, sotto di lui, una crosta di terraferma. Un panorama da ammirare da una terrazza, magari seduto al riparo di un ombrello- ne, al tavolo di uno chalet rivierasco, davanti ad un Martini con ghiaccio, mentre ammira una passante con le misure della regina di Saba. “Diamine, siamo uomini. Sleghiamo l’immaginario che si cela sotto le nostre pelli. Desideriamo fare l’amore.” Ha trentasette anni, un discreto gruzzolo, è senza legami, possiede un invidiabile lotto, oltre cinquecento ettari, comprato a un’asta. Pensa che sua madre sarà felice di saperlo tornato. Rimasta vedova, vendette la casa di Bogotà e

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si trasferì in Florida dalla sorella, dopo avere speso quanto aveva da parte per le cure del marito, sacrificato da un ictus, morto per le com- plicazioni, dopo inutili terapie che mostravano solo la regressione. Siede allo scrittoio e apre i libri di bordo; rilegge le pagine che ha fir- mato a ogni arrivo. Quei fogli sono gli ultimi che siglerà con la sua autorità, assieme ai documenti doganali che attendono un assenso. Preparerà le segnalazioni per il disservizio causato dalla sabbia all’imbocco del fiume. Le invierà al disgustoso ammiraglio Nelsen e al capo del porto, con l’intento di sollecitarli a far dragare.

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Clara, figlia di un bianco e di un’india, è orgogliosa delle origini della famiglia materna. La madre era una paece. Il padre era cresciuto a Barranquilla. È esperta di geometrie dei maya, interpreta i loro simbo- li e li completa di senso. Legge i due calendari, astronomico e ritualistico, e le tavole maya di congiunzione dei pianeti create da sa- cerdoti custodi di giuste conoscenze astronomiche. Quando le amiche vanno a trovarla e le chiedono una previsione astrale, lei le acconten- ta. Fu fidanzata con Jean Paul, (a lei piaceva chiamarlo Ji Pi). Si conobbero durante una festa di campagna, ai tempi dell’università. Lui, un cadetto interessante, elegante nell’uniforme. Lei, una brava studentessa di antropologia. Quando capì che Ji Pi non rinunciava alla marina, gli disse: “Il leone sta con la femmina. Tu stai diventando un pesce e non posso seguirti.” Con voce addolcita e rauca, provò a far- gli capire - esclamativo senso indio - che se l’acqua li separava, non sarebbe stato fecondo per il legame. Jean Paul ci restava male e lei, pentita, iniziava a baciarlo per consolarlo, accostava le imposte della camera e tagliava la via alla luce. Poi apriva il cuore con carezze esplo- rative e baci che mandavano in delirio il cadetto. Durante il periodo universitario ebbero poco tempo per restare soli: tentarono in ogni modo di allungarlo. Lei saltava qualche lezione, lui si allontanava dai corsi navali quando non c’era appello. Clara s’interessò alla glifografia espressiva degli antichi abitatori della zona centrale andina. Appro- fondì le conoscenze sui Maya e sulle bellicose tribù colombiane da questi soggiogate. Si laureò e iniziò delle ricerche unendo metodo induttivo e deduttivo, cui aggiungeva capacità d’intuizione. A volte, sbalordiva Jean Paul. Gli espose una sua supposizione: “I Fenici giun- sero in America navigando lungo la linea del tropico del Cancro, molto prima di Colombo.” - L’italiano, qui, giunse secondo - gli disse un giorno. - Perché lo pensi? - le domandò il cadetto punto dalla curiosità.

- I marinai fenici non leggevano né scrivevano - spiegò lei. - Parti- vano traendo a bordo un sacerdote astronomo. Credo che giungessero sulle coste del Messico seguendo il percorso del Sole. Mi daresti ragione se potessi dimostrare che La Mecca e Medina, al tem- po dei giardini di Babilonia, erano custodi del tropico del Cancro. Guarda un planisfero e vedrai. Lui, in seguito, le disse di avere osservato la particolarità: le due città sono a cavallo del tropico. Clara, con un’intelligenza ammirativa che le permetteva di percepire il senso profondo di certi usi dimenti- cati, sosteneva che i fondatori delle città posero le prime pietre non a caso. Furono sospinti da un impulso logico: venerare, in quel punto medio orientale della terra, lo zenit, nel giorno del solstizio; suggerire ai nuovi astronomi che la linea del tropico guidava verso terre lonta- ne. Perché in quel punto del Medio Oriente? Per Clara, la metà geodetica del mondo emerso, in quella precisa epoca, era tra Medina e La Mecca. Secondo il suo intuito, gli antichi astronomi, accompagna- vano le navigazioni verso ovest seguendo un unico parallelo. Colombo seguì una rotta parallela al tropico del Cancro dalla partenza dalle Canarie, sulla proiezione del percorso solare. Se non si fosse imbattuto nell’isola di san Salvador, sarebbe arrivato alle piramidi del- lo Yucatan. Venne il giorno della separazione. A Jean Paul toccò l’imbarco sul- la torpediniera che interruppe il periodo di convivenza e lei non accettò di vederlo andare via. Clara vinse una borsa di studio e si tra- sferì a Cuba per la specializzazione. A L’Avana discusse la tesi su Knorosow - un antropologo - e il governo cubano le fece ottenere un premio per seguire a Mosca dei seminari sui Maya. I sovietici possie- dono la copia originale dei Codici di Dresda e hanno decifrato i simboli dei reperti maya. Presa dai moventi di ricerca che divennero una ragione di vita, attivava una penetrante attenzione nella loro in- terpretazione. La permanenza in Russia fiaccò definitivamente il legame con lui. Mentre era a Mosca, si presentò Leonid. Questi la corteggiò in modo appassionato. Il russo le disse di collaborare per il museo di Dresda alla realizzazione di modelli esplorativi per il recupe-

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ro di reperti. Occhi neri, indagatori, un paio di baffetti sottili, lisci e curati, con un passatempo: lo sci e le donne. Nei mesi estivi, quando la neve era disciolta, la invitava a volare con un bimotore Iliusi su quello che è chiamato Anello Dorato, una cerchia di sei antiche città nei dintorni di Mosca. Nei mesi invernali la portava a sciare in Fin- landia, a Lahti. Le insegnò a stare sugli sci e Clara in breve imparò a scendere dalle piste meno ripide. I finlandesi amano questo sport, a differenza dei russi che lo tollerano. Clara restò tre anni nella capitale lanciata verso il neoliberale. Terminati i seminari, lasciò Leonid e tor- nò a Bogotà, dove stette un periodo con la madre, poi si trasferì a Barranquilla, dove iniziò a lavorare per il museo. Seppe che il russo fu aggiunto al bureau di Cuba. Gli scrisse che l’archeologia e lo spionag- gio non si accoppiano. Il codice maya prevede il mantenimento di un ritualismo spontaneo. “Essere e agire devono coincidere.” Le culture mesoamericane vivono di simboli, di complicate ricorrenze che si ripetono senza menzogna, fino all’incontro con l’ecpirosi, la fine nel fuoco che esse ipotizzarono con previsioni e ripetizioni sul calendario astrale. Quando lei tornò in Colombia, dopo alcuni anni, Ji Pi era lon- tano. Seppe che aveva rinunciato alla carriera militare a causa di attriti e incomprensioni con un ufficiale di nome Nelsen. Accettò la propo- sta di Rodrigo che gli offrì un imbarco su un mercantile appena varato. Lei cominciò a lavorare al museo. Oggi continua la ricerca, il recupero e la catalogazione di reperti maya. Dal giorno dell’assassinio del padre è preoccupata per la felicità della madre, essendosi accorta di una sua impensierita e mesta interiorità. Si trasferirono in un nuovo quartiere di Bogotà. La madre, donna Xaipa, comprò un appartamen- to ben esposto, ma la figlia non trovò lo stesso calore che la avvolgeva nella casa paterna, una costruzione coloniale a un piano, circondata da un giardino curato e fiorito. Donna Xaipa ha da poco compiuto cinquanta anni, è impegnata con il negozio di dolciumi. Le due donne sanno che nelle leggende della gente di Tierradentro e del- la Città Perduta c’è un messaggio di pace universale. Gli dei recheranno arcobaleni; essi vinceranno i banditi della coca elevati dal delirio d’onnipotenza a un cerchio superiore, nel quale credono

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d’avere accesso a tutto, case, campi di soia o uteri di donne. Smesso di amare, vivono d’incubi chimici che li scollano dalla realtà e ignora- no l’ombra ineluttabile della miseria umana. Con impalpabile amarezza, Clara attende la fine dei soprusi delle bande armate, fidu- ciosa che si può ancora riacquistare una desinenza dimenticata: il bene. Basterebbe essere più generosi e tornerebbe a fluire la pace. Al termine della giornata di lavoro al museo torna a casa, fa una doccia, prepara un cioccolato, si rilassa; sfoglia un settimanale, fa una telefonata a qualche amica, aggiorna il suo diario. Quella sera legge un articolo sulla situazione creata dalle secche alla foce del fiume. I mer- cantili in arrivo sono dirottati al vecchio porto marittimo, in attesa che si migliori l’accesso al Rio Maddalena. Ci sono occasioni che le fanno ricordare Ji Pi. Non ha dimenticato i capelli dorati, gli occhi azzurri, il volto col sorriso accattivante, le maniere garbate. Rodrigo, l’agente navale, l’ha avvertita del suo ritorno.

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L’ammiraglio Nelsen è in piedi nel suo ufficio. Fissa impalato, senza levare gli occhiali da Sole, la mappa pendente dalla parete. Vi ha appena marcato, con un evidenziatore rosso, i bordi dei dipartimenti di competenza. Quest’ultimo è percorso dal Rio Maddalena. Negli ultimi tempi la foce si è insabbiata, ma lui non è preoccupato. Le navi possono andare al vecchio molo marittimo. L’ente dei piloti del porto gli ha comunicato che il mercantile Karolina sosterà a Puerto Colom- bia in attesa di essere rimorchiato al porto fluviale. Lui non vi presta attenzione. Ha cose più serie cui pensare. Tra qualche giorno riceverà la visita di King Kris, l’americano venditore di servizi satellitari. A quello dovrà parlare chiaro: o faranno le loro scelte di comune accor- do, oppure ognuno andrà per la sua strada. Gonfia le gote, destra o sinistra, passando un boccone d’aria da un lato all’altro. Alza una mano alla mappa per indicarsi il segno della biforcazione fluviale di Mompós, circa duecento chilometri più a Sud dal punto in cui ora lui si trova. “Mompós appartenne o no al cacique Mampo?” Nelsen ha scordato che gli spagnoli derubarono quel capo indio e che là ci piantarono il Registro della Contabilità dell’Oro che faceva scorticare le viscere della terra per cavarne metallo prezioso. Adesso, sulla mappa sono segnati i punti di carico della cocaina difesi dalla guerriglia i cui fronti più vicini lui fa attaccare di sorpresa dalle sue pattuglie, imbarcate sulle lance piraña, armate e veloci. - Qua ti aspetto. Io ti aspetto - si ripete, quasi attendendo un’eco dalle pareti. - Hai i giorni contati. - Si è appena riferito al pericoloso Raul, segnalatogli dalla DEA, (se- zione antinarcotici nazionale) e operativo con un gruppo di uomini nelle selve prossime al confine col . Onorando il traffico illecito, sono capitati in quella conca per trasferire cocaina dalle anse del Rio Grande de la Magdalena ai compari venezuelani che danno appoggio ai narcotrafficanti stranieri che sbarcano innanzi alla costa. Stavolta, però, lui ha il vantaggio della sorpresa: le informazioni sono giunte in

anticipo. Di solito ritardano. Scatterà la nuova trappola. Pagati per informarlo, crede che se gli informatori facessero il proprio lavoro, senza tenere conto delle feste, con maggiore zelo, lui ripulirebbe l’area. Dispone di una dozzina di lance tipo piraña, armate con mitra- gliatrici calibro 30 e 50 e un cannone da 20 pollici. Certo, sistemare a fucilate i danni provocati per decenni dalle liti parlamentari tra liberali e conservatori, non è facile. In passato diversi gruppi ne hanno ap- profittato e adesso rimane il gioco del gatto col topo: Stato contro banditi. - Qua ti aspetto, Raul - ripete a se stesso mentre estrae un sigaro Avana dal taschino della giacca bianca. - Io riscriverò la storia patria. E dopo che ti avrò eliminato e derubato mi eclisserò. - Nelsen ricorda le date storiche. Se le ripete una per una. “La guerriglia cominciò nel 53. L’entrata in scena del generale Ro- jas Pinilla infiammò gli animi. Il plebiscito del 57 raffreddò l’aria per un paio d’anni. Poi ci fu la Coalizione che si estinse nel 74, con Mi- chelsen, liberale. Allora avvenne la scissione in differenti gruppi dell’organizzazione guerrigliera iniziale.” Accende il sigaro colorandone la punta con brace viva. “La tregua dell’84, stabilita dal presidente Betancur con i ribelli, durò poco. Nell’85, guerriglia e narcotraffico si fusero. Nell’89 Esco- bar finì ammazzato nella prigione d’oro.” Scopre il Rolex al polso. Si rigira verso la scrivania e di scatto sol- leva il telefono. Chiama il caposquadriglia delle lance Piraña e gli dice di passare per il ritiro delle disposizioni che lo manderanno a risalire il Rio Maddalena fino a Mompós. Schiaccia il sigaro nel posacenere e si strofina con vigore il naso largo che campeggia nel viso di moro scal- tro. Sprofonda nella poltroncina ed estrae dal cassetto una bussola, solleva con collimatore dinanzi agli occhi dilatati e lo punta sull’asta della bandiera che oscilla nella brezza pigra sul piazzale. Prende un rilevamento e attraverso il prisma vi legge, in gradi, la possibile rotta: “Immaginato.” Per andare dritto sul pennone navigherebbe con una prua di centoventinove gradi. All’incirca. Appare il capo squadriglia. È sudato.

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- Comandi, signore. - - La tua motolancia è in ordine? - - Le armi sono revisionate - risponde il tenente imprecando in cuor suo per l’incarico che sta per cadergli addosso. - Parti oggi stesso con la squadriglia. Ecco la busta con la missio- ne. Ci sono dentro le scansioni satellitari della zona. Precise al metro quadro. Risali il fiume fino al limite della riserva indigena. Non litigare con gli indios. Portami il carico di Raul o la sua testa. Un mese fa, te lo sei fatto sfuggire. - - Gli ho sfilato un carico consistente - si difende il capo pattuglia. - Non mi basta. - - Quello si defila che pare una serpe. - - Impara a trasformarti in una mangusta e lo fregherai. - - Lo vinco solo se lo ingaggio sul fiume. Nella selva mi batte. Si circonda di campi minati e ci rimettiamo le gambe. - - Ti auguro buona fortuna. Sei sposato? - - Non ancora, ammiraglio. - - Allora di che ti preoccupi. Una gamba in più, una in meno. - Il tenente prende la busta e, prima di uscire, assicura che farà un buon lavoro. Entra la segretaria Peña Rosa che porge un foglio. - Di che si tratta? - - Un cablogramma giunto dal mercantile Karolina. Il suo capitano lamenta il mancato ingresso nel fiume causato dalle secche. - L’ammiraglio, tolti gli occhiali scuri, scorre il foglio. Storce il naso non appena scopre il nome del mittente. “Comandante Carrera”. Ag- grotta la fronte. Il rimpatrio di costui non è una bella notizia. È il tipo d’uomo che non accetta mezze misure. Sarà bene pensare a qualcosa per levarselo di torno prima possibile e senza rumore.

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Trascorsa oltre una settimana dall’arrivo del Karolina a Puerto Co- lombia, sale a bordo il nuovo comandante, il tedesco Krapfen, giunto con comodo da Boston. L’uomo pare più vecchio di quanto non sia. Ha la barba mal rasa. Sul collo una zazzera riccia color fango. Non porta l’uniforme e sfoggia una sgargiante camicia delle Hawaii. Fuma, masticandone la punta, sigari Avana di media qualità. Ha addosso una colonia scadente, al muschio: avrà perso l’olfatto. L’armatore l’ha ri- pescato da una petroliera, messa ai lavori di bacino per le metastasi di un tumore di ruggine, di quelli che spaccano le ordinate e schiodano le lamiere, creando il rischio di un affondamento. Jean Paul, con tono calmo, gli passa le consegne. - La aspettavo prima, Krapfen. - - Mi sono preso le ferie. Problemi? - - Solo con i topi. - - Farò derattizzare, prima di partire. Che mi dice dell’equipaggio? - Ha una voce nasale; compone parole staccate di netto. - A prora sono più calmi di quelli di poppa. - - Incredibile. E il motivo? - domanda irritato dallo sguardo fermo e azzurro del capitano che sta per sbarcare. - I rumori. I motori sono assordanti. Essi ne risentono. - - Oggi stesso scambierò le posizioni. - - Faccia ciò che crede. Le lascio gente e scafo intatti. - - Casi di strozzinaggio, gioco d’azzardo, delinquenza? - - Non ho avuto occasione di formalizzare tali meraviglie. Con me sono stati candidi angioletti. - - In navigazione la sregolatezza è fatale. Perché non si è fatto ri- morchiare a Barranquilla fluviale? Questo posto fa schifo. I piloti mi sentiranno presto se non si sbrigheranno a cambiare la banchina. - - La foce è insabbiata. Ho inviato una protesta. - - Ne invierò un’altra anch’io. Auf Wiedersehen. La saluto, capitano Carrera. - Il tedesco parla con esaltazione. Ha le pupille dilatate.

Jean Paul intuisce che al nuovo titolare piace comandare. “Ha un modo morboso, da rigattiere che dirige un asino. Non navigherà bene con siffatto atteggiamento.” Pare non conosca nulla sulla sinergia, la forza invisibile che aiuta un gruppo che lavori con buona intesa. In navigazione si è legati ai passeggeri, al carico e gli ordini da impartire saranno quelli necessari. Il comando, in realtà, non è un atto che dà piacere. Va esercitato con arte nobile, e non si trova al mercato. Si prepara a lasciare la nave. Forse dovrebbe ringraziare lo spirito del Karolina. A bordo ci credono: per scaramanzia. Non appare ma agisce nel gioco delle variazioni del barometro, tra un oceano e il suc- cessivo, e la nave in potere delle onde. Si dice che gli spiriti salgono dal mare, a visitare; s’impicciano dell’equipaggio e trovato un ambien- te di loro gradimento, si accampano. Dove? Ogni angolo va bene. In sala macchine, in plancia, in cambusa, in un armadio, nella cabina, in una scarpa. La gente di bordo scorda gli incidenti. Il ritorno di un fantasma agirebbe per rimettere in giro la paura delle tempeste. C’è un sensitivo dell’equipaggio, magari drogato - ultra sensibile - che ne av- verte la presenza e, pertanto, se lo ingrazia. Offerte di liquori sparse qua e là. Registratori lasciati con musica affinché l’ectoplasma diventi benefico. Sì, il Karolina potrebbe averne uno. Passando al largo delle Canarie, una notte, dal pozzo delle catene dell’ancora salì un rumore che neppure il rozzo nostromo seppe spiegare dopo l’ispezione. Qualcuno dei marinai ricordò che in quel punto era affondata una nave, anni prima. “Il capitano faccia qualcosa” mormorarono i più paurosi e Carrera li accontentò. Ordinò di lanciare in mare una cassa di gin. Con soddisfazione dell’equipaggio, il rumore cessò. L’ombra si acquietò. “O di un mercante di liquori, o di un prete” s’ipotizzò. Il nostromo, impugnato il battaglio della campana di poppa, saluta il capitano uscente con sei tocchi. Jean Paul sbarca. La mano sfiora la lamiera. Quell’assemblaggio di ferro, saldato e piegato, umido e balle- rino, in fondo, è stato una buona casa galleggiante. A terra, sui moli, alcuni uomini seduti fuori dai bar notano il rimpatriato nella giacca blu con bottoni dorati e il cuatro legato sopra il sacco di pelle. Alluci- nati dal calore del giorno, acuito nei loro corpi dall’acquavite, lo

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seguono con gli sguardi mezzi spenti sotto le falde dei cappelli di pa- glia colorata. Tra essi, i pescatori si distinguono dai cappellacci di felpa con gli ami di ricambio infilati nella trama della lana. Una prosti- tuta appartata presso una cabina telefonica lo invita con uno sguardo languido di mascara, disposta a concedere uno sconto; lui le manda un sorriso rassegnato. L’irrequietezza degli istinti l’ha messa a dormi- re. “L’amore si paga con l’amore”. È pervaso da un delicato sollievo. Ha dinanzi la nuova realtà. Avvierà un ciclo di terraferma e ci sarà da attraversarlo con giudizio, quasi un baratro delle alte terre affogate nelle nebbie dell’Amazzonia. L’aria odora di alghe strappate dalle mareggiate. I pellicani volano in tondo sul tratto di rena, dove rientrano le barche da pesca. I più grassi e pigri attendono sugli scogli gli avanzi scartati dalle reti. Un porto è un bacino mutevole in cui si versano i fiotti del com- mercio di ogni genere. Le norme, nel posto, sono precise ed è tassativo conoscerle. Là, marinai, camalli e facchini, armatori e spedi- zionieri, vivono gomito a gomito sulle banchine e sotto i picchi di carico, dove sbarcano esseri di ogni razza, con un miliardo d’interessi diversi, pronti a risalire a bordo con le ombre serali compiute le loro pratiche, o determinati a sparire nelle strade adiacenti alle banchine e poi nella città. Qualcuno, senza i regolari visti, magari con il passapor- to falso, fuggito dalla sua nazione, o da qualche oscura minaccia, trova i modi per passare la dogana. Ai faccendieri, orbitanti intorno ad un qualunque astro marittimo che frutti denaro, poco importa se restano fuori o dentro le norme del diritto commerciale. Le transa- zioni si compiono con la semplice pressione di un tasto. Un porto è un’oasi insostituibile, dove riparare il guscio di ferro, o il corpo strac- co, senza scordare che pochi sono abituati a salutare con un gesto cortese. Un anziano sottufficiale, magro e scuro di pelle, con una borsa per documenti sotto il braccio, chiama allegramente Jean Paul per nome, andandogli incontro sorridendo, con la mano tesa. Ha un neo sulla guancia destra e qualche dente mancante. Jean Paul lo riconosce. Si

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danno una stretta vigorosa. Il capitano ricorda un rispettoso subalter- no, sulla torpediniera 416, uno esperto al timone. - Armando, che piacere. Sei maresciallo. - - Sì comandante. Proprio grazie a lei. - - Io? Che c’entro? - - Non ricorda il Caso 416? Dopo che incagliammo, mi sollevò dal- la responsabilità e si accollò le conseguenze di quella notte. - - Cerco di non pensarci. - - Una commissione militare non si scorda - borbotta il timoniere, che pare malaticcio in apparenza, ma è impetuoso e attivo. Il capitano celia: - È passata tanta acqua. - - Fortuna che buttammo tutto in mare. Lei fu sagace impartendo l’ordine di alleggerire la nave. - - Eri il timoniere magazziniere. Affermasti di non avere visto nien- te di strano nelle casse imbarcate prima della navigazione. - - È così. Mi parve tutto in regola. Nel materiale che ricevemmo dal magazzino centrale, non incontrai nulla di strano. Nelsen tentò d’incolparla. Lo sa che è capo dipartimento? - - Lo so. - - Quando è arrivato? - - Da un paio di settimane. - - Ha avuto noie per via delle secche? - - Il pilota condusse il Karolina al molo marittimo di Puerto Co- lombia. L’accesso al fiume era impedito. Però, non sarà più un mio grattacapo. Sono sbarcato. Armando, andiamo, ti offro un sorso di gin. Il tabacco da fiuto ti piace ancora? - Entrano in un bar e si affiancano al bancone. Jean Paul chiede due gin e una bustina di rapè. Bevono e fiutano il tabacco. La musica, nel fumoso locale, offre ritmi variati: i tamburi d’Africa mischiati con i ritmi caraibici, vivono nelle percussioni che fanno tremare l’animo quando si fondono. Le donne nere nel bar sono di una bellezza paga- na quando ballano. Pitonesse, si agitano e scuotono corpo e sangue, disposte con indomita inclinazione naturale. Seguono la voce del cor- po adulto, l’espressione ingenua di voglie da comunicare nella

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caparbietà del calore che, confuso all’alternanza delle piogge periodi- che, fa germinare la terra e le pance. Sono capaci, sotto la Luna, d’amare più d’ogni altra, perché la natura ha stabilito in loro un bru- ciore selvaggio, più forte di notte che di giorno, un’ansia libidinosa che un maschio avverte quando le avvolge con le braccia. - Dove sei imbarcato? - domanda Jean Paul al timoniere. - Sulla N17. Una cannoniera di base qui, per adesso. - - Quanti uomini a bordo? - - Duecento. - - Salute a noi e ai tuoi compagni - augura Jean Paul sorseggiando. Starnutiscono. Si raccontano impressioni sull’ipotesi di scavo di un canale parallelo a quello di Panama. Non sarebbe una mossa errata. Gli americani si opporrebbero alla concorrenza, ma sarebbe un bene per la nazione un canale alterno. - Alla nostra vita salata. - Armando ingoia in un colpo. - Qualun- que cosa, liquori, sigarette, burro, ci sono io. - Sbircia l’orologio al polso. - Devo tornare a bordo. Ci troveremo, capitano. - - Allora, a presto. - - Dove la posso localizzare? - - Al promontorio di Punta Rocca. Ho un lotto in alto. Nelle pian- tagioni. Vedrai nuove palme e lì mi troverai. - Si danno una stretta di mano. Il sottufficiale si perde tra la folla. L’agenzia navale di Rodrigo non rimane lontana. Alla pensilina si ferma in attesa del bus. Preparerà durante il tragitto buoni argomenti per contrastare le pressioni dell’altro. Riscuoterà la liquidazione. Riti- rerà il contratto d’acquisto d’asta con cui è divenuto padrone di una piantagione. Gli alisei allontanano l’umido lasciato dagli acquazzoni. È il miglior periodo per iniziare un’attività agricola e disporre le nuo- ve palme approfittando dell’estate subequatoriale. Scende alla fermata nella via dell’agenzia. Alla Compagnia Real trova l’amico, mingherlino e pallido, che sta pattuendo per telefono il ri- morchio di una chiatta colma di rifiuti da scaricare da qualche parte. Parla con stizza rilassata. Nel vederlo, Rodrigo interrompe il collo- quio. Si stringono in un abbraccio.

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- Scusami un minuto - dice risollevando la cornetta. Il capitano siede di lato alla scrivania. Un modello di veliero tro- neggia in un angolo del ripiano, dove sono sparsi alcuni portacenere colmi di cicche. Il modellino pare navigarvi sopra. - Come dici? Ti pagano poco? Sei pazzo, Rondon… Duecento dollari per rimorchiare spazzatura… Non ti sento, ripeti… La incene- risci prima di scaricarla in mare… La guardia costiera? Che cosa vuoi che importi a loro se dai fuoco a una chiatta colma di rifiuti. - Rodrigo ripone la cornetta, sposta il veliero sul bordo della scriva- nia per vedere bene la faccia del capitano, arriccia le labbra emettendo un suono di falsa disapprovazione. - Che abbronzatura che hai. D’accordo Jean. Sei il padrone di te stesso. Chiedermi di sbarcare e a bordo non c’era la peste. Erano solo topini giapponesi. Si ammazzano con una spolverata di cianuro. Non trasportavi mica spazzatura, come il povero Rondon… Rischia il co- lera. Navi di prima classe ti ho fatto assegnare. Mare cane. Con la penuria di buoni capitani. - Jean sorride. - Non mi hanno scacciato i topi. - Si conoscono da anni e il loro rapporto è cordiale. Rodrigo non approva la rinuncia. Acconsente, con tono rassegnato, al volere dell’amico. Non ignora che avrà riflettuto sulla situazione e che le sue intenzioni scaturiscono dalla vitale necessità di un cambiamento, a- gendo nel tentativo di ancorarsi alla terra. - Non mi pare che ti piaccia, Rodrigo. Eppure ne avevamo discus- so e sembravi d’accordo. Ho fatto la mia parte. - - Mandi al diavolo un comando da trentamila dollari. Naviga un altro paio d’anni e ti comprerai altri cento ettari di terra. Una compa- gnia petrolifera ha varato una superpetroliera di seicentomila tonnellate. Trasporterà gas liquido. Vogliono un comandante che va- da ai cantieri per finire l’allestimento. Ho fatto il tuo nome al sindacato e quelli ti hanno presentato al presidente. Offrono trenta- mila verdoni per l’ingaggio. -

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- Sono sistemato. Mi bastano gli altrettanti che ho guadagnato do- po cinque anni di peregrinare. Mi hai comprato o no all’asta un lotto di terra? Hai fatto un gran lavoro e ti devo gratitudine. - - Una mano te la do volentieri. - Si arrende l’agente. - Il lotto è un affare. Non ti vedo, però, a piantare palme per il resto della vita. Mi devi qualche spesuccia extra. Il notaio ha richiesto un supplemento. C’era un’altra offerta. Lo sai? Un po’ d’olio è stato necessario. - Al- lunga un fascicolo. - Ecco l’atto d’acquisto e le mappe. La polvere del promontorio ti stancherà. - - Resisterò. Levami dal libro paga - ordina ironico il capitano. Ha avuto un buon appannaggio. Ha beneficiato della stima dell’armatore, per le equilibrate decisioni riguardo al Karolina, al cari- co e all’equipaggio, trattato senza distinzioni, con obiettiva umanità. A terra, un secondo io materializzato in lui chiede di riassaporare la pi- grizia domenicale, tra una semina e una raccolta di drupe o frutta. L’oceano lo aveva affascinato, da ragazzo, da quando con i genitori si trasferiva alla costa per la stagione dei bagni e gli si aprivano i pori dalla beatitudine. Si arrostiva la pelle nei primi giorni e poi assumeva un colore da saraceno. Rincorreva onde, catturava granchi e pescava polpi usando attrattive zampe di gallina, legate a uno spago. Ricorda un particolare: la madre si affannava se, dopo le prime quarantotto ore, gli si sconvolgeva l’intestino e gli scoppiava un febbrone. In ge- nere, la donna preveniva l’inconveniente facendogli ingoiare una purga di malva prima della partenza da casa. - Dove andrai ad abitare? Tua madre vendette la casa quando si trasferì in Florida. - - Per un po’ starò in albergo. Comprerò un appartamento. - - Se ti va, puoi stare da me - gli offre Rodrigo. - Non ci penso. Non mi hai spiegato dove sta il mio lotto. - - Promontorio di Punta Rocca. Risente delle correnti d’aria. Da là vedi il panorama di Barranquilla e un pezzo della sierra. Porta con te una macchina fotografica. Il lotto è raggiungibile da strade in terra battuta. Non è lontano, diciamo una ventina di chilometri, forse cen-

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to metri sul livello del mare. Dovrai scegliere un nome. Adesso ha solo un numero identificativo. - Quel pomeriggio, là sulla costa atlantica, nell’ufficio tappezzato con foto di petroliere, in una calura non vinta dal condizionatore spu- tacchiante, Jean Paul calcola l’ultima posizione d’arrivo: sta dinanzi a Rodrigo, fisicamente ritornato da un viaggio. Tokyo si trova all’esatto opposto, sull’invisibile parallelo che l’ha guidato all’ufficio dell’agente. Avvierà buoni progetti che richiedono impegno; crede che riuscirà a concretarli. L’agente, magro quanto un san Luigi, muovendosi con gesti ridotti per non sudare, il tic all’occhio, gli sottopone una polizza valida in terraferma. - Questa ti ripara dall’imprevisto. Potrebbero contagiarti gli orec- chioni. Comprende anche le visite specialistiche. - - Non ti ho mai visto tanto preoccupato per me. - - Sei un attaccabrighe. Lo sappiamo. - - L’ultimo bar dove attaccai a pugni fu chiuso per sfruttamento della prostituzione. Vendevano pessima acqua ardente. - - Rinuncio - fa l’altro esausto. - Sei incorreggibile. - - Cos’hai oggi all’occhio? Sembra un battito di farfalla. - - Quando sono emozionato, si accentua il tic. - Rodrigo ha tre libere unioni alle spalle. L’amore per lui è ossigeno. Una volta esaurite le scorte, sostituisce le bombole. A quel punto cambia bambolina. Il capitano seppe del suo soffrire per l’ultima mo- glie: una cantante, che spesso si scordava di lui. L’agente si alza dallo scrittoio. Ha preparato i soldi che spettano al capitano e i documenti del lotto. Glieli consegna. Accetta una botti- glia di champagne che il giovane fa emergere dal sacco. - Buona fortuna, Jean. Ti consiglio di andare al banco della Re- pubblica. Non è sapiente portare a spasso denaro sudato. - - Ciao, vecchio mio. - - Un’ultima informazione - dice Rodrigo mentre il telefono squilla di lato al modellino del veliero. Jean Paul poggia sul pavimento di mattonelle sbeccate il sacco di pelle e il cuatro. Si sofferma accigliato, notando che l’altro è titubante e

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ha un’espressione smielata e acerba che non si decide a maturargli in volto mentre stacca la cornetta per rispondere. È la sua donna, da Medellin. La prega di attendere un minuto. - Avanti Rodrigo, o perderò il traghetto per attraversare la baia. - - Clara lavora in centro - rivela l’altro misurando l’influenza delle sue ultime parole. - Ha un incarico al museo. È la curatrice. Volevo dirtelo. Magari la incontrerai se deciderai di abitare da quelle parti. - Il capitano riceve una vibrazione nel ventre. - Le hai detto che sono tornato? - - Fu lei a passarmi l’informazione del lotto in vendita. Mi è parso giusto sollecitarti per l’acquisto. - - Grazie Rodrigo, non lo dimenticherò - risponde rialzando il sac- co e la chitarrina. L’agente gli scuote la spalla. Vedendo il cuatro non si trattiene: - Quando ti sei dato alla musica? - - Questo strumentino è un regalo della ciurma. - - Che animo! Quei marittimi li scelsi apposta per te. - - Sbruffone. - - Guardati le spalle. - - Lo farò - lo rassicura uscendo sulla strada. Si separano, ognuno trattenendo il sapore dell’amicizia rivisitata. Danno importanza a una relazione che mette gli interessi in secondo piano. Nel paese, tale sentimento è prezioso e arriva a salvare la vita. Nella via delle agenzie navali e delle assicurazioni la gente non ci va a passeggiare. Là ci si entra solo per uno scopo preciso: o per un imbarco, o per stipulare una polizza sul futuro. A Jean Paul non sfugge l’occhiata colma di curiosità che riceve da un moccioso, un neretto simpatico che con una confidenza crescente lo affianca sulle strisce pedonali. - Lei è un marinaio, signore? - L’uomo non è disposto a casuali conversazioni per quel pomerig- gio, ma non vuole dare impressione di repellenza. - Sono un capitano di mare. Non conosci i gradi? - - Mio padre era sergente - afferma il moccioso. - Nell’esercito. -

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- Dagli tanti saluti da parte mia. - Jean Paul attraversa la strada inseguito dal neretto. - Mi fa portare la sua borsa? - - Pesa molto. Non ce la farai. - - Posso provare. Se ci riesco, mi paga qualche soldino. - Il capitano si arrende. Pablito riceve il carico e lo sopporta con sdegno afferrandolo con le due mani e piegando le braccia, con evi- dente sforzo, per non trascinarlo. - Come ti chiami? - - Pablo, signore. - - Vediamo se resisti fino all’arrivo al mio albergo. - - Però, ogni tanto mi fa riposare un po’ - patteggia il neretto senza perdersi d’animo. - Andremo con un taxi. Ti aiuto. Dà qua. - Giunti innanzi al Colombus, Pablo s’impegna fino alla porta gire- vole, afferrato alla sacca marinara più alta di lui. Sulla soglia riceve una sommetta e la gioia gli riempie gli occhi intelligenti.

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Las Flores è un quartiere che di urbano salubre ha ben poco. Le stradine sono di terra battuta e mancano le caditoie per l’acqua piova- na che, nella brutta stagione, pare voler affogare tutti. Nella strada principale si stendono le rotaie del trenino che va alla Bocca della Ce- nere, proprio dove il Rio Maddalena si butta in mare. La strada ferrata fiancheggia la spiaggia e poi sale sul frangiflutti. Pablito, un ragazzino di strada, prova il vuoto di chi non è felice. S’intristisce, quasi che l’arrivo del buio della sera gli appanni l’umore. Comincia ad avvertire le privazioni. Dalla fuga da casa, (è scappato dalle unghie della madre, la gran nera) si è lavato poco e ha i panni sporchi. Scarseggiano le fontane pubbliche. Adocchia i tubi per innaf- fiare i giardini delle case e dall’esterno dei muri li tira verso di sé. Avverte l’indifferenza delle persone frettolose, impegnate nelle com- pre o prese dai fatti loro. Vivendo nella strada, bisognoso di tutto, ha compreso l’importanza dei pesos. Le imprecazioni della gran nera per l’assenza di biglietti di piccolo taglio hanno avuto il sopravvento nei fatti di famiglia: pare che senza pesos non si possa vivere. Vorrebbe trovarne tanti per lei. La calmerebbe e quella terrebbe a freno le mani. Le vuole bene, la odia solo quando lo picchia. La scuola era una trap- pola. I maestri, istruiti neri del quartiere, lo riprendevano per gli sgorbi e per gli spropositi. Non riusciva a tenere ordinati i quaderni, senza orecchiette riavvolte sui bordi esterni. Non distingueva Bolivar da Nariño, né il tricolore nazionale da quello venezuelano, con le stesse tinte gialle, azzurre e rosse. Ha due sorelle. Il padre naturale, anni prima abbandonò la famiglia: non lasciò bei ricordi, lividi sì. Dell’uomo, sa poco; forse era una guardia. I discorsi materni evitano di parlargliene; cadono sui due gemelli morti perché nati prematuri. Poi ci fu un secondo uomo in giro per casa. Di costui pure ha scorda- to il volto. Non mangiava in casa, si arrangiava fuori, nelle bettole di Las Flores. Dell’ultimo genitore, casuale quanto un piatto di buona carne, è rimasta un’ambigua reliquia: una cassa di bottiglie di liquore

mezze scolate, scordate in un ripostiglio assieme a certi panni umidi che lui promise, o minacciò, di passare un giorno a ritirare. Ogni volta che la nera gli assegna di chiudersi nel ripostiglio delle casse vuote e dei cocchi, lui si raggomitola in un angolino. Là dentro fissa con di- sgusto le bottiglie polverose cui il padrino attaccava le labbra spugnose: prologo alle azioni ingiuriose che seguivano e che gli sug- gerivano di stargli lontano. Il vicinato irrita Pablito, si vede osservato e sminuito ogni volta che passa innanzi alla casa dello strozzino o del ladrone. Da quando si è allontanato da casa, mangia quanto rimedia. Non che il cibo nella casupola abbondasse. La madre, con magia, riu- sciva a condirlo e almeno sapeva di zuppa. Un brodo con patate, zampe di pollo e mais, è passabile. In famiglia mangiano di sera. A- desso, però, aspetta fuori dei casotti delle bibite, che si trovano di lato alla spiaggia, una fetta di pane o un frutto. Della casa rimpiange il pa- vimento di cemento, il bagno col cesso, l’acqua, il sapone. Ha costruito un ricovero di cartoni sul bordo di un canale maleodorante, sotto la sporgenza di un’incompleta piattaforma di parcheggio a pa- gamento, di fronte al museo con tanti oggetti antichi esposti nelle ampie sale, che sta al centro della piazza. La capannina gli pare solida. Non cadrà sotto la pioggia, né scolerà, altrimenti si allagherà. Ha il cuore e la notte si rintana nel mucchio di cartoni che ha fissato con spago e chiodi. A intervalli, ha in pancia un dolore che lui crede provocato dalla crestata iguana che, invece di preferire i prati, si risve- glia negli intestini dei ragazzi affamati e non si placa facilmente. Altre volte l’ha udita rotolarsi di dentro. Lontano dalla gran nera è divenuta irrequieta. Sua madre sapeva ammansirla con la limonata dolce e un biscotto stantio. Si trattiene per non piangere. L’iguana preme con insistenza e lui la sorprende che s’insinua sopra l’ombelico e si arram- pica verso la gola. Ricorda di avere detto una notte: - Mammina, ho fame. - - È l’iguana maschio, dagli da bere. - - Come sai che è maschio? - - Se fosse femmina, starebbe quieta. - - È stufo d’acqua. -

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- Allora mandagli un pezzo di cocco. - Lui conosce le noci di cocco d’ogni tipo. C’è vissuto in mezzo; gli hanno fatto da culla. Le tira alle sorelle, se lo molestano. “Quanto dura un cocco, prima di putrefarsi?” I frutti, liberati dal callo verde, attirano clienti assetati. Qualcuno brontola, perché il succo non sa abbastanza di fresco e la polpa è molliccia. La madre ci parla con i cocchi, li rimprovera quando sono vuoti, o quando la spiccia realtà la sommerge impietosa. Corre, di buon mattino, da un mercato all’altro, per spuntare un prezzo o un credito per i frutti ancora acerbi. Le sue mani hanno vene in rilievo in modo superbo. Tornando la sera con la cesta dei cocchi, ordinava ai figli di non mangiarli. Lei preparava la zuppa per tutti. “Pazienza - strillava - senza cibo si resiste a lungo.” La gran nera, alta e robusta, occupata a vendere cocco lungo la spiag- gia di Braccio Monco, dal mattino alla sera, è pessimista per il futuro dei tre figli, due femmine e un maschio. Depressa, non trova dialogo con Pablito, salvo che non vi siano di mezzo schiaffi, un modo e- stremo di comunicazione. Il neretto crede che lei parli con le mani, per spiegarsi. Ogni tanto, la donna accenna a una sorella meticcia sposata con uno stagnino mezzo creolo. Non si sono mai cercate o visitate. Magari quella le chiede soldi. Amiche non ne ha. L’ultima, una che faceva le carte ai marinai di passo a Puerto Colombia, la am- mazzò il marito. La impiccò durante una lite, all’apparenza banale: gli chiedeva i soldi per comprare da mangiare. La sorella minore, quella rattrappita e stupida, nella culla che ha il materasso di legno, riceve più di lui cure e cibo. Sta nel recinto e puzza di piscio. Emana un odore di foglie morte. La madre la solle- va per lavare le assi e poi ve la ripone. Più la lava, più la scema strilla. L’altra sorella, più grande della stupida, meno alta di lui, vaga tutto il giorno nella strada, di porta in porta, da una casuccia all’altra, sporca e mezza nuda, percependo, nella speranza, un morso di pane, un avan- zo. Una sfacciata. La madre le strilla dietro che se non la smette, da grande, andrà a fare la puttana e finirà anche lei impiccata. La città, per loro tre, è ostile ma le necessità non riescono a distruggere la gran nera, perché ha tessuto una cappa di rassegnazione intorno a sé. Fat-

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tosi scuro, non vedendo tornare il figlio, non si altera. “È grande per non annusare i pericoli della strada.” Le dà rabbia la mancanza d’aiuto per le figlie. Non che Pablito sappia fare gran che. Potrebbe sorve- gliare la più grande (è smaliziato), affinché nessuno tra i debosciati vicini ne abusi. L’altra, la più piccola, malata e stupida, è un pericolo per se stessa, poiché si ficca in bocca tutto ciò che le capita tra le ma- ni e tenta di ingoiare, con il rischio di strozzarsi, anche le schegge di legno che stacca dalle assi su cui è deposta l’intero giorno. Non am- mette che il figlio scappi dinanzi all’aspra puzza di pipì che la bambina sparge sulle tavole della culla e sul pavimento. Lei, non ha potuto nulla. Nessun istituto vuole la scema e l’unica uscita sarebbe che il Vecchio Nero, padre dei santi e di tutti gli orixà, nella sua cle- menza, la chiamasse. La forza di soffocarla lei non la trova. Altre lo fanno: lei è nera e teme la maledizione riservata dagli orixà alle pazze che si sopprimono i figli. Trova ingiusto che le responsabilità non pesino sulle spalle di un maschio senza lavoro. Non di quelli che lo cercano senza trovarlo, ma di coloro che cambiano strada sapendo che possono sbatterci dentro. Più sono senza morale, detestabili, e meno si pretende da loro. È accaduto con i tre uomini, padri dei suoi figli. Soddisfatti i loro istinti si dileguarono, simili ad animali, e nessun giudice li ha obbligati a sborsare soldi. Quelli, dice lei, che non hanno lavoro non dovrebbero versare figli. Comodo essere uomini, senza arte, e nello stesso tempo accedere nella donna che si mettono sotto per poi farla partorire. Un figlio è un premio per un uomo assennato, non per un balordo incapace e manesco. Il lavoro, la famiglia, i figli, le garanzie, non avevano riguardato i suoi amanti, protetti con tenacia dalla miseria e con gli stessi diritti sessuali di quei maschi coscienziosi che non si ubriacano e portano a casa il sufficiente per non affamare la famiglia. Non le capita uno col giusto cervello, e con quale voglia lo farebbe godere. Una sera il primo marito rientrato ubriaco fradicio la minacciò di morte. Voleva denaro per tornare all’osteria. Il secondo delirava intossicato dal vino e la picchiava, perché non vi erano altre bottiglie da scolare. Il terzo era troppo inutile per minacciarla. La gran nera giura ai conoscenti che uno sciocco d’uomo, nel letto, la notte, fa

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sentire una donna ancora padrona di qualcosa. A lei dispiace picchiare Pablito. Teme che finirà male. Là, nel quartiere, non entrano né suo- re, né quelli del servizio d’assistenza e non per razzismo, poiché negri, mulatti, indios e bianchi imbottiti di debiti occupano baracche attigue, che cedono sotto i colpi del vento e fanno passare l’acqua a ogni ac- quazzone; per non parlare dei sorci, che salgono dalla fogna a cielo aperto per una boccata di mangime da rubare nelle case o dai mucchi di spazzatura che si gonfiano agli angoli delle stradine poco illumina- te. È cosciente di non avere diritto a nulla. Suppone, quando è senza forze, che una perdita di sangue inarrestabile durante il flusso sarebbe più liberatoria della scomparsa dei tre amanti, che a quell’ora saranno schiattati di alcol o di malanni, o accoltellati. In quanto a Pablito, è difficile da domare, peggio di un puledro ombroso, nonostante le bot- te che è costretta ad assegnargli per limitargli la dannosa indipendenza che gli esce dal corpo robusto. “Padre dei santi proteggilo. Le strade sono pericolose.” Pablo chiude l’entrata del rifugio con un pezzo di tavola. Cammi- na attratto dalle luci di un’ampia via. Di coraggio ne ha, però evita lo stesso di avvicinarsi a uno spavaldo poliziotto la cui faccia butterata non promette sconti di cattive maniere. Alla madre, parlando con una vicina, scappò detto delle occasioni in cui fu portata alla stazione di polizia per delle multe, giacché ambulante molesta - vende cocco - e delle voglie del delegato da soddisfare perché chiudesse un occhio. “Possiedono una donna peggio degli eccitati babbuini” la udì quel giorno. Pablito non conosce né il senso della parola: possiedono, né affer- ra la connessione tra le multe per la vendita abusiva e i babbuini, scimmie che stanno l’intero giorno a strofinarsi una contro l’altra. Le ha viste in televisione, a scuola. Domanderà a qualcuno. Non alla ma- dre che alla richiesta: “mammina bella, che significa mangiare una donna?” l’aveva inseguito col mestolo, fino all’aperto, gridando che quelli non erano affari suoi e piegò l’arnese da cucina contro la sua schiena, facendo uno scandalo nel vicolo. Vorrebbe trovare qualcosa che sia masticabile per lui e l’invisibile nemica, l’iguana, che si agita

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nella pancia, forse solleticata dallo sgomento per il cielo di Barranquil- la che, di un tratto, è tutto fulminato di stelle. Lui ha timore di tanto spazio sulla testa, pur se punteggiato di luci. Durante un plenilunio domandò alla madre di cosa fosse fatta la Luna. “Mammina, pare una palla.” “No, stupido, è la faccia del marchese.” “Quale marchese?” La nera gli raccontò che ci abita, da prima che lui nascesse, un marchese spagnolo, ricco, potente e avaro. “Come c’è arrivato?” “In un plenilunio uguale a questo. Il riccone morì, si decompose, la Luna lo risucchiò e la sua faccia, l’aspetto dell’avaro, arido di pomi- ce, ci rimase.” “Io non sarò mai avaro” rispose il neretto. Le case sull’Avenida sono differenti dalla sua. Dalle porte aperte ne scruta l’interno. La loro luce è calda; hanno mobili, sedie, divani. In alcune risuona musica dalla radio, dal televisore. Le cucine manda- no buoni odori. I ragazzini, là dentro, sono vestiti bene e agitano le forchette, ingoiando cibo. Acquieteranno le loro iguane per un anno. Immagina che la madre, a quell’ora, abbia già domandato ai vicini se l’hanno veduto. Si sarà rimboccata le maniche, pronta a dargli una lezione. Ha le mani dure, a furia di spaccare cocchi con il coltellaccio. Anche Cico gli raccontava della propria madre manesca. “Sono tutte uguali?” Negli strati superficiali della coscienza, una vocina gli sussur- ra che nessuno gli vuol bene. Ora, al di fuori del limite familiare, è esposto a mille pericoli, facile mira di persone senza scrupoli. Non prevede che diverrà, col passare del tempo, un emarginato. Lui, ugua- le a tanti, nelle strade, nei fossi umidi, senza scuola, dipendente dalla carità spiccia e rischiando un colpo di pistola, o finendo nelle mani di un praticante estirpatore di organi. Vagabonda nei pressi della piazza del museo. Le vetrine dei negozi mostrano, sotto i faretti, quantità di frutta e dolciumi che gli mettono l’acquolina. Le passa in rassegna con gli occhi di meraviglia e non domina lo stomaco, mentre guarda affa- scinato. Su una bancarella sono allineati pupazzi di pezza, imbottiti di

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caramelle. Spinto da un irrefrenabile impulso, prende la rincorsa, al- lunga la mano correndo. I pupazzi sono legati al banco e nelle sue dita va la testa di uno di questi. Palleggiandola, si allontana nel buio.

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Jean Paul alloggia all’hotel Colombus. I suoi passi si sono adattati alla ferma condizione delle strade, degli edifici, del cielo. Passare dal precario equilibrio liquido del Karolina al mondo statico è una sorta di cambio da controllare, per non dare l’impressione di un’impacciata ubriachezza. Si è liberato dalle astinenze, dalle forzate solitudini, dalla diaspora simile a quella di una noce di cocco che, piombata da una palma sulla spiaggia, rapita dalla marea, cullata o battuta dai frangenti per mesi, sia rimessa sulla rena per un po’ di giorni per poi essere ri- presa ancora una volta da un’onda. Vivaddio, la fiducia è la sua seconda coscienza: si fermerà al promontorio e pianterà palme. Il Colombus non è lontano dal mare. Nei dintorni vi sono i servizi essenziali. L’ufficio postale e la fermata del bus sono a due passi. C’è anche un’elegante boutique e non mancano ristoranti tradizionali. L’albergo ha un parco privato. La sagoma ha uno stile coloniale. Sotto l’ala nuova c’è la piscina rotonda, circondata da sedie a sdraio e da lettini di tela forte. L’ala vecchia è bassa, con il tetto di legno spioven- te e al pianoterra troneggia la veranda di vetro con i tavolini del caffè. I balconcini delle camere, schermati da gelosie tinte di verde, affac- ciano sull’insenatura. La ringhiera del terrazzo di lato alla piscina sparisce avvolta da un robusto tralcio di buganvillea, creando un’ope- ra di ferro e fiori. Otri di terracotta, lungo i parapetti, si alternano alle fioriere da cui si alzano fasci di verdi ginger dai grappoli rosati. Un an- golo del terrazzo è assalito dall’edera. All’interno della costruzione la hall è ampia. Vi spicca un lucido parquet rosato, a motivi geometrici. Su una parete primeggia il quadro più diffuso in Colombia: Simon Bolivar. Ancora lui sulla groppa di Palomo Blanco, prima della sua morte solitaria a Villa San Pietro, attorniato da pochi amici fidati. La stanza di Jean Paul è ariosa; le pareti hanno la tinta recente. La vetrata è schermata da tende bianche. Di giorno vi entra la luce fluo- rescente dell’oceano. Di notte pulsano attraverso i vetri costellazioni prepotenti, il Cigno, la Cintura d’Orione con le sue stelle disposte in

forma di diamante, seguita da Sirio, e poi da Canopo, per finire, all’orizzonte, col Centauro, proprio a est, all’incrocio basso con la Luna. I mobili della stanza sono laccati, in stile europeo. Non vi è odore d’umidità, la muffa dà tregua agli abiti appesi nell’armadio. Un’alzatina di cristallo è fornita ogni giorno di banane e manghi. Jean Paul piega il giornale in due e si sdraia sul letto incrociando le gambe. Tenta di leggere. Mette in linea le idee: vivificare il suo lotto. Palme, anche ananas, oppure guineo che dà frutti più grossi delle ba- nane e che si mangiano fritti. Pondera le azioni senza che la fretta lo stimoli: questo è un privilegio concesso dalla terraferma. Pensa a Clara. In seguito proverà a telefonarle. La ringrazierà. Lei: capelli neri, occhi con una leggera piega orientale, volto dai delicati tratti con lievi tracce indigene. Una creatura sensibile, dal carattere dolce. Solo di rado, nei momenti di fervore, affiorava in lei qualche ombra della bellicosità dei paeces, indiani da cui discende la madre. Allora era da non stuzzicare: il viso s’imporporava. L’ha persa di vista da un paio d’anni. “Com’è che nella solitudine si culla l’illusione di essere capaci di vivere solo d’amore? Che delusioni lasciano poi le amanti? Insostituibili con i loro precetti, quali siano: pudore, scioltez- za, fedeltà o infedeltà. Senza di loro, il presente non offre piaceri ed è un’agonia.” Desidera che non sia sposata. Gli piacque l’irresistibile spontaneità e la semplice felicità che la abbelliva. Clara lo lasciò dopo che iniziò i seminari sui Maya, in Russia. Lui ne soffrì e maledisse il mestiere, il mare, il suo orgoglio. Ripensa al maresciallo Armando che gli ha ricordato l’incidente accaduto quando lui comandava la torpediniera 416. Una notte, di pattuglia, la incagliò nel corallo. Non riuscì a chiarire l’innesco delle situazioni che sorsero deprecabili nel buio. Sopportò la falange del dito andata in malora, durante le operazioni di disincaglio e rimor- chio. Nelsen, squallido ufficiale inquisitore, durante l’inchiesta sulla condotta della navigazione, lo mise in difficoltà. Un giudice militare esaminò la situazione, senza tenere in conto le capacità e le attitudini allato del senso di responsabilità. In altre parole non riconobbe le qualità etiche che animavano la sua lealtà verso la marina. Non conta-

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rono neppure le argomentazioni a sostegno della dimostrazione d’aver agito nel rispetto di codici: la carta nautica in dotazione non riportava il banco di coralli; inoltre, la rotta da mantenere nella notte di San Giovanni gli fu assegnata. Eseguì l’ordine senza spostare di un grado dalla bussola. Lo scandaglio segnalò il banco sommerso troppo tardi per fermare i motori. La carta nautica, dopo l’urto, sparì in mo- do misterioso dalla documentazione di bordo. Jean Paul percepì quanto Nelsen, allora col grado di maggiore, si sforzasse di avviarlo alla corte marziale, mirando a ridicolizzarlo. “Lei, signor Carrera, non doveva eseguire ordini errati. Errati. L’incaglio è costato un monte di pesos alla marina. Non ha operato nel migliore dei modi. Un fallimento.” Un particolare mise a pensare il giovane capitano: il cargo Neptu- ne che, stando agli ordini, lui avrebbe dovuto sorvegliare a distanza, lo sequestrò la guardia costiera. Ne parlarono i giornali: era imbottito di cocaina. Disdegnando l’idea che i marinai della torpediniera lo sup- ponessero mediocre, inadatto paladino della sicurezza, dette le dimissioni. “La stima accordata da un equipaggio è importante quanto lo spessore dello scafo che lo trasporta.” Pianse. Ebbe un brutto pe- riodo. Poi Rodrigo gli procurò buoni imbarchi e lui passò a comandare mercantili di grosso tonnellaggio. Vide, nelle traversate oceaniche, epoche salmastre ben pagate, che si consumarono solitarie su navi somiglianti a conventi di clausura, con equipaggi formati da gente di ogni razza e religione. Atei dichiarati a bordo non ne ha in- contrati: una nave è vulnerabile e la paura delle tempeste oceaniche impone anche ai più increduli di trovarsi un protettore. Il tempo è trascorso e gli ha innestato un rassegnato oblio. Non serba rancore per i fatti della notte di San Giovanni. L’odio restringe gli spazi. L’ha represso, anche se gli è costato. Le sue energie le im- piegherà nella piantagione appena comprata. È fiducioso.

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Mancano catture sensazionali. I pattugliamenti danno poco frutto. Nelsen è avvilito. Pulisce gli occhiali scuri con montatura in tartaruga. Poi si adopera per lucidare un sestante. Il semplice lavorio lo aiuta a diluire il malumore messogli da tre eventi. Primo: Raul sfugge alle lance inviate all’interno del Rio Maddalena. Il tenente ha solo seque- strato alcuni chili di cocaina. Secondo: la nuova perniciosa protesta giunta dal Karolina è firmata da un certo comandante Krapfen. Non sa chi sia costui. Lui credeva che al comando della nave vi fosse Car- rera. Terzo: Krapfen volle, a forza, essere rimorchiato alle banchine fluviali e adesso resta bloccato nel fiume a causa di una nuova secca. “Se alle navi in arrivo e in partenza si vuole evitare il pantano, ebbene che i comandanti si servano del servizio offerto dai piloti esperti.” Solleva il sestante dinanzi all’occhio destro, schiaccia il sinistro. La sua posizione lo pone al vertice della gerarchia. Sopra di lui, unico a stimolarlo, il capo di stato maggiore, l’ammiraglio Escudoro. Nelsen si fida dei suoi organi sensoriali che lo sostengono per cen- trare una finalità primaria: l’avidità. Nell’ordine del giorno indicherà in che modo distruggere una parte della cocaina sequestrata dalle lance piraña all’imbocco dell’affluente del Rio Grande de la Magdalena. Inviterà la stampa. “Sì… per i giornalisti della cronaca locale.” Solo una piccola parte. Il resto la farà dirottare per un posto sicuro. - Piantone - grida verso la porta - un caffè. Caffè. Accertati che la segretaria ne desideri uno. - Il marinaio obbedisce. L’ammiraglio è premuroso con Rosa. Il suo pensiero torna su Carrera. Parla da solo: “Se Krapfen comanda il Karolina, significa che Jean Paul Carrera è tornato a casa. È Qui. Mira mira mira. Il merluzzo è tornato dai mari freddi e mi fa vedere che batte la coda.” Mette via il foglio del Karolina. Ci ripensa, lo stende con le mani levandone le rughe e lo infila nel distruttore di documenti. Jean Paul Carrera non gli è mai andato a genio. Non l’ha dimenticato. Da mili-

tare fu un ufficiale scomodo, incline per natura a raddrizzare ciò che invece deve rimanere inclinato; portato, per carattere, a non accettare la sottomissione passiva. Ricorda che durante l’inchiesta - Caso 416 - lui tentò di fiaccarlo, senza riuscirvi. Lo aveva però ridotto a dare le dimissioni. Gli piacerebbe levarselo dai piedi, saperlo nell’iperspazio. Morde, arricciando le labbra, la punta del sigaro, un Bolivar, e la sputa nel cesto. Ripone il sestante sulla cappelliera. Si alza dalla scrivania e passa in rassegna un tavolo apparecchiato in un angolo dell’ufficio. Quel giorno, il catering della base riceverà la sua ispezione. Il ripiano è coperto da salsine e assaggi di creme, dolcetti, caviale. Non ha vo- glia di provare nulla, a dispetto dell’invitante apparenza dei piattini. Accende lo Zippo navale nell’attimo in cui lo prende dal taschino e con tale velocità che l’accendino pare carpire la scintilla dall’aria stes- sa. Dà fuoco al tabacco. Irradia l’idea di un militare che non spreca un istante del suo tempo. Ha profonde occhiaie che accentuano il colore caramellato della sua carnagione. Ha travasato male, dallo stomaco, la sbornia della sera precedente, avviata quando l’ha percosso la depres- sione. È crollato alle quattro del mattino, sul divano foderato in pelle dinanzi al televisore sintonizzato a caso su un’emittente cristiana che trasmetteva le testimonianze di donne e uomini che giurano di avere ricevuto l’impulso della redenzione e desiderosi di divulgare l’incontro col soprannaturale. “Dio mi ha ordinato, vieni. Ed io andai. Mi ha detto, vai. Ed io venni.” Alle sei ha udito cantare il salmo numero uno: “Menzionate l’uomo che non segue i consigli degli empi, né en- tra nei salotti dei peccatori, né siede alle riunioni degli increduli.” Serra i denti grossi e forti. Sembrano falsi. Ha il colon risentito; lo trova gonfio sotto la carezza della mano. Aspira il fumo del Bolivar. In quelle condizioni non riuscirebbe a eccitare nessuna delle sue a- manti, più bianche che nere. È un narcisista. Sbuffa guardando le pale del ventilatore vorticante e pendente dal soffitto. Di lato, sulla scriva- nia, c’è un taccuino con delle note. Ha calcolato che è giunto al traguardo prefissato: i dollari necessari, un milione. Presto lascerà la marina e andrà in giro da nababbo, spendendo i soldi accumulati. Ha già versato un acconto per una casa a Madrid. Ha prescelto la Spagna

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per condurvi il secondo atto della vita. L’appoggio a certi narcotraffi- canti ha dato frutti solidi e crede giunto il momento di uscire dalla scena. È pericoloso tirare troppo una falsa cima che, da un momento all’altro, potrebbe spezzarsi. La sua posizione gli ha permesso di ordi- re i fili invisibili delle trame, abusando dell’autorità che gli viene dal grado, senza scrupoli, bruciando le carriere d’ufficiali dotati di serietà e competenza. Risponde allo squillo del telefono. - Ammiraglio, il signor King Kris dice di avere un appuntamento con lei - lo avvisa il portiere per citofono. - Gli dia un lasciapassare e che qualcuno lo accompagni da me. - Kris è un americano. Vende servizi satellitari, è specialista di satel- liti spia. La sua collaborazione con Nelsen dura da alcuni anni ed è classificata, dall’alto ufficiale, con tre pi: prudente, particolare, produt- tiva. In segreto, la collaborazione si spinge in ambiti discutibili. L’ammiraglio lo accoglie sulla soglia. Il civile, calvo, profumato di sandalo, il naso affilato e la bocca larga, siede con un movimento di giunture che crocchiano. Fissa sbalordito, con la testa calva immobile, la quantità di piattini e tartine che invadono l’ambiente. L’americano indica il tavolo con le cibarie. - Sta facendo uno spuntino? - domanda con timidezza. - Per niente - spiega l’ufficiale creando un varco tra gli assaggi poggiati sulla scrivania. - Controllo di qualità. Mi accerto che il rancio sia quello promesso. Che ne dice mister King? King. - - Quanto lei sta facendo, è definito compito operoso. Fa la prova anticipata di tartine e confetti. Sono felice di vedere applicate le nor- me del buon vivere - aggiunge asciutto, appena lezioso, in un modo che fa storcere il collo all’ammiraglio. - Non conosco lo spirito dei marinai, né le loro necessità. Col procedere in navigazione, il pollo lesso stanca, eguale il mare. Cadono i denti, arrivano le coliti, le orti- carie, i funghi alle unghie dei piedi. - - Quelli con l’artrite, li mando a bordo dei sottomarini. Terapia dell’urto. O mettono le squame o vanno in ospedale. Le garantisco che i più tirano fuori le pinne. - Nelsen tenta di guadagnare il soprav- vento. - Lei, l’avrei infilata nei cassoni di profondità. -

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- Non invidio i suoi dipendenti. - Il calvo arretra la sedia di una decina di centimetri necessari per aprire la borsa sulle ginocchia unite. Ha visitato l’ammiraglio mesi avanti ed hanno definito un piano legato alla scansione satellitare. - Ha notato, ammiraglio, il Rio Maddalena? - - Oddio, che incubo. Incubo. Sabbia. La crea. Si tappa. - - L’ha rilevato il satellite. Il delta del Rio Maddalena sta cambiando forma. Se seguirà così, il prossimo carnevale, a Barranquilla, lo faran- no in gondola. - - Effetto serra. Se non è colpa della corrente del Niño, allora sarà della Niña - risponde Nelsen infastidito. - Il nostro satellite ha anche rilevato la nave intrappolata nel fiu- me. Il Karolina, ne sono certo - asserisce Kris. - E sa anche il nome del comandante? - domanda acido l’altro. - No. Lei pretende troppo. Ora, intendo tornare a Miami con dati sicuri. Comprate o no? - lo sprona Kris alzando un sopracciglio. - Abbiamo bisogno di una conferma. - - Il satellite? - domanda l’ammiraglio riducendo gli occhi gonfi a una fessura e piegando il busto sulla scrivania. - Forse. - Nelsen ha bisogno delle scansioni satellitari. Gli permettono di studiare le contromosse per contrastare l’espansione dei narcos trop- po vigorosi. Gli aerei usano l’infrarosso, eppure non raggiungono le performance delle scansioni del Biosat americano. - Vede, mister King, vigilo l’Atlantico caraibico. Caraibico. Decisa un’attività, essa sarà. Mi ubbidiscono tutti. I pesciolini colorati, quelli leviatanici e duri nella coda. È vitale che conosca in anticipo le future mosse dei regolari e degli irregolari. - - Non lo dubito. Che cosa dirò agli interessati? - domanda l’agente calvo mentre piega da un lato la testa tonda. - Mi attendo delle garan- zie da lei. - - Risponda che convincerò quelli del ministero per l’acquisto. Alla prossima riunione qualcuno le firmerà l’opzione. - La bocca di Kris si stende in un sorriso. - Ok. Adesso, ammiraglio, parliamo di ciò che ci sta a cuore. -

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- Con tutta franchezza - lo incoraggia l’ufficiale. - Si tratta dell’Onassis Quinto, pronto a salpare da Panama. Que- sta volta reca un grosso quantitativo. - - Onassis Quinto. Gli armatori non si stancano di contare - ride Nelsen. - Vuole un quinto appoggio? - - Lo necessitiamo. Il premio non sarà da nulla. - - Finché fortuna vi assisterà - allude l’ammiraglio sollevando le due sopracciglia folte e nere. - Lei, Kris, non è disposto a farmi un poco il canarino? - - Sarebbe? - domanda l’americano irrigidendosi. - Non mi direbbe il nome dello spedizioniere? - - Non posso scoprirmi tanto, ammiraglio. - Nelsen fissa il ripiano come se lì vi leggesse un oroscopo. Non conosce le vere attività di quell’ometto insignificante che gli sta sedu- to innanzi e immagina che se potesse lo chiuderebbe nell’isola di Rosario a misurare oscillazioni di marea, quattro volte al giorno, fino all’esaurimento delle cordicelle metriche. Quanto gli verrà dal suo segreto secondo lavoro? Ruffiano che chiede copertura per le navi sporche. Lo pagheranno bene. - Mister King, anche questo cargo passerà indenne dinanzi alla no- stra costa - afferma. - Sarà l’ultima volta, perché ho deciso di ritirarmi dal servizio. Dal servizio attivo. Attivo. Diventerò passivo. Posso chiederle quanto materiale passerete questa volta? - indaga il militare con un sussurro. - Una tonnellata. - All’ammiraglio sfugge un soffio d’ovvio commento. - Si tratta di molti scatoloni. In quattro transiti, i suoi amici pana- mensi, non ne hanno passata tanta. Valgono molto. - - Un milione di dollari. Una cinquantina di casse, nel giorno stabi- lito. Lei riceverà una gratifica congrua. - - Ben venga. Da lei, signor King, piuttosto, mi attendo qualcosa che non mi ha ancora dato. Non mi ha dato. - - Favore per favore. Un impegno è un impegno. - Il civile apre la borsa e sfila un foglio ripiegato.

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- Tolto dal satellite ieri. È un aggiornamento di scansioni MSS del Biosat. Quelle in rosso sono le aree d’interesse - sussurra porgendo il foglio. - Materiale riservato, ammiraglio. Le piantagioni di coca sono numerate. Lei sa che verranno irrorate dalla polizia con gli aerei. Cre- do si renda conto della necessità di farlo. Non dovrei avvisarla. Giacché preferisce ritirarsi, non so se rispetterà il nostro accordo. - - Non tema, King. Non divulgherò. - La carta, distesa sulla scrivania, evidenzia le linee dei paralleli e meridiani, propone la visione di rettangoli, fotografati dal vuoto fred- do, da duecentocinquanta chilometri con la lente del satellite Multi Spectral Scanner, modificato, risoluzione a venticinque piedi, dia- framma centouno. L’occhio distingue un’innocente foglia di tabacco da una di coca. L’aviazione irrora con diserbante al glisolfato. Le zone sono poi perquisite dalla DEA, dipartimento antinarcotici. - Grazie all’MSS i cattivi avranno una vita dura - commenta l’ammiraglio riferendosi alle piantagioni da irrorare. - Quanta coca andrà distrutta. I prezzi saliranno. - - Si sono superati i centomila ettari - mormora Kris sollevando il sopracciglio destro. - Vanno fermati i produttori avidi. - Kris non digerisce gli approfittatori. Il moro gallonato è doppio e corrotto. La mappa che gli sta offrendo lo aiuterà per avvisare qual- che amico piantatore. Con Nelsen fanno un gioco dai molti incastri: i narcotrafficanti con i quali lui stesso è in contatto lo pagano per con- trollare la quantità di coca messa nelle piantagioni colombiane. Un esteso intervento col diserbante abbasserà la produzione locale, a van- taggio esclusivo del prezzo della cocaina panamense e venezuelana. - Nel caso la DEA sospettasse soffiate a qualche suo amico - lo avverte l’americano - lei, ammiraglio, sarà uno dei primi a essere fiuta- to. Sarebbe processato per tradimento. - - Non pare incoraggiarmi - nota Nelsen fissando il profilo dell’americano che ha richiuso la borsa sulle gambe. - Sa che sono membro delle commissioni d’inchiesta? - - La DEA ha i suoi infiltrati. -

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- Confido in qualche altro sequestro di cocaina prima delle irriga- zioni e della ritirata nell’anonimato. L’anonimato. - - I piantatori hanno appreso che irrigando le piantagioni con mi- scela d’acqua e sostanza zuccherina, il diserbante resta neutralizzato per un periodo - commenta con freddezza Kris. - Il suo intervento dovrà essere rapido e mirato. - - Userò il suggerimento. - L’ammiraglio inarca le sopracciglia. In lui, alcune volte, soprassale una sorta d’irrequietezza, dinanzi una scelta importante che non dà margine per l’errore. S’impone di controllarla, di modo che non trabocchi e sia visibile. Continua a parlare: - Io mi trovo in un punto dello spazio dove ogni gesto è dettato dall’immobilità necessaria per vincere e vivere. Simili le salamandre che vivono per il Sole. I caimani ci restano per le acque fresche e torbide. I serpenti per la grassezza delle vacche. Io per il denaro e il potere. Potere. - Kris, per nulla scosso dalle frasi udite, chiude la borsa e scosta la sedia. Socchiude la bocca. - Avrà ulteriori notizie e al momento giusto ci rivedremo per il compenso. - Strizza gli occhi grigi. Non ha fiducia nell’altro. - Le salamandre e i caimani, se mettono la coda nei posti sbagliati, ricevono sassate. - - Attendo i soldi con pazienza - risponde l’ufficiale in modo natu- rale. - Non gradisce una tartina al caviale? Caviale. - - No, la ringrazio. Le uova mi mettono prurito. Lei dovrebbe darmi un’ultima cosa. - - Che? - - Il videogioco. - - Oh. Che sbadato. - Nelsen apre un cassetto dello scrittoio. - Quasi me ne scordavo. Glielo avevo promesso. - Porge una busta a King Kris che stende una mano per ritirarla. L’americano trova resistenza nel rilascio. Mette l’altra mano libera in tasca ed estrae una busta gialla che affida alle dita dell’ufficiale. - Come stabilito - dice King con un filo di voce. - Diecimila dollari per il videogioco. -

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- Autentici - sibila l’ammiraglio. - Ecco il programma Falcon com- pleto. Si fidi di me, non contiene virus di autodistruzione. - King mette via la busta e si alza. - Avrei un’ultima richiesta da farle - svela con una calma da gladiatore. - Ancora una? - Nelsen ha parlato tendendo il collo. - Mi trovi un capitano della marina mercantile. Ho progettato un trasporto privato verso Cuba. - - Che ingaggio è disposto a pagargli? - - Molto alto, ammiraglio. - - Perciò molto rischio. Occorre un capitano usa e getta. Ci pense- rò. Mi dia tempo Kris. Forse lo dovrò creare uno così. - - Non ho molto tempo, ammiraglio. Ci metta impegno. - L’americano esce dall’ufficio. Odia il mare, i marinai, le navi, persino i bagnini sulle spiagge pec- caminose. Fu proprio uno svergognato bagnino ad approfittare della sorella diciottenne, quando lui ne aveva sedici; a Chicago, sul lago, in un’ondata di caldo che stordì anche i salmoni. La madre sporse de- nuncia sostenendo che vi era stata violenza carnale. Era una donna determinata. Osserva le strade, le auto, i carretti, i pedoni. Si sincera che nessu- no lo stia seguendo o fotografando. Estrae dalla borsa il cellulare e fa una chiamata diretta a Vassili, a Cuba, avvisandolo di mandargli il denaro per pagare la merce che gli interessa. Il russo gli risponde che la riceverà tramite Leonid, un esperto pilota capace di atterrare in un fazzoletto di selva. Vede un taxi sopraggiungere e solleva la mano. Sedutosi, apre la borsa ed estrae un parrucchino biondiccio. Fa- cendo meravigliare l’autista che lo osserva dallo specchio retrovisivo, lo poggia sul cranio. I capelli li ha persi, svalutati dalla spinta inflazio- naria del cuoio capelluto fabbricatore di forfora impietosa. Teme l’aria condizionata e si prepara. Il volo per Miami partirà in due ore. Ha svolto l’inizio della missione: ottenere l’impegno di Nelsen per la copertura navale dell’Onassis Quinto pronto a salpare. Altri particola- ri li comunicherà all’ammiraglio in una visita successiva.

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Quel mattino, Raul, imboscato con i suoi guerriglieri nell’area bo- scosa della Sierra settentrionale, ha una disposizione da cerbero. “Piove. Perdio se piove.” Cadono rovesci sulla selva e sugli uomini. Le gocce che cadono si conficcano nel suo cervello. Passano anche il tetto di foglie della baracca comando. Per l’umidità la mimetica gli si attacca alla pelle. Nei minuti che seguono il risveglio del campo, sente il sangue scorrergli male. Postumi della dose notturna. “Cocaina, ne serve altra.” Assaggia un alito pessimo, con sapore di acido. Una brut- ta sensazione ha scorso nelle sue vene durante il buio. Ha veduto, nell’incubo, il folletto dispettoso ballargli sul petto: brutto, peloso e grosso quanto un babbuino. Il maledetto esce dal nulla, dal vapore della cocaina. Lui, una sera gli sparò contro. Inutile. Riappare. “Il duende.” La cocaina inalata per lunghi anni gli ha degenerato l’animo. L’intensità singolare che gli si accende dopo la sniffata gli provoca allucinazioni; lo contrae, lo stritola. I sensi dilatati gli fanno cogliere influenze altrimenti celate dalla foresta. Si sentirebbe un dio se le in- clinazioni delle costanti piogge tropicali non gli muovessero una sorta di disperazione dove il folletto fa la parte del domatore. Lui si sente un leone che salta nel cerchio di fuoco nel circo gelido della dipen- denza dalla cocaina. L’alba si annuncia con le solite insidiose trasparenze della foresta. Non vuole soccombere sotto le ombre dei complicati alberi soffocati da liane e delle piante parassite non identi- ficabili nell’intrico di rami. Accende una sigaretta. Il fumo gli scende nel petto con rumore di catarro. Ha un colpo di tosse. Quaranta anni alla macchia l’hanno abbrutito e n’è risentito. Cattivo cibo, pessime cure, orribili ricoveri, sesso praticato in modo osceno e per lo più con le sequestrate. La faccenda più dura, al di là dei combattimenti, delle imboscate, è l’adattamento continuo a costruirsi la giornata secondo ciò che si presenta nell’inferno verde. Va male. Uno scontro con Gonzales, il paramilitare, per il controllo di una zona cuscinetto, ha lasciato, tra i suoi, cinque uomini feriti e un morto. Va molto male.

L’ultimo carico di cocaina, inviato con una lancia lungo il fiume, l’hanno intercettato i pattugliatori fluviali del fottuto moro, l’ammiraglio Nelsen. “Chi avrà soffiato?” Non riesce a spiegarselo. Gli indios che abitano la zona hanno le bocche cucite. Li minaccia e quelli tacciono. La ricognizione aerea non l’ha individuato. Gonzales, il suo nemico, che interesse avrebbe a denunciare i suoi movimenti? Lui pure produce cocaina e tenterebbe, semmai, di soffiargliela. Vi sono momenti in cui una lama di luce striscia tra le chiome de- gli alberi e gli ferisce gli occhi. La foresta comincia a parlare. Loro, i guerriglieri, intendendola attraverso il verso delle scimmie, dei maiali selvatici, dei pappagalli, danno a quei segnali un senso, traggono le giuste informazioni sul destino della giornata e salvano la pelle da un cocciuto inseguimento dell’esercito. Bestemmia. Sbraita. “Cancros.” La tosse lo scuote con violenza. La partecipazione alla guerriglia è simile a un arruolamento in una legione straniera capovolta. La giungla rega- la fango e malaria, ferite e febbre. L’illusione è fondata su una paga regolare; un inaspettato grosso guadagno. Un azzardo che un giorno si espande, un altro si contrae, o si dissolve quando l’esercito circonda il campo. Il guerrigliero non ha tomba. Una volta i contadini li acco- glievano, adesso scappano e non lasciano nulla. Hanno terrore. “Servono solo per aggiustare i campi, concimare, tenere in ordine i laboratori di coca. Se non lavorano per la causa, li cacci via.” All’accampamento non c’è corrente. Il traliccio funzionante è di- stante venti chilometri. I tecnici della società municipale l’hanno piantato in un’area militarizzata. Non ci si possono attaccare. Loro, perciò, hanno un gruppo elettrogeno per garantire il ciclo di raffina- zione della coca che si sta deteriorando. - Antonio - grida dal buco nella parete - mandami una birra. Durante la notte ha udito qualcuno dei suoi lamentarsi. Al campo ci sono dei feriti. I meno gravi li curano come possono. Gli altri, se non crepano in fretta, li lasciano lungo la strada per la città. I contadi- ni li prendono a bordo e li portano in ospedale con i loro furgoni carichi di yucca. Una volta in grado di stare in piedi, se non riescono a scappare, finiscono in galera. Lui ha smarrito la voglia di qualcosa

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d’universale uguale alla rivoluzione. Adesso vale la cocaina e i dollari che fa arrivare. Stende sul tavolo una striscia bianca, abbassa la testa e tira forte tappando una narice. Dovrebbe agire in poco, cancellerà il gorgheggio indecente della rumorosa squadriglia di scimmie che passa e ripassa sul tetto della baracca tinta a macchie verdi e nere scuoten- dola. Raul getta uno sguardo fuori della sgangherata finestra e nota il rifiorire puntuale di un croton spezzato. La pioggia fa rinascere i manici di scopa se piantati là. Si faranno altri generosi raccolti. Da ragazzo lavorò da vaccaio. Rinunciò a seguire il passo lento di una mandria. Capì che dove non c’è industrializzazione, avrebbe resi- stito il medioevo. Loro, i guerriglieri, sono gli indiscussi padroni delle foreste e del loro contenuto: indios, serpenti, coccodrilli e isolati pezzi di terra su cui innestare la coca. La colazione sarà un brodo di pesce salato e patate lesse, poi gli uomini faranno l’esercizio giornaliero: a occhi bendati smonteranno e rimonteranno l’arma. Il più lento pagherà da bere al compagno che lo assiste. Una birra è sufficiente. Non li vuole ubriachi. Li preferisce drogati. Si esaltano e ubbidiscono. L’arrivo di una moto sollecita la sua attenzione. Un messaggero salta da una Honda, bagnato fradicio. Si dirige rapido alla baracca comando. Entra levandosi il casco. Ha la faccia rattrappita. - Raul, il comandante ti sfotte perché hai lisciato un carico. Hai un mese per pareggiare o addio alla zona. - Il guerrigliero, seduto sulla sponda, scola la lattina di birra che gli ha portato l’india schiava. Risponde duro: - Assicuragli che avrà un’aggiunta. La fanteria di marina ci ha tenu- to al palo. Non ho potuto agire - schiaccia la lattina in una mano. Dopo avergli offerto una birra, rimanda il messaggero per rassicu- rare il comandante capo: avrà il dovuto. Raul non s’illude: la sua lotta è con il tempo. Troverà una soluzione: andrà in cerca di cocaina. Co- sti ciò che costi. I sentieri nascosti e gli affluenti alluvionali che batte a piedi possono divenire trappole. I ruscelli si gonfiano con violenza. Gli uomini, una trentina, sono di mal genio, la metà con diarrea. Libe- ra il ripiano da un grappolo di bombe a mano. Distende un’umida

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carta militare. Inventerà una tattica. Quanta diarrea stanno buttando i suoi da una settimana. Non può impietosirsi. I terroristi irlandesi glie- lo hanno spiegato e ficcato in testa che serve bestialità. Vennero a confezionare il nuovo plastico, mostrare in che modo si camuffa, o s’imbottisce un mulo, facendolo sembrare un innocuo brocco da ri- gattiere, in modo da fare più morti che dieci imboscate. Un rimuginare si sta impossessando di lui. “La cocaina piace a tutti: don- ne, uomini, prostitute e santi. Basta dargliela e quelli, dai, se la ficcano.” Che tipo d’attacco sferrare a Gonzales? La pioggia picchia duro. Accende una sigaretta. Studia il percorso per andare all’obiettivo. La raggiungibilità. Gonzales non è uno che si convince a mollare pasta di coca. Neppure invitandolo con un patto a una tavola di dialogo. È un megalomane nervoso, con i nuovi Fall; esaltato, anticomunista nelle gonadi. Con i proiettili fa buchi giganti. Crea i suoi calibri 7,62 in cui cola mercurio o cianuro. Ha gli elicotteri: un Artigliato armato e un CH 47 da trasporto. Attaccherà Gonzales che solo in casi eccezionali sposta il campo base. Non cadrà nelle fin- te del campo fantasma, dove arrivi e trovi solo mine antiuomo. Si apposterà, in ossequio al principio di morte, logico per gli irlandesi, fiori di terroristi. Un fatto è certo: serve cocaina. Fare guerriglia costa. Addestramento, cibo, vestiti, cure, divise, gambali e donne. Il soldo agli informatori, agli infiltrati che danno il sostegno necessario per la ritirata. Nulla al caso. “Qualcuno dalla città fornirà panni di soldati regolari, o di preti. I capi stessero tranquilli, la cocaina arriverà. Il si- stema, infine, paga.” Fuori segue la pioggia. S’impone di concentrarsi ancora sulla mappa, la ruota di sessanta gradi. A una quarantina di chilometri vi è segnato il campo dei paramilitari. Gonzales prepara roba da naso e da sigaretta. Lui succhia con rabbia un altro lungo sor- so. Bestemmia pur non credendo ai santi. Sente un colpo all’uscio che si spalanca per far passare un guerrigliero, basso, con una fascia rossa sulla fronte. Trascina una giovinetta impaurita e imbavagliata e la spinge a rotolare in terra. - Chi è questa? -

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- Capo, la prendemmo alla fattoria Corral. Non hanno versato la tangente e l’abbiamo prelevata. - - Quanto ci dovevano? - - Seicentomila. - - Pezzenti. Cancros. Lasciala qui. - L’uomo con la fascia rossa si volta per uscire. Raul lo blocca. - Dove demonio vai? Spogliala e legala per i piedi. - L’uomo obbedisce. Quando questi esce, Raul guarda la ragazza con gli occhi freddi e lucidi che cambiano colore. La giovane, dicias- sette anni, il corpo già maturo, protesta debolmente e si oppone senza essere presa in considerazione. Adesso è ostaggio di guerra, secondo il comma. Venissero quelli dei diritti umani nella selva a farsi mordere i testicoli dalle formiche imperiali. Hanno la lingua pronta a far criti- che; vanno a conclusioni rovesciate. Sputa in terra. Gonzales riceverà l’attacco sulla sinistra; in quattro giorni ci arrive- ranno, tagliando quota mille duecento e poi seguendo il tratto del fiume. C’è un pezzo di sierra da attraversare e gli indios della zona sono poco socievoli. Parlerà con lo sciamano. Takenda non baderà a lui se gli darà in cambio delle mucche. Uno squarcio si apre nel cielo. La pioggia dà un breve respiro. Il Sole appare al massimo della verticale. Al campo arrivano due uomini, paonazzi, bagnati, uno alto con il naso aquilino e l’altro grosso, con un faccione tondo a forma di di verdura. Le scolte li accompa- gnano alla capanna centrale, più grande delle altre. La prigioniera non deve essere vista. Raul li raggiunge attraverso uno spiazzo fangoso. - Capo, ti saluta il compare - dice il grosso vedendolo entrare. - Dì al compare che si tenga stretta la misera proprietà che mi ha offerto. Voglio qualcosa di strepitoso, con piscina e un campo da tennis. Non starò qui a lungo. Uscirò dalla selva. Avanti. Ora che cosa avete da dire per il lavoro che vi ho ordinato? - - Raul, sei tu che decidi, no? - tentenna l’uomo dal naso aquilino. - Andate all’osso. - - Tutto compreso ti verrà un migliaio dollari. - - In quanto tempo? -

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- Questa settimana ti arriva il Caterpillar. Una decina di giorni e avrai la pista per l’aeroplano - stima quello grosso. - Quanto lunga? - - Duecento metri. - - Basta per un monomotore? - - Altroché. - - Datevi da fare. Presto avrò un Cessna. - - Quando ci paghi i macchinari? - domanda a voce bassa l’uomo dal largo faccione mentre si asciuga il collo con un fazzoletto. - Presto. Non scordate di avvisare il compare che mi piace la pi- scina per pisciarci dentro. Si sbrigasse a trovarmi una casa decente. - Raul fa dire all’india di preparare da mangiare per i due informato- ri. Adesso lui ha da fare. Batterà quella puzzola legata al letto con una catena. Torna alla baracca comando e va accanto alla spaventata pri- gioniera, rannicchiata in terra. - Tuo padre è avvisato che sei in ostaggio. Chissà se uscirai viva. - Fissa la giovinetta che tiene la testa china. Allunga la mano verso la catena e la strattona con atto brusco. - Quando ti parlo, rispondi, o ti prendo a calci. - L’ostaggio singhiozza e si copre il volto, avvilita dalla realtà cadu- tale addosso. Raul, che tali scene le ha vissute, non s’intenerisce. - Bella, capiamoci, voglio collaborazione. Non ti chiedo una pre- stazione. Almeno per ora; però, se sentiremo puzza di militari, ci rimetti la pelle. Tuo padre è disposto a pagare? - La ragazza fa un cenno d’assenso e Raul le lancia un lercio lenzuo- lo che lei prende subito, per coprirsi e nascondersi a quegli occhi cattivi, spaventata dal trovarsi alla mercé di quel demonio. Il tremito che la percuote risponde alla situazione di stress con puntualità fatale. Per lei è difficile coordinare ciò che le accade. La paura è una rozza caratteristica delle persone, che talvolta la controllano, altre no, e di- viene terrore quando la vita è minacciata e, allo stesso modo che in una volpe, si attiva l’istinto atavico che monta con un groppo di spe- ranza egoista per la sopravvivenza. - Mi ucciderete? -

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- Mica siamo assassini - si diverte sadico. Il guerrigliero esce ridendo, non toccato dal tono supplichevole della vittima. Ci mette zelo nel distribuire del male e non gli importa che altri invochino un santo che non esiste. “Chi chiamerò quando mi troverò innanzi al fucile di un militare iscritto nelle liste di leva della nazione? Una recluta poco addestrata, che sparerebbe pur vedendo due mani alzate e in vista sulla testa.” Per sua fortuna, tempo e uomi- ni per salvare ogni sequestrato, l’esercito non ne ha. Il territorio è vasto e le selve danno una copertura sostanziale. Il cielo s’è richiuso e la pioggia inizia di nuovo a cadere sulle cime degli alberi; cola lungo i tronchi coperti di muffe, forma rigagnoli.

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Jean Paul apre l’armadio e prende la divisa. Benché sia appesa da molti giorni, rilascia ancora un odore particolare: lo stesso creato a bordo dai profumi delle passeggere, dalle lozioni dei maschi, dagli umori versati dell’equipaggio, dai vapori delle cucine, dagli effluvi delle alghe esterne, dal gas dei motori. Dopo che avrà comprato dei vestiti nuovi, riporrà i panni di capitano. Toglierà dalla giacca i gradi, i bottoni dorati. Regalerà la stoffa. Ai pescatori di Las Flores piace quel tessuto: è resistente. Esce. Andrà prima in banca e poi per negozi a fare compre. Fuori, da un lato, è parcheggiata un mastodontico taxi senza paraurti. L’autista, pelle morata, è un uomo di mezza età - un sorriso sghembo stampato in faccia - si lustra le scarpe passando la tomaia sul retro dei pantaloni. Fuma un sigaro, appoggiato alla portie- ra. - Quest’auto regge? - gli domanda Jean Paul. - Mi hanno tamponato, ma la meccanica è in ordine. - - Mi porti al banco della Repubblica. Ho premura. - - Le garantisco che ci arriveremo prima che fallisca - scherza l’uomo mordicchiando un pezzo di sigaro. - Se lei è turista, si fermi fino al prossimo carnevale. - Sta parlando con orgasmo. - Le donne fanno carte false per mettersi mascherate nella sfilata. Per l’iscrizione vendono gli orologi dei mariti, impegnano le moto dei figli, e affittano i vestiti per le comparse. Mia moglie si è iscritta tra quelle delle ninfe della laguna. I vestiti costano. - Sosta un minuto per il fiato corto. - Si sta bene al Colombus. Ha larghe camere, piscina, sauna. Ospita gente buona. Le puttane non le lasciano entrare. Ha le sue regole. Seduto nel sedile imbottito, Jean Paul si abbandona ai rollii dell’auto che ondeggia sul lungomare tracciato secoli prima dai conqui- stadores, usando galeotti, poi pavimentato, rammodernato per le auto. Pullman, aperti e colorati a mano, saettano frullando i passeggeri. Il taxi non smaltisce i raggi solari e la lamiera rilascia calore da ogni bul- lone. Una bottiglietta di deodorante, sul cruscotto, effonde un lezzo

che sa di brillantina. Jean Paul osserva la pigrizia di un cormorano che ha beccato il pranzo e tiene metà cefalo, conteso a un gabbiano, fuori del becco. In genere, i cormorani attendono il rientro delle barche per frugare tra lo scarto buttato via dai pescatori. Innanzi alla Bocca di Cenere, il Rio Grande della Magdalena invade il mare. Là, i lenti gozzi con le reti a poppa pescano poco distanti dal lungo frangiflutti. Su questo si vede passare il trenino che, dal povero quartiere di Las Flo- res, trasporta operai e materiale di ripristino fino all’estremità della Bocca. L’ente del porto tenta di controllare la forza finale del fiume, prima che distrugga il faro. Sulle spiagge laterali gruppi di bagnanti passano la giornata al Sole. Le donne in bikini, distese su grandi teli, si abbronzano alla luce pomeridiana. “Inutile negarlo” pensa il capitano “esse trattengono più dei fondali ove fili l’ancora per fermare la nave. Chi salperebbe da un petto femminile? Ti fa la giornata un paradiso o un inferno; ti mette al livello del re, o a quello del giullare. Il gioco sta nel capire in anticipo cosa c’è dietro uno sguardo languido.” Dietro le colline, dal lato meno esposto ai venti dell’oceano, è trat- tenuta la laguna delle mangrovie, abitata da variegate famiglie di pesci e sorvolata da grossi uccelli. Alcune garze bianche affondano il becco nella rena e si cibano di vermi. Corocora rosati, con atterraggi acrobati- ci, cacciano rane che hanno lasciato il fitto intrico di radici acquatiche. Il promontorio delle piantagioni si stacca dalla sierra andando in fuo- ri, nel golfo. L’intero profilo montuoso è morbido, sinuoso, marcato in alcuni punti dal carattere violaceo delle cime alberate. In basso, negli anfratti, ci sono i lavorieri, i reticoli e le gabbie per pascere le aragoste e le còvole per i gamberi. Sulle colline vi sono palmeras, cam- pi di frutta e di canna. A lui ricordano i palmeti di Idumea, una terra che visitò durante una sosta in Medio Oriente. Gli antichi quartieri di Barranquilla conservano uno stile misto, coloniale e repubblicano a un tempo; hanno i palazzi tinti con piglio artigianale e vivace. Sono rallegrati da balconi di legno scolpito, dove si espongono, all’ombra, le amache di corda in cui le madri mettono a dormire i piccini quando il calore è alto. Gli edifici adiacenti al mare, simili a navi sull’invaso, pronte al varo, sono sopraffatti dai riflessi

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della baia. Alcuni dichiarano l’abusivismo peggiorato dall’erosione marina. Le costruzioni più recenti paiono più organizzate di lato a strade ampie, allineate, assecondano l’andamento dei capricci della costa. Jean Paul emette un lieve sospiro. Poggia la testa sulla spalliera e si sforza di tenere aperti gli occhi. - Come ti chiami? - domanda. - Felipe. - - Perché ci sono tante buche? - - Ha piovuto molto negli ultimi mesi. Adesso siamo secchi peggio del deserto. Del tempo non si capisce nulla. L’acquedotto fa schifo e la poca acqua pompata è imbevibile. Piove solo sulla selva e sono felici i pappagalli verdi e gialli. - L’autista tira una boccata di fumo dietro l’altra, alternando colpi di tosse e scali di marce. Il motore rifiuta accelerazioni spinte. Infilano un quartiere del centro. Svoltano per una piazza ove campeggia la chiesa. La costruzione mostra una disadorna severità. La brezza co- mincia a giungere dal mare. È il fresco vendaval e i neri dicono che soffi sulle anime di gesuiti uscite dalle tombe a caccia di nere. La banca è sulla piazza. Al centro, è piantata la statua equestre di Bolivar. Il liberatore ha il volto statico; l’aria incupita ricorda la sua coscienza. Mostra l’ossido nella fusione bronzea. Macchie verdastre sono sulla giacca con gli alamari. Palomo Blanco, il cavallo amato dal colonnello, regge agli assalti delle intemperie e conserva parti di bron- zo ancora brillante, ad esempio le prestanti palle del fuoriclasse. Felipe ferma la vettura all’ingresso. - L’aspetto? - domanda al passeggero. - Solo se fermerai il tassametro. - - D’accordo. - Jean Paul varca la soglia della banca. I soldi messi da parte col la- voro si dissolveranno senza i buoni risultati della coltivazione. Dovrà contare sulle sue capacità ma anche accordare fiducia agli altri, senza commettere errori. Dentro non c’è frenesia: l’importanza delle transa- zioni si condensa quietamente sui moduli bancari. L’aria condizionata

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esce con soffi diretti dalle bocchette lungo le pareti, dove i manifesti dei fondi di risparmio presentano efficienza. “Un ciclo che indeboli- sca il dollaro indurrà i narcotrafficanti a elevare il prezzo della cocaina. Essi contrarranno le piantagioni di coca. La tendenza sareb- be confermata dal prezzo del cemento. Lo usano per la lavorazione. Quasi un indicatore per capire il mercato della droga.” Un poliziotto privato lo giudica con uno sguardo inquisitivo. Il capitano gli chiede del capo e l’agente lo accompagna, con cortesia, dal dottor Ortiz, un nero che ha studiato economia a Londra. Indossa un doppio petto grigio. Sta dietro la scrivania di metallo smaltato. Stona sulla sua camicia una cravatta con le strisce di un clan scozzese. - Sono felice di servirla, capitano. Abbiamo prodotti sicuri - avvisa scrutando l’orologio fissato alla parete. - Vorrei essere informato. Se ha tempo. - - Per lei faccio straordinario. - Jean Paul, aiutato dal direttore, inizia a investire diversificando per aree. Valuta il consiglio di puntare meno sullo zafferano e più sulla soia. Si muove un po’ a disagio sulla sedia, quando Ortiz espone la teoria di salvaguardarsi dal differenziale di cambio, dalle bizze del dol- laro e dell’euro. Compra fondi. - Credo che l’Europa sia affidabile - osserva alla fine Jean Paul al- zandosi dalla sedia. - I paesi del Sud meno, per i guai interni. - - Concordo, capitano. L’Europa resterà affidabile fino a che la lo- ro politica comunitaria non andrà a predominare sul capitale privato - la voce acuta di Ortiz pare quella di un predicatore più che di un lirico contabile - e fino a che ricchi e fisco lasceranno aria alla classe media. Il direttore accompagna Jean Paul alla porta e gli raccomanda di tornare per verificare la situazione patrimoniale. Il capitano esce con un blocchetto d’assegni e la convinzione di avere agito bene. Chiede a Felipe di portarlo nella zona dei negozi eleganti. A un tratto tenta di risolvere un’equazione: “Che stile di vita adotterà? Lavoro, riposo, lettura, teatro. Avrà camicie fresche, ben stirate. Avrà un letto ampio per stendere le gambe; potrà rigirarsi comodo, tra lenzuola giuste, né lunghe, né corte, e non umide. Si sveglierà la mattina all’unisono con

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gli altri umani, impiegati, contadini, operai, preti. Berrà un caffè pro- fumato, magari addolcito con latte fresco. Leggerà il giornale ogni giorno. Avrà l’opportunità di sviluppare dei piani. Immagina il bacio di una donna.” Fine dell’equazione. Manca la soluzione. Dopo aver acquistato degli indumenti in un paio di boutique, il capitano torna al Colombus. Riposa un poco. Verso le ventidue, arri- va Felipe per accompagnarlo alla zona rosa. Jean Paul gli segnala un bar con verande all’esterno. Paga la corsa e scende. Sulla strada ode cumbia. Sceglie un posto dove sedere a un tavolo. Le insegne luminose marcano noti avamposti dotati di acquavite, apprezzata da giovani intellettuali indifferenti al rischio di cirrosi e decantata da alcuni soler- ti organizzatori del carnevale: armatori, commercianti, professionisti o cineasti. Sostano ai tavoli bassi, rilassati nelle poltrone di vimini. Il capitano si accomoda e si presta per udire i loro dialoghi. - Cameriere, portaci una bottiglia di rum - chiede uno. Il venerdì sera, a gruppi di cinque o sei, si riuniscono e, tra una bevuta e un’altra, si raccontano storie incredibili di maschere, balleri- ne, coltellate di mariti gelosi. - Paco si prese una coltellata da Juan. Per Moira. - - Lo ricucirono, il povero Juan, ma fece fagotto dopo tre giorni. - - Pace all’anima sua. - - Moira batte al porto. - - Non poteva finire peggio, poveretta. - Gli avventori cambiano tema. Parlano di pesca d’altura. - Roberto, come fu che perdesti il barracuda? - - Non era un barracuda. Era un pescecane. - - Avevi perduto gli occhiali? - - Li lasciai in casa di tua sorella. - Gli animi si scaldano. - Cameriere, altro ghiaccio. E una bottiglia fresca. - Il fatto che giungano le due di notte non preoccupa né gli studen- ti, né gli organizzatori. Jean Paul ordina un ultimo drink. Osserva la gente. Le persone sono rilassate. Nessuno andrà al lavoro quando farà giorno. L’indomani è festa. La voce distorta di un vicino eccitato par-

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la dello squalo sfuggito e ritrovato, boccheggiante, dopo una settima- na di abbondanti piogge, al finale dell’Avenida Ottantaquattro - poco distante dalla sponda del fiume - nel quartiere di Barlovento allagato in un colpo dal torrente che le fogne non riuscivano a ingerire. Ogni volta che i temporali durano settimane, dall’altro capo dell’Avenida si raccolgono gli innesti scroscianti delle strade laterali, in salita e in di- scesa, e rombando la lava precipita in basso. Gli avventori si ripetono la storia di Mohao: parlano di lui quando una lavandaia sparisce nel Rio Grande. “Lo spirito acquatico l’ha presa e non la sputa.” Mohao non si accontenta delle offerte di sigari che i neri di Barranquilla flu- viale gli lasciano sulle sponde per tenerlo buono. “Nessuna donna regge Mohao. Non c’è peggiore diavolo con tale vizietto. Le prende per lui. Dopo giorni, se le offerte l’hanno saziato, le rilascia e le pove- rine salgono a galla, ormai gonfie e sfigurate.” - Cameriere, il ghiaccio. - I gestori del carnevale prosciugano le bottiglie, accompagnati dagli studenti intellettuali e iniziano il resoconto della notte in cui il rimor- chiatore Ercules si offrì d’uscire, con coraggio, nell’oceano tenebroso quando i predestinati del peschereccio Anguilla, esausti, trasmisero il segnale definitivo: “mi affogo” ripetuto tre volte. Gli uomini lancia- rono le sagole di rimorchio, ma il cattivo tempo non permise il salvataggio. L’equipaggio affondò tra gli improperi, mentre dai frigo- riferi dell’Anguilla risalivano seppie imbottite di palle di silicone con dentro cocaina che rivestirono l’insenatura di Punta Rocca. I clienti bevono duro mentre le visioni si gonfiano e si deformano a causa delle libagioni. Un organizzatore interroga uno studente sul modo d’iniziare la sfilata. “Senza contraddizioni, si presenterebbero dapprima forme meno complesse, per passare a quelle più complete di grazia erotica. Le matricole in prima linea e infine le laureande, ma- gari nude.” Spesso, questi suggerimenti sono presi in considerazione. Il dialogo muta. Si cambia anche liquore. Dal rum all’acqua ardente. Le bottiglie vuote aumentano in modo vertiginoso sui tavoli e sul pavimento. Il cameriere fa la spoletta. Glielo ricorderanno al culto domenicale le loro donne. Che importa, sarà festa.

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Nelsen apre il librone dei segnali navali. Dall’ultima visita di King Kris è trascorso qualche mese. Da un momento all’altro potrebbe avere notizia della partenza dell’Onassis Quinto da Panama e lui non ha ancora un piano per evitare che qualche zelante controllore della guardia costiera a metterci la prora. Ha l’aria truce: è appena tor- nato da una turbolenta riunione presso l’ente direttivo portuale. I reclami di Carrera e di Krapfen hanno sollevato trombe marine. I burocrati hanno preteso dal demanio garanzie per una corretta segna- lazione delle secche alla foce del Rio Maddalena. Chiedono che il vecchio Puerto Colombia sia reso funzionante in pieno per alternarlo al porto fluviale. Ripone sullo scaffale il manuale dei segnali con ban- diere e luci, quando Peña Rosa entra trafelata nel suo ufficio attraverso la porta comunicante con la segreteria messa di lato. - Che cosa c’è Rosa? - domanda misurando, con sguardi accesi, le curve della segretaria alle pubbliche relazioni. - L’ammiraglio Escudoro la vuole. - L’uomo sbircia nella camicetta della donna. Scopre il colore del reggiseno. Rosso. Tra qualche ora, finito il lavoro, la porterà a cena. Poi le offrirà un passaggio a casa. - - Hai fiutato il motivo? - - Ha ricevuto un cablogramma. Krapfen, il capitano del Karolina, rimane insabbiato nel fiume e minaccia di affondare la nave lui stesso se qualcuno non va a tirarlo fuori immediatamente. - - Krapfen - ripete con tono meccanico. - Un altro tedesco con la fissa dell’autoaffondamento con lo stile della Graf Spee. Mi domando perché Carrera non è rimasto al suo posto. - - Avrà rinunziato per non restare nelle secche - dice ironica Rosa. - Carrera è colombiano, conosce i pantani locali. - Nelsen si alza dallo scrittoio coprendo i capelli corti col berretto dal soggolo fiammeggiante. Pensa che Rosa abbia troppo spirito di

osservazione, oltre che buone misure e un faccino da gatta tentatrice. A volte lo previene. Arriva al piano superiore ed entra dal capo. - Oh. Nelsen. Sieda. La aspettavo - lo accoglie Escudoro accen- nandogli la sedia dal lato opposto della scrivania. - Credo sia giunto il momento di mostrare che anche la marina fa la sua parte contro il narcotraffico. Quando distruggerà la cocaina sequestrata? - La brucerò in pubblico. Chiamo la stampa; ai giornalisti piaccio- no le scene col fuoco. Il fuoco, le fiamme - ripete stoico l’ammiraglio togliendosi il berretto e sedendo - Eccitano. In televisione rende. Fa spettacolo. Gli spettatori approvano. - - La DEA ci chiede un’operazione congiunta con l’esercito per creare una tenaglia, dallo sbocco del Rio Maddalena fino agli af- fluenti laterali che scorrono da Mompós. Possiamo dargli un parere positivo? - - Beh, signore, aspetterei le mappe complete. Ci muoveremmo con meno rischi. Precisione, mi spiego. - - Ha individuato gli accampamenti da dove parte il prodotto illega- le? Avranno la raffineria non lontano dal fiume. - - Ci sono tre aree, di cui una che fa da cuscinetto tra i belligeranti. I guerriglieri della selva stanno combattendo con i paramilitari della sierra. Negli ultimi sei mesi hanno avuto diverse scaramucce. Io li farei stancare un pezzo, prima di intervenire. Le informazioni satelli- tari sono infallibili. Se avessimo un nostro satellite, intercetteremmo tutti i malandrini. - - A che punto sono gli accordi per il Biosat? - - Mi sono incontrato con King Kris. Ci faranno una buona propo- sta per l’acquisto di un nuovo satellite che manderà scansioni a cadenza costante. Faremo piazza pulita. Pulita - dice eccitato. - Non appena avrà il quadro completo, m’informi. - - Immediatamente. - - Nelsen, che succede a Barranquilla? La foce ci sfugge? - - Nulla di grave che io sappia - dissimula tirando il nodo della cra- vatta. - La pesca con la dinamite. Qualche mano saltata e meno pesce sul mercato. -

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- Non mi riferivo al frodo. Un certo Krapfen minaccia di affonda- re il Karolina nella foce. Da molte settimane non può lasciare il molo di Barranquilla fluviale. - - Era a Puerto Colombia. - Nelsen soffoca l’irritazione. - Non pare normale. Ha preteso di essere rimorchiato nel fiume. Poi si è insab- biato tentando di uscirne. Il comandante del Karolina era Carrera. Manderò dei rimorchiatori militari a trascinare la nave in mare aperto, a costo di arare il fondo del Rio Maddalena dalle banchine al mare aperto. Krapfen è un imbecille. - - Carrera o Krapfen per me fa lo stesso - dice Escudoro a sua vol- ta infastidito. - Mi tolga quella nave di torno. Mi dica, è tutto pronto per la cena presso il dipartimento? Sa che verrà il ministro? - - Ho scelto gli ufficiali giovani che inviteranno a ballare le dame dei personaggi importanti. Faranno breccia nei cuori. Un’osservazione, signore. Il parcheggio delle auto ha un’unica garitta con la guardia. Sono convinto che là vada aumentata la sorveglianza e non sarebbe male una seconda garitta sul retro. Vuole un promemo- ria? - - Mi stenda una relazione. Esalti l’aspetto della sicurezza. Appon- go una sigla e la passiamo all’economato. - Nelsen si alza e uscendo si rimette il berretto. Quando riapparirà la faccia d’uovo di Kris gli dirà che non ha dimenticato la sua richiesta di avere disponibile un capitano della marina mercantile. Se Carrera stesse marcendo alle banchine di Barranquilla fluviale, non rifiutereb- be una vantaggiosa offerta per un comando. “Dove sarà andato quel merluzzo?” Dà un’occhiata al quadrante del Rolex. Andrà a prelevare Rosa all’uscita posteriore. L’ha invitata a cena.

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L’ambasciata di Cuba pare deserta. Lo scrittoio del fattorino è vuoto. All’uomo hanno concesso due giorni liberi per la festa del par- tito. Il ripiano è zeppo di note. Leonid passa oltre. Ha l’abitudine d’osservare ogni particolare del posto. Percorre il lungo corridoio con veloci passi. Respira profondo prima di spalancare la porta in noce della stanza. L’ucraino sta alla scrivania con un sorrisetto tremulo. Lui non si farà imbrogliare da quel faccione subdolamente pacifico: ha scoperto che l’aria sorniona la usa per incastrare i sottoposti. - Ti è piaciuto il regalo, Leonid? - esordisce l’uomo allargando le braccia e coprendo con la mole mezza bandiera della nuova Russia, alle sue spalle. - Nientemeno un guerriero di pietra. - - Quel pupazzo, Numero Uno, l’ho sistemato nel patio. Gli ho messo in testa un vasetto di viole. Non ho trovato altra destinazione. - - Per tutti gli Arlecchini archeologici. La prossima volta ti darò ru- bli appena sfornati. Sei divenuto venale. - Leonid soffoca la rabbia e si stampa in faccia un’espressione neu- tra che non dia al connazionale la minima soddisfazione. - Siedi, prego - lo invita il grassone. - Numero Uno, chiarisci. Hai deciso che ci separiamo e noto che tutti sono d’accordo. L’alto bureau, il museo di Dresda e tu. La selva colombiana non è una destinazione allettante. - - Al solito, sei irruente oltre misura - lo frena il capo i cui pensieri si formano dopo un’accurata revisione interna prima di uscire dalla bocca sotto forma di parole. - Ci resterai poco e l’appannaggio è da agente in zona di guerra. Soldi a palate. - Vassili è responsabile delle relazioni commerciali tra L’Avana e Mosca. Almeno così si legge sulla targa di plastica messa di traverso sul ripiano. All’interno della struttura, in segreto, dirige il servizio ci- fra. Leonid, in apparenza, si dedica, per conto del museo di Dresda, al recupero di opere precolombiane. Tra i due vi è una relazione d’odio

e d’affetto. Hanno punti di vista diversi. Tentano di andare d’accordo. Sono all’incirca della stessa età, sopra i quaranta. A Cuba parlano tra loro in spagnolo: corretto quello del moscovita Leonid, (del resto cu- ra anche i suoi baffetti sottili con colpetti di forbici); marcato da accento straniero quello che si forma nella voce legnosa dell’obeso capo ucraino, (segue a mangiare, lontano di casa, caviale del Volga spalmato con oscene cucchiaiate di burro finlandese). Soffre di flatu- lenza. L’aria interna gorgoglia e lo tormenta quando supera un’ansa intestinale strozzata. - Numero Uno, non sai che cosa accade laggiù. Volano mosche grandi così. Le distingui dai calabroni, perché ti mangiano le orecchie, non si appiccicano alla faccia, la degustano. - - Parti entro due giorni. Penisola della Guajira. Fotograferai certi particolari dalla sierra colombo venezuelana - blatera l’ucraino co- prendo con una fodera di plastica un ingombrante decifratore KLB- 47, (acronimo assegnato a una traduttrice di messaggi in codice), che ha appena sputato un foglio - con la filigrana del bureau - e che le mani mollicce dell’uomo, dopo avere letto, affondano in un cassetto. Un brivido scorre lungo la schiena di Leonid. È uno speciale cam- panello d’allarme che i suoi sensi avviano prima del rischio. - Una fregatura? Dimmi la verità - indaga il pilota, notando che la carcassa del decifratore è tiepida. - Da Mosca inoltrano richieste illogiche - si lamenta subdolo il ca- po ultimando la copertura dell’apparato. - Sai che mi stanno richiedendo? Di preparare una scorta per un trasferimento di valori. Ti pare un incarico serio? Per l’Arlecchino maggiore. Trasferiranno un diamante. L’Orloff. Non so dove prendere gli uomini per tale ser- vizio. - - Di’ un po’, nostalgico, c’è stata qualche localizzazione di ex agen- ti russi entrati nella guerriglia? Perché mi mandi al caldo umido? - - Mi serve un’analisi. Farai fotogrammi sul confine. - Il capo usa compiaciuto dei termini tecnici. - Il rilevamento spettrometrico del nostro satellite sarà confrontato con un’analisi stereografica della zo- na soggetta ai gruppi di guerriglia. -

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La malizia di Vassili arriva a rivestire di docilità gli ordini. Leonid alza gli scudi. - Lo sai che non posso volare alto con il De Havilland noleggiato - protesta il pilota intrecciando le dita dietro la nuca. - Una sovrapposi- zione laterale dei fotogrammi è più adatta e ti darà migliori risultati. Accontentati. - - Niet. Voglio una copertura del sessanta per cento. - - Ti potresti anche accontentare di un trenta per cento. Laggiù ci sono da fotografare scimmie e banani. Cos’altro? - insiste il pilota prevedendo che si perderà una festa presso il Cuba Libre Club, dove l’ha invitato Irina, una dottoressa sua amica. - Leonid, quello che desidero è una carta di programmazione. Vo- glio sapere quanta coca e quanti fucili ci tengono dentro. - - Non aprirai un centro di sollazzo nella giungla? - - Dobbiamo sapere dove hanno i laboratori di coca i compagni. Lo sai? Ci stanno sganciando. Ci lasciano senza . - - A noi che cosa importa? La coca riguarda l’ONU ormai. - - Tra poco l’ONU potrebbe essere smantellato. I capi del bureau non vogliono restare fuori da una delle più turbolenti zone di guerri- glie. Sai com’è il detto, no? Steppa innevata, mitraglia spianata e volpe fregata. Ci sono entrati gli americani e perché non dovremmo entrarci noi? Cocaina. Cinquemila tonnellate ogni anno. Sai che significa? Ci- fre a nove zeri. Giga dollari e nano rischi. Bastano due del nostro calibro, che sappiano controllare i movimenti. Un chilo di cocaina arriva dove non va una tonnellata di libretti di Mao. - - Ho dei dubbi - il pilota allarga le braccia con movenza teatrale. - Mi farai sparare mentre dipingo i guerriglieri. - - Ti stai ammorbidendo? Monta un paracolpi sotto il sediolino. - - Comunque, qual è il resto della missione? - - Una volta là, entrerai in contatto con un americano. Traffica in satelliti. Si maschera da pastore cristiano o coperture del genere. Vo- glio saperne di più. La posizione te la assegno ora - sogghigna passandogli un foglio - eccola. Il suo nome supposto è King Kris, chiamato Cristu dagli indios. Le ispirazioni evangeliche piacciano agli

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stregoni locali. Suppongo facciano cocktail mistici. Cristianesimo, santeria, e vudù. - Parlami di Kris. Normale o paranoico? - - Me l’hanno certificato per uno credibile. La tua copertura sarà lui, nel villaggio che ti ospiterà. Non perderlo o avrai poche possibilità di restare in vita. La frontiera è un bordello. Se ti arrestassero, ai sol- dati riferirai qualche storiella biblica. A meno che tu non preferisca una pasticca di cianuro. - - Mi potrò fidare di Cristu? - - Milioni di persone credono in lui - prosegue l’ucraino ridendo, su di tono. Torna serio. - Il tuo uomo accettalo com’è. Scoprirai per chi lavora, perché non mi è chiaro. Gli consegnerai la valigetta diplomati- ca che ti affido oggi stesso. Intatta. Le serrature hanno un codice e saranno comunicati a King Kris nel momento opportuno. Non pro- vare ad aprirla. Punto. - - Mi spaventa la tua maniera di collocare le persone. - - Ho avuto stacanovisti professori della guerra fredda. - Il panciu- to addolcisce la voce. - Non hai compreso il programma della Duma di Mosca. Estendersi in nuove aree, di qualunque sistema, con ogni mezzo. Le invasioni a colpi di cannone non danno gli stessi risultati. Abbiamo lasciato Kabul da molto tempo. La tua missione è inserita in questa logica. Punto. - Vassili sfodera un largo sorriso accattivante. - Ti perderai qualche bella strega cubana. Poi recupererai. - - Voglio tornare al freddo. Cuba mi ha stancato. - Leonid non sopporta che un ucraino lo scodelli da un lato all’altro dell’America. - La tua compagnia la trovo noiosa. Il bureau è stucchevole. - - Non cambierai mai - rimanda l’altro contraendosi e facendo compiere un giro impietoso al sedile della poltroncina a rotelle che, assieme agli scaffali, forma l’arredamento venuto da Mosca con i qua- dri della nuova Russia, dopo la Perestroika. - Oh, Leonid, ti assicuro che mi mancherai. Con la tua flemma, i tuoi baffetti. - Leonid estrae un cd e lo mette sul ripiano.

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- Dammi dettagli su questo giochino che mi hai inviato tramite il tuo fattorino fidato. Ho dato un’occhiata. Non mi va di perdere tem- po con i simulatori di volo. - - Non è un giochino. Lo caricherai nel portatile, alzi l’antenna sa- tellitare al momento opportuno. Considera un onore, il fatto di avertene dato una copia. Il Falcon è un gioiello cui i colombiani ten- gono molto. Mi è costato bei dollari. Corrompere un militare laggiù diviene ogni giorno più difficile. Stanno prendendo coscienza. Senza ipocrisia non sorge nessun potere. In caso fossi localizzato e stessi per essere ammazzato, mi farai il favore di distruggerlo. Ti avviso che se non lo attualizzerai con il codice ogni diciotto ore, il programma si cancellerà. Perderai ogni dato e ti dovrai fidare delle chiacchiere che raccontano gli indios o del volo delle papere. Se tutto andrà bene, tornerai a Dresda e per buonuscita avrai la Mercedes. - - Ti darei una riconoscenza onorifica. Non vi fidate dei vostri, fi- guriamoci di un americano invasato da visioni celesti. - - Perché dici questo? - - Primo, metto in palio la pelle. Secondo, mi sento male con la va- ligetta da portarmi dietro. Che sono, un babbeo? Terzo, non vedo, non ci riesco, chi si avvantaggia da quanto hai organizzato. Ultimo, che ci fa King Kris nella giungla? - - Molte affermazioni e domande in un tiro. Questo il difetto degli uomini d’azione e corti di calcolo. Ripeto piano; così capisci. Tu rien- trierai a casa dopo quest’operazione. È l’ultimo impegno che ti assegno in America bassa. - - Prevedo che farai carriera politica nel nuovo Rada ucraino. A Kiev sarai un dirigente ornato di grandi facoltà. Voi ucraini state smantellando la santa madre, la maestà russa. - - Leonid, oh, per il grande Arlecchino, abbi fede in me. A Pasqua bizantina sarai fuori. Promesso. - L’omaccione ride alla sua battuta e solleva la corporatura trabal- lante dalla poltroncina. Va a scostare le tende dell’ampia finestra al ventunesimo piano. Ha un sedere enorme. Lo spacco della giacca, simile a un sipario, lascia allo scoperto le misure sproporzionate.

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La vista della baia di Marimelena appare in una paradisiaca bellez- za, un arazzo di blu e verde. Il pilota chiude un attimo gli occhi per imprimere lo spettacolo. “Quanto mare. Mi attende un lavoro duro.” Accetta il bicchiere di vodka gelata che il capo gli offre e la butta den- tro la gola in un sorso. - Leonid, tu sei stato nell’ambiente dell’arte? Hai lavorato molti anni per quelli del museo. - Il pilota valuta le labbra del capo. Sono distese. Risponde senza aumentare la guardia: - Mi sono interessato del recupero di tesori. - - Conosci i particolari dell’Orloff? - L’ucraino ha abbassato la voce e si porta alle spalle del collega con passi leggeri e impossibili. - L’Orloff. Un diamante incastonato sullo scettro dei Romanoff. Lo si ammira al Cremlino. Ci vuoi andare in gita? - - Niet. Era di Alessandro Primo. Vero? - - Di Caterina la Grande. Sai, Alessandro morì acerbo. - - Il diamante. Non ho mai supposto di doverti chiedere un giorno quanto possa valere - alita nell’orecchio del compagno curvando la schiena grossa quanto un armadio. - Lo vuoi compare? - domanda sarcastico il pilota passando un di- to sui baffetti e avvertendo il calore irradiato della mole alle spalle. - Un biscotto di trecento carati. La sua lucentezza a non meno di die- cimila dollari al carato. - - Sai che mi comunica questo foglio? - dice il capo facendo il giro della scrivania e tirando fuori il messaggio giunto tramite l’obsoleta KLB. - Organizzare un servizio di scorta. Sai perché? Il diamante Or- loff sarà qui, a L’Avana, dopo che terminerà l’esposizione a Bogotà. - - Ottimo. Organizzaci una visita guidata per i dipendenti dell’ufficio - risponde il moscovita ricevendo il foglio. - No, Leonid. Odio sorvegliare ciò che non posso toccare. Ci cre- di? Esporre uno dei più grossi diamanti del mondo a Cuba. - - Potresti sentire il parere formale dei cubani. - - Il diamante di Romanoff - dichiara il pancione rigirandosi verso la finestra con voce lamentosa. Spalanca con gesto teatrale le braccia

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al panorama di Marimelena e mostra l’alone di sudore alle cuciture, sotto le ascelle. - L’imperatrice Caterina si starà sbellicando dalle risate sotto terra. Fece della Russia una potenza, successe a Pietro, e l’Orloff viene alla Baia dei Porci. - - Non capisco perché te la prendi? - - Dove finiremo noi due? A sorvegliare gioielli? Alla rivoluzione non serve alcun Orloff. - - Addio Numero Uno - tronca Leonid alzandosi dalla sedia. - Non dimenticare di mettere lo stipendio sul mio conto quando sarò lonta- no. In dollari. Più le spese. - - M’incaricherò di cambiare per te al mercato parallelo, in nero. - Il moscovita fa l’atto di uscire. Vassili lo blocca. - Non prendi la cosa più importante - lo solletica mellifluo indi- cando la valigetta di cuoio marrone che ha fatto apparire sul piano lucido della scrivania. - Almeno mi dirai il contenuto. - - La procedura non me lo permette. Per l’Arlecchino di Kiev. Po- tresti cadere nelle mani della guerriglia e quella gente ti taglierebbe le dita e le orecchie per estorcere notizie… Che aereo hai detto di avere noleggiato per i tuoi spostamenti? - - Un De Havilland. Privet, Numero Uno. - - Privet, a presto - lo saluta il capo. Leonid solleva la valigetta. Esce dall’ufficio allineando i baffetti. Attende l’ascensore che sale cigolando al piano. Quella borsetta di pelle passerà ai raggi x nel centro medico, dove ha deciso di recarsi. In nessun caso partirebbe in missione senza sapere cosa porta. Il pa- store, Kris o Cristu e le altre balle. Quel pallone di Vassili. Lui scoprirà che cosa sta organizzando. Davvero crede che berrà la storia del diamante e che a Cuba si sta preparando la guardia per l’Orloff. Lascia l’edificio di recente costruzione che si eleva sul Malecon e s’incammina a passo svelto lungo la passeggiata, verso il centro medi- co. È l’ultima occasione che ha di posare lo sguardo sull’imponente forte del Morro. Il vento è teso e le ondate scontrano le mura spagno- le del lungomare. Gli spruzzi arrivano dall’altro lato della strada.

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Assapora il sale polverizzato nelle goccioline che si posano sulle lab- bra. Ancora quattro blocchi da percorrere. Rinnoverà la profilassi contro il tifo e la malaria. La febbre gialla è valida. Almeno, contro questo tipo d’invisibili nemici è possibile trovare rimedi. Camminan- do, sente che la valigetta si fa più pesante e stringe le dita sul manico. Entra nel centro medico e va diretto all’ufficio del dottore capo, una cubana bianca. Sono intimi amici. Una notte accadde che si aggregas- se al duetto la sorella maggiore, mulatta, nata da una precedente unione del loro genitore. Nessuna delle due, però, è riuscita a cancel- largli dalla mente il sensuale giubilo che gli metteva una notte d’amore con Clara, al tempo dei seminari su Knorosow. “Acqua passata.” Non pensa di ristabilire le comunicazioni con la colombiana. “Salvo che non inventi uno stratagemma. La statua che mi ha regalato Vassili potrebbe andar bene.” - Irina, come va tesoro meraviglioso? - - Leonid. Da dove sbuchi? Ti facevo a Mosca. - - Non prima di salutarti, tesoro. Dimmi, Irina, ti funziona l’apparato per le ecografie? - - Stai male? - - Non io. Sono curioso di sapere cosa mi hanno ficcato nella vali- getta. Però resterà un segreto. Al bureau sono gelosi. Li conosci. Non fanno circolare nemmeno le radiografie dei loro polmoni. - - Vieni nel locale dei raggi; non saremo disturbati. Prometti di te- nere le mani a posto. - - Sarò ubbidiente - dice dandole un pizzicotto sulla natica. - Stai buono e levati la camicia. - - Che mi farai? - - Giustifico l’ecografia. Non credi? -

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Jean Paul quella settimana ha visto più di qualche appartamento in varie zone della città. Il sensale non è riuscito a convincerlo: non glie- ne è andato bene nessuno. Troppo grandi, oppure piccoli, rumorosi, bui, poco ariosi, o con ricchi vicini non raccomandabili. Non può lasciare il Colombus. La sera prima ha telefonato a Clara. Dopo i primi attimi di meraviglia, la giovane ha scambiato con lui frasi cor- diali. L’ha informata della sua permanenza presso l’albergo. Si sono accordati per ritrovarsi tra qualche giorno, in chiesa, la sera della mes- sa in memoria di Salvador, che fu padre della giovane. A lui ha fatto piacere la cordialità che lei gli ha mostrato. Facendo esercizio in piscina, ha recuperato gli strati di benessere che la vita di bordo gli aveva assottigliato. Quel pomeriggio, la sensa- zione è di essere rinato. Assapora un tipo di libertà negata ai naviganti. L’hotel Colombus ha la piscina, la palestra, una sauna rilas- sante, un bar dove preparano generosi aperitivi, e c’è una sala in cui troneggia un bigliardo con il panno verde nuovo. Gli capita di speri- mentare qualche tiro di sponda e riesce ad abbattere la fila di birilli infilando la biglia in buca. L’allenamento alla macchina dei pesi e le nuotate gli hanno tonificato il fisico. Esce dall’acqua e si asciuga. Poi si stende sotto gli ultimi raggi pomeridiani. Provando appetito, si rive- ste e si sposta al ristorante. Il salone è illuminato. L’aria è mossa dalle pale dei ventilatori. Alle pareti vi sono stampe incorniciate che mo- strano scene del passato: monaci convertendo indios, uomini a dorso di muli mentre attraverso foreste e indie nude che offrono frutta eso- tiche a viandanti. Una pendola d’ottocento, di mogano, oscilla i secondi tra gli scatti del macchinario invisibile, in un ordinato intrigo di molle e ruote dentate. A ogni quarto di giro della lancetta piccola, le ancore e i pesi interni si animano e inizia un concerto di rintocchi: un orologio pomposo. Scorge un signore calvo, sulla sessantina. Oc- cupa un tavolo accostato a una finestra. È un meticcio dalla faccia simpatica, che emana benevolenza, con occhi vispi, un po’ distanziati;

appena corpulento. Usa occhialini fumé con montatura di metallo. La sommità del cranio è pelata, ma i restanti capelli, più in basso, dalle tempie alla nuca, formano una mezza ciambella, per finire in un codi- no bianco, indietro, sul grosso collo. Le guance sono cerchiate da un accenno di barbetta grigia, senza baffi. Il naso ha venuzze rosse. Ha un papillon a fantasia e indossa una giacca color sabbia. Fuma tabac- co aromatizzato da una corta pipa. Sorseggia un cognac mentre legge un giornale della capitale. Ogni tanto scuote la testa, in evidente di- saccordo. Sul tavolo è poggiato chiuso, con il segnalibro, un volume consistente: Kant e la critica della ragion pura. - Buonasera - lo saluta Jean Paul. - Anche a te - risponde l’altro passandogli addosso un veloce sguardo. - Sei di lunga permanenza? - - Lunghissima. Qui hanno una buona cucina. - Il mulatto annuisce. - Non ho mai reclamato. E nessuno è morto avvelenato. - Parla in modo diretto, con voce grave, mentre gli occhi, impigriti dalla cattiva vista, cercano quelli azzurri del capitano. - Tu, giovanotto, ti ho veduto da un po’ di settimane. Vieni da lontano? - - Dal Giappone. - - Non hai casa? - - Sto in caccia di un appartamento. Uno comodo, in centro. - - Ti posso dire bentornato nel caldo regno della neve bianca. - - Regno della neve? - - La neve, quella che s’inala, - chiarisce Santiago osservando la piega del volto giovanile. - T’interessa il gioco degli scacchi? - - A bigliardo vado discretamente. Mi esercito con le stecca da quando sono cliente del Colombus. - - Quando vorrai, faremo una partita. A scacchi. A bigliardo no. Non vedo bene le biglie. Potremmo anche andare al circolo. Si sta comodi e c’è l’aria giusta. Se proprio non ti va a scacchi, ci sfideremo a duello. - Ride. - Mancano qui gli spassi della metropoli. Bisogna accontentarsi. Mi chiamo Rafael Santiago - si presenta sbirciando da dietro le lenti. - Scrivo per il Diario. Diamoci del tu. -

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- Jean Paul - il giovane gli stringe la mano. - Capitano di lungo corso. Ho letto qualche tuo articolo. Ti frigge la lingua. I signori della coca non si toccano. È pericoloso. - Il giornalista fa un sorriso sghembo. Il marinaio ha compreso il senso dei suoi scritti. - Non mi lascio intimidire. Sono vecchio, Jean Paul. - Santiago affronta l’avanzata degli anni concedendosi, ogni sei me- si, un breve periodo di terme. Non ama frequentare circoli mondani. Visita quello degli scacchi per i tornei, o per una rivincita promessa a un avversario. Le giurie e le premiazioni lo avviliscono. I concorsi delle miss, salvando i meriti delle bellissime concorrenti, li evita. Una volta cadde nella trappola delle preselezioni. Ebbe pena a sancire pa- reri per selezionare beltà ricca di attese. Invitato a una serata con esplicite convocazioni, cerca di addurre scuse credibili, ad esempio una telefonata anonima che lo trattiene al sicuro. Gli piace assistere durante il carnevale alla sfilata del giovedì grasso (quella dei neri ma- scherati da bianchi), dall’elevato palco di legno, sull’incrocio della Quarantaquattro, e dare qualche parere sulle maschere. È vedovo. Alloggia al Colombus in modo fisso e la direzione gli regala sconti speciali. A volte viaggia fino alla capitale per incontrarsi con quelli della redazione, verificare quanto il taglio degli articoli incastri con le politiche del giornale, assicurarsi dell’effetto delle sue opinioni nel giro dei redattori e visitare qualche parente. Non ignora che il deside- rio d’inseguire la verità, e di volerne riferire la crudezza, ha un costo: la sicurezza personale. Coglie l’inadeguatezza del discorso sociale di- nanzi al disastro inflitto dal narcotraffico. La sua ossessione è l’aderenza al reale, senza apparire di parte. L’etica dell’informazione sta nell’itinerario d’ogni indagine, di qualunque tipo, fosse pure cro- naca rosa. Dal promontorio di Punta Rocca manda al redattore, ogni quindici giorni, i caustici commenti ai fatti. Afferma che criticare il proprio paese significa, in fondo, aiutarlo. Se riceve minacce anonime, sono di narcotrafficanti. Gli articoli pubblicati li conserva in una vali- gia, sotto il letto. Trattengono la memoria di un periodo seccato, affinché nessuno sostenga che non ha avvisato della tragedia, poiché

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la vita del suo paese è condizionata da elementi economici e sociali divaricati e acuminati. Asserisce che la situazione è il risultato di una politica del mondo: la produzione, il commercio e la richiesta di co- caina sono responsabili del degrado. - Duro, il tuo mestiere di giornalista - stima Jean Paul. - Ho scritto tanta cartaccia sui diritti calpestati che ci potresti gon- fiare il materasso. Potrai leggerli. Dopo l’attentato della Molotov scelsi la costa, più sicura della capitale. - Strizza l’occhio sinistro. - Al promontorio ritrovo le belle bagnati dell’estate e i neri dagli occhi azzurri. - Tace per terminare il cognac. - Scrivo in pace e stuzzico i ragni per farli uscire dai buchi. Che ragni? I vari narcotrafficanti che si nutrono di mosche. Quali? Quelle che cadono nella loro rete. - - Per me è complicato - si difende il capitano. - Per un uomo che accetta il senso del reale, il rischio esiste se non cede ai compromessi. È letale sottovalutare le conseguenze della resi- stenza. - Si passa la mano sul cranio. - Un tipo della redazione ha pronto un coccodrillo che mi farà sembrare un morto di certa impor- tanza, nel caso accadesse quanto mi hanno promesso. Un tiro di pistola, appunto. Un giornalista ammazzato fa vendere più copie. - - Una faccenda seria la morte imposta a fucilate - scandisce Jean Paul poggiando il menu sul tavolo. - Se non fai nulla per evitarla, stai comunque agendo per qualcosa. - - Mi sembri mezzo filosofo. Quando mi capirai meglio, coglierai le sfumature. Anch’io ho imparato il gergo dei pescatori, quello che par- lano alla spiaggia. Sono divenuto bravo a identificare le nuvole, il significato della forma, lo sfaldamento dei bordi. - Si strofina la bar- betta. - Ti piace andare a pesca? - - Se è movimentata, sì - afferma il capitano sospettando di essersi imbattuto in una sorta di scrivano degenerato dall’animazione etica. - Un barracuda è un signor pesce. Dinanzi alla foce abbondano. Con il bel tempo e senza vento ci si diverte. Per sopportare il Sole birbone basta una bottiglia di agua ardente. - - Si potrebbe la domenica, adesso che di tempo me ne avanzerà. - Il capitano abbassa gli occhi azzurri sul menu.

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Totò, il cameriere, spinge il carrello degli antipasti verso il tavolo. I guanti bianchi spiccano contro la sua carnagione nera. I riccioli della testa sembrano fiocchi di neve. Ha un sorriso fisso che scopre le gen- give. Serve stuzzichini conditi con creme e impasti. Annota le ordinazioni con gesto automatico. - Perché hai smesso di navigare? - domanda Santiago infilando una fetta di polpo. - Ho comprato un lotto adatto alla palma, sulla collina. - - Un consiglio me lo permetti? Con un socio ti andrà bene. La vita in piantagione non è quella in villa - dice con passione fissando gli occhi dell’altro commensale. - Perché non mangi l’antipasto? - - Il polpo è pepato. - - L’errore si cela anche nelle pentole. - Santiago giudica che il capi- tano parla con voce orlata di sentimento. - Dov’è la tua Penelope? - - Non ne ho ancora una ma la troverò. - Jean Paul prova simpatia, impressionato dalla cucchiaiata di pepe- roncino sminuzzato con cui Santiago cosparge il polpo. Durante la cena il giornalista segue ad assegnare tono alla conversazione. Il traf- fico di droga. Lo scempio della guerriglia. La miseria degli sfollati. I ragazzini di strada. La corruzione. L’indifferenza di tanta gente. Par- lano a lungo e gli argomenti non mancano. La Colombia è una gran patria con tanta cultura. Peccato vada così. Totò serve la cernia e le patate. Nessuno dei due commensali indi- spone l’altro, attendendo che un pensiero sia esposto per intero prima di dare il proprio parere. Jean Paul, fa delle domande, chiarisce dei dubbi e colma i vuoti in- formativi che la lunga assenza per motivi di lavoro ha prodotto. Finito di cenare, si sente appagato. Prova stima per quel signore cal- vo, con la vista pigra, che l’ha accompagnato quella sera. Gli farà piacere rivederlo in seguito. Da lui potrà imparare molto.

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La signora Xaipa esce dalla cucina reggendo un vassoio. Sopra vi sono due tazze decorate, colme di cioccolato. La presenza di Clara la rincuora. Siedono a un tavolino ovale, nel salotto: un angolo riservato alla loro cerimonia, ritagliato su di un tappeto Kunas intrecciato con trame colorate tipiche delle etnie chibchas. Bogotà, talvolta, è fredda e un oggetto che emani calore è necessario. Donna Xaipa è vestita con camicetta di seta e gonna a righe di buona sartoria. Clara sospetta che essendo la madre rimasta inesplorata durante la vedovanza, abbia i sensi addormentati. Prova un battito di rimorso quando, tornata alla capitale, la sbircia dopo un lungo periodo d’assenza; in segreto, è di- spiaciuta d’averla lasciata sola. A causa del costo dei voli, ogni volta affronta in pullman la scomodità del viaggio dalla costa alla cordiglie- ra: seicento chilometri di strada trafficata e tortuosa. Per dodici ore si dispone all’avventura con una pazienza imposta. Gli scossoni, su certi tratti, le impediscono la lettura del libro che porta con sé. Quando è stanca, tiene gli occhi chiusi e lascia il pensiero a fare la spola tra fatti passati e ipotesi d’accadimenti futuri. Durante quell’ultimo viaggio verso la capitale ha rivisto il sorriso complice del padre nel giorno che lei compì dieci anni, quando le regalò un porcellino d’India, bianco e tenero. Lo chiamò Tap, era libero di muoversi nella stanza. Lo tenne un paio d’anni, fino che non morì. Il padre le portò dei pesciolini ros- si che non riempirono il vuoto lasciato dalla scomparsa di Tap. I mobili che arredano l’appartamento non sono ingombranti. Donna Xaipa preferisce modelli che impegnino poco spazio e che lascino molta aria. Adora le miniature: ha una vetrina dove conserva, al riparo dalla polvere, le bambole regalate alla figlia nell’infanzia. Nei vasi di cristallo ama mettere le rose che ravvivano l’aria con sottile eleganza. Un venditore passa il martedì al negozio di dolciumi e lei ne compra un fascio. Di pomeriggio, nei giorni in cui Clara permane con lei, con raddoppiato piacere le prepara il cioccolato. Apre un nuovo barattolo di cacao nero, disdegnando quelli già aperti che si trovano

nel mobile della cucina. Aggiunge cannella al latte messo a scaldare e l’odore si spande per gli ambienti. - Ci sono giorni in cui la cordigliera ti mette freddo nelle vene e tu arrivi con un vestitino da spiaggia - la rimprovera con dolcezza la si- gnora, pedinata dal gatto, mettendo via la guantiera di peltro spagnolo, incisa con sbalzi e orpelli. Sedendo, riceve un rimbalzo di luce fuggito dal drappeggio delle tende. Il viso olivastro riflette una dolce malinconia che la abbellisce. - Ti aumenta la raucedine. Bevi questo cioccolato adesso che è caldo. - - Mi fai ingrassare - risponde la giovane accettando la tazza con un gesto allegro. - Non troverò marito. - - Non guasta. Sei dimagrita e il tuo colorito mi ricorda quello delle ciliegie appena mature. - Ha una voce calda. - Finita in un museo a ordinare mummie! - esclama riconoscendo nella figlia la stessa curio- sità che agitava il marito. - Se ti vedesse tuo padre. - - Mamma, non lavoro con le mummie. Mi occupo di tradizione. Di arte Maya, di reperti archeologici - ribatte Clara. - In un posto di pescatori e ballerini com’è Barranquilla, non tro- verai un buon partito. Quanto pensi che duri la gioventù? Hai avuto due fidanzati, uno meno adatto dell’altro. Un marinaio e un russo con uno strano lavoro. Qui ci sono opportunità. Fatti trasferire. L’ultima frase è il segnale che la madre, sensibile a presentimenti emotivi, le manda per insinuare che è cresciuta troppo indipendente e che le duole che non si è ancora sposata. - L’amore viene prima dell’interesse - dice Clara. - L’amore. Che cos’è l’amore alla mia età? Un foglio di calendario dura di più. Con tuo padre fu un sogno. Sbrigati a sposarti. - La donna aggrotta la fronte. Esterna la perdita del marito con un rinserrarsi in una celata riservatezza. La figlia, con innocenza, alcuni giorni dopo l’assassinio del padre, le domandò in che modo avrebbe- ro vissuto. La vedova la rassicurò e le confidò che un generoso sconosciuto - un debitore che scriveva di restituire un prestito - le aveva fatto recapitare una grossa somma. Clara sostiene che lei sbagli

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a non accettare le attenzioni di un distinto italiano, Spartaco, discreto e affabile, proprietario di un ristorante nei pressi del Museo dell’Oro. Donna Xaipa sorprende negli occhi verdi della giovane la remis- sione dell’amore. Avrà conosciuto qualcuno, pensa. Non le domanda nulla. Clara ha un giusto pudore che la mette al riparo da avvilenti compromessi con odiosi uomini trovati in incontri sbagliati, in parti- colare quando questi diventano insistenti e noiosi, al punto d’essere sofferenti, perché hanno vergogna di soffrire il rifiuto consapevole della concessione delle virtù. Cerca il telecomando per la televisione. Lo trova sotto il soriano disteso sul divano. - Ha ragione il dottor Belmonte - dice sintonizzando sul canale che trasmette l’inserto di medicina. - Le ansie per i figli fanno male. - - Lo guardi ancora. Ne fossi invaghita? Ti piace tanto il suo pro- gramma sulla chirurgia estetica? - Ridendo, la giovane si mette nel sofà spodestando il gatto e mo- stra un finto interesse per la trasmissione. Non vuole esagerare con l’ironia per non offendere la madre. Belmonte saluta con trasporto simulato. La voce squillante espone il significato dei capillari e va insinuando il rischio latente delle varici. La cellulite, poi, è un orrore medioevale da bruciare. Usa termini semplici, per prolungare l’effetto del rapporto che ha stabilito con gli ascoltatori. Si aiuta con fotografie di arti e ingrandimenti. Suggerisce alle donne di non sottovalutare il danno: “Mi rivolgo a voi, care ami- che. Oltre il pericolo posto da una vena inferma, c’è l’estetica. Belle gambe chiamano sguardi caldi. Se la parola d’onore è degli uomini, la bellezza è delle donne. Cleopatra s’intese con Cesare e Marco Anto- nio. Ottavio fu l’unico a non cederle. Forse trascurò le gambe dopo la nascita di Cesarione.” C’è una pausa. Il programma s’interrompe dieci minuti per la pubblicità. La signora si accorge di essere osservata: Clara è sul punto di e- sprimere una delle sue pungenti considerazioni. Infatti: - In città c’è Ji Pi. - - Chi? - le domanda scordando che la figlia accorcia i nomi. - Jean Paul. Lo hai proprio cancellato. -

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- Vi siete visti? - indaga con leggero sconcerto. - Non ancora. - La madre spegne il televisore. È curiosa di sapere il resto, poiché è convinta che nella liturgia cristiana non vi sia una preghiera per occul- tare un innamorato resuscitato. Clara trova nel suo sguardo una reazione dissepolta, un guizzo di repressa gelosia, mentre vede il volto che s’imporpora assumendo un’espressione d’ansietà. - Jean Paul!? - ripete Xaipa incredula. Rigira al dito un anello con uno zaffiro regalatole dal marito dopo il matrimonio e cerca di coglie- re altri cenni, un gesto, un’inflessione della voce, per capire se c’è altro. Il gatto le salta sulle gambe. Lo accarezza. Avanza una doman- da: - Non stava lontano per conto della marina? - - Ha lasciato l’imbarco. Si ferma a Barranquilla. - - Che cosa fa adesso? - domanda alla figlia. - Piantagione. Ha comprato al promontorio. - - Di cosa? - domanda sconsolata. - Palma e olio. - - Un piantatore che si rispetti immagina ciò che gli può capitare. Non ricordi tuo padre? Zucchero. E gli spararono. - - Ji Pi ti è antipatico. - Clara d’improvviso trova la bocca arida. - Mi è indifferente - risponde la madre incerta. - Spero che il nuo- vo lavoro gli vada bene. - - Per te è troppo schietto. Vero? - - Era invadente. Non con me, con tuo padre, sì. Troppa franchez- za. Tanta confidenza. Discutevano di politica e s’infervorava. Commentavano sulle donne e tuo padre andava in estasi. La volta che finirono nel Rio Maddalena accompagnati da pescatori di Las Flores, ci restarono quattro giorni. Consumarono una cassa di liquore, la cor- rente se li portò e finirono arenati sulla spiaggia, addormentati. - - Stavano bene assieme. T’innervosivi. Cospiratori contro di te. - - Iniziavano a discutere di una cosa che qui non esiste; della chia- rezza. Era il loro modo di fraternizzare e che li isolava dagli altri. - - Non erano loro a isolarsi. T’infastidiva il marito allegro. Ji Pi lo caricava di sussiego e la felicità ti molesta. Confessalo. Se non c’è sof-

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ferenza non c’è carattere. Non mi spiego perché giudichi il piacere una schiavitù. Dovresti ravvederti. - - Da dove tiri queste idee? - si difende la signora. - Ciò che mi fa desiderare di stare per conto mio è il timore. C’è molto egoismo in questa nazione e si trasforma in violenza. - Sposta il gatto e si alza sospirando, con le tazze vuote, andando verso la cucina per riempirle ancora a metà. Inutile fronteggiare la figlia sul terreno dei sentimenti: Clara versa amore anziché richiederlo e disapprova la sua maniera di amare - possessiva - pervasa dal biso- gno di ricevere affetto. La figlia è generosa e ama senza più. Torna in salotto con la bevanda tiepida e una pena in cuore. - Dovresti volere un buon matrimonio. Vantaggioso. - La donna va a sedere vicino a lei. La vede ancora bambina, a volte indifesa per- ché ama senza mettere in conto il resto ed è disposta a delle rinunce. - Tuttavia, sei grande e matura. Non posso costringerti ad accettare le mie decisioni… Vorrei un nipote. Gli anni volano e invecchio. - - Sei ancora piacente - afferma la giovane contenta dell’affetto ma- terno. - Non credo che il signor Spartaco sia brutto. - - Un italiano - disprezza l’altra donna in modo finto. Donna Xaipa non ha cresciuto Clara nel sogno del principe azzur- ro che la sazierà di baci, soddisfacendo ogni suo desiderio. Ha dato importanza al fare pratico, più utile se la vita è dura. Ambedue sanno che nell’unione le esigenze di coppia sono penetrate dalla realtà gior- naliera, buona o cattiva, messa a confronto con gli impegni della famiglia. La signora la sorveglia con irrequieta tenerezza. “Jean Paul saprà sostituire il padre? Comunque, piantatore di palme sarà migliore che marinaio.” Prega che non gli accada nulla di brutto. La gestione della piantagione potrebbe riservare amare sorprese. Il gatto torna sulle sue gambe e fa le fusa. La donna lo accarezza e l’animale solleva la coda. “Se pure Clara si lasciasse accarezzare senza darle preoccupazioni, lei sarebbe una madre più felice.”

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Santiago ha mandato Omar dal capitano. Il sarto di sangue arabo - una figura olivastra agile, dal viso triangolare e capelli ricci - entra nel Colombus a passetti corti e serrati. Si fa annunciare dalla reception e sale da Jean Paul tenendo ripiegati sulle braccia due vestiti imbastiti. Trova la porta della stanza. Jean Paul lo attende presso la finestra. - Mi scusi per il ritardo. - - Buona giornata a lei, Omar. Che succede giù nella strada? Perché il traffico rimane bloccato? - - Vedesse alla rotatoria. Hanno fatto uno scontro, un camion d’aragoste e uno carico di gente che andava al mare. Qualche passeg- gero si è ferito, qualche cesta di aragoste è rotta e c’è una confusione da casba. Omar parla in maniera veloce; agita le mani. - Facciamo l’ultima prova. Resterà soddisfatto, capitano. - Jean Paul preferisce provare in costume da bagno, per comodità. Spogliarsi e rivestirsi lo infastidisce; vuole restare comodo tra la prova di una giacca e quella dei pantaloni. Sopporta rassegnato i ritocchi imposti da Omar. Sente la pressione delle dita pratiche. Un colpo di gesso, uno spillo, qualche ritocco alla spalla, una calibratura alla vita, un paio di punti dati larghi con ago e filo. Ai pantaloni la cintura va bene, la lunghezza pure. Un inconveniente alla cucitura del cavallo, in basso, che Omar risolve mandando la mano a tesare una piega tra le gambe. Non è solo un aggiustamento: pare un approfittare. Le dita scivolano; tentano, poi accarezzano una gamba. Sarà che il difetto in quel punto sia voluto? Una rivelazione sorprendente. - Manca molto, Omar? - domanda il capitano, insospettito. - Un secondo e finisco. Ecco, e levo la grinza… voilà. Per fine set- timana le consegnerò i vestiti. Oh, se i miei clienti fossero calmi, pazienti, belli. Sopporto certi tangheri perché hanno soldi per un ve- stito su misura. Li manderei nudi. Non fosse per la decenza. Ho terminato - annuncia pomposo.

- Le occorre altro denaro? - si accerta Jean Paul rivestendosi. - L’anticipo che mi ha dato è sufficiente. Il saldo alla consegna, come nelle sartorie di Madrid, dove appresi il mestiere - dice con una punta di orgoglio mentre ripone i vestiti nelle buste. Esce dalla stanza con ripetuti auguri di prosperità. Jean Paul, dopo essersi rivestito, telefona al tassista Felipe per una visita alla piantagione. Prende il cuatro dall’armadio e scende nella hall. Arrivato il taxi, il capitano monta e dà il cuatro a Felipe. - Te lo regalo. Non imparerò a suonarlo. - Gli mostra una piantina con la numerazione dei lotti. - Dovremmo raggiungere il lotto venti- quattro, sulla collina esterna del promontorio. - L’auto percorre l’Avenida, poi scarta per le stradine laterali ed esce dalla città. Fiancheggia la laguna riflettente il cielo. Le palme sulla rena inclinano, sotto la brezza, le chiome lanceolate. Fuori dalle capanne i bambini dei pescatori giocano all’aperto. Le mangrovie si sostengono rigogliose sulle radici che escono dall’acqua. Dominano sulle altre piante, soffocano i complicati e spinosi ammazzapali che avvolgono i tronchi più deboli. Sulle cime, si vedono grossi nidi di ramoscelli in- trecciati. Alcuni aironi danzano sulla sabbia stendendo le ali; sfoggiano inconsueti eleganti disegni del piumaggio. La vegetazione cambia aspetto: dal terreno coperto d’erba si slanciano manghi gigan- teschi. Le iguane stanno appiattite sui rami e lasciano penzolare le code cerchiate da anelli neri e verdi. La strada si divide in due sentieri. Uno, sterrato, devia salendo alle piantagioni. Segue le morbide ondu- lazioni della collina, incontra distese di palme da olio. Dall’alto del promontorio, la vista del golfo si allarga e l’azzurro diviene unico. - Capitano, da qui non si potrà passare nelle mattine che la nebbia viene dal mare. C’è da finire di sotto. - Il capitano apprezza la quantità di luce che si riflette intorno: è importante per le coltivazioni. Ha attivato l’attenzione sulla qualità degli impianti e delle serre. Prova un’emozione di partecipazione ve- dendo i contadini al lavoro. Oltre mezzo secolo di guerriglia o di soprusi di altri interdetti morali non li hanno vinti.

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I camion, nei lotti, sono oppressi dal carico di frutta. Uomini su- dati escono dai filari con le cassette colme di papaie, manghi, ananas. L’espressione docile contrasta col machete affilato che pende dalle cin- ture. Usano cappelli di paglia per scampare alla calda pigrizia che piove dal Sole. Le donne sono sotto alberi per la raccolta. Alcune hanno accanto i figli piccoli, le meno giovani passano con una bevan- da di succo di limone e acqua addolcita con zucchero di canna per dissetare gli uomini. L’auto rallenta. Giungono dinanzi allo steccato del lotto. Jean Paul va a togliere la palanca che chiude la rustica bar- riera d’ingresso. Le tavole sono in buono stato, segno che le termiti non sono all’attacco. Felipe resta nel taxi e inizia a pizzicare le corde dello strumento. Ha una voce limpida e acuta. Vi sono tracce di bru- ciato, segno che il fuoco è passato sul terreno bonificandolo. A intervalli, Jean Paul strappa delle piantine con nuovi germogli. Farà analizzare le radici per conoscere le caratteristiche del suolo e per as- segnare i concimi appropriati. Un uomo a cavallo taglia per il campo. Ha un cappello di feltro nero e un poncio che lo salva dalla polvere. Lo saluta e arresta il ca- vallo di sghembo. Gli zoccoli dell’animale continuano a pestare il suolo piegando pastoie e nodelli. - Buongiorno. Posso fare qualcosa per voi? - domanda poggiando il gomito al pomo della sella. - Mi chiamo Carrera, il nuovo proprietario. - - Sono Camillo, il guardiano delle terre del dottor Lobo. Lui mi ha detto di occhieggiare da questo lato. - - Ringrazio lei e il dottor Lobo. Dove l’incontro? - - In centro. Calle 22. Gli dirò del vostro arrivo. - Slega la borraccia dalla sella e la porge. Jean Paul beve; la limonata è dolce e diluita. Un sorso del liquido agrodolce lo aiuta a levarsi la polvere dalla bocca. - Si rimedia un trattore per dare una rigirata al terreno? - - Lo farò io, se vuole. Conosco i confini. C’è n’è bisogno - avverte indicando cumuli di terra. - Sono formiche. - - Mi dica - s’informa Jean Paul - ci sono serpenti? -

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- C’erano. Lo sciamano è venuto a pregare e si sono allontanati. - Jean Paul non nega che certe credenze sono incrollabili. Gli chiede di raccogliere campioni di terreno e fogliame. Poi risale in auto te- nendo tutto in un telo e dice a Felipe di accompagnarlo all’istituto d’agraria. Durante il tragitto, imprime i particolari per ritrovare il lotto senza difficoltà. Ha osservato le circostanti piantagioni e dedotto che nella zona si pianta in modo primario palma da olio. Metterà a dimora la qualità giusta. Non ha notato estensioni incolte e questo gli infonde coraggio. Imparerà il nuovo lavoro, aiutato dalla pace. La guerriglia non soffoca il promontorio. La sera, prima di cena, esce dal Colombus. Jean Paul è vestito con camicia Lacoste e pantaloni Armani. Sulla strada si accorge di essere pedinato dal neretto. Cerca di ignorarlo ma Pablo allunga il passo per stargli di fianco. - Ti serve nulla? Perché non vai a giocare da qualche parte? - - Mi paga una pasta, capitan marino? - Jean Paul cede. C’è una pasticceria poco avanti. Grande Atlantico annuncia con superbia l’insegna pomposa sull’ingresso. Nella sala gli stucchi cadenti, non ripresi dalla spatola riparatrice di nessun artigia- no. Rilasciano, dalle pareti, polvere di gesso che cade sui tavolini di marmo. I vetri sono appannati per effetto dell’aria condizionata (c’è umidità serale) resa da un ciangottante condizionatore. Il capitano entra seguito dal ragazzo. L’odore cremoso si mischia a quello grasso delle frittelle. Lo scugnizzo ne implora una di mais al cioccolato. Il barista presta attenzione. - Desidera, signore? - - Un dolce e un caffè. - Il barista non si stupisce quando l’uomo ordina l’ di mais per l’occasionale accompagnatore. - Non ricordo il tuo nome. Tu ti chiameresti? - - Pablito Molina Hernandez y Ca… Calderon, signore. - - Tua madre quante volte si è accasata? - - Tre. Una col sergente. - - Adesso ricordo. Lo hai salutato da parte mia? -

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- Andò via che ero troppo piccolo, signore. - Una donna bisognosa, pensa Jean Paul. Non avrebbe ripetuto gli errori, in caso contrario. Le necessità acuiscono le dispute familiari. I mariti scappano e le poverine accolgono un nuovo compagno, di ra- do migliore del primo, sperando di ricevere aiuto. Riprendono il cammino. Arrivano dinanzi alla chiesa, Pablito gli prende la mano e lo tira nell’interno, addobbato con severità, dove l’esalazione della cera si mischia a quella dell’incenso. Una prepotenza vaporosa assale l’uomo, non abituato all’aria di preghiera. Su un altare votivo, in una cappella di lato, sono incise lettere di solvenza: grati per il miracolo del 31, Joe con i suoi marinai. Lui immagina l’estremo spavento di quelli che non credettero di raccontarla a nessuno in ter- raferma e vollero che il miracolo restasse sui paliotti di marmo, con l’ex voto. Il prete, uno spilungone mulatto con chierica, appassionato nei paramenti viola, si muove col fumoso turibolo intorno all’altare. Il senso sotteso della messa dedicata alla memoria di Salvador sarà una preghiera per la fine della violenza. Vi sono alcuni indios. Lavoravano per il padre di Clara nell’azienda di canna da zucchero. Indossano panni tipici e colorati sopra pantaloni bianchi a mezza gamba. Jean Paul riconosce la giovane di spalle. Va piano verso di lei. La studia. Buon fisico, spalle dritte nel vestito di chiffon chiaro. Mantiene il gu- sto per gli abiti europei. La gonna è aderente, con uno spacco sull’orlo posteriore. È splendida nei suoi ventinove anni. Lui avanza con discrezione. La messa è all’apice. Clara si rigira, lo sguardo è ver- de e luminoso, Jean Paul vibra. - Ciao - sussurra lei mostrando un sorriso aperto. - Sei stupenda - la saluta il capitano a voce bassa mentre prova se- greta riconoscenza per lei che non ha rifiutato d’incontrarlo. La giovane fissa gli occhi azzurri e profondi. Restano in silenzio sino al termine della messa. Lei lo sfiora col braccio mentre escono dalla chiesa. Fuori, gli indios la salutano e spariscono. Lui una con mossa abile le bacia la guancia. - Dubitavo che saresti venuto alla predica. - - È valsa la pena, per tuo padre. Lo ricordo bene e spesso. -

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Si fermano con accanto il monello che sta a guardarli mostrando un sorriso mancante di un dente. - Ti piace, lei? - Il neretto strattona l’uomo verso la piazza. - Smettila di molestare e torna a casa - interviene Clara dolce e de- terminata dinanzi alla smorfia risentita. Jean Paul trae dei pesos dal portafogli. Gli occhi irrequieti del ne- retto fissano il dito privo di falange. - Spendili bene - gli dice affidandogli il denaro. Il ragazzo dondola la testa, prende i biglietti e fila via. - Avrà famiglia? - domanda Jean Paul avviandosi sul viale. - Scappato dai soprusi. Non è ancora inselvatichito dalla strada e credo che la severità sia più opportuna adesso. La fuga è accattivante. Lo conosco. Si è fatto una cuccia di fronte al museo, nel parcheggio. Lo tengo d’occhio e gli regalo delle cosine da mangiare. Ha un facci- no simpatico. Stasera gli ho dato dei dolcetti. Lasciata la famiglia, vagano tutto il giorno per la città, mangiano dalla spazzatura e cerca- no una figura umana che li rassicuri. - Clara apprezza la risolutezza di Ji Pi nel distacco dal mare. Ne è certa: la fortuna lo assisterà nel cambio. Lo stima per le capacità di aprirsi un varco; di reagire alle vicissitudini senza avvilirsi; lo conosce un poco passionale, pronto a irrigidirsi dinanzi a un evento che non gli quadra, amante della chiarezza. Seguono a camminare sotto la vol- ta stellata. La sommità di Punta Rocca, alla fine del promontorio, indica il carro dell’Orsa Minore. Sospeso sullo sperone, il castello spagnolo inquadrato dai riflettori sembra di guardia all’abisso. - Ti trovo bene, Ji Pi. Sei migliorato. Davvero. - - Raccontami di te. Del museo, delle tue ricerche. - - Inserita. Sono la curatrice. Presento gli aspetti antropomorfici della civiltà precolombiana. Qualche frutto comincio a raccoglierlo. A Bogotà non avrei avuto le stesse opportunità. Troppa concorrenza. Poi c’è mamma. Si sarebbe adattata alla mia presenza. In questo mo- do è costretta a badare al negozio e così ha un impegno che la tiene attiva. Vado a farle visita ogni mese e provo tristezza vedendola sfio- rita. Non accetterebbe mai di trasferirsi a Barranquilla. -

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- È una bella donna. Almeno così la ricordo. - - Tu che pensi di fare? - - Andare avanti con la palma da olio e trovare un socio. - - Che te ne pare del lotto? Sei soddisfatto? - - Non male. Dista una decina di chilometri dalla città. Terra lavo- rabile. La chiamerò Idumea. - - Sei bravo con i nomi esotici. Che significa? - - Da lassù si vede il golfo. Corre brezza. I frutteti sono gonfi. I- dumea era una prospera zona di Tel Aviv. - - Rodrigo mi svelò che avevi intenzione di sbarcare. Il lotto era un’occasione. Il dottor Lobo de Miranda mi disse dell’asta, così ti feci avvisare dal tuo amico. - - Te ne sono grato. Quando lo conoscerò, lo ringrazierò. - Il capi- tano cambia argomento. - Credi ancora che i Fenici siano giunti in America prima del navigatore italiano? - - Ne sono convinta - ribatte lei accalorandosi. - Tre anni fa sono andata in Brasile, a Paraibo. Ho voluto rivedere la tavoletta incisa dai Fenici e le parole mi hanno messo la pelle d’oca. Sai cosa c’è scritto? I cananei giunsero da Sidone per il commercio quando era re Hiram e partirono dal Mar Rosso, con molte navi. - - I tuoi fenici fecero ritorno a Sidone? - domanda lui. - Quelli di cui parlo, naufragarono sulle coste del Brasile. - - Ci sono prove? - - Dopo tremila anni? Stai scherzando Ji Pi… Diodoro Siculo af- fermò che i fenici partirono da Aqaba, mille anni prima di Cristo, per il giro dell’Africa. E riuscirono nell’impresa. - - Chi? - - Diodoro. Noto la tua diffidenza - dichiara Clara con tono di scherzoso rimprovero. - Dovresti avere maggior fiducia in me. Jean Paul sente di vivere il migliore degli incontri. Camminando al suo fianco - i sensi dilatati - assapora il gusto resinoso degli alberelli di drago che rilasciano un odore intenso attraverso il fusto tozzo. Un urto di essenze di terraferma. Accerta che la vicinanza femminile con-

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tinua a dargli emozioni. Forse è presto per sondare i sentimenti e fre- na la vivacità del suo animo. - Lavori ancora per la scuola russa di Knorosow? - - Non più. Son gelosa delle mie ricerche. Le faccio in silenzio. - Clara gli confessa la preoccupazione per il taglio delle spese stabili- to dal ministero. - Spero di inventare uno stratagemma per sostenere le mostre. Soldi dalla capitale ne giungono pochi. - Lei nota quanto siano mutati. Non completerà le sue risposte. Lui è divenuto scaltro nell’affrontare un discorso. Imparziale, riflessivo. Sostiene che il modo migliore per mettere fine alla violenza è di libe- ralizzare le coltivazioni di coca. Entrambi sanno che non si vive bene sotto la minaccia di un attentato, di un sequestro, di un sicario, di una pallottola vagante, di un sistema corrotto, di una società internaziona- le poco presente. Conoscono il catechismo impartito alle persone semplici: sperare di morire in modo naturale, pregare per non perdere il lavoro, augurarsi un presidente illuminato. - Durante le tue navigazioni ti sei legato a qualcuna? - Clara, di colpo, gli fa la domanda. - Nessun uragano, qualche mareggiata - riporta lui sereno. - Mi sono consolato pensandoti. Nessun legame. - Clara confronta la spontaneità dei loro cuori e ne riconosce il lato speculare: l’attrazione. È un buon inizio. Salgono sull’auto di lei e in breve giungono dinanzi ad una casa di un piano, difesa da una cancel- lata. Nel giardino c’è una fontana in cui si alzano, ad arco, quattro zampilli. Le luminarie colorate sono accese e si sente musica vivace. Lei lo rassicura mentre pigia il campanello. - Sono tutti amici. Ti troverai bene. - Li accoglie il padrone di casa. Ha una ventina di ospiti e l’atmosfera è disciolta. Le amiche si fanno avanti a sbaciucchiare Clara e lei presenta il capitano. Melania, la festeggiata, magra con una trec- cia che le dà un’aria sbarazzina, strizzata da un aderente vestito che pare di metallo, dotata di una leggera civetteria, sospinge Jean Paul verso il terrazzo per un merengue. Lui si aggiorna sui nuovi passi. Al

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termine del brano è accaldato. Ringrazia Melania e torna da Clara che s’intrattiene con un’altra amica. - Ti sei difeso - lo stuzzica Clara. - La mia amica ti ha sedotto? - - Mi pare timida - celia lui divertito - anche se sfoggia un vestito scollato che metterebbe i brividi allo stesso Bolivar. - Clara presenta Jean Paul a una seconda amica, una bionda proprie- taria di una boutique. Ha il morale depresso perché il suo uomo se l’è filata con un’altra. Un tradimento che meriterebbe vendetta. - Il disgraziato ha portato via un mucchio di pantaloni di lino - si duole Angelica. - Anche alcune camicie di seta e delle scarpe toscane che costavano un pacco di pesos. - Così impari a insegnargli il buon vestire - la rimprovera Clara con animo di partecipazione. - Li fai eleganti e quelli ti tradiscono e ti de- rubano. Invece andrebbero in lavatrice. - Quei pettegolezzi propongono a Jean Paul un tiepido impegno della città in cui è tornato. È contento. Sopraggiunge Melania recando un bicchiere di whisky per lui. Lo strappa ancora alle amiche e punta il giardinetto della casa, in cerca di fresco e di riservatezza. - Quelle stanno dicendo peste di Carlino. Un bellimbusto. Avevo avvisato Angelica di mollarlo. Era troppo buono a letto e non mi ha dato ascolto. È ingenua - nota la magrolina bevendo un sorso. - Co- munque, Clara la aveva avvisata. La mappa astrale le disse che l’uomo gallo era da isolare. Lo sai che Clara è brava? - - E a te cosa ha predetto? - - L’incontro con un uomo a cavallo. Se militare o cowboy non è chiaro. Lo scoprirò. - La risposta fa ridere il capitano. Melania gli domanda che si fa su una nave e lui racconta delle passeggere ricche in viaggio su navi da crociera, con i mariti dimenticati a casa e in cerca di svago. - Piacerebbe anche a me farne una. Quanto vale? - - Circa mille dollari. - - Caspita - le scappa detto - lavorando sodo, mi ci vorrà un secolo per metterli insieme. - - Compro un veliero; ti ci porto gratis. -

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Melania sbarra gli occhi. - Sei grande. Clara dove ti teneva? - gli domanda meravigliata. Il capitano non le ha mentito: è sua intenzione comprarlo quel ve- liero. Avrà tempo, tra un raccolto nella piantagione e il successivo, per brevi veleggiate. Clara lo raggiunge e prendono a ballare. - Non ti annoi al Colombus? - - C’è un anziano giornalista che vi abita fisso. Santiago. Beve senza darsi pena per le cellule epatiche. In passato l’hanno minacciato per i suoi scritti e si sente al sicuro in albergo. - - Lo conosco. Ha la barbetta, è calvo. Mi aiuta a volte col museo. I suoi articoli fanno arrivare qualche sovvenzione. È arguto e ironico. Si ferma a visitare le nostre collezioni e ci scambiamo opinioni. - - Leonid? Che fine ha fatto? - domanda Jean Paul d’un tratto. - Licenziato. - Lei para il colpo. Si aspetta una domanda sul lato sentimentale che subito arriva. - Lo ami? - - Non l’ho mai amato. - La risposta anima il giovane. Si divertono con un’infilata di meren- gue. Lui la stringe e incontra il seno turgido sotto lo chiffon. Clara si lascia marcare. Sospira quando si accorge dell’ora. - Il pullman per Bogotà partirà alle undici. Non posso perderlo. Mamma mi aspetta. Devo passare da casa per prendere la borsa - lo avvisa. - Puoi restare con gli amici se ti fa piacere. - - Ritornerò in albergo. - - Ti riaccompagno. - Dinanzi alla porta girevole del Colombus, Clara scende per saluta- re Jean Paul. Scambiano un ultimo abbraccio carico di piacere. Lei sente la colonia maschile. La riconosce. È un profumo fresco e virile. Jean Paul coglie le chiavi della sua camera al banco della reception. Apre la finestra lasciando che entri l’aria marina. Si spoglia, fa una doccia calda e si mette a letto. Nudo tra le lenzuola, avvicinato da una spiritata felicità, si addormenta. Dal balcone entra un suono di fisar- monica. Sogna il suo corpo fuso con Clara. La realtà sembra più prendibile dell’orizzonte marino, lontano e mobile.

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Un rustico anello di capanne forma il villaggio isolato degli indios, sul confine colombiano con quello venezuelano. Al centro, più gran- de delle altre, una è riservata alle future cerimonie: è ancora in allestimento. Di lato al villaggio scorre il fiume, largo e verde: una frontiera naturale. Il corso d’acqua, più a sud, riceve gli affluenti tu- multuosi che discendono dalle pietrose alture inospitali, dove scorpioni e serpi sono dominanti assieme a scimmie e formiche. Il villaggio ha uno spiazzo centrale. Vi ruzzolano i maiali. All’esterno del perimetro, il terreno argilloso, in un punto, declina con dolcezza se- gnando uno scivolo naturale di fango indurito che s’infila nel fiume. Le canoe scavate dai tronchi, tirate a secco, sono legate alla riva. Di giorno si riempiono di sterco d’uccelli e durante le notti di strane muffe. Bisogna lavarle prima di montarvi. Leonid, il pilota russo, non si rade da giorni. Da quando è giunto al villaggio, ha perso la voglia di sentire le guance lisce. Una volta la settimana fa un volo e prova atterraggi col maneggevole De Havil- land, battezzato Ave Maria. Ha assolto lo scopo iniziale della missione consegnando la valigetta di Vassili a King Kris. L’americano gli ha spiegato quale sarà il suo compito e lui ha finto di credergli: dovrà trasportare pacchi di viveri da un lato all’altro, dal villaggio dove stan- no a quello di Bacatà, su un altopiano oltre il confine, servito da una strada in terra battuta che porta a una vicina cittadina provvista di pronto soccorso e mezzi di trasporto per le grandi città. Tale spiega- zione, per Leonid, è banale. Secondo lui c’è altro e lo scoprirà. Sebbene si sia nutrito da alcune ore, non ha digerito il frugale timballo di mais e lumache, preparato da Amanicea, un’india ben proporziona- ta, silenziosa, costantemente in azione accanto a fornelli, pozzi e stenditoi naturali con panni ad asciugare. Disteso nell’amaca di fibra vegetale legata ai pali che sostengono le traverse del tetto di foglie, guarda l’uccello. Il colibrì, prigioniero nella gran gabbia di rete, a maglie strette, non sosta un attimo. Vola e sof-

fre la mancanza della foresta. Le gracili ali emettono un leggero frulla- re. Sta levitando, sospeso nella sua prigione. Tenta di succhiare con il becco da un pezzo di papaia matura. Va in avanti, o all’indietro - lui stesso molecola d’aria - e stupisce il russo che prova a indovinare il numero di battiti d’ala che l’uccello agiterebbe in una giornata di volo: una cifra smisurata. Gli darebbe la libertà. Suppone che tale arbitrio, all’imparruccato Kris, non piacerebbe. Il colibrì è un pegno che gli ha assegnato lo sciamano Takenda, da mantenere fino a che non spunte- ranno le nuove orchidee sui tronchi dei secolari ficus. Esse sono un segno (sinestesia) della benevolenza degli impietosi e potenti Yati, gli spiriti della selva. Al suo arrivo da Cuba, l’americano gli assegnò, per alloggio, la futura capanna chiesa che ha il vantaggio di essere la più ampia. Da quel punto lui vede molte cose: la folta vegetazione che circonda il villaggio, i ragazzini che pescano, lo sciamano che vaga da una piroga alla successiva cacciando iguane, Amanicea che cucina tuberi a ogni ora. Vassili l’ha cacciato in una trappola, dove pullulano insetti d’ogni tipo, fiori profumati fino alla nausea e indios seminudi, dagli occhi impenetrabili, le cui ombre, di notte, gli impediscono di dormire rilassato. Irina, dottore del centro medico di Cuba, ha riso mentre esaminava con un’ecografia la valigetta di cuoio. Gli ha chie- sto se lo mandavano a fare spese al duty free di Aruba con tanto denaro, almeno un milione di dollari. King Kris si affaccia alla veranda del patio di legno grezzo prece- duto dal fulgore della bionda parrucca. Indossa un abito nero. La sua voce nasale e prepotente scuote il pilota: - Amanicea ha decotto il caffè verde. Ti consiglio di berne una tazza finché è caldo. Dopo farà schifo. Tra poco partiamo. Andremo dall’altro lato del confine, a Ba- catà. Passeremo il fiume. Dovresti memorizzare l’intorno. - Non ci perderemo. Ascolta, perché non andiamo a divertirci in un casino venezuelano? - - La lussuria rende la vita inutile e porta a una morte prematura. - Ciò che al pilota resta da verificare è il contenuto della seconda borsa, quella nera, che l’americano non molla mai. - Cristu. Che nome. Te lo sei messo o te l’hanno dato? -

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- Mister King Kris - ripete con accento odioso l’americano. - Gli indios mi hanno ribattezzato Cristu. - - Ci vai d’accordo con lo stregone? - - È cristianizzato. - - Allora è un ipocrita. Li frega. - Il russo lascia in terra la tazza da cui ha bevuto il caffè. Non si spiega perché Kris si spruzzi con acqua al sandalo. Fa arricciare il na- so pure all’india Amanicea che vive nella capanna di lato, con le pareti di stuoia. La donna, cinta con un panno di fibra, è piegata - pare arro- tolata - accanto ad un fuoco e sta cocendo farina di yucca e pesce: il pasto dei due stranieri che lei serve senza parlare. Così le ha imposto Takenda, allontanandola dalla mansione solita: macinare il mais. Leo- nid non vede maschi adulti in giro, almeno di giorno. La sera tornano dalla pesca, dal campo o dalla foresta, e spariscono nei rifugi. Le don- ne e i bambini trascorrono molte ore sul fiume e si riuniscono per il tramonto, quando si prepara il desinare. Le anziane, masticando radici piccanti, ammassano con rapidità polpa di zucca o friggono pezzetti di carne di capra. Il russo ha imparato che solo nei giorni di festa gli uomini bevono un distillato di radici cotte, forte e gommoso, che li stordisce. Ha saputo che una donna ha partorito e ha veduto le altre ballare in cerchio per ingraziarsi gli Yati. Scende dall’amaca mentre Kris gli parla avviandosi. - Takenda è esperto. Conosce rimedi per combattere i veleni. - S’insinuano un sentiero che passa l’intrigo dei rugosi colossali sa- man. Giungono a una copertura di foglie secche che nasconde, riparata da un telo, la sagoma di un aeroplano di modeste dimensioni. Innanzi al rudimentale hangar c’è uno spiazzo brullo da cui parte una striscia lunga cinquecento metri, la pista che permette il decollo e l’atterraggio. King Kris si muove con passi larghi nell’angusto ricove- ro. Ha le due borse. Quella marrone giunta da Cuba per conto di Vassili la consegnerà a Nelsen. Il russo inizia a levare il telo che pro- tegge l’aereo dagli schizzi nefandi dei pipistrelli. Getta un’occhiata alle borse poggiate in terra, deciso ad aprire quella nera. Dal lato opposto Kris lo aiuta a piegare il telo. Appare il De Havilland Tiger, rosso fu-

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csia, da addestramento. I due uomini si appoggiano contro i sostegni del carrello e lo spingono sulla radura. C’è la prova del motore. Leo- nid frena l’aereo e avvia il Gipsy da centonovanta cavalli. L’elica dà quattro strappi e si avvita lucente, assecondando il rombo dello scap- pamento. - Kris, metti le borse nel vano bagaglio e chiudi il portello. - L’americano sale sul sedile posteriore, opponendosi al flusso d’aria spinto dall’elica. Si leva la parrucca, infila le gambe nello spazio angu- sto e allaccia la cintura. - Credi sia sicuro? - grida l’americano. - Mi stai dicendo che non hai fiducia nell’assistenza del tuo supe- riore diretto? - dice il russo con tagliente ironia. - Quale superiore? - - Il Padre Eterno, Kris. - - Stupido ateo - ribatte l’americano nel rumore crescente. Il pilota fissa la rotta sulla carta aeronautica. Ha da compiere circa quaranta minuti di volo. Non ci sono radioassistenze. Nessuna pista d’emergenza. Giungla e sabbie mobili. Per un suo principio, non si fida del programma Falcon datogli da Vassili. Memorizzerà il colore dei fiumi sorvolati, bianchi o neri, secondo il fango che trasportano. Non si perderà sopra quell’oceano verde, compatto e uniforme. Le posizioni di decollo e d’atterraggio sono marcate nel GPS. Lo stru- mento satellitare lo aiuterà fino alla destinazione, suggerendogli la giusta rotta e il tempo di volo. È grato alle invenzioni della tecnologia avanzata; serba, in ogni modo, il dubbio di un elettrone pazzo che mandi in tilt un circuito. Aggiusta gli occhiali fermando le stanghette dietro le orecchie, appunta l’ora di sblocco sul cosciale legato alla gamba e rilascia il freno, permettendo alla reazione dell’elica di porta- re avanti l’aereo. Usa la pedaliera per dirigerlo nella radura: il vento viene da Ovest. Avanza adagio la manetta, controllando sugli stru- menti l’aumento regolare dei giri, delle pressioni, delle temperature. L’aereo freme mentre l’elica, vorticando, scuote la carlinga. Al massi- mo regime i parametri sono regolari. Il De Havilland inizia a correre assecondando le correzioni impostate dal pilota. La lancetta

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dell’anemometro si aggancia ai sessanta nodi: Leonid tira appena la cloche e il peso dell’aereo resta affidato al sostentamento delle semia- li. Inizia l’ascensione con il variometro che segna quattrocento piedi a salire. Il rumore fa fuggire variopinti uccelli dal fitto fogliame. Uno stormo di pappagalli impauriti sfreccia in direzione opposta, mentre le ali dell’Ave Maria fendono l’aria calda e scavalcano la gran capanna chiesa, la radura, il villaggio, il fiume serpeggiante, le anse che si apro- no o si chiudono, simili a spire di un serpente verdastro e lucente. Il pezzo di foresta abitato si allontana, si confonde sotto l’aereo. Si pro- spetta, uniforme e sorprendente, un mare verde: il mondo superiore della selva ogni giorno colpita dall’alto dai raggi o dalla pioggia. La quota aumenta, mentre nell’azzurro si sospende l’immaginaria linea della frontiera colombo venezuelana, violata dai gruppi di guerriglia e dai narcotrafficanti. L’aereo oscilla per una corrente ascendente e il pilota corregge la quota. La luce si fa morbida e la faccia della foresta arrossisce con le velature d’arancio che il vicino tramonto irradia. Le- onid spia il passeggero che mantiene la testa bassa per ricevere meno vento. Lui deve mettere le mani sulla borsa nera. Userà l’abilità per scoprire i segreti di King Kris. Non gli piace lavorare con persone sotto falsa identità. Si concentra sugli strumenti: ago dello sbandome- tro al centro, barra al neutro con l’Ave Maria dritto sui duemila metri, il regime del motore regolare, la velocità stabile. Non vi è traffico d’aerei nella zona che stanno sorvolando. L’unico rischio è qualche grosso uccello migratore. Un impatto annullerebbe la sicurezza affida- ta all’elica. Canticchia un motivetto: “La papaia buona e rossiccia, leva di dosso la ciccia molliccia.” Condurrà il profumato pastore in un paio d’ebbrezze da circo. Lo porterà in altalena. Si mostra all’orizzonte Bacatà e il campo dove poter atterrare. Ha la forma dell’incudine e il fiume lo lambisce da un lato. Il pilota individua il punto di toccata, indicato da una radura che anticipa una macchia d’alberi. Un pennacchio di fumo grigiastro di una segnalazione si leva lento per assenza di vento. Atterrerà con il Sole in coda. Si trova a sei chilometri da Bacatà. Inizia l’acrobazia. Porta avanti la manetta: il Gipsy emette un ruggito e il muso punta il cielo screziato. Leonid lo

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accompagna tirando la cloche e sale quasi verticale per trecento metri. Riduce a un assetto di quindici gradi, rigira e capovolge. Si trovano con la cupola rosata sotto le scarpe; toglie motore, infila la pedaliera da un lato e gira la cloche dall’altro, precipitano in una capriola da brivido e quando l’accelerazione schiaccia i visi, rilascia la cloche mandando di nuovo il motore al massimo. Non ode il finto pastore dietro di lui. Certo avrà una faccia da lepre. Ciò lo fa sentire pronto per ordire un secondo giro. Un’altra capriola, poi una mezza vite, una ripresa, di nuovo su, per duecento metri, e scivolata d’ala, picchiata, volta, risalita a candela, stallo e rimessa in linea di volo. “Questo è volare, quando da terra non ti sparano.” Il De Havilland, allineato al suolo, sfiora il limite del campetto d’atterraggio. Si poggia sul terreno frenando brusco. Non si leva polvere e Leonid ne ricava che là sopra, a Bacatà - campo alto, in lingua india - ha piovuto. Vede Kris che scappa, più che scendere, senza parrucca dall’aereo e andare verso un folto cespuglio. Non ha retto alla gravità acrobatica e l’intestino gli ha ceduto. Il pilota scende soddisfatto dall’Ave Maria, stirando i baffetti. Apre lo scomparto e sbircia, con delicata pratica, nella borsa nera. Scopre le foto satellitari che riguardano piantagioni di coca. Di lato è annotato il numero del satellite di provenienza e la zona rilevata. Un indio grinzoso e magro, al punto da mostrare le costole sotto la camicia aperta, in testa un cappellaccio di feltro duro, esce allo sco- perto da una capanna di legno e fango, accostandosi al velivolo che si è fermato a poca distanza. - Buonasera, padroni. - - Salute Pippay - risponde il pastore uscendo pallido dai cespugli e terminando di allacciarsi i pantaloni. Poi si volge a Leonid. - Cosa ti è preso? Stavo per morire. - - Lo faccio per impressionarli - ribatte il russo passandogli la par- rucca fulva ripescata sul fondo della carlinga. - Gli indios credono che siamo diavoli volanti. Ci meriteremo massimo rispetto. - L’indio gli accenna di sedere sotto la tettoia di lamiera. Il pavimen- to è di fango secco, pressato e pareggiato. Vi sono quattro bambini nudi, il più grande avrà cinque anni e gioca con un pappagallo dal

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collare nero. Dopo aver soffocato il fuoco basso, di corteccia fumosa che aveva riacceso per i segnali udendo il motore del velivolo, gli of- fre un infuso di erba aromatica. Il finto pastore ne accetta una tazza. Leonid preferisce fumare una sigaretta. Grossi pipistrelli iniziano ad agitarsi, pronti a uscire per il pasto notturno. - Dimmi Pippay, la tua marijuana? - s’informa Kris sospingendo l’indio lontano dalle orecchie del russo. - Quest’anno bene, signor Cristu. I campi sono felici. - - Qualcosa di nuovo dalla mia ultima visita? - - Mi è sparito il cane. Ci sarà una cagna in giro. - - Che stradiavolo ti bruci. M’importa un sedano del cane. Hai por- tato il messaggio a Gonzales. È venuto? - - No. Ti manda a dire che senza soldi non ti darà nulla. Nemmeno un grammo della merce che vuoi. - Kris impreca. È chiaro che Gonzales non si fida di lui. Se non ve- drà i dollari, non gli farà arrivare la cocaina per mettere in atto il suo piano: anticipare Vassili e bloccare le sue mosse. - Dov’è la mia auto? - - Dove l’hai lasciata. - Kris trova la Land Rover sotto i rami di una poderosa pumarosa, non lontano dalla capanna, pur sempre alla mercé dei roditori. Non l’ha veduta subito perché la vegetazione è esplosa e alti ciuffi d’erba spinosa l’hanno circondata. Lo meraviglia la forza che quel terreno cede alle piante. Apre la portiera pregando che nessun insetto abbia scelto di ripararvisi, introducendosi da uno di quegli impensabili bu- chi della carrozzeria. Avvia il motore ed esce dal canneto. - Quando tornerai? - gli domanda Leonid. - Qui non è sicuro. Puzza di guerriglia, peggio che dall’altra parte. - - Tra quattro giorni. In ogni caso ti chiamerò sul satellitare. - L’americano mette le ruote sulla pista passando nella vegetazione; punta la strada asfaltata che passa a circa sei chilometri. Presto, a Ba- catà arriverà la cocaina che lui trasferirà in America del Nord con l’aiuto dei mafiosi di Panama. Tutto va secondo quanto stabilito

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nell’ufficio dell’OHB di Washington con i suoi capi. Leonid starà al suo gioco, assecondando le disposizioni che Vassili avrà imposto. Il pilota, però, spera di capire di più sull’organizzazione che spal- leggia l’americano. Negli ultimi giorni si è posta una domanda cui non ha trovato risposta. “Per chi lavora King Kris?” Gli ci vorrà del tem- po per scoprire che l’americano destabilizza una frangia della politica internazionale sotterranea legata al riciclaggio. Partito King Kris, l’indio offre una a Leonid che, nel frat- tempo, ha preso dall’Ave Maria una bottiglia di vodka. - Stasera si fa festa. Bevi Pippay. - L’indio estrae un flauto di canna e siede sotto un gigantesco man- go sulla cui sommità sfrecciano serpentelli saltatori che sembrano fruste lanciate in aria; preferiscono la via aerea ed evitano il terreno. Soffia note vellutate che si svolgono sull’aia. Il suono discende il lato ripido di Bacatà, scivolando sul fiume silenzioso. Con l’aiuto di un sorso di vodka il russo sopporta l’essenza legno- sa rilasciata dalla foresta. Le zanzare non lo preoccupano. La profilassi iniettatagli dalla dolce Irina, assieme all’amore, lo proteggerà dalla malaria. Guai a non essere immuni nella selva. L’indio, con grave contentezza dipinta sulla faccia, entra in pos- sesso della bottiglia e con impaziente premura, mentre scola la vodka, non cessa d’offrire al pilota frittelle di mais. A Leonid non resta che stendersi sull’amaca e attendere il sonno.

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Le case povere di Las Flores si somigliano. Non serve descriverle. Mobili vecchi o sul punto di smantellarsi; sedie cadenti, squallore in ogni angolo. Pablito, pur non rinunciando a vivere nella strada, dove cresce e si sente libero, è entrato in casa per consegnare alla gran nera i soldi guadagnati. Vorrebbe che la madre comprasse biscotti o cioc- colato per lei e le due sorelline. Si è ingegnato in cento modi per ricevere monetine. Ha portato valige e pacchi. Ha preso aragoste, di frodo, nei vivai. Quel giorno, smette d’aspettarsi la gratitudine della madre che, terminato di mettere i petali profumati dinanzi alla statui- na del Vecchio Nero, protettore degli africani, gli è addosso e lo fa pentire di essere tornato. - Dove hai preso i soldi? - ruggisce più che domandare mentre no- ta che il figlio è dimagrito. - Rubi? - - Me li hanno dati. - - Non è vero - sostiene la gran nera senza dargli scampo e conti- nuando a pedinarlo aggressiva, per assegnargli la razione di ceffoni. Vai con gli uomini per farti toccare. - No. Li ho lavorati - quasi grida. - Con chi? - domanda incredula. - Con il capitan marino. - - Sei uguale a tuo padre. Al porto, finirai ubriacone. - Pablito comincia a girare intorno al tavolo. Muove le sedie per sbarrarle il passo. Il vocione della donna sale di tono. - Stai fermo, brigante; adesso te le suono. Vedrai che malora. - - Sei cattiva - grida il ragazzo fuggendo verso la porta. - Dove hai rubato? Disgraziato. - - Ho pescato le aragoste - ripete supplicando, prossimo a strozzar- si di pianto. - Tanti pesos? Neppure se scarichi un camion di fagioli. Ti prendo e te le suono. Tuo padre, prima di sparire, mi lusingò dicendo che

faceva il soldato; poi andò a scaricare carne al mercato senza mai ri- portare tanto. Se la diede a gambe. La sorellina, quella scema ingabbiata nella culla senza materasso, col ripiano di legno, affetta da dacnomania (manda giù tutto quanto arriva a portata di mano) smette di mordere le sponde del rudimentale lettino e piange, pisciandosi addosso per la violenta emozione. L’altra sorella, più grande ma minore del maschietto, inizia a sghignazzare. - Ti meno - la minaccia il fratello disperato. - Provaci a toccare tua sorella e ti cionco le mani. - - Vado a vivere da me. - - Scappando da casa? Dormendo nella strada, mendicando, senza andare a scuola? Asino. - - I compagni mi ridono dietro. Non ho quaderni. - - Che pretendi, che mi ammazzi di lavoro o che fo’ la puttana per- ché tu faccia bella figura? - - Voglio essere uguale agli altri. - - Allora trova un lavoro onesto - grida lei. - Non vado a pulire le scarpe. - - Sì, invece, tu vai a qualunque cosa, per mandare avanti la casa. - - No. Le sceme hanno il padre loro. - - Magari ti ammazzassero nella strada. - - Torno con una pistola e ti sparo. - - Sei peggiore di tuo padre. - Ormai la gran nera è inarrestabile. La porta è sbarrata dalla mole materna. Il neretto non ha scampo. Un dolore alla gola gli impedisce di piangere e le risate della sorella lo feriscono facendogli provare qualcosa che lui non sa definire, che è parente dell’umiliazione. Adoc- chia la finestra aperta. La raggiungerà in tre salti, schivando la gran negra. Approfittando di una distrazione (la sorella è sul punto di strozzarsi nella culla) scappa quasi abbattendo il foglio di compensato che sostituisce il vetro. Piomba nella chiavica a cielo aperto che scola dinanzi alla dimora e neppure vede le facce inutili dei vicini. Essi sono abituati alle grida della venditrice di cocchi, con tre chiodi mandati da Yemanjià - divinità africana - per il suo riscatto, in questa valle dove le

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persone devono pagare qualcosa, per scontare le colpe originali. Pa- blo va a ripararsi sulla piazza del museo, nel parcheggio delle auto, là dove si è costruito il rifugio. Arriva al cubo di cartone e si nasconde nello spazio angusto. Mette la testa tra le ginocchia e piange; asciuga le lacrime con il dorso della mano. Solleva il viso e osserva le persone affaccendate che escono dal parcheggio, dopo esservi giunte in auto, alcune accompagnate da marmocchi saltellanti, per avviarsi verso i negozi che espongono oggetti attrattivi nelle vetrine addobbate con sfarzo. Fuori del rifugio c’è un lascivo chiarore che lui, intristito, non vorrebbe ci fosse. Spera che faccia presto buio. Passa un signore ben vestito. Poi una coppia con il figlioletto su un passeggino fuoriserie, foderato e con alte ruote di gomma. Ecco una signora con un sedere che sembra una valigia. Avanza un prete. Un venditore di biglietti di lotteria, con le scarpe da tennis slacciate. Sopraggiungono due poli- ziotti: lo ignorano. Compare un idraulico che scivola su una buccia. La cassa degli attrezzi, battendo al suolo, si apre spargendo il materia- le: chiavi e rubinetti. Una scena buffa, però lui non ride, non ne ha voglia. Non ha vivacità, la debolezza già si accosta alle gambe. Non presagisce ostilità in quell’area aperta di parcheggio, eppure, la madre gli ha ripetuto che esiste il pericolo. “Là sono spariti dei bambini.” Non è stupido, perciò si è sistemato di fronte alle finestre del museo, dove la vicinanza di un lampione, acceso di notte, gli dà sicurezza. C’è la signora che gli passa qualcosa da mangiare e, a volte, appare il capi- tan marino che, quando lo vede, lo chiama e gli rifila pesos per comprare un dolce. Un gruppo di scugnizzi, sporchi e laceri, attraversa il parcheggio. Hanno buste di plastica ricolme e il più piccolo tra loro la trascina. Le portano al loro nascondiglio per recuperare il possibile: del cibo o cose da rivendere. L’ultima del gruppo, una nera di tredici anni, lo sguardo strabico allenato alle scoperte, ha in una mano la busta e nell’altra un bastone. Pamela individua il ricovero di cartone e si pian- ta sicura, nella luce del tramonto, spiandolo da lontano. Ha la pupilla sinistra che va da un lato, i capelli arruffati, una gonna sporca, scarpe da ginnastica bucate, gambe magre. Ha una caviglia fasciata e mostra

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l’aria di sfida. Si stacca dai compagni e si dirige zoppicando verso il riparo. Si accovaccia dinanzi al buco studiandone l’interno; ne scopre l’imbronciato abitante e inizia a parlargli in modo strano. Pablito fati- ca per capirla: non completa le parole. Alcune sembrano insensate. - Oh tu, mai ti ho veduto qua - esordisce mettendogli la punta del bastone poco distante dalla faccia. - Lasciami in pace - risponde lui di malumore, senza fissarla. - Oh, tu; bon sa… io, bastone. Hai fame? - domanda studiandolo. - Mangia - dice porgendo un involto. - Non lo voglio - risponde il ragazzo alzando il viso e scoprendo che l’invasore della capannuccia è una nera, sporca, con un occhio che va tutto da un lato, al punto che lui decide in quale guardare. - Tuo nome? - domanda lei decisa. - Pablito. - - Parlare… Pabbito - accenna con tono di scambio, portando la pupilla pazza dal lato opposto dell’orbita. - Mi chiamo Pablito. - - Capito. Pabbito - dice mentre la treccia le oscilla dietro la nuca. La neretta entra e gli siede accanto nell’angusto spazio, incrocian- do le gambe stecchite che altrimenti rimarrebbero fuori del buco. Sulla caviglia fasciata, la benda è sudicia. Lei puzza di sporco e il ra- gazzo storce il naso. - Perché non ti lavi? - le domanda arricciando il naso. - Chi sei? - - ‘Mela - risponde lei tirando dalla busta un mezzo sigaro usato e dandogli fuoco con un cerino. - Pa… mela. Capisci? - - Che nome - la stuzzica. - Già fumi? Lo sai che ti fa male? - Pamela si arrabbia e gli mostra il pugnetto, senza desiderare che le spunti l’animo cattivo. Ha la faccia delicata. Le narici, un po’ grosse, sono imbrattate di una sostanza appiccicosa. Gli occhi vispi dichiara- no che non conosce il voto di pazienza. Fa spalluccia, si calma e sorride, prima di rifare la fasciatura alla caviglia, lasciando il sigaro fumoso appeso alle labbra. In realtà, Pablito ha la fortuna di ritrovarsi una madre povera ma onesta. Al contrario, la neretta ha un pessimo ricordo della povertà, materiale e morale, della sua: una prostituta.

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Non ha alcuna possibilità di capire che la sua nascita fu il risultato di un pietoso senso materno dissolto dall’annullamento della personalità, che non si ribellò contro l’abuso sessuale e lo sfruttamento dell’uomo che viveva con lei. - Pabbito, mangia il dolce. Di’, perché qua? - - Mia madre non mi vuole. Sono andato via. - - Tu con noi - lo invita senza indugi. - Alla baracca. - - Oggi no. - - Dico sì. Oh. Mamma puta? Tua. - - Non è puttana e non ripeterlo. - Pamela scarta il pasticcino profumato di miele e quasi glielo spinge tra i denti. È il capo del gruppo e un precoce senso materno, in lei che è appena ragazza, è fuso al ruolo che le fa meritare l’ubbidienza dei membri della piccola banda. Ha imparato a provvedere agli altri sei, due più grandi e quattro più piccoli: tra loro una di sei anni. Pro- cura il necessario: sa dove rubare e quando. Cerca nella spazzatura per alimentare tutti. I dolori vengono quando uno si ammala. In quel caso non ha alcun rimedio, né soldi per pagare le medicine. Bisogna aspet- tare che il male passi. Se passa. - Pamela, quanti siete? - le domanda il ragazzo. - Sono il capo - dice toccandosi la testa. - Sette. - La ragazzina alza le giuste dita per mostrarle nel caso non fosse compresa. - Ieri di più. Oggi meno. Pamela sa contare e ciò la aiuta a imporsi sugli altri e a gestire una precaria arte per la sopravvivenza. Mima con la mano una pistola e fa capire che qualcuno ha sparato ed ha ucciso uno di loro. Pablito mordicchia il dolcetto e il rumore provocato dall’iguana nella pancia inizia a sedarsi. Chissà se Pamela ha in corpo l’iguana. - Dove vivi con i tuoi amici? - - Nella strada. Vicino. Andiamo; ti mostro. - - Perché sei fuggita da casa? - tenta di capire, per un paragone dei guai della neretta con le sue disavventure. - Tiravo sassi a mia madre. Quando lei puta nel letto. - - Che cosa hai fatto all’occhio? -

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- Prima era dritto e poi va dove vuole lui. - Pablito fatica per organizzare le rivelazioni della ragazza che, co- munque, ha pazienza con lui. Lei cerca con la sorte nei punti della città, dove recupera cibo d’ogni natura. - Sì. Ti farò conoscere un mio amico - le dice con generosità. - E anche la sua fidanzata. La signora che sta al museo. - Non ci sono uomini buoni - costata la ragazza triste. - Cos’è la ferita che hai al piede? - s’informa lui indicando la fascia- tura che lei ha riavvolto sulla caviglia. - Rubando. Mi sono rotta. - - Che ti hanno fatto? - - Cucito e poi il gesso. - - Dov’è il gesso? - domanda lui perplesso. - Levato - spiega lei scambiando l’asse dei globi oculari. Pamela colpisce la sua spalla con un pugno. Il ragazzo vede, nello sguardo dondolante di lei, che non vi è cattiveria nei gesti. Restano a contare le auto che entrano nel parcheggio. Il sigaro si consuma nelle labbra della ragazzina. Scende la sera. - La signora del museo ci sta spiando - avverte Pamela, il cui istin- to ha acuito la percezione di sguardi lanciati dalla sua parte. - Mi dà da mangiare - rivela lui. - Che hanno là dentro? - - Mummie, morti antichi e pietre rotonde con segni strani. - - Che cagata - commenta la ragazzina stropicciando un occhio. Lo sollecita ad andare fuori, per raggiungere il gruppo che, intan- to, è sparito. Il neretto, prima di seguirla, si fa promettere che alla fontana si laverà. Giungono alla capannuccia, dove già è riunito il pic- colo gruppo, ai margini di un canneto. Gli scugnizzi sono seduti in cerchio sul terreno. Stanno selezionando i rifiuti raccolti nelle borse di plastica, secondo l’utilità. Scarti di cibo, lattine, bottiglie, indumenti. Qualcuno è riuscito a elemosinare ed ha ricevuto dei soldini dalla gi- tana bontà dei passanti. Nel poco spazio, tra puzze e sudiciume, la selezione permette loro di non morire.

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Jean Paul, cominciata la stagione nella piantagione, farà la cono- scenza del dottor Lobo de Miranda, la cui tenuta confina col suo lotto. Hanno un appuntamento in centro. Lo attende al caffè, seduto a un tavolo all’aperto, tenendo sulla testa un berretto. Ha ordinato un frullato di frutta. Individuerà il dottore grazie alla descrizione fattagli da Santiago. “Una figura anacronistica che si accompagna ondeggian- do con un barboncino”. Lo inquadra. Elegante, buon portamento a dispetto dell’età: un’ottantina d’anni. Un creolo a spasso con un cagnolino bianco che si distingue tra lo scalpiccio dei passanti. Mantiene un bastoncino di lacca nera, con manico d’argento, che appena sfiora il pavimento. L’incedere suggerisce una sorta di baratto tra un’epoca passata, circo- scritta, di colonialismo rigido e un’epoca recente, elastica nonostante le contraddizioni degli strati sociali. Pur avendo un volto duro e poco aperto, pare gentile e acuto osservatore pur mantenendo un distacco coltivato. Indossa un abito di tela e ha un Panama moderno sulla te- sta, con la tesa larga, la cui ombra si proietta sul viso. Jean Paul si alza e lo saluta per primo, presentandosi e trovando in lui, per un istante, una sfuggente espressione che gli pare di avere già veduto. Il vecchio lascia il bastone di traverso sul tavolino e siede con Lulù in braccio. - La molestano i cani? Eh. - - No, signore - risponde il giovane cogliendo il forte accento della costa e l’intercalare tipico. - Lulù è di piccola taglia. Un esserino. Incrociato per il buon gusto della società. Se il suo DNA fosse stato incatenato per la giungla, mi creda, non starebbe tranquillo sulle mie gambe. Provi a prendere in braccio un piraña. Se ne accorgerà. - Il capitano non si lascia impressionare dal gergo sciolto. Santiago l’ha avvisato degli strani concetti genetici formulati dal dottore.

- In questa città vedrà bei numeri. Il fenotipo che si è formato da queste parti è il risultato della mischia di seme ispanico, indio, africa- no e tedesco. Credenza, superstizione, sangue caldo, sangue freddo, odio, amore, bianchi e neri assieme, nel bene e nel male. Chi predo- minerà? Quando Mendel creò il suo modello, giocando con i due piselli, giallo e verde, l’esperimento dimostrò che a ogni incrocio, a ogni passaggio, tre piselli gialli risultavano predominanti su un pisello verde. Giovanotto sa che significa? Gli individui deboli e recessivi che non hanno sufficiente aggressività saranno dominati. Che dice Dar- win? Che i cani sono di razza e gli uomini no? I cani sono più signori di noi. Avremo tempo per parlarne, capitano. Non voglio essere di- sgustoso, da subito. Lei è giunto da poco. Come ha trovato la piantagione? Ha visto che terreno? - - Il suo incaricato, Camillo, fa un ottimo lavoro. Sono in debito. - - Non si preoccupi. Lei ha fatto bene a non comprare il trattore cinese - commenta meravigliando Jean Paul. - A quest’ora sarebbe impantanato con i ricambi. Il rappresentante mi chiamò per far sì che la convincessi. Lo mandai a farsi benedire. In mano a un contadino colombiano si mette un carro armato americano. Sono indistruttibili. Mi permetta di darle dei consigli. I lavoratori della piantagione devo- no essere docili e di buona volontà. La loro assunzione è importante quanto la scelta dei concimi. Ve ne sono alcuni che hanno il pregio dell’umiltà, e altri che covano, a loro insaputa, il desiderio di grandez- za. Caramba. Essi sono, in questa regione selvaggia, quanto di più pericoloso possa darsi contro la loro stessa incolumità. Eh. Così la- sciano un lavoro sicuro per andare a scorticare foglie di coca da ammassare per i narcos. Non ricevono paga ma cocaina, in cambio. Conoscono armi che non sanno adoperare, incontrano gente che non possono valutare e finiscono sotto i colpi delle canne mozze. - - I suoi operai sono scrupolosi. Ho avuto tale impressione. - - Hanno coscienza, capitanuzzo - sussurra il vecchio con un filo di voce metallica che fa sorgere la pelle d’oca a Jean Paul. - I vicini si aiutano. Ne va della salute. Per non perire. Venga a casa mia, berremo un bicchierino di liquore d’erbe, l’alchermes, fatto in casa. -

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- D’accordo. Le farò una visita. Adesso, cosa le offro? - - Un Cuba Libre servirà da aperitivo - accetta il dottore mettendo a terra Lulù. Sbottona la giacca e si fa vento con Panama. - Capitano, lasciai Camillo a sorvegliare la sua proprietà. Qui non esiste il rispetto del bene privato. Lo invadono. L’azione di sfratto diviene un caso politico. Entrano, piantano ciò che vogliono. Il parti- colare buffo è che il padrone del terreno resta il responsabile della verdura che vi crescerà e la DEA, antinarcotici, denuncerà costui, non gli invasori. Non lo scordi. La cocaina è un reagente che fa invertire ogni valore. A un’invasione sobillata, dovrebbero seguire le misure attuabili per lo sviluppo agrario. I pozzi, gli attrezzi, i caterpillar, i concimi, gli antiparassitari, i camion, le strade per arrivare ai mercati, i centri agricoli, la protezione contro le invasioni dei gruppi sovversivi, i presidi medici, le scuole per i figli dei contadini, i centri di telecomu- nicazione. Sa quante specie di serpenti abbiamo? Una quarantina, velenosi. Senza contare le sottospecie dei crotali. Quattromila persone l’anno sono morse. Il siero scarseggia. Chi salva un ragazzino dal morso di una vipera? Vedesse quanto ci gioca con un serpente. I piccoli non hanno paura. Manca la cultura che avverta della pericolosità. - Si godono l’aperitivo guardando il cielo che si rannuvola. Il dotto- re splanca gli occhi in stravaganti congetture. Continua e dice: - Da noi, natura e contadino sono innestati uno nell’altro. Metter- gli in testa valori diversi da quelli agrari, crea scompenso. Imporgli bisogni da cittadini, a trecento chilometri dalla città più vicina, è sba- gliato. Gli ospedali sono lontani. Il trasporto di un ferito dal campo al pronto soccorso, in grado di arrestare il danno di un veleno neurotos- sico, richiede ore. A questo c’è da sommare che ci sono migliaia di famiglie in fuga dalle loro parcelle in seguito all’arrivo dei narcotraffi- canti. Nei latifondi, poi, nessuno controlla la natura. Il foraggio non reciso si fa tagliente, al punto da ferire le lingue degli animali al pasco- lo. In certi periodi dell’anno, le zone d’allevamento si allagano sotto le piogge e affogano la gente. Quando dalle cordigliere scendono casca- te d’acqua, in corsa verso il bacino dell’Orinoco che le raccoglie, il

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bestiame scappa dinanzi ai fiumi senza padre. Nessun governante, nessuna guerriglia, varerà la bonifica dell’immenso territorio a dispo- sizione. La beffa è che non possiamo rifiutarci né di pagare le tasse, né la tangente pretesa da quelli che vorrebbero levarci di mezzo per mettere coca nelle nostre piantagioni. - - Siamo in balia dell’anarchia? - dice Jean Paul notando un eccesso di pessimismo nelle parole del dottore. - No, al contrario. Siamo in democrazia. Ruotiamo nel paradosso. Si teme di parlare, per i delatori. Ti segnalano, non alla polizia, ma ai banditi. Essendo in guerra tra noi stessi, non abbiamo martiri ed eroi. - Il medico fissa il capitano con gli occhi verdi appena socchiusi. Il suo sguardo si spegne, si perde dietro pensieri che lo portano lontano. La cattiveria è suggerita dai geni assegnati a un uomo da un superiore e universale disegno. Una trasmissione che avviene attraverso le stelle e i residui gas cosmici del Big Bang. Gli astri, secondo lui, sono escre- scenze su un immenso cilindro spaziale, un galattico carillon ruotante che suscita una musica percepibile solo da uomini della sensibilità cosmica di un Keppler, uomini messi a colonizzare la galassia sotto forma d’iniziali microbi protetti da scudi di carbonio. - La malvagità specifica di una classe di delinquenti segnala la chia- ra volontà dell’Iniziatore di metterci, tra nascita e morte, dinanzi ad un’illusione di libero arbitrio. Siamo le cavie di un esperimento estre- mo di cui non capiremmo né la portata né lo scopo. Come mutare in animo buono uno cattivo? Il movimento misura il tempo. Il movi- mento che è un sinonimo della trasformazione. Non la rotazione della Terra intorno al Sole. Nessuna rotazione. Dichiariamolo il mo- vimento della materia, una volta per tutte. Esso genera la mutazione. Noi invecchiamo per sfinimento fisico e non perché la Terra gira. Perciò, come mutare un tipo cattivo in essere buono? Trasformando- lo. Facendogli cadere addosso in un istante tutto il peso degli anni, imponendogli una repentina vecchiaia. La nostra origine non è solare. Veniamo da lontano. La malvagità venne sulla terra assieme alle parti- celle extra solari. Da una cometa. - Rivolge l’attenzione al cagnolino e

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gli svolge il guinzaglio. - Avremo modo di parlarne - assicura quando vede l’espressione delusa dell’interlocutore. Jean Paul concorda con Santiago: le idee di Lobo de Miranda sono supposizioni che sublimano le bolliture filosofiche dove l’uomo è un nulla e vale solo il DNA. Non lo contrasterà. Ha notato che il vecchio si affatica. Sono sorpresi da un vortice di vento. La pioggia si fa pre- cedere dal colore violaceo delle nubi, poi inizia a cadere con spessore. Si spostano all’interno dell’affollato caffè. Il dottore tranquillizza il barboncino che ha preso a tremare. Il taglio dell’acquazzone inter- rompe l’asfissia provocata dalla calura. Un gruppo di ragazzi incuranti dell’acqua e zuppi, suonando clari- netti, attraversa la piazza mimando una cumbia, esprimendo l’impeto della musica con salti e arrotolamenti. Sostano innanzi al locale e ar- monizzano note guizzanti. Danzano per puro piacere, per una molla interiore, inarrestabile. Il dottore brontola: - Ecco il dondolio che preferiscono. Strimpel- lare, festeggiare, divertirsi, spendere per mascherarsi, ubriacarsi e sfogare la brama sessuale. L’allegra scelleratezza genera feti ai quali non si può garantire una vita decente. Le ragazze restano incinte. Poi mi cercano a copula fatta e pretendono che procuri un aborto. Io mi rifiuto. Allora vanno dalla fattucchiera e muoiono di setticemia. Altro che vitalità. Jean Paul, mi venga a trovare. Ci chiariremo. Vorrei e- sportare olio in fusti. Fare due chiacchiere tra noi non costerà nulla. Potremmo trovare punti comuni. Permetta a Camillo di continuare a organizzare il suo terreno. Non se ne pentirà. - - Stabilirò con lei il compenso. - - Molto giusto, mi pare. Calle ventidue, rammenti. La casa è vec- chia. Ancora accogliente. Fin quando le termiti non prenderanno il totale sopravvento. E c’è l’alchermes. Ricetta di famiglia. - Lobo de Miranda si alza quando smette di piovere e si allontana nella strada bagnata, ancora dritto sotto l’assedio degli anni, circonda- to dall’esercizio musicale dell’allegoria creata dai ragazzi neri. Lulù, tenuto al guinzaglio lungo, lo precede di un paio di metri, muovendo rapidamente le zampette e tenendo alta la testa riccioluta e bianca.

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Raul ha voglia di divertirsi. Coltiva aridità, una caratteristica delle persone vuote. Il nemico, Gonzales il paramilitare, anche lui se la spasserà da qualche parte. L’informatrice, Cecilia, gli ha detto che l’hanno notato in giro. “Che goda. Tra poco lo sistemerò.” La vita alla macchia è una giostra di scaramucce. Ha avuto pochi scontri violenti con l’esercito. Soffre di allucinazioni; nei sonni saturi di cocaina ha un incubo ricorrente. Di notte vede il folletto, orripilante, che siede sulla branda e lo fissa ghignando. Certe volte quello gli salta sullo stomaco e preme con tale violenza che lui esce dal sogno narcotico, sfatto. L’allucinazione lo costringe a eccitarsi, ad andare in cerca di una don- na per placare gli effetti della cocaina. Il sesso violento lo stanca e così riesce a dormire. A Raul, posseduto da desideri incostanti, lo di- sillude una condizione che non gli consente di concentrarsi. In quel momento la nausea che gli stringe la gola è la solida testimonianza della bevuta delle ultime ore. Conosce i metodi per la lavorazione della pasta di coca. Da anni brama un periodo migliore, fuori della foresta, in un posto comodo, dove non gli manchi nulla. Guarda la prigioniera legata accanto al letto. È dimagrita. Dorme sul pavimento, sopra una stuoia, e si copre la testa con un cuscino. Il suo secondo, un bianco, Antonio, la faccia da scomunicato, di ritorno dalla fattoria Corral a mani vuote, gli ha riferito che il riscatto non l’hanno pagato. I parenti hanno difficoltà a vendere il bestiame che la siccità delle pianure ha buttato giù di peso. Il rapporto indispone Raul, perché non è abituato al rifiuto. La prigioniera è un peso, biso- gna alimentarla, e costituisce un pericolo. L’esercito, in genere, non si affanna nelle selve o nelle savane per liberare sequestrati di scarso interesse; i generali sanno che rischiano e che è molto difficile trovare i nascondigli mimetizzati dalla guerriglia. - Sono stanco di attendere. Portala via e mettile un colpo in testa. - - Raul, permetti, aspettiamo. -

L’ostaggio resta legato alla branda. Le ha evitato il supplizio della buca sottoterra. Se gli verrà un’erezione spontanea, la proverà. Non ha voglia di entrare in conflitto con se stesso. Per ora, la ragazza non la ammazza. Avrà il permesso d’andare, accompagnata da una negra, al pozzo per lavarsi e, dietro per i bisogni naturali. Ha natiche tornite. Le va accanto per importunarla e la tocca col piede. - I tuoi non hanno pagato - le dice scotendo la testa, su cui tiene il berretto di stoffa mimetica. La ragazza è spaventata. L’isolamento la fa scivolare nel vuoto e teme per la sua vita. Le pare di non trovare i nervi, mentre tenta di ricombinare un pezzo di logicità, sotto un tremito impercettibile. Le dà maggior pena rispondergli che udirne le minacce. Allo stremo della resistenza ripensa alla circostanza in cui l’hanno sequestrata, all’uscita del liceo privato. Non ha avuto neppure il tempo di strillare: le hanno vibrato un pugno prima di spingerla nella jeep. Alla fattoria era avvol- ta dal benessere: non aveva mai immaginato un sequestro. Non si era immedesimata in un ostaggio. Non l’avrebbero rapita se si fosse tro- vata nelle condizioni di una donna di servizio, o di cuoca dietro una mandria condotta da dieci uomini da un accampamento all’altro. Le serve valgono niente, per la guerriglia. - Non hanno quei soldi - risponde sollevando la faccia e mostran- do un occhio pesto, guadagnato per avere mal risposto a un carceriere. Raul si volta verso Antonio. - Vado dalla negra a bere un caffè. Sto per vomitare. Fa preparare due moto. Andiamo in paese, da Cecilia. Ci porteranno alla strada tra un paio di minuti. Poi prederemo un mezzo pubblico. - Ha bisogno d’incontrare l’informatrice. La donna si copre con lo sfruttamento della prostituzione. La obbligherà a prestargli i soldi che occorrono per pagare il compare che si è preso l’impegno di spianar- gli la pista per l’aereo con cui farà spostare la cocaina. Indossano capi civili e nella pausa della pioggia, in sella alle moto, sono portati per i sentieri fino alla strada asfaltata prossima alla zona che li nasconde. Là attendono l’autobus che compie il percorso da una cittadina all’altra,

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toccando i paesini intermedi. Siedono in terra e iniziano a fumare mentre il cielo si chiarisce. - Sei sicuro di volere la pista per l’aereo? - gli domanda a un tratto Antonio. - Saremo visibili dall’alto. I cercatori dell’ammiraglio po- trebbero attaccarci di nuovo. - Raul getta via il resto della sigaretta. - La mimetizzeremo. Un campo con una pista è più agguerrito. Te lo immagini? Vai e vieni dalla selva quando ti dà il capriccio, e carichi quanto vuoi. Arrivano soldi e donne. - Antonio, muovendo il viso con una smorfia, coglie la ferocia del capo. La considera una mirabolante esplosione di rabbia. - Hai lisciato un carico di cocaina e se manchi il pareggio, permes- so, ci spediscono con i morti. - - Che colpa ne ho? - Sporca un sacramento. - L’ammiraglio Nelsen mi ha preso il carico. Comunque, ne recuperiamo un altro. Ho deciso di attaccare il campo di Gonzales, il paramilitare. - - Oh, perdio. Quello non si fa salare - protesta Antonio con un in- cremento di scrupoli. - È armato bene. - - C’è un modo. Lo assaltiamo dal lato della giungla. Da lì non a- spetta nessuno. Gli passiamo dietro e lo rompiamo in pezzi. - - Ecco, hai detto. Di là non aspetta nessuno. Neppure noi - tenta di opporsi il secondo, conoscendo le difficoltà d’attraversamento del- la giungla abitata dagli indios di Takenda. - Tra noi e lui c’è la riserva indigena. I residenti potrebbero risentirsi e farci un’imboscata. Nella selva sono più forti di noi. Gli indios si divertiranno a colpirci. Non hanno altri spassi. Preferisco un mortaio di fronte, che quei selvaggi alle spalle. Ti ammazzano, ti spellano e non te ne accorgi. - Lisciandosi il mento ricoperto di barba non rasa, Antonio valuta il progetto di Raul e pur capovolgendolo a loro esclusivo vantaggio, lo trova di difficile attuazione. Accende una seconda sigaretta. Conosce degli indios la meticolosa caparbietà nell’inseguire una preda. Si è scontrato in passato con animali insidiosi: coccodrilli, serpenti e pira- ña: sono meno pericolosi degli indios incattiviti in una riserva.

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L’autobus sopraggiunge rumoroso e carico. I due si alzano, azzit- tendosi. Non hanno bisogno di chiedere la fermata: il conducente ha già rallentato. La gente va dalle fattorie isolate alla cittadina per le compere, o a consultare un medico. Una donna si reca a registrare il figlio avuto da più di un anno. Per lei il tempo si fa statico a causa della distanza dalle strutture pubbliche. I due si ritirano nel fondo, dove è più caldo per la vicinanza del motore. L’avanzata avviene su un tracciato di terra: sabbia, buche, o fango lasciato dall’acquazzone. Dopo un’ora di marcia cambia il paesaggio. I pascoli si perdono a vista d’occhio; là non ha piovuto, il foraggio è scarso e le mucche scheletriche se ne stanno sdraiate, lasciando che bianche garze si posino sulla loro groppa e con il becco vi strappino le zecche. Un’autobotte giunge in senso opposto, carica di combustibile e sbilanciata. Pare affondare sulla pista disomogenea di terra rossa, u- guale a un battello nel periglioso salto di una cascata. L’autista insegue i solchi induriti e insicuri lasciati da precedenti passaggi. A tratti, uno dei bordi sprofonda. Il traffico deve andare contromano, incolonnato. Il camion, a un tratto, sbanda e si corica su un lato. Un lago di petro- lio invade la strada, fuoriuscendo, con soffi, dalla cisterna. Saltato fuori, l’autista siede incolume su un sasso. Non gli rimane che atten- dere l’arrivo del soccorso dalla raffineria, per travasare i resti. Le mucche, irritate dal fetore, si allontanano dalla strada verso le zone estreme del pascolo. A fatica, l’autobus riprende l’avanzata. Appare un pezzo di strada decente. A un ponte che attraversa un fiume, largo una quindicina di metri, si disegna una fila d’auto e mezzi pesanti. - Che succede? - domanda l’autista agli ultimi della coda, dopo l’arresto del motore e dubitando una ripresa del viaggio. - Il ponte è danneggiato. - Raul e il compagno scendono cauti. Si tratta di un passaggio di ferro a campata unica. Alcune lamiere sono volate via e altre sono distorte. La vernice gialla è in buono stato: l’ente viario ne aveva ap- pena completata la manutenzione. Un soldato in motocicletta - aria

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da ragazzo - via radio manda dettagli alla sua stazione e avvisa che è necessario l’intervento dei genieri. Raul si rivolge a lui. - Chi ha fatto questo? - - La guerriglia. - Il soldato riprende a parlare per radio con il repar- to, mentre i due si allontanano. Raul, livido, si accorge del sorrisetto cretino di Antonio. Non gli piace restare bloccato e senza armi. Si sente nudo. Fantastica possibili spiate che potrebbero vendere la loro pelle. La gente è scesa dalle au- to e dai pullman e resta a distanza di sicurezza dal fiume. - Quale bastardo sarà stato? Questo ponte è di nostra competenza - dice al secondo, sottovoce. - Non c’è che il fronte di Sapo. Il più vicino. L’hanno nominato il mese scorso. È arrivato dalla costa, dopo l’uccisione di Corderito. - - Mi vola un ponte e mi blocca. Gli faccio ingoiare il fegato. - - Calma Raul. Arrivano i genieri, lo sistemano e ce ne andiamo. - Raul vuole attraversare il fiume, senza attendere che l’esercito si- stemi il ponte che Sapo ha fatto tremare con l’esplosivo. - Scendiamo per la sponda e troviamo un passaggio. - - Raul, permetti, non facciamoci notare - consiglia Antonio. - Allontaniamoci un paio di chilometri e cerchiamo una lancia. - S’incamminano lungo l’argine, passando tra la vegetazione, evitan- do i tratti aperti, che creano spiagge cosparse di ciottoli. Iniziano a scrutare l’acqua pigra, per procurarsi una barca. Sono assaliti da scia- mi d’insetti e punti sulla pelle non coperta a sufficienza. Un indio in piedi sulla piroga sta pescando con un tramaglio. Lo stende ruotando il braccio; lo lascia alla corrente e poi lo recupera per toglierne qualche pesce. Ha addosso delle corte brache colorate e il torace nudo è lucido di sudore. Raul lo chiama e gli chiede di traghet- tarli. L’indio valuta tra il tramaglio e il pacchetto di sigarette che gli è offerto. Decide con indolenza e pagaia dal centro del fiume verso riva per prendere i due. Poi, nel senso della corrente, accosta la sponda opposta orlata d’alghe viscide, infilando la prora, scolpita da un tron- co, nel fango. Vi punta la pagaia fin quando quelli saltano a terra. La

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luce scema mentre scalano una scarpata scivolosa dalla quale si stac- cano pareti d’argilla che si dissolvono nell’acqua, allargandosi in macchie giallastre. Attraversano un campo di girasoli, in direzione della strada. Si trovano oltre il ponte bloccato per l’ispezione dei ge- nieri. Una seconda fila di mezzi e automobili si è formata in direzione contraria, in un’attesa rassegnata. Raul scarta le facce dei conducenti; sceglie un camionista che trasporta gli avanzi della lavorazione del riso - servirà da concime, o lettiera per gli animali - e gli fa un’offerta in denaro. Dopo un minuto il camion gira e torna al paese. Raul ab- bassa la faccia sull’accendisigaro e dalla sigaretta tira fumo che ricaccia dalla bocca e dal naso. Pensa a Cecilia. La costringerà a fare l’amore. Giungono al locale, un bar conosciuto per la disponibilità delle sue signorine. A loro che arrivano dalla selva l’ambiente pare accogliente. Apprezzano il credito che la padrona gli fa, anche quando hanno ne- cessità di sesso e sono a corto. Cecilia vuole che il locale sia calmo, giacché la quiete allontana la polizia e gli ispettori del Benestare Fami- liare, in cerca di figliole da riscattare, dopo che un intero battaglione se l’è assaporate. I due vanno a un tavolo. Antonio chiede birra e un pacchetto di sigarette. La musica sprizza da un apparecchio spinto al massimo. Sono avvicinati da due mulatte. Raul, toccando il sedere di una ragazza, dice loro di ripassare più tardi. Quando arriva Cecilia hanno vuotato i boccali. La donna li saluta e assegna un colpo leggero alla spalla del capo. Siede accavallando le gambe e lasciando che la minigonna salga fino al tanga. - Pensavo fossi morta - dice Raul. - Voglio divertirmi. - - Tu sei stanco - scherza la donna. - Non ci riusciresti. - - Mi rimetto e vedi. - Ribatte con un sorriso freddo. - Dammi le notizie. Che mi dici del riscatto per quella del Corral? - - Raul, le vacche sono magre e a venderle ci rimettono. Però mi hanno assicurato che le sistemeranno con uno che gliele compra, a giorni. Per il macello di Bogotà. Avrai i tuoi soldi. Un po’ di pazienza. - - Brava Cecilia. Lo stregone dov’è? -

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- Takenda viene a piedi dalla riserva. La richiesta di appoggiarti non gli piace. Ha ricevuto minacce da Gonzales e ha paura di aiutarti. - - Questo lo vedremo. Chiama il nostro fornitore. Ho bisogno di due lanciafiamme e d’antibiotico per la diarrea. I miei si sciolgono nelle mutande. Hanno le amebe. - - Ti fermi qui stanotte? - domanda Cecilia accarezzandolo. - Dove vuoi che vada? Sapo ha minato il ponte. Che gli succede? - - Il rospo vuole coprirti la zona. Lo sentii l’ultima volta. - - Fagli avere questo messaggio: sarò io a passare la linea stabilita e gli farò saltare tre parti di raccolto. - - Lo avviserò. Raul, adesso mi offri una birra? - - Ordina. Antonio ha bisogno di scaricare il drago. - - Ho una mezza intellettuale; scema e simpatica. - - Com’è? - - Di pelo rosso e pelle nera; un bocconcino per cardinali, uno schianto - avverte Cecilia. - Si tinge anche la patatina. - - Antonio, ti piacciono le rosse? - si assicura Raul curioso di sapere quali siano i gusti del compagno. - Sì capo. Il rosso mi smuove. - - Bravo - lo esalta Raul con una risata isterica. - Sei un toro. - Cecilia stende le labbra rosse ingrossate con collagene: un sorriso freddo e malizioso, senza rughe. Accenna alle giovani di avvicinarsi. Ne arrivano quattro e siedono dopo avere accostato le sedie libere. Tra queste Miccia, una nera alta e aggraziata, con una florida lordosi erotica, sviluppata nel fondo schiena. Ha i capelli ricci e rossi. La ra- gazza è giunta da alcuni mesi, dimostra di sapere intrattenere i maschi più esigenti e non ha amanti fissi.

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Con un gesto di delusione, Clara chiude il registro le cui pagine sono timbrate dal ministero della cultura. Le cifre si discostano poco da quelle del giorno anteriore: pochi visitatori sono entrati nel piccolo museo del folclore. Non c’è un reperto importante che richiami pub- blico; nessuno degli oggetti d’oro esposti nelle sale del museo di Bogotà, o un pettorale di un antico sacerdote, o una preziosa testi- monianza di un’epoca precolombiana. In una delle sale espone oggetti di ceramica provenienti da Puerto Hormiga. La gente è presa da altre idee, meno culturali e più mondane. Non è facile interessarla. Il caldo è stato torrido per l’intero giorno e dall’ora di pranzo l’umidità non permette al sudore di asciugarsi. Desidera una doccia rinfrescante. Decide di anticipare l’uscita dal museo e quando sta per serrare la porta l’impiegata della contabilità entra nell’ufficio per avvi- sarla che all’ingresso la cerca un trasportatore. Si sorprende. Non attende invii di materiale, eppure c’è un furgone. - Lei è la dottoressa curatrice? Ho una spedizione - le dice un uo- mo con addosso la tuta di una ditta di trasporti. - Per me o per il museo? - - Per Clara Love, presso il museo ant-ropooo-logico, - stenta il ne- ro e butta un fischio. - Che parola, cagnaccio. Accetta? - - Va bene. - - Ecco, signora, firmi la ricevuta. - Clara appone una sigla mentre un secondo uomo apre la sponda laterale del furgone. Scaricano una cassa. La misura non sembra giu- stificare i grugniti che i due uomini emettono. - Pesa un demonio - dice il nero. La donna guida i loro passi e indica dove deporla. Esamina l’esterno del contenitore, l’accuratezza dell’imballaggio. Conterrà qualcosa di delicato. Lungo circa ottanta centimetri, alto un palmo e largo tre. Inizia a scamerare. Con un paio di forbici apre un lato. Tol- to il cartone rigido, appare un telo protettivo che trattiene della paglia.

Bende di carta crespa assicurano l’intima protezione. Le rompe e si stupisce quando si presenta, in un immobile incanto, una statua di pietra porosa, di una calda tonalità ocra. Non ricorda alcun particolare che sostenga la logica di quell’arrivo o che lo giustifichi. Ha fatto dei solleciti al Ministero e dalla capitale le hanno scritto: “In ogni caso, la terremo presente… il patrimonio culturale è di tutti… la sicurezza sopra ogni altra cosa, abbia la grazia di attendere, ecc…” Le fattezze del taglio le paiono d’influenza maya. È un’opera precolombiana, sen- za dubbio. La figura possiede un’aria aristocratica e demoniaca. Gli occhi sono grandi. L’onda del collo è fermata da un pettorale con ideogrammi per lo più astrali. Luna e Sole in opposizione. Clara si emoziona. Una gioia ordinata la avvicina. Vede lo spigolo di una bu- sta uscire da sotto la statua e lo prende. Non c’è mittente. La apre. Il pensiero dà un balzo quando riconosce la grafia. “Carissima amica, un abbraccio. Completo una cerimonia che po- trebbe farti ricordare i gesti che ci attrassero. Tra noi l’amore non si sviluppò, non per tua decisone. Sono distorto, lo so, dalle mie abitu- dini. Credo che un innamorato debba avere un cervello sottile per aderire al lato delicato e vivido del tuo modo d’amare, tropicale e sen- suale. Avrei dovuto adattarmi alle tradizioni, asse del tuo mondo. Troppe cose non fui capace di dirti durante quei fugaci anni. Persi l’occasione di sentimenti sinceri. Lascerò Cuba in breve. Tornerò a Mosca. Ti dovevo un omaggio, e questo è il momento. La statua è stata tolta a un contrabbandiere. Recuperata prima che andasse ad aggiungersi ad altre spedite a ignoti amatori. L’esperta di storia Maya, a Dresda, mi disse di desiderare qualcosa del genere. I miei compatrioti hanno già del vostro. Sono convinto che il museo da te diretto meriti quest’invio. La maschera sul volto di un guerriero. I glifi scolpiti indicano un evento, non so quale. Tu pos- siedi qualità e mezzi per un’analisi del soldato che t’invio. Ti saluto, convinto di meritare il tuo affetto.” È firmata da Leonid. Clara ripiega la lettera. Dopo avere assorbito la meraviglia, deduce che il russo non è cambiato. La sua ombra so- praggiunge impensata e provvidenziale. Percepisce che ha fatto un

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voluto dispetto a quelli di Dresda, alla costante ricerca di prede, di cimeli, di tracce che acquietino la fame di vestigia precolombiane. Leonid, del resto, non sopportava la superiorità che i direttori usava- no nei suoi riguardi, quando lui faceva dei ritrovamenti. Lei non sarà scortese. Tenterà di mettersi in contatto e lo ringrazierà per l’invio di una reliquia preziosa, più che per la rifioritura della sua indulgenza romantica. Avrà scritto la lettera dinanzi ad una bottiglia di vodka, per vincere la nostalgia. Osserva con maggiore attenzione il reperto erra- tico. Cerca una conferma. Va alla libreria, estrae un catalogo. Zona del Duende, dell’Aguagade, di Sant’Agustin, o di Tierradentro? Più da quest’ultima. I suoi abitanti credono nei tre mondi: dell’aria, della ter- ra, del sottosuolo. Il guerriero appartiene al secondo elemento, ed è la personificazione del suo secolo, finito con l’arrivo degli spagnoli. Il volto di pietra emana una residua umanità compressa d’orrore, quasi gravità arcana. Quel guerriero era a conoscenza della vicina fine dell’impero? La sua espressione, valutandola bene, è troppo ascetica. Il re soddisfaceva gli dei del cielo, ghiotti di sangue umano. Sacrifica- va adolescenti. Lo stupore di lei si dilata quando crede di identificarlo: la figura spazia in una religiosa purezza con un gesto che incarna la poesia della morte. Leonid non l’ha immaginato. Quella figura è di un sacerdote re, nell’atto di sacrificare per frenare la vicina distruzione prevista dalle profezie. Dalla sua maschera si leva un fascino doppio e sinistro, che sollecita impressioni non volute. Telefona all’hotel Colombus e chiede di Jean Paul. Quando il capi- tano risponde, lei gli dice che ha del materiale interessante. - Ho una prova che riguarda i viaggi oceanici dei fenici. Quando verrai al museo, fatti accompagnare da Santiago. - - Perché? - domanda deluso. - Non voglio restare sola con te - celia la giovane allegra, senza la- sciargli tempo di rispondere. Dopo aver riattaccato il telefono, Clara verifica che la finestra del suo ufficio sia chiusa bene. Guardando fuori si accorge di Pablo. Se ne sta seduto sul filo del marciapiede e si tiene la testa tra le mani.

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Il neretto, dopo essere stato rintanato con Pamela nel piccolo ri- fugio di cartone nei pressi del museo, ne è uscito con una terribile nausea. Non sa che ora sia. Ha un crampo alla pancia. Gli pizzica la gola e prova un bruciore imprecisato in petto. Ricorda con dispiacere che Pamela gli ha dato una busta di plastica contenente una colla gial- la da cui aspirare un sapore dolciastro e aspro insieme. La neretta gli ha suggerito che avrebbe calmato l’iguana. L’odore di colla gli è resta- to nelle narici. Ha necessità di vomitare. Si sforza, ma dallo stomaco non salgono che spasmi. Clara intuisce che il ragazzo sta male. Lo chiama dall’uscio e Pablito la raggiunge di cattiva voglia. - Che ti succede? - s’informa lei con aria dolce. - Ho nausea. - - Che cosa hai mangiato? - - Nulla - risponde il ragazzo toccandosi la pancia. - Pamela aveva la colla. Ho respirato. Fa più male dell’iguana. - La donna si preoccupa. - Berrai un decotto di mela - gli offre con la speranza che un liquido caldo potrà aiutarlo. - Andiamo in ufficio. - Pablito annuisce e sopporta lo sforzo di seguirla alla segreteria. Si accascia sulla sedia e poggia la testa sulla scrivania tenendo gli occhi chiusi. Capisce che ha fatto male a seguire l’invito di Pamela. - Non tutto quello che passa per la bocca, va bene - gli dice Clara mentre riscalda l’acqua. - Senza contare le malattie che i virus portano passando dalla lingua. Non mi sembri molto pulito. Cominci a emet- tere un odorino poco piacevole. - Dopo un po’, Clara gli mette innanzi una tazza fumante e dei bi- scotti al miele. Il neretto beve adagio, a tratti scosso da un brivido, senza osare l’incontro con gli occhi verdi della donna, seduta dall’altro lato della scrivania. Lei gli è simpatica. Il decotto funziona. Si ripren- de. È rassicurato dal suo sorriso. Non lo consegnerà alla polizia, né a qualcuna dei servizi sociali, che poi si presenterà a casa, dalla madre, dicendole, con aria severa, di non permettere al figlio di scappare. - Hai fratelli? - - Due sorelle. Non sono proprio le mie sorelle. Stupide. - - Dove abitano? -

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- A Las Flores. Mia madre vende cocco. - Clara crede che la venditrice di cocco non debba avere la testa sgombra di cattivi pensieri. Avrà provato altre unioni, è uso ricorrente tra la gente povera procurarsi un uomo quando il precedente se ne va. Il limite cittadino dei quartieri poveri è un cerchio di malessere, in cui vivono gli emarginati, con la miseria e le imposizioni dello squallore. - Che fai, senza andare a scuola? - - Pesco aragoste. - - Sarai tu a essere pescato. - - Adesso è la stagione giusta - dice con una vocina bassa e sfinita. - È permesso prenderle. - - Sei informato. Dopo che le hai pescate, dove le metti? - - Le vendo ai ristoranti e ai turisti. Anche al capitan marino. - - Capitan marino? - - Sì, il signore suo amico. - Clara, rasserenata, vede il colorito del ragazzo tornare normale. Non le è piaciuto il viso esangue ed ha temuto che stesse per svenire. I ragazzini scappati da casa sono tenaci; inventano l’impensabile per vincere gli stenti e sviluppano una resistenza difficile da trovare in altri coetanei che hanno un’esistenza regolare e protetta. - Chi è quella mocciosa che ti fa visita nella capannina? - - Pamela. - - Cosa fa? Ha i genitori? - - La madre fa la puta. - - Sta da sola? - - No, sta nella banda. Sono una decina. Qua vicino. - - Vuoi stare con loro? - - Ruspano nella spazzatura. Mangiano. A volte l’iguana mi morde. - - Quale iguana? - - Qui, in pancia. - - Chi te l’ha messa? - scherza. - Mamma dice che sono nato con lei dentro. -

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La donna si rassicura. Il monello non ha ancora rotto i legami so- ciali delle norme. Lo invita a restare in uno stanzino sul retro, dove sono accumulate le scatole vuote del materiale inviato al museo, fino a quando non deciderà di tornarsene a casa. Potrà usare il bagno dei visitatori, quando non è orario di visita. Il ragazzo si reca mogio nel localino esterno; accosta la porta di lamiera e si sdraia su una cassa. Si rasserena. Poco dopo scopre che l’iguana, nella pancia, ha smesso di mordere. Giura che non darà più ascolto a Pamela se dovesse ancora offrirgli buste da cui aspirare la puzza della colla. Le palpebre si chiudono e si addormenta. In Clara si presenta il pensiero altruista di richiedere l’affidamento all’Istituto del Benestare. C’è un ostacolo: lei e Ji Pi non sono sposati e le pratiche sono lunghe. Perché sia considerata la richiesta, dovrà almeno prendere marito. Supponendo l’assenso della madre del ra- gazzino, il giudice dell’istituto familiare potrebbe dare parere positivo. Ne parlerà a Ji Pi. Guarda l’ora. Aveva programmato una telefonata dovuta. Compone un numero di Cuba e attende la risposta. - Pronto? - - Buonasera. Vorrei parlare con Leonid Prosdosky, per favore. - Vassili, ancora in ufficio per mettere al sicuro certi assegni, non ha mai udito la voce femminile che giunge dal filo appena rauca. La tro- va calda e sensuale. Non si meraviglia che chieda di Leonid: secondo lui, è un raffinato don Giovanni che riesce a conciliare gli impegni del lavoro con il compito di seduttore. Riconosce che l’innocuo odio che prova è una forma di costruttivo paragone. - Non è presente al momento - risponde l’uomo incuriosito. Inizia a sollecitarla mentre il centralinista localizza la provenienza della chiamata. - Mi è permesso di aiutarla, signorina? - - Mi chiamo Clara, sono amica di Leonid. - - Parla con Vassili. Il capo ufficio. Tornerà tra un mese. Da dove chiama? - domanda per accertare la sincerità, dopo che l’operatore gli ha indicato l’origine della chiamata sullo schermo cablato. - Dalla Colombia. Vorrei lasciargli i saluti. -

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- Certo, signorina - risponde l’ucraino soddisfatto della verità. - Mi dia il suo messaggio - invita con tono sciolto e professionale. - Sta in un giro umanitario che potrebbe dilungarsi. - - Signor Vassili, avverta Leonid che ho ricevuto il regalo e lo rin- grazi da parte mia. - Vassili finge un colpo di tosse. Intanto fa un nuovo tentativo per raccapezzare le intuizioni che il pelo di spia sta scotendo fuori, uguale un cane le sue pulci. - Lei sarà una persona importante per Leonid. Non è tipo da regali - butta Vassili, ridendo e sperando che lei abbocchi l’amo. Clara, vissuta un periodo a Mosca, coglie i cambi d’inflessione nel dialogo che l’uomo, all’altro capo del telefono, sta provando in lingua spagnola. Si rende conto di avergli detto molto. Passa in difesa. - Ha dei difetti, non ci faccio caso. Ha pure dei pregi. - Pensando di riagganciare, lei lo saluta. L’ucraino, resosi conto che sta per perderla, gioca il tutto per tutto. - Certo. Anch’io gli faccio dei regali. Una scultura. Gli ho regalato la scultura di un guerriero di epoca maya. Lui l’ha apprezzata. - Clara tace un istante. - Vi siete sbagliati. Si tratta di un sacerdote guerriero. Un antico re. Vorrei che lo dicesse a Leonid. La scultura arricchirà la collezione di reperti erratici del museo. - La risata di Vassili risuona nella cornetta, poi si rompe di colpo. - Signorina, mi rendo conto che è un’esperta. Che abbaglio. Quel nostro amico, uh, Leon, che testa. Da, da - ripete in russo. - Com’è potuto ciò succedere? - esclama perdendo il controllo della sintassi. - Che cosa cambia? - - Se l’aveste mandato a quelli di Dresda - afferma Clara soddisfatta dell’effetto - l’avrebbero capito. Sono del parere che l’antico sacerdote stia bene in Colombia. Lui vorrebbe mordersi la lingua. Se in Russia lo verranno a sapere, gli daranno dell’imbecille. Il fiato gli si accorcia e ansima. - Signorina, se volesse assicurare il reperto, quale sarebbe la cifra opportuna? Mi dica, prego. -

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- Come opera d’arte, poco. Assegnandole un giusto valore antro- pologico, direi un alto prezzo. - - Quanto? - - Il ministero potrebbe valutarlo un mezzo milione di dollari. Non so un privato collezionista. - Clara decifra, nella pausa, il disappunto del russo. Si rende conto di avergli assegnato un bel colpo. - Mezzo milione? - alita Vassili annaspando. - Leonid per lei si è sprecato. Non credevo. - - Sono disposta a perdonargli i difetti. - - È una scoperta. Tanta generosità. - - Non per me, signore. - - Credo che lui ignori di avere questa dote. - - L’ho spinto a liberare il suo lato nascosto, in certe occasioni. - Di nuovo ode la risata spezzettata di Vassili. Stavolta coglie nella voce il nervosismo che la sostiene. - Signorina, l’ha liberato del tutto. Dove l’ha conosciuto? - - A Dresda. Gli insegnai cose della nostra cultura. Ha voluto ri- mandare in Colombia il mal tolto. - - Non sospettavo un camerata sensibile - s’impappina l’ucraino di nuovo senza controllo della sintassi. - Lui è un rebus, adesso. - - Addio, signor Vassili. Mi faccia chiamare prima che termini la missione in America, ovunque si sia cacciato. - - Addio, signorina Clara - mormora l’ucraino attonito. Resta con la cornetta sull’orecchio e lo sguardo fisso su un punto impreciso della stanza. Condensa il senso di depressione che l’ha assa- lito. Leonid ha approfittato della sua incompetenza in antichità precolombiana. Lui, però, non accetta il dileggio, né che si vantino di avergli messo la nasiera. Reagirà con uno smash. La statua, sacerdote, re, o diavolo, lui la rivedrà di nuovo a Cuba. La farà rubare non appe- na si presenterà l’occasione. La rivenderà. I ladri capaci si trovano. Il giorno dopo, alle diciannove, Clara manda via la segretaria e il portiere del museo. Non ha voluto trattenerli: è tardi. È sua abitudine di fermarsi al museo oltre l’orario per lavorare alla statua inviatale da

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Leonid. Ha decifrato una delle incisioni intorno alla base. Quando giungono Jean Paul e Santiago, lei li accoglie con eccitazione control- lata. Li accompagna subito nella sala illuminata dove, sul pavimento, c’è la cassa con la statua liberata dalle bende. Il giornalista emette un fischio di stupore, inginocchiandosi per guardare il sacerdote attraverso gli occhialini. - Mi pare interessante. Un invio del ministero? - Clara sfiora con lo sguardo il volto del capitano e non le sfugge l’ombra tremula apparsa negli occhi di lui che palesa un atteggiamento di falso distacco. Svela la verità: - Un regalo di un amico. - - Un tuo amico? - le domanda il capitano circospetto. Clara, divertita, intuisce il sospetto nel tono. - Leonid. - - Oh. Il fotografo volante. - Jean Paul mastica l’aggettivo, ricor- dando quel tipo che già una volta gli rovinò l’umore. - Imperversa. - - Si trova a Cuba ma sul punto di tornare a Dresda - aggiunge lei mentre prepara un blocco per appunti. Lo sguardo azzurro di Jean Paul è loquace, tanto che lei prova te- nerezza per quella che appare una gelosia di adolescente e con un lieve palpito si trattiene per non sorridere. - Cosa ne pensi Clara? - domanda il mulatto pulendo le lenti con il fazzoletto per l’esame della pietra lavorata. - Richiama i mostri della città perduta, su nella Sierra. - - Azzarderei un ricalco antico quanto quelli del Guatemala. Viene dal nuovo impero. Forse fu lavorata tra il novecento e il mille. Inda- gherò. Non è di un guerriero. Si tratta di un capo, in atto di sacrificare. Il simbolismo è forte. Dovrò andare a Bogotà, senza ru- more o il ministero la vorrà. Ho un amico al museo dell’oro. Punapay mi darà una mano. - - Da che zona verrà? Sant’Agustin? - - Tierradentro - chiarisce lei - non escluderei la necropoli. - - È terra d’indios Paeces. -

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La figura non raggiunge il metro, eppure pare imponente. La - tra mostra nella sua plasticità il patos della gestualità: il sacerdote è fermo nell’atto di commettere un delitto sacralizzato per nutrire il Sole e placare gli influssi negativi che cadevano sulla Terra. Il mulatto tocca la maschera con la punta delle dita. - Dimmi Clara, cosa ti fa supporre che sia un mistico? - - I glifi imitano i geroglifici della città stato di Mayapan, fondata nel nuovo impero intorno al mille, sotto il dominio di Kukulkàn. In quell’epoca si facevano sacrifici umani per la sua grandezza. Gli abi- tanti di Tierradentro erano politeisti e credevano che un dio solare li avesse creati allo scopo di essere da loro adorato. Le profezie sulla vicina fine accennavano a un pericolo incombente e le genti si adden- trarono nella foresta, cercando di allontanarsi dal rischio. Prima della conquista, gli accampamenti erano meno lontani dal mare e perciò esposti alle interferenze esterne. - - Ovvio il suo valore, dunque. Tierradentro è parte del parco ar- cheologico colombiano assieme alla Città Perduta. - - La statua la terrò qui, finché non l’avrò restaurata. Confido sulla sua penna, Santiago. Un articolo mirato affinché la statua resti al promontorio. C’è un altro particolare - dichiara Clara - ed è interes- sante perché insolito. - - Quale? - domanda Santiago, avido, riaccendendo la pipa. - Quello che sta tra i suoi piedi è un uovo. - - Lo stavo notando. Che significa? - - Sospetto che sia un simbolo voluto ed esatto - prospetta eccitata la direttrice. - Messo tra i suoi piedi a bella posta. L’uovo cosmico. Un significato che mi lascia stupita per la sua estraneità ai maya. - Santiago rinfresca i ricordi delle sue letture sul simbolismo dei po- poli precolombiani. - Se non erro, il cosmo maya era diffuso e non aveva alcuna rap- presentazione né astratta né ovale. - - È così. La scultura potrebbe essere anteriore al periodo tombale di Tierradentro. Rappresenta il travaso da una cultura alla successiva. -

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- Avanti - la incita Santiago appeso al dialogo. - Lei riesce a immaginare che l’uovo cosmico è un simbolo in as- soluto italico? - - Credevo greco. - - Etrusco. Del centro dell’Italia. Gli etruschi ebbero scambi com- merciali con i fenici. - - Non capisco, Clara. - - Sono convinta che i fenici vennero in America prima di Colom- bo. Questo simbolo non è americano e certamente è precedente al periodo d’oro dei maya. - Si rivolge a Jean Paul: - Te ne avevo parlato e mi hai risposto con pareri scettici. - Il capitano fa un cenno d’assenso. Santiago tace pizzicandosi la barbetta. Scuote la testa e la mezza criniera bianca, legata nel codino, oscilla. Allenta il papillon. Osserva il reperto. Le mani del sacerdote sono sproporzionate: una tiene un pugnale, in alto. La destra ha le dita chiuse, eccetto il medio che sta teso in direzione dell’uovo, in basso. I piedi nudi, in segno di rispetto per un sacro luogo, calpestano un masso tondo levigato che è un altare. La maschera è di serpente e il copricapo è ornato da piume d’uccello. Ha superbi bracciali, un pet- torale scolpito e una veste che si gonfia sopra le ginocchia. Una protuberanza si abbozza all’altezza della natura maschile. “Il pene del sacerdote è eretto? Semplice gioco dello scultore, oppure effetto di sadiche uccisioni, magari sotto l’interferenza della bevanda ottenuta con la macerazione delle foglie di coca?” Il giornalista decide di aiuta- re Clara. Pesca un mozzicone di matita e un’agendina dal taschino della camicia bianca. Per il sacerdote re il sangue del sacrificio era l’emblema di una vita donata, perché essa discendeva da un dio gene- roso. Era il tributo da pagare alla dea della terra; il gesto per accattivarsi il dio sotterraneo del regno dei morti. Il coltello era l’asse verticale che univa il cielo e i mari. Un accoppiamento sacro e magi- co. Il coltello sacrificale squarciava il petto della vittima e lui n’estraeva un cuore pulsante. L’uovo cosmico, ai suoi piedi, simbo- leggiava l’uomo che si riproduceva all’infinito.

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- L’esperta sei tu. Rispetto la tua ipotesi. Sono disposto a lanciare sul giornale l’aggancio con l’uovo fenicio. Non so se ti metterò in salvo dalle grinfie dei miei colleghi. Sono velenosi e non amano le ipotesi che richiedono tempo per essere comprovate. - Interviene Jean Paul, nascondendo il rammarico sotto un tono di sollecitazione: - Ce lo vedo bene un russo che dona a Clara un pezzo rubato a Cuba. - Facciamole gli auguri. Anche un trafiletto sul dona- tore non ci starebbe male. Leonid sarà ringraziato dal pubblico. Il ministero dei beni culturali emetterà un encomio. - - Non una parola - ribadisce Clara coprendo la scultura con un te- lo. - Leonid si troverebbe esposto. Ci meritiamo un brindisi - propone la giovane. - Questo è un evento. - Apre il mini frigo e ne estrae una bottiglia di vino di mele. Gli oc- chi della donna si fissano in quelli azzurri del capitano e quando i bicchieri si toccano gli regala una vibrazione di passione. Uscito Santiago, Clara spegne le luci del museo e si accerta di ave- re chiuso bene. A pranzo ha mangiato solo una mela ed ha appetito. Jean Paul suggerisce un ristorante brasiliano, non lontano dal centro. Usano la Citroën di Clara e durante il percorso lei gli dice di avere alloggiato Pablito in uno stanzino retrostante il museo. - Ha provato la compagnia di una scugnizza. E pure la colla. L’ha aspirata. Pamela appartiene a una banda. C’è pericolo. Potrebbe ri- chiamare la sua curiosità. Dovremmo intervenire. Magari parlare con sua madre, una venditrice di cocco. - - Mi accorgo che è un ragazzino determinato - risponde il capita- no. - Riportandolo dalla madre scapperebbe chissà dove. Parcheggiano l’auto fuori dal ristorante. Entrano nel locale acco- gliente, con una decina di tavoli apparecchiati al lume di candela. Si trovano in un ambiente rilassato cui fa da sottofondo della samba. Un cameriere li accompagna. - Il cuoco ha organizzato la cena a base d’ostriche - li avvisa il proprietario sopraggiunto con il secchiello del ghiaccio e le coppe. - Vorremmo festeggiare un avvenimento - allude Jean Paul. - Allora, champagne - suggerisce il brasiliano allontanandosi.

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La giovane gli sfiora la mano. Restano a guardarsi in silenzio. Tra qualche ora lo eleverà alle stelle. Cancellerà ogni dubbio d’amore dai suoi pensieri, alla maniera delle donne paeces, iniziando un delicato massaggio sulla schiena, attizzante il desiderio. Non ha mai fatto nulla del genere con lui. La apprezzerà e la sua passione per lei salirà di un successivo gradino. Dunque, tutto va per il meglio. Hanno chiarito che il loro amore non si è mai sopito e può arrivare lontano. Per la prima volta dalla morte di suo padre, Clara sente di essere davvero felice. Il sospetto che il legame con Ji Pi possa non piacere a sua ma- dre, non la sfiora: ha raggiunto un’età che non le permette di rinunciare alla piena consapevole soddisfazione dei suoi sentimenti. Il capitano ha la certezza che la sua vita sia giunta a una svolta de- finitva. Assapora le sensazioni tumultuose che l’amore mette in ogni pezzo del corpo. Il trionfo ha scacciato la solitudine.

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L’ammiraglio Nelsen, paludato nell’alta uniforme, esclude l’insorgere di meschine figure o intoppi. Il progetto di un ricevimento presso i locali dell’ammiragliato è nato mesi prima. Ha badato a far consegnare gli inviti in anticipo: recapitati a mano. Intorno alle venti, la soffiata aleggia nelle sale e nelle cucine: il Corsaro Nero ispeziona tutti; addetti civili, militari, camerieri con guanti bianchi. A nessuno di quegli uomini piace sottoporsi all’esame, perché Nelsen ha maniere inquisitive, le stesse che sfoggia quando partecipa alle commissioni per la disciplina. Per avere affidabili cuo- chi, si è rivolto al catering della logistica per i transatlantici. Gli hanno inviato tre chef di prima classe che hanno preparato la cena: antipasto di pesce in salamoia, marinato con limone e cipollina fresca; chioccio- le francesi all’agro dolce, paella madrilena, filetto di cernia cilena al forno su sale colombiano di Zipaquirà, a tocchi, aragosta messicana e, in chiusura, dolce. Il di frutta tropicale sarà servito tra una por- tata e la seguente. Ripassa i dettagli: gli addobbi, il discorso, in cappa magna, da leggere a metà della cena, un paio di fogli; il saluto al mini- stro e agli ospiti, i progetti in corso, una battuta per concludere: “Questa notte la flotta atlantica vuole essere all’altezza della consorel- la attestata nel Pacifico. Chi non è soddisfatto potrà trasferirsi a Bonaventura.” Le cucine sono in ordine e l’ispezione si sposta agli ambienti riservati al pubblico. Ha voluto che la scalea dell’edificio fosse illuminata con torce di cera, i saloni da pranzo con una soffusa incandescenza, la sala da ballo rischiarata con faretti stroboscopici e farfalle luminose. Ha chiesto, con i giusti forms prestampati, l’invio di un gruppo elettrogeno che, in caso di black out, sostituisca l’energia elettrica dipartimentale. Questa potrebbe avere qualche capriccio di natura climatica, un forte temporale, o magari un sabotaggio. Dal battaglione ha strappato gli assaltatori più prestanti per un servizio di sicurezza nell’area dei parcheggi e in quella perimetrale. Ha richiesto una seconda garitta di guardia per aiutare la prima in caso

d’intrusione. L’orchestrina della flotta sistemata nel salone prova gli strumenti e la potenza dell’impianto. Lui chiede di iniziare con ritmi allegri, per poi accompagnare la serata con musiche più lente, qualche bolero, ad esempio. Crede che la donna meno veemente, timida, im- pedita, morigerata, nell’ansietà della non aspettazione, ceda nel languire del terzo bolero. - Direttore, ha capito l’antifona? - interroga il capo dei musici. - Ci metta dentro anche una Guajira, ad esempio Guantanamera. Non di- mentichi, all’inizio, l’enfasi dell’inno nazionale quando arriverà il ministro. La gloria è immarcescibile e il giubilo immortal. Faccia con- to che lei sia la reincarnazione del paroliere. Oh, giubilo immortal… Nelsen riordina le idee: i capisala, a mano a mano che giungeranno gli invitati, li accompagneranno al loro posto. Accanto al ministro della difesa siederà il capo di stato maggiore Escudoro e le rispettive signore. Al tavolo rotondo centrale ci saranno lui e i suoi ospiti: un addetto militare italiano e un ingegnere tedesco. I due dipendono da una holding europea che ha costruito un cannone a tiro rapido - ac- ciaio Falk dai convertitori - raffreddato con gas freddo. Spara sessanta colpi in meno di un minuto, senza cannoniere, a guida satellitare, leg- gero al punto da inficiare un’inezia sullo sbandamento. Lo illustrerà al ministro che, certo, non ci capirà nulla: “Il delta peso di sbandamento della nave è recuperato in momento raddrizzante da destinare all’imbarco di una riserva di munizioni.” Sarà sufficiente che il mini- stro s’impegni per una serie di torrette. A un esame preliminare, anche Escudoro, il capo di stato maggiore, ha mostrato interesse ed ha scritto al ministro, che pare titubante. Lui, però, lo convincerà quella notte. Alle osservazioni dell’uomo politico, opporrà la bontà della sua intelligenza: si rammoderna la flotta con costi minimi. Non prevedeva una noia: l’arrivo di Kris, l’americano consulente che ha annunciato il suo arrivo con una telefonata. Non trova una spiegazio- ne per una ricomparsa tanto pressante. Ha macchinato di affiancargli una donna smaliziata: Peña Rosa, la piacente segretaria con respingen- ti sopra i novanta. Impegnerà l’americano. Lei riesce a tenere a bada i capitani che, rientrati stanchi e nervosi da un’esercitazione navale an-

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data male, s’issano al suo ufficio con la pretesa di sciorinargli il malu- more, armati di un irrefrenabile bisogno di maledire le navi e coloro che ce li mandano nelle onde. Rosa ha imparato a usare con disinvol- tura certi termini marinareschi, complicati, che sviliscono i salati lupi di mare. “L’occhio del ciclone è preferibile alla sua coda micidiale.” Che brava creatura, educata per piacere. In una giornata di grazia in- nescherebbe un infarto a un amante che non volesse lasciare nulla d’inesplorato sotto coperta. Nelsen diluisce con segreta presunzione l’idea di sé, in una ressa di giudizi che paiono scritti da un guardiano di faro e ripete a voce bassa: “Sul filo dell’onda, io pinna di squalo, mi giostro. Più su o più giù, padrone del mare, nel lampo notturno, ogni creatura mi teme.” Cominciano a giungere gli ospiti. Circondati i tavoli, il salone si riempie di gente con abiti eleganti, non mancando qualche tipo venu- to dalla capitale con smoking tropicale bianco, o alcune dame ingioiellate con pietre gatteggianti che mettono soggezione nei came- rieri, coscienti che con una sola di quelle pietre ci tirerebbero avanti un paio d’anni, senza caso agli sprechi. Appare il capo di stato mag- giore che gli accenna di appartarsi in un lato della sala. - Ha saputo le ultime notizie del Karolina? - esordisce Escudoro una volta giunti nel corridoio. - È accaduto qualcosa? - domanda Nelsen valutando la necessità del suo capo di volerlo in disparte. - Era in attesa del nostro rimor- chiatore per essere portato in mare. - - Si è aperta una falla nella sua chiglia mentre tentavano di liberar- lo dalla morsa del fango. - - Com’è possibile? Era fradicio? - - Non so che dirle. In questo momento ci sono i sommozzatori che tentano di tappare la falla. Se non arriva una piena che alzi il livel- lo del fiume, ci resterà un pezzo nella melma. - Escudoro si soffia il naso con delicatezza. - Segua gli sviluppi, Nelsen. Non mi piace una nave intrappolata là innanzi, nella Bocca di Cenere. Potrebbe urtare i bracci laterali del tagliamare e i danni sarebbero incalcolabili. Adesso s’incarichi di accogliere gli ospiti. È o non è l’anfitrione? -

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Dopo l’arrivo del ministro, ritardatario di rispetto, si suona l’inno: “Gloria immarcescibile, o giubilo immortal, nel solco del dolor, il ben germina già.” Alla fine tutti siedono e i camerieri escono dalle cucine con le portate. Al tavolo dei personaggi importanti sono seduti il mi- nistro, l’ammiraglio capo, le loro signore. Di lato, a un altro tavolo, ci sono l’addetto militare italiano, l’ingegnere venuto dall’Europa e Nel- sen che, di tanto in tanto, invia occhiate a Rosa per sincerarsi che stia pronta a intraprendere la navigazione sulla rotta che le ha assegnato. Escudoro anticipa alla moglie dell’onorevole una prossima naviga- zione con civili a bordo. Racconta che la costa offre uno spettacolo stupendo e vale la pena d’uscire, con il bel tempo, per navigare. Supe- rati gli isolotti, dove si nascondevano i pirati, appare la baia. Dal suo centro si gode l’innocente spettacolo dell’antica città e degli edifici che si elevano dietro le vecchie mura. L’alta cuspide della cattedrale, a spicchi color terracotta, richiama la creazione fiorentina del Brunelle- schi. L’ufficiale ne precisa il nome: Santa Maria en Flores. La dama posa la forchetta e ribatte che ha visitato Firenze. Un romantico ri- cordo vive nelle sue parole. Le chiese. I musei. I monumenti. L’Arno, un torrentello che scorre con educazione nel corso di città. I tramon- ti. Tutto bellissimo. Tutto costa caro. Nelsen vede comparire l’americano, discreto e calvo, in smoking spezzato perla, che segue il capo sala. Storcendo il naso, si alza per andargli incontro. Gli arriva una zampata del profumo di Kris. - Da dove viene? - gli domanda sospingendolo verso il tavolo della sua segretaria. - Dalla giungla, ammiraglio. - - Cosa ci fa là dentro? - - Mantengo i contatti con venditori e compratori e non mi do- mandi di quale prodotto. I satelliti in sé non bastano per noi due. - - Kris, che colonia usa? - domanda Nelsen nauseato. - Sandalo muschiato. Si è versata la boccetta nella valigia. - - Dovrei metterla in isolamento. Lei uccide il sapore delle pietan- ze. Chiocciole francesi. Ballano il can can. - - Me ne felicito, ammiraglio. Nella giungla vermi fritti. -

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- Lei è stupefacente. La farò sedere accanto alla responsabile delle pubbliche relazioni. La signorina Rosa. Perché questa nuova visita, signor King? Che cosa si aspetta? - - Gli italiani di Panama sono pronti. Ora due particolari. Primo: ho con me una valigetta con dentro un milione di dollari. Secondo: dove vuole che la lasci? - - Starà dicendo apposta - sussulta Nelsen sforzandosi di abbassare i toni, il suo e quello di Kris. - Come ha passato la dogana? - - Le ripeto che vengo dalla selva. I cani che hanno messo in doga- na fiutano dollari a cento metri. Su ammiraglio. Che importa. Ho qui il saldo. - - Abbassi la voce; la prego. Prego. Non capisco mister King. Che c’entro con il saldo per gli italiani? - - Non posso rivelarle i particolari. Farà pervenire i soldi al capita- no Pelekanakis. Non avrà dimenticato il cargo Onassis Quinto? Lei assegnerà a una delle sue navi il compito di scorta. - - Non era negli accordi - sibila Nelsen sorvegliando Kris con in- quieta attenzione quando intende il tratto. - Lei ha desiderio di scherzare. C’è qui l’intero stato maggiore. Non è la sera adatta per le sue subdole manovre d’affari. - - Si ritira e salterà tutto e non vedrà un centesimo. Ci pensi un i- stante. Un milione di dollari - aggiunge Kris tra i denti - e la sua percentuale non è bassa. La riservano ai politici. - Nelsen tace mentre compiono il giro largo del salone, doppiando tavoli e scansando i camerieri che si muovono con le portate fumanti. - A quanto ammonta la percentuale? - - Trentuno per cento. Le pare poco? Il greco Pelekanakis aspetta che lei gli faccia arrivare un milione di dollari. In mezzo al mare. Nella posizione che le indicherò. Mi dica, piuttosto, ha individuato il capi- tano della mercantile da mettere al mio servizio per una futura missione tutta per me? Questo viaggio dell’Onassis sarà l’ultimo. Do- po, farò i trasferimenti per mio conto. Si salterà Panama. - - Lo avevo. Era impantanato nelle sabbie mobili. Carrera si è defi- lato. Sto cercando di localizzarlo per fargli la proposta. -

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- Per lei ho in serbo il dieci per cento del suo ingaggio. Ventimila dollari la accontenteranno, presumo. - - Non bada a spese. - Nelsen fa le presentazioni. Peña Rosa, nasino all’insù, due fossette sulle guance, non ha toccato l’antipasto. Assaggerà qualche oncia di pesce. Nulla più. Il suo look è patinato, l’aria diafana, la figura, nell’insieme, conturbante. La natura ombrosa dell’americano si am- morbidisce. Preferisce le bionde e quel bocconcino ha un colore che lo stuzzica. Pure sua sorella era biondina. Accadde che, dopo la forza- tura della sua verginità (dissero per merito del bagnino di Chicago), la madre le fece tingere i capelli di nero: a lutto. Ciò lo tormentò in mo- do inspiegabile per anni. - Incantato di conoscerla, signorina - si presenta porgendole la mano con le unghie curate. Rosa decifra King con una penetrante occhiata. Lo osserva mentre apre compunto il tovagliolo sulle gambe. Sceglierà un argomento per colloquiare con l’ospite, che mostra un muso poco adatto a scambiare pettegolezzi. Sente che ha una voce svilente. - Bella struttura. Il suo capo ci sa fare - comincia Kris. - Sapesse cos’ha da parte per carnevale - risponde lei stendendo le labbra abbellite da una velatura di rossetto e decidendo da che lato porterà il discorrere. Parlerà dell’affetto di mamme senza cuore. Chi non ha avuto una madre? Nelsen, tornando al suo posto accanto alla dama del capo di stato maggiore, ha inquadrato il comandante che potrebbe mandare incon- tro al Pelekanakis, in attesa sul limite delle acque territoriali col suo cargo greco. Per il compito alquanto delicato vuole uno di cui fidarsi: Ernesto Chivas, un ufficiale che aspetta una promozione che tarda ad arrivare - cavilli burocratici - e che lui avallerà con la sua influenza. Il Corsaro Nero ha sviluppato una spirale viziosa, un’impietosa dipen- denza dal denaro, accoppiata alla volontà di opacizzare il prossimo, sfruttandolo; passargli sopra per il gusto dell’ipocrisia che lo rende invulnerabile nel mondo che lo circonda. Non prova la fibra dell’infamia; la disconosce per tara morale. Ha l’anima turbata dal

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desiderio di arricchirsi; prova dolcezza immaginandosi su una spiaggia spagnola, confuso a belle figliole che parlano con la esse sibilante. - Ammiraglio Nelsen - la voce del capo di stato maggiore lo scuote - ho veduto l’esperto di satelliti. Perché non l’ha sistemato in uno dei tavoli qui accanto? - - Un’improvvisata. Porta nuovi schemi. Mi dovrò assentare ogni tanto e visitarlo perché non si senta isolato. - Gli ha affiancato una notevole corazzata - osserva con malizia il capo di stato maggiore. - La signorina delle pubbliche relazioni non lo annoierà. Lo invidio. - È addestrata, eccellenza. - - Dopo cena ci riuniremo nel salotto privato. Vorrei che illustrasse al ministro i vantaggi del Gatic, il cannone a tiro rapido. I due tecnici europei potranno dare al ministro i dettagli. - Nelsen, sollevando il bicchiere per un sorso di vino, non evita che una goccia cada sulla candida uniforme. Non vi dà importanza: ha scelto vino bianco. Poggia il bicchiere sulla tovaglia, pensando al capi- tano in attesa di promozione: Ernesto Chivas prenderà sul serio la missione che gli affiderà, o non sarà promosso di grado. Con la sua nave, la N17, andrà incontro all’Onassis Quinto e consegnerà la vali- getta che Kris gli ha portato. Recita il libro del fantastico marinaio: “Mai superare un porto, senza averne un altro agibile dinanzi.” Quando la cena è al mezzo, si alza per recuperare un microfono e legge il discorsetto con aggiunta di salamelecchi al ministro, un osse- quio alle signore e il finale: - La nostra marina non ha nulla da invidiare a quella dei vicini. Siamo i bravi continuatori del valore di Don Blas de Lezo, marinaio intrepido difensore di Nuova Granada. Saremo ligi. Sapremo spende- re con rispetto il denaro dei contribuenti. L’impegno nella lotta al narcotraffico dipende dal non tirarsi indietro. - Al termine della lettura riceve l’applauso degli invitati. Lascia il mi- crofono al capo di stato maggiore. Va fuori dalla sala, in un corridoio riservato al personale militare. Stacca il cellulare dalla cintola e com- pone un numero. Raggiunge un ponte radio. Risponde Gonzales,

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nascosto in un bosco della Sierra, al margine settentrionale della Co- lombia. Fa operazioni d’attacco e sabotaggio, a pagamento, per quelli che lo valutano capace. Ha inizio un dialogo accorto. - Gonzales, ti mando a ritirare un carico speciale. Lo terrai da par- te fin quando non arriverà il tuo compratore. Tieniti pronto per un’operazione anfibia. Prepara gli elicotteri. - Nelsen chiude il telefono. Ha chiaro il sipario finale: fregare i ma- fiosi di Panama e rivendere la cocaina per suo conto. Giungerà l’attimo fatale, unico in tanti anni di servizio, per andarsene e dile- guarsi nella scandalosa Spagna, lascivamente eccitato dal sangue dei toreri incornati nell’arena. Attraverso la vetrata controlla la sala e sco- pre che Rosa e l’americano combaciano. Gli ospiti mostrano allegria e appetito. Il servizio procede con sin- cronismo e le bottiglie d’annata sono per il tavolo del ministro e del capo di stato maggiore. Il menu riporta successo e le aragoste ricevo- no gli onori delle ostie a Pasqua. S’inizia a ballare. Alcuni prestanti ufficiali invitano le signore. Il ministro, preceduto dai due ammiragli, si alza imitato dall’ingegnere tedesco e dall’addetto italiano. Un marinaio della polizia militare, di piantone alla porta del salottino, la spalanca salutando con la mano al berretto piatto. L’ambiente ha le pareti ricoperte di pannelli di radica, odora di cera; ha luci soffuse che cadono dal soffitto insonorizzato con cassettoni di mogano. Un mobile bar s’inquadra d’angolo. Pitture con scene di battaglie navali completano l’arredo. I convenuti siedono accavallando le gambe. I cuscini delle ampie poltrone di pelle soffiano aria. Il politico entra nel divano con aria arrendevole. Lo snerva la costante incertezza sul modo di assegnare gli stanziamenti per le tre forze armate. I generali e gli ammiragli fanno continue richieste e i fondi disponibili sono poco pingui. A sentirli, la nazione è sotto asse- dio: attaccherebbero la Colombia anche i Maori. Un marinaio va in giro offrendo sigari cubani da una scatola di pelle scura. L’addetto militare italiano infila, con sufficienza, una mano nella giacca e ne trae un Toscano che acceso appesta l’ambiente, meravigliando i presenti per lo stordimento che crea la solida puzza vegetale che pare proveni-

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re da sterco di cavallo. Un altro attendente orbita per colmare i calici con Carlos Primero invecchiato. Escudoro inizia a parlare: - Signor ministro, le contrattazioni per l’acquisto del nuovo cannone sono a buon punto. Abbiamo ricevuto un’ottima offerta. Manca solo la nostra opzione. - Non dubito sull’approvazione - risponde riflessivo il politico. - Abbiamo i numeri in parlamento. Non ho chiare le caratteristiche del Gatic. Non ricordo cosa vuol dire. - Gun aerodinamic turbulence intruder collision - chiarisce l’alto ufficiale porgendo un foglio con un breve promemoria. - Ci verrà in soccorso l’ingegnere che realizza il progetto. - Il tedesco ha uno spagnolo buono, anche se gutturale. Il cannone è raffreddato a gas liquido. Spara una quantità inesauribile di tiri. L’insuperabile performance è di tirare non all’oggetto, bensì alla sua ombra incancellabile. - Tira ai fantasmi - chiarisce con orgoglio bavarese - riesce a colpi- re aerei con prerogative stealth, invisibili. Ciò permetterà a chi se ne fornisce di andare in zone di battaglia considerate off limits. - Non mi è sufficiente - fa il ministro corrugando la faccia e spor- gendo in avanti il busto tagliato nello smoking. L’ingegnere spiega le capacità dell’invenzione. Il radar del cannone non batte l’aereo, riceve l’eco dell’onda d’urto creata dall’aereo, perciò non sfugge neppure quello con complicate schermature. Spara sull’onda d’urto e mette in raffica di rottura l’ala dell’aereo. Il sigaro scivola dalla bocca del ministro che lo raccoglie con un gesto rapido, evitando di marcare con la cenere il rivestimento della poltrona. - È una diavoleria - mormora. - Chi l’ha inventato? - - Noi italiani - sbuffa l’addetto militare seguendo ad appestare col Toscano, questa volta abbiamo fatto centro. - La realizzazione è del nostro consorzio - chiarisce il tedesco scuotendo la cenere del sigaro in un gingillo di cristallo luccicante che gli è porto dal marinaio. - Un prodotto italo germanico. - Il ministro soffia sulla punta delle dita e tamburella i polpastrelli. - Gradiremo che il vostro impegno non fosse anche con i vicini. -

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- Abbiamo trattative con gli argentini - sostiene l’ingegnere stiran- do una manica. - Sono lontani da voi. - Nelsen aggiunge che due navi sono state selezionate e destinate al- la riconversione. Il progetto diverrà operativo non appena il congresso darà l’assenso. - Sosterrò i vostri argomenti di maniera che il Congresso non po- trà eccepire - s’impegna l’onorevole. - Solleciterò i finanziamenti necessari per l’avanzamento del progetto. - Tutti paiono soddisfatti. Escudoro, sollevando il calice per sorseg- giare il cognac, osserva attraverso il vetro la faccia di Nelsen e tenta di misurare quanto sia spesso il suo pelo volpino. Ha spinto per il Gatic. Vuole avvantaggiare qualcuno, o è spirito nazionalistico? O sarà che nel mulino s’infarina? Lo terrà d’occhio. Il gruppo esce dal salotto. Si ricongiungono agli invitati nel salone da ballo. A conclusione della serata, il mare antistante all’edificio s’incendia con i riflessi dei fuochi d’artificio. Nelsen si allontana furti- vo verso la toilette degli ufficiali e vi si chiude appoggiando le spalle contro la porta. Prende il cellulare e ricompone l’ultimo numero chiamato. - Hallo - risponde Vassili. - Chi parla? - - Sono l’ammiraglio. Lei non sta mai in ufficio? - - Ci sono rimasto l’intera sera in attesa. Ora sono a un party. Co- munque mi ha preceduto ammiraglio. In un minuto lei mi avrebbe udito. Ha ricevuto ciò che le ho inviato? - - Non voglio che sia lei a chiamarmi. Preferisco farlo io. L’uomo chiave si è liberato del fagotto che lei gli ha affidato. Mi ha consegna- to una valigetta zeppa. Non era negli accordi che facessi il postino di pacchi raccomandati. Perché non ha incaricato Kris? - - Non so quanto a Panama si fidino di lui - celia Vassili con la vo- ce suadente. - Su di lei, ammiraglio, mi ci gioco la testa. Con la globalizzazione non si sa chi è il nemico. Negli stati prevalgono gli interessi e si commettono delitti finanziari. Se scoperti, vanno giustifi- cati con la ragione di stato. Lei ha un’idea di quanta instabilità si riesce a controllare con tutto il materiale che mi arriverà da Panama? Le

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battaglie, ammiraglio, si fanno casa per casa, tra i civili, combattendo sui tetti. Vince chi crea maggiori gruppi di pressione. - - Lo terrò in mente - dice Nelsen con un tono infastidito. - Capirà che il mio grado d’esposizione aumenta. Aumenta di molto. - - Non si blocchi dinanzi ad un minimo di formalismo zarista - il grasso ride tre secondi, singhiozzando. - Abbiamo le menti troppo agili per non affogare negli schemi rigidi. Capacissimi di trovare solu- zioni. Migliori della perestrojka. Ammiraglio, è riuscito a strappare a King Kris il nome dello spedizioniere di Panama? - - Nemmeno le iniziali. La avverto Vassili, poiché affiderò la valigia a qualcun altro, non sarò più il controllore. Mi capisce segretario? - - So che lei è responsabile, ammiraglio. Non siamo tra dilettanti. Parliamo lingua polifonica. - - È raro controllare un oggetto che non si ha tra le mani. Le an- guille si devono stringere bene. - I rispettivi telefoni sono riagganciati. Nelsen decide di agglutinare l’impegno messo da una ventina d’anni: affiderà il milione di dollari a Rosa. Poi i dollari spariranno in modo irreprensibile in alcuni conti intestati alla donna. Lui uscirà dalla scena. Si leverà la divisa e sarà il signor Vattelappesca, giacché cambierà nome e vivrà, felice e ricco, con documenti di copertura. Vassili finirà nei guai, ma a lui non im- porta nulla. Che farà con Rosa? La donna non è del tutto stupida. Gli chiederà una ricompensa e lui dovrà avere pronta una risposta. Kris è finito nel letto di Rosa. La donna spalanca gli occhioni. La faccia che vede a pochi centimetri dal suo nasino appartiene al bian- chiccio americano, fornitore di servizi satellitari. Dorme con leggero russare. Si trovano in un letto di stile moderno, di metallo cromato e tessuto sintetico lucido, con stereo incassato nella testata, regalo dell’ammiraglio Nelsen. L’americano le ha consegnato la valigetta, ma non le ha rivelato il contenuto. Rosa muore dalla voglia di aprirla. Soggiogherà l’ammiraglio quando verrà a farle visita. Se contenesse documenti segreti, non glieli avrebbe affidati. Nelsen è avido, non stupido. Kris si sveglia e controlla l’orologio.

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- Si è fatto tardi - dice con la voce impastata. - Ho il volo per Pa- nama in un paio d’ore. - Rosa si alza prima di lui mostrando l’orgoglio del di dietro tornito. Innesta i sandali, rifiniti dai disegni geometrici colorati e va in bagno. Non si sente diminuita, anteponendo il corpo e la materialità a esi- genze meno percepibili, l’amore, ad esempio. Calcola ogni accoppiamento con senso pratico. Kris, ammaliato da Rosa, vorrebbe scordare che in breve partirà per Panama ma deve uscire dal letto. Morali o meno, esistono metodi per controllare le aree degli interessi occulti della politica (i tempi e i modi sono cambiati: il pianeta muta, maledetto e in fretta) e lui è uno tra quelli incaricati di controllarne la turbolenza. Si mettono sotto la doccia e Rosa lo insapona. Non può trastullarsi: ha la mania della puntualità. - Tesoro, chiama il taxi - le chiede mentre si veste. Dopo mezz’ora saluta la biondina. “La gattina è pericolosa e Nel- sen farebbe bene a stare attento.” Kris guarda in silenzio il ghiaccio che si discioglie nel bicchiere che ha dinanzi. In quel club notturno garantiscono l’originalità dei liquori. I camerieri sono anche dotati di spirito samaritano: gli hanno procu- rato delle pillole per il mal di testa. Ne ha ingoiate due. Scommetterebbe che se avesse bisogno di qualcosa di più robusto, un tiro di cocaina, o una bella pupa da mille dollari, arriverebbero su un vassoio d’argento. Kris attende Boccaccio, un tizio di Panama al ser- vizio di don Alvaro, boss degli stupefacenti. La musica si lascia ascoltare, i decibel sono intorno ai novanta. Una ballerina inguainata in una tuta sintetica si arrampica sul cubo, afferra il palo cromato della lap dance e inizia una sensuale ginnastica dimenandosi e riflettendo le forme generose nella serie di specchi che triplicano lo spettacolo. La superdotata si spoglia avvampando i ma- schi, i cui occhi non perdono un centimetro delle provocanti curve. La necessità di idratarsi gli fa ordinare un secondo scotch con ag- giunta di soda. Ha un buon controllo di sé e avverte quando i fumi iniziano a salirgli al cervello. Lancia furtive occhiate all’orologio pre-

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mendo il pulsante che illumina il quadrante al quarzo. Gli italiani sono in ritardo: è spazientito. Appaiono due uomini al fianco di un paio di mulatte vestite con aderenti giubbetti metallizzati. Hanno l’aria scaltra. L’americano inter- cetta gli sguardi che mandano in giro. Uno ha all’occhiello un fiore d’arancio, stile Chicago anni trenta. Riconosce l’altro: è Boccaccio e ha sulla cravatta una spilla a forma di mazza da golf. I quattro si avvi- cinano al tavolo preceduti da un cameriere che appronta le sedie. Le donne siedono ai lati e gli italiani di fronte. Lui li raggiunge. - Signor Kris, la saluta don Alvaro - dice Boccaccio in spagnolo, presentando il socio e le formose accompagnatrici. - Questo è Gianni, sua cognata Jasmin e l’amica Mercedes. Ci scusi per il ritardo. Alla frontiera arrivi con un piano e appena la passi ne fai un altro. Que- stioni di poker. Vinci e c’è uno che si attacca alla regola. Pretende la possibilità di rifarsi e così perdi tempo. - Non importa, signor Boccaccio - risponde Kris nello stesso i- dioma - mi hanno fatto compagnia un paio di soda. L’italiano afferra il braccio del cameriere chiedendo una bottiglia di champagne e piccanti bocconi d’accompagnamento. Kris passa una furtiva occhiata sulle mulatte e subito l’altro lo rassicura. - Sono fidate. Stiamo in famiglia. Possiamo parlare. - - Me ne rendo conto. - Kris accenna a Gianni. - Lui non ha l’aria di uno che vive a Panama. - - Vero. Pare un gangster di Al Capone - dice Boccaccio mettendo una mano sulla spalla del suo socio. - Gianni viveva a New York. I passaggi di merce rara sono complicati dopo la caduta delle torri. Lui trova la maniera per far girare il denaro. - - Con i giusti uomini al posto giusto, si fa tutto - commenta fred- do Kris. - Ho consegnato il denaro per il pagamento della merce. - - Don Alvaro sarà felice. Coprirà le spese. L’Onassis è in partenza. Al comando c’è Pelekanakis. Il cliente sarà rifornito presto. - L’americano estrae un involto. - In questa busta è scritta la posi- zione in cui dovrà arrivare la vostra nave. È il punto dove avverrà lo scambio. L’operazione sarà terminata dai venezuelani. Un loro pe-

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schereccio affiancherà il cargo di Pelekanakis e costui gli consegnerà la merce che proseguirà per la destinazione finale. - Posso chiedere quale? - domanda Boccaccio. - Una tonnellata di coca è tanta. - - Cuba - svela Kris senza reticenza. - Ben congegnato. Siamo nelle vostre mani, mister - approva Gianni con aria docile, ritirando la busta che porge Kris. - Se non avessimo fiducia, mai avremmo avviato questo commercio. - Sopraggiunge il cameriere col secchiello termico del ghiaccio in cui è infilato lo champagne brut, riserva speciale. Stappa e versa in cinque coppe. Dopo che si è allontanato, Kris riprende. - Perché avete scelto un capitano greco? - domanda senza perdere il controllo dell’ambiente circostante. - Pelekanakis sa il fatto suo - replica Boccaccio alzando il bicchie- re. - Conosce le norme che contano in mare, nel caso la guardia costiera lo intercettasse. Ha già lavorato per la nostra azienda. - - Se mancherà all’appuntamento in mare, cadrà il nostro contratto; perché sarà inevitabile. I venezuelani non lo aspetteranno. - - Il greco ci sarà. Adesso, signor Kris, mi direbbe altro sulla pro- posta che lei ha accennato al mio capo, a don Alvaro. - - La proposta è semplice e riguarda le future spedizioni. Ho mon- tato due campi sul confine colombo venezuelano. Vi concentrerò ciò che si produce nelle selve circostanti. Cocaina migliore di quella pa- namense. Il posto è raggiungibile dal fiume. Il giro è più corto. Don Alvaro salterebbe le spese del controllo di Panama. Incidono del tren- ta per cento. In un anno si risparmia una grossa somma. - - Garantito? - - Un risparmio del genere è una sicurezza. - - Lo riferirò. Ora che tutto è stabilito, ci facciamo lo spumante e poi le signorine. Che ne dice mister Kris? - lancia Santin Boccaccio bevendo una prima coppa. - Non posso farvi compagnia. Il volo per Miami è alle sette e non lo perderò. Salterei altre visite in programma. -

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- Non ci lasci in questo modo, la prego - pronuncia Boccaccio al- largando le braccia. - Beviamo e poi la accompagnerò all’aeroporto e agiteremo i fazzoletti. - Kris accetta di restare per assistere allo spogliarello. Lo spettacolo è all’apice. I suoi occhi si fissano sulle mutandine che saltano via. Sen- te due mani che toccano i suoi pantaloni e iniziano ad accarezzargli le gambe. Non ha scampo dalle pantere mulatte offerte da don Alvaro.

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Alle otto Jean Paul si sveglia. Sguscia leva dal letto lasciando che Clara segua a dormire. Riannoda con piacere la realtà: ogni minuto accanto a lei gli regala una sensazione d’immensità. Da quando vivo- no assieme, ha la conferma che la sua scelta di alloggiare al Colombus non è una soluzione che può consumare fino in fondo. Sbircia dai vetri. La nebbia notturna lascia la città. In pigiama, va al frigo e pren- de una gassosa. Esce sul terrazzo. Intravede la piscina dell’hotel. Il personale sta terminando di pulire il piazzale. L’aria umida gli mette un brivido. Il mattino è un pezzo della giornata che lui preferisce. In navigazione, circondato dall’acqua, provava che la notte aumentava la profondità dello spazio a livelli da sgomento. L’alba rimetteva le di- mensioni del mondo a posto. Abbandonato l’oceano, stando in città, la sua coscienza, privata dell’insipida sicurezza scaturita da azioni na- vali ripetitive, ha reazioni che alimentano un senso di leggerezza mentale. Clara, aprendo gli occhi, lo richiama. Desidera che Ji Pi si rimetta nelle lenzuola. Gli arruffa i capelli biondi. - Sei felice? - gli domanda. - Felice di essere felice. - - Questo tatuaggio non me lo ricordo - osserva accarezzandogli il braccio. - Quando l’hai fatto? - - A bordo. Il serpente marino significa fratellanza. - Jean Paul si stende di lato baciandola. La sente ansimare e la strin- ge perdendosi nel piacere. La solletica. - Smettila - strilla lei ridendo, tentando di parare l’assalto. - Ti de- vo parlare. - Lui la fissa da dietro i capelli che gli coprono la fronte. Il tono di Clara ha la rilassatezza della civetteria che addolcisce le frasi. - Ti piacciono i bambini? Quanti figli ti piacerebbe avere? - - Quanti ne verranno - dice lui. - Ji, cambierebbero la tua vita? -

- La mia vita sei tu. Quanti ne vuoi? - - Mi darebbero da fare, ma li seguirei con pazienza. - - Perché me lo chiedi? - - Non ho preso precauzioni. - Jean Paul solleva il busto e la fissa con insolita attenzione. - Potresti rimanere incinta? - - Potrei… Se ciò fosse? - - Sai… così alla sprovvista… sì, perché no. Per un neonato in più non esploderà la sovrappopolazione. - - Che espressione. Sembri spiazzato. - - Un figlio sarà accolto bene. Penso alle cose di cui ha bisogno. - - Rilassati - lo prende in giro - l’importante sarebbe che ti somi- gliasse. - Clara tocca un’altra questione, mostrando sensibilità. - Ti piace la vita in albergo? Non trovi che sia scomoda? - - C’è chi lava, chi mi stira le camicie, uno che cucina, un’altra che rifà il letto e il portiere che avverte degli scocciatori alla porta. - - Non c’è chi ti fa l’amore. - - Presenterò le rimostranze alla direzione. - - Non otterrai molto. Conosco gli usi locali. Ti ritroveresti una donnetta nel letto. Aspetta. Non ho finito. - - Sentiamo. - - Quanto ci vuoi restare al Colombus? - - Sto cercando un appartamento dalle tue parti. - - Potresti venire da me - lo invita lei accarezzandolo. - Sarai più organizzato e inoltre avrai un bel risparmio. - Jean Paul chiude gli occhi. Di nuovo Clara l’ha anticipato rubando alla ragione ciò che lei regala all’amore per ingrandirlo. - Nessuno si risentirà? - - Se ti riferisci a mia madre, credimi, non m’importa. - Clara, con un guizzo, esce dal letto e corre alla doccia. Apre il get- to e ci s’infila mentre lui inizia a passarle il sapone sulla schiena e poi sulla pancia, provando la malia dei sensi. La attrae sotto lo zampillio. Lei esce dalla doccia e si asciuga. Incurva il busto per dare una scrolla-

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ta ai capelli. Il capitano la coglie, profumata quanto un’orchidea; la solleva e la riporta verso il letto ancora tiepido. Dopo che lei è uscita per andare al museo, Jean Paul resta nella stanza per controllare conti e ordini di lavoro. Ha chiesto altri sacchi di concime per la fattoria. Ne farà distribuire cinque quintali per etta- ro. C’è un nuovo pozzo da scavare e il mulino a vento ordinato non l’hanno spedito. Invierà un sollecito. Il filo spinato per i recinti è ar- rugginito e dovranno cambiarglielo. Ci sono delle staccionate da riparare. Lo interrompe lo squillare del telefono. La portineria lo avvi- sa dell’arrivo di Santiago. Siedono in terrazzo e lui gli offre un caffè aromatizzato con la cannella. Sa che gli piace. Prepara la scacchiera per una partita. - Scommetto che non ci capisci nulla - lo sfida il giornalista accen- dendo la pipa, in attesa che il capitano muova il pedone. - Sarei stupido - ribatte il giovane posando lo sguardo sui pezzi. - Ti spiazzerò in quattordici mosse. - Il capitano irrompe col cavallo. Santiago studia la contromossa at- traverso gli occhiali. - Di’, Jean Paul, ti ha parlato delle sue teorie Lobo de Miranda? - - Il destino vincolato dal DNA. Sarebbe capace di chiedermi di fargli da cavia per trucchi genetici. - Il capitano segue a muovere le sue pedine. - Abbiamo approfondito la conoscenza. S’intravede una società tra noi. Il suo lotto, supportato dal mio, svilupperebbe un tale numero di palme da olio che, messe in rotazione, permetteranno di ricavare le quantità liquide sufficienti per la vendita. - È un olio ben pagato nel settore alimentare. Dovreste valutare la fattibilità di raccolta dalle piantagioni della zona, così da avviare sul posto un processo produttivo che preveda la cottura e la premitura delle drupe, all’ingrosso. - Santiago sopprime una risatina. Aggiunge: - La vita nel campo non è facile. Gli operai si defileranno spesso e sarà necessario sostituirli. La prima esigenza è di scegliere la mano d’opera adatta. Uomini, in maggioranza. - Costano di più. -

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- Le donne non sono adatte alla palma - spiega Santiago sfumac- chiando dalla pipa. - Un casco di drupe pesa diversi chili e sfodera certi aculei duri più delle spade. Una donna non ha forza per caricare un casco sul pianale di un camion. Soffrirebbe il prolasso. - Vanno bene per il cocco? - - Un cocco pesa poco. Per banane e drupe, ci vogliono i maschi e con buoni muscoli. Chi sceglierà la gente? - - Il mio socio. Non mi meraviglierei se dopo l’analisi del DNA. - - Selezionare gente è filantropia. Gli operai non vanno feriti. È un gioco di squadra. S’invogliano. Si alza la voce quando serve. Si evita che si bevano tutto. Le mogli verrebbero a insultarti perché il loro uomo torna a casa ebbro e senza un centesimo. Lascia al dottor Lobo il compito ingrato. - - Camillo si occuperà della crescita delle piante e un fuochista della cottura della frutta. Servirà una caldaia. Cercherò un fuochista che non la faccia saltare. Una volta avviato il ciclo, mi avanzerà del tempo. La domenica vorrei andare in barca nei paraggi e portare Clara. - - Non mi hai detto nulla del veliero - s’informa Santiago serrando i denti sulla pipa. - A che punto sono i lavori? - - Stanno ultimando le vele. Potremo andare a pesca. - - Buona idea. Magari porteremo Pablito. - - A proposito, Rafael, ciò che hai raccontato al ragazzo non è scritto in alcun libro di storia. I rapimenti di donne organizzati da don Alonso? Il governatore. Quel ragazzo ha un po’ di confusione. Il Rio Maddalena fu esplorato da Rodrigo Bastida e da Alonso de Ojeda. Nessuno dei due organizzò rapimenti di vergini. Cercavano oro; l’unico metallo che eccitasse gli spagnoli sbarcati in queste terre. - - Sai una cosa? - ridacchia il moreno - il suo cagnolino, l’ha chia- mato Bolivar. Ci crede alla libertà. - - Non credo che l’anima del Libertador si risenta. Le mie lezioni di storia sono meno aleatorie delle tue favole con finale tragico. - - Sei tu che lo carichi - insinua Santiago. - Ha ancora bisogno di qualche favola. Di giocare. Il gioco è formativo. -

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- Ha una mente già attrezzata. Dodici anni. Ha aspirato la colla, con Pamela. Tento d’essere coerente. Che cosa dirgli se non la verità? - - L’artificialità guasta. Ecco perché la cocaina vince. I pargoli do- vrebbero vivere un pezzo d’infanzia in modo sacramentale. Pablo ha diritto a fantasticare ed essere felice - lo sfida Santiago ridendo. - I miei racconti sono diversi dai tuoi. Sì, parlagli di Bolivar. Illudilo. Di- gli che la libertà si trova a ogni angolo di strada. Qui non ci sarà pace fin quando nel mondo si consumerà droga. Sarà completa la vendetta di Chimichagua, leggendario indio, quando non si distinguerà più tra neve chimica e neve naturale. - - Rafael, se si liberalizzasse, sarebbe tutto meno difficile. - - I narcoguerriglieri la impastano perché fanno soldi a tonnellate. Non t’illudere. Ti sei accorto che Pablo annusa la colla. Perché non intervieni in modo diretto? Chiedine l’affidamento. - - È un grosso impegno. Mi atterrisce la burocrazia. Clara ed io non siamo sposati. Occorrerebbe almeno il rito civile. - Santiago gli spiega che Pablo, pur in possesso di un veloce mecca- nismo di formazione, costretto a sopravvivere nella strada, avrà poche opportunità. Ci sono bambini segregati in inverosimili fantasie, spinti in un’introversione irreversibile, che consumano alcol e la dro- ga e cedono a chi glieli offre. - Oh, diavolo. Sentirò la mia donna - si arrende il capitano messo sotto scacco dalla regina avversaria. - Il parroco sarà l’ultima persona di cui chiederò. - Santiago è soddisfatto. La visita al suo amico ha dato frutti. Si la- sciano prima del tramonto. Jean Paul ha un appuntamento con Clara. La incontra lungo la spiaggia, nel punto dove un manipolo di giovani prepara legna per un falò. Lo schiamazzo si fa forte. Alcuni iniziano a percuotere i tamburi innescando l’afrore della cumbia, un ballo visce- rale che induce, maschi e femmine, a scuotere ogni centimetro del corpo mentre la pelle assume lucentezze impreviste. - La barca è pronta - rivela lui sbirciandole il volto. - Mi hanno chiamato dal cantiere. -

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- Vuoi portami a navigare? - - La costa in vista. Non avrai di che preoccuparti. - - Melania attende che tu la inviti. Le promettesti una gita. - - Non l’ho dimenticato. Mi è simpatica la tua amica. - - Come va il lavoro alla piantagione? - gli domanda Clara. Il capitano si fa serio. - Il dottor Lobo de Miranda vede bene una società di olio alimen- tare. Mi ha lasciato il compito di allestire la zona per la cottura delle drupe e la produzione di olio. Serve una caldaia decente e il vecchio vuole che sia io a cercarla al porto. Dovrò trovare anche un fuochista. - Clara scopre la fiducia che ispira Ji Pi. I suoi modi sono cambiati. Mostra entusiasmo per un lavoro che richiede impegno e lei lo ap- prezza. Ha voglia di lottare. Vanno in una zona in cui maggiore è la forza delle note e dei tam- buri. Le loro ombre si fondono sotto la luce dei lampioni ossidati dal salino. L’atmosfera intorno ai due si ammanta di una sensualità che fa della sera il fondamento della felicità. I clarini strepitano sul ritmo incalzante della cumbia e i neri rotolano nella rena, confusi dal rosso- re del falò. Dentro le rime della cumbia c’è l’anima del combé africano e per ballarla bene serve un pezzo di coscienza nera. I due giovani restano a osservare ammirati le contorsioni, le piroette, il disi- nibito ancheggiare. Poi anche loro entrano nel cerchio del ballo e provano a sorprendere se stessi, abbracciandosi voluttuosamente.

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Il capitano Ernesto Chivas, un robusto trentaseienne dai capelli rossi portati a spazzola, si rigira nel letto e arresta con un dito il suono della sveglia. Quando la sua nave sta in porto, lui non dorme a bordo ma resta a casa. Assecondando i desideri di Janet, la giovane moglie, hanno comprato un villino lontano dal fastidio degli altoparlanti che annunciano ai marinai i ripetitivi compiti della giornata, in una zona alle pendici di una collina per godere l’ombra della vegetazione distan- te un paio di chilometri dal mare. L’ufficiale si fa un caffè e tosta una fetta di pane. La cameriera ar- riverà alle otto, dalla periferia. Per quell’ora, lui dovrà trovarsi al dipartimento, dall’ammiraglio Nelsen. La convocazione gli è giunta a mano, la sera prima, portata da un motociclista scelto della marina. Non immagina il motivo. In genere le buone notizie arrivano antici- pate da un amico. Infila la Chevrolet sull’Avenida incontrando il traffico congestio- nato del mattino. Accende la radio. L’intervistatore chiede all’ospite del programma il suo parere sul piano di salvataggio per la Colombia. L’esperto in geopolitica esprime un dubbio ragionato sull’efficacia delle sovvenzioni. “Tappi un buco, se ne apre un altro. Distruggi un campo di coca e ne nascono dieci. Non si è fatto un accordo con gli stati vicini per fermare gli sconfinamenti dei narcotrafficanti.” Ernesto giunge al dipartimento alle otto meno dieci. Sale gli scalo- ni dell’edificio, pronto a vedere la faccia del Corsaro. C’è odore di cera profumata al limone, spalmata dai marinai. Il pavimento luccica sotto il riflesso mandato da una vetrata. Si meraviglia per l’assenza della segretaria Rosa che ha veduto ogni volta al tavolino coperto di telefoni. Passa nell’ufficio di Nelsen che sta seduto alla scrivania. - Permesso, ammiraglio. Buongiorno. - - Oh. Ernesto. Entra, siedi. -

Nelsen lascia il foglio dell’ordine del giorno scritto con voluta cal- ligrafia compatta e virile. Pigia un pulsante sulla parete e appare il piantone di servizio al piano. “Caffè leggero per due. Per due.” Il marinaio sparisce senza stridore sul pavimento lustro. L’ufficiale convocato si rende conto che l’atmosfera è meno for- male di quanto avesse immaginato. Ha notato che il sestante con cui suole trastullarsi Nelsen è riposto sulla cappelliera. Sul piano della scrivania, al centro, riconosce il fascicolo contenente il suo foglio ma- tricolare. A sinistra una cartella con sopra un titolo: Gatic. Sul lato destro vi è una cartella che reca il nome di un sottomarino che cono- sce: Patria. Nulla di peggio. Gira voce che all’ultima immersione ha subito un’avaria ai timoni di profondità, a quarantasette metri, e c’è rimasto un giorno. - Ernesto, quando scatterà il tuo avanzamento? L’avanzamento. - Il capitano ricorda che l’ammiraglio ha il vezzo di ripetere l’ultima parola. Sarà un tic o una paranoia. Lui riconosce che bisogna allearsi col Corsaro per il riconoscimento dei diritti, lasciandosi dietro le pro- prie idee regolatrici. - Credo sia maturato da un anno. - - Da un anno? Che cosa aspettano a darti il grado superiore? - - Non ho idea - dice Ernesto meravigliato che l’altro ne parli. - Ho valutato la tua scheda. Oggi parlerò al capo di stato maggio- re, a Escudoro. Voglio che l’avanzamento ti giunga per il mese entrante. Da quanto sei sulla N17? - - Due anni. - - È ora di cambiare. Che ne dici? - Il capitano riflette. Se fosse dipeso da lui, si sarebbe trasferito da un pezzo. Sfiora con lo sguardo il volto quadrato di Alfonso Prieto Nelsen e coglie un sorriso d’incoraggiamento. - Sì, signore. - - Desidero che la scelta sia tua. Non mi piacciono le forzature. - Il piantone entra per deporre sulla scrivania il vassoio con i bic- chieri d’acqua fredda e le tazze di porcellana bianca con l’ancoretta

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blu. Porge la zuccheriera d’argento e i tovagliolini. Nelsen versa lo zucchero al capitano, poi aggiusta al suo gusto il caffè e riprende. - Hai sentito parlare del Gatic? - - Qualche mormorio. C’è riserbo. - Nelsen gli porge una cartella numerata. - Te ne posso parlare. Cannone a tiro rapido, raffreddato a gas li- quido, con centratore radar che batte lo spostamento d’aria creato del velivolo bersaglio e spara su aerei fantasmi… Fantasmi. Qui troverai le specifiche, le performance e il resto. C’è pure l’esame balistico. Chi accetta il comando del cacciatorpediniere farà le prove di tiro e i meri- ti saranno suoi. E non saranno pochi. - Il comandante è appena sollevato. “Dove sarà la fregatura?” Non si pente di non essersi lamentato, appena entrato, per la sua posizio- ne. Quello pare un progetto interessante. Lavorare a un’arma raffinata sarebbe un impulso per la sua carriera. - Un’ottima chance. - - La seconda opportunità, Ernesto, è il sottomarino Patria. Co- minciano i grandi lavori. Cambiano i motori idraulici, i compressori, gli stabilizzatori, i timoni, un gran numero di valvole e il periscopio. Fa acqua. Una lunga permanenza in bacino, insomma. La promozio- ne, lo sai Ernesto, non porta potere senza un nuovo carico di responsabilità. - - Di questo sono certo - concorda l’altro poggiando la tazza vuota. Ha scartato il Patria dall’istante in cui il Corsaro ha cominciato a par- larne. - La mia scelta pregiudica altri colleghi? - - Nessuno. - - Qual è il cacciatorpediniere che dovrei comandare? - - Il Sucre. Una nave moderna. - Il capitano si sforza di credere che almeno l’ultima frase sia onesta. Tra il Sucre e il Patria c’è differenza. Il primo puzza di nuovo e il se- condo di cozze morte. Senza contare il prestigio di sperimentare un progetto. Con l’aumento di grado arriverà il salto di stipendio. - Accetto il comando del Sucre. -

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- Mi rallegro Ernesto. - L’ammiraglio batte le palme aperte sul ve- tro della scrivania. - Adesso parliamo della missione programmata per questo mese alla tua unità. - Il capitano mette in allarme le più remote cellule del cervello. Nelsen accende la punta di un Bolivar tipo medio, lungo, e sbuffa sollevando il mento. Apre una carta nautica sul ripiano e afferra una matita da un cassetto laterale. Studia la reazione sul suo volto. - Per la N17 c’è una missione d’infiltrazione. Darà risultati se sarà condotta con scaltrezza. Siamo in attesa di un cargo esca - bara l’ammiraglio marcando con una matita un quadrato sulla carta, senza temere che si scopra il suo gioco. - Porta merce illegale. Le informa- zioni ci danno l’Onassis Quinto pronto a salpare dal Panama. Sospettiamo che sia protetto da alti vertici. Ufficiali corrotti. - Gli spinge innanzi una busta sigillata. - Ecco gli ordini della prima fase. Assoluto silenzio sul seguito dell’operazione della quale sono l’unico responsabile. Quando partirai, ti darò i particolari della seconda fase. La definitiva. - - Che bandiera batte l’Onassis? - - Greca. - - Quando riceverò le istruzioni complete? - - Prima della partenza ti porterò la valigetta necessaria per l’aggancio. La potrai aprire mediante schede con codice, al momento giusto. Il capitano del mercantile non trasborderà la cocaina fino a che non vedrà il malloppo e sarai tu a consegnarglielo. È ovvio che i soldi saranno falsi. Questo non t’impensierisca. Sono tanto perfetti che dovrà arrivare alla Guaira prima di appurarlo. - Nelsen picchia la punta della matita sulla carta e si accerta che l’espressione di Ernesto sia di massima attenzione. - Il cargo lascerà Panama con rotta nel gol- fo di Darien; il punto d’approccio è già fissato sul limite delle nostre acque territoriali. In quella posizione, all’ora stabilita, consegnerai la valigetta al comandante greco. M’interessa che quello accetti il conte- nuto. C’è possibilità che trasbordi la cocaina su una seconda nave. La prima verifica la farai tu. - - Mi pare un’operazione da guardia costiera. -

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- Non ci fidiamo. La missione è segreta. Il cargo è protetto dall’alto. Dobbiamo arrivare al centro del rompicapo. Qualunque dubbio ti verrà, lo terrai per te. Avvisa i capi reparto di fare le richie- ste per approvvigionare la nave prima della partenza. - - Quando dovrei partire? - Ernesto s’impone di restare gelido. - L’Onassis salperà entro venti giorni. - - Se ci fosse una reazione imprevista? - - Per nessun motivo userai le armi. - Il capitano fissa il volto del Corsaro: non sorride più; il ghigno di superiorità che mostrava è sparito. Ha l’aria del pirata: segno che è teso. La punta del sigaro arde a ogni tiro. L’incarico appena ricevuto conta dei rischi. Le situazioni pericolose le ha affrontate ogni volta dopo avere calcolato il possibile danno e le eventuali perdite. - Farò il mio dovere - accetta l’ufficiale rassegnato, sperando che tutto si risolva presto e senza danno. - La tua promozione ha effetto retroattivo, pertanto ti spettano gli arretrati. Arretrati. - - Grazie, ammiraglio. - Il comandante lascia l’ufficio. La sua soddisfazione scontra con la sottile angoscia causatagli dalla prossima missione. La N17 è una tor- pediniera che lui ha comandato senza infamia. Spera di non commettere errori. Desidera tornare da Janet per comunicarle la noti- zia della promozione. Nelsen ha sulla punta del sigaro due centimetri di tabacco incene- rito che si sostengono all’estremità, a dispetto della gravità. Basta il battere della finestra per un improvviso colpo di vento a precipitarla sulla giacca bianca. - Porca marina - impreca irritato - marina porca. Si leva la giacca restando in camicia. Suona il campanello e la con- segna al piantone restando in camicia. - Di corsa in lavanderia. La voglio entro un’ora. - - Sì, signore. - Compone al cellulare il numero di King Kris. Alla risposta, lo in- forma che una torpediniera andrà a incontrare il cargo greco.

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- Mi aspetto che lei mi faccia avere quanto pattuito. - L’americano gli dice che non ha mai mancato un impegno. Ernesto raggiunge il molo dov’è ormeggiata la sua nave. La N17 è allineata con altre unità e tenuta ferma da cavi mandati alle bitte. Due marinai, sul vialetto pedonale che unisce i moli delle torpediniere, giocano a lanciarsi un frisbee. Finge di non vederli e svolta a sinistra imboccando la passerella. Lo spazio a bordo non abbonda e l’equipaggio ha bisogno di moto. Un paio di lanci con il frisbee non sono da punire con gli articoli del regolamento. A bordo, lui anche sente bisogno di muovere le gambe. Passa per l’angusto ponte di co- pertino e si ferma fuori della palestra. I prossimi quaranta minuti di tappeto ruotante sono riservati all’ufficiale di macchina. Molti si pre- notano per il footing statico e lui ha dimenticato di farlo. Vede sopraggiungere l’ufficiale iscritto al turno. - Nariño, mi cederesti l’orario? Domani si partirà. - Il maggiore non è uno che fa storie. La sala macchine è una pale- stra dove si suda in modo abbondante e si fanno acrobazie. Aggirare un motore che batte con i suoi quarantamila cavalli. Camminare sui paglioli vibranti e viscidi di lubrificanti, tenendosi in equilibrio con una sola mano, perché nell’altra si stringe un oliatore. Strisciare nell’intrico di tubi che percorrono una sentina buia, per arrivare a mettere le mani su una valvola che non si apre con il telecomando. - Va bene - accetta il macchinista, avviandosi verso il regno rumo- roso dei motoristi, alcuni metri sotto il ponte di coperta. - Scaldati pure i muscoli prima di navigare. - Ernesto entra nel locale. Vi sono uomini che sollevano pesi, men- tre altri pedalano. Il marinaio addetto alla palestra gli porge la tuta e le scarpette e lui va allo spogliatoio. Dopo un minuto monta sul tappeto e avvia una passeggiata statica. Ha dei dubbi. “Parto con la N17. In- contro il greco. Gli darò una borsa. Quello accetterà e scambierà cocaina con qualcun altro. Dovrò o no reagire se ci sarà resistenza imprevista?” Rivedrà la normativa internazionale e gli accordi di Montego Bay: assalto a navi di contrabbandieri. Il tallone sinistro gli

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sta dando fastidio. La corsa sul tappeto gli apre i pori e lui pregusta il piacere di una doccia fredda. In navigazione non gli sarà possibile.

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Clara, uscita dall’aeroporto, prende un taxi e si fa accompagnare al negozio di sua madre. Quando vi giunge, vede che le vetrine sono ben ordinate ed espongono tipi di cacao differente e scatole di caffè. Le orchidee nei vasi di cristallo hanno un effetto decorativo nel locale che odora di cannella. Si complimenta con la madre per la bellezza dei fiori. Misura l’esposizione pignola dei prodotti sulle mensole di arre- do. A una scatola di cacao ne corrisponde una di biscottini. A un vaso di confettura, uno di dolcetti. Alle stecche di cioccolato sono affianca- ti barattoli di miele. - Sono contenta che abbiate deciso di sposarvi in municipio - le dice la donna abbracciandola. - Jean Paul ti farà felice. Quell’uomo ti ama. Forse non sono riuscita a capirlo. Mi dispiace. - - Vedrai che sarai capace d’amare anche lui - la incoraggia Clara contenta di udire quelle parole. - Quando vi sposerete in chiesa? - - Il prossimo anno. - La madre ricorda il suo matrimonio, nella chiesa del Carmine, a Bogotà, quando i parchi della Candelaria si riempivano di genziana variopinta e di viole. Quel giorno Salvador le regalò un anello di fa- miglia. Una donna di discendenza paece come lei, pur trapiantata in una città, rimane orgogliosa delle origini indiane. La tradizione richiedeva un periodo d’innamoramento. La presen- za dei genitori era discreta, con suggerimenti e previsioni per la sposa. L’osservazione attenta del futuro genero, dei suoi gesti, del modo di porgere parola, permetteva loro di cogliere l’inclinazione del carattere e di preparare l’anima della prossima sposa. Lei non scorda la cerimonia del fidanzamento. Suo padre credette di fare omaggio ai trapassati mostrando di conoscere i riti. In quell’occasione recitò il classico ruolo indio. Confabulò che a Bogotà un tram è diverso da una palma. Sul tram uno ci sale con le scarpe, senza usare i muscoli. Sulle radici che sostengono la palma, i piedi

scivolano. Vi cola la linfa. Sul predellino del tram, sotto le porte a soffietto, non ci mettono il sapone. Non si arriva al sediolino con il fiatone. In città le persone gridano da stupidi, ognuna per sé. La fore- sta, invece, pretende una sola voce. In essa si procede insieme e in silenzio. Uomo e donna, rispettosi e rispettati. La vecchia madre, dal canto suo, le preparò il corredo e ordinò al marito di svincolare un’assicurazione, per la dote di Xaipa. Pioveva a dirotto quando Salvador si presentò per chiederne la mano. Il pretendente non si fece intimorire dall’aria d’indio ascetico con cui si addobbava il suocero. I due uomini miravano ad assicurare la sua felicità. Il fidanzato voleva portarla via presto, mentre il padre puntava per tenerla ancora in casa. La madre li fissava in silenzio e dai guizzi degli sguardi si capiva su quali punti concordasse e su quali no. La loro morale, raccontava il padre, era stata aderente ai costumi e alle regole di condotta del clan e garantiva la sopravvivenza del loro ceppo. Spiccava tra altri valori quali comprensione, giustizia, collaborazione. L’unione andava legata con la giusta applicazione del sesso, che ogni sera funzionava da col- lante. (Qui il lampo negli occhi della madre fu di totale accordo). Doveva esserci la gratifica costante dell’altro membro della coppia. (Xaipa concordava col padre). Ciò garantiva stabilità: questa condi- zione serviva a puntellare il cielo, che altrimenti sarebbe caduto. “I dolori si devono accettare perché provengono dalla fortezza e dalla debolezza degli avi. Sono i defunti - commentò poi il padre - ad avere spinto Salvador a varcare la soglia della casa e il pretendente rispondeva con allegria; comprendeva le sue richieste, era cosciente dell’impegno.” Il fidanzato non aveva intenzione di perdere tempo, perché gli piaceva la famiglia numerosa e i giorni di ritardo alle nozze riduceva- no il numero dei figli. I genitori si scambiarono un sorriso. Donna Xaipa non ha scordato nulla di quella cerimonia. - Clara, dovresti portarlo qui. Jean Paul assaporerebbe una tazza del mio cioccolato. Gliene hai parlato qualche volta? -

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La giovane sospende di ordinare le scatole dei dolcetti sulle men- sole e si rigira a guardarla. Conosce il sorriso materno: approva Ji Pi. - Solo un cioccolato? - si assicura. - Gli piacerà - risponde la madre abbracciandola. Clara prova una bella gioia. Gli adulti non mutano opinione con facilità. La madre ha fatto un gran gesto d’amore.

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Jean Paul riceve una telefonata da Lobo de Miranda. Vuole incon- trarlo per delle ragioni serie. La casa del vecchio è affiancata alla grigia mole della cattedrale. Il suo muro esterno è ritinto con colori tenui e le finestre sono verniciate con un verde chiaro. Il maggiordomo, tenendo il portone di legno lavorato, gli accenna di passare. Allontana con una pedata il barboncino corso ad abbaiare. - Mi chiamo Pedro e sono l’unico cameriere e persona di fiducia. - Il capitano si fa accompagnare al piano superiore, fino alla soglia del salone circondato da balconi che travasano la luce del golfo. L’ambiente è austero per i mobili spagnoli neri ed è nobilitato da anti- chi quadri che ritraggono severi personaggi. Una libreria copre una parete e il peso del sereno susseguirsi di volumi rilegati fa flettere i ripiani. In basso, si trova una raccolta di patologie tropicali dai nomi complicati e al centro monografie che trattano rare malattie. In alto si allinea una ristampa di pregio del Corpus Hippocraticum. Pedro si arresta prima di voltarsi, con umile casualità, per spiare i passi incerti dell’ospite. - Signore, camminate con passo leggero - sussurra misterioso. - Di lato è sicuro, sotto il quadro del dottor Cayal, il neurologo - indica sollevando il dito alla cornice che marca uno dei personaggi dipinti. Il pavimento di lise tavole appaiate è lucido. Le gelosie sono spa- lancate su un terrazzo non assolato perché riparato da una tettoia di coppi rustici. Il ballatoio si aggetta sulla strada principale. Alla balau- strata di legno tornito è innestata l’asta con il segnavento. Da lassù si ammira la baia con zone d’acqua che cambiano dal blu al verde sme- raldo. Il dottore lascia il libro con la copertina in cuoio: il genoma umano, in altre parole il corredo genetico dei terrestri. - Avanzi, capitanuzzo mio, non si faccia intimidire dagli esimi col- leghi - sollecita alludendo ai quadri appesi - sono morti da eroi. Qualcuno di cause naturali, qualche altro di esperimenti. Uno di mala- ria mentre catturava zanzare di palude.

Jean Paul, il senso marino latente e pur vivido, si accorge del sini- stro pencolare del pavimento. Rallenta e il padrone di casa interviene: - Oscilla, ma le travi sono solide. Finora non hanno tradito. - - Potrebbero farlo adesso. - Cammina tenendosi sotto Ramon, il neurologo, seguendo il sugge- rimento di Pedro. L’oscillare sincronico dell’impiantito richiama un’incerta passerella di corda, di quelle che nell’Amazzonia superano precipizi. Esce con sollievo all’aperto. - Da non credere. Non crolla? - domanda con un sorriso teso. - Tutto secondo natura. Non tema. Quando le termiti avranno terminato il secolare pasto, cadrà. Eh. Sarò stecchito, pertanto, non mi riguarda. Il dolore sarà di un erede che mi odierà per avergli lascia- to tanto legno marcio da sostituire. Oggi c’è del ghiaccio in suo onore. Pedro ha stappato una bottiglia d’alchermes. Non se lo perda. Rosso sangue. Fatto in casa con una ricetta paterna. - - Mezzo andrà bene. - Pedro accorre con la bottiglia e i bicchierini. - Lei mi piace. - Lo sguardo del vecchio penetra il volto del capi- tano. - Brindo al collega Miguel Servet, classe 1511: fu il primo che contestò a Galeno la purificazione del sangue con l’assurda azione su bile e flemma. Vivaddio. - Solleva il bicchierino in direzione del salo- ne, dove la cornice dorata trattiene il disegno dell’alchimista. - Che riposi in pace. - - Alla vita - brinda il giovane bramando la concentrazione necessa- ria per anticipare le sottili intenzioni dell’interlocutore. Un alito di pace li assale e tacciono innanzi al panorama dell’oceano che accoglie l’impeto del Rio Maddalena. Al dottore pare di assistere a una delle sue metafisiche visioni, fuori della concezione temporale della catena genetica, prolungata in una spazialità senza limite, in contatto con extraterrestri a cavallo di comete erranti. - Quel fiume è un dono stupendo - nota il giovane. - La natura è violenta. Non cada nell’equivoco dei santi che s’illudono di dominarla. Quel fiume è come il DNA umano. Richiede

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violenza, droga, omicidio. Selezione e corrente sono identiche. Per irruenza genetica si fa l’omicidio. Si passano le sponde. - - L’umanità sarebbe fatta di potenziali assassini? - domanda Jean Paul trasecolato, abbassando lo sguardo. - In virtù di cosa? - - Qui fabbrichiamo la cocaina per i figli d’Abele. Perché? Per al- truismo? Solo il cucciolo feroce sopravvive tra le piccole iene. Lei ha molto da vedere, se le reggerà la coratella - risponde con un tono doppio e quotidiano. - Ha mai pensato di piantare coca? - - Non è il mio campo. Voglio vivere in pace. - - Ha ragione. In un altro pianeta lo farebbe. Su questa terra, no. C’è bisogno di pace. I valori sono spesso invertiti. La lealtà non fa denaro. L’illogico è che coloro che ci restano incollati appartengono alla schiera degli avari. - Nelle sedie a dondolo, godono il piacevole sapore di ghiaccio spento nel liquore. - Al bando i discorsi aridi - se n’esce il dottore punto da solennità, mentre lascia il bicchiere e strofina le mani per seccarle. - Lei è mai stato uomo d’affari avventati? - Il capitano smette di sorseggiare. Incontra un che di familiare nell’espressione dell’interlocutore. Sente battere i denti mentre l’altro macina parole anziché comporle. Distende le gambe alla balaustra; la tocca con i mocassini testa di moro. - Fui sul punto di comprare una nave cisterna. - - Dio guarda. Eh. - - Un armatore falliva e la proposta pareva degna. La tattica era di farne declassare i carati dal registro navale, mandarla all’incanto con il carico, vincere la gara e poi lavorare sodo. - - E dunque? - - Non se ne fece nulla. A bordo ci fu un caso di vaiolo, tutti in quarantena. Il perito non poté verificare il declassamento e il pallon- cino mi scoppiò nelle mani. - - Capitanuzzo mio - esala il dottore distillando fiato e stirando le sillabe per un comprensivo rimprovero - non mi risulta che esista un perito il quale, per cento dollari, non affronti il virus del vaiolo, maga-

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ri miscelato con quelli della rabbia e dell’epatite. Errata valutazione, la sua fu errata valutazione. - - Già - afferma Jean Paul riprendendo a sorseggiare, ficcato lo sguardo nel cielo libero da ogni vapore, quasi che il ricordo della nave cisterna stia per materializzarsi nel panorama. Il dottore chiama Pedro e gli chiede la borsa di pelle che si trova sulla libreria. Il cameriere si muove rallentando a ogni scricchiolio delle travi. Arriva all’altezza del quadro di Paracelso e la prende. Le agili dita del medico divaricano le coste della borsa ed estraggono due registri e una mappa timbrata dall’ufficio terreni. La distende facendo spazio sul carrello dei liquori e ne ferma gli angoli con quattro bic- chieri. Sulle copertine cartonate, le etichette recano scritti i nomi delle piantagioni. Assume un’aria notarile. - Prima della proposta che sto per farle, la informo di un particola- re. Non sono il padrone della terra. M’illudo di esserlo. Inganno i sensi, senza essere matto. Anche lei, al promontorio, attribuisce con- sistenza a un sogno. Altrimenti non starebbe qui. - Il capitano lo interrompe. - Non sono matto. Ho un lotto. - - Entrambi viviamo un’illusione. La piantagione. - L’ultima frase richiama a Jean Paul una battuta della Tempesta di Shakespeare: “non sono il padrone della nave, eppure sembra mia.” Manda un’occhiata all’interlocutore che con teatralità delinea l’illogica possibilità di un possidente alle prese con pericolosi invasori. Una scheggia di malumore gli si attacca all’anima. - Si spieghi meglio dottore. - - Non sono un prevaricatore, capitano. Provengo da una famiglia benestante. Ad ogni modo qui nessuno è padrone, giacché si viene uccisi gratis. La paura è un sentimento naturalistico della vita. Da ses- santa anni curo malati, rischiando la vita per spostarmi da un posto cattivo a uno pessimo. Non abbasso la vigilanza. Sorveglio la com- pravendita di terreni adiacenti. So cosa vi pianteranno. Allestisco la difesa, perché essi, i banditi, potrebbero venire. A quest’ora, senza tali precauzioni, si sarebbero infiltrati. - Beve un sorso e riflette. - I miei contadini mi chiamano per essere curati, e per risolvere i rompicapi di

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famiglia, irrisolvibili, data la loro preparazione. Sono il padrone, il padre e a giorni lo stato. Inoltre li proteggo dai crotali, usando cani addestrati nella fattoria. Mi proteggo con gente adatta al caso. - Pedro si presenta con il vassoio, tenendovi i pollici dentro, seguito da Lulù attirato dall’odore invitante dei bocconcini. Cammina nel sa- lone con il passo di chi non voglia schiacciare uova. Caccia uno scanno sul terrazzo e sposta su questo il vassoio con gli stuzzichini, preparati con pane, polpette di mais e carne fritte in olio di cocco. Si ritira fischiando un semitono e il cane lo segue. - Provi - lo invita Lobo de Miranda prendendo la mollica bianca - sono condite con ciò che io, con termine medico, definisco aspleno, una salsa con erbe non ipocondriache. Felci medicinali, o doppio ca- pelvenere. Esaltano il mais. Aiutano l’intestino. Approfitti - quasi ride. - Le riproverà quando la cuoca sarà di genio. Eh. Sta con me da trenta anni, Carmensita. La trassi quando nel villaggio faceva le fatture per i mariti traditori. Ora fa le fritture. - Jean Paul si serve, mastica a lungo com’è sua abitudine, senza per- dere l’aggancio con il dialogo, ricercando nel flusso di frasi ciò che gli dà sicurezza: la chiarezza. Si accompagna con il drink, dopo avere rimpiazzato il ghiaccio disciolto. - Se lei vuole essere il padrone del suo pezzo di terra, si convinca di essere ricattabile. - Il vecchio lo fissa e attende che il giovane abbia deglutito prima di continuare. - Per i motivi esposti ho lasciato che il suo agente navale vincesse l’asta del lotto per lei. - Il giovane, stupito, solleva gli occhi azzurri. L’espressione interro- gativa smuove la risatina del vecchio. Il creolo si rinsangua. - I vicini me li scelgo. Eh. La mia presenza all’asta ha allontanato altri compratori interessati al lotto. Volevo lei accanto. Dato che non posso morire due volte, voglio almeno che, nella prima evenienza, ciò accada senza provare rimorsi nell’aldilà. Dopo le dirò perché. - Jean Paul muove lo sguardo di meraviglia sull’uomo che non smette di stupirlo. Non vi coglie nessuna vena di cattiveria o di pre- sunzione. Le rughe intorno alla piccola bocca accompagnano il movimento delle labbra sottili tinte d’alchermes.

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- Le mostro la piantina… Qui abbiamo otto ettari di banani e una quindicina di cocchi. Ciò che le propongo, sull’onore mio, è di entrare in società per i restanti venti ettari, che saranno destinati alla palma da olio e gli ultimi dieci a granturco. - - Capisco la palma. Perché il granturco? - - Ci coprirebbe dalle ispezioni aeree. Nel caso si mettesse coca. - - Quale coca? - domanda il capitano con un brivido. - Quella che ci obbligheranno a piantare. - - Non comprendo. - - Capirà quando le punteranno un mitra sul torace e le ordineran- no di seminare ciò che essi vorranno. Lei, come ho detto, non è il padrone della terra. Dove arriva la guerriglia, spariscono i padroni e sorge la coca per le raffinerie. - - Mi ribellerò. - - In genere si fa credere loro che sono accettati in casa e poi si prendono i provvedimenti necessari. - - Quali? - - Il ricorso all’autodifesa. Si paga e vengono a derattizzare. - - Perché non l’esercito? - - Primo, butterebbero per aria tutto. Secondo, sono incostanti. - - Pare un incubo. - - Ci farà l’abitudine. Il suo ballo è cominciato dal momento che decise di sbarcare dal Karolina, lasciandola a Puerto Colombia nelle mani di un incompetente. Dal mio balcone vedo lo sbocco del fiume e la nave che si sfalda da mesi, nel fango. Là nella foce, andrà in pu- trefazione. Aguzzi la vista - indica un punto lontano - alla fine del tagliamare. La vede anche lei, inclinata su un lato. - - Del Karolina non importa a nessuno. - - A nessuno fuorché lei. - Jean Paul stacca il pensiero da quella che fu la sua nave. Medita sulla sorte del lotto. Idumea sarà un punto della Terra dove realizzare i nuovi progetti. Se nell’universo vi sono dei principi, allora ne sup- porrà anche le regole. La rabbia gli fa biascicare un amaro commento. - Che venga la peste della coca. -

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- Non è detto che accada - lo rincuora Lobo de Miranda. - Po- tremmo anche lavorare indisturbati. In due saremo più forti. Non dobbiamo aspettarci l’aiuto delle nazioni. Sono indifferenti. - Jean Paul esamina la mappa. Il cinico creolo gli ha spiegato la real- tà cosmica con una logica da anatomista. La discordanza con quanto aveva immaginato lo mortifica. La vita nell’Idumea la vedeva diversa. Gestire piante, raccogliere i frutti del lavoro. Forse il dottore ha ra- gione. Ricorda anche i pareri espressi, con toni bassi, da Santiago: le violenze gratuite, la frusta risposta dello stato, la stanchezza di riscri- vere cento volte le stesse cattive azioni. Gli passa innanzi al viso una farfalla, una ninfalide dalle ali blu, ritenuta sacra dagli indios. Nella tradizione dei paeces si narra di questa come di un segnale fausto, da non ignorare per non offendere lo spirito benevolo della natura. - La palma, alla lunga, soddisfa? - domanda al dottore. - Dio, guarda. Eh. Supponga un tizio morso da un saettone, e non è capace di descrivere del serpente che l’ha pizzicato. Non posso ca- pire, solo dal segno del morso, se morrà. Il veleno o raggruma il sangue o lo tramuta in acqua, dopo avere attaccato i nervi. Caramba. Mi devono portare la testa del serpente. Dovrò scoprire distruzione di eritrociti, l’attacco al sistema nervoso. Non sono il dottor Ramon, illustre neurologo, che usava la tinta cromatica per analizzare le cellule nervose. Sono un piccolo uomo, con grandi rimorsi. Non le permet- terò errori irreparabili. - - Cosa si farebbe? - - Pianteremo nel rispetto della ciclicità. Non vi posi attenzione. Lei ce la metterà, per crescere con giuste proporzioni. - Jean Paul si domanda per quale motivo vi sono persone che, nel dare risposte, possiedono una subdola abilità tendente a placcare il pensiero altrui. Sarà che godono dissertandoci intorno. - Posso chiederle perché ricevo tanta attenzione? - - Perché ho fiutato il suo DNA. Le propongo una società quaran- tanove a cinquantuno. Avrò due quote in più. In questo modo salverà la sua dignità. Per gli altri, io sarò il buono o il cattivo. - - Che compiti avrei? -

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- Seguirà i trapianti, le concimazioni, i trattamenti. Poi il taglio e la raccolta della frutta. La cottura e l’estrazione dell’olio. Non potremo inscatolare. Si occuperà della spedizione, del piazzamento e degli in- cassi. - - Braccio, volontà e una buona caldaia. - - Ci aggiunga la fantasia. Lei ne ha. Eh. I profitti si divideranno col valore delle quote spettanti. La caldaia, l’addetto alla conduzione, la cottura, sono di sua competenza. - - È tutto? - domanda Jean Paul appena rigido. - Dai nostri utili tratterrò il tre per cento. Per il vaccino. Nessuno dovrà saperlo. Salvo che lei non voglia mettere a rischio le nostre vite. - Jean Paul si fa silenzioso. Crede stia per essere azzannato quando Lobo de Miranda riapre bocca: - All’occorrenza, ci difenderemo con i mezzi disponibili. - Il mare, spazio d’acqua dove nessuna nave è al sicuro, splende là innanzi. “Che tipo di socio ho trovato. Le idee del dottore: se l’universo è anche natura, allora il male pare infinito.” - Accetto. - - Si accorgerà di non sbagliare. - Il creolo gli tende la mano. Risuona nella voce del dottore il tono di un editto. Invita Jean Paul a pranzare con lui. Il giovane si scusa dicendo che ha un impe- gno. Pedro lo accompagna alla porta e apertala gli dice: - Lei è fortunato signore. Il pavimento ha retto. - Jean lo fissa con aria interrogativa, mentre esce dalla casa. “Pedro sarà normale?” Decide che leggerà qualche libro sul DNA e sulle cau- se dell’ereditarietà. In futuro, se il medico sciorinasse una delle sue teorie, avrà elementi per ribattere: eppure sembra convinto di ciò che dice, pur non avendo eredi. “Quello si sente figlio dello spazio.” Prima di tornare a casa, Jean Paul passa all’enoteca per comprare una bottiglia di Mendoza, un vino dell’ultima vendemmia argentina. L’etichetta ne decanta la qualità: secco e vitale. Vuole festeggiare il trasferimento nell’appartamento di Clara, un definitivo passaggio per recuperare tenerezze, necessarie ad alimentare l’amore. La trova in

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short. I capelli raccolti in una treccia. Mentre lei prepara la tavola, lui apre il vino. Poi sbircia dalla finestra. Sul terrazzo di una casa poco lontana, un mulatto seminudo, seduto su una bassa sedia di paglia, stira un acordion dalla cassa rossa e mantice nero. Suona con viziosa malinconia. Una nera di mezza età lo pettina, poggiandogli le tette sulle spalle tatuate. Il suonatore si spinge in avanti. - Chi è quel fisarmonicista? - domanda alla giovane. - Acheo. È bravo… Vieni a mangiare, è pronto - lo invita. Ha cotto l’aragosta. L’antipasto è costituito da un maturo avocado ripieno di mentuccia. Siedono e fanno tintinnare i bicchieri. - Certo che Pablito sa pescare queste bestiole - dice lei staccando un pezzo di polpa bianca dal carapace. - Non mi piace che vada a immergersi alla zona dei vivai. Non è sicuro - risponde Jean Paul assaggiando il vino fresco. - Preferirei che andasse a scuola. Qualche allevatore potrebbe picchiarlo. - - In questa stagione la pesca è permessa - lo rassicura lei facendo le porzioni. - Il ragazzo è informato. Mi ha mostrato un foglio, un avviso dell’ente marittimo. Gli allevatori sono tolleranti. - Sa leggere ciò che gli conviene - dice lui aiutandola a dividere l’aragosta. - Non mi ha sbandierato questa conoscenza. - - Sa la vita di Bolivar a memoria - ribatte lei. Jean Paul nota che il carattere di lei non è mutato. È ironica e alle- gra. Sostiene che il corpo mentale coincide con quello astrale: una sovrapposizione considerata dagli antenati paeces una libertà che im- pedisce a qualunque persona di annoiarsi di se stessa. Dopo pranzo, Jean Paul passa nel divano di vimini. Da quella po- sizione riesce a sbirciare Clara. La canottiera marca le forme del seno e i capezzoli pungono sotto la trama leggera. Desidera fare l’amore. - Metti musica - comanda lei. Lui infila un cd nell’apparecchio. Rock. Quando Clara va a sedere accanto a lui, le dice della società propostagli dal dottore e la giovane approva. In fatto di presenza di spirito, lei lo trapassa. Lo vince in velocità mentale quando lui sosta per comporre un’idea. Gli resterà accanto pronta a percepire pericoli e svantaggi che possano danneg-

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giarlo. Clara prega che ogni giornata si chiuda bene, nell’augurio di un mondo migliore, senza i soprusi. Desidera una famiglia, avere dei figli, senza timore di pericoli o ricatti. Si domanda cosa sia il vero amore. Ogni volta che crede di avere la risposta, ne coglie l’incompletezza. Definire un’astrazione meravigliosa è un arduo compito. - Credi nell’amore cieco, Jean Paul? - - Un bell’enigma, però ci credo. - Clara si stringe contro il suo petto. Accanto a Ji Pi trova un piace- vole calore. Il capitano è intenerito. Le pratiche per il loro matrimonio sono state completate. Sarà una cerimonia semplice.

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Leonid non sa dove sia King Kris. Dal giorno che l’ha portato ol- tre il confine, al campo di Bacatà, non ha ricevuto chiamate, né al satellitare, né sulla radio a onde lunghe. Pare sparito per uno degli incantesimi di Takenda, lo sciamano, che si esibisce ipnotizzando ser- penti con intrecci di carta bianca a guisa di anaconda: un gioco che a volte gli riesce con grande soddisfazione dei ragazzi del villaggio. Non si spiega in virtù di quale dono Kris riesca a gridare sulla faccia dello stregone che sarà dannato non leggendo i passi della Bibbia, senza che quello batta ciglio. I panni di falso pastore di anime li indossa senza smuovere reazioni critiche negli indios. Negli ultimi giorni ha volato e fatto le fotogrammetrie sulla fore- sta. Ancora non ha informato Vassili di avere scoperto nella borsa dell’americano le scansioni satellitari delle piantagioni di coca dirette all’ufficio di Washington. Ha pure capito che le posizioni non corri- spondono con quelle marcate dal programma Falcon che l’ucraino gli ha affidato prima della sua partenza da Cuba. La mancata comunica- zione col suo capo non dipende da lui: più semplicemente, Vassili non risponde alle sue ripetute chiamate. Fuma una sigaretta. Non ha altro spasso nella selva che risucchia energia e gli mette una sonnolenza che lo rende apatico. L’unico esse- re con cui riesce a scambiare mezze frasi è Amanicea che continua a macinare mais di fianco ad un fuoco che suda un fumo grasso. Lui soggiorna nella capanna chiesa, quella in costruzione, che per il finto pastore Kris diverrà un centro di cerimonie. Divide quello spazio con le galline del villaggio ed esse sono le uniche a impedire che vi entrino le serpi. Amanicea lo guarda dal patio polveroso e ride senza emettere alcun suono. Il volto color terracotta esprime una dol- cezza priva d’allegria. Sarà il limite della sua selvaggia pochezza. Ogni tanto compie dei segni, con le mani o la testa, che lui non capisce. Gli va accanto con un boccale e gli offre un liquido schiumoso, dall’odore marcio. Lui non vuole offenderla, accetta la birra, fermen-

tata con metodo naturale, masticando mais e zucchero di canna. Pre- vede l’effetto confusionale che gli metterà dentro. L’india gli tiene compagnia col suo boccale d’argilla e comincia ad aggiungere qualche rumore al riso mimato: è stupita dal suo orologio di acciaio. I raggi solari fuori della capanna chiesa si spengono e l’allegro strepitio dei naturali abitanti della selva svanisce. La foresta intorno alla radura nasconde le sue creature in un eccesso protettivo. Soffi d’aria calda scendono dagli alti caucciù, battendo il pavimento di terra che fa da piazza nel villaggio. Scende la sera silenziosa e stellata. Il russo scopre l’effetto della birra locale. Lo stomaco gli comincia a ribollire e gli esce un rutto violento che fa ridere la donna, coperta la bocca con la mano unta d’umori selvatici. Steso sull’amaca, osserva il complicato intreccio di foglie intorno al villaggio. Distingue i pipi- strelli azzurrini che cominciano a volare in tondo, sotto la volta della capanna, segnalando che la notte è all’inizio. Gli arrivano addosso i minimi spruzzi di orina rilasciati dai mammiferi notturni. Morrà con- taminato, o creperà per ofidismo. Un ulteriore movimento, lassù, gli ruba l’attenzione. Focalizzando, scopre un serpente di un paio di me- tri che si svolge intorno ad un palo monaco che sostiene il colmo interno del tetto. Sale con lento strisciare ai covi dei pipistrelli. Trama l’attacco. Uno scatto della testa informa che si è procurato il pasto settimanale. Il russo scende dall’amaca e apre la bocca in un sonoro sbadiglio per richiamare l’attenzione dell’india, seduta poco distante. - Che serpe è quella? - s’informa con un bisbiglio. L’india solleva la testa e lo sguardo agile, addestrato a scoprire pe- ricoli maggiori, lo incontra subito. - Spazzino. Buono. - - Scende dal tetto? - s’informa, sospettoso, il russo. - Quando va a toccare i malati e li guarisce. - Leonid la sfiora con un’occhiata di commiserazione. Appurato che l’animale non si occuperà di leccarlo, si rimette steso. Il silenzio si è addensato sulle piante che circondano la capanna chiesa e le altre co- struzioni minori. Ha veduto l’india Amanicea strappare foglie di arasà.

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La donna gli spiega che il decotto ha un effetto diuretico. Gli uomini la bevono prima di ubriacarsi. Lui ode il frullare d’ali che creano i pipistrelli volando precipiti dall’alto, in cerca delle prede che sciamano all’esterno, in prossimità dei recinti degli animali. Sfiorano il suolo, poiché la paglia che crea gli spioventi del tetto finisce bassa, con una frangia vegetale che orla il perimetro della costruzione. L’india imprime un’oscillazione alla sua amaca prima di allontanarsi con un incesso quasi danzante. Lui soc- chiude gli occhi. Il calore umido dà forza agli insetti notturni. Amanicea si è distesa sotto una pergola gonfiata da stupendi grap- poli di una superba pianta grondante una strana pioggia di polvere d’oro. Là i pipistrelli non ci vanno. La pianta si difende dai volatori orecchiuti trasudando dorate particelle che invischierebbero le loro ali. Teme la loro urina, come l’india del resto. Per fortuna i serpenti spazzini limitano l’espansione delle colonie di quei mammiferi invadenti e orripilanti. Una donna del villaggio fu morsa da uno di loro e non ebbe più figli. Amanicea non vuole corre- re un rischio del genere e preferisce tenere, tra le frasche che formano il tetto della sua capanna, un piccolo pitone affamato.

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Finito il discorso del delegato russo, la sala dei congressi si svuota in maniera ordinata mentre si avviano i commenti: l’America preme troppo, tuttavia l’ammorbidimento della politica estera verso gli USA deve continuare. I cubani, padroni di casa, hanno applaudito. Vassili, segretamente, non è convinto: turismo, zucchero e sigari saranno sufficienti a migliorare la qualità di vita, ma ci vogliono soldi, nuovi capitali, programmi di espansione. Il buffet per i partecipanti propone fettine di salmone arrotolate su tartine al caviale del Volga. Spicca una piramide di appetitose palle pelmeni, tradizionali leccornie russe, ripiene di carne ed erbe. Il colonnello Lopez s’imbatte nell’ucraino all’uscita dalla sala, du- rante la pausa concessa per il pranzo. - Vassili. Che combinazione incontrarti - lo saluta parlando in per- fetto russo. - T’interessi al cambio? - - Lopez, per tutti gli Arlecchini, mi piace vederti in forma - ri- sponde l’altro caricando d’enfasi le parole. - Vieni, beviamo una gazzosa e addentiamo un panino. Ho voglia di caviale. - - Non ti ho ancora ringraziato per l’ultima fornitura. Niente male - continua il colonnello preferendo evitare lo spagnolo e le orecchie indiscrete. - Ottimo storione e buon concime per le piantagioni di canna da zucchero. Abbiamo avuto raccolti di canna eccezionali. - - Il mio ufficio cerca di servirti nel modo migliore. Che mi dici della vodka? Che gradazione. Hai sentito il sapore? - - Ottima. Il pesce affumicato mi è sembrato di qualità media. La volta scorsa era migliore. Meno duro. - - La durezza dello storione dipende dal freddo e dalla quantità di pioggia. I fiumi russi cambiano. Soffrono d’impeto. - - Non voglio cogliere le allusioni, almeno in quest’ambiente. Dico che era duro e salato. Il sale aggiunto sul sale. - - Amico Lopez, mi starai trasmettendo che era del Baltico e non del Caspio? Ti ho dato mai fregature? -

- Apparentemente, no. - - Questo mi spegne l’allegria. Vendiamo storione a mezza Europa e nessuno si mette a discutere sul sale. - Il cubano pare accettare la spiegazione. - E la tua aerofagia? - - Flatulenza. Un disastro. - - Dovresti fare esercizio e non mischiare pane e proteine. - Raccolgono piatti e posate e passano in rassegna le vivande offerte dal comitè. Sollevano una cotoletta di salmone, un paio di cucchiaiate di storione condito; alcune polpettine alla georgiana, con zenzero, una presa di caviale nero, sottaceti di Mosca, cubetti di maiale fritto, gela- tina, . Raggiungono un tavolo e poggiano i vassoi. - Che opini del discorso del tuo compatriota? - s’informa il milita- re iniziando a masticare. - Irreprensibile - commenta secco l’ucraino assaggiando una pol- petta. - La prassi resta inossidabile. - - Che preferisci? La prassi o la polpetta? - - La polpetta. Oh, mi lascia pensare che non vi sia disponibilità al libero scambio con certe aree del sud America. - - Credo sia per timore della concorrenza sleale. - - Lopez, la concorrenza fu sleale fin da quando qualcuno la con- cepì. Ci sono centomila modi per concorrere senza che il concorrente si accorga che lo stanno fregando. In quest’economia globalizzata, ci siamo inselvatichiti e il processo è irreversibile. Con cosa si dovrebbe- ro finanziare le industrie? Con i soldi dello stato mi dirai. - L’ucraino parla agitando la polpettina nell’aria. - E quelle quotate in borsa? Mi dirai che non va bene così, che è capitalismo. Allora chiudiamo la borsa. E gli speculatori lo permetterebbero? - - Ho perso un settanta per cento in due anni, in borsa - rimpiange il colonnello - troppo marciume. - - Lopez, mi deludi. Avresti dovuto comprare il mio caviale. Si è raddoppiato il prezzo. Fintanto che a livello mondiale - Vassili infilza una terza polpetta - non inizieranno a tassare le speculazioni, ne risen- tiranno gli investitori e i risparmiatori. - Il grassone beve un bicchiere

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di gassosa. - A proposito, Lopez, quanti ne avete incamerati? Di agen- ti russi. Mi spiego? - - Pochi. - - Lopez, non barare così. Con una telefonata ti ripeto il loro nu- mero e ti do la misura delle loro scarpe. - - In America meridionale ne sono sparsi più di diecimila. - - Complimenti Lopez. Attenzione. Qualcuno di loro ve lo potreste trovare alla presidenza. Magari a Santo Domingo, a Haiti, a Caracas o dove sia. Ogni russo ha letto Leon Tolstoj e sa che ciò che conta non sono le idee, ma la capacità di raccoglierne i frutti. - - Vassili, ti prude il neoliberalismo di Mosca? - - Senso pratico, Lopez. Tu ne hai? - - Sei sibillino - commenta il colonnello. - Ti piace spiazzare gli americani e poi ridere delle tue marachelle. - - Lopez, che cosa ti pare delle polpettine russe? - - Troppo zenzero. - - Dì, colonnello, quanto attenderò per un’altra tua commissione? - - Hai scordato che con l’ultimo ordine mi hai fornito materiale sufficiente per un anno? - - Che testa - ride Vassili scotendo il pancione. - Volevo offrirti tonno sottovuoto. - - Mi sa di raro questa fornitura. Tu commerci tutto, dai giornali al- la tecnologia. Tonno? - - Non io - lo corregge il russo - le aziende. Prendo le giuste prov- vigioni. - - Perché me lo dici? - - Aspetto una partita a prezzi stracciati. Mi potresti aiutare a svelti- re le pratiche in dogana. Vieni a trovarmi in ufficio. - - Fammi controllare chi abbiamo al porto. Chi paga il tonno? - - Ho una lista speciale per le commissioni extra. - - Verrò a farti visita. - Terminato di pranzare lasciano il salone, dove affluisce nuova gen- te per il buffet. Si salutano e riprendono i loro incarichi. Vassili si ripromette di chiamare Leonid. Dovrà avvertire King Kris di passare

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alla fase successiva della sua missione pagata con il denaro degli amici russi. A Mosca mostrano impazienza. Rivogliono il milione di dollari, con gli interessi. Ricorderà, inoltre, al pilota russo, di non perdere occasione per capire i reali propositi dell’americano. Il sospetto è che quello faccia un doppio gioco pericoloso. Già da mesi dura l’intesa con l’americano e si approssima l’epoca di smembrare il pericoloso incastro. Dresda gli ha chiesto di rimandare indietro Leonid e, per giunta, l’ammiraglio Nelsen ha deciso di lasciare la marina.

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Il rumoroso furgoncino del venditore ambulante, giunto nel pae- sino da un’ora, ha già fatto il giro delle strade principali. I due altoparlanti montati ai lati esterni del portapacchi mandano, a un vo- lume da paranoia, musica cui si sovrappone la voce lacerante del venditore che avverte del suo arrivo: lo strepitio aumenta. - Sono qui per voi, donne. Il Mono non prende ma vi dona. Veni- te e scegliete: calze, sostegni per tutte le misure, piccole e grandi, venite donne. Ci sto poco - minaccia - me ne torno alla città pazza; me ne vado a Barranquilla. Fatevi belle. Mettete le ghirlande. - È così forte il baccano e tanto molesto, che i cani randagi si scan- sano. Il furgoncino si ferma. Il Mono apre il portellone pronto a dare battaglia ai concorrenti: i padroni delle mercerie che lo odiano perché, quando arriva quello, restano l’intero giorno a grattarsi la testa. Il Mono zoppica. Ha un ginocchio andato. È un bassetto brevili- neo, quarantenne, di colore mezzo scuro, lingua sciolta e guizzante. Comincia a sciorinare mutandine e calze femminili. Sceglie con un’occhiata le possibili clienti e inizia a sedurle con un acume che gli permette di vendere dei capi osceni: ridottissimi fili dentali, giarrettie- re addobbate da fiori gialli, calze azzurre e reggipetto del colore stola da prete: viola penitenziale. - Vi porto moda parigina - esagera. - Fatelo scemo il vostro uomo. Avanti, donne brutte. Che vi faccio belle. - Le prime ad avvicinarlo sono le clienti che già lo conoscono; poi arrivano, incuriosite, le passanti occasionali e infine le ragazzine, con un’aura da gigli sbocciati, che cercano, invece, di sfiorire in fretta. Dà a ognuna un capo affinché: che si valuti la qualità. Lo raggiungono le facili e spudorate giovinette del bar. Cecilia innanzi a loro. Sono desi- derose di vedere quali novità trae il mercante. - Mono, che strilli tanto? Hai paura di non vendere nulla? - Le mani femminili accarezzano i pezzi e ne tastano la morbidezza o la consistenza. Le voci s’informano dei prezzi; tirano al ribasso, con

intelligenza naturale e femminile, per spuntare uno sconto. Ultima, giunge Miccia, la nera con i capelli tinti di carota. Sceglie alcune mu- tandine e un reggiseno bianco ben rifinito. - Quello, signorina, costa - la avvisa il Mono, usando la coda degli occhi per non perdere di vista le altre clienti. Non vedi che raso? - - Pensi che non possa pagartelo? - domanda lei con un’irritazione che richiama l’attenzione di Cecilia. - Per caso sei impiegata al municipio? - - No, lavoro al bar - sbuffa lei guardandolo con due occhi che paiono bianche conchiglie trovate di notte. Interviene Cecilia che non vuole le impiegate a litigare con i clienti o i venditori, fissi o di passo. - Dalle quello che vuole - dice pensando che Miccia è l’unica delle sue ragazze che riesce a calmare le brame di Raul e di Antonio. - Me la cavo da sola. Questo pidocchioso non mi spaventa. - Miccia prende delle calze e due tutine. - Fa il conto. - - Vediamo, questo più questi, fa trentadue dollari, con lo sconto. - - Accetti soldi di carta o altro? - Il Mono la fissa con uno sguardo molliccio e le dà una passata dai piedi alla testa. Ha gli occhi brillanti. - Ci possiamo accordare - sussurra strizzando l’occhio. - Allora ti rivedo tra una mezz’ora - accetta Miccia, rassegnata. - Ehi, pupa, non posso lasciare il furgone incustodito. Tra mezz’ora verrò a prenderti e ce ne andiamo al fresco, fuori mano. - Miccia si defila dall’assembramento sotto gli sguardi divertiti delle compagne e rivolge i passi al locale che ospita lei e le altre. Vuole provare subito i capi comprati. - Cecilia - apostrofa il Mono - chi è quella? - - Miccia, e stai attento Mono. Ti manda a fuoco i gioielli. - Il venditore riprende con i suoi strilli: - I pezzi migliori stanno andando via. Mi resta poco tempo. Fatevi sotto. O belle, o brutte! -

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Vende i capi migliori, accontenta le adolescenti e le donne avanti con gli anni, forse più esigenti in fatto d’intimo. Finite le vendite, chiude il portellone. Sale in cabina, gira la chiave della messa in moto e si porta di fronte al bar, nell’attesa che ne esca la nera. Miccia lo fa attendere una ventina di minuti. Ha indossato il nuovo capo lascian- dolo intravedere sotto la camicetta sbottonata e ha infilato le calze bianche con disegni dorati. Avvisa Cecilia che tornerà presto e la donna le suggerisce d’essere gentile con il Mono: in fondo sarà uno scambio leale. - Stasera ci sarà confusione e i clienti vogliono divertirsi - le ricor- da la badessa. - Non ti stancare. - La neretta monta di fianco al Mono e il furgone s’immette prima nel viale del centro, poi prende una laterale e va verso i campi, questa volta con gli altoparlanti spenti, senza attirare attenzione: un anonimo furgone senza scritte e di colore giallo. Lo zoppo si leva la maschera. - Miccia, stai alle istruzioni - le dice secco senza togliere le mani dal volante. - Ti avevo informato. Una chiamata in ufficio ogni dieci giorni, anche senza novità per il mio dipartimento. - - Ti pare che non ti avrei chiamato? Lo sai che Cecilia non mi molla un minuto. Fa il tuo lavoro. Adesso, cosa mi dici del mio trasfe- rimento. Non ci resisto nel bordello. - Il Mono vende biancheria. Apparentemente. Nessuno sa il suo ve- ro nome, neppure Miccia. È coordinatore degli agenti speciali della squadra antinarcotici che sono sulle tracce di un gruppo di trafficanti locali e di una banda di guerriglieri complici, non lontano dal paesino. Le rivolge una docile occhiata. Accarezza una mano della rossa con cameratismo. Nel caso fosse scoperta, la giovane confiderà solo in sé. - Stai lavorando bene - la incita il Mono serrando i denti per una fitta al ginocchio. Di lei si fida. Si fidò anche del collega che poi lo tradì e gli sparò colpendolo al ginocchio. - Il capo è soddisfatto. Non appena incastriamo Raul, sarai sostituita. Che mi dici di nuovo? - - Stanno preparando un attacco a un certo Gonzales. Non so chi sia. Molti non si sbottonano quando sono a letto. I pantaloni, sì. - - Pensi che li possiamo localizzare? -

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- Hanno il campo a due giorni dalla riserva indigena. - - Capirai. Ce ne sono una decina di riserve in questa zona. Cerca di darmi maggiori riferimenti. Prima chiudiamo e prima ti levo da qui. - - Aspetto che ritornino al bar. Gli indumenti che hai portato mi aiuteranno a far salire la pressione del guerrigliero. Ci vado cauta. - - Vedrai, lo manderai in brodo di giuggiole. Fai eccitare anche me con le calze da soubrette. Ti salteri addosso. - - Gira il furgone e portami a bere una birra fredda. -

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La novità assoluta è l’avvicinarsi della data del matrimonio. Il capi- tano si sente percorso da una piacevole euforia. Sarà un nuovo passo a due. Insieme andranno verso il futuro con molte attese. Tocca a lui comunicare la notizia alla madre. La chiama in Florida. Miami e Bar- ranquilla differiscono di un solo fuso orario. - Sono io. Mamma, come va? - - Figliolo. Sto bene e tu? - - Mi sposo. Clara ha accettato. - - Hai scelto la donna giusta. Hai trovato un prete? - - Mamma, faremo il rito civile. Con calma inizieremo i preparativi per quello religioso. Verrai. Non voglio deludere Clara. - - No, figlio. Lo sai che ho fifa di volare. La piantagione come va? - - Bene. Ho un socio. - - Non farti fregare. - - È vecchio. Insieme terremo a bada i pirati. Non ci faremo pren- dere per il naso. Ciao, mamma, ti voglio bene. - Jean Paul riaggancia conservando nell’eco del tono materno un sollievo che molti provano, nella separazione, dopo avere scambiato buone frasi con l’unica che ti vede ancora adolescente, a dispetto delle responsabilità che fioccano con l’età matura. Si prepara un caffè. Prende la tazzina ed esce sul terrazzo. Intravede allo sbocco del fiume il lungo braccio della diga laterale che avanza al largo. Il Karolina vi agonizza di lato; le lamiere arrugginite avvolte dalla nebbiolina che sale dal rimescolio delle acque. Terminato il caffè, si veste e scende nella strada per recarsi al cantiere del disarmo navale. Un guardiano gli va incontro. Il faccione scuro si allarga sotto la visiera e il ghigno lascia vedere le gengive con i fori dei denti mancanti. - Serve qualcosa, signore? - - Mi hanno detto che qui trovo una caldaia. -

- C’è un rimorchiatore alla rottamazione. Andate in fondo al molo e poi a destra, dopo le gru. Là troverete il capo demolitore. Fate at- tenzione. Il cantiere è rischioso. - Jean Paul segue le indicazioni. Cammina lungo la banchina, pas- sando tra gli invasi che sorreggono imbarcazioni cannibalizzate a colpi di fiamma ossidrica. Sorpassa barche da diporto, bettoline rug- ginose, pontoni e chiatte. Incontra nel mandracchio il rimorchiatore, legato di poppa, ormai inservibile. Alla fiancata, legge il nome mal raschiato: Ercules. “La vita è buffa.” Ercules. Quel battello è lo stesso che, anni prima, arrivò nella notte di San Giovanni per estrarre la sua torpediniera dal corallo. Lo riconosce, sebbene sia un ferraccio che a malapena galleggia. Una rozza passerella lo unisce allo spigolo del molo. Si afferra a una scaletta a pioli e discende nell’antro dei mac- chinisti. Trova puzza di nafta. La motrice ha gli stantuffi bloccati. Sembrano le zampe di un gigantesco trampoliere tramutato in una statua d’acciaio per l’attacco di una maledizione. Pur nell’immobilità, trattiene l’accenno di potenza delle bielle lucenti. Raggiunge la caldaia. È un’imponente Cornovaglia. Lui si ferma innanzi al frontale del bol- litore. Osserva la camera di combustione annerita, i livelli dell’acqua e i manometri del vapore sul grosso cilindro messo in orizzontale, un posto dove si accumulava il fluido che poi andava a muovere i pisto- ni. I termometri sono in ordine. Sul frontale si apre la bocca della fornace, di lato gli stoppini d’accensione allineati negli accoglitori late- rali, ammaccati e sudici. Poteva ingoiare tre quintali di carbone. Non presenta rotture o gocciolamenti d’acqua dalle mandrinature dei tubi di fiamma. “Riprenderà a funzionare. Una Cornovaglia è una Corno- vaglia.” Continuerà un gran servizio alla piantagione, cucinando drupe e fischiando vapore. Sta per risalire, ha già afferrato la scaletta quando la sua attenzione cade su un armadio con la scritta: parti di ricambio. Vuole ispezionare anche quello. Apre gli sportelli. Vi trova la comple- ta attrezzatura per mandrinare i tubi di fiamma. Altri manometri e termometri. Valvolame di diversa sezione. Una manna che farà ri- sparmiare soldi. Nota dietro un rotolo di cartone grafitato un barattolo di vetro, non grande. Per afferrarlo allunga il braccio. Ha

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un’etichetta sporca e ingiallita. La scarsa luce gli permette appena di distinguere la scritta: “Alcolato/Specifica militare 416”. Lo infila in tasca con un affanno improvviso ed esce dalla sala macchine; risale sul ponte e discende la passerella. “Che ci fa nell’armadietto di un rimorchiatore un prodotto utile per le apparecchiature artefatte come quelle di una torpediniera?” Ruota il tappo e annusa. Non c’è alcun odore. Nota sul fondo un sottile strato biancastro. La strana polvere, al contatto col suo dito, pare vellutata. La prova. Il gusto gli chiarisce che si tratta di rimasugli di cocaina. Lo invade una sensazione tra il dolore e la delusione men- tre cerca, nella trasparenza della coscienza, di ricucire gli strappi di una lontana vicenda vissuta sulla torpediniera. Si ritrova con lo spet- tro dell’inchiesta militare aperta contro di lui; rifà i conti col mistero della carta nautica stampata in modo errato, al punto da mandarlo dritto in un banco di corallo e poi sparita. Tappa il barattolo deside- rando che accada qualcosa per mutare quanto gli si sta presentando. Il capo demolitore lo vede avanzare nella sua direzione; smette di grattarsi i testicoli e lo attende, supponendo che l’intruso gli chiederà delle informazioni e che potrebbe esserci una regalia. - Ha visto che rimorchiatore? - - Sì. L’ho visitato. Dov’è l’ultimo fuochista? - - Non ho idea. Ha dei denti d’oro. Era un tipo strano. - - Strano? - - Per di là, capite? Preferisce stare con gli uomini. - - Dove posso trovarlo? - - In genere si riuniscono in una spiaggia. - - Sapreste indicarmela? - - Dalle parti della Grotta di Mezzogiorno. Poi di spiagge per nudi- sti ce ne sono poche. - - Ricordate il nome? - - Mi pare Loredito. La caldaia vi va bene? - - Con chi posso trattare l’acquisto? - domanda Jean Paul allungan- dogli un pezzo da venti. - Anche con me. I proprietari l’hanno ceduta al cantiere. -

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- Quanto ci volete? - - Non è male. Riparte al primo cicchetto. Seicento dollari. - - Settecento, con l’aggiunta dell’armadio dei ricambi. - - La caldaia da che parte la mando? - - Ai lotti del promontorio. Alle piantagioni di Idumea. - - Idumea. Che nome. Spero di ricordarlo. - Jean Paul lascia il molo. Vuole assicurarsi delle tracce bianche nel barattolo e Santiago potrebbe aiutarlo. Gli fa una telefonata e si ac- cordano per vedersi in centro, al circolo degli scacchi. Là c’è una saletta dove mangiare, a patto che si prenoti. Le scacchiere sono sui tavoli, a disposizione dei giocatori, ma il capitano si mette seduto al banco e ordina un Martini. Il cameriere gli serve il drink accompagnandolo con frugali stuzzichini. Jean Paul sa che adesso ha assoluta necessità di Loredito: saprà mandarla a tutto vapore la caldaia. Non riesce a immaginare cosa potrà rispondergli il fuochista. Con che domande lo affronterà una volta che lo incontrerà mentre prende il Sole nudo? “Che legame c’è tra lei e la cocaina finita nel barattolo?” Tenta frasi adatte ad abbordare; non gliene vengono. Getta un’occhiata sui quadri appesi alle pareti. Scene di folclore, para- te di maschere in costume allegorico. Il ghiaccio del Martini si discioglie facendo impallidirne il colore rosso e lui posa il bicchiere. Rifiuta un secondo drink offertogli dal cameriere. - Che pessimo umore - dice Santiago vedendolo. - Non mi hai te- lefonato per una partita, mi pare. Jean Paul lo invita a sedere. - Ho una scoperta sconcertante. - - Sentiamo - dice l’altro accendendo la pipa. - Ho trovato la caldaia per la piantagione. Forse incontro anche Loredito, il fuochista. Ho sbattuto contro un barattolo di vetro. - Detto ciò estrae il contenitore e lo porge al giornalista. - Se lo aprirai, capirai. - Santiago stappa e guarda la polvere bianca. - Bicarbonato? - - Cocaina, in un contenitore della torpediniera 416 finito sul ri- morchiatore Ercules. Passato per le mani di Loredito. Un rebus. -

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Il mulatto vede che l’amico si trova in un’acuta concentrazione. Tenta di smussarla gettando qualche battuta che abbassi a un livello di pura curiosità la forte necessità d’indagine. - Il fuochista potrebbe non sapere nulla. - Jean Paul ribatte: - Preferirei, prima di andare alla spiaggia dove si ritrova con i suoi amici e di parlargli, che mi aiutassi a essere certo della sostanza restante. - - Vedrò che cosa possono fare certi amici. Perché questo interes- se? A che ti servirà un qualunque risultato? - - Quando ero militare, la notte di san Giovanni di alcuni anni fa, m’inviarono a seguire il cargo Neptune, proveniente da Panama. La rotta mi fu assegnata, però finii incagliato in un banco di corallo e il cargo sfuggì al mio inseguimento. Questa cocaina potrebbe essere della partita che poi i federali sequestrarono sul Neptune. Una cassa di quella roba fu nascosta in anticipo sulla mia torpediniera, con lo scopo di incastrarmi. Temendo che la nave subisse danni incastrata nel corallo, ordinai di buttare in mare ogni peso per alleggerirla. L’ispezione cui mi sottopose la DEA arrivata a bordo della torpedi- niera non m’incolpò, però una cassa fu ripescata e scattò l’inchiesta. - E con ciò? - - Se i resti di cocaina nel barattolo provenissero da piantagioni lontane dall’equatore, ad esempio della cordigliera di San Blas di Pa- nama, per la salinità e l’influenza del mare, significherebbe che il militare che copriva il cargo è lo stesso che nascose a bordo della 416 i barattoli compromettenti. Il suo scopo era di concentrare su di me l’attenzione dei federali mentre il Neptune se la filava. - - Hai dei sospetti? - - Nelsen. - - Dovrai pur dimostrarlo - lo contrasta Santiago pensieroso, tiran- do una boccata dalla pipa dopo aver preso il barattolo. - La farò analizzare dai testoni della scientifica. Con discrezione. - Jean Paul si strofina la fronte. - Sentii ferito il mio orgoglio. Giudicato per incompetenza. -

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- Sei sensibile - tronca Santiago. - Insegui il concreto. Le stesse re- gole del giornalista. Ti aiuterò. Cerca di capire se Loredito è franco. Non è consigliabile riporre fiducia in una nuova conoscenza. - Jean Paul accenna con il capo. Aggancia il ragazzo incaricato della sala e gli chiede da mangiare per due. La cucina prepara due bistecche Karpov. Terminato il pasto, escono dal circolo degli scacchi. Le strade sono affollate. C’è la gran processione annuale. Sulla gente radunata si allunga l’ombra del campanile che riquadra la faccia- ta della chiesa. I tocchi echeggiano cacciando in volo uno stormo di colombelle. Il parroco, un rogazionista dai modi sbrigativi, ha avvisa- to delle intenzioni: si reciteranno suppliche per l’edificazione della bontà. L’uomo di chiesa è preoccupato dal sincretismo religioso che si è fatto insistente: nei quartieri dei negri, la traslazione delle divinità vudù nelle figure del cattolicesimo è impressionante. L’offerta di frut- ta ai santi richiama i riti africani. Con la pratica del sincretismo si prende in giro il prete, mentre il confuso credente afro americano è convinto di accontentare le anime degli avi. Si camuffano gli idoli sotto le spoglie dei santi ed è un illecito religioso. Dal mattino gli am- bulanti neri hanno montato le bancarelle nelle strade laterali della piazza. Vendono caramelle di miele, dolci di banana, pezzi di maiale fritto, succo di canna, frittelle ripiene di carne macinata. Gli indios offrono borse intrecciate con fibre vegetali. I membri della banda, camicie e pantaloni rossi, suonano un inno sacro. Allungando il collo, il prete conta i portantini e vocifera che ne occorre un altro alla mac- china di legno che sorregge la statua di Maria. Domina col vocione gli irrequieti chierichetti. Controlla con difficoltà l’animazione di Pablito che immaginandosi centauro corre e fa manovre che spaventano il mazziere alle prese con il passo incerto dei portantini oppressi dal peso della statua. Il parroco lo invita con muti avvisi a calmarsi; gesti metà benedizione e metà minaccia. Il monello si mantiene oltre le olezzanti oscillazioni del turibolo, sospettoso. Giunto il ritardatario, un pescatore muscoloso, il curato lo sottopone alle assi di sostegno della macchina, in posizione centrale, la meno comoda, sotto i cande- lieri. La cera fusa stilla e gli cade addosso. Si dà inizio alla pompa con

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un orante passeggio. La Madonna sostenuta a spalla, il manto trapun- tato con stelle, avanza accompagnata da canti dolenti. La regalità non viene né dalla corona, né dagli ori; origina dal fascino che l’ignoto scultore d’ottocento seppe fermare nei gesti scolpiti. Il corteo, con balbettii e litanie, segue un itinerario previsto, lungo e circolare nel territorio della parrocchia. Dalle finestre scende sui fedeli una pioggia di petali. Le ragazze di un casino di lusso, per l’occasione, hanno so- speso il servizio. Le belle, indossati i costumi locali, nelle gonne ampie e di differenti colori, brillano nei balconi alla luce dei candelotti accesi per devozione. Il parroco le benedice dal basso. L’aspersorio si agita nell’aria e bacchetta in direzione degli uomini in attesa dinanzi al por- tone: i miseri covano la convinzione che una donazione possa abbreviare la via per il paradiso. Hanno scordato che le mogli li man- derebbero all’inferno. Jean Paul e Santiago scansano per una viuzza laterale e raggiungo- no l’arenile. Notano tra le rocce una figura cauta, forse troppo. È l’uomo dei fuochi pirotecnici che controlla i mortai e le micce, nean- che avesse dichiarato guerra ai pesci e si prepara a sostenere una battaglia con gli spiriti di Punta Rocca. Le ombre del tramonto colo- nizzano il costone, oscurandolo. Sullo sperone del promontorio, il castello spagnolo, illuminato dal basso, comincia a galleggiare nel primo buio. L’uomo dei fuochi d’artificio innesca le lunghe micce e si porta in zona di sicurezza, riparato dietro i massi della scarpata. Inizia una pioggia di bengala che si riflette nell’acqua con una luce violacea. I botti hanno un crescendo studiato, scotendo l’aria e spandendo uno scintillio di magnesio. Si alzano nuvole che sanno di zolfo acre; si sus- seguono le batterie tinte di blu, di verde, di viola. Razzi verso il cielo, fischi, granate, serpentelli. Buio e luce si alternano nel finale. Appare una scritta incandescente: viva la pace.

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Jean Paul, rilassato nella sedia a sdraio sul terrazzo, termina di bere un frullato di banana e mango osservando dei ragazzi che sulla spiag- gia traggono la gioia dal gioco, una ricchezza concreta che li rende felici, col niente della loro età. Gli arriva un soffio di vento che agita il fascino timido dei gerani curati da Clara. Sul pavimento di maioliche ornate con semplici geometrie, accanto al binocolo, frusciano le pagi- ne del giornale. Ha appena terminato di leggere un articolo di Santiago: il mercato all’ingrosso di cocaina guadagna clienti. La droga non distribuisce ricchezza, non crea inflazione, pertanto elude i prin- cipi economici. Non dà dividendi, a parte la morte. Dal cantiere l’hanno avvisato che la barca è pronta. Restano da de- finire le pratiche per la registrazione del nuovo nome che lui intende darle. Dovrà recarsi alla capitaneria distaccata. Sceglie una camicia colorata a maniche corte; si veste e prepara la cassetta di marina con- tenente i documenti della barca, poi va in cucina e aiuta Clara a servire la colazione. Si affretta a mangiare un paio di biscotti. La gio- vane affronta un tema che sta loro a cuore. Dopo il matrimonio, tenteranno la richiesta d’affidamento di Pablo. - Presenteremo la richiesta al Benestare Familiare - dice lei deter- minata. - Sarà una pratica lunga. - - Di solito non creano ostacoli. Lì, sanno quale sia la realtà - os- serva Jean Paul. - Temo, invece, che la madre di Pablo resisterà. Le nere di Las Flores sono tenaci. - - Capirà che tentiamo d’impiantare qualcosa di positivo - osserva Clara senza perdersi d’animo. - Se ha cuore, cederà. - - Saprai convincerla più di me. Telefona al Benestare per un ap- puntamento con l’incaricata degli affidamenti. Se Pablito prenderà troppa confidenza con la strada, diverrà difficile convincerlo ad accet- tare un tetto sotto di cui ci sono regole. - Uscito da casa, vede il monello andargli incontro. - Buongiorno capitano. -

Ha il faccino smunto. Gli occhi sono meno vivaci. - Mangi una frittella? - gli domanda l’uomo facendo un cenno a una ragazza che vende involtini con un carretto. Il neretto accetta di buon grado. Lui scopre che il sentimento pro- vato per Pablito non è di compassione. Non c’è da fantasticare sul suo futuro: un giorno conoscerà le celle della stazione di polizia o il buco in cui morire per le botte che qualche altro gli darà. Nessun tipo di stupore lo assalirebbe vedendolo divenire irrecuperabile, sporco, fumando lo scarto della cocaina, o trasformarsi in un elemento per la guerriglia, perdendo sensibilità e rispetto per la vita. Dopo un po’ sal- gono sull’automobile. Il capitano si accerta della via dove ha sede la capitaneria distaccata e parte. - Portami questa - gli dice affidandogli la cassetta di mogano. La capitaneria è a un piano, mostra un’architettura insipida. Si tro- va di fianco al fiume e s’immette nella prospettiva della foce, laddove le linee della diga intersecano il segmento della spiaggia. L’ombra di un ampio porticato difende le finestre e sul cortile esterno la bandiera dell’armata si muove svogliata. Sulla porta, il monello si punta. Ha timore. Jean Paul lo sospinge sotto lo sguardo molle del piantone con la fascia della polizia militare al braccio. All’ufficio della documenta- zione, il capitano bussa alla porta. Il ticchettio della macchina per scrivere si ferma e si ode l’invito a passare. Trovano un sergente che sfoggia un’aria di superficialità. - Che serve? - domanda l’uomo, svogliato. Jean Paul valuta il volto raso male. La camicia bianca è aperta e una catena d’oro dal collo robusto. Continua a fumare una sigaretta. In un quadro alla parete spicca il busto di Nelsen. Il capitano passa lo sguardo in tondo, abituato a ispezionare ognuno degli elementi che compongono un ambiente militare stantio e che provoca disagio in chi non lo conosce. Tale atteggiamento non sfugge al militare che livella la schiena in posizione meno sciatta. - Ha una bella foto del Corsaro Nero - mormora Jean Paul pren- dendo la cassetta dalle mani di Pablo.

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- L’ammiraglio di Squadra Alfonso Prieto Nelsen - lo corregge l’altro alzandosi dalla sedia. - Lo conosce signore? - - Ci siamo scontrati, in passato. Opinioni diverse. - - È il capo del dipartimento centrale. Noi dipendiamo da lui. - - Non v’invidio - sogghigna Jean Paul. - Il Karolina è insabbiato da mesi. Non dipende da Nelsen la sicurezza nella foce? - - L’ammiraglio è impegnato a inseguire i trafficanti di coca lungo il Rio Maddalena, fino a Mompós. - - Pertanto le navi si possono anche lasciare nelle secche. - - Qualche problema, signore? - - Nessuno. Voglio cambiare nome alla barca. - - Ha i documenti? - Jean Paul gli dà i fogli. Il militare scuote la testa. - Le darò dei moduli da riempire. Saranno controllati e registrati; la domanda sarà inviata al dipartimento centrale per le autorizzazioni. - - Voi qui cosa fate? Perché tanti giri? - - Sono le disposizioni. - - Di chi? - - Dell’ammiraglio Nelsen. - - Va bene. Ripasserò - dice il capitano trattenendo un gesto d’im- pazienza. Mi dia i moduli da riempire. - Jean Paul serra le mascelle per non indisporre il tanghero che sta dietro lo scrittoio. Riempie in fretta le righe. Nel riquadro previsto per indicare le esperienze personali, dichiara la provenienza dalla marina e il suo ultimo imbarco. Gira le spalle e sospinge il ragazzo sul corri- doio. Pablo si agita con una serie di smorfie dirette alla porta dell’ufficio da cui sono usciti. - Smettila. Quello è acido - gli consiglia senza avere intenzione di rovinargli il gusto di sfottere la burocrazia. Il sergente, esaminati i moduli, solleva il telefono e compone un numero. Dice al centralinista di voler parlare con Nelsen. Jean Paul si separa da Pablito. Raggiunge il porto. Noleggia una barca a motore e si dirige alla spiaggia appartata occupata dai nudisti. Vede bene, sfiorando il tagliamare, le strutture del Karolina impanta-

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nato. I gabbiani ci volano sopra e gli aironi stanno appollaiati sui cas- seri sporcandoli di escrementi. Riconosce la grotta dove, secondo Pablito, le aragoste ballano in tondo durante l’estate. Avvicina la barca alla spiaggia coperta da mucchi di conchiglie. Dovrà essere abile a scoprire il carattere del fuochista. Loredito potrebbe essere drogato perso. Sarà decisivo intuire le qualità e l’inclinazione della sua co- scienza. Spegne il motore e sbircia la striscia di rena. Un gruppo di uomini, da una parte, si abbronza senza costume. A un tratto, una mano si aggrappa alla barca, imponendole un brusco movimento laterale. E- merge la testa di un nuotatore messa in una cuffia di gomma bianca. - Non le consiglio di scendere alla spiaggia. Poco fa è precipitato un grosso sasso. Vedesse che botto - lo avvisa il bagnante con una voce saltellante. Il nuotatore ha un aspetto insolito; parla con un timbro sottile. Mostra un sorrisetto che si apre su una linea di denti regolari, i più d’oro. Il volto, sotto la cuffia bianca, ha i contorni di una maschera. - È quella la spiaggia dei nudisti? - domanda Jean Paul irrigidito dall’inaspettata apparizione. - Chi cerca? - - Loredito, il fuochista dell’Ercules. - - Il guardiano del cantiere mi ha avvisato della sua visita. Lei non sa che razza d’animale è quello. - - Il guardiano? - Jean Paul si sforza di ricordare che faccia avesse. Aveva i denti guasti. Non gli sovviene altro particolare. - L’ha pagata cara la caldaia, al maiale. Pretende che io gli dia del mio se lei mi assumerà. Sono il fuochista. Di che cosa ha necessità? - Il capitano non immaginava un incontro in quella situazione. Lo- redito ha l’aria di un gamberone crudo. - Di lei. Parleremo di lavoro - aggiunge prudente - e d’altre cose. - - Va bene. Ho bisogno di soldi. Che vuole. Per i peccati. Posso sa- lire in barca? Mi sto ammollando. - Jean Paul acconsente; in un istante si sente travolgere. Si pente di avere acconsentito; lo guarda interdetto: Loredito è nudo, al naturale,

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dalla cuffia ai piedi. Così conciato, assomiglia a un personaggio uscito da uno dei rilievi scolpiti negli ipogei di Tierradentro. Gli ricorda la statua regalata dal russo a Clara. Pare un’ambigua divinità discendente da un demonio: scroto e pene, astrusi e alieni alla sua condizione, se- gano uno scambio tra il naturale e l’innaturale. L’ermafrodita diviene magico nell’amplesso, non bisognoso della purificazione solare e per- tanto terrificante. Avrà una quarantina d’anni. - Maledizione! - esclama all’inatteso spettacolo. - Calma, santità. Non sono scandaloso - smorza l’altro esaltato dalla sua stessa audacia. - Mi pare turbato. Avanti, quanto mi paga? - Jean Paul si riprende dalla meraviglia. Potrà essergli utile quel per- sonaggio? Si anima e va sull’obiettivo: - Del lavoro e del denaro le spiegherò dopo. Mi spieghi un rompi- capo. Ho trovato, sull’Ercules, dei rimasugli di coca. Tra le parti di ricambio, in un barattolo che fu della 416. Mi darebbe chiarimenti? - - Ahi a me - si lamenta Loredito - me ne ero scordato. Del barat- tolo. - Si leva la cuffia e scompone una massa di capelli tinti di giallo fino alle punte. - Era proprio l’ultimo flaconcino; quasi vuotato. Con dentro un poco di cocaina. Non l’ha leccato? - - Era già leccato. Non si disperi - dice Jean Paul, fissando allibito il tipo beffardo. - È irriconoscente, capitano. Lascio una caldaia in perfetto stato, su un rimorchiante rugginoso e lei mi aggredisce con grugniti. - Parla con un’ebbrezza illogica che stupisce il capitano. - Sono un uomo onesto. Chieda in giro, al sarto arabo. Anche lei è suo cliente. Ero sull’Ercules. Che cosa crede, che mi sia divertito su quel trabiccolo? Ci sono stato per quindici anni. Mi ci sono rovinato le mani e le un- ghie dei piedi. Nessuna liquidazione, perché l’armatore s’è suicidato. - - Ricorda in che modo il barattolo giunse sul rimorchiatore? - - Aspetti, santità. Preso in mare, assieme a molti altri. Nei paraggi della torpediniera incagliata la notte di san Giovanni. - - La comandavo con chiaro intento - dice Jean Paul con parole nette. - Le navi affondano se le carte di navigazione sono fasulle. -

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- La manna cadde dalla 416. Di coca ne avevo bisogno. Non ho la memoria corta. Era infilata in un banco di corallo. Venimmo noi con l’Ercules per tirarla via. Ero d’ampie vedute, un fuochista bellissimo. Illuso. Mi avesse visto prima di cedere alla lusinga della cocaina. - L’uomo nota l’espressione di sgomento del capitano. - Giunse la guardia costiera per ispezionarvi. Vero, santità? - - Lei parla in un modo che irrita. Si rende conto? - - Noi del rimorchiatore levammo la cocaina dal mare. Perché vie- ne a farmi domande senza senso? Era nascosta tra scatole di sigari e preservativi per i marinaretti. - Jean Paul sostiene con coraggio lo sguardo lampeggiante del nudi- sta che parla sfacciatamente, a proprio agio benché esponga all’aria la sua natura cruda. - Che altro? - gli domanda il capitano stupito, sentendo una con- trazione allo stomaco. - Lei mi pare informato di cose che ignoro. - - Quando con l’Ercules uscimmo da Puerto Colombia, c’era la guardia costiera. Cercava qualcosa. Lo capii all’alba, quando assaggiai la polverina caduta dalla 416. Fu una fortuna. Che feste organizzai. - Jean Paul corruga la fronte. Loredito ha ragione: lui era l’esca, un richiamo, un lasciapassare per il Neptune che doveva filare indistur- bato. Nelsen era l’ufficiale che autorizzava e controllava i rifornimenti alle torpediniere in partenza per le missioni. Solo lui poteva fare gio- chi di prestigio e sostituire parte del materiale da inviare a bordo. - Da non credere - commenta con tono freddo - ci si scoppia con un barattolo di cocaina. In ogni modo, lei mi ha fornito una spiega- zione. Le sono riconoscente. L’incontro sfiora il paradosso. Al capitano piacerebbe mettere allo scoperto il burattinaio che tenta di incastrare i capitani. Percepisce che gli stravizi del fuochista con i suoi amici potrebbero essere meta- fore: non è un trafficante. È sufficiente per metterlo in prova alla piantagione. Loredito espone un’esagerata miscela di effeminatezza e machismo latino che si agglutina nel trionfo di un’omosessualità aggres- siva. Jean Paul si domanda per opera di quale artificio un uomo potrebbe innamorarsi di quel tipo ma dalla mente

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l’interrogativo che resta senza risposta, uguale al motivo del nudismo che in qualche punto solletica la mente del fuochista. - Le offro lavoro. Ho comprato la Cornovaglia per mantecare le drupe. Si sta ultimando il montaggio. - - La Cornovaglia ha l’età che ha. - - Doppio salario. Per un anno. - - Generoso, santità. - - Mi spiega perché continua a dirmi santità? - - Perché con quella bella faccia da pretino, la nominerei papa. - - Papa o vescovo, non mi piacerebbe che qualcuno si facesse del male. All’Idumea tutto dovrà andare liscio. - Jean Paul trova la forza di sorridere. - Cerchi di lavorare sodo. - - Capitano, supposi che un giorno qualcuno mi avrebbe chiesto spiegazioni riguardo alla notte di san Giovanni. Perciò ho conservato l’ultimo barattolo. Seppi del suo mezzo dito saltato durante il rimor- chio. Se fossi stato Gesù, glielo avrei riattaccato. - - Quello non lo recuperò, per caso? - domanda Jean Paul con a- mara ironia. - C’erano i pescecani. Fu uno stuzzichino. - Il capitano si strofina le mani alcuni istanti, mentre un’idea scorre nella sua mente. Ha una seconda richiesta da fare al fuochista. Solleva il mento. - Testimonierebbe per me? In caso denunciassi una persona. - - Una causa? Si rischia di essere impiombati. Qui non lasciano scelta. Un poverino fa dei nomi e non nomina più nessuno sulla terra. - - Decida con calma. Potrei ottenere un risarcimento e un terzo glielo cederei. Ha bisogno di soldi, no? - - Mi dia tempo santità. - Gli occhi di Loredito spaziano per la spiaggia vicina. La corrente sospinge la barca. - Lo sa che questo è il miglior posto del mondo? Qui non ci sono regole moralizzatrici. - L’impressione di Jean Paul è di cavalcare una tigre. Ha gli occhi azzurri inumiditi. Prova una soddisfazione vetrosa che gli mette i bri- vidi. Se il tipo accetterà di testimoniare, sarà di aiuto per stabilire la

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chiarezza. L’ambiguità è disumana, eppure è presente in molti posti. Il dottor Lobo, suo socio, chiamando in ballo il DNA, affermerebbe che l’agire dei cocainomani dipende dalla naturale reazione chimica disciolta nel sangue dopo la sniffata della polverina. - Il lavoro comincerà domani. Si rivolga a Camillo, l’incaricato, per ogni necessità di utensili. Ci vediamo alla piantagione. Idumea. Ha modo di arrivare lassù? - s’informa il capitano annotandogli il numero del lotto e la posizione. - Ho una Vespa. - - Con la nebbia il sentiero si fa pericoloso. Resti sobrio. Conto sul- la sua franchezza anche dinanzi alla Cornovaglia. - - Sarò vestito. - Jean Paul orienta la barca e accompagna l’uomo nei pressi della spiaggia. Il pietrisco caduto da una sporgenza della parete occlude una caletta. Lo scruta scendere a terra con le parti maschili penzoloni: una statua con l’eros cristallizzato. La figura diviene ridottissima sotto il costone. Da là agita una mano in segno di saluto. Il giorno successivo il capitano entra di nuovo nella capitaneria di- staccata. Fa un muto commento sulla burocrazia superflua. “Quanta carta per cambiare il nome a una barca.” Va diretto all’ufficio navale. La faccia del sottufficiale pare tagliata nella cera. Il ciondolo d’oro continua a penzolargli dal collo equino mentre porge una frase che Jean Paul stenta a giustificare: - Bisogna ristazzare. Ricalcolare i volumi interni. - Non ne vedo la necessità - dice il capitano. - Si devono stabilire di nuovo i metri cubi della barca. - - Starà scherzando. Ciò è illogico. - - Regolamento. - - Fatto da chi? - - Dall’ammiraglio Nelsen. - - Non ristazzo nulla - protesta Jean Paul, irritato, al sentire la pro- posta. - È fuori regola. Non è una nave mercantile. - - Non potrà avere i documenti. - - Che gli salta sul naso a Nelsen? -

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- Lo chiami al dipartimento. Al numero diretto. - Il capitano soffoca la stizza. Quella è una provocazione. Chiede al sottufficiale di poter usare il telefono. Il centralino militare, dopo al- cuni tentativi, lo collega all’ufficio dell’ammiraglio. - Capitano Carrera… Carrera - ripete Nelsen con un tono melli- fluo che pare di giubilo. - Che piacere risentirla. Mi domandavo dove fosse. So che lasciò il Karolina. E in che mani. Che mani. - - Sono un uomo di città, ammiraglio - dice Jean Paul notando che la voce dell’altro reca una forma di auto compiacimento mentre ha il vezzo di ripetere l’ultima parola, quasi soffrisse di anadiplosi logorroi- ca. - A bordo molti sacrifici, scarse gratifiche. A Barranquilla, la vita di una persona è più regolare e organizzabile. - - In marina non mancano i brutti momenti. Vi siamo sottoposti. Il regolamento impone che gli errori si paghino di persona. Il marinaio attento non si rompe il mento - rima il militare tronfio. - Risposi tempo fa a una sua segnalazione sul disservizio creato dalla sabbia all’imbocco del Rio Maddalena - mente Nelsen. - Lei non apparve. Seppi del nuovo capitano, quel tedesco testardo che infilò il Karolina nella fanghiglia della foce. Lei a che cosa si dedica adesso? - - Piantagioni. Palma. La regina africana. - - Le occorre gente con l’occhio attento, abile a scoprire i parassiti che potrebbero uccidere le palme. Ad esempio il verme della palma. Micidiale. Una larva micidiale se attaccasse senza essere scoperta. - - Terrò in conto il suggerimento. Lei aspira a divenire il prossimo capo di stato maggiore? - - Non ci penso. Anch’io non vedo il momento di lasciare il servi- zio e ritirarmi per godere la pensione. In pensione a Madrid. - - Non avrei scommesso sul suo rifiuto a un incarico superiore. - - No, signor Carrera. Entro l’anno sarò lontano. Natura e costume da bagno. Corride e flamenco. Intendo spassarmela. - - Le faccio gli auguri anticipati - dice Jean Paul meravigliato dalla decisione del Corsaro, un uomo soggiogato dal potere del grado. - La ringrazio. -

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Jean Paul lo placca. Gli espone quanto succede con la barca. Le ri- chieste del sergente sono esagerate e inutili. L’altro possiede la capacità di afferrare al volo la situazione. - Capitano Carrera, sono inezie burocratiche. Lei sa meglio di me cosa tocca a noi militari. Venga a trovarmi tra qualche giorno. Ci salu- teremo e le consegnerò di persona i documenti aggiornati. Mi passi il nostromo. - Jean Paul offre la cornetta al sottufficiale, che si alza dalla sedia, quasi temendo che Nelsen arrivi a vederlo seduto allo scrittoio. - Sì signore, sarà fatto, certo. - Riaggancia; si rivolge a Jean Paul con aria ammorbidita e resta in piedi. - Capitano, l’ammiraglio la a- spetta al dipartimento centrale per il ritiro dei documenti. Usi la barca nel golfo. Le consegno un permesso provvisorio. - Jean Paul prende i fogli dell’abilitazione. Esce livido dall’ufficio. Farebbe volentieri a meno di parlare a Nelsen che ha una coscienza anticipatoria del male. Per qualche motivo avrà ostacolato il rinnovo della matricola. Quando giunge alla piantagione, la rabbia svanisce. La frutta in arrivo dal palmeto è lucida, di un violento riflesso sanguigno. Si accumula su un’ara. Forma alte pilate gocciolanti umori oleosi. Camillo gli mostra lo scavo per la nuova cisterna d’acqua, capiente per le necessità della stagione. Vanno alla costruzione in cui gli operai hanno montato la Cornovaglia. Poggiata sul basamento, pare un mo- numento al fuoco. Il tetto di lamiera zincata contribuisce ad alzare la temperatura. Loredito ha iniziato il lavoro. Prepara i focolari ed è su- dato e arrossato. È vestito di modo eccentrico: camicia rossa e pantaloni gialli, inadatti nel posto untuoso. Si muove con gentilezza femminea, estranea al locale surriscaldato e puzzolente di nafta. Gli ordini che dà agli aiutanti, impartiti con un tono acuto, non ammet- tono repliche. Il capitano gli suggerisce di far sigillare gli spazi tra le travi del tetto, per non lasciare spazio ai pipistrelli. Gli escrementi comprometterebbero la frutta. Gli ricorda d’istruire i manovali affin- ché tingano i locali con antimuffa. Si dovranno anche aggiungere delle rotaie per abboccare i carrelli colmi dall’area d’ammasso al frantoio.

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- Loredito, stasera al bar ci sarà da bere per tutti - annuncia. - Or- ganizza gli uomini affinché siano lì alle otto. - - Ci saremo. - Il fuochista si netta le mani con uno straccio. - Vor- rei dirle che ho riflettuto sulla sua proposta. Accetto di testimoniare per lei, in quella strana causa. Purché ci sia un ritorno per me. - Jean Paul lo guarda perplesso. Riconosce che la logica del tipo è lineare e variopinta. - Ti ringrazio. Avrai il dovuto. - Un’operaia che ha spaccato un cocco gli va incontro e gli offre da bere l’acqua della noce. Lui accetta con gratitudine. Ha la gola secca. Il calore emesso dalla caldaia è prepotente.

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L’ascensore si ferma al secondo piano dell’edificio, dove abita Ro- sa. L’ammiraglio si presenta all’uscio sollevando il fascio di rose gialle. Ha scelto fiori di quel colore perché con la luce uggiosa del mattino s’intonano con la sua uniforme bianca. La donna apre la porta in ve- staglia e lo fa entrare con un’esclamazione: - Ola, papito, che meraviglia - dice accogliendo sul seno il mazzo di fiori. - Mettiti comodo. Che cosa posso offrirti? - - Qualcosa di leggero, con ghiaccio - suggerisce il marinaio oc- chieggiando la stanza alla ricerca della valigetta. - Kris ti fa ancora delle visite? - domanda andando nel divano. - Sei geloso? - lo interroga lei prendendo ghiaccio dal frigo, dopo di avere messo le rose in un vaso. - Cioccolatino, ci vuole altro per ingelosirmi. Ingelosirmi. Il pelato americano non mi scompone… Tra poco sarà il tuo compleanno. Meriti qualcosa di esclusivo. Andremo a pranzo sulla Queen Mary. - Lavoro per te da quattro anni e non sono salita neppure su una chiatta di servizio nel porto. Porge il bicchiere colmo di ghiaccio, gin, soda e limone. - Nella giornata sarai soddisfatta. Non mi fai compagnia? - - Ho bevuto troppo champagne, ultimamente. - - Non ti costringerò ad altre missioni speciali. Promesso. - L’ammiraglio fa emergere una scatola legata con un fiocco e la consegna a Rosa che inizia a slegare il nastrino con un’espressione d’infantile attesa. Sgrana gli occhi quando vede brillare una coppia d’orecchini lavorati in filigrana d’oro e con rubini grandi quanto chic- chi di riso. - Oh, papito, che gusto sensibile. - Gli si appende al collo e lo bacia lasciando scivolare la vestaglia di seta. Ride cicolando nell’attimo che scopre i denti stretti e allineati e gli siede sulle gambe facendolo affondare ancor più nel divano. Nel- sen la stringe permettendo alla divisa di sgualcirsi. Lo sta mordendo

sul collo. L’ufficiale non scorda il motivo della visita: svelare a Rosa il contenuto della valigetta. - Rosita, ecco l’assegno per le tue spese - la avvisa poggiando il fo- glietto rettangolare sul tavolino del ridotto salotto. - Fa il favore, prendi la valigetta. - - Adesso no, papito. - - Adesso, birichina. - Peña Rosa va in camera, si china, scopre le natiche e sfila da sotto il letto la borsa di cuoio. Ritorna trattenendola. - Cara piccina - tenta di spiegarle l’ammiraglio - qui non ci sono documenti. C’è il futuro. - La segretaria lo sbircia con aria offesa. - Mi hai mentito - si lamenta restando in piedi e mezza nuda. - Voglio che tu sia con me fino in fondo. - - Papito, non ti capisco. - - Non ti racconto bugie. Ti faccio vedere. - L’ammiraglio dispiega un foglietto. Vi sono annotati i due codici. Li compone e le serrature si aprono con scatti differenti. Solleva il coperchio e appaiono, allineate, invitanti mazzette di dollari verdi che profumano di filigrana e inchiostro. Nelsen nota che dei tipi di carta appena stampata, hanno stesso odore: dollari e bibbie. - Oh, cielo! - esclama la donna. - Sono per il mio compleanno? - miagola accarezzandoli con una mossa furtiva. - No, tesorino. Questi li portò Kris, per la causa. - - Sono così carini. Pensi che l’americano ne porterà altri? - - Potrebbe essere stato il suo ultimo viaggio. - L’ammiraglio tace un istante cogliendo l’illuminazione. - Questi soldini li terrai in custo- dia. Prendo la valigetta vuota per una modifica e tu conservi i figlioletti verdi. Intendi cioccolatino? - - Non dire altro, papito. La tua micia si trasformerà in barboncina da guardia. Adesso andiamo di là? Sei disposto ad attraversare l’oceano del lettone psichedelico - lo invita iniziando a sbottonargli la giacca. - Perché non ne mettiamo un po’ sparsi? Non ti frusta l’idea di stenderti su un prato di dollari? -

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- Possibile che non abbia ritegno? Mettere le natiche sull’effigie di Franklin. Franklin. - - Non morde, papito. - Così, centomila dollari fanno da lenzuolo, stropicciati dal peso dell’ammiraglio che soccombe alle cure di Rosa.

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Una mattina Jean Paul informa Clara che essendo bel tempo si può provare la barca. La brezza leggera è adatta a gonfiare d’impulso le vele, senza inclinazioni eccessive del piccolo vascello. Giungono al molo e scorgono Pablo seduto con i piedi penzoloni sull’acqua e ac- canto il bastardino. Il capitano lo chiama e lo invita a bordo, interdicendo il passo al cane: non è ammesso. Vuole provare lo spiri- to d’ubbidienza del ragazzo e scoprire che effetto sortisce su di lui il rollio durante la navigazione che faranno poco distante da terra. - E se scappa? - si domanda il neretto. - Ti aspetterà se ti vuole bene. Ha l’espressione sveglia. Lascia le scarpe vicino alla bitta, così scoprirai che tipo di cane hai scelto e se custodisce le tue cose. - Jean Paul dispone la passerella per un accesso comodo e dà passo a Clara che protegge i piedi dentro stivaletti di gomma bianca. Poi apre i boccaporti e appronta la barca. Dispone l’equipaggio per molla- re le cime; scosta dal molo mandando la prora verso la bocca del riparo navale e poi al largo. Chiama il ragazzo e gli affida il timone. - Sarai capace di mantenere la rotta mentre sistemo le vele. Né di qua né di là. Punta dritto sulla nuvola che ci precede. Là innanzi. - Va alla base dell’albero, issa le vele, prima il fiocco, poi la randa su cui spicca il numero blu della matricola. Ritorna nel pozzetto dei co- mandi, tende le cime annodate agli angoli delle vele, verso l’interno della barca. Il vento le gonfia all’esterno, avviando la navigazione. Solo un rumore d’acqua accompagna l’imbarcazione. Pablo sente il braccio fremere nella presa del timone. Impara a contrastare la volon- tà della prora di andarsene da una parte. Prova la soddisfatta felicità di riuscire in un compito che ignorava. - Vai benone - lo incoraggia il capitano prima di calarsi sottoco- perta per scaldare il tè e spalmare le gallette con burro salato. La barca aumenta in velocità. Qualche spruzzo cade all’interno e bagna i passeggeri facendoli ridere. Sono lontani dalla costa. I delfini

si avvicinano con le pinne all’aria e suscitano le grida del ragazzo che trasale di gioia vedendo i loro giochi, gli archi, i tuffi, gli scarti di lato. - Occhio alla rotta - lo richiama Jean Paul dal basso - non distrarti. Rimettiti verso la nuvola guida. Il timoniere imberbe guarda innanzi; si accorge che non sta pun- tando la nuvola che lo orientava. Corregge la linea. Si domanda come abbia fatto il capitano ad accorgersene da dentro la barca. Jean Paul risale in coperta reggendo il vassoio. Prima di sorseggiare il tè, gli ba- sta un’occhiata per comunicare a Clara un’opinione: il neretto è felice. - Cosa sei in grado di distinguere? - domanda Jean al ragazzo. - Il mare. - - Che rumori senti? - - L’acqua che frigge, il vento, il rumore delle vele. - - Ora sposta il timone di qualche grado. Basta. Adesso dimmi dei rumori. Sono gli stessi? - - Sono cambiati, capitano. Il rumore è più forte. - - Bene, rimettiti, ora, da un lato, così, bravo. - Pablo ha capito il messaggio. Capitan marino ascolta il rumore e si accorge quando la barca sta andando, ubbidiente, verso il punto pre- scelto. Presto, anche lui diverrà abile a capire i segnali e non andrà da un lato. Peccato che Pamela non sia là. Si sarebbe divertita, n’è certo. Le avrebbe raccontato di avere guidato una barca grande e imparato a tenere il timone. Nord, Sud, Est, Ovest. Il Venezuela lo trovi andan- do verso Est. Panama la incontri andando verso Ovest. Ha ascoltato la lezione sulla bussola e imparato i quattro punti cardinali. - Signore - domanda a un tratto - i ragazzi, anziché scappare nella strada, non hanno un altro posto? - Clara e Jean Paul si guardano per suggerirsi un preambolo adatto alla situazione. Una risposta d’aiuto, più che consolatoria, è necessa- ria. La difficoltà sta nel trovare le parole. Gli adulti conoscono i sensi di colpa della gente. Le parole adatte a spiegarglieli non vengono in modo naturale; né esiste un testo di sociologia, o politico, scritto con l’ottica infantile, capace di convincere un cuoricino in affanno che la strada non è migliore della famiglia.

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- Un giorno, quando avevo la tua età - inizia a raccontare Jean Paul lasciando Pablo alla ruota - mio padre me le diede per un sano motivo. Incenerii dei documenti che arrotolai per farne una torcia fumosa. Sognavo d’essere esploratore e scendevo nelle cantine buie in cerca di tesori creati dalla mia fantasia. Scappai da casa e portai via una mezza pentola di riso che riposava sul fornello. Era destinato al nostro cane. Tira petardi, un setter, bianco a macchie color tabacco. Vecchio, fiero, che doveva mangiar riso perché soffriva di flatulenza canina. Tirava scoregge. Durante il giorno da fuggitivo consumai i viveri tolti al cane: mi vergognai di essermene appropriato. Giunta la sera cominciai a grattare la pentola. Quando la città s’illuminò, cercai un posto sicuro per la notte. Il parco mi rassicurava perché mio padre mi ci portava spesso. C’erano molti nascondigli ed era facile non farsi notare. Sedetti in un cerchio di palme nane, sotto un monumento che rappresentava un personaggio dall’aria seria. Aveva stivali enormi. I lustrascarpe, all’inizio della giornata, per scaramanzia, li lucidavano. Li indossava il savio José Caldas, un botanico che amava le stelle e i pia- neti. Le ore passavano e la notte avanzava, mentre il traffico cittadino scemava. Una sensazione di disagio mi giunse prima del sonno. Era la nostalgia di mia madre. Il marmo del monumento dove mi ero disteso era freddo. Il torpore mi avvolse e mi addormentai. Al risveglio, nella penombra, vidi la sagoma familiare del cane accucciato nei pressi del lettino. Qualcuno aveva interrotto l’evasione riconducendomi a casa mentre dormivo. Non mi recai a scuola, mi trastullai l’intera giornata da una stanza all’altra, tormentando il cane d’indole paziente. Mia madre continuava le faccende; mi passava accanto e mi sfiorava la testa con una mano. Per il resto, silenzio. Non preparò il pranzo. Tra- scorse il pomeriggio e si avvicinò l’ora del ritorno di mio padre. Mamma aveva cotto una pentola di riso per cani. La cosa m’incuriosì. Tira Petardi, possibile che avesse tanta fame? Quando tornò mio pa- dre, entrò in cucina e bevve un bicchiere d’acqua. Prima di ritirarsi in camera mi annunciò che il riso era per me e per Tira Petardi. Nel caso volessi andare via, dovevo portare anche il cane. Massima libertà, fi- gliolo, mi disse, però starai al gioco della nostra famiglia. Diedi da

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mangiare al cane. Mentre il peloso animale ingoiava il riso, capii che avevo infranto una regola. Andai a letto digiuno e la mattina seguente mi alzai presto. Papà non era in collera con me. Voleva che fossi giu- dizioso e vincessi l’impulsività. I documenti che avevo bruciato erano i fogli del rogito di una fattoria. Il notaio era stato ucciso. Ciò costi- tuiva un impiccio da risolvere, non con la resurrezione del povero notaio, con la ricostruzione del rogito e sarebbe costato denaro. Mi ripromisi d’essere più attento. - Jean Paul smette di parlare. Aiuta il timoniere. - Hai imparato a tenere il vento. Ora t’insegno a cambiare le vele. Il vento lo assecondiamo assieme. Ti sei accorto che il vento sta scemando? Portami il sacco… Ecco, togli i ganci vecchi e chiudici i nuovi, qua, sullo strallo. Adesso alza la vela. Mettici forza. - Vanno a zig zag. Prima del tramonto la barca è condotta verso il porto. Il monello ha deciso che diventerà un marinaio, viaggerà per il mondo da nord a sud. Ora sa leggere la bussola. Non è vero che si trasformerà in un povero alcolizzato. La madre si è sbagliata e lui vuole imparare. Non starà in casa a sorvegliare le sorelle, o nella stra- da a vendere stupido cocco. Si ricorda del cagnolino lasciato sul molo. La sua espressione diviene di nuovo triste. Giunti alla banchina, corre a cercare Bolivar. La bestia non si è allontanata. Sta accucciata nei pressi del cancello. Vanno via, ragazzo e cane, senza voltarsi. - Clara, credi che resterà nella strada? - domanda Jean Paul. - Dipende da quanto sei stato convincente. Non mi avevi svelato la tua fuga da casa. In che modo si risolvette la perdita del rogito? - - Il notaio non aveva versato l’imposta agli uffici del catasto. Toc- cò ripagare la tassa. Papà la considerò un omaggio alla memoria. - Pablo, intanto, è corso alla capannuccia di Pamela, tra le canne che crescono sull’argine di un torrente che raccoglie i liquami del quartiere cresciuto senza regola. All’interno distingue a malapena i corpi, uno accanto all’altro, dei ragazzi addormentati. - Pamela, sono io - la chiama trattenendo la bestiola. - Pabbito, non sono riuscita a trovarti. Dove dormi ora? - gli do- manda offrendogli una succosa arancia uscendo all’aperto. - La signora mi permette di restare nel ripostiglio del museo. -

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- Se vieni con noi, mangiamo mattina e sera. Troviamo il necessa- rio. - Gli sguardi di lei sono spenti. - Pamela, sai che mi fa tenere il timone? Sono andato in mezzo al mare. La terra si vedeva appena. So il Nord e il Sud. - - Non credo ai grandi. Uno mi dice che mi vuole bene, poi mette le mani addosso, ma io scappo. Ti darà alla polizia. Stai attento. - - Ti sbagli. Ti ho portato le sue gallette. Mangiale, così ti torna l’occhio dritto. Sei magra. - Il ragazzo si sbottona la camicia e caccia un pacco di biscotti. Li consegna all’amichetta. Il cagnolino corre verso il canneto, incurante dei richiami del padroncino. I due ragazzi lo seguono. - Non posso portarlo sulla barca - dice Pablito. - Se lo tieni con te, ti darò il mangiare per farlo crescere. - Pablo sfiora il visino della ragazza e per la prima volta conosce la morbidezza di una guancia diversa dalla sua. Siedono al limite del canneto. Odono i rombi dei motori delle auto che sfrecciano poco lontano. Gli occhietti neri e storti di lei si riempiono di lacrime: una piacevole sensazione cancella il gelo che la invade dopo che ha aspira- to la colla. Lei cerca il contatto fisico con un sorriso di timida approvazione. Comincia a sussurrargli il canto dei grilli e il suo ami- chetto ride. Lei gli regala un sentimento: la tenerezza. In Pablo cresce uno strano turbamento. Scopre nello sguardo della neretta una luce intensa. Ne avrebbe provato timore senza il sorriso addolcito che lei gli mette innanzi. Si abbracciano. Ridono e si fanno il solletico. Il ragazzo le lascia Bolivar con qualche raccomandazione e attra- versa il fitto canneto che si estende fino ai lati di una strada. Pamela resta seduta in terra, delusa. A lei è preclusa ogni sensazione invidiabi- le. Non sa che le uniche che ha provato sono una forma di dolore proveniente dall’umiliazione costante, dall’abbandono materno. Ha un prurito alla gola: sono le lacrime che ingoia per una forza residua. Lei ha insegnato a Pablito a starle accanto. Alza il dorso della mano al naso e lo asciuga. Si sente sola e infelice.

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Jean Paul si sveglia abbracciato a Clara. Il cielo è grigiastro. Se non migliorerà, sarà un matrimonio bagnato. Guarda in giro. La camera è piena di regali di nozze. In settimana sono giunti i servizi di limoge e le posate. Santiago ha mandato un quadro, un’opera naif: frutta tropi- cale in un vassoio e sotto gli occhi di una nera con un corpo da Venere. Il significato è ammiccante. La figura è ritratta nuda. Nel ful- gore giovanile, i seni gonfi sono tesi in avanti e su, le natiche sono tonde, prominenti, il pettignone rasato, sfumato da abili velature che creano una sensuale dissolvenza in cui l’evento da ammirare è in pri- ma istanza la naturalezza della frutta esotica matura. A Clara piace, di mattino, osservare dai vetri i pellicani che lascia- no con volo pigro la spiaggia. Questa volta vi getta appena uno sguardo. Inizia a prepararsi per la cerimonia civile, organizzata in an- ticipo su quella religiosa per rispettare le norme dell’istituto del benestare familiare al quale hanno presentato la richiesta di affida- mento del piccolo Pablo. Fatta una veloce colazione, prepara il tailleur di velluto bianco, sistema i capelli neri ravvivando le morbide pieghe che il parrucchiere ha creato la sera precedente e chiude intor- no al collo un doppio filo di perle nere. Mostra la leggera tensione prodotta dalle decisioni irreversibili, affiderà la vita a Ji Pi, ma è pia- cevolmente emozionata da quanto sta per accadere. Si presentano in municipio con qualche minuto di ritardo e trova- no gli amici ad attenderli. Santiago ha un abito elegante, cucito da Omar e ha sul naso degli occhiali con montatura di tartaruga. Sfoggia un papillon ricamato con fili d’argento. È il primo testimone. Melania, magra e biondina, più carina con un civettuolo chignon, inaugura un vestito azzurro, lungo e aderente, con uno spacco di lato che scopre le gambe ossute. È la seconda testimone. Angelica, sfavillante e pro- sperosa, si presenta con il suo uomo, un omaccione sorridente, veterinario, con i capelli biondi corti a spazzola. Il dottor Lobo de Miranda, elegante nel vestito in tinta unita, senza Lulù, con il bastone

dal pomo argentato, una cravatta con disegni comprensibili, si avvici- na a Clara. Le consegna un astuccio con inalterabile compostezza. Riceve un bacio. Nella sala dei matrimoni, i registri sono aperti sul tavolo, accanto a un fascio di rose donato dal sindaco. Il vessillo municipale con le torri e gli allori ricamati in oro è infilato in un sostegno del muro. Al cen- tro della parete due ganci sostengono il peso della cornice laccata che presenta Bolivar dinanzi ai rappresentanti dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, essendo completata la cacciata degli spagnoli. Il sindaco riceve da Melania le vere regalate da Santiago. Dopo le previste domande, ricordati i doveri, recita la formula di rito e si con- gratula con gli sposi. I testimoni appongono le firme. Accenna al cameriere, in piedi presso il buffet, di aprire lo spumante (anche que- sto è un suo dono). Clara raccoglie le rose e a quel punto i presenti la circondano per baciarla. La prima è Melania, con il rimmel che le sci- vola da un occhio: “Clarita, che spettacolo, ti vedessi.” Poi, Angelica: “Vorrei essere al tuo posto.” Segue Santiago: “Vedrai che sarete feli- ci.” Infine il medico: “Cara figliola, i tuoi amminoacidi sono perfetti e questa è una settimana da consumare per concepire. Non c’è ombra di dubbio. Eh. Siete una bella coppia.” Batte su un braccio di Jean Paul, che coglie, in quel momento, lo stesso lampo verde negli occhi di Lobo de Miranda e in quelli di Clara. Sussulta. Ecco il particolare sfuggente che, dal loro incontro, l’ha incuriosito. Il sindaco invita al brindisi. - Spero vorrete dei figli - dice sollevando il bicchiere. - Ci proveremo - risponde Clara strizzando l’occhio. - Voteranno per me, suppongo - dice il cittadino scherzando. Terminato il rinfresco, gli invitati lasciano il municipio. Ha smesso di piovigginare. Santiago e Melania si avviano sottobraccio. Si ritrove- ranno tutti nel ristorante vicino al mare. Il pranzo è alla carta, mentre la torta è un dono delle amiche di Clara. - Consiglio aragosta in guazza di mango e noci - suggerisce una cameriera a Jean Paul. - Freschissima. -

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- Oggi no - risponde sollecito lo sposo, ricordando tutte quelle che gli ha venduto Pablo. - Preferisco carne alla brace. - Santiago è seduto di lato al capitano. Il dottore occupa il posto ac- canto a Clara. Le confessa il motivo per cui non si è sposato: la donna che amava lo piantò il giorno del matrimonio. L’uomo di Angelica, discreto, sollecitato da Melania, afferma che gli allevatori colombiani non si troveranno mai ad affrontare la mucca pazza. Le mandrie pa- scolano libere, un animale per ettaro, e mangiano erba. La chiacchierata si gonfia. Ogni colombiano, almeno una volta, ha sognato una fattoria con bestiame da crescere. Una vacca è un inve- stimento che rende più dei buoni del tesoro. Le vaste distese lussureggianti invitano a sfidare la natura triplicando le mandrie. Giunge il momento di tagliare la torta e Melania aiuta Clara a fare le parti. Le cameriere stappano lo champagne. Alla fine Angelica ac- cetta il bouquet di Clara e si stringe al veterinario meravigliato per la commozione che nasce nella sua donna. Gli sposi si congedano. Hanno in programma di assistere a un concerto. Il tempo è uggioso e umido. La foce del Rio Maddalena è offuscata dalla nebbiolina. Il Ka- rolina, ferito a morte, è appena visibile presso il tagliamare. Jean Paul guida l’auto e passa di fianco al cantiere navale. Uno sca- fo nuovo si sottopone alle saldatrici, sullo scalo più esterno. L’arco voltaico stacca dalle fiancate fiocchi di bengala che si spengono in mare. Una gru idraulica, ruotando il possente braccio, solleva una massiccia lamiera rettangolare. Raggiungono il teatro. Trovano una folla composta che assisterà al concerto di chitarra e arpa. I professori iniziano puntuali. Gli strumenti avvolgono note stregate; divengono medium del significato asemantico del pentagramma, laddove la mu- sica riesce a raccontare la foresta pluviale, la pianura, l’erba bruciata della savana. Un arpeggio crea lo spirito che unisce contadino e natu- ra; è l’idea del ruscello nella cordigliera, è un sipario di vapore sullo specchio di una laguna. Clara sente che la musica la acquieta e le per- mette di guardarsi da fuori, nel legame piacevole di corpo e anima. Un sordo boato scuote l’ambiente e stordisce le persone mentre il panico le pervade. Nasce la confusione. La gente fugge scomposta.

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L’esplosione è avvenuta nella strada, poco lontano dall’ingresso del teatro. All’esterno, una fiammata ha avvolto ignari passanti. Una don- na che friggeva focacce è volata con la sua misera cucina da campo. L’urto violento dell’aria ha rotto le vetrate delle case e la strada si riempie d’odore acre; poi di fumo, di grida e d’invocazioni. Jean Paul deglutisce, prima di capire la situazione intorno. Dà ri- paro a Clara, che si lascia sospingere verso un angolo, dove la pressione della folla cala. Un impiegato del teatro apre una porta po- steriore, quella riservata agli artisti. La giovane trema mentre il marito la sospinge. Escono sulla stradina che appare deserta. L’esplosione è avvenuta nella parallela. Su questa aleggia la polvere. In terra vi sono calcinacci, corpi immobili, vetri in frantumi. I gemiti dei feriti si odo- no in un silenzio irreale. Il capitano si accosta a una donna - a faccia in giù - per rigirarla. Ormai è in una pace scomposta. Lui prova un morso al petto e rimane fermo, senza sapere che fare, colto da repen- tina costernazione. “I terroristi vorrebbero avvilire il cuore della gente.” La strategia: giocano sull’effetto, sulla dissociazione, facendo della viltà la misura della statura. Annienterebbero la personalità, ma il loro fallimento si trasforma in assassinio, orgogliosi della meccanica fatalità di operare delitti che non saranno puniti per la loro invisibilità. Fanno sì che la tensione resti alta. L’orgasmo è al massimo contrap- ponendosi alla democrazia. Giungono le prime ambulanze e la polizia. Gli infermieri adagiano sulle lettighe i feriti gravi; i medici coprono i morti con dei lenzuoli che subito si macchiano. I due gio- vani si allontanano pieni di mestizia. Il dolore ha spento l’entusiasmo. Riprende la pioggia. Si affrettano verso un bar per lavarsi le mani. Chiedono un tè. Seduti, si comunicano cenni di sostegno. - La televisione comunicherà la notizia - la avvisa Jean Paul. - Tua madre sarà in pensiero. - - Informiamo anche Rafael. Sapeva che saremmo venuti a teatro. Tutto questo capita il giorno del nostro matrimonio. - Clara chiama prima la madre che si preoccupa e singhiozza, ce- dendo all’emozione. Lei riesce a rassicurarla. Jean Paul telefona a Santiago e gli fornisce i particolari che conoscono. Un fatto è certo:

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una pace mal posta con i produttori di cocaina è peggiore di qualun- que guerra. È sera quando ritrovano la completa calma. Il ritmo cittadino ha ripreso in modo regolare. Vanno verso il parco. Jean Paul passa il braccio sulla spalla di lei. Attraversano i cerchi arancioni ri- flessi dai lampioni sul viale bagnato. In alto, le foglie degli alberi, lucide, rilasciano un alone animato. Nell’ondeggiare delle luci, i busti marmorei degli eroi del passato assumono un aspetto sinistro, paiono fantasmi allineati lungo le aiuole. Nel viale passa una famiglia nume- rosa. Padre, madre, due femminucce al seguito; mentre sulla carrozzina, spinta dalla donna incinta, ci sono due maschietti svezzati. L’abbigliamento denuncia la provenienza dalle pianure. Ai piedi han- no sandali di corda. Emanano un’aureola campagnola che denota il recente arrivo in città. Sul padiglione di ghisa e vetro lavorato (una costruzione poliedrica usata per i concerti bandistici) si nota attività insolita. Due atleti pre- parano giochi inaspettati che, sopra di tutti, interessano i bambini. Attrezzano lo spettacolo, si allacciano le fusciacche di pelle, si vesto- no da mirmilloni dell’antica Roma, con panni ruvidi e tuniche orlate. Mostrano agilità e muscolatura adusta, dichiarando che il professioni- smo non è improvvisato. Le clamidi cadono dalle spalle innervate e toniche. Possiedono l’estetica che si riceve nel circo. Il più basso, massiccio, capelli ricci, carnagione bronzea, accende le fiaccole adatte all’occasione. L’altro, il gladiatore, slanciato, con un pizzo aguzzo, avvia da un registratore portatile l’inno nazionale, utile per enfatizzare l’azione. Affiancati, compiono il giro del gazebo; salutano prima di iniziare gli esercizi. Levano le clamidi e a torso nudo presentano gio- chi d’equilibrismo, capriole, acrobazie, una serie di figure a corpo libero che richiedono uno sforzo sostenuto col gonfiore delle vene. Strappano l’applauso finale. I bambini si arrampicano sulla pedana per consegnare i pesos offerti dai genitori. Gli sposi decidono di andare a cena. Conoscono un buon ristoran- te, rinomato per la cucina spagnola. Siedono in un angolo e attendono il cameriere. A quel punto, Clara si ricorda dell’astuccio con il regalo di nozze del dottore. Fa scorrere la cerniera della borset-

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ta e lo prende. Un anello di lucente bellezza è trattenuto nell’incavo di velluto nero che fodera l’astuccio di cuoio. Ha il lapislazzuli centrale circondato da una dozzina di brillanti. Lo osserva incuriosita. - Non credevo esistesse tanta generosità nel Lobo - dice Jean Paul. - Gli sei simpatica in modo particolare. - Clara lo passa nelle mani del marito. - Per un regalo del genere, non sarà fuori di senno? Ricordo una cosa - osserva lei toccandosi la fronte - mia madre ne ha uno simile. - - Una pietra dello stesso colore e uguale numero di rosette. Dodici. - - Sorprendente! - esclama lui. - C’è un bigliettino. Leggilo. - Clara stacca dalla scatolina un foglietto ripiegato. - Cara figliola - legge adagio per decifrare lo scritto minuto - quest’anello appartenne a mia madre. Ti andrà largo, perché le sue dita erano di una matrona spagnola. Un orefice lo adatterà senza dif- ficoltà. Vi faccio gli auguri di bene e di felicità. - Tacciono un istante prima di scambiarsi impressioni. - Il dottore non ha figli - commenta Clara soddisfatta del regalo. - Ha raccontato che non si sposò, per una delusione amorosa. - - Pene d’amore. Le ha avute anche lui? Non ci avrei giurato. Per- ché cedere un ricordo di famiglia? Non sta per morire. - Jean Paul prova una segreta simpatia per il vecchio lunatico, senza però spegnere la sensazione che quel gesto generoso sia calcolato. - Lo porterò in oreficeria affinché lo rimpiccoliscano - fa lei rimet- tendolo nella borsetta. - Ho il dito sottile. - I camerieri servono ai tavoli e la cucina guadagna l’approvazione dei pochi clienti, turisti, in maggioranza. Di solito, nell’ora del pranzo, il ristorante è invaso dal personale delle banche e degli uffici della zona. Di sera è più intimo. I due innamorati si sentono provati dalle emozioni della giornata. Nella dimensione della reciprocità che si concedono, scaricano la ten- sione. Ricompongono le continuità di una vita normale, dimenticando l’odio che gli assassini versano sulle persone felici o inoffensive.

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Il capo timoniere Armando Infante ha accettato di discutere con Jean Paul sui risvolti connessi con le rivelazioni di Loredito e che esi- gono una rivisitazione di lontani accadimenti. Abita dalle parti della laguna di acqua dolce e salata, dove crescono boschi di mangrovie sorvolati da flamencos rosa. Ha a disposizione uno dei cottage che la flotta assegna, a rotazione, al personale imbarcato. L’ha personalizza- to importandovi mobili e oggetti avuti dal recupero marittimo: comode sedie appartenute a una sala ufficiali, un mobile in mogano salvato dal Karolina inghiottito dal fango del fiume. Clara e il marito prendono un sentiero intagliato nella vegetazione. Poco lontano si ode il mare: quella mattina ronfa gonfio. L’aria è pe- netrante. Arrivano al cottage seguendo la numerazione della schiera. Armando, rannicchiato su una sedia a sdraio di tela colorata, in canot- tiera, ripara un aquilone. Vedendoli, lascia il lavoro e va ad aprire il cancelletto di legno che delimita un’aiuola quadrata, rallegrata da grandi fiori gialli. - Benvenuti in casa - scherza - si fa per dire. Lo chalet è del mini- stero e la corrente elettrica della marina. - - Il piacere è nostro - lo saluta Jean Paul, presentandogli la moglie. - Non hai timore che il Corsaro arrivi a toglierti questo privilegio, in caso sapesse del nostro incontro? - - Oh. Il Corsaro Nero - brontola il capo timoniere offrendo le se- die. - Adesso ha da fare con i pirati che risalgono il fiume fino a Mompós. Vi ci bolle la coca e lui non gli leva l’alito dal collo. - - Zelante il Corsaro. - - Nella base usano meno delicatezza. Davanti ci mettono brutti aggettivi. Non è simpatico. Vi preparo un caffè. Miscela di bordo. Va bene per lei, signora? - Clara acconsente. Armando prepara l’ampolla di vetro pirofilo in cui bollirà l’acqua. Sistema le tazzine e la zuccheriera. - Per lei, capitano, lo correggo con il rum. -

- Va bene - accetta Jean Paul mentre riconosce il mobile che tor- reggia nella piccola sala del cottage. - Questa credenza di mogano mi pare di averla già veduta. - - Presa dal Karolina. L’armatore ha rinunciato al disincaglio e ha richiesto il premio assicurativo. Gli uffici giudiziari stanno vendendo all’incanto tutto ciò che è salvabile. Dei pontoni sono legati al suo fianco per lo scarico del materiale salvabile. Lo scafo lo comprerà il cantiere delle demolizioni. Lo sezioneranno senza liberarlo dal fonda- le. La nave aveva una falla ed era allagata. - - Che sai del suo equipaggio? - - Sbarcò mesi fa. Noi, signore, quando incagliammo nel corallo, restammo al nostro posto. - - Eravamo militari. Ci restammo poche ore. L’Ercules ci liberò. - - Oggi le cose vanno diversamente - considera Armando filtrando il caffè nero. - Le navi insabbiate possono restare a marcire. - - Vorrei parlarti giusto della notte che incagliammo nel corallo - inizia Jean Paul sorseggiando. - C’è un barattolo irregolare di mezzo, con tracce di cocaina - chiarisce il capitano vedendo crescere lo stu- pore sul volto di Armando. - Tu avevi in carico i ricambi. Quale iter seguivi per le richieste di materiali necessari alla torpediniera? - - Modello cartaceo 416. Triplice copia, originale al magazzino del rifornimento, il foglio verde al comando, il foglio rosa agli atti di bor- do. La procedura solita - aggiunge sicuro il timoniere. - La ripeto sulla N17, alla lettera. - - Proprio sul vecchio Ercules ho trovato una delle confezioni de- stinate alla nostra unità. Cocaina al posto dell’alcol. - L’espressione di Armando si colora d’incredulità. - Non so che pensare - dice il maresciallo col bricco sospeso nell’aria. - Tutta la gente della 416 era onorata. - - C’era droga camuffata nelle scatole dei ricambi. A nostra insapu- ta le portavamo a spasso. Facevamo da esca. Ricordi l’ispezione della guardia costiera? - - Per Bacco barile - si corrode Armando. - Chi la mandò? Che dia- volo volevano da noi? - La bocca spalancata, l’uomo mostra i denti

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spezzati. - Modello 416, per le scorte - ripete ancora una volta, toc- candosi il neo. - Olio, grasso per giunti cardanici, pile per le torce d’emergenza. Incredibile. In condizioni normali, faccio ordini due volte l’anno. La spedizione, ancora oggi, è di quattro scatoloni. - Ha l’aria assorta, nello sforzo di memoria. Per lui non è facile allineare azioni lontane alcuni anni. Ha riempito montagne di moduli, prima d’ogni navigazione. - Di tutto resta una traccia. - - Credi che si potrebbe ottenere la copia dei vecchi modelli da te redatti? Hai conoscenze all’archivio dati storici? - - Un maresciallo furiere mio compagno. Però, per Bacco, ci fu qualcosa che mi parve strana. Peccato. Non vi detti peso. Ecco, capi- tano, per abitudine, ordinai quattro scatoloni. Ne inviarono otto. Il doppio. Che strano, mi dissi, dove li metto? Lei sa che il posto a bor- do è scarso. Solo per quattro scatole. - - Otto? - - Sì, signore. L’invio mi meravigliò, conoscendo la parsimonia del magazzino centrale. Non indagai. Ne fui felice e gli scatoloni in più li misi fuori del locale. - - Perché non mi avvisasti? - - Credetti che fosse un riguardo a lei. Si svenavano con tanta gene- rosità. Mai successo con altri capitani. - - Mi confermi che Nelsen autorizzava i rifornimenti navali? - - Certo. Allora era maggiore della commissione militare per l’aggiotaggio. Valutava le richieste di materiale. Sospendeva caffè e liquori per gli equipaggi indisciplinati. - - Ispezionasti le casse? - - Non trovai niente d’anormale. - - Sul fondo c’era cocaina. La inviarono apposta. - - Perché? - - La nostra missione era d’intercettare un cargo. Il Neptune. - - Sì, una carretta panamense. Capitava di incontrarla quando pat- tugliavamo il limite marino territoriale. - - Dopo l’incaglio ci mandarono addosso la Guardia Costiera. Una mossa preparata in anticipo. Se avessero trovato la cocaina, il pana-

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mense sarebbe sfilato indisturbato ed io in corte marziale. Le cose andarono in modo imprevisto. Saltò il piano ordito contro di me: al- leggerii la nave scaricando il peso in eccesso. - - Tutto a mare. Me lo ricordo, capitano. Acqua, scorte, e anche le scatole appena arrivate. L’incaglio danneggiava la barriera corallina. - - Non trovando nulla, si accontentarono di mettermi sotto inchie- sta. La marina doveva salvare la sua immagine. - Il timoniere caccia un pacchetto di sigarette. - La storia del barattolo non mi piace - mormora mantenendo ac- ceso l’accendisigaro a benzina dinanzi al naso, dopo avere acceso una sigaretta da cui aspira due tiri di fumo. - Sì. Il Neptune fu fermato e arrestarono il capitano, un corrotto di Panama. Da noi non trovarono nulla e bloccarono il cargo. Lei andò in ospedale per via del dito. Ma guarda che complicazione. - - Ho fatto analizzare i resti di cocaina. Provenienza panamense. - - Anche la coca del Neptune veniva da Panama - concorda il ti- moniere spegnendo la fiamma. - Chi portò il barattolo sull’Ercules? - - Un uomo che ora lavora nella mia piantagione. Faceva il mac- chinista sul rimorchiatore. Recuperò le scatole buttate in mare. Ha consumato la cocaina per uso, diciamo, ricreativo, con i suoi amici. L’ultima boccetta era una reliquia. Io l’ho trovata. - - Mai mi accadde un ciclone del genere. - - Mi piace la chiarezza. Vorrei il tuo appoggio in caso dovessi ave- re noie dall’ammiraglio. - - Conti su di me. Se mi levano il cottage, poco male. Credo che andrò in montagna il prossimo anno. Cercherò dai cataloghi i vecchi modelli di richiesta. Spero che siano di aiuto. - Armando desidera che il capitano si fermi da lui assieme alla mo- glie. Insiste affinché mangino un boccone. Ha catturato dei pesci. Vuole spiegare l’insolita pesca che fa con l’aquilone. Una semplice tecnica per catturare piccole prede. L’aquilone porta gli ami lontano e al morso del pesce vibra. - Poi, con una strattonata, si richiama l’aquilone ed è fatta. -

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Senza guardare l’ora, passa orgoglioso una bottiglia di sherry brandy inglese, ciliegie marasche, a Jean Paul, pregandolo di versare a Clara. Trattiene una sorta di pudore che non gli permette di riempire il bicchiere a una donna. È all’antica. Ritiene di offenderla. Non si è sposato. La sua idea è che un marinaio non sia capace di restare fede- le. Prepara il barbecue all’aperto. Quando la brace è rossiccia, va in cucina a prendere le spezie. Il capitano lo guarda pulire le sarde con il coltello e metterle sulla graticola. Mentre rigira i pesci, l’odore richia- ma un gatto rosso che, certo della benevolenza, si ferma sulla coda attorcigliata, a pochi metri, e si lecca il muso. Ha le orecchie tese al frisare della pelle cotta e rotta dal coltello che stacca le teste. Le riceve in regalo. Il timoniere dispone le porzioni su piatti decorati con anco- re azzurre. Mangiano con gusto, bevendo acqua minerale e, tra un boccone e l’altro, ricordano parti di vita comune, le lunghe navigazio- ni, le esercitazioni navali. Una volta inseguirono un sottomarino tascabile condotto da contrabbandieri per trasportare la droga. È sor- prendente l’agio mentale con cui riemergono i nomi e i volti dei compagni persi di vista. - Si ricorda di Casileño? Il cannoniere? - indica Armando. - Gli cominciava la nausea non appena si salpava. - - Certo. E Maria de Los Olivos? L’infermiera che pretendeva di fare visita igienica all’equipaggio due volte a settimana. - - Oh. Sì, capitano. Che supplizio. Tutti a mutande abbassate. - Jean Paul si felicita per il pranzo, ma Armando si schernisce di- cendo che a bordo s’impara un po’ di tutto: si lava, si cuce, si stira. Niente amore. Il regolamento vieta di avvicinarsi alle colleghe che hanno scelto l’imbarco. - La nave è una scuola per cuori solitari - aggiunge con un tono mesto che rivela l’amarezza di non potersi organizzare con una mo- glie. - Uno impara a sopravvivere - commenta terminando di preparare una leggera bevanda di gin, sherry e limone dolce. Chiede il permesso e poggia sul tavolo i bicchieri.

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Il maresciallo si accarezza il mento macchiato da una goccia d’alcol aromatizzato. Contrae l’espressione e la pressione della pelle crea delle rughe tra le sopracciglia arcuate. - Capitano, devo farle una confessione. La carta nautica della 416 la sottrassi dopo l’incaglio - mormora a voce bassa. - Non volevo che ci accusassero d’ignoranza delle segnalazioni. Mi resi conto che era manomessa e che la profondità dei fondali era errata. Temevo di complicare la nostra posizione e la nascosi. Gliela farò avere. - - Sei un demonio. Te ne sono grato - dice sollevato Jean Paul. Clara, che tutto il tempo ha ascoltato il dialogo, si alza quando i due si salutano con una stretta di mano, specchiandosi nelle rispettive speranze. Quando il maresciallo le fa un inchino ingessato, la giovane lo ringrazia con uno sguardo carico di dolcezza. Lei apprezza le ami- cizie ove i rischi sono comuni, scanditi da elementi che legano. Armando, rimasto solo, veste l’uniforme, serra il cottage e si reca alla base militare. La sua nave, la N17, sorveglierà le rotte solcate da navi sospettate di contrabbando. Gli resta qualche minuto per sorbire una tazza di menta. Ci sarà il trillare dei fischietti, i radaristi ai loro schermi, i cannonieri a rivedere i mortali gingilli, i motoristi a misura- re le pressioni. Va in plancia a sincerarsi che le carte di navigazione siano originali, senza manomissioni.

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Jean Paul si aspetta l’osservazione di Clara. Infatti: - Supponiamo che tu non vada dall’ammiraglio, quanto dovresti attendere prima che qualcun altro ti consegni i documenti della barca? - - Due o tre mesi - suppone lui indossando la giacca. - Vorrei avere i documenti in ordine prima possibile. Per fare una gita. - - Potremmo attendere. Per me non cambia nulla. - - Cos’hai? - domanda lui percependo una sorta di apprensione. - Non mi piace che incontri Nelsen. Ti rovina il sangue. - - Sta senza pensiero - dice lui già sulla soglia. - Se ti accadesse qualcosa di brutto, non mi rassegnerei. Ti amo. - Il capitano la bacia e la stringe con tenerezza. Di solito, quando non ci sono accavallamenti di congressi alle soli- te attività, in città si viaggia bene. Jean Paul giunge al dipartimento navale alle otto. Una cancellata semplice e solida difende l’edificio. Vi è una garitta all’entrata. Riceve il passo per salire da Nelsen. Nota in giro un po’ di frenesia e l’agitazione tipica dei posti militari dove, spa- risse il mare, vi è il testardo di turno a ordinare d’inviare cisterne d’acqua per porvi rimedio. Si affaccia all’ufficio della segretaria. Sulla scrivania c’è un portafiori di tulipani profumati. Di lato, la targa col nome della donna: Rosa Peña. - Mi attende Nelsen, signorina Rosa. Sono il capitano Carrera. - - L’ammiraglio non è arrivato - lo avvisa la donna studiandolo con un’occhiata. - Si accomodi capitano. Ha un contrattempo che lo trat- tiene. Mi ha detto di consegnarle intanto i documenti. La prega di attenderlo, non tarderà. - Jean Paul siede su una poltroncina ruotante. Apprezza il profilo femminile, sebbene la bellezza risalti più di fronte. La faccia è un po’ larga, gli occhi espliciti. Nelsen sarà un verme, ma sa scegliersi le se- gretarie. Pensa che qualcosa di molto pratico (un interesse) lo starà bloccando da qualche parte. Prende la busta che lei gli porge.

- Qualche riunione per la prossima guerra? - celia lui scherzoso. - Ha un incontro con degli armatori. Oggi decidono il colore da dare ai traghetti di una nuova compagnia. - - È diventato esperto in pittura? - ironizza Jean Paul non indovi- nando quale ispirazione artistica possa sollecitare l’ammiraglio. - Lui è esperto in tanti settori - risponde la biondina notando il verso del capitano. - Vogliono il suo parere. - Jean Paul vorrebbe scoprire quanto costa il parere di Nelsen. L’educazione non gli permette di essere oltre misura caustico. - La scelta è semplice - le dice con un sorriso. - Bianco per le navi ospedaliere, grigio per le militari; azzurro per confonderle con il mare, marrone per coprire la ruggine, nero per occultare lo sporco e rosa se c’è fantasia. Le navi della compagnia sono nuove? - domanda meravi- gliando la segretaria. - Di seconda mano. - - Sceglieranno il marrone. - - Questa non l’avevo mai sentita - Peña Rosa ride guardandolo con curiosità. - Conosce l’ammiraglio da molto? - - Da nove anni. Lei da quando è qui? - - Tre anni. Posso offrirle una spremuta d’arancia? - - Volentieri, grazie. Quale incarico ha? - - Sono addetta alle pubbliche relazioni. - - L’ammiraglio ne avrà molte. - - Potenziali. Prego - dice mettendogli in mano un bicchiere colmo. - Lo conobbe qui? - - In commissione disciplinare. - - Lei era della commissione? - - Ero l’interrogato. Speronai un banco di corallo. - - Non mi pare un indisciplinato. Strano che alla commissione inte- ressasse il corallo. Nelsen adesso si occupa di sicurezza marittima. - - Ottima scelta - scappa a Jean Paul. - In commissione era insop- portabile. Non credo sia mutato. -

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Peña Rosa ride alla battuta. Nello sguardo femminile lui coglie un cenno di concordanza. Tenterà con lei un’alleanza. Guarda i docu- menti della Clara Prima. - Sono a posto, signor Jean Paul? - - Migliori dei conti dello stato. - Lei si alza per chiudere l’armadio alle sue spalle e lui ne calcola le misure. Non ancheggia, non ne ha bisogno. Le natiche si muovono con un moto proprio, difficile da ammansire. Il giovane intuisce che quel tipo di donna, allegra e viperina, sa pizzicare senza correre rischi l’astuto Nelsen. Lo raggirerà miagolando. - Capita spesso da queste parti? - gli domanda Rosa. - Troppe zucche vuote. Sarà noioso venire ogni giorno a lavorare in questi uffici. - - Sono d’accordo. L’ufficio mi deprime. - La donna sorride. - Co- municati stampa e capitani lamentosi. Cambierò tutto - aggiunge con un palpito di gioia inaspettato e un guizzo non celato negli occhi. - Presto mi arriverà un’eredità e me ne andrò via. A Madrid. - Jean Paul coglie nella voce una sottile cadenza d’ebbrezza, quasi che lei assapori il gusto per un felice evento prossimo, non certo la morte di una ricca zia. - Le porgo le mie condoglianze - insinua lui per sollecitarla. - Oh, capitano, non volevo dire questo. Lavorare con i militari è piatto. Sono convinti che una donna sia una nave scuola. Fanno a gara per imbarcarsi. Lei è una delle poche persone che ancora non ha chiesto un passaggio in prima classe - dichiara con aria naturale. - Non parliamo dei clandestini che allungano una mano nell’ascensore. - Jean Paul la valuta sveglia. Inoltre ha qualche scimmietta che le salta per il cervello. Lui non crede all’eredità. Non vorrebbe essere nella linda divisa di Nelsen. L’imbecille si crede un Vasco De Gama, mentre la bella lo trastulla. - Che cosa, in particolare, chiede alla vita? - le domanda. - Il vantaggio di essere milionaria - risponde lei senza meno.

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Il capitano pensa che Rosa debba sottostare agli ordini di Nelsen con un contrastante sentimento di forzata deferenza. Quell’uomo vuoto quali premure avrà nei suoi riguardi? Vorrebbe metterla in guardia. Le racconta, in breve, dell’abbaglio preso da Spencer Dickey, quando partì alla ricerca delle sorgenti dell’Orinoco e si sbagliò per- dendosi nella selva, lontano dalle sorgenti del picco Cerro Delgado. - A volte si scambiano lucciole per lanterne. È bene mantenere dei dubbi in particolari circostanze. La sicurezza estrema è fatale. - Squilla il telefono militare. Rosa risponde. Nelsen la avvisa che sta per arrivare; questione di minuti. Lei gli domanda che pittura ha scel- to per i traghetti. Gli occhi si dilatano mentre ripone la cornetta. - Aveva ragione - dice meravigliata a Jean Paul. - Hanno scelto il marrone. Per coprire la ruggine? - - Il colore del tabacco maturo piace agli armatori. - Dopo mezz’ora, l’ammiraglio varca la soglia dell’ufficio, apparen- do, con posa elastica, nella divisa bianca. Squadra il capitano. Gli riconosce tratti maturi. I loro occhi si scontrano e gli sguardi sosten- gono le reciproche iniziali e mute indagini. Nessuno dei due ha dimenticato l’altro. Jean Paul ha una contrazione: coglie una sottile e malvagia preminenza trasmessagli da Nelsen con un sorriso sghembo, lo stesso che affiorava durante l’inchiesta del Caso 416. - Questa è una bella sorpresa - esclama l’ammiraglio porgendogli con ipocrisia la mano. - Comandante Carrera… più in gamba di pri- ma. - Aggiunge la battuta cercando d’ammorbidire l’incontro. - Che fenomeno. Una sua visita. Una visita gradita. - - Per lei il tempo si è fermato - dice Jean Paul alzandosi e ricam- biando di cattiva voglia la stretta poiché sa che l’altro ha pilotato l’incontro. - Lei mi ha detto che non le interessa passare al grado su- periore di capo di stato maggiore. - - Temo di non averne l’ambizione - elude l’ammiraglio facendogli cenno di passare nel suo ufficio. - Con l’aria che tira, inoltre, certi incarichi vanno ponderati. Ci sono troppi interessi intorno al traffico di cocaina - Gli indica un divano e vi siedono entrambi. - Le andreb- be un caffè? - domanda premendo il pulsante del citofono in linea

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con la segretaria. - Rosa due caffè e dell’acqua gelata. Gelata - chiede quando la donna apre il canale. Caccia il fazzoletto e se lo passa sulla fronte imperlata di goccioline. - In questi giorni l’umidezza mi perse- guita. Piove per mesi e così duro che la costa, ogni anno, si dissolve. Lei vive a Barranquilla, vero? - - Una città tranquilla, eccetto che nel periodo del carnevale. - - Non posso darle torto. Congressi e fiere di ogni tipo che fanno confluire molta gente, in una sola volta. Ciò costringe il dipartimento a tenere uomini impegnati in pattugliamenti per la sicurezza. Lei im- magina con quanto piacere i dissidenti piazzerebbero un chilo di tritolo in punti strategici? - - Che sa dell’ultimo attentato? - domanda il capitano. - Uno sfogo di facinorosi. Una bomba dinanzi a un teatro: un morto e un paio di feriti. Azione di poco conto. Per destabilizzare un potere servono molte vittime. I feriti non contano. Lo mostra l’analisi funzionale sul corto periodo, per determinare su due assi, diciamo y x, terrore e morte, qual è la somministrazione media di tritolo in misura percentuale alla concretezza dei tempi. Sotto elezioni, dove c’è alta commozione, si aumenta il peso dell’esplosivo. Minare un teatro, a- desso, dà risultato nullo. Nullo. - - Non discuto le conoscenze funzionali in materia di terrorismo. Lo stesso non è piacevole trovarsi in mezzo ad uno scoppio, tra morti di nessun valore sugli assi y x, terrore e morte - dice ironico Jean Paul ricordando la brutta esperienza vissuta con Clara il giorno del loro matrimonio. - Ero nel teatro con mia moglie. - - Immagino il trambusto. - - Orrore, ammiraglio. Non mi sono mai sentito più inutile. Perso- ne uccise per falso calcolo politico. - - Lei cosa suggerirebbe? - domanda Nelsen nascondendo la sua doppiezza. - Liberalizzare la droga. In ogni modo, lasciamo fare alla democra- zia - augura Jean Paul. - Lasciamo alla democrazia. - Nelsen si asciuga il sudore. - Se ne resta un pizzico. Dunque, abbiamo risolto il fastidio con la barca. -

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- I rimasugli di democrazia non prevedono la contingenza di ri- stazzare la mia barca. Il suo volume interno non cambia. - - Una precauzione. Sa cosa fanno i cattivi? - Jean Paul scuote la testa. - Non mi è chiaro. - - Smontano le barche, le riformano con appendici foderate di co- caina. Il mio è un modo per controllare che non ci siano trucchi. Non mi fraintenda. Sono le regole e si applicano a tutti. Belli e brutti. - Il capitano vede le palpebre del moro battere. Lo sa sibillino. - Mi rendo conto di cosa sono capaci i contrabbandieri. - - Da quando lei ha lasciato il servizio nell’armata navale, mi creda, hanno imparato nuove astuzie. Usano delfini ammaestrati. - - Ho udito parlarne. - - Mi creda, non c’è un marinaio più democratico del sottoscritto. La gente di mare, da millenni, si lamenta. Pretende che gli ingranaggi del sistema marittimo funzionino alla perfezione. Perfezione. Come? Se ci sono persone che remano contro. Sabotatori. Cavillosi. Noi u- siamo il potere. Dobbiamo. Esso è un idolo impiantato fin dagli albori dell’umanità da certi lucidi furbacchioni che avevano capito il vantaggio di gestirlo quel potere. Un pianeta senza controllo è alla deriva. Un vascello senza nocchiero. Servono capi che sistemino le rogne create dal livello globale esteso e uguale per tutti. Mi viene il mal di mare. Dove staranno i capi adatti alla nostra era? - Sosta un attimo e fissa il visitatore, avanzando il busto di alcuni centimetri ver- so di lui. - Lo sa che il Karolina è morto? Il suo sostituto era una schiappa. - L’ammiraglio allunga la mano verso la tastiera del selettore chiamate interne e sollecita: - Rosa, aggiunga dei biscotti sul vassoio. Vede, Carrera, se fosse rimasto con noi, anche lei avrebbe una segre- taria fedele. Una che si prenderebbe cura di lei… - Lascia nell’aria un senso sotteso. - E una ciurma cui impartire ordini senza che essa pro- testi. In virtù di un coacervo di articoli espressi sotto forma di codice militare che prospetta pene severe. Peccato sia abolito il giro di chiglia per punire. Ma ciò non mi riguarderà per molto. Non vedo l’ora di andare di trasferirmi a Madrid, che gli stravizi mi consumino. - - Una volta in pensione una persona si riposa. -

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- Non io. Le mie idee non sono utopiche. Vado dritto al sodo. - Jean Paul sorride. Forse, l’eredità cui accennava Rosa fa parte del reddito dell’ammiraglio. La donna bussa ed entra con il vassoio e so- pra acqua, due tazzine di caffè e dei biscotti. - Grazie cara. Lascia pure. Ci penso io - dice Nelsen versando un cucchiaino di zucchero nella tazza. Solleva l’indice in direzione dell’ufficio di Rosa e sussurra: - Soltanto il potere permette le soddi- sfazioni. La mia segretaria è la prova vivente di quanto detto. Se le chiedessi di lanciarsi nel vuoto per me, non esiterebbe un istante. Irre- tita. Completamente. - - Lei ha un gran fascino. Tutti lo sanno. - - Con certe donne ci vuole altro. Anche uno spunto di cattiveria. Si eccitano. Eccitano. - L’ammiraglio agita il palmo della mano, quasi salutasse un’invisibile presenza. - Ci vuole imprinting. - - Altroché - dice il capitano terminando di sorseggiare il caffè. - Io seguo l’istinto che induce a dominare. Lei ce l’ha? - - Non credo di avere mai avvertito tale prurito. - - Lo supponevo. Non vedo ingordigia nel suo sguardo. Male. - - In effetti, siamo diversi. Lei è uomo d’azione. - L’ammiraglio freme, avvolge Carrera con lo sguardo mobile e in- dagatore. Lo odia per la sua franchezza. - Dobbiamo dare le giuste priorità ai fatti, per una sana vita. Non ci si dedica mani e piedi al lavoro. Scolarsi una bottiglia di liquore, in compagnia di una bella donna, non è la fine della moralità. - La faccia del moro si apre in un mellifluo sorriso. - Suppongo che abbia dimen- ticato la brutta esperienza del Caso 416. - Jean Paul serra i denti. - Fui denigrato. Non serbo rancori se le persone non seguono a pestarmi i piedi. - - A quel tempo ero parte attiva nella commissione per gli aggio- taggi. Capirà la mia vecchia posizione. - - Mi piacerebbe vedere riconosciute le mie vecchie capacità. - - Lei è sbarcato. Ha cambiato mestiere. Mi ha detto che adesso si occupa di piantagioni. Oneste? - insinua Nelsen con una risatina.

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- Ho un buon socio e impiantiamo canna da zucchero e palma da olio. Non escludiamo in futuro noci marañon. - - Forse non proprio redditizie. Abbiamo altro sotto i piedi. I ter- reni sono in basso o in alto? - - In alto. - - Non avete pensato a piantare coca? Si stipulano buoni contratti regolari con case farmaceutiche. - Gli occhi azzurri di Jean Paul si rannuvolano. - Crediamo sia rischioso. La coca richiama mosconi con i quali uno non vuole avere nulla a che fare. - - Il mondo ha bisogno del prodotto. Le case farmaceutiche richie- dono cocaina. Potrei darle sufficiente copertura, nel caso decidesse. Ci sono aree della Sierra, dove gli indios la coltivano in modo natura- le. Stanno aumentando le pressioni sul governo per concedere loro nuove aree. Premono tutti. Tutti. - - La avviserò - elude Jean Paul provando fastidio per la proposta - nel caso il mio socio fosse d’accordo. - Non dimentichi che un secolo fa gli americani ci rubarono Pa- nama. La gente che non mi piace, la danneggio senza pentirmene. - Qualcosa d’infido si delinea sulla faccia dell’ammiraglio. - Uso ogni mezzo. Ogni mezzo. - - Non le chiedo quali. - - Se capirò di avere in lei un alleato, non vi saranno più remore perché non le racconti particolari inediti. Mi dica, comandante, non le manca il mare? Lei potrebbe lasciare la piantagione nelle mani del socio e seguire a curiosare per gli oceani. - - Non ho gran curiosità. - - Potrei citare Machiavelli, ma le evito la pesantezza. - Nelsen infi- la due dita nel taschino della giacca ed estrae un sigaro che accende con flemma usando lo Zippo. - Lei è un buon marinaio. Non ci spie- gammo, in corte, perché portò la 416 dritto su una secca. Le carte nautiche erano sparite. - Sbuffa un paio di nuvolette. - Puf. Sparite. - - Qualcuno le sottrasse. -

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- Già. Che strano. Comunque, anche se le avesse portate in com- missione, i miei colleghi non avrebbero accolto giustificazioni. Ci sono altri mezzi per evitare una secca che capita dinanzi alla prora. - - Errai fidandomi degli ordini. - - Mai fidarsi. Mai. - - Lei ce la mise tutta per rendermi ridicolo. - - Ero esuberante. Non indagherei, oggi, su nessun capitano che sbattesse la prora contro lo stesso Campidoglio. - - Ho registrato questa nota. Cercherò di scrollarmi da dosso le mi- sere pene di uomo qualunque. - - Le propongo un ottimo comando. Una sola traversata con un ingaggio da vertigine. Centomila dollari. - Al capitano esce un fischio di meraviglia. - Cifra da sceicco arabo. - - Lo è. - - Cosa si trasporterebbe? Oro disseppellito da tombe chibcha? - - Parti di ricambio per un reattore nucleare. - - Dove c’è radiazione, c’è da scommettere che nessuno metterà le mani. Potrebbero bruciarsi. - - Vedo che ha acume, capitano. - Nelsen si alza dalla poltroncina ed è imitato dall’ospite. - Spero di risentirla. - - Ora m’interessa la mia famiglia. - - Ci pensi. Ha ancora tempo. A volte accadono strane cose. - - Per caso, questa è una forma di ricatto? - - Lei sa che nelle piantagioni il ricatto si fa con la rappresaglia. - - Non sono convinto, ammiraglio - risponde il capitano teso per la perdita di pazienza. Vorrebbe tirargli un pugno. Nelsen lo accompagna al corridoio indurendo il volto. Jean Paul fa un gesto di saluto a Rosa, mentre lascia l’ufficio. La segretaria risponde agganciando lo sguardo azzurro di lui e provando un palpito sotto la camicia che le stringe il bustino. Rosa ha udito che il capitano non ha ceduto a nessuna delle lusinghe del capo. L’incontro l’ha un po’ spossato. La celata proposta di guadagni, ignorando la chiarezza, non gli è piaciuta. L’ammiraglio infanga il po-

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sto che occupa, senza rispetto neppure per se stesso. Troverà qualche altro capitano disposto a rischiare. In quanto alle velate minacce, non gli darà tempo di attuarle. Sul lungomare scappa una carrozzella. Il cocchiere sferza il cavallo e la bestia solleva la coda rilasciando palle verdoline che cadono nel sacco legato dietro la coda del baio. L’ordinanza municipale vieta che sporchino la strada. Il capitano fa una riflessione. Nessuna ordinanza vieta che esistano persone uguali all’ammiraglio. Nella sala d’attesa dell’ufficio di Rodrigo alcuni marittimi attendo- no che l’agente li riceva. Leggono le riviste delle settimane passate, ammucchiate su un tavolino di vimini. Il condizionatore sta funzio- nando al massimo. L’aria ringiovanita esce dalle griglie orientabili e spegne la calura che trapassa le pareti. Jean Paul passa in rassegna i volti e vi coglie i segni di una stan- chezza nota, una spossatezza che ferisce chi la conosce. La lunga navigazione fiacca il fisico e l’anima, così si fa duro persino il lavoro finale, in porto. Le facce mostrano occhi cerchiati, rughe marcate, labbra screpolate, espressioni di un’innocente ferocia acquisita nella dannazione di acqua salata. Gli uomini, comunque, hanno addosso la puzza dell’onorabilità circoscritta in un universo galleggiante dove tutto è per tutti, cominciando dalla promiscuità e finendo all’amore. - Mi venisse un botto - dice Rodrigo vedendolo attraverso la porta quando un marittimo esce dall’ufficio. - Ciao fratello, sei pieno di visite - lo lusinga il capitano. Rodrigo manda via i marinai poiché quel giorno non ci sono ri- chieste di rimpiazzo a bordo. La prossima grande nave arriverà verso la fine del mese e dovranno attendere. - Dimmi la verità, sei venuto a mendicare un imbarco. La terra- ferma non ti fa più bene? Guarda che umore smorto. Ho una nave appena immatricolata. Ritinta sopra e sotto. - - Magari marrone, di una nuova compagnia - lo interrompe. - Tu come lo sai? - chiede sbalordito Rodrigo accentuando il tic all’occhio pazzo.

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- Molla, Rodrigo. Vengo dal dipartimento. C’è dentro Nelsen. Al- lunga le mani anche sulle pitture navali. Cerca un capitano. Ha un carico puzzolente da smistare. Non sono venuto per vederti lavorare, né per farmi commuovere dalle tue lusinghe. - - Sfogliare avvicendamenti di marinai stanchi e sbracati lo chiami lavorare? La tua piantagione? Idumea tira? - - Attecchisce per magia. Ho un socio, vecchio ed esperto. - - Onesto? - - Così sembra. Il dottor Lobo de Miranda. - - Strano individuo. Era presente all’asta del tuo lotto. Molte delle terre sulla collina gli appartengono. - Rompe a metà una sigaretta e ne incendia un pezzo. - Clara è contenta del maritino? - - Non sono tanto male. Si vendicherà non venendo al tuo prossi- mo matrimonio. Quando ti stancherai delle libere unioni? - - Mi vuoi disperato. Tre unioni alle spalle. Non metterò la testa a partito. Che ti offro? - - Qualcosa di robusto. - - Una tequila - offre tirando da un cassetto una bottiglia, un piatti- no di sale e due bicchierini. - Ti piacerà. Va giù senza stridere. Un piccolo di camera me ne ha portato un paio di bottiglie dal Messico. Vuole passare mozzo. Questa è la nuova generazione. Le navi devono essere veloci, sicure, la paga buona e il comandante gentile, meglio se donna… - Pizzica un granello di sale e lo scioglie sotto la lingua pri- ma di bere il liquido trasparente. - Arrangiati, senza olive e salatini. Non ne ho. Bevi. Alla tua felicità e a quella di Clara. - Rodrigo è con- tento della visita. Si accorge di una leggera tensione nel volto del capitano. Getta via la mezza sigaretta consumata rapidamente. - Per- ché sei andato al dipartimento? Nostalgia degli ammiragli? - - Per cambiare nome alla barca che ho comprato. Sai che i buro- crati, per aggiornare i documenti di bordo, ristazzano i volumi della barca? Nemmeno fosse una nave. - - Sono andati fuori di brocca? - - È una manovra di Nelsen. -

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- Aspetta, fammi ricordare, quando comandavi la 416, non era nel- la commissione che esaminò la tua manovra per tirare via la nave dall’incaglio? Che si aspetta da te? - - Vuole essere certo che non riveli sospetti particolari su certi suoi movimenti occulti. Appoggia passaggi di navi infette. Mi ha offerto il comando. Centomila dollari per trasferire pezzi di un reattore. - - Cavoli. Sono tanti soldi. Che hai risposto? - Rodrigo lo fissa stri- sciando il bicchierino vuoto sullo scrittoio. - Ho rifiutato. Non credo ai ricambi per il reattore. Cocaina. - - Stai facendo pesanti illazioni. - Accende una nuova mezza siga- retta che subito ripone sul posacenere lasciandola consumare. - Si sente intoccabile trafficando in polverina bianca, come tanti altri in questo paese. Ho qualche dettaglio da recuperare e poi lo tiro in corte. - - Avrei giurato che la tua disavventura militare fosse seppellita. - - Ho trovato un barattolo compromettente nella sala macchine del rimorchiatore Ercules. Che c’era dentro? Cocaina panamense. - Jean Paul racconta con dovizia di particolari quanto ha appreso da Loredito sul recupero delle casse avvenuto la notte di San Giovanni, quando incagliò. Gli comunica la sua intenzione di voler ricorrere per creare un antecedente giuridico che lo protegga da eventuali prevari- cazioni dell’ammiraglio che mostra di non amare la pace. - Hai amici che ti sostengono? - - Un giornalista, Rafael Santiago. - - Sei in una botte di ferro. Il giornalista fa l’annuncio funebre e la vedova piange. Nelsen non si è mosso prima perché sapeva che eri imbarcato e lontano. Ora sta in allarme, perché ha capito che non sarai il suo alleato. Ti ha dato una possibilità. L’imbarco d’oro. - - La cassa da morto d’oro. Voglio il tuo aiuto. - - In che maniera? La polizza che hai stipulato non risarcisce la ve- dova in caso di morte violenta. - - Trovami il comandante del Neptune. A Panama. La notte che gli sequestrarono la nave e lo arrestarono gli trovarono cocaina a bordo. Perse il comando. - Gli passa un foglio con l’annotazione delle date. -

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Voglio che lui confermi l’appoggio che gli fu garantito prima di salpa- re col Neptune. Sarò disposto a pagarlo. - - Cosa ti fa pensare che accetterà? - - Un capitano marcato, resta a terra. Avrà bisogno di soldi. - - Dammi qualche settimana. Città di Panama ha un grosso porto. Farò una ricerca senza rumore. - La sensazione di fiducia che calma l’animo di Jean Paul scaturisce dalla forza della speranza. Da solo non sarebbe in grado di superare la situazione che si sta evidenziando. Per sua fortuna, le malefatte di Nelsen lasciano tracce evidenti. - Rodrigo si alza e s’infila la giacca. - Andiamo a pranzo? - - Certo. Ho appetito. - - Carne o pesce? - - Carne. Una bistecca alta due dita. - - Dall’argentino mangeremo bene. Fiamma bassa e calore lento. Al modo della pampa, con l’osso della costata da un lato. - Ciò detto appende un cartello con la scritta “torno subito” e chiu- de la porta dell’ufficio. Da mesi non pranzava assieme al suo amico ed è felice di quell’occasione. Eviterà di parlargli di navi e di equipag- gi. Gli racconterà la sua ultima insulsa avventura galante. Jean Paul è una persona che sa ascoltare. Lui ha bisogno di conforto. Crede che la sua vita sentimentale sia uno sfacelo. Sta per andare in crisi.

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Il campo di calcio prestato quel giorno dalla Sportiva Esercenti a una scuola di ballo è animato da persone vestite in modo buffo e co- lorato: una settantina di comparse in tutto. Non ci sono spettatori e la musica lanciata dagli altoparlanti accompagna i ballerini mascherati che compongono anelli concentrici in rotazione. C’è fervore tra i coc- codrilli verdi e le scimmie in costume marroncino. Il direttore della scuola Stellina Rossa, nata per addestrare coloro che desiderano par- tecipare alla sfilata del carnevale, ci mette il cuore, cercando di mantenere il controllo dei nervi. C’è un camion con un braccio estensibile, nell’area della porta av- versaria, e il direttore sta nel cesto elevabile, sospeso a una decina di metri sopra il cerchio del calcio di rigore. Da lassù spazia sull’insieme coreografico. Ci vuole maggiore accordo. Alza il megafono alla bocca e lo volge alle prime figure in movimento. - Finitela di cincischiare e concentratevi sui passi. Banane a destra. Cocchi a sinistra. Coccodrilli al passo. Scimmie, più attente. - La voce pare incrinarsi, pronta a rimproverare una maschera che non balla a tempo. Il premio in palio sarà cospicuo e lui ci ha fatto un pensierino. Un po’ di milioncini aiuterebbero a pagare i debiti con- tratti dalla scuola con sarti e bozzettisti. Il tamburo accorda passetti e contorsioni che rendono l’effetto ricercato: allegoria danzante, apote- osi di vitamine. La spirale dei ballerini si fa stretta, le creature d’acqua e di selva ballano dandosi colpetti d’anca. - Mi stai scontrando troppo duro - dice il coccodrillo al vicino. - Sei un pianto - risponde la scimmia scodinzolando. - Loredito, avrai voglia di litigare? - domanda il sarto arabo nei panni del rettile acquatico. - Mi meraviglio che il capitano ti abbia chiesto di cucirgli dei vesti- ti - ribatte il mammifero dispettoso. - Mi stupisce che ti abbia preso come fuochista nella piantagione. Non ti scaldi neppure con una caldaia. -

- Sei un castrato geloso - dice il fuochista nei panni da scimmia. - Di chi? - domanda il coccodrillo. - Del capitano. - - Ci sono volte che non ti sopporto, Loredito. - - Ricambiato. Spione da latrine. - Il direttore, dall’alto, nota il fuori tempo e lancia un appunto: - Coccodrillo e scimmia dell’inizio fila. Che fate? Non vi accorgete che rallentate. Create il rinculo. Avanti sul mezzo tempo. - La fila si riassesta e la marcia riprende fluida e sincopata. - Il capitano mi ha chiesto di fargli da testimone. - - Per il matrimonio? - Domanda il sarto. - No. È sposato. Mi chiama in corte. Un ricorso. - - Cosa c’entri? - - Quante strisciate di cocaina mi hai scroccato in passato? La rac- colsi in mare e fu buttata dalla sua nave. - - Mica la rivorrà? - - Non era sua. Lo stavano incastrando. - Un mezzo giro su se stes- si. Un colpo d’anca. Riprendono. - Le casse le infilarono a bordo a sua insaputa, per metterlo in una controcassa senza uscita. Ora un ammiraglio lo minaccia. - - Ti faranno un buco in fronte. - - Il capitano rischia più di me. Se gli accadesse del male, finirei di lavorare alla sua piantagione. - Gli animali creano un vortice che sfiora banane e cocchi. - Alla sfilata sulla Quarantaquattro non ballerò al tuo fianco - lo avvisa il sarto. - Non voglio finire accoppato accanto a un cretino. - - Nessun delinquente mi riconoscerà in questo vestito di scimmia del paradiso. Stupido. - Fanno un nuovo giro su se stessi, più rapidi. Il ritmo cambia e di nuovo le specie si dividono. I coccodrilli prendono a inseguire le scimmie. Dall’alto del cesto, il direttore pare soddisfatto. Il ballo va. Un’altra prova e saranno pronti per la parata.

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Il suolo intorno all’accampamento di Raul sta sussultando. Il brontolio del Caterpillar annuncia il lavoro devastante della pala mec- canica che procede abbattendo, strappando e spianando foresta per creare lo spazio necessario per la pista sufficiente alle prestazioni di un aereo leggero. Una struttura clandestina del genere si mimetizza con facilità per occultarla alle ricognizioni. Si copre con frasche verdi e reti. L’importante è che la trovi il pilota che trasporta la cocaina. Il sapore dell’esecuzione silvestre sa di linfa e attesta il grido muto della secolare foresta cresciuta sotto i rovesci equatoriali. La macchina si arresta prima del tramonto. Raul ha voglia di andare in paese. Si fa portare al casino. Gli titilla- no gli organi e vuole approfittare dei servizi di Cecilia. Non appena giunge al bar, tracanna un paio di birre. Quando fa scuro, sale con la donna in camera. La finestra è aperta. Si spoglia ed entra nel letto ini- ziando l’abuso. Non è a metà dell’atto, che uno scatto lo distoglie e lo mette in allarme. Si blocca. Una desolazione lo infastidisce, quasi una minaccia latente che materializza il suo impulso di prepararsi a ucci- dere. Infila il braccio sotto il cuscino e impugna la Walther. Percepisce un’ombra. Al buio, dovrà puntare l’arma e saltare con un preciso movimento, trovando il bersaglio, decidendo e sparando nello stesso attimo. Userà il corpo di Cecilia come scudo. Schizza dal lato opposto alla finestra, alzando il braccio e contraendo il dito sul grillet- to, al punto che il cane sta per sollevarsi. La conoscenza dell’arma evita che il colpo esploda contro il volto che spia da dietro le imposte. - Hai il deretano pazzo - dice la voce deplorevole dell’indio, spe- gnendo la reazione omicida di Raul. - Lo muovi a ventaglio. - La testa color terra fa capolino da un angolo della finestra. È illu- minata dal plenilunio. Due occhi col bianco striato di sangue, spalancati al punto che sembrano non avere palpebre, animano il vol- to marcato da sottili cicatrici. Sono i tagli rituali riservati a chi ha coraggio. Dalla mandibola sinistra una striscia di colore rosso risale

alla destra. Lo sciamano entra nella stanza scavalcando il davanzale. Conosce di vista Raul. L’ha spiato molte volte e sa il numero esatto d’alberi che sta facendo abbattere per crearsi la pista: centoquaranta- sette. La sua anima sarà dannata tre volte tanto. - Vieni a spiarmi? - lo richiama Raul abbassando l’arma e infilando i pantaloni. - Hai rischiato una palla. - - Ti agiti troppo quando ti accoppi e sembri un coniglio nella pa- glia fresca. Non ti accorgi che la donna non prova nulla? - - Takenda. Farabutto, sei fortunato se non ti sparo tra gli occhi - geme il guerrigliero conoscendo la sua impietosa intransigenza. Cecilia siede pallida nel letto, tenendo il lenzuolo sul seno. Ha un’aria desolata ed è convinta che il sesso con Raul sia un’avventura estrema e pericolosa, oltre che poco piacevole. A lui piace dominare, si eccita quando la percuote. Se decidessero di ammazzarlo, quei momenti sarebbero propizi e a lei riserverebbero la stessa sorte. La prossima volta lo lascerà alle cure di una delle sue dipendenti. - Dalle finestre, a cavallo della Luna, passano le anime dei morti - spiega lo stregone. - Porta male. Si attaccano alla pelle. - - Perché non passi dalla porta? - lo apostrofa Raul. - Non è buono. Nel bar ci sono troppi uomini e poche donne. - Takenda evita l’ingresso principale del bordello: non valorizza il lavoro di Cecilia. Un indio non ha bisogno di andare con le prostitute. Indossa una lercia canottiera che lascia scoperti i muscoli allungati sul corpo magro, al punto che il torace pare scuoiato. Una collana di un- ghie di caimano circonda il collo. Un drago tatuato adorna le braccia salendo dalla mano sinistra e discendendo dalla destra. L’uomo ha le gambette tozze e corte. Dalla cintura, allacciata sotto una pancetta a punta, pende un affilato machete che mette a Raul la soggezione di in- contrare il filo della lama. - La donna mi ha informato - dice l’indio segnalando Cecilia con le mani lunghe e ossute. - Che cosa vuoi? - - Ho bisogno di passare nella tua riserva. - - Passa - risponde l’indio sedendo in terra e fissando Cecilia in modo malato. - Tu sei il padrone. Voi siete tutti padroni. -

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- Stregone, voglio anche uscire dalla riserva. - - Io ti dico passa, non ti assicuro altro. Dovresti metterti d’accordo con Gonzales che sta dall’altra parte. - - Smettila. Non farai nessun accenno a quel maiale di Gonzales. Attraverserò con quaranta dei miei. Ho fretta e taglio una trentina di chilometri. In cambio ti mando carne fino al prossimo raccolto. - - Quando vorresti entrare? - - Subito. Seguiremo l’affluente fino alla ricongiunzione col fiume; usciremo per la giungla, verso nord. Non disturberemo nessuno. - - Disturberai gli animali. Questo è il periodo in cui le femmine di caimano nascondono le uova vicino ai corsi d’acqua. Quaranta siete voi e quaranta saranno le vacche. - - Quaranta vacche? - salta Raul strabuzzando gli occhi. - Non è colpa mia se siete in quaranta. Noi siamo quattromila. Sa- rò alleato, mentre non lascerai la riserva e distrarrò gli spiriti affinché non ti vedano. Ciò significa che sono tuo complice. Io aiuto te, e so- no nei guai. Hai segato troppi alberi, vitali per noi. - - Siamo d’accordo così, stregone. - - Entrerete dalla savana e sarete in quaranta. Yati, Yati, Yati. - Ripetuta tre volte la parola, quasi per ammansire gli invisibili spiri- ti, Takenda agita la collana che ha al collo. Le unghie del caimano tintinnano simili a pendagli di vetro. Si alza e riesce dalla finestra, sen- za un rumore, così com’è giunto. - Quest’uomo mette i brividi - si lamenta Cecilia vestendosi. - Mi ha tolto ogni voglia. - - Una faccenda è sicura: non si sa mai cos’ha in testa un indio smaliziato. Gli stregoni possiedono l’egoismo dell’età, hanno l’avidità stizzosa dei selvatici. Ho da fidarmi di questo diavolo? Poco. Se Gon- zales fiuta l’attacco, mi vincerà. Se l’esercito pagasse Takenda, quello mi venderebbe senza scrupolo. Se mi accerchiassero quando sarò tra la selva e il fiume, non uscirò vivo. Indios che ricevono i sussidi dal municipio e li spendono in liquori. Diavoli. - - Raul, non è colpa loro se bevono. -

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- Non venire a dirmi che la colpa è la mia. Questa nazione non l’ho governata io. Noi guerriglieri siamo gli unici che possiamo rad- drizzarla. A fucilate. - Raul ha materializzato un sordo rancore nella forma meno adatta allo stimolo della democrazia. Reagisce alla nuova storia nel modo peggiore, calpestando la legge. Ignora che l’evoluzione di una nazione avanza per tentativi, esperienza, ricerca, sperimentazione politica. Lui e i suoi pari sono persone bieche che pretendono, con ogni mezzo, l’aggancio della cocaina al mercato internazionale, con le armi, gli at- tentati, finendo per creare un nefasto parallelismo di false illusioni e d’odio. Quando si accorge che Cecilia si è rivestita, riceve una sensa- zione d’impotenza e s’infuria. - Chi ti ha detto di coprirti? - - Nessuno. Mia scelta. - - Qui scelgo io. Spogliati e finisci il lavoro. - Raul si alza, le assegna un manrovescio e la spinge sul materasso. A quell’ora, Gonzales, il paramilitare attestato dal lato della sierra settentrionale sul limite della riserva indigena, ordina di spegnere le luci nell’accampamento. Ha raso a zero la testa. Lo fa una volta la settimana. In quel posto isolato ci vive con una ventina d’uomini ad- destrati al sabotaggio e armati con mitragliatori M4. Le sentinelle sono al loro posto. La dinamo a benzina si arresta. Hanno caricato le batterie delle radio e dei telefoni. Non farsi notare è una delle regole. Le jeep per il trasporto della merce illegale sono nascoste tra alti caucciù. Gli elicotteri sono sotto le reti che formano un ingannevole mantello di muschio e foglie: paiono mostri preistorici, allineati ai piedi degli alberi dalle larghe chiome. La ricognizione aerea non ha identificato il campo, confuso con gli insediamenti indigeni. Il paramilitare ha istruito gli assaltatori. Non ha intenzione di de- ludere l’ammiraglio Nelsen. I piloti degli elicotteri sono due americani radiati dai ranghi per cattiva condotta: Robert è il pilota del CH47 da trasporto ed è il più esperto. Essi hanno concordato con lui il piano per lo sbarco a sorpresa sul cargo greco. Le armi dell’Artigliato fiac- cheranno la resistenza, mentre gli assaltatori piomberanno dal

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Chinook sull’Onassis Quinto. Si fidano delle informazioni giunte da Città di Panama: Pelekanakis non ha armi pesanti. Gonzales, da alcune notti, non lascia l’ascolto delle trasmissioni della polizia e dell’esercito, le cui caserme sono distanti una novantina di chilometri, ai piedi della sierra, che muore lambendo il mare. Sente che le voci non danno comunicati importanti. Adesso aspetta di rice- vere dall’ammiraglio la posizione geografica d’attacco. Si stende sull’amaca, con il satellitare affiancato all’orecchio. Forse potrà dormi- re qualche ora. La missione è difficile: la quantità di droga sul cargo potrebbe richiamare sciacalli e salterebbe il suo accordo con l’anonimo americano che si è fatto avanti per comprare la costosa merce al prezzo stabilito. Se qualcosa andasse storto, se cadesse in una trappola della DEA, lui tornerebbe in cella. Sarebbe estradato e finirebbe di scontare la condanna in un carcere americano. Il suo ne- mico più vicino è Raul. L’ultima volta che si sono scontrati gliele ha dato. Non è riuscito ad ammazzarlo. Quello conosce il terreno acci- dentato e si è defilato passando tra i coccodrilli. Passata la notte sulla scomoda brandina della capanna comando, Raul si desta di soprassalto. Guarda l’interno della baracca comando con spossatezza. Lo squallore lo deprime. Si strofina la faccia: un’ansia impossibile gli invade il corpo. Di nuovo ha ricevuto la vi- sione dell’orripilante folletto metà gnomo, metà scimmia, che lo ossessiona nel sonno. La responsabilità è della cocaina. Gli provoca illusioni di giorno e allucinazioni di notte, tanto crude che il folletto è tangibile. Gli salta sul petto, sui testicoli. Fa giorno dal lato della pianura, oltre il campo attraversato da un torrentello la cui presenza è indicata dalle folte palme che gli crescono ai lati e dal numero eccessivo d’uccelli e scimmie che vanno là ad ab- beverarsi. La prigioniera, sequestrata per la richiesta di riscatto ai padroni della fattoria Corral, resta legata al letto. È coperta da un len- zuolo lercio d’umori, ha un occhio gonfio e dorme, precipitata in un sonno artificiale. L’ultima notte lui l’ha drogata per abusarne, costrin- gendola a bere e facendola cadere mezza svenuta sul giaciglio. Ha voluto dimostrare a se stesso d’essere ancora capace di avere

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un’erezione. Con Cecilia, non riesce a godere pienamente. Il sesso violento l’ha saziato. In breve partirà con i suoi uomini e il campo resterà vuoto. Un ostaggio incustodito sarebbe un pericolo. Si versa sulla testa dolente dell’acqua, esce a torso nudo per controllare i lan- ciagranate RPG che gli sono giunti. Incontra il suo secondo. - Antonio, si va. Dà il segnale agli uomini. - - Raul, se troviamo la cocaina di Gonzales, siamo a cavallo. - - Cancros. Ammazza l’ostaggio. Il Corral non paga. - - Cecilia ha mandato a dire che i familiari stanno per farlo. Que- stione di ore. Permetti? - - Partiamo. Lasciarla qui è rischioso - s’irrita Raul. Antonio acconsente supinamente: il lato sensibile l’ha narcotizza- to. Va alla baracca e siede sullo scanno di lato al letto; scopre la giovane che dorme nuda e vede l’occhio pesto. Gli sta venendo il membro gonfio. Lo sente ringalluzzito nei pantaloni. Ripara la 7,62 nel cuscino e spara con poco rumore. La prigioniera ha un breve sus- sulto mentre, di riflesso, piega le braccia. Da morta è più bella. Farà buttare il corpo in un ruscello, o in uno degli affluenti. La negra schiava ha già svolto mansioni del genere. Tocca con avidità i seni della defunta: sono caldi e turgidi. Il gruppo si avvia. Sfilano in silenzio sotto gli alti caucciù, poi en- trano nella riserva indigena diretti al fiume che delimita la zona d’influenza di Gonzales. Hanno un lungo cammino da percorrere. Le creature della selva sono abituate al borbottio ovattato dei tamburi indios, e non si spaventano ai colpi, ora lunghi e cupi, ora brevi e saltellanti, che toccano gli insediamenti e avvisano dei pertur- batori. I suoni delle percussioni costituiscono una rete informativa infallibile in un luogo dove la voce umana ha meno importanza di un grido di pappagallo. Raul sa che i tamburi stanno parlando di loro e che cento occhi invisibili li spiano.

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King Kris discende il fiume accompagnato dallo sciamano. Vanno verso il delta. Odono i tamburi. Takenda decifra il messaggio che ras- sicura le tribù del loro passaggio con la lancia a motore: il pastore di anime va a benedire un battello da pesca; Takenda scaccerà dalle sue stive il cattivo spirito. La figura dell’indio stride di lato a Kris, pallido, con uno scalpo biondo. Lo sciamano, a torso nudo e i jeans a mezza gamba, guida l’imbarcazione prestando attenzione a ciò che li circon- da e a quanto sfiora la barca. Le piroghe degli indios sono ferme, tenute a riva da un’insolita a- patia. Il corso d’acqua viaggia nella vegetazione con una serie di spire, larghe o strette secondo i dislivelli del terreno, e anelando al ricon- giungimento con il mare. S’ingrandisce con l’apporto dei limpidi ruscelli della Sierra al confine tra Venezuela e Colombia. Vi sono inte- ri tratti dove il fiume procede sotto tunnel verdi, dalle cui volte pendono liane e radici. Appaiono adorni rami sottomessi a grappoli d’orchidee, che si piegano fino a lambire l’acqua che riflette i tenui colori. Un giaguaro dalla coda inquieta scende ad abbeverarsi guar- dingo. Teme l’attacco di un anaconda. Nelle acque insicure, lo stregone vede i demoni che perseguitano gli uomini i quali, all’alba del mondo, uccisero la madre di tutti i pesci, l’anaconda, appunto. Lo spettro del serpente potrebbe riemergere. Takenda ama il fiume, a giorni monotono con il suo scorrere peren- ne, a volte gonfio dopo che ha piovuto su un lontano territorio, e che con una furia liquida sale lungo le sponde incitato dalle divinità dei fondali. Muove il timone per evitare ciò che galleggia. La reazione di un caimano pizzicato dall’elica non è auspicabile. Tiene d’occhio i movimenti delle cime arboree per sapere quanto le oscillazioni siano naturali, dietro un soffio d’aria, oppure se vi sia qualcuno tra la vegetazione. Da una decina di minuti ha notato una macchia dove gli uccelli si spostano. Dal tipo di volo dello stormo ha dedotto che sono allarmati. I piccoli nati da poco non sono in perico-

lo. I vecchi pettirossi non sono rimasti nei nidi per fare da esca. La fuga non è provocata da un serpente. È Raul con i suoi. Dichiarano la loro presenza. Hanno fretta e non si curano di avanzare con cautela. Getta un’occhiata a Cristu. Il pastore non si è accorto di nulla. Non vedrebbe neppure la colomba dello Spirito Santo. Se guarda innanzi, non distingue un boa da un tronco.

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L’Istituto del Benestare Familiare si adopera per lenire il disagio infantile. L’ente riproduce, in scala ridotta, l’organizzazione di quello mastodontico della capitale, dove il direttore generale è, per legge del- lo stato, la moglie del presidente della repubblica. Ne consegue che negli organigrammi risalti una sorta di matriarcato, consolidato, che vige nella distribuzione delle cariche e delle spettanze. L’atmosfera dilagante del carnevale cittadino non ha assalito l’istituto, vaccinato contro tal ebbrezza. Gli impiegati hanno seguito, senza coinvolgimen- to, l’agitarsi esterno, i rumori e le dissonanze, dove mascherine e suonatori hanno percorso le strade al suono pagano dei tamburi. Clara e Jean Paul si presentano presto. Ci sono almeno sei uscieri in servizio - hanno una gerarchia - e due poliziotti di guardia. Non tutti i genitori accettano disposizioni e sentenze e capita che si adope- ri fermezza. I due giovani hanno appuntamento con la direttrice per i preliminari d’affidamento. Dopo l’invito a entrare, espongono la loro richiesta, una scelta considerata a lungo. - L’intenzione è di aiutare Pablito - dichiara Jean Paul poggiando il polso sul bordo della scrivania. - Questo è l’unico motivo. La funzionaria dà una blanda occhiata a un opuscolo e inizia a parlare con sufficienza materna. - Ci sono regole all’interno del Benestare. Che cosa stabiliscono? Che la famiglia sia responsabile della crescita e dell’educazione dei figli - sciorina con sicurezza - e sono attenta perché ciò avvenga. Ho mandato in giudizio genitori per avere disatteso le norme. Interve- niamo, dove mancano certi presupposti e non è facile con i pochi soldi che ci assegnano. - Ce ne rendiamo conto - commenta docile Jean Paul, soffocando la voglia di elencare le decine di casi in cui l’istituto è latitante. - Il ragazzo riceve poca attenzione dalla madre che vende cocco. La ma- dre ha altre due figlie, una nella strada e la più piccola inferma. Una situazione insostenibile per una donna sola. Pablo accusa il disagio. È

scappato da casa e vive solo. Noi gli diamo un piccolo aiuto. Ma non è sufficiente essendo incostante. È in pericolo. - - Lo sa che i bambini imparano a essere bugiardi a soli sei mesi? Bisogna capire il tipo di pianto. Di disperazione o solo un richiamo di attenzione? Mentono per estrema difesa. Pablito non sarà diverso dagli altri. Volete sporgere una denuncia? - - No, affatto - interviene Clara un poco risentita. - Vorremmo che lei verificasse, mediante la visita di un assistente sociale, le condizioni che ci spingono a iniziare questa pratica. - La donna allarga le palme sul ripiano e i braccialetti d’oro tintin- nano all’unisono. Le dita cicciotte, dalle unghie smaltate, iniziano a tamburellare. Lo sguardo passa da lui a lei, con una luce stizzosa. - Non potete pretendere che l’istituto conosca i casi d’ogni singola famiglia del dipartimento. Don Jean Paul… - - Capitano Carrera - corregge Jean Paul staccando le parole. - Di- rettrice, sa bene che ci sono diecimila bambini nelle strade. Il suo istituto argina l’emergenza? O non è un’emergenza? - - Lo è, capitano. Abbiamo milioni di sfrattati e sfollati a causa del narcotraffico che genera guerra. - - Dottoressa, intervenite quindi per dare aiuto. - - Capitano, l’istituto dà assistenza ai bisognosi; grandi e piccoli. Cerchiamo famiglie sostitutive temporanee per i ragazzi. Voi apparte- nete a questo gruppo. Selezioniamo, in seconda petizione, le coppie per le adozioni definitive. Parlo di decine di contatti giornalieri. La legge stabilisce l’annullamento dei formalismi, ma in realtà non è ri- spettata nell’attuale strutturazione. - - Non la seguo - dice Jean Paul, avendo udito il lusinghiero ritratto dell’istituto per il benestare. - Questo ente non viaggia al massimo. Cos’è che non va? - - Non ne ho idea - la voce di Jean Paul è quasi di protesta. - Ve- dendo nelle strade tanti bambini lasciati al caso spiccio che ne fa ciò che capita, scopro altro andare storto. - - Vero. Che cosa facciamo? Primo: combattiamo la burocrazia. Secondo: gli altri stati non hanno voglia di collaborare con noi. La

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cocaina richiesta nel mondo crea orfani in Colombia. Soffriamo il peso delle scartoffie. - La signora è infervorata e le gote paffute si sono arrossate. - Preferirei che un bambino avesse dei genitori anzia- ni, piuttosto che vederlo morire nella strada, drogato, ammazzato o di stenti. Avete altri dati? Si dovrà indirizzare la nostra investigatrice dalla parte giusta per incontrare la madre del ragazzo. - - La chiamano la gran nera - dice Jean Paul. - Abita dalle parti del quartiere di Las Flores. Nelle adiacenze di un deposito di pesce. - - Farò avviare delle indagini. Adesso rilassatevi. - I giovani si sentono sollevati. Sono riusciti a smuovere la monta- gna e s’intravede la possibilità che potrebbe rendere la vita di Pablo più regolare e sicura. C’è da appurare se la madre, venditrice di cocco, sia dura quanto la buccia esterna delle noci polpose. Non possono evitare il pantano dell’istituto; in ogni modo la macchina burocratica si è avviata. I ministeriali ci tengono a che gli ingranaggi non stritolino la loro carriera. - Escono confortati da buon umore. Prima di andare al lavoro, de- cidono di visitare un gioielliere. Clara precede il marito e riceve il saluto del padrone, un mingherlino olivastro di origine turca, mentre la porta si apre accompagnata dal suono di una ghirlanda di campa- nellini. Le mostre degli oggetti hanno i cristalli antiproiettili. C’è abbastanza luce artificiale da far scintillare i gioielli. L’anello che le ha donato il dottor Lobo de Miranda è nella borsa. Lei cerca l’astuccio sotto lo sguardo comprensivo del gioielliere. - - Eccolo - dice affidandolo all’esperto. - Mi sta grande. Si dovreb- be adattare. - L’uomo osserva l’anello con interesse. Prende la sua mano e infila all’anulare i ditali. Infine annota la misura su un foglio. - Un buon lavoro, le pietre paiono serie - commenta l’orafo rigi- rando l’oggetto tra le dita marroncine per la nicotina, segno che è un accanito fumatore. - Diamo un’occhiata da vicino. - Sceglie la lente e la ferma tra l’orbita e l’arco sopraccigliare. Si met- te sotto la giusta luce ed esamina le angolature dei tagli.

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- Lo zaffiro centrale è trasparente e puro; la forma è cabochon, ovale, il carato sembra alto. Dovrei pesarlo e rapportarlo con la for- ma; l’incastonatura sul supporto d’oro è regolare e di mano francese o italiana. Le rosette che lo circondano mostrano un ottimo adamanti- no. Ha un discreto valore. Complimenti, signora. - - A quando risale? - - Al secolo scorso. Conto le sfaccettature simmetriche. Adesso sono di moda pietre dal taglio piatto. Qui lo sbalzo è notevole. Ci sono tagli obliqui. Però non era un anello. - Clara, stupita, fissa l’orefice con aria smarrita. - Non si preoccupi - la sostiene il signore sorridendole, avendo colto il disappunto. - Non ho detto che sia un cattivo oggetto. Ho solo rilevato che all’inizio, l’orefice montò un altro gioiello. - - È certo? - domanda divertito Jean Paul. - Due particolari. Le rosette sono in numero dispari. Il cerchio d’oro che sostiene la cassa l’hanno montato in un secondo tempo; poi, il colore dei due lavori è differente; diversa la lega. - - Che significa? - incalza Jean Paul interessato all’imprevisto. - Queste piccole gemme devono avere avuto delle sorelline. In o- rigine, la mano europea che lo incastonò volle preparare un paio d’orecchini pendenti. La padrona, o il proprietario, per qualche moti- vo, dalla coppia fece ricavare due anelli. - - Mia madre ne ha uno uguale - afferma Clara con tono eccitato. - Per asserirlo dovrei confrontarli. Basta che il numero delle facce, sulle rosette, sia differente e non esiste equivalenza. - - Le porterò l’anello di mamma. - - La accontenterò con piacere. Che faccio, le sistemo l’anello? - - Sì - dice Clara separandosi dal curioso regalo. - Un paio di giorni e sarà pronto. Darò una lucidata alle rosette. - I due ringraziano ed escono dal negozio. Lei esone il dubbio: - Jean Paul, secondo te, il vecchio è a conoscenza di questo strano particolare? - - A Lobo de Miranda non sfugge nulla. - - Sarà il caso di chiedergli spiegazioni? -

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- Clara, mi pare indelicato. Potrebbe fraintendere; magari capire che lo hai fatto stimare per venalità. - La donna accetta il suggerimento: Ji Pi ha ragione. Il medico po- trebbe prenderla male. Non mancherà occasione per scoprire se conosce il particolare. Decide che si farà prestare dalla madre l’altro anello e lo consegnerà all’orafo per il confronto. Domanda: - Che cosa accadrebbe se il gioielliere scoprisse che gli anelli pro- vengono dallo stesso paio di orecchini? - Il capitano non ha esitazioni. - Mi arrendo. Domanda a tua madre da dove proviene il suo. Lo stesso farò col dottor Lobo. Potrebbe essere una coincidenza. - - Restiamo a vedere la fine della storiella - propone Clara rimet- tendosi al suo braccio e accelerando il passo per andare al museo. - Accompagnami per un pezzo e poi te ne vai alla piantagione. Stasera passerai a prendermi, dopo il lavoro. - Sulla porta del museo scambiano un bacio e si separano.

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A Panama, di fianco ai moli di Coco Solo, l’Onassis Quinto ha terminato di caricare. Pelekanakis, il capitano greco ha sorvegliato di persona la sistemazione delle casse speciali con la scritta: fragile. A nessuno salterà in testa di sospendere quel carico di tonno in vetro con errata pendenza. Arriverà senza danni al trasbordo sul battello venezuelano. Pure il milione di dollari che lui riceverà sarà dato a Boccaccio, al servizio del boss, prima possibile e senza che manchi un centesimo. Don Alvaro non ha pietà per chi ruba del suo. Il greco sta sotto i sessanta, compiaciuto della corpulenza; la faccia volgare, la barba unta, gli occhi sporgenti, il naso appallottolato e ros- so. Veste in modo trascurato e variopinto; beve una mezza bottiglia di alcol ogni giorno, così che la morale va d’accordo con la sua anima. Non si pone domande sul carico che gli hanno affidato. A volte, a bordo si è dovuto sopprimere un testimone scomodo. Questi incerti del mestiere a lui non piacciono. Non è decenza buttare in mare uno che si è impicciato del carico, anche se la curiosità è umana. Dall’alto della plancia il greco vede le acque del porto libere da o- stacoli. Le pratiche con la capitaneria principale si sono risolte, la passerella è rientrata; i marinai stanno filando i cavi sulla poppa del rimorchiatore che porterà l’Onassis Quinto oltre i frangiflutti. I mura- li del porto non trattengono i tre colpi di sirena sfuggiti alla nave. L’oceano è aperto in ogni quadrante della rosa dei venti, invitante e calmo. Si prevede alta pressione estesa fino a La Guajira. Il greco si accarezza la barba. Il rimorchiatore parte. Le sue eliche trainanti co- minciano a vorticare mettendo in tensione i cavi di manilla uscenti dalla prora della nave. L’acqua spumeggia. Con moto inesorabile, la mole imponente del cargo si sposta dalla banchina. “Alle otto e trenta scostato” annota Pelekanakis sul registro di bordo. “Operazioni regolari.” Il barbuto assegna la condotta al se- condo ufficiale, poi, per rassicurarsi, col binocolo dà una guardata fuori. Dietro di lui, la scia si congiunge all’istmo. Dinanzi, l’orizzonte

è libero; il pericolo di scontrare altre navi, in arrivo al canale, si riduce, mentre la distanza dalla terra aumenta. - Scrivi: alle nove inserito l’autopilota - dice al secondo. - Stampa la carta meteo tra quattro ore. Mantieni l’ascolto sull’emergenza nava- le; attiva la radio del castello prodiero per i messaggi di soccorso. In caso di abbordaggio della guardia costiera, si butta in mare la cocaina. Vigilare le frequenze d’emergenza è una fissazione. Secondo lui, dov’è richiesto soccorso, arriva la guardia costiera. Un altro pallino è la radio alternata, fatta montare lontano dalla stazione trasmittente primaria, nel castello prodiero appunto, e che entra in funzione nel caso la primaria subisse un danno. Mentre scende alla cabina, incontra un africano dell’equipaggio che con un pastello grasso disegna una forma antropomorfa e geometrica di color verdino sulla parete di la- mierino, nel corridoio. - Ti diverti Otu Butu? - - No capitano, lui è Tokolosh. Buono spirito. Caccia malasorte. - - Perché lo dipingi? Non ti fidi di me? - scherza ridendo il greco senza arrestare l’andatura. - Io sono migliore di Tokolosh. - - Tokolosh tiene lontano il cattivo spirito - ripete il marinaio. - Lui lo vede chiaro e lo allontana. - Pelekanakis ride. Una buona bottiglia lo sta aspettando in cabina. - Non ci sono spiriti a bordo - dice rigirandosi e travedendo in quel disegno un gesto inutile - cancellalo, Otu. Il negro, con gli occhi umidi, guarda il capitano e non si spiega perché i bianchi siano così stupidi da non credere che Tokolosh serva più delle candele nelle chiese. Accetta di lasciare libero il corridoio. Farà il disegno nella cabina dei marinai; materializzerà lo spirito con i pastelli grassi e colorati. Tokolosh, in sogno, gli ha rivelato che le ac- que saranno rosse e lui ha un presagio assai brutto. A Barranquilla, prima dell’alba, la N17 è pronta per la navigazione. Il capitano di corvetta Ernesto Chivas si è incontrato con l’ammiraglio la sera prima, nella sua cabina. Nelsen è salito a bordo e gli ha affidato la busta e la valigetta con le serrature a codice.

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- Confido nel tuo operato. - Gli ha detto prima di andare via, ver- so la mezzanotte. - Esegui alla lettera gli ordini. - Apre la busta contenente le disposizioni di Nelsen. L’incontro con Pelekanakis è fissato per le tredici del giorno seguente. Lui rispetterà gli ordini, pur ritenendo che quanto richiestogli non sia contemplato dalle mansioni da svolgere. Ha controllato l’efficienza dei reparti. Ha notato lo zelo del maresciallo timoniere Armando, interpretandolo come attaccamento al servizio. La navigazione inizia con caratteristiche di normale esercitazione; a bordo si mantiene uno stato di allerta a livello intermedio. Le scorte di viveri e carburante sono sufficienti per restare fuori dalla base una decina di giorni. La N17 è confortevole. Le cucine sono nuove. Ha una sala per fare ginnastica e ampie docce. È armata con mitragliere doppie sui lati, un cannone da novanta sulla prora; un lanciabombe di profondità. Non manca un lanciasiluri. I motori sono sovralimentati. Il rosa tenue dell’alba tinge il cielo ed Ernesto prova l’ambiziosa suggestione dello spettacolo che si proietta sul liquido divenuto tur- chino. La N17 lascia una scia ribollente e dritta, mantenendo i motori a mezza forza. C’è tempo per giungere all’incontro.

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I guerriglieri di Raul, lasciati i sentieri che bordeggiano il piedi- monte pantanoso, sono in marcia forzata passando un tratto aperto. Hanno lasciato il territorio dello sciamano e sono prossimi al campo di Gonzales. Raul nelle ultime notti, prima di partire dal campo, si è divertito con Miccia, la nera dai capelli rossi. Ha dormito poco, im- ponendosi di restare lucido, senza sopravvalutare le forze. L’astinenza da cocaina gli ha alzato la soglia dell’irrequietezza. Una voce interna, con autorità, gli comanda di non perdere la battaglia. Il sangue acqui- sterà concretezza con la complicità del manipolo di ribelli ai suoi ordini. Non c’è, in quel che resta nelle coscienze di quegli uomini, il dubbio di una condanna che impenda sulle azioni che essi attuano con efferatezza. Sono aiutati dal carattere selvaggio dell’ambiente che li nasconde. Hanno il vantaggio dell’impunità. Il desiderio di combat- tere diventa un urlo prepotente quando la posta in gioco è un carico di cocaina: l’eccitazione rende macabra la fantasia di lordarsi di san- gue. Ha smesso di piovere. Giunti all’ultimo tratto, i guerriglieri si a- prono un varco mutilando la vegetazione, bagnati dal lattice delle piante recise. Un calore ombroso si annida sotto le piante insediate lungo le curve in ombra che nascondono insidie. Le femmine di cai- mano si precipitano in acqua al loro passaggio e, tenendo gli occhi fuori del livello del fiume, restano vigili per accorrere in difesa dei nidi sepolti sotto le foglie morte. Il silenzio lascia voce al rimescolio dell’acqua che scorre pullulante di pesci. Gonzales avrà messo indios da lui sottomessi di guardia alla foresta che circonda il campo. Raul scorge l’argento del fiume poco dopo l’innesto di un gonfio e ribol- lente affluente laterale. Takenda è stato di parola: il gruppo individua quattro canoe al margine del fiume. Raul fa segno di immergerle. Dinanzi alla costa, un’insolita onda avanza solitaria e imprevedibi- le. Nata nelle profondità dell’oceano, dall’incrocio di correnti contrarie calde e fredde, sale in superficie e si avvicina alla piattafor-

ma continentale che emerge con le sue spiagge. Ogni altra onda spari- sce al passaggio, cedendole il proprio calore. Infine, la cresta forma un tunnel smeraldo ornato di polvere bianca. Takenda non si sente al sicuro. Ha un sesto senso, quasi animale- sco. Cristu lo caccerà nei guai. Accovacciato a poppa, guida la barca nel liquido senza trasparenza, sbuca nel delta limaccioso, sotto un prepotente cielo senza nuvole carico di un blu violetto. L’americano, sudato e accaldato, seduto al centro della sottile im- barcazione, si leva la parrucca giallina e bagna il cranio dopo avere immerso la mano, sperando di trovare sollievo agli assalti degli insetti. La sua preoccupazione aumenta ogni minuto. Ha ricostruito gli inca- stri del riciclaggio di denaro sporco connesso al narcotraffico in partenza dal Panama. Possiede le informazioni riguardanti interessi congiunti tra venditori di droga e ribelli. Ha i nomi di don Alvaro e di Nelsen. Gli italiani di Panama fanno arrivare i dollari a insospettabili holding e a fondazioni. Nella complicazione del riciclaggio, la permu- ta internazionale fa arrivare il denaro pulito esattamente dove dovrà trovarsi un certo giorno in una data ora senza mettere a repentaglio la complessa rete che opera per l’arricchimento illecito. Gli manca l’identificazione della banca finale russa su cui affluiscono i soldi del traffico messo su da Vassili. L’OHB - settore dello spionaggio ameri- cano - vuole conoscere l’uso politico che si fa della cocaina nelle isole dell’America centrale. Al Settore Strategie di Washington sanno dei dollari che dalla Russia giungono attraverso l’Organizatsya, l’organizzazione, e che devono essere reinvestiti in modo che non restino tracce sull’origine. L’OHB vuole appurare quali uomini hanno in testa di destabilizzare i governi in zone prossime all’equatore. King Kris ha composto il mosaico di partenza. All’americano pare che que- sto s’incastri in un modello di economia del riciclaggio che ricopia lo stesso creato dal duca olandese Fentener Von Vliessingen per le ban- che svizzere: far prosperare un notevole numero d’organizzazioni, tra le quali incuneare organismi legati o controllati da gente di ogni tipo. In definitiva, il metodo d’occultamento frantuma i capitali a un livello irrisorio permettendo una penetrazione corrosiva non rilevabile.

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Kris indica all’indio di accostarsi al peschereccio dei venezuelani. Sente un polpaccio formicolargli, non si accorge che è stato infettato: un insetto l’ha punto, giorni prima, sotto la coscia. Non ricorda di avere lasciato il nord dell’America senza avere fatto il vaccino per la febbre gialla. Una grave mancanza. Takenda, sgranando gli occhi, dirige verso il battello da pesca. I marinai, in maggioranza neri di La Guaira, sono impazienti di la- sciare l’ormeggio perché, a detta del capitano, le acque in quel tratto traggono insidie. Uno di loro appende alla fiancata la scala del gatto fatta di corda e pioli di legno e aiuta Kris a salire a bordo. - Siete in ritardo. Rischiamo di perdere l’aggancio con il cargo. - Il capitano li rimprovera, quasi irritato. - Ci sono onde altissime. - L’americano gli consegna le informazioni. - Ecco le coordinate d’incontro con l’Onassis, in acque interna- zionali. Prenderai il tonno e proseguirai per Cuba. Un colonnello ti aspetta a L’Avana per sdoganare le casse. - I miei soldi? - Kris gli affida una seconda busta piuttosto gonfia. Si affretta a scendere sulla barca. Takenda scuote le braccia, quasi per scrollarsi di dosso il drago tatuato che circonda le sue braccia. Vuole riguadagnare l’interno allontanandosi dal mare. Gira la prora e spinge sul gas per risalire la corrente e portarsi verso anse meno infide, fuori di quel delta dove entrano le onde anomale a leccare ciò che trovano. Il peschereccio esce rapido dalla foce. Va incontro all’Onassis prendendo il largo, colpito dalla luce vibrante che passa l’orizzonte. Sfiora un temibile cavallone che entra nel delta e lo risale con una velocità tale che lo mette a inseguire l’imbarcazione con i due uomini. - Ci corre dietro, la lingua del diavolo - avverte lo sciamano pie- gando la voce in un tono strozzato. - Yati, poderosi Yati - implora guardando il cielo. - Ci raggiungerà e ci succhierà. - L’onda monta le sponde. Allaga le parcelle di lato. L’americano, scoprendo la sua pericolosità, avverte un collasso: ha bisogno di ori- nare. Sbraita, strofinando il sedere sulla panca. - Dobbiamo uscire dal fiume - grida affranto allo sciamano.

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- Serve una sponda bassa - risponde l’indio cercando un tratto re- noso dove infilare la prora. - Cristu, preparati a correre. - Dal fogliame si leva lo strepitio degli uccelli e delle scimmie irritate dal fragore. Kris non vuole affogare. Quali commenti farebbero quelli del Settore Strategie? “L’imbecille, è morto seppellito da una valanga d’acqua. Dove? Nella foresta. Testa di gallina.” Sarebbero crepati dal ridere. Il suo lavoro vano, con gran profitto dei fuorilegge che ha in- dividuato. Adocchia un lato fangoso nella fitta erba alta, adatto per buttarci contro la barca. Scendono a terra e fuggono lottando con la vegetazione che li rallenta. - Trasborderà - dice Takenda quando è sotto un caucciù le cui ra- dici aeree scendono provvidenziali fino al suolo umido. - Dobbiamo arrampicarci qua sopra. Cristu, seguimi. Oh, potenti Yati. - Non ha terminato la frase che le sue braccia magre, con piccoli muscoli di ferro, lo tirano verso la cima. Pare che il drago tatuato lo spinga fino sulla cima. Vede, sotto di lui, il pastore di anime che fatica a scalare l’albero e non si affretta neppure quando il brontolio dell’acqua diviene perentorio, coprendo i gridi degli animali impauriti. Erba, insetti, rettili, spariscono sotto l’inondazione. Il finto pastore americano, annaspando, si fa travolgere. Quando il livello è sceso, riprende il pacato brusio della foresta. Lo sciamano, stringendo tra le gambe uno dei rami elevati, sussurra ringraziamenti a Mohao, lo spirito del fondale che lo ha risparmiato. Tremante, riconosce il respiro della terra e tende l’udito per cogliere richiami d’aiuto. Gli animali si sono tranquillizzati. Dalla cima del caucciù cerca con lo sguardo il povero Cristu. Scorge solo la sua par- rucca gialla filare via trasportata dalla corrente. L’americano era generoso, pareva disposto a ultimare la capanna chiesa e a fornire soldi e alimenti alla sua gente. Questo tiro, Mohao, il ladro di lavan- daie, non doveva assolutamente farglielo.

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L’assistente sociale si è spinta col traballante trenino di Las Flores fino ai bagni del Monco e lì, lungo le dune di sabbia, ha condotto la ricerca. Il luogo si chiama così in onore dei pescatori di frodo che lanciando la dinamite ci lasciano il braccio o la mano. L’eterno di- lemma: miccia rapida al posto della lenta e un contrabbandiere analfabeta che la vende. Si accosta il fiammifero e bum, addio. I neri più astuti del quartiere non si fanno intimorire dalle mutilazioni e se- guono a lanciare e a pescare pesci crepati nell’urto. I venditori ambulanti di gazzosa conoscono la madre di Pablito, la gran nera che vende cocco, lavora per i tre figli che paiono spine sulla testa del Redentore e ha sopportato tre uomini che erano tre bestie. La funzionaria ascolta le voci dei venditori, a tratti un po’ contrastan- ti, esatte nella geometria identificativa. “La trovi o che risale il tagliamare o che scende la spiaggia, col secchio dei cocchi.” L’assistente, con buone motivazioni, affronta un pescatore: - I figli come stanno? - - Due femmine sceme e il maschio scappato da poco. Un pepe che neppure regalato. - - Non dia retta - interviene un secondo pescatore appiattendo con le dita la miccia sotto il naso della funzionaria. - Lei vuole proprio quella che vende cocco. Tre mariti da mettergli un tacco di dinamite a ognuno. Buoni solo a bere qualsiasi cosa a qualsiasi ora. - Si sovrappone una voce femminile esile e tremula: - Lei, signora, sta cercando la gran nera, che vende frutta e acqua di cocco? La gran nera delle prime case di Las Flores? - dice una don- na anziana che si è avvicinata per marcare con olio benedetto la fronte del pescatore di frodo. - Accanto ai frigoriferi del baccalà all’ingrosso. Vive laggiù. Sì, la venditrice di cocco con tre figli, tre ma- riti, tre metri di casa. Dopo il giro torna da dove è uscita. - L’assistente risale sul trenino senza porte né vetri. Paziente, atten- de la partenza per spostarsi al centro del povero quartiere. Non vede

il lancio del tacco di dinamite; ode il boato e la raggiunge uno spruzzo d’acqua salata. Il pescatore unto e benedetto si avvicina alla riva e nuota in maglietta per andare a tirare i pesci saliti a galla, con la pancia bianca rivolta su. Ha pochi minuti prima che arrivino i pescecani atti- rati dal sangue. Il treno parte sfiorando le casupole ai lati della ferrovia. Il locomotore sbuffa e fischia allontanando cani e maiali dai binari. Giunge nella via dei pescivendoli e fa una sosta dinanzi ai fri- goriferi industriali. La donna scende e dopo un po’ di giri e un passaggio di un paio d’incroci, trova la misera casa della nera. Telefona a Clara e a Jean Paul fissandogli un appuntamento per il tramonto. S’incontreranno nel quartiere, dinanzi all’osceno domicilio. Quando i tre si ritrovano dinanzi all’abitazione, la sorella di Pablo, vedendo sconosciuti all’uscio, si spaventa e sbarra la porta, insensibile alle sollecitazioni dell’assistente. Un’altra bambina, la sorellina malata, comincia a piangere e getta lamenti che paiono ululati. La maggiore oppone un fiero silenzio all’inchiesta dell’assistente: non fa presagire la capitolazione. La madre le ha ripetuto di non far entrare gli estra- nei, meno di tutti i conoscenti. - Questa, capitano, è una situazione che si ripete in molte case del quartiere di Las Flores. Qui cresce il fango ogni volta che piove e se il maltempo insiste, l’acqua del fiume supera le sponde e allaga tutto. - Il parere di Jean Paul scaturisce da una logica dinamica: - Qui si dovrebbe abbattere i due terzi del quartiere per ricostruire aree vivibili e salubri. - - Le motivazioni storiche e sociali ci hanno travolto. Abbiamo un passato coloniale - dice l’assistente rivolta a Clara. - Oggi i campi di coca sono la nostra disgrazia. Non permettono investimenti esteri e perciò mancano motivi di sviluppo. Siamo in un circolo vizioso. - - Bisogna ricreare fiducia - le risponde la giovane. - Pulire le peri- ferie; portare cultura, orgoglio, stima. Garantire la salute. Recuperare tradizioni. Abbiamo avuto trecentomila morti in meno di dieci anni a causa della guerriglia e della criminalità.

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Discorrono sull’influenza dell’egoismo, sui danni sociali che il tes- suto urbano subisce a causa del narcotraffico. Parlano degli abusi fatti dai balordi e della disperazione che serpeggia tra la gioventù che ha poche scelte. A quel punto, la pesca con la dinamite è il passatempo meno contaminante e con maggiori giustificazioni. Dal fondo della stradina appare la madre di Pablito. È vestita con un’ampia gonna bianca consumata ma pulita, abbellita da svolazzi colorati. Ha un fazzoletto verde annodato sulla testa e porta al brac- cio la cesta dei cocchi sbucciati e in una mano la brocca del siero latteo. Vista controluce, la sua pelle assume sfumature tra il marrone e il rosa che la fanno sembrare una creatura magica. La nera si accorge del gruppetto fermo innanzi alla casupola. Non sveltisce il passo, convinta che male non possono farne né a lei né alle figlie. Invoca gli orixà con la bocca serrata. Nota che gli abitanti non sono nella strada a curiosare e ciò la tranquillizza. Arrivata dinanzi ai visitatori, poggia in terra il cesto e la brocca e li osserva attendendo che sia uno di loro a parlare per primo, mentre tira dalla tasca della gonna la chiave. - Se siete qui per rovinarmi la serata, vi dico che arrivate tardi. Va- do a letto. Sono a pezzi. - - Signora, sono dei servizi sociali - si qualifica l’assistente avvici- nando la gran nera mentre infila la chiave nella toppa dell’incerta porta di legno tarlato. - Molti del vostro istituto sono già passati e la papaia è ogni volta la stessa: troppo acerba per voi e marcia per me - risponde la madre di Pablo senza particolare emozione. - Aspettate che la gente muoia, prima di dare una mano. I soldi degli aiuti dove li mettete? - Spinge la porta e squadra l’ambiente con due globi oculari che mandano fiamme. La ragazzina, la più grande, sta impalata presso la culla della sorellina inferma che, alla vista della madre, smette di pian- gere. La nera le ignora. Fa passare le due donne e il signore che le accompagna. L’odore delle urine assale le narici. La nera c’è abituata, perché non arriccia il naso. Sgrida la figlia per non avere lavato la so- rellina e lei stessa getta acqua da un secchio sulle tavole che fanno da

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materasso dopo avere messo a sedere sul pavimento di cemento la creatura sporca. Jean Paul guarda interrogativo la psicologa che, colto il suo disa- gio, si affretta per una spiegazione: - Le sovvenzioni stanziate per il Benestare sono limitate. Il tasso di povertà è alto e i bisogni aumentano ogni giorno. I soldi distribuiti non bastano. - - Discuteremmo per mesi - osserva il capitano senza l’intenzione di entrare in contrasto con la funzionaria. - Si fa troppo poco. - - La democrazia ha i suoi costi - dice Clara. - Se vogliamo che ne resti un pezzo dobbiamo guadagnarcela. - La voce gutturale della nera s’interpone brusca e li interrompe: - La politica non riempie lo stomaco. Belli, non vi posso offrire nulla. Solo acqua di cocco. - Le sedie non sono sufficienti per tutti. L’uomo resta in piedi. La ragazzina inizia una sequenza di smorfie e la madre la scuote per i capelli ricci e attorcigliati. Corre in tondo, mostrando una foga inna- turale che fa sorgere il dubbio che non sia normale. - È inquieta - la scusa la madre. - Fa così quando arrivano estranei. Vedrete che si calmerà. La picchio se esagera. Non è abituata alle visi- te. Vero figlia? - le grida per intimidirla - adesso fermati o le pigli. - Si rivolge alla psicologa: - Il grande è scappato e non si fa vedere. Siete venuti per lui? - domanda mostrando apprensione. - L’hanno ammaz- zato? - - No signora - la tranquillizza la funzionaria dell’istituto - siamo venuti con buoni propositi. - - Ci vuole altro che i propositi - dice più a sé, che ai presenti la povera donna, passando un panno sul tavolo - con due figlie sceme… Ora ho perso la pazienza e te le suono. - La ragazzina, al richiamo minaccioso, ubbidisce. Si pianta ritta in- nanzi alla psicologa e la fissa con un’aria dispettosa da bertuccia. Almeno sta ferma e permette ai presenti lo sforzo di capirsi.

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- Che cosa volete da me? - domanda la nera continuando ad affac- cendarsi, preparando l’acqua per bollire la melassa, accendendo il cero dinanzi alla statuina di un orixà. - Vorremmo sistemare Pablito in una casa di brave persone - avvi- sa l’assistente sociale seguendone i movimenti nello spazio angusto, circondato da pareti improprie, costruite con materiali incerti, con mattoni di differente misura e non intonacati. - Se volete portarvelo, siete in ritardo. Chissà dove sarà quel te- stardo. Ha abbandonato queste due animelle e si è allontanato; esatto il padre, un disgraziato. - - Non è un incarico adatto a lui sorvegliare le sorelle - sostiene la psicologa guadagnandone una guardataccia. - Ha una responsabilità non adatta all’età. La ragazzina dovrebbe entrare in un istituto. - - Non la consegno al Benestare che poi se la vende. - - Deve andare a scuola. - - Con che pago l’iscrizione, i libri e i quaderni? Qui mi tagliano lu- ce e acqua. Non vedete che sono al buio. - La nera ha poggiato i pugni nei fianchi; inala aria e pare stia per i- niziare a oscillare nel filo d’aria che attraversa la casuccia. La gonna, gonfiata dalle pieghe, e il petto abbondante, la fanno sembrare più grande. Ha buon senso per mostrare disappunto senza gridare. - Noi cresciamo i figli senza alcun aiuto, né dai mariti, né dal Be- nestare. Ci aspettiamo che i maschi portino a casa soldi. Pablo non riesce a capirlo. Se mi succederà qualcosa, che sarà di queste due? - - La coppia che ho fatto venire questa sera è disponibile ad aiutar- lo. A patto che lei acconsenta all’affidamento temporaneo. - La nera sospende il pencolamento e sgrana gli occhi che, nella lie- ve penombra, paiono fosforescenti. Si ode il suo fiatone. - Siete venuti a levarmi il figlio. San Nicola proteggetemi - si la- menta con un’intonazione che, allo stesso tempo, mostra tragicità e incredulità. Poi se n’esce con uno sfogo per la situazione di precaria venditrice di cocco e con voce rotta aggiunge, in contraddizione: - È l’unico maschio che ho. Tre figli, uno in fuga, una malata nella culla e

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una mezza tonta che trova gusto a entrare nelle case dei vicini senza badare agli abitanti. Perché non prendete la malata? - - Non è semplice - controbatte la psicologa vedendo che la nera tenta di trarre vantaggio da una situazione in cui non c’è lucro. - Signora - interviene Jean Paul con voce bassa e calma - il ragazzo sta ricevendo da noi un minimo d’aiuto. Le leggi pretendono che si ricorra al procedimento che la dottoressa le ha appena accennato. L’istituto tutela i minori anche con il controllo dell’applicazione dei regolamenti. Se lei non accetta, non potremo smuovere nulla. Resterà nella strada. Rimandiamolo a scuola, o tra un anno avremo un delin- quente. Irrecuperabile se rovinato dalla droga. - - Pretendete di rimandarlo a scuola? Tempo perso - risponde la nera mite, guardando Jean Paul con tale intensità che sembra voglia strappargli il fegato per vederne la sostanza. - Che vi aspettate? - Clara si esprime determinata e la nera la ascolta docile. - Pablo, dandogli fiducia e coraggio, si correggerà. Dipende da lei, signora, lo sviluppo di suo figlio. Non sarò mai sua madre. A lei ri- mane il merito. Bisogna agire adesso se lo ama. - - Parla senza peli sulla lingua, padrona - risponde la nera sorriden- dole, avvertendo il senso materno di Clara proteso. Slega il fazzoletto a colori che le avvolge la testa e libera una massa di capelli ricci e luci- di. - Io perdo il figlio e lei lo trova. - - Non perde nulla - ribatte la giovane. - Sono capace di fare figli. Ripeschiamo il ragazzo e diamogli un tetto sicuro. - - Chi mi aiuterà? - La psicologa le prospetta un intervento urgente del Benestare per la più piccina, con distrofia diffusa. La più grande potrà essere seguita durante il giorno da una famiglia sostitutiva e tornare a casa la sera. La donna adattatasi alla logica di sopravvivenza e nell’ansia di usa- re l’arma della parassitosi, unica difesa nel degrado in cui le circostanze l’hanno relegata, tenta un appiccicoso lamento: - Mi levate tre figli, non uno. - - Nemmeno uno - salta la psicologa mettendo gli occhi dritti nella faccia lucida della nera. - I figli restano suoi. Altre persone si prende-

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ranno cura di non farli morire di fame o d’altro accidente. Che cosa vuole di più? Che ci beviamo tutta l’acqua di cocco per farla contenta? - La madre, dinanzi alla reazione, comincia a cedere, accettando il lato buono dell’intervento. Non sotterra l’idea che la stanno sfruttan- do in un modo che lei ignora. - Mi fido di questa signora? - domanda la nera indicando Clara con un dito spugnoso. - Mi fido del Benestare che mi dà un aiuto da fa- me? Ho dinanzi una sincera sposa e la parola di una funzionaria. Ditemi dove metto un segno, non so firmare bene. Voi mi suggerite che è per il loro bene. Prego che sia così - termina accettando di ap- porre una firma incerta sui fogli dell’istituto. Adesso, gli orixà avranno meno da fare con lei e più con Clara.

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La voce di Vassili giunge distorta nel telefono del pilota. - Leonid, mi senti? Hai finito il lavoro che ti ho assegnato? - - Ti sento Numero Uno. Non urlare. Albeggia e c’è un silenzio terrificante. Ho terminato di fotografare ciò che t’interessa. Non gra- zie al programma Falcon che mi hai dato alla mia partenza per la selva. Non c’era una sola piantagione che corrispondesse alle sue in- dicazioni. Chi ti ha venduto quel programmino, ti ha turlupinato. - - Non mi affliggere. Che cosa hai prodotto? - - Ho le istantanee degli accampamenti intorno alla frontiera. - - Che mi dici di King Kris - domanda il capo - hai scoperto che ci fa nella selva? Per chi lavora? - - Kris non è un imbecille. Non si scopre. Mi hai ficcato in un po- sto inagibile - ribatte il pilota cercando di emettere frasi educate. - Ho deciso di tornare in Russia. Il pastore americano si è eclissato. Qui non ho più nulla scoprire. - - Non sai che gli antropologi pagherebbero per socializzare con gli indios? Dove sta l’americano? - - È andato via con lo sciamano. Se avrà un tornaconto personale, non vorrà dividerlo né con me né con te. - - La tua partenza per Mosca mi rattristerà, Leonid. Perderò un col- laboratore raro e un amico. Sai a quanto ammonta la tua diaria estera? Per questi due mesi di villeggiatura hai ammucchiato ventimila dollari. Non pensi che tu possa regalarmi un’oncia di straordinario? - - Uguale a Re Mida; converti la pelle altrui in oro. - - Ti ho fatto bei regali in passato. - - Un lato positivo che non ti leggo. Se Kris non tornerà, non m’importerà un fico. Cosa c’è di losco tra te e l’americano? - Il pilota sente la risata isterica di Vassili e immagina il pancione ballargli nei pantaloni tenuti da bretelle. -

- Leonid, nulla di criminoso. Commercio. Sono i mezzi del bureau. Giuro che la causa è giusta. Se ti avessi spiegato prima della partenza, ti saresti rifiutato. - Il pilota avverte il brivido lungo la schiena. Si fa attento. - Mezzi sporchi per una causa sana. Non ti credo. Qui va in giro tanta cocaina da fare spavento. In questa selva di frontiera fiuto auto- strade bianche di cocaina e Kris ci fa lo sci da un lato all’altro. - - Leonid, stai facendo un gran servizio. Ti saranno grati. - - Vuoi che m’intercettino i regolari, o che mi colpiscano i guerri- glieri? Mi hanno già notato volare sulle loro teste. - Vassili tenta con un asso. - L’ultima volta che ci siamo uditi ho dimenticato di darti un mes- saggio. Ti cercò una certa Clara. Voleva salutarti. - - Clara? - domanda Leonid preso in contropiede. - Me lo dici ora? Cosa le hai detto zarista di pezza? - - Che sei un romantico. - Vassili tace alcuni istanti, quasi per affer- rare i pensieri del suo agente. - L’hai conosciuta a Dresda? - - Affari miei - risponde l’altro controllandosi. - Che le hai detto? - - Ringraziarti per il regalo. Un omaggio importante il tuo… il mio guerriero. Te ne sei liberato. Sai che il regalato non si regala? - - Il guerriero non potevo riportalo a casa. - - Si parla di un sacerdote del migliore periodo precolombiano e di valore. La tua amica sa che vale oltre cinquecentomila dollari. Capisci il nostro errore? Generoso altruista. - Leonid incontra una leggera intonazione di lamento nella voce di Vassili, segno che si è pentito. Ora è lui a ridere nel telefono, perché l’ucraino si è sbagliato sul valore dell’oggetto. Immagina la gioia di Clara quando si sarà resa conto dell’importanza della statua. - Che cosa vuoi Numero Uno? - - Pareggiamo il piatto della bilancia. Ritrovami l’americano. Scopri che fa a cavallo della frontiera con i suoi alleati indios. Al ritorno ti affiderò l’Orloff. Lo riporterai in Russia. - La trasmissione s’interrompe e nei timpani del pilota entra il coc- coveggiare di una civetta che l’india Amanicea ha legato per una

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zampa a una palizzata. Il lugubre richiamo gli mette la pelle d’oca. La donna lo fissa con la coda degli occhi e pare ridere mentre la foresta inizia a vibrare per il canto mattutino delle sue creature.

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Jean Paul ha terminato di ispezionare con Camillo la staccionata. I pali ficcati nel terreno sostengono la tensione del filo spinato e alcuni hanno ceduto e vanno sostituiti. - Evitiamo che le mucche dei vicini passino da questo lato. Fareb- bero danni alle piante. Sono attratte dai germogli. - Camillo accenna positivamente. - D’accordo signore. Il legname lo ordina lei o me la vedo io? - - Sei bravo a scegliere quello adatto - dice il capitano staccando un assegno su cui ha scritto la cifra di duecentomila pesos. Prima di lasciare la piantagione Jean Paul fa una capatina nel locale della caldaia per sincerarsi che tutto fili liscio. Loredito è impegnato a regolare la fiamma. È sudato benché indossi brache corte. Nettandosi le mani con uno straccio unto rassicura il capitano: la caldaia produce vapore in gran quantità. Il fuochista infila legna nel focolare e qualche lingua esce rossa all’aperto. Si ode il sibilo del vapore passare nei tubi. Una vampata illumina il suo volto e i denti d’oro brillano. - Sono in arrivo i fusti per l’olio. Bisogna rispettare i tempi di spe- dizione - lo informa il capitano. - Farò delle ore di recupero, se necessario - dice Loredito. Tornato in città, Jean Paul si reca al porticciolo. Alcuni uomini stendono vele sul molo per seccarne l’umidità. La Clara Prima è or- meggiata di fianco. Salito a bordo, trova Pablito intento a lucidare i verricelli sul bordo. - Se consumerai la tua energia, non ne avrai per le aragoste. - Il monello scuote la testa riccioluta. - Capitan marino, non sa che adesso non si possono pescare? L’energia mi basta per lucidare questi cosi. - - I cosi hanno un nome. Sono verricelli. Sarà bene che tu ci metta un po’ di grasso. - - Lo farò. Se valgono, lo meritano. -

Pablito strofina più forte. Il capitano siede nel pozzetto. Estrae una tavoletta di cioccolato e ne offre metà al neretto. - Ti racconto quanto è accaduto in questi ultimi tempi. Ci siamo preoccupati per la tua situazione. Lontano di casa e senza guida non ti troverai bene né in questa città, né in altre. Perciò abbiamo parlato con quelli del Benestare Familiare. Hai bisogno di una famiglia. Do- vresti mangiare con regolarità. Frequentare la scuola. - - Non ci voglio andare - strilla Pablo lasciando lo straccio impre- gnato di pasta per lucidare. - I maestri mi strillano. - - Ascolta - lo richiama Jean Paul - abbiamo avviato la pratica di af- fidamento. C’è da aspettare che decidano. Con un parere positivo verrai a stare con noi, dopo che l’assistente sociale ti avrà veduto. - - Non mi piace l’assistente - rimanda Pablo impaurito di finire in un posto brutto. - Mi manda all’istituto, assieme ai ladri. - Jean Paul, con pazienza, riesce a spiegargli in che cosa consiste un affidamento e quali sono le procedure da seguire. Se Clara e lui voles- sero da subito accoglierlo in casa loro, andrebbero contro le leggi. Prima che una coppia riceva un ragazzino, deve essere valutata. Solo quando i giudizi saranno positivi scatterà la luce verde, valida per l’affidamento. Pablo si forma con la fantasia l’immagine di due perso- ne che gli vogliono bene e si preoccupano per lui. Quel pensiero è sufficiente per scaldargli il cuore. Altre volte ha invidiato i suoi coeta- nei, figli di coppie unite nel bene e nel male. Presta attenzione alle buone parole del capitan marino mentre lo aiuta a rassettare la barca. Quando Jean Paul è certo che il neretto abbia compreso le inten- zioni, lo lascia solo. Giunto a casa, apre la finestra della sala e ode il suono della fisarmonica. L’uomo in canottiera suona sul terrazzo po- co distante; si piega e si distende assieme al mantice a soffietto. Nell’attesa che Clara torni dal museo, lui si distende sul divano e tenta di leggere un romanzo comprato da poco. Non può concentrar- si. Il pensiero continua ad analizzare gli accadimenti delle ultime settimane: l’incontro con Nelsen è il particolare che più disturba e la possibilità di una causa gli mette tensione. L’ammiraglio, però, non gli lascia scelte con quel suo modo subdolo di abbordarlo per fargli of-

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ferte poco onorevoli. Forse, in un tribunale, una volta per tutte, chia- riranno le loro rispettive posizioni e lui smonterà le pressioni di quell’avido presuntuoso pieno di sé. Appena fa sera Clara entra raggiante. Va ad abbracciarlo. La luce dei suoi occhi verdi smuove la curiosità di Jean Paul. - Un istituto europeo si farà carico del restauro del sacerdote - gli rivela. - Una manna, in questo momento. - - Fantastico - dice lui alzandosi dal divano. - Credo che la notizia vada festeggiata. Anch’io ne ho una. Pablito s’è convinto a farsi avvi- cinare dall’assistente sociale. Ciò facilita le indagini necessarie per le pratiche imposte dall’istituto del benestare. - Prendendo una bottiglia di vino dal frigo, le dice che gli ha pro- messo che non scapperà e non mancherà di rispetto alla funzionaria. Si avvicina alla giovane per il brindisi. Da alcuni giorni non fanno l’amore. Alza la mano per accarezzarle il volto. Quello è il momento per aggiustare le loro sensazioni.

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Non appena i primi riverberi del giorno passano la cima delle col- line, Gonzales, usando il satellitare, chiama Nelsen per confermargli l’ora in cui abborderà il cargo greco con i suoi due elicotteri. L’ammiraglio gli dice che accetta di vendere al miglior offerente la cocaina, dopo che sarà rubata dall’Onassis. Gonzales suggerisce che si venderà bene e presto in Venezuela. Ha già un cliente americano, si- curo e solvibile. - Le manderò i soldi in breve - assicura il paramilitare. - Non lasciare il cargo prima di minarlo. Lo voglio a fondo. Di- struggerai le prove dopo il tuo intervento. - Gonzales chiude la comunicazione. Si leva il berretto e passa la mano sulla testa rasata. Siede sul Chinook da trasporto accanto a Ro- bert, il pilota americano che ha fatto da mediatore col compratore. - Il tuo acquirente ha preparato i soldi? - gli domanda. - Aspetta solo la consegna - risponde il pilota indossando il casco di volo e cominciando a pigiare bottoni e luci di avviso. - Oggi stesso andrai a fare la consegna - lo avvisa Gonzales accen- nandogli di partire. Dieci assaltatori siedono dietro di loro. Sono vestiti con tute mi- metiche, armati e protetti da giubbotti antiproiettili. Il pilota fa un cenno di assenso. Le pale degli elicotteri - il secondo è un Artigliato da combattimento - ruotano in un turbinio d’aria e creano un ronzio metallico che si somma al rombo dei motori. I coni delle colline, co- perte da un manto verde, rimandano da una valle all’altra il rumore. La luce incerta del mattino conferisce agli uomini un alone inquietan- te, inasprito dalle canne dei mitra. Gonzales controlla il mitragliatore e mentre le dita sfiorano i caricatori, ipotizza che la sua testa rasata potrebbe essere trapassata da una pallottola. L’aria diviene chiara. S’intravede il debole disco solare. Il Chinook si alza per primo, segui- to dall’Artigliato. I falchi esaltati voleranno bassi, seguendo il calco naturale delle gole della sierra, poi sbucheranno sul mare e lungo la

frontiera marina fino all’incrocio delle coordinate, sfuggendo ai radar della difesa nazionale. L’Onassis non avrà scampo. La base bassa e piatta delle nuvole grigie si affila nella luce incerta del mattino. Non piove. Raul intravede il limite oltre il quale c’è il feudo di Gonzales. Alza un braccio e accenna ad Antonio, in coda al manipolo sparso, di dividere i suoi in quattro squadre: avanti i mitra leggeri e dietro le armi pesanti. I lanciagranate pronti a tagliare la via a quelli di Gonzales. - Capo, permetti - dice Antonio usando una radio palmare - credi che abbiano minato questo lato? - - Non penso - risponde l’altro nel microfono fissato al collo. - Non si aspettano attacchi dalla giungla. Non piantano mine sull’unica via di fuga che hanno. Metti i gruppi in posizione. Contiamo le guar- die. Ne avrà all’esterno. Le togliamo di mezzo. Non danneggiamo gli elicotteri. La nostra pista è pronta e potremmo farli trasferire - otti- mizza Raul. - Spegnete i palmari prima di avvicinarvi. - Nell’accampamento vi sono alcune baracche mimetizzate sotto le reti. A una ricognizione dall’alto apparirebbe un villaggio che vive d’agricoltura. Raul e Antonio, a distanza, da angoli opposti guardano con i binocoli e scoprono solo alcuni indios costretti ai lavori. - Non si vede nessun guerrigliero - mormora Antonio nel palmare tenendo il mitra imbracciato con enfasi calcolata. - Qualcosa non mi convince - dice Raul stringendo l’arma - e spe- gni quel palmare. Prendi due della prima squadra e mandali a immobilizzare gli indios. Antonio spegne la radio e tracciando l’aria con la mano aperta porta avanti gli uomini, strisciando o saltando. Gli indios, tre, non creano resistenza e restano muti. Il più giovane indica l’alto e mima con un braccio la pala di un elicottero. - Chi c’è con voi? - domanda Antonio. - Nessuno - confessa l’indio con accento monotono. - Quando sono partiti? - - Da un’ora. Con due elicotteri. -

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Antonio richiama Raul e gli comunica di entrare nel campo. Rag- giunto dal capo, lo informa che non ci sono notizie sulla destinazione dei nemici e che non c’è molta cocaina. - Approfittiamo del vantaggio e prepariamo un’imboscata. Hai fat- to ispezionare le baracche? - - Vuote. Il vecchio indio dice che aspettano un grosso carico. - - Convincilo a farci da mangiare e tienilo d’occhio. Potrebbe avve- lenarci. - Raul infila una mano nella mimetica per sistemarsi i testicoli. - Questa volta a Gonzales gli prendiamo la zona. La sua posizione è strategica. Il golfo non è lontano da quel campo. Da lì è facile trasferi- re grossi carichi di cocaina. - Antonio obbliga gli indios a dare un aiuto in cambio della vita. Dovranno continuare il lavoro solito e non insospettire i paramilitari quando saranno di ritorno. Dà disposizioni per disporre le mine.

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L’Onassis Quinto, alle dodici, non sposta di un centimetro la rot- ta, e pare ignori che l’altra nave, la N17 rilevata dal radar, sopraggiunge da dritta e secondo il codice di navigazione ha diritto alla precedenza. Pelekanakis conosce lo scenario che gli si presenterà: la torpediniera gli verrà incontro. Il loro punto d’incontro è vicino e lui lo raggiungerà senza errore in venti minuti. Là, il comandante mili- tare gli consegnerà un milione di dollari: alle dodici e trenta in punto. Poi, un peschereccio venezuelano si affiancherà all’Onassis per ritira- re la cocaina. Lui non è un pivellino. Per non incorrere nelle sanzioni dettate dalla convenzione di Montego, articolo ventinove, ha propo- sto un aggancio con i venezuelani, in acque territoriali, curando proprio che il peschereccio su cui si trasborderà la cocaina non batta bandiera né dello stato di spedizione, Panama, né del paese di desti- nazione: Cuba. Insomma, spedisce Panama, trasporta Grecia, consegna Venezuela, riceve Cuba. Lui non danneggerà nessuno in modo diretto, essendovi passaggi intermedi. La convenzione è rispet- tata e qualora un militare zelante si trovasse nella condizione giuridica d’inseguitore, lui si appellerà al diritto di non inseguimento: essendo l’Onassis Quinto oltre le ventiquattro miglia dalla costa sarà, per dirit- to, una nave emporio galleggiante che offre rifornimenti in acque internazionali e pertanto non soggetto a sequestro. Sarà paragonato a un iceberg su cui si vende di tutto. In altre parole cessa il diritto di presenza costruttiva ed estensiva di una nave militare. Lui è protetto dai codici e le eventuali imputazioni saranno lievi. Anche se fosse pre- so, darà ogni copertura al boss di Panama. Non farà il nome di don Alvaro. Lui non è tenuto a conoscere gli spedizionieri né le loro so- cietà. La N17 individua il cargo greco alle dodici e dieci minuti. Il timo- niere Armando Infante, non appena stabilito il contatto radar, chiama il comandante per avvisarlo della situazione. Ernesto lascia il lato e- sterno della plancia e rientra per sbirciare nello schermo dove un

raggio luminoso ruota in continuazione, marcando i bersagli sotto forma di puntini lampeggianti. Armando lo informa: - Viaggia sulla rotta per La Guaira. Mantiene prua costante e ha una velocità di venticinque nodi, in rallentamento. - - Seguiamo avanti - dice Ernesto prima di chiarire. - È l’Onassis Quinto, il cargo esca. Tra quanto lo incontreremo? - - Tra venti minuti. - - Sarà alle dodici e trenta - mormora il comandante dopo avere fis- sato le lancette dell’orologio al polso. - Ci salirò io a parlare col greco, dopo che lo avremo affiancato. Fai approntare una motolancia. Stabi- liamo un miglio d’abbrivo e fermiamo a cento metri da lui. - Ernesto Chivas è deciso a rispettare gli ordini di Nelsen: conse- gnerà a Pelekanakis, alle dodici e trenta, la valigetta con i dollari imitati alla perfezione e i codici d’apertura. In quel momento termine- rà la sua operazione d’infiltrazione. “Nessuna simile è costata tanti sforzi e indagini” gli ha detto l’ammiraglio la sera prima della parten- za. Scende al suo alloggio per prendere la borsa. Siede sulla sponda del lettino rifatto con una copertina azzurra, mentre una fila di pen- sieri penosi gli si forma in testa. Dubita. La manovra che sta per compiere spetterebbe alle forze speciali della DEA, perché esiste il sospetto di traffico illecito. Se qualcosa andasse storto, in che posi- zione si verrebbe a trovare di fronte al dipartimento? C’è altro: il modo di fare del suo timoniere ha qualcosa d’insolito. Dalla partenza, il maresciallo Armando non gli leva gli occhi di dosso, pare che lo spii e ha un’aria afflitta. Di solito è loquace e allegro. Sono assieme da cinque anni e non l’ha mai veduto così. C’è un ultimo particolare: si è pentito d’avere dato alla moglie la notizia della promozione. Se qual- cosa bloccasse l’operazione, la notizia dell’avanzamento in una commissione di qualunque grado prenderà definizione di collusione. Lo scuote il trillo del telefono appeso di lato al lettino. - Che c’è? - domanda mettendosi in piedi. - Sullo schermo è comparso un secondo bersaglio - lo avvisa Ar- mando. - Piccole dimensioni e dirige sul punto d’incontro. - - Cerca di identificarlo. Vengo sopra. -

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Alle dodici e venti è di nuovo in plancia e chiede chiarimenti. - Rotta e velocità del battello in arrivo? - - È lento - risponde Armando. - Arriverà su di noi alle tredici. Tra quaranta minuti. Potrebbe trattarsi di un peschereccio. - - Un figlioccio. Verificheremo se ha un appuntamento col greco. - Ernesto si avvicina all’oblò e punta il binocolo. Dinanzi alla prora è visibile l’Onassis Quinto. In pochi minuti saranno a corta distanza e dovranno entrambi fermarsi per non scontrarsi. - Comandante, siamo pronti per mettere i motori in neutro - lo avvisa Armando. - I marinai calano la lancia per lei. - Ernesto fa segno all’ufficiale di navigazione di rilevare il comando. Discende sulla lancia tenendo con sé la valigetta. Il marinaio alla guida punta il cargo che si staglia immobile e imponente contro il cielo az- zurro. Alle dodici e ventisei lo affiancano. Dalla coperta, un uomo cala una scaletta di corda per far salire l’ufficiale. Pelekanakis esce dalla plancia per riceverlo. - Benvenuto in Grecia, la posso trattenere per un drink? - invita il barbuto con la faccia da mascherone. - Ho i minuti contati. Le consegno i soldi ed esaurisco il compito. - Mette nelle mani del grassone la busta con i codici d’apertura. - Vi troverà le istruzioni. Sono serrature a tempo. - - Gran precisione. Mi piace la meticolosità dei militari. Dica a chi paga il conto che il tonno andrà a destinazione. La trasborderemo sul battello da pesca che si sta avvicinando. - Ernesto aggrotta le larghe sopracciglia. Nelsen gli ha ordinato di non prendere iniziative che possano deviare da quanto stabilito a ta- volino. - La informo che la sua nave e il peschereccio dovranno essere in breve fuori della portata del mio radar. - Il greco si liscia la barbaccia. - Non avrà intenzione di fermare il peschereccio? - s’inalbera stringendo la valigetta. - Devo trasbordare la merce. Mi dia tempo per completare il mio incarico. - - Non ho disposizioni da chi vi protegge per ignorarvi in caso di scambi. Il peschereccio non era nel conto. -

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- Starà scherzando. Lei potrà fare le ispezioni che vorrà. Ricordi che ci sono gli accordi di Montego Bay, ai quali mi appello. L’Onassis Quinto è nave emporio e chi lo affianca, fa spesa. - - Conosco la risoluzione di Montego. Allontani la sua nave. Non si faccia abbordare fino a che non sarete fuori portata radar. - - Non ci mettiamo a discutere. Comandante, il peschereccio ha nazionalità diversa dalla mia e dalla sua. Se facessi contrabbando, non danneggerei la sua nazione. Conosce i paragrafi, immagino. - - Non scordi che il diritto d’inseguimento in acque internazionali è facoltativo. Si allontani in fretta. - - Lei commette un errore - il greco ride entrando in plancia. - I suoi superiori le tireranno le orecchie - gli strilla dietro. Ernesto finge di non udire. Riafferra la scaletta di corda e scende nella motolancia, dove lo attende il marinaio. L’imbarcazione oscilla per l’onda lunga dell’oceano e si allontana dalla fiancata del cargo per tornare alla N17, a poca distanza. Alle dodici e quaranta i marò la riagganciano agli argani e la issano a bordo. Il peschereccio giunge a portata ottica. Chivas ordina di fotogra- farlo. Rimanda a dopo la chiamata radio per comunicare con Nelsen. - Avanti tutta - ordina all’ufficiale di navigazione. - Rotta alla base. - Si rivolge ad Armando: - Buona manovra. - Decide di fargli la do- manda: - Mi dici perché sei teso? - - Con l’anzianità, uno si mette a riflettere - risponde il timoniere Armando levando per un istante gli occhi dalla bussola. L’interfonico gracchia per la chiamata della centrale di tiro. Nello schermo del radar sono comparsi due bersagli aerei diretti verso il cargo. Il direttore della centrale chiarisce: - Gli elicotteri non s’identificano. - - Potrebbero essere della DEA - risponde Ernesto Chivas. - Uno dei due ha il sistema di punteria attivato. - - Tra quanto saranno sulla verticale del cargo? - - Alle dodici e cinquantasette. Tra dieci minuti. - Il comandante impreca a bassa voce. Ora le navi che rientrano nelle condizioni previste dagli accordi di Montego sono due. Per

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giunta, sono in arrivo degli elicotteri e pare che le intenzioni dei piloti non siano pacifiche. Se fossero della DEA, perché avrebbero le armi attive? La sua torpediniera non deve trovarsi coinvolta. - Che fa il peschereccio? - chiede ad Armando. - Si allontana? - - Si è fermato. Ha interrotto la rotta di congiunzione con il greco. - Il comandante riflette alcuni secondi prima di riprendere a parlare attraverso l’interfonico con il direttore del tiro. - Tenente, chiedi un’identificazione d’emergenza. - - Fatto. Negativo anche questo. Sono sulla verticale del cargo - lo informa il tenente. Dalla sala radio informano la plancia che il cargo ha lanciato una trasmissione e dichiara un attacco dall’aria. Trasmettono su due tipi d’onda: corta e lunga. - Quelli sono banditi, altro che DEA - quasi grida Ernesto con il volto teso. - Prepariamoci alla difesa. Assumiamo il posto di combat- timento. Ognuno al suo posto. - Gli altoparlanti nei locali della N17 fischiano il segnale e ogni ma- rinaio corre all’assetto. Si chiudono le porte stagne, si accendono le luci rosse di emergenza, si preparano le linee antincendio e le squadre antifalla; si levano dagli armadi le barelle per i feriti. Una grossa onda si alza di poppa, creata dalle eliche che spingono a trentacinque nodi. Lo scafo vibra generando un tremito che si trasmette alle persone. Armando dice a Chivas che ha bisogno di parlargli. - Signore, siamo spettatori di un assalto di sconosciuti - esordisce il timoniere. - Ci conosciamo da troppo per farci del male. - Armando è impacciato. Socchiude le palpebre, più che per difendere gli occhi dalla forte luce, per vedere più a fondo in quelli del comandante. Im- magina una corte marziale pronta a giudicarlo. Ai giudici, per un nuovo caso dove c’è di mezzo la cocaina, importerà poco della loro onestà. Lui ricorda quanto accadde a Jean Paul. Deve parlare. Le vi- brazioni dello scafo gli risalgono le gambe, facendogli traballare la vescica, rendendogli la voce tremolante. - Il capitano Carrera ed io

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siamo convinti che l’ammiraglio Nelsen abusi della sua autorità per scopi poco puliti. Copre traffici non legali. - - Chi è Carrera? - - Comandava la 416. Anni fa ci assegnarono una missione di sor- veglianza. Prima della partenza qualcuno mise cocaina a bordo. Durante la notte incagliammo e ci salvammo dalla corte marziale but- tandola in mare. Dopo l’inchiesta, il capitano Carrera dette le dimissioni. - Ora la voce del timoniere suona sicura. - Nelsen usa le navi e le persone. La missione di oggi non ha nulla a che vedere con l’infiltrazione. Siamo nel mezzo di una guerra tra bande. - Ernesto Chivas trova che le frasi gli pesano addosso. Vorrebbe indignarsi, non cela a se stesso che l’infamia della corruzione è dila- gante. Lui non ha mai nominato Nelsen alla presenza dei suoi uomini e ha tenuto segreto lo sviluppo del compito. Si domanda dove origini il sospetto del timoniere che certo non conosceva il contenuto della valigetta consegnata al greco. Guarda la prora della torpediniera lan- ciata nel ritorno alla base. A un tratto, crede che il suo tessuto morale stia traballando. L’avanzamento di grado che gli è stato dato, a quel punto, si può chiamare collusione. Sceglie un atto di coraggio. - In corte marziale ci finiremo entrambi - risponde con gravità. - Lo sai che nell’antica Roma i potenti si sceglievano i buffoni per sot- tometterli alle burle e che finita la festa, li trafiggevo per le offese che avevano arrecato nel gioco? Che accadde alla 416? - Armando deglutisce prima di parlare. - Quella volta l’ordine era di sorvegliare il Neptune, che portava cocaina. Le carte nautiche erano falsificate e finimmo in un banco di corallo. Ho rivisto Carrera. Ha le prove che la merce illegale era a bordo. Nelsen lo sta ricattando, manipolando i fatti. Sul Neptune fu- rono trovati diecimila barattoli per marmellata riempiti con droga. Questa volta cosa trasporta l’Onassis Quinto? - - È il motivo della tua scrupolosità e del nervosismo? - - Non ce ne sono altri - garantisce il timoniere premendo il neo sulla guancia. - Ho veduto Nelsen salire a bordo di questa nave la not- te prima della partenza. Aveva la valigetta che lei ha dato al greco. La

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situazione sfugge al controllo. Stanno sparando sul cargo e ci saranno dei morti. La notizia sarà resa pubblica. Lei sarà incastrato. - - Trai conclusioni rapide, Armando. - - Lei non ignora che ho ragione, signore. - - Quello su cui sono salito è un cargo esca. Nelsen sa ciò che fa. - - Lui sa ciò che vuole. L’esca è lei, comandante. Il cargo è sotto un attacco non definito. Il capitano Carrera vuole incontrarla. Spero che il caso lo permetta. - - Di questo riparleremo. - Il dialogo è interrotto dall’ufficiale di navigazione: - La sala radio ha ricevuto un messaggio dell’Onassis Quinto. Chiede il nostro intervento. Affonda. - Ernesto va al radar. Il peschereccio si sta allontanando verso nord. Inoltre gli audifoni registrano delle esplosioni. Si sente preso dal mor- so della responsabilità nei confronti dell’equipaggio civile. Deve agire. “Ne caverò un atto errato, o giusto?” - Invertire la rotta, dirigere sull’Onassis Quinto - ordina cercando un vantaggio tattico che non gli faccia subire perdite. La torpediniera sbanda dal lato opposto alla virata, creando un ri- bollire di spuma nel cerchio che lo scafo traccia sull’acqua color cobalto. Fila per raggiungere il punto dello scontro. Ernesto scruta il mare col binocolo. Continua a regolare il fuoco del binocolo per migliorare la visione della sagoma appena intravista. - Eccolo là, l’Onassis Quinto. Esce fumo. Non è ancora affonda- to. Recuperiamo l’equipaggio. Trasmettiamo la sua posizione al comando e chiediamo gli elicotteri del soccorso. - Scambia un’occhiata con Armando e ne coglie un lampo di solida- le consenso. Il comandante sa che tutte le conseguenze, da quel momento, ricadranno su di lui. Magari, prima di finire agli arresti e nell’attesa del processo, Janet, sua moglie, chiederà il divorzio. Non si abituerà mai alle ristrettezze che seguono le privazioni. Comparendo la torpediniera, l’Artigliato tira un ultimo razzo con- tro il cargo, colpendo il castello di prora, dove alloggia l’equipaggio, poi punta la nave militare. Dal secondo elicottero, quello da trasporto

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pilotato dall’americano Robert, lungo le corde assicurate con i ganci d’acciaio, discendono gli assaltatori, tra loro Gonzales. Costui corre a bloccare Pelekanakis e sotto la minaccia del mitra gli sfila la valigetta. Lo fa legare per issarlo alla cabina del Chinook. L’incursione è fulmi- nea e non incontra resistenza. Rispettando i patti con Nelsen, Gonzales appesantisce la valigetta legandovi dei pesi raccolti in plan- cia e lancia tutto in mare, assicurandosi che vada a fondo. Dopo di ciò, a sua volta, si fa issare aggrappato alla rete in cui è stato messo il carico di cocaina. Robert tira la leva del ciclico e il Chinook riprende- re il volo verso la costa, abbandonando i suoi assaltatori al loro destino. Ernesto ha osservato la scena. In breve le mitragliere della N17 sono a distanza utile e lui ordina di sparare all’Artigliato per por- re fine all’attacco. Il pilota, accortosi di essere inquadrato dalla centrale di tiro, gira il muso continuando il fuoco mentre accelera la rotazione delle pale per prendere quota. - Direttore, deciditi - dice Ernesto nell’interfonico al tenente della centrale di combattimento - fallo tacere. - Le cannonate partono. Il pilota non è abbastanza rapido da evitare i tiri. Il rotore di coda esplode e l’Artigliato s’impenna. Poi s’inclina e cade nell’acqua. La N17 rallenta. - Il pilota sarà recuperato, vivo o morto. Ammainare due lance. Trasferire i feriti e l’equipaggio - ordina il comandante preparando la nave per l’abbordaggio dell’Onassis Quinto, dopo avere valutato che la reazione degli assaltatori si fa dura. - Comunicate a quei banditi di arrendersi. - Gli avvisi sono dati a voce e con i segnali visivi. Gli uomini di Gonzales, rimasti sul cassero centrale, fanno partire altre raffiche in direzione della N17. Un razzo cade sulla prora provocando danni agli argani, al paraonde e generando un principio d’incendio. La squadra antincendio interviene per soffocare il fuoco. In quel momento, il medico entra trafelato in plancia. - Eccomi, comandante. - - Ho chiesto l’intervento delle eliambulanze per i feriti gravi. Sa- ranno qui in breve. Se servisse del sangue, troveremo dei volontari. -

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Si odono altre raffiche di mitra. La resa degli uomini di Gonzales non tarda. Gli viene ingiunto, sotto la mira dei fucilieri, di tenere le mani in alto. Le lance della N17 affiancate all’Onassis ricevono l’equipaggio salvo. L’infermiere sale assieme al medico della torpedi- niera sul cargo per dare assistenza ai feriti, mentre la radio della N17 entra in contatto con il Bell 222, l’elicottero ambulanza per il trasfe- rimento dei feriti all’ospedale. A prora, nel castello del personale, c’è un morto. Si tratta di un uomo di colore. Un proiettile dell’Artigliato gli ha aperto la testa. Otu Butu è riverso sul tavolo, in una pozza di sangue. Gli pende dal brac- cio la siringa con cui s’iniettava la dose di eroina. Tokolosh non l’ha protetto per nulla durante la ripugnate iniezione: la droga aveva inter- rotto la loro extrasensoriale sintonia africana.

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Il gruppo di Raul, occupato l’accampamento di Gonzales senza trovare resistenza, comincia a udire il pulsare del motore del Chinook: proviene dalle gole tra le colline circostanti. Il paramilitare non so- spetta l’accoglienza preparatagli dai guerriglieri. Raul avverte i suoi di tenersi pronti. L’effetto sorpresa, quel pomeriggio, giocherà per loro. Hanno circondato l’area d’atterraggio con mine antiuomo e mimetiz- zato le mitragliere e i lanciagranate. L’elicottero pilotato da Robert scende nel centro del cerchio mar- cato da paletti ficcati nel terreno. Solleva polvere e il vento provocato dai rotori scuote le cime degli alberi. Quando le ruote toccano il suo- lo, il pilota leva il contatto e le pale rallentano mentre il tuono del motore si affievolisce. Si apre la porta della carlinga ed esce il parami- litare senza berretto, col mitra a tracolla. Si ferma attonito a guardare un indio inginocchiato che gli grida di restare fermo. - Saltiamo tutti. Non camminare. - - Che dici? - strilla l’uomo rapato. - Sei sulle mine. - Il paramilitare realizza in un lampo d’essere imbottigliato. Si volta con rabbia per rientrare nell’elicottero. Una raffica di mitra gli ingiun- ge di fermarsi. Impreca vedendo un uomo uscire armato dalla vegetazione e tenerlo nella traiettoria del mitra. - Chi siete? - dice alzando la voce. - Non ti spaventare. Sono Raul. Vieni dritto verso di me e ti reste- ranno ancora le gambe. - - Che cosa vuoi Raul? Già una volta te le ho date, o sbaglio? - lo umilia Gonzales avanzando con lentezza e calcolando la fregatura. - Le cose sono cambiate. Ti avverto che una sola mossa falsa, tu o quelli che stanno nell’elicottero, e saltate. - - Non mi hai risposto. Che vuoi? - - Un prestito, zero interessi. - - Rivolgiti al Banco della Repubblica. Raul, falla finita. -

- Cocaina, Gonzales - il guerrigliero ricorda che l’Artigliato non è ancora rientrato e chiede notizie: - Dove hai lasciato l’altro uccellino? - - Arriverà tra poco - bara l’altro pur sapendo che è stato abbattu- to. - Ti conviene ragionare. - - Non hai capito che sono in vantaggio. Ora, dì a quelli che sono là dentro di scendere con le mani in vista. - Il paramilitare fa cenno a Robert di uscire col greco. Teme che il compratore americano aspetterà inutilmente la cocaina pattuita. - Abbiamo un prigioniero, Raul - lo informa Gonzales. - Fa atten- zione a non sparargli. So che sei specialista a liquidare i civili inermi. Qualcuno ha contato i cadaveri che non hai seppellito. - Pelekanakis percepisce la morte sul collo e un rigurgito di memo- ria gli riporta l’inutile Tokolosh. Ha la prova che il feticcio era un bluff. Il guerrigliero chiama Antonio. Gli ordina d’ispezionare il Chi- nook e di mettere un uomo a badare al pilota e a Gonzales. Intanto, il greco, è costretto a fornire informazioni sul tipo di traf- fico che svolge, la destinazione della merce, per chi lavora. Dinanzi alla canna di una pistola canta come un grillo. - Vedi, Pelekanakis - gli dice Raul - non hai da temere. A me sta antipatico Gonzales. Mi ha fatto brutte sorprese altre volte e oggi siamo alla resa dei conti. Adesso resti rinchiuso. Vedrai che ci capire- mo. - Lo libera dalle corde che gli stringono i polsi, lo fa calare nel fossato e vi stende sopra una rete di ferro. Si allontana col suo secon- do per stabilire il da farsi. Antonio torna dall’elicottero col naso infarinato. - Raul, abbiamo svoltato - esulta. - Capo, permetti, tutta questa roba era per qualche cliente poderoso - dice con tono di dubbio. - Ce ne saranno novecento chili. - - Il barbuto ha riferito che è merce dei mafiosi di Panama. S’incazzeranno, però non possiamo mollarla. Siamo in ritardo con l’ultima consegna. Il capo supremo si aspetta l’incasso. Mi beccherà in testa e senza dimenticare che Nelsen mi perseguita con le sue lance veloci. Siamo bloccati. Questa è un’occasione da cogliere. -

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Raul pensa in fretta. Sceglie di usare il greco per arrivare agli italia- ni. Potrebbe fare un accordo. Scambiare la merce con denaro. Eliminerà Gonzales e resterà l’unico a prevalere sull’intera zona. Del pilota americano non gli importa nulla. Ammazzerà anche lui. Va dentro l’annerita capanna, dove sono legati il paramilitare e il pilota. Infila nelle loro labbra sigarette umide. - Gonzales, ci possiamo intendere. Ti lascio vivo - finge accen- dendogli la sigaretta. - Inoltre non ti sbriciolo l’elicottero con la dinamite e non sconfinerò nella tua zona. - - La tua parrebbe una proposta onesta, se mi fidassi di te - rispon- de il paramilitare senza guardarlo in faccia. - Pretendi una tonnellata di cocaina, che non è mia. Verranno a cercarci i venditori e ci am- mazzeranno. Non amano gli scherzi. - - Se non è tua, che ti frega? - - Raul, sei pazzo. - - Dovranno venire nella selva. Noi al sicuro e loro no. Ho deciso di trasferire la merce al mio accampamento. Tu vieni con me. Spero che il tuo pilota abbia voglia di avviare il frullatore e di collaborare. - Robert avverte che si devono rifornire i serbatoi. Il guerrigliero acconsente e gli indios iniziano il travaso portando sulle spalle le tani- che di cherosene e poi raggiungendo l’elicottero per il sentiero lasciato libero dalle mine. L’angustia sui loro volti è sinonimo di diffi- denza: temono di saltare in aria. Conoscono la morte atroce che si soffre perdendo un piede o una gamba. In meno di un’ora versano nei serbatoi trenta taniche di carburan- te. Raul lascia gli uomini a custodire il campo conquistato. Fa trasferire Gonzales sul Chinook e vi sale con Antonio e un paio dei suoi. Consegna le coordinate del suo accampamento a Robert. - Con queste non ti puoi sbagliare - gli dice indicando il foglio. - Non fare dirottamenti o ti ammazzo. - Il Chinook si solleva, gira verso sud. Vola per oltre due ore poi, prima del tramonto, scende sulla nuova pista non ancora assestata. La striscia di terreno è illuminata da lampade elettroniche. Il guerrigliero, via radio, ha fatto avvisare le guardie di non tirare contro il Chinook.

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Dopo l’atterraggio ordina di rinchiudere sia Gonzales sia il pilota in un fosso profondo. La cocaina viene stivata in una capanna con due uomini di guardia. “Cancros, questa volta è andata bene.” - Permetti, Raul - gli domanda Antonio - adesso che si fa? - - Mandiamo in Venezuela il quantitativo che dobbiamo. Il resto lo teniamo noi. Ho deciso di usare la raffineria di Gonzales. - - Ti sei accordato? - s’informa Antonio senza stupirsi. - No. Me lo levo di torno. - - E il pilota? - - Lo prendo a lavorare. - Mente ancora celando il suo scopo. - Per tenere il campo di Gonzales ci toccherà dividere gli uomini. Siamo scarsi per due fronti - fa notare Antonio. - Dirò a Cecilia di reclutare. Con la disperazione che c’è in paese e promettendo pesos, le richieste di entrare nella rivoluzione non scar- seggeranno. Con tanta roba staremo senza pensieri per un paio d’anni. Bisognerà addestrare i nuovi. Faremo venire gli irlandesi. - - Facciamo reclutare i minori? - - Più sono piccoli e più ti rispettano. - - Ammazzano con meno storie. Hai ragione, permetti. - - Cecilia forzerà l’ingaggio. Sarà aiutata dalle ragazze del casino. Il pelo vellutato fa venire coraggio anche ai conigli. Antonio, stasera resti unico responsabile. Gonzales non lo perdi di vista. Al minimo segno d’irrequietezza lo piombi. - Raul va alla baracca comando e slaccia il cinturone buttandosi sul letto. Freme, assaporando la vittoria. Il pensiero gli mette desiderio di sesso. Si prepara due strisce di cocaina e le tira per il naso secco. Ri- prende le forze e crede che la roba sottratta a Gonzales sia di prima qualità. Sul mercato vale molto, va tagliata. Riposa un’ora. Al risveglio indossa abiti anonimi e si fa accompagnare da un guardaspalle, in mo- to, al paese. Arriva al postribolo e siede sotto la tettoia esterna che copre un tratto di marciapiede. Cecilia scende dalle stanze superiori, passa per il lato disadorno comunicante con il bar e va incontro a Raul compressa nei jeans attil-

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lati e con una canottiera abbellita da ricami colorati, corta, che lascia l’ombelico ovale allo scoperto. Lo saluta con voce neutra. - Che aria stanca. Che ti è successo? - - Giorno pesante Cecilia. Sono venuto per Miccia. Mi tira. - - La chiamo. Che cosa bevi? - - Agua ardente. - La donna prende la bottiglia al banco delle mescite e strilla alla rossa che sta riposando in una stanzetta al piano superiore. Miccia scende con un paio d’amiche provocanti. Vanno a sedere al tavolo di Raul che, intanto, ha cominciato a tracannare. L’uomo offre birra alle ragazze. La nera con i capelli tinti ride piano e pare stupidina. Avrà pensieri come sassolini di sale che si sciolgono agli umori tiepidi del suo cervellino. L’espressione piatta e distante eccita Raul, che la vede diversa da Cecilia, immaginando che a letto sarà lui a scegliere la posi- zione. La giovane gli siede accanto e ricama vaghi pettegolezzi sulle amiche o racconta particolari non compromettenti di clienti con stra- ne voglie. Fornita di deliziosa spudoratezza, parla delle forme delle amiche; del loro odore particolare. Smuove il riso del guerrigliero che la fissa con avvampato desiderio. Miccia sa smorzare un argomento che non le dà sicurezza, ponen- do, lei stessa, al momento giusto, con astuzia, domande al suo interlocutore e distraendolo dal tema che vuole evitare. Mostra di prendere la vita alla leggera, senza voglia di elencare i guai, e un siffat- to atteggiamento le garantisce la simpatia del guerrigliero. Raul chiede a Cecilia di un certo Rudy, un allevatore della zona il cui nome Miccia non ha mai udito. “Possiede la fattoria che si chiama Luna Rossa” risponde la badessa. Raul pretende che questi vada fino alla costa atlantica e affitti un vivaio per aragoste. La richiesta attiva la curiosità di Miccia, mentre tenta di non perdere una parola. - Voglio parlare al vaccaio - ripete Raul a Cecilia che lo fissa con aria stupita. - Oltre che selezionare vacche, sarà buono per altro. - - Ho qualche dubbio sulle sue capacità marine. - - Tu portami Rudy. Stanotte mi fermo con Miccia - la avverte il guerrigliero passando una mano sulla snella gamba della nera, fino

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all’inguine. - Ho un’altra richiesta per te. Ho bisogno di manovali per la mia fattoria. - La informa con frasi che quella intende all’istante di ricercare minori ai quali dare un fucile. - Fa un bando. - Cecilia lo rassicura: troverà i giovani nel solito modo. Offrirà loro le ragazze e poi, quando quelli avranno ammucchiato debiti che non potranno pagare, li manderà all’arruolamento. Non le piace che Mic- cia sollazzi Raul. Non ha però il coraggio di urtare la suscettibilità del ribelle. Si sarà infilata nel naso una doppia dose. Lo vede alzarsi e strattonare per un braccio la rossa formosa. Miccia, non appena serrata la porta della stanza, si spoglia senza attendere ordini mostrando la liscia pelle nera. S’infila tra le lenzuola, attendendo che Raul si levi gli indumenti. - Vuoi un profilattico? - gli domanda. - Che ci faccio? Quanti anni pensi che possa campare? Mi posso pure ammalare. Non stringermi la testa. Non voglio carezze. - La barba non rasa del guerrigliero le irrita le guance. Nel rapido at- to sessuale, compiuto con impeto violento, cavalcando dalle natiche, il guerrigliero spegne la fatua forza che gli ha messo la droga. Teso sopra il fresco corpo di Miccia, sofferente sotto di lui, riprende ad agitarsi; a sbattere contro i fianchi modellati della giovane, pretenden- do dai suoi organi una seconda prestazione che non occorre per la mischia d’alcol, cocaina e adrenalina. La giovane, vedendolo ansimare vanamente, gli offre, con cervel- lotica invadenza, di divenire il suo amante. Raul sospende il dondolio e le risponde che lui è uno destinato a viaggiare, che non resterà a lungo a marcire in quel posto, che ha avuto un colpo di fortuna, che non prende impegni fissi. Andrà a vivere in un paradiso, con liquori di prima scelta e donne vestite secondo la moda. La nera sa ritagliare da ogni pezzetto di frase la parola chiave, quella che assieme ad altre estratte da rimandi e accenni possono darle un’idea di quello che il sudicio uomo ordisce. L’alba inizia a rischiarare il paese. Il guerrigliero guarda l’orologio. Cecilia è obbediente e presto apparirà col vaccaio. Fuma una sigaretta senza scendere dal letto, fissando con occhiate morbose il corpo nu-

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do della nera. Ode dei colpi alla porta e va ad aprire coprendosi con un asciugamano. Cecilia entra accompagnando Rudy, un tipo con la pelle caffellatte, sui trentacinque, con buona muscolatura e la faccia da simpatico farabutto, arrivato dalla fattoria Luna Rossa. - Raul che ti succede? - si lamenta il vaccaio mostrando in volto una congestione che non si smorza neppure quando l’altro gli mette tra le mani una bottiglia di rum e un bicchiere. - Te ne vai un po’ al mare. - - Allevo vacche. A chi lascio la Luna Rossa? - - Imparerai a pascere aragoste. Andiamo. Vorrai puzzare di vacca per tutta la vita? - - Raul, ci conosciamo da anni. Ho mai messo nel tuo piatto una bistecca cattiva o una fetta di mucca pazza? Ti fornisco animali cre- sciuti all’aperto, con foraggio fresco e sale. Mai una malattia, perché curo i miei animali e se mi mandassi via, non ci sarebbe uno uguale a me. Mangerai immondezza. - - Tu mi servi. Sei incensurato. Uno con i soldi puliti. Andrai a Bar- ranquilla. Là s’incontrano i distributori internazionali. Ti manderò dei pacchi di cocaina che conserverai con cura. - - Dove pesco il denaro per il contratto del vivaio? - - Sei demente. Vendi del bestiame e coprimi le spese iniziali. - - Raul, si tratta di milioni e le mie vacche adesso non sono ingras- sate e molte sono incinte. Ho programmato per riprodurre e non per vendere. Mi rovini dieci anni di lavoro. - - Ti ripago tutto. Ho quello che serve. - - Non sono tagliato per queste operazioni - tenta di protestare Rudy alzando la voce. - Finirà che ammazzerò le aragoste. Le cose senza senso mi riescono male. - - Partirai questa settimana. Adesso bevi un bicchiere e prendi la rossa - invita indicando Miccia dopo avere sollevato il lenzuolo. - Guarda che fisico. - - Ci facciamo la bottiglia. Non ho voglia di sesso. Mi hai innervo- sito con la trovata insensata delle aragoste. -

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In meno di mezz’ora s’ingozzano di rum. L’allevatore esce dalla stanza scotendo la testa. Per accontentare Raul dovrà trasferirsi alla costa. Ci sarà del lavoro imprevisto da finire in fretta. Riunire il be- stiame, palpare gli uteri, stabilire quali madri vendere e quali maschi sacrificare o quanti vitelli togliere dall’ingrasso per raggiungere la somma per Raul. Né ha potuto opporsi, perché ha la proprietà vulne- rabile ai soprusi dei guerriglieri, ai quali paga una tangente. Non potrà neppure curare l’accordo col torero Pancho. Ciò gli duole. Gli ha messo in forza un toro razza miura che ha una cattiveria da diavolo. Il torero si è raccomandato per una bestia simile. Raul si veste; scende in strada, dove lo attende il motociclista per il ritorno all’accampamento. Mentre questi sgamba per avviare la moto, si volge a Cecilia che si è affacciata. - Si è comportata bene la rossa. Tienimela da parte. - Cecilia resta al davanzale a vederlo allontanarsi dalla parte dove qualche mezzo pesante comincia a circolare per il trasporto del be- stiame e dei prodotti dei campi. Patate grandi e tonde, carote lunghe, pannocchie giganti, ananas e verdura fresca. Va alla stanza di Miccia ed entra senza immaginare che questa finge di dormire. La scuote con aria di mala gaiezza, scoprendola. - Sveglia bella - dice mentre una punta di gelosia la infastidisce per quella briciola di simpatia malata che Raul ha . - Sei stata bra- va stanotte. Adesso vai di sotto a filtrare caffè per le altre. Alzati. - Al sospetto che Miccia potrebbe rompere un delicato equilibrio che lei ha costruito con il sottile lavorio da meretrice, se le forma bile in bocca. Teme che Miccia sia più buona di lei a letto. Farà venire una nuova ragazza da un postribolo di un altro paese per sostituirla. La nera, con la perenne aria da sciocchina, le confida ogni volta ciò che i clienti le recitano. Quel mattino le racconta della pena di Raul. La provocante badessa dice brusca che non sta confessando nulla di nuovo: lei conosce il guerrigliero. Credendo ancora che l’ingenua ra- gazza non nasconda secondi fini, siede sulla sponda del letto e comincia ad accarezzarle la schiena per udire parole che la eccitino.

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Poi, in un accesso di malumore, smette di lisciarle la pelle vellutata e con acredine soggiunge: - Tu, bella cocca, con quello non ci vai più. Te lo scordi. Quando tornerà a friggere il merlo, gli metterò nel letto la bionda di Cartagena. Anzi, credo che ti scambio, e adesso non piangere, non mi vanno le lagne - sbraita restando a guardare il seno turgido della giovane. Miccia, completando il lavoro segreto, si alza con gli occhi lucidi e mentre si veste, lascia scivolare lacrime che sciolgono il rimmel steso in modo marcato. Ha elementi da fornire al Mono, segreto ispettore dell’Ufficio Antinarcotici. Le sue informazioni le procureranno un rimborso extra e se Cecilia opinasse di scambiarla con un’altra putta- nella, smetterà col lurido bordello e con l’appoggio del Mono, il suo capo claudicante che si copre vendendo indumenti da donna col fur- goncino, si trasferirà a Barranquilla per avviare un negozio di frittelle e bibite. Cecilia sente un breve rimorso vedendo le lacrime. La tira accanto a sé e la fa sedere. Di nuovo le accarezza la testa e le poggia la bocca tinta di rossetto sul collo. La spinge sul dorso e la ricopre di baci mentre un calore pungente la assale all’inguine.

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Al dipartimento c’è un insolito fervore che dura da quando il capo di stato maggiore è entrato con aria torva nella sala delle operazioni. Ufficiali e soldatesse vanno in giro con fogli e cablogrammi. Escudo- ro si sposta da un tavolo tattico all’altro. - Dov’è Nelsen? - domanda sibilando e ruotando la testa da un la- to all’altro nell’impulso di scovarlo. - Nel suo ufficio - gli riporta un maggiore zelante. - La N17 non è nella squadriglia del suo osservatorio? I coman- danti fanno o no rapporto a lui? - - Sì eccellenza. - - Me lo vada a chiamare - biascica Escudoro, insidioso. Mentre l’ufficiale esce, l’ammiraglio guarda il plastico operativo grattandosi le mascelle. - Ernesto Chivas ha fatto ritorno? - La domanda pare rivolta all’aria, giacché non è diretta a nessuno in particolare. L’aiutante di bandiera accorre con i dettagli. - Hanno comunicato di avere risolto l’ingaggio. Gli attaccanti si sono arresi. Abbiamo inviato le eliambulanze. - - Vittime? - - Un marinaio dell’Onassis Quinto e un terrorista. Alcuni feriti con ustioni. Nove prigionieri. Un pilota assaltatore recuperato in ma- re, sotto arresto a bordo della N17. - - Hanno ispezionato l’Onassis Quinto? - - Sta affondando signore. Hanno sabotato lo scafo. Imbarcano ac- qua dalle falle. - - Professionisti, vero? - Sì, signore. - Questa faccenda è tritolo. I giornalisti sono arrivati? - - Sono fuori, in attesa. L’ammiraglio Nelsen ha assicurato che li af- fronterà non appena avrà pronto il comunicato stampa. -

- Non siamo abituati a questo stress. Siamo pacifici. Donne e a- more - Escudoro morde il filtro della sigaretta. - Chissà se i politici apprezzano certe manifestazioni di forza. - L’alto ufficiale immagina il volto del presidente: del suo sguardo ricorda il costante scintillio. Sarà questa a farlo apparire deciso e infallibile. Presto, si farà vivo e lui darà la testa di Nelsen prima. La segretaria Rosa, in quel momento, si avvicina alla scrivania del suo capo con un bicchiere di acqua ghiacciata. Lo lascia sul ripiano, di lato a dei fogli scarabocchiati. - Mi ci vorrebbe altro adesso - farfuglia Nelsen. - Chivas ha davve- ro esagerato. Doveva restare fuori dallo scontro. - Da quando dalla N17 hanno iniziato a trasmettere ciò che accade al largo, lui è pensieroso. Vorrebbe essere certo che Gonzales, col suo attacco aereo, abbia distrutto la borsa e il suo contenuto, i dollari falsi, nel modo concordato e abbia prelevato la cocaina di Vassili. Vuole assolutamente essere certo che l’anonimo compratore americano non si dilegui per ritardi nella consegna. Il trillo snervante del telefono lo avvisa che i giornalisti lo hanno collimato. Dice a Rosa di tenerli a bada. Farà presto una dichiarazione ufficiale. In quel momento entra il maggiore mandato da Escudoro. - Ammiraglio, la desidera il capo di stato maggiore. Pare l’abbia morso una tarantola. Ha ripreso a fumare. Aveva smesso un mese fa. - Nelsen si alza battendo le palme delle mani sulla scrivania. Beve di un fiato l’acqua servitagli da Rosa. Mette il berretto sulla testa quadra- ta e segue l’ufficiale. - Ha assegnato lei l’incarico a Chivas? - s’informa il maggiore. - Normale pattugliamento. - - Pare sia scoppiata una guerra. - - Qui si agitano tutti - dichiara Nelsen - e per una cannonata. - Gli si leggono gli occhi notturni sotto la fronte piena di pensieri attivi e rabbiosi. L’eroica risoluzione di Ernesto l’ha sorpreso, dato che le disposizioni che lui aveva impartito erano di rientrare alla base senza attaccare tenzone. Passa una mano sulla testa partendo dalla

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folta attaccatura dei capelli tagliati con foggia militare. Agilmente, in- travede di trarre un vantaggio dall’imprevisto, rendendo favorevoli i momenti di tragicità. - Ho preparato una breve conferenza per i giornalisti - dice incon- trando Escudoro al tavolo tattico. - Per i giornalisti. - - Nelsen, andiamoci piano. Si è messo in contatto con il coman- dante Chivas nelle ultime ore? - - Questa mattina. Ha abbordato il cargo per i controlli, secondo gli accordi di Montego Bay - segue a mentire, sapendo che gli ordini per Ernesto erano di allontanarsi dall’area dopo di avere consegnato la borsa a Pelekanakis. - L’Onassis Quinto ha subito l’assalto degli eli- cotteri. La N17 è intervenuta per dare soccorso. Sono certo che Chivas ha operato con astuzia. Mi fido della sua esperienza e lo so- sterrò in qualunque inchiesta prendesse corpo. - - Sono onorato che lei stimi i suoi comandanti. I nostri servizi d’intelligenza stanno incrociando le notizie. Il comandante del cargo greco è stato sequestrato. Non ci sono rivendicazioni. L’aviazione sta sorvolando la zona costiera in cerca di tracce. - - La testimonianza di Chivas sarà importante per le ricerche. Gli ho ordinato di attendere che il cargo affondi. Giudicherà anche il danno ambientale. Che nessuno si sogni di strombazzare che noi in- quiniamo gli oceani. - - Suppongo fosse colmo di carburante. - - Per ora non ne butta una goccia. - - Lei mi fa rizzare il pelo! - esclama Escudoro spegnendo la cicca in un portapenne lasciato sul tavolo. - Ci manca solo l’inquinamento. - Il Corsaro sente caldo, suda benché la sala sia rinfrescata dai con- dizionatori che ne regolano la temperatura a diciotto gradi, per garantire il funzionamento degli apparati elettronici che analizzano ogni trasmissione intercettata. - Stabiliamo da dove sono partiti gli elicotteri - dice Escudoro ac- cettando una seconda sigaretta dall’aiutante di bandiera. - Gli armatori greci si faranno sentire. -

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- L’attacco è avvenuto in acque internazionali. Il capitano di cor- vetta Chivas ha partecipato ai corsi di specializzazione sul traffico illecito in mare. - Nelsen parla senza tentennare. - Ha chiarito che ha agito in condizioni di presenza costruttiva, prevista dalle convenzioni internazionali. L’intervento è giustificato, è inattaccabile dalle accuse, a prescindere dall’origine. - - È dunque un istituto di diritto internazionale, o vado errato? L’intervento, mi riferisco a questo. - - Mi scusi se ripeto che trae formula dalla notifica di Montego Bay. In modo esplicito. Esplicito. Il cargo era accostato a un peschereccio di differente bandiera e pertanto non pregiudica il diritto d’inseguimento. Chivas ha visto giusto ed ha manovrato senza errori. - - Nelsen, vuole il mio parere? Questa storia finirà in una corte in- ternazionale e sarà dura convincere i giudici. - - Prima, farò di Ernesto Chivas un eroe. - - Come? - - La stampa la tirerò dalla nostra parte. - Escudoro si sofferma a fissare l’ammiraglio di grado inferiore. Giudica che quanto proposto da Nelsen sia il risultato del riflesso di un artista allucinato che trae vantaggio da un fiasco; o meglio di un pittore che dipinta una porcata su tela, nel verso verticale, riesca a spacciarla per arte con una semplice rotazione di novanta gradi e met- tendo in orizzontale, sul suo cavalletto, l’opera dipinta da ubriaco. - Un eroe, va premiato - commenta il capo di stato maggiore tran- quillizzato. - Ho una domanda. Nei giorni scorsi mi ha fatto firmare il suo avanzamento al grado superiore, una promozione che Ernesto Chivas attendeva da due anni. Chiedo a lei: che cosa avrebbe ritardato l’arrivo dei galloni al nostro comandante nei tempi previsti? - - Intoppi burocratici. Cavilli. Gli affiderò la competenza delle armi sperimentali, a cominciare dal Gatic. Lo merita. - - Prepari una dichiarazione. Stili un rapporto non appena la N17 tornerà. Un’ultima accortezza: avvisiamo il direttore dell’ospedale

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navale che i feriti non devono avere contatto con nessuno. Vorrei rivedere il corso dell’intera operazione prima di sciogliere le riserve. - - Saranno inavvicinabili. In quarantena. Una bella quarantena. - Nelsen accompagna Escudoro all’ingresso della sala riservata al personale autorizzato e gli suggerisce di vantare agli occhi del presi- dente la prontezza della marina: Ernesto Chivas ha salvato delle vite e arrestato dieci terroristi. Nessuna organizzazione lo accuserà d’ignominia. Al contrario, ne riconosceranno i meriti. La signorina Rosa, riempito il pancino durante la pausa per il pranzo, torna placida in ufficio. Ha assaporato una dozzina di gambe- ri fritti in olio di girasole e una coppa di fragole di bosco al limone. Si accorge, con un pizzico di stupore, che Nelsen ha saltato il pranzo ed è nella stanza accanto, seduto alla scrivania vergando in modo nervo- so dei fogli. Osserva il dimenio che l’uomo imprime alle gambe. - Buon pomeriggio ammiraglio - dice rispettando il suo volere di non essere chiamato con vezzeggiativi sul lavoro. - Non ha pranzato? - - Salve Rosa - risponde l’altro seguitando a scrivere. - Con quello che accade, mi si è spento ogni appetito. L’appetito. Non appena terminerò, sistemerai questa relazione e stamperai una copia. Sarà una serata dura. Parlerò ai giornalisti. - - Gradisce un succo d’arancia? - - No. Richiedi la rassegna stampa. - Parla senza guardarla. - Voglio sapere cosa scrivono sullo scontro tra la torpediniera e i fuorilegge. Chissà cosa inventano i giornali. - Peña Rosa riconosce la stanchezza, più che l’impegno, sul volto del Corsaro. Ha rinunciato persino alla tazza di caffè con cui di solito pareggia la digestione. È dal mattino che la ignora, quasi lei non fosse tra le pareti di quel noioso ufficio, dove per un caso grandioso è ac- caduto qualcosa che mette tutti a correre. Ciò che la infastidisce è la noncuranza di Nelsen per il suo nuovo tailleur a fiori. Organizza il computer per collegarsi e scaricare da Internet le note d’agenzia. Ce n’è una che fornisce particolari tecnici non indifferenti: il calibro dei cannoni e la potenza di fuoco della N17. Una seconda che parla del

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dipartimento e dei suoi capi. Una terza che descrive il traffico illecito che passa per il canale di Panama. Una quarta che critica l’ospedale militare presso di cui sono stati ricoverati i feriti, non senza indagare sul perché di quell’isolamento impostogli. Nel tardo pomeriggio Rosa riceve la telefonata di Ernesto Chivas che la avvisa d’essere in vista del porto e che comparirà a riferire. Dopo poco risponde a una seconda telefonata. Il dottor Ayala, diret- tore dell’ospedale navale, le fa sapere che non potrà tenere separati i feriti del cargo dagli altri infermi per molto tempo, poiché la stampa comincia a premere. La raggiunge, infine, una terza telefonata. La voce di Rafael Santiago, giornalista del Diario, la prega di fissargli un incontro con il comandante della N17 per un’intervista. “Si sono svegliati tutti, peggio dei pipistrelli” mormora tra sé men- tre stampa gli articoli per Nelsen. Ha necessità di un caffè. Consegna il fascicolo ed esce dall’ufficio senza ondulare i fianchi. C’è nervosi- smo nei corridoi e non sarà apprezzata nel modo giusto. È il momento di affrontare i giornalisti. Nelsen poggia sul naso gli occhiali da Sole e da dietro le lenti vede il presente colorato di verde. Passa nell’ufficio di Rosa. Lo trova vuoto. Incontra la scia dell’accattivante profumo lasciato dalla segretaria. Accende un Bolivar e il fumo castra l’aria. Si rammarica perché sta trascurando la segreta- ria. L’impegno messo per fregare italiani, americani e russi e la tensione delle ultime giornate l’hanno distratto. Porrà rimedio: quella sera la porterà a cena. “Mi seccherebbe se cambiasse vessillo, o accet- tasse ingaggio sotto altra bandiera, un capitano, o un ammiraglio della riserva, con una pensione da senatore.” Compone una frase da ag- giungere alla fine della sua dichiarazione: “Ernesto Chivas è un ufficiale serio e attento, responsabile e preparato, da imitare.” Si sof- ferma un istante alla finestra per osservare la particolarità del posto in cui si trova. Dinanzi a lui risplende l’insenatura dove, qualche secolo prima, don Sebastian de Esvada giurò con solennità che in virtù dell’alta carica ricoperta avrebbe operato per la grandezza della Spa- gna. Immagina lo spettacolo delle navi da guerra inglesi agli ordini dell’ammiraglio Vernon, giunto da Southampton per sconfiggere don

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Sebastian de Esvada. Che giorno era? Il tredici. Lui crede che quella data porti male e richiami avvenimenti infausti se accoppiata con il venerdì. Il datario del suo orologio da polso lo incoraggia mostrando un altro numero. La fortuna sarà dalla sua parte. Quella che sta vi- vendo, per sorte, è una data diversa. Lucente quanto il ventisette. Fuori del palazzo dipartimentale, di lato al giardino ritagliato tra ibischi e piante di anturio, i microfoni che i cronisti gli spingono sotto il naso sono peggiori dei cannoni inglesi che colpirono don Sebastian, poiché i fotografi gli sparano colpi di flash. Si pente di non essersi fatto stendere da Rosa un velo del suo fard per evitare che il sudore sul volto renda matte le foto che appariranno in tv o sulle pagine dei rotocalchi. Palpeggia in una mano la dichiarazione non corretta da Escudoro (ha ricevuto l’esenzione dalla sua censura) e la leggerà per i notiziari. Farà una rappresentazione corale. Ha studiato le mosse del volto e l’articolazione della mascella. Il tono sarà enfatico, non trop- po. O duro e piatto, mai sarcastico, secondo il senso della frase. Terrà gli occhiali. Si schiarisce le corde vocali con un colpetto di tosse. Con voce controllata e volto contratto, con un sorrisetto voluto, comincia la lettura con pertinenza d’espressione, convinto di disporre di una dose oratoria rispondente alla delicatezza della situazione. “Ieri, una nostra unità è intervenuta in acque internazionali per soccorrere il mercantile Onassis Quinto attaccato da un gruppo di banditi. La torpediniera comandata da Ernesto Chivas si è sottoposta al fuoco ribelle nel tentativo di evitare lo scontro diretto. Nell’azione hanno perso la vita, un marittimo civile e un terrorista. Nove banditi sono in prigione. Resta sequestrato il capitano del cargo, signor Zorba Andrei Pelekanakis. Il comandante Chivas, valutata la situazione, ha aperto il fuoco di risposta contro un elicottero, abbattendolo. Il pilota è in arresto. Il cargo è affondato alle tre e sedici minuti. Il suo equi- paggio è stato tratto in salvo dalla torpediniera N17. Alcuni feriti sono ricoverati presso l’ospedale navale, dove ricevono cure e assi- stenza. I servizi investigativi lavorano per trovare la cupola organizzativa e i motivi dell’attacco. I serbatoi dell’Onassis non stan- no rilasciando quantità importanti di carburante. La merce che

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trasportava non è contaminante e rimane sigillata nei container. La compagnia armatrice greca si è costituita parte civile contro gli attac- canti. Il dipartimento sta valutando la posizione del comandante Ernesto Chivas e finora non sono emerse negligenze. Egli è tra i più esperti in materia d’intercettazione di navi sospette di contrabbando. Vi terremo informati per gli sviluppi. Vi ringrazio per l’attenzione.” - Scusi, ammiraglio - domanda un cronista - quali sono le ragioni che hanno fatto preferire l’ospedale navale per il ricovero dei feriti? - - L’ospedale è convenzionato a livello mondiale. Si è creduto op- portuno avvalersi dell’ottima convenzione. I medici del navale non sono diversi da quelli di un altro ospedale. Sufficiente per oggi. - Ripiega il foglio. Rientra meno rigido nell’edificio e torna dritto al suo ufficio. Si accascia sulla sedia e leva dal naso gli occhiali. Il discor- so non poteva essere migliore. Ha comunicato al pubblico lo spirito di sacrificio di un suo ufficiale. Sbircia nella stanza accanto. Peña Ro- sa sta al suo posto, attenta ai telefoni. - Ammiraglio, poco fa ha chiesto di lei un uomo. Non ha voluto lasciare messaggi. Aveva accento straniero. - Nelsen esegue una rapida analisi. Escluso King Kris, che Rosa co- nosce, c’è Vassili, il russo. Potrebbe essere. - Altre chiamate? - domanda Nelsen in modo crudo. - Ha telefonato Ernesto Chivas. Verrà non appena definiti i danni della N17. I tecnici dell’arsenale sono a bordo. Ha chiesto di lui anche il capo di stato maggiore. - - Rosa, questa è una situazione insolita. Accertati che nessuno leg- ga il rapporto di Chivas prima di me. Voglio essere il primo a incontrarlo. Non appena compare in portineria, lo mandino qui. - La segretaria conferma. Non vede nessuna situazione insolita, solo un ammiraglio corrotto. I dollari, però, li ha ancora lei, nascosti nell’alcova. Possiede buon acume per capire che presto i derubati si metteranno alla ricerca dei bigliettoni. Se tenesse per sé il maltolto, farebbe tante cose. Da un chirurgo estetico si farebbe alzare, di un’ombra, le natiche. Un minimo ritocco alle labbra, un’idea carnosa. Tanti capi di boutique, rinomati e civettuoli.

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- Un’ultima cosa - aggiunge l’ammiraglio sottovoce e ricevendo un’interrogativa occhiata dalla donna - presto ti manderò in vacanza. Tieni pronto il cestino di bellezza. - - Non ho alcuna necessità di andare in ferie adesso - protesta Rosa sollevando il petto. - Voglio conservare i giorni per la gita a Madrid. La Spagna non l’ho mai vista. - Nelsen arriccia le labbra. Non ricorda di averle accennato a un vi- aggio da quella parte, né di averle fatto un invito. - Da sola? - indaga. - Troverò un accompagnatore. - L’ammiraglio si fa attento. - Dovremmo parlare un po’. Stasera andremo a cena in un bel posticino. Hanno assunto un cuoco famo- so. Intanto spargi la voce che sei stanca e hai bisogno di riposo. Del resto, lo hai già fatto altre volte, il lamento. - Chiude la porta dell’ufficio. Guarda fuori dalla finestra la piazza interna della base navale. Le navi sono all’ancora e gli equipaggi godono eccessi di ripo- so. “Cambierò rotta. Lascerò la Colombia.” Prende il sestante dalla cappelliera e lo punta sul faro. La collimazione non gli riesce. Gli trema la mano. Valuta se l’ammiraglio Escudoro possa sospettare di lui. Quello non è il tipo d’ufficiale che si lascia pendere per le pinne: sotto l’aria bonaria cela il carattere fermo e osservante delle norme. Se deciderà di premere in privato il comandante Ernesto, potrebbe an- che scoprire la verità. “Chivas terrebbe per sé l’episodio della valigetta?” Perciò sarà lui, per primo, a incontrarlo e si garantirà il silenzio per non scivolare sulla melma. Ordire progetti è un’attività che lo affatica quanto il lavoro manuale. Con scarso interesse fissa il dipinto della battaglia di Carabobo appeso alla parete. Non coglie l’abilità del pittore nelle prospettive, nelle minuziosità del paesaggio, nella crudezza con cui immortalò la scena. Socchiude gli occhi. Le ultime ore del pomeriggio trascorrono spasmodiche. Qualcosa ha fuso l’ingranaggio: Gonzales non chiama, fuori del tempo concorda- to. Al punto in cui sono incastrati gli eventi, potrebbero saltare i coperchi della pentola con i suoi piani. Il compratore proposto da Gonzales potrebbe avere rinunciato all’acquisto della merce. Gli resta

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il contenuto tolto dalla valigetta di King Kris: un milione di dollari autentici. Troverà il momento propizio per le dimissioni, senza che sospettino di lui. Ha orchestrato un programma per Rosa: tra qualche giorno la manderà in giro per banche a fare gli investimenti. La donna è incensurata, fedele, ha le qualità per piazzare un milione di dollari senza soggezione. Non ha coscienza del denaro. È un tipino perspi- cace, ma non avida quanto lui. Ernesto Chivas giunge al dipartimento. Armando gli ha aperto la mente. Adesso è lui in vantaggio e non teme l’ammiraglio. Saluta Ro- sa che lo avvisa dell’impazienza del suo capo. Gli dice della telefonata del giornalista Santiago che vorrebbe intervistarlo. Gli riferisce anche di presentarsi a Escudoro prima possibile. - Sono richiesto - commenta l’ufficiale con un mezzo sorriso. - Lo sarei anch’io se affondassi elicotteri - commenta ironica Peña Rosa introducendolo nell’ufficio del superiore. L’ammiraglio prega la segretaria affinché nessuno li disturbi e fa cenno all’altro di sedere nella poltroncina dinanzi alla scrivania. Ac- cende un nuovo sigaro. Il dialogo sarà amichevole. Così ha deciso. - Non sono soddisfatto del tuo comportamento - gli sfugge. - Le mie disposizioni erano di rientrare alla base dopo aver svolto il com- pito assegnato - dice apparendo calmo. - Cosa ti è preso? - - Sono arrivati due elicotteri in assetto da guerra. Non hanno ri- sposto al richiamo; ho ordinato di registrare ogni comunicazione e manovra della N17. - - Che motivo c’era di raggiungere una seconda volta l’Onassis? Per complicare le cose? Le cose. - - Ha lanciato il messaggio di soccorso, in chiaro e in morse. I trac- ciati erano registrati. Il capitano Pelekanakis mi ha chiamato in frequenza chiedendo il nostro intervento. Non avevo scelta. - L’ammiraglio, sudaticcio, batte le nocche sul ripiano fissando il soffitto. Ripensa alle ultime battute scambiate con Gonzales prima dell’inizio dell’attacco al cargo e rammenta di avergli ripetuto di neu- tralizzare la stazione radio del greco, senza attendere che la N17 fosse fuori portata dei rispettivi radar. Non ha ascoltato.

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- Sai dov’è la valigetta? - - L’ho consegnata. Non so che fine abbia fatto. - - Sono risentito - dice l’ammiraglio impaziente. - Ripenso al tempo perduto per organizzare la missione. Troppo rumore per nulla. - Nel- sen sente che l’ultima frase gli suona nota: ha qualcosa di teatrale. - Un peschereccio è entrato nel campo d’azione. Era giusto che in- tervenissi. In ogni caso c’è stato naufragio - commenta Ernesto. - Ho salvato il salvabile. - Nelsen lo fissa con aria d’interrogativo sospetto. - La consegna che hai fatto rimane riservata. Riservata. La valigetta col denaro falso non è mai esistita. Ora diciamo che, grazie al tuo in- tervento, i naufraghi sono salvi. I giornali sono dalla tua parte. Avessi udito il mio annuncio. Sei un eroe. - - Il capo di stato maggiore vuole parlarmi. - - Gli ho illustrato che la tua era una missione di pattugliamento al limite delle acque territoriali - sostiene l’ammiraglio prendendo il ber- retto dall’attaccapanni e aggiustandolo sulla testa. - Ti accompagno e vedremo che cosa ti ha riservato. - Escono dall’ufficio e si avviano per lo scalone di marmo che sale al piano del massimo grado. A metà rampa incontrano il vice del mi- nistro alla difesa che scende dopo avere conferito con Escudoro. Il politico scambia un commento con Nelsen: - Speriamo che questa faccenda non danneggi il gabinetto, né il governo. Quando ci si batte per qualcosa di virtuoso si finisce per passare nel torto. Lo sa? - - Si tratta di una delle poche operazioni regolari e pulite dal tempo di Pinilla - sbotta l’ammiraglio senza trattenersi. - Me lo auguro - si angustia il politico continuando a discendere lo scalone per andare a riferire al ministro. Camminando impettito e rigido di fianco ad Ernesto, quasi un modo per compensare i due centimetri con cui questi lo supera, Nel- sen brontola contro il desiderio di controllo assoluto che certi onorevoli, non immuni dalle manie di grandezza, vorrebbero avere. “Il potere spetta a tipi abili come me, non a uno di questi topi.”

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L’ufficio del capo di stato maggiore è spartano. Lo stesso Escudo- ro ha scelto gli storici, lucidi scudi, i crest navali appesi alle pareti. Provengono da navi di diverse nazioni. Ce n’è uno ricco di allegorie, con lo scudo di legno inquartato con una delle prime effigi della flot- ta: la caravella di Colombo. Sotto, quasi galleggiando sui flutti in rilievo, il nastro traverso con il motto: ordine e giustizia. Alle sue spal- le, poco distante dalla scrivania, c’è una foto del presidente. Escudoro sta rigirando tra le mani un libricino che narra la vita di Blas de Leso, che affrontò la flotta spagnola al tempo delle lotte per l’indipendenza. In ripetute occasioni fu ferito e perse, ogni volta, un pezzo: un occhio, una gamba, un braccio. Più i realisti lo accorciavano e più Blas si accaniva. Si rammarica di non avere avuto tempo suffi- ciente per terminare la lettura. La storia della N17 ha seminato adrenalina e lui ne riceve il concentrato. Il trambusto ha messo in allarme il presidente che gli ha fatto diverse telefonate e il suo tono non è stato del tutto amichevole. - Finalmente - dice spazientito, alzandosi dalla sedia. - Adesso voi due, signori ufficiali, mi raccontate per bene quanto sta accadendo. E badate, se qualcuno ha sbagliato, giuro sulla tomba di Blas de Leso, che lo mando alla corte marziale e ve lo lascio fino a che non otterrò la sentenza di fucilazione. -

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King Kris dischiude le palpebre. Lo sguardo a malapena distingue il cielo imporporato che traspare dalle perforazioni nel tetto della strana capanna. Ha perduto l’aggancio allo spazio e al tempo. Si sfor- za di riacquistare le capacità di connettere; sperimenta un’angosciosa sensazione di vuoto. “Dove mi trovo? Che giorno è?” Gli pare di scorgere un cerchio di fuoco che lo circonda e in esso degli indios camminare leggeri come angeli infangati. Non riesce a muoversi. Alli- nea una pallida realtà. Essa inizia dai colori fangosi degli oggetti tribali appesi alle pareti di foglie. Borracce ricavate da zucche, coltellacci, padelle annerite, ossa di animali. Non sa spiegarsi se il rossore esterno indichi l’alba o il tramonto. La forza interiore e istintiva lo spinge a unire ogni frammento di pensiero per ricomporre l’esistenza. Ha nel cervello un fragore: quello di un’onda anomala che lo insegue sul fiume. Ha nelle narici il profumo dei saman odorosi fino alla nausea di muschio. Ricorda lo sciamano che gli strillava qualcosa; la corsa verso la sponda, l’inutile tentativo d’arrampicarsi su un albero e la valanga d’acqua che lo risucchiava. Qualcosa copre il suo corpo e lo blocca. “Dunque, sono vivo.” Non sa come, respira con dolore. S’insinua in lui il dubbio che dei selvaggi lo trattengano per una ceri- monia cruenta, un sacrificio a qualche demone. “Chi saranno? Chibcha, Shuar, Bari, Kogui, o cosa? Sono giunti a un punto avanzato del rituale per la riduzione dello scroto.” Ode un brontolio sordo e cupo. Un lamento. Pare il mantra emesso dai monaci buddisti sulle vette del Tibet. Il mantra cambia, si fa acuto, vicino, e lui è costretto a ruotare gli occhi, a metterli nei pressi di un verde mango, fuori della capanna. Vede una massa scura, una scimmia che gonfia il collo prima di emettere quel rumore, un falso ruggito. Il peloso araguato sta rus- sando e con il gozzo emette il suono lugubre. Si guarda e scopre su di lui una gelatina gommosa e rigida che gli ostacola i movimenti. Prova a forzarla. Mille aghi lo pungono in ogni parte, sfrigolando nel cranio e nel petto. Il carattere sostanziale riflessivo gli impone di sottostare

al torpore per soffrire meno. Ha dolori da ogni lato, alle gambe, alla schiena. Se l’hanno lasciato vivo, è evidente che la tribù non è ostile. Qualcuno si è preso cura di lui. “Dov’è Takenda?” L’ha abbandonato. “Sarà andato in pasto ai caimani?” Ne riceverebbe liberazione se ci andasse anche lui. Una strana faccia, brutta e con pochi denti, compare stupendolo in maniera spiacevole. Mette il naso sulla sua bocca e soffia con l’alito che sa di zolfo. Ha la pelle colorata con melma vegetale. Riconosce sulla testa dell’indio la sua parrucca ormai compromessa. L’altro gli versa delle gocce dense nella bocca e poco dopo lui prova un tremen- do malessere. Spera che riappaia il russo per portarlo in salvo. Si assopisce, comprendendo di non desiderare altro che sonno. L’indio ha saputo dal battito dei tamburi che quel ferito bianco sta costruendo una chiesa al villaggio di Takenda e che questi pagherà per trovare ancora in vita il pastore di anime.

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Leonid non ha notizie di Kris. Tiene d’occhio il fiume nel quale si misero, da oltre una settimana, Takenda e l’americano per andare in- contro a quelli del peschereccio. Ha ricevuto una chiamata da Vassili. È infuriato: il tonno sotto vetro non glielo hanno recapitato. I suoi poco simpatici amici russi gli stanno alitando sul collo. L’india Amanicea continua ad abburattare farina di mais e acqua e frigge pastelle in un olio denso che lui digerisce con difficoltà. Le ammucchia all’aria perché si raffreddino, senza darsi affanno per cac- ciare via la nuvola di mosche che le ricopre non appena tiepide, e poi le conserva o ne regala un pezzo a qualche piccolo indio che si spin- ge, nudo e curioso, alla capanna chiesa dove lui alloggia. Leonid, annoiato, sogna una bottiglia di vodka. Stando in piedi sulla sponda del corso d’acqua, con una canna in mano, riesce a tirare fuori un pesce nero dalla pelle viscida e la bocca larga. Un manipolo di ragazzi, accovacciati su dei tronchi abbattuti, approva quando lui stacca un pesce e lo lancia in una latta in cui c’erano cinque chili di soia in polvere: latte energetico arricchito. Più pesca e più forte si fa il frastuono dei mocciosi. Uno di questi, dall’alto di un ramo che si ab- bassa sull’acqua, lancia la fiocina centrando una preda migliore. Infine, disceso dall’albero, gli va accanto e propone uno scambio: gli dà un bel pesce rosso in cambio dei buffi scorfani neri. Dopo avere gettato uno sguardo avvilito sulle sue prede e averle confrontate con le squame dorate del bottino giovanile, il russo accetta la condizione. Fatto lo scambio, il ragazzo gli fa intendere che lui sta pescando dove rischia d’incontrare Khuatamadì, il flessuoso. - Khu… Khuatamadì? - Il pilota non capisce la mimica del giovane indio: il suo dimenio potrebbe significare che Khuatamadì sia un danzatore o un folletto. Rilancia l’esca. Il gruppo di ragazzi s’intrattiene ancora al margine della sponda. Arriva un adulto e versa della polvere nell’acqua, là dove si forma un gorgo rallentato da una barriera di sassi. La macchia bian-

ca si allarga e dopo alcuni minuti l’uomo tira, in un retino, i pesci saliti a galla. Il russo, incredulo, gli chiede cos’ha buttato nella pozza e l’indio gli mostra la farina di barbasco: stordisce i pesci. - Non è leale - gli dice Leonid. L’indio solleva le spalle. Stanco, il russo rinuncia alla pesca onesta e torna alla capanna chiesa. Offre i pesci ad Amanicea seduta in terra, immobile innanzi all’uscio della capanna. La donna lo fissa con pena, dopo avere contato le prede. Le squama e le pulisce per friggerle. Leonid monta la zanzariera per circondare l’amaca e proteggersi dall’assalto delle zanzare. Le ignote misture che Amanicea gli propone per allontanarle non sortiscono effetto. Il puzzo non scaccia un inset- to determinato a succhiargli sangue. Nella selva lui riesce a dormire dalle prime tenebre a metà della notte. Là, il silenzio assoluto non è mai raggiunto. Un uccello insonne strepita, un topo squittisce tra i denti di un crotalo cacciatore, una scimmia s’irrita per le molestie not- turne di un maschio. Poi, il ruggito di un leopardo, gli fa aprire gli occhi. Ha appreso che dorme se approfitta delle prime ore di scuro. - Tu peschi dove pasce Khuatamadì - lo avvisa l’india. - Chi è Khuatamadì? - domanda Leonid mentre si ripara sotto la zanzariera e si stende nell’amaca. - Fratello grande d’Ekudu - rivela l’altra senza spiegarsi, con uno strano ghigno sulle labbra. - Chi è Ekudu? - - Piccolo serpente dell’acqua. - Leonid prova un brivido. Se Ekudu è il minore, quanto grande sa- rà il maggiore? Brutti disgraziati. I ragazzini sono sadici. Forse si aspettavano di vederlo stritolare e risucchiato nella bocca elastica di un rettile lungo otto metri. - Anaconda? - domanda immaginando la risposta. “Dieci metri”. Le dita di Amanicea indicano senza indugio. Il russo impreca. I ragazzi, con le grida, appostati al sicuro, ri- chiamavano il serpente per ridere della sua morte tra le spire del flessuoso e famelico Khuatamadì. - Viene spesso? - domanda stuzzicandola. - Gli dai le frittelle? -

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- Tre mesi fa ha preso uno dei bambini più grossi. Salta dall’acqua per afferrare, e la coda la tiene avvolta alle radici e nessuno è capace di tirarlo dal fiume. Khuatamadì è più forte di Mohao. - Chi è Mohao? - - Spirito dell’acqua. Prende le donne, ma anche gli uomini. - Amanicea tace. Gli offre del pesce fritto, poi tace. I pipistrelli ini- ziano a girare in tondo sotto il tetto di foglie. Il silenzio si fa più denso. La lunga notte inizia. Leonid si stende sull’amaca. Sta dormendo da un paio d’ore, quando la luce di una candela ac- costata alla zanzariera lo sveglia. Non pensa neppure per un istante di spostare la mano sul revolver. A quel gesto, un nemico in vantaggio non esiterebbe ad ammazzarlo. La fiammella innanzi agli occhi gli impedisce di vedere chi sia dietro la candela. - Signore - sussurra la voce che il russo riconosce essere quella del- lo sciamano - sono tornato. - Takenda. Dannazione - dice sedendo sull’amaca e sollevando un lato della rete che lo protegge. - Dov’è Cristu? - - Non so signore. L’ha leccato la lingua del diavolo. - - Cosa l’ha leccato? - - Nel fiume, di colpo. L’onda è arrivata di corsa e zac - gesticola. - Zac, cosa? - - L’ha portato via. - Leonid non è convinto di avere compreso. Si alza lasciando don- dolare l’amaca e affronta l’indio sotto il patio, dove i pipistrelli, disturbati dalla loro presenza, iniziano a lanciare spruzzi di pipì. - Ripeti. - - L’onda marina che entra nel fiume ci ha raggiunto. Lui si teneva la parrucca. Non è stato veloce a salire sulla pianta. - - Quale pianta? - - L’albero su cui mi sono salvato. - - Stai affermando che è morto? - - Non lo so. Ho veduto che l’acqua lo ingoiava. Non era Mohao a tirarlo per i piedi, era l’onda. Cristu ha le gambe corte. Zac. L’onda

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l’ha trascinato con sé. Troppo lento a salire sull’albero. Ora chi finirà la capanna chiesa? - Leonid immagina la penosa fine del programma di redenzione montato dal falso pastore. Lì non scoprirà altro per Vassili. Va presso il focolare costituito da un quadrato basso di mattoni e riattizza il fuoco per scaldare il caffè avanzato dalla sera prima. Ne avverte la necessità. La scomparsa di King Kris non gli provoca speciali emo- zioni. Per un caso incredibile, se l’anaconda affamato avesse pasteggiato con lui e l’altro si fosse salvato dalla lingua del diavolo, dell’onda anomala, nessuno avrebbe pianto la sua fine. Takenda riprende a parlare, lisciando il drago tatuato sul suo brac- cio. Gesticola e sputa in terra. - La lingua ha preso il motore, mi ha lasciato la lancia. - - Abbiamo perso il motore? - domanda deluso il russo. - Che cosa siete andati a fare fino al mare? - - Kris ha consegnato una busta a certi uomini di un peschereccio. Venezuelani. Poi siamo partiti per ritornare. L’onda ha viaggiato rapi- da. Zac. Se l’è preso. Cristu era davvero lento. La foresta ha occhi. La foresta ha voce. La foresta è tomba - risponde Takenda sedendo an- dando accanto al fuoco incerto. Lo sollecita aggiungendo altra legna secca, illuminando nell’immane notte gli angoli esterni delle capanne. - Lui voleva terminare la capanna chiesa per l’onore dei nostri spiriti protettori. Diceva di non temere il diavolo. Mohao è uscito dal fiume e l’ha preso. Zac. Ora è con lui. Mohao è di bocca buona. Preferisce le donne. Chi lo sa. Kris aveva la parrucca bionda. Lo avrà confuso e zac… Battono i tamburi. Dicono che darò dei soldi a chi lo troverà vivo. Tu caccerai fuori i soldi. - Takenda, senza aggiungere altro, si allontana. Leonid è turbato, più che dalla perdita dell’americano, dal falli- mento della missione assegnatagli. “Un uomo in parrucca, inseguito da un’onda che gli indios chiamano lingua del diavolo, affoga.” Si rimette di nuovo al riparo sotto la rete, nell’amaca. Non basta l’accenno d’aria frizzante in arrivo dal fiume per dargli sollievo. Il sonno non arriva. Tenta di dondolarsi. L’effetto è peggiore della con-

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ciliazione. Rivolge gli occhi alle stelle. Misura l’immensità notturna che sovrasta ogni capanna del misero villaggio. Vede passare da sud a nord un punto luminoso, un satellite, unico segnale di civiltà. All’alba spariscono gli insetti notturni. I pipistrelli terminano i voli radenti, guidati dalla raffinata percezione delle orecchie. Il fiume accerchia le capanne con vortici acquatici che accompagnano il pigro risveglio delle piante del bosco. Le profumate quereme aprono le corolle, fiere della credenza che il loro polline faccia innamorare le persone che non amano lo spasimante. I pappagalli, con le grida, iniziano ad ani- mare l’atmosfera. Sulle chiome dei manghi e dei caucciù si eleva un colore appena diurno. La nebbia aleggia sul suolo, si stacca, sale e si dissolve nel successivo passaggio del cielo dal rosa tenue al . Cominciano a cinguettare le creature implumi in un modesto cre- scendo. Le scimmie lanciano versi acuti. A lui pare di udire, debole e lontano, un brontolio che non sa identificare. Pare l’eco sfumata di un tuono. La prima lama di Sole trapassa il fogliame tremolando sul fiu- me e riflettendosi sulle capanne. Scorge lo sciamano uscire dal suo tugurio, procedere verso la sua amaca, quasi nudo, le natiche magre nei pantaloni strappati. Le gambe sono tozze e le braccia magre, for- nite di muscoli allungati - vi si avvolge il drago tatuato - e le mani tinte di rosso. Si ferma accanto a lui, accosta il volto taglieggiato alla zanzariera. - Hai sentito? - gli domanda vedendo che è sveglio. - Cosa? - rimanda Leonid con un sommuoversi di sentimenti scos- si dall’alito dell’indio che sa di lievito acido. Ha mangiato pesce stancato con birra acida. - La voce. - - Quale voce? - domanda il russo disgustato. - I tamburi. Li hai uditi? Sono manguaré. - - Lontani, deboli. - - Messaggi. - Takenda reclama silenzio con un gesto delle mani ru- gose. Le porta intorno alle orecchie allungate. - Aspettiamo. Arriverà la loro voce. Ora il rumore dei manguaré va piano. L’aria cambia, di- viene calda e lo stanca. Col fresco camminerà con meno sforzo. -

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Dette queste parole, si avvia verso la vegetazione e vi scompare aprendosi un varco con le braccia. Si addentra tra le piante per andare a pregare gli spiriti del fiume, gli Yati superiori a Mohao. Chiederà di curare la vita del pastore. Vale molti dollari. I segnali degli spiriti ma- ligni sono forti e lui farà quanto in suo potere per tenerli lontano. Il villaggio ha necessità di aiuti e quelli promessi da mister Cristu sono più reali di quelli programmati dal dipartimento. Le riserve indigene hanno scarsi supporti e gli sconfinamenti dei narcotrafficanti compli- cano l’arrivo degli aiuti spontanei inviati dalle persone generose.

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Il comandante Ernesto Chivas ha accettato d’incontrare Jean Paul e Santiago dopo le insistenze del maresciallo timoniere Armando. Giunge al ristorante indossando abiti borghesi. Teme che il tono della conversazione sarà complicato. Sceglie un tavolo arieggiato, sotto il flusso diretto di un ventilatore pendente dal soffitto. Ordina una bot- tiglia d’acqua minerale, convinto che l’arsura, più che dal calore, gli proviene dallo stress. Nel locale non è iniziata affluenza d’avventori e il dialogo si avvia con tranquillità. Ode i rumori delle pentole e i bron- tolii degli sguatteri in cucina. Santiago e Jean Paul arrivano assieme e, fatte le presentazioni, siedono al tavolo. - Carrera, diamoci del tu. Siamo stati colleghi. Signor Santiago, leggo i suoi articoli sul Diario. Il mio timoniere mi ha accennato la vostra necessità. Non so se vi sarò utile. - - Grazie per avere accettato l’incontro, Chivas - dice Jean Paul no- tando, sull’altro, il taglio regolare dei capelli rossi a spazzola e la sfumatura alta. - Noi contiamo sul tuo aiuto. - - Non ricordo l’incidente occorsoti. Il maresciallo Armando mi ha accennato il caso 416. Sfortuna. In marina le ferite si lavano con ac- qua salata e non si ricuciono in fretta - dice Ernesto. - Quelle morali fanno più male. - Poi si rivolge a Santiago: - Lei ha chiesto di me alla signorina Peña Rosa. Purtroppo le disposizioni ricevute sono di os- servare la riservatezza ed evitare interviste fin quando non si appureranno i fatti accaduti durante l’affondamento dell’Onassis. Temono distorsioni. Immagino capirà. - - Garantisco l’obiettività - lo rassicura il giornalista. - È il mio pal- lino. Ho bisogno di capire quanto il mio amico Jean Paul abbia ragione nel giudicare male l’ammiraglio Nelsen. - Il comandante allenta il colletto della camicia e scruta la sala. Si ac- certa che nessuno s’interessi alla conversazione. - Armando mi ha rivelato il particolare della droga nascosta anni fa sulla tua nave - dice a bassa voce all’ex collega. - Mi dispiace che ten-

tarono di incastrarti. Posso immaginare che razza di periodo hai pas- sato. Il mio caso è diverso. A bordo della N17 non c’è nulla d’illegale. Il mio intervento è stato regolare. Nei limiti degli accordi di Montego ho abbordato l’Onassis. Se davvero il cargo trasportava droga, è tardi per appurarlo. Le prove sono in fondo al mare. - - Nessun bandito assale il treno se non è sicuro che dentro ci sia quanto si aspetta di trovarci - nota Jean Paul con un mezzo sorriso, guardando l’altro negli occhi. - Stai attento. Nelsen è bravo a creare situazioni, depistare le indagini e usare le persone. - Un cameriere attraversa il salone e Santiago gli accenna di portare una bottiglia di vino e dei bicchieri. - I signori ceneranno qui? - s’informa. - Tra poco - risponde Jean Paul passando la mano tra i capelli. Attendono che il cameriere si allontani prima di riprendere la con- versazione. Ernesto ascolta il trucco usato con la 416: cocaina messa a bordo di nascosto, carte nautiche fasulle per mandare la nave a inca- gliarsi nel corallo, guardia costiera addosso per incastrare. Si fermano un minuto, attendendo che il cameriere colmi i bicchieri. Bevono un paio di sorsi. Santiago schiocca le labbra e leva gli occhiali dal naso per stropicciare un occhio. - Nelsen dà copertura a navi infette - dice il giornalista. - Sono pensieri pesanti. Non crede? - commenta Ernesto. - Non lo saranno dopo che avrò pubblicato un paio di articoli. - Ho un avvocato. Farò ricorso per un ripasso dell’inchiesta cui fui sottoposto anni fa - spiega Jean Paul. - Nelsen mi ha minacciato. - - È una faccenda scabrosa - conviene Ernesto Chivas. - Da corte suprema - risponde il capitano. - Corte suprema? - ripete meravigliato Chivas. - Nelsen è un vecchio squalo - spiega Santiago. - Si avvarrà del suo diritto di scegliere il tribunale. Non accetterà un giudice di primo gra- do. Vorrà subito il giudizio più alto. In corte suprema gli sarà più facile trovare appoggi. Abbiamo bisogno del tuo aiuto. -

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- Non vedo che vantaggio vi porterebbe la mia presenza in corte suprema - dice Chivas. - Salvo che non si chiarisca che la mia ultima missione era una sua macchinazione. - - Tutto mi pare un fatto normale se ipotizziamo la corruzione co- me fatto reale - dice Santiago. - Non la citeremo subito comandante Chivas. C’è di mezzo il suo onore - ricorda il giornalista sporgendosi verso il volto ben raso del comandante. - L’onore di un marinaio puli- to. Un eroe, secondo la stampa. Ha letto i giornali? - Ernesto pensa a Janet. Si era mostrata contenta per la sua promo- zione. Chissà quale reazione avrebbe se sapesse che è invischiato in un traffico. Perdendo i galloni, lei lo pianterebbe? Increspa le labbra e si strofina la mascella quadrata. - Dove hai perso la falange? - chiede a Jean Paul. - Nell’argano di prora, la notte dell’incaglio. - - Da lì originò il rancore per Nelsen? - - No. Del dito non m’importò. Neppure della carriera che saltò. Né della commissione d’inchiesta. Della chiarezza, sì. Non serbo ran- cori. Fanno la giornata amara. Certa gente va fermata. È certo. - Ernesto accende una sigaretta che pare sciogliersi tra le sue dita mentre succhia fumo e aria dalle labbra non serrate sul tabacco. - Ti aiuterò, in caso estremo e se necessario. Nelsen non piace neppure a me. Ci siamo scontrati con la sua doppiezza. - Jean Paul sente di stimarlo. Uomini così migliorano la vita. - Non dubitavo della tua generosità. Sei un ottimo comandante. - - Dobbiamo credere nella giustizia - echeggia Santiago. - Noi militari crediamo nella giustizia quando rifiutiamo tutto ciò che è ai suoi antipodi. Non entriamo in contraddizione con noi stessi. Le contraddizioni personali sono deleterie per l’armata di mare. - - Ciò non vale per Nelsen - osserva il giornalista. Il comandante fa un gesto di vaghezza con la mano. Il gesto è suf- ficiente per accendere Santiago. Con sviluppato istinto giornalistico risponde che è difficile capire e individuare la realtà profonda nasco- sta nell’animo di Nelsen, perché nella gerarchia militare non esiste un particolare grado sensibile alla corruzione: un sottotenente corrotto,

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resterà tale fino al raggiungimento del massimo scalino della sua car- riera. È improbabile che un alto grado rimasto onorato durante l’arco della sua vita si faccia corrompere come un sottotenente. Nelsen, con poco margine di errore, sarà stato corrotto sin dal tempo dell’accademia. Per questo motivo lui scriverà articoli mirati che siano di aiuto alla giusta causa di Jean Paul.

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In casa del capo di stato maggiore si cena alle sette in punto. La cameriera, reggendo il telefono portatile, va al tavolo dove Escudoro, seduto di fronte alla moglie, mastica in silenzio molestato da una la- tente preoccupazione. - Per lei, eccellenza - sussurra. L’uomo depone coltello e forchetta, preme appena le labbra con il tovagliolo dall’orlo ricamato e prende il ricevitore. - Buonasera, signore presidente. - - Buonasera ammiraglio, spero di non disturbarla - si ode la voce sottile e fredda. - Nessuno è più benvenuto, signore. Immagino il motivo della te- lefonata. Per quanto scritto dai giornali, l’avrei chiamata domani. - - Preferisco parlarle adesso - scandisce calmo l’interlocutore. - Lei ha idee chiare sul comandante Ernesto Chivas? - - Ho controllato di persona il suo stato di servizio. Irreprensibile. Ha fatto un buon intervento, regolamento alla mano. Ha tratto in salvo i marinai dell’Onassis e arrestato dei terroristi. Ha seguito le fasi dell’affondamento fino all’ultimo istante per evitare altri disastri. - - Faccia in modo che la situazione non si capovolga. La nostra po- sizione, in campo internazionale, è delicata. Una banale operazione di pattugliamento si fa presto a strumentalizzarla. Le anticipo che ci sarà una commissione per valutare le operazioni della N17. - - La aspettavamo. Sarò attento, signor presidente. Il capitano di corvetta Ernesto Chivas ha agito con buon senso. Almeno questa volta la stampa l’avremo dalla nostra parte. - - I feriti hanno tutta l’assistenza? - - I medici dell’ospedale fanno il possibile. In una clinica non rice- verebbero migliore attenzione. - - Che altro sa di quel… del greco? -

- Pelekanakis, signore presidente. È in ostaggio. La polizia non ha segnalazioni su questa persona. Pare pulito. L’Interpol di Panama non invia altro. Per adesso lo consideriamo disperso. - - Mi garantisce che l’incidente è avvenuto fuori delle nostre acque? Siamo coperti dalle convenzioni internazionali? - - Nella maniera più assoluta, signore. Con la sua esperienza Chivas ha calcolato l’intervento. È esatto, nel rispetto logico degli accordi internazionali di Montego. - - Ci sono testimoni? - - Uomini di un peschereccio venezuelano in rotta per L’Avana. Abbiamo informato gli organi cubani. - - Verso Cuba? - ripete un po’ allarmata la voce. - La loro marina collabora - si affretta a spiegare l’ammiraglio per- cependo l’alterazione. - Lo fermeranno per le indagini iniziali. - L’ammiraglio ode nella cornetta un sospiro sfiduciato. - Faccia una relazione, ammiraglio. Noi ci vedremo a fine mese, per festeggiare l’apertura della nuova ala dell’Accademia Navale. Che aria tira dalle sue parti? - - I servizi d’informazione ci hanno rassicurato. Non temono atten- tati contro di lei. Farò in modo che la base navale sia sicura. - - La ringrazio ammiraglio. Buona sera. - - Anche a lei, signore. - Escudoro porge il telefono alla cameriera e alza lo sguardo sul viso della consorte mentre riprende forchetta e coltello. - È urtato per l’incidente - le dice portando alla bocca un pezzetto d’arista cotta nel forno. - Spero di averlo tranquillizzato. - - E tu sei tranquillo? - - Lo sarei se Nelsen fosse meno vanaglorioso. Incita troppo i suoi uomini. Ama le azioni decisive. - - Avresti dovuto mandarlo sul Pacifico. - - Lo silurerò presto. Non appena la bufera sarà passata. -

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Rodrigo, con una breve telefonata, conferma a Jean Paul di avere rintracciato nell’albo dei capitani senza lavoro, a Panama, Luis Shmit, una volta al comando del cargo Neptune. - L’ho convinto - gli dice l’agente. - Ha acconsentito a rilasciare la dichiarazione per mille dollari. Nelsen conosceva l’acquirente e garan- tì al Neptune un passaggio indenne da verifiche. - Spero che non sia un buco nell’acqua. - - Amico mio, in zona di guerra ogni buco serve da trincea. Darai il foglio al tuo avvocato e lui stabilirà come usare la dichiarazione. - - Vengo a ritirarla tra poco - lo ringrazia Jean. - Passo prima dal mio socio per un invito a pranzo. - - Jean Paul - lo trattiene l’agente - non perderti d’animo. Una di- chiarazione del genere può risultare come il coniglietto tirato dal cilindro del mago. Con tipi come Nelsen gli scrupoli non servono. - Sulla via che porta da Lobo de Miranda, il giovane freme. Guida in modo teso. Tamburella sul volante e per poco evita di passare un se- maforo in rosso. Pedro gli apre il portone. Sale al piano superiore e Lulù emette guaiti di gioia, giacché lo riconosce. Il vecchio chiude la rivista medica che sta leggendo e presta attenzione all’ospite; si accor- ge del suo turbamento e mette da parte l’idea del nuovo progetto che ha in mente: una compagnia di scavo. - Rilassati, capitanuzzo - lo sollecita mostrando nel tenue sorriso i denti allineati e piccoli. - Quando nelle strade non vi è un alito, su questo balcone passa un venticello piacevole, gentile, che stuzzica l’appetito - esagera dopo che si sono sistemati sulle sedie all’aperto. Jean Paul gli dice che alla piantagione Camillo ha veduto ancora degli sconosciuti nei pressi del recinto. Gli operai lavorano con atten- zione senza lasciare nulla al caso e che il nuovo vigilante ha preso servizio all’ingresso. Dopo che il maggiordomo ha servito loro un aperitivo, Jean Paul affronta il tema del giorno.

- Ha saputo dello scontro navale? - - I giornali ne parlano. Questa volta la marina ha operato bene. Non ci sono critiche - osserva il medico. - Credo ci sia dietro un interesse di Nelsen. - - Credere non significa essere. L’ammiraglio ti sta placcando? Eh. - - Ho in mente un ricorso e credo che Loredito testimonierà. Il fuochista ha del coraggio, non si può negare - continua Jean Paul. - Nelsen ha timore che sciorinerò in pubblico lo sporco della sua ani- ma. Mi ha minacciato. Ho raccolto elementi per la citazione. Vorrei parlare con qualche marinaio dell’Onassis ricoverato all’ospedale na- vale. C’è l’assurdo divieto di avvicinarli. Li hanno messi in quarantena. - - Andrai da solo contro il tuo nemico? - - Ho dalla mia il comandante Chivas che nei giorni scorsi ha soc- corso il cargo greco. Ho anche la dichiarazione del capitano Luis Shmit, un contrabbandiere che inseguii al tempo del mio servizio sulla 416, la torpediniera che incagliai. Santiago cerca di aiutarmi con i suoi articoli sul Diario. Rimarcherà la forza della corruzione in ambienti protetti da logiche di omertà. - Il medico crede che l’onestà e l’innocenza in un uomo coraggioso siano lastre di ghiaccio sulle quali potrebbe rompersi le gambe. - Capitanuzzo mio, qui le cause sono da evitare. A noi serve l’incolumità. Perdio, di che si tratta? Di lotta personale? - - Da militare mi sottoposero a un’inchiesta. Ne uscii indenne. Ho fatto delle scoperte, di recente - chiarisce il capitano aspettandosi che da un momento all’altro Lobo de Miranda, con la sua aria aristocrati- ca, gli dia consenso. - Chiederò un riesame. Per sanare il morale. - - Il danno morale! - esclama il vecchio fissando il socio con due occhi che mandano lampi. - Sei ancora in giro dopo un’inchiesta mili- tare e ti metti in cerca della consolazione dell’orgoglio. Nessuno commette errori di cui non si pente. - Resta a pensare, col bicchiere accostato alle labbra. - Che posso fare? Parlerò a un mio collega in servizio nella sanità marittima. Accertati che Clara non divenga ogget- to di attenzione da parte del tuo ammiraglio. - Il dottore ha chiaro il

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rischio di un attacco trasversale. - Hai un brutto antagonista, con una pessima genetica. DNA da pirata. - - Lei ci tiene a mia moglie. Perché? - domanda il capitano notando l’interesse del socio. - Presto te lo dirò. C’è empatia. L’hai avvisata della tua scelta? - - È d’accordo che debba difendermi. - Si spostano al tavolo, dove Pedro ha preparato piatti e bicchieri. Il cameriere serve pollo, patate e verdura. Mesce il vino sul ghiaccio. Avvia il ventilatore a pale larghe pendente dal soffitto. Tra un bocco- ne e il successivo. La voce del medico fa emergere la sua nuova idea: la possibilità di comprare una draga in società. Mettendosi nel dragag- gio costiero, ricaveranno profitti. La spiaggia, per un lungo tratto, è erosa dalle correnti. - Hai notato nulla in mare? - domanda al capitano senza smettere di masticare. - Oltre la flotta. Caramba. Che altro c’è in questa baia? - - Non saprei. - - Disordine. - Lobo de Miranda gli fa notare che il demanio, alle prese con deci- ne d’interventi, fa poco per contrastare il fenomeno dell’erosione. Un centro residenziale a pochi chilometri sta franando in mare. - Dove si stenderanno le persone per l’abbronzatura? - continua mentre Jean Paul lo segue con curiosità mista a stupore. - La sabbia è portata dalle correnti all’altro lato del promontorio. Troviamo una draga funzionante. Draghiamo e riversiamo rena, dove è stata risuc- chiata. Proponiamo il nostro servizio. Facendo pagare un prezzo accattivante, non mancheranno i clienti. - - Per le autorizzazioni e le licenze? - - Me ne occupo io - afferma il dottore. - Il mio notaio in breve ri- solverà le pratiche necessarie per queste seccature. - Jean Paul osserva la baia attraverso il balcone spalancato. La sua bellezza nasconde il disordine. Tratti verdognoli e fasce gialline sem- brano dare ragione al socio. Il gioco delle correnti innanzi alla costa è divenuto imprevedibile. Le lingue di sabbia, difesa naturale della lagu-

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na costiera, non fermano le onde che le risalgono e invadono le lagu- ne delle mangrovie e le dune colonizzate da famiglie di palme. - È una buona idea - dice Jean Paul avvalorando la proposta. - Trova una draga e convertiremo la rena in oro, figliolo. - - E cambiando la corrente? Se tra un decennio rigirasse? - - Morirò prima e in ogni caso erediterai la mia metà. La potrai ri- vendere senza sudare. Il Rio Maddalena è un mostro che richiede una dialisi costante. Ci sta marcendo il Karolina. - - Ne parlerò a Rodrigo. Scoverà una buona macchina. - - Allora brindiamo alle correnti - lancia Lobo de Miranda solle- vando il bicchiere del vino. - Che non cambino, almeno fin quando non avremo recuperato l’investimento. - - Alla nostra società. - Il pasto si chiude con una seconda dose d’alchermes. Fanno dei calcoli su quanto si potrebbe ricavare dal futuro investimento. Gua- dagneranno cifre giuste, senza rimetterci. Il dottore non ha scordato la necessità del capitano. Fa una telefo- nata al direttore dell’ospedale navale. Si conoscono dal tempo delle cliniche patologiche e hanno interessi comuni. Il dialogo si svolge in modo cordiale. Ottiene che Jean Paul e Santiago passino da lui. - Ti permetterà di parlare con uno dei feriti - gli dice. Jean Paul esprime la sua riconoscenza prima di uscire dalla casa. Avendo fissato un incontro con Rodrigo, va via. Con la sua auto im- piega una ventina di minuti per arrivare da lui. L’agente, vedendolo apparire, si spinge contro lo schienale della poltrona facendola don- dolare. Il capitano nota il nuovo ventilatore che muove l’aria. Il tic all’occhio dell’amico è apparente. - Stai rimodernando l’ambiente? - gli domanda sedendo. - Il condizionatore ha fuso. Miseria di un cagnaccio. Troppe spese. Con i miei chiari di Luna, mi sono accontentato di un ventilatore. - Rodrigo apre un cassetto dello scrittoio. Estrae una busta e gliela con- segna con un sorrisetto. - Contiene la sudata dichiarazione giurata di Luis Shmit, con allegata una copia della sentenza che lo condannò a

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scontare qualche anno. Non emersero gravi prove contro di lui. Fa- voreggiamento, ma disse di essere stato minacciato da mafiosi. - Jean Paul legge i fogli: quanto scritto concorda con le sue supposi- zioni. Il cargo doveva passare indenne la zona soggetta a controllo e Shmit sapeva che un osservatore lo seguiva a distanza. Nelsen spostò l’attenzione della guardia costiera su una rotta parallela. Sulla 416, la sua torpediniera. - Che logica c’è dietro? - Rodrigo schiera una serie di congetture. - Ti mandarono nel corallo di proposito. Così arrivava la guardia co- stiera, ti trovavano la cocaina e Shmit, col Neptune imbottito, se la filava indisturbato. Mi pare che gli incastri ci siano. - - Le date e gli orari coincidono. La dichiarazione di Shmit sarà uti- le. Gli hai pagato quanto richiesto? - s’informa Jean Paul. - Fino all’ultimo dollaro. - Il capitano firma un assegno per saldare il debito con Luis Shmit. Rodrigo gli raccomanda la massima prudenza. Un ammiraglio minac- ciato diviene più aggressivo di un marò semplice e l’affondamento dell’Onassis Quinto avrà sciolto il suo veleno. Chiuso l’ufficio, pro- pone all’amico di tenergli compagnia mentre farà uno spuntino. Se ne vanno in un chiosco di vetro, poco lontano dalla foce del Rio Madda- lena. Mentre Rodrigo addenta un panino, Jean gli parla dei risultati delle prime cotture fatte alla piantagione. L’olio è stato abbondante. Ci sarà un guadagno. L’agente gli confessa che, appena comprato all’asta il lotto, si era impensierito per la sua trasformazione da mari- naio a produttore d’olio. Ha scelto un buon socio. Lobo de Miranda sa quel che fa, è uno che ha esperienza. - Trovami una draga - chiede Jean Paul a Rodrigo. - Avviamo una società di ripristino. Il vecchio ha visto posti da riempire con arena, aree che sono dinanzi ai condomini troppo vicini al mare e compro- messe. Sposteremo sabbia, dove la corrente la ha asportata. Mi ha mostrato le richieste dei privati che stanno soffrendo per l’erosione. L’istituto idrografico non ha progetti in vista. Il demanio, con i bilanci che ha, non muoverà un chilo di rena. Rimandano il rompicapo ai rispettivi sindaci. Questi ai governatori che richiamano la marina, la

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quale risponde che il fiume impegna tutte le risorse. Il governo affer- ma che l’erosione dipende da Dio e dal buco nell’ozono. La crisi dei porti fluviali ha ridotto il lavoro e i padroni delle scavatrici sono an- siosi di liberarsene prima che la ruggine le affondi. - Lobo de Miranda non riesce a inventarsi altro? - - Sogna la Compagnia Ripascimento L & C. Entra anche tu. - - Una società in tre? E se cambiasse la corrente? - - Ha detto che prima morirà lui e che in ogni caso la draga sarà ammortizzata prima che gli accada un colpo letale. - - Che petulante - commenta Rodrigo fermando il tic all’occhio con il dito indice. - Dammi qualche giorno e rimedio la draga. Per la tua offerta di essere socio, lasciami pensare un poco. - Fa osservare che lui non è pratico di dragaggio. Se accetterà di entrare nella società, non potrà allontanarsi dall’agenzia navale. Il capitano lo rassicura, perché la sua presenza sulla draga non sarà necessaria. Un equipaggio minimo la farà andare e i costi di manutenzione non saranno alti. I rischi di un fallimento sono bassi. - - Non vai dalla tua donna? - gli domanda Jean Paul uscendo dal chiosco, dopo aver offerto lo spuntino a Rodrigo. - Ho rotto. Cominciava a soffocarmi - confessa l’agente accen- dendo una sigaretta. - Cambio di bombole. - - Dovresti trovare un’infermiera. Ti farebbe la respirazione bocca a bocca. Resisteresti di più. - - Non è una cattiva idea. Mi darò da fare al pronto soccorso del porto. Un’infermiera nera con le calze bianche è la migliore sollecita- zione per la fantasia. - - Direi che hai uno spirito da guardone. - - Jean Paul, me lo dici perché ho avuto tre mogli? - - Dimentichi le dodici odalische degli ultimi dieci anni. -

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L’ospedale navale oppone la sua massiccia mole al vento periodico che spazza il lungomare senza sosta in quel mese. È un complesso formato di vari edifici, assegnati per specializzazioni. Vi sono viali interni, fiancheggiati da aiuole di nano biancospino, che uniscono i reparti. Il personale presta attenzione affinché i ricoverati non spalan- chino le finestre, per evitare che entri sabbia sottile. Questa s’infiltra dappertutto: si verificano casi di contaminazione con tracce di silice. Ciò rende scontroso il direttore Ayala. - A cosa serve l’impianto di condizionamento? - domanda con to- no di rimprovero ai paramedici. - Li curiamo con la rena, i pazienti? - Il direttore Ayala esce dall’astanteria annessa al reparto ustioni, dopo essersi incontrato col primario per avere l’anamnesi dei feriti dell’Onassis. Indossa un camice verde e la cuffia dello stesso colore per spostarsi in maniera consona da un reparto all’altro o accedere all’antisala delle camere operatorie. L’arrivo dei naufraghi ha creato nervosismo, non tanto per le loro urgenze, quanto per le interferenze dell’ammiragliato. Molti familiari attendono di poter entrare a visitare i marittimi. Un’infermiera gli indica due signori, seduti in corridoio, che aspettano di parlare con lui. Va loro incontro: - Santiago il giornalista e Jean Paul Carrera - indovina con aria profetica. - Il dottor Lobo de Miranda mi ha avvisato. - Li accoglie mentre gli accenna di passare. - Che combina il vecchio? Da molto non lo vedo. Che cosa lo tiene impegnato? Non certo il carnevale. - - Sta da principe, con Pedro che lo riverisce e Lulù che gli fa da fi- glio - risponde Santiago avvertendo l’odore di disinfettante nel camice del medico. - Arriverà a cento anni. Si cura con ricercatezza, ogni mattino beve frullati; la sera infusi di coda di cavallo e si friziona con olio di tartaruga. - - Null’altro? - domanda Ayala ironico, andando al suo ufficio. - Ancora qualche bella figliola va a consolarlo. -

- Oh. Ecco l’elisir. - Il direttore sorride. - La sua fissa con le re- sponsabilità dell’acido desossiribonucleico e dei geni nel susseguirsi della specie singola è stupefacente. - Fa una pausa per riflettere. Dalla sua gioventù afferma che la genetica influisce sulle sorti delle nazioni. - Accenna ai due di sedere alla scrivania. - Mi ha accennato la vostra necessità di una nota firmata da qualche ferito dell’Onassis. - - La prego dottore - dice Jean Paul. - Vorremmo appurare se uno tra essi conosca la natura del carico dell’Onassis Quinto. - - Immagino che Santiago vorrà tagliarci un articolo - fa notare il medico accendendo una sigaretta lunga e sottile al sapore di mentolo. - Dall’ammiragliato ci hanno chiesto, quasi imposto, di tenere i feriti isolati il più a lungo possibile. - - So delle pressioni di Nelsen - dice Santiago. - Al momento giusto scriverò qualcosa di forte per questa interferenza. Ho compiuto una rivisitazione degli atti di un’inchiesta fatta anni fa ai danni del qui pre- sente Jean Paul Carrera. Il Caso 416. La pubblicherò corredata da nuovi dati. Una nota di uno dei suoi pazienti sarà benvenuta, unita a dichiarazioni verificate in altro luogo. - - Roba seria? - domanda Ayala soffiando il fumo. - Traffico di stupefacenti. Vi sarebbe coinvolto un ammiraglio - spiega Jean Paul. - Dal ruolino delle chiamate della gente di mare a Panama si è evidenziato che prima della partenza alcuni marinai la- sciarono l’imbarco. Quand’è che un marittimo si sbarca di corsa? Quando non gli piace il carico. Non escludo che la nave affondata avesse a bordo droga. - - Ho capito - dice il medico senza scomporsi, collegando il divieto d’incontro dei feriti con persone estranee all’ospedale a occulti inte- ressi del noiosissimo Nelsen. Fissa la parete di fronte a lui e tira una successione di boccate pic- cole e rapide. Scuote o dondola appena la testa da un lato all’altro, in una sorta di ginnastica che lo rende simpatico ed è un modo suo per sollecitarsi opinioni che tardano a formarsi.

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- Abbiamo addosso la medicina legale e non so per quanto potrò tenere lontano i giornalisti. Santiago, che stimo, merita la precedenza. Andiamo pure a sentire qualche marinaio. - Ayala, spenta la sigaretta, li accompagna alle stanze riservate agli ustionati. I feriti meno gravi chiedono di essere mandati a casa. Sono impauriti. Jean Paul riesce a intendersi con uno di essi. Fa intendere a un giovane mozzo greco il motivo della presenza di un giornalista che desidera conoscere chi tra loro abbia coraggio. Gli promette un so- stegno economico. Il mozzo di Elevsis, con un braccio rotto, si espone a patto di essere rimpatriato subito. Ha comprato una barca a motore al suo paese e vuole portare in giro i turisti che non mancano mai. Si era imbarcato per tale motivo. Un po’ di dollari gli faranno comodo. Racconta quanto accaduto sull’Onassis Quinto prima e do- po l’attacco. Afferma che alcune casse sono state prelevate dall’elicottero di trasporto assieme a Pelekanakis. Aggiunge che un ufficiale salì sul cargo e che consegnò una borsa al greco barbuto.

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Il colonnello Lopez telefona a Vassili per confermargli che il pe- schereccio è arrivato a L’Avana scortato da una motovedetta. A bordo non aveva né pesce né altro. L’ucraino è colto da un tormento- so pulsare di fitte intestinali. L’Organizzazione, avida di cocaina, lo cementerà vivo. Con certa gente non si può saltare nessun tipo di patto. S’incontrano in centro, sotto la statua dello scrittore José Martí. - Sei sicuro che sul peschereccio non vi sia nulla? - domanda il russo mentre guarda il marmoreo dito indice dello scrittore levato nell’aria con un monito inespresso che pare dirgli: “Imbecille, ti sei fidato di un americano.” - Non sono cieco - dice il cubano. - Sai che ieri hanno affondato un cargo greco? - - Ho udito la CNN. Un atto di banditismo. - - Il tuo tonno potrebbe essere andato a fondo. - - Ci andrò anch’io - risponde sconsolato Vassili. L’ucraino ripensa che lui doveva creare un capitale extra per conto della cervellotica sezione K dello SVR: i proventi del passaggio di cocaina sovvenzionerebbero la lotta al terrorismo. Il milione di dollari doveva essere riciclato e raddoppiato passando attraverso la rete dell’Organizzazione. Questo disegno non ha potuto confidarlo a Le- onid. Quando lo scoprirà, il moscovita andrà su tutte le furie. L’idea, sin dall’inizio della missione, era di informarlo per gradi. Anche se avventuriero, ha un carattere romantico che predomina nelle uscite dove serve la noncuranza. L’esperienza suggeriva all’ucraino di calare gli agenti in una situazione bollente senza che sapessero tutto. La falli- ta consegna del tonno fa saltare l’intero progetto e non esclude il pericolo. Assieme a Lopez ha compiuto il giro del monumento. - Vassili, non crolla il mondo per la perdita di qualche chilo di co- caina. Ti rifarai. Anch’io ci avevo fatto la bocca. I cattivi sono stati determinati. Ti hanno fregato. Coraggio. -

- Lopez - sgocciola l’ucraino con una voce da raffreddato - non un paio di chili. Una tonnellata. Era per l’Organizzazione. - - Una tonnellata - grida l’altro. - C’è da rimbambire Cuba. - - Ho peccato di presunzione, per Arlecchino satanico. - - Cosa? Sei messo malissimo. Non ti credevo così stupido. - - Lasciami andare Lopez. Troverò il coraggio di avvelenarmi. - - Fallo presto. I mafiosi dell’Organizzazione non giocano. - Lopez gira le spalle. Si ferma un secondo. - Oh. Se la ritrovi, mi dai il venti per cento o ti metto al muro. Bendato e legato. - Vassili non riceve conforto dalla passeggiata. Giunto in ufficio, siede alla scrivania e ingoia due cialdini di carbone per assorbire aria e trovare sollievo. Il cellulare squilla puntuale. - Dov’eri? - domanda agitato riconoscendo la voce di Leonid. - Nella selva. Dove volevi che fossi? A Piccadilly? - lo rimbecca il moscovita. - Forse mi arrivano notizie di King Kris. - Vassili sospira. Il ritrovamento dell’americano potrebbe servire a chiarire il fallimento della spedizione. - Takenda mi ha detto che lo stupido l’ha travolto un’onda anoma- la. Mohao l’avrà scambiato per lavandaia. Così l’ha preso. Conosci le superstizioni di questa gente. - - Che stai blaterando? - domanda Vassili. - Kris, se non è affogato, se la sta passando male. - - Sei pagato per darmi notizie chiare. - - I tamburi stanno dicendo qualcosa. - - Quali tamburi, Leonid? - - Nella selva battono un messaggio. Parlano di lui. - - Leonid, che frottole racconti? Ti beffi di me? Questo tizio, Take… Takenda dove l’hai trovato? - - Ascolta testone. Dicono che c’è un bianco ferito. Potrebbe trat- tarsi di Kris. Non appena smetterà di piovere partiremo con la lancia e lo cercheremo lungo il fiume. - - M’interessa vivo. Sai quanto vale l’uomo? Un milione di dollari. Tanto valeva il tonno che non è mai arrivato qua. L’Onassis è affon- dato. C’è stato uno scontro navale. -

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- Spiegati, Numero Uno. Hai fatto scoppiare una guerra? - - La situazione è incandescente. L’americano non ha completato la missione. Qui scopriranno i miei legami con persone che non piac- ciono a nessuno. Un colonnello minaccia di farmi fucilare. I soldi sono spariti. L’Organizzazione si farà sentire. - Che c’entrano i mafiosi? - insiste il pilota. - E poi mi hai dato un milione quando partii e non mi hai detto per cosa. - - Non ti avevo autorizzato a sbirciare nella valigetta. - - Non sopporto le fregature. Cosa c’entra il tonno? - - Non posso parlarti. Il piano fu predisposto dalla sezione K e forzando la mia volontà. I mafiosi verranno qua. Non attendere i tamburi. Ritrova Kris - sbraita l’ucraino chiudendo la comunicazione. Leonid ha capito che l’entrata in campo dell’Organizzazione è de- terminata dalla cocaina. Lui non conosce per niente la sezione K. Deve essere nata da poco e di nascosto. Gli si sta aprendo il sipario. Vassili ha deciso di svelargli la verità a singhiozzo; quel salame gli ha taciuto gli accordi segreti con la sezione K per non ottenere il suo rifiuto. Deduce che hanno organizzato un traffico strategico. Adesso, se Vassili è spacciato, da quella situazione chi li tirerà fuori? Non resta che convincere lo sciamano a ripartire alla ricerca di Kris. Chiama Takenda e gli dice di procurare un motore per la barca. L’indio vuole denaro per rimediarlo. Andrà al paese col suo cavallo, un pinto chiaz- zato e con robuste zampe. Il russo si meraviglia vedendo apparire l’animale. Non lo aveva notato nel villaggio. Lo stregone lo teneva al pascolo, appartato. - Trecento dollari - conta il russo sul palmo della mano dell’altro. - Quanto tempo starai via? - - Ancora non so. Dipende - risponde accettando di partire. - Da cosa? - - Dal mio Yati. Non inizio nulla senza il suo parere. Lo ordina la legge degli spiriti - dice montando sul cavallo. - Chi è? - domanda Leonid mordendo una sigaretta. - Yati, la divinità per la quale si facevano i sacrifici umani. Un col- po, zac, e il cuore saltava dal torace, ancora pulsante. - La voce si

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scalda. - Un altro colpo, zac e una gola si apriva e il sangue veniva fuori. La terra era prospera e colma di benedizioni. La laguna era ros- sa. Il colore attirava la benevolenza divina. - Il tono dello sciamano è alto. - Gli avi non temevano il sacrificio in suo onore - termina con una nota triste nella voce mentre trattiene il cavallo. - Poi vennero gli spagnoli e la maledizione ci accompagna da allora. - Takenda solleva il volto mostrando la striscia rossa che gli passa sul collo, da una ma- scella all’altra, e si gira verso il bordo della foresta. - I miei padri, con i coltelli del sacrificio, tagliavano gole per attirare benevolenza - strepi- ta per farsi udire mentre il cavallo compie una mezza volta. Le sue mani tengono le redini e lavorano la frenesia del pinto. S’immette per uno degli invisibili sentieri nella vegetazione e sparisce. Amanicea, con un cenno, chiama il russo invitandolo a bere dalla tazza di terracotta un infuso. Sfoggia un sorriso raro e screpolato, rovinato da una molle vivacità. Ha un bimbo, di pochi giorni, in un marsupio di stoffa dietro le spalle. Ha il seno nudo, pronto per allatta- re. Leonid non ricorda d’averla veduta col pancione.

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L’edificio, moderno e massiccio, ospita una decina di uffici. La targa all’ingresso avvisa che lo studio legale è sito al secondo piano. Grazie all’impegno della prima matura segretaria, Edelmira, e delle tre dattilografe, il lavoro si svolge con uno stile che denota efficienza: gli orari degli appuntamenti con i clienti sono rispettati con un lasco di una decina di minuti. La coppia d’avvocati, Noguera y Garcon, che lo dirige, è la migliore della città ed è nota per le cause contro lo stato. La segretaria ha preparato il nuovo fascicolo da dare agli avvocati e che riguarda l’azione legale di Jean Paul Carrera appoggiato da tre testimoni. Nell’attesa di essere ricevuti, i quattro uomini se ne stanno nella sala di aspetto. Armando completa un cruciverba. Loredito fissa il soffitto con gli occhi sbarrati. Santiago rilegge l’intervista fatta al marinaio greco Elevsis che, a quell’ora, ha lasciato l’ospedale su sug- gerimento dello stesso dottor Ayala ed è in viaggio per Atene. - I tuoi investimenti vanno bene? - domanda carezzevole il giorna- lista a Jean Paul. - Pare che la quotazione dello zafferano salga. - - Hai comprato zafferano? - - Al Banco della Repubblica. Alcuni milioni di pesos. - - Che ci fai con tanto condimento? - fa scandalizzato Santiago. - Speculazione. - - Perché non hai scommesso sui chiodi di garofano? - - Rafael, mi prendi in giro? - - Vendilo e compra dollari. Non si guastano mai. - Altri clienti escono dallo studio. Si percepiscono risucchi di cavilli, accuse, testimonianze. La speranza è uguale per tutti: una sentenza che dia soddisfazione. I legali, Noguera, veterano esperto in penale e l’altro, Garcon, il procuratore specializzato in normative ed emana- zioni del codice militare in tempo di pace, vedono entrare i quattro uomini che intendono testimoniare contro un ammiraglio. Garcon è allibito dagli scintillanti denti d’oro del gay.

Ascoltano le richieste e fanno domande. Appuntano le note, limi- tandosi a fermare le interferenze che ognuno dei convenuti è tentato di immettere quando uno dei quattro espone la propria opinione. Noguera, elegante nel doppio petto gessato, sulla cinquantina, pro- prietario dello studio e conoscente di Rafael Santiago, crede che in giudizio quel caso farà rumore. L’affondamento dell’Onassis è fresco e il coinvolgimento di un vertice militare crea un’eco che poi si pro- paga ad altri ambienti laterali. Abuso d’autorità, falso ideologico, uso di mezzi dello stato per fini personali, danno morale, diffamazione, dichiarazioni di falso, ricatto e sfruttamento. Qualora le prove e le tecniche elocutorie convincessero il giudice, Jean Paul otterrà una gratifica. I sopravvenuti cercano di non perdere una parola, sia quan- do i legali si rivolgono a loro, che quando si consultano, citandosi a vicenda numeri di leggi e stabiliscono punti di forza, il casus, che giu- stifichi la citazione e le motivazioni. La testimonianza del marinaio Elevsis e la dichiarazione del capitano Shmit piacciono a Noguera. La testimonianza di Chivas sarà l’affondo. - Gli estremi per procedere esistono - dice il procuratore congiun- gendo le mani sulla cartellina. - Al punto in cui siamo - interviene l’avvocato Noguera - la peti- zione non tocca il campo militare ma l’area penale. Poiché il convenuto è un ammiraglio, finiremo alla corte suprema. Tra noi, credo che Nelsen non rinuncerà a questo vantaggio. Il codice prevede che un alto ufficiale si avvalga della scelta fra tribunale e corte supre- ma. Ciò significa per Jean Paul maggiori spese legali. - Più si sale e più costano - commenta Loredito - lo stesso che le tette in una clinica di bellezza. L’avvocato ride alla battuta. - Le spese saranno alte anche per Nelsen. - - Magra consolazione - commenta Jean Paul. Noguera, passando una mano nei capelli brizzolati, li guarda con aria benevola. Hanno coraggio. Apprezza la determinatezza del capi- tano. Nelle cause, l’indecisione del cliente è controproducente, in particolare dove si usa una procedura non di tipo inquisitivo.

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- Mi dica, capitano, perché vuole affrontare questo confronto? - - Credo nella giustizia. È giunto il momento di fermare Nelsen. Per quanto mi riguarda, appoggiando il traffico illegale, ha le stesse responsabilità di quelli che ammazzano per procurarsi le terre su cui mettere la coca. Infine, non mi dispiacerebbe vedere riconosciuta la mia professionalità. Se verrà un risarcimento, non lo rigetterò. Un terzo lo darei a Loredito. - - Studieremo l’impostazione dell’istanza. Eviterò che la richiesta di un riconoscimento per un torto subito da lei metta in seconda luce l’attività illecita. Valuteremo le priorità sulle testimonianze. Il difenso- re dell’ammiraglio potrebbe adottare una tattica espansiva, utile al contraddittorio e noi non vogliamo finire alle calende. Nelsen paga il suo legale con proventi facili. Lei mi paga col succo della palma. - Noguera si alza sorridendo. Dice al procuratore di prendere le firme per le delibere. Saluta i convenuti e si apparta qualche minuto con Santiago. Parla basso, quasi per sussurrargli idee. Serviranno arti- coli per sensibilizzare l’opinione pubblica. Per scalzare un chiodo marcio da una struttura militare, è necessario riuscire a galleggiare sui punti duri della burocrazia che è un multiforme modo che moltiplica le forme e crea copie di uno stesso sistema. In questi casi, in corte è difficile risalire all’innesco di un processo: un avversario ne approfitta. La stampa dovrà montare la commozione pubblica che servirà a su- perare l’ostacolo. Nelsen non troverà con facilità persone disposte ad ampliargli gli interstizi in cui diluire prove sfavorevoli. - Ciò che desidero dirle, Santiago, è che Jean Paul vince più attra- verso gli articoli del giornale che sugli scanni. - - Sono d’accordo, Noguera. Farò il possibile. - - Dobbiamo portare la gente dal nostro lato. La burocrazia corrot- ta si presenta con forme rigide: l’osservanza dell’eccezione per dimostrare, in apparenza, la presunta aderenza alle leggi dello stato. Sotto pressione, nessuno riesce a fingere a lungo. - - Scriverò in maniera che il diritto all’informazione e quello alla ri- servatezza non scontrino. Spero di catturare l’attenzione dei lettori. -

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- Non erro se dico che quando si combatte contro gli stupefacenti si costruisce la storia, non la politica. I risultati, Santiago, li abbiamo dinanzi. Una guerriglia fusa al narcotraffico. - Si riavvicina a Jean Paul per salutarlo. - A proposito, non ricordo il soprannome dato all’ammiraglio. - - Corsaro Nero - interviene pronto Armando. L’avvocato dà una pacca amichevole al timoniere. - Gli spunteremo l’uncino, vedrete - li incoraggia prima di varcare la soglia di una delle stanze laterali, dov’è l’archivio. L’avenida è trafficata. La gente cammina frettolosa, presa dai pro- pri impegni. Jean Paul ringrazia Loredito e Armando. Si allontana al fianco di Santiago. - Che pensi dell’avvocato? - gli domanda il giornalista accendendo la pipa. - Ti ha dato fiducia? - - Un’ottima impressione. Un buon amico tuo. Ti rispetta. - - Ti toccherà vendere qualche scorta di zafferano, ma è uno dei migliori avvocati della città - gli dice Santiago strofinando il fornello della pipa contro il filo di barbetta. - Aiutiamoci per non soccombere all’abuso. Se si sostengono tra loro i delinquenti, è più logico che ciò avvenga tra amici. Non ti friggerai da solo. - - Me lo auguro. -

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L’oscurità della selva indietreggia dinanzi al chiarore dell’alba. S’intuisce un lembo di cielo libero da nubi. Sulla sponda del fiume alcuni caimani se ne stanno immobili e sazi. Hanno cacciato durante la notte, sotto il pelo dell’acqua, con le narici esposte all’aria, osservati dalle papere che gli indios lasciano libere in giro. Takenda torna a ca- vallo ed ha con sé, traversato sulla sella, il fuoribordo per la barca. Leonid, terminata la rasatura e data una spuntata ai baffetti, è pronto a ripartire sul fiume alla ricerca di Kris. Lo sciamano rallenta i preparativi. Prima asciuga il quadrupede e lo nutre. “L’animale vale molto” dice riportandolo nel recinto. In realtà è l’unico essere che può giungere in paese rapidamente, giacché non ci sono né moto né altri mezzi adatti nel villaggio, escluso l’aereo. Partono. Ansa dopo ansa, la barca scende nella corrente, superan- do zolle erbose che galleggiano assieme a rami spezzati, segno che sugli altipiani ha piovuto duro e a lungo. Hanno stabilito di darsi il cambio ogni ora. A tratti spengono il motore. I tamburi seguono a battere e Takenda, che allarga sul viso una strana impronta di riso, ne spiega il senso: una nota base e quattro variate e il manguaré avvisa che il pastore bianco è ancora vivo. È possibile udire un cambio nel tono del manguaré: si è fatto più alto. Il messaggio è intrecciato con vibra- zioni e suoni. “Fare presto.” Il trasporto del ferito è scabroso per le difficoltà del percorso. Leonid sa che Kris soffrirà una volta caricato sulla lancia. Gli scossoni e il Sole non lo aiuteranno. Il viluppo d’eventi conferma al russo che la sorte dell’americano si sta chiuden- do su un circuito irreversibile: finirà all’inferno dei preti e almeno quello sarà vero, non finto quanto il ruolo di missionario nella selva. - Takenda, perché i ragazzini del villaggio sono sadici? - - Vederti nella bocca del serpente li avrebbe resi felici per un’ora. - - Per loro non valgo nulla? -

- Meno di Khuatamadì. Potresti essere il miglior uomo del mondo ma non sarai capace di accumulare ciò che hanno in cuore i piccoli indios. Essi portano il tesoro dell’infanzia fino all’età adulta. - - Cristu conosceva queste idee? - - Nel momento che degli uomini violenti vennero ad abbattere la foresta per piantare la coca, non ci potemmo difendere. Cristu ha promesso che ci aiuterà. Culto, cibo e altro. Nel brutto giorno che ho visto uomini e donne fatti a pezzi per via delle piantagioni illegali, ho desiderato che l’americano montasse la chiesa per mostrare che nel villaggio ci sono uomini e donne con un’anima sensibile. - Leonid volge gli sguardi alla vegetazione. Le sponde si allontana- no. La corsa del fiume si fa più lenta. Il pilota accende una sigaretta. Non sopporta che lo sciamano gli sbatta in faccia la verità cruda, pre- ferirebbe che non rivelasse il carattere umano neppure nelle faccende semplici. Ha fastidio per la forza dell’immutabilità che sorge dalle tradizioni di gente più abile a notare una farfalla verde in un prato sbocciato che il male germogliante in un quintale di foglie di coca. Il Sole si alza sul lato destro poi, secondo lo svolgimento delle ine- sauribili curve del corso d’acqua, passa dinanzi o dietro la barca. Così fino a mezzogiorno, quando la luce si sposta dall’altro lato del cielo, andando verso il punto del tramonto. Alle loro spalle, qualche pen- nellata di bianchi strati sottili crea una bassa corolla fosforescente: il calore è in aumento. I due si danno il cambio al timone. Il brontolio del motore infastidisce le scimmie in cima agli alberi più bassi. Man- dano dal fogliame insolenti versacci. Takenda si è seduto sul fondo della barca. Dopo un po’ si assopisce. Leonid lo vede digrignare i denti mentre ronfa. Nel respiro non solleva lo stomaco; il corpo si scuote dalla testa ai piedi quando un’onda fa balzare la lancia e il collo tinto di rosso si stende in un’innata risposta allo scossone. La sua pre- senza lo rassicura appena, perché potrebbe avere dei nemici, magari di gruppi tra loro bellicosi per rancori irrisolti. Proseguono nella corrente e il loro passaggio anima riflessi dorati sulle onde. Un paupulare selvatico precede l’apparizione di un pavone azzurro che vola da una sponda all’altra. Una rondine dal petto azzur-

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rino va a posarsi sulla prora e approfitta dell’ospitalità del russo ruo- tando la testa e informandosi della direzione. Gli armadilli giungono alle sponde per bere e marcano il fango con le unghie affilate, alter- nandosi agli opossum. Alcune piroghe sfilano in senso opposto, spinte a colpi di pagaia da uomini che paiono non avere occhi. In maggioranza sono seminudi e vanno a pesca, a caccia, o a ispezionare le trappole di canna e corda innescate per catturare prede. Takenda si desta. Dà il cambio al timone e il russo prepara una lenza. Getta l’amo nella scia e non attende molto, dato che i pesci sono famelici. Tira una mojarra luccicante, sufficiente per calmare l’appetito. Lo sciamano arena la barca in una piattaforma di sabbia bianca creata dai depositi dell’erosione, tra arbusti di latifoglie. L’indio accende un fuo- co basso, non fumoso, mentre Leonid eviscera la preda. Le scimmie cappuccine continuano a saltare su alte e fronzute piante e scoprono i denti, lanciando delle grida acute mentre mostra- no i calli rossi dietro i sederi. Takenda lamenta di non avere con sé un fucile: una scimmietta arrostita non ci starebbe male, è tenera e si di- gerisce in fretta. Infilza il grasso pesce su un bastoncino cui ha tolto la corteccia e lo accosta alla fiamma a una distanza che permetta di cuo- cerlo senza annerirlo. Leonid stacca da un arbusto delle foglie larghe da usare al posto dei piatti. Lo sciamano gli assegna, non appena le carni sono cotte, la testa e metà della coda. Il russo sceglie di mangia- re in posizione comoda. Si pone a cavallo di un tronco abbattuto e ricoperto da un soffice strato di muschio. Comincia a levare le lische. La presenza dello sciamano si fa fastidiosa perché lo spia con uno sguardo curioso, con un lampo scuro negli occhi e un sorrisetto mali- zioso da ruvido sapientone. - Cos’hai da guardare? - gli domanda Leonid seguitando a mastica- re il pesce spinoso che lascia in bocca un sapore di torba. - Ti vedo andare a cavallo - risponde l’altro soffocando il sorriso. - Dove vuoi che sieda? Non ci sono né sedie né tavoli. - - Hai ragione. Però ci sono serpenti. - - Certo stregone. Se ne vedi uno mi avvisi. - - Mi sembri uno che si spaventa. Ti metteresti a correre. -

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Leonid termina il pasto e si alza per gettare gli avanzi nel fuoco. Torna a sedere sul tronco e lì attende che l’altro finisca il suo pesce. Si sente vellicare i testicoli e crede di avere gli slip zuppi di sudore. Ha una percezione fredda. Lo sciamano getta le lische, spinge la lancia nella corrente e fa cenno al compagno di viaggio di muoversi. - Hai fretta? - gli domanda Leonid salendo a bordo. Il dito dell’indio indica il tronco. In una sorta d’ebbrezza estrosa che gli sale dallo stomaco sazio, il russo ha la capacità di vedere brevi movimenti nel tronco su cui si era seduto. Gli occorrono alcuni se- condi per capire che quello non è un albero abbattuto ma un serpente di dimensioni incredibili: un anaconda nero. - È Khuatamadì - informa calmo Takenda avviando il motore e i- niziando a scostare dalla riva per riprendere il centro del fiume. Il falso tronco, pigro, molestato nella lenta digestione, si sposta verso il bosco umido rivelando l’incredibile misura: dieci metri. - Perché non mi hai avvertito? - sbraita Leonid che sente le budel- la a spasso tra le reni e lo scroto. - Ti avrei rovinato il pranzo e avresti rovinato il mio. - - Così mi hai gelato la digestione. - - Non è colpa mia se ti siedi dove non devi. - - Che cosa avrà mangiato? - - Un armadillo, o un grosso tatù. O forse un indio. Lui t’ipnotizza, ti prende, che non scappi, lancia la bava, ti avvolge, ti spezza, ti suc- chia dalla testa e t’ingoia, senza fretta. Anche le scarpe. - - Indio pervertito - mormora disgustato il russo. - Non mettere la testa all’acqua, vomita dentro - lo avvisa lo scia- mano - i caimani sono saltatori e non sono armato. Te ne resterebbe uno attaccato alle orecchie. - Leonid impreca, nauseato, nel fondo della barca. Continuano a solcare le acque di colore cangiante nell’accoglienza di nuovi affluenti. Takenda solleva la mano a solecchio per contrastare il riflesso che la superficie piana gli manda contro. C’è qualcosa da un lato, sulla sponda sinistra e sporge su una pertica. Si rivolge al russo e gli accen- na l’oggetto. Spengono il motore. Il battito del tamburo è cessato.

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Sono alla fonte dei segnali. La parrucca di Kris è un inconsueto e clamoroso avviso. Lo sciamano arena di nuovo la prua in una sponda convessa: la malizia indigena gli suggerisce di sfilare la distribuzione dal motore, così da evitare che qualche spirito lo avvii, filandosela con l’imbarcazione. S’incamminano percorrendo un tratto aperto. L’indio, con acume selvaggio, riconosce liane tagliate, erba strappata, piante spezzate, minime evidenze lasciate a bella posta per indicare il percor- so da seguire. Penetrano nella foresta per un centinaio di metri. Al russo pare una distanza incalcolabile: è sudato, senza fiato, ha graffi sul corpo e i panni strappati in diversi punti. Ciò che lo stupisce è il non essersi accorto del danno che, avanzando, si procura. L’indio, intatto, annusa riconoscendo nell’umidità della vegetazione l’odore che viene dal focolare di una capanna non lontana. Si rigira a guardare con occhi di brace lo straniero e lo incita con gesti rapidi a non attar- darsi: ci sono insetti rari pronti a saltargli addosso. Fioriti dall’intreccio di foglie, alcuni ragazzini vanno loro incontro con i volti inespressivi. Sono appena coperti da personali minuscoli triangoli di stoffa. Non hanno in faccia tinture o segni, solo l’espressione statica che colpisce Leonid. I piccoli indios li affiancano in silenzio e li scortano per l’ultimo pezzo, tra alberi coperti di mu- schio e ciuffi di strane erbe colorate o di coda di cavallo, la stessa usata per curare le infezioni renali degli spagnoli che penetravano la giungla e avevano la buona sorte di fraternizzare con gli indigeni. Il tramestio allontana una coppia d’allegri uccelli con una lunga coda verde. La presenza dei due attira la curiosità delle titì, miniature di scimmie con il faccino bianco, che scendono in basso per curiosare, più socievoli degli strepitanti cugini cappuccini. Si vede la capanna con la fornace all’aperto. In una pentola carbonizzata bollono una gallina e tuberi bianchicci. Vi sono uomini seduti in terra; formano un mezzo cerchio e fumano parlando con suoni duri. Le poche donne visibili hanno il volto tinto con un colore vegetale nero. Una coppia di maiali razzola libera nei dintorni del pozzo naturale, grugnendo di soddisfazione quando, nel mucchio dei rifiuti poco discosto trovano

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un boccone di gradimento o incontrano delle bacche cadute dagli alberi. I maiali sono tenuti in considerazione in ogni villaggio. I sopravvenuti compaiono dalla foresta assieme ai ragazzini. Sono ignorati dai fumatori, la cui fredda accoglienza si limita a una melensa occhiata. Leonid non sa che fare. Lo sciamano si separa da lui e avan- za per piantarsi nel mezzo del cerchio dove inizia a battere i piedi al suolo, recitando frasi incomprensibili; poi comincia a sputare nella polvere, infine siede accartocciandosi e parla con il più corpulento, accompagnandosi con i gesti delle mani, le cui palme sono rivolte in giù, poi verso l’alto, o piegate innanzi. “Yati, Yati” ripete con tono cantilenante, mentre il drago tatuato lungo le braccia pare scorrere da un lato all’altro dei bicipiti. Leonid è rimasto fermo, circondato dai mocciosi incuriositi che non lasciano di studiarlo. Apparirà strano, forse per il suo pallore sla- vo, che neppure le bevute di vodka incendiano, o forse per i baffetti appuntiti e rossicci, uniti al sottile labbro superiore. Gli fanno delle smorfie. La novità della comparsa di uno straniero mette nella loro giornata uno stato d’aspettazione. Dopo un po’ si stancano e la logica del carattere schivo li riporta all’apatia. Riprendono a fissarlo senza gesti, in un silenzio impenetrabile. Esce dal folto della macchia un altro indio, alto e magro. Porta in una mano la parrucca di Kris, il pelo arruffato, e la consegna al capo tribù che la scuote sotto il naso dei presenti, non prima d’averla odorata con disgusto. Takenda si ri- mette in piedi. Ha raggiunto un accordo. Accenna al russo di seguire quello che pare essere il padrone della capanna più grande. L’indio corpulento ha movenze tronfie, orgoglioso della sua piccola fortuna: un tugurio di mattoni di fango e rami, dove vive con la moglie e alcu- ni discendenti. Vi entra luce sufficiente per distinguere una sagoma distesa sulle stuoie: un uomo incosciente. La testa calva esce da un rivestimento di argilla che lo ricopre dai piedi al collo, salvi i genitali che sono esposti all’aria per le funzioni della vescica. Leonid chiede spiegazioni a Takenda: - Cosa gli hanno fatto? - - Ingessato. Col fango. Un metodo antico. -

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- Sono dei mostri - mormora il russo scorgendo appena il viso dell’americano. - L’hanno mummificato. - - Sono kogui. Sanno curare - aggiunge Takenda senza scomporsi. - Con che cosa? - domanda l’altro colto dal dubbio. - Gli danno un infuso per allucinarlo. Ha delle fratture. - Leonid sceglie di ignorare la vera natura dell’infuso. Non immagi- na quali fratture abbia Kris. L’acqua lo avrà trascinato e sbattuto contro gli alberi. In che modo lo porteranno via? Occorrono ore per tornare al villaggio e, supponendo di riuscirci, lui non potrà inventare nulla per aiutarlo. Non riuscirà a metterlo sull’aereo. Dovranno cerca- re un dottore, farlo arrivare sul posto. Ce ne sarà uno disposto a spostarsi nella selva? - Eccoci, Kris - incita Leonid senza che l’altro possa udirlo. - Ti si- stemiamo a bordo della barca e andiamo via. - - Dobbiamo compensarli - sostiene lo sciamano. - L’hanno trova- to e assistito. Se lo vuoi portare via, va bene. Prima paga. - Il russo accoglie le ripetizioni. Giusto o no, i salvatori chiedono la parrucca in premio, (per la donna del corpulento), i pantaloni di Leo- nid, le scarpe anfibie, l’orologio e cinquanta dollari. Non c’è verso di cambiare le pretese. Salvo però i pantaloni in cambio dei boxer. - L’orologio mi serve e vale molto. - - Amico - gli dice Takenda contraendo i muscoli sottili sulle brac- cia e ravvivando il drago - non hai capito. Loro chiedono uno scambio. Il tuo orologio è per la lancia che hanno rubato assieme al motore. Poco fa, proprio mentre ci allontanavamo dal fiume. - - Oh. Porco il papero pazzo - impreca il pilota - non avevi nasco- sto lo spinterogeno? - - Questi ti hanno ritrovato l’americano leccato dalla lingua del dia- volo e tu vuoi che non ti sfilino cinquanta dollari? Sei tirchio? Non ho colpa. - Si batte la fronte. - Sono astuti e intelligenti. - - Questi no - dice esacerbato il pilota. - Sono piraña. L’orologio vale oltre mille dollari. - Lo sciamano si rinserra nelle spalle. Leonid sa che senza orologio i suoi voli saranno meno precisi, giacché il programma Falcon datogli

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da Vassili è impreciso. Quel cronometro è un regolo per fare calcoli di velocità e di rotta sulla giungla. Dovrà fidarsi degli strumenti mon- tati sul De Havilland e gli servirà più sorte. Slaccia il cinturino con un’aria di disdetta, poi sfila le scarpe. Sale sulla barca assistendo all’imbarco di Kris, impacchettato nel pigiama d’argilla su una lettiga d’assi di legno che è assicurata al fondo con legacci di fibra. Uno degli indios consegna due borracce ricavate da gusci di grosse noci e indi- cando il falso pastore dice di farlo bere spesso, a gocce. Arriva un ragazzo che consegna alcune guayaba dolci e profumate al russo che già si è seduto a prora, mentre Takenda, accanto al motore, rimette a posto il particolare della distribuzione. Il viaggio di ritorno ha inizio sotto lo sguardo dei ragazzini saliti sulle alte piante. La loro espressio- ne non è mutata di una smorfia: occhi spalancati e bocca semiaperta. Ci sono molti chilometri d’acqua da risalire e la lancia è pesante. Lo stregone suggerisce di bagnare di tanto in tanto la testa di Mister Cristu con un panno strizzato e, dopo avergli dato ascolto, Leonid, alla luce che ancora batte, si accorge del colore che campisce la faccia scarna dell’americano. - È giallo - dice allo stregone. - Cosa gli hanno fatto? - - Solleva le palpebre e guarda l’occhio - suggerisce l’altro. - Sono gialli d’ittero. Due cotogne. - - Il fegato. Potrebbe essere la febbre gialla. - - Che facciamo? - domanda demoralizzato il russo. - Ora lui lotta con gli Yati. Se è forte, vivrà. - - Possiamo aiutarlo? - - Le due borracce. Una contiene succo di radici, per alimentarlo e stordirlo, e la seconda un liquido curativo. - - Che roba è? - - Urina del malato arricchita con antidoto - spiega Takenda. - O- gni stregone ha i suoi antichi metodi. Pagare per vedere. Vedere per credere. Credere per capire. Capire per pagare. - - Non potrà tornare in città in questo stato - osserva il russo. - Scordi che lui è un missionario. Dio sta con lui. -

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Leonid tocca ancora una volta la sottile malizia indigena che riem- pie la lancia senza farla affondare. Gli appare il retaggio di una cultura atavica che gli spagnoli non mandarono al dimenticatoio. Nel rossore del tramonto si rigira a guardare la prora affinché non batta contro tronchi o altri ostacoli. Di nuovo, i tamburi parlano smuovendo il palpitare magico delle ali degli uccelli. I suoni vanno nell’aria per se- gnalare alla gente che vive lungo le sponde di vigilare il ritorno dell’imbarcazione. I colpi si ripetono: Ca-pa-dó-bum. Ca-pa-dó-bum. Ca-pa-dó-bum. Di seguito, senza variazioni. I battiti si allungano sull’ultimo colpo, su quel bum che indica e significa un’idea. Risalta ed echeggia, il bum, sull’onda d’espansione che aleggia nell’aria della sera. A turno, si sostituiscono nell’assistere il ferito, gli somministrano gocce d’acqua proteica e sorsi d’allucinogeno per lenirgli il dolore.

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Pelekanakis si sente rattrappito. Ha le gambe doloranti. Lo issano fuori dal buco quando ha da svolgere le funzioni fisiologiche. Tappa- to, più che rinchiuso, nella prigione di tre metri per due scavata nella terra, il greco prova l’asfissia. La poca aria umida che entra dalle fes- sure aperte nelle tavole che coprono il buco è insufficiente. La notte è finita da poco. L’unico rumore che ha udito più volte è stato quello dell’elicottero sequestrato a Robert. Non si fida di Raul che ha parlato di lasciarlo libero: ne ha capita la sostanza. Un tipo senza fede. Perciò, nessuna illusione. In navigazione non aveva tenuto in conto la mala- sorte: al Tokolosh del nero Otu Butu non aveva creduto. A don Alvaro non andrà a genio la perdita di un milione di dollari. Sarà diffi- cile fargli digerire quanto accaduto. È finito in una trappola e gli hanno rubato la cocaina. Ciò è quanto ha potuto vedere prima di es- sere rapito. Non sa che l’Artigliato è stato abbattuto da una cannonata della N17 dopo che il Chinook si è allontanato verso la costa con lui in ostaggio; né sa che il cargo Onassis è affondato. Non ha alcuna possibilità di riportare all’asmatico italiano ciò che si è verificato. Vi- vrà le ultime ore da topo. Gli danno da bere l’acqua che tirano da un pozzo poco profondo. Il liquido crea il fastidio delle amebe, che toc- cano le budella e lo costringono a chiedere più volte di farlo uscire per liberare il corpo. Con i carcerieri è inutile lamentarsi delle amebe, fanno i sordi e non hanno medicinali; il centro abitato sarà lontano ed è sciocco gridare. Vede una sentinella sollevare le tavole e calare la scaletta per la risalita. Due guerriglieri lo scortano nella baracca co- mando al cospetto di Raul che siede su un’amaca tenendo innanzi una bottiglia di whisky. Lo spingono a sedere sul suolo di terra. - Mi hanno detto che hai le scariche - esordisce Raul passandogli la bottiglia - questo ti aiuta a sterminare le amebe. - Almeno servirà a farmi ridere quando mi ammazzerai - risponde il greco controllando la voce e schiarendola con una sorsata. - Ti farò avere dosi di amebandasol. Starai bene in pochi giorni. -

- A Panama gli italiani staranno fremendo. Una tonnellata di co- caina vale molto. Va pagata - commenta il greco appurando che il guerrigliero non fa alcun accenno alla valigetta con i dollari. Quindi, pensa lui, non ne ha notizia. - Raccontami dell’assalto di quel bastardo - gli dice Raul accaval- lando le gambe e slacciando gli anfibi. - Di Gonzales. - - Scesi tutti dal cielo. Il Chinook e l’Artigliato. - - Un Artigliato? - s’informa Raul. - Non l’ho veduto al campo di Gonzales. - - C’era una torpediniera nei paraggi. L’avranno buttato di sotto. - - A te è andata bene. A chi era diretta la droga? - - Non lo so. Dovevo fare il trasbordo e me l’hanno impedito. - - E il pagamento? - - Dopo la consegna - bara Pelekanakis. - Quanto varrà per gli italiani? - - Intorno al milione. - - Con chi fa affari il tuo capo? - - Magari lo sapessi. - - Ti mando a Panama e fai da ponte con gli italiani. Scambiamo. - - Qui sei un dio, Raul. Quello che decidi va bene. Chi sarà il con- tatto tra noi due? - - Cecilia. Non provare a fregarla. A letto sì, per il resto non te lo consiglio. Il cervello le funziona bene. - - D’accordo. Mi farò sentire - risponde il greco sollevato. - Ti faccio accompagnare sulla strada che va al paese. Cecilia ti da- rà assistenza per il passaggio a Panama senza incappare nei controlli di polizia. Avrai da lei la medicina per le amebe. - Pelekanakis alza con la mano pelosa la bottiglia e beve una terrifi- cante sorsata. Respira sapendo che Raul non lo ammazzerà; ciò non gli fa perdere tuttavia l’aria guardinga nei suoi confronti. Prova il tre- mito che preannunzia una scarica. - Fammi accompagnare alle latrine - implora comprimendo la pancia. - Sto per scoppiare. -

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Raul gli mette un uomo dietro. Accucciato nella vegetazione, il greco, liberandosi dalle contrazioni, decide che abbasserà la guardia quando sarà a Città di Panama. Non ha neppure avuto il tempo di aprirla quella valigetta. Almeno li avesse veduti in faccia i soldi. Qual- cuno, in ogni modo, dovrà rimborsare don Alvaro, perché non è un babbeo al quale piace perdere il capitale. È uno malato di collera. Raul affida il greco a uno dei suoi motociclisti con la disposizione di lasciarlo in prossimità della strada principale. Ha inviato a don Al- varo un’offerta per il riscatto della merce e si aspetta una risposta. La smania si è impossessata di lui: trasformerà il bottino in denaro e usci- rà dalla guerriglia prima possibile, giacché non vuole marcire con l’umidità della giungla. Da anni è saturo d’acidi, di veleni, d’urine di cervo usati per purificare e candeggiare la cocaina. Desidera la buona vita. “Lusso, donne, auto, gioco: ciò che fa passare una giornata spen- sierata. In città il folletto peloso non comparirà per saltarmi sullo stomaco. Potrò dormire, sistemato e ricco, nelle braccia di una don- na.” Dagli irlandesi apprese a usare il plastico, senza saltare in aria. Nasconde un congegno nell’elicottero di Robert. La capsula aneroide collega l’innesco all’esplosivo tipo R1: una quantità sufficiente a disin- tegrare il velivolo. Negli occhi gli passa una luce parente della pazzia, mentre le dita sfiorano l’aggeggio mortale assemblato con perizia. Chiude il portellino del vano che alloggia la batteria dell’elicottero dopo avere spinto la bomba nello spazio tra la paratia interna e il la- mierino che ripara i cavi elettrici. Raggiunge Antonio alla capanna minore, dove si cucinano fagioli. Beve un infuso di mate con lui. Gli dice di portare con l’elicottero Gonzales al suo accampamento e di fucilarlo assieme ai suoi. Là, rimarrà assegnato alla raffineria clande- stina che fu del paramilitare. Si leva il grigioverde per indossare abiti civili. Andrà al casino di Cecilia. Controlla di non avere scordato nul- la; di non portare armi. Assume la dose di cocaina e ne prende un paio di grammi da regalare a Miccia la rossa. Passeranno una notte insieme. Non gli importa se la badessa s’ingelosisce. Parte in moto sul sentiero sterrato, passando per zone seminate di mine antiuomo per rallentare gli assalti delle forze regolari. Sa a memoria dove sono. C’è

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ancora luce. Ferma la moto dopo qualche chilometro, su uno dei cu- cuzzoli brulli della savana. Accende una sigaretta e aspetta. L’ignaro Robert attende che Antonio e Gonzales siano a bordo. Eleva l’elicottero ruotando il ciclico e vola in circolo fino a mille pie- di. Sente una fiammata alle spalle e poi il botto. Muore con i due passeggeri prima che il velivolo cada in pezzi. Antonio caccia una be- stemmia. Gonzales pensa che questa volta Nelsen non gli pagherà il lavoro fatto per suo conto e che l’acquirente americano presentato da Robert resterà a mani vuote. A Raul giunge un’eco attenuata. Vede la ricaduta di pezzi fumanti dall’alto. Coscienza non ne ha. Eliminato Gonzales e Antonio, non litigherà con nessuno per la divisione dei proventi della cocaina. Getta la cicca. Antonio ha rispettato le consegne: è stato un buon vice. A- vrebbe giudicato male la sua rinuncia alla lotta armata. Con tanti soldi in vista, non ha altra scelta che una vita similare a quella dei fottuti borghesi. Se ne andrà a Cuba. Là, conta su amici fidati.

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Jean Paul e Rodrigo sono da poco arrivati in un ristorante del cen- tro. Quella domenica pranzeranno assieme a Clara che farà loro compagnia durante la pausa del lavoro al museo. L’agente navale sta raccontando all’amico, con voce trafitta, il recente fallimento senti- mentale con una delle infermiere dell’ospedale. Una relazione durata solo trentasei ore. - Dove avrò errato? - - Non ho idea - risponde il capitano. - Sei sicuro che vi siate capi- ti? In che lingua vi parlavate? - - Se n’è andata in crociera per le Antille su uno dei grandi transat- lantici che sostano a Barranquilla. - - Trovi compagnie femminili complicate. - - L’infermiera me la suggeristi proprio tu - sillaba l’agente batten- do la palpebra irrequieta. - Riprova con una crocerossina e promettile il matrimonio. Scu- sami Rodrigo. Ho la sensazione che l’errore sia in te. Sei insofferente. Le fai innamorare con mirabili regali, senza avviare un intenso dialo- go. Le donne non sanno chi sei o cosa vuoi da loro. Si ritrovano dopo un po’ con un estraneo e finisce la relazione. Ti piace una vita felice a due, però non rinunci alla tua specifica solitudine indaffarata. - Appare Clara. Ha un’ora libera. Farà un pranzo leggero assieme ai due amici e poi tornerà al museo. Siede tra loro in attesa che si avvi- cini un cameriere. Li informa che l’articolo di Santiago, comparso nella cronaca locale, ha acceso l’interesse per il sacerdote precolom- biano. L’affluenza alla sala dell’esposizione è cominciata presto. I visitatori sono studenti e ragazzi accompagnati dai genitori, anche grazie alle pressioni fatte presso i collegi e le scuole. Ha assegnato al sacerdote la sala principale, con la migliore illuminazione. La scultura testimonia l’importanza del sacrificio umano presso le antiche tribù colombiane. Presenta, nella giusta cornice, le offerte vitali agli dei, necessarie per attirare la loro benevolenza, per allontanare, negli ulti-

mi tempi dell’immenso e prepotente impero maya, la malasorte, le piogge torrenziali, interminabili e violente, che distruggevano bacini e canali. Nelle sale di lato a quella principale ha sistemato le tavole si- nottiche con i diagrammi di comparazione delle differenti epoche precedenti la conquista spagnola. Al loro inizio, le società precolom- biane erano formate da un gran numero ben integrato d’individui che si sostenevano con l’agricoltura. Nei secoli successivi, la supremazia fu appannaggio del potere militare locale fuso a quelli religioso e commerciale. La mostra evidenzia le conoscenze astronomiche dei sacerdoti colombiani di Tierradentro. Clara, con tatto, non ha pubbli- cato la sua idea intuitiva sulle prolifiche interazioni tra gli abitatori dell’America centrale con quei navigatori fenici che viaggiarono, sen- za ritorno, verso occidente, al tempo delle dinastie egizie. - Le correnti marine contribuirono alla catastrofe - dice Clara ini- ziando a tagliare il petto di pollo alla piastra. - Mi stai informando che il Niño e la Niña furono responsabili della sua condanna? - domanda Jean Paul lanciando un’occhiata al magro Rodrigo che pizzica fragole con la voglia di un penitente. - Allora gli spagnoli non c’entrano. - - Il potere dei sacerdoti colombiani proveniva dalla coincidenza delle previsioni delle stagioni - risponde la donna separando una stri- scia di cartilagine dal pezzetto di pollo. - Un mutamento del clima, che nessun astrologo poteva interpretare. L’incredulità, trovandosi di fronte alla stravaganza del tempo, indotta dalle correnti anormali del Pacifico, li sconcertò. Gli dei suggeriscono ai sacerdoti e la forza di questi stava proprio nell’indovinare l’arrivo delle piogge cicliche e la durata, per mostrarsi all’ombra di una divinità che dava protezione al popolo. - Da quanto agiscono quelle correnti? - domanda Rodrigo. - Quindicimila anni - risponde lei meravigliandolo. - Gli esperti odierni si basano sui cicli delle siccità e delle inondazioni su scala mondiale. Le antiche tavole astronomiche dovettero servire poco agli astronomi. Forse pensarono che gli dei fossero in collera e che il giu- sto agire fosse sacrificare giovinetti dei due sessi per calmarli.

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- Disperazione dell’impotenza - commenta Rodrigo porgendo il portafrutta dal lato di Clara affinché colga una rossa ciliegia. - Pure l’impotenza della disperazione. Dipende dal punto di vista. Un fatto è certo, le correnti fanno comodo alla società di dragaggio di cui adesso faccio parte. Jean Paul e Lobo de Miranda mi hanno voluto come terzo socio. Pregherò perché l’erosione avvenga dal lato giusto. - Clara gli fa un augurio, vincendo lo stupore per la notizia. Ancora non sapeva della società, ma comprende che tre uomini abituati all’attività dinamica non riescono a stare fermi se c’è in vista un’operazione di successo. Reclina la testa per assaporare la frutta rossa. - Rodrigo, lo sai che ti somiglia? - - Chi? - - Il sacerdote. - - Non è possibile - interviene Jean Paul con un innocuo sadismo. - I suoi tratti sono madrileni. Vanta avi spagnoli. - - Mi riferisco all’espressione. Ha un’aria quasi ipnotizzata. - - Ho la faccia da stupido? - domanda serio l’agente. - No - corregge lei - è la tua aria ascetica. - - Sarà questa che mette in fuga le mie amanti? - fa Rodrigo accen- dendo una sigaretta con un gesto teatrale. - Clara ha individuato la causa dei miei fracassi amorosi. - Si alza dal tavolo. - Vi lascio. Torno in agenzia. I marittimi mi aspettano. Alcuni partiranno questa notte. - Non è domenica? - gli chiede lei. - Le navi non conoscono feste - risponde l’agente. - Aperte di continuo, per il sollazzo delle ciurme. - Saluta Jean Paul e dà un bacio alla donna. Nella serata ci sarà l’avvicendamento su una petroliera e vuole che i documenti dei nuovi imbarcati siano in ordine prima della partenza. Rimasti soli, i due giovani si fissano. - Il tuo dialogo col museo di Bogotà a che punto è giunto? - - Sono riuscita a interessare Punapay, il direttore dell’area antropo- logica. Ha accettato di esporre il sacerdote nella capitale. In cambio mi presterà oggetti sacrificali per il museo. - - Sei soddisfatta? -

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- Spero di ricevere maggiore attenzione in futuro. Inizierò a scrive- re ai centri di cultura francesi. - - E il tuo amico russo? Leonid? - - Torna a Dresda. Il sacerdote è un pegno che ci lascia. - - Ti fidi di lui? - la sprona Jean Paul. - Perché non dovrei? - si diverte lei osservandolo attraverso il fon- do del bicchiere appena vuotato. - Non sono in vendita. - Jean sceglie di dimenticare il russo, troppo presente negli ultimi tempi. La informa che Rodrigo ha scovato una draga e che lui andrà ad Agua Dulce per il collaudo. Le spiega dell’erosione e le espone il progetto di voler rifornire di sabbia gli stabilimenti balneari e i con- domini adiacenti al mare. - Ci sono buone possibilità di guadagno - le sussurra nel momento che arriva il dolce di mele cotogne. Poi le dice la buona novità. - Il postino mi ha recapitato la lettera del tribunale minorile - dice Jean Paul estraendo un foglio con le autorizzazioni. La moglie smette di masticare il pezzetto di torta e lo fissa con una smorfia interrogativa. - Il giudice ha dato parere favorevole - la avverte lui. - Sta valutan- do quando iniziare il periodo di affidamento. - Uno sguardo balenante illumina il volto delicato della giovane. - Bella notizia - dice sorridendo e prendendogli le mani. - C’è un particolare di cui vorrei parlarti. - - Cosa? - chiede lui curioso. - Pamela, te la ricordi? - - Mi pare un’amichetta di Pablo. Da un po’ non me ne parla. - - Il ragazzino afferma che è sparita assieme agli altri che facevano gruppo con lei. Da molte settimane non la vede da queste parti. Ave- vano legato bene, scugnizzo e scugnizza. - - Dove si sarà ficcata? - - Non ne ho idea. Forse si è aggregata a qualche banda - spiega lei mentre la voce si fa più roca. - Pablito si sente in colpa. Dovresti dar- gli un sostegno. - - Posso parlare con la polizia della sparizione. -

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- È più utile un giro con lui, nelle zone della periferia. Lo apprez- zerà. Gli darai conforto - mormora mesta la giovane occhieggiando una nuvola che s’intravede da una delle finestre che bucano le pareti del ristorante. - Tesoro, i sacrifici continuano. Nell’antichità, con i Maya, era il sacerdote a squarciare il petto dei bambini. Oggi, in alcu- ne frange della società, sono i corrotti a incaricarsene. - Jean Paul scuote la testa. Chiama il cameriere per pagare e questi osserva che Rodrigo ha già provveduto. Usciti dal ristorante, fermano un taxi e si fanno portare al museo. Continuano a giungere visitatori che si dispongono in fila. - La mostra è un successo - nota lui con piacere, cogliendo la sod- disfazione di Clara. - Avevi ragione sul sacerdote. - - Il merito è di Santiago. Il suo articolo è stato decisivo. - La giovane guarda il volto addolcito del marito. Gli occhi azzurri sono abbelliti dalla vitalità e l’espressione è di una maturità propizia. Si baciano sul marciapiede antistante alla porta del museo. Due uomini entrano con l’ultimo gruppo di visitatori. Scambiano qualche frase in russo e vanno alla sala del sacerdote. Scattano delle foto alla statua e all’ambiente, poi escono senza farsi notare.

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L’india Amanicea impasta una farina di colore giallo, forma una pasta dura, la schiaccia con una paletta, la taglia a strisce che frigge in grasso di maiale. Attende che dei ragazzi si siano lavati sotto un rivolo d’acqua che gli cade addosso da un bidone legato a una trave, poi gli offre le frittelle e una scodella di brodo in cui sguazza una patata. Quando gli indios di Takenda odono il motore, corrono a disporsi lungo la riva e si preparano a ricevere la lancia che si avvicina. Il fiu- me in quella stagione è limpido. Alcuni entrano nell’acqua e spingono la barca contro il fango per arrestarla. Gesticolano tra loro, sollevano la tavola su cui è disteso il disgraziato Kris e lo trasferiscono, imbal- samato com’è, alla capanna chiesa. Le sue condizioni, durante il viaggio di ritorno, non sono mutate. Non ha ripreso conoscenza. Le- onid non ne è sicuro: potrebbe dipendere dall’allucinogeno che gli hanno gocciolato sotto la lingua per sedare il dolore. - Señor - dice lo stregone al russo mentre gratta il drago tatuato sulle braccia - ci vuole un medico. I rimedi della selva curano le ossa, meno il sangue. Per il pastore Cristu ci vuole altro. Prego lo spirito, Yati, e uso radici e bacche. Un veleno scioglie il sangue e un altro lo rassoda. Il vomito nero è grave - dice lanciando una lacrimosa occhia- ta sul malato e pensando che non vuole l’americano morto prima che sia costruito il campanile di legno a lato della capanna chiesa. - Dove lo scovo un dottore da queste parti? - - Vola. Vai da Pippay, al campo di Bacatà. Da lì il paese non dista molto. Lui ci va con la moto e te lo porta. Pagando. - Il pilota non ha scelta. Quando il motore dell’Ave Maria giunge al- la temperatura per ottenere massima potenza, calcola il vento e allinea il naso metallico per decollare. L’aereo inizia a correre, stacca le ruote, sale inclinando l’ala e vira da un lato. Procede a bassa altitudine sul manto verde che fugge sotto la carlinga. Passato il confine, riconosce l’altopiano su cui altre volte ha lasciato Kris, aiutato dal fumo che Pippay lascia emettere dalla misera cucina. Aggira un cumulo che ha

assunto l’aspetto di una torre di cotone. Contrasta gli scossoni la- sciando all’aereo la scelta di perdere quota. Non gli permette di mettere il muso troppo in alto. Il De Havilland risente dell’aria calda richiamata dal gigantesco cavolfiore di vapore e l’ala reagisce vibran- do. Al russo pare di cavalcare un purosangue sfiorato dagli speroni. Abbassa la linea di volo e si allinea, dopo una stretta virata, con la corta striscia che fa da pista. Leva il motore. Pippay gli va incontro non appena l’aereo si arresta. Leonid, scen- dendo dalla carlinga, gli chiede di cercare un dottore, con urgenza, perché l’americano sta male ed è giallo quanto una foglia di tabacco. L’indio comanda alla sua donna, con lo sguardo da matta, di servire il pilota, poi inforca la moto con svelta energia e va via. Leonid si domanda per quale motivo Kris non abbia rinnovato la vaccinazione per la febbre gialla. Nell’attesa legge una superata rivista sgualcita che gli offre l’india. Le immagini sono sbiadite. C’è un arti- colo sul canale di Panama. I colombiani sono decisi a tagliarne un secondo parallelo e i panamensi sono preoccupati dalla futura con- correnza. Ci sono i commenti di esperti e d’investitori. Uno di questi è proprietario di una compagnia che fa manutenzione alle chiuse. Un tale di nome Alvaro, figlio di un italiano, si manifesta contrario: un secondo canale comprometterebbe l’ecosistema. Il russo guarda la foto di fianco all’articolo: la faccia del tizio pare di un sofferente. Dopo alcune ore Pippay torna col dottore. L’ha trovato al posto di salute pubblica. L’india con lo sguardo da matta gli offre una bevanda di mirtilli e limone. Il dottore prende il bicchiere, beve, e fa una pe- sante osservazione a Leonid: - Pippay non mi ha detto che avremmo sconfinato. - - Il pastore è grave. Abbiamo meno di un’ora di volo. Lei non cor- re nessun rischio. - - Vola bene questo trabiccolo? - - Sull’Ave Maria ci porterei mia madre - lo rassicura Leonid. Al dottore venezuelano non piace seguire sconosciuti, ma per cin- quecento biglietti non si tira indietro. C’è la violazione territoriale, ma

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i medici di frontiera forano senza permesso. Hanno una sorta di dop- pia nazionalità non ufficializzata. Il pilota spinge a fondo, tira la barra, sfiora le creste degli alberi. Il De Havilland ripercorre il percorso in senso opposto. La selva si stende a perdita d’occhio, rivelando minuscoli corsi d’acqua a regime stagionale. Leonid vede le nuvole cariche di elettricità. Non esclude che potrebbero scaricare. Troverà il campo di Takenda prima che la cortina si faccia di piombo. Acquisisce i riferimenti per avvicinarsi al villaggio quando sta per iniziare a piovere. Vede il fiume scorrere pi- gro a sinistra. Riconosce la piccola pista tagliata dagli uomini di Takenda per volere di Cristu. Il russo atterra e avanza l’aereo fin sotto la tettoia di foglie; frena e leva il contatto. Accompagna il medico alla capanna chiesa. In un’aria umida e grave giace Kris. Sotto lo sguardo opaco dell’india, che adesso ha in braccio un pargolo, il medico si convince della gravità del caso: dubita della possibilità di un esito po- sitivo. Un malato di febbre gialla, con le ossa rotte, incosciente e drogato a bella posta, non gli è mai capitato. - Vomito nero - dice a Leonid. - Non era vaccinato? - - Mi piacerebbe chiederglielo. - - Con che l’hanno immobilizzato? - domanda allo sciamano, proiettando un’aura di praticità mentre le mani tastano le parti sco- perte dell’infermo. - Argilla di pozzo. Non avevano altro. - Il dottore stabilisce la specificità dell’eziologia. L’esame del sangue conferma il Flavivirus. Se non è in atto l’emorragia nelle mucose delle membrane, segno di distruzione epatica, il malato ha una vaga spe- ranza. La sola che gioca a favore dell’americano è la febbre alta che, stando a quanto gli ha riferito il pilota, si è mantenuta costante: un sintomo di resistenza. Ha una fiala di virus attenuato: la usa sebbene il malato sia infetto. Gli somministra integratori e vitamine. Chiede al russo di aiutarlo a ripulire Kris, poiché Amanicea ha attaccato al seno il piccolo che succhia latte. All’esame, Kris mostra una lussazione e tre costole rotte. Il medico di frontiera misura la pressione, ausculta, controlla la congiuntiva, la pupilla, il riflesso, la lingua. L’ittero è pre-

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sente. L’emiopia è evidente - vede ombre - e non controllata. Il fegato risponde alla palpazione. V’è emolisi. Ci vuole un miracolo. Lo scia- mano lo guarda sospettoso, curioso di scoprire se il pastore uscirà dal regno di Ioroko, poiché con i piedi sta dentro il regno dei morti. Se- duto sul pavimento di terra, con lo sguardo fisso nel tetto, muove le labbra recitando formule non percepibili. “Yati, Yati, Yati.” Kris si lamenta e il medico chiede alla donna di bollire dell’acqua. Avvisa Leonid di evitare che l’americano si agiti mentre gli pratica delle iniezioni e applica l’ago lungo. Avvolge delle fasce bianche da gessare intorno alle parti da immobilizzare e avvia un trattamento con anfoterifina che dà risultati anche in casi disperati. - È necessario l’ospedale - suggerisce calmo praticando la flebocli- si, con la fronte imperlata di goccioline di sudore. - Non ha la mutua, né l’assicurazione privata. Non credo sia con i documenti in regola - chiarisce Leonid. - Supposto poi che riuscissi a portarcelo, arresterebbero lui e me. Sono clandestino e lui mi copre col suo apostolato. Sta terminando la costruzione della chiesina. - - Un’onda l’ha ridotto così? - domanda il medico evitando di chia- rire quale fosse il timbro sul passaporto dei due stranieri. Il russo lancia un’occhiata a Takenda. - La lingua del diavolo - blatera lo stregone interrompendo le gia- culatorie. - Ci ha raggiunto. L’ha risucchiato e l’ha sputato. - Il medico non sa cosa sia la lingua del diavolo ma gli crede. Avvisa che bisogna continuare col chinino e i liquidi, senza perderlo di vista perché potrebbe ferirsi lui medesimo, con le unghie o con morsi, sot- to l’effetto degli spasmi. - Decotto di coda di cavallo - interviene Takenda. - A gocce - concede il medico conoscendo le virtù dell’erba. - Po- trebbe ricominciargli il vomito. - Gli stanno accanto per tutto il giorno. La pioggia cessa al soprag- giungere della sera. Un dubbio, a un tratto, turba il medico. Afferra lo sciamano per il braccio e gli domanda: - Gli hai dato estratto di nonì? -

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- No, niente nonì, dottore. Non ho tale frutta sacra. Solo erba cal- mante. Lo vedi - dice con voce mogia - sta dormendo. - Basta calmante. Deve orinare. Continuiamo con le fleboclisi. - Takenda accenna col capo. Anche se avesse avuto a disposizione il nonì, il pastore non sarebbe peggiorato: sta troppo male. Almeno è vivo e significa che il grande Yati lo protegge. Non è la prima volta che le pozioni preparate con radici selvatiche e veleno guariscono più delle medicine per volere degli spiriti. Amanicea continua a sgocciola- re infuso nella bocca di Kris. S’interrompe quando il piccolo, nel marsupio, inizia ad agitarsi e lei gli dà il capezzolo da succhiare. Alla luce delle candele, la notte trascorre lenta, accompagnata dai lamenti dell’americano. Il silenzio nella foresta non è mai completo. Le scimmie appostate nella vegetazione emettono grugniti raccapric- cianti che fanno sussultare il russo. - Finché si lamenta, è vivo - insinua il medico, mentre raccoglie le orine e le feci per esaminarle. Dopo un po’ dà il parere: - Non c’è sangue. Lievi tracce. Non ha ottemperato alle raccomandazioni del grande Reed. Non sarebbe in questa situazione se avesse considerato il suggerimento dello scienziato di rinnovare il vaccino. - - Se ne sarà dimenticato. È uno dai mille impegni - lo giustifica Leonid. - Lo vedesse al lavoro. Rispetto puntiglioso degli orari. - - Che la sorte lo assista - termina il medico ritirando il termome- tro. - Sono i ricercatori che crepano lavorando sugli antidoti. - - Deduco che senza martiri moriremmo per punture di zanzare e per regali del genere. - Il dottore sorride e si allontana dal giaciglio. - Aspettiamo e ne riparleremo - dice sedendo in terra. Takenda, senza proferire parole, esce dalla capanna chiesa. Leonid va sull’amaca, assicurandosi che la zanzariera sia tesa. L’oscurità non spegne la fluorescenza dei fiori purpurei degli alberi vicini, tozzi e nodosi. Non vi sono stelle e il cielo rimane nuvoloso. Nel buio, la cappa calda e umida vivifica gli insetti che s’inseguono con ronzii improvvisi. Il russo si addormenta con l’idea che Kris ha bisogno di una raccomandazione da qualcuno ascoltato da Dio. Nota

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l’india Amanicea accovacciarsi presso il focolare esterno. Non ha più il marsupio di fibra vegetale col bambino. Qualche altra donna sarà venuta a prenderlo senza farsi notare, forse per separarlo dagli effluvi contagiosi dello sfortunato falso pastore. L’india si alza senza rumore e raggiunge Takenda all’estremità del campo. L’uomo la guarda con gli occhi arrossati; mette in una cesta della frutta e uova fresche. As- sieme lasciano il villaggio per addentrarsi nella foresta. Vanno a offrire il dono a Khuatamadì, silenzioso e strisciante, affinché com- batta il male che invade mister Cristu. Pregano affinché il serpente tocchi il malato, perché le sue spire possono guarire quelli che vomi- tano siero. Lo sciamano si rimette nella sua occupazione primaria, dominante e magica. Inizia un canto monotono, lugubre, marcato da suoni che darebbero i brividi a chiunque. Amanicea invita i sacri guardiani della foresta. Un lampo illumina di un chiarore violetto e istantaneo la selva e suscita ombre irreali. La pioggia riprende a cadere dura e scivola dalle foglie degli alberi bagnandoli. Il dottore sostituisce le candele per ottenere un filo di luce che permetta di controllare l’evoluzione della malattia. Crede che senza l’aiuto del contenuto delle borracce consegnate a Leonid da coloro che hanno prestato il primo soccorso, l’americano non sarebbe so- pravvissuto. Resta perplesso, non nega il principio attivo dei rimedi ma dinanzi all’imperscrutabile si blocca. Cerca invano l’appoggio di una spiegazione scientifica. Il fango applicato su ossa rotte provoca cancrena. Sull’americano ha dato un altro risultato. Quel povero uo- mo è stato due volte fortunato: primo, per non essere affogato nell’onda; secondo, per avere avuto l’attenzione degli stregoni locali. Sveglia Leonid per un turno di assistenza. Il russo cede l’amaca al medico insonnolito ed entra nella capanna chiesa avvicinandosi a Kris. L’americano si agita meno e ha un respiro debole: la pancia si muove appena. Siede sulle stuoie, a un paio di metri da lui. Si accosta a un palo di sostegno del tetto per poggiarvi le spalle. Percepisce un movimento, in alto, sulle travi che corrono da un punto all’altro dei pali che sostengono l’alta copertura di foglie di palma. Questa volta il suo occhio è allenato. Vede calare il mangiatore di pipistrelli. Il ser-

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pente si è deciso ad apparire nel momento meno adatto. Leonid, fi- ducioso nelle informazioni sul carattere non aggressivo del rettile ricevute da Amanicea, lo guarda mentre scende, costringendo le spire intorno ad una delle colonne lignee. Poi si svolge per la sua lunghezza giungendo sulle stuoie. Avanza reptilando, descrivendo un arco. Una cauta rigidità coglie il pilota, intimorito e desideroso di vederlo andare in direzione opposta alle sue gambe. Il rettile procede verso Kris, bat- te la testa contro i fianchi e la solleva; lo sfiora, dal torace al bacino, ne assaggia l’umore con la lingua spinta fuori, come esplorando un topo. Lungo un paio di metri, ha il colore della terra, con macchie nere e verdi. Abbassa la testa sul torace del malato e inizia a strisciar- gli sopra, tracciando strette volute. Gli discende da dietro un orecchio, per avviarvi verso un foro basso, nella parete di fango e canne, e sparire all’esterno. La pioggia cade con rumori secchi libe- rando una finissima polvere d’acquazzone tropicale che confonde il profilo della foresta. Leonid espira per il sollievo. Non avrebbe sapu- to reagire o tirarlo per la coda. Si pizzica per non addormentarsi e conta le ore che trascorrono lente. Al primo chiarore, il dottore torna e visita il paziente. La sua espressione si tinge di stupore. Tra meravi- glia e compiacimento, l’esame non rileva acuzie. C’è una lenta remissione del male. La pupilla reagisce e la lingua non è tumefatta; il malato non perde feci o urine e il polso è meno debole. - Costui avrà buoni motivi per non morire - dice riavvolgendo lo stetoscopio. - Credo che sopravvivrà se riceverà cure ospedaliere. - Leonid si limita a non rispondergli. Ha già detto che un ricovero non è possibile. La falsa condizione pastorale di Kris e la sua di acco- lito non lo permettono. Esce dalla capanna chiesa per respirare aria meno fetida. La pioggia cessa. Nel sentiero incontra lo sciamano e l’india che tornano bagnati dalla foresta, con un cesto vuoto. Scam- biano con lui un cenno di saluto e proseguono oltre. I loro volti sono segnati da una strana stanchezza. Il russo fissa le sponde del fiume che si protendono nella luce incerta del primo mattino. A quell’ora escono dalle tane di fango le iguane in cerca d’alimento o di fiori da succhiare. Ripensa a Vassili e si meraviglia di provare gusto per la

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conclusione negativa della missione. La valigetta è sparita, l’americano quasi morto e le mafie di mezzo mondo irritate. In quanto al paga- mento della parcella al dottore, anticiperà lui: cinquecento bigliettoni. Va al focolare e si accovaccia mirando la fiamma molle che agita lingue giallastre. Vorrebbe un caffè vero e mangiare un paio d’uova. Amanicea alza un fuggevole sguardo di volenterosa esaltazione. Con voce per nulla melodiosa, lo avvisa che le uova sono servite a Khua- tamadì e che dovrà accontentarsi delle frittelle e di un infuso. Lui si arrende con una stretta di spalle. Alla frittata ci aveva fatto un pensie- rino. La donna gli parla degli spiriti a guardia della foresta: essi ascoltano le preghiere e scelgono chi merita attenzione. Il serpente è venuto, ha preso le uova. Leonid capisce che sono finite nella gola dello spazzino disceso dal tetto, il quale, avendo deciso che il pastore non era un buon boccone, ha preferito raggiungere la cuoca, nella foresta, con lo scopo di rubare la sua colazione. Gli toccano stupide frittelle di mais, zuppe di un olio che sa di grasso idraulico. Finisce di rosicchiare, si alza dal suolo cosparso di foglie morte e raggiunge il dottore che sta cambiando la fleboclisi. - Le cellule rispondono in modo inverosimile. Quest’uomo è for- tunato. Non credevo vedesse l’alba. - - Supponiamo - tenta Leonid con soggezione - che lo sciamano abbia usato la sua arte, potrebbe avere, in qualche modo, interferito? - - Nella selva è possibile l’impossibile. Ciò che noi non valutiamo aderente a una logica, potrebbe accadere. Un miracolo avviene in un istante. Un atto di sanazione operato da uno sciamano lo fa avvenire nel momento meno pensato. Non mi chieda in virtù di che cosa. - Leonid prova impressione. Certe gerarchie soprannaturali, in altre occasioni l’hanno lasciato indifferente. Quel mattino è accaduto un fatto eccezionale difficile da capire per lui che vanta un elevato atei- smo. Si reca alla tettoia che copre il De Havilland e comincia a ispezionare il motore. Dall’Ave Maria, metà meccanica metà elettro- nica, trae forza per rigettare idee che gli torcono la fantasia. Le scimmie non si fanno udire, ancora al riparo. Nel pomeriggio, il dottore, ritenendo che la fase acuta è superata, si lava il viso. Sul pun-

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to di partire confessa al russo che gli capita di operare in condizioni precarie, di doversi spostare a dorso di un cavallo o di un mulo; a vol- te in idrovolante o in elicottero, e lo compie con dei rischi. Risolve le dichiarate ambiguità: salva un guerrigliero ed è bene che non lo sappia un paramilitare e viceversa, perché a quei signori del giuramento d’Ippocrate non importa un cocco lesso. Ragionano così: tu salvi il nemico e sei un nemico. Per lui si fa difficile la pratica medica. La loro conversazione è interrotta dal suono del satellitare. Il russo si sposta dalla capanna per rispondere in libertà. - Che succede laggiù? - attacca diretto Vassili. - C’è un leggero recupero di Kris. Forse vivrà. - - Niente. A me serve vivo. Punto. - - Ho discusso col medico di quest’evenienza. - - Ci sono persone in apprensione, Leonid. Ti avevo ordinato di sorvegliarlo e tu lo fai morire. Di febbre gialla. - - Abbassa il tono fastidioso. - Sopprime il brivido che sta per scor- rergli dietro la nuca. - Non ordinarmi di tenerti in considerazione, perché lascerò il gringo al suo destino, con le mosche e quant’altro offre questo posto. Il cerusico vuole che ricoveri l’americano, che è grave. Non ci sono ospedali nelle vicinanze. Dovresti avvisare la se- zione K della confusione che hai creato - aggiunge con sarcasmo. - Fai ciò che ti compete - lo interrompe Vassili. - Non ho ricevuto la merce. Kris non ha sostenuto l’impegno. Cavagli la verità. Perché è mancata la copertura? - - Non so quando Kris potrà parlare. Ancora un particolare. Ho anticipato cinquecento dollari al medico. - - Riavrai fino all’ultimo rublo. - - Dollari, amico. Dollari. Avvisa l’Organizzazione di avere pazien- za. Avranno tempo per farti un buco in testa. - Leonid spegne il satellitare attingendo pazienza dalle riserve del carattere. Va da Takenda e gli promette altri compensi se Kris miglio- rerà. Gli occhi dell’indio si accendono; prova piacere a stringere buoni affari. Una canoa per una capra. Un maiale per una donna. Le regole

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antiche passate a voce nel rispetto delle leggi tribali decidono se un feto sarà un valente cacciatore o un poderoso sciamano. - Quando scendevo il fiume con Cristu, i guerriglieri hanno attra- versato la riserva. Andavano in direzione dell’accampamento di Gonzales per sorprenderlo. Alcuni hanno veduto volare un elicottero per pochi istanti prima di esplodere. - - Senti che novità. Prosegui. - - Gonzales aveva elicotteri. Tu voli in quella direzione - indica col dito - vedrai il campo a meno di due giorni di marcia a piedi. I tambu- ri hanno detto che un potente paramilitare è morto. Raul, il guerrigliero, forse è vivo. Stai attento. - Leonid si tinge di sospetto fissando gli occhi luccicanti dell’indio. L’informazione vale. Gli consegna cento dollari e appronta l’aereo. - Cinquanta chilometri da qui, vero? - - No, tu sbagli. - - Me lo hai detto tu. Due giorni a piedi. - - Nella giungla. Dove ti ho indicando è savana. In un giorno, a piedi. Con l’Ave Maria i chilometri sono meno lunghi. Trentacinque. - - Hai una matematica da schifo. - - Che colpa ho se voi bianchi siete ottusi. Una pietra cade per il peso. Il fuoco brucia perché la legna è secca. Un civilizzato muore per una cimice, uno stupido per la sua boria. - - Smettila - dice Leonid dandogli uno sguardo di disapprovazione. - Approfitti delle situazioni. - Stende la carta di navigazione per riportare una triangolazione, ve- rificare le distanze e il carburante. Senza l’orologio conteggia con difficoltà. Farà un passaggio sull’accampamento dei paramilitari. Il dottore, nel frattempo, ha caricato le borse e attende di essere portato indietro, all’altopiano di Pippay. L’elica si riavvia. Il Gipsy, docile e rumoroso, rilascia potenza e risponde lanciando l’Ave Maria in una corsa che lo innalza sopra l’isolato villaggio. Il De Havilland supera verdi chilometri di bosco continuo e impenetrabile. Il russo inizia a scendere compiendo un largo giro.

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- Diamo da vicino una vista al disastro - dice ironico al dottore per rassicurarlo. - Non ci metterò molto. - - Ci aspettano? - - No. Siamo di passo. - - Ci spareranno - cita il medico pratico delle usanze. - Lei ha gli strumenti per levare le pallottole. - C’è una macchia scura sulla sinistra. Il russo abbassa l’ala. Ricono- sce nello spiazzo i resti bruciati di un elicottero. Il brivido nella schiena gli ricorda il velo della morte. - Guardi, dottore - dice a voce alta per farsi udire dal dottore che ruota la testa da un lato all’altro. - Non c’è nulla d’integro. - - Riconosce i resti del velivolo? - gli domanda il dottore. - Parrebbe la coda di un Chinook da trasporto. - - Ci saranno superstiti? - - Poco probabile. - Volando in cerchio l’aereo rifà quota. Leonid punta l’altopiano di Bacatà. Lo sciamano non ha mentito. Ciò gli suggerisce che è giunto il momento di tornare a Cuba per chiarirsi con Vassili. Amanicea ha la forza della selva nel sangue, nel fiato che sa d’erba, nel modo singolare di accoppiarsi, senza muoversi, con sincopate pulsazioni interiori, con delle contrazioni volontarie e controllate e l’uso di spalmare l’uomo di saliva. La sua natura le dà capacità per aiutare King. I sensi non le si accendono mentre riceve l’uomo narco- tizzato, provocandogli afflusso di sangue dal fegato alle altre parti, a tutte, a quelle necessarie per la riproduzione. L’assenza di gentilezza è naturale quando gli danza sopra sfiorandolo e trattenendolo. Ignora la bontà delle sue membra scure. Terrà sveglio il malato. Accelererà il suo battito. Gli smuoverà le reni provate. King Kris la fissa con sofferente apatia. In un’immobilità da im- balsamato vince l’incredulità. Febbricitante, la scambia per una visione dolorosa: una delle improbabili creature che con movenze furtive si accostano al villaggio, attirate dal suo malessere. Vede globi infiammati che galleggiano nell’aria e si spostano assecondando una

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lieve corrente, o attraverso le pareti di fango, oscillando in ascesa per il tetto. Sussulta e cede allo sgomento. Amanicea lo frena e gli gocciola in bocca la sostanza preparata con le piante raccolte dove s’incontrano i serpenti dalle quattro narici, sotto alberi fioriti, o avvolgenti foglie larghe e viscide. Lei riconosce la volontà di Khuatamadì, il serpente cui tutti si sottomettono. Alle pri- me ombre prende dal focolare della cenere e la mischia con ossa triturate. Cosparge i quattro angoli della capanna chiesa. Quando Ta- kenda ritorna e si accosta al capezzale di Kris, l’india gli lancia uno sguardo comunicativo: ha rimosso il sangue del pastore dalle fibre più nascoste. Lo sciamano controlla il progresso del malato e avvia delle sorde cantilene che chiamano la benevolenza dei potenti Yati. Usa connessioni di suoni acuti o gravi, che emette dalla gola, superando la schiavitù della coscienza, componendo lamenti simili nel ritmo e di- versi d’intonazione. Così, nei rari attimi in cui la sua anima si accosta a quella di Kris, c’è un caritatevole flusso di forza.

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Leonid è felice di essere sul volo per Cuba, seduto in una poltrona della prima classe. Il trimotore, un MD recente, ha decollato in orario, lasciando la costa e salendo ai diecimila metri per una crociera che durerà un paio d’ore, prima d’iniziare la discesa verso L’Avana. Lui ha lasciato King Kris allo sciamano e alle insolite cure dell’india. Ha scar- tato l’ipotesi di spostarlo in un ospedale. La polizia metterebbe il naso e lui stesso incriminato. Le autorità colombiane non accettano perso- ne senza visto sul loro territorio, per giunta in zone isolate. L’hostess, sorridente, gli serve un aperitivo. Il sapore del Campari gli spegne il ricordo del selvaggio aroma delle bacche premute da Amanicea. Ha rischiato morsi di pipistrelli e si è nutrito di frittelle di mais. Si sente gabbato da Vassili che patteggia con gente non racco- mandabile, appartenente all’Organizzazione. Una leggera turbolenza lo costringe a bere di un fiato l’aperitivo. Le scosse agitano il bestione che fila a novecento chilometri sopra le nuvole. L’hostess, con passi galleggianti, controlla che i passeggeri abbiano le cinture allacciate. Il russo non perde l’occasione per do- mandarle se le piacerebbe lavorare all’Aeroflot. - In quella compagnia ai passeggeri servono cetrioli sottaceto - gli risponde l’aviatrice con un sorriso malizioso - e le poltrone della bu- siness class sono di bassa imbottitura. - Ho capito - lo anticipa melenso Leonid, reclinando la spalliera della poltrona. - Godiamoci ciò che abbiamo al tropico. - La signorina continua il giro e lui apre la rivista di bordo, dove so- no presentati gli oggetti del duty free. Un paio di stecche di sigarette e qualche buon profumo di scorta fanno comodo. Irina, sua amica, dot- toressa capo del centro medico, potrebbe fargli visita con la sorella. Informa l’hostess di voler acquistare dei prodotti. Quando questa ritorna con il sacchetto colmo, lui le porge la carta di credito. La si- gnorina, dopo avere memorizzato il nome russo, gli dice che la compagnia preferisce il pagamento in contanti.

- Rubli. - - Dollari. Facilitano le transazioni. - Il russo paga con biglietti verdi e riceve il resto in rubli. - Le ho dato dei dollari - sussurra a voce bassa Leonid, deluso dal- la quantità di monetine russe. - Un attimo fa. - - Per favore, accetti i kopejki - questa volta il sorriso dell’aviatrice è suadente. - Non so proprio quando tornerò allo Sheremetievo. Lei ci andrà spesso, immagino. - Leonid le dà un’occhiata divertita e vorrebbe dirle che è una sim- patica sfacciata. Non osa dissolvere il sorriso lirico che sta ricevendo. - Lei non vola sul lungo raggio. Sosterà a Cuba? - le domanda. - Come ha indovinato? - - La sua abbronzatura è un codice aperto. Verrebbe a pranzo in un ristorante georgiano aperto dalle parti del Malecon? - la invita met- tendo in tasca il resto tintinnante. - Accetto, Leonid. - - Grazie, Loretta - lui dice leggendo il nome sulla spilla al petto, mentre le passa con gesto discreto un biglietto da visita. Accorcia la distanza. - Chiamami in ufficio nel tuo giorno di riposo e andremo a trovare Rasputin. - - Rasputin? - - Così abbiamo ribattezzato il cuoco georgiano. Per le sue ostriche del Baltico cotte con le cotiche dei maiali. - Il suono breve del campanello, dalla cabina piloti, la chiama. - Vado per sentire dal comandante il tempo sull’aeroporto - dice la giovane strizzando l’occhio, mentre gira il bustino con una mossa felina che mozza il fiato dell’agente. Non appena a L’Avana, Leonid abborda un taxi e si fa portare all’ambasciata. L’ampia vetrata dell’ufficio è spalancata e la brezza della baia entra gonfiando le tende che, dopo mezzogiorno, sono tira- te per dare riparo dai raggi cocenti che investono gli edifici del Malecon. La mediazione del vento marino è una benedizione. Vassili è seduto alla scrivania in maniche di camicia e ha le ascelle bagnate di sudore. Ha l’aria accigliata. La voce non è ferma.

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- Non mi fa piacere che sei tornato. Ti addebito tutto il disappun- to per l’abbandono di King. Non mi hai ascoltato. - - L’ho ritrovato. Sta in buone mani. Ha uno stregone tutto per lui e un’india che lo sprona a vivere. - - Un uomo chiave starebbe qui. Lo lasci alle cure dei selvaggi. - - Ho promesso i tuoi dollari per mantenerlo vivo e Takenda è uno che rispetta il denaro - sibila il pilota stirando i sottili baffetti. - Con- ciato com’è, non serve. - - Miserabile Arlecchino maggiore. Non so dov’è finito il milione. Il carico che attendevo è sparito. Alla sezione K rivogliono il milione con gli interessi. Avrei voluto informarti prima della tua partenza per la selva, ma non mi è stato concesso. - - Sei un ipocrita. - - Ci sono piani paralleli e segreti che non conosci. Ho incarico di recuperare ingenti capitali per corrompere terroristi. Mi stava dando una mano l’Organizzazione. - - Vassili, quanta coca ci si compra con un milione? - - Una tonnellata. - - Col tonno? Mischiata all’olio? - insinua Leonid. - Sarebbe giunta senza destare sospetti. - - Una tonnellata di tonno non scompare nel nulla. - - Leonid, sto per divenire pazzo, farò la fine di Igor, giustiziato - prevede Vassili con una punta di disperazione nel tono, alzandosi dalla scrivania e andando al distributore dell’acqua refrigerata per spil- larne un bicchiere. - Dove sarà il milione di dollari? - - I soldi sporchi vanno ad arricchire le mignotte oneste. - - Evita le oscenità, prego - supplica l’ucraino. - Chi avrà attaccato l’Onassis? Che cosa sarà accaduto durante lo scontro navale? - - Due sono gli elicotteri che hanno attaccato l’Onassis Quinto: un Artigliato e un Chinook da trasporto. L’Artigliato l’ha sistemato il tiro rapido della torpediniera colombiana; il Chinook è filato via. E non era scarico. L’ho veduto ridotto in pezzi. - Il moscovita fissa il russo con una smorfia di scherno. - Numero Uno, ragiona. Mi vuoi dire quale uomo abbatte un velivolo zeppo di droga? -

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- Tu pensi che la cocaina non sia perduta? - - È solo sparita - azzarda Leonid. - Risolvi questo caso. Ti ricompenserò. - - Mi hai spedito in mezzo alle mosche con la richiesta di foto ae- ree che non hai neppure guardato. Ti ho portato istantanee del falso missionario arrampicato sul tetto della futura cappella con indios fe- deli e non hai espresso un grugnito. - - Dovevo crearti un alibi. - - Mi avevi fornito quello di King Kris: agente di satelliti meteo e spia. Le sue scansioni satellitari e le mappe sono una copertura per farlo entrare in certi ambienti. Lui mantiene i contatti tra venditori e compratori di cocaina. Ma quanti sono gli intermediari? - - In genere, più ce ne sono e meno rischi si corrono. Si forma una rete di copertura - spiega l’ucraino lasciandosi cadere sulla sedia. - Se tu avessi usato franchezza con me, non saresti ridotto alla pie- tà. Da dove partì il carico? - - Da Panama. Non conosco di persona il venditore, solo la voce. Era Kris a mediare. Si tratta di un italiano; è confermato. - - Andrò a Panama. Compatriota, mi devi cinquecento dollari per il medico, trecento per Takenda e il mio abbonamento al teatro. - - Ti ho abbonato per la prossima stagione. - - Volevo esserne certo - dichiara Leonid con un sorrisetto, alzan- dosi per uscire. - Ora vado a rilassarmi per qualche giorno. - Leonid lascia l’ufficio e s’infila nell’ascensore, una cabina di legno intarsiato e vetri sabbiati, con frange artistiche del secolo passato. Vi entra sospettoso. Scrocchia. Anche se la manutenzione è regolare, l’aggeggio non è invitante. Cigola in ogni giuntura, peggiore del piano imbastito dalla fantomatica sezione K. Lui ha veduto la tensione in ogni fibra del corpo molliccio dell’ucraino. L’ascensore vibra tra il sesto e il quinto. Lui ha sviluppato e analizzato le foto aeree. Ha sco- perto accampamenti e piste di atterraggio nella selva. Ha intuito che Kris preparava per suo conto un traffico di droga. Dal suo punto di vista, Raul e l’americano covavano la stessa idea, e simili: mettere le mani sulla cocaina destinata a Vassili. Esce dalla cabina di legno tra-

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ballante, con un flusso di malafede. Sbuffa. È il momento di rintrac- ciare Loretta. Quella sera la porterà a cena da Rasputin. Il resto lo affiderà al caso, che di solito tifa per lui. Il telefono squilla nell’ufficio di Vassili. L’ucraino solleva la cor- netta. Gli pare scivolosa; si rende conto che è la sua mano a essere sudata. È nervoso. - Hallo. - Una voce nasale si qualifica: - Sono Zorro rosso. - - Sei stato al museo? Che ne pensi? - - Abbiamo fatto i rilievi. Non c’è sorveglianza. Solo una ragazzina di strada. La mettiamo altrove. È vispa, ci aveva notato. - - Quando farai il colpo? - s’informa impaziente l’ucraino. - In qualunque momento - risponde la voce nasale. Vassili si gratta il collo con violenza. - M’interessa che la statua del sacerdote sia a Los Angeles tra quindici giorni, dal mercante d’arte. - Il russo riaggancia. Va a spalancare la finestra e permettere alla lu- ce d’invadere l’ufficio. Respira gonfiando il petto. A pranzo ha esagerato con le cozze. Il bicarbonato non agisce più. Socchiude gli occhi innanzi al panorama. Zorro Rosso, così lo chiamano i ricettato- ri, compirà il furto. La sottrazione del sacerdote gli farà recuperare una grossa somma. Leonid non dovrà sospettare, o avviserà la coni- glietta del museo e questa lo sposterebbe a Bogotà, in luogo sicuro. Cerca un numero nell’agenda e fa una telefonata a Los Angeles. Ri- sponde una segreteria telefonica. “Questo è l’ufficio culturale della fondazione Arte nel Mondo. Siamo occupati in questo momento. Lasciate il vostro messaggio.” - La statua sarà da voi tra quindici giorni. Soldi alla consegna. - Riaggancia e mormora: - Essere più breve di così non posso. -

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Un mattino presto, Jean Paul si reca alla capitaneria distaccata. Ha ricevuto una raccomandata dall’ufficio per il rilascio delle licenze nau- tiche, ma non vi è espresso un motivo specifico. Entrando nello spazio opacizzato da armadi scuriti con una tinta blu, attiva le perce- zioni. La foto di Nelsen pende sulla parete. Ha la feluca e le decorazioni sul petto. È ritoccato come un attore. Ne hanno fatte nuove copie per gli uffici del dipartimento. Il sergente ha la divisa in ordine e nasconde sotto la camicia la catena d’oro con il crocefisso pendente al rovescio. - Capitano, la aspettavo. - Il sottufficiale resta seduto. La sua voce è tinta di baldoria. - Di cosa si tratta? - - Avvisarla che nel caso decidesse di allontanarsi dalla costa con la barca, potrebbe fare brutti incontri. Sono stati riportati assalti di pirati nelle acque limitrofe. Inoltre, i documenti definitivi della Clara Prima non sono ancora pronti. - - Non farò cabotaggio - lo interrompe Jean Paul con freddezza pensando che la nota puzza di marcio. - La Clara Prima bordeggerà nelle vicinanze e terrò gli occhi aperti. - - Mi piacerebbe che i diportisti fossero assennati. Purtroppo non è così. Molti non prestano attenzione ai consigli. I pirati hanno moto- scafi veloci. Attaccano le imbarcazioni e rubano. - - C’è altro? - - L’ammiraglio resta in attesa di una sua risposta. - - Non è cambiato nulla. Gli dica che non gli serbo rancore e che chiedo solo di essere riabilitato in una corte di giustizia. Non accetto di comandare ancora altre navi e non sarò disponibile. - Il militare schiaccia la cicca nel posacenere. - Era una buona offerta. Non le piace l’ammiraglio? - - Non concordiamo su certi punti. -

- Avete avuto contrasti - insinua il militare guardando il capitano con gli occhi da cobra. - Il caso 416. - - Come lo sa? - - In marina i suoi pettegolezzi viaggiano. Le notizie circolano in salamoia, capitano. Anche gli sbarbatelli di leva sanno che Nelsen è influente. Meglio dalla sua parte che contro. - - Spero usi bene la sua influenza. - - Ostinarsi a navigare controvento, è rischioso. L’onda presa di faccia, più dura del fasciame dello scafo, danneggia le ossa. - Jean Paul legge nel volto del sergente lo sterile messaggio manda- togli dall’antagonista: rinunciare allo scontro. La ripugnanza che gli monta dentro si proietta nei suoi nervi e gli fa serrare le mascelle. - Gli dica che sono ansioso quanto lui di nuovi buoni rapporti. - - Glielo riferirò - rimanda il militare sollevando le mani. - Non commetta l’errore di sottovalutare le conseguenze di una decisione errata. Siamo in un posto isolato. - - In questo paese siamo allenati alle intimidazioni - sostiene il capi- tano ripiegando la raccomandata ricevuta dalla capitaneria. Esce dall’edificio alterato in volto. Anche se il sangue gli è ribollito per un minuto, ha controllato la lingua. Il pensiero corre alla moglie. La vede indifesa quando lui è distante. Sarebbe opportuno un suo trasferimento a casa della madre in caso di ritorsioni, almeno fino a che non si chiariranno le intenzioni di Nelsen. Ma Clara accetterebbe la proposta? Un aspetto del suo carattere è simile a quello del padre: ha una carica speciale per reagire alle prepotenze.

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Rudy, l’allevatore di mucche, è giunto alla costa. Alloggia in un buon hotel da un paio di settimane. Tenta di apparire un uomo d’affari. Ha scelto scarpe comuni: mocassini testa di moro. Ha tolto di mezzo gli stivali a punta delle pianure, che sono una carta d’identità di vaccaio. Sfoggia un cappelletto con visiera di una squadra di base ball e indossa jeans. Al promontorio di Punta Rocca nessuno sospetta di lui. Là è normale che uno compri, con un contratto a termine, un vivaio di gamberi, di granchi o d’aragoste. L’acquisto a tempo è una forma d’accordo che dà garanzie maggiori dell’affitto, ad ambo le par- ti, venditrice e compratrice. Ha comprato un vetusto Chris Kraft per la pesca d’alto mare, tinto di un colore perlaceo, con un grande mar- ling azzurro stampato sulla poppa piatta. Sulle due grette poppiere è sospeso, dondolante, un tender di gomma mezzo sgonfio. Prima di affondare il motoscafo, dovrà trovare un lavoriero, una zona di mare per l’allevamento di crostacei. -Sottacqua - gli ha detto Raul prima di spedirlo alla costa - la cocaina sarà al sicuro. - Non si è ribellato: le pazzie del guerrigliero o sono contagiose o pericolose. Durante il giorno, quando si stanca della piscina, si reca sul motoscafo; si stende in costume, beve birra, fa un paio di bagni, finge di mettere in assetto la barca. Praticherà un foro nella chiglia quando verrà il momento e il Chris Kraft affonderà, dove la profon- dità non supera i dieci metri, facili da raggiungere quando Raul, incassati i dollari che gli consegneranno gli italiani di Panama, permet- terà a Pelekanakis di recuperare i pacchi di cocaina confezionati da don Alvaro e da destinare a Vassili. Spera che per quella data, le man- drie, nella pianura orientale, non abbiano perso molto peso. È in pensiero per l’esemplare miura: il toro cresciuto per Manuel. Il torero pretende che l’animale riceva ogni attenzione. Nell’arena, pretende di combattere con bestie fiere. A Rudy, quei pensieri intristiscono il vol- to. Lo avviluppa un’agitazione che lo tiene sospeso e rimugina la condizione pericolosa in cui l’ha spinto Raul. Che idea mandarlo a

Punta Rocca. “Madre della Macarena, protettrice dei toreri, liberami dall’incubo.” Le aragoste non sudano, non spargono lo sfolgorante odore delle vacche. Mangiano vermi rossicci, con le zampine molli, o parti decomposte di pesci morti. Una vacca vuole germogli teneri, sottili. Perderà l’esposizione dei tori da corrida, per quell’anno. Però, che spettacolo, Manuel. Che classe e che rispetto per il toro lavorato con esperto fiancheggiare. Un torero lucido che galleggia nell’arena e giudica un orgoglioso animale in combattimento per l’insieme della massa di muscoli che forma la forza della sua carica, nel luccichio delle corna mortali e la rettitudine del quarto posteriore. Un buon toro è un fior di lottatore. Manuel, il pensiero di andare fuori tempo, di dover estrarre la spada dal collo dell’animale per ripetere il colpo inflitto senza destrezza, fa sentire un torero come lui a disagio: un’onta inalienabile. Se lavora sicuro sul bordo del circolo segnato nell’arena, lui dà all’animale la possibilità di salvarsi nella corona circo- lare esterna, laddove è intoccabile dalla spada. Rimane fermo, con addosso un luccicare di folclore, e mostra il panno rosso in attesa che l’animale lo carichi con una massa di seicento chili. La piscina riflette capovolti cumuli di bel tempo che si spostano, con lento procedere, verso il mare. Rudy sta per incontrare un inter- mediario che si occupa di piazzare i vivai delle aragoste. Lo aspetta a un tavolo del bar mentre osserva i bagnanti distesi sui lettini di tela o a mollo nell’acqua. Adocchia una biondina dietro un paio di chiassosi occhiali colorati, con montatura di plastica leggera, allungata su una sedia a sdraio: affonda nel Sole, unta di olio, tenendo allacciato un sottile bikini. Le lancia un’occhiata che non sfugge a Peña Rosa. Si presenta nell’area della piscina un uomo panciuto, i capelli im- pomatati, con la giacca color nocciola e una borsetta per geometri. Un cameriere gli indica l’allevatore. Le presentazioni sono rapide. Il sensale apre la borsa per estrarre i fogli dei lavorieri disponibili. Le voci, certi momenti, si sovrappongono e interi periodi giungono all’udito della bionda segretaria che sbircia da dietro i grossi occhiali. Il duetto attira la sua attenzione. Cerca di cogliere ogni particolare e la solleticano le parole come: profitto, resa, minimo rischio, investimen-

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to, vendibile, cedibile. Dopo un’ora, Rudy ha ancora dubbi sul vivaio antistante alla Grotta di Mezzogiorno, il cui ambiente naturale, ricava- to da un lavorio ondoso e perenne, ospita le ceste intrecciate con fibre legnose per pascere le aragoste. - Lei non sa del numero di bestiole adulte che vi stanno - dice il sensale e mentre parla la punta del naso adunco si muove. - Vedrà che soddisfazioni. Con poco denaro otterrà delle meraviglie. Senza contare l’esperienza degli operai che là vi lavorano da anni - aggiunge notando che il cliente è poco convinto. - Sono in gamba? - s’informa il vaccaio. - Almeno fino a che lei non diverrà più bravo di loro. - - Vorrei essere certo che il tutto sia cedibile nel caso decidessi di vendere prima del raggiungimento del peso lordo. - - Senza dubbio. Le trovo un compratore in ogni momento. - Il sensale, a quel punto, arrotola il progetto del vivaio, offre a Rudy di visitare la grotta e vedere le ceste con gli esemplari. Stabili- scono d’incontrarsi per il tardo pomeriggio, quando sarà più fresco. Suggellano il patto con una stretta di mano e il vaccaio riceve il foglio cianografato affinché possa individuare le posizioni delle gabbie ubi- cate sottacqua. Rimasto solo, Rudy ripone la sua attenzione sulla biondina che si è seduta e armeggia con il reggiseno. La invita, disten- dendo il muscolo risorio, a bere un drink e Rosa accetta. - Mi spiego - inizia a tessere Rudy dopo essersi presentato sbir- ciando con distorto opportunismo nel reggiseno che lei non ha ancora stretto - una persona, supponiamo, ha cento dollari, e che fa? Compra aragoste vive. Le cresce e poi le vende. Uguale con le vacche. Cinquanta al ripascimento, quaranta alla vendita giornaliera sul merca- to. Il dieci per cento la lascia fuori, per gli imprevisti. - - Converrà? - domanda Rosa rilasciando languido fascino dagli oc- chioni di gatta. - Quali sono migliori, le vacche o le aragoste? - - I tori, ma con quelli il conto è differente. Su un maschio, se di razza buona, s’investe tutto e si scommette. Prendiamo ad esempio un esemplare di casta andalusa. Cos’ha? La cattiveria. In Andalusia è polvere d’oro. Se la trovi, ti arricchisci. E che guardiamo? La costitu-

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zione del toro da corrida, la struttura delle ossa, l’anca alta, il garrese duro e la funzionalità insieme. Dobbiamo immaginare in che costato del cavallo entreranno le corna, con il picador spiazzato che si sbilance- rà troppo. Il toro lo butterà in terra e poi ci darà dentro con le corna. Chiaro che molto dipende dal ceppo. Vogliamo comprare un toro ammazza toreri? Non serve un figlio di vacca, ma un figlio di diavolo. Un toro selezionato non ha prezzo. Un piccolo Navarra con un tem- peramento assassino non ha rivali. - - Ha valore per la cattiveria? - lo interrompe Rosa appassionata dal racconto dell’eloquente prestazione del toro Navarra. - In parte. - Le sopracciglia sottili di Rudy rendono gli occhi neri più fondi, mentre il viso esprime il gusto di parlarle di un fenotipo ottenuto dall’incrocio di razze selezionate. - L’istinto di liberazione dell’animale forma la bravura. Non è la ferocia in sé a fargli infilare la cornata mortale. È l’amore per la sua personalità. Rudy si rende conto di non avere ancora domandato il nome alla biondina. Acquieta la sua foga. - Come ti chiami? - - Peña Rosa. - - Meravigliosa. Rosa, hai mai guardato nell’occhio di un toro? Vi hai mai cercato qualcosa che non sia la potenza o la maestosità con la quale sale in groppa alla vacca? Il toro assassino ti darà soddisfazione. - - Mi stai suggerendo tori? - domanda la donna con tono colloquia- le che assume aria di scherzo. - Andalusi o di Navarra? - - No, un toro spagnolo non ti merita - sussurra Rudy accostandosi al suo viso e alludendo. - Tu sei nata per un torero indigeno, quello che vorrei imitare. Ti leggo in volto. Sei una donna. Uccidi mirando in basso. Un semplice aspirante lo fai scoppiare alla prima ruota, al giro di cappa, alla prima banderilla. Tu pretendi un espada, uno di espe- rienza. - - Non sarai presuntuoso? - echeggia lei con una fresca risata. - Mi piacciono i lamenti quando infilo le banderillas - soffia l’uomo e ha lo sguardo che insinua. - Tre banderillas di seguito. -

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Rosa, con gesto istintivo, si copre il seno con l’asciugamano a ri- ghe colorate. Rudy ha letto nelle sue pupille l’eccitazione. Se riuscirà a trascinarla nel terzo dell’arena, si divertiranno, puntando, correndo, interrompendo le uscite, terminando il passo. - Seguimi in un punto meno esposto; ti mostro il progetto. - Rosa raccoglie le creme e la borsa. Quando giungono nella came- ra, il vaccaio dispiega la cianografia lunga un paio di metri. Le mostra il progetto dei vivai, sui bassi fondali, quelli dove le aragoste hanno già fatto la muta. Qui i maschi; là le femmine. Si avvicina a Rosa e la distanza è ridotta al punto d’intimità. Sono alla confessione della pas- sione. Le sussurra nelle orecchie parole singolari. La spinge. Consola le arretrate voglie di lei assopite dal cadenzato roncolare di Nelsen. Rosa si sente donna, per scelta, questa volta. Rudy la vede bene nel suo programma di fecondazioni. È di razza buona. Ha i fianchi larghi. - Basta - dice lei scivolando esausta di lato e certa che non scorde- rà la lezione sulla riproduzione bovina. Va sotto lo zampillo della doccia. L’uomo apprezza la bellezza dei fianchi e il petto turgido. Ha il passo agile, i capezzoli tesi, e dopo l’amore sorride con aspetto di vittoria, senza rimpianti. Rosa indugia insaponandosi; ha assaporato la sua esuberanza, l’impeto, la resisten- za. Le interessa capire dove origina la sua scelta di mettersi in mezzo alle aragoste. Scoprirà il trucco, prima di lasciarlo. Finora ha compra- to tre appartamenti a suo nome; ha investito in fondi obbligazionari, stipulato assicurazioni, comprato oggetti d’oro. Nelsen non potrà rimproverarle di non essere oculata negli investimenti. - Dai, papito - lo sollecita uscendo dal bagno - portami a visitare l’allevamento. Gli intermediari ti aspettano. Non escludo che anch’io ci metta qualche soldino. - Rudy vorrebbe levarle quell’idea. Preferisce non scontrarsi con la coscienza. Non sospinge una vacca in prato di dubbia bontà. Lui ha scarse conoscenze in vivai marini e vermi corazzati. Potrebbe farle subire delle perdite. - Andremo tra un paio d’ore. -

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Rudy apre gli occhi quando il telefono squilla. Non è il suo. Rico- nosce Rosa distesa nuda accanto a lui. La donna non si muove. - È il tuo cellulare, tesoro - le dice toccandole la spalla. La donna, insonnolita, risponde con un “hallo.” - Cioccolatino, ti stai dando da fare? - La voce stridente dell’ammiraglio esce dalla cornetta facendo irri- gidire Rosa che non vorrebbe udirla. L’avventura con il vaccaio le sembra frizzante. Non le piace che qualcuno la sospinga per ricordar- le quello che ha già chiaro. - Tu che credi, papito? Mi hai mandato alla costa e mi guadagno lo stipendio. - L’istinto femminile la avvisa di stare in guardia. Ha colto un accento mobile nel tono di Nelsen. - Te la cavi senza di me? - - Vorrei che fossi qui. Ho noie al dipartimento. Al dipartimento. - - Vuoi che torno? - gli domanda con un miagolio. - Mi piacerebbe. Quanto ti serve per completare l’operazione che ti ho affidato? - domanda l’ammiraglio cacciando un tono neutro. - Penso di comprare del bestiame che renda bene - spiega con aria di soddisfazione. - Investirò fino all’ultimo soldino. - - Bestiame? - controbatte meravigliato Nelsen. - C’è un tipo che sa tutto sulla riproduzione dei tori. Mi affido a lui per il contratto - chiarisce Rosa con cautela, a conoscenza della bar- riera che limita la sua capacità in fatto di commercio. - Cioccolatino, non credi sia rischioso? - insinua la voce del palu- dato ufficiale. - Ti fidi di questo tizio? - - Non ha cercato di strangolarmi. Ha valide credenziali. Credimi. Tori da corrida. Li seleziona per Manolete. - - Manolete? È crepato incornato da anni. - - Sarà un altro, che importa. - Nelsen immagina. Tori. Potrebbe funzionare. L’animo femminile è un crogiolo di doti. Forse, la mandria potrebbe essere un investi- mento. Non ha scelta: se Rosa ha deciso di comprare vacche, saranno vacche. La conosce. È già andata a letto col vaccaio. Non è geloso, lui. Sa che lei lo fa per dovere perché, se avesse altri scopi, la farebbe annegare, da un sicario, nel golfo di Darien. Lui si piegherà sino al

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suo ritorno. “Una stanza da letto è il posto migliore per disciogliere sospetti e frenare decisioni irresolute.” - Non fare scivoloni, cioccolatino. Non abbiamo tempo. - - Resterai soddisfatto, papito. Che altro succede in ufficio? - - Comparirò in corte. In corte suprema - proclama l’ammiraglio stendendo la voce su un tono meno stridulo. - Una storiella di tanti anni fa, stupide incomprensioni con un sottoposto. Jean Paul Carrera chiede un risarcimento. Un ribelle. - - Cosa da nulla - lo stuzzica lei ricordando gli occhi azzurri del ca- pitano Carrera. - Il capo di stato maggiore lo sa? - - No, cioccolatino. O fermo questa causa, o corro un rischio cui non voglio pensare. Perciò attenzione. Attenzione. Ti strapperebbero ogni cosa se ci scoprissero. - - Papito - geme Rosa con un brivido - a me interessa la nostra re- lazione. I dollari no. In una settimana tornerò per aiutarti. - Nelsen si sente assecondato dal linguaggio sciolto di lei. - A presto, cioccolatino. - Rosa arriccia il nasino. Stanca delle maniere speculative del suo capo ufficio, comincia a credere che la fortuna le stia dando una ma- no per allontanarlo. Non ha mai amato un uomo ad altezze da brivido. Le volte che ci ha provato, è rimasta delusa. Ha sentito che andava fuori di se stessa e si è spaventata. Ripone il cellulare e stuzzi- ca Rudy. È ora di andare a visitare i vivai. Nelsen è giunto presto in ufficio. Alle sei i marò erano intenti alle pulizie dei piani e delle scale, con le pezze incerate e le lucidatrici. S’innervosiscono quando qualcuno intralcia il lavoro. Non gradiscono intrusi tra scope e redazze. Lucidano ottoni con una forza barbara, una sorta di compensazione alla castrazione di non sapere nulla d’arte navale: sparare con un cannone, salpare un’ancora, alimentare una caldaia Foster, friggere una galletta di scorta nell’olio, o distinguere un radar da un televisore. L’ammiraglio siede alla scrivania e vi poggia la busta inviatagli dalla corte suprema. Riflette. “Quel Jean Paul Carrera. Ha passato la linea d’ombra, è un uomo che non vuol capire da che parte gira il pianeta.” L’invito a comparire gli è giunto peggio di un

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colpo d’ariete e una sorda rabbia lo infiamma. Il foglio contiene un elenco di prove da smontare che vanno dall’abuso del grado, all’uso improprio di mezzi navali, al contrabbando. Il suo legale per la difesa lavorerà sul principio di contraddizione e si attenderà che il giudice applichi la libertà di giudizio. In corte suprema è difficile offrire al giudicante un pacco regalo per predisporgli l’animo. Se la causa ca- desse dal lato della tempesta, potrà tentare un patteggiamento con il giudice. Non gli si prospetta un buon periodo. Gonzales non ha for- nito notizie. La cocaina rubata a Pelekanakis non compare. Kris è sparito per cause ignote. Amareggiato, mantiene alcuni minuti lo sguardo nelle velature dei quadri navali nelle pesanti cornici alla pare- te. Si scuote. Gli eventi stanno appannando la balconata sull’avvenire che aveva ad arte spalancata. “Carrera finirà in un buco profondo.” Si alza dalla scrivania e si reca alle toilette tenendo piegato in una mano il giornale comprato e non ancora sfogliato. Entra, si toglie la giacca gallonata e si bagna il volto per cancellare la stanchezza d’animo. Si fissa nello specchio e riconosce la stessa aria che spesso ha veduto sul volto degli ufficiali da lui ricattati. Abbassa i pantaloni per soddisfare lo stimolo causatogli dal nervosismo accumulato e sfoglia il giornale. L’attenzione va su un articolo nella cronaca. Dopo aver letto alcune righe, sobbalza sulla tazza sterilizzata. Un pazzo, Rafael Santiago, scrive proprio sul suo conto. Riporta che è in atto una sua convoca- zione in corte per avere impartito, in passato, equivoche disposizioni. Riassume nell’articolo di spalla la vecchia inchiesta: il caso 416, le cui conseguenze si ripercossero sulla carriera di Jean Paul Carrera, co- stretto a dare le dimissioni e che ora chiede alla corte suprema di essere risarcito. Scarica l’acqua. Intimidirà il giornalista, così perderà il coraggio. Torna in ufficio. Telefona al sergente della capitaneria e gli dà disposizioni: che rimedi un paio di fidati guastatori per un lavoret- to; è il caso di aumentare la pressione sul capitano e su Santiago.

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Il capo di stato maggiore ode squillare il telefono. Solleva il polso per sbirciare l’orologio: immagina chi stia interrompendo la cena. La cameriera si accosta al tavolo con il ricevitore sussurrando che si trat- ta del presidente. Escudoro copre la cornetta con una mano e le chiede una dose di cognac. - Buonasera, signor presidente. - - A lei ammiraglio. Oggi ha letto i giornali? - - Si riferisce all’articolo sull’ammiraglio Nelsen? - - Non per caso. Un’altra contaminazione? - - Una lite civile, presidente. Non esistono accuse confermate. - - Me lo auguro. Non saprei cosa rispondere al Congresso. La pre- go di rivedere il caso 416, se non l’ha già rispolverato. Me ne mandi una copia commentata. Sul giornale si menzionano ordini che furono dati al capitano Jean Paul Carrera in modo erroneo. C’è il sospetto di un atto preterintenzionale. Sa perché? Per coprire un cargo infetto di cocaina. La N17 ha giuste coperture? - - Il comandante Chivas non ha commesso errori. Ha aderito alla convenzione di Montego. Le tecniche d’aggancio in acque internazio- nali hanno molteplici aspetti. Solo in navigazione i comandanti aprono le buste recanti gli ordini superiori. Prima non vengono edotti sulla totalità di una missione. Per evitare fughe di notizie. - Nell’attimo di silenzio che segue, Escudoro sottrae il bicchiere dal- le mani della cameriera e ingoia un sorso di liquore. - Con chi andrà in corte suprema? - insiste il presidente. - Nelsen ha un legale pagato da lui? - - Ha scelto un patrocinatore militare. - - Qualora il dibattito dimostrasse l’inottemperanza del suo ufficia- le, desidero non essere coinvolto. Stiamo attraversando una fase delicata. Le sovvenzioni arriveranno alla marina se taglierete il marcio. - Me ne rendo conto signore. -

- Evitiamo in questa causa di spendere denaro pubblico. La pires- sia dell’opposizione userebbe contro di me l’accusa di spreco. Mandi una dichiarazione al ministro, per chiarire la mia estraneità. - - Lo farò signore. - - Buonasera. - L’ufficiale non ha il tempo di rispondere, perché la rapida interru- zione della linea gli fa ricevere l’irritazione del presidente. “Cos’ha scritto quel giornalista? Che Nelsen impartiva ordini errati? Dopo l’incidente dell’Onassis questo episodio non è il modo migliore per dare lustro al mio incarico di capo di stato maggiore.” Ingoia il co- gnac. Scopre lo sguardo della moglie pesare su di lui e cerca le parole per esporle la questione. La donna gli va in aiuto. - Il presidente ti ha silurato? - gli domanda con ironia. - Non ancora. Se Nelsen affonderà, io con lui. - - Non mi è mai piaciuto - confessa la signora. - Lo immaginai quella volta che gli macchiasti la divisa con il tuo rossetto ciliegia. Certi timbri sono indelebili. - - Conosci il nomignolo che gli hanno affibbiato i tuoi marinai? - - No, cara. - - Il Corsaro Nero. - - Possibile che i dettagli li debba apprendere da mia moglie? Mi pare di appartenere a una marina di montagna. - - Aggiungo altro. È ritardato - rivela sfidando lo sguardo del mari- to. - Ha accumulato stress marino. - - Non lo sapevo amore. Chi ti ha informato? - - Impressioni di amiche. Ha un alzabandiera penoso - allude solle- vando un indice piegato. - Poverino. - L’ammiraglio ripiega il tovagliolo. - Che farai adesso? - domanda la signora guardando le unghie della mano e decidendo che andrà dal manicure il giorno seguente. - Dipende da me, in linea gerarchica. Se ha fatto sconcezze, lo la- scerò in pasto ai giornali. Dovrò coprire il presidente. In ogni caso la flotta ne uscirà pulita - dice passando la mano sulla fronte, volendo assestare quel pensiero di parte.

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Escudoro, chiesto permesso alla consorte, si leva dal tavolo e va a sedere su una poltroncina in giardino. Accende un sigaro e tenta di trovare una strategia. Crede sia giunto il momento che Rosa lo ripaghi per l’entratura che lui impose all’ufficio del personale quando conse- gnò la domanda d’assunzione. Le propose una nuotata e Rosa dimostrò nell’alcova di un celato motel di avere uno stile perfetto: risvegliò la produzione di vasopressina nelle sue vene di lupo di mare.

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Sulla banchina del porticciolo quattro figure si avvicendano con rapidità intorno ad un furgone. Senza scarto, tirano pacchi sigillati con plastica dal cassone e li portano dentro il capace motoscafo. Rudy li osserva sopprimendo l’ansia che gli mette quell’operazione. Il piano di Raul procede senza intoppi: la droga è affidata a una persona inso- spettabile - il vaccaio appunto - e resterà nascosta nelle intercapedini del Chris Kraft fino all’arrivo degli italiani che la riceveranno indietro solo dopo il pagamento di mezzo milione di dollari. - Abbiamo terminato - lo avverte l’uomo che guida il gruppo. - Quanto può restare in acqua? - - In queste casse anche cento anni. Sono impermeabili. - Rudy si augura che Raul si decida a levargli dalle spalle quel fardel- lo. Sul motoscafo c’è tanta polvere bianca da poter drogare mezza città. Se lo arrestano, lo spediscono in America con l’estradizione e un giudice gli assegnerà una catena di anni di galera che i grani di un ro- sario, al confronto, saranno pochi. In piedi sulla piattaforma di cemento dove si allineano le bitte d’ormeggio, lotta col desiderio fre- netico di liberarsi prima possibile del motoscafo. È preoccupato. Ha cocaina messa nei doppi fondi, sotto i serbatoi, persino nel cruscotto della plancia. Ha già perso, per quell’avventura da incubo, rodei ed esposizioni. Ha saltato anche un incontro con un torero che voleva acquistare un magnifico esemplare per la sua azienda, un miura incat- tivito a dovere. Lo distoglie l’arrivo di Rosa. La donna indossa short e camicetta annodata sopra l’ombelico. Sale a bordo e gli chiede di uscire in mare. Il vaccaio avvia il motore e sposta il grosso natante nella zona dei vi- vai di aragoste. Nei tiepidi riflessi che avvolgono l’insenatura, vede un ragazzino saltellare sugli scogli. Pablito si sarebbe già immerso se non fosse per quel motoscafo grigio, giunto da poco, proprio là innanzi. La presenza lo intimidisce. Il signore a bordo ha spento i motori fumosi e sputacchianti ed ha

gettato l’ancora: ciò significa che ha intenzione di sostare. Potrebbe mettersi a strillare se lo vedesse pescare aragoste. L’uomo non ha sfo- derato canne, lenze e ami. Si sta adoperando per spalmare con abbronzante una bionda magrolina. Il monello spera che comincino a giocare, così potrà nuotare e scendere alle ceste delle bestiole. Ne prenderà due: una per la signora Clara e un’altra per il professor San- tiago. A questi vuole esprimere la sua simpatia. Gli chiederà lo stesso dei soldi che poi lascerà nella fessura del battente di casa e la gran negra li troverà quando aprirà per uscire. Rosa vuole l’abbronzatura e si è infilata nel bikini. Rudy cede al capriccio. Il suo piano è in ritardo: avrebbe già dovuto affondare il natante. La donna, distesa sul materassino, esposta ai raggi solari, si lascia palpeggiare. Comincia a riflettere sul fatto che non è convenien- te vivere sola. Teme però il troppo impegno della fedeltà. La felicità di un marito è sostenuta da dosi d’affetto quotidiano. Che le acca- drebbe con un maschio possessivo e morboso? Non la sopporterebbe. Perderebbe l’indipendenza. La pressione delle mani di Rudy si fa soffocante. Sì, a lui piace oltremodo il sesso. Ha scoperto che la lontananza da Nelsen si rivela gradevole. Sta facendo una va- canza divertente. - Sospendiamo un poco, tesoro? - dice Rosa al cavaliere facendo leva col braccio sul materassino. Per Rudy è un delitto cambiare l’intreccio delle gambe in quel momento. Si distrae. Solleva il pagliolato di un pezzo di sentina e con una chiave inglese allenta una presa da mare: basterà una pedata e i tubi si scollegheranno permettendo all’acqua di entrare. Siede sul bordo del motoscafo e accende una sigaretta. Nota che il neretto sulla spiaggia ha sfoderato un forcone e sta per tuffarsi. Pablito vorrebbe che Pamela fosse là a vederlo pescare e prova una vena di tristezza ricordando che la sua amica è lontana, con Boli- var, il bastardino cui lui si era affezionato. Sarà al seguito di un capobanda, che non la tratterà bene. Lui non sa spiegare da dove venga la nostalgia di lei, o degli abbracci che si scambiavano nella ca- pannuccia e la ragazza gli ripeteva che era suo. Adesso che Pamela è

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sparita, prova pena. Lo consola il credere che potrebbe andare a vive- re col capitano e con la signora Clara. Non sa in virtù di quale magia o trucco, ma gli piacerebbe una casa in cui proiettarsi circondato di attenzioni. Gonfia la ciambella di gomma cui è fissato un retino. Lo poggia sull’acqua e vi si sostiene. Inizia a nuotare, con cautela, por- tandosi dietro la fiocina. Entra in un ambiente in cui è divenuto consapevole delle sue capacità acquatiche. Là sotto, lui conta qualco- sa. Si muove adagio per non spaventare i pesci. La maschera che gli ha dato il capitano gli sta grande. L’acqua vi entra costringendolo a soffiare dal naso per scacciarla. Le giovani aragoste, in quel periodo, sono risalite dai fondali e lui le avvista con facilità per il colore rossic- cio del carapace. Pascolano serene, cibandosi degli scarti del mare. Se ne vedrà una più esposta, la afferrerà dalla gobba per portarla in su- perficie, facendo attenzione alle chele e alle antenne coperte di pungiglioni. Ha scoperto dove stanno le ceste in cui gli allevatori le rinchiudono. Qualche furbacchiona riesce a scappare e lui ne appro- fitta. S’immerge nell’acqua limpida, dove crescono siepi d’alghe rosa. Trova una larga spaccatura e compensa i timpani per scendervi den- tro. Una cernia, cauta, pinneggia verso il nascondiglio. È anziana e ondeggia la coda maestosa. Lui lotta con la spinta dell’acqua. Risale per prendere aria. Imprime i riferimenti, i particolari preziosi per ri- trovare la spaccatura. S’immerge con una capriola, affondando tra vitree bolle d’aria. Anemoni fluttuano con delicatezza mentre una tribù di gronghi, neri o grigi, spinge la testa fuori dei buchi nella roc- cia. Avverte una gelida corrente sulla spaccatura, dove sta la cernia. Gli piacerebbe catturarla. Si accorge che quella lotta per una tana. Ha la pinna dorsale irta e mostra i pericolosi aculei a una murena, una nemica, per metà fuori dalla tana. Ogni volta che questa spalanca la bocca e mostra i denti aguzzi, la cernia cambia colore, sconcertandola. Pablo sale per respirare. Pensa che sia un’occasione da non sprecare. Potrebbe approfittare della sfida tra le due e infilzare quella che gua- dagnerà il possesso della tana. Si rimette in giù. Lo stato d’animo, la gioia, gli fanno sottovalutare l’attacco della murena, alla cieca, contro la cernia. Lui ne fa le spese.

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Rudy, intanto, cala il gommone dal motoscafo pensando che i mocciosi non rispettano nulla. Il neretto è entrato a rubare nel suo vivaio. Nel corral gli avrebbe mandato contro i cani. Lì cosa gli man- derà contro? Le aragoste? Che birbante. Gli farà riempire il retino, in modo che vada via prima possibile. I testimoni di un affondamento sono controproducenti. Dà un paio di strattoni alla cordicella e il mo- tore fuoribordo del gommone si avvia: sarà il mezzo con cui lui e la donna torneranno al porticciolo, una volta a picco il motoscafo. Nel frattempo non perde di vista il piccolo invasore che, risale a galla, prende un fiato d’aria e va di nuovo sotto. Ha una buona resistenza. Al contrario di quanto sperato, non porta a galla alcuna aragosta. Che altra cosa ci sarà da prendere nel suo pezzo di mare? Incuriosito, sie- de a cavallo del tubolare, un piede immerso in acqua, cercando di indovinare che pesce potrebbe infilzare quel nero riccioluto. Una due, tre volte lo vede rispuntare. Più di un minuto per ogni immersione. Niente male: resiste bene. A un tratto gli sembra che il tempo si sia allungato. Il moccioso non risale. Il vaccaio corruga la fronte: il moc- cioso sta esagerando. Va col gommone nei pressi della ciambella con appesa la reticella; spegne il motore e prende tra le mani la sagola le- gata alla camera d’aria. Offre resistenza. L’uomo decide di tuffarsi. Nota il neretto impigliato nella corda, piegato da un lato e con qual- cosa che gli pende da un braccio. Lo tira via e risalgono. Uscito all’aria, lo spinge verso il gommone; vi risale e lo solleva all’interno. Riavvia il motore e va al motoscafo, richiamando Rosa che si allaccia il costume e si affretta alla fiancata per dargli aiuto. La donna lancia un grido di stupore. - Tiralo su. Levagli l’anguilla dal braccio - strilla lui mentre inizia a premere il torace della vittima e a fargli la respirazione artificiale. - Un serpente - grida con voce strozzata Rosa. - È una murena. Staccala - impone imperioso il vaccaio alternando il massaggio con soffi d’aria nella bocca del ragazzo. - Con che cosa? - - Prendi la chiave inglese e battila. -

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Rosa corre intorno in cerca dell’arnese e dopo qualche secondo la trova, la afferra e raggiunge la murena che segue a serrare il morso. Comincia a menare. Ai primi colpi, l’anguilliforme lascia la presa. Ro- sa la insegue sul fondo dell’imbarcazione, dove i paglioli sono mossi, e rincara la dose di colpi. Rudy vorrebbe che fosse il cuoricino del neretto a riprendere normalmente. Soffia nella bocca con forza, tap- pando il naso per evitare che l’aria sfugga dalle narici. Il petto di Pablito ha un sussulto. Dalla bocca inizia a uscire bava bianca. - Non morire - grida Rudy con rabbia - bastardo, non morire a- desso. Farai arrivare la polizia dell’Atlantico. - Pensa al peggio. Un morto è un guaio. Con tanta droga a bordo, la polizia lo manderà dritto in galera. Gli tira un paio di manrovesci e mormora: - Su, bastardello, apri gli occhi. Aprili. - Pablito comincia a tossire e vomita mentre il vaccaio, confuso per l’emozione, non sa chi tremi di più, se lo scampato o lui. - Che succede? - balbetta intontito il ragazzo. - Stavi per affogare - gli ricorda Rudy. - Ladrone. - - La murena - si lamenta tornando in sé - si è lanciata è mi ha morso un braccio. - Prova dolore nelle punture. - Che male. - - Ti sta bene - sbotta Rudy, esausto. - Così impari a lasciare in pa- ce la roba degli altri. - Il negretto lo fissa sbigottito. - Sei un poliziotto? - - No. Sono il padrone delle aragoste - dice l’uomo con una nota di soddisfazione. - Mi denuncerai? - - Nessuno sa che uno dei pesci ti ha morso. Non voglio grane. - Si odono ancora i colpi contro lo scafo. A un tratto Rosa lancia un disperato lamento e si riaffaccia dal portello. Ha il volto teso e i capel- li scomposti. Si rivolge a Rudy con voce irritata: - Si è rotta - dice sgomenta. - La barca. Si è aperta. Un buco e ci passa acqua. La murena è scappata. - - Rosa, vieni fuori. Stiamo per affondare - la richiama zelante il vaccaio. - Dobbiamo passare sul gommone. Ne compro un’altra. Por- tiamo il ladruncolo in infermeria. Ci vuole l’antitetanica. -

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- Cos’è l’antica tanica? - domanda Pablo sospettoso. - Una puntura. - - Non la voglio. - Trasbordano sul gommone. Rudy aiuta Rosa, un po’ impacciata. Il vaccaio discosta dal motoscafo che, gorgogliando, appesantito, spari- sce sotto l’acqua lasciando a galla qualche tavola e tracce di olio. Il piano di Raul procede senza intoppi. La cocaina è ben nascosta e gli italiani di Panama avranno quanto vogliono.

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L’hotel di cinque stelle sull’Avenida Balboa, a Città di Panama, splende staccato nelle nitidezze delle moderne forme geometriche. In una delle lussuose suite, don Alvaro è circondato da una cornice di lusso e da un cordone di prudenza costituito dai suoi guardaspalle. Sessantenne, l’italo-panamense ha il viso pallido e alcuni foruncoli gli arrossano il collo. Sin da ragazzo soffre d’asma. È pure allergico al pelo dei gatti; sua moglie ne ha uno e lui diviene paonazzo quando la signora va a fargli visita col soriano nella suite royal. Il padre, un emi- grante abruzzese, rimpiangeva l’aria delle sue montagne e ripeteva al figlio che lì non avrebbe avuto disturbi del genere. Peccato non essere cresciuto sotto il monte Rosa o sopra il monte sant’Angelo. Don Al- varo si ripromette di andare, un giorno, al paese che dette i natali al padre. A patto di ricordarne il nome che, stranamente, non appare sulle carte geografiche dell’Italia centrale. A Panama spende ogni an- no un pacco di dollari per la sicurezza personale. Tanti pari suoi hanno fermato le feste di compleanno prima dei dodici lustri. Il me- stiere è difficile. Lui non si fida neppure dei tre che paga per garantirsi tranquillità. La suite è arredata con mobili costosi, distinti dagli altri ordinati in serie per le centinaia di stanze dell’hotel. Le suppellettili hanno uno stile funzionale e sobrio. I tendaggi e i drappeggi recano un marchio in ricamo che ne assicura l’alto livello. Al centro della parete è fissata una lamina d’acciaio rettangolare scolpita con abrasioni logaritmiche che s’incrociano spontaneamente. La scultura è illuminata da fari di diverso colore gettanti fasci di luce obliqui dal soffitto. L’effetto è una risaltante tridimensionalità variabile in cui si distacca un occhio inda- gatore. Il rilievo di quel ferreo sguardo risalta dal pannello inox con forza. Don Alvaro crede che allontani il malocchio. Un giorno il pa- dre gli confidò che al paese natale – Villa… nulla da fare, non gli sovviene - le fattucchiere ci ammazzavano i maiali dei vicini. Forse l’emigrante gonfiava la verità, per impressionarlo; vero è che i mali

non sono tutti di origine naturale: alcuni arrivano al destinatario con una maledizione. Lui sente un freddo disagio ogni volta che si sof- ferma a guardare la lamina. Ciò che lo indispone è di non trovare la messa a fuoco di quella gelida iride ferrea che, pur essendo illusione, lo spia come l’occhio del mistero. Il boss sa di vivere al limite della legge. Non teme le violenze di questa, si aspetta le vendette degli altri pari suoi. Gli avvocati gli danno buona copertura. Non prova la schiavitù dei codici, bensì il disprezzo dell’ordine costituito. S’infila in bocca la bomboletta dell’aerosol e aspira. Il sapore non è sufficiente per impedirgli d’accendere una sigaretta al mentolo. Le dita, indice e medio della destra, sono gialle di nicotina. È un fumato- re avvelenato più dalle cattive azioni della sua vita che dalle droghe che ingoia. Indossa una vestaglia di seta cinese, a quadri blu e rossi. Reggendo il bicchiere di scotch, va al lettino di vimini piazzato sull’ampio balcone. Conta, in lontananza, l’affluenza di navi che si ancorano, nell’attesa del turno d’ingresso al canale, oppure dirette verso nord o sud, inserite sulle rotte commerciali. Attende l’arrivo di Leonid. Non lo conosce. Ha considerato la persona che si è interpo- sta affinché gli fissasse un appuntamento, un tizio che al porto gestisce una delle sue agenzie di trasporti. Schiaccia mezza sigaretta nel posacenere (fuma benché il medico gli abbia suggerito di smette- re), distende il bavero della vestaglia di seta, aggiusta sul naso gli occhiali da Sole e resistendo alla molestia che gli sta provocando il nuovo ponte, piazzatogli in bocca dal dentista i giorni precedenti, con tono piatto si rivolge a uno dei tre uomini della scorta: - Pasquale, chi hai mandato all’aeroporto? - - Mio nipote. - - Doveva essere già qui. Senti dov’è. - L’uomo, con un gesto rapido, richiama il numero memorizzato nel telefonino. Si accerta che non ci siano intoppi e informa il boss. - Il Tocumes è congestionato dal traffico. Stanno partendo adesso per la città. Arriveranno. - Don Alvaro sosta un minuto prima di riprendere a parlare, quasi che si aspetti un ritorno dell’eco. Le parole, a tratti, sembrano sfuggite

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da un vuoto polmonare che le risucchia indietro. Fa segno al guarda- spalle di andare a pranzare. L’uomo lascia un compare a sorvegliare il piano e scende, con l’altro collega, al coffee shop per un rapido pasto. L’hotel ha un servizio di sorveglianza. Quando uno del calibro di don Alvaro ha tanti nemici, non esiste guardia che non possa essere elusa da un killer deciso. I due uomini, giunti al piano terra, siedono a un tavolo accanto alla porta del locale e ordinano lo stesso secondo, per avere tempi uguali. In venti minuti terminano la bistecca accompa- gnata da insalata e patate fritte. Da bere, acqua. Rinunciano al caffè per andare a rilevare il compagno lasciato nella suite. Leonid arriva con un giovane guardaspalle italiano che dice al ra- gazzo della hall di farsi avanti con il carrello, di raccogliere la valigia dell’ospite e di portarla alla stanza trecentonovanta, già sul conto di don Alvaro. Il russo, entrando, calpesta i lucidi marmi e con occhi mobili valuta se la sua presenza a Panama non sia un errore. La peti- zione di Vassili mira a ottenere una dilazione del pagamento dovuto, fin a quando il carico perduto non ricompaia. Con l’aiuto dei russi che operano nel porto di Panama, Leonid ha ottenuto un incontro col boss. Salito in camera, apre il bagaglio, appende gli abiti e allinea sulla mensola del bagno il rasoio con lama di acciaio, da barbiere, la colo- nia, lo spazzolino e il pettine. L’aria condizionata è in funzione e rende l’ambiente gradevole. Il mobile bar è rifornito. L’accappatoio è pronto assieme alle pantofole. Accende il televisore inserito in un mobile e sintonizza il canale della CNN. Getta uno sguardo ai fogli turistici, disposti a ventaglio sullo scrittoio e che propongono gite in città. Ne approfitterà. Fa una doccia sotto il getto che scroscia pul- sando. Si veste e si presenta alla porta della suite. Subisce la perquisizione prima di entrare. Dentro lo colpisce il luccichio del pannello di acciaio con l’occhio indagatore. Un brivido gli corre nella schiena. Il pallore di don Alvaro spicca, abbinato alla stoffa bianca della sua giacca. L’uomo gli va incontro salutandolo senza inflessioni. La presentazione è formale. Siedono nel divano e il russo vede sturare una bottiglia di Dalmore da mille dollari. Pasquale versa le dosi di whisky. Dal room service giungono due camerieri con i carrelli.

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L’ospite ha ordinato per tre. I camerieri di sala apparecchiano il tavo- lo tondo di noce inglese. Infilano la bottiglia di vino nel cestello del ghiaccio. Versano nelle coppe. I vassoi, in argento indiano, hanno i coperchi a semiciclo. I piatti sono in porcellana cinese decorata. - Attendo il capitano Pelekanakis - dice don Alvaro. - Non tarderà. Ci aiuterà a capire che cosa accade. Ha buone informazioni. Spero che voi ne abbiate di migliori. Scusate dottor Leonid, che pensate della situazione? - domanda il boss sciacquando la bocca con un sorso di Dalmore. - È preoccupato. Vassili non immaginava che si sarebbe perduta una nave - risponde il moscovita apprezzando il whisky. - Chiaro che sapete dell’affondamento del cargo Onassis. Il mio capo vi aveva ga- rantito il pagamento del tonno. Sono scomparsi i soldi e la merce da voi spedita. La situazione nel Caribe pare fuori controllo. - Le cose si sono fatte opache - mormora don Alvaro con un sot- tile sospetto. - Quando vendo qualcosa, mi aspetto che abbiano cura del mezzo di trasporto, della merce e del denaro per il pagamento. Degli uomini che non stanno con me, non mi preoccupo. Alcune transazioni si fanno con doppio intermediario - continua il boss. - Ciò è una garanzia per entrambe le parti. Il mio è un americano. - - Conosco King Kris. È malato, adesso - assicura il russo. - Abbiamo un evento raro - dice don Alvaro poggiando il bicchie- re di whisky - e spero che risolveremo il dilemma. Vassili si fida del suo intermediario? - - Stiamo appurando la sua lealtà. - Don Alvaro lascia che l’altro sia libero di rispondere a domande preliminari, in attesa di liberarsi dei camerieri e poi poter avanzare in una trattativa di cui non si conosce il termine ultimo. - Siete in America da tanto? - domanda osservando in controluce il colore del vino. - Quattro. Il lavoro di fotografo aeronautico mi ha portato in posti diversi. Europa, Asia, Australia. - - A me capita di lasciare la città per un giorno, non di più. Al ri- torno troverei cambiamenti irreversibili. Le molteplici attività che

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dirigo, non mi permettono distrazioni. Presidente di una compagnia di spedizioni, socio di una ditta che fa manutenzioni alle chiuse. - - Ne sono convinto - risponde Leonid immaginando quali muta- menti troverebbe, data la volatilità della merce che in segreto tratta. - Certi impegni richiedono grande agilità. - Da giocoliere. Che sport preferite? - - Lo scii da fondo. Qui in America centrale è difficile, a meno che non si vada in Patagonia. - - Al paese di mio padre fiocca a ceste - rivela l’ospite iniziando a stendere, con frasi lente, la storia della famiglia. - Il sangue italiano ha fermentato in me più del fluido americano. Vorrei andare quest’anno per visite ai parenti lontani. Lascerò a mio figlio il compito di manda- re avanti l’azienda. - - Lei è nato qui? - - A Gatún, in riva al lago. - Il boss respira profondo. - Un posto dove si fa pesca e si contano le navi che attraversano le chiuse. - - Suo padre giunse a Panama dall’Europa? - - Sì. Altri paesani si diressero in Argentina. Lui non aveva fiducia in quel posto. Troppi italiani - commenta asfittico. - Al paesello face- va il fabbro. Catene per gli orsi e trappole per i lupi che con la neve scendono fino in paese. Qui rimpiangeva l’aria di quel posto. Però si adattò. Soffro d’asma e lui diceva che se avessi respirato l’aria dei pa- stori e dei montanari avrei avuto polmoni di ferro. Un giorno ci andrò. A patto di ricordare il nome del paese. - L’arrivo del barbuto greco li interrompe. Pelekanakis saluta e piega le gambe comprimendo l’imbottitura di una sedia. I camerieri iniziano a servire la lasagna. Per la durata del pranzo i commensali parlano del canale e delle capacità di sviluppo che per decenni hanno dato, sugli ottanta chilometri della sua lunghezza, vantaggi ai nord americani. Don Alvaro racconta che il padre a Panama trovò lavoro e moglie. L’emigrante divenne un tecnico delle porte disposte lungo il canale, alle quali si fa manutenzione con regolarità. Aveva sufficiente corag- gio per calarsi al buio, nello spazio angusto di una porta di ferro, a saldare una lamiera di rinforzo. Le maggiori difficoltà dell’Istmo, du-

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rante la costruzione, nascevano intorno alle sponde del Gatún, dove malaria, temperatura e umidità, decimavano i lavoratori. Suo padre conobbe la figlia dell’ingegnere padrone di una ditta di livellamenti. Finì che i due giovani si unirono, nacque lui. I suoi primi amici furo- no i capitani delle navi di passaggio. Apprese il lavoro dell’assistenza ai transiti. Imparò a fornire il necessario ai marittimi e costoro gli in- segnarono i trucchi del mestiere, quelli buoni e cattivi per fare soldi. Quando morì il padre, assunse la gestione della ditta. Per travasare quintali di cocaina, si servì dell’esperienza acquisita sul canale. Don Alvaro forbisce le labbra sottili, seguendo con gli occhietti mobili i gesti dei camerieri che, al corrente del tipo d’ospite che occu- pa la suite, hanno spento le orecchie. Versano vino, o acqua, prima che i bicchieri siano vuoti. Poggiano, usando le pinze, i grissini sui piatti, anticipandone la richiesta. Le posate le rimettono pulite a ogni portata, così i sottopiatti. Terminato il pranzo, i camerieri lasciano la suite. I tre uomini si spostano sul balcone panoramico. - Dottor Leonid, ci avete fatto capire di essere informato. - - Vorrei sentire il parere del capitano. Ha vissuto da attore le fasi dell’attacco alla nave. - - Quello che so ve lo racconterò per bene - dice il greco. Si mettono nelle sedie intrecciate di rafia. I due ospiti stranieri col- gono un sigaro dalla scatola che Pasquale offre in giro mentre riceve ordine di servire il digestivo. Accendono con i Cartier d’oro poggiati su un basso tavolino. Il capitano spiega nei particolari come si è svol- to l’attacco dei due elicotteri fino al momento del suo sequestro per mano di Gonzales. Leonid completa il puzzle incastrando le tessere che ha raccolto nella selva, volandoci sopra. - Non li aspettavo - borbotta Pelekanakis. - Sono arrivati dall’aria. Seguivano un piano preparato per rubare la cocaina. - - Sono finiti male - lo consola il russo. - Un elicottero armato ab- battuto dalla marina. Il secondo, da carico, fatto esplodere con dentro Gonzales, un assaltatore mercenario. - - Mi spiegate - fa l’italo-panamense meravigliato. - Che cosa è ac- caduto al secondo elicottero? -

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- Ho volato sopra i rottami - rivela il pilota ingoiando il liquore forte e speziato. - Nella selva un guerrigliero ha fatto il danno. Ha ammazzato Gonzales. È facile immaginare per quale motivo. - - Come sapete tutto ciò? - domanda don Alvaro con un tremito. - King Kris si sfogava con me. La vostra merce è finita in uno scontro tra opposte fazioni. Raul potrebbe averla. - Il boss, dopo lo scoop lanciato dal russo, lo studia con un’aria fredda e incredula. Si accende una sigaretta senza aspirare fumo. Ha udito di Raul da Pelekanakis. Sa della proposta del guerrigliero. Igno- rava l’esistenza di un altro pretendente, ora deceduto. - Vi assicuro, Leonid, che in matematica e negli affari quattro più quattro vanno a otto. Per quale motivo Raul avrebbe abbattuto un elicottero? Gli avrebbe fatto comodo. - Leonid afferra il senso di quella semplice nozione aritmetica. Nell’ambiente, chi sbaglia l’operazione perde le dita. - Per eliminare i soci e restare con l’intero guadagno. - - Mi piace l’onestà altrui - afferma don Alvaro al quale non è sfug- gito l’attimo di perplessità che ha colto sul volto del russo. - Che ne dite Leonid? Mettiamo le carte sul banco? Siete venuto con serie in- tenzioni. Dobbiamo ritrovare i soldi e recuperare la droga. - - Dubito della salvezza dei dollari mandati da Vassili. Potrebbero essere finiti di sotto con il primo elicottero abbattuto dalla marina. - Don Alvaro, con un gesto calcolato, ordina ai guardaspalle di la- sciare la rigida presenza che hanno tenuto da quando è entrato il russo. I custodi si rilassano ammorbidendo le gambe. Uno va a sedere su una poltroncina di raso azzurrino, inserita in un angolo del salotto. - Il capitano Pelekanakis fa da ponte con Raul che chiede mezzo milione per ridarci la merce. - - Converrebbe accettare - dice Leonid. - Chiede il cinquanta per cento. Che tipo è quel Raul? - - Una serpe - dice il greco. - Non c’è da fidarsi. - Don Alvaro si tocca un foruncolo prima di proseguire. - Voi non sembrate uno che si preoccupa. Provenite dalle ceneri del KGB o siete indipendente? -

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- Sono un appoggio esterno e lavoro per Vassili. Rilievi fotografici di qualunque cosa interessi il bureau. - - Fotografate le piantagioni! - esclama il boss ammirato. - Siete una rivelazione. Avete fatto ritratti anche da questo lato? - - A scacchiera. Il cinquanta per cento sono registrate. - - Perché avete lasciato fuori la metà? - - Provare tutta la verità, in un pantano dove in molti fanno surf, non è permesso. - - Chiaritemi. - - Mafie russe e cinesi stanno scendendo in campo. Più forti e san- guinose delle vecchie. Si fanno accordi bilaterali per quieto vivere. - Il boss crea una pausa mistica per ossigenare i polmoni provati dall’asfissia. Schiaccia il filtro della sigaretta. Medita su un rischio: la sua organizzazione potrebbe trovarsi ad affrontare in un futuro pros- simo nuovi concorrenti tra quelli menzionati da Leonid. Ha bisogno di un parere disinteressato e quel russo sa cose che lui ignora. - Se i vostri connazionali volessero allargarsi qui, sul canale, mi preoccuperei. Perciò vi domando quali previsioni girano nel vostro cerchio di conoscenze. Sono curioso sul destino dei mercati. Nelle fiere che si facevano al paese di mio padre, stupivano i sensali degli equini. Arrivavano gli allevatori per comprare cavalli sani e forti e si ritrovavano con qualche zingaro, venuto da fuori, che gli rifilava un brocco. Se ne accorgevano mettendolo al lavoro. Vedeva il morso e si adombrava. Non serviva una bestia del genere. Lo zingaro si era dile- guato e il denaro buttato via. Da noi, qui, non è possibile. Compratori e venditori fanno il mercato. I russi sapranno garantire le scorte? - - Dipenderà dalla quantità di diserbanti che si cospargeranno sulle piantagioni - osserva il pilota. - Lì sta l’arcano. - Leonid dà risposte che soddisfano l’uomo che ha di fronte. Fino a quel momento gli pare che l’altro lo ritenga idoneo a stare al gioco. - Don Alvaro, la disgregazione del sistema russo ha espulso un gran numero di agenti segreti. Abituati ai soldi facili, alla droga, alle belle donne, al tabacco profumato, al caviale piccante, si sono messi al soldo di chi ha bisogno della loro esperienza. Ciò ha facilitato

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l’avanzata della mafia a ovest. La geopolitica non fa previsioni. Il ter- ritorio da spartire, con le guerre in atto, non è ancora definito e il conflitto si muove da un punto all’altro del mondo. - - Insinuate che la caduta del comunismo sovietico è stata contro- producente? - - Gli stati occidentali hanno dovuto porsi domande scottanti. Il totalitarismo è esploso senza controllo e le schegge si sono proiettate nel mondo libero, disposto ad accettare tutti. L’occidente non teme l’anarchia e per la sua solita presunzione non ha adottato reali prov- vedimenti. Il Medio Oriente islamico, nel suo integralismo, teme l’anarchia e la ostacola in ogni modo. I nostri agenti a spasso spando- no tossine senza avere l’antibiotico giusto. - - Supponiamo che sia vostro amico - sussurra don Alvaro distan- ziando le parole - quale accorgimento mi consigliereste? - - Il compito duro non è quello di entrare sul mercato. Lei ci sta già e lo controlla. Il duro, dal mio punto di vista, è uscire da certi mercati quando non ci sono modi per una ritirata. Non guasti energie per evitare che altri vi entrino. Si adoperi per tagliare la loro ritirata. Si accaparri gli investimenti migliori, si faccia scudo con le organizza- zioni umanitarie che lei stesso foraggerà e che non mancheranno di sostenere la sua immagine. Protegga le prostitute d’alto bordo garan- tendo loro un vitalizio e da queste avrà le migliori informazioni. Accadeva nell’antica Roma. Guardi all’impero, alla sua durata. - Il boss inarca un sopracciglio. Guarda fisso nel vuoto e pare un morto fresco. Gli stanno apparendo, in veloce successione, le donne sfruttate che in fila porterebbero informazioni in cambio di una pen- sione. Tiberio, Nerone, Domiziano, Diocleziano e poi Napoleone ebbero preziose informatrici. Raccoglie il bicchiere col digestivo e fissa il mare aperto dinanzi all’hotel a cinque stelle. - Cliniche e case funerarie - mormora cogitabondo. - Abbinamento perfetto. - - Noi potremo andare d’accordo - concede don Alvaro. - Lei ha la giusta apertura mentale. -

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Leonid capisce che dovrà dare un colpetto d’acceleratore ai pen- sieri, o non starà dietro l’italo-panamense. Lo avvisa: - Bisogna essere più rapidi dell’Organizzazione. - Il boss ha trovato una linea diretta per dialogare col russo. - Terrò in evidenza i vostri suggerimenti. Bevete un altro digesti- vo. Al capitano Pelekanakis non piace questo genere di amaro. - Accenna a Pasquale di rifornire i bicchieri d’amaro italiano servito con ghiaccio, poi obietta: - Non è facile il controllo simultaneo su avvocati, notai, finanzieri. L’aumento degli investimenti richiede soldi. - Si ferma col bicchiere a mezz’aria, incapace di anticipare una re- condita angustia dovuta al presentimento dell’espansione russa che si pianterebbe dove passano le navi. Ha una rete di capitani che si ven- deranno al migliore offerente. - La Russia esportava idee. Adesso esporta altro. Che strano mer- cato quello delle democrazie. Quando di una data merce ce n’è troppa, il prezzo cade. Con la libertà succede il contrario. Sale il prez- zo della cocaina. Che razza di mondo! - - Acuta osservazione - dice Leonid sforzandosi di bere l’amaro. - Le suggerisco di ridistribuire il sessanta per cento del suo incasso. Cliniche e mortuarie. Lei investirà in misura maggiore e riceverà di più… Don Alvaro, la globalizzazione non permette di operare alchi- mie con il denaro irregolare. Se si muovono grandi capitali senza una logica spiegazione, il mercato reagisce e tutti si rendono conto che c’è sotto qualcosa. I terroristi non riescono a godere il frutto del loro mestiere. Il commercio di armi oggi non conviene. Prezzi bassi. Essi sono inchiodati dal furore dell’odio che loro stessi hanno piantato. Sarebbe un errore mettere cocaina nelle loro mani. - - Mi state suggerendo di eliminare Raul? - - Solo se a lei non piace la concorrenza sleale. - - Non posso darvi torto - dice melenso l’italo-panamense rigiran- do il bicchiere tra le mani. Alza la mano e Pasquale ritira il bicchiere. - Dottor Leonid, lavorereste per me? -

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- Il sistema nel quale mi trovo è geloso - risponde con un accenno di gratitudine il russo - Sarei listato nel libro dei fallimenti e da scarta- re. Le farei più danno che sostegno. - - Ok - dice il boss convinto dalla franchezza. - Farei anch’io lo stesso. Per il principio dei vasi comunicanti, se l’acqua scende da un lato, salirà dall’altro, fino a bilanciare. Ciò permette di passare infor- mazioni segrete. Mi piacete dottor Leonid. - - La ringrazio. A volte conviene restare fedeli alla causa. - Don Alvaro schiocca le dita. Il guardaspalle gli consegna un pac- chetto. Contiene una stilografica d’oro. La dà al russo. - - Un segno della stima per chi non travasa informazioni. - Leonid tenta di rifiutare. - Il mio capo mi proibisce di accettare at- tenzioni che non provengano dal bureau. - - Mi pare di conoscerlo da anni, quel Vassili. Astuto - dice sten- dendo la piega delle labbra. - Prendete la penna. - Pare quasi un ordine. - Siete venuto per me. Un ricordo di Panama in cambio dei vostri consigli. - - La terrò da conto - sillaba Leonid fissando la smorfia dell’italo- panamense. - Servirà per annotare le abitudini dei nostri agenti che capitassero nel canale. - La faccia del boss si comprime sotto il fasti- dio di un mezzo sorriso, forse per il ponte nuovo. - Signori, per finire - dice ai due ospiti - se ho capito bene, dobbiamo raggirare il guerri- gliero. Gli daremo quello che chiede. - - Credo che la cocaina l’abbia stordito - se n’esce il greco. - Duran- te il mio sequestro, non l’ho udito coerente. - - Da questa storia, per ora, escluderò Vassili - assicura il boss ta- standosi la mascella indolenzita dal ponte. - Unica certezza è la mia merce nelle mani di Raul. Fingerò di accettare la proposta e non avrà il tempo di scoprire chi sono. So essere più velenoso della vipera Co- lonna che esce da sotto i sassi sui monti della Marsica. Ai russi chiederò un’estensione della fiducia. Non ci sono chiuse, per ora, tra me e loro. Il canale è aperto. - Accende una sigaretta e butta il fumo verso l’alto. - M’incarico del guerrigliero. - Le parole suonano sinistre nel riflesso della luce pomeridiana che fa sembrare astratta la città. -

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Leonid, riferite a Vassili che farò il possibile per lui. Le nostre azioni, o mutano la vita del nostro nemico, o ci rendono una nullità. In sem- plici parole, la vita per la morte. - La voce si è udita tagliente, mostrando la scelleratezza con cui si chiudono certe questioni. Il telefono della suite squilla interrompen- doli. Un avvocato americano richiede la presenza di Don Alvaro nella hall. L’incontro dei tre uomini si conclude. I convitati si alzano. Il boss si rivolge a Pasquale: - Prepara la borsa con la documentazione concernente l’acquisto del Casinò Elvis di Las Vegas. Sta arrivando il mediatore della Roland & Son. - Poi tende la mano a Leonid. - Avrò bisogno di voi. Avete volato sulla zona di Raul e saprete ritornarci. Gli porterete quello che aspetta. Ci rivedremo presto. - Leonid esce sul corridoio. Prenota l’ascensore per scendere alla sua stanza. La miscela di vino e digestivo che don Alvaro gli ha impo- sto sta provocandogli sonnolenza. Odia dormire da solitario quando cambia letto. Odia obbedire agli ordini di Vassili. Odia rischiare la malaria per un americano calvo finto pastore e mal sopportato. Odia le baracche di Takenda e le frittelle di Amanicea. Non gli piace nep- pure l’idea di don Alvaro di mandarlo da Raul. L’unica azione meritevole di lode nella sua permanenza a Cuba è stata quella d’inviare la statua del re sacerdote a Clara, una creatura candida che spicca sopra la melma che lo circonda. L’uomo che lei ha scelto, il marinaio Jean Paul, è uno fortunato più di lui. Si distende sul letto e riesce a dormire alcune ore. Al risveglio, l’orologio segna dieci minuti alle nove. Ha l’obbligo di sistemare lo stomaco. Sceglie di andare a ingoiare un paio di vodka, per distrugge- re il sapore adesivo del digestivo al carciofo ingerito. Nella hall chiede un taxi. L’autista, pratico, gli propone un rinomato casinò. Il posto è eccessivamente illuminato. Vi sono giocatori ai tavoli da gioco e alle macchinette mangiasoldi. Il russo va al banco e assapora una vodka originale. La trova secca e gelata e ne chiede una seconda, infine è pronto per affrontare la sorte. Si presenta alla cassa per con- segnare la targhetta di credito e ottenere le fiche: mille dollari per

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cominciare. La cassiera digita il numero sul ricevitore. Trasmette, una per una, le cifre impresse sulla carta plastificata e attende la risposta. Porge infine, con un sorriso compassionevole, la carta a Leonid e con il miele sulle labbra lo avverte che non ha fondi. - Sono scoperto! ? - fa lui incredulo. - Ne è certa? - - Incidentalmente, signore. Le cambio del contante in fiche? Pur- troppo non si fa credito. - Leonid, disorientato, sta per aggiungere una bestemmia. Vassili non gli ha versato il pattuito e magari ha ordinato a qualche leccapiedi di filmare la scena per ridere di lui. - Tesoro, cambiami questi cento dollari. T’interessa una penna d’oro che mi hanno appena regalato? - La giovane, scuotendo la testa, conta i biglietti, più aprendo lo splendore del sorriso: Il moscovita si convince che la sorte gli sorride- rà al poker. È accaduto altre volte.

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Donna Xaipa ha accompagnato Clara alla stazione degli autobus. I suoi occhi sono colmi d’amore e di affetto. Dacché la figlia si è sposa- ta, la vede meno e se ne duole. La famiglia e il lavoro la impegnano. La giovane e Jean Paul, inoltre, hanno spinto per l’affidamento di Pa- blito, cosa che lei non si aspettava. Avrebbe voluto prima un nipote tutto suo. Un discendente diretto, ma rispetta la loro decisione. - Non potresti fermati qualche altro giorno? - chiede a Clara fa- cendole una carezza. - Mamma, domani ci assegneranno il ragazzino. L’assistente socia- le mi ha avvisato che dovrò firmare dei documenti. Lo sai che non ho trovato posto sul volo e mi tocca ritornare in autobus. - - Vi siete affezionati al neretto - insinua la donna con un sorriso di quelli che di rado abbelliscono il suo volto delicato. - A chi vuole più bene? A te o al marinaio? - - Tende più verso Ji Pi. L’ha scelto dal momento che lo incontrò. Il giudice vuole provare a dargli un luogo più stabile - dice Clara, ag- giungendo: - Formiamo una bella famiglia. Tu ne fai parte. - La giovane ha bisogno di fare una richiesta alla madre e trova la maniera di porla. - Il dottor Lobo de Miranda, il socio di Jean Paul, è di buon cuore. Il giorno del matrimonio mi ha regalato un anello. Somiglia al tuo. Non ti pare buffo? Me lo presti per un paragone? - Donna Xaipa si sfila l’oggetto e lo affida alla figlia. - È l’unico ricordo di tuo padre - le fa notare con un’espressione di curiosità. - Non perderlo. - - L’orefice lo confronterà col mio - la rassicura Clara guardandola grata. - Papà ti raccontò particolari sulla sua provenienza? - - Salvador me lo regalò dopo il matrimonio - risponde sicura la donna. - Era un oggetto di famiglia. Della nonna, o della madre. Non ricordo bene - rivela quasi mortificata. - Lui non nominava i parenti, neanche fosse nato sotto un cavolo. Non gli piaceva Barranquilla e a forza di sentirglielo dire anch’io ne sto lontana. Per questo non sono

venuta al tuo matrimonio. Mi crea tristi ricordi. - La donna fissa Clara trattenendo un pensiero. - Per me è un po’ complicato. Venendo al promontorio sentirei di fare un torto a tuo padre. Verrò al matrimo- nio religioso, giacché lo farete qui a Bogotà. Ma che tipo è il socio di Jean Paul? Vanno d’accordo? - - È onesto. Non mi ha detto nulla sull’origine dell’anello. - - Di oggetti così, che si rassomigliano, ce ne sono tanti. - - Però, è strano - ribatte la giovane con tono inquisitivo. - L’orafo cui l’ho dato mi ha spiegato che prima era un orecchino. - - Un orecchino? - mormora sorpresa la signora. - Che senso ha farti un simile regalo? - - Il dottore scrisse sul bigliettino d’accompagnamento che mi affi- dava un oggetto appartenuto a sua madre. Supponiamo salti fuori che i due anelli formavano parure, che cosa penseresti? Che sono appar- tenuti a una stessa persona. Chi potrebbe essere stata? Una parente comune a lui e a noi. - - Non credo di averlo udito. Mi ripeti il nome del dottore? - do- manda la signora con premura. - Lobo de Miranda. - - Tuo padre si chiamava Love. Il primo cognome che tu hai. E- scludo un legame tra loro. - - Forse hai ragione - dice la figlia un po’ delusa, conservando la curiosità inappagata sulla famiglia di provenienza del padre. La signora si rende conto dell’incomprensibile speranza della gio- vane. Salvador Love non aveva mai mostrato necessità di andare in cerca dei bisavoli; anzi, quando di rado si era presentata l’occasione di parlarne, aveva troncato l’argomento. - Ti manca tuo padre, vero? - Clara, con la testa reclinata, guarda sotto la luce del Sole l’anello che ha uno splendido zaffiro centrato. Le piacerebbe che il padre fos- se vivo. Percepisce la piccola ostilità della madre per ciò che lei ritiene un gioco di curiosità. Discutere tra loro, a volte, è vetrificante. - Non hai mai avuto curiosità? - domanda alla madre.

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- Non è importante l’origine di tuo padre. Vale il ricordo che ab- biamo di lui. Era fiducioso. Lo sai che ti voglio bene. Sei tutto quello che ho. Che cosa possiamo fare? I deboli sono invisibili. Siamo sta- tuine nelle cascate dell’altopiano. - Quando l’autista dell’autobus avvia il motore, le due donne si ab- bracciano prima di separarsi. La signora prega la figlia di non far passare troppo tempo prima della sua prossima visita. Clara le fa una vaga promessa, sale a bordo e siede nel centro, accanto al finestrino. Agita una mano mentre la madre resta sotto la pensilina rispondendo al suo ultimo saluto. Il lungo viaggio di ritorno inizia. Resterà seduta per dodici ore: le strade sono strette, trafficate, in cattive condizioni e si allagano quando piove. Avrà molte ore per riflettere sul cambio che avverrà in casa sua dopo l’arrivo di Pablo. Fare da educatrice dall’oggi al domani, senza avere praticato giornalmente con un figlio avuto in fasce, non sarà un compito facile. Crede che Ji Pi collaborerà con lei.

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Pablo attende l’opportunità per svincolarsi dalla presa che l’assistente sociale ha adattato al braccino. La donna è andata a prele- varlo nei pressi del porto turistico e gli ha imposto di seguirla, agitandogli sotto il nasino un foglio del giudice minorile. Lui non si è fidato del mazzetto di ciclamini che lei stringe in una mano. Non sa dare un senso solido alle parole che quella gli ripete. Perciò si fa tra- scinare. Lei l’ha quasi sequestrato, afferrandolo per la maglietta, indispettita dalla resistenza. Strada facendo gli ha chiarito che è giunto il momento della sistemazione e che deve capitolare. - Se non andrai a scuola t’ina-si-ne-rai - sillaba la donna con voce altalenante per lo sforzo e ingentilita per ammansirlo. Camminano affiancati, in modo buffo. La donna tira da un lato e il neretto preme per andare dall’altro. Avanzano non senza fatica. Dopo il rischio di affogamento, il giudice, informato dal personale del pronto soccorso, ha deciso di darlo in affidamento alla coppia che ne ha fatta richiesta. In una casa decente sarà più protetto. - Non preferisci divenire un omino ammodo? - gli domanda per calmarlo e proseguire senza inciampare. - Che m’interessa. - - Se continui a tirare, somarello, finiremo in terra. - - Non sono un somaro. - - Stavi per affogare. Ti hanno salvato per caso. - - La murena mi ha aggredito. - - Ringrazia il tipo svelto che ti ha preso per i capelli e ti ha pompa- to con l’aria. A quest’ora saresti morto. Gli hai fatto pure affondare il motoscafo per ammazzare la murena che ti sbranava. - Pablo alza la testa, con la sicurezza di un adulto, per fissare l’espressione dell’assistente e vedere quanto il suo viso rispecchi le parole. La faccia della donna non lascia trasparire emozioni, arrossito dal sangue che le sale alle gote nello sforzo di tenerlo a freno. - Non mi piaci - si spazientisce calciando un sasso.

- Nella società, ci sono regole. Una coppia che vuole sostenere un ragazzino riceve l’autorizzazione di un giudice e a lui risponderanno. Anche tu hai delle responsabilità. Non ti porti bene? Non ti vorranno e finirai in istituto. Rapato a zero. Bagno tutte le mattine. - Le parole della donna gli rimbalzano in testa. Gli pare che sia one- sta. Comincerà a fidarsi. Sta affermando la verità e lo conduce davvero a casa del capitan marino. Lí non darà fastidio. Reciterà an- che una preghiera agli orixà. - Dov’è Pamela? - domanda all’assistente, convinto che la donna, accalappiando bambini, debba saperlo. - E chi è? - Di nuovo, con aria da adulto, solleva la testa per osservarla. - Stavamo assieme. Lei ha il mio cucciolo, glielo ho regalato. - - Bravo. Avevi la complice. Figurarsi quante ne combinavate. - Il neretto riconosce la strada dove abitano il capitano Jean Paul e la signora Clara. Allenta la resistenza e si rilassa al punto che la presa dell’assistente diviene d’appoggio. Il portiere avvisa del loro arrivo e li fa salire con l’ascensore. La giovane li riceve in salotto. L’assistente sociale le consegna alcune carte da firmare. - Ecco il pargoletto, tutto pepe. - - Benvenuto, Pablo - Clara gli fa una carezza, poi si rivolge alla funzionaria: - Gradisce una limonata? - - La ringrazio, non sa quanto lo apprezzi. Oggi fa un caldo terrifi- cante e questo giovanotto non ha semplificato il lavoro. - La padrona di casa torna dalla cucina con tre bicchieri di limonata e siede di fronte all’assistente. Costei, dopo un sorso, le parla di Pa- mela e lei conferma quanto detto dal ragazzo: la scugnizza non si vede in giro da molti giorni; né i suoi amici. - I ragazzi di strada si spostano, cambiano quartiere, vanno dove trovano la maniera di sopravvivere - spiega la psicologa sorseggiando la fresca bevanda che le procura lo scolorimento delle guance. - An- che per questo motivo è difficile seguirli o attrarli verso gli istituti del benestare familiare. - Informa che il ragazzino resterà nella famiglia per un periodo di prova e che giungerà il parere finale.

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- Quanto resto qui? - domanda Pablito. - Dipenderà da te - sostiene l’assistente rasserenata dai segni di at- tenzione mostrati dal ragazzino. - Nessuno ti manderà via - lo incoraggia Clara. - Però dovrai ubbi- dire. Quando vorrai vedere tua madre, ci potrai andare. Sei cresciuto per certe decisioni. - - Potrò pescare le aragoste? - - Adesso non ne hai bisogno - rimanda Clara. L’assistente dà un ultimo consiglio al ragazzo. - Fa in modo che non debba tornare qui per il tuo comportamen- to. La destinazione sarà il convitto. Non quello dei padri benefattori. Quello reclusorio dello stato, senza scelta. - Pablo segue con lo sguardo le donne che si avviano alla porta d’ingresso e decide che non farà nulla per dispiacerle. Clara gli mostra la sua stanzetta. C’è l’armadio, dove terrà ordinati i suoi abiti; la doc- cia e il bagno. La televisione potrà guardarla in alcune ore, dopo che Clara avrà deciso il programma. Nulla di violento o osceno. Al mattino seguente, il ragazzo sente una mano che lo scuote con delicatezza. Una sensazione di piacere lo attraversa. Non sa bene cosa sia la felicità, forse potrebbe trattarsi di quella che alcuni chiamano soddisfazione. L’iguana, nella sua pancia, sta ferma. Accanto al lettino c’è la signora Clara che gli sta offrendo un succo. - È ora di svegliarsi. Bevi la spremuta. - - Sono stanco, lasciami - elemosina bevendo con gusto. - Andiamo, pigrone. C’è scuola. Ci aspetta il direttore. Capiremo quante lezioni hai perduto e in che classe ti metterà. - Le scappatoie sono inesistenti; spinge le gambette nere di lato e si mette in piedi. Il braccino conserva il marchio ovale del morso. - Cos’è quel segno? - - La murena mi morse. E adesso che si fa? - chiede. - La doccia ti sta aspettando. - - La doccia? - dice con tono da condannato. - Ti laverai, immagino. -

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Dopo mezz’ora escono da casa andando alla fermata degli auto- bus. Il ragazzo la osserva. La vede bella. Afferra una mano di lei. Si sente rassicurato. Se il direttore è sgarbato, la signora lo difenderà. Tornerà sui banchi per apprendere a leggere e a usare i buffi segni della matematica. Sopporterà anche il prete che durante l’ora di reli- gione tenta di spiegare ai ragazzi neri che i santi cristiani sono più importanti degli orixà importati dall’Africa al tempo delle colonie. La scuola servirà, se il capitan marino ha insistito per mandarcelo.

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Le notti affogate nella foschia si prestano per certe azioni. Jack lo squartatore commise in tre mesi otto omicidi. Chi lo coprì? La nebbia londinese. Essa è alleata dei malfattori e garantì al vero colpevole l’anonimato. Sul Promontorio di Punta Rocca sale una densa foschia. Le piantagioni e le fattorie subiscono una lattea imbalsamazione not- turna. La strada di terra battuta che fiancheggia i perimetri ne è soffocata. Per i quattro balordi mandati dal sergente sollecitato da Nelsen, è uno scherzo entrare nell’Idumea. Colgono di sorpresa il sorvegliante infreddolito. Lo picchiano, impassibili ai lamenti; poi s’infiltrano nei filari, tra le giovani palme. Da alcune cassette lasciano cadere gli insetti nocivi per la palma africana. Infine, se ne vanno in- disturbati, coperti dalla nebbia. Nella stagione umida le palme sono vulnerabili. Le larve attaccano le brattee. Sanno per istinto su quali piante salire. Si annidano tra le foglie e iniziano a nutrirsi di lattice. Se non s’interverrà subito, sarà una piaga. Jean Paul, ricevuta la telefonata dalla piantagione, la mattina presto parte da casa. Salendo la collina prova una sgradita sensazione. Non vede il filo di fumo uscire dalla ciminiera della caldaia. Ciò lo preoc- cupa. Sono in arrivo altri raccolti. Le drupe, nella zona di ammassamento, iniziano a fermentare. Bisogna cuocere in fretta o le formiche conquisteranno una tonnellata di frutta in poche ore. Bloccato il fuoristrada, scende e procede a piedi. Lo investe un odore di combustibile. Alcuni lavoranti sono seduti sotto le tettoie degli attrezzi e parlano tra loro con un verso di agitazione. Camillo segue il suo arrivo con sguardi mesti. - Dov’è il vigilante? - gli domanda il capitano. - L’hanno accompagnato all’infermeria, in città. L’hanno pestato da cane, questa notte. - - Per quanto ne avrà? - - Un paio di settimane. - - Danni alle cose? -

- Pochi. - - Perché i lavoratori oziano? - domanda indicando gli uomini. - La caldaia è ferma. - Jean Paul procede verso la Cornovaglia e chiama Loredito che e- sce dal locale illividito. - Che succede? - gli domanda il capitano. - Hanno svuotato la cisterna del combustibile e manomesso il bruciatore - riferisce Loredito con un gesto che mima il raccapriccio. - Non è complicato ripararlo. - Jean Paul valuta con il fuochista i danni alla caldaia: si rimetterà tutto a posto in mezza giornata. Loredito esprime la sua opinione: - Questa è opera di un suo nemico. Dell’ammiraglio. - - Non ci sono prove. - - Ne arriveranno altre. L’ambiente del porto offre manovalanza a basso costo. I sicari si comprano con poco. - - Non precipitiamo. Non dimenticare che ti sei offerto per testi- moniare in tribunale. Le minacce potrebbero essere anche per te - nota Jean Paul con vena sarcastica. - Sono una figura di secondo piano. - Jean Paul non farà alcuna denuncia per l’accaduto. Risale in auto e si avvia turbato a casa del socio. Non esordirà imprecando contro l’ammiraglio. Non gli sovviene neppure una bestemmia di tenuta sto- rica che faccia effetto, come: “Dio mi è alleato e stramaledica Nelsen.” Le maledizioni che danno risultato sono quelle dei profeti. Le altre si perdono nell’odio che le ha suggerite. Passando innanzi a un fioraio, ferma l’auto per comprare un fascio di rose e lo adagia sul sedile. Lo porgerà a Clara quando tornerà a casa. La moglie non sarà tirata nel vortice creato dai rancori di un corrotto ufficiale. Pedro, il cameriere, è impegnato nelle faccende del mattino. Ha il muso lungo. Quando il capitano bussa, ritarda ad aprire la porta. La- sciata la lucidatrice, leva il chiavistello per dare passo. - Il capitano! - annuncia dal basso strillando, poi, mettendosi di la- to, sussurra: - Stamattina il dottore ha brontolato per l’alchermes. Ha

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detto che ha il sapore dell’aceto balsamico. Eppure, è lo stesso che ha bevuto ieri. Lo rifaccio da anni. - Jean Paul sale al piano superiore. Conosce il vibrare del pavimento insicuro e i rischi del percorso che lo conduce al balcone e li affronta confidando nella residua resistenza delle assi. Lobo de Miranda ha una cravatta eccentrica. Il disegno e i colori sono intricati più delle sue mirabolanti teorie sulle responsabilità dei geni nelle aberrazioni umane. - Pedro mi ha confidato che lei è in aceto, oggi più di ieri. - - Vero, Jean Paul. Il clima. Mi pare che tu non stia meglio di me - risponde il vecchio notando l’espressione accigliata del visitatore. - Sono metà avvelenato - commenta il capitano sedendo. - Per quale motivo? - - Alla piantagione hanno ammaccato il guardiano, svuotato il ser- batoio del carburante e sabotato il bruciatore della caldaia. - - Camillo ha fiutato qualcosa? - - Nessuno ha veduto nulla e credo sia un avvertimento. Nei miei riguardi, intendo. Sarà un messaggio dell’ammiraglio. - Il dottore tamburella con le dita sui braccioli della poltrona di vi- mini. Ha veduto che il socio contrae i muscoli quando s’indigna. Chiama il cameriere con voce bassa. - Pedro, grappa e limone. - - Gradirei un alchermes - azzarda il capitano. - Oggi ha un saporaccio. Pedro, un alchermes per l’ospite - cor- regge mentre il cameriere si allontana. - Inaugura una nuova bottiglia. Butta via l’altra. - Commentano l’incidente: il nemico, chiunque sia, mira a una di- mostrazione di forza. Minacce, ricatti, intimidazioni, sono la malta che i vili usano per costruire i loro castelli d’ignominia. - Questa volta i danni sono contenuti. Se ci scombinassero i nostri programmi con un sabotaggio, il raccolto resterebbe all’aria sui piaz- zali, a marcire - nota Jean Paul. - Adesso è importante la tua incolumità. Capisco l’indignazione che provi, però presterai attenzione ai segnali. Eh. Se manifesterai le

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intenzioni suggerite dalla rabbia, sarai in un pericolo maggiore. I mor- ti sono muti e sordi. Calma, ci vuole calma. Tutto si sistemerà. Sofocle diceva che in una causa giusta, il debole vince il forte. - - Lei ha mai avuto nemici? O minacce? - Il dottore solleva lo sguardo, quasi cercasse la risposta nell’ovatta carminata di una nuvola bianca apparsa dal nulla sul golfo. I suoi anni sono volati esercitando la professione. A volte aveva indispettito i parenti di qualche malato non curabile e finito sottoterra. - Minacce? Sì. Per lo più da coloro che in ogni modo vogliono cambiare la vita altrui con le loro azioni. - S’interrompe per il soprag- giungere di Pedro che porge il vassoio con l’alchermes. - Poi ho preso provvedimenti - prosegue lasciando che l’ospite assaggi il liquore. - Secondo il caso. Capitanuzzo mio, di nemici chi non ne ha? Spesso le persone non sanno di averne. Tu, almeno, sai da dove partono le ma- rachelle. Cos’è la coscienza se non un collegamento tra DNA e attitudine. Essa agisce a differenti livelli e questi dipendono dallo svi- luppo del singolo. Chissà qual è il livello di coscienza nel corpo dell’ammiraglio. Il travaso gene coscienza è importante quanto l’acido ribonucleico. Contribuisce alla formazione della personalità. Per que- sto un vigliacco minaccia e un coraggioso combatte. Per lui non è vantaggioso avere altri grattacapi da te. Ora, suppongo si debba anda- re in ospedale per pagare le spese mediche per il vigilante ammaccato. - Cambia tono e mostra euforia. - Se tutto fila secondo i nostri piani, il mese prossimo potremo iniziare a dragare. Domani il notaio con- cluderà con il municipio la pratica per il rilascio delle autorizzazioni. Tu partirai per Agua Dulce e sarai presente al collaudo della draga. - Si strofina il naso con vigore. - Ci sono palazzi che hanno le fonda- menta in acqua. In breve abbatteremo il costo iniziale. I residenti degli edifici affacciati alla spiaggia sono angustiati e contano i danni alle strutture. La corrente marina succhia rena nelle fondamenta. - Tace alcuni istanti, urtato dal sigillo riflessivo del giovane. - Sei in pe- na per tua moglie? - s’informa con irruenza massaggiandosi un braccio rinsecchito. - È rientrata da Bogotà. L’assistente sociale ci ha affidato Pablo. -

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- Oltre il tuo buon cuore, non ci sono altri motivi? - domanda senza ritegno il dottore, fissando con crudele intensità gli occhi del capitano. - Funziona proprio tutto? - Jean Paul si fa sospettoso. - Perché? - - Per un attimo ho temuto che non potessi avere figli. - - Non avremo questa punizione. - - Bene - dice rasserenato il dottore. - Datti da fare. Se mi ammaz- zano il socio, vorrei con me l’erede. - Pedro li avvisa che il pranzo è servito. Il dottore prega il capitano di tenergli compagnia. Mangeranno fagioli, riso, insalata, avocado e berranno succo di frutta. A tavola non si leva il Panama a tesa larga; ripiega e infila la cravatta sotto la camicia. Pranzano ascoltando un sottofondo di musica che sale dalla strada: un ballenato che si discioglie sulle note del clarino. Il padrone di casa fa una domanda al capitano: - Le è piaciuto il mio regalo? A Clara. - - È lusingata. - Il vecchio accoglie la dichiarazione con un breve sorriso. - Non avrei potuto offrirlo a persona diversa. - Jean Paul arriva al punto di raccontargli della scoperta fatta dall’orefice. I due anelli, quello di donna Xaipa e l’altro che la moglie ha ricevuto in regalo di nozze da lui, sono identici. - L’orefice ha comparato l’anello di Clara con quello di donna Xaipa. Risulta che le rosette di cornice agli zaffiri centrali hanno stes- sa forma e incastonatura. - - Vedi, mio fido, ecco una confidenza - biascica il vecchio soppe- sando il suo sguardo e alzandosi in piedi. - La vita riserva delle sorprese. Belle e brutte. Noi le accettiamo inermi. - Jean Paul lo segue con gli occhi mentre l’altro comincia a girare in- torno al tavolo. Lo vede stendere le braccia al lampadario, quasi stesse per ricevere un’illuminazione da quel pendolo elettrico acceso nono- stante la luce del giorno. La tesa del cappello proietta un’ombra sghemba sul profilo rugoso. Il discorso prende una piega inaspettata che non collima con l’illusione di essere padrone delle sue scelte. - Tu non sei qui per caso - lo avvisa il dottore.

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- Che dice? - - Non per un caso. Comunicai a Clara che c’era l’opportunità di comprare un buon pezzo di terra. Lei avvisò Rodrigo e lui ti passò la nota. Il lotto in vendita fu staccato da una mia società agricola. Volli che fossi tu a comprarlo. Ho manovrato l’asta cui partecipò il tuo amico. Per questo ti offro il mio alchermes, qui, oggi. - Jean Paul è in bilico. Gli scorrono rari pensieri in successione. - Perché? - gli domanda per una spiegazione logica. - Perché siamo ostaggio della genetica. Tu eri prescelto - svela il vecchio con un tono biblico per nulla logico. - Sei pacifico, onesto, dissimuli le ingiurie; hai una donna che ti ama e che amo. - - Con ciò? - - Per la continuità. - - Continuità per cosa? - - Mi ricordi Buddha. Lui era indipendente e non si legò a niente. Eh. Noi siamo legati a qualcosa. Tu lo eri a Clara e lei a te. - - A questo punto - dice Jean ruotando il collo - vuole spiegarsi? - - Baderai a non informare subito tua moglie. - - Per quale motivo? - - È orgogliosa. La stirpe è orgogliosa. Ci siamo dentro. - Jean Paul crede che il vecchio stia celiando. - Prosegua - mormora tra i denti. - Quale stirpe? - - Sono il fratello di Salvador. Lui era suo padre - rivela rivolgendo la faccia alla finestra spalancata, quasi stesse confessandosi alla gran- dezza dell’oceano. - Fummo concepiti dallo stesso uomo, non nascemmo dalla stessa madre. Mio padre sedusse la cameriera. Il ran- core di mia madre influì nel rapporto famigliare imponendo l’allontanamento della cameriera sedotta che concepì Salvador. Que- sti, ventenne, lasciò la casa. Un giorno, mi rimproverò di non essermi battuto a sufficienza perché gli fossero riconosciuti i diritti. La memo- ria è il diario dove si annotano i fatti che una persona vorrebbe non fossero accaduti. Le nostre parole si accesero. Mi dette dell’egoista. Si allontanò definitivamente dopo la morte della cameriera. -

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Le frasi colpiscono Jean Paul che lascia il bicchiere e incrocia le braccia sollevando il torace. Ecco dove originano le farneticanti chiacchiere del dottore sul fattore genetico. Quella è una notizia da mettere sotto la luce violetta della sterilizzatrice di un laboratorio. La morbosa fantasia del vecchio sarà inesauribile. - Tutto pare di cattivo gusto - commenta il giovane. - Un figlio illegittimo, nello schema rigido delle caste, non poteva entrare. Uno scandalo non era concepibile. Salvador non fu mai rico- nosciuto. La domestica, Adriana Marcela, così si chiamava, con il figlioletto, fu costretta a trasferirsi a Soledad. Figurarsi. Una casta, la nostra, da non inquinare in alcun modo. Quella madre non ebbe al- cun appoggio legale. Lo stesso rapporto giuridico che avrebbe dovuto legare il sangue sciolto non fu vincolante. Si commisero stupidi ecces- si. Mi domando perché si debba decidere il destino in modo tanto assurdo. Mio fratello subì dei torti; nel regime morale, nell’affettivo e in quello successorio. M’incontrai con lui le poche volte che andavo con nostro padre in casa di Marcela che riceveva un sostegno. Non era avaro il nostro procreatore. Salvador fu registrato in anagrafe con il nome di Love, anziché Lobo, qual è il mio cognome. Mio fratello soffrì ed io vidi crescere l’odio verso nostro padre; infine andò via dal promontorio. Seppi che si era sposato, che era divenuto padre. Nell’ombra ho seguito le vicende della sua famiglia. M’informarono della nascita di Clara. I miei informatori mi riferirono che un cadetto si era fidanzato con lei. Chiesi di te. Le notizie mi tranquillizzarono. Dopo il tuo incidente sulla torpediniera, lasciasti l’Armata e ti mettesti su navi che andavano lontano e fidai sull’unico contatto, sull’ignaro Rodrigo. Da lui mandavo un marinaio per domandare di te. Non si è mai accorto di nulla. Il resto lo sai. - Il dottore si ferma alle spalle del capitano. - Ero spiato senza saperlo - si risente Jean Paul con voce che sa di protesta. - Lei ha del manipolatore. - - Non usare parole dure. Clara non voleva che tu stessi lontano. Non potevo intervenire. Lei andò in Russia per i seminari. Fui impen-

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sierito dalla scarsità di notizie. Ci fu il lutto. Mio fratello fu ucciso per la piantagione. Ancora il nostro pazzo orgoglio. Non chinarsi. - Lobo de Miranda s’interrompe con un luccichio negli occhi. - Ho avuto la tentazione, molte volte, di avvicinare donna Xaipa. Ha pre- valso il timore di essere accusato d’estraneità. Gli anni sono passati. Clara tornò dalla Russia più bella e matura. Mi fu facile prevedere il tuo ritorno con le informazioni che arrivavano da Rodrigo. Un giorno mi è sorta l’idea del lotto da vendere. Ho fatto in modo che la notizia ti giungesse. Ho avuto sorte. Sei qui. - - Che venga un maremoto nel deserto. - Jean Paul si riprende dallo stupore. - La storia dell’anello che altro significa? - - Esisteva una coppia d’orecchini. Autentici zaffiri appartenuti a mia madre. Mio padre, dopo la sua morte, ne fece montare le pietre su due anelli. Uno lo lasciò a me, il secondo lo fece giungere all’altro figlio, a Salvador. Questi lo affidò poi a sua moglie, la madre di Clara, il giorno del matrimonio. - - Non è possibile - biascica Jean lisciandosi i capelli. - A un uomo saggio non riguardano i fatti di una casa estranea. Salvador, Xaipa e Clara sono parte della famiglia. Ciò, a volte, mi met- te un vuoto da vertigine, perché tocco la realtà. Ho bisogno di rendermi utile per sentirmi reale. - Jean Paul si alza e si trova di fronte al vecchio. Nella trasparenza dell’aria i suoi contorni si fanno confusi. Ha la vista che gli si appan- na. Forse è l’alchermes. Si domanda se il dottore gli abbia raccontato la storia perché ci sia un seguito. D’improvviso, è lo zio di sua moglie. L’evento, superando l’immaginazione, lo irrita. - Lei è un bel dilemma - mormora sconcertato, premendo gli occhi con pollice e indice, senza che cessi la pesantezza alla testa. - Due cose che non hanno soluzione sono l’intelligenza delle be- stie e la bestialità degli uomini. Ho deciso il da farsi. Ciò che mio padre non diede a mio fratello, andrà alla figlia. Ho depositato dal notaio il testamento, dove Clara è nominata erede dei miei beni. - Jean Paul fissa il creolo senza controbattere. Una simile rivelazio- ne non la aspettava. Trova resistenza a ordinare i pensieri e corruga lo

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spazio tra le sopracciglia dorate. Ha difficoltà a trovare una logica futura. Che cosa dirà a sua moglie? Si starà facendo tardi. Le ha pro- messo di portarla a cena fuori; vorrebbe andare via, ma le gambe rifiutano di muoversi. Ode appena: - Ti consiglio di sederti nel divano. Dirò a Pedro di farti un caffè. - Jean Paul incontra gli occhi del vecchio. Hanno lo stesso colore delle pupille di Clara. Non serve l’esame del DNA. Esiste una traccia della ventilata parentela tra loro due. - Aveva programmato ogni particolare - lo rimprovera con poca voce il capitano. - Anche il mio orto. E la draga, senza meno. - - Non ho preteso imbrogliarti. Ho agito per tutelare gli interessi di famiglia. Non cambierò il testamento, anche se tirerete calci. - Jean siede nel divano. Le palpebre calano, la vista non migliora. Vorrebbe resistere ancora, al contrario del corpo che cede e si rilassa. - Non so che mi accade. - - Non moriremo stanotte. Rilassati. - Il dottore vede che il respiro di Jean Paul è rallentato. Non se ne preoccupa. In un paio di minuti si appisolerà. All’arrivo del cameriere, dorme. Pedro apre un plaid per coprirlo e domanda: - Non avrò sciolto troppo bromuro nel liquore? - - No, sei andato giusto. Dormirà un’oretta. - - Era necessario? - - Volevo essere certo che non mi tirasse un pugno in faccia dopo le rivelazioni. Al risveglio gli dirai che sono uscito. - Il dottore afferra il bastone e si chiude la porta alle spalle. Si dirige spedito all’ufficio del notaio. Avverte il tempo dilatarsi in una sorta di respiro cosmico. Nella strada, un bagno di calore che lui non sente avvolge i passanti. Le donne, mulatte e nere, a dispetto degli uomini, lo sopportano con piacere. Pare che il sudore le avvampi di sensualità. Al risveglio, dopo un paio d’ore, Jean Paul trova il servizievole Pedro con l’espresso fumante. Dal salone lo guardano gli occhi severi dei medici defunti, rigidi uomini nei panni dell’epoca, con le gorgiere di bisso e le decorazioni di casta sul petto. Miguel Servet sembra ri- cordargli che la bile e la flemma non sono purificabili.

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- Pedro, cosa c’era nel pranzo? - domanda il capitano bevendo di un fiato. - Mi trovo la testa di piombo. - - Saranno i fagioli. Oggi la cuoca ha il giorno libero. Ho cucinato. Per ammorbidirli ci schiaffo dentro il bicarbonato. Spero di non es- sermi sbagliato col bromuro. Non lo dica al dottore. Quello è capace di licenziarmi. Si scusa con lei ma aveva un impegno. - Jean Paul si alza, prova le gambe ed esce dalla casa a sua volta. Sa- le in auto e la trova satura del dolce odore di rose. Si sono piegate e aperte per il calore. Il dottore gli ha assegnato un compito non facile: informare Clara. Quale sarà la reazione femminile? Che funzione avrà lui dopo che le avrà raccontato ciò che sa? Saranno considerate le sue parole utili per una nuova esperienza o creeranno delusione per il vincolo famigliare disatteso dal dottore? Quello, in qualità di zio - l’ha confessato - non ebbe forza di presentarsi alla vedova. Perché? Per viltà? Dei soldi, comunque, giunsero a donna Xaipa da uno scono- sciuto. Provenivano dal dottore? Fatto probabile. E l’eredità? Clara non vorrà che il vecchio precipiti nella sua famiglia con la stessa ir- ruenza di un meteorite. Per lei è un estraneo. Jean Paul trova il suo ego che non ama affatto quell’imprevista situazione.

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Kris riesce a malapena a ingoiare le poltiglie che prepara Amanice- a. Ha un colorito d’obitorio e gli occhi circondati da profonde occhiaie. Non ricorda i momenti peggiori culminati con crisi di feb- bre. Non sente le gambe e le braccia sembrano essere di un’altra persona. Bambini nudi e maiali pelosi si alternano all’uscio della capanna chiesa. I primi emettono grida che sembrano d’entusiasmo; i secondi grufolano cercando cibo. Ogni volta che il falso pastore si agita, l’india gli va accanto e gli bagna la bocca. L’americano, con un debole cenno della mano, supplica Amanicea di scacciarli. Nel villaggio la gente sa che Takenda ha chiamato lo spi- rito del serpente magico e che questo è apparso nelle spire di un semplice pitone, in aiuto dello straniero. Alcuni indios, apprezzando il tocco dello strisciante Khuatamadì, si sono rasati il cranio, imitando la calvizie di Kris che sarà piaciuta alla divinità. Comincia a ricomporre pensieri andati alla deriva. Sta nel villaggio dello sciamano e gli sarà capitato qualcosa di grave. Non vede Leonid, unico contatto con il mondo civilizzato. Non incontra la sua parruc- ca. Si sente nudo. Ha l’organismo stremato e il palato che trattiene la lingua gonfia e rigida. Non sa cosa gli sia accaduto dal giorno che l’onda lo trascinò sbattendolo contro gli alberi, lasciandolo in un buio contornato da punti rossi che gli hanno lacerato la testa. Ricorda, a tratti, Vassili, Nelsen, don Alvaro e il debito che ha con loro. Fiuta il puzzo del suo corpo. Serra gli occhi. Non uscirà vivo dalla foresta: riesce a muovere poco le braccia e le gambe sono arrugginite. Amanicea gli sorride. Kris le trova in volto indefinite tracce di bel- lezza, represse da una smorfia o da un accenno di riso muto. In purgativo silenzio prega che il russo venga a liberarlo dalla sodomia primitiva in cui è caduto, levandogli di torno la donna dalla pelle co- lor sabbia. Tiene l’udito attivato. Solleva le palpebre appesantite al pezzo di cielo che s’inserisce in un buco sul tetto di paglia, nell’attesa

del rumore meccanico dell’aereo. La capanna chiesa non sarà termina- ta. Il suo alibi di missionario rischia di saltare. Non potrà incontrare Gonzales, dal quale doveva ricevere un carico di cocaina a basso prezzo. Non potrà aiutare il pilota americano Robert, l’uomo di colle- gamento con il paramilitare e al quale lui stesso aveva garantito il reinserimento nei ruoli dell’aviazione americana. Ruota lo sguardo afflitto nella penombra che confonde i contorni. Crede che lo dro- ghino affinché non percepisca il malanno che ha addosso. Si sente con lo spirito staccato dalle ossa. Inarca il busto, spinge la testa indie- tro per concedere attimi di sollievo alla schiena indolenzita. Dalla porta filtra la luce del giorno assolato. Le scrofe seguono a pascolare nello spiazzo comune alle capanne messe in cerchio. Ha rinunciato alla speranza di vederle scacciate. L’importante è che non gli mangino le dita dei piedi quando entrano senza essere notate. Un ronzio ovattato gli fa piegare la testa da un lato. Non vola una mosca, eppure il sibilo lo persegue. Si fa insistente, rotondo. L’india si alza ed esce scacciando i maiali. Kris subisce un’accelerazione dei bat- titi: non è un insetto, è un aereo. A elica. Sarà il russo sull’Ave Maria. Sente la voce di Takenda ordinare qualcosa ai suoi. Vuole alzarsi. Ra- duna le scarse forze e si mette seduto. Nudo, carponi si porta alla soglia della capanna chiesa e socchiude le palpebre perché non sop- porta il chiarore. Alza il volto verso quello che a lui sembra il migliore dei mezzi di trasporto. L’Ave Maria vira sopra il villaggio e atterra. Kris scaccia una scrofa che si è avvicinata. Continua a gattonare nello spazio aperto, seguito dai maiali. La gente si raggruppa accanto all’aereo. Kris raccoglie un bambù gettato nella polvere e lo adopera per rizzarsi in ginocchio. Osserva la scena. Leonid scende dalla carlinga tenendo un sacco riempito con leccornie e subito è attorniato dai ragazzi del villaggio. Affida il pre- mio al più grande tra loro. Cioccolato e caramelle. Poi cerca il viso sfregiato di Takenda tra gli astanti. Lo riconosce dietro la pittura fac- ciale con cui si è adornato. - Cristu è risorto - annuncia lo sciamano andandogli incontro. - Rinato. Siamo pronti per una festa. Resterai soddisfatto. -

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- Hai mantenuto l’impegno, dunque. - - Molto duro. Le mie suppliche hanno convinto Khuatamadì che ha gradito i doni. Gli offrii un’oca, poi un coniglio, infine una scrofa. - Leonid tira il braccio tatuato dello sciamano. - Da tutto quello che ha mangiato, mi pare di capire che si tratta più di una tenia che di un serpente. Dov’è Kris? - - Cristu, il pastore, funziona. Amanicea ha scosso la sua natura. L’ha forzato per rifiorirgli il sangue. - Si avviano alla capanna dopo che il russo ha estratto dal portafogli dei dollari che consegna allo stregone. - Se lei rimane incinta - allude Takenda abbassando la voce - il fi- glio rimane qui, e Cristu aiuterà il villaggio. - - Che dici? - domanda il pilota cauto. - Lei l’ha tenuto in movimento. Col barbasco e con fiori di borra- chos, Capisci? Lui era lucido quando praticava sesso. Unica maniera per tenerlo vivo. Amanicea ha avuto altri figli. Ne fa un altro. - - Che mi stai dicendo? - sibila il russo. - Che mi sfili cinquecento dollari perché un pelato americano con la vaccinazione scaduta se la spassi con l’india? - - Il seme è tutto. Cambia seme e cambi vita. - - Hai rimedio per ogni male? - - Non tutti. Alcuni. - - Che cosa consigli per l’asma? - - Olio di tonina. Il delfino sacro. - - Ne hai? - - Per tua sorte pescai un tonina un mese fa. - - Quanto vale? - - Non ha prezzo. Cento dollari. - - Oh, schifo - scappa al russo. - Perché non entri tu in una trappola a togliere il pasto a dei piraña aggressivi perché hanno fame. - A un gesto di Takenda la folla si divide per lasciarli passare. Leo- nid vede la sagoma del falso pastore in ginocchio, nudo, bianco,

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scheletrico, stagliato nel mezzo dello spiazzo terroso, poggiato al ba- stone di bambù, circondato dai maiali. - Sangue blu dello zar - bestemmia con un misto di pietà e spasso che gli muove un sogghigno. - Cosa gli avete fatto? Non è lui - ripete allibito. - Non lo riconosco. - Il pilota si sente rabbrividire. Infila due dita nel taschino della ca- micia cachi ed estrae una sigaretta. La accende, poi si avvicina a Kris. Si rimprovera di non avere tratto neppure una bottiglia di buon malto scozzese. Ne prova acuto bisogno. Il pelato gli fa pena, non sa con che frase salutarlo. - Così, Kris, mi faccio il callo volando e tu godi. - - Crepa, Leonid - biascica l’americano tentennante e aggrappato al- la pertica. - Muoio. - Comincia a piangere senza soffocare i gemiti. - Non mi sento più un uomo. L’india mi ha violentato. Tutti hanno abusato di me. I serpenti e i maiali. - - Ho fatto prima possibile. Qualcuno, nel mondo civile, vuole ammazzarti. Sei uno che fa doppio gioco e ora lo sanno. - In quel momento il moscovita si accorge di Amanicea che, ferma da un lato dello spiazzo seccagno, osserva l’infermo con una luce ze- lante negli occhi dal taglio asiatico. La rivelazione gli arriva subitanea: l’india ha conosciuto Kris. Lo stregone non ha mentito. Allontana il pensiero dagli abusi fatti da lei con l’aiuto del barbasco. - Non morirai - dice Leonid sostenendolo. - Sai quanto mi sei co- stato tra medici, medicine, cure, assistenza e mezzi di trasporto? - - Leonid, ti supplico. Aiuto. Non trovo la parrucca. - - Mi racconti per bene la storia della valigia, del milione di dollari e ci aggiungi nomi e i luoghi. Ho rischiato la vita per tornare qui. - Kris è tremante, nonostante il calore crescente che si spande sul villaggio. Se potesse, ammazzerebbe il pilota a bastonate, ma non è nelle condizioni di permettersi quel piacere. - Ti racconterò - dice arrendevole. - Fammi stendere. Non reggo. - Leonid lo sostiene per un’ascella mentre lo aiuta a tornare al giaci- glio. Kris comincia a esporre la sua posizione. Primo, comporre la mappa dei passaggi di cocaina. Secondo, aprire un punto di scambio

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nella selva. Terzo, scoprire le idee di Vassili e il suo interesse nella manipolazione della politica centro americana. - Ti fai passare per pastore per incastrare italiani, russi e colombia- ni? Quelli ti faranno a pezzi. - - Ti pare poco? - geme l’americano affannato. - Da anni sorveglio l’ammiraglio. Lui stipula i contratti per i servizi satellitari che offro. - Si ferma per succhiare aria. - Ha soldi in diverse banche. Avrei dovuto appurare se gli vengono dalla copertura che dà al traffico di cocaina o dalla vendita delle informazioni satellitari a terzi. - Si contrae per una fitta al ventre. - Ora, in questo stato, non m’interessa nulla di nessu- no. Qui s’incrociano le vie della cocaina. Qui avrei dovuto piazzare un punto di scambio. Aspettavo una partita di cocaina da un paramilita- re. - Detto ciò rigira la testa e chiude le palpebre. - Dove sarà la mia parrucca? La rivoglio. - - Il paramilitare, Gonzales, è stato eliminato - lo informa il mo- scovita sperando che l’altro non crepi. - Un guerrigliero, Raul, farà presto la stessa fine. Vassili sta in una brutta situazione. La merce de- stinata a Cuba non riappare, i soldi che hai mandato a Pelekanakis sono spariti. L’ammiraglio non la passerà liscia. Tu anche sei messo male, essendo il mediatore. Le tue fallaci garanzie le pagherai salatis- sime. L’italo panamense non scherza. L’Organizzazione non farà sconti a nessuno. Ci siamo dentro tutti. - Kris solleva la testa d’alcuni centimetri dalla stuoia, poi la fa rica- dere con pesantezza. La notizia della morte di Gonzales gli arriva come una coltellata al cuore. Il suo fornitore non esiste più. Lui non ha cocaina da offrire al settore segreto di Washington. - Chi ha rubato la cocaina? - domanda Kris con debolezza, cre- dendo che il pianeta gli sta crollando addosso. - L’ha presa Raul e vuole rivenderla al panamense. - - Ho lavorato per nulla. Non mi resta che tornare a Miami per farmi ammazzare. - Inala a fatica. - Fammi respirare, Leonid… Qual- che minuto… Verrò via con te. Cerca la mia parrucca. - Il russo desidera uscire dal maleodorante tugurio. Ha la tentazione di abbandonare Kris ai porci che si affacciano all’uscio.

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- Non posso condurti con me. Le tue ossa si scollerebbero. Do- vresti essere morto, per quello che hai avuto. Ti porterò una nuova parrucca gialla. La tua è stata oggetto di scambio. - - Tornerai - mormora l’altro afferrandogli un braccio. - Quando? - - Non posso garantirti la data. C’è il conto di Vassili aperto. Se non risolvo, i mafiosi russi lo segheranno. - - Non era ciò che volevo. Il piano era diverso. - Kris si lamenta per il dolore e Amanicea gli versa tra le labbra una sorsata di decotto ottenuto con polvere di crotalo ed erbe silvane. Quando le fitte si calmano, l’americano riprende a parlare. - Ti chiedo un favore, nel caso morissi. Se arriveranno i guerriglieri di Raul, non mi risparmieranno… Ho una chiave… È di una cassetta dell’ufficio postale sulla Wabash di Chicago. Ci andrai e vi troverai dei soldi e una lettera per mia sorella. Tratterrai le spese per te e le conse- gnerai il resto. - - Quanto? - - Cinquantatremila dollari. Nella lettera troverai i recapiti telefoni- ci. Chiamala di notte. Di giorno dorme. - - Lavora in ospedale? - Kris solleva il petto. Pare esalare l’ultimo respiro. - Fa la prostituta. - - Che familiari che hai. - - Iniziò per farmi dispetto. Testimoniai contro il suo bagnino, un nero di Chicago, per violenza carnale, e lo mandai in galera. - - Brutta storia. Per Giove. - - Il bagnino era aitante e spavaldo. Trovai il modo di liberarmene. - - Tua sorella non lo difese? - - Nostra madre non volle. C’è dell’altro… Mia madre si portava a letto il bagnino. Sul lago ci sono molti neri e pochi bianchi buoni per una donna esigente. Chicago è esigente. Le imposte sono esigenti. - Kris sospira a lungo. - Adesso lasciami… Sto per svenire… Mi hanno drogato di nuovo. Caccia via l’india. Non mi va di essere usato. -

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Leonid stacca la mano di Kris dal suo braccio ed esce dalla capan- na. Prima di montare in aereo chiama Takenda che sta nel gruppo di ragazzini gustando le leccornie che lui ha portato. - Voglio trovarlo vivo al ritorno. Se lo ammazzeranno i guerriglie- ri, cremalo e tienimi le ceneri. - Lo sciamano lo fissa con i globi oculari striati di sangue. Non capi- rà mai gli uomini bianchi. Si preoccupano eccessivamente della morte. Essa è solo un momento finale nella vita di un essere vivente: muoio- no anche le piante, gli insetti, gli animali. Tutto passa. Accenna con un movimento della testa di avere compreso. Continuando a mastica- re caramelle e cioccolato, gli dice di partire tranquillo: Amanicea lo assisterà e gli smuoverà il sangue, la bile e la flemma.

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Il pomeriggio, quando l’avvocato Noguera, con la borsa sotto- braccio e un superbo mazzo di fiori di campo, entra in ufficio di ritorno dal tribunale, l’anziana segretaria lo informa che il colonnello Amilcar Postrana, difensore di Nelsen, lo prega di prendere contatto per chiarire dei punti pregiudiziali riguardanti il ricorso di Jean Paul Carrera. - Me lo hai controllato? - s’informa l’avvocato conoscendo la so- lerzia della segretaria e offrendole i narcisi, particolare che accende le gote della donna, sensibile alle attenzioni del capo. - Patrocinante in cassazione. Legale del dipartimento marittimo. - L’avvocato arriccia il naso, intuendo la trappola possibile. - Trentanove anni, diverse cause in corte marziale, molti ricorsi per il civile. Nell’ambiente navale è tenuto in considerazione. - - Tra due minuti chiamalo e me lo passi - dice l’uomo prendendo la tazza di caffè che la signora gli porge e procedendo di spalle, verso lo studio. - Dov’è andato Garcon? - - S’incontrava col Santiago, per far coincidere le uscite dei suoi ar- ticoli sul Diario con le udienze. - Dopo un po’ la segretaria armeggia col telefono, stabilisce i con- tatti e passa la chiamata. - Colonnello Postrana, buonasera - lo saluta Noguera. - Avvocato buonasera a lei. Mi perdoni, so che le rubo del tempo. Volevo parlarle prima d’incontrarci in aula. - Tace attendendo che Noguera gli dia il via. - Mi dica pure. - - Riconosco nell’esposizione che lei ha presentato una forma di correzione alla base del presupposto. Jean Paul Carrera all’epoca dei fatti era un militare. Il Caso 416 fu esaminato da una commissione militare. Nessun provvedimento disciplinare fu assegnato. Si dette solo un giudizio di demerito. Mi dispiacerebbe se il suo assistito an-

dasse a trovarsi in una situazione con tesi da dover dimostrare, in fu- turo, dinanzi ad una corte di secondo grado che sarà militare. - - Per quale motivo? - chiede Noguera afferrando un lapis e facen- dolo ruotare sul piano della scrivania. - Le motivazioni risalgono al periodo militare del capitano Carrera. L’ammiraglio Nelsen era membro della commissione che indagò. Per- tanto potrebbe essere in diritto di appellarsi al codice militare ed eserciterebbe lo status che gli viene dal grado. - La pressione militare comincia a farsi sentire. Noguera stringe tra i denti la matita. Postrana vorrà saggiarlo. Lui valuta quanto scoprirsi. Decide di fare un’anticipazione. - Colonnello, abbiamo considerato d’irrogare l’estradizione per de- litto contro gli Stati Uniti, dimostrando l’uso improprio di mezzi militari, non pagati dallo stato colombiano in virtù degli atti del Piano per la Colombia e concessi per lo sradicamento delle piante di coca. Miriamo all’accusa di traffico di stupefacenti. La pena potrebbe essere di una ventina d’anni. Prima, però, potrebbe esserci estradizione. A Nelsen seccherebbe. - Il colonnello tace alcuni secondi. Non è conveniente farsi giudica- re in America settentrionale. I giudici non sono raggiungibili e la procedura è d’altra natura. Per il delitto di mafia le giurie sono severe. - Non ci sono prove contro l’ammiraglio. Non è il caso di smiccia- re? - domanda il colonnello con candore nel tentativo di far decadere i termini. - Converrebbe al suo capitano. - - Quanto? - incalza Noguera capendo di aver fatto irruzione. - Proporrei un accordo pacifico - risponde il colonnello. Noguera percepisce attraverso la corrente del filo, il nervosismo dell’altro. Non gli conviene un patteggiamento adesso. Mostrerà di avere davvero qualcosa nella manica. - Per il mio cliente ha già chiesto il patrocinio dell’ufficio interna- zionale contro il delitto per droga. Vorranno spiegazioni per il ritiro della citazione. - - Avete interessato l’ufficio internazionale? - sobbalza la voce nel telefono con tono scandalizzato.

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- Ci siamo voluti garantire una copertura d’ampio raggio. - - Provi a sgonfiare questa causa. Sarà positivo per la marina. - Si salutano. Noguera ripone il ricevitore. Riflette e preme il pul- sante dell’interfonico. - Edelmira, un altro caffè, per favore. Trova il nome del legale dell’ufficio internazionale droga e delitti. Chiedi la corretta procedura per presentare una domanda d’intervento. Terremo pronta una peti- zione, nel caso Postrana avesse una contromossa. - - Provvedo - risponde la donna cogliendo un segno di soddisfa- zione. - La avviserò non appena mi risponderanno. -

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L’aria rarefatta di Bogotà mette alla prova i polmoni. Nelle stradi- ne intorno al centro storico, da antichi portali si accede a musei, fondazioni, università, uffici municipali. Ci sono anche locali gradevo- li, dove mangiare un pasto tipico o bere un caffè del Cauca. Da quel punto si può vedere la cordigliera verde che circonda la città. Pelekanakis è giunto la sera prima. Alloggia presso un hotel. Di mattino si è avviato al bar che Cecilia gli ha indicato, nella piazzetta con poco traffico. Si siede a un tavolino e ordina un succo di frutta e un paio di frittelle ripiene di carne. Mastica senza piacere osservando la gente intorno. Non fiuta rischi e inizia a ingoiare. Cecilia si presenta avvolta in una mantellina di lana rossa, segno che risente della fresca temperatura dell’altopiano. Porta un paio d’occhiali griffati. Dall’ultima volta che lui l’ha veduta, dopo che Raul lo rilasciò e lei gli curò le amebe, nota che è un poco appesantita ma appetitosa, più degli involtini che lui sta mangiando. - Baciami, capitano, dobbiamo sembrare amanti - gli dice la donna sedendogli di lato. Pelekanakis, la frittella in una mano, il frullato nell’altra, la bocca piena e il barbone unto, le stampa un bacione rumoroso sulla guancia. - Possiamo andare in hotel - la invita aspettandosi un diniego. - Non correre. Facciamoci vedere assieme per un paio di volte. - - Non ho mai avuto tempo per un’amante - blatera il marinaio. - Però tu mi vai bene. Hai la carne al posto giusto. - - Offrimi un - chiede lei accavallando le gambe gras- sottelle, in compenso lunghe e sode, e aprendo la borsetta per tirare una sigaretta che infila tra le labbra marcate dal rossetto. - Ordina Raul che la condizione primaria sia la consegna del denaro prima di riconsegnare la cocaina. Cinquecento, secondo il pattuito. Non appe- na pagherete, vi daremo la merce. Nessuno scherzo. -

Pelekanakis ha ricevuto da don Alvaro l’avviso di assecondarla. Se fosse intercettato dalla DEA, dovrà simulare di non conoscerla. Si secca la barba con un tovagliolino. - La cocaina la rivogliamo pura, cento per cento, com’era al mo- mento che l’hanno sfilata dalla mia nave. - Cecilia cerca con lo sguardo un cameriere libero. - Sono spariti i camerieri? Dove si sono infilati? - domanda al capi- tano greco che segue a masticare. - Saranno in cucina. - Da un furgone accostato al marciapiede un trasportatore, in tuta bianca, porta nel locale le casse di gelato. Va dal cassiere e gli mostra una copia del foglio commissioni. - Sono due tipi di ognuno. Crema e nocciola. Fragola e zabaione. - - Va bene, Miguel, fa in fretta. - Il garzone inizia un andirivieni dal furgone, reggendo scatole co- perte di brina farinosa. Cecilia consegna guardinga una busta a Pelekanakis che la piega per infilarla nel taschino della camicia a fiori bianchi e neri. - Cos’è, il conto del tuo parrucchiere? - La donna lo guarda da dietro le lenti polarizzate, spinge il busto in avanti, provocando l’apertura di un bottone della camicetta. Solleva la mano per accarezzare la barba dell’interlocutore e sussurra: - Ci sono la data e le posizioni per saldare il dovuto e ritirare. - Pelekanakis poggia i gomiti sul tavolino di metallo che lo sostiene senza scricchiolii. Accosta il faccione al volto truccato di lei. - Ti strangolerei volentieri in un letto d’ostriche - sibila sorridendo. - Non ti stuzzica l’idea? - - Diventeremo amici - risponde lei con calma sinistra. - Dopo lo scambio e senza i temporali che ci sono in giro adesso. - Il greco pensa che la donna avrà avuto un addestramento duro. Non lo stupirebbe una pistola spuntata dal reggicalze. - Ci rivedremo presto. - Cecilia si alza, si piega per baciare il bar- buto e sussurra: - Si potrebbe anche fare l’amore, se ti comporti bene. Bevi tu il mio cappuccino. -

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Pelekanakis s’interessa alle curve dei fianchi che si allontanano con incesso ondulato. Cecilia merita proprio un colpo di timone. Il cameriere riappare e lui ordina una seconda frittella. L’aria della cordigliera gli mette appetito. Aspetta una decina di minuti. Si alza dopo aver pagato il conto ed esce per tornare in hotel. Quasi si scon- tra con il trasportatore in tuta bianca che continua il suo andirivieni dal furgone al retrobottega. Non si accorge che dall’automezzo scen- de una giovane di colore che prende a seguirlo senza farsi notare. Il trasportatore, intanto, ha lasciato di scaricare il gelato e armeggia con un cellulare. Inizia a inviare al dipartimento investigativo gli scatti fatti alla strana coppia dalla collega nera appostata nel furgone. Giunto all’hotel, Pelekanakis telefona a don Alvaro per informarlo di quanto stabilito con Cecilia. Il boss prende nota delle coordinate che Raul gli ha inviato. Chiusa la comunicazione esce sul terrazzo e fuma una sigaretta. Dall’alto della suite, i palazzi paiono pezzi di un grande domino predisposto su un tavolo dotato di vita propria. Ba- sterebbe un consumatore di cocaina per ogni edificio e avrebbe denaro garantito fino alla consumazione del Sole. I suoi casinò e po- striboli hanno dato buoni guadagni, ma non arriveranno all’utile che dà la cocaina. Ha apprezzato il suggerimento di Leonid e ha ingiunto al suo amministratore di creare un libro contabile parallelo dove tene- re le note per l’assistenza alle hostess ricreative con diritto a un vitalizio. Terminato di ingoiare la miscela di lievito e acqua curativa per i foruncoli, aggiusta una striscia da sniffare. Una mesta uggia s’imprime nel volto scavato. Pensa che dovrà aumentare la dose per sedarsi. L’affare di Las Vegas, con la mediazione dello studio Roland & Son, è finalizzato. Il casinò Elvis Gold One ha mutato ragione so- ciale e da poco meno di ventiquattro ore è entrato nella Holding Panama Canal, di cui lui è azionario con il settantadue per cento. Il ricavato delle slot machines ha pompato trentamila dollari. Lui ha voluto che nella prima notte di nuova gestione le vincite fossero ab- bondanti: una da cinquemila dollari e tre da duemila. “Facciamoci una buona pubblicità” ha fatto dire al direttore della sala da gioco. Conti- nua a demolire il filtro della sigaretta con il ponte che ha smesso di

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dolergli. La passa da un lato all’altro della bocca sottile. Indossa una nuova vestaglia di seta, allacciata nei fianchi. Affonda le mani nelle ampie tasche. Il torace senza peli si solleva e si abbassa sotto i risvolti ampollosi dell’indumento da camera. Dopo che Pelekanakis gli ha comunicato le due posizioni, dove pagare e dove ritirare la merce, ha deciso di mandare Boccaccio a Barranquilla e Leonid da Raul. Pasquale, entrato nella suite, attende un segno che interrompa quella calma. Lo conosce. Sta per vomitare veleno. Gli legge in faccia la rabbia. Le alterazioni del capo gli fanno tremare i polsi. - Vassili sostiene che il denaro passò anche per le mani di Nelsen e pertanto è un altro sospettato per la sparizione del milione di dollari. L’ammiraglio va prelevato col solito modo - continua con voce gelida sedendo allo scrittoio. - Prendi contatto con gli amici di Medellin. Dopo il sequestro lo terranno vivo. Andrò a interrogarlo io stesso. Parlerà e se non ha nulla da dire, lo ammazzerai. - Il tirapiedi accenna e annota mentalmente le disposizioni. - Porterai altri soldi al russo, prendili in Venezuela, a san Antonio, sul confine - dice tenendo la faccia rivolta all’oceano mentre estrae la bomboletta dell’aerosol. - Cerca Boccaccio. Avvisalo di andare in Co- lombia a ritirare la merce al Promontorio di Punta Rocca. Pasquale conosce, sulla frontiera colombo venezuelana, le due cit- tadine di Cucuta e San Antonio de Tachira. All’uscita e all’entrata dei varchi doganali operano decine di cambiavalute. Ad alcuni prestatori fidati lui chiede, nella necessità di un’emergenza, anticipi per evitare di passare i varchi con somme per le quali potrebbero essere inquisito se intercettato. Il servizio dei cambiavalute è migliore di quello dell’American Express e le commissioni del tre per cento sono giusti- ficate. Sta per girarsi, quando il boss lo trattiene per completare la lista. - Aspetta. Devi trovare un secondo pilota, uno sveglio. - - Civile o militare? - domanda il guardaspalle abbottonando la giacca per coprire la fondina con il revolver. - Un civile è sufficiente. Che faccia fumigazioni di piantagioni. -

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Pasquale non pone altre domande. Ruota il corpo e va alla porta per uscire sul corridoio dove un altro uomo sta di guardia. Don Alvaro alza il bavero della vestaglia e si rinserra nelle spalluc- ce. La brezza, sul balcone, gli mette un brivido. Accosta le imposte e tira le tende. Nota delle ditate sul pannello di acciaio, proprio sotto l’occhio scolpito nel centro. Qualcuno deve avervi posate le mani. Toglie le macchie con l’asciugamano. Si avvicina al letto e vi si disten- de. Mette la mascherina sugli occhi per concedersi un riposino. È stressato. Andrà in Italia per ossigenare i bronchi. La delusione per non essere in grado di ricordare il nome del paesino paterno lo colpe- volizza. “Borgo… Villa… Castello di… Maledizione.” Rinuncia. Se riuscirà a dormire, non penserà alla cocaina, né al milione di dollari svanito. Sarebbe opportuno mandare sua moglie lontano. In ultimo al paese paterno. “Ville sul Monte” potrebbe essere, ma non ci giura. Là non ci sarebbero rischi, sui monti dell’Appennino centrale, salubre e gentile. Chi ci andrà a cercarla? Vi faranno la guardia i lupi.

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Nelsen ha trascorso la giornata in ufficio. Ha l’umore basso. Rosa non lo chiama per dargli dettagli sugli investimenti. Non dubita di lei, però è una donna istintiva e per di più attraente. Si accorge che una patina sta ricoprendo il sestante di ottone. Da parecchi giorni non lo lucida e lo strumento ha perso la brillantezza che denota lo stile del proprietario: ordine e pulizia. L’indomani lo luciderà. Compone con nervosismo il numero della capitaneria distaccata e poggia la cornetta sull’orecchio destro. Conta i suoni che precedono la risposta. Al sesto squillo, qualcuno si decide a rispondere. - Ce ne hai messo. Dove ti eri imboscato? - Nelsen strapazza il sergente dopo che l’ha riconosciuto. - A che punto sono i trattamenti che ho richiesto per Carrera? - - Ho provveduto - conferma l’altro cacciando un tono scialbo da subalterno. - Un uomo mandato in ospedale e le larve sparse e in a- zione nella piantagione. - - Aumentare la dose. Contatto fisico con Carrera. - - Eseguirò ammiraglio. Manderò gli incaricati. - Nelsen riaggancia. L’avvocato Postrana, suo difensore, gli ha rife- rito del fallito tentativo di un accordo con gli avvocati di Jean Paul. Non rimane che intimidirlo, dato che non cede. Adesso che ha rag- giunto lo scopo, il milione di dollari sistemato ad arte da Rosa, è pronto per la nuova vita in Spagna. Tuttavia ha ancora bisogno della protezione che gli viene dalla posizione nel dipartimento. Si alza dalla scrivania, controlla di non avere lasciato nulla fuori posto; prende il berretto dalla cappelliera e chiude la porta dell’ufficio. Scende l’ampio scalone ricevendo all’uscita dall’edificio il saluto del marinaio di guar- dia. Sul piazzale l’asta della bandiera proietta una lunga ombra. Tra poco farà scuro. Si avvia con passo elastico verso il parcheggio, dove sta l’automobile. Siede lasciando la portiera aperta e inserisce la chiave nel cruscotto. Deve attendere che un camion della manutenzione stradale si sposti: un fuoristrada, contromano, ostacola la manovra del

mezzo. I rispettivi autisti scendono iniziando a discutere e l’ufficiale, annoiato, esce per dirgli di lasciare lo spazio per la sua vettura. Uno dei due gli domanda se sia lui l’ammiraglio Nelsen. Risponde di sì. Si accorge tardi di essere in pericolo. Nel parcheggio non ci sono altre persone. Lo colpiscono. Il manganello di uno in mimetica gli batte contro la testa. Una fitta gli scorre dalla nuca alla spalla. Nessuno nota quanto accade. Il sequestro è improvviso. Il dolore delle percosse lo penetra fino a intontirlo. Perde coscienza per un istante. Gli premono contro il calcio metallico di un mitra. La vista gli torna lucida. Si dà dello stupido per essere sceso dall’auto nel tentativo di sedare una lite fasulla. Conta tre figure ben piantate oltre l’autista. Indossano delle mimetiche. Dei quattro uomini del commando, due sono armati. Si ritrova piegato, quasi seduto. Prova a sistemarsi in modo che la spalla gli faccia meno male. Impaurito, si domanda il motivo del rapimento. Sarà un ostaggio per uno scambio? Nelle narici gli sale odore di frutta. Sul pianale, mangos verdi rotolano a ogni curva. La jeep corre sussul- tando sulla strada sconnessa e sterrata. Nell’abitacolo non entra luce, i vetri sono oscurati. Per gli scossoni, lui si sente il corpo sparso in tut- te le direzioni. La polvere gli entra nel naso. Ha paura. Nessun cappellano, se lo ammazzeranno, gli farà gli uffici generali e le autorità non saranno disturbate per la sua inumazione. Non ritroveranno neppure il cadavere, perché formiche e caimani divorano ogni caro- gna. Gli duole immaginare che non potrà dare alcuna lezione al capitano Jean Paul Carrera sulle regole di vita. Gli brucia perdere Ro- sa e il milione di dollari. Lo sfianca la rinunzia forzata alla bella vita che aveva programmato. Rosa si terrà tutto. Per nulla ha ordito la ritirata dalla marina con diligenza. Il dolore smette d’essere continuo e prova pulsazioni ardenti alla clavicola sinistra. Apre la bocca e la ma- scella si distanzia docile, senza fitte. È sana. L’autoveicolo segue la corsa. Nessun posto di blocco messo sulle strade. Desidera che gli chiedano denaro e lo lascino andare. “Perché qui non hai la garanzia di morire nel tuo letto?” Ha peccato di leggerezza e questo è l’unico rimorso. Forse è solo un caso, il peso del fato, che crea il minimo impiccio e poi ne regola le conseguenze.

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La jeep si ferma in un punto buio, su una radura circondata da ar- busti. Lo spingono verso una stalla di legno con il tetto in lamiera. A malapena, intravedere tra la vegetazione, per un istante, il luccicare di un fiume. Il pavimento è di terra. Nei pochi metri disponibili non ci sono arnesi, solo uno sgabello sgangherato. Siede afflitto. “Stavolta mi hanno fregato” mormora avvilito. Con una lenta rotazione del braccio riesce a ridurre la lussazione. Tra poco comincerà a dolergli. Non avere incontrato posti di blocco, indica che al dipartimento non si sono accorti della sua scomparsa. L’unica speranza è Rosa. Potreb- be insospettirsi non udendolo. Gli sovviene un dato certo: ogni volta che erano assieme, lui ha fatto valere la classe di super uomo che pen- sava fosse. In quella situazione incerta, invece, lui è un uomo da niente. Quando una donna si vede ferita nell’amor proprio, sfodera la perfidia proveniente dalla bellezza. Potrebbe vendicarsi tacendo. Questo particolare lo preoccupa più del buio piombato nella stalla.

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Jean Paul, dal ponte della draga ancorata in un’ansa del fiume, guarda la natura che lo circonda. L’acqua, colorata dalle alghe che trasporta, perde in quel tratto il grande impeto, lasciando affiorare isole abitate da canne e da uccelli marini. Gli alcatraz di Agua Dulce vi nidificano. Quando non compiono voli circolari, oziano sulla rena tenendo la testa ripiegata sul lungo collo bianco. Il collaudo della draga prosegue sotto la supervisione del vecchio proprietario. Gli operai hanno rinforzato alcune lamiere della fiancata, ridata la pittura ai fianchi. Il draghista sta provando i comandi dei meccanismi. Gli argani stridono e il fumo della frizione esce da un lato del motore idraulico, superano la prova di carico e sollevamento. Jean Paul consegna l’assegno a un uomo mal vestito che possiede altre chiatte che traghettano mezzi e mandrie sul grande fiume. - Vedrà, capitano, non se ne pentirà - dice riponendo il foglietto nel portafogli di coccodrillo. - La draga fa il lavoro di mille pale in pochi minuti. Domani sarà pronta per il rimorchio a Barranquilla. - Jean Paul, in cambio, riceve dei documenti. Il rito della consegna si conclude dopo avere scolato con gli operai una bottiglia di agua ardente. Giungerà un rimorchiatore per portarla a Punta Rocca, dove inizierà ad arginare i danni inflitti dal capriccio delle correnti ai con- domini primi esposti sulle spiagge private. Verso mezzogiorno il capitano guida l’auto sulla strada del ritorno. Ha preso a piovere ed è costretto a rallentare. Impiegherà un po’ di più per arrivare a casa. Quanto accaduto al guardiano notturno della piantagione lo tiene in pensiero. Anche se ha assunto una domestica, non gli piace lasciare Clara per troppe ore, in particolare dopo l’arrivo di Pablito, che ha bisogno di attenzioni. Il ragazzo, nella nuova stabile condizione, va a scuola, studia, si lava, mangia bene e comincia a re- golarsi. Allentare il suo processo formativo per cause esterne al ritmo familiare sarebbe un errore. A quell’ora, Clara torna dal museo per il pranzo.

Secondo l’abitudine, entra in fretta nella doccia per rinfrescarsi sotto il getto d’acqua. Ne riceve un sollievo che le dà energia. Rivesti- tasi, prepara la tavola per tre: Ji Pi arriverà presto, le ha telefonato alle dieci avvisandola di avere con sé il contratto della draga. La domestica, una nera taciturna, sorridente, esce per andare a ri- prendere il ragazzino a scuola. Nell’attesa, Clara siede in poltrona sfogliando il giornale. La notizia della sparizione di Nelsen sta in pri- ma pagina. La marina sospetta un sequestro terroristico e sono in corso indagini. La polizia militare ha disposto posti di blocco nella città e fuori. Non ci sono rivendicazioni. Le eventuali trattative per la liberazione dell’ostaggio si faranno con il sostegno della Croce Rossa. La giovane pensa che sequestrare una persona, anche se corrotta, sia un delitto. Ji Pi criticherà quell’atto, nonostante l’antipatia per Nelsen. Quando la domestica torna con Pablito, lei attende che il ragazzo si cambi. Pablo ha imparato ad avere cura dell’uniforme della scuola. La ripone nell’armadio, se non è da lavare. Percepisce che quanto sta ricevendo è più di quanto gli spetti per un’obbligazione stabilita dall’ufficio del benestare familiare. Un affidamento deciso da un giu- dice, l’ha capito, non significa che lui è divenuto figlio di una donna diversa. Gli piace Clara, ma non dimentica la gran nera. Ogni mese vanno a trovarla, dopo il tramonto, quando lei rientra dalla spiaggia col grosso secchio dei cocchi. Scopre sensazioni nuove: una rinnovata volontà e maggiori impulsi che lo riempiono di gioia. Ricorda che provò qualcosa di simile quando stette con Pamela, prima di affidarle il cagnolino Bolivar che aveva le zampette bianche. - Da quando sono qui - dice a Clara sottovoce - qualcosa mi fa sentire bene. - La donna lo fissa con comprensione. - Prova a spiegarmelo - lo incoraggia. - Un giorno Pamela ed io ci abbracciammo. - A Clara viene da sorridere. Non stende le labbra per timore d’essere fraintesa. Vuole procedere con l’indagine. - Credo di avere capito. Si tratta di un sentimento. -

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- Un sentimento? - domanda lui alzando gli sguardi innocenti. - Si sente, vero? Qui dentro - dice toccandosi il petto. - Per questo si chiama sentimento. Ti nasce dentro e ti parla. - - Una voce mi avvisa che finirà. È successo con Pamela. - - Ciò che hai sentito con Pamela, un giorno lo riproverai, ingrandi- to. Sarà bellissimo, vedrai. Pamela tornerà. Non è stupida. - Jean Paul bussa alla porta. La domestica va ad aprire. Lui bacia la moglie, poi raggiunge il ragazzino e gli dà un’arruffata ai riccioli. Sie- dono per il pranzo e Clava versa a tutti il succo di frutta. Il capitano racconta con allegria del collaudo della draga. Ne ha ricevuta buona impressione. Ha un cassone ampio e scava enormi quantità di sabbia in poche ore. Partendo bene, in poco tempo il costo sarà ammortiz- zato e si forniranno gli arenili dei condomini. Riconosce che Lobo de Miranda ha buon intuito. Clara attende che termini il pranzo, poi dice alla domestica di servire il caffè. Si rende conto che Ji Pi non ha noti- zie fresche. Forse non ha avuto tempo di leggere il quotidiano. - Nelsen è scomparso. Lo sapevi? - Jean Paul la guarda meravigliato. Tace pensieroso. - L’hanno rapito e non sanno dove sia - continua lei. - Hanno chiesto un riscatto? - domanda lui. - No. Nessuno ha fatto rivendicazioni. - - Potrebbe essere un’azione di guerriglia. - Nel silenzio che segue, il capitano sente agitarsi la pietà sotto la pelle. La guerriglia non fa patteggiamenti per i militari sequestrati. Lui non ha mai odiato Nelsen, disprezzato, sì. Il disprezzo è un brutto modo di reagire a certe verità che non danno rimorsi. Si accontente- rebbe delle scuse di Nelsen, di un gesto di buon senso che pareggiasse il travaglio morale cui fu sottoposto dai modi dell’ammiraglio. La cameriera giunge con la caffettiera calda. - Mi dispiace. Non vorrei gli accadesse del male - commenta lui al- zando la tazzina decorata. - È suo amico? - s’intromette Pablo che sta seguendo il dialogo avvertendo il cambio d’umore del capitano.

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- No. Lo conobbi e si comportò in modo scorretto. Decisi di non rivolgergli più parola. Per certe persone la peggior punizione è vedersi ignorati da quelli cui fanno i dispetti. - - Allora è contento che l’hanno sequestrato? - La risposta di Jean Paul è istantanea: - Non augurarti il male del nemico. Semmai lo affronti, avendone le capacità. I giudici ti aiuteranno a vincere con le istruttorie. - Pablo fraintende la parola. Confonde istruttorie con istruzione. Afferra il concetto che altre volte l’uomo ha tentato di spiegargli. Stu- dierà, lasciando l’ignoranza, per non essere sopraffatto. - Le istruzioni? - domanda storcendo il naso. - Le istruttorie. Non si possono fare senza istruzione. Si studia, si entra all’università, si diviene avvocati e si possono scrivere le prati- che dette istruttorie. Così i clienti ti pagheranno. - Il ragazzo tace e pare assorto in gravi pensieri. - Mia madre sarà triste? - - L’importante è che tu faccia quanto ti spetta. - Jean Paul dà uno sguardo ai compiti. - Dettato. Frazioni. Vediamo. - - Un aiuto mi serve. Non capisco le frazioni. - Jean prepara un esempio. Quello della torta divisa in fette, va be- ne. Dopo alcune prove, gli sguardi del neretto sono nel vuoto. - Che cosa c’è che non va Pablo? - - Dov’è Pamela? Crede che tornerà? - - Dobbiamo sperarlo. Ora dovresti esercitarti con i libri. Cerca di sforzarti un poco. D’accordo? - - Ho capito - dice Pablo alzandosi dalla sedia per andare alla sua stanza dove libri e quaderni lo attendono. - Buonasera signora Clara. - Clara lancia un’occhiata d’intesa a Jean Paul comunicandogli che lo sta prendendo per il verso giusto. Vede il marito giocherellare con il bordo della tovaglia, arricciandolo. Ha altro per la testa. - Non te ne ho parlato prima. Lobo de Miranda mi ha fatto delle strane rivelazioni ed è giusto che t’informi. - Lo sguardo di lui si sposta sulla domestica. Ciò basta a Clara per cogliere nel marito una sorta di disagio: chiede riservatezza. Sceglie di

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risolvere nel solito modo e invia la domestica a comprare latte fresco e mango maturo. Starà fuori un po’ di tempo. Il sorriso di Jean Paul equivale a un ringraziamento. - Che cosa ti ha detto di sconvolgente? - domanda Clara. - Quello ha la coscienza intorpidita. Per poco non mi ha mandato fuori di sentimento. L’anello che ti ha regalato per le nozze apparten- ne alla madre. Dopo la sua morte, da un paio di orecchini suo padre ricavò due anelli. - - Questo l’ha già chiarito l’orefice - rimanda Clara con voce rauca e gentile, lasciando trasparire considerazione. - Il padre del dottor Lobo, il giudice, mise al mondo un secondo figlio, con una domestica. La famiglia, però, non ne permise il ricono- scimento. Il piccolo fu allontanato assieme alla madre. La donna andò a Soledad. Il tempo passò e i due figli divennero adulti e presero stra- de diverse. Il giudice, un giorno consegnò loro i due anelli. Uno lo diede al dottore, l’altro lo regalò al figlio non riconosciuto. Questi lo offrì a sua moglie nel giorno del matrimonio. - Jean Paul fa una pausa e fissa la moglie con intensità. - Continua - dice lei provando la pelle d’oca. - Quella donna è tua madre. Per essere franco, Salvador, tuo pa- dre, era il fratellastro del dottor Lobo. Tu saresti sua nipote. - Jean Paul ha parlato di un fiato. Ha gli occhi sulla consorte per cogliere le sue emozioni. Lei corruga la fronte e ha gli occhi lucidi. Una trasognata luce verde li illumina. Clara insegue pensieri che non aveva mai immaginato di dover comporre. Si sta emozionando per avere trovato una logica incredulità suscitata dalle parole del marito. Tace. Una banale coincidenza si sta trasformando in un atto d’accusa contro un vecchio sconosciuto. D’un tratto, scopre che lei può arriva- re a odiare. Riconosce l’incapacità del dottore per salvare suo padre, il cui assassinio l’aveva calata in una buia situazione che aveva offuscato la sua idea giovanile di giustizia. Alcuni anni della sua vita erano stati tormentati dalla mancanza di un affetto naturale estinto con la violen- za. Impietosamente, quel dolore riaffiora e chi glielo propone e l’uomo che ama. Dubita un istante dell’amore di Ji Pi. Ha delle do-

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mande che non riesce a comporre per intero. Perché? Si chiede per- ché certe notizie fanno soffrire. Perché Lobo de Miranda continuasse a restare nascosto quando lei e la madre erano convinte di essere ri- maste sole. - Mi hai appena detto che mio padre e il dottore sono fratellastri - sussurra guardandolo incredula. - Quello sarebbe mio zio? - - L’ha affermato. Ha esposto le cause. - - Gli hai creduto? - mormora lei incapace di fermare una scossa. - Ho notato una rassomiglianza tra voi. Un particolare. Gli occhi. C’è dell’altro. Il dottore ti ha nominato erede dei suoi beni. - - Stai scherzando? - replica Clara con una punta di sarcasmo men- tre un rossore le colora il viso. - Sarà pazzo? - - Ha seguito le vicende della tua famiglia senza mai comparire. Quando tuo padre fu ucciso, inviò del denaro a tua madre. Anche l’acquisto del mio lotto fu una sua idea. Voleva che fossi suo vicino. Ti comunicò la notizia dell’asta perché tu avvisassi Rodrigo. - - Lo ricordo. Non credevo fosse un ipocrita. - - Rodrigo riuscì a comprarla perché lui volle - dice Jean Paul. - Manovrò perché noi vincessimo all’asta. - - Perché non apparve dopo l’assassinio? - domanda lei con un to- no disperato. Pensa che un uomo accanto, in quei tragici momenti, avrebbe aiutato lei e la madre. Sì, giunsero dei soldi da uno sconosciu- to, ma restarono sole. - Il dottore temeva vendette trasversali. Restando nell’anonimato dava protezione a te e a tua madre. Eravate in pericolo. I mandanti erano ignoti e lui non si fa scuotere dalle passioni. Cova teorie con- torte. Di fronte ai sentimenti, si tuffa nel pantano delle analisi. - Lo sguardo brillante di lei cade espressivo sul volto di Jean Paul. Agitata, mortificata, cerca una risposta adeguata che non arriva. Guarda l’ora. Deve tornare al museo e non le resta tempo per discu- tere. Frena la lingua per non mandare un accidente al socio di Ji Pi. - Continueremo stasera. Ti anticipo che questa storia non mi va. - Raccoglie la borsetta, saluta il marito ed esce da casa.

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Quando ritorna la cameriera, anche Jean Paul va fuori. Sale in macchina per andare da Santiago. Ha necessità di consigliarsi con l’amico. Lo trova che sta battendo un articolo. Di lato ai fogli c’è una bottiglia di cognac ancora piena. Il mulatto ha il papillon slacciato. Il filo di barbetta pare un nastro adesivo cui non ha prestato l’ausilio delle forbici. Sta scrivendo un commento sui milioni di dollari che saranno spesi per la prossima campagna elettorale. Sarebbero giustifi- cati se le promesse ricalcate dagli slogan raggiungessero l’obiettivo: la fine della guerra per la cocaina, il controllo delle cause della miseria, l’accelerazione dei processi d’emancipazione culturale. Santiago si alza dalla sedia e s’inginocchia accanto al letto. Sfila da là sotto un pacco. - Ti consegno i miei articoli. Qui ce ne sono un centinaio. Vorrei che li leggessi. Chi ha idee è forte e vince, chi non ha ideali perde prima di aprire bocca. - - I tuoi singulti da terza pagina m’incuriosiscono - lo pungola il capitano accettandoli. - Hai saputo del sequestro di Nelsen? - Santiago versa due dosi di cognac e ne porge una all’amico. - Alla radio. Ora che pensi di fare? - - Attenderò istruzioni dall’avvocato Noguera. Credo che il seque- stro sia legato alla borsa che il timoniere Armando vide consegnare da Chivas al greco dell’Onassis. - Il capitano si solletica il naso. Vuole affrontare l’argomento dell’inattesa parentela di Clara con il dottore. - A pranzo ho comunicato a mia moglie la confessione del Lobo. Ho bisogno di consigli. - - Quale confessione? - gli domanda curioso Santiago alzando gli occhi vivaci sul viso serio dell’amico. - Un fatto paradossale. Lui e il padre di Clara erano fratelli. Nati non dalla stessa madre. - Jean Paul pare liberarsi da un carico. - Salva- dor fu allontanato dalla famiglia. Quando ho appreso la novità, quasi sferro un pugno alla faccia di bronzo del Lobo. Ho riportato la storia a Clara. Immaginerai in che stato si trovi. - Le rughe di Santiago si contraggono. Il pomo d’Adamo gli va su e giù un paio di volte mentre riallaccia il papillon. Lui e il medico si co-

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noscono da molto tempo e in nessuna occasione era trapelato un ac- cenno alla parentela. Si strofina la barbetta. - Notizia da prima pagina - mormora laconico. - Il dottore è un a- stuto dissimulatore. Capisco la giusta reazione di Clara. Ma per quale ragione si presenta adesso nella veste dello zio? - - Secondo lui per dare ciò che fu tolto a Salvador. - Una smorfia fa scivolare gli occhialini dal naso di Santiago. - Quel creolo si sarà rotto la testa per capire quali fattori dominan- ti fossero passati dal fratello alla nipote. Me lo figuro quando afferma che la natura è una selezionatrice unica, magari attendendosi un trava- so diretto di geni atavici fino al primo figlio che farete. - - Non è tutto. Comprai la piantagione perché lui volle. Manovrò l’asta. E c’è un altro punto. Lascia Clara erede dei suoi beni. - - Ecco dove ti vedo, mio caro. Lui ti scelse per la nipote. Sei un coniglietto cavia - lo prende in giro. - Dovrei sentirmi lusingato? - - Non ti scaldare. Resta da capire se il suo comportamento ha una giustificazione. Se usiamo l’intelligenza, daremo un valore ai fatti. - Santiago immagina che cosa avrà provato Clara: il gelo di una donna rinchiusa in una colonna di ghiaccio, con la visuale della realtà appannata. Avrà rivissuto il momento in cui rimase orfana. Trovare, all’improvviso, uno zio rimasto nel buio per anni, dopo avere occulta- to una fratellanza, l’avrà colpita nell’animo. - Sono convinto che l’affidamento di Pablito sia capitato nel mo- mento adatto - dice il giornalista. - Costituisce un impulso a procedere. Clara crescerà in una notte, come il bellissimo fiore del cactus. L’evento non comprometterà la vostra relazione. - - Mi auguro che le tue parole trovino rispondenza. Vederla soffrire mi rattrista. Ricerco la chiarezza. Il dottore che cosa cerca? - - Lo tormenta l’elica genetica. In Clara vede il riflesso di suo fratel- lo - commenta il giornalista. - Sarà punto da brutti rimorsi. Vuole l’arcobaleno, perciò è disposto ad accettare la pioggia, ossia la tua di- sistima e l’odio della nipote. Per lui non è un punto esclamativo il DNA. Significa un’attesa nel proseguimento della vita che non accetta

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compromessi ambigui per non dare risultati mediocri. La vostra scelta di prendere in affidamento il ragazzino gli ha provocato il mal di te- sta. Lui attende un nipote da Clara e con il nome di Salvador. Tua moglie ha sangue buono. Lei darà ascolto al lato indio materno e per- donerà il lato bislacco del vecchio. - - Lo spero - dice il capitano dominando la confusa inquietudine di quel giorno. - Clara dovrà stabilire quale atteggiamento assumere. - - Il dottore attende che lei lo perdoni. A dispetto delle sue teorie genetiche, lui vede la catastrofe delle cellule corporee. Dispone di sufficiente coraggio per non arrivare alla disfatta dell’anima. Non ha paura della morte. Teme più il dubbio di se stesso. Se vogliamo, ha un comportamento lineare nella logica del carattere e del sentimento. - Santiago si aspetta che il capitano sia ragionevole. - Può darsi che tu abbia ragione - dice Jean Paul riflessivo. - Per una formica, come io sono, una goccia di rugiada equivale a un dilu- vio universale e la mia piccolezza m’impedisce la corretta messa a fuoco, confondendo gli atti più umani. Mi auguro di digerire tutta la faccenda e di aiutare Clara. - - Siete entrambi maturi per arrivare a capire. - Parlando, abbassano il livello del cognac. Santiago informa il capi- tano che andrà per qualche giorno alle terme di Usiacuri per una cura di acque. Ha la vescica pigra. Una volta l’anno si concede un minimo di attenzione che lo purghi dalle tossine. - Al mio ritorno questa bufera sarà passata e ne riderete. - Jean Paul scuote la testa pensando all’insolito socio. Dovrà avere pazienza. Capire le vere ragioni del suo comportamento. Forse i suoi atti hanno una giustificazione recondita. Amava Salvador, l’ha detto.

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Vassili controlla l’ora. Due minuti a mezzanotte. Non riuscirà a trattenere le pressioni dell’Organizzazione. Lo presagisce: lui sarà un nome su una lapide in un cimitero. Ha tentato di prendere contatto con l’ammiraglio ma non ha avuto risposta. Con Leonid ha un appun- tamento telefonico in cui ripone le illusioni. Il telefono squilla. - Dove sei Leonid? - - In un hotel. Seduto su un letto poco lontano dalla frontiera tra Colombia e Venezuela. Tra Cucuta e San Antonio. Per causa tua. - - Hai notizie? - domanda Vassili con la voce rotta dalla tosse. - Don Alvaro mi manderà a consegnare un fagotto pieno di soldi a un guerrigliero. Ciò aiuterebbe la soluzione del tuo guaio. Cinquecen- tomila dollari per riavere il carico di cocaina sfilato al capitano greco. Il boss ti anticipa il grano per salvarti il grasso che ti ricopre. - - Non dovevi riportami Kris? - - Impossibile. Non si regge in piedi. Resta con Takenda. - - Quando mi tirerai dalle sabbie mobili? - - L’italiano asmatico ti fa un prezzo di favore per una fornitura ta- gliata. Dovresti essermi grato. - - Dov’è la fregatura, Leonid? - - I panamensi sono disposti a sopportarti e dividere la perdita fin quando non riapparirà il milione di dollari che hai dato a Kris. - - Figurati che sollievo mi dai - mormora stremato Vassili. - Avresti dovuto pensarci. Questo è un gioco rischioso. Se non riapparissi, considerami perso. Mi avrai sulla coscienza, a patto che tu ne abbia una. Nelsen lo stanno premendo gli amici di don Alvaro. Non cercarlo. Ascoltami bene. Dopo la consegna, andrò a sondare il terreno in cui operava l’ammiraglio. Deve avere lasciato delle tracce. L’ultimo ad avere disposto dei tuoi soldi fu lui, dopo Kris. - L’ucraino tace alcuni secondi valutando la proposta. - Pensi che chiederanno un riscatto alla marina? - - Non vale molto - fa notare cinico Leonid.

- Forse sganciano il grano. In fondo è un loro ammiraglio. - - Non correre - rimanda il pilota sazio di soddisfazione per quei minuti di ansia che Vassili attraversa. - L’italiano vuole incontrarti. A Bogotà, nel museo dell’oro. Per combinazione, in quello stesso giorno hai un appuntamento per fissare le norme del trasferimento del dia- mante Orloff. L’aria della cordigliera ti farà bene. - Vassili impreca dentro di sé. Con tutto quello che sta accadendo, aveva dimenticato l’impegno con il museo. L’Orloff dovrà essere e- sposto a Cuba entro pochi mesi. - La mostra culturale cubana non ci voleva. Tu collaborerai con me per il trasferimento del diamante. - - Non è mia competenza sorvegliare valori bollati. - - L’Orloff non è un valore bollato. È una pietra che non ha nessun difetto estetico, simbolo della Russia, orgoglio nazionale. Dubito che tu ne abbia una punta. - Vassili si è surriscaldato. - Informa il boss italiano che il costo del tuo aereo, oggi, sarà a carico suo. - - Con certa gente non bisogna essere venali. - Leonid immagina il sudore che cola nel collo del grassoccio. - Questo è un tuo tipico er- rore. Mi darai un extra. - - Lo avrai. - - L’ultima volta che usai la carta di credito ero scoperto. - - Fu un disguido. Addio Leonid - tronca l’ucraino prima di mette- re giù il telefono. - Paga il conto al guerrigliero e torna qui. - Vassili fa dei calcoli. Il suo debito ammonta a un milione di dolla- ri. Il furto della statua del sacerdote dal museo è attuabile; la vendita al mercato parallelo gli farà ammucchiare denaro per bilanciare la perdita della cocaina. Solleva il telecomando e accende il televisore. Sintonizza sulla CNN per ascoltare le notizie. Il cronista sta infor- mando che un ammiraglio colombiano è stato sequestrato. Il suo nome è Nelsen. L’aria si dilata nel suo corpo abbondante del russo e il budello tenue si distende. Ruggisce per uno spasmo. La situazione precipita. Il militare era l’ultima pedina, dopo l’inservibile King Kris, per recuperare il perduto. Non ha scampo. Neppure Leonid potrà

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aiutarlo. Adesso, lì a cavallo della frontiera, la possibilità che sia indi- viduato dal settore antinarcotici colombiano aumenta di molto. Sono le sette del mattino a Cucuta. A San Antonio di Tachira, dall’altra parte del confine, c’è mezz’ora di differenza. Le due cittadi- ne sono oppresse da un calore allucinante. Sono posti che non offrono grandi svaghi. Bolivar ci combatté le sue ultime battaglie. Un ponte stretto quanto l’occhio di un tacchino le unisce passando sopra un fiume incostante, che si gonfia o rinsecchisce secondo le piogge. Le zanzare avviliscono i residenti, senza tener conto della loro nazio- nalità, siano colombiani o venezuelani. Ai frontalieri che si spostano dall’una o dall’altra parte si aggiunge lo sciame di quelli che passano il confine per andare a fare carburante, più conveniente in Venezuela. Improvvisati agenti di cambio, fanno proposte valutarie: pacchi di pesos o di bolivares che, secondo il cambio ufficiale giornaliero delle due nazioni, sono barattati a tassi di sconto mobilissimi. Il ciclo di commercio, sulla frontiera, è diretto dall’andamento delle valute che va in altalena da ambo i lati. Quando il cambio è favorevole per i co- lombiani, questi vanno dall’altra parte per le spese. Viceversa quando è favorito il Bolivar venezuelano. Per conoscere l’andamento del cambio non c’è bisogno né della radio né del giornale. Dalla finestra, osservando il flusso di gente alle otto del mattino, si capisce quale moneta vinca. Cucuta e San Antonio hanno i rispettivi aeroporti di- stanti pochi chilometri. I duty free fanno carte false per trattenere i passeggeri nella loro zona franca. Sono gli unici due aeroporti dove le tasse d’imbarco sono doppie, per favorire lo sviluppo delle zone di frontiera considerate di scarse risorse. Il telefono disturba ancora Leonid. Stava dormendo e sognava. Tenta di leggere l’ora ma le tende sono tirate e non incontra sotto le dita l’interruttore per accendere la lampada di lato al letto. - Leonid, dormite? - La voce stridula dell’italiano esce dalla cornet- ta simile a un ronzare di mosconi eccitati. - Mi hanno detto che avete ricevuto il denaro che vi ho inviato. - - Fino all’ultimo centesimo - risponde il russo sforzandosi di sco- prire quanto costi rimanere calmo.

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- A quest’ora sono pronte le autorizzazioni per il volo. Andrete da Raul nel modo stabilito. Mi sentite? Siete sveglio? - - Credo di sì. - - Dovrete consegnargli i cinquecentomila dollari entro le undici. In punto alle undici e non un minuto dopo. - - Certo. Alle undici. A Raul consegnerò il denaro. - - Alle undici in punto consegnerete. Nel genere di lavoro che fac- ciamo, Leonid, la pressione conta. Non è l’asma che mi sveglia presto, sono le responsabilità. Alle undici e trenta dovete lasciare il campo di Raul. Dopo di tale ora non rispondo della vostra incolumità. Ricorda- te al vostro capo di non mancare all’incontro di Bogotà. - - Capito. Alle undici atterro, alle undici e trenta decollo e poi ci vedremo nella capitale, con Vassili. - - Ne va della sua vita. - Don Alvaro enfatizza l’accento sulla parola vita. - Alle undici e trenta dovete essere in volo di ritorno. - - Ho tutto chiaro - risponde il russo provando nausea. - Che cosa riferisco a Vassili? Avrà dilazioni? - - Arriveremo a una tregua con l’Organizzazione russa - dice don Alvaro prima di riagganciare. - Non disperate. - Leonid rimane seduto sul letto con la cornetta che gli penzola in- nanzi agli stinchi pelosi. Prevede una giornata impegnativa. Un’altra sfida per vedere se scamperà al tiro al piccione che fanno contro l’aereo quando vola basso sulle zone infette. Estrae dal minibar una vodka in una miniatura di vetro e la scola.

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Rudy è seduto nella poltroncina di lato al letto. Perplesso, rigira tra le mani l’assegno che Rosa ha staccato dal blocchetto del Banco Cen- trale per pagargli del bestiame. Distesa a pancia in sotto, con le gambe piegate sulle natiche, l’ha firmato l’assegno prima che lui le spiegasse di non avere fretta. L’atteggiamento di lei, dopo che ha acquistato con un semplice impegno redatto su carta intestata dell’hotel, cinquemila capi di bestiame, a un prezzo conveniente, è distratto. Rudy vede che il contrappunto amoroso si è esaurito; eppure aveva creduto di essere incappato in una romantica, bisognosa di un toro che la rimettesse nell’arena dei sensi. Insieme, non hanno avuto tempo neppure per ascoltare la radio. La biondina gli ha annunciato che lascerà quel gior- no stesso il promontorio delle aragoste. - È necessario? - le domanda Rudy accendendo un sigaro e spian- do con languore, attraverso le morbide trasparenze dello chiffon nero, il preciso spacco delle natiche. - Il posto è rilassante. - - Il lavoro in ufficio si è accumulato - dice lei rigirandosi. - Il mio capo, quando non si fa sentire, è arrabbiato. - - Quanta fretta hai di pagarmi la mandria - risponde Rudy inqua- drando il profilo triangolare e provocante del monte di Venere. - Rudy, non mi piace restare con i debiti - risponde la donna colta da un anelito di simpatia. - Incassa l’assegno. I soldi potrebbero finire. Non sono una brava contabile. - - Quando farai ritirare gli animali? - - Non c’è fretta. Qualcuno dei tuoi vaccai li accudirà. Cresceranno e si rivenderanno a un prezzo maggiore. - - Sei un genietto - riconosce Rudy. - Ci rivedremo alla fattoria del- la Luna Rossa. L’amore con te è dell’altro mondo. - - Anche per me. Sei un buon toro. - - Hai uno spirito di osservazione notevole - osserva il vaccaio ras- segnato all’astinenza.

Rosa esce dal letto. Mette nel borsone di marca gli indumenti ri- piegati: calze di rete, culottes di raso, slip di lucida seta, top in pizzo, tulle seducenti e lingerie da infarto che hanno eccitato le fantasie del vaccaio. Si veste mentre Rudy la guarda senza allungare le mani. Si fermerebbe più a lungo, le piace il promontorio, ma nell’ultima tele- fonata di Nelsen ha percepito un mulinello in avvicinamento. L’ammiraglio era sospettoso, geloso e nervoso. Se quel capitano Jean Paul Carrera riuscisse a inchiodarlo, per lei sarebbe un gioco filare via con il rosario di milioni. A Madrid assaporerebbe un nuovo stile di vita. - Non mi tenere il broncio - lo consola infilando la gonna aderente di pelle - abbiamo avuto una bella esperienza. - Si avvicina a Rudy, si piega per dargli un bacio sulla bocca. Gli ac- carezza la guancia e si stacca da lui che tenta di trattenerla per un frizzante minuetto d’addio. - Non posso accontentarti. Pazienta - lo consola sospettando che il brivido appena provato sia suggerito da una specie di nuova sensibi- lità. - Mi hai dato gusto e non ti dimenticherò. - Esce dalla stanza accostando la porta, dando uno sguardo da am- bo i lati. La via è libera. Il suo bagaglio sta già nella hall, di modo che lei possa saldare il conto e partire subito. Al banco delle accettazioni l’impiegato ascolta le richieste di una cliente. Protesta per la scomparsa della prenotazione: aveva fissato una suite e quello è l’unico albergo a quattro stelle nei pressi del pro- montorio di Punta Rocca. - Ho bisogno di una camera doppia. Attendo un ospite - protesta la donna. - Non pretenderà che lo infili nel mio letto. Mi dia due ca- mere al prezzo di una doppia. - Rosa guarda l’orologio sulla parete. Freme: il traghetto salperà dall’antico approdo spagnolo entro mezz’ora e non vuole perderlo. Agita la mano per attirare l’attenzione dell’impiegato. - Un momento e sono da lei, signora. - L’uomo dà le chiavi all’ospite smaniosa che si allontana dal ban- cone sbuffando. Prende la carta di credito di Rosa e scarica dal

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computer le somme da pagare per la stanza, il parrucchiere, la sauna, i massaggi. Passa i dati per la transazione. - Cos’ha quella? - gli domanda Rosa accettando la ricevuta del conto. - Se la sta facendo sotto? - - C’è stato un disguido. Alcuni s’infiammano per nulla, signora. - - La mandi a quel paese - lo incita mentre ripone la carta di credi- to. - Ha tutta l’aria della meretrice. Non ha notato? - - Per la direzione i clienti che pagano sono tutti uguali. Dobbiamo essere gentili, o ci cacciano via. - - Non se la prenda. - Riflette un attimo, prima di lasciare la hall. - Le faccia mettere un lassativo nella minestra. - - Ci penserò - la rassicura l’impiegato sorridendo. Rosa sale in taxi e si fa accompagnare al molo. La nave sta attrac- cando e il portellone si abbassa sulla banchina per l’uscita delle automobili. Uno dei primi passeggeri a scendere a piedi è un omac- cione barbuto con indosso una vivace camicia a fiori. Nota un ultimo passeggero che si affretta a scendere. Zoppica sulla gamba sinistra. Lei s’imbarca senza ancheggiare: non ha voglia di richiamare atten- zione. Si reca nel salone centrale, dove si trova il bar. Ordina un tè freddo e si mette a un tavolo d’angolo. La traversata sarà breve. Il rientro a casa, per lei è liberatorio. Lo stillicidio d’attenzioni con cui Rudy la divinizzava le stava creando dei sensi di colpa. Lei non pro- vava, nonostante tutto, un trasporto tale da spingerla al delirio, quello che fa divenire mezza tonta e porta una donna dritta innanzi a un prete per dire di sì. La sua interiorità esternata le permette di sedurre diversi uomini a un tempo: valuta il tutto cortigiano, giacché desidera essere sedotta nel momento stesso in cui ha sedotto. Non capisce che tale atteggiamento è una specie di frigidità rovesciata che andrebbe indagata su un lettino di psicologo. Ha una bellezza da mantide reli- giosa che non la fa riflettere sulle conseguenze dell’abitudine di triturare maschi. Il breve periodo trascorso con Rudy le ha acceso delle dolci intermittenze e le suggerisce che forse è giunto il momento d’immaginare un uomo definitivo che le offra senza interessi, con regolarità, quell’affetto che la farebbe sentire intrappolata e protetta.

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È di natura allegra, disponibile, un poco sognatrice, e riesce ad appel- larsi al carattere intuitivo più che all’intelligenza. Non è Nelsen il tipo adatto. Anzi, sarà un bene se riuscirà a liberarsene. Vuole un uomo passionale, che non abbia il pallino esclusivo del sesso; che ami le gite e le cene a lume di candela. Uno spirito russo, ad esempio, che si fac- cia coinvolgere dal desiderio, che udendo la balalaica si metta a ballare; uno che rompa il bicchiere dopo di avere bevuto il liquore. Che lasci respirare, che si commuova per la vista della Luna piena e che dorma con la finestra aperta per udire i grilli notturni. Al mattino seguente, al trillo della sveglia, si alza controvoglia e si trascina alla doccia. Esce da sotto il getto, e si asciuga con un morbi- do accappatoio; avvolge la testa in un asciugamano portandosi dinanzi allo specchio. Lancia un grido. Non riconosce la donna che vi si riflette. Ha le occhiaie. La pelle è ondulata. Subito la deprime il pensiero di dover ricominciare il lavoro in quello stato. Quando si sente meno bella, non si trova pronta a rispondere. L’ammiraglio avrà mille domande sul modo in cui ha investito il denaro. Vorrà i giustifi- cativi dell’operazione. Prende coraggio. Si spazzola i capelli con colpi rapidi e sfuma un trucco leggero che confonda la stanchezza. Le si legge in viso l’esaurimento delle risorse amatorie. S’infila in un abitino di colore giallo canarino, sandali neri e lucidi, una borsetta a tracolla ed esce. La giornata è luminosa e se lei fosse su di tono, sarebbe una perfetta sinfonia. I micro bus sfrecciano pieni nelle vie. La città bruli- ca di gente d’ogni classe, in movimento, e di venditori d’ogni età con le minime botteghe, dove c’è l’impensabile: i cataloghi sui quali ordi- nare una ghiacciaia che arriverà da Miami, o un prosciutto italiano o un lama peruviano. Vede il caos che precede le ore calde e già odori misti, caffè e aglio, si liberano nell’aria. Componendo frasi da dire al capo, aspetta l’arrivo del bus. Sale contrastando i movimenti divaganti che l’autista impone alla vettura e ballonzola senza riuscire a ottunde- re, con la minima forza, le brusche accelerazioni e le improvvise frenate. Il bus percorre l’avenida e cerchia tre rotatorie. Lei anticipa la discesa da quella che pare una barca in balia di un mozzo pazzo. Cal- pesta il marciapiede e giunge all’ingresso del dipartimento. Attraversa

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i corridoi, riceve i saluti del personale in servizio. Nota che gli sguardi che le passano i marinai sono diversi da quelli delle altre mattine: in- dugiano senza libidine. Di solito gli occhi puntati sulla sua figurina dicono altro: manifestano la buona intenzione di spogliarla per la cac- cia al tesorino. Percepisce qualcosa d’insolito. Raggiunge l’ascensore che sale al piano del suo ufficio domandandosi cosa possa esserci di nuovo. Trova sulla scrivania un biglietto. La data risale a qualche giorno prima ed è stato scritto su ambo i lati. La grafia è di Nelsen. La avvisa di mettersi in contatto con lui. Rigira il pezzo di carta e resta bloccata: dichiara di volerla sposare. La scuote una risatina nervosa. “Che cosa avrà ammansito l’irriducibile?” Lei si conosce bella e sedu- cente, ma dubita che siano queste le cause della romantica richiesta. Ricorda che qualcuno, in passato, le ha detto che amore e timore non vanno d’accordo. Inoltre ha soggezione di quell’uomo senza scrupoli che si serve degli altri in modo meccanico e calcolato. Si affaccia al corridoio e accenna al piantone d’avvicinarsi. Gli domanda dove sia l’ammiraglio e il marinaio con la faccia da ragazzo sgrana gli occhi a un diametro da gufo. - L’hanno rapito. Tre sere fa. - - Rapito? - - Non lo sapeva? - - Sono tornata dalla costa - dice lei stupefatta. Siede allo scrittoio colma di sorpresa. Aveva immaginato che Nel- sen intrecciasse traffici con gente di pochi scrupoli. Ripensa al milione di dollari: qualcuno potrebbe scoprire gli investimenti fatti da lei. Le tremano le vene dei polsi. Potrebbe essere in pericolo. Non le resta che una ritirata ben congegnata. La Colombia non è consigliabile. Le città sono poche e provinciali. Vuole una nazione diversa, con una vera capitale aperta e cosmopolita. Sì, Madrid. Preparerà il foglio con le dimissioni da dare a Escudoro, il capo di stato maggiore. Si mette al computer e inizia a stilare, nero su bianco, la rinuncia all’incarico di segretaria delle pubbliche relazioni. Le pare di commettere un tradi- mento e lotta per scacciare il pungolo del rimorso. Si consola col pensiero che la marina le farà i conti della liquidazione. Passerà a rive-

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rire l’ammiraglio che spinse per la sua assunzione. Escudoro non ha certo smarrito il ricordo della posizione del loto, con cui gli rimise a posto un nervo del simpatico. Ogni volta è gentile con lei: una notte d’amore curativo non la dimentica con facilità. Le dita battono e completano linee di scrittura. Rivive le insidie di quel posto in cui è stata a lato di Nelsen per un quinquennio. Ha veduto marinai e co- mandanti, alcuni rispettosi, altri volgari. Nella sua agenda li ha annotati, segnandoli alla data della loro comparsa in ufficio. Risponde al telefono che squilla. - Segreteria delle pubbliche relazioni - dice con voce addomestica- ta. - Desidera? - - Buongiorno. Chiamo per l’ammiraglio - inizia una voce calda e virile che non ha mai udito, con leggero accento straniero. - Quale ammiraglio? - domanda Rosa con un tono sicuro. - Nelsen. - - Qual è il suo nome? - - Leon. Vorrei comunicare informazioni interessanti sulla sorte dell’ostaggio. Qual è il suo nome? - - Rosa. L’ammiraglio è sano e vivo? - la sua stessa voce le pare in- credibile. - L’ha veduto? - - No, ma garantisco che sta meglio di un pesce. So dov’è. - La biondina ha una scossa che pare di origine nervosa. - Verrò nel suo ufficio e le dirò il resto. Mi prepari una buona ac- coglienza. Arrivederci signorina Rosa. - La telefonata si tronca lasciando la donna confusa. Un lato dell’anima le suggerisce di riportare all’ammiraglio Escudoro la strana telefonata, l’altro le dice di tacere e attendere lo sconosciuto. Sarà preparata per ascoltarlo: le tornerà utile. Compone il numero del cen- tralino e, dopo essersi fatta riconoscere, domanda notizie su eventuali rivendicazioni per il rapimento di Nelsen. - Due - la informa il telefonista. - Si sono mostrate fasulle, per quanto ne so. - - Si sa la provenienza? - - Una dalla zona costiera, l’altra dall’estero. -

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Rosa raccoglie il foglio delle sue dimissioni e si avvia all’ufficio di Escudoro. Ricorda uno dei motti uditi da Nelsen: “Chi ha polvere spara. “Ha ancora un po’ di vantaggio e vuole tenerlo tutto per sé. Il sequestrato non merita aiuto. La situazione in cui si è messo, l’ha cre- ata lui, con la sua avidità. A lei piacciono i maschi generosi.”

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Jean Paul, al volante del fuoristrada, attende che il sorvegliante sia salito sul sedile di fianco. L’uomo è stato dimesso dall’ospedale; ha la testa con alcuni appariscenti cerotti e un livido sotto un occhio. - Stai bene? - gli domanda il capitano. - Non vuoi qualche altro giorno di riposo? Ce la farai a stare in piedi di notte? - - Ho riposato abbastanza. Mi dispiace per quanto è accaduto. Se avessi tenuto d’occhio la strada, i bulli non mi sarebbero saltati ad- dosso. Non mi spavento dinanzi ai balordi quando sono armato. Ho al fianco un revolver da far invidia a Bufalo Bill. - - Non è servito - gli dice il capitano avviandosi alla piantagione. - Hanno agito di sorpresa. - - Dobbiamo essere contenti se ti hanno solo ammaccato. Avrai veduto una quantità di stelle. - - Le stelle no. Dolore. Mentre ero al suolo, però, delle farfalle le ho vedute. Sì, farfalle. - - Le avrai immaginante. - - No, capitano. Erano farfalle e partivano da uno sciame. - - Se lo dici, ti credo. - La jeep procede spedita. La pista è umida e le ruote non sollevano polvere. Qualche giorno prima, due della polizia si sono affacciati all’Idumea per stendere il verbale: è servito per aggiungerlo alle decine di denunce che si redigono ogni giorno e restano senza un seguito. I dettagli e gli indizi raccolti sono pochi e i picchiatori restano ignoti. Camillo si affretta a spalancare il cancello della piantagione. Saluta con un ghigno il sorvegliante. - Ti hanno ricucito bene. - - Pensa per te - lo trattiene l’altro. - Al posto mio saresti morto di spavento. Non mi sorprenderanno una seconda volta. - Tutto appare tranquillo. La pausa del pranzo arresta il lavoro degli operai. Le donne iniziano a passare con i fustini in cui è disciolta la dolce limonata. Una di esse mette a bollire l’acqua per il caffè. Un

lavoratore indio, con pantaloni bianchi a mezza gamba, suona un flauto corto dal suono dolce e sottile. Jean Paul accetta dalla cuoca un caffè e alcune gallette. Vuole sincerarsi che il ritmo della piantagione riprenda regolare. Ode i dipendenti che parlano tra loro. - Ci pensi che mia figlia Carolina è di nuovo incinta - dice uno al vicino. - Tre figli e già due uomini. - - Quanti anni ha? - - Ventuno. - - Perché non la fai sposare? - - Con quali denari? - Ruota la testa in cerca della cuoca. - Maria, per favore dammi un’altra cucchiaiata di fagioli. - Al tavolo, gli argomenti non mancano. C’è uno che si lamenta del- la mutua. Vi è andato per farsi cavare un molare e la faccia è rimasta gonfia. Non vuole saperne di sgonfiarsi. Il dolore è passato, il gonfio- re resta. - Il fatto è che se mi guardano da sinistra sembro grasso. - Un altro ha un nipotino giunto al mondo da poco. - L’hanno fatto battezzare? - - Il prete si è spezzato la gamba. - - Cambia prete. - - Se torna, che gli dico? - Arriva la cuoca scotendo due pentole e li avvisa uno per uno: - Questo è maiale. Qualcuno provi a dire che sa di gallina e gli bat- to il mestolo in testa. - Tu - dice a un uomo assunto da poco - non ti scordare che ti restano da pagare i pasti della settimana scorsa. - Qualcuno accende una radio portatile. Un cronista commenta il disagio per la coca. Nella stazione trasmittente un ospite risponde alle domande che il cronista gli pone per suggellare le sue supposizioni. - Onorevole, ci riusciremo? - - Lo sradicamento della coca, a mano, è lento. Le piantagioni ille- cite sono nelle selve. L’irrorazione aerea comporta rischi di altro genere. Quando s’innaffia una zona, si bagna il buono e il cattivo. Ci sono proteste e le operazioni rallentano. -

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- Possiamo sentirci più vicini al risultato sperato? - domanda il cronista. - Vincerà lo stato? - - Combattiamo la corruzione interna, lato peggiore degli accordi personali con la delinquenza internazionale. - Jean Paul osserva i volti dei dipendenti. In maggioranza sono a- vanti con gli anni. L’espressione seria conserva una sorta di gravità congenita. L’humus del tropico, le radici, le piante, sono capaci di risucchiare la linfa di un uomo in pochi anni. I piantatori sono uniti alla terra generosa e nello stesso tempo impietosa. Usano gli affilati machetes con la leggerezza delle ali di farfalla. - Quante farfalle c’erano la notte chi ti picchiarono? - domanda a un tratto al sorvegliante dimesso dall’ospedale. - Un bel po’, capitano. Un fatto curioso - rimanda il sorvegliante seduto all’altro lato del tavolo, lasciando la tazza di caffè vuota. - Con la nebbia, in genere non volano. - - Non sarà stato effetto delle botte? La visione. - - Erano farfalle vere. - A questo punto l’attenzione di Camillo, il fattore, si accende. - Quali farfalle? - gli domanda a sua volta. - Dopo che i delinquenti si allontanarono, vidi le farfalle. - Camillo si gratta la testa senza levarsi il cappello nero. - Questo potrebbe essere collegato ai pidocchi. - Jean Paul lo scruta con intensità. - Che tipo di pidocchi? - - Stanno sulle palme. In verità le foglie delle piante sono meno ri- gide. Ho fumigato con una poltiglia semplice. - Un lampo passa nello sguardo azzurro del capitano. - Avresti dovuto avvisarmi - gli dice. - Raccogli una quantità d’insetti in un barattolo. Andrò oggi stesso a farli esaminare. - L’indio con i pantaloni bianchi a mezza gamba smette di suonare il flauto e dice con tono esausto: - Si deve esorcizzare la piantagione e ci vuole Saceregone, lo scia- mano. Lo porterò qui. Lui prega, battezza le anime perse, fa rimanere incinte le donne con la pancia pigra. -

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- Va bene - dice Jean Paul udendolo deciso. Intorno al tavolo, fantasie, magismo e animismo si fondono con l’immaginazione feconda e la cultura locale. Sono importanti le pre- monizioni, la forma di una nube, il riflesso di un plenilunio. Se una pianta non dà frutta nella giusta stagione, saranno necessarie oppor- tune correzioni. Il compito sarà dato allo sciamano, conoscitore delle usanze. Camillo si alza dal tavolo e fa una domanda a Jean Paul: - Pensa a qualche piaga? - - Sarà bene scoprire con quali insetti abbiamo a che fare e poi in- tervenire di conseguenza. - Il capitano si alza. Il Sole è duro sulla collina e dal golfo non sale un alito d’aria. Il fuoristrada è bollente. Un poco di pioggia farebbe bene anche alle piante. Chi gli aveva parlato delle larve? Nelsen. Pro- prio lui, l’ultima volta che lo aveva incontrato. Strana coincidenza: l’ammiraglio scompare e i parassiti appaiono.

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Pelekanakis si rilassa al Sole nei pressi della piscina. L’ossatura li- gnea della sedia a sdraio geme sotto il suo peso. Ha ordinato una tripletta di e un paio di birre. Con Cecilia ha un incontro alle due: pranzeranno con Rudy e Boccaccio, giunto con le ultime disposizioni di don Alvaro. Comincia a masticare guardando due gio- catori di tennis, uno nero e l’altro bianco, che stanno terminando una partita nel campo rettangolare racchiuso da une rete alta alcuni metri. Al servizio del nero risponde un duro rovescio del bianco, più scat- tante dell’avversario. Gli occhi del greco seguono la palla tra una battuta e la successiva. Alla fine, i giocatori raccolgono le palle, rimet- tono le racchette nelle borse flosce, si tergono il sudore con tovaglioli di cotone ed escono dal campo per dirigersi alla piscina. Pelekanakis li vede avvicinarsi. Poggiano le borse su due lettini trasportabili per mezzo di rotelle e li trascinano accanto al bordo, mettendo, in pratica, lui nel mezzo. Il nero da sinistra e l’altro da destra. Siedono e il bianco attacca senza dargli tempo di finire l’ultimo sandwich. - Continua a mangiare e comportati in modo naturale - gli dice il bianco, accaldato per la partita, aprendogli la borsa sotto il naso e facendogli vedere, tra le palle giallo limone, la canna di una pistola con silenziatore. Il greco trattiene il pane tra i denti e si rigira di un pollice per ve- dere l’altro giocatore. Il nero, sorridendogli, fa un’alzata di spalle e gli mostra, scoprendo un lembo del tovagliolo con cui si sta asciugando, il distintivo della polizia antinarcotici. Il barbuto finisce di mordere, mastica, ingoia e allontana il pane, facendo riposare la mano sulla pancia prominente. - Cosa vi posso offrire? Siamo amici, l’avete detto voi - li accoglie passando il dorso della mano sulla bocca incorniciata nella barba. - Per ora nulla - continua il bianco parlando a bassa voce e tenen- do d’occhio ogni movimento del greco, mentre l’altro, rimanendo in silenzio, guarda intorno per avere una continua panoramica

dell’ambiente. - Sappiamo che sei entrato illegalmente nel paese. Ti sei sottratto alle dichiarazioni e ai regolari verbali alle autorità dopo l’affondamento dell’Onassis Quinto. Ti potremmo arrestare. - - Mi hanno sequestrato. I paramilitari e i guerriglieri - tenta una prima difesa cercando di stare calmo. - Gente che va al sodo. - - Abbiamo prove che sei qui per un traffico di cocaina. Ti abbia- mo fotografato a Bogotà e registrato le tue chiamate a Panama - elenca sicuro l’agente. - Se ti portiamo con noi, passerai un lungo pezzo al fresco, salvo che i giudici non decidano di consegnarti allo stato dello zio Sam. - - Sono greco. - - Del tuo passaporto non importerà a nessuno. Sei in un vaso da notte e immagina di che. - Pelekanakis guarda l’orologio. Tra un’ora e mezzo avrà la riunione con le sue conoscenze. La DEA gli propone un affare. Non lo pren- dono per condurlo in prigione. Se accetta di collaborare, si garantirà l’incolumità. Dovrà solo restare lontano da don Alvaro. - Che cosa volete sapere e che garanzie mi date? - - Uscirai dal paese con la protezione. Completerai quanto ti hanno ordinato e ci dirai quello che sai. - Pelekanakis riflette alcuni secondi. - Intuiranno che ho cantato. - - No, perché ti metteremo alcune palle in corpo, senza finirti. - Il greco lascia penzolare la mandibola bassa e guarda i due agenti. Non hanno conosciuto i rispettivi padri ed hanno ereditato la sifilide che gli ha spostato il cervello. - State scherzando? - - Credi a me, Pelekanakis, è l’unico modo di salvarti. Oggi sei for- tunato. Domani, chissà. - - Volete bucarmi e sarei fortunato? - Il greco è pallido sotto la barba. I due, venuti a placcarlo, non pos- sono vedere il colorito. Le probabilità di uscire senza arresto sono nulle. Acciufferanno Rudy, Boccaccio e Cecilia. Si era scordato di questa. Varrà la pena di uno sparo a bruciapelo? - Con che mi sparerete? -

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- Con una calibro sette e un tiro indiretto. Non morirai. L’abbiamo già fatto con persone meno grasse. Non ti centro la femo- rale e dovresti superare il momento critico. - - E se mi cogli l’arteria? - - Ci sarà l’ambulanza. - Pelekanakis ha navigato a lungo. In un mare tempestoso le onde vanno prese di faccia. Ma se qualcuna giunge di lato, imprevista, si dovrà sperare che non inclini troppo la nave. Allargando i braccioni, accetta di farsi impallinare senza condizioni.

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Clara anticipa l’uscita dal museo. Apre la borsetta e prende la mati- ta per rifare il trucco intorno agli occhi. Col rossetto rende evidenti le labbra. È pentita di essere stata scortese con Ji Pi. I rimproveri non sono per lui. Il viscido personaggio è il dottor Lobo. Vuole andare a porgli domande; scoprire quanto sia egoista. Desidera che le spieghi perché i loro cognomi sono diversi: il suo è Love. Giunta alla Calle 22, sfiora il campanello di lato al portone di le- gno lavorato a bugna. Gli occhi di Pedro indagano dallo spioncino ritagliato in un battente sul profilo della giovane che non ha mai ve- duto. - Il dottore mi può ricevere? - domanda passando la soglia. - Lei è troppo bella perché sia lasciata fuori. - La invita a entrare. - Però non ha appuntamento. - - Sono la moglie di Jean Paul. - - Passi, signora. La accompagno di sopra. - Clara studia la casa. Ode un brano classico provenire da una radio. Pedro, precedendola, continua a brontolare per la musica troppo len- ta e monotona. Verdi, lui non sa chi sia. Adora la rumba. Il piano terra è ampio e arioso. Vi è un patio ombroso con vasi di magnifiche ortensie. Lo scalone che conduce di sopra è di legno luci- do e rossiccio. Vi sono molti quadri alle pareti. Clara si domanda se il padre possa avere conosciuto quell’antica casa. - Da quanto tempo il dottore vive qui? - - Ci è nato, signora. Appartenne alla sua famiglia. - Non finisce di calcolare le date che dalla parete le va incontro un indizio che la scuote nell’intimo: una vecchia foto e una rassomiglian- za spietata con suo padre. Un uomo in piedi, ben vestito, e alle sue spalle un panorama con il santuario della Madre di Monserate che insorge contro il cielo grigio di Bogotà. - Chi è? - chiede a Pedro indicandogli la foto.

- Il padre del dottore. Altra epoca. Questa foto ha mezzo secolo. Qui si fermano anche gli orologi. - Il pavimento del corridoio è tenuto meno bene, si vedono dei vec- chi graffi. La cera data di recente odora. Una credenza d’appoggio laccata, con decori dorati, impegna un lato del passaggio. Vi sono due lumi a petrolio, modificati per la corrente elettrica, con le campane di vetro. Sulle pareti della biblioteca campeggiano quadri di personaggi per lei sconosciuti. Alcuni sono brutti quanto l’ansia. Pedro si blocca sulla soglia del salone e invita la donna a proseguire verso il balcone, tenendosi sulla sinistra. Lei avverte l’oscillazione delle assi, non vi dà importanza e procede decisa verso il terrazzo. Trova il vecchio con un album gonfio di foto di varia grandezza e aperto sulle gambe. - Salve, dottore - lo saluta con voce roca. - Dorme bene di notte? - Lobo de Miranda solleva lo sguardo acquoso. La vede avanzare senza timore. Ha la stoffa di Salvador. Abbassa il volume della radio. - Sapevo che saresti venuta. Preparavo delle foto. Siediti accanto per ascoltare particolari sul conto di tuo padre. - Clara impone alla veemenza di sfiorire. Occupa la sedia di lato e prende con una mossa di sfida l’album di famiglia che gli porge lo zio. Incontra di nuovo il giovane che ha veduto un minuto prima, mentre saliva con Pedro. Nella cartolina è in posa con un paio d’amici. Il vec- chio aggiunge con voce piatta un breve commento ogni volta che lei gira una pagina cartonata dell’album. - Tuo nonno, all’università. I due studenti di fianco divennero mi- nistro del tesoro e generale dell’esercito. Lui arrivò a giudice. Questa è mia madre, la signora Consuelo de Castilla - indica una donna petto- ruta, in testa il cappellino piumato, costretta in un bustino che sembra gonfiato. - La fecero venire dalla Spagna per sposare Lobo. Matrimo- nio combinato. Nacqui io. Quell’altra donna, alle sue spalle, era la domestica, Adriana Marcela Gomez, tua nonna. Bella creatura, dolce, sensibile, coraggiosa. Se t’interessa, la tua raucedine ti viene da lei. Marcela e tuo nonno si amarono di un amore clandestino che ama- reggiò Consuelo. I sentimenti ricostituenti, per molte persone, contano meno degli interessi deprimenti. Peccato… Questo sono io

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all’età d’otto anni. Prima comunione. - Appare una foto più grande di una cartolina. Una festa campestre con molta gente. - Qui c’è tuo pa- dre quando aveva dieci anni. Eccolo, questo marmocchio in basso. Per tutti era il figlio di Adriana Marcela. Nostro padre lo sostenne fino all’università, finché non si laureò in legge. - - Il motivo del suo cognome diverso? - domanda Clara con un tremito mentre i suoi occhi verdi si dilatano nel ricordo del padre. - Per quale motivo papà non ebbe lo stesso cognome del nonno? - - Sua madre, Adriana Marcela, in seguito al suggerimento di tuo nonno, all’anagrafe registrò il figlio con il cognome di Love. Questo gesto calmò l’acredine di Consuelo. - - Non le pare una farsa cinica? - - Secondo me, fu un fatto da lunatici. Sarebbe bastato riconoscere la supremazia dell’amore che non guarda età, condizione, regole. - Clara intuisce che sta per mettersi in un parlamentare obliquo. So- praggiunge Pedro con il tè freddo per l’ospite e alchermes per il dottore e lei tira un sospiro. Con un lampo, ricorda che anche il geni- tore apprezzava quel liquore. Una volta glielo fece assaggiare. - Dove lo compra? - s’informa con calcolata curiosità. - Da nessuna parte. Lo faccio preparare con la ricetta che, negli e- lementi essenziali, è la stessa che rispettava tuo nonno. - Clara non reprime un desiderio. - Ne posso assaggiare? - Lobo de Miranda ne versa un po’ con gesto docile e le porge il ca- lice. Clara l’accosta al naso. L’odore la pervade. Socchiude gli occhi e le sovviene una scena familiare: il padre che torna una sera, allegro, dalle piantagioni di canna da zucchero, riempie un bicchierino di li- quore. Il profumo di cui è impregnata la sua camicia bianca la colpisce. Lui la stringe e lei registra l’aroma di foresta bagnata che si porta dietro, un odore magico. Poi il liquore le solletica il palato. - L’alchermes è leggero - mormora lei con nuova meraviglia. - Ci unì più la ricetta del liquore che altre tradizioni - confessa Lo- bo de Miranda assaporando a sua volta.

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- Le tradizioni uniscono quando sono autentiche - sostiene guar- dando il profilo del vecchio. - L’educazione paeces di tua madre è quella dell’amore. Tuo nonno approvò la scelta di tuo padre. Era coerente e non so spiegarti per quale motivo non dichiarò di avere un secondo figlio fuori del matri- monio, con Adriana Marcela. Non posso, comunque, giudicarlo. Non lo fece neppure tuo padre. Con una semplicità geniale, lui si eclissò dal promontorio e si sposò con Xaipa. Una buona scelta. - - Mia madre glielo diceva e lui si divertiva rispondendo che lei gli aveva fatto un incantesimo, alla maniera dei paeces. - - Le fatture non funzionano, o i matrimoni non crollerebbero. Tu sei una lottatrice. Non saresti qui pronta a sbranarmi. Prima di mori- re, dopo il matrimonio dei tuoi genitori, tuo nonno mi fece promettere di non dimenticare Salvador. Ho seguito le vicende della nostra famiglia. La sua scomparsa mi addolorò. Ho spiato e ti ho vi- sto crescere, con la stessa volontà di andare innanzi, mossa dalla curiosità. Poi andasti in Russia e ti separasti da Jean Paul. Vi ha fatto bene. Siete maturati. Adesso vi capite. - - Mi ha spiato? - domanda lei incredula. - Informatori - ridacchia il dottore staccando con delicatezza una foto dall’album. - Questa foto è di tua nonna. Dovrai prenderla. - Clara studia i tratti di Adriana Marcela. Gli occhi della nonna paiono luminosi. Sente che sta per commuoversi. - La ringrazio - dice semplicemente. - Io e Salvador avemmo sporadici incontri. Il giorno che più a lungo c’incontrammo, fu dopo che tuo nonno rimase vedovo. In quell’occasione ci affidò gli anelli. Li ottenne facendo separare una parure di orecchini. Approfittando della visita di Salvador, ci condus- se a Cartagena, in gita. Ricordo che salimmo al castello di San Felipe de Barajas, poi al monastero di Santa Cruz, arroccato sopra la collina della Popa. Pregammo la Vergine della Candelaria. Scendemmo a pranzare al Caribe, il migliore hotel della città, circondato da palme e costruito a poca distanza dal mare, assalito dalla sabbia che il vento gli spinge contro. Tuo nonno non convinse Salvador a tornare con lui.

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Ci ordinò di non dimenticarci. Tuo padre era troppo orgoglioso. Non rivelò la mia esistenza a tua madre. Non ti parlò di Adriana Marcela. Aveva cancellato il promontorio e i suoi abitanti. Tentò di dimentica- re le orme genetiche. Non rispose alle mie lettere. Si fece uccidere pur di non cedere a un ricatto. Se mi avesse avvisato… avevo la soluzio- ne. Per Giove. Avevo la soluzione. - Il vecchio tace oscillando la testa. - Cara figliola, le sofferenze di città e quelle dei campi possono essere diverse, poiché alla base vi sono malvagità che prendono forza in ambienti opposti. Nella prima, monta la rabbia cittadina, nella se- conda il risentimento rurale. Le violenze, di qualunque tipo, producono lo stesso affronto: il male. La pace, del resto, avvelena certa gente accecata dalla sete di sangue. L’evoluzione acuta di una malattia è dovuta a batteri, miceti, virus che entrano nel corpo, e le cui tossine causano morbi di varia natura. La violenza è la manifesta- zione di un quadro clinico creato dall’avidità, dalle gelosie, dall’aridità. Non esiste l’antidoto. I mostri vorrebbero distruggere il mondo che produce speranza e altruismo. Salvo che qualche bravo ricercatore non individui, tra le combinazioni possibili, il codice della violenza che si trasmette per via genetica. Avrei fatto sterminare uno a uno i nemici di tuo padre. Ne avevo le capacità e i mezzi. - - E l’amore? - domanda Clara richiudendo l’album delle foto. - Po- trà essere un correttore genetico? - - L’amore - ripete il dottore con fatica - se non è sincero, offende chi dimentica la spontaneità… Ancora un alchermes? - - Un goccino. - Clara comincia a trovare un po’ di agio. La collera le è sbollita. Forse l’alchermes, macerato con la ricetta del nonno, possiede qualità che lei non conosce. Per anni ha nascosto alla madre la curiosità di scoprire la provenienza paterna. La sua immaginazione è inquieta, slegata dal filo che le viene dalle tradizioni familiari che paiono l’unica continuità in un mondo labile, scialbo e proiettato sulle futilità propo- ste da falsi modelli creati per dare stabilità a chi non l’ha. Il dottore le fornisce risposte. Le spiega l’orgoglio della casta di provenienza e il danno che provocò alla famiglia. Con frasi polverose, adatte ai genti-

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luomini giunti dalla Spagna a completare la conquista, le elenca l’ampliamento storico delle disponibilità familiari, delle terre e dei casali. Clara si adatta al modo aristocratico del vecchio e a quell’arte con cui rende importanti le parole semplici. Si fornirà di pazienza ta- gliata su misura, avendo scelto di sopportare il piccato parente inaspettato. Il caso, imprevedibile, è dinanzi a lei. I dubbi si chiarisco- no. Terrà le foto che le ha offerto. Ha assunto particolari che non conosceva ed ha una visione più ampia del motivo che allontanò suo padre dalla costa. Di quanto sarebbe stata diversa la vita dei due fra- telli se si fossero frequentati? Non ne stabilisce la misura. In quel tramonto di vecchiaia, lo zio si umilia per il passato, senza la pretesa di contagiarla ed è un segno di rispetto. Il tempo le darà altre risposte.

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Alle otto di sera il telefono squilla in casa del capo di stato mag- giore. Escudoro non si domanda chi sia. Lo sa. Lascia di ascoltare le notizie in televisione e precede con uno scatto la cameriera per andare a sollevare la cornetta. - Buonasera, presidente - saluta udendo la voce. - Buonasera ammiraglio - inizia l’interlocutore con voce tagliente. - Spero abbia per me le notizie che la radio non dice. - - Due telefonate. I servizi segreti mi hanno confermato che il ra- pimento di Nelsen non è opera di gruppi insorgenti. - - Di chi, dunque? - - Sembrerebbe estorsione. - - Mi auguro che questa volta non esistano commistioni con illeciti interessi. Nell’accidente di un incastro tra il sequestro e occulte attivi- tà del suo aiutante, non voglio essere esposto. - - La terrò distante in ogni modo. Me ne assumo ogni responsabili- tà. I nostri sforzi per la liberazione di Nelsen non andranno oltre un dato punto di convenienza. - - Vorrei il prospetto completo delle attività dell’ammiraglio. - - Lo avrà signore. Entro l’ora di pranzo di domani. - - Ho letto il fascicolo del Caso 416. L’articolo comparso sul gior- nale ne riporta il succo. Insiste sulle inesattezze della commissione dell’epoca. Nelsen aveva gli incarichi contemporanei di controllore per gli aggiotaggi e di membro della commissione disciplinare. - - Un’incompatibilità. Lo capisco, signore. L’ho riletto anch’io. L’impostazione del nostro ministero, all’epoca, era differente. - - Grazie a Dio la stiamo cambiando. - - Comprendo la sua indignazione, signore. Non ci saranno scanda- li. Se necessario attiverò la corte marziale. - - Ammiraglio, la marina riceverà altri tagli. Il progetto di sviluppo del Gatic ve lo scorderete. Chiarisca i nessi tra il sequestro di Nelsen, il Caso Carrera e l’affondamento del cargo Onassis. -

Si salutano. La minaccia dei tagli preoccupa Escudoro. “Possibile che fosse tanto basso il profilo di Nelsen?” Controlla l’ora. Avvisa la consorte che esce con urgenza. Tace lo scopo. La moglie non si cruc- cia. Altre volte si è precipitato alla base navale per motivi imprevisti. L’ufficiale sa che la visita a Rosa lo aiuterà a capire meglio. Nella mattinata, si è presentata nel suo ufficio per le dimissioni. Durante il pomeriggio la sicurezza gli ha fornito gli ultimi movimenti della si- gnorina. È andata in vacanza in un periodo in cui altre segretarie preferiscono attendere agosto. È in debito con lui e non si opporrà per rivelare quello che sa. La scelse tra molte concorrenti all’impiego presso l’ufficio delle relazioni esterne di Nelsen. Indossa un abito civile e scende nel garage. Mette fuori l’utilitaria che usa per brevi spostamenti; chiude il cancello con il telecomando e parte in direzione del lato orientale della cittadina. In meno di mezz’ora sarà a destinazione. Il ritratto che la stampa dà di Nelsen, non è eloquente. Dopo la pubblicazione sui giornali della citazione in giudizio, ha dovuto leggere i rapporti, le tracce, le testimonianze e il parere della commissione riunita per il Caso 416. Il capitano Jean Paul Carrera si era dimesso, pur senza provvedimenti nei suoi confronti. Ci vede contrasto. L’incompetenza della commissione, secondo il suo modo di vedere, è evidente. Ha riscontrato delle forzature e non si spiega per quale motivo Carrera non abbia fatto ricorso dopo il pare- re di demerito. “Nausea, sicuro, nausea per il sistema. Ai buoni ufficiali succede.” Un ultimo particolare è emerso dalle indagini. Car- rera era al comando del mercantile Karolina, prima che questo finisse nel fango oltre il tagliamare del porto fluviale. Si era sbarcato a Puerto Colombia e aveva inviato una segnalazione sul disservizio imposto dal cattivo impiego delle draghe all’imbocco del Rio Maddalena. Al ri- guardo, ricorda che Nelsen sbuffò dicendo che Carrera non smetteva di essere rompiballe. Fosse questa l’origine della ripicca per quella richiesta di comparizione in corte? Vecchi rancori? Dinanzi alla palaz- zina dove abita la segretaria parcheggia l’auto. Si annuncia al citofono e sale in ascensore.

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- Papito - lo accoglie Rosa regalandogli un bacino - non ti aspetta- vo. - Chiude la porta e lo fa accomodare in salotto. - Stavo per andare a letto. Cosa ti offro? - - Qualcosa di secco, cara, va bene un gin - le chiede sprofondando in una poltrona. - Non sapevo dell’ultima vacanza. - - Ero sfibrata. - Gli mette innanzi il gin gelato. - Nelsen mi dava troppo lavoro. Sono esaurita. - - Per questo dai le dimissioni? - le domanda fissandola da sopra il bordo del bicchiere. - Ho adocchiato un vaccaio con diecimila vacche - nicchia lei. - Pene d’amore? - - Mi fugge l’età della pelle tesa e non voglio rimanere zitella, con le rughe e infelice. - - Auguri col cowboy. Dove sei andata in vacanza? - - A Punta Rocca. Ho passato belle giornate a nuotare - dice men- tre siede di fronte all’ospite, con le ginocchia messe a una distanza calcolata con un’esattezza che permette al dirimpettaio di scoprire quanto lei vuole, ossia non oltre la giarrettiera rossa che stringe la gamba sinistra. - Quanto è importante Nelsen per il dipartimento na- vale? - Scherza ridendo, con una scrollata ai capelli dorati. - Adesso che l’hanno sequestrato potrebbe anche decadere. - L’uomo considera le reazioni di Rosa. Fingerà i sentimenti, forse an- che l’attenzione che dedica nel suo letto all’altro ammiraglio (un grado in meno) la cui fama di Casanova striscia nella base. - Non siamo di- sposti a pagare. Se la sbrighi da solo - aggiunge ironico ricordando il parere negativo di sua moglie e delle amiche sulla virilità di Nelsen. - Non ci posso credere! - esclama Rosa e la meraviglia pare spon- tanea. - Quando vi siete accorti che valeva una cicca? - - Da qualche tempo. Ha silurato ottimi ufficiali e abbiamo comin- ciato a domandarci perché. Ragioni poco chiare. Non ti sei sentita con lui durante la tua ultima vacanza? - - No - mente. - Volevo scaricarmi per bene. - - Gli avevi detto delle tue intenzioni di dare le dimissioni? -

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- Si sarebbe risentito. Le ho scritte di getto questa mattina. La mia assenza non creerà pianti nel dipartimento. Domani libererò la scri- vania dai miei oggetti. - - Un marito ti starebbe bene. Scusa l’indiscrezione - domanda E- scudoro allargando le braccia - davvero non t’importa di Nelsen? - - Nulla. - L’ufficiale legge un lampo di soddisfazione nei suoi occhi. - Non credevo che ti fosse indifferente. - - Un egoista eccentrico. Questa parola è un complimento. - - Dicevi che era un buon direttore. Lo seguivi anche nelle missioni fuori sede. - - Una segretaria si stanca. - - Non pensi che la sparizione potrebbe averla organizzata una di quelle teste mozzate dalla sua inflessibilità? - Rosa accavalla le gambe. - A chi ti riferisci? - - Alla causa in cui l’hanno tirato. Tu eri presente quando gli hanno consegnato la convocazione. Hai conosciuto Carrera? - - Papito, il capitano Jean Paul Carrera non farebbe mai un seque- stro. Lui è uno che il nemico lo tira allo scoperto. - - Tu che ne sai? - insiste l’ufficiale terminando il Martini. - Fu convocato da Nelsen e non notai rabbia verso di lui. - - Di cosa parlarono? - - Nelsen gli offrì un imbarco da civile, ben pagato. Lui rifiutò. - L’ammiraglio resta a pensare. Per quale motivo Nelsen avrebbe chiesto a Carrera di assumere il comando di una nave? Conosceva bene quel capitano. Aveva rinunciato alla marina. Porge il bicchiere a Rosa per una dose supplementare. La donna decide di dare una spal- lata al suo ex capo e precipitarlo dalla coffa. Ciò le darà possibilità di mettere con sicurezza le mani sul denaro che le affidò e che ha già investito in diverse posizioni. Rinnova il ghiaccio nel cestello. - Ci sono altri segreti su Chivas? - fa Escudoro accettando due cu- bi di ghiaccio.

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- L’ha ricattato. Nelsen lo fece promuovere e Chivas dovette ri- cambiare il favore. Consegnò una borsa al capitano greco. - Escudoro la fissa stupefatto; non crede alle sue orecchie. La donna lo precede di due misure. - Che cosa conteneva la borsa? - - Papito, è probabile che Nelsen usasse le tue barchette per traffi- co - sbotta lei aggiustando le ginocchia con un angolo divaricato. - Rosa, non hai slip - mormora l’ammiraglio con lo stesso orgoglio di Colombo quando vide terra. - Stavo per andare a letto. Vieni a cuccia o torni al tuo focolare? - L’alto ufficiale ha la rivelazione. Nelsen non merita l’aiuto della flotta. Lo manderà a fondo, sequestrato per politica o per ricatto po- co, c’entra. Non ha altre domande per Rosa. - Papito, lascia che Nelsen vada al diavolo. Ti farò un massaggio. Ti caricherò d’energia con la posizione del loto esotico. - - Preziosa, rispondi a una domanda tattica - dice seguendola. - Nelsen è così fornito? - - Domanda a tua moglie. In diverse occasioni, quando eri con la flotta a giocare alla guerra, lontano dalla base navale, è uscita con lui. -

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Leonid verifica la posizione sulla carta di navigazione aerea ripie- gata sulla sua gamba. È in rotta per arrivare al campo di Raul. Controlla la strumentazione di volo. L’orizzonte è libero in parte. Grossi cumuli sono in formazione e salgono rapidi espandendosi in forme torreggianti. Con quella forza, in breve, copriranno il cielo. Sotto l’Ave Maria dalla coda gialla e muso rosso, la distesa verde scor- re uguale e ingannevole, senza mostrare alcun riferimento per orientarsi. Dall’alto, impensati affluenti luccicano azzurri o neri se- condo le acque che ricevono dalle foreste laterali. Librato sui tremila metri, il pilota scorge imbarcazioni, forse di contrabbandieri, che di- scendono la corrente verso i punti di scambio della cocaina. Evitano di sparargli contro: o è troppo alto, o non vogliono rumori che de- nuncino la loro presenza. Gli sovviene la faccia emaciata di King Kris. Il suo colore, con la febbre gialla, non è differente da quello degli indios di Takenda. Riceve una sollecitazione mentale che lo fa sorridere: per la prima volta prova una sardonica pietà per Kris e per Vassili, ambedue nel mirino dell’Organizzazione. L’orologio elettrico incassato nel cruscotto, di lato all’indicatore di velocità verticale, se- gna le undici meno dieci. Le parole di don Alvaro gli strisciano in testa. “Alle undici atterrate; alle undici e trenta decollate.” Rimpiange il suo cronometro di precisione, barattato con l’indio che prestò soc- corso a Kris. I rami delle alte palme e dei fronzuti guarumi sono protesi al cielo, meno flessibili degli alberi della gomma. Lui starà at- tento a non spanciare sulle cime più alte quando sarà allineato per atterrare. Il bip del GPS lo avverte del punto raggiunto. Inclina il bordo dell’ala e permette al De Havilland di perdere quota. Ha la po- sizione esatta della pista. Livella l’ala e si allinea. Vede la striscia di terra: è corta. Sarà un atterraggio duro. Imprimerà alla barra una ri- chiamata finale. Toglie motore e tira la cloche impennando il muso per alcuni istanti, necessari per frenare l’Ave Maria. Perde metri e ca- de di colpo sulla pista iniziando a frenare. Si ferma e sbuffa di

sollievo. Alza gli occhiali sulla fronte e si guarda intorno. Scorge le canne dei mitragliatori spuntare dalla vegetazione. Per spianare la fo- resta hanno abbattuto decine di alberi. Ammassati da un lato, secernono ancora resina e un succo grumoso che fugge da ferite pu- tride. A malapena riconosce sotto le reti di mimetizzazione i covi dei guerriglieri ribelli. Si trova nella bocca del coccodrillo. Quattro uomini in mimetica escono allo scoperto e avanzano tenendo le armi puntate. Spegne il motore. Sono dotati di fucili sovietici. Hanno un buon e- quipaggiamento. Pistole e bombe a mano assicurate ai cinturoni. Il moscovita allunga la mano sull’interruttore del magnete e lo sposta in posizione di riposo. Il vorticare d’elica si placa e un silenzio solido avvolge l’Ave Maria. Leonid alza la mano alla testa e toglie i tappi protettivi dalle orecchie. Ora l’udito gli serve per intero. Il più alto, un nero magro, gli fa cenno di scendere. Lui manda fuori una gamba, scavalca il modano d’alluminio che difende il seggiolino e salta in ter- ra tenendo in mano la borsa. Lo colpisce l’odore del gasolio. Lo usano per lavare la cocaina ed è segno che c’è un laboratorio. - Sono venuto per Raul - dice quando il nero lo tasta per control- lare che non abbia armi sotto il giubbotto foderato. - Vieni con noi - gli ingiunge l’altro sospingendolo. Lo scortano alla capanna. Lui muove gli occhi da un lato all’altro. Scorge un’antenna montata sul colmo del tetto. Il nero gli leva la bor- sa. Entrano nella baracca tinta di verde. Le sue pupille si adattano alla debole luce. Individua un uomo seduto a un tavolo rudimentale. Ce n’è un altro piazzato alle sue spalle con la pistola impugnata. Il russo non immagina che Raul ha trascorso una pessima notte: il folletto non l’ha lasciato un minuto, ballandogli sul petto e lasciandolo senza fiato. Ha dovuto ripetere la dose di cocaina. Sotto l’effetto del narco- tico, scambia per viventi le figure che il cervello toccato dagli alcaloidi forma tra un’allucinazione e la successiva. - Aprila - gli impone Raul con la voce impastata indicando la borsa gonfia. Il russo esegue e allinea le mazzette sul sudicio ripiano ruvido. - Cinquecentomila - conferma.

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Raul accarezza i mucchi di banconote. - Volevo essere sicuro che non mi esplodeva in faccia. Lo scambio per gli italiani sarà un buon affare. Faccio la parte dell’agente del re- cupero e questi soldi sono la mia ricompensa. - - Del cinquanta per cento? - commenta Leonid sorridendo. - Uguale all’interesse bancario che si applica in questa nazione di marci capitalisti. Sono disonesto? - domanda Raul adocchiando la penna che sporge dal taschino del pilota. - La penna è d’oro? - - Un regalo del mio capo. - - Io regalo acquavite. Che cosa posso fare se gli affari mi vanno male? - recrimina Raul lasciando accesa la pila col fascio luminoso rivolto al soffitto. - I miei si accontentano. - Adesso il russo distingue ogni contorno. Le narici sono dilatate. Il mento è squadrato. Gli occhi sono a palla, con una strana freddezza. La faccia manca d’espressione. Al minimo gesto, non esiterebbe a scaricargli il caricatore in petto. Vi sono casse di liquore addossate da un lato. Altre, una ventina, con scritto sopra: permanganato di potas- sio. Sarà un precursore chimico per la reazione della coca. Un paio di mitra sono appesi e uno poggiato sulle gambe di Raul. Delle cartuc- ciere coprono una radio da campo. Raul ordina all’accompagnatore di lasciarli soli e si riempie la bocca con un sigaro. - Dirai al boss che sarò disponibile per una collaborazione. - - Se mi fornisci altri particolari, potrò essere convincente - rispon- de Leonid restando in piedi e provando un senso d’angustia. - Intendo fare affari con lui. Comprerò la sua merce all’ingrosso. - - Entri in circuito? - - Sei perspicace - rimanda Raul accendendo il sigaro. - Sarebbe da pareri sulle zone. Di libere non ce ne sono. - Il moscovita prevede che quello non è destinato a ereditare il re- gno dei cieli. La frase la udì un giorno da un pope, una delle poche volte che Clara - a Dresda per le ricerche sui codici maya - lo convin- se a seguirla nella cattedrale ortodossa. Il detto gli piacque e lo tenne in un recesso del cervello.

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- Entro senza bussare dove mi pare - confida il guerrigliero cac- ciando fumo azzurrino che si staglia nel cono di luce. - Non darò fastidio all’italiano di Panama. Mi piace la convivenza pacifica. - - Non credo avrete dissapori. - Leonid vorrebbe già essere riparti- to da quel posto. L’area puzza di sporco. - Dovresti avvisare la tua informatrice che qui abbiamo terminato e che lei completi lo scambio con i nostri uomini che sono alla costa in attesa della cocaina. - - Giusto - acconsente Raul alzandosi senza produrre rumore, quasi non avesse né gambe né scarpe. Si avvicina alla radio, sposta le cartucce, la accende, ruota un paio di pomelli, sintonizza e amplifica agendo su una manopola. - Gamma Tre chiama Bi Uno - lancia laconico nell’etere. - Avanti Gamma Tre - acconsente Bi Uno dopo alcuni secondi. - Riportate adesso a Ci Quattro di completare secondo accordi. - - Ricevuto. - Raul spegne la radio e mostra il volto butterato al russo. - Sono di parola. I vostri potranno ritirare le scorte. - - Non ne dubito - risponde Leonid alzando una mano al cielo e quasi si pente di averlo fatto nell’attimo che ode un rumore metallico alle spalle. C’è un quarto uomo nascosto nella baracca comando e lui non l’ha ancora veduto. - Ci sono brutte nuvole. Non vorrei che un fulmine mi tirasse di sotto. L’aereo non è adatto al maltempo. - - Sono giorni che fa così - dice il guerrigliero. - Albeggia bene e poi verso quest’ora piscia a secchi. - Fa segno alla scorta di mettere via la pistola. I due escono assieme. Leonid indurisce l’animo salendo sull’Ave Maria. - Sarà difficile fare quota. L’ala è di tela. - - Ti presterei un ombrello se ne fossi sprovvisto - e per la prima volta Raul atteggia la smorfia del viso a un tentativo di distensione. Si meraviglia della sua battuta. Il folletto, durante la notte, gli ha suggeri- to che se davvero andrà a vivere in città userà maniere sociali. - Ti ringrazio lo stesso. - - La tua penna mi piace. -

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Leonid prova il prurito di un brivido. Teme che Raul possa cam- biare d’umore. Mette la mano al taschino e tira la penna porgendola al criminale che lo fissa con una smorfia di cupa soddisfazione. - Ti servirà per firmare assegni - dice Leonid. - Sei geniale. - - Lo diceva mio padre. Voleva che divenissi scienziato - risponde il russo sedendo e allacciando la cintura. Allunga la mano al magnete e le dita sfiorano gli interruttori. Il motore riparte. Manovra per allineare l’aereo, solleva la guardiola di un nuovo switch e mette in funzione l’apparato emissore di localizza- zione. Da quest’artefatto trasmettitore dipenderà il successo della sua incombenza finale. Spinge l’elica alla trazione. Aggiusta le lenti sul naso, alza il braccio per salutare il guerrigliero, manda una rapida oc- chiata alla nuvolaglia per decidere da dove inizierà a fare circuito, rilascia i freni e lancia il De Havilland. Si solleva. Inclina a sinistra per iniziare una serie di strette volute sul campo: gli permetteranno di guadagnare la quota di cui ha bisogno per passare sulle nuvole. Il nuovo apparato, intanto, trasmette la posizione. Quel segnale guiderà gli aerei affumicatori sull’esatta verticale di Raul. Scruta l’orologio: sono le undici e trenta. Tempi rispettati al secondo. L’aereo con un nuovo giro è sugli ottocento piedi. Completa un terzo circolo ed è sui millecento. Ora millecinquecento. Tutto in ordine. Dalle nuvole sbucano tre biplani. Sfrecciano più bassi, in direzione opposta. Mettono i musi in giù e precipitano sulla capanna di Raul da punti d’attacco diversi. La mortale fumigazione ha inizio. I veli gasso- si e bianchi si abbassano e si stendono sulle capanne e sulla foresta. I gas nervini agiranno in pochi minuti. Per il guerrigliero è un giorno fortunato. Muore gassato. Il russo livella l’aereo e punta un varco nei nuvoloni. Conosce l’azione dell’iprite e del serin liberati dalla reazione dell’etilene e del cloruro di zolfo. I falchi della fumigazione aerea agi- scono nei tempi previsti. Atterreranno e avranno le maschere. Riprenderanno i cinquecentomila dollari che lui ha da poco consegna- to e che saranno ancora sul tavolaccio nella baracca a strisce verdi e

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nere. Don Alvaro ha una collera vendicativa. Distribuire il male sotto forma di cocaina è la primaria fissazione.

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Agli squilli del cellulare don Alvaro (si è appena appisolato) sob- balza. La vestaglia è sgualcita. Risponde col fiato corto, guardando il Cartier d’oro al polso. Le undici e cinquanta. L’occhio di metallo ap- peso alla parete (sguardo inesorabile dello scultore creatore) lancia uno scintillio quando lui spalanca la tenda. Va sul terrazzo, esponen- dosi con sofferenza alla luce a piombo del mezzogiorno. - Chi parla? - - Pasquale. - - Per chiamarmi a quest’ora, avrai buoni motivi. - - Il russo ha consegnato i soldi. A Punta Rocca ci danno la merce entro poco. Boccaccio ha pronto il gommone con i sommozzatori - dice il tirapiedi lasciando una lunga pausa per sincerarsi che il capo lo stia sentendo. - Questa notte scenderanno a recuperare i pacchi. - - Una cosa elegante riuscirete a farla? - Il boss fende l’aria con la mano. L’innata malvagia ironia lo costringe a rispondere con teatrali- tà. - Sento che hai una voce da monaco castrato. Ti sei fatto di cocaina? Dovete essere lucidi, non esaltati. - L’umore macabro gli serve per alzare il livello di servilismo che capta nei suoi impiegati, privi di scorte di carattere. - Avete preparato il necessario per rispedi- re tutto al giusto destinatario? - - C’è un barcone che va a Cuba con la vernice, nella nottata. - Il boss infila il telefonino nella vestaglia. Si comprime la fronte con pollice e indice della mano sinistra. “Sono circondato da imbecil- li.” Accende una sigaretta alla menta con l’accendino Cartier, d’oro anche questo. Rimane a guardare la città frenetica sotto il grattacielo. Butta mezza sigaretta nella tazza del bagno e mentre si spoglia per entrare nella doccia, calcola che la squadra della fumigazione aerea ha terminato il lavoro sporco e che il pilota capo squadriglia lo chiamerà in breve. Apre il getto e rimane qualche istante a occhi chiusi, per sopprimere il bruciore allo stomaco: quel sordo fastidio si sta tra- sformando in una frenesia degenerata che lo rende irascibile di fronte

ai guardaspalle. Rifà dei conti: Vassili ha subito una notevole perdita. Peggiore della sua. Non doveva affidare i dollari all’americano. Kris è stato un fallimento. Avrebbe dovuto mandare i soldi da Wall Street; usare le azioni a soffietto che in un giorno salgono o scendono dieci volte e servono per lavare denaro. Esce dalla doccia e si asciuga. Tira una pompata di aerosol. Si serve una dose di amaro. Il telefono squilla ancora. Lo chiama il pilota della fumigazione. - Il recupero è avvenuto - lo informa il capo squadriglia. - Le ri- mando il denaro su Ginevra. - Don Alvaro si felicita con l’interlocutore. - Sapevo della tua professionalità. Trattieni il cinque per cento. - - Ho trovato nella tasca di un morto una penna d’oro Cartier. - - Mandala, vedrò di chiarire i particolari dello smarrimento. - Quando l’italo-panamense depone il cellulare, giudica che il guer- rigliero è stato un ingordo di categoria superiore. Sarà lui a restituire la penna a Leonid. Si accorge che la bomboletta dell’aerosol si è scari- cata e manda uno dei suoi a comprarne una. Non ha ancora provato il rimedio indio procuratogli dal pilota. Olio di tonina, dal fiume della selva e filtrato chissà con quali attrezzi. Quello è il momento per te- starne gli effetti e le conseguenze. Del pilota si può fidare. Non ha l’aria del vigliacco. Stappa la boccetta e ingoia un sorso. Ha un osceno sapore di merluzzo. “Mi avrà preso in giro?” Attenderà per valutarne gli effetti. Il pensiero dell’Italia si fa più insistente: andrà a respirare l’aria delle montagne, nell’Appennino centrale. Il paese del padre non è poi alla fine del pianeta. Non ricorda il nome. Accende il computer portatile e cerca la mappa dell’Italia. La penisola pare uno stivale, cor- tissimo se paragonato all’America meridionale. Scorre con la mano l’. Legge i nomi delle città e dei paesi lungo la catena mon- tuosa. Borgorose, Torano, Duchessa, Spedino, Castelmenardo, Campo Felice, Villerose. Nulla però che gli ricordi il nome del paese paterno. “Sono rimbambito.” Niente che lo illumini. Con un moto di stizza si distende sul letto slacciando la vestaglia.

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La notte da sequestrato non gli ha portato conforto. Nelsen è av- vilito. Il braccio gli duole. Il sonno non ha avuto continuità e lui resta sdraiato sulla panca, con l’orecchio vigile. Non sa stabilire l’ora per- ché i suoi carcerieri gli hanno sfilato il Rolex. L’hanno interrogato ma non ha rivelato nulla sul destino dei dollari. Non sono apparsi interlo- cutori per porre la condizione della sua libertà sul tratto di un riscatto. Un barlume filtra dalle fessure del rustico accoppiamento di tavole e pali che chiudono la prigione. Percepisce la linfa corrotta dalla paura che gli scorre in corpo. I sequestratori gli hanno assegnato, la sera avanti, un litro d’acqua e una scatola di carne. L’acqua ha sapore di fango e non l’ha bevuta. L’avranno attinta a un pozzo poco profondo e non usato. Teme le amebe. Rosa, Gonzales, Vassili, Kris, Chivas: uno di essi può avere tradito. È preoccupato. Riconosce un pesante senso di colpa farsi avanti nel suo animo. Anni prima, avrebbe dovu- to ascoltare il consiglio di uno psicologo militare e farsi curare l’aberrante pervicacia con cui metteva in opera l’accumulazione osses- siva. La diagnosi non gli piacque e il tenente medico si trovò trasferito all’isola di Rosario. Lui ingerì fluvoxamina per correggere il compor- tamento, ma non servì per allentare l’impulso ad accumulare. “Per questo sono fregato.” Rimugina sull’incarico che ha assegnato a Rosa. Potrebbe avere dissimulato la scaltrezza. Alla vista di tanto denaro il cervellino acuto potrebbe averle consigliato la maniera per restarne padrona. Prova voglia di strozzarla. Poi se ne pente. “No, non è ope- ra di Rosa. Non arriverebbe a tanto.” Fissa le scarpe sporche: lui che le faceva lucidare a un brillo ossessivo. Non ha appetito; prova disa- gio per le funzioni fisiologiche da stivare nella bacinella di plastica a disposizione. Ogni dodici ore il carceriere ordina di spingerla fuori della porta e gliela riconsegna dopo che l’ha svuotata nell’erba alta che li circonda. Passa un altro giorno, poi una nuova notte. All’alba, da una fessu- ra tra le tavole che formano le pareti - gli pare di stare in una bara -

entra una lama di chiarore. Guarda con attenzione le lamiere sulla testa, le travi, le pareti che lo circondano. Le assi piallate, di un colore uniforme, sono inchiodate sulle traverse e sui montanti, dei grossi pali di legno duro da cui è difficile espellere qualsiasi chiodo infissovi. Una tavola laterale ha un colore più scuro delle altre. La base è pianta- ta nel terreno, uguale alle altre, e sembra più gonfia. La tocca e il legno cede in alcuni punti. Le termiti lo stanno divorando. Potrebbe scavarlo usando la scatoletta della carne. Inizia il lavoro. Il foro si al- larga, truciolo dopo scheggia. Ci lavora durante il giorno e tutta la notte, coperto dal canto ossessivo dei grilli e dal potente gracidio delle migliaia di rane che stanno intorno. Usa la disperazione per staccare le ultime schegge. Il varco è sufficiente per permettergli di strisciare all’esterno. Ha sporcato di terra i pantaloni della sua uniforme ed ha strappato i gradi dorati alla camicia, per essere meno riconoscibile. Il carceriere non esiterebbe a sparargli. Con orgasmo trova un’inutile durezza nelle membra. Desidera acqua fresca. Ha la lingua secca e la gola gli arde. Si trova in una situazione di tormentosa tensione, dove il dubbio prevarica in larga misura il resto. I primi pigolii cominciano a farsi udire. Albeggerà presto. Sgomita per alcuni metri nella terra umida, poi nella macchia d’erba alta. Nel canneto c’è più copertura e gli sarà possibile camminare spedito. Avanza concentrandosi sui pie- di, attento a dove li posa e più che sollevarli li manda avanti sospingendoli sul terreno e tastando eventuali ostacoli che possano tradirlo con un rumore. Inizia a scorgere dei luccichii: il fiume scorre a meno di un chilometro. Prende ad andare veloce, cercando di non inciampare. Gli giunge il suono rassicurante dell’acqua. In breve in- contra la sponda e la tentazione è di cercare un nascondiglio. Riprende fiato. Richiama la razionalità che gli rimane e decide di con- tinuare fino a che avrà forza, seguendo la sponda nel senso della corrente. Il velo del fiume è marezzato dal vento che entra da oriente. Forse è in salvo. Non appena scorgerà una barca d’indios, li chiamerà per essere soccorso. Avranno una predisposizione non ostile. Si mette al passo, affaticato, deciso a non farsi riacciuffare. Nessuno, in un’identica situazione, potrebbe essere al sicuro. Vorrebbe intorno a

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lui la gente di tutti i giorni e confondersi in essa, mimetizzato e pro- tetto da tanti corpi. Lo meraviglia il potente desiderio di essere circondato da persone anonime. Di solito le evitava. Fissa il centro del fiume. Si delinea una massa notevole. Si rasserena quando ricono- sce una draga ancorata. Sta ferma sulla catena tesa, contrastando la corrente. Decide di entrare nelle acque torbide, di nuotare verso il centro e di farsi trascinare per avvicinarsi alla draga. Lascia la riva e inizia a nuotare avvertendo un brivido per il freddo contatto. A un terzo dalla distanza si rende conto che le forze non sono cariche e che la corrente lo sta trascinando più veloce di quanto calcolato. Si affer- rerà a qualunque cosa sporga dalla draga. Raccoglie il fiato: per due volte i mulinelli lo tirano sotto e rischia di soffocare. Nuoterà o sarà niente. Ora è l’istinto che lo induce a sbracciare nel liquido. Sbatte contro la catena dell’ancora e infila il braccio in una delle maglie. Or- mai è esausto e non ha nessuna energia, neppure per chiamare aiuto. Appoggia un piede sopra una maglia sommersa e tenta di risalire la catena. Il grosso tronco coperto di funghi galleggia, giunge veloce messo di traverso. Ondeggia da un estremo all’altro e agita i rami an- cora coperti di foglie e fiori gialli. Lui non può schivarlo. Prova un terrore che gli rende tutta l’infelicità del mondo. Il tronco lo colpisce alla schiena con la pesantezza di un maglio, lo schiaccia contro la ca- tena. Immagina - nella breve agonia - la faccia di Jean Paul Carrera: non si troveranno all’inferno; quello andrà da un’altra parte. I rami si piegano facendo ruotare l’albero che va verso la foce. Lui perde la facoltà del respiro, un polmone sfondato e la colonna vertebrale rotta. Resta intrappolato nella catena, appeso per un braccio alla maglia di ferro. Un ultimo barlume di coscienza gli suggerisce che male non ne farà oltre. Dalla bocca gli scorre un rivolo di sangue che si dissolve con gli spruzzi. Nell’istante in cui incontra la morte, è trapassato dal fiume. Lo sguardo da cane ferito, fisso al cielo sigillato in un muro di nubi gassose, si riempie di un mistero non terrestre.

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Nel cielo di Punta Rocca si sta presentando un fenomeno celeste che capita molto di rado: un allineamento di pianeti. Innanzi al pro- montorio la notte si dispiega con una bellezza inverosimile: un lucente Marte congiunge, in prospettiva, l’eccentricità della sua orbita con quella di Saturno. Dopo la mezzanotte, l’apparizione della Luna rende meno facile la visione del raduno planetario. Di quest’ultima non avrebbe bisogno Pelekanakis per le operazioni di recupero. Col buio assoluto avrebbe maggiore tranquillità. I due sub hanno indivi- duato il relitto del motoscafo di Rudy e s’immergono dal grosso gommone nello specchio d’acqua lapidata dalle code dei pesci attratti dalla luce delle torce. Pelekanakis li aiuta. Il lieve battito delle onde contro i tubolari pare un affanno liquido, ritmico e costante. I sub illuminano con le torce lo scafo del Chris Kraft sommerso. Spostano i pannelli per scoprire le casse impermeabilizzate. Cominciano ad ada- giarle in una rete. Sott’acqua pesano poco. Si muovono in un balletto acquatico insieme a un polpo attratto dalla luce artificiale. Segnalano, con strattoni alla corda, di alare la cima cui è legata la rete. Il greco, sporgendosi dal gommone, issa e tira fuori le casse, una a una, ada- giandole sul fondo del capiente natante. Quelli della DEA non gli hanno dato scelta. Collaborerà. Ha caricato l’intera responsabilità del- la gestione su Boccaccio. Gli hanno creduto. Don Alvaro lo ricompenserà. Quella stessa notte, Cecilia aggancia Rudy con circospezione. Se- duta al tavolo del bar, gli dice di tornare alla Luna Rossa, perché la sua opera al vivaio non serve più. Essa ignora che il guerrigliero, a oltre trecento chilometri di distanza, è stato soppresso con l’aiuto del mortale gas cosparso dall’aria dai falchi pagati da don Alvaro. - Torni dalle tue vacche - gli dice lasciando sul bordo della coppa l’impressione di rossetto. - A quest’ora saranno dimagrite - rimanda Rudy mentre getta una spenta occhiata nell’ampia scollatura. - Tu che farai? -

- Tornerò a gestire il bordello. Questa è l’ultima notte al promon- torio. Raul ha i suoi soldi, gli italiani di Panama la loro merce. A te saranno dimagrite le bestie e a me saranno ingrassate le puttane. Al paese non ci sono svaghi. Laggiù la vita è un piatto vuoto senza il sesso. La prostituzione rende bene. - Ci credo - dice lui ironico. - Dopo cena potremmo andarcene in un localino - la invita accendendo il tono della voce. Cecilia raccoglie il significato. L’idea la eccita. L’uomo fa segno al cameriere di avvicinarsi. Ordina quattro chele di aragoste e giura che sarà l’ultima volta che ne assaggerà. Adocchia le bistecche con osso, arrostite e alte tre dita, servite a due tipi, un nero e un bianco, seduti a un tavolo accanto. I signori hanno saputo scegliere. Boccaccio ha controllato l’ora: le ventuno. Seduto sul molo, con la canna e vestito da pescatore, non cessa un istante di sorvegliare l’intorno. Attende un segnale telefonico e il ritorno di Pelekanakis e dei suoi due sommozzatori. I tre, in quel momento, si trovano su un gommone nella zona dei vivai, dove affondò il Chris Kraft di Rudy e zeppo di pacchi di cocaina. Appare un’ombra. Boccaccio s’irrigidisce. Tasta la fondina sotto l’ascella. Un uomo cammina sulla banchina con passi lenti. Zoppica. Il ginocchio pare inceppato. Ha in mano una canna telescopica e un cestino a tracolla. Boccaccio impreca a bocca serrata. Non ci voleva. - Abboccano a fondo o a mezz’acqua? - domanda il Mono con in- teresse ben esposto quando lo raggiunge. Boccaccio vorrebbe mandarlo al diavolo; si trattiene e risponde vago: - Sono sazi. Ho provato sopra e sotto. Nulla. - - Hai cambiato esca? - gli domanda l’agente in incognito guardan- do la spilla a forma di mazza da golf che l’italiano ha fermato sul bavero del gilet verde oliva con ampie tasche sui lati. - Una sintetica - confida Boccaccio sapendo che quella è l’unica esca non impegnativa che ha trovato in un negozio di passatempi. - Ti cedo dei gamberi. Andranno benissimo. -

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Detto ciò, il Mono siede mandando i piedi a penzolare sull’acqua e apre il cestino. Da una scatolina d’alluminio pizzica alcuni gamberetti che porge all’altro. - Lancia lontano e manda a fondo. I pesci non vengono fin qua sotto. Ci hanno sentito e stanno lontani. - Boccaccio segue di malavoglia il consiglio, mentre l’altro estende la canna telescopica. Se non si libererà dell’indesiderata compagnia, non potrà avvisare il greco accadendo un imprevisto. Il Mono, dal canto suo, pensa che dovrà avere i riflessi pronti. L’italiano sarà armato e lui non vuole finire con una palla in corpo. Non gli piacerebbe ripetere l’esperienza fatta in altra occasione. Quell’uomo, stando alla confessione di Pelekanakis, è a capo di un traffico da Panama per Cuba. Lancia la lenza e attende. Sul gommone, Pelekanakis individua le bolle dell’erogatore: un sommozzatore sta risalendo per sostituire la bombola. - C’è corrente. Impiegheremo più del previsto - lo avvisa il sub. - Qui siamo esposti - il greco simula la preoccupazione. - Se appa- risse qualche intruso, non potremo filarcela. Datti da fare. - Il sub si lascia affondare per dare al compagno la possibilità di ri- salire per il rifornimento d’aria. Si rimette a estrarre le balle dal motoscafo adagiato sul fondo sabbioso. La rete ne è piena. La motolancia della polizia sorge all’improvviso dal buio e si af- fianca al gommone. Sei agenti sommozzatori entrano in azione, armi in pugno. Il barbuto non oppone resistenza. Quando emerge il sub a corto d’aria, è issato e immobilizzato. Due uomini della squadra si calano a prendere in arresto il secondo contrabbandiere. Il carico è sequestrato. La motolancia parte in direzione del molo. Il Mono, intanto, recuperata la canna, preme un pulsante sulla cas- sa dell’orologio da polso e illumina il quadrante con luce verdognola che si riflette sul suo volto di meticcio facendolo assomigliare a una maschera di terracotta. All’italiano punterà la pistola alla testa. Sarà lesto ad ammazzarlo, se mostrerà resistenza. Ripone ami e lenza. At- tende un segnale che giungerà da un momento all’altro.

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- Vai via? - gli domanda Boccaccio contento che il tipo si sia deci- so a togliersi di mezzo. - Avevi ragione. Qui non abboccano. Mi ritiro. - - Sono testardo. Aspetto ancora. - Si ode il trillo del cellulare di Boccaccio. L’agente ha modo di scorgere il rigonfiamento dell’arma a destra. L’uomo è mancino. Lo prenderà da quel lato. Mentre l’italiano risponde a Pelekanakis, l’altro si sposta zoppicando sulla sinistra. - Che c’è - risponde Boccaccio poggiando il lap sull’orecchio. - Dalla chiamata senza risposta, capisce che qualcosa non va. - Insom- ma, ti decidi a parlare? - sbraita all’apparecchio. Un secondo di troppo. Il Mono lo blocca con la pistola. - Non ti muovere. Sei in arresto. - La mano del Mono gli sfiora il lato destro e gli sfila il revolver dal- la cintola. L’italiano inspira lento restando calmo. Sul bordo del molo non si vede gente. Sono soli. Boccaccio si lancia in avanti cogliendo di sorpresa l’agente che inizia a sparare scaricando a ventaglio i due caricatori. Quando l’eco degli spari è sopito, il Mono chiama i colle- ghi. Ripone le pistole. Conosce la sua mira, anche se il buio non aiuta ad aggiustare il tiro. I sub potranno confermarne la precisione. Quel morto, di certo non potrà dirgli il nome di chi sta a capo del clan cri- minale internazionale. Lui e i colleghi hanno lavorato per ricostruire le tessere del mosaico e preparato la trappola. Restano i verbali, i fer- mi, i processi, i giudici, le estradizioni. A volte, quando s’indaga nel traffico di stupefacenti, capitano insabbiamenti. Ogni motivo è buono per rimettere i detenuti in libertà. Questa volta, però, i fatti parlano. Va incontro alla motovedetta che ormeggia. La gamba sinistra gli duole. L’arto fu lesionato da una palla che gli sparò, senza compli- menti, un insospettabile collega. Il tiro partì per ammazzarlo. Una seconda palla gli entrò nell’addome: nessun organo vitale colpito. La terza, il solerte collega, non ebbe tempo di lanciarla perché lui gli piazzò un proiettile tra le sopracciglia ineguali. Quando giungono le auto della centrale, gli agenti sommozzatori hanno già riunito gli arre-

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stati sul molo. Li mettono su vetture diverse e li spediscono. Il greco sanguina da una gamba e comprime un fazzoletto sulla ferita. - Non è grave. Ti abituerai anche tu a zoppicare; è il lasciapassare - gli sussurra il Mono mentre un giovane agente della DEA apre la por- tiera dall’auto per farvi entrare Pelekanakis. - Questo all’ospedale - ordina all’autista. - Il Mono raggiunge un’auto civetta priva di segni di riconoscimento e si abbandona sul sedile posteriore. Il suo è un brut- to mestiere, soprattutto se deve guardarsi alle spalle. A Rudy quella notte pare davvero destinata al suo divertimento. Esce dal ristorante al braccio di Cecilia per condurla in un locale not- turno. Non si è accorto del nero seduto al tavolo laterale che sta facendo una telefonata. Quando la coppia va via in taxi, una berlina scosta dal marciapiede e li segue. Il traffico è intenso e le automobili procedono lente sull’Avenida principale. Il taxi scarta di lato per evi- tare un camion carico di spazzatura e gli occupanti finiscono uno nelle braccia dell’altro. Cecilia apre la borsetta e prende lo specchietto. Si dà una sbirciatina e ne approfitta per guardare la strada, dietro di loro. Nota due vetture affiancate e gli automobilisti discutere, forse per motivi di precedenza. Ripone lo specchietto e poggia una mano sulla gamba di Rudy. - Non ti ho chiesto quante vacche hai alla Luna Rossa. - - Supponendo che durante questa esperienza con le aragoste non ne siano morte per epidemia, saranno novemila. Mille le ho vendute per anticipare denaro a Raul. - Cecilia sibila. Comprende perché, a ragione, Rudy si sia risentito per il forzato allontanamento dal pascolo. - - Raul ti ha fatto uno scherzetto da veleno - mormora accarezzan- dogli la gamba. - Gli cedo carne a metà prezzo e quello tenta di mandare tutto alla malora. Non sa resistere senza fare danni. - - Sono obbligata a stargli dietro. Le informazioni me le paga bene. Mi dà protezione. Ti rifarai, Rudy. Sai maneggiare il bestiame - lo in- coraggia la donna. - Sei un allevatore esperto. -

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- Mi rimane da risolvere il malinteso con un torero che mi vuole ridare indietro un toro. A sentire lui, non ha cattiveria. - - Che scuse fa? - - Lo vede matrero. Carica davanti, ed evita il lato, non teme il man- tello rosso. Un toro così non tutti lo affrontano. Un animale del genere va anticipato. Solo al momento d’infilargli le banderillas nel col- lo, il toro onesto deciderà il movimento della testa. Alcuni toreri si addestrano in funzione dell’istinto del toro. Studiano le sue mosse prima di affrontarlo. Pochi uomini sono disposti a combattere un miura assassino. L’onestà del toro è vitale per il matador. - La pressione della mano di Cecilia si allenta. Il taxi li lascia al loca- le notturno. Un cameriere li accompagna all’interno, precedendoli. Rudy ordina da bere. Vuole scaldarsi. Cecilia si allontana dal tavolo per andare alla toilette. Rudy lancia lo sguardo su quanto lo circonda. Il banco del bar non è affollato. Ai tavoli, invece, la gente è assortita. Le donne presenti hanno un compagno e paiono felici e ridono. Dalla zona più buia del locale si fa avanti una nera con i capelli tinti. L’uomo la osserva mentre incede nella sua direzione. Il volto gli ri- chiama qualcuna. La riconosce quando siede al suo lato. - Posso accompagnarti Rudy? - - Miccia, che diavolo! - esclama sorpreso. - Che fai qui? - - Che ci fa un vaccaio nell’acqua delle aragoste? - domanda lei ac- cendendo una sigaretta. Rudy si trova avvolto da una strana irrequietezza. Nota una luce dura negli occhi della nera con il look da vamp. La sicurezza che mo- stra lo mette a disagio. Sente che qualcosa si sta inceppando. - Che ti succede? Che c’entrano le aragoste? Sei venuta per Ceci- lia? C’è anche lei stanotte. Aprite un bordello da queste parti? - - No - conferma lei aspirando il fumo. - Cecilia è fuori gioco. - - Non capisco - risponde lui provando una fitta d’angoscia. - In questo momento, nel cesso, l’hanno arrestata. Con accuse pe- santi. Droga, prostituzione e omicidio. Quando mi alzerò da questo tavolo, sarai arrestato anche tu. Perciò ascoltami. - - È uno scherzo, Miccia? -

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- Sono della DEA. I nostri sommozzatori hanno preso i tipi inca- ricati di recuperare la droga dal motoscafo affondato. Testimonierò in tuo favore e tu confermerai le accuse a Cecilia. In caso contrario do- vrai scordare la Luna Rossa e le tue vacche. - - Madre della Macarena - mormora il vaccaio ripresosi dallo stupo- re. - Ed io che volevo venire a letto con te. - - Non è la pelle a fare una donna. Sono le palle. - - Raul è un sanguinario. Si vendicherà. - - Da alcuni giorni sono uscita dal bordello e non ritornerò laggiù. Un nero verrà tra poco a prenderti. La polizia sa che Raul ti ha obbli- gato a fargli da zerbino. Il giudice sarà comprensivo. - - Quando ti rivedrò? Da libero? - - Verrò a farti una visita. - La giovane poggia la mano su quella del vaccaio e lo incoraggia. - Abbi fiducia nella giustizia. - - Questo mi preoccupa. Se commettono errori - mormora avvilito fissando le labbra della nera. - Succede che un giudice si faccia in- fluenzare. Che vada con la mano pesante. Resterò rinchiuso in una cella della Picota per un secolo. - Miccia si alza dopo avere spento la sigaretta e va verso l’uscita. S’incontra sulla porta con il collega nero che sta entrando. Rudy lo riconosce: era a cena con il bianco, al tavolo accosto al suo e mangia- vano due bistecche alte tre dita. Il suo soggiorno alla costa finisce; un fatto lo rattrista: le mucche non lo rivedranno presto. Manderà ordini al suo incaricato per tenerle in ordine, numerate e sane. - Pensi che sia necessario ammanettarti Rudy? - gli chiede il nero chinando il busto muscoloso sul tavolino. - Non ce n’è bisogno. Tienile per qualche altro - risponde il vac- caio intravedendo le manette alla cinghia del poliziotto. - Allora andiamo. C’è lavoro questa notte e comincio a essere stanco. Ho avuto una giornata dura. - In quel momento, nella toilette, Cecilia si sente crepare dalla rab- bia. Abbassa il rossetto. Due imbecilli, uno è bianco, hanno sbagliato porta ed entrano nel bagno riservato alle donne. Quando la fissano prima di prenderla alle spalle, capisce che non c’è errore e che

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l’arresto non è per sfruttamento della prostituzione. Il bianco le bloc- ca le mani e l’altro le mostra il distintivo. - La corsa è finita, bella. Adesso ti fai una vacanza - propone il bianco ammanettandola senza complimenti. - Stronzo - insiste la donna - stai prendendo un abbaglio. - - Non in questo caso. Sei accusata di terrorismo, sfruttamento, of- fese a pubblico ufficiale, ci metto anche la resistenza, commercio di sostanze illegali e uso di stupefacenti. Sei sospettata d’omicidio. - - Non uso stupefacenti - sibila la donna scapigliandosi. - Non ho ucciso nessuno. - - Li usi e questa è la prova - dice l’agente cacciando una busta di droga e strofinandola sotto il suo naso rifatto. - Ce n’è per arrestarti all’istante. - - Quella roba non è mia. - - La tua parola, in questa situazione, vale zero. - - Sporco maiale - sbraita Cecilia con odio. Escono dal bagno e passano dal retro del locale. Cecilia non vede Rudy. Fa in tempo a scorgere, attraverso una finestra, un’auto della polizia che si allontana. Avranno arrestato anche lui. Immagina che la porteranno al carcere di zona per i primi interrogatori. Lei non parlerà e chiederà l’avvocato. Approfitterà di ciò che la democrazia garantisce a tutti, in modo uguale: la giustizia. Sarà la prima osservazione che farà all’avvocato: quei due porci sono entrati nel bagno delle donne e hanno approfittato di lei. Li farà indagare. Batterà la testa contro qualcosa di contundente; sosterrà la subita violenza. Il giudice le darà fiducia. Da questa a ottenere ragione, il passo è breve. Raul agirà dall’esterno con i giusti avvisi, le minacce, prima discrete, poi aperte contro il giudice o la sua famiglia, un figlio, un genitore. Il metodo funziona, è sperimentato. Ammazzi il primo e gli altri si ammollano. La spingono sul sedile posteriore. I due della DEA, bianco e nero, si sistemano ai lati tenendola ferma, con una pressione dei gomiti sul bacino. Vogliono evitare di lasciarle dei lividi sul corpo. Devono mo- strare che l’hanno trattata con i guanti. L’arresto di terroristi è un atto delicato. Provocano la scorta di proposito. Tentano di far apparire la

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violenza per guadagnarsi la protezione fornita loro dalle organizza- zioni umanitarie e sono preparati per questi giochini. La scorta non reagirà agli sputi e agli sberleffi. L’agente autista guida rapido districandosi nel traffico. Lo seguono altre auto della polizia. Il Mono, scrupoloso, ha disposto una seconda scorta armata. Giungeranno in poco tempo al carcere. Vuole Cecilia dinanzi ad un tribunale. Curerà che non le facciano un graffio. La tortura mentale non lascia segni e non compromette: è più umana di quella corporale che la guerriglia infligge ai sequestrati innocenti. Il lungomare corre di lato e gli odori della marina riempiono l’abitacolo. Per la prima volta da quando è giunta al promontorio, Cecilia si accorge del particolare sapore che trattiene l’aria che la circonda: una miscela più sottile di quella che ha respirato per anni nella zona inter- na, dove ha gestito il bordello con bar annesso. La bella vita, per lei, è terminata. Gli occhi rannuvolati guardano lontano, oltre il parabrezza. Vedono il riflesso della striscia luminosa del profilo cittadino che la strada costeggia. Ha imparato che le verità sono di due classi: quelle vere e le altre, montate ad arte, per uno scopo, all’interno di un com- plotto. Intorbideranno le indagini e ne avrà per anni. L’agente bianco, seduto al lato sinistro, la vede come una traditrice della nazione, che combatte lo stato. Che pena un bambino saltato su una delle migliaia di mine antiuomo che i ribelli spargono per i campi. Il pensiero gli dà una scossa d’odio. La democrazia, lui crede, è un solido fatto che incute panico in alcuni soggetti che praticano il terro- rismo in modo scientifico e approfittano del mancato avvio di un sistema per difendere gli innocenti in modo efficace.

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Don Alvaro ha trascorso la notte insonne. Un pallore niveo lo fa sembrare dissanguato a goccia a goccia. Un fastidioso raffreddore lo costringe a nettare il naso colante. Seduto nel letto, con lo sguardo lacrimoso sul televisore, sopporta i colpi di luce colorata che si riflet- tono tridimensionali nel grande occhio scolpito sul pannello di acciaio inox. È sbalordito. Se l’artista vuole significare che guardare è un’opzione, ebbene, ci è riuscito. Anche campare è un’opzione. Nel tipo di attività che lui svolge, ognuno dei cinque sensi potrebbe ter- minare di punto in bianco. Le borse mondiali hanno performance desolanti. L’unico prodotto su cui investire si rivela la cocaina. Si do- manda con dispetto quale dei suoi guardaspalle gli abbia consegnato dei germi tanto potenti. A guardarli paiono sani, eppure, tra loro c’è un appestato. Leva il termometro da sotto l’ascella e controlla. Nep- pure una linea. Sarà bene, in ogni caso, che se ne stia in riposo. La vibrazione del telefonino nella tasca della vestaglia lo avvisa di una chiamata. - Chi è? - - Sono Pasquale. Brutte notizie, don Alvaro. - - Non hai neppure atteso che facesse giorno. Che succede? - - Hanno sparato a Boccaccio. - - Quando? - - Stanotte. La DEA ci aspettava. - - Siete imbecilli da campionato. - - Ci aspettavano, don Alvaro. - - E la merce? - - Sequestrata. Hanno arrestato il greco impallinato. È ricoverato e non lo fanno vedere a nessuno. E devo dare un’altra notizia. Il seque- strato è scappato. Abbiamo perso l’ammiraglio. - - Siete buoni a nulla. - Il boss riattacca. Si alza e gira a vuoto nell’appartamento. Si ferma in cerca di una soluzione. Si prepara una striscia bianca e la inala.

Quando gli affari finiscono annotati sull’agenda di un giudice onesto, il traffico si complica. Va a bagnarsi con il getto pulsante della doccia calda, sperando di cavarne beneficio. La morte di Boccaccio gli pre- senta l’incognita: qualcun altro dovrà sostituirlo e lui vuole attorno persone fidate. I soci divenuti pazzi per lo sniffare vanno eliminati, dato che possono compromettere l’intera famiglia. “Che sangue avrà il pilota russo? Un uomo di mondo, non certo stupido, che sa ap- prezzare la bella vita nei momenti idonei, separandoli dal tempo di lavoro. Gli piacerà certo la neve, quella vera.” Un nuovo pensiero comincia a fare breccia nel suo cranio: “Potrei proporgli un buon ap- pannaggio, copertura legale, vacanze pagate: donne e champagne. Magari una bella casa con ogni comodità in montagna, con la neve, dalle parti dell’Abruzzo, nel paese di Ville… Per Giove, non mi viene in mente.” Suo padre diceva che nel paese si fermarono i crociati di ritorno dalla Terra Santa: imbottiti d’oro risalivano lo stivale italico, diretti al nord. “Perché Leonid ritornerebbe a vivere a Mosca? Po- trebbe gestire una fetta di mercato in Italia.” Opina che potrà comprarlo quel russo. Esce dalla cabina di vetro appannato dal vapo- re e si copre con un accappatoio verde di spugna soffice. Sceglie nell’agenda il numero del pilota e lo chiama, incurante dell’ora. Lo sveglia senza rimorsi e udendo la voce pastosa dell’altro va diretto: - Volevo dirvi, Leonid, che ho una proposta. Mi udite? - Il pilota tenta di raccapezzarsi. Dapprima stenta a riconoscere la voce, ispessita dal raffreddore. - Di cosa sta parlando don Alvaro? - - Il vostro volo è servito per farmi recuperare mezzo milione di dollari. Voglio parlarvi di lavoro. - - Non capisco. - Leonid esce dal letto e va a sedere allo scrittoio, senza poter fare a meno di guardarsi allo specchio appeso alla parete: ha brutte occhiaie. Sta dormendo poco. Deve porvi rimedio. - Mi piacete. Il mio è il ritmo di uno che vuole riprende ciò che gli è stato tolto male e che presta malissimo ciò che vorrà riprendere. Voi potreste fare altro per me. - - Mi scusi, che cosa potrei fare? - domanda il russo.

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- Lavorare per me. Buona paga e una casa per le vacanze, in un posto civile e innevato, in Italia. - - Dipendo da Mosca - risponde il russo cercando una via di scam- po. - Sono pagato per le mie prestazioni. Non credo di essere adatto. Vi occorre uno dalla mano veloce. - - Leonid, la DEA ha sequestrato la mia merce. Una soffiata, pre- sumo. Ci sono stati degli arresti e un morto. Il greco è finito dentro e Boccaccio al camposanto. Mi devo proteggere. - - Non so che dire. Mi dispiace. - - Succedono cose peggiori. Questo è un lavoro per gente accorta. - - Ciò complica la situazione del mio amico di Cuba, immagino? - - Non di poco. Ho fatto il possibile per Vassili. - - Mi è difficile avvisarlo del disastro. Ha accettato l’incontro con lei al museo dell’oro di Bogotà. - - Leonid, vi confido che combinare affari con voi russi mi porta un poco male. Spargete malocchio. Considerate la mia proposta. Non vi si ripresenterà un’occasione simile. Vi offro il posto di Boccaccio e possibilità di tenere i contatti con Mosca, dall’Italia. Avrete un castello al paese di mio padre. Le colline intorno sono coperte di funghi e tartufi. Ci sono volpi, orsi, cinghiali, aquile. Che altro volete? Vi man- do dietro un paio delle mie accompagnatrici. - - Allettante. Non posso negarlo. - - Trovate chi ha fatto la spia. - L’italo-panamense ansima. - Vedete che non v’impegno in rappresaglie? Vi farò lavorare per telepatia. Controlli a distanza. Non urterò i vostri principi. - Il moscovita traduce l’idea di don Alvaro. Sta giocando il tutto per tutto col fine di agganciarlo. Ha avuto perdite pesanti. - Cercherò di sapere qualcosa. Ha qualche conoscenza alla DEA. - - Non dimenticate che sono gli uomini veri che stampano i piani della misericordia sul pianeta. Per recuperare quanto Vassili ha perdu- to, v’introdurrei in una mia lavanderia, dove entrano dollari da uno ed escono da cento. Non vedo altra maniera per aiutarlo. - La linea cade. Leonid immagina che la sorte di Vassili abbia preso una strada scoscesa, irta d’ostacoli e al cui finale ci sia un assassino.

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Nell’ora che segue il termine della notte, una luce rosea si poggia sul fiume. L’acqua, correndo, spuma sui fianchi della draga. Il silenzio a bordo dello sgraziato galleggiante è rotto dallo sciabordio intorno alla catena dell’ancora. Il nero in canottiera, la barba non rasa, con addosso un paio di vecchi jeans accorciati, reggendo una sbeccata tazza colma di caffè, esce da un boccaporto sullo spazio a prora, in- nanzi al braccio mobile di ferro proteso in alto con le sue benne. Ha il naso schiacciato: le narici si sollevano tra un tiro alla sigaretta e il suc- cessivo. Sono le prime boccate della giornata e gli paiono meno ustionanti di quelle tirate la sera precedente dalla quarantesima siga- retta. Terminato di sorseggiare, lancia nella corrente la vecchia tazza che affonda capovolgendosi. Tra poco inizierà il lavoro. In breve terminerà le prove delle leve e dei meccanismi. Il capitano Carrera la vuole a Punta Rocca quel giorno e sta per arrivare il rimorchiatore che la porterà via da Agua Dulce. A bordo sono in due: il nero, appunto, e l’indio, più giovane di una decina d’anni. Questi scelse di lavorare sulla draga dopo che la piantagione di coca, nelle Sierra, la sequestrarono per illegalità quelli del battaglione di montagna. Le sue prestazioni di raccoglitore - raspa- cin - non erano più richieste, mentre quelle d’aiuto navale, nel cantiere presso di cui è impiegato un cognato, le presero in considerazione. Il nero si appoggia con il ventre prominente contro la ringhiera. L’indio si chiude nell’angusto spazio con un buco sul pavimento. Tenta di defecare mentre l’acqua gli scorre sotto le natiche nude e senza peli. Continua la sensazione che il caffè preparato dal nero abbia un sapo- raccio di bitume e gli smuova le viscere. Ne berrà uno decente quando sarà a terra, passato mezzogiorno, dopo la consegna della draga ai nuovi proprietari di Punta Rocca. Il nero nota qualcosa dinanzi alla prora, a una distanza di una ven- tina di braccia, laddove la catena dell’ancora esce dall’acqua con la tensione spasmodica delle maglie di ferro. Un velo di spuma non gli

permette di scorgere bene e chiama il secondo uomo, l’indio, che giunge dopo un paio di minuti con i pantaloni ancora da abbottonare. - Julio, dai un’occhiata laggiù - gli dice indicando in direzione della catena che va a infilarsi dritta nel fondo. L’indio si sporge scrutando il punto indicato. - Perché è finito contro la catena? - si domanda mentre si dà una frettolosa benedizione con la mano destra. - Che razza di morto. - - Ha tentato di aggrapparsi. La corrente è forte. Guarda i mulinelli. - Il nero tira uno sputo da un lato. - Chissà da quante ore è appeso là. Madre di Dios, abbia pietà - di- ce l’indio. - Aspettiamo quelli del rimorchiatore. Sarà più facile levarlo e meno rischioso per noi. Non si deve toccare un morto, potrebbero accusarti di qualcosa che non hai fatto. - - Sì. Andiamo a finire il lavoro. - Si staccano dalla ringhiera. Poco dopo il motore è avviato e un prepotente rumore si allarga nell’aria mentre i due riprendono le veri- fiche dei macchinari che mettono tremiti nella draga. Obbligano gli sguardi a non correre in direzione della macabra apparizione che pen- zola a pelo d’acqua. Il possente braccio mobile ruota da un lato all’altro; abbassa le cucchiaie sino al fondale. I cavi sfrigolano serran- do la presa e poi risollevando le benne che pisciano rivoli scuri e trattengono quintali di sabbia. La resa è sicura. Nelsen pare assistere con aria compunta al collaudo della draga appartenente all’uomo che voleva annientare e che il fato ha protetto in modo sfacciato. Conserva l’espressione fissa, appena scosso dal dondolio incessante imposto dal fiume. Nessuna di quelle buche sca- vate nel fango gli darà asilo finale. Talvolta tende ad affondare, lasciando a galla il braccio impigliato nella catena, l’invisibile condan- na dell’azione acquatica lo riporta fuori. Il biancore dei pantaloni è un fosforescente richiamo per i pesci, disposti a pizzicare ogni esca. L’ammiraglio, imperterrito, accetta lo sbocconcellare e continua ad accarezzare la superficie con l’unico braccio libero, infischiandosene dell’inquietudine che la sua apparizione è riuscita ad avviare nell’animo dei draghisti, inadatti a frenare le superstizioni.

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Un’ora dopo, il capitano del rimorchiatore, agganciata la draga alla fiancata, chiama la guardia costiera e avvisa della scoperta. Riceve ordine di non muoversi e di attendere. Giunta la motovedetta da Bar- ranquilla, il corpo dell’affogato è liberato e issato sulla coperta dai marinai. Il maresciallo capo si avvicina al cadavere per osservarlo e si china sulle ginocchia. - Oh, diavoli! - esclama di colpo - questo è l’ammiraglio. - Ciò detto si precipita alla radio e informa il suo comandante, pre- sente in sede presso il dipartimento navale. Sulle prime l’altro stenta a credere. Poi si convince. - Rientrate alla base - ordina l’ufficiale al maresciallo prima di salire al piano superiore per rendere edotto il capo di stato maggiore. Escudoro, non appena al corrente della morte, solleva il telefono. Compone sul selettore il numero privato del presidente. Attende tre squilli prima di avere risposta. - Con chi ho il piacere? - domanda la voce calma. - Buona giornata, presidente. Dovrei parlarle di Nelsen. - - Non sarò io a impedirlo - intona il presidente riconoscendo l’interlocutore. - Buone nuove? - - L’hanno ritrovato. La morte pare causata da affogamento. La medicina legale farà gli accertamenti. - - Ammiraglio, non posso negare un certo sollievo. - Un pesante silenzio si solidifica. Dinanzi a certi accadimenti, an- che un capo di stato pensa di respirare per comporre una riposta non criticabile. Un parere qualunque, espresso senza copertura, sarebbe negativo. È a conoscenza di atti non chiari risalenti a Nelsen. I gior- nali sono ancora in fibrillazione. - Quali sono le sue decisioni, ammiraglio? - - Sarebbe opportuno ritardare la diffusione della notizia. - Di nuovo il silenzio diviene dominante. Le valutazioni del presi- dente vanno in molte direzioni. Le ragioni delle forze armate da un lato, la reputazione della marina, i diritti di un morto, per quanto po- co apprezzato, da tenere in considerazione. Escudoro prosegue:

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- Signore, credo sia opportuno assegnare al comandante Ernesto Chivas la decorazione d’Ordine Pubblico. Ha agito con onore. - - Nulla obstat. Proceda Escudoro. Prepari la menzione. - L’ammiraglio fa una telefonata a Rosa. La prega di tenere riservata la notizia e di essere prudente giacché lei lascia il dipartimento. La donna apprende la notizia con freddezza. In cuore intravede la fortu- na che si avvicina dal suo lato.

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Santiago apprezza il benefico effetto delle acque termali. Uno sbuffo di vapore umido esce dalle griglie disposte lungo la parete pia- strellata con maioliche colorate. Un corroborante odore, rilasciato dalle essenze d’eucalipto, si mischia alla nuvola che satura l’ambiente a un limite sostenibile. Le goccioline si condensano e colano in rivoli sottili sul pavimento poroso. La temperatura, sulla pelle, pare più alta, per via dell’umidità. Si è disteso sul sedile di pietra. Ha speso una set- timana, sottoponendosi ai getti termali, bontà della terra che dalle viscere manda soffi benefici. Per un po’ farà a meno della crema di tigre, unguento con cui riduce l’infiammazione delle giunture. Il sudo- re gli cola copioso e il sangue gli bussa alla testa e ronza nelle orecchie. Nell’ingannevole alone violetto dalle lampade artificiali, resi- ste ancora un minuto. Si avvolge nell’asciugamano ed esce dal bagno turco. Passa la soglia, prosegue nel corridoio in penombra e si affaccia nella sala delle vasche d’acqua fredda. Si mette nudo e s’immerge sof- frendo per pochi secondi, poi l’effetto lo carica e un rimescolamento gli risale lungo le arterie. Gli sovviene un bufalo nero. Anni prima, ospite d’amici allevatori nelle pianure orientali, si trovò sulla sponda di un fiume divisore di terre, fertili o brulle, in modo capriccioso. No- tò l’animale. Aveva scelto di stare dove cresceva l’erba del pascolo e i vaccai lo guardavano con rispetto: era grande e con robuste corna aguzze. Se ne stava immerso nella ristretta laguna formata da una mi- nima deviazione di un getto del fiume. Osservava con occhi lucidi il mondo introno a lui. Pareva soddisfatto nell’imponente massa messa- gli dalla natura sullo scheletro e forse provava serenità. Gli allevatori dissero che aveva una zampa rotta da molti mesi e che lo stare im- merso alleviava la sua pena. Non si decidevano a sacrificarlo. Usciva dal trono acqueo zoppicando, per brucare. Il superbo spettacolo s’impresse nella memoria di Santiago. Lui e quell’animale curavano il male con lo stesso elemento: l’acqua. La siccità seccò la laguna e il

toro morì. Gli avvoltoi e le formiche della prateria lo divorarono e in breve non restò che un ricordo di cuoio nero e ossa bianche. Vede tre persone entrare. Sono cinte dagli asciugamani. Il più alto è bianco, gli altri sono meticci. L’età media è di circa trenta anni. La- sciano cadere le tovaglie e scendono nella vasca. Parlano e non vale nulla ascoltarli. Vaghezze, sconcezze. Lui si forma un’opinione sui tre. Le volgarità proseguono. Udirle gli ricorda la sporcizia di certi quar- tieri, dove non entrano il buon senso e neppure Dio, scacciato dalle bestemmie. Decide di uscire dalla vasca lasciandoli alle loro scandalo- se frasi. L’acqua sta diventando sporca perché vi si possa trattenere oltre. Il richiamo del bianco lo sorprende. Conosce il suo nome. - Professor Santiago, non ti piace la nostra compagnia? - Dal tono sprezzante, scopre che l’incontro non è casuale. I tre so- no entrati di proposito nella vasca. Quella è gente che non suda con facilità. Sono di una specie prossima a quella dei cobra, che hanno disegnato sulla faccia le occhiaie, un particolare segno di autorità che distingue i distributori di morte. - È opportuno che mi allontani - risponde gettando una breve oc- chiata alla porta d’ingresso, nella speranza che altri bagnanti sopraggiungano a interrompere la vicina aggressione. - Resta con noi. Dobbiamo sapere certe cose - inizia il bianco che sarà il capo del gruppetto, con la voce gravida di odio. Santiago riceve un fastidio corporeo che cresce con frenesia. Un sottile timore si espande in ogni cellula prima di assurgere a paura. Una volta si vergognò di questa reazione. Il coraggio è l’antidoto; ma se non sorge, vi sarà un eccesso dell’istinto di sopravvivenza, quella che genera codardia. Da lui non possono pretendere somme di dena- ro che non possiede. Sono giovani e la loro espressione rivela un animalesco rifiuto alla collaborazione fattiva, al dialogo che dà qual- che buon risultato. Non li affronterà con le mani perché non ha la forza. È in trappola. - Sentiamo - risponde Santiago provando un brivido. - Non si po- trebbe uscire dalla vasca e parlare all’asciutto? -

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- Non ti piace l’acqua fredda? Lo sai che è benefica? - rimanda i- ronico uno dei meticci alle sue spalle. L’hanno circondato. La mano del bianco emerge minacciosa. Ha un tatuaggio sul dorso, sopra le nocche, una svastica, sulla pelle tesa tra il pollice e l’indice. Si solleva all’altezza delle teste e spinge la spalla del giornalista che, colto di sorpresa, si appoggia all’indietro, riceven- do un altro spintone dal meticcio dietro di lui. - L’acqua fredda chiarisce le idee. - Santiago è offeso. Si controlla. Un suo gesto potrebbe innescare una reazione. È solo. Si sente sulle spine. - Una persona con penna e carta da stampare - sussurra il becero - non immagina che c’è da chiarire? - La voce è sibillina, greve. Santiago guarda il collo corto del provocatore. La pelle richiama quella di uno zebù: un animale che non rispetta l’odore del tempo giusto nella vitella; un maschio che segue solo l’istinto. Potrà pesare un’ottantina di chili. Valuta con malinconia i sentimenti che i tre e- sprimono con i musi increspati. Sono ostili. Lui cerca di mantenere un comportamento corretto, che non lo faccia apparire una preda in fuga. Il fuggitivo spesso crea l’inseguitore. - Chiariamo pure quello che volete. - - Vedi - continua sarcastico l’uomo spingendogli una palmata di acqua in faccia - per essere chiaro, i tuoi articoli sono allusivi. Leggerli costa fatica e noi siamo gente che va per le spicce. Non ce n’è uno buono. Parli male delle persone. Sei scivolato sul tuo sapone - ag- giunge con voce fredda che accompagna le intenzioni. Solleva la mano destra sull’omero del mulatto; con la sinistra gli sferra un pugno al petto. - Questo per le allusioni seminate contro l’ammiraglio. - Santiago perde gli occhiali. I due alle spalle, intravisti dalla vittima con la coda dell’occhio, lo spingono sotto l’acqua trattenendolo per le braccia, gli schiaffeggiano il cranio e gli danno delle ginocchiate. Lo rilasciano e Santiago si drizza soffiando e tossendo. Lo fanno ruotare in una posizione che lo mette di faccia ai neri che iniziano a impartir- gli una dose di furia senza appello mentre un turpe ridere sgangherato rimbalza nel liquido agitato nel quadrato dell’ampia vasca.

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- Hai capito adesso? - dice il bianco controllando i compari. Santiago non distingue la faccia del suggeritore. Ha perso gli oc- chiali. Avverte l’alito rancido del giovane e in lui si smuove un conato che è il prologo di una contrazione della paura. L’uomo accenna agli accoliti di uscire dal bagno. Grondando acqua, i tre salgono gli scalini e vanno a prendere gli asciugamani sulle panche, ai lati del locale. Cingendo i fianchi ossuti, le natiche grasse e pelose, il pene piccolo e ritirato, il capo dei porci passa un ultimo avviso con tono riflessivo: - Curati la salute Rafael. Non sei tu che fai i conti della coca che esce dalle piantagioni. Ci sono quelli della sezione narcotici. Se non le distruggono, vuol dire che siamo bravi e abbiamo un permesso. - Vanno via senza voltarsi. Il malcapitato si appoggia a un lato della vasca. Non ha forza per ripescare le lenti. Il tremito che lo scuote conferma che ha vissuto la scommessa d’essere ammazzato. Esce incerto dalla vasca coprendosi con l’asciugamano. Un gruppetto di giovani entra nel locale. Sono coperti da accappa- toi colorati e raggiungono, parlando a voce alta, le vasche. Uno si cala e caccia un’imprecazione. Ha pestato le lenti. S’immerge, le raccoglie e le porta alla luce. - Sono le sue? - domanda vedendo l’aria depressa del mulatto. - Sì. Me le ridai per favore? - Il giovane nota le escoriazioni sul viso mentre gli consegna la montatura deformata. - Sta bene? Vuole aiuto? Chiamo il bagnino? - - No. Ti ringrazio. - Si riprende. La profonda umiliazione è peggiore del dolore, dell’afflizione che gli ha attanagliato le viscere. Hanno percosso la sua fisionomia di vita, un’attitudine che si è sforzato di tenere aderente alle convinzioni. Con nessuno dei colleghi si lamentò di essere rima- sto un giornalista d’opinione, non assurto al rango d’editorialista. Il frutto dell’informazione è ciò che importa, il giornalismo in sé è mar- ginale. Quando un lettore compra un quotidiano, vuole opinioni calibrate, non ha interesse a scoprire le parti che compongono una rotativa. Chi legge sa che le sue idee possono essere mutate da una

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giusta rappresentazione della realtà e si corregge se ama la verità. Il trasferimento al promontorio di Punta Rocca gli permise di commen- tare la quotidianità con tranquille sortite periodiche, senza dissimulare le convinzioni. Che farà adesso? Quali contromisure adotterà? Di nuovo l’hanno spinto a un bivio. Le cure termali sono interrotte. L’impietoso ricatto lo costringe a localizzare un nuovo posto in cui continuare a scrivere opinioni contro la doppia morale che tinge buo- na parte del pianeta mascherata dalla politica. La sera stessa raccoglie la valigia e parte in pullman per Barran- quilla. Arriva al terminal cittadino di mattino presto e deve attendere un taxi che lo conduca a casa di Jean Paul. Ha necessità di fargli visita. Un chiosco ha aperto le serrande e la macchina del caffè inizia a cola- re il primo espresso. Ne chiede uno e glielo servono assieme a una fetta di torta. Vede, sul piazzale, una donna grossa e rumorosa, con pacchi e valigie, i tratti del volto forti che trattengono un colore di terra bruciata, che discute con l’addetto alla biglietteria per le imprevi- ste fermate che farà l’autista. Lei ha pagato il supplemento per il bus rapido. Allora, perché il nero alla guida vuole fare di testa sua? Il di- lemma non lo risolve neppure un controllore. Se il nero ha deciso così, lui non può nulla. Quel giorno fermerà anche nei villaggi perché tutti hanno diritto a un bus. Le rimborsano una parte del biglietto. Santiago scalda la pipa. Il basco grigiolino copre i lividi provocati dalle percosse. Masticando osserva la signora che, rassegnata, affida i pacchi all’autista nero per caricarli nel vano bagagli. La sua destina- zione è una zona dove la guerriglia sta attaccando: il nero le ha detto che per quando arriveranno laggiù, si vedrà. Se l’esercito avrà respinto i ribelli, il bus proseguirà. In caso contrario lui tornerà indietro, non essendoci altre strade, e lei deciderà per il suo caso. Quando appare un taxi, Santiago fa un cenno. Si fa portare in cen- tro. Scende dinanzi all’edificio di Clara e sale all’appartamento. Pablo apre la porta, lavato, vestito, i capelli crespi che non voglio- no restare pettinati. Fissa il giornalista con una timida aria di rispetto, appena intontita, piantato sulla soglia. - Sei di guardia, giovanotto? Non mi riconosci? -

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- Lei è venuto per parlare al capitan marino? - - Anche - gli risponde divertito il mulatto. - Com’è che sei lindo e lustro? Sarà per impressionare i maestri? - - Sono ordinato. Sa che stiamo preparando il viaggio? - gli confida lasciando il passo libero. - Presto andremo a Bogotà a vedere il museo dell’oro. - - Sarai felicissimo. Dov’è il capitano? - - In terrazzo. - Il ragazzo lo precede per la sala, fino al balcone. Si defila, poi, per un arco laterale, verso la cameretta, non senza lanciare a Santiago uno sguardo metà interrogativo, metà supplichevole, nel timore che la visita si prolunghi troppo. Il mulatto, tenendo in testa il basco, esce nella luce che invade l’angolo aperto della casa. Afferra una sedia di vimini e vi siede salutando Jean Paul che lo guarda ironico. - Come ti è andata a Usiacuri? Sei tornato prima del previsto. - - L’acqua fa miracoli - dice il giornalista accettando la tazza che l’altro gli porge dopo averla colmata di caffelatte scuro. - Se fossi re- stato, sarebbe stato superfluo. Le ossa non ricrescono. - Jean Paul nota in lui un’aria diversa dal solito. Si accorge che il mulatto non si è tolto il basco. Conoscendolo, percepisce una specie d’impazienza. Per la prima volta legge nei suoi occhi una soglia di malumore. L’intera persona pare uscire dai precisi limiti in cui lui è abituato a vederlo, in una coesione costante tra corpo e pensieri. Ha un livido sul collo e una tumefazione dietro l’orecchio. - Che ti hanno fatto, Rafael? - gli chiede con un tono in cui c’è de- siderio di soccorrere. - Ti hanno pestato? - - Lascio il promontorio. Punta Rocca non mi merita - rivela San- tiago cercando di mettere nel tono un’ombra di cinismo. - Mi trasferisco. Qui sarei costretto a un disinvestimento della realtà. Scri- verei di fatti marginali, o accadimenti insulsi, pettegolezzi, o farei il leccapiedi di qualche politico per ricevere la sua benevolenza. - Jean Paul prova un’onda di malinconia. Non è da Santiago quel modo di stare acquattato nel rimescolio di frasi così indirette, o dietro considerazioni tanto pessimiste sulla possibilità di esporre la verità,

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una sua pedissequa ossessione. La sua voce non è morbida come le altre volte. Mostra un’amara arrendevolezza. - Ti hanno aggredito? - - Sì. Uomini di Nelsen. - - Hai saputo della sua fine? Lo avevano sequestrato. È morto nel Rio Maddalena. Mi ha informato l’avvocato Noguera. Non avremo altri fastidi. Il caso ha concluso ciò che la devianza alimentava. Mi devo ritenere fortunato. - L’ultima frase del capitano è un po’ amara. Il mulatto fissa l’amico stupito. Riconosce in lui una delusione non celata. Forse avrebbe preferito un riconoscimento in tribunale alla morte del suo nemico. Vorrebbe rincuorarlo con una consolazione eloquente. Teme di non avere abbastanza carica. - Nelsen ha avuto ciò che il destino assegna ai suoi pari. Ora non potrà più darti fastidio. Ti dedicherai per intero alla tua famiglia. - - Dove andrai? Hai una destinazione? - - A Providencia. Non conosco le altre grandi isole che le fanno da corona. Questa è la giusta occasione. - Tacciono per una pausa in cui possa rassodarsi la forza positiva cresciuta nei loro incontri. Un rispetto reciproco li costringe a sepa- rarsi senza frasi inutili. Jean Paul conosce Providencia, adagiata nell’Atlantico, con scorci naturali dove parlano uno strano dialetto, un misto di spagnolo e inglese indotto dai puritani che la colonizzarono strappandola agli spagnoli. - Quando ci sarà maltempo, non potrai inviare articoli. Va via la luce. Resterai isolato. - - Scriverò delle uscite mensili. Descriverò quanto accade sotto la cenere - risponde il giornalista con un leggero ansimare, sollecitato dalle emozioni. - Parlerò più apertamente dei mostri della coca. - Jean Paul assegna un significato alla risposta. Sotto di quella cene- re vi è una brace rossa e pericolosa. Santiago non darà tregua alla sofferente indifferenza delle persone che non vogliono vedere la real- tà, quella dove si finge che il mercato della droga sia inevitabile e leale. Aumenterà le dosi d’inchiostro.

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- Continuerai a cacciare? - gli domanda Jean Paul per sincerarsi della libertà dell’amico. - Non mollerai? - - Il mio criterio di verità? - Il mulatto ripassa la domanda. - Non lo abbandono. Che cosa posso rivelarti? Parla da sola l’evidenza delle tumefazioni. Ogni uomo crede nella sua esclusiva verità. Mi viene da sorridere pensando a Lobo de Miranda e alle sue idee che ci hanno fatto discutere ogni volta. Le sue provocazioni metafisiche mi fanno sobbalzare. L’uso di droghe giunge in modo naturale ad annullare l’uomo e di conseguenza offusca la specie. La natura sopprime i de- boli, inadatti alla continuazione. Si auto seleziona. Il significato inviolabile di quei suoi messaggi discosta dalle mie convinzioni, dal mio modo di comporre apparenza e pensiero. Ogni uomo ha però la sua maniera d’interpretare la realtà, di giudicare o giustificare atti. - - Mi dispiace che non avrò altre occasioni di fare lunghi dialoghi con te. Stavo imparando molto. - - Non credo troverò un amico giovane che possa sostituirti. La speranza di pace che nutro per te e Clara aumenta il mio disagio nel partire per Providencia. - Santiago si alza vedendo sopraggiungere Clara. Lei avverte l’aria di tristezza sui due uomini. Il mulatto la abbraccia con un affetto colora- to di serenità. Le fa una carezza. - Ci rivedremo - le dice scostandola con dolcezza. - Sei una buona combattente e Jean Paul ti farà felice. - La sensibilità di lei si è accesa. Gli occhi verdi si fanno lucidi. - Fugge anche lei, professore - dice celando l’affanno nella voce rauca. - Chi appoggerà le necessità del museo? - - Hai le doti per farlo da sola - stempera Santiago sulla soglia dell’appartamento. - Ci sono sogni che si avverano, come il tuo amore per Jean Paul. Altri che devono aspettare a lungo, come la verità. - Esce dalla casa senza dire altro, lasciando la coppia a meditare sull’inganno di certi schemi brutali, dove solo l’amicizia rappresenta un alimento per gli animi delle persone oneste. Pablito si ripresenta a Jean Paul. È pronto per andare a scuola.

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- Se n’è andato? - domanda prendendo una mano di Clara, mera- vigliato dal fatto che la visita del signor Santiago non fosse stata lunga come tutte le altre volte. - Va a visitare una vecchia amica - dice il capitano. - Chi? - - La chiarezza, ragazzo. Un’essenza da non scordare. Santiago ha insegnato molte cose a te e anche a me. Sono certo che ci mancherà. Lo ricorderemo come merita e andremo a fargli visita. -

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Il DC 9 della compagnia locale atterra. Il carrello tocca l’asfalto creando una fumea sotto le ruote accelerate al contatto con la pista. Rulla sul raccordo e parcheggia in prossimità della stazione passegge- ri. Le hostess sbloccano le porte quando si spengono gli avvisi luminosi delle cinture. I rampisti accostano la scala alla fusoliera e uno dei primi a scendere è Leonid. Fuori dall’aeroporto prende un taxi per andare al dipartimento navale, dove Rosa lo attende in seguito alla sua telefonata. La corsa è rapida. Il tassista lotta con aggressività ai sema- fori: o non li rispetta, o li evita. L’auto si arresta al cancello principale del dipartimento navale. Un sottufficiale, controllati i documenti, for- nisce al russo un lasciapassare. Un marò lo precede agli ascensori e preme il pulsante del secondo piano. Lo guida all’ufficio dov’è atteso, con curiosità, dalla donna avvisata dal sottufficiale. Sulla soglia, l’abitudine gli suggerisce di misurare l’ostilità del posto. Si rilassa. Se la donna che vede in quell’ufficio è la segretaria, non lo sarà per molto, giacché sta impacchettando articoli che nulla hanno a che fare con gli archivi militari: spazzole per capelli, smalti, trucchi. Il russo si ferma titubante. Lo sguardo della biondina è rassicurante. - Buongiorno signorina. La ringrazio per avermi ricevuto. Mi chiamo Leon, Si ricorda della mia telefonata? - - Arriva tardi. Ho dato le dimissioni - dice Rosa con un sorriso i- ronico fissando i baffetti del visitatore. - Dovrà cercare un altro cui riferire le sue informazioni. Lei non è colombiano? - - Di Mosca, signorina. Sono distaccato presso il bureau di Cuba. - Rosa capta nei suoi occhi un movimento d’impertinenza che e- sprime la capacità di burlarsi della vita e delle contraddizioni. Gli è simpatico. È un essere solare. Un russo decongelato. - Mi chiamo Peña Rosa. Ero addetta alle pubbliche relazioni dell’ammiraglio Nelsen. Da oggi lavoro in proprio. Vado via. -

Leonid non fa caso al tono scivoloso. Le tende la mano valutando le morbide fattezze della biondina. Dà una leggera scossa al polso gracile e ascolta il tintinnio del prezioso braccialetto. - Non la importunerò - aggiunge con garbo fugace. - Sono venuto con buone notizie. Interesseranno qualcuno qui dentro. - - Le ripeto che sono fuori gioco. La indirizzo all’ammiraglio Escu- doro, il capo di stato maggiore. - - Se vorrà, dopo che mi avrà udito, lei stessa lo informerà. - - Possiamo scambiare qualche amichevole battuta. Nulla di più. - - Lavoro per il consolato russo di Cuba. Ho intercettato messaggi che riguardano l’ammiraglio scomparso - dice il pilota cercando di cogliere ogni minima espressione che sfugga al viso di Rosa, alle sue guance truccate con un fondotinta dal tono caldo che ne accentua la bellezza senza celare una velata stanchezza. - Credo lei stia sulla via errata - lo avvisa la donna, quasi per allon- tanare l’apparizione di quell’uomo di cui non conosce le intenzioni e che o ignora la fine del suo capo ufficio o finge di non averne notizia. - Informazioni simili vanno date al capo di stato maggiore. - - In queste circostanze, il signor Kris non lo permetterebbe. Mi ha parlato bene di lei. - Rosa lo fissa meravigliata dal tono troppo amichevole. - Sono tutta orecchie - sussurra irrigidita. - Nelsen vive una brutta avventura. - Leonid stira un baffetto. - Stanno per ammazzarlo a causa di un milione di dollari sparito duran- te un trasferimento navale. - Rosa cerca di raggruppare i pensieri sciolti, senza perdere il con- trollo di quelli che sono chiari. - Lei viene qua a cercare i soldi? - - Signorina, un milione di bigliettoni è passato da queste parti. Lo giura Kris. Siamo amici, lo sa? - Rosa non frena il piccolo scatto in avanti del busto. Il russo si congratula con se stesso per essere sceso sulla pista giusta. - In che modo sarebbero spariti quei favolosi biglietti? -

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- Kris passa a Nelsen, che passa a Chivas, che passa al greco il quale crede che gli abbiano sfilato il malloppo due angeli discesi dal cielo sulla sua sporca nave. Ho approfondito quanto è stato detto sul canale televisivo della CNN. - - Lei va spesso in giro raccontando frottole? - Leonid resta cordiale con la segretaria troppo vespertina. - Posso invitarla alla caffetteria? Parlerei più liberamente. - - Perché no. Da oggi nessuno mi controlla. - Rosa accetta di ritar- dare lo sfratto in corso. Può ascoltare lo straniero. Il russo ha stabilito che la donna è suscettibile al tema dei dollari e meno alla sorte toccata all’ammiraglio. Nell’ascensore che li porta al piano terra, le dà un altro pezzo della sua verità. - Nelsen è stato rapito da un boss di Panama - rivela sottovoce. - Costui è deciso a recuperare il perduto e non farà sconti. Il rischio che corrono le persone che hanno giuocato al trucco delle tre carte è alto. È un cane senza scrupoli. Pericoloso. - Il volto di Rosa si anima con un’espressione d’irrequietezza. Il pi- lota continua a picconare la sua sicurezza. Leonid capta lo scatto nervoso, intravede una breccia. Il senso di materna ironia colto al suo arrivo pare mutare nell’aria di una collegiale. - Non credo che Nelsen fosse implicato nel traffico di valuta. - - Lui credeva di essere un furbacchione. Era in altro genere di traf- fici. Cocaina, signorina Rosa. Qui è un reato grave. Lei è la sua segretaria; pertanto vicinissima alla mela marcia. - Leonid si accorge che la biondina lo scruta con occhi scintillanti. - Le sue opinioni non faranno piacere alla marina - commenta lei scegliendo un tavolino più appartato. Chiama il marinaio di servizio e dà modo a Leonid di ordinare la colazione. - Immagino abbia avuto una levataccia. Cuba non è vicina. Ci vive tutto l’anno, Leon? - - Il bureau mi sposta da un punto all’altro, dove sorgono situazio- ni delicate. Controllo che tipi come Kris non combinino pasticci. - Rosa lo guarda affascinata. - Lei è a conoscenza degli affari di Kris? -

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- Sta nel traffico di droga usando i pretesti dei satelliti. È un agente della sezione investigativa di Washington e deve comporre il mosaico della distribuzione, per fini politici, di droga in America Centrale. Creda, è quasi un fratello Kris - avvisa il moscovita ricordando il falso pastore. - Un tantino pervertito ma lavoratore. - - Oh, ha ragione. - Rosa si fa attenta. Il marinaio si avvicina al tavolo con il carrello e serve i cappuccini, dei cornetti e piccole confezioni di marmellata. - Nelsen e Kris commerciano assieme. - - Commerciavano assieme - specifica Rosa poggiando le labbra al bordo della tazza sul cui fianco è stampata un’ancoretta blu. - Nelsen, da poche ore, è affogato nel Rio della Magdalena. - Il russo la fissa attonito. Non si aspettava la bordata. - Quell’uomo non ha rispettato un solo impegno - mormora. - Lei parla bene spagnolo. Dove ha imparato? - lo scuote la bion- dina iniziando a sorseggiare. - A Dresda, durante noiosi seminari sui maya. - - S’interessa delle preziosità dei maya? - - Negli ultimi anni mi sono occupato d’opere d’arte trafugate. - - Un lavoro interessante? - domanda Rosa per sbirciare nella co- scienza del simpatico ospite. - Preferisco il volo acrobatico e le babayaga. - - Babayaga? - - Le belle donne - chiarisce il pilota. - Non quanto lei, Rosa. - La segretaria si sente avvampare. Gli pone una domanda secca: - Secondo lei, una straniera vivrebbe bene a Mosca? - - Amata da due padrini sarebbe uguale a una dea. Mosca è la Parigi dei cosacchi. C’è un lusso caotico. Ci sono altre città che consiglierei. Contano gli interessi che la visitatrice vorrà sviluppare. - Rosa si morde il labbro inferiore. - Supponiamo che una voglia godersi la pensione. - - Suggerirei posti discreti - dice il pilota indagando nel volto arros- sato di lei. - Esiste Borodinò, dove Napoleone fu respinto dal generale Kutuzov, sotto la neve. -

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- I posti che respingono mi danno tristezza. Preferisco le zone do- ve ci si spinge in avanti. - Su l’ultima frase Rosa stira la voce a un miagolio. Un brivido si attiva sul collo di Leonid. Diviene prurito alle gam- be, sotto il tavolo, a pochi centimetri dalle ginocchia di lei. La donna sta emettendo piacevoli onde di richiamo. - C’è la steppa. Una terra dove nessuna cosa è ferma - azzarda spingendo una delle rotule a sfiorare le sue cosce. - La steppa è la dia- gonale dell’andare, annotò Anton Cechov. Assaporerebbe le minestre di carne e pesce con cetrioli salati. L’ottimo rassol nik, o le grasse zup- pe di cavoli e barbabietole rosse. - - Non paiono pietanze delicate - lamenta Rosa arricciando il nasi- no. - Ci saranno anche cibi meno pesanti. - - Nella mia dacia la cucina è raffinata. Grissini spalmati con burro e anneriti nel caviale. Neve fresca con cognac e ciliege sotto spirito. Canti e balli dinanzi alla stufa di ghisa nera alta due metri. L’alimentazione dipende dalla capacità di resistere al freddo, in parti- colare quando non si ha un affetto piacevole con cui dividere la coperta. - Leonid spinge avanti il pugno chiuso, parallelo al tavolo. - Una persona freddolosa deve mangiare cibo di sostanza, polente di grano saraceno, salsicce, aringhe, agnolotti della Siberia, gelatina di fecola con succo di frutta. - - Sono calorie a migliaia. - Rosa si restringe nelle spalle. - Divente- rei una balena. Preferisco i vestiti leggeri. - - Un compagno che le riscaldi i piedini le servirà. - - Romantico! - esclama la donna ricevendo la pressione del ginoc- chio maschile che avanza alla stregua di un rompighiaccio polare sotto il tavolo. - Lei crede che riuscirei a divertirmi lassù? - - Curiamo i pochi posti piacevoli. Teatri, discoteche, circoli privati, hotel con le stanze gigantesche, di otto metri per cinque, riscaldate per gli amanti con del vino caldo. - - Da voi un uomo si lega a lungo? - - In Russia sono le donne che abbandonano i mariti. - - Si sposano in chiesa? -

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- Stiamo recuperando. Si va dal pope. Ci si sposa, ci si ubriaca con la vodka, si spaccano i bicchieri. - - Perché rompete i bicchieri dopo avere bevuto vodka? - - Siamo vittime dell’appagamento. Ne soffriamo. - - Perché? - - Il gran freddo. Le invasioni mongole. La brama di Igor. - - Insomma, con i soldi, in Russia, si vive bene? - - Ormai siamo allineati - sibila ironico il pilota. Rosa sta per porre la domanda dalla cui risposta dipenderà il suo futuro. Le basteranno le garanzie di Leon, il quale, da sotto il tavolo, è giunto in zona rossa. Ha individuato il saldo di fiducia che le offre lo straniero dagli occhi neri che emanano un fascino intenso. In quel momento ha una sola bussola: la sua sensibilità sostenuta dal sesto senso. Non è scaltra al punto da poter estorcere, da sola, a un boss di Panama, il frutto delle sue malefatte. - Leon, posso chiamarti papito? - - Papito? - - Un modo di chiamare gli amici. - - Mi suona bene. - - Quando ritornerai in Russia? - gli domanda senza perdere il con- tatto con il suo sguardo penetrante. - Il mio lavoro in America sta per finire. Presto sarò nella mia da- cia in montagna. Farò una vacanza per riprendermi dalle punture degli insetti che mi hanno perseguitato in questo continente bollente. - - Non mi sembri uno dalla pelle tenera. - - Il mio cuore è duro, il resto è sensibile. - Rosa emette un mugolio. Sfiora un istante la mano di lui racco- gliendo un biscotto su cui spalmare marmellata di more. - Papito, mi accompagneresti a conoscere la Russia? - - Mi piacciono le donne che spendono il denaro per turismo. Sarò felice di guidarti. Hai sul passaporto il visto russo? - - Neppure quello europeo. - - Te li farò avere. Annotami i tuoi dati. -

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Rosa scrive su un foglietto il nome, la data di nascita, e lo porge. - Possiamo cenare assieme? - le domanda mettendo via il biglietto e alzandosi per spostarle la sedia. - Alle sette sarò pronta. Passa a riprendermi. - Si salutano. Lei sparisce nell’ascensore. Leonid restituisce il lascia- passare al sottufficiale sulla porta. Il suo sguardo arriva sulla bandiera che si muove pigra nel filo di vento. Avrà tempo di riposare qualche ora prima d’incontrare Rosa. Sarà piacevole mordere la ciliegina che la segretaria gli offre. Scoprirà se dietro la sua voglia di turismo non ci sia il milioncino. Pur mascherata con l’ingenuità di una vestale, ha la dote dell’intuizione. Di nuovo, per lui, il gioco cambia. La proteggerà dai piani di don Alvaro. Al mattino Rosa si sveglia nel letto di Leonid. Ha trascorso una notte indimenticabile dopo aver cenato con caviale e champagne. Le- on ha uno spirito da cosacco che le ha scosso i sensi in un modo che non conosceva. È serena. L’eccitazione è servita ad annullare ogni residuo di pietà verso Nelsen. Guarda il russo con un misto di gioia ed è piena di una soddisfazione che riempie il vuoto interiore cresciu- to dalla sua assunzione al servizio di Nelsen. Le farà ottenere il visto per la Russia e partiranno assieme. Rosa trae una forza meravigliosa che le fa decidere il gran passo: si godrà il denaro, aiutata dal pilota. Gli dirà la verità a rate. La scoperta dell’amore alla maniera russa, con calde lacrime versate nel suo ombelico, l’ha commossa. Comincia a sentire che la parola chiave è “matrimonio” e presagisce che si farà coinvolgere dal pope. Leonid stira le braccia, raccapezzando le ultime idee e ricorda le promesse fatte alla biondina. Accende una sigaretta. Aspira il fumo ponderando sul motivo della fretta che spinge Rosa a voler partire con lui. Certamente avrà dei risparmi nascosti da qualche parte. Dol- lari, di complicata origine ma genuini. Questi e la reciproca attrazione giustificherebbero il bisogno di schiavitù sentimentale cui lei vuole sottomettersi. Quando saranno in Russia, la vestale tirerà dal pozzo magico i soldini, candida e senza segreti. Dà uno sguardo all’orologio:

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lo attende il collegamento con Vassili. Il cellulare vibra sul comodino e lui lo afferra mettendo la mano fuori del lenzuolo. - Leonid, dormivi ancora? Sono le sei. - - Sono sveglio da un pezzo, Numero Uno. - - Un tipo dell’Organizzazione è venuto in ufficio. Mi ha avvisato con un pugno. Il prossimo avviso sarà fatale. Tu che riporti? - do- manda il vocione scomposto. - Don Alvaro viaggerà per Bogotà. Ti vuole al museo. Non per abbracciarti. Si aspetta che tu gli porti il denaro. Ora la buona. Colla- borerò per il trasferimento del diamante. Torneremo a Cuba, tu ed io, assieme all’Orloff e alla cara signorina Rosa. - - La signorina chi? - il vocione sale di un tono. - Tra poco ti manderò un’e-mail elettronica con i dati completi della mia amica. Mi porterai un visto, pronto a essere usato. - - Ti posso chiedere cosa stai costruendo? - - Il mio matrimonio. C’è un’altra notizia. Il tuo ammiraglio è mor- to. Affogato, pare. - - Per la madre dell’Arlecchino maggiore. Mi stai dicendo che qual- cuno mi fa terra bruciata intorno? - strepita Vassili imbestialito. - Non risorgerà - gli conferma il pilota. - Ha portato all’inferno il segreto dei tuoi soldi. - - Al diavolo. Kris, dov’è? - - Sta nella foresta. Con Amanicea che lo cura. - Il pilota, con un sorrisetto sarcastico, ripone il telefono. Si rimette sotto il lenzuolo. Rosa si è svegliata e comincia a stuzzicarlo.

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Il furgone che porta la verdura al mercato si ferma da un lato della strada alberata. È partito dalla campagna alle quattro del mattino e dopo un’ora è entrato in città, guidato dal contadino, un nero cui manca l’orecchio sinistro, perso durante una lite con un cavallo om- broso che gli sferrò un calcio, fortunatamente preso di striscio. Sua moglie, seduta accanto a lui, si rigira verso il cassone pieno di cavoli, carote, patate e rape. Sopra i mucchi dorme la neretta addormentata. La figura era apparsa sulla strada nel cono di luce dei fari, lontano da Barranquilla. Aveva un cagnolino al guinzaglio. La donna aveva con- vinto il marito a farla salire a bordo con l’animale. - Siamo arrivati. Svegliati, ragazzina - la chiama scuotendola. Pamela si stropiccia gli occhi. Si riprende. - Scendi - le ripete la donnina pigolante. - Non puoi restare con noi. Non sei lontana dal centro della città. - La neretta scavalca la sponda del furgone ricevendo Bolivar in braccio. Vorrebbe dire delle parole; non sa quali. Non è abituata a ringraziare, non l’ha mai fatto. Non ha mai ricevuto una gentilezza. La donna le consegna una reticella con dodici mandarini. - Ti è andata bene. La prossima potresti non riaprire gli occhi stor- ti che hai. Per poco non eri investita. Mi senti scemina? - Il furgone riparte. Comincia a fare giorno. Il traffico aumenta lun- go le vie. Se arrivano tardi al mercato, i contadini rischiano di non vendere ciò che hanno portato dalla parcella di terra. Bolivar segue docilmente la ragazzina. Da quando i due cattivi presero lei e il cane con la forza, per metterli in un’auto e poi scaricar- li in un posto sconosciuto, ha mantenuto l’impegno preso con Pablito: ha curato il bastardino. Pamela alza la testa e spinge lo sguar- do vacuo tra le file dei palazzi che le vanno incontro. Conosce i numeri. Contando le vie, trova la piazza dove sta il museo. Pablo sarà felice di riavere Bolivar, grasso e col pelo lucido. L’abitudine a pro- teggersi la spinge a rintanarsi in un cantone non illuminato, riparato

dalla siepe. Bolivar si accuccia ai suoi piedi, sbandierando la lingua penzoloni e ansimando con rumore di mantice. Lei adocchia la porti- cina del ripostiglio in cui a volte dormiva il suo amico. È aperta. A un tratto, nota un camioncino parcheggiato poco distante dall’uscio. Due uomini si muovono intorno alla porta. Le pare di riconoscere gli stes- si tipi che l’avevano allontanata dal museo giorni prima. Con un aumento dei battiti del cuoricino, nota qualcosa di anormale. Lei co- nosce il ripostiglio perché c’è stata con Pablo. In alto c’è una finestrella grande abbastanza da far passare una persona. Da lì si entra nel museo. I due bruti stanno manovrando con un palo di ferro per divaricare una grata. La sua espressione è prima di stizza, poi di stu- pore. Un istintivo reagire, tra rozza malizia e senso d’affezione, la spinge a cercare la maniera di intervenire. La strada le ha insegnato norme vitali: stare lontano dai guai. Vince un impulso che le mette coraggio, uguale all’istinto del cane. Ha toccato spesso la sgarbatezza delle persone che la fanno sentire un rospo ributtante. Ha un innato sprezzo per ciò che la molesta. La sua psiche ha subito uno slittamen- to, è diversa da quella dei suoi coetanei vissuti in una famiglia normale. Il suo mondo è diverso, rimpiccolito. Le sue sensazioni so- no mutilate; le impressioni in lei si formano in ritardo mentre il corpo è già accelerato per l’azione, perciò la franchezza dei gesti è difficolto- sa. Lascia la corda di Bolivar. Esce dai cespugli e inizia a tirare sassi nei vetri delle finestre basse del museo. Mette in vibrazione le fotocel- lule dell’ambiente principale e s’innesca l’allarme. Scalmanata, seguita a gridare, tira calci alla porta. I ladri, colti di sorpresa, escono corren- do; saltano nel camioncino e fuggono. Qualche finestra delle case adiacenti al museo si apre e delle persone si affacciano per vedere l’origine del baccano. Una telefonata giunge alla polizia. La ragazza, senza attendere che torni la calma, si mimetizza dietro i cespugli. Sopraggiunge, dopo una decina di minuti, un’auto con le luci lam- peggianti. Si ferma dinanzi al museo per indagare. C’è in servizio una coppia di agenti. Uno è donna. Muovono il faro acceso per ispeziona- re la facciata e il perimetro. Si consultano tra loro.

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Pamela ha paura delle armi. Quando il fascio del riflettore la co- glie, resta immobile: il colore nero risalta contro il bianco delle gemme del pitosforo. L’agente donna la raggiunge. - Vieni - le dice con voce bassa. - Non voglio. - - Non costringermi a prenderti per le orecchie. - - Tu mi spelli. - - Non ho mai spellato nessuno - la rassicura tirandola per il brac- cino. - Hai visto qualcuno intorno al museo? - - Due tipi. Stavano per entrare. - - Brava - la incoraggia mettendole un braccio sulla spalla. - Adesso andiamo e beviamo assieme un cioccolato caldo. Come ti chiami? - - ‘Mela - dice senza resistenza. - Dillo bene. - - Paa… mela. - - Pamela. Bel nome. Ci sediamo e mangiamo un dolce - promette entrando in un negozio già aperto che vende un po’ di tutto, dal for- maggio alle frittelle. - Raccontami cosa facevano. - La ragazza si sente rassicurata dal tono di voce della donna. Sie- dono a un tavolo e bevono il cacao disciolto nel latte caldo. Pamela racconta ciò che ha veduto e quanto ha fatto. Non voleva che rubas- sero alla signora che lavora al museo, perché è gentile e le dà da mangiare. I ladri stavano per entrare di soppiatto, intrufolandosi dal ripostiglio. Lei li ha riconosciuti perché una mattina la misero sul ca- mioncino con la forza per portarla lontano dal museo. L’agente le fa una carezza e le chiede di non allontanarsi. Andrà a telefonare alla signora e anche quella vorrà ascoltarla. - Il cane è tuo? - - Lui è Bolivar - rivela accarezzando con le mani nere la fedeltà del bianco animale. - Allora siamo al sicuro - risponde la donna sorridendo. Dal commissariato chiamano Clara. La informano del tentativo di furto al museo e della presenza di Pamela. Controlla l’ora: sono le sei. Il marito segue dormendo. Sceglie l’abito da indossare e va di filato

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alla doccia. Questa volta non si lascerà sfuggire la ragazzina. Pablito sarà felice di sapere che è riapparsa con il suo cane. Il commissario, dopo aver parlato con Clara, decide di affidare Pamela all’istituto del benestare familiare, in attesa di una soluzione migliore. La strada, date le circostanze, è troppo pericolosa perché dia asilo. Clara sceglierà con Jean Paul la maniera di aiutarla. Non esclude la richiesta di un secondo affidamento, al ritorno da Bogotà.

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* Il dottor Lobo de Miranda va a prendere i tre sotto casa. Ha insi- stito garbatamente con il socio per assumere l’impegno di accompagnare la famigliola all’aeroporto. Vuole salutare tutti prima della partenza. Mentre Clara chiude la porta dell’appartamento, Jean Paul assicura al vecchio che la fumigazione fatta da Camillo alla pian- tagione ha dato buoni risultati: le larve sono morte e le palme riprendono forza. Caricate le valigie sul fuoristrada automatico del vecchio, si avviano. A dispetto degli anni, il dottore ha riflessi agili, ma guida con alti margini di prudenza che lo fanno procedere con un po’ di lentezza. I semafori lungo il percorso sono sincronizzati e non ostacolano la marcia regolare. L’auto compie un giro nel parcheggio dell’aerostazione. Trovano una piazzola disponibile. Il dottore è co- sciente di avere forzato l’intima quotidianità di Clara e del capitano, precipitando nel loro cerchio familiare. A volte gli sopravviene un rimorso per non avere sulla bocca frasi cauterizzanti i segni lasciati dal suo comportamento passato. Sarà necessaria una ricostruzione, dagli orli più fragili della relazione tra zio e nipoti. Ha tentato, in quei mesi, di ricomporre l’ultimo pezzo della sua esistenza. La pratica reazione di Clara, un cauto avvicinamento, lui la giustifica: ha mostrato una rispettosa dignità nell’angustia dell’inatteso vincolo di parentela. Gli ha perdonato di non essere apparso nell’istante della tragedia paterna. Attraversano le porte automatiche della sala di accettazione. Men- tre Jean Paul fa la fila per consegnare i biglietti e le valige, il dottore, in elegante gessato, il Panama in testa, il bastoncino laccato con l’impugnatura in argento, lo attende poco lontano con Clara e Pablo. - Sono contento per il ragazzino - dice alla giovane. - Ha comin- ciato un cammino diverso da quello del brutto pozzo. Riuscirete a prospettargli un futuro meno difficile. Mi pare intelligente, con un DNA accelerato. Sarebbe sprecato se vendesse cocco sulle spiagge, o facesse codazzo con ceffi da galera. Forse nella testa riccioluta si na- sconde un genio potenziale. Diamogli modo di uscire allo scoperto. - Sono le circostanze della possibilità - risponde Clara fissandolo con gli occhi verdi. - Gliene stiamo dando una. La riuscita dipenderà

da lui. Il suo carattere lo marcherà per il futuro. Sa di non essere re- spinto. - la giovane si sposta al box del giornalaio per comprare un fumetto a Pablo. Fissa il dottore con una curiosa concentrazione. - Perché non si è sposato? - gli domanda. - Il matrimonio è un impegno. Ero certo di non riuscire a restare fedele. La città, ormai, è disinibita. Un uomo ha le donne che deside- ra. Barranquilla ha due maniere di falsificare il quotidiano: abbellisce i quartieri storici; o cerca ogni volta di essere vera con le allegorie dei carnevali popolari, miniere di nuovi amori, di eccessi che vanno poi perduti nella vaghezza del calendario cittadino. - - A lei piace dormire sonni tranquilli - sostiene Clara. - Vorrei averli. Purtroppo la densità dell’energia dei miei sonni mi tiene sveglio. Spesso, la durezza del disprezzo di Salvador, rovinò i miei sonni giovanili. Adesso, lo fanno i rimorsi. Se è tuo desiderio, accoglierò Pablito di buon grado in casa le volte che me lo manderai. Gli impartirò lezioni di alchimia elementare. Eh? Quelli della sua età sono affascinati dalle reazioni chimiche rivestite di magico. La rana di Galvani farà colpo sul neretto. Lo manderò a catturare due o tre di quelle abili saltatrici, lo stupirò col salto della rana morta. Gli mostre- rò i disegni impressionanti del corpo, le anatomie di esperti. - - Le sarò riconoscente - risponde la giovane regalandogli uno sguardo che lo scalda. - Possiamo cominciare da qui. - - Sarà un inizio - dice il dottore dandole la mano per suggellare il patto. - Io e il ragazzino ci compatiremo a vicenda. Lui per la mia vecchiaia ed io per la sua naturale ignoranza. Lui migliorerà, al contra- rio di me. Io non ho altro da apprendere. Il tempo è finito. - Jean Paul torna con le carte d’imbarco. L’impiegata l’ha pregato di affrettarsi. Il dottore accarezza la testa di Pablo. - Giovanotto, fai il bravo, perché non ti costa nulla. - Pablito lo guarda dal basso. Vorrebbe che il vecchio vedesse l’esplosione di felicità che ha dentro: non è una cosa brutta la felicità. Lui non darà dispiacere al capitan marino o alla signora. Lobo de Miranda tocca il braccio di Jean Paul.

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- Ecco, capitanuzzo mio. Ci salutiamo. Un periodo a Bogotà ti fa- rà bene. Ti allontani da tanta tensione. Eh. Sono rasserenato dalla sospensione della causa contro l’ammiraglio. Una storia che non mi piaceva affatto. Tutto andrà verso la normalità. Ti aspetto qui. - - Tornerò presto. Metteremo la draga all’opera. - Il giovane sospinge Clara verso il varco. Il dottore alza il Panama salutandoli attraverso il vetro che separa la sala d’attesa da quelle delle partenze. Si avvia all’uscita dell’aerostazione, augurandosi che Clara gli dia un nipote. In quanto alla discendenza del capitano, ha verifica- to in passato: metà francese, per ramo materno; da lì il suo animo rivoltoso. Metà spagnolo, per lato paterno; da là il filo audace. L’aereo della compagnia locale sta sul piazzale. Un’autobotte lo ri- fornisce di carburante. Pablo ne avvicina uno per la prima volta, resta ipnotizzato dalla forma aerodinamica di quello che gli pare un enorme giocattolo fantastico. Lo studia affascinato. Li ha osservati da lontano, gli aerei, mentre volavano bassi arrivando alla pista. - Il dottore mi è sembrato commosso - dice Jean Paul a Clara do- po che hanno passato l’ultimo controllo di sicurezza. Lo hai intenerito con i tuoi modi. - - Un avvicinamento famigliare è positivo. La vita l’ha amareggiato e forse gli farà bene un’attesa di affetto disinteressato. - Il capitano consegna le carte d’imbarco all’impiegata di scalo. La fila dei passeggeri si avvicina alla fusoliera ordinatamente. Clara gli sfiora la mano. - A Bogotà ci verrà incontro mia madre. Conoscerà Pablito. È dispiaciuta per i malintesi avuti con te. Vuole trovare una maniera per chiederti perdono. La scaletta è poggiata alla carlinga del DC 9. I passeggeri comin- ciano a salirvi. Pablito ha osservato ogni movimento. Fa qualche domanda al tecnico della rampa. - No, ragazzo, questo non va a benzina. Va a cherosene - risponde l’uomo in tuta, con pazienza. - Cico, un mio amico, aspirava la benzina. - - E gli faceva bene? - - Non lo so. Cico morì. -

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- Allora gli fece male. - Allo steward tremano i polsi. Lo inquadra quando Pablo poggia il piede sul gradino della scaletta. Il neretto pare uno di quei diavoletti capaci di scompensare l’ordine di una cabina d’aereo. Lui ha acquisito una speciale divinazione: i passeggeri se li legge sulla porta, mentre li accoglie. C’è quello agitato, mezzo brillo. Quello calmo perché ha ingoiato calmanti. I tipi con la faccia inespressiva e l’occhio mobile: potenziali terroristi. Si siedono e lui spera che non si alzino dal posto fino all’arrivo. Farà attenzione al moccioso. Individua gli accompa- gnatori. Una coppia garbata. Controlla il numero della fila. Vanno alla tredici. Li segue con lo sguardo fin quando non sono seduti. Il ragaz- zo è accanto alla signora dal lato del corridoio. La voce inespressiva dell’hostess diffonde informazioni sul volo. Pablo ruota la testa in cerca della fonte e prima di scoprirla ha la sensazione che il messaggio femminile preluda a cose più interessanti. “L’equipaggio è a vostra disposizione per qualunque necessità.” Sporge la testa riccioluta sul corridoio e vede, davanti, la signorina in uniforme che aggancia il mi- crofono. Le porte del DC9 si chiudono. Lo steward fa un giro di perlustrazione: il neretto non si è ancora allacciato e si trastulla con il cinturone. Lo aiuta e lo blocca con un click metallico tirando la strin- ga fino a immobilizzarlo. - Non te lo levare - gli sussurra - o ti morderò la testa. - Le minacce a volte calmano i mocciosi iperattivi. Completa il giro e ritorna davanti per cinturarsi sullo strapuntino fuori della cabina di pilotaggio, con la faccia verso i passeggeri. Ha visibilità sulla fila tredi- ci. La testa del ragazzino appare sul corridoio. Vede gli occhi vispi. I due motori si sostengono ronzando; poi il sibilo dei getti si fa acuto al salire dei giri: l’aereo inizia a correre, eleva il muso e stacca i carrelli. L’aria in cabina si fa gelida: il pilota avrà caldo. Pablo caccia la lingua e mostra le migliori smorfie allo steward. Smette al termine della salita, quando si spegne l’avviso di tenere le cinture allacciate e inizia il servizio di cortesia. I due assistenti distri- buiscono le bibite, l’uomo alla fila sinistra e la donna alla destra. L’attenzione infantile si sposta su quanto lo circonda. Scopre di sede-

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re su qualcosa di magnifico che non è paragonabile al bus di legno pitturato, senza porte, rumoroso e fumoso, sul quale la madre lo issa- va quando andavano a visitare la sorella di lei - quell’accoppiata con l’idraulico - che non si vergognava di chiederle soldi. La sedia ha bot- toni diversi: uno per la luce, un altro per muovere la spalliera, uno con una campana. Schiaccia un pulsante e sente un suono ammaestra- to. Si domanda che senso abbia il collegamento del pulsante con il din don e ripete l’azione per capire quanto gli sfugge. Lo scopre quando sopraggiunge lo steward che si china una seconda volta sul suo orec- chio dicendo tra i denti: - Se ci dai ancora una volta, ti accorcio il dito. - Pablo solleva la testa per scoprire il perché della minaccia sottovo- ce. La madre lo sgridava e i vicini udivano, fino a tre case oltre. Quest’uomo parla senza apparire arrabbiato. Di sghembo, vede che sparisce in un punto laterale della cabina. Vuole liberarsi dalla cintura. Non ha seguito le istruzioni della signorina che mostrava - prima del volo - ai passeggeri l’uso della cinghia. Adesso non riesce a sganciarsi. Tira da un lato e dall’altro: pare un trabocchetto. Armeggia con la fibbia e quasi rinuncia. Succede l’insperato: rilasciandola con un gesto sconsolato, il pollice si aggancia sotto l’aletta d’alluminio e la fibbia si apre con uno scatto. Clara lo guarda e gli suggerisce che se ha necessità della toilette la troverà nella zona anteriore. Pablito si avvia prudente con passi esplo- rativi, avvertendo sotto le scarpe nuove la morbidezza del pavimento, quasi andasse su qualcosa di liquido. È la moquette. Osserva, a destra e a sinistra, le persone sedute nelle file. Sono diverse da quelle che viaggiavano ammassate nel bus di legno, senza vetri, con le ceste di cavoli sotto i sedili e assalite dal vento che entrava violento. L’aereo ha i finestrini. “Chissà perché li tengono chiusi.” Entra una luce acce- cante che illumina tutti in un modo che non conosceva. Ha una spiegazione: devono essere vicini al Sole. Prosegue fino alla zona del galley, dove incontra i due assistenti di volo impegnati con i carrelli. - Il bagno è di fianco - gli dice lo steward indicandolo. - Ruota la maniglia e non farla fuori. -

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Spinge la porta e gli si presenta uno spazio angusto con un sedile che non pare una tazza: un cubo uscito dal pavimento. Si specchia e si passa una mano sui riccioli. Si bagna le dita. Sul lavamano ci sono due bottigliette colorate e invitanti. Preme sul tappo della blu e n’esce uno schizzo colorato. A contatto con l’acqua fa spuma. “È sapone magi- co.” Dalla seconda viene fuori profumo. “Chi sarà lo stupido che l’ha scordato?” Se ne sparge addosso a sufficienza. La tazza non ha la va- schetta con l’acqua e quindi non sa attivare lo scarico. “Possibile che la lasci com’è caduta? C’è la carta igienica.” Quel rotolo che non fini- sce mai l’ha scoperto in casa di Clara, prima non lo conosceva; la madre taglia in quadratini i giornali. Vede un pulsante e lo pigia. Un rumore assordante accompagna un potente risucchio sorto nel fondo del water e lo fa tremare di spavento. Esce con un balzo dalla toilette per sfuggire all’aspirazione del mostro di plastica e scontra la schiena contro il carrello delle bibite che lo steward sta spingendo verso il corridoio. L’uomo afferra con rapidità le bottiglie che oscillano ed evita che si versino addosso a quelli seduti nelle prime file. - Hai visto che succede a non restare al tuo posto? E magari me l’hai fatta sul pavimento. - - No, no - balbetta il ragazzo scuotendo la testa. - C’è un cocco- drillo nel cesso - lo avvisa infilandosi tra il carrello e la paratia per riandare lesto al suo posto. Lo steward arriva con il carrello all’altezza della fila tredici. - Scommettiamo che ti va una Coca cola? - lo interroga con aria colma di pazienza asfittica mentre apre il tavolino dinanzi al neretto. - Mi farà bene - risponde Pablo afferrando la lattina con due mani. - Ho lo stomaco sgonfio. - - Vuoi le noccioline e le patatine? - - Sì. Tu dai da mangiare anche al coccodrillo rinchiuso nel cesso? - - Quale? - - Quello che soffia forte quando premi il bottone per mandargli giù la cacca. S’incazza. Lo sai? - - Ho capito - lo steward afferra il concetto giacché anche lui, la prima volta che la udì, restò impressionato dal rumore della depres-

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sione igienizzante. Fu quando giunsero in linea gli aeroplani allestiti con le toilette dotate del nuovo sistema a depressione, in sostituzione di quelle tradizionali con il risciacquo color blu. - Non è un coccodril- lo. Un ragazzetto ci ha messo la testa dentro e non è stato capace di uscire. Lo leveranno a fine di settimana. - - Ci credo che l’ha succhiato. Fa un rumore. - Lo steward ride a bocca stretta. Gli dà una seconda lattina. - Ci vediamo dopo - gli dice spingendo il carrello per terminare la distribuzione del rinfresco. - Adesso resta al tuo posto. - L’aereo fa crociera a ottomila metri. Dall’esterno la luce immacola- ta rilancia l’infinito. Pablito n’è attratto. Dal finestrino osserva la semiala e chiede a Clara se possono cambiare di posto. Appoggia il naso al quadrato di doppia plastica e guarda in basso le colline e i fiumi che serpeggiano nelle praterie. Le nuvole catturano il suo inte- resse e resta estasiato. Adesso che sa del ritorno di Pamela, quando la incontrerà, le racconterà del viaggio incredibile con il capitan marino e la signora, verso la grande città per andare a vedere l’oro degli anti- chi. Non sa com’è fatta una capitale. Avrà tante strade, dove uno si perde. Ci farà freddo. Ha notato che tutti hanno delle maglie e delle giacche. La signora ha preso un indumento peloso per lui e gli ha det- to che dovrà coprirsi per stare bene. Lui riusciva a sopportare il vento che in certe notti s’insinua nella casupola della madre. Rabbrividiva e passava nel letto della gran nera che emana calore. Si domanda perché non vede volare uccelli là fuori. Forse l’aereo va più alto dei flamencos o dei pellicani. La voce dell’hostess torna a farsi udire. L’aereo inizia la discesa verso l’aeroporto El Dorado. Il tempo a terra è nuvoloso e la temperatura è di dodici gradi. Terminato l’annuncio, si odono stra- ni rumori e l’aereo trema mentre caccia dall’ala grossi pannelli lucidi. Il terreno si avvicina; distingue le chiome degli alberi e le automobili sulle strade; i tetti delle case. La toccata delle ruote, il rumore dei re- vers, la repentina decelerazione danno a Pablito una piacevole palpitazione: quella del battesimo dell’aria. Il DC 9 rulla al parcheggio assegnatogli dalla torre di controllo. Clara indossa il golfino quando si spengono gli avvisi in cabina e mentre il marito prende dalle cappel-

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liere il bagaglio a mano, fa infilare la maglia a Pablo. L’aereo si svuota. Passando innanzi allo steward il ragazzo alza il visino. - Tu non scendi? - gli domanda serio. - Mi piacerebbe. Resto qui. - - A fare che? - - L’aereo torna a Barranquilla, poi di nuovo qui, poi ancora a Bar- ranquilla e infine ritorna qua e si ferma e sosta per la notte. - - E finisci tutta la Coca cola? - - Certe volte succede. Ne terrò una per te nel caso decidessi di tornare indietro. - - Non oggi. Ci stiamo una settimana, per il museo e la nonna. - - Allora ci rivediamo - risponde l’uomo scambiando un sorriso con Clara. - Bello sveglio il figliolo. - Il percorso fino al nastro dei bagagli è obbligato dalla barriera dei corrimani. Jean Paul raccoglie le valigie e si avviano all’aperto. Sarà una giornata particolare, con la famiglia che si riunisce al completo per la prima volta. Donna Xaipa appare sotto la pensilina e si lancia per abbracciare la figlia; stringe la mano che gli porge il giovane e poi si china per dare un bacino al ragazzo che si concede alle affettuosità. Prenotano un’automobile da noleggio e la donna conferma l’indirizzo. L’impiegato le consegna un tagliando con il numero della vettura gialla assegnatagli e l’importo da pagare a fine corsa al tassista. Dopo qualche minuto sono sull’Avenida, diretti a casa. Hanno stabili- to di lasciarvi i bagagli e di fare colazione prima di recarsi al museo che non è distante. Quando giungono a casa, li accoglie il profumo delle rose. Ce ne sono in ogni stanza. Donna Xaipa mostra a Pablo il divano letto, dove dormirà durante la permanenza. Il ragazzo non ha mai veduto uno stratagemma simile e l’apparizione del lettino gli sembra fantastica. Chiede alla signora di ripetere l’operazione ed è accontentato. Il materasso si ripiega su se stesso trasformandosi in sedile. “Se Pamela lo vedesse!” Clara precede il marito in camera. Il letto a una piazza e mezzo pa- re piccolo per due. A nessuno dei due dispiace. L’ambiente è accogliente e riflette buon gusto femminile. Lo stile del mobilio è leg-

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gero; i colori allegri e acquerellati. Nello spazio non si percepisce al- cuna superstizione moderna. Le lenzuola sono bianche, neutre. Alle pareti sono appese stampe maya. Sistemati gli abiti nell’armadio, la giovane va in cucina per scaldare dell’acqua. Il marito si accomoda nel divano ammirando il tappeto artigianale tessuto in Panama. Non co- nosceva l’appartamento. Le due donne abitavano in un’altra casa quando era vivo Salvador. L’ultimo dialogo che ebbe con la signora Xaipa non fu entusiasmante. Trovava il carattere di lei serrato, coper- to da una strana patina - una specie di pellicola di preservazione - dovuta al suo interagire difficoltoso, al suo attaccamento morboso verso la figlia e il marito. I rapporti con lei si raffreddarono quando lui e il padre di Clara furono invitati a una battuta di pesca. Cattura- rono un grosso luccio e ce ne volle per tirarlo dal fiume e metterlo in un condimento di sale e limone per poterlo cuocere. Si divertirono. Bevvero litri di acquavite. Quattro giorni di pesca, assieme agli amici di Salvador. Donna Xaipa serve il caffè a Jean Paul. Gli siede accanto e gli dice che hanno dimostrato una generosità coinvolgente nei confronti di Pablo. Arriccia il naso quando la figlia le sussurra che potrebbe arriva- re anche una ragazzina. - Un marmocchio dentro casa, quando non è il tuo, fa apparire ec- cessive le attenzioni. Con due marmocchi sarà ancora più faticoso. Ma voi siete diversi da me e vi somigliate. Credo sia questo il motivo per cui Jean Paul piaceva a mio marito. Andavano d’accordo e non capii che trovava in lui qualcosa che a me sfuggiva. - Si rivolge al capi- tano: - Me ne dispiaccio - dice con sincerità. - Mi vorrai perdonare. - Jean Paul avverte la lealtà nella sua voce. Suo dovere è trovare l’aggancio per darle il coraggio di proseguire. - Pablito è un figliolo onorevole. Non farà pesare la sua presenza. Inoltre distribuisce l’affetto in dosi equilibrate, senza privilegiare nes- suno di noi. Il legame si fortificherà. - Donna Xaipa distende le labbra. - Sarete benvenuti quando verrete a trovarmi. L’appartamento era vuoto da un pezzo e lo vedo rivivere. La rivelazione della parentela di

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Salvador col dottore mi ha fatto male. Ho scelto, comunque, di met- tere da parte i rancori. - Si accorge, dopo alcuni anni, di dare ragione alla memoria del ma- rito che, un lontano giorno, partendo Clara per Cuba, le ripeté che erano rimasti soli. Le parve che Salvador le stesse suggerendo un se- condo figlio. Lei non lo incitò con le maniere che fanno accadere segrete meraviglie e se ne pentì quando si trovò sola. - Le persone dovrebbero tenere in conto che le disgrazie possono accadere all’improvviso - aggiunge con affetto, fissando la figlia. Quel giorno andrà con loro al museo dell’oro e poi al ristorante di Spartaco, l’italiano impertinente che cucina saporito. Va a cambiarsi. Sceglie il vestito più allegro del guardaroba. Abbina gonna e giacchet- ta e ci adatta una camicetta aperta dal colore vivace. I capi di buone marche hanno una caratteristica comune: si possono combinare tra loro avendo colori di base che non stridono e paiono originare da una stessa sartoria. Clara esce dalla cucina col vassoio delle tostatine, il burro, il miele, la marmellata. Si è accorta che Pablo è impaziente. La colazione lo calma. In quel momento la figlia rammenta che non ha ancora resti- tuito l’anello alla madre. Lo prende dalla borsetta e glielo porge. - Salite al secondo piano - dice Clara quando giungono al museo. - Ci ritroveremo alla sala del tesoro. Devo passare in direzione. - Lascia che il marito faccia da guida alla madre e al ragazzino e va alla zona degli uffici per incontrarsi con Punapay, il direttore. Essendo un giorno festivo, c’è afflusso di visitatori. L’esposizione dei pettorali d’oro e degli oggetti rituali emette un fascino contunden- te. Una sala è riservata alle morrocotas, le monete d’oro del periodo coloniale. Ci sono leggende che narrano di bauli sotterrati ai piedi di alberelli dai rami contorti e di facile riconoscimento per il colore in- tenso delle foglie. La fantasia di Pablo s’innesca quando i suoi occhi osservano i tessuti d’oro. Chiede continue spiegazioni a Jean Paul. Clara entra da Punapay, suo conoscente, e siede alla scrivania. Il direttore attendeva la visita. Se lei è di discendenza paece, lui è un si- kuano delle pianure orientali. È schivo e intelligente. Lei gli ha portato

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una scatola di caramelle miste che l’altro mostra di gradire. Fanno commenti sui progetti degli indios della penisola Guajira; sulla strut- tura gentilizia in cui rimane salda la discendenza dove predomina la parentela consanguinea per ceppo materno. Un gruppo in cui da tempi antichi vince il matriarcato. In quelle tribù la tradizione è forte, però esiste il rischio d’isolamento. Il matriarcato fa acuire le necessità perché non avvicina le due leggi: quelle della tribù e quella dello stato. - Dimmi, Punapay, siamo intesi. Facciamo lo scambio per una sta- gione. Ti presto il sacerdote e tu mi mandi i coltelli sacrificali. Ti ho annotato il numero della polizza assicurativa per i pezzi che mi man- derai. Eccolo - lo rassicura porgendogli copia del contratto. - Mi dovresti dare quella che hai fatto per il nostro sacerdote. - L’indio, a sua volta, le porge dei fogli. - Assicurazione e bolla per lo spedizioniere. Useremo lo stesso servizio. La tua precisione mi fa sentire tranquillo - si consola il diret- tore conservando la polizza stipulata per i coltelli dei sacrifici maya. - Con te si lavora bene - lo encomia lei. - Il tuo sacerdote mi permetterà di sostituire il diamante Orloff che andrà a Cuba. Un successo la sua esposizione. Lo hai veduto? - - Non ancora. Più tardi passerò nella sala. - Clara si alza dalla sedia. - Pranzi al ristorante del museo? - le domanda Punapay. - Andiamo da Spartaco, un ristorante non lontano da qui. - - Hai scelto bene. L’hanno segnalato anche sui depliant del museo. Fa ottime lasagne. Grazie per le caramelle, Clara. - Il direttore saluta la collega e le dà un abbraccio di solidarietà. Lei raggiunge la sala del diamante. Jean Paul sta leggendo una presenta- zione dalla guida a donna Xaipa e a Pablito: la storia dell’Orloff. Si gode la scena senza interromperlo e attende che termini. “Il diamante ha ricevuto il nome dell’ultimo compratore: il conte Orloff che lo comprò dal mercante persiano Khojeh, per farne o- maggio a Caterina di Russia della quale era innamorato. La zarina fu una roccaforte inespugnabile per il conte. Ella preferiva altri tipi, rudi e baffuti. Il diamante era conosciuto col nome originario di Sole di

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Mare. Ha un colore verde azzurro e una forma che ricorda la metà di un uovo sodo di piccione. Un soldato inglese lo rubò nel 1750 dalla fronte della divinità indù Sri Rangen e lo vendette al suo capitano per poche sterline. Pare che una maledizione lo accompagni.” - Qual è? - domanda Clara arrivando alle spalle del marito. - Non lo dice. Credo sia il prezzo - scherza Jean Paul. Clara prova tenerezza. Ha una segreta novità per lui, ma gliela sve- lerà prima di sera, quando saranno meno pressati dagli eventi.

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L’aeroporto El Dorado il mattino è molto affollato. I viali sono stretti e l’autista del consolato russo, in attesa che Vassili esca dalla stazione degli arrivi, compie un altro giro intorno all’area. Avviandosi al controllo dei passaporti diplomatici, Leonid è supe- rato dal suo capo che gli chiede di lasciarlo passare. - Dammi la precedenza - gli chiede l’ucraino. - Ho programmato di tornare a Cuba questa sera stessa. Non mi trovo bene in una città che galleggia a tremila metri. Mi devi duecento dollari per il visto sul passaporto della tua amica. Non riesco a credere che vuoi sposarti. - - Non è una faccenda che ti riguarda. - Nella mente fertile di Vassili sorge il sospetto che il moscovita gli nasconda qualcosa. Non si spiega l’improvviso capovolgimento di vita in un donnaiolo come lui. La funzionaria doganale accenna a Vassili di porgerle il passapor- to. Lo rigira pagina per pagina, con aria poco convinta. L’ucraino la fissa e comincia a far ballare il tallone sinistro. - Qualcosa non va, signora? - - Da dove viene? - - Da Cuba. - - Lei non lo timbra mai da nessun parte? - - Passaporto diplomatico - sussurra l’uomo con una smorfia di trionfo che mostra quanto il proposito della burocrazia e il vantaggio di esserne prediletto permetta a certi uomini di fare cose poco comu- ni. - Immune da certe stupidità. - - Scade oggi - osserva la donna stampandovi un timbro ricco d’inchiostro rosso. - Lei rischia di non uscire dal paese senza il rinno- vo. Un timbro doganale non è mai una stoltezza. - Vassili accusa una fitta trasversale mentre l’aria scorre da un pezzo d’intestino grosso a uno sottile, non tanto violenta da impedirgli di simulare l’umiltà. Ritira mogio il passaporto e impreca:

- Per gli Arlecchini doganieri. Me ne sono dimenticato. La volta passata mi accadde in Costa Rica - geme sconsolato. La donna sposta l’attenzione, alza la testa e accenna a Leonid di avanzare. Il pilota si avvicina sorridendo, stirando le punte dei baffi. - Avrebbe dovuto sequestrarglielo - dice lui lusinghiero. - Sapesse, quanto è tronfio quel pallone gonfiato -. La funzionaria gli mette un timbro secco e gli accenna di passare con un’aria disinvolta che permette al moscovita una battuta. - Mi piacerebbe che mi timbrassi dalla testa ai piedi. - Lei sorride con una fiammata nello sguardo. - Buona permanenza - gli dice restituendogli il passaporto. Vassili cammina a lunghi passi scotendo la carcassa in cui cela la vanagloria. Si può sentire il fruscio della stoffa dei suoi pantaloni. La sala degli arrivi è affollata. Atterrano a quell’ora molte compa- gnie. Vi è un affaccendarsi di facchini con i carrelli. I nastri ruotano in un carosello di borse, valige d’ogni misura, passeggini per bambini, pacchi e quant’altro. L’ucraino si fa largo usando il pancione e si gua- dagna la prima fila. Devono attendere che la giostra faccia una decina di giri prima che compaia il loro bagaglio. - Si fa tardi e al museo dell’oro ci aspettano. - Traballa incontran- do il nastro dei bagagli. -Prevedo tutto - sbraita ritirando la valigia. - Non ho tempo di andare al consolato per il rinnovo del passaporto. - - Consegnalo al nostro fattorino e farà il giro per te - gli consiglia il pilota. - Il console che abbiamo a Bogotà sa quanto sei disordinato. - Fuori, il fattorino del consolato russo mantiene sollevato un car- tello con scritto: “Vassili - Da - Questa - Parte”. - La vostra auto sta girando intorno all’isolato - li avvisa. - Una Mazda bianca con targa numero 752. Vi accompagno al marciapiede. - - Negativo - si acquieta il russo. - Eccoti il mio passaporto. Fila al consolato e fammelo rinnovare. Alle cinque di questa sera ti fai ritro- vare al banco delle partenze per Cuba. Hai dubbi? - - Nessuno. Alle cinque dal lato per Cuba. - - Eccoti cento dollari per le spese. -

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Il fattorino sparisce nella folla ondeggiante, scocciato. I due osservano il balletto di veicoli dinanzi al viale. La Mazda è impegnata nell’ultima circumnavigazione della grande aiuola di mar- gherite che abbellisce l’El Dorado. Se Vassili bolle, l’autista fa fumo. Ambedue sbraitano contro qualcosa che nessuno ha capacità di far svanire: la confusione dell’ora di picco, tra il paradosso e l’inalienabile, in cui gli automobilisti con targa pari cercano di affrettarsi per non incappare nel blocco orario delle loro targhe. L’auto imbocca la via principale che da Nord a Sud attraversa Bogotà per intero. - Questa città a tremila metri, mi dà sui nervi - commenta il gras- sone. - Già annaspo. - - Con una trentina di chili in meno staresti bene. - - Credi - dice Vassili. - Questa gente non ha i polmoni. - - Non ti agitare. Ti fa male - consiglia il pilota. L’altro comincia a essere smanioso e sbuffa. Si rivolge all’autista dai marcati tratti mongoli. - Tu di dove sei? - - Irkustk, signore segretario. - - Ti pareva. Là vivete con le aquile. - - Non la contraddico, signore segretario - accenna l’altro con un violento colpo di testa. - C’è tanta neve. Qua no, signore segretario. - - Non mi pare giusto. Dovevano lasciarti al fresco. Qui soffrirai. - - No, signore. Ci sto benissimo. - Il ciccione gonfia le gote. Si slaccia il colletto della camicia. Impre- ca dentro di sé. “Le persone vanno pagate per la loro produttività e non per la capacità di vivere in apnea a tremila metri.” - Quanto guadagni? - - Duemila dollari il mese, signore segretario. - - Per il teatro con tutti gli Arlecchini. Ci sguazzi. - L’agitazione s’impossessa dei nervi dell’ucraino. Comincia a scru- tare le auto che precedono, o seguono la Mazda. Ha impressione di essere pedinato e la giornata pare quella giusta per un sequestro. I brutti sonni, nelle ultime settimane, si sono formati per piantargli in- sicurezza nell’anima.

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- Stanno per sequestrarci - sussurra all’orecchio di Leonid. Il pilota lo fissa, preoccupato. - Stai farneticando, amico. - - Valgo milioni di dollari nelle mani della guerriglia. - - Tu vali un quintale di salsicce. Cerca di calmarti o farai il botto. - Tira una scoreggia. Dai, Numero Uno, te la concedo. L’aria ti sta sa- lendo al cervelletto. Appestaci. Il paesano di Irkustk ti perdonerà. - Maledetto sifilitico - balbetta Vassili - sei un peripatetico. - - La pressione ti sta fregando. - - Ho necessità del bagno. - Leonid bussa sulla spalla dell’autista. - Quanto manca? - - Dopo l’angolo - assicura il musulmano strizzando con un sorriso la faccia sottile da mongolo. - Due minuti. - - In fretta, o saremo sepolti dal fetore. Il capo esplode. - La Mazda supera l’incolonnamento e inchioda dietro il museo. Vassili scende di corsa e s’infila dentro, premuto dall’impellenza. Le- onid dice all’autista di non sparire. Localizza le toilette. Attende che l’altro si sia liberato. Poi seguono le indicazioni sulle tabelle e incon- trano la porta del responsabile del museo. Bussano e una voce nasale li invita a passare la soglia. Si presentano offrendo una lettera timbrata del ministero russo. Punapay indica le sedie. Parlano del trasferimento del diamante Orloff a Cuba, mentre l’indio gli mette innanzi il barat- tolo con le caramelle ricevute in dono da Clara. La sua malizia gli suggerisce di assicurarsi che il viaggio avvenga con ogni garanzia. - Bogotà-Cuba, diretto? - chiede passando una mano sulla scriva- nia, da un lato all’altro. - Certo - dice Vassili. - Diretto. Che diavolo accade? - sbotta l’ucraino quasi spazientito. - Non giriamo da Pechino con un diaman- te che vale un Perù. Andremo diretti. - - Per carità di Dio - implora l’indio. - L’Orloff è impregnato di bu- rocrazia. Mi aspettavo maggiore formalità da voi russi. - - Il sistema è cambiato. Siamo in gara con gli americani. -

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L’indio lo fissa con un barlume interrogativo. Quel tipo non sarà diverso dai conquistatori che vendettero santi miracolosi; pretenden- do di sostituirli a spiriti più sazi. Raccontarono meravigliose falsità cui gli avi posero rimedio creando incroci tra divinità indie e cattoliche. - Il vostro ministero della cultura ama la pompa - indica l’indio al- zando la mano. - Noi siamo meno rumorosi. - - Voglio firmare in fretta il contratto e ripartire nella giornata di oggi. Non sopporto l’altitudine - sostiene Vassili. - Dovrebbe masticare foglie di coca. Non ne dispongo. Sulla cor- digliera le usano gli indios. - Vassili firma alcuni fogli. - Me ne scordavo, Punapay. Che interesse ha suscitato il diaman- te? - indaga l’ucraino mentre scarta una caramella al miele, pescata dal barattolo di latta dorata. L’indio cerca tra i cataloghi sulla scrivania quello pubblicato per l’esposizione e lo porge al russo. - Ne ho fatti stampare centomila. Ci sono le informazioni del mu- seo, la descrizione del gioiello e la piantina con le strade, dove sono i ristoranti migliori delle vicinanze per un buon pranzo. Hanno distri- buito foglietti in città e nei centri maggiori, , Medellin, Popayan, Pasto, Bucaramanga. Abbiamo avuto visitatori da altri stati. Sthern è venuto dal Brasile per ammirarlo. I complimenti dell’intenditore ci hanno riempito d’orgoglio. Una disdetta che la mostra sia al termine. - Il direttore si ferma e attende che Vassili chiuda il depliant e gli esponga le regole da applicare. La spedizione è una responsabilità per entrambi, tuttavia preferisce che siano i russi, proprietari del diaman- te, a scegliere le formalità per il passaggio di consegne. L’ucraino depone il foglio pubblicitario sul ripiano, convinto che Punapay abbia fatto un ottimo lavoro divulgativo. Il dividendo da incassare per un successo è proporzionale alla quantità di denaro investita per la pre- parazione della mostra, poiché ciò che uno crede di vedere è spesso frutto di quanto altri vogliono che veda: marketing. Senza dubbio il museo dell’oro è il sito più consono per esporre un diamante di cen- tinaia di carati. Una bassa pubblicità avrebbe ridotto la sua visibilità.

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- Cuba è un’isola non grande. Le notizie corrono con rapidità. Il governo locale provvederà alla pubblicità opportuna. Le possibilità di un furto a Cuba sono basse. - La voce dell’ucraino è lenta. - Il modo migliore è di farlo giungere a L’Avana senza clamore. - - Sì - concorda l’indio. - Molto silenzio, pochi predatori. - - Il concetto è giusto. La pubblicità arriva alle orecchie dei buoni, e pure dei cattivi. Sarà una spedizione privata. Il signor Leonid sarà qui il giorno previsto e accompagnerà il diamante. Svolte le formalità do- ganali, l’Orloff sarà consegnato ai piloti del Lear Jet privato. Da quel momento la copertura sarà garantita dai cubani. - Vassili gira il polso e controlla l’orologio. Il colloquio con Punapay è finito. Si scambiano le carte e i contratti assicurativi. - Abbiamo chiarito i particolari. Ha altre richieste per il mio dipartimento culturale prima di separarci? - domanda Vassili fissando il naso aquilino dell’indio. Punapay si sofferma sul pensiero della scultura in arrivo. Clara gli invierà in breve un reperto di Tierradentro e questo sostituirà il vuoto che sarà lasciato dalla partenza dell’Orloff. Le opere d’arte hanno il dovere della rotazione. Lui sta per mandare oggetti sacrificali a Bar- ranquilla. La curatrice è fortunata ad avere ignoti benefattori che le permettono ritrovamenti mirabili. - Nessuna. Vi fermate a visitare il nostro tesoro? - - Getteremo una rapida occhiata, vero Leonid? - dice il ciccione girando il collo d’ippopotamo verso il collaboratore. - Tanto oro anti- co non ci annoierà. - - Vi accompagnerei se non fossi impegnato - si scusa il direttore. - Un piacere aver da fare con lei, Punapay - si congeda Vassili. - A Bogotà avete reso onore a un pezzo unico al mondo. - - Anche per me - rimbalza l’indio alzandosi. - Se resterete qualche altro giorno, potrete ammirare in anteprima un’importante scultura della nostra tradizione precolombiana. Rappresenta un sacerdote che sacrifica. L’ha recuperata una bravissima esperta. - I russi si scambiano un’occhiata piena di significato: sta certo rife- rendosi a quello che fu il loro sacerdote. Il pilota sente il solletico che gli smuove il riso per il buffo colpo della sorte.

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- Un sacerdote assassino? - chiede allibito Vassili. - Offerente - corregge l’indio. - Sacrifici propiziatori. Si usavano. - - Da Barranquilla? - domanda Leonid. - Esatto - conferma stupito l’indio. - Come lo sapete? - - Conosciamo la competenza della sua curatrice - afferma il pilota. - La dottoressa Clara è una persona molto competente. - - Un ritrovamento di Clara Love Xaipa - assicura Punapay fissan- do i visitatori e accreditando di non avere mai udito tanto accordo nel giudicare un direttore di museo. - Siete appassionati di musei amerin- di - dice l’indio rivolto a Leonid. - Mi ripete il suo nome? - - Leonid Prosdoski. Sono un amico di Clara. - - È stata qui stamane - conferma meravigliando il pilota. - Se vole- te incontrarla, pranzerà al ristorante italiano di Spartaco. - Vassili è frustrato. Zorro Rosso, contrattato per rubare la statua al museo di Barranquilla, ha fatto fiasco e non ha avuto neppure il co- raggio di avvisarlo. Non conta più sul denaro della vendita del sacerdote al mercante californiano. Il reperto doveva essere a Los Angeles e non in viaggio per Bogotà. Non ha più nulla da offrire a don Alvaro. Sente l’aria interna che gli taglia in due il crasso: l’effetto è un acuirsi della flatulenza, che gli provoca contorsioni intestinali da parto. Esce nel corridoio e lascia fuggire un vento che sibila e poi scorre negli ampi pantaloni rotolando. - No - protesta Leonid. - Ucciditi Numero Uno. - - Dio degli Arlecchini doloranti, muoio - geme il capo, sbigottito. - Vai di nuovo al cesso. - - Ci morirò. - Accelera il passo nel corridoio a caccia del bagno. Un istante afferra il braccio di Leonid. - Hai suggerito tu alla tua ami- ca di spostare il sacerdote a Bogotà? - domanda stuzzicato da una ritorta intuizione. - No. Perché te la prendi? - ribatte il pilota osservando il faccione rosso. - Non ho sentito la dottoressa Clara. - - Quella statua vale cinquecentomila dollari - dice entrando nel ba- gno. - Avevo ordinato di riportarmela. -

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- Rubare la statua per tappare i tuoi fallimenti - lo rincorre Leonid. - Sei un traditore. - - L’avevo piazzata bene. Non ho scordato che la tenevi alle intem- perie, nel patio, con un vaso di fiori sulla testa. - Leonid, incurante delle proteste, sfila mezza giacca a Vassili ripie- gandola sui braccioni, immobilizzandolo, e gli sferra un paio di pugni, sinistro e destro, nella vescica che emette il rumore di un materasso ad acqua. Lo lascia piegato ed esce dalla toilette per raggiungere la sala dell’esposizione, dove hanno stabilito l’incontro con l’italo- panamense. Vi è luce soffusa e l’urna dell’Orloff, al centro del locale, pare sospesa. Il diamante è illuminato da faretti che lo fanno sembra- re un Sole nell’aria. Il pilota riconosce, di spalle, l’italiano protetto dal tirapiedi. Don Alvaro è assorto. Il russo teme di svegliarlo da un so- gno. - Il diamante non resterà a Bogotà - lo informa Leonid parlandogli quasi all’orecchio. - Farà un viaggio a L’Avana, prima di tornare a Mosca. Un pezzo unico. - - Un diamante di quattrocento carati almeno. Leonid, siete un sen- sitivo - esagera il boss asciugandosi i globi biancastri. - Non vi sentite prudere? Se ci fosse il tempo per le opportune richieste alle persone competenti, lo dirotteremmo a Panama. - Cambia genere: - Dov’è Vassili? Lo aspettavo. - - Sta per arrivare - assicura il russo giudicando la rapacità espressa nello sguardo dell’italo-panamense. - Ha avuto una colica e sta in ba- gno per riprendersi dalla sorpresa. - - Una colica e la chiamate sorpresa - commenta don Alvaro prima di aspirare una nebulizzazione dalla bomboletta. - Che direste di una pallottola da quarantaquattro incontrata in mezzo alla sua fronte? . - Un buco all’attico - risponde il pilota ringraziando la sorte per avergli porto la battuta mentre avvertiva prurito alla schiena. - Che modo di contare. Sapete se il vostro capo ha recuperato de- naro? L’Organizzazione non gli dà altro margine. - - Vorrei che lo sentiste dalle sue labbra. - - Entrate nella mia lavanderia? - gli chiede il boss.

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Leonid si sente sotto una pressa. Se accetta di entrare nel giro dei panni sporchi, rischia di non uscirne. Così vanno certi accordi. Inutile illudersi. Ne uscirebbe trasformato in sapone, sciolto nella soda cau- stica. Sente l’alito malato dell’altro uomo condensarsi sui suoi baffetti ben regolati. Nota una mosca nera che cammina sul vetro di prote- zione al diamante. Un raggio extrasensoriale si stacca dall’Orloff e lo costringe a serrare un attimo le pupille. - Don Alvaro - sussurra lieto il russo indicando l’urna. - Che dite? - mormora l’italiano senza definire l’esultanza del rus- so. - Alzate la voce. - - Non capite? Lo potremmo fare assieme… Ne possiamo parlare. Non qui dentro. Le telecamere ci stanno registrando e ci sono lettori sordomuti che leggono le labbra. - Il boss gira il collo di cigno artritico verso il diamante. Gli occhiet- ti si riempiono di lacrime. Accenna un sorriso imposto a un cadavere. Torna con lo sguardo sul russo. Ha capito. Geniale. - Venite a pranzo con noi. Pasquale vi darà l’indirizzo del ristoran- te italiano suggerito sulla guida del museo. Ci accorderemo. Informate Vassili della nuova strategia per mettere riparo ai guai. - Con tali parole si volta verso l’uscita, mentre il guardaspalle annota la via dove si ritroveranno per il pranzo. Leonid studia Pasquale men- tre si muove. I gesti delle mani e i movimenti della testa hanno scatti da lanciatore di coltelli. - Alle tredici - dice l’uomo. - Fettuccine e funghi. - Leonid ha imparato a cogliere le macabre allusioni che piacciono ai mafiosi. I funghi avvelenati si confondono con facilità.

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Nel ristorante di Spartaco un sottofondo di musica crea un grade- vole ambiente. Vasi di rose fresche accolte con capelvenere sono esposti nelle nicchie lungo le pareti. Il patio, in ombre sotto la pergo- la, è riservato ai clienti particolari. Il nunzio apostolico, quando la minestra sciapa delle monache umilia il suo temperamento, va lì a consolarsi con un piatto di pasta alla Rossini, nascondendo a se stesso l’eccitazione del colesterolo troppo suscettibile. Non mancano fun- zionari del consolato e gente che ama la buona cucina mediterranea. Spartaco va incontro ai due italiani e li riceve. Già conosce Pa- squale. Ha pranzato da lui altre volte. Fa la conoscenza di don Alvaro e intuisce dal suo colore biancastro che non ha le frattaglie in ordine. Li accompagna al tavolo apparecchiato per quattro. - La cernia al guazzo è la specialità d’oggi. - - Attendiamo amici - frena il boss aprendo il tovagliolo. - Un anti- pasto per l’attesa va bene. - Spartaco sceglie una bottiglia del Chianti e la stappa dinanzi ai due. Colma i bicchieri prima di eclissarsi. Ha da controllare che i cucinieri abbiano i fuochi giusti sotto le padelle, odori freschi con colori natu- rali o pomodori scottati e poi tagliarli per farci il sugo in olio e aglio fritto. “La cucina è un tempio in cui si prepara il cibo per unire anima e stomaco.” I frigoriferi vanno aperti e richiusi con le mani pulite. La carne, una volta cotta, non permane oltre dieci ore nei paraggi. Il bi- done dei rifiuti resta all’esterno, fissato sull’apposito carrello, sigillato non appena colmo. I russi entrano cercando con gli sguardi gli italiani. Restano fermi alcuni istanti, poi Leonid scorge il corridoio che va al patio e vi s’immette. Il saluto tra i convenuti è convenzionale. Nell’aria si torce una leggera tensione. Occupano i posti a tavola. - Ci conosciamo di persona, dopo tanto - dice don Alvaro a Vassi- li dopo che ha sputato il nocciolo dell’oliva condita con prezzemolo e aglio. - Avrei preferito una più idonea opportunità. -

L’ucraino stenta a comporre una frase. È impacciato. - Mi assumo le mie responsabilità. Manco di un milione di dollari. Per l’Arlecchino spione, Kris è un vero imbecille. Avrebbe dovuto imbarcarsi sul peschereccio venezuelano. Seguire la merce. - - A certe persone si attacca il malocchio. Voi andate in giro chie- dendo alla gente di suicidarvi. Ordinate un milione di cocaina e vi perdete il denaro per pagare il conto. L’ambizione va tenuta a bada o segue il collasso di ogni sogno inventato dalla fantasia malata. Vassili scruta il volto lavato dell’italo-panamense dopo che le pa- role gli sono cadute dalla bocca. In Russia non supererebbe un inverno incarognito dai gelidi venti siberiani. Si congelerebbe sulla soglia della steppa. Ha la sensazione che, nonostante le contrarietà, in quei frangenti non gli resta che radunare animo e mostrare il coraggio dell’ermellino. L’Organizzazione non oserà ammazzarlo mentre si trova di fronte a un noto trafficante di Panama. - Per tutti gli Arlecchini ballerini. Don Alvaro, una soluzione a questa situazione ci sarà - si duole intrecciando le dita grassocce. Il boss lascia cadere la mascella. Guarda Leonid senza fiato, re- stando in un’apnea di alcuni secondi che gli fa cambiare colore, verso il verdastro. Succhia l’aria esterna con un gracidare da rospo. Meravi- glia i russi estraendo una boccetta da cui succhia con rumore un sorso di olio di tonina che custodisce come un regalo del pilota. - Funziona la ricetta dello stregone? - gli domanda Leonid. - Ne ricavo beneficio - gli conferma il boss. - La ricetta del vostro selvaggio farmacista è onesta. Adesso parliamo del diamante Orloff - azzarda serrando le labbra. - Si fa o non si fa? - Vassili appoggia la mano sotto la giacca, per una fitta dal lato dell’appendicite e il gesto accende Pasquale che fa saltare le dita sulla fondina ricoverata sotto l’ascella. - Falso allarme. - La smorfia di do- lore si dipinge sulla faccia del russo. Solleva il bicchiere e ingoia un secondo sorso di vino. L’intestino si rilassa e il dolore indietreggia. - L’Orloff. Volete rubarlo - blatera con un tremito nel labbro infe- riore mentre ricorda un proverbio ceceno: “Lancia il cuore davanti a te e poi esci correndo per raggiungerlo.” - Siete proprio decisi? -

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- Che ne dite? - lo sollecita il boss. - Siete disposto? - - Ho la spiacevole previsione che finirò in galera - risponde Vassili con un catalettico balbettio. - Questa è un’insignificante probabilità. Se v’inseguiranno i mo- schettieri, vi darò asilo a Panama. - Spartaco sopraggiunge con il carrello dei primi. Capellini in brodo per don Alvaro. Risotto con i funghi per gli altri. Augura buon appeti- to e torna indietro. Sta cuocendo la lasagna per donna Xaipa. Gli ha telefonato. Arriverà con la figlia Clara, suo marito e un pargoletto. Vassili scuote la testa. - Non credo che sia facile prenderlo. - - Leonid, voi che suggerite - domanda il boss. - Attuare il piano giusto. Si farà sparire il diamante durante il volo per Cuba. Occorre un sommergibile tascabile. Si mimetizzano bene - aggiunge con voce bassa e complice. - Di quelli che partono con i carichi di cocaina dalla costa della Guajira. Si fa ammarare l’aereo che trasporta l’Orloff, il sommergibile lo recupererà senza lasciare tracce, poi in rotta per Aruba che dista meno di duecento chilometri dal pun- to di ammaraggio. Un giuoco da ragazzi. - Don Alvaro arpiona lo sguardo di Leonid. Scopre che il russo co- nosce le sue possibilità in fatto di trasporti illegali. - Un sommergibile costa caro - fa notare - ma sarà disponibile. - Si rivolge a Pasquale senza muovere la testa di un millimetro, nemmeno la tenesse su un cactus spinoso. - Incaricati del contatto. Un tascabile veloce. - Don Alvaro assaggia una cucchiaiata di capellini, quasi con uno sforzo. La posata d’acciaio pare vibrare sulle labbra esangui mentre il brodino gli scorre nella bocca. Abbassa la mano accanto al piatto con l’orlo dorato e con l’altra tampona il mento. Ruota rigido la testa dal lato di Vassili, quasi con dolore. - Avete un mese per organizzarvi. - Imbocca una seconda cuc- chiaiata. - Non vi concederò proroghe. - Poggia il cucchiaio sul bordo del piatto e alza il bicchiere del vino. - Al conte Orloff - invia il boss muovendo un filo di voce.

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Seguono a pranzare. Leonid trova il sapore della cernia delicato. Beve di un fiato un bicchiere di vino e allontana le posate. Non riesce a cancellare dalla mente l’ultima immagine tremolante di Kris durante l’addio: Amanicea (Fior di mais), lo sostiene. Vivrà nel clan di Taken- da fino a che il campanile della rustica chiesa non sarà terminato. In fondo, lui gli serba riconoscenza: mise la valigetta nelle mani di Rosa. La coscienza lo punge. Kris gli affidò la chiave della cassetta nell’ufficio postale di Chicago. Dentro vi sono custoditi i dollari per la sorella dall’adolescenza travagliata. Ci andrà prima del trasferimento del diamante. Se non mantenesse la parola, Kris lo odierebbe per il resto del tempo che resterà ostaggio del triste Takenda. Alla fine del pranzo, Spartaco poggia sulla tovaglia una bottiglia d’amaro. Leonid accetta mezzo bicchiere di digestivo. Vassili si alza per pagare il conto e chiedere un taxi che accompagni il pilota, giac- ché stanno per separarsi. Don Alvaro ricorda qualcosa. - Leonid - dice mettendo una mano nei pantaloni mentre si alza dal tavolo per avviarsi all’uscita - me ne scordavo. Ho ritrovato un oggetto che vi appartiene. Siete distratto? - Il pilota vede scintillare la penna d’oro. - Chi si rivede - mormora raccogliendola. - Piacque a Raul. - Don Alvaro gli dà una pacca amichevole sulle spalle e raggiunge la porta che Pasquale tiene aperta. Esce per primo, mentre arriva l’auto blindata. Vi sale con Pasquale. Vassili fa cenno all’autista del consolato di avvicinare la Mazda bianca. Allarga le braccia per accogliere Leonid. I due completano l’abbraccio tradizionale di fraterna ipocrisia. Il pilota, oltre le massicce spalle del grassone, vede sopraggiungere un’automobile gialla. Le por- tiere si aprono. Dal lato del marciapiede scendono una signora con un neretto e un tipo atletico. Dall’altro lato vede uscire Clara. In altro posto, una coincidenza bellissima. Non lì, con lui tra le braccia di Vassili. La sorte non smette di proporgli strani scherzi. - Per gli Arlecchini dal cuore di pezza. Non so quando ci rivedre- mo - dice l’ucraino scuotendo il pilota senza usare forza ferma. - Mi fai commuovere più di quando rivedo in TV l’eroico Gagarin. -

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Clara lascia che Jean Paul, sua madre e Pablo entrino da Spartaco e si sofferma a osservare il duetto. Ha riconosciuto il pilota e attende che abbia terminato di salutare con stile siberiano il grasso signore. Quando i due si separano, lo sconosciuto sale sulla Mazda bianca. - Ciao, Leonid - lo richiama lei obbligandolo a rigirarsi. - Meravigliosa! - esclama il russo con enfasi controllata andandole incontro. - Ti posso abbracciare? - - Senza stringermi come il tuo amico - lo punzecchia ricambiando l’abbraccio. - Era un saluto o un addio? - - Un addio. Lo hai udito per telefono, Vassili - chiarisce attraendo- la con dolcezza e tenendo d’occhio la porta del ristorante dai cui vetri scorge il biondo che li osserva. - Ti trovo incantevole. - Nel distacco nota la fede al suo anulare. - Hai sposato il marinaio? - - Alla fine non ho avuto scelta. È più fedele di te. - - Lo so, cara. Non mi tormentare. Ti auguro tutta la felicità del mondo e di godertela a lungo. - - Ti fermi a Bogotà? - - Abbiamo pianificato col museo il trasferimento del diamante Or- loff. Ce ne siamo occupati questa mattina. Per poco non ci siamo incontrati dal direttore, da quell’indio, Punapay. Torno a Cuba. Dopo che il diamante avrà finito la tournée, sarò a Dresda, al dipartimento delle opere trafugate. - - Lo ricordo. Un posto davvero tetro. - - I seminari russi sui Maya segnarono l’unico periodo fortunato della mia vita - mormora il russo sincero, ritardando a salire sul taxi che lo attende con la portiera aperta. - Non ti ho mai dimenticato. Avrei voluto che fossi rimasta innamorata di me per l’eternità. Tuo marito ci sta spiando. Addio Clara - la saluta avvicinandosi al bordo del marciapiede. - Tieni d’occhio il sacerdote. I ladri sono attratti da un pezzo d’arte maya di valore. - - Ho buoni allarmi - dice lei con un tono più alto che vinca la sua raucedine. - Non so ricambiare il favore che hai fatto al mio paese. - - Ricordami con buoni pensieri. -

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Prima che la portiera si chiuda, il moscovita incontra lo sguardo di Jean Paul rimasto a osservarli da dietro i vetri. I loro occhi si comuni- cano in pochi secondi quello che frulla per la loro testa: la sfida, l’ironia, l’invidia. Il russo alza una mano per un accenno di saluto. Il capitano gli risponde con lo stesso garbo, poi l’auto parte con una sgommata. Clara si rigira per entrare da Spartaco e trova Jean Paul che la attende tenendo aperta la porta. - Leonid? - domanda il capitano. - Il tuo amico? - - Di più. Un benefattore - rivela lei passando la soglia e con le lab- bra increspate dal sorriso. - Mi ha ceduto il sacerdote. - - L’ho capito dai baffetti - esclama lui accostando la porta. - Che fa a Bogotà? - - Sarà di scorta al diamante Orloff. - - Incredibile, il pianeta si sta restringendo. - - Inevitabile, amore - commenta Clara con un sorrisetto malizioso e una luce negli occhi che colpisce il marito. - Cresciamo. - - Spiegati. - sussurra il capitano con velato risentimento di gelosia. - Son in ritardo. Ho saltato il ciclo. - - Come? - fa il giovane non cogliendo l’illazione giuliva. - Colpa tua - insiste Clara proseguendo dietro un cameriere che li guida al patio dove la madre e il ragazzo si sono seduti. - Vuoi dire… sei incinta? - quasi grida il marito. - Mi hai sistemato Jean Paul Carrera - dice con allegria pizzicando- gli il fianco. - Adesso non ti metterai a ballare qua dentro. - L’animo del capitano si esalta. Dimentica il russo e il resto. Sua moglie gli ha appena detto che sarà padre. Ci sarà da fare con urgenza qualcosa. Una complicata cerimonia da completare, un rito, una gi- randola d’attenzioni da attivare. A chi si potrà rivolgere? A sua madre, in Florida. Le telefonerà e le dirà la novità. Chi più di lei potrà fornir- gli dei buoni consigli? C’è anche donna Xaipa. Non sarà male se lui comincerà a leggere dei libri sui neonati. E Pablo? Dovranno dirlo anche a lui. Non subito. Aspetteranno che la pancia cominci a cresce- re. Arriverà a un punto che susciterà la sua curiosità e sorgeranno domande giuste e risposte adatte. E se l’istituto concedesse anche

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l’affidamento di Pamela? E il dottor Lobo? Lo zio di Clara, in forza delle idee antidarwiniane, certo commenterà che un clone di sua nipo- te darebbe risultati più convincenti. La vita è una realizzazione miracolosa e la riassume in una frase: mai va all’indietro. - Sarà il caso di pensare a una casa più grande - dice Clara al mari- to. - Nessuno di noi quattro vuole che la ragazzina resti all’istituto. Vero Pablo? - Il neretto la fissa con occhi spalancati. - Sarà possibile? Pamela verrà con noi? - - Credo che il capitano non avrà alcuna obiezione? Vero caro? - - All’istituto mi hanno informato che è selvatica - dice lanciando uno sguardo compiaciuto alla moglie. - Ha sventato il furto al museo. Ha buon carattere per restare una trovatella. - Spartaco sta facendo i complimenti a donna Xaipa. Si parlano dandosi del tu e Clara nota una luce diversa negli occhi della madre. Ha veduto anche le rose che lei preferisce sul tavolo. Si accorge che l’italiano è emozionato: quando porge le liste, si confonde. - Xaipa, suggerirei un vino francese. Del rosso di Chartreuse. Fat- to dai monaci. Uve premute con la benedizione del priore. - La signora legge senza trattenere una risatina. - Mi proponi di pranzare con il cioccolato. Qui è scritto che una tazza di cioccolato di Voi Ron vale ventimila pesos. - - Perdonami! - esclama Spartaco correggendo l’equivoco. - Ho detto al tipografo che c’era da confondersi per il colore identico. Nul- la da fare. Aveva ormai stampato i menu. - - Ti piace il cioccolato francese? - domanda donna Xaipa fissando- lo dritto negli occhi. - Sai com’è, dici a un cliente che prepari il cioccolato di Bonnat e fa chic. Sono certo che in Colombia c’è del cacao nero superiore. - - Non hai mai provato quello alla maniera paeces. Lo cuciniamo con l’aggiunta di radici aromatiche. Potrei preparartelo. - - Verrò ad assaggiarlo - agogna l’italiano. Donna Xaipa si accorge dello sguardo di tenerezza che il genero sta regalando alla figlia. Si stanno comunicando cenni che sono ritagli

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d’amore. Intercetta il segnale e sente un sobbalzo nel petto. Gli occhi parlano. Clara sta comunicando col marito nello stesso modo in cui lei trasmetteva a Salvador le sensazioni importanti. Essa aspetta. È immersa in uno stato di grazia: un fondersi di un fiume al lago. Gli amanti s’intendono senza parlare: la coscienza è in grado di completa- re i suoni. L’antenato ha lasciato il petto della figlia e le permette di avere posto sufficiente per il figlio in arrivo, il marito e i ragazzini raccolti nella strada. Si commuove per quei pensieri che le hanno por- tato una rivelazione. Quel giorno ci sono segnali perché lei sia felice: il marito defunto si è ricongiunto alla luce. Le resta un’ultima azione: andare da Lobo de Miranda per il bene dello spirito di una persona che entrambi hanno amato. Insieme troveranno il perdono e il ravve- dimento, valide conclusioni dei fatti umani.

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Rosa ha terminato di riempire le valige griffate e si è seduta sulla poltroncina foderata in raso in attesa di Leonid. Il russo è entrato nel- la sua vita e sono in procinto di partire assieme, avviati verso un nuovo futuro che si svolgerà in un paese che lei ha conosciuto dalle descrizioni fatte dal suo innamorato. Stanno bene e coincidono in tutto. Non aveva immaginato che il rapporto la interessasse tanto. Ha bisogno di un uomo leale accanto. Leonid le ha promesso che non la trascurerà e ciò la rende sicura. I soldi, d’altronde, sono in suo pos- sesso e lei non li spargerà come petali di rose. Saprà tenerlo al guinzaglio. La incanta l’idea della neve che cade dal cielo sopra Mo- sca. S’immagina con lui nella vasca del bagno caldo, mentre fuori si pavoneggia l’inverno. In Russia, non aveva mai sognato di andarci per turismo. Lui ha l’agilità mentale da matematico, che la aiuterà per evi- tare la convergenza di sospetti su di lei. È felice di trasferirsi. Leon le ha prospettato escursioni a Kiev, a San Pietroburgo, all’Ermitage. Gite in battello sul Volga, assaporando caviale al suono delle balalai- che e ascoltando i canti dei battellieri. Andranno a teatro per la stagione dei balletti, il Bolshoi, il Maly, il Titeres e ascolteranno nei salotti privati letture da Tolstoj, Dostoevskij, Gogol. Imparerà il rus- so: le piace Pasternak col suo Dottor Zhivago. E se rimarrà incinta? Leonid non pare interessato ad allungare la stirpe, ma lei smetterà di prendere la pillola. Tra poco lui arriverà. Faranno l’amore prima della partenza per Cuba. Là è prevista una sosta necessaria per ricevere la sua liquidazione dal bureau e dire addio a Vassili. Sulla strada dell’hotel il taxi incontra poco traffico. Leonid ha la testa un poco dolorante. Si sente eccitato dall’incontro casuale con Clara e freme per arrivare da Rosa. Ha organizzato il viaggio di trasfe- rimento nel migliore dei modi. Prima di proseguire per Mosca, sosteranno a L’Avana. Faranno il bagno sotto le stelle a Marimelena e di giorno a Caletones. Ascolteranno le classiche canzoni cubane e berranno Cuba Libre. Mangeranno gamberi sul terrazzo di fronte alla

baia. Con il visto fornitole da Vassili, Rosa avrà libertà di movimento per l’intera Russia. Lo impensierisce il gelo del nord. La scalderà. Le preparerà , impanate fritte ripiene di carne di pollo e riso. Op- pure delle originali zakuski, insalate con pezzetti di carne e formaggio, nel caso lei decidesse di mantenere la linea. Tali pensieri lo meravi- gliano. Per la prima volta si preoccupa della dieta di una sua donna. La sa ricca e la vede indifesa. Durante il tragitto riconsidera il perico- loso patto a tre che lo lega a Vassili e a don Alvaro. L’Orloff gli leverà il sonno. Ha un mese di tempo. Escogiterà un piano a prova di scuola d’investigazione e con pochi rischi. Non è una burla impadronirsi di un aereo che trasporta valori, rubare l’Orloff e poi trasbordare su un sottomarino per finire, salvi, all’isola di Aruba. Giunto all’hotel, lui sale alla stanza e non appena Rosa apre la por- ta, la abbraccia e la bacia con ardore ricambiato. - Hai preparato i bagagli? - le chiede. - Sono pronta, papito. Legata a te mani e piedi. - - Abbiamo meno di un’ora. - La spoglia e si denuda. S’infilano nel letto con la bottiglia di champagne presa dal minibar. Lui versa nelle coppe; la guarda negli occhi e si accorge che le pupille sono di colore verde. - Rosa, i tuoi occhi. - - Che hanno, papito? - - Hanno cambiato colore. - - Sono le lenti a contatto - lo rassicura. - Li avrò del colore che preferisci. Neri, azzurri, verdi, o rossi. - - Santa madre Russia! - esclama liquefatto dall’ardore. Quando inizia a piangere Rosa lo stringe con passione. Leonid in- tuisce che non è una trappola. Lo sarebbe se avesse prurito alla schiena. Il suo sesto senso è tranquillo. Dopo un’ora sono all’aeroporto. Si mettono nella fila dei passeg- geri in attesa. Gli annunci li indirizzano alla sala degli imbarchi: il loro aereo è in partenza. Il russo consegna i biglietti al banco di accetta- zione e lascia le valige all’impiegata della compagnia aerea. In quel momento vede atterrare un Boeing panamense.

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Gli schermi con gli orari indicano che il decollo per Panama è ri- tardato di mezz’ora per controlli di sicurezza. I passeggeri ricevono anche informazioni dagli altoparlanti. L’annuncio indispettisce don Alvaro che si avvicina all’ampia vetrata da cui si vedono le piazzole di parcheggio degli aerei. Vede che il suo Boeing ha intorno un notevole movimento di agenti con cani addestrati. Staranno cercando cocaina. “Che fesseria. Fare un traffico del genere usando un aereo commer- ciale.” Lo spazio della carlinga non offre buoni nascondigli e la merce, i cani la fiutano con facilità. Lui si serve di navi. Grosse e con punti inaccessibili. Le precauzioni l’hanno abituato a essere il più lon- tano possibile dal mezzo che trasporti l’illecito. Non starà mai seduto su una delle preziose casse farcite di polverina. Vede atterrare un quadrimotore dalla coda dipinta con colori che gli sono familiari: il tricolore. L’Alitalia arriva da Roma. Non ha con- tatti commerciali di nessun tipo con la patria di suo padre. Gli invii di cocaina da quel lato non sono diretti. L’Italia riceve grandi quantità da est, non da ovest. Guarda la sfilata dei passeggeri giunti assonnati. Il padre gli raccontava dei salami che gli emigranti portavano a Panama da casa. Ora è vietato. I prodotti alimentari non sono permessi. Nien- te più salame paesano. “Ville… Che testa. Villemontecuore… No. È diverso. Qualcosa del genere. Che diceva mio padre? La gente, sulle montagne, aveva fegato…” Un lampo. Se ne ricorda. “Ecco… Ville- collefegato. Per Giove, proprio così. Villecollefegato. Non sono rimbecillito.” Sente un giusto entusiasmo. Un prepotente bisogno d’aria lo coglie al polmone sinistro. Caccia fuori la bottiglietta di tonina avuto da Leonid e ne beve un sorso. L’estratto d’olio di delfino sacro fa effetto. “Preparato da uno stregone. Che ci sarà dentro?” L’equipaggio dell’Alitalia passa nel corridoio. Sono in tre: due pilo- ti e il comandante. Don Alvaro li affronta. - Che si fa in Italia? - domanda all’ultimo dei piloti. - Adesso ci fa freddo - risponde il bassetto con accento del nord. - Sapete se a Villecollefegato nevica? - domanda sicuro. - E dov’è? - ribatte il pilota.

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Don Alvaro è allibito da tanta ignoranza. “L’ombelico d’Italia. Vil- lecollefegato.” Non è possibile che dei navigatori italiani non abbiano chiare le coordinate dell’ombelico. Il comandante sosta a parlare con lui e lo informa: - Sono di quelle parti. È da un pezzo che a Villecollefegato hanno cambiato il nome. Adesso si chiama Villerose. - - Villerose? Parliamo dello stesso posto? - si assicura il boss. - Vi- cino a Borgocollefegato. - - Hanno cambiato nome anche a quello. - - Come sarebbe? - - Borgorose. - - In Abruzzo. - - Prima della guerra. Adesso è nel Lazio. - - Il vino lo fanno? - - Neppure l’aceto. - - Le salsicce? - domanda il boss con delusione crescente. - Da Corvaro. - - E san Vincenzo? Lo rispettano? - - Gli fanno festa. Ma sant’Anatolia lo batte. Tornate al paese? - - Non oggi, comandante. Ho un lavoro da finire. - Don Alvaro segue con lo sguardo l’equipaggio che scompare oltre il vetro della dogana. Si approssima al bancone del bar e chiede un caffè colombiano, corretto all’italiana: con molta grappa. Decide. An- drà dove visse il padre, per curarsi l’asma. L’ultima indagine medica ha evidenziato che il male gli deriva da spore di scarafaggi panamensi. A Villerose questi insetti fastidiosi non osano apparire: li ferma la qualità dell’aria, sulla barriera dei seicento metri d’altezza. Non gradi- scono il clima ossigenato e rigido. Una strana sensazione lo afferra: voglia di piangere. Attraverso il largo specchio dietro il bancone, in- corniciate nelle bottiglie di liquori, nota due figure accostarlo alle spalle. Hanno il ghigno degli sbirri. Serra le palpebre e sospira.

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FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI LUGLIO 2009 PRESSO LEGOPRINT – LAVIS (TN)