Dentro, accanto ma altro dalla città. Luoghi e architetture dell’isolamento tra risignificazione, conservazione e problematiche di fruizione Inside, beside but other than the city. Places and architectures of isolation among re-signification, conservation and problems of fruition

VALENTINA RUSSO, MARELLA SANTANGELO

Fin dall’antichità la limitazione della libertà personale trova nella città e ai suoi margini luoghi e architetture destinati ad accogliere quanti devono interrompere relazioni con la collettività in modo permanente o temporaneo. L’esclusione dal modo esterno assume, attraverso i secoli, diversi caratteri in relazione all’allontanamento volontario o involontario, nonché in ragione delle finalità cui va ricondotta: finalità religiose e spirituali, con l’affermarsi di luoghi destinati all’anacoretismo, all’eremitaggio e alla clausura; sociali, connesse al forzato allontanamento dell’individuo dalla comunità e al suo confinamento entro ‘segrete’, prigioni o manicomi; politiche, con la messa in atto di sistemi coercitivi, basati sulla violenza fisica e psichica, attraverso campi di prigionia, di lavoro, di concentramento e di sterminio. Se dentro la città consolidata, per le ragioni connesse alla propria funzione, le architetture della detenzione, così come quelle della clausura monastico-conventuale, assumono una riconoscibilità immediata sul piano morfologico e iconico in virtù dell’impenetrabilità percettiva entro il contesto, ponendosi, dunque, come ‘citta altre’ entro lo spazio urbano, quando i luoghi dell’isolamento sono esterni a quest’ultimo si caricano, invero, di significati connessi all’indispensabile autosufficienza e, di frequente, alla difficile accessibilità. Queste architetture, connotate spesso da caratteri distributivi rigidi e reiterati, perdute nel presente le funzioni originarie, pongono molteplici e delicate questioni, oggetto di riflessione entro la sessione proposta, anche attraverso casi-studio, in relazione alla loro trasmissibilità al futuro; questioni primariamente di ordine etico e culturale, riferibili ai limiti e alla legittimità dell’intervento sull’esistente nonché ai significati – in chiave negativa e positiva – che possono essere trasferiti attraverso interventi di conservazione e di una rinnovata fruizione. In parallelo, agire su tale patrimonio costruito nella contemporaneità pone sfide complesse, di ordine tecnico-progettuale, riconducibili alla possibile trasformabilità degli assetti, al miglioramento dell’accessibilità e all’inserimento di nuove funzioni entro manufatti spesso storicamente pluristratificati. Since ancient times, the limitation of personal freedom has found in the city and in its boundaries places and forms of architecture aiming at accommodating those who must interrupt relationships with the community permanently or temporarily. Exclusion from the outside world assumes, over the centuries, different characters in relation to descending from voluntary or involuntary retreats as well as from its purposes: religious and spiritual ones, with the definition of sites dedicated to hermitage and monastic seclusion; social ones, linked to the forced removal of individuals from the community and to their confinement within 'secret' spaces, prisons or psychiatric hospitals; political ones, with the implementation of coercive systems, based on physical and psychic violence, through prison, labor, concentration and extermination camps. If internal to the consolidated city, detention architectures as well as the monastic- conventual ones assume an immediate perceptive recognizability from the morphological and iconic point of view in the urban context for the same reasons related to their original functions, thus becoming "cities other” than the city. When external to the urban asset, places of isolation assume, indeed, meanings associated with the indispensable self- sufficiency and, often, with their arduous accessibility. The above-mentioned forms of architecture, often characterized by very rigid and repeating distribution features, having lost their original functions in current times, pose multiple and delicate issues that are the object of investigation, together with case-studies, in the proposed Session in relation to their transmissibility to the future; primarily ethical and cultural issues, referring to the limits and legitimacy of intervention on the existing parts as well as to the meanings – in a negative and positive sense – that can be transferred through conservation and reuse. In parallel, acting on this heritage today poses complex challenges of technical and design order, linked to its possible transformability, improvement of accessibility and insertion of new functions within often historically multilayered architecture.

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Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

Da città dell’esclusione all'inclusione di città. Il caso degli ex ospedali psichiatrici From the city of exclusion to the inclusion of cities. The case of former psychiatric hospitals

ANGELA D’AGOSTINO, GIOVANGIUSEPPE VANNELLI Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract È del 1781 il Trattato di Architettura Civile in cui Milizia teorizza la necessità di costruire fuori dalla città i luoghi “ammorbanti”. A questi “edifici per salute e bisogni pubblici”, si aggiungono le “città dei matti”, altri luoghi “ammorbanti”. Il paper presenta risultati di ricerca in cui si coniugano la conservazione degli elementi fondativi e della dimensione narrativa delle zolle delle “città dei matti” con disegni di nuove relazioni, intersezioni, sovrapposizioni tra diversi elementi della città contemporanea.

The Treatise of Architecture, in which Francesco Milizia theorises about the necessity to place illness-spreading sites outside the city boundaries, dates back to 1781. To these “building for public health and needs”, madhouses added. This paper presents the results of research activities, which have been led through the combination of the preservation of basic elements as well as of the narrative value of the mad-towns plates with the design of new relationships made by intersecting and overlapping of differing elements in today’s city.

Keywords Eterotopie, memorie, riciclo. Heterotopies, memoirs, recycle.

Introduzione Nelle immagini zenitali delle città, zoomando sul XX secolo, alla struttura insediativa della città consolidata – riconoscibile in forme urbane dei tempi di fondazione, ampliamento, ricostruzione e sventramento fino al momento in cui si sancisce la definitiva inutilità delle mura urbane quale limen costruito tra intra moenia ed extra moenia – si affianca la città dei recinti. Si riconosce un pattern urbano dove tra recinti industriali, residenziali e delle grandi attrezzature, si innervano filamenti infrastrutturali più o meno articolati sia nell’intreccio planimetrico, sia spesso, nell’articolazione in alzato laddove strade di diversa natura e ferrovie si incrociano a quote diverse. La città del Novecento si è costruita, dunque, per accostamento di insediamenti fortemente segnati e connotati dal punto di vista funzionale e tipologico e rispondenti ai temi oggetto di una fervida sperimentazione in tutta Europa, dalle nuove tipologie abitative alla costruzione delle fabbriche. Tra i primi recinti fondativi di questa città si costruiscono, nel corso del XIX secolo, quelli dei luoghi definiti “ammorbanti” dal Milizia nel suo Trattato di Architettura Civile del 1781. Si teorizza, già a quel tempo, la necessità di costruire fuori, ma accanto alla città, i cimiteri, le carceri, i macelli, “edifici per salute e bisogni pubblici” ma al contempo cittadelle dell’esclusio-

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1: Il recinto dell’ex manicomio napoletano tra filamenti infrastrutturali e aeroporto nel pattern urbano di recinti. ne. A quelli citati dal Milizia, si aggiungono le “città dei matti”, altri luoghi “ammorbanti”, si potrebbe dire, nell’accezione di noiosi, che inducono turbamento. Così, le cittadelle dell’esclusione contengono nei loro recinti architetture e spazi aperti che rimandano in qualche modo ad una idea di macchina per la cura, per la riabilitazione, per la sepoltura ecc., tutti rispondenti a regole codificate in relazione ad uno scopo medico, sociale, religioso e culturale. Al contempo, nel pattern della città dei recinti, le micro-città autonome si presentano come frammenti adiacenti alla città consolidata, impiantati altrove e in questo senso, oltre che per lo specifico scopo della loro costruzione, di nuovo è appropriato l’appellativo di città altre. Oggi, nelle dinamiche di modificazione della città contemporanea, che in prima battuta hanno riguardato i recinti industriali, sono coinvolte anche loro, le città altre che, con ragioni, modi e tempi diversi, si dismettono, si modificano, si trasformano, si riusano, si ampliano. In particolare, per i manicomi la legge Basaglia ha decretato la dismissione perché ‘sbagliati’ rispetto alle nuove direzioni della psichiatria e ormai, sia pur con tempi di attuazione molto lunghi, tutti gli ospedali psichiatrici italiani sono dismessi. Per i cimiteri c’è un costante bisogno di concepire nuovi spazi o di ammodernare talvolta alcuni luoghi, talvolta la tipologia di sepoltura e il tema è, dunque, quello dell’ampliamento di quelli esistenti o dell’aggiunta di nuovi a saturare la città dei recinti.

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Nel caso napoletano, come anche in altri casi italiani, esiste spesso una prossimità tra recinto manicomiale e recinti cimiteriali che rende possibile ragionamenti congiunti sui cambiamenti contemporanei delle due eterotopie. Da queste considerazioni prendono l’avvio sperimentazioni di ricerca e didattica che da un lato tengono sullo sfondo le innumerevole aggettivazioni della città tese a descrivere e al contempo a introdurre approcci e temi progettuali, dall’altro considerano centrali le storie e le memorie delle città altre che per motivi diversi chiedono di essere reinterpretate. Così, aggettivi quali plurale [Altarelli 2015] generica [Koolhaas 2001], uguale [Purini 2005] si confrontano con la conservazione degli elementi fondativi e della dimensione narrativa delle zolle delle “città dei matti”, con disegni di nuove relazioni, intersezioni, sovrapposizioni tra diversi elementi della città contemporanea. «Nella città contemporanea si assiste a un conflitto entusiasmante tra la sua virtuale trasformazione in un sistema di spazi fluidi (…) come traduzione delle nuove libertà che la rivoluzione digitale sta promettendo e la sua realtà fisica (…) Alla città teoricamente fluida fa riscontro una città sempre più divisa in compartimenti rigidi (…) Riconciliare queste due città è un obiettivo urgente che richiede un impegno creativo forte e continuo. Ma ne vale la pena» [Purini 2005] (A. D’A.).

1. L’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli da città dell’esclusione all'inclusione di città Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si costruiscono in Italia gli ospedali psichiatrici ‘richiesti’ dalla medicina di settore che i manuali specialistici ne normano le regole di costruzione, organizzazione e funzionamento [Tamburrini 1918]. Si diffondono sul territorio nazionale i recinti delle città dei pazzi [Fondazione Benetton 1999, A.A.V.V. 2013]. Qualche volta insediati in complessi già esistenti quali, ad esempio, grandi complessi conventuali interni alle città, e in qualche caso costruiti in aree verdi molto lontane dai centri abitati, nella maggior parte dei casi i manicomi vengono impiantati ai limiti della città urbanizzata e, laddove possibile, in luoghi sopraelevati per rispondere ad esigenze di salubrità. Tutti i progetti si riferiscono in maniera rigorosa alle prescrizioni della psichiatria che stabilisce costanti e possibili variazioni degli impianti delle cittadelle. Impianti simmetrici con gli edifici di servizio disposti lungo l’asse centrale e padiglioni di degenza tutti uguali ai lati. A sinistra i padiglioni femminili e a destra quelli maschili secondo una sequenza che a partire dall’ingresso principale risponde ad una progressiva gravità della patologia e/o ad una maggiore necessità di ‘restringimento’. Tutti i recinti manicomiali presentano grandi superfici di spazi aperti nei quali si articolano lunghi percorsi di connessione tra edifici di servizio e padiglioni [A.A.V.V. 2013]. Rispetto a questa struttura fissa, nei manuali si fa riferimento a diverse configurazioni di pezzi e parti degli ospedali psichiatrici. Si definiscono così diverse tipologie di impianti manicomiali più o meno segnati da caratteri urbani o di parco. Manicomi a padiglioni ravvicinati, a padiglioni distanziati o a padiglioni nel verde sono le principali varianti. Rispetto a queste tipologie, laddove le differenze si riscontrano in parte nella maggiore o minore densità del costruito all’interno del recinto, ma soprattutto nella più rigida o più organica disposizione degli edifici, un ruolo fondamentale giocano i percorsi di distribuzione e la natura degli spazi aperti. All’interno dei recinti più segnatamente caratterizzati da un disegno naturale del verde i percorsi si snodano come parte di questo disegno, come avviene ad esempio nel caso dell’ex ospedale di Santa Maria della Pietà a Roma. Nel caso dell’ex ospedale San Giovanni di invece, che presenta un impianto a padiglioni distanziati in un contesto di grandi

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2: Sovrapposizione dell’uomo vitruviano alla planimetria dell’impianto di fondazione dell’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi. In grigio i padiglioni aggiunti alla struttura originaria. dimensioni e variamente articolato dal punto di vista geografico, i percorsi rispondono ad una struttura più rigida che evidenzia l’organizzazione simmetrica dell’impianto ma sono comunque percorsi assimilabili a vere e proprie strade che si innervano tra spazi aperti di diversa natura, pavimentati e giardini [D’Agostino 2017]. Il caso napoletano è uno di quelli in cui sono proprio i percorsi a rendere evidente la struttura rigida dell’impianto a padiglioni ravvicinati. Nell’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi i percorsi di distribuzione sono vere e proprie architetture, gallerie coperte che si aprono con vetrate sugli spazi aperti e da questi prendono luce. L’ex manicomio napoletano viene costruito su progetto di Fabio Tango agli inizi del XX secolo su un’altura a nord est del centro storico della città. Vi si accede da una rampa che si innesta sulla via Calata Capodichino e che si incunea nella geografia della città tra le pendici della collina di Capodimonte, immediatamente a ovest del Bianchi, e il promontorio dove

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sorge quest’ultimo. Ad accogliere chi arriva, l’edificio di accoglienza e rappresentanza fa da sfondo ad un grande piazzale alberato e cela alla vista la città dei matti. In questo primo edificio – l’unico a tre piani di cui al primo si trovano l’archivio delle cartelle cliniche, la biblioteca, il grande salone di rappresentanza e gli uffici dirigenziali, al secondo c’erano gli alloggi delle suore e al piano terra la fardelleria e altri spazi di prima ‘accoglienza’ – si innestano a destra e a sinistra i percorsi che conducono ai primi padiglioni della sezione donne e della sezione uomini, e perpendicolarmente i percorsi che raggiungono l’estremità opposta dell’ospedale. Da questi ultimi si ha accesso, oltre che agli spazi aperti, ai padiglioni di servizio e agli altri percorsi che raggiungono i padiglioni di degenza, anche agli spazi destinati al lavoro dei malati meno gravi: una tipografia, una sartoria, una officina meccanica. Gli spazi aperti delle sezioni erano rigidamente di pertinenza di singoli padiglioni mentre quelli del centro, delimitati dai due percorsi paralleli, erano il giardino del direttore tra l’edificio principale e la cucina e il sagrato della chiesa tra il forno e la chiesa stessa, quest’ultima posta sul limite del recinto. Oltre il recinto c’erano solo la lavanderia e l’obitorio. Alla cittadella di prima fondazione si aggiunge a sud un altro recinto con due nuovi padiglioni e una grande area verde prima colonia agricola e poi campo da calcio [Mannaiuolo, Sciuti 1928]. Inoltre, nel corso degli anni, per il costante aumento dei degenti si sono realizzati una serie di nuovi edifici spesso come ampliamenti dei padiglioni esistenti [D’Agostino 2016, D’Agostino 2017]. La dismissione è stata lenta, ma dal momento della definitiva chiusura il tempo sembra essersi fermato [A.A.V.V. 1995]. Da qui è necessario ripartire. L’ipotesi, come si accennava all’inizio, è quella di una contaminazione tra la città dei matti abbandonata da riciclare e le città dei morti da ampliare e reinterpretare in relazione alla possibilità di includere nell’operazione di contaminazione non solo un progetto per le architetture e gli spazi aperti delle due eterotopie ma un progetto sociale e culturale, un progetto di inclusione di città [D’Agostino Vannelli 2017] (A. D’A.).

2. Un craquelé urbano tra luoghi altri e non-luoghi. Tra le tante aggettivazioni e interpretazioni della città contemporanea Marc Augé utilizza il termine ‘rurbano’ «neologismo coniato per rendere conto del crescente processo di ramificazione che salda tra loro le città». [Augé 2007, 5] Nel presente scritto ci si riferisce a quei “fatti” che non si possono definire né urbani, né rurali e che potrebbero dirsi rurbani: l’in between tra quelli che erano gli elementi di una delle dicotomie portanti della teoria della città del secolo scorso, città e campagna. Costruzioni ai margini, esternalità rispetto alla città, l’altro al di fuori di essa, sono i temi che caratterizzano la città del XX secolo. Cimiteri, ospedali psichiatrici, carceri, caserme, sono tutte città dei recinti fondate su una logica protezionista del perimetro. Ma la logica di estromissione, di emarginazione di alcuni luoghi “confinati”, sembra essersi invertita. Mentre nel passato la città si murava rispetto al resto, recintata e protetta dall’ignoto, dal non gestito, quindi anche dalla morte; oggi, la passata introversione potrebbe dirsi mutata in un’estroversione: la città contemporanea confina, segrega l’altrove. Così alla dialettica città-campagna si sostituisce quella città-eterotopia. Questi fenomeni – nel senso greco del termine – appaiono ai nostri occhi come parti di un continuum di recinti contigui, confinanti, poco distanti, separati da filamenti infrastrutturali. Potrebbe dirsi un craquelé urbano che rimanda a quello individuabile in un disegno di sottili linee che solcano la superficie di una tela. L’analogia si riferisce alla duplice accezione del

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3: Craquelé urbano. Un paesaggio al margine tra recinti e fasci infrastrutturali a Napoli est. craquelé quale segno del tempo e di un degrado e quale tecnica artistica, dunque dispositivo di descrizione e poi strumento progettuale. Un’immagine compatta, unica, ma al contempo frammentata è quel che ne risulta. Una città di recinti affiancati, prossimi ma sempre scissi. Questa potrebbe dirsi l’eredità del secolo scorso. Una città dove è venuta meno la coesione, la coerenza, spesso la stessa contestualizzazione dei progetti. Disegni funzionalisti che rispettavano pedissequamente logiche intrinseche e non estrinseche sono alcune delle ragioni alla base di tale craquelé urbano. Così queste eterotopie oggi si collocano in un sistema di non-luoghi; «Aeroporti, centri commerciali, autostrade e supermercati sono dei non-luoghi: infatti la loro vocazione principale non è territoriale, non è di creare identità individuali, relazione simboliche e

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4: Amsterdam, De Nieuwe Ooster, un parco della memoria. patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie» [Augé 2007, VIII]. Si ripensa a queste cittadelle di reclusione, definite di “deviazione” da Foucault (con l’accezione di deviato, malsano) come luoghi di deviazione questa volta intesi come interruzione, pausa, distensione, distrazione rispetto ai ritmi frenetici della città che le circonda [Foucault 2001]. Si ragiona dunque sull’identità di questi luoghi, su quella passata e quella possibile (G.V.).

3. Il progetto tra la memoria dei luoghi e i luoghi della memoria Il Leonardo Bianchi si impone nella città lasciando quest’ultima quasi indifferente, inconsapevole della dimensione fisica e del peso etico che lo connota. Risulta essere, dunque, il “recinto” l’atto fondativo che trasforma un concetto in forma, un’ideologia in architettura; chiusura fisica che ne sottintende una seconda, forse la peggiore, quella umana e morale. Le cittadelle manicomiali abbandonate, di proprietà pubblica precluse all’utilizzo del pubblico, costituiscono un patrimonio collettivo sprecato, un bene comune negato. Eppure la stessa condizione di abbandono che ha portato a questo tempo di latenza è premessa utile e, potrebbe dirsi, fondamentale per un pensiero progettuale di riuso finalizzato ad un più ampio riscatto. Il tempo di latenza diventa qui tempo dell’attesa e distanza necessaria all’assunzione di consapevolezza del potenziale inespresso di quei luoghi, dell’occasione sprecata [Cherchi 2015]. Lo spazio chiuso e precluso deve essere aperto e liberato da un’idea di segregazione, contaminato da un’idea di molteplicità. Si ricercano dunque connessioni tra questi contenitori di memorie – individuali e collettiva – tra questi segni di recinzione insistenti su una geografia medesima, tra queste cicatrici che affondano nella morale della società che, purtuttavia, meritano riscattato. Nel caso napoletano della collina di Poggioreale è quasi solo un fascio infrastrutturale a determinare il gap tra questi sistemi. Dunque l’obiettivo che ci si è posti in questa ricerca progettuale è di lavorare sul significato e sulla risignificazione, sul ciclo naturale – della vita e degli spazi – e sul riciclo dei luoghi, ma soprattutto sull’attribuzione di valore ad una memoria

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5: La rivalutazione del patrimonio a Tournais. che non va persa, bensì vissuta, resa monumento/documento. In questo ragionamento si iscrive la possibilità di lavorare sulla memoria dei luoghi e sui luoghi della memoria. Per sostanziare la tesi si sono condotte una serie di ricerche in ambito europeo dove si riscontra una sostanziale progressiva modificazione sia delle tipologie di sepoltura– dall’inumazione, alla cremazione sino a più sofisticate ed ecologiche forme in via di sperimentazione – sia sull’interpretazione del cimitero non più come attrezzatura dedicata ma come luogo delle commistioni tra città dei vivi e città dei morti. In tal senso possiamo interpretare il progressivo processo di “frammentazione” del recinto nel cimetière de Roberment a Liège. Qui la parte settentrionale di ampliamento, prossima al crematorio, grazie al carattere proprio del cimetière paysagère, perde ogni rigida demarcazione, diventa un luogo pubblico, un rigoglioso “parco della memoria”. Così viene chiamato anche il cimitero De Nieuwe Ooster di Amsterdam, frequentato come un parco della memoria non necessariamente vissuto per render visita ad un caro. Vi sono punti ristoro, una recente area di ampliamento ad opera di Karres+Brands che si configura come un vero parco urbano e vi è anche un piccolo museo. Altrettanto interessanti sono le sperimentazioni del comune di Tournais in Belgio. La piccola cittadina, che vanta la più vasta area metropolitana del Belgio, conta circa 300 cimiteri da dover gestire. Forse è proprio il ‘peso’ di questo patrimonio a far percepire come necessarie attività puntuali volte ad un’apertura al pubblico di questi luoghi per raccontare la storia delle persone e al contempo della città: vi è anche un musée du folklore in cui vi è una sezione che raccoglie cimeli e attrezzature che raccontano di questi luoghi. Azioni condotte da privati o dalle istituzioni pubbliche si affiancano in questa realtà al fine di rendere fruibile in un modo nuovo il patrimonio dei luoghi della memoria. L’artista Jérémy Tomczak, impegnato nell’iniziativa intrapresa dal cimitero sud di Tournais, spiega che l’idea era di « faire dialoguer entre elles des œuvres d’artistes contemporains et des objets du patrimoine funéraire, des objets de deuil, des bijoux funéraires, des photos anciennes ». Il progetto è quello di un percorso di arte contemporanea en plain air che termina nell’obitorio, una strategia che vede

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nel problema la soluzione : le tombe abbandonate e ormai in decadimento diventano pre- testo per l’installazione d’arte contemporanea. Interessante è anche l’azione privata condotta dall’associazione FaMaWiWi sugli antichi fours à chaux – monumento celebrativo della realtà industriale belga – acquisiti in uno stato di totale abbandono e rianimati mediante attività culturali di varia natura. Al piano terra si svolgono eventi culturali negli spazi degli antichi forni da calce e in quello che il tempo dell’abbandono ha fatto diventare un naturale e spontaneo giardino pensile, la copertura, vengono posti i passe-mémoire, sculture di piccole dimensioni applicate su supporti cilindrici di un diametro di 10 cm, definiscono un parco costellato di piccole opere d’arte contemporanea. Inoltre sulla copertura si disperdono le ceneri dei soli membri dell’associazione che sono invitati dai fondatori dell’associazione a vivere il luogo prima in vita e poi in morte. Un’altra esperienza di interesse è quella Svizzera di Monthey laddove il cimitero storico, di cui si è prevista la delocalizzazione, diventa un parco. Un parco urbano che conserva la memoria del luogo e la reinterpreta conservando il senso di pace che permeava ormai da anni il sito. Orti urbani e opere d’arte contemporanea ridefiniscono lo spazio cimiteriale interagendo con la memoria testimoniata dalle lapidi dall’alto valore storico che si è scelto di conservare e dalle strutture annesse al vecchio cimitero, come le serre dei giardinieri. La proposta di Edouard Faro è dunque un parco di sculture in cui si prevede una interazione attiva tra artista e cittadinanza, interessante strategia per incentivare il riconoscimento sociale in quel luogo, per innescare con esso un legame altro [Compagnie de la Torma 2015]. In Italia, un caso significativo di contaminazione tra elementi di uno stesso paesaggio al margine che trovano come strumento di riscatto attività artistiche di varia natura, è quello dell’antica certosa di Bologna. Dunque, della realtà liegese si è descritta la progressiva apertura di un recinto che non è più chiamato a chiudere e ad escludere. Ad Amsterdam e a Monthey si è apprezzato un processo che vede il cimitero diventare altro. Per Tournais e per Bologna si può parlare di un iter inverso, è “altro” a diventare cimitero conservando, potremmo dire, un grado di alterità fortemente connesso ad una dimensione artistica che, come si è visto, assume un valore centrale in questi processi (G.V.).

Conclusioni A valle delle considerazioni suddette si ipotizza un ampliamento del sistema cimiteriale napoletano attraverso il riciclo dell’ex Ospedale Psichiatrico Leonardo Bianchi. Con una operazione di risignificazione, più che di rifunzionalizzazione o di riuso, si punta a trasformarlo in un volano di sviluppo – anche di natura economica. Dunque nel Bianchi si propongono forme nuove di sepoltura, più attente all’ecologia e al passo con le evoluzioni sociali e culturali così da pensare ad un parco della memoria che possa esser vissuto variamente, e che possa, in un tempo più lungo, innescare un meccanismo di trasformazione e contaminazione, attraverso operazioni analoghe, degli stessi recinti cimiteriali. È necessario riportare l’attenzione sulle cittadelle manicomiali abbandonate perché ri- assumano valore e per far sì che ciò avvenga si ritiene necessario passare per una “inclusione di città” in quelle che sono ancora tristemente note come “città dell’esclusione” (G.V.).

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Da città dell’esclusione all'inclusione di città. Il caso degli ex ospedali psichiatrici

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Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

Architetture del silenzio in Costa d’Amalfi. Eremi e luoghi dell’isolamento tra conoscenza, conservazione e nuove prospettive di fruizione Architectures of silence in the Amalfi Coast. Hermitages and places of isolation between knowledge, conservation and new prospects of fruition

STEFANIA POLLONE Uiversità degli Studi di Napoli Federico II

Abstract Il paesaggio che costituisce la costa amalfitana ha rappresentato nei secoli un contesto privilegiato per la diffusione di insediamenti eremitici, dei quali, ancora oggi, conserva numerose testimonianze. Tra queste, il sito rupestre di Santa Barbara ad Agerola, rappresenta un esempio particolarmente significativo entro tale più esteso sistema. Partendo da una necessaria visione d’insieme, nonché attraverso il diretto raffronto con architetture analoghe, il contributo intende valutare le attinenze morfologiche e costruttive che sembrano caratterizzare tali complessi, nonché proporre una riflessione in riferimento alle questioni connesse alla conservazione e alle possibili prospettive di fruizione di contesti connotati da una consustanziale storica inaccessibilità.

Over the centuries, the landscape of the Amalfi Coast has favoured the diffusion of eremitic settlements, of which it preserves many testimonies still today. Among these latter, the rocky site of Saint Barbara in Agerola, represents a significant example within this wider system. Starting from a more general overview and through the direct comparison with similar architectures, the paper aims at evaluating the morphological and constructive similarities that seem to characterize these complexes, as well as at proposing a reflection on issues related to conservation and to the possible perspectives of fruition of contexts characterized by a historic consubstantial inaccessibility.

Keywords Architettura eremitica, paesaggio culturale, restauro. Eremitic Architecture, cultural landscape, restoration.

Introduzione La specificità di un paesaggio qual è quello del versante amalfitano della Penisola sorrentina, caratterizzato da una condizione di difficile accessibilità, data la presenza di alte falesie, fronti rocciosi a picco sul mare e profonde insenature, ha favorito, almeno fin dall’VIII secolo d.C., la diffusione di architetture connesse alla professione del culto eremitico, innanzitutto di matrice greco-orientale e, poi, latina, sostanzialmente rivolto al perseguimento dell’ascetismo. Analogamente a quanto riscontrato in ambiti dalla simile conformazione orografica e, principalmente, in Sicilia, Calabria e Puglia, in tale contesto, infatti, è possibile riconoscere numerosi insediamenti, quali grotte, siti rupestri ed eremi, di impianto basiliano o benedettino. Definiti in corrispondenza dei luoghi maggiormente isolati o più difficilmente raggiungibili, questi rappresentano episodi di particolare rilievo, in ragione tanto della loro

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caratterizzazione costruttiva, quanto dello stretto legame con il paesaggio nel quale sono sorti. Entro il più ampio patrimonio di architetture eremitiche in Costa d’Amalfi, il sito rupestre di Santa Barbara in Agerola rappresenta un caso emblematico alla luce della compresenza di gran parte di quei caratteri che contraddistinguono insediamenti di questo tipo. L’analisi di tale complesso ben si presta a essere portata avanti, in particolare, da una parte, mediante l’interpretazione delle fonti dirette e indirette e, dall’altra, in una lettura comparata con l’abbazia di San Pietro a Crapolla, ricadente nel territorio di Massa Lubrense, rispetto alla quale appare emergere una serie di analogie tanto morfologiche, quanto costruttive. A tali riflessioni si lega, infine, la possibilità di valutare le alternative più compatibili con le esigenze di protezione di tali palinsesti e le strategie più adatte a garantire nuove prospettive per una migliore fruizione che sia, al contempo, necessariamente orientata a non compromettere quel carattere di “isolamento” dei quali costituisce, a sua volta, uno dei valori da preservare.

1. Diffusione e caratteri delle architetture eremitiche in Campania La presenza sul territorio campano di insediamenti votati alla conduzione di una vita isolata è sostanzialmente connessa alla diffusione delle pratiche dell’eremitismo e dell’anacoretismo, sviluppatesi almeno a partire dal VI secolo d.C., in concomitanza con l’arrivo, nelle regioni della Magna Grecia, di monaci provenienti dall’Oriente, nonché, in seguito, anche in relazione al cenobitismo. Va rilevato, in ogni caso, che a differenza di altre aree dell’Italia meridionale e, in particolare, della Sicilia e della Calabria, notevolmente interessate dalla diffusione del monachesimo orientale, o greco, e dei relativi insediamenti, principalmente tra l’VIII e il IX secolo, in Campania emerse, invece, la coesistenza delle due più importanti concezioni monastiche del Medioevo. Qui, difatti, alla pratica greco-orientale – diffusasi tra il X e l’XI secolo, tanto nel Salernitano quanto nei territori settentrionali – si associò quella occidentale, o latina – cui, durante l’XI secolo, venne dato slancio con la politica filo- benedettina normanna – entrambe, in ogni caso, fondamentalmente caratterizzate dalla propensione all’eremitismo [Venditti 1967, 204-205; Cerenza 1986, 74; Vitolo 1996, 182- 200]. A queste si aggiunse, inoltre, una certa adesione al culto micaelico, anch’esso orientato all’uso di grotte e siti rupestri: insediamenti di questo tipo si riscontrano, difatti, nella piana campana, nel salernitano e nelle aree bizantine costiere, sia del napoletano che della penisola sorrentino-amalfitana [Caffaro 1996, 149; Ebanista 2007, 132]. Se, tuttavia, oltre alla pratica dell’eremitismo, si manifestarono, ben presto, forme di aggregazione monastica anche all’interno dei centri urbani, la figura del ‘monaco’ avrebbe continuato a persistere nell’immaginario collettivo come quella dell’«eremita che vive paesaggi alpestri e comunque lontano dai centri abitati o come cenobita impegnato nella preghiera, nelle pratiche liturgiche e in compiti organizzativi all’interno di spazi architettonici separati, collocati per lo più in ambiente rurale» [Vitolo 2015, 6]. Una condizione questa che, sostanzialmente connessa all’idea del perseguimento di una vita isolata, condotta in luoghi “altri” rispetto alle città, avrebbe accompagnato, nel tempo, l’immagine di tali figure religiose, rappresentandone un carattere costante anche nell’iconografia [Vitolo 2015, 3-41]. Più in generale, a proposito di tale patrimonio, se «gli studiosi che, tra gli anni Sessanta e Settanta, si sono occupati delle chiese rupestri della Campania, hanno ricondotto la maggior parte degli esempi individuati alla presenza di anacoreti o eremiti» [Ebanista 2007, 141; Venditti 1967, 199, 201; Kalby 1975, 154], l’ipotesi panmonastica, oggi, appare ormai superata tant’è che la storiografia più recente tende ad escludere la possibilità che i siti

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1: Agerola, il sito rupestre di Santa Barbara entro il paesaggio culturale cui appartiene. a) percorso e gradonate di accesso al complesso eremitico; b) grotta dell’acqua; c) grotta di Santa Barbara; d) chiesa di Santa Barbara; e) grotta di Tutti i Santi. rupestri siano connessi alla sola presenza dei monaci eremiti, interpretandoli, di contro, quali «piccoli santuari meta di pellegrinaggi locali […] o luoghi di culto a vocazione funeraria e privata» [Ebanista 2005, 10, 56; Ebanista 2006, 389, 397; Ebanista 2007, 141]. Il fenomeno dell’anacoretismo e dell’eremitismo in Campania, sebbene rilevante, non può essere paragonato alla diffusione dei monaci italo-greci avvenuta in Sicilia o in Calabria [Martin 2003, 177-185; Ebanista 207, 141]. Nonostante la presenza di monasteri rupestri sorti, probabilmente, per iniziativa di un singolo anacoreta, alla cui dimora originaria si sarebbero aggiunti la chiesa rupestre e il monastero, ovvero per volontà di gruppi di monaci legati allo stesso cenobio, difatti, una buona parte degli insediamenti sarebbe da riferire a una committenza ecclesiastica o privata [Venditti 1967, 221-225; Falla Castelfranchi 1992, 143; Caffaro 1996, 18-19; Ebanista 2007, 143, 144], di culto prevalentemente latino [Pace 1994]. Peraltro, secondo quanto fa notare Ebanista, «i romitaggi esistenti presso santuari rupestri campani risalgono, nella maggior parte dei casi, all’incremento dell’eremitismo avvenuto in età post-tridentina» [Ebanista 2007, 143]: nel corso del XVII secolo risultano frequenti i casi in cui l’eremita si sia insediato presso una chiesa o un santuario rurale, definendo rapporti di subordinazione nei confronti delle autorità ecclesiastiche che detenevano la giurisdizione territoriale [Vitolo 2001, 321]. Più in generale, in riferimento alle chiese rupestri presenti sul territorio campano, localizzate principalmente in corrispondenza dei rilievi appenninici e sub-appenninici, Carlo Ebanista ha affermato:

«Se la distribuzione dei luoghi di culto in rupe […] è […] connessa alla presenza dei rilievi e dei fenomeni carsici che hanno determinato la formazione delle grotte, il loro utilizzo cultuale, invece, è una scelta collegata ai bisogni della popolazione e alla diffusione delle pratiche devozionali nonché ovviamente alla possibilità di accedere, più o meno comodamente, alle cavità attraverso ingressi agevoli ubicati a quote non proibitive» [Ebanista 2007, 131].

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In ogni caso va sottolineato che la Campania non presenta un’architettura ipogea che sia paragonabile a quella documentata in altre aree dell’Italia centro-meridionale, laddove si rilevano, invece, significativi interventi di taglio e modellazione della roccia [Ebanista 2007, 133]. Qui, difatti, la natura calcarea delle formazioni rocciose ha indotto l’uomo ad adattare le cavità naturali apportandovi soltanto limitati interventi architettonici in gran parte «lontani dalla ricerca spaziale testimoniata altrove e con il solo apporto figurativo degli affreschi» [Venditti 1967, 362, 364; Ebanista 2007, 133]. Le operazioni portate avanti ai fini dell’adattamento di tali preesistenze naturali alle funzioni cultuali hanno riguardato generalmente la realizzazione di setti murari per l’articolazione interna degli ambienti, ovvero la regolarizzazione delle superfici ai fini delle stesura degli strati pittorici. Oltre a ciò, una peculiarità delle strutture rupestri è connessa alla pratica dell’inglobamento della parete rocciosa che va a costituire parte integrante dei singoli ambienti, definiti, a seconda della morfologia naturale dei siti, mediante la realizzazione di due o tre setti ovvero, in alcuni casi, con un solo pannello murario posto a chiusura del vano [Ricci 2010, 3, 10]. In ogni caso se l’entità degli interventi doveva essere strettamente connessa alle caratteristiche del sito prescelto per l’impianto del culto e alle disponibilità economiche della committenza, il ricorso al materiale di reimpiego, sia di epoca classica che altomedievale, costituisce un’abitudine piuttosto ricorrente [Ebanista 2007, 133]. «Funzionali alle esigenze dei pellegrini e di quanti abitavano presso le chiese rupestri – inoltre – sono i romitaggi che sorgono all’ingresso di numerose grotte» come nei casi di Cerreto Sannita, Olevano sul Tusciano, Preturo di Montoro Inferiore e San Mango Piemonte. Solitamente articolate su più livelli «queste abitazioni […] erano dotate delle necessarie comodità (forno, cisterne, depositi, servizi igienici) e talvolta comprendevano delle case torri» [Ebanista 2007, 137; Caffaro 1996, 189-190]. In accordo a esigenze tanto devozionali quanto funzionali, infine, tali strutture erano frequentemente dotate di pozzi, canalizzazione e vasche per la raccolta delle acque [Ebanista 2007, 137].

2. Il patrimonio rupestre della Costa d’Amalfi Entro tale più esteso sistema, le architetture connesse alla diffusione dell’eremitismo presenti nell’ambito del territorio amalfitano rappresentano un insieme particolarmente significativo per la densità e la caratterizzazione degli episodi – tra cui si riconoscono grotte, siti rupestri, eremi, cenobi e abbazie – molti dei quali si possono ricondurre a insediamenti di tipo greco e basiliano e, successivamente, benedettino. Nei territori del Ducato amalfitano, infatti, a partire dal IX secolo le comunità religiose ispirate all’ideale monastico ascetico di matrice orientale trovarono ampia diffusione, per poi essere interessate dal processo di latinizzazione, contraddistinto dalla capillare diffusione del monachesimo ispirato alla regola di San Benedetto e, di conseguenza, dei cenobi benedettini [Falla Castelfranchi 1992, 142- 154]. A tal proposito si ricordano i siti di Santa Barbara ad Agerola, San Domenico a Praiano, grotta di Tutti i Santi a Furore, SS. Trinità a Tovere di Amalfi, grotta dei Santi e San Pancrazio ad Amalfi, San Michele ad Atrani, San Salvatore a Pontone di Scala, SS. Cosma e Damiano e Sant’Angelo dell’Ospedale a Ravello, SS. Annunziata e San Francesco o Santa Maria a Mare a Minori, Santa Maria de Olearia, San Bernardino e Madonna dell’Avvocata a Maiori, Sant’Angelo a Gete di Tramonti, Madonna di Novella a Tramonti, San Pietro a Crapolla. Caratterizzato da un’orografia aspra, dalla presenza di fiordi, alte falesie a picco sul mare e fronti rocciosi difficilmente accessibili se non mediante ripidi sentieri e gradonate scavate nella roccia, il paesaggio amalfitano ha offerto le condizioni più favorevoli per l’insediamento

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2: A sinistra, Agerola, chiesa di Santa Barbara, pianta (rielab. dell’autrice da un rilievo di C. Langella). A destra, Crapolla (Massa Lubrense), abbazia di San Pietro, particolare della pianta della chiesa (elab. dell’autrice). dei religiosi votati a trascorrere una vita isolata. Quale significativa testimonianza dell’abilità dell’uomo di adattarsi alle condizioni del contesto naturale e, al contempo, di modellarlo, laddove necessario, al fine trarne il maggiore giovamento, il sistema dei siti rupestri della Costa d’Amalfi costituisce uno degli esempi più significativi di quel paesaggio culturale che trae valore dalla reciproca interrelazione tra le opere antropiche e quelle della natura.

«La rupe, con il suo andamento in forte pendenza, spesso di difficile percorribilità […] ha costituito, fin dall’inizio, per chi aveva scelto di […] vivere in questi luoghi, un ostacolo forte […]. Ma, allo stesso tempo, è indubbio come la struttura dell’ambiente abbia fornito un sostanziale sistema di sicurezza e di difesa contro gli aggressori esterni […] suscettibile di perfezionamento con pochi interventi costruttivi mirati» [Ricci 2010, 2].

Se da una parte, dunque, le caratteristiche morfologiche di tali contesti hanno orientato le scelte condizionando la localizzazione e la conformazione dei siti rupestri, adattati, nella maggior parte dei casi, all’orografia naturale; dall’altra, l’abbondante quantità di pietra calcarea, utilizzata tanto in bozze e conci, quanto per la preparazione delle miscele leganti, ha costituito una risorsa fondamentale, consentendo la possibilità di lavorare direttamente in situ i materiali da impiegare ai fini dell’edificazione delle opere murarie, realizzate, come si è detto, all’interno o all’esterno delle grotte. Emergono, inoltre, una serie di caratteri comuni a tutti i siti in cui sono sorti gli insediamenti che, con ogni probabilità, ne hanno determinato la scelta. Essi si ricollegano alla presenza di: un’area di sedime posizionata a una quota più alta rispetto a quella dei sentieri al fine di garantire l’isolamento strategico e difensivo; uno o più

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vani nel fronte roccioso, da sfruttare come ambienti e locali più interni ai quali addossare eventualmente la parte costruita della fabbrica; fenditure nella roccia da utilizzare per la canalizzazione e la conseguente raccolta delle acque piovane; aree vicine, preferibilmente su livelli digradanti, da utilizzare per il pascolo, il ricovero del bestiame ovvero la definizione di terrazzamenti coltivati [Ricci 2010, 11-12]. In analogia con quanto accaduto per gli insediamenti religiosi, nel corso dei secoli, la costa amalfitana ha registrato, inoltre, lo sviluppo di un «sistema insediativo rupestre “laico”» che, insieme ai primi, costituisce parte integrante di tale patrimonio. Caratterizzati dalla presenza di un «”modulo” abitativo-difensivo», adibito a rifugio per animali e uomini, e di «un’area limitrofa di una certa ampiezza, strutturata in terrazzamenti coltivati, sorretti da un sistema di muri a secco», le macere, tali insediamenti, in parte modellando, in parte adattandosi all’orografia, hanno contribuito a determinare una delle principali peculiarità del paesaggio costiero [Ricci 2010, 7-9].

3. In equilibrio tra costruito e natura: il complesso di Santa Barbara ad Agerola «L’alta parete calcarea rivolta verso occidente, strapiombante sul territorio di Furore e sottoposta alla località Corona di Agerola, è caratterizzata da imponenti fenomeni carsici, che danno luogo a numerose caverne, di svariate dimensioni, concentrate nella zona comunemente appellata di S. Barbara, dal nome della chiesa, ivi esistente, intitolata alla vergine guerriera […]. Quest’ultima e le cavità calcaree circostanti, da tempo in abbandono, in passato furono intensamente frequentate, come provano […] le profonde trasformazioni apportate all’ambiente naturale, per renderlo accessibile, e le strutture medievali presenti» [Fiengo et al. 2001, 9].

Il complesso eremitico di Santa Barbara ad Agerola rappresenta un esempio emblematico poiché sintetizza tutte le specificità delle architetture che costituiscono il patrimonio rupestre costiero (fig. 1). Lungo l’alto fronte, raggiungibile dalla frazione di Bomerano percorrendo un sentiero che, dopo aver incrociato quello degli Dei, si trasforma in cordonata, in parte scavata, in parte addossata alla parete rocciosa, si rileva, difatti, un sistema di grotte chiaramente adibite ad uso cultuale, delle quali la maggiore, intitolata alla santa, pare costituire uno dei più antichi insediamenti eremitici del Ducato amalfitano [Caffaro 1986, 54- 55]. In corrispondenza dell’ingresso alla grotta cosiddetta di Tutti i Santi, posta a una quota inferiore rispetto alla prima, durante il X secolo, venne realizzata una piccola cappella, interpretata «come un edificio di culto al servizio di una comunità di monaci eremiti» [Fiengo et al. 2001, 56], costruita a ridosso del fronte calcareo. Dell’originario ambiente, delimitato da tre setti costituiti da muratura realizzata ricorrendo a bozze e conci di ridotte dimensioni del locale calcare, allettati con abbondante malta, nonché coperto da una volta a botte, persistono il pannello murario addossato alla roccia e quello volto verso l’interno della cavità, alcuni lacerti di intonaco e ridotte tracce del battuto di lapillo pavimentale [Fiengo et al. 2001, 28-29]. Tra il XII e il XIII secolo, sul pianoro collocato a una quota intermedia tra quella della grotta di Tutti i Santi e la superiore grotta di Santa Barbara, «in un luogo impervio ed isolato, ma in vista, a testimonianza di una mutata condizione politica generale della Costiera», venne costruita la chiesa omonima, il cui «impianto ricorda quello del nucleo più antico della non lontana S. Maria a Castro a Praiano, ugualmente situata in un arduo sito montano, sottoposto all’altopiano agerolino» [Fiengo et al. 2001, 34, 56]. L’interpretazione stratigrafica

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3: A sinistra, Agerola, chiesa di Santa Barbara, sezione rivolta verso l’area absidale (rielab. dell’autrice da un rilievo di C. Langella). A destra, Crapolla (Massa Lubrense), abbazia di San Pietro, sezione rivolta verso l’area absidale (elab. dell’autrice). della struttura, che oggi si presenta in precario stato di conservazione, ha consentito la ricostruzione delle principali fasi evolutive [Fiengo et al. 2001, 46-56]. In particolare, l’impianto originario, risalente al XII-XIII secolo, sembra essere costituito «dalla navata centrale, di pianta rettangolare absidata e voltata a botte tonda, secondo la tipologia più arcaica degli impianti costieri», cui si sarebbero aggiunte, probabilmente entro il XIV secolo «le due aule laterali, dalle volte a crociera acuta poco rialzata» [Fiengo et al. 2001, 56]. La presenza degli altari in muratura si data, invece, alla prima metà del XVII secolo; la costruzione di un tetto a falde, del tutto scomparso, all’inizio del XVIII secolo, mentre gli strati pittorici più superficiali e la cona d’altare a una fase ottocentesca [Fiengo et al. 2001, 56]. A partire dal 1764, il sito fu utilizzato per il seppellimento dei colerici, mantenendo la destinazione cimiteriale ancora entro il 1882 e venendo acquisito successivamente alla proprietà demaniale, nonché alienato, quindi, a un privato [Gentile s.d., pp. 2-5; Fiengo et al. 2001, 16]. Ai fini della comprensione di quanto permane della chiesa di Santa Barbara appare interessante portare avanti una lettura comparata con un’architettura, quella dell’abbazia di San Pietro a Crapolla, che sembra presentare una serie di analogie tanto morfologiche quanto costruttive (fig. 2). Entro il più ampio paesaggio culturale del fiordo omonimo, appartenente al territorio di Massa Lubrense, i ruderi del complesso benedettino rappresentano una sintesi di estrema rilevanza tra le opere dell’uomo e quelle della natura. Posizionata su un pianoro a 40 metri a picco sul mare in corrispondenza del fronte sud- occidentale dell’insenatura, la fabbrica testimonia di un processo di plurisecolari trasformazioni. Se un primo riferimento all’abbazia ne attesterebbe l’esistenza intorno al 1111, è plausibile ritenere che essa sussistesse già durante i secoli precedenti, accogliendo probabilmente un cenobio basiliano alto-medievale, successivamente trasformato nell’insediamento benedettino, titulus dell’abbazia di Montecassino [Russo 2009, 70-72; Russo 2014, 73-89]. Tra il XII e il XIV secolo, il complesso dovette godere di una certa importanza, mentre durante il XV secolo, con la decadenza dell’Ordine Benedettino, venne trasformato in commenda, pur continuando a essere utilizzato almeno fino a tutto il XVI

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4: A sinistra, Agerola, chiesa di Santa Barbara, vista della navata centrale verso l’altare (rielab. dell’autrice da Fiengo et al. 2001, 37, 41). A destra, Crapolla (Massa Lubrense), abbazia di San Pietro, dettaglio della muratura del romitorio (foto S. Pollone, 2017). secolo, per poi venire, in seguito, lentamente abbandonato. Ad aggravare lo stato di conservazione dell’abbazia, ormai già in una condizione ruderale, concorsero l’uso che se ne fece durante la seconda Guerra Mondiale, allorché vi fu stabilito un avamposto militare, nonché la profonda alterazione provocata, nel 1949, dalla costruzione dell’attuale cappella di San Pietro, realizzata in corrispondenza dell’atrio della chiesa [Russo 2009, 73-74; Russo 2014, 80-82]. Ad accomunare i due complessi vi è, innanzitutto, lo stretto legame sussistente tra il costruito e la natura che si è esplicato, in primo luogo, nella capacità di gestire le componenti orografiche del suolo, modellandone l’andamento mediante la realizzazione di terrazzamenti, delimitati dalle tradizionali ‘macere' e utilizzati per la conduzione di attività agricole che, in accordo alle regole monastiche, potessero garantire il sostentamento della comunità. L’attitudine ad adattarsi alle peculiarità dei siti trova riscontro, inoltre, in un’articolazione planimetrica e altimetrica che, per entrambe le fabbriche, appare sostanzialmente accordata rispetto all’orografia. Dal punto di vista compositivo, quindi, in ciascuno dei due complessi, l’aula preceduta, sul fronte occidentale, da una struttura a torre e da locali destinati a ospitare la sagrestia – nonché l’atrio e un armarium nel caso dell’abbazia benedettina –, risulta suddivisa in tre navate concluse da tre absidi semicircolari – due nella chiesa di Santa Barbara cui se ne accompagna una terza piatta – orientate verso est e munite di altari in muratura (fig. 3). Le strutture di tali presbiteri triabsidati, che, secondo quanto permane nel complesso agerolese, dovevano presentare catini emisferici di copertura, si sviluppano, inoltre, in modo tale da adattarsi alla presenza dei forti dislivelli sui quali si fondano [Caffaro 1996, 95; Fiengo et al. 2001, 38-40]. Ancora, in corrispondenza del fronte nord di entrambe le fabbriche, si denota quello che può essere assimilato a un subsellium, ovvero il sedile in pietra «sul quale i religiosi sedevano durante le funzioni»; quale ulteriore «corredo indispensabile di tutte le strutture rupestri», inoltre, anche nei due complessi si ritrovano canalizzazioni e ambienti adibiti alla raccolta delle acque ad uso dei monaci e dei pellegrini [Fiengo et al. 2001, 42, 46]. In merito alla caratterizzazione materico-costruttiva, in entrambi i casi si denota la presenza di strutture murarie poste in opera direttamente al di sopra della roccia affiorante che,

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5: Agerola, sito rupestre di Santa Barbara. Particolare del percorso e della cordonata di accesso al complesso, nonché di una delle strutture voltate, costruite a ridosso del costone roccioso al fine di superare i salti di quota presenti. laddove emergente rispetto al piano di fondazione, risulta inglobata negli ambienti e, talvolta, rivestita di uno strato di finitura. In aggiunta, un’altra peculiarità dei cantieri rupestri che accomuna le due fabbriche è il ricorso al locale calcare, estratto in situ, impiegato in bozze tendenzialmente irregolari e di dimensioni variabili, talvolta rinzeppate con elementi minuti di calcare o cotto e allettate con abbondante malta a base di calce. Entro tali apparecchi murari si denota, peraltro, una certa attenzione alla posa in opera delle ghiere degli archi e delle nicchie, caratterizzate da una maggiore regolarità dei conci e della loro disposizione (fig. 4). Per quel che riguarda le strutture di copertura, analogamente a quanto riscontrato in uno degli ambienti dell’abbazia di San Pietro, anche nel caso della volta a botte che doveva coprire la navata della chiesa di Santa Barbara sono state rinvenute all’intradosso tracce del canniccio utilizzato per la centina di costruzione, a dimostrazione di una comune pratica operativa [Fiengo et al. 2001, 40]. A un quadro morfologico-costruttivo di questo tipo corrisponde, infine, uno stato conservativo sostanzialmente analogo caratterizzato, per entrambe le fabbriche, oltre che dalla perdita degli strati di finitura e dalla polverizzazione dei leganti, da meccanismi di collasso concentrati principalmente in corrispondenza delle porzioni maggiormente vulnerabili, ovvero delle strutture voltate e dei paramenti murari costruiti a ridosso dei fronti acclivi, a loro volta interessati da fenomeni di scoscendimento.

4. Strategie per la conservazione e la fruizione di paesaggi al limite. Alcune considerazioni conclusive Tenendo conto di quanto detto finora, si può a ragione affermare che le architetture rupestri siano caratterizzate, innanzitutto, da un’inscindibile connessione, materiale e immateriale, con il contesto nel quale sono sorte. Per questo motivo, l’intervento su tali palinsesti architettonici non può, in questi casi più che in altri, esulare da un approccio che sia comprensivo anche delle azioni rivolte alla tutela di quel paesaggio del quale essi costituiscono una componente essenziale. In contesti di questo tipo, peraltro, fortemente caratterizzati, come si è visto, da una naturale propensione all’inaccessibilità, la sfida del restauro consiste proprio nella capacità di

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garantire la conservazione delle permanenze materiali e di definire nuove forme di fruizione che consentano di valorizzare tali paesaggi culturali, senza compromettere, allo stesso tempo, la percezione di tutti i valori che li contraddistinguono. È così che all’intervento rivolto alla preservazione e protezione della materia antica dei complessi rupestri, vanno associate azioni orientate al restauro delle componenti paesaggistiche e, in primo luogo, dell’“architettura” dei terrazzamenti e di quel sistema di percorsi storici che, quale frutto del naturale adattamento all’orografia dei siti, ovvero risultato delle modifiche portate avanti nel tempo dall’uomo, rappresenta una testimonianza di grandissimo rilievo [Pollone 2014, 289- 308]. In riferimento al caso del sito rupestre di Santa Barbara, difatti, si rileva che «la condizione dell’antico e impraticabile tracciato costringe ad un’ascesa estremamente faticosa e pericolosa», poiché esso è «disseminato di strutture in avanzato disfacimento, come muri di contenimento, scale, passaggi voltati, contrafforti, etc., riferibili all’antico sistema di cordonate comunicanti con l’insediamento eremitico, sistemato nella cavità, e con le chiese» [Fiengo et al. 2001, 10]. In presenza di uno stato di conservazione di questo tipo (fig. 5), l’intervento di restauro, pertanto, non può prescindere dall’attenta conservazione di tali tracce che costituiscono parti integranti del sistema-paesaggio e per le quali vanno definite azioni puntuali e mirate, nonché limitate integrazioni, solo ove necessario. Tali azioni, unitamente al perseguimento di misure compensative da attuare laddove l’operazione diretta potrebbe determinare l’alterazione delle peculiarità di tali palinsesti, vanno portate avanti ai fini del miglioramento delle condizioni generali di accessibilità e, al contempo, della protezione di quel carattere di isolamento che ne costituisce una condizione sostanziale.

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Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

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La costruzione della nuova città di Cervia fra utopia ed emarginazione sociale The construction of the new city of Cervia among utopia and social exclusion.

IACOPO BENINCAMPI Sapienza Università di Roma

Abstract La costruzione della nuova città di Cervia rappresentò un momento fondamentale dello sviluppo dell’urbanistica barocca. Razionalità, utilità e integrazione sociale divennero i pilastri di un progetto visionario che, però, nella sua realizzazione deviò vigorosamente dalle intenzioni iniziali: un adeguamento alla situazione locale, segnale di un complesso equilibrio di forze che calò l’idealità del disegno papale nella realtà del Settecento provinciale; una riedificazione ‘alla moderna’, o quasi.

The construction of the new city of Cervia represented a crucial moment in the development of baroque urban planning. Rationality, utility and social integration became the elements of a visionary project which, however, vigorously shifted from the initial intentions during its realization. This adjustment points out a complex balance of forces which adapted the papal utopian design to the provincial reality of the eighteenth century: an image of modernity, or something close to it.

Keywords Cervia, Settecento, società. Cervia, 18th century, society.

Introduzione Verso la fine del Seicento, la progressiva «desolatione» che interessava la città di Cervia per via della sua posizione geografica immersa fra le saline [Bonaccorso 2006, 338-339] – un tempo efficace difesa dalle «fuste barbaresche» – costrinse Papa Innocenzo XII Pignatelli (1691-1700) ad approvarne lo smantellamento e la ricostituzione presso il «Lido della Marina, luogo d’aria salubre»1, onde impedire che al calo demografico restassero «insieme diminuite se non affatto mancanti, e abbandonate le stesse fabriche de Sali di tanta utilità»2. Così, il 9 novembre 1697 il sovrano promulgò un chirografo direttamente indirizzato alla popolazione là residente: un atto formale che, inaugurando uno dei più imponenti cantieri dello Stato Pontificio del XVIII secolo, ribadiva tanto il vigore della Chiesa di Roma quanto quell’ambizione alla securitas populi allora indirizzo fondamentale della politica papale [Franchini 1950, 51]. Ciò nondimeno, la lenta e antitetica prosecuzione della molteplicità delle fabbriche non solo portò alla luce le difficoltà di gestione di una simile opera pubblica ma, allo stesso tempo, palesò le contraddizioni intrinseche nei rapporti sociali informanti il nuovo disegno urbano.

1 Roma, BANLC, CORS 34C-27, Capitoli e minute d’Instrumenti stabiliti per gli appalti della R.da Camera Apostolica tanto di Roma, quanto dello Stato Ecclesiastico, c. 258r. 2 Roma, BANLC, CORS. 34G-15, Registro de’ Chirografi de’ i sommi Pontefici Innocenzo XII e Clemente XI a Mons.re Lorenzo Corsini Tesoriere Generale della R.C.A. ora Papa Clemente XII felicemente regnante dall’anno MDCXCVI al MDCCVII, I, cc. 234v-235r.

La costruzione della nuova città di Cervia fra utopia ed emarginazione sociale

IACOPO BENINCAMPI

1. L’utopia gerarchico-funzionale del primo progetto Fin dal Medioevo a Cervia si produceva e commerciava il sale [Bassetti 2013, passim]. Di conseguenza, il borgo era cresciuto in epoca moderna in simbiosi con l’attività che ne aveva determinato la nascita e da cui traeva sostentamento: un legame che aveva gradualmente trasformato il comune e il suo hinterland in un polo industriale strategico per il bilancio dello Stato. Perciò, allorché si aggravarono le condizioni igieniche dell’abitato, anzitutto si rese opportuno razionalizzare il sistema di confezionamento della merce e decentrare la sua conservazione in un sito apposito, in maniera tale da rendere questo ciclo produttivo indipendente dalle dinamiche cittadine e parallelamente costruire un distretto ad hoc per l’import/export direttamente afferente all’amministrazione statale [Gambardella 1979, 59-60]. Infatti, solo attraverso una simile precauzione si sarebbe potuta favorire una implementazione delle vendite tale da garantire la copertura economica necessaria per sostenere le spese di rifondazione della municipalità. In quest’ottica, i nuovi magazzini vennero dunque eretti nei pressi del mare, lungo l’insenatura del porto (fig. 1). Si trattava di una posizione favorevole alle comunicazioni, adiacente alle saline e facilmente proteggibile dalla torre di San Michele: un presidio armato già lì presente a sorveglianza della costa3. In tal modo, prendeva forma un complesso economico autonomo dalla collettività cervese ma vincolato alla stessa in quanto a mezzi e persone, la cui operatività determinava altresì un’aggiornata gerarchia sia del territorio sia dei tessuti della futura città. A tal proposito, non è certo chi sia stato il primo progettista incaricato del moderno piano. Sicuramente, però, vi prese parte fin dalle prime battute e ne assunse la direzione il perito camerale Girolamo Caccia (1650-1728ca) [Gardini 1998, 121] – «soprastante ai lavori degli Stati Pontifici» [Gori 2001, 98] – giunto nella provincia di Romagna presumibilmente al seguito del Legato Francesco Barberini iuniore (1694-96) e all’epoca stabilmente attivo nella regione [Benincampi 2017, 202]. Lo segnala un suo appunto autografo, datato al 21 marzo 1701 (fig. 2). Il grafico mostra un programma edilizio di forma quadrata contraddistinto da una reinterpretazione della cinta muraria in senso civico per mezzo della giustapposizione serrata di moduli a schiera – da destinarsi ai salinari – a comporre i lati della figura. Invece, ai vertici prendono posto i servizi come il forno, le beccarie, il ricetto delle guardie e l’ospedale [Roca De Amicis 1990, 270]. Mancano nella rappresentazione le residenze dell’oligarchia locale, la Cattedrale e il palazzo del «Pubblico», il che suggerisce l’ipotesi che questa elaborazione avesse uno scopo tecnico e dovesse servire presumibilmente agli uffici romani per constatare lo stato di avanzamento dei lavori. E questo perché, ad esempio, il palazzo Vescovile era già in costruzione4. Malgrado queste lacune, però, l’impostazione progettuale appare nitida: una rigorosa configurazione spaziale basata sulla geometria che, pur non abbandonando alcuni criteri di difesa [Foschi 1960, 94], trasforma i sistemi di protezione in un’occasione per articolare in economia le attrezzature pubbliche della città e fornire contemporaneamente alloggio alle classi meno abbienti, in nome di una pietas cristiana integrata e adeguata al principio dell’efficienza. La ragione interpreta il sentimento di questa composizione la quale, sviluppata in un programma organico e unitario, lascia in tal modo affiorare l’originale concezione sottesa alla nuova civitas Cerviae in cui – ottemperando ad alcuni standard minimi di qualità della vita – si riducono anche i margini di disagio sociale, a vantaggio sia della convivenza fra gli abitanti sia della massimizzazione dei profitti economici.

3 Roma, BANLC, CORS 34D-14 (ex vol. 264), Scritture, notizie e memorie sopra varj appalti ed affitti camerali con altre memorie per lo più di materie camerali, c. 417r. 4 Roma, ASV, Segreteria di Stato, Legazione di Romagna, vol. 38, Diverse lettere al Card. Astalli, 1698, c. 98r, lettera anonima indirizzata al Legato F. Astalli datata Roma, 8 novembre 1698.

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1: Cervia, Magazzini del sale e torre di San Michele (foto dell’autore). 2: Girolamo Caccia, pianta della città di Cervia Nuova (1701). Ravenna, ASCRa, vol. 438, c. 483r.

Purtroppo, le aspirazioni utopistiche pro bono pacis di questa proposta si scontrarono fin da subito con l’arretratezza culturale propria della periferia dello Stato Pontificio: un contesto disordinato dominato ancora da una aristocrazia terriera avulsa a qualsiasi mutamento significativo che compromettesse lo status quo consolidato [Casanova 2001, 190-191]; un’inerzia la cui persistenza determinò sviluppi imprevisti.

2. La nuova configurazione fra celebrazione ed emarginazione. L’opportunità di aggiornare il progetto si presentò proprio in occasione della stesura della pianta attestante lo stato dei lavori del 1701. E questo perché di lì a poco tempo l’architetto abbandonò il lavoro per motivi di salute. Inoltre, anche il Legato allora in carica – il cardinale Fulvio Astalli (1696-1701) – stava terminando il periodo prestabilito per il suo mandato, sebbene avesse accettato di continuare a «soprintendere alle fabbriche di Cervia ancor da »5. Pertanto, il momento si presentava propizio alla presentazione di una proposta di variante. D’altra parte, sia i general contractors Bernardo Coleghini e Paolo Stellini sia le autorità locali – religiose o laiche che fossero – nonché i delegati papali – come il tesoriere provinciale dell’epoca Michelangelo Maffei (1683-1707) – desideravano alterare la planimetria secondo la loro personale convenienza [Giovannini-Torresani 2001, 87]. Peraltro, i presupposti per una correzione esistevano, appurata la scolasticità dall’elaborazione presentata dal perito romano, lo stato di incompletezza dei lavori e la non del tutto esaustiva meditazione sui problemi della life quality delle dimore in costruzione, troppo strette per le famiglie dei salinari e poco ventilate [Turchini 1999, 226]. Così, assente il direttore tecnico e il referente papale, le istanze dovettero farsi più insistenti e – alla fine – il Pontefice Clemente XI Albani (1700-21) prese atto delle richieste e stabilì la fondazione di un «borghetto»6 esterno al nuovo centro abitato «dà costruirsi di là dal Canale verso la Pineta»7.

5 Roma, ASV, Segreteria di Stato, Legazione di Romagna, vol. 38, Diverse lettere al Card. Astalli, 1698, c. 234r, lettera indirizzata al Leg. F. Astalli da Mons. L. Corsini datata Roma, 26 novembre 1698. 6 Roma, BANLC, CORS. 34G-17, Registro de’ Chirografi de’ i sommi Pontefici Innocenzo XII e Clemente XI a Mons.re Lorenzo Corsini Tesoriere Generale della R.C.A. ora Papa Clemente XII felicemente regnante dall’anno MDCXCVI al MDCCVII, III, cc. 136v-138r, Chirografo di Clemente XI datato Roma, 17 agosto 1701. 7 Roma, ASR, Camerale III, Comuni, b. 728 (Cervia), doc. 341, pagamento datato Ferrara, 6 giugno 1701.

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IACOPO BENINCAMPI

3: Anonimo, pianta della nova città di Cervia (post 1701). Roma, BANLC, CORS. 34k-13, c. 20r.

Le motivazioni non furono mai del tutto esplicitate con chiarezza. Forse, il sovrano intendeva sostenere ancora di più la crescita della comunità incentivando la sua urbanizzazione e la venuta in situ di più forestieri da impiegare nelle saline o – più ragionevolmente – il Papa accolse un sentimento comunemente diffuso indotto dalle ragioni di mercato. Infatti, una delle voci di bilancio originariamente calcolata in positivo era la «piggione» che i nuovi inquilini avrebbero pagato alla Reverenda Camera Apostolica: una sorta di canone fisso che avrebbe compensato parte dell’investimento iniziale [Giovannini-Torresani 2001, 84-85]. Tuttavia, se da una parte si faticavano a incontrare occupanti stabilmente solvibili – cioè disposti a sottoscrivere un contratto notarile – dall’altra si presentava la difficoltà di sostenere finanziariamente lo speciale trattamento riservato ai salinari per i quali, a motivo della loro situazione di miseria, era stato prescritto che beneficiassero di fitti ridotti e assegnazioni agevolate. Pertanto, la soluzione di un insediamento distaccato sembrava ideale sia per estinguere le diverse preoccupazioni sia per appianare le varie gelosie che all’epoca stavano contraddistinguendo il dibattito cittadino, riconosciuta soprattutto la disomogenea tassazione anche del clero [Masetti Zannini 1998, 144]. Per di più, questi operai non erano mai stati realmente inurbati nella città. Altresì, i medesimi avevano da sempre vissuto in campagna, sostentandosi di ciò che offriva l’agricoltura e l’allevamento [Casadio 2001, 305-306]. Di conseguenza, il modello di convivenza che si era andato delineando in situ nel corso del tempo si ergeva su una stabilità precaria, espressa in una strutturazione urbana a più nuclei fra loro slegati che l’imposizione forzata del moderno piano romano aveva stravolto, poiché fondato su ragionamenti teorici ideali e non sull’esperienza reale e lo studio delle condizioni specifiche caratterizzanti la municipalità cervese. Dunque, la frazione sorse priva di una regolamentazione certa che non fosse la linearità di disposizione. Si concretizzò così un’area ai margini della nuova città che descriveva nella sua eterogeneità un’esclusione con precise finalità di isolamento; uno zoning che allontanava

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4: F. Fontana (attr.), Vista di Cervia (post 1701). Londra, Royal Collection Trust, RL 10331 B & H 705. dal perimetro della comunità proprio quella fascia della popolazione per cui l’amministrazione papale si era convinta all’impresa della rifondazione e che i vertici romagnoli nascondevano dietro la giustificazione che queste scelte fossero state compiute «principalmente per commodo de salinari», per cui «potrà V. S. Ill.ma compiacersi di non permettere, che quelle povere genti siano inquietate ne rimosse, mentre fatigano per utile pubblico»8. Questa estromissione ebbe sulla facies di Cervia Nuova molteplici ripercussioni fra loro interconnesse. Anzitutto, lo svuotamento delle schiere impose la ricerca di altri affittuari, possibilmente più facoltosi: un’operazione immobiliare che si rivelò tanto complessa quanto costosa a motivo della stessa conformazione degli stabili, eccessivamente angusti per locatari benestanti. Perciò, per rendere maggiormente appetibili gli immobili si dovettero allargare dove possibile gli appartamenti e inserire all’occorrenza dei cortili. In tal modo, però, veniva a minarsi la specularità della cornice quadrata inizialmente prevista in favore di una espansione lungo l’asse parallelo alla costa (fig. 3): un’asimmetria che, ciò nondimeno, divenne occasione per re-inserire il «borghetto» entro il sistema della municipalità. Responsabili di questa manipolazione furono presumibilmente gli esperti architetti papali Francesco Fontana (1668-1708) e Abram Paris (1641ca-1716). In particolare, discriminante sembrerebbe essere stato il contributo del ticinese il quale, oltre a fornire gli esecutivi per il palazzo comunale, probabilmente si interessò anche del disegno urbano [Turchini 1986, 34, 44-45], regolarizzandolo attraverso il collocamento dei due conventi francescano e agostiniano – già presenti in Cervia Vecchia – sul fronte esattamente opposto a quello delle case dei salinari adiacenti ai magazzini (fig. 4): una scelta che non solo omogeneizzava la percezione della città sfruttando lo stesso principio della settorializzazione incertamente perseguito dalla dirigenza locale ma, allo stesso tempo, nobilitava il moderno centro per mezzo di un ingresso sacro virtuale. Infatti, i due complessi monastici – uguali e contrapposti lungo la strada proveniente dalla Capitale – tratteggiavano un ulteriore ambito cittadino, questa volta di carattere religioso: un luogo nuovamente esterno alla collettività e certamente in continuità con la tradizione degli ordini mendicanti ma capace, attraverso la sua funzione, di celebrare la vis papale e anticipare al visitatore l’importanza della comunità; una città operaia al servizio della Chiesa e di tutto lo Stato Pontificio [Benincampi 2018, passim].

8 Roma, BCRa, Mob.3.6.I2, n.2, Relatione sopra la nuova Collonia di Cervia, c. 63v.

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IACOPO BENINCAMPI

Conclusioni Nonostante le continue interruzioni e ripensamenti [Foschi 1997, passim], Cervia Nuova riuscì comunque a essere edificata secondo gli scopi che ne avevano animato la ricostruzione. L’obiettivo di traslare l’edificato presso una posizione più idonea era stato centrato e il canale-porto, i magazzini, la torre, il sobborgo e la nuova ‘fortezza civile’ costituivano un insieme coordinato e adeguato al negozio del sale. Il plan de masse iniziale si era evoluto in maniera inaspettata e la fabbrica aveva assunto un aspetto diverso rispetto alla sua preliminare definizione ma non per questo di minore qualità. Anzi, nella sua complessa esecuzione il modello romano aveva introdotto una dialettica sulla convivenza fra i diversi ceti della popolazione presenti e si era posto come interprete fisico della topografia di questo fenomeno nell’ottica di individuare una valida forma di equilibrio sociale, rispettoso delle diversità e in grado di riassorbire l’emarginazione entro il dialogo formale delle sue parti costituenti (fig. 5). Sintesi di molteplici e mutevoli indirizzi, Cervia dimostrò pienamente la vitalità dell’urbanistica barocca anche nelle consistenze più periferiche e si costituì – in definitiva – come il paradigma del modus operandi dell’intervento statale, attento a riunire realtà fra loro morfologicamente separate per ragioni coercitive di classificazione elitaria attraverso architetture puntuali in grado di riconnettere i tessuti e salvaguardare l’identità del sito: un atteggiamento pressoché ancora attuale, o quasi.

5: Cervia, vista delle schiere cittadine (foto dell’autore).

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Ringraziamenti Si ringrazia il Prof. Augusto Roca De Amicis.

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L’Ospedale di S. Rocco a Roma per le partorienti “celate”. La maternità segregata S. Rocco Hospital for anonymous maternity in Rome. Isolation in childbirth

BARBARA TETTI Sapienza Università di Roma

Abstract Durante il XVIII secolo prende avvio una profonda trasformazione dell’istituzione ospedaliera, non più luogo di accoglienza dei pellegrini o “pauperum languentium” ma sede di studio e cura di condizioni cliniche o infermità; i nuovi organismi sono realizzati a Roma da figure di spicco (Fuga, Valvassori, Raguzzini). In questa senso, carattere peculiare riveste l’Ospedale di San Rocco, inserito nel fitto tessuto della città, fra la chiesa di S. Rocco e il Mausoleo d’Augusto, trasformato nel 1770 in ospedale specializzato in ostetricia per le Partorienti o Celate, con gli interventi di Nicola Forti. L’aggiornata struttura garantisce il completo anonimato durante la gestazione, il parto e finanche nella morte, accogliendo donne che interrompono tutte le relazioni sociali, all’esterno e all’interno dell’Ospedale, durante gravidanze in condizione di nubilato, extraconiugalità o estrema indigenza. Oggi scomparso, è stato riferimento per l’intero ambito urbano per oltre un secolo.

During the XVIII c. the hospital in its modern meaning was rising: not more a place to host pilgrims or “pauperum languentium” but an institution to study and treat specific clinical conditions or illnesses; new or renewed buildings were realized in Rome (S. Gallicano; S. Spirito; S. Maria della Pietà ) by major figures (Fuga, Valvassori, Raguzzini). In this frame, the peculiar case of the Hospital for pregnant hidden women [“celate”] emerges: inserted between the church of S. Rocco and the Mausoleum of Augustus, it was renovated by Nicola Forti to accommodate pregnant women in single status, extramaritality or extreme indigence. The institution guaranteed complete anonymity during gestation, childbirth and even death, to those women who interrupted all their social relations, both outside and inside. Nowadays lost, it was a reference for the entire urban area, retaining its vocation for over a century.

Keywords Architettura ospedaliera, Settecento, San Rocco all’Augusteo. Hospital architecture, 18th century, San Rocco all'Augusteo.

Introduzione L’Ospedale di San Rocco all’Augusteo per le Partorienti viene costituito nel 1770 con breve pontificio di Clemente XIV che ordina l’istituzione di uno specifico luogo di cura per le donne in stato di gravidanza. Tale iniziativa rientra in un più ampio processo di specializzazione dell’istituzione ospedaliera che prende avvio durante il XVIII secolo, sulla base sulla base degli avanzamenti scientifici e di una nuova coscienza sociale, quando l’hospitale muta da edificio per l’accoglienza dei “pauperum languentium” a luogo di studio e cura di particolari condizioni cliniche e infermità. I primi complessi assistenziali di matrice scientifica costituiscono l’archetipo degli attuali istituti ospedalieri, ossia organismi esclusivamente

L’Ospedale di S. Rocco a Roma per le partorienti “celate” La maternità segregata

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1: G. B. Nolli, Nuova Topografia di Roma (1748), dettaglio; n. 468 S. Rocco, 469 Oratorio di S. Rocco, n.470 Spedale di S. Rocco per gli Uomini, n.471 Spedale per le Donne partorienti. 2: Bernardo Bellotto, Il Tevere con il porto di Ripetta a Roma (1743), dettaglio; affianco alla chiesa di San Rocco è visibile la testata del corpo di fabbrica che ospita l’Ospedale della Confraternita. destinati all’assistenza sanitaria dei cittadini, attrezzati per il ricovero, le cure e lo studio di specifiche patologie o condizioni cliniche, progettati secondo i più aggiornati dettami della scienza medica e quindi delle prescrizioni dei trattati per la progettazione. In questa cornice, nel panorama romano emergono certamente gli istituti S. Maria e S. Gallicano, S. Spirito, S. Salvatore in S. Giovanni in Laterano e S. Giacomo in Augusta, oltre che S. Maria della Pietà, S. Rocco e S. Maria della Consolazione. Tali complessi subiscono nei secoli profonde trasformazioni, mutando continuamente con le modificazioni impresse alla città tanto i valori legati all’architettura, quanto il ruolo nell’ambito urbano, nel contesto immediato e più ampio. Fra questi, particolarmente significativo appare l’Ospedale delle Partorienti o Celate, inserito nel fitto tessuto della città, fra la chiesa di S. Rocco e il Mausoleo d’Augusto, che accoglie, al di fuori di ogni coercizione ecclesiastica o giudiziaria, coloro che necessitano di affrontare la gravidanza e il parto in condizione di anonimato, per nubilato, extraconiugalità o estrema indigenza: la struttura garantisce totale riservatezza durante la gestazione, il parto e, finanche, nella morte, attraverso l’interruzione di tutte le relazioni sociali, all’esterno e all’interno dell’istituto.

1. Istituzione dell’Ospedale “delle Partorienti”. Alla vigilia degli interventi di rinnovamento che coinvolgono l’intera isola della confraternita di San Rocco all’Augusteo, l’edificio si attesta su via di Ripetta, in senso perpendicolare al fiume. L’impianto e l’organizzazione interna della struttura seicentesca, realizzata sotto la direzione di Carlo Maderno [Salerno, Spagnesi 1962] sono ben visibili nella pianta di Giovanni Battista Nolli, mentre un dipinto di Bernardo Bellotto ne mostra l’aspetto lungo la quinta urbana: sul lungo filo stradale, affiancata alla chiesa di San Rocco, prospetta la testata del lungo braccio che ospita i reparti di cura, connotata dal portale modanato sormontato da un finestrone in sommità (Figg. 1-2).

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Tuttavia tale ingresso immette esclusivamente ad alcuni spazi riservati alla confraternita mentre un passaggio, stretto fra l’edificio ospedaliero e la chiesa, conduce per un più modesto andito al portone che, dividendo in due parti il braccio che si sviluppa in profondità nell’isolato attorno al mausoleo, distribuisce i pazienti alle due corsie, femminile e maschile. Indubbiamente tale disposizione risulta conveniente alle funzioni del nosocomio che, con le poche trasformazioni che avranno luogo negli anni Settanta del XVIII secolo, sarà in grado di garantire specifici criteri di segretezza. L’11 luglio 1770, con il Breve pontificio “Supplices Preces”, Clemente XIV ordina la trasformazione dell’Ospedale di San Rocco in una nuova istituzione dedicata esclusivamente al ricovero delle donne in stato di gravidanza. Con i frutti del fondo della tenuta di Acquasona dell’eredità del Cardinale Saverio Maria Salviati si provvede al rinnovamento: «la permanenza di donne inferme e partorienti nello stesso luogo portava con se gravi inconvenienti […] sembra perciò opportuno chiudere l’ospedale delle donne inferme, e adibirlo solo alle partorienti […] per l’avvenire non si ammettano che le Donne Partorienti […]»1. Eletto Visitatore Apostolico e Primicerio della confraternita Monsignor Giammaria Riminaldi, il 5 luglio 1772 sono dettate le disposizioni per la riconfigurazione dell’istituto di cura del Luogo Pio che, non essendo nella condizione patrimoniale di poter mantenere il nuovo ospedale e avendo riconosciuto come inservibili alcuni edifici di proprietà della stessa confraternita nella stessa isola, dispone la demolizione di alcune costruzioni con la soppressione del reparto maschile e l’edificazione di un casamento da affitto, utile a garantire una rendita annuale. Della progettazione e realizzazione del nuovo casamento e della ridefinizione dell’Ospedale, è incaricato Nicola Forti, già architetto della Confraternita, che aveva realizzato, collaborando con il maestro Nicola Michetti, numerosi interventi per case d’affitto anche in prossimità dell’Augusteo, per i casamenti fra Monte d’Oro e vicolo di Schiavonia [Bonaccorso 1997; Curcio 1987].

2. La riforma della complesso per la nascita del moderno Ospedale specialistico. A seguito delle disposizioni del Primicerio, prendono avvio i lavori di demolizione delle strutture prospicienti via di Ripetta, per la ridefinizione del fronte sulla strada, con lo scopo di realizzare un «casamento in foggia di palazzo» dal prospetto unitario2. Il nuovo fronte simmetrico (scandito dal ritmo A-A-B-A-B-C-B-A-B-A-A) è caratterizzato dal bugnato a fasce del livello più basso – in cui sono inseriti ingressi alternati a finestre e i mezzanini – e dalle finestrature dei tre piani superiori, diversificate nella definizione architettonica, dal piano nobile al sottotetto. In questo impaginato è inserito, in posizione centrale, il nuovo entrone al casamento e dissimulato l’ingresso già esistente dell’ospedale, al civico 105 (Fig. 3). Nonostante la totale rinnovazione dell’immagine sul fronte stradale, dall’analisi dei documenti d’archivio e dagli studi condotti emerge come le strutture del preesistente ospedale seicentesco vengano in grande maggioranza conservate e riadattate alle nuove esigenze: la fascia edilizia prospiciente il porto viene modificata cancellando la testata che rivelava la presenza del luogo di cura alla città e viene saturato lo spazio che separava dalle costruzioni più a nord, demolite e riedificate per rispondere alla nuova funzione residenziale; diversamente il volume che ospitava la corsia maschile viene aumentato di poco in larghezza per realizzare internamente l’allineamento con il nuovo portone d’ingresso al casamento e

1 Archivio di Stato di Roma, Ospedali, S. Rocco, Registro istrumenti dell’eredità Salviati in S. Rocco per l’Ospedale delle Donne, b. 691. 2 Archivio di Stato di Roma, Presidenza delle Strade, Misura delle strade 1732, isola 20, case 13, 14, 15, 16; Archivio di Stato di Roma, Ospedali, S. Rocco, Giustificazioni dei pagamenti per la Nuova Fabbrica, b. 728.

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3: Agostino Penna, Porto di Ripetta, 1829, (Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell'arte, Fondo Lanciani, Roma XI.2.15), dettaglio; accanto alla Chiesa di San Rocco è visibile il prospetto del nuovo casamento, rialzato di un piano nei primi anni del XIX secolo. ricavare alcuni spazi distributivi, mentre la seconda metà del volume ospedaliero non subisce alcuna trasformazione, restando interessata solo dagli interventi necessari a ridefinire il collegamento con gli spazi adiacenti che saranno adibiti a diverse funzioni. Tale nuovo assetto rende comunque necessaria la risistemazione dei collegamenti con l’esterno e all’interno del complesso: lo stretto accesso fra chiesa e palazzo rimane inalterato così come quello che immette nei locali di cura che avviene per lo scalone posto a metà del prospetto; al casamento nuovo si accede invece dal grande ingresso centrale che, attraverso il cortile, distribuisce ai tre collegamenti verticali: la «scala maestra a due branchi, altra simile più stretta» – nel braccio sud – «e altra a lumaca» – nel braccio a nord – «ciascuna delle quali immette ad ogni piano»3.

3 Archivio di Stato di Roma, Ospedali, S. Rocco, Giustificazioni dei pagamenti per la Nuova Fabbrica, b.728, nota 6.

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Dal sintetico quadro delineato emerge chiaramente come le operazioni realizzate da Nicola Forti siano volte a realizzare una facciata continua e ordinata prospiciente via di Ripetta, scandita da undici aperture, con il grande ingresso in posizione centrale, che cela una più articolata configurazione nella profondità dell’isolato e, contemporaneamente ad operare sulle strutture esistenti quelle necessarie trasformazioni legate al maggiore grado di specializzazione medica. Lo stesso architetto riferisce, in una nota datata 10 luglio 1773, gli incarichi svolti per l’istituto di cura, ossia «funzioni straordinarie per l’Ospedale che è stato ultimamente risarcito, disegni del suo altare ed altri comodi»4. La locuzione “risarcimento” utilizzata dallo stesso Forti mette in luce la limitata entità delle operazioni condotte, confermata dai documenti di archivio che riportano modeste somme corrisposte ai mastri artigiani5 [Fedeli Bernardini 2003]. Nella nuova definizione dell’isolato, l’Ospedale delle Partorienti trova una configurazione del tutto confacente alla specifica condizione sociale dell’anonimato, rimanendo nascosto dalla strada, appartato dal resto del complesso e conformato internamente per il totale riserbo. Tuttavia, benché siano noti molti dei conti delle opere eseguite, non era stata finora ricomposta l’immagine formale né lo sviluppo dimensionale della fabbrica rinnovata, possibile grazie ai grafici del rilievo Cordingley-Richmond (1927) ed alcune fotografie del Novecento. Nella sezione Mausoleum of Augustus- actual state, Section North to South, che taglia le strutture in corrispondenza dell’ingresso sul vicolo di San Rocco – lungo il passaggio che occupa uno dei vani del livello più basso dell’ospedale delle Partorienti – si scorge un’accurata restituzione dell’alzato. Come risulta dai documenti di archivio, si possono riconoscere gli spazi del livello più basso adibiti al servizio – lavatoi, cucina e cantine – separati dal passaggio che immette all’ingresso dell’antica struttura. Al di sopra spicca l’ampio ambiente di degenza di 9 per 34 metri di superficie e circa 7 metri e mezzo di altezza, illuminato da finestre che si aprono ad una altezza di 3 metri per arrivare alla quota di 5, descritta come «grande sala a primo piano bellissima, vasta, areata, con 16 letti e poche camerette da parto» [Pantaleoni 1949, 73]; al di sopra ambienti adibiti a stenditore. Il rilievo inoltre raffigura l’articolazione interna della parete della sala che, sebbene sia quella visibile negli anni Venti del Ventesimo secolo, potrebbe rimontare, per qualità formali e attinenza con i documenti descrittivi dei lavori settecenteschi, a quella fatta realizzare da Nicola Forti: le aperture sono inserite in un impaginato definito da un partito architettonico che inquadra la fascia in cui sono comprese le finestre sormontate da cornici ovali, alternate a riquadrature dagli spigoli convessi. La conformazione dell’aula mostra diretta rispondenza con le specifiche necessità di riservatezza e salubrità: le aperture posizionate ben al di sopra della quota visiva di pazienti e medici consentono l’ingresso di aria e luce e la possibilità di muoversi senza essere mai scorti dall’esterno; inoltre la considerevole altezza del vano permette un continuo ricambio e ricircolo d’aria. L’esclusiva destinazione alla cura delle gestanti, inoltre, mostra chiaramente il riconoscimento della condizione di maternità come stato clinico specifico del tutto estraneo dalla malattia e permette di ridurre fortemente il contagio con altre patologie, favorendo il positivo andamento della gravidanza. La definizione esterna dell’Ospedale è restituita invece da alcune rare immagini fotografiche, che ritraggono il mausoleo antico negli anni immediatamente precedenti la demolizione di tutto il tessuto edilizio che lo circondava. L’architettura del prospetto è scandita da una

4 Ibidem. 5 Ibidem.

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4: R. A. Cordingley, I. A. Richmond, Mausoleum of Augustus- actual state, Section North to South, dettaglio. 5: Immagine fotografica ante 1934; stagliata sulle strutture del Mausoelo di Augusto, al centro dell’immagine l’edificio è ben visibile dell’Ospedale delle Partorienti di San Rocco. partitura a fasce entro cui si aprono le bucature semplicemente riquadrate, il cui ritmo rivela l’organizzazione interna: le aperture dietro cui si sonda la scala con cui si accede a tutti i piani sono appaiate, mentre molto distanziate in altezza sono le finestrature dei livelli intermedio e sommitale, a conferma della imponente dimensione verticale degli spazi di ricovero.

Esiti e considerazioni A seguito degli interventi settecenteschi di riassetto dell’intero complesso di San Rocco e degli specifici interventi sul corpo dell’ospedale, la struttura rinnovata può ospitare circa venti ricoverate contemporaneamente, che restano fino ad otto giorni dopo il parto, provvedute di tutte le assistenze e cure, queste: «non sono tenute a palesare il nome o la condizione, […] quando così volesse la necessità di salvare l’onore di alcuna famiglia ed allontanare il pericolo di un infanticidio.[…] né vi entra giurisdizione criminale o ecclesiastica, talché niuna donna vi deve temere la benché minima molestia» [Grifi 1862]. La comparazione dei dati sanitari precedenti e successivi agli interventi settecenteschi, permette di ricostruire una tendenza al miglioramento delle condizioni di puerpere e nascituri, con una maggiore sopravvivenza delle madri e dei bambini6 [Fedeli Bernardini 2003], dovuta alla maggiore qualificazione del personale: «Lo spedale ha medico, chirurgo, levatrici, priora, donne di faccende […]. Il chirurgo è professore di Ostetricia nell’università e dà ancor lezione nello spedale alle levatrici» [Morichini 1835]. La rinnovata organizzazione funzionale

6 Archivio di Stato di Roma, Ospedali, S. Rocco, Miscellanea, b. 801 e Eredità Salviati, Registro delle Partorienti, b. 666.

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comprende la lunga e ariosa corsia per le ricoverate, una sala travaglio separata, la stanza della Priora, responsabile delle cure, il guardaroba per la biancheria pulita e l’archivio7. Dal 1786 l’istituto di San Rocco è sede della Scuola di Ostetricia per l’insegnamento di «anatomia e fisiologia», per la formazione del personale medico e assistenziale, istruito per «curare i mali tutti della gravidanza, del parto e del puerperio, e ad eseguire tutte le operazioni non solo manuali, ma anche strumentali»8. Nei primi anni dell’Ottocento l’istituto di San Rocco è accreditato riferimento, come risulta pure dalla relazione del Prefetto Camille de Tournon del 1812: «Il più piccolo ma uno dei più interessanti di questi stabilimenti è l’Ospedale di S. Rocco. […] Vedesi chiaramente quanto questo Stabilimento così regolato sia utile alla società, poiché salva la vita ad un numero di persone, che sarebbero vittime innocenti dell’altrui colpa e del pudore che l’accompagna»9. Tuttavia, nonostante continui aggiornamenti10 nel 1892 l’istituto viene trasferito all’Ospedale di San Giovanni in Laterano, poiché giudicato «troppo nel centro della città e troppo esposto alla vista del publico»11 anche se le motivazioni appaiono piuttosto legate a ragioni di economia e alle imminenti trasformazioni urbane: fuori dalla zona più popolosa, il numero delle donne che vi accedono diviene un terzo, con conseguente aggravio di istituzioni non specializzate presenti nell’area centrale della città. Con le successive pianificazioni urbane che decretano la trasformazione della zona dell’augusteo, l’antico ospedale viene demolito insieme ad un ampia porzione di tessuto edilizio, lasciando isolata la chiesa della Confraternita che, scollegata dal complesso edilizio subirà, in un largo lasso di tempo che giunge fino agli anni Quaranta del Novecento, numerosi interventi fino all’attuale configurazione [Romaniello 2000]. Nell’ambito delle dinamiche urbane, architettoniche e sociali, la vicenda dell’Ospedale delle Partorienti emerge quale caso emblematico delle dinamiche di trasformazione dei complessi assistenziali e ospedalieri, che vedono continuamente mutati tanto i valori dell’architettura, quanto quelli legati all’ambito urbano. Questi organismi, tutt’oggi al centro di un dibattito vivace circa la possibilità di adeguamento all’attualità, sovente ritenuti difficilmente aggiornabili a causa di problematici interventi spaziali, tecnici e organizzativi, sollecitano riflessioni su possibili strategie operative che possano assicurare modalità di attualizzazione compatibili con il significativo portato storico.

Bibliografia BUONOMO, B., CESARANO, F., LAPENNA, M. C. (2015). Mausoleo d’Augusto, Pantheon, Piazza Navona. Dinamiche di trasformazione: significativi episodi urbani nel sistema insediativo del Campo Marzio a Roma, Roma, De Luca editori d’arte. CANEZZA, A. (1933). Gli arcispedali di Roma nella vita cittadina e nella storia, Roma, Stianti. CORDINGLEY, R.A., RICHMOND, I. A. (1927). The Mausoleum of Augustus in «Papers of the British School at Rome», 10, pp. 23-35.

7 Presidenza generale del Censo, Catasto Urbano, Rione IV, Brogliardi, Aggiornamenti, f. 133, part. 559, civ. 105. 8 Bolla di Fondazione della Cattedra di ostetricia Papa Pio VI, 11 aprile 1786, Chirografo 6 aprile 1786, in Garofalo Appendici; Archivio di Stato di Roma, Presidenza Generale del Censo, Catasto Urbano di Roma, piante, Rione IV, Brogliardi, Aggiornamenti (1871), foglio 132. 9 Prefecture du Département de Rome, Division 27, Bureau Stab. Di Benef., Réponse a la lettre du Avril n. 929 [Garofalo 1949, 62]. 10 Archivio di Stato di Roma, S. Spirito, Commisisone degli Ospedali Riuniti di Roma, Sezione V, Titolo I, Num. 37, anno 1851. 11 Resoconto stenografico della seduta della camera dei deputati del 4 marzo 1893 [Garofalo 1949, 79].

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Diceria dell’untore. Tubercolosi e segregazione urbana (1859-1946) Diceria dell’untore. Tuberculosis and urban segregation (1859-1946)

DAVIDE DEL CURTO Politecnico di Milano

Abstract Il testo indaga come la tubercolosi abbia rappresentato un fattore di segregazione durante il processo di sviluppo della città tra Otto e Novecento, quando la paura del contagio si tradusse in criterio di pianificazione urbanistica e di progettazione per gli edifici destinati a isolare i contagiosi. La costruzione dei sanatori ha però dato vita anche a esperienze di convivenza e di mutua assistenza inattese, che hanno contributo alla formazione del moderno concetto di stato sociale in Europa.

The paper discusses as tuberculosis was a factor of urban segregation while the modern cities were developing, between the 19th and 20th century. In fact, the fear of contagion resulted into rules to design the buildings where to treat the consumptives and into urban criteria to isolate them. However, the construction of the sanatoriums also gave birth into unexpected experiences of cohabitation and mutual assistance, that contributed to rise of the welfare state in Europe.

Keywords Sanatorio, tubercolosi, architettura moderna Sanatorium, tuberculosis, modern architecture

Introduzione Ogni secolo dell’Età Moderna è stato dominato da una malattia contagiosa: la sifilide nel Cinquecento, la peste nel Seicento, il vaiolo nel Settecento, la tubercolosi nell’Ottocento. La loro diffusione ha condizionato la struttura sociale, le abitudini quotidiane e i costumi di ogni epoca. Ha inoltre avuto importanti conseguenze sulla storia dell’architettura a della città, determinando la costruzione di luoghi speciali dove isolare i contagiosi, come il lazzaretto e il sanatorio. Nel progetto della città industriale, la tubercolosi ha rappresentato un fattore di segregazione urbana, quando la paura del contagio si è tradotta in regola architettonica e criterio di pianificazione. I luoghi e gli edifici progettati per la cura di questa malattia hanno però dato vita anche a inattese esperienze di convivenza e di mutua assistenza, che hanno contribuito a definire il moderno concetto di stato sociale nell’Europa delle Nazioni.

1. Tubercolosi e sanatori: isolamento e terapia ambientale La tubercolosi è una malattia nota alla storia della medicina sin dall’antichità. L’approccio eziologico e clinico ha conosciuto una lunghissima fase interpretativa culminata nel 1882 con il riconoscimento della causa microbiologica, il mycobacterium tuberculosis, da parte di Robert Koch e la conseguente mutazione della diagnosi da presuntiva a probabilistica [Cosmacini et al. 2004, 18-19]. La «interessante malattia» fu coltivata più che curata dalla medicina romantica e a lungo equivocata come condizione favorevole allo sviluppo della sensibilità e creatività artistica. La

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tubercolosi ha conosciuto il picco di recrudescenza nel primo Ottocento con il processo di urbanizzazione presso i luoghi della produzione industriale. Nella seconda metà del secolo, il «mal sottile» si trasformò in endemia sociale e il suo carattere urbano è stato precocemente descritto dalle scienze sociali [Engels 1845, 188-189] che evidenziarono come «il male del secolo» attaccasse la popolazione nella sua parte dotata più produttiva: lavoratori, giovani, donne. La malattia ha precocemente interessato anche l’urbanistica di matrice igienista, tanto che il tasso di mortalità per tubercolosi fu il parametro utilizzato nella Parigi Haussmanniana per individuare gli îlots insalubres e sostenere l’opportunità del diradamento [Loyer 1987, 108]. Il primo antibiotico efficace contro l’affezione da mycobacterium fu isolato da S.A. Waksman nel 1943 con il nome di streptomicina, ma fu necessario oltre un decennio di sperimentazione clinica per contenere gli effetti collaterali e rendere la molecola utilizzabile su vasta scala. Dalla metà degli anni Cinquanta, il miglioramento delle condizioni sociali e igieniche della popolazione, contribuì a far arretrare la tubercolosi dalle città europee, riducendo la necessità di isolare i malati nei lunghi ricoveri sanatoriali. Nei cento anni a cavallo tra le metà del XIX e XX secolo, questa grande malattia sociale fu combattuta confinando i malati in edifici speciali dentro la città ma soprattutto ai suoi margini, o in luoghi remoti dalle speciali qualità terapeutiche. Al pari del lazzaretto seicentesco, il sanatorio aveva il compito di difendere la salute pubblica, isolando i contagiosi. Al sanatorio era però anche affidato il compito di curare gli ammalati perché potessero tornare alla città.

«Il sanatorio è luogo di isolamento, […] dove si sterilizza tutto ciò che viene in contatto con persone infette; dove […] gli ammalati stessi, illuminati sulle cause e conseguenze della malattia, vengono colla persuasione e coll’esempio educati ad usare non solo precauzioni per sé, ma anche riguardi per gli altri. Il tubercoloso, cioè, portato nel Sanatorio, non solo libera la famiglia e la società per tutto il tempo che si è sottratto alla vita comune; ma, se guarisce, cessa affatto di essere pericolo pubblico; se ne ritorna semplicemente migliorato, avrà però imparato a non contagiare i suoi simili, praticando a casa propria, nei pubblici ritrovi e nei privati convegni quelle cautele che si è abituato ad osservare nello stabilimento» [Donati 1900, introduzione s.n.].

Alla progettazione del sanatorio collaborarono clinici e tecnici, impegnati a definire un tipo architettonico che offrisse ai malati il sole e l’aria pura capaci di stimolare la guarigione spontanea, in una visione clinica fondata sulla terapia igienico-climatica. Si trattò anche di una strategia di pianificazione urbanistica e protezione della salute pubblica, che presidiò le città e il territorio con un sistema di edifici per far fronte ai diversi stadi della malattia.

2. Clima e terapia: dal mito della caverna alla montagna incantata Nel 1859 il dr. Hermann Brehmer fondò il primo sanatorio europeo nelle colline della Slesia. Vent’anni prima della definizione eziologica della malattia, egli ne attribuiva l’insorgere a un compendio di cause predisponenti sia di tipo anatomo-patologico, sia igienico e comportamentale. Accanto ai tradizionali rimedi della buona alimentazione e del riposo all’aria aperta, la terapia si basava sulla fiducia nel lieu immunisé dove l’affezione non fosse ancora penetrata e l’organismo potesse recuperare la salute perduta. Si tratta di una posizione in linea con lo speciale momento storico in cui il tardo positivismo lasciava posto alla critica sociale d’impronta ruskiniana verso la modernità industriale. In questa visione, si radicava il contrasto tra la città mortifera e la campagna arcadica e salvifica, tra la modernità

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oppressiva e alienante e il passato idealizzato e a-temporale. I primi sanatori furono costruiti sulla spinta di questa contrapposizione e il presupposto clinico che ne fu alla base riposava sulla fiducia che speciali condizioni ambientali – contrapposte a quelle urbane – inducessero l’organismo a guarire spontaneamente, non già sconfiggendo la causa microbiologica, che doveva ancora essere identificata, bensì ristabilendo un equilibrio alterato [Chatelet 2008]. L’idea di esporre i malati di petto a un clima che ne favorisse la guarigione era diffusa a metà Ottocento, ma rimase a lungo incerto quale clima fosse più raccomandabile. Si registrarono tentativi di sfruttare la stabilità e la freschezza dei luoghi sotterranei come nel 1839, quando il dr. John Croghan di Lousville vi impiantò un primitivo sanatorio per curare i consumptives grazie all’aria pura e stabile della Mammoth Cave, considerata la grotta più grande della Terra e ancora oggi in gran parte inesplorata. Croghan applicò l’isolamento climatico sotterraneo fino al 1845 su numerosi pazienti che però, nonostante i suoi sforzi, morirono tutti al termine di quella lugubre segregazione. A metà del secolo, l’attenzione si spostò dal sottosuolo alle alte quote, in cerca di aria asciutta, stabile e pura.

3. I sanatori di montagna: architetture di un isolamento sublime La lunga fortuna dei sanatori di montagna si basò sugli studi di climatoterapia alpestre che attribuivano all’aria fresca e asciutta delle Alpi specifiche proprietà favorevoli al trattamento palliativo delle affezioni polmonari [Luthi 2005]. La fitta rete degli istituti costruiti lungo l’arco alpino nel periodo della bell’époque fu il luogo in cui la città borghese confinò i contagiosi, i quali trovarono rifugio nel cuore alpino dell’Europa fin de siècle. Dal massiccio del Monte Bianco all’Engadina, dalla Valtellina ai monti Tatra, i malati girovagavano da un sanatorio all’altro cercando un cambio d’orizzonte e di compagnia, mentre la vita scorreva nell’inedia dei lunghissimi ricoveri, e l’Europa delle Nazioni si avviava verso il disastro della Grande Guerra, come magistralmente ritratto da Thomas Mann in Der Zauberberg. Nei sanatori la giornata si svolgeva secondo precise regole igieniche e comportamentali, scandita dai 5 pasti quotidiani, dalle lunghe ore di riposo forzato e dalle tre “L” – lana, letto, latte – della terapia basata su igiene, riposo e ipernutrizione. La letteratura ha immortalato questo microcosmo e il suo valore di specchio deformante della società industriale e alienata. Il cinema e le arti figurative, hanno evidenziato visivamente come la condizione segregata del contagioso fosse aggravata nel caso sanatorio a causa dell’ozio forzoso della cura d’aria quando, distesi in posizione supina sulla sedia a sdraio nelle verande di cura, essi erano costretti a rimirare l’orizzonte immobile per lunghe e interminabili ore [Bernardi, Barbuti, Montagna 2012].

4. Le radici della modernità: segregazione e solidarietà Insieme allo pneumotorace artificiale di Forlanini e ad altre terapie fisiche invasive, il sanatorio fu il principale strumento di cura alla tubercolosi, fino alla messa a punto di quella antibiotica, nella seconda metà del Novecento. La ricerca clinico – architettonica sulla tipologia del sanatorio determinò la messa a punto di edifici sperimentali con particolari caratteristiche come la facciata traforata per favorire la penetrazione di aria e luce e speciali serramenti per regolarne l’afflusso, l’impiego di materiali e rivestimenti continui, igienici e facilmente pulibili, il disegno di mobili e complementi come la chaise-longue per la cura dello sdraio [Campbell 2005]. Questa ricerca progettuale proto-funzionalista, dove il precetto clinico (esposizione ad aria e sole) si tradusse in progetto architettonico (verande, finestre speciali) ha recentemente indotto la storiografia a riconoscere nell’architettura dei sanatori

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uno dei luoghi in cui si è compiuta la svolta tra storicismo e architettura moderna, tanto che i maggiori esempi sono stati promossi al novero degli edifici da tutelare [Del Curto 2010]. Il sanatorio olandese di Zonnestraal fu completato nel 1931 per iniziativa del sindacato dei lavoratori dell’industria del diamante che si costituirono in mutua assistenza per costruire un edificio dove curare i compagni vittime della malattia polmonare, a cui erano esposti per le inalazioni delle polveri prodotte da quello speciale tipo di lavorazione. Il sanatorio fu progettato perché i ricoverati potessero riprendere l’attività lavorativa non appena le condizioni di salute lo permettessero, all’interno di edifici-laboratorio attrezzati a falegnameria e officina. I ricoverati costituivano una micro-comunità emarginata ma operosa che tornava lentamente alla vita, grazie al lavoro. Essi contribuivano alle spese di funzionamento della struttura, alleggerendo la trattenuta sindacale nella busta paga dei compagni, e in questo modo la comunità dei contagiosi, manteneva un tangibile contatto con quella dei sani. A Zonnestraal, la segregazione indotta dalla malattia diede inaspettatamente vita a una nuova ragione di solidarietà, e il sanatorio che ne fu teatro è stato restaurato a ricordo di questa straordinaria esperienza mutualistica e del ruolo fondativo che essa ebbe per la formazione dei sistemi nazionali di previdenza sociale e del moderno concetto di welfare state [Meurs, Van Thoor 2010].

5. La rete sanatoriale italiana I primi sanatori furono costruiti in Italia per iniziativa di medici e filantropi, sull’esempio di quanto appreso visitando i sanatori esteri. Insieme agli aspetti clinici, essi posero attenzione agli aspetti psicologici e sociali, legati al ricovero:

«L’impressione sinistra è molto passeggera e scompare subito, quando si constata, dapprima che si sta bene sulle chaise–longue, sotto le verande, in seguito che tutti i vicini son molto allegri. […] Tutti hanno la più grande fiducia di guarire; e questa confidenza è dovuta in parte al medico, in parte al malato stesso. […] Grazie a questa serenità i malati motteggiano, scherzano, giuocano, stanno insomma abbastanza allegri» [Donati 1900, introduzione s.n.]. Questa preoccupazione riguardava anche il carattere architettonico degli edifici, come il “Primo Sanatorio Italiano - Pineta di Sortenna” che fu inaugurato a Sondalo nel 1903:

«è un’architettura agile e mossa. Nessuna durezza, nessuna spigolosità nella facciata. L’immagine traforata che essa presenta grazie alle verande e alle terrazze…toglie al complesso ospedaliero il carattere chiuso e segregativo» [Monteforte 1988, 228].

L. 2055/1927 istituì l’assicurazione antitubercolare obbligatoria per tutti i lavoratori dipendenti. Grazie al suo gettito l’INPS costruì una rete nazionale di sanatori provinciali tra il 1928 e il 1938. Si tratta di sanatori di media capienza collocati al margine della città come dotazione urbana a presidio di ciascun capoluogo. Sorgevano in posizione panoramica, isolata e ben esposta, circondati da un ampio parco – giardino recintato che serviva per la passeggiata pomeridiana e assicurava una distanza fisica e visiva alla comunità dei ricoverati [Cogliati 2012]. Se questo sistema di edifici ha certamente contribuito a sconfiggere la malattia in Italia, la storiografia in seguito si è chiesta se sia valsa la pena aver costruito tanti edifici destinati a precoce obsolescenza per il venir meno della domanda di isolamento che ne fu alla base, e se non sarebbe stato più saggio sostenere la ricerca clinica e farmacologica, abbreviando i

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tempi di messa a regime della terapia antibiotica, praticabile in ambulatorio o a domicilio, riducendo così la necessità dei lunghi ricoveri e dei relativi edifici [Preti 1984]. Infatti, accanto all’immagine di sole, aria pura e salute cara alla cultura figurativa degli anni Trenta e alla propaganda del regime, i sanatori furono soprattutto il luogo dell’isolamento forzato, del distacco traumatico dalla famiglia e dal lavoro, della vergogna e del timore per la malattia contagiosa, della rigida suddivisione tra mutuati e paganti, come la letteratura e il cinema hanno saputo descrivere, per esempio in «Diceria dell’Untore» di Gesualdo Bufalino o nella novella «Inverno di malato» di Alberto Moravia ispirata dal ricovero nel sanatorio di Codivilla a Cortina d'Ampezzo, da cui Carlo Lizzani trasse una versione cinematografica nel 1983. Il malato di tubercolosi si spegnava lentamente, perdendo tono e colorito, giorno dopo giorno, con occhi rossi e gonfi, tosse persistente ed emottisi, segni inquietanti di un lento passaggio dalla vita alla morte. Le innumerevoli campagne nazionali di informazione e prevenzione insistettero proprio sul concetto di “abito tisico” rivelatore del male, con il proposito di spronare i singoli alla responsabilità individuale e ad accettare l’isolamento forzoso del ricovero «Un tempo, e basta retrocedere di pochi lustri, il malato sanatoriale non aveva contatti o quasi con l’esterno, scarse le occasioni di uscire dai confini della casa di cura, scarsi gli scambi e limitati alla stampa e alla corrispondenza epistolare […]. L’ansia, l’angoscia, l’aggressività, l’impulsività, il decadere degli affetti sono gli aspetti più noti e dominanti della tbc e sono quelli che più frequentemente affiorano e rendono insopportabile a molti la vita sanatoriale» [Baroni, Fontana 1961].

6. Il Villaggio Sanatoriale di Sondalo: una città malata in montagna Il Villaggio Sanatoriale di Sondalo fu costruito tra il 1932 e il 1940 in Alta Valtellina, unendo il modello dei sanatori alpini di fine Ottocento, con gli intenti dell’architettura sociale e modernista del Ventennio. Si tratta di un complesso di oltre 600.000 mc, capace di ospitare 4.000 persone a 1.000 metri di altitudine. Diversamente da altri grandi sanatori, il Villaggio non è solo un’architettura concepita per isolare i contagiosi nell’aria fine delle Alpi, ma una vera e propria cittadella di fondazione, equipaggiata con un complesso sistema di servizi e dotazioni tecniche che lo rendevano autosufficiente sia rispetto alla grande città, sia rispetto al contesto montano dove fu improvvisamente calata. E’ stato osservato che il Villaggio offre un esempio di utopia urbanistica tipico del Novecento, e anche di possibile distopia, perché il nuovo insediamento non è riuscito a sviluppare alcuna forma di mediazione architettonica con quel paesaggio. Dal punto di vista sociale invece, il Villaggio fu una remota appendice della grande città che in trent’anni ha accolto migliaia di malati in fase acuta, che da tutta la Penisola salirono in cerca di guarigione fino all’Alta Valtellina. L’aspetto umano e psicologico di questa vicenda è stato ritratto da Cesare Zavattini e Vittorio De Sica in «Una breve vacanza» del 1973. Il film narra l’esperienza di una giovane operaia e madre di famiglia, costretta ad allontanarsi dalla propria vita quotidiana a Milano per ricoverarsi proprio a Sondalo. Nel soggiorno in sanatorio, trova un’oasi di pace in cui dedicarsi per la prima volta a sé stessa, riposare e innamorarsi di un giovane meccanico anch’egli ricoverato, dimenticando per un momento la propria condizione di sfruttamento e alienazione sia sul lavoro, sia in famiglia. Se la letteratura e le scienze sociali si sono soffermate sull’esperienza di vita in sanatorio soprattutto dal punto di vista dei ricoverati, manca invece una valutazione circa i modi con cui la grande varietà di malati e personale di cura proveniente da tutta Italia, ha impattato sulla piccola comunità di Sondalo, e con cui si è progressivamente fusa, nel volgere di tre

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generazioni. Infatti, mentre la segregazione dei malati dalla città era assicurata dalla distanza geografica, la comunità del nuovo Villaggio Sanatoriale ha interagito intensamente con quella del preesistente abitato di Sondalo che ha fornito al sanatorio forza lavoro, materiali, cibo e ospitalità per i parenti in visita. Il Villaggio promosse il reinserimento lavorativo e sociale degli ammalati e numerose famiglie si formarono proprio da ex ricoverati o dipendenti, tanto che il paese crebbe in popolazione e si arricchì di cognomi provenienti da tutta Italia. Più che di contaminazione patologia (rischio spesso paventato, qui come in altre località montane, all’epoca della costruzione di un sanatorio), nel caso di Sondalo è quindi possibile ravvedere una contaminazione positiva e vitale da parte del Villaggio sanatoriale e della sua variopinta comunità, nei confronti del villaggio locale, che ne fu investito, definitivamente trasformato e per molti versi arricchito. Si è trattato certamente di un processo non privo di criticità e aspetti contradditori, ma dopo settant’anni le due comunità oggi appaiono completamente fuse e interdipendenti.

Conclusioni: oblio, nemesi o possibile inclusione urbana per gli ex sanatori? I sanatori hanno cessato di essere luoghi di segregazione e isolamento all’inizio degli anni Settanta, sostituiti dagli antibiotici e dal crescente benessere della società occidentale. Un tempo collocati al margine della città storica, sono stati assorbiti dall’espansione urbana del dopoguerra, e hanno condiviso il ribaltamento di fortune che ha investito il patrimonio post- industriale, di cui rappresentano il contraltare: ieri furono luoghi di isolamento al margine della città; oggi, che ne sono fisicamente inclusi, si trovano svuotati di quella funzione e in cerca di un nuovo ruolo urbano. Dal 1968, gli ex sanatori sono passati dalla competenza dell’INPS a quella del Sistema Sanitario Nazionale e sono stati recuperati nelle Regioni che hanno favorito lo svincolo dalla destinazione sanitaria, o ne hanno permesso un tempestivo aggiornamento. In alcuni casi sono stati convertiti ad altra funzione pubblica, come a Trieste (università) e Arezzo (tribunale). In altri casi hanno mantenuto una destinazione sanitaria come centro riabilitativo (Budrio, Montecatone d’Imola) o R.S.A. (Perugia). Altrove sono stati trasformati in complessi residenziali (Siena) o alberghieri (Prà Catinat, Venezia), dimostrando che – ove le dinamiche politico-amministrative lo abbiano permesso – la tipologia del sanatorio è del tutto suscettibile di essere adattata a nuove funzioni. Spesso, però, gli edifici giacciono nell’abbandono e nel degrado. E’ il caso dei grandi complessi che sorgono alle porte della metropoli, come il sanatorio Vittorio Emanuele III di Garbagnate Milanese, o nel suo cuore, come il centro Forlani di Roma. Infine, occorre ricordare che il parco degli ex sanatori, che un tempo contribuiva a isolare i contagiosi, rappresenta uno specifico elemento di valore per questi edifici, proprio nel cuore della città contemporanea. Sopravvissuto agli appetiti del boom edilizio, il parco si offre come luogo di riposo nei contesti urbani più densi (Lecce, Legnano, Ragusa) e attorno a queste inattese oasi verdi, potrà maturare una strategia di inclusione urbana per questi edifici.

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L’ex Sanatorio di Capodimonte e i frammenti urbani di un paesaggio di soglia Ex Sanatorium of Capodimonte and urban fragments of a threshold landscape

LILIA PAGANO Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract Nel panorama europeo degli anni Trenta e Quaranta, il Sanatorio di Capodimonte fu considerato un’opera esemplare e all'avanguardia. La sua struttura architettonica, stratificata ed eclettica, custodisce i segreti di un misterioso microcosmo extraurbano delineato dal vallone San Rocco di fronte al Bosco Reale e a quello che fu l’ingresso doganale della città: antichi riti religiosi, nobili tradizioni, un lungimirante ma dimenticato progetto architettonico e ambientale della cultura moderna che oggi attende di essere ripreso e potenziato.

In the '30s and' 40s, the Sanatorium of Capodimonte was considered a leading example in Europe. Its stratified and eclectic architectural structure preserves the secrets of a mysterious extra-urban microcosm delineated by the San Rocco valley, in front of the Royal Park and the ancient Customs Gate of the city: religious rites, noble traditions, a far-sighted but forgotten architectural and environmental project of the modern culture that today is waiting to be resumed and strengthened.

Keywords Sanatorio, Parco delle Colline di Napoli, Real Bosco di Capodimonte. Sanatorium, Hill park of Naples, Real park of Capodimonte.

Introduzione Parte dell’ex Sanatorio di Capodimonte oggi ospita l’Istituto di cura “Hermitage”, centro medico neurologico di importante rilevanza sanitaria e scientifica. La necessità di adeguarne l’accessibilità alle normative vigenti ha offerto l’occasione di studiare le forme e il significati di una «porta-ponte» al Parco delle Colline di Napoli sul Vallone San Rocco proprio nel suo punto magico di tangenza con il sito reale borbonico del Bosco di Capodimonte. Si è rivelata così la suggestiva storia architettonica delle aree dei due versanti del vallone che, in questo punto, condensano e rappresentano la condizione di soglia e di limite della struttura urbana storica: da un lato la porta Bellaria, un tempo varco doganale della città nel muro finanziere che proveniva dall’interno del vallone; dall’altro un microcosmo naturale nascosto della città di Napoli connotato da antiche tradizioni nobiliari, religiose e terapeutiche che si scopre già concepito come parco ornamentale e terapeutico dal lungimirante progetto moderno, dimenticato e sconosciuto, del Sanatorio Caputi o Sanatorio di Capodimonte(1934) che fino alla soglia degli anni ‘50 conobbe fama internazionale. Questa visione paesaggistica unitaria ha costituito il vincolante denominatore comune delle progettazioni, proceduralmente distinte, di due grandi interventi di recupero e valorizzazione a monte e a valle della clinica Hermitage: il Piano di recupero del Vecchio Sanatorio e l’Accordo di programma per la realizzazione di una nuova Porta-ponte sul Vallone San Rocco in corrispondenza della Porta Bellaria al parco di Capodimonte.

L’ex Sanatorio di Capodimonte e i frammenti urbani di un paesaggio di soglia

LILIA PAGANO

1. Un paesaggio di ‘soglia’ La duplice condizione di nobile contiguità con il parco di Capodimonte e al tempo stesso di appartenenza al territorio d’entroterra convive a tutt’oggi nel piccolo, autonomo e significativo microcosmo ambientale del Parco delle Colline di Napoli delineato su tre lati dal Vallone San Rocco con le sue diramazioni e sul quarto lato, ad ovest, dal salto di quota lungo cui corre la piccola via Cupa delle Tozzole, unico accesso all’area. Questo duplice affascinante carattere si ritrova espresso sui versanti della “zolla paesistica” dalle due storiche architetture di rilievo: la Villa Faggella e l’ex Sanatorio Caputi. La settecentesca Villa Faggella (ex Villa Paternò e prima ancora Casino De Gas), raro esempio di «villa-fortezza di impostazione palladiana» fu costruita sul poggio che domina il vallone S. Rocco, poco prima della stessa Reggia, e occupa con la sua ampia area agricola di pertinenza (oggi abbandonata) tutto il versante sud-est, di particolare pregio per la sua esposizione e, appunto, per la sua diretta contiguità visiva con il sito reale borbonico. All’epoca, l’altra altura più interna e meno pronunciata, in prossimità del vallone secondario a nord dove poi sorse il Sanatorio, era nota come la «Contrada Madonna delle Tozzole» depositaria della più antica memoria insediativa della zolla e da sempre significativo terminale della Cupa di accesso. Nel corso del tempo prima la Cappella delle Tozze e successivamente la villa Tozzi e il Sanatorio Caputi ne hanno sottolineato il carattere intimo e di estraneità dal contesto urbano e l’appartenenza ad un territorio d’entroterra altro dalla città. Le carte settecentesche mostrano che il sentiero originario su cui sorse all’inizio del ’700 la villa Paternò, poi denominato Cupa delle Tozzole, era stato tracciato proprio in ragione del rito processionale verso la Cappella delle Tozze, così chiamata perché ogni anno in occasione di una ricorrenza mariana vi si distribuivano tozzi di pane ai poveri. Dalla ricostruzione storica delle fasi costruttive del Sanatorio sembra trovare conferma l’ipotesi che la Cappella è stata poi inglobata nella Chiesa dedicata a Maria SS. di Costantinopoli. Se dunque Villa Faggella assurge a riferimento visivo, l’ex Sanatorio è una realtà misteriosa da scoprire per le sue suggestive qualità sceniche che rimandano al tempo stesso alla sua antica origine conventuale e alla sua riconfigurazione “moderna” in un avanguardistico «parco sanitario», visivamente immerso e nascosto in una fitta vegetazione di pini marittimi. In entrambi i casi permangono i caratteri forti e riconoscibili dei sistemi naturali e antropici di questo paesaggio di ‘soglia’, storicamente a ridosso del muro finanziere che, fino agli inizi del Novecento, correva lungo il vallone per poi attraversarlo, ripiegare e delineare i confini del Parco di Capodimonte e della stessa città di Napoli. Analogamente, sul ciglio di via Miano, le condizioni di abbandono e marginalità della porta Bellaria (o «Porta di Miano») rivelano la storia del suo antico legame strutturale smarrito con il vallone e il muro finanziere. Contestualmente al Ponte di Bellaria più a nord sul Cavone di Miano, la Porta nacque infatti nella prima metà del XIX secolo come «Posto doganale », a differenza delle altre Porte del Parco sorte in relazione agli storici aggregati preesistenti. Il suo piazzale, in diretta relazione visuale con il settecentesco Casino De Gas, era dunque l’ingresso alla Città e al Bosco. La demolizione del muro finanziere, la dismissione della garitta di controllo (riscoperta in un’officina abbandonata da tempo!) hanno irrimediabilmente svuotato il suo storico significato di “soglia urbana”.

2. L’ex Sanatorio tra storia e modernità Già a partire dalla metà del ‘700, Napoli e i suoi dintorni furono prescelti da inglesi agiati ammalati di tisi. Inizialmente la tipologia dei Sanatori, tutta determinata dalle caratteristiche ambientali e climatiche dei luoghi, tende ad intrecciarsi con quella di alberghi attrezzati per il

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1: Il Vallone San Rocco con la traccia del Muro Finanziere ottocentesco, la Porta Bellaria del Bosco di Capodimonte e la zolla paesistica dove sorgono villa Faggella e l'ex Sanatorio. benessere corporeo, come testimonia la storia del Qui-si-sana a Capri, creato a metà Ottocento dal medico britannico George Sidney Clark. All'inizio del XX secolo, questa accezione turistica ed elitaria, molto diffusa soprattutto in Italia e in Svizzera, si amplia e si ridefinisce nell’esperienza dei Sanatori popolari, ricevendo un forte impulso da un decreto governativo del 1933, per poi chiudersi con la scoperta della streptomicina nel 1944. Dalla pubblicazione su «L’Architettura italiana» del Sanatorio di Capodimonte si evince che nell’ottobre 1936 risultava già funzionante il primo lotto di tre piani del nuovo «padiglione uomini» (oggi clinica Hermitage), edificio di chiara impostazione moderna, planimetricamente «a forma di T leggermente curva», progettato dall’ing. Amedeo D’Albora. Il padiglione e la sistemazione dell’ampio giardino ornamentale e terapeutico costituivano le principali realizzazioni del «piano tecnico e razionale di nuove costruzioni» avviato nel 1933 dalla Villa Caputi S.p.A che conferì al Vecchio Sanatorio un assetto architettonico e paesaggistico giudicato esemplare e all’avanguardia nel panorama europeo.

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2: Il Sanatorio Caputi nell'immediato dopoguerra.

La cronologia della fondazione e delle fasi di costruzione del Sanatorio è testimoniata dal fascicolo promozionale degli anni ’50 «Villa Caputi S.p.A. medicina e chirurgia polmonare. Napoli S. Rocco a Capodimonte» che ne illustrava le prestazioni sanitarie.

Villa Caputi iniziò la sua attività nel lontano 1926, quando il dott. Giovanni Caputi senior trasformò la vecchia clinica chirurgica in luogo di cura per la tubercolosi; un deciso avvio verso l’attuale magnifica consistenza si ebbe però nel 1933 ad opera del Dr. Emanuele Mario Caputi coadiuvato dal fratello Dr.Giovanni con la impostazione di un piano tecnico e razionale di nuove costruzioni. Villa Caputi è attualmente costituita da un complesso di edifici di diversa mole (portineria, palazzina dell’Amministrazione, Direzione Sanitaria, Segreteria ed accettazione infermi, padiglione uomini, padiglione donne, Chiesa, mensa per il personale, centrale termica e lavanderia) tutti opportunamente raccordati da ampi viali asfaltati su una superficie complessiva, compreso il parco, di circa ventimila mq.

È evidente il significato pionieristico rispetto all’area collinare che nel 1936-39 verrà identificata dal Piano Piccinato come la “zona ospedaliera” della Napoli moderna. La data del 1926 che vede già la conversione della Clinica chirurgica in Sanatorio precede infatti di un anno l’inizio della costruzione del complesso ospedaliero statale “XXIII Marzo” (intitolato nel dopoguerra al clinico Antonio Cardarelli) sulla poco distante altura sommitale

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3: Caratteri architettonici del Vecchio Sanatorio e del “Padiglione uomini” progettato nel 1933 da A. D'Albora dei Colli Aminei: il “Nuovo Ospedale Moderno di Napoli” inaugurò solo nel 1934 il corpo principale e negli anni 3 9-40 i vari padiglioni ad indirizzo specialistico. Anticipa inoltre di ben cinque anni la decisione dell’Infps (Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale) di edificare sulla collina dei Camaldoli un grande complesso sanatoriale in grado di accogliere oltre 2000 pazienti affetti da tubercolosi: il Principe di Piemonte inaugurato nel 1938 insieme al suo splendido parco, intitolato nel 1973 al medico Vincenzo Monaldi. Se poi si considerano la vecchia clinica chirurgica e tutte le fasi costruttive del complesso l’origine è molto più antica. La ricostruzione storica ha svelato un singolare processo di costruzione nel tempo per stratificazioni ed addizioni intorno al piccolo insediamento conventuale della cappella delle Tozze. Ai piccoli manufatti bipiano sette-ottocenteschi dell’edificio conventuale e della cappella (orientati secondo l’asse est ovest, tra loro paralleli e cinti da mura) si affianca e si sovrappone, all’inizio del ’900, Villa Tozzi, ovvero l’edificio multipiano (probabilmente realizzato in due fasi e con un piano di meno) che non sappiamo se nacque già come clinica chirurgica o come villa residenziale. Sappiamo che intorno agli anni ’20 sicuramente il ‘casamento’ era stato trasformato in una clinica chirurgica composta da questo edificio principale di cinque livelli e da corpi di fabbrica di due livelli che conformavano due corti includendo la cappella. Due foto d’epoca mostrano la cappella delle Tozze e il corpo multipiano, connotato da un loggiato verticale a tutt’altezza, tra loro collegati dal muro di ingresso alla corte. All’esterno, in primo piano, sulla copertura dell’attuale cisterna sorge una sorta di guardiola di forma cilindrica che risulta diversa per dimensioni nelle due foto attestandone la sequenza temporale. È visibile anche un edificio rurale lungo il viale di ingresso (non più esistente e già presente nell’IGM del 1908). Nella foto aerea del 1929 il complesso, già divenuto Sanatorio Caputi dal 1926, appare come una singolare masseria, definita appunto ‘casamento’ nella divisione ereditaria. Oltre alla corte attuale, sono ancora rilevabili una seconda corte sul lato ovest cinta da un lungo edificio lungo il pendio del versante, già presente nell’IGM del 1908, e due corpi di fabbrica all’ingresso, anche questi non più esistenti. Nella foto spicca l’edificio multipiano che appare interamente rinnovato a seguito della sua trasformazione da Clinica in Sanatorio, al contrario dei corpi più bassi dove si intravedono tetti rimossi e sfondati. In particolare la Cappella compare ridotta ai soli muri perimetrali. È questo lo stato dei luoghi su cui interviene il Piano tecnico e razionale di nuove costruzioni del 1933. Contestualmente alle nuove costruzioni furono demoliti i tre manufatti rurali presenti nella foto del 1929. Le opere del 1933 non riguardarono dunque il corpo multipiano del Vecchio Sanatorio che, come detto precedentemente, era stato già ristrutturato nel 1926; fu invece interamente ristrutturato con l’aggiunta di nuovi ‘moduli’ il corpo su due livelli che includeva gli originari manufatti del convento e della cappella delle Tozze. In particolare vengono realizzati due

L’ex Sanatorio di Capodimonte e i frammenti urbani di un paesaggio di soglia

LILIA PAGANO

moduli con travature in c.a., di cui uno ex novo sull’estremità occidentale e l’altro corrispondente alla ristrutturazione del corpo frontale della corte a nord. Anche la cappella, insieme alla campata adiacente e alla scala, fu oggetto in questa fase di un radicale intervento di ristrutturazione con tecniche in c.a. che, oltre agli impalcati orizzontali, interessò la costruzione del singolare loggiato al piano superiore con caratteri analoghi a quello del nuovo modulo sull’estremità occidentale. Le nuove costruzioni insieme agli interventi di ristrutturazione e rimaneggiamento del Vecchio Sanatorio conferiscono al complesso sanitario una notevole e articolata dimensione, architettonicamente connotata da una inedita commistione linguistica che vede convivere il moderno con cornici e modanature in stile. Dalla foto aerea del 1943 si evince come la concezione moderna di Sanatorio si esprima a pieno proprio nel disegno del parco ornamentale. In esso trovano la loro motivata ragione morfologica sia il nuovo “padiglione uomini” a valle progettato da D’Albora, con la sua tipologia curvilinea e i suoi caratteri architettonici moderni, che i cinque piccoli edifici di servizio all’intorno al tempo stesso moderni e in stile. Origine della composizione paesaggistica del parco è tuttavia, a monte, l’antica corte del Vecchio Sanatorio. I loggiati colonnati al primo piano sovrastanti la Chiesa dedicata a Maria SS. di Costantinopoli e il nuovo corpo aggiunto si sposano con il singolare fronte dorico della palazzina amministrativa e con il prisma ottagonale con coronamento liberty che sovrasta la cisterna, ridefinendo stilisticamente l’ingresso da via Cupa delle Tozzole. Analogamente, i fronti a due livelli sulla corte vengono rimodellati secondo un ritmo unitario di bucature e cornici. L’edificio multipiano conserva il carattere moderno originario a meno dei capitelli in gesso che coronano l’ultimo piano del loggiato verticalmente continuo che si apre di fronte alla scala a volta. Il fascicolo promozionale degli anni ’50 della Villa Caputi S.p.A. ha reso anche possibile identificare, nell’ambito dell’articolata struttura sanitaria, la moderna distinzione delle funzioni in «edifici di diversa mole». Il Vecchio sanatorio, unitamente ai corpi su due livelli che delimitano la corte, viene destinato al padiglione donne, complementare al nuovo edificio progettato da D’Albora per il padiglione uomini; il corpo sulla cisterna, ristrutturato su pianta ottagonale è destinato ad archivio- segreteria. I quattro nuovi piccoli edifici indipendenti sono rispettivamente destinati a portineria con casa del custode, uffici amministrativi, cappella funeraria, casa del contadino. Di recente l’area ha consolidato e rinnovato la sua storica funzione sanitaria. La proprietà è stata suddivisa. L’attività ospedaliera della clinica Hermitage è stata concentrata nell’edificio ‘moderno’ di D’Albora con il rilevante patrimonio di ‘verde ornamentale’ del giardino terapeutico in cui fu immerso. Per il fatiscente Vecchio Sanatorio ed i suoi piccoli edifici all’intorno, anch’essi fatiscenti e sfigurati, è giunto in fase di realizzazione un autonomo percorso di restauro e rifunzionalizzazione residenziale. Tuttavia il parco ornamentale ancora rivela i principi di composizione unitaria del micro paesaggio configurato negli anni ’30 che assecondando la matrice topografica del sito fissa la trama delle sistemazioni esterne, dei giardini e degli alberi di alto fusto che supportano i grandi e i piccoli edifici di diverso stile linguistico.

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4-5: Itinerari di visita del Parco delle Colline di Napoli a partire dalla nuova porta-ponte Bellaria del Real Bosco di Capodimonte (da Accordo di programma, Farina_Pagano architetti associati)

L’ex Sanatorio di Capodimonte e i frammenti urbani di un paesaggio di soglia

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Conclusioni Nel suo insieme questa zolla paesistica altimetricamente emergente sagomata dal Vallone si configura come il fondamentale anello di congiunzione mancante tra il Bosco di Capodimonte, solo visualmente contiguo, e tutti gli altri ambiti paesistici coinvolti nella rete ambientale e nella logica urbanistica del Parco delle Colline di Napoli. Il vallone S. Rocco, vero e proprio monumento naturale che fino all’Ottocento ha costituito il limite fisico di Napoli a settentrione ospitando per lunghi tratti il muro finanziere, disegna con il suo percorso di 6 km la geomorfologia del territorio e definisce l’asse portante della porzione occidentale dello straordinario patrimonio ambientale istituito nel 2003 come Parco delle Colline di Napoli. La memoria della sua storica condizione urbana di ‘soglia’ si ritrova nella diversa appartenenza amministrativa dei due versanti: da un lato la Municipalità del nucleo di Piscinola, dall’altro il Parco di Capodimonte e l’area del Garittone che già dal Settecento erano parti integranti della città di Napoli. Due realtà, urbana e periferica, rispetto alle quali la Variante al PRG individua proprio il sistema ambientale come elemento unificante e strutturante di un sistema urbano policentrico che superi, in una allargata logica metropolitana, la dicotomia tra centro e periferia. Una porta-ponte sul San Rocco proprio nel luogo che fino all’Ottocento era il «posto doganale di Bellaria», ancora testimoniato dal manufatto della garitta, assume dunque una rilevante e rinnovata valenza simbolica oltre che funzionale per l’intera città. Al tempo stesso determina un suggestivo “nodo di interscambio tra parchi”, cioè dota il Parco delle Colline, di recente istituzione, oltre che di una nuova strategica porta, di una prestigiosa ‘vetrina’, un attrattivo volano turistico proprio per la diretta contiguità con l’ingresso al Real Bosco di Capodimonte: il sito borbonico, meta turistica internazionale, acquista in tal modo un rinnovato ruolo centrale di ‘caposaldo storico’ trainante nel rilancio della dorsale naturale strutturante che connota la rinnovata prospettiva naturalistica del futuro urbanistico di Napoli. In questa nuova visione ambientale lo slargo di Bellaria e questo tratto ormai fortemente degradato di via Miano riacquistano il loro antico significato rappresentativo di luogo fisico di connessione e di soglia di cui torna ad essere simbolo la garitta ottocentesca da decenni nascosta in un’officina in degrado. L’attuale porta Bellaria o di Miano acquista un nuovo statuto di ‘piazza’ aperta e proiettata nel paesaggio: un nuovo luogo belvedere contornato da giardini che sormonta il nuovo ponte e riscopre quell’inquadramento visuale della settecentesca villa Faggella che nell’Ottocento orientò lo stesso disegno dello slargo che introduceva alla città e al bosco reale. Sul versante opposto tutto sembra già predisposto: dal Vallone San Rocco fino alla corte del vecchio Sanatorio, il poggio più alto, il giardino terapeutico ‘moderno’ sperimentato negli anni ’30 definisce con i suoi percorsi i punti di percezione e le angolazioni visuali di una singolare scenografia eclettica e composita che attende solo di essere scoperta.

Bibliografia DI MAURO, M. (2007). La Villa Paternò ora Faggella alla contrada di San Rocco a Napoli, Napoli, Clean. KAWAMURA, E. (2007), Il soggiorno dei tisici inglesi negli alberghi italiani e svizzeri tra ottocento e Novecento, in Storia del Turismo Annale 2005, Milano, Franco Angeli, p. 32. PAGANO, L. (2012). Architettura e centralità geografiche, Roma, Aracne. REDAZIONALE (1936, XIV). Il Sanatorio di Capodimonte, ing. Amedeo D’Albora, in «L’Architettura italiana» n.10. VILLA CAPUTI S.P.A. (1950 ca.), Villa Caputi S.p.a. Medicina e chirurgia polmonare.

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Sitografia FARINA_PAGANO architetti associati (2011). Piano di recupero “Vecchio Sanatorio Caputi” (http://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/15117, consultato aprile 2018). FARINA_PAGANO architetti associati (2016). Accordo di Programma Una nuova Porta-ponte del Parco metropolitano delle Colline di Napoli di fronte alla Porta Bellaria del Parco di Capodimonte (www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/29526, consultato aprile 2018).

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Margini tra “spazi altri” Margins between "other spaces"

MARIA PIA AMORE Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract Il contributo affronta il caso dei manicomi provinciali costruiti in Italia all’inizio del Novecento: architetture totali, eterotopiche e introverse, in dismissione dal 1978, sospese in una condizione doppia e incongruente di scarto e di monumento, sono l’oggetto di una ricerca di dottorato che indaga la possibilità di risemantizzare questi “spazi altri” attraverso la reinterpretazione del limite. La definizione di un margine tra il dentro e il fuori è finalizzata a cogliere il valore dei complessi architettonici nel sistema di relazioni interne esistenti ed esterne potenziali.

The contribution is on the former mental hospitals that were built in the nineteenth-century in Italy. These heterotopic and introverted architectures are not in use since 1978: they are suspended in a double and contradictory condition between the state of waste and the state of monument. My PhD research is looking for the possibility to give new meaning and value at these "other spaces" across the limit: the definition of a border across inside and outside wants to grasp the potential value of the architectural complexes within the system of internal existent and external potential relations.

Keywords Ex manicomi, riciclo, limiti. Former psychiatric hospitals, re-cycle, limits.

Introduzione Il percorso di ricerca, di cui il presente contributo costituisce un estratto parziale e tematico, affronta l’ampia questione della trasformazione/conservazione dell’esistente, specificandolo su una particolare forma di eredità culturale: gli ex complessi manicomiali costruiti in Italia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Il caso serve a definire un ambito di studio sperimentale particolarmente stimolante per la progettazione architettonica e urbana data la forte unitarietà degli elementi scelti, la natura particolarmente invalicabile dei loro recinti, la complessità funzionale dell’impianto che li organizza e che li presenta come cittadelle, il rapporto con la geografia naturale, il rapporto tra spazi aperti e spazi chiusi, il ritmo/ripetizione degli elementi, le sequenze e le gerarchie interne. A questi elementi totali e complessi, in dismissione dal 1978, per posizione, dimensione e disponibilità di spazi verdi, si riconosce un nuovo potenziale valore urbano, un nuovo ruolo nella città contemporanea capace di evitare quello spreco contro cui i nuovi paradigmi della sostenibilità orientano anche la riedizione dell’esistente. Il manicomio a forma moderna nasce per essere in sé luogo di cura (Kom) della follia (mania), efficace perché rigidamente separato dalla realtà esterna, realizzando quel concetto di eterotopia urbana che Michel Foucault avrebbe teorizzato alla fine degli anni ’60 del Novecento. Gli “spazi altri” [Foucault 1967] della follia sono stati e continuano a essere

Margini tra “spazi altri”

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estranei alle dinamiche urbane, off limits e offside: non solo la loro funzione ma anche la loro architettura è stata determinante nella costruzione di questa alterità. La ricerca vuole sostanziare l’ipotesi che la risignificazione all’interno della città contemporanea degli spazi della follia può essere realizzata attraverso la ridefinizione del limite delle cittadelle manicomiali come margine di relazione, per portare, usando le parole di Basaglia, «chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro» [Basaglia 1979].

1. Riciclare eredità Disseminati sul territorio italiano, con un cospicuo costruito edilizio e ampi spazi verdi, si conservano, spesso in condizioni di degrado e abbandono, più di 70 ex manicomi provinciali dismessi, architetture asiliari moderne nate dall’esigenza di unificare l’edificazione ex novo delle strutture psichiatriche in seguito all’Unità d’Italia. Queste architetture – che presentano caratteri posizionali, morfologici e tipologici singolari e che declinano la tipologia ospedaliera a padiglioni – fanno parte di quelle attrezzature funzionali che segnano il passaggio in Italia e in Europa dalla “città monumento” alla “città servizio” [Gravagnuolo 1991]. Tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la questione urbana viene inoltre gradualmente sottratta all’egemonia della disciplina architettonica per diventare luogo d’incontro di diversi campi del sapere “scientifico”: dalla medicina, alla statistica, all’economia politica, alla topografia analitica, all’ingegneria. Con la costruzione di impianti ad hoc per il ricovero dei folli si assiste, in pochi decenni, a un’autentica sperimentazione che dall’ambito tipologico prosegue sul piano costruttivo, tecnologico e impiantistico, senza tralasciare gli aspetti stilistici e persino le scelte dei materiali e degli arredi, registrando, in parallelo agli avanzamenti di un dibattito specialistico, la collaborazione e il confronto tra ingegneri, architetti e alienisti [Villone, Sessa 2012]. La rinnovata psichiatria ottocentesca credeva nei benefici terapeutici che l'isolamento poteva apportare ai pazienti ricoverati nei manicomi: si riteneva che con la calma e il silenzio la mente tormentata potesse purificarsi e trasformarsi in una tabula rasa psicologica, pronta ad accogliere i nuovi pensieri assennati che l'alienista vi avrebbe impiantato. In un nesso profondo tra funzione e forma, i caratteri dell’architettura manicomiale furono concepiti come strumenti per le cure psichiatriche, come rimedi morali per eccellenza. Messi presto in discussione i criteri per l’internamento e le stesse modalità di cura, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta le attività di assistenza psichiatrica in tutto l’Occidente furono attraversate da movimenti di de-istituzionalizzazione. Nel 1978, sulla base teorica secondo cui un effettivo recupero del malato di mente non potesse prescindere dal suo reinserimento nella società, venne promulgata in Italia la legge n°180, nota come legge Basaglia, che sancì il superamento e la fine degli Ospedali Psichiatrici, avviando una lunga e complessa fase di dismissione, ancora oggi controversa. Studi condotti all’interno di un PRIN nel 2008 – e confluiti nel testo I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di Ajroldi, Crippa, Doti, Guardamagna, Lenza e Neri – restituiscono dati significativi, anche se parziali, circa la modalità con cui è avvenuta la chiusura dei manicomi e con cui si è talvolta proceduto alla trasformazione funzionale. Assorbiti dalla crescita urbana alcuni ex complessi manicomiali, perduta la loro posizione isolata, sono stati parzialmente destinati ad altri usi; rari i casi in cui la proprietà è stata venduta; spesso, pur rimanendo pubblica, la proprietà è stata concessa in uso ad altre istituzioni; in diversi casi la trasformazione ha tentato di conservare una traccia della fase manicomiale, come nel San Lazzaro di Reggio Emilia – dove l’area dell’ex manicomio è stata dichiarata “parco storico” e dove, dal 2011, il padiglione Lombroso è sede del Museo Nazionale della Psichiatria – nel padiglione 6 del Santa Maria della Pietà di Roma, dove oggi è allestito il Museo e Laboratorio

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della Mente a opera di Studio Azzurro e nell’ex manicomio di Maggiano (Lucca), sede della Fondazione Mario Tobino dedicata agli studi psichiatrici. In molti casi però si riscontrano condizioni di abbandono, totale o parziale, così che lo stato di conservazione passa, in uno stesso complesso, dall’ottimo al pessimo. La questione che pone la tutela e la conservazione di questa eredità è complessa: la situazione è analoga a quella di tanta architettura del Novecento, sospesa tra cronaca e storia, tra memoria e oblio, fra abuso e abbandono, che richiedono la formulazione di giudizi di valore su avvenimenti “troppo” recenti. Nel valutare e riconoscere le istanze della conservazione e trasmissione di un patrimonio assolutamente eccezionale la ricerca si muove all’interno di una specificità disciplinare della progettazione architettonica e urbana che rinuncia alla pretesa di valori assoluti e universali per individuare nella realtà fisica, sociale e culturale del proprio tempo le ragioni e i modi delle trasformazioni. Gli ex manicomi pongono da un lato la questione di che cosa sia necessario conservare per tramandare al futuro una memoria materiale e immateriale di indubbio valore e dall’altro di che cosa sia necessario perdere per innescare meccanismi necessari di trasformazione. Lo stato di abbandono di oggetti di un recente passato in cui la diffusa condizione di dismissione nega il valore di “patrimonio costruito” prefigura lo “spreco” già denunciato da Ezio Bonfanti alla fine degli anni Sessanta; quello spreco contro il quale negli ultimi due decenni si è mossa tutta la cultura architettonica e urbana ecologically informed legata all’idea di sostenibilità, parlando di re-cycle e aggredendo con determinazione tutto lo spreco contenuto nell’incapacità di descrivere e di interpretare il senso di tanti spazi abbandonati. Nelle riflessioni contemporanee heritage e re-cycle sembrano termini oppositivi: il primo termine raccoglie materiali e pensieri dati, ereditati dal passato, il secondo cerca di disegnare le possibili trasformazioni del trovato, dell’esistente [Marini 2016]. Da un lato ci sono i temi della conservazione e della tutela dell’eredità di un passato prossimo ma comunque riconoscibile come patrimonio, costituito da monumenti; dall’altro le contingenze di un’epoca storica, di un contesto economico, sociale e culturale necessariamente orientato dai temi dell’ecologia e della sostenibilità. Il concetto del ri-ciclo sembra collidere con la nozione di eredità nel suo tendere a non rispettare a pieno la vocazione della materia ereditata, nel suo lavorare l’esistente considerandolo mutabile, modificabile, piegabile ad altri e nuovi messaggi. In realtà, la pratica del ri-ciclo per i materiali dell’architettura scartati o abbandonati, insistendo sulla rimessa in uso di un singolo “oggetto” ma anche sull’attivazione di un intero ciclo di vita del sistema città o dell’organismo territoriale, vuole superare sia le debolezze delle pratiche correnti del recupero sia le logiche puramente difensive della tutela. Si intende quindi ri-ciclare come ricerca del senso stesso del patrimonio, come scavo nell’esistente: l’esistente viene letto come materiale trasformabile su cui rinnovare l’idea di città. Il ri-ciclo, contrapponendosi a un’idea di conservazione che tende a immobilizzare l’immagine dello spazio architettonico attribuendo valore all’immutabile, riconosce il cambiamento come valore. Riciclare l’architettura vuol dire rendere impossibile per essa la rivendicazione del definitivo, perseguire un’idea di tutela che supporti la discontinuità e progetti un cambiamento al fine di preservare [Koolhaas 2014].

2. Ereditare confini/limiti/recinti Lo spazio “altro” del manicomio, come materializzazione di un’eterotopia di deviazione [Foucault 1967], viene interpretato attraverso l’ampio tema del confine quale elemento archetipico di generatore di differenze tra gli spazi. Dal latino confine, comp. di con- e del

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tema finire «delimitare», deriva da con-finis “fine insieme”, segno che delimita la comune fine di due spazi. Lo spazio è sempre segnato da una molteplicità di confini visibili – identificabili con oggetti fisici – e invisibili che stabiliscono una differenza reale o presunta tra le cose. I confini delimitano e nominano lo spazio, lo organizzano, rappresentano ruoli e gerarchie, definiscono identità e determinano relazioni sociali. L’effetto di un confine, tangibile e intangibile, è sempre lo stesso: sancisce una diversità, oltre di esso si registra un cambiamento dovuto a una differenza. Associato alla formazione delle città il significato di confine – nei suoi modi e nelle sue forme – si fa più articolato: la necessità primaria è di stabilire discontinuità tra l’esterno illimitato naturale e l’interno urbano costruito e regolato. Il confine necessario tra i due mondi, quello naturale e quello urbano, si trasforma gradualmente in un intreccio di segni, in un reticolo di confini: la città è solcata e divisa da altre linee, divisioni, limiti e differenze. Come suggerisce Guido Cannella nell’introduzione al numero monografico della rivista Hinterland del 1979 dedicato all’architettura della salute, i grandi complessi ospedalieri possono essere descritti come «sovraimpressione di una “città nella città”»: l’organizzazione spaziale a padiglioni, che muta dalla città le relazioni e le misure dei rapporti tra pieni e vuoti, permette di assimilare all’idea di garden city, organizzata nella sequenza di edifici inseriti in aree verdi e nelle reti dei connettivi viari, molte attrezzature per la salute [Cherchi 2016]. La singolare identità delle cittadelle manicomiali, i cui caratteri morfologici e tipologici derivano chiaramente dai complessi ospedalieri, si specifica proprio attraverso la definizione netta del suo confine. Entro il confine di questo luogo “altro” ulteriori linee, più o meno architettonicamente definite, sancivano altre differenze di sesso, curabilità e ceto sociale. Il confine tra due luoghi è dato anche da linee che creano divisioni sociali all’interno della città: il confine è simbolo dell’inclusione o dell’esclusione sociale da un ambito specifico. A proposito del mondo correzionario e dell’internamento dei folli ancora Foucault scrive che «per poter designare gli uomini di sragione come stranieri nella loro stessa patria, è stato necessario avere effettuato questa prima alienazione, che strappa la sragione alla sua verità e la confina nel solo spazio del mondo sociale» [Foucault 1972,192]. Il forte sviluppo del sistema manicomiale, differente dalle precedenti forme di asilo, rispose a esigenze politico- sociali e a un compito quanto mai difficile: separare secondo l’umanità, la ragione e il diritto, il colpevole dal malato. In un certo senso, con l’istituzione manicomiale la medicina della follia – superando i suoi stessi confini – si distaccò nettamente dalla medicina generale accettando di gestire non la cura ma l’esclusione dalla comunità, rispondendo a un obiettivo tipico di una tecnica di controllo sociale. Alla definizione di confine il vocabolario della lingua italiana Treccani online associa immediatamente la nozione di limite: confine è limite di un terreno, di un territorio e di una regione geografica ma anche un elemento fisico – pietra, sbarra, steccato o altro – che segna un limite. Il confine, infatti, viene spesso assimilato all’idea di limite, anche se esso, più che il limite, de-limita qualcosa per generare rapporti di inclusione/esclusione. Il confine come limite, dunque, traduce il concetto di limes romano: è linea di separazione tra situazioni diverse e può assumere le forme di un sentiero, di una strada, così come di una frontiera, di una barriera o di un baluardo difensivo. Il confine del manicomio, il limes che separava lo spazio della follia da quello della ragione era un limite fisico, un recinto di “alte mura, filo spinato, rocce, corsi d'acqua, foreste e brughiere” [Goffman 1961] come per ogni istituzione totale. Sul piano fisico, dunque, si può operare un terzo passaggio e rimandare l’idea di confine come limite alla forma archetipica del recinto. La parola recinto, forma del participio passato del verbo recingere, richiama una delle azioni

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1-2: Morire di CLASSE, La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin [Basaglia, Basaglia Ongaro 1969]. più tipiche compiute dall’umanità: ponendo limiti e definendo tracciati, l’uomo esercita una selezione, sceglie un luogo specifico tra la pluralità di luoghi esistenti. I caratteri connotativi del recinto sono molteplici e riguardano la morfologia e tipologia del sito e dell’elemento posto come dispositivo di delimitazione dello stesso. Lo spazio, in seguito alla definizione del recinto, assume le caratteristiche di un “interno” o di un “esterno” in relazione al recinto stesso, che rappresenta il confine tra essi [Gregotti 1979]. È a questo punto opportuno sottolineare un carattere singolare del confine-limite-recinto delle cittadelle manicomiali: la dimensione e la posizione rispetto all’interno e all’esterno. Agli albori della scienza psichiatrica i criteri progettuali per la scelta di un sito da destinarsi alla realizzazione di un manicomio sono chiari e largamente condivisi: il trattamento morale dell’alienato è tanto più efficace quanto più il luogo è isolato. Perfino nei manicomi urbani, la scelta del sito è determinata dalla posizione appartata, rivolta verso la campagna, sul margine del centro urbano. Jean Colombier e François Dublet nelle loro Instruction, quanto Jhoseph-Marie de Gérando nel De la bienfaisance publique indicano, più o meno esplicitamente, la campagna come luogo ideale per il ricovero degli alienati, lontano dalle città per godere di una libera veduta del paesaggio circostante. Ma è nelle indicazioni di Philippe Pinel che possiamo rintracciare un aspetto specifico del limite del manicomio: l’alienista francese auspica per l’insediamento un’ampia superficie disponibile e, per conseguenza, vasti complessi in cui i degenti possano sentirsi liberi di muoversi; egli ammette però che questa “percezione di libertà” è una pura illusione non certo per l’assenza recinti, di muri e inferriate, ma proprio per la notevole estensione degli spazi aperti in forza dei quali il manicomio finisce di fatto per essere un insediamento dai limiti virtualmente invalicabili [Doti 2013]. Tra gli elementi architettonici degli ex complessi manicomiali si riconosce, dunque, al limite un valore semantico complesso, capace di “sintetizzare” l’identità degli spazi della follia. Il recinto del manicomio può essere considerato l’elemento in cui si materializza il pregiudizio che la società ha nutrito – e nutre ancora – nei confronti della follia; il recinto definisce lo spazio della segregazione: il confine diventa metafora della separazione e dell’esclusione.

3. Rintracciare margini di relazione Il recinto degli ex complessi manicomiali separa ancora oggi una condizione interna molto definita e chiara – nonostante le modificazioni che gli impianti architettonici hanno subito, per

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3: Elaborazione esemplificativa a cura dell’autore sull’individuazione del limite per i 72 ex complessi manicomiali redatta sulla base delle indicazioni del Dossier Provvisorio a cura della Fondazione Benetton (1996), dal testo I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento [Ajroldi et al. 2013], del portale tematico http://www.spazidellafollia.eu/it e delle immagini satellitari di Google Maps. ragioni di ordine pratico nell’esercizio della loro funzione, nel tempo – da una condizione esterna, invece, più complessa ed eterogenea. Per la scelta del sito il principio di isolamento del folle impose un “rapporto a distanza” tra il manicomio e la città. La scelta di aree vaste per l’insediamento fu dettata dalla consapevolezza dei futuri ampliamenti mentre la prossimità agli assi viari principali e alle linee di collegamento su ferro con la città orientarono gli altri principi di selezione dell’area. La scelta di un’area richiedeva una convergenza tra gli interessi di natura terapeutica, custodialistica, ricettiva, economica e logistica. In molti casi i manicomi costituivano un “avamposto urbano al limite tra la città e la campagna”: assorbiti dalle prime espansioni periferiche otto-novecentesche, si conferma oggi, nella maggior parte dei casi, la loro condizione “esclusiva”. Raggiunti dalle direttrici di crescita urbana e incorporati nei tessuti edilizi di espansione questi elementi conclusi rimandano al loro recinto le possibili relazioni con l’intorno.

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L’ipotesi di relazionare le parti di città separate dal recinto – da una parte gli ex manicomi, dall’altra le aree urbane dell’intorno – e la contemporanea volontà di non perdere l’elemento identitario del luogo-manicomio, ha spinto la ricerca a riflettere sulla modificazione del limite. Questa operazione allarga lo sguardo dall’elemento architettonico nella sua forma definita (recinto) alla porzione di città immediatamente a ridosso di esso, slittando dal concetto di limite a quello di margine. Il margine vuole essere inteso non come entità lineare di perimetrazione fisica del luogo ma come spazio, non più una linea ma una “distanza” a costituire una superficie. Si tratta di distinguere il concetto di limes da quello di limen, specificando un’accezione limitativa di contro ad una propositiva. Si cerca di sottrarre il recinto alla sua funzione di barriera per leggerlo come un elemento capace di mettere in relazione le entità rispetto a cui esso è, appunto, limite. Tentando dunque il passaggio da limes a limen, in termini più contemporanei, si è spostata l’interpretazione del limite da elemento in opposition a elemento in-beetween, ricercando la sua caratteristica spaziale deputata ad accogliere il movimento delle persone, dei flussi, degli eventi in una libertà non più “solo percepita”. Muovendo da due studi di riferimento – l’indagine patrocinata nel 1996 dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche volta a realizzare un Atlante degli ospedali psichiatrici pubblici in Italia e il più recente progetto di ricerca finanziato dal MIUR nell’ambito del Programma PRIN 2008 sul patrimonio fisico e culturale degli ex ospedali psichiatrici – la ricerca vuole contribuire dallo specifico punto di vista disciplinare a definire rinnovate strategie di conservazione/trasformazione degli ex manicomi. A tal fine è stata innanzitutto necessaria una descrizione tematica degli ex complessi manicomiali: l’operazione insita nella descrizione permette di percepire, nominare e classificare gli elementi tendendo alla ri- costruzione dei luoghi attraverso un’interpretazione dell’esistente per avanzare ipotesi sulla natura del margine e sulle sue possibilità trasformative. La reinterpretazione del margine non vuole essere uno strumento per ricercare improbabili continuità urbane attraverso modelli già sperimentati o peggio nostalgici, bensì uno strumento utile per leggere sinteticamente, attraverso un iniziale processo di astrazione, la forma potenziale dei luoghi capace di prefigurare risposte “reattive” ed efficaci da parte di quegli stessi luoghi. Senza tendere a realizzare improbabili omogeneità e continuità morfologiche, ma piuttosto cercando di “montare” diversità e frammenti, attraverso il ri-ciclo del trovato, dell’esistente, si prefigurano sistemi relazionali dotati di senso [Bocchi 2015, 10].

Conclusioni La ricerca si radica nel presente, nello stato di fatto, senza ignorare la storia e la specificità tipologica degli oggetti, ma legge e descrive la contemporaneità dello spazio in cui tutto diventa sincronico, tutto appartiene al luogo, alla sua (ri)conoscenza e alla sua trasformazione. L’ipotesi sottesa alla definizione di un inventario dei margini delle cittadelle manicomiali è che queste architetture “altre”, complesse e introverse possano essere risemantizzate instaurando nuove relazioni con l’intorno, attraverso un elemento che fortemente segna l’identità di questi luoghi: il limite tra il dentro e il fuori: la restituzione degli ex complessi manicomiali attraverso una lettura orientata non rappresenta solo uno strumento di descrizione bensì un primo atto di progetto finalizzato a cogliere il potenziale valore di ogni pezzo o parte nell’ambito del sistema di relazioni interne (esistenti) ed esterne (potenziali).

Margini tra “spazi altri”

MARIA PIA AMORE

4: Elaborazione esemplificativa e non definitiva a cura dell’autore sull’individuazione dell’area di margine per l’ex manicomio di Genova Quarto a Mare, 2018.

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La cittadella di Maggiano presso Lucca. Utopie architettoniche, mediche e letterarie nella cura delle malattie mentali tra Settecento e Novecento The cittadella di Maggiano near Lucca. Architectural, medical and literary utopias in the treatment of mental disease from the eighteenth to the twentieth century

PAOLO BERTONCINI SABATINI, EVA KARWACKA CODINI Università degli Studi di Pisa

Abstract Dal 1773 il medioevale Monastero di Fregionaia, nei pressi di Lucca, ospita la riabilitazione dei folli connotando a tal punto la località di Maggiano da identificarne il toponimo con la cittadella psichiatrica. Un’istituzione apprezzata e celebrata negli scritti di Mario Tobino, nella cui esperienza di alienista, così profondamente intrecciata con la parola, il contesto architettonico viene calato in una visione utopistica dell’universo manicomiale che qui appunto si forma e si consolida.

From 1773 the medieval monastery of Fregionaia, near Lucca, has hosted the rehabilitation of the insane, to the extent that the locality of Maggiano is now commonly identified with the . The institution was appreciated an celebrated in the writings of Mario Tobino, in whose experience as an alienist, so profoundly entwined with the written word, the architectural context is linked to a utopian vision of the asylum universe that is here formed and consolidated.

Keywords Tobino, Maggiano, Pardini. Tobino, Maggiano, Pardini.

Introduzione Nel 1770 il medievale Monastero dei Canonici Regolari Lateranensi di Fregionaia, nei pressi di Lucca, viene soppresso. Grazie alla suggestiva ubicazione su un colle circondato da terreni coltivati, in posizione panoramica sulla piana circostante, ma soprattutto in virtù della singolare facies architettonica incentrata su due grandi chiostri, il complesso è scelto per ospitare la riabilitazione fisico-morale dei folli qui avviata il 20 aprile 1773, data che decreta ufficialmente la nascita dello Spedale de’ Pazzi. Prima e unica struttura dell’imminente Ducato, Fregionaia diviene punto di riferimento per le altre istituzioni toscane, in gran parte fondate nei decenni successivi, grazie alla sapiente ripartizione degli spazi per la cura: il particolare impianto a duplice peristilio si mostra fin da subito capace di accogliere, quasi naturalmente, le sezioni maschile e femminile, con spazi autonomi e parti comuni perfettamente rispondenti alla conformazione planimetrica ricevuta dall’antico cenobio in epoca rinascimentale. La logica architettonica della cittadella monastica costituisce la peculiare vocazione alla quale ogni trasformazione successiva saprà adattarsi e dalla quale trarre ispirazione.

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PAOLO BERTONCINI SABATINI, EVA KARWACKA CODINI

1: Veduta del colle di Fregionaia con l’ex ospedale psichiatrico.

1. Un microcosmo nella natura È nel 1942 che Mario Tobino, medico e letterato viareggino, prende servizio presso l’ospedale psichiatrico lucchese rimanendovi fino al 1980, anno della pensione. Da tale esperienza nasce uno dei suoi libri più noti, Le libere donne di Magliano (1953), dove emerge, come in molti altri suoi scritti, la profonda sintonia dell’uomo, ancor prima dello psichiatra, con l’anima del luogo: «la mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo (…) Ed il mio desiderio è di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare» [Tobino 2018, 75]. Tobino è solo l’ultimo della nutrita schiera di medici che a Maggiano hanno operato e vissuto. È lui stesso a ricordarli – Vedrani, Paoli, Ferrarini, Cristiani – rimarcando la dedizione di ciascuno di essi verso i malati, conosciuti singolarmente uno per uno, e la comune scelta di vivere all’interno della struttura manicomiale con le rispettive famiglie [Tobino 1982, 135]. Eppure nessuno come lui ha saputo calare la propria vicenda umana e professionale tra le pieghe di queste mura intrecciando, pagina dopo pagina, l’architettura della parola con quella dello spazio, a partire dalla rappresentazione del contesto ambientale in cui il complesso è inserito – «riposa in una profonda ellissi circondata da monti che si stagliano limpidi nel cielo»; davanti «si eleva la groppa di un monte; laggiù, a destra, la torre di Ripafratta, la gola che immette nel pisano» – e della campagna che lo circonda e nella quale s’immerge «che

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ha per caratteristica non avere fragori, mai impettirsi, una musica che però non soffoca il maestoso. In questa campagna è come una mente segretamente guidasse, niente essa permette che travalichi» [Tobino 1982, 114,157; Tobino 2018, 74]. Il poeta coglie ed esprime la «straordinaria armonia, insieme lussureggiante e pudica, tra i rami la tenerezza del cielo, tutto immobile e vivo come quel paesaggio fosse già eternato, divenuto immortale per la gloria dell’arte», qualità mai venute meno nonostante le modificazioni apportate all’ospedale in poco più di un secolo, a partire dai primi decenni dell’Ottocento [Tobino 1972, 18].

2. La cittadella dei folli «Il manicomio si erge, bastione monumentale, su una collina che s’alza dopo la discesa del monte di Quiesa; a poche centinaia di metri scorre il fiume Serchio. D’estate le cicale vi cantano perdutamente» [Tobino 2018, 25]. Già per fondatori della prima cellula monastica su «una delle leggere sopra elevatezze che morbide sorgono per questa pianura», quale appunto il colle di «Santa Maria delle Grazie» presso “Magliano”, era chiaro che tale sito avrebbe assicurato le condizioni favorevoli per uno sviluppo armonioso della comunità e così sarebbe stato anche per i responsabili della sua conversione in istituto di assistenza e cura delle malattie mentali [Tobino 2018, 74]. Nell’esperienza di Tobino le manifestazioni della follia, spesso dolorose, ma soprattutto il rispetto e l’accoglienza del malato si legano a quell’idea di comunità (come si evince anche dal progetto da lui stesso presentato nel 1958 al concorso per il nuovo ospedale psichiatrico di Vicenza) che vive e prende forma nella realtà fisica dello spazio architettonico. E infatti l’ospedale di “Magliano”, dal toponimo del piccolo centro abitato posto nelle vicinanze, «tanto che Magliano è sinonimo di matto», gli appare «un paese rinserrato e stretto che contiene circa mille matti e trecento infermieri», dove «non si contano gli anditi, le scale, le soffitte che ogni generazione ha sfatto e aggiunto» [Tobino 2018, 25, 74]. Un organismo vitale e pulsante, simile a un possente “castello” – «manca solo dell’ippogrifo» –, dove «ogni sasso parla» della propria storia e di quella dei tanti uomini che hanno sfiorato quelle antiche membra grazie alla voce di un medico che come nessun altri ha saputo esaltare poeticamente quella realtà in una visione utopistica dell’universo manicomiale [Tobino 2018, 5; Tobino 1982, 11, 79].

3. Il segno dell’architetto «L’ospedale ha anditi, ombre medievali, spesse mura. Una volta qui abitavano i frati (…) questa la loro Casa madre. Fino a che, a metà del Settecento, per certe loro impuntature, irritarono il pontefice che comandò lasciassero il convento, si trasferissero in città. L’ospedale ha ancora voci, ombre, anfratti, freschi angoli del convento. Per giungere al reparto n. 2 vi sono gradini ripidi, color tabacco friato, incassati tra due muraglie, come conducessero alla clausura» [Tobino 1972, 67]. Agli interventi messi in atto alla fine del XVIII secolo era seguita la formulazione di un primo piano di riorganizzazione della struttura, con lo scopo di aumentarne la capacità ricettiva, affidato nel 1830 all’ingegnere Giacomo Marracci al quale sarebbe poi subentrato l’architetto Giuseppe Pardini cui si deve l’elaborazione di un progetto ben più ambizioso e la guida del grande cantiere per alcuni decenni. È quest’ultimo a lasciare il segno più profondo: il piano edilizio indirizzato a soddisfare le esigenze della moderna pratica alienistica, oltre che a rispondere al forte incremento dei malati verificatosi attorno alla metà del secolo, contemplava varie proposte di ampliamento redatte a partire dagli anni Cinquanta in collabo-

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2: Cortile di accesso al complesso

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razione con l’allora direttore Gaetano Cappelli e quasi fedelmente realizzate tra il 1870 e il 1876. Le competenze di Pardini, formatosi nell’ambiente romano, ma con un bagaglio di esperienze accumulato durante i viaggi di studio compiuti oltre i confini nazionali, soprattutto in Inghilterra, si mostrano nel risultato finale dove riluce l’attitudine del lucchese a leggere e interpretare lo spirito del luogo e dei tempi. L’architetto risolse l’accrescimento del vecchio impianto ricorrendo al sistema a padiglioni sparsi, ma riuniti da porticati e affiancati da ampi giardini. Una proposta completa e organica, ulteriormente incentrata sullo strumento terapeutico dei bagni in cui l’acqua giocava un ruolo fondamentale. L’ospedale così conformato, con ramificazioni edilizie estese fino alle pendici dell’altura in un contesto ambientale e paesaggistico ancora oggi sostanzialmente immutato, avrebbe connotato a tal punto la località di Maggiano da identificarne il toponimo con la cittadella dei folli.

4. Voci e ombre Dal secondo decennio del Novecento l’intero complesso conosce una riorganizzazione generale della propria fisionomia e i nuovi padiglioni edificati alle pendici del colle ne virano la natura verso una tipologia diffusa, eppure la proiezione di Tobino rimane ancorata all’ideazione pardiniana. «Lungo i secoli sulla cima del colle di Fregionaia si è formato un asserragliamento di muri, un intersecarsi di portici, fughe di corridoi, erigersi di reparti, di appartamenti; insomma vi è una sorta di cittadella. C’è perfino un giardinetto, lo smalto del verde tutto rinserrato tra muraglie. Poi – l’ospedale sempre più popolandosi – sono nati reparti anche sul dorso della collina; la cittadella però è rimasta il cuore del manicomio. Qui la direzione, la segreteria, il reparto medici, quello che una volta fu l’appartamento delle suore, qui la portineria, l’economato, la farmacia» [Tobino 1972, 109]. Il «cortiletto con in mezzo il pozzo, contornato da portici, una volta dei frati», sorta di atrio di accesso ai due monumentali peristili sui quali affacciavano gli ambienti conventuali convertiti in direzione sanitaria, una volta inglobati nel nuovo organigramma distributivo assumono la funzione di nocciolo vibrante dell’intera macchina ospedaliera [Tobino 1982, 53]. Da qui Pardini aveva fatto dipartire due lunghi deambulatori, come bracci rispettivamente protesi verso est e ovest, nelle cui ortogonali ramificazioni trovano posto i dormitori per i degenti, sistemati secondo il grado di pericolosità in modo che quelli più difficili – gli “agitati” – rimanessero nelle ali più estreme. In questo modo i vari settori godevano ciascuno di una propria area verde e dagli stanzoni, i corridoi e le celle, sfiorando le cime degli alberi con lo sguardo, si poteva cogliere «lo screzio del celeste tra i rami (…) di una sapienza uguale alla poesia, allo sguardo di Dio. il cielo si staglia nella mente, specchio di ciò che è l’anima» [Tobino 2018, 75]. «Ogni reparto ha il suo cortile o giardino dove i malati passeggiano quando è bel tempo. Anche “le agitate” lo possiede, contornato da quattro muri, d’estate veemente di dieci platani ricchi di foglie sì che l’aria è lieta di verde» [Tobino 2018, 47]. Ognuno poteva vagabondare per i vialetti fino ai boschi che come una corona cingono il villaggio lasciandosi trasportare dall’architettura degli spazi sapientemente organizzati dall’uomo; così il poeta, in certi momenti, vede nella breve rampa che precede «il giardinetto della direzione una pittura dei tempi di Monet: nel fragrante colore un segreto ordine»; altre volte le scale precipitano invece «come in un disegno del Piranesi» suscitando echi di una diversa consistenza [Tobino 1972, 187, 220].

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3: Portici del chiostro

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Sebbene «la vita, la gioventù, la bellezza, la gioia che ride» possano sembrare escluse da questa realtà fatta di «mille matti rinchiusi, prigionieri dei loro deliri, sudati, sporchi, poveri», per Tobino Maggiano rappresenta un ospedale «protetto e libero» al tempo stesso, dove i malati possono muoversi senza impedimenti mescolando con i sani «parole e azioni», a testimonianza che «questo si è l’inserimento (…) non certo (…) in un paese, in una città allo sbaraglio» [Tobino 1982, 9, 113]. «Questi matti sono ombre con le radici al di fuori della realtà, ma hanno la nostra immagine (anche se non precisa), mia e tua, o lettore» [Tobino 2018, 14].

5. Il bastimento Dopo quarant’anni passati nel manicomio di Lucca, in quelle «due stanzette, tugurio e villa», dopo essere invecchiato con i suoi malati, Tobino è costretto a lasciare quelle «grandi stanze che ne avevano visto e udito tanta di follia» [Tobino 1982, 10, 11]. L’aspro scontro consumatosi con la quasi totalità dei suoi colleghi, ma soprattutto con Basaglia, lo avevano visto perdente di fronte alle proposte di quest’ultimo poi sfociate nella legge a lui intitolata con la quale si intendeva distruggere l’ospedale psichiatrico visto come spazio chiuso, luogo di istituzionalizzazione della schiavitù del malato ormai reso libero dall’avvento delle terapie chimiche. Con l’avvento degli psicofarmaci, dal 1952, era iniziata, per così dire, la «liberalizzazione» – «nei manicomi lentamente e ineluttabilmente penetrò il terremoto; crollarono i muri di cinta, le inferriate si piegarono, ogni legaccio si ammollò» –; la stessa follia in un certo senso era stata intorpidita, soffocata, ma lo stesso Tobino in un primo tempo stentò a credere che una legge potesse sancire l’espulsione di tanti «disgraziati» dalla loro casa [Tobino 1982, 30]. Inesorabilmente si giunse invece alla Legge 180 del 13 maggio 1978 e all’abolizione di tali strutture e con essi del castello ideologico di dominio e potere che gli estensori della norma vi ravvisavano, prevedendo per i malati il reintegro nella società e il reinserimento nelle famiglie. Anche le porte di Maggiano si chiusero. Tobino aveva insistentemente proposto l’ospedale lucchese come modello di una realtà ben diversa da quella prigione stigmatizzata dai «novatori» – «quello di Lucca (…) mi pare libero e umano, chi vi è ricoverato è trattato con ogni affettuosità» –; un luogo «dove ci si incontra come tra vecchi amici» [Tobino 1982, 57]. Per lui, infatti, il manicomio doveva essere soprattutto un centro di accoglienza, «libero, fraterno, civile, umano», imperniato sulla «carità continua» [Tobino 1982, 57]. Un luogo la cui esistenza risulta fondamentale «per il bene dei malati», ma anche «una tale congregazione produce una continua sorgente di interessi e nella campagna intorno il manicomio è guardato come un faro che sparge abbondanza» [Tobino 2018, 25; Tobino 1982, 57]. Nonostante i suoi sforzi la storia si è mossa in altra direzione – «forse l’emblema della giustizia e del progresso»? [Tobino 1982, 113] –, il «bel bastimento» viene «ancorato in una rada» e «per ordine superiore non naviga più» [Tobino 1982, 113]. Con l’addio di Tobino la sua Magliano, «fantastica e veritiera mente», «lentamente si esangue, pateticamente si scolora» [Tobino 1982, 111, 113]. Per alcuni anni gli è concesso di rimanere in quelle stanze, attendendo l’uscita degli ultimi malati e che «i suoi legni e la carne degli ospiti marciscano; tutto si faccia polvere» [Tobino 1982, 113]. Così il bastimento tacitamente ancorato «nella rada, nell’insenatura, in un solitario porto che a volte ha dell’innaturale» si offre alla stagione dell’oblio [Tobino 1982, 114].

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PAOLO BERTONCINI SABATINI, EVA KARWACKA CODINI

4: Testata di una delle ali destinate a dormitorio

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Conclusioni Oggi l’ospedale versa in uno stato di generale abbandono ad esclusione di un corpo di fabbrica isolato dove ha sede la fondazione istituita per valorizzare la grande eredità culturale di Tobino. La quasi totalità delle sue strutture risulta inaccessibile o pericolante a causa dell’avanzato stato di degrado di molte di esse, ma se il decadimento avanza le proposte di valorizzazione e recupero continuano a stagnare. Tuttavia l’interesse della comunità locale per il suo destino è grandissimo, come attesta la partecipazione che ogni volta si registra in occasione dell’apertura straordinaria di quei settori ancora accessibili dell’articolato ed estesissimo complesso. Come un castello, la sua mole definisce il paesaggio depositandovi l’espressione inconfondibile di quel sottile e seducente equilibrio tra monumentalismo e rigore che esprime il risultato più alto dell’architettura lucchese del XIX secolo, grazie a figure come Lorenzo Nottolini e lo stesso Pardini. Una qualità questa, di misura e proporzione, cui si dovrà necessariamente aspirare nel pianificare il risanamento dell’impianto e dell’intero colle nell’ottica di una sua possibile riconversione. Nel futuro di questa utopica cittadella all’interno del più ampio sistema regionale la creazione di una casa di detenzione incentrata sul lavoro dei reclusi potrebbe rivelarsi fondata. Negli ultimi due decenni i continui annunci riguardo il lancio di un piano straordinario per le carceri nel nostro paese, come risposta strutturale al sovraffollamento degli istituti esistenti, ha rimesso in moto la discussione sull’edilizia penitenziaria, oltre a quella sull’eventuale ruolo del management privato per integrare le risorse e ottimizzare i tempi di realizzazione, ma la determinazione prioritaria sembra rimanere la costruzione di nuovi impianti in aree extraurbane. Ancora carente una profonda riflessione sulla possibilità di creare all’interno dei penitenziari spazi di lavoro e formazione volti a superare condizioni inumane e degradanti, come richiesto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e per le quali l’Italia è stata già sanzionata. All’architettura compete la definizione di una rete di relazioni che si misurino nello spazio e nell’ambiente sociale secondo i parametri che le sono propri, superando il concetto di isolamento in direzione di una maggiore considerazione dei rapporti umani. Alcuni significativi progetti di questi ultimi anni – oltre il caso emblematico del carcere di Halden in Norvegia possono citarsi vari tentativi nazionali – hanno evidenziato l’importanza delle esperienze formative in grado di valorizzare il detenuto nell’ottica del suo effettivo reinserimento nella società. La concezione urbanistica di Maggiano, per l’intrinseco e peculiare connubio tra natura ed edificato in un tutt’uno di eccezionale rilevanza architettonica e paesistico-ambientale, appare perfettamente rispondente alla realizzazione di molte delle condizioni per le quali possano crearsi i presupposti necessari alla creazione di quella comunità avanzata e socialmente utile così vicina alla concezione di Tobino. Nonostante la cessazione completa di qualsiasi attività nel 1999, l’incuria e la desolazione che inesorabilmente avanzano, la «ben concreta» cittadella lucchese rimanda ancora quell’idea di «robustezza» evocata dalle parole del celebre psichiatra [Tobino 2018, 25]. Il suo pensiero dimora in questo luogo, ne pervade le «infette mura» che «udirono la malinconia», in una straordinaria rispondenza tra conformazione fisica degli spazi e architettura della paranoia: «Mi sveglia di notte uno strano fragore. È più che un baccano, qualcosa di orgiastico. Che siano streghe che ballano? Qui il loro sabba? Che qui a Magliano le streghe abbiano piantato le scope, i loro gagliardetti?» [Tobino 1982, 25, 85, 123].

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PAOLO BERTONCINI SABATINI, EVA KARWACKA CODINI

La salvaguardia di questo patrimonio, nella sua consistenza materiale e culturale, dovrà necessariamente confrontarsi con la trasmissione di questa memoria nell’impegno a fornire nuove risposte ad altre forme di disagio.

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Sitografia www.fondazionemariotobino.it/content.php?p=8.1 (maggio 2018).

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Ripensare lo spazio della follia. Il caso-studio del complesso di Sant’Eframo Nuovo a Napoli Rethinking the space of madness. The case-study of Saint Ephraim Monastery in Naples

ANTONELLA BARBATO DIARC – Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract Il presente contributo si inserisce nell’ambito della ricerca sullo spazio della detenzione e della follia. In esso si vuole indagare in primo luogo la natura di questi spazi, la loro accezione eteropica in riferimento alla filosofia di Michel Foucault e successivamente il loro ripensamento persa la loro funzione originaria a seguito della dismissione. La riconnessione di tali “spazi altri” si lega al tema del progetto di riuso, al suo ruolo di strumento capace di riqualificare l’esistente e conferirgli nuova linfa vitale, per far rivivere con fluidità luoghi, armonie e volti. È evidente la complessità della gestione di tale progetto, indispensabile per riconnettere tali edifici al contesto urbano. Infatti, molti sono gli aspetti che devono essere considerati per l’avvio di tali azioni di restituzione alla città del manufatto: dalla conservazione nelle sue stratificazioni storiche, alle questioni tecnico-progettuali e alla memoria, tassello indispensabile e promessa di continuità.

This contribution is part of the research on the space of detention and madness. In it we want to investigate first of all the nature of these spaces, their heteropic meaning in reference to the philosophy of Michel Foucault and afterwards their rethinking lost their original function as a result of their disposal. The reconnection of these “other spaces” is linked to the theme of the reuse project, to its role as an instrument capable of requalifying the existing and giving it new lifeblood, in order to revive places, harmonies and faces with fluidity. Is evident the complexity of managing this project, essential for reconnecting these buildings to the urban fabric. In fact, there are many aspects that must be considered for the return of the building to the city: from conservation in its historical stratifications, to technical-design issues and to memory, an indispensable piece and a promise of continuity.

Keywords Manicomi, Stigma, Eterotopia. Asylum, Stigma, Eterotopy.

Introduzione «Non si vive in uno spazio neutro e bianco; non si vive, non si muore, non si ama nel rettangolo di un foglio di carta. Si vive, si muore, si ama in uno spazio quadrettato, ritagliato, variegato, con zone luminose e zone buie, dislivelli, scalini, avvallamenti e gibbosità, con alcune regioni dure e altre friabili, penetrabili, porose» [Michel Foucault]. Era il 1968 e Sergio Zavoli, giornalista della televisione italiana, realizzava per tv7 il servizio inchiesta “I Giardini di Abele” incontrando nel manicomio di Gorizia il direttore, psichiatra e neurologo italiano, colui che ha dato vita alla concezione moderna di salute mentale e ispiratore della successiva Legge 180/87 che porta il suo nome, . Il

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giornalista, con un primo piano in prospettiva quasi centrale della periferia goriziana vista dalla sua auto apre il suo servizio con le seguenti parole: «I malati di mente li troviamo sempre in fondo a un viale di periferia. Forse perché la loro immagine non turbi la nostra esistenza. A Gorizia sono al limite estremo della città, un muro di cinta dell’Ospedale segna un tratto di confine tra lo stato italiano e quello Jugoslavo», a questo punto il servizio continua con una lenta ma densa narrazione, che indaga e mostra la nuova realtà dei manicomi, entrandoci e esplorandone i giardini, che definirà molto poeticamente “I giardini di Abele” o meglio i giardini dei “fratelli scomodi”. Poche parole, ma grande potenza delle immagini, con cui Zavoli ci mette di fronte immediatamente a due verità: l’esclusione della diversità, in una società che non ha al centro la salute del malato ma la difesa di sé e l’esclusione che avviene con un allontanamento fisico dal centro della città, verso la periferia o entro di essa attraverso la costituzione di limiti. Effettivamente indagare lo spazio della follia significa porsi innanzitutto la domanda riguardante il perché l’uomo ricerchi la separazione dall’indesiderabile e perché desideri il loro allontanamento, così da poter successivamente esplorare e comprendere l’architettura che egli costituisce per mettere in atto l’isolamento. Le considerazioni circa queste ragioni ci portano immediatamente alla comprensione stessa degli spazi e della loro struttura. Passaggio necessario se di questi spazi, a seguito, si pensa anche di fare altro. L’oggetto di questa riflessione è lo spazio della follia come già accennato, ma è anche e soprattutto l’architettura “esclusiva”, quell’architettura che esclude dalla società una determinata categoria sociale, escludendo automaticamente sé stessa. L’indagine muove dai suoi caratteri distintivi, sia della fabbrica, sia dal punto di vista “posizionale”, rispetto la città.

1. Lo spazio della follia: stigma ed eterotopia Nel momento esatto in cui si pronunciano le parole “malattia mentale” si evoca la parola “stigma”. Cosa significa stigma e cosa stigmatizzare e perché lo facciamo? Stigma viene dal greco, e significa marchio, stigmatizzare (dal greco στιγματίζω) è appunto “imprimere un marchio”. Le problematiche relative all’accettazione del diverso seguono nella storia la costante apposizione di un segno che permetta di distinguere quello che riteniamo sia altro da noi. Nell’età classica il diverso si marchiava fisicamente, cioè sul corpo, seppure non avvenisse una sua separazione “spaziale” dalla società. Vediamo come, successivamente, “il marchio fisico” cominci, a poco a poco, a coincidere con quello psicologico, il pregiudizio, e si traduca nell’atto all’allontanamento del diverso. Prima il lebbroso, poi l’appestato, dopo il folle. A oggi, stigmatizzare è divenuta una parola che, nel suo uso comune, fa riferimento principalmente alla cerchia delle patologie mentali, perché l’uomo ha paura di esse, più di ogni altra cosa, più del lebbroso e dell’appestato per cui oggi vi è cura, e ne ha paura soprattutto perché tende ad identificarsi più che con il corpo, con la sua mente. La paura della patologia mentale dalla sua indiscussa imprevedibilità e dalla presunta, quanto inevitabile, caduta dei legami sociali. Quindi è per questo, in fondo, che stigmatizziamo i malati di mente, impauriti dalla possibile perdita di normalità. Su questo rimando alle parole del sociologo canadese, Ervin Goffman, che proprio sullo “stigma” elabora una vera e propria teoria: «Definirò normali noi e quelli che non si discostano per qualche caratteristica negativa dai comportamenti che, nel caso specifico, ci aspettiamo da loro. I normali credono che la persona con uno stigma non sia proprio umana. Partendo da questa premessa pratichiamo diverse specie di discriminazioni, grazie alle quali gli riduciamo, con molta efficacia anche spesso inconsciamente, le possibilità di vita. Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una

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ideologia atta a spiegare la sua inferiorità e ci preoccupiamo di definire il pericolo che quella persona rappresenta, talvolta razionalizzando un’animosità basata su altre differenze, come quella di classe» [Goffman 2003, 15]. Tendiamo dunque ad attribuire un marchio al diverso e accettando la sub-umanità degli altri creiamo anche architetture inumane, come vere e proprie roccaforti utopiche capaci di separare i folli dai normali. Luoghi non propriamente di cura ma di custodia, sequestro e reclusione. Depositi di corpi da nascondere di cui i manicomi sono un’espressione. Quest’ultimi, nati nell’ottocento e dai progressi in materia psichiatrica del tempo, si pongono sin da subito come delle architetture dell’esclusione. Essi sono fuori dal centro urbano, fuori per non essere visti, e se sono dentro, in qualche modo si trova il modo per occluderli alla vista dei cittadini. I manicomi sono “eterotopie”, volendo prendere in prestito la definizione foucaltiana. E lo sono nella misura in cui con essi si applica un “potere disciplinare” che investe i corpi che li occupano ritagliando lo spazio e il tempo riducendoli a niente più che numeri. L’accezione di eterotopia che attribuiamo ai manicomi è un concetto che Michel Foucault introduce in una sua conferenza del 1966 designando un certo tipo di luoghi situati in continuità con gli altri ma che da questi sono contemporaneamente differenti. Luoghi che si oppongono a tutti gli altri e sono “destinati a cancellarli e compensarli, a neutralizzarli. “Contro spazi”, dunque, che hanno realtà fisica, si collocano nella nostra esperienza ma contestano l’uso ordinario dello spazio vissuto. Le eterotopie, e nel nostro caso gli spazi della follia, hanno sempre un sistema ben definito di apertura e chiusura; l’isolamento è cercato e voluto. L’individuo che le attraversa si trasforma e diventa altro da sé mutando contemporaneamente il rapporto che ha con la realtà e il tempo. Nelle eterotopie si è contenuti, esclusi e controllati. La comunicazione all’esterno viene deviata, più spesso ancora negata. Riferendoci ancora alla filosofia di Foucault, possiamo individuare le peculiarità degli “spazi disciplinari” e comprendere facilmente come essi possano essere i limiti stessi da superare per il riuso del patrimonio manicomiale, che in Italia si configura come una costellazione di oggetti disseminati sul territorio nazionale spesso in grave stato di abbandono. I manicomi sono innanzitutto chiusi, all’esterno e in sé stessi. In essi ritroviamo anche costantemente una rigorosa suddivisione funzionale così come accade per tutti gli spazi disciplinari, suddivisi e parcellizzati in modo tale che ogni individuo sia al suo posto (il “quadrillage di Foucault”). Il controllo è totale; avviene sui corpi e su tutte le attività che essi svolgono; Il tempo è scandito, intriso di potere e penetra il corpo, gli spazi non dialogano, si evitano; i percorsi sono complicati, settorializzati, gerarchici e interrotti dall’apposizione di mille cancelli. Ripensare, pertanto, un ex Ospedale Psichiatrico significa, volendo tentare una sintesi di quanto detto, fare i prima di tutto, un passato dolente; passato contenuto in celle o stanze, che seppur non sono più depositarie dei corpi, sono custodi di una memoria dolorosa fulcro da un lato dell’identità del luogo e testimonianza storica, dall’altro motivo stesso di oblio da parte della collettività che perpetra l’esclusione. Successivamente, bisogna ragionare sui confini. Muri di cinta, torrette e sbarre. Infine, ma non meno facile il confronto avviene con l’intricato e gerarchizzato tessuto interno. Una geografia di microspazi alienanti. Spazi bianchi, non solo per la loro asetticità, ma perché in essi, così come per il colore che contiene tutti quelli dello spettro elettromagnetico, sono state contenute tutte le modalità comportamentali umane considerate devianti.

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1,2: Posizione del complesso nel quartiere e pianta del piano terra del complesso di Sant’Eframo Nuovo – Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario.

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2. Il caso studio di Sant’Eframo nuovo. Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli L’architettura manicomiale italiana offre, come abbiamo già detto in precedenza, un vasto numero di episodi disseminati sulla penisola che si collocano spesso, ma non sempre, al margine della città, lontano dal suo centro. Nei processi di espansione, essi sono stati molto spesso assorbiti dalla città stessa che prima li aveva esclusi e in molti casi oggi urge la necessità di ripensare, in quanto ancora parzialmente abbandonati, una nuova vita per queste strutture laddove ancora nulla è stato fatto. Il complesso del quale si parla è l’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Sant’Eframo Nuovo di Napoli, la cui la storia occupa un arco temporale lungo più di quattrocento anni e racconta di due storie che si intrecciano. Da un lato la storia dei manicomi italiani, che rispondono nell’impianto tanto alle regole giuridiche, tanto alle concezioni della psichiatria; dall’altra invece, quella dei grandi complessi conventuali che, a seguito della soppressione degli ordini religiosi, hanno visto la loro destinazione d’uso cambiare e con essa l’articolazione spaziale, spesso stravolta o arricchita da continue aggiunte di scarsa qualità. Sant’Eframo Nuovo di Napoli è situato in Via Matteo Renato Imbriani nel rione Materdei (figg. 1-2), adagiato tra il colle di Fonseca e il Colle della Salute in un’area esterna alla città murata, oggi a cavallo tra il quartiere Avvocata e il quartiere Stella. Il Monastero (fig. 3), i cui lavori cominciano pressappoco intorno al 1575, sorge su un fondo su cui si documenta la presenza di una casina e una villa, appartenente a Gianfrancesco di Sangro, principe di San Severo, acquistato dai frati cappuccini grazie alle elargizioni della nobildonna napoletana Fabrizia Carafa, moglie dell’avvocato Brancaccio. L’area è salubre e verde, perfetta per la costruzione della nuova sede principale dell’ordine dei frati cappuccini di Napoli. Il progetto fu ridimensionato nel tempo, e progettato per contenere 160 stanze per frati. Negli anni successivi la struttura si amplia, e in conseguenza della legge per la soppressione degli ordini monastici, viene riconvertita prima a “ospizio carcerario”, successivamente a “manicomio criminale”. Nel 1923, la legge Giolitti è in vigore da undici anni e uniforma i manicomi sul territorio italiano e di lì a poco, nel 1930, con il codice Rocco si introduce la categoria della pericolosità sociale e il principio della presunzione di pericolosità. Nonostante l’acceso dibattito sull’istituzione dei manicomi criminali, essi continuano ad essere costruiti. Precisamente Sant’Eframo sarà il terzo, in ordine cronologico, della serie di aperture inaugurata con Montelupo Fiorentino nel 1886 seguito da Reggio Emilia nel 1892. Ad esso seguiranno Barcellona Pozzo di Gotto nel 1925, Castiglione delle Stiviere 1939 e infine Pozzuoli 1955. Nel 1975 ci fu poi la sua conversione a Ospedale Psichiatrico Giudiziario in seguito alla riforma del sistema penitenziario italiano. Sant’Eframo funziona a pieno regime fino al 2008, anno della sua chiusura e così, vittima dell’abbandono, si trasforma in un enorme buco nero nel tessuto storico di Materdei finché nel 2016 viene occupato dal collettivo autorganizzato CAU Napoli, che dà vita all’ “ex OPG je so pazzo” allo scopo di rifunzionalizzarla e restituirlo alla collettività. È da queste vicende e dalla scoperta di questo manufatto che nasce un’esperienza di tesi, volta al ripensamento di questo peculiare spazio della follia che si colloca non al margine, ma nel cuore vivo della città storica e che, se da un lato ha forti valenze architettoniche, storiche e artistiche, dall’altro si pone come grande opportunità di trasformazione spaziale per disegnare nuove relazioni con l’intorno. Un edificio monumentale di cui urge l’apertura e la restituzione al quartiere attraverso il ripensamento di una nuova funzione, che esalti la sua accezione di patrimonio pubblico e condiviso, ma che riesca allo stesso tempo a confrontarsi con la complessa articolazione interna che si presenta come una somma di spazi

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3: Vista aerea del Complesso di Sant’Eframo Nuovo – Google Earth.

4: Programma per la rifunzionalizzazione del Complesso di Sant’Efremo Nuovo.

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frammentati dalle caratteristiche differenti. Il progetto contemporaneo sull’esistente diventa, in questa esperienza, uno strumento per dialogare con le preesistenze architettoniche, istituire relazioni dinamiche tra il passato e presente e migliorare o risolvere problemi di fruibilità e accessibilità. L’obiettivo è quello di contaminare lo spazio esistente attraverso, se necessario, nuovi volumi di elevata qualità architettonica che possano risolvere discrasie e insufficienze. Riorganizzare i percorsi interni ed esterni così da superare i problemi non solo di connessione con il tessuto di Materdei, ma anche di attraversabilità interna compromessa a seguito dei numerosi rimaneggiamenti legati all’adattamento della struttura alla funzione reclusiva. Un superamento dunque dell’obsolescenza, attraverso un progetto che prevede “mixitè funzionale” (fig. 4) e che agisce sinergicamente su tutto l’edificio, tenendo conto di tre aspetti fondamentali: la conservazione della memoria, la riconnessione del tessuto esistente e il rafforzamento delle funzioni sociali, incrociando attrezzature e dotazioni di quartiere così che la struttura possa essere aperta a un ampio ventaglio di visitatori. Da qui l’idea di un museo della memoria, capace di restituire alla città l’intera storia di S. Eframo Nuovo. Un percorso nei luoghi della follia, istallato nelle celle e nella chiesa attigua. Uno studentato-foresteria nella parte che un tempo era riservata agli alloggi miliari, che dà su Via Imbriani, composti da ampi spazi ariosi e voltati a crociera nella quale si cercano di sperimentare anche soluzioni architettoniche temporanee che non compromettano o aggravino la spazialità già molto complessa. Un complesso di social housing, data l’emergenza abitativa e le problematiche legate all’accoglienza dei migranti. Infine, la disposizione di un parco e orti urbani nell’area degli ex cortili di passeggio, di accesso libero alla cittadinanza, come spazi di integrazione, cultura e condivisione di pratiche, nonché promotori di sostenibilità urbana. Un’operazione che permetta l’adattamento al cambiamento dei tempi, la valorizzazione del bene e non la sua cristallizzazione temporale, attraverso un progetto che lavori sulla risoluzione delle disconnessioni a tutte le scale, su tempi di fruizione distinti per i diversi fruitori che si servono delle nuove attività, ma che cerchi di renderli continuativi nel tempo. Una risignificazione del “contenitore” affinché esso divenga parte della vita quotidiana della collettività, luogo dove ritrovare e riscoprire la socialità.

Conclusioni Il ripensamento di un grande contenitore nel pieno della città storica, come Sant’Eframo, offre l’opportunità di stabilire nuovi equilibri tra trasformazione e conservazione, risignificare un manufatto dalla forte valenza storico artistica riuscendo ad innescare meccanismi di rigenerazione urbana senza perderne in memoria, conferendo nuova vivacità comunicativa e senso identitario allo spazio stesso, ma anche all’intorno. Un’azione di questa portata richiama anche a diverse tematiche, che in questo documento non vengono trattate ma che, è opportuno ricordare: La questione del linguaggio progettuale da adottare nel confronto antico-nuovo, l’invasività costruttiva, la reversibilità dell’intervento e la compatibilità materica. Si comprende come il riuso dell’esistente sia un insieme di complessi processi architettonici, ambientali, economici e sociali che permettono di ricucire la frattura generata dalla dismissione e inserire, dove possibile, nel contesto della città storica nuovi punti di riferimento visivi. Lavorare sull’esistente, ancora di più quando esso è intriso di memoria dolorosa, è un percorso aspro e in salita ricco di complessità. Ma gli architetti, davanti le salite e le complessità, dispongono del progetto come strumento atto alla ricerca di una soluzione. Una che corrisponda alla “buona soluzione” che Giorgio Grassi a suo tempo

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indicava come espressione evidente del problema da cui muove. “Il suo problema, la sua ragione di essere”.

Bibliografia AUGE’, M. ( 1993). Non Luoghi. Milano, Eleuthera. FERRARO, I. (2006). Atlante della città storica, Napoli, Oikos, vol. 4. FOUCAULT, M. (1975). Surveiller et Punir. Naissance de la Prison. Paris, Edition Gallimard. FOUCAULT, M. (2006). Utopie. Eterotopie, a cura di A. Moscati. Napoli, Cronopio Edizioni. FOUCAULT, M. (2011). Storia della follia nell’Età Classica, a cura di M. Galzigna. Milano, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli. GAMBARDELLA, A., AMIRANTE, G. (1994), Napoli fuori le mura. La Costigliola e Fonseca da platee a borgo. Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 55-58. GOFFMAN, E. (2003). Stigma. L’identità negata. Verona, Ombre Corte Edizioni. I Complessi Manicomiali in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di C. Ajroldi, M.A. Crippa, G. Doti, L. Guardamagna, C. Lenza e M.L. Neri. Milano, Electa, pp. 368-376. SANTANGELO, M. (2017). Architetture di Ri-Connessione. Progetti per il recupero del Complesso di S.Efremo Nuovo ex OPG di Napoli. Sicuracusa, LetteraVentidue Edizioni.

Sitografia www.liberopensiero.eu/2018/02/09/napoli-ex-opg-je-so-pazz/ (febbraio 2018) www.labsus.org/2017/07/dovera-prigione-abbiamo-fatto-liberta-benvenuti-allex-opg-je-so-pazzo-di-napoli/ (Luglio 2017) http://www.rainews.it/dl/rainews/media/I-giardini-di-Abele-Sergio-Zavoli-nel-manicomio-di-Gorizia-f059e43d- e324-40a7-8ae7-81cad653bdb8.html

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L’ex frenocomio di San Girolamo in Volterra: da convento a villaggio manicomiale, a Spedali Riuniti, al parziale abbandono. Si può “riordinare la follia”? The former bedlam of San Girolamo in Volterra: from a convent to an asylum village, to Spedali Riuniti, to the partial abandon. Is it possible to "reorganize madness"?

MARIA EVELINA MELLEY, DONATELLA BONTEMPI Università di Parma

Abstract Lo stato dell’ex manicomio di Volterra è il risultato di trasformazioni fisiche e funzionali derivanti dai mutamenti della percezione del malato di mente nella società ed al quadro normativo: dalla fondazione nel 1888 nel convento di San Girolamo, all’istituzione dell’Asilo dei Dementi, a varie riforme mediche ed amministrative fino alla chiusura per la legge Basaglia. L’abbandono ne ha causato un repentino degrado ed il sito è oggi noto come set fotografico dark e precario museo spontaneo.

The state of the former madhouse of Volterra is the result of physical and functional changes resulting from the perception of the mentally illness in society and laws. It was founded in 1888 in San Girolamo convent and then it became Asilo dei Dementi. Over time, there have been various medical and administrative reforms and, after the closure by Basaglia law, the abandonment caused a sudden deterioration. Today, the site is known as dark photographic set and a spontaneous precarious museum.

Keywords Frenocomio San Girolamo di Volterra, rilievo architettonico, analisi funzionale. Madhouse San Girolamo in Volterra, architectural survey, functional analysis.

Introduzione Volterra è una cittadina collinare dell’entroterra equidistante da Pisa, Firenze e Siena. Di antica fondazione etrusca, la sua felice collocazione e le numerose miniere la resero fiorente anche in epoca romana e potente città-stato toscana, sede di una ampia signoria vescovile nel Medioevo e radiosa durante il Rinascimento sotto le signorie toscane. Dopo l’annessione al Regno d’Italia, in seguito ad un lungo periodo mediocre, la città scelse una strada che ne cambiò le sorti economiche e sociali: nel 1888 nell’ex Convento di San Girolamo fu insediato il primo nucleo del ricovero che diventò uno dei manicomi più grandi d’Italia, talmente famoso da essere citato nel Touring Club, con una superficie di oltre 500.000 mq, paragonabile a una volta e mezza il centro romano cinto da mura, per una popolazione massima di quasi 5000 [Nassi o Di Nasso 2008] ricoverati su una popolazione civile variabile tra i 15.000 ed i 20.000 abitanti [ISTAT]. Oggi il centro si mantiene con artigianato, soprattutto dell’alabastro, e turismo. Negli anni d’oro, le direzioni amministrativa e sanitaria lavorarono fianco a fianco su progetti innovativi quali ergoterapia (terapia del lavoro), no-restraint (nessuna contenzione) ed open- door (nessuna recinzione). Per alloggiare gli alienati, per i servizi e per la produzione, nel

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MARIA EVELINA MELLEY, DONATELLA BONTEMPI

1: Planimetria dell’area del manicomio rispetto al centro storico di Volterra e posizione delle sedi distaccate (Donatella Bontempi).

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tempo furono costruiti molti padiglioni ed officine, fonte di occupazione per i malati ma anche reddito per i “civili” e ricchezza per tutta la comunità. L’eredità di questa vicenda è costituita da oltre 30.000mq/100.000mc di edificato, una vera città dotata di tutti i servizi che è stata progressivamente dismessa con l’applicazione della L.180 del 1978 (Legge Basaglia). Oggi l’AUSL utilizza parzialmente le strutture, mentre la maggioranza degli spazi sono lasciati all’incuria e al degrado, con una situazione in rapido deterioramento. La soluzione applicata in più padiglioni è stata la privatizzazione con cambio d’uso, senza un piano generale che conservi l’identità e la riconoscibilità del “villaggio” che vi era insediato. Nella sua immagine spoglia e cruda, questo luogo pone profondi interrogativi relativi al suo destino, in qualche modo rispecchiando lo sguardo dei reietti che accoglieva.

1. La tipologia architettonica degli istituti di internamento e cura della pazzia Nella storia, i folli o pazzi furono perlopiù visti come pericolo, persone da allontanare dalla società assieme ad altre categorie di emarginati e criminali, considerati portatori di sventure o posseduti dal demonio. Gradualmente, dal ‘400 si istituzionalizzarono luoghi di segregazione per il ricovero volontario e coatto, a metà strada tra carceri e ospizi, nascosti dal nome di “ospedale”. Le condizioni di vita erano dure, scandite da punizioni e contenzioni, i medici vi entravano raramente e non erano somministrati trattamenti. Le idee illuministe, affermando i diritti dell’uomo, riequilibrarono in parte la situazione riportando il concetto di “follia” a quello di malattia mentale, distinguendolo da povertà e criminalità. In Toscana il governo dei Lorena ridusse il ruolo della chiesa nella gestione delle opere assistenziali e con la "legge sui pazzi" del 1774 l’assistenza ospedaliera fu sostituita alla reclusione. Si ripensò il trattamento medico e nacque la psichiatria. Il manicomio come struttura rimase però luogo di segregazione, detenzione e controllo, e presto gli obiettivi di cura e reinserimento in società furono accantonati in favore dell’isolamento. Nell’Ottocento nacquero i manicomi criminali: per malati di mente che avevano compiuto crimini e per persone impazzite per aver commesso reato. Le prime disposizioni promulgate dallo Stato Unitario, nel 1865, sancivano l’obbligatorietà del mantenimento dei malati poveri a tutela della salute pubblica, portando alla ricostruzione di molti ricoveri. Dal 1888 (Legge Crispi) fu data maggiore importanza alla professione medica e gli studi scientifici sull’origine e sulla catalogazione della malattia mentale ebbero notevoli ripercussioni sulle architetture. Si sperimentò sulla funzionalità delle strutture, dal punto di vista dell’adeguamento tecnologico e normativo ma soprattutto dell’attenzione alla qualità della vita. La progettazione degli spazi con verde e spazi ampi portò benessere morale oltre che fisico. Per una legge generale si attesero i primi anni del Novecento, quando l’esplosione del numero di ricoveri (più di 400.000 [Iaria & Simonetto 2003] e diversi scandali fecero cadere ogni resistenza: i principi ispiratori della Legge n.36/1904 Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati detta “Giolitti” furono l’importanza della valutazione medica, la possibile volontarietà e temporaneità del ricovero, l’abolizione dei mezzi coercitivi, nell’interesse della società e dell’infermo. Tra le righe, l’obiettivo principale rimaneva la custodia in segregazione: si assistette ad una grande opera di riorganizzazione e ricostruzioni ed il peso dimensionale dei manicomi nella città divenne superiore rispetto a molti altri edifici pubblici. Il movimento rivoluzionario che portò alla definitiva chiusura dei manicomi nel 1999 prese avvio negli anni ‘60 dalle idee di F. Basaglia, psichiatra direttore di ospedale di Gorizia e grande critico dell’istituzione psichiatrica. Portando al centro la figura del malato, Basaglia rese possibile il recupero del diritto di cittadinanza per i malati di mente. Propose come alter-

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MARIA EVELINA MELLEY, DONATELLA BONTEMPI

2: Planimetria dell’area: nomenclatura e uso degli edifici (Donatella Bontempi).

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nativa una rete di servizi territoriali collegati all’ospedale (centri di igiene mentale, comunità terapeutiche e case famiglia), il più possibile aperti al “fuori”, luoghi di transito e di ascolto. La Legge 180 varata nel 1978 rimase però a lungo ineseguita per ostilità della psichiatria ufficiale, politica e anche dei familiari, e per mancanza di fondi. I dati di censimento prima della chiusura definitiva del 1999 [Fondazione Benetton Studi e Ricerche 1998], restituiscono una panoramica interessante: 71 complessi superstiti in Italia, almeno uno per ogni città importante e maggiore concentrazione al nord, con una superficie complessiva di circa 1055 ettari di cui edificato circa il 10%, situati in centro (un quarto) o prima periferia urbana (due terzi) ma isolati e rivolti verso l’esterno (ma meno del 10% in territorio extraurbano). Metà su preesistenze conventuali, a volte residenziali, solo un decimo di nuova costruzione. La trattatistica disciplinare [Donghi 1893] codifica diverse tipologie di impianto che si possono riassumere nella combinazione di diverse tipologie architettoniche: preunitarie, preesistenze conventuali/militari/ospedaliere riadattate; preasilari, con forma e tipologia specifica dell’epoca di costruzione e radicalmente modificati o ricostruiti in età postunitaria; asilari ibride, con innesto di padiglioni o corpi su preesistenze a blocco compatto, che sono ben completate o intaccate o inglobate perdendo ogni centralità; asilari monoblocco lineare tipo ospedale; asilari a padiglioni, la forma moderna a padiglioni avvicinati con percorsi coperti e/o distanziati/disseminati con ampie corti, passeggiate con alberi e giardini. La distribuzione a scala sub-territoriale applica sia maglie razionaliste con impianto di tipo urbano, sia modalità libera a villaggio. Il modello imita una cittadella ideale o un’azienda agricola. Volterra segue proprio quest’ultimo, inglobando la preesistenza conventuale che viene via via riadattata alle funzioni necessarie. La struttura architettonica dei singoli edifici è standardizzata, con asse centrale di distribuzione funzionale e/o separazione donne/uomini, servizi o officine al piano terra e dormitori al piano superiore. Spesso la valenza paesaggistica prevale su quella architettonica, lo stile è eclettico ed il linguaggio architettonico si fa più complesso negli edifici di rappresentanza. L’insieme acquisisce un valore promozionale e di immagine della riabilitazione e della presenza di servizi e spazi di assistenza ma anche spazi per la vita aggregata e la ricreazione, oltre alla residenza protetta. Il sistema funziona in modo autosufficiente e la distribuzione degli edifici, che sembra casuale, risponde a calcoli approfonditi sulle distanze per la collocazione degli elementi, le norme igieniche e la salubrità dell’aria e degli spazi. Dal centro alla periferia, la pericolosità degli internati è decrescente, la vegetazione fa da barriera e zona di separazione ma permette il godimento della presenza del verde in simbiosi con l’ambiente.

2. Fondazione e sviluppo dell’ospedale psichiatrico di Volterra e legami con il contesto Il quattrocentesco convento francescano di San Girolamo al Velloso, abbandonato dal 1866 per la soppressione degli ordini religiosi, fu scelto nel 1884 come sede del Ricovero di Mendicità amministrato dalla Congregazione di Carità. Poco lontano, presso la chiesa di San Lazzero già dal Duecento è documentata la presenza di un ospedale isolato per lebbrosi che viveva di elemosine, donazioni e rendite [Furiesi & Guelfi 1997]. Dal Seicento, i malati avevano lasciato il posto a poveri bisognosi di un ricovero, ma anche a “vecchi e pazzi”. Dal 1875 chiesa e monastero erano di proprietà del Comune assieme alle pertinenze (camposanto, orto, bosco con cappelle e appezzamento “Le Vigne” con viti, olivi e seminativi

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3: Planimetria dell’area: rilievo urbano e stato di conservazione degli edifici (Morena Iocolano ed Elisa Mezzadri).

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[Catasto Metrico Parcellare 1832]), ed erano era stati dati in uso al Consorzio Agrario per Scuola e Convitto. A sud di San Girolamo si trova la località “Il Villoso” con l’omonima fonte e podere, a est la località di Poggio alle Forche con il podere Poggio alle Croci in cui anticamente si erigevano i patiboli. A fine Ottocento, i malati mentali della provincia di Pisa andavano nel manicomio di Siena a carico dell’Amministrazione Provinciale e si cercava un’Opera Pia che li potesse ospitare e guardare (non erano previste cure) con una spesa minore. Nel 1888 la Congregazione di Carità stipulò una convenzione al ribasso e fu istituito il primo nucleo del manicomio di Volterra con la “sezione per dementi tranquilli” in cui furono trasferite da Siena quattro donne pisane. Il numero dei ricoverati crebbe velocemente grazie ad accordi con le province limitrofe, tanto che nel 1890 fu affittata una villa vicina per spostarvi la sezione femminile. Nonostante gli adeguamenti funzionali, presto il convento non fu in grado di sostenere il carico di ospiti con adeguati spazi e igiene e nel 1896 a spese della congregazione fu edificato nel bosco dei frati il primo padiglione del manicomio vero e proprio, progettato in stile “caserma” per 200 posti letto. La Congregazione promosse due progetti del “grande manicomio”, prima dell’Ing. Zanaboni (1891-94) e poi il Piano Edilizio Generale dell’Ing. Allegri (1894-99), ma l’iniziale idea di sviluppo assiale simmetrico fu abbandonata in favore di una distribuzione più libera e decisa volta per volta, che assecondasse i dislivelli e la prospettiva, servita da strade interne secondo la tipologia del villaggio manicomiale. Nel 1897, con 75 degenti, fu istituito l’Asilo Dementi con amministrazione separata dall’ospizio che, divenuto minoritario, fu trasferito all'attuale sede di Santa Chiara. Nel 1900 i degenti subirono un calo improvviso di 140 unità per trasferimenti, ma subito si pensò alla conversione in vero e proprio manicomio stringendo convenzioni con altre province toscane e più lontane. Nonostante alcuni oppositori, dal 1902 la crescita fu notevole e si realizzarono altri padiglioni disseminati sul versante ovest della collina, caratterizzati da ampi spazi.

3. Caratteristiche funzionali e fortuna delle fabbriche Nel 1902 la direzione fu presa dallo psichiatra Prof. Luigi Scabia, che ne fece il laboratorio di applicazione delle proprie idee precorritrici dei tempi. Il manicomio di Volterra fu baluardo di innovazione per la sperimentazione di terapie di controllo e cura della malattia mentale basate sul riconoscimento dell’importanza dell’ambiente di vita e del lavoro per l’equilibrio psicofisico. La gestione dei ricoverati avveniva in modo rigoroso con cartelle mediche e dietetiche, registri e censimenti. La direzione amministrativa ed il personale sanitario collaborarono strettamente con i progettisti per realizzare una vera e propria città autosufficiente all’avanguardia: lo sviluppo del complesso secondo un assetto informale procedette con continuità ed entro gli anni ‘60 furono riconvertiti o costruiti una cinquantina di edifici tra padiglioni per degenza, infermerie, gabinetti e laboratori scientifici, servizi generali, officine ed opifici, fabbricati rurali e colonie agricole esterne, depositi e magazzini, in grado di ospitare circa 4500 malati. Fino al 1910 non vi furono ricoverati pericolosi e fu possibile tenere sempre aperti i grandi cancelli che interrompevano le reti metalliche, senza muri di cinta. Nessuno si sentiva recluso, i malati erano liberi di passeggiare per i viali, di recarsi nel paese a lavorare o per svago, di fare gite rientrando alla sera. La vita manicomiale mimava quella reale e la piccola paga ricevuta serviva per lo svago personale (nel 1933 fu coniata una moneta interna). Erano previste attività ricreative e di gruppo.

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4: Schedatura di rilievo urbano e fotografico dell’area (Morena Iocolano ed Elisa Mezzadri).

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Il complesso si sviluppò secondo le necessità mantenendo i servizi nel nucleo centrale e decentrando gli spazi adibiti al lavoro. Infatti, tutti quelli che erano in condizione di farlo, sotto prescrizione medica e sotto sorveglianza degli infermieri, lavoravano per occupare il corpo e liberare la mente, per sentirsi utile ed elevarsi moralmente, ai fini della stabilizzazione della malattia e della guarigione. Era valorizzato il lavoro agricolo e di allevamento perché molti internati erano di origine contadina e perché la tranquillità della campagna permetteva vita all’aria aperta, libertà di movimento ed operosità secondo il motto “aria ed area”. Secondo Scabia, in città si sarebbe invece necessariamente rimarcato il senso di diversità del malato rispetto alle persone “normali”. Negli anni Trenta furono realizzate anche due sedi decentrate a sud di Volterra con dormitori, stalle, terreni lavorativi e abitazioni dei coloni. Furono costruiti cucina, forno e pastificio, frantoio. Oltre ai rifornimenti di cibo, si producevano mobili ed attrezzi nella falegnameria, officina fabbri e fornace, tessuti, abiti e calzature con servizio di lavanderia. Si produceva principalmente per autoconsumo, ma anche per l’esterno se la potenzialità eccedeva la domanda interna. Alcuni esercitavano anche attività intellettuali. Nei limiti del possibile, i lavori edili erano realizzati in economia con personale, attrezzature e materiali interni. Furono così portati a termine sterri e piazzali, terrazzamenti e giardini, modifiche alla viabilità e sbancamenti per l’areazione dei padiglioni, fondazioni ed opere murarie, impianti elettrici e manutenzioni. Alcuni padiglioni minori furono realizzati interamente dai ricoverati. Importante fu il contributo negli scavi del teatro romano di Volterra. Il primo censimento nel 1910 contò 800 degenti e fu chiaro il prestigio che il manicomio apportava alla città, oltre che il contributo economico in posti di lavoro. A quella data, non erano ancora previste strutture per ospitare i minori né i detenuti pericolosi. Con la prima guerra mondiale, il numero dei ricoveri crebbe repentinamente (1000 ca.) per le convenzioni stipulate con ospedali militari, centri di prima raccolta, amministrazioni provinciali e altri manicomi. Il Frenocomio diventò modello di asili realizzati al fronte. La Congregazione acquistò diversi terreni tra cui il Poggio alle Croci, scelto per la centralità rispetto ai terreni lavorativi e la vicinanza ai servizi generali, e nel 1919 fu istituito l’Ufficio Tecnico, che commissionò una generale ispezione e manutenzione dei lavori eseguiti non sempre a regola d’arte. Volterra fu duramente colpita dalla crisi del ’29 ed il Manicomio si confermò un punto fermo, con i suoi quasi 3000 ospiti, 39 padiglioni realizzati ed altri in costruzione, 400 ettari di terreno, 362 posti di lavoro [Furiesi & Guelfi 1997]. L’attività negli opifici era fervente, si continuavano le costruzioni e nel 1931 il manicomio prese un premio per operosità e pulizia. Era famoso per l’ambiente idilliaco e per le buone opinioni dei malati, che non venivano maltrattati né discriminati. Nel 1932 fu firmata la convenzione con il Ministero di Grazia e Giustizia per l’internamento di 550 “giudiziari”, criminali e ricoverati coatti violenti a disposizione delle autorità, i quali furono relegati nel famoso padiglione Ferri cinto da mura e controllato da sentinella. Le pesanti limitazioni alla loro libertà personale segnarono una svolta nella storia dell’ospedale psichiatrico. Grazie alle convenzioni con le province, nel 1934 la popolazione toccò quota 3700. Scabia non era ben visto dal fascismo, che lo fece allontanare e nello stesso anno morì. Sotto la successiva direzione De Nigris, nel ’39 si toccò il massimo storico di 4794 ospiti.

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5: Disegni di rilievo architettonico del padiglione Ferri (Morena Iocolano ed Elisa Mezzadri).

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4. Dal declino e abbandono alla riscoperta del valore culturale ed educativo Con la morte del prof. Scabia e gli anni della guerra, l’organizzazione che egli aveva creato andò sfaldandosi, anche per l’ambiguità dell’ergoterapia che, da autosostentamento dell’istituto, divenne sfruttamento quasi imprenditoriale del lavoro: paradossalmente, la logica produttiva imponeva di mantenere alto il numero di degenti. Si instaurò un regime di tipo gerarchico e repressivo, mentre sempre più i lungodegenti erano alienati dalla loro personalità, visti come irrecuperabili. Il padiglione giudiziario registrò presenze superiori alla capienza (fino a 1200) anche per politici che preferivano farsi interdire piuttosto che rischiare sorti peggiori, e fu bombardato come molti altri subendo danni. Nel dopoguerra le presenze crollarono a 1800, così come le risorse. Nel ’49 fu firmata una convenzione con il Ministero di Grazia e Giustizia per il ricovero di 500 minori corrigendi nella sezione “Istituto di Rieducazione minorenni” (tre padiglioni). Alcuni padiglioni furono comunque abbandonati dal ‘52. Nel ’58 si aprì un cantiere per la manutenzione generale dei padiglioni e delle strade: l’ospedale era fonte di reddito per tutta Volterra. Tuttavia l’ergoterapia fu progressivamente accantonata per terapie “convenzionali” e si consolidò il regime carcerario di rigido custodialismo. La Legge “Mariotti” del ’68, modificando il servizio sanitario ed affidando i servizi manicomiali agli ospedali, preoccupò i volterrani sulle sorti della loro fonte di reddito. Nel 1970 erano in funzione circa 15 fabbricati per 2000 ricoverati, più i servizi funzionali, e lavoravano quasi 900 persone [Nassi o Di Nasso 2008]. Scaduta nel ’63 l’ultima convenzione con il Ministero, si cercavano convenzioni con l’estero, ma presto si manifestò la trasformazione sociale verso una diversa gestione dell’Ospedale più rispettosa dei diritti e delle libertà dei malati, con ristrutturazioni funzionali e delle terapie, con apposita commissione (’73) di tecnici sanitari, amministrativi ed edili per studiare gli interventi opportuni al potenziamento dei servizi di cura ed assistenza. Fu di nuovo effettuata la manutenzione di quasi tutti i padiglioni. Nel ‘74 la direzione fu presa dal dott. Pellicanò, sostenitore della trasformazione del manicomio in comunità terapeutica. All’applicazione della legge 180 del ‘78, nell’Ospedale vivevano 530 internati e in case famiglia 100 ospiti ufficialmente dimessi. La struttura chiuse in modo definitivo nel 1996, riaccompagnando gradualmente i pazienti alla vita “normale” senza riversarli immediatamente in città. Grave debolezza organizzativa fu l’assenza di un piano ad hoc di riqualificazione e rifunzionalizzazione delle strutture smantellate, che furono parzialmente riconvertite nel 1984 per il trasferimento dell’Ospedale Civile, il quale ora convive con edifici abbandonati meta di curiosi e fotografi. Questo “turismo” ha tuttavia avuto un risvolto positivo nel portare all’attenzione della società e delle istituzioni il valore culturale del complesso e in particolare del pericolo di perdere la grande, unica opera d’arte murale: il graffito di 180 mt realizzato dal ricoverato Oreste Fernando Nannetti tra il 1958 ed il ’73 ed oggi protetto da una tettoria precaria e parzialmente asportato. Nel padiglione Lombroso è stato allestito un museo, saltuariamente aperto per visite.

Conclusioni L’esperimento idilliaco di vita campestre nella mimesi del lavoro e vita “normale” ebbe vita breve, degenerando nell’isolamento carcerario degli alienati fino alla constatazione dell’inutilità dell’istituzione. Oggi l’area sta irrimediabilmente perdendo la sua immagine unitaria a causa della progressiva privatizzazione di parti che sono riprogettate per altri usi

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senza una linea di salvaguardia complessiva del bene: la destinazione sanitaria è concentrata ad ovest, mentre la parte sud è stata riassorbita dall’abitato di Volterra. A nord si sta insediando la funzione ricettiva con tre diversi edifici, mentre i padiglioni più grandi sono inagibili e altri, pur ristrutturati, sono in disuso. La zona più famosa e caratteristica sul Poggio alle Croci è stata venduta a privati ed è in corso un progetto per residenziale di lusso e SPA. Tale eredità di cubatura edificata rappresenta, oggigiorno, un peso ingombrante sulle spalle delle pubbliche amministrazioni e non è pensabile che il luogo possa sopravvivere come museo di sé stesso senza autofinanziarsi; tuttavia la svendita pezzo a pezzo non tiene conto gli aspetti ambientali, paesaggistici e culturali, nonché di conservazione della memoria storica e delle vite vissute, sono altrettanto importanti di quelli delle singole architetture. Il lavoro di catalogazione dello stato di fatto di tutte le architetture e di individuazione dei perimetri e delle pertinenze non è stato agevole proprio per questa frammentazione di informazioni e di amministrazioni. L’approfondimento di conoscenza condotto attraverso il rilievo urbano, fotografico, architettonico e del degrado ha confermato il grande valore testimoniale di questo luogo nella sua complessità e vastità. La restituzione grafica attraverso il disegno delle consistenze edificate e dei percorsi urbanizzati ha permesso di leggere le vocazioni e le potenzialità di far rivivere il complesso con progetti unitari e funzionali, ma tuttavia, di fronte alla situazione attuale di progressivo distacco e perdita di parti – sia piccoli dettagli incisi dall’opera dell’artista, sia edifici destinati ad altri usi – non riesce a sciogliere gli interrogativi sul suo futuro.

Bibliografia AGOSTINI, E. (1968). Storia segreta di un'azienda agraria : la gestione ospedaliera di ieri e quella di oggi, Pisa, Tip. C. Cursi. BATTISTINI, M. (1930). La chiesa e il convento di San Girolamo di Volterra, Firenze, Vallecchi. BATTISTINI, M. (1932). Gli spedali dell'antica Diocesi di Volterra, Pescia, Tip. G. Franchi. CACIAGLI, C. (2000). Laboratorio Universitario Volterrano, Quaderno III, Pisa, ETS. CASTIGLIA, R.B.F. (2013). Frenocomio di San Girolamo a Volterra, in I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di C. Ajroldi, M.A. Crippa, G. Doti, Milano, Electa. CINCI, A. (1885). Dall’archivio di Volterra. Memorie e documenti, Volterra, Tip. Volterrana. CRISTICCHI, S. (2007). Centro di Igiene Mentale - Un cantastorie tra i matti, Milano, Mondadori. DI MARCO A. et. al. (2006). Nannetti Oreste Fernando, l'Uomo che cadde sulla Terra, in «Quaderni d’Altri Tempi numero speciale», a.2 n.6. online (www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero6/indexsf.htm). DONGHI, D. (1893 segg.) Manuale dell’architetto, Torino, UTET. FERRINI, P. (1954). Volterra, Volterra, Migliorini. FIORINO, V. (2011). Le officine della follia: il frenocomio di Volterra (1888-1978), Pisa, Ets. Fondazione Benetton Studi e Ricerche (1998). Per un atlante degli ospedali psichiatrici: Censimento geografico, cronologico e tipologico degli “asili” pubblici italiani al 31 dicembre 1996, con aggiornamento al 31 ottobre 1998. FURIESI, A. & GUELFI, C. (1997). Ospedale Psichiatrico, in Dizionario di Volterra, II, “La città e il territorio: strade, piazze, palazzi, chiese, ville e opere d'arte del Volterrano”, a cura di L. Lagorio, Ospedaletto, Pisa: Pacini Editore. I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento. Atlante del patrimonio storico-architettonico ai fini della conoscenza, PRIN 2008, a cura di L. Guardamagna, C. Lenza, M.L. Neri, Milano, Electa Mondadori. IARIA, A., SIMONETTO, C.E. (2003). Aspetti della storia del S. Maria della Pietà dall'unità al '900: leggi e regolamenti. In L'Ospedale S. Maria della Pietà di Roma, vol.III. Bari, Dedalo. IOCOLANO, M., MEZZADRI, E. (2016). Riordinare la follia. Analisi, rilievo, recupero e riqualifica dell’Ex Manicomio di San Girolamo in Volterra, Tesi di Laurea, Dipartimento DICATeA Univerità degli Studi di Parma. IRCANI MENICHINI, P. (2017). La chiesa e il convento di San Girolamo di Volterra (1445-1992), Volterra, Accademia dei Sepolti. LENZI, F. (2017). In centinaia a visitare i graffiti di Nof4 e un piano per salvarli. In «Il Tirreno Toscana» (online). NASSI O DI NASSO, A. (2008), Relazione Storica. Poggio alle Croci. Piano Attuativo. Recupero del complesso edilizio e dell’area dell’ex Ospedale Psichiatrico, Comune di Volterra.

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PAZZAGLI, P. (2014), La storia iconografica dell'ospedale neuropsichiatrico di Volterra, Siena, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra. PINI, O. (1908). L' open-door, la lavorazione nelle colonie e la custodia etero-famigliare nel Manicomio di Volterra : appunti di tecnica manicomiale, Ferrara, Tipografia Ferrariola. SCABIA, L. (1910). Il frenocomio di S. Girolamo in Volterra 1888-1910, Volterra, Stab. tip. A. Carnieri (Rist. 1985 Sovigliana-Vinci, La toscografica). STOK, F. (1988). Luigi Scabia e l'Ospedale psichiatrico di Volterra, Volterra, USL n. 15. N.O.F. 4 : Il libro della vita [Oreste Fernando Nannetti] (1981), a cura di M. Trafeli, Pisa, Pacini. TROVATO, S. (2016). Inventario dell’archivio dell’ospedale psichiatrico di Volterra, Volterra, S.E.

Elenco delle fonti archivistiche o documentarie Legge 14.02.1904 n.36. Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati.(Legge “Giolitti”). Legge 13.05.1978, n.180. Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori. (“Legge Basaglia”). Archivio ASL di Volterra, Ufficio Tecnico “Progetti”. Archivio ASL di Volterra, Indice O.P. S. Girolamo di Volterra.

Sitografia http://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=profist&Chiave=1 (maggio 2018). www.cartedalegare.san.beniculturali.it/index.php?id=445 (maggio 2018). www.museodellafollia.it/ (maggio 2018). www.spazidellafollia.eu/it/complesso-manicomiale/ospedale-psichiatrico-di-volterra (maggio 2018). www.studiotecnicobellucci.it/index.php?option=com_content&view=article&id=54%3Arestauro-del-convento-di- san-girolamo-in-volterra-adibito-ad-ostello-della-gioventu&catid=37%3Aspazi-pubblici&Itemid=59&lang=en www.uninfonews.it/lex-manicomio-volterra/ (maggio 2018). www.volterracity.com/volterra-ospedale-psichiatrico/ (maggio 2018). www.volterracity.com/volterra-san-girolamo/ (maggio 2018).

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LUOGHI DIMENTICATI, LUOGHI DELLA VERGOGNA: i campi di prigionia e di transito nazifascisti in Italia PLACES FORGOTTEN, PLACES OF SHAME: the nazi-fascist imprisonment and transit camps in Italy

FRANCESCO DELIZIA Ministero per i Beni e Attività Culturali e il Turismo ANDREA UGOLINI Università degli Studi di Bologna

Abstract In Italia durante il fascismo vennero istituiti più di 250 luoghi di detenzione e transito per ebrei, apolidi e oppositori del regime gestiti dalla milizia e dalle truppe tedesche. La vergogna per una delle pagine più oscure della nostra storia ha condannano all’oblio (quando non alla scomparsa) questi luoghi, privi ancora oggi di una legge che tuteli le vestigia delle II guerra mondiale. Il contributo intende fare il punto su ciò che resta di queste “città” anticamere dell’orrore e riflettere sulla loro mancata tutela.

In Italy, during Fascism, more than 250 places of detention and transit were established for Jews, stateless persons and opponents of the regime, managed by the fascist government and the German occupation troops. Shame for one of the darkest pages of our history has condemned to oblivion (if not disappearance) these places, still lacking a law to protect the vestiges of World War II. The contribution aims to take stock of what remains of these "cities", harbinger of horror, and reflect on their lack of protection.

Keywords Fascismo, campi di concentramento, tutela. Fascism, concentration camp, protection.

Introduzione “Italiani brava gente”, è questo il titolo di un film di guerra sulla campagna di Russia, per la regia di Giuseppe De Santis, del 1965 che delineava quello che per molto tempo resterà uno degli stereotipi più radicati e diffusi sugli italiani, sino almeno al pluripremiato film di Gabriele Salvatores Mediterraneo del 1991. Luogo comune conseguente a quella immagine che la nuova classe politica voleva dare agli alleati, di un paese unito e antifascista, vittima di una dittatura che invece sappiamo aveva riscosso ampio consenso fra le masse divenendo espressione dei suoi vizi, debolezze e miserie [Rosselli 1973]. Se, come in ogni stereotipo, anche in quello del bravo italiano è contenuto un nucleo di verità, questo non è comunque sufficiente a nascondere le gravissime responsabilità che l’Italia ebbe nel Ventennio e nella Seconda guerra mondiale in relazione a ciò che di tremendo e vergognoso accadde in quegli anni, specie in relazione alle politiche di internamento e concentrazionarie. Se, dunque, la costruzione di una immagine “ritoccata” non è stata sufficiente a eludere le responsabilità del nostro paese, ha tuttavia raggiunto un risultato significativo: oggi, a distanza di un settantennio e oltre, chi si interroghi sulle vicende di quegli anni e voglia aggiornarne la ricostruzione storica guardando oltre le versioni ufficiali, si confronta con

LUOGHI DIMENTICATI, LUOGHI DELLA VERGOGNA: i campi di prigionia e di transito nazifascisti in Italia.

FRANCESCO DELIZIA, ANDREA UGOLINI

1: “Apposizione di un cartello che indica un negozio ariano”, "Negozio ebreo chiuso per sempre", 1942, (Autore ignoto) (Sitografia 1). Con l’emanazione delle leggi razziali fasciste, un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi applicati fra il 1938 e il primo quinquennio degli anni ‘40, tra le tante restrizioni imposte agli ebrei, vi furono la chiusura delle attività commerciali. Le immagini datano, quella di sinistra, alla fine degli anni ’30 mentre quella accanto al 1942. lacune testimoniali dovute alla quasi totale scomparsa dei luoghi simbolo dell’adesione italiana al sistema di reclusione, transito e sterminio nazifascista. Il tempo intercorso consente oggi di collocare i fatti, i protagonisti e i luoghi nella giusta prospettiva, e il passaggio generazionale in corso, che vede scomparire anche i testimoni indiretti di questi fatti, rende urgente la revisione perché nella storia si cristallizzi la memoria e non l’immagine. (FD, AU)

1. “I campi del Duce” Nel giugno del 1925 venne emanato il Piano di Mobilitazione generale per l’Italia da adottarsi in caso di guerra, seguito, tre anni dopo, dal Testo delle leggi di Pubblica sicurezza e dalla conseguente stesura di schedari con gli elenchi delle persone ritenute pericolose o indesiderabili, «da arrestare in particolari contingenze» [Capogreco 1991, 665]. In quegli stessi anni la direzione generale di Pubblica Sicurezza iniziò ad elencare una serie di edifici, per lo più ville e castelli requisiti, fattorie, ex conventi, scuole o cinematografi dove internare i fermati e a individuare luoghi idonei, lontani dalle zone di guerra, dove erigere ex novo campi di detenzione: il primo di questi ad essere realizzato fu, a metà degli anni Trenta, quello di Pisticci, in provincia di Matera dove, in otto capannoni preesistenti, furono ospitati i detenuti politici come forza lavoro edile, artigianale e agricolo [Antoniani 1978, 80]. Se i primi internati furono quindi sovversivi e antifascisti, già condannati dal Tribunale Speciale, un numero considerevole fu rappresentato a partire dal ’39 da civili di origine slava della Venezia Giulia e dei territori occupati dell’ex Jugoslavia [Capogreco 2006, 78] – e, con le leggi razziali, dagli ebrei; inizialmente vennero fermati solo gli ebrei stranieri che, dopo l’ascesa al potere del Nazismo, avevano trovato in Italia un “rifugio precario” [Akademie der Künste 1995], e quelli italiani ritenuti "pericolosi" perché antifascisti. Limitatamente alla sola questione ebraica, si calcola che le località di «internamento libero», fossero all’incirca 200 mentre una quarantina i campi di concentramento vero e proprio [Capogreco 1991, 674], anche se gli storici ancora non concordano su queste stime.

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2: Veduta del Campo di internamento di Ferramonti di Tarsia (Autore ignoto) (Sitografia 2).

In una prima fase i campi vennero dislocati nel Centro Sud (Toscana, Umbria, Lazio Campania, Puglia, Lucania, Calabria) in zone particolarmente montagnose ed impervie; il più grande di questi, e forse il più noto, resta quello di Ferramonti di Tarsia in Calabria composto da 92 capannoni situati in un perimetro di circa 160.000 m² che arrivò ad ospitare più di 1600 persone fra uomini donne e bambini e fu il primo campo ad essere liberato dagli alleati [Capogreco 1987]. Con l’avanzare del fronte i campi del Sud Italia vennero abbandonati o liberati; solo dopo il settembre del ’43, con la nascita della Repubblica Sociale Italiana, vennero creati di nuovi luoghi di detenzione e raccolta nel Nord, riutilizzando spesso strutture preesistenti: ad Aosta fu allestito un campo presso la Caserma “Mottina”, ad Alessandria ne fu realizzato un altro per donne straniere a San Martino di Rosignano, ad Asti un campo sorse nei pressi del Seminario, a Vercelli nella Cascina Ara Vecchia; a Milano gli internati vennero alloggiati a San Vittore, a Sondrio presso gli Uffici Sanitari del Comune, a Mantova presso la casa di Riposo Israelitica; a Coreglia Ligure fu realizzato un campo come pure a Spotorno, mentre a Imperia i prigionieri vennero raccolti presso la Caserma, a Ferrara nel Tempio israelitico, a Forlì nell’albergo Commercio, a Monticello Terme nell’albergo Bagni, a Salsomaggiore nel castello degli Scipioni, a Reggio Emilia in alcune ville di campagna, a Ravenna presso le carceri, e ancora a Bagno a Ripoli presso la Villa La Selva; a Roccatederighi nel grossetano venne allestito un campo presso la Villa del Seminario, a Bagni di Lucca ne sorse un altro

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3: Campo di concentramento di Bolzano 1945 - Blocchi G, H, I, M, di infermeria, cucine, servizi, mensa SS e scorcio del blocco celle (Foto Luca Lorenzi, 2016) (Sitografia 3). presso la Villa Cardinali come pure a Vo’ Vecchio presso la Villa Contarini-Venier vicino Padova; a Venezia gli internati furono alloggiati nella casa israelitica di riposo del ghetto, a Verona nella torre comunale scaligera, a Tonezza del Cimone nella colonia “Umberto I”, a Senigallia presso la Colonia marina UNES; nel maceratese vennero invece allestiti campi a Urbisaglia e poi di Sferzacosta ed infine a Roma venne usato il carcere di Regina Coeli e, a Viterbo, quello di S. Maria in Gradi. Altri campi passarono direttamente sotto il controllo delle autorità tedesche e divennero, per lo più, Polizei-und Durchgangslager cioè campi di concentramento e transito come Fossoli, Bolzano-Gries, Borgo San Dalmazzo a Cuneo e San Sabba (l’unico campo di sterminio in Italia), vere e proprie anticamere, per ebrei e detenuti politici, dei Lager nazisti: i circa 5.000 internati politici e razziali che passarono da Fossoli ebbero come destinazioni i campi di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Flossenburg e Ravensbrück. (AU)

2. Cosa resta di tutto questo Di quello che fu la vergogna dei luoghi di internamento, materialmente, resta molto poco. Vuoi perché molti erano stati realizzati in edifici preesistenti che a fine conflitto ritornarono ad essere utilizzati per gli scopi per cui erano stati edificati o abbandonati e distrutti. Vuoi perché, quando realizzati ex novo, la povera consistenza materiale del manufatto, baracca o

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capannone che fosse, dimostrava la provvisorietà e la precarietà dell’insediamento stesso quando non la disonestà dell’imprenditore chiamato a realizzare il campo, rendendo difficile la sopravvivenza dei manufatti anche in relazione alla difficile natura dei luoghi. L’imprenditore romano Eugenio Parrini, molto vicino ad importanti gerarchi fascisti, fu colui che edificò il Villaggio Marconia, a Pisticci vicino Matera, il primo campo di internamento per politici e slavi, in un’area di bonifica; non è certamente un caso se il successivo campo affidato allo stesso imprenditore, in quegli anni impegnato in Calabria nell’esecuzione di operazioni di bonifica a scala territoriale, venne localizzato a Ferramonti di Tarsia in un’area ancora insalubre e malarica. A conflitto concluso in molti di questi campi vennero segregati gli ex-soldati dell'Asse in attesa che le autorità italiane o alleate esaminassero i loro casi; altri divennero campi di raccolta per i profughi come la Risiera di San Sabba che accolse i primi rifugiati italiani dell'esodo giuliano-dalmata; altri ancora luoghi di reclusione come Fraschette di Alatri e Fossoli, in cui finirono rinchiusi i profughi e gli ex-militari accusati di crimini civili come furti, aggressioni, borsa nera, prostituzione o violenze in genere (allora genericamente definiti “indesiderati”). Il caso di Fossoli si distingue in quanto il campo venne occupato dalla comunità di don Zeno Saltini, l’Opera dei Piccoli Apostoli, divenuta poi Nomadelfia, trasformando il complesso di detenzione, con l’aiuto di Sigmund Erlinger, un soldato tedesco già architetto, in un villaggio dove furono accolti gli orfani di guerra e i bambini abbandonati [Luccaroni 2016, 80]. L’Italia del dopoguerra, come si è visto, finì per offuscare la realtà dei fatti, producendo immagini distorte. La centralità della guerra di Resistenza, eroica pur nel sacrificio e nel martirio, lasciava ben poco spazio alle esperienze della deportazione (specie se ebraica) o alle politiche italiane di internamento, in molti casi con i suoi orrori verso civili inermi come furono gli slavi. Per comprendere il clima di imbarazzo che accompagnò, in quegli anni, i ricordi della Shoà, basti ricordare che Se questo è un uomo di Primo Levi venne inizialmente rifiutato dalla casa editrice Einaudi nel 1947, oppure che, quando fu pubblicato il bando per il progetto per il recupero della Risiera di San Sabba, venne richiesta la realizzazione di un “museo della resistenza” a dispetto delle migliaia di ebrei qui uccisi o da qui deportati; ed ancora che nella titolazione del museo realizzato a Carpi per non dimenticare gli orrori del nazismo dai BBPR, il deportato politico figura anteposto a quello razziale, e che nelle cartografie qui esposte figurano in prevalenza i campi dove vennero internati e uccisi i partigiani [Ugolini 2017, 28]. Una dimenticanza quindi, quella relativa al sistema concentrazionario in Italia, che ancora negli anni Ottanta del secolo scorso, faceva confessare a più di un sindaco del nostro paese di essere all’oscuro della presenza di campi nel territorio del suo comune [Capogreco 2006, 10]. Il campo di Borgo San Dalmazzo infatti, abbandonato per vent’anni, fu demolito a partire dal 1964 per realizzare una scuola, quello di Bolzano scomparve negli anni ’60 per far posto a case popolari, a Gonars, le baracche del più grande campo per «slavi» operante nella penisola fu raso al suolo ed analoga sorte subirono i campi di campo di Coreglia Ligure; dagli anni ’60 in poi, complice l'incuria delle autorità locali, il campo di Ferramonti di Tarsia venne utilizzato per attività agricole e poi progressivamente smantellato, fino ad essere attraversato dall’autostrada, al punto che oggi delle baracche degli internati non si è conservato quasi nulla. Solo il campo di Fossoli, come avremo modo di vedere, subì una sorte diversa. (AU)

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4: Fasi di formazione del campo di raccolta e transito di Fossoli, Carpi: a) Il Campo Vecchio nel maggio del’42; b) il campo Vecchio (in grigio) ed il campo Nuovo attendato nel luglio del ’42; c) l’assetto finale, il campo vecchio (in grigio) e (in nero) le baracche del campo nuovo. (Elaborazione grafica C. Mariotti e A. Zampini).

3. Un patrimonio da tutelare La fine della guerra non aprì, in Italia, una riflessione sulla tutela di questi luoghi della memoria; nel processo di costruzione di un’immagine esportabile della nazione, a cui si è fatto cenno, i luoghi dell’annientamento legalizzato attraverso la sistematica violazione dei diritti civili, degli eccidi, della complicità con le dittature di Hitler e Mussolini costituivano, prima ancora che luoghi della memoria, luoghi della vergogna, e come tali vennero frettolosamente obliterati. I rari provvedimenti di tutela, i memoriali, come del resto anche le pagine dei libri di storia, privilegiarono altre memorie, riservando un’attenzione del tutto marginale alle questioni razziali e alle deportazioni di massa. Il caso di Monte Sole, nei pressi di Bologna, è emblematico: scenario dapprima di uno dei più efferati massacri di civili operati dalle Reichsfürer-SS nel corso di una operazione caccia ai partigiani in un’area a ridosso della Linea Gotica, poi del passaggio del fronte, dopo un periodo di abbandono durato fino agli Ottanta, per effetto di una intesa tra Regione, Provincia, Comunità montana dell’Appennino Bolognese, comuni interessati (Marzabotto, Grizzana Morandi, Monzuno) vedrà la costituzione di un Parco storico regionale esteso all’intera area e una Scuola di Pace, con la l’intento di mantenere aperta la riflessione su quei dolorosi eventi e restaurare e conservare il patrimonio storico edilizio che ne fu teatro. Emblematico quindi soprattutto per i suoi destini postbellici; ma anche in quanto al riconoscimento del valore testimoniale, e sacrale, dell’area, e ai provvedimenti per la sua tutela e fruizione, concorrono la Regione Emilia-Romagna insieme con le amministrazioni e comunità locali [Ugolini 2015]. Come in altri analoghi casi, lo Stato, attraverso il MiBACT, esercita, con i decreti di vincolo, la tutela solo di alcuni episodi architettonici in quest’area: non si tratta di miopia culturale, piuttosto è una scelta di campo su quanto riservare al controllo degli organi centrali e quanto invece delegare alle amministrazioni sul posto. Ed è una scelta che recepisce la dimensione paesaggistica di questi complessi. Una dimensione comunitaria, che allinea la tutela di questi luoghi, in Italia, ai principi sanciti dai trattati internazionali, e in particolare dalla Framework Convention on the Value of Cultural Heritage for Society (Faro, 27 ottobre 2005), laddove

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questa “chiariva il concetto – già sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi 1948) e garantito dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Parigi 1966) – secondo il quale la conoscenza e l’uso dell'eredità culturale rientrano fra i diritti dell’individuo a prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità e a godere delle arti” [Ugolini 2018]. Nello specifico dei luoghi di internamento per motivi razziali, solo per alcuni di essi, e solo a distanza di decenni, si è aperta una nuova fase, di conversione in luoghi della memoria: una fase non di mera conservazione ma, necessariamente dopo un così lungo oblio, di recupero e ricostruzione, a partire dalle esigue testimonianze, della memoria. Ma la tutela è possibile solo se si riconosce, a queste testimonianze, una identità in quanto tracce di un sistema concentrazionario di estensione nazionale – e delle vite che attraverso il suo giogo sono passate – a sua volta inquadrato in un più ampio sistema europeo. Fondamentale alla tutela diventa un coordinamento e un indirizzo ai tanti sforzi effettuati a livello locale, dalle Amministrazioni ma anche dalle associazioni, società, fondazioni che a questa concorrono con il loro impegno. E invece si rileva che ancora oggi non esiste, presso il MiBACT, un censimento completo dei campi di internamento, transito e sterminio, né tanto meno una catalogazione dedicata a questi luoghi, gli strumenti propedeutici all’esercizio dell’azione di salvaguardia. Nel 2003 era stato presentato un disegno di legge, il n. 2069, con l’obiettivo di estendere le disposizioni di tutela dedicate al patrimonio memoriale della Prima guerra mondiale (legge n. 78/2001) alle testimonianze materiali della Seconda guerra, rimasto lettera morta. Il documento riflette l’esigenza di estendere le azioni dalla legge poste a fondamento della salvaguardia dei manufatti e paesaggi che custodiscono la memoria della Grande Guerra, ovvero ricognizione, catalogazione, manutenzione, restauro nonché gestione e valorizzazione del patrimonio storico, alle vestigia della Seconda guerra (dai rifugi antiaerei ai bunker, dai campi di concentramento e transito come Fossoli ai luoghi teatro di eccidi come Monte Sole, e si potrebbe continuare), altrimenti considerati episodicamente in ragione di uno “speciale riferimento per la storia politica” nazionale [Delizia 2017, 117-118] Pochissimi, dunque, i decreti di vincolo; quasi sempre parziali nei contenuti, in quanto la declaratoria privilegia, ed è il caso del Campo Fossoli, una fase all’interno di una storia complessa, ovvero in quanto includono nel perimetro sottoposto a tutela solo parte del sito interessato dagli eventi bellici, come ad esempio la Risiera di San Sabba. Da questo punto di vista, si distinguono proprio i decreti di vincolo emanati per Ferramonti di Tarsia e Fossoli, in quanto, includendo l’intera area originariamente occupata dal Campo nel perimetro di tutela, riconoscono anche alle porzioni oramai smantellate di esso, e quindi anche al “nudo luogo”, una importanza storica, un valore testimoniale da salvaguardare: alla data del decreto,1999, il campo di Ferramonti), totalmente smantellato è oramai un campo agricolo; stessa sorte era toccata all’area del Campo Vecchio di Fossoli che verrà vincolato nel 2011. (FD)

4. Fossoli 2012-2017: un’esperienza pilota Tra i campi che conservano ancora porzioni dei manufatti in cui furono reclusi ebrei e oppositori politici, quello di Fossoli nel modenese risulta essere sicuramente il meglio conservato e merita, in questa sede, una riflessione. Costruito nel 1942 per i prigionieri di guerra, il Campo fu trasformato dalla Repubblica Sociale Italiana, in campo di concentramento per ebrei e politici; dal marzo del ’44 fu utilizzato dalle SS come luogo di raccolta e transito per i campi di sterminio, mentre, a guerra finita fu luogo di detenzione per profughi stranieri, gli “indesiderabili”. Dal 1947 la struttura

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5: Volo dell’aprile del 2013 su ciò che resta del campo nuovo di Fossoli dopo il terremoto del 20121. svolse funzioni civili e per così dire ‘di riscatto’: sino al ‘52 ospitò la comunità di Nomadelfia di don Zeno Saltini e successivamente, con l’assegnazione dell’Istria alla Jugoslavia, il Campo divenne “Villaggio San Marco” per ospitare un centinaio di famiglie di profughi. I Giuliano Dalmati rimasero a Fossoli sino al ‘70 poi il complesso venne abbandonato e solo nel ‘84 il Campo fu concesso a “titolo gratuito” al Comune di Carpi. Dal 2001 ciò che restava del complesso venne gestito dalla omonima Fondazione ex Campo di Fossoli. Oggi rimane ben poco di quello che fu il luogo in cui transitò Primo Levi, dove sorgevano più di un centinaio di baracche, tra Campo Vecchio (il primo ad essere realizzato ma anche ad essere demolito nel dopoguerra) e Nuovo. Rimane il disegno e i resti di 27 baracche, dalla povera consistenza perché nate come strutture provvisorie (muri a una testa, assenza di intonaci esterni, calpestii contro-terra, coperture leggere in legno, manti in marsigliesi), poi rimaneggiate dagli usi che ne fecero i Piccoli Apostoli di Don Zeno e poi i Giuliano Dalmati (abitazioni mono e plurifamiliari, spazi di socializzazione, di istruzione e di lavoro), ed infine fortemente compromesse dai successivi decenni di abbandono e dal devastante sisma del 2012. Nello stesso anno la Fondazione, in accordo con MiBACT ed il Comune di Carpi, siglava con il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna una convenzione per la conservazione di ciò che restava di questo sito pluristratificato. Più unità di ricerca si

1 Archivio fotografico Fondazione ex Campo di Fossoli.

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occuparono delle fonti di archivio, del rilievo e della documentazione della consistenza materiale delle baracche, dello studio ed analisi della componente paesaggistica del luogo. Il Campo nel suo insieme presentava infatti problemi conservativi specifici, connessi alla fragilità delle strutture, alla scala dell’intervento, nonché al valore intrinseco della materia da salvaguardare e al delicato ed evocativo equilibrio fra ruderi vegetazione. Nel maggio del 2014, in base ad un protocollo fra enti proprietari, gestori e di tutela, la Direzione Regionale, mise in sicurezza tre baracche – la 8 (baracca delle guardie poi scuola), la 14.5 (baracca per prigionieri ebrei poi abitazione) e la 4.1 (baracca per prigionieri politici poi abitazione) – riassuntive di una situazione più generale da un punto di vista tipologico e conservativo, collocate in modo strategico nel contesto del Campo [Delizia 2 2017]. Per queste venne redatto un progetto di intervento a firma del prof. Paolo Faccio caratterizzato da puntuali operazioni di consolidamento e selettive rimozioni di porzioni di costruito, non più solidali all’edificato, per motivi di sicurezza [Faccio 2017]. Nel 2017 il MiBACT, a seguito dei risultati raggiunti, programmerà un intervento generale per la conservazione del Campo, per circa 3 milioni di euro previsti dal Piano Strategico Grandi Progetti Beni Culturali. Ciò che preme sottolineare in questa sede resta comunque l’importante convergenza tra interessi espressi da una comunità attraverso le sue associazioni e le amministrazioni a livello locale e Stato che, già col decreto del 2011 aveva riconosciuto dignità di bene culturale a tutta l’area occupata dal campo, comprendendo anche quegli spazi del Campo Vecchio in cui non sembra esserci più nulla, dove la dimensione dell’assenza può aiutare a comprendere la dimensione del dramma [Didi-Huberman, 2014, p.17]. Il protocollo e le azioni che si sono poi succedute, grazie alla determinazione di una Fondazione, finiscono quindi per rafforzare e valorizzare quello che a Carpi è già un sistema, a scala territoriale, per la conservazione della memoria incentrato sul campo di concentramento, ‘luogo della memoria’, sul Museo Monumento al Deportato nel Palazzo Pio, ‘luogo per la memoria’, sul centro di documentazione dove ha sede la Fondazione stessa. (FD)

Conclusioni Riconoscere dignità di patrimonio culturale alle testimonianze della Seconda guerra, e in particolare ai luoghi del dramma della reclusione, della deportazione e dello sterminio, comporta la messa a punto di una specifica strategia di tutela: essi infatti, esprimono valore soprattutto in quanto sistema. Si comprende bene come sia necessario istituire specifici criteri di archiviazione dei dati, di catalogazione delle testimonianze, e di intervento, atti tra l’altro a disciplinare la partecipazione delle associazioni che, a livello locale e nazionale, negli anni hanno tenuto vivo il ricordo delle ingiustizie e delle vittime. Dal 2011 esiste un progetto di ricerca e documentazione sui campi fascisti ideato e curato da Andrea Giuseppini e Roman Herzog, divenuto dal 2013 un sito web in continuo aggiornamento, grazie ad una convenzione con l’archivio Centrale dello Stato di Roma. A tutt’oggi risultano censiti circa 900 luoghi (fra campi di concentramento, lavoro coatto, transito, confino, internamento, soggiorno obbligato, carceri, campi per prigionieri di guerra e campi provinciali della RSI) non solo in Italia ma anche in Croazia, Eritrea, Etiopia, Libia, Slovenia e Somalia: di questi vengono forniti dati circa l’autorità da cui il campo dipendeva, la funzione, la tipologia di internati, la nazione in cui si trovano e, solo per l’Italia, Regione e Provincia. A fronte della indiscutibile qualità e importanza di queste informazioni, prima fra tutte la localizzazione di questi luoghi, poiché il progetto è interessato al solo periodo compreso tra il

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1922, anno della presa di potere di Mussolini, e il 1945 non vengono fornite indicazioni su quanto è accaduto negli anni successivi alla dismissione dei campi, né si trovano informazioni sulla consistenza materiale di ciò che resta e dei loro paesaggi. Si pensi invece a cosa è stato Fossoli anche nel dopoguerra, oppure all’importanza dei ‘nudi luoghi’ come il Campo vecchio sempre del complesso carpigiano o al ‘vuoto’ del campo di Ferramonti. A parte l’intimo legame tra le vicende belliche e quelle degli anni immediatamente successivi, unite in un’unica storia, la realtà attuale dei luoghi di memoria, solo possibile punto di partenza per un’efficace azione di tutela, anche quando esito di una lunga fase di smantellamento e di abbandono, della restituzione all’uso agricolo dei suoli o addirittura dell’indifferente scelta localizzativa di un tracciato autostradale, deve la propria forza evocativa proprio a queste discontinuità. Si pensi, ancora, a Fossoli: quello che negli anni Settanta poteva essere percepito solo come un villaggio autosufficiente, una borgata fuori dal centro di Carpi, ha via via perso i connotati che gli avevano impresso gli ultimi abitanti per svelare, ancora una volta, la storia dei fabbricati, e il carattere più autentico della natura dei luoghi. Si è parlato di salvaguardia di memorie fragili [Delizia 2017], in quanto affidate a materia fragile, al confine con l’immateriale, ma anche in quanto collocate in posizioni marginali nella Storia, e delle difficoltà connesse. Scrivendo queste note viene in mente che anche le fasi più recenti costituiscono un’ulteriore memoria da affidare alla storia, approfondendone la genesi nella consapevolezza che, dietro le politiche per il territorio non c’è ideologia, ma interessi ben più difficili da individuare. Se si accetta quindi che i siti del trauma sono comunque spazi fisici, favorire la lettura evento-luogo-paesaggio aiuterà a comprendere come il rapporto fra questi sia decisamente più intenso rispetto a quello prodotto da un segno memoriale. (FD, AU)

Bibliografia ANTONIANI PERSICHILLI, G. (1978). Disposizioni normative e fonti archivistiche per lo studio dell’internamento in Italia (giugno 1940 – luglio1943), in «Rassegna degli Archivi di Stato», gennaio-dicembre, pp. 77-96. CAPOGRECO, C.S. (1987). Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo di internamento fascista, Firenze, Giuntina. CAPOGRECO, C.S. (1991), I campi di internamento fascisti per gli ebrei, in «Storia contemporanea», n. 4, pp. 663-682. DE FELICE, R. (1993). Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi. AKADEMIE DER KÜNSTE (1995). Rifugio precario. Artisti e intellettuali tedeschi in Italia 1933-1945, Milano, Mazzotta. CAPOGRECO, C.S. (2006). I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einaudi. UGOLINI, A. (2015), When matter holds memories, when landscapes offer the promise of peace. Montesole more than half a century after the massacre, in Heritage in conflict memory, history, architecture, a cura di G. Cuetos, C. Varagnoli, Ariccia, Aracne editrice, pp. 123-138. RENDE, M. (2016), Ferramonti di Tarsia: origini e peculiarità del più grande campo di internamento per Ebrei dell’Italia fascista, in «Studi Umbri», Rivista digitale indipendente, n. 12. LUCCARONI, A. (2016), Il campo di Fossoli. Memorie, trasfigurazioni e palinsesto territoriale, in Il Museo Monumento al Deportato politico e razziale di Carpi, a cura di M. Luppi e P. Tamassia, Bologna, Bononia University Press, pp.75-85. UGOLINI, A. (2017). Strappati all’oblio, in Strappati all’oblio. Strategie per la conservazione di un luogo di memoria del secondo Novecento: l’ex Campo di Fossoli, a cura di A. Ugolini, F. Delizia, Firenze, Altralinea, pp. 23-33. DELIZIA, F. (2017). Il Campo di Fossoli nel quadro della tutela dei luoghi della memoria in Italia, in Strappati all’oblio. Strategie per la conservazione di un luogo di memoria del secondo Novecento: l’ex Campo di Fossoli, a cura di A. Ugolini, F. Delizia, Firenze, Altralinea, pp. 117-124.

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DELIZIA, F. (2) (2017), METTERE IN SICUREZZA: rilievi, analisi, primi interventi dopo il terremoto del 2012, in Strappati all’oblio. Strategie per la conservazione di un luogo di memoria del secondo Novecento: l’ex Campo di Fossoli, a cura di A. Ugolini, F. Delizia, Firenze, Altralinea, pp.125-129. DIDI-HUBERMAN, D. (2011). Écorces, Paris, Les Éditions du Minuit, (Trad. it., 2014. Scorze, Roma, Nottetempo). FACCIO, P. (2017). LA CONSERVAZIONE DELL’EX CAMPO DI FOSSOLI: sicurezza e conservazione di una memoria, in Strappati all’oblio. Strategie per la conservazione di un luogo di memoria del secondo Novecento: l’ex Campo di Fossoli, a cura di A. Ugolini, F. Delizia, Firenze, Altralinea, pp.131-137 MARIOTTI, C., UGOLINI, A., ZAMPINI, A. (2018). I bunker tedeschi a difesa della Linea Galla Placidia. Conservare un patrimonio dimenticato, in «ArcHIstoR», n.9, in corso di pubblicazione.

Elenco delle fonti archivistiche o documentarie Archivio del Centro di documentazione Primo Levi della fondazione ex-Campo Fossoli.

Sitografia https://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_razziali_fasciste#/media/File:Negozio_di_ebrei_chiuso_per_leggi_razziali_Itali a.jpg (maggio 2018) (fig. 1). http://www.ottoetrenta.it/cultura-e-spettacolo/sibari-la-shoah-raccontata-dalle-parole-di-una-sopravvissuta/ (maggio 2018) (fig. 2). https://it.wikipedia.org/wiki/File:Campo_di_concentramento_di_Bolzano_1945.jpg (maggio 2018) (fig. 3). http://www.campifascisti.it (maggio 2018).

Filmografia CALABRETTA, C. (2013). Ferramonti: il campo sospeso, film documentario. BARACCHI, F., ZAMPA R. (2014). Crocevia Fossoli, film documentario.

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Il patrimonio carcerario italiano come risorsa per una società più inclusiva: l’adeguamento degli spazi detentivi alle nuove esigenze di carattere trattamentale The Italian prison heritage as a resource for a more inclusive society: the adaptation of detention facilities to new treatment needs

MARINA BLOCK Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract Il tema della limitazione della libertà personale riguarda un patrimonio che pone sfide di ordine progettuale, tecnologico, ambientale, relative alla trasformabilità funzionale-spaziale e al miglioramento tecnologico-prestazionale di manufatti complessi. Lo studio comparato sul tema dell’adeguamento degli spazi detentivi, affidato al DiARC, mira a individuare le soluzioni architettoniche utili al raggiungimento di adeguate condizioni di vita all’interno delle strutture penitenziarie.

The limitation of personal freedom concerns a heritage that sets design, technological and environmental challenges, linked to the functional-spatial adjustability and to the technological and performance improvement of complex buildings. The comparative study about the detention spaces adaptation to the new treatment needs, entrusted to the DiARC, aims to identify the architectural solutions that can be used to achieve adequate living conditions within the penitentiary institutes.

Keywords Istituti penitenziari, riqualificazione, spazi del lavoro. Penitentiary Institutes, refurbishment, working spaces.

Introduzione L’edilizia carceraria, non sempre considerata nel dibattito architettonico e dal mercato della progettazione, affronta l’urgenza di avanzare proposte per problemi di natura sociale, legati alle condizioni di vita dei detenuti, ma anche fisici, di obsolescenza in cui versa il patrimonio penitenziario italiano. Come la casa, anche il carcere è uno spazio dell’abitare, talvolta temporaneo, molte volte permanente: questo richiede il ripensare l'architettura penitenziaria in termini di qualità dello spazio, rispetto della dignità degli individui, tramite azioni progettuali consapevoli, espressione di un atteggiamento culturale che rafforza il valore rieducativo della pena [Vessella 2016]. Tale pensiero risulta complesso nella realizzazione all’interno degli attuali piani urbani, imponendo da un lato di allinearsi con una normativa penitenziaria che privilegia l’integrazione della vita carceraria con quella cittadina, dall’altro di riscoprire la componente architettonica del carcere come una delle tante forme dell’abitare contemporaneo, nonché come elemento inquadrabile all’interno dei processi di riqualificazione energetica che interessano tutti i manufatti del patrimonio costruito, spesso in evidente stato di degrado. L’obiettivo che ci si deve proporre è la trasformazione del concetto di carcere in luogo di transizione e reinserimento nella società, non solo attraverso l’attivazione di processi di progettazione partecipata, volti al miglioramento della vita dei

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detenuti, ma anche prefigurando reti che consentano un reale dialogo tra la vita all’interno e all’esterno delle strutture. Conciliare le esigenze di contenzione e di controllo con le qualità di umanizzazione e socializzazione richiede l’avvalersi dei progressi della scienza delle costruzioni e dei più moderni sistemi tecnologici, edilizi e impiantistici per consentire condizioni di esistenza civile alla persona reclusa, che necessita, di prospettive e architetture che diano spazio alle finalità di rieducazione e reintegro sociale del sistema pur rispondendo, graduandole, alle esigenze di sicurezza che lo stesso sistema richiede [Scarcella, 2011]. In tal senso, appare adeguato a fornire delle risposte un approccio multidisciplinare, tanto tra l’ambito dell’architettura e quello delle scienze giuridiche, della sociologia, della psicologia, ma anche all’interno della disciplina architettonica stessa, affrontando il tema della riqualificazione degli spazi della detenzione in un approccio integrato e sistemico al progetto, che investa anche dimensioni energetiche, tecnologiche e ambientali, oltre che funzionali, fruitive e percettive.

1. La riqualificazione degli spazi della comunità penitenziaria a servizio del tempo della detenzione, dei diritti e del lavoro Le sentenze di condanna della Cedu (Sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 16 Luglio 2009 e dell’ 8 gennaio 2013, per la riconosciuta incompatibilità del sistema carcerario italiano con l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in riferimento alla proibizione di trattamenti inumani e degradanti) e la rinnovata consapevolezza sul senso della pena detentiva (già avviata con la Legge di riforma del 26 luglio 1975 n. 354), hanno portato negli ultimi anni a eleggere come riferimenti essenziali nella ricerca di un approccio alternativo alle questioni penitenziarie: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, le Regole minime per il trattamento dei detenuti (Risoluzione O.N.U. sulle Regole minime per il trattamento dei detenuti del 30 Agosto 1955 e la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulle Regole penitenziarie europee del 12 Febbraio 1987), la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e le Regole penitenziarie europee (Regole penitenziarie europee del Consiglio d’Europa, 2006). Ciò ha avviato un processo di ricerca della verità ordinamentale sul senso della pena detentiva, guidata da una nuova idea dello Spazio e del Tempo della detenzione e fondata su una convinta e condivisa consapevolezza del valore rieducativo della pena, in un processo di recupero della centralità della persona. Parallelamente, in risposta alla situazione di sovraffollamento delle carceri e alle condizioni di trattamento contrarie al senso di umanità e dignità del condannato, è stato varato nel 2010 il Piano carceri (Piano carceri, Comitato d’indirizzo e Controllo del 24 giugno 2010; Aggiornamento, Comitato di indirizzo e di controllo, 31 gennaio 2012). Inizialmente improntato esclusivamente alla realizzazione di nuovi istituti “eco-compatibili e ad emissioni zero”, è stato rimodulato nel 2012 su proposta del DAP (Il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, art. 30, Legge 395/1990, Ministero della Giustizia) a favore del recupero conservativo di strutture sottoutilizzate o inutilizzate da anni per carenze di risorse necessarie ad opere di adeguamento e ammodernamento. Dopo circa dieci anni, il patrimonio versa ancora in condizioni di criticità evidenti; tali carenze igieniche e spesso anche strutturali mettono a rischio la vita e la dignità di detenuti e del personale, al punto che già dal 2016 i tavoli di lavoro all'architettura del carcere, durante gli Stati Generali dell'Esecuzione Penale (Comitato di esperti degli "Stati generali sull'esecuzione penale" – d.m. 8 maggio 2015 e d.m. 9 giugno 2015 – e 18 relativi tavoli tematici, 2016), hanno espresso la necessità di un nuovo modello penitenziario, per uno spazio vivibile funzionale al processo di risocializzazione.

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L’obsolescenza del patrimonio di cui dispone lo Stato italiano per gli istituti penitenziari impone interventi di adeguamento delle strutture esistenti, ridefinendo la realtà di spazi individuali e collettivi che queste ospitano [De Rossi 2016]. In particolare, tutti i locali e gli ambienti, anche all’aperto, fruibili dai detenuti e dall’Amministrazione costituiscono non solo la dimensione fisica entro la quale è organizzato il tempo della vita sociale della comunità penitenziaria, in relazione alle differenti categorie di Istituto, alle tipologie di percorsi trattamentali e alle differenti esigenze di sicurezza, ma anche i luoghi in cui trovano spazio il diritto all’istruzione, al lavoro, alla religione, alle attività culturali, ricreative e sportive, nonché i rapporti con il mondo esterno e la famiglia, che il tempo della detenzione deve garantire, ai fini dell’applicazione di una pena ri-abilitativa [De Pascalis, 2016]. In tal senso, è sempre più diffuso tra le Amministrazioni penitenziarie l’affidamento ai detenuti di alcuni dei servizi e delle attività lavorative esistenti presso le proprie strutture, verso una nuova disciplina del lavoro penitenziario che prevede che i servizi di pulizia dei locali, di giardinaggio e di manutenzione ordinaria siano assegnati a persone con qualifica generica o specialistica il cui programma di trattamento ne preveda l'idoneità. È auspicabile, dunque, il coinvolgimento dei detenuti nell’ambito di interventi di riqualificazione delle strutture in cui sono ospitati, in un’ottica di umanizzazione del carcere, in cui la pena si riveli utile e volta a innescare processi di rieducazione che siano sostanziali nello sviluppare nuove competenze spendibili anche in contesti di libertà, ottenendo il parallelo beneficio di miglioramento funzionale, ambientale e tecnologico delle strutture interessate.

1: La Casa Circondariale Lorusso e Cutugno a Torino.

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2: Detenuti impegnati nei lavori di ristrutturazione e impermeabilizzazione delle coperture della Casa Circondariale di Torino.

Un esempio è la riqualificazione del carcere Lorusso e Cutugno, nel quartiere Vallette di Torino, al centro di progetti e trasformazioni che dal 2010 stanno cercando di creare per i detenuti nuove opportunità di reinserimento. La Casa Circondariale nacque nella seconda metà degli anni Settanta all’estrema periferia nord-ovest della città, una delle aree più critiche del capoluogo piemontese. Quaranta detenuti, nell’ambito dei progetti “Liberi Bimbi” e “Liberiamo le competenze”, hanno lavorato all’impermeabilizzazione delle coperture e alla riqualificazione energetica del teatro della Casa Circondariale torinese, occupandosi poi della ristrutturazione della palazzina che ospita i detenuti in regime di semilibertà e che ospiterà in futuro undici madri recluse con i propri figli. Pur nella consapevolezza che le gravi difficoltà in cui versa tutto il sistema penitenziario nazionale non siano esclusivamente ascrivibili ad aspetti di carattere energetico ed edilizio e che il Piano carceri non risolverà in tempi rapidi i gravi fenomeni di sovraffollamento, negli ultimi dieci anni il DAP ha intrapreso il percorso per raggiungere l’obiettivo di eco-sostenibilità dei propri insediamenti (Protocollo di Intesa del 16 luglio 2014 tra il Ministero della Giustizia DAP e il Ministero dello Sviluppo Economico DGMEREEN, Autorità di Gestione del POI Energia), realizzando, in alcuni istituti, impianti per la produzione di energie da fonti rinnovabili e per l’abbattimento delle azioni inquinanti. Nell’ambito di questi interventi sono state sviluppate anche iniziative di formazione per i detenuti e in alcuni casi sono stati realizzati rivestimenti di coperture e prospetti con lastre leggere di materiali isolanti per l’efficientamento energetico degli edifici [Aa.Vv., 2015]. Su questo versante un esempio ambizioso è dato dal progetto di riqualificazione di alcune carceri lombarde, promosso dall'Assessorato all'Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile di Regione Lombardia, volto a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei detenuti e degli agenti di Polizia Penitenziaria, sensibilizzare sui temi della sostenibilità ambientale, ridurre i consumi e i costi energetici. Il progetto ha individuato alcune strutture di detenzione in Lombardia con gravi carenze, soprattutto in ambito della climatizzazione invernale, che comportavano limitazioni all'utilizzo delle strutture, quali la perdita di spazi destinati alla detenzione, il conseguente sovraffollamento degli spazi rimanenti e il peggioramento delle generali condizioni di vita e di sicurezza della custodia, con interventi di riqualificazione di sette strutture carcerarie e l’installazione di novantaquattro pompe di calore ad assorbimento a metano aerotermiche.

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Appare chiaro che gli interventi di retrofit sul patrimonio di edilizia penitenziaria debbano agire su molteplici livelli, che vanno dalla riduzione del fabbisogno energetico, alla sicurezza, dalla relazione con le risorse locali e i contesti ambientali, all’aumento del comfort, dalla tutela dell’identità degli edifici, all’incentivazione di nuove dinamiche sociali alla scala territoriale, nonché di gestione del tempo della detenzione.

2. L'adeguamento degli spazi detentivi alle nuove esigenze di carattere trattamentale: un’esperienza di ricerca multidisciplinare La ricerca affidata dall'Agenzia per la Coesione Territoriale al DiARC della Federico II di Napoli, ai fini di uno studio comparato sul tema dell'adeguamento degli spazi detentivi degli istituti penitenziari alle nuove esigenze di carattere trattamentale, ha previsto la realizzazione di un’analisi rappresentativa, raccordata ai lavori di approfondimento realizzati dai tavoli tematici istituiti dal Ministero di Giustizia e focalizzata su quattro istituti penitenziari italiani in quattro diverse Regioni per configurare un modello di adeguamento strutturale in modo da ottimizzare gli spazi e aumentare le attività trattamentali e occupazionali dei detenuti. Nell’ottica di individuare le soluzioni architettoniche praticabili per conformare le strutture all'organizzazione della vita penitenziaria per il pieno esercizio del diritto al lavoro, alla formazione, alle attività culturali e ricreative, si sono parallelamente individuati gli istituti penitenziari a livello europeo più performanti sotto il profilo trattamentale per formulare ipotesi di adeguamento con il minor investimento in termini economici. Il piano di lavoro ha previsto una fase di analisi e una di individuazione di linee guida per il raggiungimento degli obiettivi attraverso l'indicazione di soluzioni progettuali. La fase di analisi è stata condotta attraverso le visite eseguite dal gruppo di ricerca, lo studio e l'analisi dei grafici degli istituiti che è stato possibile reperire, la ricerca da fonti bibliografiche, il coordinamento con i lavori eseguiti dal tavolo dedicato all'architettura indetto dal Ministero di Giustizia. Il gruppo di ricerca del DiARC, coordinato dalla prof.ssa Marella Santangelo, professore associato in Composizione architettonica e urbana e membro del “Tavolo tematico 1 – Spazio della pena: architettura e carcere” degli Stati Generali sull’esecuzione penale ha visto coinvolti: la prof.ssa Marina Rigillo, professore associato in Tecnologia dell’Architettura, l’arch. Maria Cristina Vigo Majello, PhD in Composizione Architettonica e PhD in Recupero Edilizio ed Ambientale, l’arch. Alessandra Mennella, cultore della materia in Tecnologia dell’Architettura, l’arch. Bruna Sigillo, PhD internazionale in Architettura degli interni e allestimento e Filosofia Teoretica. In particolare il report dei sopralluoghi è stato organizzato in un database ragionato di schede descrittive dei diversi istituti, quale parte del materiale fornito all'Agenzia per la Coesione Territoriale. L’azione ha previsto una prima fase finalizzata alla produzione di documentazione cartografica su ognuno dei quattro casi studio, secondo un modello di rappresentazione standardizzato volto a distinguere il momento dell’analisi dello stato di fatto rispetto a quello della valutazione delle potenzialità degli spazi e quello, finale, dell’esplicitazione della vocazione dei singoli spazi esaminati. A questa seguirà una fase on site, strutturata attraverso dei questionari progettati ad hoc, che rappresenteranno un prodotto originale della ricerca. Nel dettaglio la fase di analisi ha visto la redazione di schede informative sui diversi istituti penitenziari, così suddivise: 1. Anagrafica di base: con indicazione dell’accessibilità degli istituti a scala nazionale, regionale e provinciale, ovvero in relazione ai nodi del trasporto aereo, su ferro, su gomma,

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3: Schede “Anagrafica di base” e “Complesso architettonico” relative alla Casa Circondariale di Civitavecchia. via mare. Localizzazione territoriale degli istituti con indicazione della loro distanza dalla città capoluogo, con individuazione delle infrastrutture viarie. Verifica della compatibilità fra le ipotesi di adeguamento e potenziamento degli spazi detentivi e i vincoli o le previsioni di sviluppo dettate dai principali strumenti di piano elaborati per l’ambito territoriale entro il quale gli istituti sono localizzati. Individuazione del regime di proprietà di aree limitrofe all'istituto, o in prossimità dello stesso (Adiacent Land Use) che potrebbero integrare e completare lo svolgimento del lavoro, arricchendo il programma di adeguamento e potenziamento degli spazi detentivi. 2. Complesso architettonico: con analisi dello stato di fatto secondo un modello di rappresentazione unificato per i quattro casi studio esplicativa della tipologia architettonica e costruttiva, del contesto climatico, dell’orientamento e delle dimensioni del complesso, nonché anche relativamente al criterio della permeabilità dei suoli e del loro utilizzo (Land Use). 3. Spazi per le attività comuni: analisi dello stato di fatto con evidenziazione distribuzione interna, consistenza e tipologia di spazi destinati al lavoro, alla formazione e alle attività culturali con schedatura dettagliata dei singoli spazi, dello stato di conservazione, della praticabilità, della fruibilità, delle dotazioni, dei macchinari, dei servizi e della rispondenza alle normative vigenti. Segue l’analisi delle relazioni tra gli spazi funzionali interni ed esterni, con individuazione di terreni, immobili e strutture di pertinenza dell'istituto, di proprietà pubblica e, eventualmente se di interesse, di proprietà privata, che possono integrare e completare il

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4: Schede “Spazi per le attività comuni” e “Spazi del lavoro - uso” relative alla Casa Circondariale di Civitavecchia. programma e lo svolgimento del lavoro, in relazione a criteri di accessibilità, sicurezza, fruibilità, salubrità e gestione dei luoghi interessati. 4. Spazio del lavoro – uso: analisi dello stato di fatto con rilievo degli ambienti destinati alle attività lavorative (interne ed esterne) e loro accessibilità, descrizione della morfologia in pianta e in alzato, dell’orientamento, dell’involucro, delle partizioni e delle superfici trasparenti, della tipologia di lavoro ospitato, dello stato di conservazione dei macchinari, della gestione dei processi di lavorazione. 5. Spazio del lavoro – stato di conservazione: analisi dello stato di fatto con conseguente individuazione dello stato di conservazione delle classi di unità tecnologiche e delle classi di elementi tecnici (Norma UNI 8290-1 – 1981. Edilizia residenziale. Sistema tecnologico. Classificazione e terminologia), nonché descrizione del grado di rispondenza delle stesse alle classi esigenziali (Norma UNI 8289 – 1981. Edilizia. Esigenze dell'utenza finale. Classificazione). 6. Dimensione sociale di supporto: individuazione del tipo di servizi socio-assistenziali ed educativi erogati nell'interfaccia con gli utenti, con conseguente segnalazione di associazioni, cooperative sociali e pratiche di volontariato e del numero di operatori impegnati nell'erogazione degli stessi, nonché tipo di prodotti, formule e processi innescati dalle pratiche.

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5: Schede “Spazi del lavoro – stato di conservazione” e “Dimensione sociale di supporto” relative alla Casa Circondariale di Civitavecchia.

Conclusioni L’analisi dettagliata dello stato di fatto ha prodotto relazioni e schede riassuntive in cui sono evidenziati i punti di forza e le criticità di ogni istituto con riferimento ai regolamenti nazionali e agli esiti prodotti da tali sistemi detentivi. Quelle descritte costituiscono analisi preliminari della ricerca volte a definire linee guida e a indicare soluzioni progettuali per l'organizzazione degli spazi, la distribuzione funzionale, il corretto dimensionamento dei luoghi, con particolare attenzione alle relazioni e alle connessioni tra le diverse aree degli istituti, con l'esterno e con eventuali aree e strutture limitrofe che possano rientrare nel programma di svolgimento e ottimizzazione del lavoro. Consapevoli che «l’organizzazione spaziale di un luogo riflette una visione delle attività che in esso si intende svolgere e di fatto ne determina la realizzabilità, così come definisce e determina lo schema delle relazioni che in tale luogo si tessono» [Palma, 2011], attraverso una strategia di specializzazione e variabilità funzionale degli spazi, in rispondenza delle esigenze lavorative imposte dal mercato e dai tempi di produzione, si mira a raggiungere un alto livello di flessibilità degli stessi. Tale obiettivo richiede soluzioni progettuali per la manutenzione delle strutture e degli impianti, in linea con un adeguamento normativo relativo all'applicazione di criteri di risparmio energetico e di contenimento dei costi di gestione, e per il miglioramento tecnologico e prestazionale delle strutture e dei macchinari, attraverso interventi di retrofit tecnologico e adeguamento delle componenti tecniche.

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La ricerca si fa in tal senso portavoce dello sforzo culturale di dialogo tra amministrazioni, tecnici e comunità scientifica, alla luce della finalità della detenzione: risocializzare il detenuto. L’approccio integrato e multidisciplinare per il miglioramento qualitativo e funzionale degli spazi, per il conseguimento di un comfort ambientale rispondente agli orientamenti internazionali in tema di ambienti di lavoro, si rivela necessario non solo per il raggiungimento di parametri percettivi e fruitivi consoni al benessere degli utenti interessati, ma anche per il miglioramento delle condizioni lavorative, con la conseguente ottimizzazione delle risorse umane e un'adeguata fruizione delle strutture penitenziarie, per un tempo della detenzione davvero ri-educativo e ri-abilitativo.

Bibliografia BAUMAN, Z. (2008). Lo spazio della sorveglianza nella cultura contemporanea della politica fondata sulla paura, in «Domus», n. 915. FOCAULT, M. (2011). L’emergenza delle prigioni: interventi su carcere, diritto, controllo, La biblioteca junior, Firenze. FONDAZIONE MICHELUCCI (1998). Atti del seminario di lavoro “Architettura e carcere: gli spazi della pena e la città”, in La Nuova Città, Pontecorboli, Firenze. Lo spazio della comunità penitenziaria (2016), in Strategie per una nuova dimensione del carcere. Spazio, Tempo e Persone. Un nuovo modo d’essere del Sistema penitenziario, a cura di Aa.Vv., Stati Generali per l’Esecuzione Penale, Roma. Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari (2016), a cura di D.A. De Rossi, Ugo Mursia Editore, Milano. PALMA, M. (2011), Due modelli a confronto: il carcere responsabilizzante e il carcere paternalista, in Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, a cura di S. Anastasia, F. Corleone, L. Zevi, Ediesse, Roma. SANTANGELO, M. (2013). L’architettura del carcere. Tendenze attuali e stato dell’arte, in Il carcere al tempo della crisi, a cura di Aa.Vv. Fondazione Giovanni Michelucci, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Toscana, Firenze. SANTANGELO, M. (2017). In prigione. Architettura e tempo della detenzione, LetteraVentidue Edizioni, Siracusa. SCARCELLA, L. (2011), L'edilizia penitenziaria tra modelli architettonici e piani d'intervento prima e dopo la riforma del 1975, in Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, a cura di S. Anastasia, F. Corleone, L. Zevi, Ediesse, Roma. Spazio della pena - Tema per Stati Generali dell'Esecuzione Penale - Tavolo 1, a cura di Aa.Vv. (2015) Stati Generali per l’Esecuzione Penale, Roma. VESSELLA, L. (2016), L'architettura del carcere a custodia attenuata. Criteri di progettazione per un nuovo modello di struttura penitenziaria, Franco Angeli, Milano.

Sitografia www.giustizia.it (aprile 2018) http://www.agenziacoesione.gov.it (maggio 2018) http://www.provoper-lomblig.it (ottobre 2014) www.robur.it (ottobre 2015) http://www.nuovasocieta.it (febbraio 2015) http://www.comune.torino.it (novembre 2015) http://www.poienergia.gov.it (ottobre 2017)

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Costruire liberta’, li’ dov’era prigione To build freedom, where prison was

GIUSEPPINA CUSANO Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract Lo spazio intorno a noi parla della nostra vita e allo stesso tempo la influenza. Studiare tale spazio che costituisce storia e architettura della città rivela ciò che è stato ed è punto di partenza per progettare il futuro. Spesso i luoghi che raccontano tanto sorgono nel centro della città, ma costituiscono “città altra” ovvero siti peculiari definiti dalla chiusura. Tra questi è da annoverare S. Eframo Nuovo, oggi conosciuto come ex-OPG, maestosa struttura napoletana che ha sempre rivestito il ruolo di architettura dell'isolamento sotto più punti di vista: religioso e sociale. Nasce, infatti, come convento di Cappuccini per trasformarsi in manicomio e poi ospedale psichiatrico giudiziario. Il testo ha l’obiettivo di approfondire le potenzialità di questo complesso simbolo della detenzione che deve essere conservato ma risignificato per la città. Elaborare un progetto di riuso, oggetto di tesi di laurea, è una sfida ardua iniziata solo in parte per costruire libertà lì dov’era prigione.

The space around us is about our life and at the same time influences it. Studying this space that embodies the history and architecture of the city reveals what it has been and it is the starting point for planning the future. Often the places that tell us so much rise in the center of the city but represent at once "other city" in virtue of being closed off from their surroundings by their own walls. Among these we have S. Eframo Nuovo, now known as ex-OPG, a majestic Neapolitan structure that has always played the role of architecture of isolation from many points of view: religious and social. In fact, it was born as a Capuchin monastery, to become an asylum and then a Judicial Psychiatric Hospital. The text aims to deepen the potential of this complex symbol of detention that must be preserved but re-designated for the city. Elaborating a reuse project, subject of a degree thesis, is a difficult challenge that began only partially to build freedom where prison was.

Keywords Ospedale Psichiatrico Giudiziario, Chiusura, Risignificazione. Judicial Psychiatric Hospital, Closure, Resignification.

Introduzione Dopo una lunga gradinata di ingresso, si scopre S. Eframo Nuovo, oggi comunemente conosciuto come ex-OPG, enorme e complesso edificio situato a Napoli, nel cuore del rione Materdei, tra i quartieri Avvocata e Stella. Sorge nella parte bassa della zona Salute, in via Renato Imbriani, all’incrocio tra l’Infrascata e salita S. Raffaele. È un’area ricca di attrezzature e servizi, raggiungibile dalle stazioni della metropolitana Materdei e Museo.

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S. Eframo occupa circa 14000 m2, di cui 9000 di superficie edificata e i restanti di superficie scoperta; nel complesso si enumerano 7 cortili pavimentati, 2 chiostri, un giardino di 1000 m2 e una chiesa del ‘500, ormai sconsacrata.

1. La storia di S. Eframo Nuovo La struttura sita a Materdei ha subito vari rimaneggiamenti per adattarsi alle funzioni assunte nel corso del tempo. Non è stato facile ricostruire i momenti principali di S. Eframo ma per capirne l’evoluzione è necessario soffermarsi sulle tappe fondamentali della sua storia e, dunque, si è proceduto attraverso la comparazione di più fonti: dalla cartografia storica (Veduta Lafrery 1566, Veduta Baratta 1629, Veduta Stopendaal 1653, veduta Petrini 1748, Mappa del Duca di Noja 1775, Carta Rizzi Zannoni 1790, Carta Schiavoni 1880, Carta TCI 1927) ai testi che dedicano all’edificio alcune parti, fino alla raccolta di testimonianze. Bisogna partire dal XVI secolo allorché il Concilio di Trento impose una presenza capillare delle istituzioni religiose sul territorio, definendone i canoni architettonici e permettendo di espropriare o demolire palazzi limitrofi per creare “isole conventuali”. A Napoli, in seguito all’apertura della strada Infrascata e grazie alle elargizioni della nobildonna Fabrizia Carafa, tra il 1572 e il 1574 i frati Cappuccini acquistarono un fondo su cui vi erano una casina e una villa appartenenti al principe di S. Severo. Nel 1575 iniziarono i lavori per dar vita a quella che sarebbe dovuta diventare la sede principale dell’ordine dei frati minori nel napoletano ma, a causa di maldicenze e rivalità all’interno dell’ordine, i padri fondatori portarono altrove le loro grandiose aspettative e il progetto originario fu ridimensionato dai frati superstiti. Così l’edificio, parzialmente completato nel 1585, fu abitato da soli 30 frati. Si susseguirono in periodi diversi numerosi interventi tra cui il rimaneggiamento neoclassico successivo all’incendio del 1840 grazie all’interesse di Ferdinando II, re delle due Sicilie (1608: realizzazione pavimentazione salita al convento e chiostro esterno ad opera del viceré, a spese della città di Napoli; 1614: realizzazione celle del chiostro interno con dormitori del primo piano e logge scoperte; 1626: fine lavori alla libreria; 1659: costruzione cisterna del chiostro esterno; 1662: inizio lavori infermeria a tre piani terminati due anni dopo; 1678: rifacimento muratura rinforzata con catene; 1689: costruzione coro fuori la chiesa e sotto di essa il cimitero. La chiesa, intitolata all’Immacolata Concezione, fu chiamata “S. Eframo Nuovo” per distinguerla dall’omonima antica, sita a Capodimonte, luogo di provenienza dei frati; 1718: restauro indicato da Celano; 1748: ristrutturazione scala poligonale a lato del cortile; 1769: deposizione nella cripta del corpo di A. Genovesi, amico del principe di Sansevero; 1770: realizzazioni a opera del marmorario Di Lucca). Una rivoluzione per la struttura si ebbe in occasione dell’emanazione delle leggi napoleoniche che imposero la confisca dei beni ecclesiastici e successivamente con il neonato Regno d’Italia che, con una politica anticlericale, abolì gli ordini monastici. A questo punto, nel 1865 l’edificio religioso fu convertito in caserma. Nel 1925 divenne manicomio criminale e cinquant’anni dopo Ospedale Psichiatrico Giudiziario, categoria di istituto di reclusione che a metà degli anni Settanta sostituì i manicomi ritenuti ormai non a norma, non valutando, però, fuorilegge le violenze, subite dai malati di mente qui detenuti, che continuarono. Il decreto legge n.211, poi convertito in legge n.9/2012, dispose la chiusura degli O.P.G. entro marzo 2013 e al loro posto vennero realizzate R.E.M.S. (Residenza Esecuzione Misure Sicurezza) e sezioni psichiatriche nelle carceri italiane. Ma la fine dell’O.P.G. di Materdei, in

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pessime condizioni e parzialmente inagibile dal 2000, avvenne già nel 2008, con il trasferimento degli internati nel carcere di Secondigliano o rimettendoli in libertà. La struttura rimase abbandonata fino a marzo 2015, quando un collettivo universitario autorganizzato la occupò. Allora il Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, gestore dell’edificio per il Ministero della Giustizia, nomina il comune di Napoli custode giudiziario e quest’ultimo ne affida la gestione temporanea ai ragazzi occupanti. Fu un passo importante, reso ufficiale nel 2016, con delibera di Giunta comunale n. 446, dichiarando S. Eframo «bene comune» emergente assieme ad altri sei immobili napoletani.

2. L’Ex O.P.G Il periodo che ha maggiormente modificato l’edificio a livello strutturale è quello dell’O.P.G, quando la struttura viene frammentata in molti spazi per la detenzione, laboratori, alloggi demaniali, ambienti per attività comuni, uffici, palestra e infermeria. Attualmente, grazie ai ragazzi di «Je so’ pazzo-ex OPG», quei luoghi sono diventati centro sociale per il quartiere aperto a tutti. Tra gli spazi rinnovati troviamo: intorno al primo chiostro, l’aula studio lì dove c’era il parlatoio per gli incontri detenuto-famiglia e l’ambulatorio medico; perimetralmente al secondo chiostro, il campetto di calcio, l’asilo condiviso e il doposcuola; attorno al cortile principale, invece, palestra e teatro popolare, laboratori di fotografia e pittura. Questi ambienti, collocati al piano terra, ruotano attorno alle aree aperte, sfruttando in questo modo gli spazi importanti e le loro potenzialità in maniera totale, tra pieni e vuoti. Il complesso, inoltre, è stato arricchito da artisti e writers che l’hanno interpretato come un enorme foglio che deve riprendere colore perché scolorito dal tempo e dalle barbarie vissute al suo interno, sognando ad occhi aperti ma anche ricordando. Da questo connubio sogno-ricordo scaturiscono alcuni progetti, oggetto di tesi di laurea del Diarc, Dipartimento di architettura dell’Università di Napoli Federico II.

3. La città altra di S. Eframo Nuovo Nasce come architettura rappresentante la grandezza del divino e la segregazione religiosa, in aggiunta al palinsesto cittadino, e viene ridisegnato come sito di reclusione forzata, prima prigione, manicomio, poi ospedale psichiatrico, per questo S. Eframo rientra a pieno nella categoria delle non molto conosciute “città altre”. Queste ultime, presenti anche nei contesti celebrativi della vedutistica o immaginari delle utopie, esistono sin da tempi antichissimi ma si delineano in maniera netta dall’Ottocento, quando i centri urbani cercano di espandersi in seguito all’inurbamento eccessivo della rivoluzione industriale oppure bisogna rifondare con criterio le città ferite da disastri naturali o sociali. Allora diventano palesi le periferie quali luoghi dell’emarginazione, spesso con fondamenta utopiche e isolate dal mondo reale: sorgono le città ‘altre’ della fede, della reclusione, della salute fisica o mentale, favorendo l’esclusione dalla promiscua città storica. Queste enclave, quindi, sono nuclei che per connotati o finalità si distinguono, diventano “altro” dalla città, trovandosi solitamente alle sue soglie. S. Eframo sembra racchiudere più caratteri della “città altra” ad eccezione dell’ubicazione: non si trova, difatti, ai margini bensì nel cuore di Napoli. Oltre a mostrare molteplici finalità di questi luoghi, S. Eframo rivela anche il carattere materiale dell’isolamento, presentandosi come solenne e chiuso agli sguardi. Questa austerità e impenetrabilità percettiva sono tipiche dei complessi conventuali, andando a definire aggregazioni urbane a parte: le cosiddette “cittadelle monastiche”.

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1: S. Eframo Nuovo oggi. 2: S. Eframo nella veduta Petrini (1748).

In questo caso l’esclusione dal modo esterno è volontaria ma, a volte, va al di là della volontà di chi vi abita: è il caso delle costrizioni sociali e politiche che portano alle architetture della detenzione. Questa distinzione tra isolamento volontario e involontario non è da sottovalutare poiché può caratterizzare la struttura anche a livello architettonico, considerando i caratteri distributivi ripetuti e inflessibili. S. Eframo vive una trasformazione, diventando architettura dell’isolamento forzato, non più volontario ma, a parte l’annessione di alcuni ambienti, conserva il sistema di celle conventuale, riciclandolo come spazio della prigionia. Queste cittadelle non erano sempre conosciute e sono state dimenticate dalle classi al potere perché materia di difficile comprensione o scarso interesse, nel caso di monasteri e conventi, o perché considerate come malattia della città, da nascondere, nel caso di prigioni e manicomi. Sono significative le testimonianze di residenti della zona che raccontano di aver udito da S. Eframo grida strazianti. Queste, secondo i loro racconti, sono state ignorate per paura, scaramanzia o, nei casi in cui non si era a conoscenza delle violenze perpetuate in quell’edificio, ci si domandava disinteressatamente il perché di quelle urla ma senza cercare una risposta o soluzione. Queste affermazioni fanno capire che mai c’è stata la volontà di integrare questo complesso nella città, nemmeno da parte dei cittadini, né durante l’epoca in cui era abitato dalla classe ecclesiastica, dunque dei privilegi, né in quella dell’Opg in cui era diventato l’architettura delle grida, quindi dei disagi.

4. Il progetto di integrare In S. Eframo, memoria e identità come trasformazione e novità si alternano attraverso interventi necessari successivamente a eventi devastanti, come l’incendio e i terremoti che si sono susseguiti, ma anche in seguito a violenze, superfetazioni e incedere del tempo su un edificio secolare. I restauri che si sono succeduti, però, sono stati operazioni di distruzione o ricostruzione, comportando frattura rispetto al passato perché effettuati con finalità pratiche non rispettando la continuità con la preesistenza, ma anche perché lavorare su un’architettura conservandone le identità storiche è una sfida tutt’altro che facile.

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3: L'impenetrabilità percettiva di S. Eframo. 4: Le celle di S. Eframo: spazi abbandonati ma ricchi di potenzialità progettuali.

È una questione delicata che chi cerca di progettare all’interno di S. Eframo comprende bene. Tuttavia, il complesso, vivendo da sempre il malessere di una difficile integrazione, si configura come architettura dell’isolamento che ha bisogno di risignificazione ma anche di conservazione: appare, quindi, come una problematica architettura del cambiamento. Questa riflessione muove da uno studio comune poi tradotto in tre tesi di laurea in progettazione architettonica. Una tesi ha lavorato sul progetto di un museo della memoria nel braccio celle al primo piano dell’edificio e nella chiesa, attraverso percorsi fotografici, multimediali e una toccante osservazione di quel che è rimasto del manicomio napoletano. Nel secondo lavoro è stata progettata una foresteria nei locali prospicienti via Imbriani, considerando il posto centrale, ben collegato, le attrezzature della zona e, non in ultimo, i vasti locali abbandonati dell’ex Opg, puntando a creare un trait d’union con la città attraverso l’ospitalità degli studenti. Un progetto innovativo è stato quello della terza tesi dal titolo Il Complesso di Sant’Eframo Nuovo a Materdei. Il Cohousing con la quale si è immaginata una possibile soluzione all’emergenza abitativa, secondo i desiderata del comune, nei piani superiori dell’ultimo blocco del complesso di Materdei. Il cohousing, che in italiano significa “abitare insieme”, traducibile anche come coresidenza, coabitazione o vicinato elettivo, è un nuovo modo di abitare nato in Danimarca negli anni Sessanta del Novecento, le cui parole chiave sono: famiglie, volontà di socializzare e condivisione. Un progetto di cohousing parte quando esiste un nucleo promotore che comincia la progettazione partecipata: bisogna ideare assieme un sistema formato da alloggi privati, riservati ciascuno ad una famiglia, e aree comuni destinate a tutti. La coresidenza comporta vantaggi di tipo sociale (stimolando la collaborazione), economico (risparmio del 20% sul bilancio familiare), ambientale (attenzione al risparmio energetico e all’uso consapevole delle risorse) e gestionali (percorsi vantaggiosi di gestione delle attività come scambi di favori). Questa progettazione ha voluto lasciare il complesso di S. Eframo essenzialmente inalterato, nel rispetto della struttura originaria, inglobando gli ambienti di «Je’ so pazzo-ex OPG», poiché ospitano funzioni previste in esempi studiati di coabitazione. Sono stati introdotti, però, diversi spazi organizzati e attività tra cui i luoghi dello stare per bambini e adulti, il

Costruire libertà, lì dov’era prigione

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5: Gli alloggi del Cohousing progettati nelle celle di S. Eframo. parcheggio, l’orto didattico condiviso, ambienti per la vendita dei prodotti ricavati dall’orto e, naturalmente, gli alloggi. Questi, che nel sistema cohousing possono avere dimensioni più limitate rispetto alla media delle normali abitazioni (dal 5 al 15%), sono stati studiati con un sistema che non tocca ma mette in risalto la struttura, senza demolizioni, prevedendo solo in alcuni casi l’apertura di passaggi nei tramezzi recenti. Collocati all’interno delle celle, sono distinti in due tipologie: un alloggio di 70mq, composto da blocco a T che delimita le zone notte e due blocchi a C che definiscono area cucina e servizi igienici, individuando la zona giorno antistante; il secondo alloggio di 40 mq, destinato ad una coppia o ad una singola persona, è composto da un’unica attrezzatura che sviluppandosi nelle sue forme va a definire zona giorno, spazio della cucina, perimetro dei servizi igienici e zona notte. Gli alloggi sono pensati in OSB (Oriented Strand Board), materiale costituito da strati di trucioli (strand) di legno, scelto per la sua semplicità ed economicità, concetti fondamentali nella logica del cohousing. Il collegamento tra i diversi ambienti è progettato tramite un sistema ballatoio in acciaio e vetro che avvolge la facciata interna di S. Eframo all’interno del cortile palestra, costruendo una nuova pelle per l’edificio attraverso brise-soleil verticali in legno. Tale progetto ha due scopi: ridare vita a un edificio con enormi possibilità, inerme da tempo e, importantissimo, creare un link tra la città altra di S. Eframo e la città vera di Napoli. Questa essenziale connessione è da cercare attraverso un sistema di relazioni che si innescherebbe tramite la coresidenza. Ad esempio, i cohousers, semplicemente vivendo parte della loro vita all’interno dell’edificio e parte all’esterno, si connettono alla città e collegano inevitabilmente S. Eframo a essa.

Conclusioni Il cohousing si ispira al Falansterio e Familisterio, a villaggi antichissimi e città ideali a volte rimaste su carta di filosofi come Platone, More, Campanella, Bacon, ma oggi non compare

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come un sistema utopico, infatti, esistono molte coabitazioni nel mondo, specialmente nel nord Europa, che funzionano bene. Tali progetti nascono, appunto, con la speranza di far funzionare questo illustre esempio di Città altra e integrarlo con la città per non sprecare spazi ameni e importanti di Napoli nel rispetto di ciò che è stato. È una sfida ardua che, cominciata con l’occupazione del 2015 e portata innanzi con questi progetti, si spera vivamente di vincere trasformandoli in realtà per, come recita il motto di “Je so’ pazzo-ex OPG”, «costruire libertà lì dov’era prigione».

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Oltre il recinto: potenzialità e limiti dei processi di riappropriazione collettiva delle architetture dell’isolamento in tre casi recenti a Napoli Beyond the enclosure: potentiality and limits of the processes of collective re- appropriation of architectures of isolation in three recent cases in Naples

DARIA VERDE Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract Il contributo affronta le vicende che, dal 2012 ad oggi, hanno investito alcune architetture partenopee in stato di abbandono, oggetto di un processo di riappropriazione ad opera di collettivi auto-organizzati del territorio. Attraverso l’analisi di tre casi-studio – l’Asilo Ugo Filangieri, il Complesso di San Francesco delle Cappuccinelle e il Monastero di Sant'Eframo Nuovo – si approfondiscono i temi della loro riqualificazione, con particolare attenzione alle potenzialità e ai rischi dei processi di riappropriazione in atto.

The contribution deals with the events that, from 2012 to date, have invested some abandoned Neapolitan architectures, which have undergone a process of re-appropriation by the self-organized collectives of the territory. Through the analysis of three cases - the Asilo Ugo Filangieri, the Complex of San Francesco delle Cappuccinelle and the Monastery of Sant'Eframo Nuovo - the themes of their requalification are examined, paying particular attention to the potentiality and the risks of these processes of re-appropriation.

Keywords Beni comuni, riappropriazione, patrimonio. Commons, re-appropriation, heritage.

Introduzione Dal 2012 ad oggi la città di Napoli ha visto un forte incremento dei processi di riappropriazione, portati avanti ad opera di collettivi auto-organizzati del territorio, di alcune architetture di accoglienza e di isolamento, fortemente legate alla storia sociale della città. Il fenomeno, investendo edifici che, perdute le funzioni originarie, sono caduti in stato di abbandono e riconducendo tali architetture nell’ambito dei cosiddetti commons, in italiano beni comuni, solleva molteplici questioni, tuttora poco affrontante nell’ambito degli studi sulla tutela e conservazione del patrimonio architettonico. Innanzitutto bisogna chiedersi se i processi di riappropriazione in atto costituiscono uno strumento positivo per il recupero e la valorizzazione del patrimonio abbandonato; poi come essi influiscono sulla reinterpretazione dell’identità dei luoghi e sulla mutazione dell’immagine di dette architetture; infine se le nuove destinazioni d’uso sono compatibili con le istanze di conservazione dei luoghi che le ospitano. Per rispondere a queste domande appare utile analizzare tre casi esemplificativi nelle loro diverse declinazioni – l’Asilo Ugo Filangieri (ex convitto per giovani orfani), il Monastero di Sant'Eframo Nuovo (ex ospedale psichiatrico giudiziario) e il Complesso di San Francesco delle Cappuccinelle (ex carcere minorile) – evidenziando potenzialità e limiti di un fenomeno con il quale gli esperti di conservazione non possono non fare i conti.

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1. I beni comuni Sebbene a livello internazionale la questione dei commons, così definiti dal biologo statunitense Garret Hardin nel 1968, sia da molto tempo oggetto di numerose ricerche, soprattutto in campo economico e giuridico, in Italia gli studi su tale argomento si sono diffusi solo in anni recenti. Qui la questione – introdotta con il disegno di legge elaborato dalla Commissione Rodotà nel 2007 – è stata affrontata per la prima volta in ambito architettonico dalla rivista «Lotus international», che nel 2014 ha dedicato un numero monografico al tema dei beni comuni [Nicolin 2014]. A distanza di due anni, in occasione della 15a Mostra internazionale di Architettura di Venezia, lo studio TAMassociati, curatore del Padiglione Italia, ha sviluppato una riflessione dal titolo TAKING CARE - Progettare per il bene comune, in cui è stato sviluppato il tema dell’architettura come arte sociale [Reporting from the front 2016]. Infine va ricordato il recente volume Abitare insieme. Il progetto contemporaneo dello spazio condiviso [Abitare insieme 2017], dedicato alla terza conferenza internazionale del ciclo Abitare il futuro, tenutasi presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Sulla base di tali ricerche è possibile estendere la categoria dei beni comuni al patrimonio architettonico, che attraverso l’uso comune si configura come uno spazio di nuova fruizione collettiva. Questo passaggio avviene nel momento in cui è messo in campo un processo di riappropriazione del bene, che abbia lo scopo di restituire lo stesso ai membri di una comunità. In tal modo, garantiti in primo luogo l’accesso e la partecipazione diretta all’uso e alla manutenzione del patrimonio, esso diventa in grado di innescare scambi relazionali. Di conseguenza, i luoghi in cui si svolgono tali relazioni, capaci di creare comunità e di prestarsi a molteplici interpretazioni e usi, diventano essi stessi beni comuni [Inghilleri 2014]. A dispetto di ciò mancano riflessioni sul tema da parte di specialisti della conservazione, che approfondiscano gli effetti di tali processi sul patrimonio architettonico, analizzando il modo in cui questo viene utilizzato, i nuovi significati che esso assume e, infine, gli effetti della sua fruizione e gestione collettiva, soffermandosi su problematiche di tutela e valorizzazione. Se la comunità scientifica in ambito conservativo ha tardato a rivolgere la propria attenzione al tema, altrettanto non ha fatto il Comune di Napoli, che è stato tra i primi a coglierne le potenzialità, istituendo nel 2013 l’Osservatorio dei beni comuni. Tale organismo si occupa di redigere un inventario degli immobili in stato di abbandono sul territorio comunale, al fine di studiare le possibilità di un loro utilizzo per scopi sociali [Scala 2017]. Ciò è avvenuto in seguito all’occupazione dell’ex Asilo Ugo Filangieri – edificio da tempo abbandonato e di proprietà del Comune – compiuta il 2 marzo 2012 da un gruppo di operatori dello spettacolo, e al suo successivo affidamento da parte dell’amministrazione De Magistris al collettivo che l’aveva occupato, per un utilizzo in ambito culturale senza scopo di lucro (delibera n. 400 del 25 maggio 2012). In seguito con la delibera n. 446 del 1o giugno 2016, l’Amministrazione ha riconosciuto una prassi costitutiva di uso civico per altri sette spazi, tra cui il Monastero di Sant’Eframo Nuovo e il Complesso di San Francesco delle Cappuccinelle [Attademo 2017]. Se da un lato risulta evidente che questa proposta intende garantire la fruizione collettiva di spazi e immobili abbandonati, dall’altro non va trascurato che il modello di cooperazione e partecipazione da essa previsto spesso costituisce anche un pericolo per l’eccessiva disinvoltura nella modificazione dei beni culturali e dei loro caratteri architettonici e identitari.

2. L’Asilo Ugo Filangieri Ci proponiamo, quindi, di analizzare l’interessante caso dell’Asilo Ugo Filangieri, oggi rinominato “L’Asilo”, primo virtuoso esempio dei processi di riappropriazione oggetto di questo contributo. Nel primo dopoguerra l’edificio – ampliamento occidentale del monastero

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1: Porticato dell’ex Asilo Ugo Filangieri, oggi rinominato “L’Asilo” (Daria Verde). 2: Bar antistante l’ingresso al teatro dell’ex Asilo Ugo Filangieri, oggi rinominato “L’Asilo” (Daria Verde). di San Gregorio, completato nel 1647 ad opera di Bartolomeo Picchiatti – fu acquistato dalla contessa Giulia Filangieri di Candida che lo destinò a convitto per giovani orfani e per ragazzi provenienti da famiglie meno abbienti, in memoria del figlio Ugo caduto in guerra [Pane 1957; Ferraro 2017]. Dismesso dopo il terremoto del 1980, il collegio è stato occupato a partire dal 2 marzo 2012 dal collettivo “La Balena”, in segno di protesta contro il restauro e il nuovo abbandono dell’edificio che avrebbe dovuto ospitare la sede del Forum delle Culture 2014, una proposta rivelatasi fallimentare. Dopo una prima fase di occupazione è stata elaborata, nel corso di un tavolo di lavoro pubblico al quale hanno partecipato, oltre agli occupanti dell’Asilo, membri dell’amministrazione pubblica e giuristi, una “Dichiarazione di uso civico” del bene – riconosciuta dal Comune di Napoli nel 2015 – che stabilisce le regole per la sua fruizione democratica da parte di “tutta la collettività che in esso si riconosce”. Oggi il collettivo si è sciolto in una comunità aperta e l’edificio è divenuto, da ormai sei anni, una sede per lo svolgimento di attività artistiche e artigianali, un laboratorio di elaborazione creativa, dove si porta avanti una sperimentazione di gestione alternativa di un bene pubblico, basata sull’uso collettivo e sulla gestione orizzontale dello stesso. Infatti l’assemblea settimanale, pubblica e aperta, rappresenta l’occasione per condividere i progetti e concordare le modalità di fruizione degli spazi, mediante pratiche decisionali condivise. La gestione da parte della cosiddetta comunità informale comporta quindi, per chiunque, sia la possibilità di proporre una nuova modalità di gestione del luogo, sia l’invito a garantire la cura degli spazi. Essendo l’edificio in buono stato di conservazione – grazie al restauro realizzato in vista del Forum delle Culture – cui risalgono la maggior parte delle modifiche, gli abitanti dell’Asilo hanno potuto intraprendere fin da subito un processo di rifunzionalizzazione del bene sulla base di operazioni di autofinanziamento e autocostruzione. Essi hanno infatti allestito un teatro, un laboratorio di scenografia e sartoria, una camera oscura, un laboratorio per la ceramica, una sala cinema e di montaggio video, delle aule studio, uno spazio dedicato alla danza e alle arti performative e un salone espositivo [L’ex-Asilo Filangieri 2018]. Tali nuove funzioni non soltanto ripropongono l’immagine e il ruolo svolto dall’Asilo Filangieri nel

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contribuire alla formazione di centinaia di ragazzi, ma risultano anche compatibili con le esigenze di conservazione del bene, garantendone la manutenzione. Periodicamente si effettuano, ad esempio, ritinteggiature degli ambienti, che riprendono e rispettano il colore predisposto dal precedente restauro, fatta eccezione per gli spazi del cinema e del bar caratterizzati da tinte più vivaci. Inoltre l’assemblea dell’Asilo non ha mai dato il consenso per la realizzazione di graffiti sulle pareti del complesso. Tuttavia tale decisione, che appare sorprendentemente conservativa, non è definitiva, ma potenzialmente soggetta a modifiche o revisioni, come tutti gli aspetti riguardanti la gestione del bene. D’altro canto l’idea stessa della transitorietà delle esigenze di fruizione determina un’altra importante caratteristica degli interventi attuati sulla preesistenza, ossia la loro reversibilità, comportando, dunque, un inaspettato rispetto per la consistenza fisica del bene. Lo stesso accade nel caso del miglioramento impiantistico, che si realizza semplicemente con l’aggiunta di canaline di plastica esterne, nelle quali passano i nuovi cavi elettrici che si innestano nella precedente rete, senza intaccare le superfici. Nonostante questa scelta sia indubbiamente dettata da ragioni di ordine economico e di rapidità di esecuzione, essa risulta comunque la più condivisibile, anche in vista di successive operazioni di manutenzione. Pur favorito dalle buone condizioni di partenza dell’edificio, il caso dell’Asilo rappresenta dunque un esempio virtuoso di sinergia tra processi di riappropriazione e beni culturali, grazie alla presenza tra i suoi abitanti di personalità appartenenti al mondo della produzione artistica, sensibili ai temi della conservazione del patrimonio.

3. Il Monastero di Sant'Eframo Nuovo Il secondo caso oggetto di approfondimento è il Monastero di Sant’Eframo Nuovo, fondato a partire dal 1575 e completato nei primi decenni del Seicento per ospitare 160 frati cappuccini. Non sorprende che alla destinazione religiosa del complesso, arroccato tra alti muri e ripide salite, abbiano fatto seguito quella militare e rieducativa, funzioni tutte caratterizzate da una condizione di estraneità urbana. Infatti, nel 1865, in ragione della politica anticlericale del Regno d’Italia, il monastero fu soppresso e adibito a caserma, mentre a partire dal 1925 la struttura fu destinata a carcere e poi, dal 1975, a Ospedale psichiatrico giudiziario [Gambardella, Amirante 1994; Ferraro 2006]. Arrivato ad ospitare 250 detenuti, l’OPG “Sant’Eframo” fu infine dichiarato non idoneo dall’Asl competente e progressivamente dismesso, fino alla definitiva chiusura nel 2008. Caduta da allora in stato di abbandono, la struttura è stata occupata il 2 marzo 2015 dal Collettivo Autorganizzato Universitario di Napoli, che ha dato vita a “Ex OPG Je so’ Pazzo” con il duplice scopo del recupero e della trasmissione della memoria di un luogo simbolo di violenza e oppressione e della sua rifunzionalizzazione sociale, attraverso la creazione di nuovi spazi per la collettività [Architetture di riconnessione 2017]. L’amministrazione comunale ha in seguito legittimato l’occupazione del bene con la delibera n. 446 del 1.6.2016, riconoscendone l’uso sociale. A differenza di quanto avviene nel caso dell’Asilo, qui il coordinamento delle politiche di gestione è prerogativa del collettivo “Je so’ pazzo” che, attraverso un’assemblea unitaria e aperta, si assicura che tutte le attività proposte, siano esse a scopo sociale o culturale, aderiscano alla propria linea politica, che si identifica con quella del partito “Potere al Popolo”. Tale forte connotazione politica dei processi messi in campo, insieme con un peggiore stato di conservazione del complesso, hanno determinato una maggiore disinvoltura nelle operazioni di adeguamento degli spazi ai nuovi usi, con esiti più discutibili rispetto a quanto era avvenuto nell’ex convitto Filangieri.

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3: Facciata del Monastero di Sant’Eframo Nuovo, oggi “ex OPG Je so’ pazzo”, con il murales di Blu (Daria Verde).

Dopo i primi lavori di pulizia e manutenzione sono stati creati nuovi spazi ricreativi, è stata ricavata un’aula studio nella sala adibita ai colloqui con i familiari, rimuovendo il vetro divisorio e conservando il lungo tavolo fissato al pavimento, è stato conservato il campetto di calcio nel cortile dell’ora d’aria, sono stati aggiunti servizi per il quartiere come lo sportello medico popolare, infine le vecchie cucine sono state adibite a palestra popolare e il preesistente teatro è stato ristrutturato, con il rifacimento di palco e camerini [Collettivo ex- OPG Je so’ pazzo 2017]. Inoltre, numerosi artisti di strada sono stati invitati ad utilizzare le pareti del complesso per la realizzazione di murales, tra i quali il più celebre è senza dubbio rappresentato dall’opera eseguita da Blu (Bologna) sulla facciata prospiciente via Salvator Rosa. Quest’opera costituisce una proficua addizione, aggiungendo nuovi valori all’edificio storico: la superficie dipinta, restituita alla sfera pubblica, racconta l’architettura che occupa e crea negli abitanti del quartiere un diverso senso di identità e di appartenenza. In questo modo viene accresciuto il coinvolgimento dei cittadini nei confronti di un’architettura che è sempre stata chiusa, privata e invalicabile, persino invisibile, e che invece oggi, grazie al nuovo uso sociale, costituisce il baricentro di una vasta area [Bassoli, Andreuzza 2014]. Non altrettanto virtuose risultano, invece, le numerose sperimentazioni di graffitari inesperti, che utilizzano le pareti del complesso per realizzare opere dallo scarso valore artistico. Tali operazioni, attuate con l’intento di esprimere la propria personalità e riappropriarsi della città, si inseriscono sulla scia delle esperienze portate avanti al Leoncavallo di Milano, primo centro autogestito d’Italia, occupato nel 1975 e trasferitosi a via Watteau nel 1994 [Ibba 1996]. Mentre però le sperimentazioni del Leoncavallo hanno luogo in un ex cartiera abbandonata, definita da Vittorio Sgarbi “la Cappella Sistina della contemporaneità” [I graffiti

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del Leoncavallo 2006], analoghe operazioni non sembrano altrettanto legittime nei casi napoletani in esame, in luoghi cioè che oltre ai valori sociali prima richiamati costituiscono anche rilevanti testimonianze sul piano storico-architettonico, nei quali è necessario prestare una altrettanto notevole attenzione alla conservazione delle superfici. Infine, secondo la dichiarata volontà di trasmettere la memoria del luogo, al piano superiore il collettivo organizza dei tour del braccio di contenzione, con le celle dei detenuti, dove si conservano intatte le finestre saldate, gli oblò di controllo e persino le scritte sui muri delle celle. Tuttavia tali visite guidate focalizzano l’attenzione soltanto sull’ultima fase della storia del monumento, sottolineando le responsabilità della classe dirigente verso le sofferenze dei detenuti e assimilando le trascorse vicende dell’ex OPG all’attuale scenario politico. La lettura dell’identità del luogo che viene proposta risulta pertanto parziale e strumentalizzata a fini politici, che semplificano o trascurano la complessità del patrimonio architettonico.

4. Il Complesso di San Francesco delle Cappuccinelle Il terzo e ultimo caso in esame è il convento di San Francesco delle Cappuccinelle, che ebbe origine nel 1585, quando Eleonora Scarpato decise di ospitare nella propria casa una piccola chiesa e un conservatorio. Nel 1621 l’istituto fu riconosciuto da papa Gregorio XV e soggetto alla regola cappuccina. A partire dal 1712, a causa del rapido aumento delle monache, la chiesa fu completamente rifatta in forme barocche da Giovan Battista Nauclerio [Cantone 1968], mentre dal 1758 furono eseguiti dei lavori di consolidamento ad opera dell’architetto Nicolò Tagliacozzi Canale [Bisogno 2013]. Nel 1808 il monastero venne soppresso e il complesso fu convertito in riformatorio minorile intitolato a Gaetano Filangieri [Ferraro 2017]. Infine nel 2000 esso fu acquistato dall’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”, per adibirlo ad uso accademico, ma i lavori previsti non furono mai eseguiti e l’edificio cadde in stato di abbandono. Sulla scia di quanto realizzato dal collettivo “Je so’ pazzo” nell’ex OPG, il 29 settembre 2015, durante i festeggiamenti delle quattro giornate di Napoli, l’ex carcere minorile viene occupato e riaperto dagli attivisti del collettivo “Scacco Matto”, i quali lo ribattezzano “Scugnizzo liberato” con l’obiettivo di strapparlo all’incuria e restituirlo agli abitanti del quartiere e della città, trasformandolo in un centro sociale. Le politiche di gestione dello spazio sono per molti versi simili a quelle attuate nel caso del monastero di Sant’Eframo Nuovo, sebbene qui esse siano caratterizzate da una più sfumata connotazione politica. Dopo una prima fase di pulizia e liberazione degli spazi, durata circa sei mesi, viene quindi dato inizio ad attività gratuite e laboratori, come cineforum e servizi di doposcuola, ma anche concerti ed esposizioni, secondo una scelta di nuove funzioni in linea di principio compatibili con gli spazi della preesistenza, poiché basate sul tentativo di confermarne le originarie destinazioni d’uso. Inoltre, in occasione dell’occupazione, il collettivo si impegna ad organizzare attività di autofinanziamento per “migliorare le condizioni strutturali dello stabile”. Viene quindi dato il via ad una raccolta fondi su Ulule – una piattaforma di crowdfunding – con l’obiettivo di raccogliere 10.000 euro in 50 giorni per ridare vita al teatro “Eduardo De Filippo”, insonorizzando la sala e installando attrezzature cinematografiche. Ciò nonostante ad oggi tali operazioni non sono state ancora portate a termine, fatta eccezione per l’acquisto di impianti audio e video e di pannelli fonoassorbenti per impedire un fastidioso riverbero del suono all’interno del teatro, oggi utilizzato anche come sala concerti. È stata invece effettuata una parziale sostituzione degli impianti elettrici e idraulici del complesso. Tuttavia le condizioni critiche in cui versava l’edificio dopo l’abbandono cui era stato condannato non sembrano aver beneficiato della presenza dei suoi nuovi abitanti.

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4: Cortile del complesso di San Francesco delle Cappuccinelle, oggi “Scugnizzo Liberato” (Daria Verde). 5: Patina biologica sugli stucchi di una cappella del complesso di San Francesco delle Cappuccinelle, oggi “Scugnizzo Liberato” (Daria Verde).

La struttura è infatti interessata da sempre più gravi problemi di umidità di infiltrazione, che stanno portando in alcuni punti al collasso degli orizzontamenti e al progressivo distacco degli intonaci in tutto il complesso. Per questa ragione gli attivisti stanno lentamente procedendo alla sostituzione della guaina impermeabilizzante del tetto, ormai ammalorata e inefficace. Tali interventi localizzati non sembrano però sufficienti alla risoluzione del complesso problema che interessa tutti i livelli della struttura, così come appare discutibile la scelta di sostituire parte degli intonaci degli ambienti del piano terra che oggi ospitano le botteghe. I nuovi intonaci già presentano, infatti, una nuova patina biologica dovuta alla forte presenza di umidità nelle strutture, segno evidente della mancata rimozione della cause del fenomeno. A tutto ciò si aggiungono anche i danni provocati dalla vegetazione infestante, solo parzialmente rimossa dagli occupanti. Risulta evidente come in questo caso l’assenza di un proficuo dialogo con le istituzioni preposte alla tutela e con gli specialisti della conservazione del patrimonio architettonico sia più rischiosa che nei due esempi precedentemente analizzati, sia per la salvaguardia del complesso monumentale, la cui conservazione non ha tratto benefici dalla rinnovata fruizione, che per l’incolumità dei suoi nuovi abitanti.

Conclusioni Lungi dal criticare lo sforzo, senz’altro condivisibile, di garantire fruizione e manutenzione di un bene culturale abbandonato tramite processi di riappropriazione dello stesso, è tuttavia necessario mettere in guardia dai pericoli di un eccessivo entusiasmo. Se infatti è fuor di dubbio che una rinnovata fruizione del bene costituisca un valido strumento per la sua conservazione, allo stesso tempo la scelta di affidarne la responsabilità a personalità prive delle necessarie competenze comporta il rischio di operazioni superficiali o addirittura dannose per l’integrità degli edifici monumentali. Nell’ottica in cui il patrimonio architettonico abbandonato viene trasformato da spazio di reclusione in spazio della socialità e del vivere, non si deve infatti rinunciare alla tutela di ciò

Oltre il recinto: potenzialità e limiti dei processi di riappropriazione collettiva delle architetture dell’isolamento in tre casi recenti a Napoli

DARIA VERDE

che costituisce un bene irriproducibile. Tale obiettivo primario può essere perseguito solo attraverso un dialogo più trasparente e proficuo con le istituzioni e, in modo particolare, con gli enti preposti alla tutela dei beni culturali. Dialogo che oggi risulta pressoché assente e che invece dovrebbe costituire un valido strumento di controllo della legittimità e della qualità delle operazioni realizzate, al fine di coniugare istanze sociali e artistiche in un processo di integrazione di valori. Il rischio che si corre nel corso di tali esperienze è, infatti, quello di riappropriarsi di un bene di cui non si comprende pienamente la complessità, finendo per guardare all’edificio come a un mero contenitore delle sperimentazioni in atto. L’intervento sul patrimonio costruito richiede, invece, una profonda conoscenza dei suoi valori e la piena consapevolezza della responsabilità delle scelte, per garantirne la qualità del risultato. In questo senso l’impegno di tutti coloro che partecipano a tale processo deve avere l’obiettivo di far crescere il bene comune esistente, non di svalutarlo. Un esempio virtuoso in questo senso è quello della cascina Cuccagna a Milano, nel quale l’obiettivo del recupero dell’antica struttura è stato posto alla base dell’attivazione del centro sociale che ospita: il progetto di riuso è stato infatti preceduto da un approfondito progetto di conoscenza del bene e dal conseguente restauro conservativo dell’immobile [Pucci, Sarti 2002]. Non va infine trascurato che l’esperienza dei centri sociali napoletani occupati negli anni Novanta – l’Officina 99 a Gianturco, Lo Ska nel Centro Storico e il DAMM a Montesanto – ha mostrato come l’interazione con il quartiere, alla quale viene inizialmente attribuita molta importanza, è gradualmente scemata dopo i primi anni, riducendo il contatto con la popolazione locale al minimo. Ciò è vero in particolare per l’Officina 99 e Lo Ska – caratterizzati come l’ex Opg “Je so’ pazzo” da una forte connotazione politica – che col tempo hanno finito per diventare dei luoghi chiusi alla popolazione, perdendo così l’originaria istanza della riappropriazione collettiva e del riuso davvero “comune” dello spazio urbano [Dines 1999]. In definitiva risulta necessario che il dibattito sui beni comuni si traduca in un ripensamento delle strategie di tutela, chiamate a rispondere in maniera innovativa e da un punto di vista inedito alle nuove esigenze sociali, per assicurare sia la conservazione che la fruizione del patrimonio. Allo stesso tempo i processi partecipativi nella gestione del bene comune devono porsi l’obiettivo di assicurare il diretto coinvolgimento della popolazione all’uso e alla manutenzione degli spazi, con lo scopo di rafforzare la consapevolezza che la cura del patrimonio architettonico è responsabilità comune, condivisa tra istituzioni e utenti.

Bibliografia Abitare insieme. Il progetto contemporaneo dello spazio condiviso (2017). a cura di M. Russo, Napoli, Clean. Architetture di ri-connessione. Progetti per il recupero del Complesso di S. Efremo Nuovo ex-OPG di Napoli (2017), a cura di M. Santangelo, Napoli, Lettera Ventidue. ATTADEMO, A. (2017). Beni comuni, in Abitare insieme. Il progetto contemporaneo dello spazio condiviso, a cura di M. Russo, Napoli, Clean, pp. 192-197. BASSOLI, N., ANDREUZZA, G. (2014). Street survival, in «Lotus», n. 153, pp. 8-25. BISOGNO, S. (2013). Nicolò Tagliacozzi Canale. Architettura, decorazione, scenografia dell’ultimo rococò napoletano, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, pp. 125-126. CANTONE, G., (1968). I conservatori dell’imbrecciata di Gesù e Maria, in «Napoli Nobilissima», vol. VII, Fasc. V-VI, pp. 204-215. COLLETTIVO EX-OPG JE SO’ PAZZO, (2017) Dov’era prigione abbiamo fatto libertà, in Architetture di ri- connessione. Progetti per il recupero del Complesso di S. Efremo Nuovo ex-OPG di Napoli, a cura di M. Santangelo, Napoli, Lettera Ventidue pp. 63-68. DINES, N., (1999). Centri sociali: occupazioni autogestite a Napoli negli anni Novanta, in «Quaderni di sociologia», n. 21, pp. 99-111.

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Sitografia www.cuccagna.org (luglio 2018) www.exasilofilangieri.it (maggio 2018) www.facebook.com/ScugnizzoLiberato/ (maggio 2018) www.jesopazzo.org (maggio 2018) www.leoncavallo.org (luglio 2018) www.loska.noblogs.org (luglio 2018) www.officina99.org (luglio 2018) www.parcosocialeventaglieri.it (luglio 2018)

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Il ruolo dell’Architettura nella gestione dei Commons: un’ipotesi per lo “Scugnizzo liberato” Architecture and Commons: an hypothesis about the“Scugnizzo liberato”

1 1 2 2 PAOLA SCALA , MARIA CERRETA , SERENA ROSCIGNO , MARIA ROSARIA SAVOIA 1. Università degli Studi di Napoli Federico II; 2. Scugnizzo Liberato

Abstract Nel 2013 il Comune di Napoli ha istituito l’Osservatorio sui beni comuni, con quest’atto viene ufficializzata una posizione innovativa, ma anche fortemente controversa, relativa alla gestione di beni di proprietà pubblica o privata da parte di “comunità” che utilizzano questi spazi realizzando un utile sociale. Il numero di Louts del 1994 dal titolo Commons traccia la relazione tra questa questione, di natura economica, politica e sociale e l’architettura. In particolare a Napoli i nove spazi individuati dall’Osservatorio pongono agli architetti nuove domande e, prima tra tutte, come conciliare questa modalità di gestione dal basso, che ha sicuramente il merito di restituire alla comunità luoghi spesso dimenticati e abbandonati, con le esigenze di tutela e conservazione del patrimonio culturale della città. Partendo dal caso dello” scugnizzo liberato” l'intervento proverà a definire un possibile ruolo dell’architettura nel processo di gestione dei Commons.

In 2013 the the Observatory on Commons was established by te Municipality of Naples; with this act the Municipality officializes a political attitude very innovative, but also strongly controversial, concerning the management of public or private property by "communities" that use these spaces making a “social profit”. In the 2014 the periodical Louts publishes an issue titled Commons that marks the relationship between this economic, political and social matter and architecture. Specifically, in Naples the nine spaces identified by the Observatory ask the architects new questions and, first of all, how to reconcile this modality of management bootom_up with the needs of protection and conservation of the cultural heritage of the city. Starting from the case of the "Scugnizzo liberato" the paper tries to define a possible role of architecture in the process of management of the Commons.

Keywords Commons, architettura, processo. Commons, architecture, process.

Introduzione Il tema dei beni comuni è oggi particolarmente diffuso, reso centrale dalla crisi del sistema capitalistico, basato sulle tradizionali dicotomie Pubblico/Privato e Stato/Mercato. «Comune è il bene che è rivale nel consumo ma non è escludibile, ed è tale che il vantaggio che ciascuno trae dal suo uso non può essere separato dal vantaggio che altri possono trarre da esso» [Zamagni, 2012]. Nel 2009, un anno dopo l’avvento di uno dei periodi più difficili dal punto di vista finanziario che il mondo ricordi dopo il 1929, Elinor Osrom vince il Nobel per i suoi studi sui Commons. Nel 1990 la scienziata politica americana pubblica un libro dal titolo “Governing the commons. The Evolution of Istitutions for collective actions” nel quale confuta le tesi di Garret Hardin che, in un famoso saggio del 1968, poneva all’attenzione del mondo il

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1: Scugnizzo liberato: L’angelo di Zilda. rischio di esaurimento delle risorse naturali, considerate beni comuni, minacciate da uno sfruttamento incontrollato. A conclusione del suo saggio Hardin proponeva due possibili alternative per evitare la “tragedia”: la privatizzazione delle risorse oppure la loro statalizzazione secondo la dicotomia moderna che contrappone Mercato e Stato. Di contro, Ostrom, nel suo libro sostiene che i beni comuni naturali non sono, come si è portati a credere, spazi e risorse in regime di libero accesso ma spazi e risorse ben definite, auto- gestite da un gruppo limitato di persone, sulla base di precise regole o istituzioni derivanti dal diritto consuetudinario [Ricoveri, 2010] e che, dunque, laddove esistono e siano state riconosciute istituzioni e regole condivise, le comunità locali sono state capaci di gestire queste risorse senza privatizzarle o statalizzarle. Le condizioni indispensabili affinché ciò possa accadere sono tre: devono esistere istituzioni e regole già consolidate sul territorio; ci deve essere conoscenza, fiducia e comunicazione tra i componenti della comunità e, infine, nessuna autorità esterna come lo Stato deve interferire nel processo. «I beni comuni sono considerati strategici e sono sempre più decisivi nei processi decisionali e, per questo soggetti, a tensioni e conflitti» [Bruni, 2011]. In Italia, la commissione Rodotà, istituita nel giugno del 2007, con decreto dell’allora ministro Clemente Mastella, ha elaborato un documento, da alcuni definito profondamente innovativo, nel quale i beni (le cose, materiali e immateriali, le cui utilità possono essere oggetto di diritti) vengono classificati non in base alla proprietà pubblica o privata, come vuole la logica del

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mercato, ma appunto in base all’“utilità prodotta” e distinti nelle tre categorie di: beni comuni, beni pubblici, e beni privati. In merito alla categoria “beni comuni” il disegno di legge recita: «[…] beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona [che devono essere] tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future». Come sottolinea Giovanna Ricoveri (2010) si tratta di una interpretazione dei commons che pone l’accento non sui beni naturali ma sui diritti umani fondamentali. L’aggancio ai diritti fondamentali è essenziale, e ci porta oltre un riferimento generico alla persona. In proposito, Luca Nivarra (2017) ha messo in evidenza come la prospettiva dei beni comuni sia quella che consente di contrastare una logica di mercato che vuole «appropriarsi di beni destinati al soddisfacimento di bisogni primari e diffusi ad una fruizione collettiva». Proprio la dimensione collettiva scardina la dicotomia pubblico-privato, intorno alla quale si è venuta organizzando nella modernità la dimensione proprietaria. Compare una dimensione diversa, che ci porta al di là dell’individualismo proprietario e della tradizionale gestione pubblica dei beni. Non un’altra forma di proprietà, dunque, ma «l’opposto della proprietà» [Rodotà, 2012]. Anche se lo schema di disegno di legge della commissione Rodotà non ha avuto seguito, a partire dal 2007 alcune realtà locali hanno avviato alcune riflessioni sui beni comuni, in particolare sull’acqua pubblica e sugli open data. A Napoli, nel 2013, il Comune istituisce l’Osservatorio sui beni comuni, un organismo con funzioni di studio, analisi, proposta e controllo sulla tutela e sulla gestione dei beni comuni sottolineando che, il primo passo per perseguire i suddetti fini è quello della redazione di un inventario dei suoli e degli immobili di proprietà del comune, o di proprietà privata ma in stato di abbandono, al fine di studiarne la possibilità di un loro riutilizzo per scopi sociali. Nell’ambito dell'attività dell’Osservatorio, il Comune con una serie di delibere, riconosce il valore di esperienze già esistenti sul territorio, portate avanti da gruppi e/o comitati di cittadini secondo logiche di autogoverno e di sperimentazione della gestione diretta di spazi pubblici, dimostrando, in tal maniera, di percepire quei beni come luoghi suscettibili di fruizione collettiva e a vantaggio della comunità locale. Di fatto con quest’atto amministrativo il Comune riconosce le “occupazioni” di luoghi pubblici o privati abbandonati da lungo tempo e adottati da alcune “comunità” che, attraverso questi beni, producono una utilità sociale in termini di servizi. I beni comuni in quest'ottica costituiscono una forma di capitale sociale, espressione di un sistema di relazioni attraverso il quale è possibile trasmettere informazioni e risorse cognitive, permettendo alle persone di perseguire obiettivi condivisi in modo più semplice e veloce, mediante processi di cooperazione che permettono anche una riduzione dei costi. «Il capitale sociale si basa su relazioni di fiducia, confidenza, comprensione reciproca, condivisione dei valori e di atteggiamenti capaci di unire i membri di una comunità, rendendo possibili azioni operative» [Inghilleri, 2014]. Al di là della questione giuridica piuttosto spinosa e controversa, l’esperimento napoletano rappresenta un caso riconosciuto e studiato anche fuori dalla realtà locale e investe direttamente l’architettura e i processi decisionali che sottendono le trasformazioni urbane. Già nel 2014 la rivista Lotus pubblica un numero interamente dedicato ai beni comuni e alla loro possibile traduzione/interpretazione in architettura e nel 2016 il padiglione italiano della Biennale diretta da Aleandro Aravena viene curato dallo studio TAM associati, che sceglie come tema da declinare “Taking Care: progettare per il bene comune”. In entrambi i casi la relazione tra architettura e bene comune viene intesa sia come necessità di contribuire a limitare il consumo di risorse non rinnovabili (acqua, energia, suolo) che come capacità di

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contribuire a costruire “comunità”. Tuttavia, il caso dei beni comuni napoletani presenta, rispetto ai casi citati, alcuni aspetti particolari legati agli immobili occupati, in molti casi caratterizzati da valori architettonici, storici e ambientali di grande rilievo che pongono la questione della compatibilità tra l’uso degli spazi individuato mediante un approccio bottom- up, la loro (relativa) messa in sicurezza e soprattutto la necessità di tutelare e preservare i valori esistenti e di generare nuovi valori.

1. Lo Scugnizzo liberato Partendo da queste considerazioni il lavoro sviluppato nell’ambito di una tesi di laurea quinquennale e presentato in questo contributo, si concentra sullo lo Scugnizzo liberato, ex complesso di San Francesco delle Cappuccinelle, poi Istituto Filangieri, uno dei nove immobili riconosciuti dall’amministrazione napoletana quale “bene comune”, provando non a disegnare un progetto come esito formale definito in tutte le sue parti, ma come un processo da attivare per livelli successivi, aperto a possibili modificazioni e tuttavia congruente con i caratteri e i valori dell’antica fabbrica. Il nucleo originale del complesso, che sorge nel cuore del quartiere Avvocata, risale al 1616 quando Onorata Scarpato guarita misteriosamente dopo una lunga malattia decide, alla morte del marito, di prendere i voti e fa erigere la piccola chiesa con annesso convento quale ricovero per le ragazze madri. Già nel 1621 il piccolo complesso viene ampliato a discapito del vicino “Palazzo de Mari”. Durante il secolo successivo la struttura viene prima modificata da Giambattista Nauclerio, che realizza anche il campanile e la cupola della chiesa poi demoliti nel secondo dopoguerra e, successivamente, nuovamente ampliata con l’aggiunta di alcuni spazi, tra cui i due belvedere, uno coperto e l’altro scoperto caratterizzato da un sistema di archi che coronano la facciata su strada. Nel 1760 Nicola Tagliacozzi Canale interviene ancora sull’apparato decorativo di alcuni ambienti della facciata della chiesa e del portale del convento. Nel 1809 con la soppressione degli ordini monastici, il complesso viene adibito a riformatorio minorile e intitolato a Gaetano Filangieri, funzione che assolverà praticamente fino al 1980 con nomi diversi, Istituto di Osservazione Minorile (1925-1930) e Istituto di Rieducazione (1945-1980), fino a quando in seguito al terremoto del’80 viene dismesso. Durante questo periodo il complesso subisce non poche modifiche, tra le quali la realizzazione dell’appartamento del direttore e del personale che inciderà notevolmente sulla struttura dei collegamenti interni. Nel 1985 Eduardo De Filippo, allora senatore a vita, avvia una prima ristrutturazione del complesso, dotandolo anche di un piccolo teatro e di una palestra. Nel 1999 il complesso viene trasformato in Centro polifunzionale diurno e nel 2000 viene acquisito dall’Università degli Studi di Napoli Parthenope che, nell’arco di sei anni realizza il solo intervento di consolidamento degli archi del belvedere scoperto. Poi l’oblio… un lungo nulla durante il quale alcune parti dell’edificio vengono occupate da famiglie senza tetto e usate come alloggio, fino al 2015 quando lo “Scugnizzo” viene “liberato” dalla rete di collettivi Scacco Matto, che lo riapre e dà inizio a una serie di attività gratuite e aperte al quartiere come cineforum, doposcuola, ma anche laboratori linguistici e di supporto agli immigrati, nonché ambulatori gratuiti dove vengono effettuate, da parte di medici volontari, visite ed esami gratuiti. Nel 2016 il Comune di Napoli lo riconosce come bene comune.

2. Strategie per la riattivazione Questa breve e certamente non esaustiva storia del ex convento delle Cappuccinelle ha sostanzialmente lo scopo di sottolinearne la complessità architettonica e ambientale esito di

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2: Descrizione del complesso processi continui di trasformazione e adeguamento della struttura ad usi diversi e, talvolta, non congruenti con la sua struttura. Chi oggi si trova ad entrare nello Scugnizzo ha bisogno di un “Virgilio”, una guida che lo accompagni per questi spazi, spesso interdetti, che si dipanano come un labirinto. Le tante parti della struttura raccontano tempi e “dolori” diversi che talvolta si sovrappongono in un palinsesto di segni, talaltra si negano reciprocamente. Per decidere se e come intervenire su questa realtà così complessa è necessario innanzitutto mettere a punto un modo per descriverla. Gran parte del lavoro di tesi elaborato da Serena Roscigno e Maria Rosaria Savoia è dedicato al racconto di questo complesso e al tentativo di provare a scomporlo in “pezzi” e “parti” che siano non solo congruenti con la sua struttura tipologica, ma anche con i tempi diversi di una “riattivazione” che parte dal basso, che si innesca a partire non solo dalla “qualità” degli ambienti ma anche dalla loro “disponibilità” ad essere utilizzati, con un livello plausibile di accessibilità e di sicurezza. Una descrizione capace di rilevare e mettere in evidenza le potenzialità degli spazi, ma anche le contraddizioni di alcuni luoghi, come il “pronao” della chiesa trasformato abusivamente in alloggio con la porta murata sulla quale è apposto il disegno di un crocifisso fatto da un bambino, o l’atrio di ingresso al convento, chiuso perché divenuto l’accesso ad altre due abitazioni abusive, o la piccola e atroce stanza di isolamento cieca che interrompe il

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3: Schema delle funzioni ipotizzate. corridoio all’ultimo piano, oppure lo spazio caratterizzato dalle colature di malta di un consolidamento mai finito nel quale si è fermato l “’Angelo Riabilitato” di Zilda. Attraversando lo “Scugnizzo” si comprende, forse meglio che altrove, la logica dei “beni comuni”. In una città come Napoli, caratterizzata da molti, forse troppi, “giganti dormienti” in attesa di un risveglio che lo Stato non può attuare per mancanza di fondi e che per varie ragioni non sembra interessare i privati, l’adozione di questi spazi da parte di alcune comunità può rappresentare una via praticabile. Ovviamente non si può pensare che il destino di un complesso di queste dimensioni possa essere affidato solo alla cura e all’adozione di questi spazi da parte della comunità che lo ha occupato, sarebbe impossibile dal punto di vista economico e estremamente pericoloso dal punto di vista “culturale”, perché la logica dell’autocostruzione non sempre sembra rispettare i valori e le “qualità” del patrimonio architettonico. Tuttavia altrettanto innegabili, in una logica non ideologica, sono gli effetti positivi di queste pratiche e cioè il fatto che se da un lato la rete dei collettivi Scacco Matto ha cominciato a “prendersi cura” del complesso, fermando il degrado di alcune parti, dall’altro l’insediarsi di una serie di attività a servizio di tutti gli abitanti della zona ha consentito alla “comunità” di insediarsi progressivamente. Lo “Scugnizzo”, che come convento e carcere era sempre stata una presenza chiusa e astratta, oggi sembra essere parte della vita quotidiana del quartiere.

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4: Schema dei possibili utenti e dei tempi di gestione.

La scommessa, dal punto di vista dell’architettura, è quella di elaborare una “strategia” che, partendo dalla condizione attuale provi a tracciare un processo a lungo termine “inclusivo”, teso cioè a tenere insieme le esigenze della “comunità” che, per prima, ha deciso di riappropriarsi di questi luoghi abbandonati, con quelle di chi potrebbe avere anche la forza economica per attuare un recupero della fabbrica congruente con i suoi valori storici, architettonici e ambientali. L’ipotesi messa in campo si basa sulla strategia attuabile per livelli successivi in una logica assimilabile, per alcuni versi, all’esperienze di “temporiuso” studiate e descritte da Isabella Inti, Giulia Cantaluppi e Matteo Persichino (2014). I livelli individuati dai tre ricercatori milanesi come possibili step delle pratiche di “riuso temporaneo” sono quattro: 1. il livello di base, nel quale vengono rimossi i detriti e messi in sicurezza gli spazi da utilizzare; 2. il livello 0, nel quale si realizzano allestimenti e strutture temporanee; 3.il livello 1, nel quale si dotano gli ambienti di arredi interni e esterni e di infrastrutture primarie; 4. il livello 2, nel quale gli interventi puntano a rendere più “stabile” l’occupazione con la realizzazione di strutture aggiuntive. Nel caso di una fabbrica come lo “Scugnizzo” questi interventi devono essere attuati in una logica che non solo sia reversibile e rispettosa dei caratteri e dei valori del complesso, ma che possa anche esaltarne le qualità spaziali. Per questo il “progetto”, oltre a definire alcune caratteristiche specifiche dei singoli interventi, punta prima di tutto a individuare una serie di

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5: Prospettive future. azioni finalizzate a una ridistribuzione progressiva delle funzioni in maniera fortemente connessa alla lettura dell’edificio come “aggregato”, al sistema di relazioni e percorsi interni e all’accessibilità reale e potenziale. In una prospettiva di lungo periodo, questa occupazione progressiva degli spazi, non legata solo alla logica dell’“immediatamente disponibile” ma ad una razionalizzazione degli spazi che ne consenta una scomposizione in “pezzi” anche indipendenti potrebbe contemplare l’inserimento di “altri soggetti” nel processo (pubblici e privati) disponibili ad acquisire e a riqualificare quelle “parti” dell’edificio che necessitano di un’azione più importante dal punto di vista architettonico e strutturale e, dunque, di un preciso impegno di risorse economiche. Nell'elaborazione della strategia di intervento la tesi ha cercato di individuare le funzioni compatibili con i caratteri degli spazi a disposizione ma anche le interazioni tra i possibili utenti, i tempi, le regole e gli strumenti di concessione e di utilizzo degli spazi, arrivando a definire non solo un'ipotesi di recupero flessibile ma anche un modello di gestione multilivello del complesso. La prospettiva dei beni comuni individua un diverso approccio culturale, che implica non soltanto cambiare i valori individuali, ma anche passare ad una diversa percezione del problema, che punti su di una logica riconosciuta come "sociale" [Bruni, 2011], riconoscendo un approccio relazionale all’azione, una “we rationality” o razionalità del “noi” [Hollis, 1998; Smerilli, 2007; Sennett, 2012; Zamagni, 2012], caratterizzata da una visione relazionale e personalista dell’azione umana, basata su di una profonda consapevolezza dell'importanza

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dei legami tra persone per costruire scelte condivise attente agli interessi della nuova comunità costruita dai nuovi usi del complesso architettonico.

Conclusioni L’ipotesi alla base della strategia di intervento è un'utopia, ma come diceva Yona Friedman (1973) «credere in un'utopia e contemporaneamente essere realisti non è una contraddizione. Un'utopia è, per eccellenza, realizzabile». È stato proprio l’architetto ungherese ad anticipare, in epoca non sospetta, il concetto di bene comune in architettura, non a caso le sue teorie diventano il fondamento della “Nuova Venezia”, la new town autogestita con la quale si conclude il secondo romanzo di Colonel Durruti. Come sottolinea Ugo Mattei (2011), il concetto di bene comune è antico, lo troviamo già nella Charter of Forest del 1217, ed echeggia nel grido “omnia sunt communia” di Thomas Müntzer, e segna ciclicamente il cortocircuito di un assetto politico ed economico consolidato. È troppo presto per dire se queste esperienze avranno esiti durevoli e quali saranno le conseguenze e gli effetti nel tempo. Quello che è possibile sostenere è che oggi i “beni comuni” rappresentano una opportunità forse non per uscire dalla crisi ma sicuramente per contribuire a gestirla. Forse rappresentano anche un'opportunità per una diversa progettualità, ancora troppo ancorata, come sottolinea Aravena (2007), ad un pensiero “moderno”, che vede l’architetto come l’Autore del Progetto, che pretende libertà artistica e chiede alla società che lo lasci essere genio e gli conceda quel privilegio o, di contro, asservito a una deriva sociologica che ci ha portato ad abbandonare il centro della disciplina e ci ha condannato all’irrilevanza. L’esperienza dell’architettura come “bene comune” pone invece l’attenzione su un’altra interpretazione di quella che potremmo definire “l’architetto generalista”, non solo l’architetto di studio, ma quello capace di “organizzare lo spazio”, di prefigurare soluzioni aperte e mutevoli nel tempo, di coniugare l’esigenza di tutela del patrimonio architettonico con la necessità di chi quel patrimonio vuole realmente usarlo.

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Lo spazio sanitario in carcere. Un nuovo ruolo urbano per il presidio sanitario di assistenza intensiva interno alla casa circondariale di Napoli-Poggioreale The sanitary space inside prison: a new urban role of the intensive health care unit within the Naples-Poggioreale prison service

INES NAPPA Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Abstract La rivoluzione del carcere parte da una visione diversa dei suoi luoghi: restituendo uno spazio si può restituire un servizio utile alla città, un nesso concreto col contesto urbano e sociale. La tesi in progettazione propone l'apertura al pubblico del presidio sanitario interno alla casa circondariale di Poggioreale in Napoli, immaginando le trasformazioni possibili per rompere la chiusura di tale mondo dell'esclusione e aprendo alla città un ospedale di massima specializzazione.

The prison revolution starts from a different view of its places: by returning a space there’s the chance of returning useful service to the city, a concrete connection with the urban and social context. The thesis in architectural design proposes the public opening of the Intensive Health Care Unit within the Naples-Poggioreale prison service, by imagining possible conditions to interrupt the closure of this world of the exclusion and to opening to the city a highly specialized hospital.

Keywords Presidio sanitario, carcere, retrofit. Health care unit, prison, retrofit.

Introduzione Le ragioni della ricerca risiedono nella volontà di risignificare uno spazio chiuso che ospita funzioni che prescindono dalla condizione di allontanamento di un individuo dalla comunità e alla conseguente attuazione della restrizione della libertà personale. Lo spazio sanitario- penitenziario è uno spazio interno al carcere che ospita funzioni legate alla sfera della salute dell’uomo rinchiuso. Il carcere si configura come un luogo che deve essere necessariamente quanto più possibile autosufficiente, in virtù dei parametri di sicurezza che esigono un certo grado di contenimento del complesso. Lo spazio detentivo associato alle esigenze sanitarie, è caratterizzato da una serie di contraddizioni pratiche da risolvere più che da necessità particolari da soddisfare, a causa delle varie istanze che devono essere rese compatibili nel progetto. La difficoltà nell’organizzazione di questo luogo, ha fatto sì che la concretizzazione dello spazio del carcere snaturasse la dimensione umana per cui dovrebbe essere concepito. La costante dualità nella sua definizione testimonia la complessità concettuale/progettuale per chi si accinge a rendere tale luogo realmente quello che dovrebbe essere ossia un’istituzione statale educativa integrata col territorio. Considerando lo spazio detentivo come uno spazio da esiliare dall’ambito urbano e sociale, ridotto a contenere solo le pene, è parso scontato un collettivo disinteresse per qualsiasi argomento che trattasse di qualità dello spazio. L’esperienza di studio proposta si presenta come un punto di riflessione su come

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l’architettura può permettere una rivoluzione reinterpretando nella sostanza e nella forma il problema dello spazio penitenziario e rendendo possibile un’integrazione con la città finora considerata complicata e forse impossibile. La tesi studia le possibili trasformazioni di uno spazio sanitario interno alle mura per permettere una nuova relazione urbana. I presidi sanitari penitenziari possono diventare elementi fondamentali della catena di spazi che possono connettere l’edificio carcere con la città garantendo un servizio fondamentale e comune ad entrambe le realtà. La ricerca propone una rinnovata fruizione che agisce sul piano tecnico-progettuale, spaziale, architettonico proponendo l’idea di intervenire con proposte di retrofit.

1. La ricerca preliminare: dall’afflizione alla riabilitazione La definizione di pena come percorso riabilitante è un concetto moderno perché essa discende da una concezione punitiva e privatistica. Il concetto di pena è cambiato nel tempo, trascinando con sé l’apparato legislativo dell’epoca di afferenza e poi l’applicazione pratica nei luoghi che dovevano contenerla. Abbiamo sempre un’oscillazione fra la rieducazione e la punizione verso chi ha sbagliato e si pensa possa continuare a farlo. Il carcere resta concentrato su attività di tipo afflittivo e di controllo per molto tempo. Durante il periodo della Rivoluzione Francese, il crimine viene considerato come una scelta libera dell’uomo, essere razionale e responsabile delle proprie azioni. L’amministrazione della giustizia si realizzava nel perseguimento di due finalità: una retributiva, con il risarcimento alla società del danno compiuto e l'altra deterrente, disincentivando sia il reo che il resto della società dal commettere reati. Sarà necessario aspettare almeno un secolo per vedere l’introduzione della rieducazione, come la intendiamo oggi. Nel dopoguerra inizia l’articolato iter per la riforma giudiziaria del 1975. La riforma quando viene varata non è accolta con spirito culturale evoluto, si parla addirittura di mancanza di coraggio civile. Il nuovo ordinamento penitenziario apporta delle significative modifiche al sistema carcerario e alla sua concezione. Il legislatore prova a dar forma e dimensione ai principi costituzionali che sanciscono che il carcere deve essere un luogo riabilitante. Lo Stato così intende dare un'opportunità affinché il condannato possa porsi in discussione ed uscire dalla propria antisocialità. La novità più recente è stata la convocazione degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, percorso di riflessione durato un anno. Il tema centrale riguardava come ridefinire una dimensione della pena nel quadro dei diritti e delle garanzie al reinserimento del detenuto. Tale esperienza rappresenta per l’architettura del carcere il pieno riconoscimento della sua centralità nell’esecuzione della pena: diventa il punto focale di una necessaria riflessione poiché solo un progetto di architettura può ridare dignità allo spazio e all’uomo detenuto.

2. Carcere e Architettura Il carcere è un organismo complesso, il cui significato, organizzazione ed espressione si sono sviluppati nel tempo all’interno della struttura della società e della città. È difficile ricostruire i gradi di evoluzione, perché sotto le stesse astrazioni si sono consumate esperienze, consapevolezze e scopi diversi. Il sistema del carcere si traduce sempre in un contesto sociale e giuridico relativizzato, dove sia la sua immagine concreta che quella teorica hanno tradotto in modo diverso quel luogo. Il rapporto spazio-tempo ha modificato la sua accezione durante gli anni: il carcere nasce prima come luogo di passaggio modificandosi poi in luogo di stasi espulso dalla città. L’allontanamento dalla comunità è,

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1: Planimetria della casa circondariale di Napoli-Poggioreale. però, il denominatore comune della sua evoluzione culturale. Il mondo dell’architettura del carcere è poco ricco di informazioni e di riferimenti di qualità. Questo perché per tanti anni in Italia si è parlato di edilizia carceraria e non di architettura del carcere. Considerando lo spazio detentivo come uno spazio ridotto a contenere soltanto le pene, è parso scontato un collettivo disinteresse per qualsiasi argomento che trattasse di qualità dello spazio.

3. La casa circondariale di Napoli-Poggioreale La città borghese ha lasciato in eredità la prassi di espulsione di quelle attività che potevano arrecare danno all’immagine urbana per le funzioni che ospitavano, come macelli, industrie, cimiteri e carceri. Questa operazione di decoro urbano segnerà lo sviluppo di grandi città, questi elementi posti in aree periferiche diverranno spesso i poli attorno ai quali la città si svilupperà, segnando inconsapevolmente nuove direttrici di ampliamento. Un caso emblematico di tale questione è il carcere di Poggioreale, eretto su un malsano territorio nel 1905, in zona periferica ma poi inglobato nello sviluppo urbano di Napoli. Le dinamiche di espansione hanno coinvolto anche tale complesso in un punto nevralgico, un quartiere che sta vivendo ora un momento apertura e miglioramento. Questo frangente rappresenta un’opportunità per una zona che ha sempre contenuto funzioni rifiutate, manifestandosi come un luogo dalle varie potenzialità. L’importanza di tale pezzo di città, rappresentante di un’evidente mixité funzionale e sociale, assume un ruolo centrale rispetto alla ricerca proposta: l’architettura dei luoghi contemporanei chiusi, può qui cogliere l’occasione di dimostrare che è possibile una diversa relazione con la città posizionandosi sulla scia del miglioramento urbano in itinere. Il carcere, ancora oggi, appare come un luogo scansato e escludente. Esso incarna da sempre l’idea di comprimere lo spazio provocando una

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dilatazione del tempo, ma è doveroso sottolineare che non tutte le carceri sono uguali. La differenza sostanziale risiede tra casa circondariale e casa di reclusione, indicando nella prima una condizione di passaggio-attesa e nella seconda una vera condizione di espiazione definitiva. Il sistema penitenziario ha ben distinto concettualmente le tipologie, ma non la realtà pratica di esse che si traduce costantemente nella rimozione a priori dall’ambito urbano: un carcere si avverte come ingombro ma la città non è messa nella condizione di poterlo vivere. Il carcere si appropria di uno spazio in maniera sterile poiché nasce per esistere solo dentro. L’impenetrabilità delle mura di cinta si manifesta in tutta la sua durezza intorno ad un complesso di notevoli dimensioni, come quello di Poggioreale. Per creare una connessione con la comunità, bisogna pensare a come può un carcere essere realmente utile alla società. L’idea di riprogettare l’ospedale che si erige all’interno delle mura, risponde alla domanda di come si può attuare una rivoluzione culturale inclusiva a partire da un edificio chiuso nato per servire i detenuti solo entro determinati confini. Il servizio sanitario è pubblico e garantito a tutta la popolazione e l’unica reale funzione che può servire davvero e contemporaneamente sia la società detenuta che quella libera. Restituendo un servizio, si crea e garantisce una connessione reale. Il presidio sanitario di Poggioreale rende un servizio esclusivo alla popolazione detenuta e rappresenta uno dei luoghi più particolari che un carcere può ospitare. L’idea di prevedere l’apertura di questa struttura significa ripensare questo edificio isolato che vive nell’organismo carcere, allontanato per quanto autonomo, per attuare una nuova relazione urbana. L’idea è quella di realizzare un intervento progettuale incentivando un cambiamento culturale che deriva dall’ampliamento dei fruitori di uno spazio che può finalmente iniziare ad avere un rapporto con la città di Napoli.

4. S.A.I. “S.Paolo”: un nuovo ruolo urbano per uno spazio sanitario di eccellenza La regione assicura l’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta attraverso le Aziende Sanitarie Locali. La struttura sanitaria interna alle mura della casa circondariale di Poggioreale è collocata al livello massimo di specializzazione. Tali complessi sono chiamati Strutture con Servizio Medico Multi-Professionale Integrato con Sezioni dedicate e specializzate di Assistenza Intensiva – S.A.I. Esse sono edifici intra-penitenziari extra ospedalieri per detenuti non autosufficienti o affetti da patologie croniche non assistibili in sezioni ordinarie di un istituto penitenziario; garantiscono assistenza medica, infermieristica diurna e notturna e specialistica di particolare rilievo. Lo spazio penitenziario, a causa dei limiti più restrittivi che impone, si configura come il luogo contenitore di qualsiasi altra attività. Il progettista deve mirare a concepire luoghi che possano offrire il massimo della funzionalità, comfort, comodità ed estetica in funzione delle risorse disponibili e dei vincoli presenti. Nell’ottica sanitaria emergono i fattori concreti che ruotano intorno alla tutela della salute, al benessere del paziente e alle pratiche di prevenzione, mentre dal punto di vista penitenziario abbiamo i requisiti di sicurezza penitenziaria a cui gli spazi e ogni pratica erogata devono rispondere. Lo Stato si impegna a garantire servizi sanitari e di prevenzione a tutta la popolazione senza nessuna distinzione sociale o individuale. Questi edifici, connotati da caratteri distributivi rigidi e gestioni spaziali controllate, pongono molteplici questioni quando ci si accinge a cambiare il senso di fruizione: non più verso dentro, ma verso l’esterno. Tante le contraddizioni che si presentano, soprattutto di ordine etico e culturale, riferibili ai limiti improrogabili dei principi di sicurezza penitenziaria e di ispezione. In parallelo, agire su tale patrimonio significa valutare l’effettivo grado di trasformabilità degli assetti spaziali, del miglioramento dell’accessibilità, della fruizione, dell’inserimento di nuove funzioni entro manufatti che sono sì chiusi, ma abitati e funzionanti rispetto al loro attuale ambito. Su tale

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2: Prospetto principale del presidio sanitario interno al carcere di Poggioreale. filone concettuale i percorsi di esercizio rivestono un ruolo fondamentale nel carcere ma anche e soprattutto in un ospedale civile. Il giusto funzionamento di una struttura penitenziaria è collegato in maniera imprescindibile all’interazione e alla corretta gestione dei flussi di esercizio e degli accessi. L’analisi della complessità di tali insiemi di percorsi è stata fondamentale per poter attuare nel progetto in maniera adeguata l’interazione con l’esterno. L’edificio sanitario attualmente può essere definito come struttura a corpo unico introversa, avendo l’accesso soltanto dall’interno del carcere. Tale tipologia non consente di utilizzare tutta la superficie razionale disponibile, soprattutto in relazione al fatto che in tale edificio esistono aree funzionali diverse e di diversa specializzazione. Inoltre è da non sottovalutare la presenza di personale specializzato differente: sanitario e penitenziario. La conseguenza di tale gestione spaziale non omogenea è un connettivo ospedaliero discontinuo. I presidi di controllo sono posti in modo poco funzionale e mirano principalmente a garantire un controllo costante delle corsie di degenza. L’inflessibilità negli spazi e nei percorsi denunciata fin qui, è sicuramente voluta, di conseguenza vi è totale mancanza di spazi polivalenti che potrebbero garantire più utilizzi a seconda delle esigenze. La proposta di progetto mira a raggiungere un miglioramento del tessuto connettivo ospedaliero, una più razionale gestione spaziale, l’inserimento dei servizi sanitari speciali, tenendo presente l’aggiunta dell’utenza inedita del pubblico proveniente dall’esterno del carcere. Si propone una struttura poli-blocco, che permette sia di caratterizzare gli elementi funzionali dell’ospedale, sia di garantire una suddivisione degli stessi più adeguata. Sono messe a sistema le richieste della normativa penitenziaria e i requisiti della normativa sanitaria. Si effettua un’analisi esigenziale- prestazionale, poi viene proposta l’aggiunta di due volumi nella corte e nello spazio laterale

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3: Proposta di progetto dei percorsi e degli accessi, pianta piano terra con evidenziazione dei volumi aggiunti. del cortile. Decidendo di ridefinire gli spazi e di aggiungere nuovi volumi/componenti all’edificio, si è applicato il principio del retrofit ossia lo scopo di aggiungere parti ad un sistema ponendosi l’obiettivo di migliorarlo sotto vari aspetti. Il blocco centrale ospita nuove funzioni come l’accesso del pubblico con percorso di perquisizione, al primo e al secondo piano servizi sanitari speciali e di supporto. Il blocco laterale accoglie funzioni inedite per la struttura, come lo spazio colloqui per il pubblico con area verde, al primo e secondo piano servizi di degenza chirurgica e su copertura una nuova area lavoro protetta. Nell’approccio progettuale utilizzato i percorsi di esercizio sanitari e penitenziari e dei vari tipi di utenza costituiscono la base di un diagramma dove gli elementi funzionali sanitari della struttura si innestano in maniera compatibile senza creare interferenze con le aree di controllo. Lo scopo è configurare uno spazio flessibile nonostante i vincoli restrittivi, affidando la conduzione dei reparti in maniera complementare al personale penitenziario, garante del rispetto delle basilari norme di sicurezza penitenziaria, e al personale sanitario, responsabile della corretta gestione dei reparti sanitari. Tale sistema permette che in condizioni di massima/minima occupabilità non vi siano problemi gestionali relativi alle varie aree funzionali sanitarie. In tale ottica si distinguono una serie di spazi suddivisi in base alla frequenza di movimentazioni del paziente con l’ausilio di entrambi le tipologie di personale e in base al grado di pericolosità di

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4: Modificazione dell’esistente secondo i principi del retrofit.

5: Stato di fatto e stato di progetto.

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interazione al di fuori della stanza di degenza blindata: spazi statici (reparti di degenza, blocchi sanitari di servizio speciali), spazi di connessione (corsie ospedaliere), spazi dinamici (aree di ingresso ai blocchi sanitari speciali, alle aree colloquio, all’area lavoro). Poi si distinguono le aree di controllo che si dividono in permanenti e provvisorie. I presidi permanenti sono posti nei punti strategici di ogni piano, dove si suppone che il controllo penitenziario debba essere costante. I presidi di controllo provvisori sono attivabili in caso di utilizzo di uno specifico blocco funzionale (es. blocco operatorio) e sono progettati come doppi spazi filtro chiusi, permettendo l’affidamento del paziente al personale sanitario sotto il controllo del personale penitenziario e garantendo soprattutto l’inizio dei percorsi sterili. necessari. L’aggiunta dei volumi è un’azione chiave aiutando a garantire un’elevata autonomia degli spazi statici e di connessione che compongono l’ospedale, grazie all’inserimento strategico degli spazi dinamici. L’innesto dei volumi soddisfa la parallela volontà di applicare strategie di retrofit e nasce dall’impegno di proporre un’efficace risposta alle carenze strutturali, gestionali e prestazionali di tali manufatti. Tutto ciò si collega poi alla responsabilità di migliorare le prestazioni con maggiore attenzione al comfort ambientale, attraverso operazioni di aggiornamento, integrazione e modernizzazione, tenendo presente che in una struttura penitenziaria-sanitaria interna alle mura non è chiaramente possibile raggiungere il benessere standard (raggiungibile in ospedali dove il benessere è lo scopo primario, che modula l’intera organizzazione) ma si inserisce il concetto di benessere ammissibile.

Conclusioni Il lavoro si offre come un propulsore per nuove idee nella progettazione di un luogo chiuso e introverso che può contribuire allo sviluppo di una città contemporanea e si pone l’obiettivo di dimostrare il potenziale ruolo urbano che può avere un’istituzione statale di tale tipo. Si rivela necessaria un'attenzione contemporanea al problema dello spazio del carcere, come luogo espulso sia dalla memoria urbana e sociale che dall’ambito tangibile di una realtà metropolitana. Un complesso penitenziario, conscio della sua massa può efficacemente creare un’utile capacità attrattiva per i cittadini aprendo un servizio di qualità al territorio. Tale ricerca sottolinea il valore del progetto di architettura, arte propriamente civile che può e deve innescare un cambiamento culturale. Lo studio pone la domanda di come concepire una trasformazione compatibile con le esigenze esterne-interne di questi luoghi che accolgono una dimensione del tempo inalterata e sono il vero campo di attuazione della pena. La scelta di un determinato spazio del carcere aggiunge un ulteriore grado di complessità all'insieme. L’architettura può ridare dignità agli spazi del carcere e gli stessi possono restituire dignità agli spazi urbani a esso adiacente, permettendo a tutta la cittadinanza di riconoscere in tali strutture un ruolo sia urbano che sociale. Una rivoluzione che parte da dentro le mura, dimostrando che il carcere può essere punto nevralgico di promozione e innovazione culturale e che diventa un luogo dove si organizza un servizio reale. Deve rivoluzionare la sua concezione più intima, manifestandosi finalmente come un elemento chiave che aggancia e trattiene il contesto urbano e che riesce per questo a generare l’effettiva libertà dei suo abitanti e ad essere accettato dalla comunità. Progettare questo spazio significa non solo interpretare un sistema di vita altro e le logiche di una realtà urbana altra, ma anche attivare un cambiamento e una tensione verso la trasformazione di un luogo che deve definitivamente raggiungere la sua emancipazione.

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Bibliografia ASCIONE P., BELLOMO M., (2012), Retrofit per la residenza, Napoli, Edizioni Clean. BOLOGNA F., (2011) L’universo della detenzione, storia, architettura e norme dei modelli penitenziari, Milano ed. Mursia. CANELLA G., (1995) Carcere e Architettura, in «Il Ponte», num. Monografico, nn.7-9. FOUCAULT M., (1975) Sorvegliare e punire, (Trad. It. Einaudi, 1977). SANTANGELO, M., (2017) In prigione. Architettura e tempo della detenzione, Siracusa, LetteraVentidue. SANTANGELO, M., (2013) L’architettura del carcere. Tendenze attuali e stato dell’arte in Il carcere al tempo della crisi, a cura della fondazioni Giovanni Michelucci, Firenze. SCARCELLA L., DI CROCE D., Gli spazi della pena nei modelli architettonici. TONINI P., FLORA G., (1997) Nozioni di diritto penale, Giuffrè, Milano. VESSELLA, L., Lo spazio della detenzione: cenni sul processo evolutivo delle architetture carcerarie in «Rivista contemporanea di arte e critica» n.11.

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Principi spaziali per un carcere inclusivo Spatial Principles for an inclusive prison

FRANCESCO CASALBORDINO Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract La città, campo d’azione della società, si definisce da un confine che stabilisce una regola. Le eccezioni sono controllate da dispositivi come il carcere con azioni di esclusione, isolamento e disconnessione. Si offre una visione del carcere come luogo a servizio della città e, considerando l’inclusione come idea di un nuovo modello detentivo e l’abitare come atto di libertà anche in spazi ristretti, si definiscono principi per la progettazione di sistemi detentivi dotati di qualità spaziali.

The city, the field of action of society, is defined by a border that establishes a rule. The exceptions are controlled by devices such as prison with actions of exclusion, isolation and disconnection. This study offers a vision of the prison as a place to serve the city and define design principles for detention systems with spatial qualities, considering the inclusion as an idea of a new model of detention and living as an act of freedom even in restricted spaces.

Keywords Carcere, città, abitare. Prison, city, inhabit.

Introduzione È possibile abitare un carcere? Gli Stati Generali dell’esecuzione penale, promossi dal Ministero della Giustizia tra il 2015 e il 2016, hanno cercato di dare una risposta a questa domanda con principi che propongono un nuovo modello detentivo basato sull’inclusione. Lo scopo è migliorare la vita dei detenuti e riportare l’attenzione della società civile sulle questioni carcerarie. Tale idea non ha una soluzione spaziale definita nel contesto italiano. Lo studio che segue ha lo scopo di proporre una possibile soluzione alla questione partendo dall’analisi delle carceri esistenti e del ruolo che ha il detenuto nella loro progettazione o trasformazione. Diversi modelli detentivi si sono sviluppati nel tempo da idee di controllo dell’eccezione che si formalizzano attraverso tre possibili azioni: escludere, isolare e disconnettere. In questo senso, l’inclusione rappresenta una nuova idea di controllo. Grazie all’esperienza sul campo in alcuni Istituti penitenziari (Workshop di progettazione condivisa con i detenuti) è stato possibile osservare la vita all’interno del carcere. Le testimonianze dirette dei reclusi e dei diversi operatori penitenziari devono essere il punto di partenza per la progettazione delle carceri. Il «materiale progettuale sono le azioni umane e le situazioni» [Farris 2012, 89] che permettono di immaginare un’architettura che limita la pena unicamente alla reclusione garantita dal recinto esterno, in cui lo spazio non può essere considerato un mezzo di punizione. La qualità degli spazi è necessaria affinché l’individuo, appropriandosene, acquisisca la capacità di abitare. A sostegno delle nozioni teoriche esposte e dei principi sanciti dagli Stati Generali si presenta il progetto per la nuova Casa

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circondariale di Nola, alternativo a quello già elaborato dal D.A.P. nel febbraio 2016. Il progetto esposto è stato elaborato per la Tesi di Laurea in Composizione Architettonica e Urbana, dal titolo “Principi spaziali per un carcere inclusivo: il progetto del nuovo Istituto Penitenziario di Nola”, svolta nell’anno accademico 2016/17 presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, con la professoressa Marella Santangelo come relatrice e il professore Paolo Giardiello come correlatore. Attraverso il progetto si è giunti alla definizione di tre idee spaziali sintetizzabili nei termini frammentazione, trasparenza e aggregazione. Il contesto determina il recinto detentivo, margine che non può essere pensato a priori. Deve esistere una corrispondenza esplicita tra forme e attività affinché la vita interna all’Istituto sia percepita dall’esterno. Sistemi complessi, dotati di qualità spaziale, si definiscono attraverso l’aggregazione di parti ripetibili. Ampie prospettive di veduta sul paesaggio offrono la percezione dello scorrere del tempo e concorrono alla costruzione di un ambiente arricchito [Rosenzweig 1987, 127]. Partendo dall’inclusione come idea alla base di un nuovo modello detentivo e dall’idea di abitare come atto di libertà anche in spazi ristretti, [Santangelo 2017, 31] l’obiettivo finale di questo studio è offrire una visione del carcere coerente con i principi sanciti dagli Stati Generali.

1. Controllo Il controllo sociale è «l’insieme degli influssi e delle pressioni che si instaurano per l’esistenza dei rapporti tra gli uomini riuniti in gruppo» [Treccani 2018]. Fenomeni “eccezionali” come la malattia fisica e mentale, l’eresia, l’amoralità e la criminalità, sono generalmente controllati per mezzo di organismi spaziali derivati da determinati principi definiti dallo Stato stesso. Oggi è possibile includere nell’elenco ospedali, caserme, scuole e prigioni, istituzioni pubbliche dello Stato che rispondono a un generico bisogno di sicurezza. L’unica struttura che opera in modo coercitivo è il carcere. I penitenziari sono uno strumento di detenzione forzata, in cui «l’abitare insieme non è una scelta» [Santangelo 2017, 31] e non offrono la libertà di allontanarsi dagli spazi assegnati.

1.1. Idee di controllo I modelli detentivi si sviluppano da una volontà politica: un’idea di controllo. Thomas Hobbes, nel Leviatano, attraverso il contratto sociale, presenta un’idea di controllo basata sulla protezione dei cittadini da parte dello Stato. La figura dell’uomo-eccezione, irrispettoso del contratto sociale, non ha sempre coinciso con quella del detenuto. La reclusione nasce con il passaggio dalla società feudale a quella capitalistica. In precedenza si “custodivano” i prigionieri in attesa della pubblica gogna in edifici costruiti sul modello conventuale. Con la società capitalistica, invece, avviene l’alienazione del lavoro [Marx 1965, 49] e l’eccezione diventa l’uomo improduttivo che delinque. Il controllo esercitato dallo Stato ha lo scopo di annullarlo e lo fa per mezzo di nuove architetture civili. Nasce così il carcere come tipologia edilizia, con lo scopo di garantire la sicurezza. Il termine “Sicurezza” non comprende tutte le accezioni espresse appieno dagli analoghi inglesi security (sicurezza personale) e safety (sicurezza esistenziale) [Bauman 2017, 24]. La sicurezza esistenziale nei confronti dell’eccezione si raggiunge attraverso un rito antropofagico [Lévi-Strauss 1997, 78]. L’idea di controllo è quella dell’assimilazione ed è rappresentata dal trattamento del detenuto attraverso un programma educativo senza prerogativa personologica. Se per l’idea di controllo della safety è necessario che la società sia attiva, la security è totalmente demandata allo Stato. Ciò significa che l’eccezione è

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1: Masterplan di progetto.

2:Il cortile dedicato allo sport.

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chiusa in un recinto e, con atteggiamento antropoemico [Bauman 2010, 52], celata alla società. Da questa idea di controllo deriva il modello del panopticon [Foucault 2017, 187], per disincentivare la socialità tra soggetti reclusi. La rieducazione non è prevista e la società tende a dimenticare i luoghi della reclusione. Il passaggio alla società globale compiuto nell’ultimo secolo ha evidenziato l’inadeguatezza dello Stato a rispondere a questioni sociali predominanti, convogliando l’ansia della società verso una sola componente della Unsicherheit, quella della sicurezza personale [Bauman 2017, 13]. Il senso di security si manifesta nell’individualismo e nella protezione da ricercare nella propria sfera privata. Lo Stato ottiene di nuovo l’egemonia del controllo solo assecondando i sentimenti individualistici guidati da un desiderio di giustizia, dalla volontà di inasprire le pene e di allontanare le carceri in zone sempre più periferiche.

1.2. Azioni di controllo Lo Stato esercita il proprio potere trasformando le idee di controllo in dispositivi spaziali, attraverso un’azione che colloca l’eccezione in diversi luoghi rispetto al confine della città. Quest’ultimo nasce dall’esigenza dell’uomo di stabilire un limite al “Cáos”, definendo uno spazio al suo interno in cui regni il “Kósmos”. Si stabilisce un nuovo ordine in cui l’uomo può realizzarsi nel rispetto di sé e degli altri. Esattamente come un contratto sociale, il tracciamento del confine stabilisce una linea di demarcazione fisica e giuridica di una regula. La città assume la forma imposta dall’idea di controllo dello Stato a cui appartiene perché è «il campo concreto di esistenza di potere, spazio e sapere» [Foucault 1963, 187]. Si riconoscono tre azioni di controllo: escludere, isolare e disconnettere. Con l’esclusione, la città si isola relegando in un confine esterno ad essa tutto ciò che non risponde alla regola, ponendo una distanza spaziale netta tra la società e la sua eccezione. Nell’isolare, l’eccezione viene relegata in un confine interno alla città. Nonostante non ci sia distanza spaziale tra la regola e la sua eccezione, la porzione di spazio isolata non serve più la città, è sacrificata in nome del controllo. La soglia coincide con il confine del carcere, non è un elemento spaziale, ma lineare. Questa azione di controllo può anche presentarsi come il risultato della crescita della città che, valicando il proprio limite arriva a inglobare anche le eccezioni precedentemente escluse dalla società. L’atto della disconnessione non fa riferimento alla relazione tra eccezione e città, ma alla distanza fisica che si determina tra i diversi dispositivi di controllo e la società. Si disperdono le eccezioni in parti lontane dalla società o isolate da confini o limiti fisici, partendo dalla convinzione che è possibile governare la diversità impedendo le relazioni tra diversi soggetti. Le uniche relazioni possibili si verificano all’interno del confine. L’inclusione promossa dagli Stati Generali non è ancora formalizzata in carceri italiane esistenti. Affinché ciò avvenga, è necessario definire una nuova azione di controllo: includere. Il confine del carcere è messo in discussione, accoglie la società e segrega l’eccezione. Il carcere non è più nascosto, isolato o escluso: la soglia è frammentata e si riconosce nello spazio ibrido tra il dentro e il fuori.

2. Restrizione Per il modello inclusivo «il carcere dovrebbe essere il luogo delle opportunità e non delle privazioni, partendo dalla considerazione che la mancanza di libertà personale è essa stessa la pena» [Santangelo 2017, 151] limitata esclusivamente dal recinto. Le condizioni che qualifichino gli spazi devono essere ricercate a partire dalle azioni che chi vive il carcere compie ogni giorno. Essenziale per questo studio è stato il confronto con le testimonianze

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3: Il nucleo residenziale.

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dirette dei detenuti e dagli altri “attori” del carcere raccolte durante i Workshop di progettazione promossi dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, presso la Casa circondariale di Poggioreale a Napoli, la Casa di reclusione Due Palazzi a Padova e l’Istituto penale per minorenni di Treviso. Si offre una visione di queste esperienze da due punti di vista: la percezione e il comportamento.

2.1. Percezione Molte delle richieste provenienti dai detenuti sono state legate alla correzione di problemi di natura percettiva. L’architetto deve e può risolvere le difficoltà sensoriali legate alla percezione dello spazio non solo dei reclusi ma anche degli altri soggetti attivi negli istituti penitenziari. L’efficacia di questo compito è provata anche dalla neuropsicologia. Se il carcere è una «sorta di incubatore sociale di disturbi personologici» [Marconi 2016, 346], la funzione riabilitativa deve sostituire quella punitiva. La rieducazione è possibile grazie alla «sensibilità alle influenze ambientali del nostro sviluppo mentale» [Marconi 2016, 349]. I modelli detentivi precedenti a quello inclusivo non consideravano questo fattore o ne tenevano conto peggiorando la condizione del detenuto. Obiettivo della progettazione deve essere la ricerca della qualità spaziale, «quella splendida presenza e naturalezza che colpisce ogni volta solo a guardarla» [Zumthor 2015, 9]. Se l’edificio penitenziario riesce a sensibilizzare emotivamente il detenuto, la riabilitazione che il carcere inclusivo promuove può avere un senso. I progettisti, non avendo sempre un’esperienza di questi luoghi, riescono difficilmente a coglierne l’atmosfera. Le proposte progettuali sono sviluppate da idee preconcette lontane dalla realtà. I principi progettuali, in questo caso, sono stati desunti dalle analisi delle sensazioni degli abitanti del carcere. Queste sono legate a tutti quei fattori che si manifestano in modo indipendente dal comportamento del detenuto (la luce, il colore, gli odori e i rumori) o al modo in cui la persona reclusa percepisce i margini dello spazio e lo occupa (il fuori, gli esterni interni e i vuoti interni).

2.2. Comportamento Le richieste di oggetti da parte dei detenuti (sedute più comode, attrezzi per fare attività fisica, un frigorifero, un tavolo dove mangiare insieme, una cucina comune, un televisore) mostravano la necessità di fornire gli spazi di strumenti utili allo svolgimento di attività comuni, ma quotidianamente negate. La conoscenza di quali sono le azioni compiute volontariamente e quali sono desiderate, ha rappresentato il punto di partenza di ogni progetto sviluppato nelle esperienze di workshop. Se lo spazio non può essere la pena, «come architetti, non dovremmo mai dimenticare che è per le persone e per le loro azioni che progettiamo» [Eames in Farris 2012, 89]. L’architettura accoglie le azioni e la dinamicità della vita, costruisce spazi da abitare. Perché ciò accada, è necessario che si inneschi «un processo di costruzione di una relazione tra essere umano e luogo. Solo nel momento in cui si realizza un rapporto significativo tra l’individuo e l’ambiente possiamo affermare che l’uomo abita» [Norberg-Schulz 1981, 86]. Questa relazione può realizzarsi anche in una condizione coercitiva grazie a spazi che consentano l’appropriazione da parte dei detenuti. Infatti «sono le prerogative fisiche dello spazio a configurare le circostanze ideali per l’azione stessa» [Farris 2012, 33]. Si riconosce in questo modo una differente libertà, definibile come la possibilità di scegliere l’azione da svolgere e come svolgerla entro un perimetro assegnato. Si tratta di offrire luoghi che costituiscono lo sfondo di uno scenario più vasto che è la situazione. Costruire una situazione significa collocare una

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4: Piano terra e primo piano di un edificio residenziale. determinata azione in un sito con caratteristiche specifiche. Per il carcere, è adeguato parlare di una progettazione situazionale; costruire, in altre parole, un ambiente arricchito [Rosenzweig 1987, 127] che, offrendo nuove esperienze stimolanti e responsabilizzanti, contribuisce alla riabilitazione del detenuto.

3. Costruzione L’occasione per la verifica delle analisi e delle conclusioni finora esposte è stato il progetto di una nuova Casa Circondariale a Nola, sulla base di quanto elaborato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 2016. Con il nuovo progetto si sono individuati tre principi spaziali in grado di dare forma a un modello detentivo inclusivo: frammentazione, trasparenza e aggregazione.

Principi spaziali per un carcere inclusivo

FRANCESCO CASALBORDINO

3.1. Frammentazione L’area di intervento è esterna al contesto urbano consolidato delle città di Nola e Camposano; appartiene a un contesto agricolo minacciato dalla aggressiva edificazione recente, tra cui i complessi commerciali del C.I.S. e del Vulcano Buono. La lottizzazione agricola costituisce una preesistenza imprescindibile. La sfida per la Casa Circondariale di Nola è avvicinare e attrarre la città. Il margine dell’Istituto si frammenta in base al contesto naturale ed è definito da nuclei funzionali, poli attrattori per la città; da un sistema di muri più bassi, che garantiscono sempre allo sguardo di traguardare; dai campi, che pongono distanza tra la strada e il muro perimetrale e conservano le caratteristiche percettive attuali dell’area. Gli spazi dei cortili interni conservano continuità con l’esterno. Conservare la direzione e il disegno generale, in questo caso, significa conservare la percezione del luogo, del paesaggio condizionato dai filari di noccioli, dai vigneti e dalle coltivazioni seminative. Garantire la relazione con la natura permette anche di riconoscere il passare del tempo. Allo stesso modo la visione di punti di riferimento nel paesaggio circostante, permette di orientarsi rispetto al contesto anche all’interno del carcere.

3.2. Trasparenza La possibilità di traguardare il paesaggio è alla base del progetto. L’Istituto si “apre” all’esterno e si inserisce nel paesaggio come un valore aggiunto. Il carcere non si costituisce come una barriera, ma come un nuovo sistema capace di indirizzare lo sguardo verso la montagna alle sue spalle. Non solo l’impianto perimetrale, ma anche i singoli edifici dei nuclei funzionali, sono progettati secondo l’idea di trasparenza. L’insediamento si basa, quindi, sull’aggregazione di diversi nuclei funzionali. In particolare quelli residenziali dispongono di tre edifici, con il piano terra dedicato alla vita comune, organizzati intorno a una piazza centrale, accessibile dalla strada sottoposta. Gli spazi sono concatenati e fluidi e si sviluppano in continuità con la piazza centrale totalmente scoperta. A livello della piazza si determina uno spazio di soglia aperto ma coperto che filtra l’accesso alle diverse attività che l’edificio accoglie. La composizione vuole offrire diverse interpretazioni del concetto di filtro. Infatti, gli spazi intermedi sono utilizzabili per svolgere le diverse attività comuni e, allo stesso tempo, possono essere chiusi durante il giorno al fine di utilizzare solo una parte della struttura in base alle esigenze dell’Istituto. Anche i diversi cortili sono posti in stretta relazione con gli spazi al piano terra, determinando un sistema unico di luoghi da abitare per ogni nucleo residenziale. Ai piani destinati alle celle, lo spazio di collegamento è il risultato della disposizione degli elementi portati, che costituiscono i pieni.

3.3. Aggregazione Gli edifici si compongono da tre elementi prefabbricati: la struttura portante e i moduli per le attività collettive o residenziali di cemento armato e le chiusure perimetrali di metallo. La loro aggregazione e combinazione permette di assecondare diverse possibilità e necessità relative all’uso degli spazi. I moduli sono inseriti all’interno del telaio con logiche differenti per il piano terra e i piani superiori: nel primo caso, totalmente all’interno del perimetro definito dalla struttura, generano spazi di soglia coperti; nel secondo aggettano rispetto al filo della struttura proiettandosi verso l’esterno. Il perimetro del singolo edificio è definito attraverso i moduli di chiusura, elementi metallici che offrono, attraverso la varietà dei pattern decorativi utilizzati, differenti possibilità di vista esterna.

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5: Dettaglio dell’edificio.

Conclusioni Lo studio ha avuto come obiettivo la definizione di principi spaziali per la progettazione di un carcere inclusivo. Servendosi di un tema reale e concreto, il progetto di un nuovo carcere a Nola, si è spostata l’attenzione dalla definizione tipologica dello spazio all’azione che l’individuo compie al suo interno. Non si fa riferimento a un approccio esigenziale, ma si conforma lo spazio sulla gestualità degli individui. Ciò avviene situando le azioni in

Principi spaziali per un carcere inclusivo

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determinati luoghi che, messi a sistema, generano un carcere finalmente a servizio della società e del contesto in cui si colloca. Si propone un carcere che, partendo dalla misura dei gesti dell’uomo, sia capace di costruire relazioni positive al suo interno e al suo intorno.

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Nisida è un’isola e nessuno lo sa. Un progetto tra città e paesaggio Nisida is an island and nobody knows it. A project between city and lanscape

CORRADO CASTAGNARO Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract L’intervento propone un modello di strategia di intervento in luoghi complessi e stratificati come l’isola di Nisida, presentando come caso studio un progetto di ricerca tesi, studiando il rapporto che da sempre lega il tema carcere con l’elemento isola. Nonostante il collegamento alla terraferma, la continuità fisica con un contesto denso di punti d’interesse naturalistico, paesaggistico e archeologico viene negata dalla funzione sociale che l’isola ospita. Il progetto mira al reinserimento di Nisida nelle logiche della città.

The intervention proposes a model of strategy of intervention in complex and layered places such as the island of Nisida, presenting as a case study a thesis project, studying the relationship that always links the prison theme with the island element. Despite the connection with the mainland, the physical continuity with a context full of naturalistic, landscape and archaeological points of interest is denied by the social function that the island hosts. The project aims at the reintegration of Nisida in the city’s process.

Keywords Carcere, isola, paesaggio. Prison, island, lanscape.

Introduzione Nisida, dal greco nesis, piccola isola, è ciò che resta del cono di un vulcano indipendente dell’antico ciclo eruttivo dei Campi Flegrei che, come l’intera area, ha subito intense trasformazioni per effetto del noto fenomeno del bradisismo e rappresenta una singolarità sia in ambito architettonico che paesaggistico e ambientale. L’isola – la cui vicinanza alla terraferma è tale da poterla raggiungere a nuoto – è collegata tramite un “esile” pontile, frutto di un disperato tentativo di trasformarla in una sorta di prolungamento della città. Collegamento che risulta storicamente negato dalle diverse “funzioni di isolamento” che ha ospitato: monastero benedettino, torre fortificata, lazzaretto, ergastolo, colonia agricola e penitenziario minorile. Il Luogo è ricco di significati, stratificazioni e cambiamenti le cui tracce storiche portano Victor Berard a individuarla in Nesis, la piccola isola, terra fertilissima dove approdò Ulisse prima di raggiungere la grotta di Polifemo, collocata sempre secondo il Berard nella grotta di Seiano. Più ricca e accertata la documentazione che attesta la presenza romana sull’isola, dalle lettere di Cicerone ad Attico, a Plinio che ne decanta la vegetazione che nasce spontanea. È però della seconda metà del Cinquecento la prima fonte cartografica, di Claudio Duchetti in cui compare l’isola con unica grande architettura, primo impianto documentato, ovvero la Torre fortificata di don Pedro de Toledo. Questa, realizzata probabilmente sui resti di una villa romana, poi monastero medioevale – come ci racconta Beda il Venerabile – ne è elemento caratterizzante, al punto da assumerne, nello stralcio della tavola di Francesco

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1: Masterplan. (Corrado Castagnaro, Giuseppina Elefante).

Villamena, quasi le stesse dimensioni dell’isola. Nisida con la sua torre è stata per secoli, e per diversi artisti, fonte d’ispirazione e ha rappresentato un riferimento iconografico per il golfo di Pozzuoli e per l’intera Baia di Napoli. Significativa è stata la realizzazione del porto ad opera di Antonio Maiuri nel 1856 che collega l’isola allo scoglio del Chiuppino, con i due moli di levante e di ponente. Successivamente, negli anni Trenta del secolo scorso, con la realizzazione del pontile di collegamento con la terraferma, Nisida perse il suo carattere insulare e ciò comportò un significativo implemento delle edificazioni lungo il crinale: i padiglioni da adibirsi a colonia agricola per minorenni detenuti, con la realizzazione di una strada carrabile e la demolizione di due piani della torre con successiva edificazione di una serie di eterogenee costruzioni al suo intorno. È evidente che, da sempre Nisida, risulta estranea alle logiche e allo sviluppo della città, a tal punto che un’analisi dei collegamenti a scala locale evidenzia come oggi sia i trasporti su ferro, che su gomma sfiorano l’imbocco del pontile quasi a negare la continuità fisica dell’isola con il contesto immediato, denso di punti di interesse naturalistico, paesaggistico e archeologico quali la Grotta di Seiano, la Baia di Trentaremi, il Parco Archeologico

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Ambientale del Pausilypon e Parco Sommerso di Gaiola con i quali potrebbe essere riconnessa e messa a sistema. Nisida è di fatto, “isolata” dal contesto cittadino poiché le risulta negata o, quantomeno, ostacolata la fruizione civile e collettiva, «pertanto sia la conoscenza dei luoghi naturali che delle architetture presenti resta privilegio di pochi» [Discepolo 2001].

1. Carcere e isola Forti sono le connessioni che legano il tema carcere e l’elemento isola: molte isole italiane – arcipelago toscano, Santo Stefano, l’Asinara, la stessa Nisida – proprio per la loro difficile accessibilità, sono state destinate, anche se in epoche e con modalità differenti, a luoghi d’isolamento, carcere di massima sicurezza/colonie penitenziarie agricole. Decisioni prese in determinati periodi storici dove le esigenze di sicurezza, di allontanamento dei detenuti dal continente erano talmente forti da destinare veri e propri “gioielli” del panorama naturalistico, paesaggistico e architettonico italiano a luoghi di isolamento. Nel momento in cui vengono a mancare i principali presupposti che avevano suggerito le isole come luoghi di reclusione, per i forti disagi dovuti alle difficoltà di gestione logistica ed economica, e in considerazione delle continue pressioni da parte di enti pubblici per il trasferimento degli istituti, da questi luoghi dalla spiccata vocazione turistica, che chiaramente ne ostacolavano lo sviluppo, si pone l’attenzione su questi luoghi e sulle possibili trasformazioni. C’è da considerare che le limitazioni imposte all’accesso e allo sfruttamento del territorio legate alla presenza del carcere, a prescindere dalle implicazioni sociali ed economiche, hanno indubbiamente contribuito alla loro conservazione e questo ha certamente costituito un incentivo a ricercare soluzioni per possibili scenari e prospettive post-carcere o in alcuni casi di coesistenza. Molte delle isole in questione hanno subito simili trasformazioni nel tempo e recentemente si sta nuovamente ponendo l’attenzione sul loro possibile destino: per alcune di queste sono state avanzate proposte, cessate le necessità, di destituzione del carcere e istituzione di parchi o aree protette, per altre si sono cercate soluzioni di convivenza tra istituti di pena e parco. Ad esempio: l’Asinara è diventata parco nazionale e area marina protetta nel 1997; l’isola di Gorgona è stata nuovamente aperta alla collettività nel 2016, pur mantenendo l’istituzione carceraria. Nel 2014 è stato istituto un protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare con l’obiettivo di una più organica collaborazione in tema di reinserimento sociale dei soggetti sottoposti a esecuzione penale mediante il loro impiego per la pulizia e la manutenzione dei parchi. Da queste considerazioni deriva la proposta di istituire un parco sull’isola di Nisida e di affidarne la gestione all’istituto penale minorile che ne regoli l’accesso e ne garantisca la salvaguardia, destinando alcuni spazi alla formazione dei ragazzi dove possano apprendere la cultura del lavoro. Da un dialogo con il direttore dell’Istituto, Gianluca Guida, e alcuni ragazzi detenuti è emerso che la difficoltà più grande per chi esce da un penitenziario minorile è, una volta scontata la pena, il ritorno alla quotidianità; e quindi entra in gioco l’esigenza di una rieducazione sociale, capace di responsabilizzare, offrire opportunità e accompagnare il detenuto in un percorso che lo guidi a un rientro nella collettività. Parimenti il reinserimento di Nisida nelle logiche della città è quindi possibile tramite l’introduzione di attività che siano di supporto alla conservazione e fruizione dell’isola e che, al tempo stesso, siano mirate al reinserimento sociale dei ragazzi detenuti.

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2: La corona-il nuovo accesso (Corrado Castagnaro, Giuseppina Elefante).

Restituendola così alla comunità, offrendo la possibilità di vivere un’esperienza unica di natura e mare all’interno della città, collocandola nel circuito di itinerari naturalistici che, come abbiamo visto in precedenza, caratterizzano il suo immediato contesto, attraverso la riattivazione di sentieri e realizzando una serie di spazi pubblici.

2. Un progetto tra città e paesaggio Intervenire in realtà complesse e stratificate come l’isola di Nisida, pone oggi sfide molto complesse: da un lato il progetto deve farci leggere le tracce, spesso nascoste, di luoghi ricchi di memorie e identità, spesso dimenticate e abbandonate, dall’altro deve essere in grado di rispondere a nuove esigenze e accogliere nuovi usi dello spazio urbano. L’intervento presenta un lavoro di ricerca progettuale, finalizzato alla migliore accessibilità e fruizione di questi spazi caratterizzati da una complessa compenetrazione tra fattori ambientali e antropici che oggi vertono in condizioni di abbandono e discontinuità. Lo studio è orientato all’individuazione di alcune azioni necessarie per la riconnessione dell’isola alla città: dalla grande scala, individuando delle aree da destinare a parcheggio e attivando una navetta che, dall’estremità del pontile, la raccordi al sistema dei trasporti pubblici, dai quali al momento è tagliata fuori; ad una scala minore, strettamente legata alla fruizione dell’isola, l’intervento si struttura in due azioni: l’ascesa alla sommità e la discesa verso Porto Paone attraverso il recupero di alcuni tracciati storici e il disegno di un nuovo sistema di terrazzamenti che ridefiniscano i limiti della corona superiore contribuendo a creare una sequenza di spazi pubblici e il nuovo fronte sulla città (fig. 1).

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3: La corona-il sistema delle terrazze (Corrado Castagnaro, Giuseppina Elefante)

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La tesi di ricerca si struttura su un’attenta analisi storica, paesaggistica e architettonica finalizzata a riconoscere gli elementi identitari del luogo, le criticità da colmare e le potenzialità da far emergere. La più intensa edificazione della parta bassa dell’isola e della corona ne ha escluso una fruizione completa, portando all’abbandono di parte del sistema dei percorsi che connetteva le due diverse aree. La ricerca si focalizza su un paziente rammaglio della trama dei sentieri, ripristinando vecchie relazioni visive e creandone nuove. Negli anni 30 del 1900 – in seguito alla realizzazione della strada carrabile, via Nisida, che dalla terraferma conduceva sino al crinale della colonia penitenziaria agricola – il vecchio tracciato che dal porto conduceva in cima alla Torre cadde in disuso. Sin dall’accesso all’isola le strade percorribili sono due: una la via Nisida, carrabile sino alla corona, l’altra che costeggia il porto, non aperta ai civili in quanto zona militare. Procedendo per la prima, in corrispondenza di una delle prime anse, i due percorsi si affiancano e prende il via il progetto di riconnessione tra i percorsi. Tale integrazione tra via Nisida e il “tracciato borbonico” conferisce un nuovo senso alla fruizione dell’isola nel suo complesso che, a causa delle mura di delimitazione dell’Istituto di Pena in posizione acropolica, attualmente vive la realtà di una “strada senza meta”: con l’istituzione del riformatorio e delle alte mura del recinto carcerario viene “tagliato fuori” e lasciato all’abbandono di una vegetazione infestante che ne nasconde le tracce. Avendo perso, il tracciato borbonico, il suo significato di riconnessione visto l’alto recinto carcerario che impedisce l’accesso al sistema della corona, diviene nel progetto un Belvedere sul golfo di Pozzuoli; un tracciato capace di offrire esperienze e atmosfere diverse tra loro e contemporaneamente «far rivivere rapporti perduti» [Ferlenga 2014]. L’edificazione si concentra principalmente sulla corona superiore ed è suddivisibile in tre macro aree. Il primo impianto sulla parte più alta del crinale, con ciò che resta della torre e le costruzioni al suo intorno che oggi ospitano la sede dell’“Istituto Penale per Minorenni” delimitato da alte mura di recinzione in cemento armato, i padiglioni degli anni Trenta collocati lungo il crinale e, a sud, nella parte terminale della corona, la ex-colonia agricola dove sono presenti un silos e una serie di stalle e rimesse che vertono in uno stato di forte degrado e abbandono. In sintesi la struttura della corona è una strada in leggera pendenza che collega una serie di terrazze, a diverse quote, con le architetture dei padiglioni che si dispongono con un ritmo alternato pieno/vuoto e si alternano creando scorci talvolta verso il mare, talvolta verso la città. L’intervento sulla corona è un progetto di suolo, di ridisegno e ridefinizione degli spazi tra gli edifici, che oggi generano delle condizioni di forte discontinuità lungo il prospetto che dà sulla città e marcano la netta distinzione tra fronte e retro degli edifici, limitando la percezione degli elementi architettonici nel loro rapporto con il paesaggio (fig. 2). Dalle analisi è emerso che il primo tratto della corona, confinante con il recinto carcerario affianca, ad una diversa quota il tracciato “borbonico”, da qui l’idea di riconnettere i due livelli diversi attraverso lo sfalsamento del muro di contenimento che contiene il sistema di collegamento e che consente al tracciato borbonico di essere nuovamente protagonista dell’accesso al sistema della corona, offrendo nuove visioni ed esperienze sia degli elementi del paesaggio che di quelli architettonici. Uno spazio che oggi è sede di un parcheggio, e diviene il nuovo accesso alla sequenza dei terrazzamenti, con la realizzazione di un padiglione di accoglienza al parco, disposto trasversalmente alla strada, che segna il limite rispetto al recinto dell’istituto.

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4: Ingresso del ristorante (Corrado Castagnaro, Giuseppina Elefante)

Chiara è la volontà di mantenere l’assetto spaziale esistente senza modificare quest’alternanza tra spazi edificati e non, ridefinendo gli spazi vuoti come spazi di giardino attraverso il rafforzamento e la piantumazione della flora mediterranea già presente, studiandone la composizione e l’aspetto in base ai colori e alle essenze (fig. 3). L’ultimo tratto della corona, originariamente destinato alle attività agricole della colonia, è caratterizzato dalla presenza di orti, vigneti e uliveti attualmente in stato di abbandono. La proposta è quella di riattivare e assecondare la vocazione agricola di quest’area destinandone parte alla coltivazione e parte all’attività produttiva e alla lavorazione delle materie prime. L’idea è di realizzare a Nisida e, in particolare, nell’area della originaria colonia agricola, un piccolo ristorante, sul modello del carcere di Bollate a Milano, che ospita il primo ed unico ristorante in Italia, con annessi frantoio e cantina, dove i detenuti hanno la possibilità di intraprendere un percorso professionalizzante che li guiderà in un processo di reinserimento sociale (fig. 4). La volontà è di conservare il silo, elemento architettonico emergente ben visibile anche da mare, come testimonianza della colonia agricola, inglobandolo all’interno dell’elemento muro che, a mo’ di recinto, delimita la preesistenza e i diversi spazi destinati al ristorante e alla produzione alternati agli spazi di servizio. Chiara è la differente sequenza spaziale data dalle diverse altezze degli ambienti e da come la luce penetra negli spazi instaurando una forte relazione con il contesto, il silo viene riutilizzato inserendo una piccola scala al suo interno che consente di raggiungere le piccole bucature collocate nella parte superiore e di godere di

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scorci sul golfo di Napoli. Il limite ultimo della corona, in cui culmina il percorso, è uno spazio belvedere che consente una vista panoramica sulla Baia di Napoli (fig. 5). In sintesi l’intervento sulla corona è caratterizzato da pochi elementi: un padiglione di accoglienza al parco, un piccolo ristorante ed il muro a contenimento dei terrazzamenti esistenti e di progetto, che ridefinisce lo spazio tra gli edifici già presenti e configura il fronte sulla città. Un muro che segue la morfologia delle terrazze superiori accogliendo piccole rampe e scale che ne consentono la connessione, ricreando scorci di visuale sulla città ed il paesaggio. Un muro “abitato”, che caratterizza la risalita lungo il tracciato borbonico e, in alcuni punti, accoglie le sedute, realizzato con un setto in cemento armato, colorato con piccoli inerti tufacei, faccia vista con casseforme in legno, frutto di una ricerca cromatica per una maggiore integrazione con il luogo. Il progetto, attraverso un sistema di rampe e risalite, crea diversi livelli di camminamento e disegna una nuova geometria, definendo una sequenza di spazi pubblici che stabiliscono continue relazioni con il paesaggio esistente e a distanza con la città.

Conclusioni L’eccezionalità di luoghi ricchi e stratificati, come l’isola di Nisida, risiede nel «la percezione del sopravvivere dei movimenti che legano architettura e natura, passato e presente» [A. Ferlenga 2010]. L’architettura ha il compito di salvaguardare questi legami, ma ha anche l’occasione di crearne nuovi se necessari, di ricostruire ciò che il tempo ha spezzato, di modulare e formulare di volta in volta le scelte, le modalità d’intervento più opportune, senza schemi prefigurati. L’intervento proposto ricerca un dialogo forte con il contesto, definendo un’immagine architettonica del nuovo in stretto rapporto con le “preesistenze ambientali”, tracciando una linea di continuità che unifichi l’esperienza “dove il passato si proietta negli accadimenti attuali e questi si ricollegano radicandosi negli antefatti” [Rogers 1997]. Un’architettura che si misura con il luogo, che interviene quando necessaria a ripristinare movimenti interrotti, rapporti oscurati che sia in grado di riconnettere frammenti del patrimonio naturale, paesaggistico, culturale rendendoli fruibili e parte integrante della vita della città.

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Oltre il muro: le aree militari come nuovi spazi urbani riconoscibili Beyond the wall: military areas as recognizable new urban spaces

FRANCESCA BRUNI Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract Le aree militari, caserme extraurbane nate alla metà del secolo scorso, rappresentano una precisa tipologia particolarmente diffusa che disegna enclaves riconoscibili da una vista aerea del territorio italiano. Considerate sinora come parti sottratte alla forma urbana, nel momento in cui si dismettono riaffiorano oggi entro i tessuti ponendo molteplici interrogativi sul ruolo e sulla identità degli spazi. Il contributo vuole interrogarsi su questa restituzione di manufatti e di luoghi, rispetto al senso che queste grandi “città altre” possono assumere oggi.

The military areas, suburban barracks born in the second half of the last century, represent a specific particularly widespread typology that draws recognizable enclaves from an aerial view of the Italian territory. Considered so far as parts subtracted from the urban form, at the moment in which they are abandoned they re-emerge today within the fabrics, asking many questions about the role and identity of the spaces.

Keywords Caserme, Identità, Disegno Urbano. Barracks, Identity, Urban Design.

Introduzione Entro i territori ordinati dalla centuriazione della campagna italiana, appaiono alla metà del Novecento alcune figure ricorrenti date da recinti specializzati basati sulla iterazione di un modulo che ne organizza i rapporti tra pieno e vuoto. Si tratta delle caserme extraurbane, conformate su una tipologia del blocco a corte aperta ripetuto e contrapposto intorno ad un grande vuoto centrale, che diviene matrice diffusa identificativa delle enclaves militari della nostra penisola: aree compatte, confinate e inespugnabili, non-conoscibili dall’esterno, in cui il rapporto pieno-vuoto è a favore di quest’ultimo perchè finalizzato alle attività di esercitazione all’aperto. Nelle cartografie, invece, a causa della segretezza militare, queste aree sono trattate come macchie bianche entro la topografia urbana, secondo una cancellazione totale della rappresentazione del suolo, delle sue tracce, dei manufatti, delle variazioni di quota. Considerate sinora come parti sottratte alla forma urbana, intervalli di vuoto assoluto come se la città in quei punti subisse un collasso implosivo, nel momento in cui si dismettono queste aree militari riaffiorano oggi entro i tessuti ponendo molteplici interrogativi sul ruolo e sulla identità degli spazi. Nel tempo, intorno agli alti muri che definivano queste aree specializzate rigorosamente strutturate ed autonome dal contesto, si sono addensati i tessuti delle periferie secondo un mosaico caotico di frammenti e parti casualmente accostate. Qui si sono depositate nel

Oltre il muro: le aree militari come nuovi spazi urbani riconoscibili.

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1: Fotografia aerea del territorio a nord di Napoli alla metà del Novecento. Tra i diversi casali emerge il recinto delle caserme Caretto-Beghelli. tempo le funzioni che la città ha espulso dal suo corpo perché considerate rischiose per la vita sociale e soprattutto la quantità residenziale dei quartieri di edilizia pubblica costruiti tra le due guerre e che ha saturato ogni spazio libero. Queste aree specializzate, che hanno superato indenni le esigenze della pianificazione urbanistica, oggi reimmesse nel corpo delle città chiedono una riflessione nuova sul loro ruolo nel disegno urbano e sul riuso dei manufatti. Dagli anni Novanta del Novecento, infatti, il tema della riconversione del patrimonio militare abbandonato (1500 caserme solo in Italia) ha fatto riapparire nella cartografia urbana degli ambiti fino a quel momento avvolti da una coltre scura ed impenetrabili alla cittadinanza, mentre il tema della loro reimmissione nelle dinamiche urbane è stato affrontato principalmente come un problema economico, relazionando programmi e progetti europei di rigenerazione urbana con il riuso di tali aree militari dismesse. I progetti proposti non sembrano dunque conseguire risultati apprezzabili sia riguardo le funzioni da insediare (nei casi migliori lasciato all’attività spontanea dei cittadini) che rispetto al disegno degli insediamenti, sempre più orientati a un approccio di tipo rifondativo in cui i nuovi impianti urbani sono tesi a realizzare una continuità con i tessuti liminari cancellando così ogni traccia di un recente passato e della sua eccezionalità di spazi e di usi. Ma la periferia, scrive Bernardo Secchi, «richiede oggi prima ancora che piani e progetti, descrizioni pertinenti e spiegazioni specifiche (…) che abbraccino le diversità e singolarità senza reprimerle, ma dando loro un senso compiuto» [Secchi, 1991]. Una riflessione sul senso di queste aree e soprattutto di una loro riconversione, appare dunque di una rilevante importanza qualora se ne indaghi principalmente il potenziale in termini morfologici, rispetto al ruolo strategico che potrebbero ricoprire nel disegno urbano delle città e non solo in termini economici o di uso. Laddove le ansie di demolizione e ricostruzione che gravano sui nostri tempi non hanno finora prodotto risultati meritevoli di grande attenzione, a questi clusters potrebbe essere affidato il ruolo di “ricostruire la coscienza del territorio”, attraverso il riconoscimento del loro

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significato di “pause urbane identitarie” con un valore di permanenza entro i densi tessuti della periferia. Comprendere i meccanismi di costruzione avvenuti in tempi e spazi diversi, coglierne la mescolanza delle funzioni, arricchisce il senso della periferia e consente di avviare quel necessario lavoro di riordino e ricomposizione in grado di ristabilire gerarchie, distanze e relazioni tra mondi eterogenei. Questa restituzione dei manufatti e dei luoghi, deve avvenire dunque non solo rispondendo alla possibilità di un mutamento di destinazione d’uso ma soprattutto chiarendo il senso che queste grandi “città altre” possono assumere oggi entro il continuo urbano sviluppatosi intorno ad esse, riguardo alle possibilità di una integrazione tra le parti e soprattutto di una nuova interpretazione morfologica di un impianto che assume un valore di permanenza e riconoscibilità che non deve andare perso. Più che i manufatti, il cui valore architettonico è in questi casi pressoché nullo trattandosi di padiglioni prefabbricati ad un piano con tetto a falda, ciò che va salvaguardato e reinterpretato è il valore morfologico di impianto attraverso un disegno che possa fare ricomparire queste aree nelle raffigurazioni fisiche dello spazio urbano secondo un senso nuovo.

1. Il recinto e il vuoto come pausa urbana Un primo tema della riflessione intorno al progetto di questi luoghi riguarda dunque il “vuoto” come materiale del progetto della città contemporanea. Un concetto che non deve evocare un’assenza bensì la concentrazione di significati e di valori che definiscono uno dei luoghi più ricchi di potenzialità formanti, campo di forze entro cui poter dare forma alle relazioni tra gli spazi discontinui delle periferie e dunque come dispositivo architettonico utile per orientare il progetto dei luoghi. «Il luogo è pausa» ha scritto Cacciari, cioè «non si dà disegno urbano senza progetto degli spazi tra le cose, cioè senza l’idea di pausa come simbolo della permanenza e della sua funzione dialettica di misura nei confronti del mutamento (…) ma quando noi vogliamo invece cercare cosa possa significare per l’architettura il progetto degli intervalli, delle pause, delle distanze, cioè del disegno urbano, la nozione di limite, di confine, di recinto, di regole tornano a proporsi come materiale strutturale: senza la loro presenza il progetto di nuove possibilità, di disvelamento di una pur parziale realtà, perde senso» [Gregotti, 2013]. Così nel disegno urbano la condizione di vuoto delimitato diviene un sistema di misura compositivamente essenziale anche alla struttura delle sequenze, che hanno nel ritmo e nelle sue variazioni, l’altro polo dialettico. «Essenziale è il valore delle pause, del silenzio tra le note in musica così come quello dei vuoti, degli intervalli tra le cose nelle opere di architettura. Ciò che quindi diventa essenziale alla loro leggibilità sono proprio le pause che nel disegno urbano entrano in gioco nella relazione tra vuoti e pieni con cui si costruisce» [Gregotti, 2013]. La condizione di eccezionalità morfologica di queste aree va dunque conservata come una risorsa, in quanto garanzia di qualità di un disegno urbano di reimmissione di questi spazi entro la nuova struttura delle sequenze delle parti in gioco.

2. Il verde pubblico come materiale del progetto Una seconda riflessione riguarda l’idea di città che si propone alla base del disegno di queste aree: un’idea di abitare che recuperi quel modello di sviluppo presente nella modernità e basato sulla messa in relazione del costruito con il verde e la campagna.

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«I caratteri architettonici di qualsiasi pianta democratica del terreno per la libertà umana sorgono naturalmente per, e dalla, topografia. Questo significa che gli edifici assumerebbero tutti, in una varietà infinita, la natura e il carattere del suolo su cui dovrebbero sorgere e così ispirati diverrebbero le componenti di questo (…) Un profondo sentimento per la bellezza del suolo sarebbe fondamentale nella edilizia della nuova città: cercando la bellezza del paesaggio non tanto per costruirci sopra, quanto per servirsene nella costruzione (...) Qualsiasi edificio – all’esterno – può andare all’interno e l’interno andare all’esterno quando ciascuno è considerato come parte dell’altro ed una parte del paesaggio» [Wright, 1958]. Così, entro la densità dei tessuti urbani si prefigura l’occasione per ri-trovare un’idea di paesaggio come qualità dei luoghi e come materiale del progetto contemporaneo sia per rispondere alle questioni ecologiche, che come garanzia di una qualità del disegno dello spazio aperto difficilmente raggiunta nei nostri insediamenti perché sinora trascurata dal progetto. Il verde pubblico urbano nella forma del parco e del giardino rappresenta il modo attraverso cui progettare gli intervalli della città contemporanea come occasione unica di pausa tra le cose e creazione di nuovi spazi collettivi.

3. L’impianto urbano Altra questione riguarda l’importanza del disegno dell’impianto urbano come supporto per qualunque operazione di modificazione dello spazio, centrale nel progetto urbano del secolo scorso e passato oggi in secondo piano a favore di una architettura atopica ed individualista. Oggi è sempre più importante tornare a riflettere su logiche insediative e loro implicazioni architettoniche come struttura necessaria al disegno dello spazio urbano, su un tracciato capace di organizzare una griglia come trama sottesa al progetto e di ordinarne gli elementi all’interno di una figura chiara, ancorando l’architettura al suolo, al luogo. Il tracciato, come strumento capace di prefigurare spazialità urbane, di regolare i pesi architettonici nelle loro relazioni reciproche e valori posizionali, di calibrare il rapporto tra densità e rarefazione, va dunque sviluppato in relazione alle permanenze e alle direttrici che il progetto desume dal luogo. In questo senso se la corte – nelle differenti misure che ha assunto nel tempo – è stata garanzia della bontà dell’impianto urbano della città europea tra Ottocento e Novecento dimostrando anche la flessibilità delle sue varianti (corte aperta, chiusa, porosa, semiaperta), sembra particolarmente interessante e proficuo assumere come matrice per il progetto del nuovo l’impianto stesso delle caserme, con le sue misure, distanze e densità. La tipologia a U dell’isolato aperto a corti contrapposte intorno a uno spazio vuoto centrale, potrebbe rappresentare così la traccia, il punto di partenza di cui tener conto e su cui lavorare, considerata elemento di permanenza di un contesto specifico, per concepire l’edificio «come un elemento che consolida dialetticamente la lettura dei contesti lasciati dalla storia come tracce di principi insediativi, (…) come compresenza dell’archetipico e dell’accidentale, nella dialettica tra “foro” ed “acropoli”» [Gregotti, 2013]. Peraltro tale tipologia ricorrente degli impianti militari a corte aperta, in cui gli edifici sono al servizio degli spazi aperti dimensionati per ospitare le attività sportive e di esercitazione, si presta particolarmente a realizzare una idea di città nuova in cui lo spazio verde prevalga sul pieno del costruito. D'altronde gli antichi impianti degli accampamenti militari, castrum, sono stati nella storia della città l’origine di tutti gli insediamenti urbani e potrebbero così proporsi ancora una volta oggi quali matrice di un nuovo modo di disegnare la città nei suoi intervalli dati dai recinti specializzati dismessi.

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2: Foto aerea e Masterplan per la riconfigurazione dell’area delle caserme Caretto-Beghelli elaborato nell’ambito del Laboratorio di Architettura e Composizione Architettonica 2.

4. La tipologia delle caserme Infine una riflessione sulle possibilità di un lavoro sulla tipologia edilizia della caserma capace di reinterpretarne il senso rispetto alle mutate esigenze della città contemporanea. Ancora una volta l’architettura della caserma ben si presta a una ridefinizione tipologica e a una sperimentazione formale per la sua scarsa qualità edilizia e interesse architettonico. Costituita da edifici ad un piano, con tetti a doppia falda, secondo le tecnologie della prefabbricazione, sulla caserma è possibile operare contaminazioni e disseminazioni tipologiche che determinino complessità tali da far convivere entro lo stesso manufatto anche differenti organizzazioni spaziali. Numerose sono le operazioni compositive che si possono compiere su questa forma-base dell’edificio-caserma: dalla sua sostituzione con un manufatto completamente nuovo che ne reinterpreti la sagoma seguendone misure e proporzioni, alle manipolazioni sul volume originario mediante immissioni di corpi architettonici nuovi attraverso sopraelevazioni, aggiunte, inclusioni, secondo una modalità di intervento sull’esistente definita “architettura parassita” [Marini 2008]. Quest’ultima si riferisce a una metafora animale che indica un progetto le cui parti sono distinte dall’ospite sia formalmente che spazialmente ma a questo legate da uno stato di necessità. Ciò consente di far leggere nell’architettura finale le operazioni progettuali compiute e, soprattutto, di conservare l’identità del volume principale che ha generato le operazioni compositive. L’architettura parassita è il riflesso di un ripensamento del valore dei territori e delle necessità che la città cresca su sé stessa e non più oltre. «L’architettura declina così legami parassitari con corpi ospitanti esistenti per densificare la città, per tradurre spazialmente richieste che emergono da storie ordinarie, utilizzando “quello che c’è” e che in breve tempo ha già assunto i connotati dell’abbandono» [Marini 2008]. Questo ambito urbano del recinto-caserme dalle dimensioni assai vaste ben si presta dunque a sperimentazioni di organizzazioni spaziali nuove e inedite, non più basate sul rapporto tra edificio e strada ma tra edificio e spazio pubblico, prevalentemente verde. Un territorio di

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3: L’edificio-caserma e la Vitrahouse di Herzog e de Meuron. grande interesse e poco esplorato come spazio di relazione tra i manufatti architettonici e il verde urbano (naturalistico o artificializzato, articolazione di suolo o disegno di superficie), tema attuale anche data la centralità che assume oggi l’ambiente, il progetto sostenibile e un abitare ecologico.

Conclusioni A partire da queste considerazioni sull’identità morfologica dell’impianto-caserma e sulle potenzialità di un lavoro tipologico, da tempo si è avviata in ambito didattico una sperimentazione sul disegno urbano per il recinto delle aree militari dismesse delle caserme Caretto-Boscariello nella periferia napoletana, nell’ambito del Corso di Architettura e Composizione Architettonica II del Corso di Laurea in Ingegneria Edile-Architettura. La grossa area militare, interna al denso tessuto dell’espansione residenziale novecentesca napoletana, inclusa nel programma degli immobili della difesa dal 2001 è individuata dalla Variante al Prg della città di Napoli tra gli interventi strategici per la formazione di nuovi luoghi di centralità urbana nell’area a nord della città, con attività terziarie, produttive, spazi pubblici e residenza. Il piano, nell’indicare le cubature previste suggerisce una possibile configurazione che considera l’area come una tabula rasa, suddividendola in tre parti di cui quella centrale attraversata dal prolungamento dell’asse del parco di Scampia, estendendo così il già sovradimensionato vuoto della 167 entro la nuova area, e le due altre parti definite da un’edilizia di bordo intorno a due megacorti. Dato il pericolo di una interpretazione che porti a frammentare l’unitarietà del vuoto dell’area facendolo assorbire dai contesti e dalle logiche dei suoi margini, nell’ambito del Laboratorio di Progettazione è stata prefigurata un’alternativa morfologica per il suo disegno che ha prodotto un masterplan a partire dal quale gli studenti potessero operare approfondimenti sulle diverse tipologie residenziali. Il nuovo disegno considera l’intera area come un unico grande parco urbano e assume la traccia dell’impianto militare preesistente come misura di una griglia regolatrice basata sul modulo-caserma che genera gli edifici residenziali. I lavori degli studenti sperimentano così organizzazioni spaziali nuove non più basate sul rapporto tra edificio e strada ma tra edificio e spazio pubblico, prevalentemente verde,

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4: Modelli di studio di elaborazioni sulla riprogettazione dell’edificio-caserma nell’ambito del Laboratorio di Architettura e Composizione Architettonica 2. considerando la topografia come componente della nuova architettura secondo una integrazione che riguarda l’impianto urbano ed individua nella natura uno dei materiali del progetto. Seguendo l’idea di un’ecological urbanism, sperimentata nel 1960 da L.Hilberseimer, L.Mies van der Rohe e A.Caldwell nell’insediamento di Lafayette Park a Detroit, si sviluppa un organismo urbano entro un grande parco con differenti tipologie, case alte e basse, che conserva anche le due file delle caserme esistenti che costituiscono una serie intorno al grande vuoto centrale e sulle quali si operano manipolazioni progettuali per adeguarle alla funzione residenziale. Si delinea così un differente approccio alla riqualificazione delle aree militari dismesse “oltre il muro”, che tiene conto della specificità di queste “città altre” presenti in grande numero oggi nelle nostre periferie.

Bibliografia BAGAEEN S., CLARK C. (2016), Sustainable Regeneration of Former Military Sites. Londra e New York, Routledge. CAPPELLETTI V., TURRI F., ZAMPERINI E. (2008), Il recupero delle caserme: tutela del patrimonio e risorsa per la collettività, in «Territorio», n. 46. GREGOTTI V. (2013). Il sublime al tempo del contemporaneo. Torino, Einaudi. Il Ruolo del progetto nella trasformazione della periferia. Una lettura dell’area settentrionale di Napoli (2005), a cura di F. Bruni, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. MARINI S. (2008). Architettura parassita. Strategie di riciclaggio della città. Macerata, Quodlibet. PONZINI D., VANI M. (2012), Immobili militari e trasformazioni urbane, in «Territorio» n. 62. Se i vuoti si riempiono. Aree industriali dismesse: temi e ricerche (2000), a cura di E.Dansero, C.Giaimo, A.Spaziante, Firenze, Alinea. SECCHI B. (1984). Le condizioni sono cambiate, in «Casabella», nn.498-99. SECCHI B. (1991). La periferia, in «Casabella», n.583. TURRI F. (2010), Dismissione e valorizzazione delle caserme, in «Costruire in laterizio» n. 135. WRIGHT F.L. (1958). The living city. New York, Horizon Press.

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Inclusione e condivisione Progetti per l'Istituto Penale di Treviso Inclusion and sharing Projects for the Penal Institute of Treviso

ANTONIO STEFANELLI Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract Il saggio racconta l'esperienza svolta presso l'Istituto Penale per minori di Treviso. Cinque giovani detenuti, cinque studenti, un tutor e due docenti hanno lavorato una settimana sul campo, ponendo la loro attenzione sul corridoio di servizio alle celle e sul cortile, con l'obiettivo di trasformare spazi rigidi, inabitabili e “infantilizzanti”, in luoghi dell'inclusione e della condivisione.

The essay tells the experience of the Penal Institute for Minors of Treviso. Five young prisoners, five students, a tutor and two professors worked a week in the field, focusing their attention on the corridor which serves the cells and the courtyard, with the aim of transforming rigid, uninhabitable and "childish" spaces into inclusive and sharing spaces.

Keywords Condivisione, detenzione, recupero. Sharing, detention, renovation.

Introduzione «Queste mura sono strane: prima le odi, poi ci fai l'abitudine e se passa abbastanza tempo non riesci più a farne a meno: sei istituzionalizzato. È la tua vita che vogliono, ed è la tua vita che si prendono» [Le ali della libertà, 1994]. Sono le parole di chi ha trascorso la vita tra silenziose mura di cemento, in spazi inadeguati al corpo e, ancora di più, all'animo umano. L'atto di detenzione conduce spesso le persone ad uno stato di "morte apparente" dovuto ad una cesura netta con il mondo. Aldo Moro, docente della cattedra di Istituzioni di Diritto e Procedura penale presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Roma, in una lezione tenuta nel 1976, si oppone alla pena perpetua definendola crudele e disumana, pari alla pena di morte. Essa è priva di qualsiasi speranza, prospettiva, sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto recluso. Disumanità che può essere estesa ai normali casi di detenzione in gran parte degli Istituti penitenziari in Italia, sovraffollati e spesso fatiscenti. Sono questi i dati di cui la società deve tenere conto per proporre un nuovo sistema di detenzione che, a partire da un vero e proprio rinnovamento culturale, intervenga su più fronti, compreso quello architettonico e legislativo. È dall'architettura e dalla sua capacità di condizionare i comportamenti e lo stato d'animo delle persone, che è possibile cominciare ad immaginare spazi che conferiscano rispetto e dignità alla vita umana. Il tempo della pena può rappresentare oggi il tempo delle opportunità e la reclusione può essere vista come un percorso di rieducazione, utile al reinserimento del detenuto nella società.

Inclusione e condivisione. Progetti per l’Istituto Penale di Treviso

ANTONIO STEFANELLI

1. Gli stati generali per l'esecuzione penale e la progettazione condivisa Con la sentenza Torreggiani, adottata l’8 gennaio 2013, la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 2 del diritto alla vita e dell'art. 3 del divieto dei trattamenti inumani e degradanti, chiedendo di risolvere entro un anno le problematiche relative al fenomeno del sovraffollamento in carcere e alla mancanza di strumenti a tutela dei diritti dei detenuti. Gli Stati Generali per l'esecuzione penale, indetti dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando nell'estate del 2015, nascono in risposta alle accuse della CEDU e si pongono come strumento di sensibilizzazione sul tema della detenzione. Il Tavolo 1, coordinato da Luca Zevi e composto da architetti, docenti di Università italiane, magistrati, sociologi, membri dell'Amministrazione Penitenziaria, è stato dedicato a Lo spazio della pena: architettura e carcere con l'obiettivo di definire un nuovo modello per la trasformazione delle strutture detentive. «Dove non c'è attenzione agli spazi della pena generalmente non c'è neppure attenzione alla dignità del detenuto, alla sua riabilitazione e alla creazione di opportunità per un suo reinserimento sociale» [Relazione conclusiva Tavolo 1, Stati Generali, 2015]. L'obiettivo principale di una struttura detentiva deve essere la riabilitazione e il reinserimento sociale del detenuto. «La questione del reinserimento nella vita civile muove dal momento stesso in cui si condanna il colpevole, riconoscendone l'errore e valutando, come unica possibilità, quella di dal momento stesso in cui si condanna il colpevole, riconoscendone l'errore e valutando, come unica possibilità, quella di dare l'opportunità per ripensare a se stessi, ritrovare la propria dignità e così la voglia di riscattarsi» [Santangelo 2017, 42]. Per questo è necessario riflettere su come rendere il carcere un luogo in grado di favorire il senso di comunità, la condivisione di spazi e beni, permettere ai detenuti di essere parte attiva del mondo. Il carcere deve, quindi, essere interpretato come un luogo abitabile. «In genere si definisce l'abitare (...) come qualcosa di materiale e quantitativo (...) invece [lo si deve interpretare] in modo qualitativo considerandolo sul piano di un rapporto psichico. Abitare (...) significa sia legarsi a un dato luogo, sia avere una casa dove il cuore può fiorire e l'intelletto comporre (…) L'abitare presuppone quindi qualcosa da parte nostra e qualcosa da parte del nostro luogo. Se a noi è richiesto un animo aperto, i nostri luoghi, debbono essere tali da offrire delle ricche possibilità di identificazione» [Norberg-Schulz 1995, 9-12]. Il Tavolo 1 ha delineato operativamente numerose proposte a partire da: la riconversione e riqualificazione degli spazi esistenti dedicati allo sport, al lavoro o al tempo libero; la definizione di una nuova forma di controllo ‘aperta e dinamica’; la realizzazione di interventi a partire da occasioni di progettazione partecipata, che prevedano il coinvolgimento di coloro che vivono il carcere quotidianamente, dai detenuti agli operatori. L'ultimo punto, in particolare, rappresenta un elemento di forza nelle dinamiche di riqualificazione di questi luoghi. Riconfigurare lo spazio attraverso il coinvolgimento dei detenuti è un'operazione che contribuisce al loro reinserimento nella società perché innesca il senso di appartenenza al luogo che sono «costretti» ad abitare. «Si avvia così un processo di responsabilizzazione che [va] nel verso dell'abbandono di un modello detentivo "malato" [come] quello italiano fino ad oggi» [Santangelo 2017, 44].

2. Five dots: un'esperienza di progettazione condivisa presso l'Istituto penale minorile di Treviso L’istituto penale per minorenni di Treviso è situato in un’ala della Casa circondariale di Santa Bona, costruito all’esterno della mura di cinta della città storica agli inizi del 1940.

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Un tempo ha ospitato la sezione dei detenuti politici per reati di terrorismo, poi la sezione femminile, e dal 1981 è istituto per i minori, l’unico in Italia ad essere ancora inserito in una struttura penitenziaria per adulti. L'istituto si distingue dalla Casa circondariale solo per la tinteggiatura esterna, rosa antico per i minorenni in contrapposizione all'azzurro degli adulti. Al piano terra vi sono gli uffici degli educatori, l’infermeria, la cucina e una piccola mensa, mentre al primo piano trovano posto le celle, di cui tre piccole e quattro di maggiori dimensioni, separate da un corridoio centrale, la sala computer e l’aula scolastica. Le camere dei detenuti, in particolare, risultano particolarmente obsolete per la presenza di bagni alla turca, collocati in uno stanzino separato. Gli spazi all’interno sono ridotti e poco accoglienti, al punto che gli uffici di direzione e amministrazione sono alloggiati in una piccola struttura nel cortile di entrata, a ridosso della Casa circondariale. Anche la palestra dei giovani detenuti, con bagno, attrezzata con un tavolo da calcio balilla e un bagno, è ricavata in un piccolo fabbricato adiacente al cortile interno. La configurazione dell’edificio non permette di rispettare alcuni criteri fissati per gli istituti per i minori, come ad esempio le recinzioni esterne del cortile che sono le stesse del carcere, muri spessi con alte reti metalliche e garitte. Lo spazio all'aperto e quello di filtro tra le celle sono stati individuati come oggetto di intervento e riqualificazione per il workshop di progettazione Five Dots (promosso da Marella Santangelo e Paolo Giardiello, tenuto dal 11 al 14 settembre 2017): ambienti indeterminati e dall'uso riduttivo, svuotati di una qualsiasi tipologia di azione, se non semplicemente quella di puro transito verso le altre zone dell'Istituto. «Attrezzare questi luoghi per migliorarne la fruizione significa offrire la possibilità di vivere i vuoti presenti nel tessuto dell'edificio come vere e proprie piazze, significa poter svolgere differenti attività [...] nel rispetto delle individualità e della collettività» [Saitto 2017, 188]. L’applicazione del regime detentivo “a celle aperte”, che permette ai detenuti di fruire con libertà i corridoi durante le ore del giorno, non è stata accettata con facilità dagli utenti. L’aridità e la mancanza di funzioni dei corridoi e dei cortili di passeggio non favorisce la socialità e l’incontro. Risulta difficile, inoltre, immaginare che uno spazio di passaggio senza identità, possa trasformarsi in un luogo in cui svolgere azioni e trascorrere parte della giornata. Il corridoio viene visto come un luogo isolato, da attraversare, e non come estensione pubblica dello spazio più privato della cella. Il cortile, invece, non è percepito come uno spazio aperto, ma come un luogo chiuso, vuoto, in cui esclusivamente dare sfogo all'esigenza di movimento. Due docenti, un tutor e cinque studenti del Dipartimento di Architettura dell'Università di Napoli Federico II hanno lavorato insieme per quattro giorni con l'obiettivo di trasformare spazi rigidi, inabitabili e “infantilizzanti” in luoghi dell’inclusione e della condivisione. Hanno immaginato spazi in grado di «stimolare più azioni e predisporsi ad accettare varie soluzioni di uso proprio perché la ripetizione, la modularità ed il ritmo costante e monotono, rappresentano la forma stessa dell’attesa. [Si è cercato] di distribuire nello spazio ‘attrattori’ e non semplici attrezzature,esche capaci di indurre indirettamente attività e sensazioni e non solo strumenti o complementi che definiscono direttamente un’attività o un comportamento, ma tutto ciò che può indicare e suggerire attività» [Giardiello 2017, 157]. Cinque giovani detenuti, su i circa venti presenti all'interno dell'Istituto, hanno aderito all'iniziativa, e dopo una prima giornata di conoscenza e di lettura dei luoghi di intervento si è entrati nel vivo dell'esperienza. Da una prima riunione collettiva sono emerse alcune problematiche della struttura, analoghe a quelle di molti altri Istituti penitenziari, tra cui la presenza di colori infantili e impersonali,

Inclusione e condivisione. Progetti per l’Istituto Penale di Treviso

ANTONIO STEFANELLI

1: Pianta e sezione del progetto per il corridoio dell'Istituto penale per minori di Treviso. l'assenza di luoghi in cui condividere azioni e, allo stesso tempo, la totale mancanza di privacy negli spazi collettivi e nella cella. In questi luoghi, in cui l’attesa è preponderante, è necessario che «si crei una interazione tra l'uomo e lo spazio che si inneschino dei processi di partecipazione e coinvolgimento attivo attraverso una reale flessibilità degli ambiti di vita» [Giardiello 2017, 157]. I desideri dei detenuti coinvolti, infatti, sono state fondamentali per il progetto: Alberto ha chiesto la rimozione delle decorazioni presenti sulle pareti. Ramadan desidera una lavagna su cui poter disegnare, scrivere, dare sfogo alla creatività. Samuel vorrebbe poter correre liberamente in cortile senza dover scansare le aiuole che intralciano il passaggio. Simon vorrebbe vedere liberamente la televisione con i suoi compagni di cella, mentre Nicolas, nelle giornate di pioggia, vorrebbe poter stare all’aperto a fumare una sigaretta senza bagnarsi. Esigenze apparentemente banali, che rendono evidente la mancanza di libertà di azione all'interno del carcere. I detenuti e gli studenti si sono divisi in due gruppi, uno per ciascun’area di progetto con l’intento di migliorare questi luoghi e restituire speranza ai giovani ospiti della struttura. Il corridoio è un ambiente alto 3,80 metri e lungo 22,60 metri con una parete in vetro cemento sul fondo, unica fonte di illuminazione. Il progetto ha previsto l’inserimento di numerose attrezzature a ridosso delle pareti che, come simbolici accenti, risignificano uno spazio privo di contenuto. Diversi sono gli ambiti immaginati lungo il corridoio, opportunamente lasciato libero, e diverse sono le attività che ospitano, dal calcio balilla alle attrezzature per giocare in compagnia, per poter leggere, per potersi isolare. Negli spazi più bui sono state collocate funzioni che non necessitano della luce naturale, quali, ad esempio, uno schermo per le proiezioni video. La struttura portante delle attrezzature è pensata in profili scatolari d’acciaio,

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2: Pianta e prospetto del progetto per il cortile dell'Istituto penale per minori di Treviso. con un rivestimento in pannelli di legno, in grado di rendere confortevole il contatto con il corpo umano. Infine, si è immaginato di ridurre l’altezza del corridoio con un controsoffitto in cartongesso con lo scopo di conferire maggiore intimità ai luoghi di sosta e relazione. Il progetto del cortile, invece, nasce dall'esigenza di predisporre uno spazio coperto per le giornate di pioggia e di rompere la rigidezza dall'ambiente, attualmente occupato da aiuole che ne impediscono l’uso. Tre circonferenze individuano tre modi differenti di stare: una copertura unica, in lamiera metallica, funge da riparo ad un’ampia seduta circolare a gradoni. L’albero preesistente diviene elemento di progetto e definisce uno spazio in cui sostare all'ombra e, infine, una seduta più accogliente, di minori dimensioni, permette a due persone di poter vivere lo spazio aperto con maggiore intimità. Le sedute, in cemento rivestito in legno, fungono da sistema di contenimento del terreno definendo un paesaggio sinuoso. Il verde entra in contrasto con le forti cromie utilizzate per la pavimentazione che, assecondano l’andamento delle panche curvilinee, definisce i tre differenti ambiti di relazione. Le ipotesi di progetto, presentate con plastici e disegni realizzati con l’aiuto dei detenuti, sono state consegnati alla Direzione Istituto Penale come ricordo dell'esperienza e con la

Inclusione e condivisione. Progetti per l’Istituto Penale di Treviso

ANTONIO STEFANELLI

speranza di poter realizzare, anche solo in parte, i desideri di chi vive questi luoghi. Il risultato finale, per quanto necessiti di approfondimenti tecnici, ha il valore di essere il frutto di un importante momento di condivisione. Uno dei momenti più difficili del workshop è stato dover salutare i ragazzi. Per loro lavorare attivamente ad un progetto ha rappresentato un momento di evasione dall'alienante quotidianità, per tutti noi una profonda esperienza di vita.

Conclusioni Five Dots ha permesso di ridurre le distanze tra utente e committente, ma soprattutto tra persone provenienti da realtà molto differenti e rappresenta solo uno dei tasselli di un ampio progetto iniziato dal gruppo di ricerca coordinato dalla prof. Marella Santangelo alcuni anni fa. Progettare spazi in grado di migliorare i comportamenti di chi li abita, responsabilità di chi opera nel nostro settore, risulta essere ancor più necessario nei luoghi di restrizione. Obiettivo di questa esperienza è stato quello «di conferire un senso e un valore all'attesa della libertà, garantendo condizioni in grado di rendere qualificante e denso di significati il passare del tempo» [Giardiello 2017, 151]. Per farlo è stato necessario porre al centro del progetto l’utente, coinvolgerlo, conoscere i suoi movimenti, i suoi gesti, i suoi bisogni, i suoi desideri. Un approccio alla progettazione condiviso e attento alla misura umana che ha portato numerosi riscontri positivi. In tutte le esperienze condotte i detenuti hanno costruito durante la fase di progettazione un senso di appartenenza agli spazi che li ospitano, si sono identificati negli stessi e, successivamente, ne avuto più cura. In questo caso particolare, grazie al confronto con persone coetanee, hanno ampliato le loro prospettive relazionandosi indirettamente con la vita esterna al carcere. I cinque detenuti che hanno scelto di aderire all’iniziativa, inizialmente scettici, si sono rivelati entusiasti di quanto immaginato, dimostrando che la sola esperienza di progetto è già un importante traguardo.

Bibliografia ANASTASIA, S., CORLEONE, F. (2009). Contro l'ergastolo: il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona. Roma, Ediesse. FARRIS, A. (2012). Situare l’azione: uomo, spazio, auspici di architetture. Firenze, Alinea Editrice. GIARDIELLO, P. (2017). Progettare il tempo dell'attesa, in In Prigione: architettura e tempo della detenzione. A cura di M. Santangelo, Siracusa, LetteraVentidue, pp.151-157. NORBERG-SCHULZ, C. (1995). L'abitare: l'insediamento, lo spazio urbano, la casa. Milano, Electa. SANTANGELO, M. (2017). In Prigione: architettura e tempo della detenzione. Siracusa, LetteraVentidue. SAITTO, V. (2017). A passeggio, in cortile in In Prigione: architettura e tempo della detenzione, a cura di M. Santangelo, Siracusa: LetteraVentidue, p. 188. ZUMTHOR, P. (2007). Atmosfere: ambienti architettonici. Le cose che ci circondano. Milano, Electa.

Sitografia www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_3.page?previsiousPage=mg_2_19/ (aprile 2018) www.ragazzidentro.it/it/rapporto-2017/istituti-penali-per-minorenni/istituto-penale-per-minorenni-treviso/ (maggio 2018) www.ragazzidentro.it/it/giustizia-minorile/la-storia-della-giustizia-minorile-in-italia/ (maggio 2018)

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Nato accanto ed ‘accantonato’. Storie e prospettive dell’ex convento della SS. Annunziata a Bologna Alongside and set aside. Stories and perspectives of the former convent of SS. Annunziata in Bologna

SABINA MAGRINI MiBACT, Segretariato Regionale per l’Emilia-Romagna ELENA POZZI Politecnico di Milano FRANCESCA TOMBA MiBACT, Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Bologna, Reggio Emilia, Modena e Ferrara

Abstract Magazzino e caserma: queste le trascorse destinazioni d’uso dell’ex convento della SS. Annunziata, che, sorto a far data dal XV secolo, per via della conformazione morfologica propria dei luoghi di clausura risulta impenetrabile dal centro storico di Bologna, seppur ad esso adiacente. Un progetto del MiBACT ne propone il riutilizzo come ‘polo culturale’ per la città e sede degli enti preposti alla tutela, aprendo sfide progettuali che ne consentano l’accessibilità ed il dialogo con la comunità.

Warehouse and barracks: these are the past uses of the former convent of SS. Annunziata, first built in the fifteenth century as a secluded monastic complex. Because of its typical morphological conformation, the complex is impenetrable from the historic centre of Bologna, although it’s adjacent to the latter. A project by MiBACT proposes its reuse as headquarters of the Ministry's offices in town as well as a "cultural centre" for the city: a design challenge in order to create the conditions for accessibility and dialogue between the complex and the local community.

Keywords Restauro, ex complesso monastico - conventuale, adeguamento. Restoration, former monastic - convent complex, adaptation.

Introduzione L’ex Convento della SS. Annunziata, noto anche come ex Caserma San Mamolo per via dell’uso a cui è stato adibito nella seconda metà del Novecento e della posizione, è un luogo significativo dal punto di vista storico e culturale per lo sviluppo della città, ma poco conosciuto dai bolognesi. Infatti le funzioni a cui il complesso è stato destinato non ne hanno mai permesso la fruizione pubblica e la cortina muraria che vi corre intorno ha incrementato nella collettività la percezione di questo come di un luogo interdetto. Il manufatto sorge in prossimità della perduta porta di S. Mamolo lungo i viali di circonvallazione, il cui andamento ricalca quello delle mura trecentesche e coincide con il perimetro del nucleo storico della città. Il bene, di proprietà demaniale, oggi è in parte occupato da opere religiose e in parte è stato dato in consegna al MiBACT (2009) per la creazione di un “polo per i beni culturali”.

Nato accanto ed ‘accantonato’. Storie e prospettive dell’ex convento della SS. Annunziata a Bologna

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1. Cenni storici e distributivi La chiesa della SS. Annunziata fu costruita dai padri Minori Osservanti di San Francesco in seguito alla concessione della piccola chiesa trecentesca dei monaci Basiliani Armeni, con casa e orto. Ampliato il possedimento con la proprietà Bardi e un terreno dei frati di S. Michele in Bosco, si iniziò a costruire la chiesa. Agli inizi del Cinquecento, palazzo Bardi venne adeguato per ospitare il convento, dando origine così al braccio principale e nel 1511 furono intrapresi lavori per realizzare l’infermeria. Dal 1580 la chiesa venne trasformata e il convento subì continui ampliamenti, ad opera dei padri guardiani che si susseguirono fino al 1620 e che portarono all’organizzazione del complesso su tre chiostri, completato da successive aggiunte. Nel 1630, a causa del colera, il convento fu destinato a lazzaretto. In seguito si costruirono due nuovi bracci: fu completato il grande dormitorio ed eretto il Noviziato, poi destinato a Seminario di Filosofia. Nel XVII secolo fu costruita la biblioteca nel braccio settentrionale. Nel corso del Settecento il convento fu accresciuto nel primo e nel secondo chiostro. Con l’arrivo dei francesi nel 1796 l’Annunziata fu occupata parzialmente dai soldati e si decise di separare gli spazi fra religiosi e militari. Nel 1810 il monastero venne chiuso e destinato a ospedale carcerario. Dal 1816 il convento accolse nuovamente la comunità francescana che dovette restaurare chiesa e convento, danneggiati dalla permanenza dei militari. Negli anni successivi, i restauri si susseguirono a causa delle continue e alternanti occupazioni militari. Nel 1849 gli austriaci occuparono Bologna e il convento in parte fu destinato ad alloggiarne le truppe. Nel 1859 l’occupazione del convento si estese fino quasi ad escludere i religiosi. Nel 1866 furono soppressi chiesa e convento e privati di tutto il patrimonio artistico mobile, poiché interamente destinati a usi militari e alterati: la chiesa fu trasformata in magazzino e officina, il prato accolse nuovi padiglioni e sorsero vari corpi. Nella parte finale del loggiato verso la città furono demolite tre arcate e la cappella di testa, creando così un’ampia apertura per l’accesso dei mezzi militari che qui venivano manutenuti; in seguito i tre fornici furono chiusi e trasformati in vani. Intorno al piazzale fu innalzato un alto muro, con ingresso in angolo fra via S. Mamolo e viale Panzacchi, che nascose alla vista l’intero complesso. Le guide di Bologna del periodo smisero progressivamente di menzionare del convento. Nel 1944 i militari italiani permisero ai Frati Minori Osservanti di far ritorno nel manufatto; questi intrapresero le prime opere per liberare lo spazio, in particolare il terzo chiostro dietro l’abside, dalle sovrastrutture costruite nel tempo. Il padre Cornelio Nobili, ottenuta la restituzione della chiesa, coinvolse la Soprintendenza ai Monumenti nella persona di Alfredo Barbacci per i restauri, soprattutto della chiesa. L’intero convento fu quindi interessato da lavori che durarono circa trent’anni, suddivisibili in tre periodi: il restauro di chiesa e convento (1944-1955), i lavori di risanamento e rifinitura (1955-1970) e, con la conclusione delle trattative con i militari, la demolizione del muro che recingeva parte del Sagrato e delle abitazioni al suo interno, il completamento del portico con la ricostruzione delle tre arcate in precedenza demolite e della cappella finale, con la sistemazione anche del piazzale antistante (1970-1975) [Giannelli 2010]. Il manufatto si è accresciuto nel tempo in pianta ed in elevato per aggiunte successive e si è sviluppato attorno a tre chiostri, fra via S. Mamolo e il viale di circonvallazione. L’accesso principale è lungo via S. Mamolo, dove si affaccia la chiesa della SS. Annunziata, verso il centro città. Sono presenti due accessi carrabili e la porta tamponata, che era l’antico accesso pedonale. Entrando da questo si percorreva il primo corridoio al piano terra affiancato da celle, per raggiungere poi il primo e più antico refettorio, e quindi il grande e celebre refettorio ancora decorato. Il primo piano si sviluppa per quasi tutti i corpi di fabbrica attraverso lunghi corridoi affiancati da celle piuttosto regolari e da locali ad uso comune con

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1. Localizzazione del bene nella città e attuale suddivisione degli spazio fra MiBACT e Religiosi. i frati. Sul piano morfologico esternamente il complesso si presenta compatto e chiuso con fronti regolari ed impenetrabili, configurandosi nel tempo proprio come città altra, interdetta ai più, pur essendo di riconoscibilità immediata. Oggi il bene è oggetto di tutela sia monumentale che paesaggistica. Difatti, sul Complesso dell’ex-Convento della SS. Annunziata, Ex-Caserma S. Mamolo, sono stati emessi diversi provvedimenti di tutela: una prima Notifica di Interesse nel 1911, emanata dal Ministero per la Pubblica Istruzione, confermata con un decreto emanato nel 1967 dal medesimo Ministero ai sensi della L. 1089/1939, ora parte II del D.Lgs. 42/2004 e s.m.i.. Per quanto riguarda la tutela paesaggistica, invece, il complesso è incluso nel perimetro della Dichiarazione di Notevole Interesse Pubblico della zona collinare a sud-est di Bologna, sita nell’ambito del Comune di Bologna, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 4 febbraio del 1955.

2. Genesi del progetto di riuso Nel 2009 l’allora Direzione Regionale dei Beni Culturali e Paesaggistici dell'Emilia-Romagna (DR-ERO), consegnataria del bene, si fece promotrice di un articolato progetto di restauro e rifunzionalizzazione, che prevedeva il trasferimento di alcuni uffici territoriali del MiBACT nella parte che era stata in uso alla caserma, per razionalizzare le spese per gli uffici in locazione passiva e agevolare la comunicazione fra questi. In particolare, si proponeva inizialmente di trasferire nel complesso conventuale la DR-ERO, l’allora Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Bologna, Modena e Reggio Emilia (SBAP), un deposito di materiali archeologici e la Soprintendenza Archivistica; nei fabbricati a ridosso dei viali si proponeva di collocare la sede del Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, insieme ad ambienti ad uso foresteria e locali tecnici. Nel corpo monumentale erano anche individuati spazi utilizzabili per attività socio-culturali per la città.

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2. Vista aerea del complesso con individuazione dei corpi di fabbrica, in particolare il corpo A sarà l’oggetto del primo lotto.

A partire dal 2010 per iniziativa quindi della DR-ERO vennero intrapresi numerosi studi sulla porzione in consegna sia per comprenderne la genesi, che lo stato di conservazione in funzione del progetto. Parallelamente, infatti, fu avviata la fase di progettazione preliminare per la nuova sede degli uffici ministeriali. In coerenza con l’obiettivo di rendere più efficiente la comunicazione tra gli uffici e di razionalizzare la spesa per il SR-ERO e la SBAP, il progetto preliminare non proponeva la separazione completa tra gli spazi: infatti alcune funzioni come la portineria, la biblioteca, le sale riunioni, i servizi igienici e i locali per il ristoro, venivano individuati come ad uso comune. Tutti gli uffici erano distribuiti al piano primo, mentre al piano terreno il preliminare proponeva di allocare archivi, portineria e biblioteca, anche per aprirle agevolmente al pubblico. Sempre negli ambienti del piano terreno era sviluppata la proposta di realizzare ambienti utilizzabili anche per attività socio- culturali apribili alla cittadinanza, come sale convegni e sale espositive, utilizzabili dagli istituti ospitati ed eventualmente da fruitori esterni, in particolare il refettorio grande. Complessivamente la proposta preliminare, per evitare interferenze fra le parti destinate a uffici, sede del Nucleo Tutela, e spazi culturali, prospettava una dislocazione delle funzioni definita in modo che fossero indipendenti tra loro, con impianti, percorsi e accessi specificamente dedicati. L’ingresso principale pedonale doveva avvenire attraverso il ripristino dell’antico accesso sotto il portico dell’Annunziata; dalla zona cortiliva compresa tra

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3. Vista del corpo A dall’interno del chiostro verso i viali. la parte conventuale e le aggiunte ottocentesche si doveva confermare l’accesso carrabile per mezzi di soccorso e di carico/scarico di materiale, nonché l’eventuale accesso alle sale fruibili per eventi culturali pubblici nei giorni e negli orari in cui gli uffici sarebbero stati chiusi. Analogamente per gli ambienti dedicati al Nucleo Tutela dell’Arma dei Carabinieri, nonché per la foresteria di SBAP e DR-ERO erano previsti un accesso carrabile e uno pedonale diretto dai viali di circonvallazione. Parallelamente al progetto preliminare è stato realizzato un cantiere di restauro e miglioramento sismico di parte del coperto della parte conventuale e, interventi di demolizione e di rimozione in funzione del progetto definitivo (Si rimanda alla documentazione conservata presso il Segretariato Regionale per l’Emilia Romagna (SR- ERO) e Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara, SABAP-BO) [Tomba, Zanetti 2014, 397-407]. Tali opere hanno riguardato la rimozione del recente pavimento in ceramica e la realizzazione di saggi strutturali al livello del piano terreno di calpestio, che hanno permesso di rilevare i diversi strati di pavimentazione in cotto, marmette e acciottolato, nonché la mancanza di qualsiasi tipo di vespaio; la rimozione dell’intonaco cementizio, ammalorato per via dell’umidità di risalita sia internamente sia esternamente (operazione che ha fatto riaffiorare l’eterogenea muratura in mattoni, pietra serena e ciottoli di fiume, molteplici tracce delle trasformazioni di

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cui è stato oggetto il complesso conventuale); la demolizione di muri di frazionamento degli ambienti e di aggiunte eseguite nel corso del Novecento e le recenti controsoffittature. Sono stati eseguiti saggi stratigrafici superficiali che nei corridoi di distribuzione al piano terra e primo hanno portato alla luce numerosi lacerti di affreschi quattro-cinquecenteschi, con vedute, immagini sacre e votive. In particolare al primo piano, sono stati rinvenuti i fregi superiori alle porte delle antiche celle conventuali e l’affresco che faceva da sfondo a una pala d’altare, di cui è rimasta l’impronta dello spazio in cui era alloggiata. Le indagini stratigrafiche sono state in gran parte condotte in aree prestabilite, su richiesta della Direzione lavori (DL) in relazione alle informazioni desumibili dall’appartato iconografico allegato alla ricerca storica che dava molteplici informazioni indirette sui caratteri del bene. Il progetto preliminare dava indicazione sullo sviluppo dei lavori per lotti funzionali per fasi successive in relazione alle destinazioni d’uso, in modo che ogni istituzione potesse trasferirvisi man mano che il lotto corrispondente fosse ultimato, senza attendere il compimento degli altri e senza interferire con i lavori su altri lotti successivi. In questo contesto è stata posta l’attenzione sulla localizzazione del bene rispetto alla città antica e a quella contemporanea: quello che è nato come uno spazio chiuso ai margini, al di fuori del cuore della città, oggi ne è inglobato e trova nel rapporto con essa potenzialità di sviluppo. Infatti la posizione del manufatto lungo i viali nei pressi di Porta S. Mamolo si rivela oggi strategica e ha influenzato la scelta del nuovo uso. La posizione permette, infatti, di raggiungere il centro città e le sedi delle principali istituzioni cittadine in pochi minuti, sia a piedi che in auto. Inoltre, l’accesso diretto ai viali, arteria di grande distribuzione, che veicola la circolazione nel modo più agevole verso la periferia e verso i collegamenti alla rete nazionale carrabile e su ferro, rappresenta una caratteristica di grande utilità. Si tratta di una zona adeguatamente servita dai mezzi pubblici, che ne rendono agevole il raggiungimento per i fruitori.

3. Il primo lotto di intervento1 La redazione del progetto definitivo del primo lotto di interventi ha avuto genesi articolata. Innanzitutto si è dovuto procedere alla definizione di questo in modo che gli uffici della DR- ERO, i primi interessati dal trasferimento, trovassero una sistemazione idonea alle loro necessità e che gli spazi individuati non subissero interferenze durante i successivi cantieri; infine si è verificato che le lavorazioni relative agli usi, locale per locale, fossero riadattabili alla fase ultimata in cui, a uffici trasferiti, la porzione considerata sarebbe divenuta di uso comune fra i diversi enti. Si sono quindi individuati i bracci A e A’ in cui il progetto, consegnato nell’ottobre 2014, proponeva la distribuzione di uffici sui due piani del corpo di fabbrica A; di archivi, biblioteca, sale riunioni e servizi igienici su quelli del corpo A’. L’intervento, che è stato progettato a livello definitivo, si proponeva di predisporre gli uffici nel corpo A, negli spazi delle antiche celle conventuali, in modo che potessero assolvere prima a questa funzione e in un secondo tempo a quella di biblioteca, o aula studio aperta al pubblico

1 Finanziamento del MiBACT. Gruppo di Progettazione: Segretario Regionale Dott.ssa Sabina Magrini, RUP arch. Gabriella Goretti (SR-ERO), Progettista architettonico arch. Francesca Tomba (SABAP-BO), collaboratore alla progettazione architettonica arch. Elena Pozzi (libero professionista), Direttore Operativo geom. Dario Biondi (SR-ERO), Progettista per le strutture Ing. Nicola Cosentino (libero professionista), Progettista per gli impianti ing. Giovanni Paolazzi (libero professionista), Restauratore per la redazione delle schede di Restauro Anna Selleri (Polo museale ERO).

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4. Immagine del “refettorio grande” con decorazioni in gran parte attribuite al Bigari. in modo da lasciare al piano terreno funzioni fruibili dalla collettività. Il progetto è stato sviluppato fin dalla sua genesi con un approccio di tipo conservativo, caratterizzato dallo studio dell’esistente quale guida per le proposte progettuali. A titolo di esempio si decise di collocare nel primo lotto il vano ascensore, poiché la zona era più idonea a livello distributivo e poiché permetteva di collegare i piani del complesso dall’interrato al secondo, essendo questa l’unica porzione in cui essi coincidevano in sezione. Questa era inoltre l’area in cui tutti i solai erano in laterocemento per via di una recente trasformazione. Per quanto riguardava gli accessi pedonale e carrabile, essi rimanevano invariati rispetto a quanto già ipotizzato nel preliminare, così come la distribuzione dei locali tecnici. Nel 2016 si è però reso necessario portare a livello esecutivo il progetto per diversi motivi, tra cui: l’aggiornamento del Codice degli Appalti (D. Lgs. 50/2016) e la riorganizzazione degli enti periferici MiBACT (D.P.C.M. 171/2014). Ai sensi della riforma del Ministero, infatti, il personale della DR-ERO, che diventa SR-ERO, viene ridotto di una ventina di unità, in relazione ad una ridistribuzione delle competenze. Nel primo stralcio di lavori progettati questo ha determinato una riduzione della superficie necessaria, anche più coerente col finanziamento a disposizione. Il progetto esecutivo (2017) coinvolgerà unicamente il corpo A e l’esterno verso i viali. Questo ha comportato la ridistribuzione degli spazi per il funzionamento degli uffici del SR-ERO, come la ricollocazione dei servizi igienici. Questi dovranno essere realizzati non più nella porzione vicino all’ascensore, al quale per altro si è dovuto per ora rinunciare, ma entro una delle antiche celle conventuali. In coerenza con i principi conservativi, questi saranno realizzati con la logica dell’aggiunta: leggere partizioni in

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5. Immagine del corpo A, primo lotto di lavori come futura sede del SR-ERO, visto dal corpo ottocentesco lungo viale Panzacchi. muratura e contropareti permetteranno il passaggio degli impianti senza compromettere le murature storiche e potranno, se necessario, essere rimossi. Il SR-ERO si sta occupando dell’attivazione della gara d’appalto che è prevista in tempi brevi.

Conclusioni Complessivamente l’ex convento dell’Annunziata – ex Caserma San Mamolo, è un manufatto di grandi dimensioni e importante per la storia della città, che dopo vicende alterne e trasformazioni ha scongiurato il rischio di cadere in disuso, grazie ad uno strategico e ambizioso progetto del MiBACT. L’obiettivo dell’intervento di restauro e rifunzionalizzazione promosso dal SR-ERO è infatti sia quello di salvaguardare un immobile di interesse per il suo intrinseco valore storico-culturale, sia di rispondere a esigenze concrete, quali la necessità di eliminare il perpetuarsi di locazioni passive di alcuni Uffici. Questa scelta impegnativa e coraggiosa incarna nello stesso tempo esigente materiali, culturali ed etiche, sia per la storia della città, che dell’evoluzione del manufatto in relazione allo sviluppo della società. Si configura, perciò, come strategia per ridare vita ad un bene che mantiene coerenza dal punto di vista della valenza culturale, poiché diviene sede di prestigiose istituzioni pubbliche,

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ma che al contempo si apre per la prima volta alla collettività, per cui sempre è stato un riferimento senza essere fruito. Il riuso di un edificio pluristratificato come questo, nel progetto di conservazione, è stato affrontato nel rispetto della materia, quale fonte essenziale per la storia materiale, con attente valutazioni circa le ricadute fisiche delle scelte legate alla destinazione d’uso ipotizzata. La scelta di allocare istituzioni pubbliche in questa sede risulta qualificante e coerente con i caratteri di eccezionalità del complesso. Inoltre i caratteri distributivi tipici delle strutture conventuali, caratterizzate da corridoi e celle, collegamenti coperti e aperti, ben si adattano all’uso di ufficio; contemporaneamente, i grandi spazi utilizzati per la vita monastica possono perpetuare la funzione di spazi di aggregazione se aperti al pubblico. Nell’ottica di avvicinare ed aprire il bene alla collettività nel 2013 l’allora DR-ERo diede vita all’iniziativa “Porte aperte a S. Mamolo”, in cui per due giorni alcuni funzionari guidarono gruppi di persone lungo un percorso in sicurezza e ne spiegarono la storia e le prospettive, con un successo di pubblico inaspettato. In seguito il SR-ERo ha promosso aperture e visite guidate nel complesso, anche in collaborazione con il FAI e alcune associazioni locali, proprio per iniziare a valorizzare il bene e permettere agli interessati di conoscerne il passato ed il futuro.

Bibliografia GIANNELLI, L. et al. (2010). Bologna, ex-Convento dell’Annunziata già Caserma San Mamolo – Ricerca Storico documentaria, su incarico dell’ex DR-ERO e conservata agli atti dell’attuale SR-ERO. TOMBA, F., ZANETTI, D. (2014). Restauro e miglioramento sismico delle coperture dell’ex-Convento della SS. Annunziata a Bologna. La conservazione della materia come esigenza di sostenibilità culturale ed economica, in Atti del Convegno Internazionale Scienza e Beni Culturali XXVI «Quale sostenibilità per il restauro?», (Bressanone, 1-4 luglio 2014), Padova, Arcadia Ricerche, pp. 397- 407.