DIREZIONE DIDATTICA STATALE

I° CIRCOLO

ADRANO, STORIA CULTURA E TRADIZIONI

PREMESSA

Il presente lavoro è una raccolta di scritti documentari sulla storia e la cultura di Adrano; vuole essere un supporto per chi vuole informarsi per semplice curiosità, per ragioni di studio personale o per finalità scolastiche; in ogni caso rappresenta solo una minuta, un abbozzo iniziale senza pretesa di compiutezza e definitività, perfettibile, tuttavia, e migliorabile nel futuro in un prossimo lavoro ulteriore, almeno con l’aggiunta di note esplicative e riferimenti bibliografici sulle fonti e sugli Autori dei documenti. Il sottoscritto non ha fatto altro che lavoro di compilatore usufruendo dei mezzi informatici di cui ha cominciato a disporre la scuola; altresì la propria gratitudine alla Prof.ssa Loredana Lorena per lo sprone e l’incoraggiamento che ha sempre manifestato verso l’idea di uno scritto che può tornare utile sotto tanti profili agli studenti, agli insegnanti, a chiunque voglia arricchire la propria cultura. Si può dire che la maggiore soddisfazione dello scrivente è stata quella di dimostrare quanto valida e preziosa sia l’integrazione delle nuove tecnologie informatiche con la “carta scritta”, in quanto le prime danno le informazioni più rapide, sicure e varie e la seconda garantisce la memoria, l’immediata disponibilità, il lavoro di nota e di riflessione, in margine o in calce. Non è vero, perciò, che c’è contrapposizione tra l’antico e il nuovo, perché l’uno e l’altro arricchiscono e promuovono l’uomo, potenziano lo studente e integrano le generazioni, accomunandole nei linguaggi e nella costruzione di un concetto di cultura che si fa solidale ricerca e confronto , mai dato definitivo, scontato o acquisito una volta per tutte. La contrapposizione mi è parsa non tra nuovo e antico, ma tra estemporaneo e vecchio! Nella raccolta si procede dalla delucidazione del nome della Città, alla presentazione del territorio, alla rappresentazione dei vari periodi storici caratterizzati dal succedersi delle dominazioni straniere e dall’intrecciarsi delle lotte e dei contrasti locali. Il tutto sfocia nel quadro dell’itinerario artistico-culturale dei luoghi-simbolo di Adrano: le Chiese, la Villa, il Teatro, le Piazze, il Castello, il Ponte dei Saraceni, i Monumenti e le opere d’arte e della Tradizione: l’illustrazione fotografica accompagna passo passo il testo scritto a confermare o ad invogliare l’attento lettore nell’ansia di un’ulteriore esplorazione del luogo e a farsi umile e paziente pellegrino alla ricerca delle lontane radici di un’anima, quella del popolo di Adrano.

Il vicario Ins. Antonino Bua 1 Il nome del comune

Non sappiamo quale nome avesse l'abitato siculo esistito nei pressi di un antico tempio del dio siculo Adrano. Il tiranno Dionisio I di Siracusa nel fondare una cittadella, nel sito della città sicula la chiamò , dal nome del dio che vi si adorava. In età romana e latina (263 a.C. - 476 d.C.) l'abitato si chiamò Hadranum. Nell'età barbarica forse conservò il nome latino con qualche deformazione: Aterno? Nell'età saracena si chiamò Adarnù o Adarna. Nell'età normanna aveva tre nomi simili: quello latino curiale-ecclesiastico di Hadranum, quello latino medievale di Adernio e quello greco-bizantino di Adriano. Nell'età angioina pare che alla francese si chiamasse Adernò. Da questa età e fino al 1929 si chiamo Adernò e quindi Adrano.

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Il Territorio

Dei tempi passati ci rimangono due descrizioni significative di Adernio o Adernò, la prima è quella del geografo arabo Idrisi, che nel suo « Libro di Ruggero » (1154) scrisse: « Adernò (è) un grazioso casale che si direbbe quasi una piccola città; sorge su una cima rupestre, è dotato di un mercato, di un bagno, di una bella rocca e abbonda di acque. Esso e situato alle falde del Mongibello, verso sud ». II geografo messer Giulio Omodeo degli Omodei (metà sec. XVI) nella « Descrizione della Sicilia » (Val Demine, pag. 135) dice: « Ora tirando da Bronte per le falde del Mongibello circa 14 miglia, si arriva ad una terra chiamata Adernò col titolo di conte di casa Moncada, chiamata da Plutarco in "Timoleonte" Adrano, lungi (com'ei vuole) da Taormina circa 45 o 50 miglia; la quale in quei tempi era città molto stimata, benchè picciola, per rispetto della superstiziosa religione del dio Adrano, quale con somma religione adoravano, dal quale prese il nome, dove Timoleone, aiutato da Andromaco, padre di Timeo istorico, partendosi da Tauromena, sconfisse improvvisamente gli eserciti d'Iceta e liberò Siracusa. E oggi questa terra molto forte e abbondante di acque e di vettovaglie, posta in un luogo rilevato ed alto sul sinistro lato del fiume grande della Giarretta e sotto le radici di Mongibello ».Del suo territorio, di cui facevano parte quelli che poi (1488-1501) saranno i territori del Casale dei Greci, detto poi , e della terra di Centorbi, detta poi , abbiamo una descrizione del 1647 fatta dagli « estimatori e prezzatori » Antonino Lanza e Francesco Sbarbato, che si riferivano particolarmente alle terre coltivate a grano, mentre le altre terre erano quasi tutte, ad eccezione dei pascoli naturali, delle zone sciarose o boscose: esse si classificavano in chiuse, tenute e feghi o feudi: « erano le chiuse di don Giuseppe Ventimiglia nella contrada della Serra, le chiuse di Gianbruno, le chiuse di li Zacchani, le chiuse di S. Elia, la Difesa della citta, le chiuse del Balletto, la Paricchia, la Fogliuta, li Pulichi, ie chiuse di Guzzardi, le chiuse di Reale, le chiuse di Gualtieri, le chiuse di Caterina Carambia, le chiuse di don Bonaventura Garofalo, le chiuse di Filiu Ciancio, le chiuse della Xiarotta, le chiuse di Sberno, le chiuse di Maggio, le chiuse di Ciancianella, le chiuse di Cippetro, le chiuse di Santo Cono, il fego di Pietra Bianca, il fego del Mendolito, il fego di Pulicello, il fego del Cugno, il fego di Poyo di vaca, il fego di Cavallaccio, il fego della Cavalera, il fego di S. Todaro, il fego di Salina, il fego di Muglia, il fego di Poio Russo, il fego di Xirfi, la tenuta delli Carnali, il fego della Martina, il fego della Solicchiata, il fego del Boschetto e della Dagala, il fego di Pupurtello, il fego della Cisterna, e altri feudi minori.Queste terre e altre, che dal tempo di Matteo Sclafani (1303-1354) facevano parte della Contea di Adernò, per l'estensione di circa ha 30.784,04,20, in seguito al nascere 3

(1488-1501) e all'affermarsi dei Comuni di Biancavilla e di Centuripe, si ridussero per il comune di Adrano a ha 8.251. II territorio è montuoso e a forma di triangolo isoscele col vertice sulla cima dell'Etna e confinante col territorio di Bronte ad ovest, col fiume a sud-ovest, col territorio di Biancavilla ad est. Si trova alla base del bacino idrografico del versante occidentale del vulcano, per cui è ricco di falde acquifere, che fuoriescono spontaneamente (sorgive) o per perforazioni non molto profonde (pozzi). Le sorgenti piu rinomate sono quelle di Capici, della Fogliuta, della Naviccia, di Patellaro, di S. Giovanni, del Cristo alla Colonna, di Gioppo, di S. Nicolò, di Facciulle, del Grifo, della Mandra del Toro, di S. Lucia, del Buglio, di Donna Eleonora , di Irveri, delle favare di S. Domenica, di Polichello ed altre. I pozzi sono oggi tutti chiusi, perché inquinati, ma fino alla fine del secolo scorso, se ne contavano nel paese circa 155, con profondità media di m. 11. Il paesaggio agricolo fino agli anni '50 di questo secolo, era iridente e lussureggiante di orti (intorno all'abitato) di giardini, di oliveti, di vigneti. Oltremodo incantevole era la valle del Simeto dal Ponte dei Saraceni ad ovest, a quello di Mandarano a sud-est. A partire da quota 1000 fino a quota 2000, si succedono querceti e liceti nella zona di nord-ovest e castagneti e pinete nella zona di nord-est; più sopra vi sono le lave nude o scoperte. Il clima è assai variabile: nelle stagioni intermedie con forti escursioni termiche, ventoso d'inverno e secco d'estate.Le piogge non sono costanti. Gli animali sono quasi tutti spariti, sia quelli selvatici, che quelli domestici. A causa del quasi abbandono della coltura seccagna, si sono incrementati i conigli selvatici, le volpi, le donnole e le vipere. Quasi incredibilmente sopravvivono gazze, taccole e qualche altro corvide (ad eccezione del corvo reale), che si sono adattati a cambiare alimentazione, poichè con la fine degli animali da soma, è venuto meno il loro pasto di elezione.

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Periodo Siculo-Greco Adrano come polis, deve la sua origine a Dionisio il vecchio, che nel 400 a.C. ristrutturò a città fortezza il grosso villaggio esistente e lo cinse di lunghe mura per tutto il perimetro, erroneamente attribuite ai Ciclopi e tramandateci come mura ciclopiche. Un argomento abbastanza probante sull'esistenza dell'Adrano sicula è il fattore religioso, argomento importantissimo nella storia di tutti i popoli. ADRANOS era un Dio indigeno del luogo, il culto del quale si estendeva a tutta la zona etnea; era conosciuto lungo la costa tirrenica della Sicilia dove si coniavano monete con la testa del Dio ADRANOS. Si tratta di un Dio tra i più antichi della Sicilia orientale, se non il più antico. Si possono considerare certe le notizie della sua esistenza tra i Siculi sin dal 1500 a.C. Quindi non si può trattare di un Dio greco sicilianizzato, ma semmai il contrario. Certo è che nessuno mette in dubbio che si tratti di un Dio locale. Con la conquista di Adrano, Dionisio raggiunse il triplice scopo di iniziare la conquista del territorio attorno all'Etna, che successivamente estenderà a tutta la Sicilia orientale; creare un avamposto fortificato a guardia e difesa della vallata del Simeto contro Centuripe; assicurarsi il legname dei ricchissimi boschi necessari alla costruzione di una potente flotta per fare di Siracusa una potenza marinara.

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Dalle origini alla conquista saracena Tutto il pendio dell'Etna, dal limite dei boschi al fiume Simeto, con intensità, modalità e localizzazioni diverse, è stato abitato in continuazione fin dal neolitico inferiore. Le zone di maggiori insediamenti sono sempre state due: quella tra le colline vulcaniche a nordest dell'odierno abitato e la rocca e la zona nei pressi del fiume e nelle contrade oggi chiamate di Irveri, Zorio, Cimino, Rimiti, Santa Domenica, Policello, Mendolito, Ardichella, Ciappe, Cugno, Fontanazze e Barca Vecchia. Verso il secolo 10° a.C. si insediarono sia nella prima zona in alto, che in quella presso il Simeto, colonie di Siculi, che avevano i loro centri di culto e di riferimento amministrativo nelle contrade della Pulica, di Minà, della Fogliuta, di Callicaris, di Sant'Elia, di S. Giovanni, della Mola, di Gioppo, del Buglio, S. Domenica, Ardichella a sud. I centri si addensavano nelle contrade di Gioppo, di Zaccani, di Fraiello a sud, attorno a un veneratissimo tempio di fango e legno e nella cosiddetta « Città del Mendolito », presso il Simeto, a nord-ovest. Il centro del Mendolito sviluppò una raffinatissima civiltà del bronzo e, oltre la cinta muraria, le porte, e le tracce di capanne, ci ha lasciato una necropoli dalle caratteristiche sepolture a « cupoletta ». Tale abitato era già in decadenza nel sec. V a.C. e pare abbia ricevuto il colpo di grazia da Dionisio I che lo conquistò e ne deportò la popolazione per incrementare la « sua » fondazione (401-400 a.C.) di Adranon nella parte di nord-est del territorio. Questo abitato, da cui trae origine direttamente il nostro Comune, ebbe il suo apogeo di civiltà nel periodo di Timoleonte (344-337 a.C.), in cui fiorirono scuole di pittura vascolare di meravigliosa fattura (vedi vaso dell'Ermitage). Dopo Timoleonte Adranon divenne una specie di feudo familiare di Agatocle (317-289 a.C.) e dei suoi eredi Agatocle II e Arcagato il giovane e quindi di Gerone (269-215 a.C.), tra un saccheggio e l'altro da parte dei Mamertini. In questa situazione, poiché Gerone, re di Siracusa, stava dalla parte dei Cartaginesi, prima di passare dalla parte dei Romani, Adranon nella primavera del 263 a.C., fu espugnata dal console M. Otacillo con 8000 fanti e 600 cavalieri e fu trattata assai duramente: le case saccheggiate e rase al suolo, gli abitanti passati a fil di spada, il territorio disponibile per il primo occupante, che pare fosse stata la città di Centuripe, che messa dai Romani nel novero delle poche città « libere ed esenti », mandò i suoi « oratores » o agrari ad occupare il territorio della infelice città limitrofa, i cui abitanti superstiti erano fuggiti tra le selve di querce e ilici delle pendici dell'Etna e nelle contrade, che poi saranno chiamate della Pulica, di Minà e della Fogliuta. La città di Adranon, che aveva aiutato Timoleonte ad abbattere i tiranni di Centuripe, di Agira, di , era ridotta ad un mucchio di rovine fumanti. 6

Il suo territorio era « ager publicus », che i censori affittavano a nome del popolo Romano ad alcuni agrari centuripini, che portarono le loro torme di schiavi e costruirono le masserie (villae) in mezzo e sopra le rovine della città dionigiana. Così dal 263 al 139 (o 135 a. C. di Adranon rimase il nome, finché gli schiavi dei signori centuripini si ribellarono ai loro feroci padroni, saccheggiarono le masserie e si unirono a Euno, che da Enna aveva levato il grido della riscossa, di abbattere i padroni, di bruciare le masserie, di distruggere gli attrezzi di lavoro, e i raccolti, salvando la vita solo ai lavoratori della terra. Euno, che si fece chiamare re Antioco, si affidò alla dea Demetra e agli antichi dèi Palici, figli di Adrano. Euno dagli ex proprietari fece costruire una grande quantità di armi e si arroccò nelle piazzeforti di Enna e di Taormina, dove i suoi seguaci furono massacrati, dopo anni di eroica resistenza (131 a.C.). Ma le cose non mutarono, i « latifundia » lavorati da torme abbruttiti di schiavi, rimasero, i padroni si rinnovarono e furono rimpiazzati. Con gli schiavi perirono anche centinaia di migliaia di piccoli contadini, di ex artigiani e la pace romana, con la rapacità dei suoi magistrati, tornò a regnare anche nel territorio di Adranum. Così rimasero le cose forse fino ai primi decenni dell'impero; infatti Plinio il vecchio, nella sua « Naturalis Historia » (libro I capitolo Vlll de Sicilia), fra i cittadini siciliani enumera anche gli « Hadranitani », che potevano essere costituiti da indigeni soggetti a qualche colonia latina, dedotta in quel territorio da Augusto in seguito alla vittoria su Sesto Pompeo. In tale occasione, il villaggio cambiò lo « status ». e divenne un « pagus stipendiarius », cioè un villaggio tributario che aveva il suo centro nelle contrade di Minà e della Fogliuta, sotto il reggimento di qualche famiglia di « Curiales », che possedevano le terre e raccoglievano per Roma le imposte, sotto lo sguardo rapace di qualche guarnigione acquartierata nei pressi di Minà. il periodo delle invasioni barbariche, specialmente dei Vandali, vide frequenti saccheggi delle zone etnee, che forse trovarono un po' di pace al tempo di Teodorico (493-526) e del suo buon governatore Cassiodoro, per cadere poi sotto il rapace dominio fiscale dei bizantini (535 d.C.) per opera di Belisario. Egli, al tempo di Giustiniano, ribadì le catene che legavano i villici ai latifundia, in condizione di servitù. Il dominio bizantino per Adranum o Adranion o Adriano, come forse allora si chiamò il nostro Comune, ebbe termine con l'occupazione saracena del nostro territorio verso l'anno 950 d.C.

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Dai Saraceni agli Svevi Adarna dei Saraceni (950-1070 d.C.). La più antica Adranon siciliota, l'Hadranum romana, e l'Adranion o l'Adrianon bizantino, era arrivata all'alba del X secolo quasi sotto l'aspetto di un misero villaggio di capanne (casotte e pagliai) sparse per quasi tutta la parte alta del territorio, con maggiore accentramento in due nuclei: uno nelle contrade della Pulica e della Grazia Vecchia o Minà e uno attorno alla massiccia collina della Cuba, in corrispondenza della parte N-E della siciliota Adranon. Verso l'anno 950 i saraceni dell'emiro Musa, occuparono il territorio di Adranion investendolo dalla parte occidentale. Gli « arconti » o capi di Adrianon, si arresero e si ritirarono coi loro amministrati verso est, lasciando ai saraceni il luogo accanto alla Cuba, che dalla residenza del capo o Caid, prese il nome di « quartiere di Gaiti », oggi detto di S. Nicolò l'Eremita. I saraceni chiamarono il loro casale Adarnu o Adarna e vi eressero una fortezza detta «Salem » (che in arabo vuol dire luogo di delizie), forse nei pressi di una cappelletta bizantina chiamata « Cuba » per la sua piccola cupola. Nel castello, che doveva essere una specie di caravanserraglio con cortile recintato e torre di residenza, si stanziò il Caid, che era nello stesso tempo capo militare, giudice percettore di imposte e sacerdote. Così per lungo tempo coesistettero un quartiere cristiano con molti ebrei ad est della Cuba, e un quartiere saraceno presso il castello verso occidente, fino alle contrade di Gioppo, degli Zaccani e della Mola. Inoltre i saraceni fondarono o ripopolarono, presso il fiume Simeto, nelle odierne contrade di S. Domenica, Policello e Mendolito, il casale « Bulichiel », al centro di fiorenti giardini e terre di seminario. I saraceni, dopo il momento dell'occupazione, furono tolleranti ed economicamente assai attivi. Si contentarono di imporre una tassa del culto cristiano, detta Gizya, che era proporzionale alle condizioni economiche dei contribuenti, ne erano esenti gli inabili e gli schiavi e i mendichi. La conversione all'Islam esentava dal pagamento della tassa del culto, e pare che molti abbiano beneficiato di tale esenzione. Un'altra tassa, detta harag, era una sorta di censo o decima e gravava sul prodotto della terra. I cristiani non schiavi, detti Dismi o sudditi, erano liberi di godere dei loro beni e di celebrare i loro riti all'interno delle loro case, senza strepito. Non potevano cavalcare cavalli, ma solo asini o muli e senza staffe e alla « femminina ». Gli schiavi, detti Raqiq (minuti) e Mamluk (posseduti), vivevano in non gravissime condizioni. I saraceni erano attivi lavoratori e agricoltori. 8

Usarono su larga scala le acque, di cui il territorio abbondava, sia per mulini da macinare, che per gualchiere e tintorie, sia per l'irrigazione delle culture cerealicole e arboricole, come gli ortilizi, i fichi, i mandorli e soprattutto i sicomori o gelsi neri per « nutricare » il verme o baco da seta. Inoltre i saraceni per primi misero sul Simeto, nei pressi della contrada di Mandarano, una zattera o giarretta per il traghetto, in tempo di piena, di persone e di animali, dietro un compenso in natura. Le feroci guerre tra i capi saraceni, l'insofferenza dei capi cristiani, la volontà di riconquista da parte dei bizantini (vedi la spedizione del generale Giorgio (1030-1040), che aveva tra i suoi soldati avidi e valorosi normanni), spinsero quest'ultimi, sotto la guida di Roberto il Guiscardo e di Ruggero d'Altavilla a tentare la conquista dell'isola, che si protrasse dal 1060 al 1091. La conquista di Adarnu o Adarna (1075), iniziò con l'assedio, nella odierna contrada del - Seggio », del casale Bulichiel, da parte di un drappello di cavalieri guidati da Ugo di Yersci. Nonostante l'eroica resistenza e morte del Caid Albucazar, il casale venne occupato e ciò segnò anche la resa per la vicina Adarna, dove i cristiani erano corsi verso i Normanni, come verso angeli liberatori. Dopo l'incontro tra il conte Ruggero e il papa Urbano II a nel 1088, il capo normanno procedette alla istituzione delle diocesi in Sicilia e il 26-4- 1091 istituì quella di Catania, affidandola al monaco Ansgerio, suo parente. Il territorio di Adernio, faceva parte del patrimonio regio, di cui i regnanti normanni disponevano, assegnandolo pro tempore e ad libitum a membri della famiglia reale colla condizione della fedeltà adamantina e con l'obbligo per le femmine e per i maschi, assegnatari di terre, di richiedere il consenso del re sia per sposarsi, che per i problemi di gestione e successione. Ouesto fatto, per Adernio, fu causa di incertezza amministrativa e di frequente cambiamento di padrone. Secondo il Padre Aprile, Ruggero donò il grosso casale al figlio Goffredo, signore anche di Ragusa, cui successe Silvestro (1140) conte di Marsico, cui successe Guglielmo, cui successe Goffredo, tra l'altro signore di Noto, di Sclafani e di Caltanissetta, che lasciò i suoi beni alla figlia Desiderata, che sposò (1193) il conte Bartolomeo de Lucy, portandogli in dote tra l'altro la contea di Paternò e di Adernò. Questo Bartolomeo de Lucy avrebbe regalato al priorato di S. Giovanni di Adernò un feudo di un cavaliere, cioè del reddito di 20 onze, nella città di . Bartolomeo e Desiderata ebbero una figlia ed erede di nome Margherita, con cui si estinse la sua famiglia. Secondo un'altra versione, sostenuta dal Pirro, Adernò insieme con Paternò e altre terre come Cefalù, Collesano e Caltanissetta, costituì la dote di Adelicia, figlia di Matilde e di Rodolfo Macabeo di Monte Cavernoso ed Avellino e moglie del nipote Rinaldo d'Avellino o d'Aquila, che giovanissimo (1126) premorì alla zia-moglie. 9

Questa passò il resto della vita difendendo i suoi discendenti ribelli dagli attacchi reali e fondando chiese e monasteri tra cui: la chiesa e monastero di S. Maria « de Robore Grosso» (1134) in territorio di Adernio (oggi in quello di Biancavilla), la chiesa di S.Pietro a Collesano, la chiesa di Sant'Elia presso Adernio (1140), il monastero benedettino di S. Lucia fuori le mura di Adernio (1150). Adelicia sopravvisse molti anni, circa 40, al marito e morì a Caltanissetta verso il 1175. Ad Adelicia successe il figlio Adamo, che sposò Costanza, figlia di Ruggero Il e di Albira. Da loro nacque Ruggero di Avellino o di Aquila. Questi, senza il consenso del cugino, re Guglielmo I (1 154-1166), sposò la sorella di Guglielmo di S. Severino, che finì in carcere insieme alla madre Fenice, mentre Ruggero riusciva a rifugiarsi nel Lazio, dove prendeva il nome di conte di Fondi. Tornato in Sicilia, aderì alla congiura contro Majone, ministro di Guglielmo 1, e poi tornò per sempre nel continente. Da Ruggero nacque forse un Lucio, ricordato come conte di Fondi. A questo punto, per il Pirro, si interrompe la linea Altavilla-Avenello e signore di Adernio, maritali nomine, si ritrova il parente dell'imperatore Enrico VI di Hoheustaufen, un certo Bartolomeo de Lucy, di cui si è detto. Il territorio di Adernio, chiunque fosse il suo signore in testa, era retto da un Vicecomes o governatore o amministratore, da un capitano o giudice criminale, che nello stesso tempo era castellano della fortezza, che i normanni avevano eretto sul caravanserraglio saraceno. Nel periodo normanno Adernio, continuò il suo progresso che aveva iniziato coi saraceni, che anche da servi o da padroni di terre furono tollerati, costituendo una fonte di prosperità, poiché erano abili agricoltori e artigiani esperti, specie in quell'arte della seta, che in Adernò ebbe un centro di produzione, data l'abbondanza di terre irrigue, piantate a sicomori o gelsi neri, e con la presenza anche di estesi campi di lino, di canapa e di sommacco, utile per la concia. La sorte dell'agricoltura di Adernò seguirà, come vedremo, la sorte dei saraceni.

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Il dominio Svevo e Angioino Il periodo Svevo per Adernò segnò, come del resto per la Sicilia, l'inizio di gravissime perturbazioni, causate da vari fattori disgreganti quali: l'intolleranza verso gli industriosi saraceni, la brama di potere incontrollato da parte dei grandi feudatari, la smania di supremazia teocratica della chiesa, la gara miope e municipalista di Palermo e di per avere il primo posto in Sicilia, la boria intollerante degli Svevi, incuranti delle situazioni concrete dell'Italia e della Sicilia e l'avidità di potere da parte di profittatori italici e stranieri nei momenti di incertezza della dinastia Sveva. Dal 1197, infatti, anno della morte di Erico VI di Hoheustaufen (1 195-1197), durante la reggenza di Costanza di Altavilla (1197/27-12-1198) e la minorità di Federico Il (1194-1210), si ebbe un periodo torbido di quasi anarchia, che i papi tentarono invano di dominare. Allora ebbe luogo la fase più dura della lotta tra Federico e la chiesa (1230- 1250), che si faceva paladina di civiche libertà e arbitra indiscussa di deporre i sovrani temporali. Soprattutto rovinosa per la Sicilia e per Adernò fu la persecuzione dei saraceni. Essi non tollerando più le crudeltà e lo spietato sfruttamento dei baroni, appoggiati dalla ignoranza dei popoli, sotto il loro capo Mirabetto si ribellarono e si fortificarono fra l'altro a Troina, ad , e a Centuripe, dove convennero anche i saraceni di Adernò e facevano scorrerie e azioni di brigantaggio, per sopravvivere, finché nel 1225 furono sconfitti e in gran parte massacrati. I sopravvissuti furono deportati, in qualità di truppe ausiliarie, nella città di Lucera, che fu riedificata da loro e per loro. Nel periodo svevo, per Adernò, che ancora non si era liberata da un senso di inferiorità verso la più importante Centuripe, si verificarono tre fatti notevoli: il primo fu che Adernò e il suo castello divennero il covo di una famiglia di avventurieri: i conti Bartolomeo, Guglielmo, Gualtiero e Pagano Parisio, che proclamandosi discendenti degli Avanello, si insediarono ai confini delle diocesi di Catania e di Messina. Essi da Adernò a S. Filippo di Agira e a cominciarono a usurpare e a depredare con violenza i beni della chiesa, finché non furono vinti e banditi da Federico II (1209), che ne confiscò i beni, fra cui il Casale di Calatabiano, che fu donato al vescovo di Catania (1213). Il secondo fu la distruzione (1232) di Centuripe e la deportazione dei suoi abitanti, nella nuova città di Augusta. Essi, sobillati dalla chiesa, si erano ribellati all'imperatore, insieme coi cittadini di Messina, Catania, Siracusa e Nicosia. 11

Il terzo fatto curioso avvenne nel 1261, allorché per conto di Manfredi (1258- 1266) governava in Sicilia il conte del Marsico, Riccardo Filangeri. Comparve nella parte del territorio di Adernò, che guarda Centuripe, un certo accattone di nome Giovanni Calcara, il quale aveva un aspetto somigliantissimo al defunto imperatore Federico; costui, sobillato dalla chiesa e insuperbito da questa somiglianza, pensò di sfruttarla; si diede ad abitare in una grotta, facendosi credere FedericoII ritornato dall'altro mondo per espiare nella miseria la sua vita peccaminosa di nemico della chiesa. Gli abitanti di Adernò e dei paesi vicini, cominciarono ad ossequiarlo e a provvederlo di ogni ben di Dio. I fautori della chiesa approfittarono di questa insperata occasione e si portarono, come redivivo imperatore pentito, il detto Giovanni a Centuripe, da dove quello si mise a mandare lettere con sigillo, contraffatto, per invitare i popoli al ritorno all'obbedienza della chiesa. Riccardo Filangeri, vedendo che una quantità di ribelli si radunavano attorno al falso Federico e complottavano contro Manfredi, pensò bene di impadronirsi dell'impostore, che fuggì a Castrogiovanni, dove fu preso e impiccato coi suoi più stretti seguaci. A questo punto, pare che anche Adernò non sia stata abbastanza fedele all'imperatore Federico, tanto che questi, pacificatosi coi Messinesi (1233), diede il casale etneo « in retturia », cioè a sfruttamento a baiuli o capitani messinesi, che praticamente s'impossessarono delle terre e divennero la classe dominante. Di questo fatto si conserverebbe memoria nella esistenza di un forte sostrato di cognomi messinesi, precedente al sostrato di cognomi aragonesi e catanesi del '300 e del '400. I Crisafi, i Galifi, i Crisà, i Marullo, i Viaggio, gli Alamanno, i Falcone, gli Sclafani, i , gli Anzalone, i Russo, i Parisi, i Lanza, i Lo Giudice, i , i Cusumano, i Merlo, i Campolo, i Milazzo, i Vinciguerra, gli Anfuso, i Colombo, i Crisafulli, i Saporito, i Di Salvo sarebbero venuti in tale periodo. Non si conoscono i nomi dei padroni di Adernò nel periodo svevo, forse alcuni di essi saranno stati della potente famiglia dei Lancia, assai potente in quel periodo. Adernò era assai vicina a Centuripe, nella cui rocca si ebbe l'ultimo tentativo di resistenza del cavaliere napoletano Corrado Capicius, fautore ferventissimo di Corradino (1254-1258). Quindi Adernò dovette molto risentire delle lotte tra Angioini e Svevi anche nel suo territorio: forse a questo periodo risale il saccheggio del Monastero normanno di Santa Lucia fuori delle mura. Carlo I d'Angiò (1266-1272) avuta l'investitura del Regno di Sicilia, aveva mandato nell'isola Filippo di Montfort per sottometterla e governarla. Corrado Capicius o Capece, insieme con Federico, fratello del re di Castiglia, con un piccolo esercito venne in Sicilia come vicario imperiale ed in un primo tempo sconfisse duramente Fulcone Di Puiricard, vicario di Carlo d'Angiò. 12

Così tutte le terre e città di Sicilia, eccetto Palermo, Messina e Siracusa, passarono dalla parte di Corradino e anche Adranum, come pensiamo noi, dove una contrada proprio di fronte a Centuripe conserva ancora il nome di « Capici » derivato da Corrado Capicius. Nel 1258 il Papa subissò di scomuniche Corradino e i suoi aderenti, finché il giovane imperatore fu vinto e decapitato a Napoli (29-10-1268). Il Capece allora fuggì in Sicilia e contro di esso Carlo mandò Corrado Di Gongy, Guglielmo di Beaumont, Filippo e Guido Di Montfort e Guglielmo Stendardo, più crudele di ogni crudeltà, spregiatore di ogni pietà e misericordia. Tutte le città di Sicilia furono sottomesse, eccetto Centuripe, nel cui castello si fortificò il Capece. Egli, strettamente assediato dagli Angioini, si lasciò convincere dai suoi uomini spaventati a recarsi nella tenda dello Stendardo per intavolare una tregua, ma quel feroce lo fece afferrare,, gli strappò gli occhi e lo fece impiccare a Catania, mentre Centuripe veniva rasa al suolo (1267). Adernò vide da vicino e subì le violenze ed i saccheggi delle feroci masnade angioine. Le monache di Santa Lucia presero tale spavento che decisero di fuggire a Catania e abbandonare quel luogo di pericolo. In città li accolse il vescovo Angelo Boccamazza (1272-1295), che diede loro per un tenue censo delle aree in contrada « Grotta del Serpente », per edificarvi un nuovo monastero. Da questo periodo il casale di Adernò, che era gravitato nell'orbita della potente famiglia Lancia, passò nell'orbita della famiglia Maletta che già possedeva e Paternò, portate in dote, forse insieme con Adernò da Jacopa Bonifacio a Manfredi Maletto I, il fondatore di Maletto. Nel 1267 Manfredi Maletto II era conte di Mineo e nel 1285 era anche signore di Paternò e forse di Adrano. La Sicilia veniva dissanguata e i prodotti, in gran parte portati via dai conquistatori, non bastavano più alla sopravvivenza degli abitanti, le braccia erano sempre di meno, specialmente dopo il massacro e la cacciata dei saraceni. Così la cittadina di Adernò, fiorente al tempo dei Normanni, si era ridotta a un miserabile casale aperto ad ogni predatore con abitanti ridotti ad un pugno di mendichi. Quel monastero di Santa Lucia, così ben dotato nel 1158 per mantenere agiatamente almeno 12 monache senza pagamento, ormai si vedeva dimezzati i suoi introiti e così anche dal tempo dei normanni alla fine del periodo angioino la ricchezza complessiva del territorio di Adernò si era dimezzata.

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Il periodo aragonese Dopo i disastri del periodo svevo ed angioino (1 195-1282) per Adernò si ebbe un periodo di respiro in coincidenza col breve regno di Pietro III di Aragona. Egli, a nome della moglie Costanza, veniva, su invito dei nobili siciliani, a prendere possesso del Regno per breve tempo (1266-1282) occupato da Carlo I di Angiò che l'aveva ricevuto in feudo dalla chiesa di Roma. Tutto il periodo Svevo, il periodo Angioino ed il periodo Aragonese almeno fino a Federico IV detto il Semplice o l'Imbecille (1355-1377), fu un graduale scivolamento verso l'anarchia e la prepotenza disgregatrice della nobiltà, che, intesa a togliere ogni potere ai sovrani per accrescere al massimo il proprio, impedì ogni evoluzione della società siciliana. Nonostante non mancassero ricchi esponenti della borghesia commerciale e forense, questa non giunse mai ad avere una coscienza di classe e una volontà autonoma in contrapposizione colla nobiltà. I borghesi cercarono e sognarono di raggiungere lo status di nobili, mediante una gestione municipale poco corretta, mediante matrimoni con appartenenti alla classe dei nobili e mediante l'acquisto di terre e di titoli. Il popolo era profondamente inconsapevole ed incapace di una sua funzione politica: la classe dei « mastri artigiani » si fece classe di ordine, in difesa dello statu quo e stette quasi sempre dalla parte dei signori contro i piccoli contadini e braccianti, guardati con profondo disprezzo. Se si fa eccezione dell'intraprendente borghesia mercantile di Messina e di Trapani, il commercio in Sicilia era nelle mani di gruppi stranieri con in testa i « Catalani » che godevano di enormi privilegi. Essi, con i loro prestiti tenevano in pugno la nobiltà e la stessa dinastia, cui non bastavano mai i quattrini estorti in tutti i modi possibili alla classe produttrice, che una capillare e multiforme tassazione teneva nello stato continuo di sottoalimentazione, di umiliazione, di morte precoce per epidemie, favorite dalla denutrizione. Pietro III venne invocato come un liberatore, ma anch'egli, fin dal suo primo apparire, non cessò di chiedere, ai popoli stremati, contribuzioni in vettovaglie, in uomini ed in denaro col pretesto di dovere espellere dall'isola gli Angioini. Anche il povero casale di Adernò ebbe la sua parte di sofferenze e di stenti. Il 10-3-1282 il re ordinava alle « università » della Sicilia orientale la leva di armigeri da inviare sotto la guida di Giovanni Chelamidi da Troina, per la custodia della via Taormina-Messina, per cui passavano i convogli di vettovaglie forzosamente apprestate dai paesi della Sicilia nord-orientale. Anche Adernò, con non più di 400 abitanti dovette inviare a proprie spese 10 arcieri ed una certa quantità di grano e di animali da carne. In data 7-1-1283 il re, vinto ormai Carlo d'Angiò, si apprestava a sistemare la recente conquista e confermava per Adernò la elezione annuale dei giudici: 14

Nicolò La Morella, Guidone, Summamonte e Baldo Di Fiore, mentre nominava un proprio baiulo o capitano e un proprio castellano con poteri rispettivamente giudiziari, amministrativi e militari. Da Messina in data 27-1-1283 il re scriveva al baiulo, ai giudici e agli abitanti di Adernò di mandargli o 10 arcieri o 10 fanti armati a proprie spese. Ancora da Messina il 9-2-1283, il re scriveva agli amministratori di Paternò, di Adernò, di Aci, di , di Castiglione e di di combattere con più decisione i ladri di strada, che rovinavano il commercio e che trovavano sicuro asilo tra i boschi dell'Etna. Adernò ci appare terra del demanio reale col baiulo, i giudici e i giurati. In questa condizione però non stette molto e presto diventò feudo di qualche cavaliere catalano, fra quelli di cui si parla in una lettera del re Alfonso di Aragona, figlio di Pietro, datata Saragozza 2-5-1283. Con essa si invitavano i grandi del regno ad unirsi al re nell'imminente duello con Carlo d'Angiò, che di fatto non ebbe luogo. Fra questi signori sono nominati i Santapace, i Cabrera, i Moncada, i Peralta, gli Alagona, i Borgia, i Luna, i cui discendenti saranno signori della Sicilia. Dallo storico Rocco Pirro sappiamo che nell'anno 1313 un certo Pietro Moncada catalano ed i suoi fratelli: Gastone, Guglielmo e Raimondo, venne per primo in Sicilia nell'anno 1283 insieme con Pietro d'Aragona. Era consuetudine dei re aragonesi all'atto dell'incoronazione creare cavalieri, baroni o conti i loro più stretti collaboratori, concedendo loro uno o più feudi. Pare che il Re Giacomo, figlio di Pietro, abbia concesso la terra e il territorio di Adernò ad un tale suo funzionario, Luca Pellegrino. Di costui sappiamo solo che lasciò un'unica figlia di nome Margherita, che andò sposa ad un certo Antonio Sclafani, cittadino di Palermo con la dote di Adernò e forse anche di Centuripe. La famiglia Sclafani era di antica nobiltà, forse normanna. Del 1213 si ricorda un frate Nivaldo Sclafani, abate di S. Maria di Roccadia, a cui l'imperatore Federico I donò il terreno, i vigneti, i giardini e gli oliveti che erano intorno a quel monastero. Questo Nivaldo fu figlio di Goffredo, signore di Sclafani, e di Altavilla de Secretis. Il più potente e rinomato degli Sclafani fu certamente Matteo (1290-1354), figlio di Giovanni e di Margherita Pellegrino, fu costui uomo ricchissimo, maestro razionale in Palermo al tempo di Federico Il di Aragona (1269-1337), che lo cinse e nominò primo conte di Adernò e di Centorbe, all'atto della sua incoronazione (1296). Giovanni Luca Barbieri, segretario di Ferdinando il Cattolico (1479-1515), nella verifica che fece dei titoli feudali, ritenne che Matteo avesse occupato con la forza la contea, ma da documenti trovati posteriormente, sembra che l'investitura di Matteo sia stata regolare anche se contestata da qualcuno. Questo Matteo fu un piccolo principe machiavellico ante litteram; infatti egli 15

« latino » parteggiò per i catalani. Fu pirata, mercante di schiavi, devoto del monastero di S. Maria di Licodia a cui, fra l'altro, donò nove salme di frumento annuali. In quel periodo turbolento delle lotte feroci tra le fazioni della nobiltà catalana e di quella latina, seppe barcamenarsi e rimase sempre vincente, facendosi signore di Ciminna, di Chiusa, di Sclafani, di Adernò e di Centorbi e disponendo come padrone assoluto dei suoi feudi. Infatti il 7-1-1311 regalò il feudo centuripino di « Modulum campane» a suo cugino Lancia di Grifo; vendette inoltre il feudo centuripino di «Meliventre » il 3-XII-1351 alla signora Desiata Bonsuli per onze 600. Da un elenco di feudatari del 1348, egli appare tra i più ricchi signori della Sicilia. Sposò come prima moglie Bartolomea Incisa, da cui ebbe una figlia di nome Margherita, che diede in sposa a Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Augusta (1336), come seconda moglie sposò Beatrice de Calvellis, da cui ebbe una figlia di nome Eloisa che diede in sposa a Guglielmo Peralta figlio di Raimondo, conte di Caltabellotta. Matteo abitava in Palermo, dove aveva un gran palazzo costruito in un solo anno (1330) con giardini, cappella, e acqua corrente. Insieme con gli Alagona, i Moncada, gli Abbate, i Valguarnera, i Peralta e altri faceva parte del partito dei catalani. Nel 1299 la sua « terra » di Adernò, povera e indifesa, fu occupata da Roberto d'Angiò e da Ruggero di Lauria che vi si fermarono a godersi le deliziose acque sorgive. Nel 1328 Matteo era dei capitani di Pietro II (1337-1342) insieme con Gìovanni Chiaramonte, Blasco Alagona, Matteo Palizi, Ruggero Passaneto, Pietro Lancia e Rosso dei Rossi. Nel 1348 Adernò cadde nelle mani dei latini e Nicolò d'Aquino, capitano di Matteo, fu ucciso da Ruggero Tedesco, pare con grande sollievo dei terrazzani, che però in quell'anno subirono il flagello del saccheggio e della peste nera, essa portò via quasi la metà della sua già scarsa popolazione (circa 200 morti su 500 abitanti). La torre di Adernò, che sorgeva sulla linea del Simeto, fu oggetto di conquiste e riconquiste durante le quali venivano a i soccorsi e anche i capitani: come quell'Antonio Lancia de Calvellis, cavaliere, capitano, castellano e percettore di imposte e quel Gerardo Bonsuli, anch'egli cavaliere, capitano, castellano e percettore di imposte. Nel 1352 Matteo Sclafani sfuggì ad un mortale agguato tesogli dai Chiaramonte a Palermo e sopravvisse ancora due anni, lasciando in un mare di guai Adernò, a causa della successione variamente delineata in tre successivi testamenti (6VIII-1333, 28-V-1348, 6-1X-1354). La contesa si accentrò specialmente intorno alla contea di Adernò e Centorbi tra i Moncada e i Peralta e soltanto dopo 43 anni si concluse con tre atti di contentamento, con cui i Peralta rinunziavano ai loro diritti a favore di 16

Guglielmo Raimondo III Moncada, il quale lasciò al fratellastro Antonio (1398- 1414) la contea di Adernò e Centorbi. Pieni di lutti, di pestilenze, di massacri e di fame furono per la Sicilia e per Adernò i regni di Ludovico (1342-1355), di Federico IV detto il Semplice o l'Imbecille (1355-1377) e il periodo della minorità di sua figlia Maria (1377- 1392). Feroci capi delle bande latine, quali Ruggero Tedesco e Gilio Statio mettevano periodicamente a sacco il territorio di Adernò, bruciando le messi, tagliando gli alberi, sradicando le viti, violentando le donne, sventrando le incinte, incendiando pagliai e casotte. I poveri abitanti furono costretti dai loro signori a lasciare i campi e a diventare masnadicri per sopravvivere. Per colmo di disgrazia Adernò, come tutte le altre terre di Sicilia, rimase per lunghissimi anni sotto la scomunica e interdetto pontificio, per liberarsi dai quali negli anni 1372, 1375 dovette comprare a fior di quattrini il perdono. Infatti i Papi Urbano X e Gregorio XI per fare soldi pensarono di togliere l'interdetto alle città e terre di Sicilia in cambio di determinate somme. A tal fine organizzarono centri di raccolta (collettorie) e a capo di quella della Sicilia misero un certo Beltrando du Mazel (1373-1375). Il papa Gregorio XI pretendeva il pagamento di un tarì di argento per tutti i maschi da dieci anni in su, pretesa allora enorme, per cui il re Federico IV (12-V-1374), in difesa del suo Popolo, venne ad un accordo col collettore della tassa per ripartirla in ragione dei fuochi o famiglie ed in ragione delle sostanze di ciascuna famiglia. Erano esclusi dal pagamento, i saraceni, i giudei e i miserabili. Il conto del Mazel fornisce la cifra dei fuochi imponibili delle città e terre che pagavano, ciò ha permesso al Beloch di fare delle deduzioni sulla popolazione dell'isola in quegli anni che sarebbe ascesa a non più-di mezzo milione di abitanti. Purtroppo Adernò non si trova fra i conti del Mazel, ma considerando che Paternò allora aveva 830 fuochi cioè circa 3320 abitanti e che Adernò era almeno sei volte più piccola di Paternò, come si deduce da alcuni diplomi di Pietro d'Aragona, si può con una certa approssimazione e con molta cautela fare ascendere la popolazione di Adernò a circa 500 anime. Federico IV morendo aveva lasciato in minore età una figlia di nome Maria, che fu contesa tra i signori di Sicilia per darla in moglie a chi meglio gli conveniva. L'audace Guglielmo Raimondo Moncada nel 1378 rapì dal castello Ursino la fanciulla, ivi custodita per conto di Artale Alagona. Maria fu condotta, dopo varie e drammatiche vicende, in Aragona e data in moglie al futuro re Martino I il giovane (1392-1409), mentre la Sicilia era governata da quattro signori col nome di vicari e il papa Bonifacio IX incitava a respingere Martino e Maria. 17

Il re, sbarcato a Trapani, usando fermezza e astuzia, riuscì a sottomettere tutti i baroni di Sicilia, ma ordinò una verifica dei loro feudi. Cercò anche di richiamare al demanio regio molte città, terre e feudi che erano state usurpate dai nobili. Anche i Moncada si ribellarono a lui, ma infine, dopo varie vicende, il 15-X- 1398 la contea di Adernò e Centorbi fu riconfermata ad Antonio Moncada, che con testamento agli atti del notaio Nicola Baratta di Adernò (17-V-1414), lasciò la contea al nipote Giovanni Raimondo che, come aveva fatto lo zio, continuò a parteggiare per la Regina Bianca di Navarra (1410-1416), insidiata dal vecchio ambizioso e innamorato conte Bernardo Cabrera. La nuova fase di lotte tra i partigiani di Bianca e quelli di Cabrera si chiuse con una sentenza della commissione dei nevi riunita nel castello di Caspe in Spagna, che senza sentire gli interessati, cioè i Siciliani, assegnò la Sicilia a Ferdinando I di Castiglia detto il Giusto (1412-1416). Egli si affrettò a mandare in Sicilia come vicerè (il primo) il figlio Giovanni. Così ebbe termine il Regno indipendente di Sicilia, fondato dai Normanni. In pratica il conte era il padrone dell'intero territorio della contea, nella quale, tramite il suo secreto o governatore, impose su tutte le terre laiche e religiose un censo perpetuo irredimibile che si riscosse sino a tutto il '700 per circa 300 anni.

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Il periodo dei vicerè Dal 1412 al 1515 sotto i vicerè di Ferdinando I (1412-1416), di Alfonzo il Magnanimo (1416-1458) di Giovanni (1458-1479) e di Ferdinando II (14791515), furono padroni di Adernò Giovanni Moncada (1414-1454), Giovanni Raimondo IV Moncada (1454-1466), Giovan Tommaso Moncada (14661501), Guglielmo Raimondo V Moncada (15011515) e Antonio III Moncada (1511-1549). In questo tristissimo periodo i sovrani di Spagna in Sicilia fecero mercato di tutto, vendendo più volte alcune città, dopo aver promesso ad ogni vendita di non rivenderle, autorizzando in tal caso gli abitanti a ribellarsi contro il re, senza essere puniti per lesa maestà. I padroni di Adernò occuparono cariche altissime civili e militari e, come parenti della famiglia reale, combatterono per la conquista del regno di Napoli (1442). Essi ottennero dal re Alfonzo la concessione di potere ricettare chiunque, fuggito per reati da altre terre e città, volesse venire ad abitare nella contea per incrementare demograficamente il suo territorio. Giovanni Moncada e Alagona, gran cameriere di re Alfonzo (1416-1458), ottenne il diritto di « affidare » cioè di « ricettare » e di concedere un lungo periodo di esonero delle gabelle ai « nuovi cittadini ». Col suo successore Guglielmo Raimondo (14541465) il comune cominciò ad accrescersi e il conte e i suoi vassalli laici ed ecclesiastici non ebbero riguardo di saccheggiare anche il monastero di S. Lucia ed impedire che le rendite dei suoi beni arrivassero a Catania, esenti dalla Gabella della estrazione e della dogana. Fioccarono interdetti e scomuniche da papi e da vescovi catanesi, ma in Adernò non si cessava di molestare le monache benedettine anche con l'appoggio del clero locale, che si vedeva sfuggire i lucrosi uffici di cappellano, di procuratore, di confessore e di predicatore delle monache. Il ricco monastero feudatario, che aveva trasferito la sua sede principale a Catania, per intervento dei papi Martino V e Paolo II, otteneva dai re Alfonzo e Giovanni diplomi di conferma dei suoi beni, del diritto di libera estrazione delle rendite e di parecchi barili di tonno salato (1445, 1451, 1468). Anche i Moncada però erano forti presso la corte aragonese: Giovanni aveva ottenuto da Alfonzo il dono del dazio della « quartucciata » sul vino di , che poi lasciò al figlio Guglielmo Raimondo. Questo stesso dazio il conte Giovan Tommaso (1461-1501) donò al convento dei francescani di Catania per celebrazioni di Messe. Il conte Guglielmo Raimondo continuò nella tradizione di famiglia di arricchirsi mediante matrimoni di interesse. Il suo successore Giovanni Tommaso Moncada e S. Severino acquisì la contea di Caltanissetta e di Augusta. 19

Fu gentiluomo di camera del re Giovanni, mastro giustiziere, e governatore militare di Catania. Mentre ricopriva questa carica provvide a circondare la torre di Adernò con un bastione o cortina con quattro torri angolari tutte a spigoli nel primo ordine e cilindriche nel secondo e procedette ad un restauro generale della torre che da allora prese il nome di castello. A memoria di questa ristrutturazione il conte fece porre al centro del bastione nord un proprio busto marmoreo, che è stato scambiato erroneamente per il busto del conte Ruggero il Normanno. Sotto questo duca si registrarono tre fatti importati per Adernò: si eresse la chiesa di S. Sebastiano, si fecero venire ad Adernò i frati minori osservanti di S. Francesco (1466) sotto il titolo di « S. Maria di Gesù » e finalmente, si diede il feudo di Poggio Rosso o Callicari per l'insediamento di un gruppo di profughi epiroti, guidati da un capitano di nome Cesare Masi. Questi, detti allora « li greci », fondarono un piccolo casale di lingua e religione greco-ortodossa, che però non ebbe lunga vita. Già, dopo appena un secolo, ne era stata soppressa la lingua, era stato abolito il rito orientale ed erano fuggite gran parte delle famiglie, mentre poche avevano preferito assimilarsi ai nuovi emigrati adornesi, dando origine alla terra di Biancavilla. Il fatto che venissero a stabilirsi ad Adernò frati questuanti indica che ci fosse qualcosa da questuare, cioè ci fosse qualche surplus di grano e di vino nel nostro territorio. I frati, per fare cosa gradita alla generosa Contissella Moncada, introdussero nella loro chiesa il culto della Madonna catalana di Monserrato, a cui il conte donò una rendita annuale e la decima sulle tegole che si cuocevano nelle « calcare » vicine al convento. I frati ebbero l'esclusiva della questua di grano e di vino in tutta la contea, mentre la loro chiesa era ricercatissima per la sepoltura dei signori catalani e spagnoli che occupavano posti di prestigio in Adernò. Il conte Tommaso, sposando Raimondetta Ventimiglia, figlia del marchese di Geraci, permise che molti familiari della moglie, costruissero i loro palazzi nel centro di Adernò e nel quartiere di S. Pietro Apostolo. Uno di questi palazzi, sito di fronte alla Matrice, diverrà nel sec. XVI, la sede della congregazione del Devoto Monte di Pietà o dei Nobili Bianchi e poi nel sec. XIX sede del municipio dell'Adernò post-unitaria. Sotto il dominio di Tommaso Moncada Adernò era oberata dalle seguenti gabelle: I) la decima dei raccolti agricoli; II) un dazio di 16 grani per tumulo di orto; III) un dazio di dieci grani per ogni salma di pascolo; IV) la decima del bestiame minuto; V) grani 10 a testa per gli armenti che superavano il numero di tre buoi; VI) diritto della baglia o dell'esercizio della giustizia; VII) gabella del vino esportato; VIII) gabella del vino venduto al minuto; IX) gabella del vino ripostato o imbottato; 20

X) gabella della dogana; XI) gabella della estrazione dei cercali e degli animali; XII) gabella della caccia; XIII) gabella della seta greggia; XIV) gabella del garrozzone; XV) censo perpetuo irredimibile su tutte le terre. A Tommaso successe il figlio Guglielmo Raimondo V (1501-1510); questo conte ottenne dal vicerè Giovanni La Muza il privilegio di ripopolare il territorio di Centorbi (4-10-1501). Da questo diploma o privilegio possiamo dedurre l'immenso potere che riceveva ed esercitava il conte nel suo territorio, dove egli era il padrone della terra, il giudice, il capo militare, con facoltà di ricettare o proteggere chiunque volesse senza che la giustizia reggia potesse intromettersi. A Guglielmo Raimondo successe il principe Antonio Moncada e Moncada (1511-1549), parente intimo del potente vicerè Ugo Moncada, corrotto alleato dell'Inquisizione e cacciato a furor di popolo da Palermo nel 1516. Questo Antonio, a causa delle sue altissime amicizie, fu intollerante di ogni legge e ricettatore di delinquenti, come apprendiamo da una lettera inviata a Carlo V dal suo procuratore fiscale in Sicilia Don Antonio Montalto. Con la connivenza del vicerè Ettore Pignatelli, il conte Antonio Moncada ricettava impunemente nelle sue terre e nello stesso castello di Adernò ricercati di ogni condizioni, come i suoi fratelli Federico e Ferrante e un Perruchio e un Raimondo di Gioeni traditori, ladri e assassini di strada, «mentre, continua il Montalto, il vicerè dovrebbe chiamare il padrone di Adernò e processarlo in carcere... Inoltre in tempi non lontani questo conte ospitava una banda di 50 fuorilegge capitanati da un certo Mariano Planes da ». Al tempo di questo conte si cominciò a costituire il nucleo amministrativo di Adernò attorno al quartiere di Santa Maria o della Piazza. Si riorganizzò anche il corpo politico del Comune, formato da funzionari detti ufficiali, presi soltanto da una lista di nobili rigorosamente chiusa alle altre classi. Di questi ufficiali i più importanti erano: il capitano di giustizia, i quattro giurati, il tesoriere, il giudice civile, il giudice criminale, l'archivista, il mastro notaro, il castellano e il secreto o governatore del conte- A questo periodo risale la chiesa di Sant'Antonio Abate col suo meraviglioso polittico, oggi alla Matrice, opera forse del pittore Salvo di Antonio nipote del grande Antonello da Messina. (Di questa chiesa abbiamo un contratto di censo per una casa, agli atti del notaio Nicolò Sangiorgio, relativi all'anno 1555). Il successore, principe Francesco Moncada e Luna (1550-1566), pose le premesse per il primato della chiesa di Santa Maria Assunta, che sotto di lui venne ingrandita e coperta da un soffitto di capriate scolpite con cariatidi raffiguranti saraceni e con 21 numerosi altari di legno, dove dei cappellani sacramentali somministravano i sacramenti. Questo conte fece molte donazioni alla Matrice, come apprendiamo da una giuliana o libro dei conti del 1814. Fra l'altro donò: la barca sul fiume Simeto, le terre del Poggio Santa Maria nel feudo di Poggio di Vaca, alcune terre della Difesa e le terre di Cavallaccio. Suo nipote Francesco Il (1572-1592), nella sua breve esistenza, diede grande impulso alla edilizia sacra: allora si progettò la Matrice a tre navate. Si diede inizio alla costruzione del monastero di Santa Lucia nuova, si fondò la chiesa della Catena, si istituì la congregazione del Sacramento della Matrice e si esplorarono i boschi dell'Etna. Egli teneva la sua corte spesso nella sua splendida tenuta di Mimiano presso Caltanissetta, da dove veniva spesso nella prediletta Adernò che toccava i 6000 abitanti, essendosi accresciuta di un terzo rispetto ai primi del secolo. Vi crebbe anche una robusta classe di borghesi o grossi affittuari di feudi che diedero grande impulso alla produzione del grano (circa 4000 salme annuali) e all'allevamento del bestiame minuto, specialmente pecore e maiali, mentre i buoi scarseggiavano, nonostante le molte leggi protettive emanate dai governi spagnoli. Alcuni borghesi arricchiti aspiravano al governo del Comune e perciò mandavano i figli a Catania per addottorarsi come avvocati o medici. In questa seconda metà del cinquecento si ebbe una maggiore concentrazione di costruzioni: gli edifici si trasferirono verso il centro o nei pressi di esso. I frati agostiniani trasferirono la loro chiesa e il convento di antichissima origine (1274) dalla contrada della Sciarotta al piano tra la chiesa di San Vito e la chiesa di San Rocco, proprio nelle case del generoso cavaliere napoletano Don Monciello Arcamone. Le monache di Santa Lucia eressero nel 1596 il loro monastero nuovo nelle case di Don Cesare Garofano, nel piano detto delle Rose, all'inizio settentrionale della contrada «Vigna di Corte ». Poco dopo (1602) veniva fondato il monastero di Santa Chiara nelle case di Tommaso e Agata La Bruna e dopo qualche anno (1608) venivano a stabilirsi ad Adernò i Cappuccini. In Adernò si era costituita una potente classe nobiliare che si permetteva il lusso di tenere schiavi, che dai padroni erano trattati come animali da mercato. Sotto il principato di Don Antonio Aragona e Moncada (1592- 1631) e del di lui figlio Luigi Guglielmo, Adernò era tutto un immenso cantiere per fabbriche, soprattutto ecclesiastiche: mastri 22 fabbricatosi, perriatori adornesi, catanesi, acesi venivano attirati da salari per quei tempi alti, specialmente riguardo al settore agricolo: mentre una giornata di circa dodici ore di un contadino era retribuita al massimo con due tarì, un buon muratore poteva percepire fino a tre volte questo salario. I lavori fervevano a Santa Lucia (1590), alla Matrice (1590) a Gesù e Maria (1640), a San Pietro, al Salvatore, a San Leonardo, a Santa Chiara, al Monte di Pietà, a Sant'Agostino, a San Sebastiano, dove si costruiva la cappella del Cristo alla Colonna, insomma o si costruiva di bel nuovo o si ricostruiva il già costruito. In questo periodo le più potenti famiglie si costruiscono abitazioni più dignitose ed imponenti come gli Spitaleri di Muglia nel quartiere del « gurgo » erroneamente chiamato borgo, i Ciancio nel quartiere di San Pietro e in quello del Salvatore, i Guzzardi e i Campo nel quartiere della Piazza. Questa ripresa edilizia ebbe una pesante battuta d'arresto in seguito al terremoto del 1693. L'attività edilizia riprese verso la metà del settecento e, sospesa dal terremoto del 1818-1820, fu ancora ripresa con opere di riparazioni e nuovi prospetti delle chiese e delle case fino ai primi del sec. XX. Certo alle costruzioni di carattere sacro non fu pari l'edilizia abitativa, che per circa l'ottanta per cento riguardava casette ad una stanza e stalle, mentre pochi erano i palazzi, residenza delle famiglie più ricche. Verso la prima metà del seicento, in seguito alle franchigie offerte dai conti Antonio e Luigi Moncada, la popolazione e la produzione agricola crebbero, ma i vantaggi andarono ai padroni e alle poche famiglie dominanti, di cui cominciarono a far parte alcuni borghesi arricchiti o mastri muratori, impresari di grandi fabbriche. Comunque gli agiati erano appena un sesto circa dell'intera popolazione, costituita in maggioranza da giornalieri detti anche bracciali e affannaturi, che, con salari che si aggiravano in media su un tari e dieci grani al giorno per gli adulti e da quindici a cinque grani per i picciotti e i bambini, stentavano miseramente la vita, morendo molto spesso alla età media di trenta anni per fame o epidemia. Verso il 1640, Adernò contava circa 5933 abitanti ed era il centro amministrativo ed economico della contea in cui si trovavano anche i villaggi di Biancavilla e di Centorbi col nome di « terre ». Adernò in questo periodo comprò, forse a rate, il titolo di « civitas vetustissima et opulentissima » ed aveva l'onore di tenere lo stendardo del « terzo di San Filippo della milizia urbana », istituita 23 dal vicerè Giovanni De La Vega nel 1548 e riformata dal conte di Olivares nel 1595. Insieme con Adernò facevano parte del terzo di San Filippo: Castro-Giovanni, Biancavilla, Centorbi e San Filippo di Argirò, dove risiedeva il « sergente maggiore ». Questi comuni insieme erano tenuti a fornire 143 cavalieri e 865 fanti, armati a proprie spese e mantenuti dai rispettivi Comuni. Ai fini militari il paese di Adernò era diviso in due zone: la prima comprendeva il quartiere della Catena, metà del quartiere di San Pietro e il quartiere della Piazza sotto il capitano di quartiere barone Michele Lanza; la seconda zona comprendeva il quartiere del Salvatore e metà del quartiere di San Pietro sotto un capitano della famiglia Ciancio. Il sergente, cioè il capo della milizia adornese, era il barone Spitaleri che aveva il suo palazzo al Borgo. Dal punto di vista amministrativo il Comune comprendeva quattro quartieri che erano in ordine di grandezza: il quartiere della Catena, il quartiere del Salvatore, il quartiere di San Pietro Apostolo ed il quartiere del la Piazza. Dai ruoli della milizia di cavallo e di piede possiamo dedurre quali erano nel seicento le famiglie dominanti, poiché l'armamento era a spese dei più ricchi. Da un ruolo del 1652 apprendiamo che i soldati da cavallo erano i seguenti: don Vito Guzzardi fu Nicolò col grado di alfiere, don Nunzio Guzzardo, don Antonio Ciancio, un cavaliere pagato da una donna Barbara Ventimiglia, don Antonio Carasto, don Francesco Cocina, don Pietro Reale, don Nunzio Bonanno, don Vincenzo Reale, don Giuseppe Marullo, don Francesco Irmanà. Come cavalieri di riserva erano segnati: Giovanni Filippo Museo, don Pietro Lo Curlo, don Santo Cocina, don Antonio Zerbo. Inoltre nello stesso ruolo sono elencati altri ottantadue soldati da piede tra quelli di servizio e quelli di riserva. Nello stesso periodo Biancavilla forniva tre cavalieri e nove pedoni, mentre Centorbi forniva solo quattro pedoni. I ruoli venivano periodicamente aggiornati o per morte degli obbligati o perché gli obbligati erano scaduti di censo. Gli obbligati potevano farsi sostituire da un soldato a pagamento, quando il senato di Catania dava l'ordine di « abbasciare alle marine » in caso di minaccia di sbarchi barbareschi. In questo periodo la tassazione era in massima parte indiretta e, mediante le gabelle, gravava su tutti i generi di prima necessità e di largo consumo, accrescendo la miseria delle classi più povere, mentre gli ecclesiastici erano esenti e i signori evadevano il fisco in gran parte. 24

Le gabelle, per quanto fossero pesanti e mantenessero in uno stato di continua miseria la maggioranza delle persone, non riuscivano quasi mai a coprire le tasse dovute al re o al padrone di Adernò. Queste somme in gran parte andavano a finire nelle tasche di grossi prestatori o anticipatori di gabelle sotto forma di interessi assai gravosi. Comunque in questo periodo il Comune riusciva quasi a pareggiare il bilancio, mediante la imposizione delle seguenti gabelle: 1) gabella del macino che gravava nella misura di grani 14 per ogni tumulo di grano portato al mulino. Essa nell'anno 1657-1658 rendeva di netto onze 1218 tarì 23 grani 6 e piccoli 3. Nello stesso anno la gabella della estrazione dei cercali e del bestiame rendeva onze 411 e tarì 6. La gabella della estrazione della seta rendeva onze 100 e tarì 18. La gabella della vendita del vino al minuto rendeva onze 91 tarì 5 e grani 8. La gabella della estrazione del frumento rendeva onze 39 e tarì 12. La gabella del maldinaro rendeva onze 41 e tarì 9. La gabella del vino imbottato rendeva onze 64 tarì 14 e grani 8. La gabella dell'introito dell'olio rendeva onze 39 tarì 15 grano 1. Inoltre vi era la gabella dello zagato o del pizzicagnolo, la gabella della menzania, la gabella della foglia, la gabella della baglia, la gabella dei pesi e misure o acatapania, la gabella del consumo, la gabella del garozzone, la gabella del fumo e la gabella del vento. Il 1657-58 rappresenta uno dei migliori anni del secolo XVII, infatti verso la fine di esso comincia un periodo di grave decadenza demografica ed economica, che avrà il suo punto più basso verso l'anno 1719-1720. Una ripresa si avrà soltanto nella seconda metà del sec. XVIII. Dall'andamento degli introiti siamo informati della decadenza di Adernò, che nel giro di circa un sessantennio perdeva quasi un terzo della sua popolazione e all'interno dell'abitato si creavano grandi spazi di povere case rovinate ridotte ad immondizzai e gravate da pesanti censi. Eppure in Adernò c'erano alcune famiglie che possedevano enormi rendite e proprietà. L'abuso sopra i poveri era cosa normale e il ricatto per fame era frequente: da alcuni testamenti di questo periodo, in cui i testatori lasciavano determinate somme per maritaggi o monacazione di fanciulle, venivano escluse dalla assegnazione le serve di casa, perché non vergini e la verginità era un requisito per godere del lascito! 25

I figli neonati dei miserabili o di relazioni illegittime per molti decenni vennero abbandonati nelle vie in pasto ai cani, come apprendiamo dalle carte di fondazione della confraternita dei Bianchi. Allora le fortune si facevano e si disfacevano con grande rapidità: l'usura e la speculazione erano pratiche normali. Carissimo era anche il costo dei sacramenti, specialmente il matrimonio e l'estrema unzione con conseguente sepoltura dentro le chiese, che traevano enormi introiti, di cui un quarto lo consegnavano al Vescovo. Alcune classi di cittadini come i nobili, i professionisti, i ricchi artigiani e i ricchi contadini si organizzavano in confraternita per evitare la pesante tassa della sepoltura. Le famiglie più potenti, cercavano di tenere unito il loro patrimonio, per quanto era possibile riservandolo a uno o a pochissimi figli, mentre gli altri ,volenti o nolenti, fin dalla tenera età erano rinchiusi in conventi o monasteri. Più pesante era la condizione delle fanciulle, che venivano rinchiuse nei monasteri di Santa Chiara e di Santa Lucia per appagare l'egoismo di padri e fratelli, che non volevano disperdere la roba con le doti alle figlie e alle sorelle. Queste povere donne, specialmente nel monastero di Santa Lucia erano inquiete, intolleranti della clausura, intriganti a favore delle proprie famiglie, come possiamo apprendere dalla relazione che il vescovo di Catania don Ottavio Branciforte inviò al Papa Urbano VIII per illustrare i problemi della sua diocesi negli anni 1640-1646. Affamare il popolo e creare carestie artificiose era allora normale. Così erano anche frequenti le rivolte dei poveri per mancanza di pane come quella di Adernò nel 1667. Questa sommossa provocata da carestia, fu repressa dal capitano di giustizia Antonio Spitaleri junior e dal giudice criminale don Gaetano Guzzardi.

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Dalla guerra di Francavilla al 1820 La incetta speculativa dei ricchi, i saccheggi delle soldatesche spagnole in Adernò e nei paesi etnei raggiunsero il culmine al tempo della rioccupazione della Sicilia da parte di Filippo V per istigazione del cardinale Alberoni e del Papa Clemente XI, nemico giurato del re di Sicilia Vittorio Amedeo II, che aveva osato intaccare i privilegi della chiesa dell'isola. La rovinosa guerra che ebbe il suo culmine nella battaglia di Francavilla (20.VI.1719), in cui gli spagnoli furono battuti dagli austriaci, fu per Adernò, divenuta campo di raccolta e di saccheggio degli spagnoli, causa di grandi malanni, di razzie, di violenze tanto che il Comune ne uscì rovinato ed esausto. Al breve dominio piemontese (1713-1720) successe il dominio austriaco con l'imperatore CarloVI (1720-1735), il cui governo caratterizzato da eccessiva esosità fiscale, finì col rovinare e far regredire tutta la Sicilia e quindi anche Adernò. Solo verso la seconda metà del '700 con l'avvento al trono di Napoli di Carlo III di Borbone (1735-1759) e nei primi decenni del regno di Ferdinando I (1759-1825), fatta eccezione per alcuni anni, la situazione agraria ed economica andò migliorando, come possiamo dedurre dall'esame dei riveli annuali delle vettovaglie. Essi, anche se peccano per difetto, mostrano un notevole aumento della produzione agricola che era scesa di quasi duemila salme, per quanto riguarda il grano, nel corso di un secolo. Contestualmente alla crescita del prodotto granario ricominciò a crescere la popolazione che ai primi del nuovo secolo contava di nuovo circa 6000 anime cioè aveva recuperato circa un terzo rispetto all'inizio del '700. Le provvidenze del ministro Caracciolo cominciarono a muovere le acque stagnanti della società siciliana, infatti si registrò allora un aumento dei proprietari terrieri. In Adernò nell'anno 1794 si contarono 6623 abitanti, e, 750 proprietari laici, 12 proprietari enti religiosi, 33 proprietari forestieri. In questo periodo si emanarono disposizioni per arginare e controllare gli effetti disastrosi delle carestie mediante divieti di esportazione del grano e fondazione di monti frumentari per soccorrere i seminatori. Ai grossi produttori fu fatto obbligo di riservare un terzo del raccolto di grano a disposizione della comunità cittadina. In questo stesso periodo si provvide a stabilire regolari cordoni sanitari lungo le spiagge più esposte alla introduzione del contagio, si emanarono disposizioni proibitive di mettere a marcire il lino e la canapa nei pressi dell'abitato, si limitò il numero dei maiali che si potevano allevare in paese, si proibì il transito del bestiame per le vie principali, si riordinarono le confraternita e i lasciti per opere pie furono soggetti a controllo statale. Si cercò inoltre di togliere o almeno limitare, i privilegi e le immunità del clero, 27 che, ad eccezione degli ordini mendicanti, venne tassato per il pagamento delle rate dei donativi. Si limitarono le prepotenze della milizia urbana che sfuggiva alle tasse in nome dell'appartenenza al foro militare. Con dispaccio datato Palermo 30.IX.1799 il generale Diego Naselli ordinava che i miliziotti non potevano godere esonero di tasse, gabelle, imposte per soddisfare le rate dei donativi regi o per le spese amministrative. In questo periodo in Adernò inizia la cultura intensiva dell'ulivo, del cui olio Adernò era stata sempre importatrice e, in un conto di gabella, figurano tre trappeti intestati rispettivamente a don Domenico Sanfilippo, all'abate don Gaetano Ciancio e al barone Giuseppe Maria Morabito. Si elencano inoltre 118 ditte per una produzione di 84 quintali di olio che, allora pagavano come gabella 6 tarì per quintale. A causa della crescita del prezzo della terra e quindi degli affitti, gli enti religiosi più ricchi come la Matrice, i conventi di S. Agostino, di S. Domenico, di S. Francesco e i monasteri di S. Lucia, di S. Chiara, del Conservatorio delle vergini raggiunsero l'apice della loro potenza come si vede dalla imponenza delle fabbriche che furono innalzate o completate in questo periodo. Il monastero feudatario di S. Lucia rese nobili « i suoi feudi, versando una ingente somma al Comune, inoltre ricomprò gli argenti che lo Stato aveva requisito sotto il vicerè don Filippo Lopez Y Royo. Si costruì la nuova imponente chiesa di S. Lucia, si fecero i « damusi reali » nel convento omonimo, che venne anche restaurato interamente e allargato col cosiddetto « dormitorio nuovo » che fu inaugurato dal vescovo Corrado Maria Deodato de Moncada. Dal 1748 al 1820 con varie vicissitudini si costruì il teatro, abbinato alla chiesa di S. Maria della Catena per le rappresentazioni sacre delle feste di metà Agosto. Si istituì inoltre, « la fiera di S. Lucia - che venne quasi a sostituire la più antica fiera di S. Pietro Apostolo. Durante la festa della Santa, come risulta dai libri dei conti dei primi del secolo XIX, venne spesso da Catania don Vincenzo Bellini, nonno del grande musicista, che compose e suonò per le monache: messe, vespri e passioni ». Verso la seconda metà del '700 si tentò anche di iniziare a « basolare » le vie principali «coi proventi di una gabella sulla carne ». Insomma Adernò, centro amministrativo ed economico della contea omonima, si preparava a diventare capoluogo di circondario e sede di giudice regio, come di fatto avvenne in seguito alla legge 16.IV.1819. Intanto si cominciava a parlare di « scioglimento dei diritti o usi civici » che il popolo godeva sulle terre feudali da tempo immemorabile e che, erano serviti a rendere più sopportabile la vita dei poveri, che potevano per bisogni familiari portare al pascolo le greggi, tagliare legna,. fare canne per coprire i tetti e impalare le viti, cogliere erbe mangerecce, spigolare dopo la mietitura, 28 tagliare pietre, cavare gesso e calce, raccogliere ghiande, prendere la neve o in modo del tutto gratuito o pagando lievi canoni. I proprietari invece volevano l'uso libero della terra e cioè la esclusione del popolo da questi essenziali diritti. L'operazione si trascinò per circa un trentennio, finché vennero calcolati i valori di questi diritti e il corrispettivo fu dato ai Comuni in terre di pari valore, stagliate dalle grandi proprietà. Questo fatto aggravò le condizioni dei nullatenenti che erano la stragrande maggioranza della popolazione e quelle stesse terre comunali furono cedute a lotti, che andarono a finire nelle mani di pochi ricchi che direttamente o indirettamente si accaparravano le quote anche a causa di amministratori interessati e corrotti.Verso la metà del secolo XIX la grossa proprietà laica ed ecclesiastica raggiungeva grande potenza: basti pensare che nel 1839 la produzione granaria era salita a 8000 salme di cui 2000 esportate e nel territorio si pascolavano circa 14000 ovini e centinaia tra animali da soma e bovini. Mentre il popolo pativa la fame più nera, sia per i bassi salari che per scarsezza di lavoro, e i dazi e le gabelle continuavano a gravare sui generi di prima necessità, comprati al minuto dai braccianti e dai poveri artigiani sprovvisti di qualunque proprietà, frequente e normale era l'abuso dei padroni, che oltre alla giornata lavorativa non inferiore a 12 ore, richiedevano nei ritagli di tempo e anche nei giorni festivi dai braccianti servizi casalinghi, di cui il padrone si serviva senza un corrispettivo pagamento. Molti braccianti tornavano spesso dalle terre lontane, affranti dalla fatica e dalla febbre malarica, ed erano costretti a mendicare, mentre i loro figli quasi nudi e sporchi giravano per le vie in cerca di un pezzo di pane.

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Adernò dal 1820 al 1860

Il problema sociale in Sicilia, come in Adernò, aveva dato luogo fin dall'epoca spagnola a rivolte, provocate, nell'immediato, dalla esosità fiscale, dalla corruzione, dalle carestie. Queste rivolte si erano effettuate secondo un canovaccio fisso: scontento della nobiltà o di parte di essa, brama della borghesia di partecipare al potere, anelito confuso delle masse di scrollarsi l'insostenibile peso delle violenze e delle gabelle e infine la cieca arroganza delle maestranze quasi sempre « longa manus armata » della nobiltà per castigare la brama di giustizia dei piccoli contadini e dei braccianti, che, una volta usati, per ottenere quanto voluto dai nobili, venivano traditi e spietatamente schiacciati come temibili insidiatori della roba. Così nel periodo 1820-1860 con varie colorazioni e motivazioni si succedettero tumulti e rivoluzioni, senza che mutasse il predetto canovaccio. I nobili e i borghesi, divenuti « civili », ora in veste di liberali ora in veste di filoborbonici, si presentavano come intransigenti tutori della proprietà e dell'ordine costituito. Talora facevano appello alle masse popolari per non perdere il potere, ma regolarmente le tradivano, provocando il fallimento anche dei più buoni propositi di rinnovamento. Di fatto, quando le masse « con le cattive cercavano di aver parte del potere e della roba », scattava una feroce alleanza tra i proprietari di qualunque idea ed estrazione che si premuravano a « fermare - con truppe speciali quei popolani, che, poco apprezzando le idee liberali e i governi costituzionali, desideravano solo una rivoluzione sociale e avevano fame solo di terra. Nel 1820 i Comuni intorno ad Adernò specialmente Biancavilla e Bronte cominciarono ad agitarsi, in seguito alla rivolta antiborbonica di Palermo scoppiata il 17.VII.1820. Nei comuni suddetti si formarono partiti favorevoli a Palermo e alla separazione della Sicilia da Napoli e partiti filoborbonici, che avevano il loro centro a Catania e un punto nevralgico operativo in Adernò. Qualche mese dopo l'inizio della rivolta di Palermo, moltissimi Comuni della Sicilia centrooccidentale si unirono alla capitale e il grosso delle forze si concentrò a Troina agli ordini del colonnello Pietro Bazan per sorvegliare e cercare di conquistare i Comuni dell'Etna. Si formarono dei comitati provvisori a Biancavilla, a Bronte e in Adernò, ma quello di Adernò venne subito sgominato dalla polizia, mentre rimanevano vivaci quelli di Bronte e di Biancavilla. 30

Adernò divenne la piazzaforte dei filoborbonici, accolse il brigadiere maggiore, principe Della Catena e nello stesso tempo formò delle squadre punitive di circa 200 uomini al soldo di tari tre al giorno, capitanati dal barone don Francesco Palermo. Contro la ribelle Bronte in data 15-9-1820 si eseguì una spedizione punitiva per cogliere di sorpresa quei paesani. Le truppe borboniche e Adornesi si diedero a saccheggiare e a violentare i Brontesi, che si trovavano nelle campagne circostanti l'abitato di Bronte. Ma il popolo di Bronte, col coraggio della disperazione si difese e ricacciò gli aggressori che con diverse perdite se ne tornarono ad Adernò. Anche contro Biancavilla si mossero le truppe borboniche di stanza ad Ademò e riuscirono a ricondurre l'ordine in quel Comune. Corifeo dei reazionari più ostili ad ogni forma di governo liberale, fu in Adrano il giudice mandamentale Giovanni Sangiorgio Mazza. Si agitavano perciò gli animi siciliani, i quali avrebbero voluto sostituire al regime della monarchia assoluta quella costituzionale. In Adernò questi sentimenti non furono pubblicamente palesi, essendo grande la devozione della città verso la dinastia che regnava: infatti nel 1812, quando venne adottata la Costituzione, i signori di Adernò subirono ma non desiderarono la nuova forma di governo, come riferisce il Sangiorgio, uno storico affezionatissimo alla casa regnante di quel tempo, che perciò interpretò a suo modo la tradizionale infedeltà dei Borboni, dimostrando il giubilo degli adraniti, quando re Ferdinando, abolito la Costituzione, ritornò al potere assoluto ». Nell'autunno dello stesso anno 1820 per riportare l'ordine in Sicilia sbarcò a Messina il generale Florestano Pepe con 6000 uomini e con artiglieria e iniziò la riconquista, finché venne a un accordo col presidente della giunta provvisoria di Palermo, promettendo in cambio del ritorno all'ordine, di discutere il problema di un parlamento siciliano. Ma l'anno successivo con l'aiuto degli austriaci, Ferdinando I impose l'ordine con i processi e con le condanne anche in Sicilia. Dopo la reazione, negli anni '30 ripresero i moti di rivolta che si alternavano con periodi di ricostituzione dell'ordine mediante feroci interventi polizieschi. Comunque si ebbe un crescendo di rivolte che culminò nella grande rivolta del 1848, in cui gli uomini più illuminati cercavano di attuare la totale emancipazione della Sicilia dal Regno di Napoli. La rivolta scoppiò a Palermo il 12 Gennaio di quell'anno al grido « Viva la Costituzione del 1812 ». Il 25 Marzo sì radunavano a Palermo il Parlamento e tutti i Comuni dell'Isola inviarono loro rappresentanti e fu votata la decadenza dei Borboni. Ma invano si cercò di avere come re di Sicilia il duca di Genova col nome di Alberto Amedeo, che non accettò. 31

Nei centri più attivi dell'Etna si verificarono moti popolari specialmente a Bronte e a Biancavilla, mentre Adernò rimaneva il centro del partito dell'ordine, pur aderendo al parlamento di Palermo. Quando i Borboni, guidati dal principe di Satriano, occuparono Messina e si diressero verso Catania, da Biancavilla, da Adernò e da altri centri etnei partirono in soccorso di Catania gruppi di volontari con a capo il prete agostiniano adornese don Pietro Cottone e il biancavillese don Angelo Biondi. Queste poche truppe, male armate, appena videro che i borbonici bombardavano Catania, si ritirarono verso i paesi di origine, anche perché si avvicinava il generale borbonico Nunziante, che con tre battaglioni di soldati, con carabinieri a cavallo e con otto cannoni occupò Paternò, Biancavilla, Adernò ed altri centri. Il 1849 fu un anno di pesante reazione, ma in seguito non cessarono qua e là i tumulti provocati dal desiderio dei contadini di avere le quote delle terre comunali, che però via via cadevano in mano dei ricchi proprietari, detti «civili». Alimentava anche il senso di rivolta la frequente apparizione di colera, che il popolo credeva fosse propinato dal governo borbonico e dai suoi fedeli. Di fatto l'aumento della popolazione, la mancanza di lavoro, la denutrizione e le spaventose condizioni igieniche, poiché anche le acque dei pozzi e delle sorgive cominciavano ad essere inquinate, erano le vere cause delle epidemie, ma la errata opinione popolare non era smentita dai così detti liberali anti-borbonici, che ricercavano sempre e comunque l'appoggio delle masse, salvo poi a tradirle e a deludere le loro legittime aspirazioni di miglioramento. I così detti civili avevano grande paura dei contadini, come probabili insidiatori della proprietà, per cui nei vari centri come Adernò si manteneva la cosiddetta Guardia Nazionale, formata da proprietari per tenere a bada i contadini poveri e se era il caso castigarli con tribunali speciali e con le commissioni di guerra che andavano per le spicce nelle condanne capitali. Tutti i moti dal 1820 al 1859 fallirono, perché, mentre i rappresentanti più liberali della classe dei proprietari o dei professionisti ricercavano la libertà politica e la costituzione, le masse popolari al contrario più o meno confusamente, volevano una rivolta sociale che le rendesse partecipi della proprietà della terra.

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Dal 1860 al 1900 Anche i proclami garibaldini del 1860 furono interpretati dai « civili » come incitamento alla conquista della libertà politica, se necessario, anche mediante l'unione all'Italia, mentre le grandi masse contadine credettero che quei proclami promettessero la divisione delle terre e una certa giustizia sociale. Questa doppia e diversa interpretazione del pensiero e dell'opera di Garibaldi, rese le amministrazioni locali spesso ambigue nei loro comportamenti, poiché i « civili », che le formavano, spesso stettero a guardare verso chi pendesse la bilancia della vittoria, cioè se verso i Borboni o verso i Garibaldini, per imporre poi il loro ordine, camuffandosi delle idee dei vincitori. Di qui le accuse dei governatori militari garibaldini, che pur essi appartenenti alla classe della borghesia o dei civili, non potevano capire l'odio represso delle masse contadine, che spesso sfociava in rivolte di tipo sociale contro la classe dei proprietari. Nino Bixio o il generale Poulet che erano di estrazione borghese, acquartierati in Adernò, non comprendendo i moventi delle rivolte contadine, le presero come manifestazioni di bestiale ferocia e le repressero colle commissioni di guerra e coi plotoni di esecuzione. In Adernò tra guardie nazionali e truppe garibaldine il popolo fu tenuto a bada e soltanto ebbero libertà di azione i liberali moderati, non contrari alla unificazione col Piemonte. La Guardia Nazionale adornese era capitanata da don Antonio Arcoria e da don Francesco Sangiorgio Mazza, che con le loro truppe paesane eseguivano azioni di rastrellamento e di repressione dei moti popolari non solo in Adernò, ma anche nei paesi vicini e specialmente a Biancavilla. Se è vero che in Adernò la bandiera italiana sventolò sul castello non molto dopo lo sbarco di Garibaldi, è anche vero però che, quando i garibaldini passarono per Adernò, il paese apparve quasi deserto. Comunque i tempi erano maturi almeno per la rivolta politica, specialmente dopo il sanguinario governo di Ferdinando II di Borbone (18301859) che cercò di dissanguare con ogni sorta di tassazione la Sicilia: si pagava anche una tassa per le finestre e per i balconi, si ripristinò la gabella del macino: insomma l'isola registrò un grave arretramento in tutti i settori accumulando un enorme debito pubblico, cadendo nello strozzinaggio della banca Rothschild. La fame più nera era tornata anche in seguito al decreto borbonico del 28-4- 1855 con cui si permetteva la libera esportazione di vettovaglie ai grossi 33 produttori, mentre per la scarsezza del lavoro e per i salari assai bassi le grandi masse dei lavoratori pativano la fame. Questo spiega in parte l'entusiasmo suscitato anche nelle masse dalla conquista del dittatore Garibaldi. Questi con decreto 14-5-1860 istituiva una milizia obbligatoria a cui venivano obbligati gli uomini dai 17 ai 50 anni, ma tale iniziativa non fu bene accolta dalle masse popolari, che non erano abituate a tale servizio e che invece avevano il desiderio di avere una terra che bastasse ad alimentarli. Anche l'aspetto sociale della questione fu preso in considerazione da Garibaldi, che con successivi decreti aboliva il dazio del macino, quello delle importazioni di vettovaglie e prometteva di dare la precedenza ai combattenti per la libertà nella divisione delle terre comunali. Inoltre stabiliva di distribuire le terre demaniali a tutti i capi famiglia poveri, non possidenti. In Adernò per tenere in piedi l'amministrazione e tenere l'ordine si costituì il 10 luglio 1860 un Consiglio Civico presieduto da don Lorenzo Ciancio, che prendeva ordini dal governo militare di Catania e dava ordini al sindaco di Adernò, che in quell'anno fu don Nicola Guzzardi Minissale. Fra i principali provvedimenti si crearono 12 guardie municipali, si riunì la commissione elettorale nella Matrice, essendo vicario don Rosario Piccione, si elesse un giudice conciliatore nella persona di don Antonio Ciancio, si elesse il secondo commesso della cancelleria comunale nella persona di don Vincenzo Ciancio, si elessero due guardaboschi nelle persone di don Gaetano La Mela e don Pietro Di Stefano, si elesse giudice supplente don Gioacchino Guzzardi Battiati, si istituì una commissione edilizia detta dell'« ornato » per dare un aspetto più decente ed elegante alle strade e alle fabbriche, si acquistò il sigillo del Comune. Inoltre si scrisse una lettera d'invito a Garibaldi, cogliendo l'occasione per vantarsi del fatto che « le squadre e la Guardia Nazionale adornesi insieme al colonnello Poulet avevano riportato l'ordine in Biancavilla » e del fatto che « Adernò era stata riguardata come la chiave della sicurezza dell'intera provincia sempre scelta da tutti i governi a quartiere per truppe tutelari dell'ordine ». Si proponeva anche al dittatore di stanziare in Adernò una forza opportuna, «essendo questa un punto strategico per spiare i movimenti dei tanti Comuni circostanti ». Si provvide ad illuminare con fanali a petrolio la statua di S. Nicolò, mentre si chiedevano al governatore di Catania maniere forti contro « alquanti malvagi cospiratori contro l'ordine pubblico, che attentavano alla vita e alla proprietà dei cittadini ». Si trattava di un rilevante numero di briganti e di latitanti per renitenza alla leva. Inoltre si chiese al governatore di Catania di eliminare gli intrallazzi derivanti dal fatto che gli amministratori erano fra loro parenti stretti, il che dava 34 possibilità di frodi, specialmente nell'assegnazione di quote di terre comunali. Venne eletto sindaco il barone don Giuseppe Pulìa, che provvide a fare funzionare la predetta commissione dell'ornato pubblico del Comune. Si assegnarono onze 18 per il mantenimento del teatro, si riordinarono i conti delle opere pie: Spartà, Di Maggio, Cerami, La Ferla, Sicilò, Pisani e altri. Si inaugurò il liceo comunale. In data 27.1V.1862 si decise la costruzione di 8 fanali per la pubblica illuminazione e si incanalarono le acque delle sorgenti di S. Giovanni. Si chiese ancora al governatore di Catania di provvedere acciocché si ponesse termine agli abusi di potere del maresciallo dei carabinieri, che aveva dato motivi di querele a molti cittadini, sia con sfacciate richieste di indennizzi non dovuti, sia per condotta morale, sia perché rilasciava libero qualche carcerato in cambio di un donativo e faceva uso della violenza, percuotendo anche onesti cittadini. Si provvide inoltre a lastricare la via Garibaldì e la via Roma (chiamata allora via Nuova), si comprò anche dal canonico Vincenzo Guzzardi un tratto della Vigna di corte, che era malsana a causa degli acquitrini, per farne una zona di pubblica utilità. Infine in seguito alla legge di soppressione delle case religiose in data 1-7- 1866 il consiglio comunale chiese allo Stato di assegnare al Comune i conventi di S. Agostino, di S. Francesco, di S. Domenico e i monasteri di S. Chiara e di S. Lucia per adibirli ad usi sociali o pubblici quali: un ospedale, un asilo di mendicità, una scuola tecnica, quartieri per le truppe stanziali o di passaggio, uffici per le imposte, un ospizio femminile, un asilo infantile e scuole elementari. Questi servizi furono in parte realizzati man mano che gli edifici venivano ceduti; infatti fino agli anni '20 del secolo successivo sopravvissero monache nel monastero di S. Lucia. In data 17-IV-1867 per dare lavoro si costruì una lunga strada cittadina che dalla chiesa della Catena, per la contrada di Patellaro, la chiusa Gallo, S. Filippo, arrivava alle chiuse della Lisia e allo « stradone di Bronte ». Nello stesso periodo si lastricava la strada da S. Lucia ai Cappuccini e quella dalla Catena al Teatro Bellini. In media si raccoglievano 3000 salme di grano, 117 botti di vino, 1 10 cafisi di olio, 20 migliaia di agrumi, 100 cantari di frutta. Gli agrumi si esportavano dal porto di Catania insieme ad ortaggi, cotone e mandorle, mentre si importavano grano, olio, vino e tessuti. Il comune si trovava al bivio delle rotabili Catania-Palermo e Palermo- Messina, le strade interne erano strette, tortuose e mal basolate. Il clima era temperato; senza nebbia, con piogge moderate. La neve sull'Etna durava fino ai mesi estivi. I terreni erano in maggioranza vulcanici, tranne gli ex feudi di Poggio di Vaca e di Cavallaccio. 35

I vigneti erano per lo più nelle seguenti contrade: Dagala, Timpone Solicchiata, Gisterna, Montalto, Luna, Santuzza, Camerone, La Favara, i Pianti e la Stagliata. I giardini di aranci o erano legati all'abitato o si trovavano nelle adiacenze del fiume Simeto. Questo era l'unico fiume del territorio, con un letto largo in media 30 m. con livello dell'acqua da 35 cm. a metri 3,50 secondo la stagione. Vi erano il ponte di Maccarrone, il cui arco principale è lungo m. 30 e alto m. 12; il ponte di Biscari nella contrada detta di Cimino; sul ponte passava anche un acquedotto che portava le acque delle lavare di Santa Domenica al feudo Ragona, qualche secolo prima coltivato a riso. Il ponte di Carcaci o dei Saraceni aveva un arco maggiore di m. 8 per m. 10 di luce. Vi erano i seguenti guadi: della Carrubba, di Cimino, di Maccarrone, di Mandarano e di Malastalla. Sempre alla data del predetto questionario si elencavano le seguenti sorgenti: casino Ciancio, San Giovanni, Giobbe, Biviere di Palma, Buglio, Minà, San Nicolò, la Cubba, Santa Domenica, le Ciappe, Irveri, il Serpente, Malastalla, Fogliuta, Naviccia, Sciacca e Santa Elia. Nel paese si trovavano 155 pozzi della profondità di m. 11 Vi erano i seguenti mulini ad acqua: della Serra, della Grazia, della Abbadessa, della Rocca, dell'Invidia, del Molinello, di Irveri, del Cimino e di Policello. Nell'abitato vi erano 26 chiese e 6 in campagna. I fuochi erano 3300, con circa 13000 anime. Le locande erano 4: quella detta Dell'Aquila D'Oro con 16 posti letto, quella dell'Etna con 12 posti letto, quella della Sicilia con 26 posti letto, quella di Floresta con 12 posti letto, oltre ad alcuni fondaci. Vi era un ospedale con 7 posti letto e una macchina a vapore per sgranare il cotone. Il comune possedeva fondi urbani, provenienti dalle soppresse case religiose: in parte dati in affitto, in parte dati a censo e in parte usati come scuole, uffici giudiziari, catasto, ufficio delle tasse, quartieri per soldati stanziali o di passaggio, caserme per carabinieri e pubblica sicurezza. I fondi rustici comunali erano circa 3000 ettari e provenivano dallo scioglimento degli usi civici dalla soppressione delle case religiose. La maggioranza della popolazione era composta da braccianti e piccoli proprietari. Il paese mancava di fognature, di condotte di acqua potabile, di servizi igienici, che rendevano facile il sorgere e il diffondersi delle epidemie specialmente di colera e di tifo. Elevatissima era la mortalità infantile e quasi totale l'analfabetismo. Come possiamo vedere dal verbale di un consiglio comunale del 30-6-1866, gli amministratori erano soltanto della classe dei « civili » e dei grossi 36 borghesi, mancavano completamente le altre categorie sociali, allora era sindaco Nicolò Valastro, segretario comunale don Pietro Campo, consiglieri il barone Benedetto Guzzardi, don Pietro Sidoti, don Nicolò Guzzardi Minissale, don Giuseppe Guzzardi Morabito, don Gioacchino Bulla, don Nicolò Grasso, don Nicolò Battiati, don Nicolò Gualtieri, don Alessandro Ciancio, il resto erano dei grossi borghesi. Dal testo del verbale veniamo a sapere: « che Adernò era superiore a tutti i comuni circostanti per ricchezze private, per commercio, per agricoltura, per la Pastorizia, per le terre comunali, per i suoi edifici, per la sua posizione strategica, per la stazione telegrafica ed elettrica, per gli uffici delle tasse, del catasto, del demanio, per la residenza di un capitano dei regi carabinieri e per la sua sede giudiziaria». Era inoltre punto obbligato di passaggio lungo le vie interne Catania-Palermo e Messina Palermo. Nonostante tale importanza il potere governativo e quello provinciale nessuna spesa avevano mantenuto per l'agricoltura e per i contadini piccoli e medi, che pagavano la pesantissima tassa della fondiaria, mentre i braccianti che costituivano la maggioranza della popolazione erano affatto privi di lavoro e costretti a languire senza soccorso alcuno, eccetto qualche elemosina. Questo si deduce dal verbale di un consiglio comunale del 1867. Di fatto essendo sia gli amministratori nazionali che locali di estrazione borghese e di idee moderate, non volevano, né sapevano risolvere i problemi dei contadini poveri a cui non venivano neanche assegnale le quote delle terre comunali, perché essi non avevano i capitali per coltivarle. Perciò enormi estensioni di terre andarono ad arricchire i già ricchi, come per esempio quel barone Benedetto Guzzardi, grande mazziniano, che ritagliò per sé una sostanziosa fetta delle terre dell'ex monastero di Santa Lucia. A causa delle precarie condizioni della classe contadina, per tutta la metà del sec. XIX e fino al 1911 si diffusero periodicamente rovinose epidemie di colera, di tifo, di difterite, di vaiolo nero, che colpivano in prevalenza i più poveri, mentre chi stava bene e, anche spesso, le stesse autorità cittadine se ne fuggivano nelle loro case di campagna. Certo non mancarono anime buone, anche forestiere, nel tentativo di alleviare la fame e le sofferenze delle masse popolari. Il potere, alle richieste di lavoro e di pane, rispondeva con bastonature, umiliazioni ed elemosine; questo spiega in gran parte il diffuso fenomeno del brigantaggio, del ladroneggio, della prevaricazione di tipo mafioso, di chi anche con le cattive intendeva accaparrarsi la terra. Di qui anche lo stato d'inquietudine e i frequenti tumulti come quelli del 1863, del 1866 e altri in cui era tale il sospetto tra la popolazione e le forze dell'ordine, che molti cittadini così detti « civili » finivano con l'asserragliarsi nelle case di campagna. La famiglia « civile » dei Crucillà, venne quasi sterminata per un errore delle forze dell'ordine, nella sua casa di campagna in contrada del « Camerone ». 37

Tumulti si ebbero anche nel Marzo del 1898 in cui le masse affamate protestarono con grande paura dei benestanti. Il sindaco di allora don Antonio Inzerilli lasciò scritto nella sua relazione che, per venire in soccorso della classe più povera e maggiormente svantaggiata per mancanza di lavoro, nelle feste di carnevale distribuì mezzo chilo di pasta a testa e cinquanta centesimi ai moltissimi bisognosi e fece appello alla carità dei benestanti e delle autorità per formare un comitato di beneficenza per la raccolta di elemosine per i più bisognosi. Questo sindaco in un primo tempo aveva rifiutato il, grano, quasi guasto, che giaceva nei magazzini militari, poiché i sensali gli assicurarono che in Adernò c'erano circa 2000 salme di grano buono, che invece per motivi speculativi e per sfuggire il dazio, i ricchi produttori avevano venduto di notte ad altri paesi, mentre la fame tormentava gran parte degli adornesi. Davanti allo spauracchio del tumulto, questo sindaco si convinse a comprare il grano militare per provvedere di pane le botteghe, ma, poiché il tumulto non si placava, fece intervenire l'esercito e le forze dell'ordine per arrestare i partecipanti al tumulto, che erano in maggioranza povere madri di famiglia, contro i cui mariti egli chiamò rinforzi dal prefetto di Catania. Come era avvenuto fin dal periodo spagnolo, l'apparizione del prefetto calmò la folla, poiché in fondo le masse avevano rispetto delle autorità. Per tenersi buona la maestranza disoccupata e affamata, si programmarono opere pubbliche come l'apertura della via Guzzardi nel quartiere della Catena, si sistemò la piazza Sant'Agostino, si costruì la piazza del Mercato, si spianò la piazza di Gesù e Maria e si sistemarono altre strade. In questi lavori si occuparono 651 muratori, 36 scalpellini, 760 manovali, 120 carrettieri e 1165 terraggieri. Il sindaco Inzerilli nella sua relazione che porta la data del 26-6-1898, esortava i consiglieri a prendere altri provvedimenti per prevenire i germi della guerra civile e del brigantaggio, che trovavano un terreno favorevole nella estrema miseria delle masse popolari.La stessa diagnosi dello stato di Adernò faceva il prevosto Salvatore Petronio Russo in data 15-12-1897, nella relazione per il campanile della chiesa Madre. In essa così concludeva: « Da tutto un popolo... si diede pane e lavoro e si nutre fiducia... che in Adernò avverrà la crisi e lo sfratto dei numerosi furti e delitti che si erano deplorati per mancanza di lavoro... ».

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Le "cinque giornate" di Adrano Quando si dice " Cinque giornate ", il nostro pensiero corre immediatamente al ricordo delle gloriose cinque giornate di Milano, quando, dal 18 al 22 marzo 1848, i milanesi, nella fremente vigilia della prima guerra d'indipendenza, si ribellarono agli Austriaci e liberarono la loro città, compiendo autentici prodigi di valore, specie a porta Tosa, che oggi, in ricordo dei fatti risorgimentali, si chiama porta Vittoria. Ma anche un comune della Sicilia orientale ebbe le sue cinque giornate: non nello stesso anno, nè per gli stessi motivi di Milano; però la denominazione storica esiste, e riguarda Adrano nel 1866; momento assai difficile per la storia del recentissimo regno d'Italia, che allora contava appena cinque anni, e che in quell'anno fu travagliato dal colera, da una guerra contro l'Austria e da una rivoluzione separatistica a Palermo. In realtà, la situazione del nuovo stato italiano non era delle più brillanti; e in Sicilia il malumore serpeggiava dappertutto. Tutte le classi sociali avevano grossi e fondati motivi per essere scontente: gli ecclesiastici per via dello scorporo delle proprietà e dei conventi; i borghesi per via delle tasse che aumentavano a dismisura; il popolo per la mancanza di lavoro e per l'imposizione della leva militare che privava l'agricoltura e l'artigianato delle braccia più valide. In Sicilia si cantava, appunto, che l'oro e l'argento si erano dissolti per l'aria e di carta avevano vestito la Sicilia; e un accorato lamento delle donne siciliane rimproverava direttamente il re d'allora, cantando: Vittoriu Manueli che facisti - la megghiu gioventù ti la pigghiasti!... Naturalmente, sul fuoco soffiavano borbonici e clericali; ma la situazione si fece insostenibile nel settembre 1866, perché in Sicilia era scoppiato il colera, e si disse che era stato sparso ad arte dai piemontesi, per decimare la popolazione siciliana. La diceria prese subito piede, anche per le crudeltà di cui si erano macchiati i piemontesi in Sicilia nella lotta contro i renitenti alla leva, con interi paesi assediati e condannati alla sete, famiglie bruciate vive nell'incendio delle loro case, ed episodi di autentica disumanità, come quello del giovane palermitano Antonio Cappello, cui nel gennaio 1864 furono inferte dalle autorità militari ben centocinquantaquattro bruciature, perché sospettato di fingersi sordomuto - mentre in realtà lo era fin dalla nascita - per sottrarsi agli obblighi di leva. Il colera fu la goccia che fece traboccare il vaso, e Palermo insorse con la rivoluzione detta del " sette e mezzo ", perché durò poco più di una settimana (ed ha dato il titolo ad un romanzo storico di Giuseppe Maggiore); ed in essa confluirono tutti gli elementi tipici del malcontento siciliano, non esclusa qualche tendenza di carattere socialistico e repubblicano. L'esempio rivoluzionario di Palermo, dove l'anarchia imperversò dal 16 al 22 settembre 1866, fu seguito da Adrano (che allora si chiamava col nome medievale di Adernò, che mantenne fino al 1929) e le " Cinque giornate " adranite durarono dal 28 settembre al 2 ottobre 1866, come sappiamo da una 39 polemica relazione sui fatti, scritta dal barone rivoluzionario e progressista Benedeno Guzzardi Moncada, un patriota che si era distinto durante l'impresa dei Mille e quella di Aspromonte, tanto che Garibaldi l'aveva soprannominato il suo " bell'angelo biondo ", e che dal 1864 fino alla morte, avvenuta a quarantatré anni nel 1884, si dedicò ad organizzare circoli mazziniani nella zona adranita. Il barone Guzzardi, nel suo opuscolo intitolato appunto Le cinque giornate di Adernò in settembre ed ottobre 1866 (e che fu stampato a Catania nella tipografia di Luciano Rizzo, che era sita " nella Strada Montesano n. 24, vicino il largo dello Spirito Santo ", come avverte il solerte tipografo) afferma di scrivere in difesa della sua Adernò, che non è quella città inculta [incivile] come vuol farsi credere, perché invece è una terra disgraziata ma virtuosa, e che la rivolta non era stata causata da banditi o da delinquenti, perché i così detti briganti erano dei più onesti giovani di questa terra. Ed ecco in breve lo svolgimento dei fatti. La sommossa si iniziò il 28 settembre 1866, perché la popolazione adranita, atterrita dai primi casi di colera (e non aveva tutti i torti, perché l'epidemia colerica del 1866-67 causò in Sicilia, secondo i calcoli del Maggiore Perni, ben 52.990 morti) e sobillata dai soliti mestatori, che dicevano che il governo italiano spargeva ad arte il colera, per avere maggiori introiti con la pesante tassa di successione, scese nelle strade, aizzata dai giovani renitenti alla leva, e si parlò di saccheggio: onde nella stessa giornata del 28 settembre fu mobilitata la Guardia Nazionale di Adrano, che il giorno dopo venne sostituita da due compagnie del 64° reggimento di fanteria, accorse da Catania al comando del cap. Luigi Gabriele Pessina. Ma la situazione non si calmò, e mentre chi aveva la possibilità di sfollare in campagna lo faceva celermente, sia per evitare i torbidi sia per sfuggire al contagio, l'ordine pubblico era sempre più turbato, malgrado gli sforzi del barone Filadelfo Ciancio, che faceva opera di pacificazione, coadiuvato dalla guardia cittadina organizzata alla meno peggio, tra l'assenteismo delle autorità, da Enrico Ciancio e da Salvatore Picardi. Mentre i morti cominciavano a spesseggiare, la situazione precipitò. La popolazione, allarmata dalla moria, ma più ancora per misteriosi fuochi d'artificio che improvvisamente si udivano e si vedevano nella notte (ed il Guzzardi accusa implacabilmente " le signore Autorità, che tutte dédite a deturpare questo popolo, non avevano la cura di impedire che bombe e solfarelli ogni notte si vedessero "), si sfrenò ulteriormente, fino a tentare il linciaggio di due presunti untori, che a stento furono salvati da pochi benpensanti, mettendoli in galera. Erano le ore 14 del 2 ottobre 1866: da questo momento finiscono le " Cinque giornate " di Adrano, perché le truppe del Pessina dispersero la folla tumultuante, e ripresero il controllo della situazione. La reazione fu dura, e come suole accadere spesso pagò chi non c'entrava, e addirittura chi si era adoperato a sedare il moto popolare, come capitò a tre 40 giovani della famiglia Crucillà, uccisi dai soldati e dai carabinieri nella casa di campagna in contrada Camerone il 17 ottobre 1866: e di questi tre giovani uno, Salvatore, era appena quindicenne, e un altro, Nicola, era sottotenente della Guardia Nazionale, e si era addirittura adoperato per sedare il moto popolare nelle giornate del 28 e del 29 settembre. Si trattò di un tragico errore, e non fu il solo. E nemmeno il Guzzardi Moncada uscì bene dalle tristi vicende delle "Cinque giornate " di Adrano, perché un suo compaesano, il dottor Antonino Sanfilippo, in un opuscolo in cui rintuzzava polemicamente tutte le accuse che il bollente garibaldino aveva lanciato contro le autorità adranite, gli rinfacciava di non conoscere perfettamente i fatti avendo lasciato Adernò fin dall'alba del 30 settembre, o per timore di turbolenze o per scansare il contagio5 dicendogli apertamente, del suo veemente scritto: voi fuggiste, signor Barone don Benedetto Guzzardi Moncada, e fuggiste pel primo, sebbene il Guzzardi fosse maggiore della Guardia Nazionale; e difendeva l'operato delle autorità, addossando tutta la colpa dei fatti ai renitenti di leva e ad alcuni profughi. Però, concludeva il Sanfilippo, in questo d'accordo col Guzzardi, il triste episodio delle " Cinque giornate " adranite non aveva per nulla intaccato la fama di città tranquilla e operosa di cui Adrano ha sempre e giustamente goduto; sicché concordiamo con il Sanfilippo quando egli afferma che Adernò non ha perduto la sua storia ed i suoi trofei per pochi tristi, che ne volean turbare l'ordine.

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Primi decenni del '900

Di fronte alla durezza della classe dominante, qualcosa si cominciò a muovere solo nel primo decennio del sec. XX: fra i cattolici si cominciarono ad evidenziare due correnti, quella dei conservatori, che vedevano solo l'elemosina come rimedio della miseria, mentre i riformisti o popolari si posero il problema di un cristianesimo nuovo, comprensivo verso le classi più umili, consapevole della esigenza di una maggiore giustizia sociale. Così ebbero inizio concrete iniziative di rottura nei confronti dell'isolamento dei piccoli contadini, aspiranti al possesso di un proprio pezzo di terra, sufficiente a sostentare le loro famiglie e ciò mediante iniziative di casse di mutua assistenza per attenuare il fenomeno dello strozzinaggio. Queste iniziative però non riguardavano i braccianti, che non avevano niente e che, presa coscienza dalle dottrine socialiste, si cominciarono ad organizzare in « leghe » per chiedere un migliore trattamento. I capi socialisti allora facevano balenare agli occhi dei miseri braccianti il sogno della espropriazione della grande proprietà privata e il vantaggio della coltura collettiva della terra, che avrebbe dato a tutti pane e lavoro. Comunque nelle varie classi ancora non c'era chiarezza di idee e di iniziative, solo la classe dei proprietari civili o borghesi non cessava di reagire con ogni violenza legale o illegale al desiderio confuso di maggiore giustizia delle masse popolari. Con il governo Giolitti, che fece approvare leggi migliorative della condizione lavoratrice e che introdusse il diritto al voto per tutti i cittadini di sesso maschile, si iniziò un processo di miglioramento che però non piacque alla classe padronale. Intanto i reduci della grande guerra non accettarono più di aspettare ancora la soluzione del problema dell'accesso alla proprietà della terra. Da un lato si organizzarono i socialisti più o meno riformisti per difendere la condizione dei lavoratori, dall'altro canto anche il riformismo cattolico con accenti progressisti si rivolse alla gran massa dei piccoli contadini, mentre i grossi e medi proprietari facevano i nazionalisti o i qualunquisti non volendo affrontare il problema sociale. Negli anni '20 operò con notevole efficacia nel nostro Comune l'energico prete 42 riformista, don Vincenzo Bascetta, che, con le sue iniziative mutualistiche a favore dei piccoli contadini, riuscì a rompere la muraglia dell'egoismo dei grossi proprietari. I piccoli proprietari liberati dallo strozzinaggio usuraio, fecero dei miracoli, trasformando interi feudi coperti di lava in fiorenti agrumeti, oliveti e mandorleti. Anche se, per avverse condizioni internazionali e nazionali, alcune iniziative del Bascetta fallirono, pure rimase suo il merito di aver diviso in quote, per la prima volta nella storia del Comune, delle grosse proprietà e avere ceduto queste quote di terra a veri contadini. Un altro meritevole personaggio nella storia della organizzazione e dell'addottrinamento delle masse bracciantili, per una presa di coscienza della loro dignità, fu l'artigiano povero Pasquale Burzillà, che, insieme ad altri coraggiosi, non cessò di fare proseliti per il suo partito comunista e di cercare, a modo suo un dialogo con la parte avversa che in maggioranza era costituita da cattolici integralisti. La storia successiva di Ademò, che dal 1929 riprese il nome di Adrano, sarà formata principalmente da queste due forze: quella cattolica e quella comunista che si alterneranno nella gestione del potere comunale, talora con un odio di parte superiore all'amore per la propria città e recentemente con poco chiare collusioni. Questo ha costituito una notevole remora ad un lineare e progressivo sviluppo della nostra comunità, che avrebbe bisogno di amministratori, che sapessero, in ogni occasione, subordinare le proprie idee di parte o di corrente agli interessi superiori di tutta la cittadinanza.

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Stemma del Comune di Adrano

L‟aquila sovrastante l‟ovale, col ramoscello d‟ulivo nel becco, rappresenta la fierezza del cittadino adornese non disgiunta dalla mitezza e dal desiderio di pace; i corni sottostante l‟ovale, con i frutti che ne vengono fuori, denotano l‟abbondanza che il suolo fertile di questo Comune propina agli abitanti. L‟Etna fumoso rappresenta l‟ardire dei cittadini di Adrano, i quali, nonostante i pericoli che il vulcano offre, rimangono fedeli alla terra che si estende alle falde da cui traggono il loro sostentamento. L‟aquila con la lepre e il granchio con l‟anguilla tendono a far mostra dell‟abbondanza della caccia di cui è ricco questo territorio e della pesca del vicino Simeto. 44 ITINERARIO

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Scrigno colmo di tesori d'arte, Adrano i suoi preziosi incomincia a mostrarli già in quella piazza Sant'Agostino alla quale, lasciato lo scorrimento veloce imboccato a Catania, rapidamente si giunge percorrendo, nell'ordine, le vie Solicchiata, Santangelo e Vittorio Emanuele; nella piazza, infatti, ecco subito la Chiesa di Sant'Agostino (1), gli archi gotici (2) oggi incorporati in un edificio privato ma appartenuti alla medioevale Chiesa di San Giovanni Evangelista (andata distrutta durante la seconda guerra mondiale) e quindi, a ridosso della via Roma, la Chiesa di Sant'Antonio Abate (3). Costruito a partire dal 1580 contestualmente a quel convento di Sant'Agostino di cui costituiva parte integrante, l'omonimo tempio ha il bel portale d'ingresso, in pietra lavica, arricchito con due colonne in stile jonico; nell'interno, la cappella del Buon Consiglio (in stile tardo gotico), il settecentesco altare maggiore in marmo policromo ed alcuni pregevoli dipinti tra cui un'Annunciazione del XVII secolo. La cinquecentesca Chiesa di Sant'Antonio Abate si presenta invece con un'edicola al di sopra del portale d'ingresso; stucchi incantevoli ne impreziosiscono l'interno, nel quale fa bella mostra di sè anche un'imponente statua del Santo. Ad un tiro di schioppo, ancora uno slargo: la piazza Duca degli Abruzzi, nobilitata dal Teatro Vincenzo Bellini (4), eretto nella prima metà del Settecento ma poi più volte ristrutturato, e con la facciata finalmente completata nei primi anni del Novecento. A far da ali alla via Roma, il Giardino della Vittoria (5) - così chiamato in onore degli adraniti caduti nel corso della prima guerra mondiale e di fronte alla villa comunale, Monastero (6) e Chiesa di Santa Lucia (7), il più grandioso fabbricato del paese. II maestoso complesso benedettino venne inaugurato nei 1596 e poi, dopo it terremoto del 1693, ricostruito nel Settecento. La facciata della chiesa si sviluppa su tre ordini ed è racchiusa, ai lati, da due campanili con cupole quadrangolari. L'interno del tempio, di forma ellittica, custodisce un autentico campionario di opere d'arte: il coro rococò, gli altari in marmo; ed ancora, un'icona bizantina raffigurante il volto di Cristo, affreschi, fregi stucchi, tele di grande intensità.... La via Roma ci accompagna in piazza Umberto, "salotto" di Adrano. Sulla destra la via Duca di , su cui s'affaccia la piccola Chiesa di Gesù e Maria (8), fondata nel 1640 ed alla quale in seguito venne aggregato il Conservatorio delle Vergini , retto dalle suore di Santa Teresa, che nel 1750 vi fecero costruire una deliziosa loggia in pietra vulcanica. Sulla piazza troviamo il Castello (9), medievale, edificato su una preesistente struttura e successivamente più volte trasformato e restaurato, ed in particolare rafforzato - sul finire del XV secolo, con un robusto bastione con quattro torri angolari. Al suo interno una pinacoteca, con opere che vanno dai primi anni del Seicento ai giorni nostri, ed un importante museo archeologico con decine di migliaia di preziosi reperti (tra cui una collezione di monete antiche). Accanto al Castello, e con la facciata preceduta da un colonnato in pietra lavica costruito nel Novecento, sorge la Chiesa Madre (10), originariamente ad unica navata e poi convertita in grande basilica a partire dalla seconda metà del Cinquecento. Dedicato a Maria Assunta, una 46 cui statua è sulla facciata in una nicchia sopra il portale centrale (più grande, rispetto ai due laterali), il tempio è a croce latina con tre navate ed un transetto, quest'ultimo con alle estremità la cappella del Santissimo Sacramento da una parte, quella del Sacro Cuore dall'altra. Conserva splendidi dipinti, alcuni monumenti sepolcrali e piccoli capolavori d'oreficeria sacra. Di fronte al Castello ed alla Matrice, l'antico Palazzo Bianchi (11) , su due piani , dal portale centrale in pietra lavica e col soffitto di quella che fu la cappella della Congregrazione della Carità, al primo piano, decorato con degli stucchi ben conservati. Dalla piazza Umberto la via Garibaldi ci fa raggiungere la piazza Immacolata, caratterizzata per l'appunto dalla Fontana dell'Immacolata (12), sovrastata dalla statua della Madonna; l'acqua fuoriesce da tre bocche di leone tuffandosi in vaschette di pietra lavica. Imboccando la via Santa Chiara sulla sinistra immediatamente s'apre un sottopasso, che conduce in piazza Mercato: qui si trova la Pescheria (13) dalla bella struttura in stile liberty. A pochi passi l'ennesimo slargo, su cui insiste la Chiesa di Santa Chiara (14): e la piazza Maria Santissima Ausiliatrice, pressochè un tutt'uno con piazza Umberto. Percorrendo via Dusmet, ingentilita dal bel Palazzo Morabito (15), approdiamo nella piazza Barone Guzzardi, con la Chiesa di San Pietro in Vincoli (16) affiancata al patrizio Palazzo Pisano Ciancio (17). L'edificio sacro, già nel Cinquecento chiesa sacramentale e filiale della Matrice, nel Seicento fu interamente rifatto ed arricchito dell'imponente campanile, mentre nel Settecento lo si adornò con bassorilievi ed affreschi, ma anche con stucchi e statue. Sulla via di San Pietro, il complesso monumentale costituito dalla Chiesa di Santa Maria del Rosario (18) e dal Convento di San Domenico (19), entrambi edificati a partire dalla seconda metà del Cinquecento e poi completati sul finire del Settecento. E nell'ultimo scorcio del XVIII secolo, in particolare, si realizzò il prospetto, col bel portale, del convento, al cui interno rimane ben conservato il chiostro. La Chiesa di Santa Maria del Rosario, ad unica navata, è impreziosita, oltre che da splendidi altari in marmo policromo, da pregevoli statue. Poco più avanti la chiesa del Salvatore (20) domina la piazza del Collegio Zangara. Citata già nel Trecento venne ricostruita nella seconda metà del Cinquecento, quando le si aggiunse anche l'elegante campanile, completato poi nel Settecento con la cupola su tamburo ottagonale. A croce latina, il tempio custodisce un crocifisso ligneo di struggente bellezza. Percorrendo la via del Salvatore e quindi un breve tratto di via Sant'Antonino, s'arriva sulla via Stancampiano, su cui prospetta il settecentesco, baroccheggiante Palazzo Sanfilippo (21). La via della Pace, caratterizzata da un Arco del Settecento (22), accompagna in via Castana, dalla quale immettendosi sulla via Bulla si giunge , dopo uno slargo e pochi passi lungo la via San Filippo, alla Chiesa di San Leonardo (23), affacciata sull'omonima piazza. Inizialmente semplice cappelletta, ricostruita ed ingrandita nei primi anni del 47

Seicento, la chiesa conserva un interessante dipinto secentesco di San Cristoforo col Bambino in braccio. Proseguendo sulla via San Filippo, ancora un edificio patrizio di grande fascino: Palazzo Ciancio (24), secentesco nei piani più bassi. Dalla via Russo s'approda, quindi, sulla via Regina Elena, che costeggia un fianco della Chiesa di San Giuseppe (25), con ingresso sulla piazza omonima. L'edificio sacro, anch'esso dapprima cappella, ampliato a partire dalla fine del XVII secolo e poi ulteriormente arricchito nell'Ottocento, ha stucchi e dorature che davvero vale la pena d'ammirare, nonchè importanti pale d'altare. Continuando lungo la via Regina Elena, si raggiunge la via San Pietro. Ad un incrocio con la via Catena, ecco appunto la Chiesa della Catena (26), fondata sul finire del Cinquecento. Dalla facciata col portale sormontato da uno stemma, ha il campanile - a tre piani - sul fianco che si spinge sino a piazza San Francesco; all'interno merita senz'altro d'essere ammirata la splendida statua in marmo della Madonna a detta di molti di scuola gaginesca, se non addirittura da attribuirsi allo stesso Antonello Gagini. La via Catena si tuffa in via Garibaldi, la quale ci fa tornare in piazza Umberto, il "salotto" del paese. E qui si conclude la nostra visita al centro storico, non senza la doverosa avvertenza che di altri significativi edifici religiosi e civili non s'è detto per brevità. Ma d'altra parte sono d'obbligo almeno alcuni cenni sulle numerose testimonianze del passato e sulle molteplici bellezze naturali che caratterizzano il territorio. Dei numerosi siti archeologici (i più antichi dei quali concentrati nella valle del Simeto) quello che colpisce maggiormente è senz'altro l'insediamento del Mendolito, ad otto chilometri dall'odierno abitato: su un'area di ottanta ettari s'estendeva una città sicula della cui importanza fa fede l'abbondanza di reperti, molti di grande pregio, portati alla luce. Originariamente d'epoca normanna, invece, il Ponte dei Saraceni, che oggi segna il confine tra i territori di Adrano e di Centuripe: completato dagli Arabi e poi ricostruito in stile gotico nel XII secolo, subì ulteriori rifacimenti nei secoli XVI e XVII perdendo infine importanza nella seconda metà del Settecento a causa dell'edificazione lungo il passo della Carrubba, in contrada Cimino, del Ponte-Acquedotto Biscari. Ma Adrano è anche piacevolissime passeggiate in ambienti naturali tanto vari, con il continuo mutare dell'altitudine, quanto ricchi di suggestioni. Ginestre odorose, lecci rigogliosi, paesaggi mozzafiato, distese di lava: questo e molto altro offrono le escursioni nelle gole del Simeto (nobilitate dal Ponte dei Saraceni) e nel Parco dell'Etna. Per sapeme di più, basta chiedere al Corpo forestale oppure alla locale Pro Loco.

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Chiesa di Sant'Agostino Questa chiesa è certamente molto antica, forse ebbe origine verso il 1275, ma sorgeva in una contrada distante dall'abitato detta "Di Poggio dell'Aquita o della Sciarotta". A partire dal 1580 il convento e la chiesa furono innalzati nel sito odierno nelle case del cavaliere napoletano Moncello Arcamone, che fece questo dono in cambio di una messa quotidiana per la salvezza della sua anima (vedi atti in notaio Paolo di Catania del 16-IX-1580). In seguito alle leggi eversive del 1866, l'edificio toccò al Comune che in un primo tempo, lo permutò col palazzo della confraternita dei Bianchi e che poi adibì ad ospedale civile.

ARCHI GOTICI

Gli archi gotici sono oggi incorporati in un edificio privato. Un tempo appartenevano alla medioevale Chiesa di San Giovanni Evangelista (andata distrutta durante la seconda guerra mondiale).

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Chiesa di Sant’Antonio Abate

La Chiesa fu probabilmente fabbricata nella prima metà del „500, negli anni posteriori alla dominazione angioina, per interessamento degli Sclafani-Peralta-Moncada, che furono conti di Adornò durante i secoli del vicereame aragonese. Essa sorse forse in sostituzione della Chiesa dello Spirito Santo vecchio nei pressi della Chiesa Santa Maria degli Agonizzanti. La Chiesa veniva detta anche Cappella Sclafani, perché la sua costruzione fu voluta da Matteo Sclafani I conte di Adornò, oppure Cappella Sclafani-Moncada, perché anche chiesetta privata della famiglia Moncada. Fu sede dal 1875 al 1884 della Confraternita della Misericordia poi trasferita nella Chiesa di Santa Chiara e dalla fine dell‟ultimo conflitto mondiale ospita la Confraternita degli Agonizzanti. La chiesa, per la ricchezza e la bellezza di tutto l‟interno, veniva frequentata devotamente dai pellegrini nella giornata festiva dedicata al Santo, che ricadeva il 17 gennaio, dove si svolgeva una “fiera agricola” che culminava con la benedizione degli animali, una manifestazione che attraverso i secoli è caduta in disuso. La chiesa è posta in piazza S. Agostino alla fine della via Roma; la facciata è caratterizzata da un portale d‟ingresso, sormontata da un‟edicola e realizzata con conci di pietra lavica ben squadrata, i fianchi ed il piccolo campanile così come l‟abside sono rimasti in pietra lavica a vista. La chiesa, a navata unica, presenta una volta a botte con lunette riccamente decorata da preziosi stucchi, seguita da una cupola e dall‟abside voltata con una semi cupola. Nella chiesa si possono osservare: gli stucchi (i più antichi ed interessanti di tutte le chiese adranite) con quattro Angeli con i simboli corrispondenti ai < titoli > del Santo e < Cristo in trono > e nel Catino due tele di Gesù Crocifisso e Sant‟Antonio Abate.

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Teatro Bellini Uno dei monumenti più significativi della nostra città è il teatro Bellini. Fu nel 700 che le maggiori ed antiche famiglie nobili decisero di innalzare sulle presenti rovine dell'antichissima chiesa di San Vito, un teatro. Quel che è certo è il fatto che questo teatro già il 26 aprile 1779 il vicerè fece obbligo di costruirlo. Completato il teatro, durante la suddivisione dei palchi non mancarono i conflitti circa i criteri di assegnazione, fra le principali famiglie nobiliari locali. Ad ogni modo questa struttura teatrale rimase attiva fino al 5 luglio del 1829, data dell'ultima rappresentazione teatrale documentata. Il teatro fu ricostruito dall'arch. Vincenzo Costa. Il nuovo teatro fu inaugurato durante l'estate del '46. Dal 1850 vi si svolsero regolari recite. Nei primi del '900 si realizzava l'attuale prospetto e prendeva il nome da Vincenzo Bellini ricostruito dall'arch. Vincenzo Costa. Il nuovo teatro fu inaugurato durante la stagione estiva nel 1846. A partire dal 1850 vi si svolsero regolari recite. Nei primi del '900 si realizzava l'attuale prospetto e prendeva il nome da Vincenzo Bellini. Nella facciata anteriore, possiamo notare tre figure allegoriche: la tragedia, la Musica e la Commedia.

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Il Giardino della Vittoria Sono pochi i centri della provincia etnea che possono vantare il possesso di un giardino pubblico. La "Villa Comunale" di Adrano si chiama "Giardino della Vittoria", denominazione datagli a ricordo della vittoria italiana nella guerra mondiale 1915/1918. Nel 1925 il podestà Agatino Chiavaro decise di iniziare i lavori per creare il pubblico giardino affidando l'incarico ad un impiegato del comune, pittore-disegnatore, autodidatta, Angelo Lauricella. Laurícella consigliò al podestà Chiavaro di commissionare ad uno scultore capace il monumento ai caduti per commemorare i 300 figli che Adrano aveva perduto nella guerra mondiale. Fu così che Chiavaro incaricò per l'opera in bronzo Angelo La Naia, già affermato pittore e, scultore adornese e docente delle Belle Arti di Firenze. L'imponente scultura, ispirata a motivi "Liberty - Impero", fu portata a termine alla fine del 1925. Nel 1926 fu inaugurato il "Giardino della Vittoria", il quale divenne salotto degli Adornesi, e fu visitato dagli abitanti dei centri vicini. E' utile ricordare che nel "Giardino della Vittoria", oltre a tante fontanelle, si crearono il "Viale degli uomini illustri", la gabbia con pavoni e uccelli, la vasca con i pesci, gli archi con gelsomini, il boschetto dedicato agli Adornesi caduti in guerra. I primi danni e le prime metamorfosi si produssero negli ultimi anni del ventennio fascista, precisamente negli anni dell'autarchia, quando fu seminato il grano nelle aiuole, e quando fu asportata la cancellata di ferro, per offrirla alla patria. Superata la crisi del dopoguerra il giardino pubblico lentamente maturò la sua ripresa. Oggi in esso vediamo una vasca con l'acqua tricolorata, al posto del monumento dei caduti, un grande avamparco, dove un tempo si trovavano due lunghi viali di alberi di acacia, una bambinopoli e un parco giochi per la felicità dei bimbi.

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CHIESA E MONASTERO DI S. LUCIA

La chiesa e il monastero di S. Lucia all'atto della fondazione (1150) sorgevano nei pressi dell'odierna chiesa di S. Alfio. Già nel secolo XV vediamo le suore trasferite a Catania, dove rimasero molto probabilmente fino alla metà del secolo XVI. Nell'anno 1596 fu inaugurato il nuovo monastero nella sede attuale e nell'anno 1775 fu completata la imponente chiesa nuova con decorosi affreschi e ricche dorature. In seguito alle leggi eversive del 1866 parte del monastero toccò al Comune, ma ancora fino agli anni '20 del secolo successivo vi abitavano delle monache. L'interno della chiesa di Santa Lucia è di forma ellittica, con una cupola che chiude a conchiglia l'ampio spazio circolare. Fra le decorazioni settecentesche, altari marmorei, un coro rococò e il maestoso altare centrale con copertura a baldacchino.

Nel primo altare a destra, Santa Lucia condotta al supplizio, tela del 1843 del catanese Giuseppe Rapisardi.

Nel primo altare a sinistra, La morte di san Benedetto, scuola di Olivio Sozzi (1690-1765).

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IL CASTELLO DEL GRAN CONTE RUGGERO

"Adernò, un grazioso casale che si direbbe quasi una piccola città, sorge su una cima rupestre, è dotato di un mercato, di un bagno, di una bella rocca ed abbonda di acque". Sono parole del geografo arabo Edrisi che, intorno alla metà del XII secolo, su incarico di Ruggero II il Normanno, percorse in lungo e in largo la Sicilia descrivendo città e paesi, piccoli casali e maestosi castelli. Al tempo di Edrisi il castello di Adrano (indicato come "bella rocca") esisteva già. Era stato edificato alcuni decenni prima per volere del Gran Conte Ruggero, padre di Ruggero II, che nel 1070 aveva sottratto Adrano alla dominazione araba e che, alla sua morte, lasciò terre e castello in eredità alla nipote Adelasia. Nella struttura dell'edificio, costruito forse sui resti di antiche fortificazioni di epoca greca e romana, sono visibili forti influssi arabi. In particolare due porte ad archi ogivali situate a piano terra, opera forse di maestranze saracene agli ordini degli architetti normanni. Non esistono, invece, segni del dominio svevo, riscontrabili, invece, in altri castelli del versante sud-occidentale dell'Etna, in particolare in quelli di Paternò e Motta Sant'Anastasia, per non parlare del Castello Ursino di Catania. Il castello subì importanti trasformazioni durante la dominazione aragonese (fra il XIV e il XV secolo). Era l'epoca in cui le più importanti famiglie siciliane si contendevano il potere a forza di guerre e di intrighi. Adrano fu dominio degli Sclafani, dei Moncada, dei Palizzi, teatro di congiure, ma anche centro economico e culturale di prim‟ordine. Il castello venne trasformato, man mano, in dimora nobiliare, ospitò principi e sovrani, fu sede di sfarzosi ricevimenti; ma non perdette le sue funzioni militari derivanti dalla particolare posizione strategica, a un passo dal Simeto e dalle principali vie di comunicazione fra la costa ionica e il centro della Sicilia. Fra il Cinquecento e il Seicento il castello fu munito di un massiccio bastione, sul quale furono collocate le artiglierie. Grandi e piccole guerre in corso in quel periodo consigliavano il ricorso a nuovi e più sicuri mezzi di difesa. L'edificio cessò di essere dimora signorile intorno alla fine del XVII secolo. I Moncada, signori dell'epoca, preferirono alla spartana vita dei castello gli agi offerti da città come Palermo e Catania. Una descrizione esauriente della città e del castello nel Settecento la dobbiamo allo storico dell'epoca Vito Amico che scrive: "Quella torre gigantesca che occorre su ogni cosa essere la prima nella descrizione di Adernò è quadrilatera ... munita di esteso bastione con un ponte; le interne basse camere erano destinate ai malfattori, i piani superiori a tre ordini presentavano un giorno sale magnifiche; oggi però non sono più in stato di potersi abitare". Era cominciato, insomma, il declino del castello di Adrano, trasformato da dimora signorile in carcere. La nuova destinazione impose una serie di rimaneggiamenti nella struttura dell'antico e nobile maniero. Furono allargate porte e finestre, fu spostato il portone d'ingresso principale dal lato 54 orientale a quello settentrionale, dove si trova adesso. Furono deturpati i saloni dei primo piano con la creazione delle celle e delle abitazioni delle guardie. Nel 1920 la fortezza divenne di proprietà dei comune. E dal 1958, anno in cui cessò di essere carcere mandamentale, gli antichi e severi saloni furono al centro di una profonda opera di restauro che portò, come sua naturale conclusione, alla creazione di un ricco museo.

Il Museo archeologico nel castello

Il primo Museo archeologico di Adrano, nato per volontà del reverendo Petronio Russo, circa un secolo fa, ebbe come sede una stanza dell'abitazione del parroco. Nell'intenzione del suo fondatore doveva avere carattere "scientifico, storico- topografico", e contenere unicamente reperti provenienti dal territorio adranita. Venne chiamato Museo Simeziano (in onore della città di contrada Mendolito che il dotto reverendo identificava con Simethia), e comprendeva vasi, monete, armi di pietra e altri materiali, ma purtroppo andò perduto alla morte del suo fondatore.Un secondo museo venne creato qualche tempo dopo, nel periodo tra le due guerre, da Vincenzo Vinci e Luigi Perdicaro, due professori che in tre vetrine nell'aula magna del Regio Ginnasio-Liceo "Giovanni Verga", ospitato nell'antico monastero di Santa Lucia, raccolsero oggetti archeologici recuperati nel territorio adranita. Ma anche questi materiali andarono dispersi, seppure parzialmente, nel corso dei bombardamenti aerei durante il secondo conflitto mondiale.Dopo la guerra, l'idea di creare un museo in cui custodire reperti altrimenti destinati a finire lontano tornò d'attualità. Se ne fecero promotori i componenti di un comitato archeologico locale; li guidava Saro Franco, un giovane professore di latino e greco, cultore appassionato della storia e dell'archeologia adranita che, in quanto ispettore onorario per i monumenti, diventò l'anima del nuovo museo, nucleo originario di quello attuale. La prima sede è davvero modesta: un piccolo locale che si affaccia sulla palestra comunale: ma l'entusiasmo è tanto, e soprattutto contagioso. Le collezioni si accrescono, e poco tempo dopo il Comune concede una sede più grande e centrale: alcune stanze della casa del custode dei giardini pubblici. Nel 1958 le raccolte sono ormai numerose ed anche questa sistemazione diventa inadeguata. Così, si decide di trasferire tutto nella sede attuale, il castello normanno, fortezza medievale fino a quel momento usata come carcere mandamentale. Qui, due anni dopo (1960), sotto la direzione della Soprintendenza archeologica di Siracusa che prende in carico la gestione del cospicuo patrimonio culturale raccolto, nasce l'Antiquarium statale di Adrano. Con il passare degli anni, grazie ai restauri effettuati dalla Soprintendenza ai monumenti di Catania vengono sistemati i piani superiori della fortezza. Attualmente, 55 le collezioni occupano solo un piano dei quattro del castello. Vasi, metalli, oggetti di pietra, sculture, monete. Reperti, attraverso i quali è possibile seguire cronologicamente la storia di Adrano e del suo territorio, dalla Preistoria alla tarda antichità. E non solo di questa area: per molti anni il museo è stato punto di raccolta e sicuro deposito per materiali provenienti anche da altre zone della Sicura centro- orientale. E‟ possibile trovarvi ceramiche raccolte nelle zone archeologiche di contrada Muglia e di Montagna di Marzo, nell'Ennese, o di Perriere in territorio di . Oggi questa istituzione, divenuta regionale, rappresenta senza alcuna dubbio la più grossa realtà culturale della zona e insieme al Museo archeologico di , l'unico museo della provincia di Catania. Tappa obbligata e punto di riferimento costante per chiunque voglia conoscere la storia delle popolazioni che abitarono il versante occidentale dell'Etna.

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Il corridoio esterno

L'esposizione dei materiali comincia fin dall'ingresso del castello, dove si possono ammirare reperti in basalto, marmo e arenaria di età greca, romana e medievale. Proprio di fronte lo scalone di accesso sono visibili due leoni in pietra lavica con gli stemmi del Casato Sclafani-Moncada, famiglie che governarono la contea di Adernò in età medioevale. All'interno del torrione che si apre a destra dell'ingresso sono conservati antiche macine di pietra lavica ed anfore da trasporto. E’ esposto inoltre, accanto ad alcune macine basaltiche, un rilievo riferibile ad una fontana ottocentesca recentemente recuperato nei dintorni di Adrano. Decorato con tre figure di prospetto, porta incisa la firma degli autori "Luigi Valastro e Stissi fratelli 1840".

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SALA I - ETA' NEOLITICA E DEL RAME Sono esposti materiali preistorici provenienti dai territori compresi tra l'area etnea e la piana di Catania ricadenti nei comuni di Adrano, Bronte, Biancavilla, Paternò, , Misterbianco, Centuripe, Regalbuto, Ramacca, Lentini. Si tratta di frammenti ceramici e reperti litici ed ossei venuti in superficie per lo più in seguito alle profonde trasformazioni agricole realizzate negli anni Sessanta. Testimoniano l'esistenza in questi territori di numerosi villaggi preistorici, nessuno dei quali, purtroppo, è stato finora oggetto di regolari scavi archeologici.

VETRINA 1 LATO DESTRO E' esposta una esemplificazione di alcune materie prime utilizzate nell'area etnea durante la preistoria. Per gli strumenti litici il materiale più comune è la quarzite, abbondante ovunque in questo territorio lungo i torrenti torrentizi. Meno diffusa la selce, probabilmente importata dagli Iblei e qui rappresentata anche da un nucleo dove sono visibili le tracce lasciate dalle lame già distaccate. Piuttosto diffusa nei villaggi anche l'ossidiana proveniente dalle Isole Eolie, vetro vulcano con il quale si realizzavano strumenti particolarmente taglienti. Alcuni campioni di argilla, provenienti dalla collina si S. Marco di Paternò, esemplificano il materiale usato per la realizzazione dei vasi di ceramica, che venivano dipinti prevalentemente con l'ocra rossa. 59

VETRINA 1 lato sinistro e VETRINA 2 Ceramiche databili all'età neolitica (VI-IV millennio a.C.), caratterizzata dallo sviluppo dei primi insediamenti stabili in seguito al diffondersi dell'agricoltura e dell'allevamento. Questa era è documentata lungo la valle del Simeto e nella fascia pedemontana meridionale dell'Etna attraverso una serie di villaggi di capanne per lo più posti su basse colline e in prossimità di corsi d'acqua e sorgenti. E' questo il periodo in cui si comincia a diffondere la ceramica, manufatto resistentissimo e di fondamentale aiuto per la ricerca archeologica. Anche se frammentari, i reperti ceramici costituiscono inoltre un importantissimo elemento di datazione, perché il loro mutamento attraverso il tempo nella forma e nella decorazione permette quasi sempre di identificare con una certa facilità il periodo in cui erano in uso. Poche le ceramiche databili al neolitico medio (VI millennio a.C.); si distinguono per le incisioni ad "unghiate" o a pizzichi con effetto a "chicchi di caffè" e per le impressioni a zig-zag ondulato eseguite con il bordo di una conchiglia. In maggioranza le altre ceramiche sono databili al neolitico medio (V-IV millennio a.C., cultura di Stentinello) e presentano ricche decorazioni ad incisioni ed impressioni effettuate a volte a mano libera, a volte con l'ausilio di punzoni e stampi. Nel complesso si tratta di una produzione particolarmente elaborata.

VETRINA 3

LATO DESTRO Frammenti a decorazione dipinta del neolitico medio (cultura di Stentinello). Ceramiche più rare rispetto alle impresse, che si pensa venissero prevalentemente importate dall'Italia meridionale e in qualche caso realizzate localmente, come si vede dai frammenti di tritume lavico di chiara provenienza etnea presenti nell'impasto della ceramica.

LATO SINISTRO Ceramiche dello stile detto di Serra d'Alto, che si sviluppa nella fase tarda del neolitico medio (V millennio a.C.). Caratteristiche di questo stile sono le raffinatissime anse a ravvolgimento di nastro d'argilla e la decorazione dipinta a tremolo e a scacchiera (esempi dalle contrade Naviccia e Trefontane). 60

VETRINA 4 Materiali databili al neolitico tardo, (IV millennio a.C., cultura di Diana). E' questo il periodo in cui nella zona etnea meridionale si infittisce il numero dei villaggi e tutta la valle del Simeto appare costellata da insediamenti. Dal sito di contrada Tabana, posto su un terrazzo lavico del Simeto, provengono un gruppo di vasi interi (forse corredo di una tomba), un peso da telaio (testimonianza della pratica della tessitura già in questo periodo; alcuni nuclei di ossidiana (prova degli scambi commerciali tra questa parte della Sicilia e le Eolie). Notevole infine una figurina di bovide da contrada Zarbo, probabile parte di un'ansa configurata, che presenta una eccezionale resa plastica della muscolatura, ben apprezzabile in una visione dall'alto.

VETRINA 5 Ceramiche della prima età del rame, periodo databile al III millennio a.C., nel quale si comincia a diffondere la pratica della fusione dei metalli. Caratteristiche di questa fase sono le ceramiche ad incisioni dello stile di San Cono Piano Notaro (da contrada Muglia), le belle ceramiche dipinte a tremoli e triangoli (da Poggio Monaco e Pezza Mandra) e le ceramiche a superficie nera lucidissima forse imitazioni di manufatti in metallo.

VETRINA 6 Ceramiche della tarda età del rame, che prende il nome dalla cultura di Malpasso. In questo periodo inizia l'utilizzo massiccio delle grotte di scorrimento lavico a scopo funerario. Le ceramiche provenienti dalla grotta di Pezza Mandra, compresi alcuni vasi in miniatura, sono probabilmente corredi di sepolture. Dal villaggio di Poggio dell'Aquila, in territorio di Adrano, provengono i corni forati di terracotta, oggetti simbolici probabilmente attinenti al culto della fertilità.

NICCHIA Prima di lasciare la sala è possibile osservare in una grande nicchia cinque pithoi, in gran parte ricomposti, provenienti dalle grotte Pellegriti e Pietralunga del territorio di Adrano.

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SALA II - PRIMA ETA' DEL BRONZO La prima età del Bronzo (2200 - 1400 a.C.) è rappresentata in gran parte della Sicilia della cultura di Castelluccio, che produce una caratteristica ceramica dipinta di rosso a bande nere e strumenti di pietra scheggiata e levigata adatta ai veri usi. Rari sono gli oggetti di bronzo, all'inizio importati, poi probabilmente prodotti in loco con metallo di provenienza extraisolana. Il ricco apparato di oggetti di simbologia religiosa e talismatica è documentato dalle accettine in miniatura e dai corni fittili (simboli sessuali di fecondità) (vetrine 1, 2). Questa sala è soprattutto incentrata su un macroscopico fenomeno culturale, tipico di questa prima età del Bronzo ( ma che comincia, in realtà, nelle fasi precedenti) rappresentato dall'uso delle grotte di scorrimento lavico in abbondanza sulle pendici etnee. Ampiamente documentato è infatti l'utilizzo di queste cavità come sepolture collettive, ospitanti membri dei diversi gruppi familiari. In esse gli individui venivano seppelliti con corredi personali di oggettini che rivestivano spesso valore talismatico e con offerte alimentari che venivano deposte in vari recipienti ceramici. Precisi riti erano connessi a quest'uso ed altri, di incerto significato, si svolgevano in altri luoghi delle grotte. Inoltre alcune cavità poterono servire solo come riparo o magazzino, come testimoniano i recipienti di grandi dimensioni trovati in certune.

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VETRINA 1 Dopo aver dato un'occhiata ai fossili animali di età antichissima si possono osservare i materiali della Grotta Pietralunga, presso Adrano, oggetto di scavi negli anni Sessanta, nella quale erano diverse sepolture (resti di scheletri, ripiano mediano, settore a sinistra). Nello stesso settore, i due oggetti di terracotta sub-cilindrici, curvi, comunemente chiamati "corni fittili", probabilmente simboli sessuali di fecondità, usati con valore di amuleto. Di rilievo gli strumenti d'osso già pronti e in fase di lavorazione a partire dalla materia prima (ripiano basso, settore centrale). Le ceramiche appartengono probabilmente a diverse fasi cronologiche nell'ambito della prima età del Bronzo. Nel settore centrale, di particolare interesse l'oggetto svasato con foro al centro, forse bollitoio da latte, e la vasca di un bacino su piede con un tentativo di rappresentazione zoomorfa (assolutamente insolita in una cultura che conosce solo decorazioni geometriche).

VETRINA 2 Reperti provenienti tutti dagli scavi della Grotta Pellegriti, la più antica tra quelle utilizzate nel territorio adranita. I recipienti esposti presentano una sagoma più semplice rispetto a quelli di altre vetrine e consistono quasi soltanto di due forme: la brocca globulare più o meno grande per trasportare e travasare liquidi e il grande bacino per versarveli e attingerne con boccali più piccoli. Il rito era strettamente legato alle sepolture ed al culto degli antenati.

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VETRINA 3

Reperti provenienti da diverse grotte, alcune scavate regolarmente, altre oggetto di ricognizione e raccolte di superficie. I reperti più importanti (settori di sinistra) provengono dalla Grotta Maccarrone, probabilmente usata per lungo tempo. Infatti, mentre i reperti posti nei ripiani superiori sembrano coevi di quelli della Pellegriti, quelli al centro, compresi quelli di bronzo (ascia a margini rialzati e frammentini di lamina), dovrebbero appartenere a una fase più recente (1600-1500 a.C.); furono trovati in sepolture poste all'interno di pozzetti rivestiti di pietre, scavati nel pavimento della grotta. L'uso di questi materiali più ricchi per singoli individui dimostra il passaggio verso una struttura più gerarchica della società. In particolare si è visto che i frammentini di lamina di bronzo appartenevano ad una tazza probabilmente prodotta nelle terre greche del mar Egeo. Si tratta pertanto di un prezioso oggetto di importazione, destinato ad un individuo con un ruolo particolare. Nei rimanenti settori, materiali raccolti nel corso di diverse ricognizioni in altre grotte etnee. Alcuni frammenti appartengono alle ultime fasi dell'età del Rame (culture dette di Malpasso e di S.Ippolito), e sono stati trovati, mescolati ad altri più recenti, nelle Grotte Origlio (Biancavilla), del Santo (Adrano), di Difesa Luna (Adrano), di Tartaraci (Maletto). A quest'ultima si riferiscono diversi frammenti di ceramica comune decorata a nervature, solchi e impressioni. Vi sono anche alcuni eccezionali frammenti dell'ultima fase del Neolitico, segno di una occupazione precoce della grotta, non per uso sepolcrale.

VETRINA 4 Una bella serie di reperti della cosiddetta "Sepoltura Sapienza", in realtà un accumulo di materiali, forse furto dello svuotamento di tombe, forse luogo di offerte, appartengono alla fase tarda della prima età del Bronzo. Di rilievo infatti i numerosi bacini su piede (le cosiddette "fruttiere", usate sempre per offerte e banchetti comuni), che in genere si presentano più slanciati rispetto ai tipi più antichi e poco elaborati nella decorazione. Interessante anche la prima comparsa, accanto ai tipi dipinti nei tradizionali motivi decorativi castellucciani in rosso e nero (lato sinistro, al centro), anche delle tazze attingitoio in ceramica bruna lucida (lato destro, ripiano centrale), che diventeranno esclusive nella successiva media età di Bronzo.

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La chiesa Madre Non è certa l'origine di questa chiesa, che doveva essere una semplice cappella nel secolo XIV. Certamente si deve ai conti Moncada la scelta di questa chiesa come chiesa maggiore e quindi come Matrice. In origine era ad una sola navata con tetto di legno e capriate a vista sostenute da cariatidi rappresentanti saraceni.

Verso la seconda metà del secolo XVI, si inizia la trasformazione in grande basilica a tre navate. Nel sec. XVIII vi si aggiunse la cupola, mentre rimaneva incompleto il campanile.

Rimaneva però irrisolto il problema del campanile e del prospetto, per cui il prevosto Salvatore Petronio Russo, verso la fine del secolo XIX affidò all'architetto Carlo Sada il compito di costruire un imponente campanile con funzione anche di prospetto. Secondo i disegni del Sada il campanile doveva essere molto imponente e di stile quasi barocco in pieno contrasto con tutto il resto. Il campanile negli anni '50 di questo secolo fu completato nella sua struttura e tale è rimasto per il disgusto dei visitatori e l'indignazione degli studiosi. 65

Nel 1997 sono iniziati finalmente i lavori di demolizione del campanile incompleto e la struttura è stata riportata a come era un tempo.

All'interno possiamo vedere l'altare maggiore in marmo policromo, la cantoria decorata in oro e l'organo. La chiesa è ricca di opere d'arte dal '400 al '700 e di monumenti sepolcrali delle famiglie nobili della città. 66

Nella cappella a sinistra dell'abside , Assunzione della Vergine di Pietro Paolo Vasta (1697-1760).

E' un capolavoro del Manierismo siciliano, il grande polittico ligneo posto sopra l'ingresso principale della Chiesa Madre, raffigurante nelle scene centrali L'incredulità di San Tommaso e La Sacra Famiglia, circondate da santi (in alto a sinistra San Pietro e a destra San Paolo); nella lunetta l'Eterno padre. C'è chi ritiene che il polittico appartiene alla scuola di Salvo di Antonio, nipote di Antonello da Messina, il quale riprese nella sua pittura alcuni motivi e certe suggestioni del grande maestro, accostandosi a influssi toscani e veneti. Altri ritiene che il polittico è attribuibile ad un anonimo del '500 influenzato da Cesare da Sesto (1477-1523) che lavorò nell'Italia Meridionale.

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Palazzo Bianchi Il palazzo dei Nobili Bianchi, sito nella piazza principale del centro urbano, sorse nella seconda metà del 1400, come residenza di una nobile famiglia. Dal 1820 al 1859 il Monte di Pietà funzionò come ospedale militare delle truppe borboniche. Dopo l'unità d'Italia, i locali della confraternita e dell'ospedale passavano al Comune, e il Palazzo Bianchi divenne sede della Amministrazione Comunale. Il palazzo, costruito di fronte al castello, consta di due piani; nel primo emerge il portone centrale, delimitato da un portale di pietra lavica contenuto da due colonne monolitiche con capitello corinzio- composito e due ingressi laterali. Sopra la porta a sinistra del portone centrale vi è una lapide dove sono scolpite delle parole in latino che attestano la sua fondazione.

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Monastero Santa Chiara Era proprio delle suore minori osservanti di S. Chiara e sorse per donazione dei ricchi coniugi, di origine palermitana, Tommaso e Agata La Bruna. Le fabbriche furono iniziate verso il 1602 in seguito alla conferma del papa Paolo V, con suo "Breve" del 9-1-1607 il monastero ebbe legale riconoscimento. La prima abbadessa fu suor Agata La Valle che insieme con le suore Felice Marino, Geronima ed Innocenza Statella erano state trasferite in Adernò dal monastero di Montevergine e S. Gerolamo di Catania. Verso la metà del '700 fu costruito il quarto nuovo del monastero che prospetta sulla piazze S. Chiara. In seguito alle leggi eversive del 1866 l'edificio toccò al Comune che lo adibì a caserma di soldati ed altri uffici pubblici.

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Fontana dell’Immacolata

Nel 1867 nel quartiere Patellaro si rinvenne una sorgente d‟acqua e , poco distante dalla sorgente, si costruirono successivamente un abbeveratoio per animali e due fontanelle; era nel desiderio di altri quartieri godere del privilegio di quell‟acqua e quindi della costruzione di altre fontanelle. Nel 1887 un terribile colera invade la città di Adornò; il dottor Cervello, invitato dal governo osservò che l‟acqua dei pozzi era inquinata per infiltrazione di acqua sporca e si dedusse altresì che il quartiere Patellaro era esente dal colera perché usava l‟acqua della sorgente. Quindi consiglia al Sindaco di costruire altre fontanelle con la conduttura di quell‟acqua. Furono costruite due fontanelle, una in “Piazza dell‟Erba” ed un‟altra in “Piazza Maggiore”. La più imponente fu costruita in Piazza Maggiore, l‟odierna Piazza Immacolata, dove da tre bocche di leone fuoriesce l‟acqua limpida e fresca che si va a gettare nelle vaschette in pietra lavica lavorate con discreta finezza. Occorreva mettere sopra questa fontanella una statua e Giovanni Petronio Russo , in poco tempo, da una rozza statua di marmo cui mancavano il naso, le mani e le ginocchia, formò la statua dell‟Immacolata e la pose sulla sommità della fontana, e, per riconoscenza dei cittadini e delle autorità locali, si apposero delle lapidi a memoria del fatto avvenuto.

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Chiesa di S.Pietro Questa chiesa esisteva fin dal sec. Xlll. Si ha notizia di essa nel rendiconto della collettoria pontificia degli anni 1308-1310. Allora forse si trattava della prima cappelletta del piccolo abitato medioevale di Adernò. Il suo Santo fu per parecchi secoli protettore del paese. Già nel '500 era una chiesa sacramentale e filiale della Matrice. Nel '600 fu interamente rifatta e arricchita di un imponente campanile. Nel secolo successivo fu rivestita di pregevoli stucchi, affreschi, bassorilievi e statue. Godeva del privilegio della fiera franca. Per il testamento della baronessa Antonia Ciancio e Amore, che si costruì dentro la sua tomba, ricevette un ricco lascito; era anche sede della antichissima confraternita dei notai, avvocati e procuratori.

Molto bello l'alto campanile della chiesa, anch'esso seicentesco, chiuso da merlature e da una cuspide con piccole decorazioni in ceramica

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Chiesa di San Francesco Ouesta chiesa sorse verso la fine del secolo XV per donazione della contessa "Contissella Moncada" moglie di Guglielmo Raimondo V (15011510). I frati minori osservanti vi veneravano anche un'antichissima Madonna di origine catalana detta S. Maria di Monserrato. La chiesa e il convento fino al 1739 prospettavano verso la valle del Simeto, ma da quell'anno invertirono il prospetto. In seguito alla legge eversiva del 1866, la chiesa e il convento furono chiusi, ma il 12-1I-1933 il podestà di allora restituiva la chiesa e parte del monastero al culto. Esiste, addossata al lato nord della chiesa di S. Francesco una delle torri che collegavano le mura dionigiane dell'Adranon Siciliota.

Chiesa di S. Sebastiano Sorse verso la metà del XV secolo e ai primi del '600 fu interamente ricostruita dalla confraternita dei disciplinati sotto il titolo della Purificazione di Maria. Questa confraternita introdusse il culto del Cristo alla Colonna,; cui eresse una cappella e una statua di singolare fattura (1618). Verso la fine del sec. XIX fu restaurata ed arricchita di un prospetto classicheggiante.

Convento Cappuccini 72

Il convento dei cappuccini sorse verso il 1608 in una chiusa in contrada "Della Grazia" per volontà del popolo adornese e con donazioni del principe don Antonio Moncada, essendo vescovo di Catania don Giovanni Ruiz. Solo dopo 18 anni dalla compera del terreno si stabilirono i primi frati sotto il vicario fra Benedetto La Rocca. In seguito alla legge eversiva il convento fu chiuso. Nel 1877 il comune pensò di stabilirvi un asilo di mendicità. L' 11-XII-1899 il sindaco del tempo don Antonino Inzerilli e il vicario Salvatore Petronio Russo ridiede il convento ai cappuccini.

Chiesa di S. Filippo e Giacomo Sorgeva nel sec. XVI tra le chiuse dette dei Malati, non molto distante dalla chiesa odierna che fu edificata dai coniugi Agati e Cariola nell'anno 1779. Di essa è caretteristica la facciata con due campanili. In essa fu portato il quadro di Santa Caterina, quando l'omonima chiesa fu demolita. Quest’ultima si trova nel quartiere omonimo, nei pressi dell'odierna piazza Immacolatella, un tempo chiamata piazza Maggiore.

CHIESA DEL SS. SALVATORE

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La costruzione della chiesa risale, secondo la collettoria pontificia, al 1308. Durante alcuni lavori di restauro eseguiti recentemente sono stati trovati dei reperti che fanno pensare ad altre costruzioni risalenti a secoli precedenti ed esistenti nel luogo dove ora sorge la chiesa. Sono venuti alla luce anelli di terracotta di età romana e frammenti di ceramiche pluricromate risalenti al medioevo, di cui alcuni documentano tecniche e colori di età islamica, normanna e normanno-sveva. Le principali e attuali strutture architettoniche risalgono alla metà del „500, quando la chiesa fu ricostruita con un elegante campanile, mentre nel „700 si aggiunse una cupola. Secondo alcuni manoscritti, esistevano, molte vicine, tre piccole chiese: Maria SS. Del Tindaro, del SS. Salvatore e la Cappella dei Santi Esercizi. Si sa inoltre che nel 1748 i tre edifici furono affidati alla direzione dei Padri Gesuiti, che li reressero fino al 1772, ano in cui furono espulsi. Nel 1786 la parte riservata a Maria SS. Del Tindaro venne unificata alla chiesa del SS. Salvatore, mentre la casa dove abitavano i Gesuiti venne trasformata in collegio e orfanotrofio. Essi rimasero chiusi per 15 anni, dopo i quali, per l‟interessamento del barone Ciancio Mineo, si istituì il “Collegio di Maria delle suore dell‟ordine di San Corrado” (la cui festa ricorreva nel mese di maggio), frequentato da novizie, suore e orfanelle. Nel 1905 avvenne la fusione del “Collegio di Maria” con il conservatorio delle Vergini della “chiesa di Gesù Maria” dando origine al conservatorio delle fanciulle. La facciata della chiesa, in stile barocco, si presente mancante del suo lato destro alla quale era collegata la fabbrica del collegio; la superficie è ripartita in tre sezioni concave, delimitate da paraste realizzate ad intonaco. Le due sezioni laterali presentano sul piano inferiore due nicchie destinate ad alloggiare due statue. Nella sezione centrale troviamo un portale lavico di stile rinascimentale con paraste e trabeazione decorata. Sovrastante troviamo una finestra con stipiti litici. All‟interno delle paraste sta rinchiuso un grande arco sorretto da altre due paraste. Inoltre la facciata è ripartita in tre ordini: piano terreno, primo piano e frontone. A lato della chiesa ed in posizione arretrata c‟è il campanile ripartito in tre ordini con cornicioni litici e finestre, cuspide finale con ornamenti in rilievo di gran pregio.

Chiesa e convento dello “Spirito Santo”

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Nel 1714 il Decano D. Giuseppe Rodo iniziò la costruzione della Chiesa dello Spirito Santo” ed alla stessa chiesa destinò per testamento tutte le sue sostanze. Il barone Pietro Spitaleri cooperò istituendovi accanto “la casa dei Chierici Regolari delle scuole Pie”, per impartire l‟istruzione scolastica ai giovani di buona famiglia, assegnandole una cospicua rendita. Dopo un tentativo fallito nel 1736 dei gesuiti padri Giuseppe ed Eusebio Spedalieri di far nascere nei locali accanto alla Chiesa un collegio della Compagnia di Gesù, nel 1738, mentre era provinciale degli Scolopi per la Sicilia il padre Giuseppe Agostino Del becchi, vennero offerti ad essi sia la Chiesa che i locali accanto con le relative rendite. I padri Scolopi, dopo aver accettato il legato, ottennero, con l‟approvazione del Viceré e, con il permesso del Vescovo di Catania, la facoltà di disporre delle rendite e l‟uso perpetuo della Chiesa e nel novembre del 1738 in locali provvisori iniziarono i corsi scolastici. Per le opere svolte durante i tre anni successivi meritarono altre donazioni, tra cui quelle del canonico D. Pietro Costa, di suor Margherita Scaccianoce e soprattutto i continui contributi del barone Blasco Ciancio, che servirono per completare le opere del collegio. I padri Scolopi ebbero il grande merito di aver iniziato nella cittadina le scuole pubbliche, perché la venerabile casa della scuole pie di Adornò era organizzata secondo le norme dettate dal fondatore, San Giuseppe Calasanzio, non come imitazione del collegio Gesuitico di allora, ma come una organizzazione, che, pure i giovani abitanti, era prevalentemente destinata all‟istruzione a all‟educazione di quelli poveri. Nel 1866, in seguito alla legge che soppresse le Corporazioni Religiose, i locali del Convento dello Spirito Santo furono confiscati dallo Stato. Il 06/03/1937 la Giunta Provinciale Amministrativa assegnava alla Curia Arcivescovile di Catania alcuni locali del fabbricato dell‟ex convento dei Padri Scolopi per essere destinati ad uso di rettoria della Chiesa; il rimanente fabbricato, rimasto in proprietà del Comune, veniva destinato ad uso di scuole elementari. Il 22/06/1944, essendo deceduto il rettore della Chiesa dello Spirito Santo sacerdote Zammataro, i locali del Convento furono abitati dalle suore dell‟Immacolata Concezione, cui infine nel 1953 vennero concessi in locazione tutti i locali a primo piano dell‟ex convento di proprietà del Comune. Oggi la situazione è molto complessa: infatti i locali che una volta erano solo di proprietà ecclesiastica oggi risultano divisi tra Chiesa, Comune e privati.

Chiesa di San Paolo

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La Chiesa di Santa Maria dell‟Annunziata, ora Chiesa di S.Paolo, sorse verso il 1630 ed era di patronato dei baroni Morabito. Per un periodo detta Chiesa fu abbandonata e poi nel „700 il Canonico don Pietro Russo sulle rovine di essa fabbricò lo nuova Chiesa a sue spese, restituendola al culto tanto necessario al nuovo quartiere. Oggi la chiesa è stata restaurata, la facciata esterna è stata rifatta ad intonaco tradizionale con una zoccolatura in pietra lavica bocciardata. Il portale molto semplice è realizzato con conci di pietra lavica; sopra esso troviamo una finestra di forma rettangolare di piccole dimensioni sulla quale è stato posto un bassorilievo raffigurante la Madonna Consolata. La copertura esterna è a falde; il campanile, che alla sommità ha un‟apertura su ogni lato lascia intravedere le quatto campane poste all‟interno, ha una copertura a quattro falde al cui apice troviamo un Crocifisso in ferro battuto che ritroviamo anche sulla porta centrale. L‟interno della Chiesa è a navata unica. Le nicchie in gesso sono costituite da una trabeazione che poggia su due coppie di colonne da cui dipartono due coppie di paraste laterali che si concludono con timpano triangolare. Sotto le recenti nicchie durante il restauro ne sono state messe in evidenza altre, del precedente periodo, a forma semicircolare

Città del Mendolito 76

In età storica nasce in contrada Mendolito, a otto chilometri dell'odierna Adrano, uno dei più importanti centri siculi della Sicilia. L'insediamento colpisce innanzi tutto per la sua estensione: ottanta ettari. Paolo Orsi, il grande studioso trentino, che spese quasi tutta la vita nello studio dell'archeologia della Sicilia e della Calabria, nel primo sopralluogo al Mendolito il 2 aprile 1898, vide subito l'importanza del sito: capitelli scolpiti in pietra lavica, terrecotte architettoniche, vasi, iscrizioni. Oggi l'antica città è largamente nota al mondo archeologico per alcune testimonianze di straordinario interesse. Primo fra tutte il famoso ripostiglio di bronzi, il maggiore della Sicilia, databile tra la fine dell'VIII e la prima metà del VII sec. a.C. Rinvenuto casualmente nel 1908 all'interno di una grande giara dentro il perimetro urbano, nel fondo Ciaramidaro, fu dapprima disperso nel mercato antiquario e poi acquistato da Paolo Orsi per conto del Museo archeologico di Siracusa. Il deposito è il secondo in Italia per quantità, ed è costituito prevalentemente di pani di bronzo (sorta di lingotti) e per il resto di oggetti talvolta integri, più spesso rotti. Splendidi i cinturioni bronzei in lamina sbalzata, forse ornamento di armature, e le armi da guerra. Di rilievo anche la presenza di frammenti di calderonitripodi importati dalla Grecia, che documentano la vivacità di un centro non insensibile al fascino degli oggetti esotici. Numerose le ipotesi avanzate riguardo la presenza di un così cospicuo lotto di metalli in una città indigena: la più recente è che il deposito fosse riferibile ad una fonderia connessa ad un santuario, probabilmente sotto il controllo politico della comunità indigena. Tipiche del centro siculo sono anche alcune sepolture delle necropoli sud di contrada Sciare Manganelli. Si tratta di tombe cosiddette a tholos, piccole costruzioni circolari di pietra lavica a cupola, forse di lontane ascendenze elladiche, con corredi riferibili a più deposizioni. Dalla città del Mendolito viene anche un numeroso gruppo di iscrizioni in lingua sicula. Tra queste, la famosissima iscrizione incisa su un blocco di arenaria murato sul lato est del vano di ingresso della porta urbica meridionale della città: disposto in due righe e ad andamento sinistroso, è il più lungo ed importante testo siculo finora conosciuto, ancora di controversa interpretazione e databile alla seconda metà del VI sec. a.C. Grazie agli scavi intrapresi nella città del Mendolito agli inizi degli anni '60, oltre a rimettere in luce alcune case arcaiche e la porta urbica, si è potuto 77 esplorare un tratto della cinta muraria, fortificazione interamente realizzata impiegando pietrame lavico non sbozzato. Solo il proseguimento delle indagini, potrà dare una risposta ai numerosi interrogativi posti da questo insediamento siculo, i cui dati di scavo sembrano fissare la piena fioritura nel VI sec. a.C. Resta inesplorato, infatti, l'impianto urbano, le aree sacre, ancora ignoto il nome, anche se qualcuno, con il conforto della numismatica, ha voluto identificarlo con l'antica città indigena di Piakos. Ancora da precisare, infine, i rapporti con la città greca di Adranon, l'insediamento nato nel 400 a.C., per volontà, secondo Diodoro Siculo, di Dionogi il Vecchio, a pochi chilometri di distanza, su un'altura sovrastante il corso del Simeto. L'operazione che porta alla nascita di Adranon , il cui sito si trova nell'abitato dell'odierna Adrano, è certamente di grande valenza strategica e segna il rafforzamento dell'egemonia siracusana nella zona. Tra gli scopi primari il controllo della corso del Simeto e quello della città sicula di Centuripe. Il sito prescelto fu quello in cui sorgeva da tempo il santuario di una tra le più potenti divinità sicule, Adranos. Esistono ancora vari considerabili pezzi delle antiche mura, internamente formate di grosse pietre di lava, ben riquadrate e connesse senza calce. Le mura costituiscono il monumento megli conservato della Adrano archeologica. Opera grandiosa, dotata di torri e di postierle, fu realizzata interamente in pietra lavica con un muro a doppia cortina di blocchi squadrati e colmatura interna di pietrame minuto. Attesta le eccezionali capacità tecniche raggiunte dall'ingegneria militare greca di età tardo-classica ed ellenistica.

MURA CICLOPICHE

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Le possenti mura laviche risalgono allo stesso periodo di fondazione della città di Adrano, che, infatti, nell‟intenzione di Dionigi il Vecchio, doveva essere non un città vera e propria, bensì una fortezza. “L‟antica città di Adrano era costruita”, dice lo storico Sangiorgio Mazza “in progetto parallelogrammo; infatti le sue mura cominciavano dall‟orlo della “Rocca Giamburo”e continuavano fino in contrada Fraiello, quindi si svolgevano verso Biviere, Giobbe, P. Dell‟Erba, fin dietro alla Cappella del Crocifisso della Chiesa di San Francesco. Di là le mura ritornavano indietro fino all‟orlo della “Roccia detta della Mola”, presso l‟antica Chiesa di Maria SS. della Consolazione. Resti delle stesse mura si riscontrano nel cortile della Chiesa della Madonna della Catena, nel cortile della Chiesa di San Francesco, dove in ottimo stato di conservazione si trova inerente al muro settentrionale l‟unica torre urbica di forma quadrangolare, e nell‟interno del castello Normanno. Le mura urbiche sono denominate “Ciclopiche” non tanto perché, come dicevano studiosi locali, risalivano all‟epoca dei mitici ciclopi (che abitavano la Sicilia alle falde dell‟Etna), quanto per i grossi blocchi che le costituiscono. Si tratta di mura formate da massi di pietra lavica di forma parallelopipeda a sezione quadrata e con le altre facce di lunghezza proporzionale. Essi erano regolarmente squadrati e tagliati con perfezione rarissima, nonostante l‟impiego di pietra lavica, che ha un elevato grado di durezza ed è di difficile lavorabilità. Le Mura sono in opera spiedo-isodoma costruite con blocchi posti per taglio, cioè in senso della lunghezza che non è sempre uguale, e accostati casualmente. In alcuni casi veniva inserito un blocco per testa , che regolava la distribuzione del peso. I blocchi sono collegati gli uni sugli in perfetta contestura, senza cemento e si reggono per forza di gravità. Questa muratura a secco è tipica dell‟architettura greca che non ha nessuna forma di legatura se non quella delle “grappe”. L‟interno ad ovest delle mura di contrada “Difesa” costituiva l‟area urbana della città dionigiana, oggi in gran parte scomparsa per la creazione di numerosi settori urbani.Nella parte bassa delle mura si notano parti di colonne in marmo con belle striature , probabili parti di architettura templare o di grande edificio.

Ponte dei Saraceni 79

Possiamo affermare che nel luogo dove oggi sorge poteva esistere una simile struttura, già in età neolitica, possibilmente un passaggio costituito da una passerella in legno, per esigenza di commercio e scambi fra le città sorte sulle vie del Simeto, proprio in prossimità dell'attuale ponte. Il ponte dei Saraceni faceva parte di un'antichissima strada, che dalla Sicilia nord- orientale lungo il corso dei fiumi Alcantara e Simeto portava alla piana di Catania, con diramazione per le città circostanti. Il ponte segna il confine tra il territorio di Adrano e quello di Centuripe. Esso fu costruito in epoca romana in muratura, della quale ci rimangono le basi dell'arco maggiore, e fu poi finito dagli Arabi. Durante i lavori di restauro fu aggiunta una quarta arcata, mentre la terza fu ricostruita in cemento armato.

Le gole del Simeto II territorio di Adrano, interamente inserito nella regione etnea, di cui occupa il settore sud occidentale che è il più assolato e nel contempo il più ricco di sorgenti naturali, ha la forma di un triangolo (82,5 Kmq) con la base sul più grande fiume della Sicilia, il Simeto, e il vertice sulla sommità del più grande vulcano d‟Europa, l‟Etna.

In circa 20 Km. di lunghezza, con oltre 3.000 metri di dislivello, si ha un percorso tra i più suggestivi che si possano immaginare: dalla fertilissima valle del Simeto, dal clima sempre mite, al deserto vulcanico della parte sommitale del cratere centrale; dai dolci pendii terrazzati coltivati ad orti 80 e giardini d‟aranci della fascia basale, alle aspre aree montane dominate da lave più o meno recenti punteggiate, fin dove è possibile, da alberi di mandorlo, di pistacchio, di frutti vari o da una vegetazione spontanea particolarmente tenace da cui traspare la lotta epica per la sopravvivenza dettata da condizioni ambientali di estrema difficoltà. Questo territorio, inoltre, riassume straordinariamente tutta la vita della "Montagna", dal monumentale altipiano basaltico risalente alle prime effusioni del vulcano ai recentissimi Monti De Fiori che lo sfiorano a nord-est; un‟attività incessante quella dell‟Etna che da 500 mila anni accumula e sovrappone immense quantità di lave e lapilli creando uno dei paesaggi più vari e imprevedibili d‟Europa. II centro abitato. situato sull‟antichissima rocca basaltica sovrastante la valle del Simeto, a 550 rn. sul l.m.„ nel punto di convergenza di importanti vie di comunicazioni, dista appena 30 Km dal capoluogo (Catania) ed ha una popolazione di 35.000 abitanti. Numerose e di vario significato sono le emergenze nel tratto del Simeto che delimita il territorio di Adrano. A nord, oltrepassato il confine di Bronte, il fiume precipita per un buon tratto nelle cosiddette "Gole" creando un naturale gioco d'acqua di grande suggestione. La contrada è denominata "Salto del Pecoraio" in omaggio ad una antica leggenda secondo la quale un pastore innamorato saltava dall'una all'altra sponda per recarsi dalla sua donna. Poco più a valle è attraversato dal cosiddetto "Ponte dei Saraceni", una delle opere civili più belle e storicamente più interessanti del Medioevo siciliano. Il ponte resiste da circa mille anni alle sollecitazioni non indifferenti del maggior fiume della Sicilia. Nella limitrofa contrada del Mendolito si trova l'area della più estesa, e forse più evoluta, città ellenica della Sicilia: la Città Sicula del Mendolito, del IX- V sec. a.C.. Di questa città è stata individuata la cinta muraria e messa in luce recentemente la monumentale Porta Sud. Di rilevante interesse ambientale, per la presenza di costoni lavici imponenti e il considerevole numero di sorgenti naturali, l'area del Simeto tra le contrade di S. Domenica e della Carruba. In questo tratto di territorio qualcuno ha ipotizzato l'area sacra alle Muse e al dio Adrano e ai suoi figli Palici.

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All'estremità sud della contrada Carruba si trova il monumentale acquedotto fatto costruire da principe Biscari nella metà del '700, per portare l'acqua nella pianura di Raona, a destra del Simeto, povera di sorgenti; un'opera imponente, ancora oggi attiva, sostenuta da archi per una lunghezza di oltre 500 metri. I grandi viaggiatori del Sette-Ottocento considerarono quell'acquedotto una delle meraviglie della Sicilia e gli dedicarono varie annotazioni e pregevoli stampe e disegni.

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Castello della Solicchiata A circa due chilometri dall'abitato di Adrano sorge un maestoso castello di proprietà del Barone Don Antonino Spitaleri. Nel 1875 il Barone decise di far costruire nella tenuta della Solicchiata, un grande edificio, che servisse per usi rurali e civili e anche ad un'attività industriale. Per dare l'impronta all'edificio come di un castello medievale, venne fatto l'interno di pietra lavica attorniato da un grande fossato e da un ponte levatoio, per rendere asciutti i sotterranei. L'imponente edificio però non fu del tutto completo. Prosperò invece l'industria vinicola, infatti l'interno è stato un grandioso stabilimento di vini completo di attrezzatissime macchine per la lavorazione dell'uva, per la confezione di alcool e di vini pregiati. Molti enologi dell'epoca, sia siciliani che stranieri, lo hanno apprezzato. Oggi il castello è in disuso e in completo abbandono.

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Tradizioni In questa città, ogni anno, si celebrano riti religiosi che hanno un'origine ultra centenaria, dove tradizione e cultura odierna si fondono tra loro, suscitando nelle persone momenti di grande emozione. Da premettere che la maggior parte, se non tutte, delle tradizioni paesane sono legate ai culti ed agli eventi religiosi. Radicate nella cultura degli adraniti sono le Confraternite , le cui origini possono essere spiegate con l'inizio dell'associazionismo religioso, prima dell'era cristiana. In Adrano, attualmente, si trovano costituite sei Confraternite funzionanti che, sotto diversi regolamenti, sono dirette tutte al medesimo scopo. Collegato alla Confraternita è il rito della vestizione. Uno degli eventi più sentiti dagli adraniti, ricorre, ogni anno, nei primi giorni di agosto con la celebrazione del Santo, Nicolò Politi. Adrano, ancora oggi, celebra la Pasqua con una religiosità profonda. La Settimana Santa contiene elementi tradizionali che affondano le loro radici in epoche lontane. Sopravvive, ma con minore intensità, la tradizionale giornata delle "Verginelle di S. Giuseppe"e del "Pane di Sant'Antonio". Altre feste del paese sono: la festa di San Pietro (1 Agosto); la festa della Madonna della Catena (5 Agosto); la festa della Madonna delle Grazie (2 Luglio); la festa della Madonna del Carmelo (16 Luglio); la processione del Corpus Domini.

La Confraternita La Confraternita è una corporazione ecclesiastica, composta di fedeli in prevalenza laici, canonicamente eretta e governata da un superiore con lo scopo di promuovere la vita cristiana per mezzo di speciali opere buone dirette alla carità verso il prossimo. Esse sono vere e proprie fondazioni ecclesiastiche, con proprie organizzazioni, capaci di aver particolari statuti, di accettare lasciti, di amministrare la loro cassa. Tra le Confraternite presenti nel territorio : 1. Matrice SS. Sacramento 2. S. Chiara 3. Gesù e Maria 4. Cristo SS. 5. Confraternita Gesù morto

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La vestizione Il rito della vestizione ha una tradizione di molti secoli nelle confraternite. L'abito rappresenta non solo il segno di appartenenza ad una confraternita, ma mette in evidenza la missione che essa intende perseguire, in nome della Chiesa stessa. Nell'esercizio del culto pubblico della Chiesa, nelle forme solenni delle celebrazioni liturgiche e della pietà popolare, le Confraternite usano il loro particolare abito, detto anche "sacco" o "cappa". E' un abito per un servizio liturgico, è dunque segno di una volontà di partecipazione attiva alla sacra liturgia e di esemplare espressione di essa. I confratelli indossano l'abito con la consapevolezza di chi vede in esso quasi un'espressione di quella veste battesimale che ricorda la dignità sacra di ogni battezzato e l'ufficio, che la Chiesa gli riconosce nell'esercizio del culto liturgico. Il camice bianco del personale sanitario degli ospedali , è spesso una derivazione del sacco delle confraternite, che hanno dato vita nei secoli ad innumerevoli ospedali.

Verginelle di S. Giuseppe La tradizionale giornata delle "Verginelle di S. Giuseppe", cade il 18 Marzo. Con cura vengono invitate da una famiglia benestante 19 ragazze, o giovani nubili, che appartengono a famiglie economicamente disagiate, ma di sani principi religiosi e morali. Le fanciulle trascorrono la giornata tra canti religiosi, preghiere, S. Messe e comunioni nella Chiesa di S. Giuseppe e pranzo in comune.

Pane di Sant’Antonio Nei primi tredici giorni di Giugno viene offerto da privati (per grazia ricevuta o da ricevere) il pane alla Chiesa, dopo la benedizione viene donato a chi ne fa richiesta e una parte di esso viene divisa a parenti ed amici. il pane benedetto serve a purificare l'animo.

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La Settimana Santa

Le tradizioni, sono legate alle feste religiose e popolari. Ancora oggi in Adrano si celebra la Santa Pasqua con religiosità profonda. "La Settimana Santa" contiene elementi tradizionali che affondano le radici in epoche lontane. Ha inizio il "Giovedì Santo" con la processione della seicentesca statua del Cristo alla Colonna (foto a destra) , pieno di lividi e ferite, che suscita in tutta la popolazione un'immensa pietà; il percorso iniziale e il rientro sono i momenti più suggestivi. Dalla Chiesa di San Sebastiano, lungo la via Garibaldi fino alla Chiesa Madre, gli uomini sorreggono il fercolo sulle spalle e cercano di imitare le sofferenze di Gesù sotto il peso della croce, a passi lenti, con quella strana andatura di tre passi avanti e due indietro, e certe volte facendo vacillare il fercolo, vogliono rappresentare e far rivivere il tormento, le torture, le agonie che portarono il Figlio dell'Uomo al supplizio mortale.

Per tutte le vie cittadine la processione è accompagnata da una tragica e dolcissima musica di incomparabile fattura artistica, che accompagna anche la processione del Venerdì mattina dell'Addolorata (foto a sinistra), che va in cerca del Figlio, portato a spalla da un folto numero di ragazze, e di artigiani barbieri. La scultura della Madonna è opera del Colella di Lecce, il quale si è ispirato alla "Vergine sul Golgota", una pittura ad olio dell'Adornese Giuseppe Guzzardi esposta nel Santuario di Maria Ausiliatrice. 86

La sera del Venerdì Santo è fra le più emozionanti e suggestive delle celebrazioni pasquali. Il Cristo morto "U Lizzanti" (foto a destra) viene portato in spalla per le principali vie cittadine dai giovani universitari e accompagnato dalle autorità civili e dalle Confraternite, che vestono le colorate cappe imposte dai rispettivi ordini. Lungo il percorso la folla esegue le cantate in coro di un canto funebre di grande effetto, attribuito al maestro Marcantonio Barbabietola, acese di nascita ma adranita di adozione, anche se la tradizione vuole che la musica sia stata composta dal Prevosto Pietro Branchina.

La "Via Crucis" del Sabato Santo, rappresentata dai giovani del paese, che vive il suo momento culminante in piazza Umberto nella scena della crocifissione. Nelle ore notturne del sabato viene proclamata la resurrezione del Cristo; essa un tempo avveniva a mezzogiorno, l'attesa del sabato veniva rotta dallo scampanio festoso delle campane. Esse infatti venivano legate dopo la S. Messa del "Giovedì Santo", detta volgarmente "A cascata di l'armillini" cioé "La caduta degli ermellini". Mentre in Chiesa Madre e nella Chiesa di Santa Lucia un telone raffigurante il Cristo Risorto si innalzava per l'intera altezza della grande navata a simboleggiare la lieta novella divina.

Nella Domenica di Pasqua si rappresenta un dramma religioso del poeta settecentesco Anselmo Laudani; tale dramma è chiamato "I diavulazzi di Pasqua" (La diavolata). 87

Alla "Diavolata" fa seguito "l'Angelicata" dove due Angeli offrono dei doni al Cristo Risorto e alla Madonna.

Finita la sacra rappresentazione, davanti alla Chiesa di Santa Chiara avviene l'incontro tra Maria e Gesù, volgarmente detta "La Pace ". La Madonna tocca la piaga del Figlio e un Angelo annuncia all'umanità la redenzione degli uomini.

San Nicolò Politi

Nacque in Adernò il 3 agosto 1117. Ancora giovane fece voto di verginità; e, quando i genitori avevano disposto per lui un matrimonio con una giovinetta di nobile famiglia, egli, ascoltando la voce del cielo, fuggì prima in una spelonca della zona nord- occidentale dell'Etna chiamata "Aspicuddu" e, dopo tre anni, per maggiore sicurezza, in quella del monte Calanna, nel pressi di Alcara, in provincia di Messina. Là passò trentatré anni di vita eremitica in penitenza, nel fervore della preghiera e della contemplazione. Morì, mentre pregava, il 17 agosto 1167 all'età di 50 anni. Il provvidenziale smarrimento dei buoi di un contadino fece scoprire il sito ed accorrere là in pellegrinaggio, di devota ammirazione, gli Alcaresi. il suo corpo fu portato, per volere divino, al Rogato, dove rimase incorrotto in posizione geruflessa, come era stato trovato, per 336 anni, rifulgendo sempre 88 per nuovi miracoli. Fu elevato agli onori degli altari da Papa Giulio Il nel 1507. Da quell'anno le sacre reliquie posano integre, nella Chiesa Madre di Alcara. Si pensò di forgiare una statua e fu chiamato un bravo scultore messinese, che pensò di ritrarre il Santo nell'atto in cui si recava al Rogato. La statua era quasi finita, quando una mattina la trovò con le gambe piegate. Pensò che si trattasse della poca consistenza dello stucco e la sistemò nuovamente. Ma la mattina seguente la trovò in ginocchio, lo scultore rimase stupefatto e pensò di lasciarla in quella nuova posa. Gli Adraniti avevano sentito parlare dei miracoli operati dal loro concittadino e incominciarono ad interessarsi di lui. Nel 1926, dietro approvazione della Santa Sede, da Adrano partì una spedizione di 350 uomini. La spedizione ebbe buon esito e stabilì la pace fra i due paesi. Gli Adraniti ebbero il capo del Santo. In Adrano si solennizza con molta devozione la festa di San Nicolò Politi, portando in processione la sera del 2 agosto, la reliquia del Santo, la giornata del 3 agosto si porta in processione la statua del Santo. La processione si conclude con una simbolica "Volata dell'Angelo" che ricorda la chiamata di Dio al giovane Nicolò. Grotta "Aspicuddu"

Volata dell'Angelo Altra funzione che attesta il fervore religioso degli Adraniti è quella della "Volata dell'Angelo" che ha luogo il 3 agosto nella ricorrenza della festa di San Nicolò. Essa ricorda la chiamata di Dio al giovane Santo. Da un balcone del Palazzo Bianchi al campanile della Chiesa Madre si attacca una grossa corda all'altezza di dodici metri e lunga circa sessanta metri. Non appena la statua del Santo arriva nella piazza antistante la Chiesa Madre, viene fermato al centro della corda. Ben presto si apre una cortina nel balcone del Palazzo Bianchi, e appare un fanciullo vestito da Angelo, il quale, per mezzo di appositi ganci, viene sospeso per le reni a quella corda e con un'altra più piccola lo si tira rapidamente e vola. 89

Giunto sul fercolo del Santo si ferma, si abbassa, recita un'ode sacra e risale in alto.

INDICE

IL NOME DEL COMUNE PAG. 1 IL TERRITORIO “ 2 PERIODO SICULO-GRECO “ 4 DALLE ORIGINIALLA CONQUISTA SARACENA “ 5 DAI SARACENI AGLI SVEVI “ 7 IL DOMINIO SVEVO E ANGIOINO “ 10 IL PERIODO ARAGONESE “ 13 IL PERIODO DEI VICERE‟ “ 18 DALLA GUERRA DI FRANCAVILLA AL 1820 “ 26 ADERNO‟ DAL 1820 AL 1860 “ 29 DAL 1860 AL 1900 “ 32 LE “CINQUE GIORNATE” DI ADRANO “ 38 PRIMI DECENNI DEL ‟900 “ 41 STEMMA DEL COMUNE DI ADRANO “ 43 ITINERARIO “ 44 CHIESA DI SANT‟AGOSTINO “ 48 ARCHI GOTICI “ 48 SANT‟ANTONIO ABATE “ 49 TEATRO BELLINI “ 50 IL GIARDINO DELLA VITTORIA “ 51 90

CHIESA E MONASTERO DO S.LUCIA “ 52 IL CASTELLO DEL GRAN CONTE RUGGERO “ 53 IL MUSEO ARCHEOLOGICO NEL CASTELLO “ 54 PIANTA DEL CASTELLO “ 56 IL CORRIDOIO ESTERNO “ 57 SALA I “ 58 SALA II “ 61 CHIESA MADRE “ 64 PALAZZO BIANCHI “ 67 MONASTERO DI SANTA CHIARA “ 68 FONTANA DELL‟IMMACOLATA “ 69 CHIESA DI SAN PIETRO “ 70 CHIESA DI SAN FRANCESCO “ 71 CGIESA DI SAN SEBASTIANO “ 71 CONVENTO CAPPUCCINI “ 72 CHIESA DI SAN FILIPPO E GIACOMO “ 72 CHIESA DEL SS. SALVATORE “ 73 CONVENTO DELLO SPIRITO SANTO “ 74 CHIESA DI SAN PAOLO “ 75 CITTA‟ DEL MENDOLITO “ 76 MURA CICLOPICHE “ 78 PONTE DEI SARACENI “ 79 LE GOLE DEL SIMETO “ 79 CASTELLO DELLA SOLICCHIATA “ 82 TRADIZIONI “ 83 LA SETTIMANA SANTA “ 85 SAN NICOLO‟ POLITI “ 88 LA VOLATA DELL‟ANGELO “ 89