osti

XVII legislatura

Partecipazione alla LXX Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite

(New York, 28 settembre – 2 ottobre 2015)

Settembre 2015

Senato della Repubblica Camera dei deputati n. 4 n. 190

I XVII legislatura

Partecipazione alla LXX Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite

(New York, 28 settembre – 2 ottobre 2015)

Settembre 2015

Senato della Repubblica Camera dei deputati n. 4 n. 190

Servizi responsabili: Senato della Repubblica Servizio Affari internazionali Servizio Studi - Ufficio ricerche nel settore della politica estera e della difesa Tel.: 066706-3666 - E-mail: [email protected]

Camera dei deputati: Servizio Studi - Dipartimento Affari esteri Tel.: 066760-4939 - E-mail: [email protected]

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INDICE

FOCUS TEMATICI Il processo di riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (a cura del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale) 3 Strengthening Cooperation on Migration and Refugee Movements under the New Development Agenda (a cura del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale) 5 L’agenda di sviluppo per il post-2015 (a cura del Centro Studi Politica internazionale - CeSPI) 7 L’attività del Comitato permanente sull’agenda post 2015. Cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato (a cura del Servizio Studi della Camera) 33 La cooperazione parlamentare in ambito ONU (a cura del Servizio Rapporti Internazionali della Camera) 35 Il Department of Peace-Keeping Operations (DPKO) (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 47 La proposta di autolimitazione del potere di veto in Consiglio di sicurezza di fronte alla denuncia di atrocità di massa (a cura del Servizio Studi della Camera) 55 L’attuazione in Italia della Risoluzione 1325 (2000) dell’ONU su donne, pace e sicurezza (a cura del Servizio Studi della Camera) 57 Priorità dell’UE in vista della LXX Assemblea generale delle Nazioni Unite (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera) 63 La Missione EUNAVFOR Med (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 69 La Missione delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL) (a cura del Servizio Studi della Camera) 75

APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI Il dialogo politico in Libia. Un aggiornamento (a cura del Servizio

I

Affari internazionali del Senato) 79 La situazione in Libia (a cura del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale) 83 La Libia: punto di situazione (a cura del Centro Studi Internazionali - CeSI) 85 Siria: i più recenti sviluppi (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato) 91 Somalia: punto di situazione (a cura del Centro Studi Internazionali - CESI) 97

SCHEDE PAESE Algeria (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 105 Marocco (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 113 Somalia (a cura del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale) 123 Tunisia (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato) 129 Turchia (a cura del Ministero degli affari esteri e della cooperazione Internazionale) 141 Ucraina (a cura del Ministero degli affari esteri e della cooperazione Internazionale) 211

PROFILI BIOGRAFICI Amm. Enrico Credendino - Comandante della missione EU NAVFOR MED 225 Hanna Hopko Presidente della Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino 227 Gen. Luciano Portolano Comandante della missione UNIFIL in Libano 229

II

Focus tematici

FOCUS TEMATICI

IL PROCESSO DI RIFORMA DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELLE NAZIONI UNITE (a cura del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale)

1.La riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rientra tra le priorita’ della politica estera italiana, in coerenza con la nostra tradizionale vocazione onusiana e multilaterale. L’Italia riveste il ruolo di “Focal Point” del Gruppo “Uniting for Consensus” (UfC)1.

2. Diversi fattori hanno contribuito negli ultimi anni ad alimentare nella membership ONU l’auspicio di giungere il più rapidamente possibile a una riforma del CdS: il moltiplicarsi dei teatri di crisi internazionali, con difficoltà ad agire per il CdS in assenza di intesa tra i P5; l’insufficiente rappresentativita’ del CdS (oltre 1/3 degli Stati Membri non ha mai seduto in CdS); l’intensa attivita’ dei G4 (Brasile, Germania, Giappone e India), in favore dell’allargamento in entrambe le categorie dei seggi, permanenti e non-permanenti; l’insoddisfazione per gli scarsi risultati ottenuti nel contesto del Negoziato Inter-Governativo (IGN), che si protrae dal 2009: l’auspicio di giungere a risultati nel corso del 2015, in coincidenza con il 70mo anniversario dell’ONU.

3.Posizione dell’Italia e del Gruppo UfC. I cardini della posizione del Gruppo UfC sono: la ferma contrarieta’ a nuovi seggi permanenti nazionali, la necessita’ di una riforma omnicomprensiva su tutti e 5 i pilastri (categorie dei membri; questione del veto; rappresentanza regionale; dimensione numerica e modalità di lavoro del Consiglio allargato; rapporti tra CdS e Assemblea Generale), una riforma che riscuota il piu’ ampio consenso possibile tra i Paesi Membri delle N.U..

1. Principali nodi nel negoziato. Le discussioni svoltesi nel corso della 69ma UNGA hanno confermato alcune aree di convergenza (tra cui il miglioramento dei metodi di lavoro, la futura dimensione del CdS a 25-26 seggi e una maggiore rappresentativita’ regionale), ma anche la permanenza di forti divergenze tra gli Stati Membri soprattutto su: • la creazione di nuovi seggi permanenti (con o senza veto). In favore di tale ipotesi: i G4, il Gruppo L69, il CARICOM (Caribbean Community), il Gruppo

1 UfC: Argentina, Canada, Colombia, Corea del Sud, Costa Rica, Italia, Malta, Messico, Pakistan, San Marino, Spagna, Turchia + osservatori Cina e Indonesia.

3 FOCUS TEMATICI

africano2, mentre altri raggruppamenti contemplano formule di compromesso basate sulla sola creazione di nuovi seggi non-permanenti, tra cui il Gruppo UfC, alcuni EEG3(“Eastern European Group”) e alcuni Paesi arabi; • la revisione del meccanismo di veto, auspicata da molti Stati membri (anche in seno a UfC), ma oggi osteggiata da alcuni P5 (Russia e Cina). La FRA ha proposto, nell’ottobre 2013, di limitare il ricorso al veto su base volontaria in presenza di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, senza ricorrere a modifiche della Carta dell’ONU. L’Italia sostiene politicamente tale ipotesi. (Francia e il Messico hanno annunciato un “side event” sul tema del veto il 30 settembre a NY).

La nuova proposta negoziale di UfC Sul piano del negoziato, per il Gruppo UfC il maggior rischio continua ad essere quello di una possibile futura convergenza degli altri gruppi negoziali sul principio dell’allargamento del CdS con nuovi seggi permanenti nazionali. In tale dinamico contesto, il Gruppo UfC ha proposto nel 2014 una nuova formula incentrata sulla creazione di seggi a “lunga durata”, assegnati ai Gruppi regionali (non a singoli Paesi) con possibilità di una rielezione immediata (oggi esclusa dallo Statuto ONU). L’innovazione della rielezione immediata è intesa andare incontro alle aspirazioni di quei Paesi che aspirano ad un seggio permanente (come i G4), garantendo loro la possibilita’ di servire in maniera piu’ continuativa in CdS. Tale formula consentirebbe inoltre di raggiungere gli obiettivi di un futuro CdS maggiormente democratico, rappresentativo e responsabile nei confronti dell’intera membership. Per meglio illustrare la loro posizione i Paesi UfC hanno anche elaborato un documento di sintesi intitolato “UNSC reform is possible” che riflette le line essenziale della posizione del Gruppo.

2 L69: gruppo di 42 Paesi guidato dalla Giamaica, costituito per lo più da piccoli Paesi – caraibici, pacifici, alcuni africani – e sostenuto da India e Sud Africa; CARICOM: 15 Paesi caraibici; Gruppo africano: riunisce i 54 Paesi del continente. 3 EEG: 22 Paesi dell’Europa Orientale, per lo più ex-URSS, ex-Patto di Varsavia e tutti i Paesi dei Balcani Occidentali (tranne il Kosovo, non-membro ONU).

4 FOCUS TEMATICI

STRENGTHENING COOPERATION ON MIGRATION AND REFUGEE MOVEMENTS UNDER THE NEW DEVELOPMENT AGENDA (a cura del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale)

L’evento di alto livello dal titolo “Strengthening cooperation on migration and refugee movements under the new Development Agenda” è stato indetto dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon a margine della 70° Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 30 settembre prossimo. L’iniziativa risponde all’esigenza di un rinnovato impegno delle Nazioni Unite su questo tema a fronte di alcune critiche giunte da più parti su una supposta passività del sistema onusiano, al di là dell’attività costante e preziosa di UNHCR. Tema dell’evento è avviare una riflessione su settori nei quali si sviluppa a livello internazionale la gestione dei flussi migratori e di rifugiati e su possibili sinergie che possono essere create tra di essi. Questi settori comprendono la realizzazione di politiche migratorie e di integrazione, la creazione di adeguati canali per la migrazione regolare e sicura nel pieno rispetto per i diritti umani, l’ammissione umanitaria di rifugiati e una migliore efficacia e cooperazione nella lotta al crimine transnazionale organizzato. L’evento, presieduto dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki- moon, sarà aperto da un intervento del Segretario Generale stesso focalizzato sulla necessità di adottare un approccio olistico per gestire i flussi migratori e di rifugiati. Seguiranno interventi mirati su diversi aspetti del rafforzamento della cooperazione in materia migratoria. A questi interventi farà seguito il dibattito generale, aperto da 6 interventi già individuati per offrire la prospettiva regionale, locale e operativa del fenomeno: la Presidente della Commissione dell’Unione africana, Dlamini Zuma (da confermare); l’Alto Rappresentante e Vice Presidente della Commissione Europea, Mogherini (da confermare), il Segretario generale dell’ASEAN, Minh (da confermare), il Direttore generale dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni, Swing, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Guterres, e l’Inviato Speciale del Segretario Generale per le Città e i Cambiamenti Climatici Bloomberg (da confermare). Le conclusioni sono affidate al Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite, Eliasson, preceduto da interventi del Presidente della 70° Assemblea Generale delle Nazioni Unite Lykketoft e del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, Joon su movimenti migratori e di rifugiati nel processo intergovernativo delle Nazioni Unite.

5

FOCUS TEMATICI

L’AGENDA DI SVILUPPO PER IL POST-2015 (a cura del Centro Studi Politica internazionale - CeSPI)

1. I NUOVI OBIETTIVI DI SVILUPPO SOSTENIBILE 2015-2030: STORIA DI UN PROCESSO LUNGO E TORTUOSO Il processo con cui i paesi membri delle Nazioni Unite definiscono i nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile - che rinnovano ed espandono l’agenda fissata nel 2000 con gli Obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals, MDG) si avvicina alla sua conclusione. A fine settembre 2015, in occasione dello specifico summit (25-27 settembre) che riunirà i Capi di Stato e di Governo nell’ambito dell’apertura della 70a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sarà formalmente approvata la nuova agenda che la comunità degli Stati membri dovrà far propria per impostare il lavoro successivo (28 settembre-6 ottobre), perché poi possa entrare in vigore a partire dal primo gennaio 2016. In preparazione di tale evento, l’attuale Presidente della 69a sessione dell’Assemblea Generale, l’ugandese Sam Kutesa, ha incaricato Macharia Kamau (ambasciatore del Kenya) e David Donoghue (ambasciatore dell’Irlanda) di svolgere il ruolo di co-facilitatori delle consultazioni informali preparatorie. L’11 agosto 2015 i due co-facilitatori hanno trasmesso al Presidente dell’Assemblea Generale la bozza del testo finale approvato per consenso dagli Stati membri il 2 agosto. La bozza del testo da approvare, intitolato Transforming our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development4, presenta la nuova agenda per il quindicennio 2015-2030 e riassume in 29 pagine i risultati di oltre due anni di dibattito. Nelle parole del Segretario Generale Ban Ki-moon, si tratta di “un’agenda universale, trasformativa e integrata che preannunzia una svolta epocale per il nostro mondo: è l’agenda delle persone, un piano d’azione per eliminare la povertà in tutte le sue dimensioni, in modo irreversibile, dovunque, non lasciando indietro nessuno”5. Sempre secondo il Segretario Generale, l’agenda “traccerà la rotta di una nuova era di sviluppo sostenibile in cui la povertà sarà sradicata, la prosperità sarà condivisa e i fattori chiave che determinano i cambiamenti climatici saranno opportunamente affrontati.” Un’agenda, quindi, molto (forse troppo) ambiziosa, che conclude un iter negoziale estremamente complesso, che ha sperimentato un elevato livello di partecipazione da parte della società civile internazionale, dei diversi governi e del sistema ONU. Oltre due anni di negoziati intensi, alla ricerca di una formula

4https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/7891Transforming%20Our%20World.pdf 5Traduzione da: UN (2015), Statement by the Secretary-General following agreement on the Outcome Document of the Post-2015 Development Agenda, New York, 2 August 2015, http://www.un.org.

7 FOCUS TEMATICI inedita in grado di assicurare una vasta partecipazione, cioè cercando di assegnare un ruolo maggiore alla base della gerarchia organizzativa nel prendere decisioni e determinare le responsabilità, in nome di un approccio bottom-up che era mancato in occasione degli MDG. Un iter complesso e non lineare, in cui si è assistito ad una proliferazione di proposte e documenti paralleli, non sempre allineati, più che a un ordinata sequenza di testi di progressivo avvicinamento al documento finale. Si è trattato di un iter scomponibile in quattro fasi: (1) l’impostazione del processo, (2) la definizione dei contenuti, (3) negoziati e dibattito, (4) l’accordo. Per quanto detto, tuttavia, le quattro fasi non sono state rigidamente sequenziali e, in particolare, la definizione dei contenuti ha accompagnato negoziati e dibattito più che precederli. Gli input sono venuti da fonti intergovernative e non solo.

Fig. 1. Il percorso del processo preparatorio e dei negoziati ufficiali relativi all’agenda post-2015

Fonte: aggiornamento della figura in M. Zupi (2013)

8 FOCUS TEMATICI

Anzitutto, nel 2012 è stato concretamente avviato il processo per la definizione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) emersi dalla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio+20) del giugno dello stesso anno, processo parallelo e complementare all'agenda post-MDG e che fa riferimento alle tre dimensioni (economica, sociale e ambientale) dello sviluppo sostenibile. Il documento conclusivo di Rio+20, The Future We Want, adottato con la risoluzione dell’Assemblea generale n. 66/288 e ratificato nel settembre 2012, riconosce come sfida centrale l'eliminazione della povertà, identifica la Green economy come un importante strumento per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile e indica alcune caratteristiche di base degli SDG: orientati all'azione, concisi, facilmente comunicabili, di numero limitato, di natura globale e universalmente applicabili a tutti i paesi, pur tenendo conto delle differenti realtà nazionali. Il documento indica inoltre che gli SDG dovranno essere valutati alla luce di specifici indicatori e traguardi6. L’High-level Political Forum (HLPF) on sustainable development, istituito dalla conferenza Rio+20 in sostituzione della UN Commission on Sustainable Development (CSD, a sua volta insediata a seguito della Conferenza di Rio nel 1992), è stato il principale organismo creato dalle Nazioni Unite sul tema. L’HLPF è stato, infatti, incaricato di guidare i lavori per lo sviluppo del processo affrontando le sfide emergenti, promuovendo il dialogo fra politica e scienza e rafforzando l’integrazione fra dimensioni economica e sociale dello sviluppo. L’Open Working Group (OWG) sugli SDG, istituito dall’Assemblea Generale il 22 gennaio 2013 con la partecipazione di 70 paesi, raggruppati nelle cosiddette 30 constituency, ha sviluppato nel corso di 13 incontri un rapporto che l’Assemblea Generale, con la risoluzione del 10 settembre 2014, ha elevato a base principale della nuova impostazione7. Al lavoro dell’OWG è stato affiancato il 21 giugno 2013 quello dell’Intergovernmental Committee of Experts on Sustainable Development Financing (ICESDF), formato da 30 membri, secondo quanto stabilito durante la conferenza di Rio+20, e supportato dal Working Group on Financing for Sustainable Development, integrato nell’UN System Task Team on the Post-2015 Development Agenda (istituito nel 2012 e composto da rappresentanti di oltre 60 organizzazioni internazionali ed enti delle Nazioni Unite). La discussione interna all’OWG è stata alimentata anche dai risultati di una serie di global consultation che hanno incluso 83 consultazioni nazionali e 11 consultazioni tematiche. Sono stati organizzati sondaggi diretti dell’opinione pubblica e una consultazione online denominata My world che ha raggiunto oltre 7 milioni di risposte. Gli esperti, nominati su base regionale paritaria, hanno

6 M. Zupi (2013),” L’agenda di sviluppo post-2015”, CeSPI, Osservatorio di Politica Internazionale, N. 79, Roma. 7 https://sustainabledevelopment.un.org/sdgsproposal

9 FOCUS TEMATICI prodotto un rapporto finale adottato nell’agosto 2014 e contenente indicazioni per la mobilitazione di risorse per lo sviluppo sostenibile8. In tema di trasferimento tecnologico, la specifica sessione dedicata durante Rio+20 ha prodotto una richiesta alle agenzie delle Nazioni Unite di identificare meccanismi di facilitazione per lo sviluppo, trasferimento e disseminazione di efficienti tecnologie pulite. A questo scopo il Presidente dell’Assemblea Generale, sulla base della Risoluzione 67/203 del 21 dicembre 2012, ha convocato quattro workshop sul tema sfociati in quattro giorni di dialogo strutturato presso la stessa Assemblea che hanno prodotto una serie di raccomandazioni9. Il Presidente dell’Assemblea Generale ha inoltre convocato nel primo semestre 2014 sei High-level events and thematic dialogues, focalizzati su trattamento delle acque ed energia sostenibile; contributo delle donne, dei giovani e della società civile; ruolo del partenariato; garanzia di società stabili e pacifiche; cooperazione triangolare Nord Sud e Sud Sud e ICT per lo sviluppo; diritti umani e stato di diritto. Nel settembre 2013, un High-level stocktaking event ha portato a sintesi il lavoro sviluppato durante i sei eventi10. Un sostanziale apporto è stato, indubbiamente, fornito dai due principali organismi non intergovernativi coinvolti. L’High-Level Panel of Eminent Persons on the Post-2015 Development Agenda (HLP), istituito dal Segretario Generale nel luglio 2012, è stato co-presieduto dai Presidenti di Indonesia (Susilo Bambang Yudhoyono) e Liberia (Ellen Johnson Sirleaf) e dal Primo Ministro del Regno Unito (David Cameron), e ha riunito rappresentanti della società civile, del mondo della ricerca, del settore privato, di amministrazioni locali e nazionali. Il Panel ha pubblicato nel maggio 2013 il rapporto A New Global Partnership11 centrato su cinque indicazioni principali che includono la lotta alla povertà estrema e alle disuguaglianze, l’inserimento dello sviluppo sostenibile al centro dell’agenda post 2015, la trasformazione dell’economia facendo leva sull’importanza dell’occupazione piena e a condizioni dignitose e sull’inclusione, la promozione della pace e di istituzioni aperte e accountable per tutta la popolazione, la creazione di un nuovo partenariato globale. Il secondo organismo non governativo è il Sustainable Development Solutions Network (SDSN), una rete globale indipendente di centri di ricerca, università e istituzioni tecniche che lavorano con diversi stakeholder, fra cui il settore privato, la società civile, agenzie delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali. Nel 2013, l’SDSN ha trasmesso al Segretario Generale il rapporto An Action

8 http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/69/315&Lang=E. 9 https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/4673techreport.pdf. 10 http://www.un.org/en/ga/president/68/pdf/stocktaking/PGA%20Stocktaking%20Event%20- %20Summary.pdf. 11https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/8932013-05%20-%20HLP%20Report%20- %20A%20New%20Global%20Partnership.pdf.

10 FOCUS TEMATICI

Agenda for Sustainable Development12 in cui propone dieci obiettivi per la promozione dello sviluppo sostenibile e una bozza di rapporto sulla questione della predisposizione di indicatori e di un sistema di monitoraggio per la valutazione dell’attuazione dell’Agenda. Il 4 dicembre 2014, il Segretario Generale ha presentato all’Assemblea Generale il suo rapporto di sintesi per orientare i negoziati nel 2015, intitolato The Road to Dignity by 2030: Ending Poverty, Transforming All Lives and Protecting the Planet13. Il documento di sintesi evidenzia la continuità diretta tra MDG e SDG, parlando esplicitamente della necessità di “completare il lavoro” avviato con gli MDG ma anche dell’opportunità di andare oltre, dinanzi all’opportunità che il 2015 diventi l’anno più importante in materia di sviluppo dal momento dell’istituzione delle Nazioni Unite. Il rapporto di sintesi riafferma la necessità di un’agenda universale e di trasformazione, che metta al centro le persone e il pianeta, fondata sui diritti umani e sostenuta da un partenariato globale. Inoltre, il Segretario Generale riconosce nei 17 Obiettivi e nei 169 target di sviluppo sostenibile proposti dall’OWG la base di partenza per il negoziato tra le parti, le cui discussioni dovranno necessariamente affrontare il correlato tema dei mezzi di realizzazione, cioè della finanza per lo sviluppo, oggetto dell’apposita conferenza di luglio 2015 ad Addis Abeba. Un’agenda fondata sull’interazione tra le tre dimensioni centrali dello sviluppo (economica, sociale e ambientale), il che implica una rivisitazione anche del modo di pensare e agire del sistema delle Nazioni Unite, come lo stesso Segretario Generale torna a sottolineare in un suo rapporto di fine marzo 2015 per il Consiglio Economico e Sociale intitolato Mainstreaming of the three dimensions of sustainable development throughout the United Nations system14. La partecipazione della società civile è stata uno dei pilastri dell’elaborazione dell’Agenda. Ne sono prova tangibile il lavoro della Campagna Beyond 2015, che riunisce oltre 1.300 organizzazioni di tutto il mondo, oppure - per quanto riguarda il mondo della ricerca, dei think-tank e delle università - quello della rete leader in Europa EADI che riunisce oltre 150 istituzioni universitarie e think tank di 28 paesi europei. Questo processo lungo, elaborato e reso molto complesso dalla scelta di fondarlo su un’ampia partecipazione e sulla volontà di allargare i temi sul tappeto, è considerato dalla società civile coinvolta un elemento di grande forza per il rilancio dell’azione internazionale15. Come stabilito nella A/69/L.46 – Draft decision - modalities for the process of intergovernmental negotiations on the

12 http://unsdsn.org/wp-content/uploads/2013/06/140505-An-Action-Agenda-for-Sustainable- Development.pdf. 13 http://www.un.org/disabilities/documents/reports/SG_Synthesis_Report_Road_to_Dignity_by_2030.pdf. 14 http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/70/75&referer=/english/&Lang=E. 15Beyond 2015 (2015), New Global Sustainable Development Goals demand bold implementation commitments by Governments, Brussels (and globally), August 5, http://www.beyond2015.org.

11 FOCUS TEMATICI post-2015 development agenda, i co-facilitatori hanno assicurato il coinvolgimento degli stakeholder, che includono i Major Groups che dal primo Earth Summit del 1992 partecipano alle attività delle Nazioni Unite in tema di sviluppo sostenibile, la società civile16, i parlamenti, le autorità locali e il settore privato, sulla base della pratica dell’OWG e della Risoluzione 69/244.

2. La bozza del testo finale della nuova Agenda La versione finale della bozza di agenda di sviluppo per il post-2015 è stata approvata a conclusione di un incontro plenario informale dopo due settimane di negoziati intergovernativi. La sessione finale, particolarmente laboriosa, ha visto le ultime modifiche che hanno interessato dettagli di questioni relative ai paragrafi sul clima, diritti dei migranti, popolazioni di territori sotto occupazione coloniale e straniera, condivisione dei benefici delle risorse genetiche, sostenibilità del debito, risorse per le diverse categorie di paesi maggiormente svantaggiati. Come ha riportato l’Ambasciatore Donoghue con soddisfazione, un accordo è stato trovato anche sulle questioni più spinose, fra cui la modalità con cui presentare la relazione fra l’Agenda post-2015 e l’Addis Ababa Action Agenda, le Responsabilità Comuni ma Differenziate (Common But Differentiated Responsibilities, CBDR) e la forma di Preambolo e Dichiarazione nella loro funzione di sintesi. Fig. 2. La struttura della bozza del testo finale e la nuvola delle parole contenute • PREAMBLE – pp. 2 • DECLARATION - pp. 3-10

Introduction (parr. 1-6)

Our vision (parr. 7-9)

Our shared principles and commitments (parr. 10-13)

Our world today (parr. 14-17)

The new Agenda (parr. 18-38)

Means of Implementation (parr. 39-46)

Follow-up and review (parr. 47-48)

A call for action to change our world (parr. 49-53) • SUSTAINABLE DEVELOPMENT GOALS AND TARGETS - pp. 11-23 (parr. 54-59)

16Donne, bambini e giovani, popolazioni indigene, ONG, autorità locali, lavoratori e sindacati, mondo del business e aziende, comunità scientifico-tecnologica, contadini.

12 FOCUS TEMATICI

• MEANS OF IMPLEMENTATION AND THE GLOBAL PARTNERSHIP- pp. 24-26 (parr. 60-71) • FOLLOW-UP AND REVIEW- pp. 27-29 (parr. 72-91)

Il testo finale contiene cinque parti che includono i 17 Sustainable Development Goals e i 169 target proposti dall’OWG nel 2014, solo parzialmente modificati. La descrizione di Obiettivi e target è preceduta da un Preambolo, centrato su cinque parole chiave (le cinque P), che introduce un piano di azione per le persone, il pianeta e la prosperità (“for People, Planet and Prosperity”) e sottolinea il rafforzamento della pace universale (Peace) in “larger freedom” e riconosce lo sradicamento della povertà in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertà estrema, quale la più grande sfida globale e la premessa fondamentale per lo sviluppo sostenibile. Il Preambolo indica la natura universale e cooperativa dell’Agenda (Partnership) e l’impegno perché nessuno sia lasciato indietro. Il Preambolo è seguito da una Dichiarazione in 53 paragrafi divisi in 8 sezioni: anzitutto un’introduzione generale e la vision alla base dell’Agenda, riassunta in tre paragrafi che riaffermano la volontà di costruire un mondo inclusivo, equo, liberato dalla povertà e che dia benessere e opportunità di sviluppo a tutti gli esseri umani nel rispetto dell’ambiente e in armonia con la natura. La Dichiarazione riafferma poi, nella sezione successiva, una serie di principi condivisi dai paesi membri come base del rinnovato impegno, fra cui la Dichiarazione di Rio+20 e il principio delle responsabilità comuni ma differenziate. Un richiamo agli MDG, alle sfide ancora aperte e alla necessità di operare per completare il lavoro fin qui realizzato precede il corpo della Dichiarazione, rappresentato dall’Agenda che costituisce la sezione con più

13 FOCUS TEMATICI paragrafi (21 paragrafi: dal 18 al 38) e declina gli impegni sanciti dagli Obiettivi e target, richiamando alcuni elementi chiave dell’impostazione, fra cui il riconoscimento dell’importanza dell’attenzione alla sostenibilità e del ruolo di alcuni attori come le donne e i migranti. La sezione seguente della Dichiarazione sottolinea la necessità di costruire un nuovo partenariato e di rivitalizzare i Means of Implementation (MoI), di cui viene esplicitamente ricordata l’importanza e che vengono richiamati sia nel 17° Goal, dedicato all’argomento, che in diversi target riferiti ai vari Goal tematici. Il testo fa riferimento ai risultati della Terza Conferenza Internazionale sul Finanziamento dello Sviluppo conclusasi ad Addis Abeba il 16 luglio 2015, ribadendo il ruolo dell’aiuto pubblico allo sviluppo quale catalizzatore per la mobilitazione di risorse, non solo finanziarie, da altre fonti fra cui il settore privato (dalle piccole imprese alle multinazionali), la società civile e le organizzazioni filantropiche. Nella penultima sezione si assegna all’High-level Political Forum on Sustainable Development il ruolo centrale a livello globale per la gestione del follow-up dell’adozione dell’Agenda, con i Governi come primi responsabili. A questo scopo, devono essere rafforzate le capacità delle istituzioni statistiche, soprattutto nei paesi africani, per poter garantire un adeguato e affidabile flusso di dati relativi agli indicatori. Si fa anche un esplicito riferimento all’impegno comune per sviluppare indicatori complementari al PIL per la misura del progresso. L’ultima sezione chiama all’azione i diversi attori comprendendo nell’appello - oltre ai governi e alle istituzioni internazionali - anche i parlamenti, le autorità locali, le popolazioni indigene, la società civile, le imprese e il settore privato in generale, la comunità scientifica e l’intera popolazione. Alla Dichiarazione segue la parte centrale del documento, intitolata Sustainable Development Goals and targets, con la lista degli 17 Obiettivi e 169 target che ricalca con alcune modifiche la proposta presentata dall’OWG nel luglio 2014. Si tratta principalmente di revisioni tecniche individuabili negli Obiettivi 2 (nutrizione), 3 (sanità), 4 (istruzione), 6 (risorse idriche), 7 (energia), 8 (crescita economica ed occupazione), 9 (infrastrutture), 11 (urbanizzazione), 14 (oceani e mari), 15 (ecosistemi territoriali) e 17 (MoI). Il documento riserva una parte specifica a quest’ultimo tema, precisando la relazione fra la Addis Ababa Action Agenda (AAAA: si veda capitolo più avanti) e l’Agenda di sviluppo post-2015. Come già in parte indicato nella Dichiarazione, il documento ribadisce che l’Agenda post 2015 e gli SDG possono essere realizzati solo nel contesto di un partenariato globale rivitalizzato, sostenuto dalle politiche e dalle azioni concrete delineate nella AAAA. Inoltre, si stabilisce che la AAAA "è a sostegno, complemento e contribuisce a contestualizzare i MoI e i target dell’Agenda 2030” (par. 62), mentre viene riprodotto il paragrafo 123 della stessa AAAA che istituisce il Technology Facilitation Mechanism (TFM) a sostegno del raggiungimento degli obiettivi sulla

14 FOCUS TEMATICI base della cooperazione multistakeholder fra stati membri, comunità scientifica, settore privato e società civile, che si concretizzerà in un team di lavoro interagenzie, in un forum su tecnologia e innovazione e in una piattaforma di collaborazione fra i diversi attori. Il TFM rappresenta un tema spinoso la cui istituzione era già prevista nel documento finale di Rio+20 e che ha a lungo contrapposto Nord e Sud del Mondo. Come è emerso nel seminario di New York dell’aprile 2015, nell’ambito della sessione di lavoro congiunta tra processo post-2015 e processo sulla finanza per lo sviluppo, per molti paesi del Sud del mondo l’accesso alla tecnologia più avanzata, attraverso meccanismi di trasferimento, è la via principale allo sviluppo; mentre paesi del Nord come gli Stati Uniti e le imprese multinazionali temono che tramite questi meccanismi si riduca di fatto la tutela dei diritti di proprietà intellettuale (Intellectual property rights, IPR), ed è proprio questa la ragione per cui i paesi del Nord hanno opposto resistenza durante l’intero negoziato per l’agenda di sviluppo post-2015 ad una menzione esplicita del tema degli IPR. L’ultima parte del documento, infine, definisce il quadro per il “follow-up and review” ai livelli nazionale, regionale e globale. Gli indicatori per gli SDG saranno sviluppati entro marzo 2016 dall’Inter-agency and Expert Group on SDG Indicators (IAEG-SDGs) in accordo con la UN Statistical Commission. Successivamente, verranno adottati dall’ECOSOC e dall’Assemblea Generale e saranno completati dagli indicatori per i livelli nazionali e regionali che saranno sviluppati, invece, dagli stati membri. Un impegno specifico viene stabilito per il sostegno ai PVS e in particolare ai paesi africani, a quelli a basso reddito, a quelli insulari e senza sbocco al mare, per rafforzare le capacità degli uffici statistici nazionali e dei sistemi di raccolta e analisi dati. A livello globale, l’HLPF riceverà dal Segretario Generale l’annuale SDG Progress Report basato sulle statistiche nazionali e regionali, nonché il Global Sustainable Development Report, che avrà fra l’altro la funzione di rafforzare il dialogo fra scienza e politica.

3. Gli Obiettivi e i target di sviluppo sostenibile (SDG) I 17 SDG proposti, riprendendo il lavoro dell’OWG, definiscono l’orizzonte di intervento per le politiche di sviluppo nei diversi paesi e a livello mondiale. Essi sono: 1. Eliminare la povertà in tutte le sue forme e dovunque; 2. Eliminare la fame, conseguire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere l’agricoltura sostenibile; 3. Garantire salute e benessere per tutti a qualsiasi età; 4. Garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti;

15 FOCUS TEMATICI

5. Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e ragazze; 6. Assicurare a tutti disponibilità e gestione sostenibile dell’acqua, condizioni d’igiene e smaltimento dei rifiuti; 7. Assicurare a tutti accesso a un’energia moderna, sostenibile e a prezzi equi; 8. Promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e un lavoro a condizioni dignitose per tutti; 9. Costruire infrastrutture resilienti, promuovere un’industrializzazione inclusiva e sostenibile e favorire l’innovazione; 10. Ridurre le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi; 11. Rendere le città e tutti gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili; 12. Garantire modelli di produzione e consumo sostenibili; 13. Adottare misure urgenti per contrastare i cambiamenti climatici e gli impatti che ne derivano; 14. Conservare e usare in modo sostenibile oceani, mari e risorse marine per lo sviluppo sostenibile; 15. Proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, combattere la desertificazione, arrestare e invertire il processo di degrado della terra e la perdita di biodiversità; 16. Promuovere società pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile, garantire accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, trasparenti e inclusive a tutti i livelli; 17. Rafforzare i mezzi e le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo sostenibile (MoI) e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile. Scorrendo la lista e confrontandola con quella degli MDG, è evidente lo sforzo di promuovere un impegno in piena continuità con gli Obiettivi del 2000, ripresi e rafforzati (uno su tutti: si passa dal dimezzare la povertà assoluta - MDG1 – alla sua eliminazione totale – SDG1). Si tratta però anche di un allargamento dell’agenda, fondata sui tre pilastri (sociale, economico e ambientale), e non più solo su quello sociale come nel caso degli MDG, il che spiega il numero più che raddoppiato degli obiettivi. Quello che è meno evidente è il tentativo, solo molto parzialmente riuscito, di evitare una logica settoriale (il cosiddetto silo approach) che si limiti ad affiancare, sommandoli uno all’altro, una lista di obiettivi distinti e numerosi, collegati alcuni alla dimensione sociale dello sviluppo, altri a quella economica e altri ancora a quella ambientale. Nelle intenzioni, la logica da adottare dovrebbe essere quella dell’approccio integrato delle tre dimensioni (o nested approach),

16 FOCUS TEMATICI che coglie la complessità del reale in cui esse convivono. Il riscontro di questo tentativo lo si dovrebbe trovare scorrendo la lista dei target: nel caso degli MDG erano inizialmente 18 e divennero poi 21 nel 2006, nel caso degli SDG sono addirittura 169, cioè oltre otto volte più numerosi. Tra i numerosi target che definiscono l’agenda SDG esistono legami stretti riconducibili al tema di riferimento, pur essendo associati a goal diversi: per esempio, il tema della salute è esplicitamente indicato nel goal 3 (Garantire salute e benessere per tutti a qualsiasi età) che, a sua volta, ricomprende 13 target; tuttavia, ci sono altri 8 target – associati ai goal 2, 6, 11 e 12 – che si riferiscono esplicitamente alla salute. In questo senso, si può parlare - come fa il Segretario generale delle Nazioni Unite - di un raggruppamento allargato di target tematici, che vanno al di là di quelli associati in senso stretto ad un goal specifico. Anche nel caso del goal 2 (Eliminare la fame, conseguire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere l’agricoltura sostenibile) – che è una delle aree prioritarie della politica italiana di cooperazione allo sviluppo - la correlazione tra ambiti distinti come la gestione del territorio, i metodi di produzione agricola, gli ecosistemi, la nutrizione e la sicurezza alimentare è esplicitata, diversamente dal passato. Più in generale, molti target sono di fatto correlati a due o tre obiettivi di sviluppo. Ciò rende più complesso il lavoro di analisi, ma anche quello operativo delle organizzazioni che si occupano di politiche di sviluppo e di cooperazione internazionale allo sviluppo, chiamate a superare l’approccio settoriale che caratterizza tradizionalmente il loro operato, alla ricerca di maggiore coordinamento e coerenza tra le parti. Una particolarità che, invece, caratterizza i target dell’agenda post-2015 relativa agli SDG, distinguendoli da quelli degli MDG, è la connessione diretta col tema dei MoI (Means of Implementation). Nel quadro degli MDG, infatti, l’Obiettivo 8 (Sviluppare un partenariato globale per lo sviluppo), si articolava in 6 target (e 16 indicatori) relativi al tema dei MoI, esaurendoli. Nel caso degli SDG, l’ultimo Obiettivo, il 17, è relativo ai MoI (Rafforzare i mezzi e le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo sostenibile e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile) e prevede ben 19 target relativi a finanza, tecnologia, Capacity-building, commercio e temi sistemici come coerenza delle politiche, partenariato multi-stakeholder e monitoraggio; tuttavia, scorrendo gli altri 16 SDG si scopre che i target correlati sono distinti in due categorie: da una parte, indicati coi numeri in ordine crescente, si tratta di target specifici; da un’altra parte, classificati con lettere in ordine crescente, ci sono target in termini di MoI. Complessivamente, ci sono 107 target di tipo tradizionale e 62 target afferenti al campo dei MoI, non riconducibili unicamente all’ultimo Obiettivo, ma esplicitamente ancorati ai diversi Obiettivi. Provando a schematizzare le differenze in termini di numeri tra target dell’agenda MDG e quella SDG, si ottiene una tabella che restituisce

17 FOCUS TEMATICI immediatamente la sistematicità del maggiore numero di informazioni esibite nel caso degli SDG e, di converso, la tendenza alla sintesi comunicativa degli MDG che offrivano un livello di dettaglio relativamente maggiore solo in materia di salute (il focus degli MDG) e di sostenibilità ambientale (un’area su cui – si diceva già negli anni Novanta -occorreva investire maggiormente). Tab. 1. Confronto tra MDG* e SDG in termini di target

SDG MDG

goal N. N. target N. target N. target relativi a MoI indicatori

1 5 2 1 3

2 5 3 1 2

3 9 4 6 19

4 7 3 1 3

5 6 3 1 3

6 6 2

7 3 2

8 10 2 1 4

9 5 3

10 7 3

11 7 3

12 8 3

13 3 2

14 7 3 4 10

15 9 3

16 10 2

17 19 6 16

Tot. 107 62 21 60

169

* - Nel caso degli MDG, gli Obiettivi 1, 2 e 8 sono in realtà tutti accorpati nell’Obiettivo 1, mentre i target associati all’Obiettivo 3 sono suddivisi in tre Obiettivi separati (ob. 4 sulla mortalità infantile, ob. 5 sulla salute materna e ob. 6 su AIDS; malaria ed altre malattie).

18 FOCUS TEMATICI

Rispetto al quadro degli MDG, negli SDG i target sono molto più numerosi e si tratta di un numero molto alto anche in termini assoluti, il che renderà inevitabilmente più complicato il monitoraggio futuro e meno immediata e comunicabile al pubblico la restituzione dei risultati; ma soprattutto si dovrà fare i conti con la difficoltà di rilevazione e affidabilità delle informazioni disponibili in molti paesi. In concreto, ciò porrà dei problemi nel corso del 2016, quando si tratterà di mettere a punto e verificare il lavoro operativo sul fronte degli indicatori da monitorare: nel caso degli MDG, gli indicatori utilizzati sono passati da 48 (nel 2000) a 60 (nel 2006), cioè oltre tre volte il numero dei target, il cui stato di avanzamento si misura proprio attraverso uno o più indicatori. I 60 indicatori relativi agli MDG hanno evidenziato negli anni gravi problemi di disponibilità e affidabilità dei dati in molti PVS; ed è lecito a maggior ragione attendersi simili difficoltà nel caso dei più numerosi e dettagliati indicatori relativi ai 169 target degli SDG, a meno di un investimento massiccio proprio sul fronte della cosiddetta “rivoluzione dei dati”, che deve significare anche e soprattutto il rafforzamento delle capacità nazionali di raccogliere sistematicamente informazioni statistiche. Se si dovesse mantenere la stressa proporzione tra target e indicatori registrata negli MDG (1:3), per l’agenda degli SDG ciò vorrebbe dire monitorare lo stato di avanzamento di oltre 500 indicatori, un numero davvero elevato e poco gestibile. Soprattutto, è difficile immaginare che si possa disporre di una batteria di indicatori così numerosa e identica in tutti i paesi: l’idea di fondo che l’agenda degli SDG sia universale - cioè interessi indistintamente tutti i paesi del mondo, al Sud come al Nord - ma al contempo debba essere adattata alle specificità del contesto nazionale, non può prescindere dall’adozione di indicatori standardizzati. Per questa ragione, la definizione del minimo comune denominatore rappresentato da un numero limitato di indicatori comuni a tutti i paesi sarà la principale sfida per la messa in opera dell’agenda post-2015. Infine, sempre confrontando l’agenda MDG e quella SDG, è evidente come - oltre al passaggio da una visione unidimensionale (sviluppo sociale) a una tridimensionale (sviluppo sociale, economico e ambientale) e ad un raccordo tra tre ambiti solitamente distinti come ambito di lavoro (i contenuti dello sviluppo, i MoI e l’agenda ambientale e dei cambiamenti climatici: tre ambiti istituzionali chiamati a raccordarsi nel 2015 con gli eventi rispettivamente di Addis Abeba, New York e Parigi) - ci sia l’emergere oggettivo di temi nuovi nell’agenda. A livello di Obiettivi, ci sono due Obiettivi indipendenti e che qualificano trasversalmente il modello di sviluppo: si tratta della disuguaglianza (ob. 10: Ridurre le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi) e il modello di produzione e consumo (ob. 12: Garantire modelli di produzione e consumo sostenibili), legato anche al sistema energetico da promuovere, basato sulle fonti

19 FOCUS TEMATICI rinnovabili (ob. 7: Assicurare a tutti accesso a un’energia moderna, sostenibile e a prezzi equi). Obiettivi indipendenti e trasversali in grado di imprimere, se fossero presi alla lettera, una svolta profonda al paradigma del modello di sviluppo, in termini di una reale trasformazione di sistema. A livello di target, invece, si affermano molti temi, tra cui vale la pena di menzionare quello delle migrazioni, altro nodo di particolare interesse per l’Italia: si tratta di un termine che appare ben 15 volte nel testo, con riferimento alle fasce vulnerabili delle persone che devono essere empowered, ma anche in relazione al ruolo di protagonisti dello sviluppo che i migranti svolgono e possono svolgere in futuro (in particolare il paragrafo 29 del testo è molto netto in proposito). In termini di target, sono menzionati con riferimento all’Obiettivo 8 relativo all’occupazione (target 8.8), all’Obiettivo 10 relativo alle disuguaglianze (target 10.7 e 10.c) e all’Obiettivo 17 relativo ai MoI (target 17.18).

4. La discussione sulla nuova Agenda Il testo approvato il 2 agosto è stato reso pubblico il 12 agosto. Nelle settimane successive sono arrivati i primi commenti. I principali mezzi di informazione, in realtà, non hanno dato risalto immediato al documento, probabilmente per il concorso di ferragosto e di un contenuto che in sostanza riprende pedissequamente la lista degli SDG proposti dal documento dell’OWG. L’impianto degli SDG era stato in precedenza ampiamente criticato, anche in modo radicale: ad esempio il settimanale The Economist a fine marzo, palesemente ancorato ad una visione degli SDG come obiettivi per aiutare i paesi più poveri, li aveva definiti un esercizio visionario e destinato a fallire, prolisso e disordinato; non solo un’opportunità sprecata, ma un vero e proprio tradimento perpetrato ai danni dei più poveri, un pasticcio per il numero troppo elevato di obiettivi e target che finiscono con l’imporre nessuna priorità e che sono irrealistici per il semplice fatto che richiederebbero finanziamenti dell’ordine di 2- 3 mila miliardi di dollari l’anno (qualcosa come il 15% dei risparmi mondiali o il 4% del PIL mondiale), cioè un ordine di grandezza decine di volte superiore a quanto è lecito attendersi. Gli MDG non erano solo pochi e semplici, ma anche abbastanza vaghi da permettere una declinazione in chiave nazionale, mentre 169 target sono troppi, confusi e così vincolanti da non adattarsi alle specificità dei diversi contesti; insomma, si tratta di obiettivi “stupidi”, perché non si focalizzano solo sul goal 1 (che richiederebbe 65 miliardi di dollari l’anno per essere raggiunto), magari aggiungendo quelli relativi all’istruzione delle bambine o della salute materna e infantile (un MDG che non è stato raggiunto affatto), finendo con incorporare tutto ciò che chiedevano le numerose e disparate lobby presenti a New

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York17. Una critica che, in modo più diplomatico, non era stata risparmiata neanche da un articolo dell’economista Marc F. Bellemare su Foreign Affairs, quando citando il noto saggio di Gilbert Rist, History of Development, ricordava che lo sviluppo, un tempo considerato un fenomeno complesso ma relativamente coerente, si stava polverizzando in un pulviscolo di obiettivi i cui collegamenti reciproci non era più dato conoscere18. In relazione, invece, al documento pubblicato ad agosto, i commenti sono stati anzitutto quelli ufficiali. Ban Ki-moon lo ha salutato definendolo “l’Agenda di tutti, un piano d’azione per eliminare la povertà in tutte le sue dimensioni, irreversibilmente, dovunque, senza lasciare nessuno indietro. Un’agenda che si propone di assicurare la pace e la prosperità, di consolidare un partenariato che metta le persone e il pianeta al centro. I 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile sono integrati, interconnessi e indivisibili, sono gli obiettivi di tutti e dimostrano la grandezza, l’universalità e l’ambizione di questa nuova Agenda.” Non sono mancate altre letture positive seguite all’accordo. In particolare, vengono evidenziati alcuni punti di forza fra cui, in primo luogo, oltre all’ampiezza del meccanismo di consultazione adottato, il rapporto con l’esperienza degli MDG e il carattere universalistico dell’impegno cui la comunità internazionale è chiamata a partecipare. La generale valutazione positiva dello strumento degli MDG mette in risalto la loro funzione di punto di riferimento per le politiche e i programmi di lotta alla povertà di governi e istituzioni internazionali, nonché per il loro monitoraggio da parte della società civile. La scadenza quindicennale ha rappresentato un’occasione per fondare una nuova fase di impegno su alcuni degli elementi positivi dell’esperienza partita nel 2000, e fra tutti la strutturazione in obiettivi precisi e definiti, che dovranno essere dotati di indicatori per la misurazione degli impegni, dei progressi e dei risultati. Allo stesso tempo, si è detto e scritto, il rinnovo dell’iniziativa da parte della comunità internazionale può permettere di affrontare oggi alcune delle debolezze affiorate nel corso degli ultimi anni. In primo luogo, il dibattito preparatorio ha evidenziato una generale volontà di espandere il profilo dell’agenda, superando la più volte richiamata eccessiva ristrettezza tematica degli MDG che mancavano di un chiaro riferimento alle cause della povertà e alla natura multidimensionale dello sviluppo. Ulteriori lacune, strettamente legate alle criticità appena citate, sono la marginalità riservata alla questione della disuguaglianza di genere, l’assenza di obiettivi riguardanti i

17Redazione (2015), “The 169 commandments. The proposed sustainable development goals would be worse than useless”, e “Global economic development. Unsustainable goals: 2015 will be a big year for global governance. Perhaps too big”, The Economist, 28 marzo. 18 M. F. Bellemare (2015), “Development Bloat. How Mission Creep Harms the Poor”, Foreign Affairs, 5 gennaio.

21 FOCUS TEMATICI diritti umani e la poca chiarezza in materia di sviluppo economico, punti che insieme a molti altri hanno trovato spazio nella molto più ampia articolazione raggiunta con l’Agenda post-2015. Altro tema di discussione è il tipo di coinvolgimento da parte dei paesi membri. Sebbene gli MDG fossero validi in linea di principio per tutti i paesi firmatari, erano normalmente trattati quali obiettivi da raggiungere da parte dei PVS attraverso il finanziamento dei donatori. Gli SDG, al contrario, grazie soprattutto alla forte espansione tematica e alla centralità della questione della sostenibilità globale dello sviluppo, coinvolgono in maniera paritaria e interdipendente l’intera comunità internazionale, mutando, almeno nelle intenzioni, il profilo dell’azione internazionale per lo sviluppo che per oltre mezzo secolo ha seguito la logica donatore-beneficiario, in modo da riflettere i nuovi equilibri mondiali. Sempre in questa prospettiva, il partenariato globale rilanciato dal processo post-2015 pone le basi per una integrazione effettiva del concetto di interdipendenza nelle pratiche di cooperazione internazionale. Allo stesso modo, il profilo multi-stakeholder che ha improntato la fase preparatoria richiama la volontà di individuare modalità efficaci di mobilitare i diversi segmenti della società internazionale sugli obiettivi comuni, a cominciare dalla necessità di un coinvolgimento maggiore e diretto del settore privato nelle sfide dello sviluppo. Un ulteriore elemento di forza degli SDG che viene approfondito riguarda il monitoraggio del processo di realizzazione dell’Agenda. Il riconoscimento della necessità di elevare la qualità del reporting è testimoniato dalla presenza di una parte consistente del testo di accordo che tratta precisamente dell’architettura della funzione di follow-up and review. Per quanto riguarda la struttura degli Obiettivi, l’allargamento dell’orizzonte tematico soddisfa – secondo le dichiarazioni ufficiali di governi e organizzazioni delle Nazioni Unite - molte delle specifiche esigenze emerse durante la fase preparatoria, avendo fra i risultati anche l’inclusione di molti elementi della riflessione sugli ostacoli allo sviluppo, fra cui la disuguaglianza, i modelli insostenibili di produzione e consumo, l’inadeguatezza delle infrastrutture e della circolazione dell’innovazione tecnologica e la carenza di opportunità di impiego pieno a condizioni dignitose. La dimensione ambientale assume un ruolo decisivo grazie alla presenza, tra l’altro, di specifici Obiettivi su cambiamento climatico, risorse oceaniche e marine, ecosistemi e biodiversità. L’accoglienza al testo da parte degli stati membri riflette le posizioni che sono andate via via delineandosi nel corso del negoziato (vedi tabella in Appendice). Molte delle dichiarazioni (fra cui, nello specifico, quelle di Stati Uniti, India e Svizzera) hanno sottolineato la grande rilevanza del processo e dell’accordo raggiunto che rilancia l’azione multilaterale.

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Uno dei gruppi più importanti al tavolo è stato quello dei cosiddetti G7719 + Cina, che è stato rappresentato nell’incontro finale dal Sudafrica. Nella dichiarazione a commento del testo approvato, il delegato sudafricano ha sottolineato l’importanza del riconoscimento dello sradicamento della povertà in tutte le sue forme quale maggiore sfida e principale presupposto per lo sviluppo sostenibile, concetto che è stato successivamente ribadito anche dal rappresentante indiano. A nome dei 48 paesi meno avanzati (the Least developed countries, LDC), il Benin ha espresso grande soddisfazione per l’esito del negoziato auspicando il mantenimento della forma definitiva del documento, mentre le Maldive, in rappresentanza di 39 paesi insulari (Alliance of Small Island States, AOSIS), ha subordinato l’approvazione ad un accordo su alcune modifiche al testo relativo all’Obiettivo 13 sui cambiamenti climatici. Dai paesi africani - sia come gruppo regionale sia a livello di alcuni stati, come nel caso della Nigeria - sono venuti apprezzamenti per il valore conferito all’ownership, alle priorità, alla legislazione e al contesto culturale nazionali. Dalla Nigeria, affiancata dall’Iran, sono venute tuttavia anche puntualizzazioni sull’importanza dell’attenzione ai valori religiosi nazionali e sui limiti del mandato nell’Agenda relativo a orientamento sessuale, identità di genere e diritto all’aborto (l’ambito dei diritti umani, quello dei Sexual and reproductive health and rights o SRHR, su cui si sono registrate maggiori contrapposizioni e resistenze in seno ai processi negoziali). Anche dall’America latina sono giunte note di apprezzamento, in particolare da Messico e Colombia, che apprezzano il cambiamento di paradigma dello sviluppo che si sposta dalla crescita delle imprese al benessere sostenibile di tutti gli individui. Considerazioni puntuali sull’impegno a fornire le risorse finanziarie necessarie all’azione sono state proposte dall’UE, che ha raccolto numerose manifestazioni di consenso dalla platea in diversi passaggi, fra cui la riaffermazione della volontà di fornire un contributo rilevante. Il rappresentante indiano ha sottolineato la soddisfazione per la riaffermazione delle Responsabilità Comuni ma Differenziate e il mantenimento dell’intero impianto di SDG sviluppato dall’OWG nel 2014. Nelle dichiarazioni sembra essere, quindi, superata la posizione espressa soprattutto dal Regno Unito negli interventi del primo ministro Cameron20, circa

19 Il Gruppo dei 77 è la maggiore organizzazione intergovernativa dei paesi in via di sviluppo in seno alle Nazioni Unite, ed ha lo scopo di fornire ai paesi del Sud i mezzi per articolare e promuovere i propri interessi economici collettivi e aumentare la loro capacità negoziale comune su tutte le principali questioni economiche internazionali. Il G77 promuove inoltre la cooperazione Sud-Sud per lo sviluppo. (N.d.R.) 20 http://www.theguardian.com/global-development/2014/sep/24/un-begins-talks-sdgs-battle-looms-over- goals.

23 FOCUS TEMATICI l’opportunità di snellire il numero di Obiettivi per rendere l’intero impianto più incisivo dal punto di vista comunicativo. Anche la società civile internazionale sembra aver accolto positivamente l’accordo. Nelle parole di Leo Williams, coordinatore della Campagna Beyond 2015, l’investimento notevole di risorse da parte della comunità internazionale guidata dalle strutture messe in campo dalle Nazioni Unite ha dato frutti importanti21. Viene in questo caso salutato con favore l’elevato livello di ambizione e il chiaro impegno verso l’approccio universalistico e integrato, i passi avanti per realizzare inclusione e partecipazione senza esclusione alcuna anche nelle fasi di realizzazione e follow-up, e il deciso focus sul tema dell’uguaglianza di genere. Anche l’accento sui temi ambientali presente nella Dichiarazione è considerato un elemento positivo e viene accolto favorevolmente il riferimento all’aumento della temperatura media globale di 2/1,5 °C quale ostacolo allo sviluppo sostenibile nel paragrafo 31. La Campagna Beyond 2015 auspica, però, l’inserimento anche i riferimenti alla non discriminazione e alla necessità di promuovere politiche indirizzate alla redistribuzione. Si pone, inoltre, la scottante questione della concretizzazione degli impegni, iniziando dalla richiesta rivolta ai governi di fornire risposte a livello nazionale non oltre il 2018, fissando baseline e benchmark per ognuno dei target. Gli stessi governi sono incoraggiati a programmare valutazioni regolari dei progressi con cadenza almeno quadriennale, includendo l’importante livello subnazionale nella rilevazione e analisi dei dati. Le dichiarazioni a caldo da parte di altri esponenti delle maggiori organizzazioni della società civile sono notevolmente allineate sui principali punti menzionati22. Jens Martens, direttore del Global Policy Forum di Bonn, esprime soddisfazione con toni simili a quelli usati da Beyond 2015 per un’agenda ambiziosa, che affronta le crescenti disuguaglianze fra paesi e comunità e si propone di eliminare la povertà in tutte le sue forme. Meno entusiasmo viene riservato alla parte del testo finale che tratta dei MoI. Secondo la sua lettura, che trova riscontro in altre dichiarazioni di esponenti della società civile internazionale, la realizzazione degli SDG avrà bisogno di cambiamenti sostanziali che interessino le politiche fiscali e la governance finanziaria globale. Parole simili sono contenute nel corposo European Development Report pubblicato a maggio da alcuni think tank europei – l’inglese ODI (Overseas Development Institute), l’olandese ECDPM (European Centre for Development

21 Leo Williams (2015), Beyond 2015 and ‘Transforming Our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development’ Submitted on Tue, 08/11/2015 - 11:04, http://www.beyond2015.org. 22DeenT. (2015), U.N. Targets Trillions of Dollars to Implement Sustainable Development Agenda, Inter Press Service, http://www.ipsnews.net/

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Policy Management), il tedesco GDI (German Development Institute), l’Università di Atene e il Southern Voice Network. Il rapporto dichiarava esplicitamente che gli SDG richiederanno un incremento significativo di risorse finanziarie, ben al di là dell’Aiuto pubblico allo sviluppo, e tali risorse aggiuntive a loro volta richiederanno quadri istituzionali e di politiche ben diversi dal passato a livello locale, nazionale e globale. Si sottolinea, perciò, il nesso che associa gli SDG ad una diversa finanza e questa a nuove ed efficaci politiche, tre componenti che insieme possono concorrere a realizzare un’agenda realmente universale e di trasformazione profonda23. Bhumika Muchhala, del Third World Network, definisce il testo, invece, vago e nota come non siano presenti accenni a impegni precisi in termini di risorse aggiuntive internazionali, mentre sembra si faccia molto affidamento sull’apporto del settore privato e sulla mobilitazione delle risorse interne ai PVS. Anche rispetto al preconizzato partenariato multi-stakeholder, Muchhala sottolinea l’assenza di questioni quali quelle della trasparenza e dell’accountability o delle valutazioni e monitoraggi da parte di terze parti indipendenti. Anche i numerosi passi avanti sui temi della disparità di genere hanno riscosso consensi da parte della società civile. La International Women’s Health Coalition considera la bozza un rilevante segnale dell’intenzione di operare un significativo cambiamento e riafferma la necessità di mantenere alta l’attenzione perché i governi nazionali lavorino per mantenere gli impegni. Deon Nel, direttore esecutivo per la Conservation del WWF, ha usato parole del genere, esprimendo soddisfazione per la svolta ambientalista che stabilisce un percorso comune per persone, pianeta e prosperità e sposta l’attenzione sul piano nazionale per il raggiungimento di risultati concreti. 5. Il finanziamento dello sviluppo sostenibile: i nodi irrisolti della Conferenza di Addis Abeba La concretizzazione degli impegni indicati dagli SDG poggia, in primo luogo, sulla capacità dei paesi e della comunità internazionale di attuare quella che viene giudicata la più grande mobilitazione di risorse per lo sviluppo. Due mesi prima del summit di New York, e in relazione diretta con l’agenda degli SDG, si è tenuta ad Addis Abeba dal 13 al 16 luglio 2015 la Terza Conferenza delle Nazioni Unite sulla Finanza per lo Sviluppo, che ha affrontato il tema specifico e approvato la Addis Ababa Action Agenda (AAAA), con risultati giudicati però insufficienti da molti stakeholder.

23 ODI, ECDPM, GDI, Università di Atene, Southern Voice Network (2015), 2015 European Report on Development: Combining finance and policies to implement a transformative post-2015 development agenda, Commissione Europea, Bruxelles.

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Il Segretario Generale Ban Ki-moon ha detto di considerare l’Agenda di Addis Abeba un importante “passo avanti” per costruire un mondo di prosperità e dignità per tutti: parole che sono state da molti interpretate come il riconoscimento della necessità di fare ulteriori progressi sulle questioni rimaste irrisolte.Allo stesso modo, la sua Consulente Speciale per il processo post 2015, Amina J. Mohammed, riconoscendo la delusione suscitata dal documento finale, ha chiesto alla società civile di mantenere la speranza perché convinta che le strade su tutti i temi di interesse siano comunque state aperte24. L’Action Agenda è un documento di 31 pagine articolato in 134 punti suddivisi in due parti principali. La prima parte stabilisce il quadro globale per il finanziamento dello sviluppo post-2015, mentre la seconda parte è dedicata alle Aree di Azione che comprendono le risorse pubbliche nazionali, le imprese e il settore privato finanziario nazionale e internazionale, la cooperazione internazionale allo sviluppo, il commercio internazionale come motore dello sviluppo, la sostenibilità del debito, le questioni sistemiche, l’innovazione scientifica e tecnologica e del capacity building, la raccolta e il monitoraggio dei dati e il follow-up. L’accordo definisce il fabbisogno finanziario per raggiungere gli Obiettivi della nuova agenda quantificandolo nell’ordine di alcune migliaia di miliardi di dollari l’anno e indica la possibilità concreta di raggiungere tale somma in ragione del risparmio pubblico e privato, a condizione che “le risorse finanziarie siano investite e allineate conformemente alle aree prioritarie definite dall’Agenda di sviluppo”. A questo scopo, l’Action Agenda predispone: 1. una cornice globale per il finanziamento dello sviluppo sostenibile, che allinea tutti i flussi di risorse e le politiche, pubbliche e private, nazionali e internazionali, con le priorità economiche, sociali e ambientali; 2. un set di politiche per gli stati membri, con un pacchetto di oltre cento misure concrete per attingere alle possibili fonti di risorse finanziarie, tecnologiche, per l’innovazione, il commercio e la rilevazione di dati per sostenere la mobilitazione dei mezzi per una trasformazione globale verso lo sviluppo sostenibile25. L’accordo indica gli impegni, gli strumenti e gli obiettivi che incoraggiano i paesi a definire i propri target e le scadenze nazionali per accrescere le entrate, utilizzare il sostegno internazionale, rafforzare la cooperazione fiscale internazionale e la lotta ai flussi illeciti e velocizzare il rientro dei capitali.

24Anyangwe E. (2015), Glee, relief and regret: Addis Ababa outcome receives mixed reception, The Guardian, http://www.theguardian.com. 25UNDESA (2015), Financing sustainable development and developing sustainable finance. A DESA Briefing Note On The Addis Ababa Action Agenda, New York.

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Inoltre, il testo impegna alla trasparenza e all’attenzione alle questioni di genere nei bilanci e negli acquisti della Pubblica Amministrazione (il cosiddetto public procurement), all’uso razionale dei sussidi per i combustibili fossili e invita le banche nazionali di sviluppo a intraprendere gli investimenti necessari per lo sviluppo sostenibile. Relativamente al settore privato, l’AAAA incoraggia un modello di business che tenga conto degli impatti sociali, ambientali e sulla governance, che integri funzioni di reporting e favorisca l’impact investing26. I partecipanti sono impegnati a sostenere lo sviluppo dei mercati locali di capitali, a ridurre i costi dei trasferimenti di rimesse sotto il 3% e ad assicurare che entro il 2030 non esistano corridoi di trasferimento con costi superiori al 5%. Si sono inoltre impegnati a favorire l’inclusione finanziaria come obiettivo di policy nella legislazione, a sviluppare i quadri regolamentari per allineare gli incentivi al settore privato con gli obiettivi pubblici. Le fondazioni private sono incoraggiate a utilizzare attivamente i propri fondi per investimenti nello sviluppo sostenibile. Fra le principali nuove iniziative l’accordo prevede il Technology Facilitation Mechanism (di cui si è già detto) per incrementare la collaborazione fra governi, comunità scientifica, imprese e società civile, un Global Infrastructure Forum per identificare e affrontare le sfide del gap infrastrutturale ed evidenziare le opportunità di investimento e cooperazione, per assicurare che i progetti siano sostenibili dal punto di vista economico, sociale e ambientale. I paesi partecipanti hanno, inoltre, adottato un nuovo social compact in favore dei poveri e dei gruppi vulnerabili che prevede la realizzazione di sistemi di protezione sociale; hanno stabilito di considerare l’adozione di misure fiscali per scoraggiare il consumo di sostanze nocive, fra cui in primo luogo il tabacco, di promuovere l’accesso al credito per le piccole imprese, di sviluppare e rendere operativa una strategia globale per l’occupazione giovanile, di implementare l’International Labour Organization Global Jobs Pact entro il 2020. L’accordo rinnova l’impegno dei paesi sviluppati a destinare lo 0.7% del Reddito nazionale lordo all’aiuto pubblico allo sviluppo e una quota fra lo 0,15% e lo 0,20% ai Paesi meno avanzati (PMA). Gli stessi paesi hanno anche stabilito di

26Termine coniato nel 2008 da JP Morgan e Rockefeller Foundation per definire una nuova classe di investimenti in grado di generare impatto come parte intrinseca dell’investimento, misurare le ricadute in termini di esternalità sulla comunità di riferimento e valorizzare il ritorno economico almeno pari al capitale investito. Si tratta, cioè, di investimenti che generano nuovo valore per le comunità territoriali, producendo alto impatto sociale, ambientale e occupazionale. Come esempi pratici, si citano gli Smart system (cioè progetti che consentono di rendere intelligente il funzionamento degli edifici pubblici), lo sviluppo di nuove strumentazioni tecnologiche, sistemi di filtraggio e conservazione dell’acqua, sistemi di riciclo e trasformazione dei rifiuti, sviluppo e conservazione delle energie rinnovabili,sistemi di formazione a distanza. Oggetto di particolare attenzione e discussione in proposito è la definizione di metodi di misurazione dell’impatto degli investimenti: un esempio concreto è rappresentato dal catalogo IRIS gestito dal Global Impact Investing Network, o GIIN (si veda: https://iris.thegiin.org/).

27 FOCUS TEMATICI rafforzare le misure per promuovere gli investimenti nei paesi meno avanzati e di rendere operativa entro il 2017 la Technology Bank per i PMA. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, l’Action Agenda chiama i paesi sviluppati a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 da diverse fonti per affrontare i bisogni di risorse dei PVS. Sul tema della cooperazione fiscale, l’AAAA prevede un maggiore supporto all’UN Committee of Experts on International Cooperation in Tax Matters per migliorarne la capacità operativa e l’efficacia; e verrà aumentato l’impegno dell’Economic and Social Council (ECOSOC) attraverso gli Special Meeting on International Cooperation on Tax Matters. Come già accennato, l’accordo è stato giudicato deludente da molti stakeholder fra cui numerose organizzazioni della società civile. Nelle reazioni immediate, alcune ONG internazionali hanno riconosciuto che l’AAAA rappresenta comunque un passo avanti, mentre altre organizzazioni hanno criticato aspramente il documento stigmatizzando la vaghezza di alcuni impegni e valutando negativamente alcuni punti importanti27.La presenza nel testo di molti “incoraggiamenti” a realizzare le azioni viene interpretata come mancanza di vera volontà di impegnarsi per il cambiamento, evitando un intervento concreto e vincolante su tante questioni scottanti28. L’Addis Ababa CSO FfD Forum considera il documento quasi completamente privo di actionable deliverables e ritiene che mini gli accordi sottoscritti con il Monterrey Consensus e la Doha Declaration in occasione delle due precedenti conferenze sul tema29. Il tema probabilmente più scottante rimane quello della cooperazione internazionale in materia fiscale e di contrasto ai flussi illeciti di capitale. Il risultato finale è giudicato molto negativamente dalla società civile che ha più volte accusato alcuni paesi avanzati, fra cui Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, di ostacolare la svolta necessaria in questo campo, identificata nell’istituzione di un’agenzia internazionale dedicata30. L’idea dell’istituzione di un nuovo organismo è stata fortemente perorata soprattutto dalla società civile e dai PVS, in primis il G77; si puntava a un’agenzia intergovernativa, trasparente e sufficientemente dotata di risorse, sotto l’egida delle Nazioni Unite e partecipata da tutti gli stati membri per guidare le decisioni in tema di cooperazione fiscale

27Anyangwe E. (2015), Glee, relief and regret: Addis Ababa outcome receives mixed reception, Thursday 16 July 2015 13.25; Ní Chonghaile C. (2015), Addis Ababa outcome: milestone or millstone for the world's poor?, Thursday 16 July 2015 11.19, http://www.theguardian.com. 28Adams B., Luchsinger G. (2015), An Action Plan Without Much Action, Global Policy Watch, www.globalpolicywatch.org. 29 Addis Ababa CSO FfD Forum (2015), Third FfD Failing to Finance Development. Civil Society Response to the Addis Ababa Action Agenda on Financing for Development, Addis Ababa, 16 July 2015, https://csoforffd.wordpress.com. 30Inman P. (2015), Rich countries accused of foiling effort to give poorer nations a voice on tax, http://www.theguardian.com.

28 FOCUS TEMATICI internazionale. Alcuni paesi avanzati, come ad esempio la Svezia e i Paesi Bassi31, hanno appoggiato la posizione favorevole alla riforma dei meccanismi attualmente attivi, senza tuttavia arrivare ad avallare la richiesta di una nuova agenzia. I fautori della proposta ricordano soprattutto le stime sull’ammontare di risorse sottratte ai bilanci pubblici dei PVS, che sono quantificate nell’ordine di mille miliardi di dollari l’anno, molto di più di quanto ricevano in aiuto pubblico. Il fatto che attualmente gli standard inerenti la cooperazione internazionale sui temi fiscali siano stabiliti in consessi - come l’OCSE - che escludono la gran parte dei paesi è ritenuto uno degli ostacoli principali alla soluzione dei problemi dell’elusione fiscale internazionale e del traffico illegale di capitali. A definire il quadro complessivo di sistema, occorre aggiungere le valutazioni sulla portata degli scambi intra-impresa che coinvolgono le aziende multinazionali e che si stima coprano più della metà dell’intero commercio globale32. Sul tappeto ci sono questioni fondamentali per la mobilitazione delle risorse interne, su cui la stessa AAAA fa affidamento per colmare il gap di fondi necessari a finanziare l’Agenda post-2015. Fra queste, la possibilità di obbligare le aziende multinazionali a dichiarare pubblicamente l’ammontare e la destinazione delle tasse effettivamente pagate, nonché la fissazione di regole per definire dove le stesse multinazionali siano tenute a versare le imposte. Il regime attuale prevede sostanzialmente che ciò accada nel paese dove ha sede il quartier generale dell’impresa, mentre i PVS sono favorevoli a spostare il luogo di tassazione nei paesi dove si svolgono la maggior parte delle attività. Il fatto che la questione non venga affrontata in modo decisivo viene considerato dai responsabili delle maggiori campagne sul tema un’aperta violazione degli impegni presi a Monterrey, che stabilivano il principio della ricerca della good governance a tutti i livelli. Viene anche fatto notare come l’AAAA insista sulla necessità di modernizzare i sistemi fiscali nei PVS per la mobilitazione del risparmio interno, con interventi nel campo della formalizzazione e dell’uscita dall’illegalità dei milioni di piccole e micro imprese che sostengono l’economia sommersa delle fasce più povere, senza però una valutazione seria della portata effettiva dei flussi finanziari ricavabili da questo tipo di iniziative e della sproporzione rispetto alle somme che vengono sottratte a molti paesi per effetto delle attuali regole che permettono l’elusione fiscale e il traffico illegale di capitali verso i paradisi fiscali33.

31Government of Netherland (2015), Government stepping up support to developing countries on tax issues, News item 22-06-2015, http://www.government.nl. 32 The Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation (2015), Declaration, www.icrict.org. 33Adams B., Luchsinger G. (2015).

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Un altro tema molto controverso rimane quello della partecipazione dei privati, su cui si concentrano posizioni molto critiche34 che giudicano l’accordo incapace di assicurare l’accountability del settore privato sulla base degli accordi internazionali sui diritti umani, sui diritti dei lavoratori e sugli standard ambientali, anche in ragione dell’eliminazione della parte di bozza di accordo che richiedeva alle imprese di garantire la trasparenza del proprio operato di fronte all’autorità pubblica e alle popolazioni. Il tema specifico delle Public Private Partnership(PPP) ha sollevato il dibattito anche all’interno della società civile35. Inoltre, rimane aperta la polemica sull’opportunità di aprire alle imprese anche multinazionali quali protagonisti dello sviluppo, nella speranza di ottenere risposte positive agli “incoraggiamenti” perché le allocazioni di investimenti si indirizzino verso progetti sostenibili. Le voci critiche sottolineano come la l’AAAA chieda ai governi di allineare gli incentivi alle imprese agli obiettivi di sostenibilità, mentre tralasci la necessità di introdurre anche vincoli normativi alle imprese per orientarne l’azione verso l’inclusione sociale, il rispetto dei diritti umani e delle risorse ambientali. Anche la richiesta di maggiore trasparenza per le fondazioni filantropiche è guardata con favore, ma viene notato come quelle fondazioni siano spesso alimentate da imprese che fanno largo uso di sistemi di elusione fiscale, sottraendo risorse alle finanze pubbliche che potrebbero essere usate per lo sviluppo sostenibile, spesso in quantità maggiore rispetto a quanto investito dalle fondazioni. Le puntualizzazioni negative espresse dalla società civile hanno toccato anche altri temi rilevanti dell’Agenda. In alcuni casi, la critica si appunta sull’approccio stesso con cui l’AAAA affronta le singole questioni. È il caso, ad esempio, dell’uguaglianza di genere, il cui inserimento nell’Agenda viene giudicato incapace di arrestare la strumentalizzazione delle donne, visto che si stabilisce che il riconoscimento dei diritti possa essere funzionale allo sviluppo, piuttosto che riconoscerne il valore in sé. Ma la gran parte dei punti critici riguarda la scarsa incisività del testo su questioni controverse, dove prevale la necessità di un compromesso con gli attori che frenano e, di fatto, lavorano per mantenere lo status quo. Un altro elemento rimasto sul tappeto è quello del rilancio dell’azione della cooperazione internazionale allo sviluppo, che soffre in primo luogo della mancata attuazione da parte di donatori degli impegni presi rispetto all’erogazione dei fondi. A fronte di un’evidente latitanza sulla questione del raggiungimento

34Eurodad (2015), Press Statement on the Addis Ababa FfD outcome, www.eurodad.org; Terlecki S. (2015), Addis Ababa: 'New Flower' of an Ambitious and Comprehensive Financing Framework?, 17 July 2015, CONCORD, www.concord.org. 35 Romero M.J. (2015), What lies beneath? A critical assessment of PPPs and their impact on sustainable development, Eurodad, www.eurodad.org; Buckley J. Sekidde S. (2015), Understanding private health care in Somalia, Oxford Policy Management, http://www.opml.co.uk.

30 FOCUS TEMATICI della quota di 0,7% del Reddito nazionale lordo da destinare all’aiuto, viene criticata la scelta di non ribadire in maniera incisiva questo impegno, spostando tutta l’attenzione e le speranze di concretizzare l’Agenda sulla mobilitazione di altri flussi come quelli dal settore privato o quelli del risparmio pubblico e privato nei PVS. Allo stesso modo, si rimprovera alla Conferenza di Addis Abeba di non aver affrontato in maniera incisiva il tema della coerenza dei regimi internazionali relativi al commercio con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile post-2015. Fra gli argomenti assenti nella AAAA e sollevati dalle voci più critiche: la necessità di sottoporre gli accordi commerciali a valutazioni di sostenibilità e di rispetto dei diritti umani, di operare per ridurre la dipendenza dall’esportazione di materie prime e di eliminare le clausole per la composizione dei contenziosi fra imprese internazionali e governi, di rendere i regimi commerciali coerenti con la volontà più volte espressa di favorire modelli di industrializzazione inclusivi e basati sullo sviluppo della piccola impresa. In altri casi si propone di approfondire alcuni elementi non sufficientemente sviluppati, come per quanto riguarda le misure di riduzione del debito sovrano che non dovrebbero solo tener conto, secondo le indicazioni sviluppate in ambito ONU, del principio di sostenibilità finanziaria, ma essere anche utilizzate come riconoscimento dell’impegno di un governo per la difesa dei diritti umani. Nel caso dell’istituzione del Technology Facilitation Mechanism, si ricorda come la tecnologia non sia neutrale e come nel trasferimento tecnologico sia pertanto importante considerarne con attenzione il ruolo per sviluppare i potenziali specifici dei PVS, con la partecipazione fattiva delle comunità locali e di tutti gli attori, fra cui in primo luogo le donne. Anche dal punto di vista del richiamo alla trasparenza e alla accountability nel follow-up dell’AAAA, che pure viene giudicata positivamente, si nota la carenza di impegni altrettanto concreti per i governi e gli altri attori che l’Agenda chiama ad essere protagonisti della mobilitazione di risorse e che non sono sottoposti a nessuna richiesta di rendere pubbliche e accessibili in tempi certi le informazioni sulla propria partecipazione al finanziamento dello sviluppo sostenibile.

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FOCUS TEMATICI

L’ATTIVITÀ DEL COMITATO PERMANENTE SULL’AGENDA POST 2015. COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO E PARTENARIATO PUBBLICO-PRIVATO (A CURA DEL SERVIZIO STUDI DELLA CAMERA)

All'inizio della XVII legislatura è stato costituito, in seno alla Commissione Affari esteri della Camera, il Comitato Agenda post-2015, cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato, presieduto dall'onorevole Maria Edera Spadoni. Anche sulla base dell'esperienza maturata dal Comitato per gli Obiettivi del Millennio costituito nella precedente legislatura, il Comitato ha deciso un programma di lavoro comprendente lo svolgimento di audizioni di rappresentanti del mondo del volontariato e delle ONG, per acquisire elementi sul dibattito internazionale riguardante la costruzione di un'agenda per lo sviluppo per gli anni successivi al 2015 (v. seduta del 23 luglio 2013). Il lavoro del Comitato è stato inaugurato dall'audizione del viceministro degli affari esteri, Lapo Pistelli (seduta del 1° agosto 2013) che ha tra l'altro toccato il tema della riflessione che sta coinvolgendo la comunità internazionale a proposito della necessità di far convergere i due filoni che riconducono il tema dello sviluppo, rispettivamente, ai sustainable development goals (SDGs, proposti nella Conferenza Rio+20) da un lato, e agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, dall'altro. Nella seduta del 13 febbraio 2014) il Comitato Agenda post-2015 ha esaminato la Relazione annuale al Parlamento sull'attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo nel 2012 (Doc. LV) e la Relazione predisposta dal Ministero dell'economia e delle finanze sull'attività di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale e sulla partecipazione italiana alle risorse di detti organismi per l'anno 2012 (Doc. LV, n.bis). Il (17 ottobre 2013) è stato sentito il Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo presso il Ministero degli affari esteri, Giampaolo Cantini che ha innanzitutto ricordato come il tema principale scelto dal Presidente dell'Assemblea generale dell'Onu per la 68° sessione (inaugurata nel settembre 2013) fosse il conseguimento degli obiettivi del millennio entro il 2015 e l'avvio del processo negoziale per la definizione della nuova Agenda per lo sviluppo. Cantini ha poi riferito del dibatto internazionale sull'Agenda post-2015, nel quale emergeva l'esigenza di riprendere gli obiettivi attuali, ma anche di dare un risalto adeguato alle condizioni di pace e sicurezza, ai temi della governance e del rule of law come componenti fondamentali per le strategie di sviluppo, nonché ai temi di gender. Riguardo la cooperazione allo sviluppo, Cantini ha dato conto delle risorse disponibili) e delle numerose grandi scadenze a livello internazionale

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nelle quali la cooperazione italiana è impegnata, tra le quali l'Expo 2015 e la II Conferenza mondiale sulla nutrizione del prossimo novembre. Il 17 settembre 2014 il Comitato ha svolto l'audizione del viceministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, On. Lapo Pistelli, all'esito dell'approvazione della nuova normativa sulla cooperazione italiana allo sviluppo, approvata dal Parlamento con la legge 11 agosto 2014, n. 125: l'audizione del viceministro Pistelli ha avuto l'obiettivo precipuo di focalizzare l'attenzione sugli strumenti di attuazione della nuova normativa - si ricorda al proposito che la precedente legge, la legge 49 del 1987, rimane in vigore fino a una data collegata alla approvazione del regolamento attuativo della nuova disciplina. Tre mesi dopo, il 17 dicembre 2014, il Comitato ha nuovamente ascoltato il Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, Ministro Giampaolo Cantini, anche in questo caso nel quadro della nuova normativa nazionale incardinata con la citata legge 125 del 2014. Nella seduta del 17 marzo 2015, poi, il Comitato permanente ha proceduto all'audizione del funzionario preposto all'Unità tecnica centrale di supporto alla Direzione generale cooperazione e sviluppo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, il Ministro plenipotenziario Francesco Paolo Venier, in ordine alle attività dell'Unità tecnica suddetta nel più ampio quadro dell'attuazione della legge che ha profondamente innovato la disciplina italiana sulla cooperazione allo sviluppo, vale a dire la legge n. 125 del 2014. Il Comitato ha inoltre svolto una serie di audizioni informali. Sono stati finora ascoltati rappresentanti di Action Aid, di Save the children Italia, della Fondazione Pangea e dell'Iniziativa Ara Pacis (5 novembre 2013), il Presidente di Green Cross Italia, Elio Pacilio (14 novembre 2013), il Presidente di Unicef Italia, Giacomo Guerrera (19 novembre 2013), Padre Zanotelli, direttore di Nigrizia (17 dicembre 2013), il dottor Giovanni Putoto, responsabile per la programmazione della ONG Medici per l'Africa-CUAMM (6 maggio 2014). Il 16 giugno 2015, nell'ambito dell'esame dello schema di decreto ministeriale riguardante lo "Statuto dell'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo" (Atto n. 175) si è svolta l'audizione di rappresentanti di associazioni di coordinamento di organizzazioni non governative operanti nel settore della cooperazione allo sviluppo

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LA COOPERAZIONE PARLAMENTARE IN AMBITO ONU (A CURA DEL SERVIZIO RAPPORTI INTERNAZIONALI DELLA CAMERA)

XVII LEGISLATURA

Il 12 maggio 2009 l’Italia ha presentato la propria candidatura al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2017-2018. Le elezioni si terranno nell'autunno 2016. Attualmente sono candidati, per i due posti a disposizione del nostro gruppo regionale, anche Paesi Bassi e Svezia.

1. INCONTRI In occasione della quarta Conferenza mondiale dei Presidenti dell'Unione interparlamentare, svoltasi a presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 31 agosto al 2 settembre 2015, la Presidente Boldrini ha incontrato con il Vice Segretario generale delle Nazioni Unite Jan Kenneth Eliasson. Il 20 novembre 2014, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha partecipato alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione in svolgimento presso la FAO dal 19 al 21 novembre 2014. Il 17 novembre 2014 la Vice Presidente della Camera, Marina Sereni, ha incontrato presso la sede delle Nazioni Unite a New York (a latere della seconda riunione del Comitato preparatorio della IV Conferenza UIP dei Presidenti di Parlamento, cui ha partecipato in rappresentanza della Presidente Laura Boldrini) il Sottosegretario Generale per le operazioni di mantenimento della pace, Hervé Ladsous, e il 18 novembre il Vice Segretario Generale per i diritti umani, Ivan Simonovic. L’11 novembre 2014, la Presidente Boldrini ha partecipato con un proprio intervento alla riunione del Consiglio di Amministrazione Programma Alimentare Mondiale. Il 9 ottobre 2014 la Presidente Boldrini è intervenuta al Convegno "Le crisi a Gaza e in Siria: l'impatto umano. La prospettiva dell'UNRWA (Agenzia dell'ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi) e degli operatori dell'informazione". Il 29 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Direttore Esecutivo dell’UNICEF, Anthony Lake.

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Il 22 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, sig.ra Sheila B. Keetharuth. La Presidente Boldrini, nel corso della sua visita ufficiale negli Stati Uniti d'America dal 20 al 23 maggio 2014, si è recata in visita, il 22 maggio, presso le Nazioni Unite, dove ha incontrato funzionari italiani consegnando due onorificenze OMRI. Il 14 novembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale dell'ONU sulla violenza sessuale nei conflitti, Zeinab Hawa Bangura. Il 24 ottobre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini ha partecipato al Convegno "Un importante attore per la stabilità della regione", con il Commissario generale dell'Agenzia ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi (UNRWA), Filippo Grandi. Il 18 settembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tratta, Joy Ngozi Ezeilo. La Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha ricevuto il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il 9 aprile 2013

Ban Ki-moon. Il Segretario generale ha voluto innanzitutto congratularsi con la Presidente Boldrini, funzionaria di lungo corso delle Nazioni Unite fino alla sua recente elezione alla Camera dei deputati. Il Segretario generale ha poi sottolineato il ruolo fondamentale svolto, nei paesi democratici, dalle assemblee parlamentari, espressione della volontà popolare. Tra i temi sollevati da Ban Ki-moon, lo sviluppo sostenibile, il cambiamento climatico e gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La Presidente Boldrini ed il Segretario generale hanno poi discusso della crisi in Mali e del conflitto in Siria.

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2. LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE SESSIONI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE (UNGA)

La delegazione parlamentare italiana alle sessioni dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite L'Assemblea generale delle Nazioni Unite è la principale sede di decisione e l'organo più rappresentativo, composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. La sessione annuale ordinaria dell'Assemblea inizia il terzo martedì di settembre e prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre e vi partecipano, invitate, in qualità di osservatori, delegazioni parlamentari degli Stati membri. Nelle precedenti legislature, una delegazione parlamentare di componenti della Commissione Affari esteri si è recata a New York per ciascuna delle sessioni annuali, in concomitanza con la settimana ministeriale Nella XVII legislatura la Camera dei deputati ha partecipato con una propria delegazione alle seguenti sessioni: • 69ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 26 settembre 2014): la delegazione era composta dai deputati Fabrizio Cicchitto (NCD-UDC) Presidente della Commissione Affari esteri, Alessandro Di Battista (M5S), Vice Presidente della Commissione Esteri e Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri e Presidente della Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della NATO. • 68ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 27 settembre 2013): la delegazione era composta dai deputati Deborah Bergamini (PdL) Presidente del Comitato permanente sulla politica estera ed i rapporti con l’Unione europea, Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri, e Mario Marazziti (SCPI), Presidente del Comitato permanente per i diritti umani.

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3. LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE CONFERENZE IN AMBITO ONU

La partecipazione parlamentare alle principali Conferenze ONU

Sotto l’egida dell'ONU, vengono organizzati Summit, Conferenze e altre iniziative volte a migliorare le legislazioni mondiali, tramite l'adozione di Convenzioni, e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulle questioni più delicate che l'ONU ha in agenda. La frequenza e l'importanza di tali appuntamenti sono tali da coinvolgere l'attenzione e le attese, non solo dei Governi di tutto il mondo, ma anche dei Parlamenti e della società civile, coinvolta in primo piano tramite le ONG e altre forme di associazione. In proposito, si segnala il crescente ruolo dell'Unione Interparlamentare, che si propone come versante parlamentare di tali iniziative, organizzando e prendendo parte ai forum parlamentari a margine delle Conferenze. La Camera partecipa regolarmente alle riunioni annuali della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (CSW), alle Sessioni annuali della Conferenza delle Parti (COP) e alle riunioni della Società dell’informazione.

a) La Commissione sullo status delle donne (CSW) La Commissione sullo status delle donne (CSW) è stata istituita dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) con la risoluzione 11 del 21 giugno 1946, come organismo parallelo alla Commissione sui Diritti Umani. Il compito principale della Commissione, il cui mandato è stato esteso nel 1987 (risoluzione ECOSOC 1987/22), è quello di elaborare rapporti e fornire raccomandazioni all’ECOSOC sulla promozione dei diritti delle donne in campo politico, economico, sociale e dell’istruzione. La Commissione presenta, inoltre, raccomandazioni e proposte d’azione al Consiglio su problemi urgenti che richiedono l’immediata attenzione nel settore dei diritti umani. La Commissione sullo status delle donne ha ricevuto il compito dall’Assemblea Generale ONU di integrare nel suo programma il follow-up della Quarta conferenza Mondiale sulle Donne. A partire dal 1995, quindi, effettua la verifica della attuazione degli obiettivi fissati nella Conferenza di Pechino; ha quindi esaminato numerose delle aree critiche contenute nella Piattaforma stessa, allo scopo di verificare i progressi compiuti e di avanzare le raccomandazioni necessarie per accelerarne l'attuazione36.

36 Nel 2000, l’Assemblea Generale – nel corso della 23a sessione speciale “Donne 2000: uguaglianza di genere, sviluppo e pace per il 21° secolo” - ha riesaminato i progressi compiuti nell’attuazione degli obiettivi contenuti nella Platform for Action e ha adottato due

38 FOCUS TEMATICI

Ogni anno, i rappresentanti degli Stati membri si riuniscono per fare il punto sui progressi riguardanti la parità di genere, per individuare le sfide future, per stabilire gli standard globali e per formulare politiche concrete di promozione della parità di genere e dell’avanzamento delle donne in generale. La Commissione si riunisce annualmente per un periodo di dieci giorni di lavoro, alla fine di febbraio – inizio marzo. Nella XVII legislatura, la Camera dei deputati ha partecipato alla 58ma Sessione della Commissione sulla condizione femminile sulla condizione femminile delle Nazioni Unite (CSW) svoltasi a New York, dal 10 al 14 marzo 2014. La Delegazione era composta dai deputati Valeria Valente (PD), Presidente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione interparlamentare. Alla 59ma Sessione svoltasi dal 9 al 20 marzo 2015 hanno partecipato le deputate. Lorena Milanato (FI-PdL), componente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione interparlamentare.

b) La Conferenza delle Parti (COP) sui cambiamenti climatici La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), adottata nel 1992 al Vertice di Rio de Janeiro, stabilisce impegni di stabilizzazione a livelli non pericolosi per gli equilibri climatici della concentrazione in atmosfera dell'anidride carbonica. Più recentemente, nel 1997, è stato approvato un Accordo aggiuntivo importante al Trattato: il Protocollo di Kyoto. Esso è significativo perché prescrive dei parametri fisici e delle specifiche procedure per ridurre le emissioni di gas serra, le quali sono giuridicamente vincolanti per i paesi che hanno proceduto alla sua ratifica. Il Protocollo di Kyoto stabilisce quindi degli obiettivi di riduzione delle emissioni di sei gas serra (anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo). Annualmente si svolgono Conferenze - dette Conferenze delle Parti (COP) - alle quali sono invitate a partecipare delegazioni parlamentari, ed in cui i Paesi firmatari del Protocollo si riuniscono per monitorare i progressi e valutare il percorso da seguire per l'attuazione della Convenzione. Il Segretariato dell'UNFCCC supporta tutte le istituzioni coinvolte nel processo di cambiamento climatico, in particolare il COP, gli organi sussidiari e i loro Uffici di presidenza.

risoluzioni contenenti, rispettivamente una Dichiarazione politica e Ulteriori Azioni e Iniziative per attuare la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma di Azione.

39 FOCUS TEMATICI

L'Italia ha ratificato il Protocollo con legge 1° giugno 2002, n. 120. Il Protocollo di Kyoto è entrato in vigore il 16 febbraio 2005.

Nella XVII legislatura si è tenuta a Varsavia dal 18 al 23 novembre 2013 la XIX Sessione della Conferenza delle Parti (COP19) relativa alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici (UNFCCC), cui hanno partecipato per la Camera dei deputati, in qualità di osservatori, il vicepresidente della Commissione Ambiente, Massimo De Rosa (M5S), e l’onorevole Mariastella Bianchi (PD), componente della medesima Commissione, mentre per il Senato vi hanno preso parte i senatori Gianpiero Dalla Zuanna (SCpI) e Carlo Martelli (M5S), componenti della Commissione Ambiente. L'ultima Conferenza (COP20) si è tenuta a Lima, dal 6 al 12 dicembre 2014 e vi hanno preso parte i deputati Mirko Busto (M5S) e Mariastella Bianchi (PD), entrambi componenti della Commissione Ambiente. La prossima Conferenza (COP21) avrà luogo a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre 2015.

c) Società dell’informazione (World Summit on the Information Society – WSIS) Il Vertice Mondiale sulla società dell’informazione, organizzato dalle Nazioni Unite fra il 2003 e il 2005 ha avuto un grande effetto di traino su tutte le iniziative in corso a livello mondiale mirate a favorire uno sviluppo più equo ed inclusivo delle tecnologie informatiche. La prima sessione del World Summit si è svolta a Ginevra dal 10 al 12 dicembre 2003, mentre la seconda ha avuto luogo a Tunisi dal 16 al 18 novembre 2005. In ambedue le fasi era presente una delegazione della Camera dei deputati. L’Unione interparlamentare ha organizzato una riunione-dibattito sui temi oggetto del Vertice. A seguito dei Vertici di Ginevra, a Tunisi le Nazioni Unite si sono fatte promotrici di una iniziativa volta, tra l’altro, a promuovere una “Carta dei diritti della rete Internet”. Tale iniziativa, denominata Internet Governance Forum, ha tenuto le seguenti riunioni: la prima ad Atene (30 ottobre-2 novembre 2006), la seconda a Rio de Janeiro, in Brasile, dal 12 al 15 novembre 2007 e la terza a Hyderabad, dal 3 al 6 dicembre 2008. La quarta riunione ha avuto luogo a Sharm El Sheikh, in Egitto, dal 15 al 18 novembre 2009 e la quinta a Vilnius, in Lituania, dal 14 al 17 settembre 2010. La sesta riunione si è tenuta a Nairobi dal 27 al 30 settembre 2011, mentre la settima si è svolta a Baku dal 6 al 9 novembre 2012. A questi eventi non è stato designato a partecipare alcun deputato.

40 FOCUS TEMATICI

PRIORITÀ DELL’UE IN VISTA DELLA SETTANTESIMA ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE (A CURA DELL’UFFICIO RAPPORTI PER L’UNIONE EUROPEA DELLA CAMERA)

Il Consiglio dell’UE ha adottato, il 22 giugno 2015, le priorità dell’UE in vista della settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si svolgerà a New York dal 28 settembre al 3 ottobre 2015. Le priorità definite del Consiglio sono così articolate:

Riesame delle operazioni di pace delle Nazioni Unite Le operazioni di pace delle Nazioni Unite devono essere dotate di mandati chiari, coerenti, concisi e realizzabili, e includere una componente sui diritti umani. L’UE considera cruciale il nesso sicurezza-sviluppo-diritti umani per conseguire una stabilità duratura e sostenibile. Il riesame dovrebbe rivolgere particolare attenzione al ruolo sempre più importante svolto dalle organizzazioni regionali negli interventi internazionali per la pace e la sicurezza. Le operazioni di pace non possono però sostituirsi ai processi politici. Sono necessari sforzi di prevenzione correttamente avviati nella fase iniziale di un conflitto. L’Ue considera prioritario assicurare la promozione dell’agenda riguardante le donne, la pace e la sicurezza, sia internamente sis nelle relazioni con i paesi terzi. È necessario integrare strutturalmente la prospettiva di genere in tutte le fasi e tra gli elementi e strumenti dell’agenda per la pace e la sicurezza.

Non proliferazione e disarmo L’UE ritiene opportuno sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite volti a impedire agli attori non statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare, costruire, detenere o trasportare tali armi e relativi vettori. L’UE si adopererà per una migliore attuazione della risoluzione 1540 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e contribuirà attivamente al suo riesame globale, che deve essere completato nel 2016. L’UE continuerà a promuovere il trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP) e considera una priorità assoluta l’entrata in vigore del trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).

41 FOCUS TEMATICI

L’UE è, inoltre, impegnata a promuovere la piena attuazione de: il trattato sul commercio delle armi; la convenzione sulle armi chimiche (CWC); la convenzione sull’interdizione delle armi biologiche e tossiniche (BTWC). L’UE, infine, intende promuovere negoziati multilaterali su un codice di condotta internazionale per le attività nello spazio extraatmosferico.

Lotta contro il terrorismo L’UE sostiene il ruolo chiave delle Nazioni Unite nella cooperazione multilaterale nella lotta contro il terrorismo. La strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo contiene una serie completa di misure che devono essere attuate integralmente, ma anche misure volte a garantire la tutela dei diritti umani e ad affrontare le condizioni di fondo che favoriscono la diffusione del terrorismo, quali conflitti prolungati irrisolti e marginalizzazione sociale, economica e politica. L’UE ribadisce il suo sostegno alle iniziative volte a sradicare Da’esh, ma ritiene che la lotta contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature nelle regioni interessate.

Agenda globale post 2015 L’UE è fortemente impegnata a conseguire un nuovo quadro che integri l’eliminazione della povertà e lo sviluppo sostenibile con società pacifiche e stabili e includa anche diritti umani, stato di diritto, buon governo, parità di genere e sostenibilità ambientale. I risultati degli eventi di Addis Abeba (finanziamento dello sviluppo), New York (vertice post 2015) e Parigi (UNFCCC COP 21) dovrebbero rafforzare e porre in evidenza i benefici collaterali e le sinergie tra l’eliminazione della povertà e lo sviluppo sostenibile, compresi i cambiamenti climatici. L’ UE ritiene che il principale campo d’azione sarà la definizione e l’attuazione di un forte quadro di monitoraggio, rendicontabilità e valutazione, che dovrebbe essere parte integrante dell’agenda post 2015. Tra le tendenze globali che avranno ripercussioni complesse e su larga scala sull’agenda post 2015, la migrazione offre un esempio di questione che deve essere gestita in modo globale. Occorre a tal fine potenziare gli sforzi per prevenire la migrazione irregolare, inclusa la lotta contro la tratta e il traffico dei migranti, in particolare con azioni di contrasto alle reti criminali e una maggiore coerenza e coordinamento tra le dimensioni esterna e interna della politica di migrazione e le agende in tema di sviluppo e affari esteri.

42 FOCUS TEMATICI

Cambiamenti climatici L’UE punta a un accordo equo, ambizioso e giuridicamente vincolante, applicabile a tutti, che copra sia la mitigazione che l’adattamento, che dovrebbe agevolare la transizione verso un’economia a bassa emissione di CO2 e resiliente, che tenga conto delle esigenze dei più vulnerabili. L’UE resta impegnata ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei finanziamenti per il clima nel contesto di azioni significative di mitigazione, al fine di apportare il proprio giusto contributo all’obiettivo dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi all’anno di dollari attingendo ad un ampia varietà di fonti pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, incluse le fonti alternative di finanziamento. Nel contempo l’UE ricorda l’importanza, in termini di clima, dei trasporti aerei e marittimi internazionali.

Diritti umani e diritto internazionale L’UE si impegna a sostenere ogni sforzo volto a integrare i diritti umani in tutti i lavori delle Nazioni Unite, anche in materia di sviluppo e pace e sicurezza. L’UE sostiene con forza la Corte penale internazionale (CPI) e ritiene che si debba prestare maggiore attenzione al rafforzamento e all’ampliamento delle relazioni tra CPI e ONU, in particolare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Benché la responsabilità primaria di consegnare gli autori di reati alla giustizia spetti agli stessi Stati, la CPI dovrebbe esercitare la sua giurisdizione qualora le autorità nazionali non siano in grado o non siano disposte a perseguire veramente i crimini più gravi motivo di allarme per la comunità internazionale. L’UE, in tale ambito, intende: • sostenere la libertà di opinione e di espressione online e offline quale diritto umano fondamentale e pietra angolare della democrazia e della pace; • continuare a propugnare la libertà di religione o credo e chiederà maggiori sforzi volti a proteggere i diritti delle persone appartenenti a minoranze religiose. • proseguire gli sforzi volti a porre fine alla tortura e ad altre forme di trattamenti e pene crudeli, disumani o degradanti; • a promuovere la cooperazione internazionale per affrontare la lotta contro la tratta di esseri umani, sostenere il lavoro delle Nazioni Unite verso l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo.

43 FOCUS TEMATICI

• continuare a promuovere i diritti dei minori; • continuare ad operare contro tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza, compreso l’antisemitismo.

Protezione dello spazio umanitario L’UE continuerà a sostenere il ruolo guida delle Nazioni Unite nel coordinamento e nella prestazione di assistenza umanitaria internazionale nonché a propugnare il rispetto dei principi umanitari, del diritto umanitario internazionale, del diritto dei diritti umani e del diritto dei rifugiati. Le discussioni sul finanziamento umanitario devono essere parte integrante del processo più ampio del rafforzamento delle Nazioni Unite e del sistema umanitario.

Questioni di genere L’UE sostiene l’impegno a favore della promozione, della protezione e del rispetto di tutti i diritti umani nonché a favore dell’attuazione integrale e concreta della piattaforma d’azione di Pechino e del programma d’azione dell’ICPD (Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo) e ritiene occorra assicurare un’attuazione piena e rapida delle azioni e misure previste. L’emancipazione e i diritti umani delle donne e delle ragazze e la fine sia della discriminazione in tutte le sue forme sia di tutte le forme di violenza contro donne e ragazze devono essere al centro dell’agenda post 2015.

Ciberspazio L’Unione europea ribadisce la sua posizione secondo cui il diritto internazionale vigente, in particolare la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, si applica al ciberspazio e sostiene il ruolo centrale delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e sicurezza internazionali nel ciberspazio. In tale settore occorre che i diritti fondamentali siano promossi e protetti online e offline. È inoltre importante che salvaguardiamo l’approccio multipartecipativo, flessibile e favorevole all’innovazione, alla governance di internet. L’Unione europea resterà ferma sul principio che a nessuna singola entità, società, organizzazione o governo si debba consentire il controllo di internet.

44 FOCUS TEMATICI

L’Unione europea riconosce la necessità costante di lavorare attivamente in tale ambito alla promozione e protezione dei diritti umani, compreso il diritto alla riservatezza e alla libertà di espressione.

Riforma e maggiore efficienza delle Nazioni Unite Sfide emergenti costringono le Nazioni Unite ad assumere nuove funzioni, che a loro volta richiederanno un ripensamento della governance e delle modalità di finanziamento. Assicurare la sana gestione delle risorse finanziarie e del personale delle Nazioni Unite continuerà ad essere una priorità dell’UE. La riforma del sistema delle Nazioni Unite dovrebbe comprendere la riforma generale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il rilancio dell’attività dell’Assemblea generale.

Rafforzamento dei partenariati multilaterali L’Ue ricorda il suo impegno a favore dei partenariati regionali, in particolare la Lega araba, l’OSCE, l’Unione africana e gli interlocutori regionali in America latina, nei Caraibi e in Asia. L’integrazione regionale è il mezzo per sostenere la pace e la prosperità in tutto il mondo e superare i conflitti tra le nazioni. L’UE accoglie con favore la recente relazione del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla costruzione di partenariati per la pace e il nuovo paradigma del "mantenimento della pace in partenariato" nell’architettura globale di sicurezza. Occorre fare più affidamento su azioni a più livelli e multiformi in tutte le diverse fasi dei conflitti e in tutte le fasi è necessaria una cooperazione più stretta con e tra le organizzazioni regionali. A tal fine, l’UE incoraggia le Nazioni Unite a sviluppare ulteriormente il concetto. L’UE ricorda il valore aggiunto degli approcci comuni tra UE, ONU e UA in Africa e l’importanza di una stretta cooperazione trilaterale.

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FOCUS TEMATICI

IL DEPARTMENT OF PEACE-KEEPING OPERATIONS (DPKO) (A CURA DEL SERVIZIO AFFARI INTERNAZIONALI DEL SENATO)

Il DPKO (Department of Peace-keeping Operations) è l’ufficio delle Nazioni Unite, collocato all’interno del Segretariato Generale, con la funzione di assistere gli Stati membri dell’ONU e il Segretario generale all’espletamento del compito del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Il DPKO vede al proprio vertice un Segretario generale aggiunto, sotto le dipendenze dirette del Segretario generale dell’ONU. Da tale Segretario generale aggiunto, capo del Dipartimento, dipendono quattro uffici: per le operazioni; per gli affari militari; per gli affari giuridici e la sicurezza; infine la divisione per l’addestramento, la valutazione e la politica. Il Budget annuale delle Nazioni Unite prevede una specifica voce di finanziamento dedicata al DPKO, cui tutti gli Stati membri devono contribuire, o in termini monetari o di uomini e mezzi. Il Segretario generale aggiunto per il DPKO è Hervé Ladsous, che ha assunto formalmente l’incarico nell’ottobre 2011. Il suo predecessore era Alain Le Roy. La missione principale del DPKO consiste nel pianificare, preparare, gestire e dirigere le operazioni di mantenimento della pace patrocinate dalle Nazioni Unite, al fine di assicurare l’esercizio del mandato sotto l’autorità del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale, nonché sotto la direzione generale attribuita al Segretario generale, come espressamente previsto dalla risoluzione di autorizzazione delle stesse missioni. Il DPKO provvede a fornire le indicazioni di tipo politico e tecnico per la realizzazione delle missioni di pace delle Nazioni Unite nonché a mantenere un canale costante di dialogo con il Consiglio di Sicurezza, con i Paesi membri che forniscono le truppe e gli equipaggiamenti per le missioni, nonché con le parti del conflitto, perché questi possano realizzare gli obiettivi per il mantenimento della pace stabiliti dalla risoluzione di autorizzazione della missione del Consiglio di Sicurezza. Il DPKO, quindi, funge non solo da centro di comando e controllo delle missioni di pace, ma anche di coordinamento tra i diversi attori che in esse sono interessati, come organizzazioni non governative (ONG), autorità governative e non a livello locale, nonché forze di polizia e militari impegnati sul campo. Al DPKO, inoltre, è attribuita la responsabilità del coordinamento di tutti gli aspetti concernenti le missioni di pace ONU, dalle problematiche militari, di polizia, politiche ed economiche.

47 FOCUS TEMATICI

______Le operazioni di peace-keeping37 istituite dalle Nazioni Unite sono comunemente oggetto di sistemazione dottrinaria che le distingue in operazioni di prima, seconda e terza generazione. Tale distinzione concerne non soltanto il periodo storico in cui queste sono state istituite, ma anche i compiti cui esse sono state votate e la natura stessa della missione cui erano chiamate a rispondere. Appartengono alle c.d. operazioni di prima generazione (o di peace-keeping puro) quelle istituite tra il 1948 e il 1987. Caratteristiche di tali operazioni erano: la necessità di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU autorizzante la missione; il consenso dello Stato in cui veniva effettuata l’operazione; il ricorso all’uso della forza armata da parte del personale militare impiegato nella missione nel solo caso di legittima difesa, nonché nei soli casi di conflitti internazionali. Con la fine della Guerra fredda, si assiste al sorgere delle operazioni di pace c.d. di seconda generazione, che si ispirano al documento An Agenda for Peace38 pubblicato nel 1992 dall’allora Segretario generale dell’ONU Boutros Boutros-Ghali. In tale documento strategico, Boutros-Ghali sottolineava come il numero di missioni istituite tra il 1948 e il 1987 (13 missioni di peacekeeping) uguagliava quello delle missioni comprese tra il 1987 e il 1992, evidenziando la necessità di un ripensamento globale del ruolo delle Nazioni Unite e delle missioni da esse istituite alla luce del cambiamento dello scenario globale. Le operazioni di seconda generazione, definite anche di peacemaking e/o peacebuilding, implicano il maggiore rilievo attribuito alla ‘componente civile’ delle operazioni, cioè la collaborazione con le forze appartenenti ad organizzazioni regionali, l’amministrazione del territorio, il monitoraggio elettorale, l’assistenza umanitaria, la ricostruzione economica e finanziaria, nonché la protezione dei diritti umani. Allo scopo di supportare il processo di decisione e il coordinamento tra civili, militari e forze di polizia attraverso uno scambio di informazioni a livello strategico è stato istituito nell’aprile 1993 il Situation Centre of the Department of Peacekeeping Operations, che rappresenta uno strumento di cruciale importanza per collegare i centri decisionali, in particolare lo staff del Segretariato con le unità operative sul campo. Eventi quali il genocidio in Ruanda nel 1994 e il massacro di Srebrenica nel 1995 spinsero molti tra i paesi membri delle Nazioni Unite a chiedere

37 Dal 1948 ad oggi sono 71 le operazioni di peace-keeping (Fonte: http://www.un.org/en/peacekeeping/resources/statistics/factsheet.shtml) vedi anche: http://www.un.org/en/peacekeeping/documents/operationslist.pdf 38 Boutros Boutros Ghali, An Agenda for Peace - Preventive Diplomacy, peacemaking and peacekeeping, in http://www.unrol.org/files/A_47_277.pdf

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all’Organizzazione di rivedere la propria politica di peacekeeping e contribuirono al superamento delle operazioni di cosiddetta seconda generazione.

Il terzo punto di svolta è rappresentato dal c.d. Brahimi Report pubblicato nel 2001, ovvero il documento finale del Panel on United Nations Peace Operations39 istituito per volontà dell’allora Segretario generale Kofi Annan, allo scopo di rivedere il sistema di funzionamento e il quadro giuridico delle missioni di pace ONU. Le operazioni più recenti, quelle che si dicono "di terza generazione", si collocano nella categoria del c.d. peace enforcing e peace support operations, categorie ibride rispetto al passato, la cui base giuridica non trova riferimento nella Carta dell’ONU ma negli sviluppi del processo di riforma e crescita di questo importante settore delle attività dell’ONU. Il citato Brahimi Report analizzava le diverse operazioni per la pace poste in essere dalle Nazioni Unite, evidenziando allo stesso tempo le difficoltà che il personale, civile e militare, ha incontrato e che hanno determinato l’insuccesso delle medesime. I suggerimenti che il Report forniva erano in particolare due: dare al mandato delle Nazioni Unite maggiore chiarezza, credibilità e realizzabilità, nonché l’importanza di migliorare la cooperazione ed il dialogo con i paesi che contribuiscono alle peacekeeping operations attraverso l’invio di truppe. Altro nodo cruciale è rappresentato dalla c.d. Responsibility to Protect, principio derivante dalle lessons learned rappresentate dalle missioni in Rwanda e in Bosnia negli anni Novanta. Con il documento conclusivo del World Summit 2005, e soprattutto con la Risoluzione A/RES/60/1, le Nazioni Unite si sono dotate di un documento strategico fondato su un approccio multidimensionale alla pace e sicurezza mondiale, in cui due paragrafi sono dedicati rispettivamente al peacekeeping e al peacebuilding. In esso viene sottolineata l’importanza della cooperazione civile e militare nei teatri operativi, così come l’apporto fornito, in accordo al Capitolo VIII della Carta, da parte delle organizzazioni regionali per la sicurezza (soprattutto con riferimento all’Unione Europea e l’Unione Africana). Per ciò che concerne il peacebuilding, è di rilievo l’auspicio della creazione di un Fondo dedicato integralmente al peacebuilding, con pianificazione pluriennale, nonché l’auspicio della creazione di una commissione a composizione mista dedicata integralmente a tali tipi di operazioni.

39 Brahimi Lakhdar, Report of the Panel on United Nations Peace Operations, in http://www.unrol.org/files/brahimi%20report%20peacekeeping.pdf

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Nel corso della stessa Sessione dell’Assemblea Generale, nell’ambito del World Summit 2005, è stata istituita una apposita Commissione per le missioni di peace-building con la risoluzione 30 Dicembre 2005, A/RES/60/180. Scopo di tale Commissione è quello di proporre strategie integrate post-conflict, sostenere i finanziamenti per la realizzazione delle missioni, fornire alle missioni stesse una prospettiva di medio e lungo periodo, nonché sviluppare le c.d. best practices.

La Commissione ha una composizione mista, presentando al proprio interno 7 membri del Consiglio di Sicurezza, 7 dell’ECOSOC (Comitato Economico e sociale), rappresentanti di 5 Paesi tra i 10 che più contribuiscono al budget dell’ONU, dei 5 tra i 10 che forniscono più truppe, ed infine 7 membri a rotazione. Alla Commissione viene attribuito un ruolo di indirizzo strategico, e non operativo, come invece è quello attribuito al DPKO. L’importanza della Commissione risiede nella redazione di un Annual Report40 indirizzato all’Assemblea generale, nel quale viene fotografato lo status quo delle missioni di peacebuilding in corso, nonché indirizzi strategici per il futuro. Nel corso del decennio 2000 - 2010 il processo di riforma e di aggiornamento della struttura preposta alle operazioni di peacekeeping è continuato. Nel 2009 il Dipartimento ha pubblicato il documento New Parthership Agenda: Charting a new Horizon for UN Peacekeeping, nel quale vengono fissati nuovi, aggiornati termini di impegno delle Nazioni Unite di fronte alle sfide del mondo attuale. Si tratta, in pratica, di chiarire e razionalizzare i rapporti tra i protagonisti delle operazioni, l’ONU, gli Stati membri e gli Stati teatro di intervento; di assicurare un chiaro e definito coordinamento politico ed una strategia unitaria che rendano attuabili missioni coerenti ed efficaci, di garantire un rapido dispiegamento delle forze internazionali ed una efficiente gestione delle crisi. Il documento mira a rinvigorire il dialogo tra gli Stati membri e altri Partners coinvolti nelle operazioni allo scopo di migliorare l’efficacia delle operazioni stesse e di far fronte alle necessità che via via si presentano. Una fase rilevante del processo di riforma dell’architettura di peacekeeping si é registrata nel giugno 2007, quando il Segretario generale, allo scopo di rafforzare la capacità dell’ONU di gestire e sostenere nuove operazioni ha promosso una ristrutturazione del Dipartimento41 sostanzialmente dividendolo in due con la creazione di un separato Dipartimento per il sostegno logistico (Department of Field Support), sostenendo l’iniziativa di assegnare nuovi compiti al DPKO, incrementando le risorse finanziarie assegnate ai due Dipartimenti e

40 Official Records of the General Assembly, Sixty-fifth Session, Supplement No. 19 (A/65/19). 41 http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/61/858 "Secretary General Comprehensive report on strengthening the capacity of the United Nations to manage and sustain peace operations".

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agli altri uffici del Segretariato generale coinvolti nelle attività di peacekeeping e peacebuilding. Il Department of Field Support fornisce sostegno alle missioni per la promozione della pace e della sicurezza relativamente alle aree del finanziamento, della logistica, dell’informazione, comunicazione e tecnologia, delle risorse umane e dell’amministrazione generale42.

Le missioni che vengono istituite in seno alle Nazioni Unite, e di cui risponde il DPKO, devono conformarsi ad un ventaglio di princìpi, espressamente richiamati in specifici documenti strategici delle Nazioni Unite, quali, come detto prima, An Agenda for Peace del 1992, il Final Report del Panel on United Nations Peace Operations del 2000, il documento Peace Operations 2010 presentato all’interno del Report dell’Assemblea generale del 24 febbraio 2006 e la New Horizon initiative for UN Peacekeeping del 2009. In generale, si può affermare che le missioni di pace dell’ONU debbano tendere ad alleviare le sofferenze umane e soprattutto creare un ambiente favorevole per istituzioni responsabili, affinché le condizioni di pace e sicurezza siano durature nel tempo. Un importante filone di riforma delle strutture di peacekeeping ha riguardato le norme di comportamento e la disciplina del personale. A seguito di scandali riguardanti il comportamento di peacekeepers, tanto civili quanto militari, il DPKO si è dotato di un Codice di Condotta e delle c.d. 10 regole del Peacekeeper, cui ciascun individuo impiegato in missioni di pace sotto l’egida ONU deve attenersi43. L’11 settembre 2015 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon ha presentato il rapporto "Il futuro delle operazioni di pace delle Nazioni Unite" che individua tre cambiamenti, definiti "fondamentali"44, che si richiedono per adattare le operazioni alle nuove realtà. Il primo riguarda la necessità di rendere prioritaria la prevenzione e la mediazione, in modo da evitare risposte tardive e costose alle crisi; il secondo cambiamento riguarda la pianificazione e lo svolgimento delle operazioni, che devono essere più rapidi, rispondenti alle necessità e responsabili nei confronti dei paesi e popoli in conflitto; il terzo cambiamento, infine, consiste nel porre in essere un quadro globale-regionale per affrontare le sfide attuali alla pace ed alla sicurezza, a partire da una

42 Per approfondimenti sul tema vedi: il dossier della serie "Documentazione e Ricerche" del novembre 2011, predisposto dai Servizi Studi della Camera dei deputati (n. 296) e del Senato della Repubblica (n. 318) "Incontro delle Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera e del Senato con il Capo del Dipartimento per il sostegno logistico alle operazioni di pace delle Nazioni Unite" (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00737585.pdf) 43 Vd il sito internet della 'Conduct and discipline Unit" http://cdu.unlb.org/ 44 http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=51855

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partnership rafforzata con l’Unione Africana. Il rapporto, che contiene anche alcune misure per sradicare il fenomeno degli abusi sessuali compiuti dai caschi blu, fa seguito alle raccomandazioni del High-Level Independent Panel istituito nell’ottobre 2014 allo scopo di studiare la riforma del sistema del peacekeeping alla luce dell’attuale diffusione e intensificazione dei conflitti. Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite aggiornati al 30 giugno 2015, le operazioni attualmente in corso e sotto la responsabilità del DPKO sono 1645 e coinvolgono46: 92.299 unità militari, compresi gli osservatori; 13.095 personale di polizia; 5.315 personale civile internazionale; 11.476 personale civile reclutato localmente; 1.760 volontari delle Nazioni Unite. Primo contributore di Caschi Blu tra i paesi dell’Unione europea, l’Italia partecipa attualmente a due missioni di pace ONU: con circa 1.100 unità alla missione UNIFIL in Libano (il cui comandante è, dal luglio 2014, il Generale Luciano Portolano) e con 2 unità alla missione Mali-MINUSMA.

45 Per l'elenco delle 16 operazioni in corso e per la speciale missione politica in Afghanistan vedi: http://www.un.org/en/peacekeeping/operations/current.shtml 46 http://www.un.org/en/peacekeeping/about/

52 FOCUS TEMATICI

Organigramma del Dipartimento47

47 http://www.un.org/en/peacekeeping/documents/dpkodfs_org_chart.pdf

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LA PROPOSTA DI AUTOLIMITAZIONE DEL POTERE DI VETO IN CONSIGLIO DI SICUREZZA DI FRONTE ALLA DENUNCIA DI ATROCITÀ DI MASSA (A CURA DEL SERVIZIO STUDI DELLA CAMERA)

Il conflitto siriano, che già si presentava dopo il primo anno come una situazione di stallo suscettibile di condurre alla distruzione del tessuto economico, sociale e civile del paese, è stato lo scenario principale per l’avvio di una serie di proposte di riforma del funzionamento Consiglio di sicurezza dell’ONU - stante il pluriennale ristagno delle proposte di modifica dei meccanismi di funzionamento del CdS tramite emendamento della Carta delle Nazioni Unite. Alla fine di marzo 2012, infatti, per iniziativa della Svizzera, insieme ad altri quattro Stati del cosiddetto gruppo Small Five (Costa Rica, Giordania, Liechtenstein e Singapore), veniva presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite un progetto di risoluzione con una serie di proposte, la più rilevante delle quali appariva l’autolimitazione, da parte dei cinque membri permanenti, della prerogativa del diritto di veto quando il Consiglio sia chiamato a discutere di questioni che coinvolgono la più generale responsabilità di protezione dei civili nei conflitti armati – emersa come preciso dovere della Comunità internazionale dai lavori del World Summit ONU del 2005 -, e segnatamente in relazione a situazioni che presentino chiari profili di crimini contro l’umanità e atrocità di massa, come anche azioni di carattere genocidario. In sostanza nella proposta di Small Five si configurava la necessità, da parte dei Big Five, di astenersi dal ricorso al diritto di veto per bloccare decisioni del Consiglio chiaramente volte a prevenire o porre fine a quel tipo di situazioni. Didier Burkhalter, tuttora ministro degli esteri del Governo federale elvetico, riconosceva implicitamente il legame delle proposte formulate da Berna con il conflitto siriano in corso Anche se in via indiretta, la proposta del gruppo Small Five era corroborata il 3 agosto 2012, quando l’Assemblea generale dell’ONU stigmatizzava la paralisi del Consiglio di sicurezza, rivelatosi incapace di ogni azione decisa per porre un argine al dilagare sempre più grave dei combattimenti in territorio siriano: la risoluzione era approvata da un’ampia maggioranza di 133 paesi, e gli schieramenti internazionali mostravano un forte isolamento della Russia della Cina, tradizionalmente contrarie ad ogni intervento della Comunità internazionale negli affari interni dei vari Stati. La proposta del gruppo Small Five, tuttavia, era in seguito ritirata per motivi di equilibri diplomatici (probabili pressioni ricevute dai cinque paesi).

La questione era rilanciata nel settembre 2013, in occasione dell’apertura della Sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, proprio dal capo di uno dei cinque Stati membri del Consiglio di sicurezza, il Presidente francese François Hollande - che dava peraltro seguito alla posizione francese del novembre 2012, formulata in appoggio alle proposte nella stessa direzione di sette Stati partecipanti a una riunione sui metodi di lavoro del Consiglio di sicurezza -, il quale, nel suo intervento in Assemblea generale, sosteneva esservi situazioni in cui un’azione collettiva della Comunità internazionale è assolutamente necessaria, e pertanto il diritto di veto avrebbe dovuto cedere alla necessità di contrastare e porre fine a crimini di guerra e azioni di genocidio. Alla presa di posizione della Francia si univano il Costa Rica ed il Cile. Il Ministro degli esteri francese Laurent Fabius precisava i contorni della proposta del proprio paese nei termini di un codice di astensione dal ricorso al diritto di veto su base volontaria e collettiva da parte dei Cinque Grandi: la specifica decisione sui caratteri di uno scenario suscettibili di produrre quella astensione sarebbe stata adottata dal Segretario generale delle Nazioni Unite su richiesta di almeno 50 Stati membri. La proposta francese era temperata dalla esclusione dei casi nei quali fossero in gioco vitali interessi nazionali di uno Stato membro permanente del Consiglio di sicurezza. A margine della Sessione inaugurale dei lavori dell’Assemblea generale del settembre 2014 la Francia rilanciava la propria proposta, presiedendo unitamente al Messico una riunione ministeriale sull’argomento, e il vicesegretario delle Nazioni Unite Jan Eliasson invitava gli Stati membri a considerare seriamente la proposta della Francia. Per quanto concerne l’Italia, poche settimane dopo il rappresentante del nostro paese, Inigo Lambertini, intervenendo in un dibattito aperto in seno al Consiglio di sicurezza sui metodi di lavoro del Consiglio stesso, si univa alle proposte capitanate dalla Francia, sottolineando i profili di responsabilità che la prerogativa del diritto di veto comporta per i cinque membri permanenti. Da ultimo, il Rappresentante francese alle Nazioni Unite François Delattre, intervenendo in un dibattito in Assemblea generale l’8 settembre 2015 sul più generale tema della responsabilità di protezione dei civili nei conflitti armati, ha ribadito i contorni della proposta francese, inquadrandoli proprio nel più ampio filone emerso dal World Summit del 2005.

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L’ATTUAZIONE IN ITALIA DELLA RISOLUZIONE 1325 (2000) DELL’ONU SU DONNE, PACE E SICUREZZA (A CURA DEL SERVIZIO STUDI DELLA CAMERA)

La Risoluzione 1325 “Donne, pace e sicurezza”, adottata all’unanimità il 31 ottobre 2000 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è la prima Risoluzione di questo organismo che esplicitamente menziona sia l’impatto della guerra sulle donne, sia il contributo delle donne per la soluzione dei conflitti e per una pace durevole. La risoluzione riconosce e valorizza il contributo delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, nel peacekeeping e nel peace- building. La Risoluzione 1325 costituisce un importante documento politico ed uno strumento giuridico fondamentale sia per la promozione della partecipazione delle donne a livello decisionale, sia per la tutela delle donne e delle ragazze nei conflitti, per la prevenzione della violenza contro le donne attraverso la promozione dei diritti, la responsabilità, l’applicazione delle leggi e l’inclusione della prospettiva di genere nelle operazioni di pace nelle zone in conflitto o in post-conflitto. Sul tema Women Peace and Security-WPS il Consiglio di Sicurezza ha adottato nel tempo sette risoluzioni, di cui la 1325 del 2000 è la capostipite, che nel loro complesso costituiscono il quadro di definizione, attuazione e monitoraggio di una nutrita Agenda di settore - da osservarsi sia a livello internazionale sia regionale, nazionale e locale -, guida e parametro di riferimento per le azioni degli organi e degli Stati membri delle Nazioni Unite in materia. Si tratta delle risoluzioni 1820 (2008) in materia di violenza sessuale in situazioni di conflitto armato; 1888 e 1889 (2009) sulla violenza sessuale in situazioni di conflitto armato; 1960 (2010) sullo sviluppo di un sistema di accountability, con cui si è prevista, tra l’altro, la pubblicazione delle liste degli autori di reato; 2106 (2013) che chiarisce e rafforza il ruolo del sistema onusiano nel prevenire e rispondere alla violenza sessuale nei conflitti armati. L’ultima delle risoluzioni tematiche è la 2122 (2013) del 18 ottobre 2013 che, sulla base dei contenuti del Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite (S/2013/525), rafforza le misure che consentono alle donne di partecipare alle varie fasi di prevenzione e risoluzione dei conflitti, nonché della ripresa del paese in questione, ponendo agli Stati membri, alle organizzazioni regionali e alle Nazioni Unite stesse, l’obbligo di riservare seggi alle donne nei tavoli di pace, La risoluzione 2122, inoltre, riconosce la necessità di una tempestiva informazione ed analisi dell’impatto dei conflitti armati su donne e ragazze; chiede ai leader delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite di effettuare valutazioni sulle violazioni dei diritti umani e degli abusi di donne nei conflitti

armati e nelle situazioni di post conflitto e chiede alle missioni di peacekeeping di dare risposta alle minacce della sicurezza delle donne in situazioni di conflitto e post conflitto; incoraggia i paesi che contribuiscono alle missioni ad aumentare la percentuale di donne nelle forze armate e nelle forze di polizia in esse impiegate; sottolinea la necessità di continuare gli sforzi per eliminare gli ostacoli che impediscono l’accesso delle donne alla giustizia in situazioni di conflitto o post conflitto. Il metodo di maggiore efficacia per la reale attuazione del complesso delle disposizioni contenute nelle Risoluzioni onusiane in tema di Donne, Pace e Sicurezza è stato individuato nei Piani d’azione nazionali (NAP), la cui adozione è stata prevista, per la prima volta, dal Consiglio di sicurezza nel Presidential Statement del 28 ottobre 2004. Il documento invitava gli Stati membri delle Nazioni Unite a proseguire sulla strada dell’attuazione della Risoluzione 1325, “including through the development of national action plans”. I NAP consentono ai singoli governi di articolare le priorità e di coordinare i diversi organismi competenti per la sicurezza, la politica estera, lo sviluppo e le questioni di genere ai fini dell’implementazione della 1325 e delle successive Risoluzioni. Secondo i dati disponibili ed aggiornati al 201348, una quarantina di Paesi ha adottato un Piano d’azione nazionale. Di seguito si ricostruisce il timeline di adozione dei Piani: 2005: Danimarca 2006: Regno Unito, Svezia, Norvegia 2007: Svizzera, Spagna, Olanda, Costa d’Avorio, Austria 2008: Uganda, Islanda, Finlandia 2009: Liberia, Portogallo, Belgio, Guinea, Cile 2010: Sierra Leone, Rwanda, Filippine, Italia, Francia, Estonia, Repubblica Democratica del Congo, Canada, Bosnia Erzegovina 2011: Nepal, Lituania, Georgia, Guinea-Bissau, Irlanda, Serbia, Burundi, Slovenia, Croazia, Senegal, Stati Uniti 2012: Germania, Ghana, Australia 2013: Nigeria, Macedonia, Kyrgyzstan.

48 Barbara Miller, Milad Pournik, and Aisling Swaine, Women in Peace and Security through United Nations Security Resolution 1325: Literature Review, Content Analysis of National Action Plans, and Implementation, The George Washington University Institute for Global and International Studies , 2014.

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Si segnala, inoltre, che tra il 2008 e il 2013, nove Paesi del continente europeo - Danimarca, Svezia, Svizzera, Paesi Bassi, Norvegia, Regno Unito, Finlandia, Austria e Islanda - hanno sottoposto il proprio Piano nazionale a revisione. Del resto l’Europa, con 22 NAP - di cui 15 predisposti in Paesi UE -, rappresenta oltre il 50% del totale dei Piani d’Azione Nazionali; l’Africa conta 13 Paesi, Stati Uniti e Cile rappresentano l’America, Nepal, Kyrgyzstan e Filippine l’Asia e la sola Australia l’Oceania. Il secondo Piano d’azione nazionale italiano “Donne, Pace e Sicurezza” è stato presentato in occasione della Tavola rotonda “Donne, pace e sicurezza - Standard minimi, linee guida armonizzate e politiche comuni per l'Agenda Europea”. L’evento, realizzato dal Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, si è svolto presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale il 26 novembre 2014, nell’ambito delle manifestazioni celebrative della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne”. E’ previsto, inoltre, che il Piano sia oggetto di un monitoraggio costante, effettuato attraverso incontri annuali specifici di alto livello ed un reporting progressivo, che si avvarrà anche del contributo della società civile, al fine di renderlo sempre più operativo, aggiornato e sinergico. Il Governo, pertanto, - si legge nell’introduzione al Piano - si impegna a presentare un rapporto di aggiornamento e revisione alla fine del primo anno, così da poter individuare le aree da rafforzare, anche alla luce delle consultazioni che si terranno, come accennato, sia con la società civile, sia con il Parlamento. Tutto ciò anche alla luce della Revisione di Alto Livello della UNSCR 1325 prevista per ottobre 2015. Il Consiglio di sicurezza, infatti, ha evidenziato che, pur essendo il quadro senz’altro migliorato nei 14 anni di vigenza della Risoluzione 1325 e nonostante le successive Risoluzioni tematiche, senza un cambiamento significativo nelle modalità di implementazione della Risoluzione-madre le prospettive delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e nella protezione e promozione della pace sono destinate a permanere sottorappresentate. Il Segretario Generale, pertanto, ha invitato gli Stati membri, le organizzazioni regionali e gli enti delle Nazioni Unite a rivedere i Piani di attuazione vigenti e gli obiettivi in vista di una Revisione di Alto Livello della Risoluzione 1325, commissionando anche uno studio globale sulla sua implementazione, che confluirà nella sua relazione annuale 2015 al Consiglio di sicurezza. Lo studio, coordinato da Radhika Coomaraswamy, già Special Representative of the Secretary-General on Children and Armed Conflict e già Special Rapporteur on Violence against Women, evidenzierà esempi di buone pratiche, lacune di attuazione, sfide e priorità per l'azione. Il Piano di azione nazionale italiano 2014-2016 (articolato sulle c.d. 3P prevention, protection, participation, and relief, and recovery) è volto innanzitutto a rafforzare le iniziative di settore che l’Italia già sostiene od attua per

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ridurre l’impatto che le situazioni di conflitto e post-conflitto determinano con riguardo alle donne e ai fanciulli, promuovendone al contempo, la partecipazione nella risoluzione e prevenzione dei conflitti in quanto “agenti per il cambiamento” (agents of change). Nell’elaborare il nuovo Piano 2014-2016, che a differenza del precedente (2010-2013) a suo tempo sviluppato alla luce delle prime cinque Risoluzioni onusiane sopra ricordate deve tenere conto dell’articolazione del quadro di riferimento, ora comprensivo anche delle più recenti Risoluzioni (n. 2106 e 2122 del 2013), si è tenuta in considerazione e valorizzata la crescente incidenza che la tematica in questione sta assumendo in ambito sia internazionale, sia domestico e regionale. Pertanto, sono stati potenziati ed evidenziati gli sforzi e le azioni promosse da tutte le Autorità coinvolte nell’attuazione del Piano medesimo, è stato ampliato l’ambito degli attori coinvolti ed è stata promossa la sistematizzazione e l’integrazione delle azioni esistenti. Il Piano italiano è stato elaborato nel rispetto del “Comprehensive EU approach to the implementation of Security Council Resolutions 1325 and 1820 on Women, Peace and Security” ed in considerazione anche, tra gli altri, delle indicazioni provenienti dalla società civile, in particolare dal gruppo di lavoro Gender Peace and Security dello European Peacebuilding Liaison Office, nonché nel rispetto della “Cornice Strategica e del Piano comunitario in materia di diritti umani e democrazia” adottato nel giugno 2012. Ribadito che gli obiettivi della Risoluzione 1325 consistono: 1. nella prevenzione della violenza contro le donne ed i fanciulli e protezione dei diritti umani di donne e fanciulli, durante e dopo i conflitti armati; 2. nella maggiore partecipazione delle donne nella promozione della pace; 3. nell’applicazione dell’approccio di genere in tutti i progetti ed i programmi di promozione della pace, il Gruppo di lavoro interministeriale ha individuato, ai fini del loro conseguimento una serie di sotto-obiettivi, di ciascuno dei quali viene riportato, nel Piano in esame, lo stato di attuazione e gli ulteriori impegni (commitments) che l’Italia intende assumere, a livello sia nazionale, sia internazionale. Tali sotto-obiettivi consistono nel: 1) valorizzare la presenza delle donne nelle Forze Armate nazionali e negli organi di polizia statale, rafforzandone il ruolo negli organi decisionali delle missioni di pace; 2) promuovere l’inclusione della prospettiva di genere nelle Peace-Support Operations;

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3) assicurare training specifico, in particolare per il personale partecipante alle missioni di pace, sui differenti aspetti della Risoluzione 1325; 4) proteggere i diritti umani delle donne, dei fanciulli e delle fasce più deboli della popolazione, in fuga dai teatri di guerra e/o presenti nelle aree di post- conflitto; 5) rafforzare il ruolo delle donne nei processi di pace ed in tutti i processi decisionali; 6) rafforzare la partecipazione della società civile nell’attuazione della Risoluzione 1325; 7) effettuare attività di monitoraggio e follow-up. Completano il Piano 5 Allegati (annex), riguardanti: la raccolta di indicatori rilevanti che saranno desunti dalle informazioni fornite dalle amministrazioni coinvolte; l’elenco esperti e delle Associazioni di settore che hanno partecipato alla consultazione e fornito indicazioni utili alla redazione del Piano; esempi di progetti (buone pratiche) sviluppati, anche con il sostegno della DGCS, da parte dell’Associazionismo di settore in aree di conflitto, post-conflitto ed in Paesi fragili; esempi di moduli didattici di settore e il riferimento (link) al documento Ue Concept on Strengthening EU Mediation and Dialogue Capacities adottato dagli Stati membri nel 2009 che è alla base del Mediation Support Team (MST) il quale è attivo in numerose aree, dove opera come strumento complementare dell’Azione esterna dell’Unione Europea.

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PRIORITÀ DELL’UE IN VISTA DELLA LXX ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE (A CURA DELL’UFFICIO RAPPORTI CON L’UNIONE EUROPEA DELLA CAMERA)

Il Consiglio dell’UE ha adottato, il 22 giugno 2015, le priorità dell’UE in vista della settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si svolgerà a New York dal 28 settembre al 3 ottobre 2015. Le priorità definite del Consiglio sono così articolate:

Riesame delle operazioni di pace delle Nazioni Unite Le operazioni di pace delle Nazioni Unite devono essere dotate di mandati chiari, coerenti, concisi e realizzabili, e includere una componente sui diritti umani. L’UE considera cruciale il nesso sicurezza-sviluppo-diritti umani per conseguire una stabilità duratura e sostenibile. Il riesame dovrebbe rivolgere particolare attenzione al ruolo sempre più importante svolto dalle organizzazioni regionali negli interventi internazionali per la pace e la sicurezza. Le operazioni di pace non possono però sostituirsi ai processi politici. Sono necessari sforzi di prevenzione correttamente avviati nella fase iniziale di un conflitto. L’Ue considera prioritario assicurare la promozione dell’agenda riguardante le donne, la pace e la sicurezza, sia internamente sis nelle relazioni con i paesi terzi. È necessario integrare strutturalmente la prospettiva di genere in tutte le fasi e tra gli elementi e strumenti dell’agenda per la pace e la sicurezza.

Non proliferazione e disarmo L’UE ritiene opportuno sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite volti a impedire agli attori non statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare, costruire, detenere o trasportare tali armi e relativi vettori. L’UE si adopererà per una migliore attuazione della risoluzione 1540 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e contribuirà attivamente al suo riesame globale, che deve essere completato nel 2016.

L’UE continuerà a promuovere il trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP) e considera una priorità assoluta l’entrata in vigore del trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT). L’UE è, inoltre, impegnata a promuovere la piena attuazione de: il trattato sul commercio delle armi; la convenzione sulle armi chimiche (CWC); la convenzione sull’interdizione delle armi biologiche e tossiniche (BTWC). L’UE, infine, intende promuovere negoziati multilaterali su un codice di condotta internazionale per le attività nello spazio extraatmosferico.

Lotta contro il terrorismo L’UE sostiene il ruolo chiave delle Nazioni Unite nella cooperazione multilaterale nella lotta contro il terrorismo. La strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo contiene una serie completa di misure che devono essere attuate integralmente, ma anche misure volte a garantire la tutela dei diritti umani e ad affrontare le condizioni di fondo che favoriscono la diffusione del terrorismo, quali conflitti prolungati irrisolti e marginalizzazione sociale, economica e politica. L’UE ribadisce il suo sostegno alle iniziative volte a sradicare Da’esh, ma ritiene che la lotta contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature nelle regioni interessate.

Agenda globale post 2015 L’UE è fortemente impegnata a conseguire un nuovo quadro che integri l’eliminazione della povertà e lo sviluppo sostenibile con società pacifiche e stabili e includa anche diritti umani, stato di diritto, buon governo, parità di genere e sostenibilità ambientale. I risultati degli eventi di Addis Abeba (finanziamento dello sviluppo), New York (vertice post 2015) e Parigi (UNFCCC COP 21) dovrebbero rafforzare e porre in evidenza i benefici collaterali e le sinergie tra l’eliminazione della povertà e lo sviluppo sostenibile, compresi i cambiamenti climatici. L’ UE ritiene che il principale campo d’azione sarà la definizione e l’attuazione di un forte quadro di monitoraggio, rendicontabilità e valutazione, che dovrebbe essere parte integrante dell’agenda post 2015. Tra le tendenze globali che avranno ripercussioni complesse e su larga scala sull’agenda post 2015, la migrazione offre un esempio di questione che deve essere gestita in modo globale. Occorre a tal fine potenziare gli sforzi per prevenire la migrazione irregolare, inclusa la lotta contro la tratta e il traffico dei

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migranti, in particolare con azioni di contrasto alle reti criminali e una maggiore coerenza e coordinamento tra le dimensioni esterna e interna della politica di migrazione e le agende in tema di sviluppo e affari esteri. Cambiamenti climatici L’UE punta a un accordo equo, ambizioso e giuridicamente vincolante, applicabile a tutti, che copra sia la mitigazione che l’adattamento, che dovrebbe agevolare la transizione verso un’economia a bassa emissione di CO2 e resiliente, che tenga conto delle esigenze dei più vulnerabili. L’UE resta impegnata ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei finanziamenti per il clima nel contesto di azioni significative di mitigazione, al fine di apportare il proprio giusto contributo all’obiettivo dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi all’anno di dollari attingendo ad un ampia varietà di fonti pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, incluse le fonti alternative di finanziamento. Nel contempo l’UE ricorda l’importanza, in termini di clima, dei trasporti aerei e marittimi internazionali.

Diritti umani e diritto internazionale L’UE si impegna a sostenere ogni sforzo volto a integrare i diritti umani in tutti i lavori delle Nazioni Unite, anche in materia di sviluppo e pace e sicurezza. L’UE sostiene con forza la Corte penale internazionale (CPI) e ritiene che si debba prestare maggiore attenzione al rafforzamento e all’ampliamento delle relazioni tra CPI e ONU, in particolare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Benché la responsabilità primaria di consegnare gli autori di reati alla giustizia spetti agli stessi Stati, la CPI dovrebbe esercitare la sua giurisdizione qualora le autorità nazionali non siano in grado o non siano disposte a perseguire veramente i crimini più gravi motivo di allarme per la comunità internazionale. L’UE, in tale ambito, intende: • sostenere la libertà di opinione e di espressione online e offline quale diritto umano fondamentale e pietra angolare della democrazia e della pace; • continuare a propugnare la libertà di religione o credo e chiederà maggiori sforzi volti a proteggere i diritti delle persone appartenenti a minoranze religiose. • proseguire gli sforzi volti a porre fine alla tortura e ad altre forme di trattamenti e pene crudeli, disumani o degradanti;

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• a promuovere la cooperazione internazionale per affrontare la lotta contro la tratta di esseri umani, sostenere il lavoro delle Nazioni Unite verso l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo. • continuare a promuovere i diritti dei minori; • continuare ad operare contro tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza, compreso l’antisemitismo.

Protezione dello spazio umanitario L’UE continuerà a sostenere il ruolo guida delle Nazioni Unite nel coordinamento e nella prestazione di assistenza umanitaria internazionale nonché a propugnare il rispetto dei principi umanitari, del diritto umanitario internazionale, del diritto dei diritti umani e del diritto dei rifugiati. Le discussioni sul finanziamento umanitario devono essere parte integrante del processo più ampio del rafforzamento delle Nazioni Unite e del sistema umanitario.

Questioni di genere L’UE sostiene l’impegno a favore della promozione, della protezione e del rispetto di tutti i diritti umani nonché a favore dell’attuazione integrale e concreta della piattaforma d’azione di Pechino e del programma d’azione dell’ICPD (Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo) e ritiene occorra assicurare un’attuazione piena e rapida delle azioni e misure previste. L’emancipazione e i diritti umani delle donne e delle ragazze e la fine sia della discriminazione in tutte le sue forme sia di tutte le forme di violenza contro donne e ragazze devono essere al centro dell’agenda post 2015.

Ciberspazio L’Unione europea ribadisce la sua posizione secondo cui il diritto internazionale vigente, in particolare la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, si applica al ciberspazio e sostiene il ruolo centrale delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e sicurezza internazionali nel ciberspazio. In tale settore occorre che i diritti fondamentali siano promossi e protetti online e offline. È inoltre importante che salvaguardiamo l’approccio multipartecipativo, flessibile e favorevole all’innovazione, alla governance di internet. L’Unione europea resterà ferma sul principio che a nessuna singola

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entità, società, organizzazione o governo si debba consentire il controllo di internet. L’Unione europea riconosce la necessità costante di lavorare attivamente in tale ambito alla promozione e protezione dei diritti umani, compreso il diritto alla riservatezza e alla libertà di espressione.

Riforma e maggiore efficienza delle Nazioni Unite Sfide emergenti costringono le Nazioni Unite ad assumere nuove funzioni, che a loro volta richiederanno un ripensamento della governance e delle modalità di finanziamento. Assicurare la sana gestione delle risorse finanziarie e del personale delle Nazioni Unite continuerà ad essere una priorità dell’UE. La riforma del sistema delle Nazioni Unite dovrebbe comprendere la riforma generale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il rilancio dell’attività dell’Assemblea generale.

Rafforzamento dei partenariati multilaterali L’Ue ricorda il suo impegno a favore dei partenariati regionali, in particolare la Lega araba, l’OSCE, l’Unione africana e gli interlocutori regionali in America latina, nei Caraibi e in Asia. L’integrazione regionale è il mezzo per sostenere la pace e la prosperità in tutto il mondo e superare i conflitti tra le nazioni. L’UE accoglie con favore la recente relazione del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla costruzione di partenariati per la pace e il nuovo paradigma del "mantenimento della pace in partenariato" nell’architettura globale di sicurezza. Occorre fare più affidamento su azioni a più livelli e multiformi in tutte le diverse fasi dei conflitti e in tutte le fasi è necessaria una cooperazione più stretta con e tra le organizzazioni regionali. A tal fine, l’UE incoraggia le Nazioni Unite a sviluppare ulteriormente il concetto. L’UE ricorda il valore aggiunto degli approcci comuni tra UE, ONU e UA in Africa e l’importanza di una stretta cooperazione trilaterale.

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LA MISSIONE EUNAVFOR MED 49 (A CURA DEL SERVIZIO AFFARI INTERNAZIONALI DEL SENATO)

L’11 maggio 2015 l’Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), Federica Mogherini, ha illustrato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite le misure che l’Unione europea era in procinto di adottare per far fronte all’emergenza delle tragedie nel Mediterraneo, dando conto a un tempo della nuova agenda europea sulle migrazioni, che la Commissione avrebbe presentato due giorni dopo, e dell’operazione navale militare PSDC dell’Unione europea nel Mediterraneo centro-meridionale (EUNAVFOR MED), successivamente istituita dalla decisione (PESC) 2015/778 del 18 maggio 2015, evidenziando la necessità che l’Unione operi con il sostegno esplicito del Consiglio di sicurezza, espresso tramite una risoluzione mirata. L’intervento dell’AR ha costituito la prima applicazione dell’articolo 34, comma 2, ultimo alinea del Trattato sull’Unione europea (TUE), che recita: "Allorché l’Unione ha definito una posizione su un tema all’ordine del giorno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati membri che vi partecipano chiedono che l’Alto rappresentante sia invitato a presentare la posizione dell’Unione". Si ricorda che il mandato di EUNAVFOR MED, come definito dall’articolo 2 della citata decisione, prevede le seguenti fasi operative: • individuazione e monitoraggio delle reti di migrazione attraverso la raccolta di informazioni e il pattugliamento in alto mare; • fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospette; • fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti, in alto mare o nelle acque territoriali e interne di uno Stato costiero, di imbarcazioni sospette, conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato; • adozione di tutte le misure necessarie nei confronti delle imbarcazioni sospette, ivi compresa la possibilità di metterle fuori uso o renderle inutilizzabili, nel territorio dello stato costiero interessato, conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato.

49 Aggiornamenti a cura del Servizio Studi della Camera

Mentre le misure di cui ai primi due punti sono attuabili, nel rispetto del diritto internazionale e della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), prescindendo da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza e dal consenso dello Stato costiero interessato, le misure di cui agli ultimi due punti sono subordinate all’adozione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza od all’ottenimento del consenso dello Stato interessato. È da notare che la formulazione del punto c): "anche mettendoli fuori uso o rendendoli inutilizzabili" è frutto di un compromesso teso a rendere accettabile la formulazione, ai fini dei negoziati in corso alle Nazioni Unite, anche da parte della Russia, che non accetterebbe la possibilità di "distruggere" tout court le imbarcazioni sospettate di traffico. La Russia resta peraltro contraria alla possibilità di agire sul territorio libico. È rimessa al Consiglio dell’UE la valutazione delle condizioni per il passaggio dalla prima fase alle successive, tenendo conto delle risoluzioni ONU intercorse e del consenso dello Stato costiero. Mentre per le azioni di cui alla seconda e terza a fase dell’operazione sarebbe pertanto sufficiente una risoluzione del Consiglio di sicurezza o il consenso dello Stato costiero, in base al paragrafo 3 dell’art. 2 della decisione PESC sopra menzionata, per decidere il passaggio dalla prima alla seconda e terza fase è invece necessaria la compresenza di una risoluzione e del consenso: un aggravio della procedura che ha consentito l’approvazione della decisione (per la quale è prevista l’unanimità in Consiglio). Parallelamente all’iniziativa dell’Alto Rappresentante dell’UE presso il Palazzo di Vetro, le diplomazie europee si sono messe al lavoro per ottenere un mandato da parte dell’ONU. La bozza di risoluzione in discussione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul contrasto al business dei trafficanti di uomini in Libia - che dovrebbe costituire la cornice giuridica per le successive fasi di EUNAVFOR MED - è stata inizialmente elaborata dall’Italia e presentata dal Regno Unito in quanto il nostro Paese non è attualmente rappresentato in Consiglio di Sicurezza, mentre il Regno Unito è membro permanente (pen holder); è appoggiata dai quattro membri europei del Consiglio di Sicurezza: i due membri permanenti, Regno Unito e Francia, più Spagna e Lituania. L’adozione della risoluzione dipende però dall’atteggiamento cauto della Russia e della Cina (che solitamente sulle questioni mediterranee tende ad allinearsi a Mosca), preoccupate di evitare il ripetersi di quanto avvenuto nel 2011, con l’adozione della Risoluzione 1973, che diede il via all’intervento che portò alla caduta del regime di Gheddafi. Il testo inizialmente elaborato dall’Italia prende a modello la Risoluzione n. 1851(2008) sulla lotta alla pirateria al largo della Somalia, ponendosi sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite , che autorizza l’uso della forza di

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fronte a minacce alla pace, a rotture della pace e ad atti di aggressione. Com’è noto, tale Risoluzione ha consentito interventi di contrasto alla pirateria al largo delle coste della Somalia ma anche land-based operations, autorizzando gli Stati o le organizzazioni regionali notificate dal governo federale di transizione della Somalia a prendere all necessary measures appropriate in Somalia per impedire a coloro che usano il territorio somalo di pianificare, facilitare, intraprendere atti di pirateria; ha autorizzato Stati ed organizzazioni regionali a cooperare nel contrasto alla pirateria dispiegando navi ed aerei militari, sequestrando e disponendo di barche ed armi, facendo seguito alla lettera del governo federale di transizione della Somalia che chiedeva assistenza internazionale per contrastare la recrudescenza della pirateria. Seguendo tale schema, la bozza di risoluzione sulla Libia prevedrebbe la possibilità di ricognizioni non solo navali ma anche aeree. Mentre la decisione PESC non fa riferimento esplicito a ricognizioni aeree, vi sono mezzi aerei che già operano al largo delle coste libiche nell’ambito della missione Triton50 di FRONTEX. La bozza proposta dall’Italia conterrebbe anche il riferimento ad una "lettera" delle autorità libiche alle Nazioni Unite volta a chiedere un’operazione di assistenza che metta in sicurezza le acque territoriali dello Stato e il suo stesso territorio, lettera che dovrebbe indicare gli Stati e le organizzazioni regionali che coopererebbero a tale scopo. Il consenso libico rappresenta un aspetto di preminente importanza per Stati Uniti, Russia, Cina e Venezuela. La bozza farebbe poi riferimento anche alla messa in salvo delle persone che possano trovarsi a bordo delle imbarcazioni, in accordo con le regole del diritto internazionale, dei diritti umani e delle norme internazionali sui rifugiati. Un aspetto sensibile del negoziato sul testo riguarderebbe proprio gli aspetti umanitari dell’emergenza migratoria. Il nodo principale da sciogliere riguarda l’ambito di applicazione della risoluzione ONU, che alcuni, tra cui la Russia, vorrebbero limitato all’alto mare, mentre gli europei vorrebbero estendere alle acque territoriali libiche o al territorio libico (incursioni mirate sulla costa). Dall’ambito di applicazione dipende non solo il teatro delle operazioni possibili, ma anche la loro complessità.

50 Triton è stata potenziata a seguito del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile 2015 che ne ha triplicato la dotazione finanziaria e ne ha esteso l'area operativa e ha potenziato i mezzi a sua disposizione che giungeranno, in estate, a contare 3 aerei, 6 navi da pattugliamento offshore, 12 barche da pattugliamento, 2 elicotteri, 9 squadre di debriefing e 6 di monitoraggio.

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Alcuni membri del Consiglio, infine, richiamano alla prudenza riguardo a formulazioni che possano prefigurare interventi di portata più ampia come l’autorizzazione di "all necessary measures". Secondo notizie di stampa, la risoluzione potrebbe essere adottata alla fine del mese, nel corso della riunione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Quanto a un possibile contributo della NATO all’operazione navale, il Segretario generale Stoltenberg il 18 maggio, mostrando apprezzamento per gli sforzi dell’UE per l’elaborazione di una risposta more comprehensive all’emergenza migratoria e per l’istituzione di un’operazione navale per smantellare le reti criminali di trafficanti d’uomini nel Mediterraneo, ha dichiarato che finora non è stata rivolta una richiesta alla NATO che tuttavia resta pronta in caso di richieste di aiuto. Il Consiglio dell’UE con decisione PESC 2015/972 del 22 giugno 2015 ha approvato il lancio dell’operazione EUNAVFOR MED. L’operazione è posta sotto il comando del Contrammiraglio Credendino e con comando operativo basato a Roma. Il Comando del dispositivo aerovanale (Force Commander) è stato affidato al Contrammiraglio Andrea Gueglio che opera dalla portaerei Cavour. Oltre alla portaerei italiana - nave ammiraglia dell’operazione navale EUNAVFOR MED (v. infra) - nella prima fase dell’operazione, verranno dispiegate: 8 unità navali di superficie e sottomarine e 12 assetti aerei. Tra gli Stati contributori figurano attualmente 14 Stati membri (Belgio, Germania, Grecia, Estonia, Finlandia, Francia, Ungheria, Italia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Svezia, Slovenia, Regno Unito). Assetti militari e personale militare saranno forniti dagli Stati contributori. Il budget per i costi comuni è di 11,82 milioni di euro per un periodo di 12 mesi da quando verrà raggiunta la piena capacità operativa. L’operazione EUNAVFOR MED intende contribuire al contrasto al business dei trafficanti di uomini nel Mediterraneo nel quadro di un comprehensive approach dell’UE che include, sul fronte dell’azione esterna, le seguenti azioni: • Rafforzamento della partnership con l’Unione Africana (in vista del summit di Malta in autunno) e con le organizzazioni regionali africane, con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, con l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni e l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite; • Sostegno dell’UE ai processi di Rabat e Khartoum; • Accresciuta presenza dell’UE nel Mediterraneo, tramite le operazioni Triton e Poseidon di FRONTEX nel Mediterraneo; • Accresciuto sostegno alla gestione dei confini nella regione, anche attraverso missioni PSDC, in particolare rafforzando EUCAP SAHEL Niger ;

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• Affrontare le cause remote (povertà, crisi e conflitti) anche tramite il miglioramento delle situazioni della sicurezza, umanitarie e dei diritti umani e delle condizioni socio-economiche nei Paesi di origine; • Cooperazione con i Paesi di transito per il controllo dei flussi e per un contrasto efficace dei trafficanti; • Costruzione di capacità nei Paesi di origine e di transito che consentano alle autorità locali di affrontare la questione in maniera più efficace. Il decreto-legge 8 luglio 2015, n. 99, convertito dalla legge 4 agosto 2015, n. 117, ha autorizzato la partecipazione del personale militare italiano ad EUNAVFOR MED, relativamente al periodo 27 giugno-30 settembre 2015 (allineando così il termine a quello dell’ultimo decreto di proroga missioni, D.L. n. 7/2015). Nello specifico il provvedimento ha autorizzato la spesa di 26 milioni di euro (reperiti a valere sul fondo missioni per 19 milioni e sui rimborsi ONU per 7 milioni) per la partecipazione di 1.020 unità di personale militare e per l’impiego di mezzi navali (la portaerei Cavour e un sommergibile di classe Todaro) e mezzi aeromobili. Il decreto ha regolato, poi, la disciplina applicabile alla missione con particolare riferimento alle disposizioni di carattere penale (codice penale militare di pace) e quelle sul personale e di natura contabile, richiamando a tal fine le consuete disposizioni contenute nei periodici provvedimenti di proroga missioni. L’Italia contribuisce complessivamente all’operazione mettendo a disposizione: 1. il quartier generale operativo UE in Roma; 2. la portaerei Cavour con alcuni aeromobili imbarcati; 3. un dispositivo aeronavale composto da un sommergibile, due velivoli a pilotaggio (MQ-1 e MQ-9) remoto; 4. supporti sanitari imbarcati e a terra; 5. risorse logistiche nelle basi di Augusta, Sigonella e Pantelleria. Il 14 settembre scorso il Consiglio Affari Generali ha avallato l’avvio della nuova fase dell’operazione navale, dal momento che la prima fase dedicata all’ “intelligence, raccolta e analisi delle informazioni ha raggiunto tutti gli obiettivi militari prefissati”, cui si aggiunge il salvataggio di 1500 migranti. L’esito positivo della valutazione della proposta, passata al vaglio dei ministri degli Affari esteri degli Stati UE senza discussione, come “punto A”, permetterà ai mezzi di Eunavfor MED di effettuare “abbordaggi, perquisizioni, sequestri e dirottamenti in alto mare”, prosegue la nota, di quelle imbarcazioni “sospettate di venir utilizzate per il traffico di esseri umani nell’ambito delle legislazioni

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internazionali”, in particolare l’UNCLOS e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Arresti saranno quindi possibili, ma solo al di fuori delle acque territoriali libiche. I migranti e i sospetti catturati in acque internazionali saranno portati in Italia. Questo fa sì che per la seconda fase non sia necessaria una specifica e ulteriore risoluzione delle Nazioni Unite. In termini di mezzi, la fase 2 prevede, oltre alle unità già presenti (portaerei Cavour, una fregata e un sottomarino italiani, una fregata e una nave rifornimento tedesche e un’unità ausiliaria britannica), il dispiegamento di 7 fregate supplementari, numerosi elicotteri, sottomarini e droni. La ripartizione dei contributi in uomini e mezzi di ciascuno stato membro verrà definito dagli stati maggiori dei paesi membri nel corso della conferenza tecnica sulla costituzione della forza, prevista per mercoledì. Successivamente gli ambasciatori europei presso la UE decideranno, nell’ambito del Comitato di Politica e Sicurezza, quando lanciare ufficialmente il secondo passaggio. La decisione del Consiglio risponde a un’esigenza espressa nelle scorse settimane da più parti. A fine agosto aveva fatto dichiarazioni in tal senso – in relazione al passaggio alla fase due – l’ammiraglio italiano Enrico Credendino, comandante della Eunavfor Med, seguito dall’Alta rappresentante Federica Mogherini che, a margine del vertice dei ministri della difesa dell’Unione a Lussemburgo aveva dichiarato che “il passaggio alla fase due dell’operazione navale nel Mediterraneo per contrastare i trafficanti di esseri umani” aveva ricevuto un “ampio consenso”. Tale consenso era già stato espresso a livello di ambasciatori la settimana precedente. Il 24 settembre, l’Alta Rappresentante, in visita al quartier generale dell'operazione a Roma, ha precisato che la seconda fase partirà il 7 ottobre: l’iniziativa si chiamerà – ha aggiunto Federica Mogherini – “Operazione Sofia”, dal nome di una bambina, figlia di una donna migrante, nata a bordo di una delle unità navali che hanno preso parte alla prima fase dell'operazione. Denominare l’operazione con il nome della bambina nata a bordo di una delle navi - ha spiegato - serve a “dare un segnale di speranza alle persone che stiamo salvando”.

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LA MISSIONE DELLE NAZIONI UNITE IN LIBANO (UNIFIL) (A CURA DEL SERVIZIO STUDI DELLA CAMERA)

L’Italia è inserita nella forza multinazionale denominata United Nations Interim Force in Lebanon UNIFIL che dal 1978 opera lungo la linea “armistiziale” Blue Line tra il Libano ed Israele. Prima della crisi del luglio/agosto 2006 la forza multinazionale di UNIFIL aveva il compito di verificare il ritiro delle truppe israeliane dal confine meridionale del Libano e assistere lo stesso governo a ristabilire la propria autorità nell’area. Dopo la crisi del luglio/agosto 2006, ai precedenti compiti, si sono aggiunti il sostegno alle forze armate libanesi nel dispiegamento nel sud del paese, l’assistenza umanitaria alla popolazione civile e il monitoraggio della cessazione delle ostilità nell’area compresa tra la “Blue Line” ed il fiume Litani. Con lo scoppio della crisi siriana l'azione dell'UNIIFIL è divenuta ancora più importante, in quanto il Libano svolge un ruolo cruciale per la stabilità di tutta la regione. Il contributo italiano alla missione si estende anche alla componente navale dell'UNIFIL (Maritime Task Force), per il controllo delle acque prospicienti il territorio libanese richiesto dal Department of Peacekeeping Operations delle Nazioni Unite. Su decisione delle Nazioni Unite, dal 28 gennaio 2012, l’Italia ha assunto il comando della missione UNIFIL: a partire dal 24 luglio 2014 il generale di brigata Luciano Portolano è succeduto al suo collega Paolo Serra alla guida della missione UNIFIL. Alla missione UNIFIL partecipano oltre 10.000 soldati provenienti dai seguenti Paesi: Armenia, Austria, Bangladesh, Bielorussia, Belgio, Brasile, Brunei, Cambogia, Cina, Croazia, Cipro, El Salvador, Francia, Finlandia, Repubblica di Macedonia, Germania, Ghana, Grecia, Guatemala, Ungheria, India, Indonesia, Italia, Irlanda, Kenia, Malesia, Nepal, Nigeria, Qatar, Korea, Serbia, Sierra Leone, Slovenia, Spagna, Sri Lanka, Tanzania e Turchia. Il comando della forza nazionale è stanziato presso la base "Millevoi" in Shama (sede del Comando del Settore Ovest di UNIFIL), mentre l’unità di manovra ed i supporti sono dislocati tra le basi di Al Mansouri, Shama e le basi operative avanzate lungo la “Blue Line”. Attualmente la Joint Task Force – Lebanon consta di 1100 uomini e donne, principalmente composta da militari della Brigata Aeromobile “Friuli”, di stanza a Bologna. All’Italia è altresì affidato il comando del Sector West di UNIFIL che, dal 13 aprile 2015, è al comando del Generale di Brigata Salvatore Cuoci, già

Comandante della Brigata Aeromobile “Friuli”. In tale ambito opera la Task Force italiana in Libano che gestisce le unità di manovra e di supporto fornite da altre nazioni quali: Armenia, Brunei, Estonia, Finlandia, Ghana, Irlanda, Malesia, Repubblica di Corea, Slovenia e Tanzania e Serbia. Con il decreto legge n. 7 del 2015 (articolo 12 comma 4), convertito dalla legge n. 43 del 2015, è stata autorizzata fino al 30 settembre 2015, la spesa di euro di euro 19.477.897 per la proroga della partecipazione del contingente militare italiano alla missione delle Nazioni Unite in Libano, denominata United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL), compreso l'impiego di unità navali nella UNIFIL. L'autorizzazione di spesa è estesa, altresì, alla proroga dell'impiego di personale militare in attività di addestramento delle forze armate libanesi, quale contributo italiano nell'ambito dell’International Support Group for Lebanon (ISG), inaugurato a New York il 25 settembre 2013 alla presenza del Segretario generale delle Nazioni Unite. La costituzione dell'ISG consegue a un appello del Consiglio di sicurezza per un forte e coordinato sostegno internazionale inteso ad assistere il Libano nei settori in cui esso è più colpito dalla crisi siriana, compresi l'assistenza ai rifugiati e alle comunità ospitanti, il sostegno strutturale e finanziario al Governo nonché il rafforzamento delle capacità delle forze armate libanesi, chiamate a sostenere uno sforzo senza precedenti per mantenere la sicurezza e la stabilità, sia all'interno del territorio sia lungo il confine siriano e la Blue Line.

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Approfondimenti geopolitici

APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI

IL DIALOGO POLITICO IN LIBIA. UN AGGIORNAMENTO (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)51

• L'11 luglio 2015 viene firmato a Skhirat (Marocco) l'accordo politico quadro da parte di 18 su 22 partecipanti al Dialogo politico libico mediato dal Rappresentante Speciale dell'ONU, Leon. A luglio il Congresso Nazionale di Tripoli (GNC) non firma e chiede di rivederne alcune parti. Leon cerca dunque di circoscrivere la posizione del GNC, che appare determinata anche da tattiche dilatorie, attraverso l’apposizione negli allegati al testo di accordo politico di clausole interpretative e riserve. • L’11 e 12 agosto 2015, anche a seguito della forte pressione internazionale, una delegazione di Tripoli ha partecipato, pur senza essere autorizzata ad assumere impegni specifici, alla sessione di dialogo che si svolge a Ginevra in cui Leon presenta i primi due allegati (priorità del nuovo Esecutivo e politica fiscale) all’accordo politico, di cui saranno parte integrante. • In parallelo, prende il via in seno alla Camera dei Rappresentanti (HoR) la discussione per la definizione della rosa di personalità da indicare a UNSMIL per i vertici del futuro Governo. • Il 18 agosto 2015, nella riunione della Lega Araba, quest'ultima esprime sostegno verso il Governo libico di Tobruk e sottolinea la necessità di contrastare DAESH, anche attraverso lo sviluppo di una “strategia araba” per garantire alla Libia l’assistenza necessaria. Al contempo, l’organizzazione rinnoval’appello alle parti per portare a compimento il processo di dialogo sotto l’egida delle Nazioni Unite. • Il 17 agosto 2015, in una dichiarazione congiunta i governi di Francia, Germania, Italia Regno Unito, Spagna e Stati Uniti esprimono forte condanna delle barbariche azioni di Daesh a Sirte e lanciano un deciso appello all’unità delle fazioni libiche nella lotta contro DAESH e alla rapida positiva conclusione dell’accordo politico intra-libico. • Il 2 settembre 2015 Leon incontrando ad Istanbul una delegazione del Congresso Nazionale di Tripoli chiarisce che sebbene un progetto di accordo sia stato parafato da alcune parti il 12 luglio, un accordo sarà veramente raggiunto quando un pacchetto finale abbia un senso per ciascuno e sia firmato da ciascuno.

51 Aggiornamento: 22 settembre 2015.

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• Il 12 settembre 2015 Leon riesce a convocare una nuova sessione di dialogo, a Skhirat, per presentare i testi degli allegati mancanti (sulla composizione del Consiglio di Stato, sugli emendamenti costituzionali e sulle cariche di Primo Ministro e di Vice). • Leon appare deciso a mantenere la porta aperta al Congresso evitando di conferirgli un potere di veto, nella consapevolezza che un accordo senza Tripoli costituirebbe un’importante ipoteca sulla stabilizzazione della Libia. • Nella notte tra il 12 e il 13 settembre 2015 a Skhirat le delegazioni dei 2 governi libici rivali raggiungono un accordo su elementi centrali di compromesso finalizzato al raggiungimento dell'accordo di pace, che dovranno essere approvati dai rispettivi parlamenti. • Il 18 settembre 2015, in una dichiarazione congiunta, i Governi di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti, accogliendo con favore la tornata negoziale del dialogo politico guidato dalle Nazioni Unite in corso a Skhirat, in Marocco, e ribadendo pieno sostegno agli sforzi di León, esortano con forza tutte le parti del dialogo a continuare a partecipare ai colloqui in questa fase cruciale dei negoziati, al fine di raggiungere un accordo definitivo su un pacchetto che comprenda la nomina dei candidati per il Governo di Concordia Nazionale prima del 20 settembre, che sia avallato dalle parti prima della fine di settembre, affinché questi possano insediarsi quanto prima (e comunque non oltre il 21 ottobre), secondo le aspettative di tutti i libici. Ribadiscono, inoltre, che, in considerazione delle prossime festività dell’Eid, si ritiene cruciale che tutte le parti nel processo approvino un accordo definitivo e gli esponenti del nuovo Governo di Concordia Nazionale prima della fine di settembre. Infine, riaffermano il proprio sostegno in favore di una Libia unita, sovrana e indipendente. Sottolineano che la comunità internazionale è pronta a fornire una significativa assistenza umanitaria, economica e di sicurezza ad una Libia unita non appena il nuovo governo sarà stato formato. • Nella tarda notte del 21 settembre 2015, Leon annuncia che è pronto il testo finale dell'accordo politico libico, che deve essere confermato nei prossimi giorni da tutte le parti e che tutte sono pronte a discutere i nomi del governo di concordia nazionale (che figureranno nell'allegato 1), immediatamente dopo le festività di Eid. Leon esprime l'auspicio che la sessione finale del dialogo politico possa tenersi durante la settimana dell'Assemblea Generale dell'ONU e che nei giorni immediatamente futuri possa essere parafato l'accordo presumibilmente a Skhirat e che la conclusione avvenga in Libia entro il 20 ottobre 2015, per evitare il vuoto politico in Libia e avere una quadro legale certo. Sollecitato sulle scadenze, il Rappresentante speciale auspica che l'adozione del testo possa avvenire entro il 1°ottobre 2015 a New York da tutte le parti libiche, in modo che la

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parafatura possa avvenire quanto prima e la conclusione entro il 20 ottobre 2015.

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APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI

LA SITUAZIONE IN LIBIA (a cura del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale)

Dialogo politico

• Le prospettive del processo di dialogo politico sotto l’egida delle Nazioni Unite, ormai giunto ad una fase cruciale, sembrano tuttora incerte. Dopo un ultimo serrato fine settimana di negoziati a Skhirat, in Marocco, la distanza tra le delegazioni della Camera dei Rappresentanti (HoR) e del Congresso di Tripoli (GNC) sugli ultimi emendamenti presentati da quest’ultimo si sarebbe ridotta e Leon ha annunciato di avere raggiunto un accordo su un testo condiviso. • UNSMIL prevede di consegnare alle parti il testo finale, completo di tutti gli allegati tranne quello relativo alle cariche di Governo, già nelle prossime ore. Subito dopo l’Eid, Leon intende procedere con la discussione sul conferimento degli incarichi di Primo Ministro (espressione di Tobruk) e dei suoi due Vice (uno dei quali spetterebbe a Tripoli), avviata con la presentazione di 14 possibili candidati premier da parte di Tobruk. Il GNC al momento non ha ancora presentato i propri candidati. D’altra parte, l’impianto prefigurato da Leon per la formazione del Consiglio Presidenziale (Premier espressione dell’HoR e due Vice Premier designati rispettivamente da HoR e GNC) provoca scontento tra gli Indipendenti e Misurata, che da tempo sostengono il dialogo. • Una volta completato il pacchetto dell’accordo con tutti gli allegati, e quindi anche l’indicazione degli incarichi di vertice, secondo o schema previsto da Leon le parti dovrebbero finalizzare il proprio consenso attraverso un voto dei rispettivi parlamenti che dovrebbe a sua volta precedere la firma definitiva prima del 20 ottobre, data in cui scade, secondo la Dichiarazione Costituzionale ancora in vigore, il mandato della Camera di Tobruk.

Ultimi sviluppi sul terreno

• Permane una situazione di insicurezza diffusa in tutto il Paese. A Bengasi, i combattimenti tra gruppi islamisti e le forze del Generale Haftar si sovrappongono alle lotte in seno al fronte jihadista. Il Gen. Haftar ha

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lanciato in questi giorni una nuova offensiva per riprendere il controllo della città anche attraverso l’utilizzo di bombardamenti aerei. L’azione è stata condannata da UNSMIL con un duro comunicato. A Derna, roccaforte dell’islamismo militante libico, i gruppi autoctoni hanno dimostrato una notevole resistenza alla penetrazione dello Stato Islamico. Tuttavia, in entrambe le città, gli ultimi giorni hanno fatto segnare una recrudescenza dell’attività di Daesh, impegnata nel tentativo di affermare la propria leadership locale con rinnovata violenza, specialmente nella città costiera di Sirte. • Segnali incoraggianti provengono da una serie cessate il fuoco locali, soprattutto in Tripolitania. Si tratta di iniziative che potrebbero contribuire a una stabilizzazione dal basso di parti della Libia, ma la cui tenuta resta da verificare. Tuttavia, non sono ancora giunti a compimento negoziati per un ampio accordo tra Zintan e Misurata, due città chiave per la futura messa in sicurezza dell’ovest. Inoltre, si verificano nuove tensioni e scontri lungo la fascia costiera da Tripoli verso la Tunisia, in parte legati al tentativo dei gruppi della regione di acquisire posizioni da far valere in chiave politica, anche nello scenario che potrebbe aprirsi dopo l’accordo tra le parti. Da ultimo, il 18 settembre l’aeroporto di Mitiga è stato oggetto di un attacco con autobomba che ha provocato diversi morti. Nonostante una rivendicazione da parte di Daesh, la paternità dell’attentato non è chiara. • Sul fronte delle milizie, il 15 giugno Salah Badi (comandante militare di Misurata) ha annunciato la formazione della “Forza Sumud”, composta da raggruppamenti misuratini e tripolini più intransigenti rispetto al resto della compagine di Fajr Libya. • Il Sud rimane instabile, in particolare a causa delle tensioni interetniche alimentate dalla lotta per il controllo dei traffici illegali. Tuttavia, il 25 luglio alcuni capi Tuareg e Tebu hanno siglato una tregua a Sebha, maggiore città della regione. Manca invece un accordo sul cessate il fuoco tra i due gruppi nella città di Obari, uno dei principali hub dei traffici illeciti nell’area. Un ultimo focolaio di tensione si concentra nell’oasi cirenaica di Cufra, dove si sono verificati violenti scontri tra Tebu e la tribù araba degli Zwai, che controlla la città ed è vicina al raggruppamento “Alba della Libia”, anche con la partecipazione di mercenari stranieri.

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LA LIBIA: PUNTO DI SITUAZIONE (A CURA DEL CENTRO STUDI INTERNAZIONALI - CESI)

di Stefania Azzolina

SETTEMBRE 2015

Mappa della Libia. Elaborazione Ce.S.I.

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I negoziati di pace guidati dall’inviato speciale delle Nazioni Unite Bernardino Leon tra i due parlamenti avversari di Tripoli e Tobruk sembrano essere giunti nuovamente ad una fase di stallo. Infatti, la scadenza ultima prevista per il 20 settembre non ha visto il raggiungimento di un accordo per la formazione di un governo di Unità Nazionale tra Camera dei Rappresentanti (House of Representatives – HoR) di Tobruk, di orientamento laico ed unica autorità libica riconosciuta a livello internazionale, e il Congresso Generale Nazionale (General National Council - GNC) di Tripoli, di orientamento islamista. Nonostante pochi giorni prima fossero circolate delle voci su una possibile convergenza, le trattative si sono bloccate a causa dell’abbandono del tavolo negoziale dei delegati di Tobruk il 15 settembre scorso. L’HoR, infatti, si è opposto ad una serie di emendamenti al testo di accordo votato a fine agosto, ritenuti eccessivamente favorevoli alle richieste avanzate dai delegati del GNC. Più in generale, la difficoltà di trovare un compromesso continua a risentire della presenza, all’interno delle singole rappresentanze, di varie fazioni pro e anti-negoziato.

Sebbene non si riscontrino ancora i presupposti per il raggiungimento di una sintesi tra le parti, complessivamente l’andamento dei negoziati ha registrato una graduale serie di piccoli passi in avanti. Dopo l’accordo-quadro firmato l’11 luglio tra l’HoR, le milizie di Misurata e diversi leader di tribù locali e regionali, i nuovi negoziati di agosto, prima a Ginevra e poi a Skhirat, in Marrocco, hanno visto la partecipazione di entrambi i governi. In questo senso, l’apertura di una embrionale forma di dialogo tra i due schieramenti rappresenta già di per sé un notevole risultato politico dopo mesi di opposizione frontale e costituisce un punto di partenza importante per la futura costruzione di un esecutivo unitario nel Paese. Tuttavia, i contenuti e tempistiche di un eventuale accordo sembrano essere poco chiare e di difficile definizione.

Le difficoltà incontrate sul piano diplomatico e l’andamento degli scontri sul campo, che attualmente non vedono il prevalere né delle forze del Generale Khalifa Haftar né di quelle islamiste di Alba Libica, paiono escludere una soluzione politica a breve termine, sebbene Leon abbia fissato un’ulteriore scadenza per sottoscrivere un nuovo testo entro il 20 ottobre prossimo. Al di là della dicotomia Tripoli - Tobruk, la situazione attuale sul campo vede il territorio libico ancora conteso tra numerose milizie locali e tribali che sovente non partecipano né sono rappresentate durante i negoziati. La scarsa rappresentatività dei governi di Tripoli e Tobruk e l’estrema frammentazione dello scenario politico e militare della Libia, che rende quasi impossibile la partecipazione di tutte le realtà miliziane e tribali al meccanismo negoziale, potrebbe rischiare di mettere a serio repentaglio l’implementazione di un eventuale accordo tra HoR e GNC, qualora i diversi potentati locali vi si opponessero. Quindi, l’effettività di qualsiasi sintesi politica non potrà prescindere

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dalla rappresentatività di tutti gli attori presenti nelle diverse realtà territoriali libiche, spesso legate tra loro da alleanze contingenti basate su accordi estremamente variabili e flessibili.

Se da una parte i tempi per la formazione di un governo di unità nazionale non sembrano ancora essere maturi, dall’altra l’esigenza di trovare un accordo si fa sempre più pressante di fronte agli effetti che il perdurare del vuoto di potere determina sul Paese. L’assenza di un’autorità politica centrale, la mancanza di forze di sicurezza in grado di garantire il controllo dei confini nazionali, la distruzione di tutte le istituzioni preesistenti e la progressiva segmentazione della guerra civile su molteplici fronti sono tutti chiari sintomi di uno Stato ormai al collasso.

In un simile contesto così fortemente instabile, la propaganda jihadista ha visto crescere la sua capacità di azione e proselitismo nel Paese. In modo particolare, nell’ultimo anno si è assistito ad un rafforzamento della presenza dello Stato Islamico (IS), o di gruppi a esso affiliati, lungo la zona costiera del Paese. A partire dalla proclamazione del Califfato di Bayda a Derna nel novembre del 2014, l’IS ha preso progressivamente il controllo di diverse città portuali come Sirte e Bengasi, quest’ultima teatro di recenti scontri con le forze di “Operazione Dignità”, il conglomerato di milizie guidato dal Generale Haftar.

La penetrazione dell’IS lungo le coste libiche non solo rappresenta l’introduzione di un ulteriore elemento di criticità nel già complesso panorama nazionale, ma costituisce anche un fattore di grande apprensione per la Comunità Internazionale, in modo particolare per le cancellerie europee. Infatti, il timore è che l’IS, scendendo a patti con le reti criminali locali, posa iniziare a compartecipare al controllo dello sfruttamento dei flussi migratori che vedono nella Libia uno dei suoi snodi più importanti. Non è da escludere, inoltre, l’ipotesi in cui, di fronte al perdurare della precarietà dell’ordine politico, sociale ed economico del Paese, la propaganda dell’IS, soprattutto nella sua declinazione di modello para-statale, possa risultare attraente agli occhi delle classi sociali meno abbienti.

Di fronte a tali minacce, da diversi mesi la Comunità Internazione discute l’ipotesi di una possibile missione di stabilizzazione in Libia. La maggiore difficoltà consiste, attualmente, nell’assenza dei presupposti politici interni al Paese affinché si possa intervenire in un quadro di legalità e legittimità internazionale, ovvero in seguito alla richiesta di intervento da parte di uno attore statuale unico.

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In un simile contesto, appare doveroso sottolineare il ruolo nella diplomazia italiana, che potrebbe avere la forza di coinvolgere in un eventuale processo diplomatico Paesi oggi agli antipodi come il Qatar, che supporta con fermezza le realtà islamiste libiche, e gli Emirati e l’Egitto, che, al contrario, appoggiano le forze laiche.

Lo sviluppo di un’agenda comune dovrebbe essere perseguito anche attraverso un’opera di pressione e lobby all’interno delle Nazioni Unite, l’unica istituzione internazionale in grado di elargire la legittimità politica e giuridica necessaria per intraprendere un’azione più incisiva in Libia. Tuttavia, occorre sottolineare i rischi operativi di una eventuale missione militare. Infatti, le milizie dello Stato Islamico, pesantemente armate grazie ai canali del mercato nero e al saccheggio degli arsenali gheddafiani, sono pronte ad affrontare l’arrivo di un dispositivo militare convenzionale, rispetto al quale potrebbero essere in grado di massimizzare le loro tecniche asimmetriche (attentati, esplosivi improvvisati, guerriglia, imboscate). Dunque, qualsiasi ipotetico impegno militare dovrà necessariamente mettere in conto possibili pesanti costi umani, economici e politici.

Naturalmente, come accennato in precedenza, non è possibile immaginare alcuna iniziativa che preveda l’uso della forza senza avere una precisa strategia politica e una road map per il dialogo nazionale. Nonostante le mal celate simpatie di una parte della Comunità Internazionale e di molte Cancellerie europee per il Generale Haftar e per il governo di Tobrouk, non è possibile pensare ad un qualsivoglia processo di dialogo politico libico internazionalmente riconosciuto che, oltre alle realtà sinora citate, non includa i leader tribali del sud del Paese, soprattutto quelli appartenenti ai gruppi Tuareg e Toubou, indispensabili per la pacificazione dei territori centrali e meridionali libici. In questo senso, il coinvolgimento delle tribù e dei poteri locali appare imprescindibile, poiché avrebbe l’obbiettivo di privare il network jihadista legato allo Stato Islamico di quel supporto sociale indispensabile per la conduzione delle proprie operazioni. In questo senso, la Comunità Internazionale potrebbe ispirarsi alla strategia della formazione dei Consigli del Risveglio in Iraq nel 2005. In quell’occasione, con una felice intuizione, il Generale Petraeus, Comandante della coalizione multinazionale in Iraq, favorì la formazione di una rete di milizie sunnite, alleate alle forze occidentali, in opposizione ad al-Qaeda in Iraq. Roma potrebbe essere la sede ideale per un primo, eventuale, conferenza internazionale che dia voce alle tribù libiche.

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Sulla base delle dinamiche fin qui esposte, l’andamento dei negoziati a Shkirat, la destrutturazione del sistema statale e la progressiva proliferazione sul territorio da parte dei diversi gruppi jihadisti, sembrerebbero suggerire la necessità di politiche di lungo periodo per una reale stabilizzazione del Paese.

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SIRIA: I PIÙ RECENTI SVILUPPI (A CURA DEL SERVIZIO AFFARI INTERNAZIONALI DEL SENATO)

La situazione sul terreno registra la prosecuzione del trend, iniziato la scorsa primavera, di progressivo arretramento delle forze leali al regime Assad, con conseguenti perdite di terreno (da gennaio 2015 il regime avrebbe ceduto circa il 20% del Paese) sia a favore dell’ISIS/DAESH - che in particolare controlla ormai buona parte del Nord-est del Paese con le sue risorse petrolifere, al punto da aver stabilito nella città siriana di Raqqa, e non in Iraq, la propria "capitale" - sia, soprattutto, a favore delle altre forze ribelli nel Nord-ovest della Siria, nello specifico nella zona di Idlib e della pianura di Ghab. Sul variegato fronte dell’opposizione, si segnala che alcune milizie ribelli nei mesi scorsi si sono riunite in un’alleanza di fazioni, il cosiddetto Esercito della Conquista (Jaish al-Fateh), che includono formazioni riconducibili al Free Syrian Army tendenzialmente vicino alla Fratellanza Musulmana, gruppi radicali salafiti come Ahrar al-Sham ed i qaedisti di Jabhat al-Nusra, gruppo che, di fatto, guida l’alleanza. Tale coalizione sarebbe stata sostenuta da Arabia Saudita, Qatar e Turchia che, al di là delle divergenze, sarebbero animate da preoccupazioni condivise quali il coinvolgimento dell’Iran nel conflitto e la minaccia del “Califfato” (inaccettabile soprattutto per i Saud che non tollerano che altri si proclamino califfi). Sempre maggiori sono le perplessità sulla coesione e sulle capacità offensive del Free Syrian Army, accentuate dalle notizie relative ai risultati deludenti ottenuti dal costosissimo programma di addestramento di militari siriani condotto dagli americani e dai loro alleati. Per quanto riguarda DAESH, sul terreno - in conflitto aperto con i tre maggiori attori della crisi siriana cioè forze governative, opposizione, milizie curde, nonché sottoposto ai bombardamenti aerei della Coalizione anti-DAESH - l’avanzamento è controverso: nei mesi estivi si è avuto da una parte un importante arretramento di DAESH nel Nord-Ovest, su pressione dell’opposizione, e nel Nord, su pressione delle milizie curde, sostenute dai bombardamenti della Coalizione anti-DAESH; dall’altro, un’avanzata dal Deserto centrale in direzione di Homs, resa possibile dall’indebolimento delle forze governative, che ha consentito la conquista di Palmira in maggio e in agosto della cittadina assira di Al Qaryatain (Homs), situata ad appena 30 km dal confine libanese, da Homs e da Damasco. Sul piano della risonanza mediatica, l’escalation dei crimini di DAESH, come la barbara esecuzione dell’ex capo archeologo di Palmira e la distruzione

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del millenario monastero cattolico di Mar Elian ad Al Qaryatain, appare come un tentativo di DAESH di rivendicare la propria vitalità. Situazione umanitaria. Secondo dati ONU del luglio 2015, vi sono circa 12,2 milioni di siriani hanno attualmente bisogno di assistenza umanitaria e si stima che 220.000 persone sono state uccise dall’inizio del conflitto nel 2011. Soltanto nel 2015, oltre un milione di persone hanno lasciato le loro case, aggiungendosi ai 7,6 milioni di sfollati interni già presenti nel paese. Quanto ai rifugiati nei paesi limitrofi (Turchia, Libano, Giordania, Iraq), il numero ha ormai superato i 4 milioni (di questi circa il 2-3% cerca rifugio in Europa), facendo registrare la più grande popolazione di rifugiati a causa di un unico conflitto da più di 25 anni (Ruanda). Riguardo al coinvolgimento degli attori internazionali sul piano politico e militare, nelle ultime settimane sembrano profilarsi elementi di novità. Da un lato, è maturata la proposta francese di effettuare bombardamenti contro le forze jihadiste di DAESH non solo in Iraq ma anche in Siria, accolta con favore anche dal Regno Unito. Dall’altro lato, si è profilato un maggiore attivismo russo, sia sul terreno (tramite la creazione attorno a Tartus di una base avanzata a Jableh, nei pressi di Latakia), in funzione pro-Assad, sia a livello diplomatico. Non sembra implausibile che la Russia abbia deciso di aprire all’Arabia Saudita, con il comune obiettivo di combattere DAESH e che il Presidente della Federazione russa Putin intenda lanciare un "dialogo a quattro" con Stati Uniti, Arabia Saudita ed Iran e, forse, portare una proposta in tal senso all’Assemblea Generale dell’ONU. Inoltre, il Presidente Putin sembra deciso a sfruttare i nuovi spazi negoziali aperti dall’attestarsi delle posizioni occidentali sull’accettazione che l’allontanamento di Assad sia l’esito di un processo di transizione e non la pre- condizione per avviare il processo, come avrebbero preteso fino a uno o due anni fa. Già nelle ultime settimane, anche in considerazione dell’avanzata di ISIS e di al-Nusra (affiliato ad al-Qaeda), si è registrato un rinnovato slancio dello sforzo negoziale tra Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Iran, Turchia e Inviato Speciale dell’ONU in Siria (Staffan de Mistura, già vice ministro degli esteri italiano) per trovare un’intesa su un eventuale governo di transizione, in base all’accordo di Ginevra del 2012, dal momento che l’indebolimento di Assad faceva sembrare Mosca propensa a immaginarne un’uscita di scena. Tuttavia, per il momento, l’intenso lavoro diplomatico si è nuovamente arenato sul dibattito ‘ruolo/non ruolo’ che Assad avrebbe potuto esercitare in questa ipotetica transizione. Staffan de Mistura da parte sua ha presentato a fine luglio 2015 un nuovo approccio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che prevede che le consultazioni tra le Parti siriane si focalizzino maggiormente lungo 4 aree

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tematiche: protezione per tutti; questioni politiche e legali; questioni militari, di sicurezza e contro-terrorismo; continuità dei servizi pubblici, ricostruzione sviluppo. Sostenendo tale approccio, a metà agosto il Consiglio di Sicurezza ha fatto appello a tutte le Parti perché si impegnino in buona fede a sostenere gli sforzi dell’Inviato Speciale per una soluzione politica. Comincia a prendere campo tra gli osservatori la tesi secondo cui, visto che al momento il Califfato sembra essere l’unica forza ritenuta nemica da tutti (dall’Occidente, così come dalla Russia - che vede con terrore l’ISIS anche per le ripercussioni che il messaggio jihadista può innescare nelle enclave musulmane russe nel Caucaso - e dall’Iran che, tramite le sue milizie sciite, sta combattendo sul campo l’IS; contrastata - secondo alcuni analisti - anche da Arabia Saudita, EAU e Turchia), una soluzione percorribile sembrerebbe quella di unire gli sforzi per eliminare sul campo DAESH (in grado di recare minacce anche al di fuori della Siria e del Vicino Oriente), lavorando parallelamente a un processo politico per la formazione di un nuovo governo. Sarebbe interesse degli occidentali favorire la formazione di un governo che non sia solo espressione del campo sunnita, rassicurando così Russia e Iran, possibilmente allontanando definitivamente Assad e il suo entourage dal Paese, come auspicato anche dalla Turchia. Ciò avrebbe un duplice effetto positivo: allentare un fronte di tensione tra NATO e Russia ed indebolire il fronte jihadista. D’altronde, la Russia pur accrescendo il suo sostegno ad Assad con rinforzi sul campo e forniture di armi - conscia del fatto che gli occidentali sono restii ad un intervento militare diretto di regime change anche per via dell’esperienza libica, né sono in grado di contare sulla capacità offensiva dell’opposizione siriana moderata - intende far leva sul fatto che la minaccia dell’ISIS e di al- Qaeda costituisce per gli Occidentali una priorità di livello superiore a quella attribuita ad Assad (seppure preferiscano insistere sulla tesi del ‘non ruolo’ di Assad in un’ipotetica transizione). La Russia dunque starebbe rafforzando ulteriormente il proprio sostegno militare ad Assad per soccorrere l’alleato in crescente difficoltà – nonché per salvare i propri interessi nazionali nell’area – anche nella prospettiva di poter tornare al tavolo negoziale da una posizione di maggior forza. La strategia della Russia sarebbe dunque quella di contrastare l’ISIS ma anche consolidare il suo ruolo in Medio Oriente e mantenere i suoi punti di forza in Siria, attraverso un negoziato in cui il regime di Assad sia parte preminente (se non perfino Assad stesso) e possibilmente di imprimere un’accelerazione al processo negoziale prima che si verifichi sul terreno la temuta "battaglia di Damasco". Da ultimo giungono dall’Iran, altro alleato degli Assad, dichiarazioni che segnalano una disponibilità di collaborazione verso “chiunque” si adoperi per la

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soluzione del conflitto. Un’apertura, verosimilmente, al principale antagonista in area, l’Arabia Saudita.

Facendo leva sull’interesse comune di contrastare l’ISIS, la diplomazia potrebbe ritrovare slancio, riprendendo lo schema di lavoro elaborato da Kofi Annan a Ginevra nel giugno 2012, sostanzialmente ancora percorribile - anche parallelamente ad iniziative militari di contrasto all’ISIS. Com’è noto, sotto impulso di Kofi Annan, i 5 membri del Consiglio permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU convocati a Ginevra il 30 giugno 2012 (Conferenza di Ginevra I) raggiunsero un accordo sull’obiettivo prioritario da perseguire in vista di una soluzione della crisi siriana ovvero una transizione politica ad un governo di intesa nazionale senza Assad. Venne pertanto convenuta una roadmap, in vista: della creazione di un governo transitorio ampiamente inclusivo, dotato di tutti i poteri; dell’avvio di un processo di dialogo nazionale inclusivo e costituente, sotto l’egida dell’ONU; dell’avvio di una revisione della Costituzione da sottoporre a referendum, dell’indizione di elezioni pluraliste. Tale metodo garantirebbe la continuità delle istituzioni statali ed il perseguimento dei criminali (principio di accountability).

Contrasto a DAESH (ISIS): ruolo della Coalizione internazionale Il Vertice NATO di Newport (4-5 settembre 2014) registrava una notevole compattezza rispetto alla minaccia mediorientale rappresentata dall’espansione dell’ISIS in Iraq e Siria e condannava il ricorso alla violenza e i barbarici attacchi contro le popolazioni civili e le comunità religiose. Minacciava il ricorso alla difesa collettiva se fosse minacciata la sicurezza di un alleato. Ribadiva il sostegno al processo politico iracheno. Tuttavia, la formazione di una coalizione guidata dagli Stati Uniti e con la presenza di Regno Unito, Francia, Italia e di altri paesi, per giungere all’obiettivo di contrastare l’ISIS senza tuttavia l’utilizzazione di truppe di terra, coinvolgendo altresì i vari attori regionali, in primis la Turchia, è stata decisa a margine del vertice di Newport. Si è infatti tenuta una riunione ministeriale specifica per il contrasto a DAESH che ha coinvolto i Ministri degli esteri e della difesa di dieci Paesi tra cui anche l’Italia, il cui senso era quello di creare una rete di Paesi più ampia anche al di fuori dell’Alleanza atlantica, a partire dai Paesi arabi e islamici, con una pluralità di strumenti, non solo sul piano militare, ma anche sul versante dell’aiuto umanitario, del controllo dei flussi economici e finanziari, nella cornice delle Nazioni Unite. Perseguendo un approccio multidimensionale, le principali linee di azione nelle quali si articola lo sforzo collettivo sono state meglio individuate

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successivamente, il 3 dicembre 2014, nel corso della riunione della coalizione anti-DAESH (composta da 61 Paesi), a margine della riunione ministeriale NATO; esse consistono in: contributo militare, contrasto al flusso dei foreign fighters, confronto sul terreno della narrativa jihadista, lotta alle fonti di finanziamento e assistenza umanitaria, rinnovo dell’impegno per l’Iraq. L’ulteriore ministeriale di Londra del 22 gennaio 2015 ha formalizzato la nascita di un gruppo ristretto della coalizione, cosiddetto Small Group, composto da 21 Paesi, tra cui l’Italia, sugli oltre sessanta che partecipano alla coalizione. Allo tale formazione ristretta, che si riunirà con regolarità a livello tecnico e ministeriale, spetterà il compito di supervisione politica della strategia collettiva. La seconda riunione ministeriale dello Small Group, svoltasi il 2 giugno 2015 a Parigi, ha confermato il sostegno al Primo Ministro iracheno al-Abadi, a cui è stato dato mandato di rafforzare gli sforzi a favore della riconciliazione nazionale; ha introdotto un approccio più flessibile nell’utilizzo delle risorse e dei meccanismi della Coalizione per fronteggiare la crescente minaccia posta da gruppi affiliati a DAESH in altre aree come la Libia; ha adottato un documento di sintesi strategica della Coalizione, la Core Vision, che ne definisce le finalità, la struttura e l’organizzazione. Una successiva riunione (a livello Direttori Politici) dello Small Group, tenutasi a Québec City il 30 luglio 2015, ha consentito di affinare ulteriormente gli aspetti strategici e operativi legati alle linee d’azione lungo le quali si esplica la strategia comune. Un appuntamento cruciale per la Coalizione è costituito dalla riunione a livello di Capi di Stato e di Governo (“Leaders’ Summit on Countering ISIL and Violent Extremism"), che si svolgerà il 29 settembre 2015 a margine dell’UNGA, su invito del Presidente Obama, con l’obiettivo di focalizzare le priorità della comunità internazionale nella lotta al terrorismo ed alla radicalizzazione.

Impegno italiano nella Coalizione anti-DAESH L’Italia, che partecipa attivamente ai cinque gruppi di lavoro della Coalizione, articola i propri sforzi secondo le 5 linee d’azione concordate insieme agli altri partner: 1. stabilizzazione: leadership nel coordinamento dell’addestramento delle forze di polizia irachene (ad opera dell’Arma dei Carabinieri) da dispiegare per la stabilizzazione nelle aree liberate dalla presenza di DAESH (con priorità, nell’attuale fase, alla provincia dell’Anbar). Il primo contingente, composto di 10 unità ha già attivato il primo ciclo formativo a Baghdad. A regime (in autunno)

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saranno circa 110. Inoltre, la Cooperazione Italiana è operativa con progetti a favore dei gruppi maggiormente vulnerabili, nel settore sanitario, e nella tutela del patrimonio culturale. E’ stato creato un apposti Fondo dell’UNDP (Funding Facility for Immediate Stabilization), per mobilitare rapidamente risorse nelle aree liberate, cui l’Italia ha comunicato la sua intenzione di contribuire. 2. contrasto al finanziamento del terrorismo: l’Italia co-presiede il relativo gruppo di lavoro. Durante la riunione inaugurale di Roma (19-20 marzo) sono stati delineati i settori principali di contrasto: sistema finanziario internazionale, sfruttamento delle risorse economiche; le risorse provenienti dall’esterno; flussi finanziari tra DAESH e suoi affiliati. Sono stati costituiti altresì sotto-gruppi con specifici compiti. Tra essi, quelli sul contrabbando di beni culturali ed archeologici, sui flussi finanziari tra DAESH e i suoi affiliati esterni e sul contrabbando di petrolio. L’Italia ha ottenuto la presidenza del sotto-gruppo sul commercio illegale di opere d’arte; 3. impegno Militare: fornitura di armi e munizioni alle forze curde irachene; dispiegamento di assetti aerei; contingente di 280 addestratori, a regime, con ruolo di Lead Nation nell’addestramento ad Erbil da giugno 2015 a dicembre 2015 (al momento oltre 1200 peshmerga sono stati formati dal nostro contingente); 4. contrasto ai foreign fighters: con l’ampio pacchetto di misure adottato dal Governo italiano (D.L. 7/2015)52 nel campo della repressione, della prevenzione del reclutamento e del contrasto alla propaganda online. 5. comunicazione strategica: azioni di outreach verso le organizzazioni islamiche italiane per un loro coinvolgimento nell’azione di contrasto ideologico a DAESH ad opera del Ministero dell’Interno ed una intensa attività diplomatica con le leadership dei Paesi arabi moderati.

52 Recante Proroga missioni internazionali e contrasto al terrorismo.

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SOMALIA: PUNTO DI SITUAZIONE (A CURA DEL CENTRO STUDI INTERNAZIONALI - CESI)

di Marco Di Liddo

SETTEMBRE 2015

Mappa della Tunisia. Elaborazione Ce.S.I.

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La spinta ottimistica che, a cavallo tra la fine del 2012 e il 2014, aveva lasciato ben sperare per il futuro del Paese sembra essersi inevitabilmente esaurita, trascinando nuovamente il Governo Federale nell’incertezza politica e nell’instabilità securitaria.

Infatti, nel periodo in questione, l’elezione del Presidente Hassan Sheikh Mohamud, la prima democratica dall’inizio della guerra civile nel 1992, e le vittorie di AMISOM (African Union Mission in Somalia) a Kisimayo, Baidoa, Marca e in altri importanti centri urbani delle regioni centrali e meridionali del Paese, avevano costretto al-Shabaab (Ḥarakat ash-Shabāb al-Mujāhidīn, Movimento dei Giovani Combattenti) ad una precipitosa ritirata e all’abbandono di una consistente porzione dei territori sotto il loro controllo. La rotta del gruppo jihadista, alimentata da crescenti tensioni interne e dall’abbandono di alcuni leader di lunga militanza quali Hassan Dahir Aweys, Hassan Abdullah Hersi al- Turki e Sheikh Atom, era stata così improvvisa e vasta da lasciar erroneamente presagire una imminente estinzione dell’insorgenza di matrice salafita. Probabilmente, il momento più difficile per al-Shabaab è corrisposto all’uccisione sia del suo emiro Ahmed Abdi Godane (Mukhtar Abu Zubair), il comandante che aveva significativamente rafforzato i legami internazionali del gruppo, eliminato da un raid statunitense il 1 settembre 2014, che del comandante del dipartimento intelligence e sicurezza del movimento, l’influente Yusuf Dheeq, eliminato nel gennaio successivo.

Tuttavia, ai successi militari, resi possibili soprattutto grazie al contributo delle truppe ugandesi, etiopi e keniote, nonché al crescente coinvolgimento di Washington nell’Operazione “Oceano Indiano”53, non è seguita una adeguata strategia di riconciliazione tra le istituzioni e la popolazione. Le problematiche nel ricostruire il tessuto politico e sociale somalo è dovuta a due ordini di fattori.

Il primo, di natura sistemica, è legato alla tradizionale rivalità e difficoltà di dialogo tra i diversi clan e sub-clan del Paese, che continuano ad obbedire a logiche familistiche e tribali piuttosto che a logiche politiche di respiro nazionale. Tale approccio rende estremamente influenti i consigli di villaggio, i potentati locali, le milizie e i loro comandanti, poco disposti a subordinarsi al Parlamento e al Governo di Mogadiscio. La frattura tra centro e periferia è ulteriormente acuita dall’origine stessa dell’attuale classe dirigente somala, perlopiù espressione della diaspora all’estero e, dunque, poco rappresentativa e legittimata dalla

53 Lanciata il 16 agosto 2014, l’Operazione Oceano Indiano è guidata dal governo federale somalo, con l’assistenza di AMISOM e delle Forze Armate statunitensi e mira ad eliminare le residue sacche di resistenza nei territori controllati prevalentemente dalle autorità di Mogadiscio. Washinton contribuisce con una componete di velivoli a pilotaggio remoto, sia armati che per ricognizione ed intelligence, operanti dalle vicine basi di Djibouti e Arba Minch in Etiopia, e con piccoli team di9 Forze Speciali.

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popolazione nazionale. Inoltre, occorre sottolineare come a contribuire alla scarsa governance e alla conflittualità interna del Paese sono alcuni Stati della regione che, pur contribuendo ad AMISOM nel tentativo di stabilizzare la Somalia e neutralizzare la minaccia jihadista, perseguono i propri obbiettivi di politica estera. Nella fattispecie, Kenya ed Etiopia continuano a sostenere milizie, clan e signori della guerra con il fine ultimo di aumentare la propria influenza nel Paese.

In dettaglio, l’Etiopia punta, nel breve periodo alla costruzione di un cordone di sicurezza occidentale che renda quanto più impermeabile possibile il confine al passaggio di miliziani di al-Shabaab e nel lungo periodo all’ascesa di un governo che garantisca l’accesso al mare alle imprese nazionali. Da par suo, il Kenya vorrebbe continuare a sostenere il progetto di rafforzamento dello Stato Federale dello Jubbaland, una regione che include le province meridionali somali e che, nel disegno di Nairobi, dovrebbe fungere sia da zona-cuscinetto per filtrare le incursioni di al-Shabaab sia da autentico protettorato keniota in Somalia. Infine, nella categoria delle problematiche sistemiche, bisogna ricordare l’estrema povertà in cui vessa il popolo somalo. Condizione, quest’ultima, che lo rende vulnerabile alla propaganda jihadista e che alimenta un profondo malcontento che, spesso, si manifesta in una profonda critica verso le istituzioni centrali.

Come se non bastasse, l’indigenza della popolazione potrebbe rappresentare, nel breve termine, la condizione di base per la resurrezione del fenomeno della pirateria nel Golfo di Aden. Infatti, gli elementi che avevano contribuito, a partire dal 2012, ad abbattere il numero di attacchi erano stati l’efficacia delle due missioni internazionali anti-pirateria, Ocean Shield della NATO e Atalanta dell’UE, e la decisione, da parte dei pirati, di investire e “godersi” gli altissimi proventi dei riscatti ricevuti nel corso degli anni. Tuttavia, l’esaurimento dei fondi e la difficoltà delle attività ittiche a causa del perdurare della pesca illegale a largo della Somalia potrebbero spingere le bande di pirati a riprendere gli attacchi su larga scala.

Oltre ai fattori sistemici, il percorso di stabilizzazione somalo è reso impervio da fattori contingenti, quale il comportamento talvolta poco professionale dei militari di AMISOM, accusati di maltrattamenti e abusi verso la popolazione civile e percepiti, in alcune occasioni, come forze occupanti piuttosto che liberatrici.

Le criticità del governo e la fase di stallo in cui è entrata AMISOM, penalizzata dal basso livello addestrativo del contingente e dalla mancanza di adeguati assetti di supporto aerei, hanno permesso ad al-Shabaab di riorganizzare i propri ranghi e riprendere una offensiva militare di ampio respiro. Le nuove manovre da parte del movimento jihadista si sono concretizzate attraverso due tradizionali direttrici operative: da una parte, l’utilizzo di attentati suicidi e assalti “mordi e fuggi” nelle città controllate dal Governo Federale e dalle sue Forze Armate; dall’altra, attacchi strutturati, effettuati da gruppi di fuoco numerosi, contro basi di

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AMISOM e villaggi contesi o scarsamente protetti. Nel primo caso, appare particolarmente indicativa la campagna di attentati che ha insanguinato Mogadiscio per tutto il 2015 e che ha avuto il suo apice nell’attacco dello scorso 21 settembre contro il Palazzo Presidenziale (4 morti e decine di feriti). Tuttavia, è nella seconda fattispecie che al-Shabaab ha fatto registrare un significativo incremento nelle attività. Tra queste, occorre ricordare l’attacco contro la base AMISOM di Janale (80 km a sud di Mogadiscio), avvenuto lo scorso 3 settembre, che ha causato la morte di 50 soldati ugandesi e la razzia di un ingente quantitativo di armi e munizioni. Inoltre, appaiono degne di nota le conquiste dei villaggi di el-Saliindi e Kuntuwarey, situati sulla strada tra la capitale e il porto di Barawe, ultimo rilevante avamposto costiero controllato da al-Shabaab. Tali acquisizioni territoriali hanno consolidato il controllo che il gruppo jihadista ancora ha su una larga porzione delle regioni centrali e meridionali della Somalia.

In ogni caso, oltre a favorevoli condizioni politico-militari, la ripresa dell’insurrezione jihadista risponde a logiche di equilibri interni. Infatti, dopo la morte dell’emiro Godane, il gruppo è stato attraversato da gravi contrasti tra fazioni per la sua successione. A prevalere è stata la fazione espressione del clan Diir, lo stesso dell’emiro uscente, fautrice della prosecuzione del legame con al-Qaeda, dell’afflusso di un notevole numero di foreign fighters54 e dell’isolamento della vecchia ala pan-somala del movimento. Tale fazione, che predilige la centralità della guida politica (Shura) rispetto a quella militare, ha permesso l’ascesa all’emirato del cugino di Godane, Ahmed Omar. La seconda fazione, riunita attorno all’Amniyaat (il reparto intelligence e “operazioni speciali” di al-Shabaab), guidata dal suo capo Mahad Karatey, intende aumentare il peso dell’ala militare del gruppo e riducendo al minimo l’influenza della Shura. Inoltre, Karatey vorrebbe denunciare l’alleanza con al-Qaeda e pronunciare il bayat (giuramento di fedeltà) nei confronti dello Stato Islamico, ritenuto un brand più attraente e necessario per il definitivo rilancio del movimento jihadista africano orientale. In ogni caso, entrambe le fazioni concordano sulla natura maturamente transnazionale ormai assunta da al-Shabaab e sulla portata regionale della sua agenda. In questo senso, la Somalia continua ad essere uno dei fronti più caldi per l’insurrezione jihadista, ma non il solo. Infatti, in prospettiva, il movimento terroristico sembra essere orientato all’espansione delle proprie attività in Kenya e nella regione dei Laghi.

Dunque, alla luce della rivalità tra Ahmed Omar e Mahad Karatey, la recente ondata di attentati e attacchi potrebbe essere interpretata come il tentativo della

54 Soprattutto di provenienza yemenita, sudanese, eritrea a anglo-americana. L’ingresso di combattenti stranieri è una misura indispensabile per la sopravvivenza del gruppo, gravato dall’altissimo numero di defezioni di miliziani somali a causa della brutalità di al-Shabaab nei confronti della popolazione civile.

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fazione oggi al potere di dimostrare la vitalità e la pericolosità del gruppo nonostante le defezioni e l’uccisione di suoi membri di spicco, tenendo così a freno le correnti di opposizione.

In conclusione, la Somalia appare ben lungi da una situazione di stabilità tale da permetterle di tornare a pieno titolo nei consessi internazionali che le competono. Infatti, al momento il Governo di Mogadiscio risulta ancora troppo debole per pretendere di imporre la propria autorità su tutto il territorio. Inoltre, senza il contributo dell’Unione Africana, delle Nazioni Unite e dei partner occidentali, il Paese non sarebbe in grado di sopravvivere e tornerebbe in balia dell’insorgenza jihadista, con l’inevitabile compromissione dei timidi risultati sinora raggiunti.

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Schede Paese

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ALGERIA (A CURA DEL SERVIZIO AFFARI INTERNAZIONALI DEL SENATO)

ALGERIA (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)55

Dati Superficie: 2.381.741 Kmq Italia: 301.340 kmq Popolazione: 39.542.166 (stima luglio 2015) Italia: 61.680.122 (stima luglio 2014) Capitale: Algeri Forma di governo: Repubblica semipresidenziale Capo di Stato: Abdelaziz Bouteflika (dal 28 aprile 1999) Capo del Governo: Primo Ministro Abdelmalek Sellal (dal 28 aprile 2014) Tasso di crescita: 4% (2014); 2,8% (2013) Italia: -0,2% Pil pro capite: 14.300 $ (2014); 14.000 (2013) Italia: US$ 34.500 (2014) Disoccupazione: 9,7% (2014); 9,8% (2013) Italia: 12,5% (2014) Debito pubblico: 7,5% del Pil (2014) Italia: 134,1% (2014)

Cenni storici L’Algeria fonda le proprie basi istituzionali sull’Accordo di Evian, che nel 1962 pose fine alla guerra d’indipendenza contro la Francia, iniziata nel 1954. Il conflitto provocò più di 250.000 vittime e rappresentò anche il tramonto dell’esperienza coloniale di Parigi, all’epoca già segnata dalle sconfitte nei territori dell’Indocina. La guerra d’indipendenza ha profondamente segnato la

55 Aggiornamento: settembre 2015. Fonti: MAECI, Economist Intelligence Unit; Atlante geopolitico Treccani

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storia del paese non solo dal punto di vista dell’identità nazionale, ma anche da quello istituzionale: da allora l’esercito formato dai ranghi del Front de Libération Nationale (Fln) ha acquisito un ruolo centrale nella vita come garante delle istituzioni repubblicane. In questo contesto, negli anni Novanta l’Algeria è stata nuovamente teatro di violenze, scoppiate tra i movimenti di ispirazione islamica e l’esercito. Il tentativo di avviare un processo di democratizzazione si era arenato allorché il partito islamico del Front Islamique du Salut (Fis) vinse il primo turno delle elezioni politiche nel dicembre 1991, ponendo le basi per una vittoria al secondo turno. Di fronte a tale scenario, i militari misero in atto un colpo di stato, innescando una guerra civile che si protrasse per tutto il decennio e che causò quasi 200.000 vittime. Da allora il paese, con l’attuale presidente Bouteflika, ha intrapreso il cammino verso la normalizzazione, anche se gli strascichi del conflitto restano evidenti, e ha cercato di consolidare i rapporti con la comunità internazionale. A livello regionale sussistono numerosi fattori di instabilità. Su tutti, i rapporti con il Marocco: le frontiere tra i due paesi sono chiuse dal 1994 e gli scambi diplomatici, in questi ultimi anni, non hanno prodotto alcun accordo circa il contenzioso sull’indipendenza dei Sahrawi, nonostante vi siano stati negli ultimi anni dei tentativi di riavvicinamento tra i due paesi. Il motivo del contenzioso è il sostegno dell’Algeria al popolo del Sahara occidentale, rappresentato dal Fronte Polisario (dall’abbreviazione spagnola di Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro).

Quadro istituzionale La Repubblica Democratica Popolare di Algeria è una repubblica semipresidenziale. Il Presidente viene eletto a suffragio universale diretto ogni cinque anni a maggioranza assoluta con eventuale ballottaggio. Una modifica costituzionale del 2008 ha abolito il limite di mandati presidenziali. Il Presidente nomina il primo ministro che deve avere la fiducia del Parlamento. L'Algeria ha una struttura parlamentare bicamerale asimmetrica. L'Assemblea popolare, Camera bassa, è composta di 462 membri eletti a suffragio universale diretto per un mandato di cinque anni. La camera alta, denominata Consiglio delle Nazioni (Majlis al-Oumma) è invece formata da 144 seggi, un terzo dei quali viene designato dal Presidente della Repubblica e i rimanenti due terzi vengono eletti con un procedimento indiretto, per un mandato di sei anni. Il Consiglio delle Nazioni viene rinnovato per metà ogni tre anni.

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Politica interna Le recenti voci sulle cattive condizioni di salute del presidente Abdelaziz Bouteflika, eletto per il suo quarto mandato consecutivo nel 2014, hanno riacceso il dibattito sulla successione all'anziano leader, anche se non si avverte un consenso diffuso attorno al nome di un possibile successore. Il leader del partito di governo è Ahmed Ouyahia, capo dello staff del presidente, il quale ha ammesso che Bouteflika è malato ma ha affermato che è ancora in grado di svolgere le sue funzioni presidenziali. Egli risponde così alle pressioni esercitate dalle opposizioni che vorrebbero una transizione controllata. Un gruppo di forze di opposizione guidato dall'ex primo ministro e candidato presidente Ali Benflis ha formato la campagna per il Coordinamento nazionale per le libertà e la transizione democratica, mentre il Fronte delle forze socialiste, un'altra forza di opposizione, ha convocato una Conferenza per costruire un consenso attorno al tema del cambiamento di regime. Il quadro dell'opposizione appare però diviso e non in grado attualmente di determinare un cambiamento di regime, mentre il regime gestisce dall'interno i possibili cambiamenti. Si respira dunque un clima di incertezza attorno al futuro del paese e al dopo Bouteflika. Recentemente è stata avanzata la candidatura come possibile successore di Bouteflika anche del fratello Said, professore universitario e consigliere del presidente, ma la scelta non appare sostenuta dal consenso popolare. Dopo 16 anni consecutivi al potere, molti algerini sembrano stanchi del regime di Bouteflika e se suo fratello prendesse le redini del potere si rafforzerebbe questo sentimento di malcontento. Con l'elezione a leader del partito Rassemblement National Populaire (RNP), Ouyahia sembra aver costruito le condizioni per essere candidato alle elezioni presidenziali. Dopo avere perso la posizione di primo ministro nel 2012 la sua figura è riemersa al centro del panorama politico con la nomina a capo dello staff del presidente nel 2014. Negli ultimi mesi Ouyahia è stato molto visibile sulla scena pubblica, richiamando all'unità il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), il partito di governo, nei confronti delle richieste di cambiamento delle opposizioni. Ha anche difeso il capo dell'esercito Gaid Salah che aveva ricevuto delle critiche per aver interferito nella vita dei partiti politici. In vista di una candidatura presidenziale, Ouyahia potrebbe scontare nei confronti dell'opinione pubblica la sua lunga permanenza al potere, essendo stato Primo Ministro 3 volte dal 1995. Inoltre sta emergendo una contrapposizione con il Segretario generale del FLN Amar Saadani che ha criticato l'idea del fronte unico a sostegno di Bouteflika. Lo stesso Saadani potrebbe essere un candidato alla presidenza anche se la sua figura appare divisiva. Anche l'attuale Primo Ministro Abdelmalek Sellal è stato considerato come possibile candidato presidenziale e, dopo avere avuto un profilo indipendente, negli ultimi tempi si è avvicinato al FLN e alle elite del

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partito. Un altro possibile successore è Lakhdar Brahimi, che è stato inviato dell'Onu e della Lega Araba in Siria fino al 2014, anche se l'età, 81 anni (3 anni più anziano di Bouteflika), non gioca a suo favore. Altro candidato possibile, ma con minori possibilità di riuscita, è Liamine Zeroual, già presidente negli anni 90'. Tra gli oppositori si sono intensificate le critiche al regime di Ali Benfils, che ha corso per le presidenziali nel 2004 e nel 2014. In generale si assiste a una situazione politica di incertezza riguardo alla transizione del paese, dovuta anche all'assenza del presidente dalla vita pubblica, che non consente ai cittadini e al mondo economico e sociale di avere indicazioni chiare sul futuro del paese. Questo impedisce anche di attirare investimenti stranieri. Il malcontento popolare si nota soprattutto tra le giovani generazioni che appaiono disilluse verso un sistema politico percepito come sclerotico e incapace di rispondere alla domanda di lavoro e di più alti livelli di vita. Secondo gli osservatori questi fattori, uniti alle divisioni che emergono all'interno del regime, potrebbero portare a una destabilizzazione dell'Algeria. All'inizio di agosto, Bouteflika ha proceduto a un rimpasto governativo, il secondo dall'inizio dell'anno e il terzo da maggio 2014. Si è trattato di un rimpasto tutto interno al sistema ed ha interessato i ministeri del commercio, dell'agricoltura e della gioventù e lo sport: il mutamento operato non sembra destinato a cambiare significativamente la politica del governo, né d'altra parte è tale da mutare la percezione dell’esecutivo da parte della popolazione algerina. In ambito regionale, gli eventi in corso nei Paesi confinanti hanno riacutizzato in Algeria il timore per il deteriorarsi della sicurezza, a causa delle pressioni esterne provenienti dalla Libia, dai Paesi saheliani e in parte anche dalla Tunisia (soprattutto nelle zone di confine con Algeria e Libia). Le cellule terroristiche presenti nel Paese continuano ad attaccare i militari con preoccupante continuità. L’ultimo episodio risale al 18 luglio 2015, durante le festività dell’Eid: 9 militari sarebbero caduti nella regione di Ain Delfa. Sullo sfondo, i problemi socio-economici che l’Algeria affronta da tempo: inflazione; disoccupazione giovanile (superiore al 28%); scarsa diversificazione dell’economia e forte dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi, il cui prezzo continua a calare. Le misure economiche cui tradizionalmente il governo ha ricorso – sussidi, finanziamenti a fondo perduto, assunzione nelle pubbliche imprese o amministrazioni – potrebbero dimostrarsi insostenibili nel medio e lungo periodo. Inoltre, all’inizio del 2015 si sono registrate una serie di démarches avanzate dalle forze di opposizione, come quella improvvisata ad Algeri del 14 febbraio, guidata dal coordinamento che raggruppa la maggioranza delle opposizioni, la CNLTD (Coordination Nationale pour les libertés et la transition démocratique). La marcia è stata organizzata a seguito del rifiuto delle Autorità di autorizzare lo svolgimento di una conferenza sulle “condizioni per la trasparenza delle elezioni”, preparata dalla stessa CNLTD.

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Politica estera Priorità della politica estera algerina è il mantenimento di relazioni costruttive con l'Unione europea, regione che è la principale destinazione del gas esportato dal paese. Sono cordiali le relazioni con gli Stati Uniti che si basano soprattutto sulla lotta all'estremismo islamico e sulla tutela degli interessi americani nei settori del petrolio e del gas. Il timore che un nuovo fronte di radicalismo islamico, rinfocolato dalla crisi libica, dalla disfatta dei fratelli musulmani in Egitto e dall'avanzata di Daesh in Siria e Iraq, possa diffondersi anche nel Nord Africa determina una concentrazione della politica estera algerina sul contrasto al jihadismo che rischia di destabilizzare il paese. Ciò sta determinando una tendenza al rafforzamento della cooperazione regionale e all'aumento delle spese per la sicurezza. L’Algeria, che aveva mostrato scarse affinità politiche con le nuove leadership emerse dalla Primavera Araba, si confronta adesso con le evoluzioni in corso in Egitto e Tunisia. Rispetto all’Egitto, le reazioni ufficiali del Governo di Algeri alla caduta di Morsi sono state improntate alla cautela e al consueto principio di non ingerenza. Più veementi i commenti di alcuni partiti di opposizione, che hanno accusato le forze armate dei paesi arabi di complicità con le “élites laiche estremiste”. Gran parte dell’opinione pubblica ha accolto con sollievo l’intervento dell’esercito egiziano, considerandolo necessario per arginare un Islam politico percepito come aggressivo e inconciliabile con le istanze di moderazione. Sicurezza, controllo delle frontiere e contrasto al terrorismo sono al centro di un’intensa cooperazione con la Tunisia, soprattutto dopo il gravissimo attacco terroristico sferrato al confine tra i due paesi il 17 luglio 2014 dalla brigata Okba Ibn Nafaa, legata ad Ansar Al Sharia, in cui sono morti 14 militari tunisini e feriti altri 23. Dopo una ripresa dei contatti col Marocco e l’avvio di cooperazioni settoriali nel 2012, sono riemerse le incomprensioni di fondo che ostacolano il processo di normalizzazione bilaterale, la riapertura della frontiera comune (chiusa dal 1994) e l’integrazione regionale in ambito UMA (Unione del Maghreb arabo, tra Libia, Tunisia, Algeria,Marocco e Mauritania). La posizione di Algeri sulla questione del Sahara Occidentale – che continua a rappresentare un elemento di grande frizione tra i due Paesi – è immutata: l’Algeria non si considera parte in causa nella questione del Sahara Occidentale, ultimo caso di decolonizzazione dell’Africa, la cui soluzione deve rinvenirsi nel quadro negoziale ONU, attraverso il principio dell’autodeterminazione per i saharawi, da esercitarsi attraverso un referendum che includa l’opzione dell’indipendenza. Ma per Algeri le difficoltà nel rapporto con Rabat sono più ampie, con rivalità risalenti al periodo coloniale e che oggi investono anche l’asserita scarsa diligenza della dirigenza marocchina nel controllare i flussi di traffici illegali (persone, droga e armi) in direzione dell’Algeria (ciò che motiverebbe la chiusura della frontiera terrestre).

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La situazione in Libia è fonte di estrema preoccupazione per Algeri, soprattutto in termini di ricadute sulla stabilità e sicurezza interna e dell’intera regione. Nella convinzione che debba essere perseguita solo la via di una soluzione negoziale, l’Algeria guarda con preoccupazione al sostegno (incoraggiamento politico verso posizioni oltranziste, rifornimenti di armi e, a fortiori, raid o interventi militari) offerto o promesso da alcuni partner regionali a questa o quella parte libica. Con l’obiettivo di facilitare il dialogo, l’Algeria ha pertanto avviato consultazioni con esponenti di entrambi gli schieramenti. Sul dossier siriano, la linea seguita da Algeri è stata di favorire una soluzione pacifica e consensuale che ponesse fine allo spargimento di sangue e rispondesse alle legittime aspirazioni di libertà, democrazia e buon governo, preservando l’unità, la stabilità e la sovranità della Siria da ogni ingerenza esterna. I più recenti e drammatici sviluppi legati all’avanzata dell’ISIS preoccupano ovviamente Algeri, anche per la possibile presenza di combattenti algerini in Siria e Iraq. Sulla questione palestinese l’Algeria, pur non riuscendo a recuperare il ruolo politico di riferimento svolto negli anni ‘70, mantiene una posizione radicale nei confronti di Israele, con cui rifiuta di stabilire relazioni diplomatiche. Crescente è l’intesa, sui piani sia economico che politico e militare, col Sud Africa. La visita dello scorso aprile del Presidente Zuma ha confermato la convergenza tra due Stati che, per il loro potenziale economico, diplomatico e militare, ambiscono ad un ruolo di leader regionali, espandendo la loro influenza sui due poli opposti del continente africano. Bouteflika ha mantenuto un rapporto di consonanza politica con Cuba, Venezuela e Cina e impresso nuovo slancio alle relazioni con Teheran, considerata un partner strategico a livello regionale. Algeri manifesta simpatia per le posizioni iraniane sul nucleare e sul principio del diritto allo sviluppo di programmi nazionali di nucleare civile; ha interesse all’avvio di collaborazioni nei settori spaziale, petrolchimico, ambientale e industriale. I rapporti UE-Algeria sono disciplinati dall’Accordo di Associazione, in vigore dal 2005, che prevede sia una collaborazione nei settori economico (inclusa l’istituzione di un’area di libero scambio), sociale, scientifico, culturale e migratorio, sia un dialogo politico in tema di democrazia, diritti umani, sicurezza e lotta al terrorismo. Per l’UE l’Algeria dovrebbe essere un mercato di sbocco, un fornitore affidabile di energia e un garante della sicurezza delle frontiere. Dopo una fase di freddezza e di frizioni commerciali - seguita alla decisione, presa da Algeri nel 2010, di sospendere unilateralmente il programma di smantellamento tariffario previsto dall’Accordo di Associazione - si sta ora registrando un complessivo rilancio delle relazioni bilaterali.

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Economia La forte dipendenza che l'economia algerina ha dal settore degli idrocarburi pone serie sfide a medio e lungo termine, anche a causa della volatilità del prezzo del petrolio. Il governo intende promuovere gradualmente la diversificazione dell'economia, favorendo settori produttivi quali il farmaceutico, l'automobilistico e l'acciaio. Il settore privato è ancora ridotto e lo stato continua a supportare l'industria per assicurare livelli congrui di lavoro e produzione. Il piano di diversificazione dell'economia nazionale avviato dal Presidente nel 2011 promuove la riduzione dell'import di materie prime quali il cemento, il ferro e l'acciaio. A tal fine, il governo ha annunciato un progetto di espansione della produzione siderurgica che dovrebbe risultare nella creazione di un hub mediterraneo dell'acciaio per tutta l'Africa. La costruzione di strade, ferrovie e infrastrutture energetiche, necessaria per promuovere la diversificazione, è un obiettivo del governo anche se è rallentata dai vincoli finanziari e amministrativi. Assicurare il fabbisogno energetico è un'altra priorità, al fine bilanciare l'alto livello di esportazione con la crescente domanda interna di energia. La riduzione del prezzo del petrolio ha determinato una diminuzione della crescita economica che nel 2015 è prevista attestarsi attorno al 2,6%. Negli anni successivi la crescita dovrebbe tornare a crescere attorno a una media del 3,4%, un livello ritenuto ancora troppo basso in relazione alla grande ricchezza naturale e di materie prime del paese. La politica fiscale resta espansiva, con investimenti pubblici, aumenti salariali per i dipendenti statali e misure di sostegno ai consumi; quella monetaria è mirata al controllo dell’eccesso di liquidità e dei rischi inflazionistici (insiti anche negli aumenti salariali). L’inflazione è scesa dall’8,9% del 2012 al 4,5% del 2013. Le privatizzazioni, timidamente avviate nei primi anni 2000, sono state sospese a partire dal 2008. L’imprenditoria privata, con rare eccezioni, si presenta polverizzata. Il suo sviluppo è frenato dalla difficoltà di accesso al credito, dall’incertezza del quadro normativo e dalle lentezze burocratiche: aspetti che si riflettono nel basso posizionamento dell’Algeria nelle classifiche della Banca Mondiale per “Doing business” (153° posto su 189 paesi, classifica 2013) e “libertà economica” (164° su 189). La debolezza del sistema produttivo rende la popolazione dipendente dalle importazioni anche per il soddisfacimento dei bisogni alimentari. La scarsa produttività determina salari bassi e tensioni sociali, aggravate a loro volta dall’elevata disoccupazione, soprattutto giovanile, in un Paese in cui il 45% degli abitanti ha meno di 24 anni.

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Rapporti bilaterali Per l’Italia è di prioritaria importanza assicurare un sostegno adeguato alla stabilità dell’Algeria, contribuendo anche sul piano economico al progressivo sviluppo e alla liberalizzazione e modernizzazione del Paese. La convergenza di vedute sulle principali tematiche di politica internazionale, così come nel contrasto al terrorismo e all’immigrazione illegale, sono state sancite dalla firma nel 2003 del Trattato di Amicizia, Cooperazione e Buon Vicinato, che prevede la realizzazione di consultazioni annuali, alternativamente in Italia e Algeria, al più alto livello politico ed istituzionale. Nel quadro delle previsioni del Trattato, si sono svolti tre Vertici bilaterali: il 14 novembre 2007 ad Alghero, il 14 novembre 2012 ad Algeri e il 27 maggio 2015 a Roma. In particolare l’ultimo vertice bilaterale ha contribuito a un ulteriore rafforzamento dei legami tra i due Paesi, grazie alla presenza di una qualificata delegazione algerina (Primo Ministro, Ministro degli Affari Maghrebini, Ministro dell’Industria, Ministro dell’Energia), accolta dal Presidente del Consiglio, dal Ministro degli Esteri, dal Ministro dei Trasporti e dal Ministro dello Sviluppo Economico. Il vertice è stato anche l’occasione per l’adozione di una Dichiarazione finale e per la firma di 10 tra accordi e intese, nei campi più diversificati. Secondo i dati ISTAT, nel 2014 l’interscambio commerciale tra Italia e Algeria è ammontato a 8,149 miliardi di euro, con una contrazione annua del 22,7%. Le esportazioni italiane sono state pari a 4,316 miliardi di euro (+1,2%), le importazioni a 3,833 miliardi di euro (-38,9%): il saldo positivo per la nostra bilancia commerciale è stato di 483 milioni di euro (nel 2013 la nostra bilancia aveva registrato un deficit di 2,007 miliardi di euro). L’anno scorso, i macchinari hanno costituito il 26,6% delle esportazioni italiane, seguiti da “ghisa, ferro e acciaio” (18,1%) e dai combustibili (9,2%). Nel 2014, i carburanti hanno rappresentato il 96,9% delle importazioni italiane dall’Algeria.

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MAROCCO 56 (A CURA DEL SERVIZIO AFFARI INTERNAZIONALI DEL SENATO)

Dati Superficie: 446.550 kmq Italia: 301.340 kmq Popolazione: 32.987.206 (luglio 2014) Italia: 61.680.122 (stima luglio 2014) Capitale: Rabat Forma di Governo: Monarchia costituzionale Capo dello Stato: Re Mohammed VI (dal 30 luglio 1999) Capo del governo: Abdelillah Benkirane (dal 29 novembre 2011) Tasso di crescita: 3,5% (2014); 4,4% (2013) Italia: -0,2% (2014) Pil pro capite: 7.700 US$ (2014); 7.500 US$ (2013) Italia: US$ 34.500 (2014)

Disoccupazione: 9,6% (2014); 9,2% (2013) Italia: 12,5% (2014)

Debito pubblico (% del PIL): 76,6% (2014) Italia: 134,1% (2014)

Cenni storici Paese di antichissimo insediamento (testimoniato da importanti reperti del paleolitico e neolitico) il Marocco venne successivamente a contatto con Fenici, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Arabi, Turchi, Francesi e Spagnoli, e altri popoli ancora. L’invasione o il contatto con questi popoli non ha però turbato le caratteristiche proprie della preesistente etnia berbera, la cui origine risalirebbe alla civiltà caspiana: di esse sopravvivono tuttora la lingua, articolata in numerosi dialetti, la tradizione, i costumi, le superstizioni, un’arte che si estrinseca nella decorazione geometrica dei tappeti, del vasellame e della manifattura di oggetti in argento. E’ tuttavia incontestabile che l’occupazione araba abbia

56 Aggiornamento: settembre 2015Fonti: MAECI, Economist Intelligence Unit. Aggiornamento: settembre 2015

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profondamente influenzato la società berbera che, dopo molte resistenze, sanguinose rivolte e apostasie, ha finito con l’accettare l’Islam. Veicolo della religione musulmana fu, nei secoli, la lingua araba che, a spese delle lingue berbere, si diffuse dalle pianure alle montagne, dove le popolazioni sono diventate bilingui. Una ulteriore metamorfosi della realtà berbera si ebbe durante il periodo coloniale, con l’arabizzazione dei montanari scesi verso le pianure, valorizzate dall’agricoltura europea, e verso le città, in cerca di lavoro. Il diretto contatto con francesi e spagnoli ha profondamente influenzato le popolazioni marocchine, specie quelle urbane. Infine non bisogna dimenticare l’apporto dell’elemento israelita: oltre al nucleo formatosi in loco fin dai primi secoli dell’era cristiana, per giudaizzazione dei berberi, si devono comprendere gli ebrei delle grandi città discendenti dalle comunità ebraiche espulse dalla Spagna fra il 15° e il 17° secolo, e quelli delle tribù montane discendenti dagli antichi immigrati della Palestina e della Cirenaica. Storicamente, dinastie regnanti berbere e arabe si sono alternate alla guida del Marocco, la cui influenza e prosperità è testimoniata dalle antiche città imperiali (Fez, Marrakesh, Rabat). In epoca coloniale il Marocco fu oggetto e teatro di contese fra Spagna e Francia. Nel 1912 il Marocco diviene protettorato francese, ma al Sovrano, appartenente alla dinastia Filali (dinastia ancor oggi regnante dal 1654, che vanta una discendenza dal Profeta), venne concesso di mantenere la sua carica, sia pure con funzioni puramente rappresentative. Negli anni venti, tuttavia, si rafforza il sentimento nazionalista marocchino, che sfocia in una ribellione berbera, repressa nel 1926 dai francesi. Nascono quindi i primi movimenti nazionalisti, che danno vita all’Istiqlal (partito dell’Indipendenza), cui diede voce il sovrano Mohammed V. Dopo un lungo periodo di instabilità e un fallito tentativo francese di esiliare il sovrano, nel 1956 venne proclamata l’indipendenza e Mohammed V assunse il titolo di re del Marocco nel 1956. Alla sua morte, nel 1962, salì al trono il figlio Hassam II, che indisse le prime elezioni democratiche nel paese nel 1963. Tuttavia il lungo regno di Hassam II si caratterizzò in termini autoritari: sospesa la costituzione nel 1965, ebbe inizio un periodo di dura repressione di tutte le opposizioni interne. Al principio degli anni settanta, dopo due falliti colpi di stato militari, ebbe luogo, con la “marcia verde”, l’occupazione militare dei 2/3 del territorio del Sahara occidentale (ex Sahara Spagnolo), nel frattempo abbandonato dagli spagnoli. Nel 1994, anche a seguito di pressioni internazionali, Hassan II aprì al multipartitismo. Nel 1997 l’Unione Socialista delle Forze popolari vinse le elezioni e per la prima volta assume la guida del governo. Succeduto nel 1999 al padre Hassan II, l'attuale sovrano Mohammed VI ha promosso una stagione di riconciliazione e riforme; vengono inaugurati nel 2004 i lavori della Commissione per l’Equità e la Riconciliazione incaricata di fare luce sulle violazioni dei diritti umani sotto il lungo regno di Hassan II. Nel 2011 viene approvata la riforma della Costituzione, di cui si dirà appresso.

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Quadro istituzionale In base alla Costituzione del 1962, il Marocco è una monarchia costituzionale. Dal 1999 a capo dello Stato è Re Mohammed VI, alauita, che vanta lo status di sharif, ossia la discendenza dalla famiglia del Profeta. Tale prerogativa conferisce al sovrano i titoli di "difensore della fede" e "comandante dei fedeli", aggiungendo alla funzione politica quella di guida religiosa. Il sovrano detiene poteri politici molto ampi: nomina il Primo Ministro e gli altri ministri "di sovranità" (Esteri, Interno, Giustizia e Affari islamici), comanda le forze armate (essendo il Paese privo di un Ministero della difesa). L'attuale Primo Ministro è Abdelillah Benkirane, Segretario generale del partito islamico moderato "Giustizia e Sviluppo", che nel novembre 2011 ha vinto le elezioni. Il potere legislativo è affidato a un parlamento bicamerale formato dalla Camera dei Rappresentanti (Majlis al-Nuwab), composta da 325 deputati eletti a suffragio universale diretto per un mandato quinquennale, e dalla Camera dei Consiglieri (Majlis al-Mustasharin), composta da 270 consiglieri che vengono rinnovati per un terzo ogni tre anni attraverso elezioni indirette. La Costituzione del 1962 è stata emendata nel 1996 con l'introduzione del bicameralismo e, infine, nel 2011.

Primavera araba e nuova Costituzione Alla primavera araba, che in Marocco ha avuto consistenza più contenuta e pacifica che in altri paesi del Nord Africa, il Re Mohammed VI ha risposto con un programma di riforme e una nuova Costituzione - approvata il 1° luglio 2011 e confermata con referendum popolare - cui hanno fatto seguito elezioni anticipate. Il nuovo assetto costituzionale introduce elementi di riequilibrio tra i poteri del monarca e quelli del Primo Ministro e l'apertura a diversi diritti civili. La nuova Costituzione prevede: il riconoscimento del berbero quale lingua ufficiale – accanto all’arabo; l’inviolabilità - e non più sacralità - della persona del Re; la costituzionalizzazione dei diritti dell’uomo e dei meccanismi di tutela; il potenziamento del potere esecutivo e della figura del Primo Ministro (designato dal Re all’interno del partito di maggioranza relativa alla Camera dei Rappresentanti, egli ha il potere di proporre i membri del suo Governo e di revocarne il mandato); il ruolo centrale del Parlamento (il Governo è responsabile esclusivamente nei confronti della Camera dei Rappresentanti e non più anche nei confronti del Re); il rafforzamento dell’indipendenza del potere giudiziario; un più marcato decentramento regionale (le regioni avranno per la prima volta organismi eletti a suffragio diretto); nuovi meccanismi di governance, con l’elevazione a rango costituzionale di una serie di organismi di controllo. Particolare attenzione è dedicata allo sviluppo sociale, anche nell'ottica della lotta al fondamentalismo.

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Politica interna Il Marocco continua ad avere una solida stabilità politica. Il Re Maometto VI è la figura politica dominante e la guida spirituale del popolo (Amir Al-Muminim o Comandante della Fede). Sebbene i ruoli del Primo Ministro e del Parlamento siano stati rafforzati dalla nuova Costituzione del 2011, l'agenda politica continua a essere in larga misura condizionata dal sovrano e dai suoi consiglieri più vicini. Il complesso sistema elettorale di tipo proporzionale tende a frammentare il quadro politico: attualmente in Parlamento sono rappresentati 18 partiti e il partito di governo "Partito della giustizia e dello sviluppo" (PJD) controlla solo 107 dei 395 seggi, una situazione che rende difficile portare a termine delle riforme. Attualmente il PJD governa con una coalizione formata anche dai liberali e dal partito pro-monarchia Rassemblement national des indépendants. Un’intensa stagione elettorale, a livello locale e nazionale, si è aperta per il Marocco con le elezioni dei rappresentanti a livello comunale e regionale, il 4 settembre 2015, e con quelle per le prefetture e province il 17 settembre 2015: in quest’ultimo caso, gli elettori sono i rappresentanti dei consigli comunali e regionali. Il 2 ottobre si voterà per la Camera dei Consiglieri (camera alta): i membri sono eletti con un suffragio indiretto e a votare saranno i consigli comunali, regionali e prefettizi e i rappresentanti di categoria (camere di commercio, sindacati). Si tratta delle prime consultazioni elettorali dall’entrata in vigore della nuova Costituzione e per la prima volta l’elezione dei Presidenti delle Regioni avverrà a suffragio diretto. Il PJD ha vinto il 25,7% dei 678 seggi nei consigli regionali, un netto miglioramento rispetto al 5,5% dei seggi che deteneva in precedenza. Nei consigli municipali il Partito liberale Autenticità e modernità (PAM), uno dei principali rivali del PJD, con il 21,1% dei voti è risultato il primo partito, seguito dal Partito dell'IStqlal (16,2%) e dal PJD (15,9%). La vittoria delle elezioni regionali rafforza il mandato del PJD in vista delle prossime elezioni della Camera bassa previste per il 2016, ma resta improbabile che il PJD possa avere da solo i voti necessari a governare. Il PJD conserva un forte radicamento e la sua agenda sociale e conservatrice attira una consistente porzione dell'elettorato. Tuttavia, gli sforzi del Governo e dei partiti politici per incrementare la base elettorale non hanno ancora raggiunto i risultati sperati. Infatti, in base all’art. 4 della Legge 57/2011, i cittadini aventi diritto al voto sono tenuti a iscriversi nelle liste elettorali generali ma, secondo l’ultimo aggiornamento della lista generale (31 marzo 2014), il numero degli iscritti (oltre 13 milioni) è ancora al di sotto di quello effettivo degli aventi diritto al voto. Questo dato è sintomatico di un contesto caratterizzato da un diffusa sfiducia nei confronti di partiti politici, associazioni e sindacati da parte della popolazione: basti pensare che, secondo un recente sondaggio, circa l’80% dei

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marocchini ignora l’identità dei propri rappresentanti locali. Negli ultimi anni il Marocco ha compiuto passi in avanti in materia di diritti civili e umani, anche se permangono alcune criticità nella regione del Sahara Occidentale. Il 6 febbraio 2015 il Consiglio dei Ministri ha approvato un progetto di decreto che dovrà essere esaminato dal Parlamento: si tratta di una Legge organica che doterebbe le regioni (il cui numero passerà dalle attuali 16 a 12) di maggiore autonomia e poteri. La portata di questo decreto dovrà essere inquadrata anche con riferimento alla questione del Sahara Occidentale e, in particolare, alla proposta marocchina di un piano di ampia autonomia per le regioni del Sud. Sul piano della sicurezza il Paese si trova a fronteggiare, come gli altri Stati della regione, la crescente minaccia dell’estremismo, associata all’aumento dell’instabilità nella fascia saheliana. È in aumento la capacità dei movimenti radicali di ramificarsi nella società marocchina, anche attraverso le comunità residenti all’estero. La politica proattiva adottata dal Regno negli ultimi mesi in questo settore ha consentito di smantellare diverse cellule di jihadisti create per il reclutamento di terroristi da impiegare nell’organizzazione dello “Stato Islamico” in Siria ed in Iraq.

Politica estera Il Regno del Marocco ricopre da sempre un ruolo strategico nei traffici commerciali in entrata e in uscita dallo stretto di Gibilterra. È in questo senso significativo che il Marocco abbia stipulato negli anni importanti partnership commerciali e oltre 50 accordi bilaterali di libero scambio, tanto con i paesi della sponda settentrionale del Mediterraneo, e in primis con l’Unione Europea, quanto con Stati Uniti, Turchia, altri paesi mediterranei come Tunisia, Egitto e Giordania, e più di recente anche con Cina, Giappone e diverse altre economie latinoamericane, africane e dell’Europa dell’Est. Nella proiezione estera del paese convivono dunque sia la vocazione "europea" e la collaborazione con l'UE, sia la vocazione "africana, araba e mediterranea". Nella strategia africana del Marocco ha un ruolo centrale la dimensione economica e commerciale, con un’attenzione particolare alla penetrazione delle imprese marocchine in questi Paesi, mobilitando ingenti risorse anche grazie alla forte direzione statale nelle principali aziende del Regno. Questa azione viene accompagnata da una buona dose di retorica e definita come cooperazione “fraterna” e “solidale”, ma l’impatto che ha sulle società degli stati africani interessati è limitato se si guarda agli ambiti della riduzione della povertà, dell’istruzione e della sanità. Le relazioni con l'Unione europea, che per il Marocco sono il principale mercato per il commercio, gli investimenti e il turismo, saranno rafforzate nel medio termine dalla firma di un Accordo globale di libero scambio. Non ci sono

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tempi precisi per la sua sottoscrizione definitiva, anche a causa di frizioni e rallentamenti legati a temi sensibili come migrazioni, sicurezza e diritti umani. I paesi occidentali sostengono il Marocco come paese strategico nella lotta regionale al terrorismo e come porta di accesso all'Africa Subsahariana. Il Marocco sta assumendo un ruolo sempre più marcato nella sicurezza regionale, per esempio contribuendo alla missione, a guida saudita, nello Yemen e ospitando i colloqui di pace sulla Libia, in uno sforzo di prevenzione dei fattori di instabilità. D'altra parte questa sua crescente esposizione sulle questioni di sicurezza potrebbe anche attrarre gli attacchi dei gruppi estremisti. Il Marocco è uno dei principali fornitori di truppe per alcune missioni di peacekeeping ONU nel continente (MONUC e UNOCI). Rabat partecipa altresì a missioni di peacekeeping ONU in altre aree geografiche (Kosovo, Bosnia-Erzegovina) e, dal 2011, all’operazione NATO anti-terrorismo Active Endeavour. Per quanto riguarda la situazione libica, la posizione di equidistanza dalle parti ha consentito a Rabat di guadagnare la fiducia di tutte le fazioni e di poter così ospitare i round negoziali a Shkirat nei pressi di Rabat. La costante presenza istituzionale alle varie sessioni che si sono succedute è testimonianza del costante impegno e della grande attenzione con cui le autorità marocchine hanno seguito i negoziati. E' stato di recente anche ribadito l’impegno marocchino nel quadro della coalizione anti-Daesh. Il Marocco può vantare una lunga esperienza di contrasto a movimenti di matrice qaedista e non sembra al momento direttamente esposto al pericolo dell’avanzata del Daesh. Tuttavia, tra i 1.500 ed i 2.000 c.d. foreign fighters di cittadinanza marocchina si troverebbero in Siria ed in Iraq per combattere tra le fila del movimento. Uno strumento utilizzato dal Marocco nel contrasto al terrorismo è proprio quello legato all’ambito religioso e alla sua separazione dalle logiche terroriste. Il Regno ha messo in campo un’attività di aggiornamento e formazione degli Imam, volta a far sì che nelle moschee venga diffuso un messaggio dell’Islam quanto più lontano dalla retorica degli integralisti. Tale attività viene veicolata attraverso l’istituto di formazione degli Imam Mohamed VI che accoglie anche Imam provenienti dall’estero. Recentemente si segnala la creazione della Fondazione degli oulema africani, che ha l’obiettivo di coordinare le attività degli intellettuali di religione islamica e la promozione di un islam tollerante e moderato, in complementarietà con l’Istituto di formazione degli Imam. Il Marocco vive i rapporti più controversi dal punto di vista politico con alcuni dei suoi vicini, soprattutto con l’Algeria. I due paesi sono infatti divisi da una rivalità storica, che nei decenni ha mantenuto lo stato delle relazioni bilaterali costantemente in tensione. Su queste pesano in maniera determinante tanto il sostegno algerino al Fronte Polisario (si veda paragrafo), quanto i contenziosi legati alla definizione territoriale del confine comune (chiuso dal 1994) e alla

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gestione dei flussi di immigrazione clandestina. Le tensioni tra i due stati hanno inoltre pregiudicato finora il coordinamento a livello regionale nell’attività antiterroristica, che sarebbe particolarmente necessaria in considerazione del carattere transfrontaliero del raggio di azione delle organizzazioni terroristiche attive nei territori marocchino e algerino, come quella di al-Qaida nel Maghreb (Aqim). Sempre a livello regionale si registra qualche tensione con l’Egitto, a causa della salita al potere di Sisi e dell’estromissione dalla vita politica dei Fratelli Mussulmani, che non è stata accolta favorevolmente dagli islamisti marocchini. Da ultimo la dura reazione del Parti Justice et Développement di fronte alla condanna a morte dell’ex Presidente Morsi ed esponenti dei Fratelli Mussulmani in Egitto.

Sahara occidentale e questione Sahrawi Il Sahara occidentale è una regione che costeggia l’Oceano Atlantico, stretta tra il Marocco e la Mauritania, e abitata in prevalenza dal popolo Sahrawi. Dal 1976 la regione è contesa tra il Fronte Polisario (movimento rappresentante l’etnia saharawi, che ne rivendica l’indipendenza) e il Marocco, che lo controlla per l’80% della sua estensione. Il governo di Rabat considera il territorio come una propria regione, anche se ufficialmente nessun Paese ha riconosciuto l’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco. Dopo i violenti scontri tra le due parti, nel 1991 le Nazioni Unite hanno avviato la missione di pace, la MINURSO, il cui mandato viene rinnovato annualmente, con l’incarico di organizzare un referendum con cui far scegliere al popolo saharawi tra l’indipendenza o l’autonomia all’interno dello stato marocchino. Ad oggi il referendum non si è mai tenuto. L’Inviato Personale per il Sahara Occidentale del Segretario Generale dell’ONU, l’Ambasciatore statunitense Ross, ha cercato fin dal gennaio 2009 di far ripartire il dialogo tra Marocco e Fronte Polisario attraverso colloqui informali, propedeutici alla convocazione di un vero e proprio round negoziale volto a definire il futuro status della regione. Gli incontri non hanno prodotto particolari risultati. Nel 2011 le Parti hanno analizzato per la prima volta assieme ai Paesi osservatori (Algeria e Mauritania), le rispettive proposte di soluzione del contenzioso (autonomia sotto sovranità marocchina per Rabat; referendum con opzione dell’indipendenza per il Polisario). Ciò non ha tuttavia condotto all’avvio di una discussione “effettiva”. I negoziati tra le parti sono ripresi recentemente, dopo un’interruzione di oltre 9 mesi a causa del rifiuto marocchino di consentire l’ingresso nel proprio territorio dell’Inviato personale del SG ONU Amb. Ross e dello SRSG e capo della MINURSO Kim Bolduc. Tale irrigidimento era seguito al rapporto MINURSO

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dell’aprile 2014 e al tentativo di allargare il mandato della Missione anche al monitoraggio dei diritti umani. L’impasse nell’interazione tra ONU e Marocco è stata sbloccata grazie ad un intervento del SG ONU direttamente su Re Mohammed VI, a fine gennaio. Il mandato della Missione MINURSO è stato rinnovato da ultimo, senza modifiche significative, il 28 aprile 2015 per un altro anno. Le autorità marocchine hanno manifestato la loro soddisfazione sottolineando come la risoluzione rappresenti un risultato prezioso per il Regno, poiché definisce in modo chiaro le regole del processo politico e negoziale sul Sahara, riconoscendo al contempo gli sforzi del Marocco come “seri e credibili”. L’Italia ha sempre mantenuto una posizione di equidistanza, ribadendo che solo il dialogo diretto tra Marocco e Fronte Polisario, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, può definire una soluzione giusta e duratura che garantisca il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi. Nell’assenza di una posizione comune europea su questo dossier, il nostro Paese ha, a più riprese, invitato Marocco e Polisario a mantenere un dialogo franco, aperto e senza precondizioni. Tenuto conto che la situazione umanitaria dei rifugiati saharawi è da molti anni oggetto di forte attenzione da parte della nostra opinione pubblica, il Governo italiano si è impegnato a mantenere il proprio sostegno annuale ai programmi dedicati alla realizzazione di scambi di visite tra familiari saharawi residenti nel Sahara Occidentale e nei campi profughi di Tindouf, in Algeria (dove si stima risiedano circa 120.000 rifugiati), separati da oltre 35 anni a causa del protrarsi del contenzioso. Altrettanto rilevante è l’assistenza offerta con l’invio di beni alimentari e la realizzazione di programmi di emergenza e riabilitazione, per garantire migliori condizioni igienico-sanitarie nei campi saharawi e prevenire l’insorgere di malattie. L’Italia ha pertanto accordando annualmente un contributo complessivo pari a un milione di Euro, veicolato tramite le agenzie onusiane che ospitano le popolazioni nei campi di Tindouf. Contributo che è stato accordato anche per l’anno 2015. Le agenzie onusiane hanno peraltro lanciato a più riprese un allarme in merito alla situazione umanitaria nei campi, informando come ad oggi gli aiuti umanitari stanziati per il 2015 non permetteranno di assicurare forniture alimentari di base per i rifugiati sahrawi, a partire dal prossimo mese di settembre (c.d. breakdown umanitario). Ciò mentre aumentano le preoccupazioni sul fronte della sicurezza, a causa del deteriorarsi della situazione nel Sahel, in particolare nei pressi dei campi di Tindouf, sottoposti a una rafforzata sorveglianza da parte di miliziani saharawi ed esercito algerino. Dopo l’intervento militare internazionale in Mali, numerose sono state le segnalazioni di sconfinamenti di gruppi armati in fuga dal Paese saheliano in direzione dei campi saharawi dove, nell’ottobre 2011, venne sequestrata assieme a due colleghi spagnoli la cooperante italiana Rossella Urru.

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Economia Il quadro macroeconomico del Marocco è caratterizzato da rilevanti squilibri strutturali, dovuti sia all’eccessiva dipendenza dai mercati esteri (soprattutto per le risorse energetiche), che alla debolezza del settore primario (agricoltura e allevamento), alla scarsa diversificazione dell’industria nazionale (secondario) e alla insufficiente competitività del settore terziario (servizi). Il Marocco soffre di una carenza di infrastrutture adeguate allo sviluppo del paese e i progetti di nuove opere sono rallentati da una burocrazia inefficiente, dal nepotismo e dalla corruzione. Gli investimenti restano vulnerabili ai tagli, data la continua esposizione del Marocco a fattori esterni quali il turismo e il prezzo delle materie prime. Altri fattori di debolezza dell'economia, secondo l'Economist Intelligence Unit, sono la burocrazia, la scarsa competitività della forza lavoro e la concentrazione del potere economico in poche mani. Nonostante la lenta e fragile ripresa del continente europeo, che è il principale partner economico del Marocco, è atteso per il 2015 un tasso di crescita del 4,8%, il doppio rispetto al 2,4% del 2014. La crescita più sostenuta del 2015 riflette l'aumento della produzione agricola, che ha avuto effetto sui consumi privati, e della produzione industriale. I forti legami con i paesi del Medio oriente e dell'Africa Subsahariana e la ripresa dell'Euro zona dovrebbero consentire tassi di crescita sostenuti anche negli anni prossimi. Rimane tuttavia la necessità di realizzare riforme economiche che sviluppino l'occupazione e gli investimenti e aumentino la competitività del paese.

Rapporti bilaterali. L’Italia ritiene di prioritaria importanza assicurare un adeguato sostegno alla stabilità, al progressivo sviluppo e alla modernizzazione del Marocco, partner d’interesse strategico per la stabilità e sicurezza nel Mediterraneo e nell’azione di contrasto al terrorismo internazionale, la criminalità organizzata e l’immigrazione clandestina. Il quadro di riferimento del rapporto bilaterale è il Protocollo sulle consultazioni politiche rafforzate firmato nel 2000, che prevede lo svolgimento di riunioni politiche a cadenza annuale, a livello di Ministri e/o Sottosegretari degli Affari Esteri dei due Paesi, alternativamente a Roma e a Rabat, sui principali temi bilaterali e di politica internazionale. Da ultimo, il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini si è recato in visita in Marocco dal 4 al 6 luglio, accompagnata da una delegazione di rappresentanti di otto università e centri di ricerca. Oltre agli incontri con il Ministro per l’insegnamento superiore, Daoudi, e il Ministro dell’Educazione Nazionale, Belmokhtar, è stata firmata una Dichiarazione Congiunta che individua otto assi prioritari di collaborazione con il mondo universitario e della ricerca marocchino.

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L'interscambio commerciale Italia - Marocco si è attestato a fine 2014 alla cifra di 2,12 miliardi di euro, registrando una flessione del 3% rispetto al 2013, quando la somma dei flussi di merci tra i due Paesi era pari ad oltre 2,18 miliardi. In particolare, le esportazioni italiane verso il Paese nordafricano sono calate del 7,5 %, passando da 1,53 miliardi di euro del 2013 a 1,41 miliardi nel 2014. Le esportazioni marocchine verso l'Italia, invece, sono aumentate con una dinamica quasi speculare (+ 7,3 %), crescendo da 656 a 704 milioni di euro. Il saldo commerciale rimane quindi in favore dell'Italia (+ 710 milioni), pur registrando una diminuzione di 163 milioni rispetto al saldo 2013 (pari a 873 milioni). In ambito UE siamo i terzi esportatori dopo Francia e Spagna, e i terzi importatori dopo Spagna e Francia. Su scala globale, invece, nel 2013 siamo stati il settimo fornitore (con una quota di mercato del 5,17%) e il sesto cliente del Marocco (con una quota del 5,1%). In questa fase storica di marcate difficoltà dei rapporti franco-marocchini, incrinatisi negli ultimi mesi a causa di reciproche incomprensioni soprattutto per questioni legate alla cooperazione giudiziaria fra i due Paesi, si potrebbero aprire per l’Italia nuove opportunità, soprattutto sul fronte economico. Particolarmente importante nei rapporti bilaterali la questione migratoria. La comunità marocchina legalmente residente in Italia è la prima extra-UE in termini numerici, e la seconda in termini assoluti (580.000 unità a fine 2014). Si tratta di una comunità caratterizzata da una forte componente di minori (poco meno di un terzo del totale), gran parte dei quali nati in Italia. Pur diffusa su tutto il territorio, la comunità marocchina si concentra nelle aree industriali del Nord Italia (Lombardia in testa, cui fanno seguito l’Emilia Romagna, il Piemonte e il Veneto). Secondo rilevamenti dell’ICE, la comunità imprenditoriale marocchina è la più numerosa tra quelle straniere in Italia con oltre 57.000 aziende private, seguita da quella cinese e romena. Il Marocco figura al primo posto per numero di detenuti in Italia (circa il 20% del totale dei detenuti stranieri nel nostro Paese).

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SOMALIA (A CURA DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE)

1. QUADRO DELLA SITUAZIONE Nel settembre 2013, in occasione della Conferenza di Bruxelles sulla Somalia, il Governo Federale somalo (GFS) ed i principali partner del Paese hanno adottato un’agenda comune, il c.d. Somali Compact, che prevedeva: il completamento del quadro federale nel 2014, l`approvazione di una costituzione definitiva nel 2015 e la convocazione di elezioni generali e definitive nel settembre 2016, alla scadenza dei mandati del Parlamento e del Capo dello Stato. Rispetto a tali scadenze si registrano progressi parziali. Il processo di federalizzazione ha registrato dei passi avanti con l’istituzione nell’ultimo biennio di tre Amministrazioni regionali provvisorie nella Somalia centro-meridionale (Jubaland, South-West e Galmudug) ed il consolidamento delle relazioni tra Mogadiscio e Puntland. Il Puntland si configura come un’entità regionale autonoma che, a differenza del Somaliland, territorio corrispondente all’ex Somalia britannica, non rivendica uno status di totale indipendenza da Mogadiscio. Il Somaliland è allo stato attuale l’area del Paese che presenta le strutture statali più consolidate. La sua esistenza come Stato indipendente non è tuttavia riconosciuta da alcun attore della Comunità Internazionale. Resta invece ancora indefinito lo status di tre territori (Hiraan, Middle Shabelle e Benadir con la capitale Mogadiscio), mentre sono fermi i negoziati tra Mogadiscio e Somaliland. Il complesso schema delle relazioni tra il GFS e le costituende regioni, tanto come con le entità che oggi possono vantare un grado relativamente più alto di stabilizzazione interna e migliori condizioni di sicurezza (Puntland e Somaliland) è un aspetto del processo di stabilizzazione della Somalia che l’Italia sostiene nell’ottica della creazione di uno Stato federale che possa prevedere forme differenziate di autonomia. L’obiettivo di tenere elezioni dirette e universali entro il 2016 viene oggi giudicato irrealistico, tanto dai somali quanto dalla Comunità Internazionale. Prevale l’idea di puntare all’allargamento della base elettorale del 2012 (poco più di un centinaio di anziani). Il 19 settembre u.s. sono state lanciate le consultazioni nazionali destinate a sfociare entro l’anno nella scelta del processo elettorale che guiderà il rinnovo delle autorità politiche federali somale nel settembre del 2016. Un Forum Consultivo Nazionale sarà l’organo cui verrà demandata la formulazione di diverse opzioni elettorali, che verranno poi dibattute pubblicamente in una campagna nazionale che toccherà tutti i

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capoluoghi regionali. La prima riunione del Forum è prevista nella prima metà del prossimo mese di ottobre. I rappresentanti della Comunità Internazionale hanno auspicato che nel nuovo Parlamento vengano adeguatamente rappresentate categorie ora praticamente assenti quali donne, giovani e minoranze. Gli sviluppi del processo elettorale sono probabilmente all’origine dell’iniziativa di un Gruppo di Deputati (93) che hanno firmato una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente Hassan Sheikh, iniziativa che secondo alcuni osservatori mirerebbe a creare una situazione di impasse politica per ritardare le elezioni e prolungare il mandato dei firmatari. Il rispetto della scadenza dei mandati entro il 2016 è stato invece più volte pubblicamente ribadito dalla maggioranza dei parlamentari e dallo stesso capo dello Stato. La principale minaccia alla sicurezza deriva dalla presenza nel Paese delle milizie di Al-Shabaab (AS), organizzazione terrorista locale la cui propaganda attinge tanto alla retorica jihadista che al nazionalismo somalo. L’organizzazione è stata negli ultimi tempi protagonista di attacchi terroristici spettacolari, contro la presenza internazionale nel Paese e le istituzioni governative. Si segnalano, da ultimo, i sanguinosi attacchi all’Hotel Al Jazeera di Mogadiscio (26 luglio u.s.), sede tra l’altro dell’Ambasciata di Cina, quelli contro le basi della missione di peace-keeping dell’Unione Africana AMISOM (26 giugno e 1° settembre uu.ss.), quello presso il palazzo Presidenziale (21 settembre u.s.) che provocato almeno 6 vittime fra cui diverse guardie presidenziali. La minaccia di AS, anche avvalendosi di gruppi ad esso affiliati, si estende anche ai Paesi vicini, in particolare il Kenya (particolarmente sanguinosi sono stati gli attacchi al centro commerciale Westgate di Nairobi nel settembre 2013 e quello all’Università di Garissa nell’aprile 2015), ma vi sono stati attacchi anche in Uganda e Gibuti. I principali Partner presenti in Somalia sono: ONU (con la missione politica e di sostegno allo sviluppo del Paese, UNSOM), UE (presente con tre missioni, EUTM Somalia per l’addestramento delle reclute somale – attualmente sotto comando italiano, EUNAVFOR Atalanta per il contrasto alla pirateria e EUCAP Nestor, nata per rafforzare le Autorità marittime nella regione ma con focus ora centrato sulla Somalia), Unione Africana (con AMISOM) e IGAD, l’Organizzazione sub-regionale del Corno d’Africa (impegnata soprattutto nella mediazione politica). A livello bilaterale i contributi più significativi sono offerti da Gran Bretagna, Stati Uniti ed Etiopia. Crescente è l’influenza della Turchia e dei Paesi arabi, non sempre inclini al coordinamento internazionale (in particolare il Qatar) così come gli EAU, più collaborativi con i Partner occidentali, l’Organizzazione delle Conferenza Islamica (OCI) e la Lega Araba. Mogadiscio partecipa al Processo di Khartoum, il foro di dialogo sulle tematiche migratorie con i Paesi di origine e transito del Corno d’Africa e i principali Paesi di transito mediterranei, lanciato con la Conferenza di Roma del

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novembre 2014 e volto a promuovere concreti progetti di cooperazione, con un focus speciale nel contrasto alla tratta di esseri umani con fondi UE.

2. SITUAZIONE ECONOMICA La Somalia è uno dei Paesi più poveri del mondo e dipende quasi totalmente dagli aiuti umanitari. L’economia del Paese ha registrato, a partire dal 1998, un tasso di crescita costante del PIL che, nel periodo 2007-2013, si è attestato sul 2,6% annuo (3,7% nel 2014; 2,7% prev. 2015; dati FMI). Nel 2013 l’agricoltura si confermava il settore trainante (60,2% del PIL), con l’allevamento pari al 40% circa del PIL ed oltre il 50% dei proventi delle esportazioni (prevalentemente bestiame, pelli e pesce). Seguiva il settore dei servizi, per il 32,5% del PIL (fonte: EIU); quest’ultimo in forte crescita soprattutto nell’ambito delle telecomunicazioni. L’avvio del processo di ricostruzione ed il rinnovato impegno delle Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFI) potrebbe in prospettiva offrire opportunità d’investimento nel Paese, che presenta anche un consistente potenziale in termini di energie rinnovabili e nel settore agroalimentare, dell’allevamento e della pesca.

3. RELAZIONI CON L’ITALIA I rapporti bilaterali sono molto solidi. Il Presidente Hassan si è già recato in visita in Italia due volte, nel settembre 2013, nel cui quadro aveva incontrato l’allora Presidente del Consiglio Letta e ad inizio settembre 2015, nel cui ambito, oltre a visitare EXPO accompagnato dalla Ministro Pinotti, ha incontrato al Quirinale il Signor Presidente della Repubblica. L’Italia sostiene il processo di stabilizzazione somalo attraverso un’articolata azione soprattutto in ambito politico e nel settore sicurezza, cui occorre aggiungere le significative iniziative realizzate dalla Cooperazione italiana. A livello politico, l’Italia è co-presidente con la Svezia del gruppo di lavoro incaricato di monitorare e stimolare l’attuazione degli obiettivi politici del Compact. L’Italia, inoltre, sostiene gli sforzi dell’IGAD, l’Organizzazione regionale del Corno d’Africa, in Somalia per favorire il dialogo tra il GFS e le Regioni. In ambito securitario, l’Italia assicura il comando di EUTM, la missione UE di addestramento dell'Esercito somalo cui fornisce anche il principale contingente (vi prestano servizio circa 100 ufficiali italiani) e svolge, per il tramite dell’Arma dei Carabinieri, attività di addestramento della Polizia a Gibuti, circa 200 unità per semestre (provenienti sia da Mogadiscio che dalle Regioni). Il 17 settembre 2013 i Ministri della Difesa di Italia e Somalia hanno firmato a Roma un accordo di cooperazione in materia di difesa (già ratificato

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da parte somala ed in fase di ratifica da parte italiana – il 15 settembre è stato approvato in prima lettura al Senato). In via di riattivazione anche la cooperazione in campo culturale. L’Italia enumera due Università che vantano centri specializzati in studi somali, l’Orientale di Napoli e Roma Tre.

4. Attività di cooperazione in Somalia La Somalia è un Paese prioritario per la Cooperazione Italiana allo sviluppo. Nel 2014 sono stati realizzati interventi per 8,7 MEURO (6,2 sul canale ordinario e 2,5 sul canale dell’emergenza). Sul versante delle attività di emergenza, sono stati autorizzati contributi ad OCHA (500.000,00 Euro) per il coordinamento della risposta umanitaria ed al Comitato Internazionale della Croce Rossa (1,5 MEURO) per interventi mirati a migliorare i servizi sanitari della Somalia centro-meridionale. A tali cifre si aggiunge un contributo di 500.000 Euro ad UNMAS (United Nations Mine Action Service) per attività nel settore dello sminamento umanitario. Per l’anno in corso, è in via di approvazione un’iniziativa del valore di 1 MEURO da realizzarsi per il tramite di UNHCR, sia per l’assistenza ai rifugiati somali di rientro dal Kenya che a quelli di rientro dallo Yemen a seguito della recente crisi; è’ stato inoltre rinnovato il sostegno finanziario alle attività di UNMAS con ulteriori 500.000 Euro: sono iniziative di emergenza. Ulteriori risorse per un totale di oltre 8,5 MEURO - 5,5 sul canale ordinario e oltre 3 sul canale dell’emergenza - sono state rese disponibili per i primi nove mesi del 2015 per interventi da realizzare sul canale multilaterale. L’allocazione delle risorse sul canale ordinario, per lo sviluppo, riguarda un’iniziativa con IFAD per lo sviluppo agricolo integrato per 3,5 milioni e, in prospettiva, la partecipazione ad un Trust Fund multi-donatori con ILO, HABITAT, UNDP e FAO per l’occupazione giovanile per 2 milioni di Euro.

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ALLEGATO I:

CARTINA GEOGRAFICA

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TUNISIA (A CURA DEL SERVIZIO AFFARI INTERNAZIONALI DEL SENATO) 57

Dati Superficie: 163.610 kmq Italia: 301.340 kmq Popolazione: 11.037.225 (stima luglio 2015) Italia: 61.855.120 (stima luglio 2015) Capitale: Tunisi Forma di governo: repubblica semipresidenziale Capo dello Stato: Presidente Beji CAID ESSEBSI (dal 31 dicembre 2014) Capo del Governo: Primo Ministro Habib ESSID (dal 6 febbraio 2015) Tasso di crescita: 2,8% (2014); 2,3% (2013) Italia: -0,2% (2014); - 1,9% (2013) Pil pro capite: US$ 11.400 (2014); 11.200 (2013) Italia: US$ 34.500 (2014); 34.700 (2013) Disoccupazione: 15.2% (2014); 15,8% (2013) Italia: 12,5 (2014); 12,2% (2013)

Cenni storici La Tunisia ottenne l'indipendenza nel 1956, alla fine dell'occupazione francese (1881-1956). Nel luglio del 1957 fu instaurata la repubblica, a capo della quale fu eletto Habib Bourguiba. Da allora la vita politica tunisina fu di fatto monopolizzata da quest’ultimo (rieletto nel 1964, nel 1974 e nel 1975 confermato presidente a vita) e dal suo partito (il Neo Destur, denominato dal 1964 Partito

57 Aggiornamento: settembre 2015. Fonti: MAECI; Cia World Factbook; Economist Intelligence Unit; Atlante geopolitico Treccani; notizie di stampa

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socialista desturiano), che garantirono stabilità al paese, ma con profonde contraddizioni. A misure di tipo liberale, quali il riconoscimento delle libertà fondamentali del cittadino (sancite dalla Costituzione del giugno 1959), si oppose la realtà di un regime a partito unico e l’intolleranza verso qualsiasi forma di dissenso, nonché il consolidarsi di una prassi clientelare e di forme di nepotismo. La seconda metà degli anni 1970 fu segnata dall’emergere di gravi difficoltà economiche, con una lunga fase di aspre tensioni sociali e la costituzione di due formazioni di orientamento progressista, il Movimento per l’unità popolare (MUP) e il Movimento dei democratici socialisti (MDS), che affiancarono il Partito comunista tunisino (PCT) nell’opposizione clandestina al regime. In politica estera Bourguiba stabilì buoni rapporti con i paesi occidentali (ottenendo notevoli finanziamenti dagli USA) e, dalla metà degli anni Sessanta, anche con la Francia. Con i paesi arabi (la Tunisia era entrata a far parte della Lega araba nel 1958) i rapporti furono difficili negli anni Sessanta, a causa di un atteggiamento ritenuto troppo accondiscendente verso Israele, ma si fecero poi più distesi. Negli anni Settanta vennero rinsaldati i rapporti con Algeria, Arabia Saudita e gli stati dell’Africa francofona. Alla fine degli anni Settanta divennero evidenti i sintomi di un profondo malessere sociale, in parte alimentato dal fondamentalismo islamico. Scioperi e insurrezioni – la più grave delle quali fu la rivolta del pane, degenerata in una vera e propria guerra civile nel 1984 – si moltiplicarono, provocando dure repressioni da parte del regime. Nel 1986 Bourguiba nominò il Generale Ben Ali ministro degli Interni per arginare la deriva fondamentalista del Mouvement de la tendance islamique (MTI) e l'anno successivo fu da lui destituito. Divenuto Primo Ministro, Ben Ali pose fine alle repressioni, introducendo il multipartitismo ed abolendo la Presidenza a vita. Nel 1989 Ben Ali divenne per la prima volta Presidente della Repubblica. Anche le presidenziali del marzo 1994 videro una vittoria plebiscitaria (99,9% dei voti) di Ben Ali. Malgrado la volontà di democratizzazione del Paese, il nuovo governo, bloccato dalle contraddizioni della società tunisina, manifestò comunque un autoritarismo non molto dissimile da quello del precedente regime, fino a varare nel 1992 una legge assai restrittiva sui diritti d'associazione. Nel frattempo i rapporti internazionali videro un andamento alterno delle relazioni con gli Stati Uniti (peggiorate durante la guerra del Golfo) e il miglioramento di quelle con i Paesi vicini. Le elezioni dell'ottobre 1999, le prime multipartitiche, riconfermarono, con larghissimo consenso, il presidente Ben Ali per un terzo mandato. Nonostante la Costituzione limitasse la presidenza a tre mandati di governo di cinque anni ciascuno, nel settembre del 2001 Ben Ali veniva scelto come candidato alla presidenza e, attraverso l'approvazione di un referendum costituzionale che portava il limite dei mandati presidenziali da tre a cinque (2002), veniva riconfermato con una larghissima maggioranza nelle elezioni del 2004 e del 2009. Il regime assoluto del presidente Ben Ali doveva, però, fare i conti con un malcontento sociale

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sempre più crescente, culminato nelle rivolte di piazza della fine del 2010 e l'inizio del 2011 (la cosiddetta "Rivoluzione dei gelsomini"). L’inizio della rivolta viene simbolicamente fatto coincidere con il gesto di protesta di Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante che il 17 dicembre 2010 si è dato fuoco per protesta nella cittadina di Sidi Bouzid. La rivolta tunisina è stata all'origine di un'ondata di proteste che ha investito nel corso del 2011 numerosi paesi arabi (c.d. "Primavera araba"). A fronte della continuazione delle proteste e della decisione da parte dell’esercito di schierarsi dalla parte dei manifestanti, Ben Alì lasciò infine il potere nelle mani di un governo provvisorio composto perlopiù da esponenti dell’ex regime e guidato da Mohamed Ghannouchi. A causa delle contestazioni, quest’ultimo fu però costretto a dimettersi; la carica di primo ministro del governo provvisorio passò quindi a Beji Caid Essebsi, che sciolse la polizia segreta e guidò il paese nei suoi primi passi verso la transizione democratica. In ottobre si svolsero le elezioni per l'Assemblea costituente, vinte dal partito islamista Ennahda, guidato da Rachid Ghannouchi. I partiti della coalizione di governo nominavano capo dello stato Moncef Marzouki e primo ministro Hamadi Jebali. Dimissionario dopo appena un anno, Jebali fu sostituito nel marzo 2013 dal compagno di partito Ali Larayedh. La crisi politica del 2013, aggravata dagli attacchi alle ambasciate francese e Usa e dagli scontri fra le forze dell'ordine e i salafiti, fu superata con l'approvazione quasi unanime di una nuova Costituzione (26 gennaio 2014) e la formazione di un nuovo governo tecnico guidato da Mehdi Jomaa. La nuova Costituzione è il frutto di un non facile compromesso tra le forze politiche rappresentate nell'Assemblea costituente e ha impresso un senso di svolta alla società tunisina che si apre alle sfide della democrazia dopo decenni di autoritarismo. Sulla scia di tali cambiamenti il 1° dicembre 2014 Beji Caid Essebsi è diventato il primo presidente della Tunisia eletto democraticamente nella storia del paese.

Popolazione e società La Tunisia, con i suoi 10 milioni di abitanti, è il paese più piccolo di tutta l’area maghrebina e il meno popoloso dopo la Libia. A differenza di quest’ultima, però, la Tunisia risulta etnicamente molto omogenea, presentando scarse divisioni dal punto di vista tribale e religioso, elemento che ne rafforza la coesione interna. Circa il 98% della popolazione, è araba, mentre la minoranza berbera e quella ebrea rappresentano ciascuna l’1%. La composizione etnica si riflette a livello religioso: il 98% della popolazione professa la religione musulmana sunnita, mentre vi sono piccole minoranze cristiane e afferenti alla religione ebraica. Il tasso di crescita della popolazione risulta essere il più basso di tutta l’area medio-oriente/nordafrica (MENA), come effetto di un tasso di fecondità minore rispetto agli altri paesi dell’area. La Tunisia ha anche una delle popolazioni più

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urbanizzate di tutta la regione ed è interessata, sia in misura diretta che indiretta, dal fenomeno dell’emigrazione: migliaia di persone partono da qui per raggiungere l’Europa, di solito attraverso l’Italia. La Tunisia vanta livelli di istruzione elevati e un sistema educativo tra i più efficienti della regione. Il tasso di alfabetizzazione è superiore a quello di molti altri paesi maghrebini e mediorientali, specie per quanto riguarda le fasce giovanili, e sono molti i tunisini che studiano in università estere. La spesa per l’istruzione della Tunisia, d’altra parte, è la più alta di tutta la regione e una delle più alte al mondo (oltre il 6,2% del PIL nel 2009; Italia 4,7% nello stesso anno). A differenza di molti altri paesi dell’area MENA, la Tunisia non ha nel proprio territorio una rilevante disponibilità di risorse naturali. Il paese produce gran parte dell’energia consumata, ma le risorse da esportare sono esigue. Tale condizione ha fatto sì che, rispetto ad altri attori regionali, il sistema economico tunisino divenisse più orientato al manifatturiero e al terziario e all'interscambio con i paesi europei.

Quadro istituzionale Prima della Rivoluzione, la Tunisia era una repubblica presidenziale, con un parlamento bicamerale, con la Camera alta (dei consiglieri) a composizione mista, elettiva e di nomina presidenziale. A seguito della "Rivoluzione dei gelsomini" l'Assemblea Costituente, insediata nel 2011, ha approvato in via definitiva, il 26 gennaio 2014 la nuova Costituzione tunisina, che ha introdotto un modello semipresidenzialista corretto e un Parlamento monocamerale. Il Presidente è eletto a suffragio universale diretto a maggioranza assoluta con eventuale ballottaggio; il mandato presidenziale è quinquennale e rinnovabile una sola volta. L'Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (ARP) si compone di 217 membri eletti a suffragio universale diretto con metodo proporzionale per un mandato quinquennale. L'importanza della nuova Costituzione ha travalicato la dimensione nazionale tunisina e si è posta, in modo naturale, come esito e modello di una rivoluzione democratica condotta con metodo inclusivo in un paese arabo mediterraneo. All'atto della sua adozione, le scelte da essa compiute sono apparse un possibile laboratorio per il futuro dei paesi arabi. Da qui, forse, l'acutizzarsi della minaccia terroristica jihadista, che vede nel modello tunisino un elemento fortemente dissonante rispetto ai propri obiettivi strategici. La condizione femminile era stata la prima vittima del conflitto in atto nel mondo arabo fra riformatori laici e estremisti islamici. In Tunisia invece, per la prima volta, la Costituzione di un paese arabo ha proclamato solennemente la parità di diritti fra uomini e donne ("tutti i cittadini e le cittadine hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. Sono uguali davanti alla legge senza alcuna discriminazione"). La formulazione ha dato ragione alle associazioni femministe

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tunisine che il 13 agosto 2012 erano scese in piazza per denunciare il tentativo messo in atto da Ennahda di introdurre nella Costituzione il concetto di "complementarietà" della donna rispetto all'uomo, anziché parità. La Sharia (la legge islamica) non è richiamata dalla Costituzione come fonte del diritto, e anche se l'Islam è riconosciuto come religione nazionale viene preservato il carattere laico dello Stato; infatti contemporaneamente la Costituzione tutela la libertà di religione e di culto. Il capitolo "Diritti e Libertà" afferma i principi della libertà di opinione, di espressione, di informazione, di creazione artistica, di associazione partitica, le libertà sindacali, l'accesso ai social network, il diritto alla riservatezza della corrispondenza e il diritto di essere immediatamente informati sui motivi della limitazione delle libertà personali. L'assetto costituzionale dei poteri delinea un modello di semipresidenzialismo corretto a favore del premier; la preoccupazione maggiore, per evitare il ripetersi in futuro di derive autoritarie, è stata quella di un accurato bilanciamento dei poteri fra il capo del Governo (che detiene la sostanza del potere esecutivo) e il Presidente della Repubblica, che condivide con il capo del governo le prerogative in materia di Esteri e Difesa e svolge un importante ruolo di controbilanciamento dell'esecutivo. Al riguardo: è introdotto il meccanismo della sfiducia costruttiva, ma il Presidente della Repubblica può sollecitare un voto di sfiducia svincolato dall'indicazione di un nuovo Premier; in caso di impedimento permanente del Capo del Governo, il successore viene indicato nuovamente dal partito/raggruppamento vincitore alle precedenti elezioni, ma il Capo dello Stato può procedere motu proprio in caso di dimissioni o se è stata approvata la sfiducia da lui promossa (è significativa inoltre la previsione che il Presidente stesso decada qualora la sfiducia venisse respinta per due volte); è il Capo del Governo a subentrare ad interim al Presidente della Repubblica in caso di impedimento temporaneo, ma passati 60 giorni o in caso di impedimento permanente è il Presidente del Parlamento ad assumere la più alta carica dello Stato ed a convocare nuove elezioni presidenziali. Inoltre, nonostante "la determinazione della politica generale dello Stato" sia riconosciuta al Capo del Governo, questi condivide con il Presidente della Repubblica le prerogative su Esteri e Difesa, il che rafforza l'interdipendenza fra le due cariche. In tale esercizio di ricerca di un costante equilibrio tra Poteri, l'Assemblea dei Rappresentanti del popolo (ARP, il parlamento) e la magistratura hanno un ruolo non di secondo piano. Se infatti il Presidente della Repubblica può prendere, in consultazione con altre Istituzioni, misure eccezionali "in caso di pericolo imminente per la Nazione o per la sicurezza", queste non possono prevedere lo scioglimento dell'ARP, la quale dopo trenta giorni può chiedere alla Corte Costituzionale di verificare il permanere delle dette circostanze. Tali misure eccezionali presentano peraltro qualche margine di incertezza e si prestano a più

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di un dubbio interpretativo; la formulazione del relativo articolato rappresenta perciò una zona grigia che occorrerà approfondire. Qualche approssimazione è presente anche nel capitolo dedicato alle Istanze Costituzionali, cinque organi indipendenti (tra essi l'Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni, ISIE) chiamati ad operare per il "rafforzamento della democrazia". Il diritto alla vita è definito "sacro". Come noto, infatti, il relativo articolo prevede limitazioni "in casi estremi previsti della legge", formulazione che conferma nei fatti la permanenza nell'ordinamento tunisino della pena di morte; 102 i deputati contrari all'emendamento che ne prevedeva l'abolizione (sui 167 presenti al voto). Peraltro la Tunisia aveva votato nel 2012 la Risoluzione ONU sulla moratoria.

Politica interna Le più recenti elezioni legislative e presidenziali, le prime dall'adozione della nuova Costituzione, hanno avuto luogo rispettivamente a ottobre e a novembre/dicembre del 2014. Le elezioni legislative sono state vinte dai laici di Nidaa Tounes (NT), che hanno ottenuto la maggioranza relativa con il 39% dei suffragi e 86 seggi all'ARP; la formazione islamica moderata Ennahda, che aveva vinto le elezioni per l'Assemblea costituente nel 2011, ha subito un significativo arretramento, ottenendo comunque il 32% dei suffragi e 69 seggi. Il partito di maggioranza, dunque, nonostante l'appoggio di altre due formazioni laiche minori, si è trovato a dover concludere un accordo informale con Ennahda per la formazione del nuovo Governo, insediatosi il 5 febbraio scorso e guidato da Habib Essid. Tra i ministri del nuovo esecutivo sette sono personalità indipendenti. All'ordine del giorno dell'Assemblea figura l'istituzione del Consiglio superiore della magistratura e della Corte Costituzionale. Le elezioni presidenziali sono state vinte da Béji Caïd Essebsi, leader di NT, dopo il ballottaggio con il Presidente ad interim Marzouki. Fra i temi all'ordine del giorno si segnala un disegno di legge, fortemente voluto dal Presidente Essesbi, sulla riconciliazione nazionale in campo economico e finanziario che porrebbe fine ai procedimenti penali contro uomini d'affari accusati o condannati per corruzione. Il disegno di legge, fortemente avversato dalle opposizioni e dalla società civile, che vi ravvisano un tradimento dello spirito della rivoluzione del 2011, è sostenuto dall'esecutivo in ragione dell'opportunità di recuperare in tal modo ingenti risorse economiche in un periodo di crisi. La vita politica della giovane e ancora fragile democrazia tunisina è peraltro tuttora dominata dalla crisi di sicurezza seguita ai gravi attacchi terroristici che hanno colpito il paese a marzo e giugno di quest'anno. Se

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dopo l'attentato al museo del Bardo, in cui hanno perso la vita 24 persone, l'orgogliosa reazione del paese aveva trovato espressione in una grande marcia internazionale contro il terrorismo, alla quale avevano preso parte , in segno di solidarietà, numerosi capi di Stato e di governo stranieri, all'indomani dell'attentato di Sousse, che ha colpito una delle più popolari mete turistiche del paese e si è concluso con la morte di 38 persone, il Presidente Essesbi ha ammesso che la Tunisia non è in grado di farcela da sola, senza l'aiuto dei paesi amici. Una serie di misure urgenti sono state prese per fronteggiare la minaccia terroristica: la chiamata di circa 1000 riservisti, la chiusura di 80 moschee abusive, l'adozione di una nuova legge antiterrorismo che contiene la contestata previsione della pena di morte per i terroristi, e la dichiarazione dello stato di emergenza per tutto il paese, proclamato dal Presidente Essesbi il 5 luglio scorso e successivamente rinnovato fino alla fine di settembre. Al terrorismo si aggiunge il fenomeno dei foreign fighters tunisini, che si stima siano circa 3000 fra Siria e Iraq, di cui circa cinquecento sarebbero di recente rientrati nel Paese.

Particolare rilevanza riveste la nuova legge sul terrorismo presentata dal Governo il 26 marzo scorso e adottata dall’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo il 24 luglio, essendo l’iter di adozione stato rallentato dalle polemiche suscitate dalla previsione della pena di morte per crimini di terrorismo. Essa sostituisce la precedente legge del 2003, specificando meglio la natura di atto terroristico e individuando nuovi profili di responsabilità anche per chi sostiene i movimenti estremisti. Essa prevede la creazione di un nuovo quadro giuridico per l'utilizzo di "mezzi speciali di investigazione" (intercettazioni, infiltrazioni, ecc), nonché l’istituzione di una nuova specialità giuridica dedicata al terrorismo e una commissione nazionale per la lotta al terrorismo, incaricata di controllare l’applicazione delle norme internazionali e proporre misure da adottare.

Sostegno UE e bilaterale nel contrasto al terrorismo In occasione della visita a Bruxelles del PM tunisino Essid, il 27-28 maggio, il SEAE ha consegnato alle autorità tunisine un Memorandum che delinea una serie di azioni urgenti da intraprendere nel campo del contrasto al terrorismo. Esso si struttura in due parti, la prima riguardante un rafforzamento della cooperazione tra UE e Tunisia in questo campo, attraverso riunioni periodiche ad alta frequenza e scambio di informazioni, la seconda focalizzata su nuovi progetti concreti per rafforzare le strutture tunisine di contrasto al terrorismo. Si tratterebbe in un primo tempo della messa a disposizione di esperti europei che potrebbero formare e affiancare i funzionari tunisini. Gli aspetti operativi delle

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proposte saranno curati dall’esperto sicurezza (francese) assegnato alla Delegazione a Tunisi. Il sopracitato Memorandun si è andato ad aggiungere a un vasto programma, cui L’UE stava già lavorando, di “security sector reform” da 23 milioni di euro (fondi ENI) la cui finalizzazione è stata accelerata dopo l’attentato di Sousse. Il programma si articola su tre componenti: rafforzamento delle strutture del Ministero dell’Interno, sicurezza delle frontiere (in cui l’Italia potrebbe avere un ruolo di primo piano) e assistenza tecnica ai servizi di intelligence in funzione di lotta al terrorismo. Il Consiglio Affari Esteri del 20 luglio ha approvato delle Conclusioni sulla Tunisia,. Il testo rinnova la solidarietà dell’UE nei confronti della Tunisia a seguito degli eventi di Sousse e fa appello a un approfondimento del partenariato privilegiato tra l’Unione e la Tunisia. Il CAE sostiene l’iniziativa, proposta dall’Italia, di una conferenza internazionale sugli investimenti in Tunisia e sottolinea l’importanza dell’adesione tunisina al programma Horizon 2020 sulla ricerca. Nell'ambito del sostegno alla Tunisia per il CT e la sicurezza, il Consiglio sottolinea la risposta positiva delle Autorità tunisine alle proposte contenute nel Memorandum UE su specifici progetti di CT trasmesso a fine maggio. L’assistenza italiana in materia di contrasto al terrorismo emana in particolare dal processo verbale sottoscritto dai due Ministri dell’Interno nel 2011, in base al quale l’Italia ha realizzato un oneroso programma di assistenza tecnica, per un valore di oltre 138 milioni di euro. Esso ha comportato la cessione di 16 imbarcazioni (4 classe 700, 6 pattugliatori da 34 metri, 6 pattugliatori da 27 metri) per il potenziamento delle capacità operative di pattugliamento marittimo delle competenti autorità tunisine. Da ultimo sono stati forniti strumenti di visione notturna per il personale impiegato nelle aree montagnose prossime all’Algeria, nonché giubbotti antiproiettile.

Politica estera Il governo insediatosi a febbraio ha assunto, in politica estera, un approccio maggiormente pragmatico del suo predecessore: se il governo guidato da Ennahda aveva assunto posizioni allineate con Ankara e Doha, e aveva interrotto dal 2011 le relazioni con la Siria di Assad, il nuovo governo ha invece comunicato di recente la volontà di ristabilire le relazioni diplomatiche con la Siria e con la Libia (dove in aggiunta alle relazioni con il governo di Tobruk, è stato aperto un consolato a Tripoli), con lo scopo tra l'altro di studiare le dinamiche di reclutamento di combattenti jihadisti in tali paesi. Per contro, le relazioni con la Turchia sono attualmente tese, anche a seguito delle dichiarazioni del ministro degli esteri tunisino che ha esortato Ankara ad assumere un atteggiamento di

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maggior rigore contro i flussi di jihadisti tunisini verso la Siria. Solida la cooperazione con Algeri nella lotta al terrorismo, avviata a partire dal 2013. Il 10 luglio gli USA hanno annunciato l'attribuzione alla Tunisia dello status di major non-NATO ally, che comporta l'accesso privilegiato a programmi di formazione, forniture e finanziamenti. Le relazioni tra la Tunisia e l'Unione europea sono articolate su diversi piani. In primo luogo, nell'ambito della Politica Europea di Vicinato (PEV), l'UE riconosce lo straordinario sforzo riformistico della Tunisia, che testimonia la validità, almeno per il caso tunisino, dell'approccio del "more for more". A fronte di ciò, la Commissione ha assicurato che l'allocazione di fondi ENI (European Neighborhood Instrument) per il 2015 sarà almeno pari a quella del 2014 (200 milioni di euro), di cui 70 milioni sono già stati sbloccati a fine maggio. In merito al rinnovamento della PEV, la Tunisia auspica una maggiore differenziazione dell'offerta europea basata sulle necessità di ciascun partner del Vicinato. In secondo luogo, quanto alla cooperazione in materia migratoria, il Partenariato di Mobilità concluso nel 2014 prevede quattro assi di cooperazione: migrazione legale, contrasto alla migrazione illegale, approfondimento del nesso migrazione/sviluppo e protezione internazionale. La Tunisia è parte dei processi di Rabat e di Khartoum, quadri di dialogo migratorio tra l'Ue e i paesi dell'area mediterranea e del Corno d'Africa.

Economia Diversificata, orientata al mercato: l'economia della Tunisia è stata a lungo citata come una storia di successo in Africa e nel Medio Oriente, ma deve affrontare una serie di sfide in seguito alla rivoluzione del 2011. Dopo il fallimento delle politiche economiche di stampo socialista adottate negli anni '60, la Tunisia ha intrapreso una strategia incentrata sulle esportazioni, rafforzando gli investimenti esteri e il turismo, che sono diventati centrali per l'economia del paese. Esportazioni chiave includono attualmente tessile e abbigliamento, prodotti alimentari, prodotti petroliferi, prodotti chimici, e fosfati, con circa l'80% delle esportazioni destinate al principale partner economico di Tunisi, l'Unione europea. La strategia liberista della Tunisia, insieme agli investimenti in istruzione e infrastrutture, hanno consentito decenni di crescita ai ritmi del 4-5% annuo del PIL e un considerevole miglioramento del tenore di vita. L'ex presidente (1987-2011) Zine El Abidine Ben Ali ha continuato a perseguire queste politiche, ma il sistema clientelare e la diffusa corruzione hanno ostacolato le performance economiche e la disoccupazione è aumentata a spese soprattutto della crescente schiera di giovani laureati. Il disagio sociale ha contribuito al rovesciamento di Ben Ali nel 2011, che ha mandato in tilt l'economia tunisina a causa della drastica diminuzione degli introiti da turismo e

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investimenti. Il tasso di crescita ha toccato nel 2011 il -1,6%, per poi riprendere a salire negli anni successivi ma sempre a tassi che non hanno consentito al Paese di ridurre il tasso di disoccupazione, che continua a superare il 15%. La ripresa dell'economia, peraltro, è giudicata dagli osservatori fondamentale per il successo del nuovo corso politico. A tal fine il governo sta predisponendo un piano di risanamento economico e sociale teso al rilancio di progetti di investimento finora sospesi, specialmente nel settore delle infrastrutture. La ripresa del turismo, che rappresenta il 7% del PIL tunisino, non si presenta di facile realizzazione a seguito dei recenti attentati del Bardo e di Sousse. Il governo ha recentemente annunciato le linee del suo piano di sviluppo 2016-20. Gli obiettivi principali del piano quinquennale sono: la diversificazione dell'economia, fondata su industrie e servizi ad alto valore aggiunto, innovativi e tecnologicamente avanzati; la promozione di una maggiore inclusione sociale attraverso il miglioramento dei servizi educativi e sanitari, il rafforzamento dei diritti delle donne e la riduzione della povertà; la riduzione delle disparità regionali; e il miglioramento della protezione dell'ambiente e il taglio consumo energetico. Il piano fissa il target di crescita media annua al 5% per il periodo 2016-20. Il Piano di Sviluppo sembra riflettere la volontà di mantenere i finanziamenti del FMI, della Banca mondiale e di altri donatori. Il FMI ha di recente affermato che le riforme poste in essere finora sono state lente ma "soddisfacenti", date gli eventi che il paese si è trovato a fronteggiare, ed è probabile che accolga con favore l'ulteriore impegno per le riforme strutturali contenuto nel Piano 2016-20. Il direttore generale del FMI Christine Lagarde ha promesso ulteriore sostegno al paese nel corso di una visita a Tunisi a metà settembre e il capo della Banca Centrale di Tunisia, Chedly Ayari, ha annunciato che la Tunisia a breve avvierà colloqui con il FMI per un nuovo stand-by agreement del valore di circa 1,7 miliardi di dollari.

Rapporti bilaterali I rapporti politici bilaterali fra Italia e Tunisia sono amichevoli e intensi: prossimità geografica, comune appartenenza mediterranea e il continuo contatto tra le società civili contribuiscono al loro sviluppo. Comuni le sensibilità su numerose tematiche di rilievo internazionale. L’ampio partenariato investe settori come la lotta al terrorismo internazionale e il contrasto all’immigrazione clandestina. Nel maggio 2012 i due paesi hanno istituito un Partenariato Strategico Rafforzato, in attesa di riattivazione sul piano dei vertici periodici. Numerosi gli scambi di visite ai massimi livelli. Si ricorda da ultimo l'incontro del Ministro Gentiloni con il suo omologo Baccouche lo scorso 24 agosto a Rimini, dedicato ai temi della sicurezza e del sostegno economico, e la visita del

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Presidente Mattarella a Tunisi, il 18 maggio 2015, in occasione della quale è stato firmato il Memorandum di Cooperazione italo-tunisino 2014-2016 per la programmazione delle attività di cooperazione. In campo economico, l'Italia è il secondo partner commerciale della Tunisia, con un trend positivo; settore d'elezione della presenza di imprese italiane in Tunisia è il tessile/abbigliamento, ma sono anche rilevanti il settore turistico (circa 500.000 presenze italiane annue prima della crisi) ed energetico (transita in Tunisia un importante tratto del gasdotto TTPC, che collega Italia e Algeria). È da menzionare l'azione di sostegno all'economia tunisina da parte dell'Italia, che si è espressa da ultimo nella lettera, firmata dal ministro Gentiloni e dall'omologo francese Fabius, indirizzata alle istituzioni europee per promuovere il sostegno internazionale alla Tunisia e per proporre l'organizzazione di una Conferenza internazionale per gli investimenti da tenere in Tunisia nella seconda metà del 2015. Sul piano bilaterale, avrà luogo a Tunisi il prossimo ottobre un Forum economico Italia - Tunisia. In tema di cooperazione allo sviluppo, si segnala il già menzionato Memorandum di cooperazione italo-tunisino 2014-2016, che prevede un pacchetto di iniziative a dono per 11,6 milioni di euro e un intervento a credito di aiuto del valore di 50 milioni, nonché l'attuazione di un'operazione di conversione del debito di 25 milioni di euro per realizzare progetti sociali nelle aree svantaggiate del Paese. La collaborazione bilaterale nel settore migratorio si basa su uno scambio di note del 1998 sull'ingresso e il soggiorno sul territorio dei due paesi dei rispettivi cittadini e su un accordo in materia di lotta alla criminalità del 2003. Nel 2011, in conseguenza dell'eccezionale flusso migratorio irregolare seguito alla rivoluzione dei gelsomini, è stato concluso un Processo verbale tra i rispettivi ministri dell'interno che prevedeva procedure semplificate di identificazione e rimpatrio dei migranti irregolari e ha consentito di ridurre notevolmente i flussi negli anni successivi. Questo regime, basato su presupposti emergenziali, dovrebbe ora lasciare il posto a un accordo complessivo sulle migrazioni, in fase di negoziato. Il principale nodo da sciogliere resta quello delle disposizioni in materia di identificazione e rimpatrio dei migranti irregolari. Nel 1991, Italia e Tunisia hanno firmato una Convenzione di Cooperazione nel campo militare, con incontri periodici della Commissione Militare Mista italo- tunisina. L'assistenza italiana in materia di contrasto al terrorismo si basa anch'essa sul già citato Processo verbale del 2011, in base al quale l'Italia ha realizzato un oneroso programma di assistenza tecnica del valore di oltre 138 milioni di euro.

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TURCHIA (A CURA DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE)

Aggiornata al 23 settembre 2015

APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI

Struttura istituzionale e dati di base

Nome Ufficiale: Repubblica di Turchia

Forma di Governo: Repubblica Parlamentare

Capo dello Stato: Recep Tayyip ERDOĞAN

Capo del Governo:

Ministro degli Esteri: Feridun Sinirlioglu

Sistema legislativo: Parlamentare, unicamerale (550 membri) Sistema legale: Basato sui modelli europei (Costituzione del 1982), codificato. Suffragio: Universale diretto Partecipazione a BSEC, BERS, CERN; FAO, FMI, ICAO, IOC, IAEA, Organizzazioni Interpol, NATO, OMC, OMS, OIC, ONU, OIL, OSCE, Internazionali: UNESCO, UPU

Popolazione ed indicatori sociali 77.667.864 (2014) Popolazione (all’estero 3,5 milioni da censimento 2008) Tasso di crescita 13.3% (2014) Aspettativa di vita 73.7 (uomini); 79.4 (donne) (2014) Superficie: 814.578 kmq

Capitale: Ankara (5.1.) Istanbul (14.3 mln.), Smirne (34.1 mln.), Bursa (2.7 Principali città: mln.), Adana (2.1 mln.), Iconio (Konya) (2,1 mln) Gruppi etnici: Turchi 80%, Curdi ed altri 20% (stime)

Religioni: Musulmana 99,8% (sunnita, forte minoranza alevita), altre: Cristiana e Ebraica 0,2%

Lingue: Turco (ufficiale) Curdo, Arabo, Armeno, Greco

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Distribuzione dei seggi nel parlamento turco a seguito delle elezioni del 7 giugno 2015

Numero di Partito seggi Partito della giustizia e dello sviluppo 258 (AKP) Partito repubblicano (CHP) 132 Partito nazionalista (MHP) 80 Partito democratico dei popoli (HDP) 80 Totale 550

143 APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI CENNI STORICI

La Turchia moderna è nata con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, alla fine della Prima Guerra mondiale. Il Trattato di Sèvres (1920) prevedeva uno Stato di dimensioni ridotte, con attribuzione alla Grecia di una vasta regione attorno a Smirne, la nascita di un’Armenia indipendente e di una regione curda con ampia autonomia. La rivolta nazionalista di Mustafa Kemal Atatürk, un accordo di pace separato con l’URSS e le vittorie militari contro i greci costrinsero gli Alleati a rinegoziare gli accordi di pace: il Trattato di Losanna (1923) riconobbe il Paese nelle sue attuali frontiere, ed un accordo separato con la Grecia dispose il trasferimento incrociato delle rispettive popolazioni installate come minoranze (eccetto i Greci di Istanbul ed i Turchi della Tracia, per cui si previdero statuti specifici). Nell’ottobre del 1923 fu proclamata la nuova Repubblica di Turchia con Atatürk come Presidente. Oltre ad abolire il Califfato, egli avviò un’energica opera di modernizzazione all’insegna di secolarismo, nazionalismo e riferimento all’Europa (da cui trasse ad esempio i codici di legge e i caratteri dell’alfabeto). Morto Atatürk nel 1938, la Turchia si mantenne neutrale nel secondo conflitto mondiale salvo intervenire negli ultimi mesi a fianco degli Alleati; nel 1952 aderì alla NATO, divenendone il principale bastione sul fronte Sud. Le prime elezioni aperte ad altri partiti ebbero luogo nel 1950 e furono vinte dal Partito Democratico. Gli anni della Guerra Fredda furono caratterizzati da instabilità interna e da ripetuti interventi dei militari nella vita politica del Paese. Nel luglio 1974 un tentativo di putsch a Nicosia pilotato da Atene venne invocato per giustificare un intervento militare turco a Cipro, che in due fasi occupò un terzo dell’isola. Estremismi politici e tensioni con i Curdi furono causa di forte instabilità interna alla fine degli anni Settanta, finché nel 1980 un nuovo colpo di Stato militare portò al potere il Generale Evren, che impose la legge marziale e mise al bando il partito di ispirazione islamica. Il golpe del 1980 concluse nel modo più drammatico uno dei periodi più bui della storia turca: episodi di violenza tra militanti dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, tra maggioranza sunnita e minoranza alevita, nascita del PKK e del terrorismo curdo inizialmente diretto contro rivali tribali e feudali, grave crisi economica, incapacità dei leader politici dell’epoca, Demirel e Ecevit, di affrontare la situazione con una visione politica chiara avevano condotto il Paese in una guerra civile strisciante. La maggioranza della classe media (e non solo) turca accolse il golpe militare con un sospiro di sollievo, come del resto fece anche lo schieramento occidentale. Ma il sollievo durò molto poco, in quanto la svolta autoritaria si rivelò particolarmente pesante per il Paese, con un tentativo in buona parte riuscito di completa depoliticizzazione del Paese: chiusura del Parlamento, scioglimento di partiti, sindacati e associazioni, censura permanente. Non solo i movimenti di estrema sinistra e quelli filoislamici (nella cui nascita qualche anno prima molti vedono la longa manus dei militari nel tentativo di contrastare i primi), ma anche i repubblicani, i nazionalisti e gli attivisti curdi pagarono conseguenze durissime. Dal golpe scaturì poi la Costituzione del 1982, simbolo tuttora vigente di una difficile sintesi islamico-nazionalista filoccidentale in chiave autoritaria che ha plasmato la Turchia moderna ma ha anche contribuito a creare ulteriori tensioni, in particolare aggravando la questione curda e contribuendo al consolidarsi del ruolo chiave del PKK. Il potere tornò ai civili nel 1987. Il Governo di Turgut Ozal promosse un forte sviluppo economico, ma permasero fattori destabilizzanti, fra cui soprattutto la guerriglia degli indipendentisti curdi.

144 APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI La Turchia partecipò alla I Guerra del Golfo come alleato degli USA (1990-1991), subendone tuttavia pesanti conseguenze economiche per l’interruzione dei traffici con l’Iraq e l’afflusso di rifugiati dal Paese vicino. Nel 1995 iniziarono vaste azioni militari contro la guerriglia curda del PKK di Ocalan. Nel 1996, dopo la caduta del Governo di Tansu Ciller – la prima donna alla guida del Paese - il partito filo-islamico del Benessere di Erbakan riuscì a formare un Governo di coalizione, fortemente osteggiato dalle gerarchie militari, cui mise fine una decisione della Corte Costituzionale che dichiarò il partito illegale per contrarietà ai principi dell’ordinamento turco. A partire dal 1999 il Governo di Bulent Ecevit – leader storico, nel 1974 promotore dell’intervento militare a Cipro - avviò una politica di riforme ma crescenti divisioni in seno alla sua coalizione, la gravissima crisi finanziaria del 2001 ed una generale volontà di rinnovamento ne determinarono la sconfitta elettorale. Alle elezioni politiche del 3 novembre 2002, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) conseguiva infatti il 34,4% dei suffragi (368 seggi su 550), mentre il Partito Repubblicano (CHP) di Baykal era l’unica altra formazione ad aver superato l’elevata soglia di sbarramento del 10% (178 seggi), avendo il Movimento Nazionalista (MHP) ottenuto l’8,3%. Già interdetto da cariche pubbliche per cinque anni, a seguito di una condanna nel 1998 per “istigazione all’odio religioso” (in un discorso pubblico aveva citato una poesia che si prestava a dubbie interpretazioni), solo grazie alla revoca del provvedimento Erdoğan poteva essere eletto deputato nel marzo 2003, condizione necessaria per ricevere l’incarico di formare il nuovo Governo, sostituendo il compagno di partito Gul (divenuto Vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri). La prospettiva di adesione all’Unione Europea ha costituito l’obiettivo prioritario della decisa politica riformatrice perseguita dalle Autorità turche negli ultimi anni, a seguito della candidatura accolta nel 1999. Il Governo ha peraltro sempre sottolineato di ritenere le riforme comunque necessarie allo sviluppo del Paese, a prescindere quindi dalle richieste europee. In tale contesto l’avvio dei negoziati di adesione all’UE nel novembre 2005 segnava il più rilevante successo della leadership di Erdoğan. Nelle elezioni politiche del luglio 2007 l’AKP di Erdoğan veniva confermato e rafforzato quale primo partito con il 46,6% (+12% rispetto al 2002, 341 seggi), mentre l’opposizione del CHP si fermava al 20% (112 seggi, da cui si sono poi staccati i 13 del partito di sinistra DSP) e il Movimento Nazionalista (MHP) otteneva il 14,3% (8,3 del 2002). Non entrava in Parlamento il partito filo-curdo DTP, ma solo 22 deputati indipendenti (su un totale di 26) ad esso legato. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) si è nuovamente aggiudicato le elezioni politiche nel 12 giugno 2011 (49% dei voti), conquistando 326 seggi sui 550 che compongono il Parlamento. Principale forza di opposizione rimane il Partito Repubblicano del Popolo (CHP), di ispirazione kemalista e socialdemocratica, in ripresa (26%) rispetto al 2007; il Partito Nazionalista (MHP) resta in Parlamento (13% dei voti) mentre candidati indipendenti, in massima parte espressione politica della minoranza curda (BDP), conquistano il 6,6% e 36 seggi. Alle elezioni politiche del 7 giugno 2015 il partito del Presidente Erdoğan, l’AKP, ha perso la maggioranza assoluta in Parlamento ed il leader curdo Selahattin Demirtas ha vinto la sua sfida, sfiorando il 13% dei voti e riuscendo a far entrare il Partito Democratico del Popolo, l’HDP, in Parlamento con 80 deputati. L’AKP ha ottenuto il 40.7% dei voti e 258 deputati, perdendo 9 punti percentuali rispetto al 2011. Il repubblicano CHP si è confermato secondo partito, con poco più del 25% dei voti e

145 APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI 132 seggi; il nazionalista MHP, con il 16.5% , ha avuto 80 deputati. A seguito delle elezioni il Presidente ha incaricato il premier uscente Davutoğlu di formare un nuovo governo con 45 giorni di tempo per ottenere la fiducia del Parlamento. Falliti i colloqui con i leader dei partiti di opposizione, Davutoğlu ha rassegnato le dimissioni il 18 agosto u.s. Lo stesso Davutoglu ha assunto, su incarico del Presidente Erdogan, la guida di un governo di transizione verso le elezioni anticipate. Nuove elezioni parlamentari sono state infatti indette per il 1 novembre prossimo.

146 APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI ASSETTO ISTITUZIONALE

Il potere legislativo è affidato ad un Parlamento unicamerale costituito di 550 membri eletti per 4 anni; per le elezioni parlamentari è prevista una soglia di sbarramento del 10 per cento, da tempo contestata poiché altera il gioco democratico ed ostacola tra l’altro la rappresentanza parlamentare della comunità curda, concentrata in aree specifiche. Il potere esecutivo è esercitato dal Primo Ministro, designato dal Presidente della Repubblica e solitamente “leader” del principale partito. Il Presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia, pur potendo influire sull’attività legislativa con il potere di rinvio e di veto; una riforma costituzionale del 2007 prevede, a partire dal 2014, che sia eletto a suffragio universale, con mandato di 5 anni rinnovabile (in precedenza era eletto dal Parlamento, con incarico di sette anni non rinnovabili). Il sistema giurisdizionale è indipendente. La Corte Costituzionale (11 membri designati dal Presidente della Repubblica) può annullare gli atti votati dal Parlamento. La Costituzione può essere modificata solo con una maggioranza parlamentare di due terzi (o di tre quinti con il successivo ricorso obbligatorio ad un referendum). Le Forze Armate, per legge e per tradizione custodi del carattere laico della Repubblica, hanno esercitato una forte influenza attraverso il Consiglio Nazionale di Sicurezza, organo in teoria consultivo ma dal peso determinante. In precedenza costituito per metà di civili e metà di militari, esso ha visto nel 2003 ampliata la componente civile nel quadro delle riforme richieste per l’adattamento ai criteri politici di Copenaghen. L’amministrazione statale è centralizzata, ricalcata sul modello francese. L’articolazione regionale resta intesa quale semplice deconcentrazione di competenze, anche se prende quota il dibattito sull’introduzione di un regionalismo.

Il 30 marzo 2014 si sono svolte le elezioni amministrative. Le ultime elezioni parlamentari hanno avuto luogo il 7 giugno 2015. Le elezioni anticipate sono state indette per il 1 novembre 2015. Le prossime presidenziali sono previste nel 2019.

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COMPOSIZIONE DELL’ESECUTIVO (di transizione) DAVUTOĞLU

Primo Ministro Ahmet Davutoğlu Vice Primo Ministro Turgul Turkes Vice Primo Ministro Cevdet Yilmaz Vice Primo Ministro Yalcin Akdogan Vice Primo Ministro Numan Kurtulmus Ministro degli Esteri Feridun Sinirlioglu Ministro degli Affari Europei e Capo Negoziatore Ali Beril Dedeoglu Ministro della Famiglia e delle Politiche sociali Aysen Gurcan Ministro della Giustizia Kenan Ipek Ministro della Scienza, dell’Industria e della Tecnologia Fikri Isik Ministro delle Dogane e del Commercio Cenap Asci Ministro dell’Ambiente e della Pianificazione Urbanistica Idris Gulluce Ministro dell’Economia Ministro della Gioventù e dello Sport Akif Cagatay Kilic Ministro degli Affari Interni Selami Altinok Ministro dei Trasporti, della Marina e delle Comunicazioni Ministro del Lavoro e della Sicurezza Sociale Ahmet Erdem Ministro dell’Energia e delle Risorse Naturali Ali Riza Alaboyun Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e dell’Allevamento Ministro dello Sviluppo Mustafa Cuneyd Duzyol Ministro della Cultura e del Turismo Yalcin Topcu Ministro delle Finanze Mehmet Simsek Ministro dell’Educazione Nazionale Nabi Avci Ministro Della Difesa Nazionale Mehmet Vecdi Gonul Ministro degli Affari Forestali e dell’Acqua Veysel Eroglu Ministro della Salute Mehmet Muezzinoglu

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POLITICA INTERNA

Le proteste del 2013. Il 31 maggio 2013, ad Istanbul, le forze di polizia turche hanno represso con la violenza la manifestazione di protesta di un gruppo di ecologisti, inizialmente pacifica e contenuta sotto il profilo della partecipazione, contro la ristrutturazione di Gezi Park, unica area verde nel centro di Istanbul. La reazione della polizia ha offerto l’opportunità ad altri gruppi di esprimere il loro malcontento verso il Governo. Da Ankara le proteste si sono propagate in numerose altre città, in uno scenario di contrapposizione e critica verso il potere politico rappresentato dall’AKP. A Istanbul l’epicentro della protesta è stato piazza Taksim e la via Istiklal, principale arteria commerciale. La mattina dell’11 giugno 2013, alle 7.30, la polizia ha fatto irruzione a piazza Taksim. Durante le operazioni di sgombero, l’allora Primo Ministro Erdoğan ha espresso in Parlamento la propria insofferenza per la prosecuzione delle proteste, ribadendo la linea di chiusura alle richieste dei manifestanti e smentendo quella più conciliante dell’allora Presidente Gul, che pure aveva mostrato qualche apertura verso le istanze progressiste ed ecologiste dei manifestanti. Il movimento di Gezi Park ha sorpreso le autorità per la sua subitaneità ed estensione. Si è trattato della reazione spontanea di larghi strati della società civile, anche eterogenei tra di loro quanto ad età e provenienza sociale, che vedono minacciato il proprio stile di vita, largamente secolarizzato e occidentalizzato, e le proprie libertà fondamentali dalla retorica dell’AKP che, vagheggiando un ritorno agli splendori dell’impero ottomano, cerca di imporre modelli religiosi islamici e conservatori (il velo per le donne, il divieto di bere alcolici, ecc.), a lungo repressi o rimossi dall’establishment militare e kemalista. Il movimento non ha trovato sinora nessun referente politico e a causa della sua eterogeneità si è dissolto altrettanto rapidamente di come si è formato. Le istanze da esso rappresentate sono tuttavia ben radicate nella società turca e rappresentano un ostacolo al disegno revisionista di ispirazione islamica dell’attuale Presidente Erdoğan, nonché una delle principali fratture della società turca, sempre più divisa e polarizzata.

L’inchiesta giudiziaria sulla corruzione pubblica del dicembre 2013. Avviata dalla procura di Istanbul, l’inchiesta ha portato alle dimissioni di quattro Ministri (Interno, Economia, Affari Europei, Ambiente e pianificazione urbana) ed ha sfiorato lo stesso Erdoğan (sono state pubblicate intercettazioni di conversazioni con il figlio nelle quali l’allora premier turco gli dava istruzioni per occultare ingenti somme di denaro nascoste nella sua abitazione privata). La reazione di Erdoğan è stata durissima, ed ha portato ad un’azione di epurazione contro magistrati e funzionari di polizia accusati di essere parte di complotto volto a sovvertire con un colpo di Stato il governo dell’AKP e di far parte di una pretesa “struttura parallela”, espressione con la quale Erdoğan designa il movimento definito “Cemaat” o “Hizmet” del predicatore islamico che risiede negli

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USA Fethullah Gulen. A lungo alleato dell’AKP contro il precedente establishment kemalista e militare, che ha fortemente contribuito a smantellare grazie alle indagini giudiziarie “Ergenekon” e “Balyoz”, il movimento gulenista ha effettivamente attuato in passato una politica di penetrazione dell’amministrazione pubblica e soprattutto della magistratura e dei quadri di polizia. Una volta eliminato politicamente il nemico comune rappresentato da militari e kemalisti, tuttavia, le strade di Gulen e Erdoğan si sono sempre più allontanate per visioni divergenti sulla soluzione della questione curda e sulla politica estera della Turchia. La rottura si è consumata sull’autorizzazione ad operare per le scuole di preparazione all’Università (dershane), vera base del potere del movimento gulenista, sia per gli introiti finanziari, sia per la possibilità di formare i futuri quadri dirigenti dello Stato turco. Quale che sia il reale fondamento dell’accusa di Erdoğan nei confronti del movimento gulenista, le contromisure adottate all’indirizzo di polizia e magistratura sono discutibili sotto il profilo dello stato di diritto. L’AKP è riuscito inoltre ad assicurarsi la maggioranza di giudici filogovernativi in seno all’organo di autogoverno della magistratura turca, l’HSYK, concludendo con successo il tentativo di porre sotto il controllo governativo il potere giudiziario. Trattasi di sviluppi che destano preoccupazione anche nelle competenti istanze dell’Unione Europea e che rafforzano l’impressione di una direzione fortemente accentratrice e autoritaria impressa da Erdoğan alla sua azione politica.

Gli esiti delle elezioni amministrative del 30 marzo 2014 hanno confermato l’AKP di Erdoğan primo partito in Turchia, con ampio margine di vantaggio sui partiti di opposizione. L’AKP si è assicurato il 45.6 % dei voti staccando nettamente il partito repubblicano CHP (28 %) e il partito nazionalista MHP (15.3 %). Nel sud-est si è consolidato il partito filo- curdo BDP (6 % su base nazionale). Rispetto alle elezioni amministrative del 2009 l’AKP si è assicurato il controllo di 49 capoluoghi di provincia e, soprattutto, delle grandi municipalità di Istanbul, Ankara, Bursa e Antalya (già amministrata dal 2004 al 2009). Elevata, come di consueto, la partecipazione al voto con l’83.5 %.

in occasione delle elezioni presidenziali del 10 agosto 2014 il Primo Ministro Erdoğan, candidato del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), ha superato la soglia del 50 per cento ed è stato eletto al primo turno con il 51,79% delle preferenze. Trattandosi della prima elezione del Capo dello Stato a suffragio diretto, con tale legittimazione popolare egli mira ad esercitare in maniera estensiva tutti i poteri previsti dalla Costituzione, tentando di avviare di fatto la trasformazione dello Stato turco in una repubblica presidenziale, obiettivo primario della sua agenda politica interna.

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Dopo l’elezione alla Presidenza dell’ex Premier, è diventato Primo Ministro l’ex Ministro degli Esteri, Ahmet Davutoğlu, mentre il Ministro per gli Affari europei Mevlut Cavusoglu è divenuto Ministro degli Esteri.

Adozione del pacchetto sicurezza. Il 27 marzo scorso la Grande Assemblea Nazionale turca ha approvato il controverso pacchetto sulla sicurezza interna, nonostante la contrarietà degli altri tre partiti presenti in Parlamento, CHP, MHP e HDP. Le misure più contestate dall’opposizione riguardano: l’estensione sino a 48 ore della custodia cautelare senza autorizzazione della magistratura; l’attribuzione ai governatori locali, di nomina governativa, del potere di dare ordine alla polizia di condurre perquisizioni e indagini, nonché arrestare i sospetti, senza autorizzazione preventiva del giudice; la possibilità per le forze di polizia di utilizzare armi di fuoco nei confronti di manifestanti che utilizzano bottiglie molotov e altri congegni incendiari o esplosivi; la classificazione di fionde, biglie di ferro e fuochi d’artificio come "armi"; l’inasprimento delle pene detentive (sino a tre/quattro anni) per chi partecipa alle manifestazioni a volto coperto o con emblemi e insegne di organizzazioni illegali; l’istituzione di pene detentive per i funzionari pubblici che si rifiutano di eseguire gli ordini impartiti. Il pacchetto, inoltre, prevede che il corpo della Gendarmeria (forza di polizia militare) passi sotto il controllo del Ministero dell’Interno per tutte le attività non militari, dispone la possibilità di licenziamento dei poliziotti che non abbiano avuto promozioni negli ultimi cinque anni, e dispone la chiusura dell’Accademia di Polizia. Le misure adottate, che oltre alle critiche dei partiti d’opposizione hanno anche suscitato preoccupazioni in vari Paesi europei, sono state giustificate dal governo con l’esigenza di proteggere i cittadini dagli eccessi verificatisi durante manifestazioni violente (il Primo Ministro Davutoğlu ha fatto riferimento alle proteste nel Sud Est curdo dello scorso ottobre per la difesa di Kobane) e quella di eliminare gli "adepti" della "struttura parallela" gulenista infiltrati nelle forze di polizia e sicurezza. Inoltre, secondo il governo, tali misure sono in linea con le disposizioni vigenti nei codici penali dei principali Paesi europei. Il partito repubblicano del CHP ha preannunciato che farà ricorso alla Corte Costituzionale per l’annullamento delle misure considerate incostituzionali. All’indomani dell’adozione del pacchetto sicurezza, nei giorni 31 marzo-1 aprile, tre attentati di diversa matrice hanno colpito le istituzioni turche e l’AKP ad Istanbul, uccidendo il procuratore che indagava sulle responsabilità sulla morte di una delle vittime di Gezi Park e dimostrando l’innalzamento del livello della lotta armata da parte di alcune formazioni estremiste, quali il DHKP-C, formazione di estrema sinistra.

In occasione delle elezioni politiche svoltesi il 7 giugno 2015 il partito del Presidente della Repubblica Erdoğan, l’AKP (Partito della Giustizia e dello sviluppo), solidamente alla guida del Paese dal 2002, ha perso la maggioranza

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assoluta in Parlamento: l’AKP ha ottenuto il 40.7% dei voti e 258 deputati, ben al di sotto dei 276 seggi necessari per avere la maggioranza assoluta alla Grande Assemblea Nazionale Turca (GNAT) e dai 330 voti richiesti per attuare la riforma costituzionale in senso presidenziale auspicata da Erdoğan. Il repubblicano CHP si è confermato secondo partito, con poco più del 25% dei voti e 132 seggi, mentre il nazionalista MHP ha ottenuto il 16.5% con 80 deputati. La novità delle elezioni è stata il successo del partito filo-curdo e moderato HDP il cui leader Demirtas è riuscito nella storica impresa di raccogliere il 13% dei consensi, ben oltre la prevista soglia del 10%, ottenendo di fare eleggere 80 deputati sotto la sua bandiera. Lo scorso 9 luglio il Presidente ha incaricato il premier uscente Davutoğlu di formare un nuovo governo con 45 giorni di tempo (fino al 23 agosto) per ottenere la fiducia del Parlamento. Falliti i colloqui con i leader dei partiti di opposizione, Davutoğlu ha rimesso il mandato il 18 agosto. Il 24 agosto, dopo aver incontrato il Presidente della Grande Assemblea Nazionale Turca Ylmaz, il Presidente Erdogan ha formalmente annunciato che il prossimo 1° novembre si svolgeranno le elezioni anticipate, ed ha affidato allo stesso Davutoglu l'incarico di formare un governo ad interim con la partecipazione di tutti i partiti presenti in Parlamento e senza la necessità di un voto di fiducia, secondo quanto previsto dalla Costituzione. I nazionalisti del MHP ed i repubblicani del CHP hanno rifiutato ogni ‘compromesso’ fosse pure per un governo provvisorio, a differenza del partito filo-curdo HDP che ha accettato di entrare nel governo ad interim. Il governo di transizione, insediatosi il 29 agosto scorso il Primo Ministro Davutoğlu, annoverava inizialmente 12 ministri dell'AKP (in gran parte già membri del precedente governo), due esponenti dell’HDP, uno dell’MHP e 11 “indipendenti”. Il colpo di scena più eclatante è stato l’entrata nel governo del membro del partito nazionalista MHP Turkes, nonostante l’espressa indicazione contraria del leader nazionalista Bahceli. L’episodio ha destato scalpore perchè Turkes è il figlio di Alparslan Turkes, carismatico fondatore del MHP e leader della formazione nazionalista dei Lupi Grigi. Tale decisione potrebbe essere quindi la spia di un malcontento interno al partito nazionalista, accusato da più parti del fallimento delle consultazioni. Riguardo all’HDP, al momento della formazione del governo di transizione sono entrati nell'esecutivo , di origine curda, senza un passato di militanza attiva in partiti di ispirazione curda avendo fatto parte del partito socialdemocratico, e Muslum Dogan, esponente politico alevita eletto a Smirne. Konca è stato nominato Ministro per gli Affari Europei e capo negoziatore, mentre Dogan Ministro per lo Sviluppo, tema caro ai curdi considerato che il Sud Est è una delle aree più arretrate del Paese. L’HDP può così rafforzare la propria immagine di partito “responsabile” e pienamente legittimo nel sistema politico turco, e magari riprendere la propria azione di ricerca di consenso nell’elettorato

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turco non curdo, invero incrinata dopo la ripresa dello scontro tra governo e PKK. Tra i ministri “tecnici” è stato designato quale Ministro degli Esteri il Segretario Generale del MAE, , diplomatico di grande esperienza e fedele esecutore delle indicazioni politiche dell’AKP, ma anche elemento di garanzia nel delicato rapporto tra Turchia e Stati Uniti. Al termine di una riunione del Consiglio dei Ministri, il Partito Democratico dei Popoli ha annunciato il 22 settembre le dimissioni dei propri ministri Ali Hancer Konca e Muslum Dogan, che nel corso di una conferenza stampa hanno illustrato le ragioni delle dimissioni puntando il dito contro il Presidente della Repubblica e l'AKP. Denunciando il "trattamento inaccettabile" da loro subito durante le ultime settimane (quando, tra l'altro, fu loro impedito di accedere alla città di Cizre, sotto coprifuoco), Konca e Dogan hanno accusato Erdogan e il partito di maggioranza di aver creato uno stato di guerra allo scopo di sovvertire i risultati delle elezioni dello scorso 7 giugno. Abbandonato il processo di soluzione della questione curda, la dirigenza turca avrebbe fomentato il conflitto con il PKK e le tensioni tra turchi e curdi, che hanno condotto agli assalti contro le sedi dell'HDP e alle drammatiche situazioni ("infernali") nelle città del Sud-Est, poste sotto coprifuoco. I due esponenti dell'HDP hanno quindi ribadito l'impegno del partito a ostacolare i progetti di riforma costituzionale del Presidente, nella convinzione che esista la possibilità di "liberarsi dell'AKP". Il Primo Ministro Davutoglu, che ha accettato senza indugio le dimissioni, ha già individuato in due figure indipendenti i successori di Konca e Dogan. È stata nominata Ministro per gli Affari Europei e Capo negoziatore la professoressa Beril Dedeoglu, capo del Dipartimento Relazioni Internazionali dell'Università Galatasaray di Istanbul ed esperta di Unione Europea, politica estera e sicurezza, mentre Ministro per lo Sviluppo Mustafa Cuneyd Duzyol, sin qui Sottosegretario allo sviluppo economico. A meno di un mese dalla sua costituzione, il governo ad interim formato per condurre il paese alle elezioni del 1 novembre perde quindi le sue uniche "voci critiche" e si riconfigura come un esecutivo monocolore AKP (considerato che anche le personalità indipendenti sono sostanzialmente allineate alle linee del partito). Nel frattempo il V Congresso dell'AKP, svoltosi lo scorso 12 settembre, ha rieletto Presidente del Partito Ahmet Davutoglu con 1.335 preferenze su 1.445 delegati, confermandolo nella carica che assunse nell'agosto del 2014, dopo l'elezione di Erdogan a Presidente della Repubblica. In caso di vittoria dell'AKP alle politiche del 1 novembre, Davutoglu sarà verosimilmente riconfermato anche nella carica di Primo Ministro, in ossequio alla regola interna dell'AKP che dispone la coincidenza di ruoli tra capo di partito e leader di governo. Nonostante tale rielezione, tuttavia, Ahmet Davutoglu resta una figura sbiadita, mentre Erdogan appare in pieno controllo delle dinamiche interne del partito ed il vero "dominus" dell'AKP. Tra le altre delibere del Congresso, merita segnalare la

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sospensione della regola interna dell'AKP che proibiva ai membri del Partito di restare in cariche pubbliche, compresa quella di parlamentare, per più di tre mandati. Tale sospensione consentirà a diversi deputati, ormai giunti al limite del terzo mandato, di potersi candidare alle prossime consultazioni politiche di novembre Intanto, la sicurezza e la stabilità del Paese risentono pesantemente della ripresa degli scontri con il PKK, che ormai mietono quotidianamente vittime, anche civili, da ambo le parti, nonché, da ultimo, delle minacce via web di Daesh, che accusa la Turchia ed il pur islamista Erdoğan – paradossalmente accomunato al campione del secolarismo Atatürk – di essere alleati dell’Occidente, dei “crociati” e dei “giudei”, preannunciando la prossima riconquista di Istanbul.

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QUESTIONE CURDA

Sin dal suo avvento al potere nel 2002, l’AKP è stato fautore di un nuovo approccio nei confronti della questione curda. Alla base della nuova strategia figura l’intento di operare un’apertura nei confronti delle istanze della popolazione curda, pur senza ridimensionare l’azione di risoluto contrasto alle attività terroristiche del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), incluso, come noto, anche nella lista UE delle organizzazioni terroristiche. Il processo di normalizzazione graduale promosso dal Premier Erdoğan ha avuto inizio con l’abolizione dello stato di emergenza nelle Province del Sud-Est del Paese, dove si concentra la popolazione di etnia curda, ed è proseguito: a) con il riconoscimento di diritti sul piano culturale ed amministrativo (che ha portato alla messa in onda di programmi radiotelevisivi in lingua curda, all’organizzazione di corsi di lingua curda presso scuole private, allo svolgimento di celebrazioni pacifiche del “Capodanno curdo”); b) con misure volte a favorire la rappresentanza politica della componente minoritaria curda c) e con programmi di sviluppo economico a beneficio della regione del Sud-Est. Nell’agosto 2009 il Governo Erdoğan ha poi varato il cosiddetto “piano di apertura democratica” i cui tratti peculiari sono: l’introduzione di nuove norme in materia di autonomia locale; il riconoscimento della lingua e della cultura curde; la previsione di una forma di amnistia verso i militanti del PKK che si siano adeguati alla “legge del pentimento” contenuta nel Codice penale. Nel solco del processo di normalizzazione si collocano anche alcuni degli emendamenti costituzionali approvati in occasione del referendum del 12 settembre 2010 che hanno favorito il rinnovamento del sistema giudiziario, con effetti positivi sul piano della tutela dei diritti umani fondamentali di tutta la popolazione turca, ivi compresa l’etnia curda. Dopo la riconferma dell’AKP al Governo nel 2011, l’Esecutivo dichiarava di voler trovare una soluzione alla questione curda nella riscrittura della Costituzione. Tuttavia, la Commissione ad hoc, nella quale sedevano i quattro partiti nel Parlamento incluso quello espressione della minoranza curda il BDP non è riuscita a trovare un accordo. L’impasse registrata nel processo di riforma costituzionale sembrava aver indotto il PKK a riprendere in pieno le operazioni di guerriglia al confine. Dopo l’esplosione nel centro di Ankara (20 settembre 2011) e numerosi attacchi alle postazioni militari nel sud-est del Paese, era scattata un’offensiva di terra in territorio iracheno con circa 20.000 uomini. Si era così riaperta la spirale viziosa di scontro con il PKK, che ha finito per intrappolare inevitabilmente anche i rapporti tra Turchia e Nord Iraq. Il drammatico episodio di Uludere (sono state uccise delle persone al confine con l’Iraq, scambiate per militanti PKK) ha ulteriormente acutizzato il malcontento della minoranza curda.

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Il 21 marzo 2013, in occasione delle celebrazioni del Newroz (inizio della primavera), il leader del PKK, Abdullah Ocalan, ha divulgato un messaggio contenente l’appello - rivolto anche al Governo di Ankara - a ricercare una soluzione pacifica, senza il ricorso alle armi (pur non ricusando la lotta armata). Non si tratta di un “cessate il fuoco” incondizionato: il PKK è pronto tanto alla pace quanto alla guerra, ha chiarito il Comandante Capo del PKK a Qandil (in Nord Iraq), Murat Karayilan. È stato avviato pertanto un dialogo del Governo di Ankara con Abdullah Ocalan e, per il suo tramite con l’ausilio del partito BDP/HDP, con il comando generale del PKK a Qandil, nonché con la sua estensione in Europa. Il processo di pacificazione è tuttavia ben presto entrato in fase di stallo, con reciproche accuse di mancato rispetto degli accordi tra il governo e la compagine curda, soprattutto per quanto riguarda il ritiro dei combattenti PKK oltre confine da un lato, e le misure a favore dei prigionieri e al reintegro dei guerriglieri curdi dall’altro. Il 16 novembre 2013 il Presidente del Governo regionale del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani, ha compiuto a Diyarbakir una visita “storica”, interrompendo un’assenza di 21 anni e giungendo in un momento topico per il sud-est, dominato dalle incertezze sul processo di soluzione alla questione curda in Turchia e dalla prospettiva di una nuova regione autonoma curda alle proprie porte (“Rojava”), questa volta nel nord-est siriano. Nel gennaio 2014 la Corte Costituzionale ha disposto la scarcerazione di cinque deputati di etnia curda appartenenti al BDP/HDP, che hanno potuto finalmente formulare il giuramento ed unirsi ai colleghi in parlamento, a due anni e mezzo dalla loro elezione. Da parte curda si guarda ora con speranza ad una possibile estensione applicativa di questa decisione ai politici curdi detenuti nel contesto del processo contro il KCK (l’Unione delle comunità curde che le Autorità turche considerano essere l’ala urbana del PKK), che nel corso di questi anni ha letteralmente decimato la rete locale del movimento politico curdo rappresentato in parlamento dal BDP. Agli inizi di giugno 2014 una delegazione parlamentare del partito democratico dei popoli (l’HDP che ha sostituito in Parlamento il BDP, nel tentativo di allargare la propria base elettorale oltre la tradizionale rappresentanza curda) ha visitato Ocalan a Imrali, e pubblicato una dichiarazione nella quale afferma che il processo di soluzione della questione curda ha raggiunto una nuova fase. Prima della chiusura estiva di metà luglio, e come indubbia mossa di stampo elettorale in vista delle presidenziali, il Parlamento ha approvato la legge quadro “per il rafforzamento dell’integrazione sociale e porre fine al terrorismo”, fornendo ampia immunità ai funzionari incaricati di negoziare con il leader curdo Ocalan e con il PKK. Tuttavia, dopo le elezioni presidenziali, la tenuta nel processo di soluzione della questione curda è stata messa a dura prova dagli sviluppi della crisi in Siria e dalla percezione di colpevole indifferenza di Ankara rispetto alle sorti della città di Kobane, simbolo

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della resistenza dei curdo-siriani nei confronti degli jihadisti dell’ISIS. Dopo le manifestazioni che, all’inizio di ottobre 2014, hanno causato oltre trenta morti nell’est e nel sud-est della Turchia, sia il Governo dell’AKP che lo stesso Ocalan sono intervenuti con dichiarazioni volte a ridurre la tensione. Agli inizi di dicembre 2014, il nuovo Vice Primo Ministro Yalcin Akdogan ha sottolineato la volontà tanto del Governo quanto dell’HDP di rilanciare nuovamente il processo di pace dopo la brusca frenata di inizio ottobre, sulla base di un “progetto di cornice negoziale”. Tale cornice negoziale si fonderebbe da tre pilastri: la discussione di proposte di soluzione, l’elaborazione di capitoli negoziali ed infine l’attuazione di un piano d’azione. L’aspettativa curda è che tale dialogo possa essere finalmente istituzionalizzato con la presenza di una terza parte neutrale che supervisioni il negoziato. In vista delle elezioni politiche di giugno, sono ripresi gli incontri tra delegazioni governative, HDP, Ocalan e il comando del PKK a Qandil, con l’obiettivo di giungere all’avvio di formali sessioni negoziali con un Consiglio di monitoraggio imparziale e la proclamazione del disarmo del PKK. È ancora presto per dire se tali contatti porteranno a sviluppi clamorosi prima delle elezioni di giugno. Gli incontri dei mesi scorsi tra HDP e Governo, volti a raggiungere un’intesa sul rilancio del negoziato per la soluzione della questione curda in Turchia, avevano prodotto un primo tangibile risultato con la conferenza stampa congiunta, lo scorso 28 febbraio, dei deputati dell’HDP Sirri Surreya Onder, Pervin Buldan e Idris Baluken, insieme con il Vice Primo Ministro Yalcin Akdogan ed il Ministro per l’Interno Efkan Ala. In quella occasione Onder ha letto un appello del leader curdo in carcere Ocalan perché il PKK e il KCK (l’Unione delle comunità curde che le Autorità turche considerano essere l’ala urbana del PKK) convochino un congresso in primavera per discutere le prospettive di un disarmo del PKK. Lo stesso Ocalan, in occasione della festività curda del Newroz (marzo 2015), ha affermato la necessità di tenere un congresso per ‘fermare la lotta armatà del PKK, a condizione della formazione di un comitato indipendente di monitoraggio del negoziato e di una Commissione per la verità e la riconciliazione. Il Presidente Erdoğan tuttavia si è dichiarato contrario a meccanismi di monitoraggio, preferendo la supervisione del MIT (servizio d’informazione). Le parole di Erdoğan hanno segnato una battuta di arresto nel processo di soluzione della questione curda in Turchia, a cui si è aggiunta l’approvazione del citato pacchetto sicurezza del 27 marzo u.s.. Molte delle disposizioni adottate sono infatti considerate come rivolte soprattutto contro le manifestazioni del movimento politico curdo (evidente il riferimento ai curdi nel divieto di mostrare emblemi o insegne di organizzazioni illegali, quali ad esempio il PKK); lo dimostra il fatto che nelle settimane che hanno preceduto l’adozione del pacchetto l’HDP aveva cercato di negoziarne il ritiro o l’attenuazione nel quadro

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dei negoziati che dovevano portare alla rinuncia della lotta armata da parte del PKK. Il fallimento di tale tentativo, insieme alle dichiarazioni contrarie all’istituzione di un comitato di supervisione del negoziato rilasciate dal Presidente Erdoğan, confermano la battuta d’arresto imposta a qualsiasi sviluppo positivo del processo di pace prima delle elezioni di giugno. Trattasi di una linea dettata dal Presidente allo stesso Primo Ministro Davutoğlu, che pure stava portando avanti il negoziato, peraltro accolta senza esitazioni da quest’ultimo. L’azione intrapresa dalle forze armate turche alla fine di luglio contro le basi ed i militanti del PKK è stata avviata dopo l’attacco dell’organizzazione terroristica contro le forze di polizia turche, e in particolare dopo l’assassinio nel sonno di due poliziotti turchi a Sanliurfa, atto di rappresaglia per l’attentato di Suruç. Nella lettura del PKK, la dirigenza turca sarebbe colpevole di connivenze con l'ISIS e di aver consentito la strage dello scorso 20 luglio.

QUESTIONE ARMENA

La questione del cd. “genocidio armeno” continua ad essere particolarmente sensibile per il Governo e l’opinione pubblica turca. In concomitanza con la ricorrenza del suo centesimo anniversario il 24 aprile u.s., le numerose prese di posizione internazionali sull’argomento (Austria – approvazione di una dichiarazione parlamentare; Bulgaria – approvazione di una mozione parlamentare; Germania – discorso pronunciato dal Presidente federale Gauck e discussione di una risoluzione del Bundestag; Russia – dichiarazioni del Presidente Putin e approvazione annuale di una mozione da parte della Duma; Francia - partecipazione del Presidente francese Hollande alle commemorazioni svoltesi a Jerevan e dichiarazioni del Primo Ministro Valls; Santa Sede - omelia di Papa Francesco durante la funzione commemorativa del centenario del “martirio degli armeni” di Turchia; Unione Europea - approvazione da parte del Parlamento Europeo di una risoluzione volta a commemorare ufficialmente il centenario del “genocidio armeno”) hanno provocato accese reazioni da parte di Ankara. La Turchia, infatti, continua ad opporre un netto rifiuto alla definizione di “genocidio” per le immani perdite di vite umane registrate tra le popolazioni di origine armena deportate a partire dal marzo 1915. Il cd. “genocidio”, parola coniata solo successivamente ai fatti, ha provocato lo sradicamento della popolazione armena dal territorio storicamente abitato e la disseminazione di varie comunità (“diaspora”) in pressoché tutti i continenti. L’Armenia moderna occupa infatti uno spazio fisico solo in minima parte coincidente con la “patria” storicamente percepita. Al contempo, questa “pulizia

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etnica” - pur se effettuata, a detta dei turchi, soprattutto per evitare, in tempo di guerra, che i gruppi rivoluzionari armeni favorissero l’avanzata russa - ha reso di fatto possibile identificare la Turchia moderna di Atatürk con un territorio ben identificato: l’Anatolia. Di qui, il carattere spinoso del problema che coinvolge, alla radice, l’identità di due popoli che per secoli hanno comunque convissuto. Il genocidio è un crimine gravissimo, di cui la Turchia non si ritiene in alcun modo imputabile in assenza di presupposti giuridici (trattandosi di eventi antecedenti alla Convenzione del 1948, mai giudicati da un tribunale internazionale) e storici (l’ininterrotta presenza sul territorio turco di una comunità armena escluderebbe di per sé l’intento genocida dei governanti turchi dell’epoca). Per Ankara la tragica vicenda del popolo armeno, pur nelle sue terrificanti dimensioni, rientrerebbe così nel novero di quegli eventi sanguinosi che caratterizzarono la Prima guerra mondiale. In questo contesto, particolarmente assertivo è stato l’intervento del Presidente Erdoğan, in apertura del Vertice per la Pace ospitato a Istanbul, ha confermato la consueta lettura turca dei fatti del 1915, da un lato riconoscendo le vittime armene delle deportazioni decise dall’impero ottomano, e, dall’altro, accomunando tale tragico destino alla stessa sorte subita da tutte le altre vittime degli sconvolgimenti provocati dal primo conflitto mondiale, inclusi “quattro milioni” di turchi-ottomani rifugiatisi in Anatolia dalle regioni limitrofe. Per confutare le pretese armene, il Presidente turco ha ricordato anche il “carattere multinazionale, multiculturale e tollerante” che per secoli ha caratterizzato l’impero ottomano: la pacifica convivenza di diverse comunità sarebbe ora testimoniata dalla stessa presenza nella Repubblica di Turchia di una comunità di origine armena perfettamente integrata e tutelata. Per tali ragioni, ha proseguito Erdoğan, è inaccettabile ogni strumentalizzazione politica di quanto accaduto un secolo fa, a fronte della disponibilità mostrata da Ankara a ricostruire i legami di amicizia un tempo esistenti sulla base di una solida e documentata ricostruzione storica, per la quale la Turchia è sempre stata pronta ad aprire i propri archivi, come anche ripetutamente richiesto dall’Unione Europea. In generale le Autorità turche continuano a riproporre nei propri interventi ufficiali accenti di condanna ed argomentazioni volte a sostenere una lettura prevalentemente in chiave culturale e religiosa (in particolare islamofoba) di quella che è qui vistosamente percepita come una “offensiva” internazionale – prevalentemente occidentale – anti-turca ed anti-islamica.

Nel caso dell’Italia, i toni e i contenuti della commemorazione del centesimo anniversario tenutasi alla Camera dei Deputati lo scorso 23 aprile hanno suscitato reazioni risentite da parte dell-establishment turco. La posizione di sostanziale equilibrio sin qui tenuta dal Governo italiano, frutto anche della nostra esperienza nazionale di ricostruzione condivisa della

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memoria delle tragedie belliche con i nemici di allora, oggi partner nell’Unione Europea, viene tuttavia riconosciuta dalle Autorità turche. Il Governo italiano ritiene che la strada maestra per affrontare una questione tanto controversa risieda nel dialogo tra le parti e nell’approfondimento, senza pregiudizi e precondizioni, della ricerca storiografica, come previsto dagli stessi Protocolli volti alla normalizzazione dei rapporti tra la Repubblica di Turchia e la Repubblica Armena, sottoscritti a Zurigo il 10 ottobre 2009, che contemplano misure volte a pervenire a una lettura quanto più possibile condivisa degli eventi della Prima guerra mondiale nell’impero ottomano.

STATO DI DIRITTO Nel corso degli ultimi mesi vi sono stati sviluppi poco confortanti in due settori delicati per la tenuta della democrazia turca: l’indipendenza della magistratura e la libertà di stampa e di opinione. La procura di Istanbul ha indagato per diffamazione l’ex procuratore Zekariya Oz, salito agli onori delle cronache tra fine 2013 e inizio 2014 per aver condotto le inchieste per corruzione sfociate nell’incriminazione dei quattro Ministri e dell’imprenditore turco-iraniano Reza Zarrab. Fatto oggetto di attacchi mediatici sulla stampa filo-governativa, che lo aveva sostanzialmente accusato di corruzione, Oz era stato rimosso dall’incarico, giungendo infine alle dimissioni, all’inizio di quest’anno, quando aveva preferito abbandonare la magistratura piuttosto che accettare l’incarico in una sede periferica assegnatogli dall’Alto Consiglio dei Giudici e Procuratori (HSYK). L’ex magistrato sarebbe ora colpevole di aver diffamato Presidente della Repubblica e Primo Ministro con una serie di Tweet riferiti agli ultimi sviluppi di politica interna, secondo i quali questa dirigenza avrebbe provocato l’ondata di violenze che sta scuotendo il Paese per calcoli di natura elettorale. Sono stati inoltre arrestati, con l’accusa di tentato colpo di stato i quattro magistrati (il Procuratore Capo di Adana e tre suoi collaboratori) che avevano autorizzato la perquisizione dei camion del MIT diretti in Siria. Già rimossi dall’incarico a inizio anno, sempre su decisione dell’HSYK, i quattro resteranno in carcere sino al processo. All’epoca emerse che i camion trasportavano armi destinate a gruppi radicali dell’opposizione siriana (al-Nusra, secondo alcuni, ISIS secondo altri), versione sempre smentita da fonti ufficiali, per cui si trattava invece di aiuti umanitari a favore delle popolazioni turkmene oltre confine. Accusati di propaganda a favore di un’organizzazione terroristica, rischiano fino a 7 anni e mezzo di carcere 18 giornalisti di varie testate, tra cui il redattore capo del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar (già denunciato da Erdoğan in persona per aver autorizzato la pubblicazione di video relativi alla perquisizione dei camion del MIT sopra citati, da cui risulterebbe evidente il loro carico di armi e munizioni). L’incriminazione è dovuta alla scelta di pubblicare fotografie del procuratore di Istanbul Mehmet Salim Kiraz durante le drammatiche ore del suo

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sequestro ad opera di militanti DHKP-C, facendo apparire l’organizzazione, secondo l’accusa, “forte e capace di qualsiasi azione”. Dundar si è difeso spiegando che il suo intento era esattamente l’opposto, ossia mostrare il volto più cruento e brutale dei terroristi, per delegittimarne l’azione. Ai primi di settembre, all’indomani dell’annuncio della data delle prossime elezioni e in vista dell'avvio della nuova campagna elettorale, si è registrato un ennesimo giro di vite sulla libertà di stampa, con operazioni intimidatorie nei confronti delle testate più critiche dell'operato della dirigenza turca. Con l'accusa di avere svolto attività terroristiche Sono stati arrestati anche due giornalisti inglesi, poi rilasciati. Da segnalare che i Ministri in quota HDP hanno preso le distanze da tali misure.

SITUAZIONE ECONOMICA

1. A partire dal 2002, la Turchia ha registrato altissimi tassi di crescita (con punte eccezionali come il 9,5% del 2010 e l’8,8% del 2011). Dal 2012, però, la crescita ha subito un rallentamento, tra il 2% ed il 4%, valori inferiori a quella soglia teorica del 5% che le Autorità ritengono necessaria per fare della Turchia uno dei 10 Paesi più sviluppati al mondo entro il 2023, anno simbolo in cui ricorre il centenario della Repubblica. Le cause principali di tale rallentamento sono rappresentate dalla debolezza della domanda interna e dagli effetti negativi delle turbolenze che hanno colpito alcuni mercati di sbocco delle esportazioni turche (la Siria, l’Iraq), nonché della congiuntura economica di alcuni Paesi dell’Unione Europea.

2. Nel 2014 la crescita del PIL turco è stata pari al 2,9%, dato che si colloca al di sotto sia del valore del 2013, pari a 4,2%, sia alle stime del Governo che, nel Piano di Medio Termine presentato ad ottobre 2014, ipotizzava una crescita del 3,3%. Viene confermata la “frenata” dell’economia nazionale, che nel 2014 ha segnato tassi di crescita in progressivo rallentamento nei primi nove mesi (4,9% nel primo trimestre; 2,3% nel secondo; 1,9% nel terzo) per poi migliorare lievemente nell’ultimo trimestre (2,6%). L’andamento del PIL del 2014 è stato influenzato dal significativo calo della crescita della domanda interna, che contribuisce per circa due terzi al prodotto interno lordo del Paese, con i consumi che sono aumentati nell’anno solo dell’1,3%. Calano anche gli investimenti, che sono scesi di oltre cinque punti percentuali e mezzo, attestandosi a fine 2014 su un valore inferiore a quello dell’anno precedente (-1,3%) e rallenta la crescita della spesa della pubblica amministrazione, che passa dal 6% al 4,6%.

In tale contesto, va considerata la debolezza della lira turca nei confronti dell’euro e del dollaro, con le pericolose spinte inflazionistiche che ne

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conseguono, sebbene mitigate dalla generale riduzione dei prezzi delle materie prime di fine 2014. La perdurante incertezza del quadro politico turco e il ribilanciamento dei flussi finanziari hanno avuto gravi ripercussioni sulla tenuta della valuta che, da inizio anno, ha perso quasi un quarto del valore rispetto al dollaro. Nelle prime due riunioni del 2015 il Comitato per la politica monetaria della Banca Centrale della Repubblica Turca (BCRT) ha ridotto di 75 punti base, dall’8,25% al 7,50%, il tasso di riferimento, in virtù del percorso di riduzione del disavanzo delle partite correnti in atto e della tendenza al rientro mostrata dal tasso di inflazione. Nella riunione dello scorso 18 agosto, la Banca Centrale turca ha lasciato invariati i tassi, avviando al contempo una revisione del proprio approccio di politica monetaria. La difficoltà con cui la Banca Centrale difende la propria indipendenza dal potere politico rischia di pesare non poco nelle scelte degli investitori internazionali.

Nel 2014 il tasso di disoccupazione è stato del 9,9%, rispetto al 9,7% dell’anno precedente. I dati TurkStat rivelano che il numero di persone disoccupate sopra i 15 anni ha raggiunto i 2,8 milioni nel 2014. Il tasso di disoccupazione maschile è al 9% mentre quello femminile all’11,9%. La disoccupazione giovanile, per il gruppo di età tra i 15 e i 24 anni è stato del 17,9%. Nel mese di maggio 2015 il tasso di disoccupazione è stato del 9,3%, rispetto al 9,6% del mese precedente, secondo quanto annunciato da TurkStat. I dati TurkStat rivelano che il numero di persone disoccupate sopra i 15 anni ha raggiunto i 2,78 milioni, registrando un aumento annuale di 238 mila persone rispetto il mese di maggio 2015. Le stime del FMI per il 2015 vedono il tasso di disoccupazione aumentare complessivamente, e raggiungere l’11,4%, mentre nel 2016 lo stesso dovrebbe arrivare al 11,6%.

Il debito estero del settore privato turco finanziato dai Paesi europei ammonta a 95,2 miliardi di dollari (dato ad agosto 2014), mentre i prestiti dai Paesi asiatici a 23,4 miliardi di dollari e quelli americani a 19,2 miliardi di dollari. Secondo i dati diffusi dalla Banca Centrale, il Regno Unito è il primo prestatore, con 21,6 miliardi di dollari, seguito da Germania (17,8), Stati Uniti (17), Paesi Bassi (14,3), Bahrain (12,5) e Lussemburgo (10,5). La Turchia prende in prestito 15,9 miliardi di dollari dalle agenzie governative e istituzioni internazionali, tra cui Banca Europea per gli Investimenti, Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, e Banca Islamica di Sviluppo, mentre 26,9 miliardi di dollari dai creditori obbligazionari e il resto dai creditori privati.

Il disavanzo delle partite correnti è stato di 84,5 miliardi di dollari nel 2014, in calo del 15,4% rispetto al 2013. Nonostante tale trend discendente, continua a

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preoccupare lo squilibrio dei conti con l’estero, che dipende essenzialmente da un deficit commerciale caratterizzato da uno sbilanciamento strutturale (dipendenza energetica e produttiva dalle importazioni) e che tende a essere per lo più finanziato con afflussi di capitali dall’estero a breve termine e non con investimenti produttivi.

Il disavanzo delle partite correnti turco è stato di 3,15 miliardi di dollari a luglio 2015, segnando un aumento annuo del 32% a luglio, secondo quanto riportato dalla Banca Centrale turca. La Banca ha annunciato una previsione di deficit a fine 2015 pari a 45,03 miliardi di dollari. L’aumento del deficit è dovuto all’aumento della domanda interna e alla diminuzione delle esportazioni, nonostante gli effetti positivi del calo del prezzo del petrolio sul disavanzo delle partite correnti. Il disavanzo delle partite correnti in Turchia nel 2014 è stato di 42,9 miliardi di dollari.

3. Nel secondo trimestre del 2015, il Prodotto Interno Lordo e' cresciuto del 3,8%. Si tratta di una crescita superiore a quella prevista, che fa si' che il Pil turco sia aumentato del 3,15% nella prima meta' dell'anno (Turkstat ha anche rivisto al rialzo il dato relativo al primo trimestre dell'anno, dal 2,3% al 2,5%). Tuttavia, se il periodo aprile-giugno fa registrare un miglioramento del trend dall'inizio dell'anno, tale andamento non sembra essere sufficiente (anche quest'anno) al raggiungimento dell'obiettivo fissato dal Governo nel Medium Term Plan, il documento di programmazione economica con un orizzonte triennale, in cui veniva indicata una crescita per il 2015 pari al 4%. In termini di contributo alla crescita, vanno segnalati positivamente la spesa pubblica (+17% a prezzi correnti) e la ripresa della domanda interna (+12% a prezzi correnti), cosi' come i buoni risultati del settore agricolo (+6,7%).

Per il 2015 il Governo si attende una crescita del 4%, mentre per il 2016 e 2017 viene ipotizzato un aumento del PIL del 5% per ciascun anno. Le previsioni delle istituzioni finanziarie internazionali per il 2015 sono più caute: la Banca Mondiale si attende una crescita del 3,5%, l’OCSE un aumento del 3,25%, mentre il FMI stima un progresso del 3%.

Il tasso di inflazione annuo ad agosto 2015 è stato pari al 7,14% e allo 0,4 su base mensile. Il maggior incremento annuale è stato registrato nel settore alberghiero, bar e ristoranti (+14,2%), seguito da quello dei beni e servizi vari (+9,91%), prodotti alimentari e bevande analcoliche (9,71%), ricreazione e cultura (9,19%), arredamento e elettrodomestici (8,60%).

4. La perdurante incertezza del quadro politico turco e il ribilanciamento dei flussi finanziari hanno avuto gravi ripercussioni sulla tenuta della lira turca (TL)

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che ha toccato un nuovo record contro la valuta americana attestandosi a 3 TL per dollaro, mentre rispetto all'euro il cambio e' arrivato a superare le 3,30 TL. Da inizio 2015, la lira ha perso quasi un quarto del valore rispetto al dollaro. Lo sviluppo economico turco si caratterizza per un elevato deficit delle partite correnti che viene finanziato mediante il ricorso a capitali stranieri. L'abbondanza di finanziatori negli scorsi anni era favorita dal differenziale di rendimento tra l'economia turca, che cresceva a tassi elevati, e i bassi rendimenti offerti dalle economie occidentali alle prese con la crisi economica. La prospettiva di realizzare alti guadagni aveva attratto gli investitori internazionali verso la Turchia, cosi' come le altre economie emergenti, garantendo al Paese un'abbondanza di flussi finanziari. Da mesi si sta tuttavia assistendo ad un movimento finanziario inverso: i capitali vengono rimpatriati verso le economie occidentali e in particolare gli Stati Uniti, dove la ripresa economica si va rafforzando e la Federal Reserve si accinge a 'normalizzare' la politica monetaria statunitense dopo le operazioni straordinarie attuate per fronteggiare la grave crisi finanziaria. Nonostante da piu' parti vi fosse l'aspettativa di un aumento dei tassi di interesse per rallentare il deprezzamento della valuta e compensare gli effetti del rafforzamento del dollaro, nella riunione del comitato di politica monetaria del 18 agosto 2015, la Banca Centrale turca ha lasciato invariati i tassi, avviando al contempo una revisione del proprio approccio di politica monetaria. La difficolta' con cui la Banca Centrale difende la propria indipendenza dal potere politico rischia di pesare non poco nelle scelte degli investitori internazionali, che guardano con crescente preoccupazione alle ingerenze nelle scelte di politica monetaria del Governo AKP e del Presidente Erdoğan, fortemente contrari a qualsiasi aumento dei tassi di interesse, considerato 'dannoso' per il Paese. A peggiorare il quadro intervengono i dati negativi sul fronte del turismo, il calo di oltre il 16% da inizio anno degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e l'aumento dei prezzi alimentari attesi nei prossimi mesi quali conseguenza del deprezzamento della lira. Da registrare infine la crisi di quelle molte aziende turche che hanno contratto debiti in valuta forte (soprattutto dollari, ma anche euro) e che vengono pagate prevalentemente in valuta locale. I temi economici di qui alla data delle elezioni (presumibilmente il 1° novembre) saranno sicuramente un argomento sensibile della prossima campagna elettorale. La crescita a doppia cifra degli anni passati sembra ormai un pallido ricordo rispetto ai dati del primo trimestre 2015 (piu' 2,3%), cosi' come l'obiettivo di inflazione al 5% stabilito dalla Banca Centrale turca non e' stato raggiunto (a luglio l'inflazione si attestava al 6,81%). L''interventismo' del Presidente Erdoğan nelle questioni di politica monetaria e la strenua opposizione agli aumenti dei tassi d'interesse testimoniano i timori della classe di governo per un peggioramento dei fondamentali dell'economia, che costituirebbe una delle principali minacce all'affermazione alle urne del Governo AKP.

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Relazioni economiche con i principali Paesi partner 1) Nei primi sette mesi del 2015, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, l’interscambio della Turchia con il resto del mondo è diminuito del 10,1% (da 233,1 a 209,6 miliardi di dollari). In particolare, le esportazioni turche sono calate del 9,4% (da 93,4 a 84,6 miliardi di dollari) e le importazioni del 10,6% (da 139,7 a 124,9 miliardi), con un saldo della bilancia commerciale in diminuzione del 13% (da 46,3 a 40,3 miliardi). Nello stesso periodo, l’interscambio della Turchia con l’UE, primo partner commerciale del Paese (39,9%), si è ridotto del 9,61% e vale oggi 92,4 miliardi (contro igli 83,5 miliardi di dollari del 2014). Le esportazioni turche sono calate del 10,61% (da 40,7 a 36,4 miliardi di dollari) e le importazioni dell’8,82% (da 51,6 a 47,1 miliardi di dollari). Il deficit turco verso l’UE è pertanto diminuito del 2,14% (da 10,9 a 10,6 miliardi). La graduatoria dei principali partner commerciali mostra ai primi posti la Germania con un interscambio pari a 19,9 miliardi di dollari (-9%), la Cina con 15,9 miliardi di interscambio (1,9%), la Russia con un interscambio complessivo pari a 14,9 miliardi (-20,1%) e gli Stati Uniti con un interscambio pari a 10,5 miliardi di dollari (-5,3%). L’Italia si conferma 5° paese partner con 10,2 miliardi di interscambio totale, -10,8% rispetto allo stesso periodo del 2014, di cui 6,3 miliardi di import (-11,4%) e 3,9 miliardi di export (-9,9%) ed un saldo negativo per la Turchia di 2,4 miliardi di dollari. L’Italia si conferma quinto fornitore, dietro Cina, Russia, Germania e Stati Uniti, e quinto cliente dopo Germania, Regno Unito, Iraq e Svizzera. I prodotti più esportati dalla Turchia sono stati autoveicoli, trattori e parti di ricambio per un valore che ha raggiunto i 9,9 miliardi di dollari (-10,3% rispetto ai primi 7 mesi dell’anno 2014); seguono pietre preziose e semi-preziose, metalli preziosi, perle, bigiotteria, per un valore di 7,8 miliardi (+52,9% in più rispetto al periodo di riferimento). Macchinari e apparecchiature meccaniche sono al terzo posto con un livello di esportazioni che è arrivato a 7,1 miliardi di dollari (-10,9%), seguono abbigliamento ed accessori per un valore di 5,0 miliardi di USD (- 15,2%) e macchinari di precisione ed attrezzature elettriche ed elettroniche con 4,6 miliardi (-16,6%). I prodotti più importati sono stati: combustibili minerali, oli minerali per un valore di 23,6 miliardi di dollari (-26,7%); macchinari ed apparecchiature meccaniche per un valore di 15,1 miliardi (-7,2%); macchinari di precisione ed attrezzature elettriche ed elettroniche per un valore di 10,2 miliardi di dollari (+1,9%); autoveicoli, trattori e parti di ricambio per un valore di 10,2 miliardi di dollari (+20,9%); ferro ed acciaio per un valore 9,2 miliardi di dollari (- 10,3.%).

2) Nel 2014, l’interscambio totale della Turchia è diminuito dello -0,9% (da 403,4 a 399,9 miliardi di dollari). Il maggior partner commerciale è l’Unione Europea, che rappresenta il 36,7% dell’interscambio totale del Paese, per un

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valore di 155,5 miliardi di dollari, in lieve diminuzione rispetto al 2013 (157,3 miliardi di dollari). I beni più esportati dalla Turchia sono stati autoveicoli, macchinari ed apparecchiature meccaniche e prodotti per abbigliamento ed accessori. I prodotti più importati sono invece stati combustibili e oli minerali e macchinari ed apparecchiature meccaniche e di precisione. I primi cinque partner commerciali sono stati Germania (37 miliardi di dollari di interscambio), Russia (31,2 mld), Cina (25,2 mld), Italia (19,2 mld), Stati Uniti (19 mld).

Investimenti Nel campo degli investimenti diretti esteri (IDE), il riferimento normativo fondamentale è rappresentato da una legge quadro del 2003, che ha adottato un approccio liberale, di semplificazione burocratica e di apertura all’afflusso dei capitali esteri. Vengono classificati come investimenti diretti esteri anche gli acquisti effettuati sul mercato azionario di partecipazioni societarie per quote superiori al 10%. Anche grazie a tale normativa nel decennio 2003 - 2012 la Turchia ha attratto circa 100 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra consistente, se si pensa che nel decennio precedente (1993-2002) gli IDE affluiti nel Paese erano stati pari a soli 11,5 miliardi.

Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Economia turco, gli investimenti diretti esteri nel primo semestre del 2015 hanno raggiunto i 6,3 miliardi di dollari, in diminuzione del 9,6% rispetto al primo semestre del 2014, quando avevano toccato i 7 miliardi di dollari. Nel periodo considerato gli investimenti energetici erano di 1,27 miliardi di dollari mentre quelli manifatturieri di 1 miliardo di dollari. Circa il 40% degli investimenti esteri provengono dai paesi UE, seguiti dai paesi asiatici -inclusi i Paesi del Golfo- con il 38%. In Turchia operano 44.245 imprese straniere, di cui 141 costituite nel solo mese di giugno 2015.

Nel maggio 2015 gli investimenti esteri diretti sono ammontati a 4.905 milioni di dollari, in diminuzione del -16,6% rispetto allo stesso periodo del 2014, quando avevano toccato i 5.882 milioni di dollari. Nel periodo considerato, gli investimenti immobiliari sono diminuiti del 22,3%, attestandosi a quota 1.307 milioni di dollari, contro i 1.683 milioni di dollari del 2014. Nei primi cinque mesi del 2015 gli investimenti di provenienza UE sono diminuiti del 47,5% attentandosi a 1.524 milioni di dollari. In particolare, l’Italia ha investito 80 milioni di dollari, in flessione (-80,4%) rispetto allo stesso periodo del 2014, allorquando aveva investito la cifra di 409 milioni di dollari. In Turchia sono operanti 1.260 imprese italiane, di cui 4 costituite nel mese di maggio 2015. Fra i principali paesi investitori figurano: Olanda (571 milioni di dollari), Paesi del Golfo (47 milioni), Regno Unito (244 milioni), Germania (138 milioni), Francia (88 milioni), USA (73 milioni) e Austria (20 milioni). In totale operano in Turchia

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43.935 imprese estere di cui 6.214 della Germania (14,1%), 2.816 del Regno Unito (6,4%), 2.499 dell’Olanda (5,7% del totale), 1.557 degli USA (3,5%) e 1.260 dell’Italia (2,9%). Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle 43.935 imprese estere, 26.230 sono basate ad Istanbul (59,7%), 4.558 ad Antalya (10,4%), 2.582 ad Ankara (5,9%), 2.166 ad Smirne (4,9%), 1.557 a Mugla (3,5%) e 1.168 Mersin (2,7%).

Nel 2014 gli investimenti esteri sono ammontati a 12.143 milioni di dollari in diminuzione del -1,7% rispetto al 2013 (12.357 milioni di dollari). Gli investimenti immobiliari sono aumentati del 41,7%, attestandosi a quota 4.321 milioni di dollari, contro i 3.049 milioni di dollari del 2013. Fra i paesi che hanno maggiormente investito figurano: Olanda (2.017 milioni di $), Regno Unito (1.046 milioni di $), Germania (693 milioni di $), Paesi del Golfo (425 milioni di $), USA (325 milioni di $), Francia (280 milioni di $) e Austria (50 milioni di $). In totale operano in Turchia 41.528 imprese estere di cui 6.036 della Germania (14,5% del totale), 2.768 del Regno Unito (6,7% del totale), 2.440 dell’Olanda (5,9% del totale), 1.507 degli USA (3,6%) e 1.207 dell’Italia (2,9%). Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle 41.528 imprese estere, i paesi UE sono al primo posto con 19.339 aziende. Tra paesi europei la Germania mantiene la prima posizione con 6.036 imprese, il Regno Unito la seconda posizione con 2.768 imprese l’Olanda la terza con 2.440 imprese estere. Delle imprese estere operanti in Turchia, 24.606 sono basate ad Istanbul (59,3% del totale), 4.416 ad Antalya (10,6%), 2.500 ad Ankara (6,0%), 2.110 ad Smirne (5,1%), 1.534 a Mugla (3,7%) e 1.018 Mersin (2,5%).

A giugno 2012 è entrato in vigore il decreto del Governo turco in materia di incentivi agli investimenti, che mira prioritariamente a ridurre l’ampio deficit delle partite correnti, attenuare la forte disomogeneità nello sviluppo tra le varie aree del Paese e promuovere tanto le attività di clustering quanto la produzione locale di beni ad alto contenuto tecnologico. Il piano si basa su una combinazione di sgravi e sussidi, definiti in base allo sviluppo socioeconomico delle zone del Paese (appositamente raggruppate in 6 distinte regioni); alla natura dell’investimento stesso (classificato in quattro categorie: generale, regionale, strategico, a grande scala); e al settore d’attività.

Energia La Turchia è un Paese "affamato" di energia, disponendo di risorse assai limitate e avendo accresciuto l’entità del suo fabbisogno dopo il tumultuoso sviluppo economico e demografico degli ultimi anni. Ankara dipende per circa il 90% del proprio fabbisogno di gas e petrolio dall’estero. Il petrolio arriva in particolare dal Caucaso (oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan) e dall’Iraq (oleodotto Kirkuk-Ceyhan), oltre che da acquisti spot di greggio dai Paesi del Golfo. Più

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rigida è la dipendenza esterna dal gas, che Ankara acquista per il 60% da Mosca, tramite i due gasdotti West Line (via Ucraina, Moldavia, Romania e Bulgaria) e Blue Stream (condotta marina che collega Russia e Turchia sotto il Mar Nero). A fronte della forte dipendenza dal gas russo, la Turchia sta cercando di diversificare il proprio approvvigionamento. Il progetto principale è la realizzazione di TANAP (Trans-Anatolian Pipeline), il gasdotto da 16 miliardi di metri cubi annui iniziali – i cui lavori di costruzione sono iniziati a fine 2014 - che porterà in Turchia e sul mercato europeo, tramite il collegamento al gasdotto trans adriatico (TAP), il gas azero estratto nel Caspio meridionale. Il corridoio meridionale del gas (TANAP – TAP) favorisce il rafforzamento della sicurezza energetica di Italia ed Europa e la realizzazione delle aspirazioni dell’Italia (delineate nella nuova Strategia Energetica Nazionale, marzo 2013) a divenire un hub sud-europeo del gas, promuovendo al contempo benefici tangibili per i consumatori in termini di riduzione dei prezzi dell’energia. La cerimonia di inaugurazione dei lavori del Tanap si è svolta a Kars, in Turchia orientale, il 19 maggio 2015. Una seconda alternativa per Ankara è rappresentata dall’incremento delle forniture di gas da Teheran, soprattutto se verranno meno le sanzioni internazionali a seguito degli accordi sul nucleare iraniano. Rimangono gli ostacoli dell’alto costo, per il quale è in corso da tempo un serrato negoziato tra Ankara e Teheran, e la diversa posizione dei due Paesi sul conflitto siriano. Tra i progetti allo studio vi è inoltre “Turkish Stream”, il gasdotto del Mar Nero alternativo a South Stream, proposto da Putin durante la sua visita in Turchia del dicembre 2014 e per il quale le Autorità dei due Paesi hanno già avviato un intenso dialogo (dovrebbe essere oggetto di discussione nel vertice Putin-Erdoğan entro la fine dell’anno). Il progetto ha destato forti interessi anche in Paesi quali la Grecia, che in nome dei possibili vantaggi finanziari derivanti dall’eventuale transito del Turkish Stream anche sul suo territorio – verso destinazioni balcaniche - sta mostrando rinnovata disponibilità al dialogo con Ankara. Agli inizi di luglio 2015, Gazprom ha inaspettatamente cancellato il contratto in essere con Saipen per la posa delle condotte sottomarine. Infine, l’esigenza di diversificare il proprio approvvigionamento energetico è anche all’origine delle intese tra la Turchia e la Regione autonoma del Kurdistan iracheno (KRG). Intese condizionate dal confronto tra il governo locale di Erbil e Baghdad per il controllo e sfruttamento degli idrocarburi del KRG. Legata al tema energetico, vi è la questione dello sfruttamento degli idrocarburi nel Mediterraneo orientale ed, in particolare, a largo di Cipro, tema che condiziona non poco alcune scelte della politica estera turca. Ankara è stata, infatti, tra i primi ad indicare nei giacimenti di gas al largo delle coste cipriote un’opportunità da sfruttare per favorire un accordo per la riunificazione dell’isola, ma non ha rinunciato a ricorrere alle maniere forti per dissuadere Nicosia dal

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procedere nelle operazioni di esplorazione, in assenza di un’intesa con la parte turco-cipriota. Le esplorazioni condotte fino ad ora non hanno permesso di individuare alcun giacimento (ENI ha pertanto rinunciato ai campi che si era aggiudicata). In questo quadro, va considerata anche la possibilità di convogliare il gas israeliano del campo offshore denominato "Leviathan" in un futuro gasdotto sottomarino. Si tratta però di uno scenario piuttosto remoto per le ormai difficili relazioni diplomatiche tra Ankara e Tel Aviv. In relazione alle altre fonti energetiche, la Turchia mira ad avere almeno 20 reattori nucleari operativi nel Paese entro il 2030. Nel 2010, il governo turco ha affidato la realizzazione e gestione della prima centrale nucleare del Paese, che sorgerà ad Akkuyu, nel sud della Turchia, ad una sussidiaria della russa Rosatom (un primo reattore dovrebbe essere pronto per il 2018). La gara per la costruzione della seconda centrale nucleare del Paese, che sorgerà a Sinop, sulle coste del Mar Nero, è stata aggiudicata ad un consorzio nippo-francese (Mitsubishi-Itochu-Areva) per un valore di 22 miliardi di dollari. Sono stati inoltre avviati i negoziati con il Governo di Tokyo per la realizzazione di una terza centrale. Con riferimento alle energie rinnovabili, la Turchia ha sviluppato, in collaborazione con la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, un piano di azione nazionale. Tale piano è stato progettato in accordo alle Direttive UE sulle energie rinnovabili, allo scopo di incrementare la quota da fonti rinnovabili nel mix energetico nazionale, aumentare la sicurezza nelle forniture e ridurre le emissioni di gas serra. Obiettivo dichiarato del paese è di incrementare del 30% la capacità installata entro il 2023. In particolare saranno realizzati progetti per 34 GW nell’idroelettrico, 20 GW nell’eolico, 5 GW nel solare, 1 GW nel geotermico e 1 nelle Biomasse.

Flussi turistici Nel 2014 circa 41 milioni di turisti hanno visitato la Turchia, in aumento del 5,5% rispetto all’anno precedente. La Turchia si colloca così al sesto posto, appena sotto l’Italia, nella graduatoria delle destinazioni più popolari. Le entrate derivanti dal turismo internazionale sono aumentate rispetto allo scorso anno del 6,2%, a 34,3 miliardi di dollari Ha contribuito fortemente a tale risultato l’attivismo della Turkish Airlines, la compagnia aerea con il maggior numero di destinazioni al mondo (247), che si è aggiudicata nel 2014 il titolo di miglior compagnia aerea d’Europa per la quarta volta consecutiva, nell’ambito della manifestazione World Airlines Award. Nel 2014, i passeggeri che hanno volato con Turkish Airlines sono stati 54,7 milioni, in aumento del 13,3% rispetto al 2013. Secondo i dati recentemente divulgati dal Ministero del Turismo, il numero dei visitatori stranieri in Turchia nei primi sei mesi del 2015 è stato pari a 14,89

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milioni con un calo del 2,25% rispetto all’analogo periodo del 2014. Con riferimento al solo mese di giugno, il calo è ammontato al 4,9%, mentre il tasso di occupazione alberghiera ha registrato una flessione del 7,7% rispetto all’anno precedente, con punte del 7,9% ad Istanbul e del 9,7% nella regione turistica di Antalya. Nel primo semestre dell’anno, la Germania è risultata il primo Paese di provenienza dei turisti stranieri, con circa 2 milioni di presenze, seguita dalla Russia (1,45 milioni) e dalla Gran Bretagna con 950.000 visitatori. Se comparati con il medesimo periodo del 2014, mentre le presenze tedesche sono rimaste sostanzialmente stabili, i turisti britannici sono diminuiti del 5%, quelli francesi del 22,3% e la presenza di turisti italiani (269.000) si è ridotta del 19,5%. In termini assoluti, la flessione più ampia è stata registrata per i turisti russi (-25%), anche se in questo caso si fanno certamente anche sentire gli effetti della difficile situazione economica del Paese.

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POLITICA ESTERA

Quadro generale La Turchia è membro NATO dal 1952 ed ha il secondo esercito “contribuente” con più di un milione di soldati. Si profila come Paese con forti ambizioni di leadership, proiettato ad affermarsi sul piano regionale e tendenzialmente globale, forte dell’eccezionale posizione geo-strategica che le consente di avere più “identità”. La Turchia ha assunto il 1° dicembre 2014 la sua prima presidenza del G-20. Ospitare il G20, che raggruppa il 90% del PIL mondiale e l’80% del commercio globale, è un’importante opportunità e una grande responsabilità per la Turchia. Il summit del G20 affronterà molti temi, tra cui le misure per una crescita economica bilanciata e sostenibile, investimenti in infrastrutture, regolamento finanziario, architettura finanziaria internazionale, questioni fiscali internazionali, energia e cambiamento climatico, commercio, occupazione, sviluppo e lotta contro la corruzione. Tra le priorità turche spicca l’incremento nel livello di rappresentatività di Ankara presso il Fondo Monetario Internazionale. L’assunzione di un più attivo ruolo regionale si è tradotta anche in un impegno consistente nel settore del peace-keeping, una novità per un apparato militare concepito per la difesa territoriale. Truppe turche sono state dislocate in Afghanistan, dove la Turchia ha anche detenuto il comando della missione della NATO ISAF, nel quadro di UNIFIL in Libano, in Bosnia e in Kosovo. Nel 2004 si sono aperti i negoziati di adesione della Turchia all’UE, attualmente privi di reali prospettive. Su di essi pesa la questione cipriota, in relazione alla mancata esecuzione del Protocollo di Ankara, e forti pregiudiziali politiche di Francia e Germania. La crescente frustrazione di Ankara per lo stallo dei negoziati non è stata sicuramente estranea alla volontà del governo Erdoğan di conquistare maggiore “latitudine” nelle scelte fondamentali di politica estera, in attuazione della c.d. dottrina della “profondità strategica”, elaborata dal Ministro degli esteri Davutoğlu fin dal 2001 ed imperniata su una politica estera pragmatica, volta a tutelare gli interessi e la sicurezza nazionali del Paese, stabilizzando un contesto regionale che vive una fase di fluidità. Essa enuncia pertanto l’esigenza di “pace alle frontiere” (“zero problems with the neighbours”). Di qui la volontà della Turchia di porsi al centro dei processi di stabilizzazione nei Balcani (iniziative regionali di dialogo interetnico), in Asia Centrale (proponendosi come modello istituzionale di democrazia e un riferimento per le consistenti comunità turcofone), nel Caucaso (avvio di una difficile normalizzazione delle relazioni con l’Armenia). Un’accresciuta proiezione mediterranea è funzionale anche alla diplomazia economica di Ankara. Tuttavia con l’avvio delle “primavere arabe” è diventato sempre più difficile esercitare la politica di “zero problems with the neighbours”, scontrandosi via via

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con problemi contigui al cortile di casa (Siria, e da ultimo sviluppi in Iraq). La Turchia ha tentato di sfruttare i nuovi spazi di manovra generati dalla Primavera araba (declino politico dei tradizionali paesi di riferimento per la regione, Egitto e Arabia Saudita, e del ruolo giocato sinora da USA e UE) e di favorire le opportunità di cambiamento democratico nel Mediterraneo e Medio Oriente. Nondimeno, il sostegno alle istanze dei Fratelli Musulmani ha modificato radicalmente la tradizionale politica estera turca che si basa ora più su fondamenti di tipo etico ed ideologico, che su una valutazione degli interessi politici, economici e di sicurezza nazionali turchi. Il risultato è stato un crescente isolamento politico di Ankara nella regione mediorientale, nonché un indebolimento del tradizionale ancoraggio occidentale del paese e la necessità di un costante sforzo di confronto con USA ed Europa alla luce di crescenti divergenze in politica estera. Le ultime mosse compiute dalla Turchia sullo scacchiere mediorientale sembrano tuttavia indicare un possibile "cambio di passo" nella politica regionale di Ankara, alla luce di ciò che appare come una maggiore consapevolezza del proprio crescente isolamento e della volontà di superarlo definitivamente. Si inquadra in tale cornice l’avvicinamento all’Arabia Saudita e il sostegno politico manifestato apertamente e tempestivamente in favore dell’intervento della Gulf Countries Coalition (GCC) in Yemen: si tratta di una operazione di visibilità volta a recuperare un ruolo profilato nella regione e a riaprire possibili canali di cooperazione sugli altri teatri di crisi di maggiore interesse per Ankara.

La Turchia, spesso alla ricerca di visibilità internazionale, ha perso importanti occasioni di apparire sotto i riflettori mediatici internazionali. Dopo esser stata sconfitta dagli Emirati Arabi Uniti nella corsa alla Esposizione Universale del 2020 e dal Giappone per le Olimpiadi, la Spagna ha battuto la Turchia nell’assegnazione di un seggio come membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2015-16.

Rapporti con l’UE La candidatura europea della Turchia risale al 1997, ma solo nel 2004 hanno avuto inizio i negoziati di adesione. Nelle more dell’adesione europea di Ankara, l’Accordo di Unione Doganale CE - Turchia del 1995 (il c.d. Protocollo di Ankara) costituisce la pietra miliare delle relazioni commerciali UE-Turchia, integrato successivamente da un Protocollo addizionale che estende l’Unione Doganale agli Stati Membri che hanno aderito all’UE nel 2004. L’unione doganale dovrebbe essere estesa anche ai settori agricolo, servizi e procurement pubblico e i negoziati in tale senso dovrebbero essere avviati nel 2016. A ritardare il percorso verso la full membership europea della Turchia è la condizione posta dal Consiglio Europeo nel dicembre 2006 di dare piena applicazione al Protocollo di Ankara per la chiusura di tutti i capitoli, nonché il veto di alcuni Stati Membri

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sull’apertura di nuovi capitoli. Nel quadro del percorso di adesione, dall’inizio del negoziato sono stati aperti 14 capitoli, ma finora solamente uno - il 25 (scienza e ricerca) - è stato provvisoriamente chiuso. Il CAG del 22 ottobre 2013 ha deciso di procedere all’apertura del capitolo 22 (politica regionale), che negli auspici della Commissione avrebbe dovuto costituire il preludio per l’indicazione ad Ankara dei criteri di riferimento per avviare il negoziato sui capitoli 23 (giustizia e diritti umani) e 24 (giustizia, libertà e sicurezza). A fronte di alcuni progressi realizzati alla fine del 2013 da Ankara lungo il percorso di integrazione, tuttavia quest’ultimo ha risentito del progressivo deterioramento del quadro politico interno turco e dell’accentuarsi del contrasto con Cipro, che ha portato Nicosia ad annunciare l’intenzione di bloccare qualsiasi progresso nei negoziati di adesione. La questione turco-cipriota continua a pregiudicare la continuazione del negoziato di adesione di Ankara all’UE, e la normalizzazione dei rapporti con Cipro resta comunque la chiave per poter impegnare Ankara sulle questioni fondamentali di giustizia, libertà e diritti civili. Al fine rilanciare la propria agenda europea, con la pubblicazione lo scorso settembre della Nuova Strategia per l’Unione Europea e successivamente dei documenti ad essa collegati (Piano d’Azione in due fasi e Strategia per la Comunicazione) la Turchia ha inteso sottolineare come il percorso europeo del Paese e il raggiungimento della piena membership rimangano un obiettivo prioritario nazionale. Il Piano d’Azione si propone di disegnare una “roadmap” aggiornata delle misure di armonizzazione da varare (con riferimento alla legislazione primaria, a quella secondaria ed all’“institution building”), in un arco temporale quinquennale (2014-2019). La Strategia di Comunicazione mira invece a tenere l’opinione pubblica, in Turchia come pure all’estero, al corrente dei progressi compiuti. Le aspettative di Ankara sono state ribadite da ultimo a Bruxelles il 15 gennaio scorso, in occasione della visita ufficiale compiuta dal Primo Ministro Davutoğlu, il quale ha in particolare sottolineato l’auspicio turco di poter arricchire la cooperazione ed il dialogo strategico tra Turchia e UE attraverso contatti ad alto livello maggiormente strutturati, sul modello dei meccanismi già esistenti tra UE da un lato e USA e Russia dall’altro. Da parte europea, l’ultimo Progress Report pubblicato a ottobre 2014 dalla Commissione, pur rilevando un quadro non pienamente positivo sul piano del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali in Turchia (come peraltro sottolineato dal Parlamento Europeo nelle valutazioni approvate in giungo sul documento presentato dalla Commissione, in particolare con riferimento effettuato dall’assemblea alla risoluzione precedentemente approvata sul riconoscimento del “genocidio armeno”), ha auspicato di poter impegnare Ankara sulle questioni fondamentali di giustizia, libertà e diritti civili attraverso l’apertura dei capitoli 23 (giustizia e diritti umani) e 24 (giustizia, libertà e sicurezza), nell’interesse non solo della Turchia, ma soprattutto dell’UE, che trarrebbe vantaggio dall’avere ai suoi confini un Paese che applica gli standard europei.

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Sempre secondo la Commissione, sarebbe inoltre auspicabile un impegno per l’apertura dei capitoli 5 (appalti pubblici), 8 (competitività) e 19 (lavoro e politiche sociali) non appena Ankara si sarà uniformata ai parametri fissati. Le conclusioni sull’allargamento del CAG di dicembre, pur ancorando l’avanzamento di Ankara nel processo di integrazione europea agli effettivi progressi del Paese nell’area dello stato di diritto e dei diritti fondamentali, hanno mantenuto un linguaggio incoraggiante sulle prospettive europee del Paese, menzionando l’opportunità di una concreta prospettiva di avanzamento del negoziato in relazione al cap. 17 (politica economica e monetaria), accogliendo il testo proposto dall’Italia come Presidenza a seguito del venire meno del precedente veto politico francese. Il carattere prioritario assegnato da parte europea alle relazioni con la Turchia e alla prospettiva della sua adesione all’Unione è stato ribadito infine anche in occasione della 53esima sessione del Consiglio di Associazione UE-Turchia, svoltosi nel mese di maggio: in tale contesto l’UE ha nuovamente espresso apprezzamento per il rinnovato impegno di Ankara lungo il percorso europeo, pur esortando la Turchia a proseguire da un lato lungo il cammino delle riforme interne e dall’altro lato a dare applicazione a quanto previsto dal Protocollo Addizionale sulla scorta degli ultimi incoraggianti progressi nel negoziato intercipriota. Positive appaiono le prospettive del dialogo avviato a fine 2013 con la Turchia per la liberalizzazione del regime dei visti, a seguito della sottoscrizione il 16 dicembre 2013 dell’Accordo di riammissione UE-Turchia (ratificato da parte turca il 25 giugno 2014 ed entrato in vigore il successivo 1 ottobre). Si tratta di un ulteriore sviluppo incoraggiante in un settore che costituisce una priorità per la parte turca, anche per l’impatto positivo di grande rilievo che la prospettiva della liberalizzazione può generare nella percezione che l’opinione pubblica turca ha dell’UE. La roadmap stilata dalla Commissione Europea ha individuato 4 blocchi oggetto di progressiva valutazione da parte Commissione stessa: sicurezza documentale, migration management (frontiere, riammissione), ordine pubblico e sicurezza e tutela dei diritti fondamentali. Il 20 ottobre u.s. la Commissione ha pubblicato una prima relazione sui progressi compiuti da parte turca, da cui emergono valutazioni complessivamente positive verso l’adeguamento a quanto previsto, pur nelle more dell’adozione di ulteriori riforme. La Commissione ha richiesto ad Ankara ulteriori sforzi soprattutto in tema di sicurezza documentale (rilascio di passaporti biometrici), immigrazione, controllo alle frontiere, ordine pubblico (con riferimento all’indipendenza ed efficacia del sistema giudiziario), protezione dei dati e diritti fondamentali. Bruxelles ha invitato la Turchia a rivedere in particolare la propria normativa in materia di antiterrorismo, adeguandola alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La pubblicazione del prossimo rapporto della Commissione sui progressi compiuti da parte turca è prevista per il mese di novembre 2015.

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Ankara ha in più occasioni espresso preoccupazione per la possibile perdita di competitività e di vantaggi comparati dei propri prodotti come risultato della futura conclusione del TTIP tra UE e USA, di cui essa non potrebbe beneficiare, stimando danni che ammonterebbero a circa 160 mln. USD l’anno. In particolare, la Turchia chiede l’attivazione di un meccanismo formale di consultazione con l’UE che, già durante il negoziato TTIP, possa consentire di prendere in considerazione specifici interessi e sensibilità di Ankara, quale Paese candidato e Partner strategico dell’UE, nonché il supporto di Bruxelles per una futura estensione del TTIP alla Turchia o di una negoziazione di un Accordo di libero scambio tra USA e Turchia. Da parte della Commissione la risposta è stata reiteratamente negativa, sulla base del fatto che si tratta di un Accordo esclusivamente UE-USA e che l’esistenza di un’Unione Doganale UE-Turchia va considerata indipendente dal TTIP. Bruxelles si limita così ad “auspicare” l’avvio di negoziati FTA tra USA e Turchia. L’avvio di qualsiasi meccanismo formale di consultazione tra UE e Turchia sul TTIP, peraltro, sarebbe osteggiato da Cipro.

Rapporti bilaterali con i Paesi europei Francia: L’elezione all’Eliseo di François Hollande, salutata sin dall’inizio con favore dalla Turchia, ha favorito un generale riavvicinamento tra Parigi ed Ankara, nonostante il permanere di alcune fonti di frizione (riconoscimento francese del genocidio armeno; attivismo turco in Africa e intervento francese in Mali). In particolare sul dossier siriano, in occasione della visita compiuta da Erdoğan a Parigi a fine ottobre 2014, Francia e Turchia hanno riconosciuto una sostanziale convergenza di vedute, fondata sulla convinzione che sia necessaria la preliminare definizione di una chiara strategia politica che continui a riconoscere nel regime di Assad la principale causa della crisi e dell’emergere di fenomeni terroristici quali lo Stato Islamico. L’impegno dei due Paesi nella lotta al terrorismo ha tuttavia connotazioni distinte, come emerso recentemente a seguito del grave attentato compiuto nel mese di gennaio contro il settimanale satirico francese Charlie Hebdo: le Autorità turche infatti hanno affiancato all’immediata condanna dell’attentato di Parigi la reiterata preoccupazione per le possibili reazioni di xenophobia e islamofobia che tale attacco potrebbe alimentare in Europa, di fatto sostenendo un’interpretazione volta a sminuire il pericolo costituito dal terrorismo radicale islamico. Il riavvicinamento franco-turco si è riverberato positivamente anche sul piano bilaterale e sembra aver favorito soprattutto un cambiamento di atteggiamento francese sul processo di avvicinamento della Turchia all’UE. La nuova presidenza francese si era già dichiarata nel 2013 favorevole all’apertura del capitolo 22 (politica regionale) e più recentemente si è espressa favorevolmente sull’apertura dei capitoli 23 e 24. Con riferimento in particolare al capitolo 17

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(politica economica e monetaria), Parigi ha da ultimo dichiarato non esservi alcun veto, sebbene il tema non sia considerato prioritario.

Gran Bretagna: Ankara mantiene relazioni particolarmente strette con Londra, che vede nella Turchia non solo un valido partner commerciale, ma anche un potenziale partner strategico nella regione mediterranea e mediorientale, da sostenere fortemente anche nel suo percorso di avvicinamento all’UE. Il Governo Cameron ha attribuito una particolare attenzione alle relazioni con la Turchia: a soli tre mesi dall’insediamento a Downing Street, il PM inglese si era recato a Ankara nel luglio 2010, dove firmò con Erdoğan un "Partenariato Strategico", mentre il Presidente Gul è stato in visita di Stato a Londra a fine novembre 2011 (l’ultima occasione risaliva al 1988). Da ultimo, il PM britannico Cameron ha compiuto una brevissima visita ad Ankara lo scorso mese di dicembre. La lotta al terrorismo costituisce uno dei principali dossier di dialogo tra i due Paesi: da parte britannica è stata in più occasioni sollecitata una maggiore collaborazione sul piano della condivisione delle informazioni e dei dati sensibili, specialmente con riferimento al fenomeno dei “foreign fighters”. Sulla Siria viceversa le posizioni restano distanti, nonostante vi sia da entrambe le parti la volontà di trovare possibili forme di collaborazione, con l’obiettivo di evitare uno “scenario iracheno” di divisione del Paese lungo linee settarie.

Santa Sede: La visita compiuta dal Santo Padre in Turchia il 28 novembre 2014 è stata caratterizzata da un’atmosfera nel complesso piuttosto fredda, segnata in particolare da un’evidente mancanza di empatia tra Francesco I ed il Presidente turco Erdoğan. Se da un lato il Pontefice ha lanciato in tale occasione un forte messaggio di apertura e sostegno al dialogo interreligioso e interculturale e di condanna di ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo, richiamando altresì i principi fondamentali della libertà di religione e di espressione, diversa è stata la posizione assunta da Erdoğan, che ha ribadito le consuete critiche nei confronti dell’Occidente, responsabile di non combattere efficacemente quei sentimenti di xenofobia e islamofobia che a loro volta alimentano la capacità di attrazione del terrorismo radicale. Sullo sfondo delle relazioni bilaterali pesa inoltre la posizione della Santa Sede nei confronti del cosiddetto “genocidio armeno”, espressa da Papa Francesco già nel 2013 (quando, in occasione di un incontro con una delegazione guidata dal Patriarca degli armeni cattolici di Cilicia, il Pontefice aveva definito quello armeno come "il primo genocidio del XX secolo") e ribadita nel corso della funzione commemorativa del centenario del "martirio degli armeni" a San Pietro, il 12 aprile u.s.. In quella occasione Papa Francesco ha

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nuovamente fatto riferimento a quello armeno come al "primo genocidio del XX secolo, assimilato ai crimini commessi da nazismo e stalinismo e agli stermini di massa compiuti in Cambogia, Ruanda, Burundi e Bosnia”, suscitando veementi reazioni da parte delle autorità turche. Ankara ha prontamente richiamato per consultazioni l’Ambasciatore turco presso la Santa Sede. Toni accesi hanno caratterizzato un comunicato emesso dal Ministero degli Esteri, che ha definito "inaccettabili" le parole del Pontefice; dichiarazioni di analogo tenore sono state espresse da diversi membri dell’esecutivo turco: il Primo Ministro Davutoğlu, il Ministro degli Esteri Cavusoglu, il Ministro per gli Affari Europei Bozkir, il Presidente della Grande Assemblea Nazionale Turca, Cicek (quest’ultimo ha assimilato le frasi pronunciate da Papa Francesco ad una vera e propria calunnia, fonte di incitamento all’odio e al razzismo). L’intervento del Pontefice ha provocato dure reazioni anche tra i principali partiti di opposizione, unanimi nel condannare l’utilizzo del termine "genocidio" per definire i tragici eventi del 1915. Tali reazioni confermano l’estrema attenzione e sensibilità con cui Ankara al centenario dei tragici eventi del 1915. In tale contesto, da parte turca si continua a sottolineare da un lato l’esigenza di un impegno reciproco per una ricostruzione storica condivisa e dall’altro lato la necessità di un approccio "giuridico" al riconoscimento del "genocidio armeno", sul quale nessun tribunale internazionale si è finora pronunciato. È peraltro verosimile che la risposta turca alle dichiarazioni del Pontefice, oltre a costituire la consueta "linea difensiva" di Ankara volta a scoraggiare eventuali iniziative di Paesi terzi favorevoli al riconoscimento del "genocidio" armeno, sia venuta incontro anche l’esigenza interna di raccogliere consensi tra l’opinione pubblica turca, in prevalenza non ancora disposta a rivedere la consolidata narrativa nazionale sugli eventi del 1915, tanto meno in un anno caratterizzato dalle elezioni politiche del giugno u.s..

Grecia. Dopo lo svolgimento a Istanbul il 4-5 marzo 2013 del vertice intergovernativo turco-greco, prima vera occasione di confronto tra Ankara e Atene dopo la lunga pausa imposta dalla difficile congiuntura politica scaturita dalla grave crisi economica che ha investito la Grecia, il 5-6 dicembre 2014 si è tenuta ad Atene la terza sessione dell’Alto Consiglio di Cooperazione greco- turco, cui ha preso parte il Primo Ministro turco Davutoğlu, accompagnato da nove ministri di governo. Accogliendo l’invito rivoltogli dal proprio omologo turco, il Ministro degli Esteri greco Nikos Kotzias è giunto in Turchia l’11 e il 12 maggio u.s., facendo precedere due giorni di incontri bilaterali alla sua partecipazione alla ministeriale NATO di Antalya. Il clima della prima visita del nuovo MAE greco è stato molto cordiale, corroborato da un’agenda molto articolata e dal livello altissimo di attenzione dedicata al Ministro Kotzias, che oltre che dal Ministro

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degli Esteri Cavusoglu è stato ricevuto anche dal Primo Ministro Davutoğlu e dal Presidente Erdoğan. Tra gli esiti della missione, il varo di alcune intese tecniche in tema di sicurezza marittima e il rilancio degli exploratory talks per la definizione delle piattaforme continentali. È stata altresì condivisa una valutazione ottimistica sulla situazione a Cipro, anche se Ankara e Atene hanno una diversa percezione del proprio ruolo rispetto al negoziato in corso.

QUESTIONE CIPRIOTA

A seguito del colpo di stato greco-cipriota del 1974 e della successiva occupazione turca della parte settentrionale dell’isola di Cipro, Ankara non riconosce il Governo cipriota di Nicosia (definito “amministrazione greco-cipriota”) ed è, nel contempo, l’unico Paese a riconoscere la Repubblica Turca di Cipro Nord (RTCN): la questione cipriota rappresenta non solo uno dei nodi cruciali che Ankara deve sciogliere per la stabilità del Mediterraneo orientale, ma anche il principale ostacolo sul cammino europeo della Turchia. Nel 2008 sono stati avviati negoziati diretti per riunificare l’Isola. I principali nodi critici sono tuttora costituiti dalla forma di governo del futuro stato cipriota, dal riconoscimento della cittadinanza (con particolare riferimento ai “coloni” provenienti dalla Turchia anatolica), dalla restituzione delle proprietà confiscate, dalla questione degli aggiustamenti territoriali. L’intervento sempre più marcato degli Stati Uniti nei negoziati ha propiziato, nel febbraio 2014, la firma di una “Dichiarazione Congiunta” da parte dei leader delle due comunità Anastasiades ed Eroglu, che delinea i contorni della futura Federazione cipriota, bicomunale, bizonale, “with political equality” dei due Stati costituenti “a single, international legal personality and a single sovereignty”. Lo slancio impresso al processo negoziale, a seguito della firma della Dichiarazione, si sta tuttavia esaurendo: gli incontri fra Anastasiades ed Eroglu e le “missioni incrociate” dei due capi-negoziatori ad Atene ed Ankara non hanno prodotto risultati concreti. In questo contesto si sono inserite le iniziative turche di autorizzare la ricerca geo-sismica della nave turca “Barbaros” all’interno della ZEE cipriota dal 20 ottobre al 30 dicembre 2014 e dal 6 gennaio u.s. al 6 aprile p.v. Si tratta peraltro dell’area interessata dalle attività di prospezione avviate dal consorzio ENI- Kogas per la perforazione di pozzi esplorativi, attività condotte dalla nave SAIPEM 10.000. Nell’ottica turca, i due NAVTEX del 3 ottobre e del 6 gennaio (avvisi per la navigazione) si ricollegherebbero all’accordo del 2011 con cui la cd. “Repubblica Turca di Cipro Nord” aveva assegnato alla società petrolifera di Stato turca TPAO tutti i blocchi disegnati nella ZEE cipriota da nord a sud. Ankara intende opporsi ad ogni attività unilaterale di esplorazione e sfruttamento dei giacimenti, in assenza di accordo definitivo sullo status dell’Isola o

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quantomeno della definizione di meccanismi di condivisione dei proventi economici tra le due comunità. Una finestra di opportunità si è aperta a seguito dell’elezione del nuovo leader della comunità turco-cipriota Akinci, fautore di una soluzione della questione cipriota lungo le linee declinate nella Dichiarazione Congiunta del 2014. Akinci gode del sostegno turco. Dopo uno stallo di sette mesi, il 15 maggio u.s. Anastasiades ed Akinci hanno avuto con il “facilitatore” ONU Eide un incontro di sostanza che ha segnato l’effettiva ripresa del “negoziato intercipriota”. Gli esiti di tale incontro hanno risposto alle aspettative di un “nuovo inizio”, rafforzando le speranze suscitate dall’elezione di Akinci. L’incontro ha portato all’adozione delle prime Confidence Building Measures (CMB), destinate a produrre effetti positivi immediati sulla vita quotidiana di entrambe le comunità: Anastasiades ha consegnato ad Akinci le mappe di 28 campi minati disseminati sul Pentadattilo prima dell’invasione turca del 1974; Akinci ha in cambio disposto l’immediata abolizione del “foglio di transito” che la polizia turco-cipriota ha finora chiesto ai greco-ciprioti di riempire per ogni transito attraverso la “linea verde”. I due leader hanno concordato anche un maggior coinvolgimento personale nel negoziato, con un’intensificazione dei loro incontri e di quelli dei rispettivi capi-negoziatori. Il secondo incontro “ufficiale” è stato fissato al 28 maggio p.v., preceduto dalla comune partecipazione ad un evento di carattere ‘‘sociale’’ il 23 maggio. Entrambi appaiono consapevoli dell’opportunità di risolvere una questione che si trascina ormai da oltre mezzo secolo, tenendo l’isola prigioniera del passato e costituendo un focolaio di criticità in una regione già ad alta instabilità. Nei successivi incontri negoziali (svoltisi tra fine maggio e fine luglio) le due parti hanno avviato l’adozione di ulteriori misure di confidence building, in particolare volte ad aumentare i valichi di transito aperti tra le due sponde della “linea verde”, ad assicurare l’interoperabilità delle reti di telefonia mobile e l’interconnessione delle reti elettriche, a risolvere le interferenze esistenti nelle frequenze radio, ad istituire un comitato congiunto per la parità di genere e, da ultimo, a creare una commissione indipendente bipartisan con l’obiettivo di avviare a soluzione la spinosa questione delle proprietà’ contese. Il successivo incontro tra i due leader e’ previsto il 1 settembre p.v.. A differenza del suo predecessore Eroglu, che ha sempre considerato con diffidenza e respinto un ruolo UE nel processo negoziale, coltivando come “piano B” una partizione dell’isola che avrebbe saldato definitivamente la RTCN alla Turchia, Akinci appare un leader proiettato in una prospettiva decisamente europea, ovvero di una federazione cipriota compiuta, che dovrà integrarsi efficacemente nel contesto dell’Unione Europea. Anche Anastasiades gli attribuisce una “sincera visione federale” ed il comune intento di giungere ad

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“una soluzione che tenga conto dell’acquis comunitario, dei principi europei e dei diritti umani”. Pur confermando il proprio tradizionale appoggio anche al nuovo leader turco-cipriota, da parte turca peraltro non si e’ mancato di sottolineare in più occasioni – anche per voce del Presidente Erdoğan, da ultimo in occasione della sua visita a Cipro Nord lo scorso 20 luglio – il ruolo preminente che Ankara intende mantenere nella definizione degli equilibri e nell’individuazione di una soluzione duratura per lo status dell’Isola.

Stati Uniti Washington considera strategiche le relazioni con la Turchia, ritenuto un alleato fondamentale nel quadro della NATO, ma le numerose divergenze di politica estera richiedono una costante “messa a punto” per smussare gli angoli e trovare terreni di cooperazione comune. Sullo sfondo permane la preoccupazione di Washington per gli sviluppi di politica interna e i rischi di involuzione autoritaria del Presidente Erdoğan. Nel corso del luglio u.s., il radicale cambiamento della posizione di Ankara nel contrasto ai terroristi del sedicente Stato Islamico si è fondata sulla concessione dell’uso delle basi turche, inclusa la base aerea di Incirlik, per le azioni militari USA contro l’ISIS, l’avvio di operazioni militari turche contro forze e basi dell’ISIS e la disponibilità di Ankara a concedere l’utilizzo delle basi turche anche ad altri Paesi membri della coalizione anti-DAESH. Da parte statunitense si è molto soddisfatti di questo riallineamento della posizione turca. Ankara è ora attiva e militarmente impegnata nella coalizione internazionale contro l’ISIS e ciò può rappresentare un reale “game changer” nel confronto con le forze dello Stato Islamico. L’istituzione di una “no fly zone” al confine con la Siria non è per il momento nei piani americani. Nondimeno, da parte americana si concorda con il desiderio di Ankara di creare le condizioni di sicurezza per consentire il rientro volontario in territorio siriano di una parte dei circa due milioni di rifugiati attualmente presenti in Turchia. Washington apprezza grandemente il contributo dato dalle milizie curdo- siriane nel rendere sicura una larga parte della frontiera meridionale della Turchia, liberandola dalla presenza dei terroristi. Per tale motivo, da parte americana è stato segnalato ad Ankara che ulteriori attacchi contro le forze curdo-siriane sono inaccettabili. Nel prendere atto di quanto sopra, da parte turca è stato precisato che le operazioni in Siria sono dirette contro le forze di DAESH e che indagini sono in corso per accertare gli effettivi bersagli colpiti. Ankara ha tuttavia dichiarato che non sarà tollerata l’avanzata del PYD/YPG ad ovest del fiume Eufrate, area che nelle aspirazioni turche dovrebbe costituire la “DAESH- free zone”, e che assolutamente Ankara vuole impedire che passi sotto il controllo delle forze curdo-siriane, consentendo la contiguità territoriale tra i

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cantoni curdi di Kobane e Cizre e quello di Efrin e quindi la riunificazione dei tre cantoni di Rojava.

Egitto Per Ankara, l’Egitto rimane il secondo scenario di prioritaria rilevanza, dopo la Siria. La Turchia era in ottimi rapporti con l’Egitto di Morsi, dopo la prolungata freddezza dell’era Mubarak. Dopo la condanna turca del "colpo di stato" del 3 luglio 2013, i rapporti con il Cairo hanno subito un ulteriore deterioramento il 23 novembre 2013 con l’abbassamento delle relazioni diplomatiche al livello di Incaricato d’Affari. Alla base della crisi bilaterale vi è la difesa da parte turca delle istanze dei Fratelli Musulmani e della legittimità del deposto Presidente Morsi. Negli ambienti economici turchi si temono ripercussioni sulle relazioni commerciali: in Egitto operano 250 imprese turche, con investimenti per circa 2 miliardi di dollari; il Cairo rappresenta altresì il principale snodo commerciale per i prodotti turchi destinati in Africa e Paesi del Golfo. La posizione di Ankara resta ancorata ad una politica di solido sostegno alle istanze della Fratellanza Musulmana in Egitto. Ciò risponde pienamente ai desiderata del Presidente Erdoğan e del Primo Ministro Davutoğlu che, sul presupposto che la Turchia possa rappresentare un valido modello per tali Paesi, auspicano che i FM possano accedere democraticamente al potere per poi attuare una politica di riscatto delle masse musulmane, dopo anni di “repressione” subita ad opera di regimi “laici”, in analogia a quanto avvenuto in Turchia con l’AKP dopo l’estromissione dal potere del vecchio establishment kemalista e militare. Durante il suo viaggio in Arabia Saudita nel marzo scorso Erdoğan avrebbe chiesto al nuovo sovrano Salman, apparentemente meno rigido nei confronti della Fratellanza Musulmana, di convincere il governo al-Sisi a garantire un equo processo ai rappresentanti della FM arrestati ed il rilascio dei prigionieri politici. Tali sarebbero le condizioni poste da Ankara per una normalizzazione delle relazioni con Il Cairo. Da parte turca viene considerato infine come "provocatorio" nei confronti di Ankara l’atteggiamento assunto dal Cairo con la sottoscrizione di intese con Cipro e Grecia per la delimitazione della zona economica esclusiva e lo sfruttamento congiunto delle risorse nel Mediterraneo orientale.

Libia Allo scoppiare della crisi libica nel 2011, la Turchia ha dapprima mantenuto una posizione attendista, principalmente per verificare l’evoluzione della situazione sul terreno senza mettere in pericolo i cospicui investimenti locali. Una volta messi in salvo i cittadini turchi e chiusa l’Ambasciata turca a Tripoli (2 maggio 2011), Erdoğan ha preso posizione contro il regime di Gheddafi. Ha poi

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intrattenuto intensi rapporti con l’allora Primo Ministro Zidan che si è recato due volte in Turchia il del 19-20 febbraio 2013 ed il 3 gennaio 2014. Dopo il precipitare della crisi libica e la divisione in due fronti contrapposti, la vicinanza di Ankara alle istanze del Partito Giustizia e Costruzione, principale espressione politica della Fratellanza Musulmana in Libia, ha dato adito ad accuse di interferenze turche per favorire il fronte islamista. In realtà, Ankara sembra ora sostenere convintamente l’azione dell’Inviato Speciale delle Nazioni Unite León ed i suoi sforzi per il rilancio di un dialogo inclusivo tra le parti che scongiuri la divisione della Libia, in sintonia con gli sforzi della comunità internazionale. In più occasioni Ankara ha sollecitato il Presidente del Congresso Nazionale, Nuri Abusahmin, ad essere parte del dialogo e ad accettare la proposta di un governo di unità nazionale, lasciando in secondo piano la questione della legittimità delle istituzioni di Tobruk e Beida. Vi è poi una piena consonanza di vedute con la posizione algerina sulla base della massima inclusività del dialogo nazionale, con l’esclusione dei gruppi terroristici. Negativa resta peraltro la valutazione turca sulla posizione delle autorità del Cairo, accusate di sostenere gli elementi più radicali del fronte di Tobruk.

Siria La Turchia è fra i Paesi più direttamente colpiti dalle ripercussioni della crisi siriana, avendo tra l’altro offerto rifugio ad oltre 1.600.000 di profughi, dall’inizio della guerra civile. La normalizzazione delle relazioni bilaterali con la Siria era uno dei perni sui quali Ankara aveva articolato la politica di “zero problemi con i vicini”. A lungo, proprio per non rinnegare questa politica, la Turchia ha cercato di moderare la repressione di Assad contro le proteste siriane. Tuttavia si è gradualmente schierata sul fronte opposto, temendo il potenziale destabilizzatore di Damasco sui vicini (attraverso escalation PKK e PYD). Gli attacchi contro l’Ambasciata di Turchia a Damasco il 12 novembre 2011 hanno impresso un’accelerazione alla linea turca: il 29 novembre 2011 Ankara ha annunciato che l’amministrazione siriana non è più considerata legittima e sono state annunciate sanzioni. Il 2 ottobre 2014 è stata approvata la mozione che ha prorogato di un anno l’autorizzazione concessa al governo ad intervenire in territorio siriano (e iracheno) in difesa degli interessi nazionali, secondo i principi fissati dall’art. 92 della Costituzione turca. Tale mozione rinnovava per la seconda volta quella approvata il 4 ottobre 2012, a seguito dell’esplosione da mortaio che causò cinque vittime nel villaggio di Akcakale sul confine con la Siria. Ankara partecipa ai lavori dell’high level group del Gruppo degli Amici del Popolo siriano, di cui è stato sin dall’inizio fra i membri più assertivi. Ad Istanbul si svolgono tutte le riunioni dell’Assemblea Generale della Coalizione delle Opposizioni e a Gazantiep hanno sede alcuni degli organi esecutivi della Coalizione, in particolare l’ACU (Assistance Coordination Unit) per la gestione

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degli aiuti umanitari. Ankara ha da sempre invocato un’azione più incisiva della Comunità Internazionale verso la crisi siriana. Recentemente, i riequilibri interni alla Coalizione delle Opposizioni hanno segnato un punto a favore di Ankara con l’elezione a presidente di Khaled Khoja considerato vicino al Governo turco. Ankara considera i raid aerei della coalizione internazionale contro le postazioni di ISIS una misura insufficiente poiché ritiene indispensabile la deposizione di al-Assad, ritenuto il maggiore responsabile dell’instabilità che ha creato le condizioni per l’affermarsi dell’ISIS. Solo in tal modo, peraltro, è possibile sganciare il mondo sunnita dall’orbita di attrazione del sedicente Califfato islamico. A tale scopo la proposta turca è la realizzazione di una “no fly zone” ed al suo interno di “safety zones” per favorire le operazioni delle Free Syrian Armies (FSA), nella convinzione che solo esercitando tale pressione politica si potrà mettere in difficoltà al-Assad. In occasione della riunione di Londra del gennaio 2015 del “core group” del gruppo “Amici della Siria”, Ankara ha registrato con preoccupazione una “Syria fatigue” da parte dei membri del “core group” che si sarebbe esplicata in un affievolimento del sostegno alla SOC e, per converso, in un’aumentata disponibilità a trattare con al-Assad. Sotto questo aspetto, il giudizio sulle riunioni di Mosca e Il Cairo è nettamente negativo. Circa gli sforzi diplomatici dell’Inviato Speciale delle NU, Staffan de Mistura, Ankara mantiene uno scetticismo di fondo unito ad un forte sospetto che tale azione possa rimettere in gioco al-Assad. Ankara resta contraria a sviluppi sul terreno in Siria favorevoli alla componente curdo-siriana del PYD ed al suo progetto di regione autonoma denominata “Rojava” formata dai tre cantoni a maggioranza curda di Cizre, Kobane e Efrin. Sotto questo aspetto, Ankara non è apparsa entusiasta della riconquista di Kobane ed ha tenuto a evidenziare che la vittoria è stata dovuta non solo ai curdo-siriani del PYD, ma anche al determinante apporto dei peshmerga iracheni, lasciati transitare sul suolo turco, e delle stesse FSA, oltre che dei raid aerei USA. Resta inoltre la forte critica nei confronti del PYD, accusato di perseguire una propria agenda differente da quella della SOC, di non combattere contro il regime di Damasco salvo che in limitati scontri locali, e di intrattenere legami organici con il PKK. Il 19 febbraio scorso è stato firmato un Memorandum di Intesa tra la Turchia e gli Stati Uniti per l’addestramento e l’equipaggiamento (‘train and equip’) dell’opposizione moderata siriana, onde difendere la popolazione civile dall’ISIS e da eventuali attacchi terroristici da parte di altri gruppi, nonché proteggere le aree sinora liberate, con lo scopo ultimo di promuovere la transizione verso una soluzione politica della crisi siriana. Il programma di addestramento, iniziato nella primavera del 2015, ha sin qui formato poco più di 60 reclute e si è ancora lontani dal raggiungere i numeri previsti: l’autorizzazione iniziale del Congresso prevede indicativamente la formazione di 5.000 uomini all’anno, per tre anni, in tutti i Paesi coinvolti dal programma ‘train and equip’

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(non solo la Turchia ma anche Arabia Saudita e Qatar; è prevista anche l’adesione giordana) e, per l’anno in corso, Washington punta a raggiungere la cifra di 3.000 uomini addestrati. Nella notte tra il 21 e il 22 febbraio u.s. si è svolta l’operazione ‘Shah Eufrates’: una colonna di circa 600 soldati, 39 carri armati e numerosi altri veicoli è penetrata per quasi 40 km in territorio siriano, attraversando l’area di Kobane di recente liberata dalle forze curdo-siriane del PYD/YPG, per evacuare il mausoleo di Suleyman Shah, nonno del fondatore dell’impero ottomano Osman I, ove si trovavano 38 soldati turchi che presidiavano un’area delle dimensioni di un campo di calcio. Il mausoleo la cui “proprietà” è turca ai sensi del Trattato di Angora concluso nel 1921 con la Francia, allora Paese mandatario per la Siria, è stato dislocato ad Ashme, sempre in territorio siriano, ma a poche centinaia di metri dal confine e in un’area vicinissima a quella sotto controllo curdo (nelle foto che ritraggono la nuova sistemazione del mausoleo si vede la bandiera turca garrire poco distante dalle bandiere curde del PYD). A seguito dell’attentato terroristico da parte del DAESH nella città turca di Sucurc, nel luglio scorso, Ankara ha assunto una posizione più netta contrasto ai terroristi del sedicente Stato Islamico, con la concessione dell’uso di proprie basi, inclusa quella aerea di Incirlik, per le azioni militari USA contro l’ISIS, con l’avvio di operazioni militari turche contro forze e basi dell’ISIS e con la disponibilità di Ankara a concedere l’utilizzo delle basi turche anche ad altri Paesi membri della coalizione anti-DAESH.

Iraq Dopo il “congelamento” della stagione di Al Maliki, Ankara sostiene il governo guidato da Al Abadi e auspica una svolta positiva nei rapporti tra Baghdad ed Erbil, nell’interesse del Paese e della stabilità di tutta la Regione. La Turchia ritiene che il nuovo governo iracheno debba perseguire politiche autenticamente inclusive, non lasciando fuori nessuno dei gruppi etnici che compongono il complicato mosaico iracheno per evitare di ripetere gli errori di al-Maliki. Molto importante è affrontare i problemi che ancora affliggono il rapporto tra Baghdad ed Erbil. Sotto questo aspetto l’accordo raggiunto tra Erbil e Baghdad sulle spinose questioni del pagamenti degli stipendi dei dipendenti pubblici della regione autonoma curda (KRG) e sulla ripartizione dei proventi del petrolio del KRG ha accelerato il miglioramento nelle relazioni turco-irachene poiché il petrolio curdo viene esportato attraverso il terminale turco di Ceyhan. Circa le aspirazioni dei curdi iracheni del KRG, Ankara ha suggerito al Presidente Barzani un atteggiamento di moderazione nei confronti del governo federale di Baghdad. Nel corso della recente visita ad Ankara del MAE iracheno Jaafari, lo scorso 14 luglio, sono stati toccati i temi della collaborazione in materia di energia, risorse idriche e formazione delle forze di polizia. In materia di contrasto

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all’ISIS, Jaafari ha richiesto l’incremento degli aiuti offerti e, soprattutto, assistenza nella formazione delle forze di polizia, appello quest’ultimo prontamente accolto da Ankara, che già in precedenti occasioni aveva manifestato la propria disponibilità ad avviare programmi di training in suolo turco. All’invito al Governo turco ad assumere un atteggiamento di maggiore prudenza per quanto riguarda le azioni in corso nel Nord dell’Iraq, si accompagna d’altro canto la soddisfazione delle autorità di Baghdad per il ruolo più profilato assunto da Ankara nell’azione di contrasto all’ISIS.

Iran La Turchia si fronteggia da sempre in una competizione politica ed economica con l’Iran per l’influenza regionale, per nella consapevolezza che sia un interesse strategico avere buoni rapporti con il vicino persiano con il quale vi sono forti legami economici e culturali. Nel gennaio 2015 il MAE Cavusoglu ha visitato Teheran, per discutere con l’omologo iraniano di sicurezza regionale e lotta al terrorismo. I due Ministri degli esteri non hanno nascosto i profondi motivi di divisione tra i due Paesi, in particolare in relazione alla situazione in Siria ed al ruolo di Assad. Divisioni acuite dalla crisi yemenita, in cui Teheran ed Ankara sostengono schieramenti contrapposti. Tali divergenze non hanno peraltro impedito la visita del Presidente Erdoğan a Teheran, lo scorso 7 aprile, in coincidenza con la seconda sessione del Consiglio di Cooperazione Turchia-Iran, che ha permesso di approfondire le prospettive di cooperazione soprattutto in ambito economico, con le prospettive di crescita dell’interscambio a seguito del negoziato nucleare (con particolare riferimento ad una possibile partecipazione iraniana al TANAP). Già durante il regime delle sanzioni, l’Iran si è imposto come l’ottavo partner commerciale della Turchia, con un interscambio pari a 13,7 miliardi di dollari, ed il decimo mercato di sbocco per le esportazioni turche, che hanno raggiunto nel 2014 il valore di 3,8 miliardi di dollari: è indubbio che vi siano importanti prospettive di crescita. Da un lato, un regime doganale favorevole dovrebbe consentire a molti prodotti turchi di arrivare facilmente sul mercato iraniano, in particolare per quel che riguarda i settori degli elettrodomestici bianchi, tessile, elettronica e medicinali. Dall’altro, il crescente fabbisogno energetico del Paese e la volontà di Ankara di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento costituiscono le basi per un rapido incremento delle importazioni di gas e petrolio, in particolare se si considera che, dal 2011 al 2015, la Turchia ha dovuto praticamente dimezzare le sue importazione di gas dall’Iran. Il settore dell’energia è sicuramente il più importante. L’Iran è per Ankara il primo fornitore di petrolio, coprendo più del 30% del fabbisogno nazionale, ed il secondo di gas naturale (dopo la Russia), con circa il 18% del fabbisogno annuo. Il gasdotto TANAP, pensato per trasportare il gas proveniente dal Mar Caspio ed

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i cui lavori di costruzione dovrebbero terminare nel 2018, potrebbe essere utilizzato anche per il gas iraniano. Inoltre, interessanti prospettive si aprono per i contractor turchi (secondi solo a quelli cinesi per capacità di intervento nei Paesi più arretrati) e per il settore bancario che, in questi anni, ha svolto un ruolo piuttosto importante (e spesso poco trasparente) nelle transazioni finanziarie di Teheran con l’esterno.

Arabia Saudita Nel marzo u.s. il Presidente Erdoğan ha compiuto una visita nel Regno, all’indomani della successione che ha portato al trono un sovrano, Salman, percepito ad Ankara come più pragmatico e maggiormente disposto ad impegnarsi direttamente nella stabilità regionale. La visita di Erdoğan ha rappresentato l’occasione per aprire una nuova pagina nei rapporti tra Turchia e Arabia Saudita, caratterizzati da solide relazioni bilaterali sul piano economico-commerciale e da prospettive convergenti sui principali teatri regionali aperti (es. Yemen), nonostante il permanere di differenze - anche importanti - riconosciute da entrambe le parti su singole questioni (segnatamente sull’Egitto). Agli occhi di Ankara sembrerebbe peraltro in corso a Riad una parziale riconsiderazione della minaccia costituita dalla Fratellanza Musulmana, nel senso di una distinzione tra esponenti e correnti interne alla Fratellanza che continuano a costituire un potenziale fattore di instabilità da un lato, e interlocutori politicamente più moderati, che potrebbero essere pragmaticamente coinvolti in favore della stabilità regionale dall’altro. L’alleanza turca con l’Arabia Saudita sembra avere carattere tattico più che strategico, volto soprattutto a condurre un’azione coordinata e più incisiva a sostegno delle opposizioni siriane (quali che siano) per favorire la caduta di al- Assad. Nondimeno, l’ipotesi di un intervento militare diretto appare molto remota. Questa Amministrazione, la cui politica siriana è già poco popolare, non può permettersi di sostenere il costo, in termini di consenso, delle inevitabili vittime turche di una simile operazione. In tale quadro il desiderio condiviso da Ankara con Riad di accantonare le divergenze esistenti in favore di un maggiore coordinamento sulle questioni di comune interesse, anche e soprattutto nell’ottica di riguadagnare spazi di visibilità e di credibilità sullo scenario mediorientale, non appare tuttavia sufficiente a spingere la dirigenza turca fino a sacrificare le complesse e delicate relazioni con Teheran sull’altare dei timori sauditi per le ambizioni regionali iraniane.

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Israele La tensione diplomatica tra Ankara e Tel Aviv, sviluppatasi a seguito di recriminazioni reciproche, è cresciuta di intensità a causa della condanna turca all’operazione “Piombo fuso”, lanciata dall’esercito israeliano contro Gaza nel dicembre 2008. A ciò ha fatto seguito la nota vicenda della nave Mavi Marmara (31 maggio 2010), segnata dalla morte di nove attivisti turchi filo-palestinesi e culminata nella riduzione delle relazioni diplomatiche turco-israeliane a livello di secondi segretari. Tre le condizioni poste da Ankara per chiudere la controversia: 1) scuse formali; 2) compensazione finanziaria dei parenti delle vittime; 3) rimozione del blocco di Gaza. Con la telefonata intercorsa tra il PM turco Erdoğan e l’omologo israeliano Netanyahu il 22 marzo 2013, fortemente propiziata da parte statunitense, la parte turca ha accettato le scuse per l’incidente della Mavi Marmara. Nella primavera 2013 si sono tenuti incontri fra i negoziatori delle due parti per discutere la diversa interpretazione che le parti intendono dare all’accordo sul risarcimento alle famiglie delle vittime. Secondo Tel Aviv, l’accordo dovrebbe prevedere la non responsabilità giuridica di Israele, mentre Ankara starebbe insistendo sul fatto che la compensazione confermi l’illegittimità dell’attacco israeliano - con le relative conseguenze di carattere giuridico-penale per i responsabili. La posizione turca di forte reazione alle azioni israeliane a Gaza dell’estate 2014 allontana ulteriormente la possibilità di normalizzazione dei rapporti bilaterali. Peraltro, il rafforzarsi di intese in campo economico commerciale ed energetico di Israele con Cipro, Grecia ed Egitto, rappresenta un’ulteriore sfilacciarsi del rapporto tra Turchia e Israele, una volta ritenuto strategico asse portante del precario equilibrio nella regione medio-orientale. Recentemente il Ministro degli Esteri Cavusoglu ha ribadito come l’attuale spirale di tensione in Medio Oriente sia in definitiva da ricollegare all’irresponsabile intransigenza israeliana nei confronti di Gaza, confermando dunque nuovamente la sostanza delle posizioni turche sul dossier palestinese. Il Presidente Erdoğan ha inoltre ribadito la necessità di evitare il ricorso a soluzioni "importate" dall’esterno, che non coinvolgano in prima battuta le popolazioni locali nei processi decisionali. Le dichiarazioni di Erdoğan e Cavusoglu si inseriscono ancora una volta nella consueta retorica che conferma l’ambizione di Ankara a svolgere un ruolo attivo e profilato in tutta la regione medio-orientale. Al riguardo, la Turchia è fermamente contraria al blocco di Gaza e sostiene la politica di riconciliazione intrapalestinese tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas. Erdoğan ha più volte annunciato l’intenzione di recarsi a Gaza, ma ha sempre dovuto rinviare tale visita per non urtare la suscettibilità dell’ANP che critica l’appiattimento di Ankara sulle posizioni di Hamas.

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Proprio il sostegno politico di Ankara ad Hamas, considerato controproducente dalla stessa dirigenza palestinese, di fatto relega Ankara in una posizione marginale nel conflitto arabo-israeliano.

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Balcani Anche nei Balcani, la Turchia cerca spazi di penetrazione (segnatamente commerciale) e di influenza. Nella visita di Erdoğan nel Kosovo dell’ottobre 2013, l’emotività di alcune dichiarazioni (“Il Kosovo è la Turchia e la Turchia è il Kosovo”), ha provocato il forte disappunto serbo, sfociando in una diatriba tra Ankara e Belgrado. Il 4-5 febbraio 2013 il Presidente serbo Nikolic ha effettuato una visita di Stato in Turchia, con una prima tappa ad Ankara per incontri con il Capo dello Stato Abdullah Gul e il Presidente del Parlamento Cemil Cicek, a cui ha fatto seguito la tappa a Istanbul dove Nikolic ha incontrato il patriarca ortodosso Bartolomeo I e una qualificata rappresentanza della comunità imprenditoriale turca. Nessun incontro con l’allora PM Erdoğan (impegnato in visita in Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) e l’allora MAE Davutoğlu (assente per via della Ministeriale OIC a Cairo). La visita a Belgrado di Davutoğlu il 10 giugno 2014 sembra aver definitivamente chiuso le tensioni diplomatiche tra i due Paesi e rilanciato la cooperazione economica e gli investimenti turchi. Ankara incoraggia il processo di riforme interno in Serbia e la prospettiva europea di Belgrado (più sfumato il riferimento alla NATO, consapevole della delicatezza che la questione ancora riveste in Serbia). Il volet economico, nell’ottica turca, costituisce lo strumento prioritario per questo rafforzamento. Eccellenti le relazioni bilaterali tra la Bosnia Erzegovina e la Turchia, improntate a calorosa amicizia e collaborazione. Sostegno di Ankara al processo di avvicinamento di Sarajevo all’Unione Europea ed alla NATO. Il 29-30 aprile 2015 il Ministro degli Esteri Cavusoglu ha effettuato una visita a Sarajevo. La Turchia, così come la Croazia, sostengono i partiti politici bosniaci espressione dei gruppi etnici di riferimento, ma sempre nell’alveo del sostegno al processo di integrazione euro-atlantica della Bosnia-Erzegovina. Quanto alla Macedonia, si è svolta il 29-30 settembre 2011 a Skopje la visita del Primo Ministro Erdoğan. Sostegno alla Macedonia sulla questione del nome. Sono circa 100 le aziende turche operanti in Macedonia (inaugurazione del nuovo aeroporto di Skopje, realizzato dalla società turca TAV, per un valore di circa 100 mln/€). Sostegno senza riserve da parte della Turchia per gli sforzi del Paese per diventare membro della NATO. Presentata come una possibile svolta nei rapporti bilaterali tra Albania e Turchia, la visita a Tirana del Presidente Erdoğan del 13 maggio 2015 non sembra aver portato i frutti sperati. Al contrario vi sono state polemiche, soprattutto a proposito della richiesta di Erdoğan di rendere illegale in Albania l’attività del movimento Gulen: richiesta che ha suscitato critiche, perché considerata un’ingerenza negli affari interni albanesi.

Russia Il 1 dicembre 2014 si è svolto, alla presenza del Presidente russo Putin e del Presidente Erdoğan, il quinto Consiglio di Cooperazione ad Alto livello tra

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Turchia e Russia, nel corso del quale sono stati firmati accordi nei settori dell’energia (convenzionale e nucleare), dei trasporti, dell’industria e del commercio. Il Presidente Putin, accompagnato da 10 ministri, ha auspicato un ulteriore miglioramento del trend positivo nei rapporti economici bilaterali, da un lato puntando a triplicare l’interscambio commerciale entro il 2020, dagli attuali 35 miliardi di dollari l’anno a 100 miliardi, dall’altro investendo sulla cooperazione industriale nei settori hi-tech e sulla crescita del comparto aerospaziale. Gli accordi nel settore energetico hanno rappresentato l’aspetto principale del Consiglio di Cooperazione. Con un gesto clamoroso Putin ha proposto di sostituire il progetto South Stream con un nuovo gasdotto (“Turkish Stream”) che attraverso il territorio turco (zona economica esclusiva, regione del Mar Nero e Tracia) convoglierebbe il gas russo in Europa attraverso un terminale posto alla frontiera tra Turchia e Grecia. Tale gasdotto avrebbe l’identica portata di South Stream, 63mld di bcm, di cui 14 sarebbero riservati al mercato turco ed il resto per il mercato europeo. Nell’occasione, Botas e Gazprom hanno siglato un memorandum d’intesa che autorizza le due società di stato ad avviare gli studi tecnici relativi alla realizzazione dell’opera. Nondimeno, l’atteggiamento turco al riguardo resta cauto a causa della forte dipendenza energetica di Ankara da Mosca (circa il 60% del proprio fabbisogno) che il gasdotto russo aumenterebbe, proprio in una fase in cui gli sviluppi positivi nel negoziato tra Erbil e Baghdad sulla vendita e ripartizione dei proventi del petrolio della regione autonoma del Kurdistan iracheno e lo sviluppo del gasdotto TANAP/TAP per trasportare il gas consentirebbero di ridurre tale dipendenza. In ogni caso, Ankara sembra intenzionata a giocare in maniera spregiudicata su più tavoli negoziali, onde massimizzare la rendita di posizione derivante dalla sua collocazione geografica per ridurre la propria bolletta energetica e fare della Turchia un terminale indispensabile per la diversificazione degli approvvigionamenti e la creazione di nuove rotte. A fronte di una cooperazione economica bilaterale in continua crescita, restano importanti differenze sui dossier regionali (Siria, Ucraina, Cipro, Caucaso) che in occasione degli incontri ufficiali vengono sistematicamente poste in secondo piano, a conferma che Ankara non è disposta a sacrificare le ottime relazioni economiche sull’altare delle consolidate differenti posizioni sui temi di politica estera.

Ucraina Due sono gli aspetti della crisi ucraina sui quali si ravvisa un interesse turco. Il primo riguarda la tutela di diritti e prerogative della significativa minoranza tatara residente in Crimea (circa il 12% degli abitanti della penisola), che - come da ultimo riconosciuto nel rapporto del Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Muižnieks (27 ottobre 2014) - risultano vittime di abusi da parte delle auto-proclamate Autorità, di omicidi e sparizioni, nonché di

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ingiustificate perquisizioni effettuate da parte di uomini armati e mascherati in istituzioni religiose musulmane ed in abitazioni private, in nome della lotta all’estremismo di matrice islamica (ma verosimilmente finalizzate ad intimidazioni ed espropriazioni di fondi ed abitazioni). Il secondo, che deriva implicitamente dal primo, riguarda il rischio di tendenziale, progressiva sostituzione turca in posizioni, lasciate libere dall’UE in costanza delle sanzioni economiche, nel mercato russo ed in quello crimeano. Il fenomeno riguarda sia il settore agroalimentare (a seguito delle contromisure imposte dalla Russia ai Paesi UE), sia alcuni investimenti infrastrutturali in Crimea. Si tratta di un effetto di backfilling (che Ankara non riconosce come tale, ritenendo invece necessaria una più marcata presenza turca nella regione proprio a tutela della minoranza tatara), non in linea con la solidarietà internazionale che la crisi esige e più in particolare con lo status di partner NATO di Ankara.

Caucaso Armenia. Si registra lo stallo nel processo di riavvicinamento tra Turchia e Armenia dopo la promettente firma dei Protocolli di Zurigo nel 2009, mai ratificati. Negli anni novanta i rapporti tra Jerevan ed Ankara erano già peraltro ulteriormente peggiorati a causa del conflitto del Nagorno-Karabach che ha visto la Turchia e l’Armenia schierarsi su fronti opposti. Ankara a fianco degli azeri mentre Jerevan sostiene i separatisti armeni della regione. Attualmente il conflitto è definito “congelato” e ciononostante contribuisce ad avvelenare le relazioni tra la Turchia e l’Armenia. I protocolli di Zurigo prevedono la normalizzazione dei rapporti, l’apertura della frontiera turco-armena e l’incarico di ricostruire le dolorose vicende occorse tra il 1915 e il 1923 ai danni della minoranza armena nell’impero ottomano ad una commissione di storici. È proprio la radicale differenza di interpretazione dei tragici fatti accaduti nel corso della prima guerra mondiale a rappresentare ancora oggi un macigno che impedisce l’instaurazione di normali relazioni bilaterali (cfr. Scheda di approfondimento in appendice). Tentativi di distensione si sono registrati sia in occasione della storica visita del Ministro degli esteri Davutoğlu a Jerevan (dicembre 2013), durante la quale egli ha definito “ inumana” la deportazione degli armeni decisa dal governo dei Giovani Turchi, così come, qualche mese dopo (aprile 2014) con le dichiarazioni dell’allora Primo Ministro Erdoğan, che aveva espresso il suo cordoglio per le vittime “dei fatti di inizio Ventesimo secolo”. Si tratta di fenomeni tuttavia episodici, ai quali non hanno fatto seguito azioni più strutturate. La ricorrenza del centenario della deportazione degli armeni ha determinato inizialmente un inasprimento delle relazioni turco armene, anche a causa della coincidenza di tale anniversario con l’organizzazione in Turchia del centenario della battaglia di Gallipoli/Canakkale, in occasione del quale il Presidente

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Erdoğan ha invitato oltre cento Capi di Stato per un “Vertice sulla Pace” dal 23 al 24 aprile. La mossa di Erdoğan è stata considerata da Jerevan come una inopportuna provocazione ed il Presidente Sargsyan ha chiesto che il Parlamento armeno non proceda alla ratifica dei Protocolli di Zurigo. Tuttavia, alla vigilia del centenario, il Primo Ministro turco Ahmet Davutoğlu con un comunicato ufficiale ha annunciato lo svolgimento di una cerimonia commemorativa presso il Patriarcato Armeno di Istanbul il 24 aprile, sottolineando sottolineato l’importanza di una commemorazione comune e condivisa da Armenia e Turchia ed esprimendo al contempo le condoglianze turche ai discendenti delle vittime armene dei tragici avvenimenti che hanno segnato il primo conflitto mondiale. Davutoğlu ha rimarcato nuovamente la necessità di guardare alla storia con imparzialità, evitando generalizzazioni "moralmente e giuridicamente problematiche" volte ad attribuire in via esclusiva ogni responsabilità di quanto accaduto in quegli anni alla nazione turca e a ricondurre unilateralmente tale tragedia alla definizione di "genocidio". Nella stessa direzione le parole pronunciate il 24 aprile dal Presidente Erdoğan e indirizzate al Patriarcato Armeno di Istanbul. Quest’ultimo ha interpretato le mosse turche come "un ramo d’ulivo" indirizzate alla comunità armena. Le ultime prese di posizione internazionali in favore del riconoscimento del ”genocidio” armeno hanno provocato dure reazioni di condanna da parte turca. La questione armena ha trovato spazio anche nelle celebrazioni per il 95mo anniversario della prima seduta della Grande Assemblea Nazionale turca, nonché nell’intervento di Erdoğan al Vertice per la Pace organizzato in occasione del centenario della battaglia di Gallipoli.

Georgia La Turchia sostiene l’indipendenza e l’integrità territoriale della Georgia. Già la visita di Erdoğan del giugno 2011 aveva suggellato l’accordo in tema di facilitazione dei documenti di viaggio per l’accesso ai rispettivi Paesi. Egli si è recato anche a Batumi, vero e proprio ‘feudo’ turco nel Paese, inaugurando con l’omologo Baramidze la prima stazione per le comunicazioni via satellite del Caucaso, che da Tbilisi trasmetterà il segnale di varie emittenti locali ed estere. Gli eccellenti rapporti stabiliti sin dalla dichiarazione di indipendenza georgiana (la Turchia è stata tra i primi a riconoscere il nuovo Stato), si sono rafforzati notevolmente dopo la Rivoluzione delle Rose e l’ascesa al potere dell’UNM del Presidente Saakashvili. Oggi i due Paesi rappresentano l’uno per l’altro un importante partner economico-commerciale, che beneficia della liberalizzazione dei visti. In particolare, la Turchia attribuisce alla Georgia un ruolo determinante nello scenario caucasico ed è impegnata a sostenerne le aspirazioni sia in campo economico, sia per quanto riguarda l’adesione alla NATO.

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Perdura la preoccupazione di Tbilisi per i traffici marittimi tra Turchia e Abkhazia (in Turchia come noto risiede una consistente comunità abkhaza) in merito ai quali sembra comunque essersi instaurata tra Ankara e Tbilisi una prassi condivisa. Il miglioramento delle relazioni bilaterali è indispensabile per Ankara se si considerano alcune insofferenze della popolazione georgiana rispetto alla massiccia presenza turca (musulmana) a Batumi, sfociata con dichiarazioni dell’opposizione di presunte mire espansionistiche turche proprio sulla predetta città del Mar Nero. La linea ferroviaria Baku-Tbilisi-Kars (in via di realizzazione) è il principale progetto di sviluppo regionale. D’altro canto la presenza in Turchia di circa 400.000 cittadini abkhazi pone un’ombra nei rapporti tra Ankara e Tbilisi, talvolta fonte di problemi bilaterali non marginali, come dimostra il sequestro a fine 2010 da parte delle Autorità georgiane di navi cargo turche che commerciavano direttamente con l’Abkhazia.

Repubbliche turcofone dell’Asia centrale Rinnovato interesse turco per le repubbliche ex-sovietiche ‘turcofonè (circa 150 milioni di persone capiscono o parlano il turco) di Azerbaigian, Kazakhstan, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Il Primo Ministro Erdoğan e il Presidente azero Aliyev hanno firmato il 26 giugno 2012 l’Accordo intergovernativo turco-azero (in cui è incluso l’Host Government Agreement) relativo alla realizzazione del Trans-Anatolian Natural Gas Pipeline Project (TANAP). Il TANAP, il cui valore è stimato attorno ai 7 mld/$, è finalizzato al trasporto di 16 bcm di gas naturale proveniente dal giacimento azero di Shakh Deniz 2, dei quali 6 bcm destinati alla Turchia ed i rimanenti 10 bcm destinati al mercato europeo. Le quote relative al progetto saranno ripartite tra l’azienda di Stato azera SOCAR (per l’80%) e le turche BOTAS e TPAO (assieme per il restante 20%). I lavori, inaugurati alla presenza dei massimi esponenti politici del Paese nella primavera del 2015, dovrebbero concludersi entro il 2018. Il 7 Novembre 2014 la Turchia ha firmato un accordo quadro con il Turkmenistan per la fornitura di gas a TANAP. Alla firma tra la società pubblica Turkmengas e la società privata turca Atagas per l’acquisto e la vendita di gas turkmeno per TANAP erano presenti il Presidente Erdoğan e l’omologo turkmeno, Kurbanguly Berdymukhamedov. Essi hanno sottolineato l’importanza della fornitura di gas turkmeno verso l’Europa attraverso la Turchia quale contributo alla sicurezza energetica dell’Europa. Paese con la quarta più grande riserva al mondo di gas naturale, il Turkmenistan cerca di diversificare le esportazioni e creare dei mercati mondiali. Il primo tratto del TANAP è stato inaugurato a marzo 2015 alla presenza del Presidente Erogan. Strettissimo è il rapporto di collaborazione fra Azerbaijan e Turchia. A ottobre 2012 si è svolto a Baku il 12mo Vertice intergovernativo

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dell’Organizzazione per la cooperazione economica (Eco). Dopo due anni di presidenza turca, Erdoğan ha passato le consegne al Capo dello stato azero, Aliyev. Al centro del Vertice, lo sviluppo delle relazioni economiche nella regione, nel settore dei trasporti, dell’agricoltura, dell’energia e della protezione ambientale, oltre a questioni riguardanti l’integrazione e lo sviluppo socio- culturale, scientifico e tecnologico dei paesi membri. Si rilevano sviluppi nel rapporto con il Turkmenistan, a seguito dell’apertura di una fase di rilevante attività della diplomazia bilaterale, operata dal nuovo Governo turkmeno, primo partner economico-commerciale. Il Presidente Berdimuhamedov si è recato ad Istanbul e Smirne (agosto 2012) in visita per incontri con l omologo Gul e con il Premier Erdoğan, focalizzati sulla cooperazione economica (600 le imprese turche che operano nel territorio turkmeno, soprattutto nel settore delle costruzione, dove godono di un regime di quasi monopolio). Nel marzo 2013 si è svolto ad Istanbul il 5^ Turkmenistan International Investment Forum, con la partecipazione di circa 800 imprenditori ed opportunità di investimenti stimate a 70 miliardi di dollari. La Turchia è presente in Turkmenistan con oltre 600 imprese operanti principalmente nei settori della costruzione, infrastrutture, tessile, agroalimentare. Legati da una comune storia, religione e cultura, il Turkmenistan è uno dei maggiori partner della Turchia in Asia centrale; essa vi è presente con oltre 600 imprese operanti principalmente nei settori della costruzione, delle infrastrutture, del tessile, dell’agricoltura e dell’agro-alimentare. Gli IDE turchi in Turkmenistan ammontano, in stock, a circa 2 miliardi di dollari. Il valore totale dei progetti realizzati con la collaborazione di imprenditori turchi ammonta a circa 30 miliardi di dollari. Nel contesto del rafforzamento della cooperazione regionale, si è svolta a Baku nel maggio 2014 la prima riunione tripartita dei Ministri degli Esteri di Turchia, Azerbaijan e Turkmenistan. Analoghi formati si profilano tra Turchia e Azerbaijan con Iran e con Georgia. Il Presidente Erdoğan ha effettuato una visita in Kazakhstan nell’aprile 2015, con una nutrita delegazione ministeriale al seguito (Esteri, Difesa, Energia, Agricoltura, Cultura, Economia e Trasporti), la firma di 19 accordi commerciali per un valore di 800 milioni di dollari (in gran parte materiali per costruzioni), la seconda riunione del "Consiglio di Cooperazione strategica" e gli auguri per la vittoria elettorale di Nazarbayev. Obiettivo immediato il rilancio di un interscambio commerciale l’anno scorso in forte contrazione e sullo sfondo la verifica dell’interazione tra i due Paesi nelle nuove dinamiche geo-politiche centro- asiatiche.

Afghanistan In vista del prossimo ritiro della missione ISAF, secondo Ankara, la situazione afghana va valutata alla luce di tre pilastri fondamentali: sicurezza, governabilità ed economia, strettamente correlati tra di loro. Merita

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inoltre segnalare la determinazione con la quale Ankara intende continuare la propria azione di sostegno a Kabul e la presenza nel Paese. Nell’ottica turca, la permanenza nell’ambito della NATO "Resolute Support Mission" resta l’opzione principale e preferibile. La Turchia annette inoltre grande importanza ai diversi fori di cooperazione regionale (vertice trilaterale e processo di Istanbul) come strumento per rafforzare la penetrazione economica nella regione. La Turchia è un Paese chiave per la stabilizzazione in Afghanistan; ritiene che il processo di riconciliazione, pur coinvolgendo i Paesi vicini, debba essere Afghan-led ed inclusivo di tutte le etnie. Dal 2002, Ankara è parte di ISAF con 1.840 effettivi impegnati impegnato in attività di ricostruzione e di addestramento. Dal 2007 ha preso avvio il “Processo di Ankara”, forum tripartito Ankara-Kabul- Islamabad focalizzato sulla sicurezza (lotta al terrorismo e cooperazione di frontiera) con una componente volta a potenziare la collaborazione tra settori privati (Istanbul Process), complementare alle organizzazioni regionali esistenti. Ankara ha inoltre organizzato il Summit su Afghanistan e Paesi vicini (Istanbul, 26 gennaio 2010), teso a rafforzare la regional ownership del processo di stabilizzazione; l’evento si è tenuto nuovamente il 2 novembre 2011.

Cina Le relazioni tra Cina e Turchia durano da oltre quarant’anni e si basano sul rispetto, da parte turca, della ‘One-China Policy’. Molto forte è la collaborazione in campo economico: l’interscambio è aumentato vertiginosamente dai circa 1,5 miliardi di dollari nel 2000 ai 28,3 miliardi nel 2013. Tale dinamica è dovuta alla conclusione di numerosi accordi commerciali a partire dal 2000, ma soprattutto alla rapida crescita di entrambe le economie nazionali. Nelle sue relazioni commerciali con la Cina, la Turchia considera però come fattore negativo il saldo della bilancia commerciale, largamente sbilanciato in favore di Pechino. Si assiste inoltre, negli stessi anni, al maturare di sentimenti anti-cinesi nell’opinione pubblica turca e specialmente tra piccoli imprenditori, agricoltori e commercianti, a causa della temibile concorrenza esercitata dai prodotti cinesi. Per queste ragioni, nelle occasioni di incontro bilaterale il governo turco non manca mai di richiedere a Pechino di compensare questa relazione ancillare con investimenti diretti in Turchia, sollecitazione a cui la Cina sembra avere risposto complessivamente in maniera positiva. Nel febbraio 2012, durante una visita dell’allora vice-presidente Xi Jinping in Turchia, vengono firmati accordi per la costruzione di ferrovie e per lo sviluppo di energia nucleare. Due mesi dopo, la visita è stata ricambiata da Erdoğan, la prima in 27 anni di un Primo ministro turco, principalmente allo scopo di rafforzare le relazioni economiche bilaterali, aumentando gli investimenti cinesi in Turchia e, soprattutto, riducendo il forte squilibrio negli scambi bilaterali sostenendo l’export turco in Cina. La Cina rappresenta infatti per la Turchia il primo partner commerciale in Asia e il terzo a livello globale dopo Germania e Russia.

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Un passo nella direzione di più strutturate relazioni politiche è compiuto poco dopo, nel giugno 2012, quando la Turchia, dopo una lunga attesa, viene ammessa come partner di dialogo nella Shanghai Cooperation Organization. Ciononostante, le relazioni bilaterali non migliorano sensibilmente: Pechino continua a considerare con sospetto sia l’appartenenza alla NATO della Turchia che le simpatie per la causa uigura, prendendo posizioni opposte a quelle di Ankara su una serie di questioni di politica internazionale in cui la Turchia è coinvolta (Kosovo, Bosnia, Cipro e Nagorno-Kharabakh). Su invito del Presidente Xi Jinping, il Presidente della Repubblica Erdoğan ha effettuato una visita ufficiale in Cina dal 28 al 30 luglio scorso. Negli incontri ufficiali sono stati affrontati numerosi aspetti delle relazioni fra i due Paesi: riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, G20 - di cui la Cina erediterà la presidenza dalla Turchia - sistema missilistico di difesa, per la fornitura del quale Ankara è attualmente in trattativa con la società cinese CPMIEC, che si è aggiudicata la gara a cui ha partecipato anche il consorzio italo-francese Eurosam. È inoltre emerso il grande interesse cinese per il settore energetico turco (realizzazione della terza centrale nucleare ed energie rinnovabili) e per le opere infrastrutturali in cantiere (a titolo esemplificativo, alta velocità ferroviaria Edirne-Kars e Antalya-Smirne), che da parte turca viene anche considerato come una base per possibili compensazioni, con investimenti diretti cinesi, all’attuale relazione commerciale molto sbilanciata. Particolarmente sensibile in Turchia è la questione della minoranza uigura nella regione cinese dello Xinjang. I disordini del 23 giugno scorso, a seguito dei quali diciotto persone sono morte a Kashgar, hanno attirato l’attenzione della stampa e l’indignazione di parte dell’opinione pubblica, sfociata anche in episodi di violenza. Il 1° luglio un ristorante cinese è stato assaltato a Istanbul e, tre giorni dopo, gruppi nazionalisti ed associazioni della diaspora uigura hanno organizzato una manifestazione di protesta contro il governo cinese, durante la quale alcuni turisti coreani, scambiati per cinesi, sono stati aggrediti. Lo stesso Presidente della Repubblica, durante l’iftar offerto agli Ambasciatori accreditati in Turchia, ha ricordato che “l’oppressione dei nostri fratelli che vivono nella regione Uigura dello Xinjang ha creato preoccupazione nel nostro popolo”. Dagli anni ‘90 la Turchia sperimenta una sorta di revival dell’ideologia pan- turchista: in ambienti accademici e diplomatici si favoleggia di un’egemonia sull’intero spazio geopolitico “dall’Adriatico alla Grande Muraglia”, ambizioni poi gradualmente superate da una più realistica prospettiva di collaborazione con le potenze euroasiatiche. La questione uigura sembra destinata a restare un elemento di intralcio allo sviluppo di relazioni politiche tra i due paesi, ma, almeno per il momento, gli imprescindibili legami economici tra Turchia e Cina non verranno sacrificati a ragioni di carattere ideologico.

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Indonesia Il 30 luglio u.s., da Pechino, il Presidente Erdoğan, accompagnato dal Ministro degli Esteri Cavusoglu, è volato in Indonesia, dove ha incontrato l’omologo Widodo. Al centro dei colloqui la cooperazione politica, in particolare nella lotta al terrorismo ed all’estremismo religioso, ed economica. I due leader hanno quindi sottolineato la volontà di adottare tutti i provvedimenti necessari per firmare un accordo di libero scambio, possibilmente entro la fine di quest’anno.

Africa Carattere strategico della cooperazione tra Turchia e l’Africa per vicinanza geografica, economico-politica e culturale. Nel gennaio 2013 il PM Erdoğan ha effettuato una visita in Gabon, Niger e Senegal. L’azione diplomatica in Africa, frutto della regia dell’allora MAE Davutoğlu, risponde alla volontà di Ankara di stringere accordi di cooperazione politici-commerciale. La Turchia, oltre a posizionarsi quale concorrente diretto di Cina, India e Brasile, che nel continente africano stanno fortemente espandendo la loro presenza, sta dimostrando che, accanto alle tradizionali motivazioni politiche e commerciali, anche la componente religiosa rappresenta oggi un fattore di guida della sua politica estera. L’aspetto dominante della linea perseguita da Ankara resta, oltre alla dimensione religiosa, la promozione dell’export turco nel continente africano. Sotto questo aspetto, vale ricordare che Erdoğan è stato il primo Capo di Governo a recarsi a Mogadiscio nell’agosto del 2011 ove è ritornato da Presidente nel gennaio del 2015. Nella propaganda turca tali viaggi sono stati enfatizzati anche alla luce del comune passato ottomano, sottolineando o il continuo e fattivo sostegno della Turchia nei confronti del “fraterno” popolo somalo, a conferma del notevole investimento di immagine sulla Somalia compiuto da Erdoğan. La Turchia ha inoltre ospitato la seconda Conferenza di Istanbul sulla Somalia il 31 maggio e 1 giugno 2012. Complementare alle iniziative dell’ONU e della Comunità internazionale sulla Somalia, essa ha sancito l’ormai imprescindibile ruolo turco di rilevante attore nello scacchiere somalo e regionale. A riprova delle ambizioni turche di inserirsi a pieno titolo nelle dinamiche politiche del Corno d’Africa, il Ministro Davutoğlu ha annunciato la firma di un MoU tra la Turchia e l’IGAD, nuovi contributi finanziari ad AMISOM e il sostegno (salari, divise, formazione) a 3.000 unità della polizia somala. La Turchia, grazie ad una strutturata presenza diplomatica e umanitaria sul terreno, è oggi in grado di fornire assistenza diretta ai somali, senza dover transitare per l’imponente e costoso apparato onusiano di stanza a Nairobi. Tale strategia, finanziata da ampie risorse, fa perno su una presenza diffusa nel Paese, sul dialogo anche informale con tutti i settori (anche i più islamico-radicali) della società somala, sul sostegno diretto alle IFIs. Grazie a tale impegno, Ankara ha potuto guadagnarsi il sostegno della popolazione somala, divenendo uno degli attori principali in

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questo scacchiere. Quanto all’Etiopia, la Turchia contribuisce al PIL con oltre 200 imprese turche operanti in Etiopia per investimenti di circa 1,5 miliardi di dollari. La seconda edizione del Summit Turchia-Africa si è svolta ad Istanbul il 15-16 dicembre 2011 per valutare avanzamento del piano di azione congiunta adottato nella precedente edizione nel 2008.

America Latina Come parte dello sforzo di ampliamento degli orizzonti di politica estera della Turchia, Ankara ha avviato negli ultimi anni un’azione di apertura diplomatica nei confronti dell’America Latina, sostenuta dall’apertura di nuove ambasciate nella regione e da un incremento dell’interscambio bilaterale e degli investimenti diretti nei Paesi dell’area. L’interesse turco si è diretto inizialmente verso l’espansione della presenza in Venezuela, con particolare riferimento alle opportunità offerte dal settore infrastrutture e costruzioni e alla possibilità di importare petrolio venezuelano. A vent’anni di distanza dall’ultima visita ufficiale di un Capo di Stato turco in un Paese latino-americano, il 10 febbraio u.s. il Presidente Erdoğan ha iniziato un periplo di tre giorni che lo ha portato a visitare Colombia, Cuba e Messico. In tale occasione, numerose sono state le intese siglate con i tre Paesi, soprattutto nei settori della cooperazione industriale, dell’agricoltura, della cultura e del turismo (con particolare riferimento alla possibilità di avviare collegamenti aerei diretti con i tre Paesi tramite la compagnia di bandiera turca).

Clima Rispetto alla cooperazione sul clima, Ankara conferma il desiderio di giungere ad un accordo finale che sia equo, ambizioso, flessibile, inclusivo e giuridicamente vincolante. Nondimeno, da parte turca si sottolinea l’importanza della responsabilità storica dei Paesi economicamente più avanzati e che accanto agli obiettivi di mitigazione delle emissioni di gas serra siano presenti anche gli aspetti relativi alle misure di sostegno finanziario e di condivisione delle tecnologie più avanzate per i Paesi in via di sviluppo. Si sollecita il contributo dell’Unione Europea per sviluppare tecnologie verdi, lamentando la difficoltà di accedere all’utilizzo di fondi europei a causa di difficoltà burocratiche. La lotta al cambiamento climatico sarà anche uno dei temi principali dell’agenda del G20 sotto Presidenza turca. Ankara ritiene tuttavia che la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sia lo strumento principale per l’azione contro il cambiamento climatico e non intende costituire canali negoziali alternativi, bensì contribuire anche con l’azione quale Presidente del G20 al successo della COP di Parigi nel 2015.

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RAPPORTI BILATERALI

Relazioni politiche Le relazioni bilaterali sono eccellenti. Con Ankara registriamo un’ampia convergenza rispetto ai principali temi internazionali, anche se recentemente non sono mancate alcune diverse sensibilità (su Egitto e Siria ad esempio, e in generale sul giudizio sulle primavere arabe). Comune è la forte attenzione per i temi del Mediterraneo. Sia l’Italia che la Turchia hanno un interesse strategico a fare il possibile affinché il bacino del Mediterraneo sia un’area di pace e di prosperità. Anche nella prospettiva dell’adesione della Turchia all’Unione Europea la cooperazione tra la Turchia e l’Italia è destinata a rafforzarsi in tutti i settori di comune interesse che riguardano il Mediterraneo. In questo contesto di particolare importanza sono le questioni migratorie, della tutela dell’ambiente marino, della navigazione e del commercio, dello sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi (questione dei giacimenti al largo dell’isola di Cipro).

Il secondo Vertice italo-turco (Roma, 8 maggio 2012) ha registrato la partecipazione di 5 Ministri (Esteri, Interno, Ambiente, Sviluppo Economico, Economia) e la firma di 6 intese. Il prossimo Vertice sarà ospitato dalla Turchia. Nel novembre 2012 si è tenuto a Roma il IX Foro di dialogo delle società civili, evento annuale organizzato dal Gruppo “Unicredit”, per parte italiana, e dal “Centro di studi strategici” (SAM) del MAE turco. Spetta alla parte turca ospitare la prossima edizione. Continuiamo a sostenere il percorso di adesione della Turchia all’UE mantenendo visibilità nel contesto del “ Focus Group”. Riteniamo che il prosieguo del processo di adesione sia lo strumento più idoneo per incoraggiare la Turchia a proseguire sulla strada delle riforme. L’apertura dei capitoli 23 e 24 sulla giustizia e diritti fondamentali consentirebbe, dopo le proteste di Gezi Park, di affrontare temi centrali oggi in Turchia. Gli incontri bilaterali sono frequenti. Rilevante è stata la visita di Stato a Roma dell’allora Presidente turco Gul, il 28 gennaio 2014, e la visita del Ministro degli Affari Europei Cavusoglu, il 21 luglio 2014. Ankara ha manifestato anche piena disponibilità ad ospitare la decima edizione del Foro di dialogo.

Il Presidente del Consiglio Renzi si è recato in Turchia l’11 e 12 dicembre 2014. Ad Ankara ha incontrato il Presidente Erdoğan e il Primo Ministro Davutoğlu. Si è espressa convergenza di vedute sul Mediterraneo e i Balcani, si è analizzata una proposta di iniziativa congiunta sulla Libia e confermato il sostegno a Bernardino Leon, tuttavia una certa freddezza di Ankara si è registrata verso il piano di freezing ad Aleppo proposto da de Mistura. È stata avanzata una richiesta di mediazione su Cipro e ribadita la volontà di organizzare nel 2015 il Vertice intergovernativo, il foro di dialogo e la commissione economica

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congiunta. È stato altresì espresso vivo incoraggiamento agli investimenti italiani nei settori dell’industria della difesa, dell’alta velocità e dei lavori pubblici.

Il 16 gennaio si è svolta la visita in Turchia del Ministro dell’Interno Angelino Alfano che ha avuto un lungo e approfondito colloquio con l’omologo turco, Efkan Ala, sui temi del contrasto al terrorismo ed all’immigrazione illegale. I due Ministri hanno concordato di intensificare i contatti tra i rispettivi servizi antiterrorismo per lo scambio di informazioni ed il confronto di analisi e valutazioni, nonché per un maggiore controllo delle nuove rotte di traffico di migranti irregolari che originano dalle acque turche. Gli scorsi 25-27 marzo si è avolta una visita in Italia del Ministro per gli Affari Europei e Capo negoziatore turco Volkan Bozkir, che ha incontrato On. Ministro e il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con deleghe alle Politiche e Affari Europei Gozi. Gli incontri hanno permesso di ribadire il sostegno italiano al percorso europeo della Turchia, nonché di effettuare una disanima delle questioni di stretta attualità internazionale. A margine della ministeriale NATO di Antalya, il 13 maggio scorso, il Ministro Gentiloni ha incontrato il proprio omologo turco per un colloquio bilaterale, Affrontati i temi della lotta all’immigrazione clandestina, la crisi in Libia e le relazioni bilaterali con riguardo agli importanti incontri istituzionali da programmare per la seconda metà del 2015. Il Min. Cavusoglu, nonostante la cordialità dell’incontro, non ha mancato di evocare la questione del riconoscimento del “genocidio” armeno, lamentando i toni assunti dal dibattito parlamentare in materia e sollecitando un intervento del Governo per scongiurare la formale adozione delle mozioni e risoluzioni depositate in aula.

Intense sono le consultazioni a livello di alti funzionari MAE, nella cornice del “Protocollo di consultazioni politiche rafforzate” del luglio 2005. Il 28 maggio 2013 il Segretario Generale, Amb. Valensise, si è recato ad Ankara per colloqui con l’omologo turco Sinirlioglu che ha ricambiato la visita lo scorso 2 febbraio. Consultazioni sull’Africa si sono tenute a Roma il 15 maggio 2014 e ad Ankara il 4 aprile 2013; su Asia-Pacifico e Balcani il 9 e 10 maggio 2013 a Roma e Ankara.

Proficua è anche la collaborazione sul piano parlamentare, in virtù di uno specifico Protocollo di collaborazione tra la Camera dei Deputati e la Grande Assemblea Nazionale Turca. Dal 13 al 15 ottobre 2014 ha avuto luogo la visita ad Istanbul del Gruppo parlamentare di amicizia, presieduto dall’On. Caterina Pes, per la VI edizione del seminario parlamentare italo-turco. Dal 24 al 26 febbraio scorso si è svolta la visita di una delegazione del Parlamento turco in Italia.

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Relazioni economiche, finanziarie e commerciali

Nel primo semestre del 2015 l’Italia si conferma 5° paese partner commerciale della Turchia con 8,6 miliardi di interscambio totale, -12,3% rispetto allo stesso periodo del 2014, di cui 5,3 miliardi di import di prodotti (-12,7%) e 3,3 miliardi di export (-11,7%) ed un saldo negativo per la Turchia di 1,9 miliardi di dollari. L’Italia si conferma inoltre quinto fornitore, dietro Cina, Russia, Germania e Stati Uniti, e quinto cliente dopo Germania, Regno Unito, Iraq e Svizzera. Nel 2014 l’Italia si è collocata al quarto posto nella graduatoria internazionale dei partner commerciali, con 19,2 miliardi di interscambio (in diminuzione del 2,1% rispetto al 2013), di cui 12 miliardi di import (-6,4%) e 7,1 miliardi di export (+6,3%) ed un saldo negativo per la Turchia di -4,9 miliardi di USD. Il primo posto è occupato dalla Germania, seguita da Russia e Cina. Anche nel 2013 l’Italia occupava il quarto posto, con un interscambio di 19,6 mld di dollari (-0,6% sul 2012), un export dall’Italia verso la Turchia di 12 miliardi di dollari (-3,4%), un import dell’Italia di 6,7 miliardi di dollari (+5,5%), ed un saldo negativo per la Turchia pari a 6,1 miliardi di dollari. La complementarietà delle strutture economiche di Italia e Turchia – confermata anche dalle quasi 1.200 aziende a capitale italiano presenti nel Paese – si sviluppa lungo quattro direttrici principali: la collaborazione industriale (i principali grandi gruppi italiani sono qui presenti: Fiat, Pirelli, Ferrero, Candy, Cementir, Indesit, Luxottica, Barilla); la collaborazione fra piccole-medie imprese (settore in grandissima crescita che risponde alle nuove esigenze poste dall’impetuoso sviluppo del sistema economico turco nelle regioni anatoliche); il settore infrastrutturale (siamo protagonisti in tutti i più importanti progetti in corso nel Paese, dall’autostrada Istanbul-Smirne, al terzo ponte sul Bosforo del quale avrà occasione di visitare il cantiere durante al Sua permanenza a Istanbul, all’alta velocità ferroviaria); la cooperazione nel settore della difesa (numerose aziende di Finmeccanica hanno importanti programmi nel Paese). In questo ultimo ambito, l’Italia ha realizzato quello che viene considerato in Turchia il miglior esempio di collaborazione industriale: la linea di assemblaggio dell’elicottero di attacco T 129 realizzata in collaborazione con Agusta Westland. A livello istituzionale, nel 2012, in occasione del II Vertice italo-turco, è stata firmata dai Ministri Passera e Caglayan la Joint Declaration per l’istituzione della JETCO, Joint Economic and Trade Commission, organismo di collaborazione bilaterale, nel cui ambito i rappresentanti delle Amministrazioni e delle associazioni imprenditoriali dei due Paesi potranno riunirsi periodicamente per approfondire problematiche economiche e commerciali di reciproco interesse. L’eccellente collaborazione prosegue anche a livello di amministrazioni centrali, come testimoniato dal successo delle candidature italiane in numerosi

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twinning europei, frutto della validità delle proposte italiane, degli eccellenti rapporti bilaterali e della stretta collaborazione tra Amministrazioni dello Stato.

Indicatori economici a confronto Italia – Turchia

ITALIA TURCHIA

2012 2013 2014 2015 2012 2013 2014 2015 PIL 850 2.014 2.072 2.158 n.d. 789,1 822 n.d. (miliardi di USD) (stima) Variazione % -2,4 -1,8 -0,3 n.d. 2,1 4,1 2,9 n.d. del PIL PIL pro-capite 33.480 33.655 35.396 n.d. 18.068 18.873 19.619 n.d. USD -1,4% Deficit/PIL -2,9% -2,9% - 3,0% n.d. -2,1% -1,2% n.d. (stima) Debito 33,1% 127% 132,6% 133% n.d. 37,5% 37,5% n.d. pubblico/PIL (stima) Tasso di 10,7% 12,2% 12,3% n.d. 8,5% 9,1% 10,7% n.d. disoccupazione Tasso di disoccupazione 35,3% 40% 43,7% n.d. 17,5% 18,7% 19,9% n.d. giovanile Tasso di 2,6% 0,6% 0,3% n.d. 6,2% 7,4% 8,17% n.d. inflazione

Interscambio commerciale Italia-Turchia (in milioni di dollari)

2012 2013 2014 Esportazioni italiane 13,34 12,88 12,05 (mld $) Importazioni italiane 6,37 6,72 7,14 (mld $) Totale interscambio (mld 19,72 19,605 19,2 $) Saldo netto per Italia +6,97 +6,15 +4,91 (mld $)

* fonte: dati Türkstat

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Investimenti dell’Italia in Turchia Nel 2014 l’Italia ha investito 490 milioni di dollari, in aumento (+235,6%) rispetto al 2013, quando aveva investito per 146 milioni di dollari. Nel periodo gennaio-maggio del 2015 l’Italia ha investito 80 milioni di dollari, in flessione (-80,4%) rispetto allo stesso periodo del 2014, quando aveva investito 409 milioni di dollari. In Turchia sono operanti 1.260 imprese italiane, di cui 4 costituite nel mese di maggio 2015

Investimenti della Turchia in Italia In Italia sono presenti circa 50 imprese a capitale turco, con uno stock di investimenti diretti accumulati pari a circa 400 milioni di dollari. Tra gli investimenti recenti di maggior successo, si registra l’acquisto nel distretto della ceramica delle aziende Edilcuoghi ed Edilgr da parte di Kale Group, l’acquisto del marchio Pernigotti ad opera della famiglia Toksoz e l’acquisto dell’isola di San Clemente a Venezia, ora sede dell’hotel St. Regis, da parte della famiglia Permak.

Energia Nel febbraio 2013, un consorzio internazionale partecipato da Saipem, si è aggiudicato l’appalto per la progettazione della raffineria STAR che sorgerà nell’impianto petrolchimico della PETKIM nell’area di Aliağa/Smirne, di cui il principale azionista è SOCAR, la compagnia di Stato azera per gas e petrolio. TANAP, progetto da circa 12 miliardi di dollari, ha suscitato un forte interesse del nostro sistema produttivo, in particolare delle seguenti aziende italiane: Saipem, GE Nuovo Pignone, Selex ES (sicurezza), SICIM (costruzioni), Valvitalia, Ansaldo Sistemi Industriali (motori). Grazie ai contratti già acquisiti da Sicim (socio al 65% di una JV con turchi e azeri per la posa di 400 km di tubature del gasdotto) e Valvitalia (fornitura di 172 valvole attuate), il valore totale delle commesse sfiora i 600 milioni di dollari. L’azienda fiorentina Nuovo Pignone, capofila della divisione Oil and Gas della multinazionale americana General Electric, si e’ aggiudicata un contratto da 70 milioni di euro per la fornitura delle prime due stazioni di compressione di TANAP.L’offerta di Nuovo Pignone, che ha battuto la concorrenza di importanti gruppi mondiali, in particolare del colosso anglo-tedesco Rolls-Royce/Siemens, si e’ rivelata la piu’ competitiva, anche grazie ai bassi costi di esercizio dei compressori alimentati da turbine a gas e al servizio post-vendita garantito dalla rete di assistenza GE in Turchia. Si tratta dell’ennesima dimostrazione delle rilevanza delle grandi opere infrastrutturali nei rapporti tra Italia e Turchia e della collaborazione sempre più stretta tra i nostri due sistemi in settori strategici dell’economia.

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Turismo In un quadro di eccellenti rapporti tra Italia e Turchia quello del turismo è forse il settore che fa registrare le performance meno brillanti. Nonostante la vicinanza non solo geografica ma anche culturale tra i due Paesi, i flussi di turisti turchi verso l’Italia sono tuttora ridotti e quindi presentano ampi margini di miglioramento. Nel 2014 solo 196.400 cittadini turchi hanno visitato l’Italia, sesta nella graduatoria delle mete preferite, dietro a Georgia (1.231.691 visitatori), Grecia (741.037), Bulgaria (620.896), Germania (493.592) e Azerbaijan (235.736). Bari sarà la decima destinazione di Turkish Airlines in Italia, che si aggiunge a Roma, Milano, Venezia, Torino, Napoli, Bologna, Genova, Catania e Pisa. Con voli verso 261 destinazioni nei cinque continenti, Turkish Airlines è il quarto vettore al mondo per numero di destinazioni.

Autotrasporto Si è riunita a Roma, il 12-13 febbraio 2015, la Commissione Mista italo-turca sull’autotrasporto internazionale di merci e passeggeri (la precedente si era riunita nel 2008). Il Ministero dei Trasporti Italiano, pur ritenendo sufficiente il numero di autorizzazioni di cui beneficiano i trasportatori turchi (nel complesso circa 48.000 tra destinazione, transito e altre tipologie nell’anno 2015) ha comunque offerto 2000 autorizzazioni aggiuntive per trasporto su strada e 5000 autorizzazioni aggiuntive per l’intermodalità, con un incremento complessivo di 7000 permessi rispetto al contingente 2015. La parte turca ha respinto l’offerta italiana e si è rifiutata di firmare il verbale della riunione. I rappresentanti turchi hanno comunque chiesto di poter aver una nuova riunione già a fine anno; da parte italiana è stata controproposta una riunione per il prossimo anno, per discutere il contingente per il 2016 e gli anni successivi.

Relazioni culturali, scientifiche e tecnologiche L’intesa di riferimento è l’Accordo di Cooperazione Culturale, Scientifica e Tecnica firmato il 17 luglio 1951. Il Protocollo Esecutivo di Cooperazione Culturale (2006-2009) è scaduto ed è in fase di rinnovo (risale al gennaio 2015 la controproposta turca al testo italiano). Nelle more del rinnovo vengono garantite le borse del Governo Italiano. Il Programma Esecutivo Culturale prevede lo scambio di informazioni sui rispettivi sistemi d’istruzione, borse di studio, scambio di docenti. Si segnala che i titoli finali della scuola secondaria turca si conseguono, attualmente, dopo 12 anni di scolarità e consentono l’immatricolazione universitaria in Italia. La cooperazione scientifica bilaterale tra Italia e Turchia è regolata dall’Accordo di Collaborazione Scientifica e Tecnologica, firmato a Roma il 21.2.2001 ed in vigore dal 2005. In occasione del II Vertice italo-turco dell’8 maggio 2012 è stato firmato il Protocollo Esecutivo di Collaborazione Scientifica

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e Tecnologica 2012 – 2014. Scaduto tale Protocollo Esecutivo è stato sondato l’interesse della controparte turca per un nuovo Protocollo, ma non ci sono stati seguiti. Nel 2006 sono stati sottoscritti un Protocollo tecnico nel settore degli Archivi di Stato ed un Accordo di coproduzione cinematografica (in vigore dal 21.7.2011) utile per la realizzazione congiunta di film, di animazioni, di documentari e progetti audiovisivi in generale. Il negoziato per un Accordo bilaterale in materia di traffico illecito di opere d’arte è, al momento, fermo, ma verrà riattivato quasi sicuramente in vista del prossimo Vertice italo-turco.

Diffusione della lingua italiana L’Italiano occupa una posizione di grande prestigio tra le lingue considerate “a valenza culturale”. Ne sono testimonianza i vari corsi di lingua tenuti presso università e istituti di istruzione primaria e secondaria. Esistono due università (Istanbul ed Ankara) con Dipartimenti di Italianistica, ma l’insegnamento dell’italiano è comunque presente in molti atenei come in alcuni Licei privati e Istituti di istruzione primaria. Ad Istanbul sono attivi i corsi di lingua presso l’Istituto Italiano di Cultura che, dal 2015, organizza i corsi di lingua italiana anche ad Ankara, a seguito della chiusura del locale Istituto di Cultura, in collaborazione con la Turco-British Association. Ad Smirne è attivo dal 1995 il Centro Culturale Carlo Goldoni che offre corsi di lingua a tutte le fasce di età. L’esame di certificazione della lingua italiana dell’Università per Stranieri di Perugia (CELI) è stato dichiarato equipollente, nel 2014, dal livello CELI 1 al CELI 5, agli analoghi esami di certificazione turchi KPDS-ÜDS-YDS. Tale equipollenza è stata decisa dall’Istituzione ÖSYM (Centro di selezione e posizionamento studenti) e rappresenta un ulteriore apprezzamento nei confronti della lingua italiana.

Cooperazione interuniversitaria Italia – Turchia La Turchia ha del resto aderito sin dal 2001 al Processo di Bologna ed ha attuato gran parte delle misure di adattamento del proprio sistema universitario. La Turchia partecipò a gennaio 2005 alla Terza Conferenza di Catania, organizzata sotto l’egida italiana, ed in tale occasione firmò la dichiarazione congiunta sullo spazio comune dell’Istruzione superiore nel Mediterraneo. Particolare rilievo ha acquisito la firma, il 20 aprile del 2007, di un Protocollo di collaborazione tra CRUI (Conferenza dei Rettori Italiani) e YÖK (Consiglio per l’istruzione superiore). In costante aumento gli accordi di collaborazione bilaterale interuniversitaria (comprensivi di accordi quadro, protocolli attuativi, convenzioni e progetti) che, a febbraio 2014 e in base ai dati del CINECA, sono 191. Le Università più attive sono: l’Università degli Studi di Milano (19 accordi), l’Università degli Studi di Perugia (22), l’Università Politecnica delle Marche (11), Università di Sassari (24) e l’Università Roma Tre (12)

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Università italo-turca ad Istanbul Progetto proposto da parte turca di istituire a Istanbul un’Università di diritto turco, destinataria di finanziamenti governativi locali; alla parte italiana spetterebbe assicurare la presenza di un contingente di “visiting professors”. Con insegnamento in italiano e turco e possibili corsi in inglese, l’ateneo comprenderà a regime 3 Facoltà, nei settori di eccellenza dell’Italia (architettura, grafica e design, storia dell’arte, archeologia, restauro; ingegneria industriale ed informatica; turismo, scienze e letteratura). Per parte italiana, il progetto è curato da un gruppo ristretto cui partecipano il MAE (DGUE), il MIUR (DG Università) e la CRUI. Il relativo Accordo è stato sottoscritto dai Ministri degli Esteri nel Vertice bilaterale il 12 novembre 2008. Nel dicembre 2009 è stata completata la procedura di ratifica turca. Occorre quantificare gli oneri a carico dell’Italia per avviare l’iter di ratifica. È stata chiesta alla parte turca una bozza di studio preliminare. Sul fronte italiano, si è svolta una riunione interministeriale presso il MAE il 25 ottobre 2011, che ha permesso di accertare che il costo medio annuale per invio di “visiting professors” per un solo corso di laurea sarebbe circa 1,7 mln/€ e di avviare una riflessione su possibili co-finanziamenti da parte di grandi gruppi italiani. L’Accordo bilaterale prevede espressamente un impegno delle parti a favorire partecipazione e apporto del settore privato allo sviluppo dell’Università. Tuttavia, secondo la legislazione turca, la natura pubblica dell’Università italo- turca esclude che i contributi di soggetti privati possano concorrere alla formazione del bilancio dell’Università.

Scuole italiane Sulla base di intese concordate nel marzo 1998, è previsto l’inserimento dell’italiano fra le lingue straniere e l’autorizzazione al funzionamento di scuole turco-italiane, al posto delle precedenti scuole medie italiane, con l’inserimento nei programmi turchi di un adeguato numero di ore d’insegnamento in lingua italiana. A Istanbul funzionano i seguenti complessi scolastici: 1. Istituto scolastico "Istituti Medi Italiani", statale fondato nel 1888. Vi funzionano il Liceo Scientifico italiano statale, aperto anche a studenti turchi, e la scuola secondaria statale di I grado, aperta solo a studenti italiani. Entrambi gli indirizzi sono di durata quadriennale. La scuola rilascia titoli di studio validi in entrambi i Paesi. 2. Liceo paritario Galileo Galilei. 3. Complesso scolastico gestito dalla Congregazione delle Suore d’Ivrea “Galileo Galilei” fondato nel 1870, paritario a livello secondario di II grado. Dal 2009 non sono più attive le sezioni della scuola dell’infanzia e primaria, gestite dalle stesse Suore d’Ivrea. In proposito è stata avanzata da un gruppo di docenti

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una proposta di allargamento degli Istituti Medi Italiani a Comprensivo (Medie- Elementari) con due sole pluriclassi elementari. L’Amministrazione ha indicato quale soluzione più idonea quella della parità, per la quale nel marzo 2010 è stata presentata istanza di riconoscimento. Nell’agosto 2011 la rappresentanza consolare ha comunicato che la gestione attuata nel corso dell’a.s. 2010/11 si è rivelata poco efficace e che l’istanza sarà rinnovata da un diverso ente gestore. 4. Scuola privata dell’infanzia ed elementare “Marco Polo” per i cittadini italiani, ubicata nel plesso consolare 5. Scuola “Italyan Koleji”, inaugurata nella primavera 2014, con inizio dell’attività didattica dall’anno scolastico 2014-15. Essa comprende la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado. Sottoposto alla normativa del Ministero dell’Istruzione turco, il nuovo istituto scolastico si configura quale scuola privata di curriculum turco, con insegnamento parzialmente in italiano. 6. Scuola privata turca Evrim, dove la lingua italiana è la prima lingua straniera. A Smirne è attiva la "Scuola Italiana" a livello infanzia e primario con presa d’atto, che ha presentato istanza per il riconoscimento della parità scolastica. La scuola è vincolata dal Trattato di Losanna del 1924, ma tale regime non ha impedito che le riforme in materia di scuola dell’obbligo (passaggio dal sistema “5+3” a quello ad “8” e poi, di recente, “4+4) abbiano determinato una perdita di allievi per la scuola primaria, mentre la sezione infanzia ha perso solo l’ultima fascia di età (alunni di età compresa tra i 60 ed i 72 mesi). Attualmente gli alunni della sezione elementare sono 12, mentre la sezione asilo nido consta di 50 bambini. Nonostante le cifre esigue, la scuola italiana costituisce un punto di riferimento imprescindibile per la Comunità italiana di Smirne. La legge turca del 2003 relativa ai permessi di lavoro ha reso più complessa e lunga (6 mesi) la procedura per la concessione dei permessi e dei visti d’ingresso ai docenti italiani assegnati a istituzioni scolastiche o Università in Turchia. La problematica resta aperta, ed è stata oggetto di ripetuti interventi della nostra Ambasciata ad Ankara e sollevata in sede di consultazioni consolari.

Missioni Archeologiche italiane in Turchia Le missioni archeologiche italiane in Turchia che nel 2014 hanno ottenuto un cofinanziamento del MAECI sono state 15. Alcune sono attive da decenni e rappresentano una presenza costante della ricerca italiana in campo archeologico. Tra le più rilevanti vanno ricordate: Hierapolis di Frigia (1957), Arslantepe (1961), Iasos (1961), Kyme Eolica (1982).

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PRINCIPALI INCONTRI BILATERALI

2012 20 febbraio Visita Ministro Difesa Amm. di Paola in Turchia. 3 marzo Incontro Ministro Terzi con omologo a Istanbul a margine del seminario Aspen 26 marzo Incontro Presidente Monti con Primo Ministro Erdoğan (Seoul) 8 maggio Secondo Vertice italo-turco (Roma) 12-13 novembre A margine del IX Foro di Dialogo, incontro a Roma tra il Signor Ministro ed il Ministro degli Affari Esteri turco, Davutoğlu

2013 7 maggio Incontro Ministro Bonino con MAE Davutoğlu a margine della Conferenza di Londra sulla Somalia 29-30 novembre Visita del Vice Ministro per gli Affari Esteri Marta Dassù ad Istanbul

2014 29 gennaio Visita di Stato del Presidente della Repubblica di Turchia, Gul, a Roma. 21 luglio Visita del Ministro degli Affari Europei Cavusoglu a 2 dicembre Roma Incontro tra l’On. Min. Gentiloni e il suo omologo 11-12 dicembre Cavusoglu a margine della ministeriale NATO Visita in Turchia, ad Ankara e Istanbul, del Presidente del Consiglio Renzi. Incontri con il Presidente Erdoğan, il Primo Ministro Davutoğlu e Business forum

2015 16 gennaio Visita in Turchia del Ministro dell’Interno Alfano 25-27 marzo Visita in Italia del Ministro per gli Affari Europei turco Bozkir. Incontri con l’On. Min. Gentiloni e con il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio 7-8 maggio con delega per gli Affari Europei Gozi Incontro ad Istanbul tra il Ministro dell’Agricoltura

208 APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI

13 maggio Martina ed il suo omologo Eker, a latere del G20 Agricoltura. Incontro tra l’On. Min. Gentiloni e il Ministro degli esteri turco Cavusoglu a margine della Ministeriale NATO di Antalya. 17 giugno Visita del Ministro dell’Economia turco Zeybekçi a Expo Milano, incontro con il Vice Ministro dello Sviluppo economico Calenda. 6 settembre Incontro tra il Ministro della Difesa Pinotti e l’omologo Gonul a margine delle celebrazioni per il 55 anniversario delle Frecce Tricolore a Rivolto (Udine) 14 settembre Visita del Ministro dell’Economia turco Zeybekçi a Expo Milano in occasione della giornata nazionale turca, incontro con il Vice Ministro dello Sviluppo economico Calenda.

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UCRAINA (A CURA DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE)

Informazioni di base

1. Dati geografici 603.700 kmq Superficie Kiev (Kyiv) 2.779.000 abitanti (censimento 2009) Capitale

Principali città Kharkiv (1.455.000), Dnipropetrovsk (1.013.000), (abitanti) Odessa (1.009.000), Donetsk (971.000) (censimento 2009)

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2. Popolazione ed indicatori sociali Popolazione 44.291.413 (fonte: CIA World Factbook, stima marzo 2014) Crescita annua della -0,64% (fonte: CIA World Factbook, stima marzo 2014) popolazione Aspettativa di vita alla 69 anni (fonte: World Bank, 2009) nascita Gruppi etnici Ucraini (77,8%), Russi (17,3%), Ebrei (0,2%), Moldavi (0,5%), Tatari (0,5%), Bielorussi (0,6%), Bulgari (0,4%), Ungheresi (0,3%), Romeni (0,3%), Polacchi (0,3%) altri (3,2%) (fonte: CIA, The World Factbook, stime 2006) Religioni Ucraini ortodossi del Patriarcato di Kiev (50,4%), Ucraini ortodossi del Patriarcato di Mosca (26,1%), Ucraini cattolici di rito greco (8%), Ucraini ortodossi Chiesa Autocefala (7,2%), Cattolici Romani (2,2%), Protestanti (2,2%), Ebrei (0,6%), altri (3,2%) (fonte: CIA, The World Factbook, stime 2006) Lingue Ucraino (su tutto il territorio nazionale) Autonomie linguistiche regionali: Russo (Odessa, Zaporizha, Donetsk) Moneta Grivna

3. Struttura istituzionale Nome ufficiale Ucraina (Ukraìna) Costituzione 28 giugno 1996 Forma di Governo Repubblica presidenziale Presidente Petro Poroshenko (dal 7 giugno 2014) Presidente del Volodymyr Groysman (dal 27 novembre 2014) Parlamento Capo del Governo Arseniy Yatseniuk (dal 27 febbraio 2014, confermato il 27 novembre 2014) Ministro degli Affari Pavlo Klimkin (dal 19 giugno 2014) Esteri Potere esecutivo Il Presidente viene eletto ogni 5 anni a suffragio universale, per un massimo di due mandati Potere legislativo Il Parlamento monocamerale (Verhovna Rada) è formato da 450 deputati, con mandato di 5 anni

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Potere giudiziario Corte Suprema e Corte Costituzionale Partiti politici Fronte Popolare (82) Yatseniuk (composizione Blocco Poroshenko (132) della Rada a Poroshenko seguito delle Samopomoch (33) elezioni del 26 Sadoviy ottobre 2014) Blocco di Opposizione (29) Bojko Partito Radicale (22) Lyashko Batkivshyna (19) Tymoshenko Svoboda (6) Tjahnybok Ucraina Forte (1) Zastup (1) Volia (1) Praviy Sektor (1) Altri partiti e/o indipendenti (94) Scadenze elettorali Prossime elezioni presidenziali: 2019 - durata del mandato: 5 anni - ultime elezioni: maggio 2014 Prossime elezioni legislative: ottobre 2019 - durata del mandato: 5 anni - ultime elezioni: 26 ottobre 2014 Prossime elezioni locali: 25 ottobre 2015

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Crisi ucraina, quadro politico e negoziato di pace

• A seguito dell’introduzione del cessate-il-fuoco il 1° settembre (inizio dell’anno scolastico), si è assistito a una generale attenuazione degli scontri lungo la linea di contatto, come testimoniato dagli osservatori OSCE, che parlano di una violazione al giorno in media.

• L’ultima riunione in formato Normandia a livello MAE si è svolta a Berlino il 12 settembre. I Ministri hanno concordato sulla necessità di preservare la tregua in atto, rafforzandola con il ritiro definitivo degli armamenti pesanti dalla linea di contatto e un accordo per il ritiro degli armamenti leggeri. Rispetto alle questioni politiche, in attesa del secondo passaggio della riforma costituzionale alla Rada, il punto critico restano le elezioni locali, che Kiev ha convocato per il 25 ottobre, mentre i separatisti per il 18 ottobre a Donetsk e il 1° novembre a Lugansk (nonostante essi stessi abbiano poi ipotizzato un rinvio a febbraio 2016, per superare l’attuale impasse negoziale). I Ministri hanno stabilito che modalità e calendario elettorale dovranno essere concordati nel gruppo di lavoro politico sulla base di una proposta del suo presidente, Pierre Morel (v. box di approfondimento sui temi in discussione/“key messages” dai coordinatori dei gruppi di lavoro, base per la discussione dei Ministri a Berlino).

• Sui temi umanitari, è oggetto di negoziato la questione dell’accreditamento e dell’accesso delle organizzazioni umanitarie, inclusa la Croce Rossa Internazionale (le difficoltà poste dai separatisti sarebbero tali da aver indotto l’UNDP a ipotizzare il trasferimento in Yemen delle forniture umanitarie destinate al Donbass, ove una soluzione non dovesse essere raggiunta a breve).

• Un Vertice a livello Capi di Stato/Governo del formato Normandia è previsto il prossimo 2 ottobre (il primo dopo quello del 12 febbraio, che aveva condotto agli accordi di Minsk II).

• Sul fronte economico, dopo l’annuncio russo di voler estendere l’intesa sul prezzo del gas raggiunta la scorsa primavera fino al 31 marzo 2016, un accordo tra le parti sembra essere alla portata, così scongiurando interruzioni delle forniture nel prossimo inverno. Una nuova sessione di incontri fra il VP Sefcovic e i Ministri dell’Energia russo ed ucraino è prevista entro fine mese. Naftogaz ha intanto chiesto aiuto finanziario alle IFI, alla Commissione Europea e al G7, perché non sarebbe in grado di finanziare un nuovo acquisto di gas dalla Russia (anche a prezzo scontato).

• Sul piano del debito, dopo l’accordo dell’Ucraina con un importante gruppo di creditori privati (“haircut” del 20%), resta la spada di Damocle del “bond russo” (3 miliardi di dollari, dovuti entro fine 2015), su cui Mosca ha recentemente confermato di non voler transigere.

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• Nel complesso, il Cremlino sembra aver mutato approccio nei confronti dell’Ucraina e del conflitto in Donbass. I segnali sono molteplici: rispetto del cessate-il-fuoco; disponibilità russa a discutere su tempistica e modalità delle elezioni in Donbass (incluso monitoraggio ODIHR); ricambio nella dirigenza della “Repubblica di Donetsk” (con la sostituzione di un personaggio estremista, che aveva chiesto l’annessione alla Russia, con uno più conciliante e aperto al dialogo); apertura sulla questione cruciale del gas. • Putin sembra aver scelto di giocare un ruolo più costruttivo sulla crisi ucraina, forse anche in vista delle prossime scadenze (intervento all’UNGA, per la prima volta da cinque anni; Vertice N4 il 2 ottobre). Non è chiaro se si tratti di una scelta tattica, di breve periodo, o se piuttosto Mosca intenda effettivamente contribuire all’attuazione di Minsk, magari con l’obiettivo di costringere l’UE a una scelta più difficile del previsto a gennaio, quando si dovrà decidere il rinnovo delle sanzioni. Nell’attuale profonda recessione in cui si trova l’economia russa infatti le sanzioni finanziarie sono particolarmente penalizzanti per le principali banche russe, che non riescono a reperire capitali all’estero. Considerazioni geopolitiche più ampie (intervento in Siria) potrebbero anche aver convinto Putin a lanciare segnali distensivi sul fronte ucraino.

• Si ricorda infine che non giovano al dialogo le sentenze recentemente emesse da corti russe contro stranieri, in particolare contro l’ufficiale di polizia estone Eston Kohver (arrestato per sospetto di spionaggio al confine con la Russia e condannato a 15 anni di reclusione lo scorso 19 agosto, senza neppure la prospettiva dell’estradizione dopo la decisione di Putin di cancellare il relativo accordo con l’Estonia presa lo scorso 27 agosto) e il regista ucraino Oleg Sentsov (arrestato in Crimea dopo l’annessione alla Russia per presunte attività contro gli interessi di Mosca e condannato a 20 anni il 25 agosto). Entrambe le sentenze sono state condannate in termini netti dall’AR Mogherini. E’ invece attesa a breve la sentenza contro la pilota ucraina Nadia Savchenko (catturata in Ucraina orientale ed detenuta in attesa di giudizio fino al prossimo 30 settembre, che rischia 25 anni di reclusione).

APPROFONDIMENTO: Riforma costituzionale • La riforma costituzionale è stata approvata in prima lettura al Parlamento ucraino il 31 agosto (dopo il superamento del vaglio della Corte Costituzionale il 31 luglio). Pur non essendo il progetto di riforma stato concordato con i separatisti, per venire incontro alle richieste franco-tedesche il Presidente Poroshenko ha modificato il progetto di legge originario. In particolare, la “opening clause” (che contempla l’ipotesi di introdurre “regimi speciali” in alcune aree di Donetsk e Lugansk mediante legge ordinaria) è stata inserita nelle disposizioni transitorie della Costituzione stessa.

• L’approvazione da parte della Rada è avvenuta in un clima di forte tensione, con il voto favorevole delle forze di governo (partiti di Poroshenko e Jatseniuk, nonché del Blocco di Opposizione filo-russo, mentre hanno votato contro i partiti nazionalisti). La tensione è degenerata in scontri di fronte al Parlamento fra le forze dell’ordine e militanti dei gruppi ultranazionalisti Praviy

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Sektor e Svoboda, con un bilancio di tre morti e circa 150 feriti. Gli incidenti sono stati deplorati dall’AR Mogherini e Poroshenko ha parlato di “pugnalata alla schiena” da parte delle frange estremiste nazionaliste.

APPROFONDIMENTO: Temi in discussione nei gruppi di lavoro mediati dall’OSCE Sicurezza:

- Stabilizzazione e formalizzazione del cessate-il-fuoco - Conclusione dell’accordo sul ritiro degli armamenti leggeri e dei veicoli corazzati (piano di ritiro, regime di controllo, tempi di realizzazione) - Completamento dell’attuazione dell’intesa sul ritiro degli armamenti pesanti - Sminamento. Parallela creazione (proposta del mediatore Amb. Sajdik) di costituzione di un gruppo sullo sminamento. - Assicurazione del pieno ed incondizionato accesso degli osservatori OSCE alle aree di conflitto.

Questioni politiche: - Intesa su tempi e modalità delle elezioni locali in alcuni distretti degli oblast di Donetsk e Lugansk (forte preoccupazione per la convocazione “unilaterale” di consultazioni elettorali). - Discussione sullo status speciale in parallelo con quella sulle elezioni locali - Progressi in tema di amnistia.

Questioni economiche ed umanitarie: - Apertura di nuovi centri logistici per assistenza umanitaria e pagamento delle pensioni (semplificazione delle procedure burocratiche) - Apertura di nuovi varchi lungo la linea di contatto. - Assicurare un quadro di sicurezza per le missioni di esperti in tema di gestione delle forniture idriche e estrazione di carbone dalle miniere - Assicurare libero movimento agli operatori umanitari e semplificare le procedure di autorizzazione - Progressi in tea di scambio di prigionieri. Libero accesso ai luoghi di detenzione degli operatori dell’ICRC.

APPROFONDIMENTO: OSCE e crisi ucraina • Il ruolo dell’OSCE nella crisi ucraina è duplice. Sotto il profilo del monitoraggio, l’Organizzazione è presente con una articolata missione di osservazione (Special Monitoring Mission, oltre 500 osservatoti di cui 21 italiani), dislocati in nove regioni del Paese. Sebbene la loro attività sia capillare, essa risente delle frequenti limitazioni della circolazione nelle aree di conflitto imposte ai monitors sia da parte governativa che separatista. DI recente gli osservatori OSCE sono stati vittime di incidenti (verosimilmente dolosi) nelle aree sotto controllo separatista. L’Organizzazione è anche presente con una

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piccola missione (22 unità) dislocata in due check point (Gukovo e Donetsk) lungo il confine fra Russia ed Ucraina.

• Il secondo filone di attività è quello negoziale. Proprio alla Presidenza svizzera pro tempore dell’OSCE si deve (2014) la costituzione di un Gruppo Trilaterale di contatto (GTL: OSCE, Russia ed Ucraina, all’occorrenza ampliato ai separatisti), presieduto dall’Ambasciatore Heidi Tagliavini (confermata dalla successiva Presidenza serba e che, di recente, ha passato il testimone all’austriaco Martin Sajdik) che –in parallelo al negoziato principale in formato Normandia- ha affrontato fondamentali problematiche relative alla stabilizzazione sul terreno. Proprio al GTL si deve l’intesa di Minsk 1 (5 settembre 2014). Con gli Accordi di Minsk 2 (12 febbraio 2015), il ruolo negoziale dell’OSCE è stato rivalutato. In seno al GTL sono stati creati quattro sottogruppi di lavoro(sicurezza, questioni politiche, questioni economiche, questioni umanitarie) nei quali siedono, oltre a rappresentanti dell’Organizzazione, esponenti del Governo di Kiev e dei separatisti. Ad essi compete il raggiungimento di compromessi sui singoli capitoli delle Intese di Minsk.

QUADRO MACROECONOMICO • A causa dell’annessione della Crimea da parte della Russia e dell’acuirsi del conflitto nelle regioni orientali, l’economia ucraina ha subito nel 2014 una forte contrazione del PIL, pari al 6,8%. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, tale trend negativo sarà ancora più marcato nel corso del 2015, con una contrazione pari al 9%. La situazione di conflitto ha inoltre avuto pesanti ripercussioni sul livello generale dei prezzi, cresciuto del 24,9% nel 2014, per poi toccare il 45,8% nel luglio 2015. Il processo di iperinflazione è dovuto tanto alla contrazione della produzione industriale (conseguenza della instabilità nell’est), quanto al rincaro delle tariffe del gas conseguente alla crisi nei rapporti con Mosca (fornitore): entro la fine del 2017 si prevede peraltro un aumento del prezzo del riscaldamento del 70%. A ciò si aggiungano il forte deprezzamento della grivna, passata da un valore di circa 11 sull’euro nel gennaio 2014 agli attuali 24,5, e il costante declino delle riserve internazionali (10,3 miliardi di USD nel giugno 2015), in parte compensato dagli aiuti internazionali. • Secondo i dati di UkrStat, l’interscambio commerciale dell’Ucraina si è contratto nel 2014 del 22,8% rispetto al 2013, con un calo dell’export (-14,8%) inferiore a quello dell’import (-29,3%), circostanza che ha condotto ad un sostanziale azzeramento del deficit commerciale. La Russia rimane il principale partner commerciale, con una quota di importazioni pari al 18,2% e una di esportazioni pari al 23,3%. Nel I semestre 2015 l’interscambio commerciale dell’Ucraina si è contratto del -36,8% rispetto al medesimo periodo 2014 (esportazioni: -35,3% ; importazioni: -38,4%) con un saldo positivo per il Paese di 119,3 milioni USD. • A fronte delle menzionate difficoltà sul piano macroeconomico, l’Ucraina è stata destinataria di un massiccio ammontare di aiuti finanziari da parte della Comunità Internazionale, in primis dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali, dagli USA e dall’UE. Il 12 febbraio u.s., in concomitanza con le contestuali intese che venivano sottoscritte a Minsk in “Formato Normandia”, il FMI ha

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annunciato la concessione di un prestito di 17,5 miliardi di dollari (Extended Fund Facility), in sostituzione della somma stabilita nello Stand-by Arrangement dell’aprile 2014, che è stato ufficialmente accantonato. Il prestito si somma all’ammontare di 4,6 miliardi di dollari già versati e, una volta erogato per intero, porterà il finanziamento totale a 22,1 miliardi di USD, ai quali è previsto si aggiungano altri capitali internazionali per un totale auspicato (a annunciato) di 40 miliardi di USD. Il totale versato finora ammonta a 6,68 miliardi di USD. A ciò si aggiungano i 2 miliardi di USD versati dalla Banca Mondiale, gli 1,8 miliardi di Euro dell’UE e i 3 miliardi USD versati dagli USA (sotto forma di garanzie su prestiti), oltre agli importanti contributi di Stati come il Canada e il Giappone. L’erogazione del prestito è subordinata alla messa in opera di una serie di misure quali: il citato incremento delle tariffe energetiche (parzialmente compensato da meccanismi di sostegno alle fasce più disagiate della popolazione); interventi di taglio ai trattamenti pensionistici di talune categorie professionali; un’ulteriore riduzione del 20% dei dipendenti pubblici, l’eliminazione delle perdite della compagnia statale Naftogaz. Inoltre, secondo i dettami del FMI, dell’UE, del Consiglio d’Europa e dell’OCSE, il 14 ottobre 2014 la Rada ha adottato il c.d. “pacchetto anticorruzione”, finalizzato a combattere la diffusa compenetrazione tra oligarchi e istituzioni pubbliche.

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• Particolarmente complessa risulta la situazione debitoria dell’Ucraina nei confronti dell’estero. In linea con gli accordi con il FMI, Kiev ha avviato negoziati per la ristrutturazione del debito sovrano in seno al Club di Parigi. Parallelamente, il Governo di Kiev ha preso contatto con i creditori privati (comitato formato dai 4 principali fondi di investimento, 3 americani e uno brasiliano). Un accordo parziale con tali creditori è stato annunciato il 27 agosto scorso dal Ministro delle Finanze ucraino Yaresko, a valere su 18 miliardi USD di debito: i creditori hanno accettato un "haircut" del 20% , con una moratoria di 4 anni sul rimborso dei titoli (ora in scadenza nel 2027), in cambio di un aumento dello 0,5% del tasso di interesse (dal 7,25% al 7,75%). Particolare preoccupazione destano i 3 miliardi di USD in Eurobond di debito ucraino in mano russa da rimborsare integralmente alla Russia entro dicembre. Qualora l’Ucraina risultasse inadempiente, ciò inficerebbe infatti la continuazione del programma di assistenza del FMI che non prevede la concessione di aiuti a Paesi con default verso enti sovrani.

Indicatori economici a confronto Italia – Ucraina Italia Ucraina

2012 2013 2014 2015* 2012 2013 2014 2015**

PIL (mld 1.615,1 1.609,5 1.616,0 1.639,0 132,9 130,4 107,5 76,4 Euro) Variazion e del PIL -2,8 -1,7 -0,4 +0,7 0,3 -0,0 -6,8 -9/9,5 PIL(%) pro- capite 27.193 26.966 26.587 26.965 2.930 3.040 2.513 1.789 Deficit/PI(E -3,0 -2,9 -3,0 -2,5 -4,4 -4,6 -4,5 -4,2 L (%) Debito pubblico/ 123,1 128,5 132,1 132,5 37,4 40,9 71,2 94,1 TassoPIL (%) di disoccup 11,4 12,5 12,7 12,7 7,5 7,2 10,5 11,5 Tassoi di inflazione 2,3 0,7 0,0 0,3 -0,20 0,50 24,9 45,8 (di fi *I dati italiani 2015 sono stimati in base ai dati semestrali ISTAT e alle previsioni del documento DEF dell’11/4/2015. ** I dati ucraini 2015 sono stimati in base a previsioni Banca Centrale ucraina e analisi FMI di agosto 2015. Fonte: ISTAT, FMI-WEO, Banca Mondiale, BERS, UkrStat, Ministro Finanze ucraino.

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RAPPORTI BILATERALI • Fin dall’inizio della crisi, l’Italia ha assicurato pieno sostegno all’Ucraina, incoraggiando gli sforzi negoziali del formato Normandia e sottolineando la necessità di una completa attuazione delle intese di Minsk in vista di una soluzione politica del conflitto. • In tale ottica, frequenti sono stati i contatti politici di alto livello negli ultimi due anni. Dopo l’incontro a Roma tra il Presidente Renzi e il Primo Ministro Yatseniuk (24 aprile 2014), l’allora Ministro degli Esteri Mogherini si è recata in visita a Kiev il 7-8 luglio 2014, in apertura del semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea. Nel 2015, il Presidente del Consiglio ha incontrato il Presidente Poroshenko a Kiev il 4 marzo; il 5-6 maggio l’On. Ministro si è recato a Kiev, dove ha avuto colloqui con il Presidente Poroshenko, il Primo Ministro Yatseniuk ed il Ministro Klimkin; il Sottosegretario Della Vedova ha effettuato una missione a Kiev il 19-20 maggio, in preparazione della Commissione Mista. Infine, il 26 maggio scorso, il Ministro Klimkin si è recato in visita a Roma, dove ha incontrato l’On. Ministro. • È ora in fase di organizzazione la visita del Presidente Poroshenko a Roma, il prossimo 19 novembre. • È stata recentemente avviata una collaborazione tra Ministeri dell’Interno. In occasione della missione a Roma del Ministro dell’Interno Avakov (15 aprile 2015), con il Ministro Alfano è stata concordata la creazione di un Gruppo di lavoro a livello tecnico incentrato su tre aree: 1) decentramento amministrativo, con particolare riferimento al sistema delle Regioni a Statuto speciale; 2) organizzazione delle forze di polizia e gestione dell'ordine pubblico; 3) contrasto alla criminalità organizzata. • Rispetto alla candidatura italiana al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel 2010 abbiamo concluso con l’Ucraina un accordo di reciproco sostegno, con cui ci siamo impegnati ad appoggiare la candidatura di Kiev a un seggio non-permanente in CdS per il biennio 2016-17. • Sul fronte economico, l’interscambio commerciale tra Italia e Ucraina si è attestato nel 2014 a 3,4 miliardi di Euro, in calo del -15,3% rispetto al 2013. I dati relativi al primo semestre 2015 confermano tale tendenza (-21,2% rispetto al medesimo periodo del 2014); le esportazioni italiane sono scese del -38%, mentre le nostre importazioni del -12,6%. Le principali voci di esportazione dall’Italia sono macchinari, prodotti del settore tessile-calzaturiero e mobili. Le principali importazioni dall’Ucraina sono rappresentate da ghisa, ferro, acciaio e cereali. • I nostri maggiori investimenti si concentrano nei settori finanziario (Unicredit), delle costruzioni (Buzzi-Unicem), alimentare, della lavorazione delle ceramiche, legno, tessile e calzature. In campo energetico, ENI ha acquisito lo scorso anno il 50,01% della compagnia ucraina “Westgasinvest”, titolare dei diritti

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di esplorazione e sviluppo di “shale gas” nel bacino di Leopoli (un’area di circa 3.800 km quadrati, ritenuta una delle più promettenti). La Todini Costruzioni Generali ha avviato, nel giugno 2013, la trasformazione di due tratte stradali di 115 e 84 km in autostrade a 4 corsie, per un valore di 570 milioni. Nel luglio 2013, Fincantieri si è aggiudicata un contratto per la fornitura del sistema di propulsione di una corvetta. Il sistema bancario italiano è presente, al momento, con Unicredit ed Intesa San Paolo (che non escludono però la cessione dei rispettivi asset in ragione delle difficoltà di operare su quel mercato). Un altro importante investimento italiani è stato quello della Camozzi (sistemi pneumatici per l'automazione meccanica), costretta tuttavia a sospendere una linea di produzione attiva in Crimea. • È in programma, il prossimo 22 ottobre a Kiev, la riunione della Commissione Mista (VIII Sessione del Consiglio italo-ucraino di Cooperazione economica, industriale e finanziaria), che sarà co-presieduta dai rispettivi Ministri degli Esteri. I lavori della Commissione (riunitasi l’ultima volta nel 2009) saranno articolati in tre sessioni: energia; agricoltura; business environment/commercio e piccole e medie imprese.

Dati statistici bilaterali interscambio commerciale, milioni di Euro I sem. I sem. 2010 2011 2012 2013 2014 2014 2015

Esportazioni 1.260,9 1.681,9 1.770,9 1.871,0 1.202,2 638,6 396,1

Variazione 6,6 33,4 5,3 5,7 -35,7 -38,0 % Importazioni 2.198,0 2805,6 2.305,4 2.160,1 2.211,3 1.255,0 1.096,5 it li Variazione 103,2 27,6 -17,8 -6,3 2,4 -12,6 % Totale 3.458,9 4.487,6 4.076,3 4.031,1 3.413,5 1.893,6 1.492,6

Variazione 52,7 29,7 -9,2 -1,1 -15,3 -21,2 % Saldo per -937,1 -1.123,7 -534,6 -289,1 -1.009,0 -616,3 -700,4 l’It li Variazione -1.022,5 19,9 -52,4 -45,9 249,1 13,6 % Fonte: ISTAT-COEWEB.

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Investimenti Diretti italiani in Ucraina, milioni USD

2010 2011 2012 2013 2014 STOCK 982,4 965,9 1.015,9 1.267,8 999,1

Fonte: Ukrstat.org - State Statistics Service of Ukraine

Risultano almeno due investimenti industriali ucraini in Italia, entrambi riconducibili a Metinvest Holding LLC, il cui 71,25% è dell’SCM Group (al 100% dell’oligarca ucraino Rinat Akhmetov): 1. nel 2001 l’acquisizione del 40% dell’acciaieria veronese Ferriera Valsider (quota salita al 70% nel 2006); 2. nel 2008 l’acquisizione dell’impianto udinese di produzione di lamiere per treni Trametal.

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Profili biografici

AMM. ENRICO CREDENDINO - COMANDANTE DELLA MISSIONE EU NAVFOR MED

L’Amm. Enrico Credendino è nato a Torino il 21 gennaio 1963. Il 18 maggio 2015 è stato designato dal Consiglio degli Esteri e della Difesa dell'Unione Europea comandante della missione EU NAVFOR MED contro il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. La missione durerà tre mesi, dal 27 giugno al 30 settembre 2015. Credendino e’ entrato in Accademia Navale nel 1980 terminando il Corso Normale nel 1984 con il grado di Guardiamarina. Ha una laurea in scienze marittime dall’Università di Pisa e una in Scienze politiche dall’Università di Trieste. È stato imbarcato sull’incrociatore Vittorio Veneto, sull’incrociatore Andrea Doria e sul caccia lanciamissili Ardito, con gli incarichi di Ufficiale Addetto alle artiglierie, ai sistemi missilistici, di 1° Direttore del Tiro e di Capo Reparto Operazioni. Ha comandato il pattugliatore Spica, la fregata Maestrale, la 1^ Squadriglia Pattugliatori – disimpegnando anche l’incarico di Ufficiale Relatore della Scuola di Comando Navale – e il caccia lanciamissili Francesco Mimbelli. Le destinazioni a terra includono incarichi quali: Comandante della prima e seconda classe degli Allievi dei Ruoli Normali dell’Accademia Navale di Livorno; Ufficiale Addetto al Reparto Panificazione Generale dello Stato Maggiore Marina; Direttore dei Corsi Allievi dell’Accademia Navale di Livorno; Capo dell’Ufficio Politica delle Alleanze dello Stato Maggiore della Difesa e Vice Capo del Reparto Panificazione Generale dello Stato Maggiore Marina. Promosso Contrammiraglio il 1 luglio 2011, ha assunto – sino all’agosto 2013 – gli incarichi di Vice Comandante delle Forze d’Altura e Deputy Commander of

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the Italian Maritime Forces, di Comandante della Forza Anfibia Italo–Spagnola e di Comandante del Gruppo Navale Italiano. Tra agosto e dicembre 2012 è stato al comando della Forza Navale europea EU NAVFOR impegnata nell’operazione “Atalanta” contro la pirateria nelle acque del Corno d’Africa. Da agosto 2013 è Capo del 3 Reparto Pianificazione Generale dello Stato Maggiore della Marina. Dal 2014 è ammiraglio di divisione. È sposato ed ha una figlia.

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HANNA HOPKO PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE AFFARI ESTERI DEL PARLAMENTO UCRAINO

Hanna Hopko è nata il 4 marzo 1982 ad Hanachivka. Nel 2004 ha conseguito un Master in Giornalismo internazionale all’Università di Leopoli. Ha studiato alla Bloomberg School of Public Health dell’Università Johns Hopkins e nel 2009 ha ottenuto un PhD all’Università statale Taras Shevchenko di Kiev. Ha seguito corsi di perfezionamento alla Scuola di Studi politici ucraina. Dal 27 novembre 2014 ricopre la carica di Presidente della Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino. È componente del Comitato esecutivo per le riforme del Consiglio nazionale per le riforme e del Centro d’azione per la lotta alla corruzione. Dal 2005 al 2007 ha lavorato come manager per la comunicazione per l’Ukraine Citizen Action Network. Ha tenuto corsi di giornalismo in materia ambientale. Nel 2009 ha co-fondato il "Life" Regional Advocacy Center, principale partner in Ucraina della Bloomberg Initiative per la riduzione dell’uso del tabacco, di cui è stata Vice Direttore fino all’aprile 2012. Nel 2009, ha ricoperto la carica di coordinatore della Coalizione nazionale delle ONG ed Iniziative per un’Ucraina libera dal fumo; in tale qualità ha patrocinato con successo 5 leggi per il controllo dell’uso del tabacco. Nel gennaio 2012, è entrata far parte del Consiglio di Amministrazione dell’ospedale pediatrico Ohkmatdyt. Dal 2010 al 2012, Hanna Hopko è stata consulente del Gruppo parlamentare Moralità, Spiritualità e Salute pubblica.

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Dal gennaio 2011 al settembre 2014 ha lavorato come esperta all’Istituto per l’Educazione politica e al National Democracy Institute (NDI). Da febbraio a settembre 2014 ha lavorato come coordinatrice dell’Iniziativa Reanimation Package of Reforms, che riunisce attivisti, esperti e giornalisti per promuovere e accelerare le riforme nel Paese. Ha fatto parte di un gruppo parlamentare Platform of the Reforms. Nel 2014 è stata eletta al Parlamento ucraino nelle fila di Self Reliance, un partito politico fondato dal sindaco di Leopoli che si ispira ai principi della moralità cristiana e del buon senso. Il 31 agosto è stata espulsa dal Partito per aver sostenuto gli emendamenti alla Costituzione ucraina che prevedevano la decentralizzazione e maggiori poteri per le aree sotto l’influenza dei separatisti russofoni. È sposata ed ha un figlio.

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GEN. LUCIANO PORTOLANO COMANDANTE DELLA MISSIONE UNIFIL IN LIBANO

Il gen. Luciano Portolano è nato ad Agrigento il 18 settembre 1960.

Dal luglio 2014 è Comandante della missione UNIFIL in Libano.

Ha iniziato la carriera militare frequentando l'Accademia Militare di Modena prima e la Scuola di applicazione di Torino poi, conseguendo la Laurea in Scienze Strategiche. Successivamente ha conseguito i Master in "Gestione Integrata e Sviluppo delle Risorse Umane" e in "Scienze Strategiche".

Ha operato in molte missioni/operazioni militari al di fuori del territorio italiano:

• missione delle Nazioni Unite in Iraq e Iran (United Nations IRAN - IRAQ Observation Group Mission) (1990-91), con l'incarico di Ufficiale Addetto alla Pianificazione e alle Operazioni; • missione delle Nazioni Unite in Iraq e Kuwait (United Nations IRAQ - KUWAIT Observation Mission) (1991–92), in qualità di Ufficiale Addetto alle Informazioni e alle Operazioni; • operazione NATO Joint Endeavour (1996) in Macedonia, quale Comandante di Battaglione; • operazione NATO Joint Guardian (1999) in Kosovo, in qualità di Comandante di Battaglione, nel 1999; • missione Antica Babilonia (2003) in Iraq, quale Comandante della Task Force di manovra della JTF ;

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• missione ISAF International Security Assistance Force (2011–2012) in Afghanistan, quale Comandante del Regional Command West con sede ad Herat.

Dal 2007 al 2010 ha prestato servizio come addetto militare presso l'ambasciata italiana a Londra. Dal 2010 al 2012 è stato il Comandante della Brigata Sassari.

Successivamente è stato impiegato presso il COI.

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