CEMISS - ARABIA SAUDITA: RELIGIONE, TERRORISMO E RIFORME - PAPER 2006

Centro Militare di Studi Strategici

Arabia Saudita: Religione,

Terrorismo e Riforme

- Emiliano Stornelli -

Research Paper 2006

CEMISS - ARABIA SAUDITA: RELIGIONE, TERRORISMO E RIFORME - PAPER 2006

INDICE

INTRODUZIONE...... pag. 1

Capitolo I - IL RADICALISMO RELIGIOSO SAUDITA

1. Il wahhabismo e lo status religioso dell’Arabia Saudita………………………...………pag. 2

2. La radicalizzazione dell’establishment religioso………………………………………..pag. 3

3. L’espansione del wahhabismo…………………………………………………………..pag. 5

4. Il risveglio islamico e Al Qaeda………………………………………………………...pag. 6

5. La formazione dell’ideologia di Al Qaeda……………………………………………...pag. 7

Capitolo II - IL TERRORISMO JIHADISTA E LA SICUREZZA INTERNA

1. L’ascesa di Al Qaeda………………..…………………………………………………..pag. 9

2. 11 settembre: Arabia Saudita sponsor passivo di Al Qaeda…………………………... pag. 11

3. 12 maggio 2003: l’11 settembre saudita………………………………………………..pag. 14

4. Al Qaeda nella Penisola araba (QPA) e la reazione saudita…………………………...pag. 15

5. L’attacco alle istituzioni………………………………………………………………...pag. 17

6. L’attacco alle installazioni petrolifere e la strategia petrolifera di Bin Laden……….....pag. 19

7. Bilancio provvisorio della guerra saudita al terrorismo………………………………...pag. 21

8. L’apparato di sicurezza……………………………………………………………….....pag. 22

9. Le misure antiterroristiche nel settore finanziario e il monitoraggio delle organizzazioni caritatevoli…………………………………………………………pag. 24

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Capitolo III - VERSO LA MODERNITÀ: POLITICA, SOCIETÀ ED ECONOMIA

1. Il risveglio dei sahwa e il patto con la monarchia………………………...... pag. 27

2. Il taqarub di Abdullah e il tawhid di Nayef: tra riformismo à la carte e Zio-Crusaderism………………………………………………………………………..pag. 29

3. Le elezioni municipali e l’allargamento della Majlis Al Shura…………………………pag. 32

4. L’ambigua riforma del sistema educativo, la mancanza di libertà religiosa e la condizione della donna……………………………………………………………..pag. 33

5. La nuova legge sulla successione al trono……………………………………………....pag. 35

6. Le riforme economiche, la politica energetica e la disoccupazione…………………….pag. 36

Capitolo IV - LA DIMENSIONE INTERNAZIONALE

1. La Guerra Fredda Islamica tra Arabia Saudita e Iran…………………………………..pag 39

2. Il fronte iracheno………………………………………………………………………...pag. 40

3. Il doppio fronte: Libano e questione israelo-palestinese………………………………..pag. 43

4. Il Gulf Cooperation Council (GCC) e i rapporti con lo Yemen………………………...pag. 45

5. La prospettiva asiatica…………………………………………………………………..pag. 46

CONCLUSIONE…………………………………………………………………………pag. 48

BIBLIOGRAFIA…………………………………………………………………………pag. 50

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Introduzione

Due sono gli elementi che consentono all’Arabia Saudita di svolgere un ruolo di primo piano nel sistema internazionale: la religione e il petrolio. Custode dei luoghi sacri dell’Islam e stabilizzatore del mercato energetico, il Regno affronta oggi una delicata fase di transizione, in cui non può più sfuggire alle enormi contraddizioni che hanno caratterizzato la sua vicenda storica, portate irreversibilmente alla luce dagli attentati dell’11 settembre: l’identità islamica antioccidentale e la garanzia di sicurezza degli Stati Uniti, l’esportazione globale dell’estremismo religioso e la sfida sul terreno della legittimità posta dal clero radicale wahhabita e da Al Qaeda, la condizione di rentier state e la disoccupazione dilagante. A ciò si aggiunge la necessità di dare continuità nel tempo alla famiglia reale con l’avvicendamento tra la prima e ottuagenaria generazione dei discendenti di Ibn Saud, il fondatore, e la seconda.

La monarchia è consapevole che una gestione efficace della trasformazione in atto, alla luce della situazione interna e internazionale, implica il superamento dei tradizionali metodi di governo, basati sulla cooptazione, sul consociativismo e sull’elargizione di benefici e ricchezze frutto dei petrodollari. In particolare, la minaccia apportata dal terrorismo di matrice jihadista richiede un intervento multidimensionale che interessi la politica, l’educazione e l’economia, non solo la sicurezza pubblica. Il terrorismo, infatti, ha molteplici cause che interagiscono nel quadro di uno spontaneo mutamento, alla ricerca di un nuovo assetto stabile e proiettato verso il futuro. Tuttavia, la strenua resistenza opposta dai leader religiosi, i principali responsabili dell’approccio estremista all’Islam e della cultura ultraconservatrice dominante, induce alla cautela nel realizzare l’opera di riforma: cambiamenti troppo repentini e radicali potrebbero avere effetti controproducenti, nel senso di un rafforzamento di Al Qaeda a danno della sicurezza interna, per quanto a frenare la spinta innovatrice sia la stessa Casa reale, che non ha alcuna intenzione di cedere il monopolio della sovranità, aprendo veramente alla partecipazione politica, e di mettere a repentaglio la sua investitura a protettrice dell’Islam e dei musulmani di tutto il mondo, con provvedimenti non in sintonia con l’orientamento degli ulema wahhabiti e con la sensibilità dell’umma.

In attesa di scoprire quale sarà lo sbocco concreto della via saudita alla modernità, il presente scritto si sofferma, in primo luogo, sulle radici storiche e culturali del radicalismo religioso saudita e di Al Qaeda; prosegue con le dinamiche che caratterizzano lo scontro interno tra il governo e l’organizzazione di Bin Laden, senza trascurare il processo di riforma, le sue linee evolutive e la configurazione dell’attuale scenario politico-religioso. Infine, viene presa in esame la dimensione regionale in cui l’Arabia Saudita è collocata, in riferimento alle crescenti tensioni con l’Iran, alle crisi in Iraq e Libano, alla questione arabo-israeliana, ai rapporti con le restanti monarchie del Golfo e alle nuove partnership con Cina e India; particolare attenzione è riservata alle relazioni con gli Stati Uniti. L’intento è di natura divulgativa e vuole offrire un contributo, per quanto limitato, alla conoscenza di un paese che, in virtù del doppio primato religioso ed energetico, è di cruciale importanza per gli equilibri mondiali e può svolgere un ruolo decisivo nella risoluzione delle crisi che affliggono il Medio Oriente e l’area del Golfo.

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Capitolo I

- Il radicalismo religioso saudita -

1. Il wahhabismo e lo status religioso dell’Arabia Saudita.

Il wahhabismo è una corrente dell’Islam risalente all’antica scuola hanbalita1 e prende il nome da Muhammad ibn Adb Al Wahhab, predicatore che nel 1745 strinse un patto con il capo tribù Muhammad Ibn Saud per la formazione di uno stato regolato dai principi del wahhabismo e la conseguente spartizione delle sfere istituzionali di competenza su base familiare: ai Saud e ai loro discendenti gli affari economici, il mantenimento dell’ordine sociale e la sicurezza; agli Al Sheikh 2, gli sceicchi, la stirpe Al Wahhab, gli affari religiosi e l’educazione. Il patto, attraversando innumerevoli e alterne vicissitudini storiche, è giunto intatto fino al 1932, anno di nascita dell’odierna Arabia Saudita, di cui costituisce il fondamento storico e il presupposto teologico. Re Abd Al Aziz ibn Saud (1932-1953) riuscì, “parte con la diplomazia, parte con le minacce” 3, a conquistare il predominio sulle numerose tribù e famiglie rivali che vivevano e vivono ancora oggi nella penisola arabica, offrendo al wahhabismo un grande Stato esteso ai luoghi santi dell’Islam in cui trovare piena realizzazione. Il wahhabismo contribuì al successo con la sua spinta culturale e fece da collante ideologico dell’unificazione territoriale.

Il patto è tuttora valido nei medesimi termini della stipula originaria. Oggi come nel 1745, il wahhabismo, nel rispetto dell’unicità di Dio, il tawhid, e della religione che ne discende, quella musulmana, rifiuta il pluralismo settario, si considera il vero e unico Islam e propone di sradicare le dottrine alternative (in particolare sciismo e sufismo) che con la loro esistenza negano il tawhid e allontanano i fedeli dall’Islam puro, quello delle origini e degli “antenati pii”, i salf saleh o salafiti 4. L’obiettivo è la riaffermazione dell’interpretazione letterale dei testi sacri in modo da rendere il codice giuridico e i modelli comportamentali conformi alle due principali fonti del diritto, la sharia, la legge sacra rivelata da Allah nel Corano, e la sunna, la tradizione profetica.

È compito di chi governa lo Stato wahhabita (gli Al Saud) garantire che la Legge islamica sia applicata e che riceva obbedienza assoluta. La politica, pertanto, è la dimensione di governo della religione; tra agenda politica e agenda religiosa deve esserci corrispondenza assoluta. Di qui l’asimmetricità del patto: i leader religiosi, gli sceicchi e gli ulema (i dotti negli studi islamici), tengono sotto schiaffo il ceto politico che opera nel timore di perdere la legittimità a governare e di essere conseguentemente rovesciato, qualora dovesse prendere

1 Il fondatore della scuola teologica giuridica hanbalita nel 9° secolo d.c. è stato l’imam Ahmad Ibn Hanbal. Il predicatore Ibn Taymiyyah (1263-1328), di scuola hanbalita, uno dei massimi teologi e giuristi della storia dell’Islam, è un altro ispiratore del wahhabismo. 2 Letteralmente “quelli della famiglia dello Sheikh” (D. Thomas, Il Corano e la spada: istituzioni religiose saudite, Adn Kronos International (Aki Crises Today), 25 luglio 2005, p. 6). 3 C. Jean, La polveriera saudita, in Le spade dell’Islam, i Quaderni Speciali di Limes, n. 4, 2001, p. 101. 4 Va osservato che i seguaci del wahhabismo non si riferirebbero mai a se stessi con il termine wahhabita, ma piuttosto preferiscono chiamarsi salafiti o ahl al-tawhid, un modo per mettere in risalto la centralità del concetto di tawhid nel loro credo (G. Okruhlik, The Irony of Islah Reform, The Washington Quarterly, autunno 2005, nota 11, p. 170; D. Thomas, op. cit., p. 5). 2

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provvedimenti contro o al di fuori della sharia. L’ Arabia Saudita, in definitiva, è uno stato islamico wahhabita, che ha nel Corano la sua costituzione e nella sharia e nella sunna il fondamento del sistema legale5. L’Islam, in quanto espressione e manifestazione del tawhid, è il principio ordinatore da cui discendono cultura, tradizioni, educazione e regole di condotta sia pubblica che privata. Gli sceicchi e gli ulema sono la guida spirituale e intellettuale della comunità islamica intesa in senso sovranazionale, l’umma6. La Casa reale ha il dovere di coadiuvarli nel provvedere alla salute religiosa dell’umma, sia vigilando sull’osservanza dei cinque pilastri7 del credo islamico, che creando le condizioni affinché i musulmani possano rispettarli in ogni dove; pertanto, le sue responsabilità travalicano i confini dello Stato e hanno dimensioni globali, secondo la vocazione universale dell’Islam. Il finanziamento della costruzione di moschee e scuole coraniche ovunque nel mondo, la rete transnazionale delle organizzazioni caritatevoli a beneficio dei musulmani svantaggiati e l’accoglienza dei pellegrini alla Mecca, l’Hajj, sono gli obblighi che la monarchia saudita è chiamata ad assolvere per “riaffermare in continuazione le sue credenziali islamiche”8 e ottenere la legittimità interna dal clero wahhabita e la legittimità mondiale dall’umma, nella prospettiva utopistica della riunificazione del dar al-islam, la terra dell’Islam, sotto l’autorità del califfo, e della conquista del dar-al-harb, la terra di conflitto dove non è applicata la sharia e dove è lecito condurre lo sforzo militare diretto alla diffusione della religione musulmana, il jihad9.

2. La radicalizzazione dell’establishment religioso.

Tra il 1926 e il 1930, la legittimità religiosa di Abd Al Aziz è messa in discussione dagli Ikwan, i guerrieri religiosi protagonisti delle sue imprese militari. Gli Ikwan, fomentati dal clero, accusano i Saud di essere venuti meno ai doveri religiosi nel gestire gli affari politici del nascente stato e scatenano una lunga rivolta che Abd Al Aziz riesce a reprimere solo a fatica10. Imparata la lezione, il re concepisce un sistema educativo finalizzato alla creazione di un ceto religioso istituzionale e burocratico di tipo conservatore e non radicale, che nei suoi ambiti di competenza operi in piena sintonia con i Saud. La formazione degli ulema si svolge all’interno del sistema scolastico e universitario pubblico, in modo che gli insegnamenti impartiti, dall’esegesi coranica alla giurisprudenza islamica (fiqh), dall’applicazione della sharia alle scienze, siano controllati dallo Stato. Al diploma segue l’integrazione nella funzione pubblica con incarichi di primo piano nel governo e nell’amministrazione, specie in campo educativo e giudiziario11.

Il sistema funziona virtuosamente fino alla metà degli anni ‘50, generando ulema conservatori allineati alle scelte politiche dei Saud. Il patto sicurezza in cambio di petrolio che

5 A. Cordesman - N. Obaid, National Security in , Praeger/CSIS, 2005, pp. 388-89. 6 Ivi, p. 391. 7 Arkan al-Islam: l’attestazione che non c’è Dio all’infuori di Dio (shahadah), la preghiera (salat), l’elemosina (zakat), il rispetto del digiuno nel mese di ramadan (sawm) e il pellegrinaggio alla Mecca (hajj). 8 C. Jean, op. cit., p. 103. 9 La riunificazione dell’umma non è un progetto geopolitico realizzabile ma “un’idea utopica, messianica e millenaristica”, una favola utile ad attrarre il consenso delle credule masse musulmane ma del tutto al di fuori della realtà storica (Ivi, p. 103). 10 Sugli Ikwan si veda: J. Habib, Ibn Saud’s Warriors of Islam: The Ikhwan of and their role in the creation of the Saudi Kingdom, 1910-1930,. Brill, 1978. 11 D. Thomas, op. cit., p. 6. 3

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Re Abd Al Aziz stringe con Roosevelt nel 194512 non provoca una crisi di legittimità religiosa perché gli sceicchi e gli ulema condividono la necessità di procurare all’Arabia Saudita sia una garanzia di sicurezza che la protegga dall’Unione Sovietica sia le capacità tecnologiche per trasformare in denaro le enormi ricchezze del sottosuolo. Gli americani offrono ciò di cui il paese ha vitale bisogno in cambio di un flusso stabile di petrolio a prezzi contenuti.

La radicalizzazione dell’insegnamento ha inizio quando l’aspra rivalità con l’Egitto di Nasser e la Siria baathista spinge Re Saud (1953-1964) e Re Faysal (1964-1975) a spalancare le porte dell’Arabia Saudita ai Fratelli Musulmani in fuga dai regimi laici del e Damasco. I Fratelli Musulmani e il wahhabismo celebrano un’unione ideologica basata sulla comune derivazione salafita e sul rifiuto della modernità. All’armamentario dottrinario del clero saudita gli esuli aggiungono due concetti preliminari al jihad: il dawah, l’attività di propaganda volta a richiamare gli uomini alla fede nella società contemporanea corrotta e senza Dio, e il tafkir, l’atto di dichiarazione di miscredenza diretto ai cattivi musulmani e agli infedeli tout court che precede la condanna a morte13. I Fratelli Musulmani, in altre parole, politicizzano la speculazione della comunità religiosa saudita, fino a quel momento circoscritta al piano esclusivamente teologico, e inaspriscono la contrapposizione con la minacciosa ateocrazia comunista facendo il gioco della monarchia. Il 1961 è l’anno della fondazione dell’Università Islamica di Medina, in concorrenza con la prestigiosa Università cairota di Al Azhar, e il 1962 quello della Lega Musulmana Mondiale in antitesi al panarabismo nasseriano. Faisal dedica molte energie anche al proselitismo e alle iniziative di solidarietà islamica per mezzo di organizzazioni caritatevoli, le Charities, finanziate con i petroldollari (sono gli anni del boom del prezzo del petrolio, conseguenza dell’embargo lanciato da Faisal contro l’Occidente nel 1973, in occasione della guerra dello Yom Kippur).

L’inserimento dei Fratelli Musulmani nel sistema educativo e nel tessuto sociale saudita mette in moto il vortice del massimalismo religioso che dà alla luce una nuova generazione di ulema dalla formazione estremista. Faisal, contrariamente al suo predecessore, cerca d’impedire agli elementi più oltranzisti di occupare i posti chiave nell’apparato istituzionale e amministrativo. Nel 1971, con la creazione del Consiglio degli Alti Ulema, di nomina regia, presieduto dal Gran Muftì, uno sceicco, e composto dai principali ulema del paese, Faisal dota il clero conservatore di un organo ufficiale della massima autorevolezza che neutralizzi la crescente influenza del clero radicale tra la popolazione con l’emissione di pareri, le fatawa14, e rappresenti una guida politica e religiosa per i musulmani15.

12 R. Bronson, Rethinking Religion: the Legacy of the U.S.-Saudi Relationship, The Washington Quarterly, autunno 2005, pp. 123-124. 13 M. S. Doran, The Saudi Paradox, Foreign Affairs, gennaio/febbraio 2004, p. 39. 14 Singolare fatwa. 15 Il clero sunnita, diversamente da quello sciita, manca di una struttura religiosa gerarchica unica depositaria dell’esegesi coranica, la cui linea dottrinaria è riconosciuta come quella ufficiale dell’intera comunità religiosa. Il Consiglio degli Alti Ulema serve a colmare tale lacuna e il ruolo del Gran Muftì è importante in quanto massima autorità e punto di riferimento religioso per le masse musulmane. 4

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3. L’espansione del wahhabismo.

Faisal viene assassinato nel 1975 e i suoi successori, Re Khalid (1975-1982) e Re Fahd (1982-2005), non si dimostrano in grado di arginare la radicalizzazione del clero. La componente religiosa estremista prevale su quella moderata e assume il controllo dell’educazione e della giurisprudenza islamica. I Saud fanno buon viso a cattivo gioco e cooptano gli ulema radicali nell’establishment ufficiale, assecondandone l’agenda politico- religiosa allo scopo di salvaguardare la Corona da fatawa che la delegittimino. I petroldollari messi a disposizione delle università e delle Charities crescono a dismisura, rafforzando ulteriormente le frange estremiste.

Gli eventi del 1979 costringono la monarchia a riaffermare le sue “credenziali islamiche” sia all’interno, verso i suoi sudditi, che all’esterno, agli occhi della nazione musulmana globale, rendendo la deriva massimalista irreversibile16. La presa della Grande Moschea della Mecca ad opera di un gruppo sunnita ribelle, Juhaiman al-Utaybi, discendente degli Ikhwan, è un atto di accusa nei confronti dei Saud imputati di lassismo nell’applicazione della dottrina e della disciplina wahhabita. Il comportamento nella dimensione privata della famiglia reale, infatti, è più conforme al corrotto stile di vita occidentale che alla purezza dei costumi dei salf saleh e ciò è incompatibile con le responsabilità morali connesse alla reggenza del paese islamico per eccellenza. La Monarchia, inoltre, applica nei fatti una versione moderata del wahhabismo, perchè permette l’esercizio di culti religiosi non-islamici, sebbene non in pubblico, emana leggi non ispirate direttamente dal Corano, limita l’azione della polizia religiosa, la Mutawwa’in, e consente “alle donne di uscire di casa”17. La Corona, nel timore di perdere la legittimità religiosa, risponde alla sfida accogliendone le istanze e nell’establishment il clero radicale prende il sopravvento su quello moderato. Il giro di vite è generale e colpisce soprattutto i musulmani non wahhabiti, gli sciiti e i sufi, e i non musulmani, cristiani, induisti e buddisti, oggetto della campagna di odio e demonizzazione lanciata contro le minoranze religiose nei luoghi di formazione e nelle moschee; gli unici a non pagarne le spese sono, guarda caso, gli stessi principi sauditi, che continuano prevedibilmente a vivere all’occidentale.

Gli sciiti, oltre il 10% della popolazione, chiedono che si tenga conto del loro peso demografico nella ripartizione delle rendite petrolifere, poiché pur abitando nel nordest ricco di greggio ne sono esclusi. Ma gli sviluppi della situazione in Iran li rende ancora più invisi; il governo teme che la rivoluzione khomeinista possa estendersi in Arabia Saudita per conto di Teheran e col sostegno del clero wahhabita, che considera lo sciismo un’eresia dell’Islam da cancellare sulla faccia della terra, opera una stretta sulla minoranza presente nel Regno, silenziando gli attivisti o costringendoli alla fuga in Siria, Iran, Gran Bretagna e Stati Uniti. Gli sciiti provano a ribellarsi, ma la rivolta scoppiata nel nordest viene repressa nel sangue da parte della Guardia Nazionale.

Con la caduta dello Scià di Persia, i Saud prendono atto di come la capacità del clero radicale di mobilitare la massa sia potenzialmente inarrestabile. Non volendo fare la stessa fine di Rezha Palevi, Khalid e Fahd colgono l’occasione rappresentata dell’invasione sovietica dell’Afghanistan per indirizzare il fanatismo religioso su una questione esterna e rafforzare al contempo le “credenziali islamiche” della monarchia, adottando una politica estera interventista finalizzata all’espansione del wahhabismo nell’universo islamico in aperta opposizione allo sciismo iraniano. Il regime saudita così finanzia il jihad antisovietico. I leader religiosi reclutano

16 G. Okruhlik, op. cit.,p. 157. 17 D. Pipes, Support the lesser evil (in Saudi Arabia), The Australian, 31 maggio 2004. 5

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mujaheddin da inviare al fronte; una fatwa del Gran Muftì, lo sceicco Abd Al Aziz Bin Baz, stabilisce che è dovere collettivo partecipare al jihad contro il nemico sovietico. Nelle moschee e nelle madrase, le scuole coraniche proliferate in tutto il Pakistan, specie nel Balucistan, i mullah wahhabiti predicano la guerra santa, instillando nei giovani studenti musulmani, di varia nazionalità ed estrazione sociale, l’imperativo categorico del fondamentalismo. Il wahhabismo è l’ideologia aggregante in nome della quale più di 35 mila mujaheddin, giunti in Afghanistan da 43 paesi islamici, combattono contro gli infedeli. Sulla scena compare per la prima volta Bin Laden nei panni di rappresentante al fronte della Casa reale. Bin Laden lavora a braccetto con l’Inter-Service Intelligence (ISI)18 del Pakistan ultraislamista di Zia ul Haq. Al Qaeda nacque nel 1989 dal dissolvimento del Makhtab al Khadimat, l’Office of Order fondato nel 1982 per il reclutamento e l’addestramento dei mujaheddin non afgani insieme al palestinese Abdullah Yusuf Azzam19.

4. Il risveglio islamico e Al Qaeda.

Sintomatico del revival religioso iperintegralista che investe l’Arabia Saudita dopo il 1979, è il gesto di Fahd che nel 1986 si attribuisce il titolo di “Custode delle due Sacre Moschee di Mecca e Medina” per compiacere i circoli religiosi wahhabita, ponendo il marchio saudita sui luoghi sacri dell’Islam nella fase più critica della guerra Iran-Iraq,. Nel conflitto, la monarchia prende le parti di Saddam Hussein, dando ai sudditi la percezione di combattere non solo in Afghanistan ma anche contro gli ayatollah per la causa del vero Islam, quello wahhabita. Al controllo della Corona sfugge, tuttavia, l’ultima generazione di sceicchi e ulema, quella del Risveglio Islamico (Al Sahwa Al Islamiyya), il risultato della deriva massimalista iniziata negli anni ‘60 con i Fratelli Musulmani20. I sahwa approfittano del clima incandescente e della libertà concessa dal governo, con l’illusione di poterli controllare cooptandoli nell’establishment ufficiale, per salire alla ribalta e ottenere subito seguito e visibilità. I sahwa, nondimeno, sfuggono al tentativo di manipolazione del regime e creano un’organizzazione alternativa a quella ufficiale, sfruttando i vantaggi derivanti dall’incremento dei fondi di cui il settore dell’educazione beneficia in quegli anni21.

Nell’agosto del 1990, l’Iraq invade il Kuwait e Fahd, con l’avallo di una fatwa del Gran Muftì, Abd Al Aziz Bin Baz, decide di ricorrere agli Stati Uniti e ad altri paesi non musulmani per garantire la sicurezza dell’Arabia Saudita, respingendo la proposta avanzatagli da Bin Laden di schierare i mujaheddin della resistenza antisovietica a difesa dei confini con l’Iraq. I sahwa si schierano con Bin Laden e criticano la politica estera antislamica del Re. La permanenza di truppe americane dopo la liberazione del Kuwait determina la rottura definitiva con la monarchia. L’ala jihadista di Bin Laden e dei reduci afgani e quella islamica oltranzista dei

18 Sull’ISI si veda: E. Stornelli, Pakistan: l’ISI, dalla jihad antisovietica a quella antimericana, Equilibri.net, 28 giugno 2004, http://www.equilibri.net/showObject.php?objlang=it_IT&objID=2890. 19 A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., p. 110-111. 20 Sulle origini e l’evoluzione del Risveglio Islamico si vedano: International Crisis Group, Saudi Arabia Backgrounder: Who Are the Islamists?, Middle East Report, n. 31, 21 settembre 2004, pp. 1-7, http://www.crisisgroup.org/library/documents/middle_east___north_africa/iraq_iran_gulf/31_saudi_arabia_backgroun der.pdf; T. C. Jones, The Clerics, the Sahwa and the Saudi State, Strategic Insights 4, n. 3, marzo 2005, pp. 1-3, http://www.ccc.nps.navy.mil/si/2005/Mar/jonesMar05.pdf. 21 I sahwa non costituiscono un blocco omogeneo; una corrente è più vicina al wahhabismo puro, l’altra ai Fratelli Musulmani. All’interno di quest’ultima, va operata un’ulteriore distinzione tra bannisti e qutbisti (Hasan al Banna è stato il fondatore dei Fratelli Musulmani, Sayyd Qutb l’ideologo più importante del movimento). 6

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sahwa, percependo la presenza americana alla stregua di una vera e propria occupazione militare occidentale, si scagliano all’attacco del regime per la sua politica antislamica e ne disconoscono la legittimità religiosa. Se Bin Laden è obbligato a lasciare l’Arabia Saudita, il governo non riesce ad arginare l’intraprendenza dei sahwa, il cui pensiero raggiunge ogni angolo del paese grazie all’utilizzo di audiocassette come strumento di divulgazione. Nel marzo 1991, al termine del conflitto, alcuni sahwa rivolgono al Re una Letter of Demands, sottoscritta da più di 400 intellettuali e leader religiosi. Nel settembre 1992, con il Memorandum of Advice oltre 100 ulema richiedono un maggior controllo delle istituzioni religiose sullo Stato e sulla società. Per la prima volta nel dibattito pubblico si mette in discussione la fedeltà all’Islam dei Saud e del clero ufficiale22.

A questo punto, la monarchia comincia a temere lo spauracchio rivoluzionario, intravedendo nel Risveglio Islamico la versione wahhabita del khomeinismo. L’elemento centrale del messaggio dei sahwa, infatti, è la subordinazione della Corona e dei regimi arabi secolarizzati al volere degli Stati Uniti, superpotenza imperialista incarnazione del male perché decisa a distruggere l’Islam attraverso l’imposizione della cultura occidentale e la nascita della Grande Israele. Da ferventi religiosi, si sono dunque trasformati in agitatori politici con intenti sovversivi e soprattutto godono di maggiore autorevolezza rispetto al clero ufficiale, soprattutto sui giovani, e di largo consenso in tutti i settori della società, dalla burocrazia alla polizia, dall’ambito giudiziario a quello accademico.

Nel 1993, la nascita del Committee for the Defence of Legitimate Rights fa perdere la pazienza al regime, che decide di mettere a tacere il movimento. Nel settembre 1994, la manifestazione di Buraydah, lo storico epicentro del potere tribale dei Saud, contro la corruzione del regime e dei suoi esponenti, è la goccia che fa traboccare il vaso: numerosi sahwa sono tratti in arresto, tra cui Safal Al Hawali e Salman Bin Fahd Al Awda23, i principali esponenti del gruppo, e altri messi alla fuga, come Muhammad Al Masari e Sad Al Faqih che trovano asilo a Londra24. Alla fine del 1995, la compagine del Risveglio Islamico può considerarsi disattivata; dei sahwa rimasti in libertà molti confluiscono nelle file jihadiste.

5. La formazione dell’ideologia di Al Qaeda.

Il contesto culturale in cui Bin Laden opera in Afghanistan è molto influenzato dagli esponenti dei Fratelli Musulmani attivi nella resistenza antisovietica, a riprova del condizionamento ideologico da sempre esercitato dal movimento religioso nella definizione del radicalismo islamico saudita. In particolare, il pediatra egiziano e attuale numero due di Al Qaeda, Ayman Al Zawahiri, ha un forte ascendente su Bin Laden. Al Zawahiri ritiene che il jihad debba dirigersi non solo contro i nemici esterni dell’Islam, ma anche contro i “regimi corrotti e apostati dello stesso mondo musulmano”25 che non applicano la sharia. Alla concezione di Al Zawahiri si contrappone quella di Azzam, che propende per il consolidamento

22 Sull’onda dell’attivismo dei sahwa, si mobilitano anche altri gruppi in opposizione al regime: i neosalafisti, la cui critica è incentrata su argomentazioni teologiche e di culto, e i riformatori d’impronta liberale, che richiedono maggiori aperture politiche e sociali, al contrario dei sahwa che spingono per l’islamizzazione integrale della società. 23 D. Thomas, Contestazione salafita in Arabia Saudita, Adn Kronos International (Aki Crises Today), 20settembre 2004, pp. 18-23. 24 MIRA 25 L. Caracciolo, Il sogno di Osama, in Limes, n. 1, 2004, p. 9. 7

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“dell’Islam più autentico”26 all’interno di una solida base territoriale, il califfato afgano- pakistano, da cui poi procedere all’irradiamento politico e ideologico dei territori vicini, seguendo uno schema di espansione a tre cerchi concentrici, l’unico modo per acquisire la potenza necessaria a sfidare le grandi potenze nemiche. La strategia di al Zawahiri, invece, causerebbe una dispersione delle forze e la sconfitta del movimento jihadista.

La disputa tra Al Zawahiri e Azzam ripropone in salsa islamica la contrapposizione interna al bolscevismo tra la rivoluzione permanente di Trockij e il socialismo in un solo paese di Stalin. Se nel caso russo Stalin ha avuto la meglio, e ciò è stato certamente alla base dell’espansione dell’Unione Sovietica e del radicamento culturale del comunismo a livello planetario, nel 1989 con la morte di Azzam nella città pakistana di Peshawar, in seguito a un attentato di cui non si sono mai scoperti i mandanti, la controversia si è risolta a favore di Al Zawahiri. Bin Laden, mettendo a disposizione i suoi mujaheddin a difesa dell’Arabia Saudita da un possibile conflitto con l’Iraq, voleva fare del Regno la base territoriale immaginata da Azzam, in altre parole la Russia dell’islamismo rivoluzionario. Ma Fahd, con il suo rifiuto, ha scelto di non coinvolgere la monarchia nella strategia jihadista internazionale, preferendo dare continuità alla linea tradizionale della politica estera saudita fondata sulla garanzia di sicurezza degli Stati Uniti. Se Fahd avesse accettato la proposta di Bin Laden, avrebbe fatto dell’Arabia Saudita una monarchia militare islamica antioccidentale e la logica inversione di tendenza della politica energetica avrebbe indotto gli americani a intervenire direttamente per ristabilire lo status quo ante, magari operando un cambio di regime. È plausibile che Fahd abbia considerato la probabilità di una sua caduta per mano degli americani maggiore di un rovesciamento dal basso su iniziativa di Bin Laden appoggiato dai sahwa. Di qui, la conferma della special relationship con Washington e l’accusa di tradimento rivoltagli dai suoi detrattori, Bin Laden in testa.

Con lo stanziamento di 20 mila soldati americani a guerra conclusa, si consuma l’inevitabile rottura col volto ufficiale di Casa Saud. Senza una base territoriale da cui prendere le mosse per l’espansione, l’unica carta strategica rimasta da giocare era la rivoluzione islamica permanente di Al Zawahiri, in perfetta sintonia con la battaglia politico-religiosa condotta dai sahwa contro la Corona. Dall’incontro tra il pensiero di Al Zawahiri e quello dei sahwa nasce l’ideologia di Al Qaeda27, che individua i nemici da combattere nella monarchia saudita e nei regimi arabi secolarizzati non fondati giuridicamente sulla sharia (come Egitto, Giordania e Marocco), nell’Occidente incarnato dagli Stati Uniti, in Israele e in tutti i regimi del pianeta che opprimono le popolazioni musulmane. Contro di loro l’umma è chiamata a un nuovo jihad dopo quello antisovietico, allo scopo di ricostituire il califfato, inteso come soggetto transnazionale panislamico comprendente i Paesi musulmani dell’Africa nordoccidentale, del Medio Oriente, dell’Asia meridionale, orientale ed ex sovietica, che superi le rivalità interregionali in nome di Allah e proietti potenza politica, economica, militare e culturale.

26 Ivi, p. 10. 27 Rientrati in Arabia Saudita, i mujaheddin hanno portato con sé il lascito esistenziale dell’esperienza in Afghanistan, trovando sfogo in una visione romanticizzata della resistenza e del ricorso alle armi contro i nemici dell’Islam. La permanenza delle truppe americane in territorio saudita era pertanto un affronto intollerabile. Il naturale incontro con le posizioni dei sahwa contribuì alla formulazione dell’ideologia di Al Qaeda.

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Capitolo II

- Il terrorismo jihadista e la sicurezza interna -

1. L’ascesa di Al Qaeda.

Espulso dall’Arabia Saudita, Bin Laden s’insedia in Sudan, ospite del regime militare islamico del generale Omar al Bashir e dell’ideologo Hasan al Turabi28. In Sudan concentra gli sforzi per consolidare l’organizzazione di Al Qaeda29, dotandola di una struttura di comando e controllo al servizio dell’esercito dei mujaheddin, il braccio armato della coalizione musulmana chiamata ad opporsi ai nemici dell’Islam con azioni terroristiche (attacchi suicidi, omicidi mirati, esplosioni e rapimenti). Il Sudan in breve tempo diviene il punto di accoglienza, addestramento e smistamento dei guerriglieri destinati all’Africa orientale e subsahariana. L’epicentro del jihadismo resta comunque la zona grigia tra Pakistan e Afghanistan, ove le madrase e i campi di addestramento lavorano a pieno regime, sfornando mujaheddin in serie destinati ai numerosi fronti della guerra santa apertisi in Asia, nei Balcani e nel Caucaso. E appunto pakistano era Ramzy Yousef, ideatore ed esecutore del primo attentato negli Stati Uniti al World Trade Center del 26 febbraio 199330. Nel marzo 1994, con il ritiro degli americani dalla Somalia, i mujaheddin escono vincitori dalla prima battaglia contro gli Stati Uniti, dimostrando a se stessi di essere in grado, dopo i sovietici, di mettere in fuga anche gli americani31.

L’obiettivo principale di Bin Laden, ad ogni modo, è il rovesciamento della monarchia saudita32. Nel paese la contestazione dei sahwa nei confronti della Casa reale genera il clima propizio per il primo attacco all’ordine costituito, sferrato il 13 novembre 1995 con l’esplosione di un’autobomba al Centro di Addestramento della Guardia Nazionale a (vittime 7 americani), cui fa seguito, il 25 giugno 1996, l’autobomba che colpisce il complesso militare americano delle Khobar Towers di Al Khobar (vittime 19 soldati americani)33. L’organizzazione

28 Fautore del superamento della rivalità tra sunniti e sciiti e dell’unità musulmana in chiave antiamericana. 29 Al vertice della struttura si trovava la Shura, il Consiglio Decisionale presieduto da Bin Laden, compredente il Comitato della Sharia e della Politica, con la facoltà di emettere fatawa; sottoposte all’autorità della Shura vi era una serie di Comitati, quali: il Comitato per gli Acquisti Esteri, responsabile dell’acquisto di armi, esplosivi e materiale di equipaggiamento; il Comitato Finanziario, responsabile del reperimento dei fondi e della contabilità; il Comitato per la Sicurezza, responsabile della protezione di Bin Laden e degli alti esponenti di Al Qaeda, dello spionaggio e del controspionaggio; il Comitato Militare, responsabile dell’individuazione dei bersagli e del supporto alle operazioni; il Comitato per l’Informazione, responsabile della propaganda. Alla fine della catena di comando, c’erano il Sottocomitato per l’Addestramento e il Sottocomitato per l’Amministrazione dei Campi di Addestramento (A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., p. 111). 30 L’attentato con un’autobomba non è riuscito a pieno provocando solo 6 morti, ma i cittadini americani hanno ugualmente avuto un assaggio di terrorismo islamico, che tuttavia non ha indotto la Presidenza Clinton a predisporre adeguate contromisure sul piano della sicurezza nazionale e della politica estera. 31 Gli uomini di Bin Laden, soprattutto yemeniti, hanno addestrato i clan in lotta per il potere nella guerra civile somala, scoppiata nel 1991, rivolgendoli, con uno stillicidio di attacchi stile guerriglia, contro i soldati americani alla testa della United Nations Operation in Somalia (UNOSOM), provocandone il ritiro. 32 Nel 1994 Bin Laden era stato privato della cittadinanza saudita. 33 Se nel caso del primo attentato il marchio di Al Qaeda è cosa certa, i veri autori del secondo non sono mai stati individuati, almeno ufficialmente; le autorità saudite hanno rivelato di aver processato individui connessi ad Al Qaeda, 9

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di Al Qaeda in Arabia Saudita, tuttavia, è ancora insufficientemente strutturata per costituire un serio pericolo alla sicurezza nazionale, mentre il regime reagisce con la fermezza che lo contraddistingue quando la sua autorità è sfidata direttamente: gli attentatori del Centro di Addestramento della Guardia Nazionale vengono arrestati, costretti a confessare le loro colpe in televisione e poi giustiziati.

In seguito al fallito attentato al presidente Mubarak (Addis Abeba, 27 giugno 1995), rivendicato dalla Gama'a al-Islamiyya egiziana con complicità risalenti al Sudan, la presenza di Bin Laden a Khartoum diviene troppo compromettente e le autorità sudanesi lo invitano a lasciare il paese. È così che Bin Laden fa ritorno nel suo Afghanistan34, dove il vuoto di potere lasciato dai sovietici è stato colmato dai talebani del mullah Omar, al termine di anni di scontri inconcludenti tra i signori della guerra locali35. In Afghanistan viene edificato uno Stato islamico puro al servizio del network jihadista internazionale messo in piedi da Bin Laden. Riyadh cerca subito d’instaurare buoni rapporti con il neonato regime e gli offre il riconoscimento diplomatico. Ma la Dichiarazione di Jihad rilasciata da Bin Laden il 23 agosto 1996, oltre a Stati Uniti e Israele, è diretta proprio contro la dinastia saudita, accusata di governare in maniera antislamica in quanto non rispetta e non fa rispettare la sharia e ha permesso ai crociati americani di occupare i due luoghi santi dell’Islam, per la cui liberazione erano chiamate alle armi tutte le tribù della penisola arabica. Bin Laden, in realtà, è consapevole di non poter rovesciare il regime e il suo tentativo di fomentare la ribellione interna mira a spingere la monarchia ad attuare una politica estera autenticamente islamica, rompendo le relazioni con gli Stati Uniti.

Nel 1998, Al Qaeda e la Jihad Islamica egiziana si fondono ufficialmente sotto la guida di Bin Laden e Al Zawahiri. Il 23 febbraio 1998, i due emanano una fatwa con cui si annuncia la formazione del Fronte Islamico Mondiale per il Jihad contro gli ebrei e i crociati e si autorizzano l’uso di qualsiasi mezzo per cacciare gli Stati Uniti dalla penisola arabica, l’eliminazione degli americani e dei loro alleati ovunque nel mondo e l’uccisione di civili americani e occidentali36. Il 7 agosto 1998, alla vigilia dell’ottavo anno della presenza militare americana in Arabia Saudita, è il giorno degli attentati alle ambasciate americane a Nairobi in Kenya (210 morti e circa 4500 feriti) e a Dar es Salaam in Tanzania (11 morti e circa 85 feriti). ma non è da escludere che gli autori fossero collegato al terrorismo sciita interno manovrato dall’Iran. Comunque sia, la letteratura ufficiale attribuisce ad Al Qaeda la responsabilità dell’attentato alle Khobar Towers. 34 In realtà, i sudanesi erano disponibili a vendere Bin Laden sia all’Arabia Saudita che agli Stati Uniti e rimane il mistero sul motivo per cui né Riyadh né Washington hanno accettato l’offerta di Khartoum. Provando ad avanzare delle ipotesi, Bin Laden fu lasciato libero di ristabilirsi in Afghanistan in entrambi i casi per evitare problemi interni: se fosse tornato in patria avrebbe ridato ossigeno all’opposizione islamista interna che i sauditi erano appena riusciti a reprimere; se si fosse recato negli Stati Uniti, Clinton avrebbe avuto una gatta in più da pelare col rischio di perdere consensi in vista delle imminenti elezioni presidenziali. 35 Per acquisire la cosiddetta profondità strategica, vale a dire il retroterra logistico necessario ad affrontare la vicina e nemica India in caso di conflitto diretto, il Pakistan doveva fare dell’Afghanistan uno stato satellite, installando un governo amico a Kabul. In quest’ottica, l’ISI ha approfittato dell’endemica mancanza di un’autorità centrale e della guerra perpetua tra gruppi etnici rivali per favorire la presa del potere in Afghanistan da parte dei talebani, i figli dei profughi afgani di etnia pashtun e studenti delle madrase proliferate in tutto il Pakistan ai tempi della resistenza antisovietica. Sprovvisti di una base logistica e di equipaggiamento, l’ISI li armò e ne organizzò militarmente l’incessante avanzata verso Kabul, espugnata il 27 settembre 1996. Con la presa di Mazar-i-Sharif del 9 agosto 1998, il 90% del Paese è passato sotto il loro controllo, salvo la fascia a settentrione, in mano all’Alleanza del Nord di Ahmed Shah Massud. Al principio, la comunanza etnica con la maggioranza pashtun della popolazione, predominante nell’Afghanistan centromeridionale, valse al nuovo governo una buona accoglienza. Poi il consenso è venuto progressivamente meno a causa della tirannia oscurantista e inquisitoria che i talebani hanno instaurato, improntata a un’applicazione integralista della sharia. 36 Nè Bin Laden nè Al Zawahiri hanno l’autorità per poter emettere fatawa formalmente valide perché sono entrambe figure non religiose. 10

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L’Amministrazione Clinton abbozza un tentativo di reazione, ma il 20 agosto, i missili lanciati su alcuni campi di addestramento in Afghanistan e su un’industria farmaceutica in Sudan, sospettata di confezionare armi chimiche e batteriologiche, hanno conseguenze irrilevanti: nel primo caso, non è stata colpita nessuna figura di spicco di Al Qaeda (e tanto meno Bin Laden), nel secondo, l’industria bombardata non produceva armi di distruzione di massa. La rappresaglia degli Stati Uniti, pertanto, si risolve in un clamoroso insuccesso, un segnale di debolezza che rafforza la determinazione del terrorismo islamico.

Nel febbraio 1999, Washington richiede ai talebani l’estradizione di Bin Laden, ufficialmente incriminato per gli attentati in Kenya e Tanzania, ma il regime di Kabul ne annuncia l’improvvisa sparizione. In risposta Washington impone sanzioni economiche contro i talebani cui il 15 ottobre 1999 fa seguito la Risoluzione 1267 del Consiglio di Sicurezza che stabilisce il congelamento dei beni dei talebani e un limitato embargo aereo. All’esplosione del cacciatorpediniere americano Cole (17 morti e 39 feriti), il 12 ottobre 2000, la comunità internazionale risponde il 19 dicembre con la Risoluzione 1333, che inasprisce ulteriormente le sanzioni già in vigore e impone il congelamento dei beni di Bin Laden e dei suoi associati (per la verità in maniera alquanto intempestiva); naturalmente i talebani non obbediscono alla richiesta di chiudere i campi di addestramento in Afghanistan e di consegnare Bin Laden. L’11 settembre 2001, con il multiplo attacco aereo direttamente in territorio americano, l’escalation terroristica di Al Qaeda raggiunge il culmine, questa volta cogliendo nel segno.

2. 11 settembre: Arabia Saudita sponsor passivo di Al Qaeda.

Un dato rende inequivocabili le profonde implicazioni del Regno nelle trame ordite dal terrorismo internazionale di matrice islamica: 15 dei 19 dirottatori dell’11 settembre avevano il passaporto saudita. La Commissione americana d’inchiesta sugli attentati ha smentito l’accusa di un coinvolgimento diretto del governo nell’azione terroristica, non avendo trovato prove “that the Saudi government as an institution or senior Saudi officials individually funded [Al Qaeda]”; tuttavia, ha precisato che l’Arabia Saudita “was a place where Al Qaeda raised money directly from individuals and through charities” e dove “charities with significant Saudi government sponsorship” possono aver finanziato l’organizzazione di Bin Laden37.

Da questo punto di vista, si può considerare l’Arabia Saudita come sponsor passivo del terrorismo, nel senso che la monarchia ha sostenuto Al Qaeda “by not acting”38, cioè non prendendo provvedimenti per impedire che Al Qaeda reperisse fondi e reclutasse militanti nel paese, per il timore di perdere di fronte alla popolarità di Bin Laden e della sua agenda politica antiamericana il consenso interno e quindi la legittimità religiosa a governare. Stando alle conclusioni della Commissione, Bin Laden ha usufruito della cosiddetta Golden Chain, di un network informale di finanziamento con ramificazioni globali, composto da illustri personaggi sauditi e dei ricchi staterelli del Golfo, sorto inizialmente per sovvenzionare il jihad antisovietico e poi Al Qaeda, che ha altresì utilizzato come specchietto per le allodole le attività legali all’estero delle oltre 260 organizzazioni caritatevoli non governative con sede in territorio saudita39. Un report del Council on Foreign Relationship conferma questa tesi, includendo nella

37 National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, The 9/11 Commission Report, 22 luglio, 2004. 38 D. Byman, Passive Sponsor of Terrorism, Survival, n. 47, inverno 2005-2006, p. 117. 39 “All’inizio Bin Laden mette a disposizione della causa la sua fortuna personale e le relazioni con il mondo economico e finanziario della Penisola arabica che gli derivano dalle attività del suo giro familiare. Tali rapporti 11

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Golden Chain patrocinatori e intermediari pakistani ed egiziani40 e non potendo escludere, secondo il Congressional Research Report, neppure che benefattori della causa di Bin Laden si nascondessero in seno alla numerosa famiglia saudita (più di 25 mila esponenti) che hanno agito indipendentemente dalla senior leadership41. Attraverso la Golden Chain, in definitiva, sono stati finanziati tutti i movimenti connessi ad Al Qaeda, dal Marocco all’Indonesia, con le loro eventuali ramificazioni in Occidente, soprattutto in Europa.

È certo, inoltre, che anche Hamas abbia usufruito delle cospicue elargizioni (circa 5 mioni di dollari annui, quasi metà del suo bilancio complessivo), di “private benefactors in Saudi Arabia and other moderate Arab states”, indispensabili alla sopravvivenza dell’organizzazione che Riyadh non annovera tra quelle terroristiche per via del consenso interno riscosso dalla causa palestinese42. La popolazione saudita s’identifica fortemente in quella palestinese, con cui ha stretti legami religiosi e culturali, e di conseguenza la politica estera della monarchia è sempre stata molto attiva nel sostegno all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP)43. Il regime, chiaramente, ha escluso in maniera categorica di aver finanziato Hamas, ma la nascita nel 2000 di due comitati a sostegno della seconda Intifada, il Saudi Popular Committee for Assisting the Palestinian Mujahideen e il Saudi Committee for the Support of the Al Quds Intifada44, lascia legittimamente pensare che le organizzazioni terroristiche palestinesi difficilmente abbiano

coinvolgevano gruppi legati agli ulama sauditi più oltranzisti e ai Fratelli Musulmani in Kuwait, Qatar e Dubai. I finanziamenti al network jihadista venivano canalizzati da Organizzazioni non governative islamiche variamente collegate alla confraternita di Bin Laden. Nel tempo, agli iniziali «azionisti» del Golfo si aggiungono nuovi partner, in gran parte asiaitici. Il giro di liquidità finisce per far capo a una cupola di almeno 400 finanzieri per due terzi arabi e per il resto pakistani e altri asiatici, con centinaia di società sparse per il mondo. Dall’isola Mauritius a Singapore, dalla Malaysia alle Filippine, dal Libano a Panama, da Zurigo a HongKong, Londra e New York, sulla holding di Osama non tramonta mai il sole. Ad essa afferiscono attività diversificate, non solo di copertura: società immobiliari in Francia, in Gran Bretagna e a Tangeri, industrie del legname (Turchia), della carta (Norvegia e Svezia), del latte e suoi derivati (Danimarca), allevamento (Albania, Somalia). Ma le joint ventures più produttive riguardano il narcotraffico. Al tempo dei Taliban, la multinazionale jihadista ha gestito a tutto campo i traffici di oppio afgano. I signori della guerra che dominano i percorsi della droga in Asia centrale, nel Caucaso e nei Balcani permettono di saldare il circuito produzione-trasformazione-commercializzazione dall’Afghanistan all’Europa. L’appoggio di Bin Laden alla guerriglia kosovara serve poi a ridisegnare un’autonoma direttrice balcanica del narcotraffico. I proventi della droga aiutano anche a oliare i rapporti con i servizi deviati pakistani. Il riciclaggio del denaro sporco coinvolge innumerevoli «lavanderie», dal Sudamerica (Ciudad del Este) agli Stati Uniti, dalla Svizzera all’Africa (Mombasa e Zanzibar), dal Medio Oriente all’Asia ex sovietica. Dopo l’11 settembre, quando scatta la caccia ai conti della rete jihadista, i gruppi fondamentalisti ricorrono soprattutto al tradizionale sistema della hawala, che permette di trasferire il denaro attraverso un intermediario di fiducia, senza lasciare tracce. Quanto ai profitti derivanti dal narcotraffico, ci si affida al riciclaggio garantito dalle attività commerciali della diaspora musulmana dal Libano all’Africa occidentale o a Karaci. In Africa la confraternita di Osama penetra il mercato delle pietre preziose, connesso via Libano ad Amsterdam.” (L. Caracciolo, op. cit., pp. 13-14). 40 Council on Foreign Relations, Update on the Global Campaign Against Terrorist Financing, 15 giugno 2004, www.cfr.org/content/publications/attachments/Revised_Terrorist_Financing.pdf, p. 51. 41 A. B. Prados - C. M. Blanchard, Saudi Arabia: Terrorist Financing Issues, Congressional Research Service, The Library of Congress, 8 febbraio 2006, p. 2. 42 Ivi, p. 16. 43 Nel 2002, in base a un report del governo saudita, l’ammontare degli aiuti, sia privati che governativi, versati alle casse dell’ANP è stato pari al oltre 2.6 miliardi di dollari (Royal Embassy of the Kingdom of Saudi Arabia in Washington D.C., Kingdom’s Aid to Palestinians Nears Ten Billion Saudi Riyals, 2 maggio 2002, http:// www.saudiembassy.net/2002News/news/ForDetail.asp?cIndex=1122). 44 Il Saudi Committee for the Support of the Al Quds Intifada, diretto dal Principe Salman, potente governatore di Riyadh, con la fine della seconda Intifada ha cambiato nome ed è oggi conosciuto come Saudi Committee for the Relief of the Palestinian People. 12

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avuto accesso ad aiuti economici nell’ignoranza governativa, che in simili circostanze non può comunque essere ammessa45.

Va comunque osservato, e non a parziale giustificazione del lassismo del regime, che la struttura del sistema finanziario saudita rende problematico il monitoraggio dei flussi di denaro sia all’interno che verso l’esterno: la gran parte delle transazioni avviene in contanti e non con trasferimenti bancari rintracciabili; non esiste una tassazione sul reddito ed è molto difficile stabilire quello che gli individui fanno con i loro soldi; numerosi sauditi hanno conti bancari esteri, non sotto la giurisdizione del governo e spesso in Paesi, ad esempio gli Emirati Arabi, con livelli di controllo ancora più bassi; le attività terroristiche necessitano per lo più di piccole quantità di denaro che passano facilmente inosservate; l’allocazione del denaro è stata il più delle volte gestita da giovani impiegati incuranti di dove finissero i soldi o inconsapevoli della natura terroristica dei destinatari; l’obbligo della carità islamica, la zakat, fa sì che i musulmani devolvano il 2.5% del guadagno annuale e il 5-10% delle rendite ai bisognosi e la totale discrezionalità con cui questi vengono selezionati, insieme alla riservatezza che la natura religiosa del gesto richiede, rende arduo l’accertamento dei beneficiari anche in presenza di controlli reali46.

La monarchia, inoltre, è storicamente responsabile del radicamento nel tessuto socio- culturale saudita dell’estremismo islamico e della sua diffusione internazionale. L’insegnamento e i libri di testo nelle scuole religiose e nelle università e i sermoni nelle moschee sono sempre stati imbevuti di fanatismo religioso, di odio razzista nei confronti degli sciiti, degli ebrei e dei cristiani, di antiamericanismo e antisemitismo militante. Questo modello educativo è stato poi esportato con la costruzione di madrase, moschee e centri culturali a livello planetario. Il governo, oltretutto, con il solito espediente di eliminare ciò che non è controllabile e di cooptare il resto rafforzandolo47, ha lasciato che organizzazioni e gruppi di persone, fintanto che non si opponevano all’autorità costituita, svolgessero attività divulgative e di propaganda xenofobe e d’incitamento alla violenza, con massiccio utilizzo di giornali, reti televisive e siti internet. Il 1999 è stato l’anno della riabilitazione dei sahwa, che hanno potuto riprendere la loro abituale predicazione modulandola non in chiave antiregime, dopo essere stati scarcerati con atto di clemenza reale ed aver abiurato in diretta televisiva. L’ambiente politico, sociale e culturale dell’Arabia Saudita, pertanto, era terreno di coltura assai fecondo per l’Islam radicale, terreno che a partire dalla resistenza in Afghanistan ha generato tra i 70 e i 100 mila giovani mujaheddin, che hanno lasciato il paese per combattere il jihad fino in Bosnia, Kashmir, Cecenia e Kosovo. La monarchia ha la colpa di non aver impedito che questi giovani volontari, plagiati dal sistema educativo e dall’ambiente nel suo complesso, confluissero nella file di Al Qaeda, alimentando il terrorismo internazionale. Di qui, la prevalenza della componente saudita tra gli attentatori dell’11 settembre48.

45 A. B. Prados - C. M. Blanchard, op. cit., pp. 9-17; J. Mintz, Wahhabi Strain of Islam Faulted, Washington Post, 27 giugno 2003. 46 A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., p. 259; A. B. Prados - C. M. Blanchard, op. cit., p. 1. 47 G. Okruhlik, op. cit., p. 166. 48 A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., p. 259 - 261. 13

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3. 12 maggio 2003: l’11 settembre saudita.

All’indomani dell’11 settembre, Riyadh si è preoccupata, anzitutto, di ricucire i rapporti con gli Stati Uniti. L’origine saudita degli attentati ha scatenato la dura reazione degli americani: non era mai accaduto che intellettuali, politici e mezzi di comunicazione attaccassero la monarchia in maniera tanto feroce, incolpandola dell’accaduto e annoverandola persino tra i nemici degli Stati Uniti. Molti dei sauditi residenti in America, nel timore che il governo adottasse misure ostili nei loro confronti, hanno preferito lasciare il paese, naturalmente con i propri investimenti49. La monarchia, di conseguenza, ha cercato di riabilitarsi almeno formalmente agli occhi di Washington e del popolo americano, unendosi alla coalizione internazionale contro il terrorismo (insieme a tutti gli stati del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo), revocando il riconoscimento diplomatico ai talebani, avallando l’operazione militare in Afghanistan (con la concessione della base aerea Prince Sultan per il coordinamento delle operazioni aeree) e assicurando l’applicazione della Risoluzione 1373 contro il terrorismo, approvata il 28 novembre 2001 dal Consiglio di Sicurezza50. La monarchia, contemporaneamente, ha cercato di rimediare anche al grave danno d’immagine arrecato dall’11 settembre al paese e alla religione islamica. Con le dichiarazioni ufficiali di condanna dell’accaduto e soprattutto con il ritardo di nove mesi nel riconoscimento che 15 dei 19 dirottatori erano di origine saudita, le massime autorità politiche e religiose hanno voluto dissociare il Regno e l’Islam dalla violenza terroristica51.

Nessun provvedimento, tuttavia, viene preso per rafforzare la sicurezza interna, nella convinzione che Al Qaeda rappresenti un problema esclusivamente esterno non radicato nel paese. Ma il 12 maggio 2003 a Riyadh, l’esplosione di tre compound provocata da dodici kamikaze, con la morte di 35 persone (10 americani e 7 sauditi) e il ferimento di oltre 200, apre gli occhi alla leadership saudita. Come gli Stati Uniti hanno preso atto solo dopo l’11 settembre della natura e della serietà della sfida lanciata all’Occidente dal fondamentalismo islamico, così la Casa reale solo in seguito a questo tragico evento ha compreso che l’organizzazione di Bin Laden costituisce una seria minaccia per la sicurezza interna e la sua stessa sopravvivenza52. Dopo gli attentati del ‘95-‘96, la bassa intensità delle attività di Al Qaeda e l’apparente inesistenza di un numero significativo di cellule dormienti all’interno del paese, hanno abbassato il livello di guardia dell’intelligence e delle forze dell’ordine, con gravi responsabilità del vertice politico e del suo immobilismo, convinto che sarebbero bastati i vecchi metodi di governo redistributivi e consociativi per garantire lo status quo. Eppure, la logica della cooptazione nelle istituzioni e del laissez faire in materia di fund raising non è stata sufficiente ad assicurare all’Arabia Saudita l’immunità dal terrorismo53. Con il crollo delle Torri Gemelle, il regime ha persino sperato che il jihad si rivolgesse esclusivamente contro gli Stati Uniti, ma il sostegno alla guerra al terrorismo lanciata dall’Ammistrazione Bush, per quanto meramente

49 D. E. Long, US-Saudi Relations: Evolutions, Current Conditions, and Future Prospects, Mediterranean Quarterly, n. 3, 2004, p. 33. 50 A. B. Prados, Saudi Arabia: Current Issues and U.S. Relations, Congressional Research Service, The Library of Congress, 8 maggio 2006, p. 2.; N. Rafique, The Changing Nature of US-Saudi Relations, Strategic Studies, n. 1, 2004, p. 32. 51 Il Gran Muftì saudita, lo sceicco Abdul Aziz al Sheikh, dice il 15 settembre: “The recent developments in the United States constitute a form of injustice that is not tolerated by Islam, which views the mas a gross crimes and sinful acts” (Reuters, 29 dicembre 2001, 1802, citato da A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., p. 261). 52 Per la cronologia completa del terrorismo in Arabia Saudita si veda J. E. Peterson, Saudi Arabia: Internal Security Incidents Since 1979, Arabian Peninsula Background Notes, luglio 2006, http://www.jepeterson.net/source_material.html 53 M.Knights, Saudi Arabia faces a long-term insecurity, Jane’s Intelligence Review, luglio 2004, p. 19. 14

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formale, ha irritato ulteriormente la fazione interna antiamericana solidale con Bin Laden e già fortemente esacerbata dalla ormai decennale presenza militare statunitense. L’inizio della seconda guerra contro l’Iraq, il 20 marzo 2003, e l’aggravarsi del conflitto tra israeliani e palestinesi hanno poi esasperato oltremodo gli animi, conducendo agli attentati del 12 maggio.

4. Al Qaeda nella Penisola araba (QPA) e la reazione del governo.

Un gruppo denominato Al Qaeda nella Penisola araba (QPA) rivendica gli attentati del 12 maggio, al motto Akhriju al Mushrikin min Jazirat al Arab (espellere i politeisti dalla Penisola Arabica)54. La caduta dei talebani e la generale intensificazione della pressione antiterroristica ha ricondotto in Arabia Saudita centinaia di jihadisti; questi, non rinunciando alla lotta armata, hanno dato vita a cellule dormienti che in breve tempo si sono dotate di un’infrastruttura organizzativa con nascondigli, depositi di armi e network di contatti all’esterno. Inizialmente le cellule autonome erano quattro: Turki al Dandani era alla guida della prima cellula, quella dotata di maggiori risorse; Ali Abd al Rahman al Fagasi al Ghamdi era al vertice della seconda, ritenuta la responsabile dell’attentato del 12 maggio; uno yemenita, Khaled al Hajj, era a capo della terza e Abdul Aziz al Muqrin della quarta; il leader di tutta l’organizzazione, il saudita Yusef Al Ayeri, rispondeva direttamente a Bin Laden.55. Frequente era il ricorso a sigle per designare precisamente una cellula o un sottogruppo, ad esempio: Falluja Squadron, Al Quds Squadron e Haramain Brigades. L’ideologia del QPA non si discostava da quella ufficiale di Al Qaeda e veniva promossa attraverso internet, con video propagandistici e la pubblicazione di due giornali bimensili: Sawt al Jihad (La Voce del Jihad) e Mu’askar al Battar (I Campi di Sabra)56.

L’intelligence non è stata in grado di scoprire le cellule dormienti e di distruggerle prima che entrassero in azione, non ha fatto nulla per impedire che i militanti si approvvigionassero di armi dall’esterno (Yemen, Giordania e Iraq) e, soprattutto, per impedire che Al Qaeda facesse proseliti tra i giovani, di cui non è riuscita a controllare i movimenti all’interno e al di fuori del paese. Insomma, la policy del regime nei confronti del radicalismo islamico e delle sue manifestazioni terroristiche è stata un totale fallimento. Tuttavia, l’incisività della reazione all’attentato del 12 maggio dimostra come il governo saudita sia capace di agire con fermezza ed efficacia quando in gioco c’è la sua sovranità. La prime due cellule vengono infiltrate immediatamente; Al Ghamdi preferisce arrendersi, Al Dandani e Al Ayeri rimangono uccisi. Orfane dei rispettivi leader, le due cellule non sono in grado di rimanere compatte e si sciolgono, con i rispettivi militanti che confluiscono nelle altre cellule che nei mesi successivi impegnano la polizia in scontri su vasta scala in tutto il paese. L’8 novembre, due kamikaze causano a Riyadh l’esplosione di un compound, uccidendo 18 persone e ferendone oltre 120. L’attentato attrae sul QPA la riprovazione dell’opinione pubblica, poiché la maggior parte delle vittime è araba (sauditi, egiziani e libanesi) e non americana. La polizia arresta numerosi sospetti. Il 6 dicembre il governo rende pubblica la lista contenente i nomi dei 26 maggiori ricercati del regno. Il 29 un’autobomba esplode nei pressi del quartier generale del General Intelligence Service (GIS), il servizio d’intelligence del Ministero dell’Interno, senza provocare

54 Le esplosioni del 12 maggio sono state precedute da alcuni episodi indicativi della tensione crescente: il 18 marzo 2003, l’esplosione accidentale di una bomba in un appartamento di Riyadh porta alla scoperta di un massiccio deposito di armi; il 6 maggio le forze di polizia ingaggiano uno scontro con dei militanti sorpresi in un’altra abitazione sospetta della capitale. 55 A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., pp. 112-113. 56 International Crisis Group, op. cit., pp. 12-16. 15

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vittime e feriti. L’attentato malriuscito è rivendicato dalle Haramain Brigades, che il 21 aprile 2004 provano nuovamente a colpire il GIS, questa volta con successo: i morti sono cinque e con centinaia di feriti. Le Haramain Brigades seguono una linea strategica autonoma da quella del QPA, l’organizzazione madre, perché concentra gli attacchi su obiettivi istituzionali sauditi allo scopo d’intimidire il regime, mentre il QPA cerca di colpire i lavoratori occidentali, principalmente americani, al fine di minimizzare i danni collaterali musulmani. Dopo l’attentato, Al Muqrin, il nuovo leader del QPA per l’uccisione di Khaled al Hajj avvenuta nel mese di marzo, ribadisce in un messaggio che i nemici da colpire sono invariabilmente “the Jews, the Americans and the Crusaders”57, dissociandosi dalle Haramain Brigades per non inimicarsi la popolazione. Tra le diverse anime del QPA, pertanto, emergono dissidi a causa della mancanza di un unico centro decisionale; i vari gruppi godono di un’eccessiva autonomia e le loro iniziative dipendono troppo dagli umori dei capi, con le conseguenti divergenze tattico- operative.

Con l’eliminazione di Khaled al Hajj, tutti i militanti confluiscono in una sola cellula guidata da Al Muqrin. La sua leadership carismatica, insieme alla necessità di maggiore compattezza, determina un riallineamento dei militanti sulle posizioni del vertice e le azioni terroristiche tornano a concentrarsi prevalentemente su obiettivi occidentali. Il 29 maggio l’attacco al Petroleum Center di Al Khobar, un complesso che ospita gli uffici di numerose multinazionali petrolifere e dell’Arab Petroleum Investments Corporation (APICORP), fa 22 vittime civili occidentali e oltre 50 feriti; la morte di 7 poliziotti sauditi, però, genera un ulteriore calo di consensi nell’opinione pubblica. Il 4 giugno, Al Muqrin, via internet, tesse le lodi degli attacchi contro gli occidentali e incita la popolazione a rovesciare la monarchia. Il 12 giugno un commando del Falluja Squadron sequestra Paul Johnson, un ingegnere della Lockheed Martin. Il 15 giugno, in un video trasmesso da un sito internet islamico, i rapitori ne minacciano l’uccisione entro 72 se non vengono rilasciati dei militanti già in carcere; alla scadenza della deadline, il 18 giugno, Paul Johnson viene decapitato, la sua testa è ritrovata il mese successivo. Poche ore dopo l’esecuzione, le forze di sicurezza individuano il covo di Al Muqrin e lo eliminano, in compagnia di alcuni membri della sua cellula. Il 20 giugno, Sawt al Jihad annuncia l’investitura di Salih al Awfi a nuovo leader del QPA. Il 23 giugno, il regime propone l’amnistia ai militanti che si consegnano alle autorità entro un mese e il 29 l’amnistia per i possessori irregolari di armi da fuoco58.

Per quanto l’amnistia abbia scarso successo, nel mese di giugno 2004 la struttura originaria del QPA risulta già completamente smantellata, centinaia sono i militanti arrestati e i maggiori esponenti sono stati tutti uccisi o messi nella condizione di non nuocere, mentre il rafforzamento dei controlli ai confini, specie con lo Yemen, danno buoni risultati. A ben vedere, però, il lavoro dell’intelligence e delle forze di sicurezza è stato nettamente facilitato dalle carenze e dai limiti mostrati dal QPA. Il tallone d’Achille dell’organizzazione è stato il reclutamento dei militanti; l’aspettativa di reperirne un gran numero tra la popolazione saudita è rimasta delusa e le difficoltà nel rimpiazzare gli uomini e nel reintegrare i ranghi hanno costretto il QPA a fare affidamento su giovani inesperti, poco qualificati e impreparati alla vigorosa offensiva antiterroristica saudita59. Secondo Abdul Rahman Al-Rashoud e Khaled Al-Farraj, ex terroristi pentiti del QPA, il 95% dei militanti è ignorante e non osserva neppure le regole basilari dell’Islam; sono scelti proprio per la scarsa conoscenza delle cose religiose e per la

57 www.aljazeera.net, 22 aprile 2004, citato da International Crisis Group, op. cit., p. 13, nota 92. 58 Ad arrendersi, infatti, sono solo in sei, poi rilasciati nel mese di novembre. 59 A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., p. 114 e p. 118. 16

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presa che il messaggio jihadista esercita sulle loro menti ancora immature60. Se, da un lato, il regime è riuscito in fretta a indebolire le capacità dell’organizzazione, dall’altro, è chiamato a risolvere la questione giovanile e a prendere provvedimenti volti ad eliminare le cause socioculturali che generano disagio in questa fascia della popolazione. Il QPA, in ogni caso, non è riuscito pienamente a giustificare i suoi violenti attacchi con il dogmatismo dell’ideologia di Al Qaeda, anche perché nei suoi proclami si è richiamata più all’esperienza del regime talebano in Afghanistan che alla resistenza antisovietica61; nonostante la popolarità di Bin Laden e della sua agenda antioccidentale e antisionista, è forse il riferimento ai talebani e all’instaurazione di uno Stato islamico puro a indurre i sauditi a preferirgli la conservazione dell’ordine costituito e quindi la corrotta e antislamica monarchia dei Saud62.

5. L’attacco alle istituzioni.

Dopo l’attentato del 29 maggio, la conflittualità tra QPA e forze saudite entra in una fase di bassa intensità; gli scontri a fuoco, l’uccisione di lavoratori stranieri occidentali, il ritrovamento di depositi di munizioni e armamenti, gli arresti, i sequestri e le operazioni contro il traffico di armi rimangono una costante, ma la mancanza di atti terroristici in grande stile è sintomo della crisi organizzativa del QPA e della sfiducia che aleggia tra i militanti causata dal calo di popolarità e dalla perdita di Al Muqrin.

Il 6 dicembre segna la ripresa delle azioni su vasta scala: un comando di terroristi tenta di penetrare nel consolato americano di Gedda, ma le forze di sicurezza lo bloccano impedendogli di avanzare; ne segue un lungo scontro a fuoco che termina con la morte di quattro terroristi, di cinque impiegati del consolato (uno yemenita, un sudanese, un filippino, un pakistano e un cingalese) e quattro sauditi delle forze di sicurezza. Una dichiarazione del QPA rivendica l’attentato e lo considera una risposta all’assedio americano di Falluja in Iraq. L’attacco non è pienamente riuscito, i jihadisti non sono riusciti a introdursi nel consolato, ma il gesto serve a ridargli morale e a dimostrare al regime di essere ancora in possesso della capacità di colpirlo63. Il 16 dicembre, Bin Laden, in un video trasmesso su internet, interviene per incoraggiare i militanti a proseguire nella guerra santa contro la monarchia saudita, perchè “the Mujahideen in the land of the two holy Mosques have not yet started to fight against the government”; Bin Laden termina il suo discorso con un appello ai “promiment scholars of truth, respected Islamic leaders, merchants, and anyone in a position of influence”, affinché convincano la famiglia reale a cedere il potere pacificamente, consentendo così al popolo di eleggere il califfo che governerà secondo la legge islamica64.

60 M. Ahmad, Al-Qaeda Operatives Are an Ignorant Lot, Say Former Members, Arab News, 3 ottobre 2004, http://www.arabnews.com/?page=1§ion=0&article=52326&d=3&m=10&y=2004. 61 S. Ulph, Al-Qaeda Diminishing Returns in the Peninsula, Terrorism Focus, Volume II, Issue 1, 7 gennaio 2005, p. 3. 62 Nel giugno 2004, Nawaf Obaid, analista saudita consulente del governo saudita e del Center for Strategic and International Studies (CSIS), ha reso noto l’esito di un sondaggio effettuato su un campione di 15 mila persone; oltre la metà degli intervistati si dichiara favorevole a Bin Laden, ma solo il 5% lo vorrebbe al potere in Arabia Saudita (H. Schuster, Poll of Saudis shows wide support for Bin Laden's views, CNN, 9 giugno 2004, http://www.cnn.com/2004/WORLD/meast/06/08/poll.Binladen/). 63 S. Ulph, Saudi Mujahideen: Down But Not Out?, Terrorism Focus, Volume I, Issue 10, 9 dicembre 2004, p. 1. 64 Nei discorsi di Bin Laden gli appelli a tutti coloro che possono influire sulle decisioni della monarchia sono frequenti; in questo caso, l’appello termina con un avvertimento: “I have advised you in the past but to no avail. The longer you take, the worse the problem will get. Matters will get more complicated and that will open the doors for the Mujahideen to act without you. […] You must know by now that matters have exceeded what can be tolerated. You must also know that when people move to reclaim their rights, no one can stop the movement, not even the best 17

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Il 29 dicembre è il giorno di due attacchi suicidi simultanei condotti con autobombe, uno alla sede centrale del Ministero dell’Interno, l’altro nei pressi del centro di reclutamento delle forze speciali: la prima autobomba provoca 17 feriti (5 addetti alla sicurezza più dei malcapitati passanti), la seconda viene bloccata prima che possa esplodere e nella sparatoria che ne segue con le forze di sicurezza sette terroristi vengono uccisi65. Il 31 dicembre il QPA rivendica gli attacchi e precisa che gli obiettivi erano il Principe Nayef, Ministro dell’Interno, e il figlio Muhammad, suo vice. Si verifica, dunque, un cambiamento negli obiettivi strategici dell’organizzazione, che per la prima volta si scaglia direttamente contro le istituzioni. In realtà, tale presa di posizione è forte solo in apparenza e dietro vi si nasconde la debolezza dell’organizzazione; l’esito degli attacchi è stato fallimentare, Nayef e suo figlio al momento non erano neppure sul posto e la rivendicazione che li designa come obiettivi è più un avvertimento velleitario che una minaccia da prendere seriamente. Gli attentati, oltretutto, come già il 6 dicembre, sono stati eseguiti in notturna per evitare danni collaterali e ricadute negative sull’immagine dei militanti; un altro segno dell’affanno del QPA, peraltro ammesso implicitamente nella stessa rivendicazione, quando in chiusura, forse anche per leggerezza, si riconosce che il gruppo è in fase di riorganizzazione: “We are determined to re-organize ourselves and prepare for new exemplary operations”66.

Tale affermazione, ad ogni modo, rivela la ferrea volontà che anima i jihadisti, che in condizione d’irrimediabile inferiorità non si danno per vinti e cercano di riorganizzarsi, contando sull’intervento della “mother organization” 67, l’unica in grado di riparare i danni subiti dalla struttura del QPA inviando rinforzi ad esempio dall’Iraq, viste le difficoltà incontrate nel reclutamento in Arabia Saudita. Nel corso del 2005, le forze di polizia sono il bersaglio preferito dai militanti, con casi di omicidi mirati e azioni provocatorie ai posti di blocco. Ad ogni modo, il regime tiene saldamente in mano la situazione e il 28 giugno pubblica una nuova lista di 36 ricercati e ne inizia la caccia, mentre con l’uccisione di Salih al Awfi in una sparatoria, il 18 agosto, della precedente lista dei 26 solo Talib Saud al Talib è ancora alla macchia. Altri esponenti del QPA, inclusi nella lista dei 36, vengono eliminati o catturati. Il 13 ottobre, compare sulla scena, cioè su internet, una neonata formazione terroristica, le Brigate dell’Eco di Tuwayq in al Zulfa (Tuwayq è una scarpata che attraversa l’area che circonda Riyadh nord a sud e al Zulfa è una località a 300 km dalla capitale e la regione dove sono nati alcuni dei militanti della lista dei 36). Il gruppo si dichiara subordinato al QPA, prende come punto di riferimento il regime talebano del mullah Omar e nasce in supporto dei 36 ricercati. Costoro dovrebbero corrispondere alle seconde linee del QPA, vale a dire ai militanti che avevano lavorato al servizio dei jihadisti della lista dei 26 e che ora si trovano a svolgere un ruolo di primo piano68.

security apparatus anywhere. […] And remember that fighting was about to take place at the time of the dispute between the current rulers of Riyadh and their brother, King Saud. But mediation succeeded in averting violence and convincing King Saud to step down. You could do the same thing this time. You could try to convince these tyrants to step down without the need for bloodshed.” (M. Scheuer, Osama Bin Laden on the Demise of the Saudi Regime, Terrorism Focus, Volume II, Issue 10, 27 maggio, pp. 7-8). 65 Al-Qaeda: Riyadh Attack Targeted Interior Minister, Daily Star, 5 gennaio 2005, http://www.dailystar.com.lb/article.asp?edition_ID=10&article_ID=11522&categ_id=2 66 S. Ulph, Saudi Arabia’s Islamist Insurgency, in Saudi Arabian Oil Facilities: The Achilles Heel of the Western Economy, The Jamestown Foundation, maggio 2006, p. 18. 67 Ivi, p. 18. 68 S. Ulph, Another al-Qaeda group forms in Saudi Arabia, Terrorism Focus, Volume II, Issue 19, 18 ottobre 2005, p. 2. 18

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6. L’attacco alle installazioni petrolifere e la strategia di Bin Laden.

Il 24 febbraio 2006, alle 3 del mattino, due o tre camion con il simbolo della Saudi Aramco e imbottiti di esplosivo superano il primo anello difensivo della raffineria di Abqayq - la più grande del mondo, situata a nordest nei pressi di uno dei principali giacimenti di petrolio dell’Arabia Saudita -, ma vengono fermati dal personale della sicurezza prima che raggiungano il centro della struttura, esplodendo lontano dal bersaglio e provocando la morte di tutti gli attentatori e il ferimento di due degli uomini della security. L’attacco a installazioni petrolifere rientra da sempre nella strategia di Al Qaeda e il 19 dicembre 2004 al Muqrin aveva annunciato via internet che queste erano tra gli obiettivi del QPA69; Abqayq non è il primo caso di azione terroristica contro un obiettivo connesso al petrolio: basti ricordare la petroliera francese Limburg nell’ottobre 2002 e l’attentato di Al Khobar nel maggio 2004.

Nel 1997, Bin Laden aveva già individuato nel prezzo dell’oro nero una delle “greatest robbery in history” perpetrata dagli Stati Uniti al mondo islamico, criticando la funzione di stabilizzatore del mercato petrolifero internazionale svolto tradizionalmente dall’Arabia Saudita, perché “[the] oil prices do not reflect market reality” in quanto “a fair price at the present time is a minimum of $100 a barrel”70. Washington, insomma, è colpevole di controllare il prezzo del petrolio a danno dell’umma e per questo devono abbandonare il Medio Oriente, che possiede due terzi delle riserve petrolifere mondiali (il sottosuolo saudita ne ha un quarto) e un terzo di quelle di gas; dato che gli Stati Uniti non si ritireranno mai volontariamente, Al Qaeda dovrà rendere economicamente svantaggiosa la loro permanenza nell’area anche colpendo le installazioni petrolifere71. In quest’ottica, la guerra in Iraq rappresenta un’occasione “[to] bleed America to bankruptcy war72”.

Si pone, però, il problema di minimizzare gli inevitabili danni collaterali che gli attacchi causeranno alla popolazione musulmana e Bin Laden supera l’ostacolo escludendo dai potenziali obiettivi i giacimenti di petrolio - “the treasure of our current and future generations” - e sollecitando, invece, ad attaccare le infrastrutture indispensabili alla lavorazione e al trasporto del petrolio: oleodotti, raffinerie, nave petroliere, porti e compagnie

69 Il messaggio incitava i militanti “to strike all foreign targets and the hideouts of the tyrants to rid the [Arabian] peninsula of the infidels and their supporters. We call on all the mujahideen to target the sources of oil which do not serve the Islamic nation but serve the enemies of the nation.” (Al-Qaeda Tells Fighters to Strike Saudi Oil Targets: Website, AFP, 19 dicembre 2004). 70 Affermazioni di Bin Laden riportate da M. Scheuer, Al-Qaeda and the Oil Target, in Saudi Arabian Oil Facilities: The Achilles Heel of the Western Economy, The Jamestown Foundation, maggio 2006, p. 7. 71 In un’intervista rilasciata nel 1997 a un giornalista pakistano, Hamid Mir, Bin Laden illustra il suo pensiero sulla questione petrolifera: “After 1973 the increase in the price of oil was not significant when compared to the increases in almost every other commodity in the world. Since 1973, the increases in the price of oil have only been eight dollars per barrel, while the price of other commodities has gone up three fold. Oil should have gone up by the same rate, but that did not happen.U.S. wheat has become three times costlier, but not Arab oil. During the past 24 years, the price of oil has not increased more than a few dollars, because the U.S. is holding a gun against the forehead of the Arab countries. We [the Muslim world] are suffering a daily loss of one hundred and fifteen dollars per barrel. Everyday, ten million barrels of oil are produced by Saudi Arabia alone. Therefore, the daily loss is more than one billion dollars, while the total loss [when other Arab producers are included] is two billion dollars. During the last thirteen years, the U.S. has cost us a loss of eleven hundred billion dollars. It is important that we get this large amount of money back from the U.S. The total population of Muslims in the world is more than one billion. Thus the eleven hundred billion dollars could be distributed among the Muslims at the rate of ten thousand dollars per family. Muslims around the world are dying from hunger and the U.S. is stealing our oil. The U.S. buys cheap oil from us and then sells us its own tanks and aircraft with [that is, on the basis of] the threat from Israel. This is how the U.S. takes its own money back from us” (Ivi, pp. 7-8). 72 Ivi, p. 7. 19

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petrolifere non musulmane. Possibili obiettivi sono pure i paesi islamici che fanno affari con gli Stati Uniti e gli occidentali in generale, proprio come l’Arabia Saudita. Superando i confini mediorientali, Al Qaeda guarda, inoltre, alle ricchezze energetiche musulmane del Caspio e del Delta del Niger e ha stabilito contatti con i movimenti islamisti locali per aiutarli a proteggere tali ricchezze. La massima ambizione di Bin Laden, poi, sarebbero le infrastrutture che si trovano in territorio americano, i bersagli più difficili da centrare ma che una volta colpiti determinerebbero conseguenze devastanti per l’economia degli Stati Uniti e per l’homeland security, che si dimostrerebbe inefficiente.

L’attacco ad Abqayq, ben pianificato ma mal eseguito, ha fatto subito entrare in funzione il meccanismo di solidarietà tra la monarchia saudita e il governo americano. Il giorno dopo l’accaduto, il vertice tra il Segretario americano per il Commercio, Carlos Gutierrez, e il Ministro del Petrolio e delle Risorse, Ali al Naimi, è servito a rassicurare Washington sul mantenimento di un flusso di petrolio costante malgrado l’attentato, e Riyadh sull’immutato sostegno americano nel settore della sicurezza. L’ambasciatore statunitense nel Regno, James C. Oberwetter, ha posto l’accento sull’alto livello di sicurezza garantito dal governo saudita e dalla Saudi Aramco alle infrastrutture petrolifere, di cui l’insuccesso dell’attacco ad Abqayq è una prova73. Il Gran Muftì, lo sceicco Abdul Aziz, chiude il cerchio con la sua benedizione religiosa: “We are saddened by the terrorist activity in Abqaiq. I praise the police role in dealing with the terrorists and foiling their attack. I would like to direct my speech to all Muslims and repeat the statement that was issued by the Ulema Committee Council in Saudi Arabia to condemn the acts by the deviant groups, and to stress that their action is against Islam. Those who harbor them and give them assistance commit a greater sin”74.

In realtà, per quanto siano vere le affermazioni di Al Naimi e di Oberwetter, il prezzo del petrolio sul New York Mercantile Exchange è cresciuto di quasi il 4% in un solo giorno e ciò significa che l’attentato, nonostante l’infrastruttura di Abqaiq non abbia subito danni75 e il flusso del greggio sia rimasto costante, è riuscito a condizionare al rialzo il prezzo del petrolio solo perché è stata effettuato, a prescindere dal suo esito finale76. Questo autorizza a ritenere che il QPA riproverà in futuro a colpire gli assets energetici sauditi, ad imitazione della tattica di Al Qaeda in Iraq, volta a danneggiare l’industria petrolifera irachena con sabotaggi e attacchi. La pubblicazione su internet del documento intitolato The Religious Rule on Targeting Oil Interest, scritto da un ulema vicino ad Al Qaeda, lo sceicco Abd al Aziz Bin Rashid al Anzi, conferma la legittimità religiosa degli obiettivi petroliferi ed è indice della loro centralità nella strategia jihadista77. L’allarme scattato lo scorso 27 ottobre per il timore di un possibile attentato al terminal di Ras Tanura ha provocato la mobilitazione di alcune navi occidentali in pattugliamento nel Golfo e non sarà certamente l’ultimo.

73 J. C. K. Daly, The Global Implications of Large Scale Attacks on Saudi Oil Facilities, in Saudi Arabian Oil Facilities: The Achilles Heel of the Western Economy, The Jamestown Foundation, maggio 2006, pp. 28-29. 74 King Commends Security Forces, Arab News, 28 febbraio 2006, http://www.arabnews.com/?page=1§ion=0&article=78535&d=28&m=2&y=2006. 75 Secondo Abdullah Jumah, il Direttore Esecutivo della Saudi Aramco, “there is nowhere in the world that oil facilities are protected as well as in Saudi Arabia”. Secondo Jumah,il personale della Saudi Aramco impiegato nella sicurezza insieme alla Guardia Nazionale, alle forze militari e ai funzionari del Ministero dell’Interno, ammonta a 5 mila uomini (Country Briefs: Saudi Arabia, Energy Information Agency, agosto 2005, http://www.eia.doe.gov/cabs/saudi.html). 76 CNN, Oil skyrockets more than $2 after Saudi attack, 24 febbraio 2006, http://money.cnn.com/2006/02/24/markets/oil_attack/?cnn=yes. 77 Sheikh Abd Al Aziz Bin Rashid Al Anzi, The Religious Rule on Targeting Oil Interests, 26 febbraio 2006, http://www.tajdeed.org.uk/forums. 20

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7. Bilancio provvisorio della guerra saudita al terrorismo.

La reazione saudita ai fatti di Abqaiq è immediata e vigorosa. Il 27 febbraio, le forze di sicurezza eliminano cinque militanti sospettati dell’attacco, tra cui Fahd Faraj Al Juwayr, divenuto capo del QPA dopo l’uccisione di Al Awfi; in cinque settimane, finiscono agli arresti oltre quaranta terroristi, tra cui numerosi iscritti nella lista dei 36. Il 7 giugno, re Abdullah, succeduto a re Fahd spentosi il 1° agosto 2005, proclama la sconfitta del QPA e la fine della campagna contro il terrorismo. In tre anni il regime è riuscito a smantellare la struttura originaria del QPA, dimostrando una notevole reattività nel predisporre l’offensiva antijihadista. La strategia saudita si è basata in primo luogo sul rafforzamento dei livelli di sicurezza interna, con il miglioramento delle performance delle forze di polizia e dell’intelligence e l’incremento delle misure di protezione delle infrastrutture critiche. L’uso sapiente dei mezzi di comunicazione, inoltre, ha permesso di ottenere importanti risultati nella guerra psicologica al terrorismo: le confessioni pubblicate su internet dei militanti pentiti, le abiure televisive e il disconoscimento sul piccolo schermo dei terroristi ricercati da parte dei loro stessi familiari, come nel caso di Al Muqrin, sono stati l’arma mediatica che la monarchia ha utilizzato per contrastare gli effetti della propaganda jihadista. L’establishment religioso ufficiale, infine, ha emesso numerose fatawa per neutralizzare con pronunciamenti legali le fatawa illegittime di Al Qaeda e del QPA78.

Al di là dei meriti governativi, il QPA si è dimostrato carente nel reclutamento, nel reperimento di fondi e nel rigenerarsi dopo la distruzione delle quattro cellule iniziali. Il QPA ha poi sottostimato la capacità dell’intelligence e delle forze di sicurezza di adattarsi rapidamente all’asimmetricità del terrorismo e soprattutto ha fallito nel guadagnare il consenso della popolazione, che pur aderendo ideologicamente alla causa di Bin Laden è rimasta spaventata dalla violenza dei messaggi propagandistici dei militanti e dalle vittime arabe e musulmane degli attentati.

In realtà, gli scontri, gli arresti e il ritrovamento di armi sono la prova che la presenza di Al Qaeda in Arabia Saudita è tutt’altro che completamente debellata. Per quanto alle condizioni attuali la prospettiva del rovesciamento della monarchia saudita e dell’instaurazione del califfato sia altamente improbabile, il terrorismo jihadista continuerà a operare ancora a lungo. La porosità dei confini con Iraq e Yemen rendono il Regno particolarmente permeabile alle infiltrazioni di armi e terroristi dall’esterno, mentre le problematiche interne che hanno generato il fenomeno Al Qaeda sono lontane dall’essere risolte. Se è vero che in Arabia Saudita non esiste un focolaio rivoluzionario alla maniera iraniana e il sovrano non rischia la fine dello Scia di Persia, anche perché gli Stati Uniti non lo permetterebbero, il tempo delle riforme politiche, economiche e sociali è divenuto improcrastinabile, pena una recrudescenza del radicalismo religioso e delle sue manifestazioni terroristiche potenzialmente più destabilizzante per il regime di quanto sia oggi il QPA.

78 Di grande importanza è stata la fatwa con cui il Gran Muftì ha richiamato “citizens and residents to inform about each and every one who plans or prepare for committing destructive actions so as to protect the people and the country”. L’appello della massima autorità religiosa saudita ha contribuito a privare i terroristi di un diffuso supporto territoriale (A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., p. 126). 21

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8. L’apparato di sicurezza saudita.

Le numerose agenzie che fanno capo al Ministero dell’Interno guidato dal Principe Nayef si occupano della sicurezza interna79. Le forze armate, che rispondono al Ministro della Difesa, il Principe Sultan, sono invece incaricate della difesa esterna e possono contribuire alla sicurezza delle aree urbane solo quando il Ministero dell’Interno ne richiede il supporto con le forze speciali o gli elicotteri. La Guardia Nazionale, d’altro canto, svolge un ruolo attivo nella sicurezza interna a protezione dei punti chiave del Regno, come le vie di accesso alle città, i palazzi di corte, le infrastrutture critiche e le installazioni petrolifere; può intervenire a sostegno delle forze di polizia e può servire come forza di sicurezza urbana in caso di emergenza. La Guardia Nazionale ha una propria catena di comando con al vertice il re Abdullah (dal 1962) e il Principe Muteeb, figlio di questi e suo vice; dispone anche di un’Intelligence Directorate con funzioni limitate di controspionaggio e controterrorismo interno. Il corpo militare è composto da oltre 100 mila combattenti, i 75 mila delle forze regolari e i 25 mila della Fawj, una compagnia irregolare formata da elementi delle tribù beduine molto legati ad Abdullah.

Il Principe Nayef esercita il controllo sugli apparati con l’ausilio del fratello Ahmed, Vice Ministro, e del figlio Mohammad, suo assistente personale. I dipartimenti che dipendono dal Ministero dell’Interno protagonisti della guerra ad Al Qaeda sono il General Security Service (GSS), la Public Security Administration (PSA) e le Special Security Forces (SSF)80. Il GSS, o (polizia segreta), tra i servizi d’intelligence interni di tutto il Medio Oriente è quello con il budget più cospicuo, naturalmente classificato come il numero dei suoi agenti. Il PSA è composto da 135 mila uomini, 95 mila poliziotti regolari, 30 mila delle Special Emergency Forces (SEF) e 10 mila destinati alla protezione degli assets petroliferi. Le SEF, la cui direzione è affidata ai governatori delle province, sono specializzate in operazioni controinsurrezionali e di antiterrorismo e rappresentano un reparto d’avanguardia. Le SEF sono, in pratica, l’equivalente difensivo delle SSF, le truppe d’assalto paragonabili all’americana Special Weapons and Tactics (SWAT). Le SSF, nel numero di 10 mila, hanno in dotazione veicoli blindati leggeri, armi automatiche e armi chimiche non letali. L’addestramento delle SEF e delle SSF è stato migliorato e si avvale di consulenti stranieri, in particolare americani, britannici, francesi e tedeschi, ma anche pakistani, giordani ed egiziani.

Il GSS, guidato dal Principe Muqrin Bin Abdul Aziz Al Saud, si è davvero attivato nell’antiterrorismo solo a partire dal maggio 2003 e Nayef può essere considerato responsabile di questo ritardo per aver sottostimato la pericolosità di Al Qaeda sul piano interno. Ciononostante, il GSS ha dimostrato una notevole reattività nell’adattarsi al nemico, nell’infiltrarlo e nell’individuarne i capi. I suoi punti di forza sono stati la capacità di raccolta e analisi delle informazioni, il dislocamento territoriale degli agenti, la cooperazione con il Federal Bureau of Investigation (FBI), il salto di qualità nell’addestramento e l’acquisto di strumentazioni tecnologiche all’avanguardia, sebbene il GSS faccia ancora ampio affidamento a livello locale su sceicchi e capi tribali generosamente prezzolati come informatori.

Nell’apparato di sicurezza saudita, la centralità del GSS nella guerra al QPA ha tolto spazio al General Intelligence Presidency (GIP), lo storico servizio d’intelligence esterno, con

79 Sull’apparato di sicurezza saudita si vedano: A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., pp. 286-304; Jane’s Sentinel, op. cit., pp. 464-470; L. Mainoldi, L’intelligence dell’Arabia Saudita e la politica mediorientale, in Intelligence e Storia Top Secret, ottobre 2004. 80 Dipendono dal Ministero dell’Interno anche il Dipartimento Passaporti e Immigrazione, le Guardie di Frontiera, la Guardia Costiera, l’Agenzia di Drug Enforcement, il Servizio Generale delle Prigioni e l’Amministrazione della Difesa Civile. 22

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funzioni di antiterrorismo, di analisi strategica, di coordinamento dei network coperti esterni e delle operazioni sotto copertura. Il GIP è la nuova denominazione che ha sostituito quella tradizionale di General Intelligence Directorate (GID). Dal 1977 all’agosto 2001, il GID, che fa capo direttamente al Primo Ministro che corrisponde alla persona del Re, è stato sotto la guida del Principe Turki, figlio di re Faisal e fratello del Ministro degli Esteri, il Principe Saud. Turki è stato misteriosamente soppiantato alla vigilia degli attentati dell’11 settembre dal Principe Nawaf, fratellastro di Nayef e zio di Turki, cui si deve il passaggio nominale al GIP. I motivi della sostituzione rimangono oscuri: c’è chi sostiene che si sia trattato di un normale avvicendamento dopo tanti anni e chi ritiene che Turki sia stato rimpiazzato su pressione di Nayef nel quadro delle lotte di potere interne alla Casa reale81. Ad ogni modo, l’11 settembre e gli eventi successivi hanno messo in luce le gravi responsabilità del GID, che dopo aver organizzato militarmente l’estremismo islamico in Afghanistan ha chiuso un occhio o si è accorto troppo tardi delle sue attività di reclutamento, reperimento fondi ed espansione, non dando il giusto peso alle intenzioni belliche dei mujaheddin, alla stregua, a onor del vero, di tutte le intelligence occidentali, in primis americana e britannica.

Il GIP, con l’avvento di Prince Nawaf, ha iniziato un nuovo corso con l’obiettivo di modernizzare le sue modalità operative, avendo a disposizione un budget annuale naturalmente classificato che fa del GIP il servizio d’intelligence esterno più ricco del Medio Oriente e che secondo le stime si aggira attorno ai 500 milioni di dollari. Il GID per reperire informazioni utili faceva leva quasi esclusivamente sulle relazioni interpersonali e sulla Human Intelligence (HUMINT), con un ricorso limitato alla Signals Intelligence (SIGINT) effettuato oltretutto per via indiretta attraverso dispositivi occidentali; di qui, l’incapacità di monitorare i movimenti sul terreno di singoli militanti o di piccoli gruppi di terroristi e di prevenirne le intenzioni. L’acquisizione di sistemi e strumentazioni tecnologiche di ultima generazione serve proprio a colmare questa importante lacuna. Il GIP, tuttavia, è ben lungi dal riconquistare la centralità perduta nell’apparato di sicurezza saudita. Le esigenze della guerra al terrorismo, infatti, vogliono che sia il GSS per le sue caratteristiche a svolgere le funzioni principali; il fatto, ad esempio, che il GPP non può procedere ad arresti, ne diminuisce inevitabilmente la rilevanza rispetto al GSS, a beneficio di Nayef. E appunto per bilanciare lo strapotere del Ministro dell’Interno, Abdullah ha messo due uomini di sua fiducia al fianco di Nawaf, dopo l’infarto che lo ha colpito nel marzo 2002 indebolendolo ulteriormente: il Principe Faisal Bin Abdullah Bin Mohammad, incaricato della riorganizzazione amministrativa del GIP, e il Principe Abdulaziz Bin Bandar Bin Abdul Aziz, investito del compito di rivitalizzare il dipartimento di ricerca e analisi. A causa delle cattive condizioni di salute, Nawaf ha dato le dimissioni nel gennaio 2005, ma Abdullah non ha ancora nominato il suo successore e ciò contribuisce a rendere il servizio ancora più irrilevante.

La crisi del GIP rinvia a data da destinarsi la formazione di una vera e propria comunità d’intelligence. In Arabia Saudita i diversi servizi non hanno mai funzionato in maniera armonica, soprattutto a causa di rivalità personali e burocratiche che di fatto hanno impedito al GIP un coordinamento efficace che favorisse la condivisione delle informazioni. La necessità di favorire un funzionamento unificato degli organi di spionaggio è emersa con urgenza dopo l’11 settembre e da allora l’obiettivo è dare vita a una comunità d’intelligence che nel caso saudita comprenderebbe il GIP, il GSS, le Guardie di Frontiera, il National Information Center, le tre branche dell’intelligence militare, l’intelligence della Guardia Nazionale, l’Ufficio Analisi e

81 Dopo essere stato ambasciatore saudita in Gran Bretagna, Turki è stato nominato ambasciatore negli Stati Uniti in sostituzione del Principe Bandar Bin Sultan, finito nell’occhio del ciclone a causa della sospetta ma mai provata collusione finanziaria della consorte con gli attentatori dell’11 settembre. 23

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Studi del Ministero dell’Interno, l’Information and Studies Center del Ministero degli Affari Esteri e lo Specialized Studies Center della Guardia Nazionale82.

Dubbi, infine, sorgono sull’affidabilità dei servizi a causa delle simpatie per Bin Laden e delle connivenze con Al Qaeda emerse specialmente all’interno delle forze armate. In Arabia Saudita il fenomeno non costituisce una novità; il radicalismo islamico ha trovato facile diffusione nei ranghi militari a partire dagli anni ‘5083. Nel settembre 2003, 40 militari della base aerea di Dharan, tra cui alti ufficiali, sono stati arrestati con l’accusa di propaganda jihadista e legami con gli estremisti84. Le dinamiche di alcuni attentati hanno lasciato spazio a supposizioni su possibili complicità della Guardia Nazionale, delle SEF e delle SFF; il ritrovamento di armi e veicoli della Guardia Nazionale in covi terroristi è poi un segnale inequivocabile85. Tuttavia, dalla performance generalmente positiva delle forze di sicurezza contro il QPA si deduce che le frange deviate non hanno ostacolato l’antiterrorismo in maniera determinante, sebbene la penetrazione del jihadismo nei servizi d’intelligence è un problema che il governo deve risolvere, intensificando i controlli sull’affidabilità degli uomini impiegati e invertendo l’orientamento del sistema educativo che genera il radicalismo islamico.

9. Le misure antiterroristiche nel settore finanziario e il monitoraggio delle organizzazioni caritatevoli.

Il governo saudita ha messo in atto una serie di contromisure volte a rafforzare la vigilanza e la regolamentazione nel settore finanziario, allo scopo di prevenire e contrastare il reperimento di fondi da parte di Al Qaeda attraverso e nel Regno. Beninteso, come nel caso della sicurezza interna, Riyadh si è realmente attivata contro il fund raising di Bin Laden e compagnia solo in seguito all’attentato del 12 maggio, laddove all’indomani dell’11 settembre neppure le pressioni degli Stati Uniti avevano smosso la Casa reale dalla sua proverbiale inerzia86. Non fidandosi più del suo principale partner arabo, Washington ha deciso d’intervenire direttamente creando una task force bilaterale col compito di assistere i sauditi nell’antiterrorismo finanziario. La task force ha due componenti fondamentali: la prima gestisce la condivisione delle informazioni tra intelligence; la seconda cura la raccolta dei dati relativi ai conti corrente, alle transazioni e ai documenti bancari. La task force è composta da agenti e analisti FBI, CIA e dell’Internal Revenue Service (IRS) del Tesoro americano87.

82 Il Ministero degli Affari e della Guida Islamica svolge un ruolo indiretto nelle politiche di sicurezza interna e così altri Ministeri civili come il Ministero degli Esteri, il Ministero delle Finanze, il Ministero delle Comunicazioni, il Ministero della Cultura e dell’Informazione, il Ministero dell’Educazione, il Ministero della Giustizia, il Ministero del Petrolio e delle Risorse Naturali, il Ministero del Pellegrinaggio e della Fede Islamica. 83 Sul rapporto tra le forze armate saudite e l’estremismo islamico si veda: J. Teitelbaum, A Family Affair: Civil- Military Relations in the Kingdom of Saudi Arabia, http://www.iue.it/RSCAS/RestrictedPapers/conmed2003free/200303Teitelbaum12.pdf. 84 Y. Fighel, Saudi Arabia Confronts Bin Laden Supporters, International Policy Institute for Counter-Terrorism, 25 settembre 2003, http://www.ict.org.il/articles/articledet.cfm?articleid=498. 85 J. Teitelbaum, Terrorist Challenges To Saudi Arabian Internal Security, in Middle East Review of International Affairs (MERIA), vol. 9, n. 3, settembre 2005, pp. 82-86. 86 Secondo la Commissione sull’11 settembre “the Saudis did not begin to crack down hard on Al Qaeda financing in the Kingdom until after the May 2003 Al Qaeda attacks in Riyadh” (National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, Terrorism Financing Monograph, 21 agosto 2004, p. 24, nota 14). 87 D. Farah, U.S.-Saudi Antiterror Operation Planned; Task Force Will Target Funding, Washington Post, 26 agosto 2003. 24

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Nel mirino degli investigatori sauditi e americani, in particolare, troviamo le charities. Per colmare il vuoto normativo, la Saudi Arabian Monetary Agency (SAMA), ha introdotto una nuova legislazione bancaria, Rules Governing Anti-Money Laundering and Combating Terrorism Financing, che obbliga le organizzazioni caritatevoli e assistenziali a raccogliere i depositi bancari variamente collocati in un unico conto corrente; a non ritirare denaro contante, (visto che la tecnica maggiormente diffusa per gli spostamenti valutari di piccola e media entità, che sono i più frequenti, rimane la classica valigetta); a sottoporre il conto corrente all’approvazione della SAMA; a non effettuare transazioni fuori confine fino al momento della nascita di un ente che supervisioni appositamente la destinazione dei flussi finanziari88. Tale ente è stato istituito nel febbraio 2004 con decreto reale, ha il nome di Saudi Nongovernmental Commission on Relief and Charity Work Abroad e il compito di filtrare tutti i contributi caritatevoli diretti all’esterno per evitare che finiscano nelle casse di organizzazioni terroristiche89. La Commissione, però, non è ancora operativa e le autorità saudite si giustificano adducendo ostacoli legali e finanziari che le impediscono di entrare pienamente in funzione. Il ritardo getta un cono d’ombra sulla volontà del governo di stroncare il fenomeno della collusione finanziaria tra charities e terrorismo. Oltretutto, le organizzazioni non governative multilaterali con sede in Arabia Saudita, quali la Lega Musulmana Mondiale, l’Organizzazione Islamica Internazionale di Assistenza e l’Assemblea Mondiale dei Giovani Musulmani non sono soggette agli stessi livelli di vigilanza delle altre charities e continuano a reperire fondi nel Regno e a disporne senza alcun controllo, destando la preoccupazione degli Stati Uniti che ne hanno espressamente richiesto la subordinazione alle nuove regole e all’autorità della Commissione90.

Tale ambiguità è imputabile all’imbarazzo religioso che il mettere sotto torchio le istituzioni benefiche su cui, in pratica, si fonda lo stato sociale islamico può arrecare alla monarchia. Un’ulteriore conferma della prassi dilatoria e indecifrabile tipica dei Saud la si trae dalla vicenda della Fondazione Islamica Al Haramain, una charity potentissima connessa ad elementi governativi, ritenuta dagli americani “one of the principal Islamic NGOs providing support for the Al Qaida network and promoting militant Islamic doctrine worldwide” 91. Nel giugno 2004, dopo una faticosa opera di convincimento da parte degli Stati Uniti, Riyadh ne ha annunciato la chiusura, ma non è stato fatto ancora nulla per rendere effettivo il provvedimento92. Le dimissioni del fondatore e direttore di Al Haramain, Aqeel Abdulaziz Al Aqil, considerato da Washington un supporter del terrorismo, e le dimissioni del suo successore, Dabbas Al Gabbasi, motivate con il congelamento dei fondi interni e la conseguente impossibilità di fare opera di carità93, non devono ingannare perché la Saudi Nongovernmental

88 A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., pp. 128-129. 89 A. B. Prados - C. M. Blanchard, Saudi Arabia: Terrorist Financing Issues, op. cit., pp.18-19. 90 A parere di Daniel Glaser, Vice Assistente del Segretario del Tesoro Americano, nella sua testimonianza alla Commissione giudiziaria del Senato rilasciata l’8 novembre 2005, “it is not clear to us that this de facto prohibition is having true effect and we remain deeply concerned about this issue. Furthermore, these restrictions do not apply to foreign branches of Saudi-based NGOs and charities, which can transfer money among themselves throughout the world with little accountability to the Kingdom. It is possible, for example, for an IIRO official in Saudi Arabia to advise IIRO branches in country X and country Y to transfer money to each other, outside of Saudi regulatory reach.” (Ivi, p. 18, nota 78). 91 In proposito si veda: National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, Terrorism Financing Staff Monograph, pp. 114-130. 92 GAO (Government Accountability Office), Information on U.S. Agencies’ Efforts to Address Islamic Extremism, settembre 2005, pp. 19-20. 93 M. al Kanani, Al Haramain Director Resigns, Arab News, luglio 2004, http://www.arabnews.com/?page=1§ion=0&article=48358&d=15&m=7&y=2004. 25

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Commission on Relief and Charity Work Abroad non è in funzione e quindi non esiste un organo di controllo attraverso cui passino le operazioni internazionali di al Haramain.

Se il monitoraggio delle attività di finanziamento delle charities è tuttora problematico, malgrado l’entrata in vigore di leggi specifiche che tuttavia soffrono di un difetto d’implementazione, il Dipartimento del Tesoro americano lamenta l’assenza di qualsivoglia normativa sulle liberalità effettuate da benefattori privati94. È vero che le autorità hanno provveduto al congelamento dei beni di alcuni soggetti, ma d’altro canto vi è un’elite di illustri personaggi sponsor attivi del jihadismo che non è stata neppure incriminata. Il punto, pertanto, è comprendere se le misure annunciate dal governo saudita contro il finanziamento del terrorismo siano state davvero messe in atto o se si tratta semplicemente di parole al vento, utili tatticamente ad allentare la pressione degli Stati Uniti, dimostrando di aver smesso gli abiti dello sponsor passivo di Al Qaeda.

94 Sempre Daniel Glaser: “While current regulations take account of the financial activities of charitable concerns, they do not apply to direct donations made by private donors” (A. B. Prados - C. M. Blanchard, op. cit., p. 25, nota 112). 26

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Capitolo III

- Verso la modernità: politica, società ed economia -

1. Il risveglio dei sahwa e il patto con la monarchia.

Nel 1999, superati gli strascichi della contestazione dei sahwa, la monarchia decide di sollevare le restrizioni imposte ai mezzi di comunicazione, all’uso di internet e al dibattito pubblico95. I sahwa, tornati in libertà, riprendono così l’attività politica e religiosa alla condizione di non rivolgersi mai più contro la famiglia reale. Dopo l’11 settembre, il governo fa leva sulla popolarità del movimento per consolidare la propria legittimità religiosa in una fase in cui la necessità di schierarsi formalmente al fianco degli Stati Uniti contro il terrorismo rischia di dare adito alle solite accuse di antislamicità. L’approvazione del clero istituzionalizzato, ormai largamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica, non sarebbe bastata a conferire il crisma dell’islamicità alle politiche della Casa reale, di qui la necessità dell’apporto culturale e dottrinario del risveglio islamico per contrastare Al Qaeda. Il patto con i sahwa, tuttavia, non ne prevede la cooptazione nell’establishment religioso ufficiale; i sahwa, infatti, in cambio del loro impegno in chiave antiterroristica, sono lasciati liberi di non supportare incondizionatamente il governo e di mantenere un atteggiamento critico nei suoi confronti per condizionarne l’orientamento.

Il ruolo dei sahwa diviene ancor più centrale con la svolta nella politica di sicurezza saudita seguita all’attentato del 12 maggio 2003. A cinque giorni dall’accaduto, un gruppo di cinquanta sahwa firma una petizione di condanna del terrorismo. Al Hawali, in particolare, si distingue come figura di spicco del movimento e uomo di fiducia del governo, pronunciandosi spesso contro le ragioni dottrinarie del QPA e fungendo da mediatore con i militanti in occasione dell’amnistia varata da Abdullah. Anche Al Awdah offre il suo contributo: il 15 gennaio 2005, una dichiarazione di condanna dell’attacco al Ministero dell’Interno effettuato il 29 dicembre compare sul suo sito internet personale, Salman Al Awdah’s Islam Today. Non tutti i sahwa, però, instaurano una forma di modus vivendi con la monarchia; in molti - su tutti Ali Bin Al Khudayr, Nasser Bin Al Fahd e Ahmad Al Kahlidi96 - conservano l’impostazione jihadista degli anni ‘90 e tessono le lodi degli attentatori dell’11 settembre, invocano la guerra santa contro gli ebrei e i crociati, giustificano l’uso di armi di distruzione di massa contro gli infedeli e promuovono l’impiego di volontari musulmani al fianco di Saddam Hussein per proteggere l’Iraq dagli Stati Uniti. Al Khudayr definisce gli attentatori del 12 maggio «pious and devouts [men]» e «the flower of mujahideen», accusando la monarchia di agire contro il jihad su ordine degli americani, un’accusa prossima se non equivalente all’apostasia97. Il governo decide, allora, di interromperne l’attività del gruppo e il 28 dello stesso mese procede a

95 Sul ritrovato attivismo dei sahwa si vedano: International Crisis Group, op. cit., pp. 10-11; T. C. Jones, op. cit., p. 5. 96 Su Al Hawali, Al Awdah, Al Khudayr, Al Fahd e Al Kahlidi si vedano le brevi biografie contenute in D. Thomas, Il Corano e la spada, op. cit., pp. 18-27. 97 M. S. Doran, op. cit., pp. 43-44. 27

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numerosi arresti, con l’accusa di collusione con i militanti del QPA98. A novembre, Al Khudayr, Al Fahd e Al Kahlidi sono costretti in diretta televisiva a sconfessare le loro precedenti fatawa e a riconoscere la legittimità dell’autorità costituita.

I sahwa moderati, che collaborano con le istituzioni, e i sahwa jihadisti condividono al stessa piattaforma ideologica wahhabita, antiamericana, antioccidentale, antisemita e anticristiana; ciò che li distingue è la diversa percezione della famiglia reale: se i moderati in cambio della libertà di azione accettano di non metterne in discussione il primato pur desiderando che il legame con gli Stati Uniti venga rescisso, i secondi ritengono che la violenza politica sia lo strumento per vincere la resistenza della monarchia e indurla a rompere con gli americani, per questo sono alleati de facto di Al Qaeda.

L’antiamericanismo dei sahwa è riemerso con forza in corrispondenza della seconda guerra del Golfo, uno schema che ripete quello del biennio ‘90-‘91, ai tempi di Desert Storm. Al Hawali e Al Awdah si sono espressi a favore del jihad in Iraq contro gli Stati Uniti ed è questa posizione oltranzista e di odio profondo verso gli americani alla base del consenso riscosso tra la popolazione99. Negli anni ‘90, la rottura con la monarchia si era consumata sul ricorso alla garanzia di sicurezza di Washington e sulla permanenza di truppe a stelle e strisce in Arabia Saudita; oggi la situazione è molto simile, nonostante il ritiro del contingente americano. L’attività divulgativa, scritta e orale, di Al Hawali e Al Awdah ha messo sovente in grave imbarazzo la monarchia che non può in alcun modo controbattere con pari moneta, non esistendo agli occhi del radicalismo religioso musulmano argomentazioni plausibili che sostengano la compatibilità dell’alleanza con gli Stati Uniti con la custodia dei luoghi santi dell’Islam. L’unica risposta possibile è la coercizione ed è già accaduto che i sahwa, oltrepassato il limite di tolleranza, fossero messi a tacere. Non è da escludere, pertanto, che la coesistenza tra il governo e il risveglio islamico venga meno una seconda volta, anche se per ora sembra resistere alle tensioni. Per la monarchia, infatti, il conservatorismo antioccidentale dei sahwa serve a far da contrappeso ai gruppi che invocano le riforme in senso liberale e democratico e a rivolgere su problematiche esterne l’attenzione dell’opinione pubblica100.

98 Pare che Bin Laden in persona abbia espressamente intimato alla monarchia di non fare del male ad Al Khudayr (M. S. Doran, op. cit., p. 39, nota 1). 99 Il 5 novembre 2004, durante l’assedio di Falluja, un gruppo di ulema guidati da Al Hawali e Al Awdah rivolge una fatwa agli iracheni per esortarli al jihad difensivo contro l’invasore americano. La fatwa proibisce l’uso della forza tra musulmani e l’attacco a obiettivi non militari, esorta all’unita tra sunniti e sciiti e non ordina ai sauditi di recarsi a combattere in Iraq. Il richiamo al jihad, quindi, è diretto esclusivamente contro i soldati statunitensi. 100 G. Okruhlik, op. cit., p. 164. 28

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2. Il taqarub di Abdullah e il tawhid di Nayef: tra riformismo à la carte e Zio-Crusaderism.

Il Re Abdullah e il Ministro dell’Interno Nayef, sono portatori di visioni non coincidenti dell’Islam wahhabita: Abdullah segue il taqarub, versione progressista del wahhabismo aperta al dialogo tra musulmani e non, alla coesistenza pacifica con i non credenti, alla partecipazione politica dei laici e dei gruppi religiosi che il wahhabismo considera eretici, come gli sciiti e i sufi, e alla distensione in politica internazionale con i cristiani americani e occidentali in generale, con gli ebrei israeliani e gli sciiti iraniani; Nayef, d’altro canto, è fautore del wahhabismo più intransigente e ideologico, aderente in toto all’impostazione originaria di Al Wahhab e che pertanto ha come punto di riferimento dottrinario il tawhid, ovvero l’unicità di Dio e della religione che ne discende, l’Islam la cui versione autentica è quella wahhabita, mentre tutto ciò che ne differisce è da annientare in nome di Allah101.

Nayef e i sahwa hanno stretto un’alleanza ultraconservatrice volta a respingere le istanze riformiste avanzate da una minoranza della popolazione che ha tratto coraggio dalla Dottrina Bush sull’esportazione della democrazia. Il timore di un’occidentalizzazione dell’Arabia Saudita ha oltremodo irrigidito le posizioni del clero ultraconservatore che parla di un complotto organizzato contro l’Islam da sionisti e crociati, il cosiddetto Zio-Crusaderism, in combutta con gli sciiti che con l’aiuto degli ebrei e degli americani mirano a scalzare il predominio sunnita nel mondo islamico, prendendo il potere in Iraq in virtù della caduta di Saddam Hussein e da lì puntando al controllo dei luoghi santi sotto custodia saudita e wahhabita, in collaborazione con la minoranza sciita presente nel Regno102. L’equivalenza tra lo Zio-Crusaderism e l’ideologia di Al Qaeda è evidente103 e Nayef, commentando gli attentati dell’11 settembre, ha esplicitamente dimostrato da che parte sta: «We put big question mark and ask who committed the events of September 11 and who benefited from them. Who benefited from the events of September 11? I think they [the Zionist] are behind these events»104.

Abdullah ha dato un’impronta riformista al suo operato già nelle vesti di erede al trono e vicario di Fahd, e da sovrano ha fatto delle riforme la parola d’ordine della sua reggenza. Nel gennaio 2003, Abdullah accetta di visionare la petizione intitolata National Reform Document

101 M. S. Doran, Saudi Arabia, America’s Ally and Enemy, International Herald Tribune, 23 dicembre 2003. 102 M. S. Doran, The Saudi Paradox, op. cit., p. 39 ss.. 103 “L’attacco angloamericano all’Iraq viene percepito da bin Laden e associati come annuncio dell’imminente offensiva finale contro i popoli islamici. L’occupazione della Mesopotamia si inquadra per i jihadisti ma anche per buona parte dell’opinione pubblica araba e islamica in un supercomplotto “giudaico-crociato”. Per assicurare la sicurezza di Israele e l’accesso occidentale al petrolio arabo gli Stati mediorientali verrebbero smembrati, ridotti a miniterritori imbelli, funzionali ai piani di sfruttamento economico e di asservimento strategico delle potenze occidentali. Una rivoluzione geopolitica. Israele annetterebbe il Sinai e i territori palestinesi. La Siria sarebbe spartita su base etnico-confessionale - costa settentrionale alauita, interno sunnita, staterello druso succube degli israeliani. L’Arabia Saudita finirebbe in pezzi. Washington promuoverebbe la secessione della provincia di al-Hasa, all’Est, ricca di petrolio e prevalentemente sciita, che già in passato tentò di emanciparsi dal dominio della Casa di Saud. Ad essa verrebbe accorpata la zona desertica meridionale del Rub al-Khali, dotata di riserve di petrolio e gas molto consistenti. La tutela dei Luogi Santi di Mecca e Medina sarebbe riaffidata agli hashemiti, insieme alla parte più riottosa del Nord, così da consentire agli americani di recuperare la base di Tabuk. Quanto allo Yemen, perderebbe l’Hadramawt, provincia ribelle da trasferire all’Oman.” (L. Caracciolo, op. cit., p. 16). 104 Nayef, nella stessa intervista, accusa i Fratelli Musulmani di aver radicalizzato l’Islam in Arabia Saudita e in tutto il mondo islamico: “All our problems come from the Muslim Brotherhood. We have given too much support to this group. […] The Muslim Brotherhood has destroyed the Arab world”. Di queste dichiarazioni va comunque considerato l’aspetto tattico e di mera propaganda. Nayef, infatti, vuole mettere al riparo l’Arabia Saudita dall’accusa di sponsorizzare il terrorismo e l’Islam wahhabita dall’accusa di essere una religione bellicosa e non pacifica (A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., p. 288). 29

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firmata da intellettuali e attivisti d’impronta liberale, sia sunniti che sciiti, che propone l’applicazione di una road map per le riforme, si prevede l’introduzione di una monarchia costituzionale, dello stato di diritto, di un parlamento eletto democraticamente e s’invoca il rafforzamento della società civile, il rispetto dei diritti umani e la fine delle discriminazioni nei confronti degli sciiti, ovviamente in conformità con la sharia e nel rispetto dei testi sacri. Nell’aprile 2003, a qualche settimana dalla caduta del regime baathista in Iraq, 450 sciiti gli sottopongono la petizione Partners in Homeland, in cui richiedono il diritto di costruire proprie moschee, l’istituzione di un’autorità religiosa sciita in Arabia Saudita, una maggiore partecipazione alla vita politica, la fine delle discriminazioni nel mercato del lavoro, la cancellazione dai libri di testo scolastici dei riferimenti contro gli sciiti; al contempo riconoscono l’autorità della famiglia reale e assicurano di non voler trarre alcun vantaggio dagli sviluppi della caduta di Saddam Hussein105.

In risposta alla richiesta di riforme, Abdullah annuncia lo svolgimento di elezioni municipali e, il 23 agosto 2003, lancia un’iniziativa denominata National Dialogues, consistente in una serie periodica di conferenze aperta alla presenza femminile e alla partecipazione di rappresentanti delle varie correnti di pensiero che animano la società saudita, allo scopo di riunirle all’interno di un forum ufficiale, in assenza del quale non avrebbero modo d’interagire, e di favorire un libero e aperto scambio d’idee su tematiche quali “the standards of education; […] the emergency of extremism; the essential role women should play in the society; and institutional development. Diversity and tolerance are the guiding principles”106. Gli incontri svoltisi finora, sette per l’esattezza, ognuno dedicato a un argomento specifico, si sono tutti conclusi con l’elaborazione di documenti programmatici che raccomandano la riforma dell’insegnamento scolastico e dei libri di testo in senso moderato, la costruzione di un clima di tolleranza e rispetto fra musulmani wahhabiti, minoranze musulmane non wahhabite e minoranze non musulmane, l’attuazione di politiche per la risoluzione della questione giovanile e per il miglioramento della condizione della donna.

Le petizioni e le raccomandazioni, però, sono rimaste lettera morta e le misure effettivamente adottate, come vedremo, sono, in realtà, meno che meri palliativi utili ad allentare la pressione esercitata dagli Stati Uniti e dai gruppi progressisti interni in materia di riforme e di modernizzazione politica e sociale. Abdullah è stato travolto dalle critiche per aver semplicemente accolto il Partners in Homeland sciita, un gesto di distensione che ha destato l’ira funesta dei sahwa e dell’establishment religioso ufficiale, d’accordo nel mettere in guardia dal pericolo di un colpo di stato sciita107. Nel marzo 2004, 13 intellettuali tra i promotori del documento National Reform Document cercano di dar vita a un’organizzazione per i diritti umani indipendente dalla governativa National Human Rights Association (NHRA) e vengono arrestati per ordine di Nayef con l’accusa di attentato all’unità nazionale, oltraggio all’autorità governativa e incitamento dell’opinione pubblica alla violenza108. In cambio del rilascio, il governo gli propone di rinunciare ai loro propositi e di sottoscrivere un documento di abiura; sono in 10 a firmare, i 3 che si sono rifiutati - Matruk Al Falih, Ali Al Domaini e Abdullah Al

105 Ivi, p. 390; International Crisis Group, op. cit., p. 11. 106 Saudi Embassy, Political and Economic Reform, settembre 2004, p. 4. 107 Al Hawali si espresso duramente contro la petizione sciita, paventando un’alquanto improbabile tirannia degli sciiti sui sunniti o addirittura la secolarizzazione dello stato, qualora la Corona avesse dato seguito al suo contenuto (M. S. Doran, op. cit., p. 47). 108 Per paradosso, nell’ottobre 2003, la NHRA ha adottato la Riyadh Declaration on Human Rights in Peace and War in occasione di una conferenza sui diritti umani tenutasi nella capitale saudita. Nella dichiarazione, inter alia, si afferma che l’Islam proibisce l’arresto in assenza di basi legali e che l’Islam richiede la tolleranza verso le altre fedi religiose (http://www.saudiembassy.net/2003News/Statements/StateDetail.asp?cIndex=325). 30

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Hamid - sono ancora in carcere, a nulla sono valsi gli appelli di Washington e di numerose organizzazioni che si occupano di diritti umani109. Il comportamento del governo è esemplificativo di come la libertà di attivismo politico e di espressione sia consentita finché non esorbiti dal perimetro autoreferenziale e totalizzante dell’autorità della famiglia reale; superata la soglia di tollerabilità, oltre la quale c’è il rischio che il potere centrale venga messo in discussione o indebolito, il governo interviene con metodi draconiani e ciò vale per tutti, per i progressisti, per i sahwa e per i terroristi.

Tra Abdullah e Nayef, in sostanza, le divergenze e l’antagonismo si risolvono nell’obiettivo comune di consolidare lo schema su cui si fonda la sovranità della dinastia saudita, quello della doppia lealtà assoluta verso la monarchia e l’ideologia di stato, il wahhabismo. Il National Reform Document e il Partners in Homeland si sono mossi appositamente all’interno di questo schema, con la consapevolezza che al di fuori di esso sarebbe svanita finanche l’illusione del cambiamento. La vicenda dei 13 attivisti arrestati docet. Le riforme di cui Abdullah si è fatto campione servono a garantire la continuità del controllo sulla società da parte del regime e non presuppongono a una vera apertura, che invece comporterebbe la cessione almeno di una parte della sovranità. Abdullah e Nayef si sono divisi i compiti: il primo, più sensibile a certi argomenti, si è occupato dei riformisti e ne è divenuto l’interlocutore; il secondo, in ragione dei suoi addentellati col clero ultraconservatore, ha fatto leva sui sahwa; entrambi hanno giocato le rispettive pedine l’una contro l’altra e l’esito dello scontro è il processo di riforma gattopardesco attualmente in corso, con un netto sbilanciamento a favore dei sahwa, in possesso delle armi vincenti che impediscono l’apertura di un’autentica fase riformatrice: la spada di Damocle della legittimità islamica che pende sulla reale e il consenso popolare. L’International Front Facing the Current Challenge, cui hanno aderito decine di militanti ultraconservatori e capeggiato dal Al Hawali e Al Awdah, ha chiaramente condizionato il suo supporto alla Corona contro Al Qaeda e il clero jihadista alla repressione delle istanze progressiste sia sunnite che sciite110. Al di là delle alleanze e del gioco delle parti, dal punto di vista ideologico Al Qaeda e i sahwa condividono la medesima agenda, orientata a spostare l’asse politico, sociale e culturale verso il tawhid. Se in Abdullah alberga davvero lo spirito del taqarub, la sua volontà modernizzatrice è frustrata da una realtà in cui le forze dell’ortodossia wahhabita sono prevalenti e oppongono una strenua resistenza al cambiamento, forti del largo seguito di cui godono nell’opinione pubblica. Se la monarchia si azzardasse a prendere provvedimenti giudicati antislamici dai sahwa o antitradizionalisti dalla gente comune, Al Qaeda ne guadagnerebbe certamente in consenso tra la popolazione a danno della stabilità del regime111. La conseguenza è una tale cautela nell’apportare le necessarie riforme di strutturali da sfociare in un totale immobilismo.

La Casa Bianca, in proposito, ha sposato una linea paziente e moderata verso il governo, nella consapevolezza che ingerenze esterne troppo evidenti, e sgradite come quelle americane, alla luce dei delicati equilibri interni, possano rivelarsi controproducenti favorendo esiti rivoluzionari che consegnino il paese a Bin Laden e ai suoi seguaci. Tuttavia, con gli attacchi al World Trade Center e il lancio della guerra al terrorismo, la politica interna saudita è divenuta una questione di sicurezza nazionale e perciò da parte di Washington resta ferma la richiesta di

109 Human Rights Watch, Saudi Arabia: Bush Should Call for Dissidents’ Release, 24 aprile 2005, http://hrw.org/english/docs/2005/04/24/saudia10532.htm. 110 M. S. Doran, op. cit., p. 43. 111 Bandar Bin Sultan, predecessore di Turki nelle vesti di ambasciatore saudita negli Stati Uniti, per giiustificare le ambiguità e la scarsa collaborazione di Riyadh nella guerra al terrorismo ha affermato: «Allontanarsi dal popolo nelle democrazie significa perdere le elezioni; da noi, significa farsi tagliare la testa» (citato da C. Jean, op. cit., p. 102). 31

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riforme del sistema politico e del sistema educativo, allo scopo di eliminare le cause socioculturali che generano il radicalismo islamico e le sue manifestazioni terroristiche112.

3. Le elezioni municipali e l’allargamento della Majlis Al Shura.

Nel 2005 la popolazione saudita è tornata alle urne dopo 40 anni per eleggere la metà dei rappresentanti (circa 1.700) dei 178 consigli municipali. Le votazioni sono state effettuate in tre fasi (10 febbraio, il 3 marzo e il 21 aprile) e sono state presentate dal governo come l’inizio del processo di apertura del sistema politico; la famiglia reale, insolitamente compatta, si è prodigata per promuovere l’evento e favorire un’ampia partecipazione. L’affluenza, invece, è stata solo del 20% e si è concentrata nelle province dell’est a maggioranza sciita, dove maggiore è l’esigenza di rappresentanza politica. La popolazione nel complesso si è dimostrata apatica e indifferente, segno di disabitudine all’attività politica e di diffidenza verso la sincerità di un’iniziativa voluta dalla monarchia. Il fatto, inoltre, che la competizione riguardasse il livello più basso, che la restante metà dei seggi fosse di nomina governativa, che l’establishment religioso abbia posto il veto sulla concessione del voto alle donne e che la campagna elettorale si è svolta in un clima viziato da pressioni e intimidazioni, non ha certamente favorito il dibattito democratico e stimolato la partecipazione.

I candidati che hanno ricevuto i maggiori consensi sono stati gli attivisti islamici riuniti nella cosiddetta Golden List113, sponsorizzata e legittimata religiosamente dai sahwa, subito pronti a sbarrare il passo ai sunniti riformisti, agli sciiti e ad un’eventuale alleanza tra i due raggruppamenti, a dimostrazione di come nei paesi musulmani siano le forze religiose estremiste ad approfittare delle consultazioni elettorali; d’altra parte, se è vero che la democrazia riflette la società, la società saudita è ultraconservatrice e non c’è da stupirsi se i candidati dei sahwa abbiano avuto la meglio. La Corona, poi, ha preferito non rischiare che uomini sgraditi al clero mettessero piede nei consigli municipali. Gli esponenti della Golden List, in ogni caso, sono stati più abili e meglio organizzati in campagna elettorale per ammissione dei loro stessi avversari moderati, benché avvantaggiati da mezzi di comunicazione tutt’altro che ostili114. La Storia ci dirà se le elezioni municipali del 2005 abbiano rappresentato una mera operazione d’immagine o il primo vero passo lungo il cammino delle riforme e della modernizzazione. L’auspicabile partecipazione delle donne al prossimo appuntamento con le urne, già fissato per il 2009, sarà un utile elemento di valutazione.

112 Sul capitolo delle riforme e dell’antiterrorismo, invece, il Congresso e i mezzi di comunicazione hanno espresso il risentimento del popolo americano nei confronti di Riyadh con prese di posizione aggressive ed esigenti, volte a spingere l’esecutivo a esercitare maggiori pressioni sulla monarchia. Il Consolidated Appropriations Act per l’anno fiscale 2005, ad esempio, vieta la concessione di qualunque forma di assistenza all’Arabia Saudita in mancanza di una sua effettiva cooperazione nell’antiterrorismo. La responsabilità di accertare la condotta di Riyadh spetta al Presidente, che è chiamato a dichiarare ufficialmente se il paese collabora con gli Stati Uniti o meno, avendo comunque il diritto di sollevare il divieto, se lo ritiene necessario, anche in mancanza di collaborazione. Sul Congresso e l’Arabia Saudita si veda: A. B. Prados, op. cit., 16-17. 113 S. Coll, Islamic Activists Sweep Saudi Councils Elections, Washington Post, 24 aprile 2005; M. Ahmad - A. M. Mirza, “Golden List” Men Sweep Polls, Arab News, 24 aprile 2005. 114 In Arabia Saudita i mezzi di comunicazione sono controllati dal governo e vige un alto tasso di censura. La nascita della Saudi Journalists Association (nel cui board fanno parte due donne), il riassetto del mondo dell’editoria con l’apertura a investitori privati e la libertà di riunione per i giornalisti garantita per legge si sono rivelati progressi solo formali verso il rispetto della libertà di espressione e di stampa (A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., pp. 382-383). 32

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All’interno del processo di apertura del sistema politico va anche inquadrato l’allargamento a 150 membri della Majlis Al Shura, il consiglio consultivo composto da personalità dall’alto profilo culturale e professionale di nomina regia, istituito da Re Fahd nel 1993 allo scopo di avvicinare la società al processo di decision making. La Shura non ha alcuna influenza e tanto meno potere decisionale, quindi l’espansione della membership, di cui peraltro hanno beneficiato esclusivamente i rappresentanti delle tribù, non equivale a un suo rafforzamento. Tuttavia, l’idea di renderne elettivi i componenti, che Abdullah non ha escluso a priori115, potrebbe preludere nel lungo periodo alla nascita di una camera alta con facoltà, ad esempio, di controllo sul budget dei ministeri in modo da rendere più credibile il governo agli occhi della popolazione116.

4. L’ambigua riforma del sistema educativo, la mancanza di libertà religiosa e la condizione della donna.

Per quanto abbia sempre ufficialmente negato ogni connessione tra Arabia Saudita, radicalismo islamico e Al Qaeda, il governo ha annunciato il suo impegno per la depurazione dell’insegnamento e della predicazione dal fanatismo religioso, al fine di spezzare all’interno del sistema educativo la catena di produzione di ulema estremisti e rafforzare l’establishment moderato, più facilmente controllabile, allo stesso tempo combattendo Al Qaeda sul piano culturale e ideologico. Un modo, oltretutto, per riabilitarsi nei confronti degli Stati Uniti dal ruolo di sponsor passivo del terrorismo internazionale e di sponsor attivo del radicalismo islamico.

Il Ministero degli Affari Islamici ha intrapreso una campagna di sostituzione dei libri di testo fondamentalisti distribuiti nelle scuole, ha avviato un programma triennale mirato all’educazione degli imam e ha reso più stringenti i controlli sugli insegnanti nelle scuole religiose e nelle università: migliaia di imam sono stati allontanati dalle moschee con l’accusa d’incitamento all’intolleranza religiosa e di dubbio impiego dei fondi a disposizione (non a caso è stata proibita la raccolta di contributi nei luoghi di culto per impedire che confluiscano nelle casse di Al Qaeda e del QPA117). Tuttavia, come nella lotta al finanziamento del terrorismo, le assicurazioni di Riyadh valgono zero perchè il governo ha attuato le riforme in maniera così vaga e imperscrutabile che non esistono prove certe che abbia effettivamente provveduto a rinnovare il parco dei libri scolastici e di quello docenti118. È certo, invece, che nelle madrase e nelle moschee di tutto il mondo il materiale divulgativo e l’insegnamento siano quelli di sempre, se persino nelle moschee degli Stati Uniti continuano a essere diffuse pubblicazioni estremiste sfacciatamente edite da organi ufficiali del Regno saudita e infarcite delle solite tiritere contro gli occidentali, i cristiani, gli ebrei e gli sciiti119.

Della tolleranza promessa verso le altre religioni in Arabia Saudita non vi è traccia e la vita dei musulmani non wahhabiti (sciiti e sufi) e dei lavoratori stranieri cristiani, induisti e

115 “If [the election time] comes and the Saudi people deem they are warranted, we will not fail” (citato da A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., p. 361). 116 F. G. Gause III, How to Reform Saudi Arabia Without Handing It to Extremist, Foreign Policy, settembre/ottobre 2004, p. 68. 117 A. B. Prados - C. M. Blanchard, Saudi Arabia: Terrorist Financing Issues, op. cit., p. 23. 118 GAO, op. cit., p. 5. 119 Center for Religious Freedom, Saudi Publications On Hate Ideology Fill American Mosques, Center for Religious Freedom, 2005. 33

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buddisti è costantemente minacciata dalle angherie della temibile Mutawwa’in120, la polizia religiosa del Dipartimento per la Prevenzione del Vizio e la Promozione della Virtù121, formalmente dipendente dal Re ma dal 1982 nell’orbita del Ministero dell’Interno. La Mutawwa’in è inquadrata “verso il controllo dei luoghi pubblici, la sorveglianza degli spazi religiosi e degli orari della preghiera, della protezione dei valori islamici e della società da eventuali derive”, inoltre “veglia sugli usi e i costumi e reprime i contravventori […] e garantisce che durante le funzioni religiose le vetrine ed i negozi non siano oggetto di furto. Infine, essa controlla che siano rispettati i segni esteriori, come il velo per le donne, il taglio della barba ed il tipo di abiti, che devono essere conformi alla tradizione profetica (Sunna)”122. Per portare a compimento la sua missione la Mutawwa’in si avvale ordinariamente di misure estreme, quali arresti arbitrari, pestaggi, persecuzioni ad personam, soprusi d’ogni sorta, torture. La legge consente ai non wahhabiti di praticare la propria fede in privato, ma di frequente gli uomini della polizia religiosa puniscono l’esercizio di tale libertà, procedendo ad arresti arbitrari con accuse vaghe e pretestuose come la detenzione di materiale pornografico, una mera scusa per sequestrare pubblicazioni, cd e video di natura religiosa e per distruggere i luoghi di culto di altre confessioni. I ranghi della Mutawwa’in sono formati in gran parte da soggetti di scarsa istruzione e dai modi brutali, così Nayef ha deciso di qualificarne l’addestramento al fine di evitare gli eccessi, sebbene, stando alle cronache, la loro condotta non accenna a migliorare. Questa libertà d’azione è resa possibile dal favore di cui la Mutawwa’in gode presso il clero ultraradicale e ultraconservatore, che ne condivide l’operato in quanto antidoto contro la secolarizzazione e la corruzione dei costumi, e dal benestare di Nayef e in fondo anche di Abdullah, prigioniero della trasfigurazione mitologica della Corona come garante dell’integrità morale del popolo123.

In quest’ottica, le donne, ovviamente, rappresentano uno dei bersagli preferiti dell’attività di prevenzione del vizio e di promozione della virtù. La condizione femminile in Arabia Saudita rimane regolata da leggi di origine tribale che si giustappongono all’impostazione wahhabita della giurisprudenza; la concessione della carta d’identità, avvenuta nel 2001, e di altri premi di consolazione, non hanno mutato una situazione discriminatoria in cui alle donne vengono negate le libertà fondamentali: il diritto di voto, la patente di guida, l’opportunità di studiare e viaggiare all’estero se non accompagnate da un uomo, l’accesso paritario al mercato del lavoro nei settori pubblico e privato e via dicendo. Nel marzo 2004, la risoluzione con cui la Majlis Al Shura si è pronunciata in direzione dell’assegnazione del diritto di voto a tutti una volta compiuti i 21 anni di età, è un lampo di luce nell’oscurità che non fa disperare per il lungo periodo, in ragione del ritmo lento e della mobilità quasi impercettibile che la famiglia reale ha impresso al cambiamento124. Per il momento, gli usi e i costumi tribali restano codificati dalla giurisprudenza islamica, e chi sostiene che ciò rispecchia più in generale l’egemonia nella società saudita di una morale conservatrice, a ben vedere commette un errore terminologico trattandosi, a chiare lettere, non di morale conservatrice ma di morale triviale, che sovente oltrepassa i limiti dell’inverosimile; a titolo esemplificativo basti la recente ordinanza con cui il Ministero dell’Interno dell’immarcescibile Nayef si propone di combattere

120 L’International Religious Freedom Report 2006 fornisce un resoconto sintetico ma esaustivo sulla condotta della Mutawwa’in. È disponibile on-line all’indirizzo: http://www.state.gov/g/drl/rls/irf/2006/71431.htm. 121 Sul Dipartimento per la Prevenzione del Vizio e la Promozione della Virtù si veda: D. Thomas, Il Corano e la spada: istituzioni religiose saudite, op. cit., pp. 17-22. 122 Ivi., p. 18. 123 G. Okruhlik, op. cit., p. 163. 124 Nel dicembre 2003, Abdullah, nella sua apertura virtualmente alle istanze riformiste, ha accettato di ricevere una petizione firmata da 300 attiviste in cui si richiedeva l’adozione di una nuova normativa che tutelasse maggiormente la posizione della donna all’interno della famiglia anche in riferimento al divorzio. 34

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la diffusione degli animali domestici perché tenere cani e gatti in casa e portarli a passeggio è giudicata una moda troppo occidentale e di conseguenza antislamica. Incaricata di far rispettare l’ordinanza, guarda caso, è la Mutawwa’in125.

Nel 2002, nell’Index of Religious Freedom126, il Dipartimento di Stato ha ammesso per la prima volta che in Arabia Saudita la libertà religiosa non esiste. Nel 2004, l’allora Segretario di Stato, Colin Powell, ha designato finalmente il paese quale Country of Particular Concern, un provvedimento che in linea teorica consentirebbe di subordinare al rispetto della libertà religiosa la sottoscrizione di trattati e la fornitura di armamenti e agevolazioni commerciali127. Tali provvedimenti possono lasciar credere a un cambio di rotta degli Stati Uniti nei confronti di Riyahd, dopo aver chiuso gli occhi sul radicalismo religioso saudita per oltre 50 anni, vale a dire fino a quando il fenomeno non si è manifestato come minaccia per la sicurezza interna con gli attentati l’11 settembre128. Tuttavia, il fatto che il Regno continui indisturbatamente a esportare il jihad persino negli Stati Uniti suscita inquietudine e getta un’ombra d’incertezza sull’efficacia dell’impegno di Washington nella prevenzione e nel contrasto del fondamentalismo islamico nel mondo, se non riesce a farvi fronte neppure in casa propria.

5. La nuova legge sulla successione al trono.

Lo scorso ottobre, Abdullah ha emanato una legge che stabilisce nuove procedure per la nomina del Principe ereditario129. Nel 1992, Fahd aveva attribuito al Re la facoltà assoluta di nominare l’erede al trono tra i figli di Ibn Saud e Fahd scelse proprio Abdullah. Con l’ultima riforma, il Re condivide la facoltà di scegliere il suo successore con un conclave, l’Hayaat Al Baiyaa, composto dai figli di Ibn Saud, dai figli più anziani dei fratelli di Ibn Saud che gli sono sopravvissuti, dai figli del sovrano in carica e dai figli del Principe ereditario, per un totale di circa 35 membri. Il Re propone al conclave tre nomi su cui discutere; se non si raggiunge un accordo all’unanimità si passa al voto segreto a maggioranza.

La successione al trono è sempre stato un argomento delicato in Arabia Saudita. L’ineluttabile invecchiamento dei figli di Ibn Saud e il rischio di ripetere con Abdullah, in considerazione dei suoi 83 anni, quanto già accaduto con le condizioni di salute di Fahd, ha richiesto un intervento urgente per dar vita a un cambio generazionale e assicurare la continuità della dinastia. Abdullah, pertanto, ha dato nuove regole che estendono la successione al trono ai nipoti di Ibn Saud e prevedono la sostituzione del Re in caso d’infermità. Il nuovo meccanismo

125 F. Tortora, In Arabia cani e gatti nel mirino della polizia, Corriere della Sera, 11 settembre 2006. 126 L’Index of Religious Freedom viene rilasciato annualmente dal Dipartimento di Stato sulla base dell’International Religious Freedom Act (IRFA) del 1998, la legge che ha istituito la U.S. Commission on International Religious Freedom. 127 International Religious Freedom Report 2004, Saudi Arabia, http://www.state.gov/g/drl/rls/irf/2004/35507.htm 128 E si dice che la Casa Bianca abbia impedito che 28 delle 900 pagine di un report del Joint Inquiry into Intelligence Community Activities before and after the Terrorist Attacks of September 11, 2001, fossero declassificate e rese pubbliche per non svelare informazioni delicate sulla connection tra gli attentatori delle Torri Gemelle e il governo saudita (M. Allen, Bush Won’t Release Classified September 11 Report, Washington Post, 30 luglio 2003; D. Johnson - D. Jehl, Bush Refuses to Declassify Saudi Section of Report, New York Times, 30 luglio 2003; J. Risen - D. Johnston, Report on September 11 Suggests a Role by Saudi Spies, New York Times, 2 agosto, 2003). 129 S. Henderson, New Saudi Rulers on Succession: Will They Fix the Problem?, The Washington Institute for Near East Policy, 25 ottobre 2006, http://www.washingtoninstitute.org/templateC05.php?CID=2526; T. Alhomayed, Saudi Arabia….. A Monarchy with Responsibilities, Asharq Alawsat, 25 ottobre 2006, http://www.asharq- e.com/news.asp?section=2&id=6822. 35

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scatterà alla morte di Abdullah, quando l’attuale Principe ereditario, l’ottantatreenne Sultan diverrà Re o logicamente alla morte di Sultan, malato di cancro, se dovesse sopraggiungere prima di quella di Abdullah, che ha lasciato vacante la carica di Secondo Vice Primo Ministro apposta per precludere a Nayef, 72 anni, la possibilità di salire al trono per successione diretta.

Il Ministro dell’Interno è la seconda volta che viene escluso dalla linea di successione diretta al trono, la prima quando Fahd gli ha preferito Abdullah nelle vesti di Principe ereditario e Vice Primo Ministro e Sultan come Secondo Vice Ministro quindi secondo Principe ereditario. Va osservato che Abdullah non fa parte dei cosiddetti , i figli che Ibn Saud ha avuto dalla moglie prediletta, appartenente alla tribù dei , ovvero Fahd, Salman, Nayef, Sultan, Abdel-Rahman, Turki e Ahmed. I Sudairi Seven, ora Six con la morte di Fahd, da decenni costituiscono il principale blocco di potere all’interno della Casa di Saud. Il fatto che Fahd abbia scelto il fratellastro Abdullah come erede al trono, preferendolo ai suoi fratelli di sangue, è sì segno delle grandi qualità di Abdullah, ma ha provocato il malcontento dei Sudairi, che non hanno mai pienamente accettato il ruolo di primo piano conquistato da Abdullah e negli anni della reggenza de facto, tra il 1995-2005, hanno cercato di restringerne l’autorità, specie con Nayef. In occasione della nomina del nuovo Principe ereditario, è certo che i Sudairi cercheranno di far valere il loro peso e tra i papabili, con Nayef virtualmente fuori dai giochi per dinamiche familiari, il favorito sembra essere il Principe Salman, 70 anni, il potente governatore di Riyadh.

Indipendentemente da chi sarà nominato, la nuova legge sulla successione consolida la tradizionale chiusura del sistema politico saudita, in barba alle riforme democratiche e alla partecipazione popolare. La famiglia Al Saud non ha la minima intenzione di fare concessioni sulla sovranità e il policy making rimarrà ancora a lungo una sua prerogativa.

6. Le riforme economiche, la politica energetica e la disoccupazione.

Mentre le riforme politiche e culturali languono tra immobilismo, ambiguità e minimi passi in avanti, l’Arabia Saudita ha inaugurato con discreto successo una nuova fase del suo corso economico. Il tradizionale modello assistenziale ha funzionato finché i prezzi del petrolio e le rendite procapite da esportazione si sono mantenuti su livelli elevati. Negli anni ‘90, l’incremento incessante della popolazione e il calo dei prezzi ha provocato una riduzione delle rendite petrolifere fino a un massimo dell’80% a livello procapite e del 40% in valore assoluto130. Il modello è andato in crisi e si è reso necessario un ripensamento generale della politica economica. Preso atto della precarietà della condizione di rentier state in un contesto di dirigismo pubblico e di scarso incentivo all’iniziativa privata, la diversificazione delle attività produttive, l’apertura agli investimenti esteri, le privatizzazioni e la costruzione d’infrastrutture sono divenuti i punti cardine del nuovo corso. Il processo di adesione alla World Trade Organization (WTO), che si è completato nel dicembre 2005, richiedendo maggiore trasparenza finanziaria, un impiego più razionale dei surplus di budget dovuti alle rendite petrolifere e la rimozione di misure protezionistiche, ha poi dato l’impulso decisivo alla modernizzazione dell’economia131.

130 Energy Information Administration (EIA), Saudi Arabia Country Analysis Brief, agosto 2005, http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/saudi.html, p. 2. Sulla politica di sicurezza energetica saudita si veda anche: A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., pp. 305-324. 131 Per un quadro dettagliato sulle riforme economiche si veda: A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., pp. 365-381. 36

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Tuttavia, anche se negli ultimi anni la ritrovata crescita del prodotto interno lordo (6.1% nel 2005132) è dipesa da fattori diversi, l’economia saudita nel suo complesso è ancora largamente dipendente dal settore petrolifero e per evitare di essere soggetta perennemente alla volatilità del mercato energetico globale deve proseguire con fermezza lungo la strada delle riforme, senza fermarsi o rallentare. L’Arabia Saudita, infatti, non può più permettersi di rilassarsi sulle rendite petrolifere. Secondo i dati riportati dall’OPEC, nel giugno 2006 la Russia ha estratto 46 mila barili in più e sebbene la spare capacity e lo swing power di Riyadh siano attualmente ineguagliabili133, la sfida posta da Mosca al primato di principale produttore di oro nero è segno che i tempi sono cambiati. L’evento ha riacceso il dibattito sulle reali condizioni delle riserve petrolifere saudite. Alcuni analisti ritengono siano in esaurimento e a prova di ciò, oltre a valutazioni di natura prettamente geologica, adducono la mancata scoperta di nuove aree petrolifere da sfruttare e la crescita degli investimenti in assets energetici e delle attività di esplorazione all’estero. Nell’aprile 2005, con l’obiettivo di tranquillizzare gli Stati Uniti e gli altri acquirenti, Abdullah ha presentato, nel ranch di Bush in Texas, un piano di 50 miliardi di dollari d’investimenti per portare la produzione a 12.5 milioni di barili al giorno a partire dal 2009 e a 15 milioni dal 2015134. Nella stessa occasione, però, Abdullah ha opposto un netto rifiuto alla richiesta rivoltagli da Bush di un aumento immediato della produzione per contenere il rialzo dei prezzi135. A tale rifiuto hanno fatto seguito robusti tagli che, per quanto decisi in ambito OPEC in corrispondenza della flessione dei prezzi del petrolio, destano il sospetto di un sovrasfruttamento dell’apparato produttivo saudita, che senza ulteriori investimenti, appunto, non può dare di più. Per ridurre il più possibile la quantità di petrolio da destinare al consumo interno e riservare la produzione alle esportazioni, il governo ha deciso di puntare sul gas naturale e nel 2003 il Ministro del Petrolio, Naimi, ha lanciato, con la compartecipazione finanziaria di compagnie straniere, la Saudi Gas Iniziative per lo sviluppo della produzione e la ricerca di nuovi giacimenti, visto che solo il 15% del territorio è stato adeguatamente esplorato136.

Se la sicurezza energetica è un problema di lungo periodo, il governo è chiamato a politiche di efficacia più immediata per far fronte all’alto tasso di disoccupazione137. Le stime ufficiali ci indicano un tasso di disoccupazione al 13%, ma la percentuale non tiene conto delle donne che cercano lavoro, delle occupazioni improduttive e del lavoro nero, altrimenti la percentuale salirebbe al 25%. Tale massa di senza impiego trae origine dall’aumento del tasso di natalità e dal raddoppiamento della popolazione (passata dai 12 milioni dell’inizio degli anni ‘80 ai 25 di oggi, inclusi i 5 milioni e mezzo d’immigrati). Di conseguenza, la disoccupazione affligge maggiormente la componente giovanile e la rende emotivamente predisposta al richiamo ideologico di Al Qaeda e al reclutamento nelle file jihadiste. Finora il mercato del

132 Central Intelligence Agency (CIA), Saudi Arabia, The World Factbook 2006, https://cia.gov/cia//publications/factbook/geos/sa.html. 133 L’Arabia Saudita, in base alle stime ufficiali, estrae circa 9 milioni e mezzo di b/d, di cui 8 destinati alle esportazioni, e ha riserve per 261 miliardi di b/d, una quantità equivalente a ¼ delle riserve mondiali (EIA, op. cit., p. 3). 134 B. Bahree - N. King, Saudis said to plan energy boost, The Wall Street Journal, 22 aprile 2005, http://money.cnn.com/2005/04/22/news/international/saudi_production.dj/. 135 Bush seeks 'reasonable' oil prices from Saudis, Gulf News, 26 aprile 2005, http://archive.gulfnews.com/articles/05/04/26/162436.html; M. Gawenda, Bush fails to persuade Saudis to cut oil price, The Sidney Morning Herald, 27 aprile 2005, http://www.smh.com.au/news/World/Bush-fails-to-persuade- Saudis-to-cut-oil-price/2005/04/26/1114462041426.html. 136 Energy Information Administration (EIA), op. cit., pp. 8-10. 137 Per una più ampia disamina sulla questione della disoccupazione si veda: A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., pp. 373-377. Per i dati statistici si veda anche: CIA, op. cit.. 37

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lavoro non è stato in grado di assorbire l’offerta crescente, a causa delle ridotte dimensioni del settore privato e del massiccio ricorso a lavoratori stranieri nel settore petrolifero e nei settori meno qualificati (agricoltura, servizio domestico, pulizia). Su una forza lavoro di 6 milioni e 700 mila gli stranieri sono oltre la metà e per questo nel 2001 il Ministro del Lavoro e degli Affari Sociali, Ghazi Bin Abd Al Rahman Al Qusaybi, ha avviato un programma di saudizzazione della forza lavoro, con l’obiettivo di ridurre gradualmente la comunità straniera a 1 milione di occupati entro il 2030. Il successo della saudizzazione è legato all’adozione di misure complementari come l’espansione del settore privato (dei servizi in particolare), la qualificazione della forza lavoro saudita per renderla più competitiva, l’incremento della percentuale femminile nel mondo del lavoro (oggi, ferma solo al 15%) e l’eliminazione del lavoro nero.

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Capitolo IV

- La dimensione internazionale -

1. La Guerra Fredda Islamica tra Arabia Saudita e Iran.

L’Iran ha sempre conteso all’Arabia Saudita la leadership in Medio Oriente e nel Golfo. Con la caduta dello Shah e la presa del potere di Khomeini, la competizione geopolitica tra i due paesi ha trovato trasposizione ideologica in termini religiosi. Ad affrontarsi troviamo non solo i due principali rami dell’Islam, ma due diverse concezioni politiche della religione: lo sciismo iraniano è un Islam rivoluzionario e d’attacco, votato all’esportazione del modello khomeinista, mentre il sunnismo wahhabita, che i Saud hanno imposto a ideologia del Regno, propende per una politica estera pragmatica volta alla stabilità dell’ordine regionale. Lo spirito radicale e attivista iraniano innesca una doppia minaccia per la monarchia: in primo luogo, ne mette in discussione il ruolo di custode dei luoghi santi di Mecca e Medina e quindi di protettrice dell’Islam e della nazione musulmana nel mondo; in secondo, tocca il nervo scoperto dell’opposizione radicale wahhabita dei sahwa e di Al Qaeda, che lancia alla famiglia reale le stesse accuse di conservatorismo e di sudditanza agli Stati Uniti che gli vengono rivolte dagli ayatollah per screditarla al cospetto dell’umma. I due paesi si sfidano in una tenzone retorica fatta di slogan e propaganda allo scopo di accreditarsi a danno dell’altro come il simbolo universale dell’islamicità, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale; entrambi rappresentano l’unico e vero Islam e la loro condotta in materia di valori e doveri religiosi è irreprensibile rispetto al nemico. L’oratoria estremista del Presidente iraniano, Ahmadinejad, ineguagliabile per antiamericanismo e antisemitismo, ha l’obiettivo di sottrarre al sovrano saudita la guida del popolo islamico per condurlo nella rivoluzione internazionale contro l’Occidente incarnato dagli Stati Uniti, il Grande Satana, e dalla sua appendice mediorientale rappresentata da Israele, il Piccolo Satana.

Tale ambizione, ad ogni modo, si scontra con dei limiti oggettivi, a cominciare dalla debolezza dell’autorità religiosa di Teheran, che paga la schiacciante prevalenza numerica dei sunniti (80% dei musulmani) sugli sciiti (20%). Vi è poi un divario incolmabile di disponibilità finanziaria che dà a Riyadh maggiore libertà di spesa sia nelle attività di proselitismo che in ambito militare, ove può contare sulla garanzia di sicurezza statunitense, sull’acquisizione di nuovi armamenti convenzionali sulla qualificazione dell’addestramento e sull’incremento del 25% degli effettivi nell’esercito. Tuttavia, l’Iran ha dimostrato di saper ovviare allo svantaggio di partenza, tessendo anzitutto una sapiente rete di alleanze con partiti e movimenti islamisti rivoluzionari anche sunniti con cui ha allargato la sua zona d’influenza. Teheran appoggia le minoranze sciite di tutto il Golfo (in particolare di Arabia Saudita e Bahrein) e del Pakistan, è presente in Libano con Hezbollah per il tramite della Siria e nei territori palestinesi con Hamas. La caduta di Saddam Hussein ha poi aperto il vaso di Pandora iracheno e reso davvero plausibile nella regione un’inversione dei rapporti di forza a favore della componente sciita138. Gli ayatollah, inoltre, hanno scosso gli equilibri militari nel Golfo con il ben avviato proposito

138 L’Iran guarda anche all’Asia Centrale, dove sono presenti minoranze musulmane discriminate dai governi locali. Gli importanti legami commerciali e culturali stretti con i paesi dell’area sono valsi il posto da osservatore nella Shangai Cooperation Organization (SCO). 39

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di dotarsi dell’ordigno nucleare. Alla sicurezza di Riyadh non basta più la superiorità convenzionale e se gli Stati Uniti non offriranno a tutto il Golfo la propria capacità di deterrenza nucleare, i sauditi non potranno far altro che pareggiare i conti atomici con Teheran. In questa prospettiva, nel vertice di Riyadh del 9-10 dicembre, il Gulf Cooperation Council (GCC) ha annunciato la volontà di avviare programmi per la produzione di energia nucleare a scopi pacifici, che può aprire la strada all’impiego di tecnologie dual use139.

I sunniti, pertanto, dopo una lunga fase di predominio finanziato con i petrodollari sauditi, devono ora fare i conti col risveglio sciita in uno scontro che vede contrapposte su diversi fronti le potenze che rappresentano simbolicamente le due principali anime dell’Islam. E se finora la tensione accumulata non è mai sfociata in un confronto militare diretto, alla luce dei recenti sviluppi della vicenda irachena non si può escludere che in futuro la Guerra Fredda Islamica tra Arabia Saudita e Iran possa drammaticamente scaldarsi.

2. Il fronte iracheno.

Il 20 settembre 2005, nel corso di una visita ufficiale a Washington, il Ministro degli Esteri saudita, il Principe Saud140, lancia il grido d’allarme sulla situazione in Iraq: “US policy in Iraq is widening sectarian divisions to the point of effectively handing the country to Iran […] We fought a war together to keep Iran out Iraq, now we are handing the whole country over to Iran without reason […] Iraq is disintegrating” 141. Questa affermazione è assolutamente aderente alla realtà: senza fare valutazioni sulla politica degli Stati Uniti nel dopo Saddam Hussein, che esula dagli argomenti trattati nel presente scritto, è vero che il paese risulta frammentato su linee di appartenenza etnico-religiose e che l’interferenza dell’Iran negli affari iracheni è pervasiva. Teheran ha avuto gioco facile nel condizionare il processo politico supportando i partiti sciiti usciti vincitori dalle elezioni democratiche del dicembre 2004; si avvale di un ampio network d’informatori; fornisce supporto militare e logistico ai gruppi armati; compra il consenso della popolazione con opere di solidarietà attraverso le charities. Dal nome del principale partito sciita iracheno, il Supreme Council of Islamic Revolution in Iraq (SCIRI), si desume che il traguardo iraniano è l’esportazione della rivoluzione khomenista in Iraq, presupposto dell’egemonia regionale.

La Casa reale è stata contraria all’intervento americano fin dall’inizio e i suoi timori si sono rivelati fondati142: la liberazione degli sciiti dal giogo baathista ha rimesso in discussione gli equilibri regionali a vantaggio dell’Iran, mentre la sorte dei sunniti iracheni in un paese a predominanza sciita è quanto mai incerta. Sul piano interno, il sostegno a Iraqi Freedom avrebbe giustificato le accuse di antislamicità provenienti dai sahwa e da Al Qaeda, che in Iraqi Freedom vedono un complotto dell’asse sionista-crociato che corre in aiuto degli sciiti con l’obiettivo di

139 R. Qusti, GCC to Develop Civilian Nuclear Energy, Arab News, 11 dicembre 2006, http://www.arabnews.com/?page=1§ion=0&article=89863&d=11&m=12&y=2006. 140 Saud è malato di cancro, le sue condizioni si sono aggravate e le improvvise dimissioni di Turki da ambasciatore negli Stati Uniti possono essere un indizio della lotta in corsa all’interno della Casa Reale per la sua successione. Il favorito sembra essere il Principe Bandar, anch’egli ex ambasciatore negli Stati Uniti e attuale consigliere per la sicurezza nazionale, molto vicino alla Casa Bianca (H. Cooper, Saudis Say They Might Back Sunnis if U.S. Leaves Iraq, The New York Times, 13 dicembre 2006). 141 Citato da N. Obaid, Meeting the Challenge of a Fragmented Iraq: A Saudi Perspective, Center for Strategic and International Studies (CSIS), 6 aprile 2006, p. 3. 142 Saud aveva messo in guardia Bush, avvertendolo che per risolvere un problema ne avrebbe creati “five more” (N. Obaid, Stepping Into Iraq, Washington Post, 29 novembre 2006). 40

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distruggere il vero Islam, quello sunnita wahhabita. In realtà, l’opposizione politica all’intervento si è poi tradotta in sostegno informale e indiretto alle operazioni militari: gli americani hanno ottenuto il diritto di passaggio e di sorvolo del territorio saudita, la possibilità di utilizzare il Combat Air Operations Center (CAOC) della Prince Sultan Air Base (PSAB), a sud di Riyadh, e le altre basi installate nel Regno per il rifornimento dei velivoli e per attività d’intelligence. Dopo di che, caduto il regime di Saddam, gli americani hanno provveduto in pochi mesi a sgomberare l’Arabia Saudita dalla loro sgradita e controversa presenza militare, privando il clero radicale e Al Qaeda del loro principale argomento propagandistico: il CAOC, con i suoi 5 mila soldati, è stato trasferito in Qatar e l’unità della U.S. Air Force, la più numerosa, completamente disattivata; nel paese sono rimasti solo consiglieri militari e addestratori143.

La monarchia ha svolto finora un ruolo diretto nel processo di stabilizzazione, limitandosi a sollecitare un accordo di modus vivendi tra le parti che garantisse ai sunniti uguali dividendi petroliferi. Ma di fronte all’impossibilità di raggiungere un accomodamento complessivo soddisfacente e all’inarrestabile disgregazione del paese, che né le elezioni né l’approvazione della costituzione sono state in grado d’impedire, i sauditi hanno cominciato a manifestare la loro insofferenza verso gli Stati Uniti, colpevoli di essersi prevalentemente concentrati sull’insurrezione sunnita e di aver lasciato che fosse l’Iran a colmare il vuoto politico emerso con la caduta del regime baathista144. La sconfitta dei repubblicani nelle elezioni di mid-term, le dimissioni di Rumsfeld e le conclusioni cui è giunto il rapporto dell’Iraq Study Group guidato da Baker145, che esprime la linea neorealista di Gates, nuovo capo del Pentagono, rappresentano un punto di svolta. La paventata apertura a Iran e Siria e il cambiamento di ruolo per le truppe americane, da quello strettamente militare a quello di appoggio delle forze di sicurezza irachene, fino al graduale ritiro, hanno spinto la Casa reale a un maggiore interventismo, come invocato dai leader delle maggiori confederazioni tribali del Regno che con le tribù sunnite irachene hanno legami storici, religiosi, culturali e di sangue. In caso di disimpegno militare degli Stati Uniti, a Riyadh si teme che il conflitto degeneri in una pulizia etnica a danno dei sunniti e la Corona, in qualità di leader di fatto della comunità sunnita mondiale, ha il dovere di correre in loro soccorso, non potendo contare su Baghdad in materia di sicurezza. I sauditi, perciò, oltre a fare opera di persuasione su Washington affinché non abbandoni l’Iraq146 e non legittimi l’Iran come interlocutore, il che equivarrebbe al riconoscimento del suo ruolo geopolitico e culturale in Medio Oriente, stando alle ultime rivelazioni hanno preso in considerazione la possibilità di un’azione diretta, attraverso la fornitura di armi, denaro e supporto logistico agli insorti, come fa l’Iran con le milizie sciite, o la messa in piedi ex novo di corpi militari sunniti da contrapporre agli sciiti147.

143 A. B. Prados, Saudi Arabia: Current Issues and U.S. Relations, pp. 6-7. 144 Sempre Saud: “Unless something is done to bring the people of Iraq together, a constitution alone or an election can’t do it” (Ivi, p. 6). 145 Iraq Study Group, The Iraq Study Group Report, disponibile on-line all’indirizzo: http://www.usip.org/isg/iraq_study_group_report/report/1206/index.html 146 Al riguardo, Turki, è stato lapalissiano: “Since America came into Iraq uninvited, it should not leave Iraq uninvited” (E. Knickmeyer, Nearby Nations Dreading Iraq's Disintegration, Washington Post, 23 novembre 2006). 147 Per aver prospettato, nell’articolo già citato in nota 5, dell’intervento diretto saudita in caso di ritiro americano dall’Iraq, Nawaf Obaid è stato licenziato da Turki presso il quale lavorava come consulente. Alla presa di distanza dell’ex ambasciatore saudita negli Stati Uniti hanno fatto seguito le secche smentite di Riyadh e di Washington (per bocca del portavoce della Casa Bianca, Tony Snow. In proposito si veda: C. Bohan, Saudis tell U.S. they may back Iraq Sunnis-report, Reuters, 13 dicembre 2006), ma ciò non vuol dire che quanto scritto da Obaid, alla luce della sua credibilità come analista e della sua vicinanza agli ambienti governativi, non sia attendibile e non rifletta gli attuali umori della Casa Reale, che essendo abituata a manovrare con riserbo e segretezza non ha gradito la pubblicazione dell’articolo. 41

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Di ciò è probabile che il Re Abdullah e il Vice Presidente americano, Dick Cheney, abbiano discusso il 25 novembre a Riyadh148, ma va precisato, a onor del vero, che il sostegno alla guerriglia sunnita da parte di soggetti privati e organizzazioni caritatevoli con sede in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo non è mai mancato149, come evidenziato dall’Iraq Study Group: “Funding for the Sunni insurgency comes from private individuals within Saudi Arabia and the Gulf States, even as those governments help facilitate U.S. military operations in Iraq by providing basing and overflight rights and by cooperating on intelligence issues”150. Il governo saudita, pertanto, ha scelto la via dell’opposizione militare a un Iraq dominato dall’Iran, facendo mancare il suo appoggio all’opposizione politica sunnita e boicottando in questo modo il processo di stabilizzazione151. Il fatto che la monarchia “did not even send a letter when the Iraqi government was formed, whereas Iran has an ambassador in Iraq” e che, nonostante la sua notoria generosità, abbia rifiutato “to provide debt relief or substantial economic assistance to the Iraqi government”152, sono la prova che per l’Arabia Saudita quello di Baghdad non è un governo amico. In definitiva, rispetto al passato, Riyadh scenderebbe in campo ufficialmente dalla parte degli insorti, controbilanciando militarmente l’Iran per rafforzare politicamente i sunniti, l’opposto di quanto richiesto da Washington, che ha invitato la Casa reale “to take a leadership role in supporting Iraq, by using its influence to move Sunni populations out of violence into politics”153.

I soldati americani corrono il rischio di trovarsi nel bel mezzo di una guerra tra Arabia Saudita e Iran, combattuta in campo neutro e per procura, con Baghdad del tutto impotente e incapace di qualsivoglia iniziativa. Ma gli Stati Uniti sembrano oggi in fase d’empasse, la nuova strategia non è stata ancora definita e, a prescindere dagli sviluppi futuri, l’avventura irachena si è già risolta con un grande insuccesso, rispetto alle ambizioni originarie di riorganizzare gli equilibri mediorientali in senso favorevole. La richiesta di fissare un calendario per il ritiro delle truppe, avanzata a sorpresa l’8 dicembre dal capo dei servizi interni sauditi, il Principe Muqrin, somiglia a un’esortazione rivolta sia all’Amministrazione Bush, per spronarla a trovare una formula risolutiva che stabilizzi il paese nel breve periodo, che alle autorità di Baghdad, affinché la prospettiva della fine del sostegno americano responsabilizzi maggiormente le forze di sicurezza, incentivandole a migliorare le performance sul campo. Ovviamente, le affermazioni di Muqrin servono anche ad uso e consumo interno, per accontentare la fazione antiamericana che vuole liberare l’Iraq da quella che viene percepita come un’occupazione militare da parte degli Stati Uniti154.

Se da un lato Riyadh ha interesse a impedire che l’Iraq si stabilizzi sulla base di una pax iraniana, dall’altro si è attivata alla ricerca di una soluzione che ponga fine alla guerra civile nel timore che il perdurare della conflittualità possa ripercuotersi sulla sua sicurezza interna. Esiste, infatti, il pericolo concreto che i volontari sauditi che si sono uniti alla guerriglia sunnita irachena riprendano la strada di casa per dar man forte al QPA. Secondo stime risalenti al marzo 2006155, sugli oltre 5 mila stranieri che militano in Iraq tra le file degli insorti (in totale circa 77 mila), più di 500 sono di origine saudita, infiltratisi via Siria, Iran e attraverso il confine di oltre

148 H. Cooper, op. cit. 149 A. B. Prados, Saudi Arabia: Terrorist Financing Issues, op. cit., pp. 8-9. 150 Iraq Study Group, op. cit., p. 25. 151 Secondo l’Iraq Study Group “several Iraqi Sunni Arab politicians complained that Saudi Arabia has not provided political support for their fellow Sunnis within Iraq” (Ivi, p. 25) 152 Ivi, p. 25 153 S. Nasrawi, Saudis reportedly funding Iraqi Sunnis, Associated Press, 8 dicembre 2006. 154 M. Mahdi, Israel’s Nuclear Arsenal Biggest Threat to Region: Prince Muqrin, Arab News, 10 dicembre 2006, http://www.arabnews.com/?page=4§ion=0&article=89815&d=10&m=12&y=2006. 155 N. Obaid, Meeting the Challenge of a Fragmented Iraq: A Saudi Perspective, op. cit., pp. 23-24. 42

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800 km con l’Arabia Saudita. Nel reclutamento giocano un ruolo determinante religiosi e leader tribali156. La composizione della guerriglia sunnita è prevalentemente laica: circa 60 mila combattenti provengono dal partito Baath e dai quadri del regime di Saddam, mentre la compagine straniera ha un profilo prettamente jihadista. Riyadh ha adottato massicce contromisure per bloccare gli attraversamenti illegali della frontiera, dispiegando un gran numero di forze tra agenti doganali, guardie di frontiera, uomini della Guardia Nazionale e dell’esercito, impegnati anche nella lotta al contrabbando e al traffico di droga. I piani di sorveglianza del confine prevedono in alcuni casi l’impiego dell’aeronautica, di radar sofisticati e di visori notturni forniti dal Ministero della Difesa. L’impossibilità di chiudere ermeticamente una frontiera tanto lunga e di stroncare ogni tentativo d’infiltrazione, ha spinto il governo ad avviare la costruzione di un muro lungo quanto la linea di confine, dotato di fotocellule sensibilissime, simile a quello che l’Arabia Saudita ha in programma di edificare a ridosso dello Yemen157.

3. Il doppio fronte: il Libano e la questione arabo-israeliana.

L’offensiva antiraniana dell’Arabia Saudita non si esaurisce in Iraq, ma si estende al Libano e ai territori palestinesi. Dietro le mosse spregiudicate di Hezbollah e Hamas si nasconde, infatti, la regia di Teheran. In occasione del conflitto estivo tra il Partito di Dio e Israele, la monarchia si è espressa a chiare lettere contro le “miscalculated adventures” di Hezbollah “and those behind them”, vale a dire l’Iran, che hanno “the full responsibility of these irresponsible acts and should alone shoulder the burden of ending the crisis they have created” 158. Lo scontro si è trasferito all’interno della Lega Araba159. Al Cairo la linea di opposizione saudita all’asse sciita Iran-Siria-Hezbollah ha ottenuto l’appoggio di paesi importanti come Egitto, Giordania e Marocco, che con Riyadh hanno costituito un blocco sunnita nel contenimento dell’Iran160. La Casa reale si è poi impegnata con 1 miliardo e mezzo di dollari nella ricostruzione del Libano, fornirà assistenza all’esercito libanese e pagherà la maggior parte dei costi della missione UNIFIL 2161. Successivamente, di fronte alle dimissioni invocate da Hezbollah, la Corona ha confermato la sua protezione al governo del sunnita Siniora162, come in

156 Sui militanti sauditi in Iraq si veda nello specifico: N. Obaid - A. Cordesman, Saudi Militants in Iraq: Assessment and Kingdom’s Response, Center for Strategic and International Studies (CSIS), 19 settembre 2005. 157 The Middle East Research Institute (MEMRI), Saudi Arabia to Build Security Fence along Iraqi Border, Special Dispatch Series n. 1318, 12 ottobre 2006, http://memri.org/bin/articles.cgi?Page=archives&Area=sd&ID=SP131806. 158 Saudi Press Agency, 14 luglio 2006, http://www.spa.gov.sa/English/details.php?id=375423. 159 Sulla posizione dell’Arabia Saudita, si legga anche il resoconto del discorso pronunciato da Saud il 15 luglio al Cairo nel corso di una riunione della Lega Araba: Royal Embassy of the Kingdom of Saudi Arabia in Washington D.C., Prince Saud al-Faisal addresses Arab Foreign Minister’s emergency meeting, 15 luglio 2006, http://www.saudiembassy.net/2006News/News/AraDetail.asp?cIndex=6364. 160 All’inizio del mese di agosto, la minoranza sciita che vive in Arabia Saudita ha organizzato manifestazioni pro Hezbollah, che il governo ha insolitamente tollerato per mantenere una posizione antisraeliana, arrestando solo pochi partecipanti (Reuters, Saudi police hold 7 after pro-Hizbollah marches, 7 agosto 2006). 161 N. Obaid, Saudi Arabia’s critical role in Lebanon, Saudi - U.S. Relations Information Service (SUSRIS), 8 agosto 2006, http://www.saudi-us-relations.org/articles/2006/ioi/060808-nawaf-lebanon.html; N. Obaid, The Saudis and containing Iran in Lebanon, The Daily Star, 30 agosto 2006, http://www.dailystar.com.lb/article.asp?edition_id=10&categ_id=5&article_id=75114. 162 Dopo notte addiaccio, secondo giorno proteste Hezbollah a Beirut, Reuters, 2 dicembre 2006, http://today.reuters.it/news/newsArticle.aspx?type=topNews&storyID=2006-12- 02T104433Z_01_PAR236455_RTRIDST_0_OITTP-LEBANON-GOVERNMENT-2DIC.XML. 43

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precedenza aveva sostenuto Hariri prima che venisse ucciso, non potendo permettere che il Libano diventi dopo l’Iraq il secondo stato arabo a predominanza sciita163.

Sulla questione palestinese, il legame organico con Teheran ha spinto la leadership saudita a rivedere il rapporto con Hamas164. Il premier Haniyeh, nel suo ultimo viaggio alla ricerca di fondi in Medio Oriente e nel Golfo, non è stato neppure ricevuto a corte165. Il radicalismo di Hamas si sposa meglio con l’imprinting rivoluzionario degli ayatollah che con l’indole conservatrice dei sauditi, così alla lunga l’Iran ha scavalcato Riyadh nel sostegno al movimento islamico palestinese, nonostante questi sia arabo e sunnita. L’obiettivo della distruzione d’Israele, codificato nell’articolo 11 del suo statuto, ha trovato una sponda preziosa nella propaganda antisionista di Ahmadinejad, mentre con il piano di pace presentato nel 2002, e approvato dalla Lega Araba, Abdullah ha aperto al riconoscimento dello Stato ebraico, per quanto la richiesta di ritirarsi nei confini pre 1967 senza condizioni di sicurezza sia risultata inaccettabile per Gerusalemme. La decisione del Presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, d’indire nuove elezioni per impedire il consolidamento di un governo terrorista islamico166, è anche il segno della volontà saudita di riprendere il percorso di pace con Israele sulla base della road map, escludendo l’elemento religioso rappresentato da Hamas sfruttato abilmente dall’Iran per inserirsi in un conflitto che altrimenti, da un punto di vista storico, riguarderebbe i soli paesi arabi. Lo stesso vale per il Libano, dove l’attivismo della Lega Araba si può spiegare proprio con la necessità di chiudere le porte del mondo arabo all’imperialismo persiano.

Il governo saudita è stato costretto a dissimulare il sostanziale avvicinamento diplomatico a Israele per non incorrere, more solito, nella scomunica dei sahwa e in una perdita di consensi a vantaggio di Al Qaeda. Nel corso della guerra d’estate in Libano, la Casa reale ha invocato con forza l’intervento di Washington affinché fermasse la reazione israeliana, ritenuta sproporzionata, schierandosi “firmly with the resistance in Lebanon” fino al termine dell’occupazione del sud del paese167. Il 23 luglio, Saud è persino volato negli Stati Uniti allo scopo di sollecitare Bush ad agire su Israele per un immediato cessate il fuoco, recapitando al Presidente americano un messaggio di protesta di Re Abdullah168. La Risoluzione 1771 è stata poi duramente criticata perché non considera Israele paese aggressore. Più recentemente, il capo del GSS, Muqrin, ha ribadito che la causa dell’instabilità regionale è il conflitto arabo-israeliano e ha accusato lo Stato ebraico di favorire con il suo arsenale atomico la proliferazione nucleare nell’area169.

163 Dopo l’assassinio di Hariri, d’accordo con Stati Uniti e Francia, Abdullah è stato determinante nel persuadere il siriano Assad a non opporsi alla Risoluzione 1559 delle Nazioni Unite sul ritiro di Damasco dal Libano, ritiro peraltro già previsto dagli accordi di Taif che nel 1989, grazie alla mediazione saudita, hanno posto fine alla guerra civile nel Paese dei Cedri. 164 A. Issacharoff, Palestinian sources: Saudi Arabia has severed ties with Hamas, Haaretz, 11 novembre 2006, http://www.haaretz.com/hasen/spages/791847.html. 165 Saudi Arabia refuses to receive Palestinian Prime Minister, Ismail Haniyeh, 10 dicembre 2006, http://www.aljazeerah.info/News%20archives/2006%20News%20Archives/December/10%20n/Saudi%20Arabia%20r efuses%20to%20receive%20Palestinian%20Prime%20Minister,%20Ismail%20Haniyeh.htm 166 S. Erlanger, Leader Orders Early Elections for Palestinians, The New York Times, 17 dicembre 2006. 167 Saudi Press Agency, 14 luglio 2006, http://www.spa.gov.sa/English/details.php?id=375423. 168 M. Abramowitz - R. Wright, Saudi Arabia Asks U.S. to Intervene in Lebanon, Washington Post, 24 luglio. 169 M. Mahdi, op. cit. 44

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4. Il Gulf Cooperation Council (GCC) e i rapporti con lo Yemen.

L’Arabia Saudita ha utilizzato il Gulf Cooperation Council (GCC), fin dalla sua costituzione nel 1980, come uno strumento per consolidare la propria leadership nella Penisola Arabica. Questo atteggiamento ha messo sulla difensiva gli altri paesi membri (Qatar, Emirati Arabi Uniti, Oman e Barhein) ed è stato di ostacolo a una maggiore integrazione regionale. L’inclinazione egemonica di Riyadh ha reso difficoltosa l’adozione di politiche comuni, d’altra parte già frenata dall’attaccamento alle rispettive sovranità nazionali e da divergenze d’interessi che impediscono una completa distensione delle relazioni bilaterali170. Ciononostante, il GCC rappresenta l’organizzazione subregionale araba più avanzata e in progresso verso forme d’integrazione più profonde. Nel 2007 partirà l’unione doganale e nel 2010, secondo i migliori auspici, sarà il momento dell’unificazione monetaria, per quanto il processo di armonizzazione delle economie è ancora insufficiente ed è assai probabile che l’introduzione della moneta unica araba venga ulteriormente procrastinata171. Ad ogni modo, si tratta di una prospettiva realistica, in cima all’agenda dell’ultimo vertice del GCC (9-10 dicembre), e troverà certamente realizzazione in futuro172. In quest’ottica, il GCC può fungere da stimolo per una maggiore cooperazione economica nella cornice della Lega Araba, favorendo la riduzione dei contrasti politici tra gli stati membri attraverso l’istituzionalizzazione dei rapporti economici.

Il settore dove l’integrazione è più lontana è quello della sicurezza. L’esperienza della Peninsula Shield Force173 - creata nel 1981 su impulso degli Stati Uniti come corpo militare multilaterale a fondamento di una politica arabica di sicurezza comune in chiave antiraniana e antirachena - è sostanzialmente fallita, causa le rivalità tra i paesi del Golfo per i posti di comando e soprattutto la mancanza di volontà nel dotare la forza di mezzi e uomini sufficienti a renderla operativa. Inutilizzabile e inutilizzata in occasione dell’invasione irachena del Kuwait nel 1990, il proposito formulato nel settembre 2000 di aumentarne gli effettivi da 10 a 22 mila, senza però fissare scadenze, è completamente naufragato quando, nel summit del dicembre 2005, il GCC ha accolto la proposta dell’Arabia Saudita per il rientro nei paesi d’appartenenza dei contingenti assegnati alla Shield Force, che rimangono formalmente disponibili in caso di crisi174. La stipula nel maggio 2004 di un accordo antiterrorismo per lo scambio d’informazioni e il coordinamento a livello d’intelligence, dimostra che un rafforzamento della cooperazione è possibile in presenza di minacce comuni; iniziative congiunte sono state prese anche per migliorare l’interoperabilità in ambito navale e aeronautico. Tuttavia, il GCC resta distante anni luce dal concepimento di un concetto di sicurezza militare regionale; lo sforzo complessivo messo in campo dai paesi membri è ancora insufficiente e il prevalere di politiche di difesa individuali incrementa la dipendenza dagli Stati Uniti, gli unici in grado di offrire alla Penisola Arabica copertura adeguata contro le minacce esterne, Iran in particolare175.

170 I rapporti tra Arabia Saudita e Qatar sono alquanto tesi. Doha è protagonista di una politica indipendente verso gli Stati Uniti e Israele e nelle questioni che riguardano gli stati arabi. Da quando ospita il CAOC americano nella base di Al Udeid, il paese ha notevolmente accresciuto la sua rilevanza nei calcoli strategici di Washington, candidandosi come suo interlocutore privilegiato nella Penisola. Inoltre, a infastidire ulteriormente Ryiahd è la televisione satellitare Al Jazeera che si è fatta spesso portavoce della propaganda di Al Qaeda, fatto che i sauditi hanno poco gradito (K. Katzman, The Persian Gulf States: Issues for U.S. Policy, 2006, Congressional Research Service, The Library of Congress, 20 gennaio 2006, p. 8 e p.19). 171 M. Pinzati, Il sogno del mercato comune panarabo, in Limes, n. 1, 2003, pp. 122-125. 172 Royal Embassy of the Kingdom of Saudi Arabia in Washington D.C., Sheikh Jaber Summit concludes in Riyadh, 12 dicembre 2006, http://www.saudiembassy.net/2006News/News/RelDetail.asp?cIndex=6722 173 La Peninsula Shield Force ha sede ad Hafar Al Batin in Arabia Saudita. 174 K. Katzman, op.cit., p. 16. 175 A. Cordesman - N. Obaid, op. cit., pp. 137-143. 45

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Del GCC non fa parte lo Yemen, il cui ingresso è condizionato dallo stato delle relazioni con l’Arabia Saudita. Tra i due paesi non corre buon sangue da più di trent’anni, dai tempi della divisione dello Yemen in uno stato governato da militari sul modello turco a nord (la Repubblica Araba dello Yemen) e in uno stato filosovietico a sud (la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen). Con l’unificazione delle due repubbliche nel 1990, la frontiera non è più teatro di scontri, la situazione interna è più stabile e la debolezza militare fa sì che il nuovo Yemen non sia più una minaccia incombente per l’Arabia Saudita. Malgrado ciò, i due paesi non riescono a stabilire un rapporto di piena fiducia; le ferite del passato non sono ancora del tutto rimarginate, mentre l’emergere di altri motivi di tensione ne rallentano il riavvicinamento, sbarrando il passo all’entrata di Sana’a nel GCC.

Il Trattato di Gedda sulla demarcazione dei confini, firmato nel 2000, non ha reso la frontiera immune dal traffico di armi e di droga. A preoccupare Riyadh sono soprattutto le infiltrazioni dallo Yemen di terroristi islamici e di clandestini in cerca di lavoro. Il confine è lungo 1.450 km ed è situato in una regione in prevalenza desertica e montagnosa, quindi il sistema di sorveglianza elettronico può essere concentrato solo in alcuni punti e le operazioni di pattugliamento riescono a impedire solo in parte gli attraversamenti illegali, che trovano oltretutto copertura negli insediamenti tribali a cavallo della linea di separazione tra i due paesi. Nel 2004, il governo saudita ha annunciato la costruzione di una barriera difensiva, ma le proteste di Sana’a ritardano l’inizio dei lavori. Altra fonte di apprensione per Riyadh è la sicurezza dello Stretto di Bab el Mandab, sul versante orientale del Mar Rosso, dove passano circa 3 milioni di barili di petrolio al giorno. La sua chiusura scompaginerebbe le rotte energetiche e commerciali che attraversano il Mar Rosso e per questo la stabilità interna dello Yemen è questione di vitale importanza per l’Arabia Saudita, che ha interesse diretto a impedire che il governo di Sana’a cada in mani ostili176.

5. La prospettiva asiatica.

La fine della Guerra Fredda, con la caduta delle barriere ideologiche, e l’adesione al WTO hanno aperto all’Arabia Saudita i vasti orizzonti del mercato internazionale. Così l’Asia, per la sua crescente rilevanza economica, è divenuta la nuova frontiera da esplorare e la Cina un prezioso alleato con cui fare affari. Non a caso Abdullah, nel suo primo viaggio ufficiale da monarca, ha dato priorità all’Asia con un lungo tour che ha avuto proprio Pechino come tappa iniziale. Il settore energetico, ovviamente, occupa uno spazio centrale nella proficua cooperazione tra i due paesi. La Cina importa il 40% del suo fabbisogno dal Golfo e l’Arabia Saudita è il suo primo fornitore con il 17%; la Saudi Aramco Overseas Company partecipa alla costruzione di un complesso petrolchimico a Fujian177, sono in fase di studio progetti congiunti sul gas naturale ed è in agenda la realizzazione di una riserva strategica cinese rifornita con petrolio saudita178. Riyadh ha interesse ad approfondire la partnership con la Cina anche alla luce della recente svolta nella politica energetica americana. Nel discorso sullo stato dell’Unione del 2006, Bush ha fissato l’obiettivo di sostituire il 75% delle importazioni petrolifere dal Medio Oriente

176 Ivi, pp. 8-13. 177 H. V. Pant, Saudi Arabia Looks East: Woos China and India, The Power and Interest News Report (PINR), 22 febbraio 2006, http://www.pinr.com/report.php?ac=view_report&report_id=445&language_id=1. 178 I. Nafie, Looking at East, Al Ahram Weekly, n. 793, 4 maggio 2006, http://weekly.ahram.org.eg/2006/793/op1.html. 46

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entro il 2025179. Di qui, la necessità di cautelarsi diversificando i compratori e stipulando nuove e durature alleanze petrolifere. Pechino, inoltre, offre la garanzia di non ingerire negli affari interni, contrariamente agli Stati Uniti che fanno pressing sulle riforme. Nel lungo periodo, in caso di allentamento delle relazioni con Washington, la Cina potrà dunque costituire una soluzione strategica alternativa, soprattutto in virtù delle sue ottime relazioni con l’Iran.

Dall’energia la cooperazione si è estesa ad altri campi180. L’Arabia Saudita è già il primo partner commerciale cinese del Medio Oriente e gli accordi economici firmati da Abdullah e Hu Jintao hanno l’obiettivo d’intensificare ulteriormente gli scambi e la collaborazione in ambito tecnologico. A livello multilaterale, è in dirittura d’arrivo l’accordo tra Pechino e il GCC per la creazione di un’area di libero scambio181, mentre il China Arab Cooperation Forum sta dando grande impulso al rafforzamento dei rapporti commerciali tra Pechino e i paesi della Lega Araba182.

Dopo la Cina, seguendo l’ordine d’importanza economica, Abdullah ha scelto l’India come seconda tappa del suo tour asiatico. Nuova Delhi ha sete di petrolio, Riyadh è il suo primo fornitore ed è quindi reciproco l’interesse a consolidare la partnership energetica. In proposito, la Delhi Declaration, firmata a suggello del viaggio, prevede nuovi investimenti nel settore. Va comunque osservato che le ragioni di natura economica, se sono certo quelle preminenti nelle relazioni tra Arabia Saudita e India, non sono le uniche. L’India per popolazione è il secondo paese musulmano del mondo e la comunità straniera più numerosa in territorio saudita è proprio quella indiana. Di conseguenza, il legame indo-saudita esula dalla dimensione prettamente economica e investe quella geopolitica e socioculturale. L’amicizia con l’Arabia Saudita è d’aiuto al governo di Nuova Delhi nei rapporti con il Pakistan, sempre tesi per la questione del Kashmir, e con la comunità musulmana del subcontinente, e potrà rivelarsi utile anche al conseguimento dello status di osservatore presso l’Organizzazione della Conferenza Islamica183.

Se la partnership con Cina e India è nata in tempi recenti, quella con Giappone risale agli anni ‘50. L’Arabia Saudita è il suo secondo fornitore di petrolio e gli scambi commerciali sono sempre stati fiorenti. Con la Corea del Sud l’intensificazione dei rapporti è più recente, ma ha già raggiunto un alto livello d’istituzionalizzazione con il Korean-Saudi Business Council e la Saudi-Korean Friendship Society. Seul è il terzo importatore di petrolio saudita ed è in costante aumento il numero delle joint venture tra compagnie saudite e sudcoreane. In generale, l’adesione al WTO è stato il trampolino di lancio per le relazioni commerciali con i paesi asiatici, ma questo spostamento ad est non implica la messa in secondo piano dei legami economici con l’Occidente, trattandosi di un’opzione legata alla necessità di allargare le basi dell’economia interna attraverso la diversificazione degli investimenti e l’incremento delle partnership commerciali internazionali.

179 G. W. Bush, State Of The Union Address By The President, 31 gennaio 2006, http://www.whitehouse.gov/stateoftheunion/2006/. 180 Un aspetto interessante delle relazioni bilaterali tra i due paesi, su cui si pone poca attenzione, è quello militare. La cooperazione nel settore risale agli anni ‘80 e si è concentrata sullo sviluppo di missili balistici a media gittata, come il CSS-2 prodotto in Cina e acquistato dall’Arabia Saudita (H. V. Pant, op. cit.). 181 J. Ali, Partial trade deal on the table with China, Gulf News, 12 agosto 2006, http://archive.gulfnews.com/articles/06/08/12/10059321.html. 182 Sino-Arab forum agrees to seek doubling of trade volume within 5 years, The Daily Star, 2 giugno 2006, http://www.dailystar.com.lb/article.asp?edition_id=10&categ_id=3&article_id=24901#. 183 H. V. Pant, op. cit.

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Conclusione

Le alleanze su cui l’Arabia Saudita ha costruito la propria esistenza, quella fondativa col wahhabismo e quella per la sicurezza con gli Stati Uniti, sono ormai irrimediabilmente incompatibili e la Casa reale è costretta a vertiginosi equilibrismi per mantenere la stabilità interna. Da un lato, il clero wahhabita si sente minacciato dalla secolarizzazione di cui è portatore l’Occidente incarnato dagli Stati Uniti e contrattacca sul piano religioso a difesa delle sue prerogative e dell’identità islamica antioccidentale che ha propagato attraverso il sistema educativo, alzando barriere socioculturali, incitando all’odio e al jihad contro i crociati ed esigendo che le autorità politiche si comportino di conseguenza; dall’altro, gli Stati Uniti chiedono alla monarchia di prendere la medicina delle riforme per curarsi dal male del radicalismo religioso, che genera terrorismo ed è quindi una minaccia alla sicurezza nazionale. Tra i due fuochi, il primo condannerebbe la popolazione saudita a un eterno oscurantismo, il secondo rappresenta la speranza della modernità. In mezzo i discendenti di Ibn Saud, che non possono operare una scelta netta in direzione delle riforme politico-religiose di marca occidentale nel timore che gli venga contestata la legittimità a governare, perdendo così il consenso della popolazione e lasciando ai sahwa e ad Al Qaeda la rappresentatività dell’Islam. Lo stesso vale per le relazioni internazionali, ove Riyadh al pragmatismo deve sempre congiungere la riaffermazione delle sue credenziali religiose, pena la perdita della rappresentatività dell’universalismo islamico a vantaggio delle reti radicali jihadiste interconnesse fra loro e disseminate ovunque nel mondo.

Di fronte alle forze che si oppongono al cambiamento della società saudita come può agire l’Occidente? Se l’obiettivo è la progressiva democratizzazione intesa come depoliticizzazione dell’Islam, l’Occidente - Stati Uniti ed Europa - deve evitare ingerenze esterne dirette che, percepite dalle componenti ultraconservatrici come una minaccia alla loro sopravvivenza, ne determinerebbero un’ulteriore arroccamento, costringendo la monarchia all’immobilismo o peggio ad accentuare la chiusura della società. In tale ottica, dure critiche per i mancati progressi o una richiesta di riforme troppo pressante possono condurre, in reazione, a una recrudescenza del terrorismo a danno della stabilità interna. Quella dell’Occidente, invece, deve essere una paziente opera di persuasione morale e culturale esercitata sulla dinastia Saud senza affrettare i tempi e con la cautela indispensabile a non aggravare le difficoltà interne, proseguendo passo dopo passo sulla base delle condizioni ambientali e dei progressi effettivamente riscontrati. Alla necessaria flessibilità, però, deve corrispondere fermezza nelle intenzioni, affinché i Saud gestiscano il potere con modalità meno autoreferenziali e più attente alle conseguenze sugli altri popoli, impegnandosi davvero nel lungo processo di riforma a cominciare dal depotenziamento del clero.

La fiamma del radicalismo islamico può essere spenta solo procedendo allo svuotamento ideologico del ceto religioso ed è un’impresa che richiede anzitutto il riorientamento del sistema educativo nel senso di un affrancamento da una concezione offensiva e militaresca dell’Islam, di modo che le nuove generazioni di ulema siano informate su principi di religiosità moderata e così quelle successive e le altre ancora, con ricadute positive sul grado di apertura relativo all’identità e alla cultura della popolazione nel suo complesso. Quando la fiamma si sarà spenta sarà possibile iniziare a introdurre elementi di secolarizzazione, contestualmente al progressivo arretramento dell’Islam assolutista e del clero dallo spazio pubblico per far posto a forme d’appartenenza e ad attori politici laici. Sarà giunto, allora, il momento dell’implementazione 48

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dei meccanismi e delle strutture tipiche di un’organizzazione democratica. È inutile, infatti, indire consultazioni elettorali con l’intento di favorire il pluralismo in una società in cui l’Islam occupa l’intero spazio pubblico, perché l’esito logicamente sarà la completa vittoria dei candidati espressi dalla comunità religiosa, proprio come già accaduto per i consigli municipali. La Majlis Al Shura, resa elettiva, potrà ricoprire la funzione di organo rappresentativo, con quali facoltà spetterà alla famiglia reale deciderlo, essendo l’esclusiva titolare della sovranità. Ogni potere conferito alla Shura equivarrebbe a una cessione di sovranità della Corona e l’incognita è appunto a quanta sovranità questa sarà disposta a rinunciare. Si spingerà fino all’accettazione di una monarchia costituzionale? È l’eventualità certamente più auspicabile, che troverebbe compimento qualora lo slancio di una società politica in crescendo rendesse ineluttabile il processo di graduale devoluzione dei poteri da parte del re. Per l’Islam secolarizzato e il corpo religioso, a tal punto, si presenterebbe una soluzione concordataria, con la desacralizzazione del territorio saudita fatta eccezione per le città di Mecca e Medina, di cui la Corona potrebbe mantenere la custodia a titolo onorifico.

Trattandosi di una prospettiva di lunghissimo periodo, l’Occidente deve mantenersi costantemente al fianco dei Saud per accompagnarli nella modernizzazione dall’alto del Regno, agendo senza clamori e con la giusta moderazione. Perché l’obiettivo venga raggiunto occorre, nondimeno, che l’insicurezza generata all’esterno non si ripercuota internamente. L’Occidente, pertanto, è chiamato a tracciare linee strategiche efficaci per risolvere le crisi che affliggono il Golfo e il Medio Oriente, da quella irachena al nucleare iraniano, dalla questione libanese al conflitto arabo-israeliano, anche allo scopo di mettere al riparo l’Arabia Saudita dalle turbolenze circostanti, a beneficio della stabilità interna che è la premessa del suo avanzamento verso la modernità.

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