AMNESTY INTERNATIONAL SEZIONE ITALIANA Traduzione dall’inglese di Anna Ongaro e Patrizia Carrera

Revisione ed edizione italiana a cura di Beatrice Gnassi

Consulenza editoriale: Riccardo Noury, portavoce della Sezione Italiana di Amnesty International

Amnesty International – Sezione Italiana via Magenta 5, 00185 Roma Tel: (+39) 06 44901 Fax: (+39) 06 4490222 [email protected] – www.amnesty.it C.F. 03031110582

Fa fede il testo originale in lingua inglese

È vietata la riproduzione anche parziale o ad uso interno o didattico e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia non autorizzata

Questo Rapporto fa riferimento al periodo da gennaio 2013 a dicembre 2014

Il presente Rapporto documenta il lavoro e le preoccupazioni di Amnesty International in tutto il mondo nel corso del 2014. Se un argomento non è inserito nella scheda dedicata a un determinato paese, ciò non si significa che Amnesty International dichiara che non ci siano stati abusi in tal senso. Allo stesso modo, l’assenza di un capitolo relativo a un paese o territorio non implica che durante l’anno non siano avvenute violazioni dei diritti umani o che non esistano motivi di preoccupazione per Amnesty International. In particolare la lunghezza della scheda su un dato paese non dove essere interpretata come termine di paragone per misurare la portata e la gravità delle preoccupazioni espresse da Amnesty International in merito a quel paese o territorio.

Titolo originale: Amnesty International Report 2014/15. The State of the World’s Human Rights

© 2015 Amnesty International Publications International Secretariat Peter Benenson House 1 Easton Street London WC1X 0DW United Kingdom www.amnesty.org Index: POL 10/001/2013

I edizione: febbraio 2015 © 2015 Lit Edizioni Srl Tutti i diritti riservati

Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni Srl Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 Roma Tel. 06.8412007 - fax 06.85358676 [email protected] www.gruppolit.com

Indice generale

Introduzione 13

REGIONI Africa Subsahariana 17 Americhe 143 Asia e Pacifico 231 Europa e Asia Centrale 329 Medio Oriente e Africa del Nord 455

5 Indice alfabetico dei paesi

Afghanistan 244 Congo, Repubblica Democratica del 50 Albania 340 Corea del Nord 264 Algeria 467 Corea del Sud 268 Angola 29 Costa d’Avorio 55 Arabia Saudita 471 Croazia 360 Argentina 155 Cuba 180 Armenia 342 Danimarca 362 Australia 248 Dominicana, Repubblica 183 Austria 343 Ecuador 186 Azerbaigian 345 Egitto 480 Bahamas 157 El Salvador 188 Bahrein 476 Emirati Arabi Uniti 486 Bangladesh 250 Eritrea 58 Belgio 348 Estonia 363 Benin 32 Etiopia 60 Bielorussia 349 Figi 270 Bolivia 159 Filippine 272 Bosnia ed Erzegovina 352 Finlandia 365 Brasile 162 Francia 366 Brunei Darussalam 253 Gambia 64 Bulgaria 354 Georgia 370 Burkina Faso 33 Germania 372 Burundi 35 Ghana 68 Cambogia 254 Giamaica 191 Camerun 38 Giappone 275 Canada 167 Giordania 489 Ceca, Repubblica 356 Grecia 375 Centrafricana, Repubblica 40 Guatemala 193 Ciad 45 Guinea 69 Cile 170 Guinea-Bissau 71 Cina 257 Guinea Equatoriale 73 Cipro 359 Guyana 195 Colombia 174 Haiti 196 Congo, Repubblica del 48 Honduras 199

6 India 277 Polonia 403 283 Portogallo 405 Iran 492 Portorico 215 Iraq 498 Qatar 533 Irlanda 378 Regno Unito 406 Israele e Territori Palestinesi Romania 411 Occupati 504 Ruanda 98 Italia 380 Russia 414 Kazakistan 384 Senegal 103 Kenya 75 Serbia 420 Kirghizistan 387 Sierra Leone 105 Kuwait 510 Singapore 312 Laos 287 Siria 536 Lettonia 389 Slovacchia 425 Libano 512 Slovenia 427 Libia 516 Somalia 108 Lituania 391 Spagna 428 Macedonia 392 Sri Lanka 313 Malawi 80 Stati Uniti d’America 216 Maldive 288 Sud Sudan 112 Malesia 290 Sudafrica 117 Mali 81 Malta 394 Sudan 123 Marocco e Sahara Occidentale 522 Suriname 222 Mauritania 84 Svezia 432 Messico 202 Svizzera 433 Moldova 396 Swaziland 127 Mongolia 293 Tagikistan 435 Montenegro 397 317 Mozambico 86 Tanzania 129 Myanmar 294 Thailandia 319 Namibia 89 Timor Est 323 Nauru 299 Togo 131 Nepal 300 Trinidad e Tobago 223 Nicaragua 207 Tunisia 542 Niger 90 Turchia 437 Nigeria 92 Turkmenistan 442 Norvegia 399 Ucraina 444 Nuova Zelanda 303 Uganda 133 Oman 528 Ungheria 450 Paesi Bassi 401 Uruguay 225 305 Uzbekistan 452 Palestina 529 Venezuela 226 Panama 209 Vietnam 325 Papua Nuova Guinea 310 Yemen 546 Paraguay 210 Zambia 137 Perù 212 Zimbabwe 139

7

I AMNESTY

Amnesty International è un movimento mondiale di oltre sette milioni di persone che partecipano a campagne per un mondo dove tutti possano godere dei diritti umani. La sua visione è quella di un mondo in cui a ciascuna persona siano garantiti i diritti umani sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e altri standard internazionali sui diritti umani. La missione di Amnesty International è di condurre ricerche e intraprendere azioni specifiche per pre- venire e porre fine alle gravi violazioni di tutti i diritti umani: civili, politici, sociali, culturali ed economici. Dalla libertà d’espressione e d’associazione all’integrità fisica e mentale, dalla protezione dalla discriminazione al diritto all’alloggio, tutti i suddetti diritti sono indivisibili. Amnesty International è sovvenzionata principalmente dai propri soci e da libere donazioni. Nessun finanziamento è ricercato o accettato dai governi per le attività d’indagine e le campagne contro le violazioni dei diritti umani. Amnesty International è un movimento democratico in cui le principali decisioni vengono assunte da rappresentanti di tutte le sezioni nazionali, che si riuniscono ogni due anni nel Consiglio internazionale.

9 Sezione Italiana di Amnesty International

La Sezione Italiana sviluppa e coordina le attività delle diverse strutture locali e il lavoro dei soci e dei sostenitori di Amnesty International nel paese. Oltre a ciò, intraprende azioni di sensibilizzazione, pro- mozione, educazione ai diritti umani, campaigning, lobby nei confronti delle istituzioni e raccolta fondi. Lo staff cura la gestione dell’archivio soci, l’organizzazione delle campagne, i rapporti con la stampa e con le istituzioni, le iniziative nazionali di raccolta fondi, la produzione di materiale promozionale, le attività editoriali ecc. A livello nazionale, strutture di volontari specializzati, i Coordinamenti, con conoscenze e competenze approfondite su paesi o su temi, svolgono un importante ruolo di collegamento con i ricercatori del Segretariato Internazionale. A livello locale operano le circoscrizioni, i gruppi, le antenne e i gruppi giovani. I gruppi sono la struttura base dell’attivismo di Amnesty International e svolgono attività di mobilitazione, sensibilizzazione (manifestazioni, presenza in pubblico, partecipazione ad azioni ed eventi, raccolta fondi) e di campaigning (raccolta di firme e adesioni ad appelli). I principi ispiratori del modello di governance sono la democraticità e la rappresentatività degli attivisti e dei soci. L’organo di governo dell’associazione, il Comitato direttivo, è eletto ogni due anni dai soci nell’Assemblea generale ed è costituito da attivisti volontari.

La Sezione Italiana ha reso pubblico il proprio Bilancio sociale per il 2013, uno strumento fondamentale per conoscere le attività svolte e i risultati raggiunti dall’organizzazione. Il Bilancio sociale può essere consultato su: http://www.amnesty.it/bilancio-sociale-2013.

I NUMERI DELLA SEZIONE ITALIANA NEL 2013 77.111 soci e sostenitori 1870 attiviste e attivisti per i diritti umani 183 gruppi sul territorio nazionale 15 circoscrizioni regionali 46 dipendenti e collaboratori a progetto della sede nazionale e delle sedi decentrate 17 coordinamenti su tema o area geografica 418.928 firme raccolte online e dai gruppi 47 appelli e azioni urgenti pubblicate online 609 azioni urgenti distribuite a gruppi e attivisti 169.322 fan su Facebook 154.993 follower su Twitter 448.765 visitatori unici su amnesty.it 962 incontri educativi e formativi 31.208 studenti e docenti coinvolti nell’educazione ai diritti umani 478 comunicati stampa e web news 5,58 mln € proventi complessivi.

10 Abbreviazioni usate nel presente rapporto

• Asean (Association of South-East Asian Nations) si riferisce ad Associazione delle nazioni del Sud- Est Asiatico. • Au (African Union) si riferisce a Unione africana. • Cedaw (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women) si riferisce a Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne. • Cerd (Convention on the Elimination of Racial Discrimination) si riferisce a Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. • Comitato Cedaw (Committee on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women) si riferisce a Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne. • Comitato Cerd (Committee on the Elimination of Racial Discrimination) si riferisce a Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. • Comitato europeo per la prevenzione della tortura si riferisce a Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti. • Convenzione europea sui diritti umani si riferisce a Convenzione (europea) per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. • Convenzione sui diritti dell’infanzia si riferisce a Convenzione delle Nazioni Unite sull’infanzia. • Convenzione delle Nazioni Unite contro il razzismo si riferisce a Convenzione internazionale sull’eli- minazione di ogni forma di discriminazione razziale. • Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura si riferisce a Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti. • Convenzione delle Nazioni Unite sui lavoratori migranti si riferisce a Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e i loro familiari. • Convenzione sullo status dei rifugiati si riferisce a Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati. • Convenzione internazionale contro la sparizione forzata si riferisce a Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata. • Convenzione n. 169 dell’Ilo si riferisce a Convenzione n. 169 dell’Ilo sulle popolazioni native e tribali. • Ecowas (Economic Community of West African State) si riferisce a Comunità economica degli stati dell’Africa Occidentale. • Eu (European Union) si riferisce a Unione europea. • Icc (International Criminal Court) si riferisce a Corte penale internazionale.

11 • Iccpr (International Covenant on Civil and Political Rights) si riferisce a Patto internazionale sui diritti civili e politici. • Icescr (International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights) si riferisce a Patto interna- zionale sui diritti economici, sociali e culturali. • Icrc (International Committee of the Red Cross) si riferisce a Comitato internazionale della Croce Rossa. • Ilo (International Labour Organization) si riferisce a Organizzazione internazionale del lavoro. • Lgbti (Lesbian, gay, bisexual, transgender and intersex) si riferisce a persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate. • Nato (North Atlantic Treaty Organization) si riferisce a Organizzazione del trattato nordatlantico. • Ngo (Non-governmental organization) si riferisce a Organizzazione non governativa. • Oas (Organization of American States) si riferisce a Organizzazione degli stati americani. • Osce (Organization for security and co-operation in Europe) si riferisce a Organizzazione per la si- curezza e la cooperazione in Europa. • Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà d’espressione si riferisce a Relatore speciale sulla promozione e protezione del diritto alla libertà di opinione ed espressione. • Relatore speciale delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani si riferisce a Relatore speciale sulla situazione dei difensori dei diritti umani. • Relatore speciale delle Nazioni Unite sui popoli nativi si riferisce a Relatore speciale sulla situazione dei diritti umani e le libertà fondamentali dei popoli nativi. • Relatore speciale delle Nazioni Unite sul razzismo si riferisce a Relatore speciale sulle forme con- temporanee di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e intolleranza collegata. • Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura si riferisce a Relatore speciale sulla tortura e altri trattamenti o pene crudeli, disumane o degradanti. • Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne si riferisce a Relatore speciale sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze. • Un (United Nations) si riferisce a Nazioni Unite. • Undp (United Nations Development Program) si riferisce a Programma di sviluppo delle Nazioni Unite. • Unfpa (United Nations Population Fund) si riferisce a Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione. • Unhcr, agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, the UN Refugee Agency) si riferisce ad Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. • Unicef (United Nations Children’s Fund) si riferisce a Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia. • Usa ( of America) si riferisce a Stati Uniti d’America. • Who (World Health Organization) si riferisce a Organizzazione mondiale della sanità.

12 Introduzione

“Gli scontri tra le forze governative e i gruppi armati avevano trasformato il quartiere Yarmouk, a Damasco, dove vivevo, in un alveare. Era strapieno. Yarmouk era diventato un rifugio per le persone che fuggivano dagli altri quartieri. Lavoravo nell’assistenza umanitaria ed ero un attivista dell’informazione ma gli uomini con il volto coperto non facevano differenze tra operatori umanitari e combattenti dell’opposizione. Io mi nascondevo perché un numero sempre maggiore di miei amici erano stati arrestati. Decisi che era ora di andarmene e radunai le mie cose. Ma dove? I rifugiati palestinesi della Siria non possono entrare in un altro paese senza prima ottenere un visto. Ho pensato che forse il Libano sarebbe stata la meno complicata delle opzioni ma avevo sentito dire che lì i rifugiati palestinesi erano esposti a razzismo e privati di molti dei loro diritti.”

Un rifugiato palestinese della Siria, che è poi riuscito a raggiungere l’Europa, pas- sando attraverso Egitto e Turchia, e ad approdare in Italia dopo una rischiosa traver- sata via mare

Il 2014 è stato un anno devastante per coloro che cercavano di difendere i diritti umani e per quanti si sono trovati intrappolati nella sofferenza delle zone di guerra. I governi a parole sostengono l’importanza di proteggere i civili ma i politici di tutto il mondo hanno miseramente fallito nel compito di tutelare coloro che più avevano più bisogno d’aiuto. Amnesty In- ternational ritiene che tutto ciò può e deve finalmente cambiare. Il diritto internazionale umanitario, ovvero la legislazione che regolamenta la condotta nelle operazioni belliche, non potrebbe essere più chiaro. Gli attacchi non devono mai essere diretti contro i civili. Il principio di distinzione tra civili e combattenti è una salvaguardia fondamentale per le persone travolte dagli orrori della guerra. E tuttavia, più e più volte, nei conflitti sono stati proprio i civili a essere maggiormente colpiti. Nell’anno della ricorrenza del 20° anniversario del genocidio ruandese, i politici hanno ripetutamente calpestato le regole che proteggono i civili o hanno abbassato lo sguardo di fronte alle fatali violazioni di queste regole da parte di altri. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non è intervenuto ad affrontare la crisi siriana negli anni precedenti, quando ancora sarebbe stato possibile salvare innumerevoli vite umane. Tale fallimento

13 è proseguito anche nel 2014. Negli ultimi quattro anni, sono morte 200.000 persone, la stragrande maggioranza civili, principalmente in attacchi compiuti dalle forze governative. Circa quattro milioni di persone in fuga dalla Siria hanno trovato rifugio in altri paesi. Più di 7,6 milioni sono sfollate in territorio siriano. La crisi in Siria è intrecciata con quella del vicino Iraq. Il gruppo armato che si autodefinisce Stato islamico (Islamic State – Is, noto in precedenza come Isis), che in Siria si è reso responsabile di crimini di guerra, nel nord dell’Iraq ha compiuto rapimenti, uccisioni sommarie assimilabili a esecuzione e una pulizia etnica di proporzioni enormi. Parallelamente, le milizie sciite irachene hanno rapito e ucciso decine di civili sunniti, con il tacito sostegno del governo iracheno. L’assalto condotto a luglio su Gaza dalle forze israeliane è costato la vita a 2000 palestinesi. E ancora una volta, la stragrande maggioranza di questi, almeno 1500, erano civili. Come ha dimostrato Amnesty International in una dettagliata analisi, la linea adottata da Israele si è distinta per la sua spietata indifferenza e ha implicato crimini di guerra. Anche Hamas ha compiuto crimini di guerra, sparando indiscriminatamente razzi verso Israele e causando sei morti. In Nigeria, il conflitto in corso nel nord del paese tra le forze governative e il gruppo armato Boko haram è finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo a causa del rapimento, da parte di Boko haram, di 276 studentesse nella città di Chibok, uno degli innumerevoli crimini commessi dal gruppo. Quasi inosservati sono passati gli orrendi crimini commessi dalle forze di sicurezza nigeriane, e da altri che hanno agito per conto loro, contro persone ritenute appartenere o sostenere Boko haram; alcuni di questi crimini, rivelati da Amnesty International ad agosto, erano stati ripresi in un video che mostrava le vittime assassinate e gettate in una fossa comune. Nella Repubblica Centrafricana, oltre 5000 persone sono morte a causa della violenza settaria, nono- stante la presenza sul campo dei contingenti internazionali. Tortura, stupri e uccisioni di massa hanno a stento raggiunto le prime pagine dei giornali a livello mondiale. Ancora una volta, la maggior parte delle vittime erano civili. E in Sud Sudan, lo stato più recente del mondo, decine di migliaia di civili sono stati uccisi e due milioni sono fuggiti dalle loro case, nel contesto del conflitto armato tra le forze governative e quelle dell’opposizione. Entrambe le parti hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Questo breve elenco, come mostra chiaramente quest’ultimo rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani in 160 paesi, non rappresenta che una parte del problema. Qualcuno po- trebbe sostenere che di fronte a tutto questo non è possibile fare nulla, che da sempre la guerra viene fatta alle spese della popolazione civile e che niente potrà mai cambiare. Ma si sbaglia. È essenziale affrontare la questione delle violazioni contro i civili, oltre che assicurarne alla giustizia i responsabili. C’è una misura evidente e concreta che attende solo di essere adottata: Amnesty International ha accolto con favore la proposta, attualmente appoggiata da circa 40 governi, di dotare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di un codice di condotta che preveda l’astensione volontaria dal ricorso al veto in situazioni di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, per non bloccare l’azione del Consiglio di sicurezza. Sarebbe un primo passo importante e potrebbe già salvare molte vite. I fallimenti tuttavia non hanno riguardato soltanto l’incapacità d’impedire le atrocità di massa. È stata anche negata l’assistenza diretta ai milioni di persone in fuga dalla violenza che inghiottiva villaggi e città. Quei governi, tanto pronti a denunciare a gran voce i fallimenti degli altri governi, si sono poi dimostrati

14 essi stessi riluttanti a farsi avanti e fornire gli aiuti essenziali di cui avevano bisogno i rifugiati, sia in termini di aiuti economici, sia di opportunità di reinsediamento. A fine anno, i rifugiati della Siria rein- sediati erano meno del due per cento, una cifra che dovrà almeno triplicarsi nel 2015. Nel frattempo, un numero enorme di rifugiati e migranti continua a perdere la vita nel Mar Mediterraneo, nel disperato tentativo di raggiungere le coste europee. La mancanza di supporto da parte di alcuni stati membri dell’Eu nelle operazioni di ricerca e soccorso ha contribuito allo sconvolgente tributo in termini di vite umane. Una misura che potrebbe essere adottata per proteggere i civili nei conflitti è limitare ulteriormente l’impiego di armi esplosive nelle aree popolate. Ciò avrebbe permesso di salvare molte vite in Ucraina, dove sia i separatisti appoggiati dalla Russia (che seppur in maniera poco convincente ha più volte negato un suo coinvolgimento) sia le forze pro-Kiev hanno colpito quartieri abitati da civili. L’esistenza di regole sulla protezione dei civili è importante in quanto implica un concreto accertamento delle responsabilità e l’ottenimento della giustizia, laddove tali regole siano violate. In questa pro- spettiva, Amnesty International ha accolto con favore la decisione assunta dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, a Ginevra, di avviare un’inchiesta internazionale in merito alle accuse di violazioni dei diritti umani e di abusi commessi durante il conflitto in Sri Lanka, dove, negli ultimi mesi di combattimenti nel 2009, furono uccise decine di migliaia di civili. Amnesty International si è molto impegnata negli ultimi cinque anni affinché fosse istituita quest’inchiesta. Senza un tale ac- certamento delle responsabilità non sarà possibile compiere alcun passo avanti. Ma anche altri aspetti inerenti la difesa dei diritti umani devono essere migliorati. In Messico, la sparizione forzata di 43 studenti, avvenuta a settembre, è andata tragicamente ad aggiungersi alle vi- cende di oltre 22.000 persone scomparse finora o delle quali si sono perse le tracce dal 2006; si ritiene che la maggior parte di queste siano state rapite da bande criminali ma in molti casi le informazioni raccolte lasciano intendere che siano state sottoposte a sparizione forzata per mano di poliziotti o militari, i quali avrebbero agito in alcuni casi in collusione proprio con le bande criminali. Le poche vittime i cui resti sono stati ritrovati mostravano segni di tortura e altro maltrattamento. Le autorità federali e statali non hanno provveduto a condurre indagini su questi crimini per stabilire l’eventuale coinvolgimento di agenti dello stato e garantire un rimedio legale efficace per le vittime, compresi i loro familiari. Oltre a non aver dato una risposta, il governo ha tentato di nascondere la crisi dei diritti umani, in un contesto di elevati livelli d’impunità, corruzione e progressiva militarizzazione. Nel 2014, i governi di molte parti del mondo hanno continuato a reprimere le Ngo e la società civile, una sorta di perverso riconoscimento dell’importanza del loro ruolo. La Russia ha accresciuto la sua stretta micidiale con l’introduzione di una spaventosa “legge sugli agenti stranieri”, un linguaggio degno della guerra fredda. In Egitto, le Ngo sono state al centro di un grave giro di vite, con l’utilizzo della legge sulle associazioni risalante all’era Mubarak, per mandare il chiaro messaggio che il governo non intendeva tollerare alcun tipo di dissenso. Organizzazioni per i diritti umani di rilievo hanno dovuto ritirarsi dall’Esame periodico universale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Egitto, per timore di rappresaglie nei loro confronti. Come già accaduto in varie occasioni in precedenza, i manifestanti hanno dimostrato il loro coraggio malgrado le minacce e la violenza contro di loro. A Hong Kong, a decine di migliaia hanno sfidato le minacce delle autorità e affrontato un uso eccessivo e arbitrario della forza da parte della polizia, in quello che è diventato il “movimento degli ombrelli”, esercitando i loro diritti fondamentali alle libertà d’espressione e di riunione.

15 Le organizzazioni per i diritti umani sono talvolta accusate di essere troppo ambiziose nei loro sogni di dar vita a un cambiamento. Dobbiamo comunque ricordare che i traguardi straordinari sono rag- giungibili. Il 24 dicembre, è entrato in vigore il Trattato internazionale sul commercio di armi, dopo che tre mesi prima era stata superata la soglia delle 50 ratifiche. Amnesty International, tra gli altri, si è impegnata a favore del trattato per 20 anni. Più volte ci era stato detto che non saremmo mai arrivati a ottenerlo. Ebbene, il trattato adesso esiste e servirà a proibire la vendita di armi a quanti potrebbero utilizzarle per commettere atrocità. Potrà pertanto svolgere un ruolo decisivo negli anni a venire, quando la questione della sua implementazione sarà cruciale. Nel 2014 ricorrevano anche i 30 anni dall’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, un’altra convenzione per la quale Amnesty International si è battuta per molti anni e una delle motivazioni per le quali le fu conferito il premio Nobel per la pace nel 1977. Questo anniversario è, sotto un certo punto di vista, un momento da celebrare ma è anche l’occasione per sottolineare come la tortura sia ancora dilagante in molte parti del mondo, motivo per cui Amnesty International, proprio quest’anno, ha lanciato la sua campagna globale “Stop alla tortura”. Questo messaggio conto la tortura ha avuto una particolare risonanza in seguito alla pubblicazione a dicembre di un rapporto del senato statunitense, che ha dimostrato la facilità con cui era stato tollerato l’uso della tortura negli anni successivi agli attacchi agli Usa dell’11 settembre 2001. È sconcertante come alcuni dei responsabili per quegli atti criminali di tortura sembrassero ancora convinti di non avere alcun motivo di cui vergognarsi. Da Washington a Damasco, da Abuja a Colombo, i leader di governo hanno giustificato orrende violazioni dei diritti umani sostenendo che era necessario commetterle in nome della sicurezza. In realtà, è semmai vero il contrario. Questo tipo di violazioni sono uno dei motivi principali per i quali oggi viviamo in un mondo tanto pericoloso. Non può esserci sicurezza senza rispetto dei diritti umani. Abbiamo ripetutamente visto che, anche nei momenti più bui per i diritti umani, e forse in special modo in tempi come questi, è possibile dar vita a un cambiamento straordinario. Dobbiamo solo sperare che, quando negli anni a venire guarderemo indietro al 2014, ciò che abbiamo vissuto in quest’anno ci sembrerà il fondo, l’ultimo punto più basso da cui siamo risaliti e abbiamo creato un futuro migliore.

Salil Shetty Segretario generale di Amnesty International

16 AFRICA SUBSAHARIANA I PAESI

Angola Namibia Benin Niger Burkina Faso Nigeria Burundi Ruanda Camerun Senegal Centrafricana, Repubblica Sierra Leone Ciad Somalia Congo, Repubblica del Sud Sudan Congo, Repubblica Democratica del Sudafrica Costa d’Avorio Sudan Eritrea Swaziland Etiopia Tanzania Gambia Togo Ghana Uganda Guinea Zambia Guinea-Bissau Zimbabwe Guinea Equatoriale Kenya Malawi Mali Mauritania Mozambico

18 Panoramica regionale sull’Africa Subsahariana

Mentre in Africa ricorreva il 20° anniversario del genocidio in Ruanda, per tutto l’anno violenti conflitti hanno attanagliato parte del continente. Alcuni si sono sviluppati e intensificati con modalità parti- colarmente violente, come nella Repubblica Centrafricana (Central African – Car), in Sud Sudan e Nigeria; altri sono andati avanti senza soluzione, come nella Repubblica Democratica del Congo (Democratic Republic of Congo – Drc), in Sudan e Somalia. Questi conflitti hanno portato a persistenti e sistematiche gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto umanitario. I conflitti armati hanno alimentato i peggiori crimini imma- ginabili, ingiustizia e repressione. Emarginazione, discriminazione e persistente negazione delle libertà fondamentali e dei diritti socioeconomici più basilari sono a loro volte diventate terreno fertile in grado di generare ulteriore conflitto e instabilità. Sotto molti punti di vista, l’Africa ha continuato a essere considerata una regione in crescita. Il contesto e il panorama di sviluppo di molti paesi erano in piena evoluzione. Per tutto il 2014, rapidi mutamenti sul piano sociale, ambientale ed economico hanno continuato a interessare l’intero con- tinente. Una popolazione in rapido aumento, la crescita economica e l’urbanizzazione altrettanto veloci hanno cambiato rapidamente le vite e i mezzi di sussistenza delle persone. Molti stati africani hanno compiuto notevoli progressi verso il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite (Millennium Development Goals – Mdg), pur tra considerevoli difficoltà. Secondo il rapporto del 2014 sugli Mdg dell’Africa, otto delle prime 10 migliori posizioni a livello mondiale per la rapida accelerazione verso il raggiungimento degli obiettivi erano state ottenute da paesi africani. Tuttavia, molti indicatori ricordavano tristemente che la rapida crescita economica non era riuscita comunque a migliorare le condizioni di vita di molte persone. Mentre la percentuale di povertà complessiva in Africa è nell’ultimo decennio diminuita, il numero totale di africani che vivevano sotto la soglia di povertà (ovvero con 1,25 dollari Usa al giorno) è aumentato. Due delle nazioni martoriate dal conflitto, Nigeria (25,89 per cento) e Drc (13,6 per cento), registravano quasi il 40 per cento dei poveri del continente. L’Africa aveva una delle percentuali più elevate di disoccupazione giovanile al mondo ed era la seconda regione del mondo per disuguaglianza, dopo l’America Latina. Tutti questi dati hanno messo in evidenza il nesso esistente tra conflitti e fragilità da un lato e tra negazione dei diritti socioeconomici essenziali, esclusione sociale, disuguaglianza e aggravarsi della povertà dall’altro. È stato più che mai evidente che nel 2014 gli effetti della repressione e della persistente negazione dei diritti umani fondamentali hanno contribuito all’instabilità e ai violenti conflitti nella regione, come dimostrato in Burkina Faso, Car, Sud Sudan e Sudan. La tendenza alla repressione e la riduzione dello spazio politico hanno caratterizzato molti paesi africani durante l’intero anno. In diversi casi, le

19 forze di sicurezza hanno risposto a manifestazioni e proteste pacifiche facendo uso eccessivo della forza. Ancora in troppi luoghi, le libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione hanno continuato a essere soggette a gravi restrizioni. Questa tendenza non è stata visibile soltanto nei paesi governati da regimi autoritari ma anche in altri che lo erano in minor misura o che stavano at- traversando una transizione politica o si stavano apprestando a farlo. Nel corso dell’anno, molti paesi africani, tra cui Kenya, Somalia, Nigeria, Mali e paesi della regione del Sahel, hanno dovuto affrontare gravi minacce alla sicurezza, come diretta conseguenza della cre- scente violenza esercitata da gruppi armati estremisti, come al-Shabaab e Boko haram. Decine di migliaia di civili hanno perso la vita, altre centinaia sono stati vittime di rapimenti e innumerevoli altri continuavano a vivere in un clima di paura e insicurezza. Ma la risposta data da molti governi è stata ugualmente brutale e indiscriminata e ha portato ad arresti arbitrari, detenzioni di massa ed esecuzioni extragiudiziali. In Kenya, l’anno si è concluso con l’approvazione della legge (emendamento) sulla sicurezza del 2014, che ha apportato modifiche a 25 legislazioni esistenti e che era destinata ad avere notevoli implicazioni sui diritti umani. Un altro elemento comune nelle situazioni di conflitto in corso nella regione africana è stato l’impunità per i crimini di diritto internazionale commessi dalle forze di sicurezza e dai gruppi armati. Il 2014 non soltanto ha visto il ciclo d’impunità proseguire inesorabilmente in paesi come Car, Drc, Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Sudan ma è stato anche segnato da una grave reazione negativa della politica nei confronti del lavoro dell’Icc. Nel continente c’è stato inoltre uno slancio senza precedenti della politica a garantire l’impunità penale per i capi di stato e altre autorità per i crimini contro l’umanità e altri crimini di diritto internazionale. Tale atteggiamento è culminato in un regressivo emendamento al Protocollo dello Statuto della Corte africana di giustizia e dei diritti umani, con cui è stata concessa l’immunità giudiziaria ai capi di stato in carica e ad altri alti funzionari. Nel 2014 ricorreva anche il 10° anniversario della creazione del Consiglio dell’Au per la pace e la si- curezza (Peace and Security Council – Psc), ovvero “l’organo decisionale esecutivo dell’Au per la pre- venzione, la gestione e la risoluzioni dei conflitti in Africa”. L’Au e il Psc hanno compiuto alcuni passi significativi per dare una risposta ai conflitti emergenti in Africa, anche tramite lo schieramento della Missione internazionale di sostegno alla Repubblica Centrafricana (Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine – Misca), la creazione di una commissione d’inchiesta sul Sud Sudan, della figura di un inviato speciale per le donne, la pace e la sicurezza e diverse di- chiarazioni politiche che condannavano la violenza e gli attacchi sui civili. Ma in molti casi, questi sforzi sono sembrati troppo esigui e troppo in ritardo, sollevando dubbi sull’effettiva capacità dell’Au di dare una risposta ai conflitti. In alcuni casi, sono inoltre emerse accuse che implicavano in gravi violazioni dei diritti umani alcune missioni di peacekeeping dell’Au, come la Misca e in particolare il suo contingente ciadiano, che si è ritirato dalla missione nella Car in seguito alle accuse. Nonostante ciò, l’incapacità di affrontare le questioni legate ai conflitti in Africa sono andate ben oltre il livello dell’Au. Nella Car, ad esempio, le Nazioni Unite sono state reticenti prima di decidere l’invio di un contingente di peacekeeping che, benché sia servito a salvare molte vite, non aveva le ri- sorse necessarie per arginare l’inarrestabile ondata di violazioni e abusi dei diritti umani. In altri mo- menti c’è stato soltanto silenzio. Ad esempio, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite non è riuscito a dare una risposta efficace ai conflitti in Sudan, nonostante la pressante necessità di un monitoraggio indipendente sui diritti umani, di denuncia e di accertamento delle responsabilità. Quanto al Darfur, a luglio il Segretario generale delle Nazioni Unite ha annunciato un riesame delle

20 indagini sulla Missione delle Nazioni Unite in Darfur (UN Mission in Darfur – Unamid), in risposta alle accuse secondo cui il personale dell’Unamid aveva insabbiato episodi di violazione dei diritti umani. Affrontare le crescenti sfide dettate dai conflitti in corso in Africa richiede un urgente e decisivo cam- biamento di rotta nella volontà politica tra i leader africani, oltre che sforzi concertati a livello nazionale e regionale, in grado d’interrompere il ciclo d’impunità e affrontare le cause alla base dei conflitti. In caso contrario, l’immagine di una regione che aspira a “far tacere i cannoni entro il 2020” resterà un sogno ingannevole e irrealizzabile.

CONFLITTO – COSTI E VULNERABILITÀ

Conflitto e insicurezza hanno oppresso la vita d’innumerevoli persone in tutta l’Africa e, con vari gradi d’intensità, hanno colpito quasi tutti i paesi. Questi conflitti sono stati caratterizzati da persistenti abusi e atrocità, compiuti sia dalle forze governative sia dai gruppi armati. La Car è stata afflitta da un ciclo di violenza settaria e da atrocità di massa, compresi omicidi, tortura, stupro, mutilazioni, rapimenti, sfollamento forzato e reclutamento e impiego di bambini soldato. Nonostante la firma di un cessate il fuoco a luglio e lo schieramento di una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite a settembre, gli ultimi mesi del 2014 sono stati segnati da un’escalation di attacchi nelle regioni centrali del paese. I civili sono stati vittime di una vasta gamma di violazioni dei diritti umani, in un’im- pennata dei combattimenti tra i vari gruppi armati. Nuovi episodi di violenza hanno scosso la capitale Bangui a ottobre. Tutte le parti in conflitto, séléka e anti-balaka e membri armati del gruppo etnico peulh, hanno sistematicamente e impunemente preso di mira civili. Lo schieramento della Missione multidi- mensionale integrata di stabilizzazione nella Repubblica Centrafricana delle Nazioni Unite (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic – Minusca) a settembre ha fatto sperare in un cambiamento; tuttavia, appena un mese dopo, è stato registrato un significativo aumento della violenza in tutto il paese, a dimostrazione di quanto fosse più che mai necessario rafforzare l’efficienza e la capacità di reazione delle forze internazionali in campo. Nel vicino Sud Sudan, decine di migliaia di persone, molte delle quali civili, son state uccise e 1,8 milioni sono state costrette a fuggire dalle loro abitazioni nel contesto del conflitto iniziato a dicembre 2013. Le forze governative e d’opposizione hanno dimostrato un assoluto disprezzo delle norme inter- nazionali sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario, commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Tutte le parti in conflitto hanno preso di mira e ucciso civili, sulla base della loro appartenenza etnica, compresi coloro che erano in cerca di riparo in luoghi di culto e ospedali. La violenza sessuale è stata diffusa e hanno imperversato saccheggi e distruzione di proprietà. Nonostante la portata degli abusi e benché milioni di persone siano rimaste a rischio di carestia e di contrarre malattie, entrambe le parti hanno ignorato gli accordi di cessate il fuoco. L’anno è terminato senza segnali tangibili di una qualche volontà di affrontare l’impunità e anche i risultati della commissione d’inchiesta sul Sud Sudan, istituita presso l’Au, non erano stati ancora rivelati. In seguito all’aggravarsi della campagna di violenza da parte del gruppo armato islamista Boko haram nel 2013, il conflitto armato nel nord-est della Nigeria si è intensificato per portata e numero di vittime, dimostrando in maniera inequivocabile di minacciare la stabilità della più popolosa nazione africana oltre che la pace e sicurezza dell’intera regione. Nel 2014, il conflitto si è intensificato nei centri abitati minori e nei villaggi, con oltre 4000 civili uccisi dal 2009. Il rapimento ad aprile di 276 alunne da parte

21 di Boko haram è stato un esempio emblematico della campagna di terrore ingaggiata dal gruppo contro i civili, che è proseguita in maniera inesorabile. D’altro canto, le comunità già da anni terrorizzate da Boko haram erano diventate sempre più vulnerabili alle violazioni da parte delle forze di sicurezza, che hanno regolarmente risposto con attacchi pesanti e indiscriminati e con arresti arbitrari di massa, percosse e torture. Sequenze video raccapriccianti, immagini e resoconti di testimoni oculari raccolti da Amnesty International hanno fornito nuove prove di probabili crimini di guerra, crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni dei diritti umani e abusi compiuti da tutte le parti in lotta. Tortura e altri maltrattamenti sono stati abitualmente e sistematicamente praticati dai servizi di si- curezza nigeriani in tutto il paese, anche nel contesto del conflitto nel nord-est. Raramente le autorità di sicurezza sono state chiamate a rispondere delle loro azioni. La serie di sistematici arresti e detenzioni arbitrari di massa, attuata dai militari nel nord-est del paese si è visibilmente intensificata dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza a maggio 2013 e a fine anno continuavano a susseguirsi notizie di esecuzioni extragiudiziali da parte di tutte le parti coinvolte. Nel frattempo, conflitti che già si protraevano da molto tempo non facevano prevedere alcuna imminente risoluzione. In Sudan, i conflitti in corso in Darfur, negli stati del Kordofan del Sud e Nilo Blu sono proseguiti ine- sorabili, propagandosi nel Kordofan del Nord. Tutte le parti si sono rese responsabili di violazioni delle norme internazionali sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario. In Darfur, abusi dilaganti, violenze tra le comunità in guerra e attacchi da parte delle milizie alleate del governo e dei gruppi armati d’opposizione hanno innescato un notevole aumento degli sfollati e delle vittime tra i civili. Un’impennata di violenza tra i gruppi armati attivi nella Drc orientale, nel contesto dell’“Operazione Sokola 1”, è costata la vita a migliaia di persone, costringendone un altro milione a fuggire dalle loro abitazioni. L’aumento della violenza è stato inoltre segnato da uccisioni e stupri di massa da parte sia delle forze governative sia dei gruppi armati. Nella regione centrale e meridionale della Somalia, oltre 100.000 civili sono stati uccisi, feriti o sfollati nel contesto del continuo conflitto armato in corso tra le forze filogovernative, la Missione dell’Au in Somalia (African Mission to Somalia – Amisom) e il gruppo armato islamista al-Shabaab. I gruppi armati hanno violato le norme internazionali sui diritti umani e il diritto internazionale uma- nitario. I gruppi armati hanno reclutato persone con la forza, compresi minori, rapito, torturato e compiuto uccisioni illegali. Sono dilagati i casi di stupro e altra violenza sessuale. La situazione umanitaria si è rapidamente deteriorata a causa del conflitto, della siccità e delle limitazioni all’accesso delle agenzie umanitarie. A fine anno, oltre un milione di persone viveva una crisi umanitaria e altri 2,1 milioni necessitavano di aiuti. Erano inoltre visibili altri segnali allarmanti di futuri conflitti. La regione del Sahel è rimasta in particolar modo esposta, a causa di una serie combinata di conseguenze dovute all’insicurezza politica, alla crescita di gruppi armati estremisti e del crimine organizzato, alla povertà estrema e al- l’esclusione sociale. Tutto questo è risultato ben visibile in Mali, dove il conflitto armato interno ha lasciato il paese in uno stato di persistente insicurezza, in particolare nel nord, dove alcune aree sono rimaste fuori dal controllo delle autorità. Nonostante un accordo di pace firmato tra il governo e i gruppi armati nel 2013, questi ultimi si sono resi responsabili di abusi, tra cui rapimenti e uccisioni, e le esplosioni di violenza sono continuate per tutto il 2014, anche mentre erano in corso i colloqui di pace tra il governo e i gruppi armati. Violenza e insicurezza sono culminate in un’impennata di atti di terrorismo, come in Somalia, Kenya,

22 Nigeria e in tutta la regione del Sahel, frequentemente accompagnati da violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza. Gli abusi commessi dai gruppi armati comprendevano uccisioni illegali, rapimenti, tortura e attacchi indiscriminati. In Somalia, fazioni di al-Shabaab hanno torturato e ucciso illegalmente persone che ritenevano essere spie o che non avevano osservato la loro rigida interpretazione della legge islamica. Hanno messo a morte persone in pubblico, anche tramite lapi- dazione, e compiuto amputazioni e fustigazioni. Anche in Camerun, gruppi islamisti nigeriani, compreso Boko haram, hanno ucciso civili, preso ostaggi e compiuto rapimenti, oltre ad attaccare i difensori dei diritti umani.

RIDUZIONE DELLO SPAZIO POLITICO E PERSISTENTE NEGAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI

In davvero troppi paesi dell’Africa, durante l’anno è proseguita la tendenza alla repressione e la riduzione dello spazio politico. In Eritrea, non hanno potuto operare partiti politici, mezzi d’informazione indipendenti, organizzazioni della società civile e migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici rimanevano in detenzione arbitraria. In Etiopia, le autorità hanno ripreso la campagna contro i mezzi d’informazione indipendenti, compresi blogger e giornalisti, e gli arresti di membri del partito d’opposizione e di manifestanti pacifici. In Ruanda, lo spazio per le critiche nei confronti delle politiche del governo in materia di diritti umani da parte della società civile era quasi del tutto inesistente. In Burundi, le voci critiche, comprese quelle di esponenti d’opposizione, attivisti della società civile, avvocati e giornalisti, sono state soggette a provvedimenti di restrizione in vista delle elezioni in programma nel 2015. La libertà d’espressione e d’associazione è stata limitata, con raduni e marce regolarmente vietati. In Gambia, il presidente Yahya Jammeh ha festeggiato il suo 20° anno al potere, due decenni carat- terizzati da una forte intolleranza nei confronti del dissenso in cui giornalisti, oppositori politici e di- fensori dei diritti umani hanno continuato a essere vittime d’intimidazioni e tortura. L’anno è terminato con un tentativo di colpo di stato la notte del 30 dicembre, che ha portato a decine di arresti e a un vasto giro di vite sugli organi di stampa. In Burkina Faso, a novembre si è insediato un governo di transizione per traghettare il paese verso le elezioni legislative e presidenziali previste nel 2015. Ciò faceva seguito alla destituzione dell’ex presidente Blaise Compaoré, dopo diffuse proteste popolari contro un progetto legislativo di modifica della costituzione. Le forze di sicurezza hanno risposto a manifestazioni e proteste facendo uso eccessivo della forza in Angola, Burkina Faso, Ciad, Guinea, Senegal e Togo, solo per citare alcuni paesi. Nella maggior parte dei casi, le autorità non hanno provveduto a indagare l’uso eccessivo della forza e nessuno è stato chiamato a rispondere di queste azioni. In molti paesi, giornalisti, difensori dei diritti umani e oppositori politici hanno affrontato una serie di diffuse e sistematiche minacce, arresti e detenzioni arbitrari, percosse, torture, sparizioni forzate e anche la morte, per mano di agenti governativi o gruppi armati. Azioni repressive o limitazioni dei diritti alla libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione si sono verificate in Angola, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea, Mauritania, Ruanda, Somalia, Swaziland, Togo, Uganda, Zambia e Zimbabwe. In Angola, Burundi e Gambia, nuove leggi e altre norme hanno ulteriormente limitato le attività dei mezzi d’informazione e della società civile.

23 In Sudan, le libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione hanno continuato a essere grave- mente ridotte, malgrado gli impegni presi dal governo di avviare un dialogo nazionale per raggiungere la pace nel paese e tutelare i diritti costituzionali. Il governo ha continuato a impiegare i servizi di si- curezza e intelligence nazionali (National Intelligence and Security Service – Niss) e altre forze di si- curezza per arrestare arbitrariamente persone percepite come oppositori del Partito del congresso na- zionale al governo, allo scopo di censurare i mezzi d’informazione e bloccare forum pubblici e proteste. In Sud Sudan, il servizio di sicurezza nazionale (National Security Service – Nss) ha confiscato e chiuso testate giornalistiche, vessato, intimidito e detenuto illegalmente giornalisti, in un’azione di repressione che ha limitato la libertà d’espressione e ridotto il dibattito pubblico su come porre fine al conflitto armato. Un progetto di legge sul servizio di sicurezza nazionale che garantiva ampi poteri all’Nss, compresa la facoltà di arresto e detenzione, senza adeguate garanzie di una supervisione in- dipendente o salvaguardie contro eventuali abusi, è stato approvato dal parlamento ed era in attesa di essere controfirmato dal presidente.

IMPUNITÀ – FALLIMENTO NEL GARANTIRE GIUSTIZIA

L’impunità è stata un comune denominatore dei conflitti armati che hanno afflitto il continente africano e raramente i presunti responsabili di crimini di diritto internazionale sono stati chiamati a rispondere delle loro azioni. Nella Car, ci sono stati alcuni arresti di membri di basso profilo dei gruppi armati e la procuratrice dell’Icc ha annunciato l’apertura di nuove indagini preliminari sulle violenze. Questi segnali di speranza hanno rappresentato tuttavia un’eccezione, in quanto nella Car l’impunità ha continuato ad alimentare il conflitto. Quasi tutti i leader dei gruppi armati sospettati di crimini di diritto inter- nazionale nel paese, a fine anno, erano ancora latitanti. Nella Drc, gli sforzi per assicurare l’accertamento delle responsabilità per i crimini di diritto interna- zionale commessi dall’esercito congolese e dai gruppi armati hanno ottenuto pochi risultati tangibili. Il processo davanti a un tribunale militare di soldati congolesi per lo stupro di massa di oltre 130 donne e ragazze, oltre che per omicidio e saccheggio compiuti a Minova, si è concluso con soltanto due dei 39 soldati sotto processo per stupro condannati per questo reato. Altri accusati sono stati ritenuti colpevoli di omicidio, saccheggio e reati militari. Il problema del mancato accertamento delle responsabilità è stato la norma anche al di fuori delle zone di conflitto e i perpetratori di violazioni dei diritti umani hanno potuto operare per lo più in tutta libertà. Tortura e altri maltrattamenti sono proseguiti in paesi come Guinea Equatoriale, Eritrea, Etiopia, Gambia, Mauritania, Nigeria e Togo, in larga parte a causa del fallimento nell’assicurare alla giustizia i perpetratori di questi crimini. Gli sforzi per garantire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di diritto internazionale, compresi crimini contro l’umanità, commessi durante la violenza postelettorale in Kenya, sono rimasti inadeguati. Presso l’Icc, è proseguito il processo a carico del vicepresidente Samoei Ruto e di Joshua Arap Sango, benché indebolito da accuse d’intimidazioni esercitate nei confronti dei testimoni e di tangenti. Le imputazioni formulate contro il presidente Uhuru Kenyatta sono state ritirate, dopo che era stata rigettata un’eccezione presentata dalla procuratrice dell’Icc per mancata cooperazione da parte del governo keniano. A livello nazionale, non sono stati registrati progressi nell’assicurare alla

24 giustizia i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani commesse durante la violenza postelet- torale. Dall’altro lato, nel 2014, l’Icc ha confermato il verdetto e la sentenza riguardanti il caso di Thomas Lubanga Dyilo, ritenuto colpevole nel 2012 di crimini di guerra per aver reclutato e arruolato minori al di sotto dei 15 anni e averli costretti a partecipare attivamente alle ostilità in corso nella Drc. Oltre a ciò, Germain Katanga, comandante della Forza di resistenza patriottica nell’Ituri (Force de résistance patriotique en Ituri), è stato giudicato colpevole di crimini contro l’umanità e crimini di guerra e con- dannato complessivamente a 12 anni di carcere. L’Icc ha inoltre convalidato le imputazioni a carico di Bosco Ntaganda, per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, compresi reati di violenza sessuale, che sarebbero stati compiuti nella provincia dell’Ituri, nella Drc, tra il 2002 e il 2003. Il pro- cesso era previsto per giugno 2015. Le accuse nei confronti dell’ex presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, che doveva rispondere di crimini contro l’umanità, sono state confermate dall’Icc a giugno. Alla stesura del presente rapporto il processo a suo carico era fissato per luglio 2015. A livello nazionale, in Mali ci sono stati tentativi di combattere l’impunità per i reati di diritto inter- nazionale, come l’avvio di un’indagine relativa a casi di sparizione forzata. L’ex presidente ciadiano Hissène Habré è rimasto in custodia in Senegal, in attesa di comparire davanti alle Camere straordinarie africane create sotto l’egida dell’Au, in seguito al suo arresto avvenuto a luglio 2013, per accuse di crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi in Ciad tra il 1982 e il 1990. A marzo, la Costa d’Avorio ha consegnato all’Icc Charles Blé Goudé, il quale era accusato di crimini contro l’umanità compiuti durante la violenza postelettorale del 2010. A dicembre, la Camera prepro- cessuale dell’Icc ha convalidato le imputazioni di crimini contro l’umanità e lo ha rinviato al giudizio della Camera processuale. Sempre a dicembre, la camera preprocessuale ha rigettato il ricorso pre- sentato dalla Costa d’Avorio riguardo all’ammissibilità del fascicolo giudiziario contro Simone Gbagbo, sospettata di aver commesso crimini contro l’umanità. Con una mossa incoraggiante, a ottobre la Corte costituzionale del Sudafrica (Constitutional Court of South Africa – Ccsa) ha assunto una decisione storica sulla giurisdizione universale, in merito al caso del commissario nazionale del servizio di polizia sudafricano vs. il centro sudafricano per le cause penali sui diritti umani e di un altro caso giudiziario. Nella sua decisione, la Ccsa aveva ritenuto che le accuse riguardanti la tortura compiuta in Zimbabwe da parte e contro cittadini zim- babwani dovevano essere indagate dal servizio di polizia sudafricano, secondo il principio della giu- risdizione universale. Sul piano internazionale e regionale si è registrato però un grave arretramento rispetto ai progressi ottenuti in precedenza nel campo della giustizia internazionale in Africa. Sebbene lo Statuto di Roma dell’Icc potesse contare tra gli stati aderenti 34 paesi africani, ovvero il numero più alto tra le varie regioni, nel corso del 2014, le macchinazioni e gli espedienti politici hanno finito per compromettere i coraggiosi progressi compiuti dall’Africa nell’assicurare l’accertamento delle responsabilità. Il Kenya ha proposto cinque emendamenti allo Statuto di Roma, compresa la modifica all’art. 27 per impedire all’Icc di perseguire penalmente i capi di stato e di governo mentre sono in carica. A maggio, i ministri dell’Au, nel considerare gli emendamenti al Protocollo dello Statuto della Corte africana di giustizia e dei diritti umani, hanno concordato di ampliare l’elenco delle categorie di persone che avrebbero beneficiato dell’immunità rispetto al nuovo organo di giustizia. Durante la sua 23ª sessione ordinaria, l’Assemblea dell’Au ha in seguito approvato tale emendamento, che mirava a garantire ai leader africani e ad altre alte cariche dello stato l’immunità giudiziaria per genocidio,

25 crimini di guerra e crimini contro l’umanità: un passo indietro e un tradimento per le vittime di gravi violazioni dei diritti umani. I capi di stato e di governo hanno scelto di proteggere se stessi e i futuri leader di governo dalle persecuzioni penali per gravi violazioni dei diritti umani, piuttosto che preoc- cuparsi di garantire giustizia per le vittime di crimini di diritto internazionale. In ogni caso, l’Icc continuerà ad aver il potere d’indagare i capi di stato e di governo africani di qualsiasi stato parte dello Statuto di Roma per questo tipo di crimini ma il 2014 sarà ricordato come l’anno in cui alcuni stati africani e l’Au si sono impegnati sul piano politico per indebolire il lavoro dell’Icc.

POVERTÀ E PRIVAZIONE

Nonostante la progressiva e rapida crescita economica registrata durante l’anno, per molti africani le condizioni di vita non sono per nulla migliorate. Molti stati hanno compiuto progressi significativi verso il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del millennio ma l’Africa continua a rimanere indietro rispetto ad altre regioni in via di sviluppo, nel raggiungimento di molti degli obiettivi entro il 2015. La povertà in Africa è in continua diminuzione ma il ritmo con cui ciò avviene non è sufficiente per raggiungere l’obiettivo di dimezzare la povertà entro il 2015. Di fatto, le indicazioni attuali sono ben diverse e cioè che il numero totale degli africani che vivono al di sotto della soglia di povertà (1,25 dollari Usa al giorno) è aumentato. Anche altri obiettivi, come la riduzione del numero dei bambini sottopeso e della mortalità materna, molto difficilmente saranno raggiunti. Se da un lato le città africane si sono ampliate a un ritmo senza precedenti, questa rapida urbaniz- zazione è stata accompagnata da insicurezza e disuguaglianze. La povertà urbana ha lasciato molte persone prive di alloggi adeguati e dei servizi più essenziali, in particolare coloro che vivevano negli insediamenti informali o nelle baraccopoli. Gli sgomberi forzati hanno lasciato le persone prive dei loro mezzi di sussistenza e delle proprietà, facendole sprofondare in una condizione di povertà ancor più grave. In Angola, almeno 4000 famiglie sono state sgomberate con la forza nella provincia di Luanda. In Kenya, i tribunali hanno continuato a confermare il diritto a un alloggio adeguato e ad af- fermare il divieto di attuare sgomberi forzati. L’Alta corte ha condannato il governo a pagare un risar- cimento pari a circa 390.000 dollari Usa agli abitanti dell’insediamento informale di City Carton, nella capitale Nairobi, che erano stati sgomberati con la forza dalle loro abitazioni nel 2013. A marzo, l’insorgenza dell’epidemia del virus Ebola in alcuni paesi dell’Africa Occidentale ha determinato quella che è stata considerata, secondo la descrizione data dal Who, la più vasta e più complessa epidemia di Ebola da quando il virus fu scoperto nel 1976. A fine 2014, il virus Ebola aveva ucciso la vita a circa 8000 persone in Guinea, Liberia, Mali, Nigeria e Sierra Leone. Oltre 20.000 persone erano state infettate dal virus (tra i casi sospetti, probabili e confermati) e si è temuta una conseguente crisi alimentare per gli inizi del 2015. Intere comunità e i servizi sanitari dei paesi colpiti ne sono usciti devastati o hanno rischiato di collassare. I paesi più gravemente colpiti, ovvero Guinea, Liberia e Sierra Leone, avevano già un sistema sanitario debole, essendo solo di recente emersi da lunghi periodi di conflitto e instabilità. In Guinea, dove sono morte centinaia di persone, compresi almeno 70 operatori sanitari, la risposta tardiva del governo e la mancanza di risorse hanno contribuito alla rapida e fatale diffusione della malattia. Tutto questo non è solo indicativo delle incapacità dei governi di rispettare, proteggere e realizzare il diritto ai più alti standard ottenibili di salute per i loro cittadini ma anche dell’incapacità da parte

26 della comunità internazionale di rispondere alla crisi. A fine 2014, le principali agenzie umanitarie invocavano un maggiore contributo da parte della comunità internazionale e le Nazioni Unite dichia- ravano che erano necessari fondi per circa 1,5 miliardi di dollari Usa, per impedire l’ulteriore diffusione dell’Ebola, nel periodo tra ottobre 2014 e marzo 2015; a dicembre, le donazioni ammontavano a soli 1,2 miliardi di dollari Usa. Se l’epidemia continuerà a espandersi a questo ritmo, le Nazioni Unite sti- mano che occorreranno ulteriori 1,5 miliardi per il periodo tra aprile e settembre 2015.

DISCRIMINAZIONE ED EMARGINAZIONE

Conflitti armati, persecuzioni politiche o la ricerca di migliori opportunità di vita hanno causato, o hanno continuato a causare, lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone. Queste sono state per lo più costrette a lasciare le loro case in ardui e rischiosi tentativi di trovare un luogo sicuro all’interno dei paesi od oltrepassando i confini internazionali. Moltissimi rifugiati e migranti sono rimasti a rischio di ulteriori violazioni e abusi, bloccati in campi con limitato accesso ad assistenza medica, acqua, servizi igienico-sanitari, cibo e istruzione. Il loro numero è aumentato mese dopo mese con la fuga di migliaia di persone dall’Eritrea, in mag- gioranza a causa del servizio militare nazionale obbligatorio a tempo indefinito. Molti hanno rischiato di finire nella rete dei trafficanti di esseri umani, come in Sudan ed Egitto. In Camerun, migliaia di rifugiati dalla Car e dalla Nigeria, in fuga dai gruppi armati, vivevano in condizioni spaventose, in campi sovraffollati situati sulle aree di confine. Molti sfollati a seguito del conflitto del Sudan, oltre un milione di persone, sono rimasti all’interno del paese, con almeno 600.000 di loro che vivevano nei campi per rifugiati in Ciad, Sud Sudan o Etiopia. La disperata condizione di migliaia di rifugiati somali in Kenya è stata ulteriormente aggravata da una politica di accampamento forzato, che li ha costretti a lasciare le loro case nelle città e ad ammassarsi in campi squallidi e sovraffollati. In Su- dafrica, rifugiati e richiedenti asilo hanno continuato a essere soggetti ad attacchi di stampo xenofobo con scarsa o nessuna protezione da parte delle autorità. Anche molti altri gruppi sono rimasti esclusi dalla tutela dei diritti umani o sono stati loro negati i mezzi per ottenere un rimedio giuridico agli abusi di cui erano stati vittime. Le donne sanno svolgere un ruolo fondamentale quando si tratta di rafforzare la resilienza delle società colpite dai conflitti ma sono state frequentemente escluse dai processi di pace nazionali. In molti dei paesi afflitti da com- battimenti o che ospitavano vaste popolazioni di rifugiati o sfollati, donne e ragazze sono state vittime di stupro e altre forme di violenza sessuale, come ad esempio è accaduto in Sud Sudan e in Somalia. La violenza contro le donne è stata diffusa anche nei paesi non interessati dal conflitto, talvolta a causa di tradizioni e usanze culturali ma in alcuni paesi anche a causa di una discriminazione di genere istituzionalizzata dalla legislazione nazionale. Per le persone Lgbti c’è stato qualche motivo di speranza nel 2014, quando la Commissione africana sui diritti umani e dei popoli ha adottato una risoluzione storica che condannava gli atti di violenza, discriminazione e altre violazioni dei diritti umani contro le persone sulla base del loro orientamento sessuale o dell’identità di genere. Anche altri segnali sono stati motivo di speranza per la realizzazione dei principi di uguaglianza e giustizia, come l’impegno espressamente assunto dal Malawi di depe- nalizzare i rapporti sessuali omosessuali consenzienti. Ciononostante, in molti paesi, tra cui Camerun, Gambia, Senegal, Uganda e Zambia, non sono cessate

27 le persecuzioni o la criminalizzazione di persone per il loro reale o percepito orientamento sessuale. Con un atteggiamento retrogrado, diversi paesi hanno fatto di tutto per aumentare le azioni giudiziarie nei confronti di persone a causa della loro identità sessuale, rafforzando legislazioni dal contenuto già iniquo o introducendone di nuove. Il presidente nigeriano ha controfirmato l’oppressiva legge (divieto) dei matrimoni omosessuali, che consentiva la discriminazione sulla base del reale o percepito orientamento sessuale o dell’identità di genere. L’Uganda ha introdotto una legge contro l’omosessualità, benché questa sia stata cassata dalla Corte costituzionale in quanto approvata dal parlamento senza quorum, che lasciava molte persone Lgbti, e altre percepite tali, soggette ad arresti arbitrari e percosse, sgomberi dalle abitazioni, perdita del posto di lavoro e aggressioni da parte di gruppi di facinorosi. Il presidente del Gambia ha dato l’assenso a un progetto di legge approvato dal parlamento, la legge (emendamento) del codice penale del 2014, che introduceva il reato di “omosessualità aggravata”, una definizione vaga che apriva la strada ad ampi abusi e che comportava l’ergastolo. Una proposta di legge dal contenuto omofobo era inoltre all’esame del parlamento del Ciad e minacciava d’imporre pene carcerarie fino a 20 anni e pesanti ammende per coloro che fossero stati “ritenuti colpevoli” di rapporti omosessuali.

GUARDANDO AVANTI

Per tutto il 2014, singoli individui e comunità dell’intera regione hanno costruito e rafforzato la com- prensione e il rispetto dei diritti umani. Parlando apertamente e attivandosi, talvolta a rischio della propria vita e incolumità, il movimento per i diritti umani che sta crescendo ha dato una nuova visione basata su giustizia, dignità e speranza. Ciononostante, l’anno ha rappresentato un forte sollecito ad affrontare le enormi sfide che ancora at- tendono l’Africa sul fronte dei diritti umani e la necessità di un più incisivo e veloce avanzamento verso la realizzazione di tutti questi diritti. Gli eventi occorsi durante l’anno hanno mostrato in maniera nitida come sia più che mai necessaria un’azione concertata e coerente per disinnescare e risolvere i violenti conflitti in corso in Africa. Guar- dando avanti, gli sforzi della Commissione dell’Au per stabilire una road map in grado di far tacere tutti i cannoni in Africa devono essere accolti e portati avanti. C’è un assoluto bisogno di un approccio molto più vigoroso, coerente e coeso nell’affrontare i conflitti, basato sulle norme internazionali sui diritti umani, da parte delle istituzioni sia internazionali sia regionali. Un altro presupposto fondamentale per la pace, la sicurezza e la giustizia è che gli stati africani mettano fine al loro attacco collettivo alla giustizia internazionale, oltre che al lavoro dell’Icc, e al contrario dimostrino fermezza nella lotta all’impunità, a livello regionale e internazionale, e si adoperino per un efficace accertamento delle responsabilità per le gravi violazioni dei diritti umani e altri crimini di diritto internazionale. Gli anni a venire saranno quasi certamente destinati a segnare un profondo cambiamento. Non di meno, lo scenario del post-2015, che farà seguito agli Obiettivi di sviluppo del millennio, sarà un’op- portunità storica per gli stati membri dell’Au di concordare un quadro normativo sui diritti umani, in grado di migliorare le vite di innumerevoli persone. Il tema dell’accertamento delle responsabilità do- vrebbe essere integrato nella cornice del post-2015, con solidi obiettivi e indicatori rispetto all’accesso alla giustizia; questo dovrà aggiungersi a un rafforzamento dei diritti incentrato su partecipazione, uguaglianza, non discriminazione, stato di diritto e altre libertà fondamentali.

28 ANGOLA

REPUBBLICA DELL’ANGOLA

Capo di stato e di governo: José Eduardo dos Santos

Le libertà d’associazione e di riunione sono state ancora limitate. Migliaia di famiglie sono state vittime di sgomberi forzati. Un giovane è stato processato e assolto dall’imputazione di diffamazione contro il presidente ed è iniziato il processo di un altro uomo, accusato di aver diffamato funzionari dello stato. Il processo a carico di agenti statali, in relazione alla sparizione di due uomini avvenuta nel 2012, è stato avviato, sospeso e poi riavviato.

CONTESTO A gennaio, il presidente José Eduardo dos Santos ha assunto la presidenza della Conferenza interna- zionale per la Regione dei grandi laghi. Sono pervenute notizie di sporadiche violenze politiche tra membri del partito di governo Movimento popolare di liberazione dell’Angola (Movimento popular de libertação de Angola – Mpla) e l’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (União nacional para a independência total de Angola – Unita). Dal 28 aprile al 12 maggio, l’Angola ha ospitato nella capitale Luanda la 55ª sessione ordinaria della Commissione africana sui diritti umani e dei popoli. Tra il 16 e il 31 maggio, l’Angola ha effettuato un censimento generale della popolazione e delle unità abitative. Era il primo censimento indetto dal 1970, prima dell’indipendenza. I risultati preliminari, resi pubblici a ottobre, hanno attestato una popolazione di oltre 24,3 milioni di persone, con il 52 per cento di donne. La situazione dei diritti umani dell’Angola è stata analizzata secondo l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite a ottobre.1 L’Angola ha accettato 192 delle 226 raccomandazioni complessivamente formulate. Doveva inoltre ancora valutare le restanti 34, comprese quelle relative alle libertà d’espres- sione, associazione e riunione.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI Le autorità hanno attuato un numero maggiore di sgomberi forzati su vasta scala rispetto agli ultimi due anni. Nella provincia di Luanda, almeno 4000 famiglie sono state sgomberate con la forza, a seguito della demolizione delle loro case. Almeno 700 di queste famiglie sono rimaste prive di un alloggio adeguato. Sono inoltre pervenute notizie di sgomberi effettuati in altre province, compresa quella di Cabinda. Dal 20 gennaio, fonti hanno riferito che nel quartiere di Chicala, a Luanda, sono state sgomberate 2000 famiglie. Le case erano state contrassegnate per la demolizione due anni prima. Alcune delle famiglie sgomberate con la forza sono state riallocate a Zango, a Luanda, mentre ad altre è stata as-

29 segnata una tenda in un’area disabitata a Kissama, a circa 100 km dalla città. Soltanto a settembre hanno ottenuto il terreno e le lamiere per potersi costruire un alloggio. Dal 28 maggio al 6 giugno, sarebbero state 600 le famiglie rimaste senza tetto in seguito alla demo- lizione delle loro abitazioni e sgomberate con la forza nel quartiere di Areia Branca, a Luanda. Si ritiene che siano state sgomberate per far spazio alla costruzione di un albergo. Secondo le notizie ri- portate, poliziotti armati, compresi agenti in assetto antisommossa e un’unità cinofila, hanno percosso le persone che venivano sgomberate. La maggior parte dei residenti viveva nell’area da sei o 10 anni e alcuni hanno riferito di possedere un titolo legale sul terreno. Le famiglie sono state spostate in una località del distretto di Samba, a Luanda, e, stando alle fonti, a fine anno si trovavano ancora lì, si- stemate in alloggi improvvisati costruiti con il cartone.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Polizia e forze di sicurezza hanno usato la forza, o hanno minacciato di farlo, e hanno attuato detenzioni arbitrarie per reprimere manifestazioni pacifiche a Luanda e in altre parti del paese.2 In più occasioni, i poliziotti hanno tratto in stato di fermo i manifestanti e, dopo averli percossi, li hanno abbandonati a centinaia di km di distanza da dove erano stati arrestati. A luglio, giovani manifestanti hanno indetto una protesta negli insediamenti informali nel contesto di un progetto che hanno chiamato Movimento per le manifestazioni nei musseques [insediamenti informali] (Movimento des manifestações nos musseques – Mmm). Secondo i giovani organizzatori, il movimento intendeva ma- nifestare pacificamente per ottenere migliori condizioni di vita negli insediamenti informali. Secondo quanto riferito, la polizia ha percosso e arrestato giovani che manifestavano pacificamente in occasione dell’anniversario delle uccisioni del 27 maggio 1977. Circa un centinaio di persone si sarebbero radunate in piazza Indipendenza, a Luanda, per manifestare e chiedere la creazione di commissioni d’inchiesta sulle uccisioni del 1977 e su quelle di tre attivisti avvenute nel 2012 e 2013. La polizia ha trattenuto 20 giovani per diverse ore e, stando alle notizie, li ha percossi prima di ab- bandonarli a Catete, a circa 60 km da Luanda. Il 21 giugno, poliziotti in assetto antisommossa hanno impiegato gas lacrimogeni e hanno disperso con la violenza una protesta pacifica del sindacato del personale docente (Sindicato Nacional de Pro- fessores – Sinprof), a Lubango, arrestando 20 insegnanti. Questi stavano manifestando per chiedere il pagamento degli arretrati dei loro stipendi. Sono stati rilasciati il 23 giugno, dopo essere stati assolti in un processo sommario.

UCCISIONI ILLEGALI Polizia e forze di sicurezza si sono rese responsabili di uccisioni illegali in varie province, tra cui Luanda, Malanje, Lunda Sul e Lunda Norte, e hanno continuato a godere dell’impunità per alcuni di questi casi. A maggio, agenti in borghese identificatisi come appartenenti al 32° commissariato di polizia del di- stretto di Kilamba Kiaxi, a Luanda, avrebbero ucciso a colpi d’arma da fuoco Manuel Samuel Tiago, Damião Zua Neto detto “Dani”, e Gosmo Pascoal Muhongo Quicassa detto “Smith”. Testimoni hanno affermato che i giovani si trovavano a bordo di un veicolo parcheggiato davanti a una mensa nel quartiere 28 di agosto, a Kilamba Kiaxi. La polizia ha affiancato il veicolo e, stando ai resoconti, ha aperto il fuoco. Il fratello di Manuel Samuel Tiago, che ha assistito alla scena, ha riferito che suo fratello era sceso dall’auto e aveva implorato i poliziotti di smettere di sparare ma era stato a sua

30 volta raggiunto dai colpi esplosi da un agente. Sul caso è stata istituita un’inchiesta ma a fine anno non erano disponibili altre informazioni. A luglio, a Cuango, a Lunda Norte, una guardia giurata ha sparato e ucciso Lucas Tiago. Secondo le notizie riportate, nella zona erano presenti poliziotti e guardie giurate impegnati in un’operazione contro le miniere illegali di diamante e, nel corso dell’azione, Lucas Tiago era stato colpito alla schiena. Ciò è emerso da un confronto tra gli altri minatori di diamanti, gli agenti di polizia e le guardie giurate. La polizia e le guardie giurate avrebbero arrestato 22 minatori. Sulla morte di Lucas Tiago è stata istituita un’inchiesta ma a fine anno non erano disponibili altre informazioni.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Le autorità hanno continuato a intentare azioni giudiziarie per il reato di diffamazione. I ricorsi presentati da due giornalisti, Armando Chicoca e William Tonet, contro le loro rispettive condanne per il reato di diffamazione nel 2011, non erano stati ancora esaminati. Il 14 agosto, Manuel Nito Alves è stato processato e assolto dall’accusa di diffamazione contro il pre- sidente dell’Angola per insufficienza di prove. L’imputazione a suo carico era stata formulata in relazione ad alcune magliette che aveva commissionato, su cui era stampata una scritta ritenuta of- fensiva nei confronti del presidente. Era stato arrestato da agenti di polizia e della sicurezza di stato il 12 settembre 2013, all’età di 17 anni, mentre stava ritirando le magliette nel negozio dove erano state stampate. Il 19 agosto, il giornalista e attivista dei diritti umani Rafael Marques de Morais è comparso davanti al tribunale provinciale di Luanda per rispondere dell’accusa di diffamazione, intentata contro di lui dal capo dell’ufficio dei servizi segreti della presidenza, da altri sei generali e dalla società mineraria Sociedade Mineira do Cuango (Smc). Le accuse riguardavano un libro, “Diamantes de sangue: tortura e corrupção em Angola” (“Diamanti di sangue: tortura e corruzione in Angola”), pubblicato in Portogallo. Nel libro si parlava del coinvolgimento del capo dell’ufficio dei servizi segreti e dei sei generali in violazioni dei diritti umani nelle miniere di diamante delle province di Lunda Norte e Lunda Sul. Rafael Marques de Morais sarebbe stato citato per 1,2 milioni di dollari Usa e rischiava il carcere. Al momento di stesura di questo testo non era stata ancora fissata una data per l’udienza. La polizia ha percosso e arrestato giornalisti impegnati a denunciare violazioni dei diritti umani. Almeno due giornalisti sono stati detenuti per aver denunciato le attività della polizia. Il 2 febbraio, la polizia ha arrestato Queirós Anastácio Chiluvia, un giornalista della stazione radiofonica dell’Unita, Rádio Despertar, mentre tentava di fare un servizio sulle grida d’aiuto lanciate da alcuni detenuti per un compagno di cella, nel comando della polizia municipale di Cacuaco. Stando alle notizie, Queirós Anastácio Chiluvia è stato trattenuto per cinque giorni senza accusa, prima di essere processato e giudicato colpevole, il 7 febbraio, di oltraggio alla polizia, diffamazione ed esercizio illegale della professione di giornalista. È stato condannato a sei mesi di reclusione, con sospensione della pena per due anni.

SPARIZIONI FORZATE Non si avevano ancora notizie su dove si trovassero il giornalista Milocas Pereira (scomparso nel 2012), Cláudio António detto “Ndela” e Adilson Panela Gregório detto “Belucho” (entrambi scomparsi nel 2013). Sulla sparizione dei due uomini è iniziato un processo davanti al tribunale provinciale di Luanda. Il 18 novembre, è ripreso davanti al tribunale provinciale di Luanda il processo a otto agenti statali

31 per il rapimento, avvenuto a maggio 2012, e il successivo omicidio di Silva Alves Kamulingue e Isaías Sebastião Cassule. Il procedimento era stato inizialmente avviato il 1° settembre, per poi essere sospeso il 4 dello stesso mese, dopo che uno degli accusati, che era a capo dei servizi di sicurezza e d’intelligence di stato all’epoca dei rapimenti, era stato promosso al grado di generale, apparentemente su nomina diretta del presidente Eduardo dos Santos. Il processo aveva dovuto essere sospeso in quanto il tribunale provinciale di Luanda non aveva giurisdizione per processare un generale. Il 22 settembre, il presidente ha revocato la promozione e ha ordinato un’inchiesta sulle procedure di pro- mozione. A fine anno non erano disponibili altre informazioni riguardo al processo.

Note 1. Angola: Amnesty International submission for the UN Universal Periodic Review September 2014 (AFR 12/005/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR12/005/2014/en 2. Punishing Dissent: Suppression of freedom of association, assembly and expression in Angola (AFR 12/004/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR12/004/2014/en

BENIN

REPUBBLICA DEL BENIN

Capo di stato e di governo: Thomas Boni Yayi

Le elezioni municipali originariamente programmate per aprile 2013, a fine 2014 non si erano ancora tenute. A giugno 2013, il governo ha ripresentato un disegno di legge per la revisione della costituzione. A novembre 2014, la Corte costituzionale si era espressa contro la revisione della co- stituzione che avrebbe prolungato i termini dell’incarico del presidente. il documento non era stato ancora esaminato e non era neppure nell’agenda dell’assemblea nazionale. La Corte costituzionale aveva precedentemente stabilito, con una sentenza del 2011, che alcune sezioni della costituzione riguardanti il mandato presidenziale non potevano essere soggette a referendum.

PRIGIONIERI POLITICI A maggio, il presidente Boni Yayi ha graziato Patrice Talon e il suo socio, Olivier Bocco, entrambi re- sidenti in Francia, e altre sei persone, tra cui una donna, che si trovavano detenute in Benin dal 2012 e 2013. Nel primo caso giudiziario, Patrice Talon e Olivier Bocco e altre quattro persone erano stati accusati di aver tentato di avvelenare il presidente nell’ottobre 2012. Nel secondo caso, due uomini dovevano rispondere di reati contro la sicurezza dello stato, in seguito a un sospetto tentativo di colpo di stato avvenuto a maggio 2013.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E DI RIUNIONE A marzo si è svolta a Cotonou una protesta contro la polizia in risposta all’intervento delle forze di

32 sicurezza che, a dicembre 2013, avevano disperso una manifestazione sindacale pacifica, in cui erano rimaste ferite oltre 20 persone, comprese sei donne. A giugno, la corte di primo grado di Cotonou ha condannato John Akintola, direttore esecutivo del giornale L’Indépendent, a tre anni di reclusione con sospensione della pena, per “aver insultato il capo dello stato”, in seguito alla pubblicazione di un articolo riguardante un presunto finanziamento illecito di viaggi all’estero. L’autrice dell’editoriale, Prudence Tessi, è stata condannata a due mesi di reclusione e la pubblicazione del giornale è stata sospesa per tre mesi.

PENA DI MORTE Tredici persone erano in attesa di esecuzione, malgrado il Benin avesse ratificato nel 2012 il Secondo protocollo opzionale all’Iccpr, finalizzato all’abolizione della pena di morte.

BURKINA FASO

BURKINA FASO

Capo di stato: Michel Kafando (subentrato a Blaise Compaoré) Capo di governo: Yacouba Isaac Zida (subentrato a Luc Adolphe Tiao a novembre)

Sono persistite le preoccupazioni per l’impiego della tortura e altri maltrattamenti e l’uso eccessivo della forza da parte della polizia e altro personale di sicurezza. I livelli di mortalità materna sono rimasti elevati.

CONTESTO Il presidente Compaoré si è dimesso a fine ottobre, in seguito al dilagare delle proteste contro un progetto di legge che proponeva alcuni emendamenti costituzionali, che gli avrebbero consentito di ricandidarsi alle elezioni nel 2015. Dopo il ritiro della proposta legislativa, a novembre si è insediato un governo di transizione sotto la guida del presidente ad interim Michel Kafando, per traghettare il paese verso le elezioni legislative e presidenziali.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A ottobre, in seguito a una rivolta scoppiata nel penitenziario di Maco a Ouagadougou, almeno 11 prigionieri sono stati ripetutamente percossi e altrimenti maltrattati dalle guardie carcerarie, che li accusavano di organizzare un tentativo di fuga. Due prigionieri sono morti in seguito alla rivolta, a quanto pare per disidratazione e mancanza di ventilazione, dopo essere rimasti confinati nella loro cella durante un periodo di lockdown [protocollo instaurato all’interno del carcere in situazioni d’emer- genza per isolare il recluso dal mondo esterno N.d.T.]. Durante il 2013 e 2014, oltre 30 prigionieri hanno asserito di essere stati torturati e altrimenti maltrattati durante le fasi dell’arresto e mentre venivano trattenuti presso i centri di detenzione della

33 gendarmeria (polizia militare) e dei commissariati di polizia, in varie parti del paese. Un detenuto ha raccontato di essere stato torturato per un periodo di 17 giorni presso il commissariato centrale della polizia di Ouagadougou; è rimasto con le mani ammanettate alle caviglie, con una barra metallica posta sotto le ginocchia e sospeso in posizione accovacciata tra due tavoli. Altri detenuti hanno inoltre affermato di essere stati percossi e costretti a firmare dichiarazioni senza conoscerne il con- tenuto.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Durante le proteste di ottobre e novembre, le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo e letale della forza contro manifestanti pacifici, provocando almeno 10 morti e centinaia di feriti. Il 30 e 31 ottobre, le guardie carcerarie e i gendarmi hanno fatto uso eccessivo della forza, impiegando anche forza letale, per reprimere una rivolta scoppiata tra i reclusi e un tentativo di evasione dal pe- nitenziario di Maco a Ouagadougou. Tre prigionieri sono morti per ferite d’arma da fuoco.

DIRITTO ALLA SALUTE – MORTALITÀ MATERNA Sono persistite le preoccupazioni per gli elevati livelli di mortalità materna. Il Who ha calcolato che nel corso del 2013, 2800 donne erano decedute durante il parto o nel periodo postnatale. Il Who ha inoltre documentato la grande e costante necessità di soddisfare il disatteso bisogno d’informazione, servizi e dispositivi in materia di contraccezione. Il ministero della Salute, in collaborazione con l’Unfpa e altre agenzie, nel 2013 aveva lanciato la prima settimana nazionale per la pianificazione familiare, con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della contraccezione e di contrastare il persistere di stereotipi negativi che circondano donne e ragazze che adottano metodi contraccettivi.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Con una sentenza di marzo, la Corte africana dei diritti umani e dei popoli ha stabilito che lo stato burkinabé non aveva agito con la dovuta diligenza nel ricercare, perseguire e giudicare i responsabili dell’assassinio del giornalista Norbert Zongo e di altri tre suoi colleghi, i quali erano stati trovati bruciati all’interno di un’auto nel 1998, e aveva pertanto violato il diritto alla libertà d’espressione suscitando “[…] paure e inquietudini nel mondo dell’informazione”. In un’altra sentenza di dicembre, relativa al caso Konaté vs. Burkina Faso, la Corte aveva decretato che la carcerazione per il reato di diffamazione costituiva una violazione della libertà d’espressione e che il richiamo alla legge sul reato di diffamazione avrebbe dovuto avvenire soltanto in circostanze limitate. La Corte ha ordinato al Burkina Faso di rivedere la propria legislazione in materia di diffamazione.

34 BURUNDI

REPUBBLICA DEL BURUNDI

Capo di stato e di governo: Pierre Nkurunziza

La repressione esercitata dal governo verso le voci critiche nel paese si è intensificata nel corso del- l’anno. Sono aumentate le violazioni dei diritti alla libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione. Il rafforzamento delle restrizioni dovute all’avvicinarsi delle elezioni fissate per il 2015 hanno colpito, tra gli altri, esponenti dell’opposizione, attivisti della società civile, avvocati e gior- nalisti. Non è stato autorizzato lo svolgimento di riunioni né di marce. Le accuse di vessazioni e violenza compiute da membri dell’ala giovanile del partito di governo, Imbonerakure, non sono state indagate efficacemente.1

CONTESTO Sul piano politico le tensioni hanno raggiunto il culmine quando il presidente Nkurunziza ha espresso l’intenzione di candidarsi per un terzo mandato, una mossa percepita da più parti come una violazione della costituzione del Burundi. A marzo, l’assemblea nazionale ha respinto di stretta misura una bozza di legge che proponeva emendamenti costituzionali che avrebbero consentito al presidente di candidarsi per un altro mandato. Dichiarazioni ufficiali lasciavano intendere che la Corte costituzionale si sarebbe pronunciata sulla questione in data da destinarsi. Voci critiche hanno accusato il partito di governo, Consiglio nazionale per la difesa della democrazia-Forze per la difesa della democrazia (Conseil national pour la défense de la démocratie-Forces pour la défense de la démocratie – Cndd- Fdd), di mettere a repentaglio i principi di condivisione del potere tra le varie etnie stabiliti con l’Accordo di Arusha, siglato in seguito al conflitto nel Burundi. L’Ufficio delle Nazioni Unite in Burundi (Bureau des Nations Unies au Burundi – Bnub), creato a gennaio 2011, ha chiuso a fine anno. La situazione dei diritti civili e politici in Burundi è stata al centro di forti critiche da parte del Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite e dell’Au, così come di alcuni donatori internazionali, tra cui Francia e Usa.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E D’ASSOCIAZIONE Le autorità hanno negato l’autorizzazione necessaria per svolgere riunioni legittime e manifestazioni pacifiche ai gruppi dell’opposizione, alla stampa, all’ordine degli avvocati burundesi e alle organizzazioni della società civile. Per citare un esempio, a febbraio, il sindaco di Bujumbura ha impedito all’ordine degli avvocati bu- rundesi di tenere la loro assemblea generale e un altro seminario di formazione in programma. A marzo, a giovani membri del Movimento per la solidarietà e la democrazia (Mouvement pour la soli- darité et la démocratie – Msd) è stato negato il permesso di tenere una riunione in una sala pubblica

35 nel comune di Gihosha, a Bujumbura, per discutere delle proposte di emendamento alla costituzione. Le autorità non hanno fornito spiegazioni per la loro decisione. Esponenti politici e partiti d’opposizione hanno subito interferenze, vessazioni e arresti arbitrari da parte delle autorità. Ad esempio, l’attività politica di Frédéric Bamvuginyumvira è stata ostacolata da un arresto irregolare e da procedimenti giudiziari avviati per accuse di corruzione nei suoi confronti. È stato rilasciato a marzo per motivi di salute.

LEGGI REPRESSIVE La legge sulla stampa, promulgata a giugno 2013, ha ufficialmente introdotto restrizioni alle attività e alla libertà d’espressione degli organi di stampa. Secondo la legge, ai giornalisti poteva essere ri- chiesto di rivelare le loro fonti in merito a una serie di tematiche che andavano dall’ordine pubblico alla sicurezza di stato. La legge sui raduni pubblici è stata impiegata per negare arbitrariamente ai gruppi d’opposizione e della società civile il permesso di riunirsi pubblicamente o di svolgere manifestazioni.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Membri di organizzazioni della società civile e operatori dei mezzi d’informazione, specialmente coloro che si occupavano di tematiche potenzialmente delicate legate ai diritti umani o all’accertamento delle responsabilità dello stato, sono stati sottoposti a vessazioni. Il noto difensore dei diritti umani e prigioniero di coscienza Pierre Claver Mbonimpa è stato incarcerato a maggio e accusato di minacce alla sicurezza dello stato e utilizzo di documenti falsi. Era stato ar- restato poco dopo un suo commento alla radio circa la consegna di armi e uniformi a giovani che poi raggiungevano la Repubblica Democratica del Congo, per ricevere un addestramento militare. A set- tembre era stato rilasciato provvisoriamente per motivi di salute. La sua carcerazione ha rappresentato un messaggio agghiacciante per il resto della società civile: chiunque avesse deciso di occuparsi di tematiche delicate, si sarebbe posto automaticamente a rischio di arresto arbitrario.2 Ad aprile, è stata bloccata una marcia organizzata da associazioni della società civile per commemorare il quinto anniversario dell’uccisione di Ernest Manirumva, vicepresidente dell’Osservatorio per la lotta alla corruzione e le malversazioni finanziarie (Observatoire de lutte contre la corruption et les malversations économiques – Olucome). Nel momento in cui avrebbe dovuto aver luogo la marcia, il procuratore generale ha inviato una nota in cui sosteneva che l’accusa aveva la prova conclamata che collegava Gabriel Rufyiri, presidente dell’Olucome, alla morte di Ernest Manirumva. Non sono state avviate indagini sul presunto coinvolgimento di diversi membri di alto rango dei servizi di sicurezza nell’uccisione.

IMPUNITÀ

Violazioni dei diritti umani da parte di Imbonerakure Membri di Imbonerakure, l’ala giovanile del Cndd-Fdd, hanno commesso violazioni dei diritti umani col pretesto di salvaguardare la sicurezza. Hanno impedito lo svolgersi di riunioni del partito d’oppo- sizione e hanno intimidito, aggredito e ucciso esponenti dell’opposizione, agendo nell’impunità. Il 14 marzo, Ananias Nsabaganwa, membro del Fronte per la democrazia in Burundi, ha ricevuto nella sua abitazione nella municipalità di Busoni, nella provincia di Kirundo, la visita di due funzionari

36 amministrativi locali, di tre membri di Imbonerakure (compreso il capo della sezione di Nyagisozi) e di due soldati. Secondo quanto riferito, uno dei soldati gli ha sparato alla testa su ordine di uno dei funzionari locali e di uno dei membri di Imbonerakure. Ad aprile, è trapelata una comunicazione interna, inviata dal Bnub, in cui si riferiva che in una provincia due militari avevano fornito a Imbonerakure e a soldati smobilitati armi e uniformi militari e della polizia. Il governo ha negato queste accuse ma non ha avviato nessuna indagine.

Esecuzioni extragiudiziali La maggior parte delle esecuzioni extragiudiziali compiute tra il 2010 e il 2012 non è stata indagata. Vittime e testimoni sono rimasti a rischio a causa della mancanza di efficaci strumenti di protezione. La Commissione africana sui diritti umani e dei popoli ha accettato a giugno di esaminare il reclamo presentato da gruppi della società civile e da Track Impunity Always (Trial), in relazione a quattro casi di esecuzioni extragiudiziali.

SISTEMA GIUDIZIARIO Il sistema giudiziario non disponeva delle risorse materiali, finanziarie e logistiche necessarie. Sono stati citati problemi generalizzati riguardanti la magistratura, come un pesante arretrato di fascicoli giudiziari, l’assenza di un servizio di trasporto per trasferire i sospettati dalle strutture di detenzione ai tribunali e casi inevasi o istruttorie non preparate dai procuratori. Sono pervenute inoltre notizie di corruzione all’interno della magistratura e le autorità hanno continuato a non indagare efficacemente i casi giudiziari che toccavano tematiche politicamente delicate.

COMMISSIONE VERITÀ E RICONCILIAZIONE Il 15 maggio, è stata approvata una legge che istituiva una commissione verità e riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission – Trc) ma non conteneva un chiaro riferimento alla creazione di un tribunale speciale per perseguire i responsabili di crimini di diritto internazionale, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La Trc è diventata ufficialmente operativa il 10 dicembre 2014 quando 11 commissari hanno preso l’incarico.

Note 1. Burundi: Locked down: A shrinking of political space (AFR 16/002/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR16/002/2014/en 2. Pierre Claver Mbonimpa is a prisoner of conscience (AFR 16/003/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR16/003/2014/en

37 CAMERUN

REPUBBLICA DEL CAMERUN

Capo di stato: Paul Biya Capo di governo: Philémon Yang

Le libertà d’associazione e di riunione sono state ancora limitate. Difensori dei diritti umani sono stati frequentemente vittime d’intimidazioni e vessazioni da parte di agenti governativi della sicurezza. Le persone Lgbti hanno continuato a subire discriminazioni, intimidazioni, vessazioni e altre forme di attacchi. Il gruppo armato islamista Boko haram ha intensificato gli attacchi nella regione nordorientale del Camerun, uccidendo persone, bruciando villaggi e catturando ostaggi. Secondo le notizie riportate, agenti della sicurezza hanno attuato arresti arbitrari e detenzioni e compiuto esecuzioni extragiudiziali di persone sospettate di appartenere a Boko haram. Centinaia di migliaia di rifugiati dalla Nigeria e dalla Repubblica Centrafricana (Central African Republic – Car) vivevano in affollati campi profughi in condizioni spaventose.

CONTESTO Sono emersi segnali d’instabilità in tutto il paese, causati da tensioni politiche interne e da sviluppi esterni, come gli attacchi transfrontalieri compiuti da Boko haram e le violenze in corso nella vicina Car. Le forze di sicurezza, compresa la brigata d’intervento rapido (Brigade d’intervention rapide – Bir), si sono rese responsabili di violazioni dei diritti umani, tra cui uccisioni, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, arresti arbitrari e detenzioni illegali. La maggior parte di queste violazioni è stata commessa nel contesto della lotta contro Boko haram.

ESECUZIONI EXTRAGIUDIZIALI Nel nord del paese, alcune persone sospettate di essere collegate a Boko haram sono state uccise, secondo le accuse, per mano delle forze di sicurezza, compresi elementi della Bir. Il 1° giugno, Clair René è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco vicino alla cittadina di Mora, dopo essere stato arrestato dalle forze di sicurezza. Lo stesso giorno, Ousmane Djibrine e Gréma Abakar, due commercianti diretti al mercato del villaggio di Zigagué, sono stati uccisi nel villaggio di Dabanga, secondo quanto riferito, per mano di membri della Bir. Il 15 giugno, Malloum Abba è stato ucciso da agenti della Bir nel villaggio di Tolkomari. Secondo le notizie riportate, il 20 giugno, Oumaté Kola è stato trovato morto con ferite d’arma da fuoco nella foresta di Mozogo, dopo essere stato arrestato da membri della Bir pochi giorni prima. Lo stesso giorno, Boukar Madjo è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco, anch’egli verosimilmente da agenti della Bir, nella cittadina di Nguetchewé.

SPARIZIONI FORZATE Sono stati segnalati diversi casi di sparizione forzata, specialmente nell’estremo nord del paese, dove le forze di sicurezza stavano contrastando Boko haram. La maggior parte dei casi riportati sa- rebbero stati opera di membri della Bir.

38 Secondo le notizie, il 2 giugno, Abakar Kamsouloum è stato arrestato dalle forze di sicurezza nella sua abitazione a Kousseri e trasferito in un campo militare. A fine anno, né la sua famiglia né le or- ganizzazioni della società civile locali avevano avuto notizie sulla sua sorte e su dove si trovasse, malgrado le numerose richieste d’informazioni avanzate alle autorità locali.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI Boko haram si è reso responsabile di violazioni dei diritti umani, soprattutto nella regione nordorientale del paese. Durante i raid compiuti nei villaggi, sono state bruciate case e uccise diverse persone, spesso come azioni punitive per la loro reale o percepita collaborazione con le forze di sicurezza camerunesi. Combattenti di Boko haram hanno effettuato numerosi rapimenti in Camerun durante l’anno. Alcune delle persone rapite sono state rilasciate, stando alle notizie, spesso previo pagamento di un riscatto da parte del governo, anche se le autorità hanno continuato a negarlo. Il 27 luglio, membri di Boko haram hanno attaccato la residenza del vice primo ministro del Camerun, Amadou Ali, nel villaggio di Kolofata, vicino al confine con la Nigeria. Sono state rapite 17 persone, tra cui il vice primo ministro e sua moglie. Durante l’attacco sono state uccise diverse altre persone, compresi poliziotti. Tutti i rapiti sono stati rilasciati a ottobre, assieme a 10 lavoratori cinesi che erano stati rapiti a maggio.

RIFUGIATI E MIGRANTI Migliaia di rifugiati vivevano in condizioni spaventose in campi sovraffollati situati lungo i confini con la Car e la Nigeria, dopo essere fuggiti dalle violenze che imperversavano in questi due paesi. A fine anno, i rifugiati provenienti dalla Nigeria erano all’incirca 40.000 e circa 238.517 quelli fuggiti dalla Car. Almeno 130.000 rifugiati della Car hanno varcato il confine con il Camerun in seguito alle violenze scoppiate a dicembre 2013 tra i gruppi armati seleka e anti-balaka. Nei campi le condizioni erano difficili e sono stati segnalati attacchi da parte di gruppi armati non ben identificati. Questi raid hanno spinto l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, a trasferire i rifugiati dalle aree di confine in località più sicure interne al Camerun.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Hanno continuato a essere motivo di grave preoccupazione le discriminazioni, intimidazioni, vessazioni e violenze nei confronti delle persone Lgbti. Queste, in particolare uomini, ma anche donne, sono state arrestate per presunte relazioni omosessuali. Alcune delle persone arrestate sono state condannate a pene fino a cinque anni di carcere. Altre sono state arbitrariamente detenute e poi rilasciate. Il 1° ottobre, cinque persone, tra cui una transgender, sono state arrestate dopo che la polizia aveva fatto irruzione in un’abitazione nella capitale Yaoundé. Sono state in seguito detenute presso un commissariato di polizia situato nelle vicinanze e una sesta persona è stata fermata quando si è recata a visitarle. Due delle persone arrestate sono state rilasciate lo stesso giorno. Le altre quattro sono state incriminate per prostituzione e “disturbo della quiete” e sono rimaste detenute fino al 7 ottobre, quando sono state rimesse in libertà in attesa di un’indagine.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Singoli o gruppi di difensori dei diritti umani hanno spesso subito intimidazioni, vessazioni e minacce. Gli uffici di alcune organizzazioni per i diritti umani sono stati posti sotto sorveglianza e in alcuni casi hanno subito attacchi, stando alle accuse, da parte di agenti della sicurezza.

39 La notte del 12 giugno, la sede della Rete dei difensori dei diritti umani dell’Africa centrale (Réseau de défenseurs des droits humains de l’Afrique centrale – Redhac) è stata obiettivo di una rapina da parte di un gruppo di otto uomini armati non identificati. Questi hanno minacciato di uccidere la guardia giurata prima di aprirsi la strada per entrare negli uffici, rovistando tra i documenti e, stando alle notizie, sottraendo due televisori, tre laptop, un tablet e del denaro. Era la quarta volta che gli uffici della Redhac venivano attaccati ma, nonostante l’organizzazione avesse sporto denuncia alla polizia, le autorità non avevano adottato misure concrete per indagare efficacemente e pienamente sugli episodi.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Sono proseguiti gli arresti e le detenzioni senza accusa da parte delle forze di sicurezza, compresi membri della Bir, nel contesto delle operazioni per contrastare Boko haram nel nord del paese. Diverse persone sono rimaste trattenute in incommunicado. Nella maggior parte di questi casi, ai detenuti è stato impedito di ricevere le visite di familiari, medici o avvocati. Sono stati inoltre segnalati casi di persone arbitrariamente arrestate e detenute dalla polizia e dalla gendarmeria per questioni inerenti il diritto civile, in violazione delle disposizioni contenute nella costituzione e nella legislazione nazionale.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE E RIUNIONE Persone che si opponevano al governo o che erano percepite come critiche hanno continuato a vedersi negare il diritto di organizzare attività e manifestazioni pacifiche. Il 3 ottobre, il cantante reggae Joe de Vinci Kameni, conosciuto anche come Joe la Conscience, è stato arrestato dalla polizia davanti al consolato francese a Douala, mentre si stava preparando a dare inizio a una manifestazione pacifica. Un giornalista locale arrestato assieme a lui è stato in seguito rilasciato. Joe de Vinci Kameni è stato rilasciato senza accusa il 9 ottobre.

CENTRAFRICANA, REPUBBLICA

REPUBBLICA CENTRAFRICANA

Capo di stato: Catherine Samba-Panza Capo di governo: Mahamat Kamoun

Sono stati regolarmente commessi crimini di diritto internazionale come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, tra cui uccisioni, mutilazioni di cadaveri, rapimenti, reclutamento e impiego di bambini soldato e sfollamento forzato della popolazione. A dicembre 2013, una coalizione di gruppi armati a prevalenza cristiana e animista anti-balaka ha attaccato la capitale Bangui, determinando una reazione delle forze séléka a maggioranza musulmana che, in rappresaglia, hanno ucciso decine

40 di civili. La Missione multidimensionale integrata di stabilizzazione nella Repubblica Centrafricana delle Nazioni Unite (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic – Minusca), che a settembre 2014 ha sostituito il contingente a guida africana della Missione internazionale di sostegno alla Repubblica Centrafricana (Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine – Misca) non ha fermato né impedito gli abusi nella regione. Molti dei sospettati di responsabilità penale, compresi comandanti dei séléka, degli anti- balaka e loro alleati, non sono stati indagati o arrestati né sono stati adottati provvedimenti per as- sicurarli alla giustizia.

CONTESTO La violenza ha continuato a pervadere la Repubblica Centrafricana (Central African Republic – Car), nonostante lo schieramento della Minusca a settembre e la presenza delle truppe francesi (sotto il nome di operazione “Sangaris”) e del contingente dell’Eu (European Union Forces – Eufor). Gli anti- balaka, i séléka e i combattenti armati peulh (membri del gruppo etnico peulh) hanno continuato a sferrare attacchi mortali contro civili, compresi alcuni contro siti dove vivevano sfollati interni. Secondo le Nazioni Unite, a metà novembre, il contingente Minusca schierava 7451 militari e 1083 membri del personale di polizia. Il 10 gennaio, il leader dei séléka e presidente della Car, Michel Djotodia, si è dimesso in seguito alle pressioni esercitate dalla comunità internazionale e da organizzazioni della società civile locali. Ca- therine Samba-Panza ha prestato giuramento come nuova presidente ad interim il 23 gennaio. Il 7 febbraio, il procuratore dell’Icc ha annunciato un nuovo esame preliminare sui crimini che sa- rebbero stati commessi nella Car a partire da settembre 2012. A settembre, l’ufficio del procuratore ha annunciato le sue conclusioni, secondo le quali esistevano fondate basi legali per indagare secondo lo Statuto di Roma dell’Icc sui crimini commessi nel paese a partire dal settembre 2012. L’11 luglio, un congresso séléka ha designato l’ex presidente Djotodia e l’ex comandante e ministro Nourredine Adam, rispettivamente presidente e vicepresidente del gruppo. I due figuravano nell’elenco delle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite e dagli Usa per la loro presunta implicazione in violazioni dei diritti umani e abusi. Il primo ministro André Nzapayéké e il suo intero gabinetto hanno rassegnato le dimissioni in seguito all’accordo di cessate il fuoco firmato a luglio a Brazzaville, nella Repubblica del Congo, da rappre- sentanti dei gruppi armati, partiti politici, congregazioni ecclesiastiche e organizzazioni della società civile. Il 22 agosto, la presidente ad interim Catherine Samba-Panza ha nominato Mahamat Kamoun alla carica di primo ministro. Il 7 agosto, la Minusca e il governo hanno sottoscritto un protocollo d’intesa che prevedeva “la creazione tramite gli strumenti legislativi nazionali di una giurisdizione speciale per riunire in un unico organo nazionale le funzioni di giurisdizione internazionale e di tribunale penale incaricato d’istruire i processi”. Tuttavia, a fine anno non era stata ancora approvata la legislazione necessaria alla creazione di un tribunale penale speciale né erano stati stanziati fondi a tale scopo. Verso metà ottobre, una nuova ondata di violenza ha colpito Bangui. Una serie di violenti episodi occorsi nella capitale ha visto il contingente della Minusca al centro di proteste e attacchi. Almeno una decina di persone sono rimaste uccise e migliaia sono state costrette a fuggire e trovare riparo all’interno dei campi per sfollati interni. La regione centrale del paese, specialmente l’area intorno alla città di Bambari, è stata attraversata da un’escalation di violenza da parte dei séléka, dei com-

41 battenti armati peulh e degli anti-balaka. Il 9 ottobre, in un attacco a un convoglio della Minusca ha perso la vita un peacekeeper, un altro è stato colpito in modo grave e altri sette sono rimasti feriti. Sono proseguiti scontri sporadici tra i combattenti anti-balaka e le forze internazionali, compreso il contingente dell’Eufor. Secondo l’Unhcr, la violenza di ottobre ha provocato lo sfollamento di circa 6500 persone a Bangui ma la cifra reale potrebbe essere superiore. A ottobre, le persone sfollate in- ternamente al paese erano 410.000, mentre 420.000 erano quelle fuggite verso i paesi vicini. Il 29 ottobre, il Collegio di esperti delle Nazioni Unite sulla Car ha reso pubblico il proprio rapporto finale, in cui erano evidenziate prove credibili che indicavano che i gruppi armati avevano commesso crimini di diritto internazionale. Il rapporto faceva inoltre riferimento allo sfruttamento delle risorse naturali da parte dei gruppi armati; all’illecito trasferimento di armi e munizioni; alla proliferazione di armi; e a violazioni del diritto internazionale umanitario, compresi attacchi contro scuole e ospedali, violenza sessuale e impiego di bambini soldato. A fine anno, i gruppi anti-balaka e séléka erano ormai fuori controllo, determinando la formazione di vari sottogruppi al loro interno. Le forze séléka a prevalenza musulmana si sono scontrate con le milizie anti-balaka a maggioranza cristiana e animista. Tutte le parti hanno sistematicamente preso di mira civili che erano ritenuti sostenere i combattenti della controparte. Il 10 dicembre, la Minusca ha annunciato di aver arrestato Abel Kader, detto Baba Ladde, leader del gruppo armato ciadiano Fronte popolare per la restaurazione, vicino a Kabo, al confine con il Ciad. Baba Ladde e membri del suo gruppo armato erano stati accusati di aver attaccato civili nel nord della Car e di aver reclutato bambini soldato.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI

Abusi commessi dai séléka Stando alle accuse, le forze séléka si sono rese responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, come uccisioni, distruzione di case e villaggi per lo più appartenenti a cristiani, sfollamento forzato della popolazione e sparizioni forzate. Le comunità cristiane hanno frequentemente attribuito la responsabilità degli abusi da parte dei séléka alla minoranza musulmana del paese; ci sono stati atti di rappresaglia che hanno finito con l’acuire le già gravi divisioni settarie. La maggior parte di questi episodi non è stata seguita da indagini efficaci. Il 22 gennaio, a Baoro, combattenti séléka e civili musulmani armati avrebbero ucciso oltre un centinaio di civili cristiani, bambini compresi. Il 17 aprile, combattenti séléka e peulh avrebbero ucciso padre Wilibona, dopo avergli teso un’imboscata al villaggio di Tale. Il 26 aprile, 16 persone, tra cui 13 leader locali e tre operatori umanitari di Medici senza frontiere, sono stati uccisi da un gruppo séléka, un episodio che ha spinto l’organizzazione a ridurre le proprie attività nel territorio della Car. Il 7 luglio, 26 persone sono state uccise e 35 sono rimaste gravemente ferite nel corso di un attacco a una chiesa e a un sito che ospitava persone sfollate internamente, a Bambari. Oltre 10.000 persone sono state costrette a scappare. Il 1° ottobre, combattenti séléka hanno attaccato un campo per sfollati (che ospitava cristiani e animisti) situato nelle vicinanze della base della Minusca, a Bambari. Diverse persone sono rimaste uccise. Il 10 ottobre, combattenti séléka hanno attaccato un sito per sfollati interni situato nel complesso della chiesa cattolica di Dekoa, causando la morte di nove civili, tra cui una donna incinta, e il ferimento di diversi altri.

42 Rapimenti da parte dei séléka Ad aprile, i séléka di Batangafo hanno rapito un vescovo e tre preti cattolici. I religiosi sono stati rilasciati in seguito a negoziati intrattenuti tra autorità, Chiesa cattolica e comandanti séléka. Benché i presunti responsabili del rapimento fossero facilmente identificabili non è stata aperta alcuna in- dagine.

Abusi commessi dagli anti-balaka Membri del gruppo armato anti-balaka si sono resi responsabili di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Sono stati i principali perpetratori delle violazioni commesse contro i musulmani a Bangui e nell’ovest della Car, specialmente nel periodo successivo alle dimissioni dell’ex presidente a gennaio e alla ritirata di gran parte delle forze séléka nella regione nordorientale del paese. Dall’8 gennaio, la regione più a ovest della Car è stata teatro di una serie di attentati mortali. Alcuni di questi sarebbero stati compiuti per vendicare la precedente uccisione di cristiani da parte delle forze séléka e dei musulmani armati. Il 16 gennaio, 20 civili sono stati uccisi e altre decine sono rimasti feriti alle porte della città di Bouar, quando il veicolo sul quale viaggiavano è stato attaccato da milizie anti-balaka. Alcune vittime sono state massacrate a colpi di machete, altre sono state uccise a colpi d’arma da fuoco. Tra loro c’era una ragazzina di 11 anni. Il 14 gennaio, dopo aver fermato un autocarro a Boyali e aver chiesto ai musulmani che erano a bordo di scendere dal mezzo, combattenti anti-balaka hanno ucciso sei componenti di una famiglia: tre donne e tre bambini piccoli, di uno, tre e cinque anni di età. Il 18 gennaio, almeno 100 musulmani sono stati uccisi nella città di Bossemptele. Due giorni dopo, combattenti anti-balaka hanno ucciso quattro donne musulmane che avevano trovato riparo nella casa di una famiglia cristiana. Il 29 settembre, Abdou Salam Zaiko, un musulmano di Bambari, è stato ucciso quando il veicolo su cui viaggiava è stato attaccato. Secondo i testimoni, gli anti-balaka avevano lasciato che l’autista e gli altri passeggeri abbandonassero il mezzo, ma avevano ucciso Zaiko e gli altri musulmani che erano a bordo. L’8 ottobre, sette passeggeri musulmani che viaggiavano su un’auto di proprietà di Saidu Daouda sono stati uccisi dopo che l’auto era caduta in un’imboscata. Il 14 ottobre, nel quartiere di Nguingo della capitale Bangui, membri anti-balaka hanno ucciso tre civili, ferendone gravemente almeno altri 20, e bruciato 28 case e una chiesa. L’attacco era una vendetta per una precedente aggressione ad alcuni membri del loro gruppo da parte della popolazione locale, in seguito a un attacco sferrato ancor prima dal gruppo armato. Oltre un migliaio di persone sono fuggite nella provincia dell’Equatore della Repubblica De- mocratica del Congo (Democratic Republic of Congo – Drc), mentre 100 hanno trovato riparo presso il complesso di una chiesa cattolica. A settembre, l’accampamento Djimbété che ospitava appartenenti al gruppo etnico peulh è stato al centro di un attacco. Diverse persone sono state uccise, compreso un bambino di sei anni.

Abusi commessi dai combattenti armati peulh Combattenti armati musulmani peulh, che spesso si sono alleati con i séléka, hanno compiuto attacchi in cui hanno ucciso e ferito principalmente cristiani, saccheggiando e bruciando villaggi e case. A ottobre, combattenti armati musulmani peulh avrebbero compiuto una serie di attacchi nei villaggi intorno a Bambari e nella regione centrale e settentrionale della Car. Almeno 30 persone sono rimaste uccise.

43 Violazioni da parte dei peacekeeper dell’Au Membri dell’esercito nazionale ciadiano (Armée nationale tchadienne – Ant) e altri del contingente ciadiano della Misca sarebbero stati coinvolti in gravi violazioni dei diritti umani. In alcuni casi, le forze della Misca non hanno provveduto a proteggere i civili, mentre in altre membri del contingente si sarebbero resi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani nell’impunità. Stando alle accuse, il 4 febbraio, membri dell’Ant hanno fatto fuoco uccidendo tre persone nella città di Boali, mentre stavano rimandando in Ciad persone di cittadinanza ciadiana e musulmani. Il 18 febbraio, truppe ciadiane si sono rese responsabili dell’uccisione di almeno otto persone, compresi bambini, dopo aver indiscriminatamente aperto il fuoco su una folla a Damara e nel quartiere PK12 di Bangui. Il 29 marzo, le truppe hanno sparato sulla folla in un mercato di Bangui, uccidendo e ferendo diversi civili. In seguito alle critiche della comunità internazionale, ad aprile le autorità ciadiane hanno ritirato i propri 850 soldati impiegati nella Misca. Il 24 marzo, il contingente congolese (Brazzaville) della Misca sarebbe stato coinvolto nella sparizione forzata di almeno 11 persone, comprese quattro donne, prelevate dall’abitazione di un leader miliziano locale a Boali. A fine anno nessun membro del contingente di peacekeeping della Misca era stato indagato per vio- lazioni dei diritti umani.

CONDIZIONI CARCERARIE Le condizioni e la situazione della sicurezza nel carcere Ngaragba di Bangui hanno continuato a essere motivo di preoccupazione. Il 3 novembre, nel penitenziario c’erano 584 reclusi, compresi 26 minori. La capienza del carcere era di 500 adulti. A fine novembre, oltre 650 reclusi erano stipati al- l’interno di celle di ridotte dimensioni. Mancavano adeguati servizi igienici e protocolli di profilassi antimalarica. I prigionieri defecavano in buste di plastica che poi gettavano fuori dalla cella, con problemi per la loro salute e quella delle persone che vivevano accanto. A gennaio, miliziani anti-balaka hanno attaccato il carcere e ucciso almeno quattro sospetti membri séléka che erano detenuti nella struttura. L’attacco ha causato la fuga di tutti i prigionieri. Le autorità della Car hanno riferito ad Amnesty International di conoscere molto bene i membri anti-balaka che avevano guidato l’attacco. A fine anno, tuttavia, non era stata intrapresa alcuna azione per assicurare alla giustizia i responsabili. Il 24 novembre, nel carcere di Ngaragba è scoppiata una rivolta. Alcuni prigionieri, sospettati di essere membri anti-balaka, armati di almeno tre fucili kalashnikov e bombe a mano, hanno attaccato le guardie carcerarie e il contingente delle Nazioni Unite a guardia del penitenziario. Secondo i testimoni, almeno 13 peacekeeper delle Nazioni Unite e 13 reclusi sono stati feriti. La rivolta aveva avuto inizio in seguito alla morte di un detenuto, che sarebbe stata causata da mancanza di assistenza medica e dalle dure condizioni di detenzione. I reclusi hanno inoltre chiesto che i loro casi giudiziari fossero esaminati in un ragionevole arco di tempo; alcuni sostenevano di essere trattenuti in carcere senza processo anche da 10 mesi.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE I pochi giornalisti rimasti operativi sono stati spesso vittime di vessazioni e intimidazioni da parte dei gruppi armati e delle autorità transizionali. Secondo quanto si è appreso, diversi giornalisti sono stati uccisi a causa del loro lavoro. Non sono note indagini efficaci condotte su questi casi. Il 29 aprile, due giornalisti sono stati aggrediti a Bangui. Désiré Luc Sayenga, un giornalista del quotidiano

44 Démocrate, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco e coltellate da un gruppo di giovani. René Padou, che lavorava per la Radio La Vox de la Grâce della chiesa protestante, è morto dopo che un gruppo ar- mato lo aveva aggredito con bombe a mano e colpi di pistola. Entrambi i giornalisti avevano in pre- cedenza denunciato i crimini commessi nell’intero territorio della Car.

IMPUNITÀ Le autorità transizionali e le Nazioni Unite non hanno provveduto a condurre indagini significative sui crimini di diritto internazionale, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità compiuti nella Car, perpetuando in tal modo il circuito di violenza e di paura. A luglio, Amnesty International ha pub- blicato un dossier in cui venivano fatti i nomi di 20 individui, compresi comandanti anti-balaka e séléka, contro i quali l’organizzazione aveva raccolto prove credibili che facevano sospettare una loro probabile responsabilità in crimini di guerra, crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni dei diritti umani compiute dal dicembre 2013. A dicembre 2014, l’organizzazione ha rivelato che, tra set- tembre e ottobre, alcuni di questi uomini sarebbero stati implicati in interferenze con l’amministrazione della giustizia e altri crimini di diritto internazionale.

CIAD

REPUBBLICA DEL CIAD

Capo di stato: Idriss Déby Itno Capo di governo: Kalzeubé Payimi Deubet

Sono proseguite le gravi violazioni dei diritti umani, perpetrate nella pressoché totale impunità. I diritti alle libertà d’espressione e di riunione pacifica sono stati frequentemente violati. Difensori dei diritti umani, giornalisti e sindacalisti sono stati vittime di vessazioni, intimidazioni, arresti e detenzioni arbitrari. Membri dei servizi di sicurezza si sono resi responsabili di uccisioni, anche di manifestanti, durante eventi di protesta.

CONTESTO Durante l’anno sono sorte gravi preoccupazioni in tema di diritti economici, sociali e culturali. In tutto il paese, la gente si è mobilitata organizzando manifestazioni, anche tra i dipendenti pubblici, per chiedere l’aumento dei salari e denunciare il carovita. Il Ciad ha ospitato un numero crescente di rifugiati dalla Repubblica Centrafricana (Central African Republic – Car), dal Sudan e più recentemente dalla Nigeria, mettendo a dura prova le già limitate risorse e generando tensioni all’interno delle co- munità, specialmente nel sud, nell’est e nel nordovest del paese. Individui che si erano già resi re- sponsabili di violazioni dei diritti umani, compresi membri della polizia, della gendarmeria e dell’agenzia d’intelligence nazionale (National Intelligence Agency – Ans), hanno continuato a farlo nella pressoché totale impunità.

45 IMPUNITÀ Membri dell’esercito e della componente ciadiana della missione dell’Ua nella Repubblica Centrafricana (Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine – Misca), che sono stati coinvolti nell’uccisione di civili e in altre gravi violazioni dei diritti umani nella Car, hanno goduto dell’impunità dopo il loro ritiro dalla Misca il 3 aprile. Il 29 marzo, truppe ciadiane hanno aperto il fuoco sulla folla in un mercato nel distretto Pk12 di Bangui, capitale della Car, uccidendo e ferendo decine di persone. A febbraio, le truppe ciadiane sono state coinvolte in altri episodi, comprese le uc- cisioni di civili nelle cittadine di Boali, Damara e nel Pk12. Il 19 luglio, il presidente Idriss Déby ha nominato il leader dei ribelli ciadiani Abdel Kader “Baba Laddé” a capo della prefettura di Grande Sido, situata al confine con la Car. La nomina è avvenuta malgrado il fatto che Baba Laddé e membri del suo gruppo armato Fronte popolare per la restaurazione (Front populaire pour le redressement – Fpr) fossero stati accusati di gravi violazioni dei diritti umani, compreso il reclutamento e l’impiego di bambini soldato nel nord della Car. Erano stati inoltre accusati di aver incendiato villaggi nel nord della Car, tra gennaio e luglio. Egli era poi scappato dal Ciad e il 10 dicembre è stato arrestato dai peacekeeper delle Nazioni Unite vicino alla città di Kabo, nel nord della Repubblica Centrafricana, al confine col Ciad. È stato catturato sulla base di un mandato d’arresto spiccato dalle autorità giudiziarie di Bangui a maggio e a fine anno era ancora detenuto in un carcere di Bangui.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Secondo il collegio di esperti delle Nazioni Unite sulla Car, tre funzionari pubblici della Car, nello specifico il viceprefetto di Markounda, il segretario generale della viceprefettura e il direttore di un istituto scolastico pubblico, sono stati arrestati dalle forze di sicurezza ciadiane nella Car il 17 maggio e condotti a N’Djamena, capitale del Ciad. I tre non sono stati rilasciati malgrado le ripetute richieste avanzate dalle autorità centrafricane. Il 23 giugno, due membri del collegio di esperti delle Nazioni Unite sulla Car sono stati arrestati dalle forze di difesa e di sicurezza ciadiane a un valico di frontiera nella Car, mentre svolgevano indagini. Il collegio di esperti ha riferito che, nonostante i propri membri si fossero fatti riconoscere, spiegando il loro mandato e le prerogative e l’immunità legate alla loro funzione, erano stati comunque condotti con la forza dal valico di frontiera nella cittadina di Goré, in Ciad, dove erano rimasti in stato di fermo per quattro ore, prima di essere scortati indietro al confine e quindi rilasciati.

CONDIZIONI CARCERARIE Nella maggior parte delle carceri del paese le condizioni sono rimaste molto dure. Stando alle testi- monianze, la situazione era peggiore nelle strutture gestite dalla polizia, dalla gendarmeria e dai servizi di sicurezza nazionale, dove non era permesso ricevere visite. N’Djamena è rimasta senza un penitenziario dopo la demolizione del carcere cittadino a dicembre 2011. I detenuti erano rinchiusi in un’ex caserma della gendarmeria ad Amsinéné, alla periferia della città. Le dure condizioni nelle carceri hanno portato a frequenti evasioni e rivolte. Il 4 novembre, nel carcere di Amsinéné è scoppiata una rivolta dopo che le autorità della prigione non avevano consentito ad alcuni reclusi di stare nel cortile del penitenziario, costringendoli a rimanere invece nelle loro celle. In solidarietà con i detenuti in punizione, altri prigionieri si sono radunati nel cortile principale. I gendarmi del turno di guardia del carcere hanno iniziato a sparare sui prigionieri. Secondo varie fonti, almeno un recluso è rimasto ucciso e molti altri sono stati feriti.

46 LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Difensori dei diritti umani, giornalisti e sindacalisti sono abitualmente incorsi in violazioni del loro diritto alla libertà d’espressione. Sono stati frequentemente vittime di minacce, vessazioni o arresti arbitrari da parte di agenti delle forze di sicurezza e delle autorità amministrative. L’8 ottobre, la stazione radiofonica comunitaria Radio Fm Liberté è stata sospesa per sette giorni, in seguito a un provvedimento emanato dall’alto consiglio per le telecomunicazioni (Haute conseil de la communication – Hcc). L’emittente aveva trasmesso una dichiarazione sottoscritta da 12 Ngo per i diritti umani, che criticava l’assenza di carburante sul mercato.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Sindacalisti, gruppi politici e di tutela dei diritti umani si sono visti frequentemente negare il diritto di svolgere le loro attività o proteste pacifiche. La maggior parte delle manifestazioni è stata interrotta con metodi violenti dalle forze di sicurezza. L’11 novembre, manifestanti, tra cui docenti, che protestavano contro il carovita, a N’Djamena e nelle cittadine di Moundou e Sarh, sono stati attaccati dalle forze di sicurezza. Secondo varie fonti, almeno una persona è stata uccisa e molte altre sono state ferite, dopo essere state colpite dagli spari.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Il governo ha proposto un disegno di legge per emendare il codice penale al fine di criminalizzare i rapporti omosessuali consenzienti tra adulti, con pene carcerarie comprese tra i 15 e i 20 anni e un’ammenda variabile tra i 50.000 e i 500.000 franchi Cfa (tra i 100 e 1000 dollari Usa). A fine anno, il provvedimento non era stato ancora convertito in legge.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE A fine anno, a Dakar, in Senegal, le Camere africane straordinarie (Camere africane) stavano ultimando la loro inchiesta sui presunti reati commessi dall’ex presidente del Ciad, Hissène Habré. Le Camere africane lo avevano incriminato a luglio 2013 e, nel caso in cui i giudici inquirenti avessero deciso il luogo a procedere, l’inizio del processo era previsto a maggio 2015. Il suo regime, dal 1982 al 1990, fu segnato da gravi violazioni dei diritti umani, tra cui tortura e altri maltrattamenti, arresti arbitrari e detenzioni illegali. Il 14 novembre, è iniziato in Ciad il processo a carico di 26 ex agenti della sicurezza di stato, legati al periodo del regime di Habré. Organizzazioni per i diritti umani internazionali e locali hanno espresso preoccupazione per il fatto che il processo avrebbe potuto compromettere l’imminente processo di Hissène Habré a Dakar, in Senegal. A ottobre, le Camere africane hanno richiesto al Ciad di trasferire questi sospettati a Dakar ma il Ciad si è rifiutato di farlo e ha respinto un’altra richiesta avanzata dalle Camere di poter intervistare gli indiziati direttamente in Ciad. Inoltre, vittime e organizzazioni per i diritti umani hanno temuto che il processo potesse non rispettare gli standard internazionali di equità processuale.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI Malgrado gli sforzi da parte della comunità internazionale e delle autorità nel fornire assistenza a decine di migliaia di persone che erano appena arrivate nel paese in fuga dalla Car e dalla Nigeria, le loro condizioni di vita rimanevano disastrose. Erano più di 150.000 i rifugiati e i ciadiani rimpatriati

47 che necessitavano di riparo, cibo e infrastrutture mediche. La maggior parte di queste persone viveva all’interno di campi situati nel sud del Ciad, vicino al confine con la Car. Per tutto l’anno, la violenza causata dal gruppo armato Boko haram in Nigeria ha inoltre costretto migliaia di persone a fuggire in Ciad, principalmente nella zona vicino al lago Ciad. Nei campi profughi situati nell’est del Ciad vi- vevano 368.000 rifugiati del Darfur. Circa 97.000 rifugiati della Car, che erano scappati dal loro paese erano alloggiati in campi nella regione sud del Ciad. L’8 agosto, le autorità della provincia di Logone Orientale, nel sud del Ciad, hanno reinsediato con la forza e senza preavviso le persone che si trovavano nel sito di transito di Doba, in un altro sito nel vil- laggio di Kobitey.

CONGO, REPUBBLICA DEL

REPUBBLICA DEL CONGO

Capo di stato e di governo: Denis Sassou Nguesso

Sono state commesse gravi violazioni dei diritti umani, compresi casi di stupro e altra violenza sessuale, arresti e detenzioni arbitrari, uso eccessivo della forza, tortura e altri maltrattamenti, anche durante le espulsioni di massa di persone giunte nel paese dalla Repubblica Democratica del Congo (Democratic Republic of Congo – Drc). Sono state imposte restrizioni alle libertà d’espressione, riunione e associazione.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI Oltre 179.000 cittadini stranieri, compresi rifugiati e richiedenti asilo provenienti dalla Drc, sono stati rimandati indietro con la forza nel contesto dell’operazione “Mbata ya Mokolo”. Alcuni cittadini della Drc che erano riusciti a rimanere sono stati costretti a nascondersi, nel timore di essere espulsi. L’operazione, attuata con il dichiarato scopo di ridurre l’immigrazione irregolare e la criminalità, è stata condotta dalle forze di polizia nelle città dell’intera nazione e ha riguardato in special modo i cittadini della Drc.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE La libertà d’espressione, compresa la libertà di stampa, è stata soggetta a gravi restrizioni, anche in relazione ad alcune proposte di emendamento alla costituzione che avrebbero consentito un terzo mandato al presidente Nguesso. Polizia e autorità locali hanno vessato e intimidito giornalisti. I difensori dei diritti umani temevano per la loro sicurezza ed erano di conseguenza riluttanti a denunciare le violazioni in cui erano coinvolti ufficiali d’alto rango. Il 26 settembre, il giornalista camerunense Elie Smith è stato espulso in seguito a una direttiva emanata dal ministero dell’Interno che lo accusava di “atti sediziosi e sovversivi” e di “spionaggio per potenze straniere che operavano contro gli interessi della Repubblica del Congo”. Organizzazioni

48 locali per i diritti umani hanno sostenuto che la decisione era stata dettata da motivazioni politiche. Il 23 settembre, la giornalista freelance Sadio Kanté è stata costretta a lasciare il paese dopo essere stata accusata, tra varie imputazioni, di soggiorno illegale. La giornalista ha negato tutte le accuse a suo carico.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Durante l’anno sono state imposte gravi restrizioni alla libertà di pacifica riunione, specialmente per i sindacalisti e per gli oppositori politici al governo, reali o percepiti tali. Il 4 novembre, la polizia ha fatto irruzione nella residenza privata di Brazzaville di Clément Mierassa, leader d’opposizione e presidente del Partito socialdemocratico congolese (Parti Social Démocrate Congolais – Psdc), interrompendo una riunione politica. Secondo i testimoni, la polizia ha percosso alcuni dei presenti. L’operazione ha portato all’arresto di circa 30 persone.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Durante l’operazione “Mbata ya Mokolo” sono stati segnalati diversi casi di arresti e detenzioni arbitrari in cui sono stati presi di mira in maniera particolare cittadini della Drc, tra cui rifugiati e richiedenti asilo che abitavano legalmente in Congo. Anche esponenti politici d’opposizione, sindacalisti e loro fa- miliari sono stati frequentemente al centro di arresti e detenzioni arbitrari da parte della polizia. Il 4 gennaio, la polizia ha arrestato Tamba Kenge Sandrine e i suoi quattro figli. La donna e i bambini sono stati rilasciati il giorno stesso senza accuse. L’agente che aveva effettuato l’arresto si era pre- sentato in realtà per arrestare il marito della donna, Kouka Fidele, a causa delle sue attività di sin- dacalista, ma aveva arrestato sua moglie e i figli al suo posto. Nel timore di essere arrestato, Kouka Fidele è rimasto nascosto per diversi mesi. Jean-Bernard Bossomba, detto Saio, un rifugiato della Drc, è stato arrestato dalla polizia il 22 maggio ed è rimasto detenuto in una cella del corpo nazionale di polizia a Brazzaville fino al 22 luglio. A suo carico non è stata formulata alcuna imputazione. In quanto ex ufficiale dell’esercito della Drc, ha af- fermato di temere per la sua sicurezza in caso di rimpatrio.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE A settembre sono emerse notizie di donne stuprate da agenti della polizia congolese; tali episodi ri- guardavano anche donne rifugiate e richiedenti asilo. A fine anno, non c’erano notizie di azioni intraprese dalle autorità per indagare sulle accuse. A Brazzaville, poliziotti si sarebbero resi responsabili dello stupro di una bambina di cinque anni. Se- condo quanto affermato dai parenti della piccola, gli agenti si erano presentati di notte nell’abitazione della famiglia e avevano portato via la bambina assieme ad altri componenti del nucleo familiare. Gli agenti l’avevano quindi separata dal resto del gruppo, costringendoli poi a salire tutti a bordo di un traghetto diretto a Kinshasa, nella Drc. La bambina è stata trasportata in ospedale al suo arrivo a Kinshasa, dove è stato confermato che aveva subito violenza. A settembre, ricercatori di Amnesty In- ternational hanno portato la bambina in un centro medico specializzato affinché ricevesse cure spe- cialistiche e assistenza psicologica.

IMPUNITÀ Poliziotti sospettati di aver commesso gravi violazioni dei diritti umani sono rimasti impuniti. Inoltre,

49 non è stata aperta alcuna inchiesta sui soldati congolesi accusati di aver commesso gravi violazioni dei diritti umani, comprese sparizioni forzate, mentre prestavano servizio nel contingente regionale di peacekeeping nella Repubblica Centrafricana. A maggio, le autorità hanno annunciato che 18 agenti di polizia, implicati in violazioni dei diritti umani nel contesto dell’operazione “Mbata ya Mokolo”, erano stati sospesi dal servizio. Non è chiaro se il provvedimento di sospensione fosse ancora in vigore a fine anno o se le autorità avessero avviato indagini per stabilire se erano responsabili delle violazioni. A giugno, l’Au ha annunciato che avrebbe aperto un’inchiesta in merito alle accuse che vedevano il coinvolgimento di componenti congolesi del contingente internazionale della Missione internazionale di sostegno nella repubblica Centrafricana (Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine – Misca) nella sparizione forzata di almeno 11 persone nella Repubblica Centra- fricana, avvenuta il 24 marzo. Tuttavia, a fine anno, non era noto l’avvio d’indagini da parte delle autorità.

CONGO, REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

Capo di stato: Joseph Kabila Capo di governo: Augustin Matata Ponyo Mapon

La situazione della sicurezza nella Repubblica Democratica del Congo (Democratic Republic of Congo – Drc) è rimasta disastrosa e un’impennata di violenza da parte di gruppi armati è costata la vita a migliaia di civili e ha costretto oltre un milione di persone a lasciare le loro case. Sia le forze di sicurezza governative sia i gruppi armati si sono resi responsabili di violazioni dei diritti umani, tra cui uccisioni e stupri di massa. In tutto il paese è dilagata la violenza contro donne e ragazze. Hanno suscitato proteste le proposte di emendamento alla costituzione per permettere al presidente Kabila di rimanere in carica oltre al 2016. Difensori dei diritti umani, giornalisti ed esponenti politici dell’op- posizione hanno subito minacce, vessazioni e arresti arbitrari, sia da parte di gruppi armati sia delle forze di sicurezza governative.

CONTESTO L’esercito congolese, con l’appoggio del contingente di peacekeeping della Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione della Drc (UN Organization Stabilization Mission in the Drc – Monusco), è riuscito a sconfiggere e smobilitare il gruppo armato 23 marzo (M23) nel 2013. Tuttavia, il conflitto nella Drc orientale non è terminato e altri gruppi armati hanno ampliato le zone in cui operavano e hanno continuato a colpire la popolazione civile. A gennaio, il governo ha lanciato un’operazione militare contro il gruppo armato delle Forze democratiche alleate (Allied Democratic Forces – Adf) nel territorio di Beni, nella provincia del Nord Kivu. Anche se

50 l’“Operazione Sokola 1” (“Operazione pulizia”, in lingala) aveva spinto i ribelli delle Adf a rifugiarsi nella loro base nella foresta, questi erano poi riusciti a ricompattarsi e a lanciare a ottobre una serie di attacchi, in cui hanno ucciso e rapito civili.1 Altri gruppi armati hanno continuato le loro attività nelle province del Nord Kivu, Katanga, Sud Kivu e dell’Ituri, commettendo gravi violazioni dei diritti umani contro la popolazione civile. Alcuni combattenti delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Forces démocratiques de li- bération du Rwanda – Fdlr) hanno partecipato a un programma di smobilitazione gestito dalla Monusco e alcuni sono stati confinati in campi allestiti dal governo. Tuttavia, altri hanno condotto in- cursioni armate nell’est del paese. Il programma di smobilitazione, disarmo, rimpatrio, reinsediamento e reintegro della Monusco riguardava anche ex bambini soldato affiliati alle Fdlr. A luglio, il presidente Kabila ha nominato Jeannine Mabunda quale delegata speciale del presidente sulla violenza sessuale e il reclutamento dei bambini soldato. A novembre, diverse centinaia di magistrati hanno scioperato per gli stipendi.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI Gruppi armati hanno compiuto atrocità nei confronti della popolazione civile nell’est del paese, spe- cialmente nell’alto Katanga, in Ituri, Nord Kivu e Sud Kivu. Gli abusi commessi comprendevano uccisioni illegali, esecuzioni sommarie, reclutamento forzato di minori, stupri e violenze sessuali, saccheggi su vasta scala, case incendiate e distruzione di proprietà. Gli attacchi sono stati caratterizzati da violenza estrema, in alcuni casi di matrice etnica. Parte dei combattimenti erano per il controllo delle risorse naturali e del commercio. La violenza è stata favorita dalla facilità d’accesso ad armi e munizioni. Tra i gruppi armati che hanno commesso abusi contro la popolazione civile c’erano: le Fdlr, le Adf, Nyatura, l’Esercito di resistenza del Signore (Lord Resistance Army – Lra), Nduma per la Difesa del Congo (Nduma Defence of Congo – Ndc), conosciuto come Mayi Mayi Sheka, e vari altri gruppi Mayi Mayi, come Mayi Mayi Lafontaine, Mayi Mayi Simba e Mayi Mayi Bakata Katanga. A giugno, negli attacchi compiuti da Nyatura nel territorio di Rutushuru, nella provincia del Nord Kivu, sono stati uccisi almeno quattro civili e sono state rase al suolo decine di case. La notte del 6 giugno a Mutarule, nel territorio di Uvira, nella provincia del Sud Kivu, almeno 30 civili sono rimasti uccisi in un attacco sferrato da un gruppo armato non identificato. La maggior parte delle vittime era di etnia bufalero. L’attacco è avvenuto a pochi chilometri di distanza da una base della Monusco. Tra inizio ottobre e fine dicembre, secondo le accuse, le Adf hanno effettuato una serie di attacchi contro la popolazione civile in diverse cittadine e villaggi nel territorio di Beni, nella provincia del Nord Kivu, e nel distretto dell’Ituri, nella Provincia Orientale, uccidendo almeno 270 civili e ferendone e catturandone altri. Gli aggressori hanno inoltre saccheggiato i beni della popolazione civile. Tra il 3 e il 5 novembre, combattenti delle Fdlr hanno ucciso 13 persone nei villaggi di Misau e Misoke, nel territorio di Walikale, nella provincia del Nord Kivu.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Stupri e altre forme di violenza sessuale contro donne e ragazze sono rimasti fenomeni endemici, non

51 soltanto nelle aree di conflitto ma anche in quelle zone del paese che non erano interessate dalle ostilità. Atti di violenza sessuale sono stati indistintamente commessi da gruppi armati, membri delle forze di sicurezza e civili disarmati. Chi commetteva stupri e altre forme di violenza sessuale ha potuto contare su una pressoché totale impunità. Gruppi armati e membri delle forze di sicurezza hanno compiuto stupri di massa, in cui decine di donne e ragazze sono state vittime di estreme e brutali aggressioni sessuali, durante attacchi condotti contro villaggi situati in aree remote, in particolare nel Nord Kivu e nel Katanga. Questi attacchi hanno inoltre implicato anche altre forme di tortura, uccisioni e saccheggi. Tra il 4 e il 17 luglio, combattenti Mayi Mayi Simba avrebbero stuprato almeno 23 donne e ragazze nel villaggio di Mangurejipa e nei siti minerari in zone limitrofe, nel territorio di Lubero, nel Nord Kivu. A ottobre, decine di donne e ragazze sono state stuprate nel villaggio di Kansowe, nel territorio di Mit- waba, nella provincia di Katanga, da membri del commando speciale dell’esercito congolese schierato nella zona per combattere il gruppo armato Mayi Mayi Bakata Katanga. Tra il 3 e il 5 novembre, almeno 10 donne sono state stuprate, secondo le accuse, da combattenti delle Fdlr, nei villaggi di Misau e Misoke, nel territorio di Walikale, nella provincia del Nord Kivu.

BAMBINI SOLDATO Gruppi armati hanno reclutato minori. Molti hanno subito violenza sessuale e trattamento crudele, disumano e degradante mentre venivano impiegati come combattenti, portatori, cuochi, guide, spie e messaggeri.

SFOLLATI INTERNI Lo scioglimento del gruppo armato M23, avvenuto nel 2013, ha agevolato la progressiva chiusura dei campi per sfollati interni situati nei dintorni della città di Goma. Tuttavia, a causa dell’impennata di violenza dei gruppi armati contro la popolazione civile, si è reso necessario l’allestimento di altri campi per accogliere le persone in fuga dagli abusi. Al 17 dicembre, circa 2,7 milioni di persone erano sfollate internamente nella Drc. La maggior parte degli sfollamenti è stata causata dal conflitto armato nel Nord Katanga, Nord Kivu, Sud Kivu e distretti dell’Ituri.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti sono stati fenomeni endemici in tutto il paese e spesso si sono verificati durante arresti illegali e detenzioni da parte dei servizi di sicurezza di stato. Sono stati segnalati alcuni decessi per tortura. Agenti di polizia e dei servizi d’intelligence e membri della guardia presi- denziale sono stati tutti accusati di responsabilità in tortura e altri maltrattamenti.

VIOLENZA COMUNITARIA Nel distretto di Tanganyka, nella provincia di Katanga, le tensioni tra i batwa e i luba si sono intensi- ficate, fino a sfociare in violenti scontri tra le due comunità. Questa situazione è andata a peggiorare la già precaria sicurezza della zona a causa delle attività condotte dal gruppo armato Mayi Mayi Bakata Katanga. La violenza è stata caratterizzata da attacchi deliberati contro la popolazione civile e da gravi violazioni dei diritti umani. Membri di entrambe le comunità si sono resi responsabili di uccisioni, rapimenti e atti di violenza sessuale. Hanno inoltre impiegato minori nelle violenze e raso al suolo e saccheggiato case.

52 A giugno e luglio, più di 26 donne e ragazze batwa sono state catturate e stuprate nel villaggio di Longa, nel territorio di Kabalo, nella provincia di Katanga. Altre 37 donne dello stesso villaggio sono state rapite e tenute prigioniere per scopi sessuali da presunte milizie luba, a Luala. Almeno altre 36 donne sono state stuprate mentre cercavano di fuggire verso Nyunzu.

IMPUNITÀ L’impunità ha continuato ad alimentare ulteriori violazioni dei diritti umani e abusi. Gli sforzi compiuti dalle autorità giudiziarie per migliorare la capacità operativa dei tribunali di far fronte al numero dei fa- scicoli giudiziari, compresi casi che riguardavano violazioni dei diritti umani, hanno ottenuto pochi risultati. Anche i tentativi di garantire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di diritto interna- zionale commessi dall’esercito congolese e dai gruppi armati hanno raggiunto scarsi risultati tangibili. Il 5 maggio è stato emesso il verdetto relativo al processo per lo stupro di massa di oltre 130 donne e ragazze, gli omicidi e i saccheggi compiuti nella città orientale di Minova e dintorni dai soldati congolesi che battevano in ritirata a seguito dell’avanzata dei ribelli dell’M23, tra novembre e dicembre 2012. Malgrado le prove schiaccianti dello stupro di massa compiuto a Minova, tra cui le deposizioni di vittime e testimoni, dei 39 soldati imputati nel processo soltanto due sono stati giudicati colpevoli di stupro. Altri accusati sono stati condannati per omicidio, saccheggio e reati secondo il codice militare. Il leader dell’M23, il generale Bosco Ntaganda, si è rivolto spontaneamente all’ambasciata degli Usa a Kigali nel 2013 e ha chiesto di essere rinviato al giudizio dell’Icc, che aveva spiccato un mandato d’arresto nei suoi confronti nel 2006. Altri leader dell’M23, in esilio in Uganda e Ruanda, hanno con- tinuato a godere dell’impunità per crimini che avrebbero commesso nei territori di Rutshuru e Nyira- gongo. A maggio, il parlamento ha respinto una proposta di legge sul recepimento interno dello Statuto di Roma dell’Icc, assieme a una proposta per la creazione di camere penali speciali per giudicare i crimini di diritto internazionale, commessi prima dell’entrata in vigore dello Statuto di Roma.

PROCESSI INIQUI Il sistema giudiziario è stato caratterizzato da debolezza e mancanza di risorse. I tribunali non sono stati indipendenti da influenze esterne e la corruzione era dilagante. Non essendo disponibile un servizio di assistenza legale d’ufficio, molti imputati non potevano disporre di un avvocato e frequen- temente i diritti degli imputati sono stati violati.

CONDIZIONI CARCERARIE Il sistema carcerario ha continuato a essere sottofinanziato. Prigionieri e detenuti erano custoditi in strutture fatiscenti, caratterizzate da sovraffollamento e mancanza d’igiene. Decine di reclusi sono morti a causa della malnutrizione e dell’assenza di cure mediche appropriate. Le condizioni d’insicurezza per i reclusi erano rese ancor più complicate dall’assenza nei penitenziari di settori separati per donne e uomini, detenuti in attesa di giudizio e prigionieri condannati e membri delle forze armate e civili.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Lo scioglimento del gruppo armato M23 ha contribuito a qualche miglioramento della situazione per i difensori dei diritti umani nei territori di Rutshuru e Nyiragongo. Tuttavia, in tutto il paese, difensori

53 dei diritti umani e sindacalisti sono rimasti soggetti a minacce, intimidazioni e arresti da parte dei servizi della sicurezza di stato e dei gruppi armati. Alcuni sono stati costretti a fuggire dopo aver ricevuto ripetute minacce di morte tramite sms, telefonate anonime e visite notturne da parte uomini armati.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI In tutto il paese, arresti e detenzioni arbitrari sono rimasti prassi comune. I servizi di sicurezza, in particolare la polizia nazionale, i servizi d’intelligence e l’esercito nazionale, hanno tutti attuato arresti arbitrari. Hanno inoltre estorto a civili denaro e beni di valore durante operazioni di ordine pubblico e ai posti di blocco. Alcuni sostenitori dell’opposizione politica, che avevano partecipato a manifestazioni per sollecitare l’avvio di un dialogo politico e protestare contro i tentativi di emendare la costituzione, sono stati ar- bitrariamente arrestati e maltrattati.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE La libertà d’espressione è stata significativamente limitata. In particolare, sono state attuate dure misure repressive contro chi si opponeva alla prospettiva di emendare la costituzione. Riunioni e ma- nifestazioni pacifiche sono state abitualmente vietate o interrotte con violenza dalle forze di sicurezza. I principali obiettivi della repressione erano oppositori politici, membri di organizzazioni della società civile e giornalisti. Alcuni sono stati arrestati e maltrattati, altri condannati al carcere al termine di processi iniqui per accuse pretestuose. Ad esempio, un oppositore politico del governo, Jean Bertrand Ewanga, del partito d’opposizione Unione per la nazione congolese (Union pour la nation congolaise – Unc), è stato condannato al carcere per l’accusa di aver insultato il presidente. L’emittente televisiva Canal futur, la cui proprietà era riconducibile al leader d’opposizione Vital Kamerhe, è rimasta chiusa per l’intero anno su disposizione delle autorità. Il 16 ottobre, a seguito della pubblicazione di un rapporto dell’Ufficio congiunto delle Nazioni Unite sui diritti umani (UN Joint Human Rights Office – Unjhro) sulle esecuzioni extragiudiziali e le sparizioni forzate commesse durante un’operazione di polizia a Kinshasa, Scott Campbell, capo dell’Unjhro, è stato dichiarato “persona non gradita” dal ministero dell’Interno ed espulso dalla Drc.2 Altri funzionari dell’Unjhro avrebbero ricevuto minacce dopo la pubblicazione del rapporto.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Più di 170.000 cittadini della Drc sono stati espulsi dalla Repubblica del Congo e rimandati nella Drc tra il 4 aprile e gli inizi di settembre. Tra questi c’erano rifugiati e richiedenti asilo. Alcuni degli espulsi sarebbero stati arrestati e detenuti in incommunicado a Kinshasa. Gli aiuti forniti dal governo della Drc sono stati scarsi e, a settembre, oltre un centinaio di famiglie vivevano per strada a Kinshasa, senza tende, assistenza medica, cibo o altro genere di aiuti.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE Il 7 marzo, l’Icc ha giudicato Germain Katanga, comandante della Forza di resistenza patriottica dell’Ituri (Force de résistance patriotique en Ituri – Frpi), colpevole di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, commessi il 24 febbraio 2003 durante un attacco al villaggio di Bogoro, nel distretto di Ituri. Il 23 maggio è stato condannato a 12 anni di carcere.

54 Il 9 giugno, la II Camera preprocessuale dell’Icc ha confermato i capi d’imputazione per crimini di guerra e crimini contro l’umanità a carico di Bosco Ntaganda che, stando alle accuse, erano stati commessi nel 2002 e 2003, nel distretto di Ituri. Sylvestre Mudacumura, presunto comandante dell’ala armata delle Fdlr, è rimasto latitante nonostante un mandato d’arresto per crimini di guerra emesso nei suoi confronti dall’Icc il 13 luglio 2012.

Note 1. DRC: Civilian death toll rises as rebels embark on campaign of sporadic slaughter, www.amnesty.org/en/news/drc-civi- lian-death-toll-rises-rebels-embark-campaign-sporadic-slaughter-2014-10-31 2. DRC: Rescind expulsion of UN official and investigate extra-judicial killings and disappearances (AFR 62/002/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/AFR62/002/2014/en/80df3d93-394d-4451-b3fee9c277451a79/afr620022014en.html

COSTA D’AVORIO

REPUBBLICA DELLA COSTA D’AVORIO

Capo di stato: Alassane Ouattara Capo di governo: Daniel Kablan Duncan

La Costa d’Avorio è stata analizzata secondo il meccanismo dell’Esame periodico universale delle Nazioni Unite. In tale sede sono state espresse preoccupazioni per l’inadeguatezza dell’azione del go- verno ivoriano in riferimento a diverse tematiche, tra cui i diritti delle donne e l’assenza (o il carattere discriminatorio) dell’accertamento delle responsabilità per i crimini commessi durante la violenza postelettorale nel 2010-2011. Centinaia di detenuti erano in attesa di processo in relazione alle violenze del periodo postelettorale. La Costa d’Avorio ha rifiutato l’ingresso nel paese a oltre 400 rifugiati ivoriani che erano fuggiti in Liberia durante la crisi postelettorale. Le persone Lgbti hanno continuato a subire discriminazioni.

CONTESTO A dicembre 2013, il governo ha rinnovato il mandato della commissione speciale d’inchiesta incaricata d’indagare sui crimini commessi durante le violenze del periodo postelettorale, nonché il mandato della commissione su dialogo, verità e riconciliazione (Commission dialogue, vérité et réconciliation – Cdvr). Quest’ultima ha pubblicato i propri risultati a dicembre 2014, esprimendo preoccupazione per il carattere discriminatorio della giustizia ivoriana. Ad aprile, la Costa d’Avorio è stata analizzata secondo l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite. In tale sede sono state evidenziate le inadeguatezze della risposta data dal governo ivoriano su una serie di problematiche: gli interventi per garantire l’accertamento delle responsabilità per i crimini commessi durante la violenza postelettorale del 2010-2011; le misure intraprese per dare at-

55 tuazione al processo di riconciliazione nazionale; gli sforzi per assicurare una campagna elettorale aperta e libera, in vista delle elezioni presidenziali del 2015; i provvedimenti per assicurare alla società civile un ambiente favorevole e sicuro e i diritti delle donne, comprese misure per prevenire la violenza sessuale. A luglio, la Costa d’Avorio ha rifiutato l’ingresso nel paese a oltre 400 rifugiati ivoriani che avevano trovato riparo in Liberia durante la violenza postelettorale. La Costa D’Avorio ha motivato il rifiuto, sostenendo di voler così impedire la diffusione del virus Ebola sul proprio territorio, data la presenza dell’epidemia in Liberia, ma l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, aveva assicurato che ogni rifugiato era stato sottoposto a screening medico. Malgrado i controlli sanitari, oltre 35.000 rifugiati ivoriani sono rimasti in Liberia, in attesa che le autorità ivoriane decidessero la riapertura delle frontiere. A novembre, il governo ha autorizzato l’erogazione degli stipendi e relative indennità rimasti in sospeso ai soldati che da due anni protestavano per ottenere il pagamento degli arretrati e dei contributi per gli alloggi. Sempre a novembre, il partito d’opposizione, Fronte popolare ivoriano (Front populaire ivoirien – Fpi), ha confermato la candidatura di Laurent Gbagbo alle elezioni presidenziali del 2015, malgrado questi fosse in attesa di essere processato dall’Icc. A dicembre, il tribunale di Abidjan ha dichiarato inammissibile la sua candidatura.

SISTEMA GIUDIZIARIO A gennaio e maggio, oltre 180 prigionieri politici trattenuti in relazione alla violenza postelettorale del 2010-2011 sono stati rilasciati, alcuni in libertà provvisoria in attesa del processo previsto nel 2015. Oltre 600 detenuti attendevano di essere processati in relazione alle violenze. Alcuni prigionieri politici trattenuti nel penitenziario di Abidjan (Maison d’arrêt et de correction – Maca) hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni di detenzione e la lentezza delle procedure giu- diziarie. Tre detenuti politici sono morti in custodia al Maca in circostanze poco chiare. A luglio, il ministro della Giustizia ha annunciato la riapertura delle indagini sulla sparizione del giornalista Guy André Kieffer e dell’inchiesta giudiziaria sulla morte di Yves Lambelin, presidente della Società immobiliare e finanziaria della costa africana (Société immobilière et financière de la côte africaine – Sifca), il quale fu vittima di omicidio durante la crisi postelettorale. A fine dicembre è iniziato il processo a carico di 83 persone, tra cui Simone Gbagbo e Michel Gbagbo, rispettivamente moglie e figlio dell’ex presidente Laurent Gbagbo, ed ex funzionari di alto profilo del suo governo. Gli imputati dovevano rispondere di accuse come attentato alla sicurezza dello stato e costituzione di banda armata.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE L’ex presidente Gbagbo è rimasto sotto la custodia dell’Icc. A giugno, l’Icc ha confermato le imputazioni a suo carico e lo ha rinviato a giudizio. Avrebbe dovuto rispondere di crimini contro l’umanità. Alla stesura del presente rapporto il processo era stato fissato a luglio 2015. A marzo, la Costa d’Avorio ha consegnato all’Icc Charles Blé Goudé, accusato di crimini contro l’umanità commessi durante la violenza postelettorale. A dicembre, l’Icc ha convalidato quattro capi d’imputazione per crimini contro l’umanità formulati a suo carico e lo ha rinviato a giudizio. A dicembre, la Camera preprocessuale dell’Icc ha rigettato l’obiezione rispetto all’ammissibilità del caso contro Simone Gbagbo, sollevata in precedenza dalla Costa d’Avorio. La moglie dell’ex presidente

56 Gbagbo era stata incriminata dall’Icc a febbraio 2012 e doveva rispondere delle accuse di omicidio, violenza sessuale, persecuzione e altri atti disumani, che sarebbero stati compiuti durante la crisi postelettorale. La Costa d’Avorio ha depositato un ricorso contro la decisione.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Persone Lgbti hanno subito crescenti discriminazioni. A gennaio, la sede di Alternative Côte d’Ivorie, un’organizzazione impegnata nella tutela dei diritti delle persone Lgbti sieropositive al virus Hiv, è stata messa a soqquadro da un folto gruppo di persone, che hanno sottratto computer, imbrattato i muri dell’ufficio con scritte di stampo omofobo e percosso duramente un membro dello staff. La polizia si è rifiutata di rispondere o di indagare sull’episodio. Anche l’abitazione del direttore di Alter- native Côte d’Ivorie è stata in seguito al centro di un attacco. Stando ai resoconti, tra gli aggressori c’era anche un agente delle forze di sicurezza. In seguito all’aggressione, diversi membri dello staff dell’organizzazione sono entrati in clandestinità.

RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE A otto anni di distanza dallo scarico di rifiuti tossici ad Abidjan non era stato ancora condotto uno studio scientifico per valutare le conseguenze a lungo termine per la salute delle persone che erano state esposte alle sostanze inquinanti. La società che aveva prodotto e inviato i rifiuti tossici ad Abidjan, la compagnia petrolifera Trafigura, non ha mai fornito tutte le informazioni sul contenuto dei rifiuti inviati e sul loro potenziale impatto ambientale; né è mai stata opportunamente chiamata a ri- spondere per il ruolo che aveva avuto nello scarico. A ottobre, il Programma ambientale delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme – Unep) ha ribadito che avrebbe condotto una verifica ambientale nei siti interessati dallo scarico nel 2015.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI A dicembre 2013, l’Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio (UN Operation in Côte d’Ivoire – Unoci) aveva reso pubblico un rapporto sul gruppo dei dozo, cacciatori tradizionali che si erano battuti dalla parte di Alassane Ouattara durante la crisi postelettorale. Il rapporto documentava le gravi violazioni dei diritti umani che sarebbero state compiute da membri dei dozo tra marzo 2009 e maggio 2013, tra cui uccisioni sommarie, arresti e detenzioni illegali, saccheggi ed estorsioni. Almeno 228 persone furono uccise, altre 164 rimasero ferite da colpi di proiettile, machete e armi da taglio, e 162 furono sottoposte ad arresti arbitrari e detenzioni illegali. Inoltre, sono stati accertati e confermati almeno 274 casi di saccheggio, incendio doloso ed estorsione, che interessarono tra l’altro le regioni di Gbôklé, Haut-Sassandra, Gôh, Cavally, Guemon, Tonkpi, Marahoué, Nawa, Indenie- Djuablin, Poro e Moronou.1

Note 1. Côte d’Ivoire: The Victors’ Law – the human rights situation two years after the post-electoral crisis (AFR 31/001/2013), www.amnesty.org/en/library/info/AFR31/001/2013/en

57 ERITREA

REPUBBLICA D’ERITREA

Capo di stato e di governo: Isaias Afewerki

Nel paese non hanno potuto operare partiti politici, mezzi d’informazione indipendenti, organizzazioni della società civile o gruppi di culti non registrati. Sono state imposte gravi restrizioni alla libertà d’espressione e d’associazione. L’arruolamento militare è rimasto obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici hanno continuato a essere trattenuti in detenzione arbitraria, in condizioni estreme. Tortura e altri trattamenti crudeli, di- sumani o degradanti sono stati fenomeni diffusi. I cittadini eritrei hanno continuato a fuggire in massa dal paese.

CONTESTO Il 21 gennaio 2013, circa 200 soldati hanno preso il controllo del ministero dell’Informazione, nella capitale Asmara, in un apparente tentativo di colpo di stato. Il direttore dell’ente televisivo statale è stato costretto a leggere una dichiarazione in diretta contenente le richieste dei militari, tra cui la li- berazione di tutti i prigionieri politici, l’applicazione della costituzione del 1997 e l’insediamento di un governo di transizione. La messa in onda è stata interrotta a metà delle trasmissioni. A luglio 2013, il Gruppo di monitoraggio delle Nazioni Unite sulla Somalia e l’Eritrea ha osservato “l’emergere di spaccature all’interno della leadership politica e militare” del paese. A ottobre 2014, ha inoltre rilevato il continuo impiego di misure coercitive per riscuotere in alcuni paesi “la tassa sulla diaspora” (un prelievo del due per cento sui redditi imposto ai cittadini eritrei residenti all’estero). Dopo che, a ottobre 2013, centinaia di eritrei erano morti in un naufragio nel tentativo di raggiungere l’isola italiana di Lampedusa, a maggio, quattro vescovi eritrei hanno pubblicato una lettera, in una rara espressione di pubblico dissenso, criticando la situazione che spinge continuamente così tante persone a cercare di lasciare il paese.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA Migliaia di persone sono state detenute arbitrariamente e trattenute in incommunicado senza accusa né processo per svariate motivazioni, compreso l’aver criticato le politiche o le prassi del governo, per il loro lavoro di giornalisti, per la loro presunta opposizione al governo, per essere praticanti di un culto non riconosciuto dallo stato, per aver eluso o disertato il servizio militare nazionale obbligatorio, per aver cercato di fuggire dal paese o in quanto familiari di chi era riuscito a farlo. Nella maggior parte dei casi, i parenti del detenuto non hanno saputo più nulla del loro congiunto. Alcuni prigionieri di coscienza si trovavano in carcere senza accusa né processo anche da un paio di decenni. Il governo ha continuato a rifiutarsi di confermare le notizie secondo cui nove degli 11 politici di primo piano, detenuti dal 2001 e conosciuti come gruppo G15, erano deceduti in detenzione a causa di differenti patologie, così come alcuni dei giornalisti che erano stati arrestati assieme a loro.

58 Secondo notizie non confermate, otto detenuti arrestati tra il 2005 e il 2006, tra cui funzionari del go- verno e medici, sono stati rilasciati ad aprile.

LIBERTÀ DI RELIGIONE Nel paese erano autorizzati soltanto quattro culti: la Chiesa ortodossa eritrea, la Chiesa cattolica e quella luterana e l’. Seguaci di altri culti vietati, comprese le congregazioni cristiane evangeliche e pentecostali, hanno continuato a essere detenuti arbitrariamente, torturati e maltrattati per aver praticato la loro fede.

LEVA MILITARE Il servizio militare ha continuato a essere obbligatorio per tutti gli uomini e le donne di età compresa tra i 18 e i 50 anni, senza prevedere alcuna forma di obiezione di coscienza. A tutti gli alunni è imposto di completare l’ultimo anno del loro corso di studi presso il campo militare di Sawa, arruolando di fatto minori nell’esercito. L’iniziale periodo di 18 mesi del servizio di leva è stato ancora di frequente esteso a tempo indeterminato, a fronte di salari minimi e senza alcuna scelta circa la natura del lavoro assegnato; un sistema che si configura come lavoro forzato. In caso di evasione, le reclute in- correvano in dure punizioni, compresa la detenzione arbitraria e la tortura e altri maltrattamenti. A Sawa, i minori vivevano in condizioni deplorevoli ed erano sottoposti a dure punizioni se infrangevano le regole del campo.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Secondo quanto riferito, nel paese la tortura e altri maltrattamenti sono stati ampiamente impiegati come forma di punizione, interrogatorio e mezzo di coercizione. Tra i metodi diffusi, i prigionieri erano tenuti legati in posizioni dolorose per lunghi periodi o confinati in isolamento prolungato. Nelle carceri le condizioni erano equiparabili a pena o trattamento crudele, disumano o degradante. Molti detenuti sono rimasti in celle sotterranee sovraffollate o chiusi all’interno di container metallici, spesso in località situate nel deserto e dunque esposti a caldo e freddo estremi. Cibo, acqua e servizi igienici erano inadeguati.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO A gennaio, l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha riferito che 338.129 persone di cui si è occupata erano originarie dell’Eritrea, compresi 308.022 rifugiati e 30.038 richiedenti asilo. In media sono scappate dal paese circa 3000 persone al mese. Le reti di trafficanti di esseri umani hanno continuato a trarre profitto dagli eritrei in fuga dal paese, anche in Sudan e in Egitto. Le vittime erano tenute in ostaggio, in alcuni casi anche per un anno o più, e sottoposte a violenza da parte di bande criminali che cercavano di estorcere somme di riscatto alle loro famiglie. Il Gruppo di monitoraggio delle Nazioni Unite ha riferito di aver individuato un conto bancario svizzero che veniva utilizzato per riscuotere questo tipo di pagamenti. Ad aprile, 266 tra rifugiati e richiedenti asilo eritrei sono stati rilasciati dalla detenzione nel vicino Gibuti e trasferiti in un campo per rifugiati nel sud del paese.

VAGLIO INTERNAZIONALE L’Eritrea è stata oggetto di un crescente vaglio internazionale. Nominata a ottobre 2012 a ricoprire il

59 nuovo ruolo di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, Sheila Keetharuth ha presentato un’ampia gamma di preoccupazioni e raccomandazioni nei suoi rapporti per il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a giugno 2013 e giugno 2014 e per l’As- semblea generale delle Nazioni Unite a ottobre 2013 e ottobre 2014. Dalla sua nomina, avvenuta nel 2012, le richieste d’ingresso nel paese avanzate dalla Relatrice speciale non sono mai state accolte. A giugno, è stata istituita una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite composta da tre membri con mandato annuale, incaricata d’indagare su tutte le presunte violazioni dei diritti umani in Eritrea descritte nei rapporti della Relatrice speciale.

ETIOPIA

REPUBBLICA FEDERALE DEMOCRATICA D’ETIOPIA

Capo di stato: Mulatu Teshome Wirtu Capo di governo: Hailemariam Desalegn

La libertà d’espressione è rimasta soggetta a gravi restrizioni. Il governo ha assunto un atteggiamento ostile verso ogni minimo dissenso e ha frequentemente attuato arresti in via preventiva per impedire ogni critica. Le pubblicazioni dei mezzi d’informazione indipendenti sono state al centro di rinnovati attacchi. Manifestanti pacifici, giornalisti e membri di partiti politici d’opposizione sono stati arbi- trariamente arrestati. Il proclama sugli enti e le associazioni di beneficenza ha continuato a ostacolare le attività delle organizzazioni per i diritti umani. Detenzioni arbitrarie e tortura e altri maltrattamenti sono stati frequenti e in molti casi facevano parte di un vero e proprio sistema messo in atto per ridurre al silenzio qualsiasi reale o sospetto tentativo di dissenso.

CONTESTO L’economia ha continuato a crescere rapidamente, parallelamente a significativi investimenti esteri in alcuni settori come agricoltura, edilizia e industria manifatturiera, progetti su vasta scala come la costruzione di una diga e impianti idroelettrici e numerose concessioni fondiarie, spesso a società estere. Il governo ha utilizzato molteplici canali e metodi per esercitare il proprio controllo politico sulla po- polazione, facendo tra l’altro dipendere l’accesso al lavoro, le opportunità di studio e i servizi assi- stenziali dall’affiliazione politica e sottoponendo i propri cittadini a elevati livelli di sorveglianza fisica e tecnologica. La politicizzazione del ramo investigativo della polizia e della magistratura ha reso impossibile ottenere udienze processuali eque in procedimenti giudiziari con connotazioni politiche. I servizi di sicurezza federali e regionali si sono resi responsabili di violazioni su tutto il territorio na- zionale, comprendenti tra l’altro arresti arbitrari, uso eccessivo della forza, tortura ed esecuzioni ex- tragiudiziali; hanno inoltre potuto operare nella pressoché assoluta impunità.

60 I gruppi armati d’opposizione hanno mantenuto la loro presenza in diverse parti del paese o nei paesi vicini, anche se nella maggior parte con un esiguo numero di combattenti e un basso profilo nelle loro attività. L’accesso ad alcune parti della regione somala è rimasto rigorosamente limitato. Sono proseguite le segnalazioni di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui arresti arbitrari ed esecuzioni extragiudiziali. Sono inoltre pervenute notizie di molteplici accuse di stupro di donne e ragazze da parte di membri dei servizi di sicurezza.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA – ESECUZIONI EXTRAGIUDIZIALI Ad aprile e maggio, nella regione di si sono tenute proteste contro la proposta di un “piano urbanistico integrato”, per estendere la superficie della capitale Addis Abeba nel territorio regionale dell’Oromia. Il governo ha affermato che il piano avrebbe portato i servizi nelle aree più isolate ma molti oromo hanno temuto che avrebbe finito col danneggiare gli interessi dei loro agricoltori, oltre che causare sfollamenti su vasta scala. I servizi di sicurezza, comprendenti la polizia federale e le forze militari speciali, hanno risposto facendo uso eccessivo della forza, sparando munizioni vere sui manifestanti nelle città di Ambo e Guder e nelle università di Wallega e Madawalabu, provocando la morte di almeno 30 persone, compresi bambini. Durante e dopo le proteste, agenti dei servizi di sicurezza hanno percosso centinaia di persone, compresi manifestanti, passanti e genitori di manifestanti che non avevano saputo “con- trollare” i loro figli, causando molti ferimenti. Migliaia di persone sono state arbitrariamente arrestate. Moltissime sono state detenute senza accusa per diversi mesi e alcune trattenute in incommunicado. Centinaia sono rimaste agli arresti in luoghi di detenzione non ufficiali, compreso il campo d’addestramento della polizia di Senkele. Alcuni prigionieri sono stati trasferiti nel centro di detenzione della polizia federale Maikelawi, ad Addis Abeba. Agenti del servizio di sicurezza hanno continuato a detenere oltre un centinaio di persone a Kelem Wallega, Jimma e Ambo, anche dopo che i tribunali avevano disposto il loro rilascio su cauzione o la libertà provvisoria. Tra maggio e ottobre, molti degli arrestati sono stati rimessi in libertà dopo periodi di detenzione variabili ma ad altri è stata negata la cauzione o sono rimasti comunque detenuti senza accusa. Altri, tra cui studenti e membri del partito politico d’opposizione Congresso federalista oromo (Oromo Federalist Congress – Ofc), sono stati processati e giudicati colpevoli al termine di processi sbrigativi per varie accuse legate alle proteste.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Il 2014 è stato un altro anno di attacchi violenti alla libertà d’espressione, oltre che ai timidi tentativi di dissenso, prendendo di mira la stampa indipendente e attuando arresti nei confronti di membri dei partiti d’opposizione e manifestanti pacifici. In diverse occasioni, i tentativi dei partiti politici d’op- posizione di tenere manifestazioni sono stati ostacolati dalle autorità. Il proclama antiterrorismo ha continuato a essere utilizzato per ridurre al silenzio i dissidenti. Membri dei partiti d’opposizione sono stati sempre più spesso presi di mira in vista delle elezioni generali previste per il 2015. Verso fine aprile, sei blogger del collettivo Zona 9 e tre giornalisti indipendenti legati al gruppo sono stati arrestati ad Addis Abeba, due giorni dopo l’annuncio della ripresa delle attività, che erano state sospese in seguito alle gravi vessazioni subite, da parte del gruppo. Per quasi tre mesi, tutti e nove

61 sono rimasti trattenuti nei sotterranei della sezione di Maikelawi, senza accesso a familiari o ad altri visitatori e con forti limitazioni all’accesso a un avvocato. A luglio sono stati incriminati per reati in materia di terrorismo, assieme a un altro componente di Zona 9 che era stato messo sotto accusa in contumacia. Il documento d’accusa citava tra i presunti reati l’utilizzo di “Sicurezza in scatola”, una selezione di programmi open source e materiale software creato per coadiuvare il lavoro dei difensori dei diritti umani, in particolare coloro che si trovavano a svolgere le loro attività in ambienti repressivi. Sei di loro hanno affermato di essere stati costretti a firmare confessioni. Tre hanno denunciato durante le udienze preliminari di essere stati torturati ma l’autorità giudiziaria non ha provveduto a indagare sulle loro affermazioni. A fine anno, il processo era ancora in corso. A inizio 2014, uno “studio” condotto dall’agenzia nazionale di stampa e dall’agenzia d’informazione etiope, pubblicato nel giornale gestito dal governo Addis Zemen, ha puntato il dito contro sei pubbli- cazioni indipendenti, accusandole di aver stampato una serie di articoli che “promuovevano il terro- rismo”, negavano la crescita economica, sminuivano l’eredità dell’ex primo ministro Meles Zenawi e di altre “trasgressioni”. Ad agosto, il governo ha annunciato che stava per incriminare le pubblicazioni, provocando la fuga dal paese di più di 20 giornalisti. A ottobre, i proprietari di tre delle pubblicazioni sono stati condannati in contumacia a oltre tre anni di reclusione, ciascuno per presunto incitamento pubblico finalizzato a rovesciare il governo e pubblicazione di dicerie prive di fondamento. Il partito d’opposizione Ofc ha riferito che, tra maggio e luglio, erano stati arrestati dai 350 ai 500 dei suoi membri, compresa la direzione del partito. Gli arresti erano iniziati nel contesto delle proteste per il “piano urbanistico”, ma sono poi proseguiti per diversi mesi. Molti degli arrestati sono stati detenuti arbitrariamente e in incommunicado. Membri dell’Ofc erano tra le oltre 200 persone arrestate nell’Oromia a metà settembre e altri membri di partito sono stati successivamente arrestati a ottobre. L’8 luglio, Habtamu Ayalew e Daniel Shebeshi, del partito Unità per la democrazia e la giustizia (Unity for Democracy and Justice – Udj), e Yeshewas Asefa del Partito Semayawi sono stati arrestati ad Addis Abeba. Abraha Desta, del partito Arena Tigray e docente a contratto presso l’università di Mekele, è stato arrestato a Tigray e quindi trasferito ad Addis Abeba. Sono stati tutti detenuti a Maikelawi e inizialmente è stato negato loro l’accesso ad avvocati e familiari. A fine ottobre, sono stati incriminati ai sensi del proclama antiterrorismo. Yeshewas Asefa ha denunciato in aula di tribunale di essere stato torturato durante la detenzione. Il Partito Semayawi ha denunciato numerosi arresti tra i suoi membri, comprese sette donne arrestate a marzo durante una corsa sportiva organizzata ad Addis Abeba per celebrare la Giornata internazionale delle donne, assieme a tre uomini, anch’essi membri del partito. Gli arrestati avevano inneggiato slogan come “Abbiamo bisogno di libertà! Liberate i prigionieri politici!”. Sono stati rilasciati senza accusa dopo 10 giorni. Verso fine aprile, 20 membri del partito sono stati arrestati mentre distribuivano materiale per promuovere una manifestazione ad Addis Abeba. Sono stati rilasciati dopo 11 giorni. Agli inizi di settembre, Befekadu Abebe e Getahun Beyene, funzionari di partito della città di Arba Minch, sono stati arrestati assieme a tre membri del partito. Abebe e Beyene sono stati trasferiti nel centro di detenzione di Maikelawi, ad Addis Abeba. Nelle prime fasi della loro detenzione, sarebbe stato loro negato l’accesso agli avvocati e ai familiari. A fine anno erano ancora in carcere. A fine ottobre, il membro di partito Agbaw Setegn è stato arrestato nella città di Gondar e anche lui trasferito a Maikelawi. A fine anno, si trovava ancora detenuto in incommunicado senza potere accedere ad avvocati o familiari. Il 27 ottobre, il redattore Temesgen Desalegn è stato condannato a tre anni di reclusione per “diffamazione”

62 e “incitamento pubblico tramite false dicerie”, per il suo lavoro nella ormai chiusa pubblicazione Feteh, al termine di un processo durato oltre due anni. Anche l’editore di Feteh è stato giudicato colpevole in contumacia. Le persone arrestate sono rimaste arbitrariamente detenute senza accusa per lunghi periodi, sia nelle fasi iniziali della loro detenzione che per tutta la sua durata, comprese moltissime persone ar- restate per essersi pacificamente opposte al governo o per le loro percepite opinioni politiche. Sono stati impiegati sia centri di detenzione ufficiali sia non ufficiali, compreso Maikelawi. Molti detenuti sono stati trattenuti in incommunicado e in numerosi casi le autorità hanno negato loro l’accesso ad avvocati e familiari. Moltissimi prigionieri di coscienza, incarcerati negli anni precedenti, unicamente a causa del loro pacifico esercizio della libertà d’espressione e d’opinione, compresi giornalisti e membri di partiti politici d’opposizione, sono rimasti in detenzione. Alcuni di questi erano stati giudicati colpevoli al termine di processi iniqui, per altri il procedimento era ancora in corso e altri ancora continuavano a essere detenuti senza accusa. L’accesso ai centri di detenzione per monitorare e documentare il trattamento dei detenuti è rimasto rigorosamente limitato.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le torture sono avvenute presso i commissariati locali di polizia, il centro di polizia federale di Maikelawi, i penitenziari federali e regionali e i campi militari. I metodi di tortura segnalati comprendevano percosse con bastoni, manganelli di gomma, calci di pistola e altri oggetti, bruciature, stare legati in posizioni di stress, scosse elettriche e prolungati sforzi fisici forzati. In alcuni casi, le condizioni di detenzione si sono configurate come tortura, ad esempio per reclusi tenuti in locali sotterranei privi di luce, in catene e in isolamento prolungato. La tortura è stata tipicamente impiegata nelle prime fasi della detenzione, in concomitanza con l’in- terrogatorio del detenuto. Serviva per costringere il detenuto a confessare, firmare prove incriminanti o per implicare penalmente altri. Tra le persone sottoposte a tortura c’erano prigionieri di coscienza, arrestati per la loro reale o percepita espressione di dissenso. In diversi processi, gli imputati hanno denunciato in aula di essere stati torturati o altrimenti maltrattati durante la detenzione. I tribunali non hanno provveduto a disporre indagini in merito alle loro accuse. In molti casi, ai prigionieri di coscienza è stato negato l’accesso a cure mediche adeguate.

REGIONE DI OROMIA L’etnia oromo ha continuato a subire molte violazioni dei diritti umani nel tentativo di reprimere po- tenziali tentativi di dissenso nella regione. Moltissimi appartenenti all’etnia oromo hanno continuato a essere arrestati o sono rimasti in detenzione dopo il loro arresto avvenuto anni prima, sulla base della loro pacifica espressione di dissenso o, spesso, unicamente perché sospettati di essere oppositori del governo. Gli arresti sono stati attuati in maniera arbitraria, spesso in via preventiva e in assenza di prove di reato. Molti sono stati detenuti senza accusa né processo e spesso in centri non ufficiali, in particolare i campi militari dislocati nel- l’intera regione. È totalmente mancata qualsiasi iniziativa di accertamento delle responsabilità per le sparizioni forzate o le esecuzioni extragiudiziali verificatesi nel 2014 o in anni precedenti.

63 Nel periodo successivo alle proteste per il “piano urbanistico”, sono stati progressivamente intensificati gli arresti di reali o presunti dissidenti. Sono stati segnalati molti arresti, di cui molte centinaia avvenuti agli inizi di ottobre nei distretti di Hurumu e Yayu Woredas, nella provincia di Illubabor, nei confronti di studenti delle scuole superiori, agricoltori e altri residenti locali. Sono inoltre pervenute notizie di studenti arrestati per aver chiesto di conoscere che cosa era accaduto ai loro compagni di scuola fermati durante le proteste per il “piano urbanistico”, aver chiesto il loro rilascio e giustizia per gli uccisi, compresi 27 che sarebbero stati arrestati all’università di Wallega verso fine novembre.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

Rimpatri forzati Agenti del governo etiope sono stati attivi in molti paesi, alcuni dei quali hanno collaborato con le au- torità etiopi per rimpatriare con la forza persone ricercate dal governo. A gennaio, due rappresentanti del Fronte di liberazione nazionale sono stati rapiti e rimpatriati con la forza in Etiopia da Nairobi, in Kenya. I due si trovavano nella capitale keniana per partecipare a ulteriori colloqui di pace tra il gruppo e il governo. Il 23 giugno, il cittadino britannico Andargachew Tsige, segretario generale del movimento fuorilegge Ginbot 7, è stato rimandato in Etiopia dallo Yemen. L’8 luglio, il canale televisivo di stato Etv ha mandato in onda alcune immagini in cui Tsige appariva spaurito ed esausto. A fine anno, si trovava ancora detenuto in incommunicado in una località imprecisata, senza poter accedere agli avvocati o alla famiglia. Le autorità etiopi hanno continuato a rifiutare al governo britannico l’accesso consolare, tranne che per un unico incontro in cui Andargachew Tsige è stato condotto davanti all’ambasciatore britannico incappucciato e senza poter comunicare con lui in privato. A marzo, l’ex governatore della regione di Gambella, Okello Akway, è stato rimpatriato con la forza in Etiopia dal Sud Sudan, dove aveva ottenuto lo status di rifugiato. A giugno, è stato formalmente ac- cusato di reati in materia di terrorismo assieme a diversi cittadini sudsudanesi, in relazione ai movi- menti d’opposizione di Gambella in esilio.

GAMBIA

REPUBBLICA DEL GAMBIA

Capo di stato e di governo: Yahya Jammeh

Nel 2014 ricorreva il ventennale dall’ascesa al potere del presidente Yahya Jammeh.1 Le autorità hanno continuato a reprimere il dissenso. Il governo ha insistito a non voler cooperare con i meccanismi delle Nazioni Unite sui diritti umani. L’approvazione di nuove leggi ha ulteriormente li-

64 mitato la libertà d’espressione e accresciuto le misure punitive contro i giornalisti. Difensori dei diritti umani e giornalisti hanno continuato ad affrontare incarcerazioni e vessazioni. I diritti delle persone Lgbti sono stati sempre più minacciati. L’anno si è concluso con il tentativo di colpo di stato del 30 dicembre, che ha portato a decine di arresti e a un ampio giro di vite sugli organi di in- formazione.

CONTESTO La situazione dei diritti umani del Gambia è stata analizzata secondo l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite (Universal Periodic Review – Upr) a ottobre.2 Le preoccupazioni sollevate dagli stati membri delle Nazioni Unite comprendevano le restrizioni imposte dal Gambia al diritto alla libertà d’espressione, la ripresa dell’utilizzo della pena capitale e la discriminazione e gli attacchi motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere. Nel corso della loro visita in Gambia, compiuta a novembre, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie e il Relatore speciale sulla tortura non hanno avuto accesso ai centri di detenzione, in cui si riteneva ci fossero prigionieri a rischio di tortura. I Relatori hanno descritto la tortura in Gambia come una “pratica costante” e hanno espresso preoc- cupazione per le esecuzioni effettuate nel 2012 e per il clima d’impunità.3 Ad agosto, le autorità avevano unilateralmente rinviato la visita dei Relatori speciali, senza fornire adeguate spiegazioni. A gennaio 2013, il presidente Jammeh aveva sospeso il dialogo politico con l’Ue, a seguito dell’inse- rimento del tema dei diritti umani in agenda. Benché il dibattito sia ripreso a luglio 2013, poco è stato fatto per attuare gli impegni assunti in materia di diritti umani. A ottobre 2013, il presidente Jammeh aveva annunciato il ritiro del Gambia dal Commonwealth, che stava collaborando con le au- torità gambiane in merito ad alcune iniziative per rafforzare l’attività della magistratura e alla creazione di una commissione nazionale sui diritti umani.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Le norme legislative approvate negli ultimi anni hanno imposto restrizioni al diritto alla libertà d’espressione. Ad agosto, l’assemblea nazionale ha approvato la legge (emendamento) al codice penale che ha inserito il reato di “rendersi irreperibili alle autorità”. Tale norma poteva essere impiegata per prendere di mira coloro che esprimevano il loro dissenso e sceglievano di rimanere fuori dal paese. A luglio 2013, l’assemblea nazionale aveva approvato la legge (emendamento) sull’informazione e le comunicazioni, che prevedeva pene fino a 15 anni di carcere e pesanti ammende per reati come: criticare online le autorità di governo; diffondere “notizie false” su esponenti del governo o funzionari pubblici; rilasciare dichiarazioni denigratorie contro pubblici ufficiali e incitare l’insoddisfazione o istigare alla violenza contro il governo. A maggio 2013, l’assemblea nazionale aveva approvato la legge (emendamento) al codice penale, che ampliava la definizione di vari reati, imponendo pene più severe per reati relativi all’ordine pubblico, come “lanciare insulti oltraggiosi” o “cantare brani oltraggiosi”, e per chi forniva false in- formazioni a un pubblico ufficiale. Ad esempio, la legge ha accresciuto da sei mesi a cinque anni di carcere e/o una pesante ammenda la pena prevista per chi fornisce informazioni non veritiere a un pubblico ufficiale.

65 GIORNALISTI Giornalisti hanno subito vessazioni, intimidazioni, arresti e detenzioni arbitrari per aver svolto il loro legittimo lavoro.4 Sanna Camara è stato arrestato il 27 giugno e accusato di aver pubblicato false informazioni a seguito di un suo editoriale sulla tratta di esseri umani in Gambia, apparso sul quotidiano Standard. Non ha potuto accedere a un avvocato né ai suoi familiari. È stato rilasciato su cauzione il giorno successivo e gli è stato ordinato di presentarsi al commissariato di polizia più volte alla settimana per diversi mesi.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Difensori dei diritti umani sono incorsi in vessazioni, intimidazioni, arresti e detenzioni arbitrari, tortura e sparizione forzata. I cittadini gambiani che hanno cercato di entrare in contatto con l’Upr durante l’esame del Gambia e prima della visita dei Relatori speciali delle Nazioni Unite hanno rischiato ritorsioni. A fine anno non erano state ancora avviate indagini sull’arresto illegale e la tortura dell’imam Baba Leigh, un noto difensore dei diritti umani e religioso musulmano. Era stato arrestato da funzionari dell’agenzia d’intelligence nazionale (National Intelligence Agency – Nia) a dicembre 2012 ed era ri- masto detenuto in incommunicado. È stato ripetutamente torturato per aver pubblicamente condannato l’utilizzo della pena di morte da parte del governo. È stato rilasciato in seguito a un provvedimento di grazia da parte del presidente a maggio 2013 e ha successivamente lasciato il paese, temendo per la sua incolumità.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI I detenuti sono stati abitualmente torturati dal personale di sicurezza, come punizione e allo scopo di estorcere loro “confessioni”. Il 1° agosto, Abdou Jeli Keita, agente dell’agenzia nazionale antidroga ed ex giornalista, è stato fatto salire a forza a bordo di un’auto davanti alla sua abitazione, a Wellingara, da cinque uomini in borghese, verosimilmente membri dei servizi di sicurezza. È stato bendato e condotto in una località sconosciuta, dove ha affermato di essere stato detenuto e percosso. Abdou Jeli Keita non è stato in- criminato e non gli è stato concesso di accedere a un avvocato o ai suoi familiari. I suoi carcerieri gli hanno detto che era detenuto perché sospettato di aver divulgato informazioni circa le deplorevoli condizioni nelle carceri. È stato rilasciato il giorno seguente. Il 18 dicembre 2013, Amadou Sanneh, tesoriere nazionale del Partito democratico unito (United de- mocratic Party – Udp), all’opposizione, e altri due esponenti del partito, Alhagie Sambou Fatty e Malang Fatty, erano stati giudicati colpevoli di sedizione, condannati a pene fino a cinque anni di carcere e trattenuti in incommunicado presso il quartier generale della Nia per quasi un mese, prima di essere processati a ottobre 2013. Tutti e tre hanno riferito di essere stati torturati per costringerli a rendere una “confessione” alla televisione nazionale. Per tutto il periodo di detenzione e durante il processo, Alhagie Sambou Fatty e Malang Fatty non sono stati rappresentati da un legale. Tutti e tre erano prigionieri di coscienza.

PENA DI MORTE A novembre, la Corte suprema ha commutato in ergastolo le condanne a morte di Lang Tombong

66 Tamba e di altri sei prigionieri. I sette uomini – il capo di stato maggiore della difesa tenente generale Lang Tombong Tamba, il brigadiere generale Omar Bun Mbye, il maggiore Lamin Bo Badgie, il tenente colonnello Kawsu Camara, l’ex ispettore generale della polizia Momodou B. Gaye, Gibril Ngorr Secka e Abdoulie Joof – erano stati ritenuti colpevoli di tradimento e condannati a morte nel 2010. La loro condanna a morte per il reato di tradimento costituiva una violazione della costituzione, per la quale la pena capitale è prevista soltanto nel caso di reati che “provocano la morte di un’altra persona”. In un’intervista rilasciata agli organi di stampa ad agosto 2013, il presidente Jammeh ha giustificato il mantenimento della pena di morte definendola “legge divina” e ha dichiarato che non avrebbe graziato alcun condannato a morte. Tale affermazione ha di fatto negato il diritto degli imputati a chiedere clemenza, secondo quanto previsto dalle norme internazionali.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Tra il 7 e il 13 novembre, almeno otto persone, tra cui tre donne e un giovane di 17 anni, sono state arrestate da uomini qualificatisi come agenti della Nia e della guardia presidenziale e minacciate di essere torturate a causa del loro presunto orientamento sessuale. È stato detto loro che se non “con- fessavano” la loro omosessualità, tra l’altro fornendo il nome di altri, sarebbe stato loro inserito uno strumento nell’ano o nella vagina al fine di “verificare” il loro orientamento sessuale, in violazione delle norme internazionali che proibiscono la tortura e altri maltrattamenti. Secondo le notizie riportate, altre sei donne sono state arrestate il 18 e 19 novembre sulla base delle medesime motivazioni.5 Ad agosto, l’assemblea nazionale ha approvato la legge (emendamento) al codice penale 2014, che ha introdotto il reato di “omosessualità aggravata”, passibile di ergastolo. La vaga formulazione del- l’emendamento rendeva possibile una vasta gamma di abusi da parte delle autorità. Tra quanti avrebbero potuto essere incriminati per “omosessualità aggravata”, c’erano i “trasgressori reiterati” e persone sieropositive all’Hiv, sospettate di essere gay o lesbiche.6 In un discorso pronunciato alla televisione nazionale a febbraio, il presidente Jammeh ha attaccato i diritti delle persone Lgbti, dichiarando “combatteremo questi parassiti chiamati omosessuali o gay allo stesso modo in cui combattiamo le zanzare che provocano la malaria, se non con maggior vee- menza”. A maggio, il presidente Jammeh ha lanciato minacce contro i cittadini gambiani che chiedono asilo per motivi legati alla discriminazione a causa del loro orientamento sessuale.

IMPUNITÀ Il governo non ha compiuto progressi nel dare applicazione alle sentenze pronunciate dalla Corte di giustizia dell’Ecowas, in merito alla sparizione forzata del giornalista Ebrima Manneh, alla tortura del giornalista Musa Saidykhan e all’uccisione illegale di Deyda Hydara.7

Note 1. Gambia: President Jammeh must put an end to 20 years of repression and impunity for human rights violations (AFR 27/009/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR27/009/2014/en 2. Gambia: Deteriorating human rights situation: Amnesty International submission to the UN Universal Periodic Review, October-November 2014 (AFR 27/006/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR27/006/2014/en 3. Gambia: UN monitors denied prison access as they condemn “consistent practice” of torture (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/gambia-un-monitors-denied-prison-access-they-condemn-consistent-prac- tice-to

67 4. Gambia: Further information: journalists acquitted and discharged (AFR 27/014/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ AFR27/014/2014/en 5. Gambia must stop wave of homophobic arrests and torture, www.amnesty.org/en/news/gambia-must-stop-wave-homo- phobic-arrests-and-torture-2014-11-18 6. Gambia: “Aggravated homosexuality’’ offence carries life sentence, www.amnesty.org/en/news/gambia-aggravated-ho- mosexuality-offence-carries-life-sentence-2014-11-21 7. Gambia: President Jammeh must put an end to 20 years of repression and impunity for human rights violations (AFR 27/009/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR27/009/2014/en

GHANA

REPUBBLICA DEL GHANA

Capo di stato e di governo: John Dramani Mahama

Il Ghana ha continuato a imporre condanne a morte malgrado un processo di revisione della carta co- stituzionale, che avrebbe potuto portare all’abolizione della pena capitale. La violenza domestica contro le donne è rimasta un fenomeno diffuso.

PENA DI MORTE I tribunali ghanesi hanno continuato a comminare condanne a morte. L’ultima esecuzione nel paese ha avuto luogo nel 1993. A marzo, la commissione per l’attuazione della revisione costituzionale ha presentato un progetto di legge al procuratore generale e al ministro della Giustizia, per emendare alcune disposizioni contenute nella carta costituzionale del 1992; tra cui una proposta per l’abolizione della pena di morte. Il progetto di legge avrebbe dovuto ritornare al parlamento per l’approvazione prima che si tenesse un referendum popolare. A marzo, nel caso Dexter Eddie Johnson vs. Ghana, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha condannato l’imposizione obbligatoria e automatica della pena di morte in Ghana. Il Comitato ha esortato il governo a fornire a Dexter Eddie Johnson un rimedio legale efficace, compresa la commu- tazione della sua condanna a morte, e ad adeguare la propria legislazione per evitare analoghe violazioni in futuro. A fine anno, il governo non aveva ancora dato una risposta.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE La violenza contro donne e ragazze è rimasta un fenomeno diffuso. Durante il 2013, l’unità speciale d’assistenza contro la violenza domestica della polizia del Ghana ha ricevuto un totale di 16.275 denunce. Sebbene la legislazione ghanese proibisca espressamente la violenza domestica, le vittime non ricevono adeguata protezione o assistenza legale per sporgere denuncia presso l’unità della polizia.

68 GUINEA

REPUBBLICA DI GUINEA

Capo di stato: Alpha Condé Capo di governo: Mohamed Said Fofana

Uno dei ceppi più aggressivi del virus ebola da quando il virus è stato scoperto nel 1976 ha colpito il paese, in un contesto in cui già scarseggiavano molti beni essenziali. Le forze di sicurezza hanno fatto abitualmente uso eccessivo della forza contro i civili. I giornalisti sono stati vittime di azioni in- timidatorie. Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura dell’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani (Office of the High Commissioner for Human Rights – Ohchr) delle Nazioni Unite ha evi- denziato le proprie preoccupazioni in merito alle deplorevoli e disumane condizioni di detenzione, alla tortura e ad altri maltrattamenti cui erano sottoposti i detenuti. A fine anno, restava ancora aperto dal 2009 un esame preliminare da parte del procuratore dell’Icc.

CONTESTO Il paese è stato colpito da uno dei più aggressivi focolai di ebola, che si è rapidamente propagato nei paesi confinanti. A fine anno le persone morte a causa dell’epidemia erano oltre 1700, compresi almeno 70 operatori sanitari. Dopo ripetuti rinvii, a settembre 2013 hanno avuto luogo le elezioni legislative. Prima e dopo le elezioni si sono verificate violenze tra membri di partiti politici contrapposti. Osservatori internazionali hanno denunciato irregolarità nel voto. La convalida dei risultati da parte della Corte suprema a quasi due mesi di distanza dalle elezioni ha suscitato proteste e accuse di brogli. Il primo ministro Fofana è stato riconfermato in carica a gennaio 2014 e subito dopo si è insediato il nuovo governo. La prima seduta dell’assemblea nazionale dell’anno è stata inaugurata dal presidente Kori Kondiano.

VAGLIO INTERNAZIONALE Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura e l’Ohchr hanno analizzato la situazione dei diritti umani della Guinea. L’Ohchr ha rilevato che detenuti e prigionieri erano tenuti in strutture fatiscenti e sovraffollate, decisamente al di sotto degli standard internazionali. In alcuni casi minori erano detenuti insieme agli adulti e non esistevano penitenziari riservati solo alle donne. L’Ohchr ha inoltre documentato 11 casi di decessi in detenzione per mancanza di cure mediche. Il Comitato ha espresso preoccupazione per i recenti casi di tortura, così come per le condizioni di detenzione, le confessioni estorte sotto tortura e l’impunità per i perpetratori di tortura.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Le forze di sicurezza (polizia e gendarmeria) hanno continuato a fare uso eccessivo della forza contro civili nella capitale Conakry e in altre città, così come nella regione sudorientale del paese, la Guinea forestale. A marzo, le forze di sicurezza in Guinea forestale hanno disperso una manifestazione pacifica organizzata

69 da alcune donne impiegando gas lacrimogeni, manganelli e lanci di proiettili. Le donne stavano protestando contro le politiche di assunzione di una società di produzione d’olio di palma e caucciù. Stando alle notizie, a marzo quattro persone sono morte per ferite d’arma da fuoco a Diécké durante una manifestazione; tra queste c’era lo studente Mathieu Maomy. Molte altre sono rimaste ferite e sfollate a seguito degli scontri. A fine anno sull’episodio non erano state avviate indagini.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Per tutto il 2013 e 2014 sono stati frequenti i casi di tortura e altri maltrattamenti nei centri di de- tenzione, con almeno un decesso in custodia. Le forze di sicurezza hanno continuato ad agire impu- nemente. Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, nelle proprie osservazioni conclusive sulla Guinea, ha raccomandato di condurre senza indugio indagini esaurienti, indipendenti e imparziali sulle accuse di tortura e maltrattamento. L’Ohchr ha documentato casi di tortura nelle regioni dell’Alta Guinea e della Guinea forestale e ha esortato il governo a proibire per legge la tortura e a indagare gli episodi di tortura verificatisi all’interno delle strutture di detenzione.

DECESSI IN CUSTODIA A febbraio, Tafsir Sylla è morto in ospedale a seguito delle ferite riportate dopo essere stato percosso da poliziotti mentre si opponeva all’arresto, a Fria. Era stato fermato assieme ad altre tre persone dopo aver fumato canapa indiana. Il giorno seguente, centinaia di persone sono scese in strada per protestare e hanno attaccato il commissariato di polizia, l’ufficio del sindaco e il carcere locale, con- sentendo la fuga di almeno 20 prigionieri.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE La libertà di stampa è rimasta soggetta a restrizioni e i giornalisti sono stati presi di mira. A settembre, la polizia della Guinea forestale ha sequestrato le fotocamere dei giornalisti e difensori dei diritti umani che stavano indagando sull’uccisione di otto uomini, aggrediti dalla popolazione locale durante una campagna d’informazione sull’epidemia di ebola. Le fotocamere sono state restituite il giorno dopo con tutte le schede di memoria cancellate.

IMPUNITÀ Sono proseguite le indagini sul massacro del Grand Stade di Conakry, risalente al 28 settembre 2009, quando le forze di sicurezza uccisero oltre 100 manifestanti pacifici e ne ferirono almeno 1500. Decine di donne furono stuprate e altre scomparvero. Moussa Dadis Camara, allora capo della giunta militare, è stato interrogato in Burkina Faso a luglio. Non sono stati compiuti progressi per chiamare in giudizio i gendarmi e i poliziotti sospettati di re- sponsabilità penale per aver torturato detenuti nel 2011 e 2012. Tra il 2011 e la fine del 2014, a Conakry e Fria, soltanto sette agenti erano stati chiamati a comparire in tribunale a seguito di un mandato emesso da un giudice inquirente. Tutti e sette non si erano poi presentati in aula, malgrado la legge li obbligasse a farlo.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE Dal 2009, la Guinea è rimasta sotto indagine preliminare da parte del procuratore dell’Icc per i

70 crimini commessi il 28 settembre 2009 e nel periodo successivo al massacro. L’ufficio del procuratore ha concluso che c’erano fondati motivi di credere che questi costituissero crimini contro l’umanità, tra cui omicidio, tortura, stupro e altre forme di violenza sessuale, persecuzione e sparizioni forzate. Una delegazione dell’ufficio del procuratore ha visitato la Guinea a febbraio e ha rilevato che le indagini erano andate avanti ma in maniera insufficiente. A giugno, Sékouba Konaté, allora ministro della Difesa, ha presentato un elenco di sospettati al procuratore dell’Icc.

DIRITTO ALLA SALUTE – EPIDEMIA DI EBOLA I ritardi nelle risposte da parte del governo e della comunità internazionale avrebbero contribuito al rapido diffondersi dell’epidemia. Sebbene la risposta dei comitati sull’ebola sia alla fine riuscita a coordinare l’assistenza medica e le comunicazioni, continuavano a scarseggiare molte risorse essen- ziali. A settembre, durante una campagna d’informazione sull’epidemia organizzata da operatori sanitari a Womey, nella regione di N’Zérékoré, otto membri della delegazione, tra cui operatori sanitari, un giornalista e membri di un’emittente radiofonica locale, sono stati uccisi dagli abitanti di un villaggio che li sospettavano d’aver trasmesso il virus. Sempre a settembre, due membri della Croce Rossa della Guinea sono stati costretti ad abbandonare la città di Forécariah, quando la gente ha cominciato a lanciare pietre contro il veicolo su cui viaggiavano, dopo che il cadavere di una donna che veniva trasportato dagli operatori sanitari era caduto dal sacco mortuario.

GUINEA-BISSAU

REPUBBLICA DELLA GUINEA-BISSAU

Capo di stato: José Mário Vaz (subentrato a Manuel Serifo Nhamadjo a giugno) Capo di governo: Domingos Simões Pereira (subentrato a Rui Duarte de Barros a luglio)

Le persistenti tensioni politiche e le violazioni dei diritti umani si sono attenuate in seguito alle elezioni di aprile e alla formazione di un nuovo governo a luglio. È persistita l’impunità per le violazioni dei diritti umani commesse in passato, comprese le uccisioni politiche del 2009. Le tensioni a livello sociale si sono allentate in seguito alla ripresa degli aiuti internazionali e al pagamento degli arretrati di parte degli stipendi del pubblico impiego.

CONTESTO Dopo ripetuti rinvii, ad aprile si sono alla fine svolte le elezioni parlamentari e presidenziali. Il Partito africano per l’indipendenza della Guinea-Bissau e Capo Verde (Partido africano da independência da Guiné-Bissau e Cabo Verde – Paigc) ha vinto le elezioni parlamentari. Le elezioni presidenziali sono state vinte da José Mário Vaz del Paigc, che ha ottenuto il 61 per cento dei voti.

71 Le sanzioni imposte dalla comunità internazionale in seguito al colpo di stato dell’aprile 2012 sono state ritirate a luglio e sono ripresi gli aiuti internazionali. Il nuovo governo ha iniziato a pagare gli arretrati degli stipendi ai dipendenti pubblici, portando una diminuzione delle tensioni a livello sociale e delle minacce di sciopero. A settembre, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha prorogato fino a novembre il mandato dell’Ufficio integrato di peacebuilding delle Nazioni Unite in Guinea-Bissau. Sempre a settembre, il presidente Vaz ha licenziato il capo di stato maggiore delle forze armate, generale António Indjai, che aveva guidato il colpo di stato ad aprile 2012.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA Benché la campagna elettorale si sia svolta per lo più pacificamente, non sono mancate notizie di minacce, percosse e rapimenti di esponenti politici da parte delle forze di sicurezza, nel periodo che ha preceduto le elezioni, nell’apparente tentativo d’influenzare l’appoggio a determinati candidati presidenziali. A febbraio, il presidente e un altro esponente di spicco del partito politico Manifesto del popolo (Partido manifesto do Povo) hanno dichiarato di aver ricevuto minacce di morte, attribuendole ai servizi di sicurezza. A marzo, membri del personale di sicurezza hanno rapito Mário Fambé, esponente di primo piano del Partito del rinnovamento sociale (Partido da renovação social), nella capitale Bissau, e lo hanno condotto al quartier generale della marina, dove lo hanno percosso per persuaderlo a sostenere il candidato che appoggiavano. Mário Fambé ha riportato gravi ferite. Il giorno successivo è stato tra- sportato dai soldati all’ospedale militare per essere medicato ed è stato quindi rilasciato. Il giorno prima del turno di ballottaggio delle elezioni presidenziali di maggio, circa 12 membri del Paigc sono stati percossi da agenti di sicurezza in due episodi separati, a Bissau e nella città di Bafata, nel nord del paese. Tra loro c’erano alcuni parlamentari appena eletti e almeno due donne. Sugli episodi non sono state avviate indagini.

IMPUNITÀ A fine anno, nessuno era stato chiamato a rispondere per le violazioni dei diritti umani commesse nel contesto del colpo di stato del 2012, né per le uccisioni politiche avvenute dal 2009.

SISTEMA GIUDIZIARIO Una legge contro la violenza domestica, promulgata a gennaio, a fine anno non era ancora entrata in vigore. Nove persone accusate di un attacco a una base militare a Bissau, a ottobre 2012, e giudicate colpevoli al termine di un processo iniquo davanti a un tribunale militare a marzo 2013, sono state rilasciate a settembre. Tre sono state rimesse in libertà dopo essersi appellate al tribunale militare superiore, che ha accolto il loro ricorso ritenendo che non c’erano prove della loro partecipazione al- l’attacco. Le altre sei sono state rilasciate due settimane dopo in seguito a una grazia presidenziale.

DIRITTI DELLE DONNE La Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani ha visitato la Guinea- Bissau a febbraio, rilevando che la disuguaglianza di genere e la discriminazione erano le cause principali alla base della povertà nel paese. La Relatrice ha attribuito l’elevata percentuale di

72 mortalità materna al fatto che il 60 per cento delle donne in gravidanza non riceveva adeguate cure prenatali. Ad agosto, il nuovo governo ha introdotto l’assistenza medica gratuita per i bambini al di sotto dei cinque anni, le donne in gravidanza e le persone anziane.

GUINEA EQUATORIALE

REPUBBLICA DELLA GUINEA EQUATORIALE

Capo di stato e di governo: Teodoro Obiang Nguema Mbasogo

Nove prigionieri sono stati messi a morte a gennaio, poco prima che fosse dichiarata una temporanea moratoria sulle esecuzioni. La tortura di detenuti e prigionieri era prassi comune. Diversi oppositori politici sono stati arbitrariamente arrestati e trattenuti in incommunicado per periodi prolungati senza accusa, compreso un uomo che era stato rapito in un paese confinante dalle forze di sicurezza della Guinea Equatoriale, a dicembre 2013. Civili sono stati processati da tribunali militari.

CONTESTO A febbraio, il presidente Obiang ha firmato un decreto che stabiliva una temporanea moratoria sulla pena di morte, a quanto pare al fine di garantire alla Guinea Equatoriale la completa adesione alla Comunità dei paesi di lingua portoghese, che è stata approvata al summit dell’organizzazione tenutosi a luglio a Dili, a Timor Est. A maggio, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha analizzato la situazione dei diritti umani della Guinea Equatoriale secondo l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite e ha formulato una serie di raccomandazioni. Il governo ha accettato in linea di principio la maggior parte delle racco- mandazioni ma ha rigettato quelle che lo esortavano a ratificare lo Statuto di Roma dell’Icc. A ottobre, il presidente Obiang ha dichiarato un’amnistia generale per quanti erano stati giudicati colpevoli o erano stati incriminati per reati politici. Era questa una delle richieste avanzate dai partiti politici d’opposizione per una loro partecipazione al dialogo nazionale, previsto per novembre. Tuttavia, non è stato rilasciato alcun prigioniero e il presidente Obiang ha dichiarato che tutti i prigionieri passati in giudicato erano stati ritenuti colpevoli di reati comuni. A novembre, tre partiti indipendenti d’opposizione si sono ritirati dal dialogo nazionale poiché le loro richieste, compreso il rilascio di pri- gionieri, non erano state accolte.

PENA DI MORTE Nove uomini giudicati colpevoli di omicidio sono stati messi a morte a gennaio, 13 giorni prima che fosse dichiarata una moratoria temporanea sulla pena di morte, il numero più alto di prigionieri di cui sia stata riferita l’esecuzione in un solo anno degli ultimi due decenni. Erano le prime esecuzioni di cui si è avuta notizia effettuate dal 2010.1

73 TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le forze di sicurezza hanno continuato a torturare impunemente detenuti e prigionieri, soggetti anche ad altre forme di trattamento crudele, disumano o degradante. Molti sono rimasti reclusi per lunghi periodi in incommunicado, senza accusa né processo e senza ricevere cure mediche adeguate. Cipriano Nguema Mba, rifugiato in Belgio dal 2012, è stato rapito da personale di sicurezza della Guinea Equatoriale a dicembre 2013, mentre era in visita presso alcuni parenti in Nigeria. È stato condotto clandestinamente al quartier generale della sicurezza nazionale a Malabo, dove è stato tor- turato. È stato tenuto con le caviglie e i gomiti legati assieme dietro la schiena e appeso a una sbarra di ferro e quindi percosso con dei manganelli su tutto il corpo. È rimasto trattenuto in incommunicado per tutto l’anno. Roberto Berardi, un imprenditore italiano socio d’affari in un’impresa di costruzioni privata del figlio maggiore del presidente Obiang, Teodoro detto Teodorín Nguema Obiang, è stato percosso e torturato in diverse occasioni dopo il suo arresto avvenuto a gennaio 2013, prima al commissariato di polizia e successivamente nel carcere, a Bata. Durante una sessione di tortura, a gennaio 2014, è stato tenuto a testa in giù dalle guardie carcerarie e frustato. Per tutto l’anno è rimasto detenuto in isolamento per lunghi periodi e gli sono state negate le cure mediche necessarie per la febbre tifoide che aveva contratto e per un enfisema polmonare. A giugno è stato trasportato in ospedale dopo un grave peggioramento delle sue condizioni e rimandato tuttavia in carcere il giorno seguente contro il parere dei medici. Secondo il suo avvocato, lo scopo del suo arresto era d’impedirgli di te- stimoniare davanti al dipartimento di Giustizia americano e ad altre giurisdizioni nazionali estere in merito alla presunta corruzione di “Teodorín” Nguema Obiang. A fine anno si trovava ancora in carcere.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI A seguito del rapimento di Cipriano Nguema Mba (v. sopra), a gennaio altre 11 persone sospettate di aver avuto contatti con lui, comprese due donne, sono state arrestate senza mandato a Malabo, Mon- gomo ed Ebebiyín e trattenute in incommunicado. Cinque uomini sono stati rilasciati senza accusa a giugno. Quattro degli altri sei detenuti a fine anno erano ancora trattenuti in incommunicado. A luglio, le autorità giudiziarie militari hanno incriminato Cipriano Nguema, Ticiano Obama Nkogo, Timoteo Asumu, Antonio Nconi Sima, Leoncio Abeso Meye (accusato in contumacia) e le due donne, Mercedes Obono Nconi ed Emilia Abeme Nzo, per “aver attentato alla sicurezza dello stato e all’integrità fisica del capo dello stato”. Secondo i loro legali, gli indiziati sono stati interrogati senza la presenza dei loro avvocati e non sono stati informati delle accuse a loro carico. Il 27 settembre sono stati processati da un tribunale militare, il consiglio di guerra, ancora una volta senza che fossero presenti i loro avvocati, al posto dei quali sono stati loro assegnati difensori d’ufficio militari privi di una qualifica in giurisprudenza. Tre giorni dopo gli imputati sono stati giudicati colpevoli delle accuse loro ascritte. Mercedes Obono e Timoteo Asumu sono stati condannati a 15 anni di reclusione, mentre gli altri imputati hanno ricevuto ciascuno una sentenza a 27 anni di carcere.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA Agustín Esono Nsogo è stato rilasciato dal carcere a febbraio, dopo essere rimasto trattenuto per 16 mesi senza accusa. Era stato arbitrariamente arrestato e detenuto a Bata a ottobre 2012, dopo aver

74 cambiato valuta con un cittadino straniero ed era stato accusato di aver tentato di destabilizzare il paese. Il suo arresto e la sua detenzione erano politicamente motivati e ingiustificati.2

Note 1. Equatorial Guinea: Executions just weeks before announcement of a “temporary moratorium” on the death penalty raises serious questions (AFR 24/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR24/001/2014/en 2. Vedi Equatorial Guinea: Free Agustín Esono Nsogo (AFR 24/015/2013), www.amnesty.org/en/library/info/AFR24/015/2013/3n

KENYA

REPUBBLICA DEL KENYA

Capo di stato e di governo: Uhuru Muigai Kenyatta

Sono aumentati gli attacchi attribuiti al gruppo armato con base in Somalia, al-Shabaab. Le operazioni antiterrorismo condotte dalla polizia hanno provocato diversi morti e determinato l’arresto di centinaia di persone. Le autorità hanno intensificato le misure per limitare e controllare le attività delle orga- nizzazioni della società civile. Sono stati registrati episodi di uccisioni illegali, stupro, tortura e altri maltrattamenti da parte della polizia. La violenza nei confronti di donne e ragazze è rimasta la prassi.

CONTESTO L’economia e la sicurezza del Kenya sono state influenzate da una serie di attacchi violenti nel nord- est del paese, nella capitale Nairobi e nelle città costiere di Mombasa e Lamu, che hanno spinto le autorità ad adottare nuove legislazioni in materia di sicurezza con notevoli implicazioni sui diritti umani. È proseguita la realizzazione di un sistema di governo decentrato malgrado il persistere di alcune problematiche come la mancanza di un allineamento sotto il profilo politico, legislativo e isti- tuzionale. Le amministrazioni locali hanno chiesto emendamenti costituzionali per poter attingere maggiormente alle risorse dell’erario nazionale. È proseguito davanti all’Icc il processo a carico del vicepresidente William Ruto e del giornalista Joshua Arap Sang, mentre il procuratore ha ritirato le accuse contro il presidente Kenyatta.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA Sono aumentati gli attacchi violenti, la maggior parte dei quali sono stati attribuiti ad al-Shabaab, un gruppo armato attivo in Somalia. Il gruppo ha sostenuto che gli attacchi erano stati compiuti in rappresaglia per la continua presenza in Somalia delle forze armate del Kenya, nel contesto della Missione dell’Au in Somalia (African Mission to Somalia – Amisom). Bombe a mano e attentati dina- mitardi hanno provocato morti e feriti in vari luoghi, tra cui un ristorante, un mercato affollato e un

75 autobus per il trasporto di pendolari. La maggior parte degli attacchi si è verificata nel nord-est del paese, a Nairobi, Mombasa e Lamu. Il 23 marzo, uomini armati hanno aperto il fuoco in una chiesa di Mombasa durante una funzione re- ligiosa, uccidendo sei persone e ferendone almeno altre 15. Il 15 giugno, uomini armati hanno attaccato la località di Mpeketoni, nella contea di Lamu, uccidendo almeno 48 persone. Hanno inoltre bruciato 44 veicoli e circa 26 edifici. Almeno altre 14 persone sono rimaste uccise in due attentati distinti nei villaggi vicini il 16 e 24 giugno. Al-Shabaab ha ri- vendicato la responsabilità degli attacchi ma le autorità l’hanno attribuita a politici locali. Il gover- natore della contea di Lamu è stato arrestato e rilasciato su cauzione in quanto sospettato di essere coinvolto nelle uccisioni; tuttavia, le indagini non sono riuscite a raccogliere prove sufficienti contro di lui. Un’inchiesta, svolta dall’autorità indipendente di supervisione delle operazioni di ordine pubblico (Independent Policing Oversight Authority – Ipoa) sull’operato della polizia in relazione agli attentati, ha rilevato che la risposta delle forze di polizia era stata lenta e scoordinata. Il coprifuoco dal tramonto all’alba, imposto sulla città di Lamu nel periodo successivo alle uccisioni, è stato revocato il 24 dicembre. Il 22 novembre, uomini armati hanno attaccato un pullman a Mandera, nel nord-est del Kenya, uc- cidendo 28 passeggeri. Secondo quanto si è appreso, gli uomini armati avrebbero separato i musul- mani dai non musulmani prima di uccidere questi ultimi. Il 2 dicembre, 36 minatori sono stati uccisi in un altro attacco a una cava a Koromei, nella contea di Mandara. In seguito agli attacchi, l’ispettore generale della polizia ha rassegnato le dimissioni; il segretario di gabinetto con delega alla sicurezza nazionale è stato licenziato. Sempre a dicembre, il governo agendo in tutta fretta e senza una significativa partecipazione pubblica, ha approvato una nuova legislazione in materia di sicurezza, emendando numerose disposizioni contenute in 22 leggi vigenti con notevoli implicazioni sui diritti umani. Tra l’altro, la nuova legge contemplava nuovi reati punibili con aspre pene, limitava i diritti degli arrestati e degli imputati, ampliava i poteri dei funzionari d’intelligence di arrestare i sospettati e di monitorare le comunicazioni e fissava un tetto massimo di 150.000 rifugiati sul suolo keniano. La legge è stata approvata nel corso di una concitata seduta del parlamento carat- terizzata da disordini. Durante l’anno, la polizia ha effettuato una serie di operazioni antiterrorismo, anche in moschee che erano ritenute reclutare e addestrare giovani aspiranti jihadisti. A febbraio, sette persone sarebbero state uccise a colpi d’arma da fuoco e altre 129 arrestate nel corso di un’operazione condotta dalla polizia in una moschea di Mombasa. La maggior parte degli arrestati è stata in seguito rilasciata senza accusa. Un uomo, arrestato nel corso dell’operazione, non è più stato rivisto. Ad aprile, migliaia di rifugiati e richiedenti asilo somali sono stati arbitrariamente arrestati, vessati, vittime di estorsione e maltrattamenti, nel contesto di un’operazione antiterrorismo denominata “Usalama Watch”. Oltre 5000 persone sono state reinsediate con la forza nei campi per rifugiati situati nel nord del Kenya e almeno altre 493 sono state espulse verso la Somalia. A giugno, l’Alta corte ha stabilito la costituzionalità del reinsediamento forzato dei rifugiati nei campi, contraddicendo un precedente pronunciamento in materia. A luglio, l’Ipoa ha pubblicato un rapporto in cui concludeva che, oltre ad aver violato i diritti umani, l’operazione si era dimostrata controproducente in quanto aveva ingenerato la percezione di una profilazione e discriminazione su base etnica tra i somali. A novembre, la polizia ha condotto operazioni in quattro moschee di Mombasa. Una persona è morta sotto i colpi sparati nel contesto delle operazioni e gli arrestati superavano i 300. La polizia ha riferito

76 di aver recuperato bombe a mano e altri ordigni rudimentali nelle moschee. Le operazioni hanno pro- vocato violenti scontri a Mombasa. Organizzazioni della società civile, sia locali sia internazionali, hanno continuato ad accusare l’unità antiterrorismo della polizia keniana di compiere violazioni dei diritti umani, comprese esecuzioni ex- tragiudiziali e sparizioni forzate. Nel corso dell’anno, alcuni religiosi musulmani di Mombasa sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco da aggressori non identificati; sono stati presi di mira sia religiosi radicali sia moderati. Il 1° aprile, un religioso musulmano accusato dalla polizia di reclutare giovani per conto di al-Shabaab è stato freddato in una via di Mombasa. A giugno, un religioso antijihadista e presidente del consiglio degli imam e predicatori del Kenya è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco davanti a una moschea. A novembre, un religioso musulmano, noto sostenitore degli sforzi del governo contro l’estremismo è stato assassinato a colpi d’arma da fuoco.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE È proseguito per l’intero anno il processo davanti all’Icc del vicepresidente William Samoei Ruto e del giornalista Joshua Arap Sang per presunti crimini contro l’umanità commessi durante la violenza po- stelettorale del 2007-2008. Il procedimento è stato guastato da presunte intimidazioni nei confronti dei testimoni, da tangenti e dal ritiro di altri testimoni. La camera processuale ha emesso mandati di comparizione nei confronti di nove testimoni della pubblica accusa, che non intendevano più deporre spontaneamente al processo. A fine anno, tre dei nove testimoni avevano rilasciato le loro deposizioni in videoconferenza da una località imprecisata di Nairobi. Il 5 dicembre, la procuratrice dell’Icc ha ritirato le imputazioni formulate contro il presidente Kenyatta. Questi era stato accusato di crimini contro l’umanità commessi durante le violenze del periodo poste- lettorale. La procuratrice ha precisato che le prove a sua disposizione erano insufficienti a suffragare la presunta responsabilità penale del presidente Kenyatta oltre ogni ragionevole dubbio. Ha inoltre dichiarato che gli sforzi compiuti dal suo ufficio per raccogliere le prove rilevanti erano stati ostacolati dalla morte di diversi testimoni chiave, dall’intimidazione dei testimoni dell’accusa che avevano portato al ritiro di almeno sette testimonianze e dalla mancata cooperazione da parte del governo keniano. Il 3 dicembre, nel rigettare la richiesta della procuratrice che chiedeva un ulteriore aggiornamento dell’udienza, la camera processuale dell’Icc ha giudicato che la condotta dell’esecutivo keniano nel caso giudiziario non aveva rispettato gli standard di cooperazione tra gli stati secondo il principio di buona fede ma si è rifiutata di rinviare un’eccezione di mancata cooperazione all’Assemblea degli stati parte. Il mandato d’arresto spiccato dall’Icc nei confronti di Walter Osapiri Barasa a fine anno non era stato ancora applicato. Il governo ha proseguito negli sforzi di screditare e indebolire l’autorità dell’Icc. A marzo, il Kenya ha presentato al Segretariato generale delle Nazioni Unite cinque proposte di emendamento allo Statuto di Roma dell’Icc, compresa la modifica dell’art. 27 per impedire all’Icc di perseguire penalmente i capi di stato e di governo ancora in carica. A novembre, in vista della 13ª sessione dell’Assemblea degli stati parte, in programma a dicembre, l’esecutivo keniano ha richiesto l’inserimento in agenda di un altro punto intitolato “Sessione speciale per discutere la condotta della Corte e dell’ufficio del procuratore”. Tale richiesta è stata respinta.

IMPUNITÀ – VIOLENZA POSTELETTORALE I perpetratori di crimini commessi durante la violenza postelettorale sono rimasti impuniti a livello

77 nazionale. A febbraio, il direttore della pubblica accusa ha annunciato che un riesame di oltre 4000 fascicoli giudiziari, relativi al periodo postelettorale, non aveva portato a convalidare alcun rinvio a giudizio a causa dell’insufficienza delle prove raccolte. A marzo, un gruppo di persone sfollate inter- namente ha protestato davanti alla sede del governo contro l’incapacità dimostrata dall’esecutivo keniano di fornire loro assistenza. Non sono stati compiuti passi concreti per istituire una sezione per i crimini internazionali presso l’Alta corte o per dare attuazione alle raccomandazioni espresse dalla commissione di verità, giustizia e riconciliazione. A fine anno rimanevano pendenti tre cause civili intentate dalle vittime e da organizzazioni della società civile contro il mancato intervento del governo nell’affrontare le varie violazioni compiute durante la violenza postelettorale. A ottobre, un partito politico d’opposizione ha presentato in parlamento un progetto di legge intitolato “Proposta legislativa per un tribunale sulla violenza postelettorale”. La bozza proponeva la creazione di un tribunale incaricato di processare i perpetratori di crimini contro l’umanità commessi durante la violenza postelettorale. Le disposizioni contenute nel documento comprendevano processi in contumacia, la pena di morte e verdetti postumi. A fine anno, la proposta di legge era ancora sotto esame.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA

Riforme del corpo di polizia Ad aprile, sono state apportate modifiche alla legge sulla commissione per il servizio di polizia nazionale, al fine di trasferire le funzioni riguardanti le risorse umane, fino ad allora di competenza della commissione sul servizio di polizia nazionale (National Police Service Commission – Npsc), al- l’autorità dell’ispettore generale della polizia. A giugno, la legge sul servizio di polizia nazionale è stata emendata per rendere l’ispettore generale della polizia totalmente responsabile in materia di comando e disciplina della polizia. Il corpo di polizia del Kenya ha operato in assenza di risorse ed equipaggiamento adeguati. Il 31 ottobre, almeno 19 poliziotti rimasti vittime di un’imboscata sono stati uccisi da banditi armati a Kapedo, nella contea di Baringo. Sono proseguiti i controlli sui poliziotti. A fine novembre, la Npsc aveva esaminato 198 agenti, 16 dei quali sono stati ritenuti inidonei a restare in servizio, principalmente per motivi legati alla corruzione. Il processo è stato ostacolato dalla mancanza di finanziamenti, dalla limitata partecipazione pubblica, e dalle dimissioni di quattro componenti chiave del comitato di controllo. Ngo locali e l’Ipoa hanno espresso dubbi che il processo fosse in grado di fare pulizia all’interno delle forze di sicurezza e per il fatto che questo non aveva tenuto in debito conto i precedenti in materia di abusi nella condotta dei poliziotti.

Violazioni dei diritti umani da parte della polizia Sono stati riscontrati episodi di uccisioni illegali, stupro e tortura o altro maltrattamento da parte della polizia. Ad agosto, una quattordicenne è rimasta uccisa a colpi d’arma da fuoco, quando otto poliziotti hanno preso d’assalto l’abitazione della sua famiglia, nell’apparente tentativo di arrestare lo zio della ragazza. Due agenti sono stati successivamente incriminati per il suo omicidio. A ottobre, una donna che si era rivolta a un posto di polizia per denunciare un’aggressione sarebbe stata stuprata da un agente. L’Ipoa ha avviato indagini sull’episodio.

78 Nel corso dell’anno, almeno due comandanti di polizia di distretti diversi hanno dichiarato pubblica- mente di aver dato istruzione agli agenti sotto il loro comando d’impiegare forza letale contro sospetti terroristi. La commissione nazionale del Kenya sui diritti umani e l’Ipoa hanno condannato le istruzioni date, in quanto illegali.

REPRESSIONE DELLE ORGANIZZAZIONI DELLA SOCIETÀ CIVILE Le autorità hanno intensificato i provvedimenti per limitare e controllare le attività delle organizzazioni della società civile. A maggio, il parlamento ha approvato un progetto di legge che proponeva emen- damenti alla legge sulle organizzazioni di pubblica utilità (Public Benefits Organizations – Pbo). A ottobre, è stata ripresentata in parlamento una precedente proposta per limitare al 15 per cento la percentuale dei finanziamenti esteri delle Ngo. A dicembre, il governo ha deregistrato e congelato i bilanci finanziari di 510 Ngo, che sosteneva non avessero adempiuto agli obblighi stabiliti dalla legge. Tra queste c’erano 15 Ngo, il cui nome è rimasto riservato, accusate di finanziare il terrorismo. Il governo ha inoltre dato un termine di 21 giorni di tempo a 10 Ngo internazionali e ad altre due locali per la presentazione dei bilanci economici rivisti.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI A febbraio, una task force istituita nel 2012 per elaborare una legge sugli sgomberi e il reinsediamento ha presentato un progetto di legge al segretario di gabinetto con delega alla terra, agli alloggi e alla pianificazione urbana. A marzo, il segretario di gabinetto ha diffuso una dichiarazione pubblica che esprimeva l’impegno di velocizzare l’approvazione di una legge sugli sgomberi. A fine anno, la proposta legislativa non era stata ancora presentata in parlamento per essere dibattuta. A ottobre, l’Alta corte ha ordinato al governo il pagamento di 33,6 milioni di scellini (pari a 390.000 dollari Usa) a titolo di risarcimento ai residenti dell’insediamento informale di City Carton, a Nairobi, i quali erano stati sgomberati con la forza dalle loro abitazioni a maggio 2013. L’Alta corte ha stabilito che il governo aveva l’obbligo di proteggere gli abitanti della baraccopoli dallo sgombero forzato da terze parti. A fine anno, l’esecutivo keniano non aveva ancora adempiuto a una serie di ordinanze scaturite da precedenti sentenze giudiziarie riguardanti il diritto all’alloggio.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE È persistita la violenza contro donne e ragazze, compresi episodi di stupri e altre forme di violenza sessuale. Nonostante l’introduzione nel 2011 di una legge che proibiva le mutilazioni genitali femminili, la pratica è proseguita in diverse parti del paese, compreso il nord del Kenya e tra le comunità etniche masai, kisii e kuria. A giugno, centinaia di donne e uomini della comunità masai hanno tenuto due distinte manifestazioni per protestare contro il divieto imposto dalla legge sulle mutilazioni genitali femminili. La polizia non ha intrapreso alcuna iniziativa contro gli amministratori locali che si erano presumibilmente resi complici di tale pratica. Ad aprile, un capo tribale è stato formalmente accusato in tribunale, dopo che due sue figlie erano state sottoposte a mutilazione genitale femminile, mentre un altro è stato incriminato per omessa denuncia in relazione ad alcuni casi di mutilazioni genitali femminili, praticati all’interno della sua area amministrativa. A novembre, a Nairobi, si sono verificati almeno cinque episodi in cui donne sono state prima svestite e poi palpeggiate da gruppi di uomini, in quanto ritenute abbigliate in maniera “indecente”. In uno di questi episodi, un agente di polizia faceva parte di un gruppo di uomini a bordo di un

79 autobus, i quali hanno prima palpeggiato e poi minacciato di stupro una donna. I perpetratori sono stati incriminati in tribunale per una serie di reati. In seguito a una manifestazione pubblica svoltasi il 17 novembre, in cui si chiedeva un’azione rapida da parte delle autorità per impedire e punire questi atti di violenza contro le donne, la polizia ha formato una squadra speciale incaricata di mo- nitorare e indagare gli episodi di denudamento pubblico di donne.

MALAWI

REPUBBLICA DEL MALAWI

Capo di stato e di governo: Arthur Peter Mutharika (subentrato a Joyce Banda a maggio)

I responsabili delle morti di due studenti avvenute nel 2011 e 2012 non sono stati assicurati alla giustizia. L’omosessualità continuava a essere considerata un reato ai sensi del codice penale, malgrado gli impegni assunti per decriminalizzare i rapporti sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso. Sono state comminate nuove condanne a morte ma non sono state effettuate esecuzioni.

CONTESTO Le elezioni politiche, tenutesi il 20 maggio, sono state oggetto di controversie e l’allora presidente Joyce Banda ha tentato di ottenere l’annullamento del voto per presunti brogli. Tuttavia, una sentenza dell’Alta corte ha assegnato la vittoria al candidato dell’opposizione Arthur Peter Mutharika, del Partito progressista democratico. Il nuovo governo doveva affrontare problematiche ormai croniche, come una grave povertà, carenze nell’erogazione dei servizi, disoccupazione di massa, accesso limitato alla giustizia, violenza di genere e matrimoni precoci di minori. Durante la cosiddetta “stagione della fame”, che ha preceduto la mietitura del 2014, più di 1,4 milioni di persone nelle aree rurali erano a rischio di malnutrizione.

VAGLIO INTERNAZIONALE A luglio, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha preso in esame il primo rapporto periodico del Malawi relativamente all’Iccpr. Tra le varie raccomandazioni espresse, il Comitato sol- lecitava l’emendamento della legge sulla commissione dei diritti umani del Malawi, al fine di garantirne la piena indipendenza, in linea con i Principi di Parigi delle Nazioni Unite. Ha inoltre rac- comandato al Malawi di allineare la legge sulle carceri agli standard internazionali; di potenziare le risorse e l’indipendenza dell’ispettorato delle carceri e prevedere strumenti per tenere costantemente presenti le sue raccomandazioni e renderle pubbliche; e di semplificare le procedure di denuncia da parte dei detenuti.

80 IMPUNITÀ Tre agenti di polizia che dovevano rispondere dell’accusa di omicidio colposo in relazione alla morte in custodia di Edson Msiska, avvenuta il 29 gennaio 2012 a Muzuzu, sono stati scagionati a luglio, dopo che i procuratori di stato non si erano presentati in tribunale; non sono state fornite giustificazioni per la loro mancata comparizione. Le accuse sono state ripristinate ad agosto. Edson Msiska, uno studente universitario, era morto in circostanze sospette quattro giorni dopo essere stato arrestato per presunto possesso di oggetti rubati. Il caso di Robert Chasowa, un attivista studentesco che era stato trovato morto in circostanze sospette a settembre 2011, è rimasto irrisolto, malgrado le raccomandazioni formulate nel 2012 dal rapporto della Commissione Chasowa, che riportava i nomi di alcuni sospettati.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Nonostante sia il precedente sia il nuovo governo si fossero impegnati a sospendere gli arresti nei casi di rapporti sessuali tra adulti consenzienti dello stesso sesso, due uomini dovevano rispondere di accuse formulate sulla base della legislazione interna che vieta l’omosessualità. I due uomini, ar- restati a maggio, a fine anno erano in attesa di giudizio. In caso di condanna, rischiavano fino a 14 anni di carcere ai lavori forzati. A luglio, la procuratrice generale e segretaria alla Giustizia, dottoressa Janet Banda, ha riferito al Co- mitato per i diritti umani che, benché gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso rimanessero un reato, questi non erano perseguiti dalle agenzie di sicurezza. Ha inoltre riferito che il processo avviato dalla commissione per gli affari legislativi del Malawi, per rivedere le norme del codice penale che criminalizzano gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso, era rimasto bloccato a causa di ristrettezze economiche. Nello specifico, la commissione per gli affari legislativi doveva pronunciarsi in merito alla costituzionalità degli artt. 137/A, 153 e 156 del codice penale, per i quali l’omosessualità era considerata un reato.

PENA DI MORTE Sono state comminate nuove condanne a morte; l’ultima esecuzione risale al 1994.

MALI

REPUBBLICA DEL MALI

Capo di stato: Ibrahim Boubacar Keïta Capo di governo: Moussa Mara (subentrato a Oumar Tatam Ly ad aprile)

Il conflitto armato interno ha continuato a generare un clima di persistente insicurezza, in particolare nel nord del paese. I gruppi armati si sono resi responsabili di abusi, come rapimenti e uccisioni. Le

81 autorità sono intervenute con scarsa determinazione nei confronti di quanti avevano commesso vio- lazioni dei diritti umani durante il conflitto armato del 2012.

CONTESTO Nonostante la firma di un accordo di pace tra il governo del Mali e diversi gruppi armati a Ouagadougou, in Burkina Faso, a giugno 2013, il nord del paese è rimasto instabile, con alcune parti fuori dal controllo delle autorità del Mali. A maggio, a Kidal, si sono susseguiti scontri violenti tra gruppi armati e l’esercito del Mali, in cui hanno perso la vita almeno 41 persone, tra cui otto civili. Il governo e i gruppi armati hanno proseguito i colloqui di pace in Algeria ma le violenze sono continuate. Il nord è stato segnato da ripetuti attentati effettuati con razzi, mine e ordigni esplosivi, che hanno causato morti e feriti tra i militari maliani e le truppe internazionali. Tra maggio e settembre, la Missione di stabilizzazione integrata multidimensionale delle Nazioni Unite in Mali (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali – Minusma) è stata attaccata più volte dai gruppi armati. A ottobre, nove peacekeeper nigeriani sono rimasti uccisi in un’imboscata al loro convoglio, organizzata da un gruppo armato tra le città di Menaka e Ansongo, nella regione di Gao, nel nordest del paese. A marzo, l’assemblea nazionale ha approvato una legge per la creazione di una commissione per la verità, la giustizia e la riconciliazione. Il documento ha inoltre istituto un’alta corte di giustizia con il compito di processare i funzionari sospettati di tradimento e di aver commesso crimini durante il loro mandato. Issaka Sidibé è stato eletto presidente dell’assemblea nazionale a gennaio. Ad aprile, il primo ministro Oumar Tatam Ly si è dimesso e il presidente Keïta ha nominato Moussa Mara alla carica di primo mi- nistro.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI Sono proseguite le indagini sugli omicidi di due giornalisti di Radio France Internationale, Ghislaine Dupont e Claude Verlon, dopo che erano stati rapiti a Kidal a novembre 2013. Sia le autorità francesi sia le loro controparti maliane hanno aperto inchieste giudiziarie. Cinque dipendenti maliani dell’Icrc sono stati presi in ostaggio a febbraio e trattenuti fino ad aprile. Il gruppo armato Movimento per l’unicità e la in Africa occidentale (Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest – Mujao) ha rivendicato la responsabilità dei rapimenti. A maggio, membri di gruppi armati hanno deliberatamente ucciso otto civili, compresi sei funzionari di governo, presso l’ufficio del governatore a Kidal, nel nord del paese. Hanno inoltre preso in ostaggio 30 persone, compresi dipendenti dell’ufficio del governatore, alcuni dei quali sono stati percossi. Gli ostaggi sono stati liberati dopo tre giorni di prigionia, al termine di negoziati con le truppe di peace- keeping delle Nazioni Unite.1 A settembre, cinque uomini della tribù tuareg sono stati rapiti da un gruppo armato nel mercato di Zouéra, una località situata a 80 km a ovest della città di Timbuctù. Quattro sono stati rilasciati pochi giorni dopo ma Hama Ag-Sidi Ahmed è stato decapitato. La sua testa è stata trovata appesa sulla piazza del mercato di Zouéra; il corpo decapitato è stato ritrovato sotto un albero nel centro della città. Serge Lazarevic, un ostaggio francese rapito a novembre 2011 a Hombori, nella regione di Mopti, è stato rilasciato a novembre. Tre componenti della stessa famiglia sarebbero stati rapiti a dicembre nei dintorni di Menaka.

82 IMPUNITÀ Il governo ha iniziato ad affrontare la questione dell’impunità facendo registrare alcuni progressi, in special modo riguardo alla sparizione forzata di oltre 20 soldati, avvenuta ad aprile 2012. A marzo è stata avviata un’indagine sulle sparizioni. Durante l’anno sono state arrestate complessivamente 28 persone, tra cui il generale Amadou Sanogo, capo della giunta militare che governò il Mali per parte del 2012, e il generale Ibrahim Dahirou Dembélé, ex capo di stato maggiore. Tutti dovevano rispondere dell’accusa di omicidio e di complicità in rapimento. Sono stati pochi i procedimenti giudiziari su casi di sparizione forzata e ci sono stati lunghi ritardi nell’assicurare alla giustizia i responsabili di violazioni dei diritti umani commesse nel contesto del conflitto. Alcuni dei casi, specialmente quello relativo alla sparizione di 11 uomini a Timbuctù, a febbraio 2013, non erano stati ancora indagati.

DIRITTI DEI MINORI Minori accusati di appartenenza a gruppi armati impegnati nel conflitto hanno continuato a essere incarcerati assieme agli adulti senza accesso ai familiari o a un legale.2 A metà dell’anno, erano almeno sette i minori detenuti insieme ad adulti nella capitale Bamako, senza le misure di protezione previste per i minori in custodia. La maggior parte doveva rispondere di appartenenza a gruppi armati e detenzione illegale di armi da fuoco e munizioni. Quattro sono stati rimessi in libertà ad agosto ma altri rimanevano in detenzione.

DECESSI IN CUSTODIA Almeno sette persone arrestate in relazione al conflitto sono morte in custodia, tra gennaio 2012 e la fine del 2014. Almeno due dei decessi si sono verificati durante l’anno a Bamako, per mancanza di cure mediche; Mohamed Ag Sana è deceduto a marzo e Ismagel Ag Achkou a maggio.

PENA DI MORTE Benché in Mali da diversi decenni non siano state più effettuate esecuzioni, i tribunali hanno continuato a comminare condanne a morte. Ad agosto, la corte d’assise di Bamako ha condannato a morte per furto aggravato e complicità Bassidiki Touré, Souleymane Diarra, Soumaila Dembélé e Almamy Traoré. Sounkodjan Diarra è stato condannato a morte per l’omicidio premeditato di un’anziana. Il suo coimputato è stato condannato all’ergastolo.

Note 1. Mali: All parties to the conflict must put an end to ongoing human rights violations (AFR 37/001/2014), www.amnesty.org/en/ library/info/AFR37/001/2014/en 2. Mali: Children still paying a high price in ongoing conflict (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press- releases/mali-children still-paying-high-price-ongoing-conflict-2014-08-20

83 MAURITANIA

REPUBBLICA ISLAMICA DI MAURITANIA

Capo di stato: generale Mohamed Ould Abdel Aziz Capo di governo: Yahya Ould Hademine (subentrato a Moulaye Ould Mohamed Laghdaf ad agosto)

Tortura e altri maltrattamenti sono stati metodi abitualmente impiegati per estorcere confessioni da detenuti e come forma di punizione nelle carceri. È persistita la schiavitù, con intere generazioni di famiglie, in particolare donne e ragazze, mantenute in questa condizione. Le autorità hanno imposto restrizioni alle libertà d’espressione e riunione e difensori dei diritti umani sono stati vittime di vessazioni e intimidazioni.

CONTESTO Il presidente Aziz è stato rieletto per un secondo mandato quinquennale a giugno, ottenendo più dell’80 per cento dei voti. La commissione elettorale nazionale indipendente (Commission electorale nationale indépendante – Ceni) ha ricevuto le denunce di altri quattro candidati che contestavano il suddetto ri- sultato. A gennaio, il presidente Aziz è stato inoltre eletto come presidente dell’Au per un anno.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Prigionieri di ogni età, status e genere sono stati a rischio di tortura e altri maltrattamenti. Donne, minori, prigionieri omosessuali, prigionieri politici e condannati per reati comuni hanno dichiarato ad Amnesty International di essere stati sottoposti a tortura e altri maltrattamenti da parte delle forze di sicurezza. Benché questi metodi siano stati principalmente impiegati per estorcere “confessioni” ai detenuti, tortura e altri maltrattamenti sono stati anche impiegati come punizione nelle carceri. Il ricorso alla tortura è stato facilitato da leggi che consentivano di trattenere i detenuti in custodia di polizia fino a 45 giorni se sospettati di reati inerenti la sicurezza nazionale. Tale limite è stato abi- tualmente superato. Le denunce di tortura presentate a un giudice o alla polizia non sono state seguite da alcun tipo di provvedimento. Tra i metodi di tortura riferiti c’erano percosse abituali, anche tramite l’impiego di manganelli; l’essere picchiati sul dorso, ammanettati mani e piedi dietro la schiena; l’essere costretti in posizione accovacciata per lunghi periodi; l’essere tenuti sospesi tra due serbatoi d’acqua con una barra di ferro posizionata in mezzo alle ginocchia. I detenuti hanno riferito di essere stati costretti a firmare dichiarazioni senza poterle prima leggere.

SCHIAVITÙ Nonostante l’adozione di norme legislative che contemplavano il reato di schiavitù e la creazione a dicembre 2013 di un tribunale speciale incaricato di esaminare i casi giudiziari inerenti la schiavitù, nella pratica l’applicazione della legislazione in materia ha continuato a essere scarsa.

84 Le cause giudiziarie sono state soggette a lunghi ritardi. Tra il 2010 e la fine del 2014, almeno sei fa- scicoli riguardanti il reato di schiavitù erano stati sottoposti al pubblico ministero ma non c’erano ancora state sentenze in merito. A marzo, il governo ha approvato una strategia finalizzata a sradicare la schiavitù. Le sue 29 racco- mandazioni comprendevano emendamenti alla legislazione del 2007 contro la schiavitù, al fine d’in- serire ulteriori forme di questa pratica come la schiavitù ereditaria, il vincolo da debito e i matrimoni precoci. Raccomandava inoltre che la legislazione del 2007 prevedesse programmi di reintegro per persone liberate dalla schiavitù e auspicava iniziative d’informazione e sensibilizzazione che spiegassero che la schiavitù è un reato punito dalla legge. A maggio, uno schiavista è stato denunciato nella regione di Echemin, per aver ridotto in schiavitù una ragazza di 15 anni, MBeirika Mint M’Bareck. È stato incriminato per sfruttamento di minore ma organizzazioni per la tutela dei diritti umani hanno chiesto che il capo d’imputazione fosse invece re- lativo alla schiavitù. Quando a giugno MBeirika Mint M’Bareck è stata affrancata, il pubblico ministero l’ha accusata di zina (rapporto sessuale illecito), in quanto la ragazza era rimasta incinta. Le accuse sono poi cadute. A fine anno, la madre e due sorelle della ragazza si trovavano ancora in condizione di schiavitù nella città di Azamat, vicino al confine con il Mali. Sempre a maggio, l’organizzazione antischiavista Iniziativa per la rinascita del movimento abolizionista in Mauritania (Initiative pour la résurgence du mouvement abolitionniste en Mauritanie – Ira) ha riferito che una donna e i suoi cinque figli si trovavano in schiavitù a Ould Ramy, vicino a Wembou, nel sud-ovest del paese. Il caso è stato rinviato alla polizia, che ha interrogato i rappresentanti dell’Ira, sostenendo che si trattava di un’organizzazione non riconosciuta. Sono stati inviati gendarmi con l’incarico d’indagare sulla questione ma a fine anno non c’erano stati progressi.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E RIUNIONE Sono state imposte molteplici limitazioni ai diritti alla libertà di riunione e d’espressione. A marzo, si sono svolte manifestazioni in diverse città, tra cui Nouakchott, Kiffa e Aioun contro un atto di profanazione del Corano da parte di uomini non identificati. Le forze di sicurezza di Nouakchott hanno impiegato gas lacrimogeni, provocando numerosi feriti e la morte per soffocamento di uno studente che manifestava. Il governo, a marzo, ha chiuso diversi enti islamici di beneficenza, impegnati in ambito sanitario e scolastico, e ha messo i sigilli ai loro uffici. Non sono state fornite spiegazioni ufficiali per il provve- dimento ma il governo accusava queste organizzazioni di lavorare al di fuori dei limiti della loro mis- sione.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Difensori dei diritti umani e altri attivisti hanno affrontato vessazioni e intimidazioni, comprese minacce di morte. Le autorità di polizia e giudiziarie non hanno provveduto ad assicurare alla giustizia i responsabili di tali azioni. Il membro dell’Ira Cheikh Ould Vall è stato arrestato a febbraio senza un mandato. È rimasto in stato di fermo per tre giorni, quindi rilasciato e riarrestato una settimana dopo, a quanto pare per aver fornito assistenza alla madre in una causa giudiziaria riguardante una disputa su un terreno. È stato condannato a un anno di reclusione ad aprile, con sospensione della pena per sei mesi. Doveva essere rilasciato ad agosto ma a fine anno si trovava ancora in carcere.

85 A giugno, Aminetou Mint El Moctar, presidente dell’Associazione delle donne capofamiglia (Association des femmes chefs de familles – Afcf), è incorsa in una fatwa (decreto religioso) che comprendeva minacce di morte. Non si è a conoscenza d’iniziative da parte delle autorità per far luce sul caso.1 Le minacce sono state avanzate dopo che Aminetou Mint El Moctar aveva invocato un processo equo per Cheikh Ould Mkheitir, arrestato a gennaio per aver pubblicato un articolo ritenuto blasfemo e detenuto nel carcere di Nouadhibou, nel nord della Mauritania. Doveva rispondere dell’accusa di apostasia, un reato che nel caso di un verdetto di colpevolezza poteva comportare la pena di morte. A settembre e novembre, almeno 10 attivisti contro la schiavitù, tra cui Biram Ould Dah Ould Abeid, presidente dell’Ira, sono stati arrestati a Nouakchott e Rosso. A fine anno, gli attivisti erano trattenuti in differenti centri di detenzione nel paese con varie accuse, incluso il disturbo dell’ordine pubblico.2

SPARIZIONI FORZATE Dei 14 uomini giudicati colpevoli di reati in materia di terrorismo, vittime di sparizione forzata nel 2011, uno è morto in detenzione a maggio, mentre gli altri 13 sono stati trasferiti nel carcere centrale di Nouakchott, a maggio e luglio. Maarouf Ould Haiba, condannato a morte nel 2010 per l’omicidio di turisti francesi e quindi trattenuto in incommunicado, è deceduto a maggio mentre era in custodia nel centro non ufficiale di detenzione Salah Eddin. Prima della morte, era stato trasportato diverse volte in un ospedale militare. Malgrado il decesso fosse avvenuto in circostanze poco chiare, non è stata aperta alcuna inchiesta. Il centro di Salah Eddin, situato nel nord del paese, è stato chiuso a luglio. I prigionieri rimasti sono stati trasferiti nel carcere centrale di Nouakchott.

Note 1. Mauritania: Human rights defender threatened, life at risk: Aminetou Mint El Moctar (AFR 38/002/2014), www.amnesty.org/ en/library/info/AFR38/002/2014/en 2. Mauritania must end clamp down on anti-slavery activists (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/mauritania-must-end-clamp-down-anti-slavery-activists-2014-11-12

MOZAMBICO

REPUBBLICA DEL MOZAMBICO

Capo di stato e di governo: Filipe Jacinto Nyussi (subentrato ad Armando Guebuza a ottobre)

La polizia ha fatto uso illegale della forza e di armi da fuoco provocando alcune morti. Opinioni critiche contro il presidente Guebuza apparse su Facebook hanno portato all’incriminazione di una persona. Il parlamento ha approvato disegni di legge che avrebbero un impatto su diritti di donne e ragazze ma che non sono state ancora convertite in legge.

86 CONTESTO Il 23 maggio, Afonso Dhlakama, leader della Resistenza nazionale del Mozambico (Resistência Nacional Moçambicana – Renamo), ha dichiarato che si sarebbe candidato alle elezioni presidenziali. A settembre è ritornato nella capitale Maputo e ha firmato un accordo di pace con il presidente Armando Guebuza. Afonso Dhlakama era entrato in clandestinità a ottobre 2013, quando le forze armate del Mozambico (Forças armadas de defesa de Moçambique – Fadm) avevano invaso la sua base a Satunjira, nella provincia di Sofala. L’accordo di pace siglato a settembre ha messo fine a due anni di scontri tra i combattenti della Renamo e le Fadm, oltre che agli attentati da parte di combattenti della Renamo contro autobus e automobili sulla principale via di scorrimento del paese. Gli scontri hanno provocato la morte di decine di persone, compresi civili. Il 15 ottobre, il Mozambico ha tenuto le quinte elezioni presidenziali dalla sua indipendenza nel 1975. Il partito al governo, Fronte per la liberazione del Mozambico (Frente da libertação de Moçambique – Frelimo) ha mantenuto il potere e l’ex ministro della Difesa, Filipe Jacinto Nyussi, è divenuto il terzo presidente del Mozambico democraticamente eletto. La situazione dei diritti umani del Mozambico è stata analizzata durante la 55ª sessione ordinaria della Commissione africana sui diritti umani e dei popoli, ospitata dall’Angola a Luanda dal 28 aprile al 12 maggio.1

UCCISIONI ILLEGALI Secondo le notizie riportate, la polizia ha impiegato illegalmente armi da fuoco a Maputo, nelle province di Gaza e Nampula, provocando la morte di almeno quattro persone. A quanto pare, su questi casi non sarebbero state avviate indagini per determinare la legittimità dell’impiego di armi da fuoco da parte della polizia. A gennaio, la polizia ha fatto fuoco uccidendo il ventiseienne Ribeiro João Nhassengo e un’altra persona. Un portavoce della polizia ha sostenuto che gli agenti avevano risposto a una telefonata anonima in merito ad alcune auto ferme davanti a un negozio nel quartiere di Trifuno, a Maputo, nelle prime ore del mattino del 29 gennaio e che avevano trovato gli uomini a bordo di due auto con una presunta vittima di rapimento. Il portavoce ha dichiarato che i sospettati avevano lasciato andare la vittima ma che ne era seguito uno scontro a fuoco. Stando ai resoconti, Ribeiro João Nhassengo e un’altra persona disarmata erano rimasti colpiti dal fuoco incrociato. Tuttavia, una sequenza filmata dell’episodio mostrava che Ribeiro João Nhassengo era stato colpito e ucciso mentre era all’interno di un’auto con i finestrini chiusi. Non sono state avviate indagini sulle circostanze dei decessi, al fine di determinare la legittimità dell’impiego di armi da fuoco da parte dei poliziotti.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Sono stati segnalati episodi di uso eccessivo della forza da parte della polizia contro presunti sospetti criminali, ritenuti dagli agenti combattenti della Renamo, oltre che contro civili disarmati. Il 21 giugno, nel quartiere centrale di Maputo, un poliziotto armato ha sparato a un veicolo in seguito a una lite riguardante una manovra stradale illecita. Secondo le notizie, l’agente della polizia della Repubblica del Mozambico (Policia da Republica de Moçambique – Prm) ha fermato il guidatore intorno alle 20 e lo ha interrogato circa la manovra illecita. Quando il guidatore ha chiesto di chiamare un agente della polizia stradale per fargli una multa, il poliziotto avrebbe minacciato di ucciderlo. Ne era seguito un alterco e il poliziotto avrebbe sparato tre colpi contro l’auto.

87 LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Ad agosto, il parlamento ha approvato provvisoriamente il progetto di legge sull’accesso all’informa- zione, che era in discussione dal 2005. A fine anno, il documento doveva ancora ottenere l’ulteriore approvazione del parlamento e la promulgazione del presidente. Nonostante questo passo positivo, il diritto alla libertà d’espressione ha subito limitazioni. A maggio, l’economista Carlos Nuno Castelo-Branco è stato convocato presso l’ufficio del procuratore generale a Maputo, per rispondere ad alcune domande relative ad accuse formulate a suo carico per diffamazione contro il capo dello stato, un’imputazione che costituisce un reato contro la sicurezza dello stato. Le accuse scaturivano da una lettera aperta che Carlos Nuno Castelo-Branco aveva postato sulla propria pagina Facebook a novembre 2013, in cui metteva in discussione la governance del paese da parte del presidente Guebuza. La lettera aperta era stata successivamente pubblicata da alcuni giornali nel paese. A fine anno non erano note altre azioni giudiziarie.

DIRITTI DI DONNE E RAGAZZE A luglio, il parlamento ha approvato la bozza del codice penale senza un controverso articolo che avrebbe consentito agli stupratori di eludere la giustizia se sposavano la loro vittima. Attivisti per i diritti umani avevano intrapreso una campagna contro l’inserimento di questo articolo.2 La bozza approvata dal parlamento inoltre non rendeva necessaria una denuncia formale da parte delle vittime nei casi di reati sessuali commessi ai danni di persone al di sotto dei 16 anni d’età, per poter avviare un procedimento penale. Era comunque necessaria una denuncia formale da parte di ogni altra vittima di reati sessuali per poter istruire un’azione giudiziaria penale. In ogni caso, è stato mantenuto un articolo riguardante lo stupro di minori, laddove per minore s’intendeva inferiore ai 12 anni d’età. A fine anno, la bozza di legge era ancora in attesa di promulgazione da parte del presidente.

Note 1. Statement on prison conditions to the African Commission on Human and Peoples’ Rights (AFR 01/008/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR01/008/2014/en Mozambique: Submission to the African Commission on Human and Peoples’ Rights: 54th Ordinary Session of the African Commission on Human and Peoples’ Rights (AFR 41/007/2013), www.amnesty.org/en/library/info/AFR41/007/2013/en 2. Mozambique: New Criminal Code puts women’s rights at risk (AFR 41/001/2014), www.amnesty.org/en/library/ asset/AFR41/001/2014/pt/f5d3b8a2-45e5-460d-bab0-e1d4582158aa/afr410012014en.html

88 NAMIBIA

REPUBBLICA DI NAMIBIA

Capo di stato: Hifikipunye Pohamba Capo di governo: Hage Geingob

È proseguito l’annoso processo per tradimento dei detenuti di Caprivi, la maggior parte dei quali aveva ormai trascorso più di 14 anni in custodia. La linea politica di non offrire protezione ai rifugiati perseguitati a causa del loro orientamento sessuale è stata impugnata da un richiedente asilo del- l’Uganda. Sono persistite le preoccupazioni relative alla violenza di genere.

CONTESTO Il 28 novembre si sono tenute le elezioni politiche. L’Organizzazione popolare dell’Africa Sudoccidentale (South West Africa People’s Organization – Swapo) ha ottenuto l’87 per cento del voto per il presidente e l’80 per cento per l’assemblea nazionale.

DETENUTI DEL PROCESSO DI CAPRIVI Sessantacinque uomini, imputati nel processo per alto tradimento di Caprivi, sono rimasti in detenzione per rispondere di 278 capi d’accusa, tra cui alto tradimento, sedizione, omicidio e tentato omicidio. Altri 43 detenuti di Caprivi erano stati prosciolti l’11 febbraio 2013. Alcuni dei prigionieri di coscienza rilasciati hanno citato per danni il governo. Per nove detenuti, che erano stati processati separatamente ed erano stati giudicati colpevoli dall’Alta corte, è stata decisa la sospensione del verdetto e i loro casi sono stati rinviati nuovamente al giudizio dell’Alta corte per un nuovo processo. Otto degli accusati hanno sostenuto di essere stati vittime di rapimento da parte di agenti statali in Botswana e quindi trasferiti illegalmente in Namibia, in varie date tra settembre 2002 e dicembre 2013. Molti dei detenuti di Caprivi erano possibili prigionieri di coscienza, in quanto arrestati unicamente sulla base delle loro reali o percepite opinioni politiche, per motivi etnici o in quanto appartenenti a determinate organizzazioni. Il gruppo era processato secondo quella che è conosciuta come la dottrina “dell’obiettivo comune”, che sposta l’onere della prova dalla pubblica accusa agli imputati e com- promette il diritto alla presunzione d’innocenza. Un altro uomo era sotto processo separatamente ma a fine anno il procedimento a suo carico non era ancora concluso.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Ad aprile, il commissario namibiano per i rifugiati, Nkrumah Mushelenga, avrebbe dichiarato alla stampa che “la legislazione interna [della Namibia] sui rifugiati non conteneva alcuna disposizione che garantisse lo status di rifugiato per motivi legati all’essere gay”. Tuttavia, la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati e il relativo Protocollo del 1967, di cui la Namibia è firmataria, vietano espressamente alla Namibia di rimpatriare i rifugiati a rischio di persecuzione nei loro paesi d’origine in quanto appartenenti a un gruppo sociale per il quale esistono fondati timori di persecuzione.

89 Ad agosto, a un richiedente asilo ugandese è stata concessa la sospensione con provvedimento d’ur- genza dell’ordine di espulsione dalla Namibia. Egli aveva presentato richiesta di asilo per timore di essere perseguitato nel suo paese a causa del suo orientamento sessuale. L’uomo, che si definiva gay, era detenuto a Walvis Bay ed era in attesa di essere rimandato in Uganda, dove era stata da poco adottata una legge che rendeva reato l’omosessualità (benché questa sia stata in seguito inva- lidata dalla Corte costituzionale dell’Uganda).

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Il 27 agosto, una manifestante disarmata, Frieda Ndatipo, è morta sotto i colpi sparati dalla polizia durante una manifestazione davanti alla sede principale del partito della Swapo. La donna aveva preso parte a una protesta organizzata da Children of the Liberation Struggle, un gruppo di pressione costituitosi per chiedere al governo sussidi e lavoro per i figli dei membri della Swapo morti in esilio prima dell’indipendenza del paese.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Sono persistite le gravi preoccupazioni per la violenza di genere. Il governo ha dichiarato il 6 marzo giornata nazionale di preghiera per l’azione contro la violenza di genere. Tra le varie raccomandazioni contenute in un rapporto pubblicato dall’agenzia Unaids e dall’Ngo namibiana Victim 2 Survivors, c’era il riconoscimento della violenza di genere come emergenza nazionale, l’attuazione di un piano d’azione nazionale sulla violenza di genere e la partecipazione attiva di ogni settore della società, tra cui governo, camere legislative, magistratura, società civile, autorità tribali, organizzazioni religiose, mezzi d’informazione, settore privato e membri delle comunità.

NIGER

REPUBBLICA DEL NIGER

Capo di stato: Mahamadou Issoufou Capo di governo: Brigi Rafini

Il nuovo governo nominato ad agosto 2013 comprendeva esponenti dell’opposizione; ma alcuni hanno in seguito rassegnato le dimissioni per protesta contro la sotto rappresentazione della loro parte politica. Il governo ha applicato rigide misure di sicurezza in materia di antiterrorismo, imponendo tra l’altro restrizioni di movimento in determinati quartieri della capitale Niamey, dove avevano sede le ambasciate estere. A fine anno, il Niger ospitava oltre 57.000 rifugiati, comprese 16.000 persone a causa del conflitto in Mali del 2013 e della violenza in corso nel nordest della Nigeria.

SVILUPPI LEGISLATIVI, COSTITUZIONALI E ISTITUZIONALI A maggio, oltre 30 membri dell’opposizione politica del Movimento democratico nigerino per una

90 federazione africana (Mouvement démocratique nigérien pour une fédération africaine – Moden/Fa Lumana) sono stati arrestati. I fermi sono avvenuti in relazione a un’inchiesta sugli spari esplosi contro l’abitazione di un deputato del partito al potere, Partito nigerino per la democrazia e il so- cialismo (Parti nigérien pour la démocratie et le socialisme – Pnds), e di una bomba incendiaria molotov contro la sede centrale del partito. Sono rimasti detenuti per periodi da due settimane e tre mesi e incriminati per attentato all’autorità dello stato. A fine anno, il processo non era ancora iniziato.

CONFLITTO ARMATO Gruppi armati, compreso il Movimento per l’unicità e la jihad in Africa occidentale (Mouvement pour l’unicité et le Jihad en Afrique de l’ouest – Mujao) e Boko haram hanno perpetrato attacchi in varie parti del paese nel corso del 2013 e 2014, compresi attacchi contro civili. A ottobre, gruppi armati hanno lanciato una serie di attentati concomitanti a un posto di guardia del campo per rifugiati del Mali di Mangaïzé, al carcere di Ouallam e a una pattuglia militare a Bani Bangou, tutti nella regione di Tillabéry, vicino al confine con il Mali. Almeno nove membri delle forze di sicurezza sono rimasti uccisi.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA A maggio si è svolta una manifestazione studentesca contro i ritardi nell’erogazione delle borse di studio. La polizia è ricorsa a un uso eccessivo della forza per reprimere la protesta. Almeno 30 studenti sono rimasti feriti e 72 sono stati arrestati e rilasciati dopo 19 giorni di detenzione. È stato iniziato uno sciopero della fame per protestare contro gli arresti. Gli studenti sono stati incriminati per atti vandalici e attacchi contro la proprietà pubblica e a fine anno erano in libertà su cauzione.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE – DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI E GIORNALISTI A gennaio, due giornalisti, tra cui Soumana Idrissa Maïga, direttore del quotidiano privato L’Enquêteur, sono rimasti in stato di fermo per 96 ore a Niamey, accusati di complotto contro la sicurezza dello stato, in seguito alla pubblicazione di un editoriale secondo cui alcune persone andavano dicendo che l’amministrazione aveva ormai i giorni contati. A fine anno il processo non era stato ancora istruito. A luglio, Ali Idrissa, coordinatore della rete associazionistica Pubblica quello che paghi, è stato sot- toposto due volte a fermo di polizia in seguito a una conferenza stampa durante la quale aveva sol- lecitato la società mineraria Areva a rispettare la legislazione nigerina riguardo alle risorse minerarie e aveva denunciato alcuni aspetti dei rapporti franco-nigerini definendoli neocolonialistici. Anche altri 10 esponenti di primo piano della società civile sono stati arrestati a Niamey il 18 luglio e rilasciati la sera dello stesso giorno.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE A marzo, il figlio del colonnello Mu’ammar al-Gaddafi, Saadi al-Gaddafi, è stato estradato in Libia. Si trovava in Niger per “motivi umanitari” dal settembre 2012. Sono stati espressi forti dubbi circa la capacità delle autorità libiche di garantire un equo processo davanti a un tribunale civile in questo e in altri casi giudiziari simili riguardanti lealisti di al-Gaddafi e per il fatto che il suo processo avrebbe potuto comportare la pena di morte.

91 NIGERIA

REPUBBLICA FEDERALE DELLA NIGERIA

Capo di stato e di governo: Goodluck Ebele Jonathan

Entrambe le parti in conflitto, l’esercito militare nigeriano e il gruppo armato Boko haram, hanno com- messo crimini di diritto internazionale e gravi violazioni dei diritti umani e abusi in un crescendo di violenza che ha segnato l’intero anno. Episodi di tortura e altri maltrattamenti da parte della polizia e delle forze di sicurezza sono stati frequenti. È entrata in vigore una legge che criminalizzava il matrimonio o l’unione civile e le manifestazione d’affetto in pubblico per le coppie omosessuali. Sono state imposte restrizioni alla libertà d’espressione. È proseguita l’applicazione della pena di morte.

CONTESTO L’anno è stato dominato da una serie di eventi rilevanti, tra cui i preparativi in vista delle elezioni ge- nerali previste a febbraio 2015, una conferenza di cinque mesi che ha visto riuniti esponenti politici e personalità pubbliche e il conflitto tra le forze governative e Boko haram. Il partito di governo, Partito democratico popolare (People’s Democratic Party – Pdp) e il Congresso di tutti i progressisti (All Progressive Congress – Apc), formato a febbraio 2013 dalla fusione di diversi partiti d’opposizione, sono stati i principali partiti politici impegnati in campagna elettorale in vista delle elezioni del 2015. Tra gennaio e luglio, nello stato di Rivers ci sono stati scontri tra sostenitori e oppositori del go- vernatore Rotimi Amaechi, fuoriuscito dall’Apc a fine 2013. Il percepito sbilanciamento della polizia a favore del Pdp nella gestione delle proteste ha attirato molte critiche. Organizzazioni della società civile hanno denunciato che esponenti politici avevano iniziato ad armare i loro sostenitori. Tra marzo e agosto, quasi 500 personalità pubbliche si sono riunite per discutere sulla situazione della Nigeria. Il processo, nominato “conferenza nazionale”, ha raccomandato oltre 600 riforme in materia costituzionale, legislativa e politica, tra cui la creazione di nuovi stati e un aumento della percentuale delle entrate governative destinate ai governi statali. Un collegio presidenziale formato da sette membri stava considerando il rapporto conclusivo della conferenza e si attendevano i suoi suggerimenti al governo su come dare attuazione alle raccomandazioni. Boko haram ha aumentato gli attacchi nel nord-est del paese, conquistando importanti città in tre stati. Lo stato d’emergenza proclamato a Adamawa, Borno e Yobe, gli stati maggiormente colpiti dalla violenza, è stato prorogato a maggio ma non rinnovato a novembre.

CONFLITTO ARMATO

Boko haram Gli attacchi violenti del gruppo armato Boko haram contro obiettivi governativi e civili sono andati in- tensificandosi durante l’anno. Da luglio in poi, Boko haram ha preso e occupato oltre 20 città

92 nell’intero territorio degli stati di Adamawa, Borno e Yobe, prendendo di mira e uccidendo migliaia di civili nelle città del nord-est del paese, nelle zone che erano cadute sotto il suo controllo, e in attentati dinamitardi compiuti nell’intera nazione. Durante gli attacchi alle città, Boko haram ha spesso rapito giovani donne e bambine, compreso un gruppo di 276 ragazze nella città di Chibok, ad aprile. Boko haram ha costretto donne e ragazze rapite a sposare uomini reclutati con la forza e ha torturato le persone sotto il suo controllo che avevano violato le regole imposte dal gruppo armato. Ha inoltre saccheggiato mercati, negozi e abitazioni private e preso deliberatamente di mira scuole e altri edifici civili. Alcune di queste azioni hanno costituito crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Le autorità non hanno provveduto a indagare opportunamente sulle uccisioni e sui rapimenti, ad assi- curarne alla giustizia i perpetratori o a impedire ulteriori attacchi. Il 25 febbraio, almeno 43 persone sono state uccise a colpi d’arma da fuoco da uomini armati di Boko haram in un attacco a una scuola di Buni Yadi, nello stato di Yobe. Tra le vittime dell’attacco c’erano molti studenti. Il 14 aprile e il 1° maggio, Boko haram ha fatto esplodere due autobombe a Nyanya, una località alla periferia della capitale Abuja, uccidendo più di 70 persone nel primo attentato e 19 nel secondo, con oltre 60 persone rimaste ferite. Sempre il 14 aprile, 276 ragazze sono state rapite da Boko haram mentre si trovavano nella scuola secondaria femminile statale di Chibok, nello stato di Borno. Le forze di sicurezza nigeriane erano state avvertite quattro ore prima dell’imminente attacco a Chibok ma non erano intervenute. Il 5 maggio, Boko haram ha ucciso almeno 393 persone in un attacco a Gamborou, nello stato di Borno. La stragrande maggioranza delle vittime erano civili. Boko haram ha bruciato bancarelle del mercato, veicoli e abitazioni private e negozi situati nelle vicinanze. Il 6 agosto, Boko haram ha conquistato la città di Gwoza, uccidendo almeno 600 civili; anche se diverse parlavano di un numero di vittime superiore. Boko haram ha attaccato e conquistato la città di Bama il 1° settembre, uccidendo oltre 50 civili. Se- condo testimoni oculari, il gruppo ha fatto prigionieri almeno 300 uomini, in seguito uccisi, e costretto 30 donne a sposare i propri membri. Il 28 novembre, tre bombe sono esplose davanti a una moschea nella città di Kano e uomini armati, sospettati di essere combattenti di Boko haram, hanno sparato sulla folla. Nell’attacco sono morte almeno 81 persone. Boko haram ha ucciso 24 persone e rapito più di 110 bambini e giovani donne e uomini, in due attacchi compiuti contro il villaggio di Gumsuri, il 12 e 14 dicembre.

Forze di sicurezza Nel rispondere a Boko haram, le forze di sicurezza nigeriane hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani e atti tali da configurarsi come crimini di diritto internazionale. Nel nord-est della Nigeria sono proseguiti gli arresti arbitrari da parte dei militari. Secondo quanto si è appreso, l’esercito nigeriano entrava nelle comunità e costringeva gli uomini a sedersi fuori di fronte a un informatore incaricato d’identificare i sospetti membri di Boko haram. Quelli che venivano individuati erano arrestati dai militari. A novembre, l’esercito nigeriano ha rilasciato dalla custodia almeno 167 detenuti, una percentuale minima rispetto al numero complessivo degli arrestati. Ai reclusi è stato negato l’accesso al mondo esterno, compresi avvocati, tribunali e familiari; la loro detenzione era al di fuori delle salvaguardie previste dalla legge. Spesso, i detenuti non sono stati in-

93 formati delle motivazioni del loro arresto; inoltre, alle famiglie non è stato comunicato il luogo dove si trovavano i loro congiunti o che cosa ne era stato di loro. A fine anno, pochi, per non dire quasi nessuno, di coloro che erano stati arrestati dai militari erano stati condotti di fronte a un giudice o messi in grado di contestare la legittimità della loro detenzione. Molti dei detenuti sarebbero stati sottoposti a tortura e altri maltrattamenti, mentre venivano interrogati o come forma di punizione. Nelle strutture di detenzione gestite dall’esercito sono proseguiti i decessi in seguito a tortura o per le condizioni di detenzione estremamente dure. Il 14 marzo, uomini armati di Boko haram hanno attaccato la caserma militare di Giwa, nella cittadina di Maiduguri, liberando varie centinaia di detenuti. I testimoni hanno affermato che mentre i militari riconquistavano il controllo della caserma, più di 640 persone, per lo più detenuti ricatturati disarmati, sono state sottoposte a esecuzione extragiudiziale in varie località di Maiduguri e nelle zone limitrofe. Una di queste esecuzioni, ripresa in un filmato, mostrava alcune persone, apparentemente militari nigeriani e membri della task torce congiunta “civile” (“civilian” Joint Task Force – “civilian” Jtf), mentre con una lama tagliavano la gola a cinque detenuti, per poi scaricarli in una fossa comune scoperta. Secondo i testimoni, le persone uccise in questo modo sono state nove, mentre altri detenuti che comparivano nel filmato sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco. Il governo ha annunciato indagini sugli eventi occorsi il 14 marzo. Tuttavia, a fine anno non era stato ancora reso noto il mandato dei comitati d’inchiesta, né la loro composizione o scadenza entro cui avrebbero dovuto completare le indagini. Le forze di sicurezza nigeriane hanno ripetutamente messo in atto esecuzioni extragiudiziali, spesso dopo un’accurata operazione di “selezione” dei sospettati. Per citare un esempio, il 23 luglio 2013, le forze armate nigeriane e la Jtf “civile” sono entrati nel mercato generale di Bama e hanno detto agli uomini adulti nelle vicinanze di radunarsi in un’area e togliersi i vestiti. Gli uomini sono stati divisi in due gruppi apparentemente del tutto a caso: quelli del primo gruppo, circa 35 uomini, sono stati identificati membri di Boko haram e un altro gruppo di circa 300 uomini sono stati ritenuti innocenti. Un video mostrava coloro che erano stati ritenuti membri di Boko haram stesi per terra uno accanto all’altro mentre venivano percossi con bastoni e machete da membri dell’esercito e della Jtf “civile”. Testimoni oculari hanno confermato che i 35 fatti prigionieri sono stati poi caricati su un unico mezzo militare e portati via verso la locale caserma militare a Bama. Nel pomeriggio del 29 luglio, personale militare ha fatto uscire gli uomini dalla caserma e li ha riportati indietro alle loro comunità, dove li hanno finiti a colpi d’arma da fuoco, a gruppi, per poi scaricare i loro corpi. Tutti i 35 prigionieri sono stati uccisi.

RIFUGIATI E SFOLLATI INTERNI La situazione umanitaria nel nord-est del paese è andata progressivamente deteriorandosi in seguito alle violenze. A partire da maggio 2013, almeno 1,5 milioni di persone, principalmente donne, bambini e persone anziane, sono state costrette a fuggire in altre parti della Nigeria o a cercare riparo nei paesi vicini. Le famiglie sono state separate, i bambini non hanno potuto frequentare la scuola e molte persone non avevano di che vivere. Le comunità ospitanti, le autorità di governo e le organizzazioni internazionali hanno fatto di tutto per far fronte alle necessità umanitarie delle persone sfollate. Due città, Maidiguri e Biu, hanno registrato l’insorgenza di focolai di colera nei campi per sfollati interni, che hanno provocato la morte di oltre 100 persone.

94 TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI La tortura è rimasta una pratica diffusa e sistematica presso i reparti della polizia e dell’esercito ni- geriani, dove ci sono stati innumerevoli casi di persone torturate o altrimenti maltrattate, sia fisicamente sia psicologicamente. In tutto il paese, sospettati in custodia di polizia o militare sono stati sottoposti a tortura come forma di punizione o per estorcere loro “confessioni”, soprattutto quando erano implicati in casi di rapina a mano armata e omicidio o legati a Boko haram. Molti reparti della polizia di diversi stati, compresa la squadra speciale antirapina (Special Anti- Robbery Squad – Sars) e il reparto investigativo criminale (Criminal Investigation Division – Cid), erano dotati di “camere di tortura” che utilizzavano durante gli interrogatori dei sospettati. Arresti arbitrari e detenzioni in incommunicado erano la norma. Le donne detenute per reati comuni, donne parenti di sospetti criminali, lavoratrici del mercato del sesso o donne ritenute tali hanno spesso subito stupri e altre violenze sessuali da parte dei poliziotti. Minori al di sotto dei 18 anni sono stati inoltre detenuti e torturati o altrimenti maltrattati nelle stazioni di polizia.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO A marzo, di fronte al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, la Nigeria ha riaffermato il proprio impegno rispetto agli obblighi internazionali sui diritti umani a rispettare il diritto a un alloggio adeguato e a un rimedio legale efficace. Malgrado ciò, il governo dello stato di Lagos ha violato il diritto a un efficace rimedio legale a quasi 9000 persone colpite da uno sgombero forzato a Badia Est, nello stato di Lagos, avvenuto a febbraio 2013.1 In seguito alle crescenti pressioni e dopo aver reso senza tetto migliaia di persone nell’arco di oltre un anno, il governo dello stato di Lagos ha fornito ad alcune persone colpite dallo sgombero limitati sussidi economici, invece di adeguati risar- cimenti per le perdite subite. Inoltre, per ottenere i sussidi, il governo richiedeva agli interessati di firmare una documentazione che di fatto avrebbe impedito loro di accedere a ulteriori rimedi legali. A giugno, la Corte dell’Ecowas ha assegnato una cifra pari a circa 70.000 dollari Usa per danni ai membri della comunità bundu, in relazione a un episodio occorso il 12 ottobre 2009, quando le forze di sicurezza avevano aperto il fuoco contro manifestanti disarmati in un insediamento informale a Port Harcourt, uccidendone uno e ferendone altri 12. I manifestanti stavano protestando contro il pro- getto di demolizione delle loro abitazioni. La Corte ha ritenuto che l’impiego di armi da fuoco non era giustificato e che il governo aveva violato il proprio obbligo di tutelare e rispettare il diritto di pacifica associazione e riunione.

SISTEMA GIUDIZIARIO Il sistema di giustizia penale è rimasto sottofinanziato, segnato dalla corruzione e guardato con generale diffidenza. Le forze di sicurezza spesso hanno effettuato retate di arresti invece di procedere individualmente a fermare i sospettati sulla base d’indizi ragionevolmente fondati. Le persone sospettate sono state regolarmente sottoposte a trattamento disumano e degradante durante la loro detenzione. Negli ultimi 10 anni, sono stati istituiti almeno cinque comitati presidenziali e gruppi di lavoro sulle riforme da attuare nel sistema giudiziario. Tuttavia, la maggior parte delle loro raccomandazioni, compresa quella che chiedeva di contrastare il fenomeno della tortura, a fine anno non era stata ancora attuata. Il corpo di polizia della Nigeria il 10 dicembre ha diffuso un manuale pratico sui diritti umani, in cui

95 erano elencati gli standard richiesti agli agenti di polizia e le linee guida su come raggiungere tali standard.

PENA DI MORTE La Nigeria ha continuato a emettere condanne a morte, pur non effettuando alcuna esecuzione. Durante l’accettazione dei risultati dell’Esame periodico universale delle Nazioni Unite davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a marzo, la Nigeria ha dichiarato che avrebbe proseguito il dibattito nazionale verso l’abolizione della pena di morte. A giugno, la Corte di giustizia dell’Ecowas ha ordinato alla Nigeria di far uscire dal braccio della morte Thankgod Ebhos, il quale non aveva esaurito tutti i gradi del suo diritto d’appello, e Maimuna Abdulmumini, minorenne all’epoca del presunto reato. A ottobre, dopo 19 anni trascorsi nel braccio della morte ed avere evitato per poco l’esecuzione nel giugno 2013, Thankgod Ebhos è stato rilasciato su disposizione del governatore dello stato di Kaduna. Altri quattro uomini furono messi a morte proprio nel giugno 2013, le prime esecuzioni registrate nel paese dal 2006. A settembre e dicembre, le corti marziali nigeriane hanno emesso verdetti di colpevolezza nei confronti di 70 soldati accusati di ammutinamento e li hanno condannati tutti a morte.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Durante l’anno, le forze di sicurezza hanno represso la libertà d’espressione. A giugno, nell’arco di tre giorni i militari e il dipartimento per i servizi di stato (Department of State Services – Dss) hanno confiscato e distrutto diverse tirature di giornale e perquisito furgoncini di consegna dei quotidiani. La direzione generale della Difesa ha dichiarato che l’azione era stata intra- presa negli interessi della sicurezza nazionale. Ad agosto, soldati hanno brevemente detenuto due direttori presso gli uffici del quotidiano Daily Trust di Maiduguri, dopo che, secondo quanto appreso, il giornale aveva pubblicato un articolo in cui si so- steneva che alcuni soldati si erano rifiutati di obbedire agli ordini di combattere Boko haram. A ottobre, la polizia ha arrestato il giornalista di Africa Independent Television Amaechi Anakwe dopo che questi aveva definito in televisione il vice ispettore generale della polizia “controverso”. Un tribunale lo ha scagionato dall’accusa il giorno dopo.

VIOLENZA COMUNITARIA In molte parti del paese si sono verificati episodi di violenza tra le varie comunità, in particolare nella regione centrale del Middle Belt della Nigeria. La Ngo International Crisis Group (Icg) ha calcolato che, tra gennaio e luglio, nel contesto delle violenze tra le varie comunità negli stati di Kaduna, Katsina, Plateau, Zamfara, Taraba, Nasarawa e Benue, erano rimaste uccise oltre 900 persone. Il 14 e 15 marzo, uomini armati ritenuti pastori fulani hanno ucciso circa 200 persone in tre villaggi dello stato di Kaduna. Circa altre 200 persone sono state uccise nell’arco di due giorni ad aprile, nel corso di scontri tra uomini armati e gruppi di vigilantes locali a Unguwar Galadima, nello stato di Zamfara. Ad agosto, almeno 60 persone sono morte nei combattimenti tra pastori fulani e contadini eggon, nello stato di Nasawara. In un altro episodio verificatosi nell’area a novembre, almeno 40 persone hanno perso la vita nel corso di scontri per un appezzamento di terra tra i gruppi etnici eggon e gwadara. Ad aprile, ad Andoyaku, nello stato di Taraba, 25 persone sono morte dopo che il loro villaggio era stato attaccato e interamente bruciato.

96 DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A gennaio, il presidente Jonathan ha controfirmato la legge sul (divieto) di matrimonio tra persone dello stesso sesso. La legge criminalizzava il matrimonio o l’unione civile per le coppie omosessuali; la celebrazione del matrimonio omosessuale nei luoghi di culto; le manifestazioni d’affetto in pubblico delle coppie omosessuali; e la registrazione e il sostegno dei circoli e delle associazioni gay presenti in Nigeria. La legge prevedeva sentenze dai 10 ai 14 anni di carcere. Pochi giorni dopo l’entrata in vigore della legge, persone Lgbti e attivisti dei loro diritti sono stati al centro di episodi di vessazione, ricatto e minaccia alle loro vite. A Ibadan, nello stato di Oyo, la polizia ha arrestato cinque uomini sulla base del loro percepito orientamento sessuale. I cinque sono stati ri- lasciati su cauzione. Ai sensi della nuova legislazione, ad Awka, nello stato di Anambra, la polizia avrebbe arrestato e detenuto sei persone. Un vice commissario di polizia di Bauchi ha affermato che i poliziotti avevano un elenco di presunte persone Lgbti da tenere “sotto sorveglianza” e che questo faceva parte delle loro “analisi dei profili criminali”.

RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE L’inquinamento prodotto dall’industria petrolifera ha continuato a causare devastazioni ambientali e distruzione dei mezzi di sostentamento nella regione del Delta del Niger. Centinaia di fuoriuscite di greggio si sono succedute nel corso del 2013 e 2014, provocate da guasti agli impianti petroliferi delle compagnie e da azioni di sabotaggio e furto di greggio. Le compagnie petrolifere hanno continuato ad attribuire la stragrande maggioranza delle fuoriuscite di petrolio a operazioni di sabotaggio e furto, malgrado le crescenti prove delle condizioni di cattiva manutenzione in cui erano tenuti gli ormai vecchi oleodotti e gravi lacune nel processo d’indagine sulle fuoriuscite di petrolio che è gestito direttamente dalle compagnie petrolifere. Ci sono stati frequenti ritardi nel fermare le fuoriuscite e nella bonifica delle aree. Inoltre, il processo di bonifica ha continuato a rivelarsi inadeguato. Le Ngo hanno ripetutamente espresso preoccupazione per la mancata attuazione, da parte del governo della Nigeria e della compagnia petrolifera Shell delle raccomandazioni formulate in seguito allo studio scientifico del 2011 del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (United Nations Envi- ronment Programme – Unep) sull’inquinamento causato nella regione di Ogoniland del Delta del Niger. Sebbene l’esecutivo nigeriano abbia continuato a fornire una certa quantità d’acqua potabile alle persone le cui risorse idriche erano state inquinate dalle fuoriuscite di petrolio, era stato ampia- mente documentato che la quantità e la qualità dell’acqua erano inadeguate. A settembre, il ministero del Petrolio ha avviato un processo partecipativo sul rapporto dell’Unep e ha istituito quattro gruppi di lavoro incaricati di dare attuazione ai diversi aspetti delle raccomandazioni. Un’azione legale intentata contro la compagnia petrolifera Shell, depositata nel Regno Unito dalla comunità bodo, in merito a due vaste fuoriuscite di petrolio causate dalla presenza di perdite in un oleodotto obsoleto della Shell, che avevano devastato l’area nel 2008 e 2009, si è conclusa a dicembre con il raggiungimento di un accordo fuori dell’aula di giustizia. La Shell ha pagato 55 milioni di sterline (pari a 83 milioni di dollari Usa) alla comunità. Tuttavia, a fine anno i danni provocati dalle due fuoriuscite non erano stati opportunamente bonificati. La documentazione raccolta dal tribunale ha dimostrato che la Shell aveva ripetutamente rilasciato dichiarazioni false riguardo alla dimensione e all’impatto delle due fuoriuscite, avvenute nel territorio della comunità bodo, nel tentativo di minimizzare i risarcimenti che avrebbe dovuto corrispondere. La

97 documentazione inoltre ha dimostrato che la Shell era consapevole da anni che i propri oleodotti nel Delta del Niger erano obsoleti e difettosi. Grazie alla stessa documentazione, la Ngo olandese Friends of the Earth ha scoperto che la Shell aveva mentito anche a un tribunale dei Paesi Bassi in un’azione legale separata riguardante l’inquinamento da petrolio nel Delta del Niger. Numerose fuoriuscite di petrolio si sono verificate nell’area di Ikarama e in altre parti dello stato di Bayelsa, durante operazioni estrattive condotte sia dalla Shell sia dal gruppo Eni/Agip. Un gruppo della società civile che ha lavorato a fianco delle comunità locali, la Shareholders Alliance for Corporate Accountability (Saca), ha espresso preoccupazione per l’insufficiente processo di bonifica e di compensazione per i danni nell’area e per il fallimento delle compagnie petrolifere nel fornire adeguata sicurezza nella protezione degli impianti dai sabotaggi. A novembre, la commissione ambiente della camera dei rappresentanti dell’assemblea nazionale della Nigeria ha raccomandato il pagamento di una somma pari a 3,6 miliardi di dollari Usa da parte della Shell Nigerian Exploration and Production Company, a titolo di risarcimento per le perdite subite dalle comunità costiere nello stato di Bayelsa, durante la fuoriuscita di petrolio di Bonga nel 2011 che, stando ai rapporti, aveva colpito 350 diverse comunità e località satellite.

Note 1. Nigeria: At the mercy of the government: Violation of the right to an effective remedy in Badia East, Lagos State (AFR 44/017/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR44/017/2014/en

RUANDA

REPUBBLICA DEL RUANDA

Capo di stato: Paul Kagame Capo di governo: Anastase Murekezi (subentrato a Pierre Damien Habumuremyi a luglio)

Le libertà d’espressione e d’associazione in Ruanda hanno continuato a essere soggette a indebite restrizioni da parte delle autorità. I ruandesi non hanno potuto esprimere apertamente opinioni critiche su tematiche che le autorità ritenevano delicate e il contesto in cui hanno operato giornalisti, difensori dei diritti umani e membri dell’opposizione politica è rimasto caratterizzato dalla repressione. Sono state segnalate detenzioni illegali da parte dell’intelligence militare ruandese e casi di tortura risalenti ad anni precedenti non sono stati indagati.

CONTESTO Nel 2014 ricorreva il 20° anniversario del genocidio del 1994, quando circa 800.000 tutsi e hutu ruandesi che si opponevano al governo furono uccisi. Gli eventi organizzati in tutto il mondo per ricordare le vittime hanno ribadito la necessità di un continuo miglioramento della risposta della co- munità internazionale alle atrocità di massa del presente.1

98 Sono proseguiti i progressi sul piano economico e dello sviluppo. Tuttavia, lo scenario politico è rimasto dominato dal Fronte patriottico ruandese (Rwandan Patriotic Front – Rpf), in assenza di un’opposizione politica di rilievo. Le autorità hanno continuato a reagire duramente a qualsiasi critica, specialmente quelle riguardanti la situazione dei diritti umani nel paese. Verso la fine di luglio, il presidente Kagame ha operato un rimpasto di governo, con la sostituzione del primo ministro Habumuremyi. Il presidente del senato, Jean-Damascène Ntawukuriryayo, si è di- messo a settembre. A giugno, un rapporto del Gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha rilevato che non era stata ancora fatta luce sulla sorte degli ex combattenti e quadri politici del gruppo armato M23, compresa la fuga di alcuni individui dai campi in Ruanda. Molti dei membri del Movimento 23 marzo (March 23 Movement – M23) erano fuggiti in Ruanda dopo la loro sconfitta da parte delle truppe della Repubblica Democratica del Congo (Democratic Republic of Congo – Drc), verso la fine del 2013.

OMICIDI POLITICI ALL’ESTERO Il governo ruandese ha negato le accuse che lo collegavano a tentati omicidi o ad assassinii di dissidenti politici all’estero. Il 1° gennaio, Patrick Karegeya, esponente di spicco del Congresso nazionale ruandese (Rwandan National Congress – Rnc), all’opposizione, ed ex capo dell’intelligence della forza di difesa del Ruanda (Rwanda Defence Force – Rdf), è stato trovato morto in una stanza d’albergo a Johannesburg, in Su- dafrica. Sulla sua uccisione sono state condotte indagini ma non sono stati identificati i responsabili. Le dichiarazioni pubbliche rilasciate dalle autorità ruandesi in seguito alla sua morte, comprese quelle del presidente Kagame, sembravano giustificare l’uccisione di persone che avevano tradito il paese. Ad agosto, un tribunale sudafricano ha ritenuto quattro uomini colpevoli del tentato omicidio nel 2010 di Kayumba Nyamwasa, un esule dissidente dell’Rnc ed ex capo dell’intelligence esterna. Fonti di stampa hanno riportato che il giudice aveva dichiarato che i principali colpevoli del tentato omicidio erano ancora latitanti.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Difensori dei diritti umani sono stati vittime di attacchi mirati e minacce e hanno affrontato intimi- dazioni e ostacoli sul piano amministrativo. La società civile non ha praticamente avuto spazio per criticare la situazione dei diritti umani del paese. La comunità dei difensori dei diritti umani è rimasta indebolita e alcuni hanno preso le parti del governo nell’ambito del loro lavoro o hanno applicato forme di autocensura per evitare le vessazioni delle autorità. Ad agosto, Transparency International (Ti) ha rilasciato una dichiarazione che denunciava i rischi per la sicurezza vissuti dal proprio personale. Secondo Ti, un uomo armato aveva tentato di entrare negli uffici dell’organizzazione il 29 luglio e un altro membro dello staff aveva denunciato di subire minacce alla sicurezza nella sua abitazione. L’uccisione, a luglio 2013, del collaboratore di Ti Gustave Makonene ha messo un freno ad altri attivisti che lavoravano su tematiche potenzialmente delicate, come la corruzione. L’8 agosto, l’Alta corte di Nyarugenge, a Kigali, ha stabilito che l’attuale comitato esecutivo della Lega ruandese per la promozione e la difesa dei diritti umani (Ligue rwandaise pour la promotion et la défense des droits de l’homme – Liprodhor) doveva rimanere in carica. La causa era stata intentata

99 dall’ex presidente della Liprodhor, il quale era stato destituito dalla carica a luglio 2013 con l’appoggio della direzione per la governance ruandese, un organo ufficiale incaricato di promuovere e monitorare il buon governo in Ruanda. Il querelante ha presentato appello contro la sentenza.

PRIGIONIERI POLITICI Dopo che il suo ricorso era stato rigettato a dicembre 2013, Victoire Ingabire, presidentessa del partito Forze democratiche unificate (Forces democratiques unifiées – Fdu-Inkingi) è rimasta nella prigione centrale di Kigali, dove stava scontando una sentenza a 15 anni di carcere per reati in materia di terrorismo e libertà d’espressione. Alcune delle prove utilizzate per incriminarla erano col- legate alla legittima espressione delle sue idee. Victoire Ingabire era ritornata in Ruanda a gennaio 2010, dopo aver trascorso 16 anni in esilio in Europa. Bernard Ntaganda, presidente del Partito sociale idealista (Parti social idéal - Imberakuri), è stato ri- lasciato dal carcere di Mpanga dopo quattro anni di detenzione. Era stato ritenuto colpevole nel 2011 di “divisionismo”, per aver tenuto discorsi pubblici in cui criticava le politiche del governo prima delle elezioni del 2010, violazione della sicurezza di stato e tentata pianificazione di “manifestazione non autorizzata”.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE E D’ESPRESSIONE Sono proseguite le carcerazioni di persone che avevano esercitato il loro legittimo diritto alla libertà d’associazione e d’espressione. Sylvain Sibomana e Anselme Mutuyimana, membri dell’Fdu-Inkingi, sono rimasti in carcere. Entrambi erano stati condannati a gennaio, a seguito di un verdetto di colpevolezza per incitamento all’insur- rezione o disturbo dell’ordine pubblico, dopo che avevano organizzato una riunione nel distretto di Rutsiro, a settembre 2012. È stato presentato ricorso contro le sentenze. Sei membri dell’Fdu-Inkingi sono stati rilasciati il 5 settembre, dopo aver scontato una condanna a due anni di reclusione per aver partecipato alla suddetta riunione a Rutsiro. Sylvain Sibomana è stato inoltre ritenuto colpevole di partecipazione a raduno illegale per aver preso parte a una manifestazione davanti alla Corte su- prema, durante l’esame dell’appello presentato da Victoire Ingabire, a marzo 2012.

PARTITI POLITICI I pochi partiti politici permessi hanno dovuto affrontare un clima repressivo. Le procedure previste dalla legge per fondare nuovi partiti sono rimaste lente e farraginose. Il Partito democratico dei verdi del Ruanda (Democratic Green Party of Rwanda – Dgpr), che aveva ottenuto la registrazione ufficiale ad agosto 2013, ha invocato un’inchiesta per stabilire la sorte di un membro di spicco del partito, Jean Damascène Munyeshyaka, il quale era stato visto per l’ultima volta il 27 giugno a Nyamata, nel distretto di Bugesera. Il Dgpr ha sostenuto che prima della sua scomparsa, questi aveva ricevuto una telefonata da parte di un individuo che gli chiedeva di incontrarlo immediatamente. Il Dgpr aveva in precedenza denunciato ostacoli amministrativi per la registrazione e di essere stato soggetto a sorveglianza, vessazioni e intimidazioni da parte dello stato a causa delle proprie attività politiche.

DETENZIONI ILLEGALI DA PARTE DEI MILITARI Sono proseguite le denunce di detenzioni illegali da parte dell’Rdf. Persone sono state trattenute in

100 centri di detenzione che non facevano parte del servizio correzionale del Ruanda, senza poter accedere a un avvocato o alle procedure dovute. Accuse risalenti a periodi passati riguardanti casi di tortura, tra cui percosse, scosse elettriche e pri- vazione sensoriale, non sono state indagate. Le autorità hanno respinto le critiche riguardanti le presunte detenzioni illegali effettuate dall’intel- ligence militare che erano state avanzate dal governo degli Usa e da quello britannico. Il 4 giugno, il presidente Kagame ha risposto alle recenti denunce, affermando che coloro che cercavano di desta- bilizzare il paese sarebbero stati arrestati o anche uccisi.

PROCESSI INIQUI – PROCESSI RIGUARDANTI LA SICUREZZA DI STATO Ufficiali militari d’alto rango sono stati trattenuti per accuse legate alla sicurezza di stato. Nel trattare i loro casi, le autorità non hanno rispettato le procedure dovute, in quanto persone sospettate di reati in materia di terrorismo. A ottobre si è concluso il processo a carico di Joel Mutabazi e di altri 15 imputati. Joel Mutabazi, ex guardia del corpo del presidente Kagame, è stato giudicato colpevole di aver pianificato attentati contro il governo e condannato all’ergastolo. Ha annunciato che avrebbe presentato ricorso contro la sentenza. Molti dei suoi coimputati hanno dichiarato in aula di essere stati torturati e costretti a con- fessare. Tuttavia, il tribunale non ha indagato tali accuse. Joel Mutabazi era stato detenuto in incom- municado da parte del dipartimento dell’intelligence militare ruandese a Camp Kami per diversi mesi, nel 2010 e 2011, e torturato. Era fuggito in Uganda, dove era rimasto sotto protezione delle autorità ugandesi, ma ad ottobre 2013 era stato rapito e rimpatriato illegalmente in Ruanda. Quattro persone, Kizito Mihigo, un cantante, Cassien Ntamuhanga, un giornalista di Radio Amazing Grace, Jean Paul Dukuzumuremyi, un soldato smobilitato, e Agnes Nyibizi, una contabile, sono stati arrestati ad aprile e incriminati di reati legati alla sicurezza di stato. Fonti ufficiali indicavano che i quattro erano stati accusati di essere stati reclutati dall’Rnc e delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, un gruppo armato con base nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo, e che stavano pianificando attività terroristiche. Secondo quanto riportato, Kizito Mihigo avrebbe intrattenuto uno scambio di email critiche verso il governo con membri dell’opposizione al- l’estero; tuttavia, non ci sono conferme. A fine anno, i quattro erano detenuti in attesa di processo. Ad agosto, l’intelligence militare ruandese ha arrestato quattro persone legate all’Rdf. Queste dovevano rispondere di accuse incluso il danneggiamento dell’immagine del paese o del governo, incitamento della popolazione all’insurrezione o ai disordini, occultamento degli obiettivi che sono stati usati o destinati a commettere un reato e possesso illegale di armi da fuoco. Tre di loro dovevano essere pro- cessati da un tribunale militare: il colonnello Tom Byabagamba, il generale in pensione Frank Rusagara e il sergente François Kabayiza. Il capitano David Kabuye doveva essere giudicato da un tribunale civile. A fine anno, tutti e quattro rimanevano in attesa di processo.

PRIGIONIERA DI COSCIENZA A giugno, Agnès Nkusi Uwimana, redattrice del giornale privato in lingua kinyarwanda Umurabyo, è stata rilasciata dopo aver scontato una condanna a quattro anni di carcere per minacce alla sicurezza di stato, dopo che aveva scritto editoriali che criticavano le politiche del governo e che avanzavano accuse di corruzione, nel periodo precedente alle elezioni presidenziali del 2010.

101 GIUSTIZIA INTERNAZIONALE Sono proseguiti presso alcuni tribunali nazionali situati fuori dal Ruanda i procedimenti giudiziari di persone sospettate di coinvolgimento nel genocidio del Ruanda. Il 18 febbraio, l’ex maggiore Onesphore Rwabukombe è stato giudicato colpevole da un tribunale tedesco di favoreggiamento e complicità in genocidio ed è stato condannato a 14 anni di carcere. Il 14 marzo, l’ex capitano dell’esercito ruandese Piscal Simbikangwa è stato giudicato colpevole da un tribunale francese di complicità in genocidio e di crimini contro l’umanità. Il tribunale ha ritenuto che l’imputato aveva svolto un ruolo decisivo nella compilazione di elenchi di tutsi e di leader hutu moderati da prendere di mira e che aveva contribuito alla fondazione della stazione radiofonica Mille Collines, che trasmetteva messaggi d’incitamento alla violenza. È stato condannato a 25 anni di carcere. Era la prima volta che un tribunale francese processava un sospettato di genocidio. Altre sei persone sospettate di genocidio a fine anno erano in attesa di processo in Francia. Il 7 maggio, la Corte suprema del Québec ha confermato il verdetto di colpevolezza a carico di Désiré Munyaneza, emesso da un tribunale canadese, per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Il 19 giugno, un tribunale svedese ha confermato la sentenza all’ergastolo comminata a Stanislas Mbanenande, per il suo ruolo in cinque massacri avvenuti a Kibuye durante il genocidio. Sono proseguiti durante l’anno i processi per determinare l’estradizione di quattro sospettati di genocidio nel Regno Unito. Ad aprile, un tribunale norvegese ha condannato Sadi Bugingo a 21 anni di carcere per il suo ruolo nel genocidio. A fine anno era in corso un appello contro la sentenza. La richiesta avanzata alle autorità norvegesi per estradare un altro sospettato di genocidio è stata accolta ma a fine anno era in attesa dell’esito di un ricorso. Nei Paesi Bassi, a fine anno pendeva l’estradizione di due uomini e in Danimarca un altro sospettato di genocidio era in attesa di processo.

TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE PER IL RUANDA Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda si apprestava a concludere la propria attività. A fine anno, un caso giudiziario erano in attesa d’appello. Il Tribunale aveva completato 75 casi, 14 dei quali si erano conclusi con proscioglimenti, mentre 10 erano stati trasferiti alle giurisdizioni nazionali.

Note 1. Rwanda: Never again means never again (AFR 47/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR47/001/2014/en

102 SENEGAL

REPUBBLICA DEL SENEGAL

Capo di stato: Macky Sall Capo di governo: Mohammed Dionne (subentrato ad Aminata Touré a luglio)

La polizia ha fatto uso eccessivo della forza per reprimere manifestazioni. Le condizioni nelle carceri sono rimaste dure. È stato ottenuto qualche progresso per superare l’impunità per le violazioni dei diritti umani compiute in passato, malgrado i numerosi casi rimasti irrisolti. L’annoso conflitto in corso nella Casamance si è attenuato rispetto agli anni precedenti.

CONTESTO A settembre 2013, il ministro della Giustizia si è impegnato ad aprire una commissione d’inchiesta ufficiale sulle deplorevoli condizioni di detenzione nei penitenziari di Liberty 6 e Rebeuss ma a fine 2014 non erano stati fatti progressi in tal senso. A marzo, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha adottato i risultati dell’Esame periodico universale delle Nazioni Unite sul Senegal. Durante l’esame, Amnesty International ha espresso le proprie preoccupazioni per l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza per reprimere la libertà d’espressione e di riunione, per l’uso di tortura e altri maltrattamenti, i decessi in custodia e l’impunità per le violazioni dei diritti umani, compresi alcuni casi risalenti a 30 anni prima. Il Senegal si è impegnato a tutelare i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione e ad as- sicurare che le proprie forze di sicurezza non ricorressero a un uso eccessivo della forza nelle operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico. Tuttavia, ha rigettato le raccomandazioni relative alla ratifica del Secondo protocollo opzionale all’Iccpr, finalizzato ad abolire la pena di morte, nonostante si fosse impegnato a farlo nel corso di un incontro con Amnesty International a dicembre 2013. Le autorità senegalesi hanno inoltre respinto le raccomandazioni che le invitavano a emendare la legislazione interna al fine di tutelare dalla discriminazione le persone Lgbti e hanno sostenuto che in Senegal non esistevano casi di sparizione forzata, malgrado le ripetute preoccupazioni espresse da Amnesty International, in merito alla sorte di decine di persone scomparse nella Casamance per mano delle forze governative. A luglio è iniziato il processo per corruzione a carico di Karim Wade, ex ministro e figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade, e di altri imputati. Karim Wade doveva rispondere di appropriazione indebita di fondi davanti al tribunale per la repressione dell’appropriazione indebita, che non prevedeva la possibilità di appellarsi contro il verdetto.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA A gennaio, a Oulampane, nella Casamance, studenti d’istituti d’istruzione superiore hanno manifestato per chiedere un maggior numero di docenti e le truppe militari sono intervenute impiegando munizioni vere, ferendo quattro studenti. Il comando dell’esercito ha condannato queste azioni da parte dei

103 militari e ha annunciato che sarebbero state accertate le responsabilità, anche se a fine anno non erano state adottate misure concrete in tal senso né erano state aperte indagini. Per tutto agosto, studenti dell’università Cheikh-Anta-Diop di Dakar hanno protestato per i ritardi nell’erogazione delle borse di studio e ci sono stati ripetuti scontri con le forze di sicurezza. Lo studente Bassirou Faye è morto dopo essere stato colpito alla testa dai colpi sparati dalla polizia durante una manifestazione. Un agente è stato arrestato a ottobre e incriminato per il suo omicidio. A settembre, un prigioniero condannato è stato ucciso a colpi di pistola a Sinthiou Roudji, vicino alla cittadina di Kédougou. La sua condanna gli consentiva di lavorare all’esterno del penitenziario durante le ore diurne e di ritornare nella struttura carceraria la sera. Dopo che non aveva fatto ritorno, le forze di sicurezza erano uscite per cercarlo e un poliziotto gli aveva sparato mentre, stando ai resoconti, stava cercando di fuggire. Il ministero della Giustizia si è impegnato ad aprire un’inchiesta e l’agente è stato posto in stato di fermo.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Le autorità hanno perseguito penalmente manifestanti che avevano partecipato o che avevano preso la parola durante manifestazioni organizzate da partiti politici e Ngo. Il rapper Malal Talla, leader del movimento Y’en a marre (Ne abbiamo abbastanza), è stato arrestato e detenuto per quattro giorni a giugno per aver denunciato l’appartenenza di poliziotti al racket durante un raduno pubblico. È stato incriminato per oltraggio alla polizia, prima di essere rilasciato dopo che un giudice aveva stabilito che le accuse a suo carico erano infondate.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A febbraio, la polizia ha arrestato quattro giovani che avevano aggredito cinque uomini gay a Rufisque, una località alla periferia di Dakar. Gli abitanti del luogo hanno tenuto una marcia a sostegno degli indiziati, chiedendone il rilascio.

IMPUNITÀ Il processo di agenti di polizia implicati nel decesso in custodia di Dominique Lopy, nel 2007, è stato rinviato da giugno a novembre 2014, su richiesta degli avvocati degli imputati. Non era ancora iniziato il processo di due comandanti della gendarmeria, incriminati per aver ucciso dei manifestanti in due episodi distinti nel 2011 e 2012. I due ufficiali sono stati rimessi in libertà in attesa del processo.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE L’ex presidente ciadiano Hissène Habré è rimasto in custodia in attesa di comparire davanti alle Camere africane straordinarie create dall’Au nel 2012, per essere processato in Senegal. A luglio 2013, Hissène Habré è stato arrestato e formalmente accusato di crimini contro l’umanità, tortura e crimini di guerra, commessi in Ciad tra il 1982 e il 1990. Ad agosto, la corte ha respinto la richiesta avanzata dal governo ciadiano che intendeva costituirsi parte civile nel caso. La corte ha chiesto al Ciad di estradare determinati testimoni chiave ma la richiesta è stata rifiutata. La corte ha inoltre sollecitato un intervento dell’Au sulla questione.

CONFLITTO ARMATO INTERNO Il conflitto in corso tra l’esercito e le Forze democratiche del Movimento della Casamance (Mouvement

104 des forces démocratiques de Casamance – Mfdc) si è attenuato e un leader dell’Mfdc ha proclamato un cessate il fuoco unilaterale ad aprile. Il protrarsi del conflitto armato ha continuato ad avere ripercussioni sulla popolazione civile, causando disoccupazione e sfollamento dai villaggi. Almeno sette uomini sono rimasti uccisi nell’esplosione di mine terrestri ad agosto.

SIERRA LEONE

REPUBBLICA DELLA SIERRA LEONE

Capo di stato e di governo: Ernest Bai Koroma

Un ceppo epidemico del virus Ebola ha ucciso almeno 2758 persone. La situazione sanitaria ha spinto le autorità a dichiarare uno stato d’emergenza. Migliaia di individui sospettati di aver commesso crimini durante gli 11 anni del conflitto armato interno della Sierra Leone non erano stati ancora in- dagati. Sono state registrate almeno due denunce di uccisioni illegali da parte della polizia. Il crescente ricorso ad accuse di diffamazione a carico dei giornalisti ha minacciato la libertà d’espres- sione.

CONTESTO Nel 2013, il presidente Koroma ha varato un processo di revisione della costituzione della Sierra Leone. Nell’ottica di tale revisione, i gruppi della società civile hanno iniziato a organizzare programmi di educazione civica impegnandosi attivamente. Tuttavia, tali iniziative sono passate in secondo piano a causa dell’epidemia di Ebola.

EPIDEMIA DI EBOLA La Sierra Leone è stata duramente colpita dall’epidemia di Ebola che si è propagata in tutta l’Africa Occidentale. Al 31 dicembre, i casi confermati erano 9446 e il virus aveva causato la morte di almeno 2758 persone. L’epidemia ha messo a dura prova il già fragile sistema sanitario del paese e, al 31 ot- tobre, i casi conclamati di contagio tra il personale medico erano almeno 199. Le Ngo hanno espresso preoccupazione per la sicurezza alimentare, l’impatto sproporzionatamente elevato dell’epidemia sulle donne e il trattamento medico riservato alle persone in quarantena. A luglio, il presidente ha di- chiarato uno stato d’emergenza e approvato il regolamento generale per le emergenze pubbliche del 2014. Il ministero dell’Amministrazione locale ha inoltre varato una serie di ordinanze per la prevenzione di Ebola e altre malattie, compreso un provvedimento che vietava i raduni pubblici.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE Nel 2013, il Tribunale speciale per la Sierra Leone ha confermato la sentenza a 50 anni di carcere nei confronti dell’ex presidente liberiano Charles Taylor per il ruolo svolto nel conflitto armato della Sierra

105 Leone, a completamento del proprio mandato di processare i maggiori responsabili dei crimini che erano stati commessi durante il conflitto. Tuttavia, migliaia d’individui sospettati di aver compiuto tali crimini nel corso del conflitto non erano stati mai indagati e chiamati in giudizio. Il tema dell’ac- certamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani è stato messo in evidenza quando il Collegio di esperti delle Nazioni Unite sulla Liberia ha scoperto la presenza in Sierra Leone nel 2013 di un presunto trafficante d’armi, Ibrahim Bah, cittadino senegalese. Le vittime del conflitto gli avevano intentato una causa privata, coadiuvate da un’organizzazione della società civile, il Centro per l’accertamento delle responsabilità e il principio di legalità. La Sierra Leone ha espulso Ibrahim Bah in Senegal, pochi giorni prima della sua convocazione in tribunale.

PENA DI MORTE La Sierra Leone ha mantenuto la pena di morte per tradimento e rapina aggravata e ha continuato a prevedere l’imposizione obbligatoria della pena di morte per omicidio. A maggio, il procuratore generale e ministro della Giustizia ha riferito al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura che la Sierra Leone avrebbe a breve abolito la pena capitale, precisando in seguito che ciò sarebbe stato fatto tramite una revisione del codice di procedura penale. A fine anno non erano state intraprese ini- ziative di rilievo in tal senso.

DETENZIONE ARBITRARIA Persone sottoposte a fermo di polizia sono state regolarmente detenute oltre il periodo massimo stabilito dalla costituzione. Ad agosto 2013, 18 membri delle Forze armate della Repubblica della Sierra Leone sono stati detenuti per aver, stando alle accuse, complottato un ammutinamento presso la caserma militare di Tekoh, a Makeni. Sono rimasti trattenuti in incommunicado per otto mesi, in violazione dei limiti massimi di detenzione stabiliti dalla costituzione. Quattrodici di loro sono stati formalmente accusati e rinviati a giudizio; a fine anno erano in corso le udienze del processo.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA Il governo ha introdotto misure per rafforzare il meccanismo di accertamento delle responsabilità del corpo di polizia della Sierra Leone (Sierra Leone Police – Slp). Nel 2013, la polizia ha istituito un nuovo sistema di gestione delle prestazioni lavorative e il parlamento ha approvato le norme attuative per la creazione di un comitato indipendente per i reclami, presso la polizia della Sierra Leone. Tuttavia, le autorità non hanno provveduto a indagare e chiamare in giudizio gli agenti di polizia accusati di aver fatto uso eccessivo o arbitrario della forza. L’esecutivo non ha perseguito penalmente alcun poliziotto, malgrado la raccomandazione che lo esortava a condurre inchieste indipendenti in merito a episodi di presunte uccisioni illegali. Nel 2014 sono stati registrati almeno due casi di presunte uccisioni illegali da parte della polizia, legate alle sparatorie avvenute a Kono, quando agenti hanno risposto con armi da fuoco ai disordini scoppiati in seguito a un sospetto caso di Ebola.

SISTEMA GIUDIZIARIO La mancanza di risorse ha continuato a gravare sul sistema giudiziario, che è rimasto caratterizzato da costanti rinvii, ritardi nella formulazione delle imputazioni e da carenze di organico tra i magistrati, tutti fattori che hanno contribuito a protrarre oltremodo la detenzione preprocessuale e al sovraffol- lamento delle carceri. Ci sono stati progressi nell’applicazione della legge sull’assistenza legale, ap-

106 provata nel 2013; tuttavia il comitato per l’assistenza legale non era ancora operativo. Sono stati inoltre compiuti passi avanti nella rielaborazione del codice di procedura penale del 1965. Nel 2014 è stata approvata la legge sulle strutture correzionali, che riformava il regolamento generale carcerario del 1960, e prevedeva una maggiore attenzione alla riabilitazione dei reclusi. A marzo, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha riesaminato l’applicazione dell’Iccpr da parte della Sierra Leone. Il Comitato ha espresso preoccupazione in merito a una serie di problematiche, come i ritardi nei processi, le condizioni nelle carceri e l’accertamento delle responsabilità del corpo di polizia.

DIRITTI DI DONNE E RAGAZZE La violenza sessuale e di genere è rimasta un fenomeno dalla frequenza preoccupante. La legge sui reati sessuali del 2012 aveva introdotto una migliore definizione del reato di violenza sessuale, ina- sprendo inoltre le pene previste. Tuttavia, molto restava ancora da fare per applicare pienamente le disposizioni contenute nella legge. A settembre 2013, il vice ministro dell’Istruzione, della scienza e della tecnologia è stato licenziato in seguito ad accuse di aggressione sessuale e stupro. Durante il processo a suo carico, i mezzi d’infor- mazione hanno rivelato il nome della presunta vittima, in violazione sia della legge del 2012 sia del codice deontologico che regola i mezzi d’informazione. Il magistrato che presiedeva l’udienza ha accolto la richiesta di misure cautelari e conseguentemente i testimoni hanno potuto deporre protetti da uno schermo. La commissione indipendente sui mezzi d’informazione ha pubblicamente condannato determinate agenzie di stampa e stava indagando sulle denunce contro di loro. A fine anno, il proce- dimento giudiziario era ancora in corso. Il progetto di legge sull’uguaglianza di genere, che prevedeva una presenza femminile pari ad almeno il 30 per cento in parlamento, nei consigli comunali e presso ministeri, dipartimenti e agenzie, non è stato convertito in legge. La Sierra Leone non aveva ancora ratificato il Protocollo di Maputo (il Protocollo della Carta africana sui diritti umani e dei popoli relativo ai diritti delle donne in Africa). Era l’unico paese dell’Africa Occidentale a non averlo ratificato ma durante l’anno il ministro del Social welfare, degli affari di genere e dell’infanzia ha assicurato l’intenzione di procedere alla sua ratifica.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Il crescente ricorso al reato di diffamazione contro i giornalisti ha minacciato la libertà d’espressione. A luglio 2013, Jonathan Leigh, direttore esecutivo del quotidiano Independent Observer, doveva ri- spondere di quattro capi d’imputazione per calunnia, dopo aver pubblicato un articolo che accusava un imprenditore di corruzione e frode. Il caso è stato alla fine patteggiato fuori dalle aule di giustizia. A ottobre 2013, Leigh e Bai Bai Sesay, dell’Independent Observer, dovevano rispondere del reato di diffamazione per aver pubblicato un articolo che criticava il presidente. I giornalisti si sono dichiarati colpevoli di cospirazione finalizzata alla pubblicazione di un articolo sedizioso. Sono rimasti in libertà su cauzione e scagionati a marzo 2014. La commissione sui diritti umani della Sierra Leone, l’associazione dei giornalisti della Sierra Leone e vari gruppi della società civile hanno raccomandato l’abrogazione della legge sul reato di calunnia dall’ordinamento legislativo nazionale. A gennaio, David Tam Baryoh è stato arrestato per calunnia sediziosa e rilasciato su cauzione. A

107 maggio, il suo programma radiofonico Monologue è stato sospeso per due mesi in seguito a una direttiva ministeriale. È stato nuovamente arrestato a novembre per alcuni commenti pronunciati du- rante il suo programma, riguardanti la risposta del governo all’epidemia di Ebola. È stato trattenuto per 11 giorni e rilasciato su cauzione. A ottobre 2013, è stata approvata la legge sul diritto d’accesso all’informazione. La legge sanciva il diritto di accesso alle informazioni del governo e imponeva a tutti gli organismi di governo l’adozione e l’ampia diffusione di un piano per rendere pubblici i verbali. La legislazione inoltre prevedeva sanzioni per chi avesse ostacolato intenzionalmente le sue disposizioni.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per gli episodi di violenza segnalati contro membri della comunità Lgbti e ha esortato la Sierra Leone a rivedere la propria legislazione, al fine di assicurare il divieto di discriminazione contro le persone Lgbti. Tre attivisti per i diritti Lgbti sono stati vittime di aggressioni e di messaggi di minacce e l’abitazione di uno di loro è stata ripetutamente oggetto di episodi di effrazione nel corso del 2013. Malgrado le denunce sporte presso la polizia, non sono state avviate indagini significative in merito a questi casi. I tre attivisti hanno lasciato la Sierra Leone a causa delle vessazioni e hanno ottenuto asilo in Europa.

SOMALIA

REPUBBLICA FEDERALE DELLA SOMALIA

Capo di stato: Hassan Sheikh Mohamud Capo di governo: Abdiweli Sheikh Ahmed Capo della Repubblica del : Ahmed Mohamed Mahamoud Silyano

È proseguito il conflitto armato tra le forze filogovernative, la Missione dell’Au in Somalia (African Mission to Somalia – Amisom) e il gruppo armato islamista al-Shabab nella parte meridionale e centrale della Somalia. Le forze filogovernative hanno protratto la loro offensiva per conquistare il controllo di alcune città di primaria importanza. Durante l’anno sono stati oltre 100.000 i civili uccisi, feriti o sfollati dal conflitto armato e dal dilagare della violenza. Tutte le parti in conflitto, compresa l’Amisom, si sono rese responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. I gruppi armati hanno continuato a reclutare con la forza le persone, minori compresi, e a rapire, torturare e commettere uccisioni illegali; casi di stupri e altre forme di violenza sessuale sono stati frequenti. L’accesso delle agenzie umanitarie è rimasto limitato a causa del conflitto, del- l’insicurezza e delle restrizioni imposte dalle parti belligeranti. Giornalisti e operatori dei mezzi d’in- formazione sono stati vittime di attacchi e vessazioni. Un giornalista è stato ucciso. I responsabili di gravi violazioni dei diritti umani hanno continuato a godere dell’impunità.

108 CONTESTO Il governo federale della Somalia (Somali Federal Government – Sfg) e l’Amisom hanno mantenuto il controllo della capitale Mogadiscio. Un’offensiva congiunta delle forze armate nazionali somale (Somali National Armed Forces – Snaf) e delle truppe dell’Amisom ha cercato di snidare infiltrati di al-Shabab nelle zone della Somalia meridionale e centrale, ottenendo qualche successo. Tuttavia, al- Shabab ha mantenuto il controllo di gran parte della Somalia meridionale e centrale. Sono aumentati gli scontri armati e gli attacchi di al-Shabab contro civili, in particolare nelle aree contese. Durante l’intera offensiva si sono susseguite testimonianze di un aumento delle violazioni del diritto interna- zionale che, stando ai resoconti, sarebbero state commesse da tutte le parti impegnate nel conflitto. Il parziale ritiro dell’embargo sulle armi imposto alla Somalia nel 2013 ha apparentemente favorito gli abusi contro i civili durante l’anno. A febbraio, il Gruppo di monitoraggio delle Nazioni Unite ha ri- levato continue violazioni dell’embargo sulle armi alla Somalia, denunciando la diversione di armi per essere usate dalle forze armate non governative, tra cui al-Shabab. È proseguito il sostegno in- ternazionale alle forze di sicurezza governative, alle milizie alleate e all’Amisom, malgrado il mancato accertamento delle responsabilità sulle ripetute e gravi violazioni dei diritti umani. La situazione umanitaria della Somalia è rapidamente peggiorata a causa del conflitto in corso, della siccità e del ridotto accesso agli aiuti umanitari, facendo registrare una situazione uguale, se non peggiore, al periodo antecedente alla carestia del 2011. A settembre, circa il 42 per cento della popo- lazione versava in condizioni critiche o necessitava di assistenza umanitaria. La Somalia ha affrontato anche una crisi politica. A dicembre 2013, il primo ministro Abdi Farah Shirdon Saaid si è dimesso in seguito a un voto di sfiducia del parlamento. A gennaio, è stato formato un nuovo gabinetto di governo di larghe intese, comprendente 25 ministri, con la conferma di due componenti della precedente amministrazione. A maggio, i parlamentari hanno chiesto le di- missioni del presidente Mohamud. A novembre, in seguito agli scontri tra il presidente Hassan e il subentrante primo ministro, è stata accantonata la proposta di un secondo voto di sfiducia contro il primo ministro per il timore di possibili violenze che sarebbero potute scaturire tra i parlamentari dei due schieramenti. Le proposte di rivedere e implementare la costituzione e il piano programmato di federalizzazione sono rimaste in sospeso, determinando crescenti conflitti e abusi sulla base del- l’appartenenza ai clan. A giugno 2013 è stata istituita la Missione delle Nazioni Unite di assistenza in Somalia (United Nations Assistance Mission in Somalia – Unsom), che comprendeva un mandato di monitoraggio e controllo sui diritti umani. A settembre, un attacco con droni lanciato dagli Usa ha ucciso Ahmed Abdi Godane, leader di al- Shabab. Le divisioni interne ad al-Shabab durante il 2013 avevano determinato decine di morti ed ese- cuzioni di leader di primo piano del movimento, permettendo così a Godane di consolidare il suo potere. Dopo la sua morte è stato rapidamente annunciato un nuovo leader, ‘Abu Ubaidah’, conosciuto per essere un estremista. Sono seguiti attacchi di rappresaglia, tra cui un attentato suicida una settimana dopo la morte di Godane, in cui sono rimaste uccise almeno 12 persone, compresi quattro americani.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI

Attacchi indiscriminati I civili hanno continuato a essere uccisi e feriti in modo indiscriminato a causa del fuoco incrociato durante gli scontri armati, di attacchi suicidi e di attentati condotti con l’impiego di ordigni di fab-

109 bricazione artigianale e granate. L’anno ha visto un aumento di questo tipo di operazioni oltre che di attentati contro obiettivi d’alto profilo. Al-Shabab è stata ancora in grado di organizzare attacchi nelle zone maggiormente sorvegliate di Mogadiscio, provocando centinaia di morti e feriti tra i civili. Durante l’anno, a Villa Somalia, due attentati mortali hanno fatto seguito a una serie di altri attentati compiuti nel 2013. Ad agosto, in un complesso attentato a una struttura di detenzione della sicurezza nazionale, sono rimasti uccisi due civili. Almeno 10 persone sono morte in un attentato contro il parlamento a maggio. Le offensive condotte dalle truppe governative e dell’Amisom hanno portato a un incremento degli abusi di tutte le parti impegnate nel conflitto. Sono proseguiti anche i bombardamenti aerei.

Attacchi deliberati contro civili A Mogadiscio, i civili sono rimasti a rischio di attacchi e uccisioni mirate. Durante il ramadan, a luglio, i tentati omicidi registrati hanno raggiunto livelli mai visti, da quando al-Shabab perse il controllo di gran parte di Mogadiscio nel 2010. Il 27 luglio, un imprenditore è morto sotto i colpi sparati da uomini armati non identificati mentre era nel suo negozio al mercato di Bakara. Il 23 set- tembre, una donna è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco nel distretto di Heliwa. La donna aveva la- vorato come cuoca per le forze delle Snaf, a Mogadiscio. Fazioni di al-Shabab hanno continuato a commettere torture e uccisioni illegali contro persone che ri- tenevano essere spie o che non si erano adeguate alla rigida interpretazione della legge islamica. Hanno ucciso persone in pubblico, anche tramite lapidazione, e hanno effettuato amputazioni e fu- stigazioni. Hanno continuato a imporre codici di comportamento restrittivi sia a donne sia a uomini. Il 27 settembre, una donna sarebbe stata lapidata a morte a Barawe, una cittadina nella bassa Sha- belle, perché sospettata di essere spostata con più di un uomo. Secondo le notizie riportate, la donna era stata interrata fino al collo e quindi lapidata a morte da uomini incappucciati davanti a una folla. Il 2 giugno, stando alle notizie, al-Shabab ha messo a morte tre uomini, accusati di essere spie per conto dell’Sfg e dei governi del Kenya e degli Usa. Gli uomini sono stati fucilati da un plotone di esecuzione in un parco di Barawe, davanti a una folla di diverse centinaia di persone.1 Le forze governative e le milizie alleate hanno continuato a compiere uccisioni illegali, estorsioni, arresti arbitrari e stupri, in parte a causa della scarsa disciplina e della mancanza di controllo a livello di comando. Il 25 agosto, secondo i resoconti, un soldato delle Snaf ha fatto fuoco uccidendo l’autista di un minibus, nella zona di Afar-Irdood, nel distretto di Xamar Weyne, dopo che questi si era rifiutato di pagare una somma a titolo di estorsione.

BAMBINI SOLDATO Tutte le parti impegnate nel conflitto hanno continuato a compiere gravi abusi nei confronti di minori. Al-Shabab ha costantemente preso di mira minori per reclutarli nelle proprie file o per matrimoni forzati e ha attaccato scuole. Milizie affiliate al governo sono state nuovamente accusate di aver reclutato e impiegato bambini soldato. L’applicazione dei due progetti siglati dal governo nel 2012 per porre fine e prevenire il reclutamento e l’impiego di bambini soldato, oltre che l’uccisione e la meno- mazione di minori, era rimasta in sospeso e pertanto nelle forze armate continuavano a essere presenti minori. Il ministro della Difesa e il ministro della Sicurezza nazionale hanno firmato un protocollo di procedure operative standard per gestire i minori che erano stati in precedenza legati a gruppi armati. A fine anno, l’Sfg non aveva ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e i relativi Protocolli opzionali, malgrado gli impegni assunti a ratificare i suddetti trattati.

110 SFOLLATI INTERNI, RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI Oltre un milione di persone in Somalia viveva in condizioni critiche e altre 2,1 milioni di persone ne- cessitavano di assistenza. Per la prima volta dalla carestia del 2011, la sicurezza alimentare ha iniziato rapidamente a deteriorarsi. Stando alle notizie, durante l’anno insicurezza e combattimenti hanno causato oltre il 60 per cento di nuovi sfollamenti. Le vie commerciali hanno subito gravi inter- ruzioni a causa delle offensive militari delle Snaf e dell’Amisom; al-Shabab ha bloccato i canali di approvvigionamento, causando le maggiori interruzioni al lavoro delle organizzazioni umanitarie che cercavano di raggiungere i centri abitati. Questa situazione ha portato a bruschi incrementi dei prezzi dei beni alimentari. Nell’insieme, queste problematiche hanno portato la Somalia a rischiare di scivolare nuovamente in uno stato d’emergenza umanitaria. A Mogadiscio, decine di migliaia di persone sono state sgomberate con la forza da proprietà demaniali e private. Molti si sono spostati nelle zone periferiche di Mogadiscio, compreso il corridoio di Afgooye, dove la sicurezza e l’accesso ai servizi erano scarsi. In queste aree, sono stati segnalati sempre più spesso episodi di stupro e altre forme di violenza sessuale contro donne e ragazze. Un quadro normativo sugli sfollati interni redatto ad aprile non era stato ancora approvato. Nella regione erano presenti oltre 900.000 rifugiati somali, in particolare in Etiopia e in Kenya. I progetti delle autorità keniane di rimandare indietro i cittadini somali sono proseguiti, nonostante le gravi violazioni dei diritti umani, compreso il rimpatrio forzato di 359 persone e l’accampamento forzato di migliaia di altre. Altri stati che ospitavano rifugiati e richiedenti asilo somali, compresi alcuni stati dell’Eu, hanno avviato tentativi per rimandare a Mogadiscio i richiedenti asilo somali re- spinti, con la motivazione che era venuta meno la necessità di una loro protezione a causa di un ap- parente miglioramento della sicurezza nell’area.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE – GIORNALISTI Giornalisti e operatori dei mezzi d’informazione somali hanno continuato a essere attaccati, vessati e intimiditi. Il 21 giugno, Yusuf Ahmed Abukar è stato ucciso mentre andava al lavoro dall’esplosione di una bomba piazzata sulla sua auto. Yusuf lavorava come cronista per la stazione radiofonica privata Mustaqbal, a Mogadiscio, e per l’emittente radiofonica con base a Nairobi, Ergo. Il primo ministro ha dichiarato che l’attentato era oggetto di un’indagine, tuttavia a fine anno Amnesty Inter- national non era a conoscenza di alcun progresso sul caso. La libertà dei mezzi d’informazione ha continuato a essere limitata, giornalisti sono stati arrestati e agenzie di stampa sono state chiuse. Ad agosto, le emittenti Radio Shabelle e Sky Fm sono state chiuse e 19 dei loro giornalisti e operatori sono stati arrestati, compreso Abdimaalik Yusuf Mohamoud, proprietario di Radio Shabelle, e Mohamud Mohamed Dahir, direttore di Sky Fm. Il 21 ottobre, Abdimaalik Yusuf Mohamoud e il conduttore del notiziario di Radio Shabelle, Ahmed Abdia Hassan, sono comparsi di fronte a un giudice per rispondere di accuse come incitamento al disturbo dell’ordine pubblico e istigazione a reato. Entrambi hanno respinto le accuse e sono stati rilasciati su cauzione, mentre il ca- poredattore di Radio Shabelle Mohamed Bashir Hashi e Mohamud Mohamed Dahir non sono stati chiamati a comparire in tribunale. A giugno, il gabinetto di governo ha esaminato un restrittivo progetto di legge sui mezzi d’informazione, che proponeva di limitare i diritti degli organi di stampa. A settembre, l’Agenzia d’intelligence e sicurezza nazionale (National Intelligence and Security Agency – Nisa) ha stabilito la messa al bando della copertura di tutte le attività di al-Shabab da parte dei mezzi di co- municazione. Al-Shabab ha imposto pesanti restrizioni alla libertà dei mezzi d’informazione e ha

111 vietato l’accesso a Internet nelle zone sotto il suo controllo. Poco è stato fatto per affrontare l’impunità per l’omicidio di giornalisti, nonostante la creazione nel 2012 di una task force governativa a tal scopo. Persone sospettate di aver ucciso giornalisti hanno continuato a godere dell’impunità. A fine anno, soltanto in due degli oltre 20 casi di giornalisti uccisi dal 2005, i procedimenti giudiziari si sono conclusi con verdetti di colpevolezza. A marzo 2013, un tribunale militare aveva condannato a morte Adan Sheikh Abdi Sheikha Hussein per l’omicidio di Hassan Yusuf Absuge, avvenuto nel 2012, in un processo che non ha rispettato gli standard processuali dovuti. È stato fucilato ad agosto 2013.

PENA DI MORTE La Somalia ha continuato a ricorrere alla pena capitale, malgrado il suo appoggio a una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2012 per una moratoria sulla pena di morte. Molte delle esecuzioni sono state disposte dal tribunale militare e hanno spesso riguardato membri dei gruppi armati d’opposizione somali come al-Shabab, soldati governativi e persone giudicate colpevoli di omicidio. In molte occasioni, le esecuzioni sono state effettuate in maniera sbrigativa, in seguito a procedimenti che non rispettavano gli standard internazionali di equità processuale. Pare che durante l’anno ci sia stata un’impennata del numero di esecuzioni. Il 3 aprile, un uomo è stato messo a morte tramite fu- cilazione a Kismayo, nove giorni dopo il presunto omicidio di un anziano. Non era chiaro quale tribunale lo avesse giudicato colpevole, se ce n’era stato uno. Il 30 luglio, il tribunale militare della Somalia ha emesso condanne a morte nei confronti di tre uomini per presunta appartenenza ad al- Shabab. Quattro giorni dopo, su Twitter sono circolate fotografie che verosimilmente ritraevano i loro corpi. Il 30 agosto, il tribunale militare della Somalia ha ritenuto i presunti membri di al-Shabab Ali Bashir Osman e Abdulahi Sharif Osman colpevoli dell’uccisione del giornalista Timacade nel 2013 e li ha condannati a morte. I due uomini sono stati fucilati il 26 ottobre in pubblico.

Note 1. Forced returns to south and central Somalia, including to al-Shabaab areas: A blatant violation of international law, 23 ottobre 2014, www.amnesty.org/en/library/info/AFR52/005/2014/en

SUD SUDAN

REPUBBLICA DEL SUD SUDAN

Capo di stato e di governo: Salva Kiir Mayardit

Il conflitto armato interno scoppiato a dicembre 2013 ha provocato decine di migliaia di morti e la di- struzione di intere città. Le persone sfollate internamente sono state all’incirca 1,4 milioni mentre altre 500.000 sono fuggite nei paesi vicini. Le persone ad alto rischio d’insicurezza alimentare erano

112 circa quattro milioni e le Nazioni Unite hanno ripetutamente avvertito che il proseguimento del conflitto avrebbe portato a un peggioramento della crisi umanitaria e a una potenziale carestia. No- nostante un accordo per la cessazione delle ostilità siglato a gennaio e i continui sforzi da parte del- l’Autorità intergovernativa sullo sviluppo (Intergovernmental Authority on Development – Igad) di ne- goziare una soluzione politica al conflitto, i combattimenti sono proseguiti per tutto l’anno. Il conflitto è stato caratterizzato da un totale disprezzo delle norme internazionali sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario e da un mancato accertamento delle responsabilità per gli abusi commessi nel contesto del conflitto.

CONTESTO Il 15 dicembre 2013, una crisi politica all’interno del partito di governo del Sud Sudan, Movimento per la liberazione del popolo sudanese (Sudan People’s Liberation Movement – Splm) ha conosciuto un’escalation fino a sfociare in uno scontro armato a Juba tra le truppe fedeli al presidente Kiir e quelle legate all’ex vicepresidente Riek Machar. A fine 2013, la violenza si era propagata negli stati di Jonglei, Unity e dell’Alto Nilo. A gennaio, l’Igad, un’organizzazione regionale che riunisce otto stati dell’Africa orientale, ha iniziato la sua opera di mediazione tra il governo del Sud Sudan e l’Esercito di liberazione del popolo sudanese/Movimento in opposizione (Sudan People’s Liberation Army/Movement in Opposition – Spla/M-io). Il 23 gennaio, le parti hanno siglato un accordo per la cessazione delle ostilità, che è stato tuttavia violato quasi subito dopo la firma. Successivamente, il 5 maggio, le parti si sono im- pegnate di nuovo a cessare le ostilità ma, nonostante abbiano firmato un accordo per la risoluzione della crisi il 9 dello stesso mese, il conflitto è continuato. A giugno, la partecipazione ai negoziati promossi dall’Igad è stata allargata ad altri gruppi interessati, tra cui diversi leader dell’Splm che erano stati arrestati a dicembre con l’accusa di aver partecipato a un tentativo di colpo di stato. Sette sono stati rilasciati a fine gennaio, mentre altri quattro dovevano essere processati per tradimento ma sono stati rimessi in libertà verso fine aprile, dopo che l’esecutivo aveva ritirato le accuse contro di loro. Anche delegati della società civile, partiti politici e gruppi religiosi hanno preso parte ai colloqui. L’Igad ha proseguito i propri sforzi per tentare di raggiungere una soluzione politica. L’8 novembre, i capi di stato dell’Igad hanno emanato una risoluzione che accordava alle parti belligeranti 15 giorni di tempo per consultarsi con il loro elettorato in merito alla struttura di un governo di transizione. La risoluzione impegnava di nuovo le parti a porre fine alle ostilità e stabiliva che ulteriori violazioni del- l’accordo per la cessazione delle ostilità avrebbero portato al congelamento dei beni, a divieti di viaggio e a un embargo sulle armi. I leader dell’Igad hanno inoltre autorizzato l’organizzazione a in- tervenire direttamente in Sud Sudan al fine di proteggere vite umane e ristabilire la pace. Il 24 dicembre 2013, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva approvato un aumento a 12.500 unità del contingente militare della Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan (United Nations Mission in South Sudan – Unmiss) e un incremento delle forze di polizia della missione fino a un massimo di 1323 elementi. A maggio, il Consiglio di sicurezza ha riveduto il mandato dell’Unmiss per concentrare gli sforzi sulla protezione dei civili, con il mandato di monitorare e indagare sui diritti umani, creare le condizioni per la fornitura degli aiuti umanitari e sostenere l’applicazione dell’accordo per la cessazione delle ostilità. A marzo, l’Au ha istituito una commissione d’inchiesta ma a fine anno il suo rapporto finale non era

113 stato ancora reso pubblico. Il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Au (Peace and Security Council – Psc) ha ripetutamente condannato l’uccisione di civili e le violazioni dell’accordo per la cessazione delle ostilità del 23 gennaio da parte di entrambe le parti in conflitto. Il Psc dell’Au ha inoltre dichiarato di essere pronto, su raccomandazione dell’Igad, ad adottare sanzioni mirate e altre misure contro qualsiasi parte avesse messo a rischio la ricerca di una soluzione al conflitto.

CONFLITTO ARMATO INTERNO Sia le truppe governative sia le forze d’opposizione hanno dimostrato disprezzo del diritto internazionale umanitario. Anche altri gruppi armati, compreso l’Esercito bianco, alleato con l’opposizione, e il Mo- vimento giustizia e uguaglianza sudanese (Sudanese Justice and Equality Movement – Jem), che combatteva per conto del governo, hanno commesso violazioni del diritto internazionale umanitario. Nei giorni successivi allo scoppio della violenza a Juba, soldati governativi hanno preso di mira e ucciso persone sulla base della loro appartenenza etnica e presunta affiliazione politica. Centinaia di civili nuer e soldati governativi che erano stati catturati e disarmati e altrimenti posti fuori combat- timento sono stati sommariamente uccisi, principalmente per mano di membri delle forze armate di etnia dinka. Molti nuer sono stati uccisi all’interno o nei pressi delle loro abitazioni. Alcuni uomini sono stati prelevati da casa o per strada e quindi portati via per poi essere uccisi in altre località. In un episodio, oltre 300 persone sono state uccise all’interno di un edificio della polizia a Gudele. Le parti in conflitto hanno attaccato civili che avevano cercato riparo all’interno di ospedali e luoghi di culto. Per fare un esempio, dopo che le forze governative hanno riconquistato il controllo della città di Bor il 18 gennaio, sono stati rinvenuti i corpi di 18 donne, tutte di etnia dinka, all’interno e nelle vi- cinanze del complesso della cattedrale di Sant’Andrea. Si ritiene che siano state vittime di un attacco da parte delle forze d’opposizione. All’ospedale di Bor sono stati ritrovati i resti di 15 persone, donne e uomini. Quando le forze d’opposizione hanno attaccato Malakal per la terza volta a metà febbraio, hanno preso di mira l’ospedale universitario della città e ucciso alcuni civili che si erano rifugiati al suo interno. Sono dilagati i casi di violenza sessuale legata al conflitto. Questi comprendevano stupri di gruppo, donne incinte sventrate e donne stuprate con bastoni di legno o bottiglie di plastica.1 Almeno quattro ragazze che si erano rifugiate nella chiesa di Cristo re, a Malakal, sono state rapite dalle forze d’op- posizione la notte del 25 febbraio e stuprate nelle vicinanze. Sia le truppe governative sia le forze d’opposizione hanno raso al suolo abitazioni, danneggiato e di- strutto strutture medico-sanitarie e saccheggiato istituti pubblici e proprietà private, oltre che negozi di generi alimentari e gli aiuti delle agenzie umanitarie. I saccheggi e le devastazioni hanno pratica- mente distrutto Bor, Bentiu, Malakal e molte altre città. L’Unicef ha calcolato che le parti in conflitto avevano reclutato all’incirca 9000 minori per combattere nelle file delle forze armate e nei gruppi armati. All’interno o nelle immediate vicinanze di basi delle Nazioni Unite si sono verificati episodi in cui sono stati feriti, rapiti o uccisi civili. Il 19 dicembre, all’incirca 2000 giovani armati hanno circondato la base dell’Unmiss ad Akobo, nello stato di Jonglei, e hanno fatto fuoco, uccidendo due peacekeeper e circa 20 civili che avevano cercato riparo all’interno. Il 17 aprile, nel corso di un attacco armato a una base dell’Unmiss a Bor sono rimasti uccisi oltre 50 sfollati interni. Gli ostacoli alla distribuzione degli aiuti umanitari ha di fatto impedito ai civili di accedere ad aiuti salvavita. Le parti belligeranti hanno inoltre attaccato dipendenti delle Nazioni Unite e operatori

114 umanitari. Ad agosto, membri della Forza di difesa mabanese, una milizia alleata con il governo, hanno ucciso cinque operatori umanitari di etnia nuer. Non si è saputo più nulla di due dipendenti delle Nazioni Unite di etnia nuer rapiti dalle milizie shilluk del leader Johnson Olony, alleate con le forze governative. A settembre, un elicottero dell’Unmiss è stato abbattuto, causando la morte di tre membri dell’equipaggio.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Le autorità, specialmente il servizio di sicurezza nazionale (National Security Service – Nss), hanno vessato e intimidito giornalisti e difensori dei diritti umani. L’Nss non ha esitato a convocare giornalisti per interrogarli, ad arrestarli arbitrariamente e in alcuni casi a emanare ordini di espulsione dal paese. A marzo, l’Nss ha ordinato al quotidiano in lingua araba Almajhar Alsayasy di cessare la pubblicazione a causa della descrizione che aveva dato della genesi del conflitto e per aver intervistato esponenti politici critici nei confronti del governo. A giugno, funzionari dell’Nss hanno contattato i caporedattori di diverse testate giornalistiche, dando loro istruzione di sospendere la pubblicazione di articoli che mettevano in discussione il sistema di governo federale. Il 2 luglio, funzionari dell’Nss si sono presentati negli uffici del giornale Juba Monitor e hanno sequestrato le tirature, a causa di due editoriali sul tema del federalismo. La mattina del 7 luglio circa 15 agenti armati dell’Nss hanno confiscato tutte le 3000 copie del quotidiano The Citizen. Il 1° agosto, Deng Athuai Mawiir, presidente temporaneo dell’Alleanza per la società civile sudsudanese e membro della delegazione delle associazioni di cittadini che aveva partecipato ai negoziati mediati dall’Igad, è stato ferito alla coscia da proiettili sparati da un uomo armato non identificato. Anche se l’autore materiale e il movente dell’aggressione sono rimasti sconosciuti, l’episodio ha contribuito ad alimentare un clima di paura tra attivisti della società civile, giornalisti e difensori dei diritti umani.2

SISTEMA GIUDIZIARIO Il sistema di giustizia penale ha regolarmente fallito nel garantire l’accertamento delle responsabilità nei casi di violazioni dei diritti umani, a causa della debolezza del sistema, caratterizzato dall’inade- guata capacità tecnica rispetto ai metodi d’indagine, la mancanza di periti legali, l’interferenza o la resistenza da parte dei servizi di sicurezza e del governo e l’assenza di programmi di sostegno alle vittime e di protezione dei testimoni. Il sistema giudiziario non è stato inoltre in grado di garantire l’applicazione delle procedure dovute e l’equità dei processi. Tra le violazioni dei diritti umani più comuni c’erano arresti e detenzioni arbitrari, detenzione preprocessuale prolungata e l’incapacità di assicurare il diritto degli accusati di ricevere l’assistenza legale. Due dipendenti dell’Unmiss sono stati arrestati dall’Nss a Wau ad agosto e trasferiti a Juba. A fine anno si trovavano ancora in detenzione presso il quartier generale dell’Nss. A loro carico non erano state formulate imputazioni né erano stati portati davanti a un’autorità giudiziaria competente. Il conflitto armato interno ha acuito le preesistenti problematiche che caratterizzavano il sistema giudiziario, in particolare negli stati di Jonglei, di Unity e dell’Alto Nilo. La capacità della polizia e della magistratura di far osservare la legge è stata compromessa dalla militarizzazione e dalla defezione di molti poliziotti. Rappresentanti della magistratura e del ministero della Giustizia hanno

115 abbandonato i suddetti stati a seguito dell’insorgere della violenza e a fine anno non erano ancora rientrati al loro posto.

MANCATO ACCERTAMENTO DELLE RESPONSABILITÀ Il governo non ha condotto indagini tempestive, imparziali e indipendenti nell’ottica di perseguire e accertare le responsabilità di individui sospettati di aver commesso crimini di diritto internazionale e gravi violazioni dei diritti umani. Il presidente Kiir ha istituito un comitato incaricato d’indagare le violazioni dei diritti umani che sa- rebbero state commesse durante un tentato colpo di stato, il 15 dicembre 2013. All’ufficio di presidenza spettava il compito di selezionarne gli otto componenti e di finanziarne le attività; il comitato era inoltre tenuto a riferire direttamente al presidente. A fine anno non era stato ancora reso pubblico alcun rapporto o aggiornamento sui risultati raggiunti dal comitato. L’Spla ha istituito due commissioni d’inchiesta a fine dicembre 2013. A febbraio 2014, l’Spla ha an- nunciato che a seguito delle indagini erano state arrestate circa 100 persone. Tuttavia, erano tutte fuggiti il 5 marzo durante uno scontro a fuoco tra soldati, all’interno della caserma militare di Giyada, a Juba, dove si trovavano detenuti. A novembre, l’Spla ha annunciato che due persone erano state ar- restate nuovamente per il ruolo svolto nelle violazioni che erano state commesse a dicembre. Non sono state rese note informazioni relative all’identità di queste persone o circa le accuse a loro ca- rico. Il 30 dicembre 2013, il Psc dell’Au ha sollecitato la creazione di una Commissione d’inchiesta dell’Au sulle violazioni dei diritti umani e gli abusi commessi durante il conflitto armato in Sud Sudan. Compito della Commissione era tra l’altro di raccomandare provvedimenti per garantire l’accertamento delle responsabilità e la riconciliazione. I membri della Commissione, presieduta dall’ex presidente della Nigeria, Olusegun Obasanjo, hanno prestato giuramento a marzo. Nel suo rapporto provvisorio di giugno, la Commissione d’inchiesta affermava di non essere ancora in grado di determinare se fossero stati commessi crimini di diritto internazionale. Ha poi presentato il suo rapporto finale alla Commissione dell’Au a ottobre ma a fine anno non era stato ancora diffuso pubblicamente.

SVILUPPI LEGISLATIVI Il Sud Sudan non aveva ancora aderito ad alcun trattato internazionale o regionale sui diritti umani. Nonostante il parlamento avesse votato la ratifica di diversi trattati e il presidente Kiir avesse firmato i relativi strumenti di adesione, il governo non aveva ancora provveduto a depositare formalmente gli strumenti di adesione presso l’Au o le Nazioni Unite. Questi trattati erano: la Convenzione africana sui diritti umani e dei popoli; la Convenzione che regola aspetti specifici delle problematiche dei rifugiati in Africa; la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia; la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e la Cedaw. Un progetto di legge sul servizio di sicurezza nazionale ha trovato l’approvazione del parlamento l’8 ottobre ed era in attesa di essere controfirmato dal presidente a dicembre. Il documento garantiva ampi poteri all’Nss, compresa la facoltà di arresto e detenzione, senza adeguate garanzie di una su- pervisione indipendente o salvaguardie contro eventuali abusi. Esperti di diritti umani sia a livello nazionale sia internazionale, oltre che alcuni parlamentari, hanno esortato il presidente Kiir a consi- derare il documento irricevibile e a rinviarlo al parlamento per modificarlo.3 Un progetto di legge sulle Ngo all’esame del parlamento avrebbe limitato il diritto alla libertà d’asso-

116 ciazione. La proposta avrebbe reso obbligatoria la registrazione delle Ngo, pena il divieto di operare, e avrebbe criminalizzato le attività di volontariato svolte in assenza di un certificato di registrazione. Il quadro legislativo nazionale non forniva una definizione di reati di diritto internazionale, come crimini contro l’umanità e genocidio, né prevedeva sanzioni in merito. Inoltre non dava una definizione di tortura né la contemplava come reato. Inoltre non considerava la responsabilità di comando o co- munque di grado superiore in crimini di diritto internazionale.

Note 1. Nowhere safe: Civilians under attack in South Sudan (AFR 65/003/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/ AFR65/003/2014/en/89dfe37e-3c3c-465b-b49a ba3abaec3a91/afr650032014en.html 2. South Sudan: Investigate shooting of civil society leader (AFR 65/008/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/ AFR65/008/2014/en/14d8fac1-d9e6-494f-be31 f3a5476f1f73/afr650082014en.html 3. Comments on the 8 October Draft Security Bill, Amnesty International, Community Empowerment for Progress Organisation (CEPO), The Enough Project, Human Rights Watch, South Sudan Action Network on Small Arms, Redress (AFR 65/013/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/AFR65/013/2014/en/167e0a88-6009-4dd1-8554-9ab3b0e83b3d/afr650132014en.pdf

SUDAFRICA

REPUBBLICA DEL SUDAFRICA

Capo di stato e di governo: Jacob G. Zuma

Commissioni d’inchiesta giudiziaria hanno messo in luce l’uso eccessivo della forza da parte della polizia, incluse uccisioni illegali, e la mancanza di servizi forniti alle comunità povere. Hanno continuato a verificarsi episodi di distruzione di proprietà e di sfollamento di rifugiati e richiedenti asilo. L’accesso alle cure per le persone sieropositive all’Hiv è andato progressivamente ampliandosi e gli interventi terapeutici per le donne incinte sieropositive hanno contribuito a far diminuire il tasso di mortalità materna. Tuttavia, alcuni ostacoli di natura discriminatoria hanno continuato a ritardare l’accesso alle cure prenatali per donne e ragazze. Sono stati compiuti progressi per contrastare i crimini motivati dall’odio sulla base dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere delle vittime. I difensori dei diritti umani sono stati al centro d’intimidazioni e minacce.

CONTESTO In seguito alle elezioni generali di maggio, il partito di governo, Congresso nazionale africano (African National Congress – Anc), è ritornato al potere in otto delle nove province sudafricane, registrando tuttavia una diminuzione del consenso a livello nazionale, con il 62,15 per cento dei voti. Un nuovo partito politico, i Combattenti per la libertà economica (Economic Freedom Fighters), ha ottenuto il 6,35 per cento dei voti e, assieme al solido partito d’opposizione, Alleanza democratica (Democratic

117 Alliance), ha aumentato la pressione sul governo dell’Anc all’interno del parlamento nazionale, per una maggiore trasparenza e senso di responsabilità. L’accesso alle terapie antiretrovirali per le persone sieropositive all’Hiv è andato progressivamente allargandosi e, secondo i dati ufficiali forniti a luglio, i cittadini sudafricani in trattamento erano 2,5 milioni. Ciò ha portato a un allungamento dell’aspettativa di vita in Sudafrica.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA La commissione Marikana, incaricata d’indagare sul mortale episodio occorso a Marikana ad agosto 2012, in cui la polizia aprì il fuoco uccidendo 34 lavoratori di una miniera di platino che erano scesi in sciopero, ha concluso le proprie udienze pubbliche il 14 novembre. Sono state ascoltate le arringhe conclusive delle parti legali che rappresentavano polizia, i sindacati dei minatori, la Lonmin plc, le famiglie dei 34 lavoratori della miniera in sciopero uccisi dalla polizia e le famiglie di altre sette persone, e precisamente tre lavoratori che non avevano aderito allo sciopero, due agenti di polizia e due guardie di sicurezza della Lonmin, le quali rimasero uccise nell’evolversi dello scontro. I commissari avrebbero riferito le loro conclusioni e raccomandazioni al presidente Zuma nel 2015. Sono emerse indicazioni secondo cui la polizia aveva tentato di occultare e distruggere alcune prove e di architettare una versione dei fatti per sviare l’inchiesta ufficiale sin dal suo inizio. In una riunione decisiva tenuta la sera del 15 agosto 2012, ufficiali di polizia avevano deciso di disarmare con la forza, disperdere e arrestare i lavoratori della miniera in sciopero entro la fine del giorno seguente. Ufficiali di rango della polizia, in particolare il commissario nazionale della polizia, hanno insistito a non voler collaborare con le indagini svolte dalla commissione, che intendevano far luce sulla suddetta riunione. La decisione di disarmare i minatori in sciopero era stata assunta nonostante si potesse prevedere la perdita di vite umane e il ferimento di persone. Tale decisione aveva portato allo schie- ramento di “unità tattiche” armate di forza letale, all’utilizzo da parte della polizia di oltre 600 munizioni vere verso due obiettivi distinti e alla morte di 34 persone. Le ferite mortali riportate dalle vittime erano quasi tutte alla testa o nella parte superiore del corpo.1 Altre prove presentate alla commissione indicavano che coloro che avevano avuto un ruolo nella de- cisione non avevano previsto un adeguato piano di soccorsi di emergenza medica.

RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE L’esame delle prove presentate alla commissione Marikana, riguardanti i rapporti di lavoro e le condizioni socioeconomiche che avevano portato allo sciopero di agosto 2012, è risultato approssimativo a causa dell’esigenza della commissione di completare i propri lavori. Tuttavia, la Lonmin è stata oggetto di un’accurata verifica negli ultimi mesi, in relazione alla sua mancata adozione di adeguate misure in grado di proteggere la vita del personale di sicurezza e dei dipendenti della società e alla mancata realizzazione degli obblighi socioeconomici d’impresa legati alla sua concessione mineraria a Marikana. Il 20 agosto, lo stato ha ritirato tutte le accuse, anche quelle relative a possesso di armi pericolose e coinvolgimento in raduno illegale, che erano state formulate a carico dei 270 scioperanti arrestati sulla scena delle sparatorie della polizia il 16 agosto 2012.

ESECUZIONI EXTRAGIUDIZIALI L’inizio del processo a 27 poliziotti, la maggior parte dei quali appartenenti all’unità per il crimine or-

118 ganizzato Cato Manor (Cato Manor Organized Crime Unit – Cmu), per 28 campi d’imputazione di omi- cidio e altre accuse, ha subito ulteriori ritardi dopo che gli imputati erano comparsi in udienza presso l’Alta corte di Durban il 23 giugno. Il procedimento è stato quindi rinviato a febbraio 2015. Gli agenti dovevano rispondere di una serie d’imputazioni in relazione, tra l’altro, alla morte di Bongani Mkhize. A maggio, l’Alta corte di Pietermaritzburg ha stabilito che il ministro della Polizia era tenuto al paga- mento dei danni alla famiglia di Bongani Mkhize, ucciso da membri della Cmu e dell’unità d’intervento nazionale, a febbraio 2009. A febbraio 2014, l’Alta corte ha stabilito che le decisioni assunte dal direttore nazionale delle procure generali (National Director of Public Prosecutions – Ndpp) di perseguire penalmente l’ex comandante della Cmu, Johan Booysen, in relazione a sette capi d’imputazione per associazione a delinquere ai sensi della legge sulla prevenzione del crimine organizzato, era arbitraria e contraria al principio di legalità. Se da un lato la sentenza riguardante le decisioni di perseguire le accuse secondo la legge sarebbe stata dunque accantonata, il giudice dell’Alta corte Trevor Gorven ha tenuto a precisare che la sentenza in ogni caso non precludeva alla Ndpp di ripristinare le imputazioni opportunamente for- mulate in futuro.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le accuse di tortura e altri maltrattamenti da parte del servizio di polizia sudafricano (South African Police Service – Saps) e del dipartimento per i servizi correzionali sono state frequenti. Verso fine anno, la divisione servizi legali della Saps ha emanato un manuale nazionale a tutti i suoi membri, informandoli dell’assoluto divieto di tortura e degli obblighi cui erano vincolati ai sensi della legge per prevenire e combattere la tortura delle persone, del 2013. Il 30 ottobre, la Corte costituzionale ha respinto il ricorso presentato dal commissario nazionale della Saps, il quale si era rifiutato di svolgere indagini in merito alle denunce di tortura contenute in un “dossier” del 2008 del Forum degli esuli dello Zimbabwe e del Centro sudafricano per le cause penali sui diritti umani. La Corte costituzionale ha concluso che la Saps aveva sia il potere sia il dovere di con- durre indagini sulle presunte accuse, che riguardavano reati equiparabili a crimini contro l’umanità.

PENA DI MORTE A settembre, l’Alta corte del North Gauteng ha stabilito che l’espulsione in Botswana di Edwin Samotse, un cittadino botswano, da parte del dipartimento degli Affari interni (Department of Home Affairs – Dha) era illegale e incostituzionale. Edwin Samotse doveva rispondere di accuse penali in Botswana per le quali era applicabile la pena di morte. Le autorità sudafricane non avevano ottenuto la necessaria assunzione d’impegno da parte delle autorità del Botswana che la pena di morte non sarebbe stata comminata. La corte ha ordinato al Dha di provvedere ad adottare le necessarie misure al fine di prevenire il verificarsi di analoghe espulsioni.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Durante l’anno si sono verificati numerosi episodi che hanno implicato minacce e violenza nei confronti di rifugiati, richiedenti asilo e migranti, con saccheggio o distruzione di centinaia di piccole attività imprenditoriali e abitazioni. Nei primi quattro mesi dell’anno, gli episodi occorsi in sette province hanno portato allo sfollamento di oltre 1600 persone. A giugno, le pesanti aggressioni nell’area di Mamelodi, vicino a Pretoria, e la lenta risposta della polizia, hanno portato al saccheggio e alla di-

119 struzione di circa 76 negozi di proprietà di cittadini somali, a sfollamenti su vasta scala, alla morte di un rifugiato e al ferimento di altri 10.2 È stata motivo di costante preoccupazione l’incapacità del governo di proteggere la vita e l’integrità fisica dei rifugiati e di altre persone che necessitavano di protezione internazionale. A settembre, la Corte suprema d’appello (Supreme Court of Appeal – Sca) ha rovesciato una precedente sentenza dell’Alta corte che aveva di fatto consentito la chiusura forzata da parte della polizia e delle autorità municipali di piccole attività imprenditoriali gestite dai rifugiati, nel quadro della cosiddetta operazione “Bastone duro”. Tali chiusure erano state accompagnate da maltrattamenti, abusi, sfol- lamento e indigenza. La Sca ha stabilito che sia i rifugiati formalmente riconosciuti sia i richiedenti asilo avevano diritto a presentare domanda per il rilascio delle licenze commerciali, soprattutto questi ultimi, dati i lunghi ritardi riscontrati nella determinazione della loro richiesta d’asilo. A novembre, sono state ritirate le accuse depositate presso l’Alta corte del North Gauteng contro 15 dei 20 uomini congolesi, processati per presunte infrazioni della legge sul regolamento degli aiuti militari esteri del Sudafrica. Gli imputati dovevano rispondere anche di un secondo capo d’imputazione, ovvero cospirazione finalizzata all’omicidio, i cui obiettivi sarebbero stati tra gli altri il presidente della Repubblica Democratica del Congo (Democratic Republic of Congo – Drc), Joseph Kabila, ufficiali militari e altre autorità di governo. Cinque imputati, tutti originari della Drc, rimanevano sotto processo davanti all’Alta corte per rispondere delle medesime accuse e il loro processo doveva riprendere a gennaio 2015. All’epoca dell’arresto, a febbraio 2013, tutti e 20 furono rinviati in carcere in attesa di giudizio a Pretoria, fino all’inizio del processo 17 mesi dopo. Il giudice che presiedeva l’udienza ha ordinato un’indagine sulle accuse di maltrattamento avanzate dagli imputati, compresi lunghi periodi trascorsi in isolamento mentre erano in attesa di giudizio in carcere.

MORTALITÀ MATERNA E HIV L’infezione da Hiv ha continuato a rappresentare la causa principale di morte per donne e ragazze in gravidanza e durante il primo periodo postnatale, facendo registrare una percentuale di decessi su- periore al 40 per cento. Secondo i dati forniti dal governo, il 60 per cento di tutte le morti materne erano potenzialmente evitabili. La percentuale del 29,5 per cento d’incidenza dell’infezione da Hiv tra le donne in gravidanza registrata a livello nazionale è rimasta un dato preoccupante, con le province di Mpumalanga e KwaZulu-Natal che raggiungevano percentuali superiori al 40 per cento. Secondo i nuovi dati nazionali resi pubblici nel 2014, quasi un quarto di tutti i nuovi contagi da Hiv riguardavano ragazze e giovani donne di età compresa tra i 15 e i 24 anni. A luglio, il ministro della Salute ha espresso preoccupazione per il fatto che i parti di ragazze al di sotto dei 18 anni rappresentassero il 7,8 per cento del totale dei nati vivi ma il 36 per cento delle morti materne. Le cifre fornite dal dipartimento per la Salute indicavano che il tasso di mortalità ma- terna era diminuito da 310 a 269 morti materne per 100.000 nati vivi. A luglio, il governo ha annunciato che a partire da gennaio 2015, l’accesso alle terapie antiretrovirali gratuite e a lungo termine sarebbe stato disponibile per tutte le donne in gravidanza sieropositive all’Hiv. Ad agosto, il governo ha annunciato un servizio di messaggi telefonici, denominato “Mamma connessa”, per fornire alle donne e ragazze incinte informazioni utili alla gravidanza. Permanevano tuttavia una serie di ostacoli nell’accesso ai servizi di salute materna. Donne e ragazze incinte si sono rivolte agli ambulatori di assistenza prenatale soltanto a gravidanza inoltrata e quasi un quarto delle morte materne evitabili in Sudafrica era collegato a questo ritardo. Donne e ragazze

120 hanno affermato di aver aspettato a rivolgersi agli ambulatori di assistenza prenatale in parte perché preoccupate che le strutture sanitarie non garantissero la riservatezza e un consenso informato, so- prattutto riguardo al test dell’Hiv. Hanno inoltre citato tra le difficoltà per un accesso tempestivo la mancanza d’informazioni disponibili, gli atteggiamenti negativi del personale sanitario e un servizio di trasporto inaffidabile o troppo costoso per raggiungere le strutture mediche. La povertà costituiva inoltre un fattore aggravante.3

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE La violenza di stampo discriminatorio contro le persone Lgbti ha continuato a essere motivo di preoc- cupazione e di paura. Nel 2013 e nel 2014, almeno cinque persone, comprese tre donne lesbiche, sono state assassinate in quelli che sono sembrati essere episodi di violenza mirata per motivi legati al loro orientamento sessuale o all’identità di genere. Sono stati compiuti alcuni progressi per contrastare i crimini motivati dall’odio tramite il ripristino delle funzioni della “task team” nazionale e la creazione di una squadra d’intervento rapido su iniziativa, tra gli altri, di funzionari del dipartimento di Giustizia e di altre autorità incaricate di seguire gli sviluppi costituzionali. A febbraio, la squadra d’intervento rapido ha documentato i progressi ottenuti in 19 dei 43 casi rimasti in precedenza “irrisolti” e che erano stati identificati come sospetti casi di violenza contro persone Lgbti. Rappresentanti della società civile e funzionari del dipartimento di Giustizia hanno inoltre dibattuto la bozza di un documento sulla linea politica nei casi di crimini motivati dall’odio, nell’intento di coa- diuvare la stesura di una legislazione specifica in materia di crimini d’odio. A fine anno non c’erano stati ulteriori progressi nell’iter di stesura e approvazione della legge. A novembre, l’Alta corte di Johannesburg ha giudicato colpevole un uomo per lo stupro e l’omicidio nel 2013 di una donna lesbica, Duduzile Zozo. Il giudice Tshifiwa Maumela ha fortemente condannato gli atteggiamenti discriminatori che alimentavano questo tipo di crimini.4 A fine anno, erano iniziate le fasi preliminari del processo contro un sospettato accusato dell’omicidio del ventunenne David Olyn, percosso e arso vivo a marzo, apparentemente a causa del suo orientamento sessuale. Osservatori della società civile avevano tuttavia espresso preoccupazione per i limiti delle indagini condotte dalla polizia. Il Sudafrica ha sostenuto l’adozione a maggio della risoluzione 275 della Commissione africana dei diritti umani e dei popoli, che sollecitava gli stati a porre fine agli atti di violenza e agli abusi a causa del reale o percepito orientamento sessuale o dell’identità di genere.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Hanno continuato a destare grave preoccupazione le vessazioni nei confronti dei difensori e delle or- ganizzazioni di tutela dei diritti umani e le indebite pressioni esercitate sulle istituzioni, compresi gli organi di controllo. L’ufficio del difensore civico e il suo direttore, Thuli Madonsela, sono stati oggetto di forti pressioni equiparabili a vere e proprie intimidazioni da parte di membri del governo, che hanno avuto luogo anche nella sua abitazione nella provincia del KwaZulu-Natal, in relazione alle in- dagini condotte dall’organo di controllo e al suo rapporto che accusava il presidente di uso illecito di fondi pubblici. A fine anno, non si era ancora concluso il procedimento giudiziario a carico di un membro fondatore della Coalizione per la giustizia sociale (Social Justice Coalition – Sjc), Angy Peter, e di altri tre

121 imputati. La Sjc, compreso Angy Peter, avevano raccolto prove nel 2012 a sostegno di una richiesta per istituire una commissione d’inchiesta sulla corruzione della polizia e sull’incapacità di fornire servizi alle comunità povere di Khayelitsha. La commissione d’inchiesta giudiziaria, istituita ad agosto 2012, ha finalmente iniziato le proprie udienze a febbraio 2014 e pubblicato il suo rapporto ad agosto. Le udienze avevano subito ritardi per più di un anno, fino a che la Corte costituzionale aveva alla fine emesso una sentenza nel 2013 contro l’allora ministro della Polizia, che si era opposto alla creazione della commissione. Nel suo rapporto, quest’ultima confermava molte delle preoccupazioni documentate dalla Sjc. Attivisti per il diritto alla salute hanno subito crescenti pressioni, in particolare nella provincia di Free State. Secondo quanto si è appreso, membri della Campagna d’azione per il trattamento terapeutico (Treatment Action Campaign – Tac) sarebbero stati minacciati e intimiditi da funzionari provinciali del partito Anc e da alcune telefonate anonime, a causa delle loro attività in favore delle persone sieropositive all’Hiv e contro la corruzione. Sello Mokhalipi, allora presidente provinciale della Tac, è entrato temporaneamente in clandestinità e ha in seguito sporto querela presso la polizia agli inizi del 2014, per le minacce di morte ricevute. Il coordinatore della Tac della provincia di Free State, Machobane Morake, sarebbe stato anch’egli al centro di intimidazioni. A luglio, i due uomini, e un terzo collega della Tac, sarebbero stati vittime di un tentativo d’imboscata di notte su una strada isolata. All’epoca stavano offrendo assistenza a 127 operatori sanitari della comunità del Free State e ad attivisti della Tac che erano stati arrestati durante una veglia pacifica davanti agli uffici del di- partimento della Salute della provincia di Free State. Gli arrestati sono rimasti trattenuti presso i commissariati di polizia di Bloemfontein per 36 ore prima di comparire in tribunale, dove sono stati incriminati per partecipazione a un raduno illegale. Dopo due udienze di rinvio a giudizio, il loro caso è stato aggiornato a gennaio 2015.

Note 1. South Africa: Unlawful force and the pattern of concealment: Barriers to accountability for the killings at Marikana (AFR 53/004/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AFR53/004/2014/en 2. South Africa: Government and police failing to protect Somali refugees from deadly attacks, www.amnesty.org/en/news/south- africa-government-and-police-failing-protect-somali-refugees-deadly-attacks-2014-06-12 3. Struggle for maternal health: Access barriers to antenatal care in South Africa (AFR 53/006/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/AFR53/006/2014/en 4. South Africa: Court’s judgment a positive step forward against hate crime (AFR 53/008/2014), www.amnesty.org/en/library/as- set/AFR53/008/2014/en/dc93fda1-e9d7-4a5b-86bf-ad102f0bc583/afr530082014en.html

122 SUDAN

REPUBBLICA DEL SUDAN

Capo di stato e di governo: Omar Hassan Ahmad Al Bashir

Sono state imposte gravi restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione, con un giro di vite su mezzi d’informazione, dibattiti pubblici e manifestazioni. Il conflitto armato in corso in Darfur e negli stati del Kordofan del Sud e del Nilo Blu ha continuato a provocare sfollamenti di massa e vittime civili; tutte le parti in conflitto hanno commesso violazioni dei diritti umani. Le forze armate governative si sono rese responsabili della distruzione di edifici civili come scuole, ospedali e ambulatori medici nelle zone di conflitto e hanno ostacolato l’accesso delle agenzie umanitarie ai civili sfollati e altrimenti colpiti dalle ostilità in corso.

CONTESTO A gennaio, il presidente Omar Al Bashir ha annunciato l’intenzione di raggiungere la pace in Sudan e di tutelare i diritti costituzionali tramite un “dialogo nazionale” aperto alla partecipazione di tutte le parti, perfino ai movimenti armati. All’annuncio ha fatto seguito la promessa di rilasciare tutti i detenuti politici. Malgrado l’assunzione di tale impegno, le diffuse restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione hanno di fatto ostacolato i concreti tentativi di un dialogo nazionale. Questo si è a tutti gli effetti interrotto dopo che Al-Sadiq Al-Mahdi, leader del Partito nazionale Umma (National Umma Party – Nup), è stato arrestato per aver rilasciato dichiarazioni in cui accusava le forze d’intervento rapido (Rapid Support Forces – Rsf), milizie filogovernative, di compiere crimini contro la popolazione civile. Ad agosto, l’Nup e il Fronte rivoluzionario del Sudan hanno siglato la Dichiarazione di Parigi, una di- chiarazione congiunta per una riforma di ampia portata in Sudan. I due partiti hanno dichiarato che avrebbero boicottato le future elezioni generali a meno che non fosse istituito prima un governo di transizione in grado di “garantire libertà per tutti” e di porre fine ai conflitti in Darfur e negli stati del Nilo Blu e del Kordofan del Sud. Il Partito del congresso nazionale, al governo, si è rifiutato di riconoscere la Dichiarazione di Parigi. Sono proseguiti senza tregua i conflitti in corso in Darfur e negli stati del Kordofan del Sud e del Nilo Blu. Le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, perpetrate dalle forze go- vernative e dalle milizie filogovernative contro i civili, sono proseguite per l’intero anno in queste tre zone, fino a propagarsi nel Kordofan del Nord. In Darfur, il governo ha continuato a non intervenire per proteggere i civili dagli abusi durante un’ondata di scontri tra i gruppi a predominanza etnica araba, per questioni legate alla terra e altre risorse naturali, cui hanno preso parte anche milizie fi- logovernative. Il governo si stava preparando per le elezioni nazionali del 2015.

123 LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Le autorità hanno aumentato le restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione in tutto il paese, in quello che è parso essere un tentativo concertato per impedire un dialogo indipendente. Il governo ha continuato a impiegare i servizi di sicurezza e intelligence nazionale (National Intelligence and Security Service – Niss) e altre forze di sicurezza, per detenere arbitrariamente presunti oppositori del partito di governo, il Partito del congresso nazionale, per censurare i mezzi d’informazione, mettere a tacere i dibattiti pubblici e soffocare le proteste. Attivisti, difensori dei diritti umani ed esponenti dell’opposizione politica hanno continuato a subire continui arresti arbitrari. Queste restrizioni hanno gravemente compromesso le attività della società civile e impedito una reale consultazione pubblica riguardo alla nuova costituzione del Sudan che, secondo quanto dichiarato dal governo, avrebbe dovuto fondarsi sulla legge della sharia. l giornali hanno continuato a essere sottoposti a provvedimenti di chiusura e censura per aver stampato materiali ritenuti critici nei confronti del Partito del congresso nazionale. Giornalisti hanno ricevuto minacce dal Niss, che ha inoltre confiscato intere tirature, causando enormi perdite finanziare ai giornali. A otto testate giornalistiche sono state ripetutamente confiscate le edizioni tra gennaio e settembre. A fine anno, le autorità avevano ritirato per 52 volte le edizioni dei giornali. Il 24 settembre, Al Jareeda, un quotidiano indipendente, è stato arbitrariamente confiscato dal Niss. A fine anno, la sua pubblicazione era stata sospesa dal Niss per 11 volte. Al Siha, un altro quotidiano, il 6 giugno è stato sospeso a tempo indeterminato dal Niss. Il governo ha anche revocato la messa al bando di tre testate giornalistiche. Il 29 gennaio, l’esecutivo ha revocato il divieto imposto per due anni al quotidiano Ray al-Shaab, vicino al Partito del congresso popolare. Una sospensione di due anni contro il giornale Al Tayar è stata ritirata il 5 marzo. La so- spensione del quotidiano Al Midan, vicino al Partito comunista sudanese, imposta il 3 maggio 2012, è stata annullata il 6 marzo. Taj Aldeen Arjaa, un attivista e blogger del Darfur di 23 anni, è stato rilasciato dal carcere l’11 maggio. Era stato arrestato dal Niss a Khartoum il 26 dicembre 2013, dopo aver espresso critiche verso il presidente Omar Al Bashir e il presidente del Ciad Idriss Deby, durante una conferenza stampa congiunta. È stato ripetutamente torturato mentre era in prigione.

CONFLITTO ARMATO

Darfur In tutto il Darfur sono continuate diffuse violazioni dei diritti umani. Moltissimi civili sono stati sfollati a seguito delle violenze tra le comunità belligeranti e degli attacchi da parte delle milizie alleate col governo e di gruppi armati d’opposizione. A fine febbraio, il governo ha schierato le Rsf in Darfur. Queste avevano reclutato tra le loro file molti ex appartenenti alle milizie janjaweed, che negli anni precedenti si erano rese responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, comprese uccisioni illegali e stupri. Le Rsf hanno distrutto decine di villaggi, causando un significativo aumento di sfollati e di vittime civili. In Darfur, tra gennaio e luglio, circa 388.000 persone sono state sfollate, oltre ai due milioni registrati dallo scoppio del conflitto nel 2003. Molti degli sfollati interni si trovavano in zone remote difficili da raggiungere o del tutto inaccessibili alle agenzie umanitarie ed erano esposti ad attacchi, rapimenti

124 e violenze sessuali. Il 22 marzo, il campo per sfollati interni di Khor Abeche, nel sud del Darfur, è stato attaccato da un gruppo di uomini armati che lo hanno saccheggiato e raso al suolo. Il governo ha continuato a limitare l’accesso alle zone del Darfur colpite dal conflitto all’Ua, alla Missione delle Nazioni Unite in Darfur (United Nations Mission in Darfur – Unamid) e alle organizzazioni umanitarie. A febbraio, le principali attività del Comitato internazionale della Croce Rossa sono state sospese, mentre sono stati chiusi gli uffici di altre organizzazioni, come la francese Agenzia di aiuti per la cooperazione tecnica e lo sviluppo (Agence d’aide à la coopération technique et au dé- veloppement – Acted). Il 2 luglio, il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon ha annunciato una riapertura delle indagini e un riesame delle attività portate avanti dall’Unamid negli ultimi due anni. L’annuncio della riesame, che si era concluso a ottobre, era stato lanciato in seguito ad accuse secondo cui per- sonale dell’Unamid avrebbe coperto le violazioni dei diritti umani commesse in Darfur. Non sono state trovate prove a supporto delle accuse. Tuttavia, il riesame ha rilevato che l’Unamid aveva la tendenza a non denunciare e a mantenere il silenzio dei mezzi d’informazione in merito agli episodi di violazioni dei diritti umani.

Kordofan del Sud e Nilo Blu Negli stati del Kordofan del Sud e del Nilo Blu è proseguito il conflitto armato tra le forze governative e l’Esercito di liberazione del popolo sudanese-Nord (Sudan People’s Liberation Army-North – Spla- N), con attacchi indiscriminati da entrambe le parti. Le forze sudanesi hanno impiegato aviazione e artiglieria bombardando indiscriminatamente villaggi abitati da civili. Hanno inoltre schierato forze ausiliarie in attacchi via terra, comprese le Rsf. Anche queste forze ausiliarie hanno perpetrato violazioni dei diritti umani. Dell’oltre un milione di persone sfollate nei tre anni di conflitto, molte sono rimaste in Sudan. Più di 200.000 vivevano in campi per rifugiati situati in Sud Sudan o Etiopia. Il 14 aprile, il governo ha lanciato pubblicamente l’operazione militare denominata “Estate decisiva”, per “porre fine a ogni ribellione” nel Kordofan del Sud, nel Nilo Blu e in Darfur. Dall’inizio dell’operazione, le forze armate sudanesi hanno condotto attacchi aerei su Kauda, una delle principali località della contea di Heiban, e nei suoi dintorni, oltre che bombardamenti aerei e attacchi d’artiglieria nelle contee di Um Dorein e Delami, distruggendo scuole, ambulatori medici, ospedali e altri edifici civili e costringendo la popolazione a fuggire dalle abitazioni. Il Sudan ha continuato a ostacolare l’accesso delle agenzie umanitarie alle aree sotto il controllo dello Spla-N. Entrambe le parti in conflitto non hanno ottemperato all’obbligo di facilitare i corridoi umanitari.

LIBERTÀ DI RIUNIONE In un contesto di richiami al dialogo nazionale e alla conciliazione politica, il Sudan ha continuato a limitare le legittime attività dei partiti politici dell’opposizione e della società civile. L’8 marzo, l’Niss ha impedito a circa 30 organizzazioni della società civile di celebrare la Giornata internazionale della donna, a Khartoum. L’11 marzo, lo studente di economia Ali Abakar Musa è morto per le ferite d’arma da fuoco riportate quando i servizi di sicurezza hanno sparato durante una manifestazione all’università di Khartoum. La protesta ha avuto luogo subito dopo la conclusione di un forum pubblico organizzato dall’Associazione

125 studentesca del Darfur, riguardante l’escalation di violenza nel sud del Darfur. Gli studenti hanno marciato verso l’ingresso principale dell’università, dove ad attenderli c’erano polizia, Niss e milizie studentesche. I servizi di sicurezza hanno sparato gas lacrimogeni, proiettili di gomma e munizioni vere contro gli studenti. Il 15 marzo, le autorità hanno impedito alle Forze per il consenso nazionale, una coalizione di 17 partiti politici dell’opposizione, di tenere un evento pubblico a Khartoum Nord e hanno schierato cen- tinaia di agenti di sicurezza allo scopo di cancellare l’evento. Il 1° maggio, il consiglio per gli affari riguardanti i partiti politici, un organo governativo, ha respinto la domanda di registrazione presentata dal Partito repubblicano, considerato eretico per le sue idee progressiste sull’Islam. Il suo fondatore, Mahmoud Mohammed Taha, fu messo a morte per apostasia nel 1985. Il 29 maggio, il 13 giugno e il 17 agosto, le autorità si sono rifiutate di permettere ad attivisti politici e della società civile di consegnare all’ufficio di Khartoum della commissione dei diritti umani nazionale sudanese alcuni memorandum che mettevano in luce le violazioni dei diritti umani compiute dal governo. Il 28 agosto, le forze di sicurezza hanno impedito con la forza ai manifestanti, radunati davanti al pe- nitenziario femminile di Omdurman, di protestare per il rilascio di prigioniere politiche. Le forze di si- curezza hanno arrestato 16 attiviste e hanno impiegato gas lacrimogeni e manganelli per disperdere i manifestanti. Tre leader politici di primo piano sono stati arrestati per aver espresso le loro opinioni politiche o per aver partecipato ad attività politiche pacifiche. Il 17 maggio, Al Sadiq al-Mahdi, ex primo ministro e leader del partito d’opposizione Nup, è stato arrestato dopo che aveva accusato le Rsf di aver commesso violazioni e abusi nei confronti di civili. È stato rilasciato senza accusa il 15 giugno. L’8 giugno, il leader del Partito del congresso sudanese, Ibrahim Al Sheikh Abdel Rahman, è stato arrestato a Nuhud, nel Kordofan del Nord, a seguito delle critiche che aveva espresso nei confronti delle Rsf. È stato rilasciato senza accusa il 15 settembre. Mariam Al Sadiq al-Mahdi, vicepresidente del Nup, è stata arrestata a Khartoum l’11 agosto, dopo aver partecipato a negoziati che hanno avuto luogo a Parigi, in Francia, tra il Nup e il Fronte rivoluzionario sudanese; è stata rilasciata senza accusa un mese dopo. Nel tentativo di bloccare una serie di eventi organizzati per commemorare la morte dei manifestanti del settembre 2013, tra il 17 e il 23 settembre il Niss ha preventivamente arrestato oltre 70 attivisti politici, richiamandosi ai suoi poteri di “detenzione preventiva”. Gli arrestati sono stati rilasciati senza accusa agli inizi di ottobre. Ex prigionieri hanno denunciato di essere stati torturati e altrimenti maltrattati mentre erano trat- tenuti.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE Il 23 giugno, il ministero della Giustizia ha ritirato la licenza di registrazione della nota organizzazione sudanese per i diritti delle donne Salmmah Women’s Resource Centre e ne ha confiscato i beni.

126 SWAZILAND

REGNO DELLO SWAZILAND

Capo di stato: re Mswati III Capo di governo: Barnabas Sibusiso Dlamini

La crisi che già caratterizzava lo stato di diritto e l’indipendenza della magistratura si è aggravata. I diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione hanno continuato a essere violati. Alcuni processi iniqui hanno determinato la carcerazione per motivi d’opinione o coscienza.

CONTESTO A novembre, lo Swaziland ha perso il proprio accordo commerciale preferenziale con gli Usa stabilito con la legge sulla crescita africana e le opportunità (African Growth and Opportunity Act – Agoa), in seguito alla mancata attuazione da parte dell’esecutivo di alcuni processi di riforma, un impegno che si era assunto spontaneamente nel 2013, per eliminare le restrizioni alla libertà d’associazione, riunione ed espressione. I parametri richiesti comprendevano modifiche alla legge sulla soppressione del terrorismo, alla legge sull’ordine pubblico e alla legge sui rapporti industriali. La perdita dell’accesso preferenziale al mercato americano per il settore tessile ha determinato la pressoché immediata chiusura delle fabbriche.

SVILUPPI LEGISLATIVI Lo stato di diritto, l’accesso a rimedi legali efficaci e la tutela dei diritti umani hanno continuato a deteriorarsi in conseguenza del progressivo indebolimento dell’indipendenza della magistratura.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE Il Congresso sindacale dello Swaziland (Trade Union Congress of Swaziland – Tucoswa) è rimasto a tutti gli effetti al bando per il terzo anno consecutivo e sono stati attuati arresti nei confronti di attivisti che avevano indossato magliette del Tucoswa o che avevano cercato di tenere comizi.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Giornalisti, avvocati, giudici indipendenti, esponenti sindacali e parlamentari hanno ricevuto minacce di violenza, d’arresto, perseguimento penale o hanno subito altre forme di pressione in conseguenza del loro lavoro a favore dei diritti umani, del rispetto dello stato di diritto o perché erano favorevoli al- l’attuazione di riforme politiche.

PROCESSI INIQUI Sono vertiginosamente aumentati i processi di natura politica e sono state utilizzate con sempre maggior frequenza leggi che violavano il principio di legalità al fine di soffocare il dissenso. Il 25 luglio, Bheki Makhubu, direttore del periodico mensile The Nation, e l’avvocato per i diritti

127 umani Thulani Maseko sono stati condannati dall’Alta corte a due anni di carcere per oltraggio alla corte, al termine di un procedimento gravemente iniquo.1 La sentenza nei loro confronti era stata emessa dopo che il 17 luglio erano stati dichiarati colpevoli per due capi d’imputazione per oltraggio alla corte. Inoltre, The Nation, una piccola pubblicazione indipendente, e il sindacato indipendente degli editori dello Swaziland sono stati multati per 50.000 emalangeni (pari a 4273 dollari Usa) per ciascuna delle due imputazioni e il totale avrebbe dovuto essere pagato entro il termine di un mese. I due uomini erano stato arrestati a marzo, dopo che The Nation aveva pubblicato articoli a loro firma che sollevavano dubbi circa l’indipendenza della magistratura e la capacità di accertare le responsabilità politiche nello Swaziland. Le modalità con cui era stato utilizzato il mandato per ar- restarli, emesso dal Chief Justice [giudice che presiede l’Alta corte, N.d.T.] dello Swaziland, Michael Ramodibedi, avevano sovvertito le normali procedure giudiziarie. Anche gli agenti in servizio presso il commissariato di polizia di Mbabane, dove gli uomini erano stati inizialmente detenuti prima di comparire davanti al Chief Justice, sembrava dovessero seguire delle istruzioni, quando avevano negato ai legali dei due arrestati l’accesso ai loro clienti nelle guardine della polizia. Il Chief Justice aveva convalidato il loro fermo in seguito a una procedura, svoltasi a porte chiuse nel suo ufficio. Ad aprile, sono stati brevemente rilasciati, in seguito a una sentenza della giudice dell’Alta corte Mumcy Dlamini, che aveva rilevato vizi di forma nei mandati utilizzati per arrestarli. Dopo che il Chief Justice aveva immediatamente depositato un ricorso contro questa sentenza, i due uomini sono stati riarrestati ed è iniziato il processo a loro carico, presieduto dal giudice dell’Alta corte Mpendulo Simelane. Questi aveva un chiaro conflitto d’interessi in materia, in quanto era stato citato in uno dei sopra menzionati articoli ed era intervenuto in qualità di testimone informato dei fatti nel corso del procedimento. Nell’emettere sentenza contro gli imputati, il giudice Simelane aveva criticato la loro “disgustosa condotta”, per aver intrapreso una “campagna di disprezzo” contro l’amministrazione della giustizia, con articoli “scurrili” e, nel riferirsi a Thulani Maseko, per “aver cercato un cambio di regime”. I due uomini hanno presentato ricorso contro la sentenza e The Nation contro i verdetti di colpevolezza e le sentenze. A maggio, la Corte suprema ha ribaltato un precedente verdetto di colpevolezza a carico di Bheki Ma- khubu del 2013, in quanto uno dei due capi d’imputazione di cui doveva rispondere era scaturito da un precedente articolo apparso in The Nation, sull’importanza della magistratura nell’inculcare il rispetto della costituzione e migliorare così la vita delle persone. La Corte suprema ha confermato il verdetto di colpevolezza relativo al secondo capo d’accusa che scaturiva da un articolo riguardante la condotta del potente Chief Justice del paese ma ha revocato la condanna a due anni di carcere nel caso in cui il direttore non avesse pagato una multa di quasi 45.000 dollari Usa entro tre giorni. I giudici della Corte suprema hanno sostituito tale cifra con un’ammenda equivalente a circa 3000 dollari Usa e con una sentenza a tre mesi di carcere con sospensione della pena a condizione che il reato ascritto non fosse reiterato in futuro dall’imputato. Anche alcuni attivisti sono stati arrestati e poi imputati in procedimenti giudiziari separati per ri- spondere di accuse formulate ai sensi della legge sulla soppressione del terrorismo (Suppression of Act – Sta) e della legge sulle attività sediziose e sovversive. Lo stato ha riesaminato un’accusa di sedizione del 2009 contro Thulani Maseko. L’inizio del suo processo per quest’imputazione era fissato per il 2015. Sempre nel 2015 era previsto l’esame di un ricorso in merito alla costituzionalità

128 della legge sulle attività sediziose e sovversive, oltre che della Sta. Il ricorso era stato presentato dal- l’attivista veterano e leader del partito d’opposizione Movimento democratico unito popolare (People’s United Democratic Movement – Pudemo), Mario Masuku, e da altri otto che dovevano rispondere in tre procedimenti distinti di imputazioni formulate in base a entrambe le leggi. L’istanza sarebbe stata esaminata dall’Alta corte a marzo 2015. L’inizio del processo di Mario Masuku e del leader giovanile Maxwell Dlamini era previsto a febbraio 2015. I due erano accusati di sedizione e si trovavano in custodia in attesa del processo in relazione ad alcuni slogan che avrebbero gridato a un raduno, in occasione della giornata del Primo maggio del 2014. Ha destato notevole preoccupazione il deteriorarsi delle condizioni di salute di Mario Masuku, dopo il suo rinvio in custodia preprocessuale. A fine ottobre, c’è stato un nuovo tentativo di ottenere sia per lui sia per Maxwell Dlamini il rilascio su cauzione. Il 31 ottobre, l’udienza fissata per l’esame dell’istanza da parte del giudice dell’Alta corte è stata revocata ed è stata esaminata e rigettata a novembre dal giudice Mpendulo Simelane. A fine anno, anche sette esponenti del Pudemo, che ai sensi della Sta rimaneva al bando, dovevano comparire in tribunale per rispondere di accuse formulate in base alla Sta, in seguito al loro arresto ad aprile, disposto dall’Alta corte durante il processo di Thulani Maseko e Bheki Makhubu.

DIRITTI DELLE DONNE Malgrado gli elevati livelli di violenza per motivi di genere, a fine anno il progetto di legge sui reati sessuali e la violenza domestica non era ancora entrato in vigore. Il documento legislativo era in di- scussione e all’esame del parlamento dal 2006. Organizzazioni per i diritti delle donne e che forniscono servizi di assistenza si erano appellati per far approvare la legge a novembre.

Note 1. Swaziland: Deplorable sentences against journalist and lawyer stifle free speech, www.amnesty.org/en/news/swaziland- deplorable-sentences-against-journalist-and-lawyer-stifle-free-speech-2014-07-25

TANZANIA REPUBBLICA UNITA DI TANZANIA

Capo di stato: Jakaya Mrisho Kikwete Capo di governo: Mizengo Peter Pinda Capo di governo di Zanzibar: Ali Mohamed Shein

È proseguito il processo di riforma costituzionale, malgrado le problematiche che minacciavano di ostacolarne l’avanzamento. È stata istituita una commissione d’inchiesta per indagare sulle violazioni dei diritti umani, tra cui almeno 13 uccisioni, commesse dalle agenzie di sicurezza durante un’ope- razione antibracconaggio condotta a ottobre 2013. Le persone affette da albinismo sono rimaste a ri-

129 schio di essere uccise con lo scopo di utilizzarne parti del corpo e la violenza contro le donne ha con- tinuato a essere perpetrata nell’impunità.

SVILUPPI COSTITUZIONALI A febbraio è stata inaugurata l’assemblea costituente, con l’incarico di discutere la bozza di costituzione proposta dalla commissione di revisione costituzionale. Il dibattito si è arenato ad aprile quando una coalizione di partiti d’opposizione ha manifestato nelle piazze in segno di protesta, accusando il partito di governo d’interferire nel processo. A ottobre, l’assemblea costituente ha adottato la bozza di costituzione tra i reclami dell’opposizione e dei gruppi della società civile, secondo i quali il processo di voto era stato irregolare. Il presidente Kilwete ha annunciato che il referendum costituzionale si sarebbe tenuto ad aprile 2015, nonostante a settembre un accordo di tutti i partiti politici l’avesse rimandato fino a dopo le elezioni del 2015.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA A ottobre 2013, agenti di sicurezza, tra cui membri delle forze armate, sono intervenuti con uso eccessivo della forza contro civili, in un’operazione antibracconaggio denominata “Tokomeza”. Almeno 13 civili sono stati uccisi e molti altri hanno riportato ferite gravi. Sono stati inoltre segnalati casi di tortura, stupro compreso, distruzione di proprietà e uccisione di capi di bestiame da parte delle agenzie di sicurezza durante l’operazione. A giugno, il presidente Kikwete, su raccomandazione del parlamento, ha istituito una commissione d’inchiesta con mandato trimestrale, incaricata d’indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse durante l’operazione “Tokomeza“. La commissione d’inchiesta ha iniziato i lavori a metà agosto, visitando le vittime nelle regioni interessate ma a fine anno non aveva ancora completato le indagini.

DISCRIMINAZIONE – AGGRESSIONI A PERSONE CON ALBINISMO È stato segnalato il caso di un albino ucciso allo scopo di ottenerne parti del corpo. Sono stati denunciati almeno cinque tentati omicidi con movente analogo. In uno di questi casi, un uomo è stato ucciso mentre cercava di difendere sua moglie. Gli sforzi del governo per impedire le violazioni dei diritti umani contro le persone affette da albinismo sono rimasti inadeguati.

VAGLIO INTERNAZIONALE A giugno, la Corte africana sui diritti umani e dei popoli ha ritenuto che la Tanzania aveva violato la Carta africana sui diritti umani e dei popoli, proibendo a singole persone la possibilità di candidarsi alle elezioni presidenziali e parlamentari, a meno di non essere sostenute da un partito politico. La Corte ha ordinato alla Tanzania di adottare misure costituzionali e legislative per porre rimedio a questa violazione, di rendere pubblica entro sei mesi una sintesi della sentenza, sia in inglese sia in kiswahili, e di mettere a disposizione per un anno il testo completo della sentenza sul sito web del go- verno. A fine anno, la Tanzania non aveva ancora informato la Corte africana circa le misure prese per conformarsi a questa sentenza.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE La violenza sessuale e altre forme di violenza di genere, in particolare la violenza domestica, sono ri- maste fenomeni diffusi. Durante la prima metà dell’anno, nelle sole cittadine di Mbeya e Geita, la violenza domestica è stata la causa di morte rispettivamente di 26 e 27 donne.

130 TOGO

REPUBBLICA TOGOLESE

Capo di stato: Faure Gnassingbé Capo di governo: Kwesi Ahoomey-Zunu

Le forze di sicurezza hanno ripetutamente fatto uso eccessivo della forza per disperdere manifestazioni. Tortura e altri maltrattamenti sono stati impiegati per estorcere confessioni a detenuti e sono state negate cure mediche tempestive a prigionieri. Sono persistite le minacce alla libertà d’espressione e i giornalisti hanno subito maltrattamenti.

CONTESTO Le elezioni, che erano state rinviate almeno due volte da ottobre 2012, si sono alla fine svolte a luglio 2013. Il partito del presidente Faure Gnassingbé, Unione per la repubblica (Union pour la république – Unir), ha ottenuto la maggioranza assoluta. I partiti d’opposizione hanno protestato per i risultati delle elezioni che sono stati convalidati dalla corte costituzionale. Kwesi Ahoomey-Zunu è stato ricon- fermato alla carica di primo ministro a settembre 2013. A febbraio 2013, l’assemblea nazionale ha approvato una legge che conferiva all’alta autorità per gli audiovisivi e le comunicazioni poteri discrezionali d’imporre sanzioni sui mezzi d’informazione, senza ricorrere al giudizio dei tribunali, suscitando le proteste delle associazioni dei giornalisti. Un mese dopo, la corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di sei articoli della legge. A febbraio, l’assemblea nazionale ha respinto un disegno di legge del governo che limitava il numero dei mandati presidenziali. A luglio, l’assemblea nazionale ha approvato la ratifica senza riserve della Convenzione internazionale contro la sparizione forzata. A gennaio 2013, in due grossi incendi divampati a Kara e nella capitale Lomé sono andati distrutti i mercati delle città. Lo stesso mese, l’assemblea nazionale ha in seguito revocato l’immunità ad Ag- béyomé Kodjo, ex primo ministro oltre che presidente dell’assemblea nazionale, per consentire il suo arresto in relazione agli incendi, assieme ad altri esponenti d’opposizione. Agbéyomé Kodjo è stato ri- lasciato a fine febbraio 2013 e Abas Kaboua, presidente del Movimento dei repubblicani centristi (Mouvement de républicains centristes – Mrc), a settembre 2014. A fine anno, dei 33 uomini che erano stati inizialmente incriminati, 20 rimanevano in detenzione. Alcuni dovevano rispondere del- l’accusa di cospirazione e associazione a delinquere.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Ad aprile 2013, due studenti sono rimasti uccisi dopo che le forze di sicurezza avevano sparato munizioni vere contro una folla di manifestanti nella cittadina di Dapaong, nel nord del paese.1 Una delle vittime, Anselme Sindare Gouyano, aveva appena 12 anni. Il governo ha annunciato che i re- sponsabili sarebbero stati assicurati alla giustizia, tuttavia a fine anno non erano state ancora avviate indagini o azioni giudiziarie.

131 A novembre, le forze di sicurezza sono intervenute vicino ad Aného, a 45 km da Lomé, contro il con- trabbando di benzina. Nel momento in cui i venditori hanno opposto resistenza lanciando pietre, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sulla folla. Ayovi Koumako è morto dopo essere stato colpito dagli spari e altre quattro persone sono rimaste ferite. Lo stesso giorno, il ministro della Giustizia ha emanato una nota in cui si affermava che sarebbe stata aperta un’inchiesta.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Membri delle forze di sicurezza hanno impiegato tortura e altri maltrattamenti contro detenuti in cu- stodia preprocessuale. Tra le vittime c’era Mohamed Loum, arrestato nel contesto degli incendi ai mercati, il quale è stato percosso e sottoposto alla tecnica dell’annegamento simulato (waterboarding), mentre era in custodia della gendarmeria. È stato inoltre ripetutamente sottoposto a contenimento in manette per lunghi periodi, spesso anche 24 ore consecutive, e gli è stato negato cibo o acqua. Un gruppo di uomini, che a settembre 2011 sono stati giudicati colpevoli per aver preso parte a un complotto finalizzato a rovesciare il governo nel 2009, hanno sporto denuncia presso la corte del- l’Ecowas, sostenendo di essere stati torturati durante gli interrogatori. A luglio 2013, la corte dell’Ecowas ha ritenuto che lo stato del Togo era responsabile di atti di tortura e ha ordinato che le vittime ottenessero riparazione. La commissione nazionale dei diritti umani del Togo (Commission nationale des droits de l’homme du Togo – Cndh) aveva inoltre stabilito che i suddetti detenuti erano stati sottoposti ad atti di violenza disumani e degradanti a febbraio 2012 e ha raccomandato all’ese- cutivo d’imporre punizioni esemplari a quanti avevano partecipato, direttamente o indirettamente, al maltrattamento dei detenuti. Il governo non ha negato le accuse di tortura e ciascuno dei ricorrenti ha ricevuto somme a titolo di risarcimento. A parte il trasferimento dei responsabili della tortura ad altri servizi, non sono state intraprese iniziative per indagare e perseguire i perpetratori. Tre persone di questo gruppo di prigionieri – Adjinon Kossi Lambert, Towbeli Kouma e Pali Afeignindou – sono stati graziati a febbraio 2013. Altri sette, tra cui Kpatcha Gnassingbé, fratello del presidente, il capitano Kokou Tchaa Dontema e l’ex tenente della gendarmeria Efoé Sassouvi Sassou sono rimasti in carcere per tutto il 2014.

CONDIZIONI CARCERARIE Il diniego o il ritardo delle cure mediche hanno continuato a mettere a rischio la vita dei prigionieri. Etienne Yakanou Kodjo, esponente dell’Alleanza nazionale per il cambiamento (Alliance Nationale pour le Changement – Anc), all’opposizione, è morto in carcere dopo che a maggio 2013 gli erano state rifiutate le cure mediche. A fine 2014 non era stata ancora aperta alcuna inchiesta sul suo de- cesso.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Sono proseguite le minacce alla libertà d’espressione. Giornalisti sono stati feriti dalla polizia mentre coprivano eventi di protesta e sono stati presi di mira con gas lacrimogeni e proiettili. A marzo 2013, il giornalista Zeus Aziadouvo, che aveva denunciato in un articolo l’impiego di tortura nel caso giudiziario riguardante gli incendi dei mercati, è stato incriminato per complicità nel caso. Una stazione radiofonica, Radio Légende Fm, è stata chiusa dalla polizia a luglio 2013. Le autorità hanno impedito ad associazioni studentesche di manifestare. Anche all’associazione Vittime della tortura in Togo (Association des victimes de tortures au Togo – Asvitto) è stato vietato di

132 tenere sit-in di protesta. Uno di questi, organizzato a marzo 2014 per chiedere riparazione, come disposto dalla corte dell’Ecowas nel caso degli uomini condannati per la partecipazione al complotto finalizzato a rovesciare il governo (v. sopra), è stato disperso con i gas lacrimogeni. I risarcimenti sono stati in seguito erogati lo stesso mese. Amah Olivier, presidente dell’Asvitto, è stato arrestato a settembre 2013 e accusato d’incitamento alla ribellione, per aver parlato della situazione politica durante una manifestazione. È stato rilasciato su cauzione a febbraio 2014 ma è stato nuovamente chiamato a comparire in tribunale da un giudice inquirente a settembre. Secondo le notizie ricevute, mentre era in detenzione è stato minacciato di morte.

Note 1. Togo: Excessive use of force and death in custody (AFR 57/002/2013), amnesty.org/en/ library/ info/afr57/002/2013/en

UGANDA

REPUBBLICA DELL’UGANDA

Capo di stato e di governo: Yoweri Kaguta Museveni

Sono continuate le restrizioni alle libertà d’espressione, di pacifica riunione e d’associazione e le autorità hanno fatto ricorso a disposizioni di legge repressive e discriminatorie per imbavagliare la società civile. Sono aumentati gli episodi di discriminazione, vessazione e violenza contro le persone Lgbti. La violenza contro le donne è rimasta un fenomeno diffuso ed è cresciuta l’ostilità dello stato verso le organizzazioni e gli attivisti della società civile impegnati in attività a favore dei diritti umani, di una governance sul petrolio, contro la corruzione e in tematiche riguardanti le dispute sulla terra.

CONTESTO La successione del presidente Museveni quale leader del Movimento di resistenza nazionale (National Resistence Movement – Nrm) e alla carica di capo dello stato ha dominato il dibattito nazionale durante il 2014. A febbraio, l’Nrm ha approvato una risoluzione che esortava i membri del partito ad appoggiare il presidente Museveni quale unico candidato alle elezioni presidenziali del 2016. La risoluzione inoltre dissuadeva i dirigenti del partito dal nutrire ambizioni presidenziali. A settembre, il ministro della Salute Ruhakana Rugunda è subentrato ad Amama Mbabazi alla carica di primo ministro.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, RIUNIONE E ASSOCIAZIONE Sono continuate le restrizioni alla libertà d’espressione, pacifica riunione e associazione. La legge sulla gestione dell’ordine pubblico (Public Order Management Act – Poma), entrata in vigore a novembre

133 2013, è stata utilizzata per imporre restrizioni di ampia portata ai raduni pubblici. La legislazione con- feriva alla polizia poteri di vietare e disperdere i raduni pubblici di natura politica. Un’istanza depositata presso la Corte costituzionale a dicembre 2013, che contestava la costituzionalità della Poma, a fine 2014 non era stata ancora esaminata. La Poma è stata utilizzata nel primo trimestre del 2014 per disperdere riunioni pacifiche organizzate nel contesto della campagna “Libere e giuste elezioni adesso” e per arrestare attivisti politici. Spesso, gli arrestati non venivano formalmente accusati. Ad aprile, il direttivo della campagna “Libere e giuste elezioni adesso” ha avuto un incontro con il ministro degli Affari interni. La polizia non ha in- terrotto i successivi raduni organizzati dal gruppo. Il 26 febbraio, la polizia ha dichiarato illegale una protesta pacifica organizzata dalla Coalizione per porre fine alle molestie per la minigonna davanti al teatro nazionale della capitale Kampala e l’ha di- spersa. Il 22 marzo, nella città di Mbale, la polizia ha impiegato gas lacrimogeni e sparato munizioni vere in aria per disperdere raggruppamenti di persone che stavano marciando insieme verso il luogo di ritrovo di un raduno, organizzato dal direttivo della campagna “Libere e giuste elezioni adesso”. La polizia ha affermato che gli organizzatori della campagna non avevano inviato la necessaria notifica prevista ai sensi della Poma. Il 27 marzo, la polizia ha impedito al vescovo Zac Niringiye, vice vicario in pensione della diocesi di Kampala e attivista anticorruzione, di tenere un discorso all’università di Kabale, nell’ovest dell’Uganda, e di prendere parte a una trasmissione radiofonica in programma sull’emittente Voice of Kigezi di Kabale. La polizia ha riferito ad Amnesty International di aver agito in quanto il vescovo Zac non aveva ricevuto l’autorizzazione da parte dell’università per tenere un raduno nei locali dell’ateneo e che la trasmissione radiofonica in programma avrebbe potuto incitare alla violenza. Nel corso dell’anno, la polizia ha interrotto le manifestazioni pacifiche organizzate da giovani disoccupati che si autodefinivano membri dei Fratelli senza lavoro. Il 17 giugno, due appartenenti al gruppo, Norman Tumuhimbise e Robert Mayanja, sono stati arrestati dopo essere entrati all’interno del parlamento con due porcellini, per protestare contro la corruzione e l’elevata disoccupazione gio- vanile. I due sono stati in seguito incriminati per violazione di domicilio, tra altre accuse. Il 4 agosto, nove membri dei Fratelli senza lavoro, che trasportavano una bara, sono stati arrestati mentre mani- festavano davanti al monumento all’indipendenza di Kampala. Sono stati incriminati per partecipazione a un comizio illegale. A ottobre, Norman Tumuhimbise e Robert Mayanja sono stati nuovamente arrestati in seguito a un’altra manifestazione a Kampala, anche questa con l’impiego di porcellini. A giugno, l’Alta corte si è pronunciata in merito a un ricorso giudiziario che contestava la costituzionalità della chiusura forzata di un seminario di attivisti Lgbti, avvenuta a febbraio 2012 nella città di Entebbe, su volontà del ministro dell’Etica e dell’integrità. I ricorrenti sostenevano che l’intervento del ministro violava i loro diritti, tra cui la libertà d’espressione, di pacifica riunione e d’associazione. L’Alta corte ha ritenuto che non c’era stata alcuna infrazione di legge nei confronti dei ricorrenti e che questi avevano preso parte a manifestazioni che incoraggiavano “pratiche omosessuali”, ovvero dei reati contro la moralità ai sensi del codice penale.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A febbraio, il presidente Museveni ha controfirmato il progetto di legge contro l’omosessualità del 2009. Ad agosto, la Corte costituzionale ha invalidato la legge poiché in parlamento non era stato rag-

134 giunto il quorum necessario per la sua votazione. Durante i cinque mesi in cui è rimasta in vigore la legge contro l’omosessualità (Anti-Homosexuality Act – Aha) si è verificato un aumento dei casi di di- scriminazione, arresti arbitrari, vessazioni e violenza contro le persone Lgbti. Organizzazioni di assistenza alle persone Lgbti hanno osservato un rapido aumento del numero di arresti sulla base della Aha. Alcune persone Lgbti sono state arrestate dalla polizia mentre sporgevano denuncia o mentre visitavano un amico o un collega in detenzione. Gli arrestati hanno riferito di essere stati maltrattati in custodia, anche con aggressioni fisiche e sessuali, svestiti, palpeggiati e sottoposti a visite anali forzate. In diverse occasioni, persone transgender sono state denudate e fatte sfilare dalla polizia davanti alla stampa. Ad alcuni detenuti sieropositivi all’Hiv sono stati negati farmaci antiretrovirali. Le autorità hanno inoltre preso di mira organizzazioni che fornivano servizi di assistenza alle persone Lgbti. A marzo, le autorità hanno sospeso le attività del Progetto di legge per i rifugiati (Refugee Law Project – Rlp) nei campi e insediamenti per rifugiati, in attesa di indagini in merito a una presunta “promozione dell’omosessualità” da parte dell’organizzazione, un reato previsto dalla Aha. A maggio, la sospensione è stata estesa a tutte le attività dell’Rlp riguardanti rifugiati e richiedenti asilo. Il provvedimento di sospensione è rimasto in vigore nonostante il parere della Corte costituzionale che aveva invalidato la Aha. Il 3 aprile, la polizia ha fatto irruzione nei locali dell’università di Makerere che ospitavano il Progetto Walter Reed, un progetto di ricerca sull’Hiv gestito congiuntamente dall’università di Makerere e il Programma di ricerca sull’Hiv dell’esercito Usa. Un impiegato è stato sottoposto a fermo perché so- spettato di “aver reclutato omosessuali” ma successivamente rilasciato. L’ambulatorio è stato tem- poraneamente chiuso. La Aha ha legittimato gli abusi e le violenze contro le persone Lgbti da parte di attori non statali le cui azioni sono rimaste in larga parte impunite. Una transgender è stata uccisa e un’altra stuprata. Sgomberi, minacce e ricatti sono stati tra gli abusi più comuni cui sono state sottoposte le persone Lgbti. Gli aumentati livelli di minacce verso le persone Lgbti hanno spinto alcune di loro a lasciare l’Uganda. La Aha ha limitato la possibilità per le persone Lgbti di accedere all’assistenza sanitaria, specialmente agli ambulatori di terapia per l’Hiv/Aids e ai servizi di salute sessuale. Tuttavia, il ministero della Salute ha emanato una circolare a giugno che riaffermava l’impegno del governo a fornire assistenza medico-sanitaria senza discriminazioni, comprese quelle basate sull’orientamento sessuale. A ottobre, il tribunale di prima istanza di Buganda Road, a Kampala, ha archiviato le accuse nei con- fronti di Mukisa Kim, un uomo gay, e di Mukasa Jackson, una transgender, dopo che la pubblica accusa aveva ripetutamente dimostrato di non essere pronta per il processo. Mukisa Kim era stato incriminato ai sensi del codice penale per “aver avuto conoscenza carnale di una persona, contro le leggi di natura”, mentre Musaka Jackson era stata accusata di “aver permesso a un maschio di avere conoscenza carnale contro le leggi di natura”.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Il presidente Museveni ha controfirmato la legge contro la pornografia (Anti-Pornography Act – Apa) il 6 febbraio. Subito dopo la firma, donne che erano state pubblicamente ritenute vestire in maniera in- decente sono state aggredite, svestite e percosse da bande di facinorosi per strada. La polizia ha con- fermato quattro episodi verificatisi nel centro di Kampala ma non ha provveduto a compilare alcun

135 verbale o a registrare le generalità delle vittime nel registro ufficiale delle denunce o ad arrestare gli autori delle aggressioni. Agenti di polizia si sono inoltre serviti dell’Apa per vessare le donne. A febbraio, Patience Akumu, giornalista e attivista per i diritti delle donne, si è vista temporaneamente bloccare l’ingresso nel commissariato di Naguru per il modo in cui era vestita. A febbraio, Lilian Drabo, un’avvocatessa di Kampala, è stata minacciata di arresto a causa dei vestiti che indossava presso i locali del tribunale di Nakawa a Kampala. La direzione del circuito centrale dell’Alta corte di Nakawa aveva fatto affiggere un cartello in cui si avvisava che non sarebbe stato tollerato alcun abbigliamento indecente nei locali del tribunale. Un’istanza presentata a maggio che contestava la costituzionalità dell’Apa rimaneva in attesa di un pronunciamento. L’impegno assunto a febbraio dall’allora primo ministro per un riesame dell’Apa a fine anno non aveva ancora trovato attuazione.

DIRITTO ALLA SALUTE – ACCESSO AI SERVIZI AMBULATORIALI PER L’HIV/AIDS A luglio, il presidente Museveni ha controfirmato la legge sulla prevenzione e il controllo dell’Hiv/Aids. Il documento prevedeva il reato di trasmissione dell’Hiv , oltre che di esposizione al contagio, e pre- siedeva l’obbligo di sottoporsi al test dell’Hiv. La legge consentiva ingiustificate violazioni del diritto alla confidenzialità. Ngo locali e internazionali hanno espresso preoccupazione per l’impatto negativo e sproporzionato che l’applicazione della legge avrebbe avuto in particolare sulle donne.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Organizzazioni e attivisti della società civile impegnati in attività a favore dei diritti umani, di una governance sul petrolio, contro la corruzione e in tematiche riguardanti dispute sulla terra sono incorsi in minacce a causa del loro lavoro. Uffici e personale delle Ngo sono stati posti sotto sorveglianza e diverse organizzazioni hanno denunciato di aver ricevuto minacce. Gli uffici di alcune organizzazioni, tra cui Action Aid Uganda, la Fondazione per l’iniziativa sui diritti umani, la sezione ugandese della Rete per i diritti umani (Human Rights Network-Uganda – Hurinet-U) e la Coalizione ugandese anticorruzione, hanno subito effrazioni da parte di ignoti, che sono parse essere tentativi di accedere a informazioni riguardanti il lavoro sui diritti umani e la governance delle organizzazioni. La maggior parte di queste effrazioni non era stata ancora indagata dalla polizia. La notte del 5 maggio, ignoti sono entrati nella sede di Hurinet-U. Sono stati rubati un server, 29 computer, videocamere, cassette di sicurezza e telecamere a circuito chiuso. La notte del 17 maggio, ignoti hanno fatto irruzione negli uffici di Alleanza ugandese per la terra, ru- bando documenti, computer e fotocamere. Un’istanza d’incostituzionalità relativa alla legge (emendamento) sulla registrazione delle organizzazioni non governative non era stata ancora esaminata. Le proposte avanzate nel 2013 per emendare ulte- riormente la legge sulle Ngo, nel palese intento di ampliare il controllo dell’esecutivo sui finanziamenti e le attività delle Ngo, rimanevano all’esame del gabinetto di governo. Le autorità avevano inoltre proposto l’introduzione di linee di condotta in materia di eduzione civica, la cui eventuale approvazione avrebbe significato che qualsiasi programma di educazione civica, anche sui diritti umani, avrebbe dovuto essere accreditato a livello distrettuale. In caso di presunta infrazione di queste linee di condotta da parte delle organizzazioni, queste sarebbero state sospese per un periodo fino a sei mesi, private dell’accredito o anche inserite in una lista nera.

136 POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA A luglio, gruppi di uomini armati hanno messo in atto attacchi violenti contro postazioni della polizia a Bundibugyo, Kasese e Ntoroko. Negli attacchi sono rimaste uccise almeno 65 persone, compresi civili, alcuni degli aggressori e membri delle forze di polizia e dell’esercito. In seguito allo scoppio del conflitto in Sud Sudan, a dicembre 2013, sono state schierate truppe ugandesi in risposta a una ri- chiesta d’aiuto avanzata dal governo sudsudanese per la difesa della capitale. A gennaio, truppe ugandesi erano presenti a Bor, nello stato di Jonglei, dove hanno offerto il loro sostegno alle autorità sudsudanesi impegnate a riconquistare il controllo della città caduta in mano alle forze d’opposizione. Le truppe ugandesi sono rimaste in Sud Sudan per tutto il 2014.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE Sono rimasti attivi i mandati d’arresto emessi dall’Icc nel 2005 nei confronti di Joseph Kony, leader dell’Esercito di resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army – Lra) e di tre comandanti dell’Lra. A fine anno gli uomini erano ancora tutti latitanti. L’ex comandante dell’Lra Thomas Kwoyelo, che nel 2011 si era dichiarato colpevole davanti alla sezione per i crimini internazionali dell’Alta corte per accuse di omicidio, omicidio volontario e altri reati commessi nel contesto del conflitto nel nord dell’Uganda, è rimasto in carcere in attesa di essere processato. Il ricorso presentato dal governo contro la decisione della Corte costituzionale, se- condo la quale Thomas Kwoyelo aveva diritto all’amnistia ai sensi della legge sull’amnistia del 2000, rimaneva all’esame della Corte suprema. Così come rimaneva pendente un’istanza presentata da Thomas Kwoyelo presso la Commissione africana dei diritti umani e dei popoli contro il protrarsi della sua detenzione da parte delle autorità ugandesi.

ZAMBIA

REPUBBLICA DELLO ZAMBIA

Capo di stato e di governo: Guy Scott (subentrato a Michael Chilufya Sata a ottobre, come presidente ad interim)

La situazione dei diritti umani ha continuato a peggiorare alla fine del governo del presidente Sata. Le libertà fondamentali sono finite sotto attacco e sono stati sistematicamente presi di mira oppositori politici, membri della società civile e minoranze sessuali.

CONTESTO A ottobre, Guy Scott è diventato presidente ad interim in seguito alla morte del presidente Sata. Le tensioni all’interno del Fronte patriottico per l’elezione del candidato presidenziale per l’elezione stra- ordinaria del presidente, prevista per il 20 gennaio 2015, sono sfociate in alcune proteste violente tra sostenitori di partiti contrapposti.

137 LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ASSOCIAZIONE E RIUNIONE A gennaio, il leader del partito d’opposizione Alleanza per uno Zambia migliore, Frank Bwalya, è stato arrestato e incriminato per diffamazione per aver, stando alle accuse, paragonato il presidente Sata a una “patata dolce” durante una trasmissione radiofonica in diretta. Le autorità hanno sostenuto che Frank Bwalya aveva usato un’espressione bemba (lingua bantu) impiegata per descrivere una persona che non accetta consigli. È stato prosciolto dal procuratore capo di Kasama a luglio, con una sentenza che ha riconosciuto la sua libertà di parola. A febbraio, un tribunale di Lusaka ha assolto l’attivista dei diritti umani Paul Kasonkomona. Era stato incriminato ad aprile 2013 per “sostegno a fini immorali”, dopo che aveva esortato il governo a riconoscere i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate nel contesto generale della lotta all’Hiv/Aids, durante un dibattito televisivo. Il tribunale ha stabilito che lo stato non era riuscito a comprovare l’accusa a suo carico. Il governo ha espresso l’intenzione di appellarsi contro la sentenza. Sempre a febbraio, 460 Ngo hanno preso la decisione di non registrarsi secondo la legge sulle orga- nizzazioni non governative del 2009, le cui disposizioni sarebbero da ritenersi incostituzionali per le restrizioni alle libertà d’associazione e di movimento. Il governo aveva annunciato nel 2013 che le Ngo che non si fossero registrate secondo la legge non sarebbero state autorizzate a operare. Il 12 marzo, 49 giovani sono stati arrestati dalla polizia durante una marcia per commemorare la Giornata della gioventù, nella capitale Lusaka. I giovani attivisti sono stati arrestati per aver indossato magliette e mostrato cartelli su cui era scritto il messaggio “Dateci la nostra costituzione adesso”. Sono stati separati e posti in stato di fermo per almeno sei ore, prima che fosse fissata la cauzione e quindi venissero rilasciati. Secondo le notizie ricevute, quattro di loro sono stati aggrediti da agenti di polizia, che li hanno presi a pugni durante la detenzione presso il comando di polizia di Lusaka, provocando una grave lesione a un orecchio a uno di loro. Secondo le accuse, gli attivisti sono stati costretti a togliersi le magliette, lasciando alcuni di loro, ragazze comprese, parzialmente svestiti.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Persone hanno subito vessazioni e intimidazioni e sono state sottoposte a procedimenti penali a causa del loro reale o presunto orientamento sessuale o a causa dell’identità di genere. Le persone Lgbti hanno continuato a vivere nella paura, a seguito di aggressioni di stampo omofobo perpetrate con l’appoggio delle autorità. Dopo le dichiarazioni rilasciate da alti funzionari di governo nel 2013, che sollecitavano la popolazione a denunciare le persone Lgbti nelle loro comunità, si erano verificati i casi d’intimidazione e vessazione nei loro confronti da parte dei parenti, delle loro comunità e della polizia. La maggior parte delle vittime aveva subito in silenzio senza ricevere alcun tipo di sostegno o protezione da parte dello stato. Il 3 luglio, un tribunale della cittadina di Kapiri Mposhi ha prosciolto due uomini incriminati ai sensi delle leggi antisodomia dello Zambia. James Mwape e Philip Mubiana sono stati rimessi in libertà dopo essere stati in carcere per più di un anno. I due hanno negato l’accusa di “aver fatto sesso contro natura”. Il giudice ha ritenuto che lo stato non aveva comprovato oltre ogni ragionevole dubbio l’accusa a loro carico. Gli uomini, entrambi ventiduenni, furono inizialmente arrestati il 25 aprile 2013 e rimasero in carcere fino al 2 maggio 2013, data del loro rilascio su cauzione, per poi essere arrestati di nuovo il 5 maggio 2013 e sottoposti a visite anali forzate da parte di medici statali, in violazione del divieto di tortura e altro maltrattamento.

138 ZIMBABWE

REPUBBLICA DELLO ZIMBABWE

Capo di stato e di governo: Robert Gabriel Mugabe

L’esecutivo ha continuato ad applicare vecchie leggi incostituzionali, comprese alcune che limitavano i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione. Sono proseguite le violazioni dei diritti eco- nomici e sociali, come nel caso degli sgomberi forzati attuati sia nelle campagne sia nelle aree urbane. La chiusura di alcune imprese, dovuta a una situazione economica sfavorevole, ha determinato una massiccia perdita di posti di lavoro. Sono state registrate violenze interne al partito Unione nazionale africana dello Zimbabwe - Fronte Patriottico (Zimbabwe African National Union-Patriotic Front – Zanu-Pf) e al principale partito d’opposizione. Sono stati segnalati episodi di tortura da parte della polizia.

CONTESTO Nonostante l’adozione di una nuova costituzione nel 2013, gran parte delle leggi divenute incostituzionali dopo l’entrata in vigore della nuova carta dei diritti è rimasta comunque in vigore. L’economia ha con- tinuato ad arretrare, perdendo la spinta raggiunta durante il governo di unità nazionale (da febbraio 2009 ad agosto 2013). Le contese interne al partito di governo del presidente Mugabe, lo Zanu-Pf, per ottenere posizioni di rilievo hanno raggiunto il culmine poco prima del 6° congresso del partito, a dicembre 2014. Le tensioni all’interno dei partiti, alimentate principalmente dall’incertezza riguardo alla successione dell’ormai novantunenne presidente, sono sfociate in violenti scontri nel corso di ma- nifestazioni promosse dalle fazioni opposte. Nove presidenti provinciali hanno perso il loro posto, comprese alcune colonne portanti del partito, come Joice Mujuru (tra l’altro vicepresidente del paese), Rugare Gumbo, Nicholas Goche, Webster Shamu e Olivia Muchena, in un’epurazione senza precedenti delle strutture del partito, capeggiata dalla moglie del presidente Mugabe, Grace Mugabe. L’epurazione ha generato un senso d’incertezza e i ministri del governo si sono spaccati in due fazioni principali.

REPRESSIONE DEL DISSENSO Il corpo di polizia della Repubblica dello Zimbabwe ha continuato a impiegare mezzi brutali e tortura contro manifestanti anti-Mugabe e difensori dei diritti umani. Sono state registrate violenze all’interno sia dello Zanu-Pf sia del principale partito d’opposizione, Movimento per il cambiamento democratico (Movement for Democratic Change-Tsvangirai – Mdc-T), guidato da Morgan Tsvangirai. Sono proseguiti gli abusi perpetrati dalle istituzioni statali contro gli oppositori politici, principalmente nel contesto di rivalità faziose all’interno dello Zanu-Pf. Le forze di polizia sono state impiegate per arrestare percepiti oppositori e sono state intentate cause giudiziarie sulla base di accuse apparen- temente di natura politica. Per citare un esempio, Jabulani Sibanda, ex leader dei veterani di guerra, è stato arrestato il 27 novembre per essersi rifiutato di partecipare ai raduni provinciali di Grace

139 Mugabe, dove sono stati denunciati altri leader di partito. È stato incriminato ai sensi dell’art. 33 della legge (di riforma e codifica) del diritto penale, per “aver minacciato l’autorità del presidente”, e quindi rilasciato su cauzione. Jabulani Sibanda avrebbe accusato il presidente Mugabe di “aver tentato di compiere un colpo di stato tra la camera di consiglio e la camera da letto”, in relazione alla nomina di sua moglie alla posizione di leader della lega femminile dello Zanu-Pf. Il deposto portavoce dello Zanu-Pf ,Rugare Gumbo, è stato interrogato dalla polizia in merito ad accuse legate alle continue faide tra fazioni contrapposte. Si è appreso che il suo interrogatorio verteva sui suoi legami con un blogger, noto su Facebook con il nome di Baba Juwka. Edmund Kudzayi, direttore di un quotidiano controllato dallo stato, è stato arrestato e doveva rispondere di diversi capi d’imputazione per sedizione, da lui negati. Era anche accusato di essere collegato allo stesso blogger. Quest’ultimo aveva più di 400.000 follower e si era impegnato in una campagna denigratoria e di de- nuncia contro funzionari dello Zanu-Pf, prima delle elezioni di luglio 2013. A fine anno il processo era ancora in corso. Il 6 novembre, il giornalista e attivista filodemocratico Itai Dzamara è stato vittima di una brutale aggressione da parte della polizia antisommossa ad Harare, nella quale ha perso conoscenza. Ha avuto un collasso all’arrivo in ospedale, in seguito al quale gli sono state praticate procedure per ria- nimarlo ed è stato quindi ricoverato nel reparto di terapia intensiva. In qualità di leader del gruppo di protesta Occupy Africa Unity Square (Occupiamo piazza Unità africana), Itai Dzamara aveva inviato una petizione al presidente Mugabe a ottobre, in cui gli chiedeva di dimettersi. Il gruppo aveva allestito un sit-in di protesta a piazza Unità africana ad Harare, un parco adiacente al parlamento. Kennedy Masiye di Avvocati zimbabwiani per i diritti umani, che aveva risposto all’invito degli attivisti, è stato anch’egli percosso dalla polizia antisommossa nonostante si fosse fatto riconoscere come legale rappresentante del suo cliente Itai Dzamara. La polizia ha gettato via il certificato di qualifica professionale dell’avvocato e lo ha aggredito, provocandogli la frattura di un braccio a seguito della quale è stato ricoverato in ospedale. Il 26 novembre, quattro membri di Oaus, Tichaona Danho, Charles Nyoni, Terry Manzini e Shungu Mutize, sono stati arrestati e detenuti dopo aver presentato una petizione al portavoce del parlamento e iniziato una protesta al banco della presidenza della camera dei deputati. Sono stati duramente percossi e rilasciati senza accusa dopo sei ore. Al commissariato di polizia, è stato detto loro di togliersi i vestiti. Tre agenti li hanno frustati e ordinato loro di picchiarsi a vicenda. Hanno chiesto di conoscere quale fosse la missione del gruppo e hanno intimato loro di sospendere la protesta contro il presidente Mugabe. I tentativi da parte di alcuni avvocati per i diritti umani di assumere la loro difesa legale sono stati resi vani dalle autorità di polizia, che hanno negato di avere gli uomini in cu- stodia. In seguito è stato detto loro di rivestirsi, di andare a casa e di non informare nessuno della loro detenzione. Il noto attivista dell’Mdc-T ed ex parlamentare Job Sikhala è stato arrestato il 27 novembre. È stato rilasciato il giorno dopo e convocato per l’obbligo di firma il 29 novembre. Job Sikhala ha conferito con i suoi avvocati, ai quali è stato impedito di presenziare al suo interrogatorio e, stando alle accuse, sarebbe stato torturato. È stato ricoverato in ospedale poco dopo il rilascio. Ci sono stati continui abusi dell’art. 121 della legge sulle procedure e prove penali (Criminal Procedure and Evidence Act – Cpea), che consentiva alle autorità di opporre per sette giorni il veto al rilascio su cauzione concesso dai tribunali per le persone accusate in attesa dell’appello. Il 22 agosto, il procuratore generale dello stato ha invocato l’art. 121 per ritardare il rilascio di sei attivisti del

140 partito Mdc-T e della parlamentare Ronia Bunjira, arrestati durante le proteste per chiedere il rispetto dell’impegno preelettorale assunto dallo Zanu-Pf di creare due milioni di posti di lavoro. Gli attivisti d’opposizione sono stati accusati di aver infranto la Cpea per la loro presunta ostruzione del traffico o per attentato alla libera circolazione delle persone. Angela Jimu, una giornalista che stava coprendo la cronaca della marcia organizzata dall’opposizione, è stata percossa dalla polizia che le ha sequestrato le fotocamere e l’ha arrestata. L’art. 121 è stato oggetto di vari ricorsi presentati presso la Corte costituzionale, in quanto costituiva un diniego arbitrario del diritto alla libertà per le persone accusate, in particolare nei casi in cui erano implicati oppositori dello Zanu-Pf e difensori dei diritti umani. Ad aprile, 16 attivisti del partito d’opposizione Trasformiamo lo Zimbabwe (Transform Zimbabwe) sono stati sottoposti a fermo per cinque ore a Tsholotsho, per aver distribuito materiale politico, e quindi rilasciati senza accusa. Il leader del partito, Jacob Ngarivhume, continuava a dover rispondere d’imputazioni formulate ai sensi dell’art. 24(6) della draconiana legge sull’ordine pubblico e la sicurezza (Public Order and Security Act – Posa). La polizia sosteneva che Jacob Ngarivhume aveva tenuto un comizio politico non autorizzato quando a giugno aveva pronunciato un sermone in una chiesa, dove era stato invitato per un incontro religioso. Il 14 luglio, 13 attivisti di Trasformiamo lo Zimbabwe sono stati arrestati nella città di Gweru in oc- casione di una protesta pacifica contro l’arresto di Jacob Ngarivhume, arrestato e detenuto il 12 luglio per essere intervenuto a una riunione della direzione del partito. Jacob Ngarivhume è stato for- malmente accusato di aver infranto l’art. 24(6) della Posa. I 13 attivisti sono stati incriminati ai sensi dell’art. 37(1)(i) della legge (di codifica e riforma) del diritto penale, per la loro presunta parte- cipazione a una manifestazione con l’intento o l’effettiva realizzazione di un possibile disturbo aggravato della quiete, della sicurezza e dell’ordine pubblico. Lo stato accusava gli attivisti di essersi riuniti nell’intento d’incitare alla violenza pubblica. Gli accusati sono stati tuttavia prosciolti dopo che lo stato non era stato in grado di suffragare le accuse formulate nei loro confronti. Il 22 luglio, la polizia si è servita della Posa per vietare alcune marce programmate a Bulawayo, Gweru, Harare e Mutare, da parte dei lavoratori delle ferrovie dello Zimbabwe aderenti al sindacato artigiani ferrovieri, per chiedere il pagamento degli stipendi arretrati. Tuttavia, il 6 luglio, l’Alta corte ha stabilito che la polizia non aveva alcun potere di vietare le manifestazioni organizzate dal sindacato. Il 21 agosto, il tribunale di primo grado di Victoria Falls ha prosciolto quattro rappresentanti dell’or- ganizzazione della società civile Bulawayo Agenda, formalmente accusati ai sensi della Posa. Mmeli Dube, Butholezwe Kgosi Nyathi, Nthombiyezansi Mabunda Tozana e Thulani Moyo erano stati arrestati a giugno e incriminati per violazione dell’art. 25(1)(b) della Posa, per la loro presunta mancata notifica di un raduno pubblico all’autorità competente. Il giudice ha ritenuto che lo stato non era riuscito a suffragare le prove a carico degli attivisti.

RAPIMENTI A novembre, per la prima volta dal 2009 sono stati registrati rapimenti. Il 12 novembre, l’ex presidente dello Zanu-Pf della provincia di Harare, Jim Kunaka, è stato rapito da ignoti nel distretto di Mbare. Stando ai resoconti, il politico è stato costretto a salire su un’auto, bendato e condotto in un’area boschiva, dove è stato aggredito con barre metalliche per poi essere scaricato. Il rapimento è stato denunciato al commissariato centrale di polizia di Harare. Il rapimento

141 di Jim Kunaka si è verificato proprio all’apice della lotta interna allo Zanu-Pf per ottenere posizioni nel partito. Il 2 dicembre, gli attivisti filodemocratici Allan Chinewaita, Jerry Mugweni e Itai Dzamara sono stati rapiti da alcuni uomini in tre diverse auto mentre erano impegnati in una protesta pacifica ad Harare. Secondo le notizie, sono stati portati nella sede centrale dello Zanu-Pf e derubati, schiaffeggiati, percossi e spintonati da giovani del partito. Sono stati quindi condotti in auto al commissariato centrale della polizia di Harare e consegnati ad agenti di sicurezza che li hanno torturati, per poi ri- lasciarli senza accusa. I tre sono stati ricoverati in ospedale a causa delle gravi ferite riportate.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI Nonostante l’art. 74 della costituzione tuteli le persone dagli sgomberi forzati, sia il governo sia le autorità locali hanno attuato sgomberi forzati senza mandato giudiziario. Il 25 settembre, il consiglio comunale di Harare ha inviato a 324 “coloni illegali” notifiche di sgombero entro un tempo massimo di 48 ore: un preavviso del tutto inadeguato. A settembre, il consiglio cittadino ha demolito le strutture che ospitavano attività produttive informali nel centro della città in assenza di un’ordinanza giudiziaria, mettendo a repentaglio i mezzi di sussidenza delle famiglie che dipendevano da queste attività, a causa della recessione economica in cui versava il paese, con un tasso di disoccupazione ufficiale superiore all’80 per cento. Ad agosto, le autorità hanno chiuso con la forza il campo di accoglienza di Chingwizi, allestito per ospitare circa 20.000 persone sfollate in seguito alle inondazioni che hanno colpito il distretto di Chivi agli inizi del 2014, provocate dalla costruzione della diga di Tokwe-Mukosi. La crisi nel campo era dovuta all’incapacità del governo di programmare il reinsediamento delle vittime delle inondazioni, lasciandole in condizioni deplorevoli, prive dei più elementari servizi come la possibilità di accesso adeguato ad acqua pulita. Il governo ha imposto restrizioni agli aiuti umanitari, impedendo alle Ngo di accedere al campo. La chiusura è stata messa in atto in un contesto di proteste contro i tentativi di chiudere l’ambulatorio presente nel campo, in seguito sfociate in violenza. Le autorità hanno risposto facendo uso di forza brutale, picchiando gli abitanti e arrestando indiscriminatamente circa 300 persone, principalmente uomini e leader comunitari, in modo da facilitare il reinsediamento forzato di donne e bambini su un appezzamento di terra di un ettaro, dal quale non avevano alcuna possibilità di ricavare niente di utile alla loro sopravvivenza. Trenta persone sono state incriminate per aver commesso violenza pubblica in violazione dell’art. 36 della legge (di codifica e riforma) del codice penale. Ventisei degli abitanti sono stati rilasciati su cauzione l’8 agosto e un’altra, Sophia Tagwireyi, a settembre, mentre due hanno trascorso tre mesi in custodia prima che fosse anche a loro concesso il rilascio su cauzione. Patrick Chineunda Changwesha a fine anno si trovava ancora detenuto. Tutti hanno affermato di essere stati torturati dalla polizia mentre erano in custodia. A di- cembre, 26 di loro sono stati assolti. A settembre, il consiglio locale di Epworth e il consiglio comunale di Chitungwiza hanno proceduto alla demolizione di centinaia di alloggi che ospitavano nuclei familiari, coadiuvati dalla polizia e in assenza di un’ordinanza giudiziaria. Gli sgomberi sono stati messi in atto di notte senza dare tempo agli abitanti di prendere le loro cose. Durante la demolizione delle strutture la polizia ha impiegato gas lacrimogeni. Sono state arrestate almeno 30 persone, rilasciate in seguito senza accusa, mentre altre 12 sono rimaste ferite. Gli sgomberi di Epworth sono stati sospesi in seguito a un’ordinanza emanata dall’Alta corte.

142 AMERICHE I PAESI

Argentina Stati Uniti d’America Bahamas Suriname Bolivia Trinidad e Tobago Brasile Uruguay Canada Venezuela Cile Colombia Cuba Dominicana, Repubblica Ecuador El Salvador Giamaica Guatemala Guyana Haiti Honduras Messico Nicaragua Panama Paraguay Perù Portorico

144 Panoramica regionale sulle Americhe

Nelle Americhe, l’aumento di disuguaglianza, discriminazione, degrado ambientale, impunità storica, insicurezza e dei conflitti ha continuato a negare alle persone il pieno godimento dei loro diritti umani. In un contesto come questo, coloro che in prima persona erano impegnati nella promozione e difesa di questi diritti hanno affrontato elevatissimi livelli di violenza. Durante il 2014, l’opinione pubblica ha risposto in massa a queste violazioni dei diritti umani, in lungo e in largo nell’intero continente, dal Brasile agli Usa, dal Messico al Venezuela. Uno dopo l’altro, in questi paesi la gente è scesa per le strade per protestare contro le pratiche repressive dello stato. Tali manifestazioni di partecipazione pubblica hanno sfidato apertamente gli elevati livelli d’impunità e corruzione e le politiche economiche a favore degli interessi di pochi. A centinaia di migliaia si sono uniti a queste mobilitazioni spontanee servendosi delle nuove tecnologie e dei social network, per mettere insieme persone in tempi rapidi, condividere informazioni e far luce sulle violazioni dei diritti umani. Queste esternazioni di scontento e le richieste di rispettare i diritti umani hanno avuto luogo in uno scenario di erosione degli spazi democratici e di persistente criminalizzazione del dissenso. La violenza perpetrata sia dagli attori statali sia non statali contro la popolazione generale, e in particolare contro i movimenti e gli attivisti sociali, è aumentata. Gli attacchi contro i difensori dei diritti umani si sono molto intensificati in gran parte dei paesi della regione, sia in termini di mere cifre sia per gravità della violenza inflitta. Questo aumento di violenza è indicativo di come i governi abbiano dato una risposta sempre più mi- litarizzata alle sfide di natura sociopolitica degli ultimi anni. In molti paesi della regione, è ormai di- venuto la norma per le autorità ricorrere all’impiego di forze dello stato per rispondere alle reti criminali e alle tensioni sociali, anche laddove non c’era una formale ammissione dell’esistenza di un conflitto. In alcune aree, il crescente potere in mano alle reti della criminalità e di altri attori non statali, come paramilitari e società multinazionali, ha rappresentato una notevole minaccia per il potere dello stato, lo stato di diritto e i diritti umani. Gravi violazioni dei diritti umani hanno continuato ad affliggere le vite di decine di migliaia di persone in tutta la regione. Ben lungi dal compiere ulteriori progressi nella promozione e protezione dei diritti umani per tutti, senza discriminazione alcuna, nella regione sembra piuttosto siano stati fatti passi indietro nel corso del 2013 e 2014. L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha registrato 40 omicidi di difensori dei diritti umani nelle Americhe durante i primi nove mesi del 2014. A ottobre, la Repubblica Dominicana ha pubblicamente ignorato la Corte interamericana dei diritti

145 umani, dopo che questa aveva condannato le autorità per il loro trattamento discriminatorio nei confronti di cittadini dominicani di origine haitiana e migranti haitiani. A settembre, 43 studenti dell’istituto superiore di scienze della formazione di Ayotzinapa sono stati vittime di sparizione forzata in Messico. Gli studenti erano stati arrestati nella città di Iguala, nello stato del Guerrero, dalla polizia locale, che ha agito in collusione con reti della criminalità organizzata. Il 7 dicembre, il procuratore generale federale ha annunciato che le perizie medico-legali avevano iden- tificato i resti di uno degli studenti. A fine anno, la sorte degli altri 42 non era stata ancora stabilita. Ad agosto, a Ferguson, nello stato americano del Missouri, Michael Brown, un diciottenne afroamericano disarmato, è morto sotto i colpi sparati da un poliziotto, Darren Wilson. Subito dopo la sparatoria, la gente è scesa per le strade e poi nuovamente a novembre per protestare contro la decisione del gran giurì di non incriminare l’agente. Le proteste si sono diffuse in alcune delle principali città del paese, compresa New York a dicembre, dopo che il gran giurì aveva deciso di non rinviare a giudizio un poliziotto per la morte di Eric Garner, avvenuta a luglio. Sempre ad agosto, la nota leader campesino Margarita Murillo è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco nella comunità di El Planón, nel nord-ovest dell’Honduras. Nei giorni immediatamente precedenti al- l’attacco, aveva denunciato di essere stata posta sotto sorveglianza e di aver ricevuto minacce. A febbraio, 43 persone sono morte, compresi membri delle forze di sicurezza, e decine sono rimaste ferite in Venezuela, nel corso di scontri tra manifestanti antigovernativi, forze di sicurezza e sostenitori del governo. Nel 2013, nel Salvador, a una giovane donna, indicata con il nome fittizio di Beatriz, è stato rifiutato un aborto malgrado i rischi imminenti per la sua vita e nonostante il feto, cui mancava parte dell’encefalo e del cranio, non avrebbe potuto sopravvivere al di fuori del grembo materno. La vicenda di Beatriz ha alimentato proteste a livello nazionale e internazionale e le autorità salvadoregne hanno subito notevoli pressioni per settimane. Alla fine le è stato praticato un cesareo alla 23ª settimana di gravidanza. Il divieto assoluto d’aborto nel Salvador ha continuato a criminalizzare le scelte di donne e ragazze sul piano sessuale e riproduttivo, ponendole a rischio di perdere la loro libertà o anche la vita. Nel 2014, 17 donne che erano state condannate a pene fino a 40 anni di carcere per motivi legati alla loro gravi- danza hanno chiesto la grazia; a fine anno si attendeva una decisione in merito ai loro casi giudiziari. A maggio 2013, l’ex presidente del Guatemala generale Efrain Ríos Montt è stato giudicato colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità. Tuttavia, il verdetto di colpevolezza è stato annullato appena 10 giorni dopo per vizio di forma, un esito devastante per le vittime e i loro familiari, i quali attendevano da oltre 30 anni che fosse fatta giustizia. Ríos Montt era stato presidente e comandante in capo del- l’esercito guatemalteco tra il 1982 e il 1983, quando 1771 nativi di etnia maya-ixil furono uccisi, tor- turati, sottoposti a violenza sessuale o sfollati, durante il conflitto armato interno del paese. Questo lungo elenco di gravi violazioni dei diritti umani dimostra come, malgrado il fatto che gli stati della regione abbiano ratificato e si siano fatti attivamente promotori di gran parte delle norme e dei trattati regionali e internazionali sui diritti umani, il rispetto di tali diritti è rimasto sulla carta per molti nell’intera regione.

PUBBLICA SICUREZZA E DIRITTI UMANI

Ancora una volta, le proteste contro le politiche del governo sono state gestite dalle forze di sicurezza con un uso eccessivo della forza. In Brasile, Canada, Cile, Ecuador, Guatemala, Haiti, Messico, Perù,

146 Usa e Venezuela, le forze di sicurezza hanno dimostrato di disprezzare gli standard internazionali sul- l’impiego della forza, in nome della tutela dell’ordine pubblico. Invece di mandare un chiaro messaggio che l’uso eccessivo della forza non sarebbe stato tollerato, i governi non hanno neppure messo in di- scussione o espresso preoccupazioni per la violenza messa in atto. Agli inizi del 2014, il Venezuela è stato scosso da proteste di massa pro e contro il governo, che si sono svolte in varie parti del paese. Le manifestazioni e la risposta con cui queste sono state affrontate dalle autorità non sono state altro che il riflesso della crescente polarizzazione che da oltre un decennio tiene bloccato il paese. Quest’ondata di malcontento sociale e i violenti scontri verificatisi tra manifestanti e forze di sicurezza hanno fatto da sfondo alle diffuse violazioni dei diritti umani poi perpetrate, compresi omicidi, detenzioni arbitrarie, tortura e altro trattamento crudele, disumano o degradante. Almeno 43 persone sono state uccise e 870 ferite, compresi membri delle forze di sicurezza, nel contesto delle proteste e della risposta con cui queste sono state affrontate dalle forze di sicurezza. Migliaia di persone hanno riempito le strade del Brasile per protestare mentre il paese si apprestava a ospitare la Coppa del mondo di calcio 2014. I manifestanti intendevano esprimere il loro scontento per gli aumenti del costo dei trasporti pubblici e per i livelli di spesa sostenuti per la Coppa del mondo, in contrasto con la mancanza di sufficienti investimenti nei servizi pubblici. La portata delle proteste è stata senza precedenti, con centinaia di migliaia di persone che hanno partecipato a ma- nifestazioni di massa in decine di città. In molti casi, la risposta della polizia all’ondata di proteste nel 2013 e 2014, anche in occasione della Coppa del mondo, è stata violenta e lesiva dei diritti dei cittadini. Reparti della polizia militare hanno impiegato gas lacrimogeni contro i manifestanti in maniera indiscriminata, in un caso anche all’interno di un ospedale, sparato proiettili di gomma contro persone che non rappresentavano alcuna minaccia e preso a manganellate la gente. I feriti sono stati centinaia, compreso Sérgio Silva, un fotografo che ha perso l’occhio sinistro dopo essere stato colpito da un proiettile di gomma. Altre centinaia di persone sono state indiscriminatamente rastrellate e arrestate, alcune ai sensi di leggi utilizzate per il crimine organizzato, malgrado l’assenza di prove che collegassero gli arrestati ad attività criminali. Negli Usa, l’uccisione di Michael Brown e la decisione del gran giurì di non rinviare a giudizio il poliziotto responsabile hanno scatenato mesi di proteste a Ferguson e nei dintorni della città. L’impiego di pesanti dispositivi antisommossa e di armi e attrezzature militari per operazioni di ordine pubblico nelle manifestazioni aveva lo scopo d’intimidire i manifestanti che stavano esercitando il loro diritto di riunione pacifica. Le forze di sicurezza hanno ferito manifestanti e giornalisti utilizzando proiettili di gomma, gas lacrimogeni e altre tattiche di dispersione aggressive, in situazioni che non richiedevano il ricorso a questo tipo di azioni.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI

La regione delle Americhe è dotata di alcuni dei più solidi strumenti legislativi e meccanismi di controllo contro la tortura, sia a livello delle singole nazioni sia sul piano regionale. Ciononostante, nell’area la tortura e altri maltrattamenti sono rimasti diffusi e raramente i loro responsabili sono stati assicurati alla giustizia. In un rapporto intitolato “Fuori controllo: tortura e altri maltrattamenti in Messico”, Amnesty Interna- tional ha documentato un preoccupante incremento degli episodi di tortura e altri maltrattamenti nel

147 paese. Ha inoltre evidenziato come nell’ultimo decennio sia prevalsa in Messico una cultura di tolleranza e impunità per la tortura; infatti soltanto sette torturatori sono stati giudicati nei tribunali federali e ancor meno sono stati quelli perseguiti a livello statale. Le incomplete e limitate indagini condotte sulle violazioni dei diritti umani commesse nel caso dei 43 studenti di scienze della formazione scomparsi in Messico hanno messo in evidenza le gravi mancanze del governo messicano nell’indagare i diffusi e radicati rapporti di corruzione e collusione tra alcuni funzionari di stato e la criminalità organizzata, oltre a sconcertanti livelli di impunità. Tortura e altri maltrattamenti sono stati frequentemente impiegati contro sospetti criminali allo scopo di ottenere informazioni, estorcere confessioni o per infliggere punizioni. Daniel Quintero, uno studente di 23 anni, è stato preso a calci e pugni in faccia e sulle costole e minacciato di stupro, dopo essere stato arrestato per la sua presunta partecipazione a una manifestazione antigovernativa in Venezuela a febbraio 2014. Nella Repubblica Dominicana, Ana Patricia Fermín ha ricevuto minacce di morte ad aprile 2014, dopo aver denunciato che due suoi parenti erano stati torturati mentre si tro- vavano in custodia di polizia nella capitale Santo Domingo. A settembre, suo marito e uno degli uomini torturati sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco dalla polizia.

ACCESSO ALLA GIUSTIZIA E LOTTA PER PORRE FINE ALL’IMPUNITÀ

Nella regione erano ancora molte le persone escluse da una concreta possibilità di accedere alla giu- stizia, in special modo coloro che appartenevano alle comunità maggiormente disagiate. Gli ostacoli nell’accesso alla giustizia comprendevano sistemi giudiziari inefficienti, mancanza d’indipendenza della magistratura e la volontà di alcuni settori disposti a qualsiasi cosa pur di sfuggire alle proprie responsabilità e tutelare interessi politici, criminali ed economici acquisiti. La difficoltà d’accesso a ottenere giustizia è stata resa ancor più grave dagli attacchi contro difensori dei diritti umani, testimoni, avvocati, pubblici ministeri e giudici. Sono stati frequentemente presi di mira anche giornalisti che cercavano di far luce sugli abusi di potere, sulle violazioni dei diritti umani e sulla corruzione. Inoltre, in determinati paesi, tra cui Cile, Ecuador e Usa, è persistita l’abitudine di ricorrere ai tribunali militari per processare membri delle forze di sicurezza che commettevano violazioni dei diritti umani, facendo temere per l’indipendenza e l’imparzialità di questi procedimenti. Sono stati compiuti alcuni progressi nelle indagini e nei procedimenti giudiziari riguardanti le violazioni dei diritti umani commesse dai regimi militari nel secolo scorso, come in Argentina e Cile. Tuttavia, l’impunità per le migliaia di sparizioni forzate ed esecuzioni extragiudiziali nella regione, avvenute nella seconda metà del XX secolo, è rimasta radicata, in larga parte a causa della mancanza di volontà politica di assicurare alla giustizia i responsabili. Migliaia di vittime e i loro familiari hanno continuato a chiedere verità e giustizia in vari paesi, tra cui Brasile, Bolivia, El Salvador, Gua- temala, Haiti, Messico, Paraguay, Perù e Uruguay.

CONDIZIONI CARCERARIE

Negli ultimi 20 anni i dati relativi alla popolazione carceraria sono aumentati esponenzialmente in tutta la regione e i gruppi per i diritti umani hanno documentato come le carceri latinoamericane

148 fossero diventate luoghi da incubo, in cui il periodo da scontare era una vera e propria lotta per la so- pravvivenza. Decine di migliaia di persone sono rimaste in detenzione preprocessuale per lunghi periodi di tempo a causa dei ritardi dei vari sistemi giudiziari. Nella maggior parte dei paesi dell’America Latina e dei Caraibi, i penitenziari erano caratterizzati da condizioni di estremo sovraffollamento, violenze e in alcuni casi erano privi dei servizi più essenziali. La mancanza di cibo e acqua potabile, condizioni antigieniche, carenza di assistenza medica e l’in- capacità di provvedere al trasporto dei prigionieri in tempo per presenziare alle udienze dei tribunali, così da permettere l’avanzamento dei loro casi giudiziari, sono state segnalate in molti paesi delle Americhe; oltre alle aggressioni, compresi omicidi tra i reclusi. Malgrado il fatto che diversi leader in carica nella regione avessero avuto modo di passare essi stessi del tempo dietro le sbarre, le condizioni di vita nei penitenziari non sono rientrate nell’agenda politica a nessun livello significativo. Nei penitenziari federali e statali degli Usa, decine di migliaia di prigionieri sono rimasti confinati in isolamento all’interno delle loro celle per periodi anche di 22 o 24 ore al giorno, in condizioni di estrema privazione sociale e ambientale. I governi non hanno fatto nulla per affrontare l’urgente necessità di creare piani sostenuti da adeguati finanziamenti in grado di affrontare queste gravi situazioni. Molto poco è stato fatto per garantire che le strutture carcerarie fossero conformi agli standard internazionali sui diritti umani e che il diritto alla vita, all’integrità fisica e alla dignità dei prigionieri fossero rispettati.

DIRITTI DI MIGRANTI E LORO DISCENDENTI

L’insicurezza e la privazione sociale sostenuta nei loro paesi d’origine ha spinto un crescente numero di migranti dell’America Centrale, in particolare minori non accompagnati, ad attraversare il Messico per tentare di raggiungere gli Usa. I migranti in viaggio attraverso il Messico hanno continuato a in- correre in omicidi, rapimenti ed estorsioni da parte di bande criminali, che spesso hanno agito in col- lusione con funzionari pubblici, oltre che a subire maltrattamenti da parte delle autorità messicane. Donne e bambini sono stati particolarmente a rischio di violenza sessuale e della tratta di esseri umani. La stragrande maggioranza di queste violazioni non è mai stata indagata e i perpetratori ri- manevano in libertà. Le espulsioni sono aumentate e la detenzione amministrativa in attesa del- l’espulsione è rimasta la norma. Tra ottobre 2013 e luglio 2014, 52.193 migranti minorenni non accompagnati sono stati catturati negli Usa, una cifra che è quasi raddoppiata rispetto ai 12 mesi precedenti. Il governo americano aveva calcolato che il numero complessivo di minori non accompagnati catturati avrebbe probabilmente superato i 90.000 entro fine novembre 2014, negli stati di confine come Texas, Arizona e California. Molti di questi minori fuggivano da situazioni d’insicurezza e povertà nei loro paesi d’origine. Inoltre, i livelli di violenza senza precedenti, perpetrata dalle bande criminali e dal crimine organizzato registrati in paesi come El Salvador, Guatemala, Honduras e Nicaragua, hanno spinto migliaia di minori non accompagnati a migrare verso gli Usa. La discriminazione contro i migranti e i loro discendenti è stata pervasiva e gli stati hanno mostrato scarsa volontà politica di affrontare le cause alla base di un’esclusione tanto radicata. A settembre 2013, la Corte costituzionale della Repubblica Dominicana ha emesso una sentenza ampiamente cri- ticata, che ha avuto l’effetto di privare retroattivamente e arbitrariamente della loro cittadinanza do-

149 minicana i dominicani figli di immigrati originari di altri paesi nati tra il 1929 e il 2010; il provvedimento ha avuto l’effetto di colpire per la stragrande maggioranza coloro che avevano origini haitiane. La de- cisione ha suscitato proteste a livello nazionale e internazionale, comprese quelle dell’autorità di Haiti. Ángel Colón, membro della comunità afroamericana garífuna dell’Honduras, ha ottenuto il rilascio incondizionato a ottobre 2014, dopo aver trascorso cinque anni in un carcere messicano. Era stato arrestato nel 2009 dalla polizia di Tijuana, mentre dall’Honduras tentava di raggiungere gli Usa. La polizia lo aveva percosso, costretto a camminare sulle ginocchia, preso a calci e pugni sullo stomaco e lo aveva semiasfissiato mettendogli una busta di plastica sulla testa. Era stato inoltre denudato e costretto a pulire leccando con la lingua le scarpe di altri detenuti e a compiere atti umilianti. Amnesty International lo ha considerato prigioniero di coscienza in quanto detenuto, torturato e per- seguito per motivi di discriminazione sulla base della sua origine etnica e del suo status di migrante senza documenti.

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE

A giugno, il Paraguay ha votato una legge sull’espropriazione che ha finalmente restituito alle comunità native sawhoyamaxa le loro terre ancestrali, dopo oltre 20 anni di lotte. Ciononostante, le popolazioni native della regione hanno continuato a dover affrontare minacce contro il benessere col- lettivo delle loro comunità e della loro stessa esistenza, sul piano sociale, politico ed economico. La loro eredità culturale, le terre ancestrali e il diritto all’autodeterminazione sono stati costantemente sotto attacco. Sia attori statali sia non statali, come imprese e potenti proprietari terrieri, hanno con- tinuato a cacciare queste popolazioni dalle loro terre in nome dello sviluppo socioeconomico. I programmi di sviluppo hanno spesso implicato distruzioni sia sul piano ambientale sia culturale, oltre che lo sfollamento di intere comunità. Quelle maggiormente a rischio sono state le comunità che vivevano spontaneamente più isolate, come le popolazioni del bacino del Rio delle Amazzoni. Il diritto delle popolazioni native a una significativa consultazione e a un consenso libero, anticipato e informato sui progetti di sviluppo che avrebbero avuto un impatto sulle loro vite, come i progetti dell’industria estrattiva, ha continuato a essere compromesso, nonostante il fatto che tutti gli stati della regione avessero dato la loro adesione alla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti delle po- polazioni native del 2007. Il mancato rispetto dei diritti delle popolazioni native ha avuto ripercussioni negative sui loro mezzi di sussistenza, oltre a renderle maggiormente vulnerabili a minacce, vessazioni, sgomberi forzati, at- tacchi od omicidi, collegati all’aumento dei tentativi di sfruttamento delle risorse presenti nelle aree abitate in cui vivevano. Il loro diritto di opporsi e di pretendere il loro consenso libero, anticipato e in- formato è stato ostacolato con intimidazioni, attacchi, uso eccessivo della forza, detenzione arbitraria e una discriminatoria applicazione degli strumenti giudiziari. Per citare un esempio, a luglio, la Corte interamericana dei diritti umani ha stabilito che i verdetti di colpevolezza contro otto mapuche in Cile erano basati su stereotipi discriminatori e sul pregiudizio. Le donne native hanno continuato a essere vittime di sproporzionati livelli di violenza e discriminazione rispetto al resto della popolazione. A maggio, la polizia reale a cavallo canadese ha ammesso che tra il 1980 e il 2012 erano state assassinate 1017 donne e ragazze native, un tasso di omicidio almeno quattro volte superiore rispetto a quello registrato tra le donne del resto della popolazione. A gennaio

150 2014, l’ufficio del procuratore generale di Lima, in Perù, ha chiuso i fascicoli riguardanti i casi di oltre 2000 donne native e campesino, le quali erano state sottoposte a sterilizzazione negli anni Novanta, senza ottenere il loro consenso pieno e informato. I 2000 casi rappresentavano soltanto una piccola percentuale delle oltre 200.000 donne che furono sterilizzate nel corso degli anni Novanta. Nessuna delle autorità di governo responsabili dell’implementazione del programma che aveva portato alle suddette sterilizzazioni forzate è mai stata chiamata in giudizio.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI A RISCHIO

I difensori dei diritti umani hanno continuato ad affrontare attacchi e abusi come ritorsione per il loro legittimo lavoro sui diritti umani in molti paesi della regione, tra cui Brasile, Colombia, Cuba, Repubblica Dominicana, Ecuador, Guatemala, Haiti, Honduras, Messico, Perù e Venezuela. I difensori sono stati vittime di una serie di abusi come attacchi alla loro vita e all’integrità fisica e ai loro diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione. Sono stati inoltre denigrati nella stampa e dalla autorità di governo, oltre a essere vittime di un uso improprio della giustizia, nel tentativo di crimina- lizzare quanti erano impegnati nella difesa dei diritti umani. Purtroppo, in alcuni paesi, come in Co- lombia e Guatemala, le organizzazioni per i diritti umani locali hanno denunciato un preoccupante aumento degli attacchi contro i difensori dei diritti umani. Quasi mai i perpetratori di questi abusi sono stati assicurati alla giustizia. I difensori impegnati nella lotta all’impunità, coloro che lavoravano a favore dei diritti delle donne e altri che avevano incentrato le loro attività di tutela dei diritti umani su tematiche inerenti la terra, il territorio e le risorse naturali hanno continuato a essere particolarmente a rischio. Anche nei paesi dotati di strumenti per proteggere i difensori dei diritti umani a rischio, come Brasile, Colombia e Messico, in molti casi le misure di protezione non sono state concesse oppure non sono state applicate in maniera efficace e tempestiva. Questo, essenzialmente, a causa della mancanza di volontà politica e delle risorse necessarie a garantirne una concreta applicazione. A questa situazione si sono aggiunte altre preoccupazioni dovute all’assenza di un approccio differenziato che tenesse conto della componente di genere nell’applicare tali misure di protezione. Con coraggio, dignità e tenacia, i difensori dei diritti umani di tutta la regione hanno continuato a lottare per la realizzazione dei diritti umani di tutti, malgrado l’estremo grado d’insicurezza e ostilità dell’ambiente in cui hanno dovuto operare.

DIRITTI DI DONNE E RAGAZZE

Gli stati della regione non hanno provveduto a inserire nei primi punti delle loro agende politiche la protezione di donne e ragazze da stupri, minacce e omicidi. L’applicazione lenta e frammentaria delle leggi per combattere la violenza di genere è rimasta motivo di preoccupazione e la mancata disponibilità di fondi necessari per indagare e perseguire questo tipo di crimini ha fatto dubitare della reale volontà delle autorità di affrontare il problema. L’incapacità di assicurare alla giustizia i responsabili di questi crimini ha reso ancor più radicata l’impunità per la violenza di genere e ha contribuito a rafforzare un clima in cui la violenza contro donne e ragazze era tollerata.

151 Ad agosto 2013, gli stati della regione sono sembrati andare nella giusta direzione quando con un accordo storico siglato a Montevideo, in Uruguay, hanno ammesso che la criminalizzazione dell’aborto determinava un aumento della mortalità e morbilità materna e non riduceva il numero degli aborti. A dicembre, la Repubblica Dominicana ha depenalizzato l’aborto. Nonostante ciò, a fine anno, i diritti sessuali e riproduttivi di donne e ragazze continuavano a essere violati con conseguenze spaventose per la loro vita e salute. In Cile, El Salvador, Haiti, Honduras, Ni- caragua e Suriname, è rimasto in vigore il divieto assoluto di aborto in ogni circostanza, anche per donne e ragazze rimaste incinte a causa di uno stupro o la cui gravidanza implicasse complicazioni rischiose per la loro vita. Coloro che avessero cercato di avere o avessero procurato un aborto rischiavano lunghe pene carcerarie. Nell’entrare in carica a marzo 2014, la presidente Michelle Bachelet ha promesso che una delle priorità del suo mandato sarebbe stata l’abrogazione del divieto assoluto d’aborto in Cile. Nel Salvador, il futuro continuava ad apparire sconfortante. Negli ultimi 10 anni, almeno 129 donne sono state in- carcerate per motivi legati alla gravidanza. A fine anno, 17 di loro erano in attesa dell’esito di un’istanza di grazia da parte dello stato. Stavano scontando sentenze carcerarie fino a 40 anni per omicidio aggravato, essendo state inizialmente accusate di aver avuto un aborto. Nella maggior parte dei paesi in cui la legge consentiva in determinate circostanze di accedere all’aborto terapeutico, le lungaggini delle procedure giudiziarie hanno reso l’accesso a un aborto sicuro praticamente impossibile, specialmente per quelle donne che non potevano permettersi di abortire presso strutture private. Il limitato accesso alla contraccezione e all’informazione riguardante le tematiche sessuali e riproduttive è rimasto motivo di preoccupazione, in particolare per le donne e ragazze maggiormente emarginate della regione. In alcuni paesi, la depenalizzazione dell’aborto nei casi di stupro stava gradualmente diventando realtà. In Bolivia, la Corte costituzionale ha deciso a febbraio che la richiesta di autorizzazione giudiziaria per praticare un aborto in caso di stupro era incostituzionale. E a fine anno in Perù era in discussione al congresso un progetto di legge per depenalizzare l’aborto nei casi in cui la gravidanza fosse la conseguenza di uno stupro. Nonostante questi progressi, in Ecuador un analogo tentativo è stato bloccato dal presidente Rafael Correa nel 2013. Gran parte dei paesi della regione si sono dotati di norme legislative per combattere la violenza contro donne e ragazze, sia nella sfera privata sia in quella pubblica. Tuttavia, continuavano per lo più a mancare solidi strumenti dotati dei finanziamenti necessari, in grado di proteggere donne e ra- gazze dalla violenza, specialmente nelle comunità più emarginate e povere. In tutta la regione sono stati registrati crescenti livelli di violenza contro le donne. La Corte interame- ricana dei diritti umani e la Commissione interamericana sui diritti umani hanno espresso preoccu- pazione per i livelli di violenza contro le donne e per l’impunità, concludendo che gli stereotipi insiti nella società circa l’inferiorità delle donne hanno creato un atteggiamento discriminatorio all’interno delle istituzioni preposte all’applicazione della legge e della giustizia, determinando negligenze nelle indagini e la mancanza di sanzioni nei confronti dei perpetratori.

CONFLITTO ARMATO

L’incapacità di arginare le conseguenze sui diritti umani causate dal conflitto armato in Colombia, insieme all’incapacità di assicurare alla giustizia la maggior parte dei sospettati di responsabilità

152 penale in questi reati, ha minacciato di compromettere a lungo termine la fattibilità di qualsiasi eventuale accordo di pace. I colloqui di pace tenutisi a Cuba tra il governo colombiano e le Forze armate rivoluzionarie della Co- lombia (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia – Farc) hanno fatto progressi. I negoziati hanno rappresentato la migliore opportunità in oltre un decennio per porre definitivamente fine al più lungo conflitto armato interno mai conosciuto nella regione. Ma tutte le parti hanno continuato a commettere violazioni dei diritti umani e abusi del diritto internazionale umanitario, principalmente contro le comunità native, afroamericane e campesino, difensori dei diritti umani e sindacalisti. Il governo ha continuato a promuovere l’approvazione di leggi volte ad allargare la giurisdizione militare e a rendere più facile l’assegnazione ai tribunali militari di quei casi giudiziari in cui membri delle forze di sicurezza erano implicati in violazioni dei diritti umani. Ciò ha rischiato di capovolgere i limitati risultati ottenuti dai tribunali civili per far valere i diritti delle vittime a verità e giustizia.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA

Il presidente Barack Obama ha ammesso che nella risposta agli attacchi terroristici contro gli Usa dell’11 settembre 2001 (11 settembre) era stato fatto uso della tortura ma è rimasto in silenzio in merito al tema dell’accertamento delle responsabilità e del relativo rimedio giuridico. A fine 2014, nella struttura di detenzione statunitense di Guantánamo Bay, a Cuba, erano trattenuti 127 uomini. La maggior parte di questi era detenuta senza accusa né processo, mentre sei stavano ancora af- frontando un processo davanti alla commissione militare, in cui il governo chiedeva la pena di morte, in base a un sistema che non rispettava gli standard internazionali di equità processuale. Verso la fine del 2012, il comitato selettivo sull’intelligence del senato degli Usa (US Senate Select Committee on Intelligence – Ssci) completò un’analisi iniziata nel 2009 sul programma di detenzione e interrogatorio operato segretamente dalla Cia, dopo l’11 settembre. Il 3 aprile 2014, l’Ssci con un voto di 11 a tre ha deciso per la desecretazione della sintesi del rapporto e delle relative 20 conclusioni. La sintesi è stata infine resa pubblica il 9 dicembre e ha fornito particolari ancor più incriminanti delle violazioni dei diritti umani compiute nel contesto del programma, operato sotto la diretta autorità del presidente. Il rapporto completo è rimasto classificato e non disponibile all’opinione pubblica, trattenuto, secondo quanto dichiarato dalla presidente dell’Ssci, la senatrice Dianne Fein- stein, “per essere desecretato in un secondo momento”. Sebbene da anni siano ormai di dominio pubblico un gran numero d’informazioni riguardanti il programma della Cia, nessuno è mai stato ancora giudicato per le violazioni dei diritti umani, compresi i reati di tortura e sparizione forzata secondo il diritto internazionale, compiute nel contesto del programma.

PENA DI MORTE

Gli Usa sono stati l’unico paese della regione in cui sono state effettuate esecuzioni. Anche qui, tuttavia, lo slancio abolizionista contrario all’applicazione della pena di morte ha continuato a crescere, con l’annuncio a febbraio che il governatore dello stato di Washington non avrebbe più au- torizzato esecuzioni finché fosse rimasto in carica. La decisione faceva seguito all’abolizione della

153 pena capitale da parte del Maryland nel 2013, che aveva portato a 18 il numero degli stati abolizionisti all’interno degli Usa. Forti segnali facevano inoltre ritenere che sotto l’attuale governatore del Colorado non sarebbero state più effettuate esecuzioni. Nei Caraibi, per la prima volta dagli anni Ottanta, in diversi stati dell’area i bracci della morte erano vuoti.

154 ARGENTINA

REPUBBLICA ARGENTINA

Capo di stato e di governo: Cristina Fernández de Kirchner

Le donne hanno continuato a incontrare ostacoli nell’accesso all’aborto legale. È rimasta motivo di preoccupazione la discriminazione contro le popolazioni native. Sono stati celebrati processi relativi ai crimini commessi durante la dittatura militare. Le denunce di tortura non sono state indagate.

CONTESTO Lo sciopero per gli stipendi, iniziato dalla polizia a dicembre 2013, ha scatenato un’ondata di violenze e saccheggi in tutto il paese. Almeno 18 persone sono rimaste uccise. La violenza si è propagata in molte delle 23 province; centinaia di persone sono rimaste ferite e migliaia di attività produttive sono state danneggiate. Ai sensi del Principio della giurisdizione universale, anche il sistema giudiziario ha indagato sui crimini contro l’umanità commessi durante la guerra civile spagnola e l’era franchista (dal 1936 al 1975). Ad aprile, la Corte spagnola di giustizia ha rigettato le istanze per l’estradizione in Argentina di due ex agenti della sicurezza. Sempre ad aprile, nella provincia di Tucumán, 10 imputati accusati di aver rapito Marita Verón nel 2002 e di averla quindi costretta a prostituirsi sono stati condannati a pene carcerarie, dopo che le loro sentenze di proscioglimento erano state revocate.

DIRITTI DELLE DONNE Oltre la metà delle giurisdizioni non aveva approntato i protocolli necessari per far sì che gli ospedali garantissero l’accesso all’aborto legale nel caso in cui la gravidanza fosse stata provocata da un abuso sessuale o se la vita o salute della donna fossero a rischio. A marzo, la Corte suprema ha rigettato la mozione che chiedeva un’udienza pubblica per valutare le misure necessarie ad applicare efficacemente la sua sentenza del marzo 2012, che dissipava ogni dubbio circa la legalità del- l’aborto. Ad aprile, le autorità di un ospedale di Moreno, nella provincia di Buenos Aires, hanno negato l’aborto a una tredicenne la cui gravidanza era stata provocata da uno stupro, in quanto la gestazione era ar- rivata alla 23ª settimana e per motivi legati alla sua salute, nonostante né la Who né le norme inter- nazionali specifichino i termini per accedere a questo diritto. L’aborto è stato infine praticato in una struttura privata.1

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE Sebbene la costituzione argentina riconoscesse i diritti delle popolazioni native alle loro terre ancestrali e a prendere parte alla gestione economica delle risorse naturali, questi diritti non sono stati rispettati.

155 Ad aprile, la comunità La Primavera (Potae Napocna Navogoh), nella provincia di Formosa, ha respinto il processo di demarcazione della terra, sostenendo che i governi provinciale e nazionale non avevano rispettato i loro diritti a essere consultati e a un consenso libero, anticipato e informato. Allo stesso tempo, le autorità si stavano servendo del sistema giudiziario per perseguire coloro che si battevano per i loro diritti. Il leader de La Primavera, Félix Díaz, è stato processato a maggio per il furto di due armi d’ordinanza della polizia, durante una protesta organizzata dalla comunità nel 2010; l’uomo ha negato ogni accusa. Le comunità native sono state inoltre al centro di violenze per mano di privati cittadini; nessuno dei responsabili è stato assicurato alla giustizia. A marzo, la comunità india di Quilmes, una comunità nativa nel nordovest del paese, è stata al centro di attacchi condotti con armi da fuoco, bastoni e catene. Intrusi armati hanno aggredito gli abitanti del villaggio, sparando contro di loro, e occupato il luogo sacro della comunità chiamato “ciudad sagrada” (città sacra). Sette abitanti sono rimasti feriti. La comunità stava cercando di re- clamare il suo terreno sacro attraverso il sistema giudiziario nazionale. A fine anno, nessuno era stato perseguito per usurpazione. Le indagini sugli attacchi erano in corso.

GIUSTIZIA TRANSIZIONALE In vari tribunali del paese si sono svolte le udienze a porte aperte dei processi per i crimini contro l’umanità commessi sotto la giunta militare dal 1976 al 1983. A Buenos Aires, 22 imputati sono stati processati per il loro presunto coinvolgimento nell’Operazione Condor, un piano coordinato dai governi militari di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay, per eliminare i rispettivi oppositori politici. Inoltre, più di 100 imputati sono stati processati per i crimini che furono perpetrati, tra gli altri, nei centri di detenzione segreta e tortura della Scuola superiore di meccanica della marina a Buenos Aires (Escuela superior de mecánica de la Armada – Esma) e di La Perla a Córdoba.

IMPUNITÀ Il 18 luglio ricorreva il 20° anniversario dell’attentato contro l’edificio che ospitava l’Asociación mutual israelita argentina (Amia) a Buenos Aires, che provocò la morte di 85 persone. Il governo non ha provveduto ad assicurare giustizia e riparazione alle vittime. L’Iran si è rifiutato di conformarsi a un’ordinanza emanata da un tribunale argentino che disponeva la cattura di cinque sospettati. Nel 2013, i governi di Argentina e Iran avevano firmato un accordo per interrogare i sospettati a Teheran ma questo non era mai stato applicato. In Argentina, ufficiali d’alto rango, compreso l’ex presidente Carlos Menem, sono finiti sotto processo per aver depistato le indagini. A fine anno si attendevano le udienze pubbliche del processo.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Ad aprile, il governo ha regolamentato il sistema nazionale per la prevenzione della tortura ma non ha provveduto alla creazione di un comitato nazionale, che avrebbe dovuto essere integrato con legi- slatori, funzionari governativi e rappresentanti di organizzazioni della società civile. Tra le varie funzioni, il Comitato avrebbe avuto il compito di visitare i centri di detenzione e di stabilire i criteri per l’impiego della forza, il controllo del sovraffollamento carcerario e i regolamenti previsti per il tra- sferimento dei detenuti. Non sono state aperte indagini su denunce di tortura e altri maltrattamenti, come nel caso dei prigionieri Marcelo Tello e Iván Bressan, incarcerati nella provincia di Santiago del Estero.2

156 A Mendoza, nessuno è stato chiamato in giudizio per le frequenti denunce di tortura. Molte carceri risultavano sovraffollate e alcuni prigionieri sono stati confinati in isolamento per più di 20 ore al giorno.3

Note 1. Argentina: El acceso al aborto no punible debe ser garantizado en la provincia de Buenos Aires y entodo el país, www.amnistia.org.ar/noticias-y-documentos/archivo-de-noticias/argentina-91 2. Argentina: Deben investigarse denuncias de tortura en Santiago del Estero, www.amnistia.org.ar/noticias-y-documentos/ar- chivo-de-noticias/argentina-99 3. Argentina: La provincia de Mendoza tiene la obligación de investigar las denuncia de tortura en las cárceles, www.amnistia.org.ar/noticias-y-documentos/archivo-de-noticias/argentina-103

BAHAMAS

COMMONWEALTH DELLE BAHAMAS

Capo di stato: regina Elisabetta II, rappresentata da dame Marguerite Pindling (subentrata a sir Arthur Alexander Foulkes a luglio) Capo di governo: Perry Gladstone Christie

Ci sono state richieste per una ripresa delle esecuzioni. Sono stati segnalati casi di uso eccessivo della forza e i procedimenti giudiziari per tortura o altro maltrattamento in detenzione erano ancora in attesa di giudizio.

CONTESTO È stato rinviato al 2015 il referendum sugli emendamenti alla costituzione in materia di parità di genere. Il referendum, che dava seguito alle raccomandazioni formulate in un rapporto della com- missione costituzionale del 2013, era stato inizialmente fissato per novembre 2014. Gli emendamenti sono stati osteggiati da più parti, comprese le chiese locali, per il timore che avrebbero potuto permettere i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Sono progressivamente aumentati i livelli di criminalità violenta. Nel 2013, la polizia ha riferito il se- condo tasso più elevato di omicidi dal 2000, con 120 casi registrati. Non sono state pubblicate altre statistiche sul tasso di omicidi nel 2014.

PENA DI MORTE L’ultima esecuzione nelle Bahamas ha avuto luogo nel 2000. Centinaia di persone hanno manifestato nel corso dell’anno a favore di una ripresa delle esecuzioni allo scopo di ridurre la criminalità. A marzo, le Bahamas hanno respinto una richiesta per l’abolizione della pena di morte e hanno con- fermato la propria posizione di mantenitore presso l’Oas.

157 USO ECCESSIVO DELLA FORZA Hanno continuato a essere denunciati casi di tortura o altri maltrattamenti e di uso eccessivo della forza da parte di agenti di polizia. Ad aprile, Leslie Louis è dovuto ricorrere alle cure mediche dopo che la polizia aveva tentato di arrestarlo. Stando alle accuse, è stato picchiato. Nei suoi confronti non è stato formulato alcun capo d’accusa. Quando sua sorella ha chiesto alla polizia informazioni circa il luogo in cui veniva interrogato, la donna è stata presa a spintoni e afferrata per la gola.

DECESSI IN CUSTODIA A fine anno non era stata ancora emessa la sentenza relativa al caso di Aaron Rolle, deceduto in custodia di polizia a febbraio 2013. L’inchiesta del coroner condotta a maggio 2013 aveva concluso che la causa del suo decesso era stata un’“uccisione illegale”.

RIFUGIATI E MIGRANTI A fine anno non era stata ancora pronunciata la sentenza nei confronti di cinque marine processati da un tribunale militare nel novembre 2013. Erano stati incriminati per il maltrattamento di richiedenti asilo cubani nel centro di detenzione di Carmichael Road, a maggio 2013. Il 1° novembre è stata messa in atto una nuova politica sulla migrazione che ha causato decine di detenzioni arbitrarie di migranti, che hanno colpito in modo sproporzionato le comunità haitiane e bahamensi-haitiane, a rischio di deportazione senza i procedimenti dovuti.

DIRITTI DI PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A febbraio, il ministro degli Esteri e dell’immigrazione ha pubblicamente chiesto agli stati membri della Comunità dei paesi caraibici una maggiore tolleranza verso le persone Lgbti. Ad agosto, il primo Pride organizzato nelle Bahamas è stato cancellato a causa delle minacce e delle intimidazioni ricevute dagli organizzatori.

DIRITTI DELLE DONNE Nonostante le Bahamas, durante l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite del 2013, abbiano promesso di rendere reato lo stupro maritale, a fine anno non era stata ancora approvata una legi- slazione in materia.

158 BOLIVIA

STATO PLURINAZIONALE DELLA BOLIVIA

Capo di stato e di governo: Evo Morales Ayma

Le vittime delle violazioni dei diritti umani commesse durante le giunte militari del passato non hanno ancora ottenuto verità, giustizia e piena riparazione. I diritti delle popolazione native a essere consultate e a un consenso libero, anticipato e informato e ad avere pari opportunità d’accesso ai diritti sessuali e riproduttivi sono rimasti disattesi.

CONTESTO A ottobre, il presidente Evo Morales è stato rieletto per un terzo mandato. Oltre il 50 per cento dei can- didati parlamentari erano donne. Tale risultato era dovuto all’applicazione, per la prima volta, della disposizione riguardante l’uguaglianza di genere, contenuta nella legge elettorale del 2010. A ottobre, la Bolivia ha accettato la maggior parte delle raccomandazioni formulate durante il processo dell’Esame periodico universale delle Nazioni Unite, come l’esortazione a indagare le violazioni dei diritti umani del passato e ad assicurare una completa ed effettiva riparazione alle vittime, a riesaminare la legislazione che criminalizza l’aborto e a migliorare le condizioni nelle carceri. Altre preoccupazioni in merito alle medesime tematiche erano state sollevate dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite a ottobre 20131 e dal Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura a maggio 2013.

IMPUNITÀ E SISTEMA GIUDIZIARIO A 50 anni dal governo autoritario della giunta militare (1964-1982), non ci sono stati progressi nel garantire giustizia alle vittime della violenza politica né provvedimenti per implementare meccanismi in grado di far luce sulle violazioni dei diritti umani commesse durante quel periodo.2 Le autorità non hanno tenuto conto delle preoccupazioni sollevate dagli organismi nazionali e internazionali relativa- mente alla mancanza di trasparenza e all’iniquità del processo di riparazione, che era terminato nel 2012 e a seguito del quale soltanto un quarto dei ricorrenti si era qualificato come avente diritto. A febbraio, l’accampamento dell’organizzazione delle vittime Piattaforma degli attivisti sociali contro l’impunità, per la giustizia e la memoria storica del popolo boliviano, allestito davanti al ministero della Giustizia, ha preso fuoco3 e fascicoli e documenti sono andati distrutti. Secondo le indagini pre- liminari, l’incendio sarebbe stato provocato da un cortocircuito elettrico. Tuttavia, l’organizzazione ha denunciato che si trattava di un attacco deliberato. A fine anno l’inchiesta era in corso. Sono stati se- gnalati4 ritardi nelle indagini riguardanti un attacco contro un membro della stessa organizzazione delle vittime, avvenuto a febbraio 2013. A luglio, la Bolivia ha avanzato agli Usa la seconda richiesta di estradizione per l’ex presidente Gonzalo Sánchez de Lozada. Questi doveva rispondere di accuse in relazione agli eventi conosciuti

159 come Ottobre nero, in cui morirono 67 persone e più di 400 rimasero ferite, durante le proteste che ebbero luogo a El Alto, vicino a La Paz, verso la fine del 2003. Una precedente richiesta di estradizione era stata respinta nel 2012. A maggio, un giudice federale degli Usa aveva dato il via libera a una causa civile contro l’ex presidente e il suo ministro della Difesa per la loro responsabilità negli eventi. I procedimenti giudiziari legati al massacro di Pando del 2008, in cui furono uccise 19 persone, per lo più contadini, e altre 53 rimasero ferite, sono andati avanti ma hanno subito ritardi. Sono proseguite le udienze relative al caso di 39 persone accusate di coinvolgimento in un presunto complotto per assassinare il presidente Morales, nel 2009. A fine anno, non erano state ancora avviate indagini in merito alle accuse di mancato adempimento delle procedure dovute né sulle uc- cisioni di tre uomini collegati al caso, avvenute nel 2009. A marzo, il procuratore che si era dimesso dopo aver denunciato interferenze politiche nella vicenda, e che era stato conseguentemente accusato di coinvolgimento in estorsione, ha chiesto asilo politico in Brasile. Ad agosto, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha dichiarato che la detenzione di uno dei sospettati del caso era arbitraria e ne ha raccomandato l’immediato rilascio e il risarcimento. A giugno è stato avviato un procedimento penale di fronte al congresso contro tre giudici della Corte costituzionale per, tra le altre cose, violazione del loro dovere.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Secondo uno studio condotto durante l’anno dall’Organizzazione panamericana della sanità, nella re- gione la Bolivia era al primo posto per tasso di violenza contro le donne per mano del partner e al secondo per violenza sessuale. A ottobre, è stata promulgata una normativa che regolamenta il bilancio e l’applicazione della Legge 348 del 2013, finalizzata a garantire alle donne il diritto a una vita libera dalla violenza.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI Sebbene a febbraio la Corte costituzionale plurinazionale avesse stabilito l’incostituzionalità dell’art. 266 del codice penale che prevede la richiesta di un’autorizzazione giudiziaria per ottenere un aborto, la decisione non era stata ancora implementata. Tra gli altri provvedimenti, a fine anno era ancora in discussione presso l’assemblea legislativa plu- rinazionale un disegno di legge sui diritti sessuali e riproduttivi, finalizzato a garantire il diritto al- l’informazione riguardo ai servizi di salute sessuale e riproduttiva, per prevenire gravidanze non pro- grammate o non volute, e il diritto all’educazione sessuale nelle scuole.

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE A novembre, 14 funzionari di polizia sono stati accusati di aver fatto uso eccessivo della forza nel 2011, durante una marcia pacifica contro la costruzione di una strada all’interno del territorio dei nativi e parco nazionale isiboro-sécure. L’ufficio del procuratore ha archiviato le accuse di coinvolgi- mento di funzionari civili di alto rango, avanzate dalle vittime. I progetti di costruzione della strada rimanevano sospesi in seguito a una controversia riguardante la consultazione con le comunità native colpite, risalente al 2012. Una nuova legge sulle miniere, approvata a maggio, escludeva la consultazione delle popolazioni native per attività minerarie di prospezione ed esplorazione e non riconosceva il principio del consenso

160 libero, anticipato e informato in relazione a progetti che avrebbero avuto un impatto sulle loro vite. A fine anno era stato ultimato un progetto di legge sul consenso libero, anticipato e informato.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Hanno continuato a essere motivo di preoccupazione i requisiti previsti dalla legge del 2013, per con- cedere l’identità giuridica alle Ngo. Ai sensi della normativa, le organizzazioni erano tenute a indicare il loro “contributo allo sviluppo economico e sociale” dello stato. Nel 2013, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha raccomandato che la Bolivia abrogasse tali requisiti, in quanto imponevano restrizioni alla capacità delle organizzazioni di operare in maniera libera, indipendente ed efficace. A gennaio, membri del Consejo Nacional de Ayllus y Markas del Qullasuyu (Conamaq), impegnati in una veglia davanti alla loro sede a La Paz, sono stati sgomberati con violenza da altri gruppi per i diritti delle popolazioni native, che si erano autoattribuiti la leadership del Conamaq. Ci sono state rimostranze per il mancato intervento della polizia per fermare lo sgombero violento. A marzo, l’Ngo danese Ibis Dinamarca ha chiuso la maggior parte dei propri progetti in Bolivia, dopo che a dicembre 2013 il governo aveva annunciato la sua espulsione dal paese, sostenendo che l’or- ganizzazione si stava intromettendo in questioni politiche e che aveva contribuito a creare divisioni all’interno del movimento nativo.

CONDIZIONI CARCERARIE Hanno continuato a destare preoccupazione la mancanza di sicurezza e le deplorevoli condizioni di vita nelle carceri. I ritardi nella conclusione dei processi entro un ragionevole periodo di tempo, l’ec- cessivo ricorso alla detenzione preprocessuale e l’impiego limitato di alternative alla detenzione hanno nell’insieme contribuito al sovraffollamento degli istituti di pena. I decreti presidenziali, pro- mulgati nel 2013 e 2014, che concedevano provvedimenti di grazia e di amnistia, pur intendendo af- frontare la problematica del sovraffollamento carcerario, non hanno avuto i risultati attesi. Ad agosto, il difensore civico ha fatto sapere che ci sono stati pochi progressi nelle indagini sulla morte di oltre 30 reclusi nel carcere di Palmasola, a Santa Cruz, ad agosto 2013.5 A settembre, quattro reclusi sono morti e una decina sono rimasti feriti negli scontri tra detenuti nel carcere di El Abra, a Cochabamba. A fine anno sull’episodio erano in corso indagini.

Note 1. Bolivia: Submission to the United Nations Human Rights Committee (AMR 18/005/2013), www.amnesty.org/en/library/ info/AMR18/005/2013/en 2. Bolivia: “No me borren de la historia”: Verdad, justicia y reparación en Bolivia (1964-1982) (AMR 18/002/2014), www.am- nesty.org/es/library/info/AMR18/002/2014/es 3. Bolivia: Victims of military regimes’ campsite burnt (AMR 18/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AMR18 /001/2014/en 4. Bolivia: Protester attacked, police take no notice (AMR 18/001/2013), www.amnesty.org/en/library/info/AMR18/001/2013/en 5. Bolivia: Las autoridades bolivianas deben investigar completamente la tragedia en la cárcel de Palmasola (AMR 18/004/2013), www.amnesty.org/es/library/info/AMR18/004/2013/es

161 BRASILE

REPUBBLICA FEDERATIVA DEL BRASILE

Capo di stato e di governo: presidente Dilma Rousseff

Sono pervenute continue segnalazioni di gravi violazioni dei diritti umani, comprese uccisioni da parte della polizia e tortura e altri maltrattamenti nei confronti di detenuti. Giovani di colore abitanti delle favelas (baraccopoli), braccianti agricoli e popolazioni native sono stati particolarmente a rischio di violazioni dei diritti umani. Le proteste che hanno attraversato il paese, in particolare in concomitanza con la Coppa del mondo di calcio, sono state in molti casi represse dalle forze di si- curezza tramite un uso eccessivo e non necessario della forza. In varie parti del paese sono state se- gnalate detenzioni arbitrarie e tentativi di criminalizzare manifestanti pacifici. Nonostante l’appro- vazione di una legge sulle unioni civili omosessuali, le persone Lgbti sono rimaste soggette a discriminazione e attacchi. Il Brasile ha continuato a svolgere un ruolo significativo sul piano inter- nazionale in tematiche come il diritto alla riservatezza, Internet e la discriminazione per motivi legati all’orientamento sessuale o l’identità di genere. Sono stati compiuti alcuni progressi nell’af- frontare la questione dell’impunità per le gravi violazioni dei diritti umani commesse in passato du- rante la dittatura (1964-1985).

CONTESTO Il Brasile ha proseguito il suo terzo mandato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, in cui ha assunto un ruolo di centrale sostenitore delle risoluzioni contro la discriminazione sulla base del- l’orientamento sessuale e dell’identità di genere. In occasione dell’Assemblea generale, gli esecutivi di Brasile e Germania hanno presentato una risoluzione sul diritto alla riservatezza nell’era di Internet, che è stata approvata a dicembre 2013. Ad aprile 2014, il Brasile ha approvato un quadro normativo su diritti civili e Internet (Marco civil da Internet), contenente principi a garanzia della neutralità del web e specifiche disposizioni a tutela della libertà d’espressione e del diritto alla riservatezza.

VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI NEL CONTESTO DELLE PROTESTE SOCIALI Nel corso dell’anno, migliaia di manifestanti sono scesi per le strade prima e durante la Coppa del mondo di calcio, ospitata dal Brasile tra giugno e luglio. Le manifestazioni facevano eco ad altre di enorme portata che si erano svolte nell’anno precedente e avevano dato voce al malcontento popolare riguardo a una serie di tematiche come gli aumenti delle tariffe dei trasporti, la spesa elevata sostenuta per eventi sportivi di rilievo internazionale e gli insufficienti investimenti stanziati per i servizi pubblici. La polizia è spesso intervenuta rispondendo con violenza alle proteste. Centinaia di persone sono state rastrellate e arbitrariamente arrestate, alcune sulla base di leggi designate per contrastare il crimine organizzato, pur in assenza di qualsiasi indicazione che le persone detenute fossero in qualche modo coinvolte in attività criminali.1

162 Ad aprile, alcuni mesi prima della Coppa del mondo di calcio, soldati dell’esercito e marine sono stati schierati nel complesso Maré di Rio de Janeiro. Inizialmente, era stato dichiarato che le truppe sarebbero rimaste fino alla fine di luglio ma le autorità hanno successivamente fatto sapere che i militari avrebbero presidiato il complesso a tempo indeterminato. La decisione ha destato grave pre- occupazione a causa della scarsa efficacia degli strumenti di accertamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani compiute durante le operazioni militari. A fine anno, l’unica persona giudicata colpevole di reati in relazione alle violenze che si erano verificate durante le proteste era Rafael Braga Vieira, un uomo di colore senzatetto. Sebbene non avesse preso parte ad alcuna manifestazione, era stato arrestato per “aver trasportato esplosivo o materiale incendiario senza autorizzazione” e condannato a cinque anni di carcere. Benché la perizia legale avesse concluso che gli agenti chimici in suo possesso, ovvero semplici liquidi detergenti, non sarebbero potuti servire a fabbricare ordigni esplosivi, il tribunale non ha tenuto conto di tali ri- sultati.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA La polizia militare ha spesso fatto uso eccessivo della forza per disperdere i manifestanti.2 A Rio de Janeiro, la polizia militare ha impiegato gas lacrimogeni per disperdere manifestanti pacifici in svariate occasioni, anche in luoghi chiusi come il centro medico Pinheiro Machado, a luglio 2013, e nelle stazioni della metropolitana, a settembre 2013 e giugno 2014.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E D’ASSOCIAZIONE – GIORNALISTI Secondo l’Associazione brasiliana del giornalismo investigativo, almeno 18 giornalisti sono stati ag- grediti mentre svolgevano il loro lavoro in città che ospitavano la Coppa del mondo, tra cui São Paulo, Porto Alegre, Rio de Janeiro, Belo Horizonte e Fortaleza. A Rio de Janeiro, il 13 luglio, giorno della finale della Coppa del mondo, almeno 15 giornalisti sono stati aggrediti da poliziotti mentre coprivano una manifestazione. Ad alcuni è stata danneggiata l’attrezzatura. A febbraio, Santiago (Ilídio) Andrade, un operatore televisivo, è morto dopo essere stato colpito da un potente petardo sparato dai manife- stanti. In relazione all’uccisione, la polizia ha arrestato due uomini, che sono stati incriminati di omicidio intenzionale e a fine anno erano in attesa del processo.

PUBBLICA SICUREZZA Nel contesto delle operazioni di pubblica sicurezza hanno continuato a verificarsi diffuse violazioni dei diritti umani. Secondo statistiche ufficiali, durante le operazioni di sicurezza condotte dalla polizia nello stato di Rio de Janeiro nel 2013 sono morte 424 persone. I primi mesi del 2014 hanno visto un aumento del numero di questi decessi, con 285 persone uccise da poliziotti, pari al 37 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2013. A marzo, Claudia Silva Ferreira è rimasta ferita dai colpi sparati dalla polizia nel corso di uno scontro a fuoco nella favela di Morro da Congonha. Mentre veniva trasportata in ospedale dai poliziotti nel bagagliaio della loro auto, la donna è caduta fuori dal mezzo ed è stata trascinata per circa 350 metri. L’episodio è stato ripreso e diffuso dai mezzi d’informazione brasiliani. A fine anno sei poliziotti erano sotto inchiesta, pur rimanendo a piede libero. Douglas Rafael da Silva Pereira, un ballerino, è stato trovato morto ad aprile in seguito a un’operazione

163 della polizia condotta nella favela di Pavão-Pavãozinho. La morte ha scatenato proteste durante le quali Edilson Silva dos Santos è rimasto ucciso sotto i colpi sparati dagli agenti. A fine anno, nessuno era stato incriminato in relazione ai due decessi. A novembre, almeno 10 persone sono state uccise, a quanto pare per mano di agenti della polizia mi- litare fuori servizio, nella città di Belém, nello stato del Pará. Gli abitanti del quartiere hanno raccontato ad Amnesty International che mezzi della polizia militare avevano chiuso le strade prima delle uccisioni e che persone non identificate su auto e motociclette avevano messo in pericolo e at- taccato gli abitanti.3 Secondo alcuni indizi, le uccisioni potevano essere una rappresaglia per l’omicidio di un poliziotto. Dieci agenti di polizia, compreso un ex comandante di battaglione, sono stati processati tra dicembre 2012 e aprile 2014 e giudicati colpevoli in relazione all’omicidio della giudice Patrícia Acioli, avvenuto ad agosto 2011. La donna era stata titolare dei casi giudiziari che avevano visto la condanna di 60 poliziotti implicati nel crimine organizzato.

CONDIZIONI CARCERARIE Le carceri brasiliane sono rimaste caratterizzate da endemiche condizioni di grave sovraffollamento, ambiente degradato, tortura e violenza. Negli ultimi anni, diversi casi riguardanti le condizioni carcerarie sono stati sottoposti alla Commissione interamericana dei diritti umani e alla Corte inte- ramericana dei diritti umani; tuttavia, tali condizioni sono rimaste motivo di grave preoccupazione. Nel 2013, 60 detenuti sono stati uccisi nel carcere di Pedrinhas, nello stato di Maranhão. Oltre 18 sono stati uccisi nella prigione tra gennaio e ottobre 2014. I mezzi d’informazione hanno diffuso un video delle decapitazioni. A fine anno era ancora in corso un’indagine sugli episodi. Da aprile 2013 ad aprile 2014, i tribunali hanno condannato 75 poliziotti per aver ucciso 111 prigionieri durante i disordini verificatisi nel carcere di Carandiru, nel 1992. Gli agenti hanno presentato ricorso contro le sentenze e a fine anno erano ancora in servizio. Il comandante dell’ope- razione di polizia era stato giudicato colpevole nel 2001, benché la sentenza a suo carico sia stata in seguito ribaltata; il comandante morì nel 2006, assassinato dalla sua fidanzata. Il direttore del carcere e il ministro della Pubblica sicurezza all’epoca della rivolta non sono stati incriminati in relazione al caso.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Sono pervenute diverse segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti durante le fasi dell’arresto e nel corso dell’interrogatorio e della detenzione presso le stazioni di polizia. A luglio 2013, Amarildo de Souza, un muratore, è stato arrestato dalla polizia mentre tornava a casa a Rocinha, una favela di Rio de Janeiro. L’uomo è morto sotto tortura mentre era in custodia presso la locale unità di polizia pacificatrice (Unidade de polícia pacificadora). Gli agenti hanno negato che Amarildo de Souza fosse mai stato in custodia dell’unità, malgrado l’esistenza di un filmato che lo mostrava detenuto. In relazione al caso sono stati incriminati 25 poliziotti, compreso il comandante dell’unità, e a fine anno sei di loro erano detenuti in attesa di processo. Il sistema nazionale di prevenzione e lotta contro la tortura, istituito con provvedimento legislativo nel 2013, a fine 2014 non era ancora divenuto pienamente operativo. Malgrado non fosse pienamente conforme agli standard internazionali in termini d’indipendenza, il sistema ha rappresentato co- munque un importante passo avanti nell’adempimento degli obblighi del paese stabiliti dal

164 Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, che il Brasile aveva ra- tificato nel 2007.

IMPUNITÀ La creazione della commissione di verità nazionale ha generato un diffuso interesse nell’opinione pubblica verso le violazioni dei diritti umani commesse durante la dittatura (1964-1985). Ciò ha portato alla creazione di oltre un centinaio di commissioni di verità, dislocate presso gli stati e le città e all’interno di università e sindacati. Queste si sono occupate delle indagini riguardanti diversi casi come quello della sparizione forzata dell’ex parlamentare del congresso Rubens Paiva, nel 1971. Hanno inoltre messo in luce altre violazioni meno note, commesse contro le popolazioni native e i braccianti agricoli, come gli attacchi dell’esercito contro i waimiri-atroari dell’Amazzonia (1968- 1975) e la tortura dei contadini durante la guerriglia di Araguaia (1967-1974). Nel suo rapporto finale pubblicato il 10 dicembre, la commissione di verità raccomandava che la legge sull’amnistia del 1979 non ostacolasse la formulazione dei capi d’imputazione nei confronti dei perpetratori di gravi violazioni dei diritti umani. Il rapporto inoltre sollecitava diverse riforme in materia di pubblica sicurezza, come la smilitarizzazione della polizia. I procuratori federali, impegnati nel tentativo di assicurare alla giustizia i perpetratori di questi crimini, hanno duramente criticato la legge sull’amnistia in quanto incompatibile con i trattati internazionali sui diritti umani ma i giudici avevano sempre rigettato tali argomentazioni. Tuttavia, a fine anno, erano all’esame del congresso tre progetti di legge che avrebbero modificato l’interpretazione della legge sull’amnistia, in modo da renderla inapplicabile agli agenti statali accusati di crimini contro l’umanità.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Il programma nazionale per la protezione dei difensori dei diritti umani ha continuato a incontrare numerose difficoltà nella realizzazione del suo mandato, come la mancanza di risorse, l’insicurezza della magistratura, l’assenza di coordinamento con l’apparato statale e controversie riguardanti l’ambito di applicazione del programma stesso e gli eventuali suoi beneficiari. Le autorità brasiliane si sono rifiutate di inserire nel programma una lavoratrice del mercato del sesso, conosciuta come “Isabel”. La donna aveva sporto querela in merito alla violenza che assieme alle sue colleghe aveva subito da parte della polizia, quando a maggio sono state sgomberate dall’edificio in cui abitavano a Niterói, nello stato di Rio de Janeiro. Dopo aver sporto denuncia, Isabel è stata rapita e percossa da uomini che le hanno mostrato alcune fotografie di suo figlio. Temendo per la sua incolumità, la donna ha abbandonato la zona e a fine anno era ancora nascosta. Ad aprile 2013, due uomini sono stati giudicati colpevoli dell’omicidio nel 2011 di José Cláudio Ribeiro e Maria do Espírito Santo, leader dei braccianti agricoli nello stato di Pará, i quali avevano denunciato un taglio illegale di legname. Ad agosto 2014, è stato disposto un nuovo processo nei confronti di un proprietario terriero accusato di essere il mandante degli omicidi; l’uomo era stato prosciolto dall’accusa di coinvolgimento negli omicidi nel 2013. Tuttavia, è sfuggito all’arresto e a fine anno rimaneva in libertà. La sorella di Maria do Espírito Santo, Laísa Santos Sampaio, ha ricevuto minacce di morte a causa delle sue attività in difesa dei diritti umani ed è stata inserita nel programma nazionale per la protezione dei difensori dei diritti umani. Nonostante l’assegnazione di alcune misure di protezione, compresa una scorta della polizia, persistevano comunque timori per la sua incolumità.

165 Nello stato di Rio de Janeiro, l’incapacità del governo di garantire la sicurezza ai membri dell’Asso- ciazione uomini e donne del mare (Associação dos homens e mulheres do mar – Ahomar), un gruppo di pescatori della Baia di Guanabara, ha portato alla chiusura della loro sede. Dal novembre 2012 il presidente dell’associazione e sua moglie non avevano potuto più tornare a casa per via delle minacce di morte che avevano ricevuto. Anche altri pescatori di Ahomar, come Maicon Alexandre, sono stati minacciati di morte.

DISPUTE SULLA TERRA E POPOLAZIONI NATIVE Le popolazioni native e le comunità quilombola (discendenti di ex schiavi) del Brasile hanno continuato ad affrontare gravi minacce ai loro diritti umani. A settembre 2013, la comunità guarani-kaiowá di Apika´y, nello stato del Mato Grosso do Sul, ha oc- cupato una piantagione di canna da zucchero, che sosteneva essere sulla loro terra ancestrale. Un tribunale locale ha ordinato alla comunità di andarsene ma questa si è rifiutata di farlo. A fine anno, i guarani-kaiowá rimanevano sulla terra ma a rischio di essere sgomberati. Nel 2007, il governo federale aveva firmato un accordo con la procura generale per la demarcazione del terreno della co- munità fino al 2010 ma il processo non era mai stato completato. A fine anno, era all’esame del congresso un progetto di legge che, se approvato, avrebbe trasferito la competenza della demarcazione della terra nativa dall’esecutivo alla camera legislativa, dove la lobby dei proprietari terrieri agricoli era molto forte. Anche la proposta del nuovo codice minerario poneva le comunità tradizionali a rischio di veder realizzare sulle loro terre ancestrali vasti progetti di attività estrattiva senza il loro consenso, in violazione delle norme internazionali. Le comunità quilombola hanno continuato a lottare per il riconoscimento del loro diritto alla terra. Il lento processo di risoluzione delle loro vertenze di rivendicazione dei titoli di proprietà della terra è sfociato in scontro aperto e ha esposto le comunità al rischio di minacce e violenza da parte di uomini armati e allevatori di bestiame locali. A ottobre, la comunità di São José de Bruno, nello stato di Maranhão, è rimasta sotto la minaccia diretta di un proprietario terriero che aveva invaso parte della loro terra. Nel 2013, 34 persone sono rimaste uccise nel contesto del conflitto sulla terra, tre delle quali nello stato di Maranhão. Tra gennaio e ottobre 2014, cinque persone sono state uccise a causa del conflitto sulla terra nello stato. L’impunità per questi crimini ha continuato ad alimentare il circuito di violenza. I responsabili dell’omicidio del leader quilombola Flaviano Pinto Neto, avvenuto nell’ottobre 2010, non erano stati ancora assicurati alla giustizia, malgrado il fatto che le indagini della polizia avessero portato a identificare quattro sospettati.4

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A maggio 2013, il consiglio nazionale di giustizia ha approvato una risoluzione che autorizzava le unioni civili tra persone dello stesso sesso, in seguito a una sentenza emessa dalla Corte suprema nel 2011. Tuttavia, le frequenti dichiarazioni omofobe da parte di leader politici e religiosi sono con- tinuate. Esponenti politici conservatori hanno posto il veto ai tentativi del governo federale di distribuire materiale educativo sui diritti umani nelle scuole per contrastare la discriminazione sulla base del- l’orientamento sessuale. In Brasile i crimini d’odio di stampo omofobo sono stati frequenti. Secondo la Ngo Gruppo gay di Bahia (Grupo gay da Bahia), 312 persone sono state uccise nel 2013 nel contesto di crimini d’odio di stampo omofobo e transfobico.

166 DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI I gruppi religiosi hanno continuato a fare pressioni sulle autorità per rendere l’aborto un reato in ogni circostanza; la legislazione brasiliana consente l’aborto nei casi di stupro, di minaccia per la vita della donna e in caso di feto anencefalico. Queste limitazioni hanno spinto molte donne a ricorrere ad aborti clandestini, praticati senza le dovute condizioni di sicurezza. A settembre, i casi di Jandira dos Santos Cruz ed Elisângela Barbosa hanno suscitato scalpore in tutta la nazione. Le due donne erano morte a Rio de Janeiro in seguito ad aborti clandestini praticati in una clinica. Il corpo di Jandira dos Santos Cruz è stato tenuto nascosto alla sua famiglia e bruciato dal personale della clinica.

COMMERCIO DI ARMI Il Brasile aveva firmato il Trattato sul commercio di armi il 4 giugno 2013, primo giorno di apertura formale dell’adesione allo stesso ma, a fine 2014, non l’aveva ancora ratificato. Il governo brasiliano non ha pubblicato dati sulle esportazioni di armi e si è rifiutato di rispondere alle richieste avanzate ai sensi della legge sulla libertà d’informazione, da parte di ricercatori e giornalisti che chiedevano dettagli sul coinvolgimento del paese nel commercio di armi, come, ad esempio, se venivano esportate armi verso paesi dove erano in corso violazioni dei diritti umani di massa.

Note 1. Brazil: Protests during the World Cup 2014: Final overview: No Foul Play, Brazil! Campaign (AMR 19/008/2014), www.am- nesty.org/en/library/info/AMR19/008/2014/en 2. Brazil: They use a strategy of fear: Protecting the right to protest in Brazil (AMR 19/005/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/AMR19/005/2014/en 3. Brazil: At least nine killed overnight in north Brazil (AMR 19/013/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AMR19/013/2014/en 4. Brazil: Killers of community leader must be brought to justice, www.amnesty.org/en/news/brazil-killers-community-lea- der-must-be-brought-justice-2014-10-30

CANADA

CANADA

Capo di stato: regina Elisabetta II, rappresentata dal governatore generale David Johnston Capo di governo: Stephen Harper

I diritti delle popolazioni native sono stati sistematicamente violati. Gli attentati a due soldati canadesi hanno aperto un dibattito sul tema del terrorismo e sulla legislazione nazionale in materia di sicurezza.

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE A febbraio, il governo ha respinto una proposta per un progetto minerario all’interno del territorio an-

167 cestrale della popolazione tsilhqot, nella provincia della Columbia Britannica, che, in base alle con- clusioni di uno studio sull’impatto ambientale, avrebbe provocato danni irreversibili e gravi alla cultura e alla società tsilhqot.1 Tuttavia, il governo federale ha dato la priorità allo sfruttamento delle risorse rispetto ai diritti dei nativi in una serie di altri progetti su vasta scala, compreso quello del- l’oleodotto delle sabbie bituminose del Northern Gateway, approvato a giugno, e il megaprogetto della diga Site C, approvato a ottobre. A maggio, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti delle popolazioni native ha riferito che la situazione delle popolazioni native in Canada aveva raggiunto “proporzioni critiche sotto molti punti di vista”, con “condizioni socioeconomiche allarmanti” e una percentuale sproporzionalmente elevata di nativi tra la popolazione carceraria. A giugno, per la prima volta la Corte suprema del Canada ha riconosciuto a una popolazione nativa la titolarità collettiva su un terreno precoloniale, affermando che i nativi tsilhqot avevano diritto di proprietà e di gestione su una vasta estensione dei loro territori ancestrali. A settembre, il Canada era l’unico stato a essere in disaccordo con parte del documento conclusivo della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle popolazioni native. A ottobre, il tribunale canadese sui diritti umani ha esaminato le argomentazioni conclusive di una causa giudiziaria riguardante le accuse di atteggiamento discriminatorio da parte del governo federale nel sottofinanziare la protezione dei minori delle comunità delle Prime Nazioni.

DIRITTI DELLE DONNE A maggio, la polizia canadese a cavallo ha riferito che, tra il 1980 e il 2012, le donne e ragazze native vittime di omicidio erano state almeno 1017, una cifra pari a quattro volte e mezzo il numero di omicidi relativo a tutte le altre donne. Malgrado le crescenti richieste, comprese quelle avanzate dai governi provinciali e territoriali, l’amministrazione federale si è rifiutata di varare un piano d’azione nazionale o di avviare un’indagine pubblica. A novembre, le accuse di aggressione o molestie sessuali avanzate nei confronti di un conduttore ra- diofonico e di due parlamentari, in casi giudiziari distinti, hanno suscitato polemiche a livello nazionale sul fenomeno della violenza contro le donne.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA A gennaio, è emerso che l’agenzia di sicurezza nazionale, Sistema di sicurezza per le comunicazioni (Communications Security Establishment Canada – Cse), aveva monitorato migliaia di dispositivi elettronici dei viaggiatori in transito in uno dei principali scali aeroportuali canadesi, anche per alcuni giorni dopo la loro partenza. A maggio, la Corte suprema del Canada ha stabilito che il ricorso ad avvocati speciali nelle udienze relative al rilascio del “certificato di sicurezza per gli immigrati” garantiva un giusto processo, anche se generalmente a questi consulenti legali non era permesso comunicare con i loro assistiti dopo aver avuto accesso a elementi di prova classificati. A giugno sono state introdotte modifiche alla legge sulla cittadinanza, che consentono di privare della cittadinanza canadese le persone con doppia nazionalità in caso di condanna per terrorismo o determinati altri reati. Sono state espresse preoccupazioni rispetto al doppio livello di cittadinanza e all’iniquità del processo di revoca. A luglio, la corte d’appello dell’Alberta ha stabilito che Omar Khadr aveva diritto al trattamento

168 riservato ai condannati minori al momento del reato. Era stato catturato dalle forze statunitensi in Afghanistan all’età di 15 anni ed era rimasto trattenuto per 10 anni presso il centro di detenzione degli Usa a Guantánamo Bay, a Cuba, fino al suo trasferimento in Canada nel 2012, per completare la sua condanna al carcere. A ottobre, due soldati canadesi sono stati uccisi in due attentati distinti; Patrice Vincent a St-Jean- Sur-Richelieu e Nathan Cirillo a Ottawa. L’uomo che aveva sparato e ucciso Nathan Cirillo era poi entrato all’interno del parlamento canadese dove era stato ucciso dalle guardie della sicurezza. Il go- verno ha conseguentemente proposto l’introduzione di riforme legislative allo scopo di rafforzare i poteri dei servizi d’intelligence e di sicurezza canadesi. La bozza di legge non affrontava le problematiche relative all’inadeguatezza dei controlli sui servizi di sicurezza nazionali.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO A luglio, la corte federale ha stabilito l’incostituzionalità dei tagli apportati al programma federale di assistenza sanitaria temporanea. A ottobre, il governo federale ha presentato una proposta di legge che consentiva ai governi provinciali e territoriali di negare i sussidi sociali a chi aveva presentato domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato. Sempre a ottobre, un’inchiesta del coroner sulla morte per impiccagione della cittadina messicana Lucía Vega Jiménez, avvenuta in una cella di detenzione dell’aeroporto di Vancouver nel 2013, racco- mandava l’introduzione di modifiche alle procedure di detenzione per gli immigrati. Sono state motivo di preoccupazione le scarse opportunità di reinsediamento in Canada offerte ai ri- fugiati siriani.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE A maggio, la Commissione speciale sugli eventi della primavera del 2012 (Commission spéciale d’examen des événements du printemps 2012) ha criticato il governo provinciale del Québec per la sua gestione delle proteste studentesche del 2012, comprese le strategie di mantenimento dell’ordine pubblico. Il governo del Québec ha respinto le raccomandazioni formulate dalla Commissione. Numerose organizzazioni della società civile che avevano criticato le politiche del governo sono finite nel mirino di accertamenti relativi al loro status fiscale di ente di beneficenza e all’ammissibilità delle loro attività di pressione. Sono emerse sconcertanti rivelazioni riguardanti le misure di sorveglianza cui sono stati sottoposti gli attivisti per i diritti sulla terra delle popolazioni native da parte della polizia, compresa la tra- smissione d’informazioni alle imprese societarie interessate.

SISTEMA GIUDIZIARIO A ottobre, la Corte suprema ha convalidato la legge statale sull’immunità, che impediva alla famiglia di Zahra Kazemi, una fotoreporter dalla doppia cittadinanza canadese e iraniana che fu torturata a morte sotto la custodia delle autorità iraniane nel 2003, di sporgere denuncia contro l’Iran in Canada.

RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE A maggio, è stato pubblicato il terzo rapporto annuale che analizzava l’impatto sui diritti umani del-

169 l’Accordo di libero scambio stipulato tra Canada e Colombia. Il rapporto non ha tenuto conto delle gravi preoccupazioni per i diritti umani delle popolazioni native della Colombia. A giugno, è stata intentata una causa per accuse di violazioni dei diritti umani contro la compagnia mineraria canadese Tahoe Resources e a novembre contro la Nevsun Resources, relative alle loro attività rispettivamente in Colombia ed Eritrea. A novembre, i cambiamenti all’ufficio del consigliere per la responsabilità sociale delle imprese del settore estrattivo non hanno soddisfatto le richieste per la creazione della figura di un difensore civico con potere d’indagare sulle imprese e raccomandare sanzioni e rimedi legali in caso di non conformità. L’adesione delle imprese al sistema di reclamo è rimasta volontaria, sebbene queste ri- schiassero la revoca di determinati servizi governativi se non rispettavano la strategia del Canada in materia di responsabilità sociale delle imprese.

SVILUPPI LEGISLATIVI, COSTITUZIONALI O ISTITUZIONALI A fine anno rimaneva bloccata al senato una proposta di legge che avrebbe introdotto il riferimento all’identità di genere nella legge sui diritti umani canadese e alcune disposizioni riguardanti i crimini d’odio nel codice penale. Malgrado i ripetuti richiami, il governo del Canada non ha ratificato il Trattato sul commercio di armi né il Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

Note 1. Canada: Submission to the United Nations Human Rights Committee, 112th Session (AMR 20/001/2014)

CILE

REPUBBLICA DEL CILE

Capo di stato e di governo: Michelle Bachelet Jeria (subentrata a Sebastián Piñera Echenique a marzo)

I casi riguardanti l’uso della violenza da parte della polizia hanno continuato a essere esaminati da tribunali militari. Sono proseguiti i processi a carico dei responsabili delle violazioni dei diritti umani commesse in passato.

CONTESTO A marzo, Michelle Bachelet Jeria ha assunto la carica di presidente promettendo di depenalizzare l’aborto in determinate circostanze. Si è inoltre impegnata ad allineare la legislazione antiterrorismo e il sistema giudiziario militare agli standard internazionali. Il Cile ha accettato la maggior parte delle raccomandazioni espresse durante l’Esame periodico uni- versale delle Nazioni Unite. Queste comprendevano le richieste di abrogare la legge d’amnistia del

170 1978 e di riformare la legislazione in materia di diritti sessuali e riproduttivi. A giugno, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso raccomandazioni analoghe.1

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA Ad agosto, la polizia ha reso pubblici i protocolli di sicurezza utilizzati durante le manifestazioni, in seguito a una serie di reclami per la mancanza di trasparenza nei metodi impiegati dalla polizia durante eventi di protesta. Dal 2011 sono state avanzate ripetute accuse di uso eccessivo della forza da parte della polizia in occasione di manifestazioni.

SISTEMA GIUDIZIARIO MILITARE Casi di violazioni dei diritti umani che coinvolgevano membri delle forze di sicurezza hanno continuato a essere esaminati da tribunali militari.2 Alcuni pronunciamenti della Corte suprema e della Corte costi- tuzionale hanno trasferito alcuni fascicoli giudiziari all’esame dei tribunali ordinari, nell’intento di tutelare il diritto alle procedure dovute e gli obblighi sui diritti umani sanciti a livello internazionale.3 A maggio, un ex poliziotto è stato condannato a tre anni e 61 giorni di carcere per aver sparato uccidendo un sedicenne, Manuel Gutierrez Reinoso, e ferendo Carlos Burgos Toledo, durante una protesta nel 2011. Tuttavia, poiché la sentenza comminata era inferiore ai cinque anni, l’agente è stato rilasciato con la condizionale. A fine anno pendeva davanti a un tribunale militare di grado su- periore un appello contro la sentenza presentato dalla famiglia.4 Nel 2013, un poliziotto è stato ritenuto responsabile da un tribunale militare di lesioni aggravate ai danni del giornalista Víctor Salas Araneda e condannato a 300 giorni di imprigionamento ordinario in libertà e sospeso dal lavoro. Tuttavia, Víctor Salas Araneda, che ha perso la vista dall’occhio destro mentre stava coprendo una manifestazione di protesta, nel 2008, non ha ottenuto riparazione.

DECESSO IN CUSTODIA A maggio, Iván Vásquez Vásquez è deceduto in custodia a Chile Chico, nella regione di Aysén. Gli avvocati della famiglia hanno sostenuto che era stato percosso a morte e che nel crimine era coinvolto più di un poliziotto. Una prima autopsia aveva rilevato che la causa della morte non era stata il suicidio, come inizialmente indicato dalla polizia. Un agente è stato incriminato da un tribunale militare per uso non necessaria della violenza che ha causato il decesso. Tuttavia, le accuse sono cadute a ottobre quando una seconda autopsia richiesta dalla difesa aveva concluso che la causa del decesso era stata il suicidio. Sono stati espressi dubbi circa l’imparzialità di questa seconda au- topsia. A fine anno, si attendevano ancora i risultati completi dell’autopsia.

IMPUNITÀ Sono stati compiuti alcuni progressi per assicurare alla giustizia i responsabili delle violazioni dei diritti umani commesse sotto il regime del generale Pinochet. Secondo il presidente della Corte suprema, a marzo i casi attivi erano 1022 e 72 di questi riguardavano accuse di tortura. I dati ufficiali forniti dal programma sui diritti umani del ministero dell’Interno indicavano che, a ottobre, 279 persone erano state giudicate colpevoli in relazione a questi crimini; questi verdetti di colpevolezza non erano stati soggetti ad appello. A fine anno, 75 persone stavano scontando pene carcerarie per tali reati. A maggio, 75 ex agenti della polizia segreta (Dirección de inteligencia nacional – Dina) sono stati

171 giudicati colpevoli in relazione alla sparizione forzata di Jorge Grez Aburto, avvenuta nel 1974.5 A ottobre, la Corte suprema ha condannato ex membri della Dina, compreso l’ex capo, Manuel Contreras Sepúlveda, per le sparizioni forzate di Carlos Guerrero Gutiérrez e Claudio Guerrero Hernández, avvenute rispettivamente nel 1974 e 1975. A fine anno erano ancora in corso le indagini riguardanti la tortura di Leopoldo García Lucero. Ad agosto 2013, la Corte interamericana dei diritti umani, nella sua prima sentenza sul caso di un cileno sopravvissuto a tortura, ha condannato gli eccessivi ritardi nell’avvio delle indagini relative a questo crimine.6 A giugno, le autorità hanno annunciato riforme legislative che, se implementate, avrebbero inserito nel codice penale il reato specifico di tortura. A settembre, il governo ha annunciato l’intenzione di portare avanti con “somma urgenza” la discussione di un disegno di legge del 2006 per invalidare la legge d’amnistia del 1978. A fine anno, era ancora in corso il dibattito circa la legge di amnistia presso il congresso.7

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE Ci sono state nuove accuse di uso eccessivo della forza e di detenzione arbitraria durante le operazioni di polizia contro le comunità native mapuche. Hanno destato particolare preoccupazione gli abusi contro minori nel contesto del conflitto. A maggio, la Corte suprema ha confermato la condanna a 18 anni di carcere a carico di Celestino Córdova, un machi (guaritore sciamano) mapuche, in relazione alla morte di Werner Luchsinger e Vi- vianne Mackay, avvenuta a gennaio 2013. La coppia era morta in seguito a un attacco incendiario alla loro casa situata nella comunità di Vilcún, nella regione di Araucanía. Il tribunale orale di Temuco, che aveva emesso sentenza in primo grado di giudizio, ha respinto la tesi presentata dalla pubblica accusa secondo cui si era trattato di un attentato terroristico. Secondo la difesa, il processo di Celestino Córdova aveva avuto connotazioni politiche, non aveva rispettato gli standard internazionali di equità processuale e altro non era che l’ennesimo esempio di come le autorità trattavano la questione, criminalizzando le rivendicazioni sulla terra dei mapuche piuttosto che cercare di risolvere le problematiche sottendenti. A ottobre, José Mauricio Quintriqueo Huaiquimil è morto dopo essere stato investito da un trattore mentre, assieme a un altro mapuche, stava entrando in una fattoria nella regione di Araucanía. Stando ai resoconti, i due si erano recati nella fattoria in relazione a una proposta che stavano pre- parando per le autorità, riguardante quale parte di terreno potesse essere loro assegnata. La comunità stava occupando una parte della fattoria con l’assenso del proprietario. Un uomo sospettato di re- sponsabilità nella morte è stato arrestato e a fine anno le indagini sul caso erano ancora in corso. Ad aprile, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione e la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel contesto del controterrorismo ha pubblicato un rapporto sulla sua visita in Cile nel 2013, in cui sono evidenziate le discrepanze tra la legislazione interna in materia di antiterrorismo e il principio di legalità e procedure dovute, nell’ambito dei procedimenti giudiziari che riguardavano i mapuche. A fine anno era in discussione al congresso un progetto di riforma della legislazione antiterrorismo. A maggio, la Corte interamericana dei diritti umani ha condannato il Cile per aver violato i diritti umani nell’applicare la legislazione antiterrorismo contro otto mapuche condannati nel 2003. Ha

172 inoltre ordinato allo stato di adottare tutte le misure necessarie per assicurare che le sentenze emesse nei suddetti casi non fossero applicate. Secondo la Corte interamericana, gli stereotipi usati nei confronti degli accusati in questi processi violavano i principi di uguaglianza, non discriminazione e parità di protezione davanti alla legge.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI L’aborto è rimasto un reato in tutte le circostanze. A fine anno era stato annunciato dal governo un progetto di legge per depenalizzare l’aborto in caso di stupro, incesto, rischi per la vita della donna e malformazioni fetali; non era ancora stata sottoposta al congresso.

DISCRIMINAZIONE A ottobre, il senato ha approvato una legge sulle unioni civili, che riguardava anche le coppie dello stesso sesso. A fine anno, questa era in discussione alla camera dei deputati. A fine anno era all’esame del senato un progetto di legge sul diritto all’identità di genere che consen- tirebbe alle persone di cambiare nome e genere sessuale nei documenti ufficiali.

Note 1. Chile: Submission to the United Nations Human Rights Committee: 111th session of the Human Rights Committee (7- 25th July 2014) (AMR 22/003/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AMR22/003/2014/en 2. Chile: Urge reformar la justicia militar (AMR 22/007/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR22/007/2014/es 3. Chile: Importante decisión del Tribunal Constitucional sobre la aplicación de la jurisdicción militar en un caso de tortura (AMR 22/005/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR22/005/2014/es; Chile: Corte Suprema resuelve a favor de una aplicación restrictiva de la justicia militar (AMR 22/006/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR22/006/2014/es 4. Chile: “No sabía que existían dos tipos de justicia hasta que nos ocurrió esto”, 22 agosto 2014 www.amnesty.org/es/news/ chile-no-sab-que-exist-dos-tipos-de-justicia-hasta-que nos-ocurri-esto-2014-08-22 5. Chile: Important conviction against 75 former agents of Pinochet in a case of enforced disappearance (AMR 22/001/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR22/001/2014/en 6. Chile: 40 years on, Chile torture victim finally finds justice www.amnesty.org/en/news/40-years-chile-torture-victim-fi- nally-finds-justice-2013-11-04 7. Chile: Pinochet victims see justice within their grasp, 6 ottobre 2014 www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/chile- pinochet-victims-see-justice-within-their-grasp-2014-10-03

173 COLOMBIA

REPUBBLICA DI COLOMBIA

Capo di stato e di governo: Juan Manuel Santos Calderón

Sono stati fatti passi avanti nei colloqui di pace tra il governo e il gruppo della guerriglia Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Columbia − Farc), nono- stante una sospensione dei negoziati per tre settimane a fine anno. Le due parti hanno raggiunto un parziale accordo su diverse questioni cruciali. Il tema del processo di pace è stato centrale durante le elezioni presidenziali di maggio, vinte dal presidente in carica Juan Manuel Santos al voto di ballottaggio di giugno.1 La campagna elettorale è stata guastata da uno scandalo riguardante un’in- tercettazione telefonica di negoziatori del governo e delle Farc che tentavano di far deragliare il processo di pace, raccolta da membri delle forze di sicurezza e dei servizi d’intelligence. Nonostante i colloqui di pace in corso, entrambe le parti hanno continuato a commettere violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, così come i gruppi paramilitari che hanno operato da soli o in collusione o con l’acquiescenza di settori delle forze di sicurezza. A sopportare il peso maggiore delle conseguenze per i diritti umani provocate dal cinquantennale conflitto armato sono state le popolazioni native, le comunità afroamericane e contadine, donne e ragazze, difensori dei diritti umani, attivisti delle comunità e sindacalisti. Gli abusi comprendevano sfollamenti forzati, uccisioni illegali, presa di ostaggi e rapimenti, minacce di morte, sparizioni forzate, tortura e violenza sessuale. Il governo ha promosso una serie di leggi che hanno minacciato di esacerbare l’impunità e di com- promettere i pochi progressi ottenuti negli ultimi anni per assicurare alla giustizia persone sospettate di aver commesso crimini secondo il diritto internazionale e altri abusi e violazioni dei diritti umani.

CONFLITTO ARMATO INTERNO La popolazione civile, specialmente le comunità native, afroamericane e contadine, oltre che i difensori dei diritti umani, hanno continuato a essere i più colpiti dal conflitto armato. Secondo gli ultimi dati disponibili dell’Ngo Codhes (Consultoría para los derechos humanos y el desplazamiento), nel 2013 circa 220.000 persone sono state sfollate con la forza. Secondo l’Organizzazione nazionale nativa della Colombia (Organización Nacional Indígena de Colombia – Onic), nei primi nove mesi dell’anno, 10 nativi sono stati uccisi in situazioni legate al conflitto e al- meno 2819 sono stati sfollati con la forza.2 Nel 2013 erano state registrate 30 uccisioni e 3185 vittime di sfollamento forzato. Il 12 settembre, due leader nativi embera dovida sono stati uccisi nella municipalità di Alto Baudó, nel dipartimento di Chocó, stando alle notizie, per mano del gruppo della guerriglia Esercito di libe- razione nazionale (Ejército de liberación nacional – Eln). Le comunità afroamericane della città portuale sudoccidentale di Buenaventura sono state bersaglio

174 di una crescente ondata di violenza, con uccisioni e sparizioni forzate perpetrate per lo più da para- militari e bande criminali. Alcune delle vittime sono state fatte a pezzi. La violenza si è concentrata nelle aree più povere della città, destinate allo sviluppo d’infrastrutture portuali e altri progetti eco- nomici.3 La reale portata delle violazioni dei diritti umani è stata sottolineata da un rapporto pubblicato dal- l’istituzione governativa statale Centro nazionale per la memoria storica, nel 2013. Il rapporto con- cludeva che, tra il 1985 e il 2012, erano state uccise quasi 220.000 persone, l’80 per cento delle quali civili. Almeno 25.000 persone erano state vittime di sparizione forzata, per mano principalmente dei paramilitari e delle forze di sicurezza. Tra il 1970 e il 2010 erano state rapite circa 27.000 persone, per lo più da gruppi della guerriglia, e oltre cinque milioni sfollate con la forza tra il 1985 e il 2012. A novembre, il governo aveva registrato oltre sette milioni di vittime.

PROCESSO DI PACE I negoziati di pace, tenutisi a L’Avana, a Cuba, tra il governo e le Farc hanno continuato a essere la migliore occasione per porre fine alle ostilità da oltre 10 anni di conflitto a oggi. Tuttavia, il 17 novembre, il governo ha sospeso i colloqui per protestare per la cattura di un generale dell’esercito da parte delle Farc, nel dipartimento di Chocó. Egli è stato poi rilasciato il 30 novembre e i colloqui sono ripresi il 10 dicembre. Il 17 dicembre, le Farc hanno dichiarato un cessate il fuoco unilaterale che è iniziato il 20 dicembre. A fine anno, le due parti avevano raggiunto un parziale accordo riguardo a tre dei sei punti in agenda. Un accordo quadro su un quarto punto, riguardante i diritti delle vittime, era stato reso pubblico a giugno. L’accordo quadro ha segnato un significativo passo in avanti, in quanto entrambe le parti hanno am- messo la loro responsabilità nelle violazioni dei diritti umani, che i diritti delle vittime costituivano il nucleo del processo di pace e che questi diritti non erano negoziabili. L’accordo tuttavia non prevedeva un impegno esplicito a garantire giustizia per tutte le vittime. Si è temuto che questa mancanza potesse a lungo termine indebolire un eventuale accordo di pace.4

PROTESTE SOCIALI Secondo alti funzionari statali, lo sciopero nazionale indetto da contadini ad aprile era stato caratte- rizzato da infiltrazioni da parte dei gruppi della guerriglia. Questo fatto poneva i manifestanti a rischio di vendette da parte dei paramilitari. A maggio, i paramilitari hanno inviato una minaccia di morte ad alcuni difensori dei diritti umani, accusandoli di aver organizzato lo sciopero, che ritenevano fosse sostenuto da gruppi della guerriglia.5 Analoghe accuse sono state avanzate dalle autorità in occasione di proteste organizzate dalle comunità native a ottobre 2013, di uno sciopero nazionale dei contadini ad agosto 2013 e di manifestazioni dei contadini tenutesi a Catatumbo a giugno 2013. Sono state avanzate accuse secondo cui le forze di sicurezza avevano fatto uso eccessivo e sproporzionato della forza durante le proteste. L’Alta com- missaria delle Nazioni Unite per i diritti umani ha dichiarato che, durante le proteste svoltesi nel 2013, nove manifestanti, cinque passanti e un poliziotto erano stati uccisi a colpi d’arma da fuoco.

FORZE DI SICUREZZA Sono pervenute continue notizie di esecuzioni extragiudiziali da parte delle forze di sicurezza, benché

175 in misura minore rispetto a quelle registrate all’epoca dell’amministrazione del presidente Álvaro Uribe (2002-2010). Tuttavia, l’ufficio del procuratore generale non ha compiuto progressi per assicurare alla giustizia gran parte dei responsabili di questi crimini, specialmente alti ufficiali. Molti di questi casi hanno continuato a essere deferiti a tribunali militari che, non essendo né indipendenti né im- parziali, non sono riusciti a garantire la giustizia. Secondo il rapporto sulla situazione dei diritti umani in Colombia, pubblicato a gennaio dall’Alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, nei primi otto mesi del 2013, 48 casi di esecuzioni extragiudiziali attribuite alle forze di sicurezza erano stati trasferiti al sistema giudiziario militare e “numerosi altri fascicoli erano stati trasferiti d’ufficio dalle procure civili”.

PARAMILITARI La legge di giustizia e pace (Legge 975 del 2005), grazie alla quale migliaia di paramilitari che ave- vano deposto le armi nel contesto del processo promosso dal governo avrebbero beneficiato di una pena massima di otto anni di carcere se rilasciavano confessioni riguardanti le violazioni dei diritti umani, non ha rispettato il diritto delle vittime a ottenere verità, giustizia e riparazione. Il processo era iniziato nel 2005 ma a settembre 2014, i paramilitari giudicati colpevoli di violazioni dei diritti umani secondo la Legge 975 erano soltanto 63. La maggior parte dei 30.000 paramilitari che, stando alle fonti, avevano deposto le armi non si era sottoposta a giudizio parziale in base alla Legge 975. Questi gruppi, che il governo non ha esitato a definire bande criminali (bandas criminales – Bacrim), sono rimasti attivi e hanno continuato a commettere gravi violazioni dei diritti umani, o per conto proprio o in collusione o con l’acquiescenza di settori delle forze di sicurezza. Hanno preso di mira di- fensori dei diritti umani, leader comunitari e sindacalisti, oltre che le comunità native, afroamericane e contadine.6 Circa 160 paramilitari, che si erano sottoposti a giudizio secondo la Legge 975, avrebbero potuto essere rilasciati dal carcere nel 2014. Alcuni erano leader di alto rango in carcere in attesa di giudizio ma avevano scontato la pena massima di otto anni prevista dalla Legge 975. Molti sarebbero tornati alle rispettive aree operative, destando timori per gli effetti che ciò avrebbe comportato per la sicurezza delle vittime e dei difensori dei diritti umani in queste zone.

GRUPPI DELLA GUERRIGLIA I gruppi della guerriglia hanno commesso gravi abusi e violazioni del diritto internazionale umanitario, specialmente contro le comunità delle aree rurali. Malgrado l’impegno assunto pubblicamente dalle Farc di porre fine ai rapimenti, sono pervenute continue notizie di nuovi casi. L’Ngo País libre ha riportato 233 rapimenti nei primi nove mesi dell’anno, in confronto ai 299 in tutto il 2013. La maggior parte dei rapimenti sono stati attribuiti a criminali comuni, mentre i gruppi della guerriglia sarebbero stati responsabili del 21 per cento e i paramilitari del tre per cento del totale. Le mine terrestri, piazzate per lo più dalle Farc, hanno continuato a uccidere e mutilare civili e membri delle forze di sicurezza. Gruppi della guerriglia, oltre che gruppi paramilitari, hanno continuato a reclutare minori, soprattutto nelle campagne, costringendo molte famiglie a fuggire di casa per proteggere i loro figli. Le Farc hanno inoltre compiuto attacchi indiscriminati, mettendo a rischio la vita dei civili.

176 IMPUNITÀ L’impunità è rimasta un problema cruciale del conflitto, con un numero limitatissimo di perpetratori di violazioni dei diritti umani chiamati a risponderne. L’appoggio del governo a una legislazione che rischiava di accrescere l’impunità ha fatto dubitare del suo impegno dichiarato in favore del diritto delle vittime a ottenere verità e giustizia. A ottobre, il governo ha presentato al congresso due disegni di legge. Il primo si proponeva di ampliare la gamma dei crimini che potevano essere considerati atti compiuti durante l’espletamento del servizio e dunque di competenza del sistema giudiziario militare. Il secondo era volto ad assicurare che le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza non sarebbero state indagate come reati ma piuttosto soggette a inchieste per stabilire se costituissero o meno infrazioni del diritto internazionale umanitario. In questo modo, i responsabili sarebbero sfuggiti al procedimento penale, facendo passare il crimine come un atto plausibile in un contesto di conflitto armato. A settembre, 12 esperti di diritti umani delle Nazioni Unite hanno affermato che il progetto della Legge 85 del senato, in discussione al congresso mentre veniva redatto il presente rapporto, avrebbe potuto rappresentare una regressione sul piano dei diritti umani: “se adottato, il progetto della Legge 85 potrebbe seriamente indebolire l’indipendenza e l’imparzialità della magistratura […] la sua adozione inoltre […] rappresenterebbe un grosso passo indietro nella lungamente attesa lotta da parte dello stato colombiano all’impunità per i casi di violazioni del diritto internazionale umanitario e delle norme internazionali sui diritti umani”. La proposta legislativa elencava una serie di crimini che sarebbero stati di esclusiva pertinenza del sistema giudiziario militare, compreso l’omicidio e le violazioni del diritto internazionale umanitario. Poiché le esecuzioni extragiudiziali non sono un reato specifico nel codice penale, queste potrebbero rientrare nella definizione di omicidio e dunque essere indagate dalle procure militari. Ad agosto 2013, la Corte costituzionale aveva confermato la costituzionalità del quadro legislativo per la pace, approvato dal congresso nel giugno 2012. Questo potrebbe consentire ai presunti perpe- tratori di violazioni dei diritti umani di eludere la giustizia, conferendo al congresso il potere di limitare i processi penali a coloro che sono ritenuti “massimi responsabili” di violazioni dei diritti umani e di sospendere le pene carcerarie comminate nei confronti di paramilitari, guerriglieri e membri delle forze di sicurezza giudicati colpevoli di questo tipo di reati. Tuttavia, la Corte ha stabilito che le sentenze a carico dei “massimi responsabili” non potevano essere sospese se erano responsabili di crimini contro l’umanità, genocidio o crimini di guerra. In ogni caso, non esisteva una chiara defi- nizione di “massimi responsabili” né criteri per identificarli.

RESTITUZIONE DELLA TERRA La legge sulle vittime e la restituzione della terra, entrata in vigore nel 2012, si proponeva di fornire piena riparazione, compresa la restituzione della terra, ad alcune delle vittime del conflitto. La legge era un importante passo avanti nei tentativi di riconoscere il diritto alla riparazione ad alcune delle vittime ma è rimasta viziata nella forma e la sua applicazione è proseguita con lentezza. Ad agosto, soltanto circa 30.000 ettari di terra sono stati restituiti ai contadini e solo un territorio di 50.000 ettari alle comunità indigene. I dati ufficiali stimavano che nel corso del conflitto circa otto milioni di ettari di terra erano stati soggetti ad abbandono o espropriazione. Coloro che avevano presentato istanza per la restituzione della terra e coloro che li rappresentavano,

177 inclusi difensori dei diritti umani e funzionari statali, sono stati minacciati o uccisi, principalmente per mano dei gruppi paramilitari.7 Ad agosto, l’ufficio del procuratore generale stava indagando sulle uccisioni di almeno 35 persone, che si riteneva fossero legate a questioni inerenti la restituzione della terra. L’8 luglio, Robinson Álvarez Quemba, un topografo che lavorava per l’unità governativa per la restituzione della terra, è stato vittima di un agguato da parte di un aggressore non identificato, che gli ha sparato mentre era al lavoro nella municipalità di San Roque, nel dipartimento di Antioquia. È morto tre giorni dopo a causa delle ferite riportate.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI I difensori dei diritti umani sono stati esposti a gravi pericoli. Tra gennaio e settembre, l’ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani in Colombia ha registrato 40 uccisioni di difensori dei diritti umani. Secondo l’Ngo Somos defensores, nel 2013 i difensori dei diritti umani uccisi erano stati più di 70. Le vittime comprendevano leader nativi e afroamericani, attivisti per la terra e leader di comunità. Secondo l’Ngo Escuela nacional sindical, all’11 di dicembre erano stati uccisi 20 sindacalisti; nel 2013 erano stati almeno 27. Questi attacchi, così come la sottrazione d’informazioni riservate, le continue minacce di morte e l’uso improprio della giustizia per incriminare con false accuse i difensori dei diritti umani, hanno compromesso il lavoro delle organizzazioni in difesa dei diritti umani e alimentato un clima di paura. Verso la fine dell’anno è stato registrato un aumento del numero di minacce di morte. A settembre e ottobre, oltre 100 difensori dei diritti umani, oltre che leader comunitari, pacifisti, leader impegnati nella restituzione della terra, politici e giornalisti hanno ricevuto una serie di email massive, contenenti minacce di morte da parte di diversi gruppi paramilitari.8 Soltanto pochi dei responsabili di uccisioni o minacce nei confronti di difensori dei diritti umani sono stati identificati; ancora minore il numero di quelli assicurati alla giustizia. I programmi di protezione dello stato, coordinati dall’unità nazionale di protezione (Unità nacional de protección – Unp), hanno continuato a garantire la sicurezza di migliaia d’individui a rischio, compresi difensori dei diritti umani. Tuttavia, questi programmi erano caratterizzati da gravi lacune, come i notevoli ritardi nell’applicazione delle misure di sicurezza. A settembre, l’Unp è stata travolta da uno scandalo per corruzione, in cui alcuni sui funzionari, compreso il direttore amministrativo e il segretario generale, sono stati accusati di aver intascato tangenti da parte di appaltatori privati, ai quali l’Unp affidava gran parte del proprio lavoro di prote- zione. A settembre, l’Unp ha inoltre ammesso che, a causa della riduzione di fondi a disposizione, sa- rebbe stata costretta a ritirare i programmi di protezione ad alcuni dei beneficiari.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Tutte le parti in conflitto hanno commesso stupri e altre forme di violenza sessuale, principalmente contro donne e ragazze. Le autorità hanno continuato a non procedere all’applicazione della sentenza 092 del 2008 della Corte costituzionale, che imponeva alle autorità di porre fine a questo tipo di crimini e di assicurare alla giustizia i responsabili. A giugno, il presidente Santos ha controfirmato una legge sulla violenza sessuale legata al conflitto (Legge 1719)9, che definiva questo tipo di violenza un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità. La legge affrontava una serie di pratiche che continuavano a essere perpetrate durante il conflitto, tra cui schiavitù e sfruttamento sessuale, sterilizzazione forzata, prostituzione, aborto, gravidanza e

178 nudità. La legge non prevedeva termini di prescrizione nei casi di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

AIUTI STATUNITENSI È proseguita la diminuzione degli aiuti statunitensi alla Colombia. Nel corso dell’anno, gli Usa hanno destinato alla Colombia circa 214,5 milioni di dollari Usa in aiuti militari e all’incirca 164,9 milioni di dollari Usa in assistenza non militare, a confronto dei fondi erogati nel 2013, rispettivamente circa 228,8 milioni di dollari Usa e all’incirca 195,9 milioni di dollari Usa. A settembre, il 25 per cento dei fondi complessivi erogati in aiuti militari sono stati stanziati dopo che il Dipartimento di stato americano aveva stabilito che il governo colombiano aveva compiuto alcuni progressi sul piano dei diritti umani.

VAGLIO INTERNAZIONALE Nel suo rapporto sulla situazione dei diritti umani in Colombia, pubblicato a gennaio, l’Alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani si è congratulata con il governo colombiano per “la sua risoluta ricerca di un soluzione negoziata del conflitto armato interno” ma ha osservato che tutte le parti in conflitto continuavano a rendersi responsabili di abusi e violazioni dei diritti umani. Il rapporto inoltre osservava che la riluttanza delle istituzioni dello stato ad “assumersi la propria responsabilità per le violazioni dei diritti umani comprometteva ulteriori progressi sul piano dei diritti umani”. Ad agosto, la Commissione interamericana dei diritti umani (Inter-American Commission on Human Rights – Iachr) ha pubblicato il suo rapporto sulla situazione dei diritti umani in Colombia, nel quale apprezzava i progressi ottenuti con i colloqui di pace ma osservava che il conflitto armato continuava ad avere un grave impatto sui diritti umani. In particolare, il rapporto sottolineava che la situazione dei diritti umani non poteva essere risolta senza affrontare anche il problema dell’impunità. A marzo, la Iachr ha richiesto al governo colombiano di prevedere misure di protezione per il sindaco di Bogotá, Gustavo Petro, e di sospendere la sua rimozione dalla carica, disposta dall’ufficio del pro- curatore generale a gennaio, fino a che la Iachr non si fosse pronunciata sul caso. Inizialmente il governo si è rifiutato di conformarsi alla richiesta e solo ad aprile ha cambiato la propria decisione, dopo che la Corte costituzionale gli aveva imposto di farlo. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha adottato il risultato dell’Esame periodico universale delle Nazioni Unite della Colombia del settembre 2013. Amnesty International ha apprezzato la disponibilità espressa dalla Colombia verso le raccomandazioni riguardanti la lotta all’impunità ma ha reiterato le proprie preoccupazioni in merito alla legislazione che prevede un ampliamento dei reati di competenza del sistema giudiziario militare e al quadro legislativo per la pace, che compro- metterebbe seriamente gli sforzi per combattere l’impunità.

Note 1. Colombia: Open letter to Presidential candidates. Putting human rights at the heart of the election campaign (AMR 23/014/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AMR23/014/2014/en 2. Colombia: Two Indigenous leaders killed, third at risk (AMR/23/001/2014) www.amnesty.org/en/library/infoAMR23/ 001/2014/en 3. Colombia: Death threats received in “humanitarian zone” (AMR 23/016/2014) www.amnesty.org/en/library/info/ AMR23/016/2014/en

179 4. Historic Colombia-FARC declaration fails to guarantee victims’ right to justice, www.amnesty.org/en/for-media/press-re- leases/historic-colombia-farc-declaration-fails-guarantee-victims-right-justice-20 5. Colombia: Paramilitaries threaten human rights activists (AMR 23/017/2014) www.amnesty.org/en/library/info/ AMR23/017/2014/en 6. Colombia: Election candidates receive death threats (AMR 23/005/2014) www.amnesty.org/en/library/info/ AMR23/005/2014/en 7. Colombia: Land rights activists threatened in Colombia (AMR 23/019/2014) www.amnesty.org/en/library/info/ AMR23/019/2014/en 8. Colombia: Mass death threats to human rights defenders (AMR 23/030/2014) www.amnesty.org/en/library/info/ AMR23/030/2014/en 9. Colombia: new law aims to address impunity for conflict-related crimes of sexual violence (AMR 23/24/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR23/024/2014/en

CUBA

REPUBBLICA CUBANA

Capo di stato e di governo: Raúl Castro Ruz

Le libertà d’espressione, associazione e riunione sono state ancora limitate. Il numero degli arresti a breve termine è bruscamente aumentato e sono continuate le azioni giudiziarie di natura politica.

CONTESTO Gli emendamenti alla legge sull’immigrazione entrati in vigore a gennaio 2013 hanno reso più facili i viaggi all’estero per i cubani. Benché persone critiche nei confronti del governo abbiano potuto viaggiare all’estero senza ostacoli, sono pervenute notizie del sequestro di documenti e altro materiale al loro rientro a Cuba. A fine anno, Cuba non aveva ancora ratificato l’Iccpr, né l’Icescr, entrambi firmati a febbraio 2008. Il governo non ha risposto alla richiesta di visitare il paese da parte del Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti alla libertà di riunione pacifica e d’associazione, inviata a ottobre 2013, né a quella avanzata a marzo dal Relatore speciale sulla tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Le autorità non accordano ad Amnesty International l’ingresso nel paese dal 1990.

Uno scambio di prigionieri tra Usa e Cuba avvenuto a dicembre e l’annuncio di ulteriori rilasci di oltre 50 prigionieri politici hanno fatto sperare in un cambiamento significativo per i diritti umani, in un contesto di sforzi per normalizzare le relazioni tra i due paesi, che hanno deciso di riprendere i rapporti diplomatici.

180 DIRITTI ALLA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ASSOCIAZIONE, RIUNIONE E MOVIMENTO È proseguita la repressione nei confronti di persone critiche verso il governo, le quali sono state rego- larmente sanzionate in vari modi, come detenzioni arbitrarie e a breve termine, “atti di ripudio” (ma- nifestazioni guidate da sostenitori del governo con la partecipazione di agenti della sicurezza di stato), intimidazioni, vessazioni e azioni giudiziarie di natura politica. Il sistema giudiziario è rimasto sotto stretto controllo politico, minando il diritto a essere processati da un tribunale indipendente e imparziale. Persone critiche verso il governo, giornalisti indipendenti e attivisti per i diritti umani sono stati spesso detenuti per aver esercitato i loro diritti alla libertà d’espressione, associazione, riunione e movimento. Attivisti sono stati trattenuti come misura preventiva per impedire loro di prendere parte a manifestazioni pubbliche o riunioni private. Sono aumentate le segnalazioni di minacce nei confronti di persone critiche verso il governo, così come di aggressioni da parte di agenti statali o di privati assoldati da loro. A giugno, Roberto de Jesús Guerra Pérez, direttore dell’agenzia di stampa indipendente Hablemos Press (Parliamo di stampa), ha ricevuto minacce telefoniche ed è stato aggredito per strada nella ca- pitale L’Avana da un individuo non identificato, in quello che è stato da lui indicato come un tentativo delle autorità di dissuaderlo dal proseguire le sue attività giornalistiche.1 Il governo ha continuato a esercitare il controllo totale sui mezzi d’informazione, mentre l’accesso alle informazioni su Internet è rimasto problematico a causa di limitazioni tecniche e restrizioni sul contenuto. Giornalisti indipendenti sono stati sistematicamente al centro di vessazioni, intimi- dazioni e detenzioni per aver divulgato notizie che non erano state ufficialmente autorizzate dal- l’apparato statale. A maggio, la blogger Yoani Sánchez e suo marito hanno fondato il notiziario online 14 y medio. Poco dopo essere divenuto attivo, il sito è finito nel mirino degli hacker e chiunque cercasse di accedervi da Cuba è stato indirizzato a una pagina web che riportava propaganda negativa contro Yoani Sánchez.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA A fine anno, cinque prigionieri di coscienza detenuti unicamente per aver esercitato pacificamente il loro diritto alla libertà d’espressione, rimanevano in carcere. Tre di essi, i fratelli Alexeis, Vianco e Django Vargas Martín, sono stati condannati a novembre per accuse di “disordine pubblico di natura continua”, dopo aver trascorso più di un anno e mezzo in detenzione preprocessuale. Alexeis è stato condannato a quattro anni di carcere e Vianco e Django a due anni e mezzo.2 Gli articoli dal 72 al 90 del codice penale, che criminalizzano la “pericolosità” e puniscono chiunque sia ritenuto in grado di commettere un possibile reato in futuro, sono stati sempre più spesso utilizzati come mezzi per poter incarcerare le persone critiche verso il governo. I prigionieri di coscienza Emilio Planas Robert e Iván Fernández Depestre sono stati condannati rispettivamente, a ottobre 2012 e agosto 2013, a tre anni e mezzo e a tre anni di carcere, con l’accusa di “pericolosità”. Emilio Planas Robert è stato accusato di aver attaccato a Guantánamo City manifesti che riportavano slogan “an- tigovernativi”. Nonostante l’allentamento delle restrizioni di viaggio, a 12 ex prigionieri di coscienza, arrestati nel- l’ambito di un giro di vite di massa risalente al 2003 e rilasciati nel 2011, è stato negato il permesso di recarsi all’estero, in quanto ritenuti prigionieri che stavano ancora scontando la loro sentenza al di fuori del carcere.

181 ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Sono bruscamente aumentate le detenzioni arbitrarie a breve termine, quale mezzo tattico per ridurre al silenzio il dissenso. La commissione cubana sui diritti umani e la riconciliazione nazionale ha riferito che a fine luglio le detenzioni a breve termine di natura politica nel 2014 erano state 8899, un aumento di più del 27 per cento rispetto al 2013. Appartenenti all’organizzazione indipendente della società civile Donne in bianco hanno subito costanti vessazioni e ogni domenica a decine venivano trattenute per diverse ore al fine di impedire loro di spostarsi per partecipare alla messa e di marciare pacificamente. L’organizzazione ha riferito che durante il 2013 erano state arrestate 1810 sue attiviste. Decine di persone critiche verso il governo sono state detenute arbitrariamente o hanno ricevuto pressioni per non recarsi a L’Avana durante il secondo summit della Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, il 28 e 29 gennaio. A seguito degli arresti e dell’ondata d’intimidazioni, vari meeting che erano stati programmati in parallelo al summit hanno dovuto essere cancellati.3 Il 9 dicembre, l’esponente delle Donne in bianco Sonia Garro Alfonso, suo marito Ramón Alejandro Muñoz González e il dissidente Eugenio Hernández Hernández sono stati rilasciati e messi agli arresti domiciliari dopo aver scontato ciascuno più di due anni e mezzo di carcere senza processo. Erano stati arrestati a marzo 2012 durante la visita di papa Benedetto XVI, con l’accusa di aggressione, di- sordine pubblico e tentato omicidio.4

EMBARGO STATUNITENSE CONTRO CUBA A settembre, gli Stati Uniti hanno rinnovato la legge sul commercio col nemico, che impone sanzioni finanziarie ed economiche a Cuba e che proibisce ai cittadini statunitensi di recarsi a Cuba e d’in- trattenere attività economiche con l’isola. A ottobre, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato, per il 23° anno consecutivo, una risoluzione che chiede agli Stati Uniti di ritirare l’embargo unilaterale. Il presidente Obama ha annunciato a dicembre che avrebbe aperto un dibattito nel Con- gresso Usa per rimuovere l’embargo contro Cuba.

Note 1. Cuba: Journalist threatened and attacked (AMR 25/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AMR25/001/2014/en 2. Cuba: Sentencing of three brothers postponed (AMR 25/003/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AMR25/003/2014/en 3. Cuba steps up repression on the eve of the CELAC summit (comunicato stampa, 27 gennaio 2014), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/cuba-steps-repression-eve-celac-summit-2014-01-27 4. Cuba: Further information – Government critics under house arrest (AMR 25/005/2014) (azione urgente), www.amnesty.org/ en/library/info/AMR25/005/2014/en

182 DOMINICANA, REPUBBLICA

REPUBBLICA DOMINICANA

Capo di stato e di governo: Danilo Medina Sánchez

È di nuovo aumentato il numero di uccisioni da parte della polizia. La maggior parte delle persone di origine haitiana è rimasta apolide a seguito di una sentenza della Corte costituzionale del settembre 2013. La violenza contro donne e ragazze è rimasta diffusa. Il parlamento non ha adottato una legi- slazione che avrebbe potuto far compiere progressi nella tutela dei diritti di donne e ragazze.

CONTESTO A settembre 2013, la Corte costituzionale aveva emesso una sentenza (Tc 0168-13), da più parti cri- ticata, che ha avuto l’effetto di privare retroattivamente e arbitrariamente i dominicani di origine straniera registrati all’anagrafe tra il 1929 e il 2010 della loro cittadinanza dominicana; la stragrande maggioranza delle persone interessate dalla sentenza era di origine haitiana. La decisione ha suscitato proteste a livello nazionale e internazionale, anche da parte delle autorità haitiane. In seguito, la Re- pubblica Dominicana e Haiti hanno tenuto una serie di incontri bilaterali al vertice per discutere di diverse tematiche d’interesse comune, tra cui immigrazione e cittadinanza. A maggio 2013 è stato nominato il primo difensore civico per i diritti umani, una donna, 12 anni dopo creazione ufficiale della figura istituzionale. Tuttavia, alcune organizzazioni per i diritti umani hanno presentato ricorso presso la Corte costituzionale mettendo in dubbio la costituzionalità della nomina. A fine anno, la Corte non si era ancora espressa in merito. Il difensore civico ha esa- minato alcuni casi ma non ha svolto alcuna campagna d’informazione pubblica in merito al ruolo svolto dal suo ufficio. A giugno, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha analizzato la situazione dei diritti umani della Repubblica Dominicana secondo l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite (Universal Periodic Review – Upr).

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA La polizia ha continuato a uccidere un elevato numero di persone, spesso in circostanze tali da far pensare a possibili uccisioni illegali. Tra gennaio e giugno, questo dato è aumentato di circa il 13 per cento rispetto al medesimo periodo del 2013.1 Sono inoltre pervenute continue segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti da parte della polizia. Nonostante la Repubblica Dominicana abbia recepito le raccomandazioni espresse durante l’Upr, fi- nalizzate ad accelerare una completa riforma della polizia, l’adozione della relativa non è stata portata a termine. Il piano nazionale di sicurezza, lanciato ufficialmente a marzo 2013, non è stato reso pubblico e non ci sono state notizie di un avanzamento nella sua implementazione.

183 IMPUNITÀ Molti poliziotti accusati di aver commesso abusi non sono stati portati davanti alla giustizia malgrado la presenza di prove schiaccianti. Le autorità non hanno provveduto a indagare sulla sparizione di tre uomini, Gabriel Sandi Alistar, Juan Almonte Herrera e Randy Vizcaíno González, visti per l’ultima volta mentre erano in custodia di polizia, rispettivamente a luglio 2009, settembre 2009 e dicembre 2013. L’ufficio del procuratore generale ha riaperto l’inchiesta sulla sparizione di Narciso González in seguito a una sentenza della Corte interamericana dei diritti umani che aveva stabilito la responsabilità dello stato nella sua sparizione. Tuttavia, a fine anno non erano stati compiuti progressi significativi.

DISCRIMINAZIONE – DOMINICO-HAITIANI Una legge, presentata in parlamento dal presidente in risposta al dibattito innescato dalla sentenza della Corte costituzionale Tc 0168-13, è stata approvata a maggio (Legge 169/14). Tuttavia, questa non prevedeva il ripristino automatico della cittadinanza dominicana per coloro che ne erano in possesso in base all’ordinamento legislativo interno in vigore tra il 1929 e il 2010.2 In particolare, la legge stabiliva che coloro che erano stati registrati in un determinato momento nel registro di stato civile dominicano (gruppo A) potevano accedere alla cittadinanza dominicana dopo essersi sottoposti a un processo di regolarizzazione da parte della commissione elettorale centrale. Tuttavia, la legge obbligava coloro che non erano mai stati registrati (gruppo B) a sostenere una lenta procedura che imponeva loro di registrarsi come stranieri, iscriversi al piano nazionale di regolariz- zazione per gli stranieri in situazione migratoria irregolare e quindi presentare domanda di natura- lizzazione dopo due anni. Una scarsa implementazione della legge ha fatto sì che soltanto una mi- noranza di coloro che appartenevano al gruppo A sia riuscita a ottenere il riconoscimento della cittadinanza dominicana e che soltanto un numero esiguo degli appartenenti al gruppo B sia riuscito a farsi registrare. Di conseguenza, migliaia di dominicani di origine haitiana rimanevano apolidi e continuavano a non poter esercitare i loro diritti umani. A ottobre, la Corte interamericana dei diritti umani ha ritenuto che la sentenza Tc 0168-13 e parte della Legge 169-14 violavano la Convenzione interamericana dei diritti umani.3 A novembre, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dello strumento di accettazione da parte dello stato della competenza della Corte interamericana dei diritti umani.4 Le autorità dominicane hanno respinto tutte le raccomandazioni finalizzate a garantire il diritto di cittadinanza e l’adozione di misure per individuare, prevenire e ridurre l’apolidia.

DIRITTI DEI MIGRANTI A dicembre 2013, il governo ha varato il piano nazionale di regolarizzazione per gli stranieri in situazione migratoria irregolare. Dopo un’iniziale fase preparatoria, la seconda fase del piano è iniziata il 1° giugno 2014, dando ai migranti 12 mesi di tempo per presentare domanda di regolariz- zazione. Al 30 settembre, soltanto 200 delle 68.814 persone che avevano presentato domanda erano state regolarizzate. Secondo organizzazioni per i diritti umani dei migranti, il numero esiguo era dovuto alle difficoltà incontrate dai migranti nel raccogliere la costosa documentazione richiesta e all’inadeguatezza delle procedure di esame delle richieste da parte della pubblica amministrazione, specialmente nelle fasi iniziali del processo. Il decreto di varo del piano nazionale di regolarizzazione vietava l’espulsione di migranti che avevano

184 presentato domanda di regolarizzazione. Tuttavia, nonostante il divieto, organizzazioni per i diritti umani dominicane hanno continuato a rilevare rimpatri di massa durante l’intero anno.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Nei primi sei mesi dell’anno, il numero di uccisioni per motivi di genere è aumentato del 53 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013. L’ufficio del procuratore generale ha riferito un sostanziale aumento del numero di condanne nei casi di violenza di genere e a luglio ha adottato un protocollo per le indagini sui casi di uccisioni legate al genere. Associazioni per i diritti delle donne hanno con- tinuato a criticare la mancanza di coordinamento tra le istituzioni nazionali pertinenti, l’inadeguatezza dei fondi stanziati a bilancio per prevenire e sanzionare la violenza di genere e l’incapacità del governo di applicare i protocolli concordati per fornire assistenza alle vittime di violenza di genere. Il parlamento non aveva ancora adottato una legge per prevenire, monitorare, sanzionare e sradicare la violenza contro le donne, già approvata dal senato nel 2012.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI A settembre, la camera bassa ha avviato lo studio di una proposta di legge sulla salute sessuale e ri- produttiva, redatta con la partecipazione di gruppi per i diritti delle donne. In seguito al veto posto dal presidente della Repubblica alla proposta di riforma del codice penale, che manteneva pienamente la criminalizzazione dell’aborto, il 16 dicembre il congresso ha adottato alcuni emendamenti che de- criminalizzavano l’aborto nei casi in cui la vita della donna o della ragazza incinta fosse a rischio, in cui il feto non avrebbe potuto sopravvivere fuori dall’utero e quando la gravidanza fosse il risultato di uno stupro o di un incesto. La riforma del codice penale è stata adottata il 19 dicembre e avrebbe dovuto entrare in vigore entro l’anno.5

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI Ngo locali hanno continuato a denunciare casi di sgomberi forzati e di uso eccessivo della forza da parte della polizia in diverse occasioni. L’ultima versione degli emendamenti proposti al codice penale criminalizzava l’occupazione di proprietà privata, suscitando timori che, se adottati, tali provvedimenti potrebbero essere utilizzati per legittimare gli sgomberi forzati.

Note 1. Dominican Republic: Killings at the hands of the police rise while reforms stall (comunicato stampa), 15 agosto 2014 www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/dominican-republic-killings-hands-police-rise-while-reforms- stall-2014-08-0 2. Dominican Republic: Open letter to President Danilo Medina regarding Law 169/14 “establishing a special regime for people who were born in the national territory and irregularly registered in the Dominican Civil Registry and on naturalization” (AMR 27/008/2014) www.amnesty.org/en/library/info/amr27/008/2014/en 3. Dominican Republic: Reaction to court ruling shows shocking disregard for international law (comunicato stampa), 24 ottobre 2014, www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/dominican-republic-reaction-court-ruling-shows-shocking- disregard-internati 4. Dominican republic: withdrawal from top regional human rights court would put rights of hundreds of thousands at risk

185 (comunicato stampa), 6 novembre 2014, www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/dominican-republic-withdrawal- top-regional-human-rights-court-would-put-rig 5. Dominican Republic: Proposed reform puts women and girls at risk (AMR 27/016/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ amr27/016/2014/en Dominican Republic: Further information: President vetoes full ban on abortion (AMR 27/018/2014), www.amnesty.org/en/li- brary/info/amr27/018/2014/en Dominican Republic decriminalizes abortion (AMR 27/020/2014), www.amnesty.org/en/library/info/amr27/020/2014/en

ECUADOR

REPUBBLICA DELL’ECUADOR

Capo di stato e di governo: Rafael Vicente Correa Delgado

I difensori dei diritti umani e coloro che criticavano il governo hanno continuato a essere attaccati e screditati. Non è stato rispettato il diritto delle popolazioni native a essere consultate e a un consenso libero, anticipato e informato.

CONTESTO Ci sono state frequenti proteste di massa organizzate contro il governo. A luglio, gruppi nativi hanno marciato verso la capitale Quito per protestare contro l’approvazione di una nuova normativa per re- golamentare le risorse idriche, che sostenevano non avesse tenuto affatto conto delle loro preoccupazioni in materia. A novembre 2013, la corte nazionale di giustizia dell’Ecuador ha confermato una sentenza emessa contro la compagnia petrolifera statunitense Chevron per disastro ambientale. La corte ha condannato la Chevron a pagare oltre 9,5 miliardi di dollari Usa alle comunità native dell’Amazzonia colpite. A marzo, a seguito di una causa intentata dalla Chevron negli Usa, una corte federale ha bloccato i ricorsi presso le corti statunitensi in merito alla riscossione della somma accordata a titolo di risar- cimento per il danno alla forestale pluviale, dichiarando che la sentenza del tribunale ecuadoregno era stata ottenuta con metodi fraudolenti. A ottobre, le vittime del danno ambientale causato dalla Chevron hanno citato in giudizio davanti alla Corte penale internazionale i dirigenti della compagnia. Sessanta persone, compresi sei poliziotti accusati di aver tentato di assassinare il presidente, sono state giudicate colpevoli di coinvolgimento nelle proteste indette dalla polizia nel 2010 contro la ri- duzione degli stipendi, considerate dal governo alla stregua di un tentativo di colpo di stato. Altre 36 persone sono state assolte.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI I difensori dei diritti umani hanno continuato a essere attaccati e screditati.

186 L’organizzazione per i diritti delle popolazioni native e i diritti ambientali Fundación Pachamama è ri- masta chiusa dopo che a dicembre 2013 ne era stata disposta la sospensione tramite un decreto esecutivo, che conferiva alle autorità ampi poteri di controllare e sciogliere le Ngo. Pochi giorni prima della sua chiusura, membri dell’organizzazione avevano partecipato a una manifestazione davanti al ministero dell’Energia.

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE A ottobre, il governo si è scusato con la popolazione kichwa del Sarayaku, riconoscendo che lo stato aveva messo a repentaglio le loro vite e i loro mezzi di sussistenza, quando nel 2002 e 2003 aveva autorizzato una compagnia petrolifera a effettuare perforazioni sul loro territorio. La popolazione kichwa del Sarayaku aveva vinto una battaglia legale presso la Corte interamericana dei diritti umani nel 2012. Tuttavia, a fine anno, l’Ecuador non aveva ancora ultimato la rimozione di 1,4 tonnellate di esplosivo abbandonato sul territorio della comunità e non aveva ancora regolamentato il diritto di tutte le popolazioni native a essere consultate e a un consenso libero, anticipato e informato, secondo quanto richiesto dalla Corte interamericana nel 2012. I progetti governativi di sfruttamento delle risorse petrolifere nel parco nazionale di Yasuni, territorio ancestrale delle comunità native tagaeri e taromenane, hanno continuato a suscitare proteste pubbliche. A maggio, la Confederazione kichwa dell’Ecuador (Ecuarunari), una delle principali orga- nizzazioni native del paese, ha intentato una causa legale presso la Corte costituzionale, sostenendo che il governo non stava adempiendo alle misure precauzionali accordate dalla Commissione intera- mericana dei diritti umani nel 2006 a favore delle comunità native tagaeri e taromenane. A fine anno, la Corte costituzionale non aveva ancora emesso sentenza in merito all’istanza.

REPRESSIONE DEL DISSENSO Le autorità hanno continuato a reprimere le proteste antigovernative, in quelli che sono parsi essere tentativi di scoraggiare l’opposizione. A settembre, oltre 100 manifestanti sono stati trattenuti per periodi fino a 15 giorni per aver partecipato a proteste contro il governo, in un contesto di scontri tra manifestanti e polizia. Decine di detenuti hanno denunciato di essere stati maltrattati durante l’arresto e mentre si trovavano in custodia di polizia. Secondo i referti medici, decine di loro presentavano contusioni e altre lesioni causate da corpi contundenti. A fine anno non era stata avviata alcuna inchiesta su queste accuse, che il presidente ha pubblicamente respinto.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE A gennaio, il giornale El Universo e il vignettista Javier Bonilla (in arte Bonil) sono stati multati e costretti a ritrattare il contenuto di una vignetta, secondo quanto stabilito da una normativa sulle co- municazioni del 2013. La vignetta ritraeva agenti di polizia che irrompevano improvvisamente nella casa di Fernando Villavicencio, un giornalista apertamente critico verso il governo. Assieme ad altri due uomini, il giornalista era stato giudicato colpevole per diffamazione nei confronti del presidente e condannati a pene variabili da 18 mesi a sei anni di carcere, in seguito ridotte dai sei ai 12 mesi. A fine anno, Villavicencio e uno degli altri due uomini erano latitanti.

IMPUNITÀ A dicembre 2013, l’assemblea nazionale ha approvato una legge che garantiva il diritto alla riparazione

187 per i familiari e le vittime delle violazioni dei diritti umani commesse tra il 1983 e il 2008 e documentate dalla commissione verità, istituita nel 2007. A gennaio, l’ex capo della polizia Edgar Vaca è stato arrestato negli Usa in attesa dell’estradizione. Edga Vaca era uno degli ex agenti di polizia e militari accusati di tortura e sparizione forzata durante la presidenza di Febres Cordero, dal 1984 al 1988. Questo era il primo caso di un membro delle forze di sicurezza processato per crimini contro l’umanità.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI Il nuovo codice penale entrato in vigore a gennaio ha mantenuto il reato di aborto nei casi di stupro, tranne quando la vittima fosse affetta da una disabilità mentale. I tentativi di depenalizzare l’aborto per tutte le vittime di stupro sono stati fortemente osteggiati dal presidente, il quale si è dichiarato pronto a dimettersi se una simile proposta fosse mai discussa dall’assemblea nazionale. La proposta è stata ritirata e tre membri del congresso del partito di governo sono stati sanzionati.

EL SALVADOR

REPUBBLICA DEL SALVADOR

Capo di stato e di governo: Salvador Sánchez Cerén (subentrato a Carlos Mauricio Funes Cartagena a giugno)

È rimasto in vigore il divieto assoluto di aborto e l’applicazione della legislazione finalizzata a combattere la violenza contro le donne ha continuato a essere poco rilevante. Le violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto armato dal 1980 al 1992 sono rimaste impunite, malgrado alcuni passi avanti.

CONTESTO È entrato in carica il presidente Sánchez Cerén del Fronte di liberazione nazionale Farabundo Martí. C’è stato un brusco aumento della criminalità violenta. Fonti ufficiali hanno registrato 1857 omicidi nei primi sei mesi del 2014; la cifra riferita all’anno precedente era di 1048. Si ritiene che l’aumento sia dovuto al fallimento di una tregua tra bande criminali rivali. A giugno, l’assemblea legislativa ha ratificato gli emendamenti alla costituzione che riconoscono formalmente i diritti delle popolazioni native e gli obblighi dello stato di tutelarli. A fine anno pendeva ancora la ratifica di alcuni accordi internazionali fondamentali, come la Con- venzione n. 169 dell’Ilo sulle popolazioni native e tribali, lo Statuto di Roma della Corte penale inter- nazionale, il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura, la Convenzione internazionale contro la sparizione forzata e la Convenzione interamericana sulla sparizione forzata delle persone. Durante l’analisi della situazione dei diritti umani del Salvador secondo l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite di ottobre, gli stati hanno sollecitato El Salvador a ratificare i suddetti trattati in-

188 ternazionali. Diversi stati hanno inoltre raccomandato a El Salvador di depenalizzare l’aborto e di renderlo sicuro e accessibile, in particolare nei casi in cui la vita o la salute della donna sia a rischio o quando la gravidanza sia il risultato di un incesto o uno stupro. Due stati hanno inoltre raccomandato il rilascio delle donne incarcerate per essersi sottoposte ad aborto terapeutico o per aver avuto un aborto spontaneo. El Salvador ha risposto con l’intenzione di voler esaminare tali raccomandazioni e di fornire una risposta alla successiva sessione del Consiglio per i diritti umani del 2015.

DIRITTI DELLE DONNE Tra gennaio e settembre, la polizia ha registrato 216 uccisioni di donne, rispetto alle 215 rilevate nel- l’intero 2013.1 Questo dato indicava che, dopo un periodo di sostanziale diminuzione a partire dal 2011, i casi di violenza contro le donne erano tornati ad aumentare. Nonostante alcuni apprezzati progressi nell’applicazione della legge speciale integrale per una vita libera dalla violenza per le donne del 2012, erano stati pochi i casi di uccisioni perseguiti in tribunale per lo specifico reato di femminicidio (uccisione di donne per motivi di genere). Un archivio dati unico per registrare la violenza contro le donne, previsto dalla legge speciale del 2012, non era ancora operativo e a fine anno era funzionante soltanto una casa protetta statale per le donne che fuggivano da partner violenti. Nel suo rapporto del 2014 alle Nazioni Unite sui progressi ottenuti nel contesto degli Obiettivi di sviluppo del millennio, il governo ha ammesso che il divieto assoluto di aborto rappresentava un ostacolo agli sforzi per ridurre la mortalità materna. Malgrado tale ammissione, a fine anno il divieto assoluto di aborto rimaneva in vigore. Lo stato era inoltre consapevole che fattori socio-culturali ed economici, la mancanza di accesso ai farmaci contraccettivi e il prevalere della violenza contro donne e ragazze erano tutti ostacoli al raggiungimento degli Obiettivi. A dicembre 2013, organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno presentato una petizione alla Commissione interamericana dei diritti umani contro lo stato di El Salvador per le gravi violazioni dei diritti umani subite da una ventiduenne, conosciuta con il nome fittizio di “Beatriz”. Alla giovane donna, affetta da lupus, era stato negato un aborto malgrado i rischi imminenti per la sua vita e la consapevolezza che il feto, che era privo di parte dell’encefalo e del cranio, non avrebbe potuto so- pravvivere al di fuori del grembo materno. Due mesi dopo la sua prima richiesta di trattamento tera- peutico, alla 23ª settimana di gravidanza, alla giovane è stato praticato un taglio cesareo. Il feto è sopravvissuto soltanto poche ore. Ad aprile, dopo aver esaurito ogni altra via legale, il Gruppo di cittadini per la decriminalizzazione dell’aborto terapeutico, etico ed eugenico ha presentato una petizione affinché fosse accordata la grazia a 17 donne, incarcerate per motivi legati alla gravidanza. Stavano scontando sentenze fino a 40 anni di carcere per omicidio aggravato, essendo state inizialmente incriminate per aver avuto un aborto. I loro casi giudiziari hanno destato preoccupazione relativamente al diritto alla non discrimi- nazione, oltre che ai diritti alle procedure giudiziarie dovute e a un equo processo, incluso il diritto a un’efficace difesa legale. A fine anno, i loro casi rimanevano pendenti; il congresso attendeva le rac- comandazioni della Corte suprema di giustizia prima di pronunciarsi in merito.

IMPUNITÀ È rimasta in vigore la legge di amnistia del 1993, che da oltre 20 anni garantiva l’impunità a coloro che si erano resi responsabili di violazioni dei diritti umani durante il conflitto dal 1980 al 1992.

189 Tutela legale, l’ufficio per i diritti umani dell’arcivescovado cattolico, è stata chiusa senza preavviso a settembre 2013. Si è fortemente temuto che il suo enorme archivio storico, contenente prove riguar- danti casi di violazioni dei diritti umani rimasti irrisolti, risalenti al conflitto armato interno potesse andare perduto. Sopravvissuti e familiari delle vittime hanno presentato un’istanza di habeas corpus per poter accedere ai fascicoli; a fine anno il ricorso era all’esame della Corte suprema. L’ufficio dell’organizzazione per i diritti umani Pro-Búsqueda, impegnato nel ritrovamento dei minori che furono vittime di sparizione forzata durante gli anni del conflitto, a novembre 2013 è stato al centro di un raid da parte di tre uomini armati. Nel corso del raid, tre dipendenti dell’organizzazione sono stati immobilizzati, mentre la documentazione veniva data alle fiamme e i computer contenenti informazioni delicate sui casi venivano rubati. I computer sottratti contenevano informazioni riguardanti i tre casi di sparizione forzata che erano all’esame della Corte suprema. Alcuni giorni prima dell’attacco, ufficiali militari accusati di coinvolgimento nelle sparizioni non si erano presentati a un’udienza di tribunale relativa a uno dei casi giudiziari.2 Verso la fine del 2013, l’ufficio del procuratore generale ha riaperto l’inchiesta giudiziaria sul massacro di El Mozote del 1981, in cui, nell’arco di tre giorni, oltre 700 civili, tra cui bambini e persone anziane, furono torturati e uccisi dai militari nel villaggio di El Mozote e in località limitrofe. A fine anno, l’in- chiesta era ancora in corso. A ottobre 2013, le autorità hanno emanato un decreto che istituiva un programma di riparazione per i sopravvissuti a violazioni dei diritti umani durante gli anni del conflitto. A febbraio, la Corte suprema ha ordinato la riapertura delle indagini sul massacro di San Francisco Angulo, avvenuto nel 1981, in cui furono uccise 45 persone, in maggioranza donne e bambini, stando alle accuse, per mano di membri dell’esercito. A fine anno, l’indagine era ancora in corso. Ad agosto, con 32 anni di ritardo, lo stato ha finalmente ammesso il massacro di El Calabozo del 1982, in cui l’esercito uccise oltre 200 persone. Tuttavia, a fine anno nessuno era stato portato davanti alla giustizia per questo crimine. A ottobre, nell’emettere sentenza sul caso Rochac Hernandez e altri vs. El Salvador, la Corte intera- mericana dei diritti umani ha ritenuto lo stato responsabile per non aver provveduto a indagare sulla sparizione forzata di cinque minori tra il 1980 e il 1982, nel contesto di operazioni di controinsurrezione condotte dai militari durante il conflitto.

Note 1. On the brink of death: Violence against women and the abortion ban in El Salvador (AMR 29/003/2014) www.amnesty.org/ en/library/info/AMR29/003/2014/en 2. El Salvador: Human rights organization’s office attacked (AMR 29/011/2013) www.amnesty.org/en/library/info/ AMR29/011/2013/en

190 GIAMAICA

GIAMAICA

Capo di stato: regina Elisabetta II, rappresentata da Patrick Linton Allen Capo di governo: Portia Simpson Miller

La brutalità della polizia è rimasta motivo di preoccupazione. Sono continuate le aggressioni e le ves- sazioni ai danni delle persone Lgbti. Sono state intraprese misure per affrontare il problema dell’im- punità. La Giamaica ha mantenuto la pena di morte nel proprio ordinamento.

CONTESTO I dati relativi agli omicidi sono rimasti elevati, principalmente nelle comunità emarginate dei quartieri poveri, nonostante una diminuzione rispetto ai dati del 2013. Le forze di polizia giamaicane (Jamaica Constabulary Force) hanno riferito che alla data del 14 settembre le uccisioni nel 2014 erano state 699, con una diminuzione del 15 per cento rispetto allo stesso periodo nel 2013.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA In seguito al crescente numero di uccisioni da parte della polizia registrato negli ultimi anni (210 nel 2011, 219 nel 2012 e 258 nel 2013), il 2014 ha visto una diminuzione di questo dato secondo le in- formazioni fornite dalla commissione indipendente sulle indagini (Independent Commission of Inve- stigation – Indecom), un’agenzia di controllo indipendente della polizia. A fine ottobre, le uccisioni di civili da parte della polizia erano state 103, rispetto alle 220 registrate nello stesso periodo nel 2013. Alcune persone sono state uccise in circostanze tali da suggerire che si sia trattato di esecuzioni ex- tragiudiziali. In seguito alla morte di Mario Deane, in circostanze sospette mentre era in custodia di polizia ad agosto, a settembre i ministri della Giustizia e della Sicurezza nazionale hanno annunciato una verifica del sistema di detenzione, al fine di “sviluppare una risposta strategica alla questione del trattamento delle persone nelle guardine dei commissariati e negli istituti correzionali”. Ad aprile è stata promulgata la legge sulla giustizia penale (repressione delle organizzazioni criminali), finalizzata a “disgregare e reprimere le organizzazioni criminali”. Sono stati espressi timori che, per associazione, la legge potesse essere utilizzata per criminalizzare intere comunità. A febbraio è stata finalmente istituita una commissione d’inchiesta sullo stato d’emergenza proclamato nel maggio 2010, quando 76 civili furono uccisi durante un’operazione condotta dalle forze di sicurezza. La commissione, formata da tre componenti, ha iniziato i suoi lavori il 1° dicembre. Ad aprile, l’ufficio del difensore pubblico ha trasmesso all’Indecom tutti i fascicoli di pertinenza delle sue indagini sullo stato d’emergenza. I fascicoli riguardavano, tra gli altri, i casi di 44 persone che sarebbero state uccise illegalmente dalle forze di sicurezza. Undici poliziotti di Clarendon, sospettati di far parte di uno “squadrone della morte”, sono stati

191 arrestati e incriminati ad aprile dall’Indecom e accusati di coinvolgimento nell’omicidio di nove civili a partire dal 2009. A fine anno erano ancora in corso le indagini.

SISTEMA GIUDIZIARIO Il sovraccarico di lavoro dei tribunali ha provocato continui ritardi nel sistema giudiziario. A febbraio, il ministro della Sicurezza nazionale ha dichiarato l’esistenza di un arretrato di circa 40.000 fascicoli giudiziari. A giugno, il presidente della Corte suprema ha affermato che l’indisponibilità di prove scientifiche forensi, deposizioni e perizie balistiche arretrate, oltre alla mancanza di adeguate infra- strutture di tribunale, di risorse umane e finanziarie, stavano compromettendo seriamente il funzio- namento del sistema giudiziario.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Ha continuato a destare preoccupazione la violenza contro donne e ragazze. Le statistiche della polizia tratte dallo studio economico e sociale del 2013, pubblicato ad aprile dal Planning Institute of Jamaica, hanno evidenziato che nel 2013 i casi di stupro registrati sono stati 814 e che, sempre nello stesso anno, 128 donne sono state uccise. A fine 2014 era ancora in corso il riesame del piano d’azione strategica nazionale per eliminare la violenza di genere, annunciato a settembre 2013. In seguito a una mozione presentata al senato a ottobre 2013 per garantire una maggiore protezione sul piano legislativo a donne e ragazze, a luglio 2014 è stata alla fine istituita una commissione con- giunta del parlamento, con l’incarico di rivedere la legge sui reati sessuali, la legge sui reati contro la persona, la legge sulla violenza domestica e la legge sulla tutela e protezione dell’infanzia, con l’obiettivo di migliorare la protezione dalla violenza e dagli abusi per donne, minori, persone con di- sabilità e persone anziane.

DIRITTI DELL’INFANZIA I minori hanno continuato a essere tenuti in cella assieme agli adulti, in alcuni casi anche per parecchi giorni, in violazione della legge sulla tutela e protezione dell’infanzia e del diritto internazionale.

DIRITTI DI PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE I rapporti sessuali consenzienti tra persone dello stesso sesso sono rimasti un reato. Organizzazioni per i diritti Lgbti hanno continuato a denunciare aggressioni, vessazioni e minacce contro persone a causa del loro reale o presunto orientamento sessuale, che le autorità non hanno provveduto a indagare in maniera completa e tempestiva. Il 14 giugno, un giovane è stato aggredito dalla folla all’interno di un centro commerciale nella cittadina di May Pen, perché sarebbe stato visto mentre si metteva il rossetto. L’episodio non è stato seguito da alcuna indagine da parte della polizia. Ad agosto, Javed Jaghai, membro del Forum giamaicano delle persone lesbiche, di tutti gli orientamenti sessuali e gay, ha ritirato il ricorso costituzionale che aveva presentato a febbraio 2013 contro le leggi che criminalizzano i rapporti sessuali tra uomini, dopo che sia lui sia la sua famiglia erano stati minacciati. Non ha avuto luogo una “votazione secondo coscienza” da parte dei parlamentari sulla legislazione che criminalizza i rapporti sessuali consenzienti tra persone dello stesso sesso, che il governo aveva annunciato si sarebbe tenuta prima di aprile.

192 GUATEMALA

REPUBBLICA DEL GUATEMALA

Capo di stato e di governo: Otto Pérez Molina

Il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità perpetrati durante il conflitto armato interno (1960-1996) sono rimasti impuniti. La violenza contro donne e ragazze è stata ancora motivo di preoccupazione. Le forze di sicurezza sono ricorse a un uso eccessivo della forza nell’attuare sgomberi forzati di persone che protestavano contro progetti idroelettrici e minerari. Il Guatemala ha mantenuto nel proprio ordinamento legislativo la pena capitale per reati comuni. Tuttavia, non c’erano prigionieri nel braccio della morte e durante l’anno non sono state comminate condanne a morte.

CONTESTO Le bande di strada e i cartelli del narcotraffico hanno contribuito alla precarietà della sicurezza pubblica. Secondo le autorità durante l’anno sono stati commessi oltre 5000 omicidi. A giugno, l’ex direttore nazionale della polizia, Erwin Sperisen, è stato giudicato colpevole in Svizzera per il ruolo svolto nell’esecuzione extragiudiziale di sette prigionieri disarmati, durante un’operazione di polizia nel carcere di El Pavón, nel 2006.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Organizzazioni per i diritti umani locali hanno registrato 500 uccisioni di donne durante l’anno. A maggio, la Corte interamericana dei diritti umani ha emesso una sentenza contro il Guatemala nel caso di María Isabel Franco, la quale subì un’aggressione sessuale e fu torturata e uccisa nel 2001, all’età di 15 anni. La Corte ha concluso che il Guatemala aveva agito in maniera discriminatoria in riferimento al genere della vittima e che, considerata la violenza pervasiva contro le donne che carat- terizza il paese, le autorità non erano intervenute prontamente quando la madre di María Isabel aveva avvisato la polizia della sparizione di sua figlia.

IMPUNITÀ Il diritto a verità, giustizia e riparazione per le vittime dei crimini contro l’umanità commessi durante il conflitto armato interno (1960-1996) ha continuato a essere motivo di preoccupazione. A maggio 2013, l’ex presidente Efraín Ríos Montt è stato giudicato colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità contro la comunità nativa dei maya-ixil durante la sua presidenza. La Corte costituzionale ha in seguito ribaltato la condanna a 10 giorni di reclusione per vizio di forma. A fine anno, il nuovo processo non era ancora iniziato. A febbraio, la Corte costituzionale ha concluso anticipatamente il mandato della procuratrice generale. Sono stati espressi timori che la sua rimozione fosse legata al suo ruolo nel rinvio a giudizio dell’ex

193 presidente Ríos Montt e al suo impegno nell’indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto armato interno. A maggio, il congresso ha approvato una risoluzione non vincolante secondo la quale durante il conflitto armato interno non c’era stato alcun genocidio. La risoluzione contraddiceva direttamente un’indagine delle Nazioni Unite del 1999, che aveva concluso che durante il conflitto armato interno, in cui furono uccise 200.000 persone e altre 45.000 furono vittime di sparizione forzata, erano stati commessi genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Oltre l’80 per cento delle persone uccise e scomparse erano di etnia maya. A luglio, Fermín Solano Barrillas, un ex membro dell’opposizione armata durante il conflitto armato interno, è stato condannato a 90 anni di carcere per aver guidato il massacro di 22 persone, avvenuto nel 1998 ad El Aguacate, nel dipartimento di Chimaltenango.

DISPUTE SULLA TERRA Temendo impatti negativi sui loro mezzi di sussistenza, le comunità locali hanno continuato a opporsi a progetti idroelettrici e minerari in corso o in fase di pianificazione e hanno protestato per non essere state consultate in merito. A maggio 2013, in risposta a queste proteste, il governo ha proposto una moratoria sul rilascio di nuove licenze minerarie. Ha continuato tuttavia a destare preoccupazione il fatto che la proposta di legge in materia di rilascio delle licenze minerarie non fosse in linea con gli standard internazionali e non tenesse conto dei i timori espressi dalle comunità native e rurali circa la mancanza di consul- tazione e di consenso libero, anticipato e informato. A maggio, attivisti locali che avevano occupato un sito minerario a San José del Golfo, nel dipartimento di Guatemala, sono stati sgomberati con la forza dalla polizia. L’ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza durante l’operazione. A giugno, le comunità locali hanno manifestato contro la proposta di costruzione della diga idroelettrica di Xalalá, nei dipartimenti di Alta Verapaz e Quiché. Ad agosto, tre persone appartenenti alla comunità di Monte Olivo, nel dipartimento di Alta Verapaz, sono state uccise. Secondo le notizie riportate, sono state raggiunte da colpi d’arma da fuoco sparati da agenti di polizia durante lo sgombero forzato di una comunità che si opponeva alla costruzione di un progetto idroelettrico nella zona. A fine anno, nessuno era stato chiamato a rispondere per le loro morti.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Durante l’anno si sono verificate aggressioni, minacce e intimidazioni contro difensori dei diritti umani e giornalisti. Ad agosto, Gustavo Illescas, un giornalista dell’Independent Media Centre del Guatemala, è stato mi- nacciato dopo che aveva documentato la violenza della polizia durante lo sgombero forzato a Monte Olivo (v. sopra). Un suo collega è stato trattenuto da uomini a volto coperto, che gli hanno intimato di far arrivare a Gustavo Illescas un messaggio di minaccia. Anche il collega è stato percosso e aggredito sessualmente. A fine anno, nessuno era stato chiamato a rispondere per il suo maltrattamento né per le minacce nei confronti di Gustavo Illescas.

194 GUYANA

REPUBBLICA COOPERATIVA DI GUYANA

Capo di stato e di governo: Donald Ramotar

Hanno continuato a destare preoccupazione i casi di maltrattamento da parte della polizia. Anche la violenza contro donne e ragazze è rimasta un fenomeno preoccupante e le percentuali di condanne per reati sessuali sono state basse.

CONTESTO In seguito agli impegni assunti dalla Guyana durante l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite nel 2010, il governo ha finalmente avviato consultazioni pubbliche in tema di punizioni corporali nelle scuole. Tuttavia, a fine anno non erano ancora iniziate le consultazioni riguardanti altre tematiche che il governo nel 2010 si era assunto l’impegno di discutere, come l’abolizione della pena di morte, l’abrogazione della legislazione che criminalizza i rapporti consenzienti tra persone dello stesso sesso e la discriminazione contro le persone Lgbti. In seguito al voto di sfiducia da parte dell’opposizione ad agosto, a novembre il presidente ha annunciato la sospensione dell’assemblea nazionale fino a sei mesi, motivandola, tra le altre cose, con l’urgente bisogno di affrontare i “temi relativi alla crescita economica”.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Colwyn Harding ha accusato la polizia di averlo sodomizzato con un manganello durante il suo arresto il 15 novembre 2013, a Timehri. Il 2 giugno, due agenti sono stati incriminati per lesioni personali e uno dei due anche per aggressione. Il 30 aprile, stando alle accuse, un poliziotto che giocava alla “roulette russa” con la sua arma d’or- dinanza ha sparato in bocca al quindicenne Alex Griffith. L’agente stava indagando su una rapina a mano armata che sarebbe stata commessa ai danni di un suo familiare. Il poliziotto è stato incriminato a giugno con l’accusa di aggressione illegale e di aver sparato con l’intento di causare una menoma- zione. A fine anno, entrambi i casi erano ancora pendenti in tribunale.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE La violenza fisica e sessuale contro donne e ragazze ha continuato a destare preoccupazione. Secondo le notizie pervenute, agli inizi di settembre i casi di stupro denunciati alla polizia erano stati oltre 140. La percentuale di condanne per reati sessuali è rimasta bassa. Ad aprile, il ministero degli Affari legali ha dichiarato che nessuno dei 22 procedimenti giudiziari esaminati nel 2012 e nel 2013 aveva portato a una condanna per reati sessuali. L’applicazione della legge sui reati sessuali, emanata a febbraio 2013, e del programma nazionale sulla violenza domestica, varato nel giugno 2008, ha continuato a essere molto lenta. Attivisti per i

195 diritti delle donne hanno espresso preoccupazione per la mancanza di volontà politica nel dare piena attuazione alle suddette norme legislative. Per citare un esempio, le autorità giudiziarie, di sicurezza e sanitarie non avevano ricevuto una formazione adeguata riguardo alle nuove legislazioni e l’opinione pubblica non era stata sufficientemente sensibilizzata in merito agli importanti cambiamenti per proteggere la vita di donne e ragazze, introdotti con il varo di queste nuove leggi. Il piano nazionale per la prevenzione della violenza sessuale non era stato ancora redatto, nonostante la nuova normativa ne prevedesse la creazione.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE A novembre, la Commissione interamericana dei diritti umani ha chiesto misure precauzionali in nome dei lavoratori del giornale Kaieteur News, dopo che avevano ricevuto minacce di morte.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE I rapporti sessuali consenzienti tra persone dello stesso sesso sono rimasti reato. Hanno continuato a giungere notizie di casi di discriminazione contro persone Lgbti, in particolare nei confronti delle persone transgender. La notte del 7 aprile, quattro persone transgender sono state raggiunte da colpi di pistola sparati da un veicolo in corsa, nel centro di Georgetown. Stando alle notizie, la polizia si è rifiutata di registrare la loro denuncia e l’ospedale pubblico della città si è rifiutato di prestare loro le cure necessarie.

PENA DI MORTE A dicembre, la Guyana ha votato per la quinta volta contro la risoluzione delle Nazioni Unite per una moratoria sulle esecuzioni, nonostante l’impegno a tenere una consultazione nazionale in merito.

HAITI

REPUBBLICA DI HAITI

Capo di stato: Michel Joseph Martelly Capo di governo: Laurent Salvador Lamothe (dimessosi il 14 dicembre)

Oltre 80.000 persone, rimaste senza tetto a causa del terremoto del gennaio 2010, erano ancora sfollate. Le autorità non hanno provveduto a introdurre misure a lungo termine per impedire gli sgomberi forzati. È rimasta motivo di preoccupazione la generale mancanza d’indipendenza del sistema giudiziario. Diversi difensori dei diritti umani sono stati minacciati e aggrediti.

CONTESTO A fine anno non si erano ancora svolte le lungamente attese elezioni locali e legislative per un terzo dei seggi del senato. Il ritardo era dovuto a disaccordi tra il governo e il parlamento in merito al

196 consiglio elettorale, a seguito dei quali sei senatori si sono rifiutati di votare la proposta di riforma della legge elettorale. Il 14 dicembre, il primo ministro si è dimesso dopo che una commissione con- sultativa nominata dal presidente aveva raccomandato le sue dimissioni tra altre misure da prendere per calmare le tensioni. A fine anno, la stabilità politica del paese era ancora motivo di preoccupazione, a causa dell’approssimarsi della scadenza, prevista a metà gennaio 2015, dei mandati di un altro terzo dei membri del senato e dell’intera camera dei deputati. A ottobre, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha rinnovato per l’11° anno il mandato della Missione delle Nazioni Unite di stabilizzazione ad Haiti (Mission des Nations Unies pour la stabilisation en Haiti − Minustah), raccomandando una drastica riduzione della sua componente militare. Nonostante nella prima metà dell’anno ci sia stata una significativa riduzione del numero dei casi di colera, nel paese persisteva l’epidemia. Tra ottobre 2010 e luglio 2014, 8573 persone sono morte a causa del colera. A fine anno pendeva presso un tribunale statunitense una causa intentata a ottobre 2013 da gruppi per i diritti umani haitiani e statunitensi contro le Nazioni Unite, per la loro presunta responsabilità nell’aver introdotto la malattia ad Haiti, nel 2010. In seguito alla creazione del comitato interministeriale sui diritti umani, sono state firmate o ratificate alcune convenzioni internazionali e regionali sui diritti umani. A ottobre, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha analizzato il rapporto iniziale di Haiti.1

SFOLLATI INTERNI A fine settembre, oltre 80.000 persone, rimaste senza tetto a causa del terremoto del gennaio 2010, vivevano ancora in 123 accampamenti di fortuna. La maggior parte delle persone sfollate che aveva lasciato i campi lo aveva fatto in maniera spontanea o dopo l’assegnamento di sussidi per l’affitto della durata di un anno. In seguito alla sua visita ad Haiti a luglio, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani delle persone sfollate internamente ha evidenziato il fatto che, sebbene da luglio 2010 ci fosse stata una significativa riduzione del numero delle persone sfollate che vivevano nei campi, la maggior parte di coloro che avevano lasciato gli accampamenti non aveva beneficiato di soluzioni durature.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI Rispetto agli anni precedenti, durante l’anno ci sono stati meno sgomberi forzati dai campi per sfollati e da altri insediamenti informali. Tuttavia, le autorità non hanno provveduto a fornire rimedi alle vittime di sgombero forzato2 e non hanno messo in atto misure sostenibili per evitare che si veri- ficassero ancora.3 A fine maggio, centinaia di famiglie sono rimaste senza tetto dopo che il governo aveva ordinato la demolizione di alcuni edifici nel centro della capitale, Port-au-Prince. La vasta maggioranza delle persone colpite dal provvedimento non aveva ricevuto un’adeguata notifica della demolizione e soltanto un’esigua minoranza di proprietari di abitazioni ha ricevuto un risarcimento al momento della demolizione.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Secondo organizzazioni per i diritti delle donne, nel paese la violenza contro donne e ragazze rimaneva un fenomeno diffuso. Il governo non ha provveduto a rendere pubbliche statistiche attendibili sulla violenza di genere. Un progetto di legge per prevenire, perseguire e sradicare la violenza contro le

197 donne, redatto nel 2011 in collaborazione con i gruppi per i diritti delle donne, a fine anno non era stato ancora presentato in parlamento. Organizzazioni haitiane per i diritti umani hanno riferito che, benché il numero di processi e di condanne riguardanti casi di violenza sessuale sia aumentato, questi riguardavano soltanto una minima percentuale dei casi denunciati.

IMPUNITÀ A febbraio, la corte d’appello di Port-au-Prince ha ribaltato la decisione di un giudice inquirente del 2012, in base alla quale l’ex presidente Jean-Claude Duvalier non poteva essere processato per crimini contro l’umanità. La corte ha incaricato uno dei propri giudici d’indagare sulle accuse di crimini contro l’umanità in cui era coinvolto, tra gli altri, Jean-Claude Duvalier. Tuttavia, non sono state assegnate risorse aggiuntive al giudice né sono stati desecretati documenti ufficiali che avrebbero potuto essere utili nel procedimento giudiziario, sollevando dubbi circa la capacità del sistema giudiziario haitiano di fornire rimedi legali efficaci alle vittime delle violazioni dei diritti umani del passato. In seguito alla morte di Jean-Claude Duvalier a ottobre, organizzazioni nazionali e internazionali per i diritti umani hanno esortato le autorità a proseguire i procedimenti penali a carico dei suoi ex collaboratori.4

SISTEMA GIUDIZIARIO È rimasta motivo di preoccupazione la complessiva mancanza d’indipendenza del sistema giudiziario. Il Consiglio superiore della magistratura, un’istituzione considerata cruciale per la riforma del sistema giudiziario, ha iniziato il processo di esame dei giudici esistenti soltanto verso fine anno. La mancata assegnazione di molte posizioni di giudici vacanti ha esacerbato il problema delle detenzioni prepro- cessuali. A fine giugno, i detenuti in attesa di processo costituivano più del 70 per cento della popo- lazione carceraria. Ad agosto, un giudice che indagava in merito alle accuse di corruzione a carico dell’ex presidente Jean-Bertrand Aristide ha spiccato un mandato d’arresto nei suoi confronti, dopo che questi non si era presentato per rispondere a un mandato di comparizione emesso il giorno precedente. A settembre, lo stesso giudice ha stabilito che Jean-Bertrand Aristide fosse messo agli arresti domiciliari. L’ordine degli avvocati di Port-au-Prince e diverse organizzazioni per i diritti umani haitiane hanno impugnato la legalità di questi provvedimenti, che sono stati da più parte considerati avere motivazioni politiche.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Diversi difensori dei diritti umani sono stati aggrediti, minacciati e vessati a causa del loro legittimo lavoro a favore dei diritti umani.5 Nella stragrande maggioranza dei casi, le autorità non hanno prov- veduto a condurre indagini approfondite e tempestive o a fornire efficaci misure di protezione.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Durante l’anno sono state denunciate diverse aggressioni verbali e fisiche contro persone Lgbti, la maggior parte delle quali non è stata indagata in modo approfondito. Secondo organizzazioni per i diritti delle persone Lgbti, spesso i poliziotti erano riluttanti a intervenire in questi casi e le loro risposte alle vittime rivelavano atteggiamenti profondamenti discriminatori verso le persone Lgbti. Nessuno è stato chiamato in giudizio per le aggressioni contro persone Lgbti, durante e dopo alcune marce che si opponevano al riconoscimento dei loro diritti, che si sono svolte in tutto il paese a metà 2013.

198 Note 1. Haiti: Submission to the UN Human Rights Committee: 112th Session of the UN Human Rights Committee, 7-31 October 2014 (AMR 36/012/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR36/012/2014/en 2. Haiti: Families at imminent risk of forced eviction (AMR 36/007/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR36/007/2014/en 3. Haiti must take immediate action to prevent forced evictions and relocate internally-displaced persons: Amnesty International oral statement to the 25th Session of the UN Human Rights Council (AMR 36/008/2014) www.amnesty.org/en/li- brary/info/AMR36/008/2014/en 4. Haiti: The truth must not die with Jean-Claude Duvalier www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/haiti-truth-must- not-die-jean-claude-duvalier-2014-10-07 5. Haiti: Activists fighting for justice threatened (AMR 36/011/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR36/011/2014/en Haiti: Women’s human rights defenders threatened (AMR 36/010/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR36/010/2014/en Haiti: Fear for safety of human rights defender: Pierre Espérance (AMR 36/009/2014) www.amnesty.org/en/library/ info/AMR36/009/2014/en

HONDURAS

REPUBBLICA DELL’HONDURAS

Capo di stato e di governo: Juan Orlando Hernández Alvarado (subentrato a Porfirio Lobo Sosa a gennaio)

Hanno continuato a essere motivo di grave preoccupazione le violazioni dei diritti umani e gli abusi contro difensori dei diritti umani, giornalisti, donne e ragazze, persone Lgbti, comunità native e afroamericane e campesino (contadini). Queste violazioni sono avvenute in un contesto in cui l’impunità per le violazioni dei diritti umani e gli abusi era endemica e dove i livelli di criminalità organizzata e comune erano elevati.

CONTESTO Il presidente Juan Orlando Hernández ha prestato giuramento il 27 gennaio, con un mandato qua- driennale. A fine anno, il suo impegno a dare applicazione al programma di politica pubblica e al piano nazionale d’azione sui diritti umani, adottati nel 2013, non si era ancora concretizzato in iniziative politiche, misure e azioni specifiche. Secondo i dati delle Nazioni Unite, l’Honduras ha avuto il più alto tasso di omicidi al mondo. Povertà e povertà estrema hanno continuato a mettere a dura prova la realizzazione dei diritti umani per ampie fasce della società; più del 60 per cento della popolazione viveva in povertà e oltre il 40 per cento in condizioni di povertà estrema.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA A fronte degli elevati livelli di criminalità e di una forza nazionale di polizia caratterizzata da debolezza, mancanza di credibilità e corruzione diffusa, alcune funzioni di mantenimento dell’ordine pubblico

199 hanno continuato a essere svolte da militari e da reparti speciali, come la forza di sicurezza intera- genziale (Fuerza de seguridad interinstitucional − Fusina), creata nel 2014, e l’unità Tigres (Tropa de Inteligencia y Grupos de Respuesta Especial de Seguridad), un gruppo investigativo speciale scelto per la sicurezza, e la polizia militare d’ordine pubblico (Policía militar de orden público), entrambe create nel 2013. Sono state espresse perplessità circa l’adeguato addestramento ricevuto da questi corpi speciali in materia di rispetto e tutela dei diritti umani, visto il numero di violazioni commesse durante l’espletamento delle loro funzioni d’ordine pubblico negli anni precedenti. L’Honduras ha inoltre conosciuto una proliferazione delle armi da fuoco e delle agenzie di vigilanza privata. La legge permetteva di possedere e di portare con sé fino a cinque armi da fuoco e, visti gli elevati livelli d’insicurezza nel paese, sono state molte le persone a munirsi di armi a scopo di auto- difesa. In seguito a una visita condotta nel 2013, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sull’impiego di mercenari ha dichiarato che le agenzie di vigilanza privata stavano commettendo abusi con l’ac- quiescenza o la partecipazione diretta della polizia e dei militari, oltre che nell’impunità.

SISTEMA GIUDIZIARIO L’ufficio del procuratore generale ha continuato a essere travolto dal sovraccarico di lavoro a causa degli elevati livelli di violenza e criminalità nel paese. Ad aprile 2013, l’allora procuratore generale ha dichiarato che la magistratura inquirente disponeva di risorse per indagare soltanto sul 20 per cento degli omicidi commessi. Il procuratore e il suo vice sono stati conseguentemente sospesi e poi rimossi dall’incarico. Al loro posto sono stati eletti nuovi funzionari; organizzazioni per i diritti umani hanno tuttavia definito l’elezione incostituzionale, priva di imparzialità e trasparenza.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Decine di difensori dei diritti umani, compresi leader nativi e campesino, attivisti Lgbti, funzionari della magistratura e giornalisti sono stati vittime di violazioni dei diritti umani. Sono incorsi in uccisioni, violenze fisiche, rapimenti, minacce, vessazioni e attacchi verbali. Il 24 febbraio, Mario Argeñal è stato vittima d’intimidazioni e vessazioni per aver chiesto giustizia alle autorità per la morte di suo fratello, il giornalista Carlos Argeñal, ucciso a colpi d’arma da fuoco nella sua abitazione a Danlí, nel dipartimento di El Paraíso, il 7 dicembre 2013.1 Il 4 giugno, un’appartenente al comitato dei familiari dei detenuti e degli scomparsi in Honduras (Comité de familiares de los detenidos y desaparecidos en Honduras − Cofadeh) è stata rapita a Te- gucigalpa per due ore; è stata aggredita fisicamente, quasi strangolata con un cavo e rapinata prima di essere lasciata andare.2 Il 27 agosto, la nota leader campesino Margarita Murillo è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco nella comunità di El Planón, nel nord-ovest dell’Honduras.3 A giugno, il congresso ha discusso la prima bozza della legge sulla protezione dei giornalisti, dei di- fensori dei diritti umani e degli operatori del sistema giudiziario. Ad agosto, a seguito delle pressioni esercitate a livello nazionale e internazionale, la bozza di legge è stata finalmente condivisa con la società civile. A fine anno, la legge non era stata ancora approvata, così come non era stato ancora creato alcun meccanismo per la concreta protezione delle persone a rischio.

POPOLAZIONI NATIVE E COMUNITÀ AFROAMERICANE Le popolazioni native e le comunità garífuna (afroamericane) hanno continuato ad affrontare discri-

200 minazioni e disparità di trattamento, anche in relazione ai loro diritti alla terra, all’alloggio, all’acqua, alla salute e all’istruzione. Sono andati avanti importanti progetti su terreni delle comunità, senza che queste fossero consultate o in assenza di un loro consenso libero, anticipato e informato. Leader nativi e garífuna sono incorsi in accuse penali inventate e hanno subito aggressioni e intimidazioni come ritorsione per le loro attività in difesa dei diritti umani. Il 17 luglio, membri di una comunità ga- rífuna nel nord-est dell’Honduras, tra cui l’attivista dei diritti umani Miriam Miranda, sono stati tem- poraneamente rapiti da uomini armati, dopo che avevano scoperto una pista illegale d’atterraggio utilizzata da trafficanti di droga sul territorio della comunità.4

DISPUTE SULLA TERRA Le annose dispute sulla terra tra le comunità contadine e i potenti proprietari terrieri sono state tra le cause principali degli elevati livelli di violenza contro le comunità campesino, come nel caso della re- gione di Bajo Aguán. Ad agosto, la Commissione interamericana dei diritti umani ha espresso grave preoccupazione per la situazione a Bajo Aguán, a seguito di una serie di sgomberi attuati con la violenza, di minacce e degli arresti in cui erano incorsi vari leader campesino, ai quali a maggio la Commissione aveva accordato misure di protezione.

VIOLENZA CONTRO LE DONNE La violenza contro donne e ragazze è risultata dilagante. Gruppi della società civile hanno denunciato 636 femminicidi nel 2013, il numero più alto dal 2005. Dal 2013, il codice penale honduregno ha in- trodotto il reato di femminicidio. Tra dicembre 2013 e gennaio 2014, nella città di San Pedro Sula, nel nord dell’Honduras, è stata registrata un’ondata di uccisioni di lavoratrici del sesso.5 L’aborto è rimasto vietato in tutte le circostanze. Il governo non aveva ancora provveduto a ristabilire la legalità della pillola contraccettiva d’emergenza, la cui somministrazione era stata proibita con decreto ministeriale (acuerdo ministerial) nel 2009, sotto le autorità de facto di allora.

Note 1. Honduras: Further information - brother of killed journalist at risk (AMR 37/004/2014) www.amnesty.org/en/library/ info/AMR37/004/2014/en 2. Honduras: Surveillance and attacks on human rights NGO (AMR 37/007/2014) www.amnesty.org/en/library/info/ AMR37/007/2014/en 3. Campesino leader shot dead in Honduras (AMR 37/010/2014) www.amnesty.org/es/library/info/AMR37/010/2014/es 4. Afro-descendant community at risk in Honduras (AMR 37/009/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR37/009/2014/en 5. Sex workers targeted and killed in Honduras (AMR 37/001/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR37/001/2014/en

201 MESSICO

STATI UNITI MESSICANI

Capo di stato e di governo: Enrique Peña Nieto

Sono stati segnalati nuovi casi di sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali e tortura in un contesto di crimine violento e di mancato accertamento delle responsabilità all’interno di polizia ed esercito. L’impunità per le violazioni dei diritti umani e per i crimini ordinari è rimasta la norma. Secondo fonti ufficiali, oltre 22.000 persone sono state vittime di rapimenti, sparizioni forzate o se ne sono perse le tracce, compresi 43 studenti dello stato del Guerrero. I tentativi di ricerca delle persone scomparse si sono rivelati generalmente inefficaci. I resoconti di episodi di tortura e altro maltrattamento sono stati molto frequenti ma alle denunce non hanno fatto seguito indagini adeguate da parte dei procuratori federali e statali. La Corte suprema ha rafforzato gli obblighi legali che rendevano inam- missibili le prove ottenute sotto tortura. Molte delle violazioni dei diritti umani commesse sono state attribuite a membri dell’esercito e della marina militare, i quali hanno continuato a essere impiegati in modo massiccio in operazioni di ordine pubblico, anche nella lotta al crimine organizzato. La giuri- sdizione militare sulle violazioni dei diritti umani commesse da personale militare contro civili è stata abolita dopo decenni di campagne da parte delle vittime e delle organizzazioni della società civile. Difensori dei diritti umani e giornalisti sono stati molestati, minacciati o uccisi. Alcuni sono incorsi in accuse penali di natura politica. I migranti irregolari in transito hanno rischiato di essere vittime di uccisioni, rapimenti, estorsioni, violenze sessuali e tratta di esseri umani; raramente i responsabili di questi reati sono stati portati davanti alla giustizia. Nonostante le leggi per combattere la violenza contro le donne, la violenza di genere è rimasta la prassi in molti stati. I progetti di sviluppo e sfrut- tamento delle risorse naturali in diverse parti del paese, che colpivano direttamente le comunità native, hanno portato a proteste e richieste di un adeguato processo di consultazione e consenso.

CONTESTO Il governo ha proseguito il suo programma di riforma della legislazione riguardo al settore dell’energia, all’istruzione, alle telecomunicazioni e all’organizzazione politica del paese. Nonostante la pubblicazione del programma nazionale sui diritti umani, non ci sono state molte prove d’interventi concreti per af- frontare la situazione dei diritti umani. Diversi stati, tra cui Puebla, Quintana Roo, Chiapas e il Distretto Federale, hanno adottato norme sul- l’impiego della forza da parte degli agenti di pubblica sicurezza durante le manifestazioni, o hanno cercato di farlo. Queste modifiche non erano conformi agli standard internazionali sui diritti umani e mettevano a repentaglio le libertà d’espressione e d’associazione. Nello stato di Puebla, che aveva recentemente approvato questo genere di normativa, a fine anno alcuni poliziotti erano sotto inchiesta per la morte di un tredicenne, deceduto nel contesto di una manifestazione, verosimilmente a seguito di un uso eccessivo della forza. In seguito all’episodio le modifiche legislative sono state rimesse in discussione.

202 A novembre, il senato ha nominato il nuovo presidente della commissione nazionale sui diritti umani (Comisión nacional de derechos humanos – Cndh), per il periodo 2014-2019. Le organizzazioni per i diritti umani hanno richiesto piena consultazione e trasparenza, in conformità agli standard internazionali. Tuttavia, i senatori hanno concesso soltanto un incontro con la società civile, in cui un numero limitato di organizzazioni doveva presentare brevemente il proprio punto di vista, senza possibilità di ulteriore dibattito. I difensori dei diritti umani hanno ribadito le loro preoccupazioni circa l’inefficacia della Cndh nell’affrontare la grave situazione dei diritti umani e ha esortato la commissione ad adempiere al suo ruolo chiave nella protezione dei diritti umani e nella lotta al- l’impunità. In risposta alle imponenti manifestazioni per chiedere giustizia nel caso dei 43 studenti vittime di sparizione forzata, il presidente Peña Nieto il 27 novembre ha annunciato una serie di misure legislative e politiche, incluse modifiche costituzionali, che avrebbero messo la polizia locale sotto il controllo dello stato. Le misure dovevano essere implementate gradualmente, a partire dagli stati di Guerrero, Jalisco, Michoacán e Tamaulipas. Il presidente ha anche proposto la creazione del numero di emergenza nazionale 911 e zone economiche speciali nel sud impoverito del paese.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA Nonostante le affermazioni delle autorità secondo cui gli episodi legati alla criminalità organizzata erano diminuiti, la situazione è rimasta grave. Il numero complessivo di omicidi nei primi nove mesi dell’anno è stato di 24.746, rispetto ai 26.001 dei primi nove mesi del 2013. A settembre, uno studio ufficiale condotto a livello nazionale ha calcolato che il numero di rapimenti nel 2013 era arrivato a 131.946, rispetto ai 105.682 registrati nel 2012. L’esercito e la marina militare hanno continuato a svolgere compiti di mantenimento dell’ordine pubblico in molti stati, spesso operando senza un efficace accertamento delle responsabilità, con segnalazioni di detenzioni arbitrarie, tortura e altri maltrattamenti ed esecuzioni extragiudiziali. In risposta agli elevati livelli di violenza della criminalità organizzata, che ha frequentemente agito in collusione con le autorità locali, nello stato di Michoacán sono nati diversi gruppi civili di autodifesa. Di conseguenza, il governo federale ha impiegato in maniera massiccia le forze armate e la polizia federale, insieme a un nuovo commissario federale incaricato di supervisionare le politiche sulla si- curezza nello stato. I negoziati con diversi gruppi di autodifesa hanno portato a incorporarli come unità di polizia rurale nelle forze di pubblica sicurezza ufficiali. Le comunità native dello stato del Guerrero hanno denunciato l’arresto e il perseguimento penale di alcuni dei loro membri e leader. Queste comunità avevano in precedenza raggiunto alcuni accordi con il governo in merito alle attività di ordine pubblico che svolgevano nella loro zona, a fronte di un contesto ormai storico di degrado e dei crescenti livelli di criminalità. Tali azioni giudiziarie sono parse avere motivazioni politiche. A luglio, soldati hanno ucciso 22 persone ritenute appartenere a una banda armata a Tlatlaya, nello stato del Messico, in quello che le autorità militari hanno definito uno scontro a fuoco con uomini armati. Il procuratore federale non ha provveduto ad approfondire le indagini, malgrado la presenza di prove secondo cui alcune delle vittime erano state uccise a distanza ravvicinata. A settembre, i mezzi d’informazione hanno rivelato testimonianze secondo le quali, dopo un breve scontro a fuoco, molti degli uccisi erano stati vittime di esecuzione extragiudiziale dopo essersi arresi. L’8 novembre, sette militari sono stati incriminati e continuavano a essere sotto inchiesta per le esecuzioni ma

203 restava da chiarire se gli ufficiali che avevano cercato di coprire l’episodio sarebbero stati anch’essi perseguiti penalmente secondo il sistema di giustizia civile. Dopo alcuni rinvii, ad agosto sono iniziate le operazioni della nuova gendarmeria nazionale, dotata di 5000 agenti, in qualità di divisione della polizia federale. La gendarmeria era un corpo notevolmente ridotto rispetto a quanto era stato originariamente proposto. Il suo ruolo e le sue procedure operative sono rimaste poco chiare. Il governo non ha accolto le raccomandazioni che chiedevano di garantire forti strumenti per l’accertamento delle responsabilità, protocolli operativi e un’efficace supervisione delle operazioni al fine di prevenire le violazioni dei diritti umani. Il corpo è stato provvisoriamente schierato nello stato del Messico e del Guerrero con funzioni di ordine pubblico.

SPARIZIONI FORZATE Rapimenti e sparizioni forzate sono continuati a un ritmo elevato. La sorte delle vittime è rimasta per lo più sconosciuta. Durante l’anno, le autorità federali hanno rilasciato una serie di dichiarazioni contraddittorie riguardo al numero di persone che sarebbero state vittime di sparizione o che erano date per disperse e delle quali si erano perse le tracce. Ad agosto, il governo ha ammesso che circa 22.611 persone risultavano disperse, 9790 delle quali erano scomparse durante l’attuale ammini- strazione e 12.821 durante l’amministrazione del presidente Felipe Calderón (dal 2006 al 2012). Il governo non ha rivelato pubblicamente in che modo era arrivato a questo dato. L’impunità è rimasta la norma nei casi di sparizione forzata. Ad aprile, l’esecutivo ha dichiarato che erano stati raggiunti soltanto sette verdetti di colpevolezza per il reato di sparizione forzata a livello federale, tutti tra il 2005 e il 2010. A settembre, la polizia municipale della cittadina di Iguala, in collusione con la criminalità organizzata, si è resa responsabile della sparizione forzata di 43 studenti di un istituto professionale per insegnanti di Ayotzinapa, nello stato del Guerrero. Le indagini hanno portato alla scoperta di diverse fosse comuni e di una discarica contenente resti umani. A novembre, il procuratore generale federale ha annunciato che la linea principale delle indagini, che si basava sulle testimonianze di tre appartenenti a una banda criminale apparentemente coinvolti nel caso, indicava che gli studenti erano stati uccisi, bruciati e gettati in un fiume. Il suo annuncio non faceva riferimento ai livelli d’impunità ge- nerale, corruzione e mancata soluzione dei casi di sparizione in Messico. Il 7 dicembre, il procuratore generale a livello federale ha annunciato che i resti di uno degli studenti erano stati identificati da esperti forensi indipendenti. A fine anno, non si sapeva ancora nulla di dove si trovassero gli altri 42. In relazione al caso sono stati arrestati oltre 70 tra funzionari pubblici locali e membri di bande criminali. Non sono state fornite informazioni sull’eventuale responsabilità, diretta o indiretta, di funzionari pubblici a livello statale o federale.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Sono rimasti diffusi in tutto il paese i casi di detenzione arbitraria e di tortura e altro maltrattamento per mano di membri delle forze armate, sia a livello federale sia statale sia delle forze di polizia mu- nicipale. Queste violazioni sono state frequentemente commesse al fine di estorcere “confessioni” e altre informazioni utilizzate nelle indagini penali o per altri scopi, come ad esempio l’estorsione. No- nostante le decine di denunce presentate a livello sia federale sia statale, i procedimenti giudiziari avviati sono stati pochi e quasi nessuno di questi ha portato a una condanna dei funzionari pubblici responsabili.

204 Come negli anni precedenti, la procedura speciale in base alla quale la procura generale della repubblica è tenuta a disporre una valutazione medica per i presunti casi di tortura non è stata applicata nella maggior parte dei casi. Nella minoranza dei casi in cui ciò è avvenuto, la procedura ha puntualmente determinato un esito sfavorevole al querelante. Le autorità in linea generale non hanno applicato la procedura prevista dai principi del Protocollo di Istanbul, come la tempestività e la comunicazione dei risultati completi alle vittime. In due casi eccezionali, la procura generale della repubblica ha archiviato le accuse a carico delle vittime di tortura, dopo aver alla fine accettato le prove secondo cui queste erano state torturate per costringerle ad autoaccusarsi falsamente. Le vittime avevano trascorso dai tre ai cinque anni in detenzione preprocessuale. Gli esami medici indi- pendenti, condotti in linea con il Protocollo di Istanbul, hanno avuto un’importanza fondamentale per dimostrare che erano state torturate. A maggio, la Corte suprema nazionale ha reso pubblica la sua sentenza del 2013 relativa al caso di Israel Arzate, arbitrariamente arrestato e torturato da ufficiali dell’esercito allo scopo d’implicarlo penalmente nel massacro di Villas de Salvárcar, risalente al 2010. La sentenza ha stabilito importanti criteri relativi all’inammissibilità delle prove derivanti da una detenzione illegale e agli obblighi d’in- dagare le accuse di tortura. Tuttavia, la sentenza non ha assunto rilevanza di precedente vincolante per altri tribunali.

SISTEMA GIUDIZIARIO Le autorità di pubblica sicurezza e della giustizia penale hanno frequentemente ignorato le violazioni dei diritti umani, continuando a dimostrarsi inefficaci nell’indagare e perseguire sia i reati comuni sia le violazioni dei diritti umani, rafforzando il clima d’impunità e di sfiducia nel sistema giudiziario. A marzo, è entrato in vigore un nuovo codice nazionale di procedura penale valido in tutte le giuri- sdizioni del sistema giudiziario federale e statale, nel contesto di una graduale riforma. Il governo ha sostenuto che l’applicazione del codice avrebbe migliorato la protezione dei diritti umani, rendendo inammissibili le prove derivanti da violazioni dei diritti umani, come detenzioni illegali e tortura. Tuttavia, il codice non era ancora stato applicato né erano stati definiti i criteri di esclusione delle suddette prove. A gennaio, è stata istituita la commissione esecutiva per l’attenzione alle vittime, secondo quanto previsto dalla legge nazionale per fornire un miglior accesso alla giustizia e alla riparazione alle vittime di reati, comprese le violazioni dei diritti umani. Questa andava a sostituire la figura del pro- curatore sociale per le vittime del crimine ma non era chiaro se il nuovo organismo disponesse di risorse e poteri sufficienti a soddisfare le loro esigenze. Il regolamento attuativo della legge nazionale sulle vittime non era stato ancora approvato, limitando pertanto la piena applicazione della legge. A giugno, sono entrati in vigore emendamenti al codice di giustizia militare. Tali riforme, ottenute dopo anni di campagne da parte di vittime e organizzazioni per i diritti umani, escludevano dal sistema di giustizia militare i reati commessi da membri delle forze armate contro civili. Le riforme non escludevano tuttavia dalla giurisdizione militare le violazioni dei diritti umani commesse contro membri delle forze armate. Nonostante ciò, si trattava di un importante passo avanti nella lotta al- l’impunità per gli abusi commessi da personale militare. A fine anno, quattro membri dell’esercito ri- manevano detenuti secondo il sistema di giustizia civile, in quanto accusati di essere coinvolti nello stupro di due donne native, Inés Fernández Ortega e Valentina Rosendo Cantú, avvenuto nel 2002.

205 DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI E GIORNALISTI Molti difensori dei diritti umani e giornalisti sono stati minacciati, aggrediti o uccisi per aver svolto il loro legittimo lavoro. Non sono noti casi in cui i responsabili di questi episodi siano stati identificati o assicurati alla giustizia. Ciò era in larga parte dovuto a indagini lacunose, spesso dovute al disin- teresse delle autorità, in particolare a livello statale. Questa situazione d’impunità pervasiva ha ac- cresciuto il clima d’insicurezza in cui operavano i difensori dei diritti umani e i giornalisti. Il meccanismo di protezione dei difensori dei diritti umani e dei giornalisti, un organismo federale, ha annunciato a novembre di aver ricevuto 72 casi nei primi nove mesi dell’anno. In linea generale, questo ha continuato a non fornire una protezione tempestiva ed efficace. Le misure di protezione ac- cordate spesso facevano affidamento sul supporto delle autorità locali, anche in quei casi in cui proprio le autorità locali erano ritenute coinvolte nelle aggressioni. Diversi beneficiari delle misure di protezione sono stati temporaneamente costretti a lasciare le loro comunità per motivi di sicurezza. Altri difensori e giornalisti hanno continuato ad attendere che il meccanismo riesaminasse i loro casi. Diversi difensori dei diritti umani e attivisti delle comunità sono incorsi in procedimenti giudiziari per rispondere di accuse che sono parse di natura politica, come ritorsione per le loro legittime attività, inclusa la partecipazione a eventi di protesta. Molti hanno dovuto affrontare lunghe battaglie legali in procedimenti giudiziari iniqui per provare la loro innocenza.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE La violenza contro donne e ragazze è rimasta endemica in tutto il paese, con stupri, rapimenti e uccisioni. Ancora una volta le autorità a vari livelli non hanno provveduto ad applicare le misure previste dalla legge o altri provvedimenti amministrativi per migliorare la prevenzione, la protezione e le indagini sul piano della violenza di genere. Il sistema nazionale per prevenire, punire e sradicare la violenza contro le donne (Sistema nacional para prevenir sancionar y erradicar la violencia contra las mujeres – Snpasevm) non ha applicato l’“allerta di genere”, uno strumento appositamente studiato per mobilitare le autorità a combattere il dilagare della violenza di genere e stimolare una ferma ed efficace risposta ai casi di violenza. A gennaio, la Corte suprema nazionale ha ordinato il rilascio di Adriana Manzanares Cayetano, una donna nativa che aveva scontato sei dei 22 anni di carcere a cui era stata condannata, dopo essere stata giudicata colpevole dell’uccisione del suo neonato. Durante il processo, erano state trascurate le prove che il bambino era nato morto ed erano stati violati i suoi diritti a una difesa efficace e alla presunzione d’innocenza, portando così a un verdetto che non aveva provato che la donna era colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio.

RIFUGIATI E MIGRANTI Lo stato d’insicurezza e di deprivazione sociale nei loro paesi d’origine ha spinto un numero crescente di migranti centramericani, in particolare minori non accompagnati, ad attraversare il Messico per raggiungere gli Usa. I migranti hanno continuato a essere vittime di omicidi, rapimenti ed estorsioni per mano delle bande criminali, che spesso hanno agito in collusione con funzionari pubblici. Donne e minori sono stati in particolar modo a rischio di abusi sessuali e della tratta di esseri umani. Sono stati continuamente segnalati casi di maltrattamento da parte di poliziotti e funzionari dell’immigra- zione durante gli arresti. È proseguito il ricorso alla detenzione amministrativa per i migranti irregolari in attesa dell’espulsione. I difensori dei diritti dei migranti, che fornivano loro rifugi sicuri e denunciavano gli abusi di cui erano

206 vittime, hanno continuato a subire minacce e intimidazioni. Molti hanno ottenuto misure di protezione ma in alcuni casi queste non sono state applicate in modo efficace e non hanno impedito il proseguire delle minacce. I responsabili di queste azioni non sono stati portati davanti alla giustizia.

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE Le comunità native hanno continuato a subire discriminazioni nel sistema di giustizia penale, oltre che ad avere un accesso limitato a servizi di primaria necessità, come acqua, alloggio e assistenza sanitaria. La mancanza di una concreta consultazione delle comunità native al fine di ottenere il loro consenso libero, anticipato e informato, in merito a progetti di sviluppo che avrebbero colpito le loro terre e il loro stile di vita tradizionale ha provocato proteste e contenziosi. Questi hanno a loro volta determinato minacce e aggressioni contro leader comunitari e in alcuni casi azioni penali contro attivisti, palesemente basate su imputazioni di natura politica.

VAGLIO INTERNAZIONALE A marzo, il Messico ha accettato 166 delle 176 raccomandazioni dell’Esame periodico universale del Messico, formulate dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. A maggio, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura ha visitato il Messico e reso note le sue conclusioni preliminari, secondo le quali nel paese tortura e altri maltrattamenti rimanevano un fenomeno endemico. A giugno, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali ha pubblicato il rapporto relativo alla sua missione condotta in Messico agli inizi del 2013, in cui venivano evidenziati gli elevati livelli di omicidi e d’impunità. Ad agosto, il Relatore speciale sui diritti dei migranti della Commissione interamericana dei diritti umani ha reso pubblico il rapporto sulla sua visita in Messico. L’articolato documento denunciava la violenza pervasiva contro i migranti, il diniego delle procedure dovute e delle tutele giudiziarie e altre violazioni dei diritti umani.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Un progetto di legge sulle telecomunicazioni minacciava di conferire alle autorità poteri potenzialmente arbitrari su Internet e di determinare un insufficiente controllo giudiziario sulle intercettazioni delle comunicazioni elettroniche.

NICARAGUA

REPUBBLICA DEL NICARAGUA

Capo di stato e di governo: Daniel Ortega Saavedra

Il governo ha apportato modifiche molto preoccupanti alla legge integrale contro la violenza sulle donne. L’aborto è rimasto illegale in ogni circostanza.

207 CONTESTO A febbraio sono entrati in vigore emendamenti alla costituzione che consentono al presidente di essere eletto con una maggioranza semplice. Sono stati inoltre eliminati i limiti alla rielezione del presidente a più mandati consecutivi. A maggio, il Sottocomitato delle Nazioni Unite sulla prevenzione della tortura ha espresso profonda preoccupazione per la situazione delle persone sottoposte alla privazione della libertà nel paese. La situazione dei diritti umani del Nicaragua è stata analizzata secondo l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite. Il governo ha accettato le raccomandazioni riguardanti la discriminazione contro le popolazioni native e le persone d’origine africana ma ha respinto le richieste di depenalizzare l’aborto e di aderire a ulteriori strumenti internazionali sui diritti umani. In due episodi distinti occorsi il 19 luglio, alcune persone che si dirigevano verso casa, dopo aver par- tecipato alle celebrazioni dell’anniversario della rivoluzione sandinista, sono state raggiunte da colpi d’arma da fuoco. Cinque persone hanno perso la vita e altre 19 sono rimaste ferite. A ottobre, 12 uomini sono stati processati e condannati a pene comprese tra i due e i 30 anni di carcere per l’attacco. Tre hanno testimoniato in tribunale di essere stati torturati e costretti a confessare, facendo dubitare sulle indagini e sull’equità del processo.

DIRITTI DELLE DONNE Le riforme approvate a settembre 2013 hanno indebolito l’efficacia della legge integrale contro la violenza sulle donne (Legge 779), introdotta nel 2012. A seguito delle modifiche, alle donne che spor- gevano denuncia per violenza domestica poteva essere offerto un patteggiamento con i loro aggressori, nei casi giudiziari che implicavano reati punibili con pene inferiori ai cinque anni di carcere, come lesioni aggravate, sottrazione dei figli e minacce. Ciò significava che le donne avrebbero potuto trovarsi nella situazione di dover affrontare i loro aggressori nel processo di patteggiamento, mentre coloro che erano indagati per gli abusi avrebbero potuto non essere affatto chiamati a rispondere dei loro crimini. Secondo l’Ngo Rete delle donne contro la violenza (Red de mujeres contra la violencia), sette delle 47 donne uccise nei primi sei mesi dell’anno avevano avuto un patteggiamento con il partner violento. Un decreto esecutivo emanato a luglio ha rinforzato l’aspetto del patteggiamento introdotto dalla legge e ridotto la definizione di femminicidio a uccisione di una donna all’interno di una relazione. Il decreto esecutivo ha sollevato timori sull’uso del patteggiamento rispetto alla ripa- razione per la violenza contro le donne. Sono stati depositati numerosi ricorsi giudiziari contro il decreto, presso la Corte suprema di giustizia. L’aborto è rimasto illegale in ogni circostanza. Da quando fu introdotto il divieto assoluto d’aborto nel 2006, la Corte suprema di giustizia ha ricevuto decine di ricorsi. Tuttavia, la Corte non aveva ancora espresso il proprio parere in merito. L’8 marzo, Giornata internazionale della donna, la polizia ha bloccato una manifestazione organizzata per dare rilievo al problema delle disuguaglianze di genere e della violenza contro le donne. Attivisti per i diritti umani delle donne hanno sostenuto di aver ricevuto l’autorizzazione necessaria per l’evento e temevano che il blocco significasse un’ulteriore limitazione alle iniziative della società civile indi- pendente.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Non sono stati compiuti progressi nelle indagini sulle accuse di percosse ai danni di studenti e cittadini

208 anziani che avevano manifestato a Managua, a giugno 2013, da parte d’individui ritenuti sostenitori del governo, mentre i poliziotti rimanevano impassibili. Oltre 100 studenti erano andati a sostenere una manifestazione organizzata da gruppi di cittadini anziani per chiedere un trattamento pensionistico statale minimo.

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE A marzo, gruppi nativi, afroamericani e altri hanno espresso preoccupazione per la decisione del governo di rilasciare una concessione per la costruzione di un importante progetto infrastrutturale, conosciuto come Gran canal interoceanico, un canale per collegare l’Atlantico al Pacifico. Tra le varie preoccupazioni sollevate, i gruppi sostenevano che la concessione era stata accordata senza il consenso libero, anticipato e informato delle comunità native, il cui territorio sarebbe stato attraversato dal canale. I lavori sono iniziati a dicembre, suscitando proteste che hanno portato a scontri con i manifestanti e denunce di pestaggi degli arrestati da parte della polizia.

PANAMA

REPUBBLICA DI PANAMA

Capo di stato e di governo: Juan Carlos Varela (subentrato a Ricardo Martinelli a luglio)

L’ex presidente Manuel Noriega ha affrontato nuovi processi in relazione alle violazioni dei diritti umani che ebbero luogo durante la sua presidenza e all’uccisione di un soldato risalente al 1969. Non è stata ancora istituita una commissione nazionale speciale per la ricerca delle vittime di sparizione forzata. I diritti delle popolazioni native sono stati minacciati da progetti idroelettrici. Le autorità hanno impedito a Ngo locali di svolgere la loro attività di assistenza nelle istanze di reclamo per le dure condizioni nelle carceri.

CONTESTO A luglio, Juan Carlos Varela ha prestato giuramento come presidente. Ad agosto, il Gruppo di lavoro di esperti delle Nazioni Unite sulle persone di discendenza africana ha osservato che, malgrado l’adozione di una legislazione antidiscriminazione, i casi di discriminazione razziale erano ricorrenti e le persone di discendenza africana, pari a circa il 10 per cento della popolazione, continuavano a essere emarginate sul piano politico, sociale ed economico.

IMPUNITÀ A settembre, la Corte suprema di giustizia ha stabilito che Manuel Noriega, ex leader de facto del paese dal 1983 al 1989, doveva affrontare un processo per il presunto ruolo svolto nell’uccisione di un soldato nel 1969. La decisione è arrivata mentre Noriega stava già scontando la condanna per

209 l’uccisione di due oppositori politici. Era inoltre sotto processo in relazione alle sparizioni forzate e alle uccisioni che ebbero luogo durante la sua presidenza. Nonostante gli impegni precedentemente assunti di cercare le persone che furono vittime di sparizione forzata durante gli anni Settanta e Ottanta, il governo non ha compiuto progressi in tal senso. A fine anno non era stata ancora istituita una commissione nazionale speciale per la ricerca delle vittime di sparizione forzata, che il governo si era impegnato a creare nel 2012.

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE A febbraio, aprile e maggio ci sono state proteste nella zona di Barro Blanco, sfociate in scontri tra membri della comunità nativa ngöbe-buglé e la polizia. I ngöbe-buglé si opponevano alla costruzione di una grande diga idroelettrica sulle loro terre, affermando che il conseguente allagamento della zona li avrebbe lasciati senza casa. Sostenevano inoltre che non era stato rispettato il loro diritto a essere consultati in merito al progetto prima dell’avvio dei lavori di costruzione. A maggio, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti delle popolazioni native ha osservato che benché il sistema delle comarca, un tipo di suddivisione amministrativa del territorio delle popolazioni native, offrisse un certo grado di protezione, erano necessari maggiori sforzi per tutelare i loro diritti sulla terra. Il Relatore speciale ha raccomandato a Panama di garantire la consultazione delle popo- lazioni native e il loro consenso libero e informato, prima della decisione di realizzare progetti di ampia portata sulle loro terre o su terreni adiacenti. Ha inoltre esortato Panama ad accrescere gli sforzi per migliorare l’accesso delle popolazioni native all’assistenza sanitaria, all’istruzione e allo sviluppo economico. In relazione alla diga di Barro Blanco, ha raccomandato la sospensione dell’al- lagamento delle zone interessate fino al raggiungimento di un accordo con la comunità ngöbe-buglé.

CONDIZIONI CARCERARIE Ad aprile, Ngo locali per i diritti umani hanno scritto al Sottocomitato delle Nazioni Unite sulla pre- venzione della tortura e altra pena o trattamento crudele, disumano o degradante e alla Commissione interamericana dei diritti umani, esprimendo preoccupazione per il fatto che le autorità stavano im- pedendo loro di accedere alle carceri, ostacolando il loro lavoro di assistenza nelle istanze di reclamo per le condizioni disumane nelle carceri.

PARAGUAY

REPUBBLICA DEL PARAGUAY

Capo di stato e di governo: Horacio Manuel Cartes Jara

Nonostante alcuni passi avanti, alle popolazioni native ha continuato a essere negato l’accesso alle terre ancestrali. È persistita l’impunità per le violazioni dei diritti umani. L’aborto è rimasto un reato in gran parte dei casi.

210 DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE È stato compiuto qualche progresso per risolvere le istanze legate alla terra di alcune comunità native ma ad altre ha continuato a essere negato l’accesso alle terre ancestrali. A giugno, è stata approvata una legge sull’espropriazione per restituire alla comunità sawhoyamaxa la loro terra ancestrale. La comunità viveva da oltre 20 anni in condizioni deplorevoli sul ciglio di una strada trafficata.1 A settembre, la Corte suprema ha rigettato un ricorso costituzionale per la revoca della legge sull’espropriazione. A fine anno, la comunità yakye axa non aveva ancora potuto reinsediarsi sul suo territorio, malgrado un accordo stipulato a gennaio 2012 tra le autorità e il proprietario terriero, poiché la strada d’accesso per raggiungere l’area non era ancora pronta. A maggio, agenti di polizia hanno effettuato un raid presso la comunità y’apo ava guaraní, nel dipar- timento di Canindeyú, a seguito di un’ordinanza giudiziaria di sgombero. La comunità era fuggita prima del raid. Sono stati denunciate distruzioni di case e di templi sacri. A giugno, la comunità ha riferito che guardie giurate private avevano cercato nuovamente di sgomberare con la forza la comunità, che molti membri della stessa erano rimasti feriti e che una persona che stava attuando lo sgombero era morta. A fine anno, erano in corso indagini sugli eventi. La comunità sosteneva che la zona faceva parte della loro terra ancestrale. Nel 2001, un’ingiunzione di tribunale aveva confermato il possesso della terra da parte della comunità; tuttavia, ad aprile, una società che rivendicava la proprietà sulla terra ha presentato ricorso. A fine anno si attendeva ancora un pronunciamento del tribunale.

IMPUNITÀ A fine anno erano in corso i procedimenti giudiziari a carico di 12 campesino (contadini) per il loro presunto coinvolgimento nell’uccisione di sei poliziotti e per altri reati nel contesto di una disputa sulla terra risalente al 2012, nel distretto di Curuguaty. Durante gli scontri erano morti anche 11 con- tadini; tuttavia, nessuno è mai stato incriminato per le loro morti, sollevando dubbi circa l’imparzialità delle indagini.2 Ad aprile, la Federazione nazionale Aché ha intentato una causa penale in Argentina, in aggiunta a quella già stata presentata nel 2013 dalle vittime di violazioni dei diritti umani commesse durante il regime del generale Alfredo Stroessner (1954-1989), in considerazione della persistente riluttanza da parte delle autorità paraguayane a indagare su questi crimini. La denuncia era soggetta a un’indagine condotta in base alla giurisdizione universale.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Il meccanismo nazionale di prevenzione della tortura, un organismo di recente costituzione, ha pub- blicato il suo primo rapporto ad aprile, rilevando che l’assenza di sanzioni e indagini in merito alle accuse di tortura e altri maltrattamenti era stata una delle principali cause della diffusione della tortura nel paese. Il meccanismo ha anche espresso grave preoccupazione per le difficili condizioni nelle carceri, incluso il sovraffollamento. A fine anno erano in corso indagini relative alle accuse di tortura di campesino durante gli scontri occorsi nel distretto di Curuguaty nel 2012. Quattro guardie carcerarie erano sotto inchiesta in relazione alla morte di due adolescenti e al ferimento di almeno altri tre giovani durante le rivolte che si sono tenute ad aprile e agosto nel centro correzionale minorile di Itauguá.

211 DIRITTI DI DONNE E RAGAZZE Una legge presentata al congresso nel 2012 per prevenire, sanzionare e sradicare la violenza sessuale e di genere era ancora in attesa di approvazione. Ad agosto, il senato ha approvato una legge che modifica l’articolo del codice penale che sanziona la violenza domestica soltanto nel caso in cui l’aggressione sia reiterata. La riforma propone di sanzionare il reato anche quando questo è commesso una sola volta e di aumentare le sanzioni previste. A fine anno era in attesa di approvazione finale da parte della camera bassa. Ad agosto, Lucía Sandoval è stata prosciolta dall’accusa di aver ucciso suo marito nel 2011, in un contesto di violenza domestica. La donna aveva trascorso tre anni in detenzione in attesa del processo. La corte ha ritenuto che gli elementi presentati a carico della donna erano insufficienti a provare un suo coinvolgimento nell’uccisione e ne ha disposto il rilascio. Il caso ha sollevato preoccupazioni per l’assenza di misure appropriate in grado di proteggere le donne che sopravvivono alla violenza domestica in Paraguay. A fine anno pendeva un ricorso contro la decisione del tribunale. L’aborto è rimasto reato nella maggior parte dei casi, anche quando la gravidanza era il risultato di uno stupro o un incesto o nei casi in cui il feto non avrebbe potuto sopravvivere al di fuori del grembo materno. L’aborto era permesso soltanto nel caso in cui la gravidanza comportasse un rischio per la vita o la salute della donna o ragazza.

DISCRIMINAZIONE A novembre, il senato ha respinto una normativa per prevenire e combattere la discriminazione in tutte le circostanze.

COMMERCIO DI ARMI È stata approvata una legge per la ratifica del Trattato sul commercio di armi.

Note 1. Paraguay: Celebrations as law will return ancestral land to Indigenous community after two decades of destitution (NWS 11/109/2014), www.amnesty.org/en/news/paraguay-celebrations-law-will-return-ancestral-land-indigenous-community- after-two-decades-des 2. Paraguay: No justice for peasants in forced eviction killings (NWS 11/111/2014), www.amnesty.org/en/news/paraguay- no-justice-peasants-forced-eviction-killings-2014-06-15

PERÙ

REPUBBLICA DEL PERÙ

Capo di stato e di governo: Ollanta Moisés Humala Tasso

Ci sono state aggressioni contro attivisti e persone critiche verso il governo. Sono stati segnalati episodi di uso eccessivo della forza da parte della polizia. I diritti delle popolazioni native a un’adeguata

212 consultazione e a un consenso adeguato, libero, anticipato e informato non sono stati rispettati. I diritti sessuali e riproduttivi non sono stati garantiti. L’impunità è rimasta motivo di preoccupazione.

CONTESTO I conflitti sociali e le proteste nelle comunità interessate da progetti di sviluppo dell’industria estrattiva sono rimaste diffuse. Alcune proteste sono sfociate in scontri con le forze di sicurezza. Almeno quattro membri delle forze di sicurezza sono stati uccisi e altri sette sono rimasti feriti nel corso di scontri con irriducibili del gruppo armato d’opposizione Sendero luminoso. A giugno il congresso ha approvato l’istituzione di uno strumento nazionale per prevenire la tortura e altri maltrattamenti. A fine anno, questo non era stato ancora implementato in quanto mancava ancora la ratifica del presidente. Hanno destato grave preoccupazione le condizioni in cui erano tenuti oltre 100 prigionieri del carcere di Challapalca, situato a oltre 4600 m sul livello del mare, nella regione di Tacna. L’inaccessibilità del carcere per le famiglie dei reclusi, i medici e gli avvocati ha limitato il diritto dei prigionieri di ricevere visite e costituiva trattamento crudele, disumano e degradante. A luglio, il congresso ha approvato il secondo piano nazionale biennale per i diritti umani, in un clima di preoccupazione per l’esplicita esclusione dei diritti delle persone Lgbti, oltre che per il fatto che il piano non disponeva di risorse sufficienti a garantirne la piena operatività. A fine anno non era stata ancora discussa al congresso una legge che avrebbe garantito parità di diritti alle coppie omosessuali.

REPRESSIONE DEL DISSENSO Attivisti e persone critiche verso il governo, compresi difensori dei diritti umani, hanno continuato a essere vittime di aggressioni, in particolare coloro che erano impegnati nella difesa dei diritti delle comunità colpite da progetti di sviluppo dell’industria estrattiva. Le forze di sicurezza e il personale della vigilanza privata della compagnia mineraria aurifera Yanacocha hanno intimidito e aggredito Máxima Chaupe, la sua famiglia e altri appartenenti alle co- munità native e contadine, nelle province di Cajamarca, Celendín e Hualgayoc-Bambamarca, nella regione di Cajamarca. Questi si opponevano al progetto minerario sulle loro terre, sostenendo di non essere stati consultati e che il loro diritto all’acqua e ai mezzi di sussistenza era sotto minaccia. A maggio, la Commissione interamericana dei diritti umani ha richiesto l’adozione di misure precauzionali nel loro interesse. A fine anno, non era stata garantita alcuna protezione.

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE A settembre, i leader nativi Edwin Chota Valera, Jorge Ríos Pérez, Leoncio Quinticima Meléndez e Francisco Pinedo, della comunità nativa asháninka dell’Alto Tamaya-Saweto, nella regione di Ucayali, sono stati uccisi da sospetti taglialegna illegali, come rappresaglia per il loro attivismo contro la de- forestazione illegale sulle loro terre ancestrali. Prima dell’attacco, membri della comunità avevano espresso preoccupazione per la loro incolumità e le autorità non erano intervenute per proteggerli. A fine anno era stata aperta un’indagine. Tuttavia, permanevano preoccupazioni per la sicurezza dei familiari degli uccisi. Malgrado alcuni sforzi per dare applicazione alla legge del 2011, che garantisce il diritto a un consenso libero, anticipato e informato alle popolazioni native, ha destato preoccupazione la mancanza di una

213 chiara metodologia e coerenza nella sua applicazione prima del rilascio delle concessioni alle industrie estrattive. A gennaio, le autorità hanno autorizzato l’espansione del progetto di estrazione del gas naturale della Camisea, nella regione di Cuzco, indipendentemente dal fatto che nessuna delle comunità native che sarebbero state colpite dal progetto avesse dato il consenso e che quasi un quarto del territorio interessato fosse occupato dalle popolazioni native che vivevano in isolamento volontario. A maggio, è iniziato il processo a carico di 53 persone, compresi membri di comunità native e loro leader. Erano stati accusati della morte di 12 poliziotti, durante un’operazione condotta dalla polizia e dai militari per disperdere un blocco stradale organizzato da alcuni nativi a Bagua, nella regione dell’Amazzonia, nel 2009. In tutto erano morte 33 persone, compresi 23 agenti di polizia, e oltre 200 erano rimaste ferite. Nessun poliziotto o militare è stato chiamato a rispondere per le violazioni dei diritti umani commesse contro i civili.

IMPUNITÀ

Uso eccessivo della forza Almeno nove persone sono state uccise e decine sono rimaste ferite, in un contesto preoccupante nel quale le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza durante eventi di protesta per tutto l’anno. A fine 2014, non si era conoscenza d’indagini avviate sui decessi. Si è temuto che una nuova legge approvata a gennaio potesse perpetuare il clima d’impunità. La nuova legislazione esentava le forze di sicurezza dalla responsabilità penale in caso di uccisione o ferimento di persone durante l’espletamento del servizio. A febbraio, quattro poliziotti, sotto processo per la loro responsabilità nella morte di tre manifestanti a Huancavelica nel 2011, sono stati prosciolti poiché il giudice aveva applicato retroattivamente la legge. In seguito al ferimento di decine di ma- nifestanti durante le proteste, ci sono state accuse di uso eccessivo della forza.

Conflitto armato interno A 11 anni dalla pubblicazione del rapporto della commissione verità e riconciliazione, i progressi per garantire verità, giustizia e riparazione a tutte le vittime sono avanzati lentamente. Si è temuto che le forze armate continuassero a non voler collaborare con la magistratura e alcuni casi giudiziari sono stati chiusi poiché i giudici hanno stabilito che i reati erano ormai caduti in prescrizione.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI A gennaio, l’ufficio del pubblico ministero di Lima, la capitale, ha chiuso i fascicoli relativi a oltre 2000 donne native e campesino che sarebbero state sottoposte a sterilizzazione forzata nel corso degli anni Novanta. Al termine di un’indagine, avviata nel 2004 e durata quasi 10 anni, il procuratore aveva formulato accuse formali nei confronti di alcuni operatori sanitari, relative soltanto a uno dei suddetti casi. Nessuna delle autorità di governo è stata incriminata per il ruolo di responsabilità nel- l’applicazione del programma di pianificazione familiare che aveva determinato le sterilizzazioni. A giugno, il ministero della Salute ha adottato alcune linee guida tecniche per l’aborto terapeutico. Si è temuto che l’interpretazione restrittiva dell’aborto terapeutico nel protocollo potesse spingere le donne a cercare un’interruzione di gravidanza insicura e illegale, a causa degli ostacoli rappresentati dalle due condizioni d’accesso richieste, ossia la presenza e la firma di un testimone e l’approvazione di un comitato.

214 L’aborto nei casi di gravidanza provocata da uno stupro o da un incesto è rimasto un reato, così come è rimasta vietata la libera distribuzione della cosiddetta pillola del giorno dopo, anche nei casi di abuso sessuale. A fine anno, una bozza di legge per legalizzare l’aborto per le vittime di stupro, sostenuta da 60.000 firme, era in attesa di essere discussa dal congresso.

PORTORICO

COMMONWEALTH DI PORTORICO

Capo di stato: Barack Obama Capo di governo: Alejandro García Padilla

Il dipartimento di Giustizia americano ha continuato a chiedere l’imposizione della pena capitale per i reati federali. Nonostante alcuni miglioramenti a livello legislativo, il diritto delle persone Lgbti alla non discriminazione ha continuato a essere negato. Sono state abrogate le norme legislative che li- mitavano i diritti alla libertà di riunione e d’espressione.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A ottobre, un giudice del distretto federale statunitense di San Juan ha confermato che le unioni civili omosessuali rimanevano vietate nel territorio di Portorico. Il giudice ha stabilito che “poiché dalla co- stituzione non si evince alcun diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso il Commonwealth di Portorico non è tenuto a riconoscere tali unioni”. A fine anno presso la corte d’appello federale degli Usa pendeva un ricorso contro la sentenza. A febbraio 2013, la Corte suprema aveva affermato il divieto di adozione per le coppie omosessuali. Con un voto di cinque a quattro i giudici avevano stabilito la costituzionalità della legislazione porto- ricana, secondo la quale una persona non può adottare i figli del partner se l’adottante è dello stesso sesso del genitore biologico, a meno che questi non perda i diritti legali. Nel 2013 sono stati compiuti alcuni progressi per tutelare di fronte alla legge i diritti delle persone Lgbti, compresa una proposta legislativa che vietava la discriminazione sulla base dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale sui luoghi di lavoro e un progetto di legge per estendere le sal- vaguardie contro la violenza domestica anche alle coppie dello stesso sesso. Tuttavia, è stata cancellata una proposta di emendamento al codice penale che avrebbe reso la discriminazione contro le persone Lgbti un reato. A fine anno, il codice penale emendato era in attesa della controfirma del governatore Padilla.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI Non ha ottenuto i risultati sperati una campagna promossa dalla società civile per abrogare un emendamento del 2011 al codice penale che limitava il diritto di una donna di abortire soltanto in circostanze in cui la gravidanza avrebbe comportato rischi per la sua vita o salute e che puniva eventuali infrazioni alla legge con una sentenza prefissata a due anni di carcere. La norma del 2011

215 violava la sentenza stabilita dalla Corte suprema degli Usa nel caso Roe vs. Wade e la sentenza della Corte suprema di Portorico in Pueblo vs. Duarte.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA Ad aprile 2013, il governatore Padilla ha ritirato le disposizioni contenute nel codice penale, che sta- bilivano restrizioni al diritto alla libertà di riunione e d’espressione. Queste norme di legge avevano criminalizzato le proteste che si erano svolte all’interno delle scuole, università e strutture sanitarie, così come altre che avevano interessato le amministrazioni locali. A luglio 2013, il dipartimento di Giustizia americano e il governo di Portorico avevano raggiunto un accordo per riformare il corpo di polizia del paese, dopo che un rapporto federale del 2011 aveva ri- scontrato comportamenti incostituzionali da parte della polizia portoricana, compresi casi di uccisioni illegali. In base al programma di riforma imposto a livello federale, Portorico aveva l’obbligo di realizzare tali riforme entro dieci anni.

PENA DI MORTE In quanto stato associato agli Usa, Portorico era soggetto ad alcune leggi federali degli Usa. Benché la pena di morte sia stata abolita sull’isola nel 1929, il dipartimento di Giustizia americano ha tentato nel corso degli anni di richiedere l’imposizione della pena capitale per reati federali, in relazione ad alcuni casi giudiziari. Durante il 2013, in tre casi in cui la giustizia americana aveva ri- chiesto l’imposizione della pena di morte, la giuria portoricana si era espressa votando a favore del- l’ergastolo. A fine 2014, presso i tribunali portoricani non pendeva alcun procedimento capitale au- torizzato a livello federale.

STATI UNITI D’AMERICA

STATI UNITI D’AMERICA

Capo di stato e di governo: Barack Obama

Il presidente Obama ha ammesso che in seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001 era stata im- piegata la tortura, secondo quanto previsto da un programma di detenzione segreta autorizzato dal suo predecessore e operato dalla Cia. Tuttavia, non c’è ancora stato nessun accertamento delle re- sponsabilità né rimedi legali per i crimini di diritto internazionale commessi nel contesto di questo programma. A dicembre, è stata pubblicata la sintesi desecretata di un rapporto del senato sul pro- gramma. Decine di detenuti sono rimasti in detenzione a tempo indeterminato presso la base navale statunitense a Guantánamo Bay, a Cuba, mentre solo per pochi casi sono proseguiti i processi celebrati davanti a una commissione militare. Nelle carceri statali e federali hanno continuato a destare preoccupazione il ricorso all’isolamento prolungato e l’uso eccessivo della forza da parte della polizia. Durante l’anno sono stati messi a morte 33 uomini e due donne.

216 CONTESTO Nel corso dell’anno, gli Stati Uniti sono stati analizzati da tre organismi delle Nazioni Unite sui trattati. Ad aprile, il Comitato per i diritti umani ha criticato gli Usa per una serie di problematiche, compreso il mancato accertamento per gli abusi commessi nel contesto dell’antiterrorismo, il regime d’isolamento nelle carceri, le disuguaglianze razziali nel sistema di giustizia penale, le uccisioni mirate con droni, l’uso eccessivo della forza da parte di agenti di sicurezza, il trattamento dei migranti e la pena di morte.1 Ad agosto, il Comitato Cerd ha inoltre formulato numerose raccomandazioni agli Usa. A novembre, le osservazioni conclusive del Comitato contro la tortura riguardavano tematiche simili.2

IMPUNITÀ Ad agosto, il presidente Obama ha ammesso che gli Usa avevano fatto uso di tortura in risposta agli attacchi dell’11 settembre. Ha inoltre dichiarato che la tortura impiegata non riguardava soltanto il metodo conosciuto come waterboarding (esecuzione simulata tramite annegamento interrotto) ma anche “alcune” delle “tecniche rinforzate d’interrogatorio” previste dal programma. Nonostante l’am- missione, il presidente non ha fatto alcun riferimento a iniziative per accertare le responsabilità e fornire riparazione, confermando il continuo rifiuto da parte degli Usa di adempiere ai propri obblighi internazionali su queste tematiche. Inoltre, il presidente non ha menzionato la questione della sparizione forzata, un crimine di diritto internazionale, cui erano stati sottoposti la maggior parte, se non tutti, di coloro che erano stati trattenuti in base al programma segreto, alcuni anche per anni.3 Ad aprile, il comitato scelto sull’intelligence del senato (Select Committee on Intelligence – Ssci) ha votato a favore della desecretazione della sintesi del proprio rapporto sul programma di detenzione segreta e interrogatori della Cia, messo in atto tra il 2002 e il 2008. Il 9 dicembre è stata pubblicata una sintesi di 500 pagine contenente alcuni nuovi dettagli sul programma, la tortura e altre violazioni dei diritti umani commesse nel suo contesto. Il rapporto completo, di 6700 pagine, contenente i “dettagli riguardanti ciascuno dei detenuti in custodia della Cia, le condizioni in cui erano trattenuti, [e] come erano stati interrogati”, è rimasto classificato come “top secret”.

CONTROTERRORISMO – DETENZIONI A fine anno, 127 uomini erano trattenuti a Guantánamo, la maggior parte senza accusa né processo. Circa la metà aveva già ottenuto l’approvazione per il trasferimento fin dal gennaio 2010 o anche prima. Nel corso dell’anno, 28 detenuti sono stati trasferiti fuori dalla base, dopo che altri 11 erano stati spostati nel 2013. A maggio, il trasferimento in Qatar di cinque uomini afgani trattenuti a Guantánamo da oltre un de- cennio, in cambio di un soldato statunitense che si trovava in custodia dei talebani da cinque anni, ha suscitato l’opposizione del congresso, contrario all’obiettivo dichiarato dal presidente Obama di chiudere la struttura di detenzione.4 Durante l’anno, alcuni detenuti hanno iniziato scioperi della fame, sebbene in misura minore rispetto al 2013.5 La trasparenza delle autorità riguardo agli scioperi della fame è rimasta un problema, anche in seguito alla decisione, assunta verso la fine del 2013, di non rendere più pubblico il numero dei detenuti che adottavano questo tipo di proteste. Nel corso di una causa giudiziaria a maggio, il governo ha rivelato di essere in possesso di videoregistrazioni, classificate come segrete, in cui Abu Wa’el Dhiab, un uomo siriano trattenuto nella base ma in attesa di trasferimento dal 2009, veniva

217 trascinato con la forza fuori dalla cella e sottoposto ad alimentazione forzata. A ottobre, contro l’op- posizione del governo, un giudice distrettuale ha ordinato di desigillare l’elemento di prova della vi- deocassetta, dopo aver censurato alcune informazioni contenute nelle registrazioni. L’amministrazione è ricorso in appello e a fine anno il caso era ancora in sospeso presso la corte d’appello statunitense. A novembre, l’amministrazione statunitense ha riferito al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura che, in contrasto con le posizioni precedentemente assunte dal governo statunitense, gli Usa avevano ora deciso che la Convenzione contro la tortura era applicabile a Guantánamo e a bordo delle navi e dei velivoli a registrazione americana. A febbraio, Ahmed Mohammed al Darbi, un cittadino saudita arrestato dalle autorità civili in Azerbaigian nel giugno 2002 e trasferito alla custodia degli Usa due mesi dopo, si è dichiarato colpevole durante un’udienza davanti a un giudice di una commissione militare a Guantánamo e ha accettato di non intentare causa contro gli Usa per il trattamento subito in custodia. Il verdetto a suo carico ha portato a otto il numero dei detenuti giudicati colpevoli da una commissione militare dall’inizio delle detenzioni a Guantánamo nel gennaio 2002. Sei di loro erano stati condannati in base ad accordi di patteggiamento preprocessuali. Sono proseguiti i procedimenti preprocessuali davanti a una commissione militare a carico di cinque detenuti di Guantánamo, Khalid Sheikh Mohammed, Walid bin Attash, Ramzi bin al-Shibh, ‘Ali ‘Abd al-‘Aziz e Mustafa al Hawsawi, accusati di coinvolgimento negli attacchi dell’11 settembre. I cinque uomini, insieme ad ‘Abd al-Rahim al-Nashiri, chiamato in giudizio in un processo capitale nel 2011 per accuse relative al bombardamento del cacciatorpediniere Uss Cole, al largo delle coste dello Yemen nel 2000, erano stati trattenuti in incommunicado, in custodia segreta degli Usa, per periodi fino a quattro anni, prima di essere trasferiti a Guantánamo nel 2006. Il processo a loro carico a fine anno non era ancora iniziato. Il cittadino iraniano ‘Abd al Hadi al-Iraqi, che, secondo le notizie, fu arrestato in Turchia nell’ottobre 2006, consegnato alla custodia statunitense, trattenuto in segreto dalla Cia e quindi trasferito a Guantánamo nell’aprile 2007, è stato chiamato in giudizio a giugno. A fine anno, il processo a suo carico per capi d’imputazione derivanti dalla legge sulle commissioni militari (Military Commissions Act – Mca) era ancora in corso. A maggio, il generale consigliere per il dipartimento della Difesa americano ha affermato che l’am- ministrazione continuava a ricorrere all’autorizzazione per l’impiego di forza militare (Autorization for Use of Military Force – Aufm) del 2001, come base legale per le operazioni di detenzione in Afghanistan e a Guantánamo e per le “operazioni di cattura o letali” condotte altrove. Il generale ha citato il caso del cittadino libico Nazih Abdul-Hamed al-Ruqai, conosciuto anche come Abu Anas al-Libi, come esempio di un’operazione che si basava sull’Aumf. Abu al-Libi era stato rapito a Tripoli, in Libia, dalle forze statunitensi il 5 ottobre 2013 e interrogato a bordo dell’Uss San Antonio, prima di essere trasportato negli Usa e incriminato in relazione agli attentati dinamitardi alle due ambasciate americane in Kenya e Tanzania, nel 1998. Durante l’anno, nel corso del processo, l’avvocato di Abu al-Libi ha sostenuto che il rapimento era stato condotto “con l’utilizzo di forza fisica estrema e brutale” e che dopo aver trascinato il sospettato fuori dalla sua auto e “impiegato armi simili alle taser” contro di lui, le forze statunitense lo avevano bendato, “immobilizzato, imbavagliato e legato stretto”. Una volta a bordo della nave, era stato trat- tenuto in incommunicado e interrogato quotidianamente durante la settimana successiva, da personale della Cia e altri. Ha affermato di essere stato di fatto sottoposto a privazione del sonno, a causa delle

218 prolungate e continue sessioni d’interrogatorio. La sua detenzione in incommunicado e gli interrogatori sono stati interrotti a causa di una patologia che lo metteva a rischio di vita. A fine anno, il processo a suo carico era ancora in corso ma il 31 dicembre è stato portato in ospedale dove è morto il 2 gennaio 2015. Le forze statunitensi hanno catturato Ahmed Abu Khatallah vicino a Bengasi, in Libia orientale, il 15 giugno. Il 17 giugno, l’amministrazione americana ha inviato una nota al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in cui si affermava che l’operazione per trattenere in custodia Ahmed Khatallah era stata condotta in base al “diritto intrinseco di autodifesa” degli Usa, in quanto questi “continuava a pianificare ulteriori attacchi contro cittadini americani”. La lettera non forniva alcuna informazione circa la suddetta presunta pianificazione, il che rendeva impossibile dare una valutazione sul richiamo all’autodifesa invocato dagli Usa. A ottobre, Ahmed Khatallah è stato incriminato per capi d’imputazione che comportavano la pena capitale, in relazione a un attentato a una missione diplomatica statunitense avvenuto a Bengasi nel 2012, in cui furono uccisi quattro cittadini americani. A fine anno si trovava trattenuto in isolamento preprocessuale in Virginia.6 Durante l’anno, i rimanenti detenuti non afgani in custodia degli Usa presso la base aerea di Bagram, in Afghanistan, sono stati trasferiti alla custodia di altri governi. Ad agosto, due cittadini yemeniti trattenuti in custodia degli Usa in Afghanistan da oltre 10 anni sono stati trasferiti nello Yemen. A novembre, un cittadino russo, trattenuto in custodia militare a Bagram dal 2009, è stato trasferito negli Usa per essere processato da una corte federale per accuse di terrorismo. Ireq Ilgiz Hamidullin è divenuto il primo detenuto a essere trasferito direttamente negli Usa da Bagram, quasi 13 anni dopo l’inizio delle detenzioni presso la base. Redha al Najar, di nazionalità tunisina, è stato trasferito sotto la custodia afgana il 10 dicembre, il giorno dopo la pubblicazione della sintesi del rapporto dell’Ssci, nel quale il suo caso era citato tra uno di quelli che riguardavano l’uso della tortura nelle strutture segrete della Cia in Afghanistan, nel 2002. L’11 dicembre, il dipartimento della Difesa ha affermato che la struttura di detenzione di Bagram era ormai chiusa. A novembre, il presidente Obama ha affermato che erano in corso dibattiti tra il congresso e l’ammi- nistrazione su come “ridimensionare e aggiornare” l’Aumf, “per renderla adatta all’attuale lotta, piuttosto che alle lotte precedenti”.

CONDIZIONI CARCERARIE Decine di migliaia di prigionieri sono rimasti in isolamento nei penitenziari statali e federali in tutti gli Usa, confinati in celle per 22 ore su 24 al giorno, in condizioni di assoluta deprivazione sociale e ambientale. A febbraio, il sottocomitato alla giustizia del senato ha tenuto una seconda udienza sul regime di iso- lamento. Il senatore Durbin, che presiedeva l’udienza e che sollecitava la riforma di questa pratica, ha inoltre fatto pressione durante l’anno per l’apertura di un nuovo carcere federale che avrebbe am- pliato il numero delle celle federali d’isolamento. Il rapporto di Amnesty International sull’impiego a livello federale del regime di isolamento concludeva che le condizioni nell’attuale unico carcere di su- permassima sicurezza di Florence, in Colorado, violavano gli standard internazionali per il trattamento umano dei prigionieri.7 A ottobre, è stato patteggiato un accordo in una causa collettiva per conto di oltre 33.000 prigionieri delle carceri dello stato dell’Arizona. In base all’accordo, il dipartimento correzionale dell’Arizona

219 avrebbe consentito ai prigionieri confinati in isolamento con gravi malattie mentali di ricevere maggiori cure per le loro patologie e di trascorrere più tempo fuori dalle celle.

PENA DI MORTE Durante l’anno sono stati messi a morte 33 uomini e due donne. Considerando le esecuzioni di 38 uomini e una donna nel 2013, sono state 1394 le persone messe a morte da quando la Corte suprema degli Usa approvò nuove leggi capitali nel 1976. Il numero di esecuzioni effettuate nel corso dell’anno è stato il più basso dal 1994. Le persistenti dif- ficoltà incontrate dagli stati nell’ottenere le sostanze chimiche utilizzate per le iniezioni letali e le preoccupazioni suscitate da una serie di esecuzioni “malriuscite” hanno contribuito a questa dimi- nuzione. Le 79 condanne a morte comminate nel 2013 e un analogo numero nel 2014 hanno rappre- sentato una diminuzione di circa due terzi dalla metà degli anni Novanta. A fine anno, nel braccio della morte c’erano quasi 3000 uomini e circa 55 donne. L’inversione di rotta sulla pena di morte è proseguita con l’annuncio a febbraio da parte del governatore dello stato di Washington, che non avrebbe autorizzato altre esecuzioni finché fosse rimasto in carica. L’annuncio faceva seguito all’abolizione della pena capitale nel Maryland nel 2013, il 18° stato abo- lizionista, e a importanti segnali che lasciavano sperare che non ci sarebbero state altre esecuzioni in Colorado sotto l’attuale governatore dello stato. Le esecuzioni effettuate nel corso dell’anno sono avvenute in sette stati, due in meno rispetto al 2013. Il 89 per cento del numero di esecuzioni effettuate nell’intera nazione è avvenuto in appena quattro stati: Florida, Missouri, Oklahoma e Texas. A fine anno, il Texas era responsabile del 37 per cento di tutte le esecuzioni condotte negli Usa dal 1976. Il numero di persone messe a morte dal Texas per crimini che avevano commesso all’età di 17, 18 o 19 anni superava il numero di esecuzioni effettuate complessivamente da qualsiasi altro stato.8 Il 27 maggio, la Corte suprema degli Usa ha fatto chiarezza rispetto alla garanzia riservata agli imputati di processi capitali con disabilità intellettiva (precedentemente nota negli Usa come “ritardo mentale”). La Corte ha stabilito che la legge della Florida, in base alla quale un imputato capitale doveva mostrare un quoziente intellettivo pari o inferiore a 70, era incostituzionale in quanto impediva la presentazione di prove diverse dal quoziente intellettivo, che avrebbero dimostrato limitazioni nelle facoltà mentali dell’imputato.9 Gli avvocati di Ramiro Hernandez Llanas, un cittadino messicano nel braccio della morte del Texas, avevano richiesto una sospensione dell’esecuzione dopo la sentenza della Corte suprema, per permettere di valutarne l’impatto sul caso del loro assistito. La sospensione non è stata concessa e il prigioniero è stato messo a morte il 9 aprile, malgrado fosse indubbio che la sua disabilità mentale rendeva incostituzionale la sua esecuzione. A gennaio, il Texas ha messo a morte un altro cittadino messicano in violazione di un’ordinanza della Corte internazionale di giustizia e malgrado la Com- missione interamericana dei diritti umani avesse stabilito che all’imputato era stato negato un equo processo. A Edgar Arias Tamayo era stato negato il diritto a richiedere assistenza consolare dopo il suo arresto. A gennaio, la Florida ha messo a morte Askari Abdullah (in precedenza Thomas Knight) che era rimasto nel braccio della morte per 40 anni e che aveva una lunga storia di grave malattia mentale. A settembre, Earl Ringo, un uomo afroamericano, è stato messo a morte in Missouri malgrado le tesi secondo cui il procedimento giudiziario a suo carico era stato influenzato dall’aspetto razziale;

220 l’imputato era stato condannato a morte da una giuria composta soltanto da giurati bianchi in un processo in cui anche l’avvocato della difesa, il giudice e il procuratore erano bianchi.10 Durante l’anno, sette prigionieri precedentemente condannati sono stati rilasciati perché innocenti, portando a 150 il numero di questi casi registrato negli Usa dal 1973.

DIRITTI DELL’INFANZIA – ERGASTOLO SENZA POSSIBILITÀ DI LIBERTÀ PROVVISORIA Gli imputati che avevano meno di 18 anni all’epoca del reato hanno continuato a rischiare l’ergastolo senza la possibilità di libertà provvisoria. Gli stati hanno dato risposte diverse alla decisione della Corte suprema del 2012, nel caso Miller vs. Alabama, che giudicava illegale l’ergastolo senza pos- sibilità di libertà provvisoria per questa fascia d’età. A ottobre, otto corti supreme di stato avevano stabilito che la decisione del caso Miller era retroattiva, mentre quattro si erano pronunciate in maniera contraria. A dicembre, la Corte suprema statunitense ha accettato di riesaminare l’appello di un prigioniero condannato secondo il sistema di condanna obbligatoria all’ergastolo senza pos- sibilità di libertà provvisoria della Louisiana, per un crimine commesso quando aveva 17 anni, per decidere sulla questione della retroattività rispetto al caso Miller. A fine anno, il caso era ancora pendente. Ad agosto, l’associazione correzionale americana ha adottato una risoluzione che si opponeva all’er- gastolo senza possibilità di libertà provvisoria nei confronti di coloro che avevano meno di 18 anni al- l’epoca del reato e che appoggiava “le politiche giudiziarie che tenevano opportunamente conto dell’età dei minori colpevoli di reato, concentrandosi sulla riabilitazione e il reintegro nella società”.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Almeno 35 persone in 18 stati sono morte dopo essere state colpite da taser della polizia, portando a 602 il numero complessivo di questo tipo di decessi registrato dal 2001. Le taser sono citate come causa o concausa in più di 60 decessi. La maggior parte delle persone decedute dopo essere state colpite con una taser non era armata e non sembrava rappresentare una grave minaccia nel momento in cui era stato impiegato questo tipo di arma. Michael Brown, un afroamericano di 18 anni, è stato colpito mortalmente dall’agente di polizia Darren Wilson a Ferguson, in Missouri, il 9 agosto. La sparatoria ha innescato proteste durate per mesi a Fer- guson e dintorni. L’impiego di pesanti dispositivi antisommossa e di armamenti ed equipaggiamento di tipo militare per operazioni di ordine pubblico durante eventi di protesta aveva lo scopo d’intimidire manifestanti che esercitavano il loro diritto di riunione pacifica. L’utilizzo di proiettili di gomma, gas lacrimogeni e altre tattiche di dispersione aggressive non era stato autorizzato e aveva provocato il ferimento di manifestanti e giornalisti. Alcuni altri episodi occorsi hanno dimostrato come fosse necessaria una revisione degli standard sull’uso della forza negli Usa. Tali episodi comprendevano i seguenti casi: Kajieme Powell, un uomo di colore di 25 anni, morto per i colpi sparati dalla polizia di St. Louis il 19 agosto, come documentato da un filmato dell’episodio che sembrava contraddire l’iniziale versione dei fatti fornita dalle autorità; Ezell Ford, un uomo di colore di 25 anni, disarmato e con una storia di malattia mentale, morto in seguito ai colpi esplosi da agenti della polizia di Los Angeles l’11 agosto; Eric Garner, un uomo di colore di 43 anni, morto il 17 luglio dopo essere stato tenuto fermo con una stretta al collo da agenti del dipartimento di polizia di New York, mentre veniva arrestato per aver venduto sigarette sciolte prive di accisa. Dopo che il 3 dicembre un gran giurì ha deciso per il non rinvio a giudizio sul caso

221 Garner, il ministro della Giustizia ha annunciato un’indagine federale per violazione dei diritti civili sulla sua morte.

DIRITTI DEI MIGRANTI – MINORI NON ACCOMPAGNATI Durante l’anno più di 50.000 minori non accompagnati sono stati catturati mentre attraversavano il confine sud degli Usa, alcuni avevano appena cinque anni. La polizia di frontiera statunitense (Us Border Patrol) ha detenuto i minori non accompagnati per giorni o settimane in strutture antigieniche e senza accesso a un legale, a servizi di traduzione o a opportuna assistenza medica.

Note 1. Loud and clear: UN Human Rights Committee makes wide-ranging recommendations to USA (AMR 51/022/2014) www.am- nesty.org/en/library/info/AMR51/022/2014/en 2. USA should “put its money where its mouth is” and implement UN Committee against Torture findings (AMR 51/055/2014), http://www.amnesty.org/en/library/info/AMR51/055/2014/en 3. USA: ‘We tortured some folks’: the wait for truth, remedy and accountability continues as redaction issue delays release of senate report on cia detentions (AMR 51/046/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR51/046/2014/en 4. USA: ‘We have the ability to do things’: President and Congress should apply human rights principles and close Guantánamo (AMR 51/036/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR51/036/2014/en 5. USA: “I have no reason to believe that I will ever leave this prison alive”: indefinite detention at Guantánamo continues; 100 detainees on hunger strike (AMR 51/022/2013) www.amnesty.org/en/library/info/AMR51/022/2013/en 6. USA: Man seized in Libya faces death penalty in USA (AMR 51/037/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR51/ 037/2014/en 7. Entombed: Isolation in the US federal prison system (AMR 51/040/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AMR51/ 040/2014/en 8. USA: “He could have been a good kid”: Texas set to execute third young offender in two months (AMR 51/027/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR51/027/2014/en 9. USA: “The nation we aspire to be” (AMR 51/034/2014) www.amnesty.org/en/library/info/AMR51/034/2014/en 10. USA: Call for race inquiry as execution nears: Earl Ringo (AMR 51/047/2014) www.amnesty.org/en/library/info/ AMR51/047/2014/en

SURINAME

REPUBBLICA DEL SURINAME

Capo di stato e di governo: Desiré Delano Bouterse

Il processo a carico del presidente Bouterse e di altre 24 persone, accusate dell’esecuzione extragiu- diziale di 15 oppositori politici nel 1982, non è ripreso. Sono stati compiuti passi avanti verso l’abolizione della pena di morte.

222 IMPUNITÀ In seguito a una richiesta da parte dell’accusato, Edgar Ritfeld, nel 2013 la corte di giustizia aveva ordinato la ripresa del processo a suo carico davanti a un tribunale militare, fissata a gennaio 2014. Edgar Ritfeld, che si proclama innocente, era tra le 25 persone accusate delle esecuzioni extragiudiziali di 15 oppositori dell’allora governo militare, avvenute nel dicembre 1982. Il processo era fermo dal 2012, a seguito di un emendamento alla legge di amnistia del 1992, che garantiva l’immunità per le presunte torture ed esecuzioni extragiudiziali commesse nel dicembre 1982. I 25 accusati, compreso l’attuale presidente Desiré Delano “Desi” Bouterse, all’epoca leader militare del paese, nel 2007 furono processati davanti a un tribunale militare per le uccisioni. Nonostante la decisione della corte di giustizia di riaprire il caso di Edgar Ritfeld, a ottobre il tribunale militare ha deciso di non riaprire il procedimento a carico degli altri 24, compreso il processo al pre- sidente Bouterse, indipendentemente dalla legge di amnistia del 2012. Ad agosto, le famiglie delle 15 persone uccise nel dicembre 1982 hanno presentato ricorso presso la Commissione interamericana dei diritti umani.

PENA DI MORTE A maggio, il ministro della Giustizia e della polizia ha annunciato un emendamento alla riforma del codice penale in corso di dibattito, al fine di abolire la pena di morte e innalzare da 20 a 30 anni il massimo della pena detentiva, che doveva ancora essere presentato in parlamento. L’ultima esecuzione in Suriname risale al 1982.

TRINIDAD E TOBAGO

REPUBBLICA DI TRINIDAD E TOBAGO

Capo di stato: Anthony Thomas Aquinas Carmona Capo di governo: Kamla Persad-Bissessar

Hanno continuato a destare preoccupazione le uccisioni da parte delle forze di sicurezza, la tortura e altri maltrattamenti di detenuti, oltre ai casi di decessi in custodia. Sono state comminate condanne a morte. Lo stato non ha provveduto a contrastare la violenza contro le persone Lgbti.

CONTESTO Nel corso dell’anno si è tenuto un secondo turno di consultazioni sulla riforma della costituzione, in seguito a un rapporto da parte della commissione per la riforma della costituzione e alle consultazioni condotte a livello nazionale nel 2013. Il paese ha continuato ad affrontare una grave crisi sul piano della pubblica sicurezza: il livello di omicidi è rimasto alto, con 403 uccisioni denunciate dalla polizia, rispetto alle 407 del 2013. In risposta, sono state schierate pattuglie della polizia e dell’esercito. Ad agosto, è stato convocato il corpo di riserva della difesa dell’esercito per affiancare le attività di pattugliamento delle strade fino

223 al 7 gennaio 2015, malgrado le gravi preoccupazioni che il corpo non fosse addestrato a svolgere questo tipo di ruolo. La procuratrice e avvocatessa di lungo corso, Dana Seetahal, è stata assassinata a maggio da uomini non identificati. Stava indagando su fascicoli giudiziari d’alto profilo, tra cui il rapimento e l’omicidio di un’imprenditrice. Sulla sua uccisione è stata immediatamente aperta un’inchiesta delle autorità. Ad agosto, detenuti preprocessuali di due istituti di pena hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la lentezza dei loro procedimenti giudiziari. Secondo il Centro internazionale per gli studi sulle carceri, il 43 per cento della popolazione carceraria era in detenzione preprocessuale.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA I resoconti delle uccisioni da parte delle forze di sicurezza facevano sospettare che si trattasse di uc- cisioni illegali e contraddicevano le tesi ufficiali di “scontri a fuoco” con elementi criminali. Hakeem Alexander, di 16 anni, e suo cugino Tevin Alexander, di 15, sono stati uccisi il 9 giugno a Morvant, a Puerto España, dopo che era stato richiesto l’intervento della polizia per una sparatoria. Testimoni oculari hanno affermato che i due ragazzi erano stati vittime di un’esecuzione da parte dei poliziotti mentre erano in ginocchio con le mani alzate. A fine anno sull’episodio era in corso un’indagine.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A dicembre 2013, stando alle accuse, Jameson John ha riportato bruciature sul torace, su una gamba e sui genitali, mentre si trovava in custodia di polizia. Sei agenti sono stati incriminati per cattiva condotta e a fine anno erano in attesa di processo.

DECESSI IN CUSTODIA Il 24 giugno, Jahwi Ghany è morto in custodia di polizia a Chaguanas. Una prima autopsia ha rilevato che era deceduto a causa di un collasso cardiocircolatorio. Una seconda autopsia, effettuata su richiesta della famiglia, ha stabilito che la sua morte era stata causata da un trauma cranico. A fine anno era in corso un’indagine dell’autorità per i reclami della polizia.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Nonostante abbia riconosciuto nel 2013 un “elevato livello di violenza e di abusi contro le persone Lgbti”, la commissione per la riforma della costituzione non ha provveduto a formulare raccomandazioni per raggiungere la parità di diritti e porre fine alla discriminazione. Sono rimaste in vigore le leggi che criminalizzano i rapporti sessuali consenzienti tra persone dello stesso sesso e che vietano l’ingresso nel paese alle persone omosessuali.

PENA DI MORTE La pena capitale è rimasta obbligatoria per omicidio e sono state comminate altre condanne a morte. L’ultima esecuzione ha avuto luogo nel 1999. Il rapporto del 2013 della commissione per la riforma della costituzione raccomandava il mantenimento della pena di morte. A dicembre, in risposta all’alto tasso di omicidi, la primo ministro Persad-Bissessar ha annunciato che avrebbe tentato d’introdurre una nuova legislazione per facilitare la ripresa delle esecuzioni.

224 URUGUAY

REPUBBLICA ORIENTALE DELL’URUGUAY

Capo di stato e di governo: José Alberto Mujica Cordano

Gli sforzi per ottenere giustizia per le violazioni dei diritti umani commesse durante il periodo del governo civile e militare tra il 1973 e il 1985 hanno avuto una battuta d’arresto in seguito a un pro- nunciamento della Corte suprema nel 2013. Hanno destato preoccupazioni gli ostacoli affrontati dalle donne nell’accesso all’aborto.

CONTESTO A gennaio, l’Uruguay è stato analizzato secondo l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite e ha recepito importanti raccomandazioni, compresa quella di combattere ogni forma di discriminazione. A settembre, l’Uruguay ha ratificato il Trattato delle Nazioni Unite sul commercio di armi. Sei detenuti provenienti dal centro di detenzione statunitense di Guantánamo Bay, a Cuba, sono stati reinseriti in Uruguay a dicembre. A ottobre si sono tenute le elezioni politiche e il Frente Amplio ha vinto dopo la seconda tornata elettorale a novembre.

IMPUNITÀ A febbraio 2013, la Corte suprema ha annullato due articoli chiave della Legge 18.831, adottata nel 2011, che stabilivano che i crimini commessi durante il periodo del governo civile e militare, tra il 1973 e il 1985, erano crimini contro l’umanità e che quindi non potevano essere soggetti a prescrizione. La Corte suprema ha inoltre concluso che all’epoca non erano stati commessi crimini contro l’umanità, in quanto questi erano stati inclusi nella legislazione nazionale soltanto nel 2006 ed erano pertanto soggetti a prescrizione.1 Nel corso del 2014 sono stati compiuti pochi progressi per assicurare che le denunce riguardanti le violazioni dei diritti umani compiute all’epoca fossero pienamente indagate. A fine anno proseguiva il processo a carico di un ex poliziotto, accusato nel 2012 di complicità nel- l’uccisione dell’insegnante e giornalista Julio Castro, risalente al 1977.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI I requisiti obbligatori introdotti con la legge del 2012 che decriminalizza l’aborto hanno continuato a essere motivo di preoccupazione, in quanto costituivano un potenziale ostacolo all’accesso all’aborto legale. La legge del 2012 stabiliva un periodo di riflessione obbligatorio di cinque giorni e una revisione dei casi da parte di un collegio di esperti per ogni richiesta di aborto. Quando la gravidanza è derivante da uno stupro, la legge imponeva l’obbligo di denuncia formale per la donna che intendeva accedere all’aborto. Ad aprile, a Salto, capitale del dipartimento omonimo, i medici si sono rifiutati di praticare un aborto

225 a una ragazza disabile incinta, sopravvissuta a uno stupro, per motivi di obiezione di coscienza. La ragazza ha dovuto recarsi nella capitale Montevideo per ottenere l’interruzione di gravidanza.

CONDIZIONI CARCERARIE A maggio, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha espresso preoccupazione per il fatto che due terzi della popolazione carceraria fossero in attesa di processo e ha evidenziato le sue per- plessità in relazione all’assistenza medica, alla fornitura d’acqua, ai servizi igienici e alla ventilazione nelle celle.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Le indagini relative alle uccisioni di cinque donne transessuali, compiute tra il 2011 e il 2012, hanno fatto scarsi progressi. Soltanto in uno dei due casi, nel dipartimento di Cerro Largo, sono stati avviati procedimenti penali a carico di tre persone.

Note 1. Uruguay: Key human rights concerns: Amnesty International Submission to the UN Universal Periodic Review, January– February 2014 (AMR 52/001/2013) www.amnesty.org/en/library/info/AMR52/001/2013/en

VENEZUELA

REPUBBLICA BOLIVARIANA DEL VENEZUELA

Capo di stato: Nicolás Maduro Moros

Le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza per disperdere le proteste. Decine di persone sono state arbitrariamente detenute ed è stato loro impedito l’accesso ad avvocati e medici. Sono stati segnalati episodi di tortura e altri maltrattamenti di manifestanti e passanti. È proseguito il ricorso alla magistratura per ridurre al silenzio coloro che criticavano il governo. Difensori dei diritti umani sono stati obiettivo di azioni intimidatorie e aggressioni. Le condizioni nelle carceri sono rimaste deplorevoli.

CONTESTO Il primo anno del mandato del presidente Maduro è stato segnato da un crescente scontento nel paese. Tra febbraio e luglio, il Venezuela è stato scosso da manifestazioni di massa organizzate in varie parti del paese sia a sostegno sia contro il governo. Manifestanti antigovernativi e alcuni leader del partito d’opposizione che chiedevano le dimissioni del presidente sono stati accusati di aver tentato di rovesciare il governo.

226 LIBERTÀ DI RIUNIONE Almeno 43 persone sono state uccise e più di 870 sono rimaste ferite, compresi manifestanti, agenti delle forze di sicurezza e passanti, nel corso di proteste di massa organizzate tra febbraio e luglio, sia a sostegno sia contro il governo. Ci sono state notizie di violazioni dei diritti umani e scontri violenti tra manifestanti e forze di sicurezza e gruppi armati filogovernativi.1 Oltre 3000 persone sono state arrestate nel contesto delle proteste. La maggior parte è stata incriminata e rimessa in libertà dopo pochi giorni. A fine anno, oltre 70 persone che avevano preso parte alle manifestazioni rimanevano in detenzione cautelare in attesa del processo. Si è temuto che una sentenza della Corte suprema pronunciata a marzo, secondo cui qualsiasi protesta doveva essere autorizzata in anticipo, potesse compromettere i diritti alle libertà di pacifica riunione e di associazione.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza per disperdere eventi di protesta, utilizzando tra l’altro munizioni vere a distanza ravvicinata contro persone disarmate; ricorrendo all’uso di armi da fuoco inappropriate ed equipaggiamento antisommossa precedentemente manomesso; e impiegando gas lacrimogeni e proiettili di gomma in spazi stretti. Per citare un esempio, a febbraio, la studentessa Geraldín Moreno è morta tre giorni dopo essere stata colpita a un occhio da un proiettile di gomma sparato a distanza ravvicinata durante una protesta a Valencia, nello stato di Carabobo. Agenti della guardia nazionale sono stati incriminati in relazione alla sua morte e a fine anno erano in attesa di essere processati. Lo stesso mese, Marvinia Jiménez è stata percossa da poliziotti mentre riprendeva una protesta a Valencia e accusata, tra l’altro, di ostruzione stradale e disturbo dell’ordine pubblico. A fine anno, non era stato ancora spiccato il mandato d’arresto nei confronti dell’agente responsabile del suo pestaggio. Ad aprile, il sedicenne John Michael Ortiz Fernández si trovava sul balcone della sua abitazione a San Cristobal, nello stato di Táchira, quando è stato colpito a un occhio da un proiettile di gomma sparato da un agente di polizia contro di lui. La retina del suo occhio sinistro è rimasta bruciata. A fine anno, il caso era oggetto di un’indagine.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Decine di persone, sottoposte a fermo durante le proteste che si sono svolte tra febbraio e luglio, sono state detenute arbitrariamente. A molte è stato negato l’accesso a un avvocato di loro scelta e all’as- sistenza medica nelle prime 48 ore della detenzione, prima di comparire davanti a un giudice. Rispettivamente ad aprile e maggio, sono stati arrestati l’avvocato Marcelo Crovato e il difensore dei diritti umani Rosmit Mantilla, in relazione alle proteste. Oltre otto mesi dopo il loro arresto erano ancora in detenzione preprocessuale, nonostante la mancanza di prove concrete a supporto delle accuse.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti sono rimasti motivo di preoccupazione, nonostante alcuni progressi ot- tenuti dalla legge speciale per prevenire e punire la tortura e altro trattamento crudele, disumano e degradante del 2013.2 Lo studente Daniel Quintero è stato percosso e minacciato di essere arso vivo mentre era in detenzione.

227 Era stato arrestato mentre tornava da una manifestazione antigovernativa svoltasi a febbraio a Ma- racaibo, nello stato di Zulia. A fine anno era in corso un’indagine in merito alle accuse di tortura.3 Almeno 23 persone sono state arrestate durante un’operazione congiunta della guardia nazionale e dell’esercito a Rubio, nello stato di Táchira, il 19 marzo. Mentre erano in detenzione, sono state prese a calci, percosse e minacciate di morte e violenza sessuale. Tutti, uomini e donne, sono stati tenuti nella stessa stanza e bendati per diverse ore ma potevano sentire le persone vicine che venivano percosse. In almeno un caso un detenuto è stato costretto ad assistere mentre un altro de- tenuto veniva picchiato. Gloria Tobón è stata inzuppata d’acqua prima che le fossero applicati elettrodi alle braccia, al seno e ai genitali. È stata minacciata e le è stato detto che sarebbe stata uccisa e seppellita smembrata. A fine anno, le indagini sulle accuse di tortura non erano ancora concluse. A febbraio, Wuaddy Moreno Duque è stato arrestato a La Grita, nello stato di Táchira, picchiato e bruciato da agenti della guardia nazionale che lo accusavano di aver partecipato alle proteste. Lui e la sua famiglia sono stati presi di mira con intimidazioni dopo che avevano sporto formale denuncia.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Difensori dei diritti umani hanno continuato a essere vittime di aggressioni. Per citare un esempio, due membri dell’Osservatorio venezuelano delle carceri (Observatorio venezolano de presiones – Ovp) hanno ricevuto minacce e intimidazioni in diverse occasioni. Il 12 aprile, Marianela Sánchez e la sua famiglia hanno ricevuto una minaccia anonima di morte. La donna ha sporto querela ma a fine anno le autorità non avevano ancora avviato un’indagine concreta sulla minaccia né fornito le necessarie misure di protezione, come auspicato dalla famiglia. Le autorità hanno ripetutamente tentato di screditare le attività in difesa dei diritti umani di Humberto Prado, accusandolo di essere coinvolto nelle violenze occorse durante le proteste e di aver cospirato al fine di destabilizzare il governo e il sistema carcerario.

SISTEMA GIUDIZIARIO Il sistema giudiziario è stato al centro d’interferenze da parte dell’esecutivo, specialmente in casi in cui erano coinvolte persone critiche nei confronti del governo o quanti erano ritenuti aver agito contro gli interessi del governo. Ad esempio, la giudice María Lourdes Afiuni Mora, arrestata nel dicembre 2010, poche ore dopo aver ordinato il rilascio di un banchiere accusato di corruzione, una decisione che era stata pubblicamente condannata dall’ex presidente Chávez, a fine anno era in attesa del processo. Era stata rilasciata su cauzione a giugno 2013 per motivi umanitari. Leopoldo López, leader del partito d’opposizione Voluntad popular (Volontà popolare), è rimasto in de- tenzione, nonostante l’assenza di prove che suffragassero le accuse contro di lui, che sembravano avere motivazioni politiche. Doveva rispondere d’incendio, danni a proprietà, istigazione a delinquere e associazione a delinquere, reati che comportavano sentenze fino a 10 anni di carcere.4 Ad agosto, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite ha dichiarato che la sua detenzione era arbitraria e ha sollecitato il suo rilascio. Il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite ha inoltre richiesto l’immediato rilascio di Daniel Ceballos, esponente di Voluntad popular e sindaco di San Cristobal, nello stato di Táchira. Era stato arrestato

228 a marzo ed era in attesa di processo per accuse di ribellione e istigazione a delinquere, in relazione alle proteste antigovernative di febbraio.5

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE A settembre 2013, a seguito della sua condanna secondo la Convenzione americana sui diritti umani, emessa un anno prima, il Venezuela si è svincolato dalla giurisdizione della Corte interamericana dei diritti umani. Di conseguenza, le vittime di violazioni dei diritti umani e i loro familiari non hanno più potuto rivolgersi alla Corte interamericana, nel caso in cui il sistema giudiziario nazionale non avesse tutelato i loro diritti.

IMPUNITÀ L’impunità è rimasta motivo di preoccupazione. Le vittime e i loro familiari hanno subito minacce e aggressioni. Ad esempio, le indagini e i procedimenti giudiziari relativi agli omicidi di membri della famiglia Barrios, nello stato di Aragua, hanno registrato scarsi progressi. La famiglia Barrios era stata al centro di minacce e intimidazioni per quasi 20 anni, a causa della loro richiesta di giustizia. Dieci componenti della famiglia erano stati uccisi tra il 1998 e il maggio 2013, in circostanze tali da suggerire il coinvolgimento di personale della polizia. In soltanto uno dei casi, quello di Narciso Barrios, due poliziotti erano stati giudicati colpevoli. Altri componenti della famiglia sono stati vittime d’intimidazioni e aggressioni da parte della polizia, malgrado le misure di protezione accordate alla famiglia dal 2004 dalla Commissione interamericana dei diritti umani e più recentemente dalla Corte interamericana dei diritti umani.6 A fine anno, non c’erano notizie sull’avvio d’indagini in merito alle denunce d’intimidazioni da parte dei poliziotti.

CONDIZIONI CARCERARIE Nonostante le riforme introdotte al sistema carcerario, le condizioni all’interno degli istituti di pena sono rimaste deplorevoli. La mancanza di assistenza medica, cibo e acqua potabile, le condizioni non igieniche, il sovraffollamento e la violenza nelle carceri e nelle stazioni di polizia hanno continuato a destare preoccupazione. Armi da fuoco e altri armamenti hanno continuato a essere abitualmente impiegati durante gli scontri all’interno delle carceri. Nella prima metà dell’anno, organizzazioni locali per i diritti umani hanno registrato 150 decessi in prigione e sette in custodia di polizia. A novembre, due reclusi sono stati uccisi e almeno otto sono rimasti feriti quando le forze di sicurezza sono intervenute per porre fine a una rivolta scoppiata nel carcere di San Francisco de Yare, nello stato di Miranda, per protestare contro le dure condizioni di vita all’interno della struttura e il mal- trattamento dei reclusi. A settembre, dopo tre anni in cui era stato più volte rinviato un suo trasferimento in ospedale al fine di valutare le sue condizioni di salute, un tribunale ha concesso all’ex commissario di polizia Iván Si- monovis il permesso di ricevere cure mediche nella sua casa agli arresti domiciliari. L’ex commissario avrebbe sofferto di alcuni problemi di salute causati dalle condizioni in cui era tenuto in carcere.

229 Note 1. Venezuela: Human rights at risk amid protests (AMR 53/009/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/AMR53/009/2014/en 2. Venezuela: Briefing to the UN Committee Against Torture, 53rd session, November 2014 (AMR 53/020/2014), www.amnesty.org/en/library/info/AMR53/020/2014/en 3. Protests in Venezuela: Human rights at risk, people in danger, case: Daniel Quintero (AMR 53/015/2014), www.amnesty.org/ en/library/info/AMR53/015/2014/en 4. Venezuela: Opposition leader Leopoldo López should be released (AMR 53/023/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/AMR53/023/2014/en 5. Venezuela: Further information: Opposition member detained amid protests (AMR 53/010/2014), www.amnesty.org/en/li- brary/info/AMR53/010/2014/en 6. Venezuela: Further information: Police threaten and intimidate Barrios family (AMR 53/019/2014), www.amnesty.org/en/li- brary/info/AMR53/019/2014/en

230 ASIA E PACIFICO I PAESI

Afghanistan Papua Nuova Guinea Australia Singapore Bangladesh Sri Lanka Brunei Darussalam Taiwan Cambogia Thailandia Cina Timor Est Corea del Nord Vietnam Corea del Sud Filippine Figi Giappone India Indonesia Laos Maldive Malesia Mongolia Myanmar Nauru Nepal Nuova Zelanda Pakistan

232 Panoramica regionale su Asia e Pacifico

La regione Asia e Pacifico copre la metà del mondo e contiene più di metà della sua popolazione, in gran parte giovani. Per anni, la regione è cresciuta in forza politica ed economica e sta rapidamente modificando l’orientamento del potere e della ricchezza globali. Cina e Stati Uniti si disputano l’influenza a livello mondiale. Sono state significative anche le dinamiche tra le grandi potenze della regione, come tra l’India e la Cina e l’Asean. Le tendenze in materia di diritti umani devono essere lette in questo contesto. Nonostante alcuni sviluppi positivi nel 2014, tra cui le elezioni di alcuni governi che hanno promesso miglioramenti nel campo dei diritti umani, la tendenza generale è stata regressiva a causa di impunità, continua disparità di trattamento e violenza contro le donne, ricorso alla tortura e uso della pena di morte, repressione delle libertà d’espressione e di riunione, pressioni sulla società civile e minacce contro difensori dei diritti umani e operatori dell’informazione. Ci sono stati preoccupanti segnali di una crescente intolleranza e discriminazione religiosa ed etnica con la complicità delle au- torità o con la loro mancata adozione di misure per combatterle. In alcune parti della regione, i conflitti armati sono continuati, in particolare in Afghanistan, nelle aree tribali di amministrazione federale (Federally Administered Tribal Areas – Fata) del Pakistan e in Myanmar e Thailandia. Le Nazioni Unite hanno reso pubblico un rapporto completo sulla situazione dei diritti umani nella Re- pubblica Democratica Popolare di Corea (Corea del Nord), che ha fornito dettagli sulle violazioni si- stematiche di quasi tutta l’intera gamma dei diritti umani. Centinaia di migliaia di persone hanno continuato a essere detenute in campi di prigionia e in altre strutture di detenzione, molte senza essere né accusate né processate per reati riconosciuti a livello internazionale. A fine anno, queste preoccupazioni sono state riconosciute dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e discusse nel Consiglio di sicurezza. Rifugiati e richiedenti asilo hanno continuato ad affrontare significative difficoltà. Diversi paesi, come la Malesia e l’Australia, hanno violato il divieto internazionale di refoulement, rimandando for- zatamente rifugiati e richiedenti asilo verso paesi in cui hanno subito gravi violazioni dei diritti umani. Vari paesi della regione hanno continuato a infliggere la pena di morte. A dicembre, un attacco guidato da talebani pakistani contro la scuola militare pubblica di Peshawar ha provocato 149 morti, tra cui 134 bambini: l’attacco terroristico più letale nella storia del Pakistan. Per tutta risposta, il governo ha revocato la moratoria e ha rapidamente eseguito le condanne a morte di sette uomini, già condannati per altri reati connessi al terrorismo. Il primo ministro ha annunciato di voler far processare i sospettati di terrorismo nei tribunali militari, aumentando così le preoccupazioni sull’equità processuale.

233 L’omosessualità è rimasta reato in diversi paesi della regione. In India, la Corte suprema ha concesso il riconoscimento legale alle persone transgender e in Malesia la corte d’appello ha dichiarato inco- stituzionale la legge che rendeva illegale il travestitismo. Tuttavia, non sono cessate le segnalazioni di molestie e violenze contro le persone transgender. Un aspetto positivo è stato l’aumento dell’attivismo tra i giovani, collegati da tecnologie di comuni- cazione più accessibili. Tuttavia, a fronte delle rivendicazioni dei loro diritti, le autorità di molti paesi hanno fatto ricorso a restrizioni alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica e hanno tentato di indebolire la società civile.

AUMENTO DELL’ATTIVISMO

Il 2014 ha visto crescere l’attivismo nella regione, grazie alla rivendicazione dei diritti da parte della popolazione più giovane, collegata da tecnologie di comunicazione a prezzi accessibili e in virtù dell’uso dei social media; spesso le donne sono state in prima linea. Le elezioni hanno fornito alle persone lo spazio per dar voce alle loro rimostranze ed esigere cambiamenti. In Indonesia, le elezioni di luglio hanno portato al potere Joko Widodo, che durante la campagna elettorale aveva promesso di migliorare la situazione dei diritti umani. Nelle Isole Figi, le elezioni pa- cifiche svoltesi a settembre, le prime dal colpo di stato militare del 2006, sono state precedute da un forte dibattito della società e sui mezzi d’informazione, nonostante le continue limitazioni alla libertà d’espressione. A fine 2014, un anno dopo le elezioni e le manifestazioni di massa in Cambogia, le proteste pacifiche nella capitale Phnom Penh erano divenute un evento quasi quotidiano. Attivisti e difensori dei diritti umani si sono sempre più uniti nel chiamare i governi a rendere conto del loro operato. A febbraio, nel Myanmar, i membri della comunità michaungkan hanno ripreso il sit- in di protesta davanti al municipio di Yangon, dopo che le autorità non avevano risolto la disputa sulla terra che li vedeva coinvolti. Sempre più attivisti per i diritti umani hanno rivolto lo sguardo alla scena internazionale per ottenere sostegno. Le autorità vietnamite hanno permesso ad Amnesty International di visitare il paese per la prima volta in più di 20 anni. Anche se si sono formati diversi nuovi gruppi e gli attivisti hanno esercitato sempre più spesso il diritto alla libertà d’espressione, hanno continuato a subire una rigida censura e dure punizioni. Nonostante il rilascio anticipato di sei dissidenti ad aprile e giugno, almeno 60 prigionieri di coscienza sono rimasti in carcere. A Hong Kong, migliaia di manifestanti, prevalentemente guidati da studenti, sono scesi in piazza a partire da settembre per chiedere il suffragio universale. Più di 100 attivisti sono stati successivamente arrestati in Cina per aver sostenuto i manifestanti di Hong Kong e, a fine anno, 31 erano ancora in detenzione.

REPRESSIONE DEL DISSENSO

Di fronte all’aumento dell’attivismo, le autorità di molti paesi hanno reagito imponendo restrizioni alla libertà d’espressione e di riunione pacifica. In Cina, il giro di vite sull’attivismo per i diritti si è intensificato durante l’anno. Persone associate a una rete diffusa di attivisti chiamata Movimento

234 dei nuovi cittadini sono state condannate a periodi di reclusione tra i due e i sei anni e mezzo. L’attivista per i diritti umani Cao Shunli è morta in ospedale a marzo, dopo che in carcere le erano state negate cure mediche adeguate. In Corea del Nord non è stata rilevata la presenza di organizzazioni della società civile, giornali o partiti politici indipendenti. I cittadini nordcoreani potevano essere perquisiti dalle autorità e puniti se ascoltavano, guardavano o leggevano materiali provenienti dalla stampa estera. Le forze militari e di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza per reprimere ulteriormente il dissenso. In risposta alle proteste pacifiche in Cambogia, a gennaio le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza, sparando contro i manifestanti munizioni vere e uccidendo lavoratori tessili che protestavano. Attivisti per il diritto all’alloggio sono stati incarcerati per aver protestato pacifi- camente. In Thailandia, il colpo di stato di maggio e l’imposizione della legge marziale hanno portato alla detenzione arbitraria di molte persone, al divieto di tenere riunioni politiche con più di cinque partecipanti e al processo di civili in tribunali militari senza diritto di appello. La legislazione è stata utilizzata anche per limitare la libertà d’espressione. In Malesia le autorità hanno iniziato a utilizzare la legislazione sulla sedizione risalente all’epoca co- loniale per indagare, incriminare e imprigionare difensori dei diritti umani, politici d’opposizione, un giornalista, docenti universitari e studenti. Gli organi d’informazione e le case editrici hanno subito forti restrizioni ai sensi della legislazione che imponeva l’ottenimento di licenze per stampare pubbli- cazioni; licenze che potevano essere arbitrariamente revocate dal ministro dell’Interno. I mezzi d’in- formazione indipendenti hanno avuto difficoltà a ottenere tali licenze. In Indonesia hanno continuato a essere documentati casi di arresto e detenzione di attivisti politici pacifici, in particolare nelle aree con storici movimenti indipendentisti, come Papua e le Molucche. Le libertà d’espressione e di riunione pacifica sono rimaste rigorosamente limitate nel Myanmar e decine di difensori dei diritti umani, giornalisti, attivisti politici e contadini sono stati arrestati o imprigionati solo per aver esercitato pacificamente i loro diritti. I difensori dei diritti umani hanno costantemente subito forti pressioni da parte di alcuni governi. Nello Sri Lanka, un memorandum emanato dal ministero della Difesa ha comunicato a tutte le Ngo d’interrompere ogni evento mediatico e di non diffondere comunicati stampa. Ciò ha contribuito a peggiorare il clima già diffuso di paura e repressione, in cui giornalisti e difensori dei diritti umani hanno continuato a subire aggressioni fisiche, minacce di morte e accuse politicamente motivate. Anche i sindacati hanno affrontato crescenti limitazioni nei loro confronti. Nella Repubblica di Corea (Corea del Sud), il leader sindacale Kim Jung-woo è stato condannato al carcere per aver impedito a funzionari municipali di smantellare le tende di un sit-in di protesta e un altare commemorativo nella capitale Seoul. Rischiava di essere condannato a una pena più pesante dall’Alta corte, a causa del- l’appello richiesto dal pubblico ministero. Le autorità hanno anche tentato di annullare la registrazione di alcuni dei principali sindacati e, nei loro confronti, sono anche state intentate cause in tribunale. Gli attacchi politicamente motivati contro i giornalisti hanno avuto un aumento preoccupante. In Pakistan, almeno otto giornalisti sono stati uccisi come diretta conseguenza del loro lavoro, rendendo il paese uno dei più pericolosi al mondo per chi svolgeva tale professione. In Afghanistan è aumentato il numero di giornalisti uccisi; sono stati particolarmente a rischio coloro che avevano seguito le elezioni. Nelle Maldive, diversi giornalisti sono stati aggrediti da attori non statali che sono rimasti impuniti. Lo spazio dei mezzi d’informazione è andato riducendosi. Nello Sri Lanka sono proseguite le intimidazioni, come la chiusura del quotidiano Uthayan. In Bangladesh, blogger e difensori dei diritti umani sono

235 stati arrestati e hanno subito processi e incarcerazioni. In Pakistan sono stati sospesi alcuni canali televisivi. In Cina, la censura statale ha tentato di vietare la diffusione di fotografie e di bloccare qualunque riferimento online in favore delle proteste per la democrazia, consentendo alle televisioni e ai giornali di diffondere soltanto notizie approvate dal governo.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI

Tortura e altri maltrattamenti hanno continuato a essere commessi dai governi in diversi paesi. Nelle Filippine, la tortura da parte della polizia è stata raramente indagata o punita. Nonostante la ratifica dei due principali trattati internazionali contro la tortura, metodi quali gravi percosse, scosse elettriche e waterboarding (annegamento simulato) hanno continuato a essere impiegati da funzionari, che torturavano soprattutto per estorsione e per ottenere confessioni. A dicembre, Amnesty International ha pubblicato il rapporto “Al di sopra della legge: la tortura da parte della polizia nelle Filippine”, in cui documentava come la dilagante cultura dell’impunità permettesse l’uso indisturbato della tortura da parte della polizia. La Cina ha consolidato la propria posizione come uno dei maggiori produttori ed esportatori di una crescente gamma di strumenti per la polizia, compresi oggetti di uso non lecito per il controllo del- l’ordine pubblico quali manganelli stordenti con scosse elettriche e pesanti congegni serra gambe, nonché equipaggiamenti che potrebbero essere utilizzati legittimamente per il controllo dell’ordine pubblico ma il cui abuso era assai facile, come ad esempio i gas lacrimogeni. La tortura e altri maltrattamenti sono rimasti molto diffusi in Cina. A marzo, quattro avvocati che stavano indagando su denunce di tortura in un centro di educazione alla legalità a Jiansanjiang, nella provincia di Heilongjiang, sono stati arbitrariamente arrestati e torturati. Uno di loro ha raccontato di essere stato incappucciato e ammanettato con le mani dietro la schiena e sospeso per i polsi, mentre la polizia lo picchiava. Nella Corea del Nord, centinaia di migliaia di persone sono rimaste detenute in campi di prigionia po- litica e altre strutture di detenzione, dove hanno subito gravi violazioni dei diritti umani come esecuzioni extragiudiziali, torture e altri maltrattamenti. I meccanismi per l’accertamento delle responsabilità sono stati ancora inadeguati per affrontare le denunce di torture, spesso lasciando le vittime e le loro famiglie prive di accesso alla giustizia e ad altri rimedi efficaci. In Afghanistan, sono continuate le segnalazioni di violazioni dei diritti umani da parte del personale della direzione nazionale della sicurezza, comprese tortura e sparizioni forzate. Nello Sri Lanka, la tortura e altri maltrattamenti di detenuti sono rimasti diffusi. La prolungata detenzione preprocessuale e il sovraffollamento delle carceri sono rimasti un grave motivo di preoccupazione in India. Arresti indiscriminati, indagini e azioni penali lente, deboli sistemi di assistenza legale e assenza di garanzie adeguate hanno contribuito al problema. La Corte suprema ha ordinato ai giudici distrettuali di identificare immediatamente e rilasciare tutti i detenuti in attesa di giudizio che erano stati in carcere per oltre la metà del periodo di reclusione che avrebbero dovuto scontare in caso di condanna. In Giappone, il sistema daiyo kangoku, che consente alla polizia di trattenere i sospettati fino a 23 giorni prima della loro incriminazione, ha continuato a facilitare il ricorso alla tortura e ad altri mal- trattamenti durante gli interrogatori per estorcere confessioni. Non sono state adottate misure per

236 abolire o riformare il sistema e portarlo in linea con gli standard internazionali. In Thailandia sono stati segnalati casi di tortura e altri maltrattamenti di detenuti in custodia di militari e polizia.

CONFLITTI ARMATI

In Afghanistan è giunta a conclusione la missione della Nato che durava da 13 anni, anche se è stata concordata una continua presenza delle forze internazionali. Le violazioni da parte di gruppi armati sono proseguite in modo significativo, raggiungendo nel primo semestre del 2014 il livello più alto mai toccato. Anche in Pakistan è perdurato il conflitto armato interno nelle Fata e l’esercito ha lanciato una grande operazione nel Waziristan settentrionale, a giugno. Sono ripresi gli attacchi dei droni americani. L’attentato più devastante nella storia del paese si è verificato a dicembre, quando diversi militanti talebani pakistani hanno attaccato la scuola militare pubblica di Peshawar, uccidendo 149 persone, tra cui 134 bambini, e ferendone decine, con sparatorie che hanno preso di mira allievi e insegnanti e attentati suicidi. Il conflitto armato negli stati di Kachin e Shan settentrionale del Myanmar è giunto al quarto anno ed entrambe le parti si sono rese responsabili di violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, con uccisioni illegali, torture e altri maltrattamenti, compresi stupro e altri reati di violenza ses- suale. In Thailandia, la violenza armata è continuata nelle tre province meridionali di Pattani, Yala, Na- rathiwat e in alcune zone della provincia di Songkhla. Durante l’anno, le forze di sicurezza sono state coinvolte in uccisioni illegali e torture e altri maltrattamenti, mentre gli attacchi contro i civili, compreso il bombardamento di luoghi pubblici, si ritiene siano stati effettuati da gruppi armati.

IMPUNITÀ

Un tema comune è stata la continua impunità per le violazioni dei diritti umani passate e recenti, anche nei contesti di conflitti armati. In India, le autorità statali spesso non hanno impedito e talvolta hanno anche commesso crimini contro cittadini indiani. Arresti e detenzioni arbitrari, torture ed ese- cuzioni extragiudiziali spesso sono rimasti impuniti. Il sovraccarico sistema giudiziario penale ha contribuito al diniego della giustizia per chi aveva subito abusi e alle violazioni del diritto a un processo equo. La violenza da parte di gruppi armati ha messo a rischio i civili. Per i crimini del passato ci sono stati alcuni arresti e condanne. Le Camere straordinarie dei tribunali della Cambogia (tribunale Khmer Rouge) hanno condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità Nuon Chea, ex comandante in seconda del regime dei khmer rossi, e Khieu Samphan, ex capo di stato. Nelle Filippine, il generale maggiore in pensione Jovito Palparan è stato arrestato ad agosto per le accuse di rapimento e detenzione illegale di due studentesse universitarie. Le vittime di violazioni e abusi dei diritti umani commessi in passato hanno continuato a chiedere giustizia, verità e riparazione per i crimini di diritto internazionale occorsi in Indonesia sotto il governo dell’ex presidente (1965-1998) e durante il successivo periodo del movimento Reformasi. Nessun passo avanti è stato segnalato in numerosi casi di presunte gravi violazioni dei diritti umani che la commissione nazionale dei diritti umani (Komnas-Ham) aveva sottoposto all’ufficio del procu- ratore generale, dopo aver condotto un’indagine preliminare informale.

237 In Sri Lanka, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha istituito un’inchiesta internazionale sulle denunce di crimini di guerra commessi durante la guerra civile. Funzionari e sostenitori del governo hanno minacciato i difensori dei diritti umani affinché non entrassero in contatto con gli in- vestigatori e non contribuissero in alcun modo all’inchiesta. Ad aprile in Nepal, il parlamento ha ap- provato la legge sulla commissione verità e riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission – Trc), che ha istituito due commissioni, una Trc e una commissione sulle sparizioni forzate, con il potere di raccomandare amnistie, anche per gravi violazioni dei diritti umani. Ciò è avvenuto nonostante a gennaio una sentenza della Corte suprema avesse stabilito che un’analoga ordinanza, emessa nel 2013, per la creazione di una Trc con il potere di raccomandare amnistie, violava il diritto internazionale dei diritti umani e lo spirito della costituzione provvisoria del 2007.

PERSONE IN MOVIMENTO

Diversi paesi hanno violato il divieto internazionale di refoulement, rimandando forzatamente rifugiati e richiedenti asilo verso paesi in cui hanno subito gravi violazioni dei diritti umani. In Malesia, a maggio, le autorità hanno rimpatriato forzatamente due rifugiati e un richiedente asilo, che erano sotto la protezione dell’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, in Sri Lanka, dove erano a rischio di tortura. Lo Sri Lanka ha arrestato ed espulso con la forza richiedenti asilo senza valutarne adeguatamente le richieste. Secondo l’Unhcr, gli afgani rappresentavano un numero molto elevato tra i rifugiati. I vicini Iran e Pa- kistan ospitavano 2,7 milioni di rifugiati afgani registrati. A marzo, l’Unhcr ha attestato che 659.961 afgani erano sfollati a causa del conflitto armato, del deterioramento della sicurezza e dei disastri naturali. È stata espressa preoccupazione per il possibile aumento del numero di sfollati, a seguito del passaggio di responsabilità sulla sicurezza, previsto per la fine del 2014, poiché i ribelli locali avrebbero lottato per occupare il territorio in precedenza sotto il controllo delle forze internazionali. Anche i migranti interni sono stati vittime di discriminazione. In Cina, le modifiche al sistema di re- gistrazione delle famiglie, noto come hukou, ha reso più facile per i residenti in zone rurali lo sposta- mento in città di piccole o medie dimensioni. L’accesso a prestazioni e servizi, tra cui l’istruzione e l’assistenza sanitaria, ha continuato a essere collegato allo status dell’hukou, che rappresentava un possibile motivo di discriminazione. Il sistema hukou ha costretto molti migranti interni a lasciare in campagna i loro figli. I lavoratori migranti hanno continuato a subire abusi e discriminazioni. A Hong Kong è iniziato un processo di alto profilo riguardante tre donne indonesiane lavoratrici domestiche migranti. Sul loro ex datore di lavoro pendevano 21 capi d’accusa, tra cui gravi lesioni personali intenzionali e mancato pagamento dei salari. A ottobre, Amnesty International ha pubblicato un rapporto basato su interviste con i lavoratori agricoli migranti in tutta la Corea del Sud, che per gli effetti del sistema del permesso di lavoro erano stati sottoposti a orari eccessivi, salari inadeguati, negazione del riposo settimanale e delle ferie annuali retribuite, subappalti illegali e cattive condizioni di vita. Molti sono stati anche discriminati sul posto di lavoro a causa della loro nazionalità. L’Australia ha proseguito con la linea dura nei confronti dei richiedenti asilo e chi arrivava via mare veniva rimandato nel paese di partenza o trasferito in centri di detenzione per immigranti in mare aperto, sull’isola di Manus (Papua Nuova Guinea) o a Nauru, oppure detenuto in Australia.

238 CRESCENTE INTOLLERANZA RELIGIOSA ED ETNICA

Nel 2014 è stato registrato un aumento dell’intolleranza e della discriminazione per motivi religiosi ed etnici, con la complicità o la mancata adozione di misure per combatterla da parte delle autorità. In Pakistan, le leggi sulla blasfemia hanno continuato a essere collegate alle violenze dei vigilantes. La polizia è stata avvertita di alcune aggressioni imminenti di persone sospettate di “blasfemia” ma non ha preso misure adeguate per proteggerle. Le leggi sulla blasfemia hanno contribuito al clima d’intolleranza anche in Indonesia. A novembre, Amnesty International ha raccomandato di abrogare la legge sulla blasfemia in Indonesia e ha chiesto che tutte le persone imprigionate per tale motivo fossero immediatamente rilasciate. Le aggressioni violente a causa dell’identità religiosa ed etnica sono continuate su vasta scala. È ri- sultato evidente che i governi non erano in grado di affrontare la crescente intolleranza religiosa ed etnica. I governi di Myanmar e Sri Lanka non sono riusciti ad affrontare il problema del continuo in- citamento alla violenza per motivi d’odio nazionale, razziale e religioso, da parte di gruppi nazionalisti buddisti, nonostante alcuni episodi violenti. Analogamente, il governo del Myanmar non è stato in grado di garantire parità d’accesso alla piena cittadinanza per i rohingya. In Pakistan, musulmani sciiti sono stati uccisi in attacchi di gruppi armati; anche gli ahmadi e i cristiani sono stati presi di mira. Nello Sri Lanka, musulmani e cristiani hanno subito le violenze dei gruppi armati e la polizia non è riuscita a proteggerli o a indagare in merito alle aggressioni. In Cina, i tibetani hanno continuato a subire discriminazioni e restrizioni ai diritti alla libertà di pensiero, coscienza e religione, espressione, associazione e riunione pacifica. Secondo quanto riferito, la polizia e le forze di sicurezza hanno sparato contro manifestanti tibetani a Kardze (Ganzi), nella provincia del Sichuan, quando una folla si era radunata per protestare contro l’arresto di un capo vil- laggio. Gli uiguri hanno subito discriminazione diffusa in materia di occupazione, istruzione e alloggio, restrizioni alla libertà religiosa ed emarginazione politica. Alcune autorità di governo hanno utilizzato la religione come giustificazione per la continua discrimi- nazione. In Malesia, il tribunale federale ha respinto il ricorso che cercava di ribaltare il divieto imposto a un giornale cristiano di usare la parola “Allah” nelle sue pubblicazioni. Le autorità hanno sostenuto che l’uso della parola in testi non islamici era disorientante e avrebbe potuto causare la conversione dei musulmani. Il divieto ha portato a intimidazioni e vessazioni nei confronti dei cri- stiani. In India, nel 2014 ricorreva il 30° anniversario del massacro dei sikh del 1984, nella perdurante impunità per questo e per altri attacchi su larga scala contro le minoranze religiose.

DISCRIMINAZIONE

In molti paesi, le persone hanno continuato a subire discriminazioni, in particolare dove le autorità non hanno adottato misure adeguate per proteggere loro e le loro comunità. La discriminazione è perdurata in Nepal, anche per motivi di genere, casta, classe, origine etnica e religione. Le vittime sono state sottoposte a esclusione e a tortura e altri maltrattamenti, compresa la violenza sessuale. Le donne appartenenti a gruppi emarginati, come i dalit e le donne povere, hanno continuato a incontrare particolari difficoltà a causa di molteplici forme di discriminazione. In

239 India, le donne e le ragazze dalit hanno continuato a subire più livelli di discriminazione e violenza basate sulla casta. Consigli di villaggio autonominatisi hanno emesso decreti illegali, con cui hanno ordinato punizioni contro donne ritenute colpevoli di trasgressioni delle norme sociali. Il governo giapponese non è riuscito a imporsi contro la retorica discriminatoria né a mettere un freno all’uso di termini razzisti peggiorativi e alle molestie di stampo razzista contro le persone di etnia co- reana e i loro discendenti, comunemente chiamati zainichi (letteralmente “residenti in Giappone”). A dicembre, la Corte suprema ha vietato al gruppo Zainichi Tokken wo Yurusanai Shimin no Kai l’uso di un linguaggio discriminatorio contro i coreani, in occasione di manifestazioni pubbliche nei pressi di una scuola elementare etnica coreana. Nello Sri Lanka è perdurata la discriminazione nei confronti delle minoranze etniche, linguistiche e religiose, compresi i membri delle comunità tamil, musulmane e cristiane. Le minoranze sono state prese di mira con restrizioni arbitrarie alle libertà d’espressione e d’associazione.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI

In molti paesi della regione è ancora necessario compiere passi in avanti verso il rispetto, la protezione e la realizzazione dei diritti sessuali e riproduttivi. Ad aprile, la Corte suprema delle Filippine ha confermato la legge sulla salute riproduttiva, che apriva la strada al finanziamento del governo per metodi contraccettivi moderni e intendeva introdurre nelle scuole l’educazione sessuale e alla salute riproduttiva. Tuttavia, le Filippine hanno ancora una delle leggi sull’aborto più restrittive al mondo, che vieta l’interruzione della gravidanza in tutte le cir- costanze, senza eccezioni. In Indonesia, a luglio è stata approvata una legge che ha limitato a 40 giorni il periodo di tempo in cui le vittime di stupro possono accedere legalmente all’aborto. È stato espresso il timore che questo lasso di tempo più breve potesse impedire a molte vittime di stupro di riuscire ad accedere a un aborto legale e sicuro. Gli sforzi dei governi per sradicare la discriminazione di genere contro le donne e le ragazze hanno continuato a essere inefficaci per ridurre il rischio di prolasso uterino delle donne in Nepal, paese dal quale il segretario generale di Amnesty International Salil Shetty ha lanciato la campagna “My body my rights”, tra le donne affette dal problema nelle comunità rurali.

VIOLENZA CONTRO LE DONNE

In tutta la regione le donne hanno continuato a subire violenza, anche quando cercavano di esercitare i loro diritti. In Pakistan, ad esempio, una jirga (un organo decisionale tradizionale) dei capi tribù maschi degli utmanzai, nell’agenzia tribale del Waziristan settentrionale, ha minacciato di violenza le donne che cercavano di ottenere assistenza umanitaria nei campi per sfollati. In India, le autorità non hanno efficacemente messo in atto le nuove leggi sui crimini contro le donne emanate nel 2013 né hanno intrapreso riforme significative per garantire che fossero applicate. Lo stupro all’interno del matrimonio non era ancora riconosciuto come reato se la moglie aveva più di 15 anni di età. In diversi paesi della regione è proseguita la pratica dei matrimoni forzati di minori. I cosiddetti

240 “delitti d’onore” sono stati segnalati sia in Afghanistan, sia in Pakistan. In Afghanistan è cresciuto il numero delle denunce ai sensi della legge sull’eliminazione della violenza contro le donne, anche se non era chiaro se questo era dovuto all’aumento dei crimini o all’aumento delle segnalazioni. I reati di violenza contro le donne sono stati tra quelli meno denunciati. La commissione indipendente per i diritti umani in Afghanistan ha registrato 4154 casi di violenza contro le donne nei soli primi sei mesi del 2014. Le autorità hanno approvato o modificato diverse leggi che impedivano di testimoniare sia ai familiari delle vittime, sia a quelli dei perpetratori dei crimini. Poiché la maggior parte della violenza di genere è stata segnalata all’interno delle famiglie, ciò ha reso praticamente impossibile l’azione giudiziaria nei casi di matrimonio forzato e infantile e di violenza domestica. In Giappone sono stati resi pubblici i risultati del lavoro di un gruppo di studio nominato dal governo che ha riesaminato il processo di redazione della dichiarazione Kono (una dichiarazione risalente a due decenni fa, con la quale il governo aveva offerto le proprie scuse alle sopravvissute del sistema di schiavitù sessuale militare prima e durante la seconda guerra mondiale). Molti personaggi pubblici di alto profilo hanno rilasciato dichiarazioni per negare o giustificare il sistema. Il governo ha continuato a rifiutare di utilizzare ufficialmente il termine “schiavitù sessuale” e a negare riparazione piena ed effettiva alle sopravvissute. In Papua Nuova Guinea, ci sono state ulteriori segnalazioni di violenze su donne e bambini, a volte con esiti mortali, dopo che queste persone erano state accusate di stregoneria. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie ha evidenziato come una delle sue principali preoccupazioni fosse quella relativa agli omicidi legati alla stregoneria.

PENA DI MORTE

La pena di morte è stata mantenuta da diversi paesi della regione e la Cina ha continuato ad applicarla in modo massiccio. Le esecuzioni sono proseguite in Giappone. A marzo, un tribunale ha ordinato un nuovo processo e l’immediato rilascio di Hakamada Iwao, condannato a morte nel 1968, dopo un processo iniquo sulla base di una confessione forzata. Era il prigioniero da più lungo tempo nel braccio della morte in tutto il mondo. In Vietnam le esecuzioni sono continuate e diverse persone sono state condannate a morte per reati di natura economica. Le critiche nazionali e internazionali hanno avuto un certo impatto. In Malesia sono state rinviate le esecuzioni di Chandran Paskaran e Osariakhi Ernest Obayangbon. Tuttavia, i tribunali hanno continuato a infliggere condanne a morte e, secondo quanto riferito, le esecuzioni sono state effettuate in segreto. A gennaio, la Corte suprema indiana ha stabilito che l’indebito ritardo nell’esecuzione delle condanne a morte si configurava come tortura e che l’esecuzione di persone affette da malattie mentali sarebbe stata incostituzionale. La Corte ha anche dettato le linee guida per la tutela dei diritti delle persone condannate alla pena capitale. A dicembre, a seguito dell’attacco dei talebani pakistani in una scuola di Peshawar, il Pakistan ha annullato la moratoria e ha dato il via alle esecuzioni di prigionieri condannati per accuse legate al terrorismo. È stato riferito che più di 500 persone erano a rischio di essere messe a morte. L’Afghanistan ha continuato ad applicare la pena di morte, spesso dopo processi iniqui. A ottobre è

241 stata eseguita la condanna di sei uomini nel carcere di Pul-e-Charkhi, a Kabul. I procedimenti giudiziari di almeno cinque di loro per uno stupro di gruppo erano stati considerati iniqui, segnati da pressioni pubbliche e politiche sui giudici perché emettessero una sentenza severa e gli imputati hanno sostenuto di aver confessato sotto le torture della polizia durante la detenzione.

RESPONSABILITÀ DELLE IMPRESE

Le aziende hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani. Tuttavia, in molti paesi della regione Asia e Pacifico tale rispetto è mancato. Migliaia di persone sono rimaste a rischio di essere sgomberate con la forza dalle loro case e terre, per far posto a grandi infrastrutture e progetti commerciali in India. Sono state particolarmente vulnerabili le comunità native adivasi, che vivono nei pressi di miniere e dighe nuove e in espansione. A Papua Nuova Guinea, nel sito della miniera d’oro di Porgera, si sono inasprite le tensioni tra la società mineraria e i residenti locali. A giugno, circa 200 case sono state rase al suolo dalla polizia per far rispettare un ordine di sgombero. Sono state segnalate violenze fisiche e sessuali da parte della polizia durante lo sgombero forzato. Nel mese di dicembre ricorreva il 30° anniversario del disastro di Bhopal del 1984. I sopravvissuti hanno continuato a soffrire di gravi problemi di salute dovuti alla fuga di gas tossici e al continuo in- quinamento proveniente dal sito della fabbrica. La Dow Chemical Company e la Union Carbide non hanno risposto a una convocazione penale emanata da un tribunale di Bhopal. Il governo indiano doveva ancora bonificare il sito della fabbrica contaminato. In Cambogia sono continuati i conflitti per la terra e gli sgomberi forzati. Ciò ha portato a un aumento delle proteste e degli scontri, che spesso hanno visto coinvolte autorità locali e imprese private. A ottobre, un gruppo di esperti di diritto internazionale ha fornito informazioni all’Icc per conto di 10 vittime, secondo le quali il “diffuso e sistematico” accaparramento di terre da parte del governo cambogiano era un crimine contro l’umanità.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE

L’omosessualità è rimasta reato in diversi paesi della regione. Un progresso positivo si è avuto in India ad aprile quando, con una sentenza storica, la Corte suprema ha concesso il riconoscimento legale alle persone transgender. Ha imposto alle autorità di riconoscere l’autoidentificazione delle persone transgender come maschio, femmina o “terzo genere” e di mettere in atto politiche di assistenza sociale e quote nel campo dell’istruzione e del lavoro. Tuttavia, hanno continuato a essere segnalati casi di molestie e violenza contro le persone transgender.

Con una decisione storica, a novembre, la corte d’appello della Malesia ha dichiarato incostituzionale una legge dello stato di Negeri Sembilan, basata sulla sharia, che aveva reso illegale il travestitismo. Tuttavia, Amnesty International ha ricevuto segnalazioni di arresti e detenzione di persone Lgbti, esclusivamente sulla base della loro sessualità, e queste hanno continuato a subire discriminazioni. A ottobre, la Corte suprema di Singapore ha confermato la sezione 377A del codice penale, che crimi- nalizzava le relazioni omosessuali consensuali tra uomini. Nel Brunei, il nuovo codice penale ha

242 imposto la morte per lapidazione come possibile punizione per comportamenti che non dovrebbero essere considerati reati, come i rapporti sessuali extraconiugali e il sesso consensuale tra persone dello stesso sesso, oltre che per reati come il furto e lo stupro. In conclusione, gli epocali cambiamenti geopolitici ed economici che stanno avvenendo nella regione di Asia e Pacifico rendono ancora più urgente tutelare i diritti umani e colmare le mancanze, in modo che tutte le persone della regione possano godere della vera cittadinanza senza il rischio di subire sanzioni.

243 AFGHANISTAN

REPUBBLICA ISLAMICA DELL’AFGHANISTAN

Capo di stato e di governo: Muhammad Ashraf Ghani Ahmadzai (subentrato a Hamid Karzai a settembre)

È aumentata l’insicurezza in tutto il paese in previsione del ritiro degli 86.000 soldati stranieri, previsto per dicembre, alla scadenza del mandato della forza internazionale di assistenza alla si- curezza (International Security Assistance Force – Isaf) della Nato. Gli Usa si sono impegnati a mantenere le loro truppe attive fino alla fine del 2015. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UN Assistance Mission in Afghanistan – Unama) ha riferito che il numero di vittime tra i civili non coinvolti nelle ostilità in Afghanistan aveva raggiunto livelli mai visti. I talebani e altri gruppi d’insorti armati sono stati responsabili di più del 74 per cento delle vittime civili, mentre alle forze filogovernative è stato attribuito il nove per cento. Un ulteriore 12 per cento di decessi di civili si è verificato durante i combattimenti terrestri tra le forze del governo filoafgano e gli insorti talebani e non ha potuto essere attribuito ad alcun gruppo. Il restante cinque per cento era dovuto al conflitto. Il mancato accertamento delle responsabilità nei casi in cui i civili sono stati uccisi o hanno comunque subito danni in operazioni illegali ha lasciato molte vittime e i loro familiari senza accesso a giustizia e riparazione. Nel corso dell’anno, il parlamento e il ministero della Giustizia hanno approvato o modificato una serie di leggi, tra cui il codice di procedura penale, che impedivano ai familiari sia delle vittime, sia degli autori dei crimini di testimoniare. Poiché nella maggior parte delle denunce, la violenza di genere era avvenuta all’interno della famiglia, è stato praticamente impossibile avviare procedimenti penali con successo su questi casi. La legge è stata approvata da entrambe le camere del parlamento ma il presidente Karzai non l’ha firmata e l’ha respinta in seguito alle proteste da parte delle organizzazioni nazionali e inter- nazionali per i diritti umani.

CONTESTO Per cinque mesi si è avuto uno stallo elettorale, a causa del risultato non chiaro delle elezioni presi- denziali di aprile e per le accuse di brogli pesanti e sistematici nel ballottaggio di giugno, contro en- trambi i candidati. Dopo lunghi negoziati e gli interventi del segretario di stato Usa John Kerry e del Rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan Jan Kubis, i due candidati favoriti hanno concordato di formare il primo governo di unità del paese quando, il 22 settembre, sono stati annunciati i risultati delle elezioni. Ashraf Ghani ha prestato giuramento come presidente il 29 set- tembre, mentre il candidato rivale Abdullah Abdullah è divenuto capo dell’esecutivo, un ruolo simile a quello di un primo ministro. A fine anno, il nuovo gabinetto di governo doveva ancora essere deciso, tre mesi dopo che il presidente Ghani aveva prestato giuramento. A giugno, in risposta alle pressioni internazionali per frenare il finanziamento del terrorismo all’interno

244 della giurisdizione dell’Afghanistan, entrambe le camere del parlamento hanno approvato un disegno di legge contro il riciclaggio di denaro, successivamente promulgato dall’allora presidente Karzai. Il 30 settembre, il presidente Ghani ha firmato l’accordo di sicurezza bilaterale (Bilateral Security Agreement – Bsa) con gli Usa e l’accordo sullo status delle forze armate (Status of Forces Agreement – Sofa) con la Nato, consentendo a 9800 militari statunitensi e a 2000 ulteriori soldati Nato di restare in Afghanistan oltre la fine delle operazioni formali di combattimento, prevista per dicembre. Il loro ruolo sarà principalmente quello di addestramento e guida delle forze governative afgane.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI Tra il 1° gennaio e il 30 giugno, le vittime tra i civili non combattenti sono arrivate a quota 4853: di queste, più del 70 per cento sono state uccise dai talebani e altri gruppi d’insorti armati. Questo dato è raddoppiato rispetto al 2009 ed è aumentato del 24 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013. In totale sono state registrate 1564 morti e 3289 feriti. L’Unama ha dichiarato che il maggior numero di vittime è stato causato da dispositivi esplosivi im- provvisati e da attacchi suicidi. Le azioni terrestri hanno provocato due vittime civili su cinque, con 474 morti e 1427 feriti. Questi rappresentavano il 39 per cento di tutte le vittime civili, con un incremento dell’89 per cento rispetto al 2013. I talebani e altri gruppi d’insorti armati hanno frequentemente attaccato obiettivi facili da raggiungere, provocando un gran numero di vittime civili. Il numero di vittime tra i bambini e le donne è aumentato del 24 per cento rispetto al 2013 ed era pari al 29 per cento di tutte le vittime registrate nel primo se- mestre del 2014. Tra gennaio e agosto, l’Organizzazione per la sicurezza delle Ngo in Afghanistan (Ngo Safety Organization in Afghanistan – Nsog) ha registrato 153 attacchi contro operatori umanitari, che hanno provocato 34 morti e 33 feriti. Il governo ha attribuito la maggior parte di questi attacchi a uomini armati ap- partenenti a gruppi d’insorti, tra cui i talebani.

VIOLAZIONI DA PARTE DELLE FORZE GOVERNATIVE INTERNAZIONALI E AFGANE Le forze Isaf e Nato hanno continuato a lanciare raid notturni e attacchi aerei e di terra, provocando la morte di decine di civili, nonostante a giugno 2013 sia stato completato il passaggio di respon- sabilità per la sicurezza alle forze di sicurezza nazionali afgane (Afghan National Security Forces – Ansf). L’Unama ha dichiarato che il nove per cento del totale delle vittime civili è stato causato dalle forze filogovernative (otto per cento dalle Ansf e un per cento dalle forze Isaf/Nato) e che la maggior parte dei decessi era dovuta a combattimenti terrestri e fuoco incrociato. Il numero totale di civili uccisi dalle forze filogovernative nei primi sei mesi del 2014 è sceso da 302 a 158, soprattutto a causa della riduzione delle operazioni militari aeree. Le Ansf sono state responsabili di un maggior numero di vittime civili a causa del loro pieno coinvolgimento in operazioni militari e combattimenti di terra. Ha pesato il fallimento dell’accertamento delle responsabilità per la morte di civili, anche a causa dell’assenza d’indagini trasparenti e di giustizia per le vittime e le loro famiglie.1 A maggio, l’Alta corte inglese ha dichiarato illegale la politica di detenzione adottata dalle forze britanniche in Afghanistan, dopo aver riesaminato il caso di Serdar Mohammed, detenuto dal 2010. La corte ha rilevato che la sua detenzione, oltre le 96 ore consentite, era stata arbitraria, in violazione della Convenzione europea dei diritti umani. A seguito della sentenza, il governo afgano

245 ha ordinato al Regno Unito di consegnare i 23 prigionieri trattenuti in due strutture gestite dai bri- tannici a Helmand.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE La Commissione afgana indipendente per i diritti umani (Afghanistan Independent Human Rights Commission – Aihrc) ha registrato 4154 casi di violenza contro le donne nella sola prima metà dell’anno, con un aumento del 25 per cento rispetto al 2013. Il numero delle denunce di reati contro donne e ragazze è cresciuto ma non era chiaro se questo fosse dovuto all’aumento dei casi di violenza o a una maggiore consapevolezza e possibilità di accesso ai meccanismi di denuncia da parte delle donne. Un rapporto delle Nazioni Unite del 2013 aveva rilevato che la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne era stata applicata soltanto nel 17 per cento di tutti i casi denunciati in Af- ghanistan. Con una decisione giudicata positiva dai gruppi per i diritti delle donne e i diritti umani, l’ex presidente Karzai ha rifiutato di convertire in legge il codice di procedura penale approvato dal parlamento, che avrebbe vietato ai parenti degli imputati di testimoniare in cause penali. Poiché nella maggior parte delle denunce la violenza di genere risultava consumarsi all’interno della famiglia, tale norma avrebbe reso molto più difficile portare a termine con successo le azioni penali e avrebbe negato giustizia alle vittime di stupro e violenza domestica, così come a quelle obbligate a matrimoni precoci e forzati. Dall’altra parte, la riduzione della quota di seggi femminili nei consigli provinciali e l’assenza di donne nei negoziati di pace con i talebani hanno rappresentato passi indietro per i diritti delle donne. Secondo il ministero della Sanità, durante l’anno si sono verificati 4466 casi di autoavvelenamento e 2301 casi di autoimmolazione di donne, 166 dei quali sono risultati fatali. La violenza di genere è stata segnalata come la causa principale di questi atti di autolesionismo, seguita dai traumi legati al conflitto e allo sfollamento. Il 30 aprile, un religioso è stato arrestato per aver legato e violentato una delle sue allieve coraniche, una ragazzina di 10 anni, nella provincia di Kunduz.2

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI, TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Arresti e detenzioni arbitrari, compresa la detenzione in incommunicado, sono proseguiti ad opera del servizio d’intelligence, della direzione nazionale della sicurezza (National Directorate of Security – Nds) e della polizia. Ai sospettati sono stati sistematicamente negati i diritti all’equità processuale, tra cui l’accesso a un avvocato o alle famiglie. Sono perdurate le denunce di violazioni da parte del personale della Nds, tra cui tortura e altri maltrattamenti e sparizioni forzate. A fine anno, almeno 50 prigionieri non afgani erano ancora in custodia degli Usa nel centro di detenzione di Parwan (precedentemente noto come Bagram). Si riteneva che alcuni fossero imprigionati fin dal 2002. Le loro identità e ogni possibile incriminazione nei loro confronti non sono state rivelate, così come non è stato possibile sapere se fossero rappresentati da un legale e se avessero accesso alle cure mediche.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE – GIORNALISTI Il governo non ha indagato adeguatamente né perseguito i responsabili delle aggressioni contro gior- nalisti e altri operatori dei mezzi d’informazione che stavano pacificamente esercitando il loro diritto alla libertà d’espressione.

246 Rispetto al 2013, nel primo semestre del 2014 è stato registrato un aumento del 50 per cento del numero di giornalisti uccisi e del 60 per cento delle aggressioni. I giornalisti sono stati arrestati, minacciati, picchiati o uccisi in aggressioni che sono parse motivate politicamente, per mano di funzionari del governo, forze internazionali, gruppi d’insorti e sostenitori di candidati alle elezioni. Secondo l’organismo afgano di controllo dei mezzi d’informazione Nai, 20 giornalisti sono stati aggrediti e sette uccisi. Sono stati particolarmente a rischio i giornalisti che hanno seguito le elezioni presidenziali.

RIFUGIATI E SFOLLATI INTERNI Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, gli afgani hanno continuato a rappresentare la percentuale più alta di rifugiati nel mondo. I vicini Iran e Pakistan hanno ospitato 2,7 milioni di ri- fugiati afgani registrati. A marzo, l’Unhcr ha quantificato in 659.961 gli afgani sfollati all’interno del paese a causa del conflitto armato, del deterioramento della sicurezza e dei disastri naturali. L’11 febbraio, il ministero per i Rifugiati e il rimpatrio ha lanciato una storica politica nazionale per gli sfollati interni, che ha determinato la definizione giuridica di sfollato e ha stabilito le responsabilità primarie del governo per la fornitura di assistenza d’emergenza, sostegno a lungo termine e protezione. Tuttavia, sono state espresse preoccupazioni per un possibile incremento del numero degli sfollati, a causa del passaggio di mano del controllo della sicurezza, previsto per la fine del 2014, poiché insorti locali avrebbero potuto lottare per occupare territori precedentemente sotto il controllo delle forze internazionali. Le persone sfollate hanno continuato a migrare verso le città più grandi come Kabul, Herat e Mazar- e-Sharif. Ripari di fortuna inadeguati, sovraffollamento e scarsa igiene, combinati con condizioni cli- matiche avverse, hanno portato all’aumento delle malattie trasmissibili e croniche come la malaria e l’epatite. Gli sforzi per sradicare il virus della polio attraverso programmi di vaccinazione sono stati ostacolati da gruppi armati d’opposizione, compresi i talebani, e i casi hanno continuato a essere se- gnalati.

PENA DI MORTE L’Afghanistan ha continuato ad applicare la pena di morte, spesso dopo processi iniqui. L’8 ottobre, sei uomini sono stati messi a morte nel carcere Pul-e-Charkhi di Kabul, a meno di tre set- timane dell’insediamento del presidente Ghani. Cinque erano stati condannati per lo stupro di gruppo di quattro donne nel distretto di Paghman. Il sesto era stato condannato in un caso separato per una serie di rapimenti, omicidi e rapine a mano armata. Il 28 settembre, l’allora presidente Karzai ha firmato la condanna a morte per i sei uomini. I processi di cinque di loro sono stati considerati iniqui e controversi, segnati da pressioni pubbliche e politiche sui giudici perché emettessero una sentenza severa e gli imputati hanno sostenuto di aver confessato sotto tortura da parte della polizia durante la detenzione. Il presidente Ghani ha ordinato la revisione di circa 400 casi di condannati nel braccio della morte.

247 Note 1. Left in the dark: Failures of accountability for civilian casualties caused by international military operations in Afghanistan (ASA 11/006/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/asa11/006/2014/en/c628b1a4-821f-4168-a583- ac4a6159986e/ asa110062014en.pdf 2. Afghanistan: Ten-year-old rape survivor faces “honour” killing (ASA 11/013/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/ASA11/ 013/2014/en/63debb0c-105f-4e2d-9ca6-f682ce1de221/asa110132014en.pdf

AUSTRALIA

AUSTRALIA

Capo di stato: regina Elisabetta II, rappresentata da Peter Cosgrove (subentrato a Quentin Bryce a marzo) Capo di governo: Tony Abbott

È proseguita la linea dura nei confronti dei richiedenti asilo: coloro che giungevano via mare sono stati rimandati nel paese di partenza, trasferiti in centri di detenzione extraterritoriali per immigrati o detenuti in Australia. Pur costituendo solo una piccola parte della popolazione totale, la percentuale di nativi in carcere ha continuato a essere molto elevata; in particolare, tra i giovani il numero di nativi imprigionati superava di 25 volte quello dei non nativi. Una nuova normativa regressiva, introdotta in nome della lotta al terrorismo e per la sicurezza, non garantiva i diritti alla riservatezza, alla libertà d’espressione e alla libertà di movimento.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO L’Australia ha mantenuto la sua politica di esame dei casi d’asilo in aree extraterritoriali, trasferendo tutti coloro che arrivavano su imbarcazioni via mare dopo il 19 luglio 2013 nei centri di detenzione per immigrati gestiti dall’Australia nell’isola di Manus, appartenente alla Papua Nuova Guinea, o a Nauru. Il 1° dicembre, circa 2040 richiedenti asilo risultavano detenuti in questi centri, tra cui 155 minori a Nauru. La violenza e la probabile inadeguatezza delle cure mediche hanno provocato la morte di due richiedenti asilo, presso il centro di detenzione per immigrati australiano sull’isola di Manus (cfr. Papua Nuova Guinea). L’Australia ha continuato a respingere imbarcazioni che trasportavano richiedenti asilo. A settembre, risultavano respinte in mare 12 imbarcazioni con 383 persone a bordo. Altre due imbarcazioni sono state rinviate direttamente in Sri Lanka. A ottobre, il governo ha introdotto nuove norme per accelerare l’esame di oltre 24.000 domande di asilo che erano rimaste sospese. La legislazione ha rimosso una serie d’importanti garanzie e avrebbe permesso il rinvio dei richiedenti in altri paesi, senza tenere conto degli obblighi di non-refoulement dell’Australia, previsti dal diritto internazionale. L’Australia ha inoltre mantenuto la sua politica di detenzione obbligatoria per coloro che giungevano nel paese senza un visto valido. Al 1° dicembre, 3176 persone, tra cui 556 minori, risultavano trattenute

248 nei centri di detenzione sul continente e sull’isola di Natale. Ad agosto, il governo ha annunciato che avrebbe trasferito la maggior parte dei bambini e delle loro famiglie dai centri di detenzione ai margini del paese all’interno della comunità, assegnando loro visti “ponte”.

DIRITTI DEI POPOLI NATIVI A causa del fallimento di vari governi nell’affrontare efficacemente la condizione di svantaggio dei nativi, questi hanno continuato a costituire una parte sproporzionata della popolazione carceraria. I nativi rappresentavano il 27,4 per cento degli adulti e il 57,2 per cento dei minori detenuti, nonostante la popolazione nativa complessivamente raggiungesse appena il 2,3 per cento di adulti e il 5,5 per cento di giovani sul totale degli abitanti. Ad agosto, in Australia Occidentale, una giovane donna aborigena è morta durante la detenzione di polizia, dopo che l’ospedale locale per due volte l’aveva rimandata in custodia, malgrado avesse gravi lesioni interne. Era stata arrestata per pagare una multa, una prassi che colpiva in modo spro- porzionato le popolazioni native. Tra settembre e dicembre, il governo dell’Australia Occidentale ha demolito la maggior parte degli edifici della comunità remota aborigena di Oombulgurri, in seguito a uno sgombero forzato avvenuto nel 2011. Molte comunità remote in tutta l’Australia sono state a rischio in conseguenza della decisione assunta a settembre dal governo federale d’interrompere il finanziamento di servizi basilari a livello municipale.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA Sono state introdotte leggi nazionali per ampliare i poteri delle agenzie d’intelligence, controllare le attività online e impedire la segnalazione di comportamenti illeciti dei membri di tali agenzie. Tali norme rendevano reato viaggiare all’estero in aree giudicate dal governo come luoghi in cui una de- terminata organizzazione terroristica fosse impegnata in “attività ostili” e trasferivano l’onere della prova sull’accusato. L’utilizzo della controversa detenzione preventiva e degli ordini di controllo è stato esteso ed è stato introdotto un reato non ben definito di “sostegno” al terrorismo.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A novembre, l’Australia è stata sottoposta alla quinta revisione periodica dinanzi al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Il Comitato ha criticato l’Australia perché continuava con la politica di detenzione obbligatoria dei richiedenti asilo e dell’esame delle loro richieste in zone extraterritoriali. Ha anche sollevato preoccupazioni circa il sovraffollamento delle carceri e le elevate e sproporzionate percentuali di nativi tra la popolazione carceraria. Il Comitato ha esortato l’Australia a ratificare in tempi brevi il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura.

249 BANGLADESH

REPUBBLICA POPOLARE DEL BANGLADESH

Capo di stato: Abdul Hamid Capo di governo: Sheikh Hasina

Decine di persone sono state vittime di sparizione forzata. Giornalisti e difensori dei diritti umani hanno continuato a essere aggrediti e vessati. La violenza contro le donne è stata uno dei principali motivi di preoccupazione nell’ambito dei diritti umani. La polizia e le altre forze di sicurezza hanno torturato nell’impunità. Operai delle fabbriche hanno continuato a essere a rischio a causa di pericolosi standard di sicurezza sul posto di lavoro. Almeno una persona è stata messa a morte senza che potesse appellarsi contro la condanna alla pena capitale.

CONTESTO Il governo della primo ministro Sheikh Hasina è rimasto alla guida del paese dopo che il suo partito, la Lega popolare bengalese (Awami League), è stato dichiarato vincitore delle elezioni di gennaio. Le elezioni sono state boicottate dal partito d’opposizione, il Partito nazionalista del Bangladesh, e dai suoi alleati. Durante le proteste dell’opposizione contro le elezioni sono state uccise più di 100 persone, alcune delle quali dopo che la polizia aveva aperto il fuoco sui manifestanti, che erano spesso ricorsi alla violenza. Si ritiene che nessuna di queste morti sia stata oggetto d’indagine. Secondo le testimonianze, i sostenitori dei partiti d’opposizione hanno attaccato i pendolari sugli autobus con bombe incendiarie, uccidendo almeno nove persone e ferendone molte altre. Il tribunale per i crimini internazionali, istituito in Bangladesh nel 2009 per processare i crimini com- messi durante la guerra d’indipendenza del 1971, ha emesso alcuni verdetti in un’atmosfera politica altamente polarizzata. I sostenitori di questi processi hanno chiesto la condanna a morte degli imputati, indipendentemente dall’efficacia delle prove presentate contro di loro.

SPARIZIONI FORZATE Non è stato possibile stabilire il numero esatto di persone vittime di sparizione forzata; alcune stime suggerivano che fossero oltre 80. Dei 20 casi documentati di sparizioni forzate nel periodo 2012- 2014, nove persone sono state successivamente trovate morte. In sei casi le vittime sono tornate alle loro famiglie dopo periodi di prigionia, variabili da qualche settimana ad alcuni mesi, senza notizie sulla loro sorte fino al momento della liberazione. Per i restanti cinque scomparsi, non ci sono state informazioni. Dopo la sparizione forzata e la successiva uccisione di sette persone a Narayanganj, ad aprile, tre agenti del battaglione d’intervento rapido (Rapid Action Battalion – Rab) sono stati arrestati e indagati per il loro presunto coinvolgimento in rapimenti e uccisioni; a fine anno erano diventati almeno 17. Era questa la prima volta da quando il battaglione è stato creato nel 2004. Amnesty In- ternational ha accolto con favore l’inchiesta come un passo verso il riconoscimento delle responsabilità

250 delle forze di sicurezza per presunte violazioni dei diritti umani. Tuttavia, è perdurato il timore che il governo potesse lasciar cadere i casi, se fosse diminuita la pressione pubblica che chiedeva giustizia. A parte questo caso, non ci sono state chiare indicazioni d’indagini approfondite per altri episodi, come l’inspiegabile rapimento e uccisione di Abraham Linkon, a febbraio.1

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE L’uso da parte del governo della sezione 57 della legge sull’informazione e la tecnologia delle comu- nicazioni (Information and Communication Technology Act – Ict) ha fortemente limitato il diritto alla libertà d’espressione. Le norme di questa sezione prevedevano che le persone ritenute responsabili di violazioni della legge potessero essere condannate a un massimo di 10 anni di carcere se le accuse nei loro confronti erano state formulate prima del 6 ottobre 2013; da quella data in poi, un emendamento alla legge non soltanto ha aumentato la pena massima a 14 anni di reclusione ma ha anche imposto una pena minima di sette anni. La sezione 57 della legge Ict ha reso reati una vasta gamma di azioni pacifiche, come la critica alla visione religiosa islamica in un articolo di giornale o la segnalazione di violazioni dei diritti umani. Almeno quattro blogger, due utenti di Facebook e due funzionari di un’organizzazione per i diritti umani, sono stati accusati ai sensi della sezione 57 della legge Ict, fra il 2013 e il 2014. Tra questi c’erano i blogger Asif Mohiuddin, Subrata Adhikari Shuvo, Mashiur Rahman Biplob e Rasel Parvez e i difensori dei diritti umani Adilur Rahman Khan e Nasiruddin Elan. Più di una decina di operatori dell’informazione, tra cui alcuni giornalisti, hanno riferito di essere stati minacciati dalle agenzie di sicurezza per aver criticato le autorità. Le minacce pervenivano so- litamente con telefonate dirette ai giornalisti o attraverso messaggi ai loro direttori. Molti giornalisti e partecipanti a talk show hanno dichiarato di essersi in conseguenza autocensurati. La libertà d’espressione è stata anche minacciata da gruppi religiosi. In almeno 10 episodi, è stato segnalato che tali gruppi avevano sparso la voce che una certa persona avesse usato i social media per insultare l’Islam o fosse impegnata in presunte attività anti-islamiche sul luogo di lavoro. Almeno cinque persone sono state successivamente aggredite; due sono morte e altre hanno subito lesioni gravi. Le due persone uccise erano Ahmed Rajib2 e un insegnante dell’università di Rajshahi, Akm Shafiul Islam, morto a novembre 2014 per le coltellate presumibilmente inflittegli dai membri di un gruppo che aveva denunciato come “non islamica” la sua opposizione all’uso del burqa da parte delle studentesse nella sua classe.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE La violenza contro le donne è rimasto uno dei principali motivi di preoccupazione in materia di diritti umani. Un’organizzazione per i diritti delle donne, Bangladesh Mahila Parishad, ha riferito i risultati di un’analisi che ha effettuato sulle notizie apparse sulla stampa, secondo cui almeno 423 donne e ragazze erano state vittime di varie forme di violenza nel solo mese di ottobre. L’organizzazione ha dichiarato che più di 100 di queste donne erano state stuprate, 11 delle quali erano poi anche state uccise. Più di 40 erano state vittime di violenza fisica perché le loro famiglie non avevano potuto fornire la dote richiesta dal marito o dalla sua famiglia; di queste, 16 erano morte a causa delle ferite riportate. Donne e ragazze sono state anche vittime di violenza domestica, aggressioni con l’acido e tratta.

251 TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti sono stati diffusi e commessi impunemente. La polizia ha abitualmente torturato le persone che deteneva in custodia. Tra i metodi utilizzati sono stati segnalati pestaggi, so- spensione dal soffitto, scosse elettriche ai genitali e, in alcuni casi, spari alle gambe dei detenuti. Al- meno nove persone sono morte in custodia di polizia tra gennaio e luglio 2014, presumibilmente a causa delle torture subite.

DIRITTI DEI LAVORATORI Gli standard di sicurezza nelle fabbriche e altri luoghi di lavoro sono stati pericolosamente bassi. Il 24 aprile 2013, almeno 1130 lavoratori tessili erano morti e almeno altri 2000 feriti per il crollo di Rana Plaza, un edificio di nove piani che ospitava cinque fabbriche di abbigliamento. In seguito è emerso che quel giorno i dirigenti avevano ordinato ai lavoratori di entrare nell’edificio quel giorno nonostante fosse stato chiuso il giorno precedente a causa di crepe apparse sui muri. Un incidente simile era avvenuto nel 2012, quando almeno 112 lavoratori morirono in un incendio alla fabbrica Ta- zreen Fashions, a Dhaka, dopo che i dirigenti avevano impedito loro di fuggire, sostenendo che si trattasse di un falso allarme. Le iniziative per fornire un risarcimento alle vittime di disastri sul posto di lavoro, che hanno visto coinvolti il governo, alcuni marchi internazionali e l’Ilo, si sono rivelate insufficienti e i sopravvissuti hanno continuato a lottare per sostenere se stessi e le loro famiglie.

PENA DI MORTE I tribunali hanno continuato a comminare condanne a morte, 11 delle quali sono state inflitte dal tri- bunale per i crimini internazionali. Una condanna a morte è stata imposta direttamente dalla Corte suprema, dopo che il governo era ricorso in appello contro l’assoluzione dell’imputato da parte del tri- bunale. L’uomo è stato messo a morte a dicembre 2013. I prigionieri le cui condanne a morte sono state confermate in appello erano a rischio imminente di esecuzione.

Note 1. Bangladesh: Stop them, now! Enforced disappearances, torture and restrictions on freedom of expression (ASA 13/005/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/ASA13/005/2014/en/f162d376-6eda-49fd-8cf5-4c79fc2067b0/asa130052014en.pdf 2. Bangladesh: Attacks on journalists rise with tension around war crimes tribunal (PRE01/085/2013), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/bangladesh-attacks-journalists-rise-tension-around-war-crimes-tribunal-2013

252 BRUNEI DARUSSALAM

SULTANATO DEL BRUNEI DARUSSALAM

Capo di stato e di governo: sultano Hassanal Bolkiah

La mancanza di trasparenza e la carenza d’informazioni hanno reso difficile il monitoraggio indipendente sulla situazione dei diritti umani. Tra forti critiche internazionali, il 1° maggio è entrato in vigore il codice penale modificato, sebbene sia stato annunciato che la sua attuazione sarebbe stata graduale. Il nuovo codice penale, che esige l’imposizione della sharia, conteneva diverse disposizioni che violavano i diritti umani, con l’aumento del numero di reati punibili con la pena di morte, un amplia- mento dell’uso della tortura e di pene crudeli, disumane o degradanti, limitazioni ai diritti alla libertà d’espressione e di religione o di credo e discriminazione verso le donne. Sempre a maggio, la situazione dei diritti umani nel paese è stata oggetto dell’Esame periodico uni- versale delle Nazioni Unite.

PENA DI MORTE Il nuovo codice penale1 ha imposto la morte per lapidazione come possibile punizione per condotte che non dovrebbero essere considerate reati, come le relazioni sessuali extramatrimoniali e i rapporti sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso, nonché per reati come il furto e lo stupro. Il codice ha anche previsto la pena di morte per i minori al momento del reato e per crimini come la de- risione del profeta Maometto. Tuttavia, pur mantenendo la pena di morte nel diritto, il paese è rimasto abolizionista de facto.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Il Brunei Darussalam non ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Il nuovo codice penale ha notevolmente esteso l’ambito di applicazione delle punizioni corporali, che si confi- gurano o possono configurarsi come tortura (compresa la lapidazione, v. il precedente paragrafo). La fustigazione o l’amputazione sono state previste per una vasta serie di reati, compreso il furto. La fustigazione giudiziaria è rimasta una punizione comune per vari reati, tra cui il possesso di stupefacenti e i reati connessi all’immigrazione. Nel 2014, risultano essere state eseguite almeno tre condanne alla fustigazione. Secondo il diritto in vigore, i minori possono essere condannati alla fusti- gazione; la revisione del codice penale ha introdotto anche la possibilità di condannarli all’amputazione. Il codice penale prevedeva norme discriminatorie nei confronti delle donne, come la punizione dell’aborto con fustigazione pubblica.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE I giornalisti hanno continuato a essere vittime di censura. A febbraio, il sultano ha ordinato di cessare le critiche al nuovo codice penale.

253 LIBERTÀ DI RELIGIONE La costituzione tutela il diritto dei non musulmani a praticare la loro religione ma le leggi e le politiche limitano questo diritto in modo identico sia per i musulmani, sia per i non musulmani. Il codice penale modificato ha reso reato l’insegnamento ai bambini musulmani di credenze e pratiche di religioni diverse dall’Islam.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA La legge per la sicurezza interna (Internal Security Act – Isa) ha permesso la detenzione senza processo per periodi di due anni rinnovabili indefinitamente ed è stata impiegata per detenere attivisti antigovernativi. A un cittadino indonesiano, detenuto senza processo ai sensi dell’Isa da febbraio, è stato inizialmente negato per due mesi il permesso di visita da parte della sua ambasciata.

Note 1. Brunei Darussalam: Authorities must immediately revoke new Penal Code (ASA 15/001/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/ASA15/001/2014/en

CAMBOGIA

REGNO DI CAMBOGIA

Capo di stato: re Norodom Sihamoni Capo di governo: Hun Sen

Il rispetto del diritto alla libertà d’espressione, d’associazione e di riunione si è deteriorato con l’isti- tuzione del divieto di effettuare assemblee pubbliche per sette mesi. Le autorità sono ricorse all’uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici, provocando morti e feriti. Difensori dei diritti umani e attivisti politici hanno subito minacce, molestie, azioni penali e talvolta violenze. È perdurata l’im- punità per i responsabili di violazioni dei diritti umani, in assenza d’indagini approfondite, imparziali e indipendenti su uccisioni e pestaggi. Due ulteriori condanne presso le Camere straordinarie dei tri- bunali della Cambogia per crimini contro l’umanità durante il periodo dei khmer rossi hanno imposto l’ergastolo; era in corso un secondo processo contro gli stessi imputati. Migliaia di persone colpite dall’accaparramento di terreni da parte di aziende private per progetti di sviluppo e agroindustriali hanno subito sgomberi forzati e perdita di terre, alloggi e mezzi di sussistenza.

CONTESTO A luglio, il partito d’opposizione, Partito per la salvezza nazionale della Cambogia (Cambodian National Rescue Party – Cnrp), ha posto fine al boicottaggio dell’assemblea nazionale, durato un anno, a seguito di un accordo sulla riforma elettorale raggiunto con il primo ministro Hun Sen e il suo partito al governo, il Partito popolare cambogiano (Cambodian People’s Party – Cpp). L’opposizione,

254 che aveva ottenuto 55 seggi su 123 nelle elezioni nazionali del luglio 2013, aveva denunciato una presunta frode elettorale che avrebbe favorito il Cpp. A luglio sono state emanate due nuove leggi, quella sull’organizzazione dei tribunali e quella sullo status dei giudici e dei pubblici ministeri, oltre alla modifica della legge sull’organizzazione e il fun- zionamento del Consiglio supremo della magistratura. Le leggi hanno concesso al ministero della Giustizia e al Consiglio supremo della magistratura eccessivi poteri sui giudici e sui pubblici ministeri, in violazione degli standard internazionali. Nonostante il coro di critiche da parte di organizzazioni per i diritti umani e per i rifugiati, tra cui l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, a settembre la Cambogia ha firmato un controverso protocollo d’intesa con l’Australia, con cui accettava un numero non rivelato di rifugiati riconosciuti come tali, trasferiti dall’isola di Nauru, nel Pacifico. L’Australia si è impegnata a finanziare per un anno i costi di trasferimento e i servizi per i rifugiati in Cambogia e a fornire aiuti supplementari del valore di 40 milioni di dollari Usa per un periodo di quattro anni.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza in risposta a riunioni pacifiche, provocando morti e feriti. Il 2 gennaio, 10 uomini, tra cui quattro difensori dei diritti umani, sono stati picchiati con bastoni di legno e barre di metallo e poi arrestati nel corso di un’operazione violenta compiuta da soldati, in risposta alle proteste per lo più pacifiche dei lavoratori di una fabbrica di abbigliamento in sciopero. Il giorno dopo, quattro uomini sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco e altri 21 feriti, quando le forze di sicurezza hanno sparato proiettili veri durante violenti scontri con lavoratori tessili in sciopero e altri avvenuti nel quartiere Pur Senchey, nella capitale Phnom Penh. Anche se alcuni manifestanti hanno lanciato sassi, la vita degli agenti o di altre persone non era stata minacciata. L’uso di proiettili veri è apparso una risposta non necessaria e quindi in violazione degli standard internazionali. Decine di persone sono state ricoverate in ospedale, tra cui molte con ferite da proiettile. Tra le vittime c’erano anche adolescenti: Khem Saphath, un ragazzo di 16 anni, è stato visto per l’ultima volta dopo essere stato ferito da un’arma da fuoco e si presume sia morto.1 A Phnom Penh, per tutto l’anno sono stati impiegati agenti di sicurezza di quartiere e uomini in borghese per disperdere manifestazioni pacifiche. Hanno usato armi come bastoni, manganelli di legno, barre di metallo, armi con scosse elettriche e fionde. Osservatori per i diritti umani e giornalisti sono stati tra le persone specificamente prese di mira e picchiate. A giugno, la Cambogia ha respinto le raccomandazioni degli stati che partecipavano all’analisi della relazione sui diritti umani presentata dal governo per l’Esame periodico universale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Le raccomandazioni chiedevano d’indagare in merito all’uso eccessivo della forza contro i manifestanti e alle uccisioni durante le proteste e di far cessare l’impunità per tali abusi. Nessuno è stato chiamato a rispondere per nessuna delle morti o dei feri- menti.2

LIBERTÀ DI RIUNIONE Il 5 gennaio, dopo tre giorni di repressione delle proteste, il cui bilancio è stato di almeno quattro morti e 23 arresti, il ministero dell’Interno ha annunciato che le manifestazioni “dovevano essere provvisoriamente sospese”. Sono state ripetutamente respinte le richieste ufficiali presentate da in-

255 dividui e gruppi per ottenere il permesso di tenere raduni a Phnom Penh. Ad aprile, il Parco della libertà di Phnom Penh (un’area designata per le riunioni pacifiche secondo la legge sulle manifestazioni pacifiche) è stato chiuso con il filo spinato. Le persone che hanno tentato di riunirsi nonostante il divieto sono state disperse con la violenza dalle forze di sicurezza. Ad agosto, le limitazioni alle riunioni pacifiche sono state allentate e il Parco della libertà è stato riaperto, a seguito di un accordo politico raggiunto tra il governo e il partito d’opposizione. Oltre ai 10 uomini arrestati il 2 gennaio, altri 13 lavoratori sono stati fermati il 3 gennaio durante scontri letali avvenuti nel quartiere Pur Senchey di Phnom Penh. Alcuni dei 23 arrestati sono stati du- ramente picchiati dalle forze di sicurezza ed è stato loro negato accesso alle cure mediche. Tutti sono stati accusati di violenza intenzionale e di altri crimini e imprigionati. A maggio sono stati condannati dopo processi definiti iniqui da osservatori locali; le condanne sono state poi sospese e sono stati tutti rilasciati. A luglio, otto funzionari del Cnrp, all’opposizione, sono stati arrestati e accusati di aver guidato un’“in- surrezione”, dopo un violento scontro tra alcuni sostenitori del partito e guardie di sicurezza di quartiere, durante un tentativo di raduno pacifico al Parco della libertà. Sono stati tutti rilasciati una settimana più tardi, nello stesso giorno in cui è stato raggiunto l’accordo politico precedentemente citato. Tuttavia, 10 giovani attivisti e un funzionario del Cnrp, cinque dei quali erano in detenzione preprocessuale, sono stati in seguito chiamati in giudizio il 25 dicembre per accuse di “insurrezione”; il processo è stato poi rinviato a gennaio 2015. A settembre è stata avviata un’azione legale contro sei leader sindacali per “istigazione”. Anche se non sono stati arrestati, la corte ha emesso nei loro confronti ordini di sorveglianza, impedendo loro di partecipare od organizzare proteste. A novembre, sette donne attiviste per il diritto all’alloggio della comunità di Boeung Kak sono rimaste in carcere per un anno dopo un processo sommario, per aver partecipato a una protesta di strada non violenta. Anche altre tre donne e un monaco buddista sono stati arrestati per aver chiesto il loro rilascio fuori dal tribunale.3 Nel resto del paese sono state le autorità locali a impedire incontri e forum. A marzo e a giugno, nella provincia di Kampong Thom, la Rete giovanile cambogiana (Cambodian Youth Network – Cyn) ha cercato di tenere incontri di formazione su temi di diritti umani, tra cui il disboscamento illegale, ma gli incontri sono stati interrotti dalla polizia armata. A giugno è stato vietato anche un dibattito pubblico sul disboscamento illegale nella provincia di Preah Vihear, pur essendo stato regolarmente programmato.

DISPUTE FONDIARIE I conflitti per la terra sono continuati, tra dispute sull’accaparramento di terreni, sgomberi forzati, concessioni di terreni commerciali e preoccupazioni ambientali. Ciò ha portato a un aumento delle proteste e degli scontri, che spesso hanno visto coinvolte autorità locali e imprese private. Ad aprile, il gruppo locale per i diritti Lega cambogiana per la promozione e la difesa dei diritti umani (Cambodian League for the Promotion and Defense of Human Rights – Lcadho) ha stimato che il numero totale di persone colpite, a partire dal 2000, dall’accaparramento della terra e dagli sgomberi forzati nelle 13 province monitorate (circa la metà del paese) aveva superato il mezzo milione. Le dispute fondiarie sono rimaste irrisolte, lasciando migliaia di persone senza un alloggio adeguato e senza terra, e quindi impossibilitate a guadagnarsi da vivere, oppure a rischio di sgombero forzato. A marzo, l’Associazione cambogiana per i diritti umani e lo sviluppo (Cambodian Human Rights and Development Association – Adhoc) ha nuovamente presentato reclami alle autorità competenti per

256 conto di circa 11.000 famiglie coinvolte in dispute di lunga data, alcune delle quali ormai in corso da oltre 10 anni. Le famiglie provenivano da 105 comunità di 17 delle 25 province della Cambogia. Nonostante le numerose promesse da parte delle autorità di trovare una soluzione, più di 100 delle 300 famiglie sgombrate con la forza da Borei Keila, a Phnom Penh, nel gennaio 2012, sono rimaste senza casa e continuavano a vivere in condizioni molto difficili. A ottobre, un gruppo di esperti di diritto internazionale ha fornito informazioni all’Icc per conto di 10 vittime che sostenevano che il “diffuso e sistematico” accaparramento di terre da parte del governo cambogiano era un crimine contro l’umanità.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE Ad agosto, Nuon Chea, di 88 anni, ex comandante in seconda del regime dei khmer rossi, e Khieu Samphan, di 83 anni, ex capo di stato, sono stati condannati al carcere a vita da parte delle Camere straordinarie dei tribunali della Cambogia (Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia – Eccc, tribunale Khmer Rouge). Sono stati ritenuti colpevoli del trasferimento forzato di popolazione da Phnom Penh e da altri luoghi e dell’esecuzione di soldati della Repubblica khmer, il regime rovesciato dai khmer rossi. Entrambi si sono appellati contro il verdetto. Le Eccc hanno anche approvato 11 progetti di riparazione con finanziamenti esterni, proposti dalle vittime. A ottobre contro i due uomini è iniziata la causa 002/02, relativa a presunti crimini contro l’umanità commessi in cooperative agricole e in un centro di sicurezza nella provincia di Takeo.

Note 1. Cambodia: Open letter urging an immediate investigation into the disappearance of Khem Saphath (ASA 23/002/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA23/002/2014/en 2. Cambodia rejects recommendations to investigate killings of protesters: Human Rights Council adopts Universal Periodic Review outcome on Cambodia (ASA 23/005/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA23/005/2014/en 3. Women defenders and Buddhist monk sentenced (ASA 23/007/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA23/007/2014/en

CINA

REPUBBLICA POPOLARE CINESE

Capo dello stato: Xi Jinping Capo di governo: Li Keqiang

Le autorità hanno continuato a limitare fortemente il diritto alla libertà d’espressione. Attivisti e difensori dei diritti umani hanno rischiato vessazioni e detenzioni arbitrarie. La tortura e altri mal- trattamenti sono rimasti diffusi e molte persone non hanno avuto accesso alla giustizia. Le minoranze etniche, tra cui tibetani, uiguri e mongoli, hanno subito discriminazioni e una repressione sempre crescente in tema di sicurezza. Un numero mai visto di lavoratori è sceso in sciopero per chiedere migliori salari e condizioni di lavoro.

257 A novembre 2013, il terzo plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha redatto un progetto per approfondire le riforme economiche e sociali, aprendo la strada per modifiche delle politiche di pianificazione familiare e del sistema di registrazione delle famiglie. Nel 2013 è stata an- nunciata anche l’abolizione del sistema di rieducazione attraverso il lavoro. Il quarto plenum, che si è tenuto a ottobre 2014, si è focalizzato sullo stato di diritto.

CONTESTO Per tutto il 2014, il presidente Xi Jinping ha continuato a condurre una campagna anticorruzione di alto profilo, mirata a funzionari sia di basso, sia di alto livello. A luglio, i mezzi d’informazione di stato hanno annunciato che Zhou Yongkang, ex ministro della Pubblica sicurezza e membro del Comitato permanente del Politburo del Partito comunista, era sotto indagine per presunta corruzione già dalla fine del 2013. Era il funzionario più alto in grado coinvolto nella campagna, grazie alla quale, secondo fonti ufficiali, più di 100.000 funzionari sono stati indagati e puniti. A maggio e ottobre, i Comitati delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali e per l’elimi- nazione della discriminazione contro le donne hanno esaminato l’attuazione da parte della Cina del- l’Icescr e della Cedaw.1 A dicembre 2013, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha adottato il documento finale del secondo Esame periodico universale della Cina.

DETENZIONE ARBITRARIA A dicembre 2013, il Congresso nazionale del popolo ha ufficialmente abolito il noto sistema di riedu- cazione attraverso lavoro. Dopo la sua abolizione, le autorità hanno fatto ampio uso di altre forme di detenzione arbitraria, tra cui la reclusione in centri giudiziari di educazione alla legalità, varie forme di detenzione amministrativa, le “carceri nere” e gli arresti domiciliari illegali. Inoltre, la polizia ha frequentemente utilizzato accuse vaghe, come ad esempio “attaccare briga e provocare guai” e “di- sturbo dell’ordine pubblico”, per detenere arbitrariamente attivisti fino a 37 giorni. I membri del Partito comunista cinese sospettati di corruzione sono stati trattenuti secondo il sistema segreto di shuanggui (o “doppia designazione”), senza accesso all’assistenza legale o alle famiglie.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti sono rimasti molto diffusi. A marzo, quattro avvocati che stavano inda- gando su un centro giudiziario di educazione alla legalità a Jiansanjiang, nella provincia di Heilongjiang, sono stati arbitrariamente arrestati e torturati. Uno di loro, Tang Jitian, ha raccontato di essere stato legato a una sedia di ferro, preso a schiaffi e a calci e colpito così duramente alla testa con una bottiglia di plastica piena d’acqua da svenire. Ha riferito di essere stato poi incappucciato, ammanettato con le mani dietro la schiena e sospeso per i polsi, mentre la polizia continuava a picchiarlo.2 Ad agosto, in un caso raro, una corte d’appello di Harbin, nella provincia di Heilongjiang, ha confermato le condanne di quattro persone accusate di tortura. Insieme ad altre tre persone, sono stati riconosciuti colpevoli dal tribunale di primo grado per aver torturato diversi sospetti criminali nel marzo 2013 e sono stati condannati a periodi di reclusione variabili da uno a due anni e mezzo. Solo tre dei sette erano agenti di polizia; gli altri quattro erano “informatori speciali”, cittadini comuni che presumibil- mente “aiutavano” la polizia a indagare sui reati. Una delle loro vittime è morta in custodia, dopo essere stata torturata con scosse elettriche e picchiata con una scarpa.

258 COMMERCIO DI STRUMENTI DI TORTURA E ABUSO DI EQUIPAGGIAMENTO DI POLIZIA La Cina ha consolidato la propria posizione come uno dei maggiori produttori ed esportatori di una crescente gamma di strumenti per la polizia, compresi oggetti di uso non lecito per il controllo dell’ordine pubblico, quali manganelli stordenti con scosse elettriche e pesanti congegni serra gambe. Inoltre la Cina ha esportato, senza controlli adeguati e anche in presenza di rischio concreto di gravi violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza riceventi, strumenti che potevano essere utilizzati legittimamente per il controllo dell’ordine pubblico ma il cui abuso era assai facile, quali gas lacrimogeni o veicoli antisommossa.3

PENA DI MORTE A maggio, con una sentenza storica, la Suprema corte del popolo ha annullato la condanna a morte di Li Yan, vittima di violenza domestica, e ha ordinato un nuovo processo, che a fine anno era ancora pendente. La corte intermedia del popolo della città di Ziyang aveva condannato Li Yan a morte nel 2011 per l’omicidio del marito, ignorando le prove degli abusi che aveva subito. In un raro caso di assoluzione, ad agosto, l’Alta corte della provincia di Fujian ha annullato la condanna a morte di Nian Bin, proprietario di una bancarella di cibo, per presunto avvelenamento di alcuni vicini con veleno per topi. Nian Bin era stato inizialmente condannato a morte nel 2008, nono- stante avesse dichiarato che la sua confessione era stata estorta sotto tortura.4 L’Alta corte ha rilevato l’insufficienza di prove ma non ha affrontato le accuse di tortura. In maniera similare, nel caso di Hugjiltu, un uomo proveniente dall’interno della Mongolia messo a morte per stupro e omicidio commessi nel 1996, a dicembre la corte del popolo della Mongolia interna ha stabilito la sua innocenza e annullato il verdetto originario. La sua famiglia ha ricevuto due milioni di yuan per compensazione.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI I difensori dei diritti umani hanno continuato a rischiare vessazioni, detenzioni arbitrarie, imprigio- namento, tortura e altri maltrattamenti per la loro legittima attività in favore dei diritti umani. A marzo, Cao Shunli è morta in ospedale per insufficienza d’organo, dopo che in carcere le erano state negate cure mediche adeguate per un problema preesistente.5 Era stata arrestata in un aeroporto di Pechino a settembre 2013, mentre si stava recando in Svizzera per un incontro di formazione sui diritti umani. Il giro di vite sugli attivisti per i diritti si è intensificato nel corso dell’anno. Persone associate a una rete diffusa di attivisti chiamata Movimento dei nuovi cittadini sono state condannate a periodi di re- clusione tra i due e i sei anni e mezzo. Il movimento aveva lanciato una campagna per i pari diritti al- l’istruzione per i figli dei lavoratori migranti, per l’abolizione del sistema di registrazione delle famiglie, per una maggiore trasparenza del governo e contro la corruzione.6 Più di 60 attivisti sono stati arrestati arbitrariamente o posti illegalmente agli arresti domiciliari nel periodo precedente al 25° anniversario della violenta repressione delle proteste per la democrazia del giugno 1989, in piazza Tienanmen a Pechino. Molti, tra cui il noto avvocato per i diritti umani Pu Zhiqiang, sono rimasti in carcere in attesa di processo.7 A fine settembre e inizio ottobre, circa 100 attivisti in tutta la Cina sono stati arrestati per il loro sostegno alle proteste in favore della democrazia a Hong Kong. A fine anno, 31 erano ancora in carcere.8

259 LIBERTÀ D’ESPRESSIONE La dirigenza cinese ha intensificato i propri sforzi per limitare sistematicamente la libertà d’informa- zione. A fine 2013, il Partito comunista ha istituito un gruppo per “coordinare la sicurezza di Internet”. Un membro del gruppo avrebbe descritto l’incarico come una battaglia “contro la penetrazione ideo- logica” da parte di “forze straniere ostili”. A giugno, l’associazione di tutti gli avvocati cinesi ha pubblicato progetti di regolamenti che vieterebbero agli avvocati di discutere di casi in corso, di scrivere lettere aperte o di criticare il sistema legale, le politiche del governo e del Partito comunista. Sempre a giugno, l’amministrazione statale di stampa, pubblicazioni, radio, film e televisione ha vietato ai giornalisti di riferire su questioni o aree estranee al loro abituale campo di lavoro e di pubblicare articoli critici che non fossero stati approvati dalla loro unità di lavoro. Le autorità hanno continuato a utilizzare il diritto penale per reprimere la libertà d’espressione, anche attraverso l’arresto e l’incarcerazione di attivisti, i cui commenti su Internet erano stati visti più di 5000 volte o ripubblicati più di 500 volte. Sono state avanzate accuse penali contro giornalisti. Gao Yu, una giornalista di primo piano, è stata portata via ad aprile e quindi imprigionata perché sospettata di aver “diffuso illegalmente segreti di stato a livello internazionale”. A maggio è stato arrestato Xiang Nanfu, un collaboratore di Boxun, una delle maggiori fonti d’informazione indipendenti in lingua cinese. Entrambi sono stati mostrati alla televisione nazionale mentre “confessavano” i loro presunti crimini, prima ancora che avessero inizio i processi. A settembre, Ilham Tohti, studioso uiguro e fondatore del sito Uighur Online, è stato condannato al- l’ergastolo dopo essere stato accusato di “separatismo”. Le prove principali a suo carico citate dalle autorità erano articoli tratti dal suo sito Internet. Ilham Tohti non ha avuto accesso all’assistenza legale per cinque mesi dopo l’arresto; è stato torturato e durante la detenzione preventiva, gli è stato negato il cibo.9

LIBERTÀ DI RELIGIONE Le persone che praticavano culti religiosi vietati dallo stato o senza il permesso dello stato hanno ri- schiato vessazioni, detenzione arbitraria, imprigionamento, tortura e altri maltrattamenti. Nella regione autonoma uigura dello Xinjiang (Xinjiang Uighur Autonomous Region – Xuar), le autorità hanno intensificato le già pesanti restrizioni all’Islam, con l’obiettivo dichiarato di combattere “il ter- rorismo violento e l’estremismo religioso”. Numerose contee hanno pubblicato avvisi sui loro siti Internet, affermando che agli studenti non sarebbe stato consentito di osservare il ramadan e molti insegnanti hanno dato cibo e dolci ai bambini per fare in modo che non rispettassero il digiuno. È stata rafforzata l’interdizione per i dipendenti pubblici e i quadri del Partito comunista aderenti a un culto religioso e diversi quadri uiguri sono stati puniti per aver scaricato dal web materiali di natura religiosa o per aver “pregato pubblicamente”. Segni esteriori di adesione all’Islam, come la barba o il velo, sono stati spesso vietati. Nella provincia di Zhejiang, è stata condotta una campagna su larga scala contro le chiese, con il pretesto di sanare strutture edilizie che violavano il codice delle costruzioni. Le autorità hanno demolito le chiese e hanno rimosso croci e crocifissi. A maggio, un edificio della Chiesa del santo amore di Xiaying, a Ningbo, sarebbe stato demolito perché era “appariscente”. I seguaci di religioni vietate, come coloro che praticavano il cristianesimo nelle “chiese domestiche” o i membri del Falun Gong, hanno continuato a subire persecuzioni.

260 DIRITTI RIPRODUTTIVI Le modifiche alle politiche di pianificazione familiare hanno consentito di avere due figli se uno dei due genitori è figlio unico. Il comitato permanente del Congresso nazionale del popolo ha formalizzato le variazioni a dicembre 2013 e le province hanno iniziato a metterle in pratica dal 2014. Sono rimaste in vigore molte restrizioni sui diritti riproduttivi.

DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI Le modifiche apportate al sistema di registrazione delle famiglie, noto come hukou, hanno reso più facile per i residenti in aree rurali lo spostamento verso città di piccole o medie dimensioni. L’accesso alle prestazioni e ai servizi sociali, tra cui l’istruzione, l’assistenza sanitaria e le pensioni, ha continuato a essere collegato allo status del hukou, che rappresentava una possibile causa di discri- minazione. Il sistema hukou ha costretto molti migranti interni a lasciare i loro figli in campagna.

REGIONE AUTONOMA DELLO XINJIANG UIGURO (XUAR) Le autorità hanno attribuito a uiguri numerosi episodi di violenza verificatisi nella Xuar o in altre regioni e li hanno utilizzati per giustificare una risposta con la mano pesante. A maggio è stata lanciata la campagna “colpire duro” per neutralizzare “il terrorismo violento e l’estremismo religioso”, suscitando preoccupazioni circa l’equità dei processi a cui sarebbero stati sottoposti gli accusati. Alti funzionari hanno dato priorità alla rapidità negli arresti e nella convocazione dei processi, chiedendo al tempo stesso una maggiore “cooperazione” tra i pubblici ministeri e i tribunali. Al 26 maggio, i funzionari della Xuar avevano annunciato l’arresto di oltre 200 presunti membri di “gruppi terroristici ed estremisti” e lo smantellamento di 23 “circoli del terrore”. Il 29 maggio, in uno dei nu- merosi “raduni di condanna” effettuati dal lancio della campagna, 55 persone, probabilmente tutte uigure, sono state condannate per reati che comprendevano il terrorismo, di fronte a circa 7000 spet- tatori in uno stadio.10 Il 28 luglio, i mezzi d’informazione di stato hanno riferito che 37 civili erano stati uccisi quando una “folla armata di coltelli” aveva preso d’assalto gli uffici del governo nella contea di Yarkand (Shache) e che le forze di sicurezza avevano ucciso 59 aggressori. Gruppi uiguri hanno contestato questa versione, affermando che il numero delle vittime era molto più alto e che la polizia aveva aperto il fuoco su centinaia di persone che protestavano contro le severe restrizioni imposte ai musulmani durante il ramadan. Gli uiguri hanno subito diffuso discriminazioni in materia di occupazione, istruzione e alloggio, limitazioni alla libertà di culto ed emarginazione politica.

REGIONE AUTONOMA DEL TIBET E AREE POPOLATE DA TIBETANI IN ALTRE PROVINCE Le persone di etnia tibetana hanno continuato a subire discriminazioni e restrizioni ai loro diritti alla libertà di fede religiosa, d’espressione, d’associazione e di riunione. Molti leader monastici, scrittori, manifestanti e attivisti tibetani sono stati arrestati. Ad agosto, secondo quanto riferito, la polizia e le forze di sicurezza hanno sparato contro manifestanti tibetani a Kardze (Ganzi), nella provincia di Sichuan, dove una folla si era radunata per protestare contro la detenzione di un capo villaggio. Almeno quattro manifestanti sono morti per le ferite riportate e un altro si è suicidato in carcere. Nel 2014, sette persone si sono date fuoco in aree popolate da tibetani in segno di protesta contro le politiche repressive delle autorità; almeno due sono morte. Il numero di autoimmolazioni di cui si ha

261 notizia a partire dal marzo 2011 è salito a 131. Le autorità hanno preso di mira alcuni parenti e amici di coloro che si erano immolati, accusandoli di aver “incitato” o “supportato” questi atti. In alcune contee, familiari di persone che si erano immolate o coloro che avevano frequentato le lezioni del Dalai Lama, che simpatizzavano per il “Dalai Clique” o che avevano “collegamenti all’estero”, sono stati esclusi da posizioni di rilievo o dalla possibilità di candidarsi alle elezioni di villaggio.

REGIONE AD AMMINISTRAZIONE SPECIALE DI HONG KONG

Libertà di riunione Nel 2014, ad Hong Kong si sono svolte proteste su larga scala. Il 1° luglio, secondo la stima degli organizzatori, più di 500.000 persone hanno preso parte a una marcia in favore della democrazia, seguita da un sit-in nel quartiere finanziario. Più di 500 manifestanti sono stati arrestati la notte seguente.11 Alcuni hanno riferito che non è stato loro permesso di accedere agli avvocati e non hanno ricevuto cibo e acqua per diverse ore prima di essere rilasciati senza accusa. A fine settembre, migliaia di studenti hanno organizzato un boicottaggio di classe di una settimana, culminato in un sit-in di fronte alla Piazza civica, vicino alla sede del governo di Hong Kong. Più tardi quella notte, alcuni dei manifestanti sono entrati nella parte recintata della Piazza civica. La polizia ha risposto con spray al pepe e ha chiuso nella piazza 70 manifestanti, 20 dei quali sono stati arrestati il giorno seguente.12 Questi eventi hanno portato alla richiesta di avviare una campagna di disobbedienza civile, Occupy Central, allo scopo di occupare le strade nel centro di Hong Kong. Il 28 settembre, la polizia ha usato gas lacrimogeni e spray al pepe nel tentativo di disperdere migliaia di manifestanti pacifici, che si erano radunati nelle strade vicino alla sede amministrativa. Il 3 ottobre, contromanifestanti li hanno attaccati, anche aggredendo sessualmente, molestando e minacciando donne e ragazze, e la polizia non è intervenuta per diverse ore.13 I giornalisti che seguivano le proteste hanno reclamato poiché la polizia ha impedito il loro lavoro. Il 15 ottobre, sei agenti sono stati filmati mentre picchiavano un manifestante in un angolo buio nella zona delle proteste Admiralty.14 A fine novembre, la polizia ha fatto uso arbitrario della forza contro manifestanti, giornalisti e passanti durante lo sgombero della zona di protesta Mongkok15 e fuori dal complesso governativo di Admiralty. La maggior parte delle proteste pacifiche si sono concluse a metà dicembre e, secondo il commissario di polizia di Hong Kong Andy Tsang, 955 persone sono state arrestate in relazione alle proteste di Occupy e altri arresti sono stati effettuati anche dopo.

Libertà d’espressione Sono stati sollevati timori per il diritto alla libertà di stampa quando Kevin Lau Chun-to, ex redattore capo del giornale Ming Pao, è stato rimosso dal suo incarico a gennaio. Sotto la direzione di Lau, Ming Pao aveva riferito delle presunte violazioni dei diritti umani e delle malefatte di alti funzionari a Hong Kong e in Cina. A ottobre, oltre 20 giornalisti di Television Broadcasts Limited, una stazione televisiva locale, hanno pubblicato una lettera aperta che criticava la percepita autocensura dell’emittente nei servizi sul pe- staggio della polizia ai danni di Ken Tsang Kin-Chiu, manifestante di Occupy Central.

262 Lavoratori domestici migranti Migliaia dei circa 300.000 lavoratori domestici migranti di Hong Kong, quasi tutte donne, sono state vittime di tratta a scopo di sfruttamento e lavoro forzato e si sono fortemente indebitate per pagare compensi illegali ed eccessivi alle agenzie di lavoro. La “regola delle due settimane” (che stabilisce che al termine di un contratto di lavoro i lavoratori domestici migranti dovevano trovare una nuova occupazione o lasciare Hong Kong entro due settimane) e la norma che impone ai lavoratori domestici migranti di vivere con i loro datori di lavoro hanno aumentato il rischio di violazioni dei diritti umani e sindacali. I datori di lavoro spesso li hanno sottoposti ad abusi fisici o verbali, hanno limitato la loro libertà di movimento, hanno proibito loro di praticare la loro fede, hanno pagato cifre inferiori al salario minimo ammissibile, hanno negato loro adeguati periodi di riposo e hanno arbitrariamente posto termine ai contratti, spesso in collusione con le agenzie di collocamento. Le autorità di Hong Kong non hanno monitorato adeguatamente le agenzie di collocamento né hanno punito quelle che avevano violato la legge. A dicembre, la corte distrettuale ha iniziato un processo di alto profilo che coinvolgeva tre lavoratrici domestiche migranti indonesiane: Erwiana Sulistyaningsih, Nurhasanah e Tutik Lestari Ningsih. Il loro ex datore di lavoro, Law Wan-tung, doveva affrontare 21 capi d’accusa, tra cui lesioni personali gravi intenzionali, aggressione, intimidazione criminale e mancato pagamento dei salari.16

REGIONE AD AMMINISTRAZIONE SPECIALE DI MACAO Docenti universitari favorevoli alla democrazia hanno riferito di essere stati presi di mira per la loro partecipazione politica e per aver criticato il governo. Bill Chou Kwok-ping, docente dell’università di Macao e vicepresidente del maggiore gruppo per la democrazia di Macao, ha dichiarato di essere stato sospeso per aver “imposto convinzioni politiche” ai suoi allievi. Dopo un’indagine, l’università non gli ha rinnovato il contratto. Un altro professore, Eric Sautede, docente presso l’università di San Giuseppe, ha perso il posto a luglio; il rettore dell’università ha dichiarato a un giornale locale in lingua portoghese che il licenziamento era dovuto a un commento politico fatto da Sautede.

Note 1. China: Hong Kong SAR: Submission to the United Nations Committee on the Elimination of Discrimination Against Women: 59th session, 20 October – 7 November 2014 (ASA 17/052/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA17/052/2014/en 2. China: Amnesty International calls for an investigation in to the allegations of torture of four lawyers in China (ASA 17/020/2014), http://www.amnesty.org/en/library/info/ASA17/020/2014/en 3. China’s trade in tools of torture and repression (ASA 17/042/2014) www.amnesty.org/en/library/info/ASA17/042/2014/en 4. China: Death row inmate freed after six years of trials and appeals (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/china-death-row-inmate-freed-after-six-years-trials-and-appeals-2014-08-22 5. China: Fear of cover-up as Cao Shunli’s body goes missing (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/news/china-fear- cover-cao-shunli-s-body-goes-missing-2014-03-26 6. China: Xu Zhiyong four year jail sentence shameful (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press- releases/china-xu-zhiyong-four-year-jail-sentence-shameful-2014-01-26-0 China: Three anti-corruption activists jailed on ‘preposterous’ charges (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/news/china- three-anti-corruption-activists-jailed-preposterous-charges-2014-06-19 7. Tiananmen crackdown: Repression intensifies on eve of 25 anniversary (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/news/tia- nanmen-crackdown-repression-intensifies-eve-25th-anniversary-2014-06-03

263 8. China: Release supporters of Hong Kong protests (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/news/china-release-sup- porters-hong-kong-protests-2014-10-01 9. China: Deplorable life sentence for Uighur academic (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press- releases/china-deplorable-life-sentence-uighur-academic-2014-09-23 10. China: Shameful stadium ‘show trial’ is not justice (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/news/china-shameful- stadium-show-trial-not-justice-2014-05-29 11. Hong Kong: Mass arrests a disturbing sign for peaceful protest (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/news/hong- kong-mass-arrests-disturbing-sign-peaceful-protest-2014-07-02 12. Hong Kong: Police response to student pro-democracy protest an alarming sign (comunicato stampa), amnesty.org/ en/news/hong-kong-police-response-student-pro-democracy-protest-alarming-sign-2014-09-27 13. Hong Kong: Women and girls attacked as police fail to protect peaceful protesters (comunicato stampa), www.amnesty.org/ en/news/hong-kong-women-and-girls-attacked-police-fail-protect-peaceful-protesters-2014-10-04 14. Hong Kong: Police officers must face justice for attack on protester (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/news/hong- kong-police-officers-must-face-justice-attack-protester-2014-10-15 15. Hong Kong: Heavy-handed policing will only inflame protests (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press- releases/hong-kong-heavy-handed-policing-will-only-inflame-protests-2014-11-28 16. Hong Kong: The government has to put an end to the exploitation of migrant domestic workers (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/hong-kong-government-has-put-end-exploitation-migrant-domestic-wor- kers-2014

COREA DEL NORD

REPUBBLICA DEMOCRATICA POPOLARE DI COREA

Capo di stato: Kim Jong-un Capo di governo: Pak Pong-ju

Le Nazioni Unite hanno reso pubblico un rapporto completo sulla situazione dei diritti umani nella Re- pubblica democratica popolare di Corea (Corea del Nord), che ha fornito dettagli sulla violazione si- stematica di quasi tutta la gamma dei diritti umani. Centinaia di migliaia di persone hanno continuato a essere detenute in campi di prigionia e altre strutture detentive, molte di loro senza essere state accusate o processate per reati riconosciuti secondo i criteri internazionali. Le libertà d’espressione, religione e movimento, sia all’interno sia all’esterno del paese, sono rimaste gravemente limitate. Non si sono avute notizie sul destino delle persone scomparse forzatamente, nonostante il governo abbia ammesso il coinvolgimento di agenti statali nel rapimento di alcuni individui.

CONTESTO Il terzo anno della presidenza di Kim Jong-un è cominciato a dicembre 2013, con il processo di alto profilo e l’esecuzione di Jang Song-taek, vicepresidente della commissione nazionale di difesa e zio di Kim Jong-un. Questo atto è stato ritenuto l’inizio di una serie di epurazioni politiche, al fine di

264 consolidare ulteriormente il potere di Kim Jong-un, sebbene nel corso del 2014 non siano state con- fermate altre esecuzioni di oppositori politici legati a Jang. Alcune forme di economia privata, ufficialmente illegali ma tollerate dal governo, hanno continuato a espandersi, incluse bancarelle di cibo e vestiti gestite privatamente. Osservatori hanno espresso il timore che l’apparente apertura economica potesse creare maggiori disparità di reddito. Questa non è stata accompagnata da un miglioramento della situazione generale dei diritti umani. Il governo ha tentato di fare arrivare valuta straniera nel paese, anche attraverso il turismo. Nonostante questi sforzi, lo stato è rimasto ipersensibile verso qualunque azione dei visitatori stranieri che potesse essere percepita come volta a diffondere idee politiche o religiose incompatibili con quelle promosse dallo stato. La libertà d’informazione è stata limitata e Internet non è stato accessibile pubblicamente. Al suo posto è stata creata una “intranet” nazionale. A maggio si è verificato un raro caso di assunzione di responsabilità da parte del governo, quando i mezzi d’informazione di stato hanno riferito tempestivamente in merito al crollo di un condominio nella capitale, Pyongyang, che ha provocato la morte di più di 300 persone. Organi di stampa stranieri a Pyongyang hanno riferito che i cittadini avevano espresso la loro rabbia per l’incidente e il governo aveva presentato le sue scuse per i metodi di costruzione difettosi.

VAGLIO INTERNAZIONALE La commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani nella Repubblica democratica popolare di Corea ha reso pubblico il suo rapporto a febbraio.1 Il documento, di 372 pagine, ha presentato una rassegna completa di “violazioni sistematiche, diffuse ed evidenti dei diritti umani” e ha concluso che molte di queste costituiscono crimini contro l’umanità. A marzo, il rapporto è stato presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, durante il quale è stata approvata una forte risoluzione, che accoglieva favorevolmente il rapporto e che ha ottenuto il sostegno della mag- gioranza degli stati membri del Consiglio.2 A maggio, la Corea del Nord è stata oggetto di un secondo Esame periodico universale (Universal Periodic Review – Upr). Il governo si è impegnato di più rispetto a quanto aveva fatto durante il primo Upr nel 2010 e questa volta ha fatto sapere quali raccomandazioni avrebbe supportato, tra cui quelle relative al funzionamento efficace degli aiuti umanitari. Tuttavia, il governo ha rifiutato di accettare più della metà delle raccomandazioni, in particolare quelle dirette alla cooperazione con la Commissione d’inchiesta e il Relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nella Corea del Nord. Ha inoltre re- spinto le categoriche raccomandazioni per la chiusura dei campi di prigionia politica o per consentire alle vittime straniere di sparizioni forzate di tornare liberamente nei loro paesi d’origine.3 A dicembre, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una forte risoluzione che racco- mandava il deferimento della situazione dei diritti umani in Corea del Nord alla Corte penale interna- zionale.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Centinaia di migliaia di persone sono rimaste rinchiuse in campi di prigionia politica e altre strutture di detenzione, in cui sono state sottoposte a violazioni sistematiche, diffuse ed evidenti dei diritti umani, come esecuzioni extragiudiziali, tortura e altri maltrattamenti, tra cui pestaggi, lunghi periodi di duri lavori forzati senza riposo e privazione di cibo. Molti dei detenuti nei campi di prigionia politica non erano stati condannati per aver commesso

265 alcun reato riconosciuto secondo i criteri internazionali ma soltanto perché erano parenti di persone ritenute una minaccia per l’amministrazione. Questi sono stati detenuti senza un processo equo, secondo il concetto di “colpa per associazione”. Il governo ha continuato a negare l’esistenza di campi di prigionia politica, anche se le immagini sa- tellitari hanno dimostrato non solo la loro presenza ma anche l’espansione di alcuni di essi a partire dalla fine del 2013. Cittadini nordcoreani e stranieri sono stati sottoposti a detenzione arbitraria dopo processi iniqui. Kenneth Bae e Matthew Todd Miller, entrambi statunitensi, sono stati condannati per “atti ostili” contro il regime, rispettivamente nel 2013 e nel 2014. Prima del loro rilascio, a novembre, avevano iniziato a scontare periodi di lavoro forzato di 15 anni il primo e di sei anni il secondo. In un’intervista con mezzi d’informazione stranieri, ad agosto, Kenneth Bae ha raccontato del processo iniquo a cui era stato sottoposto e del deterioramento della sua salute all’interno del campo di lavoro.

LIBERTÀ DI RELIGIONE La pratica di ogni culto religioso ha continuato a essere fortemente limitata. Secondo quanto riferito, a cittadini nordcoreani e stranieri sono state comminate pesanti punizioni, compresa la detenzione in campi di prigionia, per aver esercitato il loro diritto alla libertà di religione.4 John Short, un missionario australiano, è stato arrestato per aver promosso il suo credo religioso ed è stato espulso a marzo soltanto dopo essersi scusato pubblicamente. Kim Jung-wook, un missionario della Corea del Sud, è stato detenuto per più di sei mesi, senza accesso a un avvocato, prima di essere condannato per aver istituito una chiesa clandestina e per spionaggio. Era stato condannato ai lavori forzati a vita. A maggio, il turista americano Jeffrey Fowle è stato arrestato per aver lasciato una bibbia in un club a Chongjin. È stato detenuto per più di cinque mesi senza processo, prima di essere rilasciato a ottobre.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Le autorità hanno continuato a imporre dure restrizioni all’esercizio dei diritti alla libertà d’espressione, opinione e riunione pacifica. Non ci sono state notizie della presenza nel paese di organizzazioni della società civile, giornali o partiti politici indipendenti. I cittadini nordcoreani potevano essere perquisiti dalle autorità alla ricerca di materiali informativi stranieri e potevano essere puniti se ascoltavano, guardavano o leggevano tali materiali.

LIBERTÀ DI MOVIMENTO I controlli alle frontiere sono rimasti stretti. Il numero di persone fuggite dal nord e arrivate in Corea del Sud nel 2012 e nel 2013 è stato inferiore a quello degli anni precedenti. Secondo la stampa sudcoreana, attraversare la frontiera è diventato sempre più difficile anche grazie a tecnologie di sorveglianza potenziate, compreso l’impiego di apparecchiature di disturbo atte a im- pedire ai cittadini di usare telefoni cellulari cinesi lungo il confine. L’uso dei telefoni cellulari per i cittadini nordcoreani è rimasto limitato a una rete locale chiusa, che copriva solo la Corea del Nord. A inizio agosto, un gruppo composto da circa 29 persone, tra cui un bambino di un anno, è stato rim- patriato forzatamente in Corea del Nord, dopo essere stato detenuto in Cina. Non è stato reso noto se queste persone fossero accusate di aver attraversato illegalmente il confine ma, in tal caso, avrebbero potuto rischiare il carcere, la tortura e altri maltrattamenti, incluso il lavoro forzato.5

266 SPARIZIONI FORZATE Ad agosto, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate o involontarie ha chiesto riscontri alla Corea del Nord, in merito alla sorte di 47 persone che pare fossero state rapite in terra straniera da agenti di sicurezza nordcoreani e che successivamente erano scomparse. In maggioranza si trattava di cittadini della Corea del Sud. A maggio, il governo si è impegnato in incontri con il Giappone per affrontare la questione dei rapimenti e ha avviato un comitato speciale incaricato di riaprire le indagini su casi di cittadini giapponesi rapiti negli anni Settanta e Ottanta. Il Giappone ha però respinto il rapporto iniziale sulla riapertura delle indagini perché non conteneva nuove informazioni sui 12 cittadini giapponesi per i quali la Corea del Nord aveva già ammesso ufficialmente che erano stati rapiti in Giappone da agenti di sicurezza nordcoreani.

DIRITTO AL CIBO A settembre, il Programma alimentare mondiale ha segnalato che la situazione della disponibilità di cibo in Corea del Nord era “grave”. Nonostante i raccolti fossero migliorati nei due anni precedenti, un periodo di siccità nel 2014 ha fatto scendere, ad agosto, i livelli delle razioni alimentari da 410 a soli 250 grammi per persona al giorno, circostanza che è stata dai più letta come un’indicazione del- l’imminente carenza di cibo. Le ultime statistiche hanno rivelato che le percentuali di malnutrizione cronica sono rimaste relativamente elevate nel 2013, colpendo un bambino su quattro di età inferiore ai cinque anni. Sebbene la Corea del Nord abbia ricevuto assistenza umanitaria dal Programma alimentare mondiale e da altre agenzie di aiuti, il governo non ha permesso a queste ultime di estendere l’assistenza ad alcune delle comunità più vulnerabili. Sono rimaste in vigore limitazioni per coloro che tentavano di monitorare la consegna di aiuti alimentari a gruppi specifici.

Note 1. North Korea: UN Security Council must act on crimes against humanity (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/north-korea-un-security-council-must-act-crimes-against-humanity-2014-02-17 2. North Korea: UN vote a positive step to end crimes against humanity (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/north-korea-un-vote-positive-step-end-crimes-against-humanity-2014-03-28 3. Urgent need for accountability and cooperation with the international community by North Korea (ASA 24/006/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA24/006/2014/en 4. North Korea: End persecution of Christians after reports US tourist detained (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/north-korea-end-persecution-christians-after-reports-us-tourist-detained-20 5. China: Further information: Families forcibly returned to North Korea (ASA 17/048/2014), www.amnesty.org/en/library /info/ASA17/048/2014/en

267 COREA DEL SUD

REPUBBLICA DI COREA

Capo di stato: Park Geun-hye Capo di governo: Chung Hong-won

I diritti dei lavoratori sono stati violati attraverso la negazione della libertà d’associazione, la riduzione dell’azione collettiva legittima e, nel caso dei lavoratori migranti, con lo sfruttamento reso possibile dal sistema del permesso di lavoro. Il governo ha limitato sempre più la libertà d’espressione, utilizzando la legge di sicurezza nazionale per intimidire e imprigionare le persone. La polizia ha bloccato proteste pacifiche. Almeno 635 obiettori di coscienza sono rimasti in carcere.

CONTESTO Il secondo anno di mandato della presidenza di Park Geun-hye ha mostrato una tendenza regressiva nella realizzazione dei diritti umani. Sono emersi numerosi motivi di preoccupazione, tra cui gli ostacoli alla libertà di riunione e d’espressione. Dopo la morte di più di 300 persone, molte delle quali studenti, nell’incidente che ha provocato l’affondamento del traghetto Sewol ad aprile, sono state sollevate ulteriori preoccupazioni su questioni quali l’efficacia di reazione alle catastrofi e l’imparzialità delle in- dagini. Due casi di spionaggio, in cui il servizio nazionale d’intelligence è stato criticato per essere pro- babilmente ricorso a prove create ad arte, hanno alimentato i timori circa l’abuso di potere del governo.

DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI Lavoratori agricoli migranti impiegati secondo il sistema del permesso di lavoro (Employment Permit System – Eps) sono stati sottoposti a orari di lavoro eccessivi, salari inadeguati, negazione del riposo settimanale e delle ferie annuali retribuiti, subappalti illegali e cattive condizioni di vita. Molti lavoratori sono anche stati discriminati sul posto di lavoro a causa della loro nazionalità. L’esclusione dei lavoratori agricoli dalle disposizioni della legge sugli standard di lavoro, relative all’orario di lavoro, alle pause quotidiane e ai giorni di riposo settimanale retribuito era a tutti gli effetti discrimi- natoria, poiché colpiva in modo sproporzionato i lavoratori migranti. Molti lavoratori non sono stati in grado di sfuggire a condizioni lavorative di sfruttamento a causa delle pesanti restrizioni poste dal governo alla possibilità per i migranti di cambiare lavoro e perché la legge sugli standard di lavoro ha escluso i lavoratori agricoli dalla tutela giuridica. Molti migranti intervistati da Amnesty International erano stati costretti dai loro datori di lavoro a la- vorare in condizioni durissime configurabili come lavori forzati, solitamente attraverso minacce e vio- lenze. Molti erano stati reclutati con l’inganno a scopo di sfruttamento, in una situazione paragonabile alla tratta. I lavoratori migranti che avevano sporto denuncia spesso hanno dovuto continuare a lavorare per gli stessi datori di lavoro durante le indagini, rimanendo così a rischio di ulteriori abusi. Coloro che hanno lasciato il posto di lavoro hanno rischiato di essere segnalati alle autorità per l’immigrazione come “fuggitivi” dai loro datori di lavoro e sottoposti ad arresto ed espulsione.

268 L’Eps ha scoraggiato i lavoratori migranti dallo sporgere denuncia e dal cambiare lavoro per timore di perdere la possibilità di estendere la durata del contratto e alcuni funzionari hanno attivamente dissuaso i migranti dal presentare denunce formali. Di conseguenza, i datori di lavoro che maltrattavano i lavoratori migranti raramente sono incorsi in sanzioni legali.1

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE – SINDACATI I sindacati hanno affrontato limitazioni sempre maggiori. Diversi dirigenti sindacali sono stati incri- minati penalmente o persino incarcerati, per aver portato avanti rivendicazioni collettive e altre legittime attività sindacali. Nel 2013, Kim Jung-woo, un ex dirigente del sindacato coreano dei metalmeccanici presso la Ssangyong Motor, era stato condannato a 10 mesi di carcere per aver impedito a funzionari municipali di sman- tellare un sito di protesta nella capitale Seoul. È stato rilasciato su cauzione ad aprile 2014, dopo aver scontato la prima condanna ma ha dovuto affrontare un appello dell’accusa che chiedeva una condanna più pesante. Il ministero del Lavoro e dell’occupazione nel 2013 aveva cercato di annullare la registrazione del sindacato coreano degli insegnanti e dei lavoratori dell’istruzione (Korean Teachers and Education Workers’ Union – Ktu) e, a giugno 2014, una sentenza del tribunale amministrativo di Seoul ha con- fermato l’annullamento. Tuttavia, l’Alta corte di Seoul ha sospeso l’esecuzione di questa sentenza a settembre, in attesa dell’esito di un appello.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Il governo ha continuato a impiegare la legge sulla sicurezza nazionale (National Security Law – Nsl) per limitare la libertà d’espressione. Nei primi otto mesi dell’anno, almeno 32 persone sono state ac- cusate di violazioni della Nsl. Tale numero si è rivelato inferiore a quello del 2013, anno in cui 129 persone erano state indagate o incriminate ai sensi della Nsl, la cifra più alta nell’arco di un decennio, ma è rimasto un motivo di grande preoccupazione. Lee Seok-ki, membro dell’assemblea nazionale del Partito progressista unificato (Unified Progressive Party – Upp), è stato incarcerato insieme ad altri sei membri del partito per “cospirazione a scopo di rivolta”, “incitamento all’insurrezione” e altre attività che sono state ritenute violare la Nsl. Ad agosto, durante l’appello, l’Alta corte di Seoul ha respinto le accuse di “cospirazione a scopo di rivolta” ma ha confermato le altre incriminazioni e ha ridotto le pene detentive a periodi variabili da due a nove anni. Il governo ha anche cercato di sciogliere l’Upp, rivolgendosi alla Corte costituzionale, che a dicembre ha stabilito che il partito aveva violato l’ordinamento democratico di base e lo ha sciolto. Era la prima richiesta di questo tipo da parte del governo dopo l’avvento della democrazia nel 1987 e la prima volta che un partito veniva sciolto dal 1958.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Dopo l’incidente del traghetto ad aprile, la polizia ha arrestato più di 300 persone nel tentativo di sedare le manifestazioni pacifiche di malcontento verso le risposte del governo all’affondamento del traghetto. Nei mesi successivi all’incidente, la polizia ha continuato a impedire i raduni di piazza. A giugno, la polizia ha represso una manifestazione pacifica nella città di Miryang, ferendo 14 parte- cipanti. Circa 300 persone, molte delle quali erano anziane, stavano protestando contro la costruzione

269 di torri di trasmissione elettrica ad alta tensione, chiedendo una reale consultazione con la popolazione interessata.

OBIETTORI DI COSCIENZA A fine anno, almeno 635 obiettori di coscienza erano in carcere. Parte dell’opinione pubblica ha espresso preoccupazione circa il sistema di servizio militare obbligatorio dopo la morte di due militari di leva, che aveva fatto emergere prove di continui maltrattamenti al- l’interno dell’esercito. Ad agosto, insieme a diverse altre Ngo, Amnesty International ha sottoposto pareri in una causa dinanzi alla Corte costituzionale, sottolineando che il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare derivava dal diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.2

COMMERCIO DI ARMI La Corea del Sud ha esportato notevoli quantità di proiettili lacrimogeni in paesi in cui sono stati uti- lizzati in maniera indiscriminata nel controllo delle manifestazioni.3 A seguito delle pressioni di Amnesty International e di altri gruppi per i diritti umani, a gennaio, il governo ha annunciato la so- spensione delle spedizioni di gas lacrimogeni verso il Bahrain.4 Nel 2013, la Corea del Sud ha firmato il trattato sul commercio di armi ma, a fine 2014, non lo aveva ancora ratificato, né lo aveva recepito nella legislazione interna.

Note 1. Bitter Harvest: Exploitation and forced labour of migrant agricultural workers in South Korea (ASA 25/004/2014), www.am- nesty.org/en/library/info/ASA25/004/2014/en 2. Korea: The right to conscientious objection to military service: amicus curiae opinion (POL 31/001/2014), www.amnesty.org/ en/library/info/POL31/001/2014/en 3. South Korea: Open letter to the President on first anniversary of inauguration (ASA 25/001/2014), www.amnesty.org/en/ library/info/ASA25/001/2014/en 4. South Korea suspends tear gas supplies to Bahrain (NWS 11/003/2014), www.amnesty.org/en/news/south-korea-su- spends-tear-gas-supplies-bahrain-2014-01-07

FIGI

REPUBBLICA DELLE FIGI

Capo di stato: Ratu Epeli Nailatikau Capo di governo: Josaia Voreqe Bainimarama

Le leggi, le politiche e le prassi non sono riuscite a tutelare adeguatamente i diritti umani, con l’im- posizione di ampie restrizioni alle libertà d’espressione, riunione pacifica e associazione. Vittime di

270 gravi violazioni dei diritti umani, tra cui tortura e altri maltrattamenti, non hanno potuto ottenere rimedio in tribunale a causa delle estese immunità di cui godevano i funzionari del governo e le forze di sicurezza.

CONTESTO A settembre, le Figi hanno tenuto le prime elezioni dal colpo di stato militare del 2006. Le nuove leggi elettorali hanno ampliato le restrizioni alla libertà d’espressione. È prevalso un clima di paura e di autocensura. Hanno continuato a verificarsi violazioni da parte delle forze di sicurezza, compreso un decesso in custodia di polizia, verificatosi ad agosto.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, RIUNIONE E ASSOCIAZIONE I diritti alle libertà d’espressione, riunione pacifica e associazione sono stati considerati reati e chi li commetteva rischiava pesanti multe e il carcere, in virtù di vari decreti. Il decreto elettorale del 2014 ha vietato alle organizzazioni della società civile di fare “campagne” su qualsiasi argomento rilevante per le elezioni, compresa l’educazione ai diritti umani. La violazione di tale decreto prevedeva il pagamento di una multa di 50.000 dollari figiani (circa 20.500 euro) e fino a 10 anni di reclusione. Ad agosto, un’organizzazione per i diritti umani, il Forum costituzionale dei cittadini, è stata messa sotto inchiesta penale per violazione del decreto elettorale, perché aveva organizzato una serie di conferenze pubbliche su democrazia e diritti umani. A giugno, l’autorità per lo sviluppo dell’industria dei mezzi di comunicazione ha sollecitato l’avvio di un’inchiesta penale nei confronti di due docenti universitari, per aver chiesto alla polizia di porre fine alle molestie e alle intimidazioni nei confronti dei giornalisti.

DIRITTI DEI LAVORATORI Il decreto sulle industrie nazionali essenziali (Occupazione) del 2011 ha continuato a violare i diritti fondamentali dei lavoratori, anche attraverso la limitazione dei diritti di contrattazione collettiva, le restrizioni al diritto di sciopero, il divieto di pagamento del lavoro straordinario e l’annullamento dei contratti collettivi vigenti per i lavoratori delle industrie saccarifere, dell’aviazione e del turismo. Ai sensi delle leggi elettorali, i funzionari sindacali non sono stati autorizzati a ricoprire cariche in un partito politico o a impegnarsi in altre attività politiche. A gennaio, il leader sindacale Daniel Urai è stato arrestato con l’accusa di aver partecipato a uno sciopero illegale, organizzato in un hotel di Nadi. Le accuse sono cadute due mesi dopo.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le ampie immunità garantite dalla costituzione hanno reso impossibile verificare le responsabilità relative a gravi violazioni dei diritti umani, come tortura e altri maltrattamenti. I membri delle forze armate e della polizia, nonché i funzionari del governo, hanno potuto operare con immunità civile e penale per le violazioni dei diritti umani. Molti casi di tortura e altri maltrattamenti, tra cui alcuni relativi a prigionieri ricatturati, non sono stati affrontati. Ad agosto, Vilikesa Soko, arrestato perché sospettato di rapina, è morto in custodia di polizia. L’autopsia ha rilevato che aveva subito gravi lesioni compatibili con un’aggressione, che avevano provocato l’insufficienza di vari organi interni. Sebbene il nuovo commissario di polizia abbia imme-

271 diatamente ordinato un’inchiesta sulla morte e abbia sospeso quattro agenti, a fine anno i presunti responsabili non erano ancora stati incriminati.

FILIPPINE

REPUBBLICA DELLE FILIPPINE

Capo di stato e di governo: Benigno S. Aquino III

L’uso della tortura è continuato nell’impunità. Difensori dei diritti umani, giornalisti locali e testimoni nei processi per il massacro di Maguindanao, il più grande attacco contro giornalisti a livello mondiale, avvenuto nel 2009, sono rimasti a rischio di uccisioni illegali. Le Filippine hanno riconosciuto la re- sponsabilità dello stato per violazioni dei diritti umani commesse durante la legge marziale sotto il regime di Marcos e hanno istituito una commissione per le denunce delle vittime di violazioni dei diritti umani, con il compito di determinare l’ammissibilità delle denunce e assegnare le riparazioni. Ad aprile, la Corte suprema ha confermato la costituzionalità della legge sulla salute riproduttiva.

CONTESTO A marzo, il governo filippino ha firmato un accordo di pace globale con il gruppo armato Fronte di lib- erazione islamica Moro, concludendo 17 anni di negoziati. L’accordo di pace ha istituito la regione autonoma di Bangsamoro, riconoscendo maggiore autonomia politica al sud delle Filippine, in cambio dell’impegno a porre fine alla ribellione e alla richiesta di uno stato separato. Le Filippine hanno con- tinuato a rivendicare le isole Spratlys nei confronti di Brunei, Cina, Malesia, Taiwan e Vietnam, pre- sentando a marzo un memorandum davanti al Tribunale internazionale per il diritto del mare e prote- stando, a maggio e novembre, contro le azioni della Cina nelle isole Spratlys. Ad aprile, una visita dal presidente americano Barack Obama è culminata nella firma di un accordo di cooperazione di difesa avanzata, che prevedeva un maggiore utilizzo delle basi militari filippine da parte delle truppe Usa. Ai primi di dicembre, mezzo milione di persone sono state evacuate per l’arrivo del tifone Hagupit e sono state segnalate 27 vittime.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti sono rimasti all’ordine del giorno e sembravano essere di routine durante gli interrogatori in alcune stazioni di polizia.1 I metodi di tortura comprendevano pesanti per- cosse, scosse elettriche, finte esecuzioni, waterboarding (annegamento simulato), soffocamento con sacchetti di plastica e stupro. Tra i soggetti più a rischio c’erano sospetti criminali e recidivi, compresi i minorenni, ausiliari informali di polizia (conosciuti localmente come “assets”), presunti membri o simpatizzanti di gruppi

272 armati e attivisti politici. La maggior parte delle vittime di tortura proveniva da ambienti poveri ed emarginati. Nel 2014, la commissione per i diritti umani delle Filippine (Commission on Human Rights – Chr) ha riferito di aver registrato 75 casi di tortura nel 2013 e 28 casi da gennaio a luglio 2014. La maggior parte delle segnalazioni di tortura indicava gli agenti di polizia come presunti re- sponsabili. Nonostante la tortura sia diventata un reato grazie alla legge approvata nel 2009, non risulta che alcun perpetratore sia stato condannato ai sensi di questa norma. A gennaio, la Chr ha rivelato l’esistenza di una struttura segreta di detenzione nella provincia di Laguna, in cui pare che gli agenti di polizia torturassero per divertimento, scegliendo da una “roulette” su cui erano indicati i metodi di tortura. All’interno della struttura sono stati trovati 43 detenuti. A febbraio, la polizia nazionale filippina (Philippine National Police – Pnp) ha sospeso dal servizio 10 agenti. Le indagini sono proseguite ma, a fine anno, nessuno era stato condannato. Ventitré casi sono stati depositati per le indagini preliminari ed erano in attesa di risoluzione. Alfreda Disbarro, un’ex informatrice della polizia, era stata arrestata e torturata da agenti di polizia a ottobre 2013. Ad aprile, il servizio affari interni della Pnp ha condotto un’indagine sul suo caso; la decisione sulla causa amministrativa contro i responsabili era pendente. La Chr ha concluso che nel suo caso erano state commesse violazioni dei diritti umani e, a luglio, ha raccomandato la presentazione di una denuncia penale. Il senato ha aperto un’inchiesta sulle torture da parte della polizia, il giorno successivo al lancio del rapporto di Amnesty International “Al di sopra della legge: la tortura da parte della polizia nelle Filip- pine”, avvenuto il 4 dicembre.

SPARIZIONI FORZATE Sono perdurate le preoccupazioni circa l’impegno del governo a porre fine alle sparizioni forzate, dopo la sua mancata ratifica della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate. A febbraio, la Chr ha annunciato che avrebbe preso parte al protocollo d’intesa con il dipartimento dell’Interno e delle amministrazioni locali, il dipartimento della Difesa nazionale e il dipartimento di Giustizia, per l’attuazione della legge contro le sparizioni forzate o involontarie del 2012, che ha reso le sparizioni forzate un reato. Ad agosto, l’agenzia nazionale d’investigazione ha arrestato il generale in pensione Jovito Palparan, a Manila, dopo tre anni di latitanza. Nel 2011, era stato accusato del rapimento e della “grave detenzione illegale” di due studentesse universitarie. A febbraio, la Corte suprema ha confermato l’irrevocabilità di una sentenza della corte d’appello che aveva identificato un ufficiale militare quale responsabile del rapimento e della scomparsa di Jonas Burgos nel 2007 e lo aveva chiamato a risponderne.

IMPUNITÀ Sono proseguiti i processi civili e penali per il massacro di Maguindanao del 2009, in cui milizie armate dallo stato e guidate da funzionari governativi uccisero 58 persone, tra cui 32 giornalisti. Tut- tavia, la maggior parte dei procedimenti si è limitata a udienze per il rilascio su cauzione. A fine anno, circa 85 dei 197 sospettati per i quali erano stati spiccati mandati di cattura erano rimasti in libertà e non sono state emesse condanne. I testimoni della strage e le loro famiglie sono rimasti a rischio di aggressioni, compresi gli omicidi, mettendo in evidenza la mancanza di protezione da parte del governo. A novembre, Dennis Sakal e

273 Butch Saudagal, entrambi chiamati a testimoniare contro i principali sospettati per il massacro, sono stati colpiti con armi da fuoco da uomini armati non identificati, in provincia di Maguindanao. Dennis Sakal è rimasto ucciso. A dicembre, Kagui Akmad Ampatuan, che secondo quanto riferito aveva convinto i due uomini a testimoniare per l’accusa, è scampato a un agguato simile a Maguindanao. A partire da novembre 2009, almeno otto testimoni e i loro familiari sono stati uccisi in attacchi analoghi. Nessuno è stato ritenuto responsabile di queste uccisioni.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Durante l’anno, almeno tre giornalisti radiofonici e una giornalista di un quotidiano sono stati uccisi da uomini armati non identificati. A febbraio, la Corte suprema ha confermato la costituzionalità delle principali disposizioni della legge sulla prevenzione dei crimini informatici del 2012, tra cui la diffamazione online. La Corte ha chiarito che la legge riguardava solo gli autori originari del materiale diffamatorio e non chi rispondeva online a questo tipo di contenuti.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI Sono proseguiti gli attacchi da parte degli insorti islamisti fautori della linea dura che si opponevano all’accordo di pace tra il governo e il Fronte di liberazione islamica Moro. A luglio, un attentato di Abu Sayyaf, nella provincia di , ha causato 21 morti. A dicembre, 10 persone sono state uccise e più di 30 ferite per l’esplosione di una bomba di mortaio su un autobus, nella provincia di Bukidnon.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI Dopo la sospensione di un anno della sua attuazione, in seguito a un’azione legale patrocinata da vari gruppi religiosi, ad aprile la Corte suprema ha confermato la legge sulla salute riproduttiva. La legge apriva la strada al finanziamento del governo di metodi contraccettivi moderni e voleva introdurre nelle scuole l’educazione sessuale e alla salute riproduttiva. Tuttavia, la sentenza della Corte ha dichiarato incostituzionali otto delle sue disposizioni, tra queste: il divieto per gli operatori sanitari di rifiutarsi di fornire servizi di salute riproduttiva e la relativa sanzione; la richiesta che tutte le strutture sanitarie private, anche quelle appartenenti a gruppi religiosi, fornissero metodi di pianificazione familiare, tra cui procedure e strumenti contraccettivi moderni; il permesso ai minorenni, compresi coloro che avevano già figli o avevano avuto aborti spontanei, di accedere alla contraccezione senza il consenso scritto dei genitori; e il permesso alle persone sposate di sottoporsi a procedure di salute riproduttiva senza il consenso del coniuge. Il dipartimento di Giustizia non ha incluso deroghe al divieto totale di aborto nel progetto di codice penale che ha inviato al parlamento. A causa di tale divieto totale, gli aborti clandestini sono rimasti molto diffusi e hanno provocato decessi evitabili e invalidità per le donne.

Note 1. Above the law: Police torture in the Philippines (ASA 35/007/2014), http://www.amnesty.org/en/library/info/ ASA35/007/2014/en

274 GIAPPONE

GIAPPONE

Capo di governo: Shinzo Abe

Il Giappone ha continuato ad allontanarsi dagli standard internazionali sui diritti umani. Il governo non è riuscito ad affrontare efficacemente la discriminazione nei confronti di cittadini stranieri e dei loro discendenti che vivono in Giappone, come ad esempio le persone di etnia coreana. Ha inoltre omesso di confutare e combattere i tentativi di negare il sistema di schiavitù sessuale militare del Giappone durante la seconda guerra mondiale. Il numero di persone a cui era stato riconosciuto lo status di rifugiato è rimasto molto esiguo. Si è temuto che la legge sulla protezione dei segreti espressamente designati, entrata in vigore a dicembre, potesse avere un impatto negativo sulla tra- sparenza.

DISCRIMINAZIONE Il governo non si è dichiarato contrario alla retorica discriminatoria né ha messo un freno all’uso di termini razziali peggiorativi e alle molestie di stampo razzista contro le persone di etnia coreana e i loro discendenti, comunemente chiamati zainichi (letteralmente “residenti in Giappone”). Nelle città con un’alta percentuale di residenti coreani si sono tenute manifestazioni pubbliche. A dicembre, la Corte suprema ha vietato al gruppo di alto profilo Zainichi Tokken wo Yurusanai Shimin no Kai (lette- ralmente “Cittadini contro i privilegi speciali degli zainichi”) l’uso di un linguaggio discriminatorio e intimidatorio in occasione di una manifestazione nei pressi di una scuola elementare etnica coreana, a Kyoto. È stata questa la prima volta in cui la questione è stata trattata come un problema di discri- minazione razziale, in base alla definizione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, e non riferendosi ad altri reati come la diffamazione o i danni alla proprietà. Tuttavia, a fine anno il governo non aveva ancora approvato una legge, in linea con gli standard internazionali, che vietasse il sostegno alle espressioni d’odio che costituissero in- citamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza.

SISTEMA GIUDIZIARIO Il sistema daiyo kangoku, che consente alla polizia di trattenere i sospettati fino a 23 giorni prima della loro incriminazione, ha continuato a favorire il ricorso alla tortura e ad altri maltrattamenti durante gli interrogatori per estorcere confessioni. Nonostante le raccomandazioni di vari organi in- ternazionali, non sono state adottate misure per abolire o riformare il sistema, in linea con gli standard internazionali.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Il governo ha tentato di ritirarsi dalla storica dichiarazione di scuse - conosciuta come dichiarazione

275 Kono - risalente a due decenni fa, con la quale aveva riconosciuto la propria responsabilità e aveva offerto le proprie scuse alle sopravvissute del sistema di schiavitù sessuale militare. A giugno sono stati resi pubblici i risultati del lavoro di un gruppo di studio nominato dal governo che ha riesaminato il processo di redazione della dichiarazione Kono. Seppure le discussioni e le decisioni precedenti sono state rispettate, la revisione ha aumentato le tensioni con i paesi vicini, come la Repubblica di Corea, poiché è stata percepita come un tentativo di negare la responsabilità del governo. Molti per- sonaggi pubblici di alto profilo hanno rilasciato dichiarazioni per negare o giustificare il sistema. Il governo ha continuato a rifiutare di utilizzare ufficialmente il termine “schiavitù sessuale” e a negare piena ed effettiva riparazione alle sopravvissute.

PENA DI MORTE Le esecuzioni hanno continuato a essere effettuate. A marzo, un tribunale distrettuale ha ordinato un nuovo processo e l’immediato rilascio di Hakamada Iwao, condannato a morte nel 1968 dopo un pro- cesso iniquo sulla base di una confessione forzata. Era il prigioniero da più lungo tempo nel braccio della morte in tutto il mondo. Hakamada soffriva di disturbi mentali causati da più di 40 anni di de- tenzione, trascorsi quasi sempre in isolamento. L’appello del procuratore contro un nuovo processo era in corso di esame presso l’Alta corte di Tokyo.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Si stima che circa 4500 persone abbiano chiesto asilo in Giappone ma il numero di persone a cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato, ai sensi della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite, è rimasto molto basso. Dal 2006 in poi si è verificato un aumento costante del numero di domande. I richiedenti provenienti dal Myanmar sono diminuiti e si è registrato un incremento di richiedenti pro- venienti da paesi come Ghana e Camerun.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE La legge sulla protezione dei segreti espressamente designati è entrata in vigore a dicembre. Questa permetteva al governo di classificare le informazioni come “segreti espressamente designati” quando una “fuga di notizie può determinare un serio ostacolo per la sicurezza nazionale”, rispetto agli ambiti della difesa, della diplomazia, delle cosiddette “attività dannose” e del “terrorismo”. La legge avrebbe potuto limitare la trasparenza, riducendo l’accesso alle informazioni in possesso delle autorità pubbliche, poiché la definizione di “segreti espressamente designati” era vaga e l’organismo di controllo non aveva poteri vincolanti.

Note 1. Japan: Submission to the UN Human Rights Committee: 111th session of the Human Rights Committee (7-25th July 2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA22/002/2014/en

276 INDIA

REPUBBLICA DELL’INDIA

Capo di stato: Pranab Mukherjee Capo di governo: Narendra Modi (subentrato a Manmohan Singh a maggio)

L’impunità è rimasta diffusa per le violazioni dei diritti umani commesse da funzionari pubblici e attori non statali. Malgrado i progressi rappresentati da alcune riforme giuridiche e sentenze di tri- bunale, le autorità statali spesso non sono state in grado d’impedire crimini contro cittadini indiani, compresi minori, donne, dalit e nativi adivasi e in alcuni casi ne sono state responsabili. Arresti e de- tenzioni arbitrari, tortura ed esecuzioni extragiudiziali sono rimasti spesso impuniti. Anche a causa di un sistema giudiziario penale sovraccarico e scarsamente finanziato, le vittime di abusi non hanno ottenuto giustizia e le persone accusate di reati hanno subito violazioni dei diritti all’equità processuale. Le violenze da parte di gruppi armati nel Jammu e Kashmir, negli stati nordorientali e in aree in cui erano attive le forze maoiste, hanno continuato a mettere a rischio la vita dei civili.

CONTESTO Le elezioni nazionali, che si sono tenute a maggio, si sono concluse con la vittoria schiacciante del partito Bharatiya Janata, che ha formato il nuovo governo. Il primo ministro Narendra Modi, la cui campagna elettorale prometteva buon governo e sviluppo per tutti, si è impegnato a migliorare l’accesso a sussidi economici e ai servizi igienico-sanitari per le persone che vivevano in povertà. Tuttavia, il governo ha adottato misure per ridurre gli obblighi di consultazione delle comunità inte- ressate da progetti condotti dalle aziende. Le autorità hanno continuato a violare i diritti delle persone alla riservatezza e alla libertà d’espressione. Nell’Uttar Pradesh e in alcuni altri stati è aumentata la violenza comunitaria e corruzione, discriminazione e violenza collegata al sistema delle caste sono rimaste endemiche.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Sono proseguiti arresti e detenzioni arbitrari di manifestanti, giornalisti e difensori dei diritti umani. Secondo i dati forniti dalla commissione nazionale dei diritti umani, da aprile a luglio, si sono verificati 123 arresti illegali e 203 casi di detenzione illegittima. Le autorità hanno utilizzato leggi che permettono la detenzione amministrativa per trattenere in custodia giornalisti e difensori dei diritti umani con ordini esecutivi, senza accuse o processo. Anche gli abitanti dei villaggi adivasi, nelle zone in cui sono presenti i maoisti, nell’India centrale, sono rimasti a rischio di essere arrestati e detenuti arbitrariamente. Sono state inoltre utilizzate norme “antiterrorismo”, come la legge sulla prevenzione delle attività il- legittime, che non erano conformi agli standard internazionali sui diritti umani. A maggio, la Corte suprema ha prosciolto sei uomini che erano stati condannati ai sensi di leggi antiterrorismo per aver attaccato il tempio Akshardham, nel Gujarat, nel 2002, stabilendo che non c’erano prove contro di loro e che l’inchiesta era stata inadeguata.

277 ABUSI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI In varie regioni, compresi Jammu e Kashmir, stati nordorientali e India centrale, sono stati segnalati abusi dei diritti umani da parte di gruppi armati, che hanno ucciso e ferito civili e distrutto proprietà in attacchi indiscriminati e in certi casi specificamente mirati. Le loro azioni hanno anche causato lo sfollamento di alcune persone. Gli scontri tra forze di sicurezza e gruppi armati maoisti hanno provocato la morte di numerosi civili. Secondo quanto riferito, alla vigilia delle elezioni nazionali di maggio, gruppi armati hanno ucciso rappresentanti governativi locali e funzionari elettorali negli stati di Jammu e Kashmir, Jharkhand e Chhattisgarh, allo scopo d’intimidire gli elettori e disturbare le votazioni. A gennaio e maggio, nell’Assam, gruppi armati sono stati accusati di aver ucciso decine di musulmani e a dicembre decine di adivasi. In altri stati nordorientali, i gruppi armati sono stati accusati anche di aver preso di mira civili, istigato alla violenza e provocato sfollamenti su larga scala.

DIRITTI DEI MINORI Ad agosto, il governo ha rinviato alcune modifiche al parlamento per cercare di emendare le leggi che permettevano di perseguire e punire come adulti, in caso di gravi crimini, i minori tra i 16 e i 18 anni. Le istituzioni ufficiali indiane per i diritti dei minori e per la salute mentale si sono dichiarate contrarie a tale decisione. Le proteste per lo stupro di una bambina di sei anni, avvenuto a Bangalore a luglio, hanno attirato l’attenzione sull’inadeguatezza dell’applicazione delle leggi sugli abusi sessuali sui minori. Nonostante sia vietato dalla legge, da vari stati sono giunte segnalazioni di episodi di punizioni corporali. Le norme, che richiedono alle scuole private di riservare il 25 per cento dei posti al livello base ai minori provenienti da famiglie svantaggiate, sono state raramente applicate. In ambito sco- lastico bambini dalit e adivasi hanno continuato a essere discriminati. A giugno, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha espresso preoccupazione in merito alla disparità d’accesso a istruzione, assistenza sanitaria, acqua potabile e servizi igienico-sanitari tra differenti gruppi di minori. Il lavoro e la tratta minorili sono rimasti gravi problemi. A ottobre, Kailash Satyarthi, un attivista per i diritti dell’infanzia che opera su tali temi, ha ottenuto il premio Nobel per la pace.

VIOLENZA COMUNITARIA Una serie di episodi di violenza comunitaria nell’Uttar Pradesh, prima delle elezioni, ha accresciuto le tensioni tra le comunità indù e musulmana. A luglio, tre persone sono state uccise durante alcuni scontri a Saharanpur, nello stato dell’Uttar Pradesh. Esponenti politici sono stati accusati, e in alcuni casi incriminati penalmente, per aver reso dichiarazioni provocatorie. Anche in altri stati si sono verificati scontri tra le comunità. A dicembre, gruppi indù sono stati accusati di aver convertito con la coercizione molti musulmani e cristiani all’induismo. A gennaio, i sopravvissuti alle violenze tra indù e musulmani, scoppiate a fine 2013, a Muzzafarnagar, nell’Uttar Pradesh, sono stati sgomberati con la forza dai campi di accoglienza. Le indagini sulle violenze sono state incomplete. A fine anno, migliaia di persone, in gran parte musulmane, erano ancora senza alloggio. A novembre ricorreva il 30° anniversario delle violenze a Delhi del 1984, che provocarono il massacro di migliaia di sikh. Centinaia di casi penali chiusi dalla polizia per mancanza di prove non sono stati

278 riaperti, nonostante si siano tenute importanti manifestazioni pubbliche per chiedere la fine dell’im- punità. Hanno continuato a procedere con lentezza le inchieste e i processi per i casi legati alle violenze del 2002 nel Gujarat, che causarono la morte di almeno 2000 persone, in maggioranza musulmane. A novembre, la commissione Nanavati-Mehta, incaricata nel 2002 d’indagare sulle violenze, ha presentato il suo rapporto finale al governo dello stato del Gujarat ma non è stato reso pubblico. Ad agosto, gli scontri etnici al contestato confine tra e Assam hanno provocato 10 morti e lo sfollamento di più di 10.000 persone. La violenza per motivi di casta è stata segnalata anche in altri stati tra cui Uttar Pradesh, Bihar, Karnataka e Tamil Nadu.

RESPONSABILITÀ DELLE IMPRESE A settembre, la Corte suprema ha annullato più di 200 concessioni di estrazione di carbone che ha ri- tenuto essere state assegnate in modo arbitrario. Il ministero dell’Ambiente ha indebolito i meccanismi che prevedevano la consultazione delle comunità interessate da progetti industriali, in particolare per l’estrazione carbonifera. Il ministero ha anche revocato la moratoria che aveva bloccato l’avvio di nuove industrie in aree pesantemente inquinate. Le autorità e le aziende non hanno consultato in modo significativo le comunità locali in più di un’oc- casione. Ad agosto, una società sussidiaria della britannica Vedanta Resources ha tenuto un incontro pubblico in vista dell’ampliamento della sua raffineria di alluminio a Lanjigarh, nello stato di Odisha, senza però affrontare il problema degli effetti già verificatisi, né informare adeguatamente né consultare le comunità colpite. A dicembre, il governo ha approvato una legge temporanea che eliminava i requisiti relativi alla ricerca del consenso delle comunità interessate e alla valutazione dell’impatto sociale quando il governo acquisiva dei terreni per alcuni progetti. Migliaia di persone sono rimaste a rischio di sgombero forzato dalle loro case e terre a causa di grandi progetti infrastrutturali. Le comunità adivasi che vivono vicino a miniere e dighe nuove o in espansione sono state particolarmente esposte. A dicembre ricorreva il 30° anniversario del disastro di Bhopal. I sopravvissuti hanno continuato a soffrire di gravi problemi di salute dovuti alla fuga di gas tossici e al continuo inquinamento proveniente dal sito della fabbrica. A novembre, la corte di Bhopal ha rinnovato un mandato di com- parizione per la Dow Chemical Company dopo che la compagnia non aveva risposto alla precedente convocazione. Sempre a novembre, il governo indiano ha concesso l’utilizzo dei dati medici e scientifici per aumentare la richiesta di compensazione di miliardi di dollari nei confronti della Union Cardibe. Il governo indiano doveva ancora bonificare il sito della fabbrica contaminato.

PENA DI MORTE A gennaio, la Corte suprema ha stabilito che l’indebito ritardo nell’esecuzione delle condanne a morte si configurava come tortura e che l’esecuzione di persone affette da malattie mentali sarebbe stata incostituzionale. La Corte ha anche dettato le linee guida per la tutela dei diritti delle persone con- dannate a morte. Ad aprile, tre uomini sono stati condannati a morte da un tribunale di Mumbai, secondo una nuova legge promulgata nel 2013, che ha introdotto la pena capitale per i condannati in molteplici casi di stupro. A dicembre, il governo ha presentato in parlamento un disegno di legge antidirottamento, che

279 prevedeva la pena capitale per i dirottatori, se hanno provocato la morte di un ostaggio o di personale di sicurezza.

ESECUZIONI EXTRAGIUDIZIALI È proseguito il procedimento davanti alla Corte suprema relativo a un’istanza per chiedere indagini su oltre 1500 presunti “falsi scontri” (un termine usato per descrivere la messinscena di vere e proprie esecuzioni extragiudiziali), avvenuti nello stato di Manipur. Tribunali a Delhi e negli stati di Bihar e Punjab hanno condannato agenti di polizia per essere stati coinvolti in omicidi dovuti a “falsi scontri”. La commissione nazionale per i diritti umani ha ordinato un risarcimento per le famiglie delle persone uccise in una serie di “falsi scontri”. Ha inoltre espresso preoccupazione per gli omicidi commessi dalla polizia statale attraverso “falsi scontri” nell’Uttar Pradesh. A febbraio, la principale agenzia investigativa del paese ha accusato ex agenti dei servizi d’intelligence interna dell’India di omicidio e sequestro di persona, in seguito all’inchiesta su un caso di “falso scontro” nel Gujarat, risalente al 2004. I governi statali di Gujarat e Rajasthan hanno reintegrato in servizio agenti di polizia sotto processo per presunto coinvolgimento in casi di “falsi scontri”, dopo che erano stati rilasciati su cauzione in attesa del processo. A settembre, la Corte suprema ha stabilito nuovi requisiti per le indagini sulle morti in scontri con la polizia, ad esempio il fatto che a indagare sui decessi dovesse essere una squadra proveniente da una diversa stazione di polizia o da un settore investigativo separato.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Le leggi sulla diffamazione penale e sulla sedizione, che non sono state all’altezza degli standard in- ternazionali, sono state impiegate per molestare e perseguitare giornalisti, difensori dei diritti umani e altri, per aver esercitato pacificamente il loro diritto alla libera espressione. Il governo ha anche utilizzato leggi dalla formulazione vaga e imprecisa per frenare la libera espressione su Internet. Nel periodo precedente alle elezioni generali di maggio, diverse persone sono state arrestate per le loro dichiarazioni sul primo ministro Narendra Modi, che secondo la polizia erano da considerarsi reato. Le autorità hanno anche messo in atto e ampliato la sorveglianza su larga scala delle comunicazioni telefoniche e attraverso Internet, senza rivelare i dettagli di questi progetti, né le misure di salvaguardia per evitarne l’abuso.

IMPUNITÀ – FORZE DI SICUREZZA Nonostante alcuni segni positivi, le violazioni commesse dalle forze di sicurezza indiane sono rimaste quasi del tutto impunite. Leggi che garantivano sostanziale immunità da procedimenti giudiziari, come ad esempio la legge sui poteri speciali delle forze armate e la legge sulle aree turbolente, sono rimaste in vigore in Jammu e Kashmir e in parti dell’India nordorientale, nonostante le continue proteste. A gennaio, l’esercito ha rigettato, senza un processo, le accuse di omicidio e cospirazione presentate contro cinque militari dall’ufficio centrale d’investigazione. Nel 2012, la Corte suprema aveva stabilito che l’esercito avrebbe dovuto processare in corte marziale i militari per le esecuzioni extragiudiziali di cinque abitanti del villaggio di Pathribal, in Jammu e Kashmir, avvenute nel 2000. A settembre, una corte marziale militare ha condannato cinque soldati per l’uccisione di tre uomini in un’esecuzione extragiudiale a Machil, nello stato di Jammu e Kashmir nel 2010. A novembre, un’indagine militare ha portato all’incriminazione di nove soldati in un caso che riguardava l’uccisione di due adolescenti

280 del Kashmir, nel distretto di Budgam. I responsabili di passate violazioni in Jammu e Kashmir, Nagaland, Manipur, Punjab e Assam hanno continuato a sottrarsi alla giustizia.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE La Corte suprema ha accettato di esaminare un’istanza che chiedeva la revisione della sua decisione del dicembre 2013 che, confermando la sezione 377 del codice penale indiano, aveva di fatto reso nuovamente reato l’attività sessuale consensuale tra persone dello stesso sesso. Durante la campagna elettorale per le elezioni parlamentari del 2014, partiti politici di primo piano si erano impegnati a depenalizzare l’omosessualità. Ad aprile, con una sentenza storica, la Corte suprema ha concesso il riconoscimento legale alle persone transgender. Questa ha imposto alle autorità di riconoscere l’autoidentificazione delle persone transgender come maschio, femmina o “terzo genere” e di mettere in atto politiche di assistenza sociale e quote nel campo dell’istruzione e del lavoro. Tuttavia, hanno continuato a essere segnalati casi di molestie e violenza contro le persone transgender.

DIRITTI DEI LAVORATORI La mancanza di un’efficace regolamentazione sui mediatori dei visti e la presenza di agenti di reclu- tamento disonesti hanno continuato a porre i lavoratori migranti indiani, diretti verso i paesi del Medio Oriente, a rischio di violazioni dei diritti umani, tra cui lavoro forzato e tratta di esseri umani. Centinaia di migranti indiani, tra cui 46 infermiere, sono rimasti bloccati in Iraq a causa dell’inten- sificarsi dei combattimenti tra gruppi armati e governo iracheno. A giugno, 39 migranti indiani in Iraq sono stati rapiti e, a fine anno, si riteneva fossero ancora nelle mani di gruppi armati. La schiavitù per debito ha continuato a essere molto diffusa. Milioni di persone sono state costrette a lavorare come lavoratori vincolati in settori che comprendevano la fabbricazione di mattoni, l’industria mineraria, la produzione di seta e cotone e l’agricoltura. Sono stati segnalati alcuni casi di lavoratori domestici, per lo più donne, che hanno subito abusi dai loro datori di lavoro.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA A febbraio, la Corte suprema ha concesso il rilascio su cauzione agli attivisti adivasi e prigionieri di coscienza Soni Sori e Lingaram Kodopi. Soni Sori si è candidata alle elezioni parlamentari di maggio. L’attivista manipuri Irom Sharmila è giunta al 14° anno di sciopero della fame per chiedere l’abrogazione della draconiana legge sui poteri speciali delle forze armate. È stata arrestata con l’accusa di tentato suicidio e rilasciata il 20 agosto da un giudice che ha stabilito che le accuse erano infondate. Tuttavia, è stata nuovamente arrestata due giorni dopo, per lo stesso presunto reato.

DETENZIONE PREPROCESSUALE PROLUNGATA Il ricorso alla detenzione preventiva prolungata e il sovraffollamento delle carceri sono rimasti problemi diffusi. Al dicembre 2013, più di 278.000 prigionieri, Più di due terzi della popolazione car- ceraria del paese, erano detenuti in custodia preprocessuale. La popolazione carceraria in custodia preventiva ha continuato a essere costituita in modo sproporzionato da dalit, adivasi e musulmani. Arresti indiscriminati, lentezza nelle indagini e nelle azioni penali, sistemi di assistenza legale deboli e misure inadeguate di tutela da lunghi periodi di detenzione erano tra le cause del problema. A settembre, la Corte suprema ha ordinato ai giudici distrettuali d’identificare e rilasciare immedia-

281 tamente tutti i detenuti in attesa di giudizio, che erano stati in carcere per oltre la metà del periodo che avrebbero dovuto scontare in caso di condanna. A seguito dell’intervento della Sezione Indiana di Amnesty International, il governo dello stato di Karnataka ha ordinato alle autorità statali d’istituire comitati di valutazione per monitorare i casi di detenzione preventiva eccessivamente lunga.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE Le autorità hanno impiegato la legge (regolamento) sui contributi stranieri per vessare le Ngo e le or- ganizzazioni della società civile che avevano ricevuto finanziamenti dall’estero. In particolare, i gruppi che avevano criticato progetti di grandi infrastrutture, miniere e centrali nucleari hanno dovuto af- frontare ripetute interrogazioni, minacce d’indagini e di blocco dei fondi esteri da parte del governo. A giugno, le organizzazioni dei mezzi d’informazione hanno dato notizia dell’esistenza di un documento riservato, redatto dall’agenzia interna d’intelligence dell’India, che descriveva una serie di Ngo finanziate da fonti estere come “aventi un impatto negativo sullo sviluppo economico”.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti hanno continuato a essere utilizzati durante lo stato di fermo, in particolare contro le donne, i dalit e gli adivasi. Un disegno di legge contro la tortura profondamente imperfetto è decaduto a maggio con la fine del mandato del governo centrale. Ad agosto, l’Alta corte di Bombay ha ordinato l’installazione di telecamere a circuito chiuso in tutte le stazioni di polizia dello stato di Maharashtra, per porre un freno all’uso della tortura.

DIRITTI DELLE DONNE La violenza contro le donne è rimasta diffusa. Le autorità non hanno messo in atto in modo efficace le nuove leggi sui crimini contro le donne, emanate nel 2013, né hanno intrapreso importanti riforme sulla polizia e la giustizia, al fine di garantire che tali leggi fossero applicate. Lo stupro all’interno del matrimonio non era stato ancora riconosciuto come un crimine se la moglie aveva più di 15 anni di età. Alcuni funzionari pubblici e leader politici hanno reso dichiarazioni che sembravano giustificare i crimini contro le donne, contribuendo a una cultura dell’impunità. Le denunce di crimini contro le donne sono aumentate ma si ritiene che il numero di donne che non sporgeva denuncia fosse ancora alto. Le donne e le ragazze dalit hanno continuato a subire a più livelli discriminazione e violenza basate sulla casta. Consigli di villaggio autonominati hanno emesso decreti illegali con cui hanno ordinato punizioni contro donne ritenute colpevoli di trasgressioni sociali. Ad aprile, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne ha richiamato l’attenzione sull’incapacità delle autorità di garantire l’accertamento delle responsabilità e il risarci- mento delle vittime di violenza. A luglio, il Comitato Cedaw ha raccomandato al governo di stanziare risorse per istituire tribunali speciali, procedure di reclamo e servizi di supporto per far rispettare meglio le leggi. A novembre, 16 donne sono morte dopo aver partecipato a una sterilizzazione di massa condotta in modo approssimativo, nel Chhattisgarh. L’approccio mirato al risultato da parte del governo rispetto alla pianificazione familiare ha continuato a permettere compromessi sulla qualità del servizio sanitario e ha limitato il diritto delle donne a scegliere metodi di pianificazione familiare appropriati.

282 INDONESIA

REPUBBLICA D’INDONESIA

Capo di stato e di governo: Joko Widodo (subentrato a a ottobre)

Le forze di sicurezza sono state accusate di persistenti violazioni dei diritti umani, tra cui tortura e altri maltrattamenti. Attivisti politici della regione di Papua e della provincia delle Molucche hanno continuato a essere arrestati e imprigionati per aver espresso pacificamente le loro idee e almeno 60 prigionieri di coscienza sono rimasti in carcere. Sono proseguite le intimidazioni e le aggressioni contro le minoranze religiose. Un nuovo codice penale islamico locale, adottato nella provincia di Aceh a settembre, ha aumentato i reati punibili con la fustigazione. Non ci sono stati progressi per garantire l’ottenimento di verità, giustizia e riparazione per le vittime di violazioni dei diritti umani del passato. Non sono state segnalate esecuzioni.

CONTESTO Il nuovo presidente, Joko Widodo, si è insediato a ottobre; durante la campagna elettorale si era im- pegnato ad affrontare le gravi violazioni dei diritti umani avvenute in passato, a proteggere la libertà di religione, a riformare la polizia e aprire l’accesso alla regione di Papua.1 Il 30 aprile e il 1° maggio, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali ha esaminato il rapporto iniziale dell’Indonesia. A giugno, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha esaminato il terzo e il quarto rapporto periodico dell’Indonesia.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA Sono continuate a pervenire segnalazioni di gravi violazioni dei diritti umani da parte della polizia e dell’esercito, tra cui uccisioni illegali, uso non necessario o eccessivo della forza, tortura e altri trat- tamenti crudeli, disumani o degradanti e sparizioni forzate. A febbraio, sette persone sono state arrestate e torturate o in altro modo maltrattate durante il fermo e l’interrogatorio, dopo che personale militare e di polizia aveva fatto irruzione in un raduno organizzato dall’Esercito di liberazione nazionale, un’organizzazione armata che chiede l’indipendenza di Papua, nel villaggio di Sasawa, nel distretto delle isole Yapen della provincia di Papua. Le forze di sicurezza hanno incatenato insieme le mani degli uomini e li hanno colpiti e presi a calci. Poi li hanno costretti a strisciare intorno al villaggio mentre continuavano a picchiarli e almeno due uomini hanno dichiarato di essere stati sottoposti a scosse elettriche dalla polizia. Secondo i loro avvocati, non erano coinvolti né avevano avuto legami con la lotta armata indipendentista. Sono stati tutti accusati di ribellione e, a novembre, il tribunale distrettuale di Sorong li ha giudicati colpevoli e condannati a tre anni e mezzo di carcere. A fine anno non risultava che fosse stata avviata un’indagine indipendente sul- l’episodio. A marzo, otto uomini della comunità nativa Suku Anak Dalam del villaggio di Bungku, nel distretto di

283 Batanghari della provincia di Jambi, sono stati torturati o in altro modo maltrattati per aver protestato contro le operazioni avviate nelle vicinanze del loro villaggio da una azienda produttrice di olio di palma. Puji Hartono è morto per le ferite riportate dopo che, con le mani legate dietro la schiena da una corda, era stato percosso da militari e addetti alla sicurezza dell’azienda. Titus Simanjuntak è stato spogliato e picchiato dai militari e costretto a leccare le macchie del suo sangue sul pavimento, mentre veniva calpestato. Agenti di polizia hanno assistito alle violenze senza intervenire. Ad agosto, il tribunale militare di Palembang ha condannato a tre mesi di reclusione sei militari per maltrattamenti. A fine anno, non risultava che fossero stati individuati i responsabili dell’uccisione di Puji Hartono. A ottobre, un tribunale militare di Medan ha riconosciuto sei militari colpevoli del sequestro e dei maltrattamenti ai danni di Dedek Khairudin e condannati a pene detentive tra i 14 e i 17 mesi. Dedek Khairudin è stato vittima di sparizione forzata nel novembre 2013, dopo essere stato fermato da un agente dei servizi d’intelligence militare del centro di comando militare dell’esercito (Korem 011/LW) e da almeno otto marine della regione di Pangkalan Brandan, nella provincia di Sumatra del Nord. A fine anno non si avevano ancora notizie sulla sua sorte. A dicembre, almeno quattro uomini sono stati uccisi e oltre una decina feriti quando le forze di sicurezza della polizia e dell’esercito, stando alle accuse, hanno aperto il fuoco su una folla che pro- testava al Karel Gobai, vicino al comando militare del distretto di Paniai, nella provincia di Papua. La folla stava manifestando contro i militari del gruppo del battaglione speciale 753, accusati di aver picchiato un bambino nel villaggio di Ipakije. A fine anno, nessuno era stato portato davanti alla giu- stizia per l’attacco.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Sono continuate le segnalazioni di arresti e detenzione di attivisti politici non violenti, in particolare nelle aree con precedenti indipendentisti, come Papua e le Molucche. Il 25 aprile, 10 attivisti politici della provincia delle Molucche sono stati arrestati dalla polizia, per aver progettato la commemorazione dell’anniversario della dichiarazione d’indipendenza del movimento della Repubblica delle Molucche del Sud (Republic of South – Rms) e per possesso di bandiere con l’arcobaleno (Benang Raja), un simbolo del movimento che è stato vietato. Nove di loro sono stati in seguito accusati di “ri- bellione”, secondo gli artt. 106 e 110 del codice penale (crimini contro la sicurezza dello stato). Il loro processo è iniziato a settembre e a fine anno non si era ancora concluso. Due giornalisti francesi sono stati arrestati il 6 agosto a Wamena, nella provincia di Papua, dopo aver realizzato un documentario sul movimento separatista nella regione di Papua. A ottobre, il tribunale distrettuale di Jayapura li ha condannati a quattro mesi di reclusione per violazione delle leggi sul- l’immigrazione. Areki Wanimbo, capo del consiglio tribale (Dewan Adat) di Lani Besar, che aveva in- contrato i due giornalisti, è stato arrestato dalla polizia lo stesso giorno e accusato di sostenere attività separatiste. In seguito è stato incriminato per “ribellione” e, a fine anno, era in attesa di pro- cesso. Almeno nove persone sono rimaste detenute o imprigionate in base alle leggi sulla blasfemia, esclu- sivamente a causa delle loro opinioni religiose o della manifestazione delle loro convinzioni, oppure per aver legittimamente esercitato il loro diritto alla libertà d’espressione.2 A giugno, Abraham Sujoko è stato condannato dal tribunale distrettuale di Dompu, nella provincia di Nusa Tenggara Occidentale, per “diffamazione della religione”, ai sensi dell’art. 27(3) della legge sull’informazione e la transazione elettronica. È stato condannato a due anni di reclusione e al paga-

284 mento di una multa di 3.500.000 rupie (circa 236 euro). Abraham Sujoko aveva postato su YouTube un video in cui diceva che la Kaʿba (un luogo sacro per l’Islam alla Mecca) era un “mero idolo di pietra” e aveva esortato i musulmani a non volgersi nella sua direzione durante la preghiera.

LIBERTÀ DI RELIGIONE Sono continuate molestie, intimidazioni e aggressioni contro le minoranze religiose, alimentate da leggi e regolamenti discriminatori, sia a livello nazionale sia locale. A maggio, le autorità cittadine di Bekasi, nella provincia di Giava Occidentale, hanno emesso un’or- dinanza per la chiusura della moschea ahmadiyya di Al-Misbah, richiamandosi a un decreto ministeriale congiunto del 2008 che vietava alla comunità ahmadiyya di promuovere le proprie attività e di diffondere i propri insegnamenti religiosi. La polizia locale di Bekasi ha quindi chiuso e messo i sigilli alla moschea. Il 26 giugno, il governo locale del distretto di Ciamis, sempre nella provincia di Giava Occidentale, ha ordinato la chiusura della moschea ahmadiyya di Nur Khilafat, motivandola con la necessità di “mantenere l’armonia religiosa” e di fermare la diffusione di una “interpretazione deviante dell’insegnamento islamico”. Giorni prima, centinaia di sostenitori di gruppi islamisti in- transigenti avevano protestato dinanzi all’ufficio del capo del distretto locale, per chiedere la chiusura della moschea. A ottobre, il governo locale del distretto di Depok, nella Giava Occidentale, ha chiuso la moschea ahmadiyya di Al-Hidayah per prevenire “la disarmonia sociale”. A fine anno, i membri di una comunità sciita sfollata da Sampang, nella Giava Orientale, che nel 2012 era stata attaccata e scacciata da una folla antisciita, vivevano ancora in alloggi temporanei a Sidoarjo e non avevano potuto fare ritorno alle loro case. Le autorità non hanno fornito rimedi per una comunità ahmadiyya sfollata a Lombok, nel Nusa Tenggara Occidentale, scacciata con la forza dalla folla nel 2006. A marzo, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sull’alloggio adeguato ha espresso preoccupazione per lo “spostamento forzato di minoranze religiose, in particolare le comunità sciita e ahmadiyya, provocato dalla folla e basato sull’istigazione all’odio religioso”. A maggio il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali ha sollevato preoccupazioni circa la situazione di vari gruppi, comprese le comunità religiose sfollate, che avevano subito “discriminazioni molteplici”. A novembre, il neoeletto ministro degli Affari religiosi e il ministro dell’Interno hanno entrambi dichiarato che il governo avrebbe considerato prioritaria la tutela dei diritti delle minoranze.

IMPUNITÀ Le vittime di violazioni e abusi dei diritti umani commessi in passato hanno continuato a chiedere giustizia, verità e riparazione per i crimini di diritto internazionale occorsi sotto il governo dell’ex pre- sidente Suharto (1965-1998) e durante il successivo periodo del movimento Reformasi, tra cui uccisioni illegali, stupri e altri reati di violenza sessuale, sparizioni forzate e tortura e altri maltratta- menti. Nessun passo avanti è stato segnalato in numerosi casi di presunte gravi violazioni dei diritti umani che la commissione nazionale dei diritti umani (Komisi Nasional Hak Asasi Manusia – Komnas Ham) aveva sottoposto all’ufficio del procuratore generale, dopo aver condotto un’indagine preliminare informale. L’ex presidente Yudhoyono non ha preso provvedimenti rispetto ad alcune raccomandazioni formulate dal parlamento a partire dal 2009, che chiedevano di assicurare alla giustizia i responsabili delle sparizioni forzate di 13 attivisti per la democrazia avvenute nel 1997 e 1998, di effettuare imme-

285 diatamente una ricerca degli attivisti scomparsi e di fornire riabilitazione e risarcimento alle loro famiglie. Per la fine dell’anno, la Komnas Ham aveva completato solo due delle cinque indagini informali in merito a “gravi violazioni dei diritti umani” durante il conflitto di Aceh (1989-2005). Queste com- prendevano il caso verificatosi a Simpang Kka, nella provincia di Aceh del Nord, in cui nel 1999 l’esercito uccise 21 manifestanti, e quello avvenuto a Jamboe Keupok, nella provincia di Aceh del Sud, dove a maggio 2003 i soldati spararono uccidendo quattro persone e ne bruciarono vive altre 12. Un’ordinanza (qanun) sulla verità e riconciliazione per Aceh, approvata nel dicembre 2013, non è stata implementata. Non si sono registrati progressi in merito a una nuova legge sull’istituzione di una commissione di verità e riconciliazione. A più di 10 anni dall’omicidio del noto difensore dei diritti umani Munir Said Thalib, le autorità non sono ancora riuscite a portarne tutti i responsabili dinanzi alla giustizia. Il governo non è riuscito a mettere in atto le raccomandazioni formulate dalla commissione bilaterale di verità e amicizia Indonesia-Timor Est e, in particolare, a istituire una commissione per le persone scomparse, con il compito di scoprire la sorte di tutti i bambini di Timor Est che furono separati dai genitori durante il periodo del referendum sull’indipendenza del 1999.

PENE CRUDELI, DISUMANE O DEGRADANTI Nel corso dell’anno, almeno 76 persone sono state fustigate nella provincia di Aceh per reati previsti dalla sharia, tra cui gioco d’azzardo, assunzione di alcolici e adulterio. A settembre, il parlamento di Aceh ha approvato una nuova legislazione a valore locale, il codice penale islamico, che ha ampliato l’uso della fustigazione come punizione per altri “crimini”, tra cui rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso e intimità tra coppie non sposate. È stata espressa la preoccupazione che la definizione e le procedure probatorie relative al reato di stupro e abusi sessuali in tale codice non siano conformi agli standard internazionali sui diritti umani. Il codice penale islamico di Aceh si applica ai musulmani della provincia di Aceh ma anche i non musulmani potrebbero essere condannati ai sensi delle sue norme, per i reati attualmente non coperti dal codice penale indonesiano.

DIRITTI DELLE DONNE A fine anno, la camera dei rappresentanti non aveva ancora approvato un disegno di legge per la pro- tezione dei lavoratori domestici, lasciando milioni di lavoratori domestici, in maggioranza donne e ragazze, esposti a sfruttamento economico e a violazioni dei diritti umani.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI A febbraio, il ministero della Salute ha emesso un nuovo regolamento che revocava il precedente, ri- salente al 2010, che autorizzava alcuni operatori sanitari, come medici, ostetriche e infermieri, a praticare la “circoncisione femminile”. A fine anno, il governo doveva ancora approvare una legislazione specifica che proibisse le mutilazioni genitali femminili. A luglio è stato emanato un regolamento attuativo della legge sulla salute del 2009, il regolamento governativo n. 61/2014 sulla salute riproduttiva, che ha ridotto a 40 giorni il periodo di tempo in cui le vittime di stupro possono accedere legalmente all’aborto. È stato espresso il timore che questo lasso di tempo più breve impedisse a molte vittime di stupro di essere in grado di accedere all’aborto legale e sicuro.

286 PENA DI MORTE Non sono state segnalate esecuzioni. Durante l’anno sono state emesse almeno due condanne a morte e almeno 140 persone sono rimaste in attesa di esecuzione.

Note 1. Indonesia: Setting the agenda – human rights priorities for the new government (ASA 21/011/2014), www.amnesty.org/ en/library/info/ASA21/011/2014/en 2. Prosecuting beliefs: Indonesia’s blasphemy laws (ASA 21/018/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA21/018/2014/en

LAOS

REPUBBLICA DEMOCRATICA POPOLARE DEL LAOS

Capo di stato: Choummaly Sayasone Capo di governo: Thongsing Thammavong

Il controllo statale sui mezzi d’informazione, la magistratura e le istituzioni politiche e sociali ha con- tinuato a limitare gravemente la libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica. La mancanza di apertura e le poche informazioni hanno reso difficile il monitoraggio della situazione dei diritti umani. Il caso della sparizione forzata di un membro di primo piano della società civile a fine anno era ancora irrisolto. Almeno due prigionieri di coscienza sono rimasti in carcere. Sebbene il Laos sia abolizionista de facto, la pena di morte è rimasta nell’ordinamento giuridico come punizione obbligatoria per alcuni reati di droga.

CONTESTO È proseguita la controversia sulla costruzione di grandi dighe per l’energia idroelettrica. Coloro che sono stati costretti a trasferirsi hanno manifestato insoddisfazione e alcune comunità hanno contestato la perdita dei terreni e i risarcimenti inadeguati o non pagati. Ad agosto, il Laos ha annunciato la temporanea sospensione della costruzione e sei mesi di consultazione per la seconda grande diga sul fiume Mekong, in seguito alle preoccupazioni sollevate dai paesi vicini; il processo di consultazione pare sia stato viziato e il lavoro per la diga è andato avanti. Gruppi ambientalisti sostenevano che le dighe idroelettriche di Xayaburi e Don Sahong avrebbero avuto un impatto sulla sicurezza alimentare di circa 60 milioni di persone che vivevano a valle. Sono state progettate altre nove dighe. A novembre, il Laos ha presentato il suo rapporto in occasione dell’Esame periodico universale delle Nazioni Unite, previsto per gennaio/febbraio 2015. Nel rapporto del governo non sono state adegua- tamente affrontate le preoccupazioni più importanti in materia di diritti umani, sollevate durante il primo Esame periodico, risalente a maggio 2010. Una proposta di nuove linee guida per le operazioni e le attività delle Ngo internazionali che lavoravano a progetti di sviluppo è stata ampiamente criticata per le severe procedure di approvazione e di ren- dicontazione. Allo stesso modo, gli emendamenti proposti alla legge del 2009 che regolava le asso-

287 ciazioni locali hanno destato timori che potessero portare ulteriori limitazione per i gruppi della società civile.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Sono state mantenute rigide limitazioni alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica. A fine anno, erano stati completati disegni di legge e un decreto per il controllo dell’uso di Internet e dei social media. Tra questi c’erano la legge sui crimini informatici e un decreto del primo ministro sulla gestione delle informazioni attraverso Internet. Il decreto, promulgato a settembre, mirava a impedire la circolazione di critiche al governo e alle sue politiche. Utenti di Facebook sono stati invitati a non postare informazioni che avrebbero potuto “disturbare l’ordine sociale e minare la sicurezza”. Due prigionieri di coscienza, in carcere dall’ottobre 1999 per aver esercitato il diritto alla libertà d’espressione e di riunione pacifica, tentando di organizzare una protesta pacifica, continuavano a scontare la condanna a 20 anni di reclusione. Le autorità hanno dichiarato di aver rilasciato prima del tempo due prigionieri di etnia hmong, incarcerati nel 2003 dopo un processo palesemente iniquo, per aver aiutato due giornalisti stranieri a raccogliere informazioni: Thao Moua sarebbe stato liberato nel 2013 e Pa Fue Khang a maggio 2014. Queste informazioni non hanno potuto essere confermate in modo indipendente.

SPARIZIONI FORZATE Un membro di spicco della società civile, Sombath Somphone,1 continuava a risultare scomparso dopo essere stato rapito, nel dicembre 2012, davanti a una stazione di polizia nella capitale, Vientiane. Nel corso dell’anno, la polizia ha fatto soltanto una vaga dichiarazione pubblica sulle indagini e la famiglia non ha ricevuto alcuna informazione. La mancanza d’indagini adeguate sul rapimento di Sombath Som- phone o di tentativi per scoprire dove si trovasse ha accresciuto i timori riguardo alla possibile complicità dello stato nella sua scomparsa, minacciando lo sviluppo di una società civile attiva e fiduciosa.2

Note 1. Laos: Caught on camera – the enforced disappearance of Sombath Somphone (ASA 26/002/2013) http://www.amnesty.org/ en/library/info/ASA26/002/2013/en 2. Laos: Seeking justice for “disappearance” victim, Sombath Somphone (ASA 26/001/2014) www.amnesty.org/en/library/ info/ASA26/001/2014/en

MALDIVE

REPUBBLICA DELLE MALDIVE

Capo di stato e di governo: Abdulla Yameen Abdul Gayoom

I preparativi per riprendere le esecuzioni hanno messo a rischio la vita di almeno 20 persone nel braccio della morte. È proseguito l’uso della fustigazione giudiziaria e la maggioranza delle persone

288 frustate erano donne. Il governo non è riuscito a portare davanti alla giustizia i vigilantes che hanno fatto uso di violenza contro persone che promuovevano la tolleranza religiosa. È perdurata l’impunità per i funzionari di polizia e dell’esercito responsabili di uso non necessario o eccessivo della forza.

CONTESTO A marzo si sono svolte le elezioni parlamentari, in cui i partiti alleati con il presidente hanno ottenuto la maggioranza. Ad aprile, il parlamento ha adottato un nuovo codice penale, la cui entrata in vigore è stata fissata per il 2015.

PENA DI MORTE Il paese si è preparato a riprendere le esecuzioni dopo più di 60 anni. Ad aprile, il governo ha introdotto le “norme procedurali per indagare e punire il reato di omicidio”, ai sensi delle leggi sulla polizia e sulla clemenza, aprendo la strada all’effettuazione delle esecuzioni. Le norme contenevano anche nuove procedure sull’esecuzione di persone che all’epoca del reato avevano meno di 18 anni, permet- tendone l’esecuzione dopo il compimento del diciottesimo anno. Due persone sono state condannate a morte dal tribunale per i minorenni per reati commessi quando avevano meno di 18 anni.

PENE CRUDELI, DISUMANE O DEGRADANTI Sono proseguite le condanne alla fustigazione per rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. Organi d’informazione e difensori dei diritti umani hanno rilevato che nella maggior parte dei casi la condanna e la susseguente punizione sono state inflitte soltanto alle donne. La procura generale ha dichiarato ad Amnesty International che le condanne si basavano soprattutto sulle confessioni. Se la persona imputata negava, l’accusa di “fornicazione” decadeva. Secondo la procura, gli uomini di solito negavano di aver commesso il fatto e quindi non venivano condannati. Questo è stato vero anche per alcune donne, a meno che non fossero rimaste incinte o avessero subito la pressione delle loro comunità affinché ammettessero la colpa. Nel 2013, Amnesty International aveva intervistato una donna condannata per “fornicazione” a 20 fru- state e quattro mesi di prigione nel giugno del 2012, quando aveva 17 anni. Ha raccontato che qualcuno aveva testimoniato che aveva avuto rapporti sessuali con il suo ragazzo e lo aveva riferito alla polizia; di conseguenza era stata arrestata e portata al tribunale per i minorenni, dove aveva con- fessato. La donna ha dichiarato che era la seconda volta che subiva la fustigazione; la prima volta era accaduto quando aveva solo 14 anni. Ha detto che la fustigazione è stata sempre effettuata da un uomo e ha così descritto la sua esperienza: “Quando mi hanno frustata è stato molto doloroso. Per pa- recchio tempo ho avuto lividi e segni sul corpo”. Dopo la fustigazione è stata mandata in prigione.

LIBERTÀ DI RELIGIONE E D’ESPRESSIONE Nessuno è stato assicurato alla giustizia per l’accoltellamento e il grave ferimento di Ismail “Hilath” Rasheed, attivista per la libertà religiosa, aggredito nel 2012. Era già stato vittima di un attacco nel 2011. A giugno, un gruppo di vigilantes islamisti ha rapito diversi giovani, li ha trattenuti per ore, maltrattati e ammoniti a non promuovere l’“ateismo”. Nessuno dei responsabili è stato assicurato alla giustizia. Ad agosto, Ahmed Rilwan Abdulla, un noto giornalista di Minivan News, è scomparso, probabilmente vittima di una sparizione forzata. È stato visto l’ultima volta nelle prime ore dell’8 agosto sul traghetto

289 Malé-Hulhumalé. Ci sono stati appelli a livello nazionale e internazionale alle autorità affinché facessero di più per scoprire dove si trovasse. L’uomo stava indagando, tra le altre cose, sulle attività dei gruppi di vigilantes islamisti. Si è ritenuto che la possibile sparizione forzata sia legata al suo lavoro di giornalista.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Il governo non ha confermato se fosse stata aperta un’indagine sugli agenti di polizia che avevano fatto uso non necessario della forza contro alcuni giovani che, ad aprile, avevano partecipato pacifi- camente a un festival musicale privato. La polizia ha perquisito i loro effetti personali e ha tenuto 79 giovani in manette per tutta la notte, maltrattandone alcuni. Una delle partecipanti ha dichiarato che un poliziotto l’ha colpita con calci alla schiena e a un altro è stato spruzzato spray al pepe senza che avesse provocato gli agenti.

IMPUNITÀ Nessun agente di polizia o funzionario dell’esercito è stato assicurato alla giustizia per il pestaggio e il ferimento di decine di membri e dirigenti del Partito democratico delle Maldive, avvenuto a febbraio 2012.

MALESIA

MALESIA

Capo di stato: re Abdul Halim Mu’adzam Shah Capo di governo: Najib Tun Razak

La libertà d’espressione è stata attaccata con il ricorso sempre più frequente da parte del governo alla legge sulla sedizione per arrestare e incriminare difensori dei diritti umani e politici dell’opposizione. Sono perdurate le segnalazioni di violazioni dei diritti umani da parte della polizia, con casi di decessi in custodia, tortura e altri maltrattamenti e uso non necessario ed eccessivo della forza e delle armi da fuoco. Le minoranze religiose e le persone Lgbti hanno subito vessazioni e intimidazioni. La pena di morte ha continuato a essere inflitta e, secondo quanto riferito, le esecuzioni sono state effettuate in segreto.

CONTESTO A settembre, la Malesia è stata eletta per un mandato biennale al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. A marzo, la corte d’appello ha ribaltato il verdetto di assoluzione del leader dell’opposizione Anwar Ibrahim, prosciolto dall’accusa penale di “sodomia” per motivi politici, e gli ha imposto cinque anni di reclusione e l’interdizione dalle cariche pubbliche.1 Sempre a marzo, la Malesia ha respinto le principali raccomandazioni volte a rafforzare il rispetto e la tutela dei diritti umani, espresse dopo

290 l’adozione dei risultati dell’Esame periodico universale dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra.2

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE La libertà d’espressione è stata fortemente limitata da una serie di leggi repressive. Ad agosto, le au- torità hanno dato il via a un giro di vite sulla libertà d’espressione, utilizzando la legge sulla sedizione per indagare, incriminare e imprigionare difensori dei diritti umani, politici dell’opposizione, un gior- nalista, professori universitari e studenti.3 Almeno due persone sono state accusate di sedizione durante l’anno e condannate rispettivamente a 10 e 12 mesi di reclusione, mentre a fine anno almeno 16 risultavano incriminate. Molte altre persone sono state indagate ai sensi di tale legge, creando un effetto raggelante sulla libertà di parola nel paese. A novembre, il primo ministro si è tirato indietro rispetto alla promessa fatta nel 2012 di abrogare la legge sulla sedizione e ha invece annunciato il piano di estenderne l’ambito.4 I difensori dei diritti umani hanno subito intimidazioni e molestie a causa del loro lavoro, mentre il governo proseguiva nel suo tentativo d’indebolire la società civile. Lena Hendry, un’attivista per i diritti umani della Ngo Pusat Komas, ha continuato ad affrontare accuse penali politicamente motivate ai sensi della legge del 2002, sulla censura cinematografica, per aver organizzato, a luglio 2013, la proiezione del documentario “No fire zone: The killing fields of Sri Lanka”. La legge sulla tipografia e l’editoria ha imposto ampie restrizioni agli organi di stampa e alle case editrici. La legge ha introdotto l’obbligo di un permesso per diffondere pubblicazioni a stampa, che poteva essere arbitrariamente revocato dal ministro dell’Interno. I mezzi d’informazione indipendenti in particolare hanno incontrato difficoltà nell’ottenere il permesso richiesto dalla legge. Funzionari del governo e uomini politici hanno avviato azioni civili per diffamazione nel tentativo di mettere a tacere le critiche da parte degli organi di stampa.5

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA La polizia è stata di continuo accusata di violazioni dei diritti umani, compresi decessi in custodia, tortura e altri maltrattamenti6 e uso non necessario ed eccessivo della forza e delle armi da fuoco. Ad agosto, la corte d’appello ha stabilito che l’ispettore generale della polizia e due agenti erano respon- sabili secondo il diritto civile del decesso di A. Kugan, morto in custodia di polizia nel 2009.7 È stato riferito che almeno 13 persone sono morte in custodia di polizia nel corso del 2014. Le indagini sulle violazioni dei diritti umani per mano della polizia sono state poche e di rado i presunti responsabili sono stati chiamati a risponderne. Il governo ha continuato a respingere gli appelli per la creazione di una commissione indipendente per i reclami contro la polizia e la cattiva condotta degli agenti, come era stato raccomandato nel 2005 dal rapporto della commissione reale.

ARRESTI E DETENZIONE ARBITRARI Le autorità hanno continuato a usare la legge sulla prevenzione della criminalità (Prevention of Crime Act – Pca) e la legge sui reati contro la sicurezza (misure speciali) per arrestare e detenere arbitra- riamente decine di persone sospettate di attività criminali. La Pca, che è stata modificata nel 2013, permette la detenzione preventiva indefinita senza accusa né processo e indebolisce i fondamentali diritti di equità processuale.

291 DISCRIMINAZIONE Nel corso dell’anno sono aumentati gli episodi d’intolleranza religiosa, nonché le limitazioni al diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Le autorità hanno sempre più spesso utilizzato la religione come giustificazione per discriminare i gruppi religiosi minoritari. A giugno, la corte federale ha respinto il ricorso contro il divieto imposto a un giornale cristiano di usare la parola “Allah” nelle sue pubblicazioni. Le autorità sostenevano che l’uso della parola in testi non islamici era disorientante e avrebbe potuto causare la conversione dei musulmani. Il divieto ha portato a intimidazioni e vessazioni nei confronti dei cristiani, tra cui incursioni nei luoghi di culto da parte delle autorità di governo e se- questro di libri, video e altri materiali. Altre minoranze religiose, tra cui gli sciiti, hanno subito intimi- dazioni e minacce di criminalizzazione. Anche gruppi della società civile e organizzazioni per i diritti umani hanno subito vessazioni e intimidazioni sia da parte delle autorità, sia di alcuni gruppi religiosi. Con una decisione storica, a novembre la corte d’appello ha dichiarato anticostituzionale una legge dello stato di Negeri Sembilan, basata sulla sharia, che aveva reso illegale il travestitismo. Tuttavia, durante l’anno sono pervenute segnalazioni di arresti e detenzione di persone Lgbti, esclusivamente sulla base della loro sessualità; queste hanno continuato a subire discriminazioni, sia nella legge sia nella prassi.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO La Malesia ha violato il divieto internazionale di non-refoulement rimandando forzatamente rifugiati e richiedenti asilo verso paesi in cui rischiavano gravi violazioni dei diritti umani. A maggio, le autorità hanno rimpatriato forzatamente in Sri Lanka due rifugiati e un richiedente asilo, tutti sotto la protezione dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dove presumibilmente hanno subito tortura e altri maltrattamenti.

PENA DI MORTE A febbraio e marzo, dopo le critiche a livello nazionale e internazionale, sono state rinviate le esecuzioni di Chandran Paskaran e Osariakhi Ernest Obayangbon. A fine anno, non erano stati messi a morte.8 Tuttavia, le condanne alla pena capitale hanno continuato a essere imposte e ci sono state notizie di esecuzioni effettuate in segreto, senza notifiche precedenti o successive.

Note 1. Malaysia: Anwar Ibrahim decision a “bleak day for justice”, 7 marzo 2014, www.amnesty.org/en/news/malaysia-anwar- ibrahim-decision-bleak-day-justice-2014-03-07 2. Malaysia again reneges on human rights commitments (ASA 28/003/2014), http://www.amnesty.org/en/library/ info/ASA28/003/2014/en 3. Malaysia: Increasing use of the Sedition Act fosters a climate of repression (ASA 28/008/2014), www.amnesty.org/ en/library/info/ASA28/008/2014/en 4. Malaysia: Open Letter: Use of the Sedition Act to restrict freedom of expression in Malaysia (ASA 28/011/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA28/011/2014/en 5. Malaysia: Drop defamation lawsuit against news website (ASA 28/004/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ ASA28/004/2014/en 6. Malaysia: Detained student activist at risk of torture: Ali Abdul Jalil (ASA 28/010/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/ASA28/010/2014/en

292 7. Malaysia: Amnesty International welcomes Court of Appeal ruling, calls for investigations into custodial deaths (ASA 28/007/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA28/007/2014/en 8. Malaysia: Stayed execution positive but hundreds of others still at risk (7 febbraio 2014), www.amnesty.org/en/news/ma- laysia-stayed-execution-positive-hundreds-others-still-risk-2014-02-07

MONGOLIA

MONGOLIA

Capo di stato: Tsakhia Elbegdorj Capo di governo: Chimediin Saikhanbileg

La tortura e altri maltrattamenti in custodia di polizia sono rimasti molto diffusi. Ci sono stati sgomberi forzati in aree urbane. La discriminazione basata su genere, orientamento sessuale e disabilità è continuata per lo più incontrastata. Richiedenti asilo sono stati espulsi in violazione del principio di non-refoulement, poiché rimpatriati forzatamente in un paese in cui rischiavano di subire gravi violazioni dei diritti umani.

CONTESTO A ottobre, la Mongolia ha ratificato la Convenzione internazionale contro la sparizione forzata. Tuttavia, la ratifica del Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici, che mira ad abolire la pena di morte, firmata nel 2012, non ha portato a cambiamenti nella legislazione nazio- nale.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI L’uso della tortura e di altri maltrattamenti, in particolare per ottenere “confessioni”, è rimasto un grave problema. Agenti di polizia e guardie carcerarie sospettati di tortura e altri maltrattamenti di persone trattenute nelle stazioni di polizia e nei centri di detenzione non sono stati indagati in modo efficace, con un conseguente mancato accertamento delle responsabilità. A gennaio è stata sciolta l’unità investigativa speciale (Special Investigation Unit – Siu) presso l’ufficio del procuratore generale dello stato. La Siu era responsabile delle indagini sulle denunce contro pubblici ministeri, giudici e funzionari di polizia che avrebbero estorto dichiarazioni durante gli interrogatori. In Mongolia è pertanto venuto a mancare un meccanismo indipendente per indagare efficacemente sulle denunce di tortura e altri maltrattamenti, poiché la polizia stessa è stata incaricata di esaminare tali reclami. A febbraio, tre ex detenuti del centro di detenzione preprocessuale della provincia di Arkhangai hanno presentato una denuncia alla commissione nazionale per i diritti umani della Mongolia, sostenendo di essere stati sottoposti a percosse e scosse elettriche durante la detenzione per estorcere loro “con- fessioni”. Uno di loro ha dichiarato di essere stato privato di cibo per sei giorni per costringerlo a di- chiararsi colpevole. A causa dello scioglimento della Siu, il dipartimento di polizia della provincia di

293 Arkhangai è stato incaricato d’indagare sui suoi stessi colleghi. Le accuse di tortura e altri maltrat- tamenti sono state successivamente respinte.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI I residenti dei ger, nei distretti di Ulan Bator composti da iurte (tradizionali abitazioni in feltro di lana), hanno sofferto per la mancanza di accesso a un alloggio adeguato e ai servizi essenziali, tra cui l’acqua e i servizi igienico-sanitari. L’alloggio alternativo adeguato promesso non era ancora stato fornito ad alcuni dei residenti del 7° microdistretto di Ulan Bator, che erano stati sgomberati con la forza dalle loro case nel 2007, senza una reale consultazione o altre appropriate garanzie pro- cedurali o tutele legali.

DISCRIMINAZIONE È perdurata la discriminazione basata su etnia, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità. La discriminazione di genere ha colpito soprattutto le donne di gruppi emarginati, come quelli che vivono nelle zone rurali e le donne appartenenti a minoranze etniche. Le persone Lgbti hanno continuato ad affrontare ostilità, discriminazione e violenza. La definizione giuridica di stupro non ha incluso uomini e ragazzi, così che i maschi vittime di stupro hanno incontrato particolari difficoltà per ottenere adeguato trattamento, giustizia, riparazione e risarcimento.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO A maggio, due richiedenti asilo cinesi della Regione autonoma della Mongolia interna sono stati rim- patriati nella Repubblica popolare cinese. Ciò è avvenuto nonostante per almeno uno di loro l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, fosse in procinto di determinare lo status di rifugiato. Il rimpatrio prima che il processo di determinazione dello status fosse completato e l’invio di persone in un paese in cui erano a rischio di gravi violazioni dei diritti umani violavano il principio di non-refou- lement.

MYANMAR

REPUBBLICA DELL’UNIONE DEL MYANMAR

Capo di stato e di governo: Thein Sein

Nonostante le riforme politiche, giuridiche ed economiche in corso, i progressi in materia di diritti umani sono rimasti in fase di stallo, con alcuni passi indietro in settori chiave. Si è deteriorata la condizione dei rohingya, che hanno subito una crescente discriminazione nella legge e nella prassi, a causa di una tragica situazione umanitaria. È perdurata la violenza contro i musulmani e le autorità non sono riuscite a chiamare a risponderne i presunti responsabili. Sono continuate le segnalazioni di violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario nelle zone del conflitto armato. Le libertà d’espressione e di riunione pacifica sono rimaste gravemente limitate e decine di difensori dei

294 diritti umani, giornalisti e attivisti politici sono stati arrestati e imprigionati. È prevalsa l’impunità per i crimini del passato.

CONTESTO A gennaio, il Myanmar ha assunto la presidenza dell’Asean. A marzo, il governo ha annunciato elezioni parlamentari suppletive entro la fine dell’anno, in seguito annullate, ed elezioni generali nel 2015. Nonostante una campagna nazionale per emendare la costituzione del 2008, guidata dal partito d’opposizione Lega nazionale per la democrazia (National League for Democracy – Nld) e dalla sua leader Aung San Suu Kyi, a fine anno le norme costituzionali le impedivano ancora di concorrere per la presidenza e l’esercito manteneva il potere di veto su eventuali future modifiche alla costituzione.

DISCRIMINAZIONE La situazione dei rohingya è peggiorata nel corso dell’anno. Hanno subito continue discriminazioni nella legge e nella prassi, aggravate da una sempre più profonda crisi umanitaria, da continui scoppi di violenza religiosa e anti-islamica e dall’inerzia del governo nell’indagare sulle aggressioni contro rohingya e altri musulmani. Inoltre, le autorità non hanno affrontato il problema dell’incitamento alla violenza motivato da odio nazionale, razziale e religioso. A gennaio, sono emerse notizie di scontri tra forze di sicurezza, i buddisti rakhine e i musulmani rohingya nel villaggio Du Chee Yar Tan, nello stato di Rakhine. Due inchieste, una condotta dal governo e una dalla commissione nazionale per i diritti umani del Myanmar (Myanmar National Human Rights Commission – Mnhrc), non hanno trovato alcuna prova a sostegno delle accuse di vio- lenza. A luglio, due persone sono state uccise e decine ferite per lo scoppio di violenze religiose a Mandalay, la seconda città del paese. Ancora una volta, non risulta che sia stata effettuata alcuna inchiesta indipendente. Si stima che circa 139.000 persone, per lo più rohingya, siano rimaste sfollate nello stato di Rakhine per il terzo anno consecutivo, dopo i violenti scontri scoppiati tra i buddisti rakhine, i rohingya e altri musulmani nel 2012. La loro disastrosa situazione umanitaria è peggiorata, a febbraio e marzo, dopo l’espulsione di alcune organizzazioni umanitarie e il volontario ritiro di altre, in seguito agli attacchi nei loro confronti da parte della popolazione rakhine. Gli sfollati sono stati lasciati senza accesso a servizi d’emergenza e necessari alla sopravvivenza. A fine anno, seppure la maggior parte delle organizzazioni fosse ritornata nella zona, l’assistenza non aveva ancora raggiunto il livello precedente al ritiro. La violenza tra le comunità religiose e l’accesso limitato all’assistenza umanitaria sono perdurati al- l’interno di un più ampio contesto di leggi e politiche discriminatorie contro i rohingya, che sono rimasti privi della cittadinanza, secondo la legge sulla cittadinanza del 1982. Di conseguenza, hanno continuato a subire restrizioni alla libertà di movimento, con ripercussioni sull’accesso ai mezzi di sussistenza. Il 30 marzo, il giorno precedente l’inizio del primo censimento nazionale organizzato in Myanmar dal 1983, il ministero dell’Informazione ha annunciato che i rohingya avrebbero dovuto regi- strarsi come “bengalesi”, un termine usato per negare il riconoscimento ai rohingya e implicare che erano tutti migranti del Bangladesh. A ottobre, il governo ha annunciato un nuovo piano d’azione per lo stato di Rakhine che, se messo in atto, avrebbe potuto rafforzare ulteriormente la discriminazione e la segregazione dei rohingya. L’annuncio del piano è sembrato innescare una nuova ondata di persone in fuga via mare, che sono andate ad aggiungersi alle oltre 87.000 che, secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, erano già scappate via mare dall’inizio delle violenze nel 2012.

295 CONFLITTI ARMATI INTERNI Il governo e i gruppi etnici armati non sono riusciti a concordare una tregua nazionale, nonostante nel 2012 avessero sottoscritto accordi preliminari per il cessate il fuoco. Il conflitto armato negli stati di Kachin e Shan settentrionale è proseguito per il quarto anno, con violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani commesse da entrambe le parti, tra cui uccisioni illegali, tortura e altri maltrattamenti, stupri e altri reati di violenza sessuale.1 Il conflitto iniziò nel giugno 2011, dopo che l’esercito del Myanmar interruppe la tregua con l’Esercito per l’indipendenza del Kachin (Kachin In- dependence Army – Kia), provocando così il diffuso e continuo sfollamento della popolazione civile. A fine anno, circa 98.000 persone erano ancora sfollate. Il governo ha continuato a negare l’accesso completo e costante degli operatori umanitari alle comunità sfollate nello stato di Kachin, in particolare nelle zone controllate dal Kia. A settembre sono divampati combattimenti negli stati Karen e Mon, tra l’esercito del Myanmar e gruppi armati di opposizione, costringendo i civili alla fuga. È stato segnalato che l’esercito del Myanmar ha congedato 376 bambini e giovani adulti dalle sue truppe, come parte degli sforzi in corso per porre fine all’uso di bambini soldato e al reclutamento di minori.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E DI RIUNIONE PACIFICA Le libertà di espressione e di riunione pacifica sono rimaste gravemente limitate e decine di difensori dei diritti umani, giornalisti, attivisti politici e contadini sono stati arrestati o imprigionati solo per aver esercitato pacificamente i loro diritti. Ko Htin Kyaw, leader del Movimento per la forza corrente della democrazia (Movement for Democracy Current Force – Mdcf), un’organizzazione della comunità, è stato condannato per 11 diversi capi d’accusa per aver violato la sezione 505 (b) del codice penale e per altre tre imputazioni, secondo l’articolo 18 della legge sulle riunioni pacifiche e i cortei non violenti. In totale, gli sono stati inflitti 13 anni e quattro mesi di reclusione per aver tenuto discorsi pubblici, distribuito volantini e aver or- ganizzato manifestazioni che chiedevano le dimissioni del governo e protestavano contro gli sgomberi dai terreni. Anche altri tre membri dell’Mdcf sono stati incarcerati per attività politiche pacifiche.2 A giugno, il presidente ha promulgato alcune modifiche alla legge sulle riunioni pacifiche e i cortei non violenti, comunemente utilizzata dalle autorità per imprigionare i manifestanti pacifici fin dalla sua adozione nel 2011. Tuttavia, nonostante le modifiche, nella legge sono rimaste gravi limitazioni al diritto alla libertà di riunione pacifica.3 Le riforme nel campo dell’informazione sono state compromesse dall’arresto e la detenzione di giornalisti e altri operatori dei mezzi d’informazione. A luglio, cinque collaboratori del quotidiano Unity sono stati condannati a 10 anni di carcere ai sensi della legge sul segreto di stato per aver pubblicato un articolo su una presunta fabbrica segreta di armi chimiche. A ottobre, la condanna è stata ridotta in appello a sette anni.4 A fine anno, risultavano in carcere almeno 10 operatori dell’in- formazione.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA Il presidente non ha mantenuto la sua promessa di liberare tutti i prigionieri di coscienza entro la fine del 2013, nonostante il 30 dicembre 2013 avesse annunciato una grazia di vasta portata. Il leader musulmano Dr. Tun Aung è stato tra quelli non rilasciati con il provvedimento di grazia. Nel 2014, a

296 poche settimane da importanti incontri internazionali previsti nel paese, è stata annunciata un’amnistia per i prigionieri. Tra le persone rilasciate pare ci fosse soltanto un prigioniero di coscienza. Il comitato per l’esame dei prigionieri di coscienza rimanenti, istituito dal governo nel febbraio 2013, non ha funzionato in modo efficace e non era chiaro se avrebbe continuato a operare oltre il 2014.

DISPUTE SULLA TERRA Ci sono state diffuse proteste contro la confisca di terre e gli sgomberi forzati. Secondo quanto riferito, il comitato parlamentare istituito nel 2012 per indagare in merito alle dispute sulla terra ha ricevuto oltre 6000 segnalazioni di confisca di terre. Tuttavia, l’assenza di soluzioni o risposte alle di- spute sulla terra ha portato i contadini e le altre persone colpite a ricorrere sempre più spesso alle cosiddette “proteste dell’aratro”, in cui i contadini hanno arato le terre contese. Durante alcune di queste proteste, le forze di sicurezza hanno fatto uso non necessario o eccessivo della forza. Molti contadini e difensori dei diritti umani che li appoggiavano sono stati arrestati e accusati, spesso in base alle disposizioni del codice penale in materia di violazione di domicilio e danni alla proprietà. A marzo, membri della comunità michaungkan hanno ripreso un sit-in di protesta vicino al municipio di Yangon, dopo che le autorità non avevano risolto il caso di disputa sulla terra che li vedeva coinvolti. Chiedevano la restituzione dei terreni che denunciavano essere stati confiscati dai militari negli anni Novanta e il risarcimento per le perdite subite. Il leader della comunità U Sein Than è stato successivamente arrestato per aver protestato senza permesso e per intralcio e quindi condannato a due anni di reclusione.5 A dicembre, la polizia ha aperto il fuoco su manifestanti che protestavano contro il rilevamento delle loro terre per sfruttare una miniera di rame a Letpadaung, nello stato di Sagaing. Una persona è stata uccisa e molte ferite, generando una serie di proteste pacifiche nelle maggiori città di tutto il paese. Almeno sette attivisti non violenti sono stati in seguito accusati di aver manifestato senza permesso e di crimini secondo il codice penale. A fine anno, le preoccupazioni, sia sul piano ambientale sia dei diritti umani, relative al progetto della miniera non erano state affrontate.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Il reato di tortura non è stato ancora introdotto e il Myanmar non ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, come promesso dal vice ministro degli Esteri a gennaio. Agenti di polizia e militari sono stati ripetutamente accusati di tortura e altri maltrattamenti, sia nel contesto dei conflitti, sia nei confronti di sospetti criminali. Le indagini in merito alle denunce sono state rare e assai di rado i presunti responsabili sono stati chiamati a risponderne. Le vittime e le loro famiglie non hanno avuto accesso a un rimedio effettivo.6 A ottobre è stato riferito che il giornalista freelance Aung Kyaw Naing, noto anche come Par Gyi, era stato ucciso mentre si trovava in custodia dell’esercito del Myanmar. Era stato arrestato il 30 settembre nello stato di Mon, mentre seguiva la ripresa dei combattimenti tra l’esercito del Myanmar e gruppi armati della zona. L’esercito del Myanmar ha sostenuto che l’uomo era il “comandante delle comunicazioni” per un gruppo armato d’opposizione e che era stato colpito mentre tentava di scappare dalla custodia militare. Dopo pressioni a livello nazionale e internazionale, a novembre la polizia e l’Mnhrc hanno aperto un’inchiesta. A fine anno non risultava ancora che qualcuno fosse stato ritenuto responsabile della sua morte.7 Ad agosto, soldati dell’esercito del Myanmar hanno arrestato e picchiato sette contadini nel villaggio

297 di Kone Pyin, nello stato di Chin, accusati di avere contatti con l’Esercito nazionale Chin, un gruppo armato di opposizione. I sette uomini sono stati maltrattati, e alcuni torturati, per un periodo tra quattro e nove giorni. A fine anno, non c’erano notizie di un’indagine indipendente in merito al caso, né di azioni giudiziarie contro i presunti perpetratori diretti o i loro superiori.8

IMPUNITÀ L’art. 445 della costituzione del 2008 manteneva l’immunità dall’azione giudiziaria per le passate violazioni commesse da forze di sicurezza e altri funzionari del governo. Le vittime di violazioni dei diritti umani del passato e le loro famiglie hanno continuato a vedersi negate verità, giustizia, com- pensazione e ogni altra forma di riparazione. A più di tre anni dall’arresto di Sumlut Roi Ja da parte dei militari, non si sapeva nulla della sua sorte e di dove si trovasse. La donna scomparve nell’ottobre 2011, nello stato di Kachin, dopo essere stata fermata da soldati dell’esercito del Myanmar insieme al marito e al suocero. Il marito, che riuscì a fuggire insieme al suocero, a gennaio 2012 presentò denuncia alla Corte suprema, che ha archiviato il caso nel febbraio 2013 per mancanza di prove. Le risposte dell’Mnhrc alle denunce di violazioni dei diritti umani sono state in gran parte inefficaci. A marzo, il parlamento ha adottato la legge che istituiva l’Mnhrc e una nuova commissione è stata costituita a settembre. La maggior parte dei suoi membri era associata al governo e il processo di se- lezione e di nomina non è stato trasparente, gettando ulteriori dubbi sull’indipendenza e l’efficacia della commissione.

PENA DI MORTE Il 2 gennaio, il presidente ha commutato tutte le condanne a morte in periodi di detenzione. Tuttavia, nel quadro giuridico le norme che consentono l’imposizione della pena di morte non sono state abrogate e almeno una nuova condanna a morte è stata inflitta nel corso dell’anno.

VAGLIO INTERNAZIONALE A luglio, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Myanmar ha visitato il paese e a ottobre ha presentato il suo rapporto all’assemblea generale, mettendo in guardia contro potenziali passi indietro sui diritti umani. Le autorità non hanno firmato un accordo per la creazione di un ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite né hanno ratificato i principali trattati internazionali sui diritti umani. A novembre, l’attenzione sul Myanmar è stata più alta del solito perché i leader mondiali si sono riuniti nella capitale, Nay Pyi Taw, in occasione dei vertici dell’Asean e dei paesi dell’Asia orientale. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha visitato il paese per la seconda volta.

Note 1. Myanmar: Three years on, conflict continues in Kachin State (ASA 16/010/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ ASA16/010/2014/en 2. Myanmar: Further Information: Activist organization targeted again (ASA 16/029/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ ASA16/029/2014/en 3. Myanmar: Stop using repressive law against peaceful protesters (ASA 16/025/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/ASA16/025/2014/en

298 4. Myanmar: Further Information: Myanmar media workers imprisoned in Myanmar (ASA 16/013/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA16/023/2014/en 5. Myanmar: Further sentences for protester in Myanmar: U Sein Than (ASA 16/021/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/ASA16/021/2014/en 6. Myanmar: Take immediate steps to safeguard against torture (ASA 16/011/2014), www.amnesty.org/en/library info/ASA16/011/2014/en 7. Myanmar: Ensure independent and impartial investigation into the death of journalist (ASA 16/028/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA16/028/2014/en 8. Myanmar: Ensure independent and impartial investigation into the death of journalist (ASA 16/028/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA16/028/2014/en

NAURU

REPUBBLICA DI NAURU

Capo di stato e di governo: Baron Waqa

Richiedenti asilo sono stati detenuti arbitrariamente in dure condizioni, secondo un accordo con il governo australiano. La rimozione arbitraria di giudici e la sospensione di membri del parlamento ha sollevato preoccupazioni in merito allo stato di diritto e alla libertà d’espressione.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO In quanto piccola nazione insulare, Nauru ha avuto limitate possibilità di soddisfare le esigenze della propria popolazione, compresi i diritti a un alloggio adeguato, accesso ad acqua potabile pulita, istruzione, assistenza sanitaria e occupazione. La presenza di rifugiati ha rappresentato un ulteriore significativo sfruttamento di risorse già limitate. Al 30 giugno, nel centro di detenzione per migranti gestito dall’Australia sull’isola di Nauru erano presenti 1169 richiedenti asilo, di cui 193 minori e 289 donne. Altre 168 persone, che avevano ottenuto una valutazione positiva del loro status di rifugiati, erano ospitate in altre strutture. Almeno 61 richiedenti asilo erano in attesa di processo per alcuni disordini avvenuti nel centro di de- tenzione, nel luglio 2013. Sono state espresse preoccupazioni sull’equità processuale per questi ri- chiedenti asilo, tra cui l’inadeguata rappresentanza legale e i ritardi nei procedimenti giudiziari. I minori richiedenti asilo sono stati particolarmente esposti a problemi di natura psichica, a causa della detenzione arbitraria e prolungata, della mancanza di occupazioni significative e dell’inade- guatezza delle attività educative. Alcuni richiedenti asilo hanno denunciato abusi fisici e sessuali ma non è stato possibile chiarire se e quali misure siano state adottate dalle autorità australiane o di Nauru per indagare in merito. Le intollerabili condizioni di detenzione hanno creato il rischio di re- foulement, nei casi in cui i detenuti sentivano di non avere altra possibilità se non quella di tornare in un posto in cui le loro vite o i loro diritti umani erano a rischio.

299 Ad aprile, l’accesso al centro di detenzione per migranti è stato negato sia al Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria, sia ad Amnesty International.1

SISTEMA GIUDIZIARIO A gennaio, il governo ha licenziato a tutti gli effetti l’unico magistrato e il presidente della Corte suprema di Nauru, sollevando timori relativamente all’indipendenza della magistratura e allo stato di diritto.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE A giugno, cinque parlamentari dell’opposizione sono stati sospesi per aver criticato il governo e rilasciato interviste a organi d’informazione stranieri. La sospensione, ancora in vigore a fine anno, aveva ridotto il numero di parlamentari insediati da 19 a 14. L’aumento delle tasse per il rilascio del visto d’ingresso nel paese da 183 a 7328 dollari americani ha limitato la possibilità per i mezzi d’informazione stranieri di visitare Nauru e di riferire sugli avvenimenti dell’isola.

Note 1. Nauru’s refusal of access to detention centre another attempt to hide conditions (NWS 11/081/2014), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/nauru-s-refusal-access-detention-centre-another-attempt-hide-conditions-201

NEPAL

REPUBBLICA DEMOCRATICA FEDERALE DEL NEPAL

Capo di stato: Ram Baran Yadav Capo di governo: Sushil Koirala

L’impunità è stata ulteriormente radicata dalla legge approvata dall’assemblea costituente che, a dispetto di una sentenza della Corte suprema, ha istituito un meccanismo di giustizia transizionale con il potere di raccomandare amnistie per i reati di diritto internazionale commessi durante la guerra civile del paese (1996-2006). Le istituzioni nazionali di tutela dei diritti umani sono state in- debolite dalla mancanza di volontà politica ed è perdurata l’impunità per le violazioni dei diritti umani passate e presenti. La discriminazione, anche in base a genere, casta, classe, origine etnica e religione, è rimasta diffusa. Per tutto l’anno sono state segnalate detenzioni arbitrarie, tortura ed esecuzioni extragiudiziali.

CONTESTO Il 21 gennaio è stata creata la seconda assemblea costituente; la prima era stata sciolta nel maggio 2012, dopo che non era riuscita a elaborare una nuova costituzione. Sushil Koirala del Partito del

300 Congresso nepalese è stato nominato primo ministro l’11 febbraio. La nuova assemblea costituente si è impegnata a promulgare una nuova costituzione entro il 22 gennaio 2015, anche se non era chiaro se questo obiettivo potesse essere raggiunto, poiché era in corso un dibattito tra i partiti politici sul modello di federalismo e su una maggiore autonomia per le minoranze etniche e le popolazioni native. A luglio, il governo ha adottato il suo quarto piano d’azione nazionale quinquennale per i diritti umani. A settembre, un anno dopo la scadenza del mandato dei precedenti commissari della commissione nazionale per i diritti umani (National Human Rights Commission – Nhrc), il governo ha eletto l’ex presidente della Corte suprema Anup Raj Sharma come presidente e ha nominato i nuovi membri a ottobre.

GIUSTIZIA TRANSIZIONALE Il 25 aprile, il parlamento ha approvato la legge sulla commissione verità e riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission – Trc), che istituisce due commissioni, una Trc e una commissione sulle sparizioni forzate, con il potere di raccomandare amnistie, anche per gravi violazioni dei diritti umani. Ciò è avvenuto, nonostante a gennaio una sentenza della Corte suprema avesse stabilito che un’analoga ordinanza, emessa nel 2013, per la creazione di una Trc con il potere di raccomandare amnistie, violava il diritto internazionale dei diritti umani e lo spirito della costituzione provvisoria del 2007. Le famiglie delle vittime hanno presentato una petizione alla Corte suprema perché fossero modificate le norme sulle amnistie.

IMPUNITÀ L’accertamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani e i diritti delle vittime a ottenere giustizia, verità e riparazione hanno continuato a essere gravemente compromessi dall’incapacità della polizia di registrare i rapporti di prima informazione (First Information Reports – Fir), di svolgere le indagini e di seguire gli ordini dei tribunali, anche in casi di presunte esecuzioni extragiudiziali, tratta di esseri umani, violenza di genere, tortura e altri maltrattamenti. A luglio, le prove medico-legali raccolte dalla Nhrc sulla sparizione forzata e l’esecuzione extragiudiziale di cinque studenti nel distretto di Dhanusha, avvenute nel 2003, hanno confermato l’identità delle vittime e il fatto che erano state bendate e colpite a distanza ravvicinata da munizioni utilizzate al- l’epoca soltanto dall’esercito nepalese. La polizia aveva ritardato le indagini nei quattro anni precedenti, adducendo la mancanza di prove e, a fine anno, non aveva fatto niente alla luce delle nuove scoperte.

ABUSI NELLA REGIONE DEL TERAI Una consolidata cultura d’impunità ha permesso che, nonostante la diminuzione delle attività dei gruppi armati che operano nella regione del Terai (Madhes), siano continuate a pervenire segnalazioni di violazioni da parte della polizia, tra cui detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni extragiudiziali. La polizia non è riuscita a presentare i Fir, a condurre indagini o a perseguire i responsabili di questi crimini. Ck Raut, aperto sostenitore dell’indipendenza del Terai, l’8 ottobre è stato arrestato e accusato di se- dizione per il suo presunto coinvolgimento in “attività antinazionali”; aveva invocato un “Madhes in- dipendente” durante un raduno pubblico a Morang. È stato in seguito arrestato diverse volte mentre era libero su cauzione per aver cercato di organizzare raduni pubblici. Anche molti suoi sostenitori sono stati arrestati e feriti in un giro di vite della polizia sugli incontri pubblici.

301 DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI Nel 2014, almeno mezzo milione di nepalesi è emigrato all’estero per lavoro attraverso canali ufficiali, in gran parte in settori poco qualificati come l’edilizia, l’industria manifatturiera e il lavoro domestico. Molti hanno continuato a essere vittime di tratta a scopo di sfruttamento e di lavoro forzato, da parte di agenzie per il lavoro e intermediari. I reclutatori hanno ingannato i lavoratori migranti su retribuzioni e condizioni di lavoro e li hanno costretti a pagare commissioni superiori a quelle stabilite dal governo, costringendo molti migranti ad accollarsi prestiti a tassi esorbitanti. Per le donne al di sotto dei 30 anni, l’emigrazione per lavoro negli stati del Golfo è rimasta vietata. Sebbene questa misura avesse l’obiettivo di proteggere le donne, ha costretto molte di loro a utilizzare canali informali, aumentando così il rischio di sfruttamento e di abuso. Sono state evidenziate preoccupazioni per la salute e la sicurezza dei migranti, a fronte della morte di 880 lavoratori all’estero, tra luglio 2013 e luglio 2014. Il governo ha fatto alcuni sforzi per affrontare il problema della tratta e della corruzione nel processo di reclutamento. Tuttavia, in pratica, agenzie di lavoro senza scrupoli hanno continuato a operare im- punemente, mentre le vittime di tratta e le loro famiglie sono state costrette ad affrontare enormi ostacoli per denunciare i fatti e accedere a meccanismi di compensazione, come il fondo di assistenza per l’occupazione all’estero.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI La polizia ha continuato a praticare la tortura e altri maltrattamenti nei confronti di uomini, donne e minori, in particolare durante la custodia preprocessuale, per estorcere confessioni e intimidire le persone. Ad aprile, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha ricordato al Nepal l’obbligo di emanare una legge che definisse e rendesse reato la tortura e d’introdurre sanzioni e rimedi efficaci per il reato di tortura e altri maltrattamenti, in linea con gli standard internazionali. A fine anno, nulla era stato fatto per risolvere questi problemi.

DISCRIMINAZIONE È perdurata la discriminazione, anche in base a genere, casta, classe, origine etnica e religione. Le vittime hanno subito esclusione e maltrattamenti, nonché tortura, compresi stupri e altre violenze sessuali. Le donne appartenenti a gruppi emarginati, tra cui i dalit e le donne povere, hanno continuato ad affrontare particolari difficoltà a causa delle molteplici forme di discriminazione di cui erano vittime. La legge del 2011 sulla discriminazione e l’intoccabilità basata sul sistema delle caste è stata applicata solo in pochissimi casi penali, a causa della mancanza di consapevolezza circa la legge e della paura delle vittime di denunciare le aggressioni. Le leggi sullo stupro hanno continuato a essere inadeguate e a riflettere atteggiamenti discriminatori nei confronti delle donne.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI E DIRITTO ALLA SALUTE Le donne e le ragazze in Nepal hanno continuato a subire gravi discriminazioni di genere. Questo ha limitato la capacità di avere controllo sulla loro sessualità e di fare scelte legate alla riproduzione, compreso l’uso della contraccezione, di opporsi alla pratica dei matrimoni precoci, di vedersi garantire un’adeguata assistenza sanitaria prenatale e materna e di accedere a cibo sufficientemente nutriente. Inoltre erano a rischio di violenza domestica, compreso lo stupro coniugale. Una conseguenza di questi fattori è stata che le donne e le ragazze hanno continuato a essere ad alto rischio di sviluppare il prolasso uterino, spesso in età molto precoce.

302 Gli sforzi del governo per sradicare la discriminazione di genere contro le donne e le ragazze hanno continuato a essere inefficaci per ridurre il rischio di prolasso uterino. Nonostante i progressi nella diminuzione della mortalità materna, la necessità di contraccezione è rimasta in larga parte insoddi- sfatta e un numero significativo di donne e ragazze non ha potuto accedere a personale ostetrico competente. Le disparità tra gruppi etnici e regioni geografiche ha rappresentato un problema in particolare per le donne dalit, le donne musulmane e le donne che vivevano nella regione del Terai. Il piano d’azione nazionale quinquennale per i diritti umani del governo esprimeva, tra l’altro, l’intenzione del ministero della Salute e della popolazione di “adottare misure preventive per porre fine al prolasso uterino”. Seppure fosse un passo positivo, non c’erano dettagli sulle misure da adottare o su come il governo prevedesse di assicurarne l’attuazione.

NUOVA ZELANDA

NUOVA ZELANDA

Capo di stato: regina Elisabetta II, rappresentata da Jerry Mateparae Capo di governo: John Key

I diritti economici, sociali e culturali non hanno avuto la stessa tutela legale rispetto ai diritti civili e politici. La popolazione carceraria ha continuato a essere costituita soprattutto da māori (nativi). La violenza familiare è rimasta diffusa e i livelli di povertà infantile hanno continuato a essere alti.

SVILUPPI LEGALI, COSTITUZIONALI O ISTITUZIONALI Il governo non ha risposto formalmente alle raccomandazioni contenute nel rapporto reso pubblico nel 2013 dal comitato di saggi per la costituzione, rispetto al miglioramento della carta dei diritti. A gennaio si è svolto il secondo Esame periodico universale delle Nazioni Unite sulla Nuova Zelanda, tra i motivi di preoccupazione c’era anche la mancanza di una supervisione dal punto di vista dei diritti umani nei processi parlamentari. La Nuova Zelanda ha respinto molte raccomandazioni volte a rafforzare la protezione dei diritti umani nel diritto interno.1 I diritti economici, sociali e culturali non hanno goduto di piena tutela nella legislazione interna e i rimedi in caso di violazione sono rimasti inadeguati.

SISTEMA GIUDIZIARIO Durante l’anno, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha visitato la Nuova Zelanda e ha espresso preoccupazione per il fatto che i māori, pur essendo soltanto il 15 per cento della popolazione neozelandese, costituissero il 50 per cento della popolazione carceraria totale e il 65 per cento della popolazione carceraria femminile. Il Gruppo di lavoro ha sottolineato l’inadeguatezza delle tutele legali per i diciassettenni, considerati dal diritto penale alla stregua di adulti, e ha criticato la riserva della Nuova Zelanda all’art. 37(c)

303 della Convenzione delle Nazioni Unite per l’infanzia, che riguarda la detenzione di giovani e adulti nelle stesse strutture.

DIRITTI DELLE DONNE E DEI BAMBINI La Relazione tecnica sulla povertà infantile del 2013 ha rilevato che il 27 per cento dei minori neoze- landesi era ancora in stato di povertà. I bambini māori e delle isole del Pacifico erano presenti in modo sproporzionato nelle statistiche sulla povertà infantile, evidenziando l’esistenza di una discri- minazione sistemica. Il livello di violenza contro donne e bambini è rimasto elevato. I māori costituivano la maggioranza sia delle vittime, sia dei perpetratori di violenza domestica. La legge sui minori vulnerabili del 2014 è stata emanata allo scopo di proteggere i bambini dalla violenza ma non è stato creato un piano d’azione nazionale per combattere la violenza domestica.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO La Nuova Zelanda ha mantenuto l’opzione di rendere esecutive leggi per utilizzare centri detentivi offshore per migranti. Sono perdurate le disparità nella qualità dei servizi forniti ai rifugiati all’interno della quota d’ingressi per motivi umanitari gestita dall’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, e quelli arrivati nel paese spontaneamente e le cui richieste d’asilo sono state accettate dal governo neozelandese.

DIRITTO ALLA RISERVATEZZA E LIBERTÀ DI MOVIMENTO Un rapporto del 2013 ha rilevato che l’ufficio per la sicurezza delle comunicazioni del governo (Gover- nment Communication Security Bureau – Gcsb) aveva illegalmente spiato individui in Nuova Zelanda. La normativa interna è stata successivamente modificata per permettere al Gcsb di controllare le co- municazioni dei neozelandesi. Nel 2014 il governo ha approvato la legge per contrastare i terroristi combattenti che ha avuto un grave impatto sul diritto alla riservatezza e sulla libertà di movimento. Il periodo di tempo estremamente limitato per la valutazione del progetto di legge ha ridotto la possibilità di consultazione pubblica e una reale valutazione della conformità agli standard interna- zionali dei diritti umani.2

Note 1. New Zealand rejects international recommendations to address inequality (comunicato stampa, 20 giugno), www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/new-zealand-rejects-international-recommendations-address-inequality- 2014-0 2. Joint statement on the Countering Terrorist Fighters (Foreign Fighters) Bill 2014, www.amnesty.org.nz/files/NEW- ZEALAND_Joint-Statement-on-Countering-Terrorist-Fighters-Bill.pdf

304 PAKISTAN

REPUBBLICA ISLAMICA DEL PAKISTAN

Capo di stato: Capo di governo: Muhammad Nawaz Sharif

A dicembre, un attacco condotto dai talebani pakistani contro la scuola militare pubblica di Peshawar ha provocato la morte di 149 persone, inclusi 132 bambini, e ha segnato il più terribile attacco terroristico di tutta la storia del Pakistan. In risposta, il governo ha revocato la moratoria sulla pena capitale e ha subito messo a morte sette uomini condannati in precedenza per accuse relative al ter- rorismo. Il primo ministro ha annunciato un piano per permettere ai tribunali militari di processare i sospettati per terrorismo, come parte di un piano d’azione nazionale del governo contro il terrorismo, sollevando preoccupazioni riguardo all’equità processuale. A ottobre, l’attivista per il diritto all’istruzione, Malala Yousafzai, ha vinto il premio Nobel per la pace insieme a Kailash Satyarthi, attivista indiano per i diritti dell’infanzia. A luglio, l’assemblea nazionale ha approvato la legge per la protezione del Pa- kistan e, nel corso dell’anno, altre leggi sulla sicurezza che hanno conferito ampi poteri alle forze di polizia e di sicurezza, aumentando la possibilità di arresti arbitrari, detenzioni a tempo indeterminato, uso di forza letale e procedimenti giudiziari segreti, misure che vanno ben oltre i limiti delle norme in- ternazionali sul mantenimento dell’ordine pubblico e sul giusto processo. I mezzi d’informazione pakistani sono stati al centro di vessazioni e altri abusi e l’autorità pakistana per la regolamentazione dei mezzi d’informazione elettronici ha ordinato la chiusura per brevi periodi delle due maggiori emittenti private, per aver trasmesso programmi critici verso le autorità. Le minoranze religiose hanno continuato a subire discriminazioni e persecuzioni, soprattutto a causa delle leggi sulla blasfemia.

CONTESTO Le udienze del processo per tradimento dell’ex capo del governo militare, il generale Pervez Musharraf, hanno continuato a essere ritardate, creando tensioni tra il governo democraticamente eletto del primo ministro Nawaz Sharif e il potente esercito. Il governo e i partiti dell’opposizione non sono riusciti a concludere un accordo di pace con i talebani pakistani, che hanno realizzato un attentato all’aeroporto internazionale di che è costato la vita ad almeno 34 persone, soprattutto agenti delle forze di sicurezza e combattenti talebani. Questo attentato e la costante pressione degli Usa hanno spinto l’esercito pakistano a lanciare, a giugno, un’importante operazione militare nei rifugi dei talebani e di al-Qaeda, nell’agenzia tribale del Waziristan settentrionale, ancora in corso alla fine del 2014. In seguito alle denunce di brogli nelle elezioni politiche del 2013 e alle insoddisfacenti inchieste in- dipendenti effettuate dopo tali denunce, manifestanti guidati dal politico d’opposizione Imran Khan e dal leader religioso Tahir ul Qadri hanno organizzato proteste in tutto il paese per chiedere le dimissioni del governo di Nawaz Sharif e nuove elezioni. Dopo l’uccisione, avvenuta il 17 giugno, di 12 attivisti politici da parte della polizia nel quartiere Model Town di Lahore, le proteste sono diventate sempre più conflittuali, raggiungendo il picco nei mesi di agosto e settembre. Per un breve periodo i

305 manifestanti hanno preso d’assalto l’assemblea nazionale e hanno minacciato di occupare la residenza ufficiale del primo ministro, creando una situazione di crisi che ha rischiato di portare alla caduta del governo, fino a quando l’esercito non ha pubblicamente sostenuto il primo ministro. Per il quarto anno consecutivo, gravi inondazioni in tutto il Pakistan hanno causato lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone, creando una grave crisi umanitaria. Nei primi mesi dell’anno, i tentativi del governo di migliorare le relazioni con l’India sono giunti a un punto di stallo, poiché le forze armate dei due paesi si sono frequentemente scontrate sulla linea di controllo tra Jammu e Kashmir.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI I gruppi armati sono stati implicati in violazioni dei diritti umani in tutto il paese. Il 16 dicembre, diversi uomini, che i talebani pakistani hanno affermato essere membri dell’organizzazione, hanno attaccato la scuola militare pubblica nella città nordoccidentale di Peshawar, uccidendo 149 persone, di cui 132 erano bambini, e ferendone decine con sparatorie e attacchi suicidi. I talebani pakistani hanno affermato che l’attacco era la risposta alle recenti operazioni dell’esercito pakistano nella zona del Waziristan settentrionale, nelle quali erano stati uccisi centinaia di combattenti talebani. Diverse fazioni dei talebani pakistani hanno continuato a compiere attentati, anche contro attivisti e giornalisti che promuovevano l’istruzione e altri diritti o che li avevano criticati. Ahrar ul Hind, un gruppo separatista dei talebani pakistani, ha rivendicato la responsabilità dell’attentato suicida con armi e bombe, avvenuto il 3 marzo in un tribunale di Islamabad, che ha provocato 11 morti e molti feriti. Secondo le notizie, l’attentato era una reazione alla decisione dei talebani pakistani di avviare colloqui di pace con il governo. Jamat ul Ahrar, un altro gruppo scissionista dei talebani pakistani, ha rivendicato la responsabilità per l’attacco suicida del 2 novembre, nel quale sono morte 61 persone e oltre 100 sono rimaste ferite, avvenuto dopo la quotidiana sfilata per l’abbassamento della bandiera al posto di confine di Wagah, tra Pakistan e India. Operatori sanitari impegnati in campagne di vaccinazione contro la poliomielite e altre malattie sono stati uccisi in varie parti del paese. Le uccisioni sono state particolarmente diffuse in alcune aree del nord-ovest e nella città di Karachi, zone con presenza attiva di talebani e gruppi allineati che si op- pongono alle vaccinazioni. Gruppi armati di etnia beluci, che chiedevano la creazione dello stato se- parato del Belucistan, sono stati implicati nell’uccisione e nel rapimento di agenti delle forze di sicurezza e di altre persone, sulla base delle loro affiliazioni etniche o politiche e hanno compiuto at- tacchi contro le infrastrutture. Il gruppo armato anti-sciita Lashkar-e-Jhangvi ha rivendicato una serie di omicidi e altri attacchi contro la popolazione sciita musulmana, in particolare nella provincia del Belucistan e nelle città di Karachi e Lahore. Gruppi armati rivali si sono scontrati spesso, provocando decine di morti.

SPARIZIONI FORZATE Nonostante le chiare sentenze emesse nel 2013 dalla Corte suprema all’indirizzo del governo, che chiedevano il ritrovamento delle vittime di sparizioni forzate, le autorità hanno fatto ben poco per ot- temperare ai loro obblighi secondo il diritto internazionale e la costituzione pakistana, al fine di impedire queste violazioni. Le prassi delle forze di sicurezza statali, comprese le azioni che rientrano nell’ambito di legislazioni come la legge per la protezione del Pakistan, hanno avuto come risultato la sparizione forzata di uomini e ragazzi in tutto il paese e in particolare nelle province di Belucistan,

306 e Khyber Pakhtunkhwa. Diverse vittime sono poi state ritrovate morte e pare che i loro cadaveri presentassero ferite di proiettili e segni di tortura. Il governo non ha attuato gli ordini della Corte su- prema di assicurare alla giustizia i membri delle forze di sicurezza responsabili di sparizioni forzate. Il 18 marzo, Zahid Baloch, presidente dell’organizzazione studentesca beluci Azad, è stato rapito a Quetta, nel Belucistan. Alcuni testimoni hanno affermato che è stato rapito sotto la minaccia delle armi nell’area Satellite Town della città, da membri del corpo di frontiera, una forza di sicurezza federale. Le autorità hanno negato di essere a conoscenza del suo arresto e non hanno adeguatamente indagato né sulla sua sorte né sul rapimento. Nessuna nuova informazione era stata resa nota a fine anno.1 Nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa e nelle aree tribali ad amministrazione federale (Federally Ad- ministered Tribal Areas – Fata) sono stati ritrovati altri cadaveri di uomini e ragazzi arbitrariamente detenuti dalle forze armate pakistane, a distanza di mesi o anni dalla loro sparizione. Le autorità in genere non hanno rispettato gli ordini dell’Alta corte di Peshawar che chiedevano di rilasciare le persone sospettate di terrorismo o, in alternativa, d’incriminarle in tempi rapidi e processarle. I detenuti hanno continuato ad avere accesso limitato alle famiglie e agli avvocati. Ci sono stati alcuni rari casi di attivisti vittime di sparizione forzata ritrovati in vita. Il 5 febbraio, Kareem Khan, un attivista contro l’uso dei droni e parente di vittime, è stato rapito da circa 20 uomini armati, alcuni con l’uniforme della polizia, dalla sua casa nella città guarnigione di Rawalpindi, pochi giorni prima di partire per l’Europa per portare la sua testimonianza al Parlamento europeo sugli effetti degli attacchi dei droni americani sulle aree tribali del Pakistan. È stato rilasciato nove giorni dopo, in seguito alle pressioni di gruppi locali e internazionali per i diritti e di governi stranieri. Ha affermato di essere stato torturato e ripetutamente interrogato circa il suo attivismo e le sue indagini sugli attacchi dei droni. Le autorità non hanno indagato in modo adeguato l’episodio, né hanno chiamato a risponderne i responsabili. Gruppi per i diritti umani hanno criticato un’inchiesta giudiziaria in merito al ritrovamento di fosse comuni a Totak, nel Belucistan, avvenuto il 25 gennaio, per non aver indagato in modo adeguato sul ruolo delle forze di sicurezza statali. Attivisti beluci hanno affermato che le fosse comuni contenevano i corpi di attivisti di etnia beluci che erano stati vittime di sparizione forzata.2

CONFLITTO ARMATO INTERNO In parte delle Fata del Pakistan nordoccidentale è proseguito il conflitto armato interno, con continui attacchi di talebani e altri gruppi armati, delle forze armate pakistane e degli aerei drone statunitensi, che hanno provocato la morte di centinaia di persone. A giugno, l’esercito pakistano ha lanciato una grande operazione militare nell’agenzia tribale del Waziristan settentrionale e ha effettuato sporadiche operazioni nell’agenzia tribale del Khyber e in altre parti delle Fata. Le comunità colpite hanno conti- nuamente segnalato l’uso sproporzionato della forza e gli attacchi indiscriminati da tutte le parti in conflitto, in particolare dalle forze armate pakistane. I combattimenti hanno provocato lo sfollamento di oltre un milione di abitanti, la maggior parte dei quali è stata costretta a fuggire verso il distretto di Bannu, nella vicina provincia di Khyber Pakhtunkhwa, durante il periodo più caldo dell’anno. Dall’11 giugno in avanti, dopo una pausa di quasi sei mesi, gli attacchi dei droni Usa sono ripresi sporadicamente, facendo di nuovo temere nuove uccisioni illegali. Il 5 giugno, l’Alta corte di Islamabad ha ordinato l’arresto di un ex capo della Cia per il Pakistan, per la sua presunta responsabilità nelle uccisioni illegali provocate dai droni senza pilota nelle aree tribali. Il 12 settembre, le forze di sicurezza

307 hanno annunciato di aver arrestato, nel Waziristan settentrionale, 10 uomini presumibilmente coinvolti nel tentato omicidio dell’attivista per il diritto all’istruzione Malala Yousafzai, avvenuto nel 2012. Sono rimasti dubbi sul modo in cui sono stati arrestati, sul trattamento durante la detenzione e sulla possibilità per loro di ottenere un processo equo.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE – GIORNALISTI Almeno otto giornalisti sono stati uccisi in Pakistan nel corso dell’anno come diretta conseguenza della loro attività professionale, rendendo il paese uno dei più pericolosi al mondo per chi lavora nei mezzi d’informazione.3 Il noto conduttore televisivo Hamid Mir ha affermato che la direzione dell’In- ter-services intelligence, il servizio d’intelligence più potente del paese, era responsabile di un attentato alla sua vita messo in atto il 19 aprile a Karachi, al quale era scampato a malapena. Dopo queste dichiarazioni, diffuse a livello nazionale dalla stazione televisiva di Hamid Mir, Geo TV, il 6 giugno le trasmissioni dell’emittente sono state formalmente sospese per 15 giorni. Diversi giornalisti associati all’emittente hanno ricevuto minacce quotidiane e molestie da individui non identificati per telefono e di persona. Molti hanno rifiutato di entrare nei loro uffici o d’identificarsi come appartenenti a Geo TV o alle sue associate, per timore di essere attaccati. Il 20 ottobre sono state sospese anche le trasmissioni di Ary News, la principale rivale di Geo TV, dopo che l’Alta corte di Lahore aveva stabilito che l’emittente e alcuni suoi giornalisti erano responsabili di oltraggio alla corte, per aver messo in onda le opinioni di una persona che era sotto processo in tri- bunale. A marzo, il primo ministro ha promesso di nominare procuratori speciali per indagare sulle aggressioni ai giornalisti e ha visitato personalmente Hamid Mir in ospedale, dopo l’attentato alla sua vita. A fine anno, nessuno era stato chiamato a rispondere per il tentato omicidio, né per qualsiasi altro attacco a giornalisti.4

DISCRIMINAZIONE – MINORANZE RELIGIOSE Le minoranze religiose hanno continuato a subire leggi e prassi che alimentavano discriminazione e persecuzione. Decine di persone di etnia azara sono state uccise in attacchi a Quetta e in altre parti del Belucistan; il gruppo armato Lashkar-e-Jhangvi ha rivendicato la responsabilità per molti di questi omicidi, affermando di averli compiuti poiché gli azara erano sciiti. I membri della comunità religiosa sikh hanno organizzato diverse proteste per tutto l’anno contro le uccisioni, i rapimenti e gli attacchi ai loro luoghi di culto, in diverse parti del paese. Hanno sporto reclamo perché le autorità hanno costantemente omesso di fornire loro adeguata protezione da tali attacchi o di portare i re- sponsabili davanti alla giustizia. Le leggi sulla blasfemia sono rimaste in vigore, in violazione dei diritti alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e alla libertà d’opinione e d’espressione. Durante l’anno si sono sistemati- camente verificate violenze connesse alle leggi sulla blasfemia, come dimostrato in diversi casi di alto profilo. Il 7 maggio, il famoso avvocato per i diritti umani Rashid Rehman è stato ucciso di fronte ai colleghi nel suo ufficio nella città di Multan, nella provincia del Punjab. In precedenza Rashid Rehman aveva ricevuto frequenti minacce di morte perché era l’avvocato di Junaid Hafeez, un docente universitario arrestato con l’accusa di blasfemia. Il 18 settembre, il professor Muhammad Shakil Auj, noto studioso religioso e preside della facoltà di Studi islamici all’università di Karachi, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco da aggressori non identificati, mentre si stava recando a una

308 riunione. Nei mesi precedenti, aveva ricevuto minacce ed era stato accusato di blasfemia da studiosi religiosi rivali. La sera del 27 luglio, una folla ha incendiato le case di una piccola comunità ahmadiyya, nella provincia del Punjab, dopo che un residente era stato accusato di blasfemia. Due bambini e la loro nonna sono morti per inalazione di fumo e molte altre persone sono rimaste gravemente ferite. Il 16 ottobre, i giudici d’appello dell’Alta corte di Lahore hanno respinto l’istanza di una donna cristiana, Asia Bibi, che chiedeva l’annullamento della condanna a morte per blasfemia comminatale nel 2010.5 A marzo, Savan Masih, un netturbino di religione cristiana, è stato condannato a morte per blasfemia, dopo che un amico lo aveva accusato di avere espresso osservazioni blasfeme durante una discussione. Le accuse hanno provocato una sommossa di due giorni nel suo quartiere a Lahore, noto come Joseph Colony, nella quale una folla di almeno 3000 persone ha dato fuoco a circa 200 case di cristiani. La polizia era stata avvertita dell’imminente attacco ma non ha preso misure adeguate per proteggere la comunità.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Alcuni omicidi, cosiddetti “d’onore”, di alto profilo hanno evidenziato i rischi che le donne corrono per mano delle loro stesse famiglie, quando tentano di sposare partner di loro scelta. Il 27 maggio, Farzana Parveen è stata colpita con un’arma da fuoco e picchiata a morte con un mattone da membri della sua famiglia, tra cui il padre e l’ex marito, davanti all’ingresso dell’Alta corte di Lahore, dopo che era fuggita e aveva sposato un uomo di sua scelta. Molti dei suoi parenti maschi sono stati arrestati per l’omicidio, oltre al marito, Mohammad Iqbal, arrestato separatamente dopo aver ammesso di aver ucciso la prima moglie per sposare Farzana Parveen. Le donne hanno rischiato di subire violenze anche nel tentativo di esercitare i loro diritti. Ad esempio, a settembre, una jirga (un organo decisionale tradizionale) dei capi tribù maschi degli uthmanzai, nell’agenzia tribale del Waziristan settentrionale, ha minacciato di violenza le donne che avessero cercato di ottenere assistenza umanitaria nei campi per sfollati del distretto di Bannu, nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, dove si trovava la stragrande maggioranza delle persone in fuga dal conflitto nell’agenzia tribale.

PENA DI MORTE L’attacco alla scuola militare pubblica di Peshawar del 16 dicembre ha portato a una ripresa delle esecuzioni, dopo che il primo ministro Sharif ha revocato la moratoria che durava da sei anni. Egli ha annunciato un piano per l’esecuzione di 500 persone condannate per altri reati relativi al terrorismo. Sette uomini, precedentemente condannati, sono stati impiccati a dicembre in un’improvvisa serie di esecuzioni, dopo che il presidente Hussain aveva sommariamente respinto i loro appelli. Il governo ha anche annunciato un piano per l’inizio del 2015 sull’impiego dei tribunali militari per processare i so- spettati di terrorismo, come parte di un piano d’azione nazionale contro il terrorismo. Le condanne capitali hanno continuato a essere inflitte. L’esecuzione di Shoaib Sarwar, un detenuto nel braccio della morte condannato per omicidio nel 1998, era stata fissata a settembre, poiché aveva esaurito ogni possibilità d’appello. Tuttavia, è stata rinviata più volte dalle autorità grazie alle pressioni di attivisti contro la pena di morte in patria e all’estero.6

309 Note 1. Pakistan: Abducted political activist at risk of death (ASA 33/008/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ ASA33/008/2014/en 2. Pakistan: Mass graves a stark reminder of violations implicating the state in Balochistan (ASA 33/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA33/001/2014/en 3. “A bullet has been chosen for you”: Attacks on journalists in Pakistan (ASA 33/005/2014), http://www.amnesty.org /en/li- brary/info/ASA33/005/2014/en 4. Pakistan: Open letter to the Prime Minister Nawaz Sharif: Joint statement of shared concerns about attacks on journalists in Pakistan (ASA 33/010/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA33/010/2014/en 5. Pakistan: Woman sentenced to death for blasphemy - Asia Bibi (ASA 33/015/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/ASA33/015/2014/en 6. Pakistan: Stop first civilian execution in six years (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/pa- kistan-stop-first-civilian-execution-six-years-2014-09-15

PAPUA NUOVA GUINEA

STATO INDIPENDENTE DI PAPUA NUOVA GUINEA

Capo di stato: regina Elisabetta II, rappresentata dal governatore generale Michael Ogio Capo di governo: Peter Charles Paire O’Neill

Sono pervenute ulteriori segnalazioni di violenza contro donne e bambini, anche a seguito di accuse legate alle pratiche di stregoneria. Sono continuate le denunce di uso non necessario ed eccessivo della forza da parte della polizia. Ci sono state notizie di violenza e di molestie sessuali da parte della polizia, durante uno sgombero forzato nei pressi della miniera di Porgera. Violenza e presunte cure mediche inadeguate hanno provocato la morte di due richiedenti asilo presso il centro di detenzione per immigrazione dell’isola di Manus, gestito dall’Australia.

CONTESTO Il governo ha fatto ben poco per affrontare il problema della violenza contro le donne o della violenza legata alle pratiche di stregoneria, nonostante le riforme giuridiche del 2013, che prevedevano pene più severe. Al 31 agosto, nel centro di detenzione per immigrazione dell’isola di Manus, a Papua Nuova Guinea, gestito dall’Australia, risultavano 1084 richiedenti asilo. Sono stati fatti pochi progressi per migliorare le condizioni di vita o per applicare le leggi e le prassi previste per esaminare e determinare le richieste di asilo.1 Secondo dati del governo, da quando la pena capitale è stata reintrodotta nel 1991, almeno 13 persone sono state condannate a morte. Nel 2014, il governo ha completato uno studio itinerante

310 a livello mondiale sui metodi di esecuzione, anche se dal 1954 nel paese non ci sono state più ese- cuzioni.

VIOLENZA CONTRO DONNE E BAMBINI Un rapporto pubblicato nel 2013 dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite ha rilevato che l’80 per cento degli uomini a Bougainville ha ammesso di aver usato violenza fisica o sessuale contro le donne. Ci sono state ulteriori segnalazioni di donne e bambini sottoposti a violenza, a volte con esito fatale, in seguito ad accuse di stregoneria. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiu- diziali, sommarie o arbitrarie ha evidenziato gli omicidi motivati dalla stregoneria come una delle principali fonti di preoccupazione. È stata la terza segnalazione di un Relatore speciale su questo tema negli ultimi anni.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA L’uso non necessario ed eccessivo della forza, compresa la forza letale, da parte della polizia è stato identificato come uno dei principali motivi di preoccupazione dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, dopo la visita effettuata nel paese a marzo. Sono continuate le segnalazioni di violenza fisica e sessuale nei confronti di persone in stato di detenzione e di esecuzioni extragiudiziali da parte della polizia. A marzo è stato reso pubblico un video che mostrava un uomo aggredito per strada da tre cani poliziotto. Gli agenti di polizia erano nelle vicinanze e non hanno fatto alcun tentativo per arrestare o fermare l’uomo. Sebbene le autorità di polizia abbiano cercato d’indagare e dare seguito alle denunce contro gli agenti, le segnalazioni di brutalità per mano della polizia sono rimaste frequenti.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI Nel sito della miniera d’oro di Porgera, le tensioni tra la società mineraria e i residenti locali si sono intensificate. A giugno, la polizia ha raso al suolo circa 200 case. Sono pervenute segnalazioni di violenza fisica e sessuale da parte della polizia durante lo sgombero forzato.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO A febbraio è scoppiata la violenza nel centro di detenzione per immigrazione dell’isola di Manus, gestito dall’Australia. Dopo settimane di proteste, i richiedenti asilo sono stati aggrediti da guardie di sicurezza private e dalla polizia locale. Ad agosto, la polizia ha accusato due ex dipendenti del- l’Esercito della salvezza e un collaboratore della sicurezza della società G4S, per la morte del richiedente asilo iraniano Reza Berati, deceduto a causa di un grave trauma cranico subito durante una sommossa nel centro di detenzione, il 17 febbraio.2 A settembre, organizzazioni per i diritti umani hanno presentato una denuncia presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico contro la società G4S, sostenendo che non era riuscita a mantenere gli standard fondamentali sui diritti umani e a garantire la protezione dei richiedenti asilo. A settembre, un altro richiedente asilo iraniano trattenuto sull’isola di Manus, Hamid Kehazaei, è morto in un ospedale in Australia, dopo aver contratto una setticemia per un taglio sul piede. Secondo quanto riferito, il decesso è stato causato da un trattamento medico insufficiente o ritardato. Dei 1084 richiedenti asilo presenti sull’isola di Manus, sono state esaminate solo 79 domande per lo

311 status provvisorio di rifugiato, 41 delle quali sono state accolte e 38 respinte. A fine anno, c’erano ancora rifugiati e richiedenti asilo detenuti presso la struttura. I richiedenti asilo hanno continuato a subire lunghi ritardi nelle procedure, condizioni di vita precarie e rischio di lesioni.

Note 1. This is breaking people: Human rights violations at Australia’s asylum-seeker processing centre on Manus Island, Papua New Guinea (ASA 12/002/2013), www.amnesty.org/en/library/info/ASA12/002/2013/en 2. This is still breaking people: Update on human rights violations at Australia’s asylum-seeker processing centre on Manus Island, Papua New Guinea (ASA 12/002/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA12/002/2014/en

SINGAPORE

REPUBBLICA DI SINGAPORE

Capo di stato: Tony Tan Keng Yam Capo di governo: Lee Hsien Loong

Difensori dei diritti umani e piccoli partiti d’opposizione hanno chiesto un più ampio cambiamento per i diritti umani attraverso manifestazioni pubbliche, attività online e ricorsi costituzionali. Il Partito di azione popolare è rimasto al potere per il sesto decennio.

PENA DI MORTE A marzo è stata sospesa l’esecuzione di un prigioniero nel braccio della morte ma Singapore ha interrotto la sua ormai triennale moratoria sulle esecuzioni a luglio, quando ha impiccato tre uomini la cui condanna a morte obbligatoria era stata inflitta ai sensi della legge sull’uso illecito di droghe, prima delle modifiche del novembre 2012 che hanno abolito alcune fattispecie di omicidio e traffico di droga per le quali era obbligatoriamente prevista la pena capitale. In conseguenza delle modifiche legislative del novembre 2012, è proseguita la pratica di commutare le condanne a morte in ergastolo e 15 frustate. La commutazione di pena è stata messa in atto per persone la cui responsabilità nei reati è stata giudicata “limitata” o che avevano collaborato a con- trastare il traffico di stupefacenti e avevano ottenuto “certificati di collaborazione”. A luglio, il parlamento ha modificato la legge sulla protezione dalle radiazioni per permettere d’infliggere la pena capitale per reati connessi all’uso dell’energia nucleare con l’intento di causare danni e che avessero provocato vittime. Singapore non ha impianti nucleari.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI La fustigazione ha continuato a essere prevista per numerosi reati, tra cui le violazioni alle norme

312 sull’immigrazione, vandalismo e, insieme all’ergastolo, come alternativa alla pena di morte. Ad agosto, Yong Vui Kong, la cui condanna a morte era stata commutata all’ergastolo con fustigazione, ha contestato in tribunale la pena dei 15 colpi di frusta, sostenendo che la costituzione proibiva la tortura. A fine anno, il giudizio della corte d’appello era ancora pendente ma il procuratore generale si era espresso dicendo che la fustigazione non costituiva tortura e che la tortura non era proibita dalla costituzione.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Attivisti dell’opposizione, ex prigionieri di coscienza e difensori dei diritti umani hanno espresso pre- occupazione per il progressivo restringimento dello spazio per il dibattito pubblico su temi come la libertà d’espressione, la pena di morte, i diritti delle persone Lgbti, i diritti dei lavoratori, la povertà e gli inadeguati standard di vita. Il governo ha continuato a ricorrere alle cause per diffamazione contro chi lo criticava. A maggio, il primo ministro ha fatto causa per diffamazione al blogger Roy Ngerng Yi Leng, sostenendo che questi lo avesse accusato sul suo blog di “appropriazione indebita criminale” di fondi per le pensioni pubbliche. Nonostante Ngerng abbia ritrattato, si sia scusato pubblicamente e si sia offerto di pagare i danni, a luglio il primo ministro ha chiesto un giudizio sommario sul caso. A giugno, Ngerng è stato licenziato dall’ospedale pubblico in cui lavorava. In considerazione dei risultati economicamente rovinosi di precedenti cause analoghe alla sua, Ngerng ha deciso di ricorrere al crowdfunding per fi- nanziare la propria difesa legale.

DETENZIONE SENZA PROCESSO Circa 12 sospetti militanti islamisti sono rimasti in prigione senza processo ai sensi della legge sulla sicurezza interna.

SRI LANKA

REPUBBLICA DEMOCRATICA SOCIALISTA DELLO SRI LANKA

Capo di stato e di governo: Mahinda Rajapaksa

Detenzioni illegali e tortura da parte delle forze di sicurezza sono state compiute impunemente e le autorità hanno continuato a fare affidamento sulla legge per la prevenzione del terrorismo, per arrestare e detenere sospettati senza accusa né processo. Difensori dei diritti umani e familiari di vittime di sparizione forzata sono stati minacciati e arrestati. Sono rimaste impunite le aggressioni mortali contro le minoranze religiose. L’impunità sistematica per presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità ha indotto il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ad approvare a marzo una risoluzione che chiedeva un’indagine completa da parte dell’Alto commissario per i diritti umani

313 delle Nazioni Unite, alla quale il governo si è opposto, rifiutandosi di collaborare. Difensori dei diritti umani hanno ricevuto minacce di rappresaglie da parte di funzionari e sostenitori del governo, se so- spettati di aver contattato investigatori o comunque di far pressione per l’accertamento delle respon- sabilità per le violazioni dei diritti umani. Sono state denunciate violenza politica e intimidazioni, per lo più a danno di sostenitori dell’opposizione o di attivisti della società civile, nel periodo precedente alle elezioni presidenziali previste per gennaio 2015.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Persone tamil sospettate di essere legate alle Tigri per la liberazione della patria Tamil (Liberation Tigers of Tamil Eelam – Ltte) hanno continuato a essere arrestate e detenute ai sensi della legge per la prevenzione del terrorismo (Prevention of Terrorism Act – Pta), invece che secondo il diritto penale ordinario. La Pta consentiva una detenzione amministrativa prolungata e spostava l’onere della prova sui detenuti che denunciavano di aver subito tortura o altri maltrattamenti. Questa inoltre limitava le libertà d’espressione e d’associazione ed è stata impiegata per arrestare chi esprimeva dissenso.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI La tortura e altre forme di maltrattamento dei detenuti, compresa la violenza sessuale, sono rimaste molto diffuse nello Sri Lanka, soprattutto al momento dell’arresto e durante le prime fasi della detenzione preprocessuale. Secondo le denunce, sia detenuti adulti sia minori sono stati vittime di tortura; tra questi c’erano persone arrestate nel contesto di operazioni di sicurezza, così come individui sospettati di reati penali comuni.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA L’uso non necessario ed eccessivo della forza, che ha provocato la morte di manifestanti, ha continuato a essere segnalato ed è rimasto impunito. A maggio, quattro ufficiali dell’esercito, sospesi a seguito di un’inchiesta interna sull’uccisione a colpi d’arma da fuoco di manifestanti durante una protesta del 2013 contro l’inquinamento della rete idrica di Weliweriya, sono stati reintegrati e assegnati a nuovi incarichi. Una delle vittime di questo episodio pare fosse stata picchiata a morte mentre cercava riparo in una chiesa. Il rapporto dell’esercito sull’episodio non è stato reso pubblico.

DECESSI IN CUSTODIA A giugno, il Forum del venerdì, un gruppo informale di cittadini, ha esortato l’ispettore generale della polizia ad agire contro le uccisioni di sospetti criminali durante la custodia di polizia. La polizia ha spesso sostenuto che i sospettati erano stati uccisi per legittima difesa o mentre cercavano di scappare. Anche l’ordine degli avvocati dello Sri Lanka ha condannato l’uccisione di sospettati in cu- stodia di polizia. Alla fine del 2013, quattro uomini, arrestati per il presunto omicidio di un agente di polizia e di sua moglie, sono morti in circostanze sospette in custodia, nell’arco di due settimane. A dicembre 2013, l’ordine degli avvocati ha rilasciato una dichiarazione in cui esprimeva timori per il fatto che le spiegazioni della polizia in merito ai decessi erano praticamente identiche a quelle di casi avvenuti in passato e perché le morti sembravano essere esecuzioni extragiudiziali.

SPARIZIONI FORZATE Ad agosto 2013 è stata nominata la commissione presidenziale ad hoc d’indagine sulle denunce

314 relative a persone scomparse (commissione sparizioni), per esaminare le denunce presentate tra il 10 giugno 1990 e il 19 maggio 2009. La commissione ha ricevuto circa 15.000 denunce da parte di civili e circa 5000 riferite a casi di sparizioni tra personale delle forze armate. Ad agosto 2014, risultava che la commissione avesse avviato le indagini per meno del cinque per cento di questi casi, ovvero per 462 denunce. Alcune di quelle che la commissione ha annunciato sarebbero state oggetto di ulteriori indagini potevano risalire anche a più di un decennio fa.

IMPUNITÀ Non sono state affrontate le gravi violazioni del diritto internazionale commesse durante il conflitto armato, tra cui sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali e bombardamento intenzionale di civili e aree protette, quali gli ospedali. Fino al 15 luglio, il governo ha continuato a negare che tali violazioni si fossero verificate ma in quella data ha annunciato che stava espandendo il mandato della com- missione sparizioni affinché indagasse su altri presunti crimini di diritto internazionale. Un gruppo di avvocati esperti di diritto internazionale è stato nominato come consulente del governo.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Lo Sri Lanka ha arrestato ed espulso forzatamente richiedenti asilo senza valutare adeguatamente le loro richieste, comprese persone che erano state registrate dall’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, e che erano in attesa di essere intervistate. Le autorità hanno arrestato e detenuto 328 richiedenti asilo tra giugno e metà settembre, espellendone 183 verso Pakistan e Afghanistan. A set- tembre, l’Unhcr ha dichiarato che riteneva fossero ancora detenute più di 100 persone di loro compe- tenza, tra cui 38 pakistani e 64 afgani. Molti appartenevano a gruppi religiosi minoritari, vittime di discriminazione e violenze nei loro paesi d’origine.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Le autorità hanno continuato a minacciare, molestare e arrestare i difensori dei diritti umani, tra cui avvocati, familiari di persone scomparse e altri attivisti. Nessuno degli episodi noti ad Amnesty Inter- national è stato oggetto d’indagini efficaci, né sono stati avviati procedimenti giudiziari. Le persone che chiedevano l’accertamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani passate e presenti, tra cui difensori dei diritti umani che tentavano di comunicare le loro preoccupazioni alle Nazioni Unite, sono state perseguitate e minacciate. In alcuni casi sono state arrestate persone so- spettate di voler “internazionalizzare” questi problemi, attraverso la collaborazione con colleghi stranieri. Nello Sri Lanka settentrionale sono state interrogate e arrestate donne attiviste: in particolare, Balendran Jeyakumari, il cui figlio è stato vittima di una presunta sparizione forzata, è rimasta in cu- stodia dopo l’arresto arbitrario ai sensi della Pta, avvenuto a marzo. I noti difensori dei diritti umani Ruki Fernando e padre Praveen Mahesan hanno subito continue restrizioni imposte dai tribunali, dopo essere stati arrestati per aver tentato d’indagare in merito al suo caso.1

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, DI RIUNIONE PACIFICA, D’ASSOCIAZIONE E DI MOVIMENTO Sono pervenute continue segnalazioni d’intimidazioni e vessazioni nei confronti di giornalisti da parte di funzionari statali, comprese aggressioni fisiche, minacce di morte e accuse motivate politicamente. I perpetratori hanno agito nell’impunità: nessuno degli episodi è stato adeguatamente indagato e coloro che erano sospettati di condotta criminale non sono stati perseguiti. L’impunità è perdurata

315 anche per casi di violenza contro giornalisti, tra cui uccisioni illegali e sparizioni forzate risalenti al passato. Il 18 maggio, giorno del quinto anniversario della fine del conflitto armato nello Sri Lanka, i militari hanno chiuso gli uffici di Uthayan, un quotidiano con sede a Jaffna. Il giornale era stato già chiuso in passato e i suoi dipendenti erano stati precedentemente oggetto di minacce e aggressioni violente. Anche le organizzazioni della società civile sono state sotto pressione. Il 1° luglio, il ministero della Difesa ha emesso un memorandum a “tutte le organizzazioni non governative”, intimando loro di non effettuare più conferenze stampa, seminari e corsi di formazione per giornalisti, né di diffondere co- municati stampa. In molte parti del paese gli studenti sono stati attaccati con la violenza e le autorità hanno ripetutamente cercato d’impedire loro di organizzarsi, anche vietando le associazioni studentesche e sospendendo gli studenti attivisti. A ottobre sono state ristabilite le restrizioni di viaggio per gli stranieri diretti nella provincia del Nord, che dovevano preventivamente ottenere l’autorizzazione del ministero della Difesa. A dicembre, gli osservatori elettorali avevano registrato decine di denunce di violenza politica, inclusi attacchi contro raduni politici, aggressioni e incendi dolosi, per lo più commessi da membri del partito al governo.

SISTEMA GIUDIZIARIO L’indipendenza delle istituzioni giudiziarie nello Sri Lanka è stata compromessa dall’eliminazione dei pesi e contrappesi che tutelavano la separazione dei poteri. Il 18° emendamento alla costituzione, approvato nel 2010, ha conferito al presidente il potere di nominare e rimuovere il presidente e i giudici della Corte suprema e della corte d’appello, il procuratore generale e i membri della commissione sui servizi giudiziari, che è l’organo responsabile per le nomine, i trasferimenti, i licenziamenti e il controllo disciplinare dei funzionari giudiziari. Nel 2013, dopo che la Corte suprema aveva emesso sentenze contrarie al governo in diversi casi importanti, il suo presidente era stato messo sotto accusa dal parlamento e poi rimosso dall’incarico, nonostante una decisione della Corte suprema stessa, secondo cui la messa in stato d’accusa era incostituzionale.

DISCRIMINAZIONE – ATTACCHI ALLE MINORANZE È perdurata la discriminazione nei confronti delle minoranze etniche, linguistiche e religiose, compresi i membri delle comunità tamil, musulmana e cristiana. Le minoranze sono state prese di mira con re- strizioni arbitrarie delle libertà d’espressione e d’associazione. I tamil, in particolare quelli del nord del paese, sono stati vessati, minacciati e arrestati dalle forze di sicurezza che li ritenevano sostenitori o comunque collegati alle Ltte, nella maggior parte dei casi soltanto a causa della loro origine etnica e del luogo d’origine o di residenza. L’esercito e la polizia hanno attivamente represso i diritti dei tamil nel nord del paese, i quali chiedevano pubblicamene di avere giustizia o di poter commemorare o piangere le vittime del conflitto armato. In occasione di ricorrenze particolari, sono state poste restrizioni ai riti religiosi indù e cristiani nelle comunità tamil dello Sri Lanka settentrionale e l’obbligo, imposto dall’esercito, di de- nunciare alle autorità militari locali tutte le riunioni pubbliche, compresi gli eventi familiari, ha sco- raggiato la partecipazione a queste attività. La polizia non è riuscita a proteggere le minoranze religiose dalle violenze commesse dalle forze co-

316 munitarie e non ha arrestato coloro che avevano perpetrato tali violenze, neppure quando esistevano prove fotografiche per identificarli. Le minacce, le molestie e la violenza contro i musulmani, i cristiani e i loro luoghi di culto sono aumentate nel 2014 quando, a giugno, si sono verificate violenze su larga scala in un quartiere musulmano di Aluthgama, che hanno provocato morti e feriti tra i residenti e la distruzione di case e attività commerciali.

Note 1. Sri Lanka: Activists in northern Sri Lanka at risk (ASA 37/006/2014), http://www.amnesty.org/en/library/info/ ASA37/006/2014/en

TAIWAN

TAIWAN

Capo di stato: Ma Ying-jeou Capo di governo: Ma Chi-kuo (subentrato a Jiang Yi-huah a dicembre)

Sebbene Taiwan abbia fatto passi avanti per implementare gli standard internazionali sui diritti umani, sono rimasti gravi motivi di preoccupazione, in particolare in merito al diritto alla libertà di riunione pacifica, alla pena di morte, alla tortura e altri maltrattamenti, ai diritti all’alloggio e alla terra e alla discriminazione di genere.

VAGLIO INTERNAZIONALE Gruppi internazionali di esperti indipendenti hanno esaminato i rapporti nazionali sull’applicazione dell’Iccpr e dell’Icescr nel febbraio 2013 e della Cedaw nel giugno 2014. A settembre, il governo si è impegnato a modificare 228 leggi e regolamenti per ottemperare alla Cedaw. Sono state promulgate leggi per applicare entro il 2017 la Convenzione sui diritti dell’infanzia e la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Dal 18 marzo al 10 aprile, centinaia di studenti e altri attivisti hanno occupato il parlamento per pro- testare contro un accordo commerciale con la Cina.1 Il 23 marzo, un gruppo di manifestanti è penetrato negli edifici del governo e la folla si è radunata nelle aree circostanti. Per disperderla, la polizia ha fatto uso eccessivo della forza. A tutt’oggi non è ancora stata effettuata un’inchiesta indipendente e imparziale sulla condotta della polizia. Per molti mesi a seguire, più di 200 manifestanti sono stati convocati per essere interrogati ai sensi del codice penale e della legge sulle manifestazioni e i cortei; pendeva ancora su di loro la minaccia di un’azione giudiziaria. Almeno 46 persone ferite durante le proteste hanno intentato una serie di cause penali private contro il primo ministro e alti ufficiali della polizia. A fine anno, tuttavia, i tribunali avevano rifiutato di esaminare due di questi casi perché troppo simili a uno già sotto riesame giudiziario.

317 PENA DI MORTE I progressi verso l’abolizione della pena di morte sono stati scarsi, dal momento che Taiwan ha con- tinuato a comminare sentenze capitali e a effettuare esecuzioni.2 A giugno, la pena capitale è stata abolita per due crimini collegati al rapimento ma sono ancora 55 i reati punibili con la morte.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A gennaio, Taiwan ha abolito il sistema giudiziario militare in tempo di pace, comprese le prigioni mi- litari. Tale misura è seguita al decesso del caporale Hung Chung-chiu, morto nel luglio 2013 in una struttura detentiva disciplinare militare.3 A marzo, un tribunale civile di prima istanza ha riconosciuto 13 ufficiali colpevoli della morte di Hung Chung-chiu, condannandoli a periodi di reclusione da tre a otto mesi; altri cinque ufficiali sono stati prosciolti.

CONDIZIONI CARCERARIE Sovraffollamento, condizioni insalubri e mancanza di adeguate cure mediche sono rimasti gravi problemi nelle carceri e nei centri detentivi. A giugno è stata approvata una modifica alla legge sui campi di prigionia, allo scopo di risolvere il sovraffollamento delle carceri, aumentando il ricorso a prigioni di minima sicurezza.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI L’aumento dei prezzi dei terreni e la disuguaglianza economica hanno accresciuto le situazioni di conflitto sul diritto all’alloggio e alla terra. A luglio, l’espropriazione di terreni per il progetto dell’Ae- rotropoli di Taoyuan, che coinvolgeva circa 46.000 persone, ha superato un fondamentale ostacolo progettuale, malgrado le preoccupazioni sull’inadeguatezza delle consultazioni con i residenti interessati e l’incriminazione per corruzione di un importante funzionario in relazione al progetto.

DIRITTI DELLE POPOLAZIONI NATIVE Sono state espresse preoccupazioni sull’utilizzo di terre tradizionali delle popolazioni native per svi- luppare progetti a scopo turistico.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Sono rimaste in stallo in parlamento alcune modifiche al codice civile che avrebbero sancito l’ugua- glianza del matrimonio. Il ministero dell’Interno non ha messo in atto la raccomandazione del ministero della Salute, che rendeva non più necessaria la chirurgia genitale e la valutazione psichiatrica per il cambio di genere.

Note 1. Taiwan: Restraint urged in protests over China trade deal (comunicato stampa, 19 marzo), www.amnesty.org/en/for-media/ press-releases/taiwan-restraint-urged-protests-over-china-trade-deal-2014-03-19 2. Taiwan: Amnesty International condemns the execution of five people (ASA 38/002/2014) www.amnesty.org/en/library/ info/ASA38/002/2014/en 3. Taiwan government must ensure the reform of military criminal procedure legislation lives up to its promise of greater ac- countability (ASA 38/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA38/001/2014/en

318 THAILANDIA REGNO DI THAILANDIA Capo di stato: re Bhumibol Adulyadej Capo di governo: Prayuth Chan-ocha (subentrato a maggio a Niwattumrong Boonsongpaisa, a sua volta subentrato a Yingluck Shinawatra sempre a maggio)

Nel corso dell’anno sono prevalse le tensioni politiche e la tutela dei diritti umani ne è risultata inde- bolita. La violenza armata è proseguita nelle province al confine meridionale. Le libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica sono state gravemente limitate, portando all’arresto arbitrario di molte persone, alcune delle quali sono state dichiarate prigionieri di coscienza.

CONTESTO I primi cinque mesi dell’anno sono stati segnati dallo stallo politico tra governo e manifestanti. A maggio, l’esercito ha organizzato un colpo di stato. A fine anno era ancora in vigore la legge marziale. Il Comitato popolare di riforma democratica (People’s Democratic Reform Committee – Pdrc), guidato dall’ex vice primo ministro democratico, ha promosso manifestazioni di massa che chiedevano la so- stituzione del governo con un consiglio popolare per attuare le riforme politiche. A marzo la Corte co- stituzionale ha dichiarato invalide le elezioni indette senza preavviso a febbraio. La commissione elettorale ha rinviato il voto in programma per luglio a causa della violenza politica in corso. Il Partito democratico, all’opposizione, aveva boicottato le elezioni di febbraio e manifestanti del Pdrc avevano impedito a migliaia di elettori di esprimere il voto sbarrando l’accesso ai seggi elettorali. A maggio, la Corte costituzionale ha ordinato alla primo ministro Yingluck Shinawatra di dimettersi e, il giorno seguente, la commissione nazionale anticorruzione ha votato a favore del suo impeachment. Il 20 maggio, il comandante in capo delle forze armate ha invocato la legge marziale e il 22 maggio ha preso il controllo del paese con un colpo di stato militare, sospendendo quasi tutte le disposizioni della costituzione del 2007. I leader golpisti hanno costituito il consiglio nazionale per la pace e l’ordine (National Council for Peace and Order – Ncpo) e hanno annunciato un processo di riforme e relativa road-map, senza indicare una data precisa per le elezioni. Dopo la promulgazione di una co- stituzione provvisoria a luglio, l’Ncpo ha selezionato i membri di una assemblea legislativa che, ad agosto, ha eletto come primo ministro il capo dell’Ncpo, il generale Prayuth Chan-ocha.1

CONFLITTO ARMATO INTERNO La violenza armata è proseguita nelle tre province meridionali di Pattani, Yala, Narathiwat e in parti della provincia di Songkhla. Le forze di sicurezza sono state coinvolte in uccisioni illegali, tortura e altri maltrattamenti. A novembre, le autorità hanno annunciato la fornitura di 2700 fucili d’assalto semiautomatici ai ranger civili paramilitari. Nel corso dell’anno, si è ritenuto che gli attacchi contro i civili siano stati effettuati da gruppi armati,

319 compreso il bombardamento di luoghi pubblici. Quarantadue membri dell’amministrazione civile e nove insegnanti statali erano tra i circa 162 civili uccisi a colpi d’arma da fuoco. In un certo numero di casi, gli assalitori hanno mutilato i cadaveri, bruciandoli e decapitandoli. Alcune lettere lasciate sulla scena di un certo numero di aggressioni lasciavano intendere che gli omicidi erano atti di ritorsione per le uccisioni e gli arresti commessi dalle forze governative o paramilitari. A novembre, in tutte e tre le province sono apparsi striscioni che criticavano le politiche ufficiali e minacciavano ulteriori uccisioni di civili buddisti, funzionari e insegnanti. A ottobre, sei scuole della provincia di Pattani sono state distrutte con incendi dolosi. Due ranger di un gruppo paramilitare sostenuto dallo stato hanno ammesso di aver ucciso tre ragazzini musulmani di etnia malese, di sei, nove e 11 anni, e di aver ferito il padre e la madre incinta durante un attacco alla casa della famiglia a Bacho, provincia di Narathiwat, nel mese di febbraio. Uno dei ranger ha dichiarato di aver deciso di partecipare all’attacco perché non c’erano stati progressi nelle indagini sugli omicidi di suo fratello e di sua cognata, avvenuti ad agosto 2013, in cui era stato implicato il padre dei bambini uccisi, presunto ribelle. Tra gennaio e maggio, gli sporadici scontri tra sostenitori del governo e del Pdrc e gli attacchi mirati contro le manifestazioni con uso di armi e ordigni esplosivi hanno portato alla morte di 28 persone e al ferimento di altre 825.2 Si sono verificate anche aggressioni mirate da parte di individui non iden- tificati nei confronti d’importanti politici e opinionisti di entrambe le parti. Suthin Tarathin, un manifestante antigovernativo di primo piano, è stato ucciso il 26 gennaio mentre marciava con altri dimostranti per impedire il voto anticipato nel quartiere Bang Na della capitale Bangkok. L’abitazione di Somsak Jeamteerasakul, professore di storia noto per le sue opinioni sulla legge di lesa maestà in vigore nel paese, è stata attaccata da ignoti che, il 12 febbraio, hanno sparato colpi di pistola e lanciato bombe artigianali contro la sua casa e la sua automobile.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Per tutto l’anno sono proseguite le segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti per mano della polizia e delle forze armate, anche durante la detenzione in incommunicado prevista dalla legge mar- ziale, e ad opera di guardie del Pdrc nel corso delle manifestazioni politiche della prima metà del- l’anno. Un disegno di legge per l’introduzione dei reati di tortura e di sparizione forzata era ancora in attesa di approvazione a fine anno. A maggio, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha espresso preoccupazione per le coerenti e diffuse accuse di tortura e altri maltrattamenti nel paese e per le inadeguate forme di riparazione.3 Il 24 febbraio, l’agente di sicurezza Yuem Nillar ha dichiarato di essere stato arrestato e detenuto sul luogo di una protesta per cinque giorni, legato, privato del cibo e picchiato da due guardie del Pdrc, prima di essere gettato in un fiume. A febbraio, i parenti di un soldato picchiato a morte nel 2011 mentre frequentava un campo di adde- stramento militare hanno accettato un risarcimento di circa sette milioni di baht (circa 175.000 euro). Il soldato Wichean Puaksom morì a causa delle torture subite dopo essere uscito in permesso senza autorizzazione.

320 SPARIZIONI FORZATE Ad aprile, l’ambientalista Pholachi Rakchongcharoen è stato ritenuto vittima di sparizione forzata per mano di funzionari a causa delle sue attività volte a ottenere un risarcimento per le violazioni dei diritti umani nel parco nazionale di Kaengkrachan, nella provincia di Petchaburi. È stato visto l’ultima volta il 17 aprile, dopo essere stato fermato e tenuto in custodia dal direttore e da altri tre funzionari del parco nazionale.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E DI RIUNIONE Gli ordini di legge marziale imposti dopo il colpo di stato di maggio erano ancora in vigore alla fine dell’anno. Le libertà di riunione pacifica e d’espressione sono state pesantemente limitate, anche con il divieto di tenere raduni “politici” composti da più di cinque persone. Dopo il golpe, le autorità hanno bloccato e chiuso siti web e radio locali per settimane o mesi e hanno censurato le critiche al- l’Ncpo sui mezzi d’informazione. Nelle settimane successive al colpo di stato, manifestanti sono stati processati in tribunali militari per pacifici atti di protesta, come aver sollevato tre dita nel saluto reso popolare dai film della serie “Hunger Games”. Per tutto l’anno sono proseguiti gli arresti di dissidenti pacifici. Dopo il golpe, fun- zionari del governo hanno continuato a limitare e annullare incontri e seminari privati, pubblici e ac- cademici, anche arrestando i partecipanti e imponendo a singoli e a organizzazioni di richiedere in anticipo l’approvazione ufficiale per gli eventi.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Centinaia di persone sono state arrestate e detenute arbitrariamente in base ai poteri della legge marziale, tra cui politici, docenti universitari, giornalisti e attivisti. La maggior parte è stata trattenuta fino a sette giorni senza accusa né processo, dopo aver ricevuto una convocazione pubblica dinanzi alle autorità militari. Molti sono stati condannati penalmente per non essersi presentati. Come con- dizione per il rilascio, alla maggior parte dei convocati è stato richiesto di firmare dichiarazioni con cui s’impegnavano a non partecipare ad attività politiche. A fine anno, i funzionari continuavano a esigere da singole persone, tra cui studenti, avvocati e attivisti della società civile, di presentarsi dinanzi a loro privatamente e di firmare tali impegni. Arresti, azioni penali e reclusione per atti di espressione pacifica ai sensi dell’art. 112 del codice penale, l’oltraggiosa norma sulla lesa maestà, sono drammaticamente aumentati dopo il colpo di stato di maggio; sono stati segnalati almeno 28 nuovi arresti e otto condanne. Ai detenuti per lesa maestà è stata costantemente negata la libertà su cauzione durante la custodia preventiva e durante il ricorso in appello dopo la condanna.4 Pornthip Mankong e Patiwat Saraiyam sono stati arrestati ad agosto e accusati di lesa maestà per aver organizzato e recitato in uno spettacolo teatrale presso l’università di Thammasat, nell’ottobre 2013.

PROCESSI INIQUI L’Ncpo ha ampliato la giurisdizione dei tribunali militari per poter processare i civili per disobbedienza agli ordini dell’Ncpo, per reati contro la monarchia e la sicurezza interna. Non era previsto alcun diritto d’appello.

321 IMPUNITÀ Non sono stati registrati progressi significativi per affrontare il problema della diffusa impunità ufficiale per le violazioni dei diritti umani.5 La costituzione provvisoria promulgata a luglio garantiva l’immunità all’Ncpo e ai suoi agenti dalla responsabilità penale per le violazioni dei diritti umani. Il 28 agosto, la corte penale ha respinto le accuse di omicidio contro l’ex primo ministro Abhisit Vejjajiva e il suo vice, Suthep Thaugsuban, per la morte di alcuni manifestanti nel corso delle proteste del 2010. La corte ha dichiarato di non avere giurisdizione sul caso.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Le ampie restrizioni alla libertà d’espressione e ad altri diritti umani imposte dalla legge marziale hanno gravemente limitato il lavoro dei difensori dei diritti umani. A causa delle loro legittime attività, molti hanno subito violazioni dei diritti umani, tra cui sparizioni forzate, uccisioni, aggressioni,6 arresti arbitrari e azioni giudiziarie. A maggio, l’esercito reale thailandese ha presentato una denuncia penale contro Pornpen Khongka- chonkiet e la sua organizzazione Fondazione interculturale, per aver “danneggiato la reputazione” dell’unità paramilitare dei ranger 41 Taharn Pran, della provincia di Yala poiché aveva chiesto l’apertura di un’inchiesta circa una denuncia di aggressione fisica.

TRATTA DI ESSERI UMANI A giugno, il rapporto annuale sulla tratta di essere umani del Dipartimento di stato americano ha de- classato la Thailandia per non essere stata in grado di affrontare adeguatamente il problema della persistente e diffusa tratta di persone per il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale. Durante tutto l’anno, centinaia di persone, inclusi appartenenti all’etnia rohingya del Myanmar, sono state liberate da campi gestiti da trafficanti, in cui erano detenute in pessime condizioni, anche per periodi fino a sei mesi, e vittime di gravi violenze.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO In assenza di una tutela giuridica del diritto d’asilo, rifugiati e richiedenti asilo sono rimasti a rischio di arresto, detenzione arbitraria e indefinita, espulsione come immigrati illegali e possibile respingi- mento. Le persone detenute per immigrazione, compresi i rifugiati riconosciuti dall’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, hanno continuato a essere rinchiuse in condizioni precarie in strutture non costruite per sistemazioni a lungo termine. I timori per un giro di vite sul lavoro illegale hanno indotto circa 220.000 lavoratori migranti, per lo più cambogiani, a lasciare il paese a giugno; molti in seguito sono tornati.

PENA DI MORTE Durante l’anno sono state emesse condanne a morte ma non sono state segnalate esecuzioni. Era ancora in corso un progetto pilota, iniziato nel 2013, volto ad abolire l’uso dei ceppi per i condannati a morte detenuti nel carcere di massima sicurezza di Bang Kwang, a Bangkok. Non risulta che, entro la fine dell’anno, il progetto sia stato esteso ad altre strutture di detenzione.

322 Note 1. Thailand: Attitude adjustment - 100 days under martial law (ASA 39/011/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/ ASA39/011/2014/en/aa43e6c9-f42e-4f45-8789-41cee8f2ff51/asa390112014en.html 2. Thailand: Investigate grenade attack on anti-government protesters, www.amnesty.org/en/news/thailand-investigate- grenade-attack-anti-government-protesters-2014-05-15 3. Thailand: Submission to the UN Committee against Torture (ASA 39/003/2014), www.amnesty.org/en/library /info/ASA39/003/2014/en 4. Thailand: Free speech crackdown creating “spiral into silence” (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press- releases/thailand-free-speech-crackdown-creating-spiral-silence-2014-12-09 Thailand: Release activist imprisoned for allegedly insulting the monarchy (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/thailand-release-activist-imprisoned-allegedly-insulting-monarchy-2014-09-1 Thailand: Anniversary of activist’s arrest a reminder of precarious state of freedom of expression (ASA 39/005/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA39/005/2014/en 5. Thailand: Alleged torture victim denied redress (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press- releases/thailand-alleged-torture-victim-denied-redress-2014-10-13 Thailand: 10 years on, find truth and justice for family of Somchai Neelapaijit (ASA 39/001/2014) www.amnesty.org en/library/info/ASA39/001/2014/en 6. Thailand: Fears for villagers after attack in Thailand (ASA 39/008/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ ASA39/008/2014/en Thailand: Threats to the lives of village leaders (ASA 39/009/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ASA39/009/2014/en

TIMOR EST

REPUBBLICA DEMOCRATICA DI TIMOR EST

Capo di stato: Taur Matan Ruak Capo di governo: Kay Rala Xanana Gusmão

È perdurata l’impunità per le gravi violazioni dei diritti umani commesse durante l’occupazione indonesiana (1975-1999). Le forze di sicurezza sono state accusate di maltrattamenti e uso non necessario o eccessivo della forza. Il livello di violenza domestica è rimasto alto. Il parlamento ha approvato una legge restrittiva sui mezzi d’informazione che in seguito la corte d’appello ha dichiarato incostituzionale.

CONTESTO A marzo, una risoluzione parlamentare ha messo al bando due gruppi, il Consiglio rivoluzionario Maubere (Maubere Revolutionary Council – Krm) e il Consiglio democratico popolare della Repubblica democratica popolare di Timor Est (Popular Democratic Council of the People’s Democratic Republic

323 of Timor-Leste – Cpd-RdTL), per “aver tentato di causare instabilità”. Due dei loro leader sono stati incriminati ed erano in attesa di processo.

IMPUNITÀ Non ci sono stati molti progressi nell’affrontare i crimini contro l’umanità e altre violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza indonesiane e loro ausiliari dal 1975 al 1999. Molti sospetti responsabili sono rimasti in libertà in Indonesia, paese in cui erano al sicuro da procedimenti giudi- ziari.1 Ad agosto, la corte d’appello ha confermato la sentenza contro un ex membro della milizia Ahi (Aileu Hametin Integrasaun), imprigionato per crimini contro l’umanità commessi nel distretto di Aileu, ai tempi del referendum per l’indipendenza del 1999. Il governo di Timor Est non ha messo in atto le raccomandazioni della Commissione per il recepimento, la verità e la riconciliazione (Comissão de acolhimento, verdade e reconciliação – Cavr) e della Com- missione bilaterale di verità e amicizia tra Indonesia e Timor Est (Commission of Truth and Friendship – Ctf), riguardanti l’impunità. Il parlamento ha continuato a procrastinare l’esame di due progetti di legge per un programma nazionale di riparazioni e per la creazione di un istituto per la pubblica me- moria, un organismo che doveva mettere in atto le raccomandazioni della Cavr e della Ctf, compreso il programma di riparazioni. A fine anno non era ancora stata istituita una commissione che esaminasse le sparizioni forzate, raccomandata dalla Ctf. Le iniziative intraprese con il governo indonesiano per riunire bambini separati dalle famiglie nel 1999 non sono state trasparenti e le consultazioni con la società civile sono state inadeguate.

SISTEMA GIUDIZIARIO Sono continuate a pervenire segnalazioni di maltrattamenti e di uso non necessario o eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza. I meccanismi per il riconoscimento delle responsabilità sono rimasti deboli. Secondo quanto riferito, a marzo le forze di sicurezza hanno arrestato arbitrariamente e maltrattato decine di persone, presumibilmente legate ai due gruppi Krm e Cpd-RdTL. È stato espresso il timore che il governo potesse aver violato i diritti alla libertà d’associazione e d’espressione, utilizzando il parlamento anziché i tribunali per dichiarare illegali le due organizzazioni. A ottobre, il parlamento e il governo di Timor Est hanno arbitrariamente interrotto i contratti con ufficiali giudiziari e consulenti stranieri, facendo temere per l’indipendenza della magistratura e per l’impatto negativo che questo avrebbe potuto avere sulle vittime e sul loro diritto a un rimedio effettivo.2

DIRITTI DELLE DONNE La legge del 2010 contro la violenza domestica ha continuato a essere usata per perseguire casi di violenza domestica ma sono rimasti molti ostacoli all’accesso alla giustizia da parte delle vittime. Secondo alcune Ngo, i tribunali tendevano a comminare condanne al carcere con sospensione della pena o ammende, invece di infliggere periodi effettivi di detenzione.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE – ORGANI D’INFORMAZIONE A maggio, il parlamento ha approvato una legge sui mezzi d’informazione che avrebbe imposto gravi

324 limitazioni ai giornalisti e alla libertà d’espressione. Ad agosto, la corte d’appello l’ha giudicata in- costituzionale e l’ha rinviata al parlamento perché fosse emendata.3 A dicembre, il presidente ha ap- provato una legge rivista che rimuoveva alcune restrizioni.

Note 1. Timor-Leste/Indonesia: Governments must expedite establishing fate of the disappeared, www.amnesty.org/en/library/asset/ ASA57/001/2014/en/865d8509-6e47-4778-a573-8fbb633b9b7c/asa570012014en.pdf 2. Timor-Leste: Victims’ rights and independence of judiciary threatened by arbitrary removal of judicial officers, www.amnesty.org/en/library/info/ASA57/003/2014/en 3. Timor-Leste: Unconstitutional media law threatens freedom of expression, www.amnesty.org/en/library/asset/ASA57/002/ 2014/en/b24a55e6-5eae-4ced-afd7-9158aac52adf/asa570022014en.pdf

VIETNAM

REPUBBLICA SOCIALISTA DEL VIETNAM

Capo di stato: Truong Tan Sang Capo di governo: Nguyen Tan Dung

Sono state ancora applicate gravi limitazioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica. Lo stato ha continuato a controllare gli organi d’informazione e la magistratura, nonché le istituzioni politiche e religiose. Decine di prigionieri di coscienza sono rimasti in carcere in dure con- dizioni, dopo processi iniqui risalenti agli anni precedenti. Tra loro c’erano blogger, sindacalisti, attivisti per il diritto alla terra, attivisti politici, seguaci religiosi, appartenenti a gruppi etnici e so- stenitori dei diritti umani e della giustizia sociale.1 Ci sono stati nuovi arresti e processi a blogger e attivisti per i diritti umani. Le autorità hanno cercato di limitare le attività di gruppi della società civile non autorizzati attraverso vessazioni, sorveglianza e restrizioni alla libertà di movimento. Agenti delle forze di sicurezza hanno molestato e aggredito fisicamente attivisti pacifici e li hanno trattenuti per brevi periodi. La pena di morte è rimasta in vigore per una vasta serie di reati.

CONTESTO A gennaio, il Vietnam è stato eletto nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite per un periodo di due anni. A giugno, il Vietnam ha respinto 45 delle 227 raccomandazioni ricevute a febbraio dal gruppo di lavoro sull’Esame periodico universale delle Nazioni Unite. Tra le altre, c’erano raccoman- dazioni fondamentali riguardo a difensori dei diritti umani e dissidenti, libertà d’espressione e pena di morte. A maggio si è intensificato il conflitto territoriale nel mar Cinese orientale, quando la Cina ha spostato una piattaforma di trivellazione esplorativa in acque contese tra i due paesi. L’episodio ha innescato disordini anticinesi che hanno visto coinvolte decine di migliaia di lavoratori delle zone industriali di

325 varie province del Vietnam centrale e meridionale. Sono state prese di mira fabbriche di proprietà cinese ma sono state danneggiate e saccheggiate anche aziende taiwanesi, coreane e giapponesi. Il numero di persone uccise e ferite durante i disordini non è stato confermato; circa 700 sono state ar- restate. A febbraio, una delegazione di Amnesty International ha partecipato a incontri ufficiali in Vietnam. Durante la visita effettuata a luglio, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione o credo ha trovato prove di gravi violazioni, tra cui incursioni della polizia, interruzioni di cerimonie religiose, pestaggi e aggressioni a membri di gruppi religiosi indipendenti. Alcune delle persone che il Relatore doveva incontrare sono state intimidite, molestate e sorvegliate dalle forze di sicurezza.

SVILUPPI LEGALI, COSTITUZIONALI O ISTITUZIONALI La nuova costituzione, adottata a novembre 2013, è entrata in vigore dopo un processo di consultazione senza precedenti ma pesantemente controllato, durato circa nove mesi. La costituzione fornisce una tutela generale dei diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica ma al tempo stesso li restringe con norme vaghe e ampie nella legislazione nazionale. È stata inclusa solo una li- mitata garanzia di equità processuale. A novembre 2013, il Vietnam ha sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e, durante il 2014, ha organizzato diversi seminari preparatori, L’assemblea nazionale ha votato la ratifica a novembre. Sebbene la nuova costituzione proibisca la tortura, il diritto interno non contiene una definizione chiara di cosa costituisca tortura. L’assemblea nazionale ha respinto una proposta di modifica alla legge su matrimonio e famiglia che avrebbe riconosciuto la convivenza tra persone dello stesso sesso e la custodia congiunta. Il governo ha anche annunciato che non avrebbe riconosciuto legalmente il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Le autorità hanno dichiarato che erano in corso di redazione diverse leggi relative ai diritti umani, da sottoporre all’approvazione dell’assemblea nazionale nel 2016. Tra queste c’era la modifica del codice penale e della legge sulla stampa, una legge sulle associazioni, una sulle manifestazioni e un’altra sull’accesso all’informazione.

REPRESSIONE DEL DISSENSO Attivisti per i diritti umani e sostenitori del cambiamento sociale e politico hanno incrementato le loro attività pacifiche nonostante il difficile ambiente e i rischi per la loro incolumità. Alcune norme dalla definizione vaga presenti nel codice penale del 1999 hanno continuato a essere impiegate per crimi- nalizzare l’attivismo pacifico e coloro che esercitavano il diritto alle libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica. Nonostante sei dissidenti siano stati rilasciati anticipatamente ad aprile e giugno,2 almeno 60 prigionieri di coscienza sono rimasti in carcere, condannati dopo processi iniqui. Tra loro c’erano blogger, sindacalisti, attivisti per il diritto alla terra, attivisti politici, seguaci religiosi e sostenitori dei diritti umani e della giustizia sociale, tutti non violenti. Inoltre, almeno 18 blogger e attivisti sono stati sottoposti a giudizio e condannati in sei processi a periodi di reclusione variabili dai 15 mesi ai tre anni, ai sensi dell’art. 258 del codice penale, per “abuso delle libertà democratiche allo scopo di violare gli interessi dello stato”. Il blogger Nguyen Huu Vinh e la sua socia Nguyen Thi Minh Thuy sono stati arrestati a maggio e

326 trattenuti secondo l’art. 258 del codice penale, per aver “pubblicato false informazioni su Internet”. Nguyen Huu Vinh, un ex poliziotto, è molto noto perché nel 2007 creò il famoso sito Ba Sam, che ospitava articoli su diversi temi sociali e politici e post critici sull’operato del governo. Altri tre blogger di spicco sono stati arrestati tra il 29 novembre e il 27 dicembre: il professore vietnamita- giapponese Hong Le Tho, lo scrittore Nguyen Quang Lap e Nguyen Dinh Ngoc, che avevano scritto o postato articoli critici verso i funzionari governativi e la linea politica del governo. Uomini sospettati di agire per ordine o in collusione con le forze di sicurezza hanno aggredito fisicamente alcuni attivisti, con violenza e senza essere stati provocati. Per esempio, a maggio, l’av- vocato per i diritti umani ed ex prigioniero di coscienza Nguyen Van Dai è stato aggredito da un gruppo di cinque uomini mentre era in un caffè con alcuni amici. Ha dovuto farsi suturare la ferita provocata da un colpo alla testa. Sempre a maggio, la blogger e attivista per i diritti umani Tran Thi Nga è stata aggredita da cinque assalitori mentre era su una motocicletta con i suoi due bambini. Ha subito la frattura di un braccio e di un ginocchio e altre ferite. Ad agosto, gli attivisti che stavano cer- cando di assistere al processo di tre difensori dei diritti umani sono stati molestati, picchiati e arrestati da agenti delle forze di sicurezza.3 Altri tre attivisti sono stati aggrediti a ottobre. A novembre, il giornalista indipendente Truong Min Duc è stato attaccato e picchiato per la terza volta in due mesi, riportando gravi ferite.

LIBERTÀ DI MOVIMENTO A febbraio, a diversi attivisti pacifici è stato impedito di raggiungere Ginevra, in Svizzera, per assistere alla sessione dell’Esame periodico universale sul Vietnam. La polizia li ha convocati per interrogarli e ha confiscato i loro passaporti. Altri sono stati arrestati al ritorno in patria per essere interrogati. Do Thi Minh Hanh, sindacalista ed ex prigioniera di coscienza rilasciata a giugno, era stata fermata al- l’aeroporto ad agosto e le era stato impedito di recarsi in Austria per visitare la madre gravemente malata; a ottobre le è stato permesso di partire.

Attivisti che cercavano di partecipare a riunioni informali della società civile o a incontri con le am- basciate straniere e di assistere come osservatori a processi contro i dissidenti sono stati oggetto di molestie e intimidazioni ed è stato loro impedito di uscire di casa. Alcune persone hanno riferito di essere state tenute de facto agli arresti domiciliari.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA Le condizioni di detenzione per i prigionieri di coscienza erano dure, senza adeguate cure mediche e cibo nutriente. Alcuni sono stati maltrattati da altri detenuti senza che gli agenti di custodia interve- nissero, altri sono stati trattenuti in incommunicado. Le visite delle famiglie sono state permesse solo in presenza di guardie che impedivano la conversazione su argomenti ritenuti sensibili. Talvolta i prigionieri sono stati trasferiti senza informare i familiari e alcuni sono stati portati in carceri lontane dalle loro case, rendendo difficili le visite dei parenti. Alcuni prigionieri sono stati incoraggiati a “confessare” i crimini per cui erano stati condannati, per ottenere un eventuale rilascio. L’ambientalista e prigioniero di coscienza Dinh Dang Dinh è morto ad aprile per un tumore allo stomaco, dopo essere stato rilasciato temporaneamente a febbraio per motivi di salute. Malgrado gli appelli della sua famiglia e della comunità diplomatica, le autorità non gli hanno permesso di sottoporsi a cure mediche adeguate mentre scontava la condanna a sei anni di reclusione.4

327 PENA DI MORTE La pena di morte è stata mantenuta per omicidio, reati di droga, tradimento e crimini contro l’umanità. Sono state riferite almeno tre esecuzioni con iniezione letale. Secondo le stime, oltre 650 persone erano nel braccio della morte. Il governo non ha fornito dati certi e le statistiche sulla pena capitale hanno continuato a essere coperte dal segreto di stato.

Note 1. Silenced voices – Prisoners of conscience in Viet Nam (ASA/41/007/2013), www.amnesty.org/en/library/info/ASA41/ 007/2013/en 2. Viet Nam: Release of woman labour rights activist positive but scores remain behind bars (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/vietnam-release-woman-labour-rights-activist-positive-scores-remain-be- hind- 3. Viet Nam: Police beatings outside court amid crackdown on activism, (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/viet-nam-police-beatings-outside-court-amid-crackdown-activism-2014-08-26 4. Death of activist Dinh Dang Dinh should be “wake-up call” for Viet Nam, (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/ for-media/press-releases/death-activist-dinh-dang-dinh-should-be-wake-call-viet-nam-2014-04-04

328 EUROPA E ASIA CENTRALE I PAESI Albania Macedonia Armenia Malta Austria Moldova Azerbaigian Montenegro Belgio Norvegia Bielorussia Paesi Bassi Bosnia ed Erzegovina Polonia Bulgaria Portogallo Ceca, Repubblica Regno Unito Cipro Romania Croazia Russia Danimarca Serbia Estonia Slovacchia Finlandia Slovenia Francia Spagna Georgia Svezia Germania Svizzera Grecia Tagikistan Irlanda Turchia Italia Turkmenistan Kazakistan Ucraina Kirghizistan Ungheria Lettonia Uzbekistan Lituania Panoramica regionale su Europa e Asia Centrale

Il 9 novembre 2014 ha segnato il 25° anniversario della caduta del Muro di Berlino, la fine della guerra fredda e, secondo un commentatore, “la fine della storia”. Celebrando l’anniversario a Berlino, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato che “la caduta del Muro ci ha dimostrato che i sogni possono diventare realtà”, e per molti nell’Europa comunista è stato senz’altro così. Ma un quarto di secolo più tardi, il sogno di una maggiore libertà è rimasto più lontano che mai per milioni di altre persone nell’ex Unione Sovietica, poiché le nuove élite, emerse dalle vecchie senza soluzione di continuità, hanno strappato dalle mani della gente la possibilità di cambiamento. Il 2014 non è stato un altro anno di progressi in stallo. È stato un anno di regressione. Se la caduta del Muro di Berlino ha segnato la fine della storia, il conflitto nell’Ucraina orientale e l’annessione della Crimea da parte della Russia sono stati un chiaro indicatore della sua ripresa. Nello stesso giorno della dichiarazione di Angela Merkel, l’ex leader dell’Unione Sovietica Mihail Gorbačëv l’ha detto senza mezzi termini: “Il mondo è sull’orlo di una nuova guerra fredda. Alcuni dicono persino che sia già iniziata”. I drammatici eventi in Ucraina hanno portato alla luce i pericoli e le difficoltà dei sogni. Oltre 100 persone sono state uccise quando la protesta di Euromaydan ha raggiunto la sua sanguinosa conclu- sione a febbraio. A fine anno, almeno altre 4000, molte delle quali civili, avevano perso la vita a causa dei combattimenti in Ucraina orientale. Nonostante la firma di un cessate il fuoco a settembre, sono continuati combattimenti localizzati e la prospettiva di una rapida soluzione entro la fine dell’anno era assai remota. La Russia ha continuato a negare di sostenere le forze ribelli con truppe o equipaggiamenti, anche se c’erano sempre più prove del contrario. Entrambe le parti si sono rese responsabili di una serie di violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario, compresi i bombardamenti indiscriminati, che hanno provocato centinaia di vittime civili. Man mano che la legge e l’ordine si disintegravano progressivamente lungo le linee del conflitto e nelle aree controllate dai ribelli, si sono moltiplicati i rapimenti, le esecuzioni e i casi di tortura e maltrattamenti, sia per mano delle forze ribelli, sia dei battaglioni di volontari pro-Kiev. Nessuna delle due parti si è mostrata molto disposta a indagare e a mettere a freno tali abusi. In Crimea la situazione è peggiorata, in un percorso prevedibile. Una volta incorporata alla Russia, le leggi e le prassi russe sono state impiegate per limitare le libertà di espressione, riunione e as- sociazione di chi si opponeva al cambiamento. Attivisti filoucraini e tatari di Crimea sono stati mo- lestati, arrestati e, in alcuni casi, sono scomparsi. A Kiev, l’enorme compito d’introdurre le riforme necessarie per rafforzare lo stato di diritto, eliminare gli abusi nel sistema di giustizia penale e lottare contro la corruzione endemica è stato rimandato a causa delle elezioni presidenziali e parla- mentari e delle inevitabili distrazioni determinate dal conflitto ancora in corso nella parte orientale.

331 A fine anno erano stati compiuti ben pochi progressi per indagare sulle uccisioni dei manifestanti di Euromaydan. La rottura della linea di faglia geopolitica in Ucraina ha avuto numerose conseguenze in Russia, con- tribuendo contemporaneamente ad aumentare la popolarità del presidente Putin e a rendere il Cremlino più sospettoso rispetto al dissenso. La rottura delle relazioni est-ovest si è riflessa nell’ag- gressiva promozione della propaganda antioccidentale e antiucraina nei mezzi d’informaziome con- venzionali. Al tempo stesso, lo spazio per esprimere e comunicare opinioni dissenzienti si è sensibilmente ridotto, man mano che il Cremlino rafforzava la presa sugli organi di stampa e su Internet, dava una stretta alle proteste e vessava e demonizzava le Ngo indipendenti. Altrove nell’ex Unione Sovietica, le speranze e le ambizioni scatenate dalla caduta del Muro di Berlino si sono ulteriormente ridotte. Nell’Asia Centrale, amministrazioni autoritarie sono rimaste radicate in Kazakistan e, ancora di più, in Turkmenistan. Laddove sono sembrate leggermente claudicanti, come in Uzbekistan, è stato più per le lotte intestine tra le élite al potere che in risposta a un più ampio malcontento, che ha continuato a essere represso. L’Azerbaigian si è dimostrato particolarmente ag- gressivo nella repressione del dissenso: a fine anno, il numero di prigionieri di coscienza riconosciuti da Amnesty International nel paese era arrivato a 23, tra cui blogger, attivisti politici, leader della società civile e avvocati per i diritti umani. La presidenza del Consiglio d’Europa affidata all’Azerbaigian nella prima metà dell’anno non è stata sufficiente a indurre alla moderazione. Anzi, più in generale in Azerbaigian ma anche altrove nell’Asia Centrale, gli interessi strategici hanno costantemente prevalso sulle critiche di principio e sull’impegno della comunità internazionale per le diffuse violazioni dei diritti umani. Anche per la Russia, la critica internazionale al crescente giro di vite sui diritti civili e politici è rimasta stranamente in sordina. Se la Russia è rimasta il leader sul mercato dell’autoritarismo popolare e “democratico”, la tendenza si è osservata anche altrove nella regione. In Turchia, Recep Tayyip Erdoğan ha dimostrato ancora una volta la sua forza elettorale, vincendo ampiamente le elezioni presidenziali ad agosto, nonostante una serie di scandali per corruzione di alto profilo che hanno implicato direttamente lui e la sua famiglia. Come già aveva fatto per le proteste di Gezi Park l’anno precedente, anche questa volta la sua risposta è stata inflessibile: centinaia di procuratori, funzionari di polizia e magistrati sospettati di essere fedeli all’ex alleato, Fetullah Gülen, sono stati trasferiti ad altri incarichi. In Ungheria, dopo la rielezione del partito di governo Fidesz ad aprile, è proseguita la corrosione della separazione dei poteri e, con mosse che riecheggiavano scelte compiute ancora più a est, le Ngo scomode sono state attaccate e accusate di agire nell’interesse di governi stranieri. A fine anno, una serie di Ngo rischiavano azioni penali per presunte irregolarità finanziarie. In tutta l’Eu, le difficoltà economiche radicate e il calo della fiducia verso i partiti politici tradizionali hanno determinato un aumento dei partiti populisti a entrambe le estremità dello spettro politico. L’influenza di malcelati atteggiamenti xenofobi e nazionalisti è stata particolarmente evidente nelle politiche migratorie sempre più restrittive ma si è riflessa anche nella crescente sfiducia verso l’autorità sovranazionale. L’Eu stessa ne è stata un obiettivo particolare ma ne ha fatto le spese anche la Convenzione europea dei diritti umani. Il Regno Unito e la Svizzera hanno guidato l’attacco e in entrambi i paesi i partiti al governo si sono apertamente opposti alla Corte europea dei diritti umani e hanno ventilato il possibile ritiro dal sistema della Convenzione. In breve, dalla caduta del Muro di Berlino a oggi, mai l’integrità e il sostegno al quadro dei diritti umani internazionali erano apparsi così precari in Europa e Asia Centrale.

332 LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, D’ASSOCIAZIONE E DI RIUNIONE

In tutta l’ex Unione Sovietica, amministrazioni autocratiche hanno mantenuto o rafforzato la loro presa sul potere. In Russia, dopo il ritorno di Vladimir Putin alla presidenza, è accelerato il deteriora- mento del rispetto dei diritti alla libertà d’espressione, di riunione e d’associazione. Sono aumentate le sanzioni, tra cui una maggiore responsabilità penale per chi viola la legge sulle manifestazioni. Per tutto l’anno, le proteste spontanee di piccola entità sono state regolarmente disperse, anche quando erano pacifiche, e centinaia di persone sono state arrestate e multate o condannate a brevi periodi di detenzione. Qualche grande manifestazione programmata, come le proteste contro la guerra a marzo e a settembre, è stata autorizzata. Le Ngo indipendenti e critiche sono state costantemente dipinte dai mezzi d’informazione e dai leader politici come quinta colonna che agiva al soldo e nel- l’interesse di perfide potenze straniere. Screditate da campagne diffamatorie dei mezzi di comunica- zione, decine di Ngo sono state impegnate in procedimenti giudiziari per contestare l’obbligo di regi- strarsi sotto l’etichetta politicamente deleteria di “agenti stranieri”; per cinque Ngo il risultato è stato lo scioglimento. In Bielorussia, la legge fortemente restrittiva sulle manifestazioni ha continuato a essere applicata in modo da vietare di fatto ogni protesta pubblica. I pochi che ci hanno provato sono stati arrestati e detenuti per brevi periodi. A maggio, alla vigilia del campionato mondiale di hockey su ghiaccio, 16 attivisti della società civile sono stati arrestati e condannati a periodi di detenzione amministrativa tra i cinque e i 25 giorni. Otto persone sono state arbitrariamente arrestate per aver partecipato a una marcia pacifica di commemorazione del disastro nucleare di Chernobyl. Sono state accusate di “atti minori di teppismo” e di “disobbedienza agli ordini della polizia”. Altre otto, tutte note per la loro militanza politica, erano state arrestate nei giorni precedenti alla marcia per accuse analoghe. In Azerbaigian sono stati particolarmente presi di mira gli attivisti politici e della società civile. Dieci importanti organizzazioni per i diritti umani sono state costrette a chiudere o a cessare l’attività e al- meno sei autorevoli difensori dei diritti umani sono stati incarcerati per accuse false a causa del loro lavoro. Blogger e giovani esponenti dell’opposizione sono stati solitamente accusati di reati legati alla droga. Giornalisti indipendenti hanno continuato a subire vessazioni, violenze e accuse penali inventate. La situazione in Asia Centrale non ha mostrato segni di miglioramento. In Turkmenistan, non esistono organi di informazione, Ngo o partiti politici realmente indipendenti, nonostante negli ultimi anni siano state approvate riforme legislative di facciata apparentemente destinate a facilitarne la com- parsa. L’accesso a Internet e la libertà d’espressione online hanno continuato a essere fortemente li- mitati. In Uzbekistan, solo pochi tenaci attivisti per i diritti umani hanno continuato a lavorare ma sono stati costretti a farlo in segreto e con notevoli rischi personali. In entrambi i paesi, protestare è stato praticamente impossibile. In Kirghizistan, gli attivisti della società civile, pur operando in un ambiente molto più libero, hanno continuato a denunciare molestie. Persino qui, comunque, il governo ha proposto una legge che abolirebbe il diritto di fondare associazioni non registrate e in parlamento si vociferava dell’introduzione di una legge sugli “agenti stranieri” simile a quella vigente in Russia. In Kazakistan, il nuovo codice penale ha introdotto una serie di reati che potrebbero essere utilizzati per limitare le legittime attività delle Ngo e, sulla stessa linea, il governo ha iniziato a prendere in considerazione restrizioni più severe sui loro finanziamenti dall’estero. Ci sono state manifestazioni pubbliche di protesta ma i partecipanti hanno rischiato multe e arresti. La libertà dei mezzi d’infor-

333 mazione si è ridotta e Internet è stata sottoposta a sempre maggiori restrizioni; social network e blog sono stati spesso limitati e i siti Internet sono stati bloccati da decisioni giudiziarie prese a porte chiuse. In Turchia, il partito di governo Ak (Adalet ve Kalkınma Partisi) ha rafforzato la sua influenza sui mezzi d’informazione, soprattutto attraverso lo sfruttamento di legami d’affari pubblici e privati. Direttori ansiosi o editori contrariati hanno continuato a licenziare giornalisti indipendenti e critici verso il governo e la pratica dell’autocensura è stata all’ordine del giorno. La libertà di riunione pacifica, brutalmente repressa nel 2013 durante le proteste di Gezi Park, ha continuato a essere violata da norme restrittive sulle manifestazioni e dalla dispersione violenta di manifestanti pacifici, ogni volta che minacciavano di riunirsi in gran numero o su temi particolarmente sensibili. A dicembre, diversi giornalisti sono stati arrestati in base alle vaghe leggi antiterrorismo, per aver scritto articoli su accuse di corruzione.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI

Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, il numero di sfollati in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone. La risposta dell’Eu e dei suoi stati membri è stata, con poche eccezioni, animata soprattutto dal desiderio di tenerli fuori. Questo è stato scandalosamente evidente nel modo in cui l’Eu si è impegnata per la crisi dei rifugiati siriani. A fine anno, dei circa quattro milioni di rifugiati siriani, ne vivevano in Europa soltanto circa 150.000, pressappoco lo stesso numero arrivato in Turchia in una sola settimana, dopo l’avanzata dello Stato islamico a Kobanê. I paesi dell’Eu si sono impegnati ad accogliere soltanto 36.300 dei circa 380.000 rifugiati siriani iden- tificati dall’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, come bisognosi di reinsediamento. La Germania ha offerto reinsediamento a 20.000 persone. Il Regno Unito, la Francia, l’Italia, la Spagna e la Polonia messi insieme, con una popolazione complessiva di 275 milioni di persone, hanno offerto poco più di 2000 posti, pari allo 0,001 per cento delle loro popolazioni. In assenza di percorsi legali sicuri che permettessero a rifugiati e migranti di arrivare in Europa e di fronte alla determinazione dell’Eu di sigillare le proprie frontiere terrestri, il numero di persone che hanno tentato di raggiungerla via mare ha toccato cifre da record; e cifre da record sono state anche quelle delle persone annegate. A fine anno, l’Unhcr stimava che 3400 rifugiati e migranti avessero perso la vita nel Mediterraneo, rendendo questa tratta via mare la più pericolosa al mondo per i mi- granti. Per i primi 10 mesi dell’anno è stato evitato un numero ancora maggiore di vittime in mare grazie al- l’unilaterale e imponente operazione di ricerca e soccorso dell’Italia, l’Operazione Mare Nostrum, che ha salvato più di 100.000 persone; più della metà erano rifugiati da paesi tra cui Siria, Eritrea e Somalia. Tuttavia, a fronte di notevoli pressioni da parte di altri stati membri dell’Eu, l’operazione è stata chiusa il 31 ottobre. Al suo posto, l’Eu ha messo in campo un’operazione alternativa collettiva, chiamata Operazione Triton, coordinata da Frontex, la sua agenzia per il controllo delle frontiere, il cui ambito, portata e mandato erano significativamente limitati. Chi ce l’ha fatta a scalare o ad aggirare le recinzioni sempre più alte ed estese installate lungo le frontiere di terra dell’Eu ha rischiato di essere illegalmente rimandato indietro da Spagna, Grecia e Bulgaria, verso Marocco e Turchia. A fine anno, il partito al governo in Spagna ha presentato un emen-

334 damento al progetto di legge sulla pubblica sicurezza, che legalizzerebbe le espulsioni sommarie verso il Marocco, da Ceuta e Melilla. Con sempre maggior frequenza, ai respingimenti si sono aggiunte pratiche di trattenimento dei richiedenti asilo e migranti, nel tentativo dell’Eu di rafforzare la gestione del controllo delle frontiere con questi paesi. I centri di detenzione per migranti, veri e propri sotterranei della Fortezza Europa, sono rimasti pieni, spesso fino a scoppiare. Moltissimi migranti irregolari e richiedenti asilo, comprese famiglie e bambini, hanno continuato a essere detenuti, spesso per lunghi periodi e, talvolta, in condizioni terribili.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI

La pubblicazione, a dicembre, del rapporto della Commissione ristretta sull’intelligence del senato americano in merito al programma di detenzione della Cia non ha soltanto rivelato gli scioccanti dettagli degli abusi ma anche la reale entità del coinvolgimento dei paesi europei. Diversi stati hanno ospitato siti segreti di detenzione (Polonia, Lituania e Romania) o hanno comunque dato supporto al governo Usa per trasferimenti illegali, sparizioni forzate e tortura e altri maltrattamenti di decine di detenuti, in particolare Regno Unito, Svezia, Macedonia e Italia. In nessuno di questi paesi ci sono stati significativi progressi sull’accertamento delle responsabilità. Sebbene in Polonia, Lituania e Regno Unito qualche sviluppo positivo sia scaturito dalle singole denunce presentate dalle vittime (a luglio la Corte europea dei diritti umani ha rilevato che il governo polacco era colluso con la Cia nella creazione di una prigione segreta nel paese tra il 2002 e il 2005), l’accertamento delle re- sponsabilità ha continuato a essere indebolito da evasività, smentite e ritardi. A giugno, il canale televisivo irlandese RTÉ ha trasmesso prove precedentemente riservate in possesso del governo inglese in merito a cinque tecniche di tortura usate nel 1971 e 1972 dalle forze di sicurezza britanniche in Irlanda del Nord, in virtù dei poteri d’internamento. Le tecniche somigliavano molto a quelle che la Cia avrebbe utilizzato 30 anni dopo. Esaminando un caso interstatale presentato dal governo irlandese, la Corte europea dei diritti umani in precedenza aveva stabilito che quelle tec- niche costituivano maltrattamenti e non tortura. A dicembre, il governo irlandese ha annunciato che avrebbe cercato di ottenere una revisione della sentenza della Corte. Tortura e altri maltrattamenti hanno continuato a dilagare in tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica. Chi era accusato di reati connessi al terrorismo o sospettato di appartenere a gruppi islamisti è stato particolarmente esposto alle torture per mano delle forze di sicurezza nazionali in Russia e in Asia Centrale ma in tutta la regione agenti di polizia corrotti e scarsamente controllati dai superiori sono spesso ricorsi alla tortura o altri maltrattamenti per estorcere confessioni e tangenti. In assenza d’in- dagini efficaci e indipendenti, l’impunità per tali violazioni è stata per lo più la norma. In Turchia, l’abituale uso eccessivo della forza da parte della polizia durante le manifestazioni è rimasto molto evidente, anche se sono progressivamente diminuiti gli episodi di tortura nei luoghi di detenzione. La giustizia ha continuato a essere negata o ritardata per le persone uccise e le centinaia gravemente ferite per mano della polizia durante le proteste di Gezi Park, nel 2013. Le forze di sicurezza in Grecia, e talvolta anche in Spagna, hanno continuato a fare uso eccessivo della forza per disperdere manifestazioni, incoraggiate anche qui dalla prevalente impunità per tali abusi. Le violazioni più drammatiche nel corso di manifestazioni di protesta sono avvenute in Ucraina, durante la manifestazione Euromaydan, a Kiev, e nella sua sanguinosa conclusione. Almeno 85 ma-

335 nifestanti e 18 agenti di polizia sono morti come risultato diretto della violenza; non esistono dati esatti sul numero di feriti. Dopo il primo ricorso alla forza da parte della polizia antisommossa contro i manifestanti pacifici il 30 novembre 2013, nei primi mesi del 2014 si sono verificati episodi ricorrenti di uso violento della forza, nonché di arresti arbitrari e di tentativi di avviare procedimenti penali contro i manifestanti. A fine febbraio sono state utilizzate armi da fuoco con munizioni vere, compresi fucili di precisione, anche se non era chiaro quali forze le avessero impiegate e agli ordini di chi avessero agito. A margine della protesta, alcune decine di attivisti di Euromaydan sono scomparsi. Alcuni sono stati in seguito ritrovati, dopo essere stati rapiti e torturati, ma erano più di 20 quelli di cui non si avevano ancora notizie a fine anno. Dopo la caduta del presidente ucraino Viktor Janukovyč, le nuove autorità si sono pubblicamente im- pegnate a indagare in modo efficace e a perseguire i responsabili delle uccisioni e degli altri abusi commessi nel corso di Euromaydan. Tuttavia, a parte l’incriminazione del vertice dell’ex leadership politica, le misure intraprese in tale direzione sono state poche o del tutto assenti. A fine anno, solo pochi funzionari di grado inferiore delle forze di sicurezza erano stati condannati per le violazioni cor- relate alle proteste di Euromaydan.

PENA DI MORTE

Almeno tre uomini sono stati messi a morte in Bielorussia, che è rimasta l’unico paese mantenitore della regione. Tutte e tre le esecuzioni hanno avuto luogo nonostante il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite avesse richiesto una sospensione per poter prendere in esame i casi dei tre con- dannati.

GIUSTIZIA TRANSIZIONALE

Sono proseguiti i processi nei confronti dell’ex presidente serbo-bosniaco Radovan Karadžić e dell’ex generale Ratko Mladić presso il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, che ha lentamente continuato il suo cammino attraverso i pochi casi che ancora gli restavano da esaminare. A livello nazionale, i progressi per accertare le responsabilità per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi durante i vari conflitti nella ex Jugoslavia sono proseguiti faticosamente e con lentezza. Il numero di nuovi rinvii a giudizio è rimasto basso, i processi si sono trascinati e i tribunali nazionali per i crimini di guerra sono ancora stati oggetto di attacchi politici. Procure, tribunali per crimini di guerra e unità investigative hanno risentito della carenza di personale e risorse e dietro l’espresso desiderio di andare avanti si è celata sempre più la mancanza della volontà politica di fare giustizia. In tutta la regione, le vittime civili di guerra, comprese le vittime di violenza sessuale, hanno continuato a vedersi negato l’accesso alla riparazione, a causa della mancata adozione di una legi- slazione completa che disciplinasse il loro status e garantisse i loro diritti. A settembre, Croazia, Serbia e Bosnia ed Erzegovina hanno firmato un accordo di cooperazione regionale con l’obiettivo di accelerare i progressi, attualmente lenti, nella ricerca e nella restituzione dei corpi delle molte migliaia di persone ancora disperse dal tempo del conflitto. I diritti e i mezzi di sostentamento dei

336 loro parenti in tutti e tre i paesi hanno continuato a essere compromessi dall’assenza di una legi- slazione sulle persone scomparse. In Irlanda del Nord, i meccanismi e le istituzioni creati o incaricati di affrontare il problema delle vio- lazioni dei diritti umani causate dal conflitto hanno continuato a operare in maniera frammentaria e spesso insoddisfacente. Il gruppo per le inchieste storiche, istituito nel 2006 per riesaminare tutti i decessi attribuiti al conflitto, è stato chiuso a seguito di critiche diffuse. Alcune delle sue attività sa- rebbero state trasferite a una nuova unità all’interno del servizio di polizia dell’Irlanda del Nord, facendo sorgere timori per l’indipendenza delle future revisioni dei casi. A dicembre 2014, i principali partiti dell’Irlanda del Nord sono arrivati all’accordo di principio di andare avanti con le proposte avanzate in precedenza dal diplomatico statunitense Richard Haass per la creazione di due nuovi meccanismi: un’unità storica d’investigazione e una commissione indipendente per il recupero delle informazioni. Tuttavia, non sono stati completamente definiti i dettagli riguardanti il finanziamento, le risorse, la tempistica e il quadro legislativo.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA

In tutta la regione, i governi hanno mantenuto il silenzio in merito all’entità della sorveglianza esercitata sulle comunicazioni su Internet, nonostante le proteste di molti sulla scia delle rivelazioni fatte da Edward Snowden nel 2013 sulla portata del programma di sorveglianza degli Usa. Nel Regno Unito, Amnesty International e altre Ngo hanno cercato, senza successo, di contestare in tribunale la compatibilità del sistema di sorveglianza britannico con i diritti umani e si apprestavano a presentare un ricorso a Strasburgo. I paesi dell’Eu hanno continuato a utilizzare assicurazioni diplomatiche inaffidabili per rimandare persone considerate un rischio per la sicurezza nazionale verso paesi in cui potevano essere sottoposte a tortura o altri maltrattamenti. Questa pratica si è diffusa sempre più in Russia, la quale ha cercato di aggirare ripetute sentenze della Corte europea dei diritti umani che sospendevano l’estradizione di persone ricercate verso paesi dell’Asia Centrale. In tutta l’area dell’ex Unione Sovietica, gli stati hanno collaborato tra loro, spesso rimandando, sia legalmente sia clandestinamente, sospetti terroristi ricercati in altri paesi in cui erano a forte rischio di tortura. La situazione della sicurezza nel Caucaso del Nord è rimasta instabile e le operazioni di sicurezza sono state regolarmente contraddistinte da gravi violazioni dei diritti umani. In un caso particolarmente evidente di abuso nell’applicazione della legge, le forze fedeli al leader ceceno Ramzan Kadyrov hanno mantenuto fede alla sua minaccia di vendicarsi contro le famiglie dei responsabili di un attentato su larga scala, avvenuto a Grozny a dicembre, bruciando diverse case. In Turchia, norme antiterrorismo dagli ampi margini hanno continuato a essere utilizzate per perseguire il legittimo esercizio della libertà d’espressione, anche se i nuovi limiti fissati per la durata massima della detenzione preprocessuale hanno permesso il rilascio di molte persone.

DISCRIMINAZIONE

La discriminazione ha continuato a influenzare la vita di milioni di persone in tutta la regione. La maggior parte del peso è ricaduto ancora sulle vittime di pregiudizi duraturi, come i rom, i musulmani

337 e i migranti, ma anche l’antisemitismo è rimasto diffuso e si è sporadicamente manifestato con ag- gressioni violente. Il rispetto dei diritti delle persone Lgbti ha visto sia passi in avanti, sia battute d’arresto. Dichiarazioni politiche, piani d’azione e strategie nazionali hanno continuato ad avere un impatto minimo sulla vita di milioni di rom emarginati, perché non sono stati accompagnati dalla necessaria volontà politica di metterli in atto e perché, come sempre, non sono riusciti a identificare e affrontare le ragioni principali dell’esclusione sociale dei rom, ovvero il pregiudizio e il razzismo. Di conseguenza, la discriminazione dei rom rispetto ad alloggio, istruzione e occupazione è rimasta diffusa. Centinaia di migliaia di rom che vivevano in insediamenti informali hanno continuato a lottare per accedere agli alloggi popolari o sono stati esclusi da criteri che non solo non davano loro priorità, ma non riconoscevano nemmeno il loro evidente bisogno. In un certo numero di paesi sono state ventilate iniziative legislative volte a contrastare l’incertezza delle garanzie del possesso per le persone che vivevano negli insediamenti informali ma in nessun paese sono state adottate. Il risultato è stato che, in tutta Europa, le persone che vivevano negli insediamenti informali sono rimaste esposte agli sgomberi forzati. La segregazione scolastica dei rom è rimasta diffusa in tutta l’Europa Centrale e Orientale, in particolare in Slovacchia e nella Repubblica Ceca, nonostante le ripetute promesse delle autorità nazionali di voler affrontare un problema identificato da molto tempo. Uno sviluppo positivo è stato l’avvio di una procedura d’infrazione da parte dell’Eu contro la Repubblica Ceca, per la violazione della normativa comunitaria contro la discriminazione (la direttiva sull’uguaglianza razziale), in relazione alla discri- minazione scolastica dei rom. Anche l’Italia e un numero imprecisato di altri paesi dell’Eu sono finiti sotto la lente della Commissione europea per possibili violazioni della direttiva sull’uguaglianza razziale per la discriminazione contro i rom in una serie di settori, finalmente un segnale, forse, della volontà dell’Eu di far applicare norme adottate una decina di anni fa. A luglio, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che il divieto di coprire totalmente il volto in pubblico introdotto in Francia non violava alcuno dei diritti enunciati nella Convenzione europea dei diritti umani, nonostante il suo evidente obiettivo fosse il velo integrale e nonostante la limitazione ai diritti alla libertà d’espressione, di fede religiosa e al diritto alla non discriminazione delle donne mu- sulmane che decidevano d’indossarlo. Con una sentenza assurda, che avrà preoccupanti implicazioni per la libertà d’espressione, la Corte europea ha giustificato le restrizioni facendo riferimento a fumose esigenze del “vivere insieme”. In tutto il continente non sono cessati i crimini d’odio violenti, subiti in particolare da rom, musulmani, ebrei, migranti e persone Lgbti. Diversi paesi, tra cui un certo numero di stati membri dell’Eu, non sono ancora riusciti a includere l’orientamento sessuale e l’identità di genere tra i moventi nelle leggi contro i crimini d’odio. In tutta la regione, le denunce di questi crimini sono state poche e scarsamente indagate. I reati motivati dall’odio, già presenti autonomamente nella legislazione, e le norme dei codici penali che prevedevano il movente discriminatorio come circostanza aggravante sono stati spesso inutilizzati, poiché gli investigatori non hanno indagato sui possibili moventi discriminatori e i pubblici ministeri non sono riusciti a incriminare i responsabili nel modo appropriato o a presentare prove rilevanti in tribunale. Un numero crescente di paesi ha concesso la parità di diritti a coppie dello stesso sesso (anche se raramente in materia di adozione) e, per la prima volta, in Serbia e Montenegro si sono svolti Pride

338 riusciti e senza incidenti, sotto l’occhio vigile dell’Eu. Tuttavia, l’omofobia è rimasta diffusa e la crescente tolleranza dell’Occidente è stata spesso collegata, o addirittura indicata come motivo, a maggiori restrizioni alla libertà d’espressione delle persone Lgbti più a est. In Russia, agli attivisti Lgbti è stato regolarmente impedito di organizzare eventi pubblici dalle autorità locali, che hanno spesso invocato una normativa che vietava la promozione dell’omosessualità tra i minori. Una le- gislazione simile è stata utilizzata in Lituania per proibire un libro di fiabe, che conteneva storie di relazioni omosessuali. In Kirghizistan, il parlamento ha esaminato la possibilità di approvare norme che vietassero la “promozione di rapporti sessuali non tradizionali”. Le aggressioni a persone, organizzazioni ed eventi Lgbti sono stati fenomeni comuni in gran parte dell’Europa Orientale e dei Balcani e raramente ci sono state risposte appropriate da parte di sistemi di giustizia penale in- differenti.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE

La violenza di genere e la violenza domestica sono rimaste molto diffuse in tutta la regione. Secondo un rapporto pubblicato a marzo dall’Agenzia Eu per i diritti fondamentali, una donna su tre nell’Eu aveva subito abusi fisici e/o sessuali dall’età di 15 anni. L’entrata in vigore della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica si è rivelata quindi tempestiva ma a fine anno soltanto 15 paesi avevano ratificato il trattato. Nonostante questo sviluppo positivo, in tutto il continente le vittime di violenza domestica e sessuale hanno continuato a essere scarsamente aiutate dai sistemi giudiziari penali e dalle strutture di pro- tezione. La mancanza di rifugi per le vittime di violenza domestica e le alte percentuali di abbandono delle indagini e delle azioni giudiziarie nei casi di violenza sessuale sono rimasti problemi comuni in tutta la regione.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI

L’accesso all’aborto è rimasto vietato in tutte le circostanze a Malta. L’Irlanda e la Polonia non sono riuscite ad attuare pienamente le sentenze della Corte europea dei diritti umani che, rispettivamente nel 2010 e nel 2012, richiedevano che fosse garantito l’accesso effettivo all’aborto in determinate circostanze. Nonostante questo, il Comitato dei ministri ha deciso di chiudere il monitoraggio sulla messa in pratica della sentenza nel caso irlandese.

339 ALBANIA

REPUBBLICA D’ALBANIA

Capo di stato: Bujar Nishani Capo di governo: Edi Rama

La violenza domestica è rimasta diffusa e raramente le persone sopravvissute hanno ottenuto giustizia. È perdurata l’impunità per casi di tortura e altri maltrattamenti. Nonostante le promesse del governo, è rimasto molto limitato l’accesso ad alloggi abitabili e a buon mercato per le persone in stato di povertà, compresi i rom. Un’ex caserma individuata come sistemazione temporanea per vittime di sgomberi forzati non era conforme agli standard internazionali.

CONTESTO A giugno, il Consiglio dei ministri dell’Unione europea ha approvato lo status di paese candidato all’Eu per l’Albania, a condizione di realizzare ulteriori riforme in ambito giudiziario, combattere la corruzione e il crimine organizzato e garantire la tutela dei diritti umani, compresi quelli dei rom, po- litiche contro la discriminazione e l’implementazione dei diritti di proprietà. A maggio si è tenuta per la prima volta la marcia del Pride.

SPARIZIONI FORZATE Sebbene nel 2013 il primo ministro avesse assicurato che sarebbe stato identificato il luogo della sua sepoltura, il figlio di Remzi Hoxha, un cittadino macedone di etnia albanese vittima di sparizione forzata nel 1995 per mano di agenti della sicurezza di stato, non è riuscito a sapere dove giacciono i resti di suo padre.

UCCISIONI ARBITRARIE La pubblica accusa ha riesaminato il caso di Aleks Nika, un manifestante ucciso a colpi d’arma da fuoco durante le proteste contro il governo del gennaio 2011, nella capitale Tirana. A maggio sono stati interrogati gli agenti di polizia sospettati di aver maltrattato alcuni manifestanti durante e dopo le proteste. A luglio, il procuratore di stato ha incriminato l’ex direttore generale della polizia e il suo vice per non aver arrestato sei agenti della guardia repubblicana, sospettati di aver sparato contro i manifestanti.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO Il ministero per lo Sviluppo urbano e il turismo e l’autorità nazionale per l’alloggio hanno proposto di incrementare l’edilizia residenziale pubblica e migliorare l’accesso per chi abita in alloggi non adeguati. A febbraio, il ministero ha annunciato una nuova strategia abitativa volta a includere i rom e gli egiziani, a promuovere la legalizzazione degli insediamenti informali e a migliorare l’accesso al- l’acqua e ai servizi igienico-sanitari. Ciò nonostante, non sono stati rilevati grandi progressi.

340 A marzo, un’ex caserma nel quartiere Shishtufinë di Tirana è stata formalmente scelta come centro nazionale di transito di emergenza per le vittime di sgomberi forzati. A ottobre 2013, più di 50 famiglie rom sgomberate da Rruga e Kavajes, a Tirana, erano state ricollocate a Shishtufinë. Le con- dizioni di vita nel centro, distante da possibili opportunità lavorative e dai servizi fondamentali, erano inaccettabili e non corrispondenti agli standard internazionali per l’alloggio adeguato. Ad aprile, nella Giornata internazionale dei rom, alcune delle 100 famiglie rom a rischio di sgombero della zona di Selita, a Tirana, hanno manifestato per chiedere un alloggio alternativo. A maggio, il governo ha respinto una proposta di emendamento alla legge sulla legalizzazione di costruzioni abusive, proposta da 6000 rom ed egiziani con una petizione in cui chiedevano tutele procedurali contro gli sgomberi forzati e una sistemazione alternativa adeguata. A luglio, il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha emesso una misura provvisoria di pro- tezione, sospendendo la demolizione di sette abitazioni di famiglie rom a Elbasan, in attesa dell’udienza per il loro reclamo e per la richiesta di risarcimento. Il governo non è riuscito a garantire il diritto legale di priorità nell’accesso all’edilizia pubblica per gli orfani registrati, che fossero al massimo trentenni e senza tetto. A maggio, in occasione della Giornata degli orfani, essi hanno manifestato per chiedere istruzione e alloggio, definendo irrisoria l’assistenza economica fornita dallo stato.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI In generale, le accuse di maltrattamenti compiuti da agenti delle forze di sicurezza sono rimaste im- punite. A maggio, il parlamento ha istituito un nuovo servizio interno per problemi e reclami, con l’obiettivo di contrastare la corruzione della polizia e le violazioni dei diritti umani. Ad agosto, il capo della sezione sull’ordine pubblico della polizia statale di Kukës è stato incriminato per abuso d’ufficio e privazione illegittima della libertà, per il maltrattamento di un detenuto. Ex prigionieri politici hanno organizzato scioperi della fame per protestare contro il fallimento del governo nel distribuire equamente i risarcimenti per la loro incarcerazione per mano delle autorità comuniste tra il 1944 e il 1991, quando migliaia di persone furono imprigionate, inviate in campi di lavoro e sottoposte a tortura e altri maltrattamenti.

VIOLENZA CONTRO LE DONNE A giugno, l’Alto consiglio di giustizia ha reso pubblica una revisione sui casi di violenza domestica in 38 tribunali e ha raccomandato modifiche al diritto e alle prassi processuali. Ha rilevato che i proce- dimenti penali erano lenti e che i tribunali violavano i termini procedurali per il riesame degli ordini di protezione e l’emanazione di decisioni. A fine settembre erano stati denunciati alla polizia circa 3094 episodi di violenza domestica, nella maggior parte dei quali le vittime erano donne. Poco più di un terzo (1292) di queste denunce sono arrivate a un procedimento penale. A fine settembre, 1882 donne avevano chiesto ordini di protezione in procedimenti civili; tuttavia nel tri- bunale di Tirana, ad esempio, più di due terzi delle richieste di ordini di protezione erano state respinte o sospese. Quando gli ordini di protezione venivano concessi spessi non venivano messi in atto.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO In risposta alle pressioni dell’Eu, l’Albania ha sviluppato una nuova strategia per la gestione dei

341 confini. Oltre 500 migranti senza documenti e richiedenti asilo, inclusi rifugiati siriani, sono stati ar- restati tra gennaio e giugno. Altri sono stati rimandati in Grecia, senza poter accedere a un procedimento per la determinazione del diritto all’asilo. A fine settembre, oltre 12.000 albanesi avevano fatto domanda d’asilo in altri paesi dell’Eu, per motivi legati alla violenza domestica e alla discriminazione contro persone Lgbti e rom.

ARMENIA

REPUBBLICA D’ARMENIA

Capo di stato: Serzh Sargsyan Capo di governo: Hovik Abrahamyan

Manifestanti pacifici sono stati dispersi dalla polizia con uso eccessivo della forza in diverse occasioni. Attivisti che lavoravano su questioni controverse sono stati minacciati e aggrediti.

CONTESTO Tra luglio e agosto, alcune schermaglie nella contesa regione del Nagorno-Karabakh, lungo il confine tra Armenia e Azerbaigian, si sono trasformate in pesanti combattimenti che, secondo le notizie, hanno causato la morte di 13 soldati azeri e di cinque armeni, tra cui due civili. Il 17 luglio, il governo armeno ha annunciato il progetto di aderire entro la fine dell’anno all’Unione economica euroasiatica, guidata dalla Russia, dopo aver rinunciato a firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea nel 2013.

LIBERTÀ DI RIUNIONE In diverse occasioni nel corso dell’anno, la polizia ha sciolto proteste pacifiche con un uso eccessivo della forza. Il 7 marzo, centinaia di persone si sono riunite davanti al ministero delle Finanze per protestare contro una contestata proposta di riforma delle pensioni. La polizia ha disperso i manifestanti pacifici fa- cendo uso eccessivo della forza. Tre persone sono state arrestate, multate e rilasciate il giorno successivo; due sono state presumibilmente maltrattate durante la detenzione. Il 23 giugno, a Erevan, la polizia ha disperso con la violenza circa 50 manifestanti che protestavano contro l’aumento dei prezzi dell’energia elettrica e ne ha arrestati 27. Più tardi lo stesso giorno, agenti di polizia hanno aggredito fisicamente tre giornalisti che attendevano il rilascio dei manifestanti fuori dalla stazione di polizia di Kentron.

DIRITTI DELLE DONNE Il 5 novembre, il personale dell’Ngo Centro di risorse delle donne (Women’s Resource Centre – Wrc) e altri attivisti per i diritti delle donne sono stati minacciati e aggrediti verbalmente mentre uscivano da un’aula di tribunale in cui avevano assistito una vittima di violenza domestica. Nel 2013, il Wrc aveva ricevuto minacce di morte anonime perché aveva chiesto che fossero emanate leggi sulla parità di genere. A fine anno non erano state ancora condotte indagini efficaci su questi episodi.

342 DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE L’approvazione di un progetto di legge che vietava ogni forma di discriminazione è stata sospesa e sono state rimosse le disposizioni che proibivano espressamente la discriminazione a causa del- l’orientamento sessuale. Il disegno di legge contro la discriminazione era stato redatto come parte dei requisiti per l’adesione dell’Armenia all’Unione europea ma è stato abbandonato dopo che il governo ha scelto invece di unirsi all’Unione economica eurasiatica, guidata dalla Russia. Il 25 luglio 2013, un tribunale di Erevan ha condannato a due anni di reclusione con sospensione della pena due giovani che avevano lanciato bombe molotov in un bar frequentato da persone Lgbti. Nonostante sia stato riconosciuto il movente omofobo dell’aggressione, entrambi gli uomini hanno ri- cevuto un’amnistia a ottobre 2013.

OBIETTORI DI COSCIENZA Entro la fine dell’anno, tutti i 33 testimoni di Geova, che nell’anno precedente erano stati arrestati per essersi rifiutati di svolgere servizi alternativi al servizio militare, sono stati rilasciati ed è stato loro richiesto di svolgere servizi alternativi.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Difensori locali dei diritti umani hanno continuato a esprimere preoccupazione per l’alto numero di segnalazioni di percosse e maltrattamenti durante la custodia di polizia. Le autorità non hanno ancora indagato efficacemente sulle accuse di maltrattamenti durante la cu- stodia avanzate dal leader dell’opposizione Shatn Harutyunyan che, insieme ad altri 13 attivisti, era stato arrestato in seguito a scontri con la polizia il 5 novembre 2013, quando avevano tentato di mar- ciare verso il palazzo presidenziale. Anche le accuse di maltrattamenti avanzate da due attivisti arrestati durante le proteste del 7 marzo non sono state oggetto di un’indagine efficace.

AUSTRIA

REPUBBLICA D’AUSTRIA

Capo di stato: Heinz Fischer Capo di governo: Werner Faymann

È stato denunciato pubblicamente il degrado cronico della situazione dei detenuti in carcerazione preventiva. Sono state effettuate inchieste sulle accuse di uso eccessivo della forza da parte della polizia durante le manifestazioni. L’adozione del figlio biologico del partner è stata resa legale per le coppie dello stesso sesso. Nella legislazione contro la discriminazione sono rimaste lacune di protezione. È stato lanciato un nuovo programma umanitario per garantire lo status di rifugiato a 1000 cittadini siriani. Le procedure d’asilo sono rimaste lunghe e la consulenza legale indipendente a disposizione

343 dei richiedenti asilo era inadeguata. L’Austria ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica e il Trattato sul commercio di armi.

CONDIZIONI CARCERARIE Indagini compiute da organi d’informazione hanno svelato carenze strutturali nelle carceri minorili e negli istituti di detenzione preventiva. A maggio, le segnalazioni relative al degrado vissuto dai detenuti hanno indotto il ministro della Giustizia ad accelerare la prevista riforma del sistema di de- tenzione preventiva per i criminali pericolosi. Sono state progressivamente attuate le raccomandazioni emesse a ottobre 2013 da una task force sulla detenzione dei minori, istituita dal ministero della Giustizia. Sempre a maggio, i mezzi d’informazione hanno rivelato che, nel carcere di Stein, un uomo di 74 anni trattenuto in detenzione preventiva dal 2008 era stato gravemente trascurato per diversi mesi e addirittura lasciato senza assistenza medica. Sono state aperte indagini penali nei confronti di funzionari e agenti di custodia della prigione.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA A gennaio e maggio, scontri tra polizia e manifestanti hanno dato origine a segnalazioni di uso eccessivo della forza da parte della polizia per contenere le proteste. In proposito era in corso un’in- chiesta del consiglio del difensore civico. A maggio, il ministro dell’Interno ha dichiarato ai mezzi d’informazione che gli agenti di polizia avrebbero potuto indossare telecamere. Un gruppo di esperti è stato incaricato di esaminarne l’uso. Il ministro ha ribadito il rifiuto del governo all’introduzione di un sistema d’identificazione obbligatorio per gli agenti di polizia.

DISCRIMINAZIONE A seguito di una sentenza della Corte europea dei diritti umani del febbraio 2013, sono state introdotte modifiche legislative per consentire alle coppie dello stesso sesso di adottare reciprocamente i figli biologici. In tutti gli altri casi, l’adozione ha continuato a essere negata a coppie dello stesso sesso. Nonostante l’impegno del governo nel processo di follow-up dell’Esame periodico universale delle Nazioni Unite per colmare lacune giuridiche in materia di tutele, la legge antidiscriminazione non ha garantito uguale protezione contro ogni forma di discriminazione. In particolare, non sono state risolte le lacune in materia di protezione contro la discriminazione nell’accesso a beni e servizi, basata su religione e credo, età e orientamento sessuale.

RIFUGIATI, RICHIEDENTI ASILO E MIGRANTI Ad aprile, l’Austria ha lanciato un nuovo programma di ammissione umanitaria per 1000 rifugiati siriani provenienti dai paesi vicini alla Siria e si è impegnata a concedere lo status di rifugiato a tutti al momento dell’arrivo. La procedura per la determinazione dell’asilo è rimasta lunga; spesso occorrevano diversi anni. Le autorità non hanno garantito a tutti i richiedenti asilo l’accesso a una effettiva e adeguata consulenza legale indipendente nel corso della procedura. È rimasto insoddisfacente l’accesso dei richiedenti asilo a un alloggio adeguato, sussidi sociali e as- sistenza sanitaria. Le condizioni in alcuni centri di accoglienza sono state descritte come mediocri e poco igieniche e, in alcuni casi, hanno costituito trattamento degradante.

344 AZERBAIGIAN

REPUBBLICA DELL’AZERBAIGIAN

Capo di stato: Ilham Aliyev Capo di governo: Artur Rasizade

Almeno sei difensori dei diritti umani di primo piano sono stati imprigionati e importanti organizzazioni per i diritti umani sono state costrette a chiudere o interrompere le attività. Giornalisti indipendenti hanno continuato a subire vessazioni, violenze e accuse penali inventate. La libertà di riunione è rimasta limitata. Ci sono state frequenti segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE I leader delle Ngo hanno continuato a subire minacce e vessazioni da parte delle autorità, tra cui in- cursioni delle forze di sicurezza, confisca di attrezzature e imposizione di divieti di viaggio. Ad almeno 10 importanti Ngo per i diritti umani è stato impedito di operare poiché i loro conti bancari sono stati congelati da maggio in poi, a seguito di un’inchiesta penale di alto profilo. Sono state introdotte ulteriori restrizioni in materia di registrazione e attività delle Ngo, impiegate ar- bitrariamente per aprire procedimenti penali nei confronti di vari loro leader. Il 13 maggio, l’ufficio della procura generale ha avviato un’indagine su alcune Ngo straniere e locali, che ha portato all’arresto di sei importanti difensori dei diritti umani in relazione alle attività delle loro organizzazioni.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA Le autorità hanno continuato a imprigionare chi criticava il governo, attivisti politici e giornalisti. A fine anno, erano almeno 20 i prigionieri di coscienza in carcere. Il giornalista Hilal Mammadov è rimasto in carcere, condannato negli anni precedenti per possesso di droga e tradimento. Khadija Ismayilova, una giornalista investigativa nota per la sua schiettezza, che ha pubblicato nu- merosi articoli sulla corruzione e sulle violazioni dei diritti umani, è stata arrestata il 5 dicembre con l’accusa di “incitamento al suicidio”. Con un procedimento separato, è stata anche accusata di dif- famazione. In precedenza, Khadija Ismayilova era stata presa di mira e vessata dalle autorità, che prima dell’arresto le avevano anche vietato di viaggiare. Le autorità hanno continuato a perseguire con accuse false, tipicamente legate al consumo di droga, attivisti che le criticavano su siti Internet e social media. Tra questi casi c’erano quelli di Abdul Abilov e Rashad Ramazanov, entrambi arrestati e condannati nel 2013, rispettivamente a cinque anni e mezzo e a nove anni di reclusione. L’attivista politico Faraj Karimov, che aveva coordinato popolari gruppi su Facebook che chiedevano le dimissioni del presidente, e suo fratello Siraj Karimov, sono stati arrestati a luglio per false accuse legate all’uso di droga. Nove attivisti dell’organizzazione giovanile per la democrazia Nida sono stati arrestati tra marzo e maggio 2013 e a gennaio 2014, in base ad accuse inventate che andavano dal possesso di droghe il-

345 legali e di armi, all’organizzazione di disordini pubblici. A maggio sono stati condannati a pene variabili dai sei agli otto anni di carcere. Tutti si erano dichiarati innocenti al momento dell’arresto, sebbene alcuni più avanti abbiano confessato, presumibilmente sotto coercizione. Shahin Novruzlu e Bakhtiyar Guliyev sono stati graziati e rilasciati il 18 ottobre, dopo aver chiesto un atto di clemenza al presidente, “riconoscendo” così i loro crimini. Gli attivisti Zaur Gurbanli e Uzeyir Mammadli sono stati rilasciati il 29 dicembre in seguito a una grazia presidenziale. Mammad Azizov, Rashad Hasanov, Rashadat Akhundov, Zaur Gurbanli, Uzeyir Mammadli Ilkin Rustamzade e Omar Mammadov sono rimasti in carcere. Il 17 marzo, gli attivisti d’opposizione Ilgar Mammadov, Tofig Yagublu e Yadigar Sadigov, arrestati nel 2013 con l’accusa d’incitamento al disordine pubblico e teppismo, sono stati condannati rispet- tivamente a sette, cinque e sei anni (ridotti a quattro in appello) di reclusione. Il 22 maggio, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che il vero scopo dell’arresto di Ilgar Mammadov era quello di “zittirlo o punirlo” per aver criticato il governo. Nel contesto di un pesante giro di vite contro gli attivisti per i diritti umani, sei leader di spicco di alcune Ngo sono stati rinviati in custodia con l’accusa di frode, attività imprenditoriale illegale e “abuso di potere”. Il 26 maggio, il presidente Anar Mammadli e il direttore esecutivo Bashir Suleymanli del Centro di monitoraggio elettorale e studi democratici (Election Monitoring and Democracy Studies Centre – Emds) sono stati condannati rispettivamente a cinque anni e sei mesi e a tre anni e sei mesi di re- clusione. L’Emds aveva portato alla luce violazioni nel contesto delle elezioni, durante le votazioni per la presidenza della repubblica a ottobre 2013. L’eminente attivista dei diritti umani Leyla Yunus, direttrice dell’Istituto per la pace e la democrazia, è stata arrestata il 30 luglio e qualche giorno dopo, il 5 agosto, identica sorte è toccata al marito, Arif Yunus’. Sono stati entrambi accusati di “crimini” in relazione alle attività della loro Ngo, tra cui un’accusa di tradimento per aver promosso la pace e la riconciliazione con l’Armenia, in merito alla contesa regione del Nagorno-Karabakh. Rasul Jafarov, fondatore dell’organizzazione Club per i diritti umani (Human Rights Club – Hrc), è stato arrestato il 2 agosto. Dalla sua istituzione nel 2010, le autorità avevano sempre negato la regi- strazione alla sua organizzazione. Intigam Aliyev, un avvocato per i diritti umani noto per aver patro- cinato decine di casi dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, è stato arrestato l’8 agosto. Gli ex prigionieri di coscienza e difensori dei diritti umani Bakhtiyar Mammadov e Ihlam Amiraslanov sono stati rilasciati rispettivamente il 9 dicembre 2013 e il 26 maggio 2014, con una grazia presi- denziale. L’attivista giovanile Dashgin Melikov è stato rilasciato per buona condotta l’8 maggio e il giornalista Sardar Alibeyli è tornato in libertà il 29 dicembre 2014.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Giornalisti indipendenti hanno continuato a subire minacce, violenze e molestie. Il 26 dicembre, gli uffici di Radio Free Europe/Radio Liberty’s Azerbaigian sono stati oggetto di un raid e sigillati da membri della procura senza spiegazioni ufficiali. Sono stati confiscati documenti e attrezzature. Dodici impiegati della radio sono stati arrestati, interrogati e rilasciati dopo aver firmato un documento sulla non divulgazione.

346 LIBERTÀ DI RIUNIONE Le manifestazioni sono rimaste a tutti gli effetti vietate al di fuori delle aree ufficialmente designate, generalmente situate in zone remote. Per tutto l’anno, nel centro della capitale Baku, la polizia è ricorsa alla violenza e ha fatto uso eccessivo della forza per impedire e disperdere assemblee pacifiche “non autorizzate”. Il 1° maggio, circa 25 giovani attivisti si sono riuniti pacificamente nel giardino Sabir, a Baku, per celebrare la festività. In pochi minuti, decine di agenti di polizia in borghese e in uniforme hanno vio- lentemente disperso il gruppo. I manifestanti sono stati picchiati e trascinati in veicoli della polizia. Sei sono stati arrestati, tra cui due minorenni che sono stati rilasciati il giorno stesso. Gli altri quattro sono stati condannati a periodi di detenzione amministrativa tra i 10 e i 15 giorni. Il 6 maggio, circa 150 persone si sono riunite pacificamente all’esterno del tribunale di Baku, dove era in corso il processo agli attivisti di Nida ma sono state disperse con la forza da agenti di polizia in borghese e in uniforme. Almeno 26 manifestanti, tra cui un giornalista, sono stati trascinati in un autobus e portati in una stazione di polizia. Cinque sono stati condannati a periodi di detenzione am- ministrativa tra i 15 e i 30 giorni e 12 hanno ricevuto multe di 300-600 manat (circa 310-630 euro), per aver partecipato a una “manifestazione non autorizzata”.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti sono stati frequentemente denunciati ma le accuse non sono state in- dagate in modo efficace. Kemale Benenyarli, un’attivista dell’opposizione del Partito fronte popolare dell’Azerbaigian, è stata arrestata il 6 maggio, durante il processo agli attivisti del Nida. Ha riferito di aver subito pestaggi e altri maltrattamenti all’interno della stazione di polizia del quartiere Nasimi, dopo essersi rifiutata di firmare una “confessione” scritta dalla polizia. È stata presa a pugni, trascinata e rinchiusa in una cella, dove è stata tenuta senza cibo né acqua fino all’udienza del mattino seguente. Un altro mani- festante arrestato, Orkhan Eyyubzade, ha riferito di essere stato spogliato, trascinato per i capelli, preso a pugni e calci e minacciato di stupro, poiché si era messo a discutere con gli agenti di polizia durante l’arresto, avvenuto il 15 maggio. Il 9 marzo 2013, tre degli attivisti di Nida arrestati, Mahammad Azizov, Bakhtiyar Guliyev e Shahin Novruzlu, sono apparsi alla televisione nazionale “confessando” i loro progetti di usare la violenza e causare disordini nel corso di una protesta di strada “non autorizzata”, che avrebbe dovuto svolgersi di lì a poco. Mahammad Azizov ha detto al suo avvocato di essere stato costretto a “confessare” sotto la minaccia di un’azione penale nei confronti di membri della sua famiglia. Shahin Novruzlu, che al- l’epoca aveva 17 anni, è stato interrogato senza la presenza del suo tutore legale. Quando in seguito è apparso in tribunale, gli mancavano quattro denti anteriori a causa delle percosse. Nessuna indagine è stata avviata in merito a tali maltrattamenti.

347 BELGIO

REGNO DEL BELGIO

Capo di stato: re Filippo Capo di governo: Charles Michel (subentrato a Elio Di Rupo a ottobre)

Le condizioni di detenzione sono rimaste mediocri e i detenuti con problemi di salute mentale hanno continuato a essere trattenuti in strutture inadeguate, con accesso limitato a servizi sanitari appropriati. A ottobre, il governo appena insediato si è impegnato a creare un’istituzione nazionale per i diritti umani. Le persone transgender non hanno potuto ottenere il riconoscimento legale del genere, senza sottoporsi a trattamenti sanitari obbligatori come la sterilizzazione.

CONDIZIONI CARCERARIE Il sovraffollamento ha continuato ad avere effetti negativi sulle condizioni di detenzione. Secondo i dati ufficiali, a marzo, la popolazione carceraria superava la capacità massima di accoglienza degli istituti di pena di più del 22 per cento. A gennaio, il Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione in merito alle mediocri condizioni nelle carceri e ha raccomandato un maggior ricorso a misure di punizione che non prevedano la custodia. Il Comitato ha anche sottolineato che i condannati affetti da problemi di malattia mentale continuavano a essere rinchiusi in padiglioni psichiatrici all’interno di carceri normali, con accesso assai limitato a cure mediche adeguate. A gennaio, nel caso Lankester vs. Belgio, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la detenzione di un condannato nel padiglione psichiatrico di un carcere normale co- stituiva trattamento degradante.

DECESSI IN CUSTODIA Nel 2013 è stata avviata un’indagine sulla morte di Jonathan Jacob, deceduto nel 2010 dopo essere stato aggredito fisicamente dalla polizia mentre era in custodia. I risultati dell’indagine e le decisioni su come procedere, attesi per ottobre 2014, a fine anno non erano ancora stati resi noti.

DISCRIMINAZIONE A marzo, il Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione razziale ha espresso preoccupazione sulle accuse di violenze e maltrattamenti di stampo razzista della polizia contro i mi- granti e ha raccomandato il rafforzamento dei meccanismi per i reclami contro la polizia. A febbraio, il Comitato europeo contro il razzismo e l’intolleranza ha evidenziato che i musulmani, e in particolare le donne musulmane che indossavano il velo, continuavano a essere discriminati rispetto all’accesso all’impiego e a beni e servizi. Nel 2013, il consiglio per l’istruzione della comunità fiamminga (Go!) ha confermato il divieto generale d’indossare simboli e capi di abbigliamento religiosi in tutte le sue scuole nell’area di lingua fiamminga del paese. Il 14 ottobre, il consiglio di stato ha stabilito che il divieto generale aveva violato il diritto

348 alla libertà di religione di un alunno sikh, al quale era stato vietato d’indossare il turbante in una scuo - la secondaria.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A gennaio 2013, il governo ha adottato un piano d’azione globale per la lotta alla discriminazione per ragioni di orientamento sessuale e identità di genere. A maggio 2014, è stata introdotta una nuova legge che vietava la discriminazione per motivi d’identità ed espressione di genere. Per quanto il piano d’azione comprendesse l’impegno a emendare la legge del 2007 sul riconoscimento legale del genere, a fine anno non era ancora chiaro quale fosse il percorso per l’introduzione delle modifiche. Per ottenere il riconoscimento legale del genere, le persone transgender hanno continuato a doversi uniformare a criteri che violavano i loro diritti umani, tra cui la diagnosi psichiatrica, la sterilizzazione e altri trattamenti medici obbligatori.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A gennaio, il Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per il progetto di estradare e sottoporre a refoulement cittadini di paesi terzi, verso paesi che avessero fornito assi- curazioni diplomatiche. Il Comitato ha ripetuto che tali assicurazioni non diminuivano il rischio di tortura o altri maltrattamenti. A settembre, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l’estradizione negli Stati Uniti del cit- tadino tunisino Nizar Trabelsi, avvenuta nell’ottobre 2013, costituiva una violazione degli artt. 3 e 34 della Convenzione europea sui diritti umani. Le autorità belghe avevano ignorato il provvedimento provvisorio di sospensione emesso dalla Corte in merito a tale estradizione.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE A febbraio, una ricerca su tutto il paese intrapresa da Amnesty International ha rilevato che in Belgio un quarto delle donne avevano subito violenza sessuale per mano del partner e che il 13 per cento erano state stuprate da persone diverse dai partner. A fine anno non era ancora stato individuato un approccio coordinato e globale per combattere queste forme di violenza.

BIELORUSSIA

REPUBBLICA DI BIELORUSSIA

Capo di stato: Alyaksandr Lukashenka Capo di governo: Mikhail Myasnikovich

La Bielorussia è rimasto l’unico paese in Europa a effettuare esecuzioni. Politici d’opposizione e attivisti dei diritti umani sono stati arrestati per aver svolto attività legittime. Il diritto alla libertà d’espressione è stato gravemente limitato e giornalisti sono stati vittime di vessazioni. Sono rimaste in vigore gravi restrizioni alla libertà di riunione. Alcune Ngo hanno continuato a vedersi arbitrariamente negata la registrazione.

349 PENA DI MORTE Dopo 24 mesi senza esecuzioni, almeno tre uomini sono stati messi a morte in segreto. Pavel Selyun e Ryhor Yuzepchuk, entrambi condannati alla pena capitale nel 2013, sono stati uccisi ad aprile e Alyaksandr Haryunou a novembre. Sono stati respinti sia i ricorsi giudiziari sia gli appelli di clemenza rivolti al presidente. Per tutti i casi, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite aveva richiesto che le sentenze non fossero eseguite, fino a che non avesse esaminato le rispettive comunicazioni; le autorità bielorusse hanno comunque proceduto con le esecuzioni, violando gli obblighi del paese ai sensi dell’Iccpr. A fine anno, un altro uomo, Eduard Lykau, era prigioniero nel braccio della morte. A ottobre, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha stabilito che l’esecuzione di Vasily Yu- zepchuk, avvenuta nel 2010, aveva costituito una violazione del suo diritto alla vita ai sensi dell’art. 6 dell’Iccpr. Era la terza sentenza di questo tipo da parte del Comitato nei confronti della Bielorussia. Il Comitato ha anche riscontrato che Vasily Yuzepchuk era stato sottoposto a tortura per estorcergli una confessione, che era stato violato il suo diritto a un processo equo e che il processo non aveva soddisfatto i necessari criteri d’indipendenza e imparzialità.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE – MEZZI D’INFORMAZIONE La libertà d’espressione è stata fortemente limitata. I mezzi d’informazione sono rimasti in gran parte sotto il controllo dello stato e sono stati utilizzati per diffamare gli avversari politici. Gli organi d’informazione indipendenti sono stati oggetto di vessazioni; blogger, attivisti online e giornalisti sono stati sottoposti a procedimenti amministrativi e penali. Gli organi d’informazione gestiti dallo stato si sono rifiutati di diffondere periodici indipendenti e le attività su Internet sono state strettamente monitorate e tenute sotto controllo. Ad aprile, le autorità hanno iniziato a ricorrere all’art. 22.9 del codice amministrativo (“creazione e diffusione illegale di prodotti d’informazione di massa”), per perseguire giornalisti freelance che scrivevano per organi di stampa che avevano sede fuori dalla Bielorussia, sostenendo che dovevano richiedere l’accreditamento formale come giornalisti stranieri al ministero degli Esteri. Il 25 settembre, un tribunale di Babruisk ha multato Maryna Malchanava per 4.800.000 rubli (circa 370 euro), perché il canale televisivo satellitare Belsat, con sede in Polonia, aveva trasmesso un’in- tervista che la giornalista aveva realizzato in Bielorussia. Almeno altri tre giornalisti bielorussi sono stati multati per importi simili in base all’art. 22.9 e molti altri hanno ricevuto avvertimenti dalla polizia o sono stati sottoposti a procedimenti amministrativi.

LIBERTÀ DI RIUNIONE La legge sugli eventi di massa è rimasta invariata, proibendo a tutti gli effetti le manifestazioni di protesta per strada, anche se realizzate da un solo individuo. Ciò è avvenuto nonostante le ripetute richieste da parte degli organismi Onu di tutela dei diritti umani alla Bielorussia di rivedere la sua le- gislazione restrittiva in materia di riunioni pubbliche e di depenalizzare l’organizzazione di eventi pubblici senza permesso ufficiale. Manifestanti pacifici sono stati ripetutamente arrestati e condannati a brevi periodi di detenzione. Ad aprile ha avuto luogo l’annuale raduno in ricordo del disastro di Chernobyl. Secondo rappresentanti della società civile, 16 partecipanti sono stati arbitrariamente arrestati in relazione all’evento. Tra di loro c’era Yury Rubtsou, un attivista di Homel, arrestato perché indossava una maglietta con la scritta “Lukashenko, vattene!” e accusato per “disobbedienza agli ordini della polizia” e per “be-

350 stemmie”. È stato condannato a 25 giorni di detenzione amministrativa in un processo in cui è comparso a torso nudo poiché la polizia gli aveva confiscato la maglietta. Ad agosto è stato avviato un procedimento penale nei suoi confronti, presumibilmente per oltraggio alla corte nella sua precedente comparsa in tribunale e, a ottobre, durante un’udienza a porte chiuse è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione in una prigione a regime aperto (pena ridotta di un anno grazie a una legge di amnistia). A fine anno, il suo ricorso in appello era ancora pendente. A ottobre, un attivista locale e distributore di quotidiani, Andrei Kasheuski, è stato condannato a 15 giorni di detenzione amministrativa per accuse che comprendevano l’organizzazione di un “evento di massa non autorizzato” e l’aver indossato una maglietta con lo slogan “Libertà per i prigionieri politici” e un elenco di nomi sulla schiena.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA Nel periodo precedente al campionato del mondo di hockey su ghiaccio, svoltosi dal 9 al 25 maggio, 16 attivisti della società civile sono stati arrestati e condannati a periodi di detenzione amministrativa tra i cinque e i 25 giorni. Otto sono stati arrestati arbitrariamente durante o immediatamente dopo una marcia pacifica di commemorazione del disastro nucleare di Chernobyl. Sono stati accusati di “atti minori di teppismo” e di “disobbedienza agli ordini della polizia”. Altri otto attivisti, tutti noti per la loro militanza politica, erano stati arrestati nei giorni precedenti alla marcia per analoghe accuse. Tra questi c’era l’ex prigioniero di coscienza Zmitser Dashkevich, che ad agosto 2013 aveva finito di scontare un periodo di tre anni di carcere. Arrestato davanti alla sua abitazione il 24 aprile, Dashkevich è stato condannato a 25 giorni di detenzione amministrativa per “disobbedienza agli ordini della polizia” e “violazione delle restrizioni impostegli dopo il rilascio dal carcere”. È rimasto detenuto per quasi tutto il periodo del campionato. Mikalai Statkevich, prigioniero di coscienza di lunga data ed ex candidato presidenziale, era in attesa del trasferimento in una colonia penale previsto per gennaio 2015, per completare la sua condanna a sei anni per aver partecipato a manifestazioni postelettorali. Inizialmente era stato condannato nel 2011 e a gennaio 2012 era stato trasferito in un carcere a regime duro. Eduard Lobau, un attivista e membro dell’organizzazione giovanile Malady Front, è stato rilasciato a dicembre, dopo aver scontato una condanna a quattro anni per presunte aggressioni casuali di pedoni. Il 21 giugno, il presidente del Centro per i diritti umani bielorusso Viasna e vicepresidente della Fe- derazione internazionale per i diritti umani, Ales Bialiatski, è stato rilasciato in seguito a un’amnistia, dopo aver scontato quasi tre dei quattro anni e mezzo di condanna per l’accusa di evasione fiscale.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE Le autorità hanno continuato a limitare arbitrariamente il diritto alla libertà d’associazione. L’art. 193.1 del codice penale, che criminalizzava le attività per conto di un’organizzazione non regi- strata, ha continuato a essere usato per ostacolare le attività legittime delle organizzazioni della società civile in Bielorussia. A febbraio, la corte distrettuale centrale di Minsk ha respinto, senza diritto d’appello, l’istanza del vi- cepresidente di Viasna, Valyantsin Stefanovich, contro il blocco del sito web della Ngo. Le richieste di registrazione della Ngo sono state ripetutamente respinte. Nel 2011, l’ufficio della procura generale ha limitato l’accesso al sito ai sensi dell’art. 193.1.

351 A novembre, le autorità hanno annullato il permesso di soggiorno della cittadina russa e attivista per i diritti umani Elena Tonkacheva, alla quale è stato dato un mese di tempo per lasciare il paese. A fine anno il suo appello era pendente. Il suo permesso di soggiorno era valido fino al 2017. Elena Ton- kacheva era a capo dell’organizzazione per i diritti umani Centro per la trasformazione giuridica e viveva in Bielorussia da 30 anni. Le autorità hanno affermato che la decisione era dovuta alla violazione delle norme sulla circolazione stradale per superamento del limite di velocità. Era opinione diffusa che sia stata presa di mira per le sue legittime attività in favore dei diritti umani.

BOSNIA ED ERZEGOVINA BOSNIA ED ERZEGOVINA

Capo di stato: presidenza a rotazione di Bakir Izetbegović, Dragan Čović, Mladen Ivanić Capo di governo: Vjekoslav Bevanda

Alti livelli di disoccupazione e d’insoddisfazione verso le istituzioni governative hanno dato origine a proteste popolari che si sono diffuse in tutta la Bosnia ed Erzegovina (Bosna i Hercegovina – Bih) e durante le quali si sono verificati scontri tra manifestanti e polizia. L’azione giudiziaria per i crimini di diritto internazionale è proseguita dinanzi ai tribunali nazionali ma i progressi sono stati lenti e l’impunità è continuata. A molte vittime civili di guerra è stato ancora negato l’accesso alla giustizia e alla riparazione.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A febbraio, le proteste popolari, inizialmente alimentate dal licenziamento su larga scala dei lavoratori di aziende industriali del cantone di Tuzla, si sono diffuse in tutto il paese, con conseguenti scontri tra manifestanti e polizia. Almeno 12 arrestati, alcuni dei quali minorenni, sono stati sottoposti a maltrattamenti da parte di poliziotti durante la detenzione.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE – GIORNALISTI Almeno un giornalista è stato picchiato da agenti di polizia mentre seguiva le proteste di febbraio. Per tutto l’anno si sono verificate intimidazioni di giornalisti, tra cui pestaggi, minacce di morte da parte di funzionari statali e un raid della polizia in una redazione. Le autorità spesso non hanno aperto indagini sulle denunce.

DISCRIMINAZIONE La sentenza emessa nel 2009 dalla Corte europea dei diritti umani nel caso di Sejdić-Finci vs. Bih, che aveva stabilito che gli accordi di condivisione del potere previsti dalla costituzione erano discri- minatori, è rimasta lettera morta. In base a tali accordi, cittadini come gli ebrei e i rom, che non si di- chiaravano appartenenti a uno dei tre popoli indicati come costituenti del paese (bosniaco-musulmani, serbi e croati), erano esclusi dalla possibilità di candidarsi a cariche legislative ed esecutive. Il

352 carattere discriminatorio di questi accordi è stato confermato ancora una volta a luglio, quando la Corte europea ha emesso un verdetto a favore del ricorrente nella causa Zornić vs. Bih. Diverse scuole della Federazione hanno continuato a operare secondo il principio “due scuole sotto lo stesso tetto”, alimentando la discriminazione e la segregazione su base etnica. Alunni bosniaco-mu- sulmani e croati hanno frequentato le lezioni nello stesso edificio pur essendo fisicamente separati e studiando programmi scolastici diversi. I rom hanno continuato a subire discriminazioni diffuse e sistematiche nell’accesso a diritti fonda- mentali quali istruzione, lavoro e assistenza sanitaria, consolidando in tal modo il circolo vizioso di povertà ed emarginazione. Molti rom sono stati particolarmente colpiti dall’insufficiente risposta delle autorità alle gravi inondazioni di maggio. Il numero di persone a rischio di apolidia, in maggioranza rom, ad aprile ha raggiunto il picco di 792 ma è notevolmente diminuito verso la fine dell’anno. Tuttavia, mancava ancora una legge a livello statale in materia di assistenza legale gratuita che, tra le altre disposizioni, avrebbe potuto aiutare i rom nelle pratiche d’iscrizione al registro pubblico nazionale e nell’accesso ai servizi pubblici. Le persone Lgbti hanno continuato a subire discriminazioni diffuse. A febbraio, tre persone sono rimaste ferite quando un gruppo di 12-14 uomini mascherati ha interrotto il festival Lgbti “Merlinka”, che si stava svolgendo in un cinema di Sarajevo. Gli uomini hanno fatto irruzione nei locali, hanno gridato minacce omofobe e hanno aggredito fisicamente e ferito tre persone presenti al festival. A se- guito della loro partecipazione al Pride di Belgrado a settembre, i componenti di una Ngo per i diritti Lgbti, con sede a Banja Luka, hanno ricevuto minacce di morte. Anche se il codice penale della Re- pubblica Srpska conteneva disposizioni in materia di crimini d’odio, non c’è stata alcuna indagine sulle minacce ricevute dagli attivisti.

CRIMINI DI DIRITTO INTERNAZIONALE Presso il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia sono andati avanti i procedimenti giudiziari nei confronti dell’ex leader serbo-bosniaco Radovan Karadžić e dell’ex generale Ratko Mladić per ge- nocidio, crimini contro l’umanità e violazioni delle leggi e delle consuetudini di guerra, anche per gli eventi di Srebrenica. A ottobre, si è conclusa l’udienza nel caso Karadžić. La camera per i crimini di guerra della Corte di stato della Bih ha portato avanti con lentezza i proce- dimenti relativi ai crimini di diritto internazionale e la sua attività è stata indebolita da ripetute critiche da parte di politici di alto livello. Il codice penale è rimasto non conforme agli standard internazionali in materia di persecuzione dei crimini di guerra di natura sessuale. I tribunali delle entità territoriali hanno continuato ad applicare il codice penale della Repubblica socialista federale di Jugoslavia e l’impunità ha prevalso in assenza di una definizione di crimini contro l’umanità, responsabilità di comando e crimini di violenza sessuale. L’impunità per questi ultimi è rimasta dilagante: tra il 2005 e la fine del 2014 meno di 100 casi sono stati portati in tribunale. Il numero stimato di vittime di stupro durante la guerra era compreso tra 20.000 e 50.000. Ad aprile è stata adottata una legge sulla protezione dei testimoni ma riguardava solo coloro che testimoniavano dinanzi alla Corte di stato della Bih. A livello dei tribunali delle entità territoriali, non sono state messe in atto adeguate misure di sostegno e di protezione per i testimoni, malgrado il fatto che la metà di tutti i casi pendenti per crimini di guerra dovessero essere esaminati a questo livello.

353 Non sono ancora state introdotte norme per l’ottenimento dell’effettiva riparazione, tra cui un programma completo per le vittime di crimini di diritto internazionale e servizi di assistenza legale gratuita alle vittime di tortura e alle vittime civili di guerra. Non è stata completata l’armonizzazione delle leggi che regolano i diritti delle vittime civili di guerra a livello delle entità territoriali. Alla fine dell’anno erano stati riesumati i resti di 435 persone da una fossa comune nel villaggio di Tomašica. Le vittime erano scomparse ed erano successivamente state uccise dalle forze serbo-bo- sniache nella zona di Prijedor, nel 1992. Ad agosto, la Bih ha firmato una dichiarazione regionale sulle persone scomparse e si è impegnata a scoprire la sorte e il luogo di sepoltura delle 7800 persone ancora disperse. A fine anno, la legge sulle persone scomparse non era ancora stata attuata, privando così le loro famiglie della possibilità di ottenere riparazione.

BULGARIA

REPUBBLICA DI BULGARIA

Capo di stato: Rosen Plevneliev Capo di governo: Boyko Borisov (subentrato a Georgi Bliznashki a novembre)

Le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo giunti in Bulgaria sono in parte migliorate ma sono perdurate le preoccupazioni sull’accesso al territorio bulgaro e sull’integrazione dei rifugiati. La pre- venzione e le indagini sui crimini d’odio da parte delle autorità sono state inadeguate.

CONTESTO A luglio, il governo di coalizione guidato dal Partito socialista bulgaro si è dimesso dopo la pesante sconfitta alle elezioni per il Parlamento europeo. Il suo anno al potere era stato tormentato dalle proteste contro la corruzione del governo e gli accordi segreti, scatenate dalla controversa nomina a capo dell’agenzia per la sicurezza di Delyan Peevski, parlamentare e importante magnate dei mezzi d’informazione. Le nuove elezioni per il parlamento si sono tenute a ottobre 2014, a meno di 18 mesi di distanza dall’ultima tornata elettorale, anch’essa provocata dalle dimissioni del governo allora in carica. In seguito alle elezioni, a novembre è entrato in carica un nuovo governo con il primo ministro Boyko Borisov del partito Cittadini per lo sviluppo della Bulgaria (Graždani za evropejsko razvitie na Bălgarija – Gerb)

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Dall’agosto 2013, la Bulgaria ha visto crescere consistentemente il numero di rifugiati, richiedenti asilo e migranti che entravano nel paese in modo irregolare. A fine 2013, avevano attraversato il confine più di 11.000 persone, molte delle quali erano rifugiati provenienti dalla Siria, a fronte delle 1700 arrivate nel 2012. Fin dall’inizio le autorità bulgare hanno avuto difficoltà a rispondere adeguatamente. Centinaia di persone bisognose di protezione internazionale hanno finito con il vivere per mesi in condizioni al di sotto degli standard, senza accesso alle procedure d’asilo. A gennaio 2014, l’Unhcr, l’agenzia delle

354 Nazioni Unite per i rifugiati, ha dichiarato che i richiedenti asilo rischiavano realmente un trattamento disumano e degradante, a causa delle sistematiche carenze del sistema d’asilo e d’accoglienza nel paese e ha chiesto agli stati membri dell’Eu di sospendere i rinvii di richiedenti asilo in Bulgaria.1 Le condizioni dell’accoglienza per i nuovi arrivati sono migliorate, in larga misura grazie all’Eu e ad accordi di assistenza bilaterali. Ad aprile, l’Unhcr ha riesaminato la situazione e ha rilevato che, mal- grado i progressi compiuti dalle autorità bulgare, permanevano gravi difetti. L’agenzia ha comunque revocato la sua richiesta di sospensione generale dei trasferimenti con l’eccezione di alcuni gruppi, in particolare quelli con esigenze speciali. Nel 2014, il numero di rifugiati e migranti è sensibilmente calato (a fine ottobre si erano registrati 3966 ingressi), in conseguenza della politica adottata dal governo a novembre 2013 per diminuire il numero di persone che entravano irregolarmente in Bulgaria. Varie Ngo, tra cui Amnesty International, hanno documentato violazioni, inclusa la pratica illegittima di respingere le persone in Turchia senza dar loro la possibilità di richiedere asilo, pratica che le autorità hanno negato con forza. Un’indagine ufficiale è stata avviata solo su uno di tali casi.

Integrazione dei rifugiati I rifugiati riconosciuti hanno incontrato problemi per l’accesso a istruzione, alloggio, assistenza sanitaria e altri servizi pubblici. Ad agosto, il governo ha respinto un progetto preparato dall’agenzia di stato per i rifugiati e dal ministero del Lavoro per la realizzazione della strategia nazionale d’inte- grazione, adottata all’inizio dell’anno. Secondo l’agenzia di stato per i rifugiati, a settembre solo 98 su 520 dei bambini rifugiati registrati erano iscritti a scuola. Ciò era da imputarsi alla legge sulla scuola, che richiedeva che ogni nuovo allievo superasse un esame di lingua bulgara e altre materie. La caduta del governo ha impedito l’adozione di un progetto di legge sull’asilo e i rifugiati, che intendeva garantire libero accesso al- l’educazione elementare per i bambini rifugiati.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Un’importante Ngo per i diritti umani, il Comitato Helsinki bulgaro (Bulgarian Helsinki Committee – Bhc), ha subito un’ispezione fiscale e molestie da parte di gruppi di estrema destra, probabilmente con intento intimidatorio dal momento che il Bhc è noto per le sue critiche al governo in materia di diritti umani, in particolare sul trattamento dei richiedenti asilo e sulla mancata azione di prevenzione e soluzione dei crimini d’odio. A gennaio, sollecitata da una richiesta del partito ultranazionalista Or- ganizzazione rivoluzionaria interna macedone – Movimento nazionale bulgaro (Vatreschna Makedonska Revoljuzionna Organizacija-Balgarsko Natsionalno Dvizhenie − Vmro-Bnd), l’agenzia delle entrate bulgara ha condotto una valutazione su larga scala delle finanze del Bhc per gli anni 2007-2012. La valutazione non ha rilevato alcuna violazione. Il 12 settembre, il partito di estrema destra Unione nazionale bulgara ha organizzato un raduno con lo slogan “Facciamo bandire il Bhc!”. Il raduno si è concluso davanti agli uffici della Ngo, dove i par- tecipanti hanno insultato il personale e i visitatori. A quanto risulta, hanno anche chiesto di mettere al bando tutte le Ngo nel paese. Gli agenti di polizia presenti al raduno non sono intervenuti per impedire o fermare le molestie e gli attacchi ingiuriosi. A novembre, in una comunicazione ad Amnesty International, il ministro dell’Interno ha negato che ci siano stati maltrattamenti o intimidazioni del personale della Bhc o di visitatori durante le proteste.

355 TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le indagini relative a denunce di maltrattamenti per mano della polizia hanno continuato a destare timori sulla loro efficacia e indipendenza. A fine anno erano ancora in corso le indagini su varie denunce di uso eccessivo della forza da parte della polizia durante le proteste nella capitale Sofia del giugno 2013.2

CRIMINI D’ODIO VERSO MINORANZE ETNICHE E MIGRANTI Nella seconda metà del 2013, organi d’informazione e Ngo hanno riferito di molte aggressioni violente contro minoranze etniche e religiose, compresi migranti, rifugiati e richiedenti asilo, che hanno messo in luce le carenze nella prevenzione e nell’indagine di tali crimini d’odio.3 A marzo, nel caso Abdu vs. Bulgaria, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che le autorità non avevano indagato in modo esauriente sul movente razzista associato all’aggressione fisica di un cittadino sudanese, avvenuta nel 2003. Tra luglio e settembre, Amnesty International ha compiuto ricerche su 16 casi di presunti crimini d’odio contro persone e proprietà. Il movente dell’odio era stato oggetto d’indagine soltanto per uno di tali crimini. Non è stato posto rimedio alle lacune legislative sui crimini d’odio su altri aspetti che dovrebbero essere tutelati, quali l’orientamento sessuale, l’identità di genere e la disabilità. A gennaio, il governo ha presentato la bozza di un nuovo codice penale che colmava alcune di tali lacune ma a fine anno non era ancora stato adottato.

Note 1. Bulgaria: Refugees continue to endure bad conditions (EUR 15/001/2014), http://www.amnesty.org/en/library/info/ EUR15/001/2014/en 2. Bulgaria: Investigations into alleged excessive use of force during Sofia protests must be prompt and thorough (EUR 15/001/2013), www.amnesty.org/en/library/info/EUR15/001/2013/en 3. Because of who I am: Homophobia, transphobia and hate crimes in Europe (EUR 01/014/2013), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR01/014/2013/en

REPUBBLICA CECA

REPUBBLICA CECA

Capo di stato: Miloš Zeman Capo di governo: Bohuslav Sobotka

I rom hanno continuato a subire discriminazioni diffuse. La Commissione europea ha avviato una procedura d’infrazione contro la Repubblica Ceca per la discriminazione degli alunni rom nel campo dell’istruzione. Sono stati scoperti maltrattamenti di persone con disabilità mentale in istituti statali. I musulmani hanno subito una crescente ostilità pubblica.

356 CONTESTO A ottobre, la polizia ha annunciato un’inchiesta sulle accuse di manipolazione e acquisto di voti di cittadini rom per le elezioni locali, tenutesi nello stesso mese. Secondo le Ngo che hanno monitorato le elezioni, la pratica della compravendita dei voti è stata utilizzata da diversi partiti politici in molte regioni.

DISCRIMINAZIONE

Rom A giugno, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali ha criticato le autorità per il gran numero di alunni rom iscritti alle cosiddette “scuole pratiche” (ex scuole speciali), destinate agli alunni con disabilità mentali lievi. Il Comitato ha chiesto al governo di abolire le prassi che por- tavano alla segregazione degli alunni rom e di eliminare le scuole pratiche. Ha raccomandato inoltre che le scuole ordinarie fornissero istruzione inclusiva ai bambini provenienti da ambienti socialmente svantaggiati e ai bambini rom. A settembre, la Commissione europea ha avviato una procedura d’infrazione contro le autorità ceche per la violazione del divieto di discriminazione in materia d’istruzione, stabilito dalla direttiva dell’Eu sull’uguaglianza razziale. Ad agosto, a più di quattro anni dalle scuse ufficiali presentate dal governo per la sterilizzazione forzata delle donne rom, il ministro per i Diritti umani ha annunciato un progetto di legge che prevedeva una compensazione economica tra i 3500 e i 5000 euro per ciascuna vittima. Secondo la Ngo Comitato Helsinki ceco, erano quasi 1000 le donne che furono sterilizzate forzatamente tra il 1972 e il 1991 e che avrebbero avuto diritto a un risarcimento di natura economica. A novembre, il governo ha ammesso che i rom hanno continuato a subire discriminazioni in materia di accesso ad alloggio, istruzione, assistenza sanitaria e mercato del lavoro. Il rapporto commissionato dal governo sulla situazione della minoranza rom ha messo in evidenza gli ostacoli per l’ottenimento di alloggi a prezzi accessibili, inclusa la discriminazione da parte dei proprietari privati. Il rapporto ha anche sottolineato la presenza di un eccessivo numero di bambini rom nelle scuole pratiche.

Crimini d’odio A ottobre, la Corte costituzionale ha respinto il ricorso contro la lunghezza delle condanne, presentato da due persone riconosciute colpevoli di un rogo scatenato contro una famiglia rom nell’aprile 2009, nel quale una bambina rom di due anni rimase ustionata sull’80 per cento del corpo.

Musulmani I mezzi d’informazione hanno riferito di occasionali atti di vandalismo contro la moschea di Praga, tra cui l’imbrattamento delle pareti con messaggi islamofobici. A fine anno, la polizia stava ancora indagando su tali episodi. A settembre, oltre 25.000 persone hanno firmato una petizione per chiedere alle autorità di non con- cedere “diritti avanzati” all’Associazione delle comunità musulmane, regolarmente registrata. La legge sulle chiese permetteva alle organizzazioni religiose registrate da almeno 10 anni di richiedere i diritti avanzati, tra cui il diritto d’insegnare religione nelle scuole statali e il riconoscimento dei ma-

357 trimoni religiosi. La petizione chiedeva al governo di non consentire l’apertura di scuole islamiche, né l’insegnamento dell’Islam nelle scuole statali, né di permettere il culto islamico nelle carceri. A fine anno, pare che l’Associazione delle comunità musulmane non avesse ancora fatto richiesta per i diritti avanzati. Sempre a settembre, il difensore civico dei diritti ha confermato che una scuola secondaria per infermieri aveva discriminato due donne, una rifugiata dalla Somalia e una richiedente asilo dall’Af- ghanistan, proibendo loro d’indossare il velo. Il difensore ha chiarito che la legge non limitava l’uso di simboli religiosi nelle scuole e che il divieto apparentemente neutrale di coprire la testa in qualunque modo era indirettamente discriminatorio. L’ispettorato scolastico nazionale ha respinto un ricorso presentato dalla studentessa somala.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI I pazienti con disabilità mentali hanno continuato a essere maltrattati negli istituti psichiatrici. A giugno, il Centro di sostegno per la disabilità mentale e la Lega dei diritti umani hanno esortato il go- verno a vietare immediatamente l’uso di “letti retati” e altre tecniche di contenzione disumane. In un rapporto, che valutava la situazione in otto ospedali psichiatrici, le Ngo hanno fornito prove dell’uso continuo di tecniche di contenzione, come “letti retati” o dotati di cinghie, nonché l’uso non regola- mentato ed eccessivo di farmaci. In risposta al rapporto delle Ngo, ad agosto il difensore civico ha vi- sitato sei ospedali, rilevando analogamente prove dell’uso di tecniche di contenzione; ha criticato la mancanza di un controllo efficace dell’impiego di tali metodi e chiesto modifiche legislative per in- trodurre maggiori salvaguardie.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI A ottobre, nel corso di una “settimana contro l’antirazzismo e l’esterofilia”, hacker di estrema destra hanno attaccato i siti web delle Ngo Comitato Helsinki ceco e Vita insieme (Vzájemné soužití). Anche la posta elettronica personale della coordinatrice di un gruppo di Amnesty International nella città di Brno è stata attaccata dagli hacker, che hanno pubblicato sui loro siti web le comunicazioni interne tra i membri dell’organizzazione. Il Comitato Helsinki ceco ha annunciato che avrebbe sporto denuncia penale contro gli hacker.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Nonostante avesse inizialmente progettato di avviare un piccolo programma di reinsediamento per rifugiati siriani, a ottobre il governo ha deciso di limitare il proprio sostegno alla fornitura di assistenza umanitaria ai profughi siriani affetti da problemi sanitari acuti, ospitati in Giordania.

358 CIPRO

REPUBBLICA DI CIPRO

Capo di stato e di governo: Nicos Anastasiades

Le autorità addette al controllo dell’immigrazione hanno continuato a detenere regolarmente centinaia di migranti e alcune categorie di richiedenti asilo, in condizioni simili a quelle carcerarie e per lunghi periodi, in attesa dell’espulsione. Anche i rifugiati dalla Siria sono stati detenuti. Alcune donne sono state separate dai loro bambini.

CONTESTO A febbraio, dopo un’interruzione di 18 mesi, i leader greco-ciprioti e turco-ciprioti hanno ripreso i ne- goziati sulla riunificazione dell’isola ma, a fine anno, non c’erano stati progressi.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI I migranti irregolari e alcune categorie di richiedenti asilo, come coloro la cui richiesta d’asilo era stata respinta, sono stati regolarmente detenuti per periodi prolungati nel principale centro di detenzione per immigrati del paese, nel villaggio di Menogia, in attesa dell’espulsione. Anche i rifugiati provenienti dalla Siria sono stati arrestati e detenuti, nonostante Cipro abbia formalmente adottato la politica di non espellere cittadini siriani. Le persone trattenute a Menogia sono state detenute in spazi angusti, in condizioni simili a quelle di un carcere. I detenuti si sono lamentati per il tempo limitato concesso loro per l’esercizio fisico, per la qualità del cibo e perché le celle rimanevano chiuse dalle 22.30 alle 7.30 del mattino successivo. Un piccolo numero di donne migranti sono state trattenute nelle stazioni di polizia in attesa d’espulsione. In almeno due casi, le donne detenute sono state forzatamente separate dai loro bambini.1 A maggio, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha sollevato preoccupazioni circa la detenzione abituale e prolungata dei migranti irregolari e dei richiedenti asilo, le condizioni di detenzione a Menogia e le segnalazioni di rimpatri di richiedenti asilo, nonostante corressero gravi rischi di tortura o persecuzione religiosa nei paesi d’origine. Il Comitato ha inoltre criticato il fatto che i richiedenti asilo non sono stati tutelati dal refoulement durante il processo di revisione giudiziaria e che non è stato previsto alcun rimedio giudiziario efficace per contestare le decisioni d’espulsione e bloccarle in attesa dell’esito dei ricorsi.

TRATTA DI ESSERI UMANI Ad aprile è stata adottata una legge volta ad allineare la legislazione nazionale in materia di lotta alla tratta con le norme dell’Eu e con altri standard internazionali. Tuttavia, la legge non ha previsto la possibilità di ricorso contro le decisioni dell’ufficio di polizia per la lotta alla tratta di esseri umani, qualora una persona non fosse riconosciuta come vittima di tratta. Sono state espresse preoccupazioni

359 anche per l’utilizzo di una definizione di vittima di tratta da parte della polizia non in linea con le norme internazionali.

SPARIZIONI FORZATE Tra gennaio e agosto, il comitato per le persone scomparse a Cipro ha riesumato i resti di 65 persone, portando a 948 il numero totale delle esumazioni dal 2006. Tra l’agosto 2006 e l’agosto 2014, i resti di 564 scomparsi (430 greco-ciprioti e 134 turco-ciprioti) sono stati identificati e restituiti alle famiglie. Tuttavia, a fine anno, nessun responsabile era stato identificato e perseguito per le sparizioni e gli omicidi, sia a Cipro, sia in Turchia. Le tombe risalgono ai combattimenti tra le due comunità che ebbero luogo tra il 1963 e il 1964 e durante l’invasione turca del 1974.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Un rapporto della Commissione europea per la prevenzione della tortura pubblicato a dicembre ha messo in luce il numero di accuse di maltrattamenti da parte di agenti di polizia raccolte dai delegati della Commissione durante la loro visita a Cipro, a settembre e ottobre 2013. Le accuse riguardavano principalmente maltrattamenti di cittadini stranieri durante il loro spostamento o durante gli interro- gatori nelle stazioni di polizia. La Commissione europea per la prevenzione della tortura ha raccolto anche molte accuse di maltrattamenti fisici, abusi verbali e uso inappropriato di gas lacrimogeni da parte di agenti di custodia della polizia, contro migranti trattenuti nella struttura di detenzione per immigrati di Menogia. Denunce simili sono state raccolte dalla Commissione delle Nazioni Unite contro la tortura.

Note 1. Cyprus: Abusive detention of migrants and asylum-seekers flouts EU law (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/news/ cyprus-abusive-detention-migrants-and-asylum-seekers-flouts-eu-law-2014-03-18

CROAZIA

REPUBBLICA DI CROAZIA

Capo di stato: Ivo Josipović Capo di governo: Zoran Milanović

È proseguita la discriminazione contro serbo-croati e rom. Le coppie dello stesso sesso sono state le- galmente riconosciute. La percentuale d’indagini e azioni giudiziarie sui crimini di guerra è rimasta bassa.

360 DISCRIMINAZIONE

Serbo-croati I serbo-croati hanno continuato a subire discriminazioni in materia di occupazione nel settore pubblico e di restituzione dei diritti di possesso per le case popolari abbandonate durante la guerra del 1991- 1995. A luglio, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la petizione per un referendum che in- tendeva limitare l’uso dei diritti linguistici delle minoranze nelle unità di autogoverno locale in cui al- meno la metà della popolazione appartenesse a una minoranza etnica. Anche se la richiesta di refe- rendum era valida per tutto il paese, i suoi firmatari, un gruppo di veterani croati, hanno cercato in particolare di vietare l’uso di cartelli pubblici bilingui in cirillico (serbo) a Vukovar. La legge corrente sui diritti delle minoranze fissava la soglia a un terzo della popolazione.

Rom Molti rom hanno continuato a vivere in insediamenti segregati, senza sicurezza del possesso e con accesso limitato a servizi di base come acqua, elettricità, servizi igienico-sanitari e trasporti. Quattro anni dopo la sentenza del 2010 della Corte europea dei diritti umani nel caso Oršuš e altri vs. Croazia, molti bambini rom stavano ancora frequentando classi separate. La discriminazione nel mercato del lavoro ha contribuito a tassi significativamente più alti di disoccupazione tra i rom rispetto ad altri gruppi etnici. Particolarmente svantaggiati sono stati coloro che vivevano nelle zone rurali e le giovani donne.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A luglio è stata approvata una legge sulle unioni civili che ha concesso parità di diritti alle coppie dello stesso sesso in tutti gli ambiti, tranne l’adozione. La legge ha introdotto l’istituto della “custodia di coppia” per consentire ai genitori di coppie dello stesso sesso di estendere al partner l’intera gamma di diritti e obblighi genitoriali nei confronti dei propri figli. La prima unione civile tra persone dello stesso sesso è stata registrata a settembre. A Spalato, Zagabria e Osijek si sono tenute con successo tre marce del Pride senza incidenti. A marzo, la Croazia ha concesso asilo a un gay ugandese che aveva cercato protezione a seguito della criminalizzazione dell’omosessualità nel suo paese.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE A novembre, un ex membro delle forze armate croate è stato rinviato a giudizio per crimini commessi durante l’operazione “Tempesta” del 1995. A marzo, l’ufficiale dell’esercito croato Božo Bačelić è divenuto la prima persona a essere condannata da un tribunale nazionale per crimini di guerra commessi durante la stessa operazione “Tempesta”. A fine anno erano in corso due ulteriori processi relativi a crimini di guerra commessi durante l’operazione “Tempesta”. In totale, otto membri di formazioni militari croate e 15 di formazioni serbe erano sotto processo per crimini di guerra durante l’anno. La Corte europea dei diritti umani ha inviato comunicazioni al governo su 17 casi presentati da vittime di guerra civili che avevano denunciato violazioni del diritto alla vita a causa del fallimento dello stato nello svolgere indagini efficaci sull’uccisione o la scomparsa dei loro parenti. La Croazia ha continuato a temporeggiare sull’adozione di un quadro legislativo completo per regolare lo status e l’accesso alla riparazione di tutte le vittime di guerra civili. Uno sviluppo positivo si è

361 avuto a marzo quando il ministero degli Affari dei veterani ha presentato un progetto di legge sui diritti delle vittime di violenza sessuale nella guerra in patria, che garantirebbe alle vittime l’accesso a sostegno psicosociale e sanitario, assistenza legale gratuita e compensazione economica. Tuttavia, il progetto di legge non è riuscito a specificare il livello di compensazione economica che sarebbe stato disponibile. Ad agosto, il governo croato ha firmato una dichiarazione regionale sulle persone scomparse e si è impegnata ad adottare misure per stabilire la sorte e l’ubicazione delle 2200 persone ancora mancanti all’appello in Croazia. Il paese non ha ancora ratificato la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata. I diritti dei familiari delle persone scomparse hanno con- tinuato a essere compromessi dalla mancanza di una legge sulle persone scomparse.

DANIMARCA

REGNO DI DANIMARCA

Capo di stato: regina Margherita II Capo di governo: Helle Thorning-Schmidt

Il governo si è rifiutato d’indagare sulle denunce di pratiche illegali di sorveglianza, a seguito delle ri- velazioni dell’informatore americano Edward Snowden. La legislazione è stata modificata per rendere reato gli abusi sessuali commessi dal coniuge. Sono migliorate le pratiche per la determinazione dell’asilo per richiedenti asilo lesbiche, gay e bisessuali. Richiedenti asilo vulnerabili sono stati trattenuti in detenzione.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA A giugno 2013, dopo le rivelazioni dell’informatore Edward Snowden circa la sorveglianza massiva da parte dell’agenzia di sicurezza nazionale Usa sul traffico di dati nei paesi europei, con la collaborazione delle agenzie d’intelligence europee, parlamentari e cittadini danesi hanno chiesto al governo di rivelare se agenzie d’intelligence straniere avessero svolto o stessero svolgendo attività di sorveglianza in Danimarca e, in caso affermativo, se queste comprendessero la sorveglianza di cittadini danesi. In risposta, il governo ha dichiarato che “non aveva motivo di credere” che le agenzie d’intelligence sta- tunitensi svolgessero “attività di sorveglianza illegali indirizzate alla Danimarca o a interessi danesi”. Il governo si è rifiutato d’indagare se tali agenzie avessero operato o stessero operando in territorio danese, né ha voluto presentare una panoramica delle leggi applicabili per chiarire la distinzione tra attività di sorveglianza lecite e illecite.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA A ottobre, un gruppo di lavoro congiunto della polizia nazionale e del sindacato di polizia ha presentato una relazione sull’introduzione dei numeri identificativi sulle uniformi della polizia. Le proposte non erano chiare riguardo alla necessità di rendere visibili tali numeri.

362 VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE A giugno 2013, il parlamento ha modificato il codice penale per rendere reato l’abuso sessuale da parte del coniuge nel caso in cui la vittima sia in uno “stato d’impotenza” e per annullare la possibilità di ridurre o revocare una sanzione penale qualora l’autore e la vittima si sposassero o restassero sposati dopo uno stupro. Il governo non ha preso provvedimenti per istituire un piano nazionale per il miglioramento dei diritti e del sostegno alle vittime di stupro. Allo stesso modo, non si è attivato per indagare le ragioni dietro alla percentuale sproporzionatamente alta di abbandono delle indagini o delle azioni legali nei casi di stupro denunciati.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Il consiglio d’appello per i rifugiati ha modificato la sua precedente prassi di rifiutare la protezione ai richiedenti asilo a rischio di persecuzione in patria a causa dell’orientamento sessuale, sulla base del fatto che, se rimpatriati, avrebbero dovuto “nascondere” la loro identità sessuale. Dal 2013, ri- chiedenti asilo lesbiche, gay e bisessuali, a rischio di persecuzione sulla base di pratiche omofobe generali nel loro paese d’origine, hanno ottenuto lo status di rifugiati. Da settembre 2013, i richiedenti asilo provenienti da zone della Siria colpite dal conflitto armato in corso hanno ottenuto lo status di rifugiato senza ulteriore valutazione individuale. A ottobre 2014, il governo ha presentato un disegno di legge per introdurre un permesso di protezione temporanea per tutti i richiedenti asilo siriani. Il disegno di legge proponeva che le procedure di ricongiungimento fa- miliare non potessero iniziare durante i primi 12 mesi di soggiorno dei richiedenti asilo in Danimarca. Persone vulnerabili – tra cui vittime di torture, minori non accompagnati e persone affette da malattie mentali – hanno continuato a essere detenute a fini di controllo dell’immigrazione. Il governo ha so- stenuto che l’attuale pratica dello screening di tutti i richiedenti asilo da parte di un infermiere è stata sufficiente per identificare le persone inadatte alla detenzione. A ottobre, l’Alta corte orientale ha rilevato che il “soggiorno tollerato” di Elias Karkavandi, un cittadino iraniano, era diventato “sproporzionato” con il passare del tempo. Lo status di rifugiato di Elias Kar- kavandi era stato revocato nel 2007, a seguito del completamento di una pena detentiva per reati di droga; egli aveva quindi trascorso sette anni sotto il cosiddetto regime di “soggiorno tollerato”, che gli impediva a tempo indeterminato di lavorare, studiare, sposarsi e vivere al di fuori di un centro d’accoglienza designato.

ESTONIA

REPUBBLICA D’ESTONIA

Capo di stato: Toomas Hendrik Ilves Capo di governo: Taavi Rõivas (subentrato ad Andrus Ansip a marzo)

È stata approvata una legge che permette alle coppie non sposate, incluse quelle dello stesso sesso, di registrare la loro convivenza. Circa 91.000 persone sono rimaste apolidi. Pochi richiedenti asilo

363 hanno ottenuto protezione e il numero di domande d’asilo è rimasto basso. Il governo ha accettato il trasferimento di un detenuto proveniente da Guantánamo.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Il 9 ottobre, il parlamento ha approvato una legge sulla convivenza, indipendentemente dal genere, che entrerà in vigore il 1° gennaio 2016. La legge consente alle coppie non sposate, comprese quelle dello stesso sesso, di registrare la loro convivenza ed estende anche a queste unioni molti diritti delle coppie sposate, per esempio in materia di sussidi. Le coppie che risulteranno in contratto di convivenza registrata potranno adottare i figli naturali del partner.

DISCRIMINAZIONE – MINORANZE ETNICHE L’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha dichiarato che circa 91.000 persone (appros- simativamente il 6,8 per cento della popolazione) sono rimaste apolidi; la stragrande maggioranza erano russofone. Gli apolidi hanno goduto di diritti politici limitati. Gli sforzi delle autorità per facilitare la naturalizzazione dei figli nati da genitori apolidi non hanno garantito la concessione automatica della cittadinanza al momento della nascita. In questo modo, l’Estonia ha continuato a violare i propri obblighi secondo il Patto internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione sui diritti dell’infanzia. Le minoranze etniche hanno continuato a essere sproporzionatamente colpite da disoccupazione e povertà, facendo temere che la discriminazione etnica e linguistica fosse un fattore che contribuiva a tale condizione. Secondo quanto riferito, i requisiti linguistici per l’occupazione sono un elemento che pone le minoranze etniche in posizione di svantaggio.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Il numero di domande d’asilo è rimasto basso. Nei primi 10 mesi dell’anno ne sono state presentate circa 120, di cui circa 35 da persone di nazionalità ucraina. A fine novembre almeno 20 persone avevano ottenuto l’asilo. È stata espressa la preoccupazione che ai richiedenti asilo potesse essere negato l’accesso alle frontiere e rifiutato l’ingresso. Alcuni rapporti hanno indicato che è migliorata la fornitura di assistenza legale e d’interpretariato per i richiedenti asilo.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA A ottobre, a seguito di una richiesta da parte degli Usa, il governo ha deciso di accettare il reinsedia- mento di un ex detenuto di Guantánamo. Non sono state rese note né la sua identità, né la data del trasferimento.

364 FINLANDIA

REPUBBLICA DI FINLANDIA

Capo di stato: Sauli Niinistö Capo di governo: Alexander Stubb (subentrato a Jyrki Katainen a giugno)

Richiedenti asilo e migranti sono stati detenuti in strutture inadatte. Un’inchiesta sul coinvolgimento della Finlandia nel programma di rendition gestito dagli Usa non è riuscita a trovare prove dei fatti. Il sostegno alle vittime di violenza sessuale e di genere è rimasto insufficiente. Le persone transgender hanno incontrato ostacoli per il riconoscimento legale del genere.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI La Finlandia ha continuato a detenere richiedenti asilo e migranti, compresi minori. Durante il 2013, circa 1500 migranti sono stati trattenuti ai sensi della legge sugli stranieri, per lo più all’interno di strutture detentive della polizia. Dieci minori non accompagnati sono stati trattenuti insieme agli adulti nel centro detentivo di Metsälä. A settembre 2014 è stato aperto un nuovo centro di detenzione, connesso alla struttura di accoglienza di Joutseno, destinato a ospitare famiglie con bambini e altre categorie di persone vulnerabili. A gennaio, il difensore civico per le minoranze ha iniziato a esaminare i trasferimenti forzati di persone a cui era stato rifiutato l’asilo e di migranti.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA Ad aprile, il difensore civico parlamentare ha pubblicato i risultati della sua inchiesta sul presunto ruolo della Finlandia nel programma di rendition e detenzione segreta gestito dagli Usa. Il difensore civico non ha trovato prove che i funzionari finlandesi fossero a conoscenza dei voli di rendition della Cia nel paese ma “non ha potuto dare alcuna garanzia”, poiché le informazioni relative ad alcuni viaggi non erano state incluse nell’indagine, in quanto non più disponibili.1

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Lo stupro è ancora definito sulla base del grado di violenza o di minacce di violenza usato dal perpe- tratore, invece che dalla violazione dell’autonomia sessuale e dell’integrità fisica e mentale della vit- tima. Il sostegno per le vittime di violenza di genere e di violenza sessuale è rimasto insufficiente e a rischio di peggioramento. Nel 2013 sono state chiuse due case rifugio per donne e soltanto due centri d’emergenza hanno offerto assistenza alle vittime di stupro. La Finlandia non ha soddisfatto i requisiti per i rifugi stabiliti dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa. Nonostante il governo abbia dichiarato l’intenzione di ratificare la Convenzione, la sua proposta resa pubblica a settembre non conteneva né una linea di bilancio dedicata, né un piano d’azione per estendere i servizi richiesti alle vittime di violenza.

365 Un sondaggio, pubblicato a marzo dall’Agenzia dell’Eu per i diritti fondamentali, ha rilevato che il 47 per cento delle donne, fin dall’età di 15 anni, aveva subito violenze fisiche o sessuali per mano del partner e/o di altri. Soltanto il 10 per cento delle donne si era rivolto alla polizia dopo gravi episodi di violenza da parte del partner. A marzo, il Comitato Cedaw ha raccomandato di allocare risorse adeguate per un piano d’azione na- zionale per prevenire la violenza contro le donne, di creare un meccanismo istituzionale per il coordi- namento e il monitoraggio di qualunque misura, di assicurare un numero di rifugi sufficiente e risorse adeguate per la loro gestione, di aprire centri d’emergenza e consultori per vittime di stupro e di creare una linea telefonica di aiuto funzionante 24 ore al giorno.

DISCRIMINAZIONE – PERSONE TRANSGENDER I diffusi pregiudizi e la legislazione discriminatoria hanno influenzato negativamente il godimento dei diritti umani da parte delle persone transgender.2 Queste hanno potuto ottenere il riconoscimento legale del genere soltanto se acconsentivano alla sterilizzazione o alla diagnosi di disordine psichico, se erano maggiorenni e se potevano provare di essere single. A novembre, il ministero degli Affari sociali e della salute ha preparato un disegno di legge che proponeva l’eliminazione del requisito della sterilizzazione e dello status di single; a fine anno, il progetto di legge non era ancora stato pre- sentato al parlamento.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA Gli obiettori di coscienza al servizio militare hanno continuato a essere imprigionati per essersi rifiutati di espletare il servizio civile alternativo, la cui durata è rimasta punitiva e discriminatoria. Dal febbraio 2013, la durata del servizio civile alternativo è di 347 giorni, più del doppio rispetto al servizio militare che dura 165 giorni.

Note 1. Finland: CIA rendition probe findings ‘disappointing’ (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/news/finland-cia-ren- dition-probe-findings-disappointing-2014-04-29 2. The state decides who I am: Lack of legal gender recognition for transgender people in Europe (EUR 01/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR01/001/2014/en

FRANCIA

REPUBBLICA FRANCESE

Capo di stato: François Hollande Capo di governo: Manuel Valls (subentrato a Jean-Marc Ayrault a marzo)

Migranti rom hanno continuato a essere sgomberati con la forza da insediamenti informali; singoli e comunità spesso non sono stati consultati, né è stato offerto loro un alloggio alternativo adeguato.

366 Sono perdurate le preoccupazioni in merito all’imparzialità e alla completezza delle indagini su accuse di maltrattamenti da parte della polizia. A seguito di una riforma di legge approvata nel 2013, le coppie dello stesso sesso hanno potuto contrarre matrimonio civile.

DISCRIMINAZIONE – ROM Secondo dati ufficiali, all’inizio dell’anno più di 19.000 persone vivevano in 429 insediamenti informali. La maggior parte di loro erano rom migranti provenienti da Romania, Bulgaria e paesi dell’ex Jugoslavia. Le autorità francesi hanno continuato a eseguire sgomberi forzati per tutto l’anno. Secondo la Lega dei diritti umani e il Centro europeo per i diritti dei rom, oltre 11.000 persone sono state sgomberate con la forza nei primi nove mesi dell’anno. Il 31 gennaio, il ministro per la Casa ha annunciato un piano per fornire soluzioni abitative a lungo termine ai residenti degli insediamenti informali. Il 28 febbraio è stato firmato un accordo tra il governo e Adoma, una società a partecipazione pubblica che opera nel campo della fornitura di alloggi, che ha permesso di offrire una sistemazione alternativa ad alcune comunità sgomberate da insediamenti informali. Nonostante questi sviluppi, la maggior parte degli individui e delle famiglie sgomberate pare non ab- biano ottenuto una sistemazione alternativa. Ad esempio, il 18 giugno circa 400 persone sono state sgomberate con la forza da La Parette, il più grande insediamento informale di Marsiglia, ma solo a 18 famiglie (150 persone) è stata offerta una qualche forma di sistemazione alternativa. Il 21 ottobre, più di 300 persone sono state sgomberate con la forza dall’insediamento informale di Les Coquetiers a Bobigny, un sobborgo di Parigi, a seguito di un ordine di sgombero emesso dal comune. Secondo le autorità, a 134 persone sono state offerte alcune soluzioni per la risistemazione abitativa. Secondo quanto riferito, oltre 100 persone hanno lasciato l’insediamento prima dello sgombero poiché non era stata offerta loro alcuna sistemazione alternativa. Circa 60 persone sono state sgomberate con la forza e successivamente sono state fornite loro sistemazioni a breve termine a Parigi.1 Sebbene le autorità non abbiano raccolto dati ufficiali sui crimini d’odio contro i rom, organizzazioni della società civile hanno segnalato numerose aggressioni violente ai loro danni. È perdurata la pre- occupazione che, nell’indagare in merito a tali casi, le autorità spesso non abbiano tenuto conto di possibili moventi discriminatori. A fine anno era ancora in corso l’inchiesta penale contro quattro agenti di polizia, accusati di aver ferito un rom nel novembre 2011, durante uno sgombero forzato a Marsiglia.2

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Dal 18 maggio 2013, ogni coppia, indipendentemente dal genere, può unirsi in matrimonio civile. I diritti di adozione sono stati estesi alle coppie omosessuali sposate. Nonostante i ripetuti impegni del governo a riformare le prassi umilianti previste, le persone transgender hanno continuato a essere sottoposte a diagnosi psichiatrica e trattamenti medici non necessari, come la chirurgia e la sterilizzazione, per poter ottenere il riconoscimento legale del genere.3

DISCRIMINAZIONE – MUSULMANI Due sentenze emesse nel corso dell’anno non sono riuscite a difendere il diritto alla libertà d’espressione, di religione e di credo delle donne musulmane e a tutelarle dalla discriminazione. Il 25 giugno, la Corte di cassazione ha stabilito che il licenziamento, avvenuto nel 2008, di una dipendente musulmana

367 da parte della direzione di un asilo nido privato, per aver indossato il velo sul posto di lavoro, non co- stituiva atto discriminatorio. Il 1° luglio, nel caso di Sas vs. Francia, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la legge del 2011, che vietava di coprire interamente il volto in pubblico, non costituiva una restrizione sproporzionata del diritto alla libertà di religione.4

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA Nel 2013, il difensore dei diritti, un’autorità pubblica indipendente, ha esaminato quasi 1000 denunce di atti di violenza perpetrati dalla polizia. Tuttavia, sono perdurate le preoccupazioni rispetto all’im- parzialità e la completezza delle indagini da parte delle autorità giudiziarie relative a queste accuse. A febbraio 2014, la Corte di cassazione ha riaperto il caso di Ali Ziri, un algerino deceduto in custodia nel 2009, che era stato archiviato nel 2012. Il 19 novembre, il pubblico ministero ha richiesto alla corte d’appello di Rennes che fossero condotte ulteriori indagini sul caso. Tuttavia, il 12 dicembre la camera investigativa della corte d’appello di Rennes ha confermato l’archiviazione del 2012. Il 23 settembre, Raymond Gurême, un traveller francese di 89 anni, ha riportato diverse ferite, presu- mibilmente a causa di uso eccessivo della forza durante un’operazione di polizia nell’insediamento in cui viveva. A fine anno era in corso un’indagine. Il 26 ottobre, il ventunenne Rémi Fraisse è stato ferito a morte da una granata esplosiva antisommossa sparata da agenti della gendarmeria nazionale, durante una manifestazione contro il progetto di costruzione della diga di Sivens, nella regione di Tarn. Secondo quanto riferito, circa altre 20 denunce di maltrattamenti da parte della polizia sono state presentate da persone che avevano partecipato alla protesta. Il 2 dicembre, un’indagine interna ha concluso che gli agenti della gendarmeria avevano rispettato la legge. L’imparzialità e la completezza di questa indagine sono rimaste motivo di preoccupazione.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Il 24 ottobre, la corte d’appello di Lione ha autorizzato l’estradizione di Mukhtar Ablyazov, banchiere kazako e leader dell’opposizione, verso la Russia, da dove poteva essere rimpatriato forzatamente in Kazakistan. A fine anno, era pendente dinanzi alla Corte di cassazione un appello contro la decisione. Se estradato, avrebbe rischiato un processo iniquo in Russia e la tortura o altri maltrattamenti in Ka- zakistan.5

RIFUGIATI E DIRITTI DEI MIGRANTI Il 16 ottobre 2013, il presidente Hollande aveva annunciato che 500 rifugiati siriani sarebbero stati reinsediati in Francia durante il 2014. Per la fine dell’anno erano state reinsediate tra 300 e 350 persone. Secondo quanto riferito, il 27 marzo, 85 cittadini siriani sono stati fermati dalla polizia all’arrivo nella stazione Gare de Lyon di Parigi. Questi non hanno avuto la possibilità di chiedere asilo ed è stato concesso loro un mese per lasciare la Francia. Sempre a marzo, una circolare del ministro dell’Interno sui migranti irregolari ha dato direttive alle autorità di espellere i cittadini stranieri le cui domande d’asilo fossero state respinte dall’ufficio francese di protezione di rifugiati e apolidi (Office français de protection des réfugiés et apatrides – Ofpra), a seguito della procedura di priorità in materia d’asilo. Sebbene queste decisioni sarebbero potute essere impugnate dinanzi alla corte nazionale del diritto di asilo, l’appello non è riuscito a so-

368 spendere l’espulsione. Un progetto di legge volto a riformare le procedure d’asilo era stato adottato dall’assemblea nazionale ed era in attesa di approvazione al senato. Il 10 luglio, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che il rifiuto delle autorità francesi di rilasciare visti a fini di ricongiungimento familiare ai figli di due rifugiati e tre migranti, residenti in Francia, aveva violato il diritto alla vita familiare dei ricorrenti. A ottobre, più di 2500 migranti e richiedenti asilo, provenienti soprattutto da Afghanistan, Etiopia, Eritrea e Siria, vivevano in condizioni difficili nella regione di Calais. La maggior parte cercava di raggiungere il Regno Unito. A maggio, secondo quanto riferito, le autorità hanno sgomberato con la forza 700 migranti e richiedenti asilo dagli insediamenti informali della zona a seguito di un’epidemia di scabbia.6 A fine anno era ancora in corso il dibattito sull’apertura di un nuovo centro d’acco- glienza.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE Il 14 marzo, il cittadino ruandese ed ex capo dei servizi d’intelligence del paese Pascal Simbikangwa, è stato condannato dalla Corte d’assise di Parigi a 25 anni di carcere per genocidio e complicità in crimini contro l’umanità, perpetrati nel contesto del genocidio ruandese del 1994. Questo è stato il primo caso ad arrivare in giudizio sulla base della giurisdizione extraterritoriale dopo l’istituzione, nel 2012, di un’unità investigativa specializzata incaricata di occuparsi di casi riguardanti genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. A fine anno, l’unità stava indagando su più di 30 presunti crimini perpetrati all’estero.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Diverse manifestazioni per la situazione di Gaza, comprese quelle fissate per il 19 e il 26 luglio a Parigi, sono state proibite per motivi di sicurezza. Le manifestazioni hanno avuto luogo nonostante il divieto. Anche se si sono verificati alcuni episodi di violenza, sono perdurate preoccupazioni circa la necessità e la proporzionalità dell’imposizione del divieto.

Note 1. France: Bobigny forced eviction set to leave Roma families homeless, www.amnesty.org/en/news/france-bobigny-forced- eviction-set-leave-roma-families-homeless-2014-10-20 2. “We ask for justice”: Europe’s failure to protect Roma from racist violence (EUR 01/007/2014), www.amnesty.org/ en/library/info/EUR01/007/2014/en 3. The state decides who I am: Lack of legal gender recognition for transgender people in Europe (EUR 01/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR01/001/2014/en 4. European Court ruling on full-face veils punishes women for expressing their beliefs, www.amnesty.org/en/news/euro- pean-court-ruling-full-face-veils-punishes-women-expressing-their-religion-2014-07-01 5. France: Stop extradition of Kazakhstani opposition activist at risk of torture, www.amnesty.org/en/news/france-stop-ex- tradition-kazakhstani-opposition-activist-risk-torture-2014-10-24 6. France: Forced evictions add to climate of fear amid alleged hate crimes (EUR 21/003/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR21/003/2014/en

369 GEORGIA

GEORGIA

Capo di stato: Giorgi Margvelashvili Capo di governo: Irakli Garibashvili

Le minoranze religiose e sessuali hanno continuato a subire discriminazioni e violenze e in molti casi non hanno potuto esercitare il loro diritto alla libertà di riunione. Politici d’opposizione sono stati oggetto di aggressioni violente. Sono continuate a pervenire segnalazioni di maltrattamenti da parte di agenti di polizia e di custodia, che spesso non sono state oggetto d’indagini adeguate. La violenza domestica contro le donne è rimasta diffusa.

CONTESTO Il 27 giugno, l’Eu ha firmato l’accordo di associazione con la Georgia. Non sono cessate le segnalazioni di persecuzioni discriminatorie nei confronti di persone associate al partito d’opposizione, il Movimento nazionale unito (Ertiani Natsionaluri Modzraoba − Enm). Il 13 agosto, l’ufficio del procuratore capo ha accusato in contumacia l’ex presidente Mikheil Saakashvili per appropriazione indebita e abuso d’ufficio. Il 9 dicembre, il monitoraggio dei processi dell’Osce, che si concentrava sulle cause penali contro alti ufficiali del governo del presidente Saakashvili, ha sollevato preoccupazioni rispetto a diversi diritti relativi all’equità processuale, inclusa la parità di strumenti tra le parti e la presunzione d’innocenza. Il 4 novembre, il ministro della Difesa Irakli Alasania è stato rimosso dall’incarico dopo che aveva de- finito politicamente motivato l’arresto di cinque alti ufficiali della difesa, avvenuto il 28 ottobre. I funzionari erano accusati di aver sperperato 4,1 milioni di lari georgiani (circa 1.800.000 euro), in quello che l’accusa ha sostenuto essere un falso appalto. In seguito alla sua destituzione, diversi altri ministri si sono dimessi, causando una spaccatura della coalizione parlamentare. A novembre, tre detenuti del centro di detenzione statunitense di Guantánamo Bay sono stati trasferiti in Georgia per il reinsediamento. Il 24 novembre, le autorità de facto della regione georgiana dell’ hanno firmato l’accordo per l’alleanza e il partenariato strategico con la Federazione russa, rendendo il territorio separatista sempre più dipendente dalla Russia in materia di difesa, relazioni esterne ed economia.

DISCRIMINAZIONE Il 2 maggio è stata adottata una legge contro la discriminazione ma senza alcune norme, presenti in una precedente bozza, che avrebbero introdotto un meccanismo di controllo indipendente e sanzioni finanziarie per le violazioni. Sono aumentate le denunce di episodi di violenza motivati dall’intolleranza religiosa. Le autorità non hanno tutelato i diritti delle minoranze religiose, né affrontato il problema delle ricorrenti violenze né indagato in modo efficace sulle aggressioni.

370 Il 1° giugno, cristiani ortodossi locali della città di Terjola, nella Georgia occidentale, si sono riuniti per protestare contro la costruzione di un luogo di culto dei testimoni di Geova, minacciando di usare la violenza fisica e distruggere proprietà. Diversi testimoni di Geova hanno riferito di essere stati molestati e intimiditi dai residenti locali, anche con minacce di morte e lancio di pietre contro le loro case. La polizia ha diffidato per iscritto i presunti responsabili ma non ha effettuato alcuna indagine formale. A settembre, i residenti della città di Kobuleti, nella Georgia occidentale, hanno ripetutamente bloccato l’ingresso al collegio islamico locale e fisicamente impedito al personale e agli allievi di entrare nel- l’edificio. Il primo giorno del nuovo anno scolastico, un maiale è stato macellato davanti all’ingresso e la sua testa è stata inchiodata alla porta. È stata avviata un’indagine penale sull’episodio.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Il 22 ottobre, nel villaggio di Mokhe, nella Georgia occidentale, ci sono stati scontri tra la polizia e la comunità musulmana locale, dopo che le autorità avevano avviato la costruzione di una biblioteca sul sito di un edificio abbandonato che la comunità musulmana sosteneva essere stato in passato una moschea. Secondo quanto riferito, la polizia ha insultato e fatto uso sproporzionato della forza contro i manifestanti, arrestandone 14. Diversi arrestati sarebbero stati picchiati, compresa una donna che è stata gravemente ferita al volto. Tre fermati sono stati rilasciati il giorno successivo senza accuse, mentre gli altri sono stati multati ciascuno per 250 lari (circa 115 euro) dal giudice della cittadina di Akhaltsikhe. A maggio, attivisti Lgbti hanno abbandonato il progetto di organizzare un evento pubblico per celebrare la Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia (International Day Against Homophobia and Transphobia – Idaho), a causa della mancanza di garanzie di sicurezza da parte delle autorità. Nel 2013, l’evento in occasione dell’Idaho era stato impedito da un violento attacco di migliaia di contromanifestanti e la polizia non era riuscita a garantire la sicurezza delle persone.

POLIZIA E FORZE DI SICUREZZA Sono state segnalate diverse aggressioni ai danni di politici dell’opposizione, in cui la polizia non è riuscita a impedire la violenza. Il 9 giugno, Gigi Ugulava e Giga Bokeria, entrambi leader del partito d’opposizione Enm, sono stati aggrediti da membri della Coalizione sogno georgiano (Georgian Dream Coalition – Gdc), durante un incontro preelettorale con i cittadini di Tsageri. Secondo testimoni oculari, gli agenti di polizia che stazionavano nelle vicinanze non sono intervenuti per fermare la violenza. Il 30 settembre, l’ufficio della Ngo Free Zone, collegata all’Enm, è stato assaltato da circa 50 persone. Diversi dipendenti sono rimasti feriti e la polizia non è riuscita ad arrivare tempestivamente, nonostante fosse stata avvertita di possibili violenze.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Ci sono state diverse segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti di detenuti in carcere e durante la custodia di polizia. Le indagini ufficiali sono state spesso lente e inefficaci. Solo per uno dei 18 casi di presunti maltrattamenti in carcere documentati dal difensore civico è stata aperta un’inchiesta per maltrattamenti. A fine anno non risultava alcun procedimento sui casi. Il 15 marzo, Irakli Kelbakiani ha riferito di essere stato costretto a salire su un’automobile della

371 polizia, picchiato a mani nude e con sbarre di ferro su testa, viso e corpo e soffocato da agenti di polizia. Secondo il rapporto iniziale sull’incidente, quando è arrivato alla stazione di polizia erano evidenti contusioni e altre lesioni. Amiran Dzebisashvili ha riferito che, il 31 ottobre, è stato costretto a salire su un’auto della polizia e minacciato per aver testimoniato in tribunale che Vasil Lomsadze era stato picchiato da agenti di polizia durante l’arresto, avvenuto il 27 ottobre 2013. Vasil Lomsadze era sotto processo per resistenza all’arresto e presunta aggressione ad agenti di polizia durante tale episodio. A fine anno non risultavano indagini effettive circa le accuse di percosse della polizia presentate da Vasil Lomsadze, nonostante le numerose testimonianze oculari e le ferite rilevate sul suo corpo.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Secondo quanto riferito, almeno 25 donne e ragazze sono state uccise in episodi di violenza domestica. In diversi casi, le vittime avevano precedentemente chiesto protezione alla polizia ma non avevano ri- cevuto un sostegno adeguato.

DIRITTO ALLA RISERVATEZZA Le modifiche legislative del 28 novembre hanno permesso alle agenzie di sicurezza di avere accesso diretto alle informazioni di sorveglianza, tra le preoccupazioni che le agenzie potessero abusare di questo accesso, aggirando la supervisione giudiziaria.

GERMANIA

REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA

Capo di stato: Joachim Gauck Capo di governo: Angela Merkel

Sono stati approvati programmi umanitari di ammissione nel paese per 20.000 rifugiati siriani. Non ci sono stati miglioramenti nelle indagini relative a gravi violazioni dei diritti umani commesse dalla polizia. L’agenzia nazionale per la prevenzione della tortura ha continuato a essere sottofinanziata. Sono continuate le aggressioni discriminatorie contro richiedenti asilo e minoranze e le preoccupazioni circa le indagini e il perseguimento di questi crimini. Sono stati applicati criteri di tutela dei diritti umani in merito all’esportazione di armi.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Tra il 2013 e il 2014, la Germania ha avviato tre programmi umanitari di ammissione per 20.000 ri- fugiati siriani, provenienti da paesi confinanti con la Siria e dall’Egitto. L’obiettivo principale era estendere il ricongiungimento familiare. Trecento rifugiati hanno ottenuto il reinsediamento attraverso un programma dell’Unhcr. A dicembre, la Germania ha anche deciso di offrire il reinsediamento a

372 500 rifugiati ogni anno, a partire dal 2015. A settembre, Serbia, Macedonia e Bosnia ed Erzegovina sono stati legalmente definiti come paesi di origine sicuri, riducendo così le opportunità per i cittadini di questi paesi di cercare protezione. È passata una legge che permetteva ai richiedenti asilo di muoversi liberamente nel paese dopo tre mesi di soggiorno e di avere libero accesso al mercato del lavoro dopo 15 mesi. La legge a beneficio dei richiedenti asilo modificata, che doveva entrare in vigore ad aprile 2015, non rispettava gli standard dei diritti umani, in particolare riguardo all’assistenza sanitaria.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le autorità non hanno affrontato gli ostacoli che impedivano indagini efficaci sulle accuse di mal- trattamenti da parte della polizia. Nessuno degli stati federali ha istituito un meccanismo indipendente di denuncia per indagare su accuse di gravi violazioni dei diritti umani da parte della polizia. Fatta eccezione per gli stati federali di Berlino, Brandeburgo, Renania-Palatinato e Schleswig-Holstein, gli agenti di polizia non avevano alcun obbligo d’indossare tesserini identificativi. L’agenzia nazionale per la prevenzione della tortura (il meccanismo di prevenzione della Germania secondo il Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura) è rimasta gra- vemente sottofinanziata, malgrado un aumento di fondi e il raddoppio dei membri della commissione congiunta degli stati federali, uno dei due organi costitutivi dell’agenzia. Contrariamente agli standard internazionali, la procedura di nomina dei membri dell’agenzia nazionale mancava d’indipendenza e trasparenza ed escludeva la società civile. Sono proseguite le indagini per uso eccessivo della forza da parte della polizia di Stoccarda, in relazione all’impiego sproporzionato di cannoni ad acqua durante le manifestazioni tenutesi in città nel settembre 2010. A settembre, la Corte federale di giustizia ha confermato la condanna emessa nel dicembre 2012 dalla corte regionale di Magdeburgo nei confronti di un agente di polizia accusato di omicidio colposo per il decesso di Oury Jalloh, morto per l’incendio di una cella in una stazione di polizia di Dessau nel 2005. Le circostanze della morte di Oury Jalloh sono rimaste poco chiare. Sempre a settembre, i mezzi d’informazione hanno messo in luce i ripetuti maltrattamenti di richiedenti asilo da parte di personale della sicurezza privata, in tre strutture di accoglienza in Renania Setten- trionale-Westfalia.

DISCRIMINAZIONE Ad agosto 2013, la commissione parlamentare federale d’inchiesta ad hoc ha rilevato nuove importanti conclusioni in merito al fallimento delle autorità nell’indagare su una serie di omicidi che hanno colpito le minoranze, perpetrati dal gruppo di estrema destra Clandestinità nazionalsocialista (Na- tionalsozialisticher Untergrund – Nsu). In particolare, le autorità non avevano cooperato tra loro e non avevano indagato sul movente razzista degli omicidi. La commissione ha raccomandato la riforma del codice penale e la modifica del sistema utilizzato dalla polizia per raccogliere dati sui “crimini politicamente motivati”, affinché comprendesse informazioni sui crimini d’odio. Ad agosto 2014, il governo ha proposto di modificare la sezione 46 del codice penale per imporre ai tribunali di tener conto di moventi razzisti, xenofobi o comunque “degradanti”, al momento del verdetto. A fine anno, la proposta era all’esame del parlamento. Nella prima metà del 2014, secondo i dati di organizzazioni della società civile, ci sono state 155

373 manifestazioni di protesta contro la creazione di strutture di accoglienza per richiedenti asilo, per lo più organizzati da gruppi di estrema destra. Sono state segnalate anche 18 aggressioni contro ri- chiedenti asilo.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE È rimasta in vigore la legge del 1980 sulla modifica del nome e l’istituzione di uno status sessuale per casi speciali, che richiede alle persone transgender di rispettare alcuni criteri obbligatori per il cambiamento legale del genere e del nome, tra cui una diagnosi psichiatrica e una perizia ordinata da un giudice. Questi requisiti violavano i diritti delle persone transgender alla vita privata e al più alto standard di salute conseguibile.1

COMMERCIO DI ARMI In previsione di norme Eu più stringenti in materia di tecnologie di sorveglianza, il ministro degli Affari economici e dell’energia ha ordinato controlli più severi sulle esportazioni di tecnologie di sor- veglianza verso paesi che commettevano violazioni dei diritti umani. Ad aprile, la Germania ha ratificato il trattato sul commercio di armi delle Nazioni Unite e ha iniziato a implementare gli articoli 6 e 7 sui criteri di tutela dei diritti umani per l’esportazione e i trasferimenti di armi, ancor prima che il trattato entrasse in vigore il 24 dicembre. Tuttavia, sono stati motivo di preoccupazione i dati sulle esportazioni di armi autorizzate nel 2014, compresi componenti per piccole armi diretti in Arabia Saudita.

RESPONSABILITÀ DELLE IMPRESE A novembre, il ministero degli Esteri, in collaborazione con altri ministeri, rappresentanti d’imprese e gruppi della società civile, ha compiuto alcuni passi verso l’introduzione di un piano d’azione na- zionale in materia d’imprese e diritti umani, necessario per attuare i relativi principi guida delle Nazioni Unite.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE Dinanzi all’Alta corte regionale di Stoccarda è proseguito il primo processo in base al codice dei crimini internazionali del 2002 nei confronti dei cittadini ruandesi Ignace Murwanashyaka e Straton Musoni. Il 18 febbraio, l’Alta corte regionale di Francoforte ha dichiarato il cittadino ruandese Onesphore Rwabukombe colpevole di complicità in genocidio. Con questa prima sentenza tedesca sul genocidio ruandese della minoranza tutsi nel 1994, Onesphore Rwabukombe è stato condannato a 14 anni di reclusione per favoreggiamento nel massacro avvenuto nel complesso della chiesa di Kiziguro.

Note 1. The state decides who I am: lack of legal gender recognition for transgender people in Europe (EUR 01/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR01/001/2014/en

374 GRECIA

REPUBBLICA ELLENICA

Capo di stato: Karolos Papoulias Capo di governo: Antonis Samaras

Sono perdurate le denunce di uso eccessivo della forza e di maltrattamenti da parte delle forze di polizia, che hanno continuato a non essere indagate in modo adeguato. Non sono migliorate le cattive condizioni di detenzione. La durata massima della detenzione amministrativa dei migranti irregolari è stata prolungata oltre i 18 mesi. Sono proseguiti i respingimenti illegali di migranti al confine greco-turco. A settembre è stata adottata una nuova legislazione sui crimini d’odio, tra crescenti pre- occupazioni per il livello di violenza di matrice razzista.

CONTESTO A ottobre, la pubblica accusa ha proposto il rinvio a giudizio di 67 membri e leader di Alba dorata, un partito di estrema destra, per aver formato, diretto o preso parte a un’organizzazione criminale. Cin- quantasette persone, tra cui sei parlamentari, sono state accusate di una serie di altri reati, tra cui l’omicidio, avvenuto nel settembre 2013, del cantante antifascista Pavlos Fyssas, l’aver provocato “danni fisici ingiustificati a migranti” e il possesso illegale di armi. A novembre, l’anarchico Nikos Romanos, detenuto nel carcere di Korydallos, nei pressi di Atene, ha iniziato uno sciopero della fame prolungato per protestare contro il rifiuto delle autorità di concedergli un permesso per frequentare un corso universitario. Era stato incarcerato a ottobre, dopo essere stato condannato insieme ad altri tre uomini per rapina a mano armata. A febbraio 2013, Nikos Romanos e due degli altri condannati avevano riferito di essere stati torturati durante la detenzione, dopo essere stati arrestati nella città settentrionale di Veria. Il 10 dicembre, Nikos Romanos ha concluso il suo sciopero della fame dopo che era stato approvato un emendamento legislativo che permetteva ai detenuti di seguire corsi universitari indossando una targhetta elettronica.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI Il rafforzamento dei controlli alle frontiere e una maggiore collaborazione con le guardie di confine turche hanno contribuito a un forte calo del numero di migranti irregolari e richiedenti asilo che en- travano in Grecia via terra. Di conseguenza, il numero di persone che hanno tentato di raggiungere la Grecia via mare è notevolmente aumentato nei primi otto mesi dell’anno. A fine anno erano oltre 103 i rifugiati e migranti, inclusi molti bambini, annegati o dispersi durante il tentativo di attraversa- mento.1 Sono stati documentati casi di frequenti respingimenti illegali di migranti irregolari al confine greco- turco. Il 20 gennaio, tre donne e otto bambini sono morti quando un peschereccio che trasportava 27 rifugiati è affondato vicino all’isola di Farmakonisi. I sopravvissuti hanno raccontato che l’imbarcazione

375 è affondata mentre la guardia costiera greca la stava trainando verso la Turchia, durante un’operazione di respingimento. Hanno inoltre riferito che, all’arrivo a Farmakonisi, erano stati spogliati e picchiati. Le autorità hanno negato sia il respingimento sia i maltrattamenti. Ad agosto, la procura del tribunale navale del Pireo ha chiuso il caso dopo un’indagine preliminare. Ngo nazionali hanno continuato a documentare le cattive condizioni di detenzione nelle aree in cui i migranti e i richiedenti asilo erano trattenuti a fini di controllo dell’immigrazione. I detenuti hanno dovuto affrontare notevoli ostacoli per poter presentare domanda d’asilo. A marzo, il ministro dell’Ordine pubblico ha autorizzato la detenzione dei migranti irregolari in attesa d’espulsione al di là del periodo di 18 mesi previsto dal diritto dell’Eu. A settembre, la commissione nazionale per i diritti umani ha criticato il ministero dell’Ordine pubblico e della tutela del cittadino per aver compromesso l’indipendenza dell’organo d’appello per le richieste d’asilo, non avendo nominato nessuno dei candidati che essa aveva proposto. Le condizioni di accoglienza per i rifugiati sono rimaste motivo di grave preoccupazione. A fine novembre, circa 200-250 rifugiati siriani, tra cui molte donne e bambini, hanno iniziato una protesta e, successivamente, uno sciopero della fame in piazza del Parlamento, ad Atene, per chiedere alle autorità di fornire loro riparo e documenti di viaggio. A luglio, un tribunale di Patrasso ha ritenuto due capisquadra colpevoli di aver causato gravi lesioni sparando su lavoratori migranti del Bangladesh, in una fattoria che produceva fragole a Nea Manolada, nell’aprile 2013, a seguito di una disputa su retribuzione e condizioni di lavoro. Il proprietario della fattoria e un altro caposquadra sono stati assolti. A fine ottobre, il procuratore della Corte suprema ha respinto una richiesta presentata da due Ngo, la Lega ellenica per i diritti umani e il Consiglio greco per i rifugiati, per l’annullamento del verdetto a causa di vizi procedurali durante le indagini e il processo.

DISCRIMINAZIONE

Crimini d’odio Tra ottobre 2011 e gennaio 2014, la Rete di monitoraggio sulla violenza razzista ha registrato più di 350 episodi di violenza di matrice razzista. Nel 2014, la Rete ha rilevato una diminuzione degli attacchi razzisti organizzati contro i migranti e un aumento dei crimini d’odio contro le persone Lgbti. Tra gennaio e giugno, i dipartimenti e gli uffici di polizia che si occupavano della violenza di matrice razzista hanno registrato 31 episodi con possibile movente razzista. La risposta del sistema di giustizia penale ai crimini d’odio è rimasta inadeguata. Gli investigatori hanno continuato a non indagare sui possibili moventi d’odio, i pubblici ministeri non hanno presentato tali prove in tribunale e i giudici non hanno considerato come circostanza aggravante nelle condanne il movente razzista o altre motivazioni d’odio. Con una sentenza unanime emessa ad aprile, un tribunale di Atene ha condannato all’ergastolo due cittadini greci, colpevoli di aver accoltellato a morte S. Luqman, un cittadino pakistano, nel gennaio 2013. Nonostante il pubblico ministero avesse sottolineato il movente razzista dell’aggressione, la corte non lo ha considerato una circostanza aggravante. Una decisione ministeriale congiunta, adottata a giugno, ha stabilito la sospensione della detenzione amministrativa e degli ordini di espulsione emessi nei confronti di vittime e testimoni di crimini d’odio. Ha inoltre concesso speciali permessi di soggiorno, validi per il tempo necessario per il perse- guimento e la condanna dei colpevoli.

376 A settembre, sono state adottate modifiche alla legislazione sui crimini d’odio che hanno aumentato le sanzioni per chi commette atti e incita alla violenza razzista, hanno reso reato la negazione del- l’Olocausto e hanno incluso l’orientamento sessuale, l’identità di genere e la disabilità tra i motivi per i quali è vietato discriminare. È stata invece respinta una proposta che avrebbe riconosciuto le- galmente le unioni tra persone dello stesso sesso.

Rom Famiglie rom hanno continuato a subire sgomberi forzati. Molti bambini rom sono stati esclusi o se- gregati dal sistema scolastico. Sono proseguite le incursioni discriminatorie della polizia negli inse- diamenti rom. A fine anno, 74 famiglie rom che vivevano in un insediamento di Halandri, ad Atene, erano ancora a rischio di sgombero forzato. Il progetto originario, che prevedeva di sgomberare le famiglie a febbraio, è stato rinviato a seguito di un’ingiunzione del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite. A set- tembre, le autorità comunali di Halandri hanno cercato di demolire 12 case, nonostante l’ingiunzione fosse stata rinnovata. In seguito alle proteste dei residenti rom, sono state demolite solo cinque case, che all’epoca erano disabitate. L’amministrazione decentrata dell’Attica si è impegnata a trovare un alloggio alternativo adeguato per reinsediare le famiglie. A novembre, un tribunale di Missolungi ha condannato tre uomini a otto mesi di reclusione con so- spensione della pena, per aver causato gravi danni fisici a Paraskevi Kokoni, una donna rom, e a suo nipote, a ottobre 2012. Non era chiaro se il giudice avesse considerato il movente d’odio nel formulare la condanna.2

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A ottobre, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha pubblicato la sua relazione sulla visita compiuta in Grecia nel 2013. Ha sottolineato il gran numero di denunce di maltrattamenti da parte di agenti ai danni di persone detenute in stazioni di polizia e della guardia di frontiera e le tante accuse d’insulti verbali, anche di natura razzista. Il rapporto ha criticato il sovraffollamento, le pessime condizioni igieniche e l’inadeguata assistenza sanitaria nelle carceri greche. Hanno continuato a pervenire segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti nei confronti di detenuti, migranti e rifugiati. Secondo quanto riferito, a marzo, agenti di custodia del carcere di Nigrita, nel nord della Grecia, hanno torturato a morte Ilia Kareli, un detenuto di nazionalità albanese. A ottobre, 13 guardie carcerarie sono state accusate di “tortura aggravata che ha causato morte”. Nel corso dell’anno, in diverse occasioni la polizia ha fatto uso eccessivo della forza e ha abusato d’irritanti chimici contro manifestanti e giornalisti. Molti degli abusi denunciati hanno avuto luogo durante due manifestazioni studentesche, la prima contro una serrata dell’università il 13 novembre e la seconda il 17 novembre, in occasione dell’anniversario della rivolta studentesca del 1973. Le sporadiche condanne di agenti delle forze di sicurezza non sono riuscite a scalfire una radicata cultura d’impunità per gli abusi commessi dalla polizia.3 Nonostante le modifiche legislative introdotte a marzo, che hanno esteso anche agli episodi di razzismo il mandato dell’ufficio per le denunce di condotta arbitraria della polizia e hanno consentito al difensore civico di assistere alle udienze, sono perdurate le preoccupazioni sull’efficacia e l’indi- pendenza di questo organo.

377 OBIETTORI DI COSCIENZA Durante l’anno sono proseguiti gli arresti e le condanne di obiettori di coscienza. Almeno quattro obiettori di coscienza sono stati condannati per insubordinazione e hanno ricevuto condanne al carcere con sospensione della pena. Sei persone, che si sono rifiutate di svolgere sia il servizio militare sia il servizio alternativo punitivo, sono state arrestate e detenute per brevi periodi.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE A gennaio, un tribunale di Atene ha condannato un blogger per “insulto alla religione”. La condanna a 10 mesi di carcere è stata sospesa in appello. Il blogger aveva creato una pagina Facebook, in cui ironizzava su un monaco ortodosso defunto.

Note 1. Greece: Frontier of hope and fear – migrants and refugees pushed back at Europe’s border (EUR 25/004/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR25/004/2014/en 2. We ask for justice: Europe’s failure to protect Roma from Racist Violence (EUR 01/007/2014), www.amnesty.org/en/ library/info/EUR01/007/2014/en 3. A law unto themselves: A culture of abuse and impunity in the Greek police (EUR 25/005/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR25/005/2014/en

IRLANDA

REPUBBLICA D’IRLANDA

Capo di stato: Michael D. Higgins Capo di governo: Enda Kenny

La legislazione e le linee guida sull’aborto non hanno ottemperato agli obblighi sui diritti umani del- l’Irlanda. Le persone transgender hanno dovuto affrontare ostacoli per il riconoscimento legale del genere. Le risposte alle vittime di abusi commessi nel passato negli istituti non hanno raggiunto standard adeguati di verità, giustizia e riparazione.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI La legge sulla tutela della vita durante la gravidanza è stata promulgata nel 2013 per rispondere alla decisione della Corte europea dei diritti umani nel caso A, B e C vs. Irlanda, con lo scopo dichiarato di garantire alle donne o alle ragazze incinte di poter ricorrere all’aborto quando esista un “rischio reale e sostanziale” per le loro vite, come previsto dalla costituzione. Né la legge, né le linee guida rese pubbliche a settembre hanno fornito sufficiente assistenza agli operatori sanitari per la valutazione del rischio per la vita della donna, così come non hanno protetto adeguatamente i diritti delle donne o ragazze incinte. A dicembre, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha terminato il suo esame sull’implementazione della decisione relativa al caso A, B e C vs. Irlanda.1

378 In tutte le altre circostanze, la legge ha stabilito che l’aborto è un reato, con pene che prevedono fino a 14 anni di reclusione. A luglio, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha criticato la criminalizzazione dell’aborto e anche le norme della legge che richiedono un controllo eccessivo su donne o ragazze incinte e a rischio di suicidio, poiché potrebbe condurre a ulteriori episodi di disagio mentale. Il Comitato ha chiesto all’Irlanda di rivedere le proprie leggi, inclusa la costituzione, per permettere l’accesso all’aborto in caso di stupro, incesto, gravi rischi per la salute della donna o ragazza e anormalità che impediscono al feto di sopravvivere.

DISCRIMINAZIONE

Persone transgender A dicembre, il governo ha reso pubblico un progetto di legge che proponeva un provvedimento legislativo per il riconoscimento legale del genere.2 Le proposte di legge non erano conformi agli standard internazionali, tra l’altro perché obbligavano le persone transgender a sciogliere il matrimonio o l’unione civile, prima di richiedere il riconoscimento legale del genere.

Persone con disabilità A novembre 2013 è iniziata una registrazione e ispezione indipendente dei centri residenziali di cura per persone con disabilità. A dicembre 2014, un programma televisivo su temi di attualità ha rivelato prove raccolte in segreto di trattamenti violenti, diniego dei diritti primari e dell’autonomia a danno di tre persone in un centro, sollevando preoccupazione anche rispetto agli altri centri.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Ci sono stati continui ritardi nella determinazione dell’asilo o di altre necessità di protezione di singoli i ndividui e molte persone sono rimaste per anni in sistemazioni ad “approvvigionamento diretto”, inadatte per lunghi periodi di soggiorno, specialmente per le famiglie, i minori e le vittime di tortura.

VIOLENZE CONTRO DONNE E BAMBINI A febbraio 2013, il governo aveva pubblicato un rapporto che si proponeva di chiarire l’interazione dello stato con la conduzione religiosa delle “Lavanderie Maddalena”. Il rapporto e il piano d’indennizzo ex gratia annunciato successivamente non hanno raggiunto adeguati standard di verità, giustizia e riparazione.3 A giugno, in seguito alle proteste internazionali, il governo si è impegnato a istituire una commissione indipendente d’inchiesta per le accuse di abusi commessi in passato ai danni di donne e bambini nelle cosiddette “case per madri e bambini”, gestite da ordini religiosi con finanziamento statale, tra il 1920 e il 1990.4

SVILUPPI LEGALI, COSTITUZIONALI O ISTITUZIONALI A luglio è stata emanata una legge che ha istituito la commissione irlandese per i diritti umani e la parità, che agirà come nuovo istituto nazionale per i diritti umani (National Human Rights Institution – Nhri). La commissione è il risultato della fusione tra la precedente istituzione, la Commissione ir- landese per i diritti umani (ex Nhri) e l’organismo per la parità. La legge conteneva due definizioni di

379 diritti umani che hanno limitato l’applicazione e i poteri del nuovo Nhri a una definizione ristretta, che ha escluso la maggior parte dei diritti economici, sociali e culturali. L’assemblea costituzionale, nominata dal governo, ha raccomandato varie modifiche alla costituzione, compresa la parità di accesso al matrimonio civile per le coppie dello stesso sesso e la rimozione del reato di blasfemia; il governo ha accettato entrambe le raccomandazioni e si è impegnato a farne og- getto di referendum nel 2015. A febbraio, l’assemblea ha raccomandato il recepimento nella costituzione dei diritti economici, sociali e culturali. A settembre, l’Irlanda ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, relativo alla procedura delle comunicazioni. A dicembre, il governo ha richiesto che la Corte europea dei diritti umani rivedesse la sua decisione del 1978 sulla storica causa Irlanda vs. Regno Unito, che riguardava la tortura e i maltrattamenti di 14 cittadini irlandesi detenuti dalle autorità del Regno Unito secondo i poteri di reclusione nell’Irlanda del Nord negli anni 1971-71 (v. Regno Unito).5

Note 1. Ireland: Submission to the UN Committee on Economic, Social and Cultural Rights: Pre-sessional working group (EUR 29/003/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR29/003/2014/en 2. The state decides who I am: Lack of legal gender recognition for transgender people in Europe (EUR 01/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR01/001/2014/en Ireland: transgender people ‘short-changed’ by new bill (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press- releases/ireland-transgender-people-short-changed-new-bill-2014-12-19 3. Ireland: Submission to the UN Human Rights Committee (EUR 29/001/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR29/001/2014/en 4. Ireland: ‘Tuam babies’ mass grave allegations must spark urgent investigation (comunicato stampa), www.amnesty.org /en/for-media/press-releases/ireland-tuam-babies-mass-grave-allegations-must-spark-urgent-investigation- 5. Ireland: Decision to reopen “Hooded Men” court case triumph of justice after four decades of waiting (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/ireland-decision-reopen-hooded-men-court-case-triumph-justice- after-four-de

ITALIA

REPUBBLICA ITALIANA

Capo di stato: Giorgio Napolitano Capo di governo: Matteo Renzi

Oltre 170.000 rifugiati e migranti che cercavano di raggiungere l’Italia dall’Africa del Nord su imbar- cazioni inadatte alla navigazione sono stati salvati in mare dalle autorità italiane. La decisione del governo, giunta a fine ottobre, di mettere fine all’Operazione Mare Nostrum (Omn) di salvataggio in mare, ha sollevato timori che il bilancio dei morti potesse significativamente aumentare. Le autorità

380 non hanno garantito adeguate condizioni di accoglienza all’elevato numero di rifugiati e migranti giunti via mare. La discriminazione contro i rom è continuata e migliaia di loro sono rimasti segregati nei campi. L’Italia non ha introdotto il reato di tortura nella legislazione nazionale né ha creato un’istituzione nazionale indipendente per i diritti umani.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI Oltre 170.000 rifugiati e migranti, tra cui più di 10.000 minori non accompagnati, sono giunti in Italia via mare, in maggioranza partiti dalla Libia. A fine ottobre erano più di 156.362 i migranti salvati grazie all’Operazione Mare Nostrum. Altre 13.668 persone sono state portate in salvo dalle autorità italiane tra novembre e dicembre. Nonostante questi sforzi unilaterali, si ritiene che oltre 3400 rifugiati e migranti siano annegati nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Il 31 ottobre, il governo ha annunciato la fine dell’Omn, in concomitanza con l’avvio, il 1° novembre, dell’Operazione Triton, più limitata e maggiormente incentrata sul controllo dei confini, coordinata da Frontex, l’agenzia dell’Eu per la gestione delle frontiere. La chiusura dell’Omn era prevista per la fine dell’anno. Varie Ngo hanno espresso il timore che ciò avrebbe messo a rischio la vita delle persone.1 Le autorità hanno avuto difficoltà a garantire adeguate condizioni di accoglienza per le decine di mi- gliaia di rifugiati e migranti arrivati in Sicilia e in altri porti del sud, compresi i sopravvissuti ai naufragi con traumi, e a proteggere adeguatamente migliaia di minori non accompagnati. Non ci sono stati progressi nelle indagini sulle circostanze della morte di circa 200 persone annegate l’11 ottobre 2013, quando affondò un peschereccio che trasportava oltre 400 persone, per lo più rifugiati siriani e migranti. È stato espresso il timore che le mancanze delle autorità maltesi e italiane abbiano ritardato il loro salvataggio. A ottobre, nel caso Sharifi e altri vs. Italia e Grecia, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l’Italia aveva violato il divieto di effettuare espulsioni di massa e che, rimandandoli in Grecia, aveva esposto quattro cittadini afgani, giunti nel paese irregolarmente, al rischio di maltrattamenti e altre violazioni, oltre all’ulteriore rischio di tortura e di morte nel caso di espulsione verso l’Afghanistan. Rifugiati e richiedenti asilo, compresi i minori, sono rimasti a rischio d’indigenza. Ad aprile, il parlamento ha approvato una legge che richiedeva al governo di abolire entro 18 mesi il reato di “ingresso e soggiorno irregolare”. I migranti irregolari che fossero rientrati nel paese dopo l’espulsione avrebbero comunque affrontato sanzioni penali. Tuttavia, “l’ingresso e il soggiorno irre- golare” a fine anno era ancora reato. A settembre, il ministero dell’Interno ha autorizzato la polizia a usare la forza per assicurare la raccolta delle impronte digitali durante l’identificazione di rifugiati e migranti. Questa misura ha im- mediatamente determinato segnalazioni di uso eccessivo della forza nel corso delle procedure d’iden- tificazione. A ottobre è stata adottata una norma che ha ridotto da 18 mesi a 90 giorni il periodo massimo di de- tenzione per migranti irregolari in attesa di espulsione. Le condizioni nei centri di detenzione per migranti irregolari sono rimaste inadeguate. I lavoratori migranti hanno continuato a essere sfruttati e sono rimasti esposti a violazioni, spesso senza poter accedere alla giustizia.

DISCRIMINAZIONE – ROM Migliaia di famiglie rom hanno continuato a vivere in condizioni precarie in campi e centri segregati,

381 tra cui più di 4000 persone solo a Roma. Il governo non è stato in grado di attuare la strategia nazionale per l’inclusione dei rom, soprattutto per quanto riguarda l’accesso a un alloggio adeguato. In tutto il paese sono stati segnalati diversi sgomberi forzati di rom. La Commissione europea stava conducendo un’inchiesta su possibili violazioni da parte dell’Italia della Direttiva Eu sull’uguaglianza razziale, in relazione all’accesso dei rom a un alloggio adeguato. Le famiglie rom trasferite nel dicembre 2013 dal campo autorizzato di Cesarina a Roma, per consentirne la ristrutturazione, hanno continuato a vivere in condizioni inadeguate in una struttura di accoglienza per soli rom. Le autorità comunali di Roma hanno dichiarato che avrebbero rimandato le famiglie nel campo al termine dei lavori di ristrutturazione. Non sono state messe a disposizione opzioni di alloggio alternative adeguate. I rom sono rimasti esclusi dall’accesso agli alloggi di edilizia popolare. Le autorità romane competenti non hanno ritirato una circolare del gennaio 2013 che discriminava le famiglie rom residenti in campi autorizzati nell’assegnazione di alloggi popolari. Tuttavia, a giugno, nel contesto dell’inchiesta sulla Direttiva sull’uguaglianza razziale, hanno espresso l’intenzione di applicare la circolare in modo non discriminatorio.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA La Corte costituzionale italiana ha dichiarato a febbraio che il governo aveva piena discrezionalità nel- l’invocare il principio del “segreto di stato” su casi legati alla sicurezza nazionale. La Corte di cassazione, il massimo grado giudiziario italiano, ha confermato la sentenza della Corte costituzionale e ha annullato le condanne di funzionari di alto livello dell’intelligence italiana, condannati per il rapi- mento di Usama Mostafa Hassan Nasr (conosciuto come Abu Omar), avvenuto in una strada di Milano nel 2003. Dopo il suo rapimento, Abu Omar fu consegnato alla Cia e portato in Egitto, dove fu torturato. A marzo, la Corte di cassazione ha confermato le condanne di tre funzionari della Cia, tra cui l’ex capo della Cia a Roma, Jeff Castelli, e l’ex capo della Cia a Milano, Robert Seldon Lady, per il rapimento di Abu Omar. La Corte ha stabilito che gli agenti della Cia non erano coperti da immunità diplomatica. In totale, 26 cittadini statunitensi sono stati condannati in contumacia per il caso Abu Omar.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Ancora una volta, i tentativi d’inserire il reato di tortura nella legislazione nazionale non sono andati a buon fine, perpetuando così una violazione degli obblighi dell’Italia ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura che dura da 25 anni. A novembre, la Corte di cassazione ha annullato la condanna per falsa testimonianza di Francesco Colucci, questore di Genova all’epoca del vertice del G8 del 2001, quando decine di manifestanti furono torturati e maltrattati. Francesco Colucci era stato condannato per falsa testimonianza per aver cercato di proteggere l’allora capo nazionale della polizia, Gianni De Gennaro, e un alto funzionario del dipartimento operazioni speciali della polizia di Genova. I termini di prescrizione per il reato sono scaduti a dicembre, rendendo quindi impossibile un nuovo processo. Il sovraffollamento e le cattive condizioni sono rimasti problemi comuni in tutto il sistema penitenziario. Ad agosto 2013 e febbraio 2014 sono state adottate norme per ridurre la durata delle pene carcerarie per determinati reati e per aumentare il ricorso alle pene non detentive, allo scopo di ridurre il so-

382 vraffollamento. È stata anche istituita la figura del garante nazionale dei diritti dei detenuti. Le misure sono state introdotte a seguito di una sentenza della Corte europea del 2013, secondo la quale l’Italia aveva violato il divieto di tortura e trattamenti disumani o degradanti, sottoponendo i detenuti a condizioni eccessivamente dure a causa del sovraffollamento delle celle e dello spazio vitale insufficiente.

DECESSI IN CUSTODIA Nonostante i progressi compiuti su qualche caso, sono perdurate le preoccupazioni circa il mancato accertamento delle responsabilità per le morti in custodia, a seguito d’indagini lacunose e carenze nei procedimenti giudiziari. Ad aprile, la corte d’appello di Perugia ha confermato la condanna di un agente di custodia per fal- sificazione di atti d’ufficio e omissione di soccorso nel caso di Aldo Bianzino, morto in un carcere di Perugia due giorni dopo il suo arresto nel 2007. La sentenza ha confermato le carenze delle indagini iniziali. A luglio, è iniziato il processo per il caso di Giuseppe Uva, morto in un ospedale di Varese poco dopo essere stato fermato dalla polizia nel 2008. Sette agenti di polizia sono stati incriminati per omicidio colposo, arresto illegale e abuso di autorità. Nell’ottobre 2013, un giudice aveva rifiutato la richiesta del pubblico ministero di archiviare il caso e aveva ordinato una nuova indagine. A dicembre 2011, esami forensi effettuati avevano rilevato che Giuseppe Uva avrebbe potuto essere stato stuprato e al- trimenti maltrattato. A ottobre, la corte d’appello di Roma ha assolto i medici, gli infermieri e gli agenti di polizia accusati di omicidio colposo nel caso di Stefano Cucchi, morto una settimana dopo l’arresto nell’area detenuti di un ospedale di Roma nel 2009. Le prove forensi non sono risultate risolutive. La famiglia di Stefano Cucchi ha espresso il timore che i segni di maltrattamenti non fossero stati tenuti in dovuta conside- razione.

SVILUPPI LEGISLATIVI, COSTITUZIONALI O ISTITUZIONALI Pur essendosi ripetutamente impegnata a farlo, ancora una volta l’Italia non è stata in grado di creare un’istituzione nazionale per i diritti umani, in conformità ai Principi relativi allo status delle istituzioni nazionali (Principi di Parigi).

Note 1. Lives adrift: Refugees and migrants in peril in the central Mediterranean (EUR 05/006/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR05/006/2014/en

383 KAZAKISTAN

REPUBBLICA DEL KAZAKISTAN

Capo di stato: Nursultan Nazarbaev Capo di governo: Karim Massimov (subentrato a Serik Akhmetov ad aprile)

Non ci sono stati miglioramenti nelle indagini sulle segnalazioni di violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia e di sicurezza, né i presunti responsabili sono stati chiamati a rispon- derne. Ostacoli burocratici e regolamenti ministeriali interni non trasparenti hanno impedito alle vittime di tortura e ai loro familiari di ottenere giustizia. Analoghi ostacoli hanno continuato a intralciare un monitoraggio efficace e indipendente dei luoghi di detenzione. Il diritto alla libertà di riunione ha continuato a essere limitato. Attivisti della società civile hanno temuto che le nuove proposte legislative avrebbero ristretto le libertà d’espressione e d’associazione.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le autorità hanno ripetutamente espresso il loro impegno a eliminare la tortura e altri maltrattamenti. A settembre 2013, il procuratore generale aveva incaricato i pubblici ministeri di “aprire un’indagine penale per ogni caso di tortura”. Tuttavia, nella pratica le indagini sulle denunce di tortura e altri maltrattamenti sono state ben al di sotto degli standard internazionali e non sono state in grado di rendere giustizia. A novembre, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha espresso preoccupazione per “il divario tra la legislazione e la protezione dalla tortura”, rilevando che l’uso della tortura e di altri maltrattamenti per ottenere confessioni “è andato al di là di episodi isolati” e che meno del due per cento delle denunce di tortura è sfociato in un procedimento giudiziario. A ottobre, nel secondo turno dell’Esame periodico universale del Kazakistan, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha raccomandato l’istituzione di un meccanismo indipendente per le indagini. Il codice di procedura penale prevedeva che un organismo ufficiale non esaminasse le denunce nei confronti di propri funzionari. Tuttavia, le denunce di tortura e altri maltrattamenti avanzate contro funzionari di polizia e della sicurezza nazionale sono state regolarmente assegnate ai dipartimenti investigativi del ministero dell’Interno, della polizia finanziaria o del comitato per la sicurezza nazionale (Komitet Natsional’noi Bezopasnosti – Knb). Questi reparti investigativi interni erano disci- plinati da regolamenti che non sono stati resi pubblici. In pratica, questo significava, che invece di un’indagine imparziale effettuata da un’autorità indipendente, le denunce di tortura erano sottoposte a un processo di controllo interno, che di solito non è riuscito a valutarle in modo obiettivo. Nella maggior parte dei casi, le procedure di controllo hanno concluso che le denunce erano infondate o che non era stato possibile identificare i perpetratori. Nel 2013 e 2014, Ngo indipendenti hanno registrato dalle 350 alle 400 denunce di tortura e altri mal- trattamenti all’anno. Tuttavia, stimavano che dal 2010 le autorità erano riuscite a portare in giudizio all’incirca soltanto 50 funzionari. Secondo il sito web dell’ufficio del procuratore generale, da gennaio

384 a settembre erano stati registrati solo 43 reati di tortura, le cui presunte vittime erano 47, di cui 11 detenuti, tre minori e una persona anziana. Nello stesso periodo, 17 casi di tortura sono arrivati a processo e 30 sono stati chiusi per “assenza di prove del crimine”, tipica espressione utilizzata dalle autorità dopo inadeguate indagini interne. Sul sito web era anche dichiarato che nel 2013 e nel primo semestre del 2014, 31 agenti di polizia erano stati condannati per reati connessi alla tortura ma non era specificata la natura dei crimini commessi né il numero di episodi a cui si riferivano. A novembre 2013, il tribunale regionale di Qostanay ha assegnato un risarcimento di due milioni di tenge kazaki (circa 10.800 euro) ad Aleksandr Gerasimov, a seguito di una decisione del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura del maggio 2012, che aveva ritenuto il Kazakistan colpevole di averlo torturato. Tuttavia, le autorità non avevano ancora svolto un’indagine completa e indipendente sulla sua denuncia di tortura. A novembre, l’attivista sindacale Roza Tuletaeva è stata rilasciata dal carcere in libertà vigilata. Stava scontando una condanna a cinque anni per “incitamento alla discordia sociale”, durante lo sciopero del 2011 dei lavoratori petroliferi, a Zhanaozen. Al suo processo, nel 2012, aveva dichiarato alla corte di essere era stata torturata durante gli interrogatori. Non ci sono state notizie di eventuali indagini imparziali svolte in merito alle sue accuse di tortura.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA Le autorità hanno continuato a invocare la lotta al terrorismo e alle altre minacce alla sicurezza na- zionale come elemento fondamentale per garantire la stabilità nazionale e regionale. Ci sono state frequenti segnalazioni di violazioni dei diritti umani commesse da funzionari del Knb, tra cui l’utilizzo della tortura e altri maltrattamenti per ottenere confessioni. Particolarmente presi di mira dal Knb sono stati i membri, veri o presunti, di gruppi islamici e partiti islamisti vietati o non registrati, così come appartenenti a minoranze religiose e richiedenti asilo pro- venienti da paesi vicini, in particolare da Cina e Uzbekistan. I parenti di alcuni condannati per reati legati al terrorismo hanno sostenuto che i detenuti nelle carceri di massima sicurezza di Šymkent e di Arkalyk stavano scontando la pena in condizioni crudeli, disumane e degradanti. In queste strutture è stato consentito solo un monitoraggio limitato. A gennaio 2013 era stata introdotta una legislazione che prevedeva misure più ampie per la lotta al terrorismo e all’estremismo, mentre il nuovo codice penale, firmato dal presidente Nazarbaev il 3 luglio 2014 e in vigore a gennaio 2015, ha abbassato a 14 anni l’età della responsabilità penale per reati connessi al terrorismo. Il reato di “terrorismo con perdita della vita”, di cui all’art. 49.1 del codice penale, è stato l’unico crimine ancora punibile con la morte, anche se il Kazakistan è rimasto abolizionista de facto.

CONDIZIONI CARCERARIE Nel 2013, il Kazakistan ha adottato una normativa per l’istituzione di un meccanismo nazionale di prevenzione (National Preventive Mechanism – Npm). I suoi componenti provenienti dalla società civile sono stati eletti il 19 febbraio 2014, durante la prima sessione del consiglio di coordinamento dell’Npm, dopo la quale hanno cominciato il monitoraggio delle strutture di detenzione in tutto il Ka- zakistan. Tuttavia, il mandato dell’Npm non copriva tutti i luoghi di privazione della libertà. Ad esempio, non gli era consentito ispezionare gli uffici dei dipartimenti di polizia e non ha avuto accesso ad altre istituzioni statali chiuse, come orfanotrofi, case di cura e caserme militari. L’Npm ha anche

385 affrontato ostacoli burocratici: per realizzare una visita urgente e non pianificata, i membri dell’Npm dovevano avere l’autorizzazione scritta del difensore civico, che poteva essere ottenuta solo durante l’orario d’ufficio, limitando così la capacità dell’organismo di rispondere rapidamente alle segnalazioni di torture. Inoltre, all’Npm non è stato permesso di pubblicare i risultati delle visite effettuate, fino a quando il difensore civico non avesse approvato la sua relazione annuale.

LIBERTÀ DI RIUNIONE La libertà di riunione è stata limitata e manifestanti pacifici hanno continuato a essere arrestati e multati. Per qualunque riunione pubblica, anche proteste di una persona sola, gli attivisti sono stati obbligati a ottenere l’autorizzazione preventiva da parte delle autorità locali. Distribuire volantini, partecipare a proteste spontanee o indossare abbigliamento con slogan politici senza la preventiva autorizzazione è stato spesso considerato una violazione delle norme sulle proteste pubbliche. In diversi casi la polizia ha usato la forza per disperdere manifestazioni pacifiche non autorizzate. In decine di casi, organizzatori e partecipanti sono stati multati o condannati alla detenzione ammini- strativa fino a 15 giorni.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE La registrazione delle Ngo è rimasta obbligatoria. Le autorità hanno goduto di ampio potere discrezionale per negare la registrazione e chiudere i gruppi per presunte, e spesso minori, violazioni della legge. Il nuovo codice penale e altre leggi correlate contenevano disposizioni che i gruppi per i diritti umani hanno ritenuto potessero essere utilizzate per vessare le Ngo e i loro membri e per limitare le loro le- gittime attività. Il nuovo codice penale ha classificato come reati “la direzione, la partecipazione o il finanziamento di associazioni non registrate o vietate”. Inoltre ha reso reato l’“interferenza illecita” nelle attività delle agenzie statali da parte di membri di associazioni pubbliche e ha inserito i dirigenti delle associazioni pubbliche in una categoria criminale separata, prevedendo per loro pene più severe per un certo numero di reati. Un gruppo di lavoro istituito dal ministero della Cultura stava elaborando una legge per regolare le attività delle Ngo, che avrebbe stabilito basi legali per assegnare fondi statali e non statali alle Ngo, attraverso disposizioni speciali da parte del governo. Le Ngo temevano che questo avrebbe potuto li- mitare le loro opportunità di raccogliere fondi in maniera indipendente. Attivisti per i diritti umani hanno ritenuto che le autorità kazake stessero considerando di seguire l’esempio della Russia e che intendessero obbligare le Ngo beneficiarie di finanziamenti esteri e impegnate in “attività politiche” vagamente definite a registrarsi come “agenti stranieri” e a etichettare di conseguenza le loro pub- blicazioni.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE – MEZZI D’INFORMAZIONE La libertà d’espressione si è significativamente deteriorata per i mezzi d’informazione indipendenti. A febbraio, il quotidiano Pravdivaya Gazeta è stato chiuso da una sentenza di tribunale per trasgressioni minori. I social network e i blog sono stati spesso limitati e le risorse su Internet sono state bloccate da decisioni giudiziarie adottate in procedimenti a porte chiuse, a causa del loro presunto estremismo o contenuto altrimenti illegale.

386 KIRGHIZISTAN

REPUBBLICA KIRGHIZA

Capo di stato: Almaz Atambaev Capo di governo: Dzhoomart Otorbaev (subentrato a Zhantoro Satibaldiev ad aprile)

Le autorità non hanno adottato misure efficaci per affrontare il problema delle accuse di tortura e altri maltrattamenti e per assicurare i responsabili alla giustizia. Non è stata condotta un’indagine imparziale ed efficace sulle violazioni dei diritti umani, tra cui crimini contro l’umanità, commesse durante le violenze del giugno 2010 e sul periodo successivo. Alcuni parlamentari hanno presentato progetti di legge che, se adottati, avrebbero un impatto negativo sulla società civile. Il prigioniero di coscienza Azimjan Askarov è rimasto in detenzione.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI È continuato il ricorso a tortura e altri maltrattamenti, nonostante un programma di monitoraggio in- dipendente dei luoghi di detenzione e l’istituzione del centro nazionale per la prevenzione della tortura e di altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Il 20 dicembre 2013, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha pubblicato le sue osservazioni conclusive sul secondo rapporto periodico sul Kirghizistan. Il Comitato ha espresso grave preoccupazione “per la pratica costante e diffusa della tortura e dei maltrattamenti delle persone private della libertà, in particolare durante la custodia della polizia per estorcere confessioni”. Il 23 aprile 2014, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha esaminato il secondo rapporto periodico della Re- pubblica Kirghiza. Entrambi i Comitati hanno evidenziato il fallimento delle autorità nell’indagare in modo rapido, im- parziale ed esauriente sulle denunce di tortura e altri maltrattamenti e nel perseguire i responsabili. Hanno espresso preoccupazione per la mancanza di un’indagine completa ed effettiva sulle violenze del giugno 2010.1 I Comitati hanno inoltre esortato il Kirghizistan ad affrontare queste problematiche adottando misure immediate ed efficaci per impedire atti di tortura e maltrattamenti, lottare contro l’impunità, perseguire i responsabili e condurre indagini su tutte le denunce di tortura e altri maltrat- tamenti, compresi i casi relativi alle violenze del giugno 2010. Il 16 giugno, l’organizzazione per i diritti umani della regione di Jalal-Abad, Spravedlivost (Giustizia), ha registrato due episodi di tortura nel corso di una visita di controllo al centro di detenzione temporanea di Jalal-Abad. Un medico che faceva parte del gruppo di monitoraggio ha rilevato segni di tortura. Un detenuto ha sostenuto che gli agenti di polizia lo avevano picchiato con le mani, a pugni e con un libro e che gli avevano messo un sacchetto di plastica sulla testa. È stato ammanettato a un radiatore fino al giorno successivo. A causa dei maltrattamenti ha subito una commozione cere- brale. Un altro detenuto ha dichiarato che gli agenti di polizia lo avevano colpito alla laringe, preso a calci nello stomaco e colpito alla testa con un libro. Spravedlivost ha sporto denuncia al procuratore della città di Jalal-Abad. Tuttavia, dopo aver condotto una prima verifica e ordinato due esami medici forensi, il procuratore si è rifiutato di aprire indagini penali su tali accuse.

387 Nel 2014, la Corte europea dei diritti umani ha emesso tre sentenze contro la Russia, in cui affermava che se i ricorrenti di etnia uzbeka fossero stati estradati in Kirghizistan avrebbero rischiato di essere sottoposti a tortura o altri maltrattamenti.

IMPUNITÀ Le indagini penali sulle denunce di tortura sono state rare. Nella prima metà del 2014, l’ufficio della procura generale ha registrato 109 denunce ma solo in nove casi sono state avviate indagini penali; di questi, solo tre sono arrivati a processo. A fine anno i processi erano in corso. I mezzi d’informazione hanno diffuso la notizia che il 26 novembre 2013 la corte del distretto di Sver- dlovsk, a Bishkek, ha emesso la prima condanna in assoluto per tortura, secondo l’art. 305-1 del codice penale. L’agente di polizia Adilet Motuev è stato condannato a sei anni di carcere. La corte ha stabilito che aveva illegalmente portato un uomo in una stazione di polizia, accusandolo del furto di un telefono cellulare. Adilet Motuev aveva minacciato l’uomo e l’aveva costretto a confessare serrando le manette e soffocandolo con un sacchetto di plastica sulla testa. Tuttavia, nel 2014, il tribunale di secondo grado ha assolto Adilet Motuev da tutte le accuse di tortura e ha modificato la condanna a due anni di reclusione per aver condotto un’indagine non autorizzata. Le autorità non hanno adottato misure per indagare in modo equo ed efficace sulle violenze del giugno 2010 e sul periodo successivo, nelle città di Osh e Jalal-Abad. Avvocati difensori di persone di etnia uzbeka arrestate in relazione alle violenze hanno continuato a essere presi di mira per il loro lavoro, minacciati e aggrediti fisicamente, anche in aula, senza che i responsabili fossero chiamati a risponderne.

PRIGIONIERI DI COSCIENZA Il 3 settembre, la Corte suprema ha nuovamente respinto un ricorso presentato dall’avvocato di Azimjan Askarov che chiedeva di riesaminare il suo caso. All’inizio dell’anno, il tribunale cittadino di Bishkek aveva annullato la sentenza della corte distrettuale di Bishkek, secondo cui il caso doveva essere riaperto poiché la difesa aveva presentato nuove prove.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E D’ASSOCIAZIONE Attivisti della società civile impegnati per i diritti umani hanno riferito di aver subito le pressioni delle autorità a causa del loro lavoro, con un conseguente aumento del senso di insicurezza. A maggio, il ministero della Giustizia ha proposto modifiche alle norme sulle Ngo che abolirebbero il diritto di fondare Ngo senza status legale. Se approvate, le modifiche renderebbero illecite le attività di tutte le Ngo non registrate. Alcuni deputati hanno chiesto al parlamento di far approvare una legge simile a quella in vigore in Russia, che prevedeva l’etichetta stigmatizzante di “agenti stranieri” per le Ngo che ricevevano fondi esteri ed erano impegnate in attività “politiche”. A novembre, la commis- sione parlamentare sui diritti umani, il diritto costituzionale e la struttura statale ha raccomandato che gli emendamenti proposti venissero ritirati.

DISCRIMINAZIONE Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per la mancanza di una legislazione completa che vietasse la discriminazione per motivi di razza, lingua, disabilità e origine etnica.

388 Il 15 ottobre, il parlamento ha approvato in prima lettura un disegno di legge che vietava la promozione dei cosiddetti rapporti sessuali non tradizionali, aumentando così la vulnerabilità dei gruppi che di- fendevano i diritti delle minoranze sessuali. Gli emendamenti proposti avrebbero portato alla crimi- nalizzazione di qualsiasi azione volta a creare un atteggiamento positivo verso i rapporti sessuali non tradizionali e limitato la libertà d’espressione e il diritto di riunione pacifica. Le persone di etnia uzbeka nel sud del Kirghizistan hanno continuato a essere esposte ad aggressioni fisiche a causa della loro origine etnica. Tuttavia, le autorità hanno definito queste aggressioni come atti di “teppismo minore” e non li hanno indagati in modo esauriente e imparziale come presunti crimini d’odio. Il 4 agosto, Kabulzhan Osmonov, di etnia uzbeka, è dovuto ricorrere al trattamento medico di emergenza per le ferite inflittegli da un gruppo di uomini, secondo i testimoni oculari di etnia kirghiza, che lo hanno aggredito e picchiato fino a fargli perdere i sensi, senza che li avesse provocati, mentre era sul suo posto di lavoro a Osh. Gli uomini lo avevano chiamato “sart”, un termine dispregiativo che indica l’etnia uzbeka. Kabulzhan Osmonov ha denunciato l’aggressione alla stazione di polizia locale ma l’indagine penale è stata aperta soltanto quando il caso ha ottenuto copertura mediatica. In seguito a ciò, i pubblici ministeri locali e la polizia hanno fatto pressioni perché Kabulzhan Osmonov ritirasse la denuncia.

Note 1. Will there ever be justice? Kyrgyzstan’s failure to investigate June 2010 violence and its aftermath (EUR 58/001/2013), http://www.amnesty.org/en/library/info/EUR58/001/2013/en

LETTONIA

REPUBBLICA DI LETTONIA

Capo di stato: Andris Berzins Capo di governo: Laimdota Straujuma

Le persone Lgbti non sono state adeguatamente protette contro i crimini d’odio. Sebbene nel 2013 siano state adottate alcune misure legislative positive, il numero di apolidi che vivevano nel paese ed erano esclusi dal godimento dei diritti politici è rimasto elevato.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A settembre, il parlamento ha adottato modifiche alle norme sui crimini d’odio. Tuttavia, l’orientamento sessuale e l’identità di genere non sono stati inclusi tra le motivazioni per cui è prevista esplicitamente protezione secondo le norme riviste del codice penale sui crimini d’odio. Il diritto penale puniva l’in- citamento all’odio e alla violenza per motivi di razza, etnia, nazionalità, religione, disabilità, età e sesso. Sono state considerate come circostanze aggravanti soltanto le motivazioni razziste. Nel 2013, la polizia aveva registrato 22 casi di violenza e d’incitamento all’odio motivati dal razzismo

389 o dalla xenofobia. L’Ngo lettone Mozaika ha segnalato quattro casi di aggressioni fisiche contro persone Lgbti e uno nei confronti di un gay disabile. Il 18 settembre, il parlamento ha votato un emendamento alla legge per la tutela dei diritti dei minori, secondo il quale l’educazione sessuale nelle scuole doveva essere basata sui “valori tradizionali della famiglia” e il concetto di “matrimonio” definito solo come unione tra un uomo e una donna. A fine anno, l’adozione definitiva della modifica era ancora pendente.

DISCRIMINAZIONE – APOLIDI Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, a gennaio nel paese c’erano ancora 267.789 persone apolidi. Il 1° ottobre 2013 sono stati adottati emendamenti alla legge sulla cittadinanza, volti a semplificare la procedura per la concessione della cittadinanza ai bambini nati dopo il 21 agosto 1991 e figli di persone senza la cittadinanza lettone o apolidi. Ad aprile, pur riconoscendo i progressi effettuati in questo campo, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per l’elevato numero di apolidi che hanno continuato a vivere nel paese senza accesso ai diritti politici.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A dicembre 2013, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha evidenziato che la definizione di tortura inclusa nell’art. 24 non conteneva tutti gli elementi richiesti dalla Convenzione contro la tortura e creava possibili scappatoie per l’impunità. Il Comitato ha espresso preoccupazione perché la tortura non era definita come un reato specifico nel codice penale e perché alcuni atti di tortura o di complicità nel perpetrare atti di tortura cadevano in prescrizione dopo 10 anni. Il Comitato ha inoltre evidenziato le accuse di violenze e maltrattamenti perpetrati da agenti delle forze di polizia e ha evidenziato l’assenza di un meccanismo indipendente per indagarle.

DIRITTI DELLE DONNE La violenza domestica non è stata definita come un reato specifico. A dicembre, il Comitato contro la tortura ha espresso preoccupazione per la mancanza di misure di protezione e per l’insufficiente pre- senza di rifugi per le vittime di violenza domestica.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Ad aprile, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso il timore che la detenzione dei richiedenti asilo, compresi minori di soli 14 anni, non fosse utilizzata soltanto come misura di ultima istanza. Il Comitato ha rilevato che l’effetto non sospensivo dei ricorsi contro decisioni negative, nel quadro della procedura d’asilo accelerata, ha aumentato il rischio di rimandare persone in paesi in cui rischiavano gravi violazioni dei diritti umani o abusi.

390 LITUANIA

REPUBBLICA DI LITUANIA

Capo di stato: Dalia Grybauskaitė Capo di governo: Algirdas Butkevičius

A febbraio, il procuratore generale ha aperto un’inchiesta in merito alla presunta rendition illegale in Lituania, messa in atto dalla Cia e con l’aiuto di funzionari dei servizi segreti lituani, di un cittadino dell’Arabia Saudita. Una legge per la “protezione dei minori” dall’informazione pubblica dannosa ha causato violazioni del diritto alla libertà d’espressione delle persone Lgbti.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA A gennaio, la corte regionale di Vilnius ha definito “immotivato” il rifiuto del procuratore generale di avviare un’inchiesta preprocessuale in merito all’accusa secondo cui il cittadino saudita Mustafa al- Hawsawi era stato trasferito illegalmente in Lituania e trattenuto in un centro di detenzione della Cia ad Antaviliai, vicino a Vilnius. I legali di Mustafa al-Hawsawi avevano denunciato che l’uomo era stato torturato e sottoposto a sparizione forzata in Lituania tra il 2004 e il settembre 2006. A febbraio, il procuratore generale ha aperto l’indagine preprocessuale sul presunto trasferimento illegale di Mu- stafa al-Hawsawi in Lituania. In precedenza, si era rifiutato di aprire indagini su denunce analoghe presentate dagli avvocati del palestinese Zayn al-Abidin Muhammad Husayn (conosciuto come Abu Zubaydah). A fine anno, il caso di Abu Zubaydah contro la Lituania era pendente dinanzi alla Corte europea dei diritti umani. Sia Mustafa al-Hawsawi, sia Abu Zubaydah sono rimasti detenuti a Guan- tánamo Bay. A maggio, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha sollecitato il governo a completare l’in- dagine sulla presunta rendition di Mustafa al-Hawsawi in modo puntuale e trasparente. In seguito alla pubblicazione da parte del senato Usa di un rapporto sulla detenzione segreta ad opera della Cia che conteneva riferimenti a “siti di detenzione viola”, che molti ritenevano si trovassero in Lituania, le autorità lituane avrebbero chiesto ulteriori informazioni agli Usa per determinare se i reclusi erano stati trattenuti e torturati in Lituania. Le notizie contenute nel rapporto dei senato sui “siti di detenzione viola” confermavano l’inchiesta del parlamento lituano del 2009, che aveva concluso che la Cia aveva stabilito due siti segreti di detenzione in Lituania.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A maggio, l’ispettorato sull’etica giornalistica ha stabilito che un libro di favole, che conteneva anche racconti di relazioni tra persone dello stesso sesso, era contrario ai “valori familiari tradizionali” tutelati dalla legge sulla protezione dei minori contro gli effetti dannosi dell’informazione pubblica. La distribuzione del volume è stata interrotta. A settembre, l’ispettorato ha stabilito che anche un video, che promuoveva la tolleranza verso le persone Lgbti e rappresentava famiglie con partner dello stesso sesso, violava la legge sulla protezione dei minori.

391 A causa di alcune lacune legislative, le persone transgender hanno continuato a vedersi precluso l’accesso al riconoscimento legale del genere. Sono rimaste ferme in parlamento due proposte di legge in attesa di discussione: la prima era volta a vietare il riconoscimento legale del genere, l’altra mirava a permettere alle persone transgender l’ottenimento del riconoscimento legale del genere sotto particolari condizioni obbligatorie, tra cui l’intervento chirurgico per il cambio di sesso.

MACEDONIA

EX REPUBBLICA JUGOSLAVA DI MACEDONIA

Capo di stato: Gjorge Ivanov Capo di governo: Nikola Gruevski

I diritti umani sono stati sempre più limitati. I rapporti tra la popolazione macedone e quella di etnia albanese si erano ulteriormente deteriorati a causa di violente proteste. Sono emersi nuovi dettagli sulle rendition di detenuti da parte della Cia con la complicità della Macedonia.

CONTESTO Il partito di governo, l’Organizzazione rivoluzionaria interna macedone – Partito democratico per l’unita nazionale macedone, è rimasto al potere dopo le elezioni parlamentari di maggio, che non sono state riconosciute dal principale partito d’opposizione. La libertà d’espressione è stata sempre più limitata. Le autorità hanno esercitato un’influenza eccessiva su polizia e magistratura. Mentre la Commissione europea ha raccomandato ancora una volta l’avvio dei colloqui per l’adesione all’Eu, a dicembre il Consiglio dei ministri dell’Eu ha rinviato la decisione per la sesta volta. I rapporti tra l’etnia macedone e quella albanese sono rimasti precari. A maggio, l’arresto di uno stu- dente di etnia albanese, sospettato di aver ucciso uno studente macedone, ha innescato due giorni di scontri interetnici nella municipalità di Gorce Petrov, nella capitale Skopje. Il 30 giugno, sei persone di etnia albanese sono state ritenute colpevoli, di cui due in contumacia, di omicidio definito come “terrorismo”, per l’uccisione di cinque macedoni nei pressi del lago Smilkovci, nell’aprile 2012, e condannate al carcere a vita; un imputato è stato assolto. Il 4 luglio, migliaia di albanesi hanno marciato nel centro di Skopje con lo slogan “Non siamo terroristi”. La protesta pacifica è degenerata davanti all’Alta corte e la polizia antisommossa è ricorsa all’uso eccessivo della forza contro i manifestanti, impiegando proiettili di gomma, gas lacrimogeni, granate stordenti e cannoni ad acqua. Il 6 luglio, ci sono state ulteriori proteste. Nelle città a prevalenza albanese di Tetovo e Gostivar, la polizia ha usato granate stordenti e gas lacrimogeni. Sei uomini sono stati condannati a tre anni di carcere per “associazione a una folla per delinquere”.

CRIMINI DI DIRITTO INTERNAZIONALE È perdurata l’impunità per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi durante il conflitto armato interno del 2001. Non sono state intraprese misure per individuare i corpi di 13 persone, ancora disperse dopo il conflitto armato.

392 CONTROTERRORISMO E SICUREZZA A dicembre, un rapporto reso pubblico dal senato Usa sulle operazioni di detenzione segreta della Cia ha confermato che la cattura, avvenuta nel 2003, dell’ex detenuto Khaled el-Masri da parte delle autorità macedoni fu un caso di errore d’identità e che la Cia cercò d’insabbiare l’episodio. La Corte europea dei diritti umani, con una sentenza storica del 2013, aveva stabilito che la Macedonia era responsabile nei confronti di Khaled el-Masri per detenzione in incommunicado, sparizione forzata, tortura e altri maltrattamenti, poiché aveva consentito che l’uomo, di nazionalità tedesca, fosse tra- sferito fuori dal paese in luoghi dove subì altre gravi violazioni dei diritti umani e poiché non aveva condotto un’indagine efficace. A fine anno, le autorità non avevano ancora presentato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa un piano d’azione, atteso dall’ottobre 2013, per implementare la decisione della corte.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Sono continuate le accuse di tortura nei confronti di funzionari di polizia, compiuta in modo spropor- zionato ai danni di rom. A maggio, due minori rom, ingiustamente sospettati di aver rubato un porta- foglio, sono stati picchiati da membri dell’unità speciale di polizia Alfi. Il ragazzo più grande è stato interrogato per due ore in una stazione di polizia, senza la presenza di un avvocato o dei suoi genitori, e ha riportato contusioni alla testa, al collo e al torace.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Ad aprile, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà d’espressione, ha criticato il deteriora- mento della libertà d’espressione, del pluralismo e dell’indipendenza dei mezzi d’informazione. A quanto sembra, il governo ha speso l’un per cento del suo bilancio per acquistare spazi pubblicitari sugli organi di stampa filogovernativi o favorendoli in altro modo. Le organizzazioni internazionali hanno riferito che la copertura delle elezioni da parte dei mezzi d’informazione di stato è stata sbi- lanciata verso il partito di governo. Durante i disordini di maggio, la polizia ha sequestrato le attrezzature di tre organi d’informazione e ha cancellato i loro documenti video. I politici hanno continuato a querelare per diffamazione i giornalisti. Organizzazioni internazionali e nazionali hanno chiesto il rilascio dagli arresti domiciliari del giornalista del periodico Nova Makedonija, Tomislav Kezharovski. Nel 2013 era stato arrestato per aver rivelato l’identità di un presunto testimone protetto, in quello che è stato giudicato un procedimento motivato politicamente. Dopo le proteste internazionali, era stato messo agli arresti domiciliari.

DISCRIMINAZIONE – ROM Le autorità non hanno agito per prevenire e proteggere i rom da molteplici forme di discriminazione. Non sono stati attuati i piani d’azione per il Decennio dell’inclusione dei rom e le raccomandazioni sui diritti delle donne rom, formulate nel 2013 dal Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne. A giugno, la Corte costituzionale ha stabilito che gli articoli della legge sui documenti di viaggio, che consentivano alle autorità di revocare i passaporti dei cittadini macedoni che erano stati rimpatriati o espulsi da un altro paese, erano incompatibili con il diritto alla libertà di movimento. Questo pronuncia- mento ha fatto seguito a una denuncia da parte della Ngo Centro europeo per i diritti dei rom per conto di rom che erano stati vittime di discriminazione sproporzionata da parte delle guardie di frontiera.

393 DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE La legislazione antidiscriminazione non è stata modificata per vietare anche la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Attivisti per i diritti umani Lgbti sono stati regolarmente al centro di minacce. A ottobre, 30 giovani hanno assaltato una festa per il secondo anniversario del Centro Lgbti di Skopje, ferendo gravemente due persone; nessuno è stato ancora assicurato alla giustizia. A luglio, il governo ha proposto un emendamento costituzionale che definiva il matrimonio esclusivamente come unione tra un uomo e una donna.

RIFUGIATI, RICHIEDENTI ASILO E MIGRANTI Circa 850 rifugiati rom e ashkali del Kossovo sono rimasti in Macedonia, senza una soluzione perma- nente. A fine settembre, erano 7105 i cittadini macedoni che avevano chiesto asilo nell’Eu. Circa 440 dei 1260 richiedenti asilo registrati hanno chiesto asilo in Macedonia ma solo 10 siriani hanno ottenuto lo status di rifugiati e a una persona è stata accordata la protezione sussidiaria. Migranti, incluse donne, un minore non accompagnato e rifugiati siriani, sono stati detenuti in pessime condizioni. Le guardie di frontiera sono state complici di respingimenti dalla Serbia. Fino a giugno, circa 440 persone avevano chiesto asilo in Macedonia ma solo 10 siriani hanno ottenuto lo status di rifugiato. Sono stati arrestati richiedenti asilo e migranti, compresi donne, minori non accompagnati e rifugiati siriani, che erano stati vittime di tratta. Le guardie di frontiera sono state complici di respingimenti verso la Serbia.

MALTA

REPUBBLICA DI MALTA

Capo di stato: Marie-Louise Coleiro Preca Capo di governo: Joseph Muscat

Malta ha mantenuto un’interpretazione restrittiva degli obblighi di ricerca e salvataggio in mare. Le autorità hanno continuato a detenere automaticamente richiedenti asilo e migranti, in violazione degli standard internazionali, e a negare loro rimedi efficaci per contestare la detenzione. Alle coppie dello stesso sesso sono stati concessi gli stessi diritti degli eterosessuali con un matrimonio civile. La tutela costituzionale è stata estesa per comprendere la discriminazione per motivi di orientamento sessuale e identità di genere. L’aborto è rimasto vietato in tutte le circostanze.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Malta ha registrato un calo di arrivi irregolari via mare di rifugiati e migranti per via dell’operazione italiana Mare Nostrum, grazie alla quale rifugiati e migranti venivano soccorsi in mare e sbarcati sul territorio italiano. Da gennaio a fine settembre, erano 565 le persone salvate e portate a Malta, rispetto alle 2008 persone del 2013. Malta ha continuato ad applicare un’interpretazione restrittiva

394 degli obblighi di ricerca e soccorso in mare, volta a limitare lo sbarco di rifugiati e migranti sul proprio territorio.1 Le autorità hanno continuato a detenere automaticamente i migranti privi di documenti, spesso fino a 18 mesi, e i richiedenti asilo, fino a 12 mesi, in violazione degli obblighi internazionali di Malta sui diritti umani. Il 30 marzo, il primo ministro si è pubblicamente impegnato a porre fine alla detenzione dei minori migranti. Tuttavia, i minori e altre persone vulnerabili hanno continuato a essere regolarmente detenuti, così come è proseguita la detenzione insieme agli adulti dei minori non accompagnati, in attesa dell’esito della valutazione sulla loro età o vulnerabilità.2 Le procedure d’appello per contestare la lunghezza e la legittimità della detenzione hanno continuato a violare gli standard internazionali sui diritti umani, lasciando i richiedenti asilo e i migranti esposti al rischio di detenzione arbitraria. Le condizioni nei centri di detenzione sono rimaste al di sotto degli standard e molti richiedenti asilo e migranti hanno dovuto sopportare la mancanza di riservatezza e l’inadeguatezza di strutture per lo svago e la ricreazione. Il governo ha rifiutato di rivelare informazioni sull’operazione di ricerca e soccorso di un peschereccio che trasportava più di 400 persone, per lo più famiglie siriane, affondato l’11 ottobre 2013. Testimo- nianze dei superstiti e dati disponibili hanno indicato che il salvataggio potrebbe essere stato ritardato a causa di mancanze delle autorità maltesi e italiane. A dicembre, con due anni di ritardo, il governo ha reso pubblici i risultati dell’indagine sulla morte di Mamadou Kamara, un cittadino maliano di 32 anni, deceduto in carcere nel giugno 2012. Egli aveva tentato di fuggire dal centro di detenzione di Safi Barracks e, secondo le accuse, era stato duramente maltrattato dopo essere stato ricatturato. Il rapporto sull’inchiesta raccomandava una revisione del sistema di detenzione di richiedenti asilo e migranti.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Il 14 aprile, il parlamento ha approvato la legge sulle unioni civili che ha concesso a coppie dello stesso sesso gli stessi diritti delle coppie eterosessuali con un matrimonio civile. Ai partner di un’unione civile è stato anche consentito di adottare congiuntamente i bambini, con gli stessi diritti e obblighi dei genitori sposati con matrimonio civile. Nello stesso giorno, il parlamento ha modificato la costituzione per includere la protezione dalla di- scriminazione per motivi di orientamento sessuale e identità di genere.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI L’aborto è rimasto vietato in tutte le circostanze, anche quando si trattava di salvare la vita della donna. A ottobre, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, che esaminava la situazione di Malta secondo il Patto internazionale sui diritti civili e politici, ha sollevato preoccupazioni circa la compatibilità del divieto con il diritto alla vita.

Note 1. Lives adrift: Refugees and migrants in peril in the central Mediterranean (EUR 05/006/2014), www.amnesty.org/ en/library/info/EUR05/006/2014/en 2. Lives adrift: Refugees and migrants in peril in the central Mediterranean: Executive summary (EUR 05/007/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR05/007/2014/en

395 MOLDOVA

REPUBBLICA DI MOLDOVA

Capo di stato: Nicolae Timofti Capo di governo: Iurie Leanč

Sebbene per la prima volta la Moldova abbia condannato alla reclusione persone riconosciute responsabili di tortura, a causa di annosi difetti del sistema il problema dell’impunità è rimasto diffuso. Le autorità non hanno modificato le norme discriminatorie, lasciando vulnerabili i gruppi emarginati.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI La procura generale ha dichiarato di aver ricevuto un numero significativamente inferiore di denunce di tortura e altri maltrattamenti rispetto al 2013. A luglio, per la prima volta, tre agenti di polizia sono stati condannati ciascuno a tre anni di reclusione per aver torturato due uomini nel 2011, ai sensi dell’art. 166 del codice penale, entrato in vigore a dicembre 2012. A settembre, altri due agenti sono stati condannati a sei anni e un altro a cinque anni con sospensione della pena, per aver torturato due fratelli all’inizio del 2012. Questi sviluppi riflettono i cambiamenti legislativi che hanno reso più facile l’azione giudiziaria in caso di tortura e gli sforzi compiuti per garantire che gli agenti delle forze di sicurezza fossero meglio informati sui loro obblighi in merito ai diritti umani e sui diritti dei detenuti. Tuttavia, l’impunità per gli abusi commessi dalla polizia nel passato ha continuato a rappresentare un problema significativo. Il 2014 ha segnato il quinto anniversario delle manifestazioni postelettorali dell’aprile 2009 e le autorità non hanno ancora reso giustizia alla maggior parte di coloro che furono torturati o maltrattati dalle forze di sicurezza durante quegli eventi. Delle 102 denunce ufficiali ricevute dall’ufficio della procura generale, sono state avviate inchieste penali per 58 casi, dei quali solo 31 sono arrivati in tribunale. Ventisette agenti di polizia hanno ricevuto condanne con sospensione della pena e, a fine 2013, un agente era stato assolto dall’accusa di omicidio nei confronti di Valeriu Boboc, morto per le ferite subite durante la tortura. Dopo i cinque anni previsti per legge, ad aprile è scattata la prescrizione per i presunti abusi commessi dalle forze di sicurezza durante gli eventi dell’aprile 2009, lasciando un consistente numero di persone torturate e sottoposte a maltrattamenti durante quegli eventi senza possibilità di ricorrere a ulteriori rimedi previsti dal diritto nazionale. A maggio, la corte d’appello di Chişinău ha ribaltato una precedente decisione della Corte suprema della Moldova e ha condannato l’agente di polizia Radu Starinschi a due anni di reclusione per aver torturato Sergiu Cretu ma la sentenza non ha potuto essere applicata perché era già scattata la prescrizione. A ottobre, l’agente è stato promosso. Nessun agente è stato incarcerato in connessione con gli eventi dell’aprile 2009. A fine anno, la Corte europea dei diritti umani aveva emesso un verdetto su sette casi, rilevando violazioni dell’art. 3 della Convenzione europea contro la tortura. In tutti e sette i casi la Corte ha stabilito che

396 le inchieste erano state pesantemente compromesse a causa del ripetuto rifiuto di avviare indagini penali e poiché non erano state prese in considerazione prove essenziali. C’è stato un maggiore riconoscimento del problema della tortura e altri maltrattamenti ai danni delle persone ricoverate in istituti di salute mentale. A seguito di un progetto pilota che aveva creato la figura del difensore civico per la psichiatria, avviato nel 2011 grazie alla collaborazione tra Nazioni Unite e autorità moldave, sono pervenute molte denunce e sono stati fatti progressi per affrontare la questione. È stato proposto di formalizzare l’esistenza di tale figura e d’integrarla nel sistema sanitario ufficiale del paese.

PENE CRUDELI, DISUMANE E DEGRADANTI A dicembre 2013 è stata abolita la legge introdotta a maggio 2012 che prevedeva la castrazione chimica obbligatoria come punizione per i responsabili di abusi violenti verso i minori.

DISCRIMINAZIONE A maggio, la comunità Lgbti della Moldova ha tenuto, per la prima volta con successo, la marcia del Pride. Dopo la storica prima marcia del 2013, durante la manifestazione del 2014 i partecipanti hanno potuto sfilare per la prima volta lungo tutto il percorso programmato attraverso il centro della capitale Chişinău e, complessivamente, la polizia li ha sempre adeguatamente protetti dalle minacce dei contromanifestanti. Nonostante questo sviluppo positivo, la legge sull’uguaglianza, entrata in vigore a gennaio 2013, non era conforme agli standard internazionali. La legge non elenca esplicitamente l’orientamento sessuale e l’identità di genere tra i motivi per cui la discriminazione è proibita, se non nei luoghi di lavoro. La polizia non ha indagato adeguatamente in merito a varie aggressioni subite da attivisti per i diritti delle persone Lgbti.

MONTENEGRO

MONTENEGRO

Capo di stato: Filip Vujanović Capo di governo: Milo Djukanović

Le decisioni assunte per casi di crimini di guerra hanno continuato a essere in contrasto con il diritto internazionale. Giornalisti indipendenti sono stati vittime di minacce e aggressioni. È perdurata l’im- punità per gli agenti delle forze di sicurezza sospettati di tortura e altri maltrattamenti.

CRIMINI DI DIRITTO INTERNAZIONALE A giugno, sia il Comitato contro la tortura sia il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate hanno riscontrato che i tribunali non erano riusciti ad applicare pienamente il diritto interno

397 e avevano male interpretato il diritto internazionale umanitario nelle decisioni su casi oggetto di pro- cedimento a partire dal 2008. Il 31 dicembre 2013, un ex comandante dell’esercito jugoslavo e sette riservisti sono stati assolti dal- l’accusa di omicidio di 18 rifugiati del Kossovo nel villaggio di Kaluđerski Laz, nei pressi di Rozaje, avvenuto ad aprile 1999. A febbraio, la corte d’appello ha confermato la condanna di quattro ex riservisti dell’esercito jugoslavo per la tortura e i maltrattamenti di circa 250 prigionieri di guerra croati, nel campo di detenzione di Morinj, nel 1991-92. Le loro condanne a periodi di reclusione inferiori al minimo legale non corrispon- devano alla gravità dei crimini commessi. A marzo, sette ex prigionieri detenuti nel campo di Morinj hanno ricevuto un risarcimento tra i 20.000 e i 30.000 euro ciascuno per i maltrattamenti subiti. Altri 200 ex prigionieri avevano presentato istanza di riparazione. A marzo, gli ex agenti di polizia assolti dall’accusa di crimini di guerra nel 2013 hanno avviato una causa di risarcimento contro il Montenegro per un milione di euro, per detenzione illegale e privazione della libertà. Ad agosto, il Montenegro ha firmato una dichiarazione regionale sulle persone scomparse e si è im- pegnato a stabilire cosa è accaduto e dove si trovavano 61 persone scomparse.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Dopo la costituzione, nel 2013, di una commissione per monitorare le indagini della polizia in merito ad aggressioni e minacce contro giornalisti e mezzi d’informazione indipendenti, sono state riaperte le indagini per l’omicidio di Duško Jovanović, direttore del quotidiano Dan, ucciso nel 2004. A luglio sono stati arrestati, con l’accusa di tentato omicidio, alcuni sospettati per l’aggressione subita nel 2007 dal giornalista Tufik Softić. Sono proseguite le indagini su una serie di attacchi contro il quotidiano Vijesti e sono stati effettuati arresti relativi al caso di Lidija Nikčević, giornalista di Dan, aggredita a gennaio da uomini mascherati davanti al suo ufficio a Nikšić.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A maggio, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha riferito che nel 2013 le persone de- tenute o chiamate per “colloqui informativi” dalla polizia avevano corso un “rischio considerevole” di maltrattamenti. Il Comitato ha esortato le autorità a ricordare regolarmente alle forze di polizia che il maltrattamento è illegale. A ottobre, tre agenti di polizia sono stati giudicati colpevoli e condannati alla pena minima di tre mesi di reclusione per aver assistito ai maltrattamenti di Aleksandar Pejanović, nel centro di detenzione di Betonjerka nel 2008, commessi da circa 10 membri mascherati dell’unità d’intervento speciale della polizia, la cui identità non è stata rivelata all’accusa da alti funzionari di polizia.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE È perdurata la discriminazione nei confronti delle persone Lgbti, anche con minacce e aggressioni fi- siche. Raramente i responsabili sono stati identificati e, laddove i procedimenti hanno avuto luogo, le aggressioni sono state generalmente classificate come reati minori. Le norme introdotte nel 2013, che permettevano di considerare il movente d’odio al momento della condanna, non sono state applicate. Il centro sociale Lgbti di Podgorica è stato attaccato 26 volte durante il 2014, nonostante

398 sia stata fornita la protezione della polizia; le autorità non hanno condotto indagini efficaci né portato i gli aggressori davanti alla giustizia. Il Pride di Podgorica, tenutosi a novembre, è stato adeguatamente protetto dalla polizia e 10 contromanifestanti sono stati arrestati.

DISCRIMINAZIONE – ROM Rom, ashkali ed egiziani sfollati dal Kossovo nel 1999 sono rimasti senza un alloggio adeguato, compresi quelli che vivevano nei container nel centro comune di Konik dove, a novembre, è stata posta la prima pietra per la costruzione di alloggi adeguati. A maggio, alle famiglie rom di Zverinjak a rischio di sgombero da tre anni è stato promesso un alloggio adeguato nel 2015.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI A luglio, otto uomini sono stati assolti dall’accusa di trasporto illegale in Italia di 70 rom rifugiati dal Kossovo nel 1999. Trentacinque dei rifugiati morirono annegati quando la barca Miss Pat, omologata per il trasporto di sei passeggeri, si capovolse in acque montenegrine. Circa un terzo dei 16.000 rifugiati in Montenegro, inclusa la maggior parte dei 4000 rom, ashkali ed egiziani sfollati dal Kossovo, sono rimasti a rischio di apolidia. Mentre pochi di loro avevano acquisito lo status di “straniero con residenza permanente”, la maggior parte non aveva ancora fatto domanda o aveva incontrato ostacoli per l’ottenimento di documenti personali, compresi i passaporti, necessari per richiedere lo status prima della scadenza fissata a dicembre 2014. Il Montenegro è rimasto un paese di transito per migranti e richiedenti asilo. Le procedure per il riconoscimento del diritto d’asilo non erano efficaci; tra gennaio e novembre l’asilo è stato concesso solo a due persone.

NORVEGIA

REGNO DI NORVEGIA

Capo di stato: re Harald V Capo di governo: Erna Solberg

Le persone transgender hanno continuato ad affrontare notevoli ostacoli per il riconoscimento legale del genere. L’impunità per stupro e violenza sessuale ha continuato a essere la norma.

DISCRIMINAZIONE – PERSONE TRANSGENDER Le persone transgender hanno potuto ottenere il riconoscimento legale del genere soltanto dopo una diagnosi psichiatrica, una terapia ormonale obbligatoria e un intervento chirurgico di riassegnazione di genere, che prevedeva la sterilizzazione irreversibile.1 A dicembre 2013, il direttorato per la Salute ha istituito un gruppo di esperti professionisti sanitari, legali e rappresentanti di organizzazioni tran- sgender, incaricato di sviluppare, entro il 25 febbraio 2015, raccomandazioni sul riconoscimento legale del genere e sull’accesso all’assistenza sanitaria per le persone transgender.

399 A marzo, John Jeanette Solstad Remø ha inoltrato domanda al ministero della Salute e dei servizi sanitari per cambiare il proprio genere legale. Il ministero ha respinto la sua richiesta. A settembre, l’ufficio per la parità e la difesa civica contro la discriminazione ha dichiarato che i requisiti richiesti dal ministero di diagnosi psichiatrica, terapia ormonale e chirurgia di riassegnazione di genere con sterilizzazione definitiva erano discriminatori e violavano la legge contro la discriminazione per motivi di orientamento sessuale, identità di genere ed espressione di genere.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Il primo studio a livello nazionale sulla diffusione dello stupro e della violenza sessuale, pubblicato a febbraio, ha confermato che lo stupro è un reato molto diffuso e connotato rispetto al genere. Tra le donne contattate per il sondaggio, quasi una su 10 ha riferito di essere stata stuprata. La metà delle vittime ha dichiarato di aver subito violenza sessuale prima dei 18 anni. Il rapporto ha docu- mentato che una vittima su tre non ha mai raccontato a nessuno dell’abuso subito e che solo uno stupro su 10 è stato denunciato alla polizia. La metà di coloro che avevano denunciato la violenza riteneva che la polizia non avesse indagato sul caso. Le statistiche della polizia hanno evidenziato che otto casi di stupro su 10 sono stati abbandonati a stadi diversi del procedimento, rafforzando così le preoccupazioni, espresse da lunga data, sul tasso di abbandono dei procedimenti legali nei casi di stupro.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO A ottobre 2013, il governo aveva annunciato un’amnistia per 578 figli minori di richiedenti asilo, le cui domande d’asilo erano state respinte in via definitiva e che si trovavano nel paese da più di tre anni. Le Ngo hanno criticato la limitazione all’applicazione del provvedimento ai soli minori provenienti da paesi con i quali la Norvegia aveva un accordo di riammissione, sostenendo che tale criterio arbitrario fosse discriminatorio e minasse il principio del miglior interesse del minore. Ad aprile, il ministero della Giustizia ha dichiarato pubblicamente che soltanto 130 dei 578 minori avrebbero be- neficiato dell’amnistia. In un nuovo documento di consultazione, pubblicato a giugno, il ministero della Giustizia ha proposto ulteriori condizioni per poter accedere al programma. Il 18 dicembre, il comitato per gli appelli sull’immigrazione ha annunciato che erano sospesi tutti i rinvii forzati e volontari verso l’Uzbekistan dei richiedenti asilo le cui domande erano state alla fine respinte.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE A fine anno era ancora in sospeso l’appello di un cittadino ruandese di 47 anni contro la condanna per omicidio durante il genocidio del Ruanda nel 1994. Il 14 febbraio 2013, il tribunale distrettuale di Oslo lo aveva condannato a 21 anni di reclusione per omicidio premeditato con circostanze partico- larmente aggravanti ma non per genocidio, poiché l’articolo che definiva questo crimine era entrato in vigore soltanto nel 2008 e non aveva effetto retroattivo.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Dopo che la Norvegia ha ratificato, nel 2013, il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, il meccanismo nazionale di prevenzione, assunto dal difensore civico parlamentare è diventato pienamente operativo nell’aprile 2014. Il meccanismo è stato istituito con un comitato

400 consultivo formato da membri dell’istituto nazionale per i diritti umani, altri difensori civici e rappre- sentanti di Ngo e della società civile.

Note 1. The state decides who I am: Lack of legal gender recognition for transgender people in Europe (EUR 01/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR01/001/2014/en

PAESI BASSI

REGNO DEI PAESI BASSI

Capo di stato: re Guglielmo Alessandro Capo di governo: Mark Rutte

Migranti irregolari hanno continuato ad affrontare lunghi periodi di detenzione per immigrazione in condizioni eccessivamente dure. Sono state espresse preoccupazioni per la profilazione etnica da parte delle forze di polizia.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI

Detenzione per immigrazione Sebbene il numero di persone detenute per immigrazione fosse diminuito, i migranti irregolari hanno continuato ad affrontare periodi esageratamente lunghi di detenzione in condizioni eccessivamente dure. A dicembre 2013, il ministro per la Sicurezza e la giustizia aveva presentato alcune proposte di legge per riformare la detenzione per immigrazione. Tuttavia, a febbraio 2014, Amnesty International e altre 10 organizzazioni della società civile hanno sollevato numerose preoccupazioni sulla bozza di legge. A ottobre, il governo ha istituito un luogo chiuso, adatto ai bambini, per famiglie con minori, la cui detenzione fosse ritenuta inevitabile, invece di trattenerli in una struttura paracarceraria.

Refoulement A giugno, il consiglio di stato ha respinto la richiesta d’asilo di tre uomini provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo, che avevano testimoniato presso l’Icc nel processo contro un ex capo della milizia congolese, accusato di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. A luglio, i tre uomini, loro stessi accusati di aver commesso gravi abusi dei diritti umani, sono stati rimpatriati nella Re- pubblica Democratica del Congo, nonostante rischiassero di essere sottoposti a tortura e di essere condannati a morte.1 I Paesi Bassi hanno continuato a rimpatriare in Somalia richiedenti asilo respinti, contrariamente a quanto raccomandato dalle linee guida dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. In un

401 caso, risalente a novembre 2013, Ahmed Said era stato rimpatriato dai Paesi Bassi a Mogadiscio e, tre giorni dopo, era stato ferito in un attentato suicida.

Diritti economici, sociali e culturali A ottobre 2013, il Comitato europeo dei diritti sociali ha raccomandato ai Paesi Bassi d’introdurre misure per soddisfare i bisogni di persone a imminente rischio d’indigenza, in risposta a un reclamo presentato dalla Conferenza delle chiese europee in merito alla situazione dei migranti irregolari. Nel 2014 non sono stati adottati provvedimenti per applicare la decisione. Nel corso dell’anno sono continuate le notizie di migranti irregolari che allestivano alloggi improvvisati e rischiavano di essere sgomberati. A giugno, ad , è stato chiuso un progetto pilota per la sistemazione di richiedenti asilo respinti.

DISCRIMINAZIONE – PROFILAZIONE ETNICA Ngo e organismi intergovernativi hanno continuato a sollevare timori circa la profilazione etnica messa in atto dalle autorità di polizia, in particolare per la mancanza di chiare linee guida per evitare la profilazione razziale e per la raccolta di dati durante operazioni di fermo e perquisizione. In risposta alle critiche espresse, tra gli altri, dalla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza e da Amnesty International, il governo e la polizia olandesi hanno entrambi negato esplicitamente la natura discriminatoria della profilazione etnica.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE Il 6 settembre 2013, la Corte suprema dei Paesi Bassi ha stabilito che lo stato olandese era responsabile della morte di tre uomini durante il genocidio di Srebrenica.2 Il 13 luglio 1995, le truppe olandesi, di stanza a Srebrenica come peacekeeper delle Nazioni Unite, allontanarono tre uomini bosniaco-mu- sulmani, che facevano parte di un gruppo di più di 300 persone, da una “area sicura”, consegnandoli di fatto alle forze serbo-bosniache, che uccisero la maggior parte delle persone prese in consegna. A luglio, la corte distrettuale dell’Aia ha stabilito che lo stato olandese era responsabile per la perdita subita dalle famiglie dei più di 300 uomini e ragazzi sopracitati ma non per le azioni delle truppe olandesi precedenti alla caduta di Srebrenica, né per la loro incapacità di mantenere il controllo della “area sicura”.

UCCISIONI ILLEGALI A novembre, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l’indagine dei Paesi Bassi sul caso di un civile iracheno ucciso a colpi d’arma da fuoco da parte del personale militare a giugno 2004 aveva violato il suo diritto alla vita e ha assegnato al padre della vittima una compensazione di 25.000 euro.

Note 1. : Do not return ICC witnesses at risk of death penalty, ill-treatment and unfair trials to the Democratic Republic of Congo (EUR 35/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR35/001/2014/en 2. Netherlands Supreme Court hands down historic judgment over Srebrenica genocide (PRE 01/449/2013), www.amnesty.org/en/news/netherlands-supreme-court-hands-down-historic-judgment-over-srebrenica-genocide-2013-09-06

402 POLONIA

REPUBBLICA DI POLONIA

Capo di stato: Bronislaw Komorowski Capo di governo: Ewa Kopacz (subentrata a Donald Tusk a settembre)

L’ex presidente polacco ha ammesso che la Polonia ha ospitato prigioni segrete della Cia. La Corte europea dei diritti umani ha emesso una sentenza contro la Polonia per la sua complicità nel sistema di detenzione segreta e tortura della Cia. Sono perdurate le preoccupazioni sulla tutela e la realizzazione dei diritti sessuali e riproduttivi. La Polonia non ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA La Polonia è divenuto il primo paese membro dell’Eu a essere riconosciuto complice dei programmi americani di rendition e detenzione segreta autorizzati dal presidente americano George W. Bush, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Usa. A luglio, con due diversi verdetti, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che il governo polacco aveva collaborato con la Cia alla creazione di una prigione segreta a Stare Kiejkuty, in cui i prigionieri erano stati trattenuti in segreto, sottoposti a spa- rizioni forzate e torturati. I due ricorrenti, Abd al-Rahim al-Nashiri e Zayn al-Abidin Muhammad Husayn (Abu Zubaydah), si erano rivolti alla Corte europea rispettivamente nel 2011 e nel 2013. Abd al-Rahim al-Nashiri, un cittadino saudita sospettato di aver organizzato l’attentato al cacciatorpediniere americano Uss Cole, al largo delle coste dello Yemen nel 2000, ha denunciato di essere stato interrogato in una struttura segreta in Polonia e sottoposto a “tecniche rinforzate d’interrogatorio” e ad altre violazioni dei diritti umani, come ad esempio “esecuzioni simulate” con una pistola e minacce di aggressioni sessuali alla sua famiglia. Anche Abu Zubaydah, un palestinese apolide nato in Arabia Saudita, ha denunciato di essere stato trattenuto in Polonia dove, secondo la sua testimonianza, è stato sottoposto a dolore fisico estremo e a sofferenze psicologiche, inclusa la tecnica del waterboarding (annegamento simulato). Abd al-Rahim Al-Nashiri ha affrontato un processo capitale dinanzi a una commissione militare a Guantánamo Bay. La Corte europea ha rilevato che la Polonia aveva violato la Convenzione europea dei diritti umani per una serie di motivi, tra cui il non aver indagato in merito ai reclami presentati dai due uomini e l’aver permesso che fossero torturati, sottoposti ad altri maltrattamenti, detenuti in segreto e trasferiti in altri luoghi in cui erano a rischio di ulteriori violazioni dei diritti umani. La Corte ha anche riaffermato il diritto delle vittime e dell’opinione pubblica di conoscere la verità. A ottobre, il governo ha sottoposto i casi alla Grande camera della Corte europea per una revisione de novo. A fine anno, la camera non aveva ancora assunto una decisione in merito alla richiesta del governo. A ottobre 2013, un terzo uomo che aveva denunciato di essere stato trattenuto in un luogo di detenzione segreto nel 2003 ha ottenuto lo status di parte lesa, durante l’indagine nazionale della Polonia nel sito della Cia. Walid bin Attash, di nazionalità yemenita, era ancora detenuto, in attesa di processo dinanzi a una commissione militare a Guantánamo Bay. Un quarto uomo, Mustafa al-Hawsawi, ha presentato

403 istanza al pubblico ministero per ottenere anch’egli lo status di parte lesa nell’indagine in corso sulle denunce dei programmi di rendition e detenzione segreta. A fine anno, il pubblico ministero stava con- siderando se ribaltare una precedente decisione contraria all’istanza di Mustafa al-Hawsawi. Dopo anni di negazioni, a dicembre l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski ha ammesso che la Polonia aveva ospitato centri di detenzione segreta della Cia, dove i prigionieri erano stati trattenuti tra il 2002 e il 2003. La presa di responsabilità è arrivata in conseguenza della pubblicazione di una sintesi pesantemente censurata di un rapporto del senato Usa sul programma di detenzione segreta della Cia. Sebbene la Polonia non fosse nominata, i fatti relativi a quelli che sono chiamati “siti di detenzione blu” nel rapporto del senato confermavano i dati della detenzione e i resoconti della tortura presentati da Abu Zubaydah e Abd al-Rahim al-Nashiri alla Corte europea.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI I progressi per garantire l’accesso all’aborto legale sono stati scarsi, nonostante nell’ottobre 2012 la Corte europea dei diritti umani avesse stabilito, nel caso P. e S. vs. Polonia, che la Polonia aveva violato il diritto alla vita privata e alla libertà da trattamenti disumani e degradanti di una ragazza di 14 anni, negandole il diritto di abortire in modo legale. Le autorità non hanno introdotto misure per assicurare l’implementazione efficace della legge sull’aborto e garantire che l’obiezione di coscienza degli operatori sanitari non impedisse il pieno accesso delle donne a servizi previsti dalla legge. A giugno, una donna si è vista rifiutare la possibilità di abortire nonostante gli esami prenatali avessero rilevato danni gravi e irreversibili per il feto. Sebbene la legge consenta l’aborto in tali casi, il direttore di un ospedale pubblico di Varsavia non ha permesso che l’interruzione di gravidanza av- venisse nella sua struttura, adducendo motivi di coscienza, malgrado il fatto che l’esenzione per obiezione di coscienza riguarda le singole persone e non gli istituti. Il bambino è morto 10 giorni dopo il parto. A luglio, il ministero della Salute ha multato l’ospedale per aver violato i diritti della paziente e il sindaco di Varsavia ha licenziato il direttore. In risposta a questo caso, la commissaria per i diritti del malato ha raccomandato al governo di modificare i regolamenti sull’obiezione di coscienza.

DISCRIMINAZIONE A marzo, il Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione razziale ha rilevato un aumento dei crimini d’odio, comprese aggressioni antisemite. Ha inoltre criticato la mancanza nel codice penale di una norma che contemplasse la matrice razzista come una circostanza aggravante di reato. La legislazione antidiscriminazione non ha fornito uguale tutela in tutti gli ambiti e per tutti i motivi. La discriminazione non è stata esplicitamente proibita per motivi d’identità sessuale ed è stata vietata per motivi di orientamento sessuale soltanto in ambito lavorativo.

SISTEMA GIUDIZIARIO A gennaio è entrata in vigore la legge sui procedimenti nei confronti di persone affette da disordini mentali. La nuova legge ha permesso ai tribunali d’imporre misure preventive verso persone condannate che soffrano di disordini mentali che costituiscano una minaccia per la vita, la salute e la libertà sessuale altrui. Tra le varie misure, era prevista anche la possibilità d’isolamento in strutture di salute mentale chiuse, al termine della pena carceraria. Il presidente ha inviato la legge per revisione alla Corte costituzionale.

404 DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI La nuova legge sugli stranieri, entrata in vigore a maggio, ha esteso a 24 mesi il periodo massimo di detenzione per richiedenti asilo. Secondo le Ngo polacche Fondazione Helsinki per i diritti umani e As- sociazione per l’intervento legale, quasi una persona su quattro trattenuta in detenzione per immi- grazione era un minore. A ottobre, la Corte europea dei diritti umani ha chiesto al governo di chiarire le circostanze della de- tenzione amministrativa di una richiedente asilo di etnia cecena e dei suoi cinque bambini. La donna e i bambini sono stati espatriati in Cecenia a marzo, anche se la loro procedura d’asilo era ancora pendente.

PORTOGALLO

REPUBBLICA PORTOGHESE

Capo di stato: Aníbal António Cavaco Silva Capo di governo: Pedro Manuel Mamede Passos Coelho

Hanno continuato ad arrivare notizie di uso eccessivo della forza da parte della polizia e di condizioni carcerarie inadeguate. I rom hanno continuato a essere vittime di discriminazione. Le misure di austerità hanno condizionato il godimento dei diritti economici e sociali e, in alcuni casi, sono state dichiarate incostituzionali.

CONTESTO A maggio, il rapporto del gruppo di lavoro sull’Esame periodico universale delle Nazioni Unite sul Por- togallo ha sottolineato la necessità di proteggere i gruppi sociali più vulnerabili dall’impatto negativo delle misure di austerità adottate nel 2013. Sempre a maggio, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali diverse misure di austerità a causa del loro impatto sproporzionato sui diritti economici e sociali. Le misure adottate nel 2013 riguardavano i salari dei dipendenti pubblici, le pensioni, i congedi per malattia e i sussidi per la disoccupazione. Nel caso dei salari, non c’è stata riparazione con effetto retroattivo per le conseguenze negative già create da tali misure. A fine anno, il governo stava progettando di reintrodurre analoghi provvedimenti nella nuova legge finanziaria.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A luglio, il tribunale di Paços de Ferreira ha condannato a otto mesi di reclusione, con sospensione della pena, due guardie carcerarie che, nel 2010, avevano fatto uso eccessivo della forza contro un detenuto nel carcere cittadino. I due agenti sono entrati nella cella della prigione per costringerlo a pulirla o a uscire per farla pulire. Anche se il detenuto ha obbedito agli ordini di alzarsi in piedi, voltarsi spalle alla cella e faccia alla finestra, gli agenti hanno usato una taser per immobilizzarlo. Il tribunale ha ritenuto che l’uso della taser era stato sproporzionato, soprattutto perché l’uomo non aveva compiuto alcun atto violento contro le guardie.

405 Condizioni carcerarie A dicembre 2013, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha posto l’accento sulle denunce di maltrattamenti e uso eccessivo della forza nelle prigioni, nonché di sovraffollamento e di pessime condizioni di vita, in particolare nel carcere di Santa Cruz do Bispo e nel carcere centrale di Lisbona.

DISCRIMINAZIONE – ROM Sono continuate a pervenire segnalazioni di sgomberi forzati di famiglie rom. A giugno, l’amministrazione comunale di Vidigueira ha fatto demolire, in loro assenza, le case di 67 membri della comunità rom locale, tra cui 35 bambini e tre donne incinte. Secondo i resoconti, lo sgombero è stato effettuato senza precedente notifica e le famiglie non hanno avuto la possibilità di raccogliere le loro cose prima della demolizione delle case. A causa dello sgombero, le famiglie sono rimaste senza tetto. A settembre, nella cittadina di Tomar è stata istituita una classe composta esclusivamente da alunni rom dai sette ai 14 anni. Le autorità competenti non hanno preso alcun provvedimento per affrontare il problema della segregazione dei bambini rom.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A marzo è stato respinto un disegno di legge che intendeva modificare la legislazione in vigore per garantire a coppie dello stesso sesso il diritto di adozione congiunta di minori.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Le nuove norme sull’asilo adottate a gennaio hanno ampliato i criteri per la detenzione di persone in cerca di protezione internazionale. Nel centro di accoglienza per rifugiati di Lisbona, gestito dal consiglio portoghese per i rifugiati, che ospita i richiedenti in attesa di determinazione della domanda d’asilo, il sovraffollamento è rimasto un problema.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Secondo i dati forniti dalla Ngo Unione di donne alternativa e risposta (União de Mulheres Alternativa e Resposta – Umar), al 30 novembre, 40 donne erano state uccise da partner, ex partner e familiari stretti, oltre a 46 tentati omicidi. Il numero era cresciuto rispetto al 2013, quando erano stati registrati 37 omicidi nell’intero anno.

REGNO UNITO

REGNO UNITO DI GRAN BRETAGNA E IRLANDA DEL NORD

Capo di stato: regina Elisabetta II Capo di governo: David Cameron

Il primo ministro ha confermato che se nel 2015 venisse eletto un governo del partito conservatore, la legge sui diritti umani verrebbe abrogata. Le denunce di tortura in relazione alle operazioni antiterro-

406 rismo all’estero sono rimaste irrisolte. Il governo ha approvato una legge che ha esteso i poteri per l’intercettazione dei dati delle comunicazioni. I meccanismi per il riconoscimento delle responsabilità per le violazioni e gli abusi storici dei diritti umani in Irlanda del Nord sono stati inadeguati. In Irlanda del Nord l’accesso all’aborto ha continuato a essere estremamente limitato.

SVILUPPI LEGISLATIVI, COSTITUZIONALI O ISTITUZIONALI A settembre, nel referendum tenutosi in Scozia, la maggioranza degli elettori ha votato contro l’indi- pendenza. Associazioni benefiche e organizzazioni della società civile hanno espresso preoccupazione circa la legge sulla trasparenza delle lobby, le campagne non effettuate da partiti e l’amministrazione dei sindacati, entrata in vigore a settembre. La legge avrebbe potuto limitare in modo significativo le campagne rivolte all’opinione pubblica in un “periodo stabilito” precedente alle elezioni nazionali. Gli effetti dei tagli all’assistenza legale realizzati nel 2012 e 2013, compresi quelli previsti dalla legge sull’assistenza legale, la condanna e la punizione dei criminali, hanno continuato a limitare l’accesso alla giustizia. Anche le norme introdotte per limitare il controllo giudiziario hanno sollevato analoghe preoccupazioni. A ottobre, il primo ministro Cameron ha confermato che se fosse stato eletto un governo del partito conservatore, questo avrebbe abrogato la legge sui diritti umani e l’avrebbe sostituita con una carta dei diritti britannica, al fine di limitare l’influenza della Corte europea dei diritti umani. Le bozze di proposta facevano temere notevoli restrizioni ai diritti.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI

Inchiesta sui detenuti A dicembre 2013 è stato reso pubblico un rapporto sul lavoro preparatorio dell’inchiesta sui detenuti, 23 mesi dopo che il ministro della Giustizia aveva chiuso l’indagine sulle accuse di coinvolgimento del Regno Unito in torture e altre violazioni nei confronti di persone detenute all’estero durante operazioni di antiterrorismo. Il rapporto ha definito le linee guida d’indagine per qualsiasi inchiesta futura. Il governo ha annunciato che le questioni sollevate dalla relazione dell’inchiesta sui detenuti sarebbero state affrontate dalla commissione parlamentare su intelligence e sicurezza, invece che da un’inchiesta pubblica indipendente.1 Il governo ha rinviato a tempo indeterminato la prospettiva di una nuova inchiesta indipendente e guidata da un giudice.

Rendition libiche Il 30 ottobre, la corte d’appello ha stabilito che esistevano motivi validi per esercitare la propria giu- risdizione su una causa civile intentata dai coniugi Abdul Hakim Belhaj e Fatima Boudchar, che avevano denunciato di essere stati vittime di rendition, tortura e altri maltrattamenti nel 2004, per mano del governo americano e libico, con la consapevolezza e la collaborazione di funzionari britannici.2 Il governo ha presentato ricorso contro la decisione.

Assicurazioni diplomatiche Il governo ha continuato a fare affidamento su assicurazioni diplomatiche inaffidabili e inapplicabili per espellere persone che riteneva costituire una minaccia per la sicurezza nazionale verso paesi in cui rischiavano gravi violazioni dei diritti umani, compresa la tortura.

407 A luglio 2013, le autorità britanniche hanno espulso Abu Qatada in Giordania, dove la corte di sicurezza dello stato ha tenuto conto di “confessioni” inquinate dalla tortura in due processi penali contro di lui (cfr. Giordania). A luglio 2014, la corte d’appello ha esaminato un ricorso di otto cittadini algerini contro una decisione della commissione speciale d’appello per l’immigrazione del gennaio 2013, che ne permetteva l’espulsione grazie ad assicurazioni diplomatiche.

Forze armate in Iraq A maggio 2013, l’Alta corte ha stabilito che il gruppo per le accuse storiche (Iraq Historical Allegations Team – Ihat), un organismo interno al ministero della Difesa, istituito per indagare sulle accuse di abusi su civili iracheni da parte delle forze armate britanniche tra marzo 2003 e luglio 2009, non aveva adempiuto ai suoi obblighi di difendere il diritto alla vita. Il giudice ha stabilito che erano ne- cessarie piccole indagini sul modello delle inchieste giudiziarie ma ha respinto la tesi dei ricorrenti, secondo la quale l’Ihat mancava d’indipendenza e avrebbe dovuto essere sostituito da un’unica in- chiesta pubblica. A maggio 2014, il procuratore della Corte penale internazionale ha riaperto un’indagine preliminare circa le accuse di crimini di guerra commessi in Iraq dalle forze armate britanniche, tra cui sistematici abusi sui detenuti. A novembre, un giudice dell’Alta corte ha stabilito che due uomini pakistani catturati dalle forze bri- tanniche in Iraq nel 2004 e successivamente trasferiti alla custodia degli Stati Uniti in Afghanistan, avevano il diritto di citare in giudizio per danni il governo britannico in tribunali del Regno Unito. A dicembre sono state rese pubbliche le conclusioni dell’inchiesta Al-Sweady, istituita nel 2009 per esaminare le accuse secondo le quali i soldati britannici avevano torturato e maltrattato nove prigionieri iracheni, dopo una battaglia nelle vicinanze della città di Majar al-Kabir, nel sud dell’Iraq, nel 2004. Il rapporto ha stabilito che le più gravi accuse erano “totalmente senza fondamento” ma ha riconosciuto che le pratiche di gestione dei detenuti erano state “non soddisfacenti” e “sviluppate ad hoc”; una situazione aggravata dalla mancanza di una guida per i soldati.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA A ottobre 2013, nel caso R. vs. Gul, la Corte suprema ha espresso la propria preoccupazione per la definizione giuridica eccessivamente ampia di terrorismo, riferendosi a rapporti del revisore indipen- dente sulla legislazione antiterrorismo. A febbraio 2014, tuttavia, l’Alta corte ha dichiarato che la de- cisione di fermare, interrogare e detenere David Miranda, coniuge del giornalista Glenn Greenwald, nell’agosto 2013, secondo quanto previsto dall’allegato 7 della legge sul terrorismo del 2000, era stata legittima e proporzionata. La decisione è stata impugnata. Nel corso dell’anno, il revisore indi- pendente ha ribadito la sua richiesta di restringere la definizione di “terrorismo” e “attività legate al terrorismo”. A ottobre è crollato l’impianto accusatorio nei confronti del cittadino britannico Moazzam Begg. Egli era sotto processo per sette reati connessi al terrorismo, relativi alla Siria. Dopo aver ricevuto nuove informazioni, presumibilmente dal servizio di sicurezza britannico MI5, l’accusa non ha presentato alcuna prova al processo. Il giudice ha formalmente inserito il giudizio “non colpevole” per tutti i sette capi d’accusa.3 A novembre, il governo ha introdotto, con procedura accelerata, la legge su antiterrorismo e sicurezza,

408 che conferiva il potere di limitare la possibilità di viaggiare a persone sospettate di coinvolgimento in attività legate al terrorismo, con l’esclusione di alcuni residenti nel Regno Unito che si rifiutavano di accettare le condizioni imposte dal governo circa il loro ritorno a casa. Ha anche aggiunto poteri secondo le attuali misure di prevenzione del terrorismo e d’investigazione, di limitare la libertà, il mo- vimento e le attività delle persone ritenute una minaccia per la sicurezza nazionale.

IRLANDA DEL NORD I meccanismi e le istituzioni incaricate di affrontare il “retaggio” di violazioni dei diritti umani (legate al conflitto o storiche) dei decenni precedenti hanno operato in maniera frammentaria e graduale. Il gruppo per le inchieste storiche (Historical Enquiries Team – Het), incaricato dal 2006 di riesaminare tutti i decessi attribuiti al conflitto in Irlanda del Nord, è stato chiuso a seguito di ampie critiche. A luglio 2013, l’ispettorato di polizia della corona aveva rilevato che l’Het aveva rivisto casi che coin- volgevano lo stato con rigore inferiore a quello applicato negli altri. Il trasferimento, annunciato a di- cembre, di parte dell’attività dell’Het a un’unità investigativa sul passato all’interno del servizio di polizia dell’Irlanda del Nord (Police Service of Northern Ireland – Psni) ha fatto sorgere timori in merito all’indipendenza delle future revisioni dei casi. Per tutto il 2013 e il 2014, ci sono state riforme positive relative all’ufficio del difensore civico della polizia per l’Irlanda del Nord (Office of the Police Ombudsman for Northern Ireland – Oponi). Un rapporto del 30 settembre dell’ispettore per la giustizia penale dell’Irlanda del Nord ha rilevato che la fiducia nelle indagini dell’Oponi per i casi storici era stata “completamente ristabilita”. Tuttavia, nello stesso giorno, i tagli al bilancio dell’Oponi hanno portato alla perdita del 25 per cento del personale impegnato sui casi storici e a gravi preoccupazioni circa la capacità dell’Oponi di completare il suo lavoro in merito. La scarsità di risorse e i ritardi nel sistema di inchieste del coroner dell’Irlanda del Nord sono rimasti endemici. In un giudizio emesso a novembre, il presidente dell’Alta corte di giustizia dell’Irlanda del Nord ha osservato che la mancanza di norme per colmare le lacune nel sistema delle inchieste impediva ai coroner di esercitare il loro ruolo in modo soddisfacente e rapido. Il governo è rimasto riluttante ad avviare inchieste pubbliche in casi storici. A settembre 2013, la ministra per l’Irlanda del Nord ha rifiutato d’istituire un’inchiesta sull’attentato dinamitardo di Omagh dell’agosto 1998, compiuto dal gruppo armato Real Ira. Il governo ha continuato a rifiutarsi d’istituire un’inchiesta indipendente per l’uccisione dell’avvocato Patrick Finucane, avvenuta a Belfast nel 1989.4 A settembre 2013, erano iniziati i colloqui tra le parti, presieduti dall’ex diplomatico statunitense Richard Haass, con l’obiettivo di giungere a un accordo sulle sfilate e le manifestazioni di protesta, sull’uso di bandiere, simboli ed emblemi e su come affrontare il passato. I colloqui si sono conclusi il 31 dicembre 2013 senza che l’accordo fosse stato raggiunto. Le proposte di Haass prevedevano due meccanismi: un’unità storica d’investigazione (Historical Investigation Unit – Hiu) e una commissione indipendente per il recupero delle informazioni (Independent Commission for Information Retrieval – Icir).5 Ulteriori colloqui, che si sono conclusi a dicembre 2014, sono arrivati all’accordo di principio di andare avanti con le proposte di Haass per l’Hiu e l’Icir, sebbene a fine anno non fossero stati comple- tamente definiti i dettagli riguardanti il finanziamento, le risorse, la tempistica e il quadro legislativo. A giugno, il canale televisivo irlandese RTÉ ha trasmesso materiale d’archivio recentemente scoperto, che suggeriva che il Regno Unito avesse dato informazioni fuorvianti alla Corte europea dei diritti

409 umani nel caso Irlanda vs. Regno Unito, rispetto all’uso di cinque tecniche di tortura da parte delle forze di sicurezza britanniche in Irlanda del Nord, nel 1971-72 . A dicembre, il governo irlandese ha chiesto la riapertura del caso da parte della Corte europea. Avvocati delle vittime hanno anche chiesto un’indagine indipendente e rispettosa dei diritti umani, da effettuarsi nel Regno Unito, sulla base delle nuove prove.6

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI L’accesso all’aborto in Irlanda del Nord è rimasto limitato a casi eccezionali in cui fossero a rischio la vita o la salute della donna o ragazza. La legge britannica sull’aborto del 1967 non è stata applicata in Irlanda del Nord. A ottobre, il dipartimento di Giustizia ha aperto una consultazione sull’opportunità di legiferare per l’accesso all’aborto in caso di stupro, incesto e fatale anomalia del feto.

SORVEGLIANZA A luglio è entrata in vigore la legge sulla conservazione dei dati e sui poteri d’indagine, che ha esteso la portata dei poteri d’intercettazione delle autorità, garantendo risultati potenzialmente di ampio respiro con effetti extraterritoriali ai mandati d’intercettazione emessi dal Regno Unito. Non sono state inserite salvaguardie sufficienti a garantire che tale sorveglianza fosse autorizzata e realizzata in conformità con i diritti alla riservatezza e alla libertà d’espressione. A dicembre, il tribunale per i poteri d’indagine (Investigatory Powers Tribunal – Ipt) ha reso pubblico il suo giudizio aperto sulla prima parte di una denuncia presentata da Amnesty International e da altre Ngo sulle pratiche di sorveglianza delle comunicazioni da parte delle autorità britanniche. L’Ipt ha stabilito che le pratiche di sorveglianza delle autorità erano conformi alla legge. Aspetti significativi del procedimento sono stati tenuti segreti.7

RIFUGIATI E DIRITTI DEI MIGRANTI A gennaio, il governo ha annunciato che avrebbe provveduto al reinsediamento di 500 rifugiati siriani vulnerabili. Il programma di reinsediamento delle persone vulnerabili ha dato priorità all’assistenza ai sopravvissuti alla tortura e alla violenza, a donne e bambini a rischio e a coloro che necessitavano di cure mediche, individuati dall’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite. A marzo, una giuria d’inchiesta ha emesso un verdetto di uccisione illegale per il decesso, avvenuto nel 2010, di Jimmy Mubenga, un cittadino angolano morto dopo essere stato immobilizzato da agenti di sicurezza privati, a bordo di un aereo che lo stava rimpatriando in Angola. A dicembre, le tre guardie coinvolte nella sua espulsione sono state prosciolte dall’accusa di omicidio colposo. A luglio, l’Alta corte ha stabilito che la detenzione a lungo termine per immigrazione di una donna ori- ginaria della Guinea aveva costituito un trattamento disumano e degradante. Era la sesta volta che la corte emetteva un verdetto del genere dal 2011. A dicembre, la corte d’appello ha stabilito che la politica del Regno Unito fondata sulla procedura per la determinazione dell’asilo “accelerata per i detenuti” era illegale e ha confermato la precedente de- cisione dell’Alta corte di luglio, secondo la quale l’inadeguato accesso alla rappresentanza legale rendeva illegittima la procedura.

TRATTA DI ESSERI UMANI A giugno, il governo ha pubblicato un progetto di legge per affrontare la schiavitù e la tratta di esseri

410 umani in Inghilterra e Galles. Il disegno di legge sulla schiavitù moderna è stato modificato per includere disposizioni valide in tutto il Regno Unito, tra cui la creazione di un commissario antischiavitù. Sempre a giugno, la normativa contro la tratta è stata presentata all’assemblea dell’Irlanda del Nord. A dicembre, una legislazione simile è stata presentata al parlamento scozzese.

Note 1. United Kingdom: Joint NGO letter (EUR 45/005/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR45/005/2014/en 2. UK: Court of Appeal allows lawsuit to proceed in case of illegal rendition to torture in Libya (EUR 45/010/2014), www.amnesty.org/ en/library/info/EUR45/010/2014/en 3. UK: Collapsed prosecution of Moazzam Begg (EUR 45/009/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR45/009/2014/en 4. United Kingdom/Northern Ireland: Still no public inquiry twenty-five years after the killing of Patrick Finucane (EUR 45/003/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR45/003/2014/en 5. United Kingdom/Northern Ireland: Haass proposals on dealing with the past (EUR 45/001/2014), www.amnesty.org/en/li- brary/info/EUR45/001/2014/en 6. UK/Ireland: Landmark ‘hooded men’ torture case should be re-opened, www.amnesty.org/en/news/ukireland-landmark- hooded-men-torture-case-should-be-re-opened-2014-11-24 7. UK court decision on government mass surveillance: ‘Trust us’ isn’t enough (comunicato stampa), www.amnesty.org/ en/for-media/press-releases/uk-court-decision-government-mass-surveillance-trust-us-isnt-enough-2014-12

ROMANIA

ROMANIA

Capo di stato: Klaus Johannis (subentrato a Traian Băsescu a dicembre) Capo di governo: Victor Ponta

Un ex alto funzionario dei servizi d’intelligence ha confermato che la Romania aveva collaborato con la Cia per istituire una prigione segreta nel paese. I rom hanno continuato a subire discriminazioni, sgomberi forzati e altre violazioni dei diritti umani. Un cittadino saudita detenuto a Guantánamo Bay ha presentato una denuncia presso la Corte europea dei diritti umani, sostenendo di essere stato tenuto in un luogo segreto di detenzione nella capitale Bucarest. La commissione parlamentare per la revisione della costituzione ha approvato un emendamento che ha limitato la protezione dalla discri- minazione.

CONTESTO A gennaio, la Commissione europea ha espresso preoccupazioni circa l’indipendenza del sistema giudiziario. Ngo internazionali e rumene si sono dichiarate preoccupate perché le autorità non si erano impegnate seriamente per il processo di revisione da parte del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali. A dicembre, nelle sue conclusioni della prima revisione della si- tuazione della Romania da oltre 20 anni, il Comitato ha criticato il governo per non aver garantito la

411 protezione efficace di una vasta gamma di diritti umani sanciti dall’Icescr, compreso il diritto all’alloggio adeguato, acqua e servizi igienico-sanitari, e dei diritti sessuali e riproduttivi.

DISCRIMINAZIONE – ROM I rom hanno continuato a subire sistematiche discriminazioni. Funzionari pubblici hanno utilizzato un linguaggio discriminatorio e stigmatizzante nei confronti dei rom. A febbraio, il presidente Traian Băsescu è stato multato per la seconda volta dal consiglio nazionale per la lotta alla discriminazione. Nel corso di una visita ufficiale in Slovenia, nel novembre 2010, affermò che “tra i nomadi rom, sono molto pochi quelli che vogliono lavorare e molti di loro, tradizionalmente, vivono di quello che rubano”. A luglio, la corte d’appello di Cluj-Napoca ha rilevato che il governo non aveva messo in atto le misure promesse dopo le aggressioni contro le comunità rom di Hădăreni, tra cui progetti di sviluppo delle comunità per migliorare le condizioni di vita e le relazioni interetniche. Gli eventi di Hădăreni sono compresi tra i circa 30 episodi di violenza di massa contro le comunità rom in tutta la Romania, nei primi anni Novanta. A settembre 2013, l’Alta corte di cassazione e di giustizia ha confermato la decisione del 2011 del Consiglio nazionale per la lotta alla discriminazione secondo cui il muro di cemento eretto a Baia Mare per separare gli isolati di case abitate da rom dal resto della zona residenziale equivaleva a di- scriminazione.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI Le osservazioni conclusive del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali hanno esortato il governo a garantire l’accesso a un alloggio adeguato per i gruppi svantaggiati ed emarginati, compresi i rom, e a modificare la legislazione per vietare gli sgomberi forzati.1 Le autorità locali hanno continuato a sgomberare con la forza le comunità rom. Alcune sono state tra- sferite in alloggi inadeguati e segregati, mentre altre sono divenute a tutti gli effetti senza tetto. Le famiglie rom che vivevano da oltre 40 anni in un insediamento informale a Eforie Sud, nella contea di Constanţa, sono state ripetutamente sgomberate con la forza dalle loro case. A settembre 2013, 101 persone, di cui 55 bambini, sono rimaste senza casa in condizioni meteorologiche avverse, dopo la demolizione delle loro abitazioni seguita a un’ordinanza municipale. Alcune delle famiglie sono state poi ospitate temporaneamente in due edifici scolastici abbandonati in condizioni di vita altamente inadeguate.2 A luglio 2014, sette delle 10 famiglie che vivevano in una delle ex scuole sono state trasferite in container segregati e inadeguati alla periferia di Eforie Sud, mentre le restanti tre sono rimaste senza casa. Nessuna delle famiglie ha ricevuto rimedi o risarcimenti per le violazioni subite e per la perdita o il danneggiamento dei loro beni. A fine anno, le famiglie rom sgomberate con la forza ad agosto 2013 dall’insediamento Craica, a Baia Mare, non avevano ancora ottenuto un adeguato alloggio alternativo. Lo sgombero forzato rientrava in un progetto per la costruzione di un acquedotto cofinanziato da ministero rumeno del- l’Ambiente, Unione europea e Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.3 Le famiglie hanno continuato a vivere in abitazioni improvvisate che avevano costruito dopo le demolizioni del 2013. A dicembre 2013, il tribunale della contea di Cluj-Napoca ha dichiarato illegittima la decisione del sindaco di sgomberare forzatamente circa 300 rom dal centro della città e di trasferirli in un sito adiacente a una discarica di rifiuti. Lo sgombero forzato era stato effettuato a dicembre 2010. Il tri- bunale ha ordinato al comune il risarcimento dei danni e la fornitura di un alloggio adeguato ai ri-

412 correnti. A ottobre 2014, a seguito del ricorso presentato dal comune, la corte d’appello di Cluj ha deciso di rinviare il caso alla corte distrettuale di Cluj, ritenendo che il caso rientrasse nell’ambito del diritto privato e non amministrativo, in quanto il comune aveva agito nella sua capacità di padrone di casa/proprietario terriero, piuttosto che come autorità pubblica. A fine anno, il caso era ancora pendente.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA A dicembre, un ex capo del servizio d’intelligence ha confermato che la Romania aveva collaborato con la Cia per istituire una prigione segreta nel paese nel 2002. L’ammissione è seguita alla pubbli- cazione di un rapporto del senato americano che forniva dettagli sul programma di detenzione segreta della Cia e la tortura di detenuti. Nel rapporto, il “sito nero di detenzione” avrebbe fatto riferimento a una prigione segreta in Romania. Nel 2012, Abd al-Rahim al-Nashiri, un cittadino saudita detenuto a Guantánamo Bay, ha presentato una denuncia contro la Romania dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, sostenendo di essere stato segretamente detenuto nella capitale Bucarest tra il 2004 e il 2006.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A luglio, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la Romania aveva violato il diritto alla vita di Valentin Câmpeanu, un rom sieropositivo affetto da malattia mentale, morto nel 2004 per le cure inappropriate e le condizioni di vita presso l’ospedale psichiatrico di Poiana Mare. Sempre a luglio, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha criticato le condizioni di vita inadeguate e le continue segnalazioni di maltrattamenti negli istituti per adulti e bambini con disabilità mentali e fisiche, nonostante ormai da tempo il governo avesse espresso l’obiettivo di ridurre il numero di persone disabili trattenute negli istituti. Il Commissario ha inoltre espresso preoccupazione per le segnalazioni di uso eccessivo della forza da parte della polizia durante le perquisizioni svolte in abitazioni di rom a Reghin, nel distretto di Mureş, nel 2013 e ha raccomandato la creazione di un meccanismo indipendente di ricorso per le violazioni commesse da agenti di polizia.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI Secondo diverse Ngo internazionali e nazionali, l’accesso delle donne ai servizi per l’aborto legale ha continuato a essere ostacolato, tra l’altro, dalla consulenza obbligatoria o di parte, dall’obiezione di coscienza dei medici e da informazioni limitate sui servizi disponibili.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE A giugno 2013, la commissione parlamentare per la revisione costituzionale aveva approvato un emendamento che rimuoveva l’orientamento sessuale dall’elenco dei motivi tutelati dalle disposizioni antidiscriminazione nella costituzione. In seconda votazione, dopo averlo inizialmente approvato, la commissione ha respinto un emendamento che proponeva di modificare la definizione di famiglia con matrimonio liberamente scelto tra “un uomo e una donna” invece che tra “coniugi”.

413 Note 1. Romania falls short of its international human rights obligations on Economic, Social and Cultural Rights (EUR 39/004/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR39/004/2014/en 2. Romanian local authorities must provide housing for homeless families after forced eviction (EUR 39/018/2013), amnesty.org/en/library/info/EUR39/018/2013/en Romania: Families homeless after forced eviction (EUR 39/019/2013), www.amnesty.org/en/library/info/EUR39/019/2013/en Romanian government is failing homeless Roma in Eforie Sud (EUR 39/021/2013), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR39/021/2013/en Romania: Submission to the Pre-sessional Working Group of the UN Committee on Economic, Social and Cultural Rights, 53rd meeting (EUR 39/02/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR39/002/2014/en 3. How the EBRD’s funding contributed to forced evictions in Craica, Romania (EUR 39/001/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR39/001/2014/en

RUSSIA

FEDERAZIONE RUSSA

Capo di stato: Vladimir Putin Capo di governo: Dmitry Medvedev

Si sono notevolmente ridotti il pluralismo dei mezzi d’informazione e lo spazio per l’espressione del dissenso. Le restrizioni ai diritti alla libertà d’espressione, di riunione e d’associazione introdotte nel 2012 sono state applicate assiduamente e ulteriormente ampliate. Alcune Ngo hanno subito molestie, campagne diffamatorie pubbliche e pressioni perché si registrassero come “agenti stranieri”. Diversi manifestanti e attivisti della società civile sono stati condannati in seguito a processi politici iniqui. La tortura e altri maltrattamenti hanno continuato a essere usati nell’impunità. La situazione nel Caucaso del Nord è rimasta instabile e segnata da violazioni dei diritti umani, senza rimedi legali ef- ficaci per le vittime, e difensori dei diritti umani, giornalisti e avvocati indipendenti hanno continuato ad affrontare rischi personali per il loro lavoro.

CONTESTO A febbraio, la Russia ha ospitato a Soči un’edizione molto seguita delle Olimpiadi invernali. A fine anno, dopo aver annesso la Crimea a marzo e aver fornito costante sostegno ai separatisti della regione del Donbass nell’Ucraina orientale, la Russia ha affrontato un crescente isolamento a livello internazionale. Le autorità russe hanno adottato una retorica antioccidentale e antiucraina sempre più bellicosa, che ha avuto vasta eco nel paese attraverso i mezzi d’informazione tradizionali controllati dal governo. Nonostante le crescenti difficoltà economiche e i previsti tagli alla spesa sociale, causati in parte

414 dalle sanzioni occidentali, dal calo dei prezzi del petrolio (principale prodotto d’esportazione della Russia) e dalla corruzione, la leadership russa ha visto aumentare il sostegno popolare, alimentato in larga misura dall’annessione ampiamente acclamata della Crimea (che era stata sotto l’ammini- strazione russa nell’Unione Sovietica fino al 1954). Anche se in scala ridotta, i combattimenti in Ucraina sono continuati anche dopo la tregua concordata a settembre grazie alla mediazione russa. Il governo ha costantemente negato che la Russia stesse fornendo attrezzature militari, personale e altre forme d’assistenza ai separatisti del Donbass, nono- stante ci fossero sempre più numerose prove del contrario. Nella Crimea occupata sono entrate in vigore le leggi russe e i diritti alla libertà d’espressione, riunione e associazione sono stati in conse- guenza significativamente ridotti.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE

Mezzi d’informazione e giornalisti Il governo ha rafforzato il suo controllo sui mezzi d’informazione tradizionali, che sono diventati deci- samente meno pluralisti. La maggior parte dei mezzi di comunicazione che nominalmente non era sotto il controllo statale ha applicato un grado maggiore di autocensura, lasciando raramente o mai spazio a opinioni sgradite alle autorità. Gli organi d’informazione dissenzienti hanno subito notevoli pressioni sotto forma di ammonimenti ufficiali, rimozione di personale di redazione e interruzione di rapporti commerciali. I mezzi d’informazione pubblici e privati filogovernativi sono stati usati per dif- famare gli oppositori politici e le voci critiche, incluse le Ngo indipendenti. A fine gennaio, l’emittente televisiva Dožd’ TV è stata rimossa dalle trasmissioni satellitari e via cavo, poiché aveva avviato un controverso dibattito sull’assedio di Leningrado durante la seconda guerra mondiale. Inoltre, le è stata negata la proroga dell’affitto dei locali in cui avevano sede i suoi studi. Malgrado fossero state accampate motivazioni commerciali, è stata evidente l’influenza della politica in tali decisioni. Dožd’ TV era ben nota per il suo giornalismo politico indipendente, per aver dato spazio a punti di vista opposti e aver raccontato gli eventi di Euromaydan in Ucraina con una vi- sione molto diversa da quella ufficiale. L’emittente è stata costretta a trasmettere solo online e a ri- correre al “crowdfunding” per sopravvivere. A marzo, il proprietario del sito di notizie Lenta.ru ha sostituito la sua caporedattrice dopo aver ricevuto un richiamo ufficiale per la pubblicazione di un’intervista con un attivista della destra nazionalista ucraina, venuto alla ribalta durante Euromaydan. Molti membri del personale si sono dimessi in segno di protesta e la politica editoriale, in precedenza indipendente, è notevolmente cambiata. Sono stati imposti maggiori controlli su Internet. A febbraio è stata promulgata una legge che dava alla procura la facoltà di ordinare all’agenzia di regolazione dei media, Roskomnadzor, di bloccare siti web senza autorizzazione giudiziaria per presunte violazioni, tra cui la pubblicazione di inviti a partecipare a riunioni pubbliche non autorizzate. A marzo, i popolari portali d’informazione Ežednevnyj Jurnal (Giornale quotidiano), Grani.ru e Kasparov.ru sono stati bloccati dopo aver pubblicato notizie sulla dispersione di diverse manifestazioni di protesta spontanee pacifiche a Mosca. La procura ha sostenuto che gli articoli simpatizzavano con le manife- stazioni e che rappresentavano un invito a ulteriori “azioni illegali”. La sua decisione è stata più volte confermata dai successivi ricorsi legali e a fine anno i siti erano ancora bloccati.1 Diversi mezzi d’informazione indipendenti hanno ricevuto ammonimenti ufficiali per contenuti “estre-

415 misti” o altri presumibilmente illeciti. La stazione radio indipendente Echo Moskvy è stata costretta a rimuovere dal proprio sito web la trascrizione di un dibattito in studio del 29 ottobre, al quale avevano partecipato due giornalisti testimoni dei combattimenti all’aeroporto di Donetsk, che avevano espresso opinioni filoucraine. La Roskomnadzor ha affermato che il programma conteneva “informazioni che giustificavano i crimini di guerra”. Il moderatore della discussione, Aleksandr Pljuščev è stato in seguito sospeso per due mesi a causa di un tweet personale inappropriato ma estraneo alla questione. La sua sospensione è stata il risultato di un compromesso raggiunto tra il caporedattore Aleksej Ve- nediktov e i dirigenti di Gazprom Media, principale azionista della stazione radio, che inizialmente avevano cercato di licenziare Aleksandr Pljuščev e minacciato di rimuovere Aleksej Venediktov. Sono continuate le aggressioni fisiche ai giornalisti. Ad agosto, molti sono stati aggrediti in diversi episodi, mentre cercavano di riferire in merito a funerali segreti dei militari russi probabilmente uccisi in Ucraina. Il 29 agosto, Lev Šlosberg, editore di Pskovskaja Gubernija, il primo giornale ad aver riferito dei funerali segreti, è stato brutalmente picchiato e ricoverato in ospedale con ferite alla testa. L’indagine non ha identificato i suoi tre aggressori ed è stata sospesa alla fine dell’anno. Timur Kuašev, un giornalista della repubblica autonoma Kabardino-Balkaria, che aveva lavorato a stretto contatto con i difensori dei diritti umani locali, è stato trovato morto il 1° agosto. Secondo quanto riferito, la sua morte misteriosa è stata causata da un’iniezione letale. Le uccisioni di altri giornalisti nel Caucaso del Nord negli anni precedenti, tra cui Natalia Estemirova, Hajimurad Kamalov e Akhmednabi Akhmednabiev, non sono state indagate in modo efficace e i loro assassini non sono stati identificati. A giugno, cinque uomini sono stati condannati al carcere per l’uccisione della gior- nalista investigativa Anna Politkovskaja avvenuta a Mosca nell’ottobre 2006, ma i mandanti del- l’omicidio sono rimasti sconosciuti.

Attivisti Anche singoli e gruppi con opinioni dissenzienti hanno continuato a vedersi negato il diritto alla libertà d’espressione. Tra gli altri, sono state prese di mira le minoranze sessuali, anche a causa della legge federale del 2013 che vietava la “propaganda delle relazioni sessuali non tradizionali tra i minorenni”. Agli attivisti Lgbti è stato costantemente impedito di organizzare manifestazioni pacifiche, anche nei luoghi specificamente designati per le riunioni pubbliche senza autorizzazione preventiva, di solito parchi meno frequentati e di minore passaggio. In tre occasioni, in riferimento a eventi precedentemente vietati, i tribunali hanno confermato il diritto degli attivisti Lgbti di svolgere riunioni pacifiche ma queste sentenze non hanno avuto impatto su decisioni successive. A gennaio, l’attivista Elena Klimova, di Nižnij Tagil, è stata accusata di “propaganda” per il suo progetto online “Children 404” finalizzato a sostenere gli adolescenti Lgbti.2 Nei suoi confronti sono state emesse accuse, poi fatte cadere e di nuovo emesse, ed è stata minacciata la chiusura del suo progetto. Ad aprile, la proiezione di un film sui “Children 404” a Mosca è stata interrotta da manifestanti che hanno fatto irruzione nella sala e gridato slogan offensivi. Questi erano accompagnati da poliziotti armati che hanno insistito a controllare i documenti d’identità di tutti i presenti, al fine di stabilire se ci fossero dei minori.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Rispetto agli anni precedenti, le manifestazioni di protesta in piazza sono complessivamente diminuite,

416 pur con una breve impennata a febbraio e marzo e poi di nuovo a dicembre, in risposta al processo per i fatti di piazza Bolotnaja e al coinvolgimento militare della Russia in Ucraina, nonché per le an- nunciate riforme del sistema sanitario e la condanna di Aleksej e Oleg Naval’nyi. Per le manifestazioni pubbliche sono rimaste in vigore gravose procedure di approvazione. Con poche eccezioni, la maggior parte delle proteste pubbliche sono state fortemente limitate, proibite o disperse. A luglio, le sanzioni sono aumentate significativamente ed è stata introdotta la responsabilità penale punibile con la reclusione, in caso di ripetute violazioni della legge sulle riunioni pubbliche.3 È proseguita l’azione giudiziaria nei confronti degli accusati delle proteste di piazza Bolotnaja del maggio 2012: 10 persone sono state condannate a periodi di reclusione dai due anni e mezzo ai quattro anni e mezzo, per la partecipazione e le presunte violenze durante le proteste, che sono state definite come “disordini di massa”. Sergej Udal’žov e Leonid Razvozžaev sono stati condannati per aver organizzato i “disordini di massa”. Il 20 e 24 febbraio, la polizia ha disperso con la violenza centinaia di manifestanti pacifici riuniti davanti al tribunale di Mosca che stava per emettere il verdetto nel processo Bolotnaja ed è intervenuta allo stesso modo nei successivi raduni nel centro della città. Oltre 600 persone sono state arbitraria- mente arrestate e in gran parte multate. Almeno sei sono state condannate a periodi di “arresto am- ministrativo” tra i cinque e i 13 giorni. Nelle settimane successive, numerosi manifestanti pacifici sono stati fermati, multati e talvolta detenuti per aver partecipato a proteste contro il coinvolgimento militare della Russia in Ucraina e l’annessione della Crimea. Allo stesso tempo, le manifestazioni filogovernative sull’Ucraina sono state autorizzate a sfilare in zone centrali che erano state regolarmente negate ai dimostranti del- l’opposizione. Il 2 marzo, a Samara, diversi attivisti hanno ricevuto minacce di morte anonime, dopo aver tenuto una serie di picchetti con una sola persona (l’unica forma di protesta consentita senza previa auto- rizzazione).4 Ad agosto, tre donne sono state brevemente detenute in una stazione di polizia di Mosca per aver in- dossato abiti con i colori azzurro e giallo della bandiera ucraina. Episodi simili sono stati segnalati in tutto il paese. A fine anno, in diverse città in tutta la Russia hanno avuto luogo proteste di piccole dimensioni, per lo più senza ostacoli, contro gli annunciati tagli alla sanità ma a Mosca quattro manifestanti sono stati condannati a pene tra cinque e 15 giorni di carcere per aver temporaneamente bloccato una strada. Il 30 dicembre, oltre 200 persone sono state arrestate a Mosca per le proteste spontanee seguite al- l’annuncio, effettuato con due settimane d’anticipo rispetto alla data prevista, del verdetto del processo penale politicamente motivato contro l’attivista politico Aleksej Naval’nyi e suo fratello Oleg. Due fermati sono stati condannati a 15 giorni di detenzione e altri 67 sono stati trattenuti per la notte e rilasciati in attesa del processo a gennaio.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE Attivisti della società civile hanno continuato a subire vessazioni, attacchi pubblici alla loro integrità e, in alcuni casi, azioni penali. Per tutto l’anno, organizzazioni indipendenti della società civile hanno subito una crescente pressione a causa della “legge sugli agenti stranieri”, introdotta nel 2012, per costringere le Ngo che ricevevano

417 finanziamenti esteri e si impegnavano in vagamente definite “attività politiche” a registrarsi come “organizzazioni che soddisfano le funzioni di un agente straniero” e a definirsi in ugual modo sul loro materiale pubblico. Nel 2013 e 2014, centinaia di Ngo sono state sottoposte a invadenti “ispezioni” ufficiali e decine sono rimaste invischiate in lunghe udienze di tribunale per respingere tale definizione. A maggio, la legge è stata modificata per dare al ministero della Giustizia il potere di registrare una Ngo come “agente straniero” senza il suo consenso. A fine anno, il ministero aveva registrato 29 Ngo come “agenti stranieri”, tra cui diverse importanti organizzazioni per i diritti umani.5 Almeno cinque Ngo hanno scelto di sciogliersi come diretta conseguenza delle vessazioni subite a causa della “legge sugli agenti stranieri”. Membri della Ngo Vigilanza ambientale per il Caucaso del Nord (Environmental Watch for North Cau- casus – Ekovachta), che avevano evidenziato i danni ambientali causati dalle Olimpiadi di Soči, sono stati sottoposti a un’intensa una campagna di molestie da parte di funzionari della sicurezza prima dei Giochi.6 Due di loro, Evgenij Vitiško e Igor Charčenko, sono stati arrestati per accuse amministrative inventate e detenuti durante l’apertura dei Giochi. Nel corso della detenzione, Evgenij Vitiško ha perso il ricorso in un procedimento penale con imputazioni esagerate, avanzate per far tacere lui e la sua Ngo, ed è stato trasferito direttamente a una colonia penale per scontare la condanna a tre anni.7 A marzo, un giudice ha sospeso l’attività di Ekovachta e a novembre l’Ngo è stata liquidata con un’altra decisione giudiziaria per una trasgressione formale minore. Il ministero della Giustizia si è rivolto ai tribunali per chiudere l’organizzazione Memorial per un presunto errore nella registrazione. L’udienza è stata rinviata mentre la Ngo provvedeva a rettificare la situazione.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti hanno continuato a pervenire in tutto il paese ma molti di coloro che avevano cercato di ottenere riparazione hanno subito pressioni perché ritirassero le de- nunce. Le indagini su tali accuse sono state quasi senza eccezioni inefficaci. Confessioni estorte sotto tortura sono state utilizzate come prove in tribunale. Soltanto in una manciata di casi, di solito grazie all’intervento di Ngo per i diritti umani, i funzionari di polizia implicati sono stati incriminati. I membri di una commissione indipendente di controllo pubblico hanno ripetutamente documentato casi di tortura e altri maltrattamenti di detenuti presso la colonia penale e centro di detenzione prepro- cessuale IK-5, nella regione di Sverdlovsk. A luglio hanno chiesto alle autorità d’indagare sulle denunce di torture di E.G., detenuto nel centro in custodia preventiva, presentando prove fotografiche delle ferite che gli erano state inflitte. Un membro della procura ha risposto in una lettera che, in base ai colloqui con il personale dell’IK-5 e alla documentazione in possesso della sua amministrazione, non risultava che E.G. fosse stato sottoposto a violenze in quell’istituto e che le sue ferite erano precedenti al suo trasferimento nel centro di detenzione. Non è stata intrapresa alcuna ulteriore indagine.

CAUCASO DEL NORD La situazione nel Caucaso del Nord è rimasta instabile e gruppi armati hanno effettuato attacchi sporadici contro funzionari della sicurezza. Secondo quanto riferito, oltre 200 persone hanno perso la vita in diversi episodi, comprese decine di civili. Operazioni di sicurezza condotte in Dagestan, Kabardino-Balkaria, Cecenia e altrove sono state accompagnate da gravi violazioni dei diritti umani, tra cui detenzione illegale, tortura e altri maltrattamenti, presunte sparizioni forzate ed esecuzioni extragiudiziali.

418 Il 4 dicembre, combattenti armati hanno attaccato edifici governativi a Groznyj, in Cecenia, uccidendo almeno un civile e 14 agenti di polizia. Il giorno successivo, Ramzan Kadyrov, presidente della repubblica autonoma, ha pubblicamente promesso di espellere dalla Cecenia i parenti dei membri del gruppo armato e di demolire le loro case. Sono stati bruciati o demoliti almeno 15 edifici, in cui abitavano decine di persone, tra cui bambini piccoli.8 L’11 dicembre, i difensori dei diritti umani che avevano condannato questa azione e che chiedevano un’indagine sono stati colpiti da un lancio di uova durante una conferenza stampa a Mosca. Ramzan Kadyrov ha utilizzato i social media per accusare Igor Kaljapin, leader del Gruppo misto mobile per la Cecenia (Joint Mobile Group for Chechnya - Jmgc) di sostenere i terroristi. L’ufficio del Jmgc a Groznyj è stato distrutto dal fuoco il 14 dicembre, in un presunto incendio doloso, e due suoi membri sono stati perquisiti e detenuti per diverse ore senza spiegazioni dalla polizia, che ha sequestrato i loro telefoni, macchine fotografiche e computer. È prevalsa la quasi totale mancanza di mezzi di ricorso legale per le vittime di violazioni dei diritti umani, poiché il sistema di giustizia penale è rimasto inefficace e soggetto, per lo più clandestinamente, ad alti livelli di pressione politica. Tuttavia, in Cecenia Ramzan Kadyrov ha apertamente ammonito giudici e giurati quando assumevano decisioni su casi penali che egli considerava troppo indulgenti verso gli imputati. Denunciare le violazioni dei diritti umani è rimasta una professione difficile e spesso pericolosa e si ritiene che molte violazioni non siano state segnalate. Difensori dei diritti umani, giornalisti e avvocati indipendenti che hanno lavorato su casi di violazione dei diritti umani hanno continuato a subire mi- nacce e vessazioni da parte delle forze di sicurezza e da individui non identificati. L’attivista della società civile Ruslan Kutaev ha denunciato di essere stato torturato, anche con percosse e scariche elettriche, dopo il suo arresto a febbraio per false accuse di possesso di eroina. Le sue ferite sono state ben documentate da osservatori indipendenti.9 Tuttavia, le autorità investigative hanno accettato la spiegazione dei presunti responsabili, secondo cui le lesioni riportate da Ruslan Kutaev erano il risultato di una caduta e hanno rifiutato di approfondire le indagini sulla denuncia. Dopo un processo iniquo a Urus-Martan, in Cecenia, a luglio è stato condannato a quattro anni di carcere, ridotti di due mesi in appello a ottobre. L’avvocatessa del Dagestan, Sapiyat Magomedova, duramente aggredita dalla polizia nel 2010 in un commissariato mentre incontrava una sua cliente detenuta, ha continuato a ricevere minacce di morte anonime e altre minacce da parte dei funzionari inquirenti, velate ed esplicite. Nessuna delle sue denunce ufficiali è stata indagata in modo efficace. Pur rimanendo preoccupata per la sua sicurezza personale, dei suoi colleghi e della sua famiglia, non ha voluto rinunciare al suo lavoro.10 L’indagine circa il pestaggio subito dalla polizia nel 2010 è stata ufficialmente riaperta ma le autorità non hanno dimostrato di aver fatto alcun progresso, né l’intenzione di perseguire i suoi aggressori.

Note 1. Violation of the right to freedom of expression, association and assembly in Russia (EUR 46/048/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR46/048/2014/en 2. Russian Federation: Journalist charged under “propaganda law”: Elena Klimova, www.amnesty.org/en/library/info/ EUR46/009/2014/en 3. A right, not a crime: Violations of the right to freedom of assembly in Russia, (EUR 46/028/2014) www.amnesty.org/en/li- brary/info/EUR46/028/2014/en

419 4. Russian Federation: Peace activists receive death threats, www.amnesty.org/en/library/asset/EUR46/022/2014/en/ 56bb391a-be6b-458f-8bca-05723a2eb17b/eur460222014en.html 5. Violations of the right to freedom of expression, association and assembly in Russia (EUR 46/048/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR46/048/2014/en 6. Russian Federation: Serious human rights violations associated with the preparation for and staging of the Sochi Olympic Games, open letter to the Chair of the International Olympic Committee, 10 febbraio 2014 (EUR 46/008/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR46/008/2014/en 7. Russia: Legacy of Olympic games tarnished by arrests, 22 febbraio 2014, www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/russia-legacy-olympic-games-tarnished-arrests-2014-02-22 8. Russia: Burning down homes after Chechnya clashes appears to be collective punishment, www.amnesty.org/en/news/rus- sia-burning-down-homes-after-chechnya-clashes-appears-be-collective-punishment-2014-12-09-0 9. Russian Federation: Imprisoned activist must be released immediately: Ruslan Kutaev, (EUR 46/052/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR46/052/2014/en 10. Russian Federation: Further information: New death threats against Dagestan lawyers, (EUR 46/034/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR46/034/2014/en

SERBIA

REPUBBLICA DI SERBIA, COMPRESO IL KOSSOVO

Capo di stato: Tomislav Nikolić Capo di governo: Aleksandar Vučić (subentrato a Ivica Dačić ad aprile)

Sono stati compiuti progressi nelle indagini sugli omicidi irrisolti di giornalisti di primo piano. Il per- seguimento dei crimini di guerra è progredito con lentezza. Per la prima volta dal divieto del 2010, si è svolto il Pride di Belgrado. In Kossovo è stata proposta l’istituzione di un tribunale speciale per pro- cessare ex membri dell’Esercito di liberazione del Kossovo (Ushtria Clirimtare e Kosoves – Uck), per il rapimento di serbi nel 1999. Sono proseguite le violenze nel nord del Kossovo, le aggressioni interetniche e le discriminazioni contro le minoranze.

CONTESTO Il Partito progressista serbo ha assunto il governo ad aprile. A maggio, gravi inondazioni hanno provocato 51 morti e decine di migliaia di senzatetto. Prima dell’apertura dei negoziati di adesione all’Eu, la Commissione europea ha chiesto piani d’azione per lo stato di diritto e i diritti fondamentali e l’impegno alla “normalizzazione” dei rapporti con il Kossovo. Il governo ha adottato misure di austerità, come richiesto dal Fondo monetario internazionale, che comprendevano tagli ai salari del settore pubblico e alle pensioni e restrizioni alle organizzazioni sin- dacali.

420 GIUSTIZIA INTERNAZIONALE A gennaio, la camera d’appello presso il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Icty) ha confermato la condanna di Vlastimir Djordjević, ex assistente del ministro dell’Interno serbo, per omicidio e persecuzione, comprese aggressioni sessuali che costituivano crimini contro l’umanità, e la deportazione forzata di 800.000 albanesi del Kossovo. La sua condanna è stata ridotta in appello, insieme a quelle di altri tre alti funzionari, Nikola Šainović, Sreten Lukić e Vladimir Lazarević. La con- danna a 22 anni dell’ex comandante militare Nebojša Pavković è stata confermata. Vojislav Šešelj, leader del Partito radicale serbo, incriminato nel 2003 per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, tra cui la deportazione forzata e la persecuzione dei non serbi in Bosnia-Erzegovina, Croazia e Vojvodina, ha ottenuto la libertà provvisoria a novembre per essere curato per il cancro ed è tornato in Serbia dopo 12 anni di detenzione. I procedimenti interni sono stati ostacolati da risorse insufficienti per l’ufficio del procuratore per i crimini di guerra e da indagini di polizia inadeguate.1 Sono stati resi pubblici cinque rinvii a giudizio e in un solo caso si è raggiunto un verdetto in primo grado. Il capo dell’unità di protezione dei testimoni, che era stato accusato di aver intimidito testimoni protetti, è stato dimesso a giugno, presumibilmente per corruzione. Pubblici ministeri, polizia e testimoni hanno ricevuto minacce da veterani di guerra durante le indagini per il rapimento di 19 civili da parte di paramilitari serbo-bosniaci, a Štrpci nel 1992. Quindici sospettati sono stati suc- cessivamente arrestati a dicembre, in un’operazione congiunta con le autorità bosniache. Ad agosto è iniziata un’indagine in merito alle responsabilità di comando del maggiore generale Dragan Živanović per crimini di guerra commessi in Kossovo tra il 1° aprile e il 15 maggio 1999, quando era comandante della 125° brigata motorizzata. Era sospettato di non aver impedito “una campagna di terrore contro i civili albanesi”, che aveva portato a omicidi, distruzione di case, saccheggi ed espulsioni forzate. A dicembre, una nuova proposta di legge non è riuscita a garantire adeguata riparazione alle vittime civili della guerra, tra cui i parenti degli scomparsi e le vittime di crimini di guerra di violenza ses- suale.

SPARIZIONI FORZATE Nonostante la riesumazione dei resti di 53 civili albanesi del Kossovo a Raška, dove erano stati risep- pelliti nel 1999, e ulteriori indagini a Batajnica, dove più di 800 corpi erano stati esumati nel 2000- 2001, non ci sono stati progressi per assicurare alla giustizia coloro che avevano organizzato il tra- sferimento dei corpi dal Kossovo.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Il governo ha rafforzato la pressione sui mezzi d’informazione. Dai siti web governativi sono stati rimossi i commenti pubblici che criticavano il governo per come aveva affrontato le inondazioni di maggio e gli autori sono stati convocati dalla polizia per “colloqui informativi”. Dopo aver pubblicato accuse di plagio nei confronti del ministro dell’Interno, il sito web Peščanik è stato messo fuori uso da attacchi informatici. Sono proseguite le indagini sugli omicidi dei giornalisti indipendenti Dada Vujasinović, Slavko Ćuruvija e Milan Pantić, secondo le accuse uccisi da agenti statali rispettivamente nel 1994, 1999 e il 2001. Per l’omicidio di Slavko Ćuruvija sono stati accusati quattro sospettati, tra cui l’ex capo della sicurezza

421 nazionale, Radomir Marković, già condannato per l’assassinio dell’ex presidente Ivan Stambolić, nel 2000. A dicembre, 11 cittadini stranieri e sostenitori del movimento Falun Gong sono stati illegalmente de- tenuti, e successivamente espulsi, dopo che le autorità avevano negato loro l’autorizzazione a tenere una protesta contro il governo cinese.

DISCRIMINAZIONE

Diritto dei rom a un alloggio adeguato Organizzazioni rom hanno promosso un progetto di legge sulla legalizzazione degli insediamenti in- formali rom. Gli insediamenti rom sono stati colpiti in modo sproporzionato dalle inondazioni di maggio e 31 rom (tra cui 12 bambini) sono stati trasferiti in un rifugio di guerra, privo di acqua e servizi igienici, dopo che era stato loro negato l’accesso a un centro di accoglienza d’emergenza a Belgrado. È stata posticipata la costruzione, finanziata dall’Eu, di alloggi popolari per i rom sgomberati con la forza dall’insediamento informale di Belvil nel 2012, sebbene fossero stati individuati siti per il rein- sediamento. Circa 32 famiglie hanno invece scelto di essere trasferite in case del villaggio ma più di 100 altre famiglie sono rimaste in container metallici inadeguati. Un altro reinsediamento di persone provenienti da Belvil, prima della costruzione finanziata dalla Banca europea per gli investimenti, è stato ritardato fino a dicembre, quando sono state reinsediate 24 delle 50 famiglie. I rom e altri sono rimasti a rischio di sgombero forzato in vista della demolizione delle loro case per il progetto urbanistico Belgrado Waterfront.

Crimini d’odio Minacce e aggressioni contro difensori e organizzazioni per i diritti Lgbti, tra cui l’Alleanza gay-etero, non sono state indagate in modo efficace e raramente è stato riconosciuto il movente dell’odio o sono state invocate le norme che prevedono una condanna più pesante nei casi di crimini d’odio. A marzo, un portavoce della polizia antiterrorismo ha invitato via Internet i tifosi di calcio ad attaccare una veglia della Ngo Donne in nero, che commemorava l’anniversario della guerra del Kossovo. La procura lo ha accusato di aver fatto minacce alla sicurezza e non di discriminazione di genere e quindi il movente dell’odio non è stato considerato. A luglio, quattro membri della Ngo sono stati ag- grediti e feriti a Valjevo. A ottobre, dopo che un drone con il simbolo della Grande Albania ha sorvolato lo stadio durante la partita di calcio Serbia-Albania a Belgrado, sono state attaccate almeno 33 proprietà di albanesi, soprattutto nella regione della Vojvodina.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Tra gennaio e ottobre, 18.955 cittadini serbi, ritenuti in maggioranza rom, hanno chiesto asilo nell’Eu. Circa 13.000 migranti e rifugiati, tra cui 8000 siriani, hanno espresso l’intenzione di chiedere asilo in Serbia, anche se la maggior parte la considerava un paese di transito. A metà dicembre, solo cinque richiedenti avevano ottenuto l’asilo, con un processo di determinazione dello status di rifugiato che non aveva seguito le procedure stabilite dalla legge sull’asilo. È stato riferito che la polizia di frontiera ha respinto richiedenti asilo e migranti in Macedonia.

422 KOSSOVO A seguito delle elezioni parlamentari tenutesi a giugno, il Partito democratico del Kossovo, guidato da Hashim Thaçi, non è riuscito a ottenere la maggioranza contro una coalizione di partiti di opposizione e si è avuto un periodo d’impasse politica. A dicembre è stato formato un governo di coalizione, il cui primo ministro era Isa Mustafa, della Lega democratica del Kossovo. Atifete Jahjaga è rimasta la pre- sidente. Da giugno, i colloqui per la normalizzazione delle relazioni con la Serbia, organizzati con l’in- termediazione dell’Eu, sono proseguiti solo a livello tecnico.

Il mandato della missione di polizia e della giustizia dell’Eu (Eulex) è stato prorogato fino a giugno 2016. Secondo il nuovo accordo, i giudici internazionali non costituivano più la maggioranza nelle giurie in caso di reati gravi. L’Alto rappresentante dell’Eu ha annunciato a novembre un’inchiesta indipendente sulle accuse di corruzione nei confronti di un giudice dell’Eulex.

Violenza interetnica Le tensioni interetniche sono continuate, in particolare nel nord del paese, dominato dai serbi. Ad alcuni politici serbi è stato impedito l’ingresso in Kossovo e i serbi del Kossovo, tra cui i rimpatriati a Klina/Klinë a febbraio e ottobre, sono stati oggetto di attacchi, inclusi incendi dolosi, a proprietà, cimiteri ed edifici religiosi, intensificatisi dopo la partita di calcio Serbia-Albania di ottobre. A giugno, dopo scontri tra polizia del Kossovo e albanesi che manifestavano contro la chiusura del ponte sul fiume Ibar (che divide la parte serba e quella albanese di Mitrovica), la polizia internazionale Eulex ha sparato proiettili di gomma contro i partecipanti. La missione delle Nazioni Unite in Kossovo (UN Interim Administration Mission in Kosovo – Unmik) ne aveva vietato l’uso dopo che due uomini erano stati uccisi a Pristina nel 2007.

Crimini di diritto internazionale A luglio, una task force investigativa speciale, istituita dall’Eulex per indagare sulle accuse contro alti membri dell’Uck, ha annunciato l’incriminazione di persone di cui non ha reso noto il nome, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, tra cui uccisione illegale, sequestro, detenzione illegale, violenza sessuale e trasferimento forzato di serbi del Kossovo e civili albanesi, illegalmente trasferiti in Albania nel 1999. I sospettati dovevano essere incriminati e processati da un tribunale speciale, ancora da istituire, al di fuori del Kossovo, al fine di garantire un’efficace protezione dei testimoni. A ottobre, due testimoni protetti hanno contraddetto le loro testimonianze originarie durante il nuovo processo nei confronti di sette membri dell’ex gruppo dell’Uck “Drenica”, accusati di crimini di guerra contro gli albanesi nel campo di Likovc/Likovac nel 1998. A settembre è iniziato il nuovo processo nei confronti di Fatmir Limaj e altri nove imputati accusati di tortura e maltrattamenti di civili albanesi al campo di Klečka/Klecke nel 1999. Erano stati assolti nel settembre del 2013, a seguito del suicidio di un testimone protetto dal quale dipendeva l’accusa. Il leader politico serbo del Kossovo, Oliver Ivanović, arrestato a gennaio, è stato incriminato ad agosto per istigazione a commettere crimini di guerra nel 1999 e istigazione all’omicidio aggravato nel febbraio 2000.

Crimini di guerra di violenza sessuale A marzo, la presidente Jahjaga ha lanciato un consiglio nazionale per le vittime di violenza sessuale

423 in tempo di guerra, per incoraggiarle a farsi avanti e chiedere riparazione, compreso il risarcimento, come previsto dalle modifiche di legge adottate dal parlamento a fine marzo. A giugno, la corte d’appello ha ribaltato la sentenza di assoluzione di due serbi del Kossovo, condan- nandoli per crimini di guerra per lo stupro di una sedicenne albanese nell’aprile 1999. Sono stati condannati a 12 e 10 anni di carcere.

Sparizioni forzate I parenti degli scomparsi hanno protestato contro le norme di legge che prevedevano la cessazione del sussidio mensile di 135 euro, dopo il ritrovamento dei resti del loro congiunto. A novembre, 1655 persone erano ancora disperse dopo il conflitto armato. Fino a ottobre, erano stati restituiti alle famiglie i resti di 53 albanesi del Kossovo, riesumati a Raška. L’Unmik non ha fornito riparazione, compreso il risarcimento, ai parenti dei serbi del Kossovo scomparsi, come raccomandato dal comitato consultivo per i diritti umani.

Libertà d’espressione Governo e agenzie statali hanno indebitamente influenzato i mezzi d’informazione attraverso maggiori contributi alle loro entrate pubblicitarie. Sono proseguiti gli attacchi contro giornalisti investigativi. Visar Duriqi, giornalista del quotidiano Express, ha ricevuto gravi minacce di morte dopo articoli su gruppi estremisti islamici. L’Associazione dei giornalisti professionisti ha espresso il timore che l’Eulex avesse esercitato pressioni su Vehbi Kajtazi, giornalista di Koha Ditore, che aveva denunciato episodi di presunta corruzione all’interno di Eulex. A maggio si è svolta senza incidenti la prima marcia che celebrava la Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia.

Discriminazione – crimini d’odio A marzo, tre uomini sono stati giudicati colpevoli e condannati a pene sospese per “violazione della parità di status dei residenti del Kossovo”, per aver preso parte nel 2012 a un’aggressione in occasione del lancio di un numero della rivista online Kossovo 2.0, sull’orientamento e l’identità sessuali. Nessuno è stato assicurato alla giustizia per l’aggressione a un centro Lgbti avvenuto il giorno seguente, né per le minacce fatte nel 2013 contro donne attiviste dei diritti umani che sostenevano la legge sulle riparazioni per le sopravvissute allo stupro.

Discriminazione – rom Rom, ashkali ed egiziani hanno continuato a subire discriminazioni diffuse e sistematiche ma sono anche state attuate alcune misure per la loro integrazione. A novembre, circa 360 famiglie (1700 per- sone) risultavano migrate dal Kossovo in Ungheria per chiedere asilo. I progetti di costruzione di alloggi per i rom nel villaggio di Hereq, a Gjakovë/Djakovica, sono stati osteggiati dai residenti locali.

Rifugiati e richiedenti asilo Secondo l’Unchr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, 17.227 persone, in maggioranza serbi del Kossovo, sono rimaste sfollate dopo il conflitto armato. Al 30 novembre, solo 404 membri di comunità minoritarie erano tornati volontariamente in Kossovo, dove le condizioni per il loro reinseri- mento sono rimaste gravemente inadeguate. A ottobre, le persone provenienti dal Kossovo che avevano chiesto asilo nell’Eu erano 11.000.

424 Note 1. Serbia: Ending Impunity for Crimes under International Law (EUR 70/012/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ EUR70/012/2014/en

SLOVACCHIA

REPUBBLICA SLOVACCA

Capo di stato: Andrej Kiska (subentrato a Ivan Gašparovič a giugno) Capo di governo: Robert Fico

I bambini rom hanno continuato a subire discriminazioni nel sistema scolastico. Le autorità hanno estradato un richiedente asilo verso la Federazione Russa, nonostante corresse il rischio di essere sottoposto a tortura e altri maltrattamenti al ritorno in patria. È stato dichiarato costituzionale un re- ferendum su proposte che impedirebbero l’ottenimento di ulteriori diritti per le coppie dello stesso sesso. A novembre, due detenuti del centro di detenzione di Guantánamo Bay sono stati trasferiti in Slovacchia per il reinsediamento. La Slovacchia non ha ratificato la Convenzione per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica del Consiglio d’Europa.

DISCRIMINAZIONE – ROM A giugno, durante l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite (Universal Periodic Review – Upr) delle Nazioni Unite, la Slovacchia ha ribadito il proprio impegno ad affrontare la questione del gran numero di bambini rom nelle scuole per alunni con disabilità mentali. Tuttavia, a luglio il difensore civico slovacco ha rilevato che il paese aveva continuato a violare il diritto all’istruzione dei bambini rom, attraverso procedure di valutazione discriminatorie. Il ministero dell’Istruzione ha continuato a portare avanti i piani, elaborati insieme al plenipotenziario del governo slovacco per le comunità rom, per la costruzione di “scuole modulari”, apparentemente con l’obiettivo di aumentare l’accesso all’istruzione. Il ministero prevedeva di costruire 15 di queste scuole nel corso dell’anno, di cui numerose in insediamenti rom. A maggio, tuttavia, il plenipotenziario ha riconosciuto che il progetto potrebbe portare all’aumento della segregazione scolastica. Come parte dell’Upr, la Slovacchia ha riconosciuto la necessità di misure per legalizzare gli insediamenti informali rom. Il ministero dei Trasporti e delle costruzioni ha sviluppato proposte per una nuova legge edilizia che affrontasse la questione delle “costruzioni illegali”, tra cui gli insediamenti informali rom. A luglio, l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Osce ha espresso preoccupazione circa la mancanza, all’interno di tali proposte, di garanzie che tutelassero dagli sgomberi forzati i residenti in edifici non autorizzati. Ha sottolineato che gli ordini di sgombero dovevano poter essere oggetto di ricorso giudiziario e che i residenti colpiti dovevano avere accesso a rimedi e risarcimenti.

VIOLENZA DELLA POLIZIA A gennaio, l’ispettorato del ministero dell’Interno ha avviato un’indagine penale per l’uso eccessivo

425 della forza durante un’operazione di polizia nell’insediamento rom di Budulovská, nella città di Moldava nad Bodvou, avvenuta il 19 giugno 2013. Precedenti denunce da parte dei residenti colpiti erano state archiviate. L’operazione di polizia era stata criticata dal difensore civico per uso eccessivo della forza, trattamento denigratorio e perquisizioni arbitrarie. A fine anno era ancora pendente dinanzi a un tribunale distrettuale il processo nei confronti degli agenti di polizia accusati di maltrattamenti ai danni di sei ragazzi rom, in una stazione di polizia della città di Košice, risalenti al 2009. A marzo, uno degli agenti di polizia, licenziato in seguito alle accuse di maltrattamenti, è stato reintegrato.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Il 4 giugno, il parlamento ha approvato un emendamento costituzionale che definiva il matrimonio come “unione esclusiva tra un uomo e una donna”. L’emendamento ha esplicitamente negato alle coppie dello stesso sesso la possibilità di contrarre matrimonio.1 È entrato in vigore il 1° settembre. Ad agosto, l’organizzazione “Alleanza per la famiglia” ha consegnato al presidente della repubblica una petizione firmata da 400.000 persone, che chiedeva un referendum per vietare di definire “ma- trimonio” qualsiasi forma di unione diversa da quella tra un uomo e una donna. La petizione chiedeva anche di proibire le adozioni da parte di coppie dello stesso sesso, di negare il riconoscimento giuridico a qualsiasi unione diversa dal “matrimonio tra un uomo e una donna” e d’impedire che le scuole tenessero corsi obbligatori di educazione sessuale o fornissero informazioni su temi etici come l’eutanasia, se l’allievo o il genitore non fossero d’accordo. A settembre, il presidente ha chiesto alla Corte costituzionale il parere di costituzionalità per un referendum sulle questioni sollevate dalla pe- tizione. A ottobre, la Corte ha stabilito che, ad eccezione della questione relativa al riconoscimento giuridico delle diverse forme di “unione”, tutte le altre richieste erano costituzionali. A novembre, il presidente ha annunciato che il referendum si sarebbe tenuto a febbraio 2015.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI La Slovacchia ha continuato a rimandare persone verso paesi dove sarebbero state a rischio di tortura e altri maltrattamenti. A luglio, la Slovacchia ha estradato il ceceno Anzor Chentiev nella Federazione Russa, dove era ricercato per diversi reati connessi al terrorismo. Anzor Chentiev aveva combattuto contro l’estradizione per nove anni. Il ministero della Giustizia ha approvato l’estradizione, nonostante il rischio che egli avrebbe potuto essere sottoposto a tortura o altri maltrattamenti al suo ritorno e malgrado il fatto che avesse chiesto il rinnovo dell’asilo in Slovacchia il 3 giugno.2 Ad agosto, la Corte suprema ha respinto il ricorso di Aslan Yandiev contro la decisione del tribunale regionale di Trnava, che ne permetteva l’estradizione verso la Federazione Russa, dove era accusato di appartenenza a un gruppo armato. La Corte ha ritenuto che le assicurazioni fornite dal procuratore generale russo a febbraio 2011 fossero “specifiche e affidabili”. La sua estradizione era stata prece- dentemente bloccata dalla Corte europea dei diritti umani e dalla Corte costituzionale slovacca, perché avrebbe esposto Aslan Yandiev al rischio di tortura e altri maltrattamenti e perché la sua do- manda di asilo in Slovacchia era sotto esame.

426 Note 1. Slovakia: the constitutional amendment defining marriage as the union between a man and a woman is discriminatory (EUR 72/001/2014), ww.amnesty.org/en/library/info/eur72/001/2014/en 2. SLOVAKIA: FURTHER INFORMATION: ANZOR CHENTIEV EXTRADITED TO RUSSIA (EUR 72/005/2014), www.amnesty.org/en/li- brary/info/EUR72/005/2014/en

SLOVENIA

REPUBBLICA DI SLOVENIA

Capo di stato: Borut Pahor Capo di governo: Miro Cerar (subentrato ad Alenka Bratušek a settembre)

Le autorità non hanno ripristinato lo status giuridico di persone a cui fu illegittimamente revocata la residenza permanente nel 1992, né hanno fornito loro un adeguato risarcimento, perpetuando così la violazione dei loro diritti che durava da molto tempo. La discriminazione contro i rom è rimasta dif- fusa.

DISCRIMINAZIONE – I “CANCELLATI” Nonostante alcune misure positive, le autorità non hanno garantito i diritti di alcuni ex residenti per- manenti della Slovenia provenienti da altre ex repubbliche jugoslave, noti come i “cancellati”, il cui status giuridico fu illegalmente revocato nel 1992. La legge sullo status giuridico del 2010, che aveva offerto una via per ripristinare lo status dei “can- cellati”, è scaduta a luglio 2013, data entro la quale circa 12.000 dei 25.671 “cancellati” hanno riavuto il loro status. A dicembre 2013 è stata adottata una norma che ha introdotto un programma di compensazione per coloro il cui status era stato regolarizzato. Il programma prevedeva l’erogazione di 50 euro per ogni mese trascorso senza status legale. Il 12 marzo, nel caso Kurić e altri vs. Slovenia, la Corte europea dei diritti umani ha ordinato alla Slovenia di versare ai ricorrenti cifre variabili dai 30.000 ai 70.000 euro per danni patrimoniali. Il verdetto faceva seguito a una sentenza della Grande camera del 2012, che aveva stabilito che erano stati violati il diritto al rispetto della vita privata e familiare, il diritto a un rimedio legale efficace e il diritto di essere liberi dalla discriminazione e aveva ordinato il pagamento di danni morali. Queste somme erano di gran lunga superiori a quanto previsto per i beneficiari dal programma di compen- sazione del dicembre 2013.

DISCRIMINAZIONE – ROM Nonostante una serie d’iniziative attuate negli ultimi anni per migliorare la situazione dei circa 10.000 rom in Slovenia, la maggioranza ha continuato a subire discriminazione ed esclusione sociale. La maggior parte viveva in insediamenti isolati e segregati, privi della garanzia del possesso e dell’accesso a servizi di base quali acqua, elettricità, servizi igienico-sanitari e trasporti pubblici.

427 La diffusa discriminazione ha impedito alle famiglie rom di acquistare o affittare abitazioni al di fuori delle aree popolate prevalentemente da rom e queste hanno continuato a incontrare ostacoli, come il pregiudizio, nell’accesso alle case popolari. La discriminazione contro i rom nel mercato del lavoro è rimasta la prassi e il tasso di disoccupazione tra i rom ha continuato a essere estremamente elevato. Le istituzioni statali create per lottare contro la discriminazione e prendere in esame le denunce, come il difensore civico per i diritti umani e il difensore del principio di parità, avevano un mandato debole e scarse risorse. L’ufficio del difensore del principio di parità aveva un solo dipendente: il di- fensore stesso. Durante tutto l’anno, i circa 250 rom che vivevano nell’insediamento Škocjan-Dobruška vas sono rimasti a rischio di sgombero forzato. Nell’insediamento, parte del quale è stato destinato allo sviluppo di una zona industriale nel 2013, da molti anni vivevano famiglie rom. A seguito della pressione dell’opinione pubblica e dell’intervento delle autorità nazionali e di organizzazioni rom della società civile, ad agosto 2014 il comune ha accettato di spostare due famiglie rom a rischio im- minente di sgombero forzato poiché erano iniziati i lavori per la zona industriale. Tuttavia, i residenti non sono stati consultati per ulteriori piani di spostamento e sono rimasti sottoposti al rischio di perdere le loro case.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE A ottobre è iniziato il processo contro la giornalista Anuška Delić per aver pubblicato informazioni ri- servate e a fine anno era ancora in corso. Le accuse si riferivano ad articoli che aveva pubblicato su un presunto collegamento tra i membri del Partito democratico sloveno e il gruppo di estrema destra Sangue e onore. L’agenzia slovena d’intelligence e di sicurezza aveva in seguito sostenuto che alcune delle informazioni riportate erano una fuga di notizie dai suoi documenti. Il codice penale sloveno non prevedeva la difesa del pubblico interesse.

SPAGNA

REGNO DI SPAGNA

Capo di stato: re Felipe VI di Borbone (subentrato a re Juan Carlos I di Borbone a giugno) Capo di governo: Mariano Rajoy

Durante tutto l’anno sono state organizzate migliaia di manifestazioni per protestare contro le misure di austerità imposte dal governo. Sono continuate a pervenire segnalazioni di abusi contro i manifestanti da parte della polizia. Migliaia di migranti, compresi richiedenti asilo e rifugiati, alcuni in fuga dalla Siria, hanno tentato di entrare irregolarmente dal Marocco nelle città enclave spagnole di Ceuta e Melilla. Sono perdurate le segnalazioni di espulsioni illegali e uso eccessivo della forza da parte delle guardie di frontiera spagnola.

428 CONTESTO Ad aprile, la Spagna ha ratificato il Trattato sul commercio di armi e, ad agosto, è divenuta il primo paese ad aggiornare i propri regolamenti in materia di trasferimenti di armi, per includere la “regola d’oro” che vieta il trasferimento di armi laddove esista il rischio reale che possano contribuire a vio- lazioni dei diritti umani. L’insegnamento dei diritti umani ha cessato di essere obbligatorio nella scuola primaria e secondaria a seguito delle modifiche alla legge sull’istruzione adottate a dicembre 2013. Il 9 novembre, il governo della Catalogna ha tenuto una consultazione informale sul futuro politico della regione, a dispetto di una sentenza della Corte costituzionale che ordinava la sospensione della consultazione. L’80 per cento dei partecipanti si sono dichiarati a favore dell’indipendenza. Durante l’anno non sono stati segnalati attacchi violenti da parte dell’organizzazione separatista basca Euskadi Ta Askatasuna (Eta), che nel 2011 aveva annunciato di voler porre fine alla lotta ar- mata.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Per tutto l’anno, centinaia di persone sono state arrestate e multate per aver partecipato a manife- stazioni spontanee e per lo più pacifiche, composte da più di 20 persone. La legge che regola il diritto alla libertà di riunione non riconosceva il diritto di tenere manifestazioni spontanee. A fine anno erano ancora in discussione in parlamento i progetti di riforma del codice penale e della legge sulla tutela della pubblica sicurezza. Se approvati, avrebbero limitato ulteriormente l’esercizio delle libertà di riunione e d’espressione. Il progetto di legge sulla tutela della pubblica sicurezza pre- vedeva l’introduzione di 21 ulteriori reati, tra cui la diffusione non autorizzata d’immagini che avrebbero potuto mettere a rischio un’operazione di polizia. Inoltre permetterebbe l’imposizione di ammende agli organizzatori di proteste spontanee pacifiche e a chi avesse mancato di rispetto agli agenti delle forze di sicurezza.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Gli agenti di polizia hanno spesso fatto uso eccessivo della forza per disperdere e arrestare i manife- stanti. Ad aprile, il parlamento della Catalogna ha vietato l’uso di proiettili di gomma da parte della polizia catalana. Negli anni precedenti, numerosi manifestanti pacifici erano stati gravemente feriti dai pro- iettili di gomma sparati dalla polizia per disperdere la folla. A giugno, il pubblico ministero ha chiesto la chiusura delle indagini sulle accuse di violazioni da parte della polizia avanzate da 26 partecipanti al raduno “Rodea el Congreso” (Circonda il congresso) nel settembre 2012. A fine anno era ancora pendente una decisione giudiziaria sulla chiusura del caso. Durante la manifestazione, agenti di polizia non identificati picchiarono manifestanti pacifici con i manganelli, spararono proiettili di gomma e minacciarono i giornalisti che seguivano gli eventi. A settembre, il giudice istruttore nel caso di Ester Quintana ha formalmente deciso di perseguire due agenti di polizia che le avevano provocato gravi danni fisici. La donna aveva perso l’occhio sinistro dopo essere stata colpita da un proiettile di gomma sparato da agenti di polizia durante una manife- stazione a Barcellona, nel novembre 2012.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA La Spagna ha continuato a rifiutarsi di attuare le raccomandazioni degli organismi internazionali sui

429 i diritti umani, per l’abolizione della detenzione in incommunicado per persone sospettate di reati connessi al terrorismo. A gennaio, almeno 63 membri dell’Eta sono stati rilasciati a seguito di una sentenza della Corte europea dei diritti umani del 2013. Nel caso Del Río Prada vs. Spagna, la Corte aveva stabilito che la “dottrina Parot”, applicata dalla Corte suprema spagnola per gravi reati, violava i diritti alla libertà e alla non retroattività della pena. Ribaltando la giurisprudenza precedente, una sentenza della Corte suprema del 2006 aveva escluso di fatto la possibilità di rilascio anticipato per i condannati a pene detentive consecutive per molteplici capi d’accusa.

DISCRIMINAZIONE Le forze di polizia hanno continuato a effettuare controlli d’identità sulla base di caratteristiche razziali o etniche. Il progetto di legge sulla tutela della pubblica sicurezza conteneva una norma che imponeva il rispetto del principio di non discriminazione durante i controlli d’identità. Nel corso dell’anno, per la prima volta il ministero dell’Interno ha reso pubblici i dati sui crimini d’odio. Secondo il ministero, nel 2013 sono stati registrati 1172 crimini d’odio, la maggior parte per motivi di orientamento e identità sessuale e origine etnica. Tuttavia, non è stato introdotto un protocollo per l’identificazione e la registrazione degli episodi discriminatori da parte degli agenti di polizia. Non tutte le forze di sicurezza regionali hanno fornito dati sui crimini d’odio. Nonostante una sentenza della Corte suprema del 2013 avesse dichiarato illegale il divieto di portare il velo integrale negli edifici comunali della città di Lleida, nel 2014 diversi comuni hanno introdotto o proposto norme simili. A luglio, il governo catalano ha annunciato l’intenzione di vietare l’uso di veli integrali in pubblico ma a fine anno non aveva ancora adottato una legislazione in tal senso.

VIOLENZA CONTRO LE DONNE Secondo il ministero della Salute, delle politiche sociali e della parità, nel corso dell’anno 45 donne sono state uccise dai loro partner o ex partner. Ad agosto, il Comitato Cedaw ha stabilito che la Spagna aveva violato i suoi obblighi derivanti dalla Convenzione Cedaw, poiché non aveva protetto Angela González e sua figlia Andrea dalla violenza do- mestica. Andrea fu uccisa da suo padre nel 2003. Nonostante più di 30 denunce e ripetute richieste di protezione, i giudici avevano autorizzato visite non sorvegliate tra l’ex compagno di Angela González e Andrea. Statistiche pubblicate nel corso dell’anno hanno rilevato un forte calo della percentuale di procedimenti giudiziari per denunce di violenza di genere, dall’epoca dell’entrata in vigore della legge sulle misure di protezione globale contro la violenza di genere nel 2005. Il numero di casi chiusi per mancanza di prove da parte del tribunale specializzato per la violenza di genere è aumentato del 158 per cento tra il 2005 e il 2013 ma le richieste di rivedere l’efficacia della legge e del tribunale specializzato sono rimaste inascoltate.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI Nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, per tutto il corso dell’anno, ci sono state segnalazioni di trattamenti illegali di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, tra cui l’espulsione illegale in Marocco e l’uso non necessario o eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza. A fine anno, più di 1500 rifugiati siriani erano in attesa di essere trasferiti dalle enclave alla terraferma. A ottobre, il gruppo

430 parlamentare del Partito popolare ha presentato un emendamento al progetto di legge sulla pubblica sicurezza, che avrebbe legalizzato le espulsioni sommarie da Ceuta e Melilla verso il Marocco. A febbraio, un gruppo di circa 250 migranti, rifugiati e richiedenti asilo provenienti dall’Africa Sub- sahariana ha tentato attraversare a nuoto il confine marittimo tra il Marocco e Ceuta. Per fermarli, gli agenti della guardia civil hanno utilizzato attrezzature antisommossa, tra cui proiettili di gomma, cartucce a salve e fumogeni. Quindici persone sono annegate. A fine anno era ancora in corso un’in- dagine giudiziaria. Centinaia di migliaia di migranti irregolari hanno continuato ad avere accesso limitato all’assistenza sanitaria a seguito dell’attuazione del regio Decreto legge 16/2012. Con alcune eccezioni, i migranti irregolari hanno dovuto pagare per ricevere assistenza sanitaria, anche quella di base. A novembre, il Comitato europeo per i diritti sociali del Consiglio d’Europa ha evidenziato che il regio Decreto legge 16/2012 violava la Carta sociale europea. A fine anno, le autorità hanno concesso protezione internazionale a 1205 persone. Solo 255 hanno ot- tenuto lo status di rifugiato. Nonostante a dicembre 2013 il governo avesse annunciato il reinsediamento nel paese di 130 rifugiati siriani, a fine 2014 non ne risultava effettuato alcuno.

CRIMINI DI DIRITTO INTERNAZIONALE Le definizioni di sparizione forzata e tortura nella legislazione spagnola hanno continuato a essere inadeguate rispetto agli standard internazionali sui diritti umani. Il 14 marzo sono entrate in vigore modifiche alla legislazione spagnola sulla giurisdizione universale, che hanno limitato i poteri delle autorità nell’indagare crimini di diritto internazionale commessi al di fuori della Spagna, compresi genocidio, sparizioni forzate, crimini contro l’umanità e tortura. A luglio, le riforme sono state criticate dal Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate e invo- lontarie e dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione di verità, giustizia, riparazione e garanzie di non ripetizione.

IMPUNITÀ I diritti a verità, giustizia e riparazione per le vittime dei crimini commessi durante la guerra civile (1936-1939) e sotto il governo di Francisco Franco (1939-1975) hanno continuato a essere negati. Le autorità spagnole non hanno assistito adeguatamente la magistratura argentina che stava esercitando la giurisdizione universale per indagare sui crimini di diritto internazionale commessi durante l’epoca franchista. A luglio, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate e involontarie ha esortato le autorità spagnole a intensificare gli sforzi per stabilire la sorte e l’ubicazione delle persone scomparse durante il franchismo.

DIRITTI SESSUALI E RIPRODUTTIVI A settembre, il governo ha ritirato un progetto di legge, approvato a dicembre 2013, che avrebbe in- trodotto una serie di ostacoli per l’accesso a un aborto sicuro e legale e avrebbe probabilmente au- mentato il numero di donne e ragazze costrette a ricorrere a pericolose procedure di aborto clandestino. Tuttavia, il governo ha ribadito la propria intenzione di riformare la legislazione vigente per inserire l’obbligo del consenso dei genitori per le ragazze tra i 16 e i 18 anni che volessero accedere a un aborto legale.

431 SVEZIA

REGNO DI SVEZIA

Capo di stato: re Carlo Gustavo XVI Capo di governo: Stefan Löfven (subentrato a Fredrik Reinfeldt a ottobre)

Un cittadino egiziano, che nel 2001 era stato vittima di rendition dalla Svezia all’Egitto e in seguito torturato, ha ottenuto il permesso di tornare in Svezia. Erano in corso indagini in merito a un archivio dati illegale sui rom gestito dalla polizia svedese. Una commissione governativa ha iniziato a esaminare le carenze d’indagini e azioni giudiziarie relative a stupri.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A novembre, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha raccomandato alla Svezia di adottare nel proprio codice penale una definizione di tortura coerente con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.1 Il Comitato ha inoltre chiesto alla Svezia di astenersi dall’impiego di assicurazioni diplomatiche, poiché avrebbe significato rimandare persone in un altro paese, dove avrebbero rischiare di essere torturate. Ad aprile, il cittadino egiziano Mohammed al-Zari ha ottenuto un permesso di residenza in Svezia. Nel dicembre 2001 fu arrestato insieme ad Ahmed Agiza e sottoposto a rendition dalla Svezia all’Egitto, a bordo di un aereo noleggiato dalla Cia. Entrambi furono in seguito torturati e altrimenti maltrattati durante la detenzione in Egitto. Nel 2008, il cancelliere di giustizia assegnò a entrambi un risarcimento economico per le violazioni dei diritti umani subite. Mohammed al-Zari fu rilasciato dal carcere nel- l’ottobre 2003 senza essere mai stato incriminato. La concessione di un permesso di residenza ha soddisfatto parzialmente il suo diritto alla riparazione per le violazioni dei diritti umani subite. Ciò nonostante, è rimasta in sospeso un’indagine efficace e indipendente su tali violazioni.

DISCRIMINAZIONE A settembre 2013, il Comitato Cerd ha espresso preoccupazione per i discorsi motivati dall’odio di matrice razzista contro le minoranze e ha chiesto alla Svezia d’indagare, perseguire e punire in modo efficace tutti i crimini d’odio. Il Comitato ha anche sollevato timori riguardo a organizzazioni razziste ed estremiste che continuano a operare nel paese. Nello stesso giorno in cui il Comitato Cerd esprimeva le sue preoccupazioni per la discriminazione contro i rom, un quotidiano svedese ha rivelato che il dipartimento di polizia della Scania gestiva un archivio dati illegale, chiamato “Traveller e nomadi” (Kringresande), che conteneva dettagli su circa 4000 rom, senza nessuna ragione particolare se non quella della loro etnia.2 Dopo la divulgazione della notizia, le autorità locali e nazionali si sono scusate pubblicamente. In seguito, l’episodio è stato oggetto d’indagine da parte della commissione svedese sulla protezione della sicurezza e del- l’integrità e dall’unità nazionale per i reati commessi dalla polizia, nonché di un’inchiesta interna del

432 consiglio nazionale di polizia. Quest’ultima non ha rilevato illegalità. Anche il difensore civico per la giustizia ha compiuto un’indagine in merito, i cui risultati erano attesi per novembre.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Ad agosto, a seguito di un’iniziativa del comitato parlamentare sulla giustizia, il governo ha annunciato la creazione di una commissione incaricata di esaminare il modo in cui polizia e sistema giudiziario effettuano le indagini nei casi di stupro. La commissione aveva l’obiettivo di analizzare le ragioni degli alti tassi di abbandono delle indagini e delle azioni giudiziarie relative agli stupri e di racco- mandare miglioramenti nei procedimenti giudiziari in tali casi. Era anche previsto che la commissione rivedesse le disposizioni penali per il reato di stupro e prendesse in considerazione l’inserimento di un requisito sul vero consenso.

Note 1. Sweden: Submission to the United Nations Committee against Torture: 53rd Session (EUR 42/001/2014), www.amnesty.org /en/library/info/EUR42/001/2014/en 2. Sweden: Skåne police database violates human rights of Romanis (EUR 42/001/2013), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR42/001/2013/en

SVIZZERA

CONFEDERAZIONE SVIZZERA

Capo di stato e di governo: Didier Burkhalter

La Commissione nazionale svizzera per la prevenzione della tortura (Cnpt) e alcune Ong hanno conti- nuato a esprimere preoccupazioni per l’uso della forza durante le espulsioni dei richiedenti asilo. Non sono state applicate leggi di “iniziativa popolare” rivelatesi incompatibili con il diritto internazionale.

DISCRIMINAZIONE A marzo, il Comitato Cerd ha raccomandato al governo l’introduzione di una definizione chiara e det- tagliata di discriminazione razziale diretta e indiretta, che contempli tutti i rami del diritto. Il Comitato ha inoltre chiesto al governo d’istituire un meccanismo efficace di raccolta dei dati sulla discriminazione e di adottare misure per evitare che la polizia effettui controlli d’identità, perquisizioni e altre operazioni di polizia in base alla o all’etnia. A novembre, il tribunale amministrativo del cantone di St Gallen ha stabilito che il divieto per le stu- dentesse musulmane di indossare il vero era sproporzionato. A settembre 2013, i residenti del cantone Ticino avevano votato a favore del divieto di indossare il velo integrale ma questo non poteva entrate in vigore senza l’approvazione del parlamento federale.

433 RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO La Cnpt e le Ngo nazionali hanno continuato a esprimere preoccupazione per il trattamento dei richie- denti asilo, tra cui le violazioni al principio del non-refoulement e l’uso della forza durante le espulsioni. La Cnpt ha continuato a rilevare e documentare l’uso sproporzionato della forza e dei mezzi di conte- nimento durante le procedure d’espulsione, in particolare durante il trasferimento di persone dai centri di detenzione all’aeroporto. Per affrontare il problema delle differenze nelle pratiche adottate dalle forze di polizia regolate a livello cantonale, la Cnpt ha chiesto alla conferenza dei direttori dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia l’introduzione di prassi uniformi e regolamenti a livello nazionale. La Cnpt ha anche sollecitato un maggior rispetto del principio del miglior interesse del minore, in risposta alla pratica corrente di separare temporaneamente i bambini dai loro genitori durante i rimpatri forzati. A maggio, l’ufficio federale della migrazione (Ufm) ha reso pubbliche le raccomandazioni di revisioni interne ed esterne, seguite all’arresto in Sri Lanka, rispettivamente a luglio e agosto 2013, di due ri- chiedenti asilo tamil rimpatriati forzatamente dalla Svizzera. I due uomini sono stati trattenuti per diversi mesi dalle autorità singalesi e quindi trasferiti in un campo di “riabilitazione”. A settembre 2013, dopo le preoccupazioni espresse dalle Ngo, l’Ufm aveva sospeso temporaneamente i rimpatri forzati verso lo Sri Lanka, in attesa del risultato delle revisioni. Dopo un’ulteriore missione d’inchiesta delle autorità svizzere in Sri Lanka, a maggio 2014, l’Ufm ha annunciato che avrebbe sottoposto a re- visione i casi di richiedenti asilo singalesi la cui domanda era stata respinta e ha ripreso i rimpatri verso il paese asiatico.

CONDIZIONI CARCERARIE Il 26 febbraio, il tribunale federale svizzero ha stabilito che due detenuti del carcere di Champ- Dollon, a Ginevra, erano stati sottoposti a condizioni disumane che violavano l’art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Per tre mesi consecutivi, i due detenuti erano stati confinati per 23 ore al giorno con altri quattro detenuti in una cella larga 23 metri quadrati, concepita per tre persone, senza poter accedere ad alcuna attività. Più di una volta, la Cnpt e le Ngo svizzere avevano sollevato preoccupazioni sul sovraffollamento nel carcere di Champ-Dollon che, a novembre ospitava 811 persone in uno spazio progettato per 376 detenuti. I disordini scoppiati nel carcere a febbraio hanno provocato il ferimento di otto agenti di custodia e di circa 30 detenuti.

SVILUPPI LEGISLATIVI, COSTITUZIONALI O ISTITUZIONALI A marzo, il Comitato Cerd ha raccomandato la creazione di un meccanismo indipendente per garantire che le “iniziative popolari” non portino all’approvazione di leggi incompatibili con gli obblighi della Svizzera secondo il diritto internazionale dei diritti umani. I risultati di diversi referendum o “iniziative popolari” proposti dal Partito popolare svizzero non sono stati applicati a causa della loro incompatibilità con il diritto internazionale, compreso il referendum conosciuto come “iniziativa per l’espulsione”, approvato nel 2010. Questa iniziativa popolare chiedeva una modifica della costituzione per permettere l’espulsione automatica di cittadini stranieri condannati per specifici reati. Analogamente è rimasta inapplicata l’“iniziativa contro l’immigrazione di massa”, che voleva introdurre una quota annuale arbitraria di accessi di migranti.

434 TAGIKISTAN

REPUBBLICA DEL TAGIKISTAN

Capo di stato: Emomali Rahmon Capo di governo: Qokhir Rasulzoda

La tortura e altri maltrattamenti di detenuti sono rimasti dilaganti ed è perdurata l’impunità per i reati di tortura. Il governo ha imposto ulteriori restrizioni al diritto alla libertà d’espressione, associazione e riunione.

CONTESTO A novembre 2013, Emomali Rahmon è stato rieletto presidente per la quarta volta, con l’84,32 per cento dei voti. A maggio, tre persone sono state uccise e cinque ferite durante un’operazione di polizia a Choruğ, nella regione autonoma Gorno-Badakhshan (Gorno-Badakhshan Autonomous Region − Gbao), che è sfociata in scontri tra le forze di sicurezza e i residenti. A fine anno, risultava essere in corso un’indagine sull’episodio. Non è invece stata avviata alcuna indagine efficace sugli scontri del luglio 2012 a Choruğ, che provocarono la morte di decine di persone, di cui almeno 22 civili. Mancavano ancora informazioni attendibili sul numero delle vittime.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI La tortura e altri maltrattamenti sono rimasti diffusi nonostante nel 2013 sia stato adottato un piano d’azione per attuare le raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Ngo tagike hanno documentato 24 casi di tortura tra il 1° dicembre 2013 e l’8 ottobre 2014. Tuttavia, la maggior parte dei parenti e delle vittime hanno rifiutato di sporgere denuncia per timore di rappre- saglie. È assai verosimile che molti altri casi di tortura non siano stati denunciati. I procedimenti penali a carico di funzionari di polizia sospettati di tortura sono stati rari e spesso sono stati annullati o sospesi prima del completamento. A fine anno, solo quattro agenti delle forze di sicurezza erano stati condannati per tortura da quando, nel 2012, è diventata reato. Due di loro hanno ricevuto condanne con sospensione della pena. Ad aprile, probabilmente a causa del cattivo stato di salute di uno dei sospettati, è stata nuovamente sospesa l’indagine nei confronti di due funzionari accusati di aver torturato Ismonboy Boboev (morto in custodia nel febbraio 2010). Il Tagikistan non ha messo in atto le decisioni di organi delle Nazioni Unite su singoli casi. A giugno 2013, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha sollecitato il rilascio di Ilhom Ismonov che, a novembre 2010, era stato arrestato arbitrariamente, torturato e costretto a firmare una confessione falsa. A fine anno era ancora in carcere. Agli avvocati è stato ripetutamente negato l’accesso ai loro clienti detenuti, spesso per giorni. Ciò è avvenuto soprattutto nelle strutture gestite dal comitato di stato per la sicurezza nazionale (Gosu- darstvennyj Komitet Nacional’noj Bezopasnosti − Gknb).

435 Le persone percepite come minaccia per la sicurezza nazionale, compresi gli appartenenti a movimenti religiosi e gruppi o partiti islamisti, sono state particolarmente a rischio di detenzione in incommuni- cado, tortura e altri maltrattamenti. Umed Tojiev, membro del partito d’opposizione Partito della rinascita islamica (Islamic Renaissance Party – Irp), è morto in ospedale il 19 gennaio. Arrestato dalla polizia il 30 ottobre 2013, nella provincia di Sughd, il 4 novembre 2013 era stato accusato di aver organizzato un gruppo criminale ma non era riuscito ad avere accesso al proprio avvocato fino al 13 novembre 2013. La famiglia ha sostenuto che era stato sottoposto a soffocamento, privazione del sonno e del cibo e scosse elettriche. Il 5 novembre 2013 si era gettato dalla finestra della stazione di polizia di Sughd, fratturandosi entrambe le gambe, ma non gli erano state fornite adeguate cure mediche fino al 4 gennaio. L’inchiesta sulla sua morte, ritenuta provocata da negligenza colposa, a fine anno era ancora in corso.

CONDIZIONI CARCERARIE A febbraio, ha iniziato la propria attività il gruppo di monitoraggio sulle strutture di detenzione, istituito dal difensore civico per i diritti umani. Il gruppo comprendeva rappresentanti della società civile. Tuttavia, in alcuni casi, ai rappresentanti delle Ngo è stato arbitrariamente negato l’accesso a centri di detenzione.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Politici, attivisti della società civile e giornalisti sono stati perseguitati per aver criticato il governo. Nel 2013-2014 sono state intentate circa 15 cause contro giornalisti e organi di stampa, soprattutto per diffamazione e, in un caso, per frode. A febbraio, un tribunale ha ordinato alla giornalista Olga Tutubalina e al quotidiano Asia Plus di pagare 30.000 somoni tagiki (circa 5250 euro), come risarcimento per le “sofferenze fisiche e mentali” di tre querelanti, per un articolo pubblicato nel 2013 che criticava l’“intellighenzia” tagika ma non citava espressamente nessuno dei querelanti. L’accesso a decine di popolari siti Internet, tra cui portali d’informazione e social media, è stato tem- poraneamente bloccato in più occasioni durante l’anno. Secondo quanto riferito, i provider avevano ricevuto l’ordine direttamente dal servizio statale che regola le comunicazioni. Le segnalazioni di molestie a sfondo politico di leader d’opposizione sono state molto numerose. In particolare, sono stati presi di mira esponenti dell’Irp. A luglio 2013, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per la detenzione di Zayd Saidov, capo del movimento di opposizione Nuovo Tagikistan, che a dicembre 2013 era stato condannato a 26 anni di reclusione. A ottobre 2014, la Corte suprema ha messo fuori legge il movimento d’opposizione Group24, dichia- randolo “estremista”. Il 16 giugno, Alexander Sodiqov, un cittadino tagiko che stava conducendo un dottorato di ricerca in Canada, è stato arrestato a Choruğ mentre intervistava il vice capo del partito d’opposizione Partito socialdemocratico del Gbao, come parte della sua ricerca sul periodo successivo al conflitto. È stato accusato di spionaggio ed è rimasto in detenzione in incommunicado per tre giorni. Il 19 giugno, il capo del Gknb, Saimumin Yatimov, facendo un velato riferimento al suo caso, ha dichiarato che spie straniere operavano in Tagikistan sotto le sembianze di Ngo e che cercavano di minacciare la sicurezza nazionale. Alexander Sodiqov era un prigioniero di coscienza. Il 22 luglio è stato rilasciato su cauzione e il 10 settembre è stato autorizzato a tornare in Canada per proseguire gli studi.

436 LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE Ngo per i diritti umani e altre hanno continuato a operare in un contesto d’insicurezza e hanno subito la pressione delle autorità. Sono aumentate le ispezioni non programmate, talvolta seguite da azioni legali per presunte violazioni della legge. Il 24 giugno, la Corte costituzionale ha esaminato un documento dell’Associazione dei giovani avvocati Amparo, in merito alle discrepanze tra la legge sulle associazioni pubbliche e la costituzione. La Corte ha concluso che la legge mancava di chiarezza sui motivi per la chiusura delle associazioni e ha raccomandato che il parlamento la modificasse. Amparo era stata chiusa dalle autorità a ottobre 2012 per un’irregolarità amministrativa minore. I suoi ricorsi contro questa decisione non hanno avuto successo.

TURCHIA

REPUBBLICA DI TURCHIA

Capo di stato: Recep Tayyip Erdoğan Capo di governo: Ahmet Davutoğlu

In seguito alle proteste di Gezi Park del 2013 e alla rottura con l’ex alleato, Fethullah Gülen, il governo ha iniziato a rispondere in modo autoritario alle critiche. Ha indebolito l’indipendenza della magistratura, introdotto nuove restrizioni alla libertà d’accesso a Internet e concesso poteri senza precedenti all’agenzia d’intelligence del paese. I diritti di manifestanti pacifici sono stati violati e agenti di polizia hanno goduto della quasi totale impunità per l’uso eccessivo della forza. Ci sono stati ancora processi iniqui, specialmente ai sensi delle leggi antiterrorismo, ma sono diminuiti il ricorso eccessivo alla detenzione preprocessuale e la sua durata. Le autorità hanno ignorato i diritti di obiettori di coscienza e persone Lgbti e non hanno adottato misure necessarie a prevenire la violenza contro le donne. A fine anno, 1,6 milioni di rifugiati siriani vivevano in Turchia, molti dei quali in stato d’indigenza.

CONTESTO Le autorità si sono attivate per annientare un’indagine penale sulla presunta corruzione nella cerchia delle persone più vicine al primo ministro Erdoğan, diventata di pubblico dominio il 17 dicembre 2013. Agenti di polizia e pubblici ministeri che lavoravano sul caso sono stati trasferiti ad altre man- sioni. L’indagine è stata formalmente chiusa dai pubblici ministeri il 16 ottobre 2014. Il governo ha bollato l’indagine come un complotto dei sostenitori dell’influente religioso Fethullah Gülen. Le autorità hanno promesso d’intraprendere ulteriori azioni contro Fethullah Gülen e la sua rete di soste- nitori all’interno di polizia e magistratura. Ad aprile, il parlamento ha approvato modifiche legislative che hanno attribuito all’agenzia nazionale d’intelligence (Milli Istihbarat Teskilati – Mit) poteri di sorveglianza senza precedenti e la quasi totale immunità dai procedimenti giudiziari per i suoi funzionari. A Soma, nella Turchia occidentale, 301 minatori sono morti per un’esplosione in una miniera di

437 carbone, avvenuta a maggio. Quest’ultimo disastro ha acceso i riflettori sulla sicurezza industriale, in un paese con uno dei più elevati tassi d’infortuni mortali sul lavoro di tutto il mondo. Il 18 giugno, nel caso “Mazza”, la Corte costituzionale ha ribaltato le condanne nei confronti degli ufficiali militari accusati di aver complottato per rovesciare il governo del Partito Ak (Adalet ve Kalkınma Partisi) e ha ordinato un nuovo processo. Sono continuati i procedimenti del caso “Erge- nekon” contro civili accusati di aver cospirato per rovesciare il governo. Molti degli imputati sono stati rilasciati perché la loro detenzione aveva superato il termine massimo di cinque anni. Altri sono stati rilasciati dopo sentenze della Corte costituzionale. I procedimenti contro attivisti politici curdi per la presunta appartenenza all’Unione delle comunità del Kurdistan (Koma Civaken Kurdistan – Kck), legata al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partiya Karkeren Kurdistan – Pkk), sono proseguiti in tutto il paese ma molti degli imputati sono stati rilasciati dalla detenzione pre- processuale. Ad agosto, il primo ministro in carica è diventato il primo presidente della Turchia eletto direttamente dal popolo, conferendo al ruolo maggiore potere e influenza nella pratica, se non ancora nel diritto. A ottobre, 49 ostaggi catturati dal gruppo armato Stato islamico nel consolato turco a Mosul, in Iraq, sono stati rilasciati dopo tre mesi. Il governo si è rifiutato di rivelare cosa sia stato fornito al gruppo armato in cambio degli ostaggi. Alcuni hanno affermato che si sia trattato della liberazione di 180 prigionieri detenuti in Turchia. È proseguito il processo di pace in corso da due anni tra le autorità e il Pkk ma, a fronte di scontri armati, della ricaduta dei conflitti in Siria e in Iraq e della mancanza di progressi concreti, è sembrato più instabile che mai.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Nonostante l’adozione nel 2013 di modifiche legislative volte a migliorare la legge, giornalisti, attivisti e altre voci dissenzienti hanno continuato a essere al centro di procedimenti penali che minacciavano la libertà d’espressione. Oltre alle norme antiterrorismo, sono state frequentemente utilizzate le leggi sulla diffamazione e sull’incitamento all’odio religioso. L’indipendenza dei mezzi d’informazione tra- dizionali ha continuato a essere indebolita a causa dei loro stretti legami di affari con il governo. Giornalisti più indipendenti sono stati licenziati dai loro direttori, timorosi di turbare il governo e i loro editori. L’obbligo di non pubblicazione della legge sulla stampa è stato usato per vietare, per “ragioni di sicurezza nazionale”, la diffusione di varie notizie, tra cui quelle sulla cattura di 49 ostaggi nel consolato turco di Mosul. A marzo, il parlamento ha approvato modifiche draconiane alla legge sull’uso di Internet, aumentando i poteri delle autorità di vietare o bloccare i contenuti e minacciare la privacy degli utenti. A seguito delle modifiche e in vista delle elezioni amministrative di marzo, le autorità hanno usato ordini am- ministrativi per bloccare l’accesso a Twitter e YouTube, dopo che sui siti dei social media erano stati pubblicati contenuti imbarazzanti per il governo. Nonostante ordinanze giudiziarie che imponevano l’eliminazione dei divieti, i siti sono rimasti bloccati rispettivamente per due settimane e due mesi, fino a quando la Corte costituzionale ha sancito che il blocco doveva essere rimosso.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Le autorità hanno negato i diritti di manifestanti pacifici vietando, impedendo o disperdendo le proteste con l’uso eccessivo, non necessario e spesso punitivo della forza da parte degli agenti di

438 polizia. Le persone che hanno partecipato a manifestazioni ritenute illegali dalle autorità hanno af- frontato azioni giudiziarie, spesso con accuse inventate di condotta violenta. La restrittiva legge sulle riunioni e le manifestazioni ha continuato a ostacolare la libertà di riunione pacifica, nonostante alcune modifiche superficiali introdotte a marzo. Questa poneva ingiustamente dei limiti a quando e dove si potevano tenere manifestazioni, richiedeva notifiche eccessivamente onerose da parte degli organizzatori e non prendeva in considerazione la possibilità di manifestazioni spontanee. Il 1° maggio, 39.000 poliziotti e 50 veicoli con cannoni ad acqua sono stati utilizzati per impedire a sindacalisti e altri manifestanti di marciare verso piazza Taksim, sede tradizionale delle manifestazioni della Festa del lavoro ormai da parecchi anni. Nel 2013 e 2014, la manifestazione è stata vietata e ne sono seguiti scontri tra polizia e manifestanti che cercavano di raggiungere la piazza. Le autorità hanno annunciato che piazza Taksim sarebbe stata permanentemente interdetta a tutte le grandi manifestazioni e hanno invece offerto due aree esterne al centro della città, in cui potevano effettuarsi i raduni. Questa politica è stata replicata anche in altre città della Turchia. A giugno è iniziato a Istanbul il processo nei confronti dei membri di Taksim Solidarity, un’associazione di più di 100 organizzazioni, istituita per contestare i progetti di riqualificazione urbanistica di Gezi Park e piazza Taksim, cominciati a Istanbul. Cinque importanti esponenti sono stati accusati per “fondazione di un’organizzazione criminale”, reato per cui sono previsti fino a 15 anni di carcere, mentre tutti i 26 imputati sono stati accusati di “rifiuto di allontanarsi da una manifestazione non autorizzata”, secondo la legge sulle riunioni e le manifestazioni. A fine anno, il processo era ancora in corso.1

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le segnalazioni di tortura in luoghi ufficiali di detenzione sono molto diminuite rispetto agli anni pre- cedenti. Sebbene siano trascorsi più di due anni dalla ratifica da parte della Turchia del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, il meccanismo d’implementazione interna richiesto non era ancora stato creato. Le autorità hanno designato per questo ruolo l’istituzione nazionale per i diritti umani ma questa non aveva le competenze necessarie, le risorse e le garanzie d’indipendenza per ricoprirlo.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA È rimasta prassi comune il ricorso a uso eccessivo e violento della forza da parte della polizia durante le manifestazioni, compreso il lancio di lacrimogeni direttamente sui dimostranti a distanza ravvicinata, l’uso di cannoni ad acqua e i pestaggi di manifestanti pacifici. Le linee guida del ministero dell’Interno, introdotte a giugno e luglio 2013 per combattere l’uso eccessivo e non necessario della forza, sono state in gran parte ignorate. In un certo numero di casi, la polizia ha usato proiettili veri durante le manifestazioni, provocando morti e feriti.

IMPUNITÀ Le indagini sugli abusi da parte di funzionari pubblici sono rimaste inefficaci e c’è stata una remota possibilità per le vittime di ottenere giustizia. In assenza del meccanismo indipendente per le denunce contro la polizia, promesso da tempo ma mai realizzato, le unità di polizia erano di fatto responsabili per le indagini sulle loro stesse presunte violazioni, sotto la guida di procuratori privi dei mezzi

439 necessari. I dipartimenti di polizia si sono regolarmente rifiutati di fornire anche le prove più elementari per le indagini. Non è stato aperto alcun procedimento giudiziario nei confronti di sei agenti di polizia che furono ripresi con la videocamera di un telefono cellulare mentre picchiavano Hakan Yaman e lo trascinavano sul fuoco, nei pressi di una manifestazione per Gezi Park, a Istanbul, nel giugno 2013.2 A causa del- l’aggressione, Hakan Yaman ha perso la vista da un occhio e ha subito ustioni e fratture per le quali è stato sottoposto a sei interventi chirurgici. A fine anno, i dipartimenti di polizia non avevano ancora fornito agli inquirenti i filmati delle telecamere a circuito chiuso della zona e le fotografie di agenti di polizia in servizio al tempo del fatto. Un’inchiesta amministrativa parallela si è conclusa senza esito perché non è stato possibile identificare gli agenti di polizia, nonostante dal filmato ripreso con il cellulare risultasse ben evidente il numero del veicolo con cannone ad acqua che stavano utilizzando. A ottobre, più di 40 persone sono state uccise e decine ferite nella zona a prevalenza curda del sud- est della Turchia, durante scontri tra gruppi rivali e con la polizia, dopo le proteste scoppiate contro l’attacco del gruppo armato Stato islamico nella città curda di Kobanê, in Siria. Secondo numerose segnalazioni, non ci sono state indagini immediate sulla scena del crimine e i presunti autori degli attacchi contro gruppi rivali non sono stati interrogati. L’8 ottobre, Davut Naz è morto a Siirt durante una manifestazione di protesta per i fatti di Kobanê. Il governatore della provincia ha dichiarato che egli era stato ucciso dai manifestanti e che era morto per una ferita al collo ma testimoni oculari hanno riferito che la polizia gli aveva sparato con munizioni vere. La famiglia ha fatto sapere che il corpo aveva tre ferite d’arma da fuoco ma nessuna lesione al collo. Non è stata condotta alcuna indagine sul luogo del crimine e, a fine anno, l’inchiesta penale non aveva fatto progressi.

PROCESSI INIQUI A luglio, alcune modifiche legislative hanno abolito i tribunali con poteri speciali che si occupavano di terrorismo e criminalità organizzata ma le persone accusate di reati legati al terrorismo hanno co- munque rischiato di essere condannate senza prove sostanziali e convincenti nei tribunali ordinari. Le modifiche legislative del 2013, che imponevano un limite massimo di cinque anni di detenzione preprocessuale e l’introduzione di una maggiore tutela contro il suo uso scorretto, hanno ottenuto dei risultati e portato a un minor numero di persone detenute e per periodi inferiori. L’indipendenza della magistratura è stata compromessa da modifiche al massimo organo giudiziario, il Consiglio superiore dei giudici e dei pubblici ministeri, che hanno concesso maggiori poteri al ministro della Giustizia e permesso il trasferimento di centinaia di giudici e pubblici ministeri.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO Il governo centrale e i comuni controllati da tutti i principali partiti politici hanno condotto progetti di trasformazione urbana che non hanno tutelato il diritto dei residenti a un’adeguata consultazione, compensazione o fornitura di un alloggio alternativo. I residenti di Sarıgöl, un quartiere povero di Istanbul dove vivevano molti rom, sono stati sgomberati con la forza dalle loro case nell’ambito di un progetto che prevedeva la sostituzione della baraccopoli con edifici residenziali di maggiore qualità. Il costo delle nuove case era notevolmente più alto di quanto la maggioranza dei residenti potesse permettersi e la compensazione per coloro che avevano perso le case è stata inadeguata. Molte delle famiglie a rischio di rimanere senza tetto a causa del progetto non avevano titoli di proprietà sulla terra nonostante vivessero nel quartiere da generazioni.

440 VIOLENZA CONTRO LE DONNE L’attuazione della legge del 2012 sulla protezione della famiglia e sulla prevenzione della violenza contro le donne è rimasta inadeguata, priva delle risorse necessarie e inefficace nell’affrontare la violenza domestica. In diversi casi si sarebbero verificati omicidi di donne che erano sotto tutela giu- diziaria. Il numero dei centri di accoglienza per le vittime di violenza domestica è rimasto di gran lunga inferiore a quello previsto dalla legge.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO A fine anno, il governo ha stimato che erano presenti nel paese 1,6 milioni di rifugiati siriani, a fronte dei 700.000 presenti a gennaio.3 La gran parte dell’onere economico è stato sostenuto dalla Turchia, con poca assistenza da parte della comunità internazionale. Più di 220.000 persone sono state ospitate in campi profughi dotati di risorse adeguate e gestiti dal governo ma molti degli oltre 1,3 milioni di rifugiati che vivevano fuori dai campi erano indigenti e hanno ricevuto poca o nessuna as- sistenza. Nonostante la Turchia abbia professato una “politica delle frontiere aperte”, ci sono state segnalazioni persistenti di uso illegale o violento della forza da parte delle guardie di frontiera turche ai valichi non ufficiali, con l’uso di munizioni vere, percosse e respingimento dei rifugiati nella Siria devastata dalla guerra. Ad agosto sono arrivati dall’Iraq circa 30.000 rifugiati curdi yazidi ma, a differenza dei siriani, non è stata loro garantita una “protezione temporanea”, né i diritti che ne derivavano. I rifugiati yazidi sono andati ad accrescere il numero dei circa 100.000 richiedenti asilo provenienti da altri paesi e già presenti in Turchia, quasi tutti ancora in attesa dell’esame della domanda d’asilo a causa di gravi ritardi.

OBIETTORI DI COSCIENZA La Turchia non ha riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, nonostante le esplicite sentenze della Corte europea dei diritti umani che le imponevano di farlo. Al contrario, le au- torità hanno continuato a perseguire ripetutamente gli obiettori di coscienza per “diserzione” e altri reati simili. A ottobre, un tribunale militare ha condannato l’obiettore di coscienza Ali Fikri Işık per tre imputazioni di diserzione, a 25 mesi di reclusione o il pagamento di una multa di 15.200 lire turche (pari a circa 5600 euro). La “diserzione” si riferiva al suo rifiuto, per motivi di coscienza, di svolgere il servizio militare negli anni Ottanta. Avendo 56 anni, era ormai troppo vecchio per prestare il servizio militare ed era già stato considerato “non idoneo” da parte delle autorità militari. A fine anno, un appello contro la condanna era pendente dinanzi alla Corte suprema d’appello militare.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Le persone Lgbti hanno continuato a subire discriminazioni nel campo dell’occupazione e nelle relazioni con le autorità statali. Non ci sono stati progressi per inserire nella costituzione o nel diritto interno norme che vietassero la discriminazione per motivi di orientamento sessuale e identità di genere. Durante l’anno sono stati segnalati alcuni omicidi di donne transgender. Nel corso del 2014, il processo per l’omicidio di Ahmet Yıldız, un gay ucciso in un sospetto delitto d’onore nel luglio 2008, non è andato avanti e il padre, unico sospettato dell’uccisione, è rimasto la- titante. Le autorità non avevano indagato in merito alle minacce di morte ricevute da Ahmet Yıldız prima dell’omicidio, né hanno effettuato un’indagine immediata ed efficace dopo l’uccisione.

441 Note 1. Gezi Park protests: Brutal denial of the right to peaceful assembly in Turkey (EUR 44/022/2013), www.amnesty.org/en/ library/info/EUR44/022/2013/en 2. Gezi Park protests: Brutal denial of the right to peaceful assembly in Turkey (EUR 44/022/2013), www.amnesty.org/en/ library/info/EUR44/022/2013/en 3. Struggling to survive: Refugees from Syria in Turkey (EUR 44/017/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR44/017/2014/en

TURKMENISTAN

TURKMENISTAN

Capo di stato e di governo: Gurbanguly Berdimuhamedov

Nonostante alcuni miglioramenti apportati alle leggi sui mezzi d’informazione e sulla partecipazione politica, esponenti dell’opposizione, giornalisti e difensori dei diritti umani hanno continuato a subire vessazioni da parte delle autorità. È stata limitata l’indipendenza della magistratura; non esistevano procedure d’appello significative e raramente ci sono stati proscioglimenti nei processi penali. Gli avvocati che tentavano di operare in modo indipendente hanno rischiato di essere radiati dall’albo. Tortura e altri maltrattamenti sono rimasti diffusi.

CONTESTO A settembre 2013, il Turkmenistan ha accettato le raccomandazioni del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite per una collaborazione con le procedure speciali delle Nazioni Unite. Tuttavia, le autorità hanno pesantemente limitato l’accesso degli osservatori internazionali al paese. Il Turkmenistan non ha risposto alle richieste di Amnesty International di visitare il paese e 10 richieste di visita da parte delle procedure speciali delle Nazioni Unite sono rimaste in sospeso. Nelle prime elezioni politiche multipartitiche del dicembre 2013, il Partito degli industriali e degli im- prenditori, all’opposizione, ha conquistato alcuni seggi in parlamento. Ciò nonostante, gli osservatori hanno riferito che questo partito non ha rappresentato una reale opposizione alla leadership politica e che ha proclamato la propria lealtà al presidente Berdimuhamedov.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Con l’approvazione della legge sui mezzi di comunicazione di massa del 4 gennaio 2013, il principio dell’indipendenza dei mezzi d’informazione e quello del divieto d’ingerenza dello stato nelle attività dell’informazione sono stati recepiti nel diritto. Tuttavia, in pratica la censura ha continuato a essere largamente applicata e i quotidiani erano di proprietà di ministeri che rispondevano al presidente. A fine anno, nessun giornale veramente indipendente era ancora stato registrato ai sensi della nuova

442 legge. In pratica, gli abbonamenti a mezzi d’informazione stranieri sono stati impediti e l’accesso a Internet è stato controllato e limitato. I siti dei social network sono stati spesso bloccati. Attivisti per i diritti umani e giornalisti, in Turkmenistan e in esilio, hanno subito costanti pressioni da parte delle autorità turkmene.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE L’irragionevole ingerenza dello stato nelle attività di associazioni pubbliche è continuata. Un decreto presidenziale, in vigore da gennaio 2013, prevedeva la registrazione e l’approvazione da parte del go- verno per le donazioni provenienti dall’estero. Il finanziamento di attività ritenute “politiche” è stato proibito, così come l’appartenenza ad associazioni non registrate. La legge sulle associazioni pubbliche è entrata in vigore a maggio; essa vietava l’ingerenza statale nelle attività delle associazioni ma, al tempo stesso, prevedeva sostanziali poteri di controllo e supervisione pubblici. Le procedure di regi- strazione per le associazioni sono rimaste complicate. Nessuna organizzazione in Turkmenistan è ri- sultata apertamente impegnata in attività di monitoraggio sui diritti umani o di analisi a livello sociale o politico.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Resoconti attendibili di tortura e altri maltrattamenti per mano delle forze di sicurezza contro persone sospettate di reati descrivevano metodi di tortura quali lo stiramento dei genitali con le pinze, scosse elettriche, percosse con gambe di sedie e bottiglie di plastica riempite d’acqua. Tra le denunce di casi avvenuti nelle carceri, c’è stato quello di un prigioniero costretto a ingoiare delle pillole e a subire minacce nei confronti della sua famiglia, oltre a episodi di stupri forzati tra detenuti e condannati all’ergastolo tenuti ammanettati. A gennaio, Geldy Kyarizov, sua moglie, sua cognata e sua figlia dodicenne sono stati arrestati da agenti delle forze di sicurezza mentre tentavano di spostarsi in cerca di assistenza medica. Sono stati tutti trattenuti per essere interrogati, sottoposti a maltrattamenti e costretti a firmare un foglio in cui dichiaravano che non avrebbero sporto denuncia ufficiale.1 L’attivista Mansur Mingelov ha condotto uno sciopero della fame in carcere dal 19 maggio all’8 giugno per chiedere un nuovo processo.2 Era stato condannato a 22 anni di reclusione a seguito di un processo iniquo, poco dopo aver raccolto e consegnato al procuratore generale e a diplomatici stranieri informazioni sulle torture e i maltrattamenti subiti dalla comunità etnica baluca, nella provincia di Mary, nel 2012.

SPARIZIONI FORZATE Durante l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite sul Turkmenistan del 2013, lo stato ha respinto le raccomandazioni del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di fornire informazioni sulla sorte di alcuni prigionieri, vittime di sparizioni forzate dopo un presunto tentato assassinio del- l’allora presidente Saparmurat Niyazov, nel novembre 2002. Fonti non governative hanno riferito che almeno otto dei condannati erano morti in detenzione. Ormai da più di 10 anni le famiglie degli scomparsi non hanno potuto avere alcun contatto con i loro cari, né hanno ricevuto informazioni ufficiali sulla loro sorte o sul luogo in cui potrebbero trovarsi.

LIBERTÀ DI MOVIMENTO Sebbene il Turkmenistan abbia abolito il sistema dei visti d’uscita nel 2006, in pratica sono continuate

443 le limitazioni arbitrarie al diritto di recarsi all’estero nei confronti di chi non era gradito alle autorità. Il 10 aprile, a Ruslan Tukhbatullin è stato impedito di lasciare il Turkmenistan per incontrare suo fratello Farid Tukhbatullin e gli è stato detto che era inserito, con il figlio di nove anni, in una lista nera di persone a cui era vietato recarsi all’estero, si ritiene per ritorsione contro l’attività per i diritti umani del fratello.3

LIBERTÀ DI RELIGIONE L’attività religiosa è rimasta strettamente controllata. Gruppi religiosi che rappresentavano musulmani sciiti, cattolici, protestanti e testimoni di Geova hanno incontrato difficoltà nella registrazione delle loro organizzazioni. Sei testimoni di Geova, incarcerati per obiezione di coscienza, sono stati rilasciati con un amnistia a ottobre. Alcune norme del codice dei reati amministrativi, entrato in vigore a gennaio, hanno previsto pene per l’importazione, l’esportazione e la distribuzione di materiali religiosi.

Note 1. Further information: Former prisoner denied urgent medical care: Geldy Kyarizov (EUR 61/001/2014), www.amnesty.org/en/li- brary/info/EUR61/001/2014/en 2. Urgent Action: Man to return to prison where he was beaten: Mansur Mingelov (EUR 61/002/2014), www.amnesty.org/en/li- brary/info/EUR61/002/2014/en 3. Turkmenistan: Activist’s family barred from travel abroad, brother of exiled rights defender halted at the airport (NWS 11/094/2014), www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/turkmenistan-activist-s-family-barred-travel-abroad-bro- ther-exiled-rights-d

UCRAINA

UCRAINA

Capo di stato: Petro Porošenko (subentrato a giugno a Oleksandr Turčynov, che era subentrato a Viktor Janukovyč a febbraio) Capo di governo: Arsenij Jacenjuk (subentrato a Mykola Azarov a febbraio)

La violenza derivante dalle proteste nella capitale Kiev e poi in Ucraina orientale è sfociata in un conflitto civile con il coinvolgimento della Russia. Sono perdurate le violazioni da parte della polizia, tra cui tortura e altri maltrattamenti, nonché l’uso violento della forza durante le manifestazioni, con la quasi totale impunità dei responsabili e indagini inefficaci. Si sono verificati rapimenti, soprattutto per mano dei paramilitari filorussi nella repubblica autonoma di Crimea occupata e di entrambe le parti in guerra nell’Ucraina orientale interessata dal conflitto. Entrambe le parti hanno violato le leggi di guerra. In Crimea, sono state applicate pienamente le restrizioni russe ai diritti alla libertà di espressione, riunione e associazione e gli attivisti filoucraini e i membri della comunità dei tatari di Crimea sono stati presi di mira da paramilitari e perseguitati dalle autorità de facto.

444 CONTESTO Le manifestazioni filoeuropee a Kiev (Euromaydan), innescate nel 2013 dalla decisione del governo di non firmare l’accordo di associazione con l’Eu, hanno portato il 22 febbraio all’estromissione del pre- sidente Janukovyč. Dopo la dispersione violenta da parte della polizia della protesta inizialmente pacifica nella notte del 29 novembre 2013, i manifestanti sono andati sempre più radicalizzandosi, erigendo tende sulla centrale piazza Indipendenza e occupando diversi edifici. Per quanto la maggior parte dei manifestanti sia rimasta pacifica, la violenza da entrambe le parti si è intensificata. A Kiev, almeno 85 manifestanti e 18 agenti di polizia sono morti in conseguenza delle violenze di Euromaydan e centinaia sono stati i feriti. Dopo che Viktor Janukovyč ha lasciato di nascosto l’Ucraina ed è stato formato un governo provvisorio, proteste sempre più violente sono iniziate nella regione prevalentemente russofona del Donbass, nel- l’Ucraina orientale. In Crimea, nella notte tra il 26 e il 27 febbraio, paramilitari armati che si definivano “forze di autodifesa” hanno occupato edifici appartenenti alle autorità locali. In collabo- razione con membri di forze regolari russe, hanno bloccato le strutture militari ucraine in tutta la pe- nisola e, il 27 febbraio, alla presenza di uomini armati, il parlamento della Crimea ha eletto una nuova leadership. Il 16 marzo si è tenuto un “referendum” per decidere lo status della Crimea. A schiacciante maggioranza, i votanti hanno scelto l’unificazione con la Russia, mentre gli avversari hanno boicottato la consultazione. Il 18 marzo, le autorità de facto della Crimea hanno firmato un “trattato” a Mosca, che ne sanciva l’annessione alla Russia. Ad aprile, oppositori armati al nuovo governo di Kiev hanno occupato gli edifici governativi, compresi i quartier generali di polizia e forze di sicurezza, nelle città di Donec’k e Luhans’k e in diversi centri minori, assumendo a tutti gli effetti il controllo di gran parte del Donbass. Il 15 aprile, il governo ha annunciato l’inizio di una “operazione antiterrorismo”. La situazione è rapidamente degenerata in un conflitto armato tra le forze governative e i gruppi armati separatisti, sostenuti dalla Russia. Le forze filogovernative hanno fatto costanti progressi fino alla fine di agosto, quando la Russia ha intensificato il suo segreto coinvolgimento militare in Ucraina.1 Un cessate il fuoco tra le parti in guerra è stato raggiunto a settembre, durante negoziati tenutisi in Bielorussia, anche se i combattimenti sono con- tinuati su scala ridotta, provocando per la fine dell’anno la morte di oltre 4000 persone. Dopo che le autorità de facto a Donec’k e Luhans’k hanno tenuto “elezioni” il 2 novembre, Kiev ha ritirato la sua offerta di trasferimento limitato di poteri sulla regione. Il 25 maggio e il 26 ottobre si sono svolte rispettivamente le elezioni presidenziali e legislative anticipate che hanno riportato al potere i partiti e i politici filoeuropei. Il 16 settembre, il parlamento europeo e quello ucraino hanno ratificato l’accordo di associazione con l’Eu che, però, a fine anno non era ancora stato approvato da tutti gli stati membri dell’Eu.

IMPUNITÀ – EUROMAYDAN I tre mesi di manifestazioni di Euromaydan hanno messo in risalto il sistemico problema dell’impunità per l’uso violento della forza e per la tortura e altri maltrattamenti da parte di polizia e forze di sicurezza in Ucraina. La polizia antisommossa ha usato per la prima volta la forza contro manifestanti del tutto pacifici il 30 novembre 2013, quando questi hanno rifiutato di disperdersi. L’intervento della polizia ha causato decine di feriti e 35 manifestanti pacifici sono stati arrestati per breve tempo con l’accusa di teppismo. In risposta alla diffusa condanna, le autorità hanno destituito un alto dirigente della polizia di Kiev e, secondo quanto riferito, hanno avviato procedimenti penali nei suoi confronti e

445 in quelli di altri quattro funzionari ma nessuno è stato mai portato a conclusione. Nelle settimane e nei mesi successivi, la polizia è più volte ricorsa all’uso violento della forza a Euromaydan, oltre a ef- fettuare arresti arbitrari e tentare di avviare procedimenti penali arbitrari contro i manifestanti.2 Infine, durante le manifestazioni sono state usate armi da fuoco con proiettili veri, compresi fucili di precisione, anche se non era chiaro quali forze le avessero impiegate e agli ordini di chi avessero agito. Il capo del servizio di sicurezza ucraino (Služba Bezpeky Ukraïny – Sbu) ha dichiarato a novembre che 16 ex agenti della polizia antisommossa e cinque alti funzionari dello Sbu erano stati arrestati in connessione con l’uccisione di manifestanti a Kiev. Dopo la caduta di Viktor Janukovyč, le nuove autorità si sono pubblicamente impegnate a indagare e perseguire in modo efficace i responsabili delle morti durante Euromaydan e di tutte le violenze contro i manifestanti. Tuttavia, a parte incriminare gli ex leader politici, sono state prese ben poche misure concrete, se non nessuna. Solo due agenti sono stati processati per tortura e altri maltrattamenti commessi durante Euromaydan ed erano entrambi reclute di grado inferiore delle truppe del ministero dell’Interno. Il 28 maggio sono stati condannati con sospensione della pena rispettivamente a tre e due anni, per “eccesso di autorità o poteri ufficiali” (articolo 365 del codice penale) per i maltrattamenti inferti a Mychajlo Havryljuk il 22 gennaio 2014. Registrazioni video mostravano Mychajlo Havryljuk, costretto a stare nudo con tem- perature inferiori allo zero di fronte a decine di agenti, sia delle truppe del ministero dell’Interno sia della polizia antisommossa, e si vedevano diversi agenti che lo umiliavano, costringendolo a posare per fotografie prima di essere spinto su un autobus. Le vittime di 20 casi di uso violento della forza da parte della polizia durante Euromaydan, monitorati da Amnesty International, sono state scoraggiate dalla lentezza o dall’apparente mancanza d’indagini in merito alle loro denunce, dall’incapacità delle autorità di individuare i responsabili e dalla scarsa comunicazione da parte della procura.3 Ad aprile, il Consiglio d’Europa ha istituito un gruppo consultivo internazionale sull’Ucraina incaricato di rivedere le indagini sui fatti di Euromaydan. A fine anno, non aveva ancora riferito sullo stato di avanzamento delle indagini.

RAPIMENTI, SPARIZIONI E UCCISIONI Durante le proteste a Kiev, alcune decine di attivisti di Euromaydan sono scomparsi. A fine anno non era ancora chiaro il destino di 20 persone ma è emerso che alcune erano state rapite e maltrattate. A dicembre, la procura generale ha riferito che 11 uomini, sospettati di rapimento di attivisti di Euro- maydan, erano stati arrestati e molti altri erano stati inseriti in una lista di ricercati. Nessuno appar- teneva alle forze di polizia o di sicurezza, anche se pare avessero agito agli ordini di ex alti funzionari di polizia. Yuryj Verbyckyj e Ihor Lucenko sono scomparsi il 21 gennaio da un ospedale. Ihor Lucenko ha riferito di essere stato bendato e picchiato dai suoi rapitori e poi scaricato in un bosco a una temperatura freddissima. Yuryj Verbyckyj è stato trovato morto in una foresta, con le costole rotte e tracce di nastro adesivo intorno alla testa. Diverse centinaia di persone sono state vittime di rapimenti e maltrattamenti nella Crimea occupata dai russi e nelle zone dell’Ucraina orientale controllate dai separatisti. Tra i primi a essere presi di mira c’erano amministratori locali, attivisti politici filoucraini, giornalisti e osservatori internazionali. In una conferenza stampa del 23 aprile, l’allora autoproclamatosi “sindaco del popolo” di Slovjans’k,

446 Vjacheslav Ponomar’ov, ha riconosciuto che i separatisti trattenevano un certo numero di persone come “merce di scambio”. Successivamente, diverse centinaia di prigionieri sono stati scambiati tra i separatisti e le autorità ucraine. Altri sono stati tenuti in ostaggio per ottenere un riscatto. Saša, un attivista filoucraino di 19 anni, è stato rapito da membri di un gruppo armato a Luhans’k, il 12 giugno. Picchiato ininterrottamente per 24 ore e torturato con scosse elettriche, è stato rilasciato dopo che, secondo quanto riferito, il padre ha pagato un riscatto di 60.000 dollari. Accuse di rapimento sono state ripetutamente formulate contro membri delle forze filoucraine, in particolare i cosiddetti battaglioni di volontari, dispiegati per combattere a fianco delle forze regolari nel Donbass. Tra giugno e agosto, nella regione di Luhans’k sono stati documentati diversi casi di abusi da parte del battaglione Aidar, incluso il rapimento di abitanti locali accusati di collaborazionismo con i separatisti e la loro segregazione in centri di detenzione improvvisati, prima di rilasciarli o di consegnarli ai servizi di sicurezza. In quasi tutti i casi, i prigionieri sono stati sottoposti a percosse, i loro beni personali, tra cui automobili e oggetti di valore, sono stati sequestrati dai membri del bat- taglione oppure hanno dovuto pagare un riscatto per essere liberati.4 Il parlamentare Oleh Ljaško ha pubblicato online diversi video in cui guidava un gruppo di uomini armati e con i volti coperti da passamontagna mentre fermavano, interrogavano e maltrattavano persone che egli sospettava di collaborazione con i separatisti. Nessuna indagine penale è stata avviata in merito alle sue azioni. Nelle elezioni parlamentari di ottobre ha di nuovo ottenuto un seggio e il suo partito è entrato nella coalizione di governo. Ci sono state prove di esecuzioni sommarie da entrambe le parti in conflitto. Diversi comandanti se- paratisti si sono vantati di avere messo a morte prigionieri per presunti crimini e le autorità de facto separatiste hanno introdotto la “pena di morte” nel loro “codice penale”.5

VIOLENZA COMUNITARIA Con l’esplodere delle tensioni in molte regioni del paese, manifestanti favorevoli o contrari alle autorità subentrate a Janukovyč si sono più volte scontrati in diverse città e spesso la polizia non ha interferito né si è occupata in modo efficace delle conseguenti violenze. A Odessa, il 2 maggio, 48 manifestanti contrari a Euromaydan sono stati uccisi e oltre 200 feriti al- l’interno di un edificio in fiamme assediato dagli avversari durante violenti scontri. La polizia non è riuscita ad adottare misure efficaci per prevenire o contenere la violenza. Sono state aperte varie in- dagini penali per tali eventi. A novembre sono iniziate le prime udienze di uno dei casi, nei confronti di 21 attivisti filorussi accusati di disordini di massa e uso illegale di armi da fuoco ed esplosivi. La segretezza che circondava le indagini ufficiali ha suscitato preoccupazione circa la loro efficacia e imparzialità.

CONFLITTO ARMATO A fine anno, oltre 4000 persone erano morte nel contesto del conflitto nell’Ucraina orientale. Molti decessi di civili sono stati causati dall’uso indiscriminato della forza da entrambe le parti, in particolare in conseguenza dell’uso di mortai e razzi non guidati in aree civili. Entrambe le parti non sono riuscite a prendere valide precauzioni per proteggere i civili, in violazione delle leggi di guerra.6 Entrambe hanno collocato truppe, armi e altri obiettivi militari in aree residenziali. In numerose occasioni, le forze separatiste hanno impiegato aree ed edifici residenziali come postazioni di tiro e le forze filoucraine hanno risposto al fuoco verso tali postazioni. Ci sono stati pochi segnali

447 che entrambe le parti stessero seriamente indagando sulle presunte violazioni del diritto umanitario internazionale e i possibili crimini di guerra commessi dalle loro truppe. Il 17 luglio, le forze separatiste hanno riferito di aver abbattuto un aereo militare ucraino. Quando è emerso che a essere stato colpito era un aereo civile delle Malaysian Airlines, provocando l’uccisione di quasi 300 persone, la rivendicazione è stata ritirata e da allora entrambe le parti si sono incolpate l’un l’altra. A fine anno era in corso un’indagine internazionale sull’incidente.

SFOLLATI Le circa 20.000 persone fuggite dall’occupazione russa della Crimea hanno ottenuto qualche sostegno dallo stato per il reinsediamento. È stato stimato che all’incirca un milione di persone siano rimaste sfollate a causa del conflitto nel Donbass, di cui circa la metà all’interno dell’Ucraina e i restanti soprattutto in Russia. In Ucraina, la maggior parte ha ricevuto limitato sostegno dallo stato e ha fatto af- fidamento su mezzi propri, reti familiari e assistenza di organizzazioni di volontariato. A ottobre è stata adottata una legge sugli sfollati interni che, però, a fine anno non aveva cambiato molto la situazione.

CRIMEA Dopo l’annessione alla Russia a marzo, le restrittive leggi russe sono state utilizzate per reprimere i diritti alla libertà di riunione, associazione ed espressione nel territorio della Crimea. Organizzazioni della società civile sono state chiuse a tutti gli effetti perché non rispettavano i requisiti di legge russi. I residenti locali sono stati dichiarati cittadini russi. Coloro che desideravano mantenere la cit- tadinanza ucraina hanno dovuto informare le autorità. Le sedicenti forze paramilitari di “autodifesa” hanno impunemente commesso numerosi gravi abusi, tra cui sparizioni forzate. Il primo ministro de facto della Crimea, Sergej Aksënov, ha dichiarato che, sebbene questi paramilitari non avessero status o autorità ufficiali, il suo governo faceva affidamento su di loro e aveva scelto “a volte di chiudere un occhio” sugli abusi che avevano commesso. Ci sono state numerose segnalazioni di rapimenti di attivisti filoucraini in Crimea. Le attiviste di Euromaydan Oleksandra Rjazantseva e Kateryna Butko sono state rapite il 9 marzo, dopo essere state fermate a un posto di blocco, presumibilmente presidiato da agenti della polizia antisommossa e paramilitari di “autodifesa” della Crimea, armati di pistole e coltelli. Sono state ri- lasciate il 12 marzo.7 Il 9 maggio, Oleg Sentsov, un noto attivista e regista filoucraino, è stato arrestato in segreto da fun- zionari della sicurezza russi in Crimea e trasferito illegalmente a Mosca, insieme a diverse altre persone. Il procedimento penale nei suoi confronti, per accuse connesse al terrorismo che apparivano prive di fondamento, è stato condotto in segreto e le sue denunce di tortura sono state respinte dalle autorità. I tatari di Crimea, un gruppo etnico indigeno della penisola (deportato in parti remote dell’Unione So- vietica nel 1944 e non autorizzato a tornare fino alla fine degli anni Ottanta), sono stati particolarmente presi di mira dalle autorità de facto, per aver espresso pubblicamente opinioni filoucraine. A partire da marzo, si è verificata una serie di rapimenti e pestaggi di tatari di Crimea, sui quali le autorità de facto non hanno indagato. Il 3 marzo, Reşat Ametov, un tataro di Crimea, è stato portato via da tre uomini delle forze di “auto- difesa” dopo aver tenuto una protesta solitaria di fronte all’edificio del consiglio dei ministri di Crimea a Sinferopoli, capitale della regione. Il suo corpo è stato ritrovato quasi due settimane più tardi e mostrava segni di tortura. I suoi rapitori non sono stati identificati.

448 Le autorità de facto hanno iniziato una campagna per chiudere il mejlis, un organo eletto dall’assemblea dei tatari di Crimea (kurultai) e riconosciuto dalle autorità ucraine come l’organo rappresentativo della comunità tatara. Mustafa Cemilev, un veterano difensore dei diritti umani e fondatore del mejlis, è stato bandito dalla Crimea. Gli è stato più volte negato l’ingresso, anche il 3 maggio, quando ha cercato di attraversare un posto di blocco ad Armjans’k. Centinaia di tatari di Crimea erano andati a incontrarlo. Le autorità de facto hanno sostenuto che si trattava di una riunione illegale e decine di partecipanti sono stati multati. In seguito sono state perquisite le abitazioni di molti leader tatari e almeno quattro tatari sono stati arrestati con l’accusa di “estremismo” e trasferiti in Russia per le indagini. Il 5 luglio, anche Refat Čubarov, succeduto a Mustafa Cemilev alla guida del mejlis, si è visto impedire l’ingresso in Crimea, dalla quale è stato bandito per cinque anni. Il nuovo procuratore de facto della Crimea si è recato al valico di frontiera per avvertirlo che le attività del mejlis violavano la legge russa sull’estremismo. Il 19 settembre, le autorità russe hanno sequestrato la sede del mejlis sulla base del fatto che il suo fondatore (Mustafa Cemilev) era un cittadino straniero a cui era stato vietato l’ingresso in Russia. Il 16 maggio, a soli due giorni di distanza dagli eventi previsti per la commemorazione del 70° anni- versario della deportazione dei tatari di Crimea nel 1944, il primo ministro de facto della Crimea ha annunciato che tutte le manifestazioni di massa sarebbero state bandite fino al 6 giugno, al fine di “eliminare eventuali provocazioni degli estremisti” e per evitare “interruzioni alla stagione delle vacanze estive”. Ai tatari di Crimea è stato permesso un unico evento commemorativo nel giorno sta- bilito, alla periferia di Sinferopoli e con una massiccia presenza della polizia.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Una marcia del Pride Lgbti prevista per il 5 luglio a Kiev è stata annullata, dopo che la polizia ha detto al comitato organizzatore che non avrebbe potuto garantire la sicurezza dei partecipanti a fronte delle contromanifestazioni previste. Il 27 giugno, il neoeletto sindaco di Kiev, Vitalij Klyčko, ha dichiarato che quello non era il momento per tali “eventi d’intrattenimento” in Ucraina.

Note 1. Ukraine: Mounting evidence of war crimes and Russian involvement, www.amnesty.org/en/news/ukraine-mounting- evidence-war-crimes-and-russian-involvement-2014-09-05 2. Ukraine: Kyiv protest ban blatant attempt to “gag peaceful protesters”, www.amnesty.org.uk/press-releases/ukraine-kiev- protest-ban-blatant-attempt-gag-peaceful-protesters 3. Ukraine: a new country or business as usual? (EUR 50/028/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/EUR50/028/2014/ en/da555a1a-99a1-4d76-a52b-8f020712e0fa/eur500282014en.pdf 4. Ukraine: Abuses and war crimes by the Aidar Volunteer Battalion in the north Luhansk region (EUR 50/040/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/EUR50/040/2014/en/e6776c69-fe66-4924-bfc0-d15c9539c667/eur500402014en.pdf 5. Summary: killings during the conflict in eastern Ukraine (EUR 50/042/2014), http://www.amnesty.org/en/library/info/ EUR50/042/2014/en 6. Eastern Ukraine: Both sides responsible for indiscriminate attacks (comunicato stampa), www.amnesty.org/en/for-media/press- releases/eastern-ukraine-both-sides-responsible-indiscriminate-attacks-2014-11-06 7. Ukraine: Journalists at risk of abduction in Crimea (EUR 50/015/2014), www.amnesty.org/en/library/info/EUR50/015/2014/en

449 UNGHERIA

UNGHERIA

Capo di stato: János Áder Capo di governo: Viktor Orbán

Il governo ha lanciato campagne diffamatorie contro diverse Ngo per presunte irregolarità nei finan- ziamenti e ha ordinato verifiche dei loro conti. I rom hanno continuato a subire discriminazioni nel- l’accesso alle cure sanitarie e all’alloggio e da parte delle forze di sicurezza. La Corte europea dei diritti umani ha stabilito che obbligare le organizzazioni religiose a registrarsi nuovamente era una violazione del diritto alla libertà di religione.

CONTESTO Nelle elezioni generali di aprile, il partito di governo Fidesz si è assicurato una maggioranza parla- mentare di due terzi, con il 45 per cento dei voti. L’Osce ha criticato il governo per la riforma della legge elettorale e ha sottolineato che queste e altre normative, oltre alla costituzione, erano state modificate con procedure che avevano eluso l’obbligo di consultazione e dibattito pubblici.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE – NGO Il governo ha adottato un atteggiamento sempre più ostile verso i gruppi della società civile e le Ngo critiche verso il suo operato, accusandoli di agire nell’interesse di governi stranieri, da cui ricevevano finanziamenti.1 Ad aprile, il capo di gabinetto del primo ministro ha affermato che i fondi norvegesi, uno strumento sostenuto dal governo scandinavo per il finanziamento di progetti di coesione sociale in 16 stati membri dell’Europa, stavano finanziando gruppi legati a partiti d’opposizione. Il governo norvegese e le Ngo in questione hanno respinto le accuse. A giugno, l’ufficio del primo ministro ha ordinato all’ufficio governativo di controllo (Kormányzati El- lenőrzési Hivatal – Kehi) di effettuare verifiche sulle Ngo coinvolte nella distribuzione e nella ricezione delle sovvenzioni del progetto Spazio economico europeo (See)/Norvegia. Il governo norvegese e le Ngo in questione hanno fortemente contestato la legittimità delle verifiche, poiché i fondi non facevano parte del bilancio statale ungherese e perché l’autorità per ordinare o condurre verifiche sulle sovvenzioni spettava soltanto all’ufficio per il meccanismo finanziario con sede a Bruxelles, nel quadro di accordi bilaterali tra Ungheria e Norvegia. A luglio, il Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani ha denunciato “la retorica stigma- tizzante [del governo ungherese] ... che mette in discussione la legittimità delle Ngo”. Le autorità un- gheresi hanno continuato ad accusare le Ngo. In un discorso tenuto a luglio, il primo ministro ha fatto riferimento alle Ngo beneficiarie dei fondi norvegesi definendole “attivisti politici pagati che stanno tentando di far valere interessi stranieri qui in Ungheria”. L’8 settembre, la polizia ha fatto irruzione negli uffici di Ökotárs e Demnet, due delle Ngo responsabili della distribuzione dei fondi norvegesi, confiscando documenti e server dei computer. Secondo quanto riferito, le indagini della polizia si basavano su accuse di cattiva gestione dei fondi.2

450 Sempre a settembre, il Kehi ha avviato le procedure per sospendere i codici fiscali delle quattro Ngo coinvolte nella distribuzione dei fondi norvegesi, sostenendo che non avevano collaborato in occasione della verifica imposta dal governo. Le Ngo hanno negato le accuse. A ottobre, il Kehi ha pubblicato un rapporto basato sulle verifiche effettuate e ha annunciato che avrebbe chiesto sanzioni penali per numerose Ngo. A dicembre, è diventata effettiva la sospensione del codice fiscale di almeno una delle Ngo in questione. Le Ngo intendevano opporsi alla sospensione in un’aula di tribunale. A luglio, un giudice di primo grado ha stabilito che il portavoce del partito Fidesz aveva danneggiato la reputazione di una Ngo, il Comitato Helsinki ungherese (Hungarian Helsinki Committee – Hhc), di- chiarando che era pagata da “speculatori americani ... per attaccare il governo ungherese”. Il portavoce ha presentato appello contro tale decisione.

DISCRIMINAZIONE – ROM I rom sono stati sottoposti a profilazione etnica e presi sproporzionatamente di mira dalla polizia per reati amministrativi minori. A settembre, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha ri- levato che i rom continuavano a vedersi negata l’assistenza sanitaria, compresi i servizi d’emergenza, ed erano discriminati dagli operatori sanitari. Circa 450 residenti del quartiere a prevalenza rom conosciuto come Strade numerate, nella città di Miskolc, hanno rischiato di essere sgomberati con la forza e rimanere senza tetto.3 A maggio, il consiglio comunale ha adottato un decreto con cui dichiarava “vecchie e inadeguate” le case del quartiere e annunciava la rescissione dei contratti di locazione. Il comune ha dichiarato che in città “non c’era posto per le baraccopoli” e che i suoi progetti per la demolizione degli edifici esistenti erano supportati dalle 35.000 persone firmatarie di una petizione per lo sgombero. Ad agosto, il comune ha sgomberato due famiglie; circa altre 50 famiglie si aspettavano di ricevere notifiche di sgombero entro la fine dell’anno.

LIBERTÀ DI RELIGIONE A settembre, la Grande camera della Corte europea dei diritti umani ha confermato una sentenza se- condo cui l’Ungheria aveva violato il diritto alla libertà di religione quando, nel 2011, adottò una legge che richiedeva a tutte le chiese e le organizzazioni religiose riconosciute di registrarsi nuovamente. La legge concedeva la nuova registrazione soltanto se potevano dimostrare di essere esistite in Ungheria per almeno 20 anni e di avere almeno 1000 membri. La Corte europea ha stabilito che il go- verno doveva raggiungere un accordo con le chiese, per il ripristino della loro registrazione e per un equo risarcimento degli eventuali danni.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO I richiedenti asilo sono stati spesso detenuti in attesa della determinazione delle loro domande. In un rapporto pubblicato a maggio, l’Hhc ha dichiarato che il 40 per cento degli uomini che richiedeva asilo per la prima volta era in carcere e che il controllo giudiziario sulla detenzione per i richiedenti asilo era inefficace. A settembre, l’Hhc ha riferito che nel 2013 aveva seguito 262 casi di persone espulse o rim- patriate che avevano tentato di entrare in Ungheria attraverso il confine serbo-ungherese. A settembre, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha criticato l’Ungheria perché tratteneva in detenzione amministrativa i minori richiedenti asilo e i minori migranti non accom- pagnati.

451 TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A maggio, la Corte europea dei diritti umani ha sancito che la possibilità dell’ergastolo senza condi- zionale, una disposizione inclusa nella costituzione ungherese adottata nel 2011, corrispondeva a una punizione disumana e degradante.

Note 1. Hungary: Stop targeting NGOs (EUR 27/002/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/EUR27/002/2014/en/5a8bdc49- 7960-408f-b8e8-e49c9e564d7/eur270022014en.html 2. Hungarian government must end its intimidation of NGOs (EUR 27/004/2014), www.amnesty.org/en/library/ asset/EUR27/004/2014/en/df917e1f-900b-4abb-8cdd-56dfabc9eb54/eur270042014en.html 3. Hungary: Mayor of Miskolc must halt evictions of Roma (comunicato stampa) (EUR 27/003/2014), www.amnesty.eu/en/news/ press-releases/eu/hungary-mayor-of-miskolc-must-halt-evictions-of-roma-0771/#.VGowKvmsXu0

UZBEKISTAN

REPUBBLICA DELL’UZBEKISTAN

Capo di stato: Islam Karimov Capo di governo: Šavkat Mirzijoev

Nelle strutture di detenzione, il ricorso a tortura e altri maltrattamenti è rimasto una prassi abituale e molto diffusa. Le autorità hanno continuato a respingere le accuse di torture commesse da agenti di polizia e delle forze di sicurezza nazionale e non hanno indagato in modo efficace segnalazioni credibili e persistenti di tali violazioni dei diritti umani. Persone condannate per reati contro lo stato e terrorismo si sono viste estendere arbitrariamente le pene detentive e a molte sono state negate cure mediche necessarie. Le persone rimpatriate forzatamente dall’estero sono state a rischio reale di tortura e altri maltrattamenti.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Sono continuate a emergere accuse persistenti e credibili di tortura e altri maltrattamenti, una prassi abituale e molto diffusa usata da agenti di polizia e forze di sicurezza nazionale (Služba načional’noj bezopasnosti – Snb), al momento dell’arresto, del trasferimento, durante la custodia di polizia e in detenzione preprocessuale, nonché da parte di agenti di polizia e di custodia nelle strutture detentive dopo la condanna.1 Le autorità hanno continuato a negare con forza tali accuse, anche nel corso dell’esame pubblico della situazione dei diritti umani dell’Uzbekistan in occasione del dialogo Eu-Uzbekistan, a novembre. Hanno invece messo in luce l’attuazione d’iniziative di ampio respiro nel campo dell’educazione ai diritti umani, come ad esempio numerosi programmi di formazione per la prevenzione della tortura rivolti ad agenti della forza pubblica, funzionari giudiziari e medici e una maggiore cooperazione in

452 materia di diritti umani con la comunità internazionale. Tuttavia, come negli anni precedenti, questi sviluppi non sono riusciti a portare a riforme sistemiche necessarie, reali e di vasta portata. Sono perdurate gravi preoccupazioni circa l’incapacità delle autorità di applicare le leggi e le garanzie esi- stenti e di adottare nuove misure utili per prevenire la tortura. Le autorità inoltre non hanno indagato in modo efficace sulle denunce di tortura e altri maltrattamenti. A novembre, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha chiesto all’Uzbekistan di presentare una relazione sulle misure adottate per mettere in atto numerose precedenti sue raccomandazioni, volte ad affrontare il problema della tortura, risalenti al 1999, 2005 e 2010.

CONDIZIONI CARCERARIE Alcune categorie di detenuti, come difensori dei diritti umani, persone critiche verso il governo e altre condannate per appartenenza a partiti e gruppi islamisti o movimenti islamici vietati in Uzbekistan, sono state spesso sottoposte a severi regimi di punizione nelle carceri in cui scontavano la loro con- danna. Alcuni prigionieri si sono visti estendere le condanne per lunghi periodi, a volte ripetutamente, anche per presunte infrazioni minori delle regole della prigione. La pena detentiva di Murad Djuraev, un ex parlamentare condannato a 12 anni di carcere per motivi politici nel 1995, è stata prolungata quattro volte ai sensi dell’art. 221 del codice penale, perché ac- cusato di aver violato i regolamenti carcerari.2 Una delle “violazioni” che aveva commesso era di non essersi tolto le pantofole entrando nella sala in cui i prigionieri dormivano. La salute di Murad Djuraev è seriamente peggiorata durante la sua prolungata reclusione. A luglio, la moglie è stata autorizzata a fargli visita per due giorni e ha riferito che era quasi cieco e aveva perso tutti i denti. La donna ha dichiarato che il marito non aveva avuto accesso a cure mediche adeguate fin dal 1994. Le autorità carcerarie avevano anche cercato d’isolarlo dagli altri prigionieri, minacciando di estendere le condanne di chiunque osasse parlare con lui. Egli ha trascorso lunghi periodi in iso- lamento come punizione per presunte violazioni del regolamento carcerario. Sono stati segnalati i casi di almeno due prigionieri morti per mancanza di cure mediche necessarie. Il difensore dei diritti umani Abdurasul Chudajnazarov è morto per un cancro terminale avanzato il 26 giugno, tre settimane dopo che un tribunale ne aveva ordinato il rilascio anticipato per motivi umanitari. La sua famiglia ha riferito che per otto anni i funzionari della prigione gli avevano ripetu- tamente negato le cure mediche necessarie per il cancro e per altri gravi problemi medici, nonostante le numerose richieste e gli evidenti segni fisici del grave deterioramento della sua salute. Non ci sono stati meccanismi indipendenti di monitoraggio per ispezionare tutti i luoghi di detenzione, mentre le Ngo nazionali o internazionali non hanno condotto nessun tipo di controllo, regolare, senza preavviso o senza supervisione. I diplomatici, pur avendo accesso ad alcuni centri di detenzione, durante le visite erano di norma accompagnati da funzionari della prigione o delle forze di sicurezza. A gennaio, le autorità hanno concesso a un piccolo numero di attivisti per i diritti umani indipendenti il permesso di visitare quattro colleghi incarcerati. I difensori dei diritti umani sono stati accompagnati da funzionari di polizia e di custodia e le visite sono state videoregistrate. Uno dei detenuti ha riferito che gli era stato permesso di fare una doccia calda prima dell’incontro e che gli avevano dato nuovi vestiti in previsione della visita programmata. A novembre, l’Ngo Human Rights Watch ha inviato una delegazione in Uzbekistan ma le autorità hanno respinto tutte le richieste di visitare prigionieri e luoghi di detenzione.

453 CONTROTERRORISMO E SICUREZZA Le persone rimpatriate forzatamente in Uzbekistan in nome della sicurezza nazionale e della “lotta al terrorismo” sono state spesso tenute in incommunicado, aumentando il rischio di tortura o altri mal- trattamenti. Le autorità si sono inesorabilmente impegnate per il ritorno di persone sospettate di essere coinvolte negli attentati avvenuti nella capitale Tashkent, nel 1999 e nel 2004, nelle proteste di Andijan del 2005 (durante le quali centinaia di persone furono uccise dalle forze di sicurezza che aprirono il fuoco contro migliaia di manifestanti per lo più pacifici) e in vari altri episodi di violenza. Le autorità hanno accusato alcune persone di appartenenza a gruppi islamisti violenti e messi fuori legge e hanno anche chiesto l’estradizione di oppositori politici, persone critiche verso il governo e persone abbienti che avevano perso i favori delle autorità di Tashkent. Nel 2013 e 2014, la Corte europea dei diritti umani ha emesso almeno 15 sentenze che vietavano il trasferimento forzato di persone in Uzbekistan, in particolare chi era sospettato di appartenenza a un partito islamista o a un gruppo messo al bando nel paese, a causa del rischio reale di tortura al ritorno. A ottobre, nel caso Mamajonov vs. Russia, la Corte ha stabilito che il trasferimento di Ikromjon Mamajonov dalla Russia in Uzbekistan avrebbe violato l’art. 3 (divieto di tortura) della Convenzione europea dei diritti umani. La Corte ha osservato “che non vi era stato alcun miglioramento del sistema di giustizia penale dell’Uzbekistan negli ultimi anni, in particolare per quanto riguardava l’azione penale per crimini motivati da religione e politica e che vi erano alcune prove che le persone accusate di tali crimini erano a rischio di maltrattamenti”. A novembre, Mirsobir Chamidkariev, un produttore e commerciante uzbeko che aveva cercato asilo a Mosca, è stato condannato a otto anni di carcere da un tribunale di Tashkent,3 per appartenenza a un’organizzazione islamista vietata, accusa che egli ha fortemente negato. Secondo quanto riferito, il 9 giugno è stato rapito e maltrattato da agenti del servizio federale di sicurezza russo (Federal’naja služba bezopasnosti Rossijskoj Federacii – Fsb) in una strada nel centro di Mosca, consegnato a fun- zionari uzbeki in un aeroporto di Mosca e illegalmente trasferito a Tashkent il giorno successivo. L’avvocato di Mirsobir Chamidkariev a Mosca non ha saputo dove si trovasse il suo cliente fino a quando, due settimane più tardi, non è riapparso nel seminterrato di un centro di detenzione gestito dal ministero dell’Interno, a Tashkent. Secondo il suo avvocato russo, che è stato in grado d’incontrarlo a Tashkent il 31 ottobre, per due mesi Mirsobir Chamidkariev era stato sottoposto a tortura e altri maltrattamenti da parte di agenti delle forze di sicurezza a Tashkent, per costringerlo a confessare accuse false. È stato legato a testa in giù a una sbarra attaccata al muro e picchiato ripetutamente; aveva perso sette denti e aveva due costole fratturate.

Note 1. Cases of torture and other ill-treatment in Uzbekistan (EUR 62/007/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR62/007 /2014/en / www.tbinternet.ohchr.org/_layouts/treatybodyexternal/Download.aspx?symbolno=INT%2fCCPR%2 fICO%2fUZB%2f17734&Lang=en 2. Uzbekistan: Jailed parliamentarian denied medical help: Murad Dzhuraev (EUR 62/003/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/EUR62/003/2014/en 3. Uzbekistan: Fear of unfair trial for extradited refugee: Mirsobir Khamidkariev (EUR 62/008/2014), www.amnesty.org/en/li- brary/info/EUR62/008/2014/en

454 MEDIO ORIENTE E AFRICA DEL NORD I PAESI

Algeria Arabia Saudita Bahrein Egitto Emirati Arabi Uniti Giordania Iran Iraq Israele e Territori Palestinesi Occupati Kuwait Libano Libia Marocco e Sahara Occidentale Oman Palestina Qatar Siria Tunisia Yemen

456 Panoramica regionale su Medio Oriente e Africa del Nord

Mentre il 2014 volgeva al termine, il mondo rifletteva su un anno catastrofico per milioni di persone nell’intera regione del Medio Oriente e Africa del Nord; un anno che ha visto il perpetuarsi del conflitto armato e orrendi abusi in Siria e Iraq, i civili di Gaza sostenere il peso maggiore della più micidiale serie di combattimenti mai visti finora tra Israele e Hamas e la Libia che appariva sempre più uno stato incompiuto, bloccato dall’incombere di una guerra civile. Anche lo Yemen rimaneva caratterizzato da una società profondamente divisa, le cui autorità centrali si sono dovute confrontare con i gli insorti sciiti nel nord, un movimento che a gran voce chiedeva la secessione del sud e le ininterrotte attività insurrezionali nel sud-ovest. Guardando l’anno in prospettiva, le ambiziose speranze di cambiamento, che avevano guidato le rivolte popolari che avevano scosso il mondo arabofono nel 2011 e che avevano visto la destituzione di regimi duraturi in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen, sono parse essere un ricordo lontano. Eccetto in Tunisia, dove le nuove elezioni parlamentari si sono svolte senza problemi a novembre e dove le autorità hanno dato prova di voler almeno tentare di perseguire i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani commesse negli anni precedenti. Per contro, la situazione in Egitto non dava molto spazio all’ottimismo. Qui, il generale militare che aveva guidato la destituzione del primo presidente post-rivolta del paese nel 2013 ha assunto la presidenza dopo le elezioni e ha continuato un’ondata di repressione che ha preso di mira non soltanto i Fratelli musulmani e i loro alleati ma anche attivisti di molte altre affiliazioni politiche, oltre che operatori dell’informazione e attivisti dei diritti umani, con migliaia di persone incarcerate e centinaia di altre condannate a morte. Nel Golfo, le autorità del Bahrein, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti (United Arab Emirates – Uae) si sono dimostrate inflessibili nei loro tentativi di reprimere il dissenso e di soffocare qualsiasi segno di opposizione ai detentori del potere, sicuri che i loro principali alleati tra le democrazie occidentali dif- ficilmente avrebbero sollevato obiezioni. Il 2014 ha inoltre visto i gruppi armati impegnati nei conflitti in corso in Siria e Iraq impiegare metodi d’inaudita ferocia umana, in particolare il gruppo autoproclamatosi Stato islamico (Islamic State – Is, noto in precedenza come Isis). In Siria, combattenti dell’Is e altri gruppi armati hanno controllato vaste aree del paese, compresa gran parte della regione di Aleppo, la principale città della Siria, e ha imposto “punizioni” che comprendevano uccisioni, amputazioni e fustigazioni attuate in pubblico per quelle che considerava trasgressioni alla propria interpretazione della legge islamica. L’Is ha inoltre conquistato favore nelle roccaforti sunnite dell’Iraq, dove ha stabilito un regno del terrore in cui il gruppo ha sommariamente messo a morte centinaia di soldati governativi catturati, membri di mino-

457 ranze, musulmani sciiti e altri, compresi uomini delle tribù sunnite che si opponevano al loro dominio. L’Is ha inoltre preso di mira minoranze religiose ed etniche, cacciando i cristiani e costringendo migliaia di yazidi e altri gruppi di minoranza ad abbandonare le loro case e terre. Le forze dell’Is hanno ucciso sommariamente, freddandoli con modalità tipiche di un’esecuzione, uomini e ragazzi yazidi e hanno rapito centinaia di donne e ragazze yazide riducendole in schiavitù e costringendo molte di loro a diventare “mogli” dei loro combattenti, che comprendevano migliaia di volontari stranieri provenienti dall’Europa, dal Nord America, dall’Australia, dall’Africa del Nord, dalla regione del Golfo e da altre parti. A differenza di coloro che pur compiendo uccisioni illegali cercano di tenere segreti i loro crimini, l’Is è stato brutalmente plateale nelle proprie azioni. Si è assicurato che i propri cameramen fossero pronti a riprendere i suoi atti più inauditi, comprese le decapitazioni di giornalisti, operatori umanitari e soldati libanesi e iracheni catturati. Ha quindi divulgato i massacri in video di buona qualità ma dal contenuto orrendamente macabro, che sono stati postati su Internet a scopo di propaganda, come strumento di contrattazione sugli ostaggi e di reclutamento. La rapida avanzata militare ottenuta dall’Is in Siria e Iraq, unita alle uccisioni sommarie di ostaggi occidentali e altri, a settembre hanno spinto gli Usa a formare un’alleanza contro l’Is, che ha visto coinvolti oltre 60 stati, tra cui Bahrein, Giordania, Arabia Saudita e gli Uae, e che ha poi lanciato attacchi aerei contro avamposti dell’Is e altri gruppi armati non statali, causando morti e feriti tra i civili. In altre zone, le forze statunitensi hanno continuato a lanciare attacchi con droni e di altro tipo contro gli affiliati di al-Qaeda nello Yemen, mentre i combattimenti tra forze governative e gruppi armati non statali assumevano sempre più una dimensione sovranazionale. Nel frattempo, la Russia continuava a far da scudo al governo siriano davanti alle Nazioni Unite, mentre trasferiva armi e mu- nizioni per alimentare lo sforzo bellico, senza curarsi dei crimini di guerra e altre gravi violazioni che le autorità siriane stavano commettendo. Gli abusi dell’Is, la loro ampia divulgazione e il senso di crisi politica che questi hanno suscitato hanno per un po’ messo in secondo piano la persistente brutalità su vasta scala delle forze governative siriane, che combattevano per difendere le aree sotto il loro controllo o per riprenderne altre, strap- pandole ai gruppi armati con un apparente assoluto disprezzo per le vite dei civili e per i loro obblighi sanciti dal diritto internazionale umanitario. Le forze governative hanno effettuato attacchi indiscri- minati su aree in cui avevano trovato riparo i civili, non esitando a impiegare tutta una serie di armi pesanti, come bombe artigianali, carri armati e fuoco d’artiglieria; hanno mantenuto interminabili assedi che hanno negato alla popolazione civile l’accesso a cibo, acqua e forniture mediche; hanno attaccato ospedali e personale sanitario. Hanno inoltre continuato a detenere un gran numero di persone critiche e sospetti oppositori, sottoponendone molti a tortura e a condizioni spaventose e compiendo uccisioni illegali. In Iraq, il governo ha risposto all’avanzata dell’Is schierando a fianco delle proprie forze di sicurezza milizie sciite filogovernative, lasciandole libere di agire contro le comunità sunnite considerate antigovernative o simpatizzanti dell’Is, mentre lanciava attacchi aerei indiscriminati su Mosul e altri centri in mano alle forze dell’Is. Come per la maggior parte dei conflitti dell’era moderna, il tributo più alto al conflitto è stato pagato dai civili e le forze in guerra hanno ignorato i loro obblighi internazionali di risparmiare la popolazione civile. Nei 50 giorni di conflitto tra Israele e Hamas e i gruppi armati palestinesi a Gaza, la portata della distruzione, dei danni alle case e alle infrastrutture palestinesi, dei morti e dei feriti civili, ha assunto proporzioni spaventose. Le forze israeliane hanno compiuto attacchi contro case abitate, in

458 alcuni casi uccidendo interi nuclei familiari, e contro strutture mediche e scuole. Sono state delibe- ratamente distrutte abitazioni e infrastrutture civili. A Gaza, sono stati uccisi oltre 2000 palestinesi, circa 1500 dei quali sono stati identificati come civili, compresi oltre 500 bambini. Hamas e i gruppi armati palestinesi hanno sparato indiscriminatamente migliaia di razzi e colpi di mortaio su zone israeliane abitate da civili, uccidendone sei, compreso un bambino. Uomini armati di Hamas hanno inoltre ucciso sommariamente almeno 23 palestinesi che accusavano di collaborazionismo con Israele, compresi detenuti non processati, dopo averli portati fuori dal carcere. Entrambe le parti hanno com- messo impunemente crimini di guerra e altri gravi abusi durante il conflitto, reiterando uno schema fin troppo noto anche negli anni precedenti. Il blocco degli spazi aerei, marittimi e di terra attuato da Israele su Gaza, in vigore ininterrottamente dal 2007, ha aggravato l’impatto devastante di 50 giorni di conflitto, gravemente ostacolato gli sforzi di ricostruzione e imposto una punizione collettiva, che costituisce un crimine di diritto internazionale, a 1,8 milioni di abitanti di Gaza. Tensioni politiche e di altro genere in tutta la regione del Medio Oriente e Africa del Nord hanno raggiunto i livelli più estremi nei paesi dilaniati dal conflitto armato ma nel suo complesso l’intera regione è stata caratterizzata da debolezze istituzionali, e non solo, che hanno contribuito sia ad ali- mentare tali tensioni sia a impedire una loro relativa attenuazione. Queste comprendevano una generale mancanza di tolleranza da parte dei governi e di alcuni gruppi armati non statali verso le critiche o il dissenso; organi legislativi deboli o svuotati, che avrebbero potuto agire da freno o da contrappeso agli abusi delle autorità di governo; la mancanza d’indipendenza della magistratura e sistemi giudiziari subordinati alla volontà degli esecutivi e il mancato accertamento delle responsabilità, anche in relazione agli obblighi degli stati derivanti dal diritto internazionale umanitario.

REPRESSIONE DEL DISSENSO

I governi dell’intera regione hanno continuato a reprimere il dissenso, imponendo restrizioni al diritto di libertà di parola e altre forme d’espressione, compresi i social network. Legislazioni che criminaliz- zavano opinioni ritenute offensive nei confronti del capo dello stato, del governo o delle autorità giu- diziarie, o anche dei leader di governo esteri, sono state impiegate per mandare in carcere voci critiche in Bahrein, dove un tribunale ha condannato una nota attivista a tre anni di reclusione per aver strappato una fotografia del re, oltre che in Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Kuwait, Marocco e Oman. In Iran, persone che avevano espresso critiche nei confronti delle autorità hanno affrontato procedimenti giudiziari con varie accuse, tra cui quella di moharebeh (“inimicizia verso Dio”), un reato capitale. Negli Uae, le autorità hanno continuato a emettere lunghe sentenze di carcerazione nei confronti di filoriformisti, al termine di processi iniqui, e hanno introdotto nuove norme antiterrorismo dal contenuto talmente vago da equiparare le proteste pacifiche al terrorismo, un reato punibile anche con la pena di morte. Gli Uae e altri stati del Golfo, compresi Bahrein, Kuwait e Oman, si sono dotati o hanno impiegato strumenti per penalizzare persone che avevano espresso critiche in modo pacifico, privandole della cittadinanza e di conseguenza dei loro diritti in quanto cittadini di quello stato, rendendole potenzial- mente apolidi. Bahrein, Kuwait e gli Uae hanno fatto ricorso a questi poteri durante l’anno. La libertà d’espressione è stata gravemente limitata. Molti governi non hanno permesso l’esistenza di sindacati indipendenti. Alcuni, compreso quello dell’Algeria e del Marocco e Sahara Occidentale,

459 hanno stabilito l’obbligo per le associazioni indipendenti, comprese le organizzazioni per i diritti umani, di ottenere il rilascio di un’autorizzazione ufficiale per poter operare legalmente ma hanno impedito loro di registrarsi o hanno sottoposto a vessazioni quelle registrate prima dell’introduzione della nuova legge. In Egitto, le autorità hanno minacciato l’esistenza stessa delle Ngo indipendenti. Il diritto di riunione pacifica, tanto importante nelle proteste che scossero la regione nel 2011, è stato gravemente limitato da molti governi nel 2014. Le autorità algerine hanno spento sul nascere le proteste, bloccando l’accesso ai punti di ritrovo e arrestando gli attivisti. In Kuwait, le autorità hanno ancora proibito le proteste dei membri della comunità bidun, molti dei quali continuavano a vedersi negare la cittadinanza kuwaitiana. In Bahrein, Egitto e Yemen, le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza, compresa forza letale non necessaria, contro i manifestanti, provocando morti e feriti. In Cisgiordania, soldati e polizia di frontiera israeliani hanno sparato contro i palestinesi che lanciavano pietre e altre persone che protestavano contro gli insediamenti dei coloni, il muro/barriera e altri aspetti della perdurante occupazione militare imposta da Israele. In altre zone, uomini armati non identificati hanno commesso uccisioni illegali nell’impunità, in alcuni casi prendendo di mira coloro che si erano espressi apertamente in difesa dei diritti umani e dello stato di diritto. In Libia, Salwa Bughaighis, un’avvocata per i diritti umani che era stata una delle voci protagoniste della rivolta popolare del 2011, è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco da uomini armati entrati nella sua abitazione a Bengasi, poco dopo che aveva rilasciato un’intervista in cui criticava i potenti gruppi armati illegali.

SISTEMA GIUDIZIARIO

Arresti e detenzioni arbitrari, detenzione prolungata senza processo, sparizioni forzate e processi iniqui sono stati fenomeni comuni in tutta la regione, una costante dimostrazione della corruzione presente all’interno del sistema di giustizia penale, e sono stati utilizzati dalle autorità come strumenti di repressione. Migliaia di persone sono state trattenute in Siria, Egitto, Iraq e Arabia Saudita, alcune delle quali detenute senza accusa né processo e altre incarcerate al termine di processi iniqui. In misura minore, detenzioni sono state effettuate anche in Bahrein, Iran, Uae e in altre parti; in alcuni casi, le persone fermate sono state poi vittime di sparizione forzata. Le autorità israeliane hanno trattenuto circa 500 palestinesi in detenzione amministrativa senza processo; migliaia di altri pale- stinesi stavano scontando pene carcerarie in Israele. Le autorità palestinesi, sia della Cisgiordania sia di Gaza, hanno continuato a detenere oppositori politici; a Gaza i tribunali militari, e non solo, hanno emesso condanne a morte nei confronti di presunti “collaborazionisti” con Israele. In Libia, le milizie rivali hanno trattenuto migliaia di detenuti, alcuni dei quali si trovavano in detenzione dalla caduta di Mu’ammar al-Gaddafi nel 2011, sottoponendone molti a condizioni dure e degradanti, senza alcuna prospettiva di un prossimo rilascio. In gran parte della regione, i tribunali hanno processato e condannato gli imputati con scarsa consi- derazione per le procedure dovute, spesso comminando lunghe pene carcerarie e in alcuni casi condanne a morte sulla base di “confessioni” ottenute con la tortura e di accuse dalla formulazione talmente vaga e ampia da garantire di fatto un sicuro verdetto di colpevolezza. In Egitto, un giudice ha emesso condanne a morte preliminari contro centinaia di persone accusate di aver preso parte ad attacchi mortali contro alcuni commissariati di polizia, al termine di due procedimenti giudiziari pro-

460 fondamente viziati; un altro giudice ha condannato tre noti operatori dell’informazione a lunghe pene carcerarie, in assenza di prove suffragate e il nuovo capo di stato ha concesso più ampi poteri ai tri- bunali militari, notoriamente iniqui, per far processare civili per accuse in materia di terrorismo e altri reati. Sia in Bahrein sia negli Uae, i tribunali hanno assecondato il volere del governo nei processi a persone accusate di reati in materia di terrorismo o di oltraggio alle autorità. In entrambi i paesi, i tribunali hanno comminato pene carcerarie a familiari che si erano mobilitati per ottenere il rilascio dei loro congiunti ingiustamente incarcerati. I tribunali rivoluzionari iraniani hanno continuato a emettere verdetti di colpevolezza basati su accuse dal contenuto non ben definito e a comminare dure sentenze, compresa la pena di morte. In Arabia Saudita, tra le persone prese di mira e condannate al carcere, c’erano avvocati che avevano assunto la difesa in procedimenti giudiziari per accuse in materia di sicurezza e che avevano criticato l’iniquità dei tribunali. Arabia Saudita, Iran e Iraq sono rimasti i tre stati con il più alto numero di esecuzioni nella regione; in tutti e tre, le autorità hanno messo a morte decine d’imputati, molti dei quali erano stati condannati al termine di processi iniqui. Tra le persone messe a morte in Arabia Saudita, dove molte delle vittime (26 nel solo mese di agosto) sono state decapitate in pubblico, c’era un uomo condannato per stre- goneria e altri giudicati colpevoli di reati in materia di droga; per crimini che dunque non implicavano violenza. L’Egitto ha ripreso le esecuzioni a giugno, dopo un’interruzione di oltre 30 mesi, verosimilmente prevedendo un considerevole incremento delle esecuzioni durante l’anno, una volta che varie centinaia di sostenitori dei Fratelli musulmani e altri condannati a morte avessero esaurito tutti i gradi d’appello. Anche la Giordania ha ripreso le esecuzioni a dicembre dopo otto anni. In Libano, i tribunali hanno continuato a emettere condanne a morte ma le autorità non hanno dato il via libera alle esecuzioni e altrettanto hanno fatto le autorità di Algeria, Marocco e Tunisia, che hanno mantenuto una moratoria de facto sulle esecuzioni.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI

In tutta la regione, le forze di sicurezza hanno torturato e altrimenti maltrattato detenuti sotto la loro custodia; talvolta su vasta scala. In Siria, tra le vittime c’erano anche minori e sono giunte segnalazioni di numerosi decessi di detenuti in seguito a tortura e altri maltrattamenti, che tuttavia spesso sono state difficili da verificare. A gennaio, sono emerse prove fotografiche di migliaia di decessi di detenuti in custodia del governo siriano, morti a quanto pare in seguito a percosse o altra tortura o di stenti. La tortura ha avuto carattere endemico in Egitto, dove le vittime andavano dai sospettati di reati comuni agli attivisti dei Fratelli musulmani, rastrellati nel giro di vite del governo. I metodi di tortura comunemente riferiti in questi e in altri paesi comprendevano percosse sotto la pianta dei piedi, colpi inflitti mentre il detenuto era tenuto sospeso per gli arti, lunghi periodi in piedi o accovacciato in posizioni di stress, scosse elettriche applicate ai genitali e su altre parti sensibili del corpo, minacce contro il detenuto e la sua famiglia e in alcuni casi stupro e altri abusi sessuali. Spesso, la tortura è stata impiegata per raccogliere informazioni che avrebbero portato alla detenzione di altri sospettati o per ottenere “confessioni” che i tribunali avrebbero potuto poi utilizzare per emettere condanne al carcere nei confronti di critici od oppositori del governo. Ma questi metodi sono stati impiegati anche per degradare, umiliare e ferire psicologicamente e fisicamente le vittime. In generale, i responsabili di tali azioni hanno potuto agire nell’impunità: i governi hanno frequentemente

461 ignorato il loro obbligo sancito dal diritto internazionale di condurre indagini indipendenti sulle accuse di tortura, raramente hanno provveduto a perseguire penalmente i presunti torturatori e, quando l’hanno fatto, ancor più di rado, per non dire quasi mai, hanno garantito la loro condanna.

IMPUNITÀ

Non soltanto i torturatori hanno beneficiato dell’impunità. Altrettanto è stato per i leader politici e militari, che sono stati a tutti gli effetti i responsabili o i mandanti dei crimini di guerra e di altre vio- lazioni del diritto internazionale commessi dalle forze governative duranti i conflitti in Siria, Iraq, Libia e Yemen, dalle forze israeliane e dai gruppi armati palestinesi a Gaza e in Israele; e per coloro che gestivano dall’alto le violazioni dei diritti umani su vasta scala compiute in Egitto, Iran, Arabia Saudita e Uae, e in altri stati. In Bahrein, il governo si è impegnato ad avviare indagini indipendenti sulle torture commesse nel 2011, in risposta ai risultati di un’inchiesta indipendente condotta da esperti internazionali, ma a fine anno non aveva ancora tenuto fede all’impegno. In Algeria, le autorità hanno ribadito il loro continuo rifiuto di autorizzare indagini sulle uccisioni illegali e altre violazioni compiute in passato; nello Yemen, l’ex presidente del paese e i suoi più vicini collaboratori hanno continuato a beneficiare dell’immunità concordata quando abbandonò la carica in seguito alle proteste del 2011, durante le quali le forze sotto il suo comando uccisero molti manifestanti. In Tunisia, le nuove autorità hanno perseguito alcuni ex alti funzionari e membri delle forze di sicurezza per le uccisioni illegali di manifestanti durante la rivolta nel paese ma poi un tribunale militare ha ridotto sia le imputazioni sia le condanne a loro carico, a tal punto da lasciare a piede libero coloro che erano stati condannati. In un contesto di fallimenti o d’incapacità da parte dei sistemi giudiziari nazionali di affrontare l’im- punità in Siria, i gruppi impegnati nella difesa dei diritti umani, compresa Amnesty International, hanno più volte sollecitato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a deferire la situazione in corso in Siria e in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati alla giurisdizione dell’Icc ma tali richieste sono rimaste inascoltate. Nel frattempo, la Libia è rimasta sotto la giurisdizione dell’Icc su decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 2011 ma la procuratrice dell’Icc non ha provveduto ad avviare nuove indagini, malgrado il susseguirsi di nuovi crimini di guerra mentre la situazione nel paese sfociava in aperta guerra civile.

DISCRIMINAZIONE – MINORANZE ETNICHE E RELIGIOSE

In uno scenario di tumulti politici, divisioni e settarismi sul piano religioso ed etnico che hanno attra- versato la regione, i governi e i gruppi non statali hanno guardato alle minoranze con crescente sospetto e intolleranza. Questo aspetto è emerso in maniera particolarmente evidente e brutale nei conflitti in Iraq e Siria, dove molte persone sono state arrestate, rapite, cacciate dalle loro case a scopo di “pulizia etnica” o uccise sulla base del loro luogo d’origine o appartenenza religiosa, ma è stato palese anche in Libia, dove gli omicidi per motivi legati all’appartenenza etnica o tribale erano frequenti e in aumento. Nell’area del Golfo, il governo iraniano ha continuato a incarcerare i baha’i, a impedire loro di accedere

462 all’istruzione superiore e a limitare i diritti di altre minoranze religiose oltre che i diritti di azeri, curdi e altre minoranze etniche; pare abbia anche messo a morte in segreto attivisti dei diritti degli arabi ahwazi. In Arabia Saudita, le autorità hanno proseguito la repressione delle persone critiche verso il governo di fede sciita nella Provincia Orientale, la regione petrolifera del paese, e condannato attivisti per i diritti civili a lunghe pene carcerarie, e in almeno un caso alla pena di morte, al termine di processi iniqui. In Kuwait, le autorità del paese hanno continuato a revocare a decine di migliaia di residenti bidun la cittadinanza e i diritti ad essa associati.

RIFUGIATI E SFOLLATI INTERNI

Nel 2014, la crisi siriana ha surclassato qualsiasi altra crisi analoga, diventando la peggiore al mondo in termini di flussi di rifugiati e di sfollati. A fine anno, le persone scappate dal conflitto in Siria erano all’incirca quattro milioni. La stragrande maggioranza di queste, circa il 95 per cento, era ospitata nei paesi vicini: almeno 1,1 milioni in Libano, oltre 1,6 milioni in Turchia, più di 600.000 in Giordania, oltre 220.000 in Iraq e più di 130.000 in Egitto, secondo i dati forniti dall’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Gli interventi di soccorso internazionali non disponevano di fondi sufficienti per soddisfare le necessità degli sfollati. A dicembre, il piano annuale delle Nazioni Unite per il 2014 relativo alla Risposta regionale per i rifugiati della Siria rimaneva fermo al 54 per cento dei fondi necessari e il Programma alimentare mondiale è stato costretto a sospendere temporanea- mente un piano di aiuti alimentari per 1,7 milioni di siriani, a causa della mancanza di fondi. In molte località, il rapido flusso di un numero tanto elevato di rifugiati ha gravato enormemente sulle risorse dei principali paesi ospitanti, innescando un clima di tensione tra le popolazioni rifugiate e le comunità locali. Sia le autorità giordane sia quelle libanesi hanno cercato d’impedire l’ingresso dei rifugiati palestinesi dalla Siria e, sempre più spesso, di chiunque cercasse rifugio dalla Siria; le autorità egiziane hanno rimandato con la forza in Siria alcuni rifugiati. In territorio siriano, c’erano altri 7,6 milioni di sfollati interni, molti dei quali erano stati costretti ad abbandonare le loro case a causa dei combattimenti o degli attacchi settari. Alcuni erano stati sfollati più volte; molti si trovavano in località che non erano raggiungibili dagli aiuti delle agenzie umanitarie internazionali o erano intrappolati in aree poste sotto assedio dalle forze governative o dai gruppi armati non statali. La loro situazione era estremamente rischiosa, con poche prospettive di qualche miglioramento. Se da un lato niente è stato paragonabile alla portata della crisi siriana, il suo sconfinamento in territorio iracheno ha causato lo sfollamento interno di migliaia di persone, in parte a causa della violenza e degli abusi dell’Is ma anche degli attacchi e degli abusi compiuti dalle milizie sciite filo- governative. In Libia, migliaia di persone costrette ad abbandonare la città di Tawargha nel 2011 dalle milizie armate di Misurata non hanno potuto tornare alle loro case e sono state soggette a ulteriore sfollamento quando a metà anno la capitale Tripoli, assieme ad altre zone, è sprofondata in pieno conflitto armato. A Gaza, i bombardamenti israeliani e altri attacchi hanno distrutto migliaia di case, causando varie migliaia di sfollati durante i 50 giorni di aperto conflitto armato iniziato l’8 luglio. Anche in Israele, le autorità hanno detenuto i neo richiedenti asilo provenienti dal Sudan, dal- l’Eritrea e da altri paesi, presso una struttura situata nel deserto del Naqab/Nagev, rimandandone altri nei rispettivi paesi d’origine secondo una procedura di rimpatrio che a loro dire sarebbe stata di

463 carattere “spontaneo”, che non prevedeva salvaguardie per la sicurezza dei rimpatriati e che li esponeva a elevato rischio di refoulement.

DIRITTI DEI MIGRANTI

I lavoratori migranti sono stati il motore dell’economia di molti stati nell’intera regione e non di meno negli stati ricchi di petrolio e gas naturale dell’area del Golfo, dove hanno svolto un ruolo vitale nel- l’industria delle costruzioni, e non solo, oltre che nel settore dei servizi. Nonostante la loro importanza per le economie locali, nella maggior parte degli stati i lavoratori migranti hanno continuato a non essere adeguatamente tutelati dalle legislazioni locali sul lavoro e sono stati vittime di sfruttamento e abusi. La designazione del Qatar quale paese ospitante della Coppa del mondo di calcio per il 2022 ha fatto sì che le politiche e le prassi adottate dalle autorità del paese, in relazione ai lavoratori assunti in vista della costruzione dei nuovi stadi e di altre strutture correlate, fossero poste sotto co- stante vaglio internazionale. In risposta a tali pressioni, il governo si è impegnato a realizzare una serie di riforme. Ciononostante, in Qatar, come in altri stati del Golfo, il sistema degli sponsor conosciuto come kafala, utilizzato per assumere e regolamentare l’impiego dei lavoratori migranti, ha facilitato violazioni dei loro diritti, aggravate dalla comune assenza nei vari ordinamenti nazionali di specifici strumenti legislativi a tutela dei diritti dei migranti. Molti lavoratori migranti nella regione sono stati obbligati dai loro principali a superare il tetto massimo di ore lavorative, senza poter usufruire di riposi o di giornate libere e di fatto è stato loro impedito, pena l’arresto o l’espulsione, di lasciare il datore di lavoro che abusava di loro. Le più vulnerabili di tutte sono state forse le varie migliaia di donne di provenienza asiatica, che in particolare erano impiegate come lavoratrici domestiche, e che erano esposte a violenze fisiche e di altro tipo, compresi abusi sessuali, oltre che ad altre forme di abusi sul lavoro senza, o quasi, poter accedere ad adeguati strumenti di rimedio giuridico. Le autorità saudite hanno intrapreso una serie di espulsioni di massa di lavoratori migranti “superflui” verso lo Yemen o altri paesi, spesso dopo averli detenuti in dure condizioni. In altre zone, in paesi come la Libia dove l’illegalità era prevalente, i lavoratori migranti hanno subito episodi di discriminazione e altri abusi, comprese violenze e rapina a mano armata durante il controllo dei documenti, presso i posti di blocco stradali o per le strade delle città. Migliaia di persone, molte delle quali erano cadute preda di trafficanti di esseri umani e di contrab- bandieri senza scrupoli, hanno cercato di fuggire e di rifarsi una vita salendo a bordo d’imbarcazioni spesso sovraffollate e inidonee alla navigazione, per attraversare il Mediterraneo. Alcune sono arrivate in Europa; altre sono state recuperate in mare dalla marina militare italiana e almeno 3000 sono an- negate.

SGOMBERI FORZATI

In Egitto, le autorità hanno continuato a sgomberare gli abitanti degli insediamenti informali del Cairo e altrove, senza fornire un adeguato preavviso o un alloggio alternativo o un risarcimento. Tra le persone colpite dagli sgomberi c’erano abitanti che avevano costruito le loro case in zone definite

464 “insicure” dalle autorità e sono stati spostati per facilitare la costruzione di nuove aree commerciali. L’esercito ha inoltre sgomberato con la forza almeno 1000 famiglie che abitavano lungo il confine con Gaza, nel dichiarato intento di creare una zona “cuscinetto”. Anche le autorità israeliane hanno attuato sgomberi forzati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, hanno attuato azioni punitive distruggendo le abitazioni di palestinesi che avevano lanciato attacchi contro civili israeliani e hanno demolito decine di abitazioni di palestinesi che affermavano essere state costruite senza opportuna licenza. In Israele, le autorità hanno sgomberato con la forza beduini che abitavano in villaggi “non riconosciuti” ufficialmente nella regione del Naqab/Negev.

DIRITTI DELLE DONNE

In tutta la regione, donne e ragazze hanno subito discriminazione nella legge e nella prassi, generata dalle politiche ufficiali, e non sono state adeguatamente tutelate contro la violenza sessuale e di altro tipo. La discriminazione contro le donne era profondamente radicata nella società e pochi sono parsi essere i miglioramenti ottenuti durante l’anno. A tre anni dalle rivolte popolari che avevano at- traversato la regione nel 2011, in cui le donne avevano manifestato con una visibilità senza precedenti, proprio loro sono parse essere tra le principali vittime dei mutamenti politici che ne sono seguiti. In Egitto, gruppi di uomini hanno attaccato e aggredito sessualmente donne che manifestavano nelle strade adiacenti a piazza Tahrir, al Cairo. La Tunisia ha rappresentato un’eccezione degna di nota. Qui, due poliziotti ritenuti colpevoli di stupro sono stati condannati a lunghe pene carcerarie, il governo ha revocato le riserve poste dalla Tunisia alla Cedaw e ha nominato un comitato d’esperti, incaricato di redigere un quadro normativo per combattere la violenza contro donne e ragazze. Anche le autorità algerine e marocchine hanno adottato alcune positive misure legislative, benché limitate: le prime hanno finalmente riconosciuto il diritto a ricevere un risarcimento per le donne stuprate da membri di gruppi armati durante il conflitto interno degli anni Novanta; le seconde hanno abolito una disposizione contenuta nel codice penale che consentiva agli stupratori di evitare sanzioni penali se sposavano la vittima. Nell’area del Golfo, malgrado la loro reciproca ostilità sul piano politico e religioso, i governi iraniano e saudita sono stati accomunati da dati spaventosi in tema di diritti delle donne. In Iran, dove negli ultimi anni sono stati detenuti o incarcerati molti attivisti per i diritti delle donne, le autorità hanno de- tenuto ragazze e donne che avevano manifestato contro il divieto imposto loro di assistere a eventi sportivi. In Arabia Saudita, le autorità hanno arrestato o minacciato le donne che avevano osato sfidare il divieto di mettersi alla guida di un veicolo. In entrambi i paesi, le autorità hanno inoltre applicato rigidi codici di abbigliamento e di comportamento per le donne e hanno mantenuto leggi che punivano l’adulterio con la pena di morte. Nello Yemen, donne e ragazze sono rimaste soggette a matrimoni precoci e forzati e, in alcune province, il tasso di mutilazioni genitali femminili è rimasto elevato. In un contesto di generale inerzia da parte dei governi, che non hanno saputo garantire a donne e ragazze adeguati strumenti di protezione contro la violenza sessuale e la violenza domestica, gli eccessi delle forze dell’Is in Iraq, dove verosimilmente migliaia di donne e ragazze appartenenti a mi- noranze etniche o religiose sono state rapite con la forza e vendute per diventare “mogli” o schiave di membri dei gruppi armati, hanno rappresentato davvero il punto più basso mai raggiunto, riuscendo tuttavia a strappare solo una fievole condanna da parte dei leader religiosi.

465 Il 2014 è stato un anno di spaventose sofferenze per gran parte della regione del Medio Oriente e Africa del Nord, un anno che ha visto alcuni dei peggiori eccessi della storia recente e che, mentre volgeva al termine, lasciava intravedere ben pochi segnali di un possibile imminente miglioramento. Tuttavia, tra i vari scenari di orrore, attori locali e altri attivisti di molte e variegate tendenze politiche hanno continuato in vari modi a dire in faccia la verità ai potenti, a sfidare la tirannia, ad aiutare i feriti e gli inermi e a rivendicare non soltanto i loro diritti ma anche quelli degli altri, spesso correndo elevati rischi personali. È stato proprio l’intrepido coraggio di questi individui, molti dei quali pro- priamente definiti difensori dei diritti umani, l’aspetto più straordinario e destinato a durare di questo 2014 e la più grande speranza per il futuro dei diritti umani nella regione.

466 ALGERIA

REPUBBLICA ALGERINA DEMOCRATICA E POPOLARE

Capo di stato: Abdelaziz Bouteflika Capo di governo: Abdelmalek Sellal

Le autorità hanno imposto restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica, in particolare nel periodo che ha preceduto le elezioni presidenziali di aprile, disperdendo manifestazioni e vessando attivisti. Le donne sono state soggette a discriminazioni nella legge e nella prassi e hanno continuato a non essere adeguatamente tutelate contro la violenza, malgrado alcune proposte di riforme legislative. I responsabili delle gravi violazioni compiute nel corso degli anni Novanta e degli atti di tortura commessi negli anni successivi sono rimasti in larga parte impuniti. I migranti irregolari sono incorsi in discriminazioni, abusi ed espulsioni arbitrarie. Gruppi armati hanno compiuto attentati che hanno causato perdita di vite umane. Sono state comminate condanne a morte; non ci sono state esecuzioni.

CONTESTO L’anno è stato caratterizzato da instabilità sociale, causata dalle tensioni tra le comunità mozabite e arabe nella città di Ghardaia. Sono state organizzate manifestazioni contro la disoccupazione, la povertà e la corruzione nel sud del paese, regione ricca di risorse petrolifere e di gas naturale, oltre che proteste focalizzate sulla decisione del presidente Bouteflika di ricandidarsi alle elezioni di aprile. In seguito alle elezioni, il governo ha avviato le consultazioni in merito alle proposte di modifica della costituzione ma alcuni partiti politici le hanno boicottate e le principali organizzazioni indipendenti della società civile ne sono rimaste escluse. A fine anno, l’intero processo sembrava essere a un punto di stallo. Ci sono stati nuovi scontri tra le forze di sicurezza e i gruppi armati, nello specifico al-Qaeda nel Maghreb islamico (Al-Qa’ida in the Islamic Maghreb – Aqim), soprattutto nel sud e nell’est del paese. I governi esteri hanno intensificato la loro collaborazione con l’Algeria in tema di sicurezza, in seguito all’attentato compiuto a gennaio 2013 da un gruppo armato all’impianto di estrazione del gas naturale In Amenas, in cui sono rimaste uccise decine di persone e altre centinaia sono state prese in ostaggio, compresi lavoratori civili stranieri. A settembre, un gruppo armato autoproclamatosi Jund al-Khalifa (Soldati del califfato) ha rapito un cittadino francese nella regione di Tizi-Ouzou, una zona in cui c’erano già stati sequestri di persona a scopo di riscatto, e ha pubblicato un video su Internet in cui veniva mostrato il suo corpo decapitato. L’uccisione è sembrata una ritorsione per la parteci- pazione della Francia all’alleanza militare guidata dagli Usa contro il gruppo armato Stato islamico in Iraq. A dicembre, il governo ha fatto sapere che le sue truppe avevano ucciso il leader Jund al- Khalifa e due suoi collaboratori. L’Algeria è entrata a far parte del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a gennaio ma il governo ha continuato a non accogliere le richieste di visita nel paese, avanzate da molto tempo da

467 parte di organismi ed esperti delle Nazioni Unite sui diritti umani, come quelli sulla tortura, l’anti- terrorismo, le sparizioni forzate e il diritto alla libertà d’associazione. Le autorità non hanno rilasciato i visti d’ingresso al personale di Amnesty International per condurre ricerche nel paese.1

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Giornalisti e persone critiche verso il governo sono stati soggetti a restrizioni e vessazioni di tipo giu- diziario da parte delle autorità. Il 12 marzo, le forze di sicurezza hanno chiuso Al-Atlas Tv, un canale televisivo privato che aveva coperto le notizie riguardanti le proteste organizzate contro il governo e che aveva mandato in onda gli interventi di alcune voci critiche verso l’esecutivo. Le autorità hanno accusato Al-Atlas Tv di trasmettere senza licenza.2 Il 10 giugno, un tribunale ha condannato Youcef Ouled Dada a due anni di reclusione e al pagamento di un’ammenda per aver postato un video su Internet che mostrava alcuni poliziotti mentre rubavano in un negozio, durante gli scontri nella città di Ghardaia. Il tribunale lo ha ritenuto colpevole di pub- blicazione di foto e video contro gli interessi della nazione e di oltraggio all’istituzione statale. La sentenza a suo carico è stata confermata in appello.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Le autorità hanno confermato la messa al bando di tutte le manifestazioni nella capitale Algeri, benché le forze di sicurezza ne abbiano in qualche caso consentito il proseguimento senza interferire. In altri casi, la polizia ha disperso con la forza i manifestanti, specialmente quelli appartenenti al movimento Barakat (Ora basta), che protestavano contro la decisione del presidente di candidarsi alla rielezione per un quarto mandato ad aprile, e ha arrestato alcuni partecipanti, rilasciandoli in molti casi dopo alcune ore di fermo.3 La polizia ha disperso con la forza anche le proteste che si sono svolte in altre città. Il 20 aprile, la polizia ha fatto uso eccessivo della forza per disperdere i manifestanti nella città di Tizi-Ouzou che stavano commemorando la violenta repressione attuata contro i manifestanti nel 2001, nella regione di . Secondo le testimonianze, gli agenti hanno percosso i manifestanti di- sarmati e sparato proiettili di plastica, uno dei quali ha colpito Lounis Aliouat, facendogli perdere la vista da un occhio. Le autorità hanno affermato di aver sospeso dal servizio cinque agenti in attesa dell’inchiesta sulle percosse ma non hanno poi rivelato i risultati delle indagini. A maggio, un tribunale ha imposto condanne a sei mesi di reclusione con sospensione della pena contro Mohand Kadi, uno studente, e il cittadino tunisino Moez Benncir, per l’accusa di “partecipazione a un raduno non armato che potrebbe turbare l’ordine pubblico”. La polizia aveva arrestato entrambi il 16 aprile nei pressi della manifestazione del movimento Barakat, ad Algeri, sebbene i due uomini avessero negato di aver mai partecipato all’evento.4 La sentenza a carico di Mohand Kadi è stata confermata in appello.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE A gennaio è scaduto il termine per la registrazione delle associazioni esistenti, secondo quanto stabilito dalla Legge 12-06. La normativa imponeva restrizioni ampie e arbitrarie alle associazioni, comprese le Ngo e le organizzazioni della società civile, e pene carcerarie fino a sei mesi più un’am- menda per appartenenza ad associazioni non registrate, sospese o sciolte. Mentre alcune associazioni

468 erano riuscite a registrarsi, altre rimanevano in una sorta di limbo legale, in attesa di ricevere una ri- sposta delle autorità in merito alla loro domanda di registrazione. Amnesty International Algeria è stata una delle poche Ngo indipendenti ad aver compilato la domanda di registrazione secondo le procedure previste dalla Legge 12-06 ma non ha ricevuto alcun riconosci- mento o altra risposta dalle autorità, malgrado le ripetute sollecitazioni.

DIRITTI DELLE DONNE Le autorità hanno varato alcuni provvedimenti volti a migliorare i diritti delle donne. Il 1° febbraio, l’adozione del Decreto 14-26 ha per la prima volta stabilito l’erogazione di un risarcimento monetario da parte dello stato per le donne stuprate da membri di gruppi armati, durante il conflitto interno degli anni Novanta. A fine anno non era chiaro quante donne avessero ricevuto un risarcimento ai sensi del Decreto 14-26. A giugno, il governo ha proposto una nuova normativa per l’introduzione del reato di violenza fisica coniugale e aggressione indecente ai danni di una donna in pubblico. La proposta legislativa avrebbe inoltre reso un reato punibile l’abbandono del tetto coniugale o l’impiego di mezzi coercitivi o intimidatori al fine di ottenere risorse finanziarie dal coniuge. Il 26 novembre, il parlamento ha approvato la proposta di legge per stabilire un fondo statale per assistere le donne divorziate con cu- stodia dei figli, i cui ex mariti non pagavano gli alimenti. A fine anno, gli altri emendamenti proposti erano ancora in attesa di approvazione. Nonostante questi passi avanti, la legislazione interna algerina continuava a non tutelare adegua- tamente le donne dalla violenza, inclusa quella sessuale. Per fare un esempio, è rimasta in vigore una disposizione in base alla quale gli uomini che stupravano ragazze di età inferiore ai 18 anni non erano perseguibili penalmente se sposavano la loro vittima. Le associazioni per i diritti delle donne hanno continuato la loro lunga campagna per l’introduzione di una legislazione esauriente in grado di combattere la violenza contro le donne. Le donne inoltre hanno continuato a essere discri- minate dal codice di famiglia, in relazione a tematiche come matrimonio, divorzio, custodia dei figli ed eredità.5

IMPUNITÀ Le autorità non hanno fatto progressi nelle indagini sulle migliaia di sparizioni forzate e altre violazioni dei diritti umani, commesse durante il conflitto interno degli anni Novanta e negli anni successivi. Le famiglie delle vittime di sparizione forzata hanno continuato a chiedere informazioni sulla sorte dei loro cari, anche in occasione dell’anniversario del voto della carta per la pace e la riconciliazione na- zionale, che garantiva l’immunità alle forze di sicurezza e criminalizzava chi criticava pubblicamente la loro condotta. Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, nel deliberare in merito a cinque casi di sparizione forzata, ha sollecitato le autorità a condurre indagini esaurienti sui casi, ad assicurare alla giustizia i responsabili e a fornire rimedi efficaci ai familiari delle persone scomparse. Le autorità non hanno intrapreso iniziative per dare attuazione alle raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, formulate a novembre 2013, in merito alla morte di Mounir Ham- mouche, deceduto mentre era in custodia del dipartimento per l’Informazione e la sicurezza (Dépar- tement pour le renseignement et la sécurité – Drs), nel dicembre 2006. Il Comitato ha sollecitato

469 un’indagine imparziale sulla sua morte, al fine di assicurare il perseguimento giudiziario dei responsabili della sua tortura e di fornire una completa riparazione ai suoi familiari.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA I gruppi armati hanno compiuto una serie di attacchi in cui sono stati presi di mira membri delle forze di sicurezza. A settembre, il gruppo armato Jund al-Khalifa ha rapito e ucciso il cittadino francese Hervé Gourdel e ha postato su Internet un video che mostrava il suo corpo decapitato. Le autorità e i mezzi d’informazione hanno dato notizia di decine di uccisioni di membri di gruppi armati da parte delle forze di sicurezza ma hanno fornito pochi particolari sulle circostanze in cui avevano avuto luogo le uccisioni, facendo temere che alcune di queste fossero state esecuzioni extra- giudiziali. Il Drs, malgrado le notizie di lotte interne tra i legislatori riguardo al suo ruolo, ha continuato a esercitare ampi poteri di arresto e detenzione, compresa la detenzione in incommunicado di sospetti terroristi, favorendo in tal modo tortura e altri maltrattamenti. A giugno, il presidente ha emanato il Decreto 14-183, che istituiva un servizio d’indagine giudiziaria, interno al Drs, incaricato di prevenire e reprimere gli atti di terrorismo, gli atti che mettevano a repentaglio la sicurezza dello stato e le attività di organizzazioni criminali internazionali ritenute pericolose per la sicurezza nazionale del- l’Algeria. A marzo, le autorità statunitensi hanno rimandato in Algeria, dalla base cubana di Guantánamo Bay, Ahmed Belbacha, il quale era rimasto prigioniero degli Usa per oltre 12 anni senza processo. Nel 2009, un tribunale algerino lo aveva condannato in contumacia a 20 anni di carcere. A dicembre è stato assolto dalle accuse di terrorismo dalla corte penale di Algeri.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI I migranti hanno continuato a essere soggetti ad abusi, come discriminazioni ed espulsioni arbitrarie. Il governo non ha rivelato il numero dei migranti che aveva espulso ma questi ammonterebbero a diverse centinaia, molti dei quali sarebbero stati espulsi al di fuori delle procedure dovute e delle sal- vaguardie previste. I migranti irregolari e privi di documenti sono rimasti esposti a violenza, xenofobia ed espulsione. A gennaio, una donna del Camerun è stata detenuta per residenza illegale in Algeria, quando si è rivolta alla polizia della città di Oran per denunciare di essere stata stuprata. Migliaia di aspiranti migranti algerini, noti come “harragas”, e cittadini stranieri, in maggioranza provenienti dai paesi dell’Africa Subsahariana, hanno continuato a tentare la rischiosa traversata via mare per raggiungere l’Europa salpando dall’Algeria, malgrado una normativa del 2009 che con- templava il reato di uscita “illegale” dall’Algeria con l’utilizzo di documenti falsi o passando da località diverse dalle frontiere portuali ufficiali.

PENA DI MORTE Sono state comminate condanne a morte; l’ultima esecuzione risale al 1993. A novembre, l’Algeria ha votato appoggiando una bozza di risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che chiedeva una moratoria mondiale sulla pena di morte.

470 Note 1. Algeria: Allow rights groups to visit: No response from Algiers to requests from UN Bodie : Joint statement (MDE 28/001/2014), www.amnesty.org/en/library/info/MDE28/001/2014/en 2. Algeria: Authorities shut down TV channel (MDE 28/003/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/MDE28/003/2014/en /d544fb16-7a7d-4d78-8bca-15cd41496492/mde280032014en.pdf 3. Algeria: Crackdown on peaceful assembly ahead of presidential elections (MDE 28/002/2014), www.amnesty.org/es/ library/asset/MDE28/002/2014/en/8b50cbdb-38f5-46d2-a425-58de3d8bd2c6/mde280022014en.pdf Algeria: Key human rights concerns ahead of presidential elections (MDE 28/004/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/MDE28/004/2014/en/ 5e47d443-3e88-4a9c-ae7b-50640e8f48de/mde280042014en.pdf 4. Algeria: Two young men arbitrarily detained and prosecuted (MDE 28/006/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/ MDE28/006/2014/en/df5b8b27-554f-40f0-a768-ef5cc9c638db/mde280062014en.pdf 5. Algeria: Comprehensive reforms needed to end sexual and gender-based violence against women and girls (MDE 28/010/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/MDE28/010/2014/en/fedc7314-a3a6-4e31-92f3-1b3aef2faf44/mde280102014en.pdf

ARABIA SAUDITA

REGNO DELL’ARABIA SAUDITA

Capo di stato e di governo: re Abdullah bin Abdul Aziz Al Saud

Il governo ha imposto rigide restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione e ha represso duramente il dissenso, arrestando e incarcerando persone che lo avevano criticato, compresi difensori dei diritti umani. Molti hanno affrontato procedimenti giudiziari iniqui, celebrati da tribunali che non hanno rispettato le procedure dovute, compreso uno speciale tribunale antiterrorismo che ha comminato condanne a morte. Nuove norme legislative hanno equiparato al terrorismo le critiche nei confronti del governo e altre attività pacifiche. Le autorità hanno represso l’attivismo online e intimidito gli attivisti che denunciavano violazioni dei diritti umani e i loro familiari. La discriminazione contro la minoranza sciita è rimasta radicata; alcuni attivisti sciiti sono stati condannati a morte e decine di loro hanno ricevuto lunghe pene carcerarie. La tortura dei detenuti, stando alle notizie ri- cevute, era prassi abituale; i tribunali hanno emesso verdetti di colpevolezza sulla base di “confes- sioni” ottenute sotto tortura e hanno emesso condanne alla fustigazione. Le donne sono state di- scriminate nella legge e nella prassi e non sono state adeguatamente protette dalla violenza sessuale e altra violenza di genere, malgrado l’adozione di una nuova legge che ha reso reato la vio- lenza domestica. Le autorità hanno detenuto ed espulso sommariamente migliaia di migranti stranieri, rimandandone alcuni in paesi dove erano a rischio di subire gravi violazioni dei diritti umani. Le autorità hanno fatto ricorso in maniera estensiva alla pena di morte e hanno effettuato decine di esecuzioni pubbliche.

471 CONTESTO Il governo ha adottato sempre più spesso duri provvedimenti nei confronti di chi lo criticava e contro i propri oppositori, che andavano indistintamente da dissidenti pacifici ai militanti islamisti armati, derivanti dall’applicazione di norme legislative generiche e severe in materia di antiterrorismo di recente introduzione. Le autorità hanno pubblicamente dissuaso i cittadini dal contribuire con fondi, arruolamenti o altro tipo di sostegno ai gruppi armati militanti sunniti in Siria e Iraq. A settembre, l’Arabia Saudita è entrata a far parte dell’alleanza militare a guida statunitense per combattere il gruppo armato Stato islamico e altri gruppi armati attivi in Siria e Iraq. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha ultimato il proprio Esame periodico universale dell’Arabia Saudita a marzo. Il governo ha accettato la maggior parte delle raccomandazioni formulate ma ha respinto alcune richieste di rilievo, come quella che esortava l’Arabia Saudita a ratificare l’Iccpr. L’esecutivo si è impegnato a smantellare o abolire il sistema del tutoraggio maschile e ad ac- cordare alle donne una maggiore libertà viaggiare, studiare, lavorare e di sposarsi ma a fine anno non aveva compiuto alcun progresso tangibile per dare attuazione agli impegni presi.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ASSOCIAZIONE E RIUNIONE Il governo ha continuato a dimostrarsi intollerante verso il dissenso e ha attuato azioni repressive nei confronti di chi lo criticava, compresi blogger e altri commentatori online, attivisti politici e dei diritti delle donne, membri della minoranza sciita e attivisti e difensori dei diritti umani. Le autorità hanno continuato a vietare ai giudici di utilizzare i social network per varie finalità. A maggio, un tribunale di Jeddah ha condannato il blogger Raif Badawi a 10 anni di carcere e a 1000 colpi di frusta, dopo averlo ritenuto colpevole di accuse come “aver insultato l’Islam”, per aver fondato il sito web Liberali dell’Arabia Saudita, che promuoveva il dibattito politico e sociale, e per aver criticato alcuni leader religiosi. È stato inizialmente incriminato per apostasia, un reato per cui è prevista la pena di morte. Il tribunale ha inoltre ordinato la chiusura del sito web. La sua pena car- ceraria e quella alla fustigazione sono state confermate dalla corte d’appello a settembre. A ottobre, la corte penale specializzata (Specialized Criminal Court – Scc) di Riyadh ha condannato tre avvocati, il dottor Abdulrahman al-Subaihi, Bander al-Nogaithan e Abdulrahman al-Rumaih, fino a otto anni di reclusione, cui avrebbero fatto seguito divieti di viaggiare all’estero, giudicandoli colpevoli di “disturbo della quiete pubblica” per aver criticato il ministero della Giustizia su Twitter. La corte ha inoltre imposto loro il divieto a tempo indeterminato di utilizzare qualsiasi altro mezzo d’informazione, compresi i social network. Il governo non ha permesso l’esistenza di partiti politici, sindacati e associazioni indipendenti per i diritti umani e ha arrestato, perseguito penalmente e incarcerato persone che avevano fondato orga- nizzazioni non autorizzate o che vi avevano aderito. Le autorità saudite hanno continuato a negare ad Amnesty International l’accesso nel paese e hanno adottato provvedimenti punitivi contro attivisti e familiari delle vittime che avevano preso contatti con l’organizzazione. Tutti i raduni pubblici, comprese le manifestazioni, sono rimasti vietati ai sensi di un’ordinanza emanata dal ministero dell’Interno nel 2011. Coloro che tentavano di sfidare la messa al bando erano passibili di arresto, perseguimento penale e carcerazione, per accuse come “l’aver incitato il popolo contro le autorità”. A ottobre, il governo ha ammonito che chiunque sfidasse il divieto di guida per le donne sostenendo la loro campagna sarebbe stato arrestato (v. sotto).

472 DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI Le autorità hanno preso di mira la sparuta ma vivace comunità dei difensori dei diritti umani, servendosi di leggi antiterrorismo per reprimere le loro pacifiche iniziative volte a far luce e ad affrontare le violazioni dei diritti umani. Tra le persone detenute o che dovevano scontare pene c’erano ex membri e attivisti dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici (Saudi Civil and Political As- sociation – Acpra), un gruppo non ufficialmente riconosciuto, fondato nel 2009 e impegnato in cam- pagne a favore del rilascio o di un equo procedimento giudiziario dei detenuti politici di lungo corso. A fine anno, quattro membri di Acpra stavano scontando fino a 15 anni di carcere, tre erano detenuti in attesa dell’esito del processo e due erano detenuti senza processo. Quest’ultimi erano: Abdulrahman al-Hamid, arrestato dopo aver firmato ad aprile una dichiarazione in cui chiedeva al ministro dell’Interno di essere processato, e Saleh al-Ashwan, trattenuto senz’accusa dal 2012. Altri due attivisti di Acpra erano in libertà in attesa dell’esito dei loro processi. Coloro che erano stati giudicati colpevoli dovevano scontare pene imposte per accuse dalla formulazione vaga e oltremodo generica, appositamente studiate per reprimere la pacifica espressione di critiche. Altri attivisti dovevano so- stenere un processo sulla base di accuse simili. A luglio, la Scc ha condannato il noto avvocato per i diritti umani Waleed Abu-Khair a 15 anni di carcere, con un successivo divieto di viaggiare all’estero per 15 anni, avendolo giudicato colpevole d’imputazioni dalla formulazione vaga e oltremodo generica, derivanti dalle sue pacifiche attività professionali a tutela dei diritti umani. A novembre, la corte penale di al-Khobar, nella Provincia Orientale, ha condannato il difensore dei diritti umani Mikhlif bin Daham al-Shammari a due anni di reclusione e a 200 colpi di frusta, dopo averlo ritenuto colpevole di accuse come “aver creato scompiglio nell’opinione pubblica sedendo assieme agli sciiti” e “aver violato le istruzioni dei governanti, organizzando un raduno pubblico e utilizzando Twitter”. Doveva già scontare una condanna a cinque anni di carcere, seguita da un divieto di viaggio di 10 anni, comminatagli dall’Scc a giugno 2013. L’Scc gli ha inoltre vietato di scrivere per la stampa e sui social network e di apparire in televisione o parlare alla radio. La camera d’appello dell’Scc ha confermato questa sentenza a giugno 2014.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA Una nuova legislazione antiterrorismo, entrata in vigore a febbraio dopo l’approvazione del re, ha esteso i già ampi poteri delle autorità di combattere gli “atti di terrore”. La nuova normativa non forniva una definizione di terrorismo ma considerava atti di terrorismo parole e azioni che a giudizio delle autorità avrebbero, direttamente o indirettamente, “disturbato” la quiete pubblica, “destabilizzato la sicurezza della società o la stabilità dello stato”, “negato i fondamenti dell’ordinamento giuridico” o “danneggiato la reputazione dello stato o l’ordine costituito”. A marzo, una serie di decreti promulgati dal ministero dell’Interno ha esteso la già ampia definizione di terrorismo dell’Arabia Saudita, inserendo concetti come “far riferimento al pensiero ateo” e “contattare qualsiasi gruppo o individuo contrario al regno”, oltre che “tentare di disgregare l’unità della nazione” invitando a protestare e “arrecare danno ad altri stati e ai loro leader”. In violazione degli standard internazionali, i nuovi decreti avevano effetto retroattivo, esponendo a procedimenti per terrorismo coloro che erano sospettati di aver commesso tali atti in passato oltre a ulteriori capi d’imputazione nel caso avessero commesso nuovi reati. A luglio, il ministero della Giustizia ha riaffermato che i casi riguardanti presunti reati contro la sicurezza dello stato erano di esclusiva competenza dell’Scc.

473 ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Le autorità di sicurezza hanno effettuato arresti arbitrari ed è proseguita la prassi di trattenere i detenuti senza accusa né processo per lunghi periodi; decine di persone sono state così trattenute anche per più di sei mesi, senza essere mai condotti davanti a un tribunale competente, in violazione del codice di procedura penale saudita. È frequentemente accaduto che i detenuti fossero trattenuti in incommunicado durante le fasi dell’interrogatorio e che fosse loro negato l’accesso a un legale, in violazione degli standard internazionali di equità processuale.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Secondo le testimonianze di ex detenuti, imputati e altri, tortura e altri maltrattamenti erano una prassi abituale e diffusa e sono stati praticati nell’impunità. In diversi casi, i tribunali hanno emesso verdetti di colpevolezza unicamente sulla base di “confessioni” rilasciate durante la fase preproces- suale, senza indagare sulle accuse degli imputati, secondo cui queste erano state estorte sotto tortura; sulla base di questo tipo di “confessioni” i tribunali hanno anche comminato condanne a morte. Alcuni prigionieri condannati per motivi politici in anni precedenti sarebbero stati maltrattati in carcere; tra questi figuravano attivisti di Acpra, come il dottor Abdullah al-Hamid e il dottor Mohammad al-Qahtani, i quali hanno iniziato uno sciopero della fame a marzo per protestare contro le loro condizioni. Ad agosto, i secondini del carcere di Jeddah avrebbero percosso l’avvocato per i diritti umani Waleed Abu al-Khair, recluso nella struttura, mentre veniva trascinato fuori a forza dalla sua cella per essere trasferito in un altro penitenziario.

DISCRIMINAZIONE – MINORANZA SCIITA Membri della minoranza sciita, per la maggior parte localizzata nella Provincia Orientale, ricca di risorse petrolifere, hanno continuato ad affrontare una radicata discriminazione che ha limitato il loro accesso ad alcuni servizi statali e all’impiego e che li ha condizionati su molti aspetti. Membri della comunità sciita sono rimasti per lo più esclusi da avanzamenti di carriera. Leader e attivisti sciiti hanno affrontato arresti e carcerazioni in seguito a processi viziati e la pena di morte. A maggio, l’Scc ha condannato a morte Ali Mohammed Baqir al-Nimr, dopo averlo giudicato colpevole di accuse come aver manifestato contro il governo, essere in possesso di armi e aver aggredito le forze di sicurezza. L’uomo ha negato le accuse e ha raccontato alla corte di essere stato torturato e costretto a confessare durante la detenzione preprocessuale. Il tribunale lo ha giudicato senza indagare sulle accuse di tortura e lo ha condannato a morte, malgrado l’imputato avesse soltanto 17 anni all’epoca dei presunti reati. A ottobre, suo zio, lo sceicco Nimr Baqir al-Nimr, un religioso sciita di Qatif apertamente critico nei confronti del trattamento riservato dal governo alla minoranza sciita, è stato condannato a morte dall’Scc. Le forze di sicurezza avevano arrestato lo sceicco al-Nimr nel luglio 2012 in circostanze controverse, nelle quali aveva riportato ferite d’arma da fuoco e perso l’uso di una gamba. Ad agosto, l’Scc ha condannato un altro noto religioso sciita, Sheikh Tawfiq al-‘Amr, a otto anni di carcere, seguiti da un divieto di viaggiare all’estero e un divieto di tenere sermoni religiosi o discorsi pubblici. A settembre, l’Scc ha imposto un’ammenda e una condanna a 14 anni di carcere, seguita da un divieto di viaggio all’estero di 15 anni, all’attivista per i diritti della minoranza sciita Fadhel al- Manasif, giudicandolo colpevole di accuse come “aver infranto l’alleanza con il sovrano” e aver man-

474 tenuto “contatti con organizzazioni della stampa estera”. La condanna è stata confermata dalla divisone d’appello dell’Scc a dicembre. L’Scc ha condannato altri attivisti sciiti per la loro presunta partecipazione alle proteste del 2011 e 2012. Almeno cinque sono stati condannati a morte; altri a lunghi periodi di carcerazione.

DIRITTI DELLE DONNE Donne e ragazze hanno continuato a subire discriminazioni nella legge e nella prassi. Lo status delle donne di fronte alla legge era considerato subordinato rispetto a quello degli uomini, in particolare in relazione a questioni inerenti il diritto di famiglia come matrimonio, divorzio, custodia dei figli ed eredità; inoltre, le donne non sono state adeguatamente tutelate contro la violenza sessuale e altra violenza di genere. Secondo le segnalazioni ricevute, la violenza domestica è rimasta un fenomeno endemico, malgrado una campagna di sensibilizzazione lanciata dal governo nel 2013. L’adozione di una nuova legislazione che prevedeva il reato di violenza domestica non ha trovato applicazione pratica a causa dell’assenza di un’autorità competente in grado di renderla effettiva. Le donne che hanno sostenuto la campagna Women2Drive (Donne alla guida), lanciata nel 2011 per contrastare il divieto per le donne di guidare un veicolo, sono incorse in vessazioni e intimidazioni da parte delle autorità, le quali hanno inoltre ammonito che le donne che si fossero messe alla guida sa- rebbero state passibili d’arresto. Alcune sono state arrestate ma rilasciate dopo un breve periodo di fermo. A inizio dicembre, Loujain al-Hathloul e Mayssa al-Amoudi, due sostenitrici della campagna, sono state arrestate al confine con gli Emirati Arabi Uniti mentre stavano guidando la loro macchina. Le autorità le hanno poi accusate di crimini relativi al terrorismo e a fine anno si trovavano ancora in carcere. L’attivista per i diritti delle donne Souad al-Shammari è stata arrestata a ottobre dopo che l’agenzia investigativa e le autorità giudiziarie di Jeddah l’avevano convocata per interrogarla. A fine anno era trattenuta senza accusa nel carcere di Briman, a Jeddah. Le attiviste per i diritti delle donne Wajeha al-Huwaider e Fawzia al-Oyouni sono rimaste in libertà malgrado un tribunale d’appello avesse confermato nel 2013 le loro sentenze a 10 mesi di reclusione, seguite da ordini di divieto di recarsi all’estero per due anni. Le autorità non hanno fornito spiegazioni per non averle richiamate in carcere. Ad aprile, due figlie del sovrano lo hanno accusato di averle tenute rinchiuse per 13 anni in un’ala della residenza reale assieme ad altre due sorelle e di aver negato loro un’adeguata alimentazione.

DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI Dopo aver accordato ai lavoratori migranti diversi mesi di tempo per regolarizzare il loro status, a no- vembre 2013 il governo ha avviato misure repressive nei confronti dei migranti stranieri irregolari, procedendo ad arrestare, detenere ed espellere centinaia di migliaia di lavoratori stranieri, allo scopo di lasciare un maggior numero di posti di lavoro ai cittadini sauditi. A marzo, il ministro dell’Interno ha dichiarato che nei precedenti cinque mesi dell’anno le autorità avevano espulso oltre 370.000 mi- granti stranieri e che altri 18.000 erano in detenzione. Migliaia di lavoratori sono stati sommariamente rimandati in Somalia e in altri stati dove erano a rischio di subire violazioni dei diritti umani; moltissimi sono stati inoltre quelli rimpatriati nello Yemen. Molti migranti hanno riferito che prima della loro espulsione erano stati stipati all’interno di strutture di detenzione improvvisate e oltremodo sovraffollate, dove scarseggiavano cibo e acqua e dove avevano subito abusi da parte dei secondini.

475 PENE CRUDELI, DISUMANE E DEGRADANTI I tribunali hanno continuato a emettere condanne alla fustigazione quale sanzione per molti tipi di reato. Il blogger Raif Badawi è stato condannato a 1000 colpi di frusta, come pena aggiuntiva a una sentenza carceraria. Il difensore per i diritti umani Mikhlif bin Daham al-Shammari è stato condannato a 200 colpi, oltre a una sentenza di reclusione. A settembre, le autorità hanno rilasciato Ruth Cosrojas, una lavoratrice domestica filippina che a ottobre 2013 era stata condannata a 18 mesi di reclusione e a 300 colpi di frusta al termine di un processo iniquo, in cui era stata giudicata colpevole di aver organizzato un giro di prostituzione (qu- wada). All’epoca del suo rilascio aveva ricevuto 150 frustate.

PENA DI MORTE I tribunali hanno continuato a comminare condanne a morte per molti tipi di reato, compresi alcuni che non implicavano violenza, come “stregoneria”, adulterio e reati in materia di droga, spesso al termine di processi iniqui. Alcuni imputati, tra cui cittadini stranieri che dovevano rispondere di accuse di omicidio, hanno affermato di essere stati torturati o altrimenti costretti o ingannati per estorcere loro false confessioni durante la detenzione preprocessuale. Le autorità hanno effettuato decine di esecuzioni, molte delle quali tramite decapitazione pubblica. Tra le persone messe a morte c’erano sia cittadini sauditi sia migranti stranieri.

BAHREIN

REGNO DEL BAHREIN

Capo di stato: re Hamad bin ‘Issa Al Khalifa Capo di governo: sceicco Khalifa bin Salman Al Khalifa

Il governo ha continuato a imbavagliare e reprimere il dissenso e a limitare le libertà d’espressione, associazione e riunione. Le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza per disperdere manifestazioni, uccidendo almeno due persone. Attivisti dell’opposizione, condannati al termine di processi iniqui negli anni precedenti, sono rimasti in carcere; tra questi c’erano anche prigionieri di coscienza. Si sono ancora verificati episodi di tortura ai danni di detenuti ed è prevalso un clima d’impunità. Ventuno cittadini bahreiniti condannati per accuse di terrorismo sono stati privati della cittadinanza. Sono state emesse cinque condanne a morte; non ci sono state esecuzioni.

CONTESTO Per tutto l’anno è rimasta alta la tensione tra il governo a maggioranza sunnita e le principali asso- ciazioni politiche dell’opposizione, a seguito della sospensione a gennaio dell’iniziativa per il dialogo nazionale. Attivisti della maggioranza sciita della popolazione hanno indetto nuove proteste per chiedere riforme politiche, che in alcuni casi sono sfociate in violenza, alle quali le forze di sicurezza

476 hanno frequentemente risposto con uso eccessivo della forza, non esitando a impiegare anche armi da fuoco. A marzo, una bomba esplosa nel villaggio di al-Daih ha ucciso tre agenti di polizia. A dicembre, un poliziotto e un’altra persona sono stati uccisi in un attacco bomba nei villaggi di Karzakan e Demistan. Il governo ha messo al bando la cosiddetta Coalizione del 14 febbraio, un mo- vimento giovanile, e altre due organizzazioni, dichiarandole gruppi terroristici. Il 22 novembre si sono tenute le prime elezioni parlamentari del Bahrein dopo lo scoppio dei disordini nel 2011 ma sono state boicottate dalla principale opposizione, guidata dalla Società islamica nazionale al-Wefaq, la più grande associazione sciita del paese. Gli emendamenti alla legislazione antiterrorismo adottati a dicembre hanno aumentato i poteri della polizia, permettendo la detenzione di sospettati di terrorismo in incommunicado fino a 28 giorni. Rappresentanti dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno visitato il paese da febbraio a maggio, per valutare la necessità di una formazione in materia di diritti umani. A settembre, il governo ha pubblicato un documento di metà mandato sui progressi ottenuti sul piano dell’attuazione delle raccomandazioni che aveva accettato, nel contesto dell’Esame periodico universale delle Nazioni Unite del Bahrein nel 2012.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Le autorità hanno continuato a reprimere il dissenso. A febbraio, poco prima del terzo anniversario dell’inizio delle proteste pubbliche del 2011, il governo ha aumentato da uno a sette anni di carcere, oltre al pagamento di una cospicua ammenda, la pena prevista per chi insulta pubblicamente il re, la bandiera del Bahrein o l’emblema nazionale. Il dottor Sa’eed Mothaher Habib al-Samahiji, un oculista, è stato arrestato il 1° luglio per scontare una condanna a un anno di reclusione che gli era stata comminata a dicembre 2013, per l’accusa di “aver insultato pubblicamente il monarca” in un discorso pronunciato al funerale di un manifestante ucciso da un’auto della polizia. A fine anno era trattenuto nel carcere di Jaw, a sud di Manama. Tra gli altri prigionieri di coscienza trattenuti nel carcere di Jaw, c’erano leader dell’opposizione e attivisti dei diritti umani condannati al termine di processi iniqui negli anni precedenti. Il difensore dei diritti umani Nabeel Rajab è stato rilasciato a maggio, dopo aver scontato la condanna a due anni di carcere che gli era stata comminata per aver partecipato a un “raduno illegale” ma è stato riarrestato a ottobre per oltraggio alle istituzioni pubbliche. È stato rimesso in libertà su cauzione a novembre ma con un divieto di viaggiare, in attesa del verdetto di un tribunale sul suo caso giudiziario, previsto per gennaio 2015. L’attivista Zainab Al-Khawaja è stata arrestata a ottobre e condannata a novembre e dicembre a pene carcerarie per un totale di quattro anni e quattro mesi, di cui tre anni per l‘accusa di aver insultato il re. A fine anno era in libertà in attesa dell’esito dell’appello. L’attivista per i diritti delle donne Ghada Jamsheer è stata arrestata a settembre e ha affrontato un processo per varie accuse, incluso oltraggio a pubblico ufficiale. È stata rilasciata su cauzione a dicembre.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Tutti i raduni pubblici nella capitale Manama rimanevano vietati a tempo indeterminato, secondo quanto previsto dai decreti emanati dal governo nel 2013. Tuttavia, sporadiche proteste si sono tenute in altre località. Le forze di sicurezza hanno arrestato decine di persone per aver preso parte a proteste; alcune sono state condannate a pene detentive. Ahmad Mshaima’ è stato processato a maggio, cinque mesi dopo il suo arresto, con l’accusa di

477 “raduno illegale finalizzato a commettere reati e disturbo della pubblica sicurezza”. Ha accusato gli agenti di averlo torturato nei giorni successivi al suo arresto ma le autorità non hanno indagato sulle sue accuse. È stato rilasciato su cauzione a giugno ma poi riarrestato a novembre e condannato a di- cembre a un anno di carcere per l’accusa di aver insultato il re. A dicembre, il difensore dei diritti umani Mohammad al Maskati e altri 10 imputati sono stati condannati a sei mesi di reclusione con l’accusa di “raduno illegale”.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE Il governo ha imposto restrizioni alla libertà d’associazione facendo ricorso ai nuovi poteri conferiti al ministro della Giustizia di sospendere o sciogliere le associazioni politiche sulla base di motivazioni vaghe. Il ministro ha avviato procedimenti di sospensione contro due delle più importanti associazioni politiche dell’opposizione, Wa’ad e al-Wefaq, per presunte irregolarità nello svolgimento delle loro at- tività. Il ministro della Giustizia ha fatto cadere la causa contro Wa’ad a novembre. A ottobre, un tri- bunale ha ordinato la sospensione di al-Wefaq per tre mesi. L’azione del tribunale è avvenuta poco dopo che il pubblico ministero aveva incriminato il leader di al-Wefaq, Sheikh Ali Salman, e il suo vice per “aver incontrato funzionari stranieri senza prima notificarlo” al governo, a seguito di un incontro che avevano avuto con l’assistente al segretario di stato americano per la democrazia, i diritti umani e il lavoro, Tom Malinowski. A fine dicembre, le autorità hanno arrestato Sheikh Ali Salman per accuse che comprendevano incitamento a promuovere un cambiamento del sistema politico con la forza, le minacce e altri mezzi illegali.

PRIVAZIONE DELLA CITTADINANZA A luglio, il re ha emesso un decreto con emendamenti alla legge sulla cittadinanza del 1963, che con- ferivano ai tribunali nuovi poteri di privare i bahreiniti della loro cittadinanza, tra le altre motivazioni, se ritenuti colpevoli di reati in materia di terrorismo. La legge inoltre consentiva alle autorità di revocare la cittadinanza alle persone che risiedevano in modo continuativo all’estero per più di cinque anni senza informare il ministero dell’Interno. Nel 2014 è stata revocata la cittadinanza a 21 persone. Ad agosto, l’Alta corte penale ha revocato la cittadinanza a nove uomini bahreiniti dopo averli giudicati colpevoli di reati in materia di terrorismo. I nove sono stati condannati fino ai 15 anni di carcere, dopo che la corte ne aveva stabilito la colpevolezza sulla base di “confessioni”, che alcuni degli imputati avevano sostenuto erano state ottenute tramite tortura. A ottobre, un tribunale ha ordinato l’espulsione di diverse persone la cui cittadinanza bahreinita era stata arbitrariamente revocata nel 2012. Secondo la corte, queste persone erano rimaste illegalmente nel paese dopo il ritiro della loro cittadinanza. L’udienza d’appello sui loro casi era prevista per aprile 2015.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Si sono ripetute le denunce di tortura nonostante la creazione di una serie di organismi ufficiali con l’incarico di condurre inchieste in merito alle accuse di tortura e altri maltrattamenti in custodia. In alcuni dei casi, i detenuti hanno denunciato che la polizia e altre autorità di sicurezza li avevano aggrediti in modo violento durante l’arresto e le perquisizioni delle loro abitazioni o mentre venivano trasferiti verso i commissariati o le carceri, a bordo dei mezzi della polizia, e durante gli interrogatori da parte di agenti della direzione investigativa penale, quando erano rimasti trattenuti per diversi giorni senza accesso ai loro avvocati o familiari. I metodi riferiti comprendevano duri pestaggi, per -

478 cosse con pugni, scosse elettriche, sospensione per gli arti, stupro e minacce di stupro e deliberata esposizione a freddo estremo. Mohamed ‘Ali al-‘Oraibi ha accusato funzionari della sicurezza di averlo torturato per oltre cinque giorni in seguito al suo arresto, avvenuto il 2 febbraio all’aeroporto internazionale di Manama, dove era atterrato al suo rientro dall’estero. Ha affermato che i funzionari lo avevano interrogato facendolo stare nudo, gli avevano applicato scosse elettriche ai genitali, lo avevano tenuto sospeso per gli arti, percosso con bastoni e aggredito sessualmente. È stato rilasciato il 17 aprile, in attesa di ulteriori in- dagini. Benché abbia denunciato alle autorità il trattamento che aveva subito, non erano note indagini in merito alle sue accuse di tortura.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA A marzo è stato emanato un decreto reale (Decreto 24 del 2014) che regolamenta l’impiego della forza e delle armi da fuoco. Le forze di sicurezza hanno abitualmente fatto uso eccessivo della forza per disperdere le proteste. Tra i vari metodi impiegati, hanno utilizzato armi da fuoco e gas lacrimogeni contro i manifestanti, provocando feriti e almeno due morti. Sayed Mahmoud Sayed Mohsen, di 14 anni, è morto il 21 maggio dopo che le forze di sicurezza avevano sparato gas lacrimogeni e munizioni vere contro manifestanti che partecipavano a un corteo funebre sull’isola di Sitra. La sua famiglia ha affermato che, poiché sul suo torace erano rimasti con- ficcati pallini di fucile, il ragazzo era stato verosimilmente colpito a distanza ravvicinata. Il ministero dell’Interno ha annunciato un’indagine ma a fine anno non ne erano stati resi noti i risultati.

IMPUNITÀ Il numero d’indagini relative a casi di tortura e altri maltrattamenti di detenuti è rimasto limitato e le autorità hanno continuato a trattenere in carcere persone che la commissione d’inchiesta indipendente del Bahrein aveva appurato essere state torturate nel 2011. In pratica, a parte i pochi procedimenti giudiziari a carico di ufficiali di basso rango, le forze di sicurezza hanno operato per lo più nell’impunità, in un contesto di continue segnalazioni di tortura di detenuti e di uso eccessivo della forza contro ma- nifestanti. Le autorità hanno perseguito otto poliziotti per l’uccisione di una persone e la morte in cu- stodia di un’altra. Un agente, accusato di aggressione, è stato assolto; gli altri, a fine anno, erano ancora sotto processo. A due anni dall’inizio dei processi a carico di membri delle forze di sicurezza, complessivamente 15 agenti sono stati prosciolti dall’accusa di aver torturato o ucciso manifestanti, mentre altri sei sono stati condannati a pene variabili da sei mesi a tre anni di reclusione, in relazione a decessi avvenuti in custodia e all’uccisione di manifestanti. Secondo le notizie riportate, due agenti accusati di aver causato la morte del sedicenne Hussein al- Jazairi, il 14 febbraio 2013, durante una protesta ad al-Daih, sono rimasti in libertà e non sono stati processati nel corso del 2014. I due dovevano rispondere di accuse di aggressione con esito mortale ma sono stati rilasciati su cauzione a maggio 2013 su disposizione dell’Alta corte penale. Hussain al-Jazairi era morto dopo essere stato colpito da pallini di fucile a distanza ravvicinata. A settembre, l’Alta corte di giustizia d’Inghilterra ha cassato una sentenza del servizio di procura della Corona del Regno Unito, secondo cui il figlio del re del Bahrein, principe Nasser bin Hamad Al Khalifa, godeva dell’immunità diplomatica nel Regno Unito. L’Alta corte ha stabilito che nel caso in cui fosse entrato nel Regno Unito, il principe poteva essere processato per presunta complicità nella tortura di detenuti avvenuta nel 2011.

479 PENA DI MORTE La pena capitale è rimasta in vigore per omicidio e altri reati. Durante l’anno i tribunali hanno com- minato cinque condanne a morte, una delle quali è stata annullata a dicembre dalla corte d’appello; non ci sono state esecuzioni. Mahir Abbas al-Khabaz è stato condannato a morte il 19 febbraio, dopo essere stato ritenuto colpevole dell’uccisione di un poliziotto avvenuta nel 2013. Il tribunale ha ammesso come prova a suo carico una “confessione” che, stando alle accuse, era stata ottenuta tramite tortura. Una corte d’appello ha convalidato la sua condanna a morte e a fine anno Mahir Abbas al-Khabaz era in attesa di un pro- nunciamento finale da parte della Corte di cassazione.

EGITTO

REPUBBLICA ARABA D’EGITTO

Capo di stato: Abdel Fattah al-Sisi (subentrato ad Adly Mansour a giugno) Capo di governo: Ibrahim Mahlab (subentrato a Hazem Beblawi a marzo)

L’anno ha visto un progressivo e drammatico deterioramento della situazione dei diritti umani, in seguito alla destituzione del presidente Mohamed Morsi, a luglio 2013. Il governo ha imposto gravi restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione. Migliaia di persone sono state arrestate e detenute nel quadro di un’ampia repressione contro il dissenso, con sparizioni forzate di detenuti. I Fratelli musulmani sono rimasti al bando e i loro leader arrestati o incarcerati. Atti di tortura e altri maltrattamenti di detenuti sono avvenuti con frequenza abituale e sono rimasti impuniti. Centinaia di imputati sono stati condannati a pene carcerarie o a morte, al termine di processi gravemente iniqui. Le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza contro manifestanti e si sono rese responsabili di uccisioni illegali rimaste impunite. Le donne hanno subito discriminazioni e violenze. Alcuni rifugiati sono stati rimandati con la forza nel paese d’origine. Sono proseguiti gli sgomberi forzati. Decine di persone sono incorse in arresti e procedimenti penali a causa del loro orientamento sessuale o dell’identità di genere. I tribunali hanno emesso condanne a morte; a giugno sono state effettuate le prime esecuzioni dal 2011.

CONTESTO Le elezioni presidenziali di maggio hanno visto l’elezione dell’ex capo dell’esercito Abdel Fattah al-Sisi. Il nuovo presidente è entrato in carica a giugno e in un discorso pronunciato a settembre davanti all’As- semblea generale delle Nazioni Unite si è impegnato a difendere la libertà d’espressione, l’indipendenza della magistratura e lo stato di diritto. Di fatto, il suo governo ha attuato provvedimenti repressivi contro la libertà di parola, ampliato la giurisdizione dei tribunali militari permettendo loro di processare civili e lasciato che le forze di sicurezza facessero impunemente ricorso a metodi di tortura e uso eccessivo della forza. Dalla destituzione del presidente Mohamed Morsi a luglio 2013 alla fine del 2014, le persone uccise

480 nel corso di manifestazioni sono state oltre 1400. La stragrande maggioranza ha perso la vita per mano delle forze di sicurezza schierate per disperdere i sit-in di protesta allestiti da sostenitori del presidente Morsi in piazza Rabaa al-Adawiya e piazza al-Nahda, nel centro del Cairo, il 14 agosto 2013. Nel giro di vite sono state arrestate, detenute o incriminate almeno 16.000 persone, secondo le stime ufficiali pubblicate dall’agenzia di stampa Associated Press, cui hanno fatto seguito i dati forniti dal gruppo di attivisti Wikithawra, che ha calcolato che le persone detenute o incriminate erano oltre 40.000. I detenuti erano per la maggior parte sostenitori dei Fratelli musulmani ma tra questi c’erano anche attivisti dell’ala sinistra, laici e altre voci critiche verso il governo. Secondo dati forniti dalle autorità, un’impennata di attacchi letali condotti da gruppi armati contro le forze di sicurezza è costata la vita ad almeno 445 agenti delle forze di sicurezza. Questi attacchi si sono verificati per lo più nel nord del Sinai, dove sono stati uccisi almeno 238 tra poliziotti e soldati. In seguito ai ripetuti attacchi di ottobre, il governo ha dichiarato uno stato di emergenza nel nord del Sinai, imposto il coprifuoco, chiuso la frontiera egiziana con Gaza e iniziato l’allestimento di una zona “cuscinetto” lungo il confine. Rinforzi militari hanno lanciato un’operazione “combinata” per identificare coloro che venivano definiti “militanti” tra la popolazione dell’area, esponendola così a rischio di ulteriori violazioni dei diritti umani.1

VAGLIO INTERNAZIONALE I membri del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nell’analizzare la situazione dei diritti umani dell’Egitto secondo il meccanismo dell’Esame periodico universale delle Nazioni Unite (Universal Periodic Review – Upr), a novembre, hanno raccomandato alle autorità di contrastare il fenomeno della tortura, indagare sull’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza e ritirare i prov- vedimenti restrittivi per la società civile. Ad eccezione dell’Upr, l’Egitto è in larga parte sfuggito al vaglio della comunità internazionale, malgrado il deterioramento della situazione dei diritti umani nel paese.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Le autorità hanno preso di mira coloro che avevano criticato il governo o espresso il loro dissenso. Gli operatori dei mezzi d’informazione che avevano documentato violazioni dei diritti o che avevano messo in discussione le tesi politiche delle autorità sono incorsi in arresti e procedimenti giudiziari. Giornalisti che avevano coperto le attività dell’esercito sono stati processati davanti a tribunali militari.2 A giugno, un tribunale del Cairo ha condannato tre dipendenti dell’emittente televisiva anglofona Al Jazeera a pene comprese tra sette e 10 anni di carcere, al termine di un processo gravemente iniquo. I tre, Mohamed Fahmy, dalla doppia cittadinanza canadese ed egiziana, Peter Greste, un australiano, e Baher Mohamed, un egiziano, dovevano rispondere di accuse come aver fiancheggiato i Fratelli musul- mani e aver diffuso notizie “false”. La pubblica accusa non è stata in grado di fornire prove fondate a loro carico o contro altri operatori dell’informazione che erano stati processati in contumacia. Alcune persone sono incorse in procedimenti giudiziari e carcerazioni per accuse come “incitamento alla lotta settaria” e/o “diffamazione della religione”. Le autorità hanno inoltre aumentato i controlli sui social network.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE Le autorità hanno chiuso formazioni collegate ai Fratelli musulmani, gruppo messo al bando, e

481 altri nuclei d’opposizione e imposto nuove e gravose restrizioni alle organizzazioni per i diritti umani. Ad aprile, il Movimento gioventù del 6 aprile, uno dei gruppi di attivisti che aveva guidato la rivolta del 2011, è stato messo al bando in seguito alla decisione di un tribunale, secondo la quale alcuni dei suoi membri avevano commesso reati che avrebbero “turbato la pace e l’ordine pubblico”. Ad agosto, un tribunale ha sciolto il Partito libertà e giustizia, che era stato fondato dai Fratelli mu- sulmani e aveva ottenuto la maggioranza dei seggi alle elezioni per il parlamento egiziano del 2012. Organizzazioni per i diritti umani sono state al centro di minacce di chiusura e d’azione penale, in seguito alle quali molti attivisti sono stati costretti a limitare il loro impegno o a lasciare il paese. A luglio, il ministero della Solidarietà sociale ha dato 45 giorni di tempo alle Ngo, termine che è stato in seguito prorogato a novembre, per registrarsi secondo quanto stabilito dalla repressiva legge sulle associazioni (Legge 84 del 2002), avvisando che se non si fossero registrate avrebbero dovuto “ri- sponderne”. Dopo le critiche degli altri stati durante l’Upr dell’Egitto, il ministero ha annunciato che avrebbe valutato le Ngo caso per caso. A maggio, le autorità hanno interrotto pacifiche attività di una Ngo, irrompendo negli uffici di Ales- sandria del Centro egiziano per i diritti economici e sociali, mentre era in corso una conferenza a favore di un’attivista per i diritti umani detenuta. A settembre, l’esecutivo ha emendato il codice penale al fine di proibire il finanziamento di atti contrari all’interesse della nazione egiziana, alla sua integrità territoriale o alla quiete pubblica. Il governo ha inoltre proposto una nuova legge sulle associazioni che, se introdotta, avrebbe conferito alle autorità ulteriori poteri di negare la registrazione legale alle Ngo e di limitarne le attività e il fi- nanziamento. A novembre, il gabinetto di governo egiziano ha votato una bozza di legge che, se introdotta, conferirebbe alle autorità ampi poteri di classificare le organizzazioni come entità terroristiche.

LIBERTÀ DI RIUNIONE Le autorità hanno implacabilmente represso eventi di protesta e i tribunali hanno emesso sentenze di carcerazione nei confronti di decine di persone che avevano protestato senza autorizzazione; tra queste, c’erano sostenitori di Mohamed Morsi, attivisti di spicco dell’opposizione, e attivisti dell’ala sinistra e dei diritti umani.3 Le autorità hanno continuato ad applicare la Legge 107 del 2013 sulle proteste, che prevedeva che le manifestazioni dovessero essere preventivamente autorizzate; le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici. Le studentesse universitarie Abrar Al-Anany e Menatalla Moustafa e la docente Yousra Elkhateeb sono state condannate a maggio dai due ai sei anni di carcere per aver manifestato pacificamente presso l’università di Mansoura. A novembre, un tribunale di Alessandria ha condannato 78 bambini a pene carcerarie dai due ai cinque anni dopo averli ritenuti colpevoli di aver partecipato a una protesta non autorizzata a sostegno di Mohamed Morsi.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Migliaia di oppositori del governo, reali o percepiti, sono stati arrestati nel corso di proteste, nelle loro abitazioni o per la strada. Molti non sono stati informati dei motivi del loro arresto e sono stati arbi- trariamente detenuti e trattenuti in custodia preprocessuale, in alcuni casi anche per oltre un anno,

482 o sono altrimenti comparsi davanti a un tribunale e condannati a lunghe pene carcerarie al termine di processi iniqui. Molti sono stati inoltre percossi o maltrattati durante le fasi dell’arresto o in deten- zione. In alcune occasioni, le forze di sicurezza hanno catturato familiari o amici se non trovavano la persona ricercata.

SPARIZIONI FORZATE Alcuni detenuti sono stati vittime di sparizione forzata e trattenuti in detenzione segreta nel campo militare di Al Galaa, situato all’interno del carcere di Azouly, a Ismailia, 130 km a nordest del Cairo. I detenuti erano trattenuti ad Al Galaa senza ammissione da parte delle autorità e senza aver accesso agli avvocati o alle loro famiglie. I detenuti, tra cui c’erano presunti leader delle proteste e persone accusate di reati in materia di terrorismo, sono stati trattenuti presso il campo per periodi anche di 90 giorni, senza supervisione da parte dell’autorità giudiziaria, e sottoposti a tortura e altri maltrattamenti dall’intelligence militare e da funzionari dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (National Security Agency – Nsa), nel tentativo di estorcere loro “confessioni”. I pubblici ministeri hanno detto alle famiglie degli scomparsi di non avere giurisdizione sulle carceri militari.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti di sospetti criminali sono stati impiegati abitualmente per estorcere confessioni e punire e umiliare gli indiziati. Stando alle segnalazioni ricevute, questi metodi hanno causato il decesso di diversi detenuti. Funzionari dell’Nsa hanno preso particolarmente di mira membri e presunti sostenitori dei Fratelli musulmani, trattenendone alcuni e, secondo quanto riferito, torturandoli in strutture non ufficiali di detenzione, compresi uffici dell’Nsa dislocati in tutto il paese. I metodi di tortura comunemente impiegati comprendevano scosse elettriche applicate sui genitali e altre zone sensibili del corpo, percosse, sospensione per gli arti con le mani ammanettate dietro la schiena, posizioni di stress, pestaggi e stupro. Omar Gamal El Shewiekh, studente dell’università Al Azhar, ha affermato di essere stato arrestato e torturato da funzionari della sicurezza, dopo aver partecipato a una protesta al Cairo a marzo. Ha di- chiarato che funzionari dell’Nsa lo avevano sottoposto a scosse elettriche e che gli avevano ripetutamente inserito oggetti nell’ano fino a fargli “confessare” di aver commesso dei reati riprendendolo in video. A maggio, un tribunale lo ha condannato a cinque anni di carcere sulla base della “confessione” forzata. Sono stati riferiti decessi in custodia, alcuni dei quali apparentemente causati dalla tortura o altro maltrattamento o da condizioni inadeguate nei commissariati di polizia.4 A maggio, Ezzat Abdel Fattah è morto al commissariato di polizia di Mattareya, al Cairo. Un referto post mortem rilasciato dall’autorità medico-legale aveva rilevato sul suo corpo ferite, tra cui nove costole fratturate, tagli e contusioni. Le autorità non hanno provveduto a condurre indagini effettive in merito alle accuse di tortura. Laddove i procuratori avevano avviato indagini, i fascicoli giudiziari erano stati generalmente chiusi citando la mancanza di prove. In alcuni casi, le vittime e i loro familiari hanno affermato che la polizia li aveva minacciati per costringerli a ritirare le accuse di tortura.

IMPUNITÀ Il sistema giudiziario penale non è riuscito a chiamare in giudizio alcun membro delle forze di

483 sicurezza per le gravi violazioni dei diritti umani commesse durante i disordini del 2013, comprese le uccisioni di massa di manifestanti pro Morsi in piazza Rabaa al-Adawiya e piazza al-Nahda il 14 agosto 2013. Un tribunale incaricato di riprocessare l’ex presidente Hosni Mubarak, per accuse riguardanti l’uccisione di manifestanti durante la rivolta del 2011, ha archiviato il fascicolo giudiziario per un vizio di forma. Anche il ministro dell’Interno sotto il suo governo e diversi funzionari della sicurezza sono stati prosciolti dai medesimi capi d’imputazione. Una commissione d’inchiesta su nomina governativa, istituita in seguito all’uccisione di centinaia di manifestanti da parte delle forze di sicurezza il 14 agosto 2013, ha annunciato i propri risultati a no- vembre. Ignorando la sproporzione tra le perdite registrate tra le forze di sicurezza e tra i manifestanti, la commissione ha concluso che i manifestanti avevano dato il via alle violenze. La commissione ha minimizzato le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza, limitandosi a suggerire per loro un addestramento nella gestione dell’ordine pubblico nel corso di manifestazioni.

PROCESSI INIQUI Vari tribunali egiziani hanno condannato centinaia di membri dei Fratelli musulmani e altri attivisti dell’opposizione a lunghi periodi di carcere o a morte al termine di processi gravemente iniqui, spesso sulla base di accuse inventate. Sono state inoltre emesse condanne a morte nei confronti di bambini in violazione delle norme internazionali e della legislazione egiziana. L’ex presidente Mohamed Morsi era imputato in quattro processi, anche per reati capitali. Altri alti funzionari dei Fratelli musulmani sono stati incarcerati e condannati a morte. I processi celebrati davanti a tribunali penali sono stati caratterizzati da numerose violazioni delle procedure dovute. Alcuni procedimenti sono proseguiti nonostante l’assenza degli imputati e dei loro avvocati. In altri, i giudici hanno impedito agli imputati o ai loro avvocati di presentare prove a sostegno della difesa o di controinterrogare i testimoni dell’accusa. In molti casi, i tribunali hanno emesso verdetti di colpevolezza malgrado la mancanza di prove sostanziali a loro carico. Molti processi sono stati celebrati all’interno dell’istituto della polizia di Tora, adiacente al complesso penitenziario locale, aspetto che ha impedito la presenza dei familiari degli imputati e di mezzi d’in- formazione indipendenti. Non è stato inoltre possibile per gli imputati comunicare con i loro avvocati durante le udienze del processo, in quanto erano confinati dietro uno schermo di vetro scuro. Sempre più spesso, la pubblica accusa non era interessata a determinare la responsabilità penale individuale degli imputati ma piuttosto a formulare i medesimi capi d’imputazione in maniera collettiva nei confronti di gruppi di accusati, basandosi principalmente sui rapporti e sulle testimonianze delle forze di polizia e di sicurezza. Questo modo di procedere ha pertanto messo in dubbio l’imparzialità e l’indipendenza delle indagini. A ottobre, il presidente al-Sisi ha decretato che i tribunali militari potevano processare civili per reati contro “strutture pubbliche vitali”. Si è temuto che la decisione significasse un ritorno agli iniqui processi di massa di civili celebrati davanti a tribunali militari, anche di manifestanti pacifici e studenti universitari.

DIRITTI DELLE DONNE Le donne sono rimaste soggette a discriminazioni nella legge e nella prassi e sono state vittime di elevati livelli di violenza di genere.

484 A giugno, il presidente uscente Adly Mansour ha approvato una legge per combattere le molestie ses- suali. Le aggressioni da parte di gruppi di uomini contro donne in piazza Tahir al Cairo durante la ce- rimonia d’insediamento del presidente al-Sisi hanno spinto la nuova amministrazione a promettere un intervento. Le autorità hanno annunciato misure per combattere la violenza contro le donne, mi- gliorando tra l’altro l’approccio della polizia e tramite campagne di sensibilizzazione pubblica; tuttavia, a fine anno, queste misure non si erano ancora concretizzate.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE Uomini sospettati di aver avuto rapporti sessuali consensuali con altri uomini, oltre che persone transgender, sono incorsi in arresti e procedimenti giudiziari basati su accuse in materia di prostituzione e reati contro la morale pubblica, ai sensi della legge sull’indecenza (Legge 10 del 1961). Le autorità hanno sottoposto alcune di queste persone a visite anali forzate, in violazione del divieto di tortura e altro maltrattamento. A novembre, le forze di sicurezza hanno arrestato oltre 30 uomini nel corso di un’irruzione in una sauna pubblica al Cairo e a dicembre è iniziato il processo contro 26 di loro per l’accusa di “inde- cenza”. In un caso separato, otto uomini sono stati condannati a tre anni di reclusione a novembre per aver partecipato a un presunto matrimonio omosessuale celebrato a bordo di un’imbarcazione sul Nilo. A dicembre, una corte d’appello ha ridotto la pena a un anno di carcere.

DISCRIMINAZIONE – MINORANZE RELIGIOSE Le autorità non hanno provveduto a contrastare la discriminazione contro le minoranze religiose, compresi i cristiano copti, i musulmani sciiti e i baha’i. Le comunità cristiano copte, in particolare, hanno denunciato nuove aggressioni di matrice settaria e hanno incontrato ostacoli nella costruzione e nel mantenimento dei loro luoghi di culto.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI Le forze di sicurezza hanno sgomberato con la forza migliaia di persone dalle loro abitazioni al Cairo e a Rafah, senza avvisarle in anticipo e senza fornire loro un alloggio alternativo o adeguato risarci- mento.5

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI Le autorità non hanno rispettato i diritti dei rifugiati, richiedenti asilo e migranti. Ad agosto, hanno rimandato 13 rifugiati palestinesi in Siria e 180 siriani in Siria, Libano e Turchia. Almeno sei palestinesi sono stati rimandati a Gaza a dicembre. Altri rifugiati provenienti dalla Siria sono incorsi in arresti arbitrari e detenzioni illegali. Le forze di sicurezza hanno arrestato rifugiati, richiedenti asilo e migranti che cercavano di entrare o lasciare irregolarmente l’Egitto, in alcuni casi facendo uso eccessivo della forza. Anche gruppi criminali attivi nel Sinai avrebbero tenuto prigionieri rifugiati, richiedenti asilo e migranti.

PENA DI MORTE Il ricorso estensivo alla pena di morte è stato senza precedenti. I tribunali hanno imposto condanne a morte, molte in contumacia, al termine di processi gravemente iniqui. La maggior parte delle persone

485 condannate erano state giudicate colpevoli di aver preso parte alle violenze occorse durante i disordini politici del 2013. Tra queste c’erano molti membri e sostenitori dei Fratelli musulmani. A giugno sono state effettuate le prime esecuzioni dal 2011. Ad aprile, un tribunale di El-Minya, nell’Alto Egitto, ha condannato a morte 37 imputati, compresi almeno due bambini, e altri 183 a giugno, al termine di procedimenti giudiziari gravemente iniqui, derivanti da alcuni attentati contro commissariati di polizia nel 2013.6 Il tribunale aveva raccomandato la pena di morte per oltre 1200 imputati ma aveva ribaltato le proprie decisioni dopo aver consultato il gran mufti, secondo un iter procedurale prescritto dalla legislazione egiziana, prima che un tribunale possa emettere formalmente la propria sentenza.

Note 1. Egypt: End wave of home demolitions, forced evictions in Sinai amid media blackout, www.amnesty.org/en/news/egypt-end- wave-home-demolitions-forced-evictions-sinai-amid-media-blackout-2014-11-27 2. Egypt: End military trial of journalists, www.amnesty.org/en/news/egypt-end-military-trial-journalists-2014-02-25 3. “The walls of the cell were smeared with blood” – third anniversary of Egypt’s uprising marred by police brutality, www.amnesty.org/en/news/walls-cell-were-smeared-blood-third-anniversary-egypt-s-uprising-marred-police-brutality-2014-0 4. Egypt: Rampant torture, arbitrary arrests and detentions signal catastrophic decline in human rights one year after ousting of Morsi (NWS 11/125/2014), www.amnesty.org/en/news/egypt-anniversary-morsi-ousting-2014-07-02 5. Egypt: Further information: Evicted families attacked by security forces (MDE 12/011/2014), www.amnesty.org/ en/library/info/MDE12/011/2014/en 6. Egypt sentences a further 183 people to death in new purge of political opposition (NWS 11/117/2014), www.amnesty.org/en/for- media/press-releases/egypt-sentences-further-183-people-death-new-purge-political-opposition-201

EMIRATI ARABI UNITI

EMIRATI ARABI UNITI

Capo di stato: sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan Capo di governo: sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum

Il governo ha imposto restrizioni ai diritti alla libertà d’espressione e associazione e ha perseguito pe- nalmente persone che lo avevano criticato, richiamandosi a disposizioni contenute nel codice penale e alla legge sui reati informatici del 2012. Prigionieri di coscienza sono rimasti in carcere al termine di processi iniqui, in cui i tribunali avevano considerato ammissibili prove verosimilmente ottenute tramite tortura e altre violazioni dei loro diritti. Le donne hanno subito discriminazioni nella legge e nella prassi. I migranti, specialmente le lavoratrici domestiche, non sono stati adeguatamente tutelati dalla legge e hanno subito sfruttamento e abusi. Il governo ha proclamato una parziale moratoria sulla pena capitale dopo aver effettuato un’esecuzione a gennaio.

486 CONTESTO Il consiglio nazionale federale ha approvato una proposta di legge sui diritti dell’infanzia. A fine anno rimaneva però in attesa dell’approvazione da parte del presidente. Ad aprile, un ministro di gabinetto ha annunciato che le autorità stavano elaborando una normativa per regolamentare le attività delle Ngo straniere. A fine anno non era stata resa pubblica alcuna bozza di legge.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ASSOCIAZIONE E RIUNIONE Le autorità hanno utilizzato le disposizioni contenute nel codice penale e nella legge sui reati informatici del 2012 per soffocare il dissenso e per perseguire e incarcerare persone che avevano cri- ticato il governo, accusandole d’“istigazione all’odio contro lo stato” e di “contatti con organizzazioni estere”, sulla base dei commenti che queste persone avevano postato sui social network. Tra coloro che sono stati imprigionati c’era Osama al-Najjar, perseguito per accuse legate all’utilizzo di Twitter per la campagna a favore del rilascio di suo padre, Hussain Ali al-Najjar al-Hammadi. Hussain Ali al-Najjar al-Hammadi e altre 60 persone legate ad al-Islah, l’Associazione per la riforma e la guida sociale, sono rimasti in carcere per scontare pene detentive fino a 10 anni. Erano stati giudicati colpevoli di reati in materia di sicurezza nazionale a luglio 2013, al termine di un procedi- mento giudiziario iniquo noto come processo ai “94 degli Eau”, celebrato dalla camera per la sicurezza di stato della Corte suprema federale (Federal Supreme Court – Fsc). La Corte non aveva provveduto a indagare sulle accuse secondo cui alcuni imputati erano stati torturati durante i mesi trascorsi in detenzione preprocessuale in incommunicado, al fine di ottenere “confessioni” che avevano poi costituito la base dell’impianto accusatorio del caso giudiziario istruito contro di loro e che la corte aveva ammesso come prova. Agli imputati è stato negato il diritto d’appello, in violazione degli standard internazionali di equità processuale. Tra questi c’erano i prigionieri di coscienza Mo- hammed al-Roken, noto avvocato per i diritti umani, l’ex giudice Ahmed al-Zaabi e i blogger Saleh Mohammed al-Dhufairi e Khalifa al-Nuaimi. Il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha dichiarato che i 61 imputati incarcerati erano vittime di arresto e detenzione arbitrari e ha sollecitato il governo a rilasciarli e ad accordare loro un’appropriata riparazione. A febbraio, dopo aver visitato gli Emirati Arabi Uniti (Eau), la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sull’indipendenza dei giudici e degli avvocati ha esortato il governo a condurre un’indagine indipendente in merito alle accuse di tortura dei detenuti e ad apportare alcune riforme, tra cui l’introduzione del diritto di appello nei casi giudiziari esaminati in primo grado di giudizio dalla Fsc.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le autorità non hanno provveduto a condurre indagini indipendenti in merito alle accuse di tortura e altri maltrattamenti, avanzate da imputati processati dalla camera per la sicurezza di stato della Fsc nel 2013 e 2014 e da parte di diversi cittadini britannici detenuti dalla polizia in quanto sospettati di reati di droga. Tra i metodi di tortura e altri maltrattamenti segnalati c’erano percosse, scosse elettriche, esposizione a temperature estreme e a luce forte costantemente accesa, privazione del sonno e minacce di stupro e di morte. A settembre, le autorità degli Eau hanno rimpatriato un cittadino etiope malgrado i timori che questi sarebbe stato torturato una volta in Etiopia.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA Le autorità hanno detenuto decine di persone, inclusi cittadini stranieri, sospettate di terrorismo,

487 trattenendole in località sconosciute senza accesso alle loro famiglie o un legale, spesso per lunghi periodi. A gennaio, la camera per la sicurezza di stato della Fsc ha comminato pene detentive fino a cinque anni nei confronti di 10 cittadini degli Eau e 20 egiziani, dopo averli giudicati colpevoli di aver segre- tamente fondato una “frangia internazionale” dei Fratelli musulmani negli Eau. I 10 cittadini degli Eau stavano già scontando lunghe pene detentive, imposte al termine del processo dei cosiddetti “94 degli Eau”, a luglio 2013. Il processo non ha rispettato gli standard internazionali di equità proces- suale. A marzo, la Fsc ha condannato tre uomini per accuse che includevano l’aver sostenuto “finanziariamente e moralmente” al-Islah, condannando due cittadini degli Eau ciascuno a cinque anni di carcere e un cittadino del Qatar a sette. Gli imputati avevano negato le accuse a loro carico ma sono stati condannati sulla base di “confessioni” che essi hanno affermato essere state loro estorte sotto tortura o altra coercizione da parte di funzionari della sicurezza. A giugno, la Fsc ha giudicato colpevoli sette cittadini stranieri di accuse legate al terrorismo, con- dannandoli a pene variabili da sette anni di carcere all’ergastolo. A settembre, la Corte ha avviato il processo a carico di 15 imputati accusati di coinvolgimento con gruppi armati impegnati nel conflitto siriano. A dicembre, 11 degli imputati sono stati condannati a pene dai tre anni di carcere all’ergastolo; gli altri sono stati assolti. Ad agosto è stata emanata una nuova legislazione antiterrorismo che prevedeva pene severe, compresa la pena di morte, per coloro che erano ritenuti colpevoli di terrorismo, la cui ampia definizione comprendeva ogni azione che determinasse un “esito terroristico”, come ad esempio di- chiarare pubblicamente in vario modo “inimicizia contro lo stato o il regime” o “mancanza di fedeltà alla sua leadership”. A novembre, il governo ha dichiarato al-Islah e oltre 80 altri gruppi organizzazioni “terroristiche”; tra questi c’erano molti gruppi armati attivi in altri paesi così come molte organizzazioni umanitarie mu- sulmane.

DIRITTI DELLE DONNE Le donne hanno subito discriminazioni nella legge e nella prassi. La Relatrice speciale delle Nazioni Unite sull’indipendenza dei giudici e degli avvocati ha registrato una “discriminazione di genere isti- tuzionalizzata all’interno dell’amministrazione della giustizia”. La Relatrice ha sottolineato che alle donne non è consentito assumere la carica di giudici della corte federale, in violazione della Cedaw, di cui gli Eau sono stato parte.

DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI Nonostante le disposizioni di tutela previste dalla legge sul lavoro del 1980 e dei successivi decreti, i lavoratori migranti stranieri hanno subito sfruttamento e abusi. Molti di loro, che generalmente avevano pagato una tariffa alle agenzie di reclutamento del personale, hanno denunciato di essere stati ingannati circa i termini e le condizioni d’impiego. I lavoratori edili spesso vivevano in alloggi precari e inadeguati e soltanto pochi avevano potuto tenere il loro passaporto. Pagamenti ritardati o salari non pagati erano prassi comune. Il sistema di lavoro tramite sponsor (kafala) rendeva i lavoratori vulnerabili agli abusi da parte dei loro datori di lavoro, mentre coloro che erano impegnati in azioni collettive come scioperi o sit-in erano passibili d’arresto ed espulsione.

488 I lavoratori domestici, per lo più donne di provenienza asiatica, hanno continuato a essere esclusi dalle garanzie previste per gli altri lavoratori migranti e sono incorsi in violenza fisica, confinamento nei luoghi di lavoro e altri abusi. Le autorità stavano discutendo una proposta di legge sui lavoratori domestici fin dal 2012 ma non è stata approvata durante l’anno.

PENA DI MORTE I tribunali hanno continuato a comminare condanne a morte, principalmente per omicidio. A gennaio, le autorità nell’emirato di Sharjah hanno messo a morte un cittadino dello Sri Lanka tramite fucilazione. Il mese successivo, il presidente ha dichiarato una sospensione di tutte le esecuzioni pendenti per omicidio, per permettere alle autorità di contattare i familiari delle vittime e di accertare se questi erano disposti ad accettare una somma (blood money) come risarcimento per la morte dei loro congiunti. A maggio, fonti stampa indicavano che un tribunale di Abu Dhabi aveva condannato a morte tramite lapidazione una donna per adulterio.

GIORDANIA

REGNO ASCEMITA DI GIORDANIA

Capo di stato: re Abdullah II bin al-Hussein Capo di governo: Abdullah Ensour

Le autorità hanno mantenuto uno stretto controllo sui diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione. Persone che avevano criticato il governo sono incorse in arresti e detenzioni; alcune sono state perseguite penalmente e incarcerate. Il governo ha emendato la legge antiterrorismo del 2006, al fine di includere gli atti ritenuti dannosi per le relazioni estere della Giordania e la diffusione di idee considerate di sostegno al terrorismo. La corte per la sicurezza di stato (State Security Court – Ssc) ha continuato a processare persone per accuse formulate in base alla legislazione antiterrorismo; alcune di queste hanno denunciato di essere state torturate o altrimenti maltrattate. La Giordania ha continuato a ricevere e accogliere migliaia di profughi provenienti dalla Siria e, sempre più spesso, dall’Iraq ma ha vietato l’ingresso nel paese ai palestinesi in fuga dalla Siria. Le donne hanno subito discriminazioni nella legge e nella prassi; almeno 14 persone sono state vittime di cosiddetti “delitti d’onore”. A dicembre, 11 persone sono state messe a morte, nella prima esecuzione avvenuta dal 2006.

CONTESTO La Giordania ha risentito dell’impatto provocato dagli eventi oltreconfine, specialmente i conflitti armati in corso in Siria e Iraq e l’offensiva militare d’Israele su Gaza. Il conflitto siriano ha generato ulteriori flussi di profughi verso la Giordania. Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, la Giordania ha accolto più di 600.000 profughi provenienti dalla Siria e 30.000 profughi in fuga dall’Iraq. Le manifestazioni tenutesi a marzo per l’uccisione di un giudice giordano da parte

489 delle forze israeliane al valico del ponte di Allenby, tra Giordania e Cisgiordania, sono state seguite a luglio e agosto da proteste di massa contro la campagna di bombardamenti d’Israele su Gaza. Le tensioni lungo la frontiera con la Siria hanno spinto il governo a rafforzare i controlli nella zona e al confine con l’Iraq. Ad aprile, il governo ha affermato che aerei da combattimento giordani avevano aperto il fuoco contro membri di gruppi armati siriani che cercavano di varcare il confine con la Gior- dania. A giugno, gli Usa hanno acconsentito all’invio di missili e aerei militari in Giordania e, a set- tembre, quest’ultima è entrata a far parte dell’alleanza internazionale guidata dagli Stati Uniti contro il gruppo armato Stato islamico (Islamic State – Is). Il governo ha compiuto scarsi progressi nella realizzazione delle riforme politiche annunciate ma, d’altro canto, un emendamento costituzionale ha introdotto il principio secondo cui il re è la sola autorità cui spetta la nomina dei vertici delle forze armate e del dipartimento d’intelligence generale (General Intelligence Department – Gid).

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ASSOCIAZIONE E RIUNIONE Il governo ha mantenuto rigidi controlli sulla libertà d’espressione, richiamandosi a disposizioni che criminalizzano la diffamazione della monarchia e altre istituzioni e la religione, alla legge sulla stampa e le pubblicazioni e alla legge sui reati informatici del 2010, che attribuiva alle autorità ampi poteri di censura sulla stampa, le televisioni e i mezzi d’informazione online. Le autorità hanno oscurato alcuni notiziari online. All’inizio dell’anno, la giurisdizione della Ssc è stata limitata a cinque reati: tradimento, spionaggio, terrorismo, reati di droga e contraffazione di denaro. Tuttavia, gli emendamenti alla legge antiterrorismo entrati in vigore a maggio hanno introdotto nuove restrizioni alla libertà d’espressione, equiparando a terrorismo gli atti ritenuti dannosi alle relazioni estere della Giordania, comprese le critiche nei confronti di leader di altri paesi e la diffusione di determinate idee. Le autorità hanno continuato a detenere e perseguire penalmente attivisti politici dell’opposizione, voci critiche online e giornalisti e membri del partito Hizb ut-Tahrir messo al bando, almeno 18 dei quali sono finiti sotto processo davanti alla Ssc, malgrado i suoi scarsi risultati nel rispettare gli standard internazionali di equità processuale. A marzo, Nayef Lafi e Ibrahim al-Kharabsheh sono stati arrestati poiché stavano facendo pressione sul parlamento affinché respingesse gli emendamenti alla legge antiterrorismo. Rischiavano fino a sette anni di carcere per accuse di “atti illegali” che mi- nacciavano il governo e appartenenza a un’organizzazione al bando. Wassim Abu Ayesh è stato pro- cessato dalla Ssc per accuse di terrorismo, incriminato per aver postato su Facebook un video del gruppo Is, che di fatto sosteneva essere un filmato sugli abusi inflitti ai detenuti in Iraq. Ha affermato di essere stato costretto, durante gli interrogatori, a firmare una dichiarazione senza averla potuta preventivamente leggere. A luglio, le forze di sicurezza hanno attaccato e aggredito i giornalisti presenti a una protesta contro Israele ad Amman. Ad agosto, hanno arrestato, su disposizione della procura di Amman, Abdulhadi Raji Majali, un giornalista del quotidiano Al Ra’i, per un post online considerato reato dalle autorità. È stato rilasciato su cauzione una settimana dopo in attesa del processo. Sempre a luglio, la Ssc ha comminato condanne a tre mesi di reclusione nei confronti di tre attivisti per le riforme, Mahdi al-Saafin, Ayham Mohamed Alseem e Fadi Masamra, per accuse di “danneggia- mento” allo stato e “insulti” al re. Mohamed Said Bakr e Adel Awad, esponenti di spicco dei Fratelli musulmani, sono stati processati

490 davanti alla Ssc in seguito al loro arresto a settembre, con l’accusa di aver minacciato la sicurezza dello stato per dichiarazioni pubbliche che criticavano i leader della Giordania e i loro legami con gli Usa. A dicembre, la causa contro Adel Awad è stata annullata per mancanza di prove.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti hanno continuato a essere motivo di notevole preoccupazione. Tra coloro che hanno affermato di aver subito abusi c’erano detenuti arrestati perché sospettati di ap- poggiare o di combattere per conto di gruppi armati, come Jabhat al-Nusra, in Siria. A giugno, la Ssc ha prosciolto Abu Qatada da accuse di terrorismo. Le autorità britanniche lo avevano estradato in Giordania nel 2013, a quanto pare dopo aver negoziato assicurazioni diplomatiche per garantire che le “confessioni” ottenute da terze parti tramite tortura non sarebbero state ammesse agli atti in un nuovo procedimento penale. Nel raggiungere il proprio verdetto, la Ssc non ha ignorato la “confessione”, considerandola a tutti gli effetti fatto certo (res iudicata), seppur concludendo che questa non era stata suffragata da altre prove. A settembre, la Ssc ha prosciolto Abu Qatada da altri capi d’imputazione separati e ne ha disposto il rilascio.

DETENZIONE AMMINISTRATIVA Le autorità provinciali hanno trattenuto centinaia, verosimilmente migliaia, di sospetti criminali in detenzione amministrativa senza accusa né processo, in base alla legge sulla prevenzione del crimine, in vigore dal 1954. La legge conferisce ai governatori delle province il potere di autorizzare l’arresto e la detenzione a tempo indeterminato di persone ritenute un “pericolo per la società” e non permette ai detenuti alcuna possibilità di ricorso o rimedio giudiziario.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI La Giordania ha accolto oltre 600.000 rifugiati provenienti dalla Siria, circa un terzo dei quali sono stati sistemati in sei campi, il più ampio ospitava una popolazione di oltre 100.000 persone. La mag- gioranza dei rifugiati abitava in piccole località e nelle città della Giordania. Mentre in linea di principio le autorità hanno mantenuto un atteggiamento di apertura delle frontiere per i profughi pro- venienti dalla Siria, in alcune occasioni hanno chiuso la frontiera ai rifugiati siriani e hanno precluso l’ingresso in Giordania ai palestinesi e agli iracheni in fuga dal conflitto siriano. La presenza di così tanti rifugiati ha avuto enormi ripercussioni economiche e ha gravato ulteriormente sulle risorse della Giordania, in termini di disponibilità d’acqua, istruzione e assistenza sanitaria. Il grado d’insi- curezza è inoltre aumentato a causa del potenziale sconfinamento del conflitto in Giordania.

DIRITTI DELLE DONNE Le donne hanno continuato a subire discriminazioni nella legge e nella prassi e non sono state ade- guatamente protette dalla violenza sessuale e di altra natura, compresi i cosiddetti “delitti d’onore”. Decine di migliaia di donne sposate con cittadini stranieri hanno continuato a veder loro negato il diritto di trasmettere la loro nazionalità al coniuge e ai figli. A novembre, il governo ha concesso un più ampio accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria ma non è riuscito a porre fine alla discri- minazione. Secondo le notizie ricevute, il ministero della Giustizia stava inoltre considerando di apportare modifiche al codice penale per proteggere le donne dalle molestie sessuali. Almeno 12 donne, oltre che due minori, una ragazza e un ragazzo, sono state vittime di cosiddetti

491 “delitti d’onore”. In almeno due casi i tribunali hanno commutato immediatamente le condanne a morte inflitte ai perpetratori di questi crimini a 10 anni di carcere su decisione dei tribunali, a quanto pare sulla base di una disposizione che consente ai tribunali di commutare o ridurre le sentenze in presenza di una richiesta di clemenza da parte della famiglia della vittima. A luglio, l’Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia, ha riferito un aumento dei matrimoni precoci tra i rifugiati siriani, sottolineando i rischi associati a questo fenomeno per le ragazze. Secondo la legislazione giordana, l’età minima per contrarre matrimonio per una donna era 18 anni, a meno di ottenere una dispensa particolare da parte di un giudice per sposarsi a un’età inferiore. L’Ngo giordana Sisterhood is Global (Sorellanza globale) ha evidenziato che il 13,2 per cento dei ma- trimoni registrati nel 2013 aveva avuto luogo prima del 18° compleanno della sposa.

PENA DI MORTE Il 21 dicembre, 11 uomini sono stati messi a morte, nelle prime esecuzioni avvenute in Giordania dal 2006. Queste facevano seguito all’istituzione a novembre di una commissione speciale di governo per valutare la ripresa delle esecuzioni.

IRAN REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN

Capo di stato: ayatollah Sayed ‘Ali Khamenei (leader della Repubblica islamica dell’Iran) Capo di governo: Hassan Rouhani (presidente)

Le autorità hanno imposto restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione, attuando arresti e detenzioni e istruendo procedimenti giudiziari iniqui nei confronti di attivisti dei diritti delle minoranze e delle donne, giornalisti, difensori dei diritti umani e altri che avevano espresso il loro dissenso. Tortura e altri maltrattamenti sono rimasti prassi comune e sono stati commessi nell’impunità. Le donne e le minoranze religiose hanno subito diffuse discriminazioni nella legge e nella prassi. È stata segnalata l’applicazione di condanne a fustigazioni e amputazioni, in alcuni casi eseguite in pubblico. Le esecuzioni sono proseguite in numero elevato; sono stati messi a morte anche minori al momento del reato. I giudici hanno continuato a imporre condanne a morte tramite lapidazione, anche se non ci sono state notizie della loro applicazione.

CONTESTO L’elezione di Hassan Rouhani quale presidente, a giugno 2013, aveva fatto sperare che la sua ammi- nistrazione avrebbe introdotto le più urgenti e necessarie riforme in materia di diritti umani ma a fine 2014 i progressi ottenuti erano scarsi. I tentativi dell’amministrazione di allentare il controllo esercitato dalle autorità sulla libertà d’insegnamento accademico, ad esempio, hanno provocato la reazione dell’ala conservatrice del parlamento. Sono proseguiti i negoziati tra Iran e Usa e altri stati, in un contesto di continue tensioni, per il pro-

492 gramma di sviluppo nucleare iraniano e per l’impatto delle sanzioni economiche e di altro tipo a livello internazionale sull’Iran. A novembre 2013, un accordo provvisorio ha portato a un limitato al- leggerimento delle sanzioni in cambio di concessioni sul programma di arricchimento dell’uranio. Una carta dei diritti dei cittadini proposta dalla presidenza nel 2013 e aperta alle consultazioni è rimasta in bozza. Il documento non conteneva un’adeguata tutela dei diritti umani, in particolare di alcuni diritti fondamentali come il diritto alla vita, alla non discriminazione e alla protezione dalla tortura. A marzo, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha rinnovato il mandato del Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Iran ma le autorità iraniane hanno continuato a bloccare le visite nel paese del Relatore e di altri esperti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. A ottobre, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha analizzato la situazione dei diritti umani dell’Iran secondo l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite. Il Consiglio ha rilevato la spaventosa situazione dei diritti umani in Iran e l’incapacità delle autorità iraniane di dare attuazione alle raccomandazioni che erano state accettate in seguito all’Esame periodico universale delle Nazioni Unite del 2010. L’Iran non ha voluto rivelare la propria posizione in merito alla totalità delle racco- mandazioni formulate fino alla prossima sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, prevista per marzo 2015.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ASSOCIAZIONE E RIUNIONE Le autorità hanno continuato a limitare la libertà d’espressione e le attività dei mezzi d’informazione, disturbando con interferenze le trasmissioni di emittenti satellitari estere e chiudendo testate gior- nalistiche. Hanno inoltre continuato a imporre l’obbligo per le donne di rispettare i codici d’abbiglia- mento e a perseguire i trasgressori secondo il codice penale islamico. Gli esponenti d’opposizione Mir Hossein Mousavi, Mehdi Karoubi e Zahra Rahnavard sono rimasti agli arresti domiciliari senza accusa né processo, malgrado il deterioramento delle loro condizioni di salute.1 Decine di prigionieri di coscienza stavano scontando pene carcerarie per aver esercitato pacificamente i loro diritti umani. Tra i prigionieri c’erano persone critiche verso il governo, giornalisti, avvocati, sindacalisti, attivisti studenteschi e attivisti dei diritti delle minoranze e delle donne. Le autorità hanno continuato a prendere di mira giornalisti, che sono incorsi in arresti, detenzioni, carcerazioni e fustigazioni a causa di articoli critici nei confronti delle autorità.2 Ad agosto, due fotografi che avevano espresso critiche in un libro fotografico pubblicato da un funzionario pubblico nella città di Qazvin, nel nordovest dell’Iran, sono stati condannati alla fustigazione. Anche attivisti online sono stati al centro di azioni penali. A maggio, un tribunale rivoluzionario di Te- heran ha giudicato otto persone colpevoli di accuse come “aver insultato i valori sacri della religione” e “aver insultato le autorità”, per alcuni post pubblicati su Facebook e li ha condannati a pene detentive dai sette ai 20 anni. Nonostante il leader supremo, il presidente Rouhani e altri alti funzionari dello stato utilizzassero abitualmente social network come Facebook, Twitter e Instagram per comunicare, le autorità iraniane hanno continuato a filtrare i contenuti di questi siti. A settembre, un alto esponente della magistratura ha dato istruzione al ministro delle Comunicazioni e delle tecnologie informatiche di adottare entro un mese misure per “bloccare e controllare efficacemente il contenuto” dei social network, dopo che erano circolate alcune storielle ritenute offensive nei confronti dell’ex leader supremo, l’ayatollah Khomeini. Le autorità hanno affermato di aver arrestato 11 persone in relazione all’episodio.

493 A ottobre, le autorità delle città di Teheran ed Esfahan hanno arrestato manifestanti che chiedevano di porre fine alla violenza sulle donne, in seguito a una serie di attacchi con l’acido contro donne nella città di Esfahan. Uno degli arrestati a fine anno era ancora in carcere. Almeno quattro giornalisti sono stati arrestati in relazione alla loro copertura degli attacchi con l’acido.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti, in particolare durante la detenzione preprocessuale, sono rimasti prassi comune e sono stati facilitati dall’abituale diniego di accesso a un avvocato e dall’impunità di cui di fatto hanno goduto i perpetratori. Tra i metodi segnalati c’erano l’isolamento per lunghi periodi, la reclusione in spazi ridotti e scomodi, dure percosse e minacce contro i familiari dei detenuti. Le au- torità generalmente non hanno indagato le accuse di tortura né perseguito e punito i responsabili. Le autorità hanno sistematicamente negato a detenuti e prigionieri l’accesso ad adeguate cure mediche, anche in caso di lesioni provocate da tortura o di problemi di salute peggiorati in seguito alle dure condizioni nelle carceri. Una versione rivista del codice di procedura penale, approvata ad aprile, non ha affrontato l’inade- guatezza delle norme legislative nazionali nel garantire ai detenuti un’efficace protezione da tortura e altri maltrattamenti. Il documento negava ai detenuti l’accesso agli avvocati, anche per una settimana dopo l’arresto nei casi giudiziari riguardanti la sicurezza nazionale e altri reati, e non dava una chiara ed esauriente definizione di tortura in linea con il diritto internazionale. Le agenzie di sicurezza interna e d’intelligence hanno gestito proprie strutture di detenzione al di fuori del controllo dell’organizzazione penitenziaria statale, in violazione della legislazione nazionale. In queste strutture, tortura e altri maltrattamenti erano prassi comune. In alcuni casi, le autorità hanno sottoposto prigionieri del braccio della morte a sparizione forzata, spostandoli in queste strutture prima dell’esecuzione. È proseguita l’imposizione di sentenze alla fustigazione e all’amputazione per una vasta gamma di reati, come consumare alcolici, mangiare in pubblico durante il Ramadan e rubare. Sempre più spesso condanne di questo tipo sono state applicate in pubblico. Ad aprile, funzionari della sicurezza hanno aggredito prigionieri della sezione 350 del carcere di Evin, a Teheran, durante una perquisizione delle celle, picchiando e ferendo molti dei reclusi. Secondo le notizie riportate, le autorità non hanno provveduto a indagare l’episodio né a perseguire e punire i re- sponsabili.3 Ad agosto, le autorità avrebbero fatto uso eccessivo della forza contro i reclusi del carcere di Ghezal Hesar, nella città di Karaj, quando questi stavano protestando contro il trasferimento in regime di isolamento di 14 prigionieri del braccio della morte, prima della loro esecuzione.

PROCESSI INIQUI La magistratura ha continuato a non essere indipendente ed è rimasta soggetta alle interferenze esercitate dalle autorità della sicurezza. I processi, in particolare quelli celebrati davanti ai tribunali rivoluzionari, sono stati palesemente iniqui. Il nuovo codice di procedura penale ha migliorato l’accesso dei detenuti all’assistenza legale ma non ha garantito l’accesso a un avvocato sin dal momento dell’arresto, necessario per salvaguardare i detenuti dalla tortura. Il codice consentiva ai pubblici ministeri d’impedire agli avvocati di accedere ad alcuni, o anche tutti, gli incartamenti riguardanti i fascicoli giudiziari a carico dei loro assistiti, se ritenevano che il divulgarli avrebbe potuto ostacolare “la scoperta della verità” e nei casi giudiziari

494 inerenti la sicurezza nazionale o esterna, ostacolando il diritto degli avvocati a preparare adeguatamente una difesa. Ad agosto, la commissione parlamentare per gli affari giudiziari e legali ha presentato una proposta di legge per un rinvio dell’entrata in vigore del codice di procedura penale, originariamente prevista per ottobre, a causa dell’“esistenza di gravi problemi e ostacoli alla [sua] applicazione”. Inoltre, il progetto di legge, facendo un passo indietro, proponeva emendamenti a 19 articoli che in larga parte miravano a revocare i miglioramenti introdotti dal nuovo codice, anche in riferimento al- l’accesso agli avvocati. I tribunali hanno continuato a condannare imputati in assenza di un loro difensore legale o sulla base di “confessioni” o di altri elementi di prova ottenuti sotto tortura o altro maltrattamento. In alcuni casi, le autorità hanno trasmesso “confessioni” dei detenuti alla televisione prima del processo, in violazione della presunzione d’innocenza. A settembre, il consiglio di gabinetto ha approvato un progetto di legge sull’avvocatura, su proposta della magistratura, e lo ha rinviato all’approvazione del parlamento. La proposta di legge discriminava i non musulmani, ritenendoli non qualificati a entrare nel consiglio direttivo dell’ordine iraniano degli avvocati e comprometteva l’indipendenza dell’ordine.

DISCRIMINAZIONE – MINORANZE ETNICHE E RELIGIOSE La nomina da parte del presidente Rouhani di un consigliere speciale sulle minoranze etniche e religiose non ha portato a una riduzione della pervasiva discriminazione contro le comunità di minoranza etnica iraniane, come arabi ahwazi, azeri, baluci, curdi e turkmeni, o contro le minoranze religiose, come i seguaci del culto Ahl-e Haq, i baha’i, le persone convertite dall’Islam al Cristianesimo, i sufi e i musulmani sunniti. La discriminazione subita dalle minoranze etniche ha avuto conseguenze nell’accesso a servizi essenziali come alloggio, acqua e servizi igienico-sanitari, lavoro e istruzione. Non era permesso l’impiego di lingue minoritarie nell’insegnamento scolastico, così come non era possibile apprenderle secondo regolari corsi di studio. Membri di gruppi di minoranza etnica hanno anche affrontato un alto rischio d’incorrere in procedimenti giudiziari per accuse dalla formulazione vaga come “inimicizia contro Dio” e “corruzione sulla terra”, che potevano comportare la pena di morte. Le autorità hanno messo a morte in segreto almeno otto arabi ahwazi dopo averli ritenuti colpevoli di accuse come “inimicizia contro Dio”, al termine di processi gravemente iniqui, e si sono rifiutate di consegnare i corpi alle famiglie. A ottobre, le autorità trattenevano nel braccio della morte almeno 33 uomini sunniti, in maggioranza membri della minoranza curda, per accuse di “raduno e cospirazione contro la sicurezza nazionale”, “diffondere propaganda contro il sistema”, “far parte di gruppi salafiti”, “corruzione in terra” e “inimicizia contro Dio”. Le persone convertite dalla corrente musulmana sciita a quella sunnita hanno subito maggiori persecuzioni.4 A dicembre, le autorità hanno usato minacce di esecuzione immediata e altre misure punitive contro 24 prigionieri curdi che conducevano uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni nel reparto 12 del carcere centrale di Oroumieh, nella provincia dell’Azerbaigian Occidentale, dove erano detenuti assieme ad altri prigionieri politici.5 Le autorità hanno sottoposto i baha’i a ulteriori persecuzioni chiudendo le loro attività produttive e distruggendo i loro cimiteri. Decine di baha’i si trovavano in carcere. A settembre, le autorità hanno arrestato oltre 800 dervisci gonabadi durante una protesta pacifica organizzata a Teheran, in solidarietà con nove prigionieri dervisci gonabadi che avevano iniziato uno

495 sciopero della fame. Questi chiedevano alle autorità di rispettare i diritti civili dei dervisci gonabadi e di trattarli come gli altri membri della società.6 Religiosi sciiti dissidenti e altri che avevano espresso opinioni divergenti rispetto all’interpretazione ufficiale dell’Islam sciita, così come gli atei, sono rimasti a rischio di persecuzione, anche con arresti, carcerazioni e possibili esecuzioni.

DIRITTI DELLE DONNE Le donne sono rimaste soggette a diffuse e sistematiche discriminazioni nella legge e nella prassi. Sono rimaste in vigore le disposizioni di legge in materia di status personale, che ponevano le donne in una posizione subalterna rispetto agli uomini in questioni come matrimonio, divorzio, custodia dei figli ed eredità. Due progetti di legge in tema demografico all’esame del parlamento minacciavano di ridurre l’accesso delle donne ai servizi di salute sessuale e riproduttiva, colpendo pertanto i loro diritti alla vita, alla riservatezza, all’uguaglianza di genere e alla libertà di decidere il numero e la frequenza dei loro figli. Una proposta mirava a vietare le procedure chirurgiche che impedivano in modo permanente la gra- vidanza, imponendo provvedimenti disciplinari contro il personale medico sanitario che le avesse praticate. L’altro documento si proponeva di far diminuire i divorzi e di sottrarre le cause familiari al giudizio dei tribunali, facendo così prevalere la salvaguardia della famiglia sulla lotta alla violenza domestica. A fine anno nessuna delle due proposte legislative era stata convertita in legge. Non ci sono stati progressi anche riguardo a un altro progetto di legge finalizzato a garantire la protezione delle donne dalla violenza e le autorità non hanno intrapreso iniziative per affrontare il tema della violenza contro donne e ragazze, compresi i matrimoni precoci e forzati, lo stupro maritale e la violenza domestica. Le donne sono inoltre state soggette a restrizioni nell’ambito dell’impiego. Statistiche ufficiali pubblicate a settembre mostravano una diminuzione dell’occupazione femminile pari a 100.000 posti di lavoro all’anno, negli ultimi otto anni. Ad agosto, il capo dei pubblici uffici della polizia ha affermato che nessuna donna doveva lavorare in caffetterie o nei ristoranti iraniani tradizionali se non in cucina, fuori dalla vista del pubblico. A luglio, il municipio di Teheran avrebbe proibito l’assunzione di donne come segretarie o in altri impieghi amministrativi. Le autorità si sono impegnate sempre più per la creazione di luoghi di lavoro che prevedevano una segregazione di genere. A fine anno, le autorità hanno inoltre vietato alle donne musiciste di apparire su un palco in 13 delle 31 province iraniane. A giugno, le autorità della sicurezza hanno arrestato donne che avevano parte- cipato a una protesta pacifica davanti allo stadio Azadi, un complesso sportivo di Teheran, per chiedere pari opportunità di accesso per le donne negli stadi.7

DIRITTO ALLA RISERVATEZZA Ogni relazione sessuale tra persone non sposate è rimasta un reato. Le autorità hanno continuato a perseguire penalmente individui a causa del loro reale o percepito orientamento sessuale o per la loro identità di genere. Il codice penale islamico rivisto ha mantenuto le disposizioni che criminalizzavano i rapporti sessuali omosessuali tra adulti consenzienti. Il codice puniva questo tipo di rapporti con pene variabili dalle 100 frustate alla pena di morte. Le autorità iraniane hanno bloccato e messo al bando la pubblicazione di ogni materiale che trattava di omosessualità o di sesso praticato al di fuori dei matrimoni eterosessuali, richiamandosi a dispo-

496 sizioni contenute nella legge sui reati informatici che riguardavano “reati contro la castità” e “per- versione sessuale”. Le persone che non si adeguavano alle regole stereotipate di femminilità e mascolinità hanno continuato a incorrere in discriminazioni e violenza. Alle persone transgender non è stata riconosciuta l’indicazione del genere sessuale nei documenti ed è stato loro negato il diritto all’istruzione e all’im- piego, a meno che non si sottoponessero a interventi chirurgici di riassegnazione del genere. A febbraio, una federazione calcistica ufficiale ha vietato a sette calciatrici di entrare in campo a causa della loro “ambiguità di genere”.

DIRITTO ALL’ISTRUZIONE Le autorità hanno continuato a imporre restrizioni al diritto all’istruzione, continuando a escludere dalle università iraniane centinaia di studenti che avevano pacificamente esercitato il loro diritto alla libertà d’espressione e altri diritti umani, e hanno sistematicamente negato l’accesso all’istruzione superiore ai baha’i. Decine di altri studenti e docenti universitari, compresi alcuni legati all’istituto su- periore baha’i, soppresso dal governo nel 2011, sono rimasti in carcere. Gli sforzi del ministero della Scienza, ricerca e tecnologia di consentire ad alcuni studenti e personale accademico di tornare nelle università non si sono tradotti in misure concrete per porre fine all’esclusione arbitraria degli studenti dall’istruzione superiore.8 Questi tentativi sono stati osteggiati dall’ala conservatrice del parlamento. Il sistema delle “quote di genere”, impiegato dalle autorità per invertire la tendenza verso una più ampia partecipazione delle donne negli istituti d’istruzione superiore, è rimasto in vigore, facendo tuttavia registrare una certa flessione nell’anno accademico 2013-2014. Sono proseguite le politiche ufficiali per cercare di relegare le donne a casa nei ruoli “tradizionali” di mogli e madri.

PENA DI MORTE L’Iran ha mantenuto la pena capitale per un’ampia gamma di reati, compresi reati dalla formulazione vaga come “inimicizia verso Dio”, e durante l’anno il numero di esecuzioni è rimasto alto; in alcuni casi sono avvenute in pubblico. Ai sensi del codice penale islamico rivisto, i tribunali hanno continuato a comminare condanne a morte per reati che rientravano nella categoria dei “reati più gravi”, prevista dal diritto internazionale, e per altri atti, come “insulti al profeta dell’Islam”, che non dovrebbero essere considerati reati.9 In molti casi i tribunali hanno comminato condanne a morte al termine di procedimenti giudiziari che non hanno rispettato gli standard internazionali di equità processuale, accettando tra l’altro come prove “confessioni” estorte sotto tortura o altro maltrattamento. Spesso ai detenuti è stato negato l’accesso agli avvocati duranti le fasi investigative preprocessuali.10 Decine di condannati minorenni al momento del reato, tra i quali alcuni la cui sentenza era stata pro- nunciata negli anni precedenti per reati commessi a un’età inferiore ai 18 anni, sono rimasti nel braccio della morte, mentre di altri è stata eseguita la sentenza. I tribunali hanno emesso nuove con- danne a morte nei confronti di minori al momento del reato.11 Il codice penale islamico riveduto con- sentiva l’esecuzione di minori al momento del reato per qesas (retribuzione in natura) e hodoud (reati che comportano pene predeterminate previste dalla legge islamica), a meno che non fosse provato che il minore non era consapevole della natura del crimine e delle sue conseguenze o in caso di dubbi sulla sua capacità d’intendere e volere. Il diritto internazionale proibisce la pena di morte per i minori di 18 anni.

497 Il codice penale islamico rivisto ha inoltre mantenuto la pena capitale tramite lapidazione per il reato di “adulterio durante il matrimonio”. È stata segnalata l’imposizione di almeno una condanna alla lapidazione a Ghaemshahr, nella provincia di Mazandaran; non è stata segnalata alcuna applicazione di sentenze di questo tipo.

Note 1. Iran: Release opposition leaders under house arrest three years on (MDE 13/009/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/MDE13/009/2014/en 2. Jailed for being a journalist (MDE 13/044/2014), www.amnesty.org/en/library/info/MDE13/044/2014/en Iran: Iranian-American detained for journalism (MDE 13/065/2014), www.amnesty.org/en/library/info/MDE13/065/2014/en 3. Justice is an alien word: Ill-treatment of political prisoners in Evin Prison (MDE 13/023/2014), www.amnesty.org/en/library/ info/MDE13/023/2014/en 4. Iran: No progress on human rights: Amnesty International Submission to the UN Universal Periodic Review, October- November 2014 (MDE 13/034/2014), www.amnesty.org/en/library/info/MDE13/034/2014/en 5. Iran: Alleged juvenile offender among 10 hunger strikers threatened with immediate execution, www.amnesty.org/en/ news/iran-alleged-juvenile-offender-among-10-hunger-strikers-threatened-immediate-execution-2014-12- 6. Iran: Hunger striking Dervishes critically ill (MDE 13/051/2014), www.amnesty.org/en/library/info/MDE13/051/2014/en 7. Iran: Jailed for women’s right to watch sports (MDE 13/048/2014), www.amnesty.org/en/library/info/MDE13/048/2014/en 8. Silenced, expelled, imprisoned: Repression of students and academics in Iran (/015/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ MDE13/015/2014/en 9. Iran: Facing death for “insulting the Prophet”: Rouhollah Tavana (MDE 13/012/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ MDE13/012/2014/en Iran: Death sentence for “insulting the Prophet”: Soheil Arabi (MDE 13/064/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ MDE13/064/2014/en 10. Execution of young woman a bloody stain on Iran’s human rights record, www.amnesty.org/en/for-media/press- releases/execution-young-woman-bloody-stain-iran-s-human-rights-record-2014-10-25 11. Iran: Juvenile offender at risk of execution in Iran: Rasoul Holoumi (MDE 13/040/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ MDE13/040/2014/en; Iran: Juvenile offender nearing execution (MDE 13/0037/2014), www.amnesty.org/en/library/info/MDE13/037/2014/en; Iran: Kurdish juvenile offender facing execution: Saman Naseem (MDE 13/049/2014), www.amnesty.org/en/library/info/ MDE13/049/2014/en

IRAQ

REPUBBLICA DELL’IRAQ

Capo di stato: Fuad Masum (subentrato a Jalal Talabani a luglio) Capo di governo: Haider al-Abadi (subentrato a Nuri al-Maliki a settembre)

La situazione dei diritti umani è significativamente peggiorata con l’intensificarsi del conflitto armato tra le forze di sicurezza governative e i combattenti del gruppo armato Stato islamico (Islamic State – Is, conosciuto in precedenza come Isis) che hanno preso il controllo di vaste parti dell’Iraq centrale

498 e settentrionale. I combattenti dell’Is hanno commesso diffusi crimini di guerra, comprese azioni di pulizia etnica nei confronti delle minoranze religiose ed etniche, attraverso una campagna di uccisioni di massa di uomini e di rapimenti, abusi sessuali e di altro tipo contro donne e ragazze. Le forze go- vernative hanno condotto bombardamenti e attacchi d’artiglieria indiscriminati nelle aree sotto il controllo dell’Is e le milizie sciite sostenute dal governo hanno compiuto rapimenti ed esecuzioni di decine di uomini sunniti nelle aree sotto il controllo del governo. Tra gennaio e ottobre, il conflitto ha causato la morte di circa 10.000 civili e lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone, deter- minando una crisi umanitaria. Questa si è ulteriormente aggravata in seguito al flusso continuo di migliaia di rifugiati in fuga dalla Siria, diretti per lo più verso la regione semiautonoma irachena del Kurdistan. Il governo ha continuato a trattenere senza accusa né processo migliaia di detenuti, molti dei quali in segreto, senza accesso al mondo esterno. Tortura e altri maltrattamenti in detenzione sono rimasti una prassi dilagante e molti processi sono stati iniqui. I tribunali hanno comminato molte condanne a morte, soprattutto per accuse di terrorismo; oltre 1000 prigionieri erano nel braccio della morte e le esecuzioni sono proseguite a un ritmo elevato.

CONTESTO A gennaio, il conflitto armato tra le forze di sicurezza governative e il gruppo armato Stato islamico in Iraq e al-Sham (Islamic State in Iraq and al-Sham – Isis) si è intensificato, un mese dopo che le autorità avevano disperso con la forza un accampamento di protesta, allestito da un anno da membri della comunità sunnita a Ramadi, nella provincia di Anbar. Le forze governative hanno lanciato attacchi indiscriminati d’artiglieria pesante per riconquistare il controllo di Fallujah e di altre zone di Ramadi in mano all’Isis, causando vittime tra la popolazione civile e danni alle infrastrutture civili. Il conflitto nella provincia di Anbar è proseguito per tutto l’anno, in un contesto di accuse nei confronti del primo ministro Nuri al-Maliki per aver compromesso gli sforzi dei leader tribali di mediare una so- luzione. L’incapacità del governo di risolvere la crisi è uno dei fattori che hanno lasciato Anbar senza possibilità di difesa di fronte alla rapida avanzata militare dell’Isis, i cui combattenti a giugno hanno conquistato il controllo di Mosul, la seconda città irachena, e in seguito gran parte delle province di Anbar, Diyala, Kirkuk, Ninevah e Salah al-Din. L’avanzata ha innescato una drammatica ripresa delle tensioni settarie e lo sfollamento di massa delle comunità maggiormente a rischio di finire nel mirino degli attacchi armati dell’Isis o delle incursioni dell’aviazione governativa. Principali obiettivi dell’Isis sono state le minoranze etniche e religiose e chiunque appartenesse a comunità diverse dalla sunnita o musulmana era cacciato dalle zone sotto il suo controllo. Il 30 giugno, l’Isis ha proclamato un “califfato”, ridefinendosi come Stato islamico (Islamic State – Is), sotto la leadership di Abu Baker al-Baghdadi, nato in Iraq, e ha esortato tutti i musulmani del mondo a dichiararsi suoi alleati. Ad agosto, combattenti dell’Is hanno conquistato il controllo della regione di Sinjar, uccidendo e cat- turando moltissimi dei suoi abitanti yazidi che non erano riusciti a fuggire. Ad agosto, in seguito al- l’avanzata dell’Is e alle decapitazioni pubbliche di cittadini britannici e statunitensi catturati dal gruppo, una coalizione internazionale a guida statunitense, formata da 40 paesi, ha iniziato una campagna di raid aerei contro l’Is, e ha accresciuto l’appoggio militare e l’addestramento delle forze governative irachene e dei combattenti peshmerga del Kurdistan iracheno per combattere l’Is. Ad aprile si sono svolte le elezioni parlamentari in un clima di violenza che ha visto l’uccisione di due

499 membri dell’alta commissione elettorale indipendente e di almeno tre candidati, oltre che attacchi da parte di uomini armati ai seggi elettorali ad Anbar, Diyala e in altre zone a maggioranza sunnita. La coalizione Stato di diritto di Nuri al-Maliki, a predominanza sciita, ha ottenuto la maggioranza dei seggi ma il suo leader non è riuscito a garantirsi il terzo mandato quale primo ministro ed è stato so- stituito a settembre, in seguito alle richieste avanzate a livello sia nazionale sia internazionale per un esecutivo a partecipazione allargata. La proposta di legge Ja’fari [dal nome del sesto imam sciita che fondò la giurisprudenza giafarita, N.d.T.], equivalente a una legislazione in materia di status personale per le comunità sciite dell’Iraq, è stata ritirata dopo essere stata ampiamente criticata in quanto avrebbe potuto compromettere i diritti di donne e ragazze, rendendo tra l’altro legale sposare bambine di appena nove anni. Si è allentata la tensione tra le autorità di Baghdad e il governo regionale semi autonomo del Kurdistan (Kurdistan Regional Government – Krg), nel nord del paese, a seguito di un accordo provvisorio siglato a novembre sui proventi derivanti dal petrolio e sui contributi del Krg al bilancio federale.

CONFLITTO ARMATO INTERNO Le forze governative e le milizie sciite armate sostenute dal governo hanno commesso crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, prendendo di mira soprattutto le comunità sunnite. Ad Anbar, Mosul e in altre aree controllate dall’Is, le forze governative hanno condotto raid aerei colpendo indi- scriminatamente zone civili abitate, utilizzando tra l’altro le cosiddette “barrel bombs” (bombe in- cendiarie artigianali), che hanno causato morti e feriti tra la popolazione civile. A settembre, il primo ministro al-Abadi ha chiesto alle forze di sicurezza di cessare ogni tipo di bombardamento sulle aree abitate da civili ma i raid aerei nelle zone controllate dall’Is sono continuati, con conseguenze letali per la popolazione. Le forze di sicurezza e le milizie sciite hanno rapito o detenuto sunniti e hanno compiuto impunemente decine di esecuzioni extragiudiziali. Nelle zone che avevano sottratto al controllo dell’Is, hanno inoltre distrutto abitazioni e attività produttive di residenti locali sunniti, in rappresaglia per il presunto ap- poggio offerto all’Is da parte di membri di queste comunità. Anche i combattenti peshmerga del Krg hanno compiuto azioni di rappresaglia, distruggendo le abitazioni di arabi sunniti nelle aree che avevano riconquistato dal controllo dell’Is.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI I gruppi armati hanno lanciato attacchi suicidi indiscriminati e attentati con autobombe in tutto il territorio iracheno, uccidendo e ferendo migliaia di civili. Quando hanno ottenuto il controllo del nor- dovest dell’Iraq, i combattenti dell’Is hanno lanciato una sistematica campagna di pulizia etnica nei confronti delle minoranze religiose ed etniche, come cristiani, yazidi, sciiti turcomanni e sciiti shabak, commettendo crimini di guerra, comprese uccisioni sommarie di massa e rapimenti. A giugno, centinaia di detenuti, principalmente sciiti, sono stati uccisi da combattenti dell’Is che avevano assunto il controllo del carcere centrale di Badush, a ovest di Mosul. A luglio, combattenti dell’Is hanno costretto migliaia di cristiani ad abbandonare le loro abitazioni e comunità, minacciandoli di morte se non si fossero convertiti all’Islam e ad agosto hanno compiuto attentati letali di vasta portata contro la minoranza yazida. I combattenti dell’Is che hanno attaccato la regione di Sinjar hanno tra l’altro rapito migliaia di civili yazidi, uccidendo sommariamente centinaia di uomini e

500 ragazzi, anche di appena 12 anni, a Qiniyeh, Kocho e in altri villaggi. Centinaia, se non migliaia, di persone, compresi interi nuclei familiari, risultavano scomparse. Centinaia tra donne e ragazze sono state vittime di abusi sessuali. I combattenti dell’Is hanno inoltre ucciso membri della comunità sunnita percepiti come oppositori o sospettati di lavorare per conto del governo, delle sue forze di sicurezza o di aver lavorato in precedenza per le truppe statunitensi schierate in Iraq. A ottobre, l’Is ha ucciso oltre 320 membri della tribù sunnita albu nimr ad Anbar, poiché il governo cercava di mobilitare e armare le tribù sunnite per combattere contro l’Is. Membri dell’Is hanno ucciso sommariamente centinaia di persone che avevano catturato, compresi soldati governativi. A giugno, hanno effettuato l’esecuzione sommaria di oltre 1000 soldati e volontari dell’esercito, fatti prigionieri mentre fuggivano disarmati da Camp Speicher, una delle principali basi militari, a Tikrit. L’Is ha postato su Internet alcuni filmati che riprendevano le uccisioni. Le forze dell’Is hanno distrutto o profanato siti storici e luoghi di culto di ogni comunità etnica e religiosa, istituito tribunali della sharia nelle aree sotto il loro controllo e invocato il pentimento di coloro che avevano lavorato per il governo o per le forze statunitensi. Hanno stabilito rigidi regolamenti in materia di comportamento personale, imponendo a donne e ragazze d’indossare il velo per coprirsi il volto e di essere accompagnate da un parente di sesso maschile per poter uscire di casa, segregando maschi e femmine nelle scuole e nei posti di lavoro e vietando il fumo e le attività e i stili di vita “oc- cidentali”.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Donne e ragazze, soprattutto appartenenti alla comunità yazida, sono state vittime di rapimenti da parte dei combattenti dell’Is, costrette a sposarsi e sottoposte a stupro e altri abusi sessuali. Secondo le notizie ricevute, sono state inoltre vendute come schiave a scopo di sfruttamento sessuale, sia al- l’interno del territorio iracheno sia nelle aree della vicina Siria controllate dall’Is. Fino a novembre, oltre 200 donne e bambini (alcuni di solo pochi mesi) erano riusciti a fuggire dalla prigionia dell’Is; tra loro c’era una diciottenne che era stata rapita assieme ad altri familiari quando i combattenti dell’Is avevano attaccato l’area di Sinjar ad agosto, per poi essere “data in sposa” a un combattente dell’Is che l’ha ripetutamente stuprata e percossa dopo che aveva cercato di fuggire. La giovane è riuscita a darsi alla fuga assieme a una ragazza di 15 anni, anche lei rapita e “data in moglie” a un altro combattente dell’Is. Altre donne sono state vittime di uccisioni illegali, perpetrate con modalità tipiche di un’esecuzione, per aver criticato l’Is o disobbedito ai suoi ordini. A ottobre, l’Is ha ucciso un’ex parlamentare, Iman Muhammad Younes, dopo averla tenuta prigioniera per settimane.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Le autorità hanno trattenuto migliaia di reclusi senza accusa né processo, ai sensi di disposizioni contenute nella legislazione antiterrorismo. A febbraio, il presidente del comitato parlamentare sui diritti umani ha affermato che all’incirca 40.000 detenuti si trovavano in carcere in attesa d’indagini. Molti erano tenuti in penitenziari e centri di detenzione gestiti da vari ministeri del governo iracheno. Una lettera inviata nel 2013 dal tribunale investigativo centrale al capo del Consiglio supremo della magistratura, resa pubblica ad aprile 2014, affermava che le autorità continuavano a effettuare arresti illegali, avvalendosi di una lista parziale con i nomi di migliaia di sospettati che la direzione generale antiterrorismo aveva trasmesso ai commissariati di polizia, in relazione agli episodi di violenza

501 settaria risalenti al 2006 e 2007. Si ritiene che l’elenco abbia portato alla detenzione di persone sbagliate, solo per il fatto che parte dei loro nomi corrispondeva con parte dei nomi della lista.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Tortura e altri maltrattamenti hanno continuato a essere prassi abituale e diffusa nelle carceri e nei centri di detenzione, in particolare quelli controllati dai ministeri dell’Interno e della Difesa; e sono stati commessi nell’impunità. L’accesso a questi centri era interdetto agli ispettori dell’alta commissione indipendente sui diritti umani. I funzionari preposti agli interrogatori hanno torturato i detenuti per estorcere “confessioni”, che sarebbero state poi usate contro di loro durante il processo; in alcuni casi i detenuti sono stati torturati fino alla morte. I rappresentanti del governo che hanno partecipato all’Esame periodico universale dell’Iraq del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno af- fermato che, tra il 2008 e il 2014, le autorità avevano indagato su 516 casi di tortura, molti dei quali erano poi arrivati a procedimenti giudiziari ma non hanno fornito altri dettagli e non hanno citato le agenzie di sicurezza responsabili degli abusi. ‘Uday Taha Kurdi, avvocato e padre di due figli, è morto a giugno dopo aver trascorso 15 giorni in de- tenzione presso la direzione generale antiterrorismo a Baghdad. In una lettera inviata al sindacato degli avvocati iracheni a luglio, il ministero dell’Interno ha affermato che ‘Uday Taha Kurdi soffriva di “problemi di salute” mentre era in detenzione e che era stato trasportato in ospedale, dove era poi deceduto. Il ministero ha inoltre affermato che un giudice aveva concluso che ‘Uday Taha Kurdi, il cui fratello era detenuto per accuse di terrorismo, era “uno dei leader dell’Is” e apparteneva a “una famiglia di terroristi” e che, nel rispondere al giudice che lo interpellava in merito, aveva affermato di non essere stato torturato. Il Consiglio supremo della magistratura ha dichiarato che la sua morte era stata provocata da un blocco renale e non a seguito di tortura, come si era sostenuto. Tuttavia, alcune fotografie del corpo di ‘Uday Taha Kurdi, scattate all’obitorio e ricevute da Amnesty International, mostrano che prima della morte aveva riportato contusioni, ferite aperte e bruciature, tutte compatibili con le accuse di tortura.

PROCESSI INIQUI Il sistema di giustizia penale è rimasto fortemente viziato, con una magistratura priva d’indipendenza. Giudici e avvocati coinvolti in processi a carico di membri di gruppi armati hanno continuato a rischiare di finire nel mirino di uccisioni, rapimenti e aggressioni da parte dei gruppi armati. I processi, in particolare quelli in cui gli imputati dovevano rispondere di accuse di terrorismo, sono stati iniqui; i tribunali hanno pronunciato verdetti di colpevolezza sulla base di “confessioni” ottenute con la tortura, in molti casi trasmesse dal canale televisivo al-Iraqiya, controllato dal governo. Altri verdetti di colpevolezza erano basati su prove ottenute tramite informatori segreti e non identificati, compresi alcuni casi giudiziari che hanno poi comportato condanne a morte. A novembre, un tribunale di Baghdad ha condannato a morte l’ex parlamentare di primo piano sunnita Ahmed al-’Alwani, per accuse in materia di terrorismo, al termine di un processo profondamente iniquo. Le forze di sicurezza lo avevano arrestato a dicembre 2003, dopo aver disperso con la forza una protesta che andava avanti da un anno, ad Anbar.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE I giornalisti hanno operato in un contesto estremamente rischioso e sono stati al centro di minacce

502 da parte sia di attori statali sia non statali. Alcuni sono stati vittime di uccisioni mirate o di tentati omicidi; altri di aggressioni fisiche. A marzo, Mohammad Bdaiwi al-Shammari, docente universitario e direttore della sede di Baghdad di Radio Free Iraq, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco a un posto di blocco di Baghdad da un agente della guardia presidenziale, durante un diverbio per l’accesso al complesso presidenziale. Ad agosto, un tribunale ha condannato l’agente all’ergastolo. A giugno, la commissione comunicazioni e mezzi d’informazione, controllata dal governo, ha diramato una serie di linee guida “obbligatorie” per regolamentare le attività degli organi di stampa “durante la guerra al terrorismo”, chiedendo ai mezzi d’informazione di non rendere pubbliche informazioni riguar- danti gli insorti e imponendo loro di non criticare le forze governative e di parlarne in termini positivi. Giornalisti sono stati rapiti e uccisi sommariamente dall’Is nelle zone sotto il suo controllo. A ottobre, Ra’ad Mohammed Al-’Azawi, un operatore del canale televisivo Sama Salah al-Din, è stato decapitato a Samarra, un mese dopo la sua cattura, a quanto pare per essersi rifiutato di collaborare con l’Is.

SFOLLATI INTERNI Circa due milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro abitazioni a causa dei combat- timenti che infiammavano le province di Anbar, Diyala, Kirkuk, Ninevah e Salah al-Din; all’incirca la metà ha cercato riparo nella Regione del Kurdistan iracheno, che a novembre stava già ospitando circa 225.000 rifugiati dalla Siria. Migliaia di rifugiati iracheni, rientrati in Iraq dalla Siria e da altre parti, non sono poi riusciti a far ritorno a casa, andando così ad aggiungersi al numero degli sfollati interni. Vista la portata senza precedenti della crisi umanitaria in Iraq, le Nazioni Unite l’hanno inserito al massimo livello d’emergenza e hanno spinto i governi a fornire protezione internazionale ai richiedenti asilo iracheni e ad evitare i rimpatri forzati nel paese.

REGIONE DEL KURDISTAN IRACHENO Sebbene le forze peshmerga curde abbiano combattuto contro l’Is in diverse zone dell’Iraq settentrionale, le tre province che formano la Regione semi autonoma del Kurdistan iracheno sono rimaste per lo più estranee alla violenza che stava inghiottendo gran parte del resto dell’Iraq, almeno fino a novembre, quando un’autobomba è esplosa davanti all’edificio del governatorato di Erbil, uccidendo almeno quattro persone e ferendone altre 22. Le autorità del Krg hanno continuato a prendere di mira coloro che avevano apertamente criticato la corruzione delle autorità o che avevano espresso il loro dissenso. Le autorità di governo hanno continuato a interferire con l’attività della magistratura, influenzando i processi. Sono stati conti- nuamente riferiti episodi di tortura e altri maltrattamenti. Le persone arrestate per accuse di terrorismo sono state tenute in incommunicado, senza poter accedere ai loro familiari o avvocati per lunghi periodi di tempo. Le autorità del Krg hanno continuato a detenere Niaz aziz Saleh, recluso senza accusa né processo da gennaio 2012, per aver rivelato particolari riguardanti brogli elettorali. Secondo le notizie riportate, la sicurezza generale (Asayish Gishti) di Erbil si è ripetutamente rifiutata di condurlo in tribunale per sostenere il processo.

PENA DI MORTE I tribunali hanno continuato a emettere condanne a morte per una vasta gamma di reati. La

503 maggior parte degli imputati era stata giudicata colpevole di accuse in materia di terrorismo, spesso al termine di processi iniqui. Ad aprile, il ministero della Giustizia ha dichiarato che nel solo carcere di al-Nassiriya, dove erano stati installati nuovi patiboli, nel braccio della morte c’erano 600 prigionieri. Ad agosto, il ministro della Giustizia ha affermato che i prigionieri in attesa di ese- cuzione erano in tutto 1724, compresi alcuni la cui condanna a morte non era stata ancora confermata in via definitiva. Le autorità hanno continuato a effettuare un alto numero di esecuzioni e in alcuni casi i prigionieri sono stati messi a morte collettivamente. Il 21 gennaio, le autorità hanno effettuato l’esecuzione multipla di 26 prigionieri, neanche una settimana dopo che il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon aveva esortato le autorità irachene a imporre una moratoria sulle esecuzioni. Snobbando tale richiesta nel corso di una conferenza stampa congiunta con Ban Ki-moon, il primo ministro Nur al-Maliki aveva affermato a nome del governo di “non ritenere che i diritti di chi uccide la gente debbano essere rispettati”.

ISRAELE E TERRITORI PALESTINESI OCCUPATI

STATO D’ISRAELE

Capo di stato: Reuven Rivlin (subentrato a Shimon Peres a luglio) Capo di governo: Benjamin Netanyahu

Le forze israeliane hanno commesso crimini di guerra e violazioni dei diritti umani durante i 50 giorni di un’offensiva militare condotta nella Striscia di Gaza, in cui sono stati uccisi 1500 civili, di cui 539 bambini, e altre migliaia sono rimasti feriti. L’operazione ha inoltre causato lo sfollamento di massa della popolazione oltre che la distruzione di proprietà e di servizi essenziali. Israele ha mantenuto il blocco sulla Striscia di Gaza, dallo spazio aereo a quello marittimo e terrestre, imponendo una punizione collettiva ai circa 1,8 milioni di abitanti e alimentando la crisi umanitaria. In Cisgiordania, le forze israeliane si sono rese responsabili dell’uccisione illegale di manifestanti palestinesi, compresi bambini, e hanno continuato a imporre una miriade di restrizioni repressive alla libertà di movimento dei palestinesi e nel contempo a promuovere gli insediamenti illegali, consentendo ai coloni israeliani di aggredire i palestinesi e distruggere le loro proprietà nella pressoché totale impunità. Le forze israeliane hanno detenuto migliaia di palestinesi, alcuni dei quali hanno denunciato di essere stati torturati, e hanno trattenuto senza processo all’incirca 500 detenuti amministrativi. All’interno dei confini d’Israele, le autorità hanno continuato a demolire le abitazioni dei beduini palestinesi situate in “villaggi non riconosciuti” nella regione del Negev/Naqab e ad attuare sgomberi forzati. Hanno inoltre detenuto e sommariamente espulso migliaia di migranti stranieri, compresi richiedenti asilo, e incarcerato obiettori di coscienza israeliani.

504 CONTESTO Le tensioni tra israeliani e palestinesi sono salite rapidamente a causa del fallimento ad aprile dei negoziati promossi dagli Usa, dell’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah e della continua espansione illegale degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, oltre che dal blocco imposto da Israele su Gaza. L’uccisione di almeno 15 palestinesi da parte delle truppe israeliane dall’inizio dell’anno, il rapimento e l’uccisione di tre adolescenti israeliani in Cisgiordania ad opera di palestinesi affiliati ad Hamas, il conseguente omicidio di un giovane palestinese da parte degli israeliani per vendetta e i lanci di razzi da Gaza su Israele, a luglio, hanno fatto sfociare la situazione di già alta tensione in un nuovo conflitto armato. L’8 luglio, l’esercito israeliano ha lanciato un’offensiva militare sotto il nome di operazione “Margine protettivo” contro la Striscia di Gaza mentre Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno intensificato il lancio di razzi verso il sud d’Israele. Dopo 10 giorni di raid aerei, Israele ha lanciato un’invasione via terra a Gaza, ritirandola poco prima dell’entrata in vigore di un cessate il fuoco mediato dall’Egitto, dopo 50 giorni di ostilità. Il cessate il fuoco ha posto fine alla situazione di aperto conflitto ma la tensione è rimasta alta, in particolare in Cisgiordania. Le relazioni tra le due comunità sono state infiammate da una serie di attentati palestinesi contro civili israeliani, compreso un attacco ai fedeli in una sinagoga; da nuove uccisioni di palestinesi, compresi manifestanti, da parte delle truppe israeliane; dall’annuncio del governo di nuovi espropri di terreni in vista della costruzione di altre unità abitative destinate ai coloni di Gerusalemme Est; e dalla decisione assunta dalle autorità israeliane a novembre di chiudere temporaneamente l’accesso alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, impedendo in tal modo ai fedeli di raggiungere la moschea di Al-Aqsa, uno dei principali luoghi di culto dell’Islam. Anche un maggiore riconoscimento della Palestina come stato a livello internazionale ha contribuito a inasprire le tensioni. A dicembre, il primo ministro Netanyahu ha rimosso due ministri per varie ragioni, tra cui il loro di- saccordo con la proposta del progetto di legge “nazione-stato”, che definiva Israele come lo stato del popolo ebraico. La Knesset ha votato a favore dello scioglimento del governo e di nuove elezioni a marzo 2015, su iniziativa del primo ministro.

CONFLITTO ARMATO L’offensiva militare “Margine protettivo”, lanciata da Israele con il dichiarato scopo di rispondere al- l’intensificazione del lancio di razzi sul suo territorio da parte di gruppi armati palestinesi di Gaza, ha ucciso oltre 2000 abitanti di Gaza, di cui più di 1500 erano civili, compresi 539 bambini. I raid aerei e gli attacchi via terra israeliani hanno danneggiato o distrutto migliaia di abitazioni civili e hanno provocato lo sfollamento di circa 110.000 palestinesi, interrotto l’erogazione di energia elettrica e la fornitura d’acqua e danneggiato altre infrastrutture civili. In Israele, razzi indiscriminati e altri ordigni bellici sparati dai gruppi armati palestinesi da Gaza, in violazione delle leggi di guerra, hanno ucciso sei civili, incluso un bambino, e ferito decine d’altri, oltre a danneggiare proprietà civili. Durante i 50 giorni del conflitto, prima dell’entrata in vigore di un cessate il fuoco il 26 agosto, le forze israeliane hanno commesso crimini di guerra, compresi attacchi sproporzionati e indiscriminati su zone densamente popolate, oltre che attacchi mirati contro scuole in cui avevano trovato riparo civili e verso altri edifici civili che, secondo l’esercito israeliano, sarebbero stati utilizzati da Hamas come centri di comando o per immagazzinare o sparare razzi. La notte del 30 luglio, il fuoco dell’arti- glieria israeliana ha colpito la scuola elementare Jabaliya in cui avevano trovato rifugio oltre 3000

505 civili, uccidendone almeno 20 e ferendone altri. Era la sesta volta che un edificio scolastico impiegato dalle Nazioni Unite come rifugio per i civili veniva attaccato dall’inizio del conflitto tre settimane prima. Le forze israeliane hanno inoltre attaccato ospedali e operatori sanitari, compreso personale delle ambulanze che cercava di prestare soccorso ai feriti o di recuperare i cadaveri delle vittime. Decine di abitazioni sono state distrutte o danneggiate da missili o bombardamenti aerei, con intere famiglie ancora dentro. Per citare un esempio, in otto casi documentati da Amnesty International, i raid israeliani lanciati contro case abitate hanno provocato la morte di almeno 104 civili, di cui 62 bambini. Spesso i militari israeliani non hanno fornito motivazioni per aver specificamente attaccato questi obiettivi. Nei giorni immediatamente antecedenti al cessate il fuoco, l’esercito israeliano ha lanciato una serie di attacchi che hanno distrutto tre edifici abitativi a più piani, nella città di Gaza, e un moderno centro commerciale a Rafah. Ci sono state vaghe affermazioni in merito, secondo cui gli edifici abitativi ospitavano un centro di comando di Hamas e “strutture collegate a militanti palestinesi”, ma non è stata fornita alcuna prova determinante o spiegazione del perché, ammesso che ci fossero legittime motivazioni militari per giustificare tali attacchi, non si fosse optato per altri mezzi meno devastanti. Le autorità israeliane hanno pubblicamente tentato di spostare la responsabilità del grave costo in termini di vite umane e della distruzione su vasta scala causata dall’offensiva israeliana su Gaza, incolpando Hamas e i gruppi armati palestinesi di aver sparato razzi e altri ordigni da o nelle vicinanze di centri abitati e di aver nascosto munizioni all’interno di edifici civili.

LIBERTÀ DI MOVIMENTO – BLOCCO DI GAZA E RESTRIZIONI IMPOSTE IN CISGIORDANIA Per l’intero anno, le forze israeliane hanno mantenuto il blocco su Gaza, dallo spazio aereo a quello marittimo e terrestre, imponendo a tutti gli effetti una punizione collettiva ai circa 1,8 milioni di abitanti del territorio, per lo più civili, sottoponendo all’approvazione israeliana qualsiasi tipo d’im- portazione o esportazione delle merci e qualsiasi movimento di persone da o verso Gaza. Inoltre, il protrarsi della chiusura stabilita dall’Egitto al proprio valico di Rafah ha di fatto mantenuto Gaza si- gillata. Le già drammatiche ripercussioni sul piano umanitario del blocco, imposto ininterrottamente dal giugno 2007, sono state testimoniate dalla ragguardevole percentuale della popolazione di Gaza costretta a dipendere dagli aiuti umanitari per poter sopravvivere e sono state ancor più inasprite dalla devastazione e dallo sfollamento della popolazione provocati dall’operazione “Margine protettivo” condotta da Israele. Le forze israeliane hanno pattugliato il blocco non esitando a sparare munizioni vere contro i palestinesi che erano entrati o che si erano avvicinati alla zona cuscinetto di 500 metri, stabilita all’interno del confine terrestre di Gaza con il territorio israeliano, e contro pescatori che erano entrati o che si erano approssimati alla “zona d’esclusione” che Israele manteneva lungo l’intera lunghezza della costa di Gaza. Durante l’anno, le forze israeliane hanno ucciso a colpi d’arma da fuoco sette civili palestinesi, all’interno o nelle vicinanze della zona cuscinetto, prima dell’operazione “Margine protettivo”, e un altro dopo il cessate il fuoco, quando la zona cuscinetto è stata ridotta e la zona in cui era permessa la pesca è stata estesa. Episodi di sparatorie sono rimasti frequenti; alcuni pescatori sono stati raggiunti da colpi d’arma da fuoco e feriti da parte della marina israeliana. In Cisgiordania, Israele ha proseguito la costruzione del muro/barriera dotato di torrette di guardia,

506 per lo più su terreno palestinese, adattando il suo percorso in modo da fornire protezione agli inse- diamenti illegali, tagliando fuori gli abitanti dei villaggi palestinesi dalle loro terre. Gli agricoltori pa- lestinesi dovevano richiedere permessi speciali per poter accedere ai loro terreni, situati tra il muro e la Linea verde di demarcazione del confine cisgiordano con Israele. In tutta la Cisgiordania, le forze israeliane hanno mantenuto altre restrizioni sul libero movimento dei palestinesi, tramite posti di blocco militari e limitazioni all’accesso per determinate aree, impedendo ai palestinesi di utilizzare strade alternative costruite per essere utilizzate esclusivamente dai coloni israeliani. Queste restrizioni hanno ostacolato l’accesso dei palestinesi agli ospedali, alle scuole e ai luoghi di lavoro. Inoltre, Israele ha trasferito con la forza i palestinesi fuori dall’area occupata di Gerusalemme Est in altre zone della Cisgiordania. A giugno le restrizioni sono state ulteriormente rafforzate durante l’operazione “Custode di tuo fratello”, un’azione repressiva attuata dalle autorità israeliane in seguito al rapimento di tre adolescenti che facevano l’autostop in Cisgiordania. L’operazione “Custode di tuo fratello” ha visto un rafforzamento della presenza militare israeliana nelle città e nei villaggi palestinesi, l’uccisione di almeno cinque palestinesi, arresti e detenzioni di massa, l’imposizione di arbitrarie restrizioni di viaggio e raid lanciati contro abitazioni palestinesi.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Soldati e guardie di frontiera israeliani si sono resi responsabili dell’uccisione illegale di almeno 50 civili palestinesi in Cisgiordania e hanno continuato a fare uso eccessivo della forza, sparando anche munizioni vere, nel corso di proteste contro la perdurante occupazione militare israeliana, durante l’arresto di attivisti politici e durante i 50 giorni dell’offensiva militare israeliana contro Gaza. In alcuni casi le uccisioni avrebbero avuto le caratteristiche di esecuzioni extragiudiziali. A settembre, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari ha riferito che il numero dei palestinesi feriti dalle forze israeliane in Cisgiordania, pari a oltre 4200 persone dall’inizio del 2014, aveva già superato il numero che era stato registrato complessivamente nel 2013 e che molti dei feriti, bambini compresi, erano stati colpiti da proiettili di gomma ricoperti di metallo sparati dalle forze israeliane. Come negli anni precedenti, soldati e guardie di frontiera hanno impiegato armi da fuoco contro manifestanti, anche contro chi lanciava pietre e altri proiettili e non rappresentava una grave minaccia per le loro vite.

IMPUNITÀ Le autorità non hanno provveduto a condurre indagini indipendenti in merito ai presunti crimini di guerra e alle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze armate israeliane durante l’operazione “Margine protettivo” e si sono rifiutate di collaborare con una missione d’inchiesta internazionale nominata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Hanno comunque apparentemente coo- perato con il Comitato d’inchiesta del Segretario generale delle Nazioni Unite, istituito per indagare su episodi in cui erano stati coinvolti edifici delle Nazioni Unite a Gaza. Ad agosto, il capo di stato maggiore generale dell’esercito ha ordinato un’inchiesta su oltre 90 “episodi eccezionali”, occorsi durante l’operazione “Margine protettivo”, in cui esistevano “fondati motivi per sospettare una violazione della legge”. A settembre, è stato annunciato che il generale av- vocato dell’esercito aveva chiuso le indagini relative a nove casi e disposto indagini giudiziarie su altri 10.

507 Le autorità non hanno altresì provveduto a indagare adeguatamente sugli episodi in cui era stato aperto il fuoco contro manifestanti palestinesi nel corso di proteste che si erano svolte in Cisgiordania, pur in presenza di prove inequivocabili che indicavano che le truppe israeliane avevano fatto ripetu- tamente uso eccessivo della forza ed erano ricorse all’uso di munizioni vere in circostanze in cui l’impiego di tale forza letale era ingiustificato.

DETENZIONE SENZA PROCESSO Centinaia di palestinesi dei Territori Palestinesi Occupati sono stati trattenuti senza accusa né processo, in applicazione di ordini di detenzione amministrativa emanati nei loro confronti sulla base di informazioni segrete alle quali sia gli indiziati sia i loro avvocati non avevano avuto accesso e che di conseguenza non avevano potuto impugnare efficacemente. Il numero di detenuti amministrativi era più che raddoppiato in seguito al rastrellamento di palestinesi, condotto dalle forze di sicurezza dopo il rapimento e l’uccisione di tre adolescenti israeliani a giugno, passando dai circa 200 di maggio a 468 a settembre.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le autorità di sicurezza israeliane, in particolare funzionari dell’agenzia per la sicurezza interna, hanno continuato a torturare e altrimenti maltrattare detenuti palestinesi, i quali sono stati frequentemente trattenuti in incommunicado per giorni, e in alcuni casi per settimane, durante le fasi dell’interrogatorio. I metodi impiegati comprendevano aggressioni fisiche, come l’essere schiaffeggiati e afferrati per la gola, rimanere incatenati e in posizioni di stress per lunghi periodi, privazione del sonno e minacce al detenuto e alla sua famiglia. Le segnalazioni di tortura sono aumentate in concomitanza con l’ondata di arresti, seguita al rapimento e uccisione degli adolescenti israeliani a giugno. Le autorità non hanno provveduto a intraprendere adeguate misure per prevenire episodi di tortura o a condurre indagini indipendenti nei casi in cui i detenuti avevano denunciato di essere stati torturati, alimentando così il clima d’impunità.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO – SGOMBERI FORZATI E DEMOLIZIONI In Cisgiordania, le forze israeliane hanno proseguito le demolizioni delle case e di altri edifici palestinesi, sgomberando con la forza centinaia di persone dalle loro abitazioni, spesso senza preavviso o consultazione anticipata. Anche le case delle famiglie palestinesi che avevano compiuto attacchi contro israeliani sono state demolite come misura punitiva. Beduini palestinesi con cittadinanza israeliana che abitavano in villaggi “non riconosciuti” e altri ri- conosciuti di recente sono incorsi nella demolizione della loro casa e di altre strutture, in quanto le autorità sostenevano che erano state costruite senza permesso. Le autorità israeliane hanno vietato qualsiasi costruzione senza autorizzazione ufficiale, che era comunque negata agli abitanti arabi dei villaggi, così come era loro negato l’accesso ad alcuni servizi essenziali come l’erogazione di energia elettrica e l’allacciamento alla rete idrica. In base al Piano Prawer del 2011, le autorità avevano proposto la demolizione di 35 villaggi “non riconosciuti” e lo sfollamento forzato di circa 70.000 abitanti beduini dalle loro terre e abitazioni, per reinsediarli in siti designati dalle autorità. L’applicazione del piano, che era stato adottato senza prima consultare le comunità beduine colpite dal provvedimento, è rimasta bloccata in seguito alle dimissioni a dicembre 2013 del ministro di gabinetto che sovrin- tendeva il piano. Dichiarazioni ufficiali ne annunciavano la cancellazione ma l’esercito ha proseguito la demolizione delle abitazioni e di altre strutture.

508 OBIETTORI DI COSCIENZA Tribunali militari hanno continuato a imporre sentenze di carcerazione nei confronti di cittadini israeliani che si erano rifiutati di assolvere all’obbligo della leva militare per motivi di coscienza. Durante l’anno sono stati incarcerati almeno sei obiettori di coscienza. Omar Sa’ad è stato rilasciato a giugno, dopo aver scontato 150 giorni in carcere per poi essere dichiarato non abile e dunque esonerato dal servizio militare.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO Richiedenti asilo che necessitavano di protezione internazionale non hanno potuto accedere a eque procedure di determinazione del loro status. Le autorità hanno trattenuto in custodia indefinita oltre 200 richiedenti asilo africani, in una struttura situata nel deserto del Negev/Naqab. Le autorità hanno trattenuto oltre 2200 altri richiedenti asilo eritrei e sudanesi a Holot, una struttura di detenzione situata in un’area desertica, aperta dopo che il governo si era affrettato ad approvare l’emendamento 4 della legge sulla prevenzione delle infiltrazioni del 2013. A settembre, l’Alta corte di giustizia ha cassato l’emendamento 4, in base al quale le autorità avevano assunto il potere di detenere automaticamente tutti i nuovi richiedenti asilo per il periodo di un anno, stabilendo che tale provvedimento infrangeva il diritto alla dignità umana. La corte ha ordinato al governo di chiudere la struttura di Holot o di dotarsi di uno strumento legislativo alternativo entro il termine di 90 giorni. A dicembre, la Knesset ha approvato nuovi emendamenti legislativi che avrebbero consentito alle autorità di continuare a detenere automaticamente i richiedenti asilo. Cittadini eritrei e sudanesi, che costituivano oltre il 90 per cento dei circa 47.000 richiedenti asilo di provenienza africana in Israele, hanno continuato a non aver accesso a eque procedure di determina- zione dello status di rifugiato. A fine anno, le autorità israeliane avevano riconosciuto lo status di ri- fugiato ad appena due eritrei e a nessun sudanese, respingendo molte altre domande senza prenderle in debita considerazione. Secondo la legislazione israeliana ai richiedenti asilo era proibito trovare un lavoro retribuito e avevano scarso o nessun accesso all’assistenza sanitaria o ad altri servizi sociali. Le autorità hanno fatto contemporaneamente pressione su molti affinché lasciassero “spon- taneamente” il territorio israeliano secondo procedure che prevedevano il pagamento di somme per il ritiro della domanda d’asilo e il ritorno nei paesi d’origine o in paesi terzi. Secondo i dati forniti, nei primi 10 mesi dell’anno, oltre 5000 cittadini eritrei e sudanesi avrebbero accettato il “rimpatrio spontaneo”; alcuni sono partiti dopo essersi trovati in imminente rischio di detenzione, malgrado i timori dettati dal fatto che nei paesi da dove fuggivano avrebbero potuto essere perseguitati o torturati. Stando ai resoconti, al loro rientro in Sudan, alcuni sono stati detenuti e accusati di spionaggio per conto d’Israele. Israele avrebbe stretto accordi segreti con determinati paesi africani, che consentivano il trasferimento dei richiedenti asilo in base a condizioni che negavano loro l’accesso a eque procedure di determinazione dello status di rifugiati in Israele o a qualsiasi protezione da possibili successivi trasferimenti verso i loro paesi d’origine, anche nei casi in cui il loro ritorno si configurava come refoulement.

509 KUWAIT

STATO DEL KUWAIT

Capo di stato: sceicco Sabah al-Ahmad al-Jaber al-Sabah Capo di governo: sceicco Jaber al-Mubarak al-Hamad al-Sabah

La pacifica espressione di critiche verso l’emiro, altre autorità statali o l’Islam è rimasta reato. Attivisti per i diritti umani e per le riforme politiche sono stati presi di mira con arresti, detenzioni e procedimenti penali. Le autorità si sono avvalse della legislazione in materia di telecomunicazioni per perseguire penalmente e incarcerare coloro che esprimevano critiche o dissenso tramite i social network e hanno limitato il diritto di partecipare a riunioni pubbliche. Il governo ha continuato a revocare i diritti di nazionalità e cittadinanza a decine di migliaia di bidun e ha arbitrariamente privato della cittadinanza kuwaitiana diverse persone critiche nei suoi confronti e i loro familiari. Le donne hanno affrontato discriminazioni nella legge e nella prassi. Lavoratori migranti stranieri, che costituivano oltre la metà della popolazione, non sono stati adeguatamente tutelati dalla legge e hanno subito discriminazioni, sfruttamento e abusi. La pena di morte è rimasta in vigore per una gamma di reati; non ci sono state notizie di esecuzioni.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Ad aprile, il pubblico ministero ha messo al bando il dibattito sui mezzi d’informazione riguardante una videoregistrazione diffusa pubblicamente che, stando alle notizie, mostrava due ex esponenti politici di primo piano che discutevano di un complotto per sostituire l’emiro e assumere il controllo del governo. Le autorità hanno privato della cittadinanza kuwaitiana il proprietario di un’emittente dopo che, stando alle accuse, i suoi canali radiotelevisivi avevano violato il divieto imposto sui mezzi d’informazione. Almeno otto persone sono state condannate per aver pubblicato commenti sui social network, in seguito a procedimenti avviati sulla base di disposizioni del codice penale che prevedevano il reato di “insulto” all’emiro e altre autorità statali e alla religione, e sulla base di articoli di una legge del 2001 che proibisce l’utilizzo dei mezzi di telecomunicazione per diffondere critiche. Altri 10 hanno af- frontato un ciclo di procedimenti, processi, condanne e appelli per l’espressione dei loro punti di vista, per lo più via Twitter. Tra questi, c’era l’attivista e blogger Abdullah Fairouz, arrestato a novembre 2013 e condannato a gennaio a cinque anni di carcere per i messaggi che aveva postato su Twitter.1 A luglio, una corte d’appello ha confermato la sentenza a 10 anni di carcere imposta nel 2012 al blogger Hamad al-Naqi, per aver, stando alle accuse, diffamato la religione e alcuni leader di altri paesi. A luglio, le autorità hanno arrestato l’ex parlamentare Musallam al-Barrak, una voce critica verso il governo, dopo che, stando alle notizie, aveva accusato alti funzionari di abuso d’ufficio e corruzione in un discorso tenuto a giugno davanti a una vasta folla. È stato detenuto per 10 giorni e quindi rila- sciato in attesa del processo con l’accusa di “aver insultato” la magistratura. Il suo arresto ha

510 suscitato ampie proteste e accuse, secondo cui la polizia aveva fatto uso eccessivo della forza contro i manifestanti, tesi negata dal governo. Egli a fine anno continuava ad affrontare diversi procedimenti legati alla sua libera espressione.

PRIVAZIONE DELLA CITTADINANZA Il governo ha fatto ricorso a una nuova tattica, quella di privare arbitrariamente dei diritti di cittadinanza kuwaitiana alcune voci critiche nei suoi confronti e alcuni dipendenti, secondo le dispo- sizioni contenute nella legge sulla cittadinanza del 1959.2 A luglio, le autorità hanno ritirato la citta- dinanza ad Ahmed Jabr al-Shammari, proprietario della testata giornalistica e canale televisivo Al- Yawm, e ad altri quattro proprietari assieme ai loro dipendenti, rendendo così apolidi oltre 30 persone. Ad agosto, le autorità hanno revocato la cittadinanza ad almeno altre 10 persone e a settembre ad altre 15.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Le autorità non hanno provveduto a condurre indagini indipendenti in merito alle accuse di tortura dei detenuti a carico di funzionari della sicurezza. In una lettera inviata ad Amnesty International a settembre, il governo ha negato che durante le manifestazioni fossero stati attuati arresti o che suoi funzionari avessero inflitto tortura o maltrattamenti. A febbraio, l’attivista per i diritti umani bidun ‘Abdulhakim al-Fadhli ha denunciato a un magistrato inquirente che la polizia lo aveva percosso mentre era in detenzione, per costringerlo a firmare una “confessione”. Il pubblico ministero non ha provveduto a disporre la perizia medica richiesta da ‘Ab- dulhakim al-Fadhli né ad avviare altre indagini sulla sua presunta tortura.

DISCRIMINAZIONE – BIDUN Il governo ha continuato a negare la cittadinanza kuwaitiana – e di conseguenza i diritti e la fruizione di servizi gratuiti associati ad essa, come istruzione e assistenza sanitaria e il diritto di voto – a decine di migliaia di bidun, sebbene pochi di loro siano stati ufficialmente riconosciuti come cittadini kuwaitiani. Nell’ottobre 2012, il primo ministro aveva assicurato ad Amnesty International che entro cinque anni il governo avrebbe risolto la questione della cittadinanza per i residenti bidun del Kuwait; a fine 2014, la realizzazione di tale impegno appariva poco probabile. Membri della comunità bidun hanno manifestato per chiedere la fine della discriminazione, malgrado il divieto di formare raduni pubblici imposto ai “non cittadini”. Alcune delle manifestazioni sono state disperse dalla polizia ma il governo ha negato di aver fatto uso eccessivo della forza. Decine di bidun sono stati ancora processati per accuse di raduno illegale o reati in materia di ordine pubblico. Molti processi sono stati ripetutamente rinviati ma a settembre 67 bidun sono stati prosciolti. Le autorità hanno inoltre incarcerato almeno 15 attivisti bidun, in maggioranza per accuse riguardanti reati contro l’ordine pubblico o per “raduno illegale”.

DIRITTI DELLE DONNE Benché le donne kuwaitiane abbiano goduto di maggiori diritti rispetto alle donne di altri stati della regione del Golfo, compresi i diritti a candidarsi e a votare alle elezioni, non è stata loro concessa l’uguaglianza con gli uomini di fronte alla legge. La legge stabiliva che le donne dovessero essere

511 sottomesse a un “tutore” di sesso maschile in questioni inerenti la famiglia, come divorzio, custodia dei figli ed eredità, e quando ricevevano cure mediche.

DIRITTI DEI MIGRANTI I lavoratori migranti, che costituivano la maggioranza della forza lavoro kuwaitiana, hanno continuato a subire sfruttamento e abusi, in parte collegati al sistema degli sponsor noto come kafala. Lavoratori domestici migranti, in maggioranza donne provenienti da paesi asiatici, sono risultati particolarmente vulnerabili, in quanto esclusi dalle forme di tutela previste per gli altri lavoratori dalla legislazione kuwaitiana in materia.

PENA DI MORTE La pena di morte è rimasta in vigore per omicidio e altri reati. Sono state condannate a morte almeno cinque persone; non ci sono state notizie di esecuzioni.

Note 1. Urgent Action: Mother of activist at risk of deportation (MDE 17/007/2014) www.amnesty.org/en/library/asset/ MDE17/007/2014/en/6e01aa07-e1d7-48aa-84a1-e81352d47889/mde170072014en.pdf 2. Kuwait: Halt the deplorable revocation of nationality of naturalized citizens (MDE 17/004/2014) www.amnesty.org/en/library/ asset/MDE17/004/2014/en/a228d7d3-6b58-4be3-9aac-20f5bad79319/mde170042014en.pdf

LIBANO

REPUBBLICA LIBANESE

Capo di stato: carica vacante da maggio, quando è terminato il mandato di Michel Suleiman Capo di governo: Tammam Salam

Il paese ha continuato a subire le pressioni generate dal conflitto armato in corso nella vicina Siria. Ci sono state nuove denunce di tortura e altri maltrattamenti di detenuti. Il Libano ha accolto più di 1,2 milioni di rifugiati dalla Siria ma ha adottato misure per arginare i flussi e ha imposto restrizioni all’ingresso dei rifugiati dalla Siria, inclusi i palestinesi. I rifugiati palestinesi da tempo residenti in Libano hanno continuato a subire discriminazioni. Le donne sono state ancora discriminate nella legge e nella prassi e non sono state adeguatamente protette contro la violenza sessuale e di altro tipo. Lavoratori migranti stranieri, in particolare lavoratrici domestiche, sono stati vittime di sfrutta- mento e altri abusi. Oltre 24 uomini sono incorsi in procedimenti giudiziari per presunta condotta omosessuale consenziente. Sono stati fatti alcuni passi avanti per far luce sui casi di sparizione forzata verificatisi nei decenni precedenti. La pena di morte è rimasta in vigore; non ci sono state esecuzioni. È iniziato davanti al Tribunale speciale per il Libano (Special Tribunal for Lebanon – Stl)

512 il processo in contumacia a carico di cinque persone, in relazione all’assassinio dell’ex primo ministro Rafic Hariri. Le forze governative siriane e gruppi armati con base in Siria hanno compiuto attacchi indiscriminati lungo il confine.

CONTESTO Le lotte politiche interne hanno impedito un accordo sul nome di un nuovo presidente in sostituzione di Michel Suleiman, il cui mandato è terminato a maggio. A febbraio, tuttavia, le alleanze contrapposte hanno concordato la formazione di un governo di unità nazionale, con Tamman Salam quale primo ministro. Il Libano ha evitato di essere completamente trascinato dentro al conflitto armato in corso in Siria, malgrado le divisioni politiche, religiose e sociali, l’incessante flusso di rifugiati in fuga dalla Siria e la partecipazione al conflitto siriano da parte di alcune figure libanesi, in particolare membri di Hez- bollah. Tuttavia, il conflitto è rimasto una minaccia costante. La tensione politica si è mantenuta elevata per l’intero anno, esacerbata dal conflitto siriano. A set- tembre, il Libano accoglieva oltre 1,15 milioni di rifugiati siriani e circa 50.000 rifugiati palestinesi dalla Siria, un flusso che ha accresciuto di un quarto la popolazione del paese, mettendone a dura prova le risorse. Le tensioni legate al conflitto hanno innescato ripetuti scoppi di violenza, specialmente a Tripoli, causando decine di morti. L’esercito siriano ha periodicamente bombardato la valle della Bekaa e altre zone interne al confine libanese e gruppi armati hanno sparato razzi dalla Siria contro la regione del Libano a est del confine, dove sono stati frequenti anche i rapimenti. Ad agosto, membri del gruppo armato Stato islamico (Islamic State – Is) hanno postato su Internet dei video che li riprendevano mentre decapitavano due soldati libanesi presi in ostaggio in battaglia nei dintorni di Arsal, una cittadina situata al confine libanese che per un breve periodo era caduta in mano all’Is e ad altri gruppi armati, tra cui Jabhat al-Nusra, i cui membri avrebbero ucciso altri due ostaggi ri- spettivamente a settembre e dicembre. A Beirut e in altre località si sono inoltre verificate esplosioni apparentemente collegate al conflitto siriano.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Sono pervenute denunce di tortura e altri maltrattamenti di detenuti sospettati. Uno di questi, trattenuto dalla sicurezza generale a maggio, ha denunciato dopo il suo rilascio che durante gli in- terrogatori era stato percosso sulle mani e sulle gambe con un cavo elettrico, calpestato e insultato verbalmente. Le autorità non hanno provveduto ad avviare indagini credibili sulle accuse di tortura, anche in merito a quelle avanzate da un ragazzo di 15 anni e altre persone, detenuti in seguito agli scontri tra l’esercito libanese e gruppi armati nella zona di Sidone, a giugno 2013.

RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO I rifugiati hanno subito restrizioni del loro diritto di richiedere asilo e di altri diritti, in quanto il Libano non è stato parte della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati e del relativo protocollo del 1967. A fine anno, secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, e l’Unwra, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, il Libano ospitava più di 1,2 milioni di rifugiati dalla Siria. A maggio, il governo ha, a tutti gli effetti, chiuso il confine alla maggior parte dei palestinesi che entravano dalla Siria e, a giugno, ha annunciato che avrebbe permesso l’ingresso soltanto ai rifugiati

513 siriani provenienti dalle zone confinanti col Libano. A ottobre, le autorità hanno messo in atto ulteriori restrizioni e chiesto all’Unhcr di fermare la registrazione dei rifugiati eccetto che per i casi umanitari. I nuovi regolamenti annunciati il 31 dicembre prevedevano che i siriani applicassero per uno dei sei tipi di visto per entrare in Libano. Sono stati documentati casi di rifugiati siriani e rifugiati palestinesi in fuga dalla Siria, respinti in Siria, in violazione del diritto internazionale. L’elevato costo del rinnovo annuale dei permessi di soggiorno, oltre a politiche poco chiare in materia di rinnovo dei permessi per i rifugiati palestinesi dalla Siria, ha portato molti rifugiati a entrare in uno status irregolare, esponendoli a rischio di arresto, detenzione ed espulsione. Alcune municipalità hanno sottoposto i ri- fugiati a regimi di coprifuoco, limitandone la libertà di movimento, hanno impedito loro di costruire tendopoli informali o hanno imposto tasse aggiuntive ai proprietari terrieri locali che affittavano ai rifugiati le loro proprietà. L’esercito libanese e le forze di sicurezza interne hanno inoltre smantellato alcune tendopoli informali, apparentemente per motivi di sicurezza. La presenza di così tanti rifugiati ha gravato enormemente su servizi come assistenza sanitaria e istruzione, così come su altre risorse del Libano. Tale situazione era ulteriormente aggravata dall’ina- deguatezza dei fondi internazionali che hanno lasciato molti rifugiati senza accesso a cure mediche appropriate, a un riparo, all’istruzione e ad altri servizi. Migliaia di rifugiati palestinesi di lungo termine hanno continuato a vivere in campi e in raggruppamenti abitativi informali in Libano, spesso in condizioni di povertà. Sono stati sottoposti a leggi e regolamenti discriminatori, come ad esempio la negazione del diritto di ereditare una proprietà, del diritto di svolgere circa 20 professioni e di altri diritti fondamentali.

DIRITTI DELLE DONNE Le donne hanno subito discriminazioni nella legge e nella prassi. La legislazione in materia di status personale, relativo a questioni come il matrimonio, ha impedito alle donne libanesi sposate con un cittadino straniero di trasmettere la loro nazionalità ai figli. Ad aprile, per la prima volta una nuova legge ha riconosciuto il reato specifico di violenza domestica. Tra le varie lacune, la legge non ha in- trodotto il reato di stupro maritale, sebbene abbia previsto la creazione di rifugi protetti e misure per rendere più efficace l’azione della polizia e della magistratura nell’affrontare la violenza domestica.

DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI I lavoratori migranti sono stati vittime di sfruttamento e abusi, in particolare le lavoratrici domestiche i cui diritti sindacali, come giornate libere fisse, periodi di riposo, salari e condizioni umane, non sono stati tutelati dalla legge, esponendole a violenze fisiche, sessuali e ad altri abusi da parte dei datori di lavoro. I lavoratori domestici sono stati assunti in base a contratti che li vincolavano ai datori di lavoro, che assumevano il ruolo di “sponsor”, con condizioni che favorivano gli abusi. Spesso i datori di lavoro trattenevano il passaporto dei dipendenti, per impedire loro di uscire da con- dizioni di lavoro vessatorie. A giugno, per la prima volta, un giudice ha ordinato a un datore di lavoro di restituire a una lavoratrice domestica il suo passaporto, stabilendo che nel trattenerlo il datore di lavoro aveva violato la libertà di movimento della donna.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE L’art. 534 del codice penale, che proibiva i rapporti sessuali “contrari all’ordine della natura” è stato

514 utilizzato per perseguire penalmente varie attività sessuali consensuali, compresi i rapporti sessuali tra uomini. A gennaio, un giudice ha stabilito che l’art. 534 non era applicabile nel caso di una donna transgender che aveva avuto rapporti sessuali con uomini. Ad agosto, le autorità hanno arrestato 27 uomini in una sauna a Beirut e li hanno incriminati per reati previsti all’art. 534 e in base a disposizioni relative alla “pubblica decenza” e alla prostituzione. A gennaio, cinque uomini arrestati in quanto sospettati di attività sessuale consenziente tra persone dello stesso sesso, stando alle fonti, sono stati sottoposti a visita anale da parte di un medico, malgrado già nel 2012 l’ordine dei medici libanese avesse bollato come intollerabile da parte dei medici la conduzione di questo tipo di visite, che violano il divieto internazionale di tortura e altro maltrattamento, e una circolare emanata nello stesso anno dal ministero della Giustizia avesse sol- lecitato i pubblici ministeri a cessare questa pratica.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE

Tribunale speciale per il Libano A gennaio è iniziato davanti al Tribunale speciale per il Libano (Special Tribunal for Lebanon – Stl), con sede nei Paesi Bassi, il processo a carico di quattro imputati accusati in relazione all’assassinio dell’ex primo ministro Rafic Hariri, nel 2005. I quattro imputati e un quinto, il cui procedimento è stato accorpato agli altri dall’Stl a febbraio, rimanevano latitanti e sono stati processati in contumacia. Ad aprile, l’Stl ha formalmente incriminato per oltraggio due giornalisti libanesi, tra cui una donna, e le loro rispettive testate, per aver rivelato informazioni riservate riguardanti i testimoni nel processo a carico dei cinque accusati.

Impunità – sparizioni forzate e rapimenti La sorte di migliaia di persone che furono vittime di sparizione forzata, rapite o altrimenti private della loro libertà durante e dopo la guerra civile in Libano, tra il 1975 e il 1990, è rimasta per lo più sconosciuta. A marzo, tuttavia, il consiglio della shura ha stabilito che il rapporto completo, e tuttavia non ancora pubblicato, della Commissione ufficiale d’inchiesta del 2000 per indagare sulla sorte delle persone rapite e scomparse in Libano doveva essere messo a disposizione delle famiglie delle persone scomparse. Dopo l’archiviazione di un appello presentato contro tale decisione, a settembre il rapporto completo è stato consegnato a un avvocato che rappresentava le famiglie. Il Libano ha firmato la Convenzione internazionale contro le sparizioni forzate nel 2007 ma non l’ha ancora ratificata.

PENA DI MORTE I tribunali hanno continuato a comminare condanne a morte per omicidio e reati in materia di terrorismo, alcune anche in contumacia. L’ultima esecuzione risale al 2004.

515 LIBIA

LIBIA

Capo di stato: controverso (Agila Saleh Essa Gweider, presidente della camera dei rappresentanti, subentrato a Nuri Abu Sahmain, presidente del congresso nazionale generale ad agosto) Capo di governo: incerto (Abdallah al-Thinni, subentrato ad Ali Zeidan a marzo; Ahmad Matiq ha brevemente sostituito Abdallah al-Thinni a maggio in seguito a una controversa votazione decretata come incostituzionale; Abdallah al-Thinni è subentrato ad Ahmad Matiq a giugno)

Le milizie e altre forze armate hanno commesso possibili crimini di guerra, altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e violazioni dei diritti umani. Hanno ucciso o ferito centinaia di civili e distrutto e danneggiato infrastrutture e obiettivi in aree abitate da civili, con bombardamenti indi- scriminati a Bengasi, Tripoli, Warshafana, Zawiya, sulle montagne Nafusa e altre località. Le forze di Alba libica, le brigate di Zintan e le milizie di Warshafana hanno rapito civili sulla base dell’origine etnica o dell’affiliazione politica, torturato e altrimenti maltrattato detenuti e, in alcuni casi, hanno ucciso sommariamente i combattenti che erano stati fatti prigionieri. Le forze islamiste affiliate al consiglio della shura dei Rivoluzionari di Bengasi hanno inoltre rapito civili e sommariamente ucciso decine di soldati catturati. Le forze dell’Operazione dignità, che aveva ottenuto il sostegno del governo ad interim con base a Tobruk, hanno effettuato raid aerei su zone abitate danneggiando obiettivi civili e provocando vittime tra i civili; hanno torturato o altrimenti maltrattato alcuni detenuti, sia civili sia combattenti, e si sono rese responsabili di uccisioni sommarie. Le uccisioni di matrice politica sono state frequenti e sono rimaste impunite; centinaia di funzionari della sicurezza, dipendenti statali, leader religiosi, attivisti, giudici, giornalisti e attivisti dei diritti civili sono stati assassinati. È iniziato il processo di 37 funzionari del regime di Mu’ammar al-Gaddafi, in un contesto di gravi pre- occupazioni per la sua regolarità procedurale; la tortura è rimasta dilagante; giornalisti sono stati presi di mira per il loro lavoro e sono aumentate le aggressioni ai danni di cittadini stranieri. L’impunità è rimasta radicata, anche per i casi di violazioni dei diritti umani e gli abusi commessi in passato.

CONTESTO Dopo mesi caratterizzati da una sempre più acuta polarizzazione e crisi politica riguardo alla legittimità e al mandato del congresso nazionale generale (General National Congress – Gnc), il primo parlamento eletto della Libia, il paese è sprofondato nel caos quando Bengasi, Derna, Tripoli, Warshafana, le montagne Nafusa e altre zone sono state travolte dal conflitto armato sul piano politico, ideologico, regionale e tribale. A febbraio, le elezioni per un’assemblea per la stesura della costituzione (Constitution Drafting Assembly – Cda), incaricata di redigere una nuova carta costituzionale, si sono svolte in un contesto di elevata tensione e sono state segnate da violenze, dal boicottaggio da parte di alcune minoranze

516 etniche e da una bassa percentuale di seggi riservati alle donne. A fine anno, la Cda aveva emesso le sue raccomandazioni preliminari e aveva aperto una consultazione pubblica in merito. A maggio, il generale in pensione dell’esercito Khalifa Haftar ha lanciato a Bengasi l’Operazione dignità, un’offensiva militare con il dichiarato scopo di combattere il terrorismo, contro una coalizione formata da Ansar al-Sharia e altri gruppi armati islamisti (in seguito denominati Rivoluzionari del consiglio della shura di Bengasi). Inizialmente condannata dalle autorità, l’Operazione dignità, che si è successivamente allargata a Derna, ha ottenuto il sostegno del nuovo governo entrato in carica in seguito alle elezioni parlamentari di giugno per la creazione di una camera dei rappresentanti (House of Representatives – Hor), che andava a sostituirlo. Le elezioni, anche in questo caso segnate da violenze e da una bassa affluenza ai seggi, hanno determinato una sconfitta per i partiti islamisti. A luglio, una coalizione formata da milizie, basate prevalentemente a Misurata, Zawiya e Tripoli, ha lanciato un’offensiva militare, denominata Alba libica, con il dichiarato scopo di difendere la “rivoluzione del 17 febbraio”, contro le milizie rivali di Zintan e Warshafana, affiliate ai partiti liberali e federalisti che dominavano la Hor, e accusate di condurre una controrivoluzione parallelamente al- l’Operazione dignità. Ad agosto, la Hor è stata spostata a causa dell’insicurezza che prevaleva a Tripoli e ha stabilito la propria sede a Tobruk, una decisione che è stata però boicottata da 30 dei suoi membri. La Hor ha riconosciuto l’Operazione dignità come una legittima operazione militare guidata dall’esercito libico, ha definito le forze di Alba libica e di Ansar al-Sharia gruppi terroristici e ha sol- lecitato l’intervento di governi esteri per proteggere i civili e le istituzioni dello stato. Aerei degli Emirati Arabi Uniti decollati dalle basi aeree egiziane avrebbero compiuto raid aerei contro Alba libica in una battaglia per il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli, conquistato il 23 agosto, costringendo le forze delle brigate di Zintan a fuggire dalla capitale. Hanno inoltre conquistato il con- trollo delle istituzioni dello stato presenti nell’area. I combattimenti e la conseguente insicurezza con attacchi a diplomatici stranieri e al personale di organizzazioni internazionali hanno portato la Missione di sostegno in Libia delle Nazioni Unite (UN Support Mission in Libya – Unsmil), il cui mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stato rinnovato a marzo, le ambasciate estere e le organizzazioni internazionali a sospendere le loro operazioni a Tripoli e a evacuare lo staff. Bombardamenti e altri attacchi si sono susseguiti per tutto l’anno, prendendo di mira edifici governativi e luoghi pubblici. Dopo aver conquistato Tripoli, le forze di Alba libica hanno ricomposto il Gnc, nominando un nuovo primo ministro e un governo di salvezza nazionale (National Salvation Government – Nsg). Quest’ultimo ha sostenuto di aver preso in carico la maggior parte delle istituzioni dello stato nell’ovest del paese, in contrapposizione al governo della Hor di Tobruk. Il 6 novembre, la Corte suprema ha emesso una sentenza che invalidava le elezioni alla Hor. Il governo con sede a Tobruk, riconosciuto dalle Nazioni Unite e appoggiato dalla maggioranza della comunità internazionale, ha rifiutato la sentenza, sostenendo che i giudici erano stati minacciati da Alba libica. Scontri armati tra tribù rivali sono proseguiti a Sabha e Obari, nella regione sudoccidentale della Libia, causando un peggioramento della situazione umanitaria. La città orientale di Derna era sotto il controllo di gruppi armati islamisti che applicavano una rigida interpretazione della sharia (legge islamica) e che si sono resi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. A ottobre, un gruppo armato con base a Derna, il Consiglio della shura della gioventù islamica, ha dichiarato la propria alleanza al gruppo armato Stato islamico, che combatteva in Siria e Iraq.

517 CONFLITTO ARMATO INTERNO Le parti belligeranti hanno compiuto nell’est e nell’ovest della Libia attacchi indiscriminati, che hanno provocato centinaia di vittime tra i civili e danneggiato edifici e infrastrutture civili come ospedali, abitazioni, moschee, attività produttive, fattorie, stazioni di rifornimento, aeroporti, strade e grossi serbatoi di stoccaggio del carburante. Hanno lanciato attacchi d’artiglieria, mortai, razzi Grad e controffensive antiaeree da e contro centri abitati. Le forze dell’Operazione dignità hanno ef- fettuato raid aerei su Bengasi, Derna, Tripoli, Zuara, Bir al-Ghanem e Misurata, in alcuni casi colpendo aree residenziali e, secondo le notizie ricevute, uccidendo e ferendo civili e danneggiando edifici civili. Le Brigate di Zintan avrebbero impiegato mine antipersona nei dintorni dell’aeroporto interna- zionale di Tripoli. Secondo fonti ufficiali, l’attacco di Alba libica contro le Brigate di Zintan, che difendevano l’aeroporto internazionale di Tripoli, hanno danneggiato diversi edifici e velivoli. A dicembre, un razzo ha colpito una grande cisterna di benzina al porto di al-Sider provocando un incendio e distruggendo 1.8 milioni di barili di greggio. Fatta salva qualche eccezione, milizie, unità dell’esercito e gruppi armati hanno dimostrato un generale disprezzo per la vita dei civili, oltre che per le infrastrutture e gli obiettivi civili, e non hanno provveduto ad adottare le precauzioni necessarie per evitare o limitare al massimo le vittime civili e i danni. Pesanti combattimenti nei centri abitati hanno causato la distruzione delle strutture medico- sanitarie, specialmente a Warshafana e Bengasi, dove è stato necessario evacuare i pazienti dagli ospedali. In tutta la Libia sono state riferite situazioni di scarsità di carburante, elettricità, cibo e farmaci. A Warshafana e Tripoli, le forze di Alba libica hanno saccheggiato e distrutto abitazioni e altre proprietà sulla base dell’origine del proprietario o della sua affiliazione politica. I gruppi armati hanno negato l’accesso agli aiuti umanitari a Obari e hanno impedito l’evacuazione dei feriti a Kikla. L’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha calcolato che tra metà maggio e metà novembre le persone sfollate internamente a causa del conflitto erano quasi 395.000. La comunità tawargha, sfollata dal 2011, è stata colpita da ulteriori sfollamenti e attacchi da parte delle milizie; molti hanno cercato riparo all’interno di parchi cittadini e parcheggi. Le forze armate di tutte le parti in conflitto hanno compiuto rapimenti in rappresaglia, catturando civili unicamente a causa della loro origine o percepita affiliazione politica, spesso trattenendoli in ostaggio allo scopo di ottenere scambi di prigionieri. Sia le forze di Alba libica sia i gruppi armati affiliati alla coalizione di Zintan-Warshafana hanno torturato e altrimenti maltrattato combattenti catturati e civili che avevano rapito, con scosse elettriche, posizioni di stress e negazione di cibo, acqua e adeguati servizi igienici. Tutte le parti in conflitto hanno ucciso sommariamente combattenti che avevano catturato. A Bengasi, le forze affiliate al Consiglio della shura dei rivoluzionari di Bengasi hanno rapito civili; commesso esecuzioni sommarie, incluse decapitazioni di soldati fatti prigionieri e presunti sostenitori o gruppi alleati con le forze dell’Operazione dignità; bruciato e distrutto decine di case e altre proprietà di persone sospettate di essere islamiste; detenuto civili sulla base della loro affiliazione politica e compiuto molti atti di tortura e altri maltrattamenti.

UCCISIONI ILLEGALI Secondo le accuse, gruppi armati islamisti hanno compiuto centinaia di omicidi di matrice politica a Bengasi, Derna e Sirte, colpendo tra gli altri funzionari della sicurezza, dipendenti statali, leader

518 religiosi, attivisti, giornalisti, giudici e procuratori. Nessuno dei responsabili di questi omicidi è stato chiamato a risponderne. A maggio, uomini armati hanno ucciso a colpi d’arma da fuoco un delegato dell’Icrc a Sirte. A giugno, l’avvocata per i diritti umani e attivista Salwa Bughaighis è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco nella sua abitazione dopo aver rilasciato un’intervista alla stampa in cui accusava i gruppi armati di mettere a repentaglio le elezioni parlamentari. A luglio, aggressori non identificati hanno ucciso la parlamentare del Gnc Fariha Barkawi, a Derna. Il 19 settembre, conosciuto come Venerdì nero, almeno 10 persone, compresi due giovani attivisti, sono stati uccisi da aggressori non identificati. Il Consiglio della shura della gioventù islamica, un gruppo armato che controllava Derna e che aveva creato nella città un tribunale islamico, ha effettuato pubblicamente due uccisioni sommarie con le caratteristiche di un’esecuzione, oltre a fustigazioni pubbliche. Ad agosto, un uomo egiziano accusato di furto e omicidio è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco in uno stadio di Derna. A novembre, tre attivisti sono stati decapitati a Derna, dopo essere stati rapiti, verosimilmente da un gruppo armato islamista. A dicembre, il tribunale islamico ha inviato un ammonimento agli attuali ed ex dipendenti dei ministeri dell’Interno, Giustizia e Difesa.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ASSOCIAZIONE E RIUNIONE Il Gnc ha rafforzato le restrizioni imposte alle libertà d’espressione, associazione e riunione. Il Decreto 5/2014, adottato dal Gnc a gennaio, ha vietato alle emittenti satellitari di trasmettere opinioni ritenute “ostili alla rivoluzione del 17 febbraio”, mentre il Decreto 13/2014 ha conferito alle autorità il potere di sospendere le borse di studio a quegli studenti e gli stipendi a quei dipendenti statali all’estero che avevano condotto “attività ostili alla rivoluzione del 17 febbraio”. La Legge 5/2014 ha emendato l’art. 195 del codice penale, rendendo un reato gli insulti a un pubblico ufficiale, all’emblema e alla bandiera della nazione e qualsiasi atto percepito come “un attacco alla rivoluzione del 17 febbraio”. A gennaio, un tribunale ha condannato un ingegnere a tre anni di carcere per aver partecipato a una protesta tenutasi a Londra, nel Regno Unito, a giugno 2011 contro l’intervento della Nato nel conflitto libico e, stando alle accuse, per aver pubblicato false informazioni riguardanti la Libia. A novembre, il caporedattore Amara al-Khattabi è stato condannato a cinque anni di carcere per aver insultato un pubblico ufficiale, interdetto dalla professione di giornalista e privato dei diritti civili per un periodo pari alla durata della sentenza e condannato a pagare pesanti ammende.1 Le milizie hanno aumentato i loro attacchi contro i mezzi d’informazione, rapendo decine di giornalisti e sottoponendone altri ad aggressioni fisiche o altro maltrattamento, detenzione arbitraria, minacce e tentati omicidi. Almeno quattro giornalisti sono stati vittime di uccisioni illegali, compreso il capo- redattore di un quotidiano Muftah Abu Zeid, ucciso a colpi d’arma da fuoco da uomini armati non identificati a Bengasi a maggio. Ad agosto, le forze di Alba libica a Tripoli hanno distrutto e bruciato i locali che ospitavano due emittenti televisive, Al-Assema e Libya International. Decine di giornalisti, difensori dei diritti umani e attivisti sono fuggiti all’estero a causa delle minacce avanzate nei loro confronti da parte delle milizie. A settembre, le forze di Alba libica hanno effettuato un’irruzione negli uffici della commissione nazionale per i diritti umani e hanno portato via gli archivi contenenti fascicoli relativi a denunce di privati cittadini, facendo temere possibili rappresaglie contro le vittime di abusi. A novembre, il consiglio nazionale per i diritti umani e le libertà civili è stato chiuso, stando alle notizie per l’intervento delle forze di Alba libica, in un contesto d’intimidazioni nei confronti dei suoi membri.

519 SISTEMA GIUDIZIARIO Il sistema giudiziario è rimasto paralizzato a causa del clima di violenza e d’illegalità che ha ostacolato le indagini sugli abusi. A marzo, i tribunali hanno sospeso le attività a Derna, Bengasi e Sirte, in un contesto di minacce e attacchi a giudici e procuratori. Il ministero della Giustizia ha potuto esercitare soltanto un controllo fittizio su molte strutture di detenzione, dove erano reclusi presunti lealisti di Mu’ammar al-Gaddafi. La scadenza, stabilita dalla legge sulla giustizia transizionale poi prorogata dal Gnc, per l’incriminazione o il rilascio entro il 2 aprile di tutti i detenuti sottoposti a custodia in relazione al conflitto del 2011 non è stata rispettata. A marzo, soltanto il 10 per cento dei 6200 detenuti reclusi in penitenziari facenti capo al ministero della Giustizia era stato processato e centinaia di persone continuavano a essere trattenute senza accusa né processo in condizioni deplorevoli. Gli ordini di rilascio sono rimasti inapplicati a causa delle pressioni esercitate dalle milizie. I ritardi nell’esame dei casi giudiziari riguardanti presunti lealisti di al-Gaddafi, trattenuti dal 2011, si sono allungati ulteriormente a causa del conflitto armato, in quanto i bombardamenti hanno impedito il trasferimento dei detenuti per il processo. In diverse città le visite familiari nelle carceri sono state sospese, facendo temere per la sicurezza dei detenuti. A marzo è iniziato il processo di 37 ex funzionari del regime di Mu’ammar al-Gaddafi, tra gravi timori per la sua regolarità procedurale. Oltre a ricevere intimidazioni, agli avvocati della difesa è stato negato l’accesso ad alcuni elementi di prova e non è stato dato un periodo di tempo adeguatamente sufficiente per prepararsi. Saif al-Islam al-Gaddafi, uno dei figli di Mu’ammar al-Gaddafi e principale imputato, è comparso in tribunale soltanto in videoconferenza, in quanto trattenuto in custodia a Zinta, sollevando dubbi circa l’effettiva autorità del tribunale nei suoi confronti. Le autorità che con- trollavano il complesso penitenziario di al-Hadba, che ospitava l’aula giudiziaria, hanno negato l’ac- cesso ad alcuni osservatori indipendenti dei processi, tra cui Amnesty International. Un video delle “confessioni” rilasciate da un altro dei figli di Mu’ammar al-Gaddafi, Saadi al-Gaddafi, è stato trasmesso alla televisione libica in seguito alla sua estradizione dal Niger e alla sua carcerazione ad al-Hadba. Le autorità del penitenziario lo hanno interrogato in assenza di un avvocato e hanno impedito l’accesso al detenuto da parte dell’Unsmil, Amnesty International e altri, malgrado tali visite fossero state autorizzate dalla pubblica accusa. A Zawiya, a ovest di Tripoli, decine di lealisti di al-Gaddafi sono stati detenuti per periodi fino a 18 mesi oltre la data stabilita per il rilascio, in quanto le sentenze non tenevano conto del periodo di de- tenzione arbitraria da parte delle milizie. Tortura e altri maltrattamenti hanno continuato a dilagare, sia nelle carceri statali sia in quelle gestite dalle milizie, e sono proseguite le segnalazioni di decessi in custodia causati da tortura.

IMPUNITÀ Le autorità non hanno provveduto a condurre indagini significative su presunti crimini di guerra e gravi violazioni dei diritti umani commessi durante il conflitto armato del 2011 o per affrontare l’eredità delle violazioni compiute in precedenza sotto il regime di Mu’ammar al-Gaddafi, compresa l’uccisione di massa di oltre 1200 detenuti nel carcere di Abu Salim, nel 1996. Le autorità non hanno altresì provveduto a consegnare Saif al-Islam al-Gaddafi all’Icc, per rispondere di accuse di crimini contro l’umanità. A maggio, la Camera d’appello dell’Icc ha confermato l’obbligo legale della Libia di trasferirlo alla custodia dell’Icc.

520 A luglio, la Camera d’appello dell’Icc ha confermato una decisione in base alla quale Abdallah al-Se- nussi, un ex comandante dell’intelligence militare accusato di crimini contro l’umanità, poteva essere processato in Libia. Tuttavia, permanevano preoccupazioni riguardo alle violazioni dei suoi diritti alle procedure dovute, anche in merito alle restrizioni imposte all’accesso a un avvocato di sua scelta. Il procuratore dell’Icc ha aperto un secondo fascicolo giudiziario e ha iniziato a formulare le prove a carico dei sospettati residenti all’estero, in linea con un accordo siglato con il governo libico nel 2013 riguardante i procedimenti giudiziari nei confronti di ex funzionari di al-Gaddafi. Nonostante le pre- occupazioni espresse a novembre per il fatto che “venivano commessi dei reati entro la giurisdizione dell’Icc”, il procuratore dell’Icc non ha avviato indagini sui crimini compiute dalle milizie. Ad agosto, la risoluzione 2174 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha esteso l’ambito di ap- plicazione delle sanzioni internazionali, al fine d’includere coloro che si erano resi responsabili di “aver pianificato, diretto o commesso” in Libia violazioni delle norme internazionali sui diritti umani o del diritto internazionale umanitario o violazioni dei diritti umani.

DIRITTI DELLE DONNE Le donne hanno continuato a essere discriminate nella legge e nella prassi e non sono state adegua- tamente tutelate contro la violenza di genere; sono aumentate le segnalazioni di molestie sessuali. È stato adottato un decreto per fornire riparazione alle vittime di violenza sessuale da parte di agenti statali sotto il regime di Mu’ammar al-Gaddafi e durante il conflitto del 2011, che tuttavia è rimasto in larga parte inapplicato. Le donne candidate alla Cda hanno incontrato difficoltà nella campagna elettorale e per la registrazione al voto. Attiviste per i diritti delle donne sono state soggette a intimidazioni e in alcuni casi aggredite dalle milizie. Sempre più spesso le donne che non portavano il velo sono state fermate, vessate e minacciate ai posti di blocco. È stato segnalato che, nella zona di Sabha, diverse donne sono state uccise da parenti di sesso maschile nei cosiddetti “delitti d’onore”.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI Migliaia di migranti privi di documenti, richiedenti asilo e rifugiati sono stati detenuti a tempo inde- terminato per reati in materia d’immigrazione, dopo essere stati intercettati in mare o a seguito di controlli dei documenti d’identità. Hanno subito tortura e altri maltrattamenti in centri di detenzione gestiti dal ministero dell’Interno e dalle milizie, per motivi legati tra l’altro alla loro religione, e sono stati sottoposti a lavoro forzato. Le donne sono state soggette a perquisizioni corporali intime da parte di guardie di sesso maschile. Cittadini stranieri, in particolare egiziani copti, sono stati rapiti, sottoposti ad abusi e vittime di uccisioni illegali a causa del loro credo religioso. A febbraio, sette lavoratori migranti egiziani copti sono stati rapiti e uccisi a colpi d’arma da fuoco a Bengasi, per mano di presunti membri di Ansar al-Sharia. Le autorità hanno continuato a sottoporre cittadini stranieri a esami medici obbligatori, come prere- quisito per il rilascio di permessi di soggiorno e di lavoro, e hanno detenuto chiunque fosse diagnosticato positivo all’epatite B o C o all’Hiv in vista dell’espulsione. Cittadini stranieri sono stati vittime di rapimenti e abusi a scopo di riscatto. Molti sono divenuti vittime della tratta di esseri umani da parte di trafficanti in seguito al loro ingresso irregolare nel paese.

521 L’escalation di violenza ha costretto circa 130.000 rifugiati e migranti, compresi rifugiati dalla Siria, a salpare verso l’Italia a bordo di pescherecci inidonei alla navigazione e sovraffollati. Molti hanno trascorso settimane rinchiusi sotto chiave dai trafficanti all’interno di case, prima della partenza e sono stati vittime di sfruttamento, coercizione e abusi. I trafficanti hanno costretto persone provenienti dall’Africa Subsahariana a viaggiare sottocoperta, senza acqua o ventilazione, all’interno di spazi surriscaldati localizzati vicino al motore; alcuni sono morti per asfissia o intossicazione da fumi. L’Unhcr ha riferito a metà novembre che 14.000 tra rifugiati registrati e richiedenti asilo erano in- trappolati in zone di conflitto in Libia.

DISCRIMINAZIONE – MINORANZE RELIGIOSE ED ETNICHE Sono proseguite le aggressioni a luoghi di culto sufi e le autorità non hanno provveduto a fornire ade- guata protezione o a condurre indagini. A Tripoli, Brak al-Shatti, Derna e Awjila sono state distrutte tombe sufi. A luglio, a Tripoli, aggressori non identificati hanno rapito Tarek Abbas, un imam sufi, poi liberato a dicembre. Atei e agnostici libici sono stati al centro di minacce e intimidazioni da parte di milizie, in relazione ad alcuni loro scritti pubblicati sui social network. Le minoranze etniche tabu e tuareg hanno continuato a incontrare ostacoli nel rilascio dei libretti d’identità familiare, necessari per poter accedere al servizio sanitario, all’istruzione e per la parteci- pazione politica.

PENA DI MORTE La pena di morte è rimasta in vigore per molti tipi di reato. Non sono state segnalate esecuzioni giu- diziarie.

Note 1. Libya: Jail sentence of Libyan editor a blow to free expression (MDE 19/010/2014), www.amnesty.org/en/library/asset/ MDE19/010/2014/en/fceae73d-bc0e-49e5-8b19-b08f74d4057b/mde190102014en.pdf

MAROCCO E SAHARA OCCIDENTALE

REGNO DEL MAROCCO

Capo di stato: re Mohamed VI Capo di governo: Abdelilah Benkirane

Le autorità hanno continuato a imporre restrizioni ai diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione. Hanno represso il dissenso, perseguendo penalmente giornalisti e incarcerando attivisti, posto limiti i gruppi per i diritti umani e altre associazioni e disperso con la forza manifestazioni pa- cifiche e altre proteste. Sono stati ancora segnalati episodi di tortura e altri maltrattamenti in deten-

522 zione, dovuti a inadeguati meccanismi di tutela e accertamento delle responsabilità e all’accettazione da parte dei tribunali di confessioni ottenute con la tortura. Una nuova legge ha eliminato una scap- patoia che permetteva agli stupratori di eludere la giustizia ma le donne hanno continuato a non essere adeguatamente protette contro la violenza sessuale. Le autorità hanno contribuito a espellere illegalmente in Marocco migranti e richiedenti asilo dalla Spagna. La pena di morte è rimasta in vigore ma il governo ha mantenuto una consolidata moratoria sulle esecuzioni.

CONTESTO In seguito al varo di una nuova costituzione nel 2011, il governo ha iniziato a dare attuazione alle riforme sul piano legislativo e giudiziario. I legislatori hanno approvato una normativa per porre fine ai procedimenti giudiziari di civili davanti a tribunali militari né la bozza del codice di procedura penale. Il governo ha emendato il codice penale al fine d’impedire agli stupratori di eludere la pena sposando la loro vittima. A fine 2014, una bozza di codice di procedura penale e civile doveva ancora essere dibattuta. Il dissenso politico si è attenuato rispetto agli anni precedenti ma nel paese è rimasto un clima di in- stabilità sociale, segnato da proteste per il lavoro, alloggi e una più equa distribuzione della ricchezza generata dalle risorse naturali del paese.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Le autorità hanno perseguito penalmente giornalisti, attivisti, artisti e altre persone critiche o che ri- tenevano aver insultato il re o le istituzioni dello stato o aver appoggiato il “terrorismo”, secondo l’ampio significato attribuito a questo termine dalla legislazione antiterrorismo del Marocco. Il giornalista Ali Anouzla è rimasto sotto processo per l’accusa di aver appoggiato e favorito il terrorismo per aver pubblicato un articolo sul portale di notizie online Lakome riguardante un video diffuso dal gruppo armato al-Qaeda nel Mahgreb islamico (al-Qa’ida in the Islamic Maghreb – Aqim). Sebbene non avesse ripubblicato direttamente sul sito il video, intitolato “Marocco: regno di corruzione e dispotismo”, e lo avesse definito “propaganda”, in caso di un verdetto di colpevolezza, Ali Anouzla rischierebbe una condanna fino a 20 anni di carcere.1 Le autorità hanno formulato accuse di diffamazione e insulti a pubblico ufficiale nei confronti del giornalista Hamid El Mahdaoui, dopo che il direttore nazionale della polizia aveva sporto denuncia per gli articoli da lui pubblicati sul notiziario online Badil.info, riguardanti il caso di Karim Lachqar, morto dopo essere stato arrestato e incarcerato dalla polizia ad Al Hoceima. La polizia ha chiesto la sua interdizione dalla professione per 10 anni e il pagamento di una cospicua somma come risarcimento danni. A fine anno, il processo a suo carico era ancora in corso. Rabie Lablak, testimone dell’arresto di Karim Lachqar, è stato perseguito per “falsa testimonianza” circa le circostanze dell’arresto. A giugno e luglio, due membri dell’Associazione marocchina per i diritti umani (Association marocaine des droits de l’homme − Amdh), Oussama Housne e Wafae Charaf, sono stati giudicati colpevoli di “aver riferito il falso”, per aver affermato di essere stati in precedenza rapiti e torturati da individui non identificati. I due sono stati condannati rispettivamente a tre e due anni di carcere e i tribunali hanno inoltre ordinato loro di corrispondere una somma a titolo di risarcimento per “diffamazione” della polizia, sebbene nessuno dei due avesse mosso accuse contro la stessa.2 Il perseguimento e la condanna al carcere dei due attivisti potevano scoraggiare le vittime di tortura o altri abusi per mano della polizia dallo sporgere denuncia.

523 A ottobre, una corte ha condannato il rapper diciassettenne Othman Atiq, il cui nome d’arte è Mr Crazy, a tre mesi di reclusione per aver “insultato” le forze di polizia del Marocco, “danneggiamento della morale pubblica” e “incitamento all’assunzione di droghe” nelle sue canzoni e nei videoclip.

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE Le autorità hanno bloccato i tentativi di diversi gruppi per i diritti umani di ottenere la registrazione uf- ficiale che avrebbe consentito loro di operare legalmente. Tra questi, c’erano alcune sezioni dell’Amdh e Freedom now, un’organizzazione per la libertà di stampa fondata da Ali Anouzla e altri giornalisti in- dipendenti, difensori dei diritti umani e intellettuali. Durante la seconda metà dell’anno, le autorità hanno vietato gli eventi pubblici di molti gruppi per i diritti umani in tutto il paese. Le restrizioni sono andate avanti senza interruzioni fino a fine anno, nonostante una storica sentenza di un tribunale am- ministrativo avesse giudicato illegale il divieto di un evento pubblico di Amdh a Rabat a settembre.3 A settembre, le autorità hanno inoltre impedito ad Amnesty International, di svolgere il suo annuale campo giovanile.4

LIBERTÀ DI RIUNIONE La polizia e altre forze di sicurezza hanno disperso manifestazioni pacifiche e altre proteste da parte di laureati disoccupati, lavoratori, studenti, attivisti per la giustizia sociale e sostenitori del Movimento 20 febbraio, che invoca riforme politiche. Spesso è stato fatto un uso non necessario o eccessivo della forza. Altre proteste sono state vietate. Alcuni manifestanti sono stati arrestati e detenuti per mesi, per poi essere condannati a pene detentive al termine di procedimenti che non hanno rispettato gli standard internazionali di equità processuale. I tribunali hanno spesso fatto affidamento su prove inattendibili per formulare nei confronti dei manifestanti accuse di aggressione a pubblico ufficiale e danneggiamento di beni. A dicembre, le autorità hanno imposto una multa di un milione di dirham (circa 90.000 euro) a 52 membri all’organizzazione Al-Adl Wal Ihsane (Giustizia e spiritualità) nell’area di Tinghir e Ouarzazate per “aver tenuto incontri non autorizzati” in case private nel 2008. Ad aprile, la polizia ha arrestato nove uomini dopo che avevano partecipato a una manifestazione pa- cifica di laureati che chiedevano un impiego nel settore pubblico a Rabat. Youssef Mahfoud, Ahmed El Nioua, Moufid El Khamis, Rachid Benhamou, Soulimane Benirou, Abdelhak El Har, Aziz El Zitouni, Mohamed El Allali e Mustapha Abouzir sono stati in seguito condannati a 28 mesi di reclusione, 12 dei quali sono stati sospesi, dopo essere stati ritenuti colpevoli di accuse come “ostruzione della linea ferroviaria” e “ribellione”. Anche 11 membri del Movimento 20 febbraio sono stati arrestati ad aprile, dopo che avevano partecipato a una manifestazione sindacale pacifica ufficialmente autorizzata, a Casablanca. Due di loro sono stati condannati a due mesi di reclusione con sospensione della pena e sono stati rimessi in libertà ma gli altri nove sono rimasti in detenzione preprocessuale fino a giugno, quando sono stati condannati per accuse di aggressione a pubblico ufficiale. Sono stati condannati a sei mesi o a un anno di carcere, al pagamento di una multa e a corrispondere un risarcimento alla polizia. Le loro condanne sono state sospese in appello.

REPRESSIONE DEL DISSENSO – ATTIVISTI SAHARAWI Le autorità marocchine hanno continuato a reprimere ogni tipo di richiesta di autodeterminazione dei

524 saharawi nel Sahara Occidentale, annesso al Marocco nel 1975. Attivisti politici saharawi, manifestanti, difensori dei diritti umani e operatori dei mezzi d’informazione hanno subito una serie di restrizioni che hanno limitato i loro diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione e hanno rischiato d’incorrere in arresti, tortura e altri maltrattamenti e di essere perseguiti penalmente. Le autorità hanno vietato le proteste e hanno disperso con la forza i raduni che organizzavano, spesso facendo uso eccessivo della forza. Abdelmoutaleb Sarir ha affermato che, dopo il suo arresto a febbraio in relazione a una protesta che si era svolta a Laayoune, agenti di polizia lo avevano torturato, anche stuprandolo con una bottiglia, e che poi lo avevano costretto a firmare un rapporto d’interrogatorio senza permettergli di leggerlo. Non ci sono state notizie d’indagini disposte dalle autorità in merito alle accuse da lui avanzate né di una perizia medica per accertare lesioni collegate alla tortura. Il 10 settembre, un tribunale lo ha condannato a 10 mesi di reclusione per accuse come “costituzione di banda criminale” e “insulti e aggressione nei confronti di agenti di sicurezza”, sulla base della confessione contenuta nel rapporto d’interrogatorio che ha affermato essere stato costretto a firmare.5 Nel Sahara Occidentale, le autorità marocchine hanno reso vani i tentativi da parte di gruppi per i diritti umani, come l’Associazione saharawi delle vittime delle gravi violazioni dei diritti umani com- messe dallo stato del Marocco (Association sahraouie des victimes des violations graves des droits de l’homme – Asvdh), di ottenere la registrazione ufficiale, necessaria per poter operare legalmente, avere una sede ufficiale, organizzare eventi pubblici e chiedere sovvenzioni. Almeno 39 giornalisti e attivisti stranieri hanno riferito che durante l’anno le autorità marocchine avevano impedito il loro ingresso nel paese o li avevano espulsi dal Sahara Occidentale. Ad aprile, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha rinnovato per un altro anno il mandato della Missione delle Nazioni Unite per l’organizzazione di un referendum nel Sahara Occidentale (Mission des Nations Unies pour l’organisation d’un référendum au Sahara Occidental – Minurso), senza tuttavia prevedere alcuno strumento di monitoraggio sui diritti umani.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Ci sono state ulteriori denunce di tortura e altri maltrattamenti, spesso inflitti nei momenti immedia- tamente successivi all’arresto. Solo in qualche caso sono state ordinate perizie mediche ma, in linea generale, le autorità non hanno provveduto a svolgere indagini. I tribunali hanno continuato a consi- derare ammissibili come prove a carico confessioni che gli imputati sostenevano essere state ottenute tramite tortura o altro maltrattamento. A maggio, il ministro della Giustizia e delle libertà ha diramato lettere circolari a pubblici ministeri e giudici, esortandoli a disporre perizie medico-legali e indagini nei casi di accuse di tortura o altri maltrattamenti in detenzione. A maggio, le autorità hanno riaperto un’indagine sulla tortura del prigioniero Ali Aarrass, in seguito a una decisione del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Ali Aarrass, detenuto in Marocco dal suo rimpatrio forzato dalla Spagna nel 2010, ha denunciato di essere stato torturato e altrimenti maltrattato durante la sua detenzione in Marocco nel 2010 e anche successivamente. A fine anno, l’inchiesta era ancora in corso. Ad agosto, un tribunale di Agadir, ha ribaltato la condanna di un imputato sulla base di una confessione estorta, dopo che gli esami forensi avevano confermato che aveva subito tortura. Un uf- ficiale di polizia a fine anno era ancora sotto indagine per accuse di tortura o altro maltrattamento.

525 Persone incarcerate, compresi detenuti in attesa di giudizio, hanno intrapreso scioperi della fame per protestare contro le dure condizioni all’interno degli istituti di pena, come scarsa igiene e servizi igie- nico-sanitari, alimentazione e assistenza medica inadeguate, grave sovraffollamento e restrizioni al diritto di ricevere visite e nell’accesso all’educazione.

PROCESSI INIQUI I tribunali hanno frequentemente ignorato le obiezioni sollevate dagli avvocati della difesa circa le violazioni della procedura penale e hanno fatto affidamento su confessioni che erano state verosimil- mente ottenute tramite tortura o altro maltrattamento, mentre gli imputati erano trattenuti in detenzione preprocessuale. In alcuni casi, i giudici si sono rifiutati di consentire agli avvocati difensori di controinterrogare i testimoni dell’accusa o di chiamare a deporre i testimoni della difesa. Le autorità hanno perseguito manifestanti e attivisti per accuse come ribellione, assembramento ar- mato, aggressione, furto e danneggiamento di beni o per accuse in materia di droga. Mbarek Daoudi, ex soldato dell’esercito marocchino e fautore dell’autodeterminazione del popolo sa- harawi, è rimasto in detenzione in attesa di essere processato davanti al tribunale militare permanente di Rabat. Vittima di quello che è parso essere un procedimento giudiziario di natura politica, doveva rispondere di accuse come detenzione di munizioni da caccia senza licenza e tentata fabbricazione di armamenti senza licenza, sulla base del possesso di un vecchio fucile trovatogli addosso dai poliziotti quando lo arrestarono a settembre 2013. Il suo processo, che avrebbe dovuto iniziare a gennaio, è stato rinviato a data da decidere, su richiesta della pubblica accusa. A marzo, la gendarmeria ha arrestato Omar Moujane, Ibrahim Hamdaoui e Abdessamad Madri, attivisti che stavano prendendo parte a una manifestazione pacifica contro l’utilizzo di risorse naturali presso una miniera argentifera vicino a Imider, a sud della catena montuosa dell’Atlante. I tre sono stati mal- trattati durante l’interrogatorio e quindi processati e giudicati colpevoli per accuse come blocco del traffico e interruzione di pubblico servizio, protesta non autorizzata, danneggiamento aggravato e ri- bellione. Sono stati condannati a tre anni di carcere al termine di un processo iniquo, multati ed è stato loro ordinato di pagare un risarcimento alla società mineraria. Il tribunale si è fortemente basato sui rapporti d’interrogatorio che gli imputati hanno dichiarato di aver firmato con l’inganno e senza poterli leggere. A fine anno, i casi dovevano ancora essere riesaminati dalla Corte di cassazione.

MANCATO ACCERTAMENTO DELLE RESPONSABILITÀ Nonostante i progressi ottenuti nelle riforme giudiziarie, le autorità non hanno compiuto passi avanti per recepire altre raccomandazioni cruciali formulate dalla commissione verità e riconciliazione, con- cernenti la riforma del settore della sicurezza e una strategia nazionale per combattere l’impunità. Le vittime delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate tra il 1956 e il 1999 non avevano ancora ot- tenuto giustizia e diversi casi di sparizioni forzate sono rimasti irrisolti.

DIRITTI DI DONNE E RAGAZZE A gennaio, il parlamento ha approvato un emendamento all’art. 475 del codice penale che ha cancellato una disposizione che in precedenza consentiva agli uomini che stupravano ragazze al di sotto dei 18 anni di eludere la giustizia, se sposavano la loro vittima. Tuttavia, una bozza di legge sulla violenza contro donne e ragazze, che avrebbe dovuto rimediare alla mancanza di un quadro legale e politico esauriente in grado di affrontare questo tipo di abusi, è rimasta all’esame del comitato di esperti al quale era stata trasmessa a dicembre 2013.

526 Le donne non sono state adeguatamente tutelate contro la violenza sessuale e i rapporti sessuali consenzienti al di fuori del matrimonio sono rimasti reato.

DIRITTO ALLA RISERVATEZZA A maggio, settembre e dicembre, i tribunali di Fqih Ben Salah, Marrakech e Al Hoceima hanno giudicato colpevoli otto uomini per accuse comprendenti l’aver avuto rapporti omosessuali e hanno imposto condanne fino a tre anni di carcere. I rapporti sessuali consenzienti tra persone dello stesso sesso sono rimasti un reato.

RIFUGIATI, RICHIEDENTI ASILO E MIGRANTI Il Marocco ha continuato a collaborare con le autorità spagnole nell’espulsione illegale di migranti, in maggioranza provenienti dall’Africa Subsahariana ed entrati irregolarmente in Spagna attraverso la recinzione posta lungo il confine tra il Marocco e le enclave di Melilla e Ceuta. Le autorità marocchine hanno cooperato alla riammissione in Marocco di alcuni di questi migranti, compresi possibili richiedenti asilo e sono giunte notizie secondo cui sia la polizia di frontiera spagnola sia quella ma- rocchina avevano fatto un uso non necessario ed eccessivo della forza. Le autorità non hanno provveduto a indagare su questi decessi e sui ferimenti, né su altri episodi di violenza di matrice razziale contro migranti subsahariani, avvenuti ad agosto e settembre a Tangeri e Nador.

PENA DI MORTE I tribunali hanno comminato almeno nove condanne a morte ma non ci sono state esecuzioni. Il governo ha mantenuto una moratoria de facto sulle esecuzioni in vigore dal 1993. Nessuno dei prigionieri nel braccio della morte hanno visto commutate le loro condanne in pene carcerarie. A dicembre, il Marocco si è astenuto durante il voto di una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che chiedeva una moratoria mondiale sulle esecuzioni.

CAMPI DEL POLISARIO I campi di Tindouf, nella regione di Mhiriz, in Algeria, dove si erano stabiliti i saharawi fuggiti dal Sahara Occidentale all’epoca della sua annessione al Marocco, hanno continuato a non avere un regolare monitoraggio indipendente sui diritti umani. Il Fronte Polisario non ha adottato misure per porre fine all’impunità per coloro che erano accusati di aver commesso violazioni dei diritti umani nei campi sotto il suo controllo, nel corso degli anni Settanta e Ottanta.

Note 1. Morocco: Stop using ‘terrorism’ as a pretext to imprison journalists (comunicato stampa, 20 maggio 2014) http://www.am- nesty.org/en/for-media/press-releases/morocco-stop-using-terrorism-pretext-imprison-journalists-2014-05-20 2. Morocco: Activists jailed for reporting torture must be released immediately (comunicato , 14 agosto 2014) http://www.am- nesty.org/en/for-media/press-releases/morocco-activists-jailed-reporting-torture-must-be-released-immediately-201 3. Morocco/Western Sahara: Lift restrictions on associations (dichiarazione pubblica, 26 novembre 2014), http://www.amnesty.org/en/library/info/MDE29/010/2014/en 4. Amnesty International deplores the Moroccan authorities’ decision to ban youth camp (MDE 29/006/2014) http://www.am- nesty.org/en/library/info/MDE29/006/2014/en 5. Morocco: Sahrawis on hunger strike against torture (MDE 29/007/2014) http://www.amnesty.org/en/library /info/MDE29/007/2014/en

527 OMAN

SULTANATO DELL’OMAN

Capo di stato e di governo: sultano Qaboos bin Said

Le autorità statali hanno continuato a limitare la libertà d’espressione, anche sui mezzi d’informazione tradizionali e quelli online. La libertà di riunione non era ammessa. Diverse persone che avevano criticato il governo sono state detenute e trattenute in incommunicado per alcune settimane. Le autorità hanno rimpatriato con la forza in Bahrein un attivista politico, malgrado il rischio che questi potesse essere torturato al suo rientro. Le donne hanno continuato ad affrontare discriminazioni nella legge e nella prassi. La pena di morte è rimasta in vigore; non ci sono state notizie di esecuzioni.

CONTESTO A gennaio, l’Oman ha ratificato l’accordo di sicurezza del Consiglio di cooperazione degli stati del Golfo (Gulf Cooperation Council – Gcc), le cui disposizioni mettevano a rischio la libertà d’espressione e altri diritti individuali garantiti dalla costituzione dell’Oman e da altri trattati internazionali. Ad agosto, il governo ha emanato un nuovo decreto legge sulla cittadinanza, la cui entrata in vigore era prevista per febbraio 2015. Questo conferiva alle autorità il potere di privare i cittadini dell’Oman della loro cittadinanza e dei diritti ad essa associati, nel caso in cui fosse riscontrata la loro appar- tenenza a un gruppo ritenuto incoraggiare principi od opinioni che compromettono “i supremi interessi” dell’Oman, autorizzando potenzialmente il governo a ritirare arbitrariamente la cittadinanza e a espellere coloro che lo criticavano. Ad agosto, l’Oman ha ratificato la Convenzione sulle mine antipersona del 1997.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E LIBERTÀ DI RIUNIONE Il 27 gennaio, le autorità dell’Oman hanno arrestato l’attore e attivista politico bahreinita Sadeq Ja’far Mansoor al-Sha’bani e lo hanno rimpatriato con la forza in Bahrein, malgrado i timori che potesse essere torturato al suo rientro. Questi è stato successivamente condannato a cinque anni di carcere in Bahrein, assieme ad altri otto imputati, per accuse come “incitamento all’odio contro il re- gime”. A maggio, la polizia ha arrestato e detenuto diversi uomini, successivamente rilasciati il 12 luglio dopo che, stando alle fonti, avevano firmato l’impegno a rinunciare al loro attivismo e a non incitare al settarismo. Due blogger, che avevano espresso online critiche verso le autorità, sono stati arrestati a luglio e rilasciati senza accusa dopo diverse settimane. Ad agosto, il dottor Talib al-Ma’mari, membro del consiglio della shura, e Saqr al-Balushi, consigliere della città di Liwa, sono stati condannati rispettivamente a quattro anni e a un anno di carcere, per accuse come “raduno pubblico finalizzato al disturbo della legge e dell’ordine” e “blocco stradale”. I due uomini avevano partecipato a una manifestazione contro l’inquinamento a Liwa, ad agosto 2013.

528 A seguito di una visita di sei giorni in Oman, condotta a settembre, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti alla libertà di riunione pacifica e d’associazione ha dichiarato che i limiti alle adunate non violente in Oman erano “piuttosto restrittivi, fino al punto in cui spesso annullavano l’essenza stessa del diritto”.

DIRITTI DELLE DONNE In tema di diritto penale, alle donne non erano accordati gli stessi diritti degli uomini e la testimo- nianza di una donna aveva un peso minore rispetto a quella di un uomo; secondo la legge sullo status personale, agli uomini erano accordati maggiori diritti in materia di divorzio, custodia dei figli ed eredità.

DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI I lavoratori migranti non sono stati adeguatamente tutelati dalla legislazione sul lavoro e sono stati vittime di sfruttamento e abusi. A maggio e novembre, il governo ha rinnovato per altri sei mesi un divieto all’ingresso nel paese per la maggior parte dei lavoratori migranti stranieri dell’edilizia e di altri settori lavorativi. A luglio, un nuovo decreto ha emendato la legislazione sul lavoro per impedire l’impiego di espatriati in professioni riservate ai cittadini dell’Oman. Il governo ha inoltre dichiarato che avrebbe iniziato ad applicare rigidamente una norma che impedisce ai lavoratori migranti che lasciano l’Oman di far ritorno nel sultanato per due anni e che favorirebbe lo sfruttamento sul lavoro.

PENA DI MORTE L’Oman ha mantenuto la pena di morte per omicidio e altri reati. A giugno, il consiglio di stato ha ap- provato le proposte di estenderne l’applicazione per reati relativi al traffico di droga. Non sono state segnalate esecuzioni.

PALESTINA

STATO DI PALESTINA

Capo di stato: Mahmoud Abbas Capo di governo: Rami Hamdallah

Le autorità della Cisgiordania e di Gaza hanno imposto restrizioni alle libertà d’espressione e di pacifica riunione, attuato arresti e detenzioni arbitrari e torturato o altrimenti maltrattato i detenuti nell’impunità. Donne e ragazze sono state soggette a discriminazioni nella legge e nella prassi e non sono state adeguatamente tutelate contro la violenza di genere. La pena di morte è rimasta in vigore; In Cisgiordania non ci sono state esecuzioni ma a Gaza le autorità di Hamas, che hanno continuato a processare civili davanti a tribunali militari, hanno messo a morte almeno due persone. A Gaza, uomini armati di Hamas hanno compiuto almeno 22 esecuzioni extragiudiziali di persone che accusavano di “collaborazionismo” con Israele. Nell’offensiva militare israeliana “Margine protettivo”, sono morti

529 oltre 1500 civili a Gaza, e migliaia sono rimasti feriti; ci sono state inoltre enormi devastazioni che hanno avuto gravi ripercussioni sulla già complicata situazione umanitaria per gli 1,8 milioni di abitanti di Gaza, causata dall’ininterrotto blocco militare imposto da Israele sul territorio. Durante i 50 giorni del conflitto, Hamas e gruppi armati palestinesi hanno sparato indiscriminatamente migliaia di razzi e colpi di mortaio verso centri abitati israeliani, uccidendo cinque civili, tra cui un bambino.

CONTESTO I negoziati mediati dagli Usa, iniziati nel 2013 con l’obiettivo di risolvere l’ormai pluridecennale conflitto israelo-palestinese, si sono conclusi a fine aprile con un nulla di fatto. Lo stesso mese, Fatah, partito di governo dell’Autorità Palestinese, che amministra la Cisgiordania, e Hamas, amministrazione de facto di Gaza dal 2007, hanno annunciato un accordo unitario. A giugno, Fatah, Hamas e altre fazioni palestinesi hanno raggiunto un accordo per un esecutivo di ri- conciliazione nazionale formato da tecnocrati indipendenti, incaricato dell’amministrazione civile di entrambe le aree fino allo svolgimento delle elezioni parlamentari e presidenziali. A fine anno, la data delle elezioni non era stata ancora fissata. Lo stato della Palestina ha raccolto un numero sempre maggiore di riconoscimenti da parte della co- munità internazionale, malgrado l’opposizione d’Israele e degli Usa. A ottobre, la Svezia è stata il primo paese membro dell’Eu a riconoscere lo stato della Palestina (benché altri tre stati europei lo avessero già fatto prima della loro adesione all’Eu) e sia la camera dei comuni del parlamento britannico sia l’assemblea nazionale francese avevano votato risoluzioni non vincolanti a favore del suo riconoscimento. A dicembre, la Giordania ha presentato una risoluzione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che proponeva un’agenda per la negoziazione di un accordo che avrebbe richiesto a Israele di porre fine alla sua occupazione dei territori palestinesi entro la fine del 2017. Ad aprile, la Palestina ha ratificato le quattro Convenzioni di Ginevra e una serie di trattati sui diritti umani e altre convenzioni, tra cui l’Iccpr, l’Icescr, la Cedaw, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il relativo Protocollo opzionale sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati, e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Il 31 dicembre, il presidente Mahmoud Abbas ha firmato altri 16 trattati e lo Statuto di Roma, riconoscendo così la giurisdizione dell’Icc sui Territori Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est, a partire da giugno 2014. Le tensioni sono aumentate verso la fine di giugno, a seguito dell’uccisione da parte di Israele di almeno 15 palestinesi e del rapimento e omicidio di tre adolescenti israeliani da parte palestinese nelle vicinanze di Hebron, cui ha fatto seguito in ritorsione l’omicidio di un ragazzo palestinese da parte degli israeliani. La spirale di tensione è sfociata nella riapertura del conflitto armato, quando Israele ha lanciato l’offensiva militare denominata “Margine protettivo”, con raid aerei e un’invasione via terra di Gaza. L’offensiva è durata 50 giorni prima che le due parti concordassero un cessate il fuoco mediato dagli Usa e dal governo egiziano. L’offensiva ha causato la morte di oltre 1500 civili a Gaza, compresi 500 bambini, e il ferimento di altre migliaia di persone. Ha inoltre provocato enormi devastazioni, danneggiando e distruggendo edifici scolastici, ospedali, abitazioni private e altre in- frastrutture civili. Gaza è rimasta sotto il blocco israeliano per l’intero anno.

CONFLITTO ARMATO Hamas e gruppi armati palestinesi di Gaza hanno ripetutamente e indiscriminatamente lanciato razzi e colpi di mortaio verso Israele. I bombardamenti si sono notevolmente intensificati nel periodo

530 che ha preceduto e durante l’offensiva militare “Margine protettivo” lanciata da Israele contro Gaza. Alla data del cessate il fuoco di agosto che ha interrotto il conflitto, il lancio di armi indiscri- minate sparate da Gaza da parte di gruppi armati palestinesi aveva ucciso sei civili in Israele, tra cui un bambino di quattro anni, ferito altri civili e danneggiato alcune abitazioni private. Il lancio era stato inoltre causa indiretta di altre perdite civili a Gaza, in seguito all’esplosione anticipata di alcuni razzi; si ritiene che l’uccisione di 10 civili palestinesi, di cui nove erano bambini, avvenuta nel campo profughi di al-Shati’ il 28 luglio, sia stata causata da un razzo caduto fuori bersaglio. La vita della popolazione civile di Gaza è stata inoltre messa a repentaglio da gruppi armati palestinesi, che hanno nascosto e lanciato razzi e altri proiettili da località situate all’interno o nelle vicinanze di centri abitati, esponendo pertanto i civili agli attacchi letali delle truppe israeliane. I lanci sono stati per lo più sospesi dopo il raggiungimento dell’accordo di cessate il fuoco.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Le autorità della sicurezza sia della Cisgiordania sia di Gaza hanno arbitrariamente arrestato e detenuto coloro che le avevano criticate e sostenitori di organizzazioni politiche rivali.

Tortura e altri maltrattamenti Detenuti sono stati torturati e altrimenti maltrattati nell’impunità. La Commissione indipendente per i diritti umani (Independent Commission for Human Rights – Ichr), un organismo nazionale con compiti di monitoraggio sui diritti umani e di registrazione delle denunce, ha affermato di aver ricevuto durante l’anno dalla Cisgiordania oltre 120 reclami in merito a episodi di tortura e altri maltrattamenti di detenuti e oltre 440 denunce da Gaza. I metodi di tortura impiegati comprendevano percosse e l’obbligo per i detenuti di stare in piedi o seduti in posizioni di stress (shabah) per lunghi periodi. In Cisgiordania, i detenuti hanno affermato di essere stati torturati o altrimenti maltrattati dalla polizia, dalla sicurezza preventiva, dall’intelligence militare e da funzionari dell’intelligence generale. A Gaza, almeno tre uomini sono morti in custodia in seguito a presunte torture da parte di funzionari della sicurezza interna. Entrambe le autorità non hanno provveduto a proteggere i detenuti da tortura e altri maltrattamenti, a indagare sulle accuse o a chiamare i responsabili a risponderne.

Processi iniqui Le autorità politiche e giudiziarie non hanno provveduto a garantire processi tempestivi ed equi ai detenuti. Le autorità della Cisgiordania hanno trattenuto persone a tempo indeterminato senza accusa né processo. A Gaza, le autorità di Hamas hanno continuato a processare civili davanti a tribunali militari.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ASSOCIAZIONE E RIUNIONE Sia in Cisgiordania sia a Gaza le autorità hanno imposto restrizioni alle libertà d’espressione, asso- ciazione e riunione. Le forze di sicurezza hanno disperso proteste organizzate da attivisti dell’opposizione, spesso facendo uso eccessivo della forza. In svariate occasioni, giornalisti che coprivano le proteste hanno denunciato di essere stati aggrediti dalle forze di sicurezza o che queste avevano danneggiato la loro attrezzatura. Le autorità della sicurezza hanno inoltre vessato e cercato d’intimidire giornalisti e attivisti dei social network, anche convocandoli ripetutamente per interrogarli e in alcuni casi po- nendoli in stato di fermo per quello che avevano scritto.

531 A marzo, la polizia della città gaziana di Khan Yunis ha interrotto con la forza un evento commemorativo organizzato da sostenitori di Fatah, stando ai resoconti, sparando anche in aria per disperdere il raduno, e ha arrestato e brevemente detenuto molti dei partecipanti. In Cisgiordania, le forze di sicurezza hanno aggredito giornalisti dell’emittente palestinese Wattan Tv, che stavano realizzando un servizio sulle manifestazioni. In un episodio occorso a ottobre, le forze di sicurezza hanno aggredito la troupe di Wattan Tv che copriva una manifestazione a Hebron e ne hanno sequestrato l’attrezzatura.

ESECUZIONI EXTRAGIUDIZIALI Durante l’offensiva militare israeliana “Margine protettivo”, membri dell’ala militare di Hamas, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam e delle forze della sicurezza interna hanno commesso almeno 22 ese- cuzioni sommarie ed extragiudiziali di persone accusate di “collaborazionismo” con Israele. Alcune delle persone uccise avevano fatto ricorso contro le loro condanne a morte o a periodi di carcere decisi da tribunali militari di Gaza; altri erano detenuti che non erano stati formalmente incriminati o processati. Il 5 agosto, il ministero dell’Interno de facto ha trasferito dal carcere di Katiba cinque reclusi, i quali sono stati sottoposti a esecuzione extragiudiziale appena fuori dal carcere. Il 22 agosto, forze di Hamas hanno trasferito 11 prigionieri del carcere di Katiba che erano in attesa di un verdetto o dell’esito dei loro appelli e li hanno sottoposti a esecuzione extragiudiziale presso il com- missariato di polizia di al-Jawazat. La stessa mattina, sei uomini che erano stati arrestati durante l’operazione “Margine protettivo” sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco in pubblico al termine delle preghiere del venerdì. Le brigate Izz ad-Din al-Qassam avrebbero ucciso per strada a colpi d’arma da fuoco altri sospetti “collaboratori” durante l’operazione “Margine protettivo”.

IMPUNITÀ Le autorità palestinesi non hanno provveduto a indagare su presunti crimini di guerra e possibili crimini contro l’umanità commessi dall’ala militare di Hamas e da altri gruppi armati palestinesi prima e durante il conflitto di luglio e agosto o nel corso di precedenti conflitti con Israele, in cui gruppi armati palestinesi avevano lanciato indiscriminatamente razzi e colpi di mortaio verso Israele. Inoltre, non hanno portato davanti alla giustizia i funzionari che si erano resi responsabili di violazioni dei diritti umani, compreso l’uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici e atti di tortura contro i detenuti.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE Donne e ragazze hanno continuato a essere soggette a discriminazioni nella legge e nella prassi e non sono state adeguatamente tutelate contro la violenza di genere perpetrata da parenti di sesso maschile, per motivi apparentemente legati alla difesa “dell’onore” della famiglia. Secondo quanto documentato dall’Ichr, durante l’anno almeno 11 donne e ragazze sono state assassinate da parenti di sesso maschile nel quadro dei cosiddetti “delitti d’onore”. Tra queste c’era la diciottenne Islam Mohammad Al-Shami, morta dopo essere stata accoltellata al collo il 20 ottobre, mentre pregava al- l’interno dell’abitazione di famiglia a Bani Suheila, nel governatorato di Khan Yunis.

PENA DI MORTE La pena di morte è rimasta in vigore per omicidio e altri reati. In Cisgiordania non sono state segnalate

532 esecuzioni ma a Gaza tribunali militari di Hamas e tribunali di primo grado hanno emesso sentenze di morte nei confronti di almeno otto persone imputate in casi di omicidio. A maggio, le autorità di Gaza hanno messo a morte due uomini, entrambi condannati alla pena capitale per accuse di tradi- mento e omicidio.

QATAR

STATO DEL QATAR

Capo di stato: sceicco Tamim bin Hamad bin Khalifa Al Thani Capo di governo: sceicco Abdullah bin Nasser bin Khalifa Al Thani

I lavoratori migranti hanno continuato a non essere adeguatamente tutelati dalla legge e a subire sfruttamento e abusi. Le donne hanno affrontato discriminazioni e violenze. Le autorità hanno imposto restrizioni alla libertà d’espressione e i tribunali non hanno rispettato gli standard di equità processuale. Sono state comminate almeno due condanne a morte; non ci sono state notizie di esecuzioni.

CONTESTO Le elezioni al consiglio consultivo della shura, originariamente programmate per il 2013, non hanno avuto luogo. Il mandato del consiglio della shura era stato prorogato al 2016 dall’ex emiro prima della sua abdicazione dalla carica di capo dello stato nel 2013. A marzo, una spaccatura tra Qatar e altri stati del Consiglio di cooperazione del Golfo causata, tra varie motivazioni, dall’appoggio che sarebbe stato offerto dal Qatar ai Fratelli musulmani, ha spinto Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti a ritirare i loro ambasciatori in Qatar. A novembre è stato annunciato che sarebbero stati reintegrati. A settembre, il Qatar ha chiesto a sette membri di primo piano dei Fratelli musulmani di lasciare il paese. Il governo è stato al centro di crescenti pressioni a livello internazionale affinché affrontasse il tema delle violazioni dei diritti dei lavoratori migranti. La Fifa, l’organo di governo del calcio a livello mondiale, ha discusso della questione degli abusi contro i lavoratori migranti alla sessione di marzo del proprio comitato esecutivo, intensificando le pressioni sulle autorità, affinché affrontassero il problema in vista dell’edizione del 2022 della Coppa mondiale di calcio, che si svolgerà in Qatar. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per le violazioni dei diritti dei migranti, la discriminazione e la violenza contro le donne e per le restrizioni alle libertà d’espressione e di riunione durante l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite del Qatar, a maggio.

DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI I datori di lavoro hanno continuato a sottoporre ad abusi e sfruttamento i lavoratori migranti stranieri, che costituivano più del 90 per cento della forza lavoro complessiva del Qatar. Le autorità non hanno

533 provveduto ad applicare adeguatamente la legge sul lavoro del 2004 e i relativi decreti, che contenevano alcune disposizioni di tutela. Le condizioni di vita dei lavoratori erano spesso del tutto inadeguate e molti di loro hanno affermato di aver dovuto lavorare più ore rispetto al limite massimo consentito dalla legge o di essere stati pagati meno di quanto stabilito da contratto. Alcuni datori di lavoro non hanno corrisposto il salario dovuto e, in alcuni casi, non hanno rilasciato loro i permessi di soggiorno, lasciandoli così senza do- cumenti ed esposti al rischio d’incorrere in arresti e detenzioni. Soltanto pochi lavoratori erano in possesso del loro passaporto e alcuni datori di lavoro hanno negato i permessi d’uscita necessari per lasciare il Qatar. I lavoratori del settore delle costruzioni erano esposti a condizioni di lavoro pericolose. La legislazione sul lavoro proibiva ai lavoratori migranti di riunirsi in organizzazioni sindacali o di aderirvi. Il governo ha annunciato di aver aumentato il numero degli ispettori del lavoro, di essere intervenuto per sottoporre a sanzione punitiva un numero maggiore di società e di aver elaborato misure in grado di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori migranti, stabilendo tra l’altro nuovi standard abitativi e un sistema elettronico di tutela del salario. Tuttavia, tali misure a fine anno non erano state ancora convertite in legge. I lavoratori domestici migranti, in maggioranza donne, e i lavoratori di determinate altre categorie erano specificamente esclusi dalla legge sul lavoro e pertanto maggiormente esposti a sfruttamento e abusi, compresi abusi di natura sessuale.1 Il governo ha più volte espresso la volontà di promulgare una legislazione finalizzata ad affrontare il problema ma a fine anno non lo aveva ancora fatto. Le la- voratrici domestiche erano passibili di procedimenti giudiziari e carcerazioni per “relazioni illecite”, se denunciavano abusi sessuali da parte dei datori di lavoro. La legge sugli sponsor del 2009, che impone ai lavoratori stranieri di ottenere il permesso da uno sponsor per poter lasciare il Qatar o per cambiare datore di lavoro, ha continuato a essere sfruttata dai datori di lavoro per impedire ai loro dipendenti di sporgere reclamo presso le autorità o di trovare un nuovo impiego nel caso di abusi. Il sistema degli sponsor ha accresciuto la probabilità che i lavoratori fossero soggetti a lavoro forzato e tratta di esseri umani. A maggio, l’esecutivo ha annunciato proposte di riforma del sistema degli sponsor per emendare la procedura prevista per i lavoratori che intendono lasciare il Qatar e per permettere ai lavoratori di cambiare datore di lavoro al termine del loro contratto o dopo cinque anni alla stessa dipendenza. A fine anno, non era stata approvata alcuna legislazione e non era stata resa pubblica alcuna bozza in merito.2 Ad aprile, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti ha sollecitato il governo ad abolire il sistema degli sponsor. Uno studio legale internazionale, incaricato dal governo di rivedere il sistema di lavoro dei migranti in Qatar, ha presentato il suo rapporto ad aprile. Le autorità non lo hanno reso pubblico, benché in In- ternet sia trapelata una versione contenente più di 60 raccomandazioni. Il governo non si è pronunciato in merito alla volontà di attuare tali raccomandazioni.

DIRITTI DELLE DONNE Le donne hanno continuato a non poter esercitare pienamente i loro diritti umani a causa di ostacoli stabiliti dalla legge, dell’atteggiamento politico e della prassi. L’assenza di una legislazione finalizzata a criminalizzare specificamente la violenza domestica esponeva le donne ad abusi all’interno della famiglia, mentre le leggi in materia di status personale discriminavano le donne in relazione a questioni come matrimonio, divorzio, cittadinanza e libertà di movimento.

534 LIBERTÀ D’ESPRESSIONE La libertà d’espressione è rimasta sottoposta a rigidi controlli e la stampa ha abitualmente adottato un regime di autocensura. Il poeta Mohammed al-Ajami, conosciuto anche come Mohammed Ibn al-Dheeb, è rimasto confinato in isolamento in carcere dopo che, il 20 ottobre 2013, la massima corte del Qatar aveva confermato la sua condanna a 15 anni di reclusione. Era stato giudicato colpevole e condannato all’ergastolo a novembre 2012 per aver scritto e recitato poesie ritenute offensive verso lo stato e l’emiro ma la pena era stata ridotta in appello. Era rimasto detenuto in incommunicado per tre mesi dopo l’arresto ed era stato processato in segreto. È rimasto confinato in isolamento ininterrottamente per gran parte della sua carcerazione. A settembre è stata emanata una nuova legislazione sui reati informatici. La legge criminalizzava la diffusione di notizie “false” e la pubblicazione online di contenuti considerati dannosi per i “valori sociali” o gli interessi nazionali del Qatar. Disposizioni dalla formulazione vaga contenute nella legge hanno aumentato il rischio di autocensura tra i giornalisti e hanno ulteriormente imbavagliato l’espressione di critiche online verso le autorità.

ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI Il 31 agosto, le autorità della sicurezza di Doha hanno arrestato due operatori dei diritti umani, Krishna Prasad Upadhyaya e Ghimire Gundev, entrambi cittadini britannici. I due sono rimasti vittime di sparizione forzata per una settimana, prima che le autorità ne confermassero la detenzione e con- sentissero loro di contattare le autorità consolari britanniche. Sono stati quindi trattenuti in incom- municado e rilasciati senza accusa il 9 settembre. I due operatori non hanno potuto lasciare il Qatar prima del 19 settembre.3

SISTEMA GIUDIZIARIO In seguito alla sua visita in Qatar compiuta a gennaio, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sul- l’indipendenza dei giudici e degli avvocati ha espresso preoccupazione per una serie di questioni, tra cui “l’interferenza” del governo nei procedimenti giudiziari, con particolare riferimento a casi in cui erano coinvolte figure o imprenditori d’altro profilo, le violazioni delle procedure dovute e l’incapacità della magistratura di adempiere agli standard internazionali di equità processuale. Il 30 aprile, il tribunale penale di Doha ha giudicato colpevoli di spionaggio tre cittadini filippini; uno è stato condannato a morte, gli altri due all’ergastolo. I verdetti di condanna erano principalmente basati sulle confessioni che sarebbero state loro estorte sotto tortura. Tutti e tre hanno presentato ricorso in appello.

PENA DI MORTE Sono state condannate a morte almeno due persone. Non sono state segnalate esecuzioni.

Note 1. Qatar: “My sleep is my break”: Exploitation of migrant domestic workers in Qatar (MDE 22/004/2014) www.amnesty.org/en/li- brary/info/MDE22/004/2014/en 2. Qatar: No extra time: How Qatar is still failing on workers’ rights ahead of the World Cup (MDE 22/010/2014), www.amnesty.org/en/library/info/MDE22/010/2014/en 3. Qatar: Further information – UK nationals released (MDE 22/008/2014) www.amnesty.org/en/library/info/MDE22/008/2014/en

535 SIRIA

REPUBBLICA ARABA DI SIRIA

Capo di stato: Bashar al-Assad Capo di governo: Wael Nader al-Halqi

Il conflitto armato interno siriano è proseguito implacabilmente per l’intero anno e ha visto sia le forze governative sia i gruppi armati non statali compiere impunemente crimini di guerra su larga scala e gravi violazioni dei diritti umani. Le forze governative hanno preso deliberatamente di mira la popolazione civile, bombardato indiscriminatamente aree abitate da civili e strutture medico-sanitarie con lanci d’artiglieria pesante, colpi di mortaio, ordigni artigianali e agenti chimici, rendendosi in tal modo responsabili di uccisioni illegali di civili. Le forze governative hanno inoltre imposto lunghi assedi, intrappolando la popolazione civile e privandola di cibo, cure mediche e altre necessità. Le forze di sicurezza hanno arbitrariamente arrestato o continuato a detenere migliaia di persone, compresi pacifisti, difensori dei diritti umani, operatori dell’informazione, operatori umanitari e bambini, sottoponendone alcune a sparizione forzata e altre a detenzione prolungata o a processi iniqui. Le forze di sicurezza hanno sistematicamente torturato e altrimenti maltrattato detenuti nel- l’impunità; migliaia di detenuti sarebbero morti a causa della tortura o per le dure condizioni in cui erano tenuti. I gruppi armati non statali, che controllavano alcune aree e ne contendevano altre, hanno indiscriminatamente bombardato e assediato zone abitate da civili che ritenevano essere so- stenitori del governo. Alcuni di questi gruppi, in particolare lo Stato islamico (Islamic State – Is, pre- cedentemente noto come Isis), hanno compiuto attacchi suicidi indiscriminati e altri bombardamenti su centri abitati da civili e perpetrato numerosi uccisioni illegali, comprese esecuzioni sommarie di persone catturate e di sospetti oppositori.

CONTESTO Sono proseguiti per l’intero anno divampando in tutta la Siria i combattimenti tra forze governative e diversi gruppi armati non statali, provocando migliaia di morti e feriti e ulteriori sfollamenti di massa e flussi di rifugiati, diretti prevalentemente verso Turchia, Libano, Giordania, Egitto e regione del Kur- distan iracheno. Secondo i dati delle Nazioni Unite, a fine anno, il conflitto aveva causato complessi- vamente all’incirca 200.000 morti. Le persone sfollate internamente erano 7,6 milioni e circa quattro milioni erano rifugiate in altri paesi. Gli sforzi internazionali per tentare di risolvere il conflitto armato hanno visto le Nazioni Unite, con l’appoggio degli Usa e della Russia, riunite nella II Conferenza di Ginevra, tenutasi a gennaio. A questa hanno partecipato rappresentanti del governo siriano e della Coalizione nazionale siriana, al- l’opposizione, ma non i gruppi armati, ad eccezione del comando militare della Coalizione nazionale siriana. I colloqui si sono conclusi a febbraio con un nulla di fatto. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è rimasto diviso sulla questione, compromettendo così i tentativi di perseguire un accordo di pace ma ha adottato una serie di risoluzioni alla crisi. La Riso-

536 luzione 2139 di febbraio entrava nel merito della conduzione delle ostilità e delle detenzioni arbitrarie, ed esortava tutte le parti impegnate nel conflitto a consentire la creazione di canali umanitari lungo le linee di combattimento e nelle aree sotto assedio; tale richiesta è rimasta tuttavia inascoltata. La Risoluzione 2165 di luglio riguardava l’invio di aiuti umanitari nelle aree sotto assedio e l’attraversa- mento di valichi di frontiera nazionali. Ad agosto, la Risoluzione 2170 condannava le uccisioni illegali, altri gravi abusi e il reclutamento di combattenti stranieri da parte dei gruppi armati Is e Jabhat al- Nusra, e aggiungeva i nomi di sei individui affiliati ai suddetti gruppi nell’elenco delle sanzioni contro al-Qaeda stabilite dalle Nazioni Unite. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non ha prov- veduto ad adottare altre misure per affrontare la questione dell’impunità in Siria. Russia e Cina hanno posto il veto a una bozza di risoluzione per deferire la situazione in Siria al procuratore dell’Icc. La Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Repubblica Araba di Siria, istituita dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 2011, ha continuato a svolgere il proprio compito di monitoraggio e documentazione delle violazioni del diritto internazionale compiute dalle parti in conflitto. Tuttavia, il governo siriano non ha autorizzato il suo ingresso nel paese. A giugno, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Organization for the Prohibition of Chemical Weapons – Opcw) ha riferito che il governo aveva completato la consegna dell’arsenale di armi chimiche della Siria per la sua distruzione sotto supervisione internazionale, secondo quanto stabilito da un accordo siglato a settembre 2013 con i governi di Usa e Russia. A settembre, la coalizione internazionale a guida statunitense ha iniziato una serie di raid aerei contro l’Is e altri gruppi armati nel nord della Siria. Secondo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli attacchi aerei sono costati la vita a circa 50 civili. A giugno, il presidente al-Assad ha vinto le elezioni presidenziali, che si sono svolte solo nelle zone controllate dal governo, e ha inaugurato il suo terzo mandato settennale. La settimana successiva ha annunciato un’amnistia, che ha portato al rilascio di un numero limitato di prigionieri; la stragrande maggioranza dei prigionieri di coscienza e altri prigionieri politici trattenuti dal governo continuava a rimanere in carcere.

CONFLITTO ARMATO INTERNO – VIOLAZIONI DA PARTE DELLE FORZE GOVERNATIVE

Uso di armi indiscriminate e proibite Le forze governative hanno lanciato attacchi contro zone controllate o contese da forze armate d’op- posizione e si sono rese responsabili dell’uccisione illegale di civili; alcuni attacchi si sono configurati come crimini di guerra, inclusi raid aerei e lanci d’artiglieria pesante contro centri abitati da civili, spesso utilizzando ordigni artigianali conosciuti come “barrel bombs”, ovvero armi altamente esplosive fuori controllo, sganciate da elicotteri, provocando moltissimi morti e feriti tra i civili, bambini compresi. Nonostante la richiesta avanzata dalla Risoluzione 2139 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che esortava tutte le parti in conflitto a porre fine agli attacchi indiscriminati, a 10 mesi di distanza dall’adozione della risoluzione, le forze governative avevano ucciso circa 8000 civili in bombardamenti e altri attacchi indiscriminati, secondo i dati forniti dal Centro di documentazione delle violazioni, una Ngo locale di monitoraggio. In un episodio occorso il 29 ottobre, elicotteri governativi hanno sganciato quattro “barrel bombs” su un campo profughi a Idleb, uccidendo almeno 10 civili e ferendone decine, secondo i dati forniti dall’Osservatorio siriano per i diritti umani. Le forze governative hanno condotto diversi attacchi utilizzando “barrel bombs” e altre munizioni

537 contenenti cloro, malgrado il diritto internazionale proibisca questo tipo di munizioni. Secondo la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, attacchi con questo tipo di munizioni sono stati tra l’altro condotti ad aprile sulle città di Kafar Zeita, al-Tamana’a e Tal Minnis. Un’inchiesta approfondita dell’Opcw ha confermato a settembre che le forze governative avevano utilizzato cloro “sistematicamente e ripetutamente” nei suddetti attacchi. Le forze governative hanno inoltre impiegato munizioni a grappolo, armi indiscriminate che proiettano bombe incendiarie più piccole ad ampio raggio esponendo le vittime a gravi ustioni, con conseguenze spesso fatali.

Assedi e accesso umanitario negato Le forze governative hanno mantenuto lunghi e consolidati assedi sulle aree civili di Damasco e dintorni, tra cui Yarmouk, Daraya e Ghouta Est, e altre località, compreso l’assedio alla Città vecchia di Homs, terminato a maggio. Nelle aree sotto assedio erano solitamente presenti combattenti del- l’opposizione armata, che in alcuni casi rappresentavano un’ulteriore minaccia per la popolazione civile. I civili rimasti intrappolati all’interno delle aree assediate hanno sofferto la fame, non hanno avuto accesso a cure mediche e a servizi essenziali e sono stati ripetutamente esposti ai colpi d’arti- glieria, ai bombardamenti aerei e al fuoco dei cecchini delle truppe governative. A marzo, soldati go- vernativi hanno aperto il fuoco contro civili che cercavano di uscire da Ghouta Est alzando una bandiera bianca, uccidendo donne, uomini e bambini. Yarmouk, un distretto di Damasco dove vivevano all’incirca 18.000 degli oltre 180.000 rifugiati palestinesi e siriani che vi risiedevano da prima del conflitto, è entrato a dicembre nel terzo anno di assedio ininterrotto. Nonostante una tregua concordata a giugno, le truppe governative hanno continuato a tagliare fuori il quartiere dai rifornimenti di cibo e acqua e a bloccare alcuni aiuti umanitari. Quando hanno concesso l’evacuazione dei civili dalle aree assediate, le forze governative hanno arrestato uomini e ragazzi tra le persone evacuate, sotto- ponendone molti a lunghi periodi di detenzione a scopo di “controllo”.

Attacchi a strutture sanitarie e personale medico Le forze governative hanno continuato a prendere di mira strutture sanitarie e personale medico nelle aree controllate dai gruppi armati. Hanno bombardato ospedali, impedito la fornitura di materiale sanitario proveniente dalla spedizione degli aiuti umanitari destinati alle aree assediate e arrestato e detenuto personale medico e volontari, apparentemente allo scopo d’interrompere e impedire servizi medici di base nelle suddette aree. L’organizzazione Medici per i diritti umani ha accusato le forze go- vernative di aver sistematicamente attaccato il sistema sanitario nelle aree controllate dai gruppi d’opposizione e di aver ucciso 569 operatori sanitari tra aprile 2011 e ottobre 2014.

CONFLITTO ARMATO INTERNO – VIOLAZIONI DA PARTE DEI GRUPPI ARMATI Anche i gruppi armati non statali hanno compiuto crimini di guerra e gravi violazioni dei diritti umani. Tra questi c’erano l’Is e Jabhat al-Nusra, che impiegavano entrambi combattenti stranieri nelle loro file, e gruppi appartenenti o affiliati all’Esercito siriano libero.

Impiego di armi indiscriminate I gruppi armati hanno impiegato armi indiscriminate, compresi mortai, carri armati e artiglieria pesante, durante gli attacchi sferrati contro aree civili in mano al governo, provocando vittime tra i civili. Ad aprile e maggio, i gruppi armati che hanno attaccato i quartieri di Saif al-Dawla, al-Midan e al-

538 Sulimaniya, ad Aleppo Ovest, avrebbero sparato colpi di mortaio e candelotti di gas esplosivo artigianali contro aree abitate da civili. Jabhat al-Nusra ha compiuto attentati suicidi facendo esplodere auto e camion all’interno delle aree controllate dal governo, compresa Homs, uccidendo e ferendo civili.

Uccisioni illegali Le forze dell’Is, in particolare, hanno commesso uccisioni illegali di soldati governativi catturati, rapito civili, compresi pacifisti e operatori dell’informazione, cittadini stranieri e, stando alle notizie, membri di gruppi armati rivali. Nelle aree di al-Raqqa e Aleppo Est, controllate dall’Is, dove vigeva una rigida interpretazione della legge islamica, membri del gruppo armato si sono resi responsabili di frequenti esecuzioni pubbliche; le vittime erano prima denunciate e quindi freddate con un colpo di pistola o decapitate davanti alla folla, dove spesso erano presenti bambini. La maggior parte delle vittime erano uomini ma, secondo quanto appreso, tra queste c’erano anche ragazzi di non più di 15 anni e donne. Le forze dell’Is hanno pubblicizzato alcuni dei loro crimini a scopo di propaganda o per raccogliere adesioni, postando video su Internet che mostravano membri del gruppo mentre decapitavano le persone catturate, compresi soldati siriani, libanesi e curdi, giornalisti americani e britannici e operatori umanitari che erano stati rapiti da gruppi armati e quindi trasferiti o “venduti” all’Is. In alcuni casi, i video delle decapitazioni contenevano anche minacce di uccidere altri prigionieri cattu- rati.

Assedi, accesso umanitario negato e attacchi a strutture sanitarie e personale medico L’Is, Jabhat al-Nusra e altri gruppi armati hanno stretto d’assedio congiuntamente o separatamente diverse aree in mano al governo, tra cui Zahraa e Nobel, a nord-ovest di Aleppo, così come la zona intorno al carcere centrale di Aleppo fino a quando, a maggio, le forze governative hanno interrotto l’assedio durato un intero anno. I gruppi armati hanno bombardato alcune zone in maniera indiscri- minata, tagliando fuori la popolazione civile dai rifornimenti di cibo, acqua e altri beni di prima ne- cessità, intralciato o impedito la distribuzione degli aiuti umanitari e attaccato e arrestato personale medico.

Rapimenti I gruppi armati si sono resi responsabili di numerosi rapimenti e detenzioni di attivisti locali, sospetti sostenitori del governo, giornalisti e operatori umanitari stranieri e altri, sottoponendone molti a tortura o altro maltrattamento e alcuni a esecuzioni sommarie illegali. Tra le persone catturate c’erano bambini; a maggio, per citare un esempio, le forze dell’Is hanno rapito oltre 150 ragazzi curdi da Manbej, una località tra Aleppo e Kobanê, sottoponendone alcuni a tortura. A ottobre, erano stati tutti rilasciati.

Aree curde Nel nord della Siria, il Partito dell’unione democratica (Partiya yekîtiya demokrat – Pyd) ha in larga parte controllato tre enclave a predominanza curda: ‘Afrin, Kobanê (conosciuta anche come Ayn al Arab) e Jazeera, in seguito al ritiro delle truppe governative nel 2012, fino a metà anno quando le forze dell’Is hanno nuovamente attaccato Kobanê, causando sfollamenti forzati di massa. A gennaio, il Pyd ha emanato una nuova costituzione per le tre aree, dove aveva creato un sistema giudiziario

539 pienamente operativo basato sui cosiddetti tribunali del popolo. Dopo aver visitato l’area a febbraio, Human Rights Watch ha esortato le autorità del Pyd a sospendere le detenzioni arbitrarie, cessare l’impiego di minori come soldati e per presidiare i posti di blocco, migliorare le salvaguardie contro gli abusi dei detenuti e indagare sulla serie di rapimenti e apparenti uccisioni di matrice politica. A luglio, il Pyd ha smobilitato 149 bambini dai suoi ranghi armati e si è impegnato a evitare il coinvol- gimento di minori nelle ostilità.

RIFUGIATI E SFOLLATI INTERNI I combattimenti in corso in tutta la Siria hanno continuato a provocare lo sfollamento forzato di massa della popolazione civile. Tra il 2011 e la fine del 2014, dalla Siria erano fuggiti all’incirca quattro milioni di rifugiati, mentre l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari ha documentato che altre 7,6 milioni di persone, per la metà bambini, erano sfollate inter- namente al paese, con un aumento di oltre un milione di persone da dicembre 2013. A settembre, un nuovo attacco da parte delle forze dell’Is a Kobanê ha provocato un enorme flusso di rifugiati, con decine di migliaia di abitanti che nell’arco di pochi giorni hanno attraversato il confine con la Turchia. Sia in Libano sia in Giordania, le autorità hanno limitato l’ingresso dei rifugiati in fuga dalla Siria, esponendo quanti erano in attesa nelle aree di confine a ulteriori attacchi e privazione materiale, e hanno continuato a interdire l’ingresso ai rifugiati palestinesi in fuga dalla Siria, rendendoli in tal modo particolarmente vulnerabili.

SPARIZIONI FORZATE Le forze di sicurezza governative hanno continuato a trattenere migliaia di detenuti non formalmente incriminati in custodia preprocessuale per periodi prolungati, molti in condizioni equiparabili a spa- rizione forzata. Molti prigionieri che erano stati arrestati in anni precedenti sono stati vittime di sparizione forzata e si temeva per la loro incolumità. Raramente le autorità hanno rivelato informazioni riguardanti i detenuti e hanno frequentemente negato loro l’accesso a un avvocato o alla famiglia. Tra gli scomparsi c’erano interi nuclei familiari, come ad esempio la coppia di coniugi Abdulrahman Yasin e Rania Alabbasi, i loro sei figli di età compresa tra i tre e i 15 anni e un’altra donna che era presente quando le forze di sicurezza li avevano tratti in arresto nella loro abitazione, a marzo 2013. Le autorità non hanno rivelato informazioni su di loro ma un ex detenuto ha riferito di aver visto Rania Alabbasi e i suoi figli in una struttura dell’intelligence militare, conosciuta come Sezione 291. L’avvocato per i diritti umani Khalil Ma’touq e un suo amico, Mohamed Thatha, a fine anno rimanevano vittime di sparizione forzata, dopo che le forze di sicurezza li avevano arrestati a un posto di blocco vicino a Damasco, il 2 ottobre 2013. Le autorità non hanno mai confermato il loro arresto né hanno ri- velato il luogo e il motivo della detenzione, facendo pertanto temere per la loro incolumità. Juwan Abd Rahman Khaled, un attivista per i diritti curdo, è stato anch’egli vittima di sparizione forzata continuata. Era stato arrestato da funzionari della sicurezza di stato nel corso di un raid nel distretto di Wadi al-Mashari’a di Damasco, nelle prime ore del 3 settembre 2012. A fine anno, non si sapeva ancora nulla della sorte dell’attivista, che era stato in precedenza detenuto politico e vittima di tortura.

DECESSI IN CUSTODIA Vari reparti di sicurezza e intelligence del governo siriano, tra cui la sicurezza politica, l’intelligence

540 militare e l’intelligence dell’aviazione, hanno continuato a torturare e altrimenti maltrattare in maniera sistematica e diffusa i detenuti sotto la loro custodia. Secondo le notizie ricevute, la tortura ha con- tinuato a determinare un’alta percentuale di decessi tra i detenuti. A gennaio, un gruppo di periti medico-legali ed ex procuratori internazionali per i crimini di guerra, dopo aver esaminato una serie di fotografie scattate all’interno di ospedali militari ai cadaveri di pri- gionieri, ha denunciato che le autorità siriane stavano conducendo un sistematico programma di tortura e uccisione illegale di detenuti. Il governo ha negato le tesi sostenute dagli esperti ma non ha provveduto a condurre un’inchiesta indipendente, in un contesto di continue segnalazioni di tortura e decessi di detenuti ricevute durante l’anno. Molti detenuti sarebbero inoltre deceduti per le dure condizioni patite all’interno delle varie strutture di detenzione. Queste comprendevano la sezione 235 dell’intelligence militare, conosciuta anche come “sezione Palestina”. Un detenuto rilasciato ha riferito che molti reclusi della sezione 235 avevano la scabbia e altre patologie dermatologiche e gastrointestinali, causate dal grave sovraffol- lamento, dagli inadeguati servizi igienico-sanitari e dalla carenza di cibo, acqua potabile pulita e cure mediche. Spesso, le famiglie dei detenuti non venivano ufficialmente informate del decesso dei loro congiunti; in altri casi, alle famiglie è stato detto che i detenuti erano morti in seguito ad attacco cardiaco ma non è stato loro consentito di vedere i corpi, che non sono stati mai consegnati loro per la sepoltura. A ottobre, un’inchiesta giudiziaria condotta nel Regno Unito ha stabilito che il medico britannico dottor Abbas Khan era stato vittima di uccisione illegale, mentre era in custodia siriana nel dicembre 2013, contraddicendo le conclusioni tratte dal governo siriano, secondo le quali il medico si era sui- cidato. Le forze di sicurezza avevano arrestato il dottor Khan a novembre 2012, entro 48 ore dal suo arrivo in Siria come medico volontario; secondo quanto si è appreso, il dottor Khan era stato torturato e altrimenti maltrattato durante i mesi trascorsi in detenzione.

PROCESSI INIQUI Dopo aver trascorso spesso lunghi periodi di detenzione preprocessuale, decine di persone percepite come voci critiche nei confronti del governo e altri oppositori non violenti sono stati processati davanti al tribunale antiterrorismo, istituito nel 2012, e dai tribunali militari da campo, dove i procedimenti a loro carico non hanno rispettato gli standard di equità processuale. Alcuni imputati processati dal tribunale antiterrorismo hanno dovuto rispondere di accuse che si basavano sul loro legittimo esercizio della libertà d’espressione o di altri diritti. Gli imputati giudicati da tribunali militari da campo, in molti casi erano civili, non hanno avuto diritto di rappresentanza legale e hanno dovuto rispondere a giudici che erano militari graduati. Inoltre, non hanno avuto alcuna possibilità di appellarsi contro le loro sentenze. Faten Rajab Fawaz, medico e pacifista filo riformista, arrestata a Damasco da funzionari dell’intelli- gence dell’aviazione siriana a dicembre 2011, sarebbe stata processata davanti a un tribunale militare da campo a settembre, per accuse non specificate. In seguito al suo arresto, è stata trattenuta in diverse strutture di detenzione, in alcuni casi in isolamento per diversi mesi consecutivi, e, secondo quanto si è appreso, torturata e altrimenti maltrattata. Mazen Darwish, Hani al-Zitani e Hussein Gharir, attivisti del Centro siriano per i mezzi d’informazione e la libertà d’espressione (Center for Media and Freedom of Expression – Scm), un’organizzazione in- dipendente, dovevano rispondere dell’accusa di “pubblicizzazione di atti terroristici” e rischiavano

541 sentenze a 15 anni di carcere. Erano stati arrestati a febbraio 2012 nel corso di un’irruzione nella sede dell’Scm, a Damasco, da parte di funzionari dell’intelligence dell’aviazione. Le udienze del processo celebrato davanti al tribunale antiterrorismo hanno subito continui aggiornamenti dal febbraio 2013; a fine 2014, non era noto l’esito del loro caso giudiziario. Gebrail Moushe Kourie, presidente del partito politico non autorizzato Organizzazione democratica assiriana, è stato arrestato a dicembre 2013 a Qamishly, nel nord della Siria. Dopo mesi di detenzione trascorsi in strutture dove dilagava la tortura, è stato incriminato per appartenenza a “un partito politico segreto non autorizzato” e per “incitamento alla violenza finalizzato a rovesciare il governo”, prima che un magistrato penale lo deferisse al tribunale antiterrorismo per essere processato.

PENA DI MORTE La pena capitale è rimasta in vigore per molti tipi di reato. Non sono state rese disponibili informazioni sulle condanne a morte comminate o sulle esecuzioni effettuate durante l’anno.

TUNISIA

REPUBBLICA TUNISINA

Capo di stato: Beji Caid Essebsi (subentrato a Moncef Marzouki a dicembre) Capo di governo: Mehdi Jomaa

La nuova costituzione entrata in vigore a gennaio ha visto l’introduzione d’importanti garanzie in tema di diritti umani ma le autorità hanno continuato a imporre restrizioni alle libertà d’espressione e asso- ciazione. Sono stati segnalati casi di tortura di detenuti e almeno due persone sono state vittime di quelle che sono sembrate uccisioni illegali, per mano di poliziotti. La nuova costituzione prevedeva maggiori tutele per i diritti delle donne ma non ha eliminato la discriminazione contro le donne di fronte alla legge e in altri contesti né ha contrastato la violenza di genere. È stato creato un nuovo or- ganismo incaricato di affrontare le violazioni dei diritti umani commesse negli anni precedenti; tuttavia, un tribunale militare d’appello ha disposto significative riduzioni di pena per gli ex ufficiali di alto grado condannati per il ruolo di responsabilità avuto nelle centinaia di uccisioni illegali compiute durante la sollevazione popolare del 2011. La Tunisia ha mantenuto aperte le proprie frontiere ai rifugiati in fuga dai combattimenti in corso in Libia. I gruppi armati hanno compiuto attentati e ucciso membri delle forze di sicurezza. Almeno due persone sono state condannate a morte ma non ci sono state esecuzioni.

CONTESTO In seguito alla crisi politica provocata nel 2013 dagli assassinii avvenuti rispettivamente a febbraio e luglio di due politici dell’ala sinistra, Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, i partiti politici tunisini hanno raggiunto un accordo che ha portato all’approvazione di una nuova costituzione e alla nomina

542 di un nuovo governo ad interim agli inizi del 2014. Il 5 marzo, il nuovo esecutivo ha revocato lo stato d’emergenza, in vigore dal 2011. Dopo mesi di stallo, il 26 gennaio l’assemblea costituente nazionale (National Constituent Assembly – Nca) ha adottato a larga maggioranza una nuova costituzione e i membri dell’Nca hanno raggiunto un consenso generale su gran parte delle questioni controverse. Tre giorni dopo è entrato in carica un nuovo governo ad interim, in attesa delle elezioni legislative previste a ottobre e di quelle presidenziali a novembre. La nuova costituzione garantiva alcuni diritti umani fondamentali, come la libertà d’espressione e di riunione, la libertà d’associazione, compreso il diritto di formare partiti politici; la libertà di movimento; il diritto di cittadinanza e il diritto all’integrità fisica. Il nuovo documento costi- tuzionale inoltre garantiva la libertà dalla detenzione arbitraria; il diritto a ricevere un equo processo e a richiedere asilo politico e proibiva la tortura e il ricorso alla prescrizione per evitare il perseguimento penale nei casi di tortura. Altre disposizioni, come quella che vietava “gli attacchi alla sacralità”, erano più controverse, in quanto comportavano una potenziale minaccia alla libertà di parola. La co- stituzione non ha abolito la pena di morte.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA Una nuova bozza legislativa, costituita da 163 articoli e volta a emendare la legge antiterrorismo del 2003, è stata sottoposta dal governo all’Nca e ha iniziato a essere dibattuta ad agosto. La nuova le- gislazione avrebbe eliminato alcuni degli aspetti maggiormente draconiani della legge del 2003. A ottobre, il primo ministro Jomaa ha affermato che dall’inizio dell’anno le autorità avevano arrestato oltre 1500 sospetti “terroristi”.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI Sono stati segnalati episodi di tortura di detenuti in custodia di polizia, soprattutto nei primissimi giorni dopo l’arresto e durante l’interrogatorio. C’è stato almeno un caso di morte sospetta in custodia. La legislazione tunisina consentiva alla polizia di trattenere gli indiziati in detenzione preprocessuale fino a sei giorni, senza poter contattare familiari o avvocati. A seguito di una visita effettuata in Tunisia a giugno, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura ha espresso preoccupazione per il persistere del fenomeno della tortura e altri maltrattamenti nel paese e ha evidenziato la bassa percentuale di condanne a carico dei perpetratori. Nel 2013, l’Nca ha approvato una legislazione che istituiva un organismo nazionale per la prevenzione della tortura formato da 16 membri, con poteri d’ispezionare le strutture di detenzione senza dover prima ottenere il consenso, se non in presenza di cause di forza maggiore. A fine anno, tuttavia, il nuovo organismo non si era ancora insediato. Il decesso in ospedale di Mohamed Ali Snoussi, avvenuto il 3 ottobre, nove giorni dopo il suo arresto, ha messo nuovamente in evidenza i metodi violenti usati dalla polizia nei confronti dei sospettati e la continua incapacità delle autorità di affrontare il problema. Secondo le testimonianze, Mohamed Al Snoussi era stato visto mentre veniva trascinato fuori dalla sua abitazione in manette, percosso, de- nudato e portato via da agenti di poliziotti a volto coperto, che avrebbero affermato di appartenere alla 17ª brigata della polizia. Sua moglie ha affermato di averlo visto brevemente mentre si trovava in custodia di polizia e che presentava segni visibili di percosse ma che sembrava avere troppa paura di raccontarne la causa. Quando il suo corpo è stato consegnato alla famiglia, questo presentava contusioni e altre ferite sulla testa, sulle spalle, sulla schiena, sui testicoli e sui piedi. Il ministero

543 dell’Interno ha dichiarato che era stato arrestato per accuse di droga e che un’autopsia aveva escluso la violenza come causa del decesso ma, nonostante le richieste della famiglia, non ha voluto consegnare il referto medico-legale.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA La notte del 23 agosto, poliziotti hanno aperto il fuoco uccidendo due donne, Ahlem Dalhoumi e Ons Dalhoumi, mentre rientravano a casa in auto nella città di Kasserine, assieme ad alcuni familiari. La sparatoria è avvenuta quando gli agenti, che indossavano abiti neri e che i passeggeri dell’auto hanno creduto fossero rapinatori armati, hanno intimato all’auto di fermarsi, per poi aprire il fuoco mentre questa proseguiva la sua corsa, uccidendo le due donne e ferendone una terza. Le autorità hanno di- chiarato che gli agenti avevano fatto fuoco quando l’auto, ignorando il loro ordine di fermarsi, aveva accelerato verso di loro. Gli occupanti dell’auto sopravvissuti hanno affermato che i poliziotti non si erano qualificati e avevano aperto il fuoco senza preavviso. A ottobre, il ministero dell’Interno ha dichiarato che, contrariamente a quanto annunciato pubblicamente in precedenza, gli agenti non erano stati sospesi dal servizio e che sull’episodio non era stata avviata alcuna inchiesta investigativa.

GIUSTIZIA TRANSIZIONALE In seguito all’adozione della legge sulla giustizia transizionale a dicembre 2013, a giugno è stata istituita una Commissione verità e dignità, incaricata d’indagare sulle violazioni dei diritti umani e arbitrare i casi di corruzione delle autorità dal 1° luglio 1955. In quanto organismo indipendente, la commissione aveva inoltre il compito di fornire riparazioni, sia sul piano materiale sia simbolico, alle vittime, di formulare raccomandazioni al fine d’impedire il ripetersi di altre violazioni dei diritti umani e l’uso indebito di fondi pubblici, oltre che di promuovere la democrazia. La commissione, con mandato quadriennale rinnovabile di un anno, ha iniziato i lavori a dicembre, dopo aver sviluppato i regolamenti e le procedure operative. La legge sulla giustizia transizionale prevedeva inoltre la creazione di camere giudiziarie speciali con mandato d’indagare e perseguire le violazioni dei diritti umani commesse da agenti statali tra luglio 1955 e dicembre 2013. A marzo, il ministero della Giustizia ha nominato un comitato tecnico per la stesura di un decreto sulle procedure operative delle suddette camere speciali. Ad aprile, le autorità hanno rilasciato alcuni ex alti ufficiali, incarcerati in relazione alle uccisioni illegali di manifestanti durante la sollevazione popolare del 2010-2011, dopo che il tribunale militare d’appello aveva modificato i capi d’imputazione per i quali erano stati giudicati in precedenza da tri- bunali militari e ha disposto una riduzione dei termini delle loro condanne. Tra i rilasciati figurava l’ex ministro dell’Interno Rafiq Haj Kacem, la cui sentenza a 12 anni di carcere è stata ridotta alla pena di tre anni, compreso il periodo già trascorso in custodia in attesa del processo. Diversi familiari delle persone uccise o ferite durante la sollevazione hanno iniziato uno sciopero della fame in segno di protesta.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E D’ASSOCIAZIONE Le autorità hanno imposto restrizioni alle libertà d’espressione e d’associazione per motivi legati al controterrorismo, in seguito a un attentato compiuto da un gruppo armato il 17 luglio, in cui hanno perso la vita 15 soldati governativi sul monte Chaambi, vicino al confine con l’Algeria. Le autorità hanno ordinato la chiusura immediata di tutte le emittenti radiofoniche e televisive non autorizzate,

544 le moschee e i social network d’informazione, hanno sospeso le attività di organizzazioni sospettate di collegamenti con il terrorismo e minacciato di avviare azioni giudiziarie contro chiunque avesse messo in discussione le istituzioni militari e di sicurezza della Tunisia. Il 22 luglio, un portavoce del governo ha dichiarato che le autorità avevano sospeso 157 organizzazioni e due stazioni radiofoniche, per presunti legami con gruppi terroristici e per aver promosso la violenza. Le autorità dell’esecutivo hanno adottato tale misura nonostante quanto stabilito dal Decreto legge n. 2011-88 del 2011, secondo cui la sospensione delle organizzazioni è ammissibile soltanto in presenza di un mandato dell’autorità giudiziaria. Jabeur Mejri, un blogger condannato a 22 anni di carcere nel 2012, dopo essere stato ritenuto colpevole di aver postato su Internet contenuti ritenuti offensivi nei confronti dell’Islam e del profeta Maometto, è stato rilasciato il 4 marzo. Ad aprile, ha ricevuto un’altra condanna a otto mesi di reclu- sione, in relazione a un diverbio che aveva avuto con un funzionario del tribunale ma è stato rilasciato il 14 ottobre in seguito a grazia presidenziale.

DIRITTI DELLE DONNE Le donne hanno continuato a essere discriminate nella legge e nella prassi. La Tunisia ha ritirato uffi- cialmente le proprie riserve alla Cedaw il 23 aprile; il governo ha tuttavia confermato una dichiarazione di carattere generale, secondo cui non avrebbe intrapreso alcuna azione di tipo organizzativo o legislativo richiesta dalla Cedaw, nel caso in cui questa fosse in conflitto con la costituzione tunisina. Nonostante la nuova costituzione adottata a gennaio abbia migliorato la tutala dei diritti delle donne, sono state mantenute le norme legislative che discriminavano le donne in questioni inerenti la famiglia, come eredità e custodia dei figli. Se da un lato l’art. 46 della costituzione ha garantito alle donne una maggiore protezione contro la violenza, il codice penale è rimasto controverso, in particolare l’art. 227 bis, secondo cui gli uomini che stuprano ragazze o donne al di sotto dei 20 anni non sono perseguibili penalmente se sposano la loro vittima. A giugno, la segretaria di stato con delega per le questioni femminili e familiari ha af- fermato che il governo aveva in programma la stesura di quadro legislativo per combattere la violenza contro donne e ragazze, con il contributo di un comitato di esperti. A marzo, un tribunale ha condannato due poliziotti a sette anni di carcere, dopo averli giudicati colpevoli dello stupro di una donna nel settembre 2012; un terzo agente è stato condannato a due anni di carcere per aver condotto il fidanzato della donna davanti a uno sportello bancomat e cercato di estorcergli del denaro. Durante il processo, gli avvocati della difesa hanno accusato la vittima d’indecenza e di aver offerto favori sessuali ai poliziotti, dopo che questi l’avevano trovata appartata con il suo fidanzato. La donna ha presentato ricorso contro le condanne a carico degli agenti in quanto relativamente miti. A novembre, una sentenza d’appello ha aumentato a 15 anni di carcere le condanne contro i due poliziotti giudicati colpevoli dello stupro; la sentenza a carico del terzo agente è stata confermata in appello.

RIFUGIATI E MIGRANTI Secondo le notizie riportate, migliaia di libici e cittadini di altri paesi hanno attraversato la Tunisia tra luglio e agosto per sfuggire ai combattimenti in corso in Libia tra le milizie armate contrapposte. Le autorità tunisine hanno mantenuto la frontiera con la Libia aperta ma minacciando di chiuderla in caso di un deterioramento della sicurezza o della situazione economica. I libici provvisti di adeguati

545 documenti d’identità sono stati autorizzati a entrare e rimanere in Tunisia ma i cittadini di altri paesi hanno potuto entrare in Tunisia soltanto in transito.

PENA DI MORTE La pena di morte è rimasta in vigore per omicidio e altri reati; l’ultima esecuzione è stata effettuata nel 1991. Durante l’anno, almeno due persone sono state condannate alla pena capitale e le condanne a morte di almeno tre prigionieri sono state commutate. A novembre, la Tunisia ha votato a favore di una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per una moratoria mondiale sulla pena di morte.

YEMEN

REPUBBLICA DELLO YEMEN

Capo di stato: Abd Rabbu Mansour Hadi Capo di governo: Khaled Bahah (ha preso l’incarico a ottobre dopo le dimissioni di Mohammed Salim Basindwa a settembre)

Le forze governative hanno commesso violazioni dei diritti umani, comprese uccisioni illegali e sparizioni forzate, contro sostenitori della secessione del sud del paese e in un contesto di ripresa del conflitto con i ribelli huthi nel nord, anch’essi responsabili di abusi. È prevalsa l’impunità e non sono stati fatti progressi per porre fine agli assassinii politici o per affrontare gli abusi commessi in passato. Le forze di sicurezza hanno disperso proteste pacifiche a Sana’a e in altre città del sud con un uso eccessivo della forza. La libertà d’espressione ha risentito dei continui attacchi e di altre vio- lazioni ai danni di giornalisti e degli organi di stampa. Le donne sono rimaste soggette a discriminazioni e sono state vittime di elevati livelli di violenza domestica e altra violenza di genere. Gruppi armati d’opposizione hanno compiuto attentati dinamitardi indiscriminati e altri abusi. Le forze statunitensi hanno realizzato attacchi con droni contro sospetti militanti di al-Qaeda, provocando morti e feriti tra i civili.

CONTESTO Il processo di transizione politica innescato dalla rivolta popolare del 2011, anche se fragile, è andato avanti. Il 26 febbraio, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 2140, che stabiliva sanzioni mirate a singoli individui od organizzazioni ritenute d’ostacolo al processo di transizione. Lo scoppio di rinnovate ostilità tra le forze governative e gli huthi, un gruppo armato zaidi sciita con base nei governatorati di Sa’ada e ‘Amran, è stato la maggiore minaccia al processo di transizione. A settembre, ad appena un giorno dalla firma di un accordo mediato dalle Nazioni Unite per porre fine ai combattimenti, le forze huthi hanno preso il controllo di gran parte della capitale Sana’a. La Conferenza per il dialogo nazionale (National Dialogue Conference – Ndc), che nell’arco di 10 mesi

546 ha visto riuniti 565 rappresentanti di partiti politici e movimenti rivali, oltre che organizzazioni della società civile, compresi gruppi femminili e giovanili, è terminata il 25 gennaio. La Ndc ha formulato oltre 1800 raccomandazioni, comprese alcune che sollecitavano maggiori tutele dei diritti, e sarebbe dovuto diventare uno stato federale con una nuova costituzione. A giugno, durante l’Esame periodico universale delle Nazioni Unite dello Yemen, rappresentanti del governo hanno confermato che lo Yemen avrebbe aderito allo Statuto di Roma della Corte penale in- ternazionale e alla Convenzione internazionale sulle sparizioni forzate. A fine anno, il parlamento non aveva ancora adottato le norme attuative per rendere effettive le ratifiche. Il governo non ha provveduto ad avviare una profonda riforma dell’esercito e di due agenzie della si- curezza, la sicurezza nazionale e la sicurezza politica, che erano implicate in gravi violazioni dei diritti umani e rispondevano direttamente al presidente.

CONFLITTO ARMATO L’anno ha visto un progressivo deterioramento della sicurezza in tutto il paese, segnato da uccisioni di funzionari governativi e alti ufficiali militari, rapimenti di cittadini stranieri e altre persone e dalla ripresa del conflitto armato. Nel nord, decine di persone sono state uccise e centinaia sono rimaste ferite durante gli scontri armati iniziati nel 2013 tra gli huthi e i sostenitori del partito islamista sunnita al-Islah e del partito salafita al-Rashad, nella cittadina di Dammaj, nel governatorato di Sa’ada. A Dammaj, migliaia di sostenitori di al-Rashad, principalmente familiari di studenti dell’istituto religioso Dar al-Hadith, affiliato ad al- Rashad, sono stati sfollati con la forza, dopo che a gennaio 2014 era stato siglato un accordo di cessate il fuoco. Nonostante l’accordo, i combattimenti si sono propagati nel sud e, a metà anno, gli huthi si sono scontrati con i loro oppositori e l’esercito yemenita e hanno conquistato gran parte dei governatorati di ‘Amran, Hajja e al-Jawf. A settembre, le forze huthi hanno attaccato e conquistato gran parte della capitale Sana’a, al termine di un combattimento in cui sono morte più di 270 persone e centinaia sono rimaste ferite. Nella capitale, i combattenti huthi hanno saccheggiato unità dell’esercito, edifici governativi, sedi di partiti politici, organi d’informazione e abitazioni private di membri del partito al-Islah. Più avanti, nonostante l’accordo per il cessate il fuoco e la partecipazione al nuovo go- verno formato a novembre, le forze huthi si sono spostate a sud di Sana’a e si sono scontrate con le unità locali dell’esercito, membri delle tribù e combattenti armati affiliati con il gruppo armato al- Qaeda nella penisola araba (al-Qa’ida Arabian Peninsula – Aqap). In risposta l’Aqap ha realizzato attacchi a Sana’a e in altre città, uccidendo e ferendo molti civili, tra cui anche bambini. Nel sud, le forze governative si sono scontrate con i combattenti di Aqap che hanno organizzato attentati suicidi e altri attacchi contro strutture governative, compreso uno compiuto il 5 dicembre contro un ospedale militare a Sana’a, in cui sono state uccise almeno 57 persone, compresi pazienti e personale sanitario. A giugno, Aqap ha inoltre attaccato un posto di blocco dell’esercito a Shabwah, uccidendo otto soldati dell’esercito yemenita e sei uomini membri di tribù che li affiancavano. Aqap ha affermato che queste azioni erano una reazione agli attacchi coi droni contro le sue truppe condotti dall’aviazione statunitense con l’appoggio del governo yemenita. Ad aprile, l’esercito yemenita ha at- taccato avamposti di Aqap nei governatorati di Abyan e Shabwa; secondo le notizie, i conseguenti combattimenti hanno provocato lo sfollamento forzato di circa 20.000 persone. Anche le forze militari statunitensi hanno attaccato Aqap, effettuando operazioni con droni in cui sono stati presi di mira e uccisi militanti del gruppo e che avrebbero causato la morte e il ferimento di un numero imprecisato

547 di civili. A dicembre, Luke Somers, giornalista tenuto in ostaggio dall’Aqap, è morto insieme a un altro prigioniero, nel tentativo di liberarlo da parte delle forze militari statunitensi. Secondo un rapporto pubblicato ad agosto dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, sia le forze governative sia i gruppi armati d’opposizione hanno reclutato e impiegato bambini soldato, malgrado gli sforzi per mettere al bando questa pratica.

UCCISIONI POLITICHE Sono proseguiti gli omicidi di esponenti politici e funzionari della sicurezza. Il 21 gennaio, uno dei principali leader huthi, Ahmed Sharaf el-Din, è stato assassinato mentre si recava alla Ndc, a Sana’a. A novembre, un uomo armato col volto coperto ha ucciso a colpi d’arma da fuoco in una strada di Sana’a il dr Mohammad Abdul-Malik al-Mutawwakkil , figura politica di spicco e professore universitario. Tra la metà del 2012 e la fine del 2014, oltre 100 ufficiali militari e agenti di sicurezza sono stati as- sassinati e decine di altri sono sopravvissuti a tentati omicidi. Nella maggior parte dei casi i responsabili delle uccisioni non sono stati individuati e non ci sono state notizie di procedimenti penali a carico di presunti perpetratori.

USO ECCESSIVO DELLA FORZA Il 9 settembre, a Sana’a soldati dell’esercito hanno sparato su una folla di manifestanti huthi che chiedevano un cambiamento di governo, uccidendone almeno sette e ferendone altri. Due giorni prima, le forze di sicurezza avevano fatto fuoco contro manifestanti huthi sulla strada per l’aeroporto di Sana’a, uccidendo almeno due persone che protestavano pacificamente. Sono state annunciate indagini su alcuni episodi di uso eccessivo della forza impiegata per disperdere proteste nel sud (v. sotto) e a Sana’a, il 9 giugno 2013, dove erano morti almeno 13 manifestanti e oltre una cinquantina erano rimasti feriti. A fine anno, i risultati delle indagini erano ancora poco chiari.

REPRESSIONE DEL DISSENSO – YEMEN DEL SUD Sono continuati i gravi disordini ad Aden e nelle aree circostanti. Alcune fazioni del Movimento del sud (al-Hirak al-Janoubi) hanno preso parte alla Ndc. Ad Aden e in altre città, manifestanti hanno continuato a chiedere la secessione del sud, organizzando scioperi e altre proteste, a cui l’esercito ha reagito in alcuni casi facendo uso eccessivo, illegale e letale della forza. Il 21 febbraio, le forze di si- curezza sono intervenute con uso eccessivo della forza per disperdere proteste nella città di al- Mukallah e ad Aden, causando due morti e ferendo più di 20 manifestanti. Il 27 dicembre 2013, la 33ª brigata armata dell’esercito ha ucciso decine di persone che partecipavano pacificamente a un funerale ad al-Sanah, nel governatorato di al-Dale’, episodio che ha indotto il presidente ad annunciare un’inchiesta ufficiale, i cui risultati a fine anno non erano stati ancora resi noti. Secondo quanto riferito, all’inizio dell’anno la stessa brigata dell’esercito ha ucciso e ferito altri civili in bombardamenti apparentemente indiscriminati e in altri attacchi, compreso uno il 16 gennaio, in cui hanno perso la vita 10 civili, inclusi due minori, e altri 20 sono rimasti feriti, in un’evidente rappresaglia per un attacco lanciato dal Movimento del sud contro un posto di blocco dell’esercito ad al-Dale’. Le forze di sicurezza governative hanno arrestato attivisti del Movimento del sud ad Aden e in altre città, sottoponendone alcuni a sparizione forzata. Il 31 agosto, Khaled al-Junaidi è stato percosso e quindi trascinato a bordo di un’auto da uomini armati non identificati, che testimoni hanno dedotto

548 essere funzionari della sicurezza. Dopo di che è scomparso. Le autorità non hanno ammesso che fosse detenuto e la sua famiglia non è stata in grado di stabilire che cosa gli fosse successo o dove si trovasse. Le forze di sicurezza lo avevano in precedenza trattenuto in almeno quattro occasioni, come a novembre 2013, quando era rimasto confinato in isolamento per tre settimane. Il 27 novembre è stato rilasciato ma il 15 dicembre è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco, a quanto pare da membri delle forze di sicurezza.

SVILUPPI LEGISLATIVI, COSTITUZIONALI O ISTITUZIONALI A novembre 2013, emendamenti alla legge sull’autorità giudiziaria hanno trasferito al Consiglio supremo della magistratura poteri esercitati in precedenza dal ministero della Giustizia, accrescendo in tal modo l’indipendenza della magistratura. Tra i nuovi provvedimenti varati durante l’anno c’erano una bozza di legge per la creazione di una commissione nazionale sui diritti umani e una proposta di legge sui diritti dell’infanzia. Quest’ultima si proponeva di affrontare il problema del matrimonio precoce, fissando a 18 anni l’età minima per sposarsi, di proibire l’impiego della pena di morte per i minori di 18 anni e di rendere reato le mutilazioni genitali femminili. A fine anno, entrambe erano in attesa di approvazione. L’8 marzo, il presidente ha emanato i Decreti presidenziali 26/2014 e 27/2014, con i quali è stata istituita la commissione per la stesura della costituzione e sono stati nominati i suoi 17 componenti. In base a questi decreti, alla commissione è stato concesso un anno di tempo per ultimare la stesura della costituzione, cui avrebbero fatto seguito consultazioni pubbliche e un referendum.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE Giornalisti e altri operatori dell’informazione sono stati al centro di minacce e altri attacchi da parte delle forze governative e di uomini armati non identificati. L’11 giugno, la guardia presidenziale ha effettuato un’irruzione nella sede del canale televisivo satellitare Yemen Today, costringendolo a in- terrompere le trasmissioni, e hanno chiuso il quotidiano omonimo, apparentemente senza un mandato del pubblico ministero. Organizzazioni locali per la libertà d’informazione hanno affermato di aver re- gistrato 146 episodi di minacce, aggressioni e altri abusi ai danni di giornalisti nella prima metà dell’anno. A settembre, combattenti huthi armati hanno effettuato raid nelle sedi di alcuni organi di stampa a Sana’a e li hanno costretti a chiudere.

IMPUNITÀ Le autorità hanno compiuto scarsi progressi nell’affrontare la questione delle violazioni dei diritti umani commesse negli anni precedenti. Il governo non ha adottato alcuna misura per fare luce sulla sorte di centinaia di attivisti politici e altre persone che furono vittime di sparizione forzata sotto il precedente regime, guidato per decenni dall’allora presidente Ali Abdullah Saleh, o per assicurare alla giustizia i responsabili, nonostante il ritrovamento di alcune delle persone che erano state vittime di sparizione forzata qualche decennio prima.

GIUSTIZIA TRANSIZIONALE Dopo numerose proposte di legge del tutto incomplete in termini di salvaguardia della giustizia e di accertamento delle responsabilità per i crimini del passato, a maggio è stata sottoposta all’approvazione

549 del gabinetto una bozza di legge sulla giustizia transizionale e la riconciliazione nazionale, redatta su richiesta della Ndc; tuttavia, a fine anno il documento non era stato ancora convertito in legge. Così come, a fine anno, il presidente non aveva ancora nominato i componenti della commissione d’inchiesta incaricata d’indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse durante la rivolta del 2011, come da lui annunciato a settembre 2012. Altre due commissioni, che il presidente aveva avviato nel 2013, sono state inondate di richieste. Una, incaricata di affrontare la questione della confisca di terreni nello Yemen del sud nel corso degli anni Novanta, a maggio aveva ricevuto oltre 100.000 istanze, mentre l’altra, istituita per riesaminare il licenziamento forzato di cittadini del sud dal pubblico impiego, aveva registrato 93.000 ricorsi nello stesso arco di tempo. Nessuna delle due, tuttavia, sembrava disporre di risorse sufficienti per affrontare e risolvere le vertenze ricevute.

DIRITTI DI DONNE E RAGAZZE Donne e ragazze hanno continuato ad affrontare discriminazioni nella legge e nella prassi, specialmente in relazione a questioni come matrimonio, divorzio, custodia dei figli ed eredità. Hanno inoltre affrontato elevati livelli di violenza domestica e altra violenza di genere. Hanno continuato a verificarsi matrimoni precoci e forzati e, in alcune zone del paese, era diffusa la pratica delle mutilazioni genitali femminili. La Ndc ha raccomandato che le università e gli altri istituti d’istruzione superiore, durante le ammissioni, riservassero il 30 per cento dei posti alle studentesse e che la nuova costituzione obbligasse le agenzie governative a fissare una quota del 30 per cento di assunzioni di donne.

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI Durante l’anno, lo Yemen ha dovuto affrontare un notevole flusso di rifugiati, richiedenti asilo e migranti in cerca di sicurezza, protezione od opportunità economiche. Molti sono entrati nello Yemen dopo aver attraversato il mare dall’Etiopia e dalla Somalia. I centri di transito e ricevimento sono stati completamente gestiti dall’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, e dai suoi partner operativi, senza che il governo yemenita svolgesse un ruolo attivo.

PENA DI MORTE La pena capitale è rimasta in vigore per una vasta gamma di reati. I tribunali hanno continuato a comminare condanne a morte e non ci sono state esecuzioni. Secondo quanto riferito, tra i prigionieri nel braccio della morte c’erano decine di minori al momento del reato.

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